B I B L I O T E C A • V I P A S S A N A D I S C O R S I D E L B U D D H A La saggezza che libera Copyright © 2013 Pierluigi Confalonieri Oscar Piccoli Saggi – Arnoldo Mondadori Editore, Milano, giugno 1995 Artestampa Edizioni, Modena, dicembre 2013 Biblioteca Vipassana è un progetto editoriale che comprende una collana di testi per la conoscenza e l’approfondimento della tecnica di meditazione Vipassana, come insegnata da S.N. Goenka, nella tradizione di U Ba Khin. Responsabile Coordinamento Pierluigi Confalonieri Responsabile Revisione testi Maria Teresa Goggia La ruota in copertina – logo della collana – è un simbolo di trasformazione e di cambiamento di direzione. Ne Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma, il Buddha spiegò l’importanza di invertire la direzione della ruota della vita che va verso la sofferenza, e di cominciare a farla ruotare verso la liberazione, descrivendone il modo, la via. Per informazioni: [email protected] www.bibliotecavipassana.org In ricordo di mia madre e mio padre, con gratitudine LA SAGGEZZA CHE LIBERA La meditazione nei discorsi del Buddha Commenti di S.N. Goenka A cura di Pierluigi Confalonieri Revisione di Maria Teresa Goggia EDIZIONI ARTESTAMPA EDIZIONI ARTESTAMPA Viale Ciro Menotti, 170 – 41121 Modena Tel. 059.239530 - Fax 059.246358 [email protected] www.edizioniartestampa.com I edizione: dicembre 2013 Edizioni ARTESTAMPA S.r.l. Traduzione e adattamento dei discorsi di Maria Caterina Cravignani e Pierluigi Confalonieri Progetto grafico e copertina di Stefania Maranzato Tutti i diritti sono riservati. Ogni parte di questo libro può essere riprodotta con il permesso dell’editore. Io seppi con certezza che il mondo, l’infinito fluire delle infinite apparenze, non aveva realtà, non corrispondeva a verità. Era perpetua illusione, ingannosa impermanenza. Giovanni Papini Da un discorso del Buddha ne La raccolta dei discorsi di media lunghezza (M.63). Estratto: (…) Supponiamo che qualcuno dica: “Non intraprenderò la via di purificazione insegnata dall’Illuminato, fino a che egli non mi spiegherà se il mondo è eterno oppure se non lo è; se è finito o infinito; se corpo e anima sono una sola e identica cosa o due cose diverse; se dopo la morte, il Risvegliato esisterà ancora oppure no o se né esisterà, né non esisterà”. Un individuo simile, probabilmente, morirà prima che l’Illuminato gli possa spiegare tutto ciò. È come se un uomo fosse trafitto da una freccia avvelenata, i suoi amici e parenti facessero arrivare un chirurgo e il ferito dicesse: “Non voglio che la freccia sia estratta finché non saprò chi mi ha ferito; se si tratta di un guerriero, di un bramino, di un uomo comune o di un servo, se viene dalla campagna o dalla città, se è alto, di media statura o basso. Non mi farò togliere la freccia finché non saprò di che tipo è l’arco con cui è stata scoccata e di che materiale è fatto; e inoltre, voglio prima sapere di che genere è la freccia che mi ha colpito”. È chiaro che quest’uomo morirà prima che si possa rispondere a tutte le sue domande. Allo stesso modo, chi si rifiutasse di seguire il cammino di purificazione indicato dall’Illuminato, prima di sapere se il mondo è eterno o no e se l’Illuminato sopravvivrà o no alla morte e tutto il resto, sicuramente morirà prima di aver ricevuto queste spiegazioni. Per seguire il cammino della purificazione, non è necessario sapere se il mondo è eterno o se non lo è, e tutto il resto. Sia si creda che il mondo durerà per sempre o che si creda che il mondo finirà, certo è che ci sono nascita, IX La Saggezza Che Libera vecchiaia, morte; che esistono tristezza, lamento, dolore fisico e mentale, angoscia e disperazione. Io sono qui per insegnarvi che tutto ciò può essere eliminato già in questo mondo, a partire da questo momento. E per progredire verso la liberazione, non è necessario sapere se l’Illuminato perdurerà o no dopo la morte, e tutto il resto. Di conseguenza, cercate di capire perché non vi ho spiegato alcune cose e perché ve ne ho spiegate altre. Quali cose non vi ho spiegato? Non vi ho detto se il mondo è eterno oppure no, se è finito o infinito, se corpo e anima sono una cosa sola o due diverse; se, dopo la morte, l’Illuminato continuerà a esistere oppure no, o se né esisterà, né non esisterà. E perché non ho mai parlato di ciò? Semplicemente perché non ha niente a che fare con la meta cui arrivare, non è essenziale per il cammino di purificazione, non conduce ad abbandonare (ciò che è nocivo), non conduce all’equanimità, a padroneggiare e calmare la mente; non porta alla suprema saggezza, all’Illuminazione, al nibbána. Per questo non ho mai menzionato quelle cose. Che cosa invece, vi ho spiegato? Questa è la sofferenza. Questa è la causa della sofferenza. Questa è la fine della sofferenza. Questa è la via che porta all’eliminazione della sofferenza. E perché vi ho insegnato tutto questo? Perché è strettamente legato allo scopo cui tendiamo, è il fondamento del cammino che conduce alla purificazione; è questo l’insegnamento che porta all’abbandono di tutto ciò che è negativo, all’equanimità, a padroneggiare e calmare la mente; sino alla suprema saggezza, all’Illuminazione, al nibbána. X La Saggezza Che Libera Comprendete dunque la ragione per cui non vi ho spiegato certe cose, e fate invece tesoro di ciò che vi ho insegnato. XI Sommario Presentazione Prefazione XXI XXIII PARTE PRIMA Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha La ricerca di Siddhatta Gotama Le origini La scelta Gli anni della ricerca La scoperta della verità La compassione Il grande dono del Buddha all’umanità L’universalità della legge L’anello della catena da spezzare Tre tipi di saggezza Al ristorante La ricetta del medico La saggezza che libera L’essenza della saggezza L’introspezione La verità della sofferenza Risvegliatevi alla saggezza Una meditazione concreta e attuale La soluzione La meditazione Vipassana XIII 5 6 6 7 8 10 11 14 17 18 19 20 22 23 24 26 28 29 30 La Saggezza Che Libera PARTE SECONDA L’insegnamento del Buddha nei discorsi Introduzione La lingua pali I tesorieri del Dhamma Il Canone pali, la raccolta dei discorsi Criteri d’interpretazione 37 38 40 41 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma Testo del discorso Le quattro nobili verità Il processo di conoscenza Note Commento I due estremi La via di mezzo Le quattro nobili verità L’insegnamento universale I tre modi di sperimentare la verità La concretezza L’impegno personale 45 46 47 50 57 60 61 62 65 66 68 70 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza Premessa Testo del discorso La formazione della coscienza L’origine interdipendente di ogni fenomeno mentale e fisico La causa della sofferenza L’eliminazione della sofferenza Le domande inutili XIV 75 77 79 81 82 84 85 Sommario L’esperienza La nascita del desiderio La via di uscita Note Commento Che cosa accade di fronte alla morte Il treno del divenire I binari La preparazione I creatori dei binari Il momento della morte La scelta dei binari L’ approccio alla mente 86 86 88 91 95 95 95 96 96 97 99 100 100 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Premessa L’importanza della sensazione fisica La sensazione fisica, strumento di liberazione L’impermanenza 105 106 110 Testi dei discorsi La corretta visione Un colpo di freccia Il discorso dell’infermeria Corpo e mente In ogni posizione e attività Il processo di eliminazione L’impermanenza 117 118 120 121 122 124 Commento La reale natura delle sensazioni La sofferenza finisce là, dove finiscono le sensazioni Proprio nel corpo XV 125 128 131 La Saggezza Che Libera 4. Il discorso sull’ inesistenza dell’ io Premessa L’esplorazione dell’io Testo del discorso Commento L’insegnamento al momento giusto Il corpo è impermanente Le sensazioni sono impermanenti Le reazioni mentali sono impermanenti Tutto è senza un io La coscienza 137 138 140 144 145 146 147 147 149 149 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza 155 La consapevolezza delle sensazioni 156 La sensazione 158 L’impermanenza della sensazione 159 L’anello mancante 159 I fondamenti della consapevolezza 160 Il percorso dell’osservazione e della comprensione 162 Come osservare la sensazione 164 Il fine ultimo 166 Testo del discorso 167 L’abile tornitore 168 Come osservare 169 Gli effetti del perfezionamento della consapevolezza 181 Note 183 Premessa Commento La sensazione, chiave del Saþipaþþhána La realtà fisica La realtà mentale La sensazione è il punto di partenza XVI 194 194 197 199 Sommario 6. Il discorso sull’amore universale PREMESSA L’origine del discorso Testo del discorso COMMENTO La pratica della benevolenza nella meditazione Vipassana Schema sulla pratica della meditazione di benevolenza La filosofia della benevolenza I tre aspetti L’etica individuale L’etica collettiva La protezione La pratica attiva delle virtù complementari Lo sguardo sul lato buono I nemici 203 207 209 209 214 217 218 220 222 223 223 224 225 Gli esercizi meditativi 227 Il metodo dell’irradiazione verso specifici individui 227 La sequenza 229 L’attitudine mentale 231 Il metodo dell’irradiazione impersonale 232 Il metodo dell’universalizzazione 234 Irradiazione generalizzata 235 Irradiazione specifica 236 Irradiazione direzionale 236 Gli undici benefici della pratica 237 L’influenza sugli altri 239 7. Il discorso sulla felicità più grande Premessa La più grande felicità Il contributo della meditazione alla società XVII 245 245 246 La Saggezza Che Libera Per i laici Testo del discorso Commento Il Maògala Sutta Le 38 benedizioni, ognuna il massimo La sintesi delle 38 benedizioni Un condensato delle virtù morali Una guida nella società 247 249 253 253 285 287 290 292 8. Il discorso sulla libera ricerca Premessa Testo del discorso Come capire ciò che si deve rifiutare Avidità, avversione, ignoranza Come capire ciò che si deve accettare Assenza di desiderio, di avversione e di ignoranza I quattro stati sublimi Le quattro consolazioni 297 298 299 300 301 302 303 303 9. Il discorso sulle leggi universali 307 Testo del discorso 10. Il Rifugio 311 Testo del discorso PARTE TERZA La pratica della meditazione Udána: il canto di esultanza del Buddha La meditazione Vipassana Di che cosa bisogna essere consapevoli? L’eliminazione dei condizionamenti XVIII 317 318 319 321 Sommario Come essere equanimi? L’importanza della pratica Riferimenti storici della meditazione Vipassana L’insegnamento della tecnica dalla metà del ‘900 in avanti I principi basilari dell’insegnamento del Buddha nella pratica meditativa I condizionamenti accumulati L’esperienza dell’impermanenza La conoscenza delle kalápas La verità della sofferenza L’osservazione delle sensazioni nel corpo I livelli di conoscenza L’esperienza di anicca nella vita quotidiana Il tiro alla fune L’attivazione di anicca Il tempo della meditazione Vipassana è arrivato Il corso di dieci giorni di meditazione Vipassana Il programma quotidiano I primi tre giorni Il quarto giorno Dal 5° al 9° giorno Il decimo giorno Lo scopo della meditazione La radice della sofferenza Domande e risposte Una storia tradizionale indiana Tre episodi dal Canone pali sull’apprendimento Il panno imbrattato Attraversando strade accidentate Il pungolo dell’elefante Glossario dei termini pali XIX 322 323 324 325 327 328 329 330 331 332 334 335 336 337 338 339 341 342 343 344 345 346 347 349 355 358 358 360 361 363 La Saggezza Che Libera Appendice A Vipassana in Italia e nel mondo Il finanziamento dei corsi L’universalità Le applicazioni di Vipassana nella società La meditazione Vipassana per i manager Siti consigliati 373 373 374 375 376 378 Appendice B L’elenco dei centri di meditazione Vipassana381 Elenco delle nazioni in cui si tengono corsi in sedi provvisorie XX 387 Presentazione L e parole del Buddha sono andate perdute in molti paesi, quindi dovremmo essere grati a coloro che le hanno mantenute nella loro purezza. È giunto il momento di diffonderle, innanzitutto per l’aspetto pratico dell’insegnamento, la meditazione (paþipatti). La teoria (pariyatti), lo studio e la pubblicazione non dovrebbero mai diventare lo scopo principale. Se ci accontentiamo di leggere e studiare, ma non facciamo nulla per camminare sul sentiero indicatoci dal Buddha, non faremo che ingannare noi stessi. Le sue parole possono aiutarci, incoraggiarci e guidarci, ma la cosa più importante è percorrere il sentiero, un passo dopo l’altro. Se c’impegniamo nel metterlo in pratica, esse ci saranno di sostegno e stimolo. Per il meditatore, ogni parola dell’Illuminato è, appunto, illuminante, nella ricerca dentro se stessi della verità, sulla relazione tra mente e corpo, sulla reazione continua, causata dall’ignoranza e sulla saggezza che rende liberi. Siamo circondati dalla sofferenza, dall’infelicità. Che la meravigliosa medicina donataci dal Buddha, aiuti i sofferenti a guarire dalla malattia, cioè a sbarazzarsi dell’infelicità. Che la luce di questo insegnamento si diffonda in tutto il mondo. Satya Narayan Goenka Igatpuri, India, gennaio 1995 XXI Prefazione T ra gli innumerevoli discorsi (sutta*) del Buddha, non è stato facile decidere quali includere in questo volume, ma le sue stesse parole mi hanno aiutato a orientare la scelta, perché la loro concretezza deriva dalla relazione con l’interrogativo: come uscire dalla sofferenza? La prima parte del libro introduce ai principi fondamentali dell’insegnamento del Buddha, con cenni sulla sua vita e sulla sua ricerca. La seconda parte è costituita da una selezione dei suoi discorsi, riguardanti le verità da lui scoperte attraverso l’esperienza della meditazione; molti dei discorsi sono preceduti da una premessa e accompagnati da note e commento. Nella presente edizione è stata data rilevanza, per quantità di premesse, note e commenti, a il Discorso sull’amore universale (Metta Sutta) e il Discorso sulla felicità più grande (Mangala Sutta). Sono due brevi discorsi particolarmente popolari nei paesi buddhisti e, per la loro importanza e universalità, costituiscono la base per uno sviluppo spirituale equilibrato, non solo, quindi, di chi segue * Sutta significa discorso, sequenza, ma anche filo e simbolicamente suggerisce che un discorso è “l’infilare insieme” parole preziose come le gemme di una collana. Intellettuali e saggi dell’antica India scelsero di usare il termine sutta proprio per questo suo peculiare significato. XXIII La Saggezza Che Libera l’insegnamento del Buddha. Nella terza parte s’illustra come e dove, oggi, sia possibile mettere in pratica il suo insegnamento, nella forma originaria; e si propongono articoli di vario tipo in relazione alla pratica meditativa. L’ispirazione per questa raccolta, riveduta e ampliata per la presente edizione, è nata quando Goenka, dal 1991 al 1995, lesse e commentò alcuni discorsi del Buddha, in sessioni informali con i meditatori, a Dhammagiri, il centro principale per la meditazione Vipassana in India. In quelle occasioni cominciai ad apprezzare l’ascolto e il commento dei testi del Buddha, e a comprendere il significato profondo delle parole di Goenka, espresse in varie occasioni: “(…) Sayagyi U Ba Khin soleva dire che pariyatti (teoria) e paþipaþþi (pratica) devono andare insieme. Come due ruote di un carro, tutte e due devono essere di uguale misura e forza, così il carro potrà muoversi sicuro e a lungo. Con le due ruote di pariyatti e paþipaþþi lavorate diligentemente e viaggiate rapidi sul cammino di Dhamma”. “(…) Insieme con la pratica della meditazione, deve esserci il fondamento teorico; come una montatura d’oro, protegge una gemma preziosa. Una solida base teorica dà guida e ispirazione, necessarie al praticante per compiere i giusti passi sul cammino e per continuare a procedere”. “(…) Solo l’esperienza della verità attraverso la sistematica introspezione, può purificare la mente ed eliminare la sofferenza. Ma la solida base teorica, pariyatti, offre guida e ispirazione a ricercatori e meditatori, per intraprendere il cammino e continuare gradino dopo gradino la pratica, paþipaþþi”. XXIV Prefazione Significativo è l’articolo “La gemma incastonata nell’oro: teoria e pratica”* di cui riporto qui di seguito un estratto. “(…) Se qualcuno conosce solamente la teoria, e non pratica, non potrà mai acquisire i reali frutti della liberazione. Per sperimentare il Dhamma ed emergere dalla sofferenza, il mezzo è la pratica della meditazione Vipassana. Il leggere, lo scrivere e lo studiare ci aiutano nel trovare guida e ispirazione, nell’approfondire la pratica, e di conseguenza nell’avvicinarci sempre più alla liberazione. Allo stesso modo, se qualcuno prova a praticare senza comprenderne la teoria, corre il rischio di mescolare differenti tecniche, danneggiandosi, invece di ottenerne i frutti. Ricordo bene la mia esperienza sul sentiero, durante gli anni a Myanmar. Avevo sempre desiderato studiare e assimilare le parole del Buddha, riguardanti Vipassana. Dopo aver studiato la tecnica, meditavo. E quando le circostanze lo permettevano, la mia pratica prendeva il volo. Potevo meditare profondamente più che mai e, leggendo le parole del Buddha, sentivo un brivido di gioia attraverso il corpo. Qualche volta, avevo la sensazione che il Buddha mi parlasse direttamente, che ogni parola fosse proprio per me. A casa leggevo un suo discorso e poi mi recavo dal mio maestro; egli ne sceglieva alcuni passaggi e ne sviscerava l’essenza. Era una vera e propria immersione * Articolo pubblicato in Notiziario Vipassana Patrika. India, gennaio 1985, in occasione dell’inaugurazione del Vipassana Research Institute, Igatpuri, India. Estratto.Titolo originale “The gem set in Gold, Pariyatti with Paþipaþþi.” XXV La Saggezza Che Libera nel Dhamma. Sayagyi mi toglieva tutte le confusioni e le incertezze. Spiegava l’esperienza meditativa, e in questo modo penetrava nei più profondi significati del testo. Le sue parole mi riempivano sempre di gioia e ispirazione. E dopo avermi spiegato, mi diceva di meditare. Così, sono stato capace di andare sempre più in profondità. Strato dopo strato, le illusioni se ne andavano, lasciando solo la verità, chiara come cristallo. Quando mi alzavo dalla meditazione, mi sentivo libero da tutti i nodi, libero da tutta la confusione.” Fonti Il testo è stato revisionato e ampliato per questa edizione; sono stati aggiunti commenti di Goenka ai discorsi del Buddha, articoli a cura del Vipassana Research Institute V.R.I.*, uno scritto di U Ba Khin, note e commenti liberamente tratti dai seguenti testi: W. Hart, La meditazione Vipassana – Un’arte di vivere. ArteStampa, Modena, 2011; nuova edizione revisionata de L’arte di vivere. S.T. U Ba Khin, Il tempo della MeditazioneVipassana è arrivato. Ubaldini, (da una versione inedita e revisionata da Biblioteca Vipassana per la prossima edizione). * L’Istituto ha sede presso il Centro internazionale di meditazione Dhammagiri, a Igatpuri in India, dove sono tenuti continuativamente corsi di meditazione, come insegnata da S.N. Goenka, nella tradizione di U Ba Khin. XXVI Prefazione V.R.I. (a cura di). Gotama the Buddha: his life and his teaching. V.R.I., Dhammagiri – Igatpuri (India), 2000. A. Buddharakkhita, Mettá: the Philosophy and Practice of Universal Love. Buddhist Publication Society, Kandy (Sri Lanka), 1989. Wheels No. 365/366. A. Solé - Leris, La meditazione buddista. Mondadori, Milano, 1988; (versione revisionata da Biblioteca Vipassana, in programma presso Artestampa). Nyanatiloka T., Buddhist Dictionary: Manual of Buddhist Term and Doctrines. Buddhist Publication Society. Ibid. 1988. Ristampa; per la nota n° 6 a Il discorso sulla fine della causa della sofferenza (Mahátanhasaòkháyasutta). R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá Maògala Sutta. Buddhist Publication Society, Ibid., 1978. Wheel No. 254/256. E. Lerner, Journey of Insight Meditation. Schocken Books, New York (USA), 1977; per Riferimenti storici della meditazione Vipassana nella Parte Terza. S. Yoe, The Burman: His Life and Notions. Macmillan & Co., London (GB), 1896; per la nota al commento de Il Discorso sulla felicità più grande (Maògala sutta) nella Parte Seconda. Per i testi dei discorsi del Buddha, sono state tradotte le versioni in inglese della Pali Text Society di Londra e della Buddhist Publication Society dello Sri Lanka; a eccezione del Discorso sui fondamenti della consapevolezza (Saþipaþþhána Sutta) per il quale si è utilizzata la versione inglese e le note di commento del V.R.I. XXVII La Saggezza Che Libera A premessa e a commento dei discorsi ho utilizzato testi a cura del V.R.I. e di Goenka, tratti da discorsi e interviste, e corredati di note a mia cura, salvo diversa indicazione. La traduzione dall’inglese, discorsi esclusi, è stata effettuata dal 1986 in avanti da diversi meditatori, quindi revisionata e adattata per la presente edizione. Talvolta mancano i riferimenti alle citazioni del Buddha, in quanto assenti nei documenti originali. Abbreviazioni I discorsi e le citazioni sono tratti dal Sutta Piþaka, uno dei tre “canestri” del Tipiþaka (o Canone pali). Sutta Piþaka è la raccolta che contiene i discorsi, i sermoni e i dialoghi del Buddha, e di alcuni dei suoi principali discepoli. Le parti da cui sono tratte le citazioni hanno le seguenti abbreviazioni: Dìgha Nikáya (Raccolta dei discorsi lunghi) Majjhima Nikáya (Raccolta dei discorsi di media lunghezza) S. Saíyutta Nikáya (Raccolta dei detti raggruppati) A. Aòguttara Nikáya (Raccolta dei discorsi raggruppati per numero) Dhp. Dhammapáda Ud. Udána Sn. Sutta Nipáta D. M. XXVIII Prefazione Il metodo Per l’adattamento dei testi si è tenuto conto delle esigenze della lingua scritta, che sono differenti da quelle dell’insegnamento orale. La ripetizione vocale produce un ritmo che facilita l’ascolto e la memorizzazione, mentre il testo richiede l’alleggerimento dalle ripetizioni, che sono state tenute quando concernenti importanti concetti relativi alla pratica. Ho ritenuto opportuno suddividere in paragrafi sia il testo dei discorsi e alcuni altri documenti, con l’intento di facilitarne la comprensione. Mi assumo la responsabilità per il lavoro di adattamento, svolto al fine di divulgare il messaggio del Buddha, col tentativo di rendere attuale il lessico e di facilitare l’approccio al suo insegnamento. Scopo di questa pubblicazione è di stimolare all’esperienza della meditazione Vipassana, la ”saggezza che libera” dalle catene della sofferenza. Il mio contributo è stato quello di raccogliere una documentazione che avvicinasse alla comprensione dell’essenza dell’insegnamento e ispirasse alla pratica meditativa. Questo libro non è un manuale per imparare a meditare. Qualsiasi riferimento alla meditazione è finalizzato esclusivamente a inquadrare l’insegnamento, pertanto sconsiglio di utilizzarlo per iniziare a meditare da soli. XXIX La Saggezza Che Libera Ringraziamenti Sono molto grato al mio maestro Goenka, per aver ispirato questa raccolta. Ringrazio in particolare Maria Caterina Cravignani, per l’impegno profuso nella traduzione dei discorsi del Buddha, nel renderli fluenti e comprensibili al lettore moderno, e per la revisione della prima edizione; Amadeo Solé-Leris per la preziosa collaborazione nella revisione delle citazioni, delle parole in lingua pali, per l’interpretazione di significativi passaggi dei discorsi e di importanti termini pali, e soprattutto per avermi insegnato a leggere le parole del Buddha con le necessarie precisione e attenzione; Ravindra Panth, insegnante e ricercatore di lingua pali presso il Vipassana Research Institute e Rick Crutcher, assistente di Goenka nell’insegnamento, che mi hanno pazientemente aiutato nella scelta dei discorsi. A Maria Teresa Goggia va la mia profonda gratitudine per la paziente e accurata revisione della presente edizione. Un ringraziamento va a M. Laura Roberti e Valeria Roncarolo per la traduzione di alcuni opuscoli utilizzati nel libro, e soprattutto a tutti i meditatori etc. a tutti i meditatori che, negli ultimi venticinque anni, hanno contribuito in differenti modi alla traduzione degli articoli inseriti in questa edizione, ora a disposizione per il beneficio di tutti. Pierluigi Confalonieri Kandy, Sri Lanka, novembre 2013 XXX PARTE PRIMA Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha La ricerca di Siddhatta Gotama* a cura del Vipassana Research Institute I Le origini l Buddha non è un profeta, un dio o l’incarnazione di un dio, ma un essere umano che, attraverso i propri sforzi, ha raggiunto la perfetta saggezza e la completa liberazione, diventando così maestro nell’indicare la via per uscire dalla sofferenza. Secondo la tradizione, nacque nel 624 a.C. a Kapilavattu in India, figlio del re Suddhodhana che governava il paese dei Sakya, regione situata vicino all’attuale Nepal. Il suo nome era Siddhatta e quello della famiglia Gotama. Il giovane principe preferiva solitudine e riflessione ai giochi e alla spensieratezza della sua età. A sedici anni sposò la bellissima principessa Yasodhara e fino ai ventinove anni visse tra lussi e agi. Ma non era nato per una vita di appagamento dei sensi, e provava un’intensa curiosità per quanto c’era oltre le mura di corte, che, per volere di suo padre, non aveva mai oltrepassato. Un giorno impose la sua necessità di vedere la realtà del mondo esterno. Allora, * Da Vipassana Research Institute (a cura di), Gotama the Buddha: his life and his teaching, op. cit. Estratto. 5 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha per la sua prima uscita, il re prese precauzioni affinché non comparisse alla sua vista nulla di spiacevole. Ciononostante egli scorse un vecchio incurvato dagli anni, un malato in agonia, poi un cadavere in un corteo funebre e infine un eremita. La scelta Tutto ciò lo indusse a riflessioni che cambiarono radicalmente il suo atteggiamento mentale. Sua moglie aveva dato alla luce un figlio che avrebbe potuto legarlo alla vita regale, ma Siddhatta decise che era tempo d’abbandonare quel mondo privilegiato. Scelse di vivere da eremita, di cercare la verità e una via per sfuggire alla sofferenza di malattia, vecchiaia e morte. Ruppe ogni legame con la famiglia e il suo ambiente, e fece la “grande rinuncia”: non sarebbe ritornato se non quando avesse portato a compimento la sua missione. Gli anni della ricerca Con la veste dell’asceta e la ciotola delle elemosine, per sei anni si dedicò alla ricerca sotto la guida di due famosi insegnanti, ma nessuno dei due lo soddisfò pienamente. Li lasciò per una ricerca autonoma, iniziando con altri cinque asceti un periodo di austeri esercizi e digiuni. Giunse a ridursi quasi a uno scheletro, ma dopo uno svenimento causato dall’estrema debolezza, decise di cambiare metodo e di seguire una via più moderata. Alla vigilia del giorno di luna 6 PARTE PRIMA piena nel mese di maggio dell’anno 589 a.C., sedette a gambe incrociate sotto un albero sulla riva del fiume Neranjara nella foresta di Uruvela, con la ferma decisione di non alzarsi per nessuna ragione, fino a quando non avesse raggiunto la verità e il risveglio, la completa saggezza e conoscenza, anche se ciò avesse significato la perdita della vita. L’albero sotto il quale sedeva divenne noto come l’albero Bodhi o del Risveglio e la località come Bodhgaya. La scoperta della verità Trascorse la notte meditando, superando tutti gli ostacoli e le difficoltà. Con la sua capacità di concentrazione, riuscì a condurre la mente in uno stato di totale purezza, di tranquillità ed equanimità. E gradualmente, grazie alla meditazione poi definita Vipassana, acquisì la visione profonda: penetrò attraverso tutti i veli d’ignoranza, inganno e illusione. Gli apparve chiaro che il corpo è privo di sostanzialità e che è l’insieme d’innumerevoli particelle subatomiche in continuo cambiamento, chiamate in pali kalápas.* Penetrò l’illusione della solidità della mente, dissolse la tendenza a desiderio e avversione. Sperimentò che la mente è un insieme di rappresentazioni mentali, che sorgono e spariscono in un flusso continuo, che tutto risponde alla legge universale dell’impermanenza e non vi sono altro che processi in continuo * Kalápa è la più piccola, indivisibile, unità della materia. Per approfondimenti v. il paragrafo La conoscenza delle kalápas, a pag 330. 7 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha mutamento. Come conseguenza, fece esperienza della verità della sofferenza, e allora il suo egocentrismo si dissolse e raggiunse lo stadio al di là della sofferenza, ovvero dell’estinzione della sofferenza, in cui non vi è traccia di attaccamento all’io. Sperimentò corpo e mente come fenomeni che scorrono incessantemente, secondo una legge di causa ed effetto. Fece esperienza che qualsiasi cosa sorga da una causa, prima o poi finisce; e che quindi, eliminando le cause che ci fanno soffrire, possiamo ottenere la vera felicità, ovvero la liberazione dalla sofferenza. La compassione Eliminando le impurità mentali di bramosia e avversione, la sua mente divenne libera dagli attaccamenti alla condizione umana. Dopo l’illuminazione, il Buddha trascorse alcune settimane godendo dell’ineffabile pace del nibbána.* Decise poi, con infinita compassione, di far conoscere questa sublime verità, la legge di natura che lo aveva portato alla perfetta saggezza del risveglio. Il suo primo insegnamento fu per i cinque asceti che lo avevano accompagnato al tempo della sua pratica ascetica estrema e che, quando egli l’aveva interrotta, lo avevano lasciato. Ispirati dalle sue parole e dalla meditazione insegnatagli, fecero esperienza della verità dell’impermanenza, dell’origine della sofferenza, dell’insostanzia* Nibbána significa estinzione; libertà dalla sofferenza; realtà ultima; stato incondizionato, che non dipende da condizioni. 8 PARTE PRIMA lità e assenza di un io, e divennero risvegliati, cioè completamente coscienti della vera natura delle cose, liberati dall’ignoranza che condiziona e lega l’essere umano alla sofferenza. Alle prime sessanta persone che, dopo aver ricevuto il suo insegnamento, raggiunsero il risveglio, il Buddha disse: O monaci, ora andate, e per il beneficio di molti, per la felicità di molti, per compassione dell’umanità sofferente, distribuite questo insegnamento. Andate in tutte le parti del mondo. (A. IV.160) Per tutta la vita egli insegnò un’unica verità: il metodo per uscire dalla sofferenza. La notizia dei risultati immediati si diffuse, e gente di tutte le caste, credo, filosofie, fu attratta da quest’insegnamento universale. Migliaia di persone, maestri spirituali e re, ricchi mercanti e intoccabili, donne celebri e diseredati, accolsero il suo messaggio. Prossimo agli ottant’anni, avvertì il suo discepolo e assistente Ananda che la sua vita stava per finire. Questi radunò un gran numero di monaci, per i quali il Buddha pronunciò le ultime parole di ammonimento: Tutte le cose composte sono per natura impermanenti, lavorate con ardore per la vostra salvezza. (D.16) Dopo quarantacinque anni dedicati con amore e compassione all’insegnamento di questa saggezza pratica, nel giorno di luna piena di maggio il Buddha si spense a Kusinara nel 544 a.C. 9 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha Il grande dono del Buddha all’umanità* Attraverso molte nascite ho vagato in questo ciclo infinito del divenire, cercando, ma non trovandolo, il costruttore di questa casa (mente-corpo, n.d.r.). Ho continuato a nascere e rinascere nella sofferenza. O costruttore, ora ti ho visto. Non potrai più costruire alcuna casa: la trave di sostegno e tutti i travicelli del tetto sono stati demoliti. La mente è libera da tutti i condizionamenti. Ho raggiunto lo stadio libero da ogni desiderio. (Dhp. 153-154) Queste parole riassumono l’esperienza del Buddha dopo Illuminazione. Aveva individuato il costruttore della casa e cioè la causa che tiene legato l’essere umano al processo della sofferenza, la struttura su cui la sofferenza viene perpetuata per ignoranza: aveva individuato la legge di natura che regola il divenire. È la legge di paþicca samuppáda, la legge della causa e dell’effetto o dell’origine interdipendente. Paþicca samuppáda significa: “il sorgere di qualcosa a causa di qualcos’altro”. Ognuno di noi può rendersi conto dell’esistenza della sofferenza, ma il Buddha fece esperienza che essa non è un prodotto del caso, ma ha delle cause, proprio come ci sono cause per tutti i fenomeni: sperimentò la legge di causa ed effetto, una legge universale e fondamentale. * Dai testi elencati nella prefazione 10 PARTE PRIMA Se questa causa c’è, ci sarà questo effetto. Se questa causa non c’è, questo effetto non ci sarà. Se la causa sorge, l’effetto è destinato a sorgere. Se la causa è totalmente eliminata, l’effetto è totalmente eliminato. (M.38) Questa legge di natura esiste a prescindere dal suo scopritore, sia che ci sia o no un Buddha, sia che vi si creda o no. Come c’è la legge di gravità, sia che un Newton la scopra o no; come c’è la legge della relatività, sia che un Einstein la scopra o no; così c’è la legge di paþicca samuppáda, di causa ed effetto. L’universalità della legge Ogni scienziato conosce la legge di causa ed effetto: due parti d’idrogeno e una parte di ossigeno messe insieme si trasformano in acqua. Se uno dei due elementi manca o non c’è la combinazione dei due, non c’è acqua. È una legge che appartiene a tutta l’umanità, al di là delle differenze di credo e opinione; così come, senza discriminazioni, il sole sorge e dà luce e calore a tutti e il vento soffia per tutti. Nell’universo vi sono differenti leggi di natura e la maggior parte di esse non ha nulla a che fare con la nostra sofferenza (e con la sua causa e la sua eliminazione); quella che è importante per noi è la legge che ci aiuta a uscire dalla sofferenza (attraverso la sua conoscenza ed esperienza concreta). 11 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha Una volta il Buddha prese nelle mani una manciata di foglie secche e chiese al suo interlocutore: – Che ne pensi? Sono di più le foglie che stringo nelle mani o le foglie degli alberi di questa foresta? – Che domanda mi fate, signore? Le foglie che tenete nelle mani sono infinitamente meno di tutte le innumerevoli foglie degli alberi di questa grande foresta. Non c’è alcun paragone. Il Buddha replicò: – Ecco, un illuminato comprende tutte le leggi dell’universo, tutte le realtà e tutte le verità, ma parla solo di due cose e di nient’altro: della sofferenza e della via per uscirne. (Sn. LXVI.31) Con l’ignoranza, la bramosia e l’avversione come compagni, abbiamo continuato a fluire in ripetute esistenze da tempo immemorabile, e abbiamo sperimentato differenti tipi di sofferenza, siamo morti e rinati molte volte, senza vedere la fine del processo del divenire. Comprendendo i pericoli di questo processo, e che è il desiderio a causarli, liberandosi dai passati condizionamenti e non creandone di nuovi per il futuro, ognuno dovrebbe, consapevolmente, vivere una vita di equanimità. (Sn. XV, 9) Per scoprire la causa della sofferenza, il Buddha, purificando la mente, è potuto penetrare nella realtà più profonda, e analizzare il processo di causa ed effetto. Ha sperimentato che la sofferenza sorge perché c’è il desiderio, e che l’abitudine crea in noi una forte reazione mentale: essa è la causa della sofferenza. Ogni reazione, anche non intensa, ha un effetto cumulativo; s’intensifica a ogni ripetizione, 12 PARTE PRIMA sviluppando desiderio e avversione, e poi diventa taóhá, letteralmente sete, bramosia: l’abitudine mentale alla bramosia per ciò che non c’è, che non si possiede e all’insoddisfazione per ciò che c’è, che non piace. Il primo passo per emergere dalla sofferenza è il conoscere a fondo questa realtà. Il Buddha scoprì che il processo (o catena) del divenire è composto di dodici legami (o anelli della catena) che sono ognuno origine del successivo. Dove c’è ignoranza, nasce una reazione; dove nasce una reazione, si manifesta la coscienza; se c’è la coscienza, si manifestano mente e materia; dove ci sono mente e materia, sorgono i sei sensi; i sei sensi danno luogo al contatto; se c’è contatto, c’è una sensazione; la sensazione produce desiderio o avversione; desiderio e avversione producono l’attaccamento; se c’è l’attaccamento, inizia il processo del divenire; se c’è il processo del divenire, avviene la nascita; la nascita causa l’invecchiamento e la morte, oltre al dolore, al pianto, a sofferenza fisica e mentale, a tribolazioni di ogni genere. È così che si crea il cumulo di tutta la nostra sofferenza. (M.38) 13 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha L’anello della catena da spezzare All’origine del processo c’è l’ignoranza sulla realtà del corpo e della mente. Il Buddha scoprì che tra oggetto esterno e reazione mentale c’è un legame: la sensazione fisica. Ogniqualvolta un oggetto entra in contatto con i cinque sensi fisici e la mente, nel corpo sorge una sensazione. Come reazione alla sensazione, sorge bramosia o avversione. Se la sensazione è ritenuta piacevole, generiamo il desiderio di prolungarla; se la sensazione è ritenuta spiacevole, il desiderio di sbarazzarcene. Dice il Buddha in una sezione di questo processo: Dipendendo dal contatto (tra un oggetto e i sensi), sorge una sensazione; in conseguenza della sensazione, nasce il desiderio. L’immediata causa del sorgere di desiderio o avversione, e quindi della sofferenza, è la sensazione fisica e non qualcosa al di fuori di noi. Per liberarci dalla sofferenza dobbiamo farne esperienza. Avendo fatto esperienza di come sono le sensazioni, del loro sorgere, del loro passare, dell’attaccamento verso di esse, del pericolo insito in esse, e della liberazione dal loro condizionamento, il Risvegliato, o monaci, si è liberato da ogni attaccamento. (D.1) L’abitudine della mente è di generare bramosia verso le sensazioni percepite come piacevoli. Se invece apprendiamo come osservarle senza reagire, sperimentiamo che sono impermanenti e perciò 14 PARTE PRIMA causa di frustrazione, cioè di sofferenza. Va sviluppata la capacità di osservare con equanimità (in modo imparziale e senza giudizio), considerando ogni sensazione come manifestazione del continuo cambiamento. Solo così le reazioni sono sradicate strato dopo strato, fino a raggiungere lo stadio dove la mente è libera dall’abitudine a reagire e si può sperimentare uno stato senza sofferenza. L’anello di questa catena che ci rende schiavi: (…) in conseguenza della sensazione, nasce il desiderio, si trasforma in: in conseguenza della sensazione, nasce la saggezza. Il circolo vizioso della sofferenza è arrestato, la catena è spezzata. E inizia il processo di liberazione: Se l’ignoranza è eliminata, viene meno la reazione; se non c’è reazione, viene meno la coscienza; se la coscienza finisce, non si manifestano mente e corpo; in assenza di mente e corpo, non ci sono i sei sensi; mancando i sei sensi, manca il contatto; se non c’è più contatto, non c’è sensazione; se finisce la sensazione, finiscono desiderio e avversione; finiti desiderio e avversione, non c’è attaccamento; senza attaccamento, non c’è processo del divenire; venendo meno il processo del divenire, non avviene la nascita; se non c’è nascita, non ci sono neppure invecchiamento, morte, né tribolazione, dolore, pianto, sofferenza fisica e mentale. Si smette così di accumulare sofferenza. (M.38) 15 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha Ecco il dono del Buddha all’umanità: la scoperta dell’anello da spezzare per uscire dalla sofferenza, e l’insegnamento della tecnica di meditazione che permette di spezzarlo. Si potrà così uscire dall’ignoranza delle reazioni e aprire la via verso la fine di ogni sofferenza, verso la felicità suprema del nibbána. 16 PARTE PRIMA Tre tipi di saggezza* Il Buddha disse che occorre rimuovere i condizionamenti più profondi nascosti nel proprio inconscio, e che fino a quando questi non sono tutti sradicati, non ci si può considerare persone liberate. L’uomo, più che di parole, di filosofie e di credenze, ha bisogno di comprendere chi egli sia, di imparare a conoscere la propria natura attraverso l’esperienza. Le tradizioni religiose e le scuole spirituali hanno in comune un presupposto essenziale, secondo cui la causa d’insoddisfazione e sofferenza giace nell’ignoranza circa la propria esistenza. Ma per liberarsene non sono sufficienti la comprensione intellettuale e la fede religiosa, deve essere fatto qualcosa in concreto. Ognuno deve impegnarsi in questa ricerca. La caratteristica principale dell’insegnamento del Buddha è di mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità. Il contributo del Buddha all’umanità è l’insegnamento di un metodo per sviluppare la saggezza, per la propria liberazione. Siddhatta Gotama il Buddha penetrò la verità all’interno di se stesso, e con la saggezza conseguita raggiunse la liberazione da tutti i condizionamenti e da tutte le sofferenze. Egli indica la via, istruisce dettagliatamente sulla tecnica, ma ognuno deve percorrere concretamente l’intero cammino verso la liberazione. * Liberamente tratto da un discorso di Goenka nel corso di dieci giorni e dai testi elencati nella prefazione. 17 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha La “saggezza che libera” è quella che si realizza sulla base della propria esperienza. Ognuno deve impegnarsi e compiere il proprio sforzo. Gli Illuminati vi mostreranno solo la via. (Dhp 276) Il Buddha descrive tre tipi di saggezza: il primo è la saggezza trasmessaci da altri, attraverso insegnamenti orali o scritti, chiamata in pali suta maya paññá (la saggezza ascoltata). Il secondo è la saggezza intellettuale, che si acquisisce col ragionamento. Come nel primo caso, non si tratta di saggezza veramente nostra, ma di saggezza riflessa. In pali è cinta maya paññá (la saggezza ottenuta con la riflessione). Il terzo tipo di saggezza è quello che nasce dalla propria esperienza, dalla sperimentazione della verità, bhávaná maya paññá (la saggezza che libera). Ed è questo l’unico tipo di saggezza che produce un reale cambia mento nella vita, perché muta la natura della mente. Per evidenziare l’importanza di questo tipo di saggezza, ecco due esempi. Al ristorante Uno è quello del cliente al ristorante: legge il menu, si convince che la cucina sia ottima e quindi sente l’acquolina in bocca; ordina al cameriere e mentre aspetta si guarda attorno e osserva l’aria soddisfatta dei clienti già serviti. Ne deduce che il cibo deve essere di ottima qualità. E dopo che è stato servito, comincia a gustarlo davvero. 18 PARTE PRIMA La saggezza di chi ha solo letto il menù è suta maya paññá: è quella di chi ritiene buono ciò che viene proposto; cioè una saggezza basata su fede o fiducia, di quanto letto o ascoltato. La saggezza di chi, vedendo la gente soddisfatta, ritiene il cibo buono, grazie al ragionamento deduttivo, è cinta maya paññá. È saggezza intellettuale, priva di prove sperimentali (che il cibo sia buono, n.d.r.). La saggezza di chi gusta il cibo è bhávaná maya paññá, saggezza sperimentale: è l’esperienza vera e propria. Solo quando si mangia, si verifica se il cibo è buono. Per fare propria una verità e quindi credervi, bisogna sperimentarla. La ricetta del medico L’altro esempio è quello di chi va dal medico e, dopo una visita accurata, ascolta la diagnosi e torna a casa: ha molta fede nel dottore e nella sua cura, ma la sua è fede cieca e quindi mette la ricetta sul comodino e recita: - Una pillola al mattino, una pillola la sera. Una pillola al mattino, una pillola la sera. Recita il testo della ricetta, invece di prendere la medicina. Si limita a credere nel dottore. È suta maya paññá. Poiché l’essere umano è un essere razionale, ritorna dal medico e si fa chiarire la ragione della ricetta. Il medico gli spiega quali sono la malattia e la sua causa; che assumendo la medicina la causa sarà eliminata e che quando la causa sarà eliminata, la malattia scomparirà. Una spiegazione logica, ma invece di prendere la medicina, egli se ne va in giro 19 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha a spiegare a chi incontra che cosa ha detto il medico, tessendone le lodi. È cinta maya paññá. L’uomo ragiona e deduce che si tratta di una buona prescrizione e di un buon medico, ma non assume la medicina. Tutti gli illuminati e i santi hanno prescritto una cura universale per liberare l’uomo dall’infelicità: vivere secondo la legge morale, acquisire padronanza sulla mente e purificarla con la saggezza sperimentale. Dei tre tipi di saggezza, i primi due esistevano prima del Buddha. Il suo contributo specifico è la via per sperimentare la realtà e sviluppare la saggezza basata sull’esperienza: bhávaná maya paññá. La saggezza che libera Bhávaná significa meditazione o sviluppo mentale. Paññá è formato dalla radice ná (che significa “conoscere”) e dal prefisso pa (che significa “correttamente”). Si può quindi tradurre “conoscere correttamente”, equivalente a saggezza, comprensione, intui zione. Nei testi antichi, paññá è definita con “vedere le cose come sono e non come appaiono”. La sua caratteristica è di penetrare nella natura delle cose, e la sua funzione è duplice: scacciare il buio dell’ignoranza e preservare da manifestazioni incontrollate. Il Buddha ha scoperto che la vera saggezza è sperimentare la realtà dell’impermanenza (anicca) di ogni fenomeno mentale e fisico, rendersi conto della sofferenza (dukkha) che deriva dall’impermanenza, e la consapevolezza dell’inesistenza di un io (anattá). Suta maya paññá è la saggezza dell’accettare quanto trasmesso da altri; essa può ispirare a intraprendere 20 PARTE PRIMA e perseverare sul cammino, ma non conduce alla liberazione. Cinta maya paññá è la saggezza della conoscenza intellettuale di impermanenza, sofferenza e inesistenza dell’io; è raggiunta col ragionamento e non porta alla liberazione. Bhávaná maya paññá è la saggezza sperimentale che si ottiene con la pratica della meditazione, e porta alla liberazione. La pratica meditativa scoperta dal Buddha per sviluppare questa saggezza è Vipassaná, termine pali che significa osservazione della realtà così come è. Attraverso l’auto-osservazione e con i propri sforzi, il meditatore sperimenta, nella mente e nel corpo, come ogni cosa nel mondo sia impermanente, transitoria, sorgente di sofferenza, senza sostanza ed essenza, senza io. Ecco il contributo fondamentale del Buddha: la saggezza che libera. 21 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha L’essenza della saggezza* di S.N. Goenka Che cos’è la saggezza? È giusta comprensione, cioè l’esperienza della verità ultima, raggiunta penetrando la realtà, dall’apparenza alla profondità. È la facoltà di comprendere la verità completa, in ogni aspetto. Il saggio guarda in profondità, in modo accurato e penetrante, per cogliere la verità sottile e più nascosta. Non è saggezza la conoscenza intellettuale; tra essa e la saggezza sperimentale c’è una differenza paragonabile a quella tra il gioielliere che valuta accuratamente virtù e difetti di ogni gemma, con sguardo competente per stimarne il valore, e il bambino che considera i gioielli preziosi come attraenti sassi colorati. Vipassana significa “vedere le cose in modo profondo” ed è l’abilità di vedere le cose come realmente sono, e non come in apparenza sembrano. Normalmente osserviamo la realtà apparente, siamo come il bambino che vede del gioiello il colore e il luccichio. Per essere in grado di osservare la realtà interiore, abbiamo bisogno di uno sguardo penetrante (come quello del gioielliere), cioè di sviluppare saggezza mediante la pratica di Vipassana. Per sviluppare saggezza, sono essenziali il rispetto di una condotta morale e lo sviluppo della concen* Da S.N. Goenka, The essence of wisdom, Vipassana Patrika, notiziario in hindi. V.R.I., Dhammagiri, Igatpuri, India, agosto 1995. 22 PARTE PRIMA trazione mentale. Solo la mente acuta e stabilizzata nella giusta concentrazione può meditare con Vipassana e sperimentare la verità così come è. L’introspezione È necessaria l’introspezione: dobbiamo esplorare e sperimentare, perciò osserviamo il corpo e ciò che accade in esso, coltivando piena attenzione e giusto distacco; perciò impariamo a osservare il respiro che entra e che esce dalle narici. L’osservazione del respiro, con un allenamento diligente, conduce gradualmente alla consapevolezza delle sensazioni – intense e sottili – in ogni parte del corpo. La sensazione fisica è la manifestazione di un contenuto mentale. Osserviamo continuamente i tipi di mente che sorgono di momento in momento, osserviamo continuamente anche i diversi contenuti della mente. Diamo più importanza all’osservazione del corpo perché le sensazioni sono percepite dalla mente, ma sperimentate nel corpo. Ogni impurità nella mente è intimamente connessa con qualche sensazione nel corpo. Vipassana è basata sulle sensazioni: per mezzo di esse possiamo osservare la natura di mente-corpo e arrivare a fare esperienza che il corpo è un insieme di sottili particelle subatomiche che cambiano costantemente, sorgono e passano; che corpo e mente sono privi di solidità e privi di essenza. Questo flusso sempre mutevole del corpo e della mente può essere osservato solo con l’aiuto di una concentrazione acuta. Possiamo sperimentare la realtà della sofferenza, e anche l’assenza di un io. Cominciamo a comprendere 23 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha che il corpo e la mente sono privi di solidità, privi di essenza. Non c’è nulla nel flusso di mente e corpo che sia permanente e stabile, che possa essere chiamato io o mio, o che possiamo controllare. E cominciamo a osservarlo con imparzialità. Più l’osservazione delle sottili sensazioni è profonda, più saldo è il distacco. Grazie alla saggezza ottenuta praticando Vipassana, il nostro attaccamento diviene sempre più debole, e così siamo in grado di osservare con sempre maggiore obiettività. Quando, con una lanterna, si entra in una casa buia, l’oscurità è scacciata, la luce illumina ovunque e si può vedere chiaramente ciò che vi è contenuto. Nello stesso modo, la luce della saggezza bandisce le tenebre dell’ignoranza e le eterne nobili verità sono chiaramente illuminate. La verità della sofferenza Con la continua pratica, facciamo esperienza della verità della sofferenza al livello più profondo: la mente costantemente insoddisfatta è incessantemente afflitta dalla sete della bramosia, una sete inestinguibile e senza fondo, che consuma tutti i nostri sforzi per placarla. Sperimentiamo la sofferenza del nostro attaccamento all’idea che esista un ego, e sperimentiamo la sofferenza per l’attaccamento ai nostri desideri e alle nostre opinioni, che ci rendono continuamente tesi e preoccupati. Quando ci rendiamo conto della sofferenza e delle sue cause, comprendiamo il Nobile Sentiero che elimina le cause – bramosia e avversio- 24 PARTE PRIMA ne – e che conduce dunque alla liberazione da essa. La saggezza si rafforza in noi grazie a Vipassana, e sradica tutte le delusioni, le illusioni, le false impressioni e l’ignoranza. Esse non riescono a fissarsi nella mente e di conseguenza la realtà diviene chiara. La mente è purificata da tutte le impurità. E progredendo su questo cammino salutare, raggiungiamo lo stato puro degli ariya (le persone nobili). Sperimentiamo la gioia del nibbána. La felicità ottenuta è superiore a ogni altra felicità. Il godimento dei piaceri sensoriali non conduce a felicità duratura. Ogni piacere giunge a conclusione, la mente lotta per riottenerlo e questo desiderio porta sofferenza. Quando siamo allenati a osservare con giusto distacco, la nostra capacità di osservazione può rimanere stabile, anche se gli oggetti cambiano continuamente. Non ci esaltiamo quando sperimentiamo piaceri sensoriali o spirituali, né piangiamo quando passano. In entrambe le situazioni, osserviamo come uno spettatore. Quando osserviamo con equanimità la natura mutevole anche della più sottile sensazione, sperimentiamo l’impermanenza. La vera felicità è il vedere ciò che è davanti ai nostri occhi senza impurità nella mente: è diþþa dhamma sukha vihára (lo stato felice di comprensione della verità). Venite, rinforziamo la saggezza, bhávaná-mayá paññá, mediante la pratica di Vipassana. Lasciamoci dietro di noi la continua lotta causata da bramosia e avversione. Stabilizzandoci nella saggezza, otteniamo la liberazione e raggiungiamo la vera contentezza, la vera felicità. 25 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha Risvegliatevi alla saggezza* di S.N. Goenka Che cos’è l’ignoranza? È uno stato mentale di ottusità, disattenzione, incapacità. A causa sua generiamo condizionamenti mentali, contaminando la mente con nuove negatività. Siamo poco consapevoli di come imprigioniamo noi stessi con i legami di bramosia e avversione e di come stringiamo i nodi di questi legami. Questa è l’ignoranza che ci tiene legati alla sofferenza. Possiamo sradicarla rimanendo consapevoli, vigili e attenti. Così non permetteremo ai condizionamenti di lasciare profonde tracce; non permetteremo a noi stessi di imprigionarci ai ceppi di bramosia e avversione. La qualità dell’attenzione mentale, unita all’esperienza diretta, è saggezza che sradica l’ignoranza. Per risvegliare questa saggezza e stabilizzarci in essa, vigilando sulle nostre azioni mentali, vocali e fisiche, meditiamo con Vipassana: –– quando camminiamo, camminiamo con consapevolezza; –– quando stiamo in piedi, stiamo in piedi con consapevolezza; –– quando sediamo, sediamo con consapevolezza; –– quando siamo distesi, siamo distesi con consapevolezza. * Da S.N. Goenka, Wake up to the wisdom, Vipassana Patrika, op. cit., settembre 1995. 26 PARTE PRIMA Dormendo o da svegli, in piedi o seduti, in ogni stato, coltiviamo la capacità di rimanere consapevoli e attenti. Non dovremmo svolgere alcuna azione senza consapevolezza: –– tutte le attività del corpo dovrebbero essere svolte con consapevolezza; –– tutte le attività vocali dovrebbero essere svolte con consapevolezza; –– tutte le attività mentali dovrebbero essere svolte con consapevolezza. Insieme alla consapevolezza, dovremmo sperimentare le tre caratteristiche della saggezza: tutti i fenomeni sono impermanenti (anicca); essendo impermanenti danno origine a sofferenza (dukkha) e sono privi di essenza, cioè non possono essere l’io, (anattá). Non ci dovrebbero essere attaccamento, avversione, bramosia o ripugnanza verso nessun fenomeno; bensì consapevolezza insieme a giusto distacco. Questo è Vipassana, la saggezza che distrugge l’ignoranza. Solo nella distruzione dell’ignoranza risiede il nostro benessere, la nostra felicità, la nostra liberazione. Risvegliamo questa saggezza e stabilizziamoci in essa. Sradichiamo e distruggiamo l’ignoranza. 27 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha Una meditazione concreta e attuale* di S.N. Goenka Tutti cerchiamo pace e armonia, perché mancano alla nostra vita. E quando ci sentiamo tesi, agitati, irritati, sofferenti, non ci limitiamo a soffrirne, ma riversiamo sugli altri il nostro malessere. Non è certamente il modo giusto di vivere. Si dovrebbe vivere in pace con se stessi e con gli altri. Ma come rimanere in armonia con se stessi e mantenerla attorno a noi? Diventiamo tesi e infelici, e talvolta la vita ci sembra insopportabile, quando qualcuno si comporta in un modo che non ci piace e quando succede qualcosa di sgradito; ma nella vita accadranno sempre fatti e situazioni contrarie ai nostri desideri. Allora, come non creare tensione e rimanere in pace? In India e nel mondo, saggi e santi del passato hanno studiato il problema dell’umana sofferenza e proposto una soluzione: l’applicarsi nello sviare l’attenzione, non appena accade qualcosa di indesiderato e s’inizia a reagire con collera, paura o altro. Suoi modi d’applicazione sono, per esempio, il contare, il bere un bicchiere d’acqua; oppure il ripetere una qualsiasi parola, frase, o anche il nome di una divini- * Discorso pubblico, Berna, Svizzera, 1980. Estratto. 28 PARTE PRIMA tà o di persona santa in cui si ha fede: la mente viene sviata e liberata dalla negatività, fino a un certo livello. Questa soluzione è risultata valida, ha funzionato e funziona: la mente è alleggerita dall’agitazione, ma soltanto al livello conscio. Sviando l’attenzione, si spinge la negatività più in profondità, nell’inconscio, e lì continua a moltiplicarsi. Al livello conscio ci sono pace e armonia, ma nelle profondità c’è un vulcano che prima o poi esploderà. Altri ricercatori di verità si sono spinti oltre: studiando all’interno di loro stessi la realtà della mente e del corpo, hanno compreso che sviare l’attenzione è una fuga. La soluzione La soluzione del Buddha consente di affrontare la negatività mentale, osservandola ogni volta che sorge. Non appena la si osserva, essa inizia a perdere la sua forza; lentamente s’indebolisce e così viene eliminata. È una soluzione che evita i due estremi di repressione e permissivismo. Se repressa nell’inconscio, la negatività non è sradicata; se espressa nell’azione fisica o verbale, crea altri problemi. Ma se la si osserva solamente, la negatività se ne va, viene eliminata. È una soluzione pratica: non si possono osservare le negatività astratte, come paura, collera, passione; ma con esercizio e pratica adeguati, si possono osservare il respiro e le sensazioni fisiche, entrambi collegati direttamente con la negatività mentale. Si apprende come osservare con equanimità qualsiasi 29 Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha cosa accada, qualsiasi sensazione compaia. Permettendo alla negatività di manifestarsi, essa se ne va. Gradualmente si smette di reagire, si smette di moltiplicare la propria infelicità. Più si medita, più si scopre quanto rapidamente ci si possa sbarazzare delle negatività, e come la mente diventi più pura. E una mente pura è equanime e piena di amore disinteressato, di compassione per la debolezza e la sofferenza, e di gioia per il successo e la felicità altrui. Questo è ciò che insegnava il Buddha, un’arte di vivere; non un credo religioso, una dottrina filosofica o la pratica di riti e cerimonie. Insegnò a osservare la natura così com’è, mediante l’osservazione della realtà interiore. Quando la saggezza si risveglia, allora si può abbandonare l’abitudine alla reazione. Quando si smette di reagire, si è capaci di vera azione, scaturita da una mente equilibrata e serena, una mente che vede e comprende la verità. La meditazione Vipassana Questa esperienza diretta, questa tecnica di autoosservazione è la meditazione Vipassana, l’essenza dell’insegnamento del Buddha. Vipassana significa osservare le cose così come sono in realtà, non come sembrano essere. Penetrare la realtà apparente fino a raggiungere la realtà ultima della mente e del corpo. Quando la si sperimenta, s’impara a non reagire, a non creare più negatività e così, naturalmente, le impurità accumulate sono eliminate. Ci si libera dalla sofferenza e si sperimenta la vera felicità. 30 PARTE PRIMA E può essere praticata da chiunque perché il rimedio, come la causa, è universale. Il Buddha non ha mai voluto convertire da un credo a un altro, né aveva alcun interesse a fondare una setta o una religione. Il suo solo interesse era il Dhamma, la legge di natura, la verità che ognuno può scoprire in sé. L’unica conversione dovrebbe essere dalla sofferenza alla felicità, dalle negatività alla purezza, dalla schiavitù alla liberazione, dall’ignoranza alla saggezza e all’illuminazione. 31 PARTE SECONDA L’insegnamento del Buddha nei discorsi Introduzione* La lingua pali L a lingua dei discorsi e di tutto l’insegnamento è il pali, scelto dal Buddha per insegnare e poi utilizzato per tramandare e trascrivere i suoi insegnamenti. La sua scelta del dialettale pali (invece della lingua sanscrita) è assai significativa ed esprime l’intenzione di non confinare l’insegnamento alla ristretta cerchia degli intellettuali, ma di divulgarlo attraverso l’uso della lingua parlata dalla gente comune. Ancor oggi nella trasmissione dell’insegnamento, sono usate parole pali perché nessuna lingua, per quanto ricca, può adeguatamente esprimere i contenuti della complessa terminologia utilizzata dal Buddha. L’origine del pali, come di altri vernacoli, è in genere attribuita alla lingua vedica parlata dagli indo-europei invasori dell’India 5000 anni fa. Dopo la nascita di questi dialetti, la lingua vedica fu codificata in una lingua letteraria, il sanscrito. Secondo alcuni studiosi, il pali è il dialetto dei tempi del Buddha parlato nel regno di Kosala (tra l’attuale Uttar Pradesh e il Nepal occidentale) o nel regno di Magadha (l’attuale Bihar). Possibilità ambedue plausibili, considerando che il Buddha visse e inse* Dai testi elencati nella prefazione. L’insegnamento del Buddha nei discorsi gnò principalmente in quei due regni. Come il sanscrito e il latino, il pali è una lingua morta, utilizzata come lingua monastica e di studio, nei paesi di tradizione buddhista theraváda, per far conoscere e per spiegare quella ancor viva tradizione. Uno dei significati della parola “pali” è ciò che protegge o preserva perché, secondo la tradizione, il pali ha le funzioni di proteggere e di custodire l’incalcolabile tesoro delle parole pronunciate dal Buddha; infatti, è la lingua degli insegnamenti che guidano verso la liberazione. A conferma di questo, “pali” significa anche norma, linea, filo, filo conduttore e spago. I tesorieri del Dhamma* Le parole del Buddha furono messe per iscritto dopo cinque secoli circa dalla sua morte. Nell’India del suo tempo la scrittura era conosciuta, ma il suo uso era limitato al commercio. Per i temi spirituali, la memoria umana ben addestrata era considerata come la registrazione migliore. La tradizione di memorizzarli non è mai stata interrotta e anzi continua tuttora per opera dei Dhamma-bháódágárikas, i teso* Dhamma è un termine pali che deriva dalla radice indoeuropea dhr che significa sostenere, stabilizzare. Dhamma è difficilmente traducibile e ha molti significati: l’ordine che stabilizza e governa l’universo, la legge morale con i doveri religiosi e sociali, la dottrina o legge, predicata dal Buddha. Nei testi sull’insegnamento del Buddha, Dhamma significa: fenomeno, elemento, stato mentale, oggetto mentale, caratteristica, qualità. 38 PARTE SECONDA rieri del Dhamma. Questa tradizione ha permesso la preservazione integrale delle parole del Buddha durante 2500 anni. Per questa necessità di preservare con accuratezza gli insegnamenti, furono tenuti dei concili*, cioè i raduni dei monaci. Analogamente, nell’antica Grecia, per secoli, l’Iliade e l’Odissea furono trasmesse oralmente. E come i poemi omerici, i discorsi del Buddha hanno le caratteristiche del linguaggio orale, come elencazioni e frequenti ripetizioni, estese metafore e descrizioni: tutte finalizzate a facilitare la memorizzazione e a stimolare l’ascolto della loro recitazione. Gli insegnamenti, tramandati oralmente, furono dunque scritti e raccolti in collezioni che costituiscono un vero e proprio canone. La loro trascrizione ebbe luogo nel 25 a.C. nello Sri Lanka, durante il quarto concilio, dove i monaci esperti li redigevano. * Il primo concilio fu convocato tre mesi dopo la morte del Buddha, nel 483 a.C. all’inizio della stagione delle piogge, a Rajagaha, capitale del regno di Magadha. Patrocinato dal re Ajatasattu, si svolse nella grotta Sattapanni. Vi parteciparono cinquecento monaci Arahant (cioè che avevano raggiunto lo stadio finale della ricerca spirituale o Illuminati), per garantire la massima purezza e completezza del loro intendimento della dottrina. Essi ripeterono oralmente, classificarono e raggrupparono tutti gli insegnamenti del Buddha. I concili theraváda sono sei: i primi tre furono tenuti in India, il quarto in Sri Lanka intorno all’80 a.C., in occasione del quale vi fu la prima trascrizione degli insegnamenti. Il quinto e il sesto si tennero in Myanmar, la nazione che ha preservato sia le parole sia la parte pratica della meditazione Vipassana. 39 L’insegnamento del Buddha nei discorsi Il Canone pali, la raccolta dei discorsi Il Canone pali (o Tipiþaka) è la raccolta di circa 84.000 discorsi, composta di tre parti, chiamate “ceste” o “canestri”, da cui il titolo di Tipiþaka: ti=tre, piþaka=canestri. Dall’introduzione di Goenka in Vipassana Re search Institute (a cura di), Páli Tipiþaka, V.R.I., Ibid, 1999: “Tutto il Tipiþaka è soffuso della nobile e sacra personalità del Buddha, della sua perfetta illuminazione e saggezza, del suo comportamento morale, della corretta comprensione e della sua compassione. Contiene la via del Dhamma, della completa emancipazione dalla sofferenza, l’incommensurabile e ineguagliabile insegnamento del Buddha. Nel Tipiþaka non solamente si trova il panorama della ricerca spirituale e filosofica dell’India di ventisei secoli fa, ma attraverso i discorsi, si possono cogliere gli aspetti storici, politici e culturali del tempo, le tradizioni, i costumi, l’organizzazione commerciale, industriale, educativa, le condizioni di vita nelle città e nelle campagne. L’influenza del Buddha non è confinata al pensiero indiano, ma riconoscibile nel pensiero spirituale e nella letteratura del resto del mondo. Perciò le sue parole hanno oggi uno speciale significato per l’umanità”. 40 PARTE SECONDA Le tre parti sono: 1)Vinaya Piþaka, la “cesta” della disciplina: contiene le prescrizioni che regolano la vita dell’ordine monastico. 2)Sutta Piþaka, la “cesta” dei discorsi: contiene discorsi, sermoni e dialoghi del Buddha, e di alcuni dei suoi principali discepoli. 3)Abhidhamma Piþaka, la “cesta” della dottrina: contiene un compendio di insegnamenti sul funzionamento e l’interdipendenza di mente, fattori mentali e materia, e il fenomeno che li trascende. I discorsi della presente raccolta sono tratti dal Sutta Piþaka, la “cesta” di più grande interesse, non solo perché raccoglie l’insegnamento in tutta la sua interezza e varietà di esposizione, ma anche perché vi sono molti discorsi non solo diretti ai monaci, ma anche a laici. Il Buddha si esprimeva col linguaggio adatto a circostanza, cultura e capacità di comprensione degli ascoltatori, utilizzando un’abbondanza di risorse didattiche e apologetiche, (similitudini, parabole, ripetizioni), per comunicare al meglio il suo messaggio. Sempre rivolto a risvegliare la saggezza necessaria per iniziare a meditare, per la realizzazione personale con l’esperienza della verità. Criteri d’interpretazione L’intento principale è quello di offrire al lettore moderno una versione dell’insegnamento attraverso dieci discorsi. Quindi l’aspetto in maggiore rilievo 41 L’insegnamento del Buddha nei discorsi attiene a traduzione e interpretazione. Nella traduzione si è preferito un approccio liberale nella forma, ma rigoroso e corrispondente al testo originale nella sostanza. Ogni lingua, pur ricca che sia, ha le sue limitazioni e specificatamente con riferimento ai termini tecnici pali. Le parole stesse del Buddha sono state di guida: Vi sono due cose, o monaci, che possono far durare a lungo la verità del Dhamma, assicurandone la preservazione e la diffusione, senza alcuna distorsione e senza il pericolo che essa possa eclissarsi e scomparire. Quali cose? L’appropriata collocazione delle parole, e la loro corretta interpretazione. (A. 1.21) (...) Tutte le verità, che vi ho insegnato dopo averle personalmente realizzate, dovrebbero essere recitate da tutti, contemporaneamente e senza alcun dissenso, in una versione unanime che metta a confronto significato con significato ed espressione con espressione. In questo modo, questo insegnamento unito alla pura pratica durerà per molto tempo. (D. 29) 42 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma (Dhammacakkapavattana Sutta, S.LXI,11) Testo del discorso* C osì io stesso ho udito (1): quando viveva a Varanasi, nella zona di Isipatana, nel parco dei cervi Mideldai, il Beato si rivolse un giorno a un gruppo di cinque asceti (2): – Monaci, chi si è ritirato dalla vita del mondo dovrebbe fare attenzione a evitare due estremi. Quali sono questi due estremi? Il primo è l’indulgere nei piaceri dei sensi, cosa ignobile che non porta a nulla di buono. Il secondo è l’auto-infliggersi penitenze dolorose, che non conducono a nessun risultato positivo. La via di mezzo scoperta dal Perfetto evita questi due estremi. Essa genera capacità d’intuizione e conoscenza, e porta alla pace, alla comprensione diretta, all’esperienza della verità, alla completa liberazione, al nibbána (3). E qual è questa via di mezzo? È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: la giusta comprensione, il giusto pensiero, la giusta parola, la giusta azione, i giusti mezzi di sussistenza, il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione. Ogni persona per raggiungere la perfezione scopre questa via di mezzo che, come ho detto, è in grado di conferire profondità di saggezza e di visione, oltre a condurre alla pace, a una conoscenza immediata, alla verità, alla liberazione e al nibbána. * Le note numerate sono alla fine del testo del discorso 45 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma Le quattro nobili verità La sofferenza esiste. Il fatto che esista la sofferenza è una delle più profonde verità, è la prima nobile verità. (4) Constatiamo infatti che la nascita è sofferenza, che il processo di invecchiamento è sofferenza, che la malattia è sofferenza, che la morte è sofferenza. La sofferenza ha molte forme: pena, rimpianto, dolore, angoscia e disperazione; come è sofferenza dover sopportare ciò che si detesta e dover rinunciare a ciò che si ama, e anche non ottenere ciò che si desidera. In breve, l’attaccamento ai cinque aggregati* produce sofferenza.(5) La seconda nobile verità è il comprendere la causa profonda della sofferenza. E la causa è il desiderio, alimentato dal piacere e dalla continua ricerca di gioie passeggere che perpetuano l’essere. Questo desiderio diventa poi bramosia per i piaceri dei sensi, bramosia di esistere o bramosia di uscire dalla prigione dell’esistenza. (6) La terza nobile verità è la fine della sofferenza, cioè lo stadio in cui la sofferenza finisce. Questa esperienza avviene quando il desiderio (causa della sofferenza) si dissolve senza lasciare traccia; quando si rinuncia * Gli aggregati costituiscono l’insieme dell’individuo: l’aggregato corpo e i quattro aggregati mentali, cioè la sensazione, la percezione, le formazioni mentali (pensiero discorsivo, volizione, immaginazione, emozione) e la coscienza (intesa come il rendersi conto dei dati sensoriali). I cinque aggregati, sia singolarmente sia combinati fra loro, non sono da considerarsi come un io, un’entità o una personalità, ma come processi in continua trasformazione. Questa continua attività degli aggregati è definita coscienza individuale. 46 PARTE SECONDA al desiderio, lo si abbandona, lo si lascia andare, lo si rifiuta. (7) La quarta nobile verità è il riconoscimento della via che conduce alla fine della sofferenza, cioè il Nobile Ottuplice Sentiero: la giusta comprensione, il giusto pensiero, la giusta parola, la giusta azione, i giusti mezzi di sussistenza, il giusto sforzo, la giusta consapevolezza, la giusta concentrazione (8). Il processo di conoscenza Il processo che dall’intuizione, attraverso la saggezza e l’esperienza, mi ha aperto gli occhi, permettendomi di scoprire concetti prima mai conosciuti, si è svolto in tre fasi, per ognuna delle quattro nobili verità. –– Per la prima nobile verità, dapprima ho constatato l’esistenza della sofferenza; quindi che questa poteva essere diagnosticata e sperimentata; poi che la diagnosi era stata fatta e la sofferenza sperimentata. –– Per la seconda nobile verità, dapprima ho capito quale fosse la causa della sofferenza; poi che la causa poteva essere estirpata, poi che essa era stata estirpata. –– Ho quindi intuito, compreso e verificato l’esistenza della terza nobile verità: la fine della sofferenza; poi ho capito che doveva essere sperimentata; e in seguito che questa esperienza era avvenuta. –– Per la quarta nobile verità ho compreso quali sono i mezzi per l’eliminazione della sofferenza; 47 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma poi mi sono reso conto che questi mezzi devono essere messi in pratica, e infine ho verificato che l’intero percorso era stato da me completato. Fino a quando la capacità di vedere e comprendere la realtà non si era completamente purificata attraverso queste dodici fasi (tre fasi per ciascuna nobile verità), non ho preteso di aver raggiunto la piena illuminazione, che è la meta più alta che si possa raggiungere in questo mondo (con i suoi dei, i suoi angeli di morte, la sua suprema divinità, il genere umano, i suoi monaci, i suoi preti, i suoi principi e i suoi comuni mortali). (9) Ma una volta vista e compresa la realtà, mi fu chiaro che la totale liberazione era incontestabile, che questa era sicuramente la mia ultima nascita, che non ci sarebbe più stato rinnovamento dell’essere. Questo è ciò che disse il Beato e il gruppo di cinque monaci accolse le sue parole con gioia e piena approvazione. Durante il discorso accadde anche che nel venerabile monaco Koóðañña sorgesse la chiara e purissima visione della verità (e cioè che tutto ciò che è soggetto alla nascita è destinato a finire). In quel momento tutte le divinità della terra seppero che la ruota della verità, messa in moto dal Beato, aveva cominciato a girare, e da esse si levò l’esclamazione: “A Varanasi, nel parco dei cervi di Isipatana, la ruota della verità, unica in tutto l’universo, si è messa in moto ad opera del Beato. Nessuno, monaco o sacerdote, dio o angelo della morte, né divinità superiori, né alcuno al mondo potrà mai arrestarla.” All’udire questo, le divinità della terra e tutti gli dei nei sei paradisi della sfera sensibile a loro volta 48 PARTE SECONDA pronunciarono e ripeterono l’annuncio, che si propagò fino alla soglia della dimora delle divinità superiori; e quando in un attimo s’innalzò fino al loro mondo, tutto l’universo si scosse e tremò. Allora il Beato esclamò a gran voce: – Koóðañña sa! Koóðañña sa! – e fu così che il venerabile acquistò l’appellativo di Aññáta Koóðañña: Koóðañña che sa. 49 Note 1. Queste tre parole sono sempre all’inizio dei discorsi del Buddha, fin dal primo Concilio dei discepoli, (v. nota a pag. 39) tenutosi tre mesi dopo la morte dell’Illuminato. Il Venerabile Ananda ebbe il compito di riportare tutti i discorsi. Poiché l’unico modo a quei tempi era di memorizzarli e passarli oralmente, prefisse a ogni discorso “Evaí me suttaí” (Così io stesso ho udito) per testimoniarne personalmente l’autenticità. 2. Sono i cinque asceti che accompagnarono Siddhatta Gotama durante gli anni della ricerca più severa e che lo abbandonarono quando egli, comprendendo che gli eccessi erano ”ignobili e dolorosi” e non conducevano a risultati positivi, iniziò a praticare la via di mezzo e la meditazione Vipassana. Il più anziano era Koóðañña, gli altri erano Bhaddiya, Vappa, Mahánáma, Assaji. 3. La liberazione, la libertà da tutti i condizionamenti, da tutte le sofferenze è possibile. Il Buddha ha spiegato: “C’è una sfera che sta al di là dell’intero campo della materia, dell’intero campo della mente, che non è né questo, né un altro mondo, né entrambi, né la luna, né il sole. Non affermo che sorga, né che svanisca, né che ci sia, né che muoia, né che rinasca. È senza supporto, senza sviluppo, senza fondamento. Essa è la fine della sofferenza”. (Ud. 8.1) Il nibbána non è uno stato che si raggiunge dopo la morte, ma è sperimentabile, qui e ora, dentro se 50 PARTE SECONDA stessi. Qualsiasi descrizione confonderebbe. Piuttosto che discutere, la cosa più importante è sperimentare. “La nobile verità della fine della sofferenza deve essere sperimentata” ha detto il Buddha. Quando si sperimenta, solo allora il nibbána è reale e tutte le argomentazioni a riguardo diventano irrilevanti. Per arrivare a sperimentarlo è necessario penetrare oltre la verità apparente e fare esperienza della dissoluzione del corpo e della mente. Più si penetra oltre la realtà apparente e si abbandonano desiderio, avversione e attaccamento, più ci si avvicina alla verità ultima. 4. Il Buddha definisce “nobili” le quattro verità, perché la loro comprensione trasforma l’individuo, facendolo incamminare verso la liberazione. 5. Così spiega il Buddha i differenti tipi di sofferenza: “Essere colpiti da perdite e avversità, a cui seguono uno stato mentale di tristezza, cordoglio, malinconia, pena e senso di sventura; oppure, essere di fronte a rovine e disgrazie e ci si intristisce, ci si lamenta, si geme e si piange, possiamo definire tutto ciò afflizione. Inoltre, vi sono afflizione e sofferenza fisiche e mentali dovute a emozioni dolorose e sgradevoli. Vi sono privazioni di varia natura, e si sperimentano desolazione, angoscia, tribolazione, in un crescendo di sofferenza, fino a raggiungere la disperazione. Poi c’è la sofferenza del subire ciò che non piace: essere in contatto con oggetti dei sensi (immagini, suoni, odori, sapori, oggetti tattili e oggetti mentali per i quali si prova avversione antipatia o ripugnanza); ed essere in situazioni o con persone ritenute spiacevoli. C’è la sofferenza di essere 51 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma separati da ciò che si ama, sia esso oggetto, situazione o persona, e la sofferenza di non ottenere ciò che si desidera. In tutti coloro che sono sotto il peso della sofferenza e delle sue manifestazioni, del dolore fisico e di quello mentale, della disperazione, sorge il desiderio: che bello se non esistessero sofferenza, dolore e disperazione, e se potessimo non conoscere mai né sofferenza, né dolore, né disperazione! Ma il solo desiderio non basta”. (D.22) Si verifica per esperienza diretta che la sofferenza deriva dall’attaccamento ai cinque aggregati (il corpo e le quattro parti della mente, la coscienza, la percezione, la sensazione, la reazione, e la loro combinazione). L’alto grado di identificazione e di attaccamento per questo io non provoca altro che sofferenza. 6. Dice il Buddha:”Ma dove sorge il desiderio e dove si radica? Il desiderio nasce e si radica nella sfera fisico-mentale, ovunque ci sia qualcosa che attira e che piace. I sensi fisici (vista, udito, odorato, gusto, tatto) e la mente sono assoggettati, sensibili al piacere e in ognuno di essi il desiderio nasce e mette radici. Gli oggetti dei cinque sensi sono piacevoli e seducenti: lì il desiderio sorge e si radica. I contenuti mentali sono piacevoli e seducenti: lì il desiderio sorge e si radica. Così nella percezione, nel contatto, nella sensazione che sorge dal contatto, nella reazione di piacere dei sensi con gli oggetti, lì ovunque c’è qualcosa di piacevole, nasce e s’insedia il desiderio. La bramosia che si prova per oggetti visivi, suoni, odori, sapori e contatti fisici, come pure per gli oggetti mentali, è fonte di piacere. E nasce il desiderio di provarla ancora, e questo desiderio mette radici. Quando c’è un pensiero di un oggetto vi- 52 PARTE SECONDA sivo, la mente ne gode e ne è attratta; è così che nasce e si afferma il desiderio. Anche pensieri di suono, odore, sapore e contatto fisico, come pure di contenuti mentali, sono fonte di piacere e di attrazione, e provocano la nascita e l’affermarsi del desiderio. La mente si perde volentieri in pensieri di oggetti dei sensi, e ne è attratta; e ogni volta la mente è preda del desiderio, il desiderio prende dimora in essa” (D.22). Da un altro discorso: “A chi fa esperienza delle sensazioni insegno la verità della sofferenza, insegno la verità del sorgere della sofferenza, insegno la verità della fine della sofferenza e insegno la verità del cammino che conduce alla fine della sofferenza.” In questo passaggio, il Buddha afferma senza possibili equivoci che le quattro nobili verità possono essere comprese, realizzate e vissute solamente attraverso l’esperienza delle sensazioni del corpo. E infatti, analizzando le nobili verità, alla luce delle sensazioni “Qualsiasi sensazione si provi, sono tutte sofferenza” (M.3), sono sofferenza non solo le sensazioni spiacevoli, ma anche quelle piacevoli e quelle neutre, a causa della loro natura impermanente. Ogni sensazione piacevole ha in sé il seme della sofferenza, perché reagiamo con bramosia e attaccamento (non essendo consapevoli della loro impermanenza). 7. Così spiega il Buddha: “Consiste nella completa eliminazione del desiderio, nella rinuncia, nell’abbandono dello stesso, nella liberazione e nel distacco dallo stesso. Ma dov’è possibile annientare e distruggere il desiderio? Monaci, ovunque nel mondo fisico e mentale vi sia qualcosa che ci attira e procura piacere, lì il desiderio può essere spazzato via. Si può, quindi, 53 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma eliminare il desiderio che nasce dal godimento dei sensi, connesso agli oggetti dei sensi, che nasce dal prendere coscienza dei fenomeni attraverso i sensi e dal contatto dei sensi con i loro oggetti. Si può distruggere il desiderio che sorge con le sensazioni, con le percezioni e le reazioni mentali agli oggetti dei sensi. Anche quando il desiderio è generato dalla bramosia per questi oggetti, dal concetto che ce ne formiamo e dall’indulgere del pensiero, esso può essere eliminato”. (D.22) 8. L’Ottuplice Nobile Sentiero insegnato dal Buddha è diviso in tre parti: –– la prima parte consiste nel vivere, per il proprio bene e quello della società, un’esistenza basata sulla legge (o condotta) morale, che comprende la giusta azione, il giusto parlare e il giusto modo di guadagnarsi da vivere (sìla); –– la seconda parte consiste nello sviluppare la concentrazione e la padronanza della mente, momento dopo momento, in modo da non generare impurità mentali, e comprende la giusta consapevolezza, il giusto sforzo, la giusta concentrazione (samádhi); –– la terza parte è quella in cui si procede alla purificazione della mente con la pratica del giusto pensiero e della giusta comprensione (paññá). Così il Buddha spiega: “Cos’è la giusta comprensione? Consiste nella reale conoscenza della sofferenza, di quale ne sia l’origine, di come essa possa essere estirpata e di quale sia la via che conduce alla sua eliminazione. Cos’è il giusto pensiero? Esso consiste nei pensieri di rinuncia, e in tutti quei pensieri che sono totalmente 54 PARTE SECONDA privi di avversione e di violenza. Cos’è, o monaci, la giusta parola? Astenersi dalla menzogna, dalla calunnia e dalla maldicenza, da parole aspre e discorsi inutili. Cos’è, o monaci, la giusta azione? Non uccidere, non appropriarsi di ciò che non ci appartiene, astenersi da una cattiva condotta sessuale. E quali sono i giusti mezzi di sussistenza? Un discepolo autentico rinuncia a guadagnare con mezzi illeciti e si procura da vivere in modo legittimo. E il giusto sforzo? Il monaco vuole fermamente impedire il sorgere d’impurità mentali ed esercita lo stesso sforzo, applicandosi con energia e perseveranza, per estirpare le impurità mentali che si sono manifestate in lui. Egli fa inoltre un grande sforzo e stimola le proprie energie per generare in sé purezza mentale, e s’impegna con tutta la volontà per preservarla e accrescerla. E cosa s’intende, monaci, per retta consapevolezza? Essa è propria del monaco che persevera con fervore nel corretto esercizio della presenza mentale. Egli fa ciò dopo aver eliminato ogni desiderio e avversione nei confronti di questo mondo fisico e mentale – sia che osservi il corpo nel corpo o le sensazioni nelle sensazioni, o la mente nella mente, o i contenuti mentali nei contenuti mentali. Cos’è infine, o monaci, la giusta concentrazione? Un monaco che sia distaccato dai desideri sensuali e da ogni impurità mentale entra e permane in differenti stadi di assorbimento, applicando la sua mente a un oggetto e mantenendola concentrata su di esso”. (D.22) 9. Il riferimento a diverse divinità riflette l’accettazione da parte del Buddha di tutto un mondo, ripreso in parte dall’induismo, che venne a costituire 55 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma la cosmologia del buddhismo popolare in Asia. “Questo rivolgersi alle divinità può sembrare inaspettato alla luce dell’insistenza del Buddha sull’inutilità delle speculazioni metafisiche e teologiche. (…) La contraddizione, tuttavia, è più apparente che reale. Il Buddha non manca di riconoscere la realtà degli ordini di esseri, fuori e oltre la sfera materiale. Secondo la tradizione, il Buddha ebbe esperienza di altri modi di esistenza, grazie allo straordinario sviluppo delle sue facoltà, che lo aprirono a una più vasta e sottile gamma di percezioni e conoscenze. Era quindi conscio dell’esistenza di esseri che operano in spazi al di fuori della consapevolezza umana e che sono provvisti di poteri e facoltà diversi e talvolta più alti, di quelli umani. (…) Il Buddha ha insegnato che le “divinità”, come tutti gli altri ordini di esseri, sono soggette alle conseguenze delle loro azioni e che la loro esistenza è ugualmente soggetta al cambiamento, alla dissoluzione, alla rinascita, a meno che non venga raggiunto il nibbána, che è l’unica liberazione definitiva. Ha insegnato che gli dei sono fratelli degli uomini come gli uomini lo sono degli animali. Siamo tutti nello stesso continuum, sebbene a livelli diversi. (…) Tuttavia il Buddha ha più volte sottolineato che la condizione umana è la più favorevole per raggiungere la liberazione, perché è la sola che permetta di sviluppare l’equanimità verso ogni fenomeno fisico e mentale e quindi di avviare il processo di purificazione mentale da bramosia e avversione legate alle sensazioni.” (Da A. Solé-Leris. La meditazione buddista, op.cit., pagg.49-50). 56 Commento* di S.N. Goenka Questo è il primo insegnamento in assoluto: è come il primo raggio del sole nascente che buca l’oscurità. È uno dei più importanti discorsi, perché vi è concentrato l’intero insegnamento dei successivi quarantacinque anni. Quando (il Beato) viveva a Varanasi, nella zona di Isipatana, nel parco dei cervi Mideldai. Isipattana: isi significa persona santa, eremita; pattan significa luogo d’arrivo e luogo di deposito; isipattana indicava il porto di mare dove le navi scaricano le merci. Isipattana indicava anche il luogo in cui convenivano molte persone sante, come eremiti e monaci. Era considerato luogo sacro, poiché si credeva che i precedenti Buddha, i paccekabuddhá (o Buddha solitari che non trasmettono l’insegna- * Da S.N. Goenka, Commento al Dhamma Cakka Pavatthana sutta (S. LXI, 11), facente parte della serie di commenti ai discorsi: Mahá Maògala Sutta (Sn. 46); Anatta-lakkhana Sutta (S. XXII, 59); Girimánanda Sutta (A., V, 108); Ánápánassati Sutta (M.118); Vedaná Saíyuttaí (S. IV, 2). I commenti, insieme con la recitazione in pali dei discorsi, sono stati registrati a Dhammagiri-Igatpuri dal 1991 al 1995, (tranne il Mangala sutta registrato il 1982), con l’intento di ispirare l’approfondimento degli insegnamenti e lo studio della lingua pali. 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma mento) e i sammásambuddha* (o Buddha pienamente illuminati) fossero soliti frequentarlo. Ne fu attratto anche il Buddha Siddhatta Gotama, e anch’egli vi giunse. Mideldai: Mide in quei tempi significava cervo, ma precedentemente indicava tutti gli animali; Mideldai era una zona in cui tutti gli animali potevano vivere in libertà senza essere uccisi. Il Buddha sedette sette settimane in prossimità dell’albero sotto il quale raggiunse l’illuminazione, sperimentando la pace del nibbána. Poi i suoi occhi illuminati percorsero il mondo e scorsero una grande oscurità: le persone avevano occhi offuscati da fittissimi veli, a causa dei molti condizionamenti mentali, per cui non avrebbero potuto sperimentare il Dhamma che egli aveva riscoperto, anche se si trattava della legge naturale. Quando questo pensiero attraversò la sua mente, discese presso di lui una divinità, discepolo di un precedente Buddha, spinto dalla considerazione che se Siddhatta Gotama non avesse insegnato il Dhamma, il mondo intero non l’avrebbe mai ricevuto, perché era quello il momento culminante di un lavoro, portato avanti per molte vite, nel corso di molti eoni. Così disse al Buddha: “Quello che pensi è vero, c’è tanta oscurità, le persone hanno occhi profondamente offuscati e non potranno sperimentare una * Sammá-sam-buddha significa Illuminazione perfetta, lo stato raggiunto da un Buddha che ha riscoperto la legge del Dhamma, l’ha realizzata, proclamata e insegnata al mondo; L’insegnamento di tutti i Buddha consiste nelle quattro nobili verità. 58 PARTE SECONDA realtà sottile come il Dhamma. Tuttavia, i tuoi occhi illuminati possono vedere che ci sono individui, seppure pochi, i cui occhi sono, sì, offuscati, ma da un velo tanto sottile che con un minimo sforzo riusciranno a lacerarlo.” Il Buddha sorrise e assentì. Ma a chi avrebbe dovuto donare il Dhamma? Spinto da un sentimento di gratitudine verso il suo precedente maestro Alara il Kalama, che insegnava i sette assorbimenti mentali di concentrazione, con gli occhi dell’illuminazione lo cercò e scoprì che era morto una settimana prima e rinato in un mondo dove non si possiede un corpo materiale, e a cui è destinato chi ha praticato dal quinto all’ottavo assorbimento mentale. Cercò allora Uddaka Ramaputta, che gli aveva insegnato l’ottavo grado di concentrazione, e con la chiaroveggenza dell’illuminazione vide che la notte precedente anch’egli era morto e rinato nello stesso mondo senza materia. Ma Vipassana non può essere insegnata a chi non possiede un corpo fisico, perché esso è indispensabile per praticarla e sperimentarla. E allora, a chi insegnare il Dhamma? Il Buddha pensò ai cinque monaci di Kapilavattu, con i quali si era dedicato all’ascesi per sei anni. Dov’erano? Vide che si trovavano proprio a Mideldai e vi si recò mettendosi in cammino dal luogo dell’illuminazione. 59 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma I due estremi Iniziò il suo primo discorso dicendo che chiunque intenda ottenere la liberazione, dovrebbe tenersi lontano da due estremi: l’abbandonarsi ai piaceri dei sensi e il torturare il proprio corpo. Nel periodo che intercorre tra la presenza di un Buddha e un altro, accade che il Dhamma gradualmente perda la sua purezza. Le persone continuano a praticare la via di mezzo del puro Dhamma per un certo tempo, poi si lasciano attirare dall’uno o dall’altro estremo. Conoscono le parole del Buddha e ricordano con chiarezza che lo scopo della vita è di uscire dalla sofferenza del ciclo di morte e nascita; e che questo avviene solo quando si è liberi da bramosia, avversione e ignoranza. Tutto ciò rimane chiaro, ma si dimentica il modo concreto di raggiungere lo scopo. Qualcuno ricorda che, per raggiungerlo, occorre abbandonare la vita laica, e compie questo passo. E poi? Molti si lasciano attirare da uno degli estremi: non si sono affrancati dal desiderio per il piacere sensoriale, nonostante indossino la veste monastica. In certi monasteri vivono tutte le esperienze del laico legate ai sensi. Veste monastica, riti e cerimonie danno a qualcuno la convinzione di essere sulla strada verso la liberazione; e questo è l’estremo in cui cade chi, schiavo dei piaceri sensoriali, pensa di ottenere la liberazione grazie a manifestazioni esteriori. All’estremo opposto, sono quei monaci che, per ottenerla, ritengono necessario torturare il corpo, considerandolo responsabile di tutti i condizionamenti negativi, nella convinzione che le impurità siano eliminate con la penitenza. In entrambi i casi, 60 PARTE SECONDA si è perso di vista il modo per arrivarci. La via di mezzo Poi, giunge un Illuminato, che insegna di nuovo la via, quella del Dhamma puro, dove puro indica che, se messo in pratica, si raggiunge lo scopo finale. E le prime parole che pronuncia sono: “Dovete evitare i due estremi e prendere la via di mezzo”. “Monaci, chi si è ritirato dalla vita del mondo dovrebbe fare attenzione a evitare due estremi. Quali sono? Il primo è l’indulgere nei piaceri dei sensi: cosa ignobile che non porta a nulla di buono. Il secondo è l’auto-infliggersi penitenze dolorose, che non conducono a nessun risultato positivo. (…) La via di mezzo genera capacità di intuizione, conoscenza, e porta alla pace, alla comprensione, alla scoperta della verità, alla liberazione, al nibbána”. La via di mezzo, egli dice, è quella che egli ha scoperto, e che conferisce la possibilità di sperimentare la legge di natura, anziché capirla solo a livello intellettuale. E’ l’esperienza diretta della legge di natura, vista con i propri occhi, non riferita e proveniente da altri. La saggezza che ne deriva è retta comprensione, cioè frutto della propria esperienza. La via di mezzo porta al raggiungimento della calma dovuta allo sradicamento delle impurità accumulate nella totalità delle vite passate, alla saggezza che permette di sperimentare con chiarezza l’intera legge: come sorge la sofferenza, quale ne è la causa e come essa 61 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma può essere sradicata. È la via di mezzo che porta a all’illuminazione e alla liberazione. Il Buddha ci spiega che la via di mezzo è il nobile ottuplice sentiero: la giusta comprensione, il giusto pensiero, la giusta parola, la giusta azione, i giusti mezzi di sussistenza, il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione. La parola giusto, corretto, è intesa nel senso di sperimentato, e non accettato per fiducia o per “sentito dire” o perché frutto di analisi intellettuali o di emotività. Occorre mettere in pratica l’intero ottuplice sentiero, per farne una propria esperienza. Le quattro nobili verità Il Buddha definisce la verità (sacca) nobile (ariya), nel senso che è una verità da sperimentare: chi apprende come osservare la sofferenza con obiettività diventa una persona nobile, liberata, santa. – La prima nobile verità: la sofferenza esiste. La verità della sofferenza è universale ed evidente, ma se si continua a ignorarla, non se ne troverà mai la via d’uscita. La via d’uscita è l’ottuplice nobile sentiero, che permette di arrivare all’osservazione obiettiva della sofferenza e all’esperienza della sua natura impermanente, fino all’osservazione della realtà al di là del mondo di mente e corpo. Si comincia a sperimentare che la sofferenza dipende dall’attaccamento verso il corpo e le quattro attività mentali: viññáóa, 62 PARTE SECONDA (coscienza), saññá, (percezione), vedaná (sensazione) e saòkhára (reazione o condizionamento). La loro combinazione produce una fortissima identificazione con l’io, il mio e di conseguenza, un formidabile attaccamento all’ego, causa di sofferenza. Vita dopo vita, si generano i cinque aggregati, a causa dell’attaccamento per essi. L’attaccamento produce aggregati. E con il loro perpetuarsi, continua a esserci sofferenza. Capire intellettualmente o accettare per fiducia questa verità, non è sufficiente. La si deve sperimentare con l’ottuplice nobile sentiero: questo ci consente di affrancarci da attaccamento e sofferenza. Ma fino a quando c’è attaccamento, c’è sofferenza. La sofferenza legata a nascita, a morte, malattia e vecchiaia, è evidente; ma a un livello un po’ più profondo, il meditatore sente sensazioni sottili piacevoli e una calma intensa: percepisce tutto come meraviglioso e sente attaccamento per esso. Anche quest’esperienza rientra nei cinque aggregati: si è attaccati a essi e ciò è sofferenza. Il meditatore può sperimentare che anche l’esperienza valutata piacevole non è tale: non è felicità vera; c’è l’illusione di felicità e calma, ma è ancora attaccamento e quindi sofferenza. La prima nobile verità va sperimentata a questa profondità. – La seconda nobile verità: la causa della sofferenza è la bramosia. Se sorge la bramosia, sorge la sofferenza, ne consegue che bramosia e sofferenza sono sinonimi. Si prova bramosia, quando non si è soddisfatti di ciò che c’è, o si desidera qualcosa che non c’è. Ma quando un desiderio è soddisfatto, immediatamente si desidera qualcosa che non c’è; ma a ogni desiderio appagato, prima o poi, ne sorge un altro, qualunque cosa ottenuta perde sapore e si 63 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma vuole altro. Questo processo è sofferenza, il desiderio o bramosia è sofferenza. Esistono tre tipi di bramosia: bramosia per i piaceri dei sensi, káma-taóhá; bramosia che il nostro io rimanga per sempre, in questa o in altra vita, pavanataóhá. Si può rimanere in sua balia anche se si cerca di liberarsi dalla bramosia sensoriale. Si ritiene la vita mortale non soddisfacente e l’idea di una vita ultraterrena senza più morte stimola la bramosia: vogliamo rinascere in un mondo celeste. Se poi ci dicono che anche in quel mondo si muore, allora optiamo per il mondo divino. Se scopriamo che anche lì si muore, vogliamo il nibbána, dove non si muore perché non si nasce. Anche bramosia per il nibbána è pavana-taóhá: “Io voglio continuare a esistere. Se non c’è un io, qual è l’utilità dell’ottuplice sentiero?” Se una teoria secondo cui “Tu sei eterno, tutto il resto passerà, ma tu sei eterno”, ci sembra meravigliosa, siamo in preda a pavana-taóhá. Il terzo tipo di bramosia è vipavana-taóhá: la bramosia per la liberazione. Ma bramosia è sempre bramosia: di qualsiasi tipo sia, essa è sofferenza. – La terza nobile verità: la fine della sofferenza. Quando la bramosia non c’è più, non esiste più nulla a cui aggrapparsi, e quindi la sofferenza scompare. Fino a quando si vive la vita di rupa e nama (corpo e mente) e si rimane attaccati ad essa, non ci si può dire liberati. – La quarta nobile verità: la via che conduce alla fine della sofferenza (cioè l’Ottuplice Nobile Sentiero). 64 PARTE SECONDA L’ insegnamento universale Il Dhamma non è una questione di fede, ma tratta della realtà che tutti possono sperimentare. La sofferenza è una verità che può essere toccata con mano; anche la sofferenza al livello profondo delle sensazioni più piacevoli, che scaturisce dall’attaccamento. La sofferenza e la sua causa, la bramosia, non sono limitate ai buddhisti, ma riguardano tutti, induisti, cristiani, musulmani, agnostici e atei. Il Buddha spiega questa verità in modo pragmatico. Indica la sofferenza, che è universale; la sua causa che è universale; il modo in cui liberarsene e raggiungere lo stato in cui non c’è più sofferenza, anch’esso universale. Il metodo insegnato ha come base la condotta morale (sila), che non è legata a una particolare tradizione, ma accomuna gli esseri umani. A essa, seguono la concentrazione e la padronanza della mente momento dopo momento, per non generare impurità (samádhi); e la saggezza sperimentale, che comporta l’osservazione equanime delle impurità mentali, accumulate in profondità, e il loro sradicamento (paññá). Tutti gli strumenti di lavoro sono universali. Un modo per verificare se una persona è pienamente illuminata o no, è quello di esaminare cosa insegna: se l’insegnamento è settario o richiede un’adesione irrazionale, contiene qualcosa di sbagliato. Le quattro verità espresse nel primo discorso sono la prova che Siddhatta Gottama è un essere pienamente illuminato: non hanno connotazioni settarie, fideistiche, filosofiche o dogmatiche. Corrispondono alle leggi naturali e alla realtà della vita. 65 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma I tre modi di sperimentare la verità Ognuna delle quattro nobili verità consta di tre parti da sperimentare: la verità stessa, la sua realizzazione e il completamento della realizzazione. Per la prima verità, la prima parte è il riconoscere che esiste la sofferenza. Il ritenere, invece, che la sofferenza a volte ci sia, ma che ci siano periodi in cui la vita è piacevole, in cui si ha ciò che si desidera, non permette di liberarsi dalla sofferenza. La prima cosa di cui ci si deve rendere conto è che c’è sofferenza dappertutto e sempre, sofferenza superficiale e sofferenza profonda. La seconda parte consiste nel capire che va esplorata l’intera gamma della sofferenza, per poterne uscire. La terza parte comporta l’aver percorso l’intera gamma della sofferenza. Questo avviene quando si fa esperienza di qualcosa che è al di là del campo della sofferenza. Solo quando si è raggiunto lo stadio del nibbána, si può dire di aver esplorato la sofferenza nella sua totalità. Ricapitolando, nella prima nobile verità c’è il riconoscimento della sofferenza, l’affermazione della necessità di esplorare l’intero campo della sofferenza e la constatazione che questa esplorazione è stata compiuta. Per la seconda nobile verità, la prima parte è il riconoscimento che la causa della sofferenza è la bramosia (e non cause esterne, cui tendiamo ad attribuire la nostra sofferenza). La seconda parte è la comprensione che la bramosia va eliminata completamente, e non soltanto in superficie. La terza parte è il completo sradicamento della bramosia, che si verifica quando si è raggiunto lo stadio del nibbána. Ricapitolando, ci sono il riconoscimento della causa 66 PARTE SECONDA della sofferenza, l’affermazione della necessità di eliminarla, e la constatazione della sua eliminazione. Per terza nobile verità (la fine della sofferenza, lo stadio del nibbána), la prima parte è l’accettazione dell’esistenza della sofferenza e la conoscenza dell’esistenza di uno stadio in cui la sofferenza non c’è. La seconda parte è la conoscenza che ciò va sperimentato e non accettato a livello intellettuale o per fede. La terza parte è il conseguimento del nibbána, dello stadio libero da ogni sofferenza. Per la quarta nobile verità (la via che conduce alla fine della sofferenza), la prima parte è il riconoscimento che esiste l’ottuplice sentiero. La seconda parte è la consapevolezza che il riconoscerne l’esistenza non è sufficiente, ma che occorra percorrerlo totalmente per realizzare se stessi fino alla perfezione. La terza parte è il conseguimento della perfezione. Il Buddha ha detto nel discorso: “Fino a quando non ho perfezionato tutte e dodici le fasi delle quattro nobili verità, non mi sono considerato una persona illuminata. Solo dopo aver realizzato le quattro nobili verità in tutte le loro dodici fasi, ho ammesso di essere illuminato, di aver raggiunto la completa illuminazione”. 67 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma La concretezza Non è difficile aderire a verità evidenti come l’esistenza della sofferenza. Moltissimi maestri hanno affermato che il mondo ne è pervaso e molti maestri ne hanno identificato la causa nella bramosia; altri hanno insegnato che la sofferenza va sradicata con la pratica di sìla, di samádhi e di paññá. Qual è allora la peculiarità del Buddha? La concretezza: il Buddha insegna come sperimentare, non insegna una filosofia, un’ideologia o un principio. Egli si è reso conto che, se non sperimentata, anche la migliore o la più esatta delle teorie, non porta alla liberazione. È inutile sostenere “Questa è la verità che un Illuminato ha realizzato e trasmesso con l’insegnamento, è ragionevole e pragmatica e quindi l’accetto”. L’eccellenza di un Illuminato è costituita dalla sua concretezza. Non si diventa Buddha teorizzando: le teorie possono essere buone, ma da sole non producono quei risultati che si ottengono soltanto con la pratica meditativa. Il Buddha ha raggiunto la meta praticando, e tutti possono seguire il suo esempio. Ai tempi del Buddha in molti credevano che, torturando il proprio corpo, avrebbero estirpato le impurità e avanzato verso la liberazione. Per questa ragione lo stesso Buddha, prima dell’illuminazione, pur avendo sperimentato alti stadi di concentrazione, utilizzò il metodo delle penitenze corporali. E continuò fino a che, grazie alla concentrazione, scorse dentro di sé il permanere delle impurità mentali, e si rese conto che quel metodo non aveva per lui senso e lo lasciò. In seguito giunse alla scoperta della “via di mezzo”. 68 PARTE SECONDA I suoi cinque compagni lo abbandonarono, ritenendo che si sottraesse alle penitenze perché non in grado di sopportarle, e che quindi non avrebbe mai raggiunto la liberazione. Quando il Buddha li ritrovò al parco dei cervi, essi si rifiutarono di tributargli rispetto, perché lo ritenevano uno yogi fallito, e gli concessero di sedere con loro, solo in considerazione della sua appartenenza alla famiglia regnante. Nutrivano per lui una considerevole avversione, ma ascoltarono il suo discorso e lo trovarono perfettamente chiaro. Per la prima volta ascoltavano qualcuno divenuto Buddha parlare delle realtà della vita; ed esse apparivano loro nuove; per la prima volta sperimentavano la realtà della sofferenza, la sua causa, il modo di liberarsene e la via da intraprendere per questo scopo. Le parole del Buddha furono per loro così razionali e meravigliose, che si sentirono pieni di entusiasmo e felicità. Accadde che mentre il Buddha spiegava la sua scoperta, uno dei cinque, Koóðañña, penetrò nella verità, acquisì saggezza e vide che tutto ciò che nasce, per sua natura finisce. Ascoltando il Buddha, Koóðañña sperimentò il nibbána. Venendo in contatto col Buddha e udendo le sue parole illuminate, comincia a sperimentare Vipassana. Inizia a osservare il continuo sorgere e passare delle sensazioni, e mentre l’accumulazione delle impurità in lui si dilegua, continua ad ascoltare il Buddha, a osservare le sensazioni e sperimentarne l’impermanenza (anicca), e “fa un tuffo” nel nibbána: non può fare a meno di immergervisi, perché ha sperimentato in profondità la legge dell’impermanenza. 69 1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma Così diventa sotápañña, il primo stadio del nibbána. Un Illuminato non ha la facoltà di liberare gli altri, ma indica il sentiero, e insegna come percorrerlo. Se fosse stato un liberatore, perché non liberare tutti e cinque i monaci? Perché solo uno di loro sperimentò il primo stadio della liberazione? E perché soltanto il primo e non quello finale? L’impegno personale Ognuno deve impegnarsi per la propria liberazione. Chi ha sviluppato buone qualità e ha meno impurità mentali, ascoltando le parole del Buddha e sperimentando la verità dentro di sé, può raggiungere lo stato del nibbána. È raro che qualcuno diventi un Buddha, perché ci vogliono eoni per sviluppare quelle qualità che permettono di aiutare gli altri a liberarsi. L’evento del raggiungere la liberazione e del mettere in moto la ruota del Dhamma è eccezionale. E questo evento straordinario genera vibrazioni di una potenza straordinaria, che si estendono nell’universo intero. Perciò tutti gli esseri, visibili e invisibili, che possiedono semi del Dhamma o che hanno praticato con il Buddha, captando quelle vibrazioni, si rallegrano indicibilmente di quanto è avvenuto. Con esultanza essi annunciano che a Varanasi, Isipattana, Mideldai, un Buddha, unico a poterlo fare, ha messo in moto la ruota del Dhamma. Tale è l’annuncio degli esseri invisibili della terra; poi la vibrazione sale e si estende e raggiunge gli esseri di altri mondi celesti. E mentre egli insegnava, qualcuno 70 PARTE SECONDA iniziava a mettere in pratica, ascoltando e osservando il sorgere e passare delle sensazioni, e così facendo raggiungeva lo stato di sotápañña, il primo grado di liberazione. Di qui l’esultanza del Buddha, che si rallegra perché Koóðañña ha sperimentato il Dhamma; e il suo nome diventa Aññáta-Koóðañña, “chi sa” o “il saggio” che ha percorso l’intero sentiero. Tutti noi possiamo diventare dei saggi come Koóðañña. Siete qui per questo scopo. La vita è molto importante, usatela bene, sviluppando la comprensione con la pratica meditativa. Se questo mio discorso l’avesse tenuto il Buddha, qualcuno sarebbe forse diventato illuminato. Impegnatevi dunque per diventarlo. 71 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza (Mahátaóhasankhayasutta, M. 38) Premessa* C ronologicamente non è il secondo discorso, ma lo collochiamo qui per evidenziare la basilare scoperta della sofferenza, con la sua causa e la sua eliminazione, introdotta col primo discorso. La causa è taóhá, la bramosia, e si tratta di capire il suo fondamentale ruolo. Il Buddha ha indagato basandosi sulla legge di causa ed effetto (chiamata anche dell’origine dipendente o dell’origine condizionata), legge universale esistita da sempre, costituita da: Anuloma paþicca samuppáda: questo avviene a causa di quello. Paþiloma paþicca samuppáda: questo non avviene più, perché quello è terminato (la causa non c’è più, perciò non c’è più l’effetto). Dopo averla osservata nel suo corpo, Siddhátta Gotama il Buddha ha scoperto che è proprio una catena di causa ed effetto a perpetuare la sofferenza; una catena dove la bramosia è il punto da cui si biforcano due strade: quella della sofferenza e quella della liberazione, il punto in cui è possibile spezzare la catena di condizionamenti e avviare il processo inverso di liberazione. Con profonda intuizione, il Buddha scoprì, nella catena, l’anello cruciale della sensazione fisica, chiamato “vedaná-paccayá taóhá” e cioè “la bramosia e l’av* Dai testi elencati prefazione. 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza versione sorgono a causa della sensazione fisica”. L’ignoranza è il reagire alle sensazioni fisiche, con bramosia e avversione. Invece, la saggezza da coltivare è l’osservare con equanimità il loro sorgere e passare. Senza bramosia e avversione, il processo della catena s’interrompe e inizia il processo inverso di liberazione. Facendo esperienza dell’impermanenza delle sensazioni fisiche, verifichiamo per esperienza le leggi universali e impariamo a sciogliere i nodi della nostra sofferenza. Se reagiamo a esse, queste stesse sensazioni diventano la causa della nostra sofferenza; se invece le osserviamo con equanimità, alla luce della legge di causa ed effetto, sono lo strumento della nostra liberazione. 76 Testo del discorso* C osì io stesso ho udito, mentre il Buddha soggiornava vicino a Savatthi, nel boschetto di Jeta del monastero fondato da Anáthapióðika. Proprio in quel tempo, accadde che nella mente di un monaco, Sati, figlio di un pescatore, maturasse un’idea pericolosa: “Per quanto mi è dato di capire dalla dottrina insegnata dal Buddha, è sempre la stessa coscienza che continua a scorrere, a fluire, e non un’altra”. Il fatto che il monaco Sati si fosse messa in mente quest’opinione perniciosa, giunse all’orecchio di altri monaci, che si recarono da lui per chiedergli se fosse vero che egli si era fissato nell’idea che una coscienza (individuale, n.d.r.) continuasse a fluire eternamente. Sati confermò che questo era quanto egli deduceva. Allora i monaci, desiderosi di dissuaderlo, discussero con lui e lo supplicarono di non travisare l’insegnamento. Perché a proposito della coscienza, il Buddha aveva sempre citato la legge di causa ed effetto, la legge di paþicca samuppáda: Senza una causa, non c’è il sorgere della coscienza. Ma a nulla valsero le loro argomentazioni. Sati sosteneva con ostinazione che la stessa coscienza * Le note numerate sono alla fine del testo del discorso. 77 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza continua a fluire incessantemente, affermando che si trattava dell’insegnamento del Buddha. Allora i monaci si recarono dall’Illuminato e dopo averlo ossequiato, lo misero rispettosamente al corrente. Il Buddha chiese che chiamassero il monaco Sati, e quando questi, rispondendo all’invito, si fu seduto a rispettosa distanza, lo interpellò: – È vero quanto mi è stato detto? Che sostieni la pericolosa convinzione che è la stessa coscienza (individuale) che continua a scorrere, a fluire, e non un’altra? E che sostieni che ciò è il mio insegnamento? – Questo è precisamente ciò che ho inteso dal vostro insegnamento: che la stessa coscienza continua a fluire, e non un’altra. – E cos’è la coscienza, Sati? – Signore, è la stessa coscienza che parla, che sente e che, in momenti diversi, subisce le conseguenze delle sue azioni, buone o cattive. – Ma a chi, amico, io ho mai insegnato in questo modo? Non ho forse sempre parlato, più volte, del fatto che la coscienza è generata da determinate condizioni, specificando che, se non c’è una causa, la coscienza non ha origine? E ora, come uno stolto, non soltanto hai, e dai, un’idea sbagliata del mio insegnamento, interpretandolo erroneamente, ma fai del male a te stesso e crei dei demeriti che andranno a tuo svantaggio e ti procureranno sofferenza per molto tempo. Poi il Buddha si rivolse ai monaci: – Che ne pensate? Ritenete che il monaco Sati abbia una pallida idea di questo insegnamento e di questa disciplina? – Certamente no, Signore, risposero. 78 PARTE SECONDA Mentre queste parole erano pronunciate, il monaco Sati sedeva silenzioso e confuso, con le spalle ricurve e la testa bassa, meditabondo. Considerando l’origine della sua confusione, il Buddha gli disse: – Uomo di poco senso, verrai ricordato per la tua errata interpretazione, perché io ora tratterò questo argomento. Si rivolse quindi ai monaci: – Secondo voi, il modo in cui insegno è equivocabile, vista l’errata interpretazione di questo monaco? Egli non soltanto mette in cattiva luce il mio insegnamento, ma fa torto a se stesso e perciò, gli verrà attribuita una colpa grave. – No, Signore. Ci avete più volte illustrato il concetto, secondo il quale sono determinate condizioni a generare la coscienza, e avete usato l’espressione: - Se non c’è una causa, la coscienza non ha origine. – Ciò è precisamente quanto ho più volte ripetuto. È veramente buona cosa, monaci, che abbiate ben capito l’insegnamento. La formazione della coscienza Il tipo di coscienza è definito a seconda della condizione che la determina. Per esempio, la coscienza che nasce dal contatto dell’occhio con una forma, è la coscienza visiva; quella che nasce dal contatto dell’orecchio con un suono, è la coscienza uditiva; quella che nasce dal contatto del naso con un odore è la coscienza olfattiva; a causa del contatto della lingua con un sapore sorge la coscienza gustativa; il contatto della superficie del corpo con un oggetto fa 79 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza nascere la coscienza tattile; mentre la coscienza, causata dalla mente in contatto con un oggetto mentale è la coscienza mentale. Monaci, è come il fuoco che brucia in determinate condizioni e, in base a queste, viene classificato. Se un fuoco è alimentato da legnetti, lo chiamiamo fuoco di legnetti; se si bruciano trucioli, è un fuoco di trucioli; quando si brucia paglia, si ha un fuoco di paglia; bruciando letame, abbiamo un fuoco di letame, se è pula ad alimentarlo, lo si chiama fuoco di pula, e se invece si bruciano rifiuti, è un fuoco di rifiuti. Lo stesso avviene per la coscienza, che è caratterizzata dalla condizione da cui ha origine. – Vedete, dunque, come ogni coscienza si forma e appare o viene alla luce? – Sì, Signore. E vedete, anche, come si origina il nutrimento di ogni coscienza? (1) – Sì, Signore. E vedete che, se viene meno ciò che la alimenta, la coscienza stessa è soggetta a venir meno? – Sì, Signore. E allora, o monaci, è vero che il dubbio può far sorgere queste perplessità: che ciò che è sorto (cioè la coscienza), non esiste in verità? E che può darsi che non esista alcuna sorgente di nutrimento per la coscienza? Oppure che, non venendo meno ciò che la alimenta, forse la coscienza, potrebbe non scomparire, o finire? – Sì, Signore. Ma se, per mezzo della perfetta saggezza acquisita con l’esperienza, (2) si osserva la realtà così com’è, e 80 PARTE SECONDA cioè che è sorto qualcosa (una coscienza sensoriale), c’è una sorgente che la alimenta, e poi, si osserva che, venendo meno ciò che l’alimenta, finisce ciò che è sorto (una coscienza sensoriale), non è forse vero, o monaci, che ogni dubbio scompare? – Sì, Signore. Monaci, se vi aggrappate a questa legge così pura e integra, serbandola gelosamente in cuore, ma non la praticate (come vi ho già detto nella parabola della zattera), (3) allora non vi aiuterà ad andare all’altra riva, al di là del mondo sensoriale, e ad attraversare il fiume della sofferenza. L’origine interdipendente di ogni fenomeno mentale e fisico Monaci, ci sono quattro forme di nutrimento, che servono per la sopravvivenza delle creature presenti e di quelle che verranno: sono il cibo materiale, grossolano o raffinato, lo stimolo (il contatto dei sensi), l’impulso mentale e la coscienza. (4) Da che cosa nascono queste forme di nutrimento, quale ne è la provenienza, l’origine? Esse nascono dal desiderio: provengono, sorgono, hanno origine dalla bramosia o desiderio. (5) Cos’è che fa sorgere nascere, originare la bramosia? È la sensazione. Ma, da dove provengono, come sorgono queste sensazioni? Dal contatto dei sei sensi con i loro rispettivi oggetti. E questo contatto avviene perché vi sono i sei organi dei sensi. 81 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza E questi sei sensi ci sono poiché la vita ha inizio, e prende forma la struttura di mente e corpo. E da dove proviene, come nasce, da dove ha origine questo composto di mente e materia? Dalla coscienza, o monaci. (6) E la coscienza è originata dalle reazioni mentali. E da dove, o meglio, da che cosa sono provocate queste reazioni mentali? Dall’ignoranza, o monaci. La causa della sofferenza L’ignoranza è l’origine, la sorgente, la causa delle reazioni mentali. (7) Ecco allora, o monaci, come appare chiara questa catena di origine condizionata, questa legge di causa ed effetto. L’ignoranza (avijjá) è responsabile delle reazioni mentali (saókhára) che formano il processo che chiamiamo coscienza (viññáóa) in tutti gli esseri, processo che prosegue in una vita successiva.* E in correlazione, appaiono la mente e la materia (náma e rúpa). Questi, a loro volta, si sviluppano a formare un veicolo, o organismo, con i suoi sensi (saláyatana). Questi sensi, entrando in relazione col mondo esterno, fanno sorgere il contatto (phassa) e il contatto di questi con gli oggetti dei sensi fanno sorgere le sensazioni fisiche (vedaná), che hanno come effetto di far nascere il desiderio (taóhá) seguito subito da attaccamento o dall’aggrapparsi (upádána), causa del divenire (bhava) o esistenza, e quindi della * Per il concetto di vita successiva v. S.N. Goenka Che cosa accade di fronte alla morte, pag 95. 82 PARTE SECONDA nascita (játi), con le conseguenze di ansietà, tormento, dolore, vecchiaia, malattia, morte. Ecco l’origine di tutte le sofferenze. Quindi a ragion veduta, o monaci, il fatto che invecchiamo e moriamo è causato dal fatto che siamo nati. E la nascita è causata dal processo del divenire. E il processo del divenire è sorto perché c’era attaccamento; l’attaccamento è la conseguenza di bramosia e avversione, provocate dalle sensazioni fisiche, le quali avvengono a causa del contatto dei sensi con gli oggetti esterni. E i sei sensi esistono perché vi sono mente e corpo: sono sorte a causa della coscienza. E la coscienza c’è a causa delle reazioni, provocate dall’ignoranza (il reagire con bramosia e avversione alle sensazioni fisiche nel corpo). – È così anche per voi, o monaci, oppure vedete le cose diversamente? – Noi vediamo le cose esattamente come voi avete detto, o Signore. – Bene, monaci, anche voi, come me, sostenete che: se c’è questa causa, ci sarà questo effetto; se questa causa non c’è, questo effetto non ci sarà; se questo sorge, l’effetto è destinato a sorgere; se la causa viene sradicata e totalmente eliminata, l’effetto viene totalmente eliminato. 83 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza L’eliminazione della sofferenza In base a questa legge, ecco allora come si verifica il processo inverso: se l’ignoranza ha termine (cioè smettiamo di reagire alle sensazioni non generando bramosia e avversione) hanno fine anche le reazioni, e quindi viene meno il nutrimento per la coscienza; non essendoci coscienza non ci sono la mente e il corpo; senza mente e corpo, non ci sono i sei sensi, e senza gli organi di senso non può avvenire il contatto con gli oggetti esterni; senza contatto non può sorgere la sensazione, senza sensazione non vi possono essere bramosia e avversione verso qualcosa, e pertanto non si può formare attaccamento, e quindi nessuna forma di divenire. Non essendoci lo stimolo al divenire non vi sono più nascita, né vecchiaia, malattia, morte, dolore, sofferenza, tristezza e disperazione. Questo è il processo che pone fine all’infelicità. – Allora, monaci, questo processo, la legge universale di causa ed effetto, vi è chiaro? – Sì, Signore, comprendiamo perfettamente questo processo: se l’ignoranza ha termine (cioè smettiamo di reagire alle sensazioni non generando bramosia e avversione) hanno fine le reazioni, e, quindi, viene meno il nutrimento per la coscienza; non essendoci la coscienza non ci sono la mente e il corpo; senza mente e corpo, non ci sono i sei sensi, e senza gli organi di senso non può avvenire il contatto con gli oggetti esterni; senza il contatto non può sorgere alcuna sensazione, senza sensazione non vi possono essere bramosia e avversione, e pertanto non si può formare attaccamento, e quindi nessuna forma di 84 PARTE SECONDA divenire. Non essendoci la spinta al divenire non vi è più nascita, né vecchiaia e morte, malattia, dolore e sofferenza, tristezza e disperazione. Questo è il processo che pone fine a tutte le nostre infelicità. – Bene, monaci. Poiché concordate con me sulla legge di causa ed effetto, avete compreso come si può distruggere il processo attraverso cui accumuliamo sofferenza.” (8) Le domande inutili – Monaci, avendo sperimentato tutto ciò, e capito come avviene, vi metterete forse a rimuginare sul passato: - Prima di questa vita, noi esistevamo o no? Cos’eravamo nel passato? Che cosa facevamo? Com’era la nostra vita precedente, e di quale altra vita passata porta le conseguenze? – No, Signore. – Oppure, vedendo e conoscendo come funziona questa legge, vi lascerete andare a fantasticare sul futuro: - Rinasceremo oppure no? Chi saremo in un’altra vita, sotto che forma rinasceremo? In conseguenza delle nostre vite passate, quale sarà il nostro futuro? – No, Signore. – O forse, dopo aver compreso per esperienza le cose come stanno realmente, avrete dubbi su voi stessi e sulla vostra vita attuale, pensando: - Ma io ci sono o non ci sono? Che cosa sono, come sono, da dove viene la mia esistenza, e dove andrà? – No, Signore. – O forse, dopo aver sperimentato il mio insegnamento, penserete: il Buddha è il nostro maestro e, 85 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza per rispetto, gli diamo ragione? – No, Signore. – Oppure, penserete che, essendo un eremita, il maestro parla un linguaggio diverso dal vostro? – No, Signore. – Oppure, dopo aver capito e sperimentato queste verità, vi cercherete un altro maestro? – No, Signore. – O nonostante tutto ciò che avete sperimentato, ricadrete nell’abitudine di compiere rituali, pensando che siano l’essenziale? – No, Signore. L’esperienza – Monaci, non parlate forse unicamente di ciò che voi stessi, personalmente, avete visto e sperimentato con la vostra saggezza? – Sì, Signore. Molto bene, o monaci. Vi ho rivelato questa legge, universale e immutabile, che ciascuno è chiamato a sperimentare, a verificare di persona, che il saggio deve comprendere da solo, e che porta alla completa liberazione. Ecco: tutto ciò che ho detto, che ho insegnato, è basato su questa legge. La nascita del desiderio Monaci, vediamo come, in ogni essere umano, si forma il desiderio, causa di ogni infelicità, e in che modo viene eliminato. 86 PARTE SECONDA Con la concomitanza delle necessarie condizioni (9), avviene il concepimento di un feto, che la madre porta nel grembo per nove mesi. In seguito ella lo nutre, e quando il bambino è cresciuto e in lui si sono sviluppati gli organi dei sensi, egli si diverte con i giochi adatti a lui: un piccolo aratro, un carretto ribaltabile, un minuscolo mulino a vento, un piccolo arco, oppure facendo capriole. Quando poi, quel bambino è cresciuto e gli organi dei sensi sono giunti a completo sviluppo, egli ne gode, poiché possiede tutti e cinque gli elementi del piacere sensoriale: con la vista scorge le immagini, con l’udito ascolta i suoni, con l’odorato sente gli odori, con il gusto i sapori, con il tatto sperimenta i contatti. Queste esperienze sono gradevoli, suscitano piacere, attirano, seducono. (10) Quando l’individuo entra in contatto, attraverso l’occhio, con un’immagine, sente attrazione (bramosia), se la giudica piacevole, e rifiuto (avversione), se la giudica spiacevole. Lo stesso succede per gli altri sensi: un suono considerato piacevole viene gradito, uno spiacevole rifiutato; se un cibo è ritenuto buono piace, se ritenuto cattivo provoca repulsione; un contatto giudicato piacevole viene accolto con piacere, uno spiacevole provoca avversione. Così pure, se alla mente si presenta un pensiero gradevole, l’individuo lo accoglie con piacere, mentre rifiuta un pensiero sgradevole. In ognuno di questi casi, egli reagisce con ignoranza: non considera il suo corpo con consapevolezza e comprensione, ma con mente limitata, priva di acuta concentrazione. E così, non comprende che, se la sua mente fosse libera dalle reazioni, e 87 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza possedesse la saggezza per sperimentare le cose come realmente sono, egli potrebbe eliminare i suoi stati mentali negativi, senza che ne rimanga traccia. (11) Invece, fino a quando rimane in balìa delle reazioni di bramosia e avversione, egli si lascia coinvolgere da qualsiasi sensazione si presenti nel corpo – sia essa piacevole, spiacevole o neutra – e vi si aggrappa. Tutto questo dà luogo a un senso di piacere cui non si vuole rinunciare e a cui ci si attacca (permane anche quando la sensazione se n’è andata); quest’attaccamento dà luogo al processo del divenire (cioè la spinta forte a voler di nuovo sperimentare quel piacere che se ne è andato) e quindi alla nascita; e conseguenza della nascita sono vecchiaia, morte, dolore, disperazione. È così che si crea quella massa d’infelicità e sofferenza che ci opprimono per tutta la vita. La via di uscita Ma quando nel mondo appare un Tathágata (12), un essere perfetto e illuminato, ognuno può capire il valore dell’insegnamento e acquistare fiducia. Con questa fiducia, segue scrupolosamente la condotta morale (sìla), base di tutta la pratica, e si dedica agli esercizi di concentrazione mentale (samádhi) e osservazione equanime (sati) del corpo, finché riesce a liberarsi dai cinque ostacoli che confondono la mente (13) e indeboliscono la saggezza intuitiva e la comprensione profonda. Allora, distaccato dai piaceri sensoriali e dagli stati mentali nocivi, entra e permane nel primo stadio di 88 PARTE SECONDA assorbimento o quiete della mente. Esso è ancora caratterizzato dal sorgere dei pensieri e dalla riflessione ma, nato dall’equanimità, dà luogo a gioia ed estasi. Poi, entra nel secondo stadio di assorbimento, in cui, dopo aver calmato e tranquillizzato la mente, non vi sono pensieri che disturbano e si è pieni di beatitudine, suscitata dalla mente concentrata. Entra allora nel terzo stadio di assorbimento, dove questa beatitudine svanisce ed egli rimane equanime, attento e consapevole; poi nel quarto stadio, il meditatore abbandona dolore e piacere, avendo piena padronanza della consapevolezza e dell’equanimità. (14) Allora, il meditatore esperto, ogni volta che entra in contatto con gli oggetti dei sensi, non è più attratto da ciò che reputa piacevole, né prova repulsione per ciò che ritiene spiacevole. Egli rimane costantemente consapevole di ciò che avviene nel corpo (15), e con una visione mentale illimitata, scopre quella libertà che deriva dalla comprensione intuitiva della realtà delle cose, così come sono. E giunge a eliminare, senza che ne rimanga traccia, ogni negatività mentale. Non reagendo con bramosia o avversione, non prova più né simpatia né antipatia, e quando sperimenta una sensazione – spiacevole, piacevole o neutra – non ne è catturato. Non reagendo, il deposito di reazioni è gradualmente eliminato. (16) Con l’eliminazione di bramosia e avversione per le sensazioni, viene meno anche l’attaccamento a esse; mancando l’attaccamento, si ferma il processo del divenire, che riceveva nutrimento (e spinta) da desiderio e avversione intensi. Fermato il divenire, non c’è possibilità di nascere e, quindi, non ci sono più 89 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza vecchiaia e morte, e hanno termine dolore, disperazione, angoscia. Meditatori, ricordatevi sempre che la liberazione si ottiene con l’eliminazione di bramosia e avversione. E che vi sia di ammonimento il ricordo del monaco Sati, figlio di pescatore, che si è lasciato catturare nella grande rete della bramosia, la bramosia per l’idea di un io che permane”. Così parlò il Buddha, e i monaci furono felici del suo insegnamento. 90 Note 1. Il nutrimento è qui inteso come causa che determina un effetto; e la coscienza sorge perché, nella catena dell’origine interdipendente, è stimolata a essere dalla spinta al divenire. 2. Il Buddha ribadisce che solo l’esperienza, la pratica dell’osservazione della realtà dentro di noi, ci permette di sperimentare la verità: Yathá bútha sammápañña ovvero la saggia comprensione delle cose, così come sono in realtà. In questo caso, la saggezza è la constatazione di come le coscienze legate ai sensi, quelle visiva, olfattiva, ecc, si manifestano e poi passano. 3. Nella parabola della zattera (Alagaddupama sutta, M.), il Buddha spiega che il suo insegnamento è come una zattera che serve per attraversare le onde della sofferenza per arrivare all’altra sponda: l’Illuminazione. “Una volta traversate le acque, non sarebbe sciocco l’uomo che pensasse: ”Poiché la zattera mi è stata utile, continuerò a portarla con me” – e si rimettesse a camminare caricandosela in testa? “Così i concetti del mio insegnamento sono solo mezzi utili, e la persona illuminata e liberata non si attacca più neanche a queste formulazioni, che servono soltanto di orientamento e guida.” 91 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza 4. Questi quattro nutrimenti (áhara) comprendono tutta la gamma dei fenomeni materiali e mentali: –– il nutrimento materiale che serve a conservare il corpo (cibo, ambiente, ecc.); –– un altro nutrimento è costituito dalle impressioni sensoriali ricevute attraverso il contatto dei sei sensi (i cinque sensi corporei e la mente), con gli oggetti della percezione. Questi (sensi e oggetti) sono le condizioni perché si manifestino i tre tipi di sensazione (piacevole, spiacevole, neutra). –– Poi ci sono gli impulsi mentali volitivi (reazioni alle sensazioni), che alimentano il continuo divenire. –– Infine la coscienza, cioè il processo continuamente alimentato dalle reazioni causate dall’ignoranza, che a sua volta perpetua la costituzione dell’organismo fisico e mentale. 5. Inizia qui una prima descrizione della catena di causa ed effetto, partendo dal settimo dei dodici anelli, cioè dalla sensazione. La catena intera incomincia dall’ignoranza (avijjá) e si conclude con la vecchiaia e la morte (jará maraóa), e viene esposta poche righe più avanti nel testo. 6. La coscienza è qui intesa come “(…) l’amalgama dei contenuti morali e intellettuali dei processi psichici, che si prepara nel corso di un’esistenza e determina la nuova esistenza. Ha quindi un’accezione più ampia che non la coscienza come attenzione per un oggetto, che ha una funzione nel processo degli aggregati mentali”. (Nyanatiloka T., Dizionario Buddhista, op. cit.) 92 PARTE SECONDA 7. L’ignoranza consiste nel reagire con bramosia e avversione alle sensazioni (invece di osservarle col giusto distacco), e provoca un profondo e intenso desiderio di qualcosa e, quindi, crea le condizioni del divenire. 8. Per distruggere il processo attraverso cui accumuliamo sofferenza, va spezzato l’anello dell’ignoranza: quando compare una sensazione fisica, invece di bramosia e avversione, si coltiva saggezza, (cioè, osservando l’impermanenza di ogni sensazione, non si reagisce e si rimane equanimi). Vipassana permette di ridurre l’accumulo di profonde reazioni e di eliminarle. 9. Il Buddha considera l’atto del concepimento come causa ed effetto, e cioè che avviene solo se ci sono certe condizioni. 10. Il bambino comincia a reagire alle sensazioni piacevoli e così crea il sotterraneo condizionamento mentale d’ignoranza, e cioè di bramosia e avversione, origine di ogni sofferenza. 11. Questo comportamento è possibile quando si comincia a osservare la realtà così com’è, (e cioè l’impermanenza di ogni fenomeno mentale e fisico), praticando Vipassana. Il Buddha ri-scopre Vipassana perché la caratteristica di ogni Buddha è di riportare alla luce un metodo già usato da tutti gli altri Buddha. 12. Tathágata è una delle definizioni di persona illuminata, di Buddha. Tathá significa così (e non in 93 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza modo diverso); gatha è il participio passato del verbo gaccathi, che significa andare, camminare. Perciò Tathágata significa quello che è andato, camminando per la via della verità. 13. I cinque ostacoli sono gli stati negativi della mente: bramosia, avversione, torpore, agitazione e dubbio. 14. Sono gli stati di assorbimento della meditazione di quiete (samadhi o samatha). Paragonabile a tecniche di meditazione di altre tradizioni, mira al raggiungimento di stati di coscienza caratterizzati da livelli sempre più profondi di tranquillità mentale e richiede un altissimo grado di concentrazione mentale. Per la Vipassana invece, basta acquisire una concentrazione minima, sufficiente ad assicurare il mantenimento di un’attenzione stabile, necessaria per lo sviluppo della comprensione profonda. 15. Il discorso del Saþipaþþhana (v. pag. 153) contiene la spiegazione dettagliata su come osservare il proprio corpo e la propria mente. 16. È descritta in breve Vipassana: la purificazione della mente, con l’osservazione equanime della realtà, così com’è. 94 Commento Che cosa accade di fronte alla morte* di S.N. Goenka P er capire cosa accade al momento della morte, cerchiamo di capire che cos’è la morte. La morte è come una curva nel fiume continuo del divenire, che prosegue anche dopo la morte. Termina una vita e, proprio l’istante dopo, ne inizia una nuova. La morte è l’ultimo momento della vita, ed è il primo momento della vita successiva: come se il sole sorgesse non appena tramontato, senza intervallo di oscurità; o come se il momento della morte fosse la fine di un capitolo nel libro del divenire, e proprio il momento dopo iniziasse un altro capitolo. Il treno del divenire Anche se nessuna similitudine può chiarire esattamente questo processo, si può anche dire che il flusso del divenire è come il treno che corre sui binari, raggiunge la stazione della morte, diminuisce * Da S.N. Goenka, What happens at death. Vipassana Newsletter, notiziario in inglese, V.R.I. Ibid., marzo 2000, Vol. 10 N. 3. 95 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza per un momento la velocità, e poi prosegue con la velocità di prima, senza mai fermarsi. La stazione è un nodo ferroviario dal quale divergono trentuno binari. Il treno arriva alla stazione, ne imbocca uno e prosegue. I binari Questo treno del divenire, alimentato dall’elettricità delle reazioni compiute, continua a correre da una stazione a quella seguente, su di un binario o l’altro. Il cambiamento di binario – il passaggio da una vita all’altra – avviene in accordo alle leggi di natura; le stesse leggi naturali secondo cui il ghiaccio si scioglie e si forma. L’incrocio della morte, dove avviene il cambio di binari, è di grande importanza: la vita viene abbandonata, in pali cuti (scomparsa o morte). Avviene l’abbandono del corpo e, immediatamente, inizia la vita successiva: questo processo – paþisandhi – è il concepimento o inizio della vita. Esso è il risultato del momento della morte, cioè il momento della morte determina il momento del concepimento. Poiché ogni momento di morte crea il momento seguente di nascita, la morte è anche nascita. La preparazione All’incrocio, la vita si trasforma in morte e la morte in nascita. Perciò ogni vita è una preparazione per la morte. Se si è saggi, si userà questa vita nel modo migliore per prepararsi a una buona morte. 96 PARTE SECONDA La morte migliore è la morte di un essere liberato, l’arahant, perché è l’ultima, non un incrocio ma il capolinea: senza alcun binario sul quale il treno potrà correre. Ma sino a quando questo capolinea non sarà raggiunto, ciascuno può solo adoperarsi perché la propria morte possa far sorgere una buona nascita, e che, col tempo, il capolinea possa essere raggiunto. Dipenderà solo da noi, dai nostri corretti sforzi. Noi siamo i costruttori del nostro benessere e della nostra sofferenza, così come della nostra liberazione. I creatori dei binari Come avviene che siamo i creatori dei binari del treno in corsa del divenire? Dobbiamo comprendere che cosa è l’azione, il kamma. Essa è l’attitudine (o volizione) mentale, salutare o non salutare, benevola o malevola, che costituisce la radice delle azioni mentali, vocali e fisiche. Vediamo come succede. La coscienza sorge per il contatto alla porta dei sensi, e allora saññá (la percezione e il riconoscimento) dà una valutazione all’esperienza, le sensazioni sorgono, e ha luogo una reazione. Queste reazioni sono di differenti tipi. Alcune sono come una linea tracciata sull’acqua, altre come una linea tracciata sulla sabbia, e altre ancora sono come scolpite sulla roccia. Se la volizione è buona, lo sarà l’azione e il frutto sarà benefico; se la volizione è malevola, lo sarà l’azione e darà il frutto della sofferenza. Non tutte le reazioni danno frutto alla nascita. Alcune sono così 97 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza leggere che non ne danno alcuno. Altre più pesanti, si consumano in una sola vita e non si trascinano nella successiva; altre, ancora più pesanti, continuano con il flusso della vita sino alla nascita seguente; non hanno la forza di procurare una nascita, ma possono continuare a moltiplicarsi durante una vita e la seguente. Le azioni (bháva-kamma o bháva-saókhára) che procurano una nuova vita e che danno origine al processo del divenire, possiedono una vibrazione in consonanza con la vibrazione di un piano di esistenza che ha la stessa intensità, e le due si attrarranno in accordo alle leggi universali di causa ed effetto. Appena una di queste reazioni è generata, il treno del divenire, quando arriverà alla stazione della morte, sarà attratto da uno dei 31 binari, che sono i 31 piani di esistenza: gli 11 piani (káma lokas) di sensorialità (i 4 livelli inferiori di esistenza, il mondo umano e i 6 piani celesti); i 16 rúpa-brahma-lokas (dove rimane un corpo materiale molto fine) e i 4 arúpa-brahmalokas (piani di esistenza non materiali dove rimane solo la mente). Nell’ultimo momento di vita, sorge una reazione (bhava-saókhára), che determina su quale binario correrà il treno dell’esistenza, che si collega con le vibrazioni del piano di esistenza cui si riferisce. Allo stesso modo, non appena un treno è smistato su un binario, il bhava-kamma (le reazioni accumulate) dà una spinta al flusso della coscienza in una nuova vita. Per esempio il bhava-kamma di rabbia o di rancore appartiene alla natura del calore e si collega con piani di esistenza inferiori, mentre quello di amore 98 PARTE SECONDA compassionevole appartiene alla natura della pace e si collega con piani di esistenza chiamati brahma-loka. Queste sono leggi di natura, perfettamente regolate. Deve essere compreso che non vi è alcun passeggero sul treno, eccetto la forza dei condizionamenti mentali (saókhára) accumulati. Il momento della morte Al momento della morte, generalmente, sorge qualche profondo saókhára di natura positiva o negativa. Chi ha ucciso qualcuno, al momento della morte ne avrà memoria. Chi ha meditato profondamente avrà quello stato mentale. Se non sorgono bhava-kamma intensi, ne sorgono di meno profondi. Qualsiasi memoria risvegliata si manifesta come l’azione che svilupperà una nuova esistenza. Per esempio, qualcuno può ricordare di aver sfamato una persona santa, o di aver ucciso, oppure può ricordare l’oggetto in relazione all’azione: il piatto di cibo offerto o l’arma usata per uccidere. Questi sono chiamati i segnali dell’azione del kamma (nimitta-kamma). Oppure può apparire un segno o un simbolo della vita successiva. Questo è chiamato segnale di partenza. Questi segnali corrispondono al piano di esistenza verso il quale il flusso sarà attratto. Può essere l’immagine di qualche mondo celestiale o del mondo animale. Il morente spesso sperimenta uno di questi segni come preavviso, proprio come le luci del treno davanti illuminano le rotaie. Le vibrazioni dei segnali sono identiche alle vibrazioni del piano di esistenza della nascita seguente. 99 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza La scelta dei binari Un buon meditatore di Vipassana ha la capacità di scegliere i propri binari, ed evitare le rotaie che portano a piani di esistenza inferiori. Comprende le leggi di natura e pratica continuativamente, per mantenersi pronto alla morte, in ogni momento. Per chi ha raggiunto un’età avanzata, vi è una ragione di più per rimanere consapevoli ogni momento. Quali sono i preparativi necessari? Si deve praticare Vipassana, sviluppare equanimità verso qualsiasi sensazione, indebolendo l’abitudine a reagire. Al momento della morte, è probabile che si sperimentino sensazioni molto spiacevoli: vecchiaia, malattia e morte sono sofferenza e producono sensazioni intense. Se non si è coltivata la capacità di osservare le sensazioni con equanimità, probabilmente si reagirà con ira, rabbia, paura, disperazione; in tal modo profonde reazioni, con lo stesso tipo di vibrazione, avranno l’opportunità di sorgere e manifestarsi. Ma è possibile apprendere come mantenere equanimità al tempo della morte, evitando di reagire alle sensazioni dolorose. E allora persino i condizionamenti più profondi non avranno l’opportunità di sorgere. L’ approccio alla mente All’avvicinarsi della morte, un non meditatore di solito è preoccupato, persino terrorizzato, e darà occasione di sorgere a un condizionamento di paura. All’avvicinarsi della separazione dalle persone amate, possono sorgere dispiacere, depressione, lamento e 100 PARTE SECONDA altri sentimenti ed emozioni, e le reazioni collegate a esse sorgeranno e domineranno la mente. Un meditatore di Vipassana le indebolisce osservando le sensazioni con equanimità, in modo che, al momento della morte, non abbiano la possibilità di sorgere. La preparazione per la morte è sviluppare l’abitudine a osservare le sensazioni fisiche e mentali, con continuità, equanimità e la comprensione della loro impermanenza. Al momento della morte, la radicata abitudine all’equanimità appare automaticamente, e il treno dell’esistenza s’immette sul binario, cioè in un piano di esistenza, dove sarà possibile praticare ancora Vipassana. Questa tappa è molto importante perché Vipassana non può essere praticata nei piani di esistenza inferiori. Per un meditatore in punto di morte, è una grande fortuna la vicinanza di amici o parenti che meditano con Vipassana e possono generare vibrazioni di amorevolezza molto favorevoli per una morte pacifica. Manterranno una buona atmosfera libera da lamento e tristezza. Al tempo della morte, un non meditatore a volte ottiene un’esistenza favorevole, a causa della manifestazione di condizionamenti positivi come generosità, moralità e altre qualità. Lo specifico raggiungimento di un meditatore di Vipassana ben stabilizzato è l’ottenimento di un’esistenza, dove possa praticare Vipassana. In questo modo, diminuendo gradualmente il deposito di condizionamenti accumulati, abbrevia il viaggio nel divenire e avvicina la meta finale. Si entra in contatto con il Dhamma a causa di grandi meriti che si sono guadagnati nel passato. Rendete la vostra vita vittoriosa praticando Vipassana; e quando verrà la morte, la 101 2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza vostra mente sarà equanime, portando con sé benessere per il futuro. 102 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche* (Vedaná Saíyuttaí, S.36) La corretta visione (Daþþhabbena sutta, S.36.5) Un colpo di freccia (Sallena sutta, S.36.6) Il discorso dell’infermeria (Pathamagelanna sutta, S.36.8) L’impermanenza (Anicca sutta, S.36.9) * Questi quattro discorsi sono tratti dal Saíyutta Nikáya, la Raccolta di discorsi raggruppati per argomenti. Una delle cinque raccolte (nikáyas) che costituiscono il Sutta Piþaka, la cesta dei discorsi. Premessa L’importanza della sensazione fisica* a cura del Vipassana Research Institute S e vogliamo imparare a vivere una vita felice, è necessario che ci trasformiamo in maniera radicale e, per un tale cambiamento, anche la fede più sublime non basta, ma occorre sperimentare la legge naturale – il Dhamma – all’interno di noi stessi: dobbiamo renderci conto personalmente della nostra natura effimera e mutevole. Dopo tale esperienza, diventa spontaneo generare in noi quel distacco, o equanimità, che ci permette di rimanere sereni in mezzo alle vicissitudini della vita. La chiave di questa percezione diretta è la sensazione corporea, vedaná in pali, perché è attraverso di essa che noi entriamo in contatto con il mondo. * Da V.R.I. (a cura di) The Importance of Vedaná. Vipassana Newsletter, op. cit., luglio 2004 Vol.14 N.8. 105 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche La sensazione fisica, strumento di liberazione Ogni volta che avviene un contatto con uno dei sensi fisici o con la mente, si manifesta una sensazione nel corpo. A questo punto hanno inizio i nostri comportamenti abituali; è dunque a questo punto che dobbiamo intervenire perché la sensazione diventi strumento di liberazione. Diversamente la sensazione ci conduce a generare bramosia e avversione. Occorre comprendere che cosa sia una sensazione e dove occorre cercarla. Il Buddha la classificò tra gli aggregati mentali, insieme a coscienza (viññáóa), percezione (saññá) e reazione (saókhára) e la definì come fenomeno sia mentale che fisico. È la mente che sente, e ciò che sente è inscindibile dal corpo. La sensazione fisica è d’importanza fondamentale per il meditatore. Se osserviamo soltanto a livello mentale, non ci rendiamo conto della sensazione, quando si manifesta; e reagiamo automaticamente a essa, intensificandola. Prima che ce ne rendiamo conto, quella fuggevole sensazione ha assunto le proporzioni di un fuoco divorante, è diventata un’emozione così forte da sconvolgere la mente. Come conseguenza, ci ritroviamo a parlare e ad agire in modi di cui più tardi potremmo rammaricarci. Se invece osserviamo la sensazione fisica e ne diventiamo consapevoli non appena sorge, possiamo impedire la reazione. Per ignoranza, reagiamo alla sensazione fisica e le permettiamo di trasformarsi in un’impurità mentale che sopraffa la ragione. Ma 106 PARTE SECONDA se impariamo a osservare le sensazioni fisiche con equanimità, potremo affrancarci dalla schiavitù di reazione e sofferenza. Osservando le sensazioni fisiche, il meditatore entra in contatto con il livello più profondo della mente, quello inconscio, e rimanendo equanime alle sensazioni, può impedire che vi si formino le reazioni. Non solo: quest’osservazione è il mezzo per far emergere ed eliminare i condizionamenti mentali contenuti nell’inconscio. Tutte le cose che sorgono nella mente sono accompagnate da sensazioni. (A. 4.184) Coltivando l’atteggiamento di osservatore equanime, il meditatore lascia che emozioni e complessi emergano a livello conscio, manifestandosi come sensazioni fisiche. Senza reagire a esse, egli permette ai vecchi condizionamenti mentali di dissolversi. Il meditatore, esercitandosi a osservare la transitorietà delle sensazioni fisiche piacevoli, il modo in cui esse si attenuano, finiscono, e anche la maniera in cui egli se ne distacca, si libera dal condizionamento che lo porta a desiderarle. Così pure, quando il meditatore osserva le sensazioni fisiche sgradevoli, e ne coglie l’impermanenza, egli si libera dal condizionamento che gli suscita avversione verso di esse. Osservando con continuità le sensazioni neutre e rendendosi conto che, così come sorgono, esse si dissolvono, il meditatore elimina il condizionamento che gli faceva ignorare le sensazioni neutre. 107 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Pertanto, osservando le sensazioni, il meditatore libera la sua mente dal desiderio, da avversione, ignoranza, e cioè da tutto ciò che la rende impura. (S. 4.189) Osservare le sensazioni fisiche è il modo per sperimentare l’impermanenza di noi stessi. L’impermanenza non va riferita a ciò che sta fuori di noi, agli altri e al mondo che ci circonda, bensì a noi stessi, come fenomeni transitori. Quando sperimentiamo che, ogni attimo, cambiamo e ci dissolviamo, attaccamento ed egotismo iniziano a diminuire e impariamo a vivere il nostro io, con equanimità e distacco. Il Buddha descrive cosi questo processo: Nel cielo soffiano venti diversi, vengono da oriente e da occidente, dal nord e dal sud, carichi di polvere o senza polvere, freddi o caldi, uragani impetuosi o brezze gentili, molti sono i venti che soffiano. Così, nel corpo sorgono sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Quando un meditatore, pieno di fervore, mantiene salda la capacità di comprensione, egli, da vero saggio, giunge a comprendere tutte le sensazioni. Una volta consapevole delle sensazioni, già da questa vita, egli viene liberato da tutte le impurità. Stabilizzatosi in Dhamma e avendo penetrato tutte le verità riguardanti le sensazioni, dopo la morte egli raggiunge lo stadio indescrivibile oltre il mondo condizionato, nibbána. (S. 4.189) Il Buddha riteneva la consapevolezza delle sensazioni così importante, che la definiva káyagatá sati: 108 PARTE SECONDA consapevolezza diretta al corpo. Il nostro corpo è testimone della verità. Se ci impegniamo nell’osservazione delle sensazioni fisiche, possiamo passare da una verità che conosciamo intellettualmente a una verità che sperimentiamo. E quando la sperimentiamo ne siamo trasformati, e allora nasce in noi la fede autentica, basata sull’esesperienza. 109 L’impermanenza* a cura del Vipassana Research Institute Ogni cosa esistente è impermanente. Quando si comincia a osservare ciò con comprensione profonda e diretta esperienza, allora ci si mantiene distaccati dalla sofferenza; questo è il cammino della purificazione. (Dpd. 277) Il cambiamento è inerente a ogni essere e fenomeno. Non vi è nulla nel campo animato o inanimato, organico o inorganico che possiamo definire permanente, e anche se lo facessimo, inevitabilmente ogni cosa sarebbe destinata a cambiare. Sperimentando all’interno di se stesso questa legge di natura fondamentale, il Buddha dichiarò: Sia che nel mondo ci sia o meno una persona illuminata, rimane tuttavia una condizione ferma, un fatto immutabile, una legge fissa: tutti i fenomeni sono impermanenti, soggetti alla sofferenza e privi di sostanza. (A. III, 134) Anicca (impermanenza), dukkha (sofferenza) e anattá (inconsistenza dell’io) sono le tre caratteristiche comuni a ogni essere. Tra queste, la più importante nella pratica di Vipassana è anicca. Il meditatore os* Da V.R.I. (a cura di), Anicca, Vipassana Newsletter, op. cit., ottobre 1990 Vol.1 N.2. 110 PARTE SECONDA serva l’impermanenza in se stesso. Ciò gli permette di verificare che non ha nessun controllo su questo fenomeno, e che ogni tentativo in tal senso crea solo sofferenza. Impara quindi a sviluppare l’accettazione di anicca, il giusto distacco e l’apertura al cambiamento, vivendo così felicemente tra tutte le vicissitudini della vita. Meditatori, chi percepisce l’impermanenza, percepisce chiaramente l’inconsistenza e la mancanza di un “io”. E in chi percepisce questa inconsistenza, l’egoismo viene distrutto. E come risultato, persino in questa stessa vita, ottiene la liberazione. L’esperienza di anicca conduce automaticamente all’esperienza di anattá e dukkha, e chiunque li sperimenti, si trova naturalmente sul cammino che conduce fuori dalla sofferenza. Data la cruciale importanza di anicca, non sorprende che il Buddha ripetutamente ponesse l’accento sul suo significato per la liberazione. Nel Mahá Saþipaþþhána Suttanta, il testo principale in cui viene spiegata la tecnica di Vipassana, descrisse i differenti stadi della pratica, che devono, in ogni caso, condurre alla seguente esperienza: (Il meditatore) si sofferma a osservare il fenomeno del sorgere (...) si sofferma a osservare il fenomeno del passare (...) si sofferma a osservare il fenomeno del sorgere e passare. Dobbiamo saper riconoscere l’impermanenza non solo nel suo aspetto esterno intorno a noi, ma anche 111 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche all’interno di noi stessi. Dobbiamo imparare a vedere la realtà sottile che noi stessi cambiamo, ogni momento; che l’io di cui siamo così infatuati è un fenomeno in flusso costante, in continuo cambiamento. Con questa esperienza, possiamo facilmente emergere dall’egotismo e così dalla sofferenza. In altre circostanze il Buddha disse: L’occhio, o meditatori, è impermanente. E ciò che è impermanente è insoddisfacente. Ciò che è insoddisfacente è senza sostanza. E ciò che è senza sostanza non è “mio”, non è “io”, non è “me stesso”. Ecco come osservare l’occhio con saggezza, come è realmente. E nello stesso modo viene ripetuto per l’orecchio, il naso, la lingua, il corpo, per tutte le basi dell’esperienza sensoriale, per ogni aspetto dell’essere umano. E il Buddha così continuò: Vedendo ciò, o meditatori, il nobile discepolo bene istruito ne ha abbastanza dell’occhio, dell’orecchio, del naso, della lingua, del corpo, e della mente [in generale di tutta quanta l’esperienza sensoriale]. Essendo ormai sazio, non prova più passione per essi. Essendo senza passione per questi sensi, si sente libero. In questa libertà sorge la realizzazione che è liberato. In questo passaggio il Buddha distingue con nettezza la conoscenza intellettuale dalla comprensione frutto dell’esperienza. Si può ascoltare il Dhamma e accettarlo per fede o intellettualmente, ma ciò è insufficiente ad ottenere la liberazione; ognuno deve 112 PARTE SECONDA sperimentare la verità da se stesso, all’interno di se stesso. Ecco ciò che Vipassana ci permette di fare. Le verità di cui egli ha parlato erano conosciute anche prima di lui e comuni nell’India del suo tempo: non inventò i concetti di impermanenza, sofferenza e inconsistenza dell’io. La sua peculiarità consiste nell’aver trovato una via per sperimentare la verità, ben oltre il poterne ascoltare e parlare. Il Báhiya Sutta, nel Saíyutta Nikáya, è un testo che mostra questo aspetto, con la descrizione dell’incontro del Buddha con Bahiya, un ricercatore spirituale, che gli chiese di essergli da guida, nonostante non fosse suo discepolo. Il Buddha rispose ponendogli delle domande: Che cosa ne pensi, Bahiya: è l’occhio permanente o impermanente? Impermanente, Signore. E ciò che è impermanente è causa di sofferenza o di felicità? Di sofferenza, Signore. Ti sembra adatto considerare ciò che è impermanente, causa di sofferenza e per natura mutevole, come “mio”, “io”, “me stesso”? Certamente no, Signore. Il Buddha continuò con le stesse domande sugli oggetti della vista, la coscienza dell’occhio e il contatto dell’occhio. In ogni caso Bahiya era d’accordo che essi erano impermanenti, insoddisfacenti, non io. Accettava anicca, dukkha e anattá pur non dichiarandosi seguace dell’insegnamento del Buddha. E questo perché, per Bahiya come per altri, i concetti 113 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche di impermanenza, sofferenza e inconsistenza dell’io erano solo opinioni. A questi, il Buddha mostrò una via per sperimentarle in se stessi, al di là di credenze e filosofie. In che cosa quindi consiste questa via? Nel Brahamajála Suttanta (DN, 1) il Buddha prima elenca le credenze, le opinioni e i punti di vista del suo tempo e poi afferma che egli conosce qualcosa che è molto al di là. Avendo fatto esperienza di come realmente sono il sorgere e il passare delle sensazioni, l’attaccamento verso di esse, il pericolo insito in esse e il distaccarsi da esse, l’Illuminato, o meditatori, è diventato distaccato e liberato. Qui il Buddha dichiara che è diventato illuminato osservando le sensazioni come manifestazioni di impermanenza. E invita a fare altrettanto. Sperimentare l’impermanenza è essenziale per uscire dalla nostra sofferenza; e la via più immediata per farlo è osservare le sensazioni. Ci sono tre tipi di sensazioni, o meditatori, e tutte sono impermanenti, composte e sorgono per una causa, destinate a non durare, e per natura a passare, scomparire, cessare. Le sensazioni all’interno di noi stessi sono la più palpabile espressione dell’impermanenza. Osservandole, diventiamo capaci di accettare questa realtà, non per fede o per convinzione intellettuale, ma per esperienza. Dall’ascolto della verità, progrediamo 114 PARTE SECONDA sperimentandola in noi stessi, ed è questo che ci trasforma. Quando un meditatore resta consapevole con corretta comprensione, diligente, ardente e con pieno auto-controllo, al sorgere di piacevoli, fisiche sensazioni nel corpo, egli allora comprende: - È sorta in me questa piacevole sensazione corporea, ma è dipendente da una causa, non è indipendente. Dipendente da cosa? Da questo corpo. Ma questo corpo è impermanente, composto, sorge da condizioni. E come potrebbero queste piacevoli sensazioni fisiche essere permanenti poiché dipendono dal corpo, composto e impermanente, che sorge a causa di condizioni? Il meditatore fa esperienza dell’impermanenza delle sensazioni nel corpo, del loro sorgere, del loro passare, del loro finire. In tal modo, quando sente sensazioni piacevoli, abbandona il suo condizionamento profondo di bramosia; quando prova sensazioni spiacevoli, abbandona il suo condizionamento d’avversione; e quando fa esperienza di sensazioni neutrali, abbandona il suo condizionamento d’ignoranza. Così, osservando l’impermanenza, il meditatore si avvicina sempre più alla meta dello stadio incondizionato, o nibbána. Dopo aver raggiunto quella meta, Koóðañña, la prima persona a diventare liberata con l’insegnamento del Buddha, dichiarò: “Ogni cosa che ha la natura del sorgere ha anche la natura del finire.” 115 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Solamente facendo esperienza di anicca, poté fare esperienza di una realtà che non sorge e non finisce; le sue parole sono un segnale chiaro ai ricercatori sul cammino della verità, perché indicano la via da seguire per raggiungere la meta. Il Buddha dedicò i suoi ultimi istanti di vita al tema di cui aveva molto parlato durante i suoi quarantacinque anni d’insegnamento: Vaya-dhamma saókhára, Appamádena saípádetha. Ogni cosa esistente è impermanente, sforzatevi diligentemente. Ci dobbiamo chiedere per quale scopo dobbiamo sforzarci. Certo queste ultime parole del Buddha, si riferiscono alla sentenza precedente. Il suo prezioso messaggio al mondo è l’esperienza di anicca come strumento di liberazione. Dobbiamo sforzarci di realizzare l’impermanenza in noi stessi, e così esaudire la sua ultima esortazione. 116 Testi dei discorsi La corretta visione (Datthabbena sutta, S. 36.5) Vi sono tre tipi di sensazioni: piacevoli, spiacevoli e neutre, cioè né piacevoli né spiacevoli. Meditatori, occorre che consideriate le sensazioni piacevoli come sofferenza, quelle spiacevoli come il dolore per la trafittura da una lancia, quelle neutre come impermanenti, cioè sensazioni che hanno la caratteristica di sorgere e passare. Quando un meditatore considera che le sensazioni piacevoli sono destinate a procurargli sofferenza, che quelle spiacevoli sono una momentanea trafittura di lancia e che quelle neutre sono passeggere, significa che ha veramente visto la verità, che si è liberato da desiderio e avversione, che ha spezzato tutte le catene dei condizionamenti, che ha sperimentato la natura illusoria dell’io, che conosce le sensazioni nella loro totalità e che ha posto fine alla sua infelicità. Con questa completa consapevolezza delle sensazioni, si è liberato da tutte le impurità e raggiunge lo stato del nibbána. Chi si è radicato in Dhamma, alla fine della vita ha sperimentato l’intera gamma delle sensazioni, e giunge allo stadio ineffabile da cui non si ritorna più al mondo dei fenomeni. 117 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Un colpo di freccia (Sallena Sutta, S. 36.6) Meditatori, tanto l’uomo ignorante che l’uomo saggio (che percorre il sentiero, n.d.r.), percepiscono sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Qual è la differenza tra i due? Se un individuo trafitto da una freccia, ne riceve una seconda, sente il dolore di due trafitture. Lo stesso accade a chi ignora la legge di natura e, venendo in contatto con una sensazione spiacevole, se ne preoccupa, piange o grida e perde il senso della realtà. Egli sente due tipi di dolore: quello fisico e quello mentale. Gravato dalla sensazione spiacevole, prova avversione verso di essa e con quest’atteggiamento comincia a creare in sé un’abitudine (o condizionamento) d’avversione. Cerca il piacere da una sensazione piacevole, perché ignora come difendersi dal dolore, se non rifugiandosi nel piacere sensoriale. Ma nel momento in cui sente piacere, dentro di sé comincia a formare un condizionamento di bramosia. Non si rende conto che le sensazioni vanno e vengono, e genera avversione e bramosia verso di esse. Le sensazioni rappresentano un pericolo, ma è possibile non esserne schiavi. Non comprendere tutto ciò, crea, in profondità, un condizionamento di ignoranza. Sia che provi sensazioni piacevoli, spiacevoli, o neutre, la persona ignorante ne rimane condizionata e quindi è soggetta a nascita, vecchiaia e morte, sofferenze fisiche e mentali. 118 PARTE SECONDA Invece l’uomo saggio sente una sensazione spiacevole e non si preoccupa, non si agita, piange, grida o perde il senso della realtà. È come chi sia trafitto da una freccia e non da due, perché percepisce la sola sensazione fisica spiacevole e non quella mentale. E così non prova avversione per essa, e pertanto in lui non si forma un condizionamento di avversione. Inoltre, non cerca diletto in una sensazione piacevole, per sfuggire a quella sgradevole. Sa come trovar riparo dalla sensazione spiacevole, senza sfuggirla con il piacere. Evita così, di creare un condizionamento di bramosia. Egli ha la comprensione della realtà così come è, del sorgere e passare delle sensazioni, di come si comincia a sviluppare bramosia e avversione verso di esse, del pericolo insito in questa tendenza e del modo di sottrarsene. Con questa comprensione, non permette la formazione di condizionamenti d’ignoranza. Quindi, il meditatore impara a rimanere equanime quando si manifestano sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. In questo modo, rimane equanime anche di fronte a nascita, vecchiaia, morte, afflizione, sofferenza fisica e mentale. È equanime di fronte a tutte le sofferenze. Questa è la differenza tra la persona saggia e l’ignorante. Chi si è adeguatamente addestrato nella pratica della meditazione, rimane equanime di fronte alle sensazioni fisiche piacevoli, spiacevoli e neutre. 119 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Il discorso dell’infermeria (Pathamagelanna sutta, S. 36.8) Una volta l’Iluminato si trovava vicino a Vesáli, nella grande foresta, presso una casa a due spioventi. La sera, dopo la meditazione, si recò nella stanza dove erano ricoverati i malati e sedutosi nel posto preparato per lui, si rivolse ai monaci: – Ecco il mio insegnamento: un meditatore deve essere consapevole ed equanime, con la costante e completa comprensione dell’impermanenza di tutti i fenomeni mentali e fisici, e aspettare che il tempo della liberazione arrivi naturalmente. E come giunge a questa comprensione? Corpo e mente Lasciando da parte ogni bramosia e avversione verso tutti i fenomeni materiali e mentali, il meditatore deve praticare, con fervore, la costante e completa comprensione dell’impermanenza mentre osserva il suo corpo; poi mentre osserva le sensazioni. Inoltre, anche quando osserva la sua mente, e osserva i contenuti mentali, deve sempre lasciar da parte bramosia e avversione nei confronti di tutti i fenomeni materiali e mentali, e praticare, con fervore, la massima consapevolezza e la costante e completa comprensione dell’impermanenza di tutti i fenomeni mentali e fisici. 120 PARTE SECONDA Quando una sensazione sorge, sia essa piacevole o spiacevole o neutra, il meditatore così la osserva e la comprende: una sensazione piacevole, spiacevole o neutra è sorta in me. Essa è basata su qualcosa. Ha una causa. È sorta e si è manifestata in questo corpo. E quindi osserva la natura impermanente della sensazione del corpo. E come fa il meditatore a essere cosciente, in ogni istante, dell’impermanenza? In ogni posizione e attività Meditatori, chi pratica si rende conto dell’impermanenza delle sensazioni in ogni situazione: quando va o quando viene, quando guarda diritto innanzi a sé o volge intorno lo sguardo, quando si china o quando si raddrizza, quando si veste o quando si sposta con la ciotola dell’elemosina; rimane consapevole dell’impermanenza sia che mangi o che beva, che mastichi o che assapori ciò che sta inghiottendo, o che attenda ai suoi bisogni corporei; quando cammina, sta fermo e si siede, quando dorme o è sveglio, quando parla o tace, sempre egli si rende conto e sperimenta, a livello di sensazioni, l’impermanenza di ogni fenomeno mentale e fisico. Ecco, come un meditatore coltiva consapevolezza ed equanimità, con la piena comprensione dell’impermanenza di tutti i fenomeni mentali e fisici, e aspetta che il tempo della liberazione arrivi naturalmente. 121 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Il processo di eliminazione (...) Vediamo ora che cosa avviene quando il meditatore zelante e consapevole dell’impermanenza sente una sensazione piacevole: immediatamente si rende conto che è sorta, che deve avere un fondamento, e che questo fondamento è il suo corpo. Egli sa che il corpo è effimero, composto, e originato da cause. E sa che, se la sensazione è frutto del corpo impermanente, come può essere permanente? E allora, osserva la sensazione corporea, come s’indebolisce, come svanisce poco a poco, fino a scomparire. Così, in conseguenza del fatto che egli si rende conto della natura effimera del corpo e delle sue sensazioni, osservandone il loro sorgere e passare, il profondo condizionamento di bramosia, che si era formato in lui nei confronti del corpo e delle sensazioni piacevoli, comincia a essere eliminato. Lo stesso processo avviene quando il meditatore sperimenta sensazioni sgradevoli. Il fatto di osservarne la transitorietà, insieme alla consapevolezza che il corpo, in cui le sensazioni si manifestano, è esso stesso effimero e destinato a passare, estirpa dal profondo della sua mente l’abitudine di reagire con avversione a ogni sensazione spiacevole. Quando il meditatore procede allo stesso modo riguardo alle sensazioni neutre, il condizionamento d’ignoranza nei confronti delle sensazioni neutre è eliminato. Questi tre condizionamenti vengono meno quando il meditatore non solo osserva il sorgere, il graduale svanire e finire dei tre tipi di sensazioni, ma vede anche come egli riesca a liberarsi del suo attaccamento verso di esse. Qualsiasi sensazione sorga nel 122 PARTE SECONDA suo corpo, piacevole, spiacevole e neutra, egli rimane equanime, comprendendone la natura impermanente. Il meditatore saggiamente constata che egli prova sensazioni in ogni parte del corpo, ovunque c’è vita. E con profonda intuizione, si rende conto che, quando, più tardi, il suo corpo si disintegrerà e la sua vita avrà fine, quelle stesse sensazioni verso cui egli ora ha sviluppato equanimità, non avranno più alcuna attrattiva e spariranno del tutto. Proprio come una lampada a olio, che continua a bruciare, fino a quando vi sono l’olio e lo stoppino, ma che si spegne per mancanza di carburante, quando finiscono l’olio e lo stoppino. 123 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche L’impermanenza (Aniccasutta, S.36.9) Meditatori, i tre tipi di sensazioni – piacevoli, spiacevoli, neutre – sono impermanenti, composti, determinati da una causa, e per natura, destinati a declinare, svanire, passare, venir meno completamente. 124 Commento* di S.N. Goenka La reale natura delle sensazioni N ell’illimitato cielo differenti venti sorgono, soffiano e se ne vanno: a volte provengono da est, a volte da ovest, a volte da nord e a volte da sud; a volte sono venti caldi o freddi; a volte pieni di polvere, a volte venti maleodoranti o profumati; a volte tempestosi oppure delicati o leggeri. Di qualunque natura essi siano, il cielo non ne è impressionato. I venti possono prevalere per un po’ di tempo, ma presto o tardi se ne vanno. Così, differenti viaggiatori arrivano in un albergo; arrivano da est o da ovest, da nord o da sud; bianchi, neri o di pelle gialla; gente di ogni fisionomia e costituzione. Ma l’albergo non ne rimane impressionato. Tutta questa gente arriva e si ferma per un po’, ma presto o tardi se ne va, proseguendo per la sua strada. Allo stesso modo differenti sensazioni sorgono nel corpo. Appaiono e rimangono per qualche tempo, ma prima o poi se ne vanno. Non sorgono per re* Da S.N. Goenka, The real nature of the sensations. Vipassana Patrika, op.cit., 1984 – 1986. Serie di tre articoli. 125 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche stare. Ciononostante, permettiamo loro di impressionarci e così reagiamo con bramosia e avversione verso esse. Perché accade? Perché la nostra facoltà della percezione – saññá – dà una valutazione alle sensazioni e le classifica come piacevoli, spiacevoli e neutrali. Dopo averle valutate e classificate, la mente reagisce. Inizia a sviluppare simpatia verso la sensazione valutata come piacevole, e ben presto la simpatia si trasforma in bramosia. Inizia a sviluppare antipatia verso la sensazione valutata come spiacevole, che si trasforma in avversione. Questa reazione è un’abitudine radicata. Quando valutiamo una sensazione come piacevole desideriamo prolungarla e/o intensificarla. Quando valutiamo una sensazione come spiacevole cerchiamo di scacciarla. Nel caso di una sensazione neutrale cerchiamo di sostituirla perché proviamo avversione per essa e bramosia per qualcosa di più piacevole. Se la percezione condizionata – saññá – si trasforma in – paññá – e cioè saggezza, comprensione attraverso l’esperienza, la mente smette di valutare le sensazioni. Con l’esperienza della loro reale natura, cominciamo a valutare nella maniera corretta qualsiasi sensazione sorga, piacevole, spiacevole o neutrale: ha la natura dell’impermanenza, del sorgere e del passare, del continuo cambiamento, e allora le reazioni di bramosia e avversione finiranno. È sorta nel corpo come il vento sorge nel cielo o un viaggiatore giunge in un albergo, è sorta solo per andarsene. E questa è la verità dell’impermanenza. Non abbiamo alcuna padronanza sulle sensazioni, alcun dominio. 126 PARTE SECONDA Se vogliamo qualche sensazione, non riusciamo a ottenerla. Se proviamo a evitare qualche sensazione, non ci riusciamo. E se vogliamo cacciare una sensazione, non ci riusciamo. Ogni cosa accade non come noi vogliamo, ma in accordo alle leggi di natura. E questa è la verità di assenza di un io. Se ci identifichiamo con qualcosa che è impermanente e non in nostro controllo, e reagiamo con bramosia e avversione, il risultato non sarà altro che sofferenza. E questa è la verità della sofferenza. Questa valutazione data dalla saggezza – paññá – è la corretta valutazione che instaura equanimità nel meditatore e gli indica la strada che lo farà uscire dalla sofferenza. Questa è Vipassana. Questo è il Gange di Dhamma che purifica e libera la mente. Venite, o meditatori, e immergiamoci in questo Gange di Dhamma, per trovare la liberazione dalla sofferenza e ottenere la pace vera, la felicità vera. 127 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche La sofferenza finisce là, dove finiscono le sensazioni La nostra abitudine mentale è di dibatterci nel dolore a causa di sensazioni fisiche considerate spiacevoli e di cullarci nel godimento di quelle considerate piacevoli. Ma, quando le osserviamo con il giusto distacco, ci si svelano realtà diverse. Sperimentiamo, infatti, che le sensazioni sorgono a causa di un contatto: il contatto degli organi di senso (occhi, naso, orecchi, bocca, corpo e mente) con gli oggetti corrispondenti. Se il meditatore continua a osservare obiettivamente, comprenderà il pericolo, il dannoso potenziale delle sensazioni. Ma, a causa delle abitudini mentali, sarà facilmente sommerso dalla reazione, (cioè osserverà per un po’ di tempo, ma poi si distrarrà). Col tempo, al meditatore diventerà sempre più chiaro come la mente sia condizionata “a rotolare” nelle sensazioni, sia piacevoli che spiacevoli. La tendenza della mente a valutare le sensazioni è il modo per stimolare bramosia e avversione. Se la sensazione è valutata piacevole si rotola nel piacere. Se la sensazione è valutata spiacevole ci si dibatte nell’avversione e nella frustrazione. Quando sorgono bramosia e avversione, esse intensificano le sensazioni, che a loro volta rafforzano bramosia e avversione: è un circolo vizioso, è la via che conduce solo alla sofferenza. Il meditatore potrà rendersi conto del tempo perso a incrementare la propria sofferenza. 128 PARTE SECONDA Praticando Vipassana, abbandona gradualmente l’abitudine a valutare le sensazioni e sviluppa man mano equanimità. Quindi realizza che il circolo vizioso, almeno temporaneamente, si interrompe, e smette di provocare sofferenza. Seguendo la via che conduce alla fine della sofferenza, riuscirà a sradicarla dalla propria vita. A questo punto, verificherà la cruciale importanza delle sensazioni fisiche, poiché è da esse che si dipartono due sentieri: quello che porta al sorgere della sofferenza e quello che conduce alla sua fine. E quando il meditatore sperimenta come la sofferenza inizia e si moltiplica, porrà molta cura nella scelta del sentiero: osservando obiettivamente le sensazioni, il meditatore lascia l’abitudine alle reazioni di bramosia e avversione, e si emancipa dall’abitudine di sguazzare nelle sensazioni, raggiungendo lo stadio in cui le sensazioni finiscono, e anche la sofferenza. Quando si comincia a meditare con Vipassana, per la maggior parte del tempo, la testa è come sott’acqua: si rotola nelle sensazioni, generando bramosia e avversione, cioè sofferenza. Col procedere della pratica, tuttavia, i periodi di equanimità aumentano e diminuiscono quelli di reazione. Quando si smette di produrre bramosia o avversione, inizia la distruzione dei condizionamenti del passato. I condizionamenti accumulati sorgono automaticamente e sono eliminati, strato dopo strato, fino a che si raggiunge lo stadio al di là del mondo condizionato dei sensi. Chiunque pratichi Vipassana correttamente, prima o poi, lo sperimenterà: la mente smette di funzionare, quindi gli organi di senso smettono di 129 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche funzionare, e non vi è più possibilità di contatto tra essi e gli oggetti, ha fine il contatto tra mente e materia, per cui non ci sono sensazioni. Venite, o meditatori! Lavoriamo con ardore, diligenza, pazienza e perseveranza per evitare il sentiero che porta al sorgere della sofferenza e prendere quello che conduce alla sua fine, in modo da poter raggiungere la vera felicità, la vera pace. 130 PARTE SECONDA Proprio nel corpo L’intero universo esiste nel corpo. È nel corpo che gira la ruota del processo del divenire. Nel corpo c’é la causa che mette in movimento la ruota del divenire. Nel corpo c’è la via per raggiungere la libertà dalla ruota della sofferenza. Per questa ragione l’investigazione del corpo è di somma importanza per il meditatore. Senza l’esperienza diretta della realtà, la ruota del divenire continua a girare. Con l’esperienza diretta, gradualmente la ruota si arresta, fino al punto in cui ci si libera dalla schiavitù del divenire. I cinque sensi fisici e la mente esistono perché esiste il corpo. Essi sono come sei porte attraverso cui avvengono tutti i nostri contatti col mondo; esso esiste per noi solamente quando entra in contatto con almeno una delle sei porte dei sensi. Una forma, per esempio, esiste per noi solamente quando entra in contatto con l’occhio; altrimenti per noi non esiste. Allo stesso modo un suono deve entrare in contatto con l’orecchio per esistere, di fatto, per noi; un odore con il naso; un oggetto tattile con il tatto; un pensiero o una fantasia o un’emozione con la mente. L’intero universo si manifesta attraverso queste sei porte che sono nel corpo. Perciò il Buddha ha detto che l’intero universo esiste nel corpo. Per investigare la verità di se stessi in modo pragmatico, il meditatore deve accantonare credenze e filosofie, al fine di applicarsi solo alla realtà, e accettare come vero solo ciò che sperimenta. Se esplora in questo modo, i misteri della natura si sveleranno. 131 3. Discorsi sulle sensazioni fisiche Per esperienza, il meditatore si rende conto che dal contatto degli occhi con una forma visibile sorge la coscienza dell’occhio, e cioè ha cognizione mentale del fatto che è avvenuto il contatto. E inoltre si rende conto che il contatto produce una sensazione fisica che si propaga nel corpo, come quando si colpisce in un punto un recipiente di bronzo e l’intero recipiente vibra. Quando c’è un contatto, c’è il processo della percezione: per esempio, la forma visibile viene riconosciuta, come uomo o donna, bianco o nero, e viene valutata: bello o brutto, buono o cattivo, positivo o negativo, piacevole o spiacevole; la valutazione produce una sensazione (piacevole, spiacevole o neutra) e quando la sensazione viene sperimentata come piacevole, la mente reagisce con bramosia, e se è spiacevole, la mente reagisce con avversione. Il meditatore fa esperienza del funzionamento delle quattro parti della mente: la coscienza, la percezione, la sensazione e la reazione. La bramosia intensifica la sensazione piacevole, e la sensazione piacevole intensifica la bramosia. L’avversione fortifica la sensazione spiacevole e la sensazione spiacevole rinforza l’avversione. Il meditatore fa esperienza di come dalle sensazioni fisiche inizia il circolo vizioso che continua, momento dopo momento, incessantemente. Questa è la ruota del divenire, della sofferenza. Osservando questo processo in modo oggettivo, senza preconcetti, il meditatore che pratica ardentemente ottiene la libertà da bramosia e avversione, e ferma il vorticoso movimento della ruota del divenire. 132 PARTE SECONDA Venite, o meditatori! Impariamo a osservare oggettivamente questo processo che sorge dalle sensazioni fisiche, per raggiungere la liberazione e ottenere la vera felicità. 133 4. Il discorso sull’inesistenza dell’io (Anatta lakkhaóa sutta, S. XXII,59) Premessa* È il secondo discorso pronunciato per i cinque asceti. Impartito come secondo proprio perché avessero il tempo di meditare con le istruzioni ricevute, i cinque poterono sperimentare che ogni cosa che si manifesta nel corpo sorge e passa, e che ogni attaccamento è causa di sofferenza. Gradualmente riuscirono a raggiungere uno stadio importante di concentrazione. Cominciava a manifestarsi in loro e a essere sperimentata un’altra verità universale, l’inesistenza di un io, verità fondamentale per raggiungere la liberazione. Solo allora il Buddha pronunciò questo insegnamento basilare. Esso ha creato difficoltà d’interpretazione, poiché lo studiarono anche coloro che erano privi dell’esperienza meditativa. Comprendere l’insegnamento significa metterlo in pratica e far esperienza delle quattro nobili verità, descritte nel primo discorso. Quindi solo chi ha incominciato a sperimentare, può comprendere questo secondo discorso, non solo intellettualmente, ma in modo concreto, e quindi beneficiarne. * Dai testi elencati nella prefazione 137 4. Il discorso sull’inesistenza dell’io L’esplorazione dell’io L’esplorazione della verità nel proprio corpo e nella propria mente è l’auto-realizzazione indicata dal Buddha. Egli non intende la realizzazione di un immaginario io ideale, ma un’esplorazione continua, meticolosa, dal grossolano al sottile, sempre più in profondità, che inizia dal corpo: si osservano le sensazioni e ci si accorge che non si ha alcun controllo su di esse. Poi, si osserva l’aggregato mentale – saññá – che identifichiamo come io, che osserva come percepiamo le cose e la classificazione che ne diamo. Ogni classificazione e ogni percezione è legata a condizionamenti che ciascuno porta in sé, perciò si ha sempre una visione parziale e distorta della realtà. E questa discriminazione provoca sofferenza. Così accade anche con l’aggregato mentale della coscienza, viññáóa: c’è l’illusione che quest’aggregato sia l’io, io conosco, o io vedo, oppure io sento. Altri aspetti del corpo e della mente appaiono più chiaramente impermanenti: ci accorgiamo che le sensazioni cambiano, che i giudizi cambiano, le reazioni cambiano. Ma viññáóa, la coscienza, questo conoscere legato ai sei sensi (vista, udito, odorato, gusto, tatto e mente) è vittima dell’illusione che c’è un io, che c’è un io che agisce. È un’illusione difficile da smascherare. Ma, se si prosegue in questo cammino di comprensione della verità sulla propria struttura fisica e mentale, si verificherà che ci sono sei coscienze, una per ogni senso. L’occhio viene in contatto con qualcosa e sorge un’attività mentale, (che è l’accorgersi del contatto avvenuto a livello dell’occhio). Essa è la coscienza 138 PARTE SECONDA visiva, che poi si esaurisce: lo stesso avviene, per tutti i sensi, momento dopo momento. Ogni senso percepisce autonomamente, e con una tale rapidità, da darci l’illusione che ci sia un unico io che percepisce tutte queste attività. Allo stesso modo, le nostre reazioni (o condizionamenti) mentali, in pali saókhára, sono in continuo mutamento, impermanenti e, secondo il tipo generato, ci sono infelicità e sofferenza, oppure armonia e pace. Con Vipassana si osserva, si analizza e scompone questa realtà apparente, e ci si rende conto dell’inesistenza di un io; e si scopre che mente e corpo sono vibrazioni, un processo in continuo divenire, prodotto dai propri condizionamenti. La caratteristica fondamentale di ogni cosa è anattá: inconsistenza, assenza di un soggetto, di un io, perché ci sono solo fenomeni impermanenti, in continuo movimento e in costante trasformazione. Per penetrare le verità d’impermanenza, sofferenza e inesistenza di un io, il Buddha descrive in questo discorso il processo sperimentale di conoscenza diretta. 139 Testo del discorso C osì io stesso ho udito: quando si trovava nel parco dei cervi di Isipatana, vicino a Varanasi, il Beato si rivolse al gruppo dei cinque monaci: – Monaci, il corpo, non è il sé, non è l’io. Se il corpo fosse l’io non vi causerebbe sofferenza; infatti, voi sareste in grado di decidere: - Voglio che il mio corpo sia così – oppure – Voglio che il mio corpo non sia così. Ma poiché, monaci, il corpo non è l’io, ne consegue che esso è causa di sofferenza, perché voi non avete alcuna possibilità di avere il tipo di corpo che desiderate. Così pure o monaci, le sensazioni che provate non sono l’io. Se lo fossero, esse non sarebbero motivo di dolore perché sareste voi a decidere quale tipo di sensazioni provare. Ma le sensazioni non sono l’io, per cui anch’esse vi provocano sofferenza: infatti non vi è possibile scegliere quale tipo di sensazioni sperimentare. Monaci, anche la percezione, l’aggregato mentale che riconosce, non è l’io. Se l’io e la percezione fossero la stessa cosa, non soffrireste per le vostre percezioni, perché sareste voi a decidere quali percezioni avere. Ma non è così, e pertanto anche le vostre percezioni sono causa di sofferenza, perché non avete controllo su di esse. 140 PARTE SECONDA La stessa cosa è vera per quanto riguarda le vostre reazioni mentali. Poiché anche queste non sono l’io, anch’esse sono sofferenza: infatti, non siete voi a decidere di quale tipo sono le vostre reazioni mentali. Se esse fossero l’io ne avreste il controllo, invece esse sorgono indipendentemente dalla vostra volontà, e per questo sono per voi motivo di sofferenza. La coscienza stessa non è l’io; se lo fosse, non vi provocherebbe sofferenza, perché sareste voi a stabilire il tipo di coscienza che volete. Ma poiché la coscienza non è l’io, e non potete controllarla, essa, pure, vi fa soffrire. Ditemi monaci, cosa pensate: il nostro corpo è permanente o impermanente? – Impermanente, Signore. Ciò che è impermanente si può considerare soddisfacente o insoddisfacente? – Insoddisfacente, Signore. Possiamo allora dire che una cosa impermanente, insoddisfacente, perché è destinata a mutare, si possa identificare con il nostro io, con me stesso, con qualcosa di mio? – Certamente no, Signore. E non possiamo dire forse la stessa cosa per le nostre sensazioni, percezioni, reazioni, la coscienza? Sono esse permanenti o impermanenti? – Sono anch’esse impermanenti, Signore. Possiamo quindi chiamarle soddisfacenti, o insoddisfacenti? – Sono insoddisfacenti, Signore. È forse possibile dire di cose così instabili, insoddisfacenti e in continuo mutamento che esse sono l’io, sono me stesso, o qualcosa di mio? 141 4. Il discorso sull’inesistenza dell’io – Nessuna di esse può essere considerata l’io, Signore. È dunque chiaro, monaci, che occorre guardare le cose con saggezza, nella loro vera realtà. Vedremo allora che qualsiasi forma corporea, che è esistita, che è, che sarà, sia essa interna o esterna, grossolana o sottile, inferiore o superiore, vicina o lontana, se osservata con saggezza e realisticamente, per quella che veramente è, non ha nulla a che fare con l’io, con ciò che è mio, con il mio essere, e diremo: – Questo non è mio, io non sono questo, questo non è l’io. Lo stesso si può certamente dire per quanto riguarda i quattro aggregati mentali, e cioè la sensazione, la percezione, la reazione e la coscienza. Vedremo che qualsiasi aggregato mentale, che è esistito, che è, che sarà, sia esso interno o esterno, grossolano o sottile, inferiore o superiore, vicino o lontano, se osservato con saggezza e realisticamente, per quello che veramente è, non ha nulla a che fare con l’io, con ciò che è mio, con il mio essere e diremo: - Questo non è mio, io non sono questo, questo non è il mio io. Monaci, un discepolo che abbia ricevuto questi insegnamenti e sia arrivato alla comprensione della realtà di questi fenomeni, è disingannato e comincia a essere meno attaccato al corpo e ai quattro aggregati mentali, (la sensazione, la percezione, la reazione, e la coscienza). Questa equanimità lo rende libero dalle passioni. Una volta sradicate tutte le passioni, egli sarà completamente liberato, saprà di aver raggiunto la piena liberazione, che per lui il processo vitale si esaurirà in questa vita, che la vita di perfezione è realizzata, 142 PARTE SECONDA che ciò che si doveva compiere è stato compiuto, che non ci sarà più divenire. Così terminò il discorso del Beato. Felici, i cinque monaci si rallegrarono per quello che il Beato aveva loro esposto; e, inoltre, durante l’enunciazione, la mente dei cinque monaci si era liberata da tutte le impurità e gli attaccamenti. 143 Commento* di S.N. Goenka Ieri ho commentato “Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma” per opera la ruota della sofferenza, che sempre gira dentro di noi, cominciò a girare in senso inverso trasformandosi nella ruota della liberazione, la ruota del Dhamma. Osservando la realtà così com’è, continuamente, senza sosta, facendo girare questa ruota dentro di sé, egli divenne illuminato. Poi per compassione, desiderò che ognuno divenisse illuminato e liberato; e iniziò dunque a insegnare come far girare questa ruota dentro di sé. Quando pronunciò il primo discorso, uno dei primi cinque discepoli, Koóðañña, diventando consapevole del sorgere e passare delle sensazioni, raggiunse lo stadio della liberazione, e pervenne al primo grado di santità, quello di sotápanna.** Gli * Dal commento a Anatta-lakkhaóa Sutta (S. XXII, facente parte della serie di commenti ai discorsi: Dhamma Cakka Pavatthana sutta (S. LXI, 11), Mahá Maògala Sutta (Sn. 46) Girimánanda Sutta (A. V, 108); Ánápánasati Sutta (M.118); Vedaná Saíyutta (S. IV, 2). I commenti, insieme con la recitazione in pali dei discorsi, sono stati registrati a Dhammagiri-Igatpuri dal 1991 al 1995 con l’intento di ispirare l’approfondimento degli insegnamenti e lo studio della lingua pali. ** Sotápanna letteralmente significa “colui che è entrato (ápanna) nel flusso (sota)”, dove flusso (o corrente) è la metafora che indica il Nobile Ottuplice Sentiero. 59) 144 PARTE SECONDA altri quattro non raggiunsero questo stadio grazie all’ascolto del discorso, ma il suo effetto si ebbe comunque alcuni giorni dopo. Adoperandosi per ciascuno di loro, facendoli meditare, spiegando, dicendo loro che fare, ecco che uno dopo l’altro raggiunsero lo stato di sotápanna. L’insegnamento al momento giusto Era giunto il momento di dare quel tipo d’insegnamento, che avrebbe portato i quattro allo stadio di piena liberazione. Se dato come primo, questo insegnamento sarebbe diventato di ostacolo per loro; è possibile, infatti, che fossero attaccati alla credenza dell’esistenza di un’anima e che avrebbero considerato fuorviante il discorso di chi ne sostenesse la non esistenza. Non avrebbero quindi fatto lo sforzo di ascoltare, di capire, di meditare. Per quattro o cinque giorni praticarono solo con Vipassana e tutto diventava sempre più chiaro: le tre caratteristiche di ogni cosa animata e inanimata sono l’impermanenza, la sofferenza, l’inesistenza di un io. Meditando, diventavano consapevoli dell’impermanenza di ogni cosa e, stabilizzandosi in essa, scoprivano la sofferenza. Si chiedevano cos’era quella sofferenza che continuamente si manifestava in loro: anche la sensazione più piacevole cambia e diventa sofferenza, si trasforma in una sensazione spiacevole. Il sorgere e passare è sofferenza. E a partire da questa realizzazione compresero meglio l’inesistenza di un io. 145 4. Il discorso sull’inesistenza dell’io Il corpo è impermanente Avendo trovato il momento giusto per pronunciarlo, il Buddha si rivolge ai monaci: Monaci, tutto è impermanente, compreso il nostro corpo. Se fosse in nostro controllo, dovremmo possederlo, dovremmo padroneggiarlo. Dovremmo poter dire: Tu, corpo, devi rimanere sempre così oppure - non devi rimanere così. Ma sul corpo non abbiamo controllo. Se così fosse, non avremmo mai sofferto a causa sua. Infatti, lo avremmo tenuto come vorremmo fosse, sanissimo e fortissimo. Invece, può diventare e diventerà debole e malato, e noi non possiamo farci nulla. Questo dimostra che non abbiamo nessun possesso del corpo, che non c’è un io riferibile a esso, nessun mio, nessuna anima. Tutto ciò a cui attribuiamo il nome di io, mio, la mia anima, va esaminato. Il renderci conto della realtà di noi stessi, l’autorealizzazione, significa che dobbiamo giungere alla conoscenza, cioè fare esperienza della realtà del corpo. Perché la prima cosa che incontriamo è la realtà del corpo fisico, che chiamiamo io e mio e con cui ci identifichiamo. 146 PARTE SECONDA Le sensazioni sono impermanenti Man mano che si osserva il corpo, si percepisce che questa realtà concreta diventa sempre più sottile e si comincia a percepire le sensazioni. Consideriamo dunque le sensazioni. Le sensazioni sono l’io? Sono mie? Sono la mia anima? Se così fosse, dovrei poterle possedere e controllare. E possederle e controllarle, significa controllare la mia sofferenza, e impedirle di venire. Se sono padrone delle sensazioni, posso sbarrare il passo a quelle spiacevoli, posso ordinare che siano sempre piacevoli. Ma questo non è possibile. E se non le posseggo, le sensazioni non sono né me né mie. Le reazioni mentali sono impermanenti Questo vale anche per la percezione, saññá, un componente mentale che identifichiamo con l’io; ma neppure la percezione è me, è mia, è la mia anima. E saókhára, la reazione mentale, cos’è? È forse me, mia, la mia anima? No, non lo è. Saókhára ha un significato esteso, spiegarlo con una sola parola è impossibile: significa qualche cosa che si compie, che si compone, che avviene.* * La parola saókhára, abitualmente tradotta come reazione, condizionamento mentale e attività di volizione della mente, significa anche “ formazione”, cioè “azione che produce frutti, intendendo con ciò, sia l’atto del suo formarsi attraverso la reazione, sia ciò che è stato formato, ossia il risultato della 147 4. Il discorso sull’inesistenza dell’io E cosa avviene? La mente crea qualcosa, un saókhára; che a sua volta crea qualcosa. Tutte le rea zioni mentali sono impermanenti, e anche il loro prodotto è impermanente. Il saókhára non è soltanto quello che creiamo nella mente, ma è anche il risultato che produce. E tutto ciò che viene crea to, proprio perché sorge e passa continuamente, produce sofferenza. I saókhára non sono altro che vibrazioni che generiamo e si diffondono ovunque. Un certo tipo di vibrazione produce un certo tipo di vita: umana, animale, infernale, celestiale. Insieme con essa si produrranno incessantemente altre vibrazioni, combinazioni e accumulazioni di vibrazioni. Il tipo di vibrazioni che ognuno genera si collega alla vibrazione di una particolare sfera di esistenza. Se generiamo una vibrazione infernale, ebbene, questa vibrazione crea inferno. Noi siamo responsabili per lo svilupparsi del nostro universo. Noi siamo i creatori del nostro mondo. reazione avvenuta. Ogni reazione è l’ultimo passo, il risultato di una sequenza di processi mentali, ma può anche essere il primo passo, la causa di una nuova concatenazione di eventi mentali. (Da W. Hart. La meditazione Vipassana – Un’ arte di vivere, op. cit.) 148 PARTE SECONDA Tutto è senza un io Tutto ciò che viene creato è animato o inanimato; quel che è animato è una combinazione di mente e materia: vibrazioni prodotte da reazioni. Così ci sono innumerevoli e differenti esseri, che per convenzione è necessario definire, ma che in realtà sono una massa di vibrazioni. Il meditatore inizia a comprendere che si tratta di fenomeni transitori, che non c’è un io, un’entità, un’anima che dura in eterno, senza mutare. Ecco perché tutto è anattá, senza un io, e tutti i saókhára, le varie combinazioni di reazioni e vibrazioni, sono senza un io. La coscienza Anche per il principiante è chiaro che il corpo non è il suo io, non è suo; così per la sensazione – vedaná, la percezione – saññá, e la reazione – saókhára. Ma quando si tratta della coscienza – viññáóa, il conoscere, ci si chiederà: “Chi è che conosce?” e la risposta sarà: ”Io conosco, senza dubbio. Io vedo, io odo, io odoro, io gusto, io tocco, io penso”. La coscienza o l’atto del conoscere, è realmente l’io, la mia anima? Procedendo nella meditazione si giungerà allo stadio in cui si comprenderà come la coscienza si compone di sei parti. La coscienza che sorge quando un oggetto viene in contatto con gli occhi; quella che sorge quando un suono viene in contatto con l’orecchio, etc. La coscienza della vista non può compiere il lavoro di quella dell’udito, dell’odorato, 149 4. Il discorso sull’inesistenza dell’io del gusto, del tatto o della mente. Ognuna ha una sua propria funzione. Dopo aver spiegato tutto ciò, il Buddha si rivolge di nuovo ai monaci: Le particelle subatomiche – “Cosa ne pensate? Questa struttura fisica formata da kalápas, particelle subatomiche in continuo mutamento, è permanente o impermanente? E ciò che è impermanente è fonte di felicità? C’è forse un io in questo continuo sorgere e passare”? Poiché i monaci continuavano a meditare mentre il Buddha spiegava, realizzavano ciò che veniva loro insegnato, ne facevano esperienza. Il Buddha continuò a descrivere la realtà delle kalápas, o particelle subatomiche che compongono la materia, di come ognuna di esse e ogni suo raggruppamento vada sperimentato sino in fondo, in ogni parte del corpo, e osservato continuamente momento dopo momento. E di come in questo modo ci si renda conto che anche i quattro elementi della mente (coscienza, percezione, sensazione, reazione) sorgano e passino continuamente. Con l’esperienza dell’impermanenza, i monaci cominciarono a sviluppare distacco, equanimità, che, gradualmente approfondendosi, li portò a sperimentare il primo stadio di liberazione, poi il secondo e il terzo fino alla completa liberazione. E si resero conto che sì, ciò che doveva essere fatto era stato fatto, e compresero che si erano liberati da ogni vincolo e raggiunto il risveglio. E così cinque liberati apparvero nel mondo, mentre il Buddha spiegava. Come Koóðañña durante il primo in- 150 PARTE SECONDA segnamento divenne sotápanna, e cioè raggiunse il primo stadio di liberazione, così i cinque eremiti raggiunsero la liberazione con questo discorso. A qualcuno potrebbe venire il dubbio che solo ascoltando un discorso di un Buddha si possa essere liberati. Non è così, perché quegli eremiti non sono stati liberati dalle parole del Buddha. Si trattava di persone che avevano messo in pratica il Dhamma nelle vite precedenti, e che avevano continuato a sviluppare le loro qualità spirituali. Venendo in contatto col Buddha e udendo le sue parole illuminate, cominciarono a sperimentare Vipassana: iniziarono a osservare il continuo sorgere e passare delle sensazioni. Mentre l’accumulazione delle loro impurità si dileguava, continuando ad ascoltare il Buddha e a osservare le sensazioni, sperimentandone l’impermanenza, passarono attraverso tutti gli stadi della liberazione, sino a diventare Arahant, cioè persone completamente liberate. La tecnica e il processo di liberazione che state mettendo in pratica sono gli stessi insegnati dal Buddha, fatene buon uso. Che sempre più persone diventino liberate. 151 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza (Saþipaþþhána sutta, M.10) Premessa L a ricerca ha portato il Buddha a riscoprire la tecnica di auto-osservazione, chiamata Saþipaþþhána o Vipassaná, l’osservazione equanime della realtà così come è. L’oggetto di osservazione è la struttura mentale e fisica, che è l’unica sorgente di informazioni e il solo strumento di lavoro “per conoscere il mondo”. È proprio in questo corpo, di appena due braccia di lunghezza, con le sue percezioni e la sua mente, che vi faccio conoscere il mondo, il sorgere del mondo, l’estinzione del mondo e il sentiero che conduce all’estinzione del mondo. (S 1,2,3,6) Per questo motivo, gli esercizi di meditazione Saþipaþþhána o Vipassana sono incentrati sul corpo. Le relative istruzioni sistematiche sono sia in questo discorso, il decimo nella raccolta dei discorsi di media lunghezza (Majjhima Nikáya), che nel Mahá Saþipaþþhána Suttanta, ventiduesimo della raccolta Dìgha Nikáya. Proponiamo la prima versione, perché la parte riguardante le quattro nobili verità, esposte dettagliatamente nel secondo testo, è già stata presentata al lettore nelle note al Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma. 155 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza La consapevolezza delle sensazioni* a cura del Vipassana Research Institute (…) Le quattro sezioni del discorso trattano delle quattro dimensioni della realtà (comuni a ogni essere umano): gli aspetti fisici del corpo e della sensazione, gli aspetti psichici della mente e i suoi contenuti. Lo sviluppo della consapevolezza di questi quattro aspetti è lo strumento essenziale per investigare noi stessi in modo completo e dettagliato. Quando osserviamo la verità in noi stessi, appare chiaro che il cosiddetto io ha due aspetti, uno fisico (il corpo) e uno psichico (la mente). Sperimentiamo il corpo percependolo per mezzo delle sensazioni fisiche, che si manifestano ovunque, all’interno di noi; infatti, anche a occhi chiusi, siamo consapevoli delle mani e di tutte le nostre parti, perché le possiamo percepire attraverso le sensazioni. Possiamo analizzare la struttura psichica, osservando la mente (citta) e ciò che sorge in essa (dhamma): pensieri, emozioni, ricordi, speranze, paure. Non possiamo osservare la mente prescindendo dai contenuti mentali, come corpo e sensazione non possono essere sperimentati separatamente. La mente e il corpo sono collegati fra loro, e qualsia* Da V.R.I. (a cura di) The importance of vedana. Estratto. (In W. Hart. La meditazione Vipassana – Un’ arte di vivere, op. cit., pagg. 209-219.) 156 PARTE SECONDA si cosa accade in una, è riflessa nell’altro, poiché i pensieri e le emozioni che sorgono a livello mentale, dando il via a un processo biochimico, producono sensazioni a livello fisico. L’osservazione delle sensazioni nel corpo è, quindi, il mezzo per esaminare la totalità del nostro essere, fisico e mentale. Questa fu la scoperta chiave del Buddha, il cuore del suo insegnamento: Qualsiasi cosa nasca nella mente, è accompagnata dalla sensazione. (Múlaka Sutta. A. VIII. IX, 3. 83). Il Buddha evidenziò l’importanza della consapevolezza delle sensazioni, anche nel Discorso sulla rete della perfetta saggezza (Brahmajála Sutta, D.1): L’Illuminato si è affrancato e liberato da tutti gli attaccamenti, perché ha visto come sono realmente il nascere e lo svanire delle sensazioni, il godere di esse, il pericolo di esse, la liberazione da esse. Affermò che la consapevolezza delle sensazioni è il prerequisito per la comprensione delle Quattro Nobili Verità: Alla persona che ha consapevolezza della sensazione, io mostro la via per comprendere cosa siano la sofferenza, la sua origine, la sua fine e il sentiero che conduce alla sua fine. (Tittháyatana Sutta, A. III. VIII. 61 IX) 157 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza La sensazione Che cos’è esattamente la sensazione? Il Buddha ne descrisse due differenti aspetti, e la annoverò fra le quattro attività mentali. Dopo averlo sperimentato, affermò che la sensazione si manifesta in forma sia fisica che mentale. Non possiamo, infatti, percepire il corpo senza la mente. É la mente che sente, ma ciò che sente è inscindibile dall’elemento fisico. L’elemento fisico della sensazione è d’importanza fondamentale nella pratica della meditazione insegnata dal Buddha. Secondo l’insegnamento dell’origine interdipendente, a ogni contatto fisico e mentale, si produce una sensazione nel corpo. Nello stesso istante, ha luogo, nella mente, una reazione inconscia di piacere o antipatia nei confronti della sensazione. Se questa reazione si ripete, e gradualmente s’intensifica, si trasforma in bramosia o avversione, e acquista una forza tale da sopraffare la nostra mente conscia. La scintilla della sensazione ha così modo di accendere un grande fuoco e crearci difficoltà. Per impedire che il processo reattivo inizi, dobbiamo permettere a ogni scintilla di esaurirsi, senza che inneschi un incendio. Per fare questo, è indispensabile accorgerci subito della sensazione sorta, rimanere equanimi, e osservare oggettivamente che la sensazione così com’è sorta, se ne va. 158 PARTE SECONDA L’impermanenza della sensazione La capacità di percepire la sensazione del corpo è fondamentale, perché consente un’esperienza dell’impermanenza vivida e tangibile; i cambiamenti, infatti, avvengono in noi ogni momento, e li possiamo avvertire unicamente osservando le sensazioni. La consapevolezza del loro costante mutamento ci permetterà di comprendere la nostra natura effimera e, di conseguenza, l’inutilità di qualsiasi attaccamento. Allora, gradualmente, ci distaccheremo da bramosia e avversione, ed eviteremo di produrre nuove reazioni, sino a che abbandoneremo l’abitudine stessa alla reazione. In questo modo la mente si libererà dalla sofferenza. Coloro che continuamente compiono sforzi per dirigere la loro consapevolezza verso il corpo, che si astengono dal compiere azioni nocive, e cercano di fare ciò che deve essere fatto, tali persone, consapevoli (delle sensazioni n.d.r.) e con comprensione profonda (dell’impermanenza n.d.r.) si liberano da tutte le loro negatività. (Aþþhasata Sutta, S. XXXVI II. III. 22 2). L’anello mancante Le cause della sofferenza sono la bramosia e l’avversione. Quando un oggetto entra in contatto con i cinque sensi e con la mente, siamo abituati a pensare che le nostre reazioni (di bramosia e avversione) siano rivolte verso l’oggetto. Ma il Buddha scoprì 159 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza l’anello mancante di questo processo: tra l’oggetto e la reazione vi è sempre una sensazione; in altre parole, non reagiamo alla realtà esteriore, ma alla sensazione fisica che si produce nel nostro corpo in seguito al contatto. Quando impariamo a osservare la sensazione fisica senza reagire, le cause della sofferenza (bramosia e avversione) non si manifestano, e la sofferenza non sorge più. L’osservazione della sensazione fisica è d’importanza cruciale per comprendere pienamente il Saþipaþþhána Sutta (il Discorso sui fondamenti della consapevolezza). I fondamenti della consapevolezza Il discorso inizia con l’elencazione degli scopi: Purificazione degli esseri, trascendenza del dolore e dei dispiaceri, estinzione della sofferenza fisica e mentale, pratica di una via di verità, esperienza diretta della realtà ultima, nibbána. È per il loro conseguimento, che ci s’impegna nel consolidare la consapevolezza. Segue la spiegazione su come praticare: Qui il meditatore si sofferma, ardente, colmo di comprensione e di consapevolezza, osservando il corpo nel corpo, osservando la sensazione nella sensazione, osservando la mente nella mente, osservando i contenuti mentali nei contenuti mentali, avendo abbandonato bramosia e avversione nei confronti del mondo. 160 PARTE SECONDA Che cosa significa “osservando il corpo nel corpo, le sensazioni nelle sensazioni” e così via? Corpo, sensazioni, mente e contenuti mentali sono le dimensioni dell’essere umano. La comprensione della realtà ultima, che ci conduce alla liberazione, può avvenire unicamente attraverso la consapevolezza (sati) e la chiara comprensione delle caratteristiche di queste quattro dimensioni (sampajañña). La consapevolezza cui si riferisce il titolo del discorso (i fondamenti della consapevolezza, n.d.r.), è quella dell’impermanenza di ogni fenomeno, compreso quello dell’io. Solo questa conduce alla liberazione. Possiamo diventare consapevoli dell’impermanenza (anicca), osservando la sensazione nel corpo, sia quando si manifesta sulla superficie, sia quando si manifesta al suo interno, sia contemporaneamente all’interno e all’esterno. Attraverso l’osservazione equanime della sensazione, scopriamo che essa consiste in un flusso costante di vibrazioni, e che non è legata a un io (anattá). Se li analizziamo bene, infatti, ci rendiamo conto che questi fenomeni sono effimeri, perché sorgono e passano con grande velocità, e che tutto questo accade al di fuori del nostro controllo. La sensazione, dunque, è la fonte della nostra sofferenza (dukkha), perché, nonostante sia impermanente e priva di un io, sviluppiamo un forte attaccamento a essa (vogliamo che si perpetui se è piacevole, vogliamo che se ne vada se è spiacevole). Anicca, dukkha, anattá: nient’altro esiste all’infuori di queste tre leggi fondamentali. Ecco le verità da comprendere. Per mezzo della comprensione dell’impermanenza, l’attaccamento irriflessivo e viscerale verso il nostro 161 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza corpo e la nostra mente s’indebolisce fino a scomparire, e la bramosia e l’avversione verso il mondo esteriore e il mondo interiore gradualmente si estinguono. Così ci liberiamo dalla sofferenza che esse provocano. Il percorso dell’osservazione e della comprensione Il discorso inizia trattando dell’osservazione del corpo, perché esso è la manifestazione più concreta dell’essere umano, e quindi la base idonea da cui iniziare l’auto-osservazione. In seguito, sono illustrati i differenti metodi per osservare il corpo. Il più comune, quello che il Buddha stesso usò, è la consapevolezza del respiro. Altri sono la consapevolezza dei movimenti del corpo, delle posizioni ecc, ecc. In qualsiasi modo iniziamo l’esplorazione, per arrivare alla meta finale dobbiamo passare per stadi ben definiti e individuati dall’Illuminato, che li descrisse nel seguente fondamentale paragrafo: In questo modo (il meditatore, n.d.r.) si sofferma a osservare il corpo nel corpo, internamente o esternamente, oppure sia internamente sia esternamente. Si sofferma a osservare il fenomeno del nascere nel corpo. Si sofferma a osservare il fenomeno dello svanire nel corpo. Si sofferma a osservare il fenomeno del nascere e dello svanire nel corpo. Ora la consapevolezza gli si presenta: “Questo è il corpo”. Tale consapevolezza si sviluppa fino al grado che rimangono solo comprensione e osservazione, ed egli rimane distaccato, senza aggrapparsi a nulla nel mondo. 162 PARTE SECONDA Per la sua importanza, questo brano è ripetuto alla fine di ogni paragrafo nella sezione sull’osservazione del corpo, e anche nelle successive sezioni, riguardanti l’osservazione delle sensazioni, della mente e dei contenuti mentali. (In queste ultime tre, la parola “corpo” è sostituita rispettivamente da sensazioni, mente e contenuti mentali, n.d.r.). Il passaggio descrive il corretto metodo di osservazione, da applicare a tutti gli aspetti costitutivi dell’essere umano (corpo, sensazioni, mente, contenuti mentali). A causa delle sue complessità, questo brano si è prestato a interpretazioni diverse e a fraintendimenti. Le difficoltà d’interpretazione scompaiono, quando teniamo in considerazione che queste frasi si riferiscono alla consapevolezza delle sensazioni fisiche. Nel testo è specificato che l’obiettivo della meditazione è il raggiungimento della completa conoscenza della nostra natura, e che questa conoscenza si può raggiungere solo attraverso l’osservazione delle sensazioni fisiche, poiché essa comprende l’osservazione indiretta di tutte le dimensioni del fenomeno umano (corpo, mente, contenuti mentali). Quando il Buddha sperimentò che a ogni pensiero, a ogni emozione, idea o oggetto che sorge nella mente, corrisponde una sensazione nel corpo, comprese che è la sensazione fisica il mezzo più idoneo per l’osservazione di tutte le parti che costituiscono l’essere umano. Continuando a osservare le sensazioni, sempre presenti in noi, infatti, ci possiamo rendere conto che la caratteristica dell’impermanenza, verificata in esse, si riflette anche nel corpo, nella mente, e nei contenuti mentali. In altre parole, ogni aspetto della nostra struttura psico-fisica ci apparirà 163 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza impermanente. Ecco perché, nel paragrafo, è ripetuta la stessa frase, con riferimento a tutte le quattro dimensioni dell’essere umano. All’inizio della pratica meditativa si usano differenti oggetti di concentrazione, come la consapevolezza del respiro, dei movimenti o delle posizioni corporee, ma, da un certo stadio di progresso in poi, si dovranno osservare esclusivamente le sensazioni, perché esse sono la manifestazione più chiara ed evidente di tutte le attività corporee, sia fisiche sia mentali. Come osservare la sensazione S’inizia con l’osservare le sensazioni che appaiono sulla superficie del corpo, poi all’interno del corpo, oppure contemporaneamente all’interno e all’esterno del corpo: dalla consapevolezza delle sensazioni in alcune parti, si sviluppa, gradualmente, la capacità di sentire le sensazioni in tutto il corpo. È probabile che all’inizio si sperimentino sensazioni di natura intensa, che potranno durare anche a lungo: osservandole, ci si renderà conto del loro sorgere e, dopo un certo tempo, del loro svanire. A questo livello, si starà ancora sperimentando la realtà apparente di corpo e mente, la loro natura che sembra solida e duratura. In seguito si giungerà allo stadio in cui questa solidità si dissolve: mente e corpo saranno sperimentati nella loro vera realtà, e cioè come un insieme di vibrazioni, che a ogni istante nascono e svaniscono. Finalmente si comprenderà che cosa sono il corpo, le sensazioni, la mente e i contenuti mentali: un flusso di fenomeni impersonali, in costante cambiamento. 164 PARTE SECONDA Questa comprensione diretta della realtà ultima dissolverà progressivamente illusioni, idee erronee e pregiudizi; e anche le idee corrette, prima accettate per fede o per deduzione, e ora sperimentate, acquisteranno un nuovo significato. Con l’osservazione della realtà interiore, tutti i condizionamenti saranno gradualmente eliminati. Rimarranno giusta consapevolezza e giusta saggezza. Quando scompare l’ignoranza, la tendenza latente a generare bramosia e avversione è sradicata, e il meditatore si libera dagli attaccamenti, anche da quello più profondo: quello verso il proprio corpo e la propria mente. E quando quest’attaccamento è rimosso, la sofferenza scompare e si giunge alla liberazione. Il Buddha dichiarò: Tutto ciò che viene percepito come sensazione è in relazione con la sofferenza. La sensazione è, dunque, il mezzo ideale per esplorare la verità della sofferenza. La sensazione spiacevole è, ovviamente, sofferenza, ma, continuando a meditare, ci si accorgerà che anche la sensazione piacevole è una forma molto sottile di agitazione. Siccome ogni sensazione è impermanente, se abbiamo sviluppato attaccamento verso una sensazione piacevole, inevitabilmente soffriremo quando essa, per legge di natura, svanirà. Ogni sensazione contiene un seme d’infelicità; e per questa ragione, il Buddha evidenziò l’importanza della comprensione del sorgere e dell’estinguersi di tutte le sensazioni. 165 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza Il fine ultimo Finché resteremo nell’ambito della mente e della materia, persisteranno sensazioni e sofferenza. Esse avranno fine solo quando ne andremo al di là, sperimentando la realtà ultima del nibbána. Il Buddha disse: Una persona non mette in pratica l’insegnamento del Dhamma, solo perché ne parla molto. Ma lo mette in pratica veramente, anche se ne ha sentito parlare solo un poco, quando sperimenta la legge di natura nel proprio corpo, e ne è continuamente consapevole. (Dpd. XIX. 4 259) Il nostro corpo testimonia la verità. Le sensazioni sono lo strumento per scoprirla e conseguire la liberazione dalla sofferenza. 166 Testo del discorso* C osì io stesso ho udito: una volta, trovandosi a Kammásadhammma, città dove i Kuru tenevano il loro mercato, l’Illuminato chiamò a sé i monaci e parlò: – Monaci, (1) questa è la via diretta (2) che conduce alla purificazione degli esseri, che permette di superare dolore e rimpianto, che porta all’estinzione della sofferenza e dell’afflizione, che permette di percorrere il cammino verso la verità e rende possibile la realizzazione del nibbána. Si tratta dei quattro modi o fondamenti per stabilizzare la consapevolezza. (3) Quali sono questi quattro fondamenti? Eccoli, o monaci. Lasciando da parte ogni bramosia e avversione nei confronti di tutti i fenomeni materiali e mentali, il meditatore deve praticare con fervore la massima consapevolezza e la costante e completa comprensione dell’impermanenza mentre osserva il suo corpo nel corpo; poi mentre osserva le sensazioni nelle sensazioni. Inoltre anche quando osserva la sua mente nella mente, e osserva tutti i contenuti mentali nei contenuti mentali, deve sempre lasciar da parte sia la bramosia che l’avversione nei confronti di tutti i fenomeni materiali e mentali di questo mondo, e praticare con fervore la massima consapevolezza e la costante e completa comprensione della caratteristi* Le note numerate sono alla fine del testo del discorso. 167 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza ca dell’impermanenza di tutti i fenomeni. (4) 1. Osservazione del corpo (káyánupassaná) a) Consapevolezza del respiro. In che modo, monaci, un meditatore pratica osservando il corpo nel corpo? Dopo essersi recato in un bosco, o ai piedi di un albero, o in un luogo solitario e riparato, egli si siede con le gambe incrociate, mantiene il busto eretto e concentra la sua attenzione sullo spazio intorno alla bocca, nella zona tra il labbro superiore e le narici. Mantenendo fissa l’attenzione su questa zona ristretta, egli osserva l’in spirazione e l’espirazione. Mentre respira, si rende conto se, in quel momento, l’inspirazione è lunga e profonda, oppure breve e leggera. È consapevole in ogni momento, se il respiro è lungo o corto, profondo o sottile. Allenandosi in questo modo, arriva a essere consapevole dell’intero corpo, sia durante ogni inspirazione sia durante ogni espirazione, e a essere consapevole dell’impermanenza di tutte le sensazioni all’interno del corpo. In seguito, si allena a osservare ogni inspirazione ed espirazione, mentre compie tutte le attività fisiche con il corpo. L’abile tornitore Paragoniamo questa pratica all’attività di un abile tornitore, che, girando il tornio, sa perfettamente se la rotazione che gli sta imprimendo è lunga o breve. 168 PARTE SECONDA Così pure, il meditatore è perfettamente consapevole se il suo respiro è corto o lungo, profondo o leggero. Egli si esercita a osservare l’intero corpo mentre inspira o espira, e a osservare il respiro mentre il corpo è fermo e calmo. Come osservare Il meditatore, quindi, osserva il proprio corpo sia all’interno sia in superficie e poi sia all’interno sia in superficie, contemporaneamente. E lo osserva, prima notando il fenomeno del sorgere delle sensazioni, e poi il fenomeno dello svanire delle sensazioni, per poi arrivare a osservare come queste sensazioni, non appena sorgono, immediatamente passano. Allora il meditatore, con questa continua consapevolezza e completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco il corpo. (5) E svilupperà questa consapevolezza del sorgere e svanire delle sensazioni, fino al punto che rimarrà solo la pura consapevolezza di questi fenomeni insieme alla comprensione della loro impermanenza. E così, perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione per ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco, come i meditatori devono praticare l’osservazione del corpo nel corpo. (6) b)Posizioni del corpo. Quando cammina, un meditatore, è consapevole che sta camminando; quando è in piedi, è consapevo- 169 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza le di essere in piedi; quando è seduto, di essere seduto; e quando è sdraiato, è consapevole di essere sdraiato. Qualsiasi posizione assuma con il corpo egli ne è perfettamente consapevole. Infatti, in tutte le posizioni, procedendo nella pratica, il meditatore osserva il corpo nel corpo, all’interno e in superficie, e poi sia all’interno sia in superficie, contemporaneamente. E lo osserva, notando il fenomeno del sorgere delle sensazioni nel corpo, e poi il fenomeno dello svanire delle sensazioni, per poi arrivare a osservare come queste sensazioni non appena sorgono nel corpo, immediatamente passano. E allora, il meditatore, con questa continua consapevolezza e la completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco il corpo. Svilupperà questa consapevolezza del sorgere e svanire delle sensazioni fino al punto che rimarrà solo la pura e totale comprensione di questi fenomeni, insieme alla consapevolezza. Perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco come i meditatori devono praticare l’osservazione del corpo nel corpo. (7) c) Sulla comprensione completa e costante dell’impermanenza. E ancora, o monaci, un meditatore comprende pienamente ed è costantemente consapevole della transitorietà di tutte le cose che percepisce, osservando la sensazione fisica. Ne è consapevole quando va e quando viene, quando guarda diritto avanti a sé o volge il suo sguardo in giro, quando si china 170 PARTE SECONDA o si raddrizza, quando si veste o si reca a mangiare; rimane pienamente consapevole dell’impermanenza di ogni fenomeno fisico e mentale sia che mangi o che beva, che mastichi o che gusti ciò che sta inghiottendo, o che attenda ai suoi bisogni corporei; è consapevole dell’impermanenza quando cammina, sta fermo e si siede, quando dorme o è sveglio, sia che parli o che taccia.(…) d)Sul carattere repulsivo del corpo. Poi il meditatore, o monaci, riflette sul suo corpo. Si rende conto che, racchiuse nella pelle, nello spazio compreso tra le piante dei piedi e la sommità del capo, ci sono ogni genere d’impurità; ed egli le considera in dettaglio: capelli, peli, unghie, denti, pelle, carne, nervi, ossa, midollo, reni, cuore, fegato, pleura, milza, polmoni, intestini, mesenterio, stomaco con il suo contenuto, cervello, feci, bile, muco, pus, sangue, sudore, grasso, lacrime, umori oleosi, saliva, muco nasale, liquido sinoviale, urina. Il meditatore osserva ed esamina con equanimità questi elementi che costituiscono il suo corpo, così come farebbe l’uomo dalla vista acuta che esamina il contenuto di quei sacchi per provviste a doppia apertura, costituito da varie specie di cereali e di semi. Egli distingue ed elenca: riso ordinario e di collina, riso brillato e non brillato, fagioli verdi, piselli, sesamo. Allo stesso modo il meditatore, esaminando il corpo, considera, a uno a uno gli organi e le sostanze che esso contiene, dalla testa ai piedi.(…) 171 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza e) Sui quattro elementi materiali. E ancora, monaci, un meditatore riflette sul corpo, in qualsiasi posizione o situazione si trovi, in relazione alle caratteristiche dei quattro elementi che lo compongono: terra, acqua, fuoco, aria. È come un abile macellaio, che, dopo aver macellato e diviso in pezzi il bue, lo vende al mercato, mettendosi alla congiunzione di quattro strade. (…) (8) f ) Nove riflessioni sul cadavere. (9) Consideriamo il caso di un meditatore che vede un cadavere nella fossa del cimitero. È il cadavere di un uomo, morto da pochi giorni, cereo e gonfio, già in putrefazione. Il monaco guarda il proprio corpo e riflette: “Questo mio corpo è della stessa natura di quello, anch’esso diventerà così, non potrà sfuggire a questa sorte.” Poi osserva il cadavere in tutte le sue differenti fasi di decomposizione. Preda di corvi, falchi, avvoltoi, cani, sciacalli e varie specie di vermi; quindi scheletro tenuto insieme dai tendini, qualche brandello di carne e grumo di sangue; poi, un insieme di ossa disseccate, senza carne né sangue, ma ancora legate dai tendini; poi, queste stesse ossa prive dei legamenti e sparse qua e là: da una parte l’osso di una mano, dall’altra quello di un piede, e altrove una tibia, un femore, un bacino, una costola, una vertebra, una scapola, una mandibola, una mascella, un cranio; in seguito, ossa sbiancate simili a ossa di seppia; ossa che, dopo un anno, sono state gettate in un mucchio; e infine sbriciolate e ridotte in polvere. 172 PARTE SECONDA Il meditatore, osservando tutte queste fasi di decomposizione, riflette sul fatto che anche il suo corpo è destinato a passare attraverso di esse. (…) [In ognuna delle sezioni citate – c,d,e,f – viene riportato il seguente passaggio, n.d.r]: (...) Il meditatore non smette mai di osservare il proprio corpo all’interno e poi in superficie e quindi contemporaneamente, all’interno e in superficie. E lo osserva notando il fenomeno del sorgere delle sensazioni, e poi il fenomeno dello svanire delle sensazioni, per poi osservare come queste sensazioni non appena sorgono, immediatamente passano. Allora il meditatore, con continua consapevolezza e completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco il corpo. E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire delle sensazioni fino al punto che rimarrà solo la pura e totale comprensione dei fenomeni, insieme alla consapevolezza. E così, perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco, come il meditatore deve praticare l’osservazione del corpo nel corpo. 2. L’osservazione delle sensazioni (vedanánupassaná) E in che modo, monaci, il meditatore si dedica all’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni? In questo modo, o monaci: quando il meditatore prova una sensazione piacevole, sa perfettamente 173 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza che sta sperimentando una sensazione piacevole e, nello stesso tempo, che la sua caratteristica è quella di sorgere e passare, che essa è impermanente. Allo stesso modo, quando la sensazione che prova è spiacevole, egli è pienamente consapevole di sperimentare una sensazione spiacevole e che la sua caratteristica è di sorgere e passare. Lo stesso accade anche nel caso di una sensazione neutra. È anche consapevole quando prova attaccamento o avversione verso qualche sensazione, sia essa piacevole, spiacevole o neutra; oppure quando è equanime verso questi tipi di sensazione. In ognuno di questi casi, il meditatore non smette mai di osservare il proprio corpo all’interno, poi in superficie, quindi contemporaneamente all’interno e in superficie. E lo osserva notando il fenomeno del sorgere delle sensazioni, e poi il fenomeno dello svanire delle sensazioni, per poi osservare come le sensazioni non appena sorgono, immediatamente passano. Allora, il meditatore, con continua consapevolezza e completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco la sensazione. E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire delle sensazioni fino al punto che rimarrà solo la pura e totale comprensione dei fenomeni, insieme alla consapevolezza. E così, perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco, come i meditatori devono praticare l’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni. 174 PARTE SECONDA 3. L’osservazione della mente (cittánupassaná) E come, monaci, il meditatore si dedica all’osservazione della mente nella mente? (10) Osservando la sua mente, è consapevole quando essa ha attaccamenti o ne è libera; e nello stesso tempo, si rende conto dell’impermanenza di tutti questi stati mentali; è consapevole quando la mente è offuscata dall’odio e quando ne è priva; quando la mente è preda dell’illusione e quando non lo è; quando la mente è calma oppure agitata; quando la mente è raccolta oppure distratta dalle impurità mentali; quando la mente si espande, e cioè entra in differenti stati di concentrazione, e quando non è così; è consapevole se la mente ha raggiunto uno stato di intensa concentrazione oppure no; quando la mente è concentrata o non lo è; ed inoltre è consapevole se la sua mente è completamente liberata oppure no. È consapevole di tutti questi differenti stati mentali, insieme alla loro caratteristica principale: l’impermanenza. In questo modo, il meditatore osserva la sua mente internamente, (11) e osserva la sua mente esternamente (in relazione al contatto con l’esterno, n.d.r.), oppure l’osserva all’interno e quando entra in contatto con l’esterno, contemporaneamente. Inoltre osserva il sorgere degli stati mentali e il loro svanire, ed è testimone del fatto che sorgono e svaniscono, con grande rapidità. Allora il meditatore, con questa continua consapevolezza e completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco la mente. E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire di ogni stato 175 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza mentale, fino al punto che rimarrà solo la pura e totale comprensione dei fenomeni, insieme alla consapevolezza. E così, perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco, come il meditatore deve praticare l’osservazione della mente nella mente. 4. L’osservazione dei contenuti mentali (Dhammánupassaná) (12) a) I cinque ostacoli. Essi sono: bramosia-desiderio, avversione, pigrizia-torpore, agitazione-rimorso e dubbio. Vediamo, o monaci, come il meditatore osserva i contenuti mentali nei contenuti mentali. Consideriamo, dapprima, i contenuti mentali che si riferiscono ai cinque ostacoli, e il modo in cui sono osservati. Quando si manifesta un desiderio verso gli oggetti dei sensi, il meditatore è perfettamente consapevole che in lui c’è questo desiderio. Egli sa quando questo desiderio sensuale è assente; è consapevole di quando sta per sorgere e si rende anche conto come il desiderio, che è sorto in lui, è eliminato. E vede, chiaramente, come il desiderio appena eliminato non avrà più modo di sorgere. Così, si rende anche conto di quando un sentimento di avversione, verso gli oggetti dei sensi, è apparso nella sua mente, e sa perfettamente quando quest’avversione non c’è più. È consapevole quando l’avversione sta per sorgere e si rende conto anche come l’avversione, sorta in lui, 176 PARTE SECONDA è eliminata, e sa bene quando quell’avversione non si riprodurrà più in futuro. [Il processo di osservazione avviene, allo stesso modo, per gli altri ostacoli: la pigrizia e il torpore, l’agitazione, il rimorso e il dubbio, n.d.r.] Il meditatore è chiaramente consapevole della presenza nella sua mente di ciascuno di questi sentimenti. Sa pure, con precisione, quando essi sono assenti. Sa quando e come, essi sorgono. Comprende come avviene la loro eliminazione, e si accorge quando, una volta estirpati, non compariranno più nella mente. Così il meditatore procede nell’osservazione dei contenuti mentali, all’interno della mente o quando sono in relazione con l’esterno, o contemporanea mente. E osserva, notando il fenomeno del loro sorgere nella mente, e poi il fenomeno del loro svanire, per poi osservare come questi fenomeni non appena sorgono, immediatamente passano. Allora il meditatore, con questa continua consapevolezza e completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco i contenuti mentali. E svilupperà questa consapevolezza del sorgere e svanire dei contenuti mentali, fino al punto che rimarrà solo la pura e totale comprensione di questi fenomeni, insieme alla consapevolezza. E così, perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco, come i meditatori devono praticare l’osservazione dei contenuti mentali, in relazione ai cinque ostacoli. (13) 177 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza b) I cinque aggregati dell’attaccamento. Consideriamo come il meditatore osservi i contenuti mentali nei contenuti mentali, per quanto riguarda i cinque aggregati dell’attaccamento. Il meditatore si esercita nella consapevolezza e nella piena comprensione dell’impermanenza delle sensazioni, osservando attentamente: questo è un fenomeno materiale, questo è il suo sorgere e questo è il suo svanire; così come questa è una sensazione e questo è il suo sorgere e il suo svanire. Allo stesso modo, osserva che: questa è una percezione, ed ecco il suo formarsi e il suo dileguarsi; e questa è una reazione, è così che scaturisce e poi sparisce. E questa è la coscienza, vede come si manifesta e come se ne va (…). c) Le basi sensoriali della percezione. Ora, monaci, occupiamoci di come osservare i contenuti mentali, in relazione alle sei basi sensoriali, interne ed esterne. Come osservare? Il meditatore è perfettamente consapevole che vi è l’organo della vista, l’occhio, che è la base interna corporea; inoltre è perfettamente consapevole degli oggetti che l’occhio percepisce, e che sono la base esterna; ed è, soprattutto, consapevole del legame di dipendenza che si crea tra loro, quando entrano in contatto. Il meditatore deve essere consapevole e comprendere chiaramente come questo legame, che ancora non esiste, si manifesterà; comprende come il legame, una volta sorto, possa essere sradicato. E deve accorgersi quando quello stesso legame che è stato 178 PARTE SECONDA sradicato, non si manifesterà più in futuro. [Questo stesso processo di osservazione deve essere fatto con tutti gli altri sensi, in relazione alle basi interne ed esterne. E cioè con l’orecchio e i suoni; con il naso e gli odori; con la lingua e i sapori; con il corpo e il tatto; con la mente e i contenuti mentali, n.d.r.] Il meditatore deve sempre essere consapevole della loro esistenza e, soprattutto, del legame di dipendenza che si crea, quando entrano in contatto tra di loro. E si rende conto, chiaramente, come questo legame, che ancora non esiste, si produce; comprende come questo legame, appena sorto, può essere sradicato; e si accorge quando quello stesso legame che è stato sradicato, non si manifesterà più (…). d) I sette fattori dell’illuminazione. Essi sono: consapevolezza, investigazione-analisi, energia, gioia, tranquillità-calma, concentrazione ed equanimità. Vediamo, monaci, come il meditatore osserva i contenuti mentali nei contenuti mentali, quando questi sono i sette fattori dell’illuminazione. Ecco, il meditatore sa perfettamente quando il fattore dell’illuminazione della consapevolezza è presente in lui. In me c’è consapevolezza egli si dice. È pure pienamente cosciente quando la consapevolezza è assente. Sa quando la consapevolezza, non ancora presente, sta sorgendo in lui; e se è sorta, come si sviluppa e giunge alla perfezione. 179 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza Egli è pure perfettamente conscio se è presente il fattore dell’illuminazione dell’investigazione della legge di natura (o del Dhamma) a livello di esperienza, e sa quando è assente. È inoltre consapevole quando, non ancora presente, sta sorgendo; e si rende conto con chiarezza di come in lui si sviluppi e si perfezioni questo processo d’investigazione della realtà, a livello di esperienza. E poi il meditatore è pienamente consapevole quando il fattore dell’illuminazione che è l’energia, è presente, così come sa quando non c’è, si accorge di quando sta per sorgere e di come si sviluppa e si perfeziona. [Allo stesso modo, il meditatore osserva i fattori dell’illuminazione che sono la gioia, la tranquillità, la concentrazione e l’equanimità; è sempre consapevole se questi fattori sono presenti in lui o non ci sono, oppure si accorge quando stanno per manifestarsi e, una volta presenti, come si stanno sviluppando e perfezionando. n.d.r.]. e) Le quattro nobili verità. Vediamo come il monaco osservi i contenuti mentali nei contenuti mentali, quando questi concernono le quattro nobili verità. O monaci, un meditatore comprende chiaramente la realtà così com’è, riconoscendo: questa è sofferenza; poi questa è l’origine della sofferenza; in seguito: questa è la fine della sofferenza; e infine: questo è il sentiero che conduce alla fine della sofferenza. (…) (14) 180 PARTE SECONDA [In ognuna delle sezioni citate – b,c,d,e – viene riportato il seguente passaggio, n.d.r.]: Così il meditatore procede nell’osservazione dei contenuti mentali, all’interno della mente o quando sono in relazione con l’esterno, o contemporaneamente. E osserva notando il fenomeno del sorgere di questi contenuti mentali nella mente, e poi il fenomeno del loro svanire, per poi osservare come questi fenomeni, non appena sorgono, immediatamente passano. Allora il meditatore, con questa continua consapevolezza e completa comprensione dell’impermanenza, si rende conto: ecco i contenuti mentali. E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire dei contenuti mentali fino a un punto che rimarrà solo la pura e totale comprensione di questi fenomeni, insieme alla consapevolezza. E così, perfettamente equanime, non proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco, come i meditatori devono praticare l’osservazione dei contenuti mentali, in relazione alle quattro nobili verità. Gli effetti del perfezionamento della consapevolezza In verità, monaci, chi praticasse i quattro fondamenti della consapevolezza, esattamente nel modo che vi ho detto per sette anni, potrebbe aspettarsi uno di questi due risultati: la suprema saggezza o, se vi fosse ancora un residuo di attaccamento, il rag- 181 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza giungimento dello stadio di non-ritorno. Ma, che dico, sette anni, o monaci? Chi praticasse i quattro fondamenti della consapevolezza nel modo esatto per sei anni, potrebbe aspettarsi uno di questi due risultati: la suprema saggezza o, se vi fosse ancora un residuo di attaccamento, l’entrata nello stato di non ritorno. Ma basterebbero cinque anni ... quattro anni ... tre anni … due anni ... un anno ... sette mesi, o cinque, o quattro, tre, o due mesi, o un mese, o quindici giorni, o sette giorni. Chi praticasse i quattro fondamenti della consapevolezza nel modo che vi ho indicato, anche solo per sette giorni, potrebbe raggiungere la suprema saggezza o, se in lui esistesse ancora qualche attaccamento, lo stato di non ritorno. Per questo è stato detto: – Questa, o monaci, è la via diretta per purificare gli esseri, per superare pena e pianto, per eliminare dolore e sofferenza, per incamminarsi sul sentiero della verità, per realizzare il nibbána. Questa via consiste nei quattro fondamenti della consapevolezza. Così parlò l’Illuminato. Felici, i monaci si rallegrarono delle sue parole. 182 Note 1. La parola bhikkhu significa monaco, ma vi sono numerosi discorsi che il Buddha tenne alla presenza di laici, meditatori e no, alcuni dei quali a loro specificamente diretti. Di conseguenza, chiunque, monaco o laico, sia incamminato sul cammino di Dhamma, può trarne vantaggio. Ecco perché abbiamo scelto frequentemente la parola meditatore, al posto del termine monaco. 2. E’ stata preferita la definizione “ la via diretta” alla consueta “ l’unica via”, sia per evitare l’equivoco di una pur sottile parvenza di dogmatismo, sia per essere più completi, come si può evincere da B. Analayo Satipaþþhána - The direct Path to Realization, BPS, Sri Lanka, 2003, pag. 27: “Via diretta è una traduzione dell’espressione pali ekayano maggo, composta di tre parti: eka (uno), ayana (andando) e magga (cammino). La tradizione dei commentari ha preservato cinque alternative per comprendere questa espressione: 1)un cammino che conduce direttamente alla meta finale; 2)un cammino che deve essere percorso da ognuno (individualmente); 3)il cammino insegnato dal Buddha (l’Unico); 4)il cammino che si trova solo nel buddhismo; 5)il cammino che conduce a una sola meta (il nibbána).” E’ stata, quindi, preferita la prima delle cinque 183 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza possibilità sopra elencate, perché implica la direzione verso la meta finale, piuttosto che un senso di esclusività. Goenka, riguardo traduzioni con l’espressione “l’unica via”, peraltro da lui stesso utilizzata nei discorsi, specifica: “Ekájano maggo. Tradurre questa espressione come ‘l’unica via’, a qualcuno potrebbe sembrare un’affermazione settaria o semplicistica; ma chi medita sperimenta che è l’unica via, nel senso che si può ottenere la liberazione dalla sofferenza, solo quando bramosia, avversione e ignoranza sono sradicate dalla mente. Se le loro radici rimangono e pensiamo di essere liberati perché compiamo un rito, una cerimonia, o per l’intercessione di qualcuno, siamo fuori strada. Occorre andare alla profondità della mente e sradicare le negatività: solo allora si è liberati. Per l’eliminazione di tutte le negatività mentali e per il superamento di dolore, angoscia e sofferenza, questa è l’unica via. Possiamo chiamarla Vipassana o in altro modo, ma deve condurre alla radice delle negatività, e la radice è là dove la mente reagisce, a livello di sensazioni fisiche”. 3. Satipaþþhána significa i fondamenti della consapevolezza (o presenza mentale). Stabilizzarsi nella consapevolezza, significa impegnarsi con diligenza e costanza per acquisire consapevolezza e radicarsi in essa. Con l’espressione stabilizzarsi nella consapevolezza intendiamo rendere lo sforzo attivo nel mantenere la continua consapevolezza delle sensazioni, come risulta dal seguito del discorso. 4. Quando gli veniva chiesto cosa fosse sati (consapevolezza) il Buddha ricorreva al termine saípa- 184 PARTE SECONDA jañña, che traduciamo liberamente in comprensione costante e completa dell’impermanenza. Per la frequente associazione di sati e saípajañña, la seconda è stata spesso considerata quasi sinonimo di sati, o un’esortazione all’attenzione. Nel Sutta Piþaka, Il Buddha dà due spiegazioni di sati. La prima è nel Saíyutta Nikáya: “In che modo, monaci, un meditatore comprende pienamente? In questo modo: egli percepisce le sensazioni che sorgono in lui, che durano per un poco e poi svaniscono; conosce le percezioni che si manifestano in lui, la loro durata e il loro scomparire; quando la sua mente si fissa su un oggetto, si ferma, per poi distaccarsene. È così che nel meditatore avviene la piena e completa comprensione”. Qui, saípajáno (aggettivo di saípajañña) è chi sperimenta la caratteristica dell’impermanenza, per mezzo dell’osservazione delle sensazioni fisiche. Se l’impermanenza non è sperimentata a livello di sensazione fisica, si tratta solo di conoscenza intellettuale. Si dice poi che saípajañña riguarda anche l’esperienza dell’impermanenza delle percezioni mentali. Infatti, quando si sperimenta l’impermanenza a livello di sensazione, implicitamente si osserva anche l’impermanenza della mente e dei contenuti mentali, poiché come il Buddha insegna nell’Aòguttara Nikáya: “Tutto ciò che nasce nella mente si manifesta nelle sensazioni”. La seconda spiegazione è nel Maháparinibbána sutta (Il discorso sulla totale estinzione): 185 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza “In che modo, monaci, un meditatore comprende pienamente? Quando un meditatore va avanti e indietro, egli rimane cosciente di ciò che fa e con costante consapevolezza dell’impermanenza; guarda davanti a sé o di lato, egli lo sa ed è continuamente cosciente dell’impermanenza; quando si china o si raddrizza sa quello che fa, e continuamente si rende conto dell’impermanenza; sia si vesta o faccia la questua ha coscienza di ciò che fa ed è ogni attimo consapevole dell’impermanenza. Lo stesso accade quando mangia, beve, mastica o gusta il cibo. Quando soddisfa i suoi bisogni corporali, urinando o defecando; sia che cammini, stia fermo o seduto; sia che egli dorma o sia sveglio, che parli o stia zitto, è consapevole di ogni suo atto ed è continuamente conscio dell’impermanenza”. Qui il Buddha sottolinea che sati deve essere continua e questo concetto è ripetuto diverse altre volte. L’unico modo per essere conscio in ogni momento dell’impermanenza è quello di essere consapevole delle sensazioni fisiche, le uniche che permettono di osservare continuamente l’impermanenza. Se saípajañña consistesse nel rendersi conto dell’attività del camminare, del mangiare e di altre azioni simili, allora sarebbe sati. La comprensione completa e costante implica la consapevolezza dell’impermanenza delle sensazioni: saípajáno satimá. Solo così si sviluppa paññá, la saggezza che libera. 186 PARTE SECONDA Il Buddha esprime tutto ciò più specificatamente nell’Aòguttara Nikáya: “Sia che il meditatore cammini o stia fermo, sia seduto o coricato, che si chini o si raddrizzi, che guardi in alto, di fianco, o in dietro, qualunque sia la sua direzione, egli osserva il sorgere e lo svanire degli aggregati”. Il Buddha ha sempre posto l’accento sull’importanza della costante e completa comprensione dell’impermanenza, in tutte le attività fisiche e mentali. È proprio perché l’esatta comprensione del termine tecnico saípajañña è essenziale per capire questo sutta, l’abbiamo tradotto con “la costante e completa comprensione dell’impermanenza”, anche se è un’espressione meno concisa della più diffusa “chiara comprensione”. (Da V.R.I. (a cura di), Introduzione al Mahá-Saþipaþþhána Sutta, V.R.I. Ibid. ) 5. L’espressione atthi káyo (letteralmente ecco il corpo) indica che il meditatore, sperimenta l’impermanenza, a livello delle sensazioni; e perciò non identifica più il corpo come uomo, donna, giovane, vecchio, bello, brutto, non genera attaccamento ad esso, non lo considera come io o mio. Nelle altre tre sezioni del discorso si è usata la medesima espressione: ecco le sensazioni, ecco la mente, ecco i contenuti mentali, per indicare la mancanza d’identificazione del meditatore con l’oggetto, e la sua comprensione della caratteristica dell’impermanenza. 6. Le espressioni: corpo nel corpo, sensazione nella sensazione, mente nella mente, contenuto mentale 187 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza nel contenuto mentale, sono usate dal Buddha per evidenziare che occorre osservare questi quattro aspetti oggettivamente, momento dopo momento, senza cedere alla vecchia abitudine mentale di giudicare, paragonare, immaginare, contemplare. “Procedete praticando l’osservazione del corpo nel corpo, ma non dedicatevi a una serie di pensieri connessi al corpo; così con le sensazioni, la mente e i contenuti mentali, osservateli per quello che sono, ma non indulgete ad alcuna serie di pensieri connessi con essi”. (Dantabhumi sutta, M. 125). “Così dovete esercitarvi. Nel vedere ci sia solo il vedere, nell’udire solo l’udire, nel sentire solo il sentire, nel conoscere solo il conoscere. Ecco come dovete allenarvi”. (Báhiya sutta, Ud 1,10). La ragione è ovvia: nel momento in cui si comincia a indulgere in pensieri, non si sta più osservando oggettivamente. (da A. Solé-Leris, La meditazione buddista, op. cit.). E ciò può essere fatto solamente con la consapevolezza delle sensazioni e della loro impermanenza. 7. Ripetuto ventuno volte nel discorso, con variazioni a seconda della sezione a cui si riferisce (corpo, sensazioni, mente, contenuti mentali), è un paragrafo chiave in cui il Buddha descrive i passi che il meditatore deve compiere praticando Vipassana, indipendentemente dalla sezione da cui egli inizia; ed è finalizzato ad attirare l’attenzione sull’aspetto essenziale: sia che si osservi il corpo, la sensazione, la mente o i contenuti mentali, vanno sperimentati 188 PARTE SECONDA come impermanenti, a livello di sensazione fisica. Vanno sperimentati i tre livelli dell’impermanenza (il sorgere, il passare e il sorgere e passare) per poter sviluppare quella saggezza che conduce al giusto distacco e alla liberazione. La pratica deve portare allo stadio in cui non c’è un io separato che osserva (il corpo, le sensazioni, la mente o i contenuti mentali); l’esercizio è di sviluppare gradualmente consapevolezza ed equanimità. 8. Nel Visuddhi magga (Il cammino verso la purezza, importante commentario del monaco Buddhagosa) il paragone con il macellaio è il seguente: “Proprio come il macellaio, mentre nutre la mucca, la porta al mattatoio, la tiene legata dopo averla portata lì, la macella e vedendola macellata non perde la percezione “mucca”, finché non l’ha squartata e divisa in pezzi; quando invece l’ha divisa e sta lì seduto per venderla, perde la percezione “mucca” e sorge in lui la percezione “carne” e non pensa: “Sto vendendo la “mucca “o stanno portando via la “mucca”, ma bensì: “Sto vendendo la carne, stanno portando via della carne”. Così anche il monaco, mentre è ancora ignorante (ignora l’esperienza del Dhamma n.d.r.), non perde la percezione “essere umano o persona”, finché sperimenta il corpo, formato di elementi, in qualsiasi posizione esso si trovi, e perde così la percezione “persona”. 9. Questa riflessione sul cadavere è stata introdotta dal Buddha per aiutare quei meditatori che hanno difficoltà a concentrarsi sulle realtà sottili di respiro e sensazioni fisiche, perché la loro mente è troppo 189 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza coinvolta e distratta dai piaceri sensoriali, specialmente dalla lussuria. Per aiutarli a liberarsi dall’illusione e dall’attaccamento alla bellezza fisica, l’invito del Buddha è di riflettere sulla decomposizione del proprio corpo. Dissolta, almeno in parte, l’illusione, si è pronti a rivolgere l’attenzione al corpo e si può cominciare la pratica vera e propria, descritta alla fine di ogni paragrafo. Non occorre applicare questa riflessione, se la mente è sufficientemente capace di concentrarsi su respiro e sensazioni. 10. “Qualsiasi stato mentale va accettato, sperimentando che è transitorio, destinato a passare. Occorre solo riconoscere il tipo di stato mentale, momento dopo momento. Tra i differenti modi di osservare la mente, uno è l’osservare il pensiero che è sorto; esso è erroneamente definito cittánupassaná. I pensieri non vanno esaminati dettagliatamente, perché altrimenti si diventa loro preda. È sufficiente osservare il tipo di stato mentale del momento. Così ci si rende conto che a ogni cosa sorga nella mente corrisponde simultaneamente una sensazione fisica. Ciò che sorge nella mente immediatamente fluisce come una sensazione. Questa è legge di natura, è ciò che accade. Il meditatore deve sviluppare la capacità di accettare, per esempio, lo stato mentale di agitazione (il fatto che la mente è agitata), e nello stesso tempo di osservare le sensazioni fisiche con equanimità e costante e completa comprensione della loro impermanenza. Allora è al livello più profondo della realtà del fenomeno mentale e fisico, e in tal modo può cominciare a eliminare strati e strati di negatività. 190 PARTE SECONDA Occorre accettare con equanimità qualsiasi cosa sorga nella mente e, consapevoli dell’impermanenza, osservare le sensazioni fisiche. Se ogni volta che osservate la mente osservate anche le sensazioni fisiche, state praticando Vipassana, l’insegnamento del Buddha”. (Goenka) 11. In questa sezione è chiesto al meditatore di sperimentare la mente all’interno della mente. E questo può essere fatto osservando qualsiasi cosa sorga nella mente, così come il corpo può essere sperimentato solo osservando le sensazioni che sorgono in esso. L’osservazione esterna della mente e dei contenuti mentali è l’ osservare che ogni oggetto entra in contatto con la mente e con il corpo, attraverso i sei sensi di vista, udito, gusto, odorato, tatto, pensiero. Le sensazioni che nascono dal contatto con gli oggetti esterni e gli stati mentali interni, si mischiano e flui scono insieme. Ecco quindi l’importanza dell’affermazione del Buddha: Qualsiasi cosa sorge nella mente, sorge come sensazione del corpo. (A. 10, 58) 12. “Si deve accettare il fatto che c’è bramosia nella mente e osservare l’impermanenza delle sensazioni fisiche, così si permette a strati e strati di bramosia di venire eliminati. (…) Non bisogna giudicare, ma solo osservare il fatto che in quel momento c’è bramosia, sviluppando la capacità di sperimentare l’impermanenza di questo desiderio sensuale, che si manifesta come sensazione fisica. Il meditatore coltiva un’attitudine equanime, cioè ne accetta la presenza senza reagire con avversione o desiderio, e in tal modo permette a strati di bramosia a essa 191 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza collegati di essere eliminati. Ecco come funziona il processo di purificazione. È la natura che compie questo lavoro. L’impegno del meditatore è solo di osservare qualsiasi cosa si manifesti nel corpo e nella mente, con la continua consapevolezza delle sensazioni fisiche e la completa comprensione della loro natura impermanente.” (Goenka) 13. Questi fattori negativi descritti dal Buddha sono particolarmente legati alla meditazione, perché interferiscono nello sforzo del meditatore e quindi richiedono una breve spiegazione: –– Kámacchanda, desiderio sensuale, il compiacersi mentalmente di oggetti sensoriali e sessuali, lasciandosi sopraffare da essi; –– Byápáda, avversione, la generale avversione che si manifesta come sensazione di tensione, fisica e mentale; dhosa, l’avversione menzionata nella sezione sulla mente è invece quella riferita a malevolenza e odio; –– Thìna, pigrizia, è caratterizzata da sonnolenza; middha, torpore, è caratterizzata da pigrizia mentale e svogliatezza che impediscono di far sorgere l’energia necessaria a scacciare la sonnolenza; –– Uddhacca, agitazione mentale, nervosismo; kukkucca è angoscia o rimorso per non aver fatto ciò che era giusto e aver commesso atti (fisici, vocali, mentali), nocivi e ingiusti; –– Vicikicchá, dubbio di ogni genere, anche sulle proprie capacità e determinazione. Il dubbio si può sviluppare sino a riguardare la stessa efficacia della meditazione e sull’insegnamento del Buddha. 192 PARTE SECONDA 14. Sulle quattro nobili verità, v. Il Discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma, a pag 46 e note. 193 Commento La sensazione, chiave del Saþipaþþhána* di S.N. Goenka L ’auto-esplorazione è la meditazione Vipassana: il meditatore esamina la realtà nel suo duplice aspetto di corpo e mente. L’analisi della realtà fisica è in pali kayánupassaná, quella della realtà mentale cittánupassaná. Di fatto, l’osservazione dell’una necessariamente implica l’osservazione dell’altra e non possono essere sperimentate separatamente, in quanto interdipendenti e interconnesse. La realtà fisica: kayánupassaná e vedanánupassaná Kayánupassaná non è il sedersi a occhi chiusi, nominando o immaginando parti del corpo. È la consapevolezza (il rendersi conto, n.d.r.) delle sensazioni. Sperimentiamo la realtà del corpo sentendolo, ovvero attraverso le sensazioni corporee. Ci sono * Da S.N. Goenka, Sensation, the key to Saþipaþþhána, Vipassana Newsletter, ibid., gennaio 1994 Vol.4 N.1. 194 PARTE SECONDA sensazioni di un tipo o di un altro, in ogni istante e in ogni parte del corpo. Occorre acquisire la capacità di percepirle. Vedanánupassaná è l’osservazione delle sensazioni fisiche. Le sensazioni si possono percepire solo nel proprio corpo e la realtà del corpo può essere colta soltanto con le sensazioni. Ma per quanto la sensazione derivi sempre dal corpo, riguarda sia la realtà fisica che quella mentale: mentale, in quanto percepita dalla mente; la sensazione o vedaná è uno dei quattro aggregati mentali (con viññáóa, saññá e saòkhára). Questa è la ragione per cui l’osservazione delle sensazioni è il mezzo per l’esplorazione psicofisica nella sua totalità. L’osservazione delle sensazioni permette al meditatore di verificare la transitorietà del corpo. Esaminando una a una tutte le sue parti, si sperimenta che ogni sensazione sorge e passa. Con l’allenamento continuativo, si giunge a percepire l’immediata dissoluzione di ogni particella corporea. È una fase di acuta consapevolezza, e il meditatore si rende conto che tutto il corpo si dissolve a ogni istante; è l’esperienza del percepire la realtà della dissoluzione, in pali bhaòga-ñáóa. Inoltre, con l’osservazione delle sensazioni, si sperimenta che il corpo è composto di quattro elementi fondamentali: terra – la solidità; acqua – la fluidità; aria – lo stato gassoso; e fuoco – la temperatura. Ogni particella nasce con la predominanza di uno o più di questi elementi e dà luogo all’infinita varietà delle sensazioni, che sorgono e si dissolvono; il corpo consiste di piccole onde che sorgono e scompaiono, continuamente. In apparenza è solido ma, nella re- 195 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza altà, è un insieme di vibrazioni, di fluttuazioni, di piccole onde. La verità dell’impermanenza – anicca – si può afferrare solo attraverso l’esperienza delle sensazioni fisiche. Con tale esperienza, si verifica di non avere alcun controllo sul corpo e i suoi cambiamenti: si sperimenta la verità dell’inconsistenza dell’io, anattá; e che di conseguenza l’attaccamento a ciò che costantemente cambia e su cui non abbiamo controllo, genera sofferenza – dukkha, la verità dell’esistenza della sofferenza. Una volta sperimentate queste verità, il meditatore acquista la saggezza dell’equanimità: osservando le sensazioni comprende la verità del suo corpo, e ciò elimina gradualmente l’attaccamento per esso, liberando dall’abitudine di identificarsi con esso, sviluppando equanimità fino all’esperienza dell’illuminazione. Nella pratica dell’osservazione delle sensazioni fisiche – vedanánupassaná, il meditatore dà importanza a tutte le sensazioni nel corpo. Si allena a osservarle con obiettività, siano esse piacevoli, spiacevoli o neutre, e così indebolisce l’abitudine di abbandonarsi ai sensi. Sviluppando gradualmente equanimità di fronte al sorgere e svanire delle sensazioni, il meditatore impara a non esserne sopraffatto, e mantenere così l’equilibrio interiore. Esaminando le sue sensazioni, il meditatore impara a comprendere la realtà del corpo: “Ecco cos’è il corpo, e cosa sono le sensazioni, che procurano tante illusioni e complicazioni!”. Col raziocinio lo poteva aver già afferrato, ma ora la conoscenza intellettuale lascia il campo alla saggezza esperienziale. 196 PARTE SECONDA La realtà mentale: cittánupassaná e dhammánupassaná Un altro aspetto della meditazione Vipassana è l’osservazione della realtà mentale. Come non si può percepire il corpo prescindendo dalle sensazioni corporee, così non si può percepire la mente prescindendo da ciò che avviene in essa e cioè dai suoi contenuti, in pali dhamma. Quindi l’osservazione della mente (cittánupassaná) e dei contenuti mentali (dhammánupassaná) sono inseparabili. La pratica dell’osservazione della mente (cittánupassaná) consiste nel rendersi conto (essere consapevoli) dello stato della mente: quando c’è desiderio e quando ne è priva; quando ci sono avversione o ignoranza e quando sono assenti; quando c’è agitazione o distrazione, o tranquillità e concentrazione. La pratica dell’osservazione dei contenuti mentali (dhammánupassaná) consiste nell’osservare qualsiasi cosa la mente contenga momento dopo momento: desiderio, avversione, inerzia, agitazione, senso di colpa o scetticismo. Per legge di natura, se li si osserva obiettivamente, gradualmente sono sradicati. Con la stessa obiettività vanno osservati contenuti mentali come: consapevolezza, spirito di ricerca, impegno, gioia, calma, concentrazione, equanimità. Per legge di natura, se le si osserva imparzialmente, queste sane qualità si moltiplicano. Tutti i contenuti mentali, positivi e negativi, vanno accettati. Essi si manifestano nella mente e la mente può essere percepita solo attraverso i suoi contenuti. 197 5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza Il meditatore sperimenta che la mente e i suoi contenuti sono legati al corpo. La mente è costantemente in contatto col corpo; ogni contenuto mentale non è basato solo sulla mente, ma anche sul corpo. L’aspetto fisico del contenuto mentale è evidente quando c’è un’emozione intensa, ma è sempre presente in ogni contenuto. Anche il pensiero più fugace non si manifesta solo nella mente, ma è sempre accompagnato da una sensazione fisica. Per questa ragione, per osservare la mente e i suoi contenuti è essenziale essere consapevoli delle sensazioni fisiche. Senza questa consapevolezza, l’esplorazione della realtà mentale sarà incompleta e superficiale. Tutto ciò che avviene nel corpo e nella mente si manifesta come sensazione corporea. In ogni istante, ai livelli più profondi, vi è un contatto della mente e del corpo, e da questo contatto sorge una sensazione. Attraverso la sensazione, si può sperimentare ogni aspetto di se stessi. Perciò kayánupassaná, vedanánupassaná, cittánupassaná e dhammánupassaná vanno praticate osservando le sensazioni fisiche. Allora il meditatore constata: “Ecco cos’è la mente, e tutto ciò che essa contiene! Qualcosa di fugace, di effimero, che si dissolve e cambia ad ogni istante!”. E questa non è una verità dogmatica accettata per fede, né una deduzione logica, né una fantasia, né il frutto della contemplazione. È una verità sperimentata, osservando le sensazioni fisiche, con consapevolezza ed equanimità. 198 PARTE SECONDA La sensazione è il punto di partenza La sensazione è il punto di partenza per scoprire, nella sua totalità, la natura della mente e della materia. Con questa ricerca il meditatore riesce a vedere la realtà di se stesso in tutti i suoi aspetti. Realizza saípajañña, la totale comprensione, e saþipaþþhána, il formarsi della consapevolezza. Da ciò deriva una saggezza stabile, perché fondata sulla percezione della verità. Dopo aver sperimentato l’impermanenza, la caratteristica fondamentale di materia, mente e contenuti mentali, il meditatore trascende il campo psico-fisico e perviene alla verità ultima, che è al di là di ogni esperienza sensoriale. In questa realtà trascendente, anicca non esiste: niente sorge e perciò niente se ne va. È lo stadio senza nascita o divenire, lo stadio dell’assenza di morte, dove i sensi non funzionano più e perciò termina ogni sensazione: è l’esperienza di nirodha, in cui sensazioni e sofferenza non esistono più. Riassumendo, con l’osservazione delle sensazioni fisiche, il meditatore pratica tutti e quattro i fonda menti di consapevolezza – saþipaþþhána – (del corpo, delle sensazioni fisiche, della mente, dei contenuti mentali). Percepisce l’impermanenza, la natura mutevole di corpo e mente e, continuando la ricerca, giunge alla verità ultima e liberatrice. L’essenza della verità avviene prima all’interno del campo di mente e materia, e poi in quello al di là. Servendoci delle sensazioni del nostro corpo, esploriamo totalmente la verità di noi stessi, e raggiun giamo così il traguardo della vera felicità e della vera pace. 199 6. Il discorso sull’amore universale (Karanìya metta sutta, Sn 1.8) PREMESSA L’origine del discorso* di A. Buddharakkhita I l discorso è scaturito da una vicenda, narrata nel commento trascritto da Buddhaghosa (grande commentatore del Canone pali, monaco indiano del V sec. d.C., n.d.r.) e proveniente da un’ininterrotta catena d’insegnanti risalente ai giorni del Buddha stesso. “Un mese o due prima del ritiro nella stagione delle piogge, monaci provenienti da tutta l’India si recavano dal Buddha per ricevere il suo insegnamento. Così cinquecento monaci si recarono a Savatthi nel bosco di Jeta, al monastero costruito da Anathapindika; e ricevettero dal Buddha istruzioni circa le tecniche di meditazione più adatte ai loro temperamenti individuali. Per trascorrere i quattro mesi di ritiro e compiere un vigoroso tentativo di liberazione spirituale, si recarono alle pendici dell’Himalaya. Vi cercarono un luogo adatto e trovarono una bella collina, che apparve come un cristallo di quar* Da A. Buddharakkhita. Mettá: the Philosophy and Practice of Universal love, op.cit. 203 6. Il discorso sull’amore universale zo azzurro luccicante: era abbellita da un bosco fitto e fresco e da una distesa di sabbia, che pareva una rete di madreperla o un lenzuolo d’argento, ed era provvista di una sorgente d’acqua pulita e fresca. I monaci furono catturati da quello spettacolo. Inoltre, c’erano villaggi nelle vicinanze e anche una piccola città col mercato, ideale per l’elemosina. A tale scopo, i monaci vi si recarono il mattino seguente, dopo aver trascorso la notte in quel bosco idilliaco. Gli abitanti della cittadina furono felici di vederli, poiché raramente un gruppo di monaci andava in ritiro dalle loro parti. Pii e devoti, li pregarono di fermarsi come loro ospiti, promettendo di costruire per ciascuno di loro una capanna vicino al bosco, cosicché potessero trascorrere giorno e notte immersi nella meditazione, sotto i rami di antichi alberi maestosi. I monaci accettarono e i devoti della zona costruirono piccole capanne lungo il limitare del bosco e fornirono ciascuna di un letto di legno, sgabello e vaso con acqua, per bere e lavarsi. Dopo che i monaci vi si furono comodamente sistemati, ciascuno scelse un albero sotto cui meditare. Quei grandi alberi erano abitati da numi tutelari che si erano fatti edificare una dimora celeste, usando gli alberi come base. Queste divinità, per reverenza nei confronti dei monaci meditanti, si tenevano in disparte con le loro famiglie. Quando i monaci sedevano sotto gli alberi, per rispetto, le divinità padrone di casa non abitavano sopra di loro, e la virtù era rispettata da tutti. Ritenendo che i monaci sarebbero rimasti solo una notte o due, sopportavano volentieri la scomodità. Ma quando i giorni passavano e i monaci rimanevano, le divinità si chiesero quando se 204 PARTE SECONDA ne sarebbero andati. E osservavano ansiosamente da lontano, per capire quando si sarebbero riappropriati delle loro dimore, come gente a cui le cui case fossero state requisite per l’arrivo di funzionari reali in visita. Discussero tra loro sul da farsi e, per far andare via i monaci, decisero di spaventarli mostrando loro oggetti terrificanti, producendo rumori spaventosi e un lezzo nauseante. Materializzarono tutto ciò e li afflissero: i monaci prima impallidirono e poi non riuscirono più a concentrarsi nella meditazione. Le divinità persistevano nelle molestie, ed essi persero anche la più basica presenza mentale: la loro mente sembrò lasciarsi sopraffare da visioni opprimenti, da rumore e da cattivo odore. Quando si riunirono per servire il monaco anziano del gruppo, ciascuno raccontò le proprie esperienze, e l’anziano propose: “Fratelli, andiamo dal Buddha e poniamogli il nostro problema. Ci sono due ritiri della pioggia, il primo e il secondo. Anche se interromperemo questo, dopo l’incontro col Buddha, potremo sempre seguire il secondo”. Tutti furono d’accordo e si misero in viaggio. Giunti a Savatthi si prostrarono ai suoi piedi e raccontarono le loro spaventose esperienze, chiedendogli d’indicar loro un altro luogo. Il Buddha, con il suo potere soprannaturale, scandagliò l’intera India, ma non trovò alcun luogo, tranne quello, dove avrebbero potuto conseguire la liberazione. “Monaci, – disse – tornate da dove siete venuti! È solo in quel luogo che, impegnandovi a fondo, eliminerete le impurità interiori. Non temete: per liberarvi delle molestie causate dalle divinità, imparate questo discorso. Sarà insieme tema di meditazione e formula 205 6. Il discorso sull’amore universale di protezione” Recitò quindi “Il discorso sull’amore universale”. I monaci l’impararono a memoria in sua presenza e poi tornarono da dove erano venuti. Come si avvicinarono alle abitazioni nella foresta recitandolo, riflettendo e meditando sul suo significato, i cuori delle divinità del luogo si riempirono a tal punto di caldi sentimenti di benevolenza, che si materializzarono in forma umana e accolsero i monaci con profonda devozione. Li condussero nelle loro stanze, presero le loro ciotole, fecero portar loro acqua e cibo. Poi assunsero la loro forma abituale e li invitarono a meditare alla base degli alberi, senza esitazione o timore. Durante i loro tre mesi di permanenza, le divinità non solo si presero cura dei monaci in ogni modo, ma fecero sì che il posto fosse completamente privo di rumore. Entro la fine della stagione delle piogge, godendo del perfetto silenzio, tutti i monaci raggiunsero l’apice della perfezione spirituale: divennero Arahant. Ciò indica il potere intrinseco del discorso. Chi lo recita con fede convinta, meditando su di esso e invocando la protezione delle divinità, non solo salvaguarderà se stesso, ma proteggerà quelli intorno a lui, e compirà un progresso spirituale. 206 Testo del discorso Chi desidera il proprio bene, e vuole raggiungere nel modo migliore la pace completa, sia virtuoso, giusto, sincero, cauto nel parlare, mite e umile. Sempre contento, e mai di peso, libero da troppi impegni, conduca una vita semplice; calmati i suoi sensi, sia discreto, prudente, non possessivamente attaccato ai suoi. Non commetta il minimo male che potrebbe suscitare la riprovazione dei saggi. (E pratichi la benevolenza ripetendo, n.d.r.): Che tutti gli esseri siano felici e sicuri, e trovino la gioia dentro se stessi. Tutti gli esseri viventi, indistintamente, senza eccezione, siano essi umani o non umani, mobili o immobili, piccoli o medi, grossi o sottili, lunghi o larghi, visibili o invisibili, vicini o lontani, già nati o in procinto di nascere; tutti gli esseri abbiano la felicità in loro stessi. 207 6. Il discorso sull’amore universale Che in lui non vi sia mai inganno né disprezzo per alcuno. Che non sia mai preda dell’ira o della malevolenza, che mai desideri il male di un altro. Come una madre protegge il suo unico figlio, anche a costo della vita, possa egli nutrire un amore senza confini per tutti gli esseri. Che i suoi pensieri di benevolenza infinita pervadano l’intero universo, verso l’alto, verso il basso, attraversando tutto, senza odio o inimicizia. Sia egli fermo o cammini, stia seduto o si corichi, finché rimane sveglio egli deve esercitarsi nella consapevolezza dell’amore sconfinato; questo è ciò che si chiama uno stato sublime. Una tale persona non si lascia intrappolare in filosofie, ma dimora nella legge morale e nella conoscenza; avendo eliminato ogni attaccamento dei sensi, non dovrà più rinascere. 208 COMMENTO La pratica della benevolenza nella meditazione Vipassana* a cura del Vipassana Research Institute L a meditazione per lo sviluppo della benevolenza – mettá – è corollario a Vipassana, anzi la sua logica conclusione. È una tecnica grazie alla quale irradiamo amorevole gentilezza e benevolenza verso tutti gli esseri, inviando consapevolmente nell’atmosfera intorno a noi le vibrazioni calmanti e positive dell’amore puro e compassionevole. Il Buddha la insegnò per aiutare a condurre una vita più pacifica e armoniosa. Il meditatore di Vipassana dovrebbe praticarla, poiché permette di spartire con gli altri la pace e l’armonia che sta sviluppando. Perché sia efficace, va praticata insieme a Vipassana: il solo formulare pensieri di benevolenza è inutile, senza la coltivazione della purezza mentale; dopo di essa, la benevolenza può sgorgare spontaneamente, e noi, emergendo dalla prigione dell’ego, iniziamo ad occuparci del benessere altrui. Durante i corsi di meditazione Vipassana, è introdotta a fine corso, dopo che i partecipanti sono * Da V.R.I. (a cura di) Seminario di meditazione Vipassana. Dhammagiri-Igatpuri (India), 1986. 209 6. Il discorso sull’amore universale passati attraverso il processo di purificazione, e così possono sentire il profondo desiderio che gli altri stiano bene. Sebbene nel corso vi si dedichi un tempo limitato e si dia preminenza a Vipassana, essa va considerata il culmine di Vipassana, perché per sperimentare il nibbána ci vuole una mente piena di amorosa sollecitudine e di compassione verso tutti gli esseri. E per averla, occorre praticare Vipassana. Meditando, sperimentiamo sempre più che la realtà del mondo e di noi stessi consiste in un continuo flusso di sorgere e scomparire; e che esso continua al di là del nostro controllo, senza tener conto dei nostri desideri. Gradualmente, comprendiamo che l’attaccamento a ciò che è effimero e senza sostanza non produce che sofferenza; e apprendiamo come mantenerci equilibrati di fronte a ogni esperienza. Solo allora possiamo sperimentare la vera felicità: la liberazione dal ciclo di desiderio e paura. Man mano che la serenità interiore si sviluppa, vediamo la sofferenza altrui, e allora sorge in noi il desiderio: “Che possano trovare ciò che io ho trovato: la strada che conduce fuori dall’infelicità, il sentiero della pace”. Questa è l’attitudine alla base della pratica di benevolenza. Nei Commentari leggiamo: “È la meditazione della benevolenza che ci porta a un atteggiamento amichevole”; esso si manifesta col desiderio che gli altri stiano bene in un atteggiamento privo di malevolenza. “La benevolenza è la non avversione” e la sua principale caratteristica è un’attitudine benevola, che ha il suo culmine nell’identificazione di se stessi con gli altri esseri, in un sentimento di solidarietà per tutto ciò che è vivente. 210 PARTE SECONDA Benevolenza non significa preghiera, e nemmeno speranza che un’entità a noi esterna ci possa aiutare. Al contrario, è un processo dinamico che produce un’atmosfera energetica in cui ognuno può agire per aiutare se stesso e gli altri. Si può dirigere ovunque o focalizzarla su una singola persona; in ambedue i casi, il meditatore non è che un mezzo, poiché la benevolenza che sentiamo, non è nostra. Il fatto che non venga prodotta da noi, rende la sua trasmissione priva di ego. Per poterla diffondere, la mente deve essere calma, equilibrata e libera da negatività, e questo tipo di mente si sviluppa con la pratica di Vipassana. Il meditatore sa per esperienza come ira, antipatia e malevolenza distruggano la pace e compromettano gli sforzi compiuti per aiutare gli altri. Soltanto quando riusciamo a sviluppare equanimità possiamo essere felici e augurare felicità agli altri. Le parole “che tutti siano felici” hanno grande forza solo se provengono da una mente pura. Sostenute dalla purezza, esse hanno efficacia nel favorire la felicità altrui. Prima di meditare con mettá, la pratica della benevolenza, dobbiamo analizzarci per vedere se siamo nelle condizioni di trasmetterla. Se troviamo anche solo una piccola traccia di odio o avversione, dobbiamo astenercene. Quando invece siamo pieni di serenità e benessere, è naturale e giusto dividerli con gli altri: “Che possiate essere felici, che possiate liberarvi delle impurità che sono causa di sofferenza, che tutti siano in pace!” Quest’atteggiamento di amabilità ci permette di far fronte con più successo alle vicissitudini della 211 6. Il discorso sull’amore universale vita. Supponiamo, ad esempio, di incontrare una persona che deliberatamente, per malevolenza, agisca in modo da danneggiare qualcuno. La risposta usuale, cioè la reazione di odio o paura, è egocentrica, e non migliora la situazione. Sarebbe opportuno rimanere calmi ed equilibrati, provando un senso di benevolenza anche verso la persona che si sta comportando male. E non può essere solo un’istanza intellettuale, una maschera che copra la negatività. Mettá agisce soltanto quando è lo straripamento spontaneo di una mente purificata. La serenità conseguente a Vipassana produce un naturale senso di benevolenza, che durante tutto il giorno pervaderà noi e l’ambiente in cui siamo. Si può dire che Vipassana ha due funzioni inscindibili: quella di procurarci felicità per mezzo della purificazione mentale, e quella di prepararci alla pratica della benevolenza, per aiutarci ad alimentare la felicità altrui. Che senso avrebbe la nostra liberazione da negatività ed egoismo, senza condivisione? Durante i corsi, ci tagliamo temporaneamente fuori dal mondo proprio per poter tornare a casa e spartire con gli altri ciò che abbiamo ottenuto nella solitudine. In questi tempi di agitazione e di diffuso malessere è necessaria la meditazione della benevolenza. Perché pace e armonia si diffondano nel mondo, prima di tutto devono essere nella mente di ciascun individuo. La mente, calmata e purificata, può rivolgere a tutti gli esseri un’effusione di benevolenza, condividendo la calma e l’equilibrio raggiunti. Più si pratica, più diminuiscono bramosia e avversione, e si manifestano qualità mentali positive, come amorevolezza e compassione. Così disse il Buddha: 212 PARTE SECONDA Come un tizzone ardente irradia calore, fate fluire la sensazione di pace e benevolenza dal vostro corpo in tutte le direzioni. Pensate a tutti gli esseri: quelli vicini e più cari, quelli che vi sono indifferenti, e quelli che non possono esservi amici, quelli che conoscete e quelli che non conoscete, vicini o lontani, umani e non umani, grandi e piccoli, senza alcuna distinzione; rivolgete a tutti i vostri sentimenti di amicizia e di compassione, di amore e benevolenza. Mettá purifica e rinforza la mente, ha la capacità di risvegliare le qualità positive latenti, che aiutano nella trasformazione spirituale della nostra personalità. 213 Schema sulla pratica della meditazione di benevolenza: Mettá* di Bikkhu Bodhi Il meditatore e lo scopo della pratica – I prerequisiti – Gli esercizi meditativi – L’intensificazione e l’espansione Mettá si trasforma in saggezza I. Il meditatore e lo scopo della pratica Il meditatore è chi è diventato esperto nel fare il bene. Lo scopo è realizzare lo stato di pace. II. I prerequisiti sono quindici qualità: Sakko: abilità, capacità nella vita spirituale; Ujú: sincerità e rettitudine; Súju: onestà e trasparenza; Suvaco: socievolezza e umiltà; Mudu: mansuetudine; Anatimáni: modestia e mitezza; Santussako: contentezza; Subharo: appagamento; Appakicco: libertà da troppi impegni; * Da Bikkhu Bodhi, Three Blessing Suttas: Ratana, Maògala, Mettá. PDF Lecture Notes, Audio CD MP3, BPS, Sri Lanka. Presentazione del Mettá Sutta. La revisione è stata limitata a qualche aggiunta, per ampliare la gamma di significati relativi ai termini pali. 214 PARTE SECONDA Sallahukavuþþi: sobrietà e non attaccamento per le proprie attività; Sanþindriyo: calma nelle proprie esperienze sensorie; Nipako: discrezione, con saggezza pragmatica; Appagabbho: prudenza e gentilezza; Kulesu ananugiddho: attaccamento non eccessivo alla propria famiglia. Na ca khuddaí samacare kiñci yena viññú sembra upavadeyyuí: astensione dalle azioni che potrebbero suscitare la riprovazione dei saggi. (Dal numero 1 al 14 ci sono qualità di moralità positiva (caritta-sila), nel 15 c’è la moralità come astensione (varitta-sila). III. Gli esercizi meditativi La ripetizione dell’espressione: “Possano tutti gli esseri stare bene, sicuri e protetti. Possano tutti essere felici!”. L’espressione va ripetuta anche con ognuna delle seguenti categorie di esseri: fragili e forti; lunghi, medi e corti; grandi, medi e piccoli; pesanti, medi e leggeri; visibili e invisibili; lontani e vicini; nati e in procinto di nascere. Concludere ripetendo: “Possano tutti gli esseri essere felici.”; con l’aggiunta di: “Che non ci siano inganno, disprezzo, e cattiva volontà tra gli esseri; che non si desideri mai il male di un altro.”. 215 6. Il discorso sull’amore universale IV. L’intensificazione e l’espansione L’intensificazione: “Come una madre, con tutta se stessa, protegge la vita del suo figlio unico, a rischio della sua, così si dovrebbe sviluppare benevolenza smisurata verso tutti gli esseri.” L’espansione: “Sviluppare una benevolenza smisurata verso tutto il mondo; in alto, in basso, dappertutto, senza confini, senza inimicizia e senza ostilità.” “Sino a quando non si è addormentati, si mantenga la consapevolezza di mettá in ogni posizione: ecco la dimora di brahma (della condizione di felicità n.d.r.) qui ed ora.” V. Mettá si trasforma in saggezza La pratica di mettá aiuta il meditatore a sperimentare che: 1)non ha più bisogno di altre ricerche; 2)la sua moralità è definitivamente stabilizzata; 3)ha realizzato l’esperienza della verità dell’inesistenza di un io. Con queste tre qualità raggiunge lo stadio di liberazione chiamato sotápanna (ovvero colui che è entrato nella corrente della liberazione). Continuando nella sua pratica, gradualmente abbandonerà l’avidità per i piaceri sensuali, raggiungendo altri gradi di liberazione, sino a diventare completamente liberato. E allora sarà chiaro per lui che non rinascerà più in un grembo materno. 216 PARTE SECONDA La filosofia della benevolenza* di A. Buddharakkhita La parola pali mettá ha molteplici significati: gentilezza amorevole, benevolenza, magnanimità, fratellanza, concordia, armonia, mitezza, non violenza. I commentatori pali la definiscono: il forte desiderio che gli altri stiano bene e felici. Essenzialmente è un atteggiamento altruistico d’affetto e amicizia, diverso dall’amabilità basata sull’interesse. Significa rinunciare a rancori, risentimento e animosità, e coltivare un’attitudine affabile, conciliante e benevola, che tende al servizio per il bene degli altri. Se autentica, è priva di egoismo, riscalda il cuore d’amicizia, fratellanza, simpatia e amore, sentimenti che, se coltivati, crescono senza confini con la pratica, superando tutte le barriere (sociali, religiose, razziali, politiche ed economiche). Mettá è l’amore che abbraccia tutto e tutti, è il desiderio che tutti siano amici, felici e prosperi; che non ci siano ostilità e tristezza. Proprio come una madre ha per il figlio un atteggiamento protettivo e immensamente paziente, così con mettá si dona e non si vuole nulla in cambio. Per cui, è appropriato definirla amore universale che conduce alla liberazione della mente. Fa di ogni individuo una sorgente di purezza, di bene e * Da A. Buddharakkhita. Mettá: the Philosophy and Practice of Universal love, op.cit. 217 6. Il discorso sull’amore universale di sicurezza per gli altri: è l’atteggiamento di chi vuol dare all’altro il meglio, per contribuire al suo bene. Così facendo, si promuove anche il proprio bene. La promozione del proprio interesse è una motivazione primordiale; e quando quest’impulso si trasforma nel desiderio di promuovere interesse e felicità altrui, la mente diviene universale, e con questo cambiamento, anche il proprio benessere è promosso nel miglior modo possibile. Mettá-bhávaná significa coltivazione di queste qualità, e con essa si può acquisire una straordinaria forza interiore, in grado di custodire, proteggere e guarire se stessi e gli altri. A prescindere dalle sue implicazioni più sublimi, l’esercizio di mettá è una necessità pragmatica e impellente per il mondo d’oggi, minacciato di distruzione a molti livelli. È il mezzo per suscitare concordia, pace e comprensione, nell’azione, nella parola e nel pensiero. È lo strumento supremo, perché costituisce l’essenza di tutte le religioni e la base per tutte le iniziative tese a promuovere il benessere dell’umanità. I tre aspetti Il discorso è diviso in tre parti. La prima riguarda la sistematica applicazione della gentilezza amorevole nella condotta quotidiana. La seconda parte, la gentilezza amorevole come autonoma tecnica di meditazione che conduce alla concentrazione. La terza parte sottolinea la dedizione totale alla filosofia dell’amore universale, con le sue implicazioni per- 218 PARTE SECONDA sonali, sociali ed empiriche: la gentilezza amorevole attraverso attività fisiche, vocali e mentali. La pratica di mettá può essere paragonata alla crescita di un grande albero, dal momento in cui è piantato il seme a quello in cui l’albero, carico di frutti succulenti, emana il suo dolce profumo tutto attorno, attraendo miriadi di creature che possono beneficiare della sua gustosa e nutriente abbondanza. Nella prima parte, il modello di comportamento è la crescita della propria vita come un albero, utile, generoso e nobile; la meditazione è la fioritura spirituale, al punto che la propria vita diventa una fonte di gioia per tutti. Nella seconda parte, l’albero, robusto e sviluppato, è ricoperto di bei fiori fragranti, che attraggono gli occhi di tutti. La terza parte rappresenta la fruizione del processo di sviluppo spirituale, grazie a cui l’amore è concretizzato e applicato; conducendo così a una potente influenza nella società e alle vette della realizzazione trascendentale. La mente umana è come una miniera che contiene una riserva inesauribile di potere spirituale e di capacità d’introspezione. Quest’immenso potenziale di azioni meritorie accumulate può essere pienamente sfruttato solo con la pratica di mettá. È lo specifico fattore che “fa maturare” le dieci virtù o perfezioni spirituali (páramitás).* * I dieci modi per acquisire le perfezioni spirituali: sviluppare carità o generosità, moralità, praticare la meditazione, coltivare gratitudine e rispetto verso il Buddha, Sangha 219 6. Il discorso sull’amore universale L’etica individuale Nell’insegnamento del Buddha, l’etica corrisponde alla condotta morale di retta parola, retta azione e retto mezzo di sostentamento. Come beneficio immediato dà benessere: essa porta felicità e pace della mente, non dà luogo a rimorso, preoccupazione e irrequietezza, ma favorisce assenza di paura e presenza di sicurezza. La condotta morale conduce anche a una rinascita felice, che consente di progredire sul sentiero della liberazione spirituale, oltre a costituire la base per progredire nel Dhamma qui e ora. Quest’etica è duplice: la realizzazione sia di virtù (caritta), sia di precetti d’astinenza (varitta). Nel caritta è presentata come segue (qui la traduzione è diversa da quella proposta dal curatore, ma l’essenza del significato è la stessa, n.d.r.): … Dovrebbe essere capace, onesto e retto, gentile nel parlare, mite e non orgoglioso, contento, dovrebbe essere lieve, non eccessivamente indaffarato, e semplice nello stile di vita, con i sensi tranquilli, prudente, non sfrontato, né esigente in famiglia. Varitta, è nella strofa successiva: e Dhamma, i propri genitori, insegnanti e anziani; prestare loro aiuto e servizio; condividere con altri le perfezioni acquisite; condividere le perfezioni degli altri; ascoltare discorsi sul Dhamma; insegnare il Dhamma; rettificare la propria comprensione del Dhamma (n.d.r.). 220 PARTE SECONDA Egli deve anche trattenersi da qualsiasi azione che dia al saggio ragione di rimproverarlo. Caritta e varitta sono così realizzate (cioè messe in pratica) attraverso l’azione fisica e vocale di mettá; la felicità interiore e la spinta altruistica che ne risultano sono espresse a conclusione della strofa, con l’azione mentale: Che tutti possano stare bene e sentirsi sicuri, che tutti gli esseri possano essere felici! La capacità individuale è intesa non solo come efficienza o abilità, ma come capacità di bene operare, con considerazione per gli altri. Partendo dal presupposto che la persona capace può diventare piena di sé, è consigliato al praticante di: essere “onesto e retto” e “gentile nel parlare, mite e non orgoglioso”; esercitare la “prudenza”, nelle attività e nelle relazioni quotidiane. L’arroganza (il sentirsi migliori o più devoti degli altri), può essere, e spesso è, una messinscena: chi non vi indulge è “non sfrontato, né esigente”. Trattenersi da qualsiasi azione, anche convenzione sociale, per la quale un saggio potrebbe rimproverarlo, perché priva di prudenza; esercitare la capacità d’appagamento. Chi è contento è “facile da appagare”. La frugalità che scaturisce dalla considerazione per gli altri, è un tratto nobile. (…) Più una persona è rozza e materialista, più aumentano i suoi bisogni; per chi vive con semplicità, mitezza, padronanza sui sensi, (cioè con sobrietà), unite a operosità e capacità di fare, coltivare la meditazione è naturale e non 221 6. Il discorso sull’amore universale richiede sforzo: da qui, l’espressione “tranquillo nei sensi”. Questa è la base per poter coltivare la mente onnicomprensiva di mettá, con le tecniche di meditazione suggerite nella parte finale del discorso. L’etica collettiva Non è sufficiente l’essere buoni, ma, in considerazione anche del benessere altrui, ci si deve anche mostrare buoni; perché una vita esemplare va vissuta per il bene di tutti, per il benessere della società. Nel nostro mondo competitivo, dove vige la ricerca di piacere e possesso, vivere una vita semplice significa ri-orientare mentalità e comportamento. Mettá promuove il benessere di tutti e si regge sulla sobrietà; e richiede la scelta, (ponderata e basata sul loro significato e senso), delle attività che conducano al benessere di tutti coloro che ne sono coinvolti, ad ampio raggio. Il parametro per giudicare la salute mentale di una società è la diminuzione dei bisogni, cioè, la capacità di appagamento. Una vita materialista ed egocentrica caratterizzata dal loro aumento, è anche connotata dall’irrequietezza, che si manifesta, per esempio, nell’essere sempre indaffarati e attivi e/o privi di moderazione e autocontrollo. 222 PARTE SECONDA La protezione Mettá è anche definita paritta, termine che designa una formula spirituale capace di salvaguardare il proprio benessere, proteggere dai pericoli e soccorrere nelle disavventure e sfortune. Questa protezione purifica e rafforza la mente, risveglia i potenziali latenti, portando la trasformazione della personalità. Così cambiata, la mente non è più preda dell’avversione (avidità, odio, concupiscenza, gelosia e da altri fattori che la inquinano). La pratica attiva delle virtù complementari Mettá implica il “superamento” dei tratti negativi con la pratica attiva delle virtù complementari. Per esempio, la pratica attiva di amabilità, rispetto, considerazione verso tutti gli esseri, può far superare la tendenza opposta alla molestia. E questo vale per tutte le qualità. Insieme a questa scelta di condotta, si coltiva la mente con la meditazione mettá-bhávaná, che genera pensieri potenti e amore spirituale illimitato, rendendo la coscienza infinita e universale. Il superamento di un tratto negativo con la coltivazione del suo opposto, implica un approccio maturo alla vita: una condotta amorevole in un mondo dove l’interazione inconsapevole è fonte di tensioni e sofferenze. Poiché si concepisce nella mente questa qualità di amore, essa è priva di pensieri malevoli. Per questa ragione nasce la definizione “amore uni- 223 6. Il discorso sull’amore universale versale che conduce alla libertà della mente”. Si coltiva l’amore universale nei seguenti otto modi: –– non molestando nessuno e così evitando le molestie; –– non offendendo nessuno e così evitando le offese; –– non torturando nessun essere e così evitando torture; –– non distruggendo nessuna vita e così evitando la distruttività; –– non vessando nessun essere e così evitando la vessazione; proiettando i pensieri: –– “Che tutti gli esseri possano essere amichevoli e non ostili”; –– “Che tutti gli esseri possano essere felici e non infelici”; –– “Che tutti gli esseri possano godere di uno stato di benessere, senza sofferenza.” Lo sguardo sul lato buono Nel Visuddhimagga, mettá è descritta come un “solvente” che “scioglie” le proprie e anche le altrui impurità (come rabbia, risentimento e ostilità). Essa si manifesta con un approccio amichevole, e chi è ostile diventa amico. Il processo grazie a cui funziona come solvente è il seguente: si tende a vedere il buono nelle persone e a preferire il loro benessere, di conseguenza si tende a non essere aggressivi (per eliminare ciò che irrita o ferisce) e a promuovere attivamente il benessere. In altre parole, si manifesta 224 PARTE SECONDA come una forza che “elimina l’irritazione”, grazie alla tendenza a vedere il lato buono delle cose e degli esseri, e non i difetti. È definita come la qualità che “promuove il benessere”, la cui funzione è “preferire il benessere” piuttosto che il malessere; ha successo quando è amore disinteressato, e fallisce quando degenera nell’affetto mondano (intriso d’attaccamento, n.d.r.). I nemici I cinque aspetti contrari a mettá sono: –– la molestia, la tendenza a opprimere o danneggiare; –– l’aggressività, intesa come tendenza a far male o ferire; –– la tortura, la tendenza a tormentare, imponendo dolore e infelicità; –– la distruttività, la tendenza a eliminare e al porre fine, il tratto dell’estremista e dell’iconoclasta; –– la vessazione, la tendenza a colpevolizzare, turbare o causare preoccupazione e tensione. Sono radicate in antipatia e malevolenza, nel comportamento, nello stato psicologico e nell’atteggiamento mentale. Nel praticare mettá, vanno conosciute le emozioni che la vanificano, sia a lei simili (nemici vicini, nella definizione del Visuddhimagga), sia a lei dissimili, (nemici lontani). Avidità, lussuria, affetto mondano e sensualità sono simili e quindi nemici vicini. Di essi, si dovrebbe diffidare perché creano autoinganno, la cosa 225 6. Il discorso sull’amore universale peggiore che possa accadere. Per esempio, anche il lussurioso vede il “lato buono” e “la bellezza” e quindi si fa coinvolgere. L’amore disinteressato va protetto da ciò, affinché le emozioni derivate da questi nemici vicini non ingannino il meditatore. Malevolenza, rabbia e odio sono dissimili, quindi nemici lontani. Possono essere facilmente riconosciuti, quindi non se ne dovrebbe aver paura, ma vincerli coltivando e irraggiando una forza superiore, quella dell’amore. L’amore tiene lontana la malevolenza, la più dannosa delle emozioni: “è la via di fuga dalla malevolenza, cioè la libertà della mente, operata dall’amore universale” (D.III. 234). Mettá inizia solo quando c’è zelo nell’agire. Continua solo quando sono sconfitti desiderio, malevolenza, pigrizia, avversione e dubbio (i cinque ostacoli mentali). Giunge a compimento solo col raggiungimento della concentrazione. Come già accennato, il suo scopo ultimo è l’ottenere la visione trascendentale e recare – qui e ora – pace interiore e stato mentale salutare. (…) 226 PARTE SECONDA Gli esercizi meditativi* di A. Buddharakkhita Ci sono diversi modi di praticare la meditazione dell’amore universale. Qui indichiamo le istruzioni di tre dei metodi principali, basate su fonti canoniche e commentari, e volte a offrire spiegazioni chiare e semplici.** Il metodo dell’irradiazione*** verso specifici individui Questo metodo ha il fine d’aumentare il giusto distacco da se stessi. * Da A. Buddharakkhita. Mettá: the Philosophy and Practice of Universal love, op.cit. ** Per le relative istruzioni complete su teoria e pratica, si veda il Visuddhimagga, Capitolo IX. ***Per irradiazione si intende la proiezione di pensieri che promuovono il benessere di coloro verso cui la nostra mente si dirige. Un pensiero di mettá è una potente forza di pensiero e può rendere effettivo ciò che si è voluto. Poiché augurare benessere è volere, questa è un’azione creativa. Infatti, tutto ciò che l’uomo ha creato nei diversi ambiti dell’esistenza, è il risultato di ciò che egli ha voluto, (sia essa una città, una centrale idroelettrica, un razzo spaziale, un’arma o un capolavoro artistico). Anche l’irraggiamento del pensiero di mettá è lo sviluppo della forza di volontà, che può avere effetti a distanza, anche di guarigione e di protezione, se questa forza è generata con abilità, in un modo specifico, seguendo una sequenza determinata. 227 6. Il discorso sull’amore universale Comodamente seduti in un luogo tranquillo, in cui possiate stare isolati e in silenzio, chiudete gli occhi, ripetete la parola mettá un po’ di volte e evocate mentalmente il suo significato (…). Visualizza* il tuo viso che esprime uno stato d’animo felice e radioso, col pensiero: “Che io possa essere libero da ostilità, libero da sofferenza, libero da angoscia; che io possa vivere felicemente.” Quando ti riempi d’amore, con la forza del pensiero, diventi come un vaso colmo, il cui contenuto è pronto per traboccare in tutte le direzioni. (Allenati: quando vedi il tuo viso allo specchio, immaginati in uno stato d’animo felice, per poi evocarlo e portarlo nella meditazione. Una persona in uno stato d’animo felice non può, nel contempo, sentire rabbia, sentimenti ostili o avere pensieri negativi). Quindi, visualizza il tuo insegnante di meditazione, se vivente. Va visualizzata una persona vivente. L’oggetto di mettá è sempre persona vivente, perché un morto, avendo cambiato forma, è fuori dalla portata della proiezione, la forza del pensiero è inefficace. Se non è vivente, quindi, scegli qualche altro insegnante o una persona degna di reverenza. Vedilo in uno stato d’animo felice e proietta il pensiero: “Che il mio inse* Per visualizzare si intende “richiamare alla mente” un oggetto o una persona, una certa zona o una direzione o una categoria di esseri. Significa immaginare le persone verso le quali i pensieri d’amore sono stati proiettati. Per esempio, visualizza tuo padre: immagina il suo viso felice e radioso e verso quest’immagine proietta il pensiero: “Che tu sia felice! Che tu possa essere libero da malattia o da guai! Che tu possa godere di buona salute.” Va bene qualsiasi pensiero promuova il suo benessere. 228 PARTE SECONDA gnante possa essere libero da ostilità, libero da afflizione, libero da angoscia; che possa vivere felicemente.” Poi pensa ad altre persone viventi degne di rispetto – monaci, insegnanti, genitori, anziani – e diffondete verso ciascuno di loro, “Che essi possano essere liberi da ostilità, liberi da afflizioni, liberi da angoscia; possano essi vivere felicemente.” La visualizzazione deve essere chiara e l’irradiazione del pensiero va “voluta” con determinazione. Se la visualizzazione è affrettata o l’augurio è formulato in modo sbrigativo e/o meccanico, la pratica è poco proficua, perché solo intellettuale, e consiste solo nel “pensare” a mettá. Va chiaramente compresa la differenza tra il pensare a mettá e il” fare” metta: quest’ultima è la proiezione attiva della forza di volontà della gentilezza amorevole. La sequenza Dopo aver irradiato pensieri di mettá nella sequenza elencata – verso se stessi, verso l’insegnante di * * Per sequenza (ordine) si intende la visualizzazione di oggetti (le persone, gli esseri) l’uno dopo l’altro, dalla minore alla maggiore resistenza, che gradualmente ne amplia la cerchia e quindi amplia la mente stessa. Nel Visuddhimagga c’è enfasi sulla sequenza. Secondo Buddhaghosa, la meditazione di mettá, va iniziata visualizzando se stessi e poi una persona per cui si prova reverenza, quindi i propri cari, le persone neutre e le persone ostili. Quando si irradiano pensieri d’amore in quest’ordine, la mente rompe le barriere tra sé, la persona che si rispetta, la persona neutra e quella ostile, fino ad arrivare a guardare tutti con l’occhio della gentilezza amorevole. 229 6. Il discorso sull’amore universale meditazione e altre persone rispettate – vanno visualizzati, uno per uno, i propri cari, cominciando dai familiari, soffondendo ciascuno di abbondanti raggi di gentilezza amorevole. La carità comincia a casa: se non si sanno amare i propri familiari, non si sarà in grado di amare gli altri. Mettá verso i propri familiari va conclusa, pensando a una persona molto cara, come il proprio coniuge, per esempio. Questo perché l’intimità tra marito e moglie comprende l’amore mondano che contamina mettá. L’amore spirituale deve essere uguale verso tutti. Allo stesso modo, se si è avuta un’ incomprensione o una lite con un familiare o parente, questi va visualizzato in una fase successiva, per evitare di richiamare alla mente episodi spiacevoli. Successivamente, vanno visualizzate persone neutre, (cioè per le quali non si prova né attrazione né repulsione), come vicini di casa, colleghi, conoscenti e così via. Dopo aver irradiato pensieri amorevoli su tutti coloro che appartengono alla cerchia neutra, vanno visualizzate le persone per cui si prova antipatia, ostilità o pregiudizio, anche coloro con cui si sono avuti dissapori temporanei. Quando si visualizzano le persone che non piacciono, per ciascuna va ripetuto mentalmente “Non ho ostilità verso di lui o lei, che lui o lei non abbia ostilità verso di me. Che possa essere felice!” Perciò, mentre si visualizzano le persone dei diversi gruppi, si “rompono le barriere” causate da attrazione e repulsione, attaccamento e odio. Quando si è in grado di guardare un nemico senza malevolenza e con la stessa quantità di benevolenza che si ha per un caro amico, allora mettá acquista un’imparzialità 230 PARTE SECONDA sublime, che eleva e apre la mente in una sorta di movimento a spirale sempre più ampio, finché diventa onnicomprensiva: “Che tutti possano essere liberi da ostilità, liberi da afflizione, liberi da angoscia; che possano vivere felicemente” L’attitudine mentale È significativa la spiegazione di queste righe nei commentari: “Libero da ostilità” indica assenza di ostilità, sia suscitata da sé sia da altri. L’ostilità verso se stessi può prendere la forma di auto-compatimento, rimorso o di un paralizzante senso di colpa. E può essere condizionata dall’interazione con gli altri: l’ostilità unisce rabbia e inimicizia. “Libero da afflizione” significa assenza di dolore o sofferenza fisica. “Libero da angoscia” significa assenza di sofferenza mentale, angoscia o ansia, che spesso segue l’ostilità o la sofferenza fisica. Tutti questi termini sono interconnessi: solo quando si è liberi da ostilità, sofferenza e angoscia si “vive felicemente”, cioè ci si sente felici e a proprio agio. Buddhaghosa fornisce un’analogia adatta per la rottura delle barriere: “Un meditatore siede con una persona che rispetta, con un suo caro, con una persona neutra e una persona ostile o malvagia. Supponete che arrivino dei banditi e gli domandino: ‘Amico, vogliamo uno di voi per compiere un sacri- 231 6. Il discorso sull’amore universale ficio umano.’ Se il meditatore pensasse: ‘Lasciamogli prendere questo o quello,’ ciò indicherebbe che non ha abbattuto le barriere. E anche se dovesse pensare: ‘Che non prenda nessuno, ma che prenda me’, anche allora significherebbe che non ha abbattuto le barriere, perché causerebbe il proprio male, mentre la meditazione di mettá significa il benessere di tutti. È quando non vede la necessità che qualcuno sia consegnato ai banditi e proietta imparzialmente il pensiero d’amore verso tutti, banditi compresi, è allora che abbatte le barriere.” Il metodo dell’irradiazione impersonale Questo metodo ha il fine di rendere la mente onnicomprensiva, come suggerisce il termine pali mettá-cetovimutti, “la liberazione della mente attraverso l’amore universale.” Dopo aver completato l’irradiazione verso individui specifici (metodo precedente), quando la mente rompe le barriere esistenti tra se stessi e chi è rispettato, amato, neutro e ostile, il meditatore intraprende il viaggio attraverso il vasto, incommensurabile oceano dell’ “irradiazione impersonale”, come la nave transoceanica viaggia nel vasto, incommensurabile oceano, mantenendo rotta e meta. La mente non liberata è prigioniera entro le mura di egocentrismo, avidità, odio, illusione, gelosia e meschinità: nella morsa di questi fattori inquinanti e limitanti, rimane isolata e impastoiata. Mettá rompe questi legami e libera la mente, e la mente liberata diventa 232 PARTE SECONDA naturalmente illimitata e incommensurabile. Come la terra non può essere resa “priva di terra”, la mente di mettá non può essere resa limitata. Immagina le persone che risiedono nella tua casa, come se formassero un aggregato, quindi abbracciale tutte insieme nel tuo cuore, irradiando pensieri di mettá: “Possano tutti coloro che abitano in questa casa essere liberi da ostilità, liberi da sofferenza, liberi da angoscia; possano vivere felicemente.” Poi, visualizza la casa più vicina e i suoi residenti, e poi la casa seguente e ancora, e così via, fino a che tutte le case della strada siano comprese allo stesso modo nell’abbraccio della gentilezza amorevole. Prosegui con la strada successiva e poi con quella seguente, finché l’intero quartiere o villaggio sia incluso. Quindi, area dopo area, nella stessa direzione, visualizza con una profusione di raggi di mettá; così l’intera città sarà coperta, poi l’intero distretto e l’intero stato nelle diverse direzioni. In tal modo si dovrebbe coprire l’intera nazione, visualizzando geograficamente la gente senza fare differenze di classe, razza e religione. Pensa: “Possano tutti in questo paese abitare in pace e benessere! Che non ci siano più guerra, lotta, sfortuna, malattie! Raggianti d’amicizia e fortuna, compassione e saggezza, possano tutti godere pace e abbondanza.” Poi, visualizza tutti gli stati uno dopo l’altro, per passare all’intero continente, nelle sue parti orientale, meridionale, occidentale e settentrionale. Immaginando geograficamente ogni paese e la sua gente: “Possano essere felici! Possano non esserci lotta e discordia! Possano prevalere benevolenza e comprensione! Possa la pace essere ovunque!” Successivamente, prendi in considerazione tutti i 233 6. Il discorso sull’amore universale continenti, visualizzando paese per paese e popolo per popolo, coprendo l’intero globo. Immaginati in un punto del globo e poi proietta potenti raggi di mettá, avviluppando una direzione del globo, poi un’altra e un’altra e così via finché l’intero globo è inondato e completamente avviluppato da radiosi pensieri d’amore universale. Proietta quindi nella vastità dello spazio illimitati pensieri di amore universale verso tutti gli esseri viventi, prima in direzione dei quattro punti cardinali, poi nelle direzioni intermedie – nord-est, sud-est, sud-ovest, nord-ovest – e verso l’alto e verso il basso, coprendo tutte le dieci direzioni. Il metodo dell’universalizzazione Secondo la cosmologia del buddhismo, ci sono innumerevoli sistemi di mondi abitati da categorie infinitamente varie di esseri, in fasi evolutive diverse. La Terra è un granellino nel nostro sistema mondo, che, a sua volta, è un minuscolo punto nell’universo, con i suoi innumerevoli sistemi di mondi. Verso tutti gli esseri e ovunque, dovremmo irradiare pensieri di amore sconfinato. Questo metodo si mette in pratica in tre modi: irradiazione generalizzata, irradiazione specifica, irradiazione direzionale. (…) In ciascuno di essi, si può usare come pensiero da irradiare, una delle quattro frasi della formula base “Che essi possano essere liberi dall’ostilità, liberi dalla sofferenza, liberi dall’angoscia; possano essi vivere felicemente”. 234 PARTE SECONDA Irradiazione generalizzata (…) L’irradiazione è una sorta di “fluire all’esterno” d’amore, verso l’oggetto mentale pensato (tutti gli esseri, tutte le creature ecc.). Le cinque categorie di irradiazione generalizzata si riferiscono alla totalità dell’esistenza (animata, senziente, organica) che appartiene alle tre sfere mondane: –– la sfera dell’esistenza sensoriale dove il desiderio è la motivazione primaria; –– la sfera delle divinità, con forme sottili; –– la sfera degli esseri senza forma, dotati di vita puramente mentale. L’ “essere”, chi “respira”, una “creatura”, chi ha “esistenza individuale”, o chi è “dotato di corpo”: tutti si riferiscono alla totalità dell’esistenza animata, perché ciascun termine ne esprime un aspetto specifico. Esso va tenuto a mente, nel visualizzarle. Se si allena la mente, dopo averla esercitata con i primi due metodi, il significato delle cinque categorie diventerà chiaro. “Che tutti gli esseri siano liberi da ostilità, liberi da sofferenza, liberi dall’angoscia; che possano vivere felicemente.” La stessa frase con le altre quattro categorie: ... che tutti coloro che respirano ... che tutte le creature ... che tutti coloro con un’esistenza individuale ... che tutti coloro che hanno un corpo. 235 6. Il discorso sull’amore universale Irradiazione specifica Vi sono sette modi: “Che tutte le femmine siano libere da ostilità, sofferenza e angoscia; che possano vivere felicemente.” La stessa frase con le altre sei categorie ... che tutti i maschi; ... che tutti coloro che sono nobili; ... che tutti coloro che sono mondani; ... che tutti gli dei ... tutti gli esseri umani; ... che tutti coloro che sono in uno stato di sofferenza. Ognuna delle sette categorie di irradiazione specifica comprende una parte della gamma dell’esistenza, e in combinazione con le altre esprime l’intero mondo dell’esistenza senziente. Irradiazione direzionale Essa consiste nell’invio di pensieri di mettá a tutti gli esseri nelle dieci direzioni dello spazio. (…) “Possano tutti gli esseri in direzione orientale essere liberi da ostilità, sofferenza e angoscia; che possano vivere felicemente.” La stessa frase per le altre direzioni: occidentale; settentrionale; meridionale; nord-orientale; sudoccidentale; nord-occidentale; sud-orientale. Tutti gli esseri sottostanti (che stanno sotto di noi); tutti gli esseri sovrastanti (che stanno sopra di noi). Questa modalità può essere usata anche per le altre categorie di esistenza prima descritte: tutte le creature; tutti coloro con un’esistenza individuale; 236 PARTE SECONDA tutti coloro che hanno un corpo; tutte le femmine; tutti i maschi; tutti i nobili; tutti coloro che sono mondani; tutti gli dei; tutti gli esseri umani; tutti coloro in stato di sofferenza. L’esercitazione mentale di irradiazione direzionale rende l’universalizzazione di mettá un’esperienza tra le più esaltanti. Quando ci si pone mentalmente in una particolare direzione e poi si lascia fluire l’amore per avvolgere l’intera area, si trasporta la mente ad altezze sublimi che conducono alla concentrazione. Quando si proietta l’auspicio che gli altri vivano felicemente, liberi da ostilità, sofferenza e angoscia, non solo ci si eleva a un livello dove prevale la felicità, ma si mettono in moto potenti vibrazioni che conducono alla felicità, placando l’inimicizia, dando sollievo a sofferenza e ad angoscia. Si sperimenta che l’amore universale infonde simultaneamente benessere e felicità e elimina la sofferenza fisica e mentale, causata da ostilità, inimicizia e rabbia. Gli undici benefici della pratica Monaci, quando l’amore universale che conduce alla liberazione della mente è ardentemente praticato, sviluppato, vi si fa ricorso incessantemente, è usato come veicolo, è reso il fondamento della propria vita, pienamente stabilito, ben consolidato e perfezionato, allora ci si possono aspettare undici benedizioni. Quali? Si dorme felicemente; ci si sveglia felicemente; non si fanno brutti sogni; si è cari agli esseri umani; si è cari agli esseri non umani; si è protetti dagli dei; non 237 6. Il discorso sull’amore universale si è colpiti da fuoco, veleno o arma; la propria mente si concentra facilmente; l’espressione del proprio viso si fa serena; si muore imperturbati; e anche se non si raggiungeranno gli stati più elevati, si raggiungerà lo stato del mondo di Brahma. (…) A.11,16 “… l’amore universale che porta alla liberazione della mente” significa il raggiungimento della concentrazione, basata sulla meditazione di mettá, che libera la mente dalla schiavitù di odio, rabbia, egoismo, avidità e illusione: è uno stato di liberazione. Ogni volta che si pratica, per quanto breve sia il periodo, si gode di libertà mentale, pur limitata. La libertà mentale illimitata è giusto aspettarsela solo quando mettá si è sviluppata pienamente nella concentrazione. Le varie applicazioni di mettá, indicate dai termini “praticare, sviluppare,” ecc. significano una forza ben strutturata portata a compimento da ore di meditazione dedicate ad essa, e dalla conversione di tutti gli atti, le parole e i pensieri. “Praticato”, indica la sua pratica ardente; non esercizio intellettuale, ma del cuore, e facendo di essa la propria filosofia di vita, che plasma attitudine, visione e comportamento. “Sviluppato”, implica un processo di coltivazione interiore e d’integrazione mentale derivati dalla meditazione di mettá. Questo processo è chiamato sviluppo della mente, poiché la meditazione porta a compimento l’unificazione della mente integrando le varie facoltà. Il Buddha ha insegnato che l’intero mondo mentale è sviluppato dalla pratica della meditazione di mettá, che conduce alla liberazione e alla trasformazione della personalità. 238 PARTE SECONDA “Farvi ricorso incessantemente” evidenzia la pratica ripetuta attraverso gli atti mentali, vocali e fisici, mantenendo costantemente la consapevolezza di mettá. Con le azioni ripetute si genera potere. Con la pratica ripetuta, sono coltivati tutti e cinque i poteri spirituali (fede, vigore, presenza mentale, concentrazione e saggezza sperimentale). “Usato come proprio veicolo” significa dedizione completa, in quanto solo metodo per la soluzione dei problemi interpersonali e strumento di crescita spirituale. Quando mettá è la sola “modalità di comunicazione”, il solo veicolo, la vita è automaticamente una “dimora divina” . “Resa il fondamento della propria vita”: fare di mettá la base della propria esistenza in tutti gli aspetti. Farne la principale opportunità, il porto sicuro, il rifugio nel Dhamma. “Pienamente stabilito” significa che si è così abituati a mettá che si rimane immersi in essa senza sforzo, sia in meditazione che nella vita quotidiana. “Perfezionato” indica una modalità di completezza attraverso la totale aderenza e lo sviluppo, che conducono a quello stato integrato in cui si gode di perfetto benessere e felicità spirituale, indicata nel brano con la descrizione delle undici benedizioni. L’influenza sugli altri Benessere, pace della mente, tratti radiosi, affetto e la benevolenza altrui sono grandi benedizioni che si acquisiscono con la meditazione di mettá, ma ancora più meraviglioso è l’impatto che essa ha 239 6. Il discorso sull’amore universale sull’ambiente e sugli altri, compresi animali e divinità, come illustrano le scritture e i commentari pali, con una serie di memorabili episodi. (…) Dal Visuddhimagga c’è il caso di Visakha, proprietario di molte case a Pataliputra (l’attuale Patna in India). Si narra che avesse sentito dire che l’isola di Sri Lanka fosse come un giardino di Dhamma, adornato da innumerevoli santuari e reliquari. E che, benedetta da un clima favorevole, la gente fosse molto retta e seguisse l’insegnamento del Buddha con fervore e sincerità. Visakha decise di andarci e di vivere là, come monaco, il resto dei suoi giorni. Affidò, quindi, la sua considerevole fortuna a moglie e figli e lasciò la sua casa con solo una moneta d’oro. Si fermò al porto di Tamralipi (l’attuale Tamluk), in attesa di una nave e durante quel tempo si impegnò negli affari e guadagnò un migliaio di monete d’oro. Raggiunto lo Sri Lanka, si recò nel famoso monastero Mahavihara della capitale Anuradhapura, e chiese all’abate il permesso di entrare nell’ordine monastico. Quando fu condotto nella sala capitolare per la cerimonia d’ordinazione, il borsellino contenente le mille monete d’oro cadde dalla sua cintura. Quando gli fu chiesto cos’era, “Ho un migliaio di monete d’oro, signore”, rispose. Quando gli fu detto che un monaco non poteva possedere denaro, disse: “Non voglio possederlo, ma distribuirlo tra tutti coloro che sono qui per la cerimonia.” Quindi lo aprì e disseminò di monete il cortile della sala capitolare: “Che nessuno tra quelli che sono venuti ad assistere all’ordinazione di Visakha, se ne torni a mani vuote.” Dopo aver trascorso cinque anni col suo insegnante, 240 PARTE SECONDA decise di recarsi nel monastero della foresta di Cittalapabbata, dove viveva un buon numero di monaci con poteri soprannaturali. Durante il viaggio, giunse a un bivio e si fermò, chiedendosi quale strada scegliere. Poiché aveva praticato assiduamente la meditazione di mettá, trovò una divinità che viveva lì in una roccia, e che allungò una mano indicandogliela. Giunto al monastero, occupò una delle capanne; dopo quattro mesi, pensava di partire il mattino seguente, ma sentì qualcuno piangere, e si chiese: –– Chi è? –– Venerabile signore, sono Maniliya (cioè, dell’albero di manila) - rispose la divinità che viveva nell’albero di manila in fondo al viale. –– Perché piangi? –– Perché stai pensando d’andare via. –– Che bene ti porta il mio vivere qui? –– Venerabile signore, finché tu vivi qui, le divinità e tutti gli altri esseri non-umani si trattano tra loro con gentilezza. Quando te ne sarai andato, ricominceranno con le loro dispute e liti. –– Bene, se il fatto che io viva qui vi fa vivere in pace, rimarrò. E così si fermò per altri quattro mesi. Si narra che quando pensò di nuovo di andarsene, di nuovo le divinità piansero. Così si fermò là per sempre, e là ottenne la liberazione, il nibbána. Tale è l’impatto di mettá-bhávaná sugli esseri, anche quelli invisibili. Non si scrive mai abbastanza del suo potere: i commentari nel Canone pali sono ricchi di storie circa monaci e laici, che superano pericoli. Mettá non va confuso con un sentimento: è il potere dei forti. È l’elemento decisivo. Se l’uomo decidesse, 241 6. Il discorso sull’amore universale invece di aggressione e malevolenza, di usare mettá come politica d’azione, il mondo diventerebbe una dimora di pace. Solo quando l’uomo avrà pace in se stesso e una sconfinata benevolenza verso gli altri, la pace nel mondo sarà reale e duratura. 242 7. Il discorso sulla felicità più grande (Mahá Maògala Sutta, Sn. 258) Premessa* di S.N. Goenka U na volta al Buddha fu chiesto di spiegare cosa fosse la vera felicità ed egli elencò varie azioni benefiche che portano vera felicità. Tutte rientrano in due categorie: azioni che contribuiscono al benessere degli altri, adempiendo a tutte le responsabilità verso famiglia e società, e azioni che purificano la mente: il proprio bene non è separabile dal bene degli altri. La più grande felicità Sapere che si è padroni di se stessi, che nulla ci può sopraffare, che si può accettare con un sorriso qualsiasi cosa la vita offra: questo è il perfetto equilibro mentale o equanimità, la vera liberazione. Questo equilibrio non è la fredda indifferenza, la cieca acquiescenza o l’apatia di chi cerca di sfuggire ai problemi della vita, che cerca di nascondere la testa nella sabbia. Piuttosto, è basato sulla consapevolezza a tutti i livelli delle proprie difficoltà. * Da S.N. Goenka, Chanting Course, audiocassetta, Dhammagiri, Igatpuri, (India), 1982. Estratto dai commenti alle stanze de Il discorso sulla felicità più grande (Maògala Sutta). 245 7. Il discorso sulla felicità più grande L’assenza di desiderio e di avversione non è la chiusura insensibile di chi gode della propria liberazione, ma non si dà pensiero della sofferenza altrui. Al contrario, la vera equanimità è una qualità dinamica, un’espressione di purezza mentale, e la mente può intraprendere un’azione positiva, che è creativa, efficace e benefica per se stessi e per tutti gli altri. Con l’equanimità nascono le altre qualità della mente pura: benevolenza, amore che cerca il bene degli altri senza aspettarsi niente in cambio, compassione per gli altri, per le loro debolezze e le loro sofferenze; gioia altruistica per i loro successi e la loro prosperità. Queste quattro qualità sono un naturale prodotto della pratica di Vipassana, della purificazione mentale. Il contributo della meditazione alla società Se prima si cercava sempre di conservare tutto ciò che era buono per sé e si dava agli altri solo il proprio superfluo, ora si comprende che la vera felicità non può essere conseguita senza procurarla anche agli altri. Quindi si cerca di spartire tutto ciò che di buono si possiede. Essendo usciti dalla sofferenza e avendo sperimentato la pace della liberazione, si comprende che questa è il bene più grande. Così si desidera che anche gli altri possano sperimentarlo e cerchino la via di uscita dalla sofferenza. 246 PARTE SECONDA Per i laici Un’opinione diffusa è che il Buddha abbia insegnato come liberarsi dal ciclo delle esistenze, ma ignorato la vita quotidiana dell’individuo e della famiglia, indifferente anche ai problemi politici e sociali. Dallo studio dei suoi insegnamenti, si evince che egli conosceva ed era molto sensibile ai problemi del mondo. Se è vero che rivolse la maggior parte dei suoi discorsi ai monaci, avendo come fulcro il raggiungimento dell’ultima verità, è anche vero che ne pronunciò numerosi ai seguaci laici, concernenti argomenti familiari e sociali. Il Buddha era molto popolare tra le genti del suo tempo; i discepoli laici di ogni professione e casta erano ispirati dai suoi insegnamenti e traevano giovamento dalla pratica; ed erano molto più numerosi di monaci e monache. Egli trattò tutti gli aspetti della vita laica. Diede istruzioni che riguardavano la relazione tra genitori e figli, mogli e mariti, padroni e servi, insegnanti e studenti, re e sudditi. Sono esortazioni vive, valide e utili tuttora. Un esempio sono le istruzioni al popolo dei Licchavi, per la conservazione della loro repubblica, ancora oggi modello per ogni governo. (Mahá-parinibbána Sutta, D.16) Ispirato dai suoi insegnamenti, l’imperatore Dhammaraja Asoka, nel III sec. a.C., instaurò un’amministrazione esemplare, unica e ineguagliata nella storia. 247 7. Il discorso sulla felicità più grande Il famoso testo del Mahá Maògala* sutta è un sommario di principi etici universali per l’individuo e quindi per la società; una guida infallibile nel cammino della vita per i laici, che, nonostante responsabilità, difficoltà, ostacoli, praticando il Dhamma, possono progredire sul cammino della saggezza fino a raggiungere la meta finale. * Mahá Maògala significa “la beatitudine più grande”. Mahá significa “grande”. Usato come prefisso enfatizza e accresce il significato della parola o dell’espressione alla quale è legato. Qui sottolinea la preziosità del discorso e l’immenso valore attribuito dai monaci ai principi etici ivi racchiusi, ritenuti fondamentali per progredire verso la liberazione. Maògala significa augurio, auspicio, buona fortuna, “ciò che conduce al bene, al benessere, alla prosperità, alla felicità”. Il termine è usato soprattutto riguardo alla sfera mondana, ma talvolta è riferito a quella spirituale. 248 Testo del discorso C osì io stesso ho udito: una volta, quando il Buddha risiedeva a Savatthi nel monastero di Anathapindika, una divinità di incomparabile bellezza e luminosità si presentò davanti alla sua residenza a notte fonda, illuminando tutto intorno. Dopo aver salutato il Buddha con profonda riverenza, si mise in piedi da una parte e rispettosamente gli chiese:* Molti tra dei e uomini si sono sempre chiesti quali fossero i comportamenti che procurassero felicità e sicurezza; spiegaci tu, o Illuminato, quali sono. * Nelle stanze del discorso vi è la dettagliata risposta del Buddha alla domanda: “Quale comportamento o azione porta a una vera felicità?” posta da un deva della comunità celeste, in rappresentanza anche degli esseri umani. (Per deva o divinità, v. nota n. 9 a Il Discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma, pag. 55). Essi, infatti, si sono da sempre chiesti quale fosse e in che cosa consistesse la vera felicità, sperimentando che quella del mondo sensoriale è passeggera. Nel mondo dei sensi, la felicità è condizionata dai desideri soggettivi, dal funzionamento dei sensi e dalla presenza di oggetti. Poiché tali condizioni sono sempre in un incessante cambiamento, la felicità da esse derivata è effimera, e quindi priva di soddisfazione duratura. La gratificazione sensoriale è un inganno, e la comprensione di ciò può condurci alla via della liberazione. (n.d.r) 249 7. Il discorso sulla felicità più grande Evitare la compagnia degli stolti, cercare la compagnia dei saggi, e coltivare per questi il sentimento del rispetto, questo è il bene più grande.* Vivere in un luogo congeniale, avere compiuto buone azioni, indirizzare la propria vita verso la direzione giusta, e con i propri sforzi, questo è il bene più grande. Acquisire una profonda istruzione e varie capacità, sia manuali che intellettuali, avere una forte disciplina, parlare in modo costruttivo e utile, questo è il bene più grande. Servire i propri genitori, avere cura della famiglia, avere un lavoro onesto, questo è il bene più grande. * Il Buddha rispose considerando l’importanza sia relativa che trascendente delle benedizioni (o atti di benedizione o auspici.) Reinterpretandolo, aggirò audacemente il significato legato alla superstizione della parola maògala (benedizione), considerandola da un punto di vista pratico. In modo concreto, descrisse una dopo l’altra, secondo una scala progressiva crescente, le benedizioni che conducono allo stato trascendente del nibbána. (Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá Maògala Sutta, op. cit.) 250 PARTE SECONDA Donare con generosità, avere una condotta di vita irreprensibile, aiutare i propri parenti, compiere azioni non biasimevoli, questo è il bene più grande. Astenersi dal fare il male, e da tutto ciò che intossica, avere vigilanza sugli stati mentali, questo è il bene più grande. Essere rispettosi, umili e grati, sapersi contentare, e ascoltare a tempo debito l’insegnamento spirituale, questo è il bene più grande. Essere tolleranti e remissivi frequentare persone sante, conversare a tempo debito sull’insegnamento spirituale, questo è il bene più grande. Austerità, condizione di perfetta purezza, comprensione delle nobili verità, realizzazione del nibbána, questo è il bene più grande. Una mente che non vacilla, in qualsiasi circostanza, libera da tristezza, limpida e calma, questo è il bene più grande. 251 7. Il discorso sulla felicità più grande Coloro che si comportano secondo questi principi, ovunque rimarranno sempre invitti, e si sentiranno sempre al sicuro, questo è il bene più grande 252 Commento Il Maògala Sutta* di S.N. Goenka Il commento è preceduto dal testo della relativa stanza del discorso, seguito da un commento di Goenka e da note redazionali numerate tratte da R. L. Soni Life’s Highest Blessings: The Maha Maògala Sutta, op. cit., per completare la comprensione di questo importante discorso, dedicato in particolar modo ai laici. (N.d.r.) Molti tra dei e uomini si sono sempre chiesti quali fossero i comportamenti che procurassero felicità e sicurezza; spiegaci tu, o Illuminato, quali sono. Goenka: Il Buddha espone una serie di consigli, utili per conseguire la propria felicità e nel contempo contribuire a creare una società armoniosa. Essi costituiscono una guida preziosa anche per la vita spirituale, in un crescendo che guida al raggiungimento della meta finale, nonostante responsabilità, difficoltà e ostacoli della vita quotidiana. * Da S.N. Goenka, Chanting Course, op. cit. Estratto e adattato. 253 7. Il discorso sulla felicità più grande Evitare la compagnia degli stolti (1) cercare la compagnia dei saggi, e coltivare per questi il sentimento del rispetto (2) questo è il bene più grande. G.: Lo scegliere il tipo di persone che si frequenta elimina il rischio di farsi influenzare negativamente, e permette d’avere la compagnia di buone persone, spiritualmente in cammino. Per potenziare la benefica influenza dei saggi, va coltivato verso di loro il sentimento del rispetto, che stimola e ispira a imitarli, sviluppando in sé le stesse qualità. Nota 1 Il termine “stolti” indica chi è privo di una condotta etica. L’esortazione a non frequentarli non ha intento moraleggiante, ma sottintende un processo: la cattiva compagnia porta ad ascoltare cattivi consigli, che fanno sorgere ragionamenti scorretti, a causa dei quali si é preda di confusione e si perde il controllo sui propri sensi. Come risultato, le azioni e il linguaggio sono privi di etica, le tendenze negative si rafforzano, dominano i sensi e quindi c’è sofferenza. Con la compagnia dei saggi, il processo è inverso e costituisce uno strumento concreto per il praticante sul sentiero della liberazione: ascoltando buoni consigli si sviluppa una fiducia razionale, sorgono nobili pensieri, opinioni chiare, auto-controllo, condotta morale, si superano gli ostacoli, si acquisisce saggezza e la conseguente liberazione. Dunque tenersi lontano dalle cattive compagnie è essenziale, e solo chi possiede stabilmente auto- 254 PARTE SECONDA controllo, benevolenza e compassione, e quindi è protetto dalle cattive influenze, può vivere anche in mezzo “agli stolti”, con lo scopo di condurli verso scelte etiche e maggiore saggezza. Nota 2 “Rispetto” e “chi è degno di rispetto” riguardano il Buddha, i monaci, le persone sante, i genitori, gli insegnanti e tutti quelli che ci sono di aiuto e sostegno. Chi non manifesta rispetto e non esprime considerazione verso chi possiede atteggiamento mentale, comportamento o linguaggio retti ed elevati, soffre a causa dell’orgoglio. Si stima troppo ed è incapace di accettare che altri siano migliori o abbiano raggiunto risultati più elevati. A causa dell’orgoglio, rinforza negatività mentali che lo fanno soffrire sempre di più. Chi coltiva il sentimento del rispetto ha la capacità di sentirsi bene in qualsiasi ambiente e compagnia, e ha la capacità di apprendere, poiché riconosce il sapere altrui. Il sentimento del rispetto è uno dei fattori necessari per progredire ovunque, nella prosperità materiale e in quella spirituale. La sua coltivazione è una pratica propedeutica allo sviluppo dell’umiltà. Vivere in un luogo congeniale, (3) avere compiuto buone azioni, (4) indirizzare la vita verso la direzione giusta, (5) con i propri sforzi, questo è il bene più grande G.: Vivere in un paese dove l’insegnamento del Buddha è liberamente disponibile, è una preziosa e 255 7. Il discorso sulla felicità più grande non scontata opportunità. Vi sono infatti nazioni ad esso ostili ed alcune in cui è addirittura proibito; vi sono luoghi inospitali a causa delle contingenze sociali e politiche; vi sono condizioni naturali che non ne permettono un’esperienza completa, come per esempio il polo nord, dove la sopravvivenza è legata all’uccisione di animali. Ma anche per chi ha la fortuna di vivere in un paese dove l’insegnamento è libero e prospera, l’incontro con esso avviene solo se predisposti da un passato di buone azioni. L’ambiente adatto e l’incontro con l’insegnamento sono, a loro volta, favorevoli presupposti, ma solo la responsabilità e l’impegno personali lo rendono un’esperienza pratica, che dà benefici concreti. E la pratica inizia con l’apprendimento di un metodo di auto-osservazione, per sviluppare padronanza su se stessi e la propria mente, e poi continuare con il suo esercizio regolare e perseverante. Nota 3 Letteralmente significa residenza in una località gradevole e conveniente. Località gradevole qui indica un luogo confortevole, sicuro, pulito, curato e anche prossimo a vicini amichevoli e gentili. Località conveniente significa che è auspicabile che vi siano persone che praticano l’insegnamento del Buddha, e magari monaci, monasteri e templi dove trarre ispirazione e guida. Una località dove gli abitanti si dedicano a compiere buone azioni e ad aiutare gli altri. Allora diventa una benedizione vivere in tale luogo. 256 PARTE SECONDA Nota 4 È una benedizione e un conforto per lo spirito sapere di avere compiuto buone azioni, a livello vocale, mentale e fisico. Queste azioni, accompagnate da una sincera volizione e intenzione, sono chiamate in pali kammá, azioni che producono frutti. Se non c’è volizione, non ci sarà frutto. Per tutta la vita continuiamo a produrre azioni e a sperimentarne gli effetti. A volte sono immediati, altre volte ritardati, e in altre occasioni non vi sono le circostanze per far manifestare i frutti. Al momento della morte, rimangono nella mente le vibrazioni di tutte le energie potenziali dei frutti non espressi; e perché si possano manifestare si deve verificare un’altra nascita. Essendo le azioni molto differenti, così lo sono i risultati. L’azione può essere sia insana e distruttiva, sia buona e positiva, e l’influenza dei suoi frutti può essere più o meno intensa. Per esempio, si potrà soffrire di malattie se nelle vita passate si è tormentato altri esseri, o ereditare lineamenti sgraziati se si era irosi, o povertà se si era avari. Vi saranno frutti buoni e salutari, come benessere, salute, bellezza, felicità, se si avevano compiute azioni salutari. Ecco perché è una benedizione aver compiuto buone azioni. Nota 5 Indirizzare la propria vita verso la direzione giusta, con i propri sforzi, significa decidere l’obiettivo giusto da dare alla propria vita e scegliere la via giusta per raggiungerlo. L’enfasi è posta sulla responsabilità personale: ognuno deve concentrarsi sull’obiettivo 257 7. Il discorso sulla felicità più grande desiderato e impegnarsi per raggiungerlo. Questo atteggiamento incoraggia a sviluppare confidenza in se stessi e scoraggia la dipendenza da altri, siano persone, dei o fortuna. In questo contesto, l’avvertimento del Buddha è per incoraggiare ognuno ad agire per incamminarsi nella giusta direzione: stabilizzarsi in una condotta etica per chi non lo è, o coltivare fiducia, fede per chi ne è privo, oppure la generosità se si è avari; insomma ciascuno può orientare la propria vita verso obiettivi sempre più alti. Acquisire una profonda istruzione e varie capacità, sia manuali che intellettuali, (6) avere una forte disciplina, (7) parlare in modo costruttivo e utile, (8) – questo è il bene più grande. G.: Insieme alla coltivazione del metodo introspettivo, il laico si confronta con la società e il mondo del lavoro, dove istruzione e formazione professionale plasmano la sua autonomia e la sua capacità di provvedere a se stesso e alla famiglia. Esse sono risorse vitali e creative, ma possono anche costituire uno dei più seri impedimenti nel cammino spirituale. Le conoscenze e competenze acquisite producono gratificazione e guadagno legittimi ma, se ci s’identifica con essi, generano orgoglio ed espansione dell’ego. Si comincia cioè a ritenere se stessi migliori o addirittura superiori agli altri. E quest’attitudine è nella direzione opposta alla liberazione. Inoltre, quando dominati dall’orgoglio, non si riesce neppure a padroneggiare le parole, si può arrivare a comunicare sprezzo e mancanza di rispetto. 258 PARTE SECONDA L’azione vocale richiede la coltivazione di una comunicazione improntata su valori etici, come sincerità e affabilità. È un fattore essenziale nel cammino verso la felicità. Nota 6 L’espressione pali Báhu-saccaí significa “grande erudizione (conseguita) ascoltando” e “grande erudizione ottenuta attraverso il contatto diretto con i sapienti”. Al tempo del Buddha, l’istruzione era trasmessa soprattutto oralmente, perché la scrittura non era diffusa. Di conseguenza, era considerato erudito chi aveva memorizzato i discorsi delle persone colte. Questo modello di apprendimento era particolarmente usato nella formazione dei monaci, e richiedeva le specifiche qualità di buona memoria, desiderio sia di imparare sia di stare in compagnia dei sapienti, e capacità di capire con profondità i loro insegnamenti. La relativa benedizione consiste nell’applicare il sapere acquisito all’esperienza meditativa, per introdurla nella vita allo scopo di mantenere una condotta etica. Báhu-sippaí significa invece acquisire competenza in lavori manuali. Ciò significa competenza in arti o lavori che implicano una conoscenza pratica; indica che il Buddha considerava una benedizione il possedere abilità in qualche arte o mestiere. Egli lodò i lavori manuali e non soltanto conoscenza e sapienza. Ogni attività, sia essa svolta per il proprio piacere o per mantenersi, dovrebbe essere in sintonia con la condotta etica. Anche per il monaco ci sono mestieri verso i quali è un bene essere portati, 259 7. Il discorso sulla felicità più grande e che sono una benedizione anche per i confratelli, come per esempio, il confezionare abiti. Nota 7 L’espressione pali Vinayo ca susikkhito significa ben saldi nella disciplina, disciplina ben appresa. Per il laico capofamiglia, questo significa l’astensione dai dieci modi di compiere le azioni malvagie. Esse sono: – Azioni fisiche: uccidere, rubare, comportamento sessuale scorretto. – Azioni vocali: mentire, omettere il vero, usare parole maliziose, dure, pettegolezzi. – Azioni mentali: pensieri di cupidigia, cattiva volontà e lontani dal Dhamma. Il laico che disciplina se stesso basandosi su questi dieci precetti è persona eccellente, e può essere certo che, a ogni suo sforzo, otterrà benefici lungo il sentiero. Nota 8 Le parole bene-dette, sono parole di evoluzione e di civiltà. Considerando tutte le parole che escono dalla nostra bocca ogni giorno, certamente ciò che si dice, e come lo si dice, è molto importante. Tuttavia “parole bene-dette” qui indica le parole usate quando s’insegna il Dhamma. Quelle di Dhamma non possono mai essere parole “male-dette” poiché sono vere, apportatrici di concordia, compassionevoli e dense di significato. In questo senso, sono una benedizione sia per chi le pronuncia sia per chi le ascolta. 260 PARTE SECONDA Servire i propri genitori, (9) avere cura della famiglia, (10) avere un lavoro onesto (11) questo è il bene più grande. G.: È davvero auspicabile render loro omaggio attraverso un servizio dettato da amore premuroso e disinteressato, che li renda gioiosi negli anni del declino, coltivando il pensiero: ”Mi hanno sorretto, li sorreggerò; farò io il loro lavoro; continuerò le tradizioni di famiglia; mi renderò degno di ciò che mi hanno dato”. Ed essere grati e premurosi, è una benedizione. Il laico con una buona istruzione, una professione o un mestiere gratificante, se chiuso nel proprio egoismo: “Quel che guadagno è mio e mi serve”, può accantonare le proprie responsabilità e dimenticare i suoi stessi genitori, che l’hanno messo al mondo, allevato e accudito e che, a loro volta, possono avere bisogno d’aiuto. Il destinare loro una parte dei guadagni è uno specifico dovere laico. Nota 9 L’espressione Mátá-pitú upaþþhánaí comprende il dare sostegno ai propri genitori, il prendersi cura di loro e il servirli con pazienza al meglio delle proprie possibilità. Ai giorni nostri, non sempre se ne ha cura; quando invecchiano, qualcuno preferisce che sia un’istituzione a occuparsene. Forse non si riflette sul fatto che non sostenendoli decorosamente o addirittura trascurandoli, quando si diventerà vecchi si potrà avere una sorte simile. Il Buddha insegnò che il debito dei figli verso i genitori è così grande che 261 7. Il discorso sulla felicità più grande non può essere ripagato solo da un supporto materiale e che, insieme con questo, si dovrebbe offrire loro anche il sostegno del Dhamma. Per esempio, se sono avari s’insegni loro la generosità e i benefici che ne derivano. Se la loro condotta morale non è perfetta, si facciano loro conoscere i danni che ne provengono. Non riescono a comprendere? Si aprano loro le porte della conoscenza, in modo che possano discernere il bene e il male, la causa e l’effetto che vi è dietro ogni azione, e così via. Solo in questo modo può essere ripagato il debito verso i genitori. Nota 10 L’espressione Puþþadárassa saògaho indica il proteggere e il prendersi cura della propria moglie e dei propri figli. Tutti sanno che questo dovrebbe essere fatto, tuttavia veniamo continuamente a conoscenza di famiglie trascurate o abbandonate. Il Buddha insegnò al giovane Sigala (D. 31) che un marito può aiutare la moglie in cinque modi: proteggendola, non considerandola inferiore, essendole fedele, stimandola per il lavoro che fa e donandole ornamenti e cose di questo genere. Ogni tipo di supporto che sia in accordo con il Dhamma è una vera benedizione, poiché tutte queste azioni sono benefiche e apportatrici di felicità. Nota 11 Indica attività e mezzi di sussistenza che non crea no conflitti e ai quali ci si può dedicare con serenità e senza confusione mentale. In altre parole, il 262 PARTE SECONDA proprio lavoro non dovrebbe causare conflittualità e neanche disturbare gli altri. Lo scopo nella vita non è aumentare i conflitti, ma agire, lavorare e dedicarsi agli affari in un’atmosfera che conduca a ridurli, e col tempo a evitarli. La vita è una condizione di conflitto, causata dalle radici di avidità, odio e illusione, che sono la fonte di azioni, i cui frutti sono i vari tipi di sofferenza e di ostacolo. È essenziale compiere buone azioni, strumenti per raggiungere obiettivi nobili e auspicabili. Il valore di un’attività non è determinato dal solo obiettivo, ma anche dai mezzi usati per raggiungerlo e le attività correlate. Per riassumere, in questa benedizione la cosa più importante è il giusto mezzo di sussistenza, e cioè che il lavoro sia scelto con intento di non danneggiare né se stessi né altri esseri. Donare con generosità, (12) avere una condotta di vita irreprensibile, (13) aiutare i propri parenti, (14) compiere azioni non biasimevoli, (15) – questo è il bene più grande. G.: Responsabilità primarie del laico sono la cura dei parenti e il guadagno onesto, che derivano da scelte di etica sia interiore che di comportamento, e quindi sono fonte di pace. Chi non si preoccupa dei parenti, può pagarsi lussi e vizi, ma non ottiene pace: quando si arreca infelicità agli altri, la mente è agitata e tesa, e diventa sempre più gretta. Tuttavia, anche chi lavora onestamente e si occupa dei familiari può sviluppare il seme dell’egoismo, sia con un sentimento di possesso verso i propri cari 263 7. Il discorso sulla felicità più grande che con l’esclusione di tutti gli altri, e si trova in un piccolo universo esclusivo. Un altro ostacolo è l’autocompiacimento, che scaturisce dalle gratificazioni derivanti da lavoro onesto, guadagni meritati e sforzi compiuti per migliorarsi. Lo strumento per dissolvere l’egoismo è la carità: è indispensabile che il laico devolva parte dei suoi profitti. La donazione dovrebbe essere proporzionata ai propri mezzi. Chi possiede molto donerà molto, chi poco donerà poco. Quale che ne sia l’entità, essa inizierà a dissolvere l’egoismo e a far germogliare il sentimento della carità. Chi ha profitti e rendite consistenti deve fare donazioni seguendo criteri pratici: il Buddha consiglia di evitare gli eccessi. In primo luogo, il benestante dovrebbe assicurare l’agiatezza ai familiari; quindi destinare i profitti, parte a investimenti e parte al risparmio. E con tutto il resto dovrebbe fare della carità. Ma anche nel donare vi sono insidie che vanno svelate. Per esempio, chi elargisce donazioni con larghezza, ma è insensibile alla sofferenza dei suoi parenti e non fa nulla per loro; chi dichiara di amare l’umanità e di volere la felicità di tutti, ma non ha cura di parenti, amici, dipendenti, in realtà non ama nessuno e non ha compreso il Dhamma. Donare molto per mettersi in mostra e suscitare ammirazione serve solo per accrescere l’ego. Generosità e altruismo, cura e senso di responsabilità verso famiglia, amici e dipendenti sono elementi importanti, ma non sufficienti: per procedere sul sentiero, occorre essere attenti perché le proprie azioni fisiche, vocali e mentali siano profondamente etiche. 264 PARTE SECONDA Nota 12 L’aspetto principale di questa benedizione, non è l’atto in sè ma l’intenzione, sulla cui base la donazione può essere valutata di qualità bassa, media e alta, se dettata dall’egocentrismo o dall’altruismo o da una loro mescolanza. La purezza mentale di chi la riceve e la quantità di ciò che è donato, sebbene rilevanti, sono meno importanti dell’intenzione del donatore. Oltre alle donazioni “materiali”, la virtù del donare può essere praticata con le parole e con la mente: un sorriso amichevole, parole di benevolenza, la coltivazione di gentilezza e amore disinteressato. Il donare agisce in armonia con le altre buone qualità, rinforzandole. Ad esempio, una persona generosa può sviluppare le qualità della rinuncia, la capacità di offrire per generosità e anche la compassione, cioè il preoccuparsi di aiutare. Si deve anche essere in sintonia con la condotta morale e saggezza, per donare con accortezza e non avventatamente. Infine, incontriamo frequentemente la distinzione tra dono materiale (come quello del laico ai monaci e alle monache, per la loro sopravvivenza), e dono del Dhamma, e cioè l’insegnamento della meditazione. Quest’ultimo supera ogni altro dono, perché non ha mai fine, anzi con la sua messa in pratica aumenta di vigore ed efficacia, e i suoi benefici accompagneranno sempre nella vita, dando sostegno. Nota 13 Significa non solo osservare i principi morali, ma anche compiere sforzi per mantenere e perfezionare 265 7. Il discorso sulla felicità più grande la pratica di dieci comportamenti benefici: –– Non uccidere implica in senso positivo di sviluppare compassione e attenzione disinteressata e premurosa verso gli altri esseri, che si manifesti attraverso azioni vocali e fisiche. –– Non rubare presuppone scegliere giusti mezzi di sussistenza, che costituiscono uno degli elementi del Nobile Ottuplice Sentiero. –– Una retta condotta sessuale indica sviluppare la capacità di sentirsi appagati da un solo partner. –– Non mentire indica anche avere un linguaggio veritiero, –– che inviti all’armonia, e quindi capace di ricondurre alla concordia; –– così cordiale e gentile che è gradito a tutti; –– profondo e denso di significato, indifferente a banalità e a frivolezze, e che quindi ha valore per chi lo ascolta. –– Sviluppando la capacità di essere generosi e non indulgere in piaceri sensoriali si rafforza la qualità della rinuncia. –– L’attitudine all’amore disinteressato e premuroso si stabilizza. –– Si comprendono correttamente il Dhamma e la propria realtà interiore. Nota 14 Questo suggerimento completa l’intera gamma delle nostre relazioni. Infatti vi è dovere verso moglie e figli, verso i genitori, i figli e verso gli altri. Per i parenti, lontani o vicini, il Buddha non reputa sufficiente una generica attitudine di carità, di dona- 266 PARTE SECONDA zione, ma invita ad una particolare attenzione. Sono quattro i modi per rispettarli: trattarli alla pari, trattarli come persone benestanti se voi siete benestanti, non trattarli come parenti poveri se sono poveri, e fare del vostro meglio in modo che le relazioni siano buone e li soddisfino. Nota 15 Questa espressione indica non soltanto l’astenersi da azioni dannose per gli altri, (i cui frutti negativi potrebbero creare ostacoli e difficoltà), ma indica anche di compiere azioni meritevoli: azioni in sé non biasimevoli come avere una condotta etica, meditare, fare volontariato in servizi sociali, creare giardini e curare fiori e piante per il bene comune, costruire ponti o luoghi per i pellegrini. Azioni utili alla comunità. E questa è una benedizione per sé e gli altri. Astenersi dal fare il male, (16) e da tutto ciò che intossica, (17) essere vigilanti sugli stati mentali, (18) questo è il bene più grande. G.: Dopo l’impegno di rispettare regole etiche che guidano al bene, va appreso come padroneggiare la mente. A volte, magari per amor di discussione o per giustificarsi, gli studenti mi dicono che il Buddha ha insegnato l’astensione da azioni (mentali, vocali e fisiche) dannose per gli altri, senza però accennare a droghe o alcol e alla necessità di astenersene, e che quindi dovrebbero essere permesse. Nemmeno per sogno! Non si può progredire, se si assumono 267 7. Il discorso sulla felicità più grande sostanze intossicanti. Ma, come! Si cerca di diventare padroni della propria mente, di purificarla, di sbarazzarsi dell’io e non ci si libera dagli intossicanti? È per tale ragione che in questo discorso c’è la precisa raccomandazione di astenersi da tutto ciò che intossica (cioè da ciò che corrompe e indebolisce la mente, rendendola dipendente da sostanze che la confondono e la sconvolgono). È un’indicazione che fa parte della condotta morale, ma il Buddha avverte la necessità di evidenziarla. Solo con tali premesse, ci si applica con efficacia alla meditazione, sviluppando la capacità di essere consapevoli con continuità delle sensazioni del corpo e dei contenuti della mente. Nota 16 Le parole árati e virati sono spesso insieme nel Tipiþaka. Affiancate significano astenersi, lasciare da parte, stare lontano da, evitare, e rispettivamente significano evitare il male e astenersi da esso. Evitare il male, nella spiegazione dei commentari, è non sviluppare mentalmente attrazione o non provare piacere in esso; in altre parole, l’evitare che a livello mentale si sviluppi la tendenza a considerare piacevoli questi pensieri. È necessario allontanarsi da essi appena sorgono, perché non si sviluppino: solo così finiscono subito e si impedisce che proliferino. Astenersi è inteso per lo più da azioni verbali e fisiche. Queste astensioni derivano dall’attenzione mentale nell’evitare di indulgere in pensieri nocivi. Páþá, tradotto come male, indica azioni che disturbano la propria e altrui pace, e che quindi rientrano in sìla, la condotta morale. Essa comprende l’evitare 268 PARTE SECONDA e l’astenersi da: mentire, parlare maliziosamente, causare dissidi, chiacchierare inutilmente; uccidere qualsiasi essere, rubare, avere un comportamento sessuale scorretto, avere un lavoro dannoso per gli altri, come il commercio in armi o droghe. Nota 17 Nonostante le bevande alcoliche non siano citate, l’espressione comprende tutto ciò che offusca la mente, in quanto l’obiettivo sotteso è una mente lucida e concentrata per poter compiere l’auto-indagine interiore. Ecco perché va eliminata qualsiasi sostanza impedisca lo sviluppo di acume e concentrazione. Nota 18 Il Buddha continuamente esorta a coltivare appamáda, vigilanza. La parola pali include tre caratteristiche di impegno diligente: determinazione, consapevolezza e saggezza. Chi si è impegnato a sviluppare in se stesso il Dhamma deve utilizzarle insieme e mantenerle; ma non solo, deve compiere lo sforzo diligente di sviluppare altre qualità. Nel Vibhaòga (sezione dell’Abidhammatta Pitaka terza parte del Tipiþaka n.d.r.), sono indicati i comportamenti che impediscono di crescere in Dhamma: incuria, disattenzione, pigrizia, disinteresse, negligenza, mancanza di continuità, abbandono dell’impegno, non richiamare alla mente parole di Dhamma imparate a memoria, non migliorare, non essere risoluti, non applicarsi. Conoscendoli, ci possiamo rendere conto se siamo diligenti o no. E capire come questa vigi- 269 7. Il discorso sulla felicità più grande lanza sia una benedizione. Essere rispettosi (19), umili, (20) e grati, (21) sapersi contentare, (22) e ascoltare a tempo debito l’insegnamento spirituale, (23) questo è il bene più grande. G.: Chi sviluppa condotta morale, sentimento di carità e consapevolezza, corre il grande rischio di cadere nell’autocompiacimento: per l’essere meditatori, per la scelta compiuta, per la convinzione di condurre una vita speciale, per il pensiero di essere migliori anche degli altri meditatori. Bisogna prestare molta attenzione a che ogni passo compiuto non renda superbi o presuntuosi, e quindi allontani da pace e liberazione; perciò l’insegnamento del Buddha prevede la coltivazione del rispetto per l’altro. Gli studenti che scelgono di svolgere del volontariato per il Dhamma compiono un’azione veramente encomiabile. Ma l’azione mentale è ancora più importante; cioè, se l’attitudine è di sufficienza verso i nuovi arrivati, con fastidio per i loro comportamenti, se si è incapaci di un po’ di amorevolezza e compassione, allora il volontario non fa che rafforzare l’ego. Se l’attitudine è di rispetto e comprensione per gli altri, la si esprime dando un esempio che stimola gli altri a migliorarsi. Se vi sono giudizio e impazienza, si rischia di scoraggiare e allontanare chi, in cerca di verità, desidera partecipare a un corso. Il bisogno di riconoscimento e gratificazione è umano, ma se l’attitudine è di competizione può trasformarsi in bramosia e rivalsa. 270 PARTE SECONDA E la gratitudine? È importantissima! C’è chi crede d’essere più importante degli altri, perché ha appreso la meditazione; chi perché ha letto l’insegnamento del Buddha; c’è chi pensa di averlo capito e meglio compreso rispetto a chi glielo ha indicato, e quindi arriva a ritenersi superiore ai propri insegnanti: “Mi ha trasmesso le prime nozioni e mi ha indirizzato, ma io sono andato ben oltre!”. Tutto ciò che di utile abbiamo ricevuto dovrebbe suscitare il sentimento di gratitudine verso chi ce l’ha donato. Un metro di misura di quanto si sia capito e sperimentato il Dhamma, è la manifestazione di due qualità così importanti, che il Buddha le annoverò tra quelle essenziali per ottenere la liberazione: la gratitudine e il desiderio di prestare opera di volontariato per aiutare gli altri. Chi, progredendo nel cammino, approfondisce lo studio degli insegnamenti, può insuperbirsi: “Perché perdere tempo ad ascoltare le altrui spiegazioni? Non ne ho più bisogno, perché ne so di più”. Anche quest’atteggiamento è un grande ostacolo. Perché il discorso già più volte sentito, se ascoltato con interesse rinnovato e piena attenzione, rivela ogni volta dei significati. L’approfondimento graduale richiede proprio l’ascolto ripetuto e regolare d’insegnamenti, commenti e chiarimenti. È saggezza intellettuale, ma non si può prescindere da essa. Nota 19 Questa qualità, in pali gárávo, è da coltivare, e include la corretta devozione verso il Buddha, il Dhamma e il Sangha, il profondo rispetto per geni- 271 7. Il discorso sulla felicità più grande tori, insegnanti, persone buone e anziani: in generale è il rispettoso atteggiamento verso tutti. Ne sono esempi lo stesso Buddha, che ogni sera onorava il Dhamma per i benefici che porta agli esseri umani, e Sariputta, (uno dei principali discepoli del Buddha) che ogni sera si chiedeva dove fosse il monaco che lo aveva indirizzato al Buddha; e inchinandosi verso la direzione dove lui si trovava, lo ringraziava augurandogli un’esistenza felice. Il rispetto verso l’insegnamento e verso coloro che lo praticano, aumenta man mano si progredisce nella realizzazione spirituale. Il Buddha indica alcuni modi: offrire un posto a sedere, alzarsi per ricevere le persone, accompagnarle, devotamente unire le mani e inchinarsi. È una qualità che aiuta a ridurre l’importanza che diamo a noi stessi, specialmente se abbiamo raggiunto una posizione sociale o spirituale importante. E che serve da base per la qualità dell’umiltà. Nota 20 Anche questa qualità indica l’importanza di esercitare l’attenzione a non sviluppare orgoglio, perché chi pretende di sapere è incapace di imparare. Nei commentari vi sono alcuni esempi: essere come lo straccio con cui ci si pulisce i piedi, come un toro senza corna o un serpente senza denti aguzzi. La persona saggia non reclamizza se stessa, non mostra esuberanza nelle parole e nei gesti, ma si mantiene discreta. È interessante notare che la parola pali niváto significa “senza vento” e che in molte lingue “gonfiato” fa riferimento all’evanescenza di chi si mette in mostra. 272 PARTE SECONDA Nota 21 Letteralmente Kataññutá, significa sapere ciò che è stato fatto e cioè ricordare che cosa gli altri hanno fatto per noi. Il Buddha ha continuamente ripetuto che, al mondo, ci sono due tipi di persone difficili da trovare: chi offre aiuto per primo senza aspettarsi qualcosa in cambio, e chi è grato nel riconoscere quell’aiuto o quella gentilezza. Senza gratitudine ci si può dimenticare di genitori, parenti, amici, vicini, insegnanti e maestri di Dhamma; quando loro hanno bisogno si diventa facilmente indifferenti. L’egoista tende a isolarsi, pretende di essere autosufficiente, dimenticando i benefici e gli aiuti ricevuti. Quante cose abbiamo ricevuto e quante occasioni abbiamo per esprimere gratitudine? Ogni volta che lo facciamo, è sicuramente un momento di armonia e pace, una benedizione. Nota 22 Accontentarsi indica un’attitudine di accettazione equanime delle situazioni e condizioni in cui ci si trova. Essa porta pace mentale e non rassegnazione passiva, ed è l’opposto dell’agitazione di chi vuole sempre di più senza mai, appunto, sapersi accontentare. E qual è la giusta misura? È quella che non richiede troppo sforzo e che non provoca ansia e preoccupazione. Ognuno deve giudicare da sé. Il laico deve compiere sforzi per condurre una vita senza stenti e valutare quando ciò che possiede gli porta felicità o preoccupazione. Questa è la saggezza da sviluppare. 273 7. Il discorso sulla felicità più grande Nota 23 L’ascolto di un insegnamento dovrebbe avvenire nel momento opportuno. Se ne trae maggior vantaggio, se si è in salute e non troppo stanchi. Ma vi sono occasioni in cui, a seguito di circostanze di disagio, e per comprendere come uscire dalla sofferenza, si è propensi ad ascoltare e aperti ad apprendere. L’ascolto tradizionale del Dhamma è stato in parte sostituito dallo studio dell’insegnamento su testi scritti. Quindi si cerchi di leggere al momento opportuno: liberi da impegni incombenti e aperti all’ascolto interiore, ovviamente non annebbiati da droghe e intossicanti. È una benedizione perché quando si è concentrati a capire, i nostri difetti e negatività si placano e restano sullo sfondo. Ecco perché nei momenti di ascolto o lettura, se la mente è sufficientemente pura, possono sorgere intuizioni di verità, sino a raggiungere la piena liberazione. Essere tolleranti (24) e accondiscendenti, (25) frequentare persone sante, (26) conversare a tempo debito sull’insegnamento spirituale, (27) – questo è il bene più grande. G.: Chi cammina sul sentiero, cresce in tolleranza, qualità senza la quale non si può crescere spiritualmente. Significa sviluppare la capacità di non nutrire sentimenti negativi, di rimanere equanimi, se altri si comportano in modo scorretto. Per esempio durante una meditazione di gruppo, voi fate del vostro meglio per non disturbare, ma può succedere che 274 PARTE SECONDA altri disturbino voi. Oppure avete imparato a essere umili, e trovate qualcuno che non lo è. O sentite il sentimento della gratitudine, ma non lo trovate intorno a voi. Ebbene, non aspettatevi che gli altri si comportino bene, né che nutrano riconoscenza nei vostri confronti. Potete piuttosto, assumervi la responsabilità delle vostre azioni: non fate nulla che possa danneggiare chi agisce in modo scorretto, ma sviluppate tolleranza e remissività verso chi non rie sce a camminare sul sentiero, per chi dimostra di non averlo compreso e di non applicarlo. Nel volontariato per Vipassana, a volte potreste giudicare impreparato qualcuno cui è affidato un ruolo di responsabilità e, dominati da orgoglio, potreste non cooperare. Sviluppate, invece, un’attitudine di servizio, collaborazione, critica costruttiva e obbedienza verso chi ha le mansioni più gravose. Questo contribuirà alla vostra crescita interiore. Il “frequentare le persone sante”, sia monaci che laici che si sono liberati dalle impurità mentali, è annoverata dal Buddha come una benedizione, non solo perchè ci si sente bene alla loro presenza, ma per cogliere in loro le tracce della verità e trarne ispirazione per svilupparle in se stessi. Dunque per il vostro bene e per la vostra felicità, di tanto in tanto, recatevi in visita da un monaco o da un laico dal cuore puro. Il “parlare di Dhamma quando necessario” indica l’importanza di comunicare dubbi e richieste di delucidazioni per non ostacolare il progresso sul sentiero. Per esempio, ogni volta sorgano dubbi durante la meditazione, l’ascolto e lo studio degli insegnamenti, se qualcosa non vi sembra logico o comprensibile, esprimetevi senza indugio e senza 275 7. Il discorso sulla felicità più grande reprimere il desiderio di chiarimenti. Non temete di discutere ciò che attiene all’insegnamento. E cercate di sviluppare la capacità di ascolto: siate disposti ad accogliere la risposta con attenzione e rispetto, accantonate la presunzione di conoscerla già, ma coltivate un’attitudine di apertura verso quanto, con amorevolezza, vi viene offerto. Nota 24 La tolleranza è una delle più importanti virtù o páramì (le dieci qualità da sviluppare per raggiungere la liberazione). Khanti o tolleranza, può essere tradotto come tollerare, ma significa anche perdonare, lasciar andare, dimenticare i torti subiti. È una serena attitudine per affrontare situazioni e problemi nella vita, grazie a cui possiamo accettare con equanimità il flusso degli eventi. Questa qualità non permette alle impressioni sensoriali di disturbare la pace mentale, anche quando stiamo assolvendo i nostri compiti sociali e familiari. Va perfezionata non solo padroneggiando l’impulsività. Il Buddha narra del “monaco, esempio di pazienza, che la mantenne intatta anche quando il re Kasi lo condannò a morte”; ma anche senza questi estremi, abbiamo molte occasioni di coltivarla: per esempio quando sentiamo caldo o freddo, se gli insetti ci disturbano o delle parole ci feriscono. La pazienza è il fondamento per sviluppare mettá (il sentimento di amorevolezza verso tutti gli esseri). È una potente qualità molto apprezzata dal Buddha, una vera benedizione. 276 PARTE SECONDA Nota 25 Il significato offerto nei commentari è: “... chi è facile avvicinare, con cui è facile parlare, chi è aperto e accetta con gratitudine consigli; è capace di accogliere le critiche che gli sono rivolte e di accettare le correzioni. Chi è disponibile a essere corretto ha più possibilità di imparare il Dhamma; deve possedere una giusta dose di accondiscendenza che è l’opposto sia dell’atteggiamento del prevaricatore con cui è difficile parlare, che talvolta nasconde le sue mancanze o rifiuta il dialogo stando in un silenzio ostile, o aggredisce verbalmente rinfacciando errori e vizi altrui, sia dell’atteggiamento del remissivo che evita di esprimere le proprie emozioni, opinioni e punti di vista per timore di discussioni, per la preoccupazione di sbagliare o la paura del giudizio, perché ha troppo bisogno dell’approvazione altrui.” Occorre esaminare se abbiamo questa virtù di apertura e accondiscendenza, che è una benedizione per noi e gli altri. Nota 26 Qui dassanaí è la percezione delle Nobili Verità, attraverso la vista di persone nobili che le hanno realizzate. Significa anche desiderare di rendere rispetto a persone con qualità eccezionali; desiderare di incontrarle, particolarmente monaci, monache e maestri della meditazione del Buddha. Un’ispirazione profonda può scaturire dal solo vederle. Ecco perché incontrarle è una benedizione. 277 7. Il discorso sulla felicità più grande Nota 27 Dhamma, l’insegnamento del Buddha, richiede il nostro impegno per comprenderlo pienamente e per capirne l’utilità nella vita quotidiana. In questo possiamo essere molto aiutati da discussioni con chi ha conoscenza dettagliata della teoria e della pratica meditativa. Queste conversazioni dovrebbero essere ben organizzate, improntate ad apertura e sincerità e vi si dovrebbe partecipare, anche a costo di superare qualche difficoltà. Sono utili specialmente quando le negatività mentali tendono a sopraffare, e dubbio e incertezza prendono il sopravvento, oppure quando ci sono guai seri in famiglia, nelle relazioni o nel lavoro. Fateli diventare una benedizione per la vostra vita. Austerità, condizione di perfetta purezza, (28) comprensione delle nobili verità, (29) realizzazione del nibbána, (30) – questo è il bene più grande. G.: Tapa, austerità, significa letteralmente “calore”. Il suo significato esteso è “pratiche ascetiche”. Il Buddha ha usato questo termine per indicare l’auto-controllo, soprattutto dei sensi, e lo sforzo vigoroso, che “brucia” le negatività, necessario per raggiungere lo stadio della liberazione. In questa tecnica, ha quindi il significato di giusto sforzo, cioè sforzo ben diretto e quindi efficace. Non indica discipline ascetiche che implicano sofferenza fisica, ma una meditazione con lo specifico sforzo di rimanere consapevoli ed equanimi con continuità, senza eccessi né di mollezza né di rigore. 278 PARTE SECONDA Chi ha capito l’insegnamento, l’ha ben verificato, si è chiarito i dubbi, cerca di eliminare le sue impurità principali, e di non nuocere agli altri, è allora idoneo alla meditazione. Mentre all’inizio la condotta morale può rappresentare una costrizione, poi diviene un’inclinazione naturale. Dopo che sono eliminati strati e strati d’impurità, si raggiunge lo stadio in cui la mente è pura e non si sente più difficoltà a vivere con moralità. Gradualmente, consapevolezza ed equanimità portano il laico meditatore anche allo stadio dell’astinenza spontanea dalla sessualità; raggiunta in modo naturale, è vissuta con gioia e non come privazione. L’osservare le quattro verità dell’esistenza rende nobili solo quando sono sperimentate. Appreso come osservarle con equanimità, ci si radica sempre più saldamente nella meditazione e si penetra con profondità nella mente, fino a sperimentare lo stadio del nibbána, al di là del mondo della mente e della materia. Il laico, con le difficoltà e il continuo rischio di rafforzare l’egoismo, può smantellare gradualmente l’ego e progredire con costanza, solo se la base morale è solida e se pratica con costanza e sforzo ben diretto (con consapevolezza ed equanimità). Nota 28 Pur includendo tutti gli aspetti della vita meditativa, l’enfasi dell’espressione è sulla purezza morale. Attraverso lo studio e la pratica del Dhamma s’impara ad avere auto-controllo su impulsi e tendenze negative; un’importante parte di questo controllo è il regolare l’attività sessuale. Il desiderio sessuale è 279 7. Il discorso sulla felicità più grande generalmente una fonte di sofferenza e la causa del continuo rinascere; ma è anche un’energia potente che può essere messa al servizio della mente meditativa. Il Buddha ha insegnato ai laici come comportarsi con la sessualità, osservando il terzo precetto, e con la meditazione. I monaci praticano la completa astinenza e, durante i ritiri di meditazione, anche il laico s’impegna a osservare completo celibato, allenandosi ad arrivare spontaneamente alla completa astinenza. Questo può avvenire con l’approfondimento della pratica meditativa, pur rimanendo coinvolti nelle attività mondane. Nota 29 Ariyasaccána dassanaí: vedere, comprendere e sperimentare le Nobili Verità. Esse sono la descrizione dell’esperienza della vita. (Sono state trattate ampiamente nelle note e nel commento del primo discorso. n.d.r) L’espressione significa la percezione diretta delle quattro nobili verità mentre si manifestano nella nostra vita. Questa intuizione porta alla realizzazione dei fatti che la sofferenza c’è, che la sua radice è nella bramosia, avversione e ignoranza, che la sua eliminazione avviene quando bramosia, avversione e ignoranza sono estinti, e che per arrivare a questo occorre impegnarsi con una tecnica di meditazione, descritta nell’ottuplice nobile cammino. Quando questa intuizione, questa visione diretta delle nobili verità avviene, si giunge vicino alla realizzazione finale della completa liberazione. 280 PARTE SECONDA Nota 30 Il raggiungimento del nibbána è il più nobile fine che l’essere umano si può porre. È la libertà da ogni desiderio, odio, avversione, delusione, lo stato di perfetta sicurezza da ogni vicissitudine della vita, di completa conoscenza, di perfezione; al di là del mondo sensoriale e della possibilità di essere descritto. Esso si raggiunge eliminando dalla mente bramosia, avversione, delusione. Queste negatività sono radicate nell’ignoranza che genera legami tanto forti da tenerci legati al doloroso ciclo del divenire, della nascita, della morte, della rinascita. Questi legami sono dieci: 1) sakkáyaditthi: credere in una permanente personalità, in un io. 2) vicikicchá: dubbi irrazionali. 3) sìlabbataparámása: attaccamento a riti e rituali con l’idea che ci possano liberare. 4) káma-rága: bramosia per i piaceri sensoriali. 5) vyápáda: cattiva volontà, tendenza al non sforzo, alla non determinazione. 6) rúpa-rága: bramosia a rinascere in mondi più raffinati. 7) arúpa-rága: bramosia per una esistenza celestiale. 8) mána: orgoglio e arroganza. 9) uddhacca: agitazione e inquietudine. 10) avijjá: ignoranza. Chi possiede questi legami è chiamato, nei testi dell’insegnamento del Buddha, persona comune (puthujjana). Siamo noi in questo tormentoso ocea no dell’esistenza, attaccati ai piaceri dei sensi e pri- 281 7. Il discorso sulla felicità più grande gionieri della sofferenza. La dissoluzione di questi legami è lo scopo più alto dell’insegnamento del Buddha. Nonostante lo sforzo sia immenso, i frutti sono senza paragone. Una volta iniziato il nostro sforzo in questa direzione, i progressi arriveranno. Il metodo giusto è la coltivazione della mente attraverso la concentrazione, la riflessione e la meditazione. La visione profonda che ne risulta (Vipassaná) è il solvente per sciogliere i dieci legami. La dissoluzione dei primi tre trasforma la persona comune in sotápanna (chi è entrato nella corrente della saggezza). Ciò significa che dall’oceano impetuoso dell’esistenza si è spostato nel fiume tranquillo che lo condurrà alla liberazione. Tale persona è chiamata nobile (ariya). Quando il quarto e il quinto legame si sono indeboliti, il nobile diventa sakadágámì (chi è destinato a ritornare una sola volta in questo mondo). L’eliminazione del sesto e settimo legame lo trasforma in anágámì (alla morte non ritornerà più in questo mondo). L’eliminazione di tutti i legami trasforma in arahant, una persona completamente liberata, un essere perfetto. Il Buddha è un Arahat, che ha distrutto tutti i legami. Gli arahat non creano più formazioni mentali, e quindi kamma, cioè legami che li vincolano al mondo fenomenico. Sono al di là di ogni tentazione, perfettamente puri e con una completa comprensione della verità. Hanno raggiunto il fine ultimo, il nibbána. Alla fine della vita terrena, in cui consumano i rimanenti momenti di kamma accumulati, se ne andranno liberati, per non ritornare mai più in questa vita. 282 PARTE SECONDA Una mente che non vacilla, in qualsiasi circostanza, (31) libera da tristezza, limpida e calma, – questo è il bene più grande. G.: Dopo aver sperimentato il nibbána, quando si viene in contatto con le inevitabili vicissitudini della vita, l’equanimità sarà così radicata, che ogni azione è equanime e non accadrà più di rattristarsi e piangere: il tempo del pianto se n’è andato, per sempre. Si è pienamente sicuri, con la sicurezza del Dhamma: “Che cosa accadrà domani? Domani accadrà tutto ciò che è bene, vivo con consapevolezza ed equanimità.” Nota 31 Le situazioni che s’incontrano inevitabilmente nella vita sono di otto tipi: guadagno, perdita, disgrazia, buona fama, cattiva fama, riconoscimento e onore, felicità e piacere, sofferenza. Di solito tendiamo a compiacerci quando le cose vanno bene e a odiare e avere avversione quando le cose vanno male. La mente equanime è equilibrata di fronte ad ognuna di queste situazioni, e rimane libera da tristezza, calma, libera da passioni e limpida, non disturbata dai sensi. Queste sono le qualità della persona illuminata. Forte e sicura, è testimone di tutti i cambiamenti e i drammi della vita, senza esserne turbata. 283 7. Il discorso sulla felicità più grande Coloro che si comportano secondo questi principi, ovunque rimarranno sempre invitti, e si sentiranno sempre al sicuro. – questo è il bene più grande G.: Iniziate e procedete senza sosta, passo dopo passo e nella direzione giusta. Arriverete allo stadio della vera felicità. 284 PARTE SECONDA Le 38 benedizioni, ognuna il massimo* di R.L. Soni Le trentotto benedizioni (atti di benedizione o maògalanì) non sono in ordine casuale, ma seguono una stretta logica. Si susseguono raggruppate in categorie, anch’esse in un ordine progressivo di sviluppo spirituale. (…) Ogni benedizione è definita come “il meglio” o “il massimo” (maògalaí-uttamaí) perché indica il meglio per ogni fase del cammino, considerando che nei diversi stadi di vita sono necessari consigli diversi. Essi includono infatti ambiti assai diversi (i traguardi mondani, la vita familiare, le pratiche meditative e gli ideali spirituali). La vita personale è trattata come un tutto unico, ma, poiché ha stadi diversi, precetti diversi guidano ogni stadio verso una condizione ottimale. Passo dopo passo, l’evoluzione di ciascuno procede, e ogni stadio è caratterizzato da qualche specifica benedizione. Il Mahá Maògala Sutta dà il consiglio adeguato per ogni stadio della vita; è in questo modo che la felicità mondana e la beatitudine spirituale cessano di essere ideali in conflitto tra loro. * Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá Maògala Sutta, op. cit. 285 7. Il discorso sulla felicità più grande Ogni ideale che sia buono costituisce ciò che è “meglio” nel suo posto specifico. Ecco perché ognuna delle trentotto benedizioni costituisce “il massimo” e “il meglio”. Se l’individuo progredisce e la sua consapevolezza aumenta, allora nel corso della vita man mano si focalizza su fini diversi, e potrà sentirsi una persona matura, ripensando ai giocattoli della sua infanzia. Quel che allora costituiva il meglio non è più tale per lui ora; com’è vero che ciò che considera come il meglio, da adulto, sarebbe rifiutato da un bambino. Proprio come chi va al mercato con, sulla schiena, un sacco di carbone, lo abbandona quando trova della lana, e la abbandona trovando dell’argento, e abbandona l’argento quando trova dell’oro, e abbandona l’oro trovando dei diamanti, e (infine, n.d.r.) abbandona qualsiasi altra cosa trovando il segreto della felicità duratura, così noi spostiamo il punto di vista, focalizzando la consapevolezza su ideali sempre più elevati, finché raggiungiamo il punto massimo. 286 PARTE SECONDA La sintesi delle 38 benedizioni* di R.L. Soni Stanza 1. La domanda fondamentale: Che cosa conduce alla vera felicità? Stanza 2. La bussola per l’orientamento: coltivare le condizioni per poter discriminare tra il bene e il male: 1) Il non associarsi a persone che ignorano il Dhamma. 2) La ricerca della compagnia dei saggi 3) La reverenza verso chi è degno di rispetto. Stanza 3. Creare fondamenta solide: conoscere e realizzare i requisiti interiori ed esteriori, per avere successo nella vita: 4) La scelta di un posto per vivere, idoneo al Dhamma 5) Il compiere buone azioni 6) L’orientamento di se se stessi nella giusta direzione Stanza 4. Prepararsi: come allenarsi per una vita felice e proficua: * Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá Maògala Sutta, op. cit. 287 7. Il discorso sulla felicità più grande 7) L’apprendimento di una educazione completa 8) L’apprendimento di una professione e/o di un mestiere 9) La coltivazione di una disciplina mentale ed etica 10) L’esercizio a comunicare con gli altri, in maniera utile e positiva Stanza 5. Condurre una vita virtuosa e responsabile, con l’adempimento delle responsabilità familiari: 11) L’aiuto ai propri genitori 12) Il mantenimento della famiglia 13) Un’occupazione che non danneggi gli altri Stanza 6. Diventare un sostegno per la società, con l’esempio e atti concreti: 14) L’esercizio della generosità 15) L’integrità morale 16) Il sostegno verso parenti e amici 17) L’agire per il bene della società Stanza 7. Un’etica personale, con gli strumenti per una vita d’integrità morale: 18) La lontananza da situazioni improprie 19) L’astensione da azioni immorali 20) L’astensione dalle sostanze intossicanti 21) La diligenza nel compiere azioni virtuose Stanza 8. Sviluppare la propria vita spirituale, imparando a coltivare le virtù interiori: 22) Rispetto e reverenza 23) Umiltà 24) Contentezza per ciò che si è e si ha 288 25) Gratitudine 26) Ascolto al momento opportuno di discorsi spirituali Stanza 9. Sviluppare la propria vita spirituale, imparando da altri: 27) Pazienza e tolleranza 28) Disponibilità ad ascoltare consigli 29) Incontro con persone sagge e sante 30) Apertura verso la discussione su temi spirituali Stanza10. L’ascesa verso la realizzazione spirituale, mettendo in pratica comportamenti e azioni per ottenere la piena liberazione: 31) Austerità e determinazione 32) Una vita integerrima, sino alla castità 33) Comprensione ed esperienza diretta delle Quattro Nobili Verità 34) Realizzazione del nibbána (la verità ultima) Stanza11. I frutti della vita spirituale realizzata, la manifestazione delle qualità mentali: 35) Imperturbabilità di fronte ai continui cambiamenti 36) Gioia 37) Purezza e giusto distacco 38) Stabilità e sicurezza interiori Stanza 12. Conclusione del viaggio spirituale: Dovunque saranno vittoriosi, dovunque saranno al sicuro. 7. Il discorso sulla felicità più grande Un condensato delle virtù morali* di P.A. Bigandet** Le parole di un vescovo cattolico Nel pur limitato ambito di un discorso, il Buddha ha condensato un compendio di quasi tutte le virtù morali. La prima parte contiene delle prescrizioni per evitare tutto ciò che è di ostacolo alla pratica delle buone azioni. Nella seconda parte si ribadisce la necessità di disciplinare la mente e la propria volontà, per adempiere con perseveranza ai doveri che spettano ad ognuno nel proprio ruolo. Seguono una raccomandazione a prestare assistenza a genitori, parenti e a tutti in generale; e inoltre il consiglio di coltivare le virtù dell’umiltà, dell’accettazione, della gratitudine e della pazienza. Proseguendo, il Maestro insiste sulla necessità di studiare la Legge (Dhamma, n.d.r.), far visita ai saggi, discutendo di soggetti spirituali. Raccomanda, una volta compiuto tutto ciò, di studiare con grande attenzione le quattro nobili Verità, e tenere * Da Shway Yoe, The Burman: His Life and Notions, op.cit., p. 571. ** L’Autore è stato vescovo dell’Arcidiocesi di Yangoon in Myanmar, dal 1870 al 1894. 290 PARTE SECONDA sempre l’occhio della mente fisso sul felice stato del nibbána, che, sebbene ancora lontano, non andrebbe mai perso di vista. Così preparati, ci si deve concentrare sull’acquisizione delle qualità proprie del vero saggio, che resta saldo, impavido e imperturbabile, nel corso di tutte le vicissitudini della vita, anche tra le rovine del crollo dell’universo. Infine viene richiamato il fine ultimo della perfetta stabilità mentale: tale stato preannuncia il nibbána. Il Mahá Maògala Sutta, un corso ben pianificato di cultura e progresso personale, costituisce un’eccellente guida per raggiungere anche il più alto scopo; è come una scala che ci aiuta a salire, passo dopo passo, verso il culmine. La vita ideale coincide con la liberazione da paure e insicurezze, e la si raggiunge attraverso un serio e progressivo sforzo, e un virtuoso cammino nel mondo. È un’impresa grande che richiede un’adeguata preparazione e uno scrupoloso allenamento. Il discorso comprende non solo il programma dell’allenamento preparatorio, ma anche una guida sicura attraverso il percorso della vita, che infine conduce al porto del nibbána. 291 7. Il discorso sulla felicità più grande Una guida nella società* di R.L. Soni Generalmente, l’uomo è oppresso da gravi fardelli, e prigioniero di pesanti catene chiuse da lui stesso: le catene di paura, superstizione, dogma e riti, causate dalle tendenze egoistiche di avidità, odio e illusione. Costretto da queste catene l’uomo subisce difficoltà e avversità, ed esse lo privano di iniziativa, coraggio e fiducia in se stesso. La conseguenza è l’affidarsi a riti e rituali, a speculazioni filosofiche o al soprannaturale; che a sua volta produce dipendenza da forze e agenti esterni immaginari o reali. È così che la mente viene rinchiusa tra i muri di una prigione auto-costruita. Il Buddha, mosso da grande compassione per la condizione dell’umanità, che annaspava in credenze cieche, insegnò il modo per infrangere l’incrostazione formata dalle superstizioni. Il suo Mahá Maògala Sutta è uno straordinario antidoto contro tutte le credenze e superstizioni fuorvianti. Vi sono consigli che possono rendere chiunque un cittadino ideale e indicazioni che preparano a compiere un fruttuoso cammino di vita. Ulteriori consigli fanno maturare progressivamente l’individuo, affinché passi dallo stato mondano alla sfera * Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá Maògala Sutta, op. cit. 292 PARTE SECONDA delle più alte virtù e a esperienze spirituali che, nella giusta progressione, conducono alla perfetta liberazione. Nello stesso modo, la vita mondana, la vita religiosa e la realizzazione spirituale si seguono l’un l’altra in una sequenza logica, e gli obblighi assumono un significato adeguato alla propria crescita personale e spirituale. I frutti finali sono una totale felicità e una perfetta sicurezza. Il discorso contiene indicazioni generali della massima eccellenza per le difficoltà da affrontare nella vita, per alleviare il declino morale e per curare le ferite spirituali di uomini e donne di ogni epoca, luogo, razza e religione. La soluzione concreta dei problemi personali e familiari, privati e pubblici, nazionali e internazionali sta nella sua applicazione pratica. Sebbene sia parte del canone buddhista, i suoi contenuti hanno respiro e armonia tali, da appartenere all’umanità intera. Le distinzioni di credo, razza e nazionalità svaniscono, e le frontiere religiose si sciolgono, facendo sembrare tutti i popoli membri di un’unica famiglia. Unita da una comune sofferenza e dall’urgenza di trovarne l’uscita, l’umanità può esser certa di beneficiare della saggezza lì contenuta. Questi insegnamenti sono un potente strumento per indirizzare l’umanità nella direzione della chiarezza intellettuale e della purezza emotiva, verso l’efficienza nel lavoro e l’amichevolezza nelle relazioni: il mondo ha disperatamente bisogno di consigli di tale qualità. I problemi nel mondo riguardano ogni singolo individuo, perché le loro cause sono interiori: l’avidità, l’odio e l’illusione. Queste fiamme interne si 293 7. Il discorso sulla felicità più grande manifestano come conflitti esterni, scatenando molteplici sofferenze. Non può esserci pace senza concordia morale e intellettuale tra gli esseri umani. Non può esserci vero amore nelle relazioni finché le fiamme dell’odio, della disonestà, della rabbia e dell’avidità bruceranno con forza nei cuori. Il Buddha insegna a conquistare se stessi attraverso la conoscenza e la padronanza di sé. La vittoria su se stessi illumina ogni sfera della vita: fisica, mentale, etica, spirituale, e quindi personale, familiare, sociale, nazionale e internazionale. Così il Mahá Maògala Sutta tratta dell’armonico sviluppo dell’uomo nella sua interezza, nella totalità del suo ambiente. 294 8. Il discorso sulla libera ricerca (Káláma Sutta, A.3,65) Premessa di S.N. Goenka L e istruzioni ai Káláma sono famose come incoraggiamento alla libera ricerca; lo spirito del discorso è l’opposto di fanatismo, dogmatismo e intolleranza. È la prima dichiarazione dei diritti umani ed è un faro della libertà di pensiero per tutta l’umanità. Tutto l’insegnamento del Buddha mette in guardia contro la fede cieca, invita ognuno a sperimentare ciò che gli viene proposto e ad accettare un insegnamento basandosi sull’esperienza personale. È empirico, imparziale, di grande rigore intellettuale, e per questo è accettabile universalmente. In questo discorso sono descritti i benefici di una vita virtuosa, che non dipende dalle credenze, ma dal benessere mentale che si acquisisce quando si sconfiggono bramosia, avversione, ignoranza, illusione e autoinganno. 297 Testo del discorso C osì io stesso ho udito: un giorno, mentre viaggiava nella regione di Kosala in compagnia di molti monaci, il Buddha giunse a una città del clan dei Kalama, chiamata Kesaputta. La notizia del suo arrivo giunse agli abitanti, che già conoscevano la fama del venerabile monaco Gotama. Sapevano che aveva raggiunto la perfezione, che era pienamente illuminato, che possedeva tanto la conoscenza quanto la pratica, che nella sua ineguagliabile saggezza conosceva tutti i mondi; che era impareggiabile guida per chi lo seguiva e, nella sublimità della sua illuminazione, maestro di esseri umani e divini. Egli, infatti, aveva una conoscenza chiara e diretta di questo mondo, con gli spiriti buoni e cattivi, i suoi esseri umani e divini, i suoi monaci e bramini, e la distribuiva agli altri. Egli aveva messo in moto il Dhamma, perfetto e buono in ogni sua parte, all’inizio, a metà, alla fine, ineguagliabile nella forma e nella sostanza, e completo in tutto. Proclamava la vita beata e assolutamente pura. I Kalama desideravano pertanto conoscere un essere così perfetto. Giunti quindi dal Buddha, gli resero omaggio. Alcuni si recarono a salutarlo e dopo una cordiale conversazione con lui, si accomodarono; altri, prima di sedersi, lo salutarono con le mani giunte; altri si presentarono con nome e cognome; e alcuni si sedettero senza parlare. 298 PARTE SECONDA I Kalama gli dissero: “Da noi a Kesaputta, vengono talvolta monaci e bramini che ci spiegano le loro dottrine e nello stesso tempo screditano, disprezzano e fanno a pezzi le dottrine degli altri. E ne arrivano altri che esaltano le proprie convinzioni, dicendo un gran male dei punti di vista altrui, senza pietà. Venerabile Signore, nutriamo seri dubbi e incertezze nei confronti di questa gente e vorremmo sapere come fare a distinguere quelli che dicono il vero da chi proclama il falso”. Come capire ciò che si deve rifiutare – Avete ben ragione, Kalama, di dubitare e di essere incerti; ciò che è dubbio non può che suscitare incertezza. Ascoltate, allora. Non fidatevi mai di un’opinione soltanto perché l’avete udita spesso e vi è familiare. Non fidatevi neppure delle tradizioni, né delle voci che corrono. Non basatevi sui testi sacri, né su congetture, né su teorie non verificate. Non accettate argomentazioni apparentemente convincenti e non fatevi influenzare dalle nozioni degli esperti. Non fatevi impressionare da chi sembra aver acquisito grande padronanza nel suo ambito. E neppure rimettetevi ciecamente a un maestro. Solo quando, Kalama, sapete per esperienza personale che certe cose, ritenute cattive e riprovevoli dai saggi, lo sono effettivamente, e che messe in atto conducono a danno e infelicità, allora abbandonatele. 299 8. Il discorso sulla libera ricerca Avidità, avversione, ignoranza – Ditemi, Kalama: quando nella mente di un uomo appare il desiderio incontrollato, questo gli arreca bene o male? Male, voi direte. Sì, perché quando un uomo si abbandona al desiderio, questo cresce sempre più, lo sopraffa e gli fa perdere l’equilibrio mentale; per soddisfare le sue voglie egli può giungere a mentire, rubare, commettere adulterio e uccidere; e indurre un altro a fare lo stesso. E se continua con questo comportamento si farà del male, vero? – È vero, Signore. – Allo stesso modo, quando in un uomo si manifestano avversione e odio, questo gli giova o lo danneggia? Come voi dite, lo danneggia. Infatti, Kalama, quando un uomo odia, a poco a poco diventa schiavo di quell’odio, per cui mente, si dà al furto, all’adulterio, fino all’omicidio e può indurre altri a fare lo stesso. E se continua così, non è forse a suo danno? – È vero, Signore. – Veniamo ora all’ignoranza. L’ignoranza fa bene o male? Male, certamente; perché quando un individuo vive nell’ignoranza, il falso gli ottenebra completamente la mente ed egli non distingue più tra il bene e il male, per cui non esita a rubare, mentire, uccidere, commettere adulterio, e in questo trascina altri con sé. E se si comporta sempre così continuerà tutta la vita a farsi del male. Per concludere, Kalama: voi stessi avete espresso il giudizio che desiderio, avversione e ignoranza sono negativi, riprovevoli, e che il saggio è tenuto a evi- 300 PARTE SECONDA tarli, perché cedere ad essi significa procurarsi dolore e infelicità. Per questo, ho detto all’inizio che non ci si deve fidare di ciò che ci viene detto e ripetuto, né della tradizione, né di ciò che la gente dice, né dalle scritture, né delle congetture e teorie altrui, né di ragionamenti che suonano bene, né di considerazioni che altri hanno a lungo ponderato, né della loro apparente sicurezza; e neppure di ciò che afferma il monaco, vostro maestro. La vostra convinzione che una cosa dannosa è da evitare, inaccettabile per il saggio e che, se ve ne lasciate sopraffare, vi farete del male, deve scaturire dall’esperienza e deve portarvi a eliminarla. Come capire ciò che si deve accettare – Anche qui, Kalama, per sapere se una cosa è buona, raccomandabile, irreprensibile agli occhi del saggio e, qualora adottata, destinata a procurare benefici e gioia, non dovete ricorrere a ciò che gli altri vi ripetono, a quanto avete sentito dire o ricevuto dalla tradizione o a teorie altrui, basate o no sul ragionamento o l’evidenza, anche quando si tratta di quelle del vostro maestro. È unicamente la vostra esperienza che deve convincervi della bontà della cosa, e allora non vi resterà che farla vostra. 301 8. Il discorso sulla libera ricerca Assenza di desiderio, di avversione e di ignoranza – Amici Kalama, consideriamo adesso il caso in cui il forte desiderio, odio, avversione o l’ignoranza di chi si auto-inganna, siano assenti. Pensate che questo sia un bene o un male? Un bene, voi risponderete giustamente. È ovvio infatti che un uomo che non si abbandona al desiderio, e quindi non ne diviene schiavo, che non si fa sopraffare da ira e odio, e non viene ingannato dall’ignoranza, non avrà bisogno di mentire, rubare, uccidere o commettere adulterio e neppure inciterà altri a farlo. Siete d’accordo con me che quell’uomo godrà di benessere e felicità durevoli. Non sono forse questi comportamenti privi di bramosia, avversione e ignoranza buoni e lodati dai sapienti? E rispettandoli non si conduce forse una vita buona e felice? Ma ancora una volta, vi ripeto che questo dovete comprenderlo da voi e non perché ve lo riportano altri, perché ci sono in giro teorie in questo senso, perché lo dice la scrittura o la tradizione, o perché gli eruditi ci sono arrivati col ragionamento e ci tengono a dimostrarvelo, o perché ve lo insegna il vostro maestro. Solo quando vi siete convinti attraverso l’esperienza, allora e solo allora, siete tenuti a rispettarli. 302 PARTE SECONDA I quattro stati sublimi Il discepolo che segue gli insegnamenti degli Illuminati e che è quindi libero da desiderio, avversione, e ignoranza, con la consapevolezza e la corretta comprensione delle caratteristiche della realtà, vive compenetrato da un sentimento di amicizia verso tutto e tutti, e irradia questa sua benevolenza in tutte le direzioni. –– Vive rivolgendo verso tutti gli esseri viventi un amore che, non ostacolato da avversione e malevolenza, è sublime e senza limiti. –– In lui sovrabbonda la compassione; privo com’è di astio e malignità, egli vive riversando su tutti gli esseri, vicini e lontani, in tutto il mondo, questa sua immensa, benedetta compassione. –– Liberato da ogni negatività, vive compartecipe della gioia degli altri ovunque essi siano, cosicché tutti gli esseri viventi possano godere di questa grande, esaltante gioia che non ha confini. –– Senza bramosia e avversione vive in un’equanimità totale, gloriosa e inestinguibile, di cui egli fa partecipi tutti gli esseri viventi, e che raggiunge ogni parte del mondo. Le quattro consolazioni Il discepolo di cui vi parlo, Kalama, la cui mente è libera da odio e da cattiveria, e quindi incontaminata e purificata, gode perciò di quattro consolazioni. –– Supponiamo che ci sia un’altra vita dopo la morte e che le azioni ricevano il giusto premio 303 8. Il discorso sulla libera ricerca o la giusta punizione. Allora, dopo la morte, è possibile che quando il suo corpo si dissolverà, possa ritrovarsi in paradiso e godere di quella beatitudine. –– Supponiamo invece non ci fosse vita dopo la morte, non vi sarebbero premio e punizione per le buone e cattive azioni. Ebbene, in questo mondo, qui ed ora, egli vive libero da qualsiasi avversione e cattiva intenzione, e si sente quindi perfettamente bene, perfettamente sicuro, perfettamente felice. –– E se chi fa il male fosse destinato a esser punito, non potrà incorrere in alcuna punizione perché non ha intenzione di fare del male a nessuno; perciò nessuno potrà togliergli la sua felicità. –– E se chi fa il male rimanesse impunito, questo non lo tocca, perché egli è purificato, in ogni caso. Queste sono le consolazioni per il discepolo che si è liberato dall’odio e dalla malvagità, e che possiede una mente pura. Coloro che ascoltavano l’Illuminato convennero che un tale discepolo godeva di queste consolazioni; erano entusiasti dell’insegnamento e gli dissero: Signore, avete raddrizzato ciò che prima era sottosopra, avete svelato ciò che era nascosto, mostrato la via a chi era smarrito, illuminato le tenebre con una lampada, per permettere a chi può, di vedere la luce. Avete spiegato il Dhamma in differenti maniere e noi, Signore, vogliamo prendere rifugio nel Dhamma, nel Beato, nella comunità dei monaci. Signore, ci consideri da oggi suoi discepoli per tutta la vita. 304 9. Il discorso sulle leggi universali (Dhamma-niyáma sutta, A. III, 134) Testo del discorso (...) Sia che nel mondo faccia la sua apparizione un Tathágata (un Buddha, n.d.r.), oppure no, prevale in ogni caso la legge universale di causa ed effetto che determina tutte le cose, secondo cui tutti i fenomeni, sia mentali che fisici, sono impermanenti (anicca). Il Tathágata è giunto alla completa illuminazione, dopo averla sperimentata. Sulla base della sua comprensione e della sua illuminazione, egli proclama questa verità, la insegna, la rende sperimentabile. Egli dimostra, apre alla comprensione, spiega e rende manifesto il fatto che tutti i fenomeni sono impermanenti. La seconda legge universale di causa ed effetto che determina tutte le cose, indipendentemente dalla presenza di un Tathágata, è che tutti i fenomeni, sia mentali che fisici, sono causa di sofferenza (dukkha). Anche riguardo a questa legge il Tathágata gode di piena comprensione e di completa illuminazione, per cui egli la annuncia, insegna e rende sperimentabile a tutti questa verità. La sua funzione è quella di rendere chiaro e manifesto che nel mondo tutto è sofferenza. La terza legge universale di causa ed effetto è che in nessun fenomeno, sia mentale sia fisico, c’è la presenza di un “io” (anattá). Tale è l’ordine delle cose, sia che appaia un Tathágata nel mondo o no. Un Tathágata è pienamente illuminato a questo riguardo, e la sua comprensione è perfetta. Questo gli permette di proclamare e rendere accessibile, di insegnare e rendere sperimentabile agli altri questa verità. 307 10. Il Rifugio Da Il Discorso sul giratore della ruota (Cakkavatti sìhanáda suttanta, D.26) Testo del discorso (Estratto) (…) Ognuno di voi sia un’isola per se stesso, si rifugi in se stesso e non cerchi altro rifugio. Il Dhamma, la legge universale, sia la vostra isola, il Dhamma sia il vostro rifugio, perché non c’è altro rifugio. Ma come può un meditatore essere isola e rifugio per se stesso, e prendere il Dhamma, la legge universale, come propria isola e rifugio esclusivo? Ecco il modo, meditatori: Dopo aver lasciato da parte ogni bramosia e avversione nei confronti di tutti i fenomeni materiali e mentali di questo mondo, il meditatore deve praticare con fervore la massima consapevolezza e la costante e completa comprensione dell’impermanenza, mentre osserva il suo corpo nel corpo; poi mentre osserva le sensazioni nelle sensazioni; allo stesso modo, mentre osserva la sua mente nella mente. Osservando tutti i contenuti mentali mentre si manifestano nella mente, deve sempre lasciar da parte sia la bramosia che l’avversione nei confronti di tutti i fenomeni materiali e mentali di questo mondo, e praticare con fervore la massima consapevolezza e la costante e completa comprensione della caratteristica dell’impermanenza di tutti i fenomeni mentali e fisici (…). 311 PARTE TERZA La pratica della meditazione Udána: il canto di esultanza del Buddha* di S.N. Goenka U na volta il Buddha si trovava vicino a Savatthi, nel boschetto di Jetavana, donato dal benefattore Anathapindaka, e vide un monaco seduto in meditazione: A gambe incrociate, eretto e determinato, sopportava le conseguenze delle sue azioni passate, tormentato da sensazioni intense, e penetranti. Grazie alla sua acuta consapevolezza e alla piena saggezza raggiunte, non perse mai la calma o l’equilibrio della mente, ma estirpò le vecchie impurità al loro emergere, senza manifestare più alcuna traccia di “io”. Vedendo ciò il Buddha pronunciò questo udána: Il monaco che non genera nuove impurità ed elimina le vecchie impurità al loro emergere, ha raggiunto lo stato meditativo dove nulla rimane dell’ “io” o del “mio”. * Udána: termine pali usato per esprimere la spontanea espressione di gioia che, secondo la tradizione, prorompe dalle persone sante, in presenza di intuizioni profonde; tradotto anche con detto ispirato, verso di elevazione o esaltazione. L’udána commentato è il n.21 (dalla raccolta Kuddhaka Nikáya del Tipiþaka). 317 La pratica della meditazione Per lui le parole sono inutili e non hanno senso, assorto com’è nel silenzio meditativo. Fu la vista di qualcuno che risolutamente percorreva il sentiero che conduce alla liberazione, a indurre il Compassionevole a esprimersi in modo così gioioso. Le poche intense frasi di questo udána contengono l’esposizione completa della tecnica della meditazione Vipassana, e cioè del modo concreto per giungere alla liberazione. Cerchiamo di capire con precisione ciò che il Buddha ha indicato. La meditazione Vipassana La parola Vipassana significa vedere le cose come sono, e non come esse sembrano e appaiono. È uno stato di osservazione, senza immaginazione, preconcetto, pregiudizio, auto-inganno e illusione. Proprio perché l’intelletto non è in grado di disperdere l’illusione, il Buddha, con compassione, perfezionò la tecnica di Vipassana, suddividendola in quattro parti consequenziali: –– l’introspezione equanime dell’intero corpo, káyánupassaná; –– l’osservazione di tutte le sensazioni alla superficie ed all’interno del corpo, vedanánupassaná; –– l’osservazione dell’intera gamma degli stati mentali, cittánupassaná; –– l’osservazione dell’intero campo dei contenuti mentali, dhammánupassaná. 318 PARTE TERZA Chiamò questo cammino ekáyanomaggo e cioè la via diretta che porta alla liberazione. Per mezzo dell’esperienza della propria reale natura giungiamo alla liberazione; eliminando l’ignoranza, impediamo il formarsi di nuovi condizionamenti e, nello stesso tempo, lo sradicamento dei vecchi. In che modo Vipassana aiuta a non creare nuovi condizionamenti e a sciogliere i vecchi? Prima di tutto, il meditatore deve adottare una postura corretta; quindi, rimanere fermo con determinazione: senza nessun movimento del corpo, e con occhi e bocca chiusi; in questo modo non si potranno compiere le azioni vocali e fisiche che provocano nuovi condizionamenti. È soltanto a questo stadio che si può cercare di arrestare le formazioni mentali. A questo scopo, occorre sviluppare attenzione e vigilanza consapevoli. Di che cosa bisogna essere consapevoli? Del sorgere e svanire di ogni fenomeno nel corpo, per sperimentare la verità dell’ impermanenza. Il meditatore di Vipassana si rende conto della differenza tra verità apparente ed effettiva: ciò che appare solido ed impenetrabile a livello apparente, visto in profondità non è altro che onde e vibrazioni. Osservando sistematicamente le sensazioni del corpo con equanimità, parte per parte, punto per punto, può facilmente raggiungere lo stadio in cui persino le zone più solide del corpo, sono percepite quali effettivamente sono: oscillazioni di particelle subatomiche. Con la stessa consapevolezza, il meditatore osserva i quattro aspetti della mente: viññáóa 319 La pratica della meditazione (coscienza), saññá (percezione), vedaná (sensazione) e saòkhára (reazione o condizionamento), e verifica che sono vibrazioni che appaiono e svaniscono. Tutti i fenomeni mentali e materiali hanno la stessa natura transitoria: si manifestano e subito svaniscono, permanentemente impermanenti, costituiti da una massa di piccolissime onde, che si disintegrano appena formate. Ecco la verità ultima di mente e materia. Per chi è nell’ignoranza, ogni sensazione piacevole sarà causa di forte desiderio, si vorrà che continui, mentre ogni sensazione spiacevole sarà causa di rifiuto e si vorrà che finisca. Questa reazione della mente, o volizione, basata su bramosia e avversione, è la schiavitù più pesante. La percezione che la caratteristica fondamentale di tutti i fenomeni è il cambiamento (anicca), porta a fare esperienza della caratteristica di anattá, che cioè non esiste un io. Si giunge allora alla percezione della natura della sofferenza (dukkha) perché si sperimenta che l’identificarsi con i fenomeni mutevoli non provoca altro che sofferenza. All’inizio, il meditatore si troverà fortemente combattuto tra la comprensione della transitorietà dei fenomeni e l’influenza dei vecchi condizionamenti mentali. Ma, con la pratica, imparerà l’arte sottile di distinguere tra reale e illusorio, il percepito e l’immaginato. La verità predominerà per tempi sempre più lunghi. La comprensione che la sensazione è destinata a svanire immediatamente indebolirà il desiderio. Gradimento e avversione costituiscono potenti attaccamenti che producono i condizionamenti mentali. 320 PARTE TERZA L’eliminazione dei condizionamenti La pratica di Vipassana permette al meditatore di osservare con attenzione le manifestazioni dei passati comportamenti, e con il rafforzarsi dell’equanimità, bramosia e avversione non hanno più presa. In una mente che non reagisce, i frutti delle azioni passate non possono più svilupparsi. Ogni vecchio condizionamento (saòkhára), viene sradicato sul nascere, senza che gli sia permesso moltiplicarsi. Il fuoco purificatore della saggezza (paññá), brucia i nuovi semi che accompagnano la maturazione (il produrre frutto, il dare risultato, n.d.r.) di queste azioni passate. Talvolta, questa maturazione avviene in modo così intenso che la saggezza viene meno e si offusca la giusta prospettiva; si perde l’atteggiamento impersonale nei confronti del dolore e ci s’identifica con le sensazioni. Col raziocinio, ci si può sforzare di non reagire, ma in realtà si comincia a considerare il proprio dolore come qualcosa che non finirà mai, e le reazioni continuano. Per rendersi conto pienamente della natura transitoria di tutti i fenomeni, e infrangere l’apparente solidità delle percezioni, il meditatore deve raggiungere lo stadio dove percepisce l’istantaneo sorgere e svanire delle vibrazioni, che costituiscono mente e materia. La pratica della meditazione Vipassana ha lo scopo di eliminare le vecchie negatività accumulate nel nostro inconscio. La corda vibrante di una mente pura estingue tutte le impurità del passato. Questo processo di eliminazione non può dirsi completo se anche il più piccolo nodo rimane da sciogliere. 321 La pratica della meditazione La pratica di Vipassana deve continuare fino a che non vi sia nessuna impressione di solidità nel corpo e nella mente. Come essere equanimi? Il meditatore sopporta le conseguenze delle sue azioni passate. Come avviene? Egli sopporta, senza agitazione e recriminazione anche le sensazioni intense coltivando consapevolezza ed equanimità. Il meditatore è in grado di tollerare i frutti del passato senza forti reazioni perché conosce la vera natura della situazione. Non è colui che soffre, ma è l’osservatore imparziale della sofferenza. Questo giusto distacco fa sì che le vecchie schiavitù vengano sradicate; fino a che non ci sarà più un osservatore, ma semplicemente osservazione, e neppure un sofferente, ma la sola sofferenza. Nonostante ciò, di tanto in tanto può riapparire una leggera agitazione o l’identificazione con la sensazione, che provocheranno desiderio e avversione. Con la continua pratica, il meditatore vigilante raggiunge lo stadio dove viene sradicata l’illusione dell’io e, a quel punto, egli può sopportare perfino le sensazioni più intense, senza agitazione. Il risultato è la fine del formarsi di nuovi condizionamenti mentali. D’ora in poi il meditatore è totalmente assorbito nel processo di purificazione continua, raggiungendo così la liberazione. 322 PARTE TERZA L’importanza della pratica Un meditatore impegnato in questo compito deve impegnare il suo tempo nella pratica. Dove troverà più il tempo per chiacchiere inutili? Ogni attimo è prezioso e non va sprecato. Chi perde tempo a chiacchierare non ha ben compreso la serietà dell’impegno. Il nobile esercizio di comprensione della verità è degradato a disquisizione intellettuale, ma la liberazione può essere conquistata con la pratica, mai con i discorsi. Questa è la ragione per cui il Buddha eruppe in un canto di lode al monaco che percorreva in modo risoluto il sentiero che porta alla liberazione: A gambe incrociate, eretto e determinato, sopportava le conseguenze delle sue azioni passate, tormentato da sensazioni intense, e penetranti. Con acuta consapevolezza e piena saggezza, egli non perse mai la calma o l’equilibrio della mente, ma estirpava le vecchie impurità al loro emergere, senza manifestare più alcuna traccia di “io”. Che questa immagine e questa gioiosa esclamazione ci incoraggino a seguire la stessa via con determinazione. Qui sta la nostra vera felicità, la liberazione da ogni sofferenza. 323 La pratica della meditazione Riferimenti storici della meditazione Vipassana* di E.Lerner Una catena di maestri che ha mantenuto la pratica intatta è quella stabilitasi in Myanmar da tempi remoti, con l’arrivo dei monaci Sona e Uttara, e che è continuata sino a Ledi Sayadaw (1846-1923), Saya Thetgyi (1873-1945), Sayagyi U Ba Khin (18991971)**, S.N. Goenka (1924-2013). Negli ultimi decenni vi è stato un rinnovato interesse per la meditazione Vipassana, sia nei paesi di tradizione theraváda, (Myanmar, Sri Lanka, Tailandia, Cambogia, Laos) sia nel mondo, grazie all’opera di diffusione da parte di coloro che hanno fatto conoscere la pratica fuori dai monasteri, evidenziandone i benefici nella vita quotidiana. Una caratteristica del metodo del maestro Sayagyi U Ba Khin è l’estrema intensità della pratica durante brevi periodi (il corso di base dura dieci giorni), per offrire un’immersione totale a chi ha poco tempo, per responsabilità professionali e familiari. U Ba Khin poneva sempre in evidenza gli aspetti concreti del lavoro meditativo, riducendo al minimo la teoria. Si trattava e si tratta di vivere le leggi naturali che * Da E. Lerner, Journey of Insight Meditation, op. cit. Estratto. ** V. U Ba Khin, Il tempo della meditazione è arrivato, op. cit. 324 PARTE TERZA regolano l’universo, attraverso la propria esperienza, applicando un metodo. Dai discorsi del Buddha, si può dedurre che un gran numero di laici ricevette l’insegnamento e raggiunse alti livelli di sviluppo spirituale. Ma come si deve avvicinare alla meditazione chi non ha tutta la vita da dedicare a silenzio e contemplazione? E che ruolo può avere la disciplina meditativa nella vita laica? Il sistema adottato dai monaci, secondo il Canone pali, prescrive di raggiungere un certo grado di concentrazione per poi passare alla pratica della comprensione della realtà, che si ottiene con Vipassana. Nei centri di meditazione per laici, come il centro fondato da U Ba Khin e nei centri sparsi in tutto il mondo fondati da Goenka, suo discepolo, s’insegna un grado di concentrazione minima, ma sufficiente per iniziare a meditare con Vipassana. U Ba Khin ha ritenuto che, per i nostri giorni, sia più adatta la meditazione Vipassana, intrapresa senza un lungo periodo di apprendimento delle tecniche di concentrazione. L’insegnamento della tecnica dalla metà del ‘900 in avanti Egli sviluppò un approccio all’insegnamento della meditazione Vipassana, finalizzato a un apprendimento intenso per brevi periodi e alla continuità della pratica nella vita laica. Considerò che gli studenti laici, rispetto ai monaci, hanno maggiori difficoltà e minor tempo, inoltre vivono in un ambiente 325 La pratica della meditazione agitato e teso, generalmente ostile a condotta morale e buona concentrazione, che sono i requisiti della comprensione profonda. Perciò elaborò un metodo, efficace in tali condizioni di forte pressione. In un periodo di dieci giorni, la durata del corso, molti possono sperimentare un barlume della realtà interiore, e poi continuare a espandere questa consapevolezza con due ore di meditazione al giorno, una volta conclusosi il corso e lasciato il centro. L’obiettivo del suo metodo era l’insegnamento della osservazione continua dei cambiamenti nel corpo, attraverso la sistematica osservazione delle sensazioni fisiche. Il Buddha, nel Saþipaþþhána Sutta, dice che il processo vitale è identico in tutti gli aspetti del divenire della mente-materia. E U Ba Khin notò che tale processo vitale è più forte e rapido nelle sensazioni fisiche. Gli studenti, incoraggiati a concentrare l’attenzione su queste, e a rendersi conto dei cambiamenti che avvengono continuamente, apprendevano a sperimentare la natura mutevole all’interno del corpo. 326 PARTE TERZA I principi basilari dell’insegnamento del Buddha nella pratica meditativa* di Sayagyi Thray Sithu U Ba Khin Pochi anni prima di morire, Sayagyi registrò in inglese il seguente discorso per gli studenti occidentali che partecipavano ai suoi corsi. Trascritto dopo la sua morte, fu pubblicato con il titolo “The essentials of BuddhaDhamma in meditative practice”. Anicca, Dukkha e Anattá: l’impermanenza, la sofferenza e l’assenza di un io, sono le tre caratteristiche essenziali nell’insegnamento del Buddha. Se sperimentate anicca (l’impermanenza di ogni fenomeno fisico e mentale) nel modo giusto, sperimenterete anche dukkha (la presenza della sofferenza e la sua origine), e anattá (l’assenza di un io) come le verità ultime. Occorre del tempo per arrivare a comprendere tutte insieme queste tre verità. L’impermanenza è il fattore principale da sperimentare con la meditazione. La conoscenza intellettuale non è sufficiente, poiché manca dell’aspetto esperienziale. Oggi come ai tempi del Buddha, l’esperienza dell’impermanenza può essere sviluppata anche da chi non ha alcuna conoscenza di buddhi* Da U Ba Khin, Il tempo della meditazione Vipassana è arrivato, op. cit. 327 La pratica della meditazione smo, seguendo scrupolosamente il Nobile Ottuplice Sentiero composto da sìla, samádhi e paññá, cioè condotta morale, concentrazione e saggezza. Sìla o condotta morale è la base per samádhi, la padronanza della mente per la concentrazione. Solo quando vi è una buona concentrazione si può sviluppare la saggezza. Quindi la moralità e la concentrazione mentale sono le condizioni indispensabili per sviluppare la saggezza. Questa saggezza è l’esperienza di anicca, dukkha e anattá per mezzo della pratica di Vipassana. La pratica della condotta morale e quella della concentrazione sono note, poiché sono il comune denominatore delle religioni. Ma il principe Siddhattha, prima di diventare Buddha, si rese conto che non sono sufficienti per raggiungere la fine della sofferenza. Egli divenne completamente illuminato dopo essersi strenuamente impegnato per sei anni, e solo allora insegnò come seguire il sentiero della liberazione. I condizionamenti accumulati Ogni azione, proveniente da fatti, parole o pensieri, lascia dietro di sé una forza attiva o saòkhára che va a carico o a merito di chi l’ha compiuta, a seconda che l’azione sia stata cattiva o buona. Quindi ognuno accumula una riserva di saòkhára (reazioni, formazioni o condizionamenti mentali) che funge da serbatoio e sorgente di energia per sostenere il flusso vitale, inevitabilmente seguito da sofferenza e morte. È attraverso lo sviluppo della comprensione di anicca, dukkha e anattá, che si è in grado di eli- 328 PARTE TERZA minare i condizionamenti accumulati. Questo processo comincia con l’esperienza dell’impermanenza, momento dopo momento, un giorno dopo l’altro, mentre avvengono simultaneamente sia l’accumulo di nuovi saòkhára sia l’alleggerimento del deposito dei vecchi saòkhará. Liberarsi dai saòkhára è quindi un lavoro che richiede un’intera vita o anche molte vite. Chi si è liberato da tutti i condizionamenti giunge alla fine delle proprie sofferenze. Alla fine della vita i perfetti santi, cioè i Buddha e gli Arahant, passano nel parinibbána (uno stadio al di là del mondo sensoriale), raggiungendo così la fine della sofferenza. L’esperienza dell’impermanenza Per chi ha intrapreso la meditazione Vipassana, basterebbe sperimentare l’impermanenza tanto da poter raggiungere il primo stadio di áriya (persona nobile), cioè divenire sotápanna. L’esperienza dell’impermanenza apre la porta all’esperienza della sofferenza, dell’assenza di un io e poi all’eliminazione della sofferenza, ed è possibile soltanto alla presenza di un Buddha o seguendo il suo insegnamento, il Nobile Ottuplice Sentiero. Per progredire uno studente deve continuare a coltivare l’esperienza di anicca, il più a lungo possibile. Il suggerimento del Buddha è di cercare di mantenere la consapevolezza di anicca, dukkha e anattá in tutte le posizioni, sia seduti, che in piedi, sia camminando sia sdraiati. Il segreto del successo sta nel mantenere ininterrotta questa consapevolezza. Le ultime parole del Buddha sono state: 329 La pratica della meditazione L’impermanenza è inerente a tutte le cose composte. Lavorate con diligenza per la vostra stessa salvezza. Questa è l’essenza del suo insegnamento nei quarantacinque anni del suo ministero. Se manterrete sempre viva la consapevolezza dell’impermanenza, raggiungerete di certo lo scopo. Mentre la sviluppate, anche l’esperienza di “ciò che è vero nella natura” diventerà sempre più chiara, fino a non avere più alcun dubbio sulle tre caratteristiche di anicca, dukkha e anattá. Ora che sapete che anicca è il primo fattore essenziale, dovrete cercare di capire cosa è, con la massima chiarezza, nel modo più ampio possibile, in modo da non avere nessuna confusione durante la pratica o nelle discussioni. La conoscenza delle kalápas Il significato di anicca è che l’impermanenza (o disintegrazione, decomposizione, cambiamento) è inerente a tutto ciò che esiste nell’universo, sia animato sia inanimato. E il Buddha insegnò che tutto ciò che esiste, a livello materiale, è formato da kalápas, particelle di materia molto più piccole dell’atomo, che muoiono immediatamente dopo essere nate. La kalápa è una massa formata dagli otto elementi basilari della materia: solidità, coesione, temperatura e movimento uniti a colore, odore, gusto e nutrimento. Le prime quattro, chiamate qualità primarie, sono predominanti in una kalápa, mentre le altre quattro sono secondarie, dipendenti, 330 PARTE TERZA e nascono dalle precedenti. Solo quando queste otto si uniscono, si forma una kalápa. In altre parole, la momentanea collocazione di questi otto elementi, che formano la massa per un brevissimo momento, è ciò che nel buddhismo viene detto kalápa. Il suo arco di vita è chiamato attimo e si dice che di questi “attimi” ne passino mille miliardi in un batter d’occhio. Le kalápas sono in uno stato di perenne cambiamento o flusso. Uno studente avanzato di meditazione Vipassana le può percepire nel corpo come una corrente di energia. Il corpo umano non è un’entità solida e stabile, come può sembrare, ma un flusso di materia e mente. Rendersi conto per esperienza diretta che il nostro corpo è un flusso continuo di minuscole kalápas, significa conoscere la natura dell’impermanenza. La verità della sofferenza L’impermanenza causata dal continuo sorgere e passare di kalápas, viene identificato come dukkha, sofferenza. Soltanto quando sperimentate l’impermanenza come sofferenza, arrivate alla realizzazione (al fare esperienza, n.d.r.) della verità della sofferenza, la prima delle quattro Nobili Verità. Perché? Perché quando comprendete la natura sottile della sofferenza da cui non potete sfuggire neanche per un momento, proverete per la vostra esistenza paura, disgusto e ripugnanza, e cercherete una via di uscita che vi porti a uno stadio al di là della sofferenza, e quindi al nibbána, la fine della sofferenza. Potete gustare questo stadio senza sofferenza già 331 La pratica della meditazione in questa vita, se raggiungerete lo stadio di sotápanna, ovvero il primo stadio della liberazione, chiamato “chi entra nella corrente”, e se svilupperete la pratica fino a raggiungere lo stato incondizionato del nibbána. Ma nei limiti comuni, quando sarete in grado di mantenere continua la consapevolezza di anicca, vi accorgerete che è in atto un miglioramento in voi. Prima della vera e propria pratica di Vipassana, che richiede una base di concentrazione mentale, lo studente dovrebbe avere una conoscenza teorica circa mente e materia. L’osservazione delle sensazioni nel corpo Nella meditazione Vipassana, non si contempla soltanto la mutevole natura del corpo, ma anche la mutevole natura della mente, cioè degli stati mentali e dei pensieri, momento dopo momento. Alcune volte l’attenzione è focalizzata sull’impermanenza nel corpo e altre volte sull’impermanenza nella mente. Mentre si contempla l’impermanenza del corpo, ci si rende conto che insieme a questa consapevolezza, c’è quella della transitorietà degli stati mentali e dei pensieri, simultanei alle sensazioni corporee. In tal caso, c’è l’esperienza di anicca nei riguardi sia della mente sia della materia. Ciò che finora ho detto, riguarda l’esperienza dell’impermanenza attraverso le sensazioni corporee e i contenuti mentali che da esse dipendono. Ma si può sperimentare l’ impermanenza anche attraverso gli organi di senso: 332 PARTE TERZA –– dal contatto di una forma visibile con l’organo sensoriale dell’occhio; –– dal contatto del suono con l’organo sensoriale dell’orecchio; –– dal contatto dell’odore con l’organo sensoriale del naso; –– dal contatto del gusto con l’organo sensoriale della lingua; –– dal contatto del tatto con l’organo sensoriale del corpo; –– dal contatto degli oggetti mentali con l’organo sensoriale della mente. Si può sperimentare l’impermanenza attraverso ognuno degli organi di senso, ma con la pratica meditativa si è scoperto che il modo più idoneo è l’osservazione delle sensazioni da contatto del tatto con il corpo. Esse sono più evidenti di altri tipi di sensazioni, per l’ampiezza di area e per l’irradiamento, la frizione e la vibrazione dei kalápa; e quindi sono le più idonee per iniziare a meditare e per sperimentare aniccá. Questa è la principale ragione per cui in questa tradizione meditativa si sono scelte le sensazioni fisiche corporee: sono il mezzo più veloce per sperimentare l’impermanenza. Siete comunque liberi di provare altri mezzi, ma vi suggerisco di essere ben saldi nello sperimentare anicca con la sensazione fisica corporea, prima di tentare con altri tipi di sensazione. 333 I livelli di conoscenza In Vipassana vi sono dieci livelli di conoscenza: Sammásana: riconoscimento teorico di anicca, dukkha e anattá attraverso l’osservazione e l’analisi. Udayabbaya: conoscenza del sorgere e dissolversi di rúpa e náma (della mente e della materia), attraverso l’osservazione diretta; Bhaòga: conoscenza della natura mutevole di rúpa e náma, sperimentata come una rapida corrente o flusso di energia; in particolare, chiara consapevolezza della fase di dissoluzione; Bháya: conoscenza di quanto sia sgradevole questa esistenza. Ádìnava: conoscenza di quanto sia piena di male questa esistenza; Nibbidá: conoscenza di quanto sia disgustosa questa esistenza; Muncitukaíyata: conoscenza della pressante necessità e desiderio di sfuggire da questa esistenza; Paþisankha: conoscenza che è giunto il tempo di impegnarsi per la piena realizzazione della liberazione, tenendo come base l’esperienza dell’impermanenza; Sankhárupekkhá: conoscenza che ormai si è allo stadio in cui ci si può distaccare da tutti i fenomeni condizionati e andare oltre l’egocentrismo. Anuloma: conoscenza che contribuisce e accelera il tentativo per raggiungere lo scopo. Il meditatore di Vipassana passa attraverso questi livelli di conseguimento. Essi possono essere rag- PARTE TERZA giunti contemporaneamente al progresso nell’esperienza dell’impermanenza. Alcuni di essi devono essere accompagnati dall’ausilio di un insegnante competente. Si dovrebbe evitare di bramare questi conseguimenti, poiché ciò distrarrebbe dalla continua osservazione della realtà dell’impermanenza, che è la sola che può dare e darà la ricompensa desiderata. L’esperienza di anicca nella vita quotidiana Vorrei ora parlare della meditazione Vipassana dal punto di vista del laico nella vita quotidiana, e spiegare i benefici che si possono ottenere, qui e ora, durante questa stessa vita. Il primo obiettivo di Vipassana è di attivare l’esperienza di anicca in se stessi e raggiungere quindi uno stato di equilibrio e di calma esteriore e interiore. Questo è raggiunto quando si è completamente assorbiti nell’osservazione a livello di esperienza dell’impermanenza in se stessi. L’umanità sta affrontando gravi problemi che la minacciano. È il momento giusto per tutti di cominciare la meditazione Vipassana e imparare ora a scoprire una profonda oasi di quiete nella confusione. Anicca (la realtà dell’impermanenza) è all’interno di ognuno. È alla portata di ognuno. Sarà sufficiente uno sguardo in se stessi ed ecco, la si sperimenterà. Quando si riesce a sperimentarla e ci s’immerge in essa, allora ci si può, con un atto di volontà, staccarsi dal mondo, o meglio dalle interpretazioni mentali sul mondo. Anicca è per il laico una gemma prezio- 335 La pratica della meditazione sissima per creare una riserva di calma e di energia tranquilla per il suo benessere e per il benessere della società. Questa esperienza, se sviluppata correttamente, stronca alla radice ed elimina gradualmente tutto ciò che vi è di negativo. Questa esperienza non è riservata ai monaci, ma è anche per i laici con famiglia. Malgrado le avversità possano rendere il laico agitato, un maestro o un insegnante competente può aiutare a sperimentare anicca in un tempo relativamente breve. Una volta che questa esperienza c’è stata, tutto ciò che si deve fare, è preservarla. Il tiro alla fune È necessario un impegno con se stessi: appena si presenta l’occasione e il tempo per progredire, ci si impegnerà per raggiungere lo stadio di bhaògañáóa, il terzo livello di conoscenza in Vipassana. Per chi non l’ha ancora raggiunto, vi possono essere alcune difficoltà: sarà come un tiro alla fune tra l’esperienza interiore di anicca e le attività esteriori sia fisiche che mentali. Per cui sarebbe saggio mettere in pratica il detto “Lavora mentre lavori e gioca mentre giochi”. Non si dovrà quindi attivare anicca in continuazione. Basterà riuscire a farlo in periodi di tempo regolari e a ciò riservati, sia di giorno che di sera. Durante queste ore, bisogna tentare di focalizzare l’attenzione sul corpo, con l’osservazione dell’impermanenza delle sensazioni fisiche corporee. In queste occasioni la consapevolezza dovrebbe essere ininterrotta, tanto da non permettere l’intrusione di pensieri. Nel caso ciò non fosse possibile, il meditatore dovrebbe uti- 336 PARTE TERZA lizzare la consapevolezza del respiro, poiché la concentrazione è la chiave per l’esperienza di anicca. Per avere una buona concentrazione, bisogna che la condotta morale – sìla – sia perfetta, poiché la concentrazione – samádhi – si regge su una buona condotta morale. Per una buona esperienza di anicca, la concentrazione deve essere buona. L’attivazione di anicca La tecnica per attivare anicca richiede semplicemente la mente equilibrata e concentrata, e l’osservazione continuativa sull’oggetto di meditazione: le sensazioni fisiche del corpo, con la consapevolezza della loro impermanenza. È necessario iniziare l’osservazione in un’area in cui l’attenzione possa fermarsi facilmente, per poi spostare l’attenzione, dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa, e poi di tanto in tanto dirigerla all’interno. Non si deve tener conto dell’anatomia, ma ci si deve accorgere delle sensazioni fisiche e del loro continuo cambiamento. Se si osservano queste istruzioni vi sarà senz’altro progresso; esso dipende anche dalle qualità sviluppate e dall’impegno nell’esercizio meditativo. Più il livello di conoscenza è alto, più aumenterà la capacità di sperimentare anicca, dukkha e anattá, avvicinandosi sempre di più al traguardo finale di un ariya, persona nobile. Questo è il traguardo su cui ogni laico dovrebbe essere focalizzato. 337 La pratica della meditazione Il tempo della meditazione Vipassana è arrivato È questa un’era scientifica. L’uomo di oggi non accetta nulla, a meno che non ne veda risultati positivi, concreti e realizzabili nel presente. Il Buddha disse al popolo dei Kalama: Non fatevi condurre fuori strada da racconti, da tradizioni o da cose ascoltate. Non fatevi condurre fuori strada da chi ha competenza nelle scritture, o dal ragionamento, dalla logica, dalla riflessione o dall’approvazione di alcune teorie, o perché alcuni punti di vista si adattano alle vostre inclinazioni, o per rispetto verso il maestro. Quando invece sapete da voi stessi: “Queste cose sono malsane, queste cose sono scorrette, queste cose sono riprovate dal saggio, queste cose, se praticate, conducono alla distruzione e al dolore”, respingetele. Ma se sapete da voi stessi: “Queste cose sono salutari, queste cose sono giuste, queste cose sono apprezzate dalla persona intelligente, queste cose, quando praticate, conducono alla salute e alla felicità”, allora, o Kalama, avendole praticate, perseverate in esse. È suonata l’ora di Vipassana: la rinascita del Dhamma di Buddha, con la pratica di Vipassana. Non c’è alcun dubbio che chi, con mente aperta e sincera, segua un corso sotto la guida di un insegnante competente, ottenga risultati buoni, concreti, validi, qui e ora, che lo renderanno sicuro e sereno per il resto della sua vita. 338 PARTE TERZA Il corso di dieci giorni di meditazione Vipassana* come insegnata da S.N. Goenka nella tradizione di U Ba Khin di A.Solé-Leris Il Buddha disse: Se chi viene da me, ha propositi sinceri, leali e puri, io lo istruirò e gli insegnerò il Dhamma. Se praticherà ciò che gli viene insegnato, in sette anni raggiungerà quell’ineguagliabile traguardo di santità, per conquistare il quale, giovani di buona famiglia abbandonarono le loro case e divennero monaci erranti; raggiungerà la meta e in essa dimorerà, praticando e comprendendo attraverso la sua esperienza. Ma che dico sette anni, in sei, cinque, quattro, tre, due anni, in un anno ... in sette mesi, o sei, cinque, o quattro, o tre, o due, o in un mese o in quindici giorni. Accantoniamo anche i quindici giorni: in sette giorni egli potrà arrivare alla meta. Voi penserete che il monaco Gotama, il Buddha, parli in questo modo per procurarsi discepoli, ma non è così, anzi, rimanete pure con il maestro che già avete. Oppure penserete che Gotama il Buddha voglia che smettiate di seguire i vostri precetti. Avreste torto a * Da A. Solé Leris. La meditazione buddista. op. cit. 339 La pratica della meditazione pensarlo. Mantenete pure le vostre regole, e continuate a condurre lo stesso tipo di vita che state conducendo. Forse penserete che Gotama il Buddha voglia farvi fare qualcosa che non concorda con le vostre dottrine e che quindi ritenete errato. Ma, anche questa è un’idea sbagliata, perché potete continuare a considerare errato ciò che per voi finora è stato errato. Anche solo il dubbio che io voglia farvi abbandonare ciò che voi stessi e le vostre religioni considerate positivo, va dissipato. Continuate pure a credere in ciò cui avete sempre creduto. Nessuno di questi motivi è quello che m’induce a parlarvi. Io v’insegno il Dhamma perché vedo che non avete abbandonato ciò che è impuro, ciò che provoca paura e che porta a conseguenze di sofferenza, ciò che è connesso alla nascita, alla vecchiaia, alla morte, ciò che conduce alla rinascita. Insegno il Dhamma proprio perché questa ignoranza venga abbandonata. Se applicherete ciò che insegno, vi sbarazzerete di tutte le impurità mentali, e nello stesso tempo, si svilupperà in voi ciò che serve per condurvi alla purificazione. Allora, già da questa vita, con la vostra comprensione e con la vostra pratica, raggiungerete la pienezza della perfetta saggezza e dimorerete in essa. (D 2) Goenka così commenta: “L’Illuminato ha offerto all’umanità un insegnamento universale: il Dhamma, la legge di natura. Riscoprendo e sperimentando questa legge si liberò e poi, con infinita compassione, insegnò questa via, in modo che molti potessero beneficiarne. Chi raggiunge le profondità della mente e sradica tutte le impurità, diventa una persona illuminata. Chiunque, indipendentemente 340 PARTE TERZA dalla religione, dalla razza, e dalla nazione cui appartiene, può trarre benefici dal Dhamma. Il Buddha disse “Datemi sette giorni della vostra vita, provate”. Anch’io v’invito a provare. Non essendo un Buddha, vi dico “Datemi almeno dieci giorni della vostra vita”. Limitatevi a provare. Accettate questo insegnamento solo dopo aver fatto una prova. Le fondamenta della pratica di Vipassana sono: la condotta morale, la concentrazione della mente e la purificazione dei processi mentali. Il processo introspettivo di auto-purificazione non è facile e richiede un impegno intenso. Lo studente raggiunge risultati solo grazie ai propri sforzi. Di conseguenza, la meditazione è adatta solo a chi intende applicarsi. Per la durata del corso, va rispettato un codice di comportamento, che facilita la calma mentale, propedeutica alla meditazione. Le sue regole sono: astenersi dall’uccidere qualsiasi essere, dal rubare e dal mentire; da attività sessuale e da droghe e intossicanti; astenersi dal leggere e dallo scrivere, da pratiche religiose, ginniche o altro; rimanere nel luogo del corso, interrompere i contatti con l’esterno. Tali norme sono parte integrante della pratica meditativa e sono poste per aiutare”. Il programma quotidiano La giornata inizia alle quattro del mattino e termina alle nove e trenta, dieci di sera. Comprende, quindi, undici ore circa tra meditazione e momenti di riposo. Le ore di meditazione individuale sono alternate a ore di meditazione di gruppo, durante le 341 La pratica della meditazione quali si medita con l’insegnante. Ogni sera si ascolta un discorso di circa un’ora in cui sono chiariti e approfonditi i vari aspetti della teoria e della pratica meditativa. Sin dal primo giorno sono evidenziati l’aspetto scientifico e concreto di Vipassana e i benefici che apporta nella vita quotidiana. Per nove giorni, gli studenti osservano il silenzio fra loro, mentre possono discutere di questioni inerenti alla meditazione con l’insegnante e comunicare con i responsabili organizzativi per gli aspetti pratici. I primi tre giorni Il respiro è come un ponte che collega la parte conosciuta della mente con quella sconosciuta, vale a dire la parte della quale siamo consapevoli con quella che opera fuori dal nostro controllo. La respirazione ha uno stretto legame con la mente, perché sono gli stati mentali ed emotivi a determinare la frequenza e la profondità del respiro. I primi due giorni sono dedicati a un esercizio di consapevolezza del respiro, finalizzato allo sviluppo della concentrazione mentale, propedeutica a una profonda trasformazione nella mente. “Nell’ambito dell’esercizio meditativo la concentrazione serve a eliminare l’instabilità, la tendenza della mente a distrarsi continuamente, così da poter esaminare le sue profondità”. (Goenka) Lo studente è invitato a osservare le aree delle narici, al di sotto e all’interno delle stesse e sopra il labbro superiore. È necessario portare e mantenere lì l’attenzione e osservare ogni inspirazione e ogni 342 PARTE TERZA espirazione. Ci si allena a essere consapevoli di ogni variazione del respiro: regolare o irregolare, profondo o lieve, breve o lungo che sia, permettendo alla respirazione di scorrere liberamente, senza interferire. Se la concentrazione è adeguata, dall’osservazione del respiro si passa all’osservazione delle sensazioni fisiche che si manifestano in quella zona circoscritta. Grazie alla ricerca scientifica, oggi sappiamo che nel nostro organismo avvengono innumerevoli processi biologici, fisici, chimici ed elettrici, e che molti altri avvengono a livello molecolare, e che le sensazioni corporee sono una loro manifestazione. Siccome con la meditazione diveniamo consapevoli di esse, possiamo sperimentare questi processi nel nostro corpo, e non limitarci a nozioni intellettuali. All’inizio, probabilmente, percepiremo le sensazioni più intense come, ad esempio, prurito, dolore e pressione; e occorrerà che ci costruiamo un’attitudine equanime per osservarle senza giudicarle o speculare. Allenandoci in alcune piccole aree, ci prepariamo a osservare tutto il corpo con concentrazione ed equanimità. Il quarto giorno Lo studente è pronto a imparare Vipassana. Spostando l’attenzione in tutto il corpo, osserva le sensazioni e cerca di sviluppare un’attitudine equanime (cioè di accettazione e non reazione) verso di esse, per quanto piacevoli o spiacevoli. La mente non è altro che vibrazioni. L’intero universo non è altro che vibrazione, oscillazione. Se la mente è concentrata, può percepire il corpo come 343 La pratica della meditazione un insieme di fenomeni in continuo mutamento: un incessante flusso di vibrazioni e di piccolissime onde, simili a correnti elettriche. Può sperimentare che la solidità del corpo è solo apparente e che, mentre lo osserva, può percepirne la dissoluzione. Nella meditazione, l’aspetto essenziale è l’acquisire saggezza attraverso la consapevolezza equanime della realtà interiore. La misura del nostro successo è la nostra saggezza, cioè la capacità di non reagire. Non ha nessuna importanza il tipo di sensazione che si sperimenta, l’unica cosa importante è osservarla senza giudizio. Vipassana è un processo finalizzato a sviluppare e a mantenere l’equilibrio della mente. E questo equilibrio scaturisce dalla consapevolezza dell’impermanenza. Dobbiamo osservare i fenomeni chimici e fisici che incessantemente si manifestano, sottoforma di sensazioni, senza identificarci con essi, come fossimo scienziati di fronte a fenomeni di laboratorio. L’esperienza di questa equanimità è la chiave per purificare la mente. Scopriremo, infatti, che ogni dolore, inizialmente intenso e a volte insopportabile, tenderà a cambiare, diminuire e dissolversi, come ogni sensazione. Ciò è possibile osservando e accogliendo senza giudicare tutto ciò che si manifesta (senza attaccamento per le sensazioni piacevoli, senza avversione per quelle spiacevoli). Dal 5° al 9° giorno Perseverando nell’osservazione ed esplorando minuziosamente ogni parte del corpo, lo studente continua a migliorare la sua capacità di percepire 344 PARTE TERZA sensazioni. Durante il corso, sono insegnati, gradualmente, differenti metodi di osservazione, con i quali si possono raggiungere livelli sempre più profondi. Anche l’attenzione può essere diretta e guidata in differenti modi, secondo il tipo e l’intensità delle sensazioni. L’osservazione deve essere costante e ininterrotta, perché solo così si potrà sperimentare la realtà dell’organismo: un insieme di processi in continuo mutamento, un rapidissimo e incessante succedersi di fenomeni che interagiscono tra loro. Lo studente sperimenta l’impermanenza e la mancanza di solidità di ogni fenomeno, percepisce la natura insoddisfacente di tutte le cose, e scopre che l’io permanente è solo un’illusione. L’intera pratica è un cammino di purificazione che non permette la nascita di nuovi condizionamenti, ed elimina quelli vecchi. Questa graduale eliminazione ci consente di affrontare le vicissitudini della vita in maniera equilibrata e di vivere in un modo armonioso. Il decimo giorno Dopo giorni d’impegno nell’imparare a padroneggiare e a purificare la mente, si apprende la parte finale della tecnica: la meditazione della benevolenza, mettá. Il meditatore, la cui mente è purificata dalla meditazione, è invitato a condividere con tutti la calma e l’equilibrio raggiunti (grazie agli esercizi della consapevolezza e dell’equanimità). Poi, sono date istruzioni su come mantenere la continuità della meditazione e su come applicare la tecnica, nella vita quotidiana. 345 La pratica della meditazione Lo scopo della meditazione* di S.N. Goenka C’è sofferenza. Questa è un’amara e universale verità che non può essere eliminata ignorandola. Accettare questa realtà della sofferenza è accettare la verità. Solo allora cercheremo una via per uscirne. Chi può avere difficoltà ad ammettere la presenza della sofferenza in questo universo, quando essa è così evidente nella vita dell’uomo e in quella di tutti gli esseri viventi? Non vogliamo certamente dire che nella vita ci sia solo sofferenza, senza una traccia di qualche piacere. Ma i piaceri dei sensi sono qualcosa che possiamo chiamare felicità? Non è forse vero che anche quello spiraglio di felicità contiene in sé l’ombra della sofferenza? Non c’è piacere che sia permanente, immutabile, duraturo. Non c’è alcun singolo piacere della sfera sensuale di cui si possa gioire per sempre. E lo stesso fruitore del piacere non rimarrà in eterno. Chi invece gode dei piaceri con distacco, comprendendo la loro natura transitoria, quando questi finiscono, è sempre indenne dalla sofferenza. Se siamo coscienti della mutevole e impermanente natura dei piaceri, pur godendone, siamo consapevoli della loro intrinseca sofferenza; così non saremo preda del dolore quando finiscono. Osservare la verità della sofferenza quando si prova dolore non è fare esperienza della nobile verità * Dai testi elencati nella Prefazione. 346 PARTE TERZA della sofferenza. Ma percepire la sofferenza latente, il dolore sempre presente, l’inevitabile infelicità insita in situazioni e occasioni in cui siamo nella gioia e nel piacere, questo, sì, è fare esperienza della nobile verità della sofferenza, ed è questa esperienza che veramente ci rende liberi. Fino a quando però siamo incapaci di osservare la reale natura del piacere dei sensi, continueremo ad aggrapparci a essi, e a struggerci per essi. Ed è questa, dopo tutto, la principale causa di tutto il nostro soffrire. Se quindi vogliamo capire pienamente la natura della sofferenza, dobbiamo sperimentare le realtà più sottili. A livello di esperienza, all’interno della struttura del proprio corpo, s’incomincia a osservare la natura transitoria della realtà e poi a comprendere la natura dell’intero universo mentale e materiale. Tutto il mondo dei sensi è impermanente e qualsiasi cosa impermanente è sofferenza. La radice della sofferenza Alla radice di tutto il nostro soffrire, c’è sempre qualche attaccamento, qualche forte desiderio. Cerchiamo allora di capire la natura del desiderio con accuratezza e profondità. Noi sentiamo continuamente un’infinità di desideri. Il desiderio è stimolato se vediamo una forma che ci sembra bella; se ascoltiamo, odoriamo, assaggiamo, tocchiamo qualcosa che è per noi piacevole. Sorge così l’attaccamento verso tutto ciò che di piacevole incontriamo. E anche quando richiamiamo alla memoria un’esperienza che ci ha procurato una sensazione di 347 La pratica della meditazione piacere, siamo desiderosi di provarla di nuovo. Se immaginiamo qualche piacere che non abbiamo ancora provato, siamo desiderosi di provarlo. Il desiderio degli oggetti dei sei sensi (i cinque sensi e la mente) sorge perché gli oggetti dei sensi ci rendono irrequieti, cominciamo a desiderare ciò che non possediamo. Dove ci sono attaccamento e bramosia c’è insoddisfazione e viceversa. E quando il fuoco del desiderio si combina con invidia, ira, illusione, inganno o altro, la sua intensità cresce, col risultato che aumenta anche la nostra sofferenza. E cominciamo a lamentarci. Perché sono inferiore agli altri? Perché questo è capitato a me? Perché questa situazione è così? Perché gli altri hanno di meno o di più? E queste continue domande ci provocano insoddisfazione e dolore. La vita diventa tesa, piena di ansia e irrequietezza, di disordinato affanno. Dopo aver raggiunto un obiettivo, siamo tesi a volere qualcosa d’altro e di più. Siamo in un luogo e vorremmo essere altrove. Acquistiamo qualcosa e già siamo tesi a qualcos’altro. La pace sta nel mantenerci lontano dai tentacoli dell’avidità disordinata e della competizione inutile. Anche quando dobbiamo lavorare duramente per la sopravvivenza, la pace sta nel mantenere sempre la mente serena ed equilibrata, con la comprensione profonda della sua reale natura. Per raggiungere questo stadio è necessario impegnarsi energicamente. Il solo modo è una via concreta: l’auto-osservazione, coltivando il giusto distacco. Questa è la via per raggiungere la fine della sofferenza. Questo è quanto si può apprendere con la pratica della meditazione Vipassana. 348 PARTE TERZA Domande e risposte Domanda: Perché viene data più importanza all’osservazione delle sensazioni del corpo che all’osservazione dei fenomeni della mente? Goenka: Perché il più delle volte non si osserva oggettivamente la mente ma, invischiati in essa, si reagisce. Quando invece si osservano le sensazioni, c’è un’esperienza concreta, priva di immaginazione. Le sensazioni sono nel corpo, ma sono percepite dalla mente: perciò mente e corpo sono coinvolti quando si osservano le sensazioni. Qualsiasi cosa sorga nella mente si manifesta come una sensazione nel corpo. E la sensazione è la radice del problema: noi non reagiamo ai pensieri, ma alle sensazioni fisiche. Può apparire che quando ho un pensiero piacevole, nella mente inizia la bramosia, e quando ho un pensiero sgradevole inizia l’avversione. Ma ciò che si chiama “pensiero piacevole” non è altro che una piacevole sensazione nel corpo. Senza l’osservazione della sensazione fisica, il lavoro interiore è superficiale. E le radici delle impurità rimangono. Cosa avviene nel corpo e nella mente, quando s’inizia a meditare? Il Buddha disse che chi sperimenta il Dhamma, non sperimenta altro che la legge di causa ed effetto. Dovete sperimentarla in voi stessi. E in un corso di dieci giorni avete l’opportunità di imparare come. 349 La pratica della meditazione Non è per curiosità che va indagata la realtà di materia, mente e contenuti mentali, ma per cambiare i condizionamenti mentali al loro livello più profondo. Man mano che procedete, vi accorgerete di come la mente influenzi il corpo e di come il corpo influenzi la mente. A ogni istante nel corpo, masse di particelle subatomiche, in pali kalápas, sorgono e passano. Come sorgono? Una causa del loro sorgere è il cibo che ingeriamo. Altre cause sono l’atmosfera che ci circonda e i condizionamenti mentali del passato. Tutto questo vi diverrà chiaro per esperienza, praticando Vipassana. Domandiamoci: in questo momento qual è lo stato della mia mente e qual è il suo contenuto? La qualità della mente dipende dal suo contenuto. Quando la mente è piena di passione, nel corpo sorgono particelle subatomiche di un tipo corrispondente e comincia a scorrervi un flusso biochimico. Questo flusso di passione o kámásava, inizia poiché la mente è piena di passione. Come lo scienziato, dobbiamo osservare ed esaminare la legge di natura. E ci accorgeremo che, reagendo con bramosia o avversione, ogni stimolo mentale che diamo al flusso bio-chimico, moltiplica e rafforza le impurità, per minuti e a volte per ore. Il risultato è un circolo vizioso di sofferenza. La comprensione intellettuale non lo romperà, ma anzi può persino creare ulteriori difficoltà. Se accettiamo questa legge di natura solo intellettualmente, senza riuscire a cambiare l’abitudine mentale, rimarremo lontani dalla realizzazione della verità ultima. Ciò che chiamiamo mente inconscia, in realtà non è affatto inconscia: essa è sempre in contatto col 350 PARTE TERZA corpo. Ed è attraverso questo contatto che sorge la sensazione. Se valutiamo piacevole o spiacevole la sensazione che proviamo, nelle profondità della mente c’è una reazione di bramosia e avversione, che moltiplica le impurità. Questo processo moltiplica la sofferenza e non possiamo fermarlo, perché c’è una barriera tra la mente conscia e inconscia che, senza la pratica di Vipassana, rimane. Ma quando si infrange, cominciamo a percepire sensazioni in tutto il corpo. Osservandole, cominciamo a sperimentare la loro caratteristica di sorgere e passare. Ed è grazie a questa esperienza che iniziamo a cambiare i modelli mentali. Per esempio, sentiamo una sensazione, e con Vipassana la osserviamo con equanimità, senza reagire. Sperimentandone la natura impermanente, in quei pochi ma meravigliosi istanti, abbiamo cominciato a cambiare il modello mentale. Gradualmente indeboliamo l’abitudine a reagire con automatismo alla sensazione. Inizialmente solo per pochi istanti o minuti, ma con l’esercizio svilupperemo forza e capacità. Man mano che gli abituali condizionamenti verranno meno, anche il comportamento cambierà. Uscirete così dall’infelicità. La meditazione può essere anche uno strumento per una società più armoniosa e produttiva? È idea comune che senza un “io” continuamente stimolato, senza sicurezza di sé e carriera, non si possa avere la forza necessaria per sopravvivere nel mondo. Quando si ha un atteggiamento egocentrico, la tendenza è di fare il più possibile per se stessi, e ciò 351 La pratica della meditazione dà tensione e frustrazione. Quando invece l’ego si dissolve grazie alla meditazione, si fa esperienza che la mente è piena di amore, compassione e benevolenza. Sentite che il vostro lavoro è anche a vantaggio altrui. Vi sentite più rilassati e più attivi. Questa tecnica non vi rende passivi, ma persone responsabili e piene di energia. La società richiede la nostra partecipazione, non si possono chiudere gli occhi e allontanarsene nel nome della meditazione. Occorre dare il proprio contributo. Il Buddha era solito dire che quando si ha fame, non si può praticare il Dhamma, non si può meditare. Questo è un fattore fondamentale. Ogni guerra è nociva, ma l’ideale di mantenerla lontana dalla società non basta. Ognuno deve liberarsi dalla tensione interiore, perché la tensione tra nazioni come tra individui, esiste a causa delle impurità nella mente. L’uomo è un essere sociale. Non è possibile né utile per lui vivere separato dalla società. Il criterio di valutazione del suo essere parte utile della società è il suo contributo nel renderla più pacifica e armoniosa. E il più valido contributo è l’esercitarsi per la liberazione dalle negatività mentali. Con la purezza di mente, qualsiasi servizio si presti, sarà forte, efficace e fruttuoso. Allenatevi a purificare la mente, continuate a esaminare se la state realmente purificando, e fate volontariato senza aspettarvi nulla in cambio. Chi non ha partecipato al corso di Vipassana di dieci giorni può imparare da solo a osservare le sensazioni corporee? 352 PARTE TERZA È essenziale partecipare al corso: la tecnica è come una profonda operazione della mente e quindi è sempre consigliabile che, la prima volta, la si provi alla presenza di un insegnante appositamente formato. Dopo dieci giorni non è necessario si dipenda dall’insegnante: la natura è il vostro maestro, e quando conoscete la strada potete camminare da soli. Il corso serve ad allenare la mente a osservare le sensazioni. Senza allenamento, è molto difficile affrontare una negatività, perché quando si manifesta, può sopraffarvi e impedirvi di osservare le sensazioni col giusto distacco. Una profonda paura o una profonda passione, può venire alla superficie e si può perdere l’equilibrio. Deve esserci una guida che indichi che cosa sta succedendo e come affrontare la situazione. È necessaria una preparazione per partecipare al corso? No, non è necessaria. E i dieci giorni del corso serviranno per tutta la vita. Bisogna essere buddhisti per imparare Vipassana? La tecnica e l’insegnamento sono universali perché universale è la sofferenza. Si può provenire da qualsiasi tradizione, religione o filosofia: come obiettare a sìla, la condotta morale, cioè il vivere senza danneggiare se stessi e gli altri? E come si può fare obiezione a samádhi, lo sviluppo della padronanza sulla mente, con l’utilizzo di un oggetto universale come il respiro? Come obiettare a paññá, lo sviluppo della saggezza attraverso l’esperienza diretta delle universali leggi di natura, con lo scopo di elimi- 353 La pratica della meditazione nare le impurità mentali? Non ci sono obiezioni dovute all’appartenenza a una comunità, nazione, religione o tradizione. La pratica di Vipassana è il cuore dell’insegnamento del Buddha. È accettabile da tutti perché basata su leggi di natura universali e porta concreti benefici nella vita. 354 PARTE TERZA Una storia tradizionale indiana* Narrata da Goenka alla fine dei corsi per evidenziare l’essenzialità della pratica Una volta un giovane professore stava viaggiando per mare. Uomo assai colto e carico di titoli accademici, aveva poca esperienza della vita. Tra l’equipaggio della nave, c’era un vecchio marinaio analfabeta. Ogni sera il marinaio, molto impressionato dalle conoscenze del giovane professore, gli faceva visita in cabina per ascoltare le sue dissertazioni. Una sera, dopo alcune ore di conversazione, il marinaio stava andandosene quando il professore gli chiese: – Ditemi, vecchio marinaio, avete studiato geologia? – Che cos’è? – La scienza della terra. – No, non sono mai stato a scuola. – Allora avete sprecato un quarto della vostra vita. Il vecchio marinaio se ne andò rattristato. Se una persona così istruita dice questo, certamente deve essere vero, ho sprecato un quarto della mia vita! La sera seguente, il professore gli chiese: – Ditemi, avete studiato oceanografia? – Che cos’é? * Da W. Hart, La meditazione Vipassana, op. cit. 355 La pratica della meditazione – La scienza del mare. – No, non ho mai studiato niente. – Allora avete sprecato metà della vita. Il vecchio se ne andò ancora più triste, ho certamente sprecato metà della mia vita, così dice quest’uomo tanto istruito. Di nuovo la sera successiva, il professore gli chiese: – Ditemi, avete studiato meteorologia? – Che cos’è? Non ne ho mai sentito parlare. – Ma come! É la scienza del vento, della pioggia, del tempo. – No. Non sono stato a scuola, non ho mai studiato. – Non avete studiato la scienza della terra in cui vivete, non avete studiato la scienza del mare, sul quale vi guadagnate da vivere, non avete studiato la scienza del clima che incontrate ogni giorno? Avete sprecato tre quarti della vita. Il marinaio era molto infelice: Quest’uomo istrui to dice che ho sprecato tre quarti della mia vita! Deve essere senz’altro vero. Il giorno seguente fu il turno del vecchio mari naio. Corse alla cabina del giovane e urlò: – Professore, avete studiato nuotologia? – Nuotologia? Che volete dire? – Sapete nuotare, professore? – No, non so nuotare. – Professore, avete sprecato tutta la vostra vita! La nave ha urtato contro uno scoglio e sta affondando. Chi sa nuotare, potrà raggiungere la spiaggia vicina, ma chi non sa nuotare, annegherà. Mi dispiace, professore, ma di sicuro avete perso tutta la vostra vita. 356 PARTE TERZA Potete studiare tutte le ologie del mondo, ma se non imparate la nuotologia, i vostri studi sono inutili. Potete leggere e scrivere libri sul nuoto, potete dibattere sui suoi sottili aspetti teorici, ma come vi può aiutare tutto questo, se vi rifiutate di entrare in acqua? 357 La pratica della meditazione Tre episodi dal Canone pali sull’apprendimento Narrati da S.N. Goenka Il panno imbrattato (Dhp, II.3) Ci sono diverse maniere di affrontare le proprie difficoltà, ci sono diverse modalità di apprendimento, e ciascuna va sempre incoraggiata. (Goenka) Una volta, si recarono dal Buddha due fratelli, Paòthaka il maggiore e Paòthaka il minore. Diventarono entrambi monaci e incominciarono a meditare. Il maggiore assimilò con facilità la tecnica e progredì rapidamente. Il fratello minore, invece, era lento e non riusciva nemmeno a seguire le istruzioni più semplici. Il maggiore, dapprima cercò di rincuorarlo ma, quando si rese conto che suo fratello non si era impadronito neppure dei primi rudimenti della tecnica, gli disse: - Questo insegnamento è sottile e difficile da afferrare, forse non è adatto a te. Faresti meglio a cercarti un altro maestro e a provare qualcos’altro. 358 PARTE TERZA Il minore si rattristò molto a queste parole, ma suo fratello maggiore gli aveva suggerito di andarsene, ed egli ubbidì. Uscì, dunque, dal monastero, si sedette sotto un albero, e pianse. A quell’ora, il Buddha ritornava dalla città dove si recava a elemosinare il cibo, e lo trovò che piangeva. – Cos’è che non va, monaco? gli chiese. – Signore, mio fratello mi ha detto che non sono in grado di seguire i vostri insegnamenti e quindi di ndarmene. Sono così infelice! – Sei venuto qua - disse il Buddha - per imparare da tuo fratello o da me? – Da voi, Signore! – Allora, vieni con me. Ti istruirò. E insieme rientrarono nel monastero. Il Buddha sapeva dare precise istruzioni, adatte alle necessità di ciascuno. Si avvide che il ragazzo era incapace di concentrarsi sulla sua realtà interiore, e che aveva bisogno di aiuto. Quindi gli diede uno strofinaccio bianco, appena lavato, rajo-haranaí nella lingua pali del tempo, letteralmente “togli-sporco”. – Chiudi gli occhi – gli disse il Buddha – strofina questo panno tra le mani, e intanto continua a ripetere rajo-haranaí, rajo-haranaí, strofinaccio, strofinaccio. Il giovane Paòthaka si mise a farlo con entusiasmo. La sonorità della parola rajo-haranaí riecheggiava al suo interno e nel giro di un’ora, la sua mente iniziò a concentrarsi. – Adesso – aggiunse il Buddha – apri gli occhi e guarda lo strofinaccio. E Paòthaka vide che, strofinato a lungo, il panno pulito era diventato stropicciato e imbrattato. 359 La pratica della meditazione Chiedendosi da dove venisse quello sporco, si rese conto che poteva provenire solo dalla sua persona e che, dentro di lui, c’era un deposito d’impurità che egli poteva eliminare. – Ora metti via il panno e dimentica quella parola – disse il Buddha – indaga dentro di te: solo così riuscirai a ripulire la tua mente. Il giovane seguì le istruzioni e, liberandosi dai condizionamenti mentali, poté uscire dalla sofferenza. Attraversando strade accidentate (Theragátá, 25) Ramaniya Viharin, figlio di un facoltoso notabile della città di Rājagaha, crebbe tra tutti gli agi che la ricchezza può procurare. Diventato adulto, condusse una vita sregolata, ma fu molto turbato dalla severa punizione ricevuta da un rappresentante del governo, a causa della sua condotta dissoluta. Alla ricerca della pace mentale, giunse allora al centro di meditazione del Buddha e lo ascoltò insegnare il cammino per il raggiungimento della vera felicità. Ispirato decise di farsi monaco: imparò la tecnica di Vipassana, e si ritirò a vivere e a meditare in solitudine. Si applicava strenuamente, ma, nonostante gli sforzi, non faceva progressi perché, a causa delle sue abitudini mentali più radicate, continuava a rotolare in fantasie sessuali e, quando se ne rendeva conto, precipitava in un pantano di sensi di colpa. Sia che si perdesse in tali fantasie o che si disperasse, non stava meditando in modo corretto. 360 PARTE TERZA Un giorno, mentre sedeva, triste e abbattuto, sotto un albero a lato della strada, vide sopraggiungere un carro trainato da un bue; la strada era molto accidentata e, in un punto dissestato, l’animale incespicò e cadde. Premurosamente, il conducente lo aiutò a rialzarsi e a liberarsi dal giogo; poi, gli diede del fieno, una pacca sulla schiena con affetto e lo legò di nuovo al carro. Incoraggiato dal padrone, il bue si rincuorò e riprese a trainare il carro con rinnovato vigore: nonostante gli ostacoli, fu capace di condurre il carro oltre la strada accidentata e proseguire. Nel vedere il modo in cui il bue era stato aiutato a superare gli ostacoli, il monaco comprese come anch’egli avrebbe potuto superare le difficoltà. Impegnandosi con entusiasmo, meditò ardentemente e ottenne la liberazione. Il pungolo dell’elefante (Theragátá, 48-50) Dantika era la figlia di un sacerdote bramino alla corte del re Pasenadi, ed ebbe l’occasione di conoscere il Buddha e il suo insegnamento. A quel tempo viveva nella città di Savatthi, dove sorgeva il grande monastero di Jetavana, dedicato alla pratica di monaci, monache e laici, uomini e donne. Anche Dantika vi meditò, e poi crebbe in lei il desiderio di diventare monaca. Quindi chiese e ottenne l’ordinazione da Maha Paiapati Gotami, madre del Buddha. 361 La pratica della meditazione Una volta monaca, Dantika andò presso il monastero di Rajagaha e s’incamminò sulla vicina montagna Gijjhakuta. Poi si sedette all’ombra di un albero. Mentre la sua mente fantasticava, vide, presso il fiume che lambiva le falde della montagna, un elefante che si bagnava e si sdraiava a riva. Osservò, quindi, il conducente di elefanti che gli si avvicinava e, scudiscio in mano, senza esitazione gli dava un comando. Vide l’elefante prima allungare la zampa, per permettere all’uomo di montargli in groppa, poi alzarsi e dirigersi verso la città, prestando attenzione agli ordini del suo padrone. Se lo avesse voluto, quella grande e potente creatura avrebbe potuto facilmente schiacciarlo. Non lo fece perché era legato a vincoli di obbedienza: accettava gli ordini dell’uomo e lo serviva. Se un uomo con uno scudiscio – rifletté Dantika – può mantenere sotto il suo controllo un animale così forte, perché non dovrei riuscire a controllare la mia mente? Certamente posso! E così, ispirata a meditare in modo risoluto, si recò nella vicina giungla e in breve tempo i suoi sforzi diedero risultati. 362 Glossario dei termini pali Sono elencate le parole riguardanti l’insegnamento della meditazione Vipassana. Per gli altri termini pali presenti, ci sono note nel testo o a piè di pagina. Anápána: respirazione. Anápána-sati: consapevolezza della respirazione. Anattá: assenza di un sé individuale; senza essenza, senza sostanza. Una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, insieme ad anicca, (impermanenza) e dukkha, (sofferenza). Arahant: essere completamente liberato da tutti i condizionamenti; che ha eliminato tutte le impurità mentali. Avijjá: ignoranza, illusione. Il primo anello nella catena del Sorgere Condizionato (paþicca samuppáda). Avijjá, rága (bramosia) e dosa (avversione) sono le tre principali negatività mentali, alla radice di tutte le altre impurità della mente, causa di tutte le sofferenze. Bhávaná: sviluppo, evoluzione mentale. Meditazione che comprende due parti: lo sviluppo della calma mentale o tranquillità (samathabhávaná), che corrisponde alla concentrazione mentale (samádhi), e lo sviluppo della comprensione profonda (vipassaná-bhávaná), che corrisponde alla saggezza (paññá). Lo sviluppo 363 La Saggezza Che Libera di samádhi porta a stadi avanzati di concentrazione mentale (jhána); lo sviluppo di vipassaná porta alla liberazione. Buddha: persona illuminata, libera da tutti i condizionamenti, che ha scoperto la via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, l’ha percorsa e ha raggiunto la meta finale, con i suoi sforzi. Citta: mente. Cittánupassaná, osservazione della mente. Dhamma: fenomeno; oggetto della mente; natura; legge di natura; legge di liberazione, cioè insegnamento di una persona illuminata. Dosa: avversione. Insieme a ignoranza e a bramosia, una delle tre principali negatività della mente. Dukkha: sofferenza, insoddisfazione. Una delle tre caratteristiche di base dei fenomeni, insieme ad anicca e anattá. Jhána: stato di assorbimento mentale o trance. Vi sono otto stadi che possono essere ottenuti con la pratica della concentrazione (samádhi). Dedicarsi a questa pratica porta tranquillità ed estasi, ma non elimina le negatività mentali radicate nel profondo. Kalápa: la più piccola, indivisibile, unità della materia. Kamma: azione, e specificatamente un’azione che si compie e che avrà un effetto sul proprio futuro. Káya: corpo. Kayánupassaná, osservazione del corpo. (V. saþipaþþhána) Magga: sentiero, cammino. Ariya atthaògika magga, il Nobile Ottuplice Sentiero, che conduce alla liberazione dalla sofferenza. È diviso in tre parti: 364 Glossario dei termini pali Sìla, condotta morale, purezza delle azioni vocali e fisiche, comprende: sammá-váca, giusta parola, sammá-kammanta, giusta azione, sammá-ájiva, giusti mezzi di sussistenza. Samádhi, concentrazione o controllo della propria mente, comprende: sammá-váyáma, giusto sforzo; sammá-sati, giusta consapevolezza; sammá-samádhi, giusta concentrazione. Paññá, saggezza, comprensione profonda che purifica la mente, comprende: sammá-saòkappa, giusto pensiero; sammá-diþþhi, giusta comprensione. Mettá: amore incondizionato; benevolenza; buona volontà. È una delle qualità di una mente pura. Mettá-bhávaná, l’apprendimento della pratica di mettá per mezzo di una tecnica di meditazione. Nibbána: estinzione; libertà dalla sofferenza; la realtà ultima; stato incondizionato, che non dipende da condizioni. Paññá: saggezza; comprensione profonda che purifica la mente. La terza parte del Nobile Ottuplice Sentiero (V. magga). Ci sono tre tipi di saggezza: –– suta-mayá paññá, che letteralmente significa saggezza che si ottiene ascoltando altri; –– cintá-mayá paññá, cioè saggezza che si ottiene con l’analisi intellettuale; –– bhávaná-mayá paññá, ovvero saggezza che si sviluppa dall’esperienza. Di queste, soltanto l’ultima, coltivata con la pratica di vipassanábhávaná, può purificare la mente. 365 La Saggezza Che Libera Paþicca-samuppáda: la catena del sorgere condizionato, dell’origine interdipendente, dell’origine causale, di causa ed effetto. Sacca: verità. Le quattro Nobili Verità sono: La verità della sofferenza. La verità dell’origine della sofferenza. La verità della fine della sofferenza. La verità del cammino che conduce alla fine della sofferenza. Samádhi: concentrazione; controllo della propria mente. La seconda delle tre parti del Nobile Ottuplice Sentiero. Se la si coltiva come fine a se stessa, porta al conseguimento di stati di assorbimento mentale, ma non alla liberazione. Per iniziare a meditare con Vipassana è sufficiente un minimo grado di concentrazione, chiamata “momentanea concentrazione” (khanika samádhi). Saípajañña: comprensione della totalità del fenomeno umano: la comprensione profonda della sua natura impermanente, attraverso l’osservazione delle sensazioni fisiche. Saòkhára: reazione mentale; formazione mentale; condizionamento mentale; attività della volizione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con viññána, saññá, e vedaná. Saòkhárupekkhá/Saòkhára-upekkhá: letteralmente “equanimità verso i saòkhára (condizionamenti mentali)”. È lo stadio nella pratica di Vipassana, che viene dopo l’esperienza di bhaòga, e nel quale vecchie impurità, addormentate nell’inconscio, emergono alla superficie della mente, manifestandosi come sensazioni fisi- 366 Glossario dei termini pali che. Conservando l’equanimità (upekkhá) verso queste sensazioni, il meditatore non genera più saòkhára e consente che quelli vecchi siano eliminati. Perciò il processo conduce gradualmente alla loro completa eliminazione. Saññá: percezione; riconoscimento; individuazione. Uno dei quattro processi mentali, insieme a vedaná (sensazione), viññána (cognizione), e saòkhára (reazione). È condizionata dai vecchi saòkhára che ciascuno ha in sé, e perciò riflette un’immagine distorta della realtà. Con la pratica di Vipassaná, saññá si trasforma in paññá, e cioè nella comprensione della realtà così come è. Diventa quindi anicca-saññá, dukkha-saññá, anatta-saññá, asubha-saññá, cioè la percezione di impermanenza, sofferenza, inesistenza di un io e la percezione della natura illusoria della bellezza. Saþipaþþhána: l’instaurarsi della consapevolezza. Gli aspetti di saþipaþþhána sono: 1. l’osservazione del corpo (kayánupassaná), 2. l’osservazione delle sensazioni corporee (vedanánupassána), 3.l’osservazione della mente (cittánupassaná), 4.l’osservazione dei contenuti della mente (dhammánupassaná). Essendo le sensazioni collegate sia al corpo che alla mente, mentre si osservano le sensazioni, indirettamente si osservano anche tutti gli altri aspetti. Sìla: condotta morale; astensione dalle azioni fisiche e vocali che danneggiano gli altri e se stessi. La prima delle tre parti del nobile ottuplice 367 La Saggezza Che Libera sentiero. Taóhá: letteralmente, sete. Comprende sia la bramosia sia il suo contrario, l’avversione. Nel Discorso sulla messa in moto della ruota di Dhamma, il Buddha identificò in taóhá la causa della sofferenza. Nella sequenza dell’origine interdipendente, spiegò che taóhá ha origine dalla reazione alla sensazione. Upekkhá: equanimità; una condizione della mente libera dalla bramosia, dall’avversione, dall’ignoranza. Vedaná: sensazione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, insieme a viññáóa, saññá, e saòkhára. Vedanánupassaná: osservazione delle sensazioni corporee. Secondo l’insegnamento del Buddha, essa è il mezzo con cui esaminare la totalità del corpo e della mente, perché ha componenti sia fisiche sia mentali. Nell’origine interdipendente, taóhá, “sete o bramosia,” ha origine dalla reazione alla sensazione. Imparando a osservare oggettivamente le sensazioni, si può quindi evitare la reazione, e sperimentare la realtà dell’impermanenza. Questa esperienza è essenziale per lo sviluppo della condizione di giusto distacco, che conduce alla liberazione. Viññána: coscienza, cognizione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, insieme a saññá, vedaná e saòkhára. Vipassaná: introspezione, osservazione e comprensione profonda della realtà che purifica la mente; comprensione profonda della natura impermanente della mente e del corpo, attra- 368 Glossario dei termini pali verso la meditazione basata sull’osservazione delle sensazioni corporee. Vipassaná-bhávaná: lo sviluppo sistematico della comprensione profonda della propria realtà, attraverso la meditazione Vipassana. 369 Appendice A Vipassana in Italia e nel mondo I n Italia, il primo corso di meditazione Vipassana, come insegnata da S.N. Goenka, si è svolto nel novembre del 1986. Nel 1991 un gruppo di meditatori ha fondato l’Associazione Vipassana Italia (Ente Morale con D.M. 26/11/1999), che organizza numerosi corsi l’anno, operando nel pieno rispetto dei principi che ispirano questo insegnamento. Dal 2008 i corsi sono tenuti presso il Centro Vipassana Dhamma Atala Via Prov.le 12, Lutirano - 50034 Marradi (FI) Tel. [39] 055 804818 Fax: [39] 049 8591249 Sito web: www.atala.dhamma.org E-mail: [email protected] Il finanziamento dei corsi Le associazioni Vipassana sorte in tutto il mondo operano in autonomia, autofinanziandosi grazie a libere offerte. Secondo la tradizione, infatti, l’insegnamento va dato gratuitamente, e l’organizzazione dei corsi deve essere sostenuta esclusivamente da donazioni ispirate da gratitudine e generosità. Questo per far sì che gli aspetti economici non interferiscano nell’insegnamento. Perciò, chi ha tratto giovamento da un corso e desidera che anche altri ne beneficino, può offrire una donazione, che permetterà l’organiz- 373 La Saggezza Che Libera zazione di altri corsi. In questo modo, svincolati da costi di partecipazione, i corsi sono accessibili a tutti, indipendentemente dalla situazione finanziaria. Per mantenere la purezza della meditazione, i corsi e i centri che operano sotto la sua guida sono senza fini di lucro. Egli non riceve alcun compenso per il suo impegno, e neanche gli assistenti che ha autorizzato a tenere corsi in sua vece e i volontari che collaborano negli aspetti pratici. Goenka offre Vipassana come un servizio all’umanità. L’universalità Il metodo è accessibile a tutti e da tutti può essere accettato, indipendentemente dalla razza, nazionalità, religione, filosofia e opinione politica. Possono beneficiarne uomini e donne provenienti da ogni tradizione e condizione, giovani e anziani, devoti e atei, colti e illetterati, persone di successo e diseredati, carcerati e uomini di governo. I corsi di dieci giorni sono aperti a tutti coloro che siano sinceramente interessati ad apprendere la tecnica. “Priva di connotazione religiosa, essa è per tutti, poiché, essendo la sofferenza, con le sue cause, universale, la via per uscirne deve essere universale”. (Goenka) 374 Appendice A Le applicazioni di Vipassana nella società Vipassana è stata introdotta, attraverso corsi specifici, in differenti ambiti educativi, sociali e lavorativi: scuole e università, aziende (con corsi per dirigenti e quadri), carceri (con corsi sia per i detenuti che per il personale di sorveglianza), centri di riabilitazione per alcolisti e tossicodipendenti (www.startagain. ch), ed enti socio-sanitari per portatori di handicap, ad esempio non vedenti e malati di lebbra. Vi sono associazioni di volontari, che insegnano gli esercizi di consapevolezza del respiro ai ragazzi di strada di Mumbai. Inoltre, in India, molte istituzioni, pubbliche e private, promuovono la partecipazione ai corsi di Vipassana, per i loro dirigenti e impiegati. Informazioni sui corsi per bambini: www.atala.dhamma.org “(…) Possa la prossima generazione sbocciare sulla base di alti valori umani ed essere messaggera di pace per il futuro. È utile imparare Vipassana in giovane età, in modo da poter vivere una vita adulta salutare e armoniosa. Le nuove generazioni hanno menti molto aperte e flessibili. Se ricevono semi di Dhamma a questa età, sviluppando la capacità di auto-osservarsi, questi giovani si stanno preparando a vivere una vita felice”. (Goenka) 375 La Saggezza Che Libera Informazioni sui corsi nelle carceri: www.prison.dhamma.org “(…) Le carceri, in effetti, esistono per aiutare le persone a uscire dalla loro sofferenza, dai loro errori. Vipassana può diventare uno strumento prezioso per loro. Sono contento che si sia cominciato a rendere disponibile questo strumento nelle carceri. Certamente sarà un esempio per il resto del mondo vedere come i prigionieri riescono a migliorarsi e ridiventare parte utile nella società. Vipassana li aiuterà in questo. D’altronde, non solo tra queste quattro mura, ma anche nel mondo esterno, ognuno di noi è prigioniero dei propri condizionamenti e dei comportamenti nocivi della mente. E, sicuramente, questa prigionia è più penosa di quella di un carcere”. (Goenka) Documentari sui corsi nelle carceri: www.pariyatti.org In lingua italiana: Doing Time Doing Vipassana documentario sui corsi di dieci giorni nelle carceri indiane: www.bibliotecavipassana.org La meditazione Vipassana per i dirigenti Dal 2002 sono organizzati corsi specifici, riservati a dirigenti pubblici e privati, in India, Stati Uniti Australia ed Europa. Vi hanno partecipato centinaia di persone con potere decisionale negli ambiti industriale, sociale e politico. 376 Appendice A L’investimento di tempo e di sforzo li ha ampiamente ricompensati. Uno dei benefici acquisiti, infatti, è la capacità di affrontare meglio lo stress e l’ansietà che accompagnano ogni importante decisione, ma i risultati vanno ben oltre. Il corso trasforma queste persone da “maestri negli affari” a “maestri della propria mente”. Con la meditazione essi imparano a essere più controllati, flessibili, disponibili e comprensivi nelle relazioni con i loro colleghi e con i familiari. Diventano anche capaci di integrare principi etici e valori spirituali nell’ambito del loro lavoro. Goenka ha viaggiato e insegnato molto, e il suo passato d’imprenditore (prima di dedicarsi a insegnare Vipassana) ha attratto molti industriali e dirigenti a partecipare ai suoi corsi. Informazioni: www.executive.dhamma.org 377 La Saggezza Che Libera Siti consigliati Corsi: nel mondo: www.dhamma.org in Italia: www.atala.dhamma.org bambini: www.atala.dhamma.org dirigenti: www.executive.dhamma.org detenuti: www.prison.dhamma.org Documentari sui corsi nelle carceri: www.pariyatti.org In lingua italiana “Doing Time Doing Vipassana” (documentario sui corsi nelle carceri indiane) è distribuito da: www.ayana-book.com Libri, articoli, audio, video in lingua italiana: [email protected] www.bibliotecavipassana.org www.bibliotecavipassana.org Libri, audio e video in lingua inglese: www.pariyatti.com e www.ayana-book.com Podcast in: www.executive.dhamma.org www.pariyatti.org www.vri.dhamma.org Vipassana Research Institute: www.vri.dhamma.org 378 Appendice B L’elenco dei centri di meditazione Vipassana Vi sono circa 170 centri operanti nel mondo. Nelle nazioni dove non è disponibile una struttura permanente, i corsi si svolgono in sedi provvisorie (vedi elenco pag. 389). I corsi sono tenuti nella lingua della nazione che li ospita e in lingua inglese. Per l’elenco completo dei centri, il calendario dei corsi e altre informazioni, consultare i siti: www.dhamma.org e www.vri.dhamma.org ITALIA Centro Vipassana Dhamma Atala Località Veriolo, Via Prov.le 12, 50034 Lutirano Marradi (FI) Tel. 0039-055-804818 Fax: 0039-049-8591249 E-mail: [email protected] www.atala.dhamma.org Corsi in lingua italiana in Svizzera: Gruppo Vipassana Ticino Tel:0041-(0)76-2372232 Email: [email protected] www.ticino.ch.dhamma.org 381 La Saggezza Che Libera EUROPA Belgio Dhamma Pajjota Driepaal 3, B 3650 Dilsen-Stokkem, Tel: 0032-(0)89-518230 Fax: 518239 Email: [email protected] www.pajjota.dhamma.org Francia Dhamma Mahī Le Bois Planté, Louesme 89350 Champignelles, Tel: 0033-386-457514 Fax: 457620 Email: [email protected] www.mahi.dhamma.org Germania Dhamma Dvāra Alte Strasse 6, 08606 Triebel, Tel: 0049-(0)37434-79770 Fax: 79771 Email: [email protected] www.dvara.dhamma.org Gran Bretagna Dhamma Dīpa Harewood End, Hereford HR2 8JS, Tel: 0044-(0)1989-730234 Registrazioni: 731023 Email: [email protected] www.dipa.dhamma.org Spagna Dhamma Neru Els Bruguers, Apartado Postal 29, Barcelona.Tel: (34) 93 848 26 95 Email:[email protected] www.es.dhamma.org 382 Appendice B Svezia Dhamma Sobhana Lyckebygården, 599 93 Ödeshög, Tel: 0046-143-21136 Email: [email protected] www.sobhana.dhamma.org Svizzera Dhamma Sumeru No. 140, Ch-2610 Mont-Soleil, Tel: 0041-32-9411670 Fax: 9411650 Email: [email protected] www.sumeru.dhamma.org Per i corsi in lingua italiana: Gruppo Vipassana Ticino (vedi Italia) MEDIO ORIENTE Iran Dhamma Īran www.iran.dhamma.org Israele Dhamma Pamoda www.il.dhamma.org AFRICA Etiopia Informazioni: Douglas Ravenstein www.et.dhamma.org Repubblica del Sud Africa Dhamma Patākā www.pataka.dhamma.org 383 La Saggezza Che Libera AMERICA meridionale Argentina Vi sono tre centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Sukhadā www.sukhada.dhamma.org Brasile Dhamma Santi www.santi.dhamma.org Messico Dhamma Makaranda www.makaranda.dhamma.org Venezuela Dhamma Veṇuvana www.venuvana.dhamma.org AMERICA SETTENTRIONALE Canada Vi sono quattro centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Surabhi www.surabhi.dhamma.org Stati Uniti d’America Vi sono 8 centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Dharā www.dhara.dhamma.org 384 Appendice B ASIA Cambogia Dhamma Laþþhiká www.latthika.dhamma.org Giappone Dhamma Bhānu www.bhanu.dhamma.org Dhammādicca www.adicca.dhamma.org Hong Kong Dhamma Muttā www.hk.dhamma.org/mutta.html INDIA Vi sono più di 50 centri distribuiti in tutto il continente. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Giri Vipassana International Academy www.vri.dhamma.org Indonesia Dhamma Jāvā www.indonesian.dhamma.org Malesia Dhamma Malaya www.malaya.dhamma.org Mongolia Dhamma Mahāna www.mahana.dhamma.org Myanmar Vi sono 15 centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Joti www.joti.dhamma.org 385 La Saggezza Che Libera Nepal Vi sono cinque centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dharmashringa Nepal www.shringa.dhamma.org Sri Lanka Vi sono tre centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Kūta www.kuta.dhamma.org Tailandia Vi sono cinque centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www. dhamma.org o il centro principale: Dhamma Ābhā www.abha.dhamma.org Taiwan Dhammodaya www.udaya.dhamma.org AUSTRALIA E NUOVA ZELANDA Vi sono otto centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org.au o il centro principale: Dhamma Bhūmi www.bhumi. dhamma.org 386 Appendice B Elenco delle nazioni in cui si tengono corsi in sedi provvisorie (gli indirizzi sono in www.dhamma.org) EUROPA Austria, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Grecia, Kirghizistan, Lettonia, Lituania, Macedonia, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria, Uzbekistan. MEDIO ORIENTE Barein, Egitto, Emirati arabi, Libano, Oman. AFRICA Angola, Benin, Burkhina Faso, Ghana, Kenya, Liberia, Marocco, Mauritius, Nigeria, Sudan, Swaziland, Tanzania, Uganda, Zimbabwe. AMERICA MERIDIONALE Bolivia, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Puerto Rico, Santo Domingo, Uruguay. ASIA Corea del sud, Fiji, Filippine, Polinesia francese, Singapore. 387 B I B L I OT E C A • V I PA S S A N A PUBBLICATI 1. W. Hart La meditazione Vipassana come insegnata da S.N. Goenka - Un’arte di vivere L’esposizione dettagliata della tecnica, integrata da racconti, aneddoti e consigli di S.N. Goenka Artestampa ed., 2011 2. S.N. Goenka Vipassana è Per Tutti Scritti, discorsi e interviste di un maestro di meditazione A cura di P. Confalonieri Artestampa ed., 2013 3. La Saggezza Che Libera La meditazione nei discorsi del Buddha Con il commento di S.N. Goenka A cura di P. Confalonieri Artestampa ed., 2013 Edizione ampliata e revisionata CD Audio MP3 1. L’importanza della meditazione Due discorsi di Goenka: Cos’è la meditazione Vipassana? I benefici di Vipassana per gli operatori sociali 2. I discorsi di Goenka nel corso di dieci giorni 3. Consigli ai meditatori Tre discorsi di Goenka e un contributo di Paul Fleischmann B I B L I OT E C A • V I PA S S A N A In programma A. Solé-Leris Quiete e visione profonda L’insegnamento del Buddha Le caratteristiche essenziali della meditazione nelle sue due linee fondamentali: “samadhi–concentrazione” e “vipassana–visione profonda”. Edizione revisionata di La meditazione Buddista ed. Mondadori W. Rahula L’insegnamento del Buddha Versione revisionata dell’edizione Paramita Bhikkhu Analayo Escursioni nel buddhismo antico: 1) Dalla brama alla liberazione 2) Dall’attaccamento al vuoto Versione unificata e revisionata dei due volumi dell’edizione Lulu Questa parte di albero è divenuta libro sotto i torchi di Edizioni Artestampa di Modena nel mese di Dicembre 2013 Possa un giorno, dopo aver ceduto agli uomini il suo carico di conoscenza, ritornare alla terra e diventare un nuovo albero.