IL PUNTO
Le notizie di LiberaUscita
Giugno 2007 - N° 36
SOMMARIO
LE LETTERE DI AUGIAS
565 - Da Santoro un dibattito civile e utile
566 - Testamento biologico, altra dura battaglia
567 - La civiltà di interrompere le cure terminali
ARTICOLI E INTERVISTE
568 - LA chiesa cattolica tra spiritualismo e temporalismo-di Raniero La Valle
569 - Testamento biologico: la chiesa minaccia - di Marco Cappato
570 - Decrescita sostenibile (e felice) - di Mario Tozzi
571 - Dai dico alla sicurezza: i doveri della politica - di Stefano Rodotà
572 - Caso Welby: contraddittoria e illogica l’ordinanza del gip
573 - I rischi di una legge di compromesso - di Claudia Moretti
574 - Diritto o obbligo di cura? - di Chiara Lalli
575 - Quel testamento sulla nostra morte – di Adriano Sofri
576 - Nessuno ha il diritto di decidere per noi – di Umberto Veronesi
577 -Testamento biologico, si può scegliere come morire? - di S. Rodotà
578 - Ma c’è chi vuole l’eutanasia - di Michele Aramini
579 - Avanti sul testamento biologico – di Ignazio Marino
580 - La UE pronta a processare gli sconti Ici alla chiesa – di C. Maltese
581 - L’evoluzione e l’incerto futuro dell’uomo – di l. e F. Cavalli Sforza
CONVEGNI
582 - Convegno “il testamento biologico” – Roma
583 - LiberaUscita alla festa de l'Unita' - Legri-Calenzano
NOTIZIE DAI SOCI
583 - I soci raccontano....di Michele Isman
PER SORRIDERE...
584 – Le vignette di Pericoli e Pirella – mentire o smentire?
LiberaUscita
Associazione per il testamento biologico e l’eutanasia
Sede: via Genova 24, 00184 Roma
Telefono e fax: 0647823807
Sito web: www.liberauscita.it - email: [email protected]
DA SANTORO UN DIBATTITO CIVILE E UTILE – DI CORRADO AUGIAS
da: LA Repubblica di sabato 2 giugno 2007
Caro Augias, dal documentario della Bbc ho ricavato l'impressione che sono casi isolati i
preti che commettono abusi, mentre la Chiesa ha la colpa di voler conservare il privilegio
medioevale del Foro ecclesiastico, secondo cui i preti colpevoli devono essere giudicati dalla
Chiesa stessa.
Di solito, per la matrice esistenziale delle violenze sui minori, a compiere questo tipo di abusi
sono persone che tendono a "demonizzare" i rapporti sessuali con donne. Gli stessi che, da
adolescenti, conoscono spesso l'unico affetto rappresentato dai propri compagni. Quando
poi diventano adulti e compare, forte, l'istinto di paternità, si ritrovano ancora una volta a
contatto con adolescenti e lì avviene il corto circuito.
La colpa della Chiesa è di favorire e praticare un modello educativo che può portare a
questo corto circuito; e paradossalmente in nome della castità.
Domenico Zampaglione - [email protected]
Caro Augias, credo che la Chiesa sia nel cuore di tutti gli italiani. Non so se questo sarà
ancora vero in futuro, oggi lo è. E' una presenza che ci ha accompagnato nella famiglia
(anche se atea), nella scuola (anche con insegnanti non religiosi), nella politica.
Chi di noi non ha amici o parenti atei che non abbiano in famiglia qualche congiunto che ha
fede? Per questo ogni italiano vorrebbe considerare la Chiesa come un onore, un fiore
all'occhiello da esibire, e vorrebbe considerare una fortuna l'avere nel proprio paese il suo
centro nevralgico.
La trasmissione di Santoro fa male non perché racconti bugie, ma perché la "verità" (non
giudiziaria, non documentata quanto si vorrebbe) irrompe dal. teleschermo provocando una
sensazione di tradimento, da parte di chi ha il compito di combattere il peccato oltre che di
assolverlo.
Giovanni Moschini - [email protected]
Risponde Augias
E’ stato un programma civile, una discussione anche aspra ma mai volgare al contrario di
certi dibattiti politici. Gli anatemi preventivi di persone pavide, penosamente intimorite dalla
stessa possibilità di sapere, di confrontarsi, sono caduti nel ridicolo. L'inchiesta Bbc è buona
dal punto di vista professionale. La mancanza di più voci favorevoli alla Chiesa è dipesa dal
rifiuto delle autorità vaticane a parteciparvi.
Nella sostanza s'è confermato ciò che le anticipazioni su Internet avevano fatto capire. La
pedofilia è un fenomeno piuttosto diffuso anche se i casi di effettivi abusi restano isolati. Nel
programma della Bbc si leggeva una sincera pena per le giovani vittime traumatizzate e una
forte indignazione per il comportamento delle gerarchie teso a "chetare, sopire" anche
quando i danni psichici arrecati avrebbero richiesto ben altre prove di carità cristiana.
Il fondo del problema infatti è sempre quello: l'eterna contraddizione tra la chiesa come
comunità di credenti e la chiesa come istituzione politica, che ha voluto farsi addirittura Stato
con tanto di ambasciatori e corte di giustizia.
Il comportamento del Vaticano di fronte agli scandali è sempre uguale. Preti pedofili,
rapimento di Manuela Orlandi, strage della guardia svizzera Cédric Tornay, sempre la
magistratura 'civile' si è trovata di fronte a un muro. Sbagliava quel procuratore americano,
durante il filmato, a parlare di mafia.
Non di mafia si tratta ma di un privilegio medievale (il Foro ecclesiastico) che non ci si
decide a lasciar cadere.
566 - TESTAMENTO BIOLOGICO, ALTRA DURA BATTAGLIA - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di giovedì 7 giugno 2007
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Gentile dottor Augias, sono sposato da 30 anni con due figli grandi, uno ancora in casa,
l'altro che è andato a vivere con la sua compagna. Credo di vivere in una famiglia come
tante altre che deve affrontare problemi ma che ha anche delle gioie.
C'è però un problema: sono di sinistra, e quindi non credo di far parte di una famiglia di serie
B perché penso che tutti quelli che decidono di vivere insieme (condividendo tutto di una vita
in comune), sposati o no, omosessuali o meno, debbano avere gli stessi diritti e doveri di chi
sceglie la via del matrimonio.
Non ci sto che ad impormi regole di correttezza siano persone che non sanno neanche cosa
significhi condividere una vita insieme, persone separate che predicano l'indissolubilità del
matrimonio, conviventi adulterini che tuonano contro la convivenza, persone sposate con rito
celtico che si permettono di dare giudizi morali su chi non si sposi in chiesa.
Non mi sembra corretto né coerente che certi personaggi si arroghino il diritto di spiegarmi la
vita dall'alto dei propri privilegi. Era stata finalmente approntata una bozza di legge, quella
chiamata Dico, che anche se non era il massimo, comunque toccava il problema delle unioni
di fatto ed è già fallita.
Non riesco a capire perché la destra si sia impadronita del concetto di famiglia. In base a
quale astruso teorema la convivenza delle coppie di fatto, se opportunamente regolata,
dovrebbe essere una mina vagante contro il tessuto sociale? Non riesco a comprendere
nemmeno che vuoI dire quella manifestazione «a favore della famiglia». Ma perché, c'è
qualcuno che è contrario?
Vittorio Listrani - vittorio.listrani@alice. it
Risponde Augias
La questione non è né etica né religiosa. E' solo e schiettamente politica.
In Italia, com 'è ormai chiaro a tutti, è in corso una guerra su chi debba avere l'ultima parola
sui temi legati grosso modo a questioni morali. Il pratico affossamento del disegno di legge
sui 'Dico' segna la seconda consistente vittoria della Chiesa e degli ambienti ad essa più
vicini; sconfitta è la laicità dello Stato e lo spirito che dovrebbe improntare le sue leggi.
Basta farsi una semplice domanda per capire la pretestuosità di tanto chiasso sulla 'difesa
della famiglia'. In che cosa il riconoscimento di alcuni diritti e doveri reciproci tra conviventi di
fatto lede !'idea di famiglia? La stessa domanda si poneva del resto ai tempi del divorzio: in
che cosa la possibilità di divorziare lede coloro che divorziare non vogliono?
La risposta è ovvia ma la guerra in ogni caso continua; dopo i 'Dico' il prossimo obiettivo è il
'testamento biologico'. Eppure il senatore Marino (cattolico) ha lucidamente affermato che le
direttive anticipate, o testamento biologico, rappresentano solo il prolungamento naturale
della pratica del consenso informato previste anche dal Codice Deontologico dei medici. Art.
38: «Il medico se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere
conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso, in modo
certo e documentato».
Stesso indirizzo ha la Convenzione di Oviedo sulla Biomedicina del 1997, ratificata dal
Parlamento. Le direttive quindi ci sono, manca solo una legge che le renda legalmente
valide. Su quella ci sarà la terza guerra morale.
567 - LA CIVILTÀ DI INTERROMPERE LE CURE TERMINALI – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di sabato 16 giugno 2007
Caro Augias, in molti paesi, come ripete Ignazio Marino, interrompere la terapia a un malato
che chiede di non prolungargli l’agonia «è prassi che avviene in tutti gli ospedali».
Lo è anche nella patria di papa Ratzinger che non alzò la voce quando, nel 2004, la
Federazione degli Ordini dei medici tedeschi, riconosciuto il diritto all’autodeterminazione,
elaborò un corpus di Regole da osservare nella cura dei malati terminali. Nel preambolo si
chiariva che il «dovere di rispettare la volontà del paziente» prevale sul «dovere del medico
di tutelarne la vita» e così legittimava la rinuncia, su richiesta dell’interessato, a qualsiasi
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trattamento, anche di mero sostegno vitale, «quando la malattia in sé non può più essere
arrestata nel suo decorso».
Tre mesi fa, la stessa Federazione, in collaborazione con il Comitato per la Bioetica, ha
pubblicato le Linee di condotta da seguire in presenza di un Testamento biologico.
Vi si legge che tali disposizioni - «un aiuto sostanziale per il medico» - sono «vincolanti se
non viene chiesto un atto illecito (come l’eutanasia attiva)» e «da rispettare anche al di fuori
della fase terminale vera e propria». Fra i trattamenti sanitari che possono essere non iniziati
o interrotti sono specificati di nuovo la respirazione assistita e l’alimentazione artificiale.
Di fronte a questi temi, le due Chiese, cattolica ed evangelica, in Germania plaudono al
Testamento biologico, ne diffondono da anni, sui loro siti il modello.
Marlis Ingenmey – [email protected]
Risponde Augias
Più volte il senatore Marino, un medico con lunga esperienza negli ospedali americani, ha
ripetuto che il testamento biologico è il prolungamento naturale del consenso informato,
previsto dal Codice Deontologico medico all’art. 38 «Il medico se il paziente non è in grado
di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto
precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato».
Analogo atteggiamento è nella Convenzione di Oviedo sulla Biomedicina (1997), ratificata
dal Parlamento.
Tutto è previsto dunque, manca solo una legge di attuazione. Lì si accanisce la lobby dei
cattolici integralisti sostenendo che il testamento bio sarebbe l’anticamera dell’eutanasia
così come, in altro campo, i “Dico” sarebbero una miccia sotto il vincolo del matrimonio. Molti
anni fa si diceva che il divorzio sarebbe stato la rovina delle famiglie. Agitando questi
spauracchi si fa una gran confusione cercando di sconcertare gli umili e i meno informati.
Sospendere le cure non vuol dire eutanasia anche se l’effetto è quello di portare più
rapidamente alla morte. Anche il papa polacco ha scelto di non voler più altre cure
(intubazione, ventilazione assistita) perchè giustamente chiedeva di “tornare alla casa del
padre”. Anche l’eroe civile Piergiorgio Welby ha scelto che fossero sospese le cure da cui
dipendeva la sua vita. Nessuno si è azzardato a discutere la scelta del papa, anche perchè
Capo di stato estero.
Il Gip romano Laviola invece, appellandosi alla «sacralità, inviolabilità e indisponibilità» della
vita, ha chiesto il rinvio a giudizio del medico che eseguì la legittima volontà di Welby.
Basterebbe una giornata di Parlamento, in un paese civile, a metter fine a questo caos.
Commento. Marlis Ingenmey è socia di LiberaUscita. Essendo di origine tedesca, conosce
bene la situazione in Germania. Per questo nella sua lettera ad Augias aggiungeva che le
Chiese cattolica ed evangelica tedesche «non interferiscono nei lavori del Parlamento (che
anche lassù ora cerca di legiferare in proposito), e non contestano gli altri modelli in
circolazione tra cui spicca per importanza quello proposto dallo Stato a tutti i cittadini,
reperibile sul sito del Ministero della Giustizia, modello “laico”, che, in sintonia con le
predette Regole e Linee di condotta, ammette, con la sola esclusione dell’eutanasia “attiva”,
le altre due sue forme, la passiva e l’indiretta, precisando che esse, come “aiuto nel morire”,
“non si configurano come omicidio del consenziente né come aiuto al suicidio” »(gps)
568-LA CHIESA CATTOLICA TRA SPIRITUALISMO E TEMPORALISMO-DI R.LA VALLE
Intervista di Emilio Carnevali - da: Adista del 4 giugno 2007
È una Chiesa divisa tra tensioni temporaliste e fughe spiritualiste quella che Raniero La
Valle - giornalista e scrittore, già parlamentare della Sinistra Indipendente - vede delinearsi
all’alba del terzo anno di pontificato di Benedetto XVI. Se da più parti si avverte l’esigenza di
un cambiamento di linea rispetto alla pesante ingerenza politica attuata negli ultimi anni, lo
spiritualismo non può però rappresentare “la giusta risposta al temporalismo”. La Chiesa
infatti – sostiene La Valle in questa intervista rilasciata ad Adista – non può disinteressarsi
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della politica “intesa come organizzazione della vita collettiva, come organizzazione delle
speranze del mondo, come salvezza della terra”.
D: Quando è stato eletto Joseph Ratzinger, lei è stato uno dei pochi esponenti del
cattolicesimo democratico a manifestare una grande apertura di credito nei confronti del
nuovo pontefice. Sul quotidiano Liberazione scriveva: “chi non ha bisogno di dimostrare di
essere ortodosso può avere più forza di un pavido innovatore”; l’articolo si intitolava “Ma io vi
dico: dobbiamo sperare in Ratzinger”. Dopo due anni, cosa ne è di quelle speranze?
R: Credo che il pontificato sia giunto a una posizione di stallo. Da un lato Benedetto XVI ha
certamente introdotto delle novità significative, a cominciare dall’enciclica Deus Caritas est,
che è molto bella perché dice una cosa essenziale, cioè che ‘Dio è amore’. Mi pare inoltre
che Benedetto XVI faccia degli sforzi per introdurre nella koinè cristiana degli elementi di
forte radicamento nel Vangelo. Nello stesso tempo, però, lo ‘stallo’ è dato dal fatto che
Ratzinger sembra non aver ancora preso coscienza di essere papa. È ancora molto
condizionato dalla Chiesa che ha trovato. Anche nella Chiesa italiana, per quanto sia
cambiato il presidente della Cei, per quanto il segretario di Stato abbia mandato una lettera
in cui chiede ai vescovi italiani di cambiare registro e di occuparsi meno degli affari temporali
e più dell’evangelizzazione, non sembra che la situazione sia mutata. Dunque credo che
questo sia un papa che ancora deve ‘liberarsi’. Cosa succederà una volta che si sarà
liberato, certamente non posso prevederlo. Vedo però un rischio, e cioè che lui tenti di
contrapporre ad una Chiesa ancora fortemente permeata di temporalismo una sorta di
‘spiritualismo’.
D: Cosa intende per ‘spiritualismo’?
R: L’illusione che ci si possa contrapporre alle ingerenze politiche, alla collusione con il
potere, attraverso una fuga nel devozionismo e in una Chiesa “altra dal mondo”, prospettiva
che fa breccia anche in un certo cristianesimo progressista. Tuttavia io non credo che lo
spiritualismo rappresenti la giusta risposta al temporalismo. La Chiesa è una Chiesa
incarnata: certamente non deve fare una cattiva politica, non deve cercare il potere, non
deve imporre le proprie visioni alla comunità laica ed alla comunità politica, ma non può
nemmeno venir meno alla propria missione, diventare una Chiesa ‘disincarnata’ mettendosi
al di sopra del mondo ed impartendo dall’alto lezioni e messaggi che ben poco hanno a che
fare con la trasmissione della fede. Messaggi il cui contenuto è interamente ricondotto ad
una idea di “natura” così come essa è proposta dalla cultura moderna e come viene
metabolizzata dalla Chiesa stessa. Ma per quale ragione io dovrei seguire la Chiesa
dell’embrione? Io seguo la Chiesa dell’uomo, la Chiesa che riesce a parlare all’uomo ed a
capire l’uomo nel disegno di Dio. Come può interessare una Chiesa che disquisisce sul
momento preciso in cui comincia la vita e lo deve andare a chiedere ai biologi, agli scienziati
e agli uomini delle provette?Inoltre, penso che una Chiesa spiritualista sia pienamente
compatibile con ogni tipo di reazione e di conservazione nel mondo. Anzi, gli istinti repressivi
e le politiche di guerra hanno precisamente bisogno di un ornamento, di un fiore che decori
la catena, come diceva Marx. Si può essere spiritualisti e non avere alcuna idea di ciò che
occorra oggi alla salvezza del mondo, alla salvezza della storia. La Chiesa non può tenere
questo atteggiamento. Quando ad esempio, nei decenni scorsi, l’Azione cattolica tentò di
reagire al collateralismo con la Democrazia cristiana, e quindi ad una commistione ormai
insopportabile col potere politico, attraverso la cosiddetta “scelta religiosa”, a me sembrò
una scelta incongrua. Cosa significa che l’Azione cattolica fa una scelta religiosa? E che
altro dovrebbe fare? La scelta religiosa non può essere intesa come alternativa, come
antitetica all’impegno temporale, all’impegno anche politico, perché la politica riguarda tutti,
riguarda pure la Chiesa. Una cosa sono il potere, i partiti, le istituzioni nelle quali la Chiesa
non deve evidentemente coinvolgersi; un’altra è la politica intesa come organizzazione della
vita collettiva, come organizzazione delle speranze del mondo, come salvezza della Terra.
Dicono per esempio gli scienziati che entro 50 anni dovremo andare a cercarci un altro
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pianeta, perché questo sarà travolto dalla crisi ecologica. Ebbene, io credo che questo sia
un problema politico, ed è un problema politico anche per la Chiesa. Chi altro se ne
dovrebbe occupare se non la Chiesa, che dovrebbe essere la testimone e la custode della
creazione?
D: Entro un quadro così descritto, quali speranze ci sono perché la Chiesa torni ad
esercitare un ruolo profetico?
R: Le speranze vengono dal riconoscere ciò che la Chiesa essenzialmente è, vengono da
quella che è la sua natura, la sua fondazione misteriosa e divina. D’altronde, storicamente
abbiamo delle prove che la Chiesa può cambiare, così come è stata capace di un profondo
rinnovamento in molti momenti del passato ed anche nella stessa esperienza della nostra
generazione. Abbiamo avuto l’esperienza del Concilio: chi avrebbe potuto mai immaginare,
solamente un anno prima del Concilio, quello che sarebbe successo? Uscivamo dalla
Chiesa di Pio XII, che era messa molto peggio di quella di ora: era scomparsa la Bibbia, non
si frequentava la parola di Dio, le liturgie erano ridotte a riti incomunicabili, si organizzavano
le marce dei baschi verdi contro la Democrazia cristiana di De Gasperi, la responsabilità
della coscienza personale era negata, i “fratelli separati” erano solo degli eretici e scismatici.
Insomma, nessuno poteva immaginare tutto ciò che è venuto dopo. Se oggi non dovessimo
pensare che la Chiesa ha in sé la grazia, l’energia, la forza e anche il carisma storico per
potere essere un segno di salvezza per il mondo, uno strumento di unità del genere umano
e di comunicazione tra Dio e l’uomo, allora non staremmo nemmeno qui a parlarne. D: Oltre
all’enciclica cui ha fatto cenno, molto dibattito ha suscitato il recente libro del papa su Gesù.
Qual è il suo giudizio?
R: Non posso dare un giudizio sul contenuto del libro perché sto facendo un altro lavoro e lo
leggerò presto quando avrò il tempo sufficiente per poterlo fare con la giusta attenzione che
merita. Una cosa però mi ha impressionato nella presentazione di questo libro: Ratzinger ha
detto che non si tratta di un’opera di magistero. Un papa che parla di Gesù di Nazaret non fa
atto di magistero? E in che cos’altro deve esercitare il suo magistero? Certamente Ratzinger
è un teologo, e come teologo non può pretendere di imporre delle soluzioni di carattere
esegetico e storico. Ma se fa un libro su Gesù di Nazaret lui annuncia il messaggio di Gesù;
non per altro Pietro è stato costituito come fondamento della Chiesa: perché alla domanda di
Gesù è stato l’unico che ha risposto “tu sei il figlio di Dio, tu sei il Messia”. Quindi il compito
di Pietro è proprio quello di dire chi è Gesù per gli uomini, non può dire che lo fa ma senza
farne oggetto di magistero. Che poi non sia un magistero infallibile, è evidente che non lo è,
ma questo è ovviamente un altro discorso. Ma il papa e i vescovi e i preti e perfino i cristiani
non ordinati non devono fare altro che dire e ridire chi è Gesù di Nazaret, e in che modo
entra in rapporto e in comunione con gli uomini.
D: Il Family Day ha diviso la maggioranza di centrosinistra. Da una parte chi ha appoggiato
l’iniziativa promossa dalle associazioni cattoliche, dall’altra chi l’ha contestata, partecipando
alla contro-manifestazione di Piazza Navona in nome del “coraggio laico”. È una frattura che
potrà essere ricomposta o la crescente politicizzazione della Cei non potrà che ispirare una
reazione uguale e contraria?
R: Bisognerebbe distinguere due differenti aspetti della questione. In primo luogo, credo che
la sinistra abbia fatto un errore. All’opinione pubblica si è data l’idea che si volesse
procedere ad una equiparazione di principio tra le convivenze eterosessuali e quelle
omosessuali. Questa è una cosa che probabilmente appartiene al futuro, ad uno stadio
maturo dell’evoluzione antropologica ed etica della società. Ma qui si smuovono archetipi e
culture che sono antiche di migliaia di anni. Non si può pretendere di concentrare tutto il
processo nei 45 giorni di una campagna elettorale o nei pochi mesi di una iniziativa
legislativa, se il problema politico condizionante è quello di procedere accrescendo, e non
perdendo i consensi. Non ci sono corto circuiti tra i rinnovamenti culturali e morali di lungo
periodo e l’urgenza dei processi politici, soprattutto quando abbiamo riformato il sistema
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politico così da renderlo barbaricamente legato al conflitto bipolare e alla lotta all’ultimo
sangue per il potere. La sinistra deve assolutamente governare in Italia in alternativa alla
destra, perché la destra italiana è una delle peggiori del mondo in regimi che restino
democratici. Una volta la sinistra sapeva cos’era l’egemonia, ora non sa più nemmeno che
cos’è il rapporto con l’opinione pubblica, per non parlare della propaganda; non può fare
errori di comunicazione. Su questi temi ancora immaturi Kerry ha perso le elezioni negli Usa,
e la conseguenza è che ci siamo dovuti prendere altri quattro anni di Bush, con tutte le
tragiche conseguenze che ciò ha avuto per la vita di milioni di persone e per le sorti del
mondo.
Detto questo, c’è il problema dell’alleanza che si è stabilita tra la Chiesa cattolica italiana e la
destra. In verità sono stati i leader politici della destra a forzare quella piazza con la loro
presenza in modo da annettersela, però la Chiesa gliene ha dato l’occasione. La Chiesa non
dovrebbe permettere di farsi utilizzare da questa destra, perché ciò davvero le farebbe
perdere la sua identità spirituale, e il senso stesso della sua presenza nella società. Una
presa di distanza dalla cultura e dalla politica della destra italiana è quindi per la Chiesa una
questione vitale.
569 - TESTAMENTO BIOLOGICO: LA CHIESA MINACCIA - DI M. CAPPATO
da: il Riformista di giovedì 7 giugno 2007
Francamente, non è il day after di Piazza San Giovanni a preoccuparci. Il meeting, il
jamboree delle famiglia (tutte belle, sane e felici...) che ha invaso la grande piazza romana
non rappresenta in alcun modo la realtà della società italiana, anche sul tema della famiglia.
Al milione (?) di partecipanti al festival romano sarebbe persino facile contrapporre i milioni
di italiani che vivono ben diverse situazioni, come single o come conviventi a vario titolo. In
un ideale referendum ad armi pari, non ci sarebbe alcun dubbio su quale delle due ideali
piazze sarebbe vincitrice.
Purtroppo. questo ideale referendum non sarà mai tenuto. E non lo sarà perché le forze
politiche, che dovrebbero essere custodi di un minimo di legalità laica, danno forfait. La loro
debolezza, anzi inesistenza, su questi terreni è sotto gli occhi di tutti.
Così, gli organizzatori di Piazza San Giovanni hanno avuto mano libera nel minacciare di
costituirsi in movimento politico, preannunciando che ora si daranno da fare per affossare il
testamento biologico. Il Vaticano, che già aveva dato un fondamentale contributo
organizzativo (l'otto per mille?), mediatico (a reti unificate, senza contraddittorio!) e
ideologico all’operazione, ha reso ancor più esplicito il suo progetto di occupazione e di
trasformazione delle istituzioni: è un progetto dalle radici lontane, dal tempo in cui il cardinal
Ratzinger forniva le sue interpretazioni teologico/ideologiche al cammino ecclesiale,
accantonando e infine sbaragliando anche le opposizioni interne, quelle che dopo il Concilio
Vaticano II speravano in una Chiesa diversa, più aperta e pastorale.
Possiamo dirlo? Solo la ripresa d'iniziativa della Rosa nel Pugno ha reso possibile, il 12
maggio, la tenuta di un evento idealmente alternativo, che risollevava le antiche, splendide
bandiere della vittoria nel referendum sul divorzio di trentatré anni fa. Ovviamente, i mezzi a
disposizione della Rosa nel Pugno erano infinitamente inadeguati. Inadeguati soprattutto per
organizzare una risposta durevole, nel tempo, alla montante pressione clericale.
Così, oggi, dobbiamo constatare con amarezza che sui temi della vita -ricerca scientifica,
problematica della fine della vita, unioni, riproduzione assistita ed eterologa- il Paese è stato
portato alla paralisi. Le minacce al testamento biologico rischiano di pregiudicare
definitivamente il lavoro serio e prudente del professor Ignazio Marino (consigliamo la lettura
della sua «lettera agli elettori! »). Anche qui, quel che soprattutto c'è da temere è il silenzio
delle forze di sinistra, nelle quali molti vorrebbero liberarsi di questo ennesimo, fastidioso
intoppo alla ripresa o al mantenimento (più o meno coperto) dei buoni rapporti con le
gerarchie vaticane.
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Perfino sulle politiche in materia di droghe la parola d'ordine bipartisan è quella della
rinuncia, dell'arretramento, della repressione, come dimostra l'accantonamento della riforma
della legge Fini-Giovanardi.
Drammaticamente (o comicamente, fate voi) la parola d'ordine della rinuncia coinvolge
dall'interno la leadership del costituendo Partito democratico: altro che partito nuovo! Di
fronte alla pressione reazionana del movimento di Piazza San Giovanni, non è eccessivo
considerare l'Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca - soggetto costituente del
Partito Radicale Transnazionale e della Rosa nel Pugno - come una forza organizzata
indispensabile per l'alternativa laica. Ma questa realtà scadrebbe ad affermazione velleitaria
se non sapremo giorno per giorno adeguarci alla dimensione del confronto, rendendo
sempre più operativa ed efficace la partecipazione diretta di quanti, scienziati, malati e
disabili, personalità politiche, hanno dimostrato interesse e buona volontà.
L'azione non-violenta diretta rimane lo strumento principale a nostra disposizione per aprire
piccoli varchi nell'informazione di regime.
Mentre il nostro giornale va in stampa, il Tribunale di Roma sta decidendo se aprire un
processo contro chi ha aiutato Piero Welby a interrompere la tortura alla quale era
sottoposto. Rispetto a Giovanni Nuvoli, si deve prendere atto che persino il notaio
interpellato si è rifiutato di certificare la sua volontà. L'Associazione Coscioni è dovuta poi
intervenire supplendo alla latitanza del sistema sanitario e mettendo a disposizione di Nuvoli
un collegio medico che lo assista nelle sue decisioni. Intanto -quasi uno schiaffo in facciaalcuni centri di ricerca esteri ci hanno manifestato il loro interesse a ricevere embrioni
sovrannumerari altrimenti destinati alla spazzatura grazie alla legislazione e ai divieti
vaticani.
Per queste ragioni, e solo per queste, il day after del Family Day vede dinanzi a sé la strada
farsi un po' più in salita. Tutto ci dice che non è tempo di fermarsi.
570 - DECRESCITA SOSTENIBILE (E FELICE) - DI MARIO TOZZI
da: La Stampa di giovedì 7 giugno 2007
Di fronte a quella che gli scienziati definiscono ormai come la più grave crisi ambientale cui
l’umanità sia mai andata incontro, i Paesi più industrializzati del mondo adottano qualsiasi
strategia pur di non ammettere le proprie responsabilità e finalmente darsi da fare in
concreto.
Si concede a denti stretti che, sì, forse oggi fa più caldo che in passato, ma s’insinua il
dubbio che si tratti di un ciclo naturale o che dipenda dalle macchie solari. Si constata che il
2006 è stato un anno particolarmente siccitoso, ma si spera che quest’anno pioverà un po’
di più. Sul pianeta si contano 1,2 miliardi di poveri, ma questo, in fondo, cosa c’entra con
l’ambiente della Terra e con la ricchezza dell’Occidente?
Ma mentre c’è una specie di fronte trasversale europeo - che va da Bonn a Londra
passando per Parigi e Roma (che resiste anche al cambiamento di maggioranze politiche) finalmente persuaso di essere in emergenza e almeno favorevole ai trattati internazionali di
salvaguardia e a un possibile cambiamento degli stili di vita, Australia e Stati Uniti non
ratificano il protocollo di Kyoto e proseguono oltranzisti contando sul mercato che risolverà
anche questa contraddizione. L’Australia ha appena ammesso che sarà costretta a scegliere
se bere l’acqua o irrigare le sue coltivazioni, ma continua a essere uno dei Paesi più
inquinatori del pianeta. Negli Stati Uniti oltre la metà dell’energia elettrica è prodotta ancora
oggi con tecnologie vecchie di un secolo, ma convenienti dal punto di vista del profitto. Con
solo il 5% della popolazione mondiale gli Stati Uniti consumano circa il 30% delle risorse e
delle riserve del pianeta e, in particolare, il 43% dell’intero serbatoio di carburante. E
vogliono pagarlo pure poco, visto che una delle motivazioni del diniego a ratificare il
protocollo di Kyoto è stata che «gli americani non intendono negoziare il proprio stile di vita»,
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come a dire che intendono continuare a pagare al gallone il carburante quanto gli altri lo
pagano al litro.
E la questione energetica diventa cruciale: dal 1990 al 2003 il mondo ha consumato quasi il
23% in più di energia, pari a una domanda globale di oltre 10.000 Mtep (milioni di tonnellate
equivalenti petrolio). Un consumo mondiale di quattrocentomila litri di benzina al secondo:
una follia senza senso. Siamo però convinti che oggi si stia tutti meglio, che si viva più a
lungo e che ci sia più benessere. Effettivamente è così, ma non per tutti. E chi paga il prezzo
di questo benessere mal distribuito se non l’ambiente, gli altri viventi e altri uomini? E cosa si
farà quando la Terra avrà esaurito risorse e fonti energetiche o, semplicemente, cibo e
acqua? Quanti uomini ancora può sostenere il pianeta? È vero che l’incremento demografico
sta rallentando, ma è altrettanto vero che la crescita assoluta resta elevata: oggi ci sono tre
miliardi di persone in più che nel 1960 e nel Terzo Mondo (dove ci sono i 4/5 della
popolazione mondiale) la crescita continuerà inalterata fino a sfiorare i sette miliardi di
abitanti nel prossimo futuro. Di questi, 800 milioni moriranno semplicemente di fame. La
Terra abitabile è ormai più che sovraffollata. Ma è poi possibile ottenere più cibo per tutti?
L’espansione agricola moderna comporta un danno ambientale grave: già usiamo tutta la
terra migliore e più vicina alle fonti irrigue. Il pianeta non può trasformarsi in un gigantesco
orto perché questo comporterebbe deforestazione, perdita di specie, depauperamento delle
falde, erosione accelerata dei suoli e pesanti inquinamenti di pesticidi e fertilizzanti.
Così ci troviamo di fronte tre strade.
La prima è quella che l’umanità ha seguito nel passato, cioè che i più ricchi si sviluppino al
massimo delle possibilità dell’intero pianeta, visto che solo il 20% degli uomini consuma ben
il 75% dell’energia disponibile. È la famosa filosofia del cow-boy: ci si muove in sella a un
animale trascinandone un altro al lazo, si esauriscono miniere, si deforesta, si coltiva e si
sfrutta fino all’esaurimento ogni metro quadrato di territorio, fiume, lago o spiaggia, si getta
quello che avanza dove capita e quando tutto è sporco e finito si ricomincia altrove. È un
sistema conveniente per il cow-boy, ma devastante per l’ambiente e i viventi. Oltretutto
funziona bene solo se non ci sono altri cow-boy (o indiani) nelle vicinanze e solo su un
pianeta dagli spazi e dalle risorse infinite.
L’altra strada è quella di apportare alcuni correttivi che facciano durare il più possibile questo
stato pre-agonico, magari mitigando parzialmente gli impatti ambientali e mettendo in opera
nuove tecnologie. È la via tecnologica: viene propinata ogni volta che i problemi sembrano
insormontabili, quando sorge il dubbio che la tecnologia produca più danni rispetto ai
vantaggi che eventualmente riserva. Inoltre nessuna tecnologia si applica a un pianeta le cui
risorse siano in procinto di finire, perché nessuna tecnologia si fa senza materiali su cui
operare. Sarebbe anche la via della crescita sostenibile, indicazione ipocrita, visto che
nessuna crescita è sostenibile in un pianeta i cui ritmi di sfruttamento e la cui popolazione
crescano con queste proporzioni.
La terza via, la più complessa, è quella del risparmio, dell’efficienza e della redistribuzione
delle risorse del pianeta. Una decrescita economica dei Paesi ricchi che abbia non tanto
come obiettivo quello di portare tutti gli uomini allo stesso livello di sviluppo (o spreco?),
cosa evidentemente impossibile per i limiti di cui sopra, quanto quello di evitare all’umanità
(non il pianeta, che ce la fa benissimo da solo) la crisi catastrofica verso la quale si sta
precipitando. E non è neppure una via priva di contraddizioni, visto che una maggiore
efficienza porta a consumi più cospicui, mentre il vero problema è proprio il contenimento di
questi ultimi. Una decrescita sostenibile - e, se si potesse, felice - significa comunque una
serie di rinunce che dovrebbero essere decise spontaneamente da quella parte del mondo
che si avvantaggia dell’attuale situazione, ragione per cui appare una possibilità piuttosto
remota. Anche se è una filosofia ben nota proprio a chi vive nei Paesi ricchi perché è quella
che si richiede agli astronauti nello spazio: cibi liofilizzati, poca acqua riciclata, nessuna
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deiezione sprecata, né rifiuti di alcun genere, energia solare o idrogeno e addirittura spazio
e aria razionati. L’uomo è in grado di farlo, ma solo per conquistare Marte.
Non si tratta di tornare indietro, quanto di accordare nuove tecnologie veramente utili con la
sapienza antica dei popoli del mondo, tenendo presente la lezione della storia naturale del
pianeta: insegna che nessun sistema economico basato sui combustibili fossili è compatibile
con il sistema naturale e prima ne diventiamo consapevoli meglio è.
Commento. Mario Tozzi, noto geologo e informato comunicatore scientifico, ha affrontato
con questo articolo il problema dei problemi: quale futuro per la terra? Personalmente
ritengo che di fronte ai gravissimi danni ambientali arrecati dall’uomo al pianeta in cui vive ed
in cui dovranno vivere i suoi discendenti, esistono due tipi di comportamenti. Il primo, che
chiamerò "egoistico", è quello di spremere finché sarà possibile la situazione, bruciare
petrolio sino all’ultima goccia, inquinare sempre più aria ed acqua, radere al suolo foreste,
distruggere l’atmosfera, contribuire al riscaldamento del globo, allo scioglimento dei
ghiacciai, all’innalzamento del livello dei mari, nell’assurda illusione che la scienza troverà
prima o poi il modo per risolvere i problemi. L’esito del recente vertice dei G8, che ha
reputato un ottimo risultato "l’impegno a tagli sostanziali ma non obbligatori delle emissioni
di anidride carbonica entro il 2050” conferma, purtroppo, che iI modello “egoistico” è
generalizzato, che nessuno vuole rinunciare a nulla, che la distruzione del pianeta andrà
avanti ancora per molto, sino a diventare irreversibile. Il secondo, che chiamerò "solidale", è
quello di porre questi problemi AL PRIMO POSTO DEI PROGRAMMI POLITICI di ogni
Stato, per poterli poi proporre, discutere ed affrontare nelle sedi internazionali. Il concetto di
“solidarietà” cui mi riferisco è però diverso da quello sinora usato: è una solidarietà globale e
fra generazioni, una solidarietà dei padri verso i loro figli, nipoti e pronipoti, secondo il
principio che questa terra non ci è stata donata ma l'abbiamo in prestito, per abitarla,
conservarla e se possibile migliorarla. Porre la solidarietà verso il pianeta al primo posto dei
valori e degli obiettivi comporta però una rivoluzione copernicana nel modo stesso di
pensare e poi di agire. Se non si crede nel principio della solidarietà globale, se non si ha
FEDE in un VALORE più forte, gli inevitabili sacrifici derivanti da quella che Tozzi definisce
“decrescita sostenibile” non avranno adeguata motivazione e non saranno accettati. Per
questo è necessario un PATTO fra la politica e la religione, che coniughi i principi politici
della uguaglianza e fraternità con i principi religiosi dell’amore verso il prossimo. Anche
perchè occorre affrontare insieme il problema della sovrapopolazione. Considerato che la
causa principale del deterioramento del pianeta è l’eccessivo numero di persone che lo
abitano, lo usano e lo inquinano, considerato che tale numero è cresciuto e sta crescendo in
misura esponenziale, appare necessaria una nuova politica mondiale, tesa a contenere, per
il futuro, eccessi demografici. Mi rendo conto della difficoltà della questione, ma allo stato in
cui siamo non esistono altre soluzioni. E' giunto il momento che la Chiesa, sempre
ossequiente alle parole del Cristo “crescete e moltiplicatevi”, si ricordi ora della sua seconda
raccomandazione: “e riempite la terra”, e prenda atto che ormai la terra è piena. (gps)
571 - DAI DICO ALLA SICUREZZA I DOVERI DELLA POLITICA - DI STEFANO RODOTA
Da: la Repubblica di venerdì 8 giugno 2007
Vane parole d´ordine percorrono l´Italia. Dialogo, ascolto, non lasciare alla destra temi come
la sicurezza, no e poi no all´antipolitica. Indicazioni giuste, ammonimenti necessari. Che,
tuttavia, ogni giorno vengono oscurati o travolti da pulsioni che spingono in altre direzioni o
che inducono a dare risposte frettolose, e sbagliate. Sul dialogo insiste con giusta
determinazione il Presidente della Repubblica. Ma i suoi margini si assottigliano sempre di
più. La debolezza numerica della maggioranza e la bassa capacità di gestione del Governo
hanno rafforzato nell´opposizione la convinzione che non sia tempo di aperture e che,
spallate o non spallate, ogni occasione debba essere colta per mettere in difficoltà, o
addirittura liquidare, il Governo. Una resa dei conti: dunque la cosa più lontana da un
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dialogo, per il quale, sul terreno politico, le difficoltà sembrano quasi insormontabili, come
conferma l´ultimo dibattito parlamentare sulla vicenda della Guardia di Finanza.
Non minori sono i problemi quando si passa alle questioni, di vita, ai temi "eticamente
sensibili". Nel suo messaggio alla Conferenza sulla famiglia, il Presidente della Repubblica,
dopo aver ricordato l´eguaglianza raggiunta "con la riforma del diritto di famiglia e altre leggi
come quelle sul divorzio e l´aborto", ha sottolineato che anche le unioni di fatto "vanno
concretamente assunte come destinatarie dei principi fondativi della Costituzione senza
alcuna discriminazione", attraverso "il riconoscimento formale dei diritti e dei doveri".
Immediata la risposta del Presidente della Conferenza episcopale, interpretata appunto
come disponibilità al dialogo. Attenzione, però. Ogni segnale deve essere valorizzato, ma va
pure analizzato per quello che effettivamente è. Monsignor Bagnasco ha manifestato la
volontà di "promuovere, là dove ci sono, veri diritti individuali". Vengono così definiti terreno
e modalità del dialogo. Ieri si parlava di "sana laicità", oggi di "veri diritti". In questo modo,
uno dei due dialoganti si attribuisce il potere di stabilire le "condizioni d´entrata"
dell´interlocutore.
Ma non ci sono "veri" diritti individuali, che qualcuno pretende di definire unilateralmente. Vi
sono i diritti riconosciuti dalla Costituzione, e basta. Un atteggiamento analogo si era già
colto a piazza San Giovanni, al cui ascolto si continua ad invitare. Ma quella piazza va
ascoltata fino in fondo, nel senso che bisogna ricordare proprio le parole che hanno
concluso il Family Day.
E´ stato detto che bisogna sostituire una nuova "antropologia", fondata sulla famiglia, alla
logica dei diritti individuali. Non è poco, anzi è la conferma che la vera materia del
contendere nasce dal fatto che siamo di fronte ad una volontà sempre più dichiarata di
riscrivere la tavola dei valori costituzionali, questa volta espressa nella forma di una
sostituzione della logica "comunitaria" a quella dei diritti delle singole persone.
Prima vittima di questa iniziativa sembra ormai essere la proposta del Governo sui Dico,
peraltro assai claudicante. Ma il prossimo obiettivo è già indicato: la legge sul testamento
biologico, arbitrariamente presentato come un passo verso l´eutanasia. E il Family Day non
ha soltanto reso più acuto il conflitto sui valori. Sta producendo un nuovo soggetto politico, al
quale si annuncia l´adesione dei parlamentari teo-dem, rendendo così ancor più arduo il
dialogo, dal momento che la sopravvivenza del Governo, la tenuta della maggioranza
saranno fatalmente subordinate alle condizioni poste da questi gruppetti, minoritari ma
indispensabili. La sottolineatura delle difficoltà non può essere liquidata come volontà di
ostacolare il confronto, come espressione di intransigente laicismo. Al contrario. Si potrà
dialogare davvero solo se tutte le posizioni saranno chiare, se il netto punto di vista della
Chiesa avrà di fronte a sé atteggiamenti altrettanto chiari da parte dei suoi interlocutori, se
diverrà manifesta la logica che deve ispirare l´azione dello Stato. Le contorsioni degli ultimi
tempi sono il segno d´una cultura debole, dalla quale discende una politica inadeguata.
Arriviamo così al punto dolente dell´antipolitica. Giustissimo non alimentare populismo e
qualunquismo (però, per favore, non tiriamo sempre in ballo l´Uomo Qualunque di Guglielmo
Giannini, che era cosa del tutto diversa), non fare di tutt´erbe un fascio. Ma da troppo tempo
queste giuste preoccupazioni si traducono nel silenzio colpevole su fenomeni inammissibili
in un sistema democratico, nell´accettazione di una moralità a geometria variabile, nelle
smagliature continue della legalità che hanno portato ad un ritorno impressionante della
corruzione. L´antipolitica nasce quando la politica perde la capacità di guardare al proprio
interno senza compiacenze, quando i ceti dirigenti sono più impegnati
nell´autoconservazione che nella ricerca di una trasparente legittimazione pubblica.
Da anni la responsabilità politica è praticamente scomparsa. Quando si censura il
comportamento di un politico, la risposta corrente è "non vi è nulla di penalmente rilevante".
Così non soltanto si confondono codice penale e regole della politica. Si fa diventare la
magistratura l´esclusivo e definitivo giudice della politica, con distorsioni che sono davanti
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agli occhi di tutti e che non sono il frutto d´una volontà di potenza dei giudici, ma delle
dimissioni della politica da uno dei propri, essenziali compiti. Un establishment che voglia
davvero essere tale, e che voglia conservare credibilità davanti all´opinione pubblica,
dev´essere capace di escludere chiunque trasgredisca regole di trasparenza, correttezza,
moralità. Altrimenti si finisce su terreni scivolosi, si diventa prigionieri d´ogni contestazione,
si riduce tutto solo ad una questione di taglio di spese, sacrosanto per molti versi, ma che
può perfino produrre inefficienze maggiori di quelle che si vorrebbero eliminare.
Non si abbia pausa della trasparenza e della severità. Da qui, e solo da qui, può partire una
possibile salvezza. La buona cultura, come unica via verso la buona politica, dev´essere
invocata anche nella materia della sicurezza, cominciando con qualche distinzione. La
criminalità "predatoria", che determina insicurezza, è cosa ben diversa dall´affiorare di un
terrorismo strisciante, e entrambi questi fenomeni non possono oscurare il tema cruciale
della radicale caduta della legalità. D´accordo, prestiamo la dovuta attenzione alle lettere ai
giornali. Ma dovremmo anzitutto domandarci le ragioni per cui lo straordinario successo del
libro di Roberto Saviano non è stato accompagnato da nessuna significativa reazione
istituzionale.
Il passaggio di poteri dalle istituzioni pubbliche alle organizzazioni criminali è ormai
fatalisticamente archiviato, sì che possiamo tranquillamente occuparci dei problemi legati
alla localizzazione di un campo rom? Diciamo pure che il bisogno di sicurezza non è di
destra, né di sinistra. Ma sono molto diversi i modi in cui si "produce" e si governa questo
bisogno. Proprio perché la legalità è cosa tremendamente seria, non può essere ridotta solo
a questione di ordine pubblico, peraltro rilevante. Nei documenti di alcuni sindaci compare la
consapevolezza di una strategia complessiva, che va dagli interventi sociali all´integrazione
culturale e politica.
Questa è la via maestra verso una sicurezza che non solo non smantella le garanzie, ma le
fa penetrare più profondamente nella società con benefici per tutti. Altrimenti prepariamoci
alla società della sorveglianza, dove la sicurezza è di destra perché insidia la democrazia.
Distinguendo pazientemente, chiarendo punto per punto, si creano le condizioni del dialogo.
Che, tuttavia, sono negate da un linguaggio che descrive città assediate da nuovi barbari
all´assalto della vita e della dignità dell´uomo. Per fortuna, in tutti i campi vi è chi non lancia
anatemi.
E allora cerchiamo i buoni interlocutori, e andiamo avanti.
572 - CASO WELBY: CONTRADDITTORIA E ILLOGICA L’ORDINANZA DEL GIP
Si riporta la dichiarazione rilasciata sabato 9 giugno dall'avv. Giuseppe Rossodivita a
seguito dell'ordinanza con la quale il GIP di Roma ha disposto l'imputazione del suo
assistito, dr. Mario Riccio, reo di aver esaudito le volontà di PierGiorgio Welby.
“L’ordinanza del GIP Laviola, con la quale è stata disposta l’imputazione coatta nei confronti
del dr. Mario Riccio, anche ad un primo esame, pare viziata da una intrinseca
contraddittorietà ed illogicità. Il GIP infatti, riconosce che nel nostro ordinamento il diritto di
autodeterminazione del malato e di rifiuto delle terapie, di cui agli artt. 13 e 32 Cost.,
possono giungere sino al punto di rifiutare terapie salvavita, dovendo riconoscere al
paziente la più ampia possibilità di scelta e di decisione.
Successivamente, però,lo stesso GIP afferma, che nel caso di specie, in ragione delle
modalità concrete dell’intervento del dr. Riccio, sarebbe stato superato il limite invalicabile
del diritto alla vita. Ma il limite del diritto alla vita o è invalicabile, sempre, anche quando in
senso diverso disponga la volontà del paziente o non lo è mai; certo non possono essere le
modalità concrete di intervento, o di non intervento, a determinarne il superamento.
Sul piano squisitamente penale, il GIP pare dimentico dell’art. 40 del c.p., il quale prevede
che non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
Da questo punto di vista la posizione del dr. Riccio, che secondo le chiare ed in equivoche
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volontà di Welby, attivamente ha interrotto il ventilatore artificiale non è differente da quella valutata come lecita dal GIP in osservanza peraltro di una copiosa giurisprudenza in materia
- del medico che omette, ad esempio, una trasfusione salvavita, perché in tal senso si è
espressa, in esplicazione degli art. 13 e 32 Cost., la volontà del paziente.
Ordinanze come questa rischiano di gettare grande confusione sia negli operatori sanitari,
sia nei pazienti che, stando a quanto scritto dal GIP, parrebbero poter disporre di un diritto di
autodeterminazione ‘variabile’; ‘pieno’ nel caso in cui al medico venga chiesto di astenersi
dal praticare terapie salvavita, ‘limitato’, dall’inviolabile diritto alla vita, nel caso in cui al
medico sia richiesto di interrompere una terapia che abbia come conseguenza la morte”.
573 - I RISCHI DI UNA LEGGE DI COMPROMESSO - DI CLAUDIA MORETTI
dal notiziario ADUC – 15.6.2007
Non c'e' dubbio che una legge che regolamenta la possibilita' di ognuno di stabilire oggi per
allora le proprie scelte sul fine vita, urga, e urge davvero. Le incertezze giurisprudenziali,
dottrinali e deontologiche in questi ultimi mesi dimostrano la necessita' di stabilire e guidare
gli operatori medici e sanitari nell'accompagnare un proprio paziente nel morire.
Ma e' altrettanto vero che, proprio quell'incertezza scaturita dalle pronunce nel caso Englaro
e piu' di recente nel caso Welby, ormai Welby–Riccio (il medico anestesista che ha
materialmente sospeso la cura al leader radicale, oggi rinviato coattivamente a giudizio per
volere del Gip di Roma, Laviola) ci impone una seria e realistica valutazione sul come possa
e debba uscire dal Parlamento un testo che abbia sia i numeri sia i requisiti indispensabili di
legittimita' costituzionale.
Premetto che il caso Welby e la riforma sul testamento biologico affrontano il medesimo e
indigesto nocciolo dell'autodeterminazione e sono in buona sostanza la medesima cosa.
D: Poteva o non poteva Welby, capace di intendere e volere, disporre della propria vita
ottenendo la sospensione del trattamento vitale in corso? Poteva di conseguenza Riccio,
medico anestesista, sulla base del consenso informato e liberamente espresso, eseguire
detta volonta'? Allo stesso modo, potranno, oggi per allora, i soggetti capaci di intendere e di
volere, lasciare scritta la propria decisione vincolante al medico che si occupera' di
accompagnarli nel proprio fine vita?
R: La domanda e' identica. La risposta che se ne dara' sia in sede giudiziale sul caso WelbyRiccio, sia quella in sede legislativa sul testamento biologico, dovranno sostanzialmente
coincidere, pena una disuguaglianza censurabile da un punto di vista costituzionale.
La medesima e ci si augura semplice, quanto un si' o un no. Cio' detto pero', occorre fare
oggi una amara ma realistica constatazione. Da mesi a questa parte il clima politico e
mediatico e' progressivamente mutato. Non siamo piu' nella situazione in cui eravamo prima
dell'iniziativa di Piergiorgio Welby, non era ancora iniziata la crociata dei teodem, non erano
ancora stati affossati i "dico", non si era ancora costituito il movimento del "Family day". Oggi
soprattutto non troviamo piu', negli schieramenti tradizionalmente laici, una convergenza di
obiettivi per poter affrontare i temi in modo diretto e onesto.
Due esempi per spiegare cosa intendo. Nel rispondere alla richiesta di Welby e agli
interrogativi che ho su elencato, si sono riuniti a novembre dello scorso anno, studiosi ed
esperti di materie giuridiche, mediche e bioetiche. Sul punto della sospensione delle cure
vitali avvocati, professori e medici quasi all'unanimita' concordavano: si', non solo e' atto
lecito ma legalmente e deontologicamente dovuto, per l'effetto diretto degli articoli 13 e 32
della Costituzione. E invece? La magistratura in disaccordo con se stessa, li ha smentiti,
rinviando Riccio a giudizio per "eutanasia passiva". Riccio e con lui tutte le rassicurazioni –
forse impropriamente ottimiste- del consesso di esperti che al tempo parlavano a ragion
veduta.
Un altro fatto da' la misura del clima di oggi. Nel 2003 il Cnb, pur nella contraddizione, nella
mistificazione e ambiguita', si era pronunciato a favore del testamento biologico, come
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strumento indispensabile e del tutto in linea con i dettami della Chiesa. Oggi assistiamo ad
una regressione delle posizioni del fronte teodem, che, evidentemente per paura di non
esser compreso dai propri elettori o per farne bandiera, mette in croce lo strumento stesso
del"testamento biologico" tout court. Dunque anche quello che poteva andar bene qualche
mese o anno fa, oggi non va piu' bene. La parola stessa adesso e' tabu'.
Non e' un caso che ormai neppure il senatore Ignazio Marino, persona di grande equilibrio e
non certo un massimalista, un laicista, ma stimato medico credente, che da mesi lavora con
l'esplicito obbiettivo di raggiungere un accordo largamente condiviso, e' stato criticato dalla
sua stessa maggioranza e dal suo stesso partito. E il suo disegno di legge non puo' piu'
costituire la base di discussione per l'approdo in aula di un testo unificato.
Ma la gravita' del momento politico e' evidenziata da un fatto sconcertante: non sono solo i
teodem a premere per un affossamento della discussione o una neutralizzazione dello
strumento del testamento biologico, ma sono gli stessi Democratici di Sinistra!
Insomma, equilibri di maggioranza non consentono a mio avviso oggi di raggiungere un
accordo. Non su un testo che contenga risposta chiara e positiva ai quesiti che attendono
risposta giudiziale definitiva, quelli posti dal caso Welby.
D: Ma cosa significa rispondere a detti interrogativi, in termini di tecnica legislativa?
R: Nella migliore delle ipotesi il non prendere netta posizione o glissare sulla questione
fondamentale, equivarra' a lasciare in balia dei medici e dei giudici le vicende di fine vita di
ognuno, e nulla cambiera'.
Ma puo' accadere anche di peggio.
In termini di interpretazione giudiziale il non prendere posizione o glissare avendone avuta
l'occasione e l'opportunita' nella redazione della legge, significhera' che il Legislatore ha
voluto risolvere negativamente cio' che oggi parrebbe (e dovrebbe essere) chiaro: la liberta'
di cura nel fine vita secondo l'art. 32 citato. E il mero fatto che in una apposita legge speciale
(attuativa di carta costituzionale e di convenzioni internazionali) si taccia e si glissi, costituira'
nelle aule di giustizia (in primis quelle romane!) di per se' un argomento ed espediente
ermeneutico con il quale chiudere con condanna il caso Welby–Riccio, oltre ai nuovi e futuri
altri casi Welby ed Englaro.
E avremo non piu' solo l'art. 32, ma l'art. 32 e una legge che, anziche' dare piena attuazione
a questo articolo, lo limitera', lo restringera', lo annebbiera' con l'omissione, la fumosita', la
vaghezza, la genericita' .
Occorre dunque prendere scritta, esplicita e netta posizione su:
- idratazione, respirazione e alimentazione artificiale. Il non citarli fra i trattamenti sanitari
rifiutabili e sospendibili equivarra' a non ritenerli tali. Equivarra' ad avvallare le successive
interpretazioni giudiziarie che li riterranno "atto di carita'" -come ieri nel caso Englaro e oggi
nel caso Welby–Riccio e, come tali, a parer loro, da imporre contro volonta';
- vincolanza delle direttive e piena validita' anche nei casi di necessita' ed urgenza e pericolo
di vita. Escludere queste ipotesi significa di fatto svuotare la funzione propria delle stesse
disposizioni;
- esplicita esclusione dell'applicabilita' del codice penale (omicidio del consenziente, aiuto al
suicidio ecc...) nei casi in cui il medico attui il testamento biologico. Altrimenti troveremmo
quel giudice che dira' che pur potendo il legislatore non ha depenalizzato alcunche' e
quindi...
E' evidente che con la partita parlamentare rischiamo di giocarci in un sol colpo, oltre che il
futuro dei diritti costituzionali in tutte le future vicende Englaro, anche l'intera lotta di
Piergiorgio Welby, che rischia di esser vanificata dalla sopravvenienza normativa.
Se questo dovesse accadere, di autodeterminazione, di libera scelta terapeutica e di fine
vita, probabilmente se ne potrebbe riparlare fra vent'anni, e comunque in altra epoca storica,
politica e mediatica.
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Commento. Siamo pienamente d’accordo con Claudia Moretti, legale dell’ADUC. Come
abbiamo sostenuto nella audizione da parte della Commissione Sanità del Senato, se la
legge sul testamento biologico dovesse sancire che i trattamenti di “sostegno vitale”
(idratazione, alimentazione e ventilazione artificiale) non possono essere rifiutati e che la
decisione finale spetta al medico curante anziché alla persona interessata, sarebbe molto
meglio non fare alcuna legge. E’ meglio il rischio di una sentenza negativa che essere
imputati di omicidio di persona consenziente e venire sicuramente condannati. (gps)
574 - DIRITTO O OBBLIGO DI CURA? - DI CHIARA LALLI
La dr.ssa Chiara Lalli ci ha inviato questo documento sulla questione Riccio/Welby, proposto
e discusso all'interno del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative (Milano). Il
documento, pubblicato su “bioetiche.blogspot.com” , è aperto alla sottoscrizione di tutti. Ad
oggi i firmatari sono oltre 500, fra i quali la nostra associazione. (gps)
Il Gip Renato Laviola ha rinviato a giudizio Mario Riccio, il medico che nel dicembre 2006, su
richiesta di Piergiorgio Welby, lo aveva sedato e aveva interrotto la ventilazione meccanica
(“staccando la spina”) che gli permetteva di sopravvivere.
Lo ha rinviato a giudizio in nome di un diritto alla vita che, nella “sua sacralità, inviolabilità e
indisponibilità”, costituirebbe un limite invalicabile per l’esercizio del diritto di
autodeterminazione. Secondo il giudice Laviola, il diritto di rifiutare le cure, pur essendo
sancito dalla Costituzione italiana, dal Codice di Deontologia Medica e da convenzioni
internazionali, verrebbe meno quando, per metterlo in pratica, si rendesse necessaria da
parte del medico un’azione e non una mera omissione. Mario Riccio avrebbe pertanto
compiuto un reato in quanto non si è limitato a non attuare una terapia, ma ha attivamente
provocato il distacco del respiratore che teneva in vita Piergiorgio Welby.
Noi pensiamo che risulti da ciò una limitazione inaccettabile della libertà di ogni cittadino di
decidere riguardo ai trattamenti sanitari sulla propria persona: un paziente sarebbe libero di
rifiutare di essere attaccato al respiratore (o di essere nutrito artificialmente) ma non gli
sarebbe invece garantita la possibilità di interrompere, una volta avviate, la respirazione o la
nutrizione artificiale in condizioni medicalmente assistite.
L’argomentazione del Gip Laviola lascia intravedere scenari nei quali sarebbe legittimo
obbligare le persone a curarsi anche contro la propria volontà. Il richiamo alla sacralità della
vita (oltre al fatto che non si tratta di un concetto né medico né giuridico) rischia di
trasformare il diritto alla vita in dovere di vivere e spalanca le porte ad ogni accanimento
terapeutico.
Mario Riccio ha esaudito una richiesta precisa e inequivocabile di Piergiorgio Welby: una
richiesta di interruzione di un trattamento. Ci chiediamo: un medico che accoglie una simile
richiesta agisce in modo legittimo? Noi non abbiamo alcun dubbio sulla liceità morale del
gesto, né sulla sua legittimità deontologica, in accordo con l’Ordine dei Medici di Cremona
che si è pronunciato in questo senso, archiviando il procedimento disciplinare a carico del
collega.
Il problema invece è aperto sul piano giuridico. Mentre il Procuratore della Repubblica di
Roma si è pronunciato in sintonia con l’Ordine dei Medici, chiedendo l’archiviazione del
caso, opposto – come abbiamo visto – è stato il parere del Gip Laviola.
Riteniamo che sia assolutamente necessario stabilire la certezza del diritto in merito alla
seguente questione: un cittadino capace di intendere e di volere, il cui giudizio non è viziato
da disturbi dell’umore o da pressioni esterne, può legittimamente rifiutare o sospendere ogni
tipo di cura anche quando questo comporterà inevitabilmente la sua morte?
È pacifico che, se un paziente (non ancora collegato al dispositivo che potrebbe mantenerlo
in vita) rifiuta di essere collegato a detto dispositivo, nessuno può obbligarlo a farlo.
Paradossalmente però, se quello stesso paziente accetta di essere tenuto in vita da un
macchinario e poi, dopo un certo periodo di tempo, decide di rinunciarvi, ciò si rivela
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impossibile, per lo meno nell’opinione di alcuni magistrati. Ma questa asimmetria cozza
contro il buon senso. Forse l’avere accettato una terapia priva il paziente della possibilità di
cambiare idea e di esercitare ora la sua originaria possibilità di rifiutarla?
Vogliamo sottolineare che far derivare dal diritto alla vita l’obbligo di curarsi implica
conseguenze gravi e paradossali, fino a spingere le persone a temere ogni tipo di relazione
terapeutica: il paziente, i familiari e anche il medico potrebbero essere indotti a non iniziare
una terapia, per esempio la ventilazione, solo per il timore di non poterla più sospendere
quando le circostanze dovessero renderla inaccettabile.
Siamo convinti che solo l’intervento del legislatore possa far chiarezza su questo punto
cruciale e affermiamo l’assoluta urgenza di questo intervento.
575 - QUEL TESTAMENTO SULLA NOSTRA MORTE – DI ADRIANO SOFRI
da: la Repubblica di giovedì 21 giugno 2007
Nunc et in hora mortis nostrae.
Parole buone per finire, non per cominciare. (Perciò il Gattopardo le usò per cominciare). Ci
sono due circostanze, nella chiusa dell´Ave Maria. Il tempo della morte – adesso e nell´ora –
che verrà quando verrà, e sarà diverso per ciascuno di noi. E il modo: della «nostra» morte.
Non credo che la «nostra morte» voglia dire la morte che aspetta tutti gli umani, tutti i mortali
appunto. Vuole dire che anche il modo sarà diverso per ciascuno, come il tempo, e che a
ciascuno apparterrà una propria morte, o ciascuno le apparterrà. La nostra morte: la tua, la
sua, la mia. Se avesse voluto parlare della fine che tutti ci aspetta, avrebbe detto: Nunc et in
hora mortis.Dice Nostrae, perché, pro nobis peccatoribus, è altra per ognuno di noi
peccatori. Forse vuol dire anche che, una volta venuti al mondo, si vive, più o meno, con gli
altri, ma quando si muore, si muore soli. Facemmo tanto per assicurarci il privilegio - non
dirò il diritto, si esagera col linguaggio giuridico - di una morte nostra, a modo nostro. Di non
essere falciati all´ingrosso, nel mucchio della guerra, dell´epidemia, del terremoto. Di
prepararci da lontano all´ora e al modo, immaginando chi convocare al nostro capezzale, su
che cosa posare l´ultimo sguardo, perfino con quali pensieri accomiatarci.
Le «ultime parole» diventarono un edificante genere letterario e psicologico, per accertare
che nel momento estremo il morente avesse confermato o rivelato la propria natura più
profonda: e non importa che per lo più si trattasse di ultime parole inventate, e che
prendessero solennemente il posto di feci e sangue, rantoli o farneticazioni. Si moriva: si
occupava uno spazio breve e decente fra vita e morte, il trapasso e il suo
padroneggiamento, lo spegnersi di una candela.
E adesso? Fortunata, fortunatissima la nostra vita sazia e lunga, nel nostro pezzo di mondo.
Ma sempre più spesso ci aspetta una terra di nessuno, il rovescio dell´augurio di «passare
dal sonno alla morte», e invece da una giacenza incosciente che non è più vita a una morte
che diventa tale solo quando venga certificata. Questa esistenza senza vita, in cui non si
assomiglia più a sé, in cui ciascuno, sibi dissimilis, diventa equivalente a ogni altro, come
sono equivalenti e intercambiabili le macchine che surrogano le funzioni vitali, questo
intervallo fra vita e morte che non consente più commiato, né ultime parole, né ultime
volontà: è già la sorte di centinaia di migliaia.
Chissà quale superstizione, o quale oltranzismo, vuole vedere nel cosiddetto testamento
biologico il sotterfugio dell´eutanasia o del suicidio assistito o di qualche delitto a piacere. La
condizione cui la tecnica può consegnarci, di quell´esistenza protratta senza vita e senza
speranza ragionevole di ritorno, invita a una previdenza. Si è preso in prestito il nome che da
sempre designa la previdenza nei confronti della fine, fare testamento, disporre per tempo e
ordinatamente dei propri beni, prima che sia tardi. Il testamento biologico vuol autorizzare a
disporre del destino del proprio corpo, prima che sia troppo tardi. Del proprio «corpo morto»,
e però depositato in una giacenza arbitraria. Questo vuole sventare il testamento biologico:
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che si faccia durare artificialmente il proprio corpo morto, senza poterlo restituire a una vita,
senza risolversi a recapitarlo alla morte.
In questo accanimento caricaturale della proprietà privata finiamo espropriati dell´ora e del
modo mortis nostrae: affare degli appaltatori (religiosi e politici prima ancora che medici) di
quel limbo terapeutico. Sul cui fondo riprende una seduzione il suicidio, che ti illude di
ridiventare titolare della tua morte, ora e modo - ma solo alla condizione di spogliarti della
tua vita.
La «nostra morte» era invece, o voleva essere, il complemento della «nostra vita». Il
testamento biologico non è argomento facile. Ma che sia consentito a ciascuno di noi
(consentito a chi voglia: non imposto a tutti) di rifiutare per sé l´intervallo - a volte di molti
anni, orribile a dirsi e vedersi, per chi non lo scelga - che può oggi separare la morte dalla
sua certificazione, come si può negare?
Non avremo la vanità di allestire la scena della nostra dipartita, e tanto meno di provare allo
specchio le nostre ultime parole. Ma lasciateci negoziare in pace con la nostra morte. Amen.
576 - NESSUNO HA IL DIRITTO DI DECIDERE PER NOI – DI UMBERTO VERONESI
da: La Repubblica, Diario – Martedì 26 giugno 2007
Nessuno deve scegliere per noi. Oggi sembra che questo valga per tutte, o quasi, le
circostanze della vita, ma non per la sua fine, che, fra tutte, è la più personale e quella che ci
tocca più da vicino.
Sul tema della morte, la nostra o degli altri, si preferisce scivolare nel silenzio invece di
scendere nell'agorà. Meglio soffocare sul nascere un dibattito aperto non facile: così sta
succedendo per il testamento biologico. Perché non solo l'argomento non è facile, ma è
scomodo e fa male. Fa male ai medici scalfire la fiducia nella loro capacità di curare e di
decidere, e ai politici impegnarsi in un argomento impopolare, che sbilancia il già incerto
sistema di scambio degli appoggi fra partiti.
E' probabile quindi che la legge sul testamento biologico non si farà mai. Ma, per rispondere
a tutte le migliaia di italiani che mi hanno scritto - da quando due anni fa la mia Fondazione
ha iniziato la campagna a favore del testamento biologico - nessuno può impedirci di
negoziare in pace con la nostra morte, come ha chiesto di recente Adriano Sofri attraverso
le pagine di questo giornale.
«Uno Stato laico non può obbligare un malato a vivere contro la sua volontà, attaccato a una
macchina; per chi non l'accetta è un'imposizione che si avvicina alla tortura». Sono le parole,
anch'esse molto coraggiose, di Vito Mancuso, tèologo del San Raffaele. Se non ci obbliga la
Chiesa, tanto più non possono obbligarci i medici. Di fronte a un documento di volontà
anticipate di un libero cittadino, i medici non possono rifiutarsi di tenerne conto.
Il testamento biologico è la logica estensione del consenso informato, che è obbligatorio in
Italia e sancisce il diritto per ogni paziente di conoscere la verità sulla propria malattia e di
acconsentire o non acconsentire alle cure proposte: questo deve valere anche nel caso in
cui la capacità di esprimere la propria decisione fosse persa. Forse i medici che hanno
dichiarato delle forti perplessità sul testamento biologico sono fortunati, e non si sono trovati
spesso nella situazione drammatica di tenere un paziente nel limbo della "non-vita" e di non
sapere che fare, sentendosi inchiodati al bivio fra la missione terapeutica, che ci impone di
trattare il malato finché ci sono strumenti per farlo, e il rispetto per la sua dignità di persona.
Eppure sappiamo che la medicina tecnologica, insieme agli enormi progressi, ha portato con
sé una nuova paura, che è quella di essere mantenuti artificialmente in vita, di pensare a un
corpo-involucro che sopravvive alla mente. Inutile scacciarne l'immagine per poi ritrovarla
come fantasma: meglio affrontarla e “decidere quando la luce è accesa", come dice Luca
Goldoni. Perciò il testamento biologico, che essenzialmente di questo dispone, rafforza
l'alleanza terapeutica decretando la fine della medicina paternalistica e tecnocratica e
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aprendo la via del ritorno a una medicina più umana, nella quale anche le paure e il senso di
impotenza del malato e del medico hanno un peso, accanto alla loro volontà.
Fra queste paure c'è anche quella legata alla stessa evoluzione della medicina: se io decido
oggi, che succederà, se proprio nel momento in cui mi staccano la spina di un trattamento
artificiale, la scienza scopre una nuova cura? Deve essere chiaro che il testamento biologico
non esprime una decisione vincolante che incatena la professionalità medica (non voglio
quella cura), ma piuttosto un "valore" soggettivo del malato (non voglio la vita artificiale); al
medico rimane la decisione di merito circa i trattamenti e la valutazione se la situazione reale
del paziente, alla luce dei nuovi progressi, corrisponda a quella prevista.
E poi quale medico e quale fiduciario (perché il testamento biologico prevede la nomina di
una persona di fiducia che partecipi all'attuazione delle volontà) non applicherebbe
comunque una terapia se ci fosse una minima speranza di ripresa di vita? La realtà è che in
molti casi dobbiamo accettare il "non c'è più niente da fare". La scienza ha dei limiti nel qui e
adesso. Alcune lesioni cerebrali che portano allo stato vegetativo permanente sono
irreversibili. A meno che non crediamo nei miracoli o non accarezziamo l'idea di farci tutti
mantenere artificialmente in vita, aspettando che qualcuno tra i "vivi di cervello" trovi una
cura per gli altri. Sembra più un incubo o un film di fanta-terrore che un'ipotesi.
Per ora non conosciamo neppure la realtà: tanto per cominciare non sappiamo esattamente
cosa succede oggi negli ospedali. Ci sono casi che vengono alla ribalta, come quello di
Eluana Englaro, e tanti altri (quanti? decine? centinaia?) che rimangono silenti. Come
vengono gestiti, ufficialmente non sempre si sa. Non voglio insinuare con questo che in Italia
ci troviamo nel Far West dei trattamenti di fine vita, ma far capire che dobbiamo affrontare il
problema.
La mia battaglia per il testamento biologico non nasce per porre fine a un qualche oscuro
fenomeno clandestino: è una lotta per i diritti dei malati. Credo che il testamento biologico
sia un atto di civiltà. Per questo neppure la politica ci impedirà di negoziare la nostra morte.
Se anche il Parlamento non riesce a trovare un accordo sulla legge, in base alla nostra
stessa Costituzione (articolo 32), che sancisce il diritto all'autodeterminazione, il testamento
biologico può essere considerato valido già oggi nel nostro ordinamento.
Certo una legge sarebbe opportuna. Ma piuttosto di una legge complicata, che introduce
vincoli, procedure e burocrazia per il cittadino e per il medico, è meglio nessuna legge. In
Germania il testamento biologico si è diffuso in assenza di un normativa: dopo che, nel 2003
la Corte Suprema tedesca ha affermato il carattere vincolante delle disposizioni anticipate
nelle problematiche di fine vita sono ben 7 milioni i cittadini tedeschi che vi hanno fatto
ricorso. Non sottovalutino mai medici e politici il livello di coscienza della gente e la forza
della loro libera iniziativa, soprattutto nelle questioni che toccano le loro anime, come la
morte e la sua negazione.
577- TESTAMENTO BIOLOGICO, SI PUÒ SCEGLIERE COME MORIRE?- DI S. RODOTÀ
da: la Repubblica, Diario, di martedì 26 giugno 2007
Sembrava, ancora poco tempo fa, che una legge sul testamento biologico fosse, non dirò a
portata di mano, ma vicina, una innovazione di cui si riconosceva la necessità e che poteva
essere realizzata senza difficoltà eccessive. Si presentava, anzi, come un terreno sul quale
rendere concreto e fruttuoso il dialogo troppe volte invocato tra laici e cattolici. E invece sono
venute crescendo le difficoltà, contorte manovre politiche sostituiscono al Senato una
discussione limpida e divengono sempre più imperiose le richieste di abbandonare del tutto
questa via.
Questa accelerazione è venuta dopo il Family Day. Forti del successo in piazza San
Giovanni, i promotori di quella manifestazione hanno proclamato la morte dei disegni di
legge sulle unioni di fatto, i Dico, ed hanno indicato nell'abbandono delle iniziative legislative
sul testamento biologico il prossimo obiettivo, pronti ad una nuova mobilitazione popolare.
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Che dire dopo il Gay Pride? Contrapporre piazza a piazza, come pure è legittimo, o provare
di nuovo, pazientemente, a mostrare come una buona legge sul testamento biologico
rappresenti uno sviluppo coerente di una riflessione sul morire condivisa dalle persone più
diverse e che siamo di fronte all'obbligo di risolvere un problema dei cittadini, non della
politica?
Torniamo alla pulizia concettuale, cerchiamo di liberare la discussione dalle confusioni
interessate che continuano ad inquinarla. Il testamento biologico si presenta come uno
svolgimento del diritto al rifiuto di cure, e affronta e risolve questioni diverse da quelle che
riguardano l’accanimento terapeutico, soprattutto, l’eutanasia attiva.
E’ del tutto ideologico, ed empiricamente infondato, l’argomento che rifiuta il testamento
biologico considerandolo come l'anticipazione di un inevitabile passaggio al riconoscimento
pieno dell'eutanasia.
L'osservazione della realtà ci dice il contrario. Molti paesi hanno da tempo riconosciuto il
testamento biologico e questo non ha prodotto alcuno "scivolamento" verso leggi sulla
eutanasia attiva. E' sbagliato, invece, sovrapporre le questioni del testamento biologico e
quelle dell'accanimento terapeutico. L’inammissibilità di quest'ultimo è ormai da tempo
riconosciuta, trova una formulazione chiara nell'articolo 14 del codice di deontologia medica,
dove si afferma che «il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti da cui non si
possa fondatamente attendere un beneficio per l'assistito e/o un miglioramento della qualità
della vita».
Nello stesso codice, poi, si sottolineano i doveri del medico per quanto riguarda il consenso
del paziente, il suo diritto di rifiutare le cure, la necessità di "tenere conto delle eventuali
manifestazioni di volontà precedentemente espresse» (art. 34).
La linea indicata dall'insieme di queste e di altre norme, e dalle molte sentenze che le hanno
applicate, è ormai chiara. Il consenso informato è il fondamento dell'autodeterminazione e lo
strumento che rende legittimo il rifiuto di cure. Le direttive anticipate si inseriscono
coerentemente in questo quadro e si presentano come lo strumento che consente di far
operare l'autodeterminazione in maniera prospettica, permettendo alla persona di indicare le
proprie determinazioni per situazioni eventuali di incapacità nella fase terminale della vita.
Invece di seguire questa strada limpida, si sta dando la falsa impressione di un legislatore
prigioniero delle difficoltà del costruire un istituto giuridico del tutto nuovo e dell'insuperabile
barriera del rapporto tra laici e cattolici. Le cose, a ben guardare, stanno nel modo opposto.
Partendo dall’esame dei materiali giuridici già disponibili, si può ragionevolmente
concludere, e qualche decisione giudiziaria lo ha fatto, che in presenza di una chiara volontà
della persona già oggi, dunque anche prima e indipendentemente dall'approvazione di una
legge, i trattamenti medici dovrebbero essere interrotti, consentendo una morte dignitosa.
Peraltro, anche la figura del "fiduciario", al quale affidare il rispetto della volontà del paziente
una volta che questo sia divenuto incapace, è già nel codice civile, dove si prevede che la
persona interessata possa designare un amministratore di sostegno «in previsione della
propria eventuale futura incapacità» (art. 408), che è formula già comprensiva di una parte
almeno dei contenuti del testamento biologico.
Inoltre, nell'ultimo numero di Aggiornamenti sociali, la rivista diretta da padre Bartolomeo
Sorge, si trova una interessante "rilettura" del caso Welby che non soltanto porta a
concludere per la legittimità del rifiuto del trattamento in questa specifica vicenda, ma più in
generale dà forte rilievo alla «competenza della coscienza individuale nelle decisioni relative
ai casi-limite». E' una indicazione da cogliere, per uscire dalle strettoie che ci angustiano, e
che mostra come sia possibile, quando si abbia spirito aperto, riuscire a trovare punti di
consenso anche muovendo da posizioni almeno nelle apparenze lontane. E sono pagine da
consigliare a quel magistrato romano che, con una lettura della Costituzione a dir poco
sommaria, ha respinto la richiesta di archiviare la richiesta di procedere contro l’anestesista
che intervenne accogliendo la richiesta di Piergiorgio Welby.
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La logica costituzionale è ben diversa. Infatti, nell'articolo 32, dopo aver considerato la salute
come diritto fondamentale dell'individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possano
essere previsti soltanto dalla legge, aggiungendo però che «la legge non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E', questa, una delle
dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite
invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall'articolo 13 per la libertà personale, che
ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice.
Nell'articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell'esistenza, alla necessità di
rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà
esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento
unanime, può prendere il posto di quella dell'interessato.
Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una
autolimitazione del potere. Viene ribadita l'antica promessa del re ai suoi cavalieri: "non
metteremo la mano su di te". Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla
quale "in nessun caso" si può mancare di rispetto: il sovrano democratico, l'Assemblea
costituente, rinnova la sua promessa li intoccabilità a tutti i cittadini.
.
Questo è il quadro che il Parlamento deve tenere presente. Discutendo di testamento
biologico (ma sarebbe più corretto parlare di “direttive anticipate"), non si sta attribuendo ai
cittadini un diritto nuovo, che questi non hanno. E allora bisogna limitarsi a disciplinare con il
massimo di sobrietà e di rispetto le condizioni del suo esercizio. In questo momento, al
contrario, si sta cercando di sfruttare una situazione politica e parlamentare sempre più
ambigua per arrivare ad una legge che esproprierebbe le persone di prerogative che già loro
appartengono. La proclamata volontà di rispettare la persona rischia così di convertirsi in
una sua strumentalizzazione. Per imporre un punto di vista, le persone sarebbero chiuse
nella gabbia della sofferenza, condannate alla perdita della loro stessa umanità. Anche i
legislatori, quali che siano le loro convinzioni, dovrebbero forse ricordare che «il sabato è
stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato».
578 - MA CÈ CHI VUOLE L’EUTANASIA - DI MICHELE ARAMINI
da: la Repubblica, Diario - martedì 26 giugno 2007
Da alcuni mesi la Commissione sanità del Senato discute le numerose proposte di legge sul
testamento biologico. Dopo il forte ottimismo iniziale di alcuni, i lavori hanno registrato uno
stallo che ha impedito finora di licenziare un testo unificato da inviare all'aula. La ragione di
questo rallentamento va cercata nel tentativo di alcune forze politiche di introdurre, per
mezzo del testamento biologico, f
orme più o meno esplicite di eutanasia.
È noto che è proprio l'intenzione di usare il testamento biologico come cavallo di troia per
l'eutanasia che sta determinando un grave inquinamento del dibattito sullo strumento
giuridico delle direttive anticipate che, in linea teorica, potrebbe avere una qualche utilità.
Infatti, secondo la Convenzione sulla Bioetica di Oviedo il senso delle direttive anticipate
dovrebbe essere quello di continuare un dialogo tra medico e persona malata, anche
quando quest'ultima non fosse più in grado di esprimersi. Un particolare della Convenzione
di Oviedo va messo in chiaro rilievo: essa afferma esplicitamente all'articolo
9, che le volontà del malato debbono essere prese in considerazione, ma che esse non
hanno un valore vincolante per i medici.
Questo è il punto essenziale che viene ignorato dai sostenitori dell'eutanasia, i quali
premono per inserire nel testamento biologico la possibilità per il paziente di dare indicazioni
esplicitamente eutanasiche, a cui i medici sarebbero vincolati.
Il cambiamento di strategia dei sostenitori dell'eutanasia è evidente, ed è dovuto al fatto che
l'opinione pubblica ha chiaramente percepito l'inconsistenza dei motivi che spingono a
chiedere l'eutanasia: il primo motivo è quello del dolore insopportabile e il secondo quello di
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avere un nuovo diritto per allargare il campo della libertà personale, fino al punto di poter
decidere quando morire.
Ora sul primo punto la medicina palliativa, vera rivoluzione della nostra epoca (è scandaloso
che non sia ancora sufficientemente applicata) ha mostrato che si può trattare
adeguatamente il dolore delle persone che soffrono, senza bisogno di uccidere nessuno. Sul
secondo punto, l'esperienza olandese ha mostrato, con una chiarezza che non ammette
repliche, che la libertà delle persone, lungi dall'essere stata incrementata, è stata
consegnata nelle mani dei medici che sono sempre più i veri decisori. Sono essi infatti che
accettano di somministrare l'eutanasia a pazienti che la richiedono o la negano se ritengono
che la vita del paziente non sia ancora arrivata al punto di essere "vita senza valore". Sono
ancora i medici che somministrano l'eutanasia anche senza richiesta, quando pensano che il
paziente abbia superato il limite della "vita senza valore". Quindi si è passati dalla padella di
una medicina molto invadente, dalla quale ci si voleva liberare con il presunto diritto
all’eutanasia, alla brace di una consegna ancora più forte alla decisione dei medici.
In realtà le persone comuni non sanno fare molte distinzioni tecniche, ma sanno bene che
cosa vogliono: non vogliono soffrire inutilmente, vogliono essere accompagnati alla morte in
modo degno di una persona umana, quindi con le cure antidolore, le cure palliative nel loro
complesso, comprendenti anche l'attenzione dei servizi sociali alla propria famiglia.
Per questi motivi, ritenendo fallita la campagna per convincere la popolazione dei "benefici"
dell'eutanasia, i suoi sostenitori stanno cercando di introdurre il progetto eutanasico
attraverso il più soffice motto "nessuno deve decidere per me", con l'invito a dettare
indicazioni precise ai medici su ciò che dovrebbero fare o non fare di fronte a specifiche
situazioni di malattia terminale.
Per essere un poco concreti, oltre a indicazioni quali il divieto di rianimare, di sospendere il
sostegno del respiratore, si vorrebbe introdurre la possibilità di rifiutare anche
l'alimentazione e l'idratazione del malato, al fine farlo morire o di chiedere la
somministrazione di analgesici in dosi mortali.
Diventa chiaro perciò il motivo per cui parliamo di strategia del cavallo di Troia a proposito
del testamento biologico.
Il tema delle direttive anticipate richiede ancora almeno due sottolineature: l'autonomia del
paziente, tanto sbandierata viene ampiamente contraddetta dalla maggior parte dei progetti
di legge; il modello di medicina che questi progetti di legge assumono è da contestare.
Per quanto concerne il primo punto è veramente curiosa è l'insistenza con la quale si chiede
che il testamento biologico sia redatto con l'ausilio di un medico. Il motivo è chiaro: il
cittadino non è ritenuto capace di dare disposizioni da solo, perché non conosce la medicina
e le situazioni a riguardo delle quali dovrebbe dare indicazioni. Ma ci si può chiedere se il
medico si limiterà alle spiegazioni o suggerirà anche le soluzioni che lui riterrà più
opportune. Mi pare che si ripeta il modello olandese e che sia fortemente a rischio
l'autonomia effettiva dei pazienti.
Per il secondo punto, quasi tutti i progetti di legge prevedono che le disposizioni del paziente
siano vincolanti per i medici. Il medico curante potrebbe discostarsene solo in casi limitati e
sulla base di motivazioni precise. In tal modo si riduce il medico a esecutore, svilendo
l'alleanza terapeutica tra medico e paziente, bene preziosissimo che non deve essere in
nessun modo intaccato.
Infine appare perfino autoritaria la previsione di alcuni progetti di legge sull'obbligo di fare
testamento biologico. E appare un po' grottesca l'insistenza con cui i medici dovrebbero
periodicamente interpellare i propri assistiti per invitarli a prendere posizione.
Anche qui è ovvia la domanda su dove sia finita l’autonomia personale.
579 - AVANTI SUL TESTAMENTO BIOLOGICO – DI IGNAZIO MARINO
Da: la Repubblica di mercoledì 27 giugno 2007
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Caro direttore, suonano come un appello ad andare avanti, come uno stimolo e un
incoraggiamento a proseguire il lavoro parlamentare sul testamento biologico le riflessioni,
molto ben argomentate, pubblicate ieri su questo giornale.
Il testamento biologico, come ha scritto alcuni giorni fa anche Adriano Sofri, non è
argomento facile. Sarà perché siamo un popolo di superstiziosi o perché non fa piacere a
nessuno doversi occupare dei dettagli della nostra dipartita da questo mondo. Fatto sta che
nel momento in cui il Senato ha iniziato a lavorare su questo tema, all´inizio della legislatura,
le difficoltà sono man mano aumentate in maniera inequivocabile. E ora che l´iter legislativo
è arrivato a un momento cruciale, dopo un anno di approfondimenti tra audizioni, convegni,
pubblicazioni, sembra che si debba cominciare daccapo, o addirittura abbandonare del tutto
la discussione, perché c´è chi sostiene che non ci sia chiarezza nemmeno sui termini della
questione.
Eppure il modo in cui vorremmo lasciare questo mondo riguarderà prima o poi ognuno di noi
e partendo da questo presupposto sono convinto che una legge sia utile, al di là degli
orientamenti politici, dei partiti e delle ideologie, ma nell´interesse dell´individuo, della sua
dignità e dei suoi diritti civili. Le decisioni che riguardano le modalità della fine della nostra
vita hanno implicazioni etiche molto forti che toccano la sfera delle libertà individuali, i valori,
la cultura, l´interiorità e il modo in cui ognuno vede e concepisce la propria esistenza, il
proprio corpo, la fede in ciò che verrà dopo, o l´idea del dopo.
Abbiamo dunque molte buone ragioni per affrontare il tema con serietà e senza indugi,
tenendo conto anche delle numerose sollecitazioni che il Parlamento ha ricevuto dal
Presidente della Repubblica, dai medici, dalle associazioni di pazienti e dai cittadini.
La legge sul testamento biologico, è bene ricordarlo, mira a stabilire il diritto di ogni persona
di indicare oggi, nel pieno delle proprie facoltà, quali cure e terapie ritiene accettabili per se
stesso se un giorno si trovasse senza una ragionevole speranza di recuperare la propria
integrità intellettiva. Di fronte all´ipotesi di una malattia terminale, con la certezza di non
poter recuperare la coscienza di sé, l´atteggiamento varia moltissimo da un individuo
all´altro. C´è chi desidera accettare la fine naturale della vita senza essere sottoposto a
terapie invasive e collegato a macchinari che, in determinate circostanze, servono solo a
prolungare un´inutile agonia. C´è chi vuole morire a casa, nel proprio letto, circondato dai
propri cari. C´è chi invece preferisce essere attorniato dai medici, assistito fino alla fine con
ogni tipo di terapia e sofisticata tecnologia. E´ un segno di civiltà fare sì che le volontà di
ognuno siano rispettate.
Scrive ancora Sofri: sono migliaia le persone che conducono un´esistenza senza vita, grazie
all´ausilio di macchinari straordinari. Mi chiedo: che cosa avrebbero voluto questi uomini e
queste donne? Oggi non è possibile saperlo. E con quale giustificazione ci arroghiamo il
diritto di tenere quei corpi ancorati a questo mondo?
Alcuni ritengono che un paziente non possa dare indicazioni vincolanti perché queste
limiterebbero l´operato dei medici e impedirebbero quel rapporto di fiducia reciproca tra
medico e paziente chiamato "alleanza terapeutica". Ma il termine alleanza implica una
relazione tra due soggetti per trovare una soluzione nel rispetto di entrambe le parti. Il
medico ha come obiettivo il benessere e la salute del paziente, ma nei casi in cui questo non
sia possibile, e la prospettiva sia comunque la fine della vita, quale medico vorrà mai
operare in contrasto con le volontà dell´ammalato? Davvero pensiamo che un medico debba
avere il diritto, anzi, l´arbitrio di decidere in solitudine qual è la cosa migliore e la più giusta?
So per esperienza trentennale nei reparti di terapia intensiva che la stragrande maggioranza
dei medici crede davvero nell´alleanza terapeutica, la concepisce come un percorso comune
e non si sente affatto sminuito nel momento in cui condivide le proprie ragioni mediche e
scientifiche con il punto di vista dell´ammalato.
C´è poi chi sostiene, a mio avviso in malafede, che dietro al testamento biologico si
nasconda la deriva verso l´eutanasia. Chiunque abbia approfondito anche minimamente il
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dibattito nazionale e internazionale sulle tematiche di fine vita sa bene che è una
correlazione che non ha fondamento e sa anche che i termini non sono sovrapponibili. La
sostanziale differenza tra il testamento biologico e l´eutanasia è tale che i due aspetti non
sono stati associati (e non sarebbe logico farlo) in nessuno dei disegni di legge all´esame
del Senato.
Come ha spiegato molto chiaramente Stefano Rodotà, con il testamento biologico si mira ad
applicare un diritto che già esiste con il consenso informato applicando le stesse regole, in
maniera prospettica, alle persone che non sono più in grado di esprimersi. In questo
contesto è compito del Parlamento proporre una sintesi e approvare una legge che rifletta il
senso comune del Paese. Ma se il Parlamento smetterà di occuparsene rischierà di essere
svuotato della sua funzione democratica, vittima dei veti incrociati che mirano a mantenere
posizioni precostituite.
Forse una certa politica ritiene che in questo momento non ci sia spazio e tempo da
dedicare alla discussione sui diritti civili. Non sono d´accordo e mi permetto di osservare che
le priorità della politica su questi argomenti a volte non coincidono con quelle dei cittadini.
Questi ultimi, come scrive anche Umberto Veronesi, hanno la forza di dare concretezza alla
libera iniziativa e la faranno valere perché è in causa una questione che tocca
profondamente le coscienze di tutti. Chi ritiene che non ci sia bisogno di una legge non
ascolta chi vive fuori dai palazzi della politica. In nove casi su dieci, infatti, i cittadini
giudicano utile ed auspicabile una legge sul testamento biologico (secondo un´indagine
dell´Istituto Eurispes).
Gli italiani si aspettano una legge che serva a rendere effettivi i diritti degli ammalati, ad
alleggerire le spalle dei familiari dal peso delle decisioni più difficili e a tutelare l´operato dei
medici.
580-LA UE PRONTA A PROCESSARE GLI SCONTI ICI ALLA CHIESA – DI C. MALTESE
da: la Repubblica di lunedì 25 giugno 2007
C´è chi in Italia è abituato a ottenere privilegi da qualsiasi governo e autorizzato a non
pagare il fisco, ma sul quale nessuno osa moraleggiare. Pena l´accusa di anticlericalismo.
L´anomalo rapporto fra Stato italiano e clero è invece finito da tempo sul tavolo dell´Unione
europea, che si prepara a mettere sotto processo il nostro Paese per i vantaggi fiscali
concessi alla Chiesa cattolica, contrari alle norme comunitarie sulla concorrenza. Oltre che
alla Costituzione, meno di moda. Al centro del caso è l´esenzione del pagamento dell´Ici per
le attività commerciali della Chiesa. La storia è vecchia ed è tipicamente italiana.
Varato nel ´92, bocciato da una sentenza della Consulta nel 2004, resuscitato da un
miracolo di Berlusconi con decreto del 2005, quindi decaduto e ancora recuperato dalla
Finanziaria 2006 come omaggio elettorale, il regalo dell´Ici alla Chiesa è stato in teoria
abolito dai decreti Bersani dell´anno scorso. Molto in teoria, però. Di fatto gli enti ecclesiastici
(e le onlus) continuano a non pagare l´Ici sugli immobili commerciali, grazie a un gesuitico
cavillo introdotto nel decreto governativo e votato da una larghissima maggioranza, contro la
resistenza laica di un drappello di mazziniani radicali guidati dall´onorevole Maurizio Turco. I
resistenti laici avevano proposto di limitare l´esenzione dell´Ici ai soli luoghi senza fini
commerciali come chiese, santuari, sedi di diocesi e parrocchie, biblioteche e centri di
accoglienza. Il cavillo bipartisan ha invece esteso il privilegio a tutte le attività "non
esclusivamente commerciali". Basta insomma trovare una cappella votiva nei paraggi di un
cinema, un centro vacanze, un negozio, un ristorante, un albergo, e l´Ici non si paga più. In
questo modo la Chiesa cattolica versa soltanto il 5 o 10 per cento del dovuto allo Stato
italiano con una perdita per l´erario di almeno 400 milioni di euro ogni anno, senza contare
gli arretrati.
Il trucco o se vogliamo la furbata degli italiani non è piaciuta a Bruxelles, da dove è partita
una nuova richiesta di spiegazioni al governo. Il ministero dell´Economia ha rassicurato l´Ue
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circa l´inequivocabilità delle norme approvate, ma subito dopo ha varato una commissione
interna di studio per chiarirsi le idee. L´affannosa contraddizione è stata segnalata
all´autorità europea dall´avvocato Alessandro Nucara, esperto in diritto comunitario, e dal
commercialista Carlo Pontesilli, due professionisti di simpatie radicali che affiancano e
assistono il drappello dell´orgoglio laico. A questo punto la commissione per la concorrenza
europea avrebbe deciso di riesumare la pratica d´infrazione già aperta ai tempi del governo
Berlusconi e poi archiviata dopo l´approvazione dei decreti Bersani. In più, la commissione
ha chiesto al governo Prodi di fornire un quadro generale dei favori fiscali che l´Italia
concede alla Chiesa cattolica, oltre all´esenzione Ici.
Che cosa potrà succedere ora? Un´infrazione in più o in meno probabilmente non cambia
molto. L´Italia dei monopoli, dei privilegi e delle caste è già buona ultima in Europa per
l´applicazione delle norme sulla concorrenza e naviga in un gruppo di nazioni africane per
quanto riguarda la trasparenza fiscale. Quale che sia la decisione dell´Ue, i governi italiani,
di destra e di sinistra, troveranno sempre modi di garantire un paradiso fiscale assai poco
mistico alla Chiesa cattolica all´interno dei nostri confini. Magari tagliando ancora sulla
ricerca e sulla scuola pubblica.
E´ triste constatare però che senza le pressioni di Bruxelles e la lotta di una minoranza
laicista indigena, l´opinione pubblica non avrebbe neppure saputo che gli enti religiosi
continuano a non pagare l´Ici almeno al 90 per cento. Nonostante l´Europa, la Costituzione,
le mille promesse di un ceto politico senza neppure il coraggio di difendere le proprie scelte.
Nonostante le solenni dichiarazioni di Benedetto XVI e dei vescovi all´epoca dei decreti
Bersani: «Non ci interessano i privilegi fiscali». Nonostante infine siano passati duecento
anni da Thomas Jefferson («nessuno può essere costretto a partecipare o a contribuire
pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso») e duemila dalla
definitiva sentenza del Vangelo: «Date a Cesare quel che è di Cesare».
581-L’EVOLUZIONE E L’INCERTO FUTURO DELL’UOMO– DI L. e F. CAVALLI-SFORZA
da: la Repubblica di mercoledì 27 giugno 2007
C´è stato un tempo, nemmeno molto lontano, in cui era convinzione generale che tutto ciò
che abbiamo intorno fosse esistito in forme fisse e immutabili da sempre: che le piante, gli
animali, gli stessi esseri umani avessero avuto l´aspetto con cui li conosciamo fin dal
momento della loro comparsa sulla Terra, per intervento divino. C´era stato anche chi,
nell´antichità, come Lucrezio, aveva affermato che molte varietà di esseri viventi ormai
scomparse dovevano avere abitato il mondo in tempi assai lontani, ma erano affermazioni
guardate con sospetto. Come potevamo sapere? Dopotutto, le testimonianze delle civiltà del
passato parlavano di uomini in tutto simili a noi e di animali ben noti. Il testo più antico che si
conoscesse allora, la Bibbia, diceva che sette giorni erano stati sufficienti a dare forma al
mondo e a tutto ciò che lo abita, compreso l´uomo. Per secoli e per millenni, gli esseri umani
avevano continuato a costruire sulle rovine dei loro predecessori. In Europa, i borghi
medievali erano sorti sulle rovine delle città romane, e le città moderne sui resti dei centri
medievali. Poi giunse la rivoluzione industriale e si cominciò a scavare, per costruire ferrovie
e strade, fabbriche e palazzi.
Vennero così ritrovamenti imprevisti. Quando furono portate alla luce le prime ossa di
dinosauri, chiaramente diverse da quelle di ogni animale conosciuto, si disse che non
potevano appartenere ad animali esistiti un tempo e in seguito scomparsi, perché era
impensabile che Dio avesse creato una specie vivente per poi scoprire di essersi sbagliato e
portarla all´estinzione.
Sempre ragionando in questo modo, quando furono ritrovate, nel 1856, le prime ossa di
uomini di Neandertal, che sono molto più spesse e robuste delle nostre, furono attribuite a
grandi scimmie o a patologie dell´apparato scheletrico umano.
24
Ma le scoperte proseguirono, e col tempo divenne impossibile negare che il pianeta era
stato abitato, in un lontano passato, da una miriade di piante e di animali parecchio diversi
da quelli che abbiamo intorno oggi, e anche da uomini di aspetto profondamente diverso dal
nostro. Nel frattempo, i geologi si erano resi conto, seguendo altre vie, che la Terra doveva
essere immensamente più antica dei seimila anni computabili in base alla Sacra Scrittura. Si
trovarono altri testi, ben più vecchi della Bibbia.
Nel ‘700 si cominciò a stimare, per il pianeta, un´età di quasi centomila anni, o maggiore
ancora. Oggi parliamo di circa 4,5 miliardi di anni.
Fra il 1831 e il 1836, un giovane naturalista inglese, Charles Darwin, traversava il mondo su
un brigantino della marina britannica diretto a effettuare rilievi cartografici dell´America
meridionale. Nel corso del viaggio ebbe modo di osservare una molteplicità di piante e di
animali: ne raccolse campioni, li analizzò e si rese conto che le stesse specie, vivendo in
luoghi separati e lontani l´uno dall´altro, avevano assunto caratteri differenti, che variavano a
seconda di ciò di cui si nutrivano e dell´ambiente in cui abitavano. Ne derivò l´idea che le
specie viventi cambino nel corso del tempo, sviluppando caratteristiche diverse, e che
sopravvivano gli individui e le popolazioni che meglio riescono a procurarsi il necessario
nutrimento e a riprodursi, risultando così meglio adattate all´ambiente in cui vivono.
All´opposto, gli individui e le popolazioni che hanno maggiori difficoltà a crescere e a
riprodursi tenderanno a scomparire, nel volgere delle generazioni. E’ l´ambiente, quindi, a
compiere una selezione fra le diverse specie e fra le varie popolazioni e individui di una
stessa specie. Poiché l´ambiente cambia di continuo, anche le caratteristiche dei viventi
cambiano, nel corso del tempo. Darwin chiamò questo processo selezione naturale. Non era
ancora chiaro come nascessero questi cambiamenti, ma si sapeva che gli agricoltori e gli
allevatori di bestiame selezionavano e incrociavano fra loro le varietà più promettenti di
piante e di animali, per migliorarne la produttività e altre caratteristiche, operando un
processo di selezione artificiale per molti aspetti simile a quello che in natura avviene
spontaneamente. In Inghilterra, i due secoli precedenti a Darwin avevano visto grandi
progressi in agronomia e zootecnia.
Un altro naturalista inglese, Alfred Russell Wallace, che pure aveva lavorato a lungo in
America meridionale, giungeva negli stessi anni a conclusioni analoghe a quelle di Darwin,
benché, molto più giovane di lui, non le avesse sviluppate con ampiezza paragonabile.
I tempi erano ormai maturi per introdurre l´idea che le specie non sono immutabili, e quando
Darwin pubblicò, nel 1859, il risultato dei suoi studi, con il titolo Sull´origine delle specie per
selezione naturale, l´opera andò esaurita in un giorno. Era nata la scienza dell´evoluzione.
Suscitò controversie così vivaci da non essersi ancora spente oggi.
In cosa consiste l´evoluzione? Oggi la definiamo come il cambiamento continuo ed
inevitabile delle specie nel corso del tempo. E bene chiarire subito che "evoluzione" non
significa necessariamente né "miglioramento" né "progresso": si sono osservati parecchi
casi di regressione pura e semplice, nel corso della storia, e deviazioni che hanno dato
origine a rami nuovi, in seguito scomparsi, anche in popolazioni della linea umana.
Evoluzione significa prima di tutto differenziazione progressiva. Gli esseri viventi cambiano
nel corso del tempo: compaiono forme nuove che possono coesistere a lungo accanto alle
più antiche e che a loro volta vanno incontro a nuovi cambiamenti. Basti pensare alla
straordinaria varietà delle piante da fiore o degli uccelli, o dei dinosauri riportati alla luce
negli ultimi duecento anni. L´evoluzione comporta quindi trasformazione e un aumento della
varietà disponibile, a cui si accompagna spesso, ma non sempre, un aumento di
complessità.
Valga ad esempio l´estrema raffinatezza raggiunta da organi quali l´occhio o l´orecchio,
nell´arco di centinaia di milioni di anni, o lo sviluppo del cervello umano, che ci rende capaci
di pensieri e attività sconosciute ai tempi in cui i nostri antenati non avevano ancora
imparato a usare il fuoco, o a rompere con pietre le ossa di animali per succhiarne il midollo.
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All´opposto, molti parassiti si specializzano assai, semplificando o perdendo le parti inutili e
perfezionando quelle che permettono loro di attaccarsi ai loro ospiti e di penetrarvi. Una
volta entrati, li costringono a moltiplicare i parassiti, a proprio danno, e a spargerne i figli
all´esterno.
Evoluzione significa, infine, sviluppo di capacità di interazione con l´ambiente. È questo, in
definitiva, a decidere del successo di una specie o della sua scomparsa. I grandi uccelli
senz´ali che abitavano la Nuova Guinea nella preistoria sono stati portati all´estinzione
quando nel loro ambiente sono sbarcati uomini armati di lance di legno con la punta indurita
al fuoco. Alla stessa stregua, intere popolazioni umane sono scomparse quando nel loro
ambiente sono penetrati bacilli, come i virus dell´influenza o del morbillo, contro cui non
erano in grado di difendersi.
Cosa rende possibile l´evoluzione? La risposta semplicissima è: la vita stessa. Qual è la
caratteristica principale della vita? Non è il movimento: le piante sono vive ma non si
muovono. Non è la complessità: un´auto è complessa e si muove, ma non è viva. Non è
nemmeno la capacità di nascere, crescere e morire: anche una roccia "nasce", per esempio
in un´eruzione vulcanica; un cristallo può crescere; e ogni cosa prima o poi ha fine.
La caratteristica esclusiva della vita è l´autoriproduzione: la vita riproduce se stessa, se trova
condizioni adeguate, e può assumere una enorme varietà di forme, come testimonia il
mondo che abbiamo intorno. Anche un cristallo può formare copie di se stesso, in condizioni
opportune, ma tutte avranno struttura identica al genitore. Un batterio ha struttura identica al
genitore, ma nel corso delle generazioni può cambiare, e pur mostrando una complessità
che nel cristallo non esiste continua a riprodursi quasi identico a se stesso, e
simultaneamente ad evolvere.
Lo studio della vita ha fatto passi da gigante dai tempi di Darwin, e le ragioni e i modi del
cambiamento oggi sono ampiamente noti. Ne parleremo nei prossimi articoli, perché si tratta
degli eventi che rappresentano il motore stesso dell´evoluzione. Non sappiamo ancora come
la vita abbia avuto origine, né se sia sorta sulla Terra o sia venuta dallo spazio su di un
meteorite. Se è sorta sulla Terra, deve esserci voluto parecchio tempo perché potesse
comparire, perché la nascita della vita deve essere un evento estremamente raro. Questo
non significa che sia apparsa solo qui: vuole solo dire che c´è stato un luogo e un momento
in cui una stringa di molecole è riuscita ad agganciare alcuni atomi, alcuni pezzi da
costruzione, nell´ambiente circostante, e ad organizzarli intorno a sé in modo da formare
una copia esatta, una sorta di carta carbone, di se stessa.
C´è una riflessione che potrà disturbare chi non accetta che la vita possa avere davvero
avuto origine da sola, ma vuole che sia sorta per un intervento esterno, extraterrestre, e che
non abbia trovato da sé la sua strada, ma si sia sviluppata seguendo un piano preordinato,
magari addirittura in vista di un finale già scritto.
È una semplice considerazione: se davvero la vita «ha fatto tutto da sola», cosa che non è
dimostrata e forse non è nemmeno dimostrabile, ma è perfettamente compatibile con ciò
che sappiamo, allora non si sa dove stiamo andando, non si sa cosa potremo diventare,
nessun piano guida la storia della vita, e ciò che sarà dell´umanità e del pianeta su cui si è
imposta come specie dominante dipende in larga misura dalle scelte che faremo. Portiamo
con noi nella vita, insomma, piena responsabilità per ciò che siamo e per ciò che
diventeremo.
Questa incertezza disturba il senso di sicurezza di molti, e li spinge a cercare una figura
paterna che insegni e diriga, e dicendo loro dove andare li sottragga a questa responsabilità.
Ha fondamento questa aspirazione ad essere guidati? Nessuno può dimostrarlo, anche se
molte menti eccelse ci hanno provato. Ciascuno deve scegliere a cosa prestare fede al
riguardo, ma negare che vi sia evoluzione significa rinunciare alla nostra capacità di
ragionamento, e a tutto quanto sappiamo. (1 - continua)
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582 - CONVEGNO “IL TESTAMENTO BIOLOGICO” - ROMA
Giovedì 14 giugno, presso la sala Conferenze di Democrazia è Libertà – La Margherita, via
S. Andrea delle Fratte 16, Roma, si è svolto un convegno sul tema “Il testamento biologico”,
organizzato dal “Laboratorio per la polis”.
Il programma era il seguente:
Saluto di apertura:
- prof. Adriano Ossicini, Presidente onorario del Comitato Nazionale di Bioetica.
Introduzione:
- prof. Elena Mancini, bioeticista;
- prof. Maria Luisa di Pietro, membro del C.N.B., associato all’Univ. Cattolica del Sacro
Cuore.
Profili etico-giuridici:
- prof. Alberto Gambino, ordinario di diritto civile all’Università di Napoli “Parthenope”
- prof. Raffaele Prodomo, docente di bioetica alla seconda Università di Napoli
Profili legislativi:
- sen. Ignazio Marino, presidente commissione sanità del Senato;
- Sen. Paola Binetti, ordinario di storia della medicina all’Università Campus bio medico di
Roma.
Coordinatore:
- prof. Romano Forleo, membro del C.N.B., docente di ginecologia e sessuologia
all’Università di Roma.
La prof.ssa di Pietro e il prof. Gambino hanno svolto una serrata critica al testamento
biologico, sostenendo che:
- nessuno ha il diritto di morire;
- non si può obbligare i medici ad uccidere;
- l’idratazione e l’alimentazione forzata non possono essere sospesi;
- i casi di accanimento terapeutico li decide il medico;
- la volontà espressa col testamento biologico è “astratta” e quindi non risponde alla volontà
“attuale” del testatore;
- il testamento biologico deresponsabilizza il medico e lo riduce a mero esecutore
testamentario;
- il fiduciario non sempre interpreta la vera volontà del testatore ed anzi la può tradire;
- il testamento biologico non rientra fra le disposizioni testamentarie perché non ha per
oggetto un “bene”, nè può rientrare fra i diritti di libertà perchè manca il presupposto
(capacità di decidere);
- in luogo di una legge sul testamento biologico si può prevedere una semplice dichiarazione
dei medici a difesa dei diritti del paziente.
La sen. Binetti, dal canto suo, ha rincarato la dose, sostenendo che
- in base al principio di “precauzione”, occorre evitare disposizioni anticipate sulla
conclusione della vita;
- il ruolo del fiduciario delegittima quello del medico curante e lo assimila a quello di
“persecutore”;
- la libera determinazione spinta all’eccesso porta alla solitudine;
- prima di parlare di testamento biologico occorre riscrivere la legge sul consenso informato
e si deve educare il paziente a realizzare una “alleanza terapeutica” col medico curante;
- non sono maturi i tempi per approvare una legge in parlamento (la sen. Binetti ha già
annunciato il suo voto contrario al testo del sen. Marino laddove prevede la possibilità di
rifiutare i “trattamenti di sostegno vitale” e di considerare definitive le volontà del paziente).
Gli altri relatori hanno invece riconosciuto, in generale, la necessità di approvare la legge sul
testamento biologico. Il sen. Marino, in particolare, ha rilevato che dopo circa 50 audizioni e
mesi di riflessione la Commissione sanità DEVE licenziare un testo da sottoporre
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all’approvazione del Parlamento. Si è anche dichiarato disponibile a rivedere alcune
disposizioni contenute nella sua proposta, come ad esempio l’obbligatorietà di redigere il
testamento biologico (come aveva suggerito la nostra associazione nel corso dell’audizione).
Ha ribadito invece il suo parere nettamente contrario all’eutanasia, citando nuovamente le
iniezioni letali nel braccio della morte in luogo dell’impiccagione.
Nel corso del dibattito che ne è seguito è intervenuto anche il sottoscritto, ovviamente a
difesa non soltanto del testamento biologico ma anche dell’eutanasia, contestando che si
possa parlare di eutanasia nel caso di iniezioni letali praticate nei confronti di persone capaci
di intendere e di volere e assolutamente contrarie ad essere uccise.
Giampietro Sestini
583 - LIBERAUSCITA ALLA FESTA DE L'UNITA' - LEGRI-CALENZANO
La nostra responsabile per la Toscana, Meri Negrelli, rappresenterà LiberaUscita alla
Festa dell’Unità di Legri-Calenzano che si terrà da venerdì 29 giugno a domenica 1 luglio
2007. Presso lo stand saranno disponibili gratuitamente opuscoli e informazioni sul tema del
testamento biologico, dell’accanimento terapeutico, dell’eutanasia e della bioetica in
generale.
Coloro che intendono lasciare disposizioni per chiudere con dignità e senza dover essere
sottoposti a trattamenti invasivi del tutto inutili la fase terminale della propria esistenza,
potranno sottoscrivere il proprio testamento biologico ed eventualmente consegnarlo in
custodia gratuita all’Associazione.
Coloro che desiderano essere informati gratuitamente sulle problematiche connesse alla
bioetica potranno essere inseriti nella mailing-list dell’Associazione.
584 - I SOCI RACCONTANO....DI MICHELE ISMAN
Sul sito web dell'Associazione Italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma
(http://www.ail.it/storie/34.asp) è riportato questo scritto del nostro socio Michele Isman: la
testimonianza, a quasi dieci anni dagli eventi, della sua esperienza nella malattia.
E' interessante far notare che dal testo originale inviato da Michele è stata "censurata" la
frase in cui egli racconta del fatto che, conosciuta la gravità della sua situazione, stava
procurandosi strumenti e know-how per suicidarsi nel caso in cui le terapie non avessero
funzionato, come egli scrive "per risparmiare a me stesso (o, almeno, per poter scegliere di
farlo...) e anche ai miei cari l'esperienza di una fine disperata, dolorosa, insensata..."
Michele ha scelto di autorizzare ugualmente la pubblicazione del suo scritto mutilato (molto
correttamente gli è stato chiesto preventivamente il permesso) perché la lettura della sua
storia, che è una storia a lieto fine, possa in ogni caso essere di conforto e d'aiuto a chi oggi
si trovi a dover affrontare una vicenda dolorosa come la sua. Resta un filo di amarezza nel
constatare come l'argomento eutanasia e dintorni, per quanto circoscritto dentro il racconto
personale di un malato, evidentemente sia un argomento tabù anche per la - comunque
benemerita, si intende - associazione presieduta dal professor Franco Mandelli. (gps)
Uso il passato remoto perché accadde molto tempo fa. Mi accorsi che qualcosa non andava
dentro di me a novembre del 1997, nove anni fa: vivevo una vita della quale ultimamente,
per responsabilità tutta mia, mi sentivo prigioniero e da qualche tempo mi accadeva di
svegliarmi nel cuore della notte in preda all'ansia: un irrefrenabile bisogno di alzarmi e di
respirare mi faceva scattare in piedi e mi ritrovavo, mezzo addormentato, con la finestra
spalancata a tossire forte e a soffiare ripetutamente il naso nel tentativo di liberare le mie vie
respiratorie... Altri sintomi oltre a un crescente e generico stato di malessere erano il ritmo
accelerato del battito cardiaco e la sensazione di gonfiore alla faccia e al collo che mi
provocava qualsiasi sforzo delle braccia protratto per più di qualche istante.
Bastò una semplice lastra al torace, che evidenziava una enorme macchia a livello del
mediastino, a chiarire che c'era qualcosa di cui era il caso di preoccuparsi e in fretta.
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Ebbi fortuna e nel giro di pochissimi giorni mi trovai in quello che in seguito scoprii essere il
posto giusto: la clinica ematologica del Policlinico Universitario Umberto I di Roma: in una
parola anzi in un nome e cognome, da Franco Mandelli.
Ci arrivai preparato: il giovane medico del laboratorio radiologico, per sorte ematologo e già
allievo del professore, a colpo d'occhio aveva riconosciuto di che tipo di bestiaccia con molta
probabilità si trattava. Mi chiamò da lui e me lo disse, con un garbo di cui non finirò mai di
essergli grato.
La mia reazione fu lo stupore, e più che il panico la voglia di "esserci", di sapere, di
partecipare e non, viceversa, di subire. La prima cosa che feci fu andare in libreria,
acquistare un dizionario medico divulgativo e cercare di capire che cosa stava accadendo
dentro il mio corpo. La cosa più difficile e dolorosa fu alzare il telefono e dirlo alla mia
mamma, a seicento chilometri da me. "Ho un linfoma".
Ne parlai invece con relativa tranquillità alla mia compagna, e ai miei amici: la loro vicinanza
mi fu preziosa, vitale. Le reazioni furono molto diverse, qualcuno sparì, qualcun altro me lo
ritrovavo fin troppo spesso a casa e mi toccava intrattenerlo anche quando magari non mi
sentivo bene e avevo voglia di andare a letto.
Gli raccontavo, ai miei amici (anche a quelli lontani, per e-mail), che alla mia morte in sé io ci
potevo pensare con serenità: ché dalla vita avevo avuto tanto, ero un uomo fortunato,
poteva anche bastare. Mi preoccupava non conoscere il tempo che mi sarebbe rimasto
(volevo assolutamente rivedere S., dall'altro lato del mondo), e l'idea di una fine lenta e
dolorosa, disperata. Mi faceva male il solo sfiorare col pensiero il dolore della mia mamma,
del mio papà, dei miei tutti; ma ciò che proprio mi risultava impensabile e mi provocava
un'angoscia incontrollabile era l'idea di lasciare i miei cuccioli amati. Avevo trentacinque
anni, una figlia di quattro e un bimbo di appena un anno. G. avrebbe avuto di me un'idea
vaga e molto influenzata dai racconti altrui, dai video di quando era piccola, dalle fotografie.
N. non si sarebbe neppure ricordato, di me. Ma, soprattutto, sarebbero cresciuti mutilati del
loro papà e non era proprio giusto, no, non era accettabile che io me ne andassi, morendo,
da loro. Accadde una notte, guardavo il mio bimbo dormire come un angioletto nel suo
respiro piccolo, beato, inconsapevole, essere indifeso con tutto della vita ancora da scoprire,
da imparare, da capire. Lo promisi a lui, glielo giurai solennemente, che avrei fatto tutto il
possibile per guarire, per restare (almeno qualche anno, mi dicevo) accanto a lui e alla sua
sorellina.
E così fu. Ricordo che mi guardavo allo specchio, anzi fra due specchi contrapposti per
vedermi anche da dietro, e che mi facevo davvero impressione tutto pelato, glabro com'ero,
con la faccia gonfia come una luna piena e la pelle che tendeva al grigiastro. Per la chemio
avevo perso anche le sopracciglia, verso la fine persino le ciglia, e mi sembrava di avere lo
sguardo di un pollo! Ma quella visione non mi mortificava, anzi, il mio atteggiamento era di
pensare be', è una cosa preziosa quella che mi sta accadendo (e non accade mica a tutti)
quella di vedersi, almeno una volta nella vita, come un pollo: aiuta, come dire, a collocare sé
stessi nell'universo, allena all'atteggiamento di pensare come, sempre, tutto sia relativo,
mutabile, sorprendente, oltre le apparenze.
I mesi delle cure passarono così: un po' duri, a momenti - non fu certo una passeggiata - ma
la mia reazione fu sempre di speranza e di meraviglia, più che di paura o mortificazione:
stavo facendo una cosa davvero importante e nient'affatto banale, salvare me stesso: un
gioco difficile, paradossalmente intrigante, comunque interessantissimo. Strinsi amicizie, in
quel periodo, coi medici e con alcuni miei sventurati colleghi (non ho mai avuto il coraggio di
chiedere, in seguito, di loro...). Mi prendevano in giro perché arrivavo alla chemioterapia in
motocicletta, come fosse una cosa normale. Non fosse stato per la testa pelata e la faccia
gonfia e grigiastra, non sembravo proprio un malato di cancro!
Voglio ricordare, per concludere, un episodio. Ero alla fine delle terapie e credetemi non ne
potevo più, di roba nelle vene, ma stringevo i denti, mancava poco, e avanti! Avevo un po' di
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nausea e mi veniva da piangere quel giorno, senza motivo, in sala terapie; avrei tanto
desiderato un tè ma ero attaccato alla flebo e non avevo con me i soldi, allora chiesi aiuto al
volontario di turno il quale con un sorriso scattò in piedi e un minuto più tardi arrivò con un
bicchiere fumante, per me: un meraviglioso tè caldo e ben zuccherato, mi fece bene. E' una
storia minima, eppure oggi piango nel ricordare quel piccolo regalo...
Mi auguro che quella persona di cui non conosco il nome legga queste righe, che sappia
quanto prezioso fu quel tè, quanto preziosi sono tutti i tè e i sorrisi che lui e gli altri volontari
regalano tutti i giorni ai pazienti che vivono un momento di difficoltà.
Appena due anni dopo quel tè e quegli ultimi veleni benefici ricevuti nelle vene, con gioia e
fatica ugualmente immense, assieme ai miei amici portavo zaini sui pendii ripidi e franosi
della "Dea Turchese", una gigantesca, bellissima montagna dell'Himalaya tibetano la cui
sommità candida sfiora il cielo.
Oggi i miei figli sono grandi, sani, belli, felici, ed è una meraviglia, un regalo ogni giorno,
vederli crescere e trasformare. Anche la mia vita si è trasformata (ne aveva bisogno),
migrata dalla città alla campagna, dalla pubblicità al mare e alle barche a vela. Oggi posso
affermare di essere felice, del cammino sul quale mi trovo, dell'uomo che sono: incluse le
cicatrici che porterò per sempre sul corpo e dentro l'anima.
Michele
585 – LE VIGNETTE DI PERICOLI E PIRELLA – MENTIRE O SMENTIRE?
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IL PUNTO - n. 36 - giugno 2007