STORIA DEL LATINO
Elena Malaspina
Introduzione. Un'idea del latino
Nella costruzione di una comunità dei popoli europei che non sia una realtà meramente
economica – oggi più che mai deludente e problematica – un’identità culturale comune ci appare
veicolata, lungo i secoli, dalla lingua latina, al di là delle differenze etniche o nazionali e anche al di
là di un’istituzione politica unitaria.
Più che in ogni altro impero multietnico e multilingue del mondo antico, nello Stato romano
lo standard linguistico comune ha potuto essere diffuso nello spazio, nel tempo e anche nei diversi
strati sociali grazie alla diffusione della scrittura e di una cultura di base condivisa attraverso un
sistema scolastico in qualche modo presente anche in aree marginali e attraverso quei canali di
latinizzazione che sono stati la rete viaria, i commerci, l’esercito, la pubblica amministrazione.
Anche con la fine dell’impero romano, la continuità dell’uso del latino almeno nella sua parte
occidentale ha trasmesso al Medioevo e all’età moderna uno strumento di comunicazione
sovranazionale fortemente produttivo non soltanto dal punto di vista linguistico ma anche nei
diversi ambiti del pensiero e della vita: lo strumento linguistico comune ha messo in contatto lungo i
secoli etnie e culture diverse, alle radici della nostra civiltà europea.
Se in area balcanica, medio-orientale e africana altre culture (bizantina, araba, slava) si sono
sovrapposte, la romanizzazione di gran parte dell’Occidente europeo – anche nelle regioni
sostanzialmente romanizzate – costituisce ancora oggi una radice culturale comune: è quanto i
Romani ci hanno lasciato come frutto non tanto di un’omologazione artificialmente imposta, quanto
di un’integrazione delle diverse culture nel segno di un modello greco-romano via via riconosciuto
come appetibile dai diversi popoli che entravano in contatto con esso.
Le stesse vicende della lingua latina, appartenente al ceppo indoeuropeo (come il greco, le
lingue germaniche, celtiche, slave, baltiche, l’armeno, le lingue indiane e iraniche, oltre alle
scomparse lingue italiche), sono via via l’effetto di processi ora di integrazione ora di affermazione
identitaria.
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Ancor oggi, dopo l’esaurirsi della funzione del latino come lingua di comunicazione
sovranazionale, ne sono continuazione vitale le lingue romanze (portoghese, spagnolo o
castigliano, catalano, francese, provenzale o occitanico, franco-provenzale, italiano, sardo,
retoromanzo, l’ormai scomparso dalmatico, il rumeno).
Prestiti e calchi latini ovunque presenti in lingue moderne di diversa origine (appartenenti
soprattutto ai grandi gruppi indoeuropei, quali il germanico, il celtico e lo slavo) fanno del latino
una “lingua residuale” vivacemente produttiva. Mentre infatti per tecnicismi più specialistici (ad es.
in ambito filosofico, medico, farmaceutico, fisico) il lessico delle diverse lingue continua a far
riferimento al deposito linguistico greco, come già fecero i Romani, al deposito della comune
latinità di partenza attingono invece moltissimi tecnicismi che via via vengono creati per esprimere
nuove tecnologie di ampia diffusione. Così per indicare, ad esempio, il computer, l’inglese ha
introdotto un vocabolo di matrice latina (dal verbo computare = ‘calcolare’), ricalcato dal francese
con un altro latinismo, «ordinateur»; talora poi il prestito latino, per la sua originaria utilizzazione in
ambito anglofono, conserva la pronuncia inglese (ad es. per indicare i «media») anche quando il
vocabolo si è ormai acclimatato in ambito italofono.
In ambito giuridico la lingua latina tendeva ad essere fortemente conservativa, con l’intento
di stabilire una tradizione giurisprudenziale. Può però anche accadere che i tecnicismi giuridici
risultino poco perspicui – è il rischio dell’abuso del «latinorum», rimproverato da Renzo a don
Abbondio (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. II) – e che si recuperino artificiosamente
tecnicismi ormai disusati, come il «lodo» oggi tornato di attualità (dal vocabolo medievale laudum
= ‘arbitrato’); specialmente i cosiddetti “politichese” e “burocratese” utilizzano talora espressioni
latineggianti (es. «all’uopo», dove «uopo» deriva dal latino opus = ‘bisogno, necessità’) che non
sono di facile comprensione per il pubblico.
Schematizzando possiamo dire che la lingua latina è stata lingua dominante in gran parte
dell’impero romano e lingua franca nelle relazioni fra popoli diversi sia dentro sia, talora, al di fuori
di quello che era stato il territorio romano. Unica lingua letteraria, in Occidente, fino al VII-VIII
secolo, nella comunicazione corrente, il latino continuò ad essere utilizzato anche al di là della fine
dell’impero romano d’Occidente (476), in modo e misura differenziata a seconda delle aree e della
formazione e nazionalità dei parlanti: tra VII e VIII secolo il progressivo diversificarsi delle
pronunce e degli usi lessicali nelle diverse aree frammentarono via via il latino volgare o corrente, e
anche dopo l’VIII secolo, cioè dopo l’inizio del bilinguismo (latino – lingue vernacolari), il latino
rimase mezzo di comunicazione colta fino al XVIII, mentre rimane ancor oggi mezzo di
comunicazione sovranazionale nell’ambito della Chiesa cattolica.
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In un arco di tempo di circa quindici secoli (VII a.C. - VIII d.C.), la storia della lingua latina
è storia di variabili coesistenti e interferenti, per l’interazione – ad ogni stadio sincronico
dell’evoluzione linguistica – del registro standard (latino istituzionalizzato dai grammatici e
impiegato sia nella comunicazione ufficiale sia nella letteratura) e del registro informale
(quotidianità meno sorvegliata, con codici espressivi diversi a seconda della cultura del parlante o
scrivente, dell’ambiente sociale, del luogo).
Occorre inoltre tener conto dei contatti interlinguistici verificatisi (soprattutto nel lessico)
in conseguenza dello stabilirsi dei Latini nel Lazio e via via del loro espandersi all’esterno con
l’allargarsi dello stato romano; la romanizzazione dei diversi territori espone quindi la lingua latina
anche all’azione (soprattutto a livello fonetico) del sostrato linguistico preesistente (iberico, celtico,
etrusco, osco, dacico ecc.), mentre in età subromana, con l’affermarsi dell’egemonia politica di altri
popoli (germanici, slavi, arabi) in aree un tempo romanizzate, la lingua latina si arricchì di vocaboli
nuovi, per influsso del superstrato della lingua dei nuovi dominatori.
La compresenza di più registri o livelli espressivi si verifica, in latino, non soltanto dopo la
disgregazione delle istituzioni imperiali (VI-VIII secolo d.C.), e nemmeno soltanto a partire dall’età
imperiale, ma dovette accompagnare tutta la storia del latino: si può quindi parlare di una continuità
tra latino arcaico e latino volgare, precisando però che è ormai opportuno intendere per “volgare”
non un “latino popolare” – lingua degli indotti – né un linguaggio settoriale (proprio di particolari
ambiti espressivi), ma un linguaggio di uso comune, in cui confluiscono, ovviamente, anche molti
tecnicismi. Per “latino volgare” dunque dobbiamo ormai intendere un linguaggio “corrente” nel
senso di una comunicazione tanto verticale (fra persone di livello culturale diverso) quanto
orizzontale (fra persone di uguale livello culturale), con una molteplicità di varianti diacroniche (nel
tempo), diatopiche (nello spazio), diastratiche (connotazione rus tica o urbana, colta o incolta, ecc.),
diafasiche (attinenti cioè ai diversi registri espressivi e stilistici) e anche diamesiche (ossia legate al
diverso mezzo espressivo, scritto o parlato). Oggi si sottolinea quindi la complessità del cosiddetto
“latino storico”.
Si può proporre, per delineare la storia della lingua latina, uno schema di questo tipo, in cui
le linee continue indicano un’evoluzione naturale mentre quelle tratteggiate indicano una
discontinuità recuperata da una riforma linguistica attua ta intenzionalmente:
lat. classico
----
lat. medievale - - -
lat. umanistico
neolatino
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lat. arcaico
lat. volgare
lingue romanze
In effetti, la fase iniziale di formazione della lingua indoeuropea che qui chiamiamo
indistintamente “latino arcaico” corrisponde alla progressiva affermazione di Roma come identità
politico-culturale autonoma e agli inizi della sua espansione in Italia.
La formazione della romana res publica (letteralmente ‘cosa di tutti’, perché patrimonio
dell’intera plebs o ‘popolo’) come stato multietnico e romanocentrico creò l’esigenza di una
istituzionalizzazione del latino come lingua sovranazionale per la comunicazione pubblica (oratoria,
epigrafia ufficiale, pubblica amministrazione, letteratura...): tra II e I sec. a.C. l’introduzione degli
studi
grammaticali
e
l’organizzazione
del
sistema
scolastico
romano
contribuirono
all’istituzionalizzazione della lingua parlata nella città di Roma dai ceti colti alla fine del II
sec. a.C. : essa venne insegnata nelle scuole dei grammatici e retori e cristallizzandosi diventò
quello standard linguistico unificato che è stato poi chiamato “latino classico”.
A un livello di comunicazione più immediata e meno sorvegliata (registro informale), la
lingua latina si evolve invece – in quanto latino “volgare” o corrente – con i dinamismi innescati
dagli interlinguismi e dalle trasformazioni sociali, oltre che dagli influssi della lingua letteraria.
Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) e della compagine culturale e
organizzativa che esso rappresentava, il latino standard non fu più tutelato dalla scuola e diffuso
dalle istituzioni (esercito, commerci, burocrazia): cessò così l’osmosi tra latino volgare e latino
istituzionalizzato, nella quale quest’ultimo frenava l’evoluzione del primo. Con il venir meno della
compagine imperiale, con la formazione degli stati romanobarbarici e con le difficoltà di
collegamento causate dal deteriorarsi delle strade e dalla mancanza di un potere centrale, il latino
“volgare” andò via via frammentandosi verso le lingue romanze.
Invece dal latino standard o “classico”, non per evoluzione naturale ma per riforme
linguistiche prodotte da esigenze politiche, culturali, religiose, trarranno origine via via il latino
medievale (a partire dalla riforma di Alcuino – fine VIII secolo –, in funzione della compattezza
dell’impero carolingio), il latino umanistico (XV-XVI secolo, conseguentemente alla rinascita
dello studio degli autori classici), continuato come lingua di comunicazione colta in Europa fino al
Settecento e nel moderno neolatino 1 .
Una breve sintesi della storia della lingua latina è presentata, al termine del mondo antico
(verso il 635 d.C.), da Isidoro di Siviglia:
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Da non confondere con le lingue cosiddette ‘neolatine’ o romanze.
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Isidoro, Etymologiae 9, 1, 6-7
Latinas autem linguas quattuor esse quidam Alcuni hanno detto che le lingue latine sono
dixerunt, id est priscam, latinam, romanam, quattro, cioè la protostorica, la latina, la romana,
mixtam.
la mista.
Prisca est quam vetustissimi Italiae sub
La protostorica è quella usata dai più
Iano et Saturno sunt usi, incondita ut se habent antichi abitanti dell’Italia, al tempo di Giano e
carmina Saliorum.
Saturno, rozza come sono i carmi dei Salii.
Latina quam sub Latino et regibus Tusci
La latina è quella parlata dagli Etruschi e
et ceteri in Latio sunt locuti, ex qua fuerunt dagli altri abitanti del Lazio, al tempo di Latino e
duodecim tabulae scriptae.
dei re: in questa lingua furono scritte le Dodici
Romana quae post reges exactos a tavole.
populo Romano coepta est, quam Naevius,
La romana è quella che fu iniziata dal
Plautus, Ennius, Virgilius poetae, et ex oratoribus popolo romano dopo la cacciata dei re, quella che
Gracchus et Cato et Cicero vel ceteri effuderunt.
Mixta
quae
post
imperium
fu diffusa dai poeti Nevio, Plauto, Ennio, Virgilio
latius e, fra gli oratori, da Gracco, Catone, Cicerone e
promotum simul cum moribus et hominibus in altri.
Romanam civitatem inrupit, integritatem verbi
per soloecismos et barbarismos corrumpens.
La mista è quella che dopo l’espansione
dell’impero irruppe nello stato romano insieme a
stili di vita e uomini, corrompendo la purezza
linguistica con solecismi e barbarismi 2 .
In questo schema, che Isidoro raccoglie da eruditi precedenti non identificati, autori arcaici e
classici sono sorprendentemente accomunati sotto la comune etichetta di Romana lingua: di fatto la
presa di distanza dagli autori arcaici, introdotta dall’alessandrinismo dei poetae novi (I secolo a.C.),
fu spesso elusa dalle curiosità erudite degli arcaizzanti e comunque comportava soltanto valutazioni
estetiche soggette alle diverse mode e gusti culturali, ma non poteva mettere in discussione la
sostanziale unità della storia letteraria latina.
L’origine del termine “classico”, con cui ormai indichiamo – sulla scia degli Umanisti – un
autore considerato modello di perfezione, risale al vocabolo latino che anticamente si riferiva ai
cittadini censiti per un reddito più alto, cioè appartenenti alla prima classe; Gellio (sec. II d.C.) lo
Per ‘solecismo’ si intende una scorrettezza grammaticale o sintattica (come si diceva ne commettessero gli
abitanti di Soli, in Cilicia); barbarismo è un difetto del linguaggio caratterizzato da pronuncia forestiera.
2
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spiegava ai suoi contemporanei (Noctes Atticae 6, 13) e riferiva come l’erudito arcaizzante
Frontone, suo contemporaneo, utilizzasse scherzosamente l’aggettivo classicus per indicare il valore
degli antichi scrittori:
Gellio, Noctes Atticae, 19, 8, 15
… e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel … un oratore o un poeta della squadra limitata
oratorum aliquis vel poetarum, id est classicus agli antichi, cioè uno scrittore ‘classico’ e
adsiduusque aliquis scriptor, non proletarius.
‘abbiente’, non proletario.
Nel tratteggiare una storia della lingua occorre distinguere ciò che è propriamente lingua –
in quanto comunicazione (scritta o orale che sia) fra persone o gruppi – dal linguaggio, che è
espressione soggettiva: sono linguaggi l’espressione artistica (di un poeta o di un prosatore),
l’espressione idiomatica (affermazione di identità individuale) e il gergo (affermazione di identità di
un gruppo), oltre naturalmente ai linguaggi non verbali.
Una “storia della lingua” non dovrebbe, a rigore, occuparsi della lingua letteraria, se non in
ciò che esula dalla lingua d’arte: quest’ultima è invece “linguaggio” (in francese parole) individuale
e poetico. Tuttavia la lingua letteraria, per il prestigio di cui gode in una società, costituisce una
fonte continua di modelli espressivi non soltanto per la comunicazione ufficiale o pubblica (registro
standard) ma anche per la lingua di registro informale.
1. PROTOSTORIA DEL LATINO
I Protolatini, popolazione indoeuropea con cui sembrano da ricollegarsi i Siculi (stanziati in
Sicilia) e forse i Veneti, risultano presenti nel Lazio a partire dal IX secolo a.C. La lingua latina si
venne dunque formando, a partire da un’identità indoeuropea transalpina, nel contatto con popoli
diversi, che Isidoro ricorda genericamente come «i più antic hi abitanti dell’Italia».
Tra le lingue presenti nella penisola alcune non erano indoeuropee (etrusco, retico, sardo, il
cosiddetto piceno settentrionale, forse anche il ligure, il sicano, l’elimo, e anche del camuno non si
ha ancora sufficiente conoscenza); altre lingue sopraggiunsero con l’immigrazione di popolazioni
indoeuropee (provenienti dalla Russia meridionale) venute in Italia attraverso le Alpi (latino,
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falisco, venetico) o dalle coste adriatiche (osco, volsco, umbro e le varie lingue sabelliche, tra cui il
sabino, il marrucino, il peligno, il marso, il piceno); altre popolazioni indoeuropee insediatesi
nell’Italia antica parlavano il celtico (con cui è connesso il leponzio), il messapico (lingua illirica,
proveniente dalle sponde orientali dell’Adriatico) e il greco occidentale o italiota, con i diversi
dialetti delle colonie elleniche, a partire dallo ionico di Ischia e di Cuma.
L’avvento (secc. XII-XI a.C.) della civiltà “proto-villanoviana” – cosiddetta per distinguerla
da quella “villanoviana”, che prende nome dal sito archeologico di Villanova, presso Bologna –
aveva segnato nell’Italia peninsulare il passaggio da una cultura appenninica fondata su
un’economia pastorale e praticante l’inumazione, a un’economia agricola e praticante
l’incinerazione, forse per influsso di popolazioni indoeuropee transalpine. Il passaggio dall'età del
bronzo all'età del ferro si ebbe in Italia tra X e IX secolo a.C., con l’evolversi della civiltà
protovillanoviana verso quella villanoviana: quest’ultima viene oggi identificata con una cultura
protoetrusca, la cui lingua non appartiene al ceppo indoeuropeo. Essa è caratterizzata da
insediamenti abitativi ben difesi ed economicamente prosperi, dall’Emilia alla Toscana alla
Campania, da Spina a Capua, con un’aristocrazia interessata alle relazioni commerciali con la
Sardegna e l’Italia meridionale, ma anche con i Fenici e i Greci. La struttura delle loro città e
l’organizzazione federale che le collegava, dal punto di vista religioso e politico, influenzarono
anche l’area latina.
Separata dal territorio etrusco mediante il Tevere, questa appare fin dalle sue origini
caratterizzata da una cultura mista, in cui influssi villanoviani si sovrappongono alla preesistente
cultura appenninica e subappeninica delle tombe a fossa, mentre nell’Umbria, nella Sabina e nelle
zone sannitiche si venivano stanziando popolazioni indoeuropee provenienti dalla regione adriatica
e genericamente denominate “italiche”.
1.1. Civiltà del Lazio
Nel contesto plurilingue e interetnico rappresentato dal bacino del Tevere, Etruschi, SabinoItalici e Latini costituiscono i tre gruppi principali. Di tale originaria tripartizione etnico-culturale si
può forse individuare una conferma nei nomi (di origine etrusca, secondo Varrone, De lingua latina
5, 55) delle tre tribù della Roma primitiva: Tities Ramnes Luceres farebbero riferimento - secondo
tale ipotesi - a un sinecismo di Protosabini, Protolatini e Villanoviani o Protoetruschi.
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Così la tradizione del “rapimento delle Sabine” allude alla fusione della stirpe protolatina
con quella protosabina, e secondo la tradizione i re Tito Tazio, Numa Pompilio e Anco Marcio erano
sabini, mentre Tullo Ostilio era latino. La fondazione di Roma era collocata dagli antichi nel 753
a.C., quando cioè la civiltà etrusca non aveva ancora forza irradiante. Successivamente i re etruschi
(Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo) affermarono il proprio potere a Roma
grazie alle loro competenze militari e alle capacità tecniche che potevano mettere a disposizione di
quel giovane stato guerriero; come è noto, i Romani impararono molto dagli Etruschi non soltanto
per la religione e l’agrimensura, ma anche per gli spettacoli e la musica.
Ma ciò che segnò una svolta decisiva per le civiltà della penisola fu l’introduzione della
scrittura: gli Etruschi appresero a leggere e a scrivere presso i coloni greci di Cuma (provenienti
dalla penisola Calcidica, nel mar Egeo). L’alfabeto ionico di Cuma fu adattato dagli Etruschi alla
propria lingua (non indoeuropea), verso il 700, e per lo più dagli Etruschi anche i Latini, nel VII
secolo, derivarono il proprio alfabeto.
1.2. L’alfabetizzazione del latino
L’alfabeto etrusco ha infatti influenzato la formazione degli alfabeti di varie lingue presenti
nella penisola italica: umbro, osco, falisco, piceno, messapico e latino. Ricorda Livio (9, 36, 3), con
riferimento ad avvenimenti svoltisi alla fine del IV secolo: «So da fonti degne di fede che allora si
usava comunemente che i ragazzi romani imparassero le lettere etrusche, come oggi quelle greche»
(Habeo auctores vulgo tum Romanos pueros, sicut nunc Graecis, ita Etruscis litteris erudiri
solitos).
Della scrittura etrusca, originariamente sinistrorsa, un alfabeto arcaico è raffigurato –
probabilmente a scopo didattico – sulla tavoletta eburnea trovata a Marsiliana d’Albegna (GR). A
differenza della scrittura etrusca, però, quella latina mostra più spesso un andamento destrorso
oppure bustrofedico (cioè imitando il percorso dei buoi che arano un campo, andando avanti e
indietro). Un esempio di scrittura latina verticale e ad andamento bustrofedico è nel cippo trovato
nel Foro romano (CIL I2 2,1; VI 36840), il cosiddetto Lapis niger, che risalendo all’inizio del VI
secolo è uno dei primi monumenti in latino che ci siano conservati; il testo, assai lacunoso, è di
difficile interpretazione ma sembra prescrivere il rispetto di un luogo sacro.
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1.3. Prestiti greci
La cultura greca (miti, arte, tecnica) penetrò nel Lazio già in età regia, talora direttamente –
da Cuma, Taranto e altri centri dell’Italia meridionale – talora attraverso mediazione etrusca. Questa
è ad esempio segnalata nel vocabolo latino persona (= ‘maschera teatrale’), che probabilmente
aggiunge un suffisso -ona al vocabolo etrusco phersu, deformazione del greco prósop(on); oggi si
ipotizza che anche il vocabolo latino histrio (= ‘attore’, cf. ital. ‘istrione’) derivi, per mediazione
etrusca, dal greco e indichi perciò – etimologicamente – una persona abile nel raccontare (cf.
historia).
La mediazione etrusca è poi evidente in vocaboli – del linguaggio mercantile – in cui si
verifica assordamento di una consonante, ad es. in triumpus (soltanto dal I sec. si affermò la grafia
ellenizzante triumphus) < gr. thríambos = ‘corteo dionisiaco’, amurca < gr. amórghe = ‘morchia’
(feccia dell’olio), cotoneum (malum) < gr. kydonion (mâlon) = ‘mela cotogna’.
L’importazione di tecnologie (lavorazione dell’olio, navigazione) e oggetti dal mondo greco
fin dal VI secolo si accompagna alla penetrazione di prestiti greci. Essi provenivano dalla dorica
Taranto per via di terra o dalla ionica Cuma per via mare.
Prestiti greci anteriori al IV secolo sono quei tecnicismi e toponimi che in latino hanno
subito riduzione vocalica delle vocali brevi interne (cf. § 2.3): ad es. macina / machina (cf. sotto, §
3.1.1), dal dorico machaná.
È invece probabilmente indipendente da influsso greco la centralità del culto del fuoco nella
religione tradizionale di Roma, cui sembra riferirsi il vocabolo aedes (= ‘cella’ centrale di un
tempio, al plurale ‘casa’ di più stanze): questo vocabolo deriva dalla radice indoeuropea AIDH- (=
‘ardere’), riconoscibile anche nel siculo Áitne (il vulcano Etna) e nel verbo greco áitho (=
‘accendere’).
1.4. Il diasistema latino delle origini (sec. VIII-VI a.C.)
Alle origini di Roma sembra di poter cogliere – anche attraverso la leggenda relativa
all’asilo offerto da Romolo a persone di varia provenienza – un sinecismo latino-sabino,
riconoscibile nell’antica formula populus Romanus Quiritium3 . La tradizionale formula Senatus
Così nelle antiche formule dei feziali che Livio (1, 32) riferisce al tempo della guerra di Anco Marcio contro
gli «antichi Latini» (Prisci Latini). Il vocabolo Quirites con il significato di ‘cittadini’ è dal grammatico Festo (p. 304
3
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Populusque Romanus (S.P.Q.R.) sembra quindi derivare da Senatus Populus Quirites Romanus: vi
si intravvederebbe la primitiva distinzione tra consiglio degli anziani (senatus) e gioventù romana
organizzata in reparti armati (populus), unitamente a gruppi associatisi a loro (quirites, forse da *coviri, anche se gli antichi collegavano il nome Quirites con quello della città sabina di Cures),
residenti anche in altri luoghi, prima ancora della fondazione di Roma.
Mentre l’etrusco fu sempre sentito come un’altra lingua e il bilinguismo latino-etrusco si
conservò a lungo nelle classi alte, il persistente sinecismo originario si riflette in una diglossia
latino-sabina che entrò a far parte del diasistema latino. Perciò glosse sabine venivano esemplificate
dai grammatici come rappresentanti di varietà linguistiche “rustiche”, cioè extraurbane: ad es. per
indicare il capro Varrone (De lingua latina 5, 97) indica il nome latino hircus quod Sabini fircus.
All’influsso sabino può essere attribuita un’azione non sistematica dell’accento di intensità,
tra VII e VI sec. a.C., mentre nell’accento latino sembra prevalesse fin dall’inizio la componente
musicale, in continuità con l’accento indoeuropeo. La sincope o soppressione di vocali brevi
interne, causate dall’intensità dell’accento, determina ad esempio la trasformazione del composto
*host(i)-pot(i)s (= ‘colui che ha potere sugli stranieri’, e quindi ne è patrono e insieme garante),
ridotto a *hospots > hospes: quando ormai hostis era passato a significare non più lo straniero ma il
nemico, e dopo che si fu persa la percezione dei due vocaboli che formavano il composto, al
significato attivo (‘colui che ospita’) si sovrappose quello passivo (‘colui che è ospitato’) e i due
significati (il primo soltanto come arcaismo) coesistono sia in latino sia in italiano.
Si può individuare nell’epoca dei re Tarquini (sec. VI) una forte osmosi tra cultura etrusca e
culture latine e italiche: l’influsso etrusco, ormai attivo in tutta Italia, è allora fortemente presente
anche a Roma, dove però la formula onomastica etrusca, ad esempio, era forse già stata recepita
attraverso la mediazione protosabina: il prenome (sostantivo) e il gentilizio (aggettivo indicante la
gens di appartenenza) precedevano l’eventuale patronimico (es. Marcus Tullius Quinti filius);
invece i Sabini, come gli Umbri, preponevano il patronimico. Successivamente i Romani
introdurranno l’uso del soprannome (cognomen) contrassegnante i membri di un determinato ramo
della gens: es. M. Tullius Cicero, con allusione ai ceci; M. Porcius Cato, con allusione
all’accortezza di un capostipite molto sagace (catus), e così via.
Oltre agli influssi esercitati sul latino dal greco e dall’etrusco, oggi i rapporti tra il latino e le
lingue italiche sono sottolineati, più che in passato, a partire dalle iscrizioni che ci documentano
quello che è stato chiamato ‘italico comune’.
L.) espressamente riferito al sinecismo romano-sabino: «Chiamati Quirites dopo l’alleanza stipulata da Romolo e Tazio,
indicano l’unione e l’amicizia creatasi tra la popolazione» (Quirites autem dicti post foedus a Romulo et Tatio
percussum, communionem et societatem populi factam indicant).
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Un esempio databile fra VI e IV secolo è tratto dalla coppa di Civita Castellana (Museo di
Villa Giulia, a Roma), su cui è incisa una frase influenzata dall’umbro e dal falisco:
FOIED VINO PIPAFO CRA CAREFO
(= hodie vinum bibam, cras carebo, cioè «oggi berrò il vino, domani farò senza»).
Nel testo di Isidoro di Siviglia sopra riportato (§ 0.7) viene riferito alla fase protostorica
denominata prisca lingua il carmen Saliare (recitato dai sacerdoti detti Salii). Di questo e di altri
carmina – testi arcaici in prosa ritmica – ci sono giunti effettivamente brevi frammenti in citazioni
di autori latini (come ad es. il Carmen lustrale tramandato da Catone, De agricultura 141: esso
veniva recitato dal proprietario per l’annuale cerimonia di purificazione del campo). Per la
valutazione di tale esigua tradizione indiretta occorre comunque ricordare che si trattava di formule
ormai oscure per gli stessi Latini, come attesta Quintiliano (Institutio oratoria 1, 6, 39): «I carmi dei
Salii sono scarsamente intelligibili per i loro stessi sacerdoti» (Saliorum carmina vix sacerdotibus
suis satis intellecta). Si tratta di testi generalmente di contenuto sacrale, articolati in segmenti di
struttura accentativa e allitterante, in funzione della recitazione mnemonica, nell’ambito di una
cultura contadina.
Alle più remote origini di illustri famiglie (gentes) romane facevano riferimento le saghe
orali recitate (con o senza accompagnamento di flauto) durante i banchetti, per celebrare il padrone
di casa e i suoi antenati: in esse venivano tramandati i più antichi materiali della storiografia romana
delle origini.
2. IL LATINO ARCAICO, UNA LINGUA IN RAPIDA
EVOLUZIONE (sec. V-III a.C.)
2.1. Una lingua in rapida evoluzione
Il latino arcaico (cioè precedente alla normalizzazione urbana) sarà disprezzato come rustico
dagli scrittori classici, mentre più tardi gli eruditi arcaizzanti del II secolo d.C. (soprattutto Gellio)
cercheranno di recuperare il significato di parole e testi ormai poco capiti e ridotti a frammenti.
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La scarsa documentazione del latino dei secoli VII-IV fu attribuita all’incendio di Roma del
390 a.C. (cf. Livio 6, 1, 2), ma probabilmente molti testi non furono più trascritti perché le strutture
morfo- fonologiche erano diventate via via incomprensibili. L’evoluzione si arresterà (almeno a
livello di registro standard) e sarà comunque frenata (a livello di registro informale) in seguito
all’istituzionalizzazione del latino da parte della scuola e delle istituzioni romane (sec. II-I a.C.),
come vedremo (cap. 4).
Con l’affermarsi dell’importanza politico- militare di Roma, la lingua latina poté essere
talora sentita come una sorta di lingua franca, parlata anche da Etruschi e altre popolazioni del
Lazio, in una situazione di plurilinguismo: il latino fu dunque, in questa fase iniziale, un diasistema
multiforme e instabile, che però per il dinamismo di una società in rapido sviluppo tendeva alla
semplificazione fonetica e all’arricchimento lessicale.
2.2. La crisi del V secolo e l’apertura culturale del IV
Dopo la fine dell’età regia e quindi della comune cultura etrusco- italica, Roma si chiuse
inizialmente in se stessa, per timore di un ritorno dell’egemonia etrusca e anche perché i suoi
collegamenti con la Campania erano impediti dalla discesa dei Volsci nella pianura pontina (metà
del V sec.) e premevano, insieme con gli Equi, sui Colli Albani, mentre i Sabini incombevano a est
della città.
Ma iniziando una politica di conquiste, a partire dalla conquista dell’etrusca Veio (396),
Roma si avviò a diventare una res publica plurinazionale. Il diverso statuto giuridico accordato ai
vari popoli assoggettati mirava a dividerne gli interessi e a coinvolgere le personalità emergenti,
promuovendo un incessante afflusso di elementi non romani nella compagine statale.
Così quando alla fine del IV sec. Roma, vincendo i Sanniti, uscirà dall’isolamento, per
affermare la propria identità politico-culturale comincerà anche a regolare la propria accettazione di
parole forestiere, in particolare greche.
2.3. Interlinguismo e trasformazioni della lingua latina all’inizio dell’età
repubblicana
1
2
Nella consapevolezza delle origini composite della lingua latina, Varrone (De lingua latina
5, 10) suddivideva le parole latine in indigene e forestiere (aliena), oltre a quelle disusate.
Dionigi di Alicarnasso, storico greco vissuto a Roma in età augustea, asseriva che fin dalle
sue origini Roma era stata la «città di tutti e la più ospitale» (Antichità Romane 1, 89, 1) e che
pertanto il latino è una «lingua mista» che unisce le parlate di diverse stirpi provenienti dall’Italia o
da fuori (ivi, 90, 1).
Quintiliano (Institutio oratoria 1, 5, 55 s.) da parte sua ricorda, prima ancora che l’apporto
di parole galliche, puniche, iberiche e greche, l’origine etrusca, sabina e prenestina di vocaboli
ormai considerati “romani”, come ad esempio si era ormai integrata nello standard letterario la
“padovanità” (Patavinitas) di Tito Livio.
Accanto all’etrusco, parlato in origine a nord del Tevere ma ben radicato in Roma
specialmente come lingua di cultura, in età arcaica le lingue italiche continuarono ad essere parlate
e ad influenzare il latino con l’apporto di vocaboli che saranno poi talora epurati come rusticismi o
arcaismi. È ad esempio riconoscibile come sabinismo dirus (in luogo di malus), conservatosi nel
latino poetico e di qui, come vocabolo aulico, nell’italiano antico ‘diro’ (= ‘empio’, ‘funesto’); è
inoltre sabineggiante il nome di Tarpeia (attribuito dalla tradizione alla donna che aveva fatto
entrare sul Campidoglio i Sabini di Tito Tazio re di Cures, al tempo di Romolo) in contrapposizione
al nome etrusco Tarkuna e a quello latino Tarquinius. L’influsso italico si coglie inoltre in vocaboli
con fricativa labiovelare sorda (<f>) interna, in alternativa a forme romane in <b>: così ad esempio
l’italicismo sifilare si opponeva al latino sibilare, e se quest’ultimo è prolungato dall’esito dotto
italiano (‘sibilare’, appunto), la forma italica ha dato esito romanzi quali l’ital. ‘zufolare’ e il
francese ‘siffler’; l’italiano a sua volta ha continuato la forma italica *bufalus invece della forma
latina bubalus.
Nel latino classico sono inoltre sopravvissute soltanto nella loro forma sabineggiante parole
che nella forma latina presentano una <d> invece di una <l>, come avviene nel caso di solium
(allotropo di *sodium = ‘seggio’, in italiano antico ‘soglio’, dalla stessa radice riconoscibile nel
verbo sedeo e quindi con il significato di ‘seggio’); a tale osmosi tra sabino e latino è riconducibile
anche la variazione consonantica esistente tra il sostantivo odor e il verbo olere (= ‘olezzare’), che
continua nell’italiano ‘odore’ e ‘(o)lezzo’, così come l’italiano ‘cicala’ conserva la forma
sabineggiante rispetto al latino cicada.
L’influsso umbro inoltre si coglie nella tendenza extraurbana alla monottongazione: così ad
es., per indicare la ‘pentola’, il rusticismo olla prese il sopravvento, in età classica, sull’allotropo
urbano aul(l)a, ma ciò fu dovuto all’omofonia con il nuovo vocabolo aula = ‘corte’, introdotto
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3
come prestito dal greco aule. Anche il rotacismo (sonorizzazione della /s/ e suo progressivo
passaggio a /r/) è causato da influsso umbro, benché in latino esso si verifichi (fino alla metà del IV
secolo) non alla fine di parola ma soltanto in posizione intervocalica.
Viceversa l’identità culturale romana si manifesta con le varie forme del suo particolarismo
linguistico, riconoscibile – oltre che nella tendenza urbana alla difesa dei dittonghi – nella riduzione
delle vocali brevi in sillaba interna e anche finale. Tale riduzione sembra causata, nel sec. V a.C.,
dall’accentuarsi della componente intensiva dell’accento per influsso italico; ricaviamo così
l’etimologia di parole che continuano anche in italiano: es. occidere da ob- + cadere (lett. ‘cadere
giù’, ‘tramontare’; cf. ital. ‘occidente’), difficilis da dis- + facilis, indemnis da in- + damnum (lett.
‘senza danno’), insulsus da in- + salsus (lett. ‘non salato’, ‘sciapo’), ecc. Con la riduzione della
vocale breve in sillaba chiusa da semiconsonante, i dittonghi si chiudono in un unico fonema lungo:
es. occidere da ob- + *caidere (> caedere ; cf. l’ital. ‘uccidere’), collidere da con- + *laidere (>
laedere; cf. l’ital. ‘collisione’), accusare da ad- + causare (lett. ‘chiamare in giudizio’).
2.4. La prima redazione scritta di testi giuridici
All’inizio dell’età repubblicana sono stati redatti alcuni testi giuridici di cui possediamo
frammenti, giunti a noi non per via epigrafica, ma per tradizione indiretta, e quindi talora
modernizzati dall’utilizzazione fattane dalla giurisprudenza romana oppure alterati dalla ripetizione
mnemonica, non sempre consapevole del significato originario delle parole.
Così ad esempio illustrando un frammento delle cosiddette Leges regiae – attribuite dagli
antichi al periodo monarchico – occorreva che gli eruditi chiarissero il significato del termine
parricida, originariamente paricida, cioè uccisore di un pari’ (individuo libero della stessa
comunità, non straniero o schiavo), e non ‘uccisore del padre’, come comunemente si credeva, con
una accezione erronea che si è però trasmessa anche alla lingua italiana:
Paolo Diacono da Pompeo Festo (che a sua volta riassumeva il De significatu verborum
dell’erudito augusteo Verrio Flacco), p. 327 L.
…parricida veniva detto colui che avesse
…parricida non utique is qui parentem
ucciso non certo il padre, ma qualunque
occidisset dicebatur, sed qualemcumque
persona non condannata. Che sia stato così lo
hominem indemnatum. Ita fuisse indicat lex
mostra la legge di Numa Pompilio formulata
Numae Pompili regis his composita uerbis:
con queste parole: «Se uno con l’inganno,
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«Si qui hominem liberum dolo sciens morti
consapevolmente, mette a morte un uomo
duit, paricidas esto».
libero, sia paricida».
La tradizione collocava inoltre nel 451-450 a.C. la redazione scritta di antiche consuetudini
in cui Roma vide un emblema della propria civiltà, tanto da farne il testo base dell’istruzione
elementare, almeno fino al I secolo a.C.: si tratta delle cosiddette leggi delle XII Tavole, il cui testo
ci è giunto frammentario attraverso citazioni fattane da autori antichi. Proprio a questo testo fa
riferimento Isidoro (vedi sopra, § 0.7) per esemplificare la fase da lui denominata della Latina
lingua, in continuità con l’età regia.
Anche dalle poche citazioni pervenuteci possiamo cogliere molte caratteristiche originarie
della civiltà latina. In particolare i primi quattro frammenti della Tabula III tramandati dall’erudito
Aulo Gellio (20, 1, 42-45) ci mostrano, con riferimento alla punizione dei debitori insolventi, le
origini del garantismo proprio del diritto romano, ma un altro frammento ci fa intravvedere anche la
violenza di un arcaico linguaggio, probabilmente con funzione di deterrenza rispetto a un reato che,
scoraggiando il prestito, impediva lo sviluppo economico:
XII Tavole, fr. III 6 (Gell. 21, 46-52)
Erat autem ius interea paciscendi, ac nisi
C’era la norma di venire a patti entro un certo
pacti forent habebantur in vinculis dies
tempo, e se non fossero venuti a patti venivano
sexaginta. Inter eos dies trinis nundinis
tenuti in catene per sessanta giorni. Durante quei
continuis ad praetorem in comitium
giorni, in occasione di tre mercati consecutivi
producebantur,
venivano portati davanti al pretore nel comizio, e
quantaeque
pecuniae
iudicati essent praedicabantur. Tertiis
veniva
autem nundinis capite poenas dabant aut
pagamento a cui erano stati condannati. Al terzo
trans Tiberim venum ibant.
mercato venivano messi a morte oppure venivano
Sed eam capitis poenam sanciendae,
venduti al di là del Tevere.
sicut
horrificam
Ma quella pena capitale, per assicurare l’affidabilità
atrocitatis ostentu novisque terroribus
– come ho detto – la resero orrenda con un apparato
metuendam reddiderunt. Nam si plures
di atrocità e temibile per uno spavento inusitato:
forent quibus reus esset iudicatus, secare,
infatti se erano più (d’uno) coloro per i quali
si vellent, atque partiri corpus addicti
l’accusato era stato condannato, permisero (loro) di
sibi hominis permiserunt. Et quidem
tagliare, se volevano, e spartirsi il corpo della
dixi,
fidei
gratia
proclamata
pubblicamente
l’entità
del
1
5
verba ipsa legis dicam, ne existimer
persona ad essi consegnata. E dirò proprio le parole
invidiam me istam forte formidare:
della legge, perché non si pensi che abbia paura di
TERTIIS
NVNDINIS
PARTIS
farlo: AL TERZO MERCATO TAGLINO LE
SECANTO.
SI
MINVSVE
PARTI. SE SI TROVANO AD AVER TAGLIATO
PLVS
SECVERVNT, SE FRAVDE ESTO.
DI PIU’ O DI MENO, NON SIA REATO.
Anche la redazione del cosiddetto Ius civile Flavianum (304 a.C.) costituì un segnale
importante nella direzione di una democratizzazione del sapere attraverso la pubblica esposizione di
un testo scritto.
Sul versante della lingua letteraria, anche anteriormente a una forma scritta la lingua latina
era ormai in grado di esprimere ad esempio le imprese delle antiche famiglie gentilizie nel corso dei
banchetti, con antichi testi in prosa ritmica (carmina) recitati senza musica o con accompagnamento
di flauto; anche i lamenti funebri (neniae) e i discorsi pronunciati in occasione di funerali
(laudationes funebres) tramandavano notizie e celebravano memorie che diventavano di pubblico
dominio.
3. LA ‘LINGUA DI ROMA’ (secoli III a.C.-IV d.C.)
Se nella sua affermazione politica la Roma arcaica si concepì ben presto, sul modello
etrusco, come una città-stato caratterizzata da una sorta di separazione cultuale tra urbs (all’interno
del pomerium) e ager (territorio circostante), la continua osmosi tra i due ambiti prolungò gli effetti
dell’originario sinecismo tra le diverse popolazioni stanziate nel bacino del Tevere. L’espansione
urbanistica e il diffondersi delle proprietà fondiarie (villae) appartenenti ad abitanti dell’Urbe
determinarono il costituirsi di un territorio “suburbano” che si allargò poi nelle province aprendo la
via alla concessione della Latinitas (cittadinanza di diritto latino) anche fuori dall’Italia e quindi via
via al superamento della distinzione tra Italia e province. L’estensione della suburbanitas implicava
del resto la diffusione del modello di vita urbana (attività forense, scuola, spettacoli, terme...) anche
in luoghi lontani dall’Urbs.
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In questo processo, illustrato dalle diverse tappe ed eventi della storia romana, la lingua
parlata a Roma finì per essere istituzionalizzata come veicolo di comunicazione plurinazionale e
sovranazionale (come l’inglese attuale).
Del resto Isidoro di Siviglia, nel testo visto sopra (§ 0.7), parla di Romana lingua, che egli
identifica con la lingua documentata dalla letteratura sia arcaica sia classica, senza distinzione. Un
codice linguistico unitario è infatti espressione di una unità culturale, che nel mondo romano si può
considerare raggiunta alla metà del III secolo a.C. con l’apertura delle prime scuole elementari
(viene ricordato come primo esempio – Plutarco, Quaest. Rom. 59 – la scuola del liberto Spurio
Carvilio, aperta a Roma intorno al 235 a.C.) e gli inizi della letteratura latina: in essa si cimentano
Plauto umbro, Nevio campano, Livio Andronico tarantino, e poi Cecilio Stazio, gallo insubro
originario da Milano, Ennio salentino, Pacuvio da Brindisi, Terenzio da Cartagine, e così via. Così a
Nevio, nel suo epitaffio, veniva attribuita (fr. 64 Morel) l’affermazione secondo cui dopo la sua
morte a Roma si sarebbe dimenticato l’uso corretto del latino (lingua Latina) ed Ennio (Annales.
525 S.) sembra accantonare la propria nazionalità originaria (da Rudiae, presso l’attuale Lecce)
quando afferma con orgoglio: «siamo Romani, noi che prima fummo di Rudiae» (nos sumus
Romani qui fuimus ante Rudini).
La cultura letteraria latina ricevette importanti contributi dalla cultura etrusca (diritto,
musica, teatro) e osca (farsa improvvisata detta “atellana”, dalla città campana di Atella), ma
l’apporto decisivo fu dato dall’emulazione dei modelli greci, con i loro generi letterari, i repertori
mitologici, le tecniche retoriche e metriche. La funzione del latino standard come lingua di
comunicazione sovranazionale in un territorio plurilingue e pluriculturale fu stimolata così anc he
dalle tecniche della traduzione artistica e letteraria (al di là del semplice interpretariato) e
dall’intertestualità, cioè dai rapporti di imitazione e riecheggiamento da autori greci in testi latini: la
traduzione dell’Odissea omerica (Livio Andronico) e il teatro (Plauto e Nevio) furono le prime
prove della letteratura latina, che diveniva elemento di cultura nazionale esportabile, per la sua
forma scritta e/o per la sua fruibilità attraverso la rappresentazione scenica, ovunque giungesse la
romanizzazione.
3.1. Sforzo organizzativo verso la normalizzazione della lingua (sec. III-II
a.C.)
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Su strutture linguistiche in via di elaborazione (semplificazione fonetica e arricchimento del
lessico) cominciò ad esercitarsi, soprattutto a partire dall’erudizione filologica di matrice ellenica,
un’opera di ordinamento, selezione, classificazione, in concomitanza con le nuove esigenze
politico-culturali dello Stato romano. La comunicazione pubblica esigeva infatti uno strumento
linguistico sobrio ed efficace, capace di liberarsi da incrostazioni arcaiche e da varianti superflue.
3.1.1. L’accento
Se lo standard latino di area urbana è caratterizzato dal prevalere della componente musicale
dell’accento, in area extraurbana la componente intensiva accentuata dall’influsso delle lingue
italiche continuò ad essere vitale e nel latino di registro informale è attestata in forma crescente in
età imperiale (e quindi poi nelle lingue romanze, come è l’italiano) attraverso la sincope delle vocali
brevi interne: così ad esempio già Augusto (lo attesta Quintiliano, Institutio oratoria 1, 6, 19)
criticava come affettato lo scrivere calidus anziché caldus in una lettera familiare, ma a livello
standard i grammatici continueranno a prescrivere la forma non sincopata, come fa ancora
l’Appendix Probi (53-54): calida non calda, frigida non fricda.
Rispetto alla libertà primitiva – per quanto riguarda la posizione dell’accento – il latino di
età storica mostra una mobilità condizionata dalla quantità della penultima sillaba: diversamente
infatti dal trisillabismo greco (per cui l’accento era ristretto nell’ambito delle ultime tre sillabe),
l’accento latino si colloca sulla penultima o sulla terzultima sillaba in relazione alla quantità della
penultima.
3.1.2. Fissazione delle strutture fonetiche e dell’ortografia
L’alfabeto latino constava di 21 segni, dalla <a> alla <x>, ma per trascrivere le parole greche
i grammatici introdussero, nel I sec. (cf. Cicerone, Orator 160: «gli antichi non usavano la lettera
greca [<y>], ora però ne usiamo anche due» [<y> e <z>]), l’uso regolare di <y> e <z>.
L’evoluzione della lingua comportava anche nella scrit tura, come riflesso delle variazioni
fonetiche, varianti ortografiche che l’insegnamento scolastico cercava di normalizzare:
Quintiliano, Institutio oratoria 1, 7, 11.30
... orthographia quoque consuetudini inservit
ideoque saepe mutata est. (...)
Iudicium
autem
suum
grammaticus
interponat his omnibus; nam hoc valere
plurimum debet. Ergo, nisi quod consuetudo
Anche l’ortografia si adegua all’uso e perciò ha
spesso subìto cambiamenti. (...)
In mezzo a tutti questi fenomeni il grammatico
applichi il proprio discernimento: è questo infatti
che deve valere più di tutto. Ritengo dunque che
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8
optinuerit, sic scribendum quidque iudico ogni parola vada scritta come suona, ad eccezione
quomodo sonat.
di ciò che la consuetudine ha introdotto.
Poiché la consuetudine cui l’ortografia faceva riferimento era quella dell’Urbe, la
monottongazione veniva ripudiata, nella pronuncia come nella grafia standard: un oratore che
pronunciava il dittongo /ai/ (> /ae/) con una /e/ aperta sembrava infatti «imitare i mietitori»
(messores videtur imitari), a detta di Cicerone (De oratore 3, 46).
Nella sua reazione ai rusticismi, la lingua urbana tendeva a conservare le consonanti velari
davanti a /e/ ed /i/ (mentre in umbro e nel registro informale dei ceti umili si andava verso la
palatalizzazione, come spesso accadrà nelle lingue romanze): così ad es. macina perdura in latino
nel linguaggio tecnico, ma nel registro standard si afferma la grafia grecizzante machina. Una moda
passeggera affermatasi – a detta di Quintiliano (Institutio oratoria 1, 5, 20) – nel I sec. a.C. lasciò
talora anche nella grafia l’uso di indicare come aspirate anche consonanti che non lo erano, come
pulcher, sepulchrum, chorona, lachrima, triumphare (cf. Cicerone, Orator 160; Catullo 84, 1).
L’aspirazione, debole in latino (<h>), nello standard è semplicemente un segnale che ricorda
l’antica presenza di un’aspirazione (Quintiliano, Institutio oratoria 1, 4, 7), anche se
originariamente aveva, in posizione iniziale, una funzione distintiva (cf. le coppie minime hos / os,
hortus / ortus, hauri / auri); in posizione intervocalica <h> indica iato (es. mihi, nihil), ma può
annullarsi (mi, nil).
La segnalazione delle consonanti geminate o doppie potrebbe risalire alla moda ellenizzante
della fine del III sec. a.C. e gli antichi attribuivano ad Ennio la sua istituzionalizzazione.
A Cesare era fatta risalire invece la normalizzazione della grafia <i> anziché <u> per il
«suono intermedio» fra i due fonemi di quantità breve (Quintiliano, Institutio oratoria 1, 7, 21 e 1,
4, 8): dal I sec.a.C., perciò, la grafia optumus anziché optimus si configura come arcaizzante.
Non ebbe seguito invece il progetto dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) che, per rimediare
alle lacune che i grammatici ormai rilevavano nell’alfabeto latino, si propose di introdurre l’<h>
dimezzata per indicare il suono intermedio tra /i/ ed /u/, l’antisigma per indicare il digrafema <ps> e
il digamma rovesciato per indicare la /u/ consonantica (cf. Suet. Claud. 41).
In funzione della chiarezza della comunicazione, inoltre, il latino standard tende a
ripristinare e conservare fonemi desinenziali (/m/, /nt/, /s/) che però nel latino corrente (che continua
nelle lingue romanze) saranno sempre più deboli: così ad es. le forme arcaiche Cornelios e
Corneliom rischiavano di essere percepiti indifferentemente come Cornelio, mentre nel latino
standard il ripristino del fonema desinenziale oscura la vocale precedente (es. Cornelius e
Cornelium).
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9
Il latino standard reagiva inoltre all’insofferenza dei parlanti per lo iato e quindi alla
tendenza alla sinizesi, per cui ad es. filíolus nel latino volgare era pronunciato *filiòlus (? ital.
‘figliòlo’), lintéolum nel latino volgare era pronunciato *lintiòlum (? ital. ‘lenzuòlo’) e l’attuale
toponimo ‘Pozzuoli’ deriva dal latino volgare Puteólis (CIL X, 1889): contro la produzione di
dittonghi ascendenti, in seguito alla consonantizzazione rispettivamente della i o della e in iato, il
latino standard ne conservava invece il carattere vocalico e quindi si accentava, ad es., Putéolis.
3.1.3. Fissazione delle strutture morfologiche
La flessione nominale e verbale si assesta mediante meccanismi analogici e processi di
eliminazione delle varianti, che localmente sono ancora attestate soprattutto prima del I secolo a.C.
Soltanto nel linguaggio formulare, ad esempio, si conserva l’antica desinenza del genitivo singolare
in -as (es. pater familias) per la prima declinazione.
Nella semplificazione dei casi lo strumentale era confluito nell’ablativo e anche il locativo
sopravvive solo sporadicamente (es. domi = ‘in casa’ e quindi ‘in patria’ e anche ‘in tempo di
pace’).
Nella flessione verbale il latino standard conserva, per ragioni di eufonia, l’antica uscita in
-ere della terza persona plurale del perfetto indicativo; essa però per la sua somiglianza con
l’infinito era stata sostituita, nel registro informale, dall’uscita aoristica -erunt (presente nella poesia
arcaica ma anc he postclassica): l’ital. ‘dìssero’ continua infatti il latino díxerunt; tuttavia nel registro
standard gli analogisti (soprattutto Cesare) tendevano a generalizzare l’uscita -erunt (es. dixérunt),
intermedia tra le altre due.
Un intervento particolarmente incisivo dei grammatici riguardò la selezione dei verbi detti
“deponenti”. In latino, fin dalle origini, molti verbi presentavano sia la diatesi attiva, sia quella
media, che esprimeva la partecipazione affettiva o comunque un particolare coinvolgimento del
soggetto nell’evento indicato dal verbo: ad esempio, accanto a mereo (infinito merere) = ‘io merito
(qcosa)’, si usava anche la forma mereor (infinito mereri) = ‘io mi merito (qcosa)’. La forma con
desinenza -r era però condivisa con l’impersonale (es. itur = ‘si va’) ed era stata adottata anche per
il passivo e ciò portava, nel parlato corrente, ad attenuare la pregnanza del suo valore di medio, che
venne via via espresso piuttosto con il dativo etico o con forme pronominali: così, ad es., già in
Plauto (Rud. 388) si trova sese excruciare anziché excruciari (= ‘tormentarsi’), in Cicerone (Planc.
96) ferri è sostituito da se ferre e il latino corrente registrò poi verosimilmente forme del tipo *mihi
recordo, laddove
Prisciano, GL II, p. 396, segnala che gli antichi usavano indifferentemente
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recordo e recordor. I grammatici, tuttavia, recependo la vitalità della valenza media per la forma in
-r di alcuni verbi molto “soggettivi”, come nascor, morior, fruor (‘godo di qcosa’), utor (‘mi servo
di qcosa’), loquor (‘mi esprimo’), vescor (‘mi nutro di qcosa’), ecc., indicarono come superflua –
nella latinità standard – la loro forma attiva: questi verbi furono perciò detti “deponenti” in quanto
avevano in qualche modo “deposto” sia la forma attiva, sia il significato passivo. Pertanto, anche se
in Catone (agr. 151, 4) è ancora attestato nascere, nel latino standard è presente soltanto la diatesi
media nasci.
La forma attiva, però, continuò ad essere utilizzata nell’uso vivo, e divenne prevalente,
eliminando in tal modo l’ambiguità della forma medio-passiva: se nel I sec. a.C. Varrone (De lingua
latina 8, 59) sosteneva la validità solo di loquor, nel I sec. d.C. nel latino di registro informale
imitato da Petronio si attesta la forma loquo (Satyricon 46, 1 Tu, qui potes loquere, non loquis);
mentre nel II sec. d.C. Gellio (18, 9, 8) osserva precisamente che sequo et sequor coesistono, ma
consuetudine loquendi differunt. L’ininterrotta vitalità delle forme attive è dimostrata dal fatto che
solo queste sono continuate nelle lingue romanze (es. nascere).
3.1.4. Fissazione delle strutture sintattiche
Come reazione alla progressiva perdita di significato dei casi, spesso polivalenti, si
rafforzarono talora i normali segnali morfologici mediante procedimenti sintattici, sostituendo il
caso semplice con un nesso preposizionale: così ad es. il dativo poteva essere espresso anche con ad
+ acc. (già in Plauto) e lo strumentale, confluito nell’ablativo di mezzo, poteva essere espresso con
l’aggiunta di cum: tali forme analitiche hanno continuato ad essere vitali nelle lingue romanze,
mentre nel registro standard l’essenzialità espressiva tendeva a non farvi ricorso.
Un importante segnale dell’evoluzione intellettuale romana è dato dall’organizzazione della
struttura ipotattica della lingua. Il periodo si fa così sempre più complesso, con il meccanismo della
consecutio temporum, per cui i tempi verbali hanno valore relativo: in latino infatti il sistema
verbale ha in gran parte perduto il fondamento aspettuale derivato dall’indoeuropeo, in cui era vitale
la contrapposizione tra aspetto durativo, aspetto risultativo e aspetto puntuale o momentaneo (ad es.
il riferimento è al momento iniziale in Cicerone, Epist. 12, 6, 2 si conservatus erit, vicimus = «se
(Bruto) si sarà salvato, abbiamo bell’e vinto») dell’azione verbale. Un residuo del significato
aspettuale del verbo sussiste ad esempio nei cosiddetti ‘perfetti logici’ o risultativi, per cui memini
significa «ho accumulato nella memoria» e quindi “ricordo”, novi significa «ho accumulato
nozioni» e quindi “so”, ecc. L’aspetto verbale è poi talora segnalato, in latino, da prefissi, suffissi o
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1
infissi aggiunti alla radice verbale: ad es. labor = ‘scivolo’ (azione durativa; cf. ital. ‘labile’) vs.
collabor = ‘crollo’ (azione momentanea; cf. ital. ‘collasso’); così la differenza tra suadeo (aspetto
durativo) e persuadeo (aspetto risultativo) si coglie ancora in italiano nella differenza tra ‘suadente’
e ‘persuasivo’.
3.1.5. Arricchimento del lessico
Nel suo evolversi come lingua intellettuale il latino elabora in senso metaforico vocaboli
desunti dal linguaggio agricolo: pecunia (= ‘denaro’, con riferimento al pecus , ossia al bestiame,
utilizzato nel pagamento in natura), ager (= ‘campo’, ma anche ‘territorio’), felix e laetus (=
‘fecondo’, ‘produttivo’, e quindi ‘lieto’; cf. laetamen = ‘letame’), locuples (lett. ‘pieno nella sua
terra’, cioè ricco), frugi (= ‘da frutto’, e quindi ‘buono, onesto’), egregius (lett. ‘che si distingue dal
gregge’), rivalis (lett. ‘colui che sull’altra riva’), delirare (lett. ‘uscire dal solco’), impedire (lett.
‘trattenere i piedi’), expedire (lett. ‘liberare i piedi’, da cui ‘spedire’), peccare (lett. ‘agire col
piede’, e quindi ‘mettere un piede in fallo’, ‘sbagliare’).
Inizialmente il latino evitava gli astratti, che però aumentarono con l’elevazione del livello
intellettuale della società e per influsso del greco, che permise di acquisire anche una maggiore
propensione per l’uso dei composti. Inizialmente infatti essi erano sentiti come poco perspicui a
causa della componente intensiva dell’accento di influsso italico; così per divertire il suo pubblico
Plauto enfatizza la moda dei composti alla greca anche con la creazione di esotismi scherzosi (es.
Persa 702 ss., dove nugiepiloquides è detto di uno ‘che dice sciocchezze’).
L’adattamento fonetico di parole greche in latino è via via più fedele, nel registro standard:
così se in precedenza si era avuto il prestito ampora – attestato come volgarismo ancora nel III-IV
sec. d.C. (Appendix Probi 227: amfora, non ampora) – e il suo diminutivo ampor(e)la > ampulla,
in età classica la conoscenza della fonetica greca determinò la forma amphora, e il latino standard
colaphus (dal greco kólaphos = ‘schiaffo’) si contrappone al volgarismo *col(o)pus, attestato
dall’ital. ‘colpo’ (cf. Petronio 44, 5 percolopabant = ‘picchiavano sodo’).
Il lessico latino si arricchì dunque di grecismi inizialmente a partire dal linguaggio corrente,
a partire da tecnicismi della lingua dei mercanti, dei medici, degli artigiani ecc., come i tecnicismi
relativi alla religione e agli spettacoli erano stati talora desunti dall’etrusco. Ma dal II-I secolo a.C.
il purismo dei grammatici tentò di frenare, nel latino standard, l’acquisizione di neologismi e di
prestiti anche provenienti dal greco: tali nuove accessioni rischiavano infatti di inquinare l’identità
2
2
linguistica romana e le élites colte preferirono allora limitarsi a citare parole o espressioni greche
nella lingua originale, senza ambientarle nel sistema morfologico latino
Divenendo però lingua di cultura, con l’emulazione della prestigiosa cultura greca, il latino
si arricchì via via di calchi formali (per cui providentia corrispondeva al greco prónoia, qualitas a
poiótes, accentus a prosodía) e di calchi di significato (per cui ars corrispondeva al greco téchne,
ratio a lógos, natura a phýsis, voluptas a edone, humanus a philánthropos, decorum a prépon, causa
ad aitía, locus a tópos, anima a psyche, animus a nus, mentre vari sinonimi o nessi, come ad
esempio primordia o corpuscula minima, corrispondono in Lucrezio al greco átomoi. Si poneva
così rimedio a quella “povertà” del lessico intellettuale latino denunciata da Lucrezio (1, 139 e 831;
3, 260) e ammessa da Seneca (Epist. 58, 1), ma smentita da Cicerone (De finibus 1, 3; 3, 34).
Quest’ultimo contribuì in modo decisivo ad arricchire la lingua latina di tecnicismi filosofici,
proponendo ad esempio l’introduzione dell’aggettivo moralis per indicare l’etica (gr. ethike), fino
ad allora chiamata philosophia de moribus (De fato 1); a Cicerone è inoltre attribuita la creazione
del vocabolo essentia (ricalcato sul greco usía), poi utilizzato dallo stoico Fabiano (Seneca, Epist.
58, 6): essentia ed ens – quest’ultimo ricalcato sul greco tò on e proposto da Cesare (cf. Prisciano,
Institutiones grammaticae 18, GL 3, p. 239, 7) – furono diffusi a partire dal retore Virginio Flavo
(inizio I d.C.) e continueranno poi nelle lingue moderne.
Alla complessità concettuale sottostante ai tecnicismi retorici e filosofici greci la lingua
latina ovviò con l’impiego di endiadi e nessi nominali, come per esempio comparatio proportiove
per tradurre il vocabolo greco analogía (cf. Cicerone nella sua traduzione del Timeo platonico, § 13,
p. 186 Giomini).
Traendo origine dall’uso ormai canonizzato dal lessico colto di età arcaica (instituto
veterum), vari tecnicismi greci entrarono a far parte del lessico latino sotto forma di prestiti, come
ad esempio philosophia, rhetorica, dialectica, grammatica, geometria, musica, physica (cf.
Cicerone, De finibus 3, 2, 5 e Academica posteriora 1, 25). Tenendo dunque presente l’esigenza di
lingue tecniche elevate quali la retorica e la filosofia, Quintiliano (Institutio oratoria 2, 14, 1-4)
ammetteva l’accettazione di grecismi per evitare di ricorrere a neologismi male armonizzabili con il
lessico latino.
3.2. Il registro standard o istituzionalizzato (sec. I a.C.-IV d.C.)
2
3
Con l’affermazione dello Stato romano anche al di fuori del Lazio e dell’Italia (fine del II
sec. a.C.), nella comunicazione pubblica (oratoria, diritto, epigrafia ufficiale) e nella letteratura
venne assunto come standard linguistico il latino parlato a Roma dai ceti colti in quel particolare
momento storico, legato alla generazione di Scipione Emiliano e dei suoi amici ammiratori della
grecità, ma anche a politici e oratori che, come Catone, erano piuttosto preoccupati di promuovere
l’identità nazionale. Alla generazione degli Scipioni fa riferimento infatti Cicerone quando dice
(Brutus 258) che «in quel tempo quasi tutti coloro che non erano vissuti fuori di questa città né
erano stati intorbidati da qualche elemento forestiero penetrato all’interno, si esprimevano
correttamente».
Pertanto la «coloritura cittadina» (urbanitatis color) qualificava il «parlare latino» (Latine
loqui) caratteristico non soltanto degli oratori ma di tutti gli abitanti di Roma (Cicerone, Brutus
171), ed esso costituiva lo standard di riferimento per tutti i cives Romani (ivi 140), in qualunque
luogo dello Stato.
Funzionale alla creazione di un latino standard fu l’introduzione degli studi grammaticali in
Roma e la diffusione dell’insegnamento scolastico romano. Gli inizi dell’insegnamento
grammaticale a Roma sono legati a modelli greci, con riferimento anzitutto alla Téchne grammatike
di Dionisio Trace (sec. II a.C.), che ebbe conoscenza della grammatica sanscrita di Panini (sec.
VI/IV a.C.) ma che elaborò le categorie descrittive della lingua in conformità alla gnoseologia
stoica. La grammatica di Dionisio Trace servì poi da modello a Quinto Remmio Palemone (sec. I
d.C.). I Romani recepirono comunque, accanto al concetto della lingua come enérgheia, cioè
dinamismo dall’andamento diseguale (gr. anomalos), perseguito dagli anomalisti stoici della scuola
di Pergamo (Asia Minore), anche la concezione platonica della lingua come ‘norma’ (nómos)
propria dei grammatici di Alessandria d’Egitto, che avevano formulato le loro teorie sull’azione
dell’analogia (= ‘secondo un criterio logico’) sull’evoluzione linguistica.
Era anomalista il greco Cratete di Mallo, che nel 168 iniziò a Roma l’insegnamento della
grammatica intesa come studio dei testi letterari, per coniugare la rettitudine morale con la purezza
dell’eloquio; ma se inizialmente la retorica fu insegnata sulla base di testi greci, dall’inizio del I
secolo a.C. l’insegnamento della retorica latina cominciò ad essere al centro degli studi superiori dei
ragazzi romani.
Se Cesare fu, come è noto, analogista; da parte sua Varrone, illustrando la dottrina
dell’anomalia e dell’analogia (De lingua latina 8-9), riconosce l’apporto di ognuna all’evoluzione
del linguaggio, mentre sottolinea la necessità dell’analogia soprattutto per regolare il linguaggio
comune, distinto da quello forense e da quello artistico (ivi, 9, 1, 5), e rileva come lo sforzo
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normalizzatore della scuola venisse diffuso nell’uso vivo e divulgato anche tra le masse tramite la
lingua del teatro (ivi, 9, 11, 17).
Cicerone (De oratore 3, 48) osservava dunque che le norme del corretto parlare latino
(praecepta Latine loquendi), «trasmesse dall’insegnamento ricevuto da ragazzi e nutrite da una più
accurata conoscenza metodica delle lettere oppure dall’abitudine quotidiana della conversazione
domestica, sono rafforzate dai libri e dalla lettura degli antichi oratori e dei poeti». Il latino così
istituzionalizzato attraverso la scuola (sostenuta dallo Stato specialmente a partire da Vespasiano,
69-79 d.C.) poté dunque diventare lingua di comunicazione sovranazionale senza alterare la propria
identità e quindi la propria intelligibilità, ma frenando anche la trasformazione che la lingua
naturalmente subisce nell’uso corrente e anche limitando le differenziazioni locali, finché
perdurarono le istituzioni dello Stato romano e quindi i canali di trasmissione dello standard
linguistico (rete viaria, esercito, pubblica amministrazione, sistema scolastico, spettacoli…).
Pertanto, soprattutto a partire dall’estensione della cittadinanza romana a tutto l’Impero
(constitutio Antoniniana, anno 212 d.C.), il latino portò in sé, per tutta la sua storia, germi di
alterazione, che l’unità politica e culturale riusciva però a neutralizzare (nel registro standard) e
frenare (nel registro informale) fino allo sfaldamento politico-amministrativo del V secolo d.C.
Fino alla fine dell’impero romano d’Occidente, cioè, il latino si diffuse mediante fattori
dinamici (esercito e mercanti) ma anche mediante fattori conservativi (burocrazia e scuole). Queste
ultime erano attive in ogni provincia: ad esempio a Tarracona (odierna Barcellona, in Spagna),
insegnava all’inizio del II secolo Annio Floro, retore africano allontanatosi da Roma per l’invidia di
Domiziano, e nel suo Vergilius orator an poeta esprime la soddisfazione per la nuova professione,
che non soltanto gli dava da vivere ma gli consentiva anche di comunicare ai ragazzi di quella
lontana provincia i va lori della civiltà romana in cui egli si riconosceva. Così più tardi (297/298)
avrà ampia risonanza, in un secolo di grave crisi dell’Impero romano, il discorso (Panegyrici Latini
9) del retore Eumene per la restaurazione delle scuole a Autun, in Gallia.
La riforma di Diocleziano (293) e poi (330) il trasferimento della capitale a Bisanzio,
divenuta Costantinopoli, affiancheranno il greco al latino come lingua ufficiale e ridurranno così la
funzione del latino come elemento unificante.
3.2.1. Il purismo classico
Verso la fine dell’età repubblicana la componente italica venne bandita dallo standard
linguistico urbano (urbanitas) in quanto rusticitas, e la componente sabina venne bandita come
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residuo arcaico. La sensibilità puristica era allora funzionale alla compattezza di uno Stato
plurilingue, quale era ormai la res publica romana. In funzione della correttezza del linguaggio
(Latinitas), l’ars grammatica si presentava come una tecnica che insegna ad evitare i difetti del
linguaggio, cioè i solecismi e i barbarismi; non tanto la bellezza formale quanto la univocità e
chiarezza della comunicazione sono dunque i due requisiti di un linguaggio selezionato (elegantia
verborum).
In una definizione di Varrone (in Diomede, Gramm. 1, 439, 15 s.) «la Latinitas è la norma
del parlare puro, secondo la lingua di Roma» (Latinitas est incorrupte loquendi observatio
secundum Romanam linguam). Alla base della cosiddetta “grammatica normativa” (che si studia
ancor oggi nelle scuole) c’è infatti la lingua parlata nella città di Roma dai ceti colti tra la fine del II
e l’inizio del I sec. a.C.
Si cominciava infatti allora a temere l’inquinamento della lingua urbana, perché Roma stava
diventando sempre più una città multiculturale e multietnica, una «società costituita dal confluire di
nazioni» diverse (civitas ex nationum conventu constituta), come afferma un opuscolo attribuito al
fratello di Cicerone, Quinto (Commentariolum petitionis 14, 54). Così ad esempio negli spettacoli
teatrali promossi da Cesare gli attori venivano fatti recitare in lingue diverse (cf. Suetonio, Caes. 39,
1).
Il purismo romanocentrico è dunque frutto delle aspirazioni egemoniche e della reazione
urbana all’immigrazione verificatesi nel I secolo a.C. Cicerone infatti spiega (Brutus 258-259 e
261) come l’ideale della pura et incorrupta consuetudo della lingua parlata a Roma – con il rifiuto
dei rusticismi e barbarismi e con il freno alle innovazioni – ed esportata come lingua della res
publica romana, abbia cause politiche e demografiche: la Latinitas che era fiorita con naturalezza
(quasi bonae consuetudinis) nella Roma del circolo scipionico doveva essere ormai difesa, al tempo
di Cicerone, mediante l’insegnamento dei grammatici; esso era diffuso attraverso la scuola e veniva
applicato nel registro standard (pubblica amministrazione, esercito, letteratura) come «criterio
immutabile» (ratio quae mutari non potest) e puristico (tamquam obrussa = «come un crogiuolo»)
che permetteva di comprendersi in luoghi e tempi diversi, all’interno di uno Stato multinazionale, al
di là delle varietà di un registro informale ormai troppo variegato e mutevole (pravissima
consuetudinis regula).
Il romanocentrismo dello standard letterario è evidenziato anche dal fatto che, attratti dal
mecenatismo dapprima delle famiglie patrizie e poi degli imperatori, nel corso dei secoli la maggior
parte dei letterati latini di cui ci è giunta notizia abbiano operato nell’Urbe: così ad esempio
l’arpinate Cicerone, il veronese Catullo, il venosino Orazio, il mantovano Virgilio, il sulmone se
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Ovidio, il padovano Livio, il gallo voconzio Pompeo Trogo, gli spagnoli Quintiliano, Seneca e
Marziale, finché più tardi, con Apuleio e Tertulliano (II sec.), rimasti nella loro Numidia (Africa), si
osserva talora un qualche decentramento della produzio ne letteraria conservataci.
A partire dal I secolo a.C. le norme selettive del linguaggio furono perpetuate dalla scuola, sì
che il «criterio immutabile» di cui parlava Cicerone corrisponde a quella che Consenzio, un
grammatico del IV-V secolo (Gramm. 5, p. 394), chiamerà «criterio della lingua romana» (ratio
Romani sermonis), e quindi corrisponde alle “regole” di funzionamento del latino “classico” tuttora
insegnate nelle scuole.
In realtà anche all’interno del registro standard si verificò un’evoluzione linguistica, perché
il linguaggio è un processo mimetico della realtà. Ma sull’esigenza funzionale, di per sé volta
all’arricchimento, in generale ha comunque la meglio l’esigenza razionalizzatrice e impoverente
propria dello standard linguistico, che seleziona il materiale lessicale esistente secondo il criterio
della bona consuetudo.
Così, nell’intento di evitare forme forestiere, il purismo classico rifiutava la commistione
anche con la lingua greca, presente nel parlato dei mercanti, degli artigiani, dei medici e così via.
Sul versante della letteratura i grecismi sono presenti in autori precedenti al I secolo a.C., specie
laddove viene riprodotta la vivacità del linguaggio popolare (Plauto, Terenzio, Lucilio ecc.); ma un
poeta “classico” come Orazio (S ermones 1, 10, 20-30) polemizza contro l’abbondante uso dei
grecismi presente un secolo prima in Lucilio, e ancor più li dice inopportuni in quella forma di
comunicazione pubblica che è l’oratoria giudiziaria, in cui è assolutamente necessaria la chiarezza
espressiva. Ciò è tanto più significativo se si pensa all’uso culto del grecismo immesso nella poesia
latina dall’erudizione ellenistica, a partire da Catullo e dai poetae novi (I a.C.).
3.2.2. L’istituzionalizzazione della consuetudo urbana dei ceti colti
Cicerone (De oratore 3, 112) osservava che un elemento di conservazione della lingua era il
modello della lingua parlata all’interno delle antiche famiglie patrizie, dove «le donne conservano
più facilmente intatta l’antica pronuncia perché, non essendo avvezze a conversare con molte
persone, mantengono sempre l’inflessione che hanno appreso all’inizio». E siccome fino alla fine
del II secolo a.C., quando cominciarono a diffondersi le scuole pubbliche, per le classi agiate
l’apprendimento della lingua si svolgeva in famiglia, ancora Cesare, secondo Cicerone (Brutus
253), si distingueva fra gli altri oratori per il suo «parlare latino in modo perfettamente scelto»
2
7
(Latine loqui elegantissime), come aveva imparato dapprima in famiglia e poi anche con lo stud io
della retorica:
Il latino ‘classico’ ha dunque un’origine naturale, che mostra le esigenze di espressione di un
pensiero complesso e di una comunicazione interculturale (un’apertura propria della romanità), ma
non è una creazione artificiale: Cicerone lo rilevava quando a proposito dell’«esprimersi
correttamente in latino» diceva che esso «non era frutto di una teoria scientifica ma di una
consuetudine ritenuta corretta» (Brutus 258).
Contro la normalizzazione operata dagli analogisti e nonostante la tendenza all’epurazione
di arcaismi e rusticismi propria del suo tempo, lo stesso Cicerone aveva difeso, nelle scelte lessicali
o nella flessione verbale o nominale, incoerenze che per ragioni di eufonia erano allora nell’uso
vivo, come ad esempio le forme verbali contratte o il genitivo plurale in -um anziché in -orum (cf.
Orator 155-158); a proposito di tale genitivo Cicerone riporta l’espressione corrente pro deum (sott.
fidem), che significava ‘oh fede degli dèi!’ e che nell’italiano antico è continuato ne ll’esclamazione
“affé di Dio!” (= “ah, fede di Dio!”).
La priorità dell’uso vivo rispetto alle regole veniva riaffermato anche da Quintiliano
(Institutio oratoria 1, 6, 16), anche se, in una Roma ormai cosmopolitica (sec. I d.C.), l’osservanza
della consuetudo rischiava di esporre la lingua ad alterazioni sempre più massicce. In questo senso
lo stesso retore (ivi 1, 6,43) raccomandava il iudicium, cioè la capacità di distinguere ciò che è sana
consuetudine da ciò che sano non è, mentre si appellava non più semplicemente alla varroniana
multorum consensio (‘consenso della maggioranza’), ma al ‘consenso degli eruditi’ (consensus
eruditorum: ivi 1, 6, 45).
Se però lo stesso Quintiliano mostra di percepire come estraneo all’uso vivo del ‘parlare
latino’ (Latine loqui) del suo tempo l’esprimersi ‘secondo la grammatica’ (grammatice loqui), cioè
facendo prevalere l’analogia (ivi 1, 6, 27), si comprende come ormai anche tra le persone colte l’uso
quotidiano del Latine loqui, modello espressivo della latinità pura (Latinitas), non coincideva più
con il modello teorico prescritto dai grammatici. Il progressivo distacco dello standard linguistico
dal latino di uso corrente fra gli indotti contribuì a rendere via via più artificiosa, in età postclassica
(sec. II-III d.C.) e tardoantica (sec. IV-VI), la lingua letteraria.
3.2.3. La lingua di Roma come strumento di affermazione politica
2
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Nel dinamismo della romanizzazione cresce il senso dell’appartenenza al mondo “romano” e
si impone via via il modello linguistico dell’urbanitas, per promuovere in tutto l’orbis Romanus
l’uniformità della lingua nell’amministrazione e nella legislazione.
Una base linguistica unitaria è infatti necessaria come mezzo di comunicazione in uno Stato
plurilingue. Così nella fase del massimo prestigio dell’Impero (sec. I d.C.), Plinio il Vecchio
celebrava l’Italia, ormai latinizzata, anche per la diffusione della sua lingua:
Plinio, Naturalis historia 3, 39
... terra omnium terrarum alumna eadem et
... terra che di tutte le terre è figlia e nello stesso
parens, numine deum electa quae caelum
tempo madre, eletta dal nume degli dei per
ipsum cla rius faceret, sparsa congregaret
rendere più luminoso il cielo stesso, per riunire
imperia ritusque molliret et tot populorum
imperi lontani fra loro e addolcire i costumi e
discordes
sermonis
mettere in comunicazione fra loro attraverso il
commercio contraheret ad conloquia et
linguaggio lingue discordi e primitive di tanti
humanitatem homini daret breviterque una
popoli e dare umanità all’uomo: perché, in una
cunctarum gentium in toto orbe patria
parola, si formasse una sola patria di tutte le
fieret.
nazioni, in tutto il mondo.
ferasque
linguas
Per i Romani, infatti, il latino in quanto lingua ufficiale è strumento di affermazione politica
e di compattezza delle istituzioni: mentre sussistevano lingue subalterne per la comunicazione
locale, il latino era la lingua dei cittadini romani, veniva appresa per poter accedere ai diversi servizi
ed era utilizzata nella comunicazione pubblica e nel commercio.
L’apprendimento della lingua di Roma era quindi reso appetibile come mezzo di
integrazione nella cultura dominante e simbolo di prestigio sociale, come scrive Tacito (Agricola
21) a proposito delle strategie di romanizzazione messe in atto dal suocero Agricola in Britannia,
nell’inverno del 79/80 d.C., nei confronti delle popolazioni locali di lingua celtica.
In quanto lingua delle istituzioni e dell’amministrazione, il latino si contrapponeva alle altre
lingue di popoli soggetti o confinanti, anche se in Africa e nelle province orientali il greco continuò
ad essere lingua franca (socia lingua) per la comunicazione interetnica, come è attestato all’inizio
del I secolo d.C. da Ovidio (Tristia 5, 10, 35) relegato a Tomi (presso l’attuale Costanza, in
Romania), dove si conosceva poco il latino e si parlavano piuttosto il getico e il sarmatico (ivi, 12,
58).
2
9
Il bilinguismo greco- latino per tutta l’età imperiale perdurò in Oriente, dove il latino rimase
seconda lingua ai livelli informali, mentre predominava ai livelli alti e ufficiali. Un celebre esempio
di comunicazione pubblica bilingue, in funzione della propaganda imperiale nella nuova provincia
istituita da Augusto in Galazia (odierna Turchia), sono le copie del resoconto delle imprese (Index
rerum gestarum) di Augusto, il cui testo originario in latino (ora perduto) era esposto a Roma
all’ingresso del mausoleo della gens Iulia: i frammenti della copia che era esposta sulle pareti del
tempio della dea Roma e di Augusto ad Ankara ci restituiscono una parte cospicua del testo sia in
greco (in posizione più in vista per il pubblico) sia in latino (in posizione meno esposta), mentre i
frammenti trovati ad Apollonia di Pisidia e ad Antiochia ci conservano rispettivamente porzioni di
testo latino (ad Antiochia) e greco (ad Apollonia di Pisidia). La mole del testo non rendeva certo
agevole la lettura completa da parte dei passanti, ma la propaganda era comunque assicurata
dall’effetto d’insieme fornito dall’iscrizione monumentale.
3.2.4. Il ritmo prosastico
Per agevolare la comunicazione di fronte a un pubblico numeroso, in mancanza di tecniche
di amplificazione della voce (quali i moderni microfoni, megafoni, altoparlanti ecc.), gli oratori
latini nella comunicazione pubblica (oratoria giudiziaria e forense) dal I secolo a.C. cominciarono
ad adottare una dizione ritmica, sottolineando cioè mediante una clausola (conclusio) o cadenza
metrica la parte finale di una frase o segmento recitativo.
Cicerone (Orator 166-171) testimonia che tale uso non esisteva, fra i Romani, prima dell’età
sua, mentre egli stesso nei suoi discorsi giovanili per rendere ritmico l’eloquio si era limitato a
servirsi di antitesi e simili parallelismi, che anche naturalmente – senza voluto impegno retorico –
producevano concinnitas, ossia una dizione armoniosa realizzata mediante simmetrie e
corrispondenze espressive, quali antitesi, parallelismi, anafora, chiasmi ecc. In età più arcaica
invece la prosa ritmica era stata strutturata con tecniche più rudimentali, quali l’allitterazione,
l’assonanza, nessi bimembri o trimembri, e così via.
La retorica latina soltanto al tempo di Cicerone aveva ormai avviato una riflessione
consapevole circa il ricorso alla sottolineatura di un segmento espressivo mediante il ritmo, e
Cicerone la espone nel terzo libro del De oratore (173 ss.) per bocca di Crasso. Ma gli atticisti
criticavano l’oratoria ritmicamente compaginata (cf. Cicerone, Orator 168) e vedevano
nell’intromissione del ritmo (numerus) nella sobrietà della comunicazione pubblica (dicere) un
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insidioso allettamento dell’uditorio e quindi uno strumento di manipolazione del consenso (ivi,
170).
Il ritmo oratorio era effettivamente finalizzato ad ottenere una comunicazione efficace, e
poteva essere utilizzato nella comunicazione pubblica orale proprio perché faceva leva su una
sensibilità che accomunava non solo gli intellettuali ma anche le masse, come attesta espressamente
Cicerone (Orator 173; De oratore 3, 198).
Ben presto però l’imitazione del modello ciceroniano fece dell’uso delle clausole metriche
una tecnica estetica in cui si esibivano più o meno volutamente non solo oratori ma anche storici,
epistolografi, trattatisti, e non soltanto nell’ambito della prosa latina ma anche in quella italiana,
almeno fino al secolo scorso, a causa della studiata frequentazione di modelli classici: di qui la
costruzione latineggiante del periodo in molti autori della letteratura italiana.
Infatti a partire dal III secolo d.C. le cadenze più frequenti nel modello ciceroniano sono
state riprodotte non più mediante sequenze quantitative, ma mediante la loro imitazione accentativa
(cursus), secondo la mutata sensibilità di età tardoantica: la percezione della quantità vocalica come
segnale distintivo cominciò infatti allora a scomparire, a cominciare dalle persone non colte di aree
periferiche.
Così anche in poesia il verso quantitativo dello standard letterario recepì un ritmo
accentativo a partire dall’esametro di Commodiano (probabilmente III sec.) e dall’ottonario trocaico
del Psalmus contra partem Donati di Agostino (fine IV sec.): la poesia di età medievale e moderna
proseguirà in tale direzione.
4. IL LATINO ‘VOLGARE’ O CORRENTE
4.1. L’ osmosi dialettica fra latino volgare e registro standard
Il latino fu lingua di comunicazione generale per la massa della popolazione all’incirca fino
al VI secolo,ma certo questa condizione andò via via scemando, benché si tentasse di tenere uniti i
due livelli, della parlata popolare e della lingua scritta della tradizione utilizzando in più occasioni
un latino in forme “rustiche”, cioè del parlato regionale. La parabola si concluse tra l’VIII e il IX
secolo quando, come vedremo più avanti, una restaurazione della tradizione colta confinò il latino
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1
alla funzione esclusiva di comunicazione tra i dotti. Per comprendere questo processo dobbiamo
risalire a un’epoca ben più antica.
In età arcaica il registro corrente o ‘volgare’ (cioè comune a tutti) rientrava nel diasistema
latino in un continuo interagire con il livello colto della norma codificata. Questa regolava e frenava
l’innovazione linguistica, attraverso il modello imposto dalla scuola alla lingua corrente. Ma anche
se nel registro standard la lingua veniva cristallizzata secondo quello che abbiamo visto definito da
Cicerone (Brutus 74, 258) «criterio immutabile», tuttavia anche in età classica non mancò la
consapevolezza del mutare della lingua, giacché – osservava Varrone (De lingua latina 9, 17) «la
lingua d’uso è in movimento» (consuetudo loquendi est in motu).
Con l’espandersi dello Stato romano, il sermo cotidianus si allontanò progressivamente dal
linguaggio della comunicazione ufficiale e della letteratura, differenziandosi nello spazio e nel
tempo e a seconda del ceto sociale e del livello culturale dei parlanti. D’altra parte già per Cicerone
era naturale (cf. Epist. 9, 21) che ci fosse una differenza espressiva tra il registro informale (della
conversazione familiare e della corrispondenza epistolare) e il registro standard adottato nella
comunicazione pubblica (oratoria giudiziaria e oratoria forense).
Tendenzialmente il linguaggio corrente – scritto o orale – è caratterizzato dall’abbondanza
della paratassi, da pleonasmi e ripetizioni, dall’uso del dativo etico, dalla presenza di frequentativi e
diminutivi in sostituzione dei verbi e sostantivi corrispondenti (così ad es. canere è sostituito da
cantare, che continua nelle lingue romanze), auris è sostituito da auricula, che continua
nell’italiano ‘orecchio’ e in altri esiti romanzi); anacoluti e ipercorrettismi sono frequenti
specialmente nel linguaggio informale di persone poco colte.
4.2. Documentazione del latino ‘volgare’
Il latino ‘volgare’ – inteso come ampio spettro del linguaggio corrente e quotidiano in tutte
le sue varietà, dalle prime manifestazioni (scritte) del latino al protoromanzo – è in parte attingibile
mediante testi non letterari, sia nell’epigrafia non ufficiale (funeraria o votiva) sia attraverso la
tradizione manoscritta. Si possono anche utilizzare, ai fini della conoscenza del latino volgare, i
manuali tecnici (di agronomia, di medicina, di veterinaria, ecc.) e l’imitazione del latino parlato
presente in testi letterari (ad es. Plauto e Petronio, ma qua e là anche passi redatti in stile diatribico,
ad esempio in Seneca). Dati interessanti possono essere poi forniti dalla lexis letteraria di livello
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‘umile’ e familiare di età cristiana, presente ad esempio nel diario di viaggio di Egeria (o Eteria) che
scrisse intorno al 400, e grande immediatezza mostrano gli appunti annotati in carcere da Perpetua,
martire a Cartagine nel 203 d.C., o i verbali dei processi contro i cristiani. Offre documentazione del
registro informale anche la trascrizione del parlato nell’omiletica: infatti alcuni fra i testi ad esempio
di Ambrogio e di Agostino furono ricavati dagli appunti stenografati da ascoltatori presenti e sono
stati pubblicati per lo più senza una revisione formale da parte dell’autore, a differenza dell’oratoria
ufficiale.
Per la conoscenza della lingua parlata possiamo inoltre utilizzare anche le testimonianze di
grammatici e retori, come la già ricordata Appendix Probi.
Le particolarità fonetiche del latino volgare si riflettono particolarmente nelle deviazioni
riscontrabili rispetto all’ortografia normalizzata dall’insegnamento scolastico, e sono riconoscibili
in iscrizioni, papiri, ostraka (frammenti di coccio), tavolette, cioè in documenti autografi, non
alterati dalla tradizione manoscritta. Così a Pompei (e quindi prima del 79 d.C., anno dell’eruzione
del Vesuvio) due graffiti, di mano diversa, tramandano lo stesso distico:
quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare; / bis tanto pereat quisquis amare vetat (Diehl
593).
quisquis ama valia, peria qui nosci amare, / bis tanti peria quisquis amare vota (Diehl 594).
Traduzione: «Chi ama, stia bene, perisca chi non sa amare; / due volte tanto perisca chi vieta di
amare».
La redazione qui riportata per prima è in latino standard, grammaticalmente e
ortograficamente corretta; la seconda presenta fenomeni fonetici a volte preludenti al protoromanzo.
Un altro esempio pompeiano (CIL IV 3494e.f) è lo scambio di battute su un affresco
raffigurante due persone che giocano a dadi: uno dei due dice exsi (= «Sono uscito») e l’altro
protesta Non tria, duas est (= «Non è un tre, è un due!»).
Sui muri di Pompei le scritte erano tanto abbondanti che uno spir itoso ha lasciato scritto su
una parete:
Diehl, Pompeianische Wandinschriften, Bonn 1910, 668
Admiror, pariens, te non cecidisse ruinis,
qui tot scriptorum taedia sustineas!
Mi meraviglio che non sei ancora caduta a pezzi,
o parete, che devi sopportare tanti scribacchini!
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3
Si tratta di un distico elegiaco (un esametro e un pentametro, metricamente corretti), in cui
pariens è ipercorrettismo per paries e cecidisse ruinis è espressione pleonastica.
Come esempio della lexis di registro informale di una persona colta, rimanendo in età
classica, possiamo utilizzare anche le lettere di Cicerone, non pensate per la pubblicazione, ma
scritte – come Cicerone stesso dichiara – in un «linguaggio comune» (plebeio sermone); un
esempio:
Cicerone, Fam. 14, 8 (da Brind isi, 2 giugno 47 a.C.)
Tullius Terentiae suae salutem. Si vales, bene
est; ego valeo. Valetudinem tuam velim cures
diligentissime. Nam mihi et scriptum et
nuntiatum est te in febrim subito incidisse.
Quod celeriter me fecisti de Caesaris litteris
certiorem, fecisti mihi gratum. Item posthac,
si quid opus erit, si quid acciderit novi, facies
ut sciam. Cura ut valeas. Vale. Ante diem
quartum Nonas Iunias.
Tullio saluta la sua Terenzia. Se stai bene, bene!
io sto bene. La tua salute vorrei che tu la curassi
con molta attenzione: mi è stato scritto e riferito
che ti è venuta una febbre improvvisa.
Mi hai fatto un gran piacere a farmi sapere in
fretta della lettera di Cesare: allo stesso modo,
per il futuro, se ci sarà bisogno di qualcosa, se
succederà qualcosa di nuovo, me lo farai sapere.
Cerca di star bene. Saluti. 2 giugno.
Quanto alle lettere autografe di Augusto, a carattere privato, lo storico Suetonio (II sec. d.C.)
poté ancora visionarle, menzionandone colloquialismi e forme dialettali, oltre che idioletti ed
espressioni caratteristiche del principe, di cui descrive anche l’ortografia e le abitudini scrittorie;
Suetonio osserva tra l’altro:
Suetonio, Aug. 87
Cotidiano sermone quaedam frequentius et
notabiliter usurpasse eum, litterae ipsius
autographae ostentant, in quibus identidem,
cum aliquos numquam soluturos significare
vult, «ad Kalendas Graecas soluturos» ait; et
cum hortatur ferenda esse praesentia,
qualiacumque sint, «contenti simus hoc
Catone», et ad exprimendam festinatae rei
velocitatem, «celerius quam asparagi
cocuntur».
Che nella conversazione quotidiana Augusto
abbia usato con una certa frequenza e in
modo caratteristico alcune espressioni, lo
mostrano i suoi scritti autografi, in cui
costantemente, quando vuole parlare di
persone che no n pagheranno mai, dice:
«pagheranno alle calende greche»; e quando
esorta a sopportare la situazione presente,
qualunque essa sia, dice: «contentiamoci di
questo Catone», e per indicare la velocità di
una cosa rapida: «più velocemente di quanto
cuocciano gli asparagi».
Per epoche diverse le fonti disponibili ci tramandano, qua e là, termini usati nel registro
informale, contrassegnandoli spesso con indicazioni del tipo quod vulgo dicitur, dove vulgo si
contrappone a Latine, riferito al registro standard. Così per indicare il ‘pappataci’ (una zanzara che
3
4
molesta il bestiame) Isidoro (inizio VII sec.) menziona il vocabolo corrente tabanus accanto allo
standard asilus:
Isidoro, Etymologiae 12, 8,15
…oestrus autem Graecum est, qui Latine
asilus, vulgo tabanus vocatur…
… óistros è termine greco: latinamente si
chiama asilus e nel linguaggio corrente
tabanus.
Tabanus è attestato già in Varrone (Res rusticae 2, 5, 14), e Seneca (Epist. 58, 2) da parte sua
ricordava come disusato il vocabolo “romano” asilus. Il termine di registro informale è in genere
quello che ha esito romanzo; nel caso del ‘pappataci’, però, l’italiano e altre lingue o dialetti
ereditano il vocabolo dalla variante (allotropo) rustica *tafanus, ma con uno spostamento semantico
(l’ital. ‘tafano’ indica un insetto diverso); da parte sua il vocabolo standard (Latine) asil(l)us dà
esito dotto con l’italiano ‘assillo’, mentre il grecismo ‘estro’ passa a significare l’ispirazione che
improvvisamente sollecita l’artista.
Se nel registro informale (latino volgare) continuava il bilinguismo greco- latino, esso si
accentuò in età cristiana a causa del forte influsso di elementi orientali, e molti grecismi sintattici,
oltre che lessicali, penetrarono in latino a partire da testi di traduzione (soprattutto la Bibbia) e da
autori bilingui (specie africani); alcuni volgarismi latini penetrarono anche nel latino letterario per
influsso del greco parlato: così ad es. la proposizione oggettiva resa con un costrutto congiunzionale
(quod, quia, quoniam, con l’ind. o con il cong.) attestato una volta già in Plauto (Asinaria 52) e poi
a partire dal I secolo a.C.
La lingua di uso corrente è arricchita dagli apporti delle lingue settoriali (tecniche) e dei
gerghi. Alcune lingue tecniche come quella giuridica e quella sacrale/liturgica sono fortemente
conservative, perché legate a una tradizione collettiva transgenerazionale.
Tra le lingue tecniche il latino cristiano è quello che è più ampiamente penetrato ed ha
maggiormente inciso sulla lingua corrente; così ad esempio in Francia e in Italia un volgarismo di
origine biblica, par(abo)lare, si sovrappone a fabulari, che è verbo attestato a partire da Plauto e poi
nello spagnolo hablar e nel friulano favelà.
4.3. Il ‘latino cristiano’
3
5
La creazione di neologismi cristiani prima in greco e poi in latino, nel periodo iniziale della
cristianizzazione, viene attribuita (dalla scuola di Nimega, prima metà del secolo ventesimo), ai
cristiani comuni, in quanto nuovi vocaboli si rendevano necessari per la comunicazione pratica;
letterati come Tertulliano e Minucio Felice (fine II secolo) contribuirono poi a canonizzare e
diffondere molti cristianismi.
Anche le anonime traduzioni bibliche in latino (dette collettivamente Vetus Latina ?cioè
versio?), contribuirono a innovare la lingua latina diffondendo nel registro informale molti
cristianismi lessicali e sintattici di origine soprattutto greca, e talvolta anche semitica.
Di quelle traduzioni san Girolamo curò una revisione che costituì la Vulgata (versio), cioè
una traduzione ‘ufficiale’, meno discordante dallo standard del latino letterario e più aderente al
testo originale (greco o ebraico). L’opera gli era stata commissionata da papa Damaso (360-382),
che introdusse definitivamente il latino nella liturgia romana, fino ad allora prevalentemente in
greco, che era la lingua della comunità giudaica e cristiana della capitale. Un primo tentativo di
introdurre il latino nella liturgia romana era stato attuato durante il pontificato di Vittore I († 203),
di origine africana; alla metà del III secolo fu introdotto l’uso del latino per le letture bibliche,
mentre la preghiera eucaristica rimase in greco fino alla comparsa del Canone romano (sec. IV); la
liturgia romana si arricchì poi di nuovi testi specialmente ad opera di papa Leone Magno († 461).
Dalla Palestina (dove nel I secolo d.C. si parlava non più l’ebraico, ma un’altra lingua
semitica, l’aramaico) il cristianesimo si era diffuso nelle città della diaspora ebraica e via via anche
tra i non ebrei; lingua di ampia comunicazione era allora, nel Mediterraneo orientale, il greco
popolare (koine) e nell’Africa nordoccidentale e in Occidente il latino. I cristiani, come ricorda
intorno al 200 d.C. l’anonimo autore dell’Epistola a Diogneto (5, 2), non parlavano una lingua
diversa dagli altri: non si può quindi parlare del greco e del latino cristiano come di “lingue
speciali” in quanto gerghi ristretti al gruppo dei cristiani, ma in quanto veicoli di formulazione e
comunicazione di contenuti nuovi.
Pertanto la lingua dei cristiani si differenziava da quella dei loro concittadini non cristiani
soltanto per i neologismi lessicali utilizzati per esprimere i concetti nuovi introdotti dal
cristianesimo: ciò avveniva con la creazione di nuovi vocaboli (generalmente prestiti o calchi dal
greco o dall’ebraico) o con l’arricchimento semantico di vocaboli già presenti in latino,
particolarmente nel registro informale.
Sono cristianismi, ad esempio, mens e anima (calco semantico del greco psyché, che a sua
volta ricalcava l’ebraico nefeš) – nel senso di anima spirituale –, dilectio e caritas (che acquisiscono
il significato specifico del greco agápe o amore appreziativo, e sono inizialmente preferiti a amor,
3
6
corrispondente al greco éros), humilitas, confessio e confessor (ad indicare chi ‘riconosce’ Cristo
nella propria coscienza, e quindi la ‘professa’ pubblicamente), ieiunium, vigilia. Gentes (e poi
gentiles) traduceva il greco biblico éthne (ad indicare le nazioni non giudaiche e quindi poi i non
cristiani), e soltanto occasionalmente è sostituito dal prestito ethnici.
Tuttavia per indicare istituzioni o oggetti concreti, e anche per indicare azioni specifiche,
risultava più funzionale e non equivoco il prestito, come i grecismi ecclesia (calco semantico
dall’ebraico qehal = ‘convocazione, comunità di persone convocate’), eucharistia (lett.
‘ringraziamento’), evangelium (lett. ‘buona notizia’), evangelizare, catechizare (lett. ‘suscitare
risonanza’), scandalizare (lett. ‘provocare inciampo’), baptisma/baptismum/baptismus (lett.
‘immersione’), martyr (lett. ‘suscitare risonanza’), presbyter (lett. ‘anziano’, inizialmente preferito
al pagano sacerdos), episcopus (lett. ‘sovrintendente’, preferito al pagano antistes), diaconus (lett.
‘servitore’, preferito al meno perspicuo minister). Sono invece prestiti dall’ebraico gehenna,
satanas, rabbi, sabbatum; è vocabolo ebraico, ma erroneamente sentito come grecismo (dal verbo
greco páschein = ‘soffrire’), anche il sostantivo Pascha (in ebraico = ‘passaggio’). Trinitas è
attestato a partire da Tertulliano (fine II sec.), incarnatio a partire da Novaziano (III sec.).
Volgarismi come salvare, salvatio e salvator (attestato a partire dalla Vetus Latina) entrano
anche nella lingua letteraria cristiana soltanto a partire dalla prima metà del IV secolo, mentre in
precedenza le remore del purismo letterario ne avevano ostacolato l’impiego letterario.
Termini come sacramentum e paganus vengono dal linguaggio dei militari (dove
indicavano rispettivamente il giuramento e ‘il civile’ o ‘borghese’, ossia il non militare);
sacramentum venne scelto per evitare, almeno inizialmente, il grecismo mysterium, ancora
compromesso con i riti misterici. Il vocabolo missa inizialmente indicava – probabilmente – il
congedo (in latino standard dimissio) dei militari, e quindi una formula di congedo in pubbliche
cerimonie; in ambito cristiano missa indicò così dapprima un rito di conclusione, un servizio
liturgico in genere (= oratio), e soltanto dal V/VI sec. indica la celebrazione eucaristica (= oblatio):
in essa dopo le letture e l’omelia venivano dapprima congedati i catecumeni (missa
catechumenorum) e dopo la liturgia eucaristica venivano congedati i fedeli (missa fidelium): per
questo in età tardoantica e medievale si parla spesso di missarum sollemnia nel senso di ‘messa’
(letteralmente ‘riti dei congedi’, al plurale).
Per esigenze didattiche il cristianesimo introdusse nel registro standard (e quindi anche nella
lingua letteraria) vocaboli e solecismi del registro informale, come attesta Agostino:
3
7
Agostino, De doctrina christiana 3, 3, 7
…plerumque loquendi consuetudo vulgaris
utilior est significandis rebus quam integritas
litterata.
… per lo più l’uso comune del parlare è più
utile ad esprimere le cose che non la
correttezza grammaticale.
4.4. Penetrazione del registro informale nello standard e legittimazione del
barbarismo
Tra IV e VI secolo, infatti, il solecismo e il barbarismo non contraddicevano più la chiarezza
della comunicazione (come invece avveniva in età classica), anzi la facilitavano: il primato della
chiarezza espositiva, ricercata per esigenze pastorali, induceva spesso i predicatori a trascurare le
prescrizioni dei grammatici e ad adeguarsi al linguaggio del pubblico presente. Due esempi:
Girolamo, Commento a Ezechiele 47, 1 ss, CCL 75, p. 712
Quod cubitos ge nere masculino et non neutrali
cubita
dicimus
iuxta
regulam
grammaticorum, et in superioribus docui nos
non ignorantia hoc facere, sed consuetudine
propter simplices quosque et indoctos, quorum
in congregatione ecclesiae maior est
numerus…
Riguardo al fatto che diciamo cubiti al
maschile e non cubita al neutro secondo la
regola grammaticale, anche qui sopra ho
spiegato che lo faccio non per ignoranza, ma
secondo l’uso, in funzione dei semplici e
indotti, che nella comunità ecclesiale sono la
maggioranza…
Agostino, De doctrina christiana 2, 19
...soloecismus qui dicitur, nihil est aliud
quam ut verba non ea lege sibi coaptantur,
qua coaptaverunt qui priores nobis non sine
auctoritate aliqua locuti sunt. Utrum enim
‘inter homines’ an ‘inter hominibus’ dicatur,
ad rerum non pertinet cognitorem. Item
barbarismus quid aliud est nisi verbum non
eis litteris vel sono enuntiatum, quo ab eis
qui ante nos latine locuti sunt enuntiari
solet? Utrum autem ‘ignoscere’ producta an
correpta tertia syllaba dicatur, non multum
curat qui peccatis suis Deus ut ignoscat
petit, quolibet modo illud verbum sonare
potuerit. Quid est ergo integritas
locutionis, nisi alienae consuetudinis
conservatio,
loquentium
veterum
auctoritate firmatae?
…quello che si chiama solecismo non è altro
che la connessione di parole fatta non nel modo
praticato da coloro che prima di noi hanno
parlato con autorità: se si debba dire inter
homines o inter hominibus non interessa chi
vuol conoscere l’argomento di cui si parla.
Analogamente, che altro è il barbarismo se non
la pronuncia di una parola non con le lettere o il
suono con cui la pronunciavano quelli che hanno
parlato latino prima di noi? Se si debba dire
ignoscere con la terza sillaba lunga o breve, non
interessa molto chi implora Dio di perdonargli i
propri peccati, quale che sia stato il modo con
cui ha pronunciato questa parola. Che altro è la
purezza del parlare se non il mantenimento di
una consuetudine ormai estranea, avvalorata
dall’autorità degli antichi parlanti?
3
8
La stessa esigenza di chiarezza nella comunicazione – in un tempo in cui la lingua latina di
registro standard stava diventando sempre più artificiosa (cf. § 5.2) – spingerà papa Gregorio
Magno a trascurare le minute prescrizioni dei grammatici (di cui Elio Donato era il modello); così
nel 595, presentando a Leandro, vescovo di Siviglia, il proprio commento al libro di Giobbe,
Gregorio scrive:
Gregorio Magno, Epist. 5, 53a, CCL 143, p. 7
...et ipsam loquendi artem, quam
magisteria disciplinae exterioris insinuant,
servare despexi. Nam sicut huius quoque
epistolae tenor enuntiat, non metacismi
collisionem fugio, non barbarismi
confusionem devito, situs modosque
etiam et praepositionum casus servare
contemno, quia indignum vehementer
existimo, ut verba caelestis oraculi
restringam sub regulis Donati. Neque enim
haec ab ullis interpretibus in Scripturae
Sacrae auctoritate servata sunt.
...e non mi sono curato di osservare, tale e quale,
l’arte del dire, insegnata dai maestri
dell’insegnamento esteriore. Come manifesta
infatti lo stile anche di questa lettera, non fuggo
la cacofonia del metacismo 4 , non evito la
mescolanza del barbarismo, trascuro di
osservare le regole sui complementi di luogo, di
modo, e i casi corrispondenti alle preposizioni,
perché ritengo gravemente indegno coartare le
parole della profezia divina sotto le regole di
Donato. Queste norme infatti non sono osservate
da alcun traduttore nel testo della Sacra
Scrittura.
A partire dalla divulgazione culturale promossa dal cristianesimo la lingua latina fu
profondamente trasformata, a causa dell’uso massiccio della lingua corrente anche nei testi letterari.
In aree di persistente tradizione latinofona, dove le immigrazioni germaniche furono
fortemente minoritarie benché politicamente egemoni, ancora nel VI secolo autori pastoralmente
impegnati, quali Gregorio Magno in Italia, Cesario di Arles nella Gallia Narbonense, Martino di
Braga e Isidoro di Siviglia nella penisola iberica, Fulgenzio di Ruspe in Africa, erano ancora in
grado di esprimersi con naturalezza in un latino corretto ed elegante: la loro prosa rimase così in
osmosi con il latino di registro informale, secondo la grande tradizione patristica del sermo humilis
elevato a lingua letteraria per le esigenze dell’evangelizatio pauperum.
4.5. Il latino volgare come 'lingua mista'
4
Il metacismo è la pronuncia - considerata cacofonica - della -m quando la parola che segue inizia per vocale.
3
9
Isidoro, come abbiamo visto (§ 0.7) definiva “mista” quella fase del latino che si manifesta
«dopo l’espansione dell’impero», con la penetrazione di popoli diversi nella compagine dello stato.
Il moltiplicarsi di fenomeni di interferenza linguistica modificò la lingua corrente soprattutto nella
pronuncia (e ortografia) e nel lessico, mentre la morfologia e la sintassi rimasero per lo più
inalterate finché perdurò il sistema scolastico romano.
4.5.1. Persistenza delle 'lingue di sostrato' in età imperiale
La romanizzazione non soppresse bruscamente le lingue di sostrato; nel registro informale
sono ad esempio attestati come persistenti, ancora in età imperiale, il gallico e il punico. D’altra
parte oggi – anche al di là di recenti fenomeni di interferenza linguistica – sono riscontrabili residui
latini nei dialetti berberi, nel basco, nelle lingue celtiche, nell’albanese, e così via.
Nel registro standard la reazione classicistica del IV sec. d.C. comportò anche – da un punto
di vista linguistico – una reazione alla parziale creolizzazione del latino, che tendeva ad assumere
forme diverse nella misura in cui era fatto proprio da parlanti allofoni: così ad es. il grecofono
Ammiano Marcellino (originario di Antiochia) scrive le sue Res gestae (a continuazione delle
Historiae di Tacito) in un latino retoricamente elaborato.
4.5.2. Verso il decentramento politico e linguistico (V-VI sec.)
Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente (ufficialmente: 476 d.C.), la Romània latina –
cioè il territorio che era stato romano –non ebbe più un sistema scolastico capace di difendere
l’integrità del latino di registro standard; l’Occidente latino si ritrovò politicamente e culturalmente
frammentato nei vari regni romanobarbarici, e via via si avviarono a prendere il sopravvento le
specificità linguistiche locali, da sempre sopravvissute nel registro informale. Un’analoga situazione
di dissolvimento della capacità accentratrice del latino standard si era verificata in una provincia
molto meno romanizzata rispetto all’area continentale, e cioè nella Britannia abbandonata dai
Romani dopo il 410: qui, con il decadere del latino istituzionalizzato, il latino di registro informale
poté essere ancora utilizzato per qualche decennio, con un forte influsso dell’interferenza della
lingua locale (il britannico), rimanendo comunque l’unico mezzo di comunicazione scritta a causa
del carattere orale delle lingue celtiche. Ne è testimone diretto il britanno-romano Patrizio (V sec.),
che divenuto missionario in Irlanda – isola mai occupata dai Romani – adottò come lingua parlata il
celtico protoirlandese, ma scrisse, pur con molta difficoltà, in latino.
4
0
In area continentale la massiccia presenza di immigrati allofoni accentuò i fenomeni di
interferenza linguistica, con l’acquisizione di prestiti e calchi dalle lingue germaniche o comunque
barbariche. Così ad es. il germanico ‘guidrigildo’ (wergeld, = ‘prezzo di un uomo libero’) è reso in
latino dal prestito weregildum oppure dal calco capitale (= ‘prezzo del caput’, ossia della vita), un
vocabolo che tanta fortuna ha poi avuto nelle lingue moderne.
Il latino, pur deteriorato ormai dal punto di vista fonetico-ortografico, rimaneva lingua di
comunicazione sovranazionale, ma la convivenza con parlanti allofoni che ne avevano scarso
dominio dovette causare anche problemi di comprensione reciproca. Così ad esempio la perdita
della percezione della differenza semantica esistente in latino classico tra vir (= ‘uomo maschio’) e
homo (= ‘essere umano’) causò nel 585 una discussione tra vescovi, come è riferito da Gregorio di
Tours (Historiae 8, 20).
Al di là del lessico, le difficoltà di comprensione erano causate soprattutto dalle differenti
pronuncie del latino e dalle incertezze ortografiche. Così dopo la fine del sistema scolastico romano
Cassiodoro contrapponeva l’ormai avvenuta normalizzazione dell’ortografia greca alla situazione
sempre oscillante dell’ortografia latina:
Cassiodoro, Institutiones, Praef. 9
…orthographia
siquidem
apud
Graecos
plerumque sine ambiguitate probatur expressa;
inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta
monstratur, unde etiam modo studium magnum
lectoris inquirit.
…l’ortografia presso i Greci è precisata senza
ambiguità, mentre fra i Latini rimane molto
difficile, per cui anche adesso richiede molta
attenzione in chi legge.
Se la gente comune e quindi anche i monaci (latini, goti, bizantini) del Vivarium (presso
l’odierna Squillace, in Calabria) aveva difficoltà non solo nell’ortografia ma anche nell’ortoepia
latina, Cassiodoro – nel De orthographia da lui dedicato, intorno al 570 d.C., ai copisti del
monastero – documenta fra l’altro la scelta dell’ortografia classica (ormai canonizzata, per garantire
una ortoepia univoca) e l’abbandono di varianti ortografiche arcaizzanti:
Cassiodoro, De orthographia, GLK VII, pp. 144 s.
Erit itaque propositum nostrum quae
competenter modernae consuetudini
ab antiquis tradita sunt quasi in unam
coronam redigere et usui celeberrimo
deputare. Illa vero quae antiquitati
magis conveniunt expedit sine
dubitatione relinquere, ne labor
adsumatur incongruus, qui praesenti
saeculo videtur inutilis.
Pertanto sarà nostro proposito raccogliere in una
sola ghirlanda, per così dire, e assegnare all’uso
generalizzato le norme che gli antichi hanno
trasmesso in modo adatto alla consuetudine di
noi moderni. Invece le norme che si addicono
piuttosto all’antichità, senza dubbio è bene
lasciarle, per non caricarsi di uno sforzo
inopportuno, che sembra inutile al secolo
presente.
4
1
Proprio questo opuscolo cassiodoreo sarà dunque utilizzato al tempo della riforma
linguistica voluta da Carlo Magno e illustrata dal De orthographia di Alcuino (§ 5.6). E, ancora più
tardi, gli Umanisti adatteranno l’ortografia classica al criterio della moderna consuetudo del loro
tempo.
4.5.3. Trasformazioni della lingua: nel tempo e nello spazio
Le varietà regionali del latino sono per noi difficilmente documentabili, ma non mancano
testimonianze di autori latini (di epoche diverse) relative a vocaboli latini usati in questa o quella
provincia o a cadenze regionali riscontrabili nella pronuncia. Così ad esempio Cicerone (Brutus
171) rivolgendosi a Bruto gli fa notare che in Gallia avrebbe sentito anche parole non consuete a
Roma; quanto alla pronuncia, Quintiliano osserva:
Quintiliano, Institutio oratoria 1, 5, 33
Sunt etiam proprii quidam et
inenarrabiles
soni,
quibus
nonnumquam nationes deprehendimus
Ci sono anche suoni particolari e
indescrivibili, grazie ai quali talvolta si
riconosce la nazionalità (del parlante).
Nel 386 san Girolamo mostrava precisa consapevolezza delle trasformazioni – nel tempo e
nello spazio – non soltanto per quanto riguardava la diversificazione del punico rispetto al fenicio,
ma anche a proposito delle alterazioni della Latinitas, che qui non è più, dunque, uno standard
immutabile per effetto dell’istituzionalizzazione operata dalla scuola, ma è la realtà vivente del
latino di registro informale:
Girolamo, Comm. in epist. ad Gal. 2, 3, PL 26, 382
...Galatas excepto sermone Graeco, quo
omnis oriens loquitur, propriam linguam
eamdem paene habere quam Treviros,
nec referre, si aliqua exinde corruperint,
cum et Afri Phoenicum linguam
nonnulla ex parte mutaverint, et ipsa
Latinitas et regionibus quotidie
mutetur et tempore ...
...i Galati ? senza tener conto del greco, parlato
in tutto l’Oriente ? hanno una propria lingua,
che è la stessa degli abitanti di Treviri, e non
importa se si è modificata, dal momento che
anche gli indigeni dell’Africa in qualche cosa
hanno cambiato la lingua fenicia, e così anche la
stessa latinità muta a seconda delle regioni e
del tempo...
Una differenziazione preromanza del latino è riscontrabile già tra il secolo III e la prima
metà del VI, con fenomeni di trasformazione del sistema, tra cui la sparizione dell’opposizione
4
2
vocalica basata sulla quantità, la debolezza delle consonanti finali di parola, la palatalizzazione
della velare davanti a /e/ ed /i/, l’alterazione del sistema vocalico (arricchito da vocali intermedie
rispetto alle 5 dello standard) e l’oscillazione tra /b/ e /v/, la riduzione del sistema casuale a un
sistema sostanzialmente bicasuale (nominativo e caso obliquo) o tricasuale (nominativo, accusativo,
caso obliquo); anche l’uso di locuzioni preposizionali come segnali morfologici della declinazione,
la diffusione di forme verbali perifrastiche, l’abbondanza della paratassi e la recezione di volgarismi
lessicali nella lingua standard (ad es. portare invece di ferre, vadere invece di ire, plorare invece di
flere) sono aspetti caratteristici del latino volgare.
Il grammatico Consenzio, operante probabilmente a Narbona (Gallia meridionale) nel IV-V
secolo, dando notizia di errori di pronuncia «che possiamo notare nel parlato quotidiano, se
ascoltiamo con un po’ più di attenzione» (quae in usu cotidie loquentium animadvertere possumus,
si paulo ea curiosius audiamus, GLK V, p. 391), segnalava l’esistenza di errori caratteristici nel
parlare latino da parte delle diverse nazioni (p. 395).
Via via, nei tre o quattro secoli successivi alla disgregazione dell’Impero d’occidente, la
dialettalizzazione del latino si accentuò e si formarono le lingue “romanze” o neolatine, con
dinamiche di interferenza del latino corrente con le lingue di superstrato (generalmente germaniche
o slave) ed eventualmente di sostrato (ad es. celtiche). Nelle aree poco romanizzate e poi
massicciamente occupate da popolazioni allofone l’eredità latina fu progressivamente cancellata
dall’uso vivo, ma lasciò residui e continuò ad esercitare un suo influsso attraverso la cultura scritta:
così ad es. in parte della Britannia celtica o in territori germanici a est del Reno e anche nelle lingue
balcaniche occidentali, come l’albanese. Analoga fu la vicenda dei territori romanizzati dell’Africa
occidentale mediterranea, dove le lingue berbere, pur dopo la scomparsa dei superstrati punico e
latino e l’affermarsi – dopo la dominazione vandalica e la riconquista bizantina – dell’arabo, hanno
conservato tracce di latinità.
In sintesi, da un certo punto in poi, con il diminuire dei collegamenti e degli interscambi tra le
varie parti del territorio latinizzato, ebbe inizio la vera e propria frammentazione del latino corrente:
segnalata già nel IV secolo, come abbiamo detto sopra, ma divenuta irreversibile nell’VIII secolo.
Nel secolo IX appaiono già testi scritti in alcuni idiomi romanzi ben caratterizzati.
4.6. Dalla diglossia (sec. VI-VII) al bilinguismo (sec. IX)
4
3
L’ortografia merovingica riproduce la pronuncia del latino in uso in Francia tra VI e VIII
secolo. Con la fine del sistema scolastico romano, infatti, entra in crisi l'ortografia tradizionale, e ci
si avvicina sempre più alla trascrizione fonetica delle parole così come esse venivano di volta in
volta pronunciate.
Gregorio di Tours (In gloria confessorum, praef.) si scusò di essersi adeguato, negli scritti
agiografici, ai registri espressivi del sermo rusticus; lo scambio dei generi grammaticali, l'uso
improprio delle preposizioni, lo scambio tra accusativo e ablativo, espressamente menzionati da
Gregorio, erano manifestazioni di un degrado linguistico che si era via via prodotto nel parlato per
le esigenze della “comunicazione verticale”: tale degrado penetrava comunque ormai anche nella
lingua scritta alterandone l'ortografia e quindi anche la morfologia e la sintassi, mentre l'influsso del
parlato condizionava le scelte lessicali di testi scritti specialmente nei registri più umili o più attenti
a una comunicazione rivolta a un pubblico di cultura eterogenea, come nel caso dei predicatori (es.
Cesario di Arles).
Perfino nell'epistolografia ufficiale indirizzata alla corte di Costantinopoli occorreva
utilizzare un linguaggio consueto non immune da vitia espressivi, se si voleva rendere il testo
intelligibile agli interpreti: all’inizio del VI secolo Avito, vescovo di Vienne, lo ricorda (Epist. 49) al
re burgundo Sigismondo, che si serviva della sua collaborazione per la preparazione di documenti.
La scomparsa del sistema romano delle scuole comportò un progressivo abbassamento del
livello generale della cultura. Al di là delle scuole funzionanti presso le corti, presso le cattedrali e
presso i monasteri, l’istruzione dei futuri chierici era talora affidata, nelle chiese rurali, ai sacerdoti.
Mentre l’ignoranza delle norme grammaticali, a cominciare dall’ortografia, comportava il frequente
ricorso ad allografie e incoerenze morfologiche e sintattiche, ormai i diversi livelli linguistici, delle
persone colte e degli indotti, si avvicinavano l’uno all’altro. Così fra latinofoni di aree diverse
c'era ancora possibilità di comunicare anche se non c’era uguaglianza di pronuncia. Un
individuo di media cultura poteva inoltre essere in grado di usare due sistemi linguistici
gerarchicamente ordinati (uno per i livelli superiori di comunicazione, l’altro per la sfera familiare e
informale): così il concetto sociolinguistico di “diglossia” è stato applicato all’età precarolingia, per
la quale in passato si preferiva parlare già di bilinguismo (latino / lingue romanze).
Alla fine del VI secolo si poteva ancora trovare una via di mezzo tra parlata elevata e parlata
degli indotti, nell'adattare – per la predicazione e quindi oralmente – omelie di età patristica. Ma nel
corso del VII secolo anche la pronuncia del latino andò differenziandosi, tra registri diversi, a
seconda della preparazione culturale dei parlanti.
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E’ difficile accertare i tempi e i modi della resistenza del latino standard come lingua intesa
dai comuni parlanti. Guardando alle prese di posizione e ai testi già romanzi che appaiono nella
prima metà del secolo IX, bisogna ammettere che una marcata diversificazione tra lo standard e
la lingua corrente doveva essere avvenuta qualche secolo prima e che anche la ramificazione
geografica del parlato, cioè l’avvio dei diversi idiomi romanzi, va collocata abbastanza indietro
rispetto alle testimonianze della coscienza esplicita di quei fatti. Tutto dev’essere avvenuto in quella
lunga epoca di diglossia che abbiamo già descritto. Tra l’altro, bisognerebbe tener conto di
situazioni molto diverse da area ad area del territorio romanizzato: pensiamo, ad esempio, al forte
isolamento di alcune regioni, come la Sardegna e l’area danubiana dell’antica Dacia, dove si
conservò, attraverso vicende molto complesse e pochissimo note, la popolazione romanizzata che
ha dato vita al romeno.
Siamo meglio informati, invece, sulle situazioni dei territori centrali della Romània. Il
Concilio di Tours dell’813 (canone 179) prese atto, infatti, del deterioramento del latino come
lingua di comunicazione di massa quando prescrisse ai vescovi «di tradurre (transferre) con
chiarezza» le omelie (ereditate in latino dall’età patristica) «in lingua romanza (romana rustica) o in
lingua tedesca, perché tutti possano comprendere più facilmente quanto viene detto»: si trattava
probabilmente del passaggio impercettibile da una trasposizione fonetica alla vera e propria
traduzione in una lingua diversa.
Anche nelle aree più romanizzate, dunque, il latino della tradizione colta diventa via via più
incomprensibile dalle masse popolari. I secoli VII e VIII sono veramente un lungo periodo di crisi,
che viene comunemente definita di “diglossia”. Per esigenze pratiche o di comunicazione in
cerimonie pubbliche o religiose si attuano compromessi, con i quali si cerca di conciliare una forma
linguistica esteriore di tipo tradizionale con un lessico e una sintassi fortemente improntati al
parlato. È questa una tradizione che è attestata negli atti notarili e in testi come la Vita di san
Farone, le Laudes regiae di Soissons e nella curiosa Parodia della Lex Salica; allo stesso genere
possiamo attribuire l’Indovinello veronese e anche il Graffito romano della Catacomba di
Commodilla (molto breve, ma anche più decisamente volgare). Finché, con il graduale effetto delle
iniziative di restauro del latino di tradizione colta, avviate da Carlo Magno negli ultimi decenni del
secolo VIII, si giunge alla rottura del compromesso, e il latino restaurato, da una parte, e gli idiomi
romanzi parlati, dall’altra parte, prendono due strade diverse. Il primo documento di questo deciso
bilinguismo è dato dai Giuramenti di Strasburgo, dell’842: Carlo il Calvo e suo fratello Ludovico il
Germanico, alleati contro il terzo fratello Lotario, giurano i patti (scambiandosi le lingue per essere
compresi dagli astanti dei due schieramenti) l’uno in teudisca lingua (una varietà di francone
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renano) e l’altro in romana lingua (una varietà di francese forse pittavino), e nelle due lingue, ma
ciascuno nella propria, passano a giurare subito dopo i due eserciti. L’anno successivo, a Verdun,
viene anche sancita la tripartizione del Sacro romano impero, tra Carlo, Ludovico e Lo tario.
5. LA 'LINGUA DI ROMA' DOPO ROMA (sec. V-VIII)
5.1. La difesa del latino standard come mezzo di comunicazione
sovranazionale
La conoscenza del latino, almeno come competenza passiva, si era propagata nell’Impero
romano in quanto lingua di comunicazione fra litterati (imparata a scuola), sì che l’aggettivo
Latinus indicava chiarezza, facile comprensibilità. Ma l’emulazione di quell’esprimersi «in latino
forbito» che per i Romani era naturale divenne via via più laboriosa per chi riceveva la propria
istruzione fuori Roma: lo afferma ad esempio l’oratore galloromano che pronunciò a Treviri, nel
313, un panegirico in onore di Costantino (Panegyrici Latini 9, 1, 2).
Il latino dovrà contribuire a difendere l’ideale della civiltà romana anche dopo la fine
dell’Impero, «affinché almeno la lingua viva nel mondo», come afferma il poeta Venanzio
Fortunato (Carmina, Praef. 2), trasferitosi dall’Italia a Poitiers, in territorio franco: lingua indica
qui il latino inteso come lingua franca utilizzata nei rapporti fra le diverse nazioni allora presenti
in Europa, ed è quindi lingua della cultura, lingua ecclesiastica e lingua della diplomazia e della
pubblica amministrazione.
In area insulare, anche dopo il ritiro dei Romani dalla Britannia (410 ca.) e in seguito
all’insediamento degli Anglosassoni, a quelle popolazioni germaniche il collegamento con la Roma
cristiana fece percepire il latino come mezzo di comunicazione colta, al di là delle parlate nazionali,
anche se nella predicazione i contenuti cristiani erano espressi anche in lingua anglica (una lingua
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germanica), britannica e scota (lingue celtiche) e pittica, ma la lingua latina dotta usata nell’esegesi,
precisa Beda (Storia ecclesiastica degli Angli 1, 1), era «diventata comune a tutti gli altri popoli a
causa dello studio della Bibbia».
Gli Anglosassoni si affrancarono ben presto dalla dipendenza culturale che avevano avuto
nei confronti dei dotti irlandesi, da cui inizialmente avevano imparato il latino. Infatti in Irlanda, che
non era mai stata provincia romana, dal VI secolo gli interessi grammaticali erano stati coltivati da
maestri secolari e lo studio del latino patristico e dell’esegesi biblica veniva coltivato dalle scuole
monastiche: si era affinato così un mezzo linguistico (ibernolatino ) ampiamente produttivo nel
campo dell’esegesi, dell’agiografia, della trattatistica erudita. Con la diffusione dell’alfabeto latino
ad opera del cristianesimo si rese poi possibile una letteratura scritta in lingua irlandese, per noi
documentata soltanto a partire dall’VIII secolo.
5.2. Il latino letterario e curiale
Tra V e VI secolo molti autori latini (ad es. in Italia Ennodio, Boezio e Cassiodoro, in Gallia
Sidonio Apollinare, Avito di Vienne e Ruricio di Limoges, oltre all’italiano Venanzio Fortunato)
offrono esempio di un’elitaria “prosa d’arte” con cui si tentava di conservare lo standard normativo
del latino istituzionalizzato: si trattava di un’eredità della civiltà romana che andava al di là anche
della fine dell’unità politica dello Stato romano. Così la retorica poteva fornire un importante
strumento per le relazioni diplomatiche (anche tra l’Occidente romanobarbarico e i Bizantini),
mentre il culto della poesia latina era sentito come unica barriera contro la barbarie delle lotte
fratricide che dividevano le diverse nazioni.
Con la collaborazione di esperti romani, anche le cancellerie dei diversi regni
romanobarbarici (Ostrogoti, Visigoti, Burgundi, Franchi, Alemanni, Longobardi) a partire dal V
secolo promossero la codificazione scritta – inizialmente (tra V e VII secolo) in latino – del proprio
diritto consuetudinario e formularono via via nuove leggi. In Italia è celebre l’editto del re
longobardo Rotari (643). Nonostante l’ufficialità di questi testi la lingua in cui sono redatti mostra
via via il deterioramento del latino rispetto allo standard classico, pur nella cura della precisione
espressiva.
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5.3. Il latino merovingico
Ma dopo la scomparsa di Venanzio Fortunato e di quella generazione di letterati
galloromani, nel latino scritto si ebbe – dal VII secolo – un’involuzione sia nello standard letterario
sia nella tecnica di composizione (dictatio) delle cancellerie regie o ecclesiastiche, sia nei registri
più dimessi (ad es. dei documenti notarili). Così nelle Formulae di Marculfo (sec. VII/VIII) è
ancora segnalata l'esistenza di esperti nella composizione di documenti (ad dictandum), anche se ad
esempio lui e lei sostituiscono, nel modello di formulario, il nome personale (cf. la nostra
abbreviazione N.): ad es. donat igitur illi honeste puelle, norae suae lei...villa (85, 5) = «dona
dunque a quella fanciulla di condizione nobile, sua nuora N., ... la tenuta...»); Constat me tibi
vindedisse...campo iuris mei...qui subiungit a latere uno lui, ab alio latere lui... (90,14) = «Risulta
che io ti ho venduto... il campo di mia proprietà... che confina da un lato con N., dall’altro con
N....»). In realtà l’adattamento del genitivo e del dativo di ille per precisare il genere maschile o
femminile (cf. ital. ‘lui’, ‘lei’) è già riscontrabile in iscrizioni di età imperiale: es. CIL X, 2564
(Napoli) quoi non licuit in suis manibus ultimum illui spiritum ut exciperet (= «cui non fu lecito
raccogliere il di lui spirito nelle sue mani») e CIL VI, 14484 (Roma) Nicaon amator illeius (=
«Nicaone di lei innamorato »), mentre in Sardegna, Iberia e Italia meridionale hanno fortuna i tipi
de illu(m), de illa(m)
Il latino merovingico testimonia comunque uno sforzo di adeguamento agli standard della
latinità classica.
5.4. Il latino 'isperico' (sec. VI-VIII)
In Irlanda e nelle colonie irlandesi della vicina Britannia celtica (oggi Galles e Cornovaglia)
si coltivò un latino scolastico basato sullo studio della grammatica e dei glossari. L’impiego di
parole e costrutti nuovi e perfino di grecismi è espressione del gusto detto ‘isperico’ in quanto
rappresentato specialmente dagli Hisperica famina (= ‘brani retorici occidentali’), ma si ritrova
anche in Gildas († 570) – nato in Scozia e vissuto nel Galles, con la parentesi di un viaggio in
Irlanda – e meno in autori irlandesi come Adomnán († 597) e Colombano (morto a Bobbio nel 615),
il monaco irlandese che con i suoi compagni iniziò la rievangelizzazione dell’Europa, oltre che in
autori continentali del VI e VII secolo. Per tutti questi scrittori di ambiente monastico, d’altra parte,
il latino (vedi sopra, § 5.1) era comunque lingua franca usata nella vita quotidiana in contesti di
plurilinguismo.
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Sembra collegata al gusto isperico l’opera di Virgilio Marone detto il Grammatico, che fu
attivo alla metà del VII secolo: probabilmente con una satira degli eccessi cui giungeva l’artificiosa
retorica dei contemporanei dell’autore, egli fa riferimento a un latino ridotto ormai a un gioco di
erudizione ma non più mezzo di comunicazione, «per evitare che tutti i segreti iniziatici, che
devono essere rivelati soltanto ai sapienti, siano facilmente scoperti, indiscriminatamente, da gente
dappoco e ignorante...» (Epitomi 10,1).
5.5. La latinità anglosassone (sec. VII-VIII)
Nel VII secolo le scuole irlandesi erano frequentate anc he da giovani anglosassoni
provenienti dalla vicina Inghilterra. Ma via via il conservatorismo irlandese si imbarbarisce e viene
contestato dalla cultura latina di ambito anglosassone: questa continuò infatti a dipendere
culturalmente dalla latinità romana, anche dopo l’iniziale evangelizzazione del Kent ad opera dei
missionari inviati da Roma da Gregorio Magno (596).
Il prestigio della latinità coltivata dagli Anglosassoni fece sì che perfino un irlandese di area
continentale, Cellano di Perrona, celebrasse (in Aldelmo, Epist. 9) la latinitas dei discorsi del
sassone Aldelmo († 709) «per la limpida bellezza dell’eloquente Romània» in cui questi viveva: ma
tale Romania era Malmesbury, e quindi maestra di latinità “romana” appariva allora la Britannia
anglosassone!
Qui nel secolo VIII il latino, non più lingua parlata, veniva studiato su testi che – a partire
dagli insegnamenti della scuola di Canterbury – erano nel filone della tradizione classica e patristica
più che irlandese. E tuttavia più a nord Beda già nel 732 denunciava l’ignoranza del latino non
soltanto tra i laici ma anche tra gli ecclesiastici, impegnandosi personalmente nel tradurre per loro
in lingua anglica il Credo e il Padre nostro (cf. Epist. ad Ecbertum, 5).
Così nel 747 il Concilio di Clovesho (canone 10) raccomandò l’uso del volgare per la
spiegazione di queste due preghiere, come anche dei formulari della liturgia eucaristica e
battesimale.
5.6. Alle origini del latino medievale: la riforma carolingia (780/800)
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Se dunque per l’omiletica e la catechesi erano ormai in uso le lingue vernacole, il latino
rimaneva lingua della liturgia e questa costituiva pertanto un importante mezzo di coesione anche
linguistica e di conservazione di una competenza passiva del latino, sia pure minima e comunque
ormai alterata secondo la pronuncia locale o “rustica”. La necessità di una lingua di comunicazione
sovranazionale all’interno del regno franco, che si preparava a diventare Sacro Romano Impero, e
l’esigenza di disporre, per il suo governo, di competenze adeguate per la pubblica amministrazione,
la giurisdizione, la diplomazia, a partire almeno dal 781 suggerirono a Carlo Magno la necessità di
una promozione della conoscenza del latino sulla base dello standard di età patristica. Questo
ripristino, naturalmente, funzionava soltanto a livello di scrittura- lettura visiva, mentre certamente
la pronuncia creava ormai, da luogo a luogo, diversità soltanto in parte normalizzabili.
Documento di quella che viene generalmente chiamata la “riforma carolingia” è l’Admonitio
generalis, un capitolare emesso da Carlo Magno il 23 marzo 789; in esso il capitolo 11 è
particolarmente rivolto al clero, cui raccomanda di curare l’istruzione del popolo e una migliore
qualità della produzione libraria:
Carlo Magno, Admonitio generalis, cap. 11 (BNF ms.lat. 10758, p. 50)
...et ut scholae legentium fiant, psalmus notas
cantus
computus
gramaticus,
per
… che si fondino scuole per gli studi – sui salmi,
singula sulla stenografia, sul canto, sul calcolo, sulla
monasteria vel episcopia. Et libros catholicos
grammatica – in ogni monastero ed episcopio. E
bene emendate, quia saepe dum bene aliqui correggete bene i libri ecclesiastici, perché
deinceps rogare cupiunt, sed per inemendatos
spesso quando qualcuno si propone di pregare,
libros male rogant. Et pueros vestros non sinite per colpa di libri non corretti prega male. E non
vel legendo vel scribendo corrumpere; et si opus permettete che i vostri ragazzi leggendo o
est
evangelium
psalmisterium
et
missale scrivendo alterino i testi ; se bisogna copiare un
scribere, perfectae aetatis homines scribant cum vangelo, un salterio, un messale, lo facciano, con
omni diligentia.
grande attenzione, persone di età matura.
Poco tempo dopo Carlo in una lettera circolare (De litteris colendis) indirizzata a vescovi ed
abati ribadiva la necessità di curare anche una corretta pronuncia del latino in ambito liturgico, a
beneficio del popolo, evidentemente per ottenere almeno una lettura più fedele al testo scritto, anche
se necessariamente intrisa della fonetica delle lingue vive.
L’uniformità della liturgia fu sostenuta anche mediante la revisione della Vulgata, e la stessa
ortografia si rivelò preziosa per insegnare non soltanto a scrivere ma anche a pronunciare
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correttamente, a cominciare dall’uso liturgico. Tra i consiglieri e collaboratori di Carlo furono attivi
specialmente Alcuino, maestro della scuola della cattedrale di York, Pietro da Pisa e il longobardo
Paolo Diacono, divenuto monaco benedettino dapprima nel Comasco e poi a Montecassino. Le
Institutiones grammaticae di Prisciano (V-VI sec.) divennero il manuale per l'insegnamento
superiore, mentre l’Ars di Donato (IV sec.) continuò ad essere il testo base per principianti e il
modello dell’insegnamento grammaticale anche per le lingue moderne.
5.7. Il latino nell’Europa medievale
Con la riforma carolingia riprese dunque forza la normalizzazione classicheggiante, ma
come semplice ripetizione di dottrine del passato: il latino non era più lingua parlata dalle masse,
ma era conservata dall’insegnamento scolastico impartito nei monasteri e nelle scuole attive presso
le cattedrali e presso le corti: un celebre manuale sarà il De eruditione seu modo instruendorum
filiorum regalium (o nobilium) di Vincenzo di Beauvais (ca. 1250), precettore presso la corte di
Luigi IX, re di Francia.
Ma anche tra le persone incolte la liturgia rimaneva veicolo di una qualche forma di
competenza passiva del latino in tutto l’Occidente e nelle aree settentrionali di nuova
cristianizzazione, mentre in Oriente resistette, accanto alla pluralità delle forme liturgiche, il
pluralismo linguistico delle diverse chiese (greco nelle chiese di rito greco, siriaco in Siria e
Palestina, copto in Egitto, armeno e georgiano nelle rispettive regioni, slavo dalla Slovenia alla
Bulgaria alla Russia…).
Nel latino liturgico e specialmente nei testi eucologici (cioè nei formulari di preghiera che
possono essere cantati, quali le collette, i prefazi, le preghiere eucaristiche) le esigenze della dizione
e soprattutto del canto resero spesso necessario l’uso del cursus, cioè un ritmo basato su clausole
accentative che riproducevano le clausole metriche di età classica: in età tardoantica, invece, esse
erano state riprese da clausole miste, in parte quantitative in parte ritmiche.
Nella canc elleria pontificia, a Roma, lo stile curiale rinacque, nei secoli X-XII, ad opera
specialmente dei monaci di Montecassino, che si rifacevano come modello alla prosa di Leone
Magno (440-461). Via via il cursus venne insegnato dai maestri medievali dell’ars dictandi (=
‘tecnica del comporre’), utilizzata anche al fine di distinguere i documenti autentici da quelli falsi.
Il latino rimaneva dunque lingua di comunicazione sovranazionale nel Sacro Romano
Impero e lingua di comunicazione internazionale nei rapporti diplomatici con altri Stati. Nella sua
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forma istituzionalizzata sulla base del latino biblico e patristico, rimase lingua di comunicazione
pubblica utilizzata dalle cancellerie regie ed ecclesiastiche (latino curiale) e di comunicazione fra
persone colt e, inizialmente soprattutto chierici e poi, con il sorgere delle università (ufficialmente
dal XIII secolo, ma già in funzione dal sec. XI), anche laici (latino della Scolastica). Nella didattica
– scritta o orale – e nei quotidiani contatti fra professori e studenti di varia provenienza, il latino
permetteva una comunicazione efficace: così ad esempio Tommaso d’Aquino, dopo aver ricevuto
una prima istruzione presso il monastero di Montecassino e allo Studium di Napoli, fu allievo del
tedesco Alberto Magno a Colonia, per poi insegnare lui stesso a Parigi, Roma e Napoli.
6. IL RECUPERO DELLO STANDARD CLASSICO: IL LATINO
UMANISTICO E IL 'NEOLATINO'
6.1. Il latino secondo Dante
Sulla base della situazione del suo tempo Dante (De vulgari eloquentia 1, 1, 2-4; 9, 1-11)
riteneva che il latino fosse sempre stato una lingua convenzionale, creato, al di là delle
differenziazioni spazio-temporali, dagli inventori della grammatica, che è “una certa inalterabile
identità di lingua pur nella diversità dei tempi e dei luoghi” e non è, si badi, la lingua madre degli
idiomi romanzi. Quando traccia un quadro dell’intera Europa linguistica, Dante afferma che dalla
biblica Torre di Babele sarebbero nate dapprima tre grandi famiglie linguistiche, una che occupa
l’Europa settentrionale (popolazioni germaniche e slave), una che occupa l’Europa orientale e parti
dell’Asia (area dominata dal greco) e una che occupa quel che resta dell’Europa. La famiglia
linguistica che occupa quest’ultimo territorio è a sua volta divisa in tre rami: la lingua del sic
(italiano), la lingua d’oc (occitanica) e la lingua d’oïl (francese). Dante vede la parentela tra queste
tre lingue e la documenta con una serie di parole molto simili tra loro (Dio, cielo, amore, mare,
terra, ecc.), ma non riconduce questa parentela alla comune derivazione dal latino. Questo è altra
cosa: è una lingua creata dai dotti, al di sopra delle lingue parlate.
Se il volgare si impara naturalmente dai genitori – osserva Dante – il latino è regolato da
norme convenzionali e può quindi essere conosciuto soltanto da chi può studiarlo: pertanto esso era
ormai avvertito come poco utilizzabile quale mezzo di comunicazione ‘familiare’ e popolare,
anche se lo era stato al tempo dei Romani.
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Dante, De vulgari eloquentia 1, 1, 2-4; 1, 9, 6-11
...vulgarem locutionem appellamus eam
qua infantes assuefiunt ab assistentibus
cum primitus distinguere voces incipiunt;
vel, quod brevius dici potest, vulgarem
locutionem asserimus quam sine omni
regula nutricem imitantes accipimus.
Est et inde alia locutio secundaria
nobis, quam Romani gramaticam
vocaverunt. Hanc quidem secundariam
Graeci habent et alii, sed non omnes: ad
habitum vero huius pauci perveniunt, quia
non nisi per spatium temporis et studii
assiduitatem regulamur et doctrinamur in
illa.
Harum quoque duarum nobilior est
vulgaris: tum quia prima fuit humano
generi usitata; tum quia totus orbis ipsa
perfruitur, licet in diversas prolationes et
vocabula sit divisa; tum quia naturalis est
nobis, cum illa potius artificialis existat.
(...)
Dicimus ergo quod nullus effectus
superat suam causam, in quantum effectus
est, quia nil potest efficere quod non est.
Cum igitur omnis nostra loquela — preter
illam homini primo concreatam a Deo —
sit a nostro beneplacito reparata post
confusionem illam que nil aliud fuit quam
prioris oblivio, et homo sit instabilissimum
atque variabilissimum animal, nec durabilis
nec continua esse potest, sed sicut alia que
nostra sunt, puta mores et habitus, per
locorum temporumque distantias variari
oportet. (...) Si ergo per eandem gentem
sermo variatur, ut dictum est, successive
per tempora, nec stare ullo modo potest,
necesse est ut disiunctim abmotimque
morantibus varie varietur, ceu varie
variantur mores et habitus, qui nec natura
nec consortio confirmantur, sed humanis
beneplacitis
localique
congruitate
nascuntur.
Hinc moti sunt inventores gramatice
facultatis: que quidem gramatica nichil
aliud est quam quedam inalterabilis
locutionis
ydemptitas
diversis
temporibus atque locis. Hec cum de
…chiamo ‘parlata volgare’ quella a cui gli
infanti sono abituati ad opera di chi sta loro
vicino, quando all’inizio essi cominciano ad
articolare i suoni; ovvero, più in breve, definisco
‘volgare’ quel parlare che facciamo nostro
imitando la nutrice, senza riguardo a regole.
Abbiamo anche, nato dopo il primo e sul
presupposto di quello, un altro tipo di lingua,
cui i Romani dettero il nome di ‘grammatica’.
Questa lingua secondaria hanno pure i Greci e
altri, ma non tutti (i popoli): al suo possesso
pochi pervengono, perché delle sue regole e della
sua arte non ci impadroniamo senza dispendio di
tempo e costanza nello studio.
Delle due, più nobile è la volgare: perché fu
usata per prima dal genere umano; perché tutto il
mondo si serve di lei, anche se è divisa per
varietà di forme e vocaboli; perché è nostra per
natura, mentre quell’altra è piuttosto prodotto
d’arte. (...)
Diciamo dunque che nessun effetto, in quanto
è un effetto, può andare al di là della propria
causa, perché nessuna cosa può produrre ciò che
essa non è. Poiché dunque ogni nostro
linguaggio – e non parlo di quella concreato da
Dio con il primo uomo – è stato rifatto a nostro
piacimento dopo quella confusione che fu, in
effetti, oblìo della lingua precedente, e poiché
l’uomo è un animale oltremodo instabile e
variabile, segue che il linguaggio non può essere
durevole e uniforme, ma come altre cose di noi
uomini, per esempio costumi e mode, non può
non variare per distanze di spazio e di tempo.
(...) Se dunque la lingua parlata da uno stesso
popolo varia, come s’è detto, in successione di
tempo, né può in alcun modo restare immobile,
ne consegue di necessità che essa muti e varii fra
quanti vivono separati e lontani, così come
mutano e variano i costumi e le mode, che non
sono fissati dalla natura né da una convenzione,
ma nascono per umano arbitrio e si diffondono
per prossimità nello spazio.
Da questa situazione presero le mosse gli
inventori del mezzo grammaticale; e la
grammatica non è altro che una certa identità
linguistica, inalterabile attraverso tempi e
luoghi diversi. Essendo stata costruita sulla
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comuni consensu multarum gentium
fuerit regulata, nulli singulari arbitrio
videtur obnoxia, et per consequens nec
variabilis esse potest. Adinvenerunt ergo
illam ne, propter variationem sermonis
arbitrio singularium fluitantis, vel nullo
modo vel saltim imperfecte antiquorum
actingeremus autoritates et gesta, sive
illorum quos a nobis locorum diversitas
facit esse diversos.
base di regole convenute di comune accordo
fra molte genti, non soggiace all’arbitrio
individuale e per conseguenza non può
nemmeno cambiare . E la inventarono appunto
per evitare che, a causa della variazione della
lingua, fluttuante ad arbitrio degli individui, ci
fosse impedita in tutto o in parte la conoscenza
dei pensieri e delle azioni degli ant ichi e di
coloro che sono separati da noi per la distanza
geografica.
6.2. Il latino umanistico (sec. XV-XVI)
L’opposizione dantesca tra grammatica e linguaggio materno sarà poi ripresa nell’ambito
del dibattito umanistico accesosi nel Quattrocento intorno all’ipotesi che nell’antichità gli indotti
avessero parlato non latino ma un volgare molto simile all’italiano. Circa le discussioni iniziate su
tale argomento tra i segretari di papa Eugenio IV prese posizione Flavio Biondo nell’epistola De
verbis Romanae locutionis inviata nel 1435 a Leonardo Bruni, e questi gli rispose pochi giorni
dopo, il 7 maggio (Epist. 6, 10 nell’ed. fiorentina del 1741). A tale dibattito parteciparono poi altri
umanisti, tra cui Leon Battista Alberti, Poggio Bracciolini e Guarino Guarini (che si allinearono
sulla posizione del Biondo), mentre Lorenzo Valla riprese la tesi del Bruni.
Il Biondo sottolineava la discontinuità tra il latino classico e quello medievale, frutto della
frantumazione causata dalle invasioni barbariche rispetto al monolinguismo degli antichi: a suo
giudizio il volgare è frutto di tale inquinamento, mentre il latino poteva essere ormai recuperato
soltanto come lingua dotta, come dovevano ormai fare con fatica gli addetti alla cancelleria papale,
provenienti da diversi Paesi europei.
Nella sua risposta il Bruni ribadiva invece il pregiudizio dantesco secondo cui il latino,
lingua grammaticalmente razionale, non poteva essere usata dal volgo e nell’antichità si era avuto
quindi un regime che oggi diremmo di diglossia: nella visione di una continuità ideale tra la
repubblica di Firenze e l’antica Roma repubblicana, Bruni sosteneva così la continuità tra l’antica e
la moderna lingua parlata dal volgo, parallelamente alla continuità tra l’antica e la moderna lingua
dei letterati, cioè il latino.
Con la rinascita dell’interesse per lo studio dei classici gli umanisti aspirarono a recuperare
il latino istituzionalizzato in senso puristico sulla base dei modelli letterari dell’antichità. Solo
per quanto riguarda l’ortografia, però, la consuetudine umanistica si differenziava dall’uso classico
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e si rifaceva a modelli più recenti. Fra questi, ad es., Leonardo Bruni (Epist. 8, 2) considerava
auctores Dante, Petrarca, Boccaccio e Coluccio Salutati, rivendicando all’usus moderno la stessa
libertà dalla norma analogistica che anche gli antichi avevano avuto; d’altra parte già Cassiodoro,
nel VI secolo, aveva sostenuto la necessità di adattare l’ortografia classica alla moderna consuetudo
(vedi sopra, § 4.5.2).
Anche il latino curiale adoperato nei documenti ecclesiastici, adeguandosi maggiormente
allo standard classico, diventa più chiaro ed efficace, pur nel periodare complesso destinato a
rendere più autorevoli i testi stessi.
Non soltanto in sede letteraria, ma anche come mezzo di comunicazione tra i dotti
europei, da Petrarca in poi si cercò di imitare la lingua e lo stile di Cicerone non solo nei documenti
ufficiali o nella letteratura, ma anche nelle lettere che i dotti di tutta Europa si scrivevano tra loro.
Scienziati, giuristi, medici, cultori di ogni disciplina liberale scrivevano in latino, e con una lingua e
uno stile il più possibilmente consoni al modello classico; così pure per la comunicazione pubblica
orale l’eloquenza classica era ritenuta essenziale nella formazione dei giovani.
Nel 1448, e cioè tre anni dopo la conclusione del concilio di Firenze, che aveva
apparentemente sancito la riunificazione tra Greci e Latini, Lorenzo Valla nel celebrare quella che, a
suo dire, era la superiorità del latino sul greco, evidenziò una mentalità paneuropea nel segno della
comune eredità latina:
Lorenzo Valla, Elegantiae linguae Latinae, praef.
...exteri
nobiscum
loquendo
… gli stranieri si accordano con noi nel linguaggio,
consentiunt; Graeci inter se consentire
mentre i Greci non possono accordarsi tra loro, e
non possunt, nedum alios ad sermonem
tanto meno possono sperare di portare gli altri alla
suum se perducturos sperent. Varie apud
propria lingua. Da loro gli autori si esprimono in
eos loquuntur auctores: attice aeolice,
varie lingue: attico, eolico, ionico, dorico, lingua
ionice, dorice, koinos; apud nos, id est
comune; da noi, che siamo una molteplicità di
apud
nisi
nazioni, tutti si esprimono nella lingua di Roma, la
Romane , in qua lingua disciplinae
lingua che comprende tutte le discipline liberali,
cunctae
dignae
come presso i Greci sono espresse nella propria
continentur, sicut in sua multiplici apud
molteplice lingua; e chi ignora che finché la lingua
Graecos; qua vigente quis ignorat studia
romana è prospera, tutti gli studi e le discipline
omnia disciplinasque vigere, occidente
prosperano, mentre quando decade, essi decadono?
occidere? Qui enim summi philosophi
Quali furono i più grandi filosofi, i più grandi
multas
in
nationes,
libero
nemo
homine
5
5
fuerunt,
summi
summi
oratori, i più grandi giureconsulti, insomma i più
iurisconsulti, summi denique scriptores?
grandi scrittori? quelli che più degli altri ebbero a
nempe
cuore la perfezione del dire...
ii
qui
oratores,
bene
loquendi
studiosissimi...
Pochi anni dopo, nel 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, si consumerà
la separazione tra Oriente e Occidente.
Nella ricerca di modelli del glorioso passato, Lorenzo Valla, in polemica con Poggio
Bracciolini e contro il ciceronianismo ampiamente diffuso in Italia (da Coluccio Salutati a Leonardo
Bruni a Guarino Guarini), osò anteporre Quintiliano a Cicerone. Successivamente propugnarono
(come già Petrarca) l’eclettica emulazione di più modelli sia Poliziano nella sua disputa con Paolo
Cortesi sia, vent’anni dopo (1512-1513), Gianfrancesco Pico in disputa con Pietro Bembo.
Quest’ultimo, alla corte di Leone X e Clemente VII, redigeva in prosa ciceroneggiante anche i brevi
papali.
Contro il ciceronianismo a oltranza degli ambienti romani Erasmo da Rotterdam scrisse il
dialogo Ciceronianus (1527-28), in cui prende posizione contro l’antistorica assolutizzazione del
modello ciceroniano. Nessuno degli umanisti di ogni parte d’Europa (dal Portogallo alla Russia), di
cui Erasmo fa le lodi, poteva ormai dirsi perfetto imitatore di Cicerone, perché il mondo era
cambiato, e per parlare di cose nuove occorreva poter usare parole nuove, che al tempo di Cicerone
non esistevano; una civiltà ormai cristiana non poteva fare a meno della terminologia introdotta
dalla latinità patristica e scolastica e doveva essere aperta all’introduzione di ulteriori neologismi.
In quanto fautore di una latinità classicheggiante ma dinamicamente aperta ai neologismi
cristiani o tecnici, Erasmo si mostrava convinto che il latino fosse ancora in grado di essere
strumento per la comunicazione pubblica in Europa e quindi anche per la comunicazione privata tra
persone colte. Ma mentre biasima la preferenza del ciceronianista belga Cristoforo Longueil per
l’uso del francese e del fiammingo ne lle conversazioni quotidiane, quasi che egli lo facesse «per
non contaminare la lingua sacra con argomenti profani e volgari» (Ciceronianus 551-554
Gambaro), Erasmo osserva anche che «lo stile ciceroniano a stento s’accorda con la precisione
tecnica dei matematici» (ivi 3635). In definitiva i ciceronianisti con il loro culto di un latino
ancorato al grande passato avevano in realtà preso atto del fatto che quella lingua ormai
artificialmente stilizzata era adoperabile soltanto per celebrazioni o comunque circostanze ufficiali,
mentre per la comunicazione anche fra persone colte conveniva maggiormente l’uso delle lingue
volgari.
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A Erasmo si opposero umanisti autorevoli, come Giulio Cesare Scaligero, Étienne Dolet e
Gaudenzio Merula, ma l’antistorico ripiegamento verso il classicismo finì per degenerare in una
lingua sterile e non più aderente ai contenuti da comunicare. Nemmeno l’enfasi barocca riuscì a
rivitalizzarla.
Così nella seconda decade del ‘700 si aprirà a Lipsia un dibattito sul ciceronianismo che
rischiava di impastoiare la divulgazione scientifica, oltre che lo sviluppo della cultura europea in
generale. Da parte sua la Historia critica Latinae linguae, pubblicata dal Walchius nel 1716,
inserendo la historia linguarum nell’ambito della historia litteraria sottolineava lo sviluppo
diacronico della lingua, parlando espressamente di «storia della lingua latina».
6.3. Il latino come strumento di comunicazione colta (sec. XVII-XVIII)
Al di là dell’artificiosità dell’ambito letterario e cancelleresco, fino alla fine del secolo
XVIII – quando con la rivoluzione francese cominciò a cambiare profondamente l’assetto politico e
socioculturale dell’Europa – il latino contribuì alla formazione dell’unità culturale europea – come
abbiamo anche letto in Lorenzo Valla (§ 6.2) –, soprattutto in quanto lingua di comunicazione
colta.
I leibniziani progetti “razionalisti” di lingue artificiali ed universali adeguate alla formazione
di un sapere unitario e globale e la proiezione del latino in un modello ideale, avulso dai dati
empirici, ad opera della Grammatica di Port Royal (1660), influirono a lungo sull’educazione
linguistica europea. Ancora Leopardi (Zibaldone 1045) osservava che una lingua universale deve
«essere modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione appunto perché questa è comune
a tutti ed uguale ed uniforme a tutti».
La lingua latina fu dunque strumento efficace di comunicazione colta (epistolare,
trattatistica, memorialistica, ecc.) nella forma essenziale nella quale era stato istituzionalizzata in età
classica ed era ben posseduta da tutte le persone colte, in Europa e poi anche in America.
Viene continuata così la tradizione della comunicazione scientifica, che nel Medioevo era
stata coltivata ad esempio da un Alberto Magno (scienziato oltre che teologo) e in età umanistica ad
esempio da Leon Battista Alberti con il suo De re aedificatoria (1450). I polacchi Copernico (†
1543) e Spinoza († 1677), il matematico austriaco Johannes Kepler († 1630), il francese Cartesio (†
1650), gli inglesi Bacone († 1294), Hobbes († 1679) e Newton († 1727), il naturalista svedese Karl
af Linné († 1778), detto il Linnaeus, hanno scritto per la gran parte in latino.
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Così Galileo nel 1610 con il suo Sidereus nuncius pubblicizzò in latino le sue scoperte
astronomiche, per le quali aveva usato il canocchiale, da lui perfezionato sulla base dei primi
tentativi fatti da tecnici olandesi. Scrivendo in latino, Galileo poteva essere letto da scienziati di
tutta Europa, ad es. da Keplero, che utilizzando il canocchiale inviato da Galileo all’Elettore di
Colonia riuscì poi a vedere i satelliti di Giove.
Quando però le circostanze non suggerivano il ricorso alla lingua latina, Galileo preferì
scrivere in volgare. Del resto, per quanto riguarda la divulgazione scientifica, proprio allora il
matematico belga Simon Stevin sosteneva la necessità delle lingue nazionali, e nell’ambito del
dibattito pedagogico il ceco Jan Amos Komenský (Comenio, † 1670) proponeva un’istruzione in
lingua vernacolare per tutti i bambini fino ai dieci anni e l’apprendimento delle lingue straniere tra i
10 e i 12 anni, mentre soltanto ai ragazzi che proseguivano gli studi doveva essere riservato
l’apprendimento del latino e di tutte le discipline (umanistiche e scientifiche) insegnate in quella
lingua.
Fino a tutto l’Illuminismo, tuttavia, perdurò l’uso del latino come lingua di comunicazione
scientifica non soltanto fra i grandi scienziati ma anche nell’uso quotidiano ad esempio per
prognosi, ricette e ‘cartelle cliniche’ e nelle lezioni universitarie. Dalla seconda metà del Settecento,
però, comparvero sempre più spesso pubblicazioni scientifiche nelle lingue nazionali, che via via
partendo dal latino (e dai suoi grecismi tecnici) elaborarono un vocabolario tecnico autonomo.
Se dunque con l’insorgere della nuova sensibilità per il “genio” delle lingue nazionali e il
diffondersi della letteratura di consumo il latino perse via via la sua funzione di lingua di
comunicazione internazionale, in essa fu sostituito dapprima dal francese e poi dall’inglese.
6.4. Il 'neolatino'
In tempi più recenti il latino è stato ed è oggetto di sperimentazione letteraria (cf. ad es.
Arthur Rimbaud, 1854-1891; Giovanni Pascoli, 1855-1912; Joseph Tusiani, 1924- e Michele
Sovente, 1948-), ma è anche utilizzato per la comunicazione colta: continua infatti anche in età
moderna l’epigrafia latina di modello umanistico, sepolcrale e/o memorialistico-celebrativa.
Il latino ecclesiastico è inoltre ancora strumento di comunicazione, nell’ambito di un
organismo sovranazionale qual è la Chiesa cattolica. Ma se in documenti scritti ci si può attenere
alle “regole” del latino standard, nella dizione orale – utilizzata ormai quasi esclusivamente nella
liturgia – la diversità delle pronunce nazionali facilmente vanifica l’universalità del mezzo
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linguistico: pertanto negli anni 1910-1912 (mentre si ipotizzava anche l’adozione dell’esperanto
come lingua franca nel mondo) Pio X raccomandava di privilegiare, nell’uso ecclesiastico, la
pronuncia italiana tradizionale rispetto a quella “ripristinata” (restituta) dai filologi secondo il
modello classico. Quest’ultima viene invece convenzionalmente adottata dagli specialisti e
nell’insegnamento scolastico fuori d’Italia.
Lo stile curiale continua ancor oggi ad essere utilizzato – a vari livelli – nei diversi dicasteri
e uffici vaticani, con morfologia e sintassi classicheggianti, ma con un periodare generalmente
semplice e ricalcato sulle lingue moderne; anche l’uso del cursus medievale è stato via via
abbandonato. L’uso del latino è però ormai limitato all’edizione ufficiale (typica) dei documenti
soprattutto di contenuto teologico o filosofico, per il quale il lessico può attingere preferibilmente ai
grandi autori di età patristica (latino classicheggiante ma con apertura ai neologismi cristiani), talora
con scelte più legate al modello ciceroniano. All’esigenza di esprimere concetti nuovi rispetto
all’Antichità si sopperisce talora con neologismi coniati sulla base del latino classico o del greco,
talora invece con perifrasi descrittive: trattandosi di nuovi scenari storico-sociali, il linguaggio non
può non cambiare, come già osservava Erasmo. Ma in mancanza di un effettivo riscontro nell’uso
vivo, difficoltà sempre maggiori si riscontrano nell’introdurre nella lingua latina neologismi
corrispondenti a una terminologia moderna in rapida evoluzione nell’ambito del plurilinguismo
contemporaneo. Così per quanto riguarda documenti vaticani di argomento tecnico non
specificamente filosofico o religioso – quali il commercio delle armi, le biotecnolo gie, la pubblicità,
questioni economico-sociali ecc. – in questi ultimi anni l’edizione tipica è stata, con sempre
maggiore frequenza, in lingua italiana o in altra lingua moderna.
Anche nell’ambito dell’Unione Europea, riservando all’inglese il ruolo di lingua franca, in
tempi recenti si è talora auspicata l’utilizzazione del latino come lingua ufficiale: non mancano
pertanto, specialmente in Paesi del nord Europa, iniziative volte a recuperare il latino a fini pratici
(campi estivi di full immersion, trasmissioni radiofoniche, pubblicazioni divulgative, siti internet).
D’altra parte la valorizzazione di tutte le lingue vitali nel continente sembra indispensabile
in ordine alle particolari caratteristiche dell’Europa e della sua storia, e il riconoscimento della loro
pari dignità viene oggi sentito come istanza irrinunciabile per la salvaguardia delle molteplici
esperienze culturali del continente. L’incontro ravvicinato che si realizza tra gli individui in virtù
della mobilità attuale rende più che mai necessario un mezzo linguistico efficace e il latino non
sembra realisticamente adatto a sostituire – come lingua di comunicazione sovranazionale – una
lingua moderna, mentre può ben essere un tratto genetico specifico della cultura europea
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permettendone il radicamento identitario anche nella prospettiva di un autentico dialogo tra le
culture.
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STORIA DEL LATINO