RENÉ DESCARTES
REGOLE PER LA GUIDA DELL’INTELLIGENZA [I-XII]
a cura di Dario Zucchello
Sommario
SOMMARIO .........................................................................................................................................2
INTRODUZIONE.................................................................................................................................3
Un metodo senza metafisica................................................................................................................4
BIBLIOGRAFIA.................................................................................................................................13
Edizioni:............................................................................................................................................13
Saggi: ................................................................................................................................................13
REGOLE PER LA DIREZIONE DELL’INTELLIGENZA (I-XII)..............................................14
REGOLA PRIMA ......................................................................................................................................15
Commento .........................................................................................................................................16
REGOLA SECONDA .................................................................................................................................19
Commento .........................................................................................................................................20
REGOLA TERZA ......................................................................................................................................23
Commento .........................................................................................................................................24
REGOLA QUARTA ...................................................................................................................................27
Commento .........................................................................................................................................28
REGOLA QUINTA ....................................................................................................................................31
Commento .........................................................................................................................................31
REGOLA SESTA.......................................................................................................................................33
Commento .........................................................................................................................................35
REGOLA SETTIMA...................................................................................................................................37
Commento .........................................................................................................................................39
REGOLA OTTAVA ...................................................................................................................................41
Commento .........................................................................................................................................43
REGOLA NONA .......................................................................................................................................44
Commento .........................................................................................................................................45
REGOLA DECIMA ....................................................................................................................................46
Commento .........................................................................................................................................47
REGOLA UNDICESIMA ............................................................................................................................49
Commento .........................................................................................................................................50
REGOLA DODICESIMA ............................................................................................................................51
Commento .........................................................................................................................................58
2
Introduzione
3
Introduzione
Un metodo senza metafisica
1
Il manoscritto di quelle che noi oggi chiamiamo Regulae ad directionem
ingenii fu rinvenuto a Stoccolma, tra le carte del filosofo improvvisamente
deceduto durante la sua permanenza presso la locale corte (1650). Fortunosamente trasferito con altro materiale in Francia, ebbe immediatamente una
limitata ma significativa circolazione, per poi sparire nel nulla (certamente fu nelle mani di Chanut, Clerselier, J.-B. Legrand e Marmion). La
tradizione testuale delle Regulae è, dunque, legata a versioni originariamente ricavate dal manoscritto cartesiano, senza alcuna possibilità di
riscontro oggettivo, che non sia quello mediato dal reciproco confronto.
Sostanzialmente tre sono le varianti del testo:
♦ il manoscritto di Amsterdam [A] (copia dell’originale), edito nel 1701
nell’ambito degli Opuscula posthuma, physica et mathematica, su cui poggia la versione proposta da Adam e Tannery 1 ,
♦ il manoscritto [H] ritrovato da Foucher de Careil nel Nachlass (lascito) leibniziano a Hannover, corretto dallo stesso Leibniz [L] 2 ,
♦ la traduzione olandese del 1684, curata da J.H. Glazemaker, che si ritiene ricavata da un’ulteriore tradizione manoscritta [N].
Ovviamente, la possibilità di collazionare le diverse lezioni tràdite, e
quindi di rilevarne gli scarti testuali, le ripetizioni, contraddizioni e
correzioni (come nel caso di [L]), ha consentito di procedere a una definizione dei contorni del probabile dettato cartesiano 3 , abbozzandone addirittura una storia evolutiva 4 .
Accanto ai problemi testuali, abbiamo poi quelli secondari connessi alla
titolazione del lungo frammento, che nell’originale del catalogo di Stoccolma è conservata come Traitè des règles utiles et claires pour la direction de l’esprit en la recherche de la Vérité, resa quindi variamente nella
tradizione, ad esempio come Regulae de inquirenda veritate [H], a conferma
della probabile assenza di un’originaria denominazione, surrogata dalle
indicazioni del contenuto (Leibniz parla anche di Methodus veritatis inquirendae) 5 .
L’aspetto per noi introduttivamente più interessante è, tuttavia, quello
relativo alla collocazione cronologica dell’opera incompiuta all’interno
della produzione cartesiana, che dovrebbe consentirne anche una valutazione
in prospettiva culturale. Operazione non del tutto semplice, trattandosi di
un inedito, ma soprattutto perché presuppone coordinate, non sempre disponibili, circa la biografia del filosofo e la datazione di altri inediti
tematicamente affini: mi riferisco in particolare a altri due frammenti, lo
Studium bonae mentis e la Recherche de la Verité par la Lumiere naturelle,
che, con il Discours de la Méthode, costituiscono le costanti di una delle
piste cardinali della ricerca cartesiana, quella del metodo, appunto.
2
Le 33 pagine della Recherche [nell'edizione Adam-Tannery] rappresentano
il brano di un imponente piano originario, esposto dal personaggio principale (Eudoxe) nella parte iniziale del dialogo: sostanzialmente, la intelaiatura del progetto sembra riflettere l’impianto sistematico alla base
1
) Œuvres de Descartes publiées par C. Adam et P. Tannery, 12 vol., Paris, 1897-1909.
) Si tratta della versione qui utilizzata, secondo l’edizione Descartes, Regulae ad directionem ingenii, kritisch
revidiert, übersetzt und herausgegeben von H. Springmeyer, L. Gäbe, H.G. Zekl, Hamburg, 1972.
3
) Fondamentale in questo senso il contributo di G. Crapulli in R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii.
Texte critique établi par G. Crapulli. Avec la version Hollandaise du XVIIème siècle. Den Haag, 1966.
4
) È il caso di J.P. Weber, La constitution du texte des Regulae, Paris, 1964.
5
) J.-L. Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes, Paris, 1981, pp.13-14.
2
4
Introduzione
dei Principia Philosophiae, semmai con una pretesa enciclopedica che nel
testo del 1644 non è dato riscontrare:
<<Bisognerà cominciare dall’anima razionale, poiché è in essa, che risiede ogni nostra conoscenza; e dopo aver considerato la sua natura e i suoi effetti, ci volgeremo al suo Autore; e una volta
riconosciuto chi esso è, e come egli ha creato tutto quanto è al mondo, rileveremo ciò che v’ha di
più certo riguardo alle altre creature, ed esamineremo in qual maniera i nostri sensi ricevono gli
oggetti, e per qual ragione i nostri pensieri risultano veri o falsi. In seguito metterò in mostra le
opere degli uomini riguardo alle cose corporee; e dopo avervi fatto ammirare le più potenti macchine, i più rari automi, le più appariscenti cose illusorie, e le più sottili imposture, che l’artificio
possa escogitare, io ve ne scoprirò i segreti, che saranno così semplici e così innocenti, che voi ne
avrete motivo per non avere più nessuna ammirazione per le opere delle nostre mani. Io mi volgerò alle opere della natura e dopo avervi fatto vedere la causa di tutti i suoi cangiamenti, la diversità
delle sue qualità, e in qual modo l’anima delle piante e degli animali differisca dalla nostra, vi farò
considerare tutta l’architettura delle cose sensibili; e dopo avervi dato ragguaglio di ciò che
s’osserva nei cieli e di ciò che se ne può giudicare con certezza, mi inoltrerò nelle più assennate
congetture riguardanti ciò che non può essere determinato dall’uomo, allo scopo di spiegare il
rapporto tra le cose sensibili e le intellettuali, e di ambedue col Creatore, l’immortalità delle creature e quale sarà la condizione della loro esistenza dopo la consumazione dei secoli. Dipoi verremo alla seconda parte di questa conversazione, ove tratteremo di tutte le scienze in particolare,
cercheremo ciò che v’ha di più sicuro in ciascuna e proporremo il metodo per spingerle molto più
avanti di quanto non siano state spinte, e per trovare da sé, pur avendo un ingegno mediocre, tutto
ciò che possono trovare gli ingegni più sottili. Dopo aver, così, preparato il nostro intendimento a
giudicare in maniera perfetta della verità, bisognerà anche che noi apprendiamo a regolare la nostra volontà, distinguendo le cose buone dalle cattive, e marcando la vera differenza che passa tra
le virtù e i vizi>> 6
In questo senso, la caratteristica di summa, la scelta della forma dialogica, il modo di trattare singoli argomenti danno al frammento un’impronta
arcaica rispetto ai testi editi del filosofo 7 , sebbene lo sviluppo della
prima parte (l’unica effettivamente articolata), con il suo concentrarsi
sull’ame raisonnable, denoti l’attenzione per uno dei pilastri della metafisica ufficiale del Discours e delle Meditationes, allineando, di fatto,
per questo aspetto, il tentativo della Recherche alla riflessione della
maturità.
D’altra parte, che essa debba essere ascritta all’epoca della composizione delle opere maggiori del filosofo - come tradizionalmente ritenuto,
sulla scorta del biografo Baillet (che propose una datazione tarda, 1648),
dell’Adam (1641), del Gouhier (1647-8) 8 e del Cassirer (1649) 9 , sembrerebbe
contraddetto dalle analisi puntuali condotte da Bortolotti, il quale, dopo
aver rimarcato la implausibilità di un'elaborazione che riprendesse quasi
letteralmente passi di testi cartesiani già pubblicati, ha insistito sulla
qualità peculiare della Recherche: le affermazioni del filosofo rivelerebbero aspetti singolari e di notevole interesse, in particolare l’ardita
idea della comunicabilità e accessibilità di tutta la scienza e di tutta la
filosofia, di tutto il sapere, insomma, anche nei suoi aspetti più complessi e elevati, a tutti gli uomini. Un’idea che, per certi aspetti almeno,
scavalca addirittura la stessa impostazione illuministica: la fiducia che
la scienza possa divenire così accessibile, così universale e propria di
tutti gli uomini, che non vi debbano più essere scienziati e filosofi distinti dagli altri uomini. Questa la convinzione alla base della Recherche
de la Verité: un’idea che lo stesso Descartes avrebbe trovato difficoltà a
sviluppare, abbandonandola in seguito del tutto 10 .
6
) Cartesio, Opere, Bari, 1967, vol. I, pp.107-8.
) A. Bortolotti, Saggi sulla formazione del pensiero di Descartes, Firenze, 1983, p.164.
8
) H. Gouhier, La pensée religieuse de Descartes, Paris, 1924.
9
) E. Cassirer, Descartes. Lehre-Persöhnlichkeit-Wirkung, Stockholm, 1939.
10
) A. Bortolotti, op. cit, pp.156-7.
7
5
Introduzione
L’ingenuità, ma anche l’arditezza e genialità, dell’intuizione cartesiana, fanno trasparire l’entusiasmo di scoperte importanti, la convinzione di
possedere i fondamenti di una nuova scienza, la sicurezza e la fiducia del
giovane filosofo, che si appresta a un’opera estremamente ambiziosa. Temi
che sembrano richiamare più da vicino testi sicuramente anteriori alle
prime opere pubblicate, testi, appunto, come lo Studium bonae mentis e le
Regulae, dove campeggia l’ideale della universalis sapientia, della sagesse. A cui si dovrebbe poi aggiungere il tono della polemica antiscolastica, certamente più aspra rispetto a quella pur presente nelle edizioni destinate alla circolazione ufficiale, e riscontrabile negli inediti
più antichi. Queste considerazioni hanno spinto lo studioso italiano 11 a
suggerire, come probabile datazione del frammento, i primi mesi del soggiorno olandese del filosofo, tra il 1628 e il 1629, epoca cui risalirebbe
il primo approfondimento metafisico, secondo l’indicazione fornita nel
Discours, che potrebbe riflettersi nel taglio enciclopedico, ma con una
nuova, forte impronta metafisico-teologica, dell’inedito in questione.
3
Per quanto riguarda lo Studium bonae mentis, le coordinate cronologiche
sono senz’altro più agevoli, trattandosi di una raccolta di frammenti conservati dalle parafrasi di Baillet, che già dai contemporanei erano attribuiti alla giovinezza di Descartes, ricevendo poi, nella storia della critica successiva, una sistemazione tra i primissimi testi cartesiani. Se la
Recherche, accanto all’approccio metodologico, palesava decisamente la
propria aspirazione sistematica, innestando sui temi delle Regulae (come
avremo modo di mettere in evidenza) l’ideale della fondazione inattaccabile
del sapere, lo Studium rivela la propria immaturità nel pesante debito
culturale con la tradizione rinascimentale, attraverso cui, pure, s'abbozzavano i tratti della svolta che sarà poi rappresentata dal Discours.
Infatti, secondo la testimonianza di Baillet, l’opuscolo giovanile aveva
in varie parti un andamento autobiografico, che richiama da vicino la prima
parte del saggio del 1637. Il tema della bona mens (bon sens) doveva, insomma, dominarne l’apertura, probabilmente coniugandosi con l’altro, classico, del naturale desiderio di sapere e delle sue estrinsecazioni settoriali nelle varie branche scientifiche (classificate in cardinales, expérimentales e libérales, secondo una terminologia che non ha riscontro in
altri testi, editi o inediti 12 ). Da quanto si evince dal resoconto di Baillet, pur essendo privilegiato il modello di certezza garantito da la vraye
Philosophie, qui dépend de l’entendement e da la vraye Mathématique, qui
depend de l’imagination, nell’ambito delle scienze sperimentali (della
natura) non trovava ancora posto l’idea di una scienza fisico-matematica,
che tanta parte avrà nelle ricerche posteriori, a partire dall’incontro con
il fisico olandese Beeckman, nell’autunno del 1618, come verificheremo
anche nelle Regulae. A confermare la giovinezza dell’autore, che potrebbe
quindi aver composto le note dello Studium prima della partenza per i Paesi
Bassi, nell’ottobre del 1618 13 .
D’altra parte, per il nostro scopo è interessante rimarcare alcuni risvolti: la polemica più evidente (rispetto al Discours) contro la cultura
tradizionale, in un contesto sicuramente più ampio e articolato della rievocazione posteriore; la curiosità rivolta verso le tendenze occultistiche.
L’art.5 attesta la profondità e radicalità, il carattere netto, decisivo,
totale della rottura del giovane Descartes con la cultura scolastica (fatta
propria dalla Ratio studiorum dei Gesuiti 14 ), nonché l’interesse per la
contemporanea tarda scienza rinascimentale, incarnata dall’esperienza rosa11
) Anche sulla scia del precedente di G. Cantecor, À quelle date a-t-il écrit la Recherche de la Verité?, in
<<Revue d’Histoire de la Philosophie>>, II, 1928, pp.254-289.
12
) A. Bortolotti, op. cit., pp.26 ss.
13
) È la convinzione di Bortolotti, op. cit., p.31.
14
) Ibidem, p.43.
6
Introduzione
crociana. A ciò dovremmo aggiungere un ulteriore elemento, desumibile,
secondo Bortolotti, dal resoconto di Baillet: una possibile breve parentesi
scettica, seguita alla delusione per il sapere di scuola, in cui s'inserirebbero le ricerche intorno alla lezione dei, e la speranza riposta nei
Rosacroce. Una proposta che consentirebbe di valutare in una nuova ottica
le incidenze, riscontrabili nei testi posteriori, di Montaigne e Charron.
4
Il dato cronologico delle Regulae può essere introdotto a questo punto:
tra l’acerbo disegno dello Studium e l’ambizioso progetto della Recherche.
Quasi universalmente è stato accettato come limite della loro composizione
il 1628, data del definitivo trasferimento di Descartes in Olanda, mentre
alla loro maturazione avrebbero contribuito in modo decisivo i colloqui con
il già citato Isaac Beeckman, in occasione del primo viaggio olandese,
dieci anni prima. Le Regulae, in altre parole, coprirebbero la fase di
svolgimento della riflessione cartesiana sul metodo, innescata dalle ricerche in ambito latamente matematico, fino ai primi spunti di indagine metafisica, probabilmente da collocare tra il 1628 e il 1629. Da qui
l’importanza del testo, anche tenendo conto della posteriore ricostruzione
del Discours.
Ciò detto, non va sottovalutato lo spettro tematico delle Regulae, che
per molti versi ancora si confrontano con motivi della cultura rinascimentale (la catena delle scienze, l’arte della memoria, la dialettica), per
altri anticipano in alcuni passaggi le classiche stazioni della filosofia
prima cartesiana, quali il dubbio e il cogito, introducendo di fatto concetti squisitamente metafisici, come quello delle nature semplici e della
loro estraneità alle categorie della ontologia aristotelica, o della implicita distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie. Gli studi di
Weber hanno, in questo senso, fatto emergere tutto lo spessore storicoculturale del testo, distribuendone la composizione tra il 1619 (Regula I)
e il 1628 (Regula XII), e seguendone le evoluzioni e involuzioni, tra conferme e riprese, nelle varie tradizioni manoscritte, e tra regola e regola.
Come ribadiscono anche le ricerche più recenti, il metodo delle Regulae
sarà poi quello sinteticamente, quasi cripticamente presentato nel Discours, esemplificato nei saggi che l’accompagnavano, e particolarmente
documentato e approfondito nella Geometrie 15 .
La parte qui tradotta è la prima (l’unica sostanzialmente completata) del
progetto abbozzato nell’ultimo paragrafo della Regula XII, di una redazione, in pratica, avanzata dell’opera, secondo lo scavo di Weber. Le prime
dodici norme svolgevano, infatti, la metodica delle propositiones simplices, la seconda dozzina quella dei problemi perfettamente compresi, la
terza quella dei problemi non perfettamente compresi: in altre parole, la
prima parte affrontava le questioni di fondo e di carattere generale, nella
seconda e nella terza si metteva mano a una tecnica di definizione dei dati
incogniti a partire da quelli conosciuti (sufficienti o meno alla soluzione
del problema).
Si trattava, in questa accezione, del tentativo di trasformare, con la
astrazione, l’algebra geometrica in una sapientia universalis. I motivi
universalistici, intravisti nello Studium, erano qui ripresi in un contesto
matematizzante, che rinveniva il filo della catena scientiarum, sia come
collegamento, sia come enciclopedia, nella struttura del procedimento razionale, con la connessa convinzione di poter conoscere tutto, di poter
risolvere ogni problema con le regole del metodo, enucleate dall’esercizio
dell’unica forma di sapere certo e evidente, quello matematico appunto.
D’altra parte, come in precedenza registrato nei frammenti giovanili,
l’affidabilità epistemologica delle scienze matematiche emergeva da un
quadro sconfortante della cultura contemporanea, scolastica e non, che
15
) D. Garber, Descartes et la Méthode en 1637 in AA.VV., Le Discours et sa méthode, sous la direction de N.
Grimaldi et J.-L. Marion, Paris, 1987.
7
Introduzione
nemmeno la precedente disponibilità per le scienze curiose (per usare il
linguaggio del Discours) poteva ormai riscattare. Un quadro dal sapore
scettico, secondo la probabile lezione di Charron, come vuole il Sirven 16 , e
Montaigne, come rilancia tra gli altri Bortolotti: di là dalla posizione
culturale cui, in ogni modo, Descartes si sottrae con l’approdo nella certezza, è da valutare il senso teoretico di questo passaggio, che ricorda da
vicino la contemporanea fruizione baconiana dei temi montaignani.
Nell’inglese, infatti, il rilievo del carattere meramente disputativo del
sapere di scuola, o della sterile delicatezza di quello retorico-umanistico
è funzionale alla forte denuncia di un atteggiamento colpevolmente rinunciatario di fronte al mondo naturale, che avrebbe segnato la tradizione
metafisica platonica e aristotelica - disponibili a risolvere sul piano
esclusivamente verbale il paziente confronto umilmente sviluppato dai primi
autori greci. L’autore delle Regulae fa, a sua volta, sporgere sulla vuota
inconcludenza delle presunzioni scolastiche (capaci di sortire solo risultati discutibili) l’inequivocabile univocità e conclusività delle matematiche. Come ha giustamente rilevato Alquié, esse sono preferite alla logica
sillogistica non semplicemente per il loro rigore, in ogni caso non superiore a quello degli sterili sillogismi, semmai proprio per la loro fecondità 17 .
La polemica, comune a Bacone e Descartes, nei confronti dei pregiudizi di
scuola e della vacuità delle pretese della filosofia, conduceva così, positivamente, a costatare l’urgenza di una riforma del metodo, che avrebbe
dovuto assicurare non la ricerca di una verità puramente speculativa, ma di
un sapere in grado d’incidere efficacemente nella vita. Tuttavia, di là da
assonanze più o meno puntuali - il mito di Teseo, la centralità della memoria (debito da entrambi pagato alle fortune rinascimentali dell’ars Raimundi) - il programma cartesiano diverge in modo netto da quello baconiano.
Alla preoccupazione dell’inglese (che si tingeva culturalmente del probabile afflato puritano per la renovatio) per una restaurazione del corretto
approccio umano al mondo naturale, emendato dalle presunzioni platonicoaristoteliche, che garantisse un rispecchiamento ex analogia universi preliminare e funzionale alle possibilità di manipolazione della natura a
vantaggio dell’umanità stessa -, il giovane Descartes contrapponeva
un’operazione di marca più decisamente mentalistica, supponendo, in altre
parole, meccanismi gnoseologici rigorosamente vincolati all’ingenium, cui
subordinare la stessa oggettiva alterità del mondo. Un procedimento che
Bacone avrebbe annoverato tra quelli distorcenti, ex analogia hominis.
5
A improntare tale operazione erano due passaggi essenziali:
• l’idea dell’unità delle scienze, a dispetto della diversità dei loro
rispettivi oggetti (Regula I),
• l’idea dei limiti della conoscenza umana (Regula VIII) 18 .
Ogni conoscenza certa e evidente è tale nella misura in cui ci consente
di evitare l’errore, in forza della sua struttura concettuale: questa, a
sua volta, rappresenta la sola condizione di ogni certezza gnoseologica. Le
prime dodici regole non fanno, nella sostanza, che modulare queste idee,
precisando in particolare la natura di tale struttura concettuale.
Anche in questo caso si possono indicare le stazioni cardinali del discorso cartesiano:
1. assoluto privilegiamento del modello matematico in quanto indiscutibile nei suoi esiti,
2. focalizzazione delle modalità conoscitive intorno a cui esso si costruisce,
3. ulteriore determinazione della specificità del loro oggetto,
16
) J. Sirven, Les années d’apprentissage de Descartes, Paris, 1930, p.261.
) F. Alquié, La découverte métaphysique de l’ homme chez Descartes, Paris, 1987, p.62.
18
) L. Gäbe, in Descartes, Regulae ad directionem ingenii cit. p.XXXVII.
17
8
Introduzione
4. individuazione degli strumenti atti a favorire la piena funzionalità
della conoscenza, assicurando quel livello d’intelligibilità che deve essere proprio di ogni scienza.
Il riferimento alla struttura concettuale è direttamente implicato ai
punti 2 e 3, dal momento che l’intuizione e la deduzione sono da Descartes
distinte soprattutto per la natura semplice o complessa del loro oggetto, e
quindi per la puntualità o linearità dell’atto cognitivo. La novità cartesiana è, in questo senso, costituita dal trapianto dell’ordine astratto che
essenzia le matematiche in altri ambiti, cui dovrà applicarsi, secondo le
esigenze proprie della razionalità, l’artificiale riduzione del complesso
al semplice, per garantire la stessa trasparenza intelligibile manifestata
in quelle scienze. Con un ulteriore, fondamentale riconoscimento: che in
tale riduzione non si dovrà tenere conto della natura ontologica del problema considerato, ma, appunto, solo della possibilità di elaborazione dei
suoi dati in funzione del nostro intelletto.
L’enucleazione della mathesis universalis quale nocciolo di ogni procedimento razionale capace di produrre certezza, comportava, insomma, la estensione delle tecniche di idealizzazione matematica, alla luce della relativa
dicotomia “semplice-complesso”. È nella Regula V (una delle più antiche,
secondo Weber) che Descartes prospetta un procedimento a due tappe:
• una di progressiva reductio delle proposizioni involute e oscure a altre più semplici,
• l’altra di ricostruzione del complesso, a partire dalla intuizione del
più semplice.
In tal modo, ogni indagine avrebbe preso le mosse da una questione, con
metodo successivamente ridotta a questioni più semplici, la cui soluzione è
presupposta per la risoluzione della questione originaria. Secondo la più
tarda Regula VIII, questa procedura ci avrebbe invece condotto da problemi
relativamente specifici a altri più elementari, generali e fondamentali:
seguendo coerentemente la serie riduttiva si sarebbe approdati a una intuizione ultima, punto di partenza per la ricostruzione, attraverso cui sarebbero state serialmente dedotte le soluzioni delle questioni sollevate,
nell’ordine inverso alle riduzioni 19 .
Come può ricavarsi dalla Regula XII, nel corso della propria riflessione
il giovane filosofo doveva aver maturato la convinzione che ogni procedimento di analisi era destinato a terminare con un ventaglio ristretto di
nature semplici, che si trattava poi di disporre per la soluzione finale.
La struttura di ogni conoscenza rimandava, così, all’ordine di composizione
di tali elementi intuitivi, in successive stratificazioni di proposizioni
meno generali. In questo modo, effettivamente, la mathesis universalis si
rivela essenzialmente come scienza dell’ordine, di un ordine, come già
abbiamo avuto occasione di segnalare, logico, imposto arbitrariamente dalla
nostra mente al proprio oggetto, per illuminarlo intelligibilmente.
Su questo terreno si faceva chiaro il confronto con la tradizione aristotelica. La natura simplicissima, la res simplex, come è stato giustamente
rilevato 20 , non è né semplice, né propriamente una natura. Infatti, invece
della cosa considerata in se stessa, secondo la sua ousia o physis, la
espressione denota la cosa considerata respectu nostri intellectus, o in
ordine ad cognitionem nostram, con l’esplicito rilievo della sua relatività
rispetto allo status delle categorie della lezione aristotelica. Noi, dunque, non cogliamo la verità di un’essenza, ma quel che è in primo luogo per
conoscibile dell’ente, e conoscibile facilmente, quindi con certezza. Le
nature semplici costituiscono non i preesistenti referenti ontologici su
cui deve ritagliarsi il processo gnoseologico, piuttosto i prodotti finali
di tale processo 21 .
19
) D. Garber, op. cit., p.70.
) J.-L. Marion, Cartesian metaphysics and the role of the simple natures in AA.VV., The Cambridge Companion to Descartes, ed. by J. Cottingham, Cambridge, 1992, p.115.
21
) Ibidem.
20
9
Introduzione
D’altra parte, esse non sono neppure semplici nel senso in cui si dicono
semplici gli atomi o gli elementi: la semplicità è sempre relativa al nostro ingenium. Nell’esempio cartesiano estensione, figura e movimento non
sono reali elementi del corpo, ma ciò cui la nostra illuminazione intellettuale riduce il corpo: la loro semplicità è, di conseguenza, funzionale e
epistemologica.
6
Che rapporto si può rintracciare tra questi temi e il concetto di mathesis universalis? Nella Regula IV, discutendo dell’esigenza di un metodo per
la ricerca della verità, Descartes ricorda (come farà ancora nel Discours)
come la sua attenzione fosse stata originariamente attratta dalle matematiche, dal cui studio non fu in ogni caso del tutto soddisfatto: ciò che
realmente lo interessava non era l’integumentum d’apparati segnici, ma la
logica essenziale del procedimento, che, a sua detta, si poteva intravedere
nei testi di alcuni autori antichi, come Pappo e Diofanto, in cui la vera
matematica era di fatto un metodo di scoperta. L’analisi praticata (teoretica, quando procedeva a stabilire la verità di un teorema, problematica
quando, al contrario, puntava a determinare qualcosa di sconosciuto - ma il
filosofo riconoscerà sostanzialmente solo questo secondo tipo) poteva essere facilmente trapiantata dal tradizionale terreno del computo, nella misura in cui se ne fossero privilegiati gli aspetti strutturali 22 .
La strategia di Descartes rivela il suo peculiare contributo alla matematica classica, cui pure pretendeva di richiamarsi: contributo da individuare soprattutto nel livello di astrazione conseguito, in primo luogo svincolando il numero dalle intuizioni spaziali (caratteristiche della matematica
antica), quindi liberando ulteriormente l’algebra dall’interpretazione
rigorosamente numerica (introducendo lettere al posto di cifre). La natura
astratta di tale algebra garantiva la sua forza, la sua potenziale estendibilità, come dimostra in particolare la Regula XII.
Il progetto di una fisica matematica apriva, semmai, una serie di problemi di traducibilità di quelle astrazioni in termini fisici, che, nelle
Regulae, in genere, il filosofo cerca di risolvere rinviando alle nature
semplici. Esse sono in questa sede classificate in puramente intellettuali
(la cui conoscenza richiede solo un certo grado di razionalità), puramente
materiali (che richiedono il contributo dell’immaginazione) e comuni. Se il
primo gruppo costituisce la diretta premessa del lavoro metafisico, il
secondo era il perno della nuova interpretazione del mondo naturale. Colte
dall’intelletto nella propria rarefazione intuitiva, le nature semplici
puramente materiali potevano essere rappresentate nell’immaginazione come
grandezze estese, con una traduzione della notazione algebrica astratta nel
linguaggio geometrico, quindi ulteriormente riferirsi all’estensione materiale degli oggetti, secondo uno schema che avrà particolare fortuna nella
cultura scientifica secentesca, quello delle qualità primarie (riducibili,
in ultima istanza, a estensione e movimento) e di quelle secondarie (di
natura percettiva, soggettiva).
Così la matematizzazione, rigorizzazione del metodo scientifico da applicare a ogni ambito d’indagine, primo fra tutti quello fisico, s'avvaleva da
un lato della generalizzazione delle procedure algebriche, così da ridurre
l’analisi dei problemi a esercizio di ordinata disposizione di entità astratte, dall’altro, in virtù della loro traducibilità geometrica, della
possibilità per la immaginazione di trasformare quel linguaggio in rappresentazioni spaziali, a loro volta applicabili a un mondo fisico adeguatamente idealizzato.
7
22
) S. Gaukroger, The nature of abstract reasoning: philosophical aspects of Descartes’ work in algebra in
AA.VV., The Cambridge Companion to Descartes cit. pp.105-6.
10
Introduzione
Si è detto in precedenza dell’eco rinascimentale di questo testo, in particolare per l’entusiasmo enciclopedico che esso sembra dischiudere. La
convinzione tipicamente rinascimentale nella possibilità di costruire
un’enciclopedia del sapere, fondata su alcuni, pochi, semplici principi,
come abbiamo visto, si manifesta nei concetti di universalis sapientia e
mathesis universalis. Pur essendo le Regulae composte con uno spirito già
decisamente rivoluzionario, nella mathesis universalis ancora si rifrangono
le grandi illusioni che circolavano, all’epoca, tra molti studiosi, sulla
possibilità di scoprire una sapienza universale capace di risolvere tutto.
Come ha rilevato Bortolotti 23 , tra coloro che in quegli anni usarono più
frequentemente il termine mathesis troviamo uno dei più caratteristici
esponenti dell’ideale enciclopedico-pansofico, lo Alsted, la cui lezione
giungerà a influenzare anche la formazione del giovane Leibniz.
A questo dato culturale possiamo subito collegarne un altro, riguardante
proprio l’impronta matematica del progetto. Un riscontro significativo è
offerto dagli appunti giovanili classificati come Cogitationes privatae: da
esse risulta l’intenzione cartesiana di comporre un’opera di argomento
matematico (Thesaurus mathematicus), nel cui progetto s’avverte una concezione ancora mitica della disciplina, la speranza che con il suo avallo si
possa dirimere ogni difficoltà 24 . Una concezione che riflette la partecipazione del giovane Descartes al clima culturale che aveva fatto registrare
gli sviluppi della mistica del numero, dell’harmonia mundi, della divina
proportio, e che si può percepire nel giovanile Compendium musicae e
nell’interesse manifestato per scritti matematici permeati della mistica
neoplatonica e neopitagorica.
C’è, tuttavia, a mio modo di vedere, un elemento culturale ulteriore che
sembrerebbe chiaramente riportare le Regulae, nonostante la loro carica di
rottura e il loro innovativo contributo metodologico, nell’alveo delle
prove segnate dall’esperienza rinascimentale. Mi riferisco al carattere
tecnico delle norme proposte, quasi si trattasse di una ars.
Sebbene la Regula I sottolinei nettamente lo scarto tra pura cognitività
delle scienze e condizionamento sensibile-materiale delle arti (che sempre
presuppongono particolari attributi corporei e il loro continuo esercizio),
è poi vero che la tendenza di fondo cartesiana nel nostro testo è quella di
individuare gli strumenti che intervengono a favorire l’efficacia delle
procedure della nostra razionalità. Così le matematiche offrono la palestra
ideale per cogliere in trasparenza l’attività fisiologica della mente,
consentendo quindi, con l’esatta determinazione di intuizione e deduzione,
di approntare la strategia metodologica della semplicità.
La successiva attenzione per quanto può giovare a quell’attività, il rilievo della sagacia e perspicacia fanno pensare a un’idea del metodo cui,
nonostante l’astrattezza del modello algebrico, non può mancare, anche per
i motivi che in precedenti passaggi abbiamo chiarito, la pratica e la padronanza tecnica.
Il fatto che le Regulae affrontino tematiche apparentemente metafisiche,
come quella delle nature semplici puramente intellettuali (che avrebbero in
seguito ricevuto nella produzione cartesiana ben altro approfondimento),
rimarcando il proprio disimpegno ontologico, può, a mio avviso, spiegarsi
proprio con la probabile esasperazione tecnicistica, e con l’illusione di
poter risolvere analiticamente i problemi senza scadere sul piano del confronto scolastico, assicurando un rigore che l’analogo tentativo dialettico, portato avanti dalla tradizione retorica rinascimentale, non poteva
vantare.
Questa lettura tecnica del testo potrebbe essere ancora suffragata dal
ruolo centrale svolto dalla enumerazione. Come risulterà dal commento, essa
per un verso è associata direttamente all’elaborazione dell’ordine artificiale, funzionale alla comprensione del problema o dell’oggetto di studio;
per altro, invece, si collega all’interpretazione cartesiana dei processi
razionali, per cui la deduzione si costruisce come catena di passaggi in23
24
) A. Bortolotti, op. cit., pp.106-7.
) Ibidem.
11
Introduzione
tuitivi, in cui la certezza non può coniugarsi con l’evidenza, associata
alla puntualità dell’intuire. Le tecniche di revisione e velocizzazione dei
passaggi avevano in fondo il compito di trasformare tendenzialmente il
movimento deduttivo nell’immediatezza intuitiva, mutuandone l’evidenza. Con
il conseguente ricorso, direttamente ricavato dalla tradizione dell’arte
della memoria, alle risorse della strategia mnemotecnica proprio per annullare l’ipoteca rappresentata dai possibili fallimenti della memoria, quasi
a volerne cancellare il ruolo.
12
Introduzione
Bibliografia
Si fa qui di seguito riferimento a alcuni testi essenziali
un’introduzione al problema del metodo, avendo cura di segnalare
l’asterisco quelli che lo studente potrebbe utilizzare con profitto:
per
con
Edizioni:
• (*) Cartesio, Opere, a cura di E. Garin, Bari, 1967.
• R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii (Regeln zur Ausrichtung
der Erkenntnis), herausgegeben von H. Springmeyer, L. Gäbe, H.G. Zekl,
Hamburg, 1973. [Edizione qui seguita per la traduzione].
• R. Descartes, Règles utiles et claires pour la direction de l’esprit,
par J.-L. Marion, The Hague, 1977.
Saggi:
• J. Sirven, Les années d’apprentissage de Descartes, Paris, 1930.
• L.J. Beck, The method of Descartes, Oxford, 1952.
• J.P. Weber, La constitution du texte des Regulae, Paris, 1964.
• (*) AA.VV., Cartesio, a cura di G.B. Gori, Milano, 1977.
• J.-L. Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes, Paris, 1981.
• W. Röd, Descartes. Die Genese des cartesianischen Rationalismus, München, 1982.
• (*) A. Bortolotti, Saggi sulla formazione del pensiero di Descartes,
Firenze, 1983.
• (*) J. Cottingham, Descartes, Oxford, 1986.
• F. Alquié, La découverte métaphysique de l’ homme chez Descartes, Paris, 1987.
• AA.VV., Le Discours et sa méthode, sous la direction de N. Grimaldi et
J.-L. Marion, Paris, 1987.
• (*) G. Crapulli, Introduzione a Descartes, Roma-Bari, 1988.
• D. Judovitz, Subjectivity and representation in Descartes. The origins
of modernity, Cambridge, 1988.
• (*) F. Bonicalzi, L’ordine della certezza. Scientificità e persuasione
in Descartes, Genova, 1990.
• (*) A. Koyré, Lezioni su Cartesio, Milano, 1990.
• E.R. Grosholz, Cartesian method and the problem of reduction, Oxford,
1991.
• AA.VV., The Cambridge Companion to Descartes, edited by J. Cottingham,
Cambridge, 1992.
• (*) J. Cottingham, A Descartes dictionary, Oxford, 1993.
13
Regole per la direzione dell’intelligenza (I-XII)
Regole per la guida dell’intelligenza
Regola prima
Il fine degli studi deve essere quello di guidare la mente nella formulazione di giudizi sicuri e veri, intorno a tutte le cose che si presentino.
1. È consuetudine degli uomini, ogni qual volta scoprano qualche somiglianza tra due cose,
giudicare d'entrambe, anche per ciò in cui esse sono differenti, in conformità a quello che
hanno verificato vero dell’una o dell’altra. Così, accostando maldestramente le scienze,
che consistono interamente nella cognizione dell’animo, alle arti, che richiedono un certo
esercizio e una certa abitudine del corpo, e vedendo che non tutte le arti si possono apprendere contemporaneamente da uno stesso uomo, ma che riesce più facilmente ottimo
artista colui che ne esercita una soltanto, poiché le stesse mani non possono adattarsi tanto
agevolmente a coltivare i campi e suonar la cetra, o a svariati mestieri di tal genere, quanto
a uno solo di essi, credettero che accadesse lo stesso anche con le scienze, e, distinguendole tra loro per la diversità degli oggetti, hanno ritenuto che siano da conseguire ognuna per
sé, prescindendo da tutte le altre. In ciò si sono completamente ingannati. Infatti, non essendo tutte le scienze altro che l’umano sapere, che rimane sempre uno e medesimo per
quanto applicato a soggetti differenti, né mutua da essi maggior distinzione di quanta la luce del sole dalla varietà di cose che illumina, non è necessario vincolare l’intelligenza a alcun limite: dal momento che la conoscenza di una verità non ci distoglie dalla scoperta di
un’altra, come invece l’esercizio di un’arte, risultando piuttosto d’aiuto. Certamente desta
la mia meraviglia il fatto che la maggior parte degli uomini indaghi in modo estremamente
diligente le virtù delle piante, i moti degli astri, le trasformazioni dei metalli e gli oggetti di
simili discipline, e che nel frattempo quasi nessuno si dia pensiero della retta mente, o di
quest'universale Sapienza, sebbene tutte le altre cose siano da stimare non tanto per sé,
quanto perché a essa contribuiscono in qualche modo. Così non senza motivo proponiamo
prima di tutte questa regola, poiché nulla ci allontana di più dalla corretta via d’indagine
della verità che il dirigere gli studi a qualche fine particolare, piuttosto che a tal fine generale. Non parlo di fini perversi e riprovevoli, come sono la vana gloria e il turpe guadagno:
è evidente che a ciò aprono un percorso assai più spedito i falsi argomenti e le beffe preparate per l’ingegno del volgo, di quel che non sia possibile alla solida conoscenza del vero.
Piuttosto intendo riferirmi a quelli onesti e lodevoli, perché da questi siamo ingannati spesso in modo più sottile: come quando ricerchiamo scienze utili alle comodità dell’esistenza,
o a quel piacere che si ritrova nella contemplazione del vero, e che in questa vita è quasi
l’unica integra felicità, non turbata da alcun dolore. Possiamo infatti attenderci questi frutti
legittimi delle scienze, ma se pensiamo a quelli mentre studiamo, spesso essi fanno sì che,
da parte nostra, s'ometta molto di ciò è necessario alla conoscenza d'altre cose, o perché a
prima vista poco utile, o perché apparentemente poco interessante. È da ritenere, dunque,
che tutte le scienze siano così collegate tra loro che risulti di gran lunga più semplice impararle tutte insieme che non separarne una dalle altre. Se quindi qualcuno ha intenzione
d'investigare seriamente la verità delle cose, non deve preferire una scienza particolare: sono infatti tutte congiunte tra loro e reciprocamente dipendenti. Pensi, piuttosto, unicamente
a incrementare il natural lume di ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di
scuola, ma perché l’intelletto possa indicare alla volontà, nei singoli casi della vita, quel
che sia da scegliere; presto verificherà con meraviglia d'aver fatto progressi di gran lunga
più consistenti di quelli conseguiti da chi s’applica a discipline particolari, e d'aver rag-
Regole per la guida dell’intelligenza
giunto non solo tutte le cose che gli altri desiderano, ma anche quelle che superano le loro
possibili aspettative.
Commento
L’opera si apre con una netta presa di posizione (di sapore platonico)
contro la confusione generata dai giudizi fondati su aliquam similitudinem,
che, condotti di fatto superficialmente su somiglianze, finiscono poi con
il lasciarsi sfuggire le differenze strutturali. Un appunto, questo cartesiano, funzionale alla successiva, sottolineata demarcazione tra arte e
scienza, tra l'habitus specifico, implicito nella pratica particolare di
ogni singola arte, e l’unità dell'humana scientia. Quello che l’autore
esplicitamente contrappone (a dispetto delle sfocature che possono nascere
nell’accostamento) è, da un lato, la cognitio animi, costitutivamente fondante il sapere scientifico, dall’altro l’abitudine e l’esercizio che qualificano le arti. In questo senso, Descartes può effettivamente concludere
che, nel caso delle scienze, la loro organizzazione puramente intellettiva
escluda la parcellizzazione dell’attività sui singoli oggetti di studio come invece inevitabile nella prassi delle arti, che richiedono addestramento specifico -, garantendo in tal modo la densità, omogeneità e unità
dell’umano sapere.
Introdotta questa puntualizzazione teoretica, è agile approdare a una prima
fondamentale acquisizione (cum scientiae omnes nihil aliud sint quam humana
scientia, quae semper una et eadem manet, quantumvis differentibus subjectis applicata), illustrata dal pregnante accostamento metaforico (di chiara
matrice platonica) alla luce solare nel suo rapporto con gli oggetti illuminati. La tradizionale (nel platonismo e nell’agostinismo) centralità
dell’illuminazione trascendente (e quindi del Bene o di Dio come condizioni
trascendentali) è così rovesciata per concentrare nella mens quella facoltà
di illustrare, che si risolverà, come vedremo, in un rapporto immediato
della ragione con se stessa 25 . Come il sole, l'humana scientia rimane invariabilmente identica a se stessa, riversando la propria "luce incolore"
(Cassirer) e imponendo la propria uniforme signoria sugli oggetti. In tal
modo si compie anche una conversione del punto di vista scientifico,
dall’intelligibilità intrinseca dell’oggetto, all’intelligibilità proiettata nella cognitio animi.
In che senso debba intendersi il richiamo cartesiano all’unità della scienza, lo chiarisce efficacemente uno dei maggiori interpreti delle Regulae 26 :
<<Tutte le scienze sono così strettamente interdipendenti, talmente legate insieme, che è più facile apprenderle tutte insieme che isolarle l’una dall’altra. Non deve esserci per Descartes che una sola specie di
conoscenza, un solo livello di intelligibilità, una sola forma di certezza scientifica e un solo metodo per
acquisire questa certezza, che ci dà la garanzia irrevocabile di essere in possesso della verità. La scienza è
una, perché si riduce a una legge semplice di evidenza, perché è determinata dalla stessa mente umana,
nella quale il lumen naturale è sempre identico a se stesso, in ogni circostanza. La scienza è una, infine,
perché non vi sono molte specie di conoscenza, dal punto di vista dell’intelligibilità>>.
Ricondotte in precedenza la scienza a esercizio cognitivo della mente, e
l’arte a esercizio (e quindi disposizione) del corpo, Descartes ha buon
gioco a condensare nella logica stessa dell’esercizio cognitivo la soluzione del nesso interno alle diverse discipline scientifiche, risultando sostanzialmente ininfluente la specificità degli oggetti quando centrale è
25
26
) F.Alquie, in R. Descartes, Ouvres philosophiques, Paris, 1963, vol. I, p.78.
) L.Beck, Unità del pensiero e del metodo in AA.VV., Cartesio, Milano, 1977, p.40.
16
Regole per la guida dell’intelligenza
l’atto dell’intelligenza. Recentemente la Judovitz 27
effetti di questa scelta cartesiana:
ha sintetizzato gli
<<Così la basilare separazione di arti e scienze ha tre maggiori conseguenze: la separazione di mente e
corpo, l’implicita esclusione dell’esperienza e la definizione della ragione come un processo puramente
cognitivo>>.
Si comprenderà allora come Descartes possa sostenere che la cognitio unius veritatis non ci allontani dalla scoperta (inventio) di ulteriori
verità, rivelandosi, al contrario, di ausilio: se, come recita questa prima
regola, il fine degli studi deve essere quello di guidare la mente nella
formulazione di giudizi sicuri e veri, intorno a tutte le cose che si presentino, sarà proprio dalla riflessione sulla peculiare facoltà illuminatrice della bona mens, sulla sua fisiologica attività, che si potrà chiaramente definire quella humana universalis Sapientia, radice di ogni acquisizione veritativa, su cui ritagliare le indicazioni di metodo. Una posizione
anticipatrice delle fondamentali pagine del Tractatus de intellectus emendatione di Spinoza (che conosceva un manoscritto di queste Regulae cartesiane), dove il metodo è, appunto, riflessione sull’idea vera (idea ideae).
Anche in questo caso il punto di riferimento è sicuramente spostato, dalla
sostanza, che assicura la universalità ontologica del sapere aristotelico,
all’esercizio corretto della mente, in cui risiede l’universale sapienza.
D’altra parte, come hanno segnalato Sirven 28 , Marion 29 e Gäbe 30 , si fa
strada, già da queste primissime pagine del testo, la tensione polemica
verso la tradizione aristotelica: la sottolineatura dell’unità delle scienze sottintende uno spostamento di baricentro, eversivo della sillogistica
aristotelica, o, almeno, delle premesse epistemologiche di quel modello
inferenziale, in cui la specificità dei principi implicava l’articolarsi
delle scienze sulla specificità degli oggetti. La necessità della struttura
della scienza in Aristotele dipendeva dalla necessità dei principi (oltre
che dalla coerenza formale dell’inferenza), costitutivi della natura
dell’oggetto; Descartes, sin dalla prima regola, si trova a fondare la
necessaria validità del sapere scientifico sulla natura stessa della mente,
e sulla trasparenza dei suoi processi gnoseologici.
Da un punto di vista culturale questo intervento cartesiano potrebbe rievocare il dibattito tardo scolastico di Suarez (secondo la puntuale indicazione di Sirven), presente indubbiamente nella formazione a La Fleche, ma
tanto più le intenzioni metodologiche di P. Ramo (Scholae dialecticae,
1569). Questi, ribaltando la strategia anti-platonica di Aristotele nei
confronti della dialettica come episteme fondante, aveva rilanciato proprio
il progetto di una scienza universale, terreno comune a tutte le scienze,
coincidente con la potenza e natura della ragione che s'applica a tutte le
cose per comprenderle. Il discorso ramista culminava con la stessa immagine
impiegata da Descartes:
<<come nel mondo c’è un unico sole, dalla cui luce qualunque cosa è illuminata, così c’è un’unica, comune, universale ragione, con cui ogni cosa è sviluppata e portata a decisione>> 31 .
La direzione della svolta cartesiana potrebbe, quindi, in qualche modo
esser stata ricavata dalla concezione dialettico-retorica del ramismo: i
contenuti e lo sbocco sono in ogni caso del tutto originali, come vedremo.
Il senso di questa prima regola è quello di richiamare la ricerca metodologica dalla dispersione nelle tecniche (anche dialettico-retoriche) alla
27
) D.Judovitz, Subjectivity and representation in Descartes. The origins of modernity, Cambridge, 1988, p.44.
) J.Sirven, Les années d’apprentissage de Descartes, Paris, 1928, p.161 ss..
29
) J.L.Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes, Paris, 1981, pp.30 ss..
30
) L.Gäbe, Anmerkungen in R. Descartes, Regeln zur Ausrichtung der Erkenntniskraft, Hamburg, 1973, pp.1823.
31
) Citato in L. Gäbe, op. cit., p.184.
28
17
Regole per la guida dell’intelligenza
messa a fuoco di quegli aspetti cognitivi che, soli secondo l’autore, giustificano l’esser scienza della scienza, e ne individuano i caratteristici
livelli di trasparenza intelligibile. La rilevanza del cogitare de bona
mente si inquadra dunque nell’orizzonte della corretta via di indagine
intorno alla verità, nella misura in cui si risolve nel cogitare tantum de
naturali rationis lumine augendi. Ogni scienza, così ridotta all’umano
sapere, deve condurre all’analisi di questo sapere come tale. Per dirla con
F. Bader 32 , nessun sapere particolare è possibile senza sapere del sapere, e
questo deve essere riconosciuto come ciò che principalmente lo determina e
lo fonda.
D’altro canto, questa riflessione sull’universale sapienza non implica
una mera esercitazione scolastica sulla struttura formale della scienza:
proprio muovendo dall’intreccio delle scienze, dalla loro connessione, è
possibile a Descartes proporre quell’esame, capace di focalizzare e sviluppare le dinamiche del sapere, come passo decisivo per la soluzione dei
problemi concreti, nei singoli casi della vita, rimarcando come, giustamente in virtù di quell’impronta puramente cognitiva che la costituisce, la
scienza, in altre parole l’umana facoltà di conoscere, è tanto più efficacemente risolutrice, quanto più esclusivamente auto-trasparente.
32
) F. Bader, Die Ursprünge der transzendentalphilosophie bei Descartes. Band I: Genese und Systematik der
Methodenreflexion, Bonn, 1979, p.253.
18
Regole per la guida dell’intelligenza
Regola seconda
Occorre occuparsi solo di quelle cose alla cui certa e indubitabile conoscenza la nostra
intelligenza appare essere sufficiente.
1.Ogni scienza è cognizione certa e evidente; né chi dubita di molte cose è più dotto di chi
non abbia mai pensato a esse, ma, nondimeno, appare più ignorante di quello, se riguardo a
alcune concepisce falsa opinione; è perciò meglio non studiare piuttosto che occuparsi d'oggetti così difficili che si sia poi costretti, incapaci di discernere il vero dal falso, a assumere
come certo quanto è invece dubbio, dal momento che in quelle non c’è tanto speranza d'aumentare la conoscenza, quanto pericolo di diminuirla. Così con questa proposizione respingiamo tutte quelle cognizioni soltanto probabili, e stabiliamo che non si debba prestare fede
se non a quelle perfettamente note e di cui non sia possibile dubitare. E sebbene i dotti siano
anche convinti che di simili ne esistano ben poche, perché purtroppo, per un qualche vizio
ricorrente nel genere umano, hanno evitato di riflettere su tali cognizioni, come troppo facili e
ovvie per chiunque, io ammonisco comunque che sono di gran lunga più numerose di quanto
ritengano, e tali da essere sufficienti alla dimostrazione certa d'innumerevoli proposizioni,
intorno a cui finora hanno potuto discutere solo in termini di probabilità. E dal momento che
credettero indegno per un dotto riconoscere di non sapere qualcosa, essi si sono abituati a
adornare le loro false ragioni, così da persuadere poi, un po’ alla volta, se stessi, spacciandole
dunque per vere.
2. In vero, se osserviamo bene questa regola, si presentano pochissime cose al cui apprendimento sia lecito dedicarsi. A mala pena c’è, infatti, nelle scienze qualche questione su cui
spesso uomini d’ingegno non abbiano dissentito tra loro. Ma ogni volta che i giudizi di due
persone sulla medesima cosa vanno in direzioni opposte, è certo che l’uno o l’altro almeno si
sbaglia, e nessuno di loro dimostra di possedere scienza; se in effetti l’argomento di uno fosse
certo e evidente, egli potrebbe proporlo all’altro, così da convincere anche l’intelletto. Di tutte
le cose, quindi, che sono oggetto di simili opinioni probabili, riteniamo non si possa acquistare perfetta scienza, perché non è lecito, senza temerità, sperare per noi stessi più di quanto gli
altri abbiano conseguito; in modo che, se calcoliamo bene, tra le scienze già scoperte non
rimangono che l’aritmetica e la Geometria, cui l’osservanza di questa regola ci riporti.
3. Né tuttavia condanniamo con ciò quel modo di filosofare che gli altri hanno finora elaborato, e quegli strumenti, adattissimi alla polemica, costituiti dai sillogismi probabili delle
scuole, che esercitano e promuovono, con una certa dose d'emulazione, l’intelligenza dei
fanciulli, la quale è di gran lunga più efficacemente formata con tali opinioni, seppur
d’apparenza incerta risultando controverse tra gli eruditi, che se fosse lasciata a se stessa.
Senza guida, infatti, essa s'affretterebbe forse verso il precipizio; ma, sin tanto che insista
sulle tracce dei precettori, può anche deviare talvolta dal vero, tuttavia certamente imboccherà
un cammino che sarà più sicuro, almeno per il fatto d’essere stato sperimentato da persone più
prudenti. E noi stessi siamo felici d’essere stati un tempo educati così nelle scuole; ma giacché siamo ormai sciolti dall’impegno che ci legava alle parole del Maestro, e finalmente, per
l’età abbastanza matura, abbiamo sottratto la mano alla ferula, se vogliamo seriamente proporre a noi stessi delle regole con il cui aiuto sia possibile ascendere ai vertici della conoscenza umana, questa deve trovare posto tra le prime, che ammonisce di non abusare dell’ozio,
come fanno molti che trascurano qualunque cosa sia facile, e non s'occupano che di cose
ardue, intorno a cui ingegnosamente costruiscono congetture certamente sottilissime e argo-
19
Regole per la guida dell’intelligenza
menti assai probabili, ma, dopo molta fatica, si rendono conto, troppo tardi, d'aver aumentato
soltanto la quantità dei dubbi, e di non aver appreso invece alcuna scienza.
4. Ora comunque, dal momento che poco fa abbiamo detto che tra le discipline conosciute
solo l’aritmetica e la Geometria sono pure da ogni vizio di falsità o incertezza, per valutare
con più diligenza la ragione per cui ciò si verifica, è da notare che noi giungiamo alla conoscenza delle cose per una duplice via, cioè attraverso esperienza o attraverso deduzione. È da
notare inoltre che l’esperienza delle cose è spesso fallace, mentre la deduzione, ossia la pura
illazione di una cosa dall’altra, può certamente essere omessa, se non è colta, ma non può mai
essere condotta male da un intelletto che appena sappia ragionare. E mi sembra che a ciò poco
siano di giovamento quei vincoli dei Dialettici, con cui essi ritengono di governare la ragione
umana, anche se non nego che possano essere adattissimi per altri usi. In vero, ogni inganno
in cui possano cadere gli uomini, dico, non le bestie, non proviene mai da cattiva illazione,
ma da ciò solo, che sono supposte certe esperienze poco comprese, oppure sono avanzati
giudizi fortuiti e senza fondamento.
5. Da queste cose s'evince chiaramente per quale motivo Aritmetica e Geometria si mostrino di gran lunga più certe delle altre discipline: perché esse sole vertono su un oggetto così
puro e semplice, non supponendo proprio nulla che l’esperienza abbia reso incerto, ma consistono totalmente nella deduzione razionale delle conseguenze. Esse sono quindi fra tutte
massimamente facili e perspicue, e hanno un oggetto quale richiediamo, risultando l’errore,
nel loro ambito, quasi non umano, a parte il caso di un’inavvertenza. Né ci si deve per ciò
meravigliare, se l’intelligenza di molti si rivolge piuttosto a altre arti o alla Filosofia: ciò
accade, infatti, perché ognuno si permette di divinare con più confidenza in una cosa oscura
che non in una evidente, e è di gran lunga più facile congetturare qualcosa intorno a una
qualsiasi questione, che non pervenire alla verità nel caso di una questione anche facile.
6. In vero già da tutto ciò si deve concludere non certamente che si debba apprendere solo
Aritmetica e Geometria, ma semplicemente che chi ricerca il retto cammino verso la verità
non debba occuparsi d'altro oggetto che non possa vantare una certezza pari a quella della
dimostrazioni aritmetiche e geometriche.
Commento
La seconda stazione della ricerca cartesiana si apre con una definizione
o, meglio, caratterizzazione della scienza come cognitio certa et evidens,
che consente all’autore di approfondire in prospettiva il sondaggio avviato
con l’originaria distinzione tra arte e scienza. Dopo aver messo in guardia
dalle superficiali analogie che fraintendono l’impianto epistemico delle
scienze, Descartes rimarca la natura evidente, autocertificante del vero
sapere, così nettamente circoscritto tanto rispetto al contraddittorio,
quanto alle cognizioni soltanto probabili. Con un ulteriore, significativo
rilievo: che la riflessione su tali cognizioni rischia di far regredire il
sapere, invece di aumentarlo.
Il sottinteso (anche in considerazione di quanto emerso nella precedente
ricerca) è che solo l’analisi di un modello epistemico forte possa autorizzare la speranza di incrementare il natural lume di ragione. Di qui la
indicazione a prestare fede solo alle cognizioni perfettamente note e di
cui non si può dubitare, dove solo la disponibilità di tutti i dati sufficienti alla soluzione\intellezione di un problema giustifica la compiutezza
e trasparenza dell’analisi. Ovviamente, introducendo una simile certificazione, Descartes prende commiato dalle strategie della cultura tradizionale, colpevole di mancanza di coraggio critico e d’appiattimento su
un’apparente sapienza, meramente verbale (o verbifica, in senso baconiano).
20
Regole per la guida dell’intelligenza
Attenendosi coerentemente alla regola d'occuparsi soltanto di quelle cose
alla cui certa e indubitabile conoscenza la nostra intelligenza appare
essere sufficiente (di fatto, come vedremo, riflettere su oggetti che il
nostro ingenium sia in grado di ricostruire nella trasparenza dei propri
processi razionali), il campo d’indagine si restringe notevolmente. Si
riconosce, infatti, che a mala pena c’è nelle scienze qualche questione su
cui uomini d’ingegno non abbiano dissentito spesso tra loro: riallacciandosi probabilmente al precedente ramista, Descartes coinvolge il nesso tra
certezza (requisito del vero sapere) e persuasione. La scienza come cognizione certa e evidente sarà, dunque, necessariamente persuasiva, in forza
della propria struttura logica, in polemica con il presunto sapere dei
dotti contemporanei, e a dispetto degli artifici retorici. La definizionecriterio introdotta comporta allora un approdo rigorosamente esclusivo: se
calcoliamo
bene,
tra
le
scienze
già
scoperte
rimangono
soltanto
l’aritmetica e la Geometria, cui l’osservanza di questa regola ci riporti.
Il canone epistemologico forte preludeva appunto al privilegiamento del
modello matematico, per l’immediatezza dei processi di verifica e certificazione, fondati sulla speculare adesione ai meccanismi della ratio. In
questo senso, la purezza e trasparenza cristallina della struttura epistemica delle matematiche offriva a Descartes l’opportunità di esaminarne la
logica, preparandone l’eventuale trapianto in altro contesto. La certezza
delle matematiche assicurava, insomma, l’atmosfera adatta per isolare,
nella rarefazione dalle impurità empiriche, e nell’intensità della illuminazione razionale, la dinamica logica del nostro ingenium, così approntando
una metodologia conseguente.
Non a caso, a questo punto del testo si inserisce il primo esplicito richiamo gnoseologico: alla conoscenza delle cose giungiamo per una duplice
via, cioè attraverso esperienza o attraverso deduzione. Con la scontata,
ulteriore dicotomizzazione tra esperienza fallace (o in ogni modo incerta)
e deduzione cogente, da un lato, e l’accentuazione dei rischi di facili
contaminazioni, dall’altro. Alla luce di quelle differenze e di questi
rischi, si legittima nuovamente (dopo il precedente riconoscimento di persuasività) il privilegiamento delle matematiche: esse sole vertono intorno
a un oggetto così puro e semplice, non supponendo
proprio nulla che
l’esperienza abbia reso incerto, ma consistono totalmente nella deduzione
razionale delle conseguenze. La facilità e chiarezza derivante da questo
peculiare statuto comporta necessariamente un vantaggio assoluto, quello
della inerranza (risultando l’errore, nel loro ambito, quasi non-umano, a
parte il caso di un’inavvertenza), realizzandosi proprio nelle matematiche,
in tutta evidenza, la situazione canonica di piena autosufficienza della
nostra intelligenza.
Coerentemente, l’ultimo capoverso rileva l’intima relazione tra matematiche e metodo, e quindi la strumentalità e funzionalità paradigmatica del
loro studio in vista della definizione del retto cammino verso la verità.
Allontanata ogni scoria sensibile e ogni inquinamento corporeo, riportato
l’ingenium alla propria dimensione puramente cognitiva (applicandolo a un
oggetto semplice e puro), rimarcata l’infallibile cogenza della razionalità
umana esercitata nei limiti della sua logica intrinseca, è finalmente possibile osservare la mente al lavoro (Beck):
<<Lo studio delle scienze matematiche costituisce una sorta di propedeutica propria a ogni pensiero corretto, perché esse sono un esempio dell’esercizio della mente che si applica a pensare rettamente>> 33 .
<<Le scienze, sottratte alla molteplicità cui le condanna la pluralità degli oggetti e ricondotte all’unicità
dell’umano sapere, guardano alle matematiche come ad una guida, in quanto hanno già realizzato, spontaneamente, quanto a tutte promette il metodo>> 34 .
33
34
) L. Beck, op. cit., p.41.
) F. Bonicalzi, L’ordine della certezza. Semplicità e persuasione in Descartes, Genova, 1990, p.40.
21
Regole per la guida dell’intelligenza
Le matematiche sono così parametri di conoscenza perché in esse il metodo
è già all’opera, ragion per cui, interpretando la loro certezza un ruolo
svelante rispetto al metodo stesso, la riflessione meta-matematica ne assicura l’estensibilità e quindi l’utilità 35 .
Facilmente individuabile l’oggetto della polemica cartesiana nella parte
centrale della regola: il sapere disputatorio, sterile della scolastica,
ancora studiata a La Fleche, la sua valenza esclusivamente didattica, essenzialmente condizionata dal rapporto di subordinazione all’autorità, e
quindi in contrasto con l’esigenza di persuasività e trasparenza del vero
sapere, che, vedremo, sarà infatti caratterizzato dalla criticità.
35
) Ibidem, p.41.
22
Regole per la guida dell’intelligenza
Regola terza
Intorno agli oggetti proposti si deve ricercare non ciò che altri abbiano opinato o che noi
stessi sospettiamo, ma ciò che chiaramente e evidentemente possiamo intuire o dedurre per
certo; infatti la scienza non s'acquisisce in altro modo.
1. Si devono leggere i libri degli Antichi, dal momento che è un notevole beneficio che noi
si possa utilizzare le fatiche di tanti uomini: sia per conoscere quelle cose che già una volta
sono state correttamente rintracciate, sia anche per essere messi sull’avviso di quali rimangano ulteriormente da cercare in tutte le discipline. Intanto, però, è molto pericoloso che qualche
macchia d’errore, contratto per eccessivo zelo nella loro lettura, aderisca a noi, contro la
nostra volontà e malgrado ogni attenzione. Gli scrittori hanno la tendenza, infatti, ogni volta
che nel decidere intorno a qualche opinione controversa siano caduti in un’inconsulta credulità, a impegnarsi per trarci in quella direzione con sottilissimi argomenti; al contrario, tutte le
volte che abbiano scoperto felicemente qualcosa di certo e evidente, non l'esibiscono mai se
non involuto in varie ambiguità, temendo forse che con la semplicità sia diminuita la dignità
dell’argomento trovato, o perché c'invidiano l’aperta verità.
2. Ora invece, anche se tutti fossero ingenui e sinceri, e non spacciassero a noi per vere
delle cose dubbie, ma le esponessero tutte in buona fede, dal momento che tuttavia non è
quasi mai detta una cosa da qualcuno, senza che da qualche altro non sia sostenuto il contrario, saremmo sempre incerti a chi dei due si debba credere. Non servirebbe a nulla calcolare i
voti, per seguire quell’opinione sostenuta dal maggior numero di Autori: se infatti si tratti di
questione difficile, è più credibile che la sua verità possa essere ritrovata da pochi, piuttosto
che da molti. Ma anche quando tutti consentissero tra loro, non sarebbe sufficiente la loro
dottrina: non riusciremo mai, in vero, a essere, per esempio, Matematici, sebbene si tenga a
memoria tutte le dimostrazioni d'altri, se non siamo poi d’ingegno adatti a risolvere qualunque
problema; oppure Filosofi, se avremo letto tutti gli argomenti di Platone e Aristotele, ma non
siamo poi in grado di portare stabile giudizio sulle cose proposte: così infatti mostreremmo
d'avere appreso non conoscenze scientifiche, ma storia.
3. Si tenga conto, inoltre, che nessuna congettura si deve mescolare ai nostri giudizi sulla
verità delle cose. Il badare a ciò non è cosa di poco momento: non c’è infatti ragione più forte,
per cui nulla ormai si trovi nella Filosofia volgare di così evidente e certo da non poter essere
trascinato in controversia, del fatto che dapprima gli studiosi, non contenti di conoscere le
cose perspicue e certe, hanno osato asserire anche cose oscure e ignote, che attingevano con
congetture solo probabili; prestando poi loro stessi a tali cose, un po’ alla volta, una fede
totale e mescolandole indiscriminatamente con le vere e evidenti, non hanno infine potuto
concludere nulla che non sembrasse dipendere da qualche proposizione di tale specie, e dunque non fosse incerto.
4. Ma perché in futuro non si cada nello stesso errore, saranno qui censite tutte le azioni
del nostro intelletto, attraverso cui possiamo pervenire alla conoscenza delle cose senza alcun
timore d’inganno: ne sono ammessi solo due, in pratica l’intuizione e la deduzione.
5. Per intuizione intendo non l’incostante testimonianza dei sensi, o il fallace giudizio
dell’immaginazione malamente combinatrice, ma il concetto della mente pura e attenta, tanto
facile e distinto, che intorno a ciò che conosciamo non rimanga assolutamente alcun elemento
di dubbio; ovvero, ciò che è lo stesso, un concetto non dubbio della mente pura e attenta, che
nasce dalla sola luce della ragione, e, in quanto più semplice, più certo di quella stessa deduzione, di cui pure sopra notammo come non possa essere fatta male dall’uomo. Così ognuno
può intuire con l’animo che egli esiste, che il triangolo è delimitato solo da tre linee, la sfera
23
Regole per la guida dell’intelligenza
da una sola superficie, e simili, cose di gran lunga più numerose di quanto ritengano i più,
giacché essi disdegnano di volgere la propria mente a cose tanto facili.
6. Del resto, perché non accada che qualcuno sia colpito dal nuovo uso del termine intuizione e degli altri che, di seguito, tenterò analogamente d'allontanare dalla comune significazione, qui in generale avverto che non mi curo affatto di come ogni vocabolo nei tempi recenti sia stato utilizzato nelle scuole, poiché sarebbe difficilissimo utilizzare gli stessi nomi ma
associarvi nell’animo cose del tutto diverse; ma che presto attenzione solo al significato latino
delle singole parole, affinché tutte le volte che manchino espressioni adeguate io possa portare al mio significato quelle che mi sembrano più adatte.
7. Ma quest'evidenza e certezza dell’intuizione è richiesta non per i soli enunciati, ma anche per qualsiasi altro discorso. Infatti, per esempio, si dia questa sequenza: 2 e 2 danno lo
stesso risultato di 3 e 1; non si deve soltanto intuire che 2 e 2 fanno 4, e 3 e 1 ancora 4, ma,
oltre a ciò, che da queste due proposizioni è ricavata necessariamente quella terza.
8. Di qui può già essere sorto il dubbio sulla nostra aggiunta, oltre all’intuizione, di un altro modo di conoscenza, che avviene attraverso deduzione, per la quale intendiamo tutto ciò
che è concluso necessariamente a partire da altre cose conosciute con certezza. Ma ciò è stato
indispensabile, dal momento che moltissime cose si sanno con certezza, sebbene di per sé non
evidenti, nella misura in cui siano dedotte da veri e noti principi, attraverso un moto continuo
e mai interrotto di pensiero, che intuisca in modo perspicuo le singole cose. Non diversamente
conosciamo che l’ultimo anello di una lunga catena è connesso con il primo, anche se con un
solo e medesimo sguardo non contempliamo tutti gli anelli intermedi da cui dipende quella
connessione, ma, avendoli semplicemente verificati in successione, ricordiamo che i singoli
sono tra loro connessi, dal primo all’ultimo. Qui, dunque, distinguiamo l’intuizione della
mente dalla deduzione certa per questo motivo, che in questa si concepisce un moto o una
certa successione, in quella invece no; e inoltre, perché a questa non è necessaria la contemporanea evidenza, come all’intuizione: essa, piuttosto, mutua dalla memoria la sua certezza.
Da cui s'evince come si possa affermare che quelle proposizioni, le quali siano ricavate immediatamente da principi primi, da un diverso punto di vista, possono essere conosciute ora
per intuizione, ora per deduzione, mentre gli stessi principi primi solo per intuizione e le
conclusioni remote in nessun altro modo che per deduzione.
9. Così, queste due sono vie certissime alla scienza, né se ne devono ammettere di più numerose dal lato dell’intelligenza, mentre tutte le altre sono da rigettare come sospette e passibili di errore; il che, tuttavia, non impedisce che noi si creda, come più certe di ogni altra
conoscenza, quelle cose che siano divinamente rivelate, giacché la fede in esse, sebbene
investa cose oscure, non è atto dell’intelligenza ma della volontà; e che, se tale fede debba
avere nell’intelletto delle fondamenta, esse, più di ogni altra cosa, si possano e debbano ricavare attraverso una delle vie indicate, come forse un giorno mostreremo più ampiamente.
Commento
L’aspetto critico rilevato in conclusione della regola precedente è limpidamente ripreso in questo terzo passaggio del testo cartesiano, sin dalle
primissime battute. Il confronto con gli Antiqui si mostra complesso, riproponendo modalità già riscontrabili in Bacone. Da un lato, Descartes
riconosce il contributo consistente desumibile dalla letteratura, sia per
quanto concerne le conoscenze acquisite, sia per orientare l’ulteriore
ricerca. Tuttavia non sfugge all’autore, anche in questa prospettiva positiva, il limite intrinseco a quella letteratura: lo scarso rigore, la tendenza a rivestire scelte controverse di abiti logici estremamente complessi
a scopo persuasivo, o, in altra direzione, l’altrettanto istintuale atteg-
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Regole per la guida dell’intelligenza
giamento della tradizionale filosofia, di celare la limpidezza del risultato dietro un velame d'ambiguità, quasi che la semplicità potesse svilirne
l’importanza.
D’altra parte, è la stessa impronta cognitiva, scientifica (nel senso in
precedenza emerso) del vero sapere a spiazzare o rendere superflua qualsiasi sudditanza culturale a grandi maestri. L’esigenza del giudizio sicuro
esclude possa esserci spazio per un rapporto probabilistico, calcolato
sulle adesioni alle soluzioni offerte dalla tradizione: il problema, come
dovrebbe essere ormai chiaro, è quello di un’intelligenza che sia messa in
grado di risolvere ogni difficoltà (alla propria portata), in altri termini, quello, già intravisto, del metodo. Il ricorrere all’esempio degli
Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che non può che
produrre storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza e asetticità dell’intrinseca dinamica dei nostri
processi cognitivi, come emerge limpidamente dalla riflessione metamatematica.
L’emarginazione dell’esperienza, prima, lo svuotamento di senso (scientifico) della tradizione, dopo: Descartes, muovendo dal paradigma matematico,
termina questo preliminare lavoro di ripulitura dell’orizzonte della propria ricerca escludendo ulteriormente, e in modo radicale, ogni forma di
congettura probabile, che, comunque, pretenda di mescolarsi e assimilarsi
(sulla base dell’abitudine) a conoscenze certe e evidenti. La scienza,
così, è in ultima analisi tale in quanto si concentra rigorosamente su ciò
che non può essere intaccato dal dubbio (essendo sottratto all’incertezza
dell’esperienza), e può vantare, a sua volta, un’assoluta autonomia nel
determinare e risolvere i propri problemi (essendo attività puramente cognitiva, e non storico-mnemonica).
La seconda parte delle indicazioni cartesiane investe direttamente il
problema gnoseologico (e, mediatamente, quello epistemologico), approfondendo quanto già avanzato nel testo a commento della regola precedente (la
distinzione tra esperienza e deduzione). Qui Descartes è interessato a
definire tutte le azioni del nostro intelletto, attraverso cui possiamo
pervenire alla conoscenza delle cose senza alcun timore d’inganno: registriamo, insomma, le risultanze della riflessione epistemologica sulle
matematiche, che permette di focalizzare la natura e la funzionalità proprie del nostro ingenium. Gli atti individuati sono intuitus e deductio.
Sarà solo dalla determinazione delle loro caratteristiche (facilmente trasparenti nell’esercizio matematico) che potrà essere approntata una strategia metodologica universalizzabile.
L’intuizione si qualifica dapprima negativamente (non fluctuantem sensuum
fidem) per l’esclusione del riferimento ai sensi e all’immaginazione, rinviando alla sfera rigorosamente cognitiva della mente pura e attenta, concentrata puntualmente e non contaminata dalle funzioni del corpo. Quindi,
rimarcando forse la puntualità e l’aderenza dei due poli dell’atto intellettuale, si insiste sul concetto non dubbio (della mente pura e attenta),
individuandone la matrice nella sola rationis lux. L’intuitus è in fondo
proposto come l’atto più intimo e esclusivo della mente, più immediatamente
radicato nella dimensione intellettiva (più certo di quella stessa deduzione).
Alla puntualità dell’atto corrisponde l’immediatezza del rapporto
all’oggetto (ognuno può intuire con l’animo che egli esiste, che egli pensa), o dei nessi colti nell’oggetto (che il triangolo è delimitato soltanto
da tre linee, la sfera da una sola superficie e simili - non a caso esempi
matematici). La certezza e evidenza scaturiscono proprio da questo scrutare
dentro (Descartes sottolinea l’uso della terminologia nel significato latino), da questo illuminare che investe direttamente e integralmente il proprio oggetto, cogliendolo nella sua semplicità, e svelandone i nessi immediati. Essi s’impongono al soggetto, ma non nel senso di una sua passività,
bensì in quello del loro rivelarsi, nella loro originarietà e ultimatività,
alla luce investigante della mente. Di qui le differenze rispetto al processo deduttivo.
25
Regole per la guida dell’intelligenza
L’immagine cui ricorre Descartes per porre l'accento sulla diversità
strutturale dei due atti è quella della catena, di cui si sa che gli anelli
estremi sono congiunti, anche se con un solo e medesimo sguardo non contempliamo tutti gli anelli intermedi, da cui dipende quella connessione, ma,
avendoli semplicemente verificati in successione, ricordiamo che i singoli
sono tra loro connessi, dal primo all’ultimo. Nel caso della deduzione,
quindi, si divaricano certezza e evidenza. L’impronta visiva dell’intuire
cartesiano assicura il primato dei nessi immediati tra elementi semplici,
ma è impotente rispetto a quanto debba ricostruirsi attraverso una serie di
mediazioni. Se in questo caso viene meno l’evidenza, permane in ogni modo
la certezza, garantita proprio dalla immediatezza del nesso tra ogni singola maglia e la successiva. La complessità dell’intermediazione tra gli
estremi della catena deduttiva introduce la successione e il movimento, e
quindi la necessità di conservare l’evidenza di ogni singolo passaggio
intuitivo, per fondare la certezza dell’inferenza. All’evidenza in atto, la
deduzione sostituisce la garanzia della sua memoria.
Confermando la cogenza del processo deduttivo già introdotta nella regola
precedente, qui se ne precisa la natura composita, che rinvia alla luce
originaria dell’evidenza intuitiva, e quindi il limite strutturale rispetto
all’immediatezza e puntualità di quella. Una precisazione decisiva per la
messa a punto del metodo. Per le prime implicazioni in questo senso, vale
la pena leggere quanto scrive Beck:
<<Ciò che Descartes ci dice nelle Regole come nel Discorso è che la mente umana non può cadere
nell’errore nella misura in cui funziona conformemente alla sua natura; questo vuol dire che, in virtù della sua stessa natura, la mente è capace di cogliere le implicazioni necessarie e immediate degli elementi
semplici di un dato evidente. Ciò ci dà le caratteristiche di ogni pensiero corretto e di ogni metodo efficace di pensiero, che consistono nel partire dalla evidenza: le regole che sono relative alla deduzione sono
la conseguenza logica e naturale di queste premesse metodologiche>> 36 .
Risulta chiaro allora uno dei primi compiti del metodo: quello di indicare i modi per superare, almeno tendenzialmente, la divaricazione apertasi,
con la deduzione tra certezza e evidenza. Detto in altri termini: studiare
il modo di disinnescare preventivamente i limiti intrinseci alla memoria,
riducendo lo iato in direzione di un'intuizione più comprensiva.
36
) L. Beck, op. cit., p.43.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola quarta
Per l’investigazione della verità è necessario un metodo.
1. I mortali sono posseduti da tanto cieca curiosità che spesso conducono l’intelligenza per
vie ignote, senza alcuna fondata speranza, piuttosto solo per esaminare se lì per caso non si
trovi quel che vanno cercando: come se uno ardesse di tanto sciocca cupidigia di scoprire un
tesoro, da andar vagando continuamente per le strade, per verificare l’eventualità di recuperarne uno, perduto da qualche viaggiatore. Così lavorano quasi tutti i chimici, la maggior
parte dei geometri, e non pochi filosofi; e certo non nego che essi talvolta errino così felicemente, da ritrovare qualcosa di vero; non concedo per questo, in ogni modo, che essi siano più
industriosi, semmai solo più fortunati. È molto meglio non pensare mai a alcuna ricerca della
verità, che farlo senza metodo: è infatti certissimo che, per tali studi disordinati e oscure
meditazioni, il lume naturale è confuso e l’intelligenza accecata; e chiunque s'abitui a vagare
così nelle tenebre, a tal punto indebolisce la capacità degli occhi, da non poter poi sopportare
la luce del giorno. Il che è anche comprovato dall’esperienza, quando spessissimo vediamo
che quelli che non hanno mai atteso alle lettere, giudicano molto più solidamente e chiaramente delle cose che capita loro d'incontrare, di coloro che sono stati sempre impegnati nelle
scuole. Per metodo, invece, intendo regole certe e facili, osservando esattamente le quali
nessuno mai supporrà il falso per il vero, senza sprecare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma, incrementando sempre gradatamente il sapere, perverrà alla vera conoscenza di tutte
quelle cose di cui sarà capace.
2. Si devono in ogni caso notare queste due cose: non supporre per vero nulla che sia certamente falso, e pervenire alla conoscenza di tutte le cose. Infatti, se ignoriamo qualcosa di
tutto quel che possiamo sapere, ciò accade soltanto o perché non abbiamo mai colto una via
che ci conducesse a tale conoscenza, o perché siamo caduti nell’errore contrario. Se però il
metodo spiega correttamente in che modo si debba utilizzare l’intuizione della mente, per non
cadere nell’errore contrario al vero, e in che modo siano da escogitare le deduzioni, per giungere alla conoscenza di tutto, nient’altro mi pare sia richiesto perché la conoscenza sia completa, dal momento che non si può avere alcuna scienza se non attraverso l’intuizione della
mente o la deduzione, come è già stato detto. Né infatti il metodo può essere esteso anche a
insegnare in che modo debbano essere condotte tali operazioni, in quanto sono tra tutte le più
semplici e primitive, così che, se il nostro intelletto non fosse in grado di servirsene preventivamente, esso non comprenderebbe alcun precetto, per quanto facile, di tale metodo. Altre
operazioni della mente, invece, che la Dialettica si sforza di dirigere in aiuto di queste prime,
qui sono inutili, o addirittura da annoverare tra gli impedimenti, dal momento che al puro
lume di ragione non si può aggiungere nulla che in qualche modo non l'oscuri.
3. Poiché, quindi, l’utilità di questo metodo è così notevole che, senza di esso, occuparsi di
scienze sembra essere dannoso piuttosto che proficuo, mi persuado facilmente che già in
passato esso debba essere stato colto in qualche modo dai maggiori ingegni, magari semplicemente per inclinazione naturale. La mente umana possiede, appunto, un non so che di divino, in cui sono dispersi i primi semi di utili pensieri così da produrre spesso, sebbene negletti
e soffocati da studi poco lineari, una messe spontanea. Il che sperimentiamo nelle scienze più
facili, l’aritmetica e la Geometria: ben avvertiamo infatti che gli antichi geometri utilizzarono
una specie di analisi, che estendevano alla soluzione di tutti i problemi, anche se poi non
l’hanno palesata ai posteri. Di questi tempi c’è una branca dell’aritmetica, che chiamano
Algebra, dedicata all’applicazione numerica di quel che gli antichi facevano intorno alle
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Regole per la guida dell’intelligenza
figure. Queste due non sono altro che messe spontanea nata dai principi ingeniti di tale metodo, che non mi meraviglio si sia sviluppata intorno ai semplicissimi oggetti di tali discipline,
più felicemente che in altre dove maggiori impedimenti normalmente le soffocano, ma dove,
in ogni caso, se coltivate con gran cura, potranno raggiungere senza dubbio una perfetta
maturazione.
4. Ciò, in vero, mi sono principalmente impegnato a fare in questo trattato; né infatti attribuirei gran valore a queste regole, se non fossero sufficienti a risolvere quei futili problemi
con cui i Logici o i Geometri hanno la consuetudine di giocare oziosamente: poiché così
crederei di non aver fatto nient’altro che occuparmi di frivolezze, magari più sottilmente di
altri. E sebbene io qui stia per dire molte cose a proposito di figure e numeri, dal momento
che da nessun’altra disciplina possono essere recuperati esempi tanto evidenti e tanto certi,
chiunque tuttavia abbia attentamente esaminato il mio intento, avvertirà facilmente come, in
questo caso, io non abbia avuto in mente per nulla la volgare Matematica, ma abbia esposto
una certa altra disciplina, di cui figure e numeri sono solo l’involucro e non le parti. Questa
disciplina deve contenere infatti i rudimenti primi della ragione umana, e estendersi alle verità
che si possono ricavare da qualsiasi soggetto; e, parlando chiaramente, sono convinto che essa
sia più importante di ogni altra conoscenza concessa all’uomo, in quanto fonte di tutte le altre.
Ho detto, in verità, involucro non perché voglia coprire e avvolgere questa dottrina per difenderla dal volgo, piuttosto per vestirla e ornarla in modo da renderla più conforme
all’intelligenza umana.
Commento
Necessaria est methodus ad veritatem investigandam. In questi termini lapidari Descartes esplicita quanto già, in modi più o meno velati, il contenuto delle tre precedenti regole aveva preparato: l’urgenza di una strategia di ricerca che, ritagliata sulle modalità cognitive proprie del nostro
ingenium, quali emerse in trasparenza nell’esercizio matematico (in virtù
delle particolari, asettiche condizioni di purezza dell’oggetto), intervenisse a favorire il miglior utilizzo dell’intuitus e della deductio, e di
produrre quindi una scienza “forte”. Nel caso specifico di questa regola,
esistono poi problemi di “tradizione” del testo manoscritto: l’edizione qui
seguita (quella di H. Springmeyer e H. G. Zekl 37 ) riproduce il manoscritto
in possesso di Leibniz, e presenta i primi quattro capoversi dell’altra
tradizione manoscritta, riprodotta nell’edizione canonica Adam-Tannery 38 . La
seconda parte del testo, presentata dai due curatori tedeschi in appendice,
manca nella nostra edizione, ma ne daremo notizia nel corso di questo commento.
L’attacco è decisamente baconiano, non solo per il rilievo metodologico,
ma anche per la reiterata sottolineatura del disorientamento e della casualità di un ricercare senza metodo, da Descartes rintracciato, tra l’altro,
nell’ambito della chimica e della filosofia, come dire tra il fantasioso
sapere dell’alchimia, e il contenzioso disputare scolastico, imputati nella
disamina critica baconiana. In fondo, la stessa definizione di metodo,
nella sua presunzione di certezza e semplicità discriminanti, di economia e
gradualità (si pensi alle tabulae del Novum Organon), sembra confermare
quell’ascendenza baconiana. Anche se poi si fa già strada una prospettiva
in qualche modo critica, che punta alla determinazione del limite della
certezza conseguibile (la vera conoscenza di tutte quelle cose di cui sarà
capace).
Significativo, rispetto alla regola precedente, il riferimento a intuizione e deduzione, che il metodo deve insegnare a sfruttare nel modo più
37
38
) R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, cit.
) Œuvres de Descartes, pubbliées par C. Adam et P. Tannery, Paris, 1897-1909.
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Regole per la guida dell’intelligenza
efficace, perché a ciò tutto si riduce in ambito propriamente scientifico:
quel riferimento è imprescindibile per il sapere, e l’autore si preoccupa
piuttosto di rimarcare come il metodo necessariamente debba orientarsi su
quelle modalità cognitive, non potendole propriamente fondare o insegnare,
a motivo della loro originarietà e intrinsecità all’ingenium. In questo
senso il modello matematico costituisce effettivamente un’ideale palestra
nella quale, dall’osservazione dello sforzo puramente intellettivo, è possibile trarre da un lato conclusioni definitive riguardo alle nostre capacità gnoseologiche e potenzialità epistemologiche (vincolate dalla puntualità intuitiva e dalla cogenza deduttiva), dall’altro predisporre quegli
accorgimenti che ne favoriscano le operazioni. Si tratta in ogni caso (a
dispetto delle tecniche dialettico-retoriche di impronta ramista) di rimanere su un piano rigorosamente cognitivo, in altre parole puramente intellettuale, riconoscendo la centralità e autosufficienza della mens: al puro
lume di ragione non può essere aggiunto niente che in qualche modo non lo
oscuri.
Il successivo capoverso illustra ulteriormente il nesso tra metodo e matematiche - accennando forse a ciò che nella seconda parte (qui non riprodotta) sarà definito mathesis universalis - insistendo, per un verso, nel
garantire il metodo con il rinvio ai primi semi, strumentale patrimonio
innato, destinato a produrre messe spontanea, per altro nel presentare
l’analisi matematica degli antichi geometri (Pappo e Diofanto) come testimonianza dell’efficacia di un processo squisitamente a priori, e della sua
portata universale (oltre l’ambito originario delle matematiche). Il reiterato rilievo della spontaneità (e quindi purezza) dei frutti nati dagli
ingeniti principi di tal metodo mi pare confermare tanto il carattere privilegiato delle scienze matematiche, come risultati più immediati della
sorgiva potenzialità razionale.
Così, nell’ultimo capoverso, precisando ulteriormente, Descartes ribadisce la portata esemplare della scienza dei numeri e delle figure, in forza
dell’evidenza con cui manifestano gli effetti del metodo. Segnalando nel
frattempo, esplicitamente, come la matematica comune non rappresenti che
l’involucro (integumentum) di quaedam alia disciplina: Haec enim prima
rationis humanae rudimenta continere, et ad veritates ex quovis subjecto
eliciendas se extendere debet. Un’affermazione fondamentale perché mostra
in qualche modo la natura trascendentale, condizionante, originaria e irrinunciabile per un sapere autentico, di tale metodo, e, conseguentemente,
rivela come per ogni impegno veritativo, in qualsiasi ambito, il successo
venga a dipendere esclusivamente dalla manipolazione operata dalla ragione
umana, conformemente ai propri, ingeniti principi, in altre parole, alla
propria logica intrinseca.
La parte del testo qui non riprodotta ripresentava, con ulteriore articolazione, lo stesso materiale. Alcune precisazioni sono in ogni caso da
riprendere, perché intervengono a illuminare quanto già illustrato a commento.
Intanto è da rilevare la puntualizzazione del nesso metodo-involucro. Descartes, recuperando probabilmente argomenti di matrice platonica, a più
riprese stigmatizza la propria originaria insoddisfazione per l’aritmetica
e la geometria tradizionali, troppo legate alle risultanze del calcolo su
numeri e figure. D’altra parte, l’altrettanto tradizionale vincolo propedeutico tra matematica e sapienza nelle scuole classiche dell’antichità,
denotava, secondo l’autore, l’esistenza di una specie di matematica diversa
da quella comunemente praticata, una specie che, se non perfetta, doveva
senz’altro contenere le vere idee. Ciò in ragione del fatto che certi primi
semi di verità, deposti dalla natura dentro l’umana intelligenza, dovevano
essere tanto più vigorosi presso codesta rude e schietta gente antica.
Oltre a rivelare nuovamente il complesso rapporto di Descartes con gli
antichi, tali affermazioni ripropongono il tema delle tecniche d'analisi
dei geometri (con esplicito riferimento a Pappo e Diofanto), che avrebbero
costituito il vero sfondo cognitivo delle varie discipline matematiche, con
l’ulteriore prerogativa della universalizzabilità. Questa vera matematica,
per tema che dalla divulgazione potesse risultare svilita, in conseguenza
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Regole per la guida dell’intelligenza
della sua semplicità e facilità, fu poi in qualche modo celata dietro certe
sterili verità dimostrate sottilmente per via di deduzione, quasi effetti
spacciati per l’arte stessa. Tale lettura cartesiana, che potrebbe risentire dell’attitudine, largamente documentata nella cultura cinquecentesca, di
legittimare gli sviluppi moderni richiamando più o meno plausibili modelli
antichi, testimonia l’intenzione cartesiana d'individuare nelle matematiche
l’esercizio logico del metodo, cogliendolo come loro matrice originaria.
L’ultima parte di quest'appendice rafforza energicamente quest'interpretazione, dal momento che Descartes esprime l’interesse per una precisa
definizione di matematica, che ne consenta una netta distinzione dalle
discipline cui viene applicandosi. Nella sua essenza essa gli si presenta
allora come la scienza cui si riferiscono soltanto tutte quelle cose nelle
quali si esamina l’ordine e la misura, indipendentemente dalle specifiche
applicazioni. In questo senso ristretto la matematica (in realtà si dovrebbe dire meta-matematica) è assunta quale scienza generale (mathesis universalis), rappresentando il fondamento teorico delle altre discipline scientifiche, il nucleo logico ricoperto poi dagli integumenta funzionali ai
diversi ambiti (numeri, figure ecc.).
30
Regole per la guida dell’intelligenza
Regola quinta
Tutto il metodo consiste nell’ordine e disposizione di quelle cose cui deve essere diretta la
forza della mente, per scoprire qualche verità. E tale metodo osserveremo esattamente, se
ridurremo le proposizioni involute e oscure, un po’ alla volta, a altre più semplici, e poi
dall’intuizione di tutte le più semplici tenteremo d'ascendere per gli stessi gradi alla conoscenza di tutte le altre.
1. In questa unica indicazione è contenuta la somma di tutta l’umana capacità, e tale regola
non è da osservarsi meno, da parte di chi stia per avventurarsi nella conoscenza delle cose, del
filo di Teseo da parte di chi si stia per inoltrare nel labirinto. Ma molti o non riflettono a ciò
che essa prescrive, o l’ignorano completamente, o presumono di non averne bisogno, e spesso
trattano le questioni più difficili in modo così disordinato, che mi sembrano fare la stessa cosa
che se si sforzassero di pervenire, con un solo salto, dalla parte più bassa al culmine di un
edificio, o non curandosi dei gradini della scala, destinati a tale uso, o non avendoli visti. Così
fanno tutti gli Astrologi, i quali, non conoscendo la natura dei cieli e non avendone nemmeno
osservato perfettamente i movimenti, sperano di poterne individuare gli effetti. Così la maggior parte di coloro che studiano Meccanica senza Fisica, e fabbricano fortunosamente nuovi
strumenti per produrre movimenti. Così pure quei Filosofi, i quali, trascurando gli esperimenti, ritengono che la verità possa sorgere dal loro cervello, quasi Minerva da quello di Giove.
2. Di certo tutti questi peccano evidentemente nei confronti di questa regola. Ma poiché
spesso l’ordine, che qui è richiesto, è così oscuro e intricato che non tutti possono riconoscere
quale sia, essi sono appena nella posizione di guardarsi abbastanza dagli sviamenti, se non
osservano diligentemente quelle cose che sono esposte nella proposizione seguente.
Commento
Regola interlocutoria, la quinta ha in ogni caso l’importante funzione di
riportare l’analisi sulla logica del metodo (si badi, il discorso si riallaccia al punto in cui l'abbiamo lasciato, nella nostra scelta editoriale,
alla fine del quarto capoverso della regola precedente: nessun riferimento
o sviluppo dell’idea più impegnativa di mathesis universalis), mettendo a
frutto gli esiti della incursione logico-gnoseologica meta-matematica.
Così, reiterando la centralità dell’ordine, emerge progressivamente il
nesso tra soluzione di un problema e intervento manipolatore-demiurgico
della mente: l’ordine e la disposizione non sono semplicemente trovati
nell’oggetto, ma proiettati, escogitati dall’ingenium (esplicito in questo
senso il ricorso all’immagine baconiana del filo di Teseo).
Alla base dell’ordine è la riduzione del complesso al semplice, quindi il
privilegiamento di una tessitura intuitiva che globalmente fondi la struttura deduttiva della ricerca. La ragione della riduzione dovrebbe essere
evidente alla luce appunto della precedente riflessione gnoseologica sul
sapere scientifico, che aveva identificato nella puntualità, certezza e
evidenza dell’intuitus la fonte di ogni vera conoscenza, implicando contestualmente la irriducibilità dell’atto e del suo oggetto (la loro sostanziale semplicità). Centrale l’ordine (e la disposizione) non solo per quanto attiene la riduzione funzionale all’atto apprensivo della mente, ma
anche per la ricostruzione sintetica (complessivamente deduttiva) del problema di partenza.
Descartes insiste continuamente sull’elementarità, facilità (nel senso di
naturale spontaneità) del processo metodico, che indubbiamente non garantisce, secondo lui, la sua affermazione pubblica, a motivo di un certo scolastico pregiudizio. Il privilegiamento delle matematiche nell’orizzonte
delle presunzioni del sapere contemporaneo, l’ulteriore enucleazione di una
31
Regole per la guida dell’intelligenza
originaria dimensione fondativa meta-matematica, sono imperniati sulla
scelta (direi quasi assiologica) della semplicità e della chiarezza che,
per Descartes, ne consegue.
Certamente, proporre come centrale il tema dell’ordine (di matrice metamatematica) funzionale alla logica intrinseca ai nostri atti gnoseologici
significava anche introdurre implicitamente l’altra importante questione,
dei limiti della nostra conoscenza, coincidenti con i limiti di quella
manipolazione cosmogonica (creatrice d’ordine) della nostra mente.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola sesta
Per distinguere le cose semplicissime dalle involute, e per perseguirle con ordine, è necessario in ogni serie delle cose, nella quale abbiamo dedotte direttamente alcune verità le une
dalle altre, osservare che cosa sia massimamente semplice, e in che modo da ciò tutte le altre
si allontanino più, o meno, o ugualmente.
1. Anche se questa proposizione sembra non insegnare proprio nulla di nuovo, tuttavia
contiene il principale segreto di quest’arte, e nessuna è più utile in tutto questo trattato: ammonisce infatti che tutte le cose possono essere disposte in certe serie, non già perché si riferiscano a qualche genere dell’essere, come i Filosofi le divisero nelle loro categorie, ma in
quanto le une possono essere conosciute dalle altre, così che, ogni qualvolta intervenga qualche difficoltà, subito possiamo accorgerci se sarà più utile esaminare prima alcune altre cose,
e quali, e in quale ordine.
2. Perché ciò possa essere fatto correttamente, si deve in primo luogo notare che tutte le
cose nel senso in cui possono essere utili al nostro proposito, dove non consideriamo la loro
natura propria, ma le confrontiamo reciprocamente, per conoscere le une dalle altre, possono
essere dette assolute o relative.
3. Chiamo assoluto tutto quanto contenga in sé la natura pura e semplice di cui si discuta,
come tutto ciò che è considerato quasi indipendente, causa, semplice, universale, uno, uguale,
simile, retto, o altre cose analoghe; e ciò definisco primariamente semplicissimo e facilissimo,
per usarlo nel risolvere i problemi.
4. Relativo, in vero, è ciò che partecipa della stessa natura o almeno di qualcosa di essa,
secondo cui può essere riferita all’assoluto, e per una certa serie essere dedotto da esso; ma
oltre a ciò nel suo concetto implica certe altre cose, che chiamo relazioni: tale è ogni cosa che
si dice dipendente, effetto, composto, particolare, molti, ineguale, dissimile, obliquo, ecc.
Queste cose relative si allontanano tanto più dalle assolute, quanto più contengono numerose,
analoghe relazioni, subordinate reciprocamente, che in questa regola ammoniamo a distinguere completamente, e il cui nesso reciproco e ordine naturale deve essere così osservato, che da
ultimo possiamo pervenire a ciò che è massimamente assoluto, passando per tutte le altre.
5. In questo consiste il segreto di tutta l’arte, che in ogni cosa diligentemente si presti attenzione a ciò che è massimamente assoluto. Alcune cose, infatti, sotto una certa considerazione sono più assolute di altre, ma diversamente prospettate sono più relative: come
l’universale è più assoluto del particolare, dal momento che ha natura più semplice, ma può
anche essere definito più rispettivo, poiché dipende dagli individui per esistere, ecc. Analogamente alcune cose sono in vero più assolute di altre, tuttavia non ancora più di tutte le altre:
così come, considerando gli individui, la specie è qualcosa di massimo, rispetto al genere,
invece, è qualcosa di relativo. Tra le cose misurabili l’estensione è qualcosa d'assoluto, ma tra
le estensioni la longitudine, ecc. Analogamente, infine, per far comprendere meglio che noi
qui consideriamo la serie delle cose da conoscere, non la natura d'ognuna, abbiamo a ragione
annoverato tra le cose assolute causa e uguale, sebbene la loro natura sia in verità relativa:
infatti presso i Filosofi la causa e l’effetto sono correlativi. Qui, in ogni caso, se ricerchiamo
quale sia l’effetto, è necessario prima conoscere la causa, e non viceversa. Anche le cose
eguali si corrispondono reciprocamente, ma quelle che sono ineguali non le conosciamo che
per comparazione alle eguali, e non viceversa, ecc.
6. In secondo luogo si deve notare che a esser precisi sono poche le nature pure e semplici,
le quali è dato intuire subito e per sé, senza dipendenza da alcun’altra, ma o immediatamente
nei dati d’esperienza, o per un qualche lume insito in noi; e affermiamo che esse sono da
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Regole per la guida dell’intelligenza
osservare con diligenza. Sono infatti le medesime che in ogni serie chiamiamo massimamente
semplici. Tutte le rimanenti, invece, non possono essere percepite se non dedotte da queste, e
ciò o immediatamente e prossimamente, oppure attraverso due o tre o più conclusioni diverse,
il cui numero è pure da notare, per conoscere se quelle s'allontanino dalla prima e massimamente semplice proposizione per più o meno gradi. E tale è dovunque il contesto delle conseguenze, dalle quali nascono quelle serie delle cose da ricercare, cui ogni questione si deve
ridurre, per poterla esaminare con metodo certo. Poiché in verità non è facile censirle tutte, e,
soprattutto, poiché non si devono tanto ritenere a memoria, quanto discriminare con un certo
acume dell’intelligenza, si deve ricercare qualcosa che formi l’intelligenza in modo tale che
subito le riconosca, ogni volta che sia necessario; a ciò, so per esperienza, nulla è certamente
più adatto che la nostra abitudine a riflettere con una certa sagacia anche sulle minime tra
quelle che già prima abbiamo percepito.
7. È da notare, infine, per terzo, che non dobbiamo fare iniziare il nostro studio con
l’indagine di cose difficili; ma, prima d'accingerci a qualche questione determinata, bisogna
innanzi tutto e senza altra scelta raccogliere le verità più ovvie, e un po’ alla volta verificare,
in seguito, se altre possano essere dedotte da quelle, e ancora altre da queste, e così via di
seguito. Dopo aver fatto ciò, si deve riflettere attentamente sulle verità ritrovate, e pensare
diligentemente perché abbiamo potuto trovare le une prima e più facilmente delle altre, e
quali siano; per giudicare quindi, quando affronteremo qualche determinata questione, quali
altre cose sia utile affrontare per prime. Per esempio, se mi verrà in mente che il numero 6 è il
doppio di 3, io cercherei poi il doppio di 6, cioè 12; cercherei di nuovo, se serve, il suo doppio, cioè 24, e ancora il doppio di questo, cioè 48, ecc.; di qui dedurrei, come è facile fare, che
tra 3 e 6 c’è la stessa proporzione che tra 6 e 12, e così anche tra 12 e 24, ecc., e che quindi 3,
6, 12, 24, 48, ecc. Sono continuamente proporzionali. Di qui, sebbene tutte queste cose siano
così perspicue da sembrare quasi puerili, riflettendo attentamente comprendo per quale ragione siano tra loro connesse tutte le questioni che possono essere proposte circa le proporzioni o
relazioni delle cose, e in quale ordine debbano essere indagate: il che da solo comprende
l’essenziale di tutta la scienza puramente matematica.
8. In primo luogo, infatti, m'accorgo che il doppio di sei non è stato ritrovato con fatica
maggiore del doppio di tre; e, ugualmente, in tutte le cose, trovata la proporzione tra due
grandezze qualsiasi, se ne possono dare innumerevoli che abbiano tra loro la stessa proporzione; né muta la natura delle difficoltà se ne siano indagate tre, o quattro o più di tale specie,
dal momento che devono essere indagate per sé, senza riferimento alle rimanenti. M'accorgo
poi che, sebbene, date le grandezze 3 e 6, io abbia trovato facilmente la terza in proporzione
continua, in altre parole 12, tuttavia non in modo altrettanto facile, date le due estreme, cioè 3
e 12, posso trovare la media, in pratica 6; a chi osservi con attenzione si palesa che la ragione
di ciò sta nel fatto che qui ci si trova di fronte a un genere di difficoltà, completamente diverso dal precedente; perché, per trovare il medio proporzionale, è necessario contemporaneamente prestare attenzione a due estremi e alla proporzione che intercorre tra i due, in modo da
ottenerne una nuova dalla loro divisione; cosa molto diversa da ciò che si richiede, date due
grandezze, per trovare la terza in proporzione continua. Procedo anche più oltre e esamino,
date le grandezze 3 e 24, se si possa trovare in modo altrettanto facile una delle due medie
proporzionali, in altre parole 6 e 12; qui si presenta ancora un altro genere di difficoltà, più
complesso dei precedenti: poiché qui si deve prestare attenzione, contemporaneamente, non a
una cosa sola o a due, ma a tre diverse, per trovare la quarta. È inoltre possibile andare ancora
più avanti, e vedere se, dati soltanto 3 e 48, sia anche più difficile trovare uno dei tre medi
proporzionali, in pratica 6, 12 e 24; così sembra davvero, da principio. Ma subito dopo si
mostra che tale difficoltà può essere divisa e diminuita, se infatti in primo luogo si ricerca il
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Regole per la guida dell’intelligenza
medio proporzionale tra 3 e 48, cioè 12, quindi il medio proporzionale tra 3 e 12, cioè 6, e
l’altro tra 12 e 48, cioè 24; così sono tornato al secondo genere di difficoltà in precedenza
esposto.
9. Da tutto ciò inoltre m'accorgo in che modo la conoscenza di una stessa cosa possa essere
conseguire per vie diverse, di cui l’una è di gran lunga più difficile e oscura dell’altra. Così,
per trovare questi quattro proporzionali continui, 3, 6, 12, 24, quando se ne suppongano due
conseguenti, cioè 3 e 6, o 6 e 12, o 12 e 24, e si voglia ricavarne gli altri, la cosa sarà facilissima a farsi; sosterremo dunque che la proposizione da trovare è esaminata direttamente. Se,
in vero, ne siano supposti altri due, cioè 3 e 12, o 6 e 24, per trovare da essi i rimanenti, sosterremo che la difficoltà è esaminata indirettamente nel primo modo. Se quindi siano supposti due estremi, cioè 3 e 24, per ricercare da essi gli intermedi 6 e 12, allora sarà esaminata
indirettamente nel secondo modo. E così potrei andare avanti, e da questo solo esempio ricavarne molti altri; ma questi basteranno perché il lettore avverta ciò che intendo, quando affermo che una proposizione è dedotta direttamente, o indirettamente, e si convinca che dalla
conoscenza di qualsiasi cosa, facilissima e prima, si possono ricavare molte cose anche in
altre discipline, da parte di chi rifletta attentamente e indaghi con sagacia.
Commento
Il tema dell’ordine, proposto come fondamentale nell’ambito del metodo
per l’investigazione della verità, nelle due regole precedenti, è centrale
in questa regola, nella sua accezione specifica cartesiana, eversiva di
ogni disposizione categoriale, nel senso della metafisica aristotelica:
enim res omnes per quasdam series posse disponi, non quidem in quantum ad
aliquod genus entis referuntur, sicut Philosophi in categorias suas diviserunt, sed in quantum unae ex aliis cognosci possunt. Questo sarebbe il
principale segreto del metodo, l’imposizione di un ordine artificiale rispetto alla natura dell’oggetto, ma naturale rispetto alla logica del soggetto conoscente; un ordine, quindi, orientato a esaltare le possibilità
intuitive della mens (rispettandone le priorità) e la sua capacità dimostrativa (facilitandone l’esercizio).
Descartes è insistente su questo punto: il secondo capoverso non fa altro
che riproporre il concetto, accentuando il ruolo demiurgico del soggetto
nella definizione dell’ordine. È alla luce di questa esigenza, di non esaminare, in altre parole, le cose secondo la loro natura particolare, ma
paragonarle piuttosto tra loro per conoscere le une dalle altre, che
l’autore può ricavare la distinzione tra assoluto e relativo. L’assoluto di
cui si discorre è ciò che contiene in sé la natura pura e semplice in esame: si tratta, insomma, del massimamente semplice riguardo alle nostre
possibilità gnoseologiche, che funge da strumento per la risoluzione dei
problemi più complessi. L’ordine cui pensa Descartes è appunto il risultato
di una proiezione delle priorità e implicazioni gnoseologiche sull’oggetto,
ricostruito in tal modo sulla base della semplicità, facilità, relazione,
subordinazione.
Inoltre, come ha ben focalizzato la Bonicalzi 39 , nel riformulare il significato di assoluto Descartes riafferma la propria distanza da Aristotele, già dichiarata con la negazione della ripartizione categoriale. Il
termine assoluto ha in realtà un valore che potremmo definire relativo:
l’autore usa infatti le espressioni massimamente assoluto, più assoluto,
rilevando così che l’assoluto è tale in connessione alla prospettiva di
soluzione di un certo problema, e secondo il punto di vista:
<<La nozione di assoluto si demarca così dal linguaggio aristotelico. L’assoluto non è tale in sé, ma in
una rete di relazioni. L’ordine, nella formula della serie, presiede l’assoluto e lo costituisce come inizio
39
) F. Bonicalzi, op. cit., p.54.
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Regole per la guida dell’intelligenza
(natura pura e semplice). Tale attribuzione di inizio si giustifica per una evidenza di ordine epistemico
che ha la sua certezza proprio nella relazione che istituisce la serie>>.
In questo modo, come è evidente, il metodo non si costituisce intorno a
una logica dipendente dal piano ontologico, ma sulla funzionalità del conoscere. Invece degli absoluta ontologici (essenze) il metodo sostituisce,
come absoluta, le condizioni di possibilità della conoscenza stessa 40 .
Nella cartesiana accezione di ordine si rivela ancora una volta il carattere meta-matematico del metodo, in altri termini, la logica che, non impegnandosi direttamente con numeri e figure, si limita a disporre delle serie
artificiali di nozioni a partire da nozioni prime, con tale duttilità e
generalità, da poter facilmente essere trapiantata dal terreno tradizionalmente garantito delle matematiche, a ogni altro ambito scientifico. Il
problema più grave che questo approccio metodologico sollevava era allora
proprio quello dell’individuazione e statuto delle nature semplici: per un
verso esse si presentano quali strumenti concettuali primari, garantiti
dall’evidenza e semplicità, in grado di fornire in ogni serie d’ordine il
massimamente semplice (quasi si accennasse alla loro portata a priori). Per
altro sono come residui irriducibili nel processo di analisi di un problema
o situazione, atomi di evidenza (Hamelin), atomi di verità, dal momento che
è attraverso la loro enucleazione che si possono istituire quelle serie, da
cui, in ultimo, dipende la soluzione cercata.
In considerazione della centralità dell’ordine e della sua natura relazionale, non rigida, che punta, secondo le condizioni, a isolare come assoluto quel termine che garantisca poi, nella successiva subordinazione degli
altri, di risolvere il problema; alla luce di questo modello logico che
richiama (meta-matematicamente) l’equazione, si potrebbe concludere che la
natura pura e semplice, il massimamente semplice rappresentano, per la
mente che indaga, i dati cogniti, tramite i quali, nella serie istituita,
sarà possibile individuare l’incognito. Questo è anche il senso emergente
dall’abituale, semplice esemplificazione cartesiana, fondata sulla proporzione e sulla ricerca del medio proporzionale: l’esercizio sui rapporti
proporzionali più elementari consente di discernere con acume le implicazioni tra le grandezze disposte in serie, così da trovare le medie proporzionali anche più complesse tra gli estremi.
La conclusione di Descartes è che con attenzione e sagacia, a partire da
proposizioni semplici e conosciute per prime, molte cose si possano ritrovare anche in altre discipline.
40
) J.L. Marion, op. cit., p.90.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola settima
Per il completamento della scienza bisogna esaminare tutte le cose e ciascuna in particolare, pertinenti al nostro obiettivo, con un moto continuo e mai interrotto del pensiero, e
abbracciarle con un’enumerazione sufficiente e ordinata.
1. L’osservazione delle cose che qui sono proposte, è necessaria per ammettere tra le verità
certe quelle che sopra dicemmo essere dedotte non immediatamente da principi primi e per sé
noti. Ciò, infatti, avviene talvolta attraverso un contesto così lungo di conseguenze, che,
quando giungiamo a esse, non ricordiamo facilmente l’intero percorso che ci ha condotto fin
là; perciò affermiamo che all’infermità della memoria si deve portare soccorso con un continuo moto del pensiero. Allora, se, per esempio, attraverso diverse operazioni ho conosciuto,
in primo luogo, quale sia il rapporto tra le grandezze A e B, quindi tra B e C, poi tra C e D,
infine tra D e E, non per questo vedo quale sia il rapporto tra A e E, né posso comprendere
precisamente dalle cose già conosciute, se non mi ricordo di tutte. Per questo motivo le percorrerò con un certo moto continuo dell’immaginazione, intuente le singole cose e nello
stesso tempo trasferentesi a altre, finché non abbia imparato a percorrerle dalla prima
all’ultima così velocemente, che, quasi non lasciando alcuna parte alla memoria, mi sembri
d'intuire tutta la cosa simultaneamente; in questo modo, in effetti, mentre si sovviene la memoria, si emenda anche la lentezza dell’intelligenza, estendendone la capacità in una certa
misura.
2. Aggiungiamo, inoltre, che questo moto non deve essere mai interrotto; infatti, di frequente, quelli che tentano di dedurre qualcosa troppo rapidamente e da principi lontani, non
percorrono tutta la concatenazione di conclusioni intermedie in modo tanto accurato da non
trascurarne, sconsideratamente, molte. Ma certamente, quando anche solo qualche minuzia è
tralasciata, immediatamente la catena è rotta, e crolla tutta la certezza della conclusione.
3. Qui poi affermiamo che l’enumerazione è richiesta a completamento della scienza: poiché altri precetti giovano senz’altro alla soluzione di molteplici questioni, ma solo con
l’ausilio dell’enumerazione può avvenire che, a qualunque questione noi s'applichi l’animo,
sempre su quella si possa giungere a un giudizio vero e certo, e quindi nulla ci sfugga completamente, ma su tutto mostriamo di sapere qualcosa.
4. Quindi questa enumerazione, o induzione, è un esame così diligente e accurato di tutte
quanto attiene a qualche questione proposta, da concluderne in modo certo e evidente che
nulla da parte nostra è stato omesso per svista: perciò, tutte le volte che ce ne siamo serviti,
anche se la cosa ricercata sia rimasta a noi celata, almeno questo abbiamo imparato, che
percepiamo con certezza come essa non possa essere trovata per alcuna via a noi nota; e se
per caso, come spesso accade, fossimo in grado di sondare tutte le vie che agli uomini si
dischiudono verso di essa, potremmo asserire audacemente che la sua conoscenza è posta al di
là d’ogni capacità dell’umana intelligenza.
5. È da notare, inoltre, che per sufficiente enumerazione o induzione noi intendiamo soltanto quella dalla cui verità si conclude in modo più certo che per ogni altro genere di prova, a
eccezione della semplice intuizione; tutte le volte che qualche conoscenza non può essere
ridotta a ciò, ci rimane, rigettati tutti i vincoli sillogistici, questa unica via, cui dobbiamo
attribuire ogni fiducia. Infatti, qualsiasi cosa abbiamo dedotto immediatamente da altre, se
l’illazione è stata evidente già è ridotta alla vera intuizione. Se, invece, da molte cose disgiunte inferiamo qualcosa d'unitario, spesso la capacità del nostro intelletto non è sufficiente a
afferrare tutte quelle in un’unica intuizione; nel qual caso gli deve bastare la certezza di tale
operazione. Allo stesso modo, non possiamo con una sola intuizione visiva distinguere tutti
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Regole per la guida dell’intelligenza
gli anelli di una catena piuttosto lunga; ma, non di meno, se vediamo la connessione dei singoli con i vicini, ciò è sufficiente per sostenere anche d’aver visto in che modo l’ultimo sia
connesso con il primo.
6. Ho affermato che questa operazione deve essere sufficiente, dal momento che spesso
può essere difettosa, e per conseguenza inquinata dall’errore. Talvolta, infatti, seppure indaghiamo con l’enumerazione molte cose che sono altamente evidenti, se tuttavia omettiamo
anche un minimo particolare, la catena è rotta, e tutta la certezza della conclusione viene
meno. Talvolta abbracciamo anche tutti gli elementi con certezza, per mezzo
dell’enumerazione, ma non distinguiamo tra loro i singoli, così che conosciamo tutto solo
confusamente.
7. Inoltre quest'enumerazione deve essere una volta completa, un’altra distinta, una terza
volta, invece, può non esserci bisogno di nessuna delle due; perciò è stato detto soltanto che
essa deve essere sufficiente. Infatti, se voglio provare, mediante enumerazione, quanti generi
di enti siano corporei, o in quale modo cadano sotto il senso, non sosterrò che essi sono tanti e
non più, se prima non avrò riconosciuto con certezza che con l’enumerazione li ho afferrati
tutti, avendo distinto ogni genere dall’altro. Se davvero intendo mostrare per la stessa via che
l’anima razionale non è corporea, non sarà necessaria un’enumerazione completa, piuttosto
basterà considerare tutti i corpi insieme in un certo numero di classi, perché dimostri come
l’anima razionale non possa essere riferita a nessuna di quelle. Se, infine, voglio mostrare per
enumerazione che l’area del circolo è maggiore di tutte le aree delle altre figure, il cui perimetro sia uguale, non è necessario censire tutte le figure, ma basta in particolare dimostrare ciò
di alcune, per concludere induttivamente la stessa cosa anche di tutte le altre.
8. Aggiunsi anche che l’enumerazione deve essere ordinata: sia perché ai già enumerati difetti non c’è alcun rimedio più efficace che osservare con ordine ogni cosa; sia, anche, perché
spesso si registra che se le singole cose che riguardano il problema proposto fossero da esaminare separatamente, non sarebbe sufficiente la vita di nessun uomo, o perché sono troppo
numerose, o perché troppo frequentemente s'incontrerebbero le stesse cose da ripetere. Ma se
le disponiamo tutte nell’ordine migliore, così da ridurle il più possibile a certe classi, sarà
sufficiente vedere esattamente una sola di queste, o qualcosa d'ognuna, o alcune piuttosto che
le altre, e almeno non percorreremo mai nulla due volte invano; la qual cosa serve a tal punto
che, spesso, a motivo dell’ordine ben istituito, in breve tempo e con facilità si compiono cose
che, a prima vista, sembravano immense.
9. Quest’ordine delle cose da enumerare, tuttavia, può essere per lo più vario, e dipende
dall’arbitrio di ciascuno; quindi per escogitarlo più acutamente è necessario ricordarsi di
quanto è stato detto nella quinta proposizione. Tra le opere più superficiali degli uomini ce
sono anche molte per il cui ritrovamento tutto il metodo consiste nella disposizione di quest'ordine: così se vuoi formare l’ottimo anagramma per combinazione delle lettere di qualche
nome, non è necessario passare dalle cose più facili alle più difficili, né distinguere gli assoluti dai relativi (infatti ciò non ha luogo in questa situazione), ma è sufficiente proporsi, per
esaminare le trasposizioni di lettere, un ordine tale che mai si ripetano due volte le stesse, e
che il loro numero sia, per esempio, così distribuito in certe classi da far apparire subito in
quale ci sia maggiore speranza di trovare ciò che si cerca; così, infatti, il lavoro sarà spesso
non lungo, ma soltanto puerile.
10. Del resto queste tre ultime proposizioni non sono da separare, dal momento che per lo
più si deve meditarle contemporaneamente, e ugualmente concorrono tutte alla perfezione del
metodo; né era molto importante quale per prima fosse insegnata, e qui le abbiamo spiegate
con poche parole, perché non abbiamo quasi più altro da fare nel resto del trattato, dove mostreremo in particolare quelle cose che qui abbiamo colto in generale.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Commento
A conclusione del discorso sull’ordine avviato nella quinta regola, Descartes introduce nella presente il connesso (e complesso) tema della enumerazione, direttamente implicato, almeno in una delle sue accezioni,
nell’esercizio deduttivo, laddove di fronte a lunghe catene di passaggi non
ricordiamo facilmente l’intero percorso [...] perciò affermiamo che
all’infermità della memoria si deve portare soccorso con un continuo moto
del pensiero. Due elementi problematici emergono così sin dalle prime righe
della regola: da un lato lo strettissimo rapporto tra enumerazione e ordine, quindi (come si legge alla fine) il suo carattere arbitrario, funzionale alla focalizzazione di tutte le cose [...] che si riferiscono al nostro
scopo; dall’altro, l’altrettanto spinosa relazione tra enumerazione e memoria. Le due questioni sono a loro volta intimamente collegate, qui però in
una certa misura si cercherà di mantenerle distinte per chiarirne gli aspetti.
Il primo punto rappresenta senz’altro lo sviluppo dell’argomento articolato nelle precedenti note: è evidente in questo senso che il ruolo
dell’enumerazione non si esaurisce nella revisione. Il terzo e quarto capoverso dimostrano la fondamentale funzione organizzativa dell’enumerazione o
induzione, come ricerca diligente e accurata di tutto quanto riguarda qualche questione proposta, sì che da essa si possa concludere con certezza e
evidenza che da noi non è stato omesso nulla per qualche svista. Si tratta
di una specie di esplorazione sommaria del campo della conoscenza (Beck),
si potrebbe anche affermare che attraverso questo preliminare esame vengano
enucleandosi le tappe del procedimento ordinato che solo può produrre la
certezza del risultato. Ed è indicativa in questo contesto la polemica
contro la sillogistica, e il riferimento alla varietà possibile dell’ordine
da enumerare, la sua indifferenza e arbitrarietà, che l'emancipano da implicazioni di carattere ontologico, da una gerarchia di essenze, con
l’effetto, tuttavia, di trasformare questa manipolazione “cosmogonica” in
una nuova garanzia del sapere:
<<L’enumerazione costituisce un nuovo ordine la cui sintesi non implica più le categorie dell’essere. La
certezza investe meno le cose sotto esame che il fatto che esse possono essere correttamente ordinate e
disposte. La nozione di concatenazione assicura la possibilità di ridurre l’oggetto a una serie di semplici
proporzioni successive>> 41 .
L’enumerazione, insomma, viene a sovrapporsi in parte all’ordine (esplicitandone la funzionalità rispetto al progetto scientifico), che serve
offrendo, secondo le situazioni, la classificazione più idonea e facile per
le esigenze euristiche, di orientamento e risoluzione, della nostra razionalità. Un’osservazione di P. Rossi ci consente un aggancio con l’altro
aspetto della questione 42 . Egli, rimarcando il nesso tra enumerazione e
ordine, per cui, con il primo termine, Descartes sembra far riferimento
anche all’ordinamento delle condizioni dalle quali dipende la soluzione di
un problema particolare, e a quell’iniziale ordinamento dei dati che è
preliminare a ogni ricerca e che mira all’isolamento e alla determinazione
del problema stesso, ha insistito sulla sostanziale convergenza tra questa
accezione del termine e la topica baconiana, a sua volta funzionale a una
strategia di soccorso della memoria. Anche Bacone avrebbe quindi puntato a
una delimitazione e determinazione dei campi d’indagine, per mostrare quali
fossero le cose da ricercare intorno a un dato problema, e favorire
l’indirizzo dell’attività induttiva, assicurando un contributo ausiliario
alla realizzazione di un nuovo metodo.
41
42
) D. Judovitz, op. cit., p.66.
) P. Rossi, La memoria artificiale come sezione della logica in Cartesio in AA.VV., Cartesio op.cit. p.32.
39
Regole per la guida dell’intelligenza
A me pare che il tendenziale sovrapporsi di enumerazione e ordine implichi una svolta più radicale nell’ambito della formulazione di una nuova
metodologia scientifica, con un baricentro più decisamente spostato sul
soggetto e sulle sue peculiari esigenze gnoseologiche (intuizionededuzione). Certamente, però, quell'accezione del termine enumerazione è
legata in Descartes all’altra, forse immediatamente più accessibile nel
testo, di revisione, che introduce anche in Descartes il problema della
memoria e degli aiuti che essa richiede.
Alla luce delle indicazioni della terza regola, non sorprende che intorno
alla catena deduttiva l’autore organizzi una strategia di soccorso, mirata
a ridurre l’incidenza negativa della memoria, favorendo, di conseguenza, il
dominio del materiale con uno sguardo d’insieme, tendenzialmente intuitivo.
In questo senso il ruolo dell’enumerazione sarebbe duplice:
1. da un lato, come sopra illustrato, le toccherebbe l’ufficio di saggiare e preparare il terreno in considerazione della logica e funzionalità
della mente,
2. dall’altro, sarebbe investita di un compito di delicata rifinitura,
costituito da un momento di mera revisione analitica dei passaggi intuitivi, e da un vero e proprio esercizio di ricostruzione sintetica, tale da
consentire (nel movimento deduttivo) una celerità sufficiente a annullare
lo scarto rispetto all’immediatezza (e evidenza) dell’atto intuitivo.
Tenuto conto che la sua puntualità e la sua certezza sono condizionate
dalla semplicità dell’oggetto intuito (o dal nesso colto tra due nature
semplici), potremmo concludere che il ruolo dell’enumerazione, riguardo al
processo deduttivo, sia quello d’istituire un ordine artificiale, il quale,
riducendo il problema di partenza a una trama sostanzialmente elementare di
concetti atomici, garantisca poi uno svolgimento estremamente semplificato,
e quindi facilmente controllabile:
<<Il fine che si propone questa ministratio ad memoriam (per usare il termine baconiano) è
l’acquisizione di una rapidità o celerità nella deduzione tale da ridurre al minimo, pur senza totalmente
eliminarlo, il ruolo esercitato dalla stessa memoria e tale da conferire a un insieme di conoscenze troppo
complesse per essere abbracciato da una sola intuizione l’immediata evidenza che è privilegio della stessa
capacità intuitiva>> 43 .
Se quindi il concetto di enumerazione mette, senza dubbio, l’autore in
relazione con la tradizione della mnemotecnica, come dimostrato da Rossi, e
riconosciuto da una specialista come la Yates, è però anche vero che la
tendenziale, schematica riduzione della deduzione a intuizione sembrerebbe
per altri versi rompere con quella tradizione, nella misura in cui la dimensione puntuale dell’atto intuitivo esula dall’orizzonte stesso della
memoria. L’enumerazione, sovrapponendosi, con il proprio ordine artificiale
e arbitrario, alla consistenza ontologica dell’oggetto, fa emergere le
trame interne alla nostra razionalità, dallo sviluppo delle quali è possibile trascendere il limite stesso della complessità dell’oggetto, verso una
piena comprensione intuitiva:
<<Lo scopo finale dell’enumerazione e deduzione è di essere ridotte e in ultima analisi cancellate
per produrre la pura intuizione>> 44 .
43
44
) P. Rossi, op. cit., p.31.
) D. Judovitz, op. cit., p.68.
40
Regole per la guida dell’intelligenza
Regola ottava
Se nella serie delle cose da ricercare intervenga qualcosa che il nostro intelletto non sia in
grado d'intuire sufficientemente bene, lì ci si deve fermare, né si devono esaminare le altre
cose che seguono, ma ci si deve astenere da una fatica del tutto vana.
1. Le tre regole precedenti prescrivono un ordine e lo spiegano; questa invece mostra quando esso sia assolutamente necessario, e quando soltanto utile. Poiché ogni cosa che costituisca
un grado intero in quella serie per cui si deve giungere dalle cose relative a qualcosa d'assoluto, o viceversa, deve essere esaminata necessariamente prima di tutto quel che segue. Se in
vero, come spesso accade, allo stesso grado appartengano molte cose, è certamente sempre
utile sondarle tutte con ordine; tuttavia non siamo costretti a osservare ciò così rigorosamente
e rigidamente, e per lo più, anche se conosciamo perspicuamente non tutte ma solo poche o
addirittura una sola di quelle, è lecito in ogni caso avanzare ulteriormente.
2. Questa regola segue necessariamente dagli argomenti portati nella seconda; né tuttavia è
da stimare che non contenga nulla di nuovo per la promozione della scienza, sebbene sembri
soltanto tenerci lontano dalla discussione di certe cose, e non esporre invece alcuna verità:
poiché ai principianti non insegna in vero altro che evitare di sprecare fatica, quasi nello
stesso modo che la seconda. Ma a quelli che conoscano perfettamente le precedenti sette
regole, mostra in che modo possano talmente soddisfare se stessi in qualsiasi scienza, da non
desiderare niente di più: infatti, chiunque abbia osservato esattamente le precedenti nella
soluzione di qualche difficoltà, e tuttavia in qualche luogo sia da questa esortato a fermarsi,
certamente riconoscerà di non poter assolutamente trovare con sforzo alcuno la scienza desiderata, e ciò non per colpa dell’intelligenza, ma perché s'oppone la natura stessa della difficoltà, o la condizione umana. La quale conoscenza non è minore scienza di quella che esibisce la
natura della cosa stessa; e non sembrerebbe di mente sana chi estendesse ulteriormente la
propria curiosità.
3. Per non essere sempre incerti su ciò che possa l’animo e perché esso non s'affatichi invano e sconsideratamente, prima che ci accingiamo a conoscere le cose nel particolare, bisogna una volta nella vita aver ricercato diligentemente di quali cognizioni l’umana ragione sia
capace. Perché ciò riesca meglio, devono sempre essere indagate per prime, tra quelle ugualmente facili, le cose che sono più utili.
4. Questo metodo imita infatti quelli delle arti meccaniche, che non hanno bisogno
dell’aiuto di altre, ma indicano esse stesse le modalità di costruzione dei propri strumenti. Se
qualcuno dunque intendesse esercitare una di esse, per esempio, l’arte del fabbro, e fosse
privo di ogni strumento, inizialmente sarebbe costretto a usare una pietra dura, o qualche
blocco di ferro grezzo come incudine, a servirsi di un sasso in luogo del martello, a adattare a
forcipi dei pezzi di legno, e a raccogliere altre cose del genere per necessità; infine, preparatele, non s'impegnerà subito a martellare per uso degli altri spade o elmi, né altro che si faccia
con il ferro, ma, prima di tutto, fabbricherebbe martelli, incudini, forcipi e tutto quanto di utile
per lui rimanga. Con il quale esempio siamo edotti sul fatto che quando, all’inizio, non abbiamo potuto trovare che alcuni precetti solo sbozzati, e che sembrano ingeniti alla nostra
mente piuttosto che preparati dall’arte, non si deve tentare per loro tramite di dirimere le liti
dei Filosofi, oppure di risolvere i problemi dei Matematici; ma di essi ci si deve servire per
indagare con la massima attenzione le altre cose che sono più necessarie per l’esame della
verità, quando particolarmente non ci sia alcun motivo per cui sembri più difficile trovare
queste che risolvere alcune di quelle questioni che, in Geometria o Fisica e in altre discipline,
di solito sono proposte.
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Regole per la guida dell’intelligenza
5. Ma in vero nulla di più utile si può qui cercare, di ciò che sia la conoscenza umana e fin
dove essa s'estenda. Dunque ora concentriamo tutto ciò in un’unica questione, che riteniamo,
per le regole in precedenza introdotte, debba essere esaminata per prima, e che ciò si debba
fare, una volta nella vita, da parte d'ognuno di quelli che amino la verità almeno un poco: dal
momento che in tale investigazione sono compresi i veri strumenti del sapere e tutto il metodo. Nient’altro invece mi sembra più sciocco che disputare accanitamente sugli arcani della
natura, sulla virtù dei cieli in questo mondo inferiore, sulla predizione delle cose future e
simile, come fanno molti, e non aver poi mai ricercato se la ragione umana sia sufficiente a
risolverle. Né deve sembrare cosa ardua o difficile definire i limiti di quell’intelligenza che
riconosciamo in noi stessi, quando spesso non esitiamo a giudicare anche di ciò che è fuori di
noi e del tutto estraneo. Né è opera immensa voler concentrare nel pensiero tutte le cose
contenute in quest'universo, per identificare in che modo ciascuna di esse sia soggetta
all’esame della nostra mente: nulla infatti può essere tanto multiforme o disperso che non
possa essere circoscritto in limiti certi tramite quell’enumerazione, di cui abbiamo trattato, e
disposto secondo un certo numero di capitoli. Perché poi ciò sia esperito, nella questione
proposta in primo luogo, dividiamo tutto ciò che le attiene in due parti: deve infatti riferirsi o
a noi, che siamo capaci di conoscenza, o alle cose stesse, che possono essere conosciute; di
ciò, separatamente, discutiamo.
6. E certamente avvertiamo in noi che solo l’intelletto è capace di scienza; ma che può essere favorito o impedito da tre altre facoltà, in altre parole dall’immaginazione, dal senso e
dalla memoria. È dunque da vedere con ordine in che cosa ognuna di queste facoltà possa
essere d’ostacolo o di giovamento, per utilizzare tutte le sue risorse. E così questa parte sarà
discussa mediante un’enumerazione sufficiente, come sarà mostrato nella proposizione seguente.
7. Si deve giungere quindi alle cose stesse, che sono da considerare solo in quanto siano
attinte dall’intelletto; nel qual senso le dividiamo in nature massimamente semplici e in complesse o composite. Delle semplici nessuna può essere se non spirituale, o corporea o riferentesi all’una o all’altra; infine, delle composte alcune l’intelletto esperisce essere tali, prima
che giudichi di poter determinare qualcosa intorno a esse, alcune invece compone esso stesso.
Le quali cose saranno esposte più diffusamente nella dodicesima proposizione, dove sarà
dimostrato come non possa esserci alcuna falsità, se non in queste ultime composte
dall’intelletto, che perciò distinguiamo in quelle che si deducono dalle nature semplicissime e
per sé note, di cui tratteremo in tutto il libro seguente, e in quelle che ne presuppongono altre
e che sperimentiamo essere oggettivamente composte, alla cui esposizione destiniamo integralmente il terzo libro.
8. E certamente in tutto il trattato ci sforzeremo di perseguire tanto accuratamente e di mostrare tanto facili tutte le vie che sono aperte agli uomini per la conoscenza della verità, così
che chiunque abbia appreso tutto questo metodo perfettamente, per quanto d’ingegno mediocre, veda tuttavia che nessuna gli è assolutamente preclusa più che agli altri, e che nulla ignora più ampiamente per difetto d’ingegno o d’abilità. Ma ogni volta che applicherà la mente
alla conoscenza di qualcosa, o la scoprirà assolutamente, o certamente verificherà dipendere
da qualche esperienza che non è in suo potere, e perciò non incolperà il suo ingegno, sebbene
sia costretto a fermarsi lì, oppure, infine, dimostrerà che la cosa ricercata eccede ogni capacità
dell’umana intelligenza, e quindi non si riterrà per questo più ignorante, dal momento che ciò
non è minore scienza che conoscere qualunque altra cosa.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Commento
Questa regola si pone in coda alle tre precedenti: essa segnala la necessità di prescrivere un ordine (artificiale) nel quale nulla rimanga effettivamente indeterminato. Dell’attività ordinatrice qui si rimarcano il
momento risolutivo - in altre parole quello attraverso cui si risale dal
problema complesso alle sue determinazioni semplici (per il nostro intelletto), l’evidenza delle quali è garantita intuitivamente - e quello compositivo. È infatti dalla successiva ricostruzione delle trame fra assoluto e
relativo (emersi nel corso dell’analisi), dei nessi intuitivi di cui viene
a strutturarsi quella gerarchia, che può scaturire la soluzione e comprensione del problema. In altri termini, emerge indirettamente dal corpo della
regola il fondamentale riscontro della coestensione tra ordine risolutivocompositivo e possibilità epistemologiche: i limiti dell’ordine sono così i
limiti della conoscenza umana.
Essendo l’ordine desunto dalla logica intrinseca della nostra stessa razionalità, ne scaturisce un isomorfismo tra la disposizione concettuale
mirata alla comprensione di un qualsiasi problema (scandita da quella funzionale gerarchia di assoluto e relativo) e i modi propri della nostra
attività conoscitiva (intuizione-deduzione). Così, laddove l’ordine non sia
efficace, consegue necessariamente l’impossibilità della soluzione e quindi
l’ignoranza. Il tema che l’autore affronta è di grande rilevanza teoretica,
investendo direttamente il problema “critico” dell’estensione e dei limiti
della conoscenza umana. Come è affermato più avanti, in vero nulla di più
utile si può qui cercare, di ciò che sia la conoscenza umana e fin dove
essa s'estenda. Descartes riconosce che l’istituzione dell’ordine secondo i
principi stessi della nostra razionalità determina la soluzione di un problema: in assenza di tale possibilità di manipolazione non ha senso procedere oltre.
Il procedimento di riduzione e composizione implica l’assoluta (o relativa) trasparenza dell’ordine: quand’anche un solo passaggio non fosse intuitivamente evidente, l’intero edificio della serie finirebbe con l’essere
compromesso. Al di fuori dell’ordine, dunque, non si dà possibilità di
risoluzione: questa convinzione giustifica la posizione del problema critico: per non essere sempre incerti su ciò che possa l’animo e perché esso
non s'affatichi invano e sconsideratamente, prima che ci accingiamo a conoscere le cose nel particolare, bisogna una volta nella vita aver ricercato
diligentemente di quali cognizioni l’umana ragione sia capace.
L’esempio che segue, ripreso poi da Spinoza nel suo Tractatus de intellectus emendatione, illustra come, a partire da precetti ingeniti della
nostra mente, sia possibile focalizzare il problema della verità e delle
esigenze fondamentali connesse al suo conseguimento, e quindi come questo
si ponga essenzialmente in relazione alla nostra potenzialità d'idealizzazione del dato di partenza.
L’ultima parte del testo di questa ottava regola anticipa l’ulteriore
sviluppo della trattazione: esamina infatti, introduttivamente, il ruolo di
immaginazione, senso e memoria in rapporto all’intelletto (che solo è capace di scienza), articolato poi nella regola dodicesima, rilevando come
l’analisi delle cose stesse sia profondamente vincolato alle scelte di
priorità del nostro intelletto.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola nona
È necessario rivolgere tutto il vigore dell’intelligenza alle cose minime e massimamente
facili, e in quelle indugiare più a lungo, fino a quando non ci s'abitui a intuire la verità in
modo distinto e perspicuo.
1. Esposte le due operazioni del nostro intelletto, intuizione e deduzione, che sole, sostenemmo, si devono utilizzare per apprendere le scienze, proseguiamo, in questa e nella seguente proposizione, a spiegare con quali mezzi possiamo renderci più idonei al loro esercizio, e
contemporaneamente coltivare due fondamentali facoltà dell’intelligenza, in altre parole la
perspicacia nell’intuire distintamente le cose singole, e la sagacia nel dedurre le une dalle
altre con abilità.
2. E certamente, in qual modo si debba usare l’intuizione della mente lo veniamo a conoscere dalla semplice comparazione degli occhi: infatti, chi voglia scorgere molti oggetti simultaneamente con una medesima intuizione, nulla di essi vede distintamente; e, ugualmente,
chi con un unico atto del pensiero ha l’abitudine d'attendere a molte cose simultaneamente, è
d’intelligenza confusa. Ma quegli Artefici che s'esercitano nelle opere minute, e hanno la
consuetudine di concentrare l’acutezza degli occhi attentamente sui singoli punti, acquisiscono con l’uso la capacità di distinguere perfettamente le cose per quanto esigue e sottili possano essere; così, anche quelli che non distraggono mai il proprio pensiero con oggetti vari allo
stesso tempo, ma lo occupano sempre, completamente, nella considerazione delle cose semplicissime e facilissime, diventano perspicaci.
3. È in ogni caso vizio comune ai mortali che a loro sembrino più attraenti le cose difficili;
e i più stimano di non sapere nulla, quando di qualche cosa intravedono una causa molto
chiara e semplice; nel frattempo ammirano certi argomenti dei Filosofi, sublimi e molto artefatti, anche se quelli s'appoggiano in gran parte su fondamenti mai sufficientemente esaminati
da alcuno, e non sono nemmeno persone sensate, dal momento che ritengono le tenebre più
chiare della luce. Ma si deve anche notare che chi veramente sa, riconosce con uguale facilità
la verità, sia che l’abbia ricavata da un soggetto semplice, sia da uno oscuro: infatti comprende ogni verità con un atto simile, unico e distinto, dopo che una volta è riuscito a pervenire a
essa; ma tutta la differenza è nella via, che certamente deve essere più lunga, se conduca alla
verità più lontana dai principi primi e massimamente assoluti.
4. È quindi necessario che tutti s'abituino a accogliere con il pensiero così poche cose, e
nello stesso tempo così semplici, da ritenere di non sapere mai niente che non sia intuito in
modo altrettanto distinto di quel che è conosciuto il più distintamente possibile. A ciò certamente alcuni nascono più adatti di altri, ma con l’arte e l’esercizio l’intelligenza può essere
resa anche di gran lunga più adatta; e una cosa è tra tutte quella che qui mi sembra si debba
stigmatizzare, cioè che ognuno si persuada fermamente che le scienze, per quanto occulte, si
devono ricavare non da cose grandi e oscure, ma soltanto da quelle facili e più ovvie.
5. Infatti, se voglio, per esempio, esaminare se qualche potenza naturale possa nello stesso
tempo passare a un luogo distante, e attraversare tutto quanto sta in mezzo, non volgerò subito
la mente alla forza magnetica, o all’influsso degli astri, ma neppure alla rapidità della luce,
per ricercare se per caso tali azioni accadano in un istante: ciò appunto potrei provare più
difficilmente di quanto è ricercato; piuttosto rifletterò sui moti locali dei corpi, dal momento
che nulla in tutto questo ambito può essere più facilmente percepibile, e m'accorgerò che una
pietra non può in un istante pervenire da un luogo a un altro, giacché è corpo; che, in vero,
una potenza, simile a quella che muove la pietra, non può essere comunicata se non in un
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Regole per la guida dell’intelligenza
istante, se pervenga nuda da un oggetto a un altro. Per esempio, se muovo un solo capo di un
bastone lungo quanto si voglia, facilmente concepisco che la potenza per cui quella parte del
bastone è mossa, in un solo e medesimo istante muove necessariamente anche tutte le altre
parti di quello, perché allora è comunicata nuda, né esiste in qualche corpo, come nella pietra,
da cui sia trasportata.
6. Allo stesso modo, se voglio conoscere come da una sola e medesima causa semplice
possano essere contemporaneamente prodotti effetti contrari, non prenderò dai Medici i farmaci, che espellono alcuni umori, altri ritengono; non vaneggerò a proposito della luna, che
essa si riscalda per la luce e si raffredda per una qualità occulta; piuttosto guarderò la bilancia
sulla quale, in un solo e medesimo istante, lo stesso peso solleva uno dei piatti, mentre abbassa l’altro, e simili.
Commento
Il testo confermerebbe l’approssimazione del lavoro cartesiano, rinviando
piuttosto alla prima regola che non alle ultime esaminate. Tanto
l’insistenza sulla necessità di muovere dalle cose più facili, che la ripresa delle due principali facoltà dell’intelligenza e quindi dell’urgenza
di disporre accorgimenti per facilitarne l’esercizio, sembrerebbero collegare il discorso interlocutorio di questa regola con quello fondamentale
della seconda, della terza e in parte della quarta. Il metodo appare come
il modo più appropriato per sfruttare le due operazioni dell’intelligenza
che fondano il discorso scientifico. Così, accanto alla disposizione
dell’ordine, qui è rimarcata l’importanza dell’esercizio per la messa a
punto dell’atto intuitivo e del procedimento deduttivo. Con una singolare
contraddizione rispetto all’impostazione della prima regola: l’accanimento
sulle metafore visive solleva un po’ di confusione, tanto che un puro atto
mentale, di cui si aveva con forza messo in evidenza l’alterità rispetto al
corpo, in ultimo sembrerebbe richiedere un vero e proprio allenamento,
quasi si trattasse di un’arte.
A parte questa nuova accentuazione della perspicacia e della sagacia, il
testo non offre spunti particolari. Descartes sviluppa il proprio discorso
ricorrendo a argomenti già incontrati. Il più ricorrente è quello che interessa il primato delle verità facili da acquisire e quindi la priorità,
nell’indagine, di ciò che è semplice, in polemica con la cultura contemporanea che all’autore pareva, invece, privilegiare l’involuta complessità,
incapace di produrre da sé chiarezza. Con l’ulteriore implicazione metodologica che è dalla verità (e quindi tanto più sicuramente da quella più
semplice da comprendere) che si deve prendere le mosse per la riflessione
sulle possibilità intrinseche, e sulle conseguenti modalità di soccorso,
della nostra intelligenza.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola decima
Perché l’intelligenza si faccia perspicace, si deve esercitare nella ricerca delle medesime
cose che già sono state trovate da altri, e con metodo passare in rassegna anche gli artifici
umani più insignificanti, ma in modo particolare quelli che sviluppano l’ordine o lo suppongono.
1. Confesso d'essere nato con un’intelligenza che sempre mi ha fatto porre il sommo piacere degli studi non nell’udire le argomentazioni degli altri, ma nel ritrovarle con i propri strumenti; avendomi ciò stimolato, sin da giovane, a imparare le scienze, tutte le volte che qualche libro prometteva nel titolo una nuova invenzione, prima di leggere oltre provavo se, per
caso, non fossi stato in grado di raggiungere qualcosa di simile, per qualche ingenita sagacia,
e facevo bene attenzione a che una lettura affrettata non mi precludesse questo innocuo piacere. La qual cosa successe tante volte da farmi infine accorgere come giungessi alla verità delle
cose non più, come gli altri sono soliti fare, attraverso disquisizioni vaghe e cieche, con
l’aiuto della fortuna piuttosto che dell’arte, ma come, per lunga esperienza, avessi percepito
regole certe, che giovano non poco a quest'obiettivo; di cui dopo ho fatto uso per escogitarne
di più. Così coltivai diligentemente tutto questo metodo, e mi persuasi che dal principio avevo
seguito, tra tutti, il modo di studiare massimamente utile.
2. In vero, dal momento che non l’intelligenza di tutti è così propensa per natura a indagare
le cose con le proprie forze, questa proposizione insegna che non bisogna impegnarsi subito
nelle cose difficili e ardue, piuttosto valutare dapprima le arti più insignificanti e facili, e
particolarmente quelle in cui l’ordine regna maggiormente, come sono quelle degli artigiani
che tessono tele e tappeti, o quelle delle donne che ricamano, o intrecciano i fili della tessitura
in una varietà infinitamente modulata; analogamente tutti i giochi di numeri e tutto ciò che
appartiene all’aritmetica, e simili; globalmente è stupefacente quanto ciò eserciti
l’intelligenza, purché se ne mutui non da altri la scoperta, ma da noi stessi. Infatti, nulla rimanendo in esse d’occulto, e essendo tutto adeguato alla capacità della conoscenza umana, esse
c'esibiscono in modo assai distinto innumerevoli forme d’ordine, tutte reciprocamente diverse
e non di meno regolari, nell’osservanza attenta delle quali consiste quasi tutta l’umana sagacia.
3. Ammoniamo perciò che esse devono essere indagate con metodo, che in queste cose più
insignificanti non suole essere diverso dalla costante osservanza dell’ordine, quello esistente
nella cosa stessa, oppure quello escogitato sottilmente: se vogliamo, per esempio, leggere un
testo celato dietro caratteri ignoti, certamente non v'appare nessun ordine, tuttavia ne immaginiamo uno, sia per esaminare ogni pregiudizio che si possa avere circa le singole note, parole
o proposizioni, sia anche per disporle così che si conosca per enumerazione tutto ciò che se ne
può dedurre. Massimamente si deve aver cura di non sprecare tempo a divinare a caso e senza
metodo simili cose; infatti, sebbene possano spesso essere trovate casualmente, e forse, dai
fortunati, anche più celermente che attraverso un metodo, tuttavia indebolirebbero il lume
dell’intelligenza, assuefacendolo così a cose puerili e vane, che dopo s'orienterebbe solo tra
cose superficiali, né sarebbe in grado di procedere a approfondimenti. Ma non si cada in ogni
caso nell’errore di coloro che occupano il pensiero soltanto con cose serie e piuttosto impegnative, di cui, dopo molta fatica, non acquistano se non una scienza confusa, mentre la pretendono profonda. Dapprima è necessario dunque esercitarsi in queste cose più facili, ma con
metodo, per abituarsi a penetrare sempre, attraverso vie aperte e conosciute, quasi per gioco,
all’intima verità delle cose: infatti, in questo modo, avvertiremo che a poco a poco in seguito,
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Regole per la guida dell’intelligenza
in uno spazio di tempo più breve di ogni nostra speranza, potremo dedurre con eguale facilità,
da principi evidenti, numerose proposizioni, che appaiono molto difficili e intricate.
4. Qualcuno forse si meraviglierà del fatto che, in questo luogo, dove ricerchiamo in che
modo possiamo renderci più adatti a dedurre le verità le une dalle altre, omettiamo i precetti
dei Dialettici, con i quali essi stimano di governare la ragione umana, quando prescrivono
certe forme d’argomentazione, le quali tanto necessariamente concludono che, affidata loro la
ragione, sebbene si disinteressi in qualche misura dell’evidente e attenta considerazione della
stessa illazione, essa possa tuttavia concludere in forza della forma qualcosa di certo.
D’altronde ci rendiamo conto che la verità spesso sfugge a tali vincoli, mentre coloro che se
ne servono rimangono in essi irretiti, cosa che agli altri non accade tanto frequentemente. E
sperimentiamo che i sofismi, per quanto acuti, di solito non ingannano mai nessuno che utilizzi la pura ragione, semmai proprio i Sofisti.
5. Di conseguenza, noi che qui abbiamo cura precipuamente di non far distrarre la nostra
ragione mentre esaminiamo la verità di qualche cosa, respingiamo queste forme come avverse
al nostro progetto, ricercando piuttosto ogni soccorso con cui il nostro pensiero si mantenga
attento, come si mostrerà di seguito. In ogni caso, affinché appaia più evidente che quell’arte
d'argomentare non contribuisce in alcun modo alla conoscenza della verità, si deve tenere
presente che i Dialettici non possono formare a arte alcun sillogismo che concluda il vero, se
non disponendo preventivamente della materia, in altre parole, se non conoscendo già a priori
la verità che in esso si deduce; per cui è evidente che da tale forma loro stessi non percepiscono nulla di nuovo, e la volgare Dialettica è assolutamente inservibile per coloro che desiderino investigare la verità delle cose, ma giova soltanto talvolta a un’esposizione pubblica più
semplice degli argomenti già conosciuti, e quindi è da trasferire piuttosto dalla Filosofia alla
Retorica.
Commento
I temi della regola precedente sono ripresi, ma per essere messi in relazione più stretta con il discorso sull’ordine. Così non solo ritroviamo
l’insistenza sull’esercizio e quindi sull’operatività della mente, ma anche
ribadita la necessità di procedere con ordine, perché solo nell’ordine si
costruisce la soluzione di un problema.
Particolarmente indicativo l’attacco del testo, perché rivela in tutta la
sua portata rivoluzionaria il senso dell’ordine, come ha puntualmente segnalato la Judovitz:
<<Comunque, Descartes non è contento di rompere con la tradizione, egli vuole rimpiazzarla realmente
con il suo metodo. La descrizione cartesiana del proprio metodo di lettura di altri autori riflette la predisposizione tecnologica della sua posizione matematica. Egli intende infatti riferirsi a altri autori solo per
reinventare il contenuto del loro lavoro. Il suo metodo assiomatico, ora applicato alla lettura, l'incoraggia
a usare i titoli di opere sconosciute per anticipare e progettare preventivamente il loro contenuto>> 45 .
Dal primo capoverso emerge insomma tutta la cifra idealizzante del metodo
cartesiano: a prescindere dalle specificità stilistiche e dai modi di rappresentazione dei contenuti, ogni testo è sussumibile nel proprio progetto
di ricerca, le gerarchie artificiali si sovrappongono ai percorsi
d’indagine di altri autori, il nuovo ordine sfida i passaggi argomentativi
e i successi della possibile concorrenza. In tal modo Descartes, forse
anche troppo schematicamente, contrappone l’efficacia e semplicità della
propria metodicità alla contorta e casuale ricerca altrui. È evidente, pur
in assenza dei riferimenti meta-matematici della prima parte dell’opera,
45
) Op. cit., pp.78-9.
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Regole per la guida dell’intelligenza
come il metodo altro non sia che la costante osservazione dell’ordine:
l’ordine facilmente riscontrabile, oppure quello che è sottilmente escogitato, laddove non sia oggettivamente e immediatamente identificabile.
Tutta la seconda parte del testo è poi un polemico confronto con la dialettica e la retorica classiche e umanistiche, coinvolte nell’accusa di
produrre vuoti sofismi. D’altra parte la dialettica può illudersi con la
cogenza formale delle proprie inferenze, dimenticandosi, secondo Descartes,
che la verità non può risiedere nella forma ma nel contenuto, sempre presupposto nella deduzione. Essendo la verità oggetto della Filosofia,
l’autore può così concludere che la dialettica comune, che non produce
alcuna nuova conoscenza, va trasferita dall’ambito della Filosofia a quello
della
Retorica,
in
altri
termini,
essa
può
essere
utile
solo
all’esposizione d’un contenuto conquistato con altro metodo.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola undicesima
Dopo che abbiamo intuito un certo numero di proposizioni semplici, se da esse concludiamo qualche altra cosa, è utile percorrerle con un moto continuo e mai interrotto del pensiero, per riflettere sui loro mutui rapporti, e concepire distintamente più cose simultaneamente, per quanto è possibile: così, infatti, anche la nostra conoscenza diventa di gran lunga
più certa, e aumenterà massimamente la capacità dell’intelligenza.
1. Questa è l’occasione per esporre più chiaramente quanto è stato detto in precedenza a
proposito dell’intuizione della mente, nelle regole terza e settima: dal momento che opponemmo quell’intuizione in un luogo alla deduzione, in altro invece all’enumerazione soltanto,
che definimmo essere l’illazione raccolta a partire da molte cose disgiunte; in vero lì affermammo che la semplice deduzione di una cosa da altre avviene per intuizione.
2. Ciò si è dovuto fare poiché per l’intuizione della mente si richiedono due cose, in pratica
che una proposizione sia compresa in modo chiaro e distinto, quindi anche tutta insieme e non
per passaggi successivi. La deduzione invece, se ragioniamo di essa come nella terza regola,
non sembra avvenire tutta insieme, ma coinvolge un certo moto della nostra intelligenza, che
inferisce una cosa dall’altra; per questo lì la distinguemmo a buon diritto dall’intuizione. Se in
vero attendiamo a essa, quando è già stata fatta, come si è sostenuto nella settima regola,
allora non designa più un movimento, ma un limite terminale di movimento, per cui supponemmo che essa si potesse vedere per intuizione, quando è semplice e perspicua, non quando
articolata e involuta. In questo caso le abbiamo assegnato il nome di enumerazione o di induzione, dal momento che non può essere compresa tutta insieme dall’intelletto, ma la sua certezza dipende in qualche modo dalla memoria, nella quale si devono ritenere i giudizi sulle
singole parti enumerate, per collegarle tutte in un unico intero.
3. Tutte queste cose erano da distinguere per l’interpretazione di questa regola: infatti dopo
che la nona ha trattato soltanto dell’intuizione della mente, la decima della sola enumerazione, questa spiega a quale patto queste due operazioni s'aiutino e perfezionino reciprocamente,
così che sembrano fondersi in un’unica operazione, attraverso un certo movimento del pensiero, che intuisce attentamente le cose singole e allo stesso tempo passa a altre.
4. A ciò attribuiamo una duplice utilità, per la conoscenza più certa delle conclusioni intorno a cui siamo impegnati, e per rendere l’intelligenza più adatta al ritrovamento d'altre
cose. In effetti la memoria, da cui, è stato detto, dipende la certezza delle conclusioni, le quali
sono abbracciate in numero superiore a quanto, con una sola intuizione, siamo in grado
d’afferrare, essendo labile e inferma, deve essere richiamata e rafforzata attraverso questo
movimento continuo e ripetuto del pensiero: se io, ad esempio, mediante numerose operazioni
fossi venuto dapprima a conoscere quale sia la relazione tra le grandezze prima e seconda,
quindi tra la seconda e la terza, poi tra la terza e la quarta, e finalmente tra la quarta e la quinta, non per ciò vedo quale sia la relazione tra la prima e la quinta, né posso dedurre da quelle
già conosciute, se non mi ricordo di tutti. Di conseguenza mi è necessario passarle in rassegna
ripetutamente, finché non passerò dalla prima all’ultima tanto velocemente, che, non lasciando quasi alla memoria alcuno spazio, mi sembri intuire tutta la cosa simultaneamente.
5. Evidentemente non c’è nessuno che non veda come con tale sistema si rimedi alla lentezza dell’intelligenza, e se ne incrementi anche la capacità. Ma in più si deve notare che la
massima utilità di questa regola consiste in ciò che, riflettendo sulla mutua dipendenza delle
proposizioni semplici, acquisiamo l’abitudine a distinguere subito che cosa sia più o meno
relativo, e per quali gradi si riduca all’assoluto. Per esempio, se percorro un certo numero di
grandezze continuamente proporzionali, presterò attenzione a tutte queste cose, cioè che
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Regole per la guida dell’intelligenza
conosco ugualmente e non più o meno facilmente la relazione tra la prima e la seconda, la
seconda e la terza, la terza e la quarta, ecc.; ma che non posso al contrario tanto facilmente
concepire quale sia la dipendenza della seconda dalla prima e dalla terza contemporaneamente, e inoltre assai più difficilmente quella della seconda dalla prima e dalla quarta, ecc.. Da ciò
quindi riconosco per quale ragione, se sono date la prima e la seconda soltanto, posso facilmente trovare la terza e la quarta, ecc., dal momento che ciò avviene attraverso concetti particolari e distinti; se invece sono date solo la prima e la terza, non distinguo tanto facilmente il
medio, dal momento che ciò non può avvenire se non mediante un concetto, che ne implica
contemporaneamente due dei precedenti. Se sono date solo la prima e la quarta, ancora più
difficilmente intuirò i due medi, dal momento che qui sono implicati contemporaneamente tre
concetti. Così che, di conseguenza, sembrerebbe anche più difficile trovare i medi tra la prima
e la quinta. Ma c’è un altro motivo per cui le cose accadano diversamente, cioè che, sebbene
qui siano contemporaneamente congiunti quattro concetti, possono tuttavia essere separati,
quando il quattro si divida per altro numero, in modo che io possa cercare solo la terza dalla
prima e dalla quinta, quindi la seconda dalla prima e dalla terza, ecc.. Chi abbia la consuetudine di riflettere su queste e simili cose, tutte le volte che esamina una nuova questione, subito
riconosce che cosa in essa generi difficoltà, e quale sia il modo più semplice di tutti; il che è
di massimo aiuto per la conoscenza della verità.
Commento
Come riconosce esplicitamente lo stesso Descartes, la regola si riallaccia alle precedenti, dedicate al tema dell’enumerazione, in altre parole
della disposizione d’ordine e revisione delle serie concettuali che sole
possono assicurare la soluzione di un problema. Nuovamente il discorso
verte sull’operatività razionale, sull’esercizio necessario per renderla
più efficace, sulla puntualità dell’atto intuitivo rispetto al movimento
implicito nel processo inferenziale, quindi, in ultima analisi, sulla esigenza di soccorrere la memoria, per ridurre tendenzialmente la catena dimostrativa alla simultaneità della comprensione intuitiva.
Nel complesso il testo non si caratterizza per il contributo originale
rispetto a quel che precede: mi pare vi sia ulteriormente esasperato proprio l’aspetto dell’esercizio che deve preparare a un più rapido orientamento nell’individuazione dei passaggi e delle mediazioni richiesti per la
soluzione del problema in esame.
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Regole per la guida dell’intelligenza
Regola dodicesima
Infine si deve far ricorso a tutti gli aiuti dell’intelletto, dell’immaginazione, del senso, e
della memoria, sia per intuire le proposizioni semplici distintamente, sia per confrontare
rettamente le cose ricercate con quelle già note, al fine di giungere alla loro conoscenza, sia
per trovare quelle che tra loro devono essere correlate, perché nessun aspetto dell'umana
capacità sia omesso.
1. Questa regola conclude tutto quanto è stato affermato sopra, e insegna in generale quelle
cose che si dovevano spiegare in particolare, nel modo seguente.
2. Per la conoscenza delle cose sono da considerare solo due elementi, cioè noi che conosciamo e le stesse cose da conoscere. In noi ci sono solo quattro facoltà di cui possiamo servirci allo scopo, in altre parole intelletto, immaginazione, senso e memoria: solo l’intelletto è
capace propriamente di percepire la verità, e tuttavia esso deve essere coadiuvato da immaginazione, senso e memoria, perché non sia tralasciato casualmente quanto rientra nelle nostre
capacità. Dalla parte degli oggetti è sufficiente esaminare tre elementi: in primo luogo quel
che da sé è ovvio, poi in che modo una cosa si conosca da un’altra, e infine che cosa si deduca
da ogni cosa. Tale enumerazione mi sembra sia completa e non ometta soprattutto nulla di ciò
cui può estendersi la capacità umana.
3. Rivolgendomi dunque al primo elemento, intenderei in questo luogo esporre che cosa sia
la mente dell’uomo, che cosa il corpo, in che modo questo sia informato da quella, quali siano
in tutto il composto le facoltà che servono alla conoscenza delle cose, e che cosa faccia ogni
singola cosa, se non mi sembrasse troppo angusto per contenere tutto quanto dovrebbe essere
premesso, prima che la verità di tali cose possa aprirsi a tutti. Desidero infatti scrivere sempre
così da non asserire nulla di ciò che di solito è trascinato in controversia, se non abbia premesso le ragioni stesse che mi condussero a ciò, con cui ritengo che anche gli altri possano
essere persuasi.
4. Ma dal momento che ciò non è certamente proponibile, mi sarà sufficiente spiegare, il
più brevemente possibile, quale modo di concepire tutto ciò che è in noi per la conoscenza
delle cose sia massimamente utile per il mio scopo. Né dovete credere, se non volete, che la
questione stia così: ma che cosa impedirà che non si segua le stesse supposizioni, se appaia
che esse non sminuiscono la verità delle cose, ma soltanto le rendono tutte assai più chiare?
Non diversamente che in Geometria, dove si suppone qualcosa circa la quantità, che per
nessun motivo indebolisce la forza delle dimostrazioni, sebbene spesso in Fisica si pensi
diversamente intorno alla sua natura.
5. Si deve quindi concepire, in primo luogo, che tutti i sensi esterni, in quanto sono parti
del corpo, anche se li applichiamo agli oggetti per mezzo di un’azione, in altre parole per
moto locale, propriamente sentono però soltanto per passione, al medesimo modo della cera
che riceve la forma dal sigillo. Né si deve ritenere che ciò si dica per analogia, piuttosto pensare che la figura esterna del corpo senziente realmente sia mutata dall’oggetto, come quella
che è sulla superficie della cera è mutata dal sigillo. Il che non si deve ammettere soltanto
quando tocchiamo qualche corpo come figurato, o duro, o aspro, ecc., ma anche quando con il
tatto percepiamo calore, o freddo, e simili; lo stesso vale per gli altri sensi, cioè la prima
superficie opaca che è nell’occhio riceve così la figura impressa dalla luce diversamente
colorata, e la prima delle orecchie, delle nari e della lingua, impenetrabile per l’oggetto, in tal
modo mutua una nuova figura dal suono, dall’odore e dal sapore.
6. E concepire così tutte le cose giova molto, poiché niente di più facile cade sotto il senso
che la figura: è infatti toccata e vista. Niente invece di falso si dimostra seguire da questa
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Regole per la guida dell’intelligenza
supposizione più che da qualsiasi altra, per ciò che il concetto di figura è tanto comune e
semplice da essere implicito in ogni sensibile. Per esempio, supponi che il colore sia quel che
vuoi, tuttavia non negherai che sia esteso, e per conseguenza figurato; quale incomodo seguirà, dunque, se, prestando attenzione a non ammettere inutilmente e a non figurare invano
qualcosa di nuovo, non neghiamo del colore nulla che piaccia agli altri, ma soltanto astraiamo
da tutto ciò che non abbia la natura di figura, e concepiamo la diversità che c’è tra il bianco, il
ceruleo, il rosso ecc., come quella che c’è tra queste semplici figure, ecc.:
. La stessa cosa si può dire di tutto, poiché è
certo che l’infinita moltitudine di figure è sufficiente per esprimere tutte le differenze tra le
cose sensibili.
7. In secondo luogo si deve pensare che, mentre il senso esterno è mosso dall’oggetto, la
figura che esso riceve è trasferita in una certa altra parte del corpo, che si chiama senso comune, nello stesso istante e senza il transito d'alcun ente reale dall’una all’altra cosa: del tutto
analogamente al modo in cui ora, mentre scrivo, nel medesimo istante in cui i singoli caratteri
sono espressi sulla carta, comprendo che non si muove soltanto la parte inferiore della penna,
ma che in questa non può registrarsi alcun movimento, anche minimo, che non sia ricevuto
immediatamente in tutta la penna; e che tutte quelle varietà di moti sono disegnate nell’aria
anche dalla parte superiore di essa, sebbene non concepisca che qualcosa di reale trasmigri da
un estremo all’altro. Chi infatti crederebbe esserci minore connessione tra le parti del corpo
umano che tra quelle della penna, e che cosa può essere escogitato di più semplice per esprimere ciò?
8. In terzo luogo si deve concepire che il senso comune ricopra anche il ruolo di sigillo, per
formare le stesse figure o idee, che arrivano dai sensi esterni pure e senza corpo nella fantasia
o immaginazione come nella cera; e che questa fantasia sia una parte vera del corpo e di tanta
grandezza che diverse sue porzioni possano rivestire diverse figure, distinte le une dalle altre,
che abitualmente ritengono assai a lungo. In questo caso essa è quel che si dice memoria.
9. In quarto luogo, si deve pensare che la forza motrice o gli stessi nervi traggano la propria origine dal cervello, in cui si trova la fantasia, da cui quelli sono mossi in diversi modi,
come il senso comune dal senso esterno, o come tutta la penna dalla sua parte inferiore. Il
quale esempio mostra, anche, in che modo la fantasia possa essere causa di molti moti nei
nervi, di cui tuttavia non ha in sé espresse le immagini, ritenendone, invece, certe altre da cui
questi moti possono conseguire: né infatti tutta la penna si muove, come la sua parte inferiore,
semmai, considerandone la parte maggiore, sembra spostarsi con moto completamente diverso e contrario. Da ciò è possibile comprendere come tutti i moti degli altri animali possano
accadere, sebbene in essi non sia ammessa assolutamente alcuna conoscenza delle cose, ma
soltanto fantasia puramente corporea; analogamente, in qual modo si verifichino in noi quelle
operazioni che facciamo senza alcun contributo della ragione.
10. In quinto luogo, infine, si deve pensare che quella forza per cui conosciamo propriamente le cose è puramente spirituale, e non meno distinta da tutto il corpo di quanto non sia il
sangue dall’osso, o la mano dall’occhio, e che è unica quella che o accoglie le figure dal senso
comune insieme con la fantasia, o s'applica a quelle conservate nella memoria, o ne forma di
nuove, da cui l’immaginazione è così presa che spesso non è contemporaneamente in grado di
ricevere le idee dal senso comune, o a trasferirle alla forza motrice secondo la disposizione
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Regole per la guida dell’intelligenza
puramente corporea. In tutte queste cose questa forza conoscitiva talvolta patisce, talaltra
agisce, ora imita il sigillo, ora la cera; ciò è qui in ogni caso da assumere soltanto per analogia, né infatti nelle cose corporee si trova nulla di simile. Una e medesima è la forza che, se
s'applica con l’immaginazione al senso comune, si dice vedere, toccare ecc.; se
all’immaginazione sola come rivestita di diverse figure, si dice ricordare; se alla stessa immaginazione perché ne finga di nuove, si dice immaginare o concepire; se infine agisce da sola,
si dice comprendere: il quale ultimo, in che modo si verifichi, esporremo più diffusamente a
suo luogo. Perciò tale forza, secondo queste diverse funzioni, si chiama o intelletto puro, o
immaginazione, o memoria, o senso; propriamente invece si chiama intelligenza, quando o
forma nuove idee nella fantasia, o si sofferma su quelle già fatte; e la consideriamo come
adatta a queste diverse operazioni: la distinzione di questi nomi sarà da osservare in quel che
segue. Concepite così tutte queste cose, il Lettore attento avvertirà facilmente quali aiuti siano
richiesti da ciascuna facoltà, e fino a che punto le capacità degli uomini si possano estendere a
supplire i difetti dell’intelligenza.
11. Infatti, potendo l’intelletto essere mosso dall’immaginazione, o, al contrario, agire su
di essa, e, analogamente, l’immaginazione potendo agire sui sensi attraverso la forza motrice
applicandoli agli oggetti, o, al contrario, questi possono agire su di essa, nella quale, in pratica, dipingono le immagini del corpo; la memoria, in vero, quella almeno che è corporea e
simile al ricordo dei bruti, non è nulla di distinto dall’immaginazione: con certezza si conclude che se l’intelletto s'occupa di quelle cose in cui non ci sia nulla di corporeo o simile al
corporeo, non possa giovarsi di queste facoltà; ma che, al contrario, per non essere da esse
ostacolato, è necessario che siano tenuti lontani i sensi e l’immaginazione, per quanto è possibile, sia spogliata di ogni impressione. Se in vero l’intelletto si proponga d'esaminare qualcosa, che si possa riferire al corpo, la sua idea, il più distintamente possibile, deve essere formata nell’immaginazione; per provvedere a ciò nel modo più adeguato, la cosa stessa, che tale
idea rappresenterà, deve essere esibita dai sensi esterni. Né una pluralità di cose può giovare
all’intelletto per intuire distintamente le singole cose. Per dedurre qualcosa di unico da una
pluralità di cose raccolte insieme, bisogna rigettare dalle idee delle cose tutto ciò che non
richieda presente attenzione, perché le rimanenti possano essere ritenute più facilmente nella
memoria; allo stesso modo, non le medesime cose saranno da proporre ai sensi esterni, piuttosto certe loro compendiose figure, le quali, purché sufficienti ad evitare le cadute della memoria, sono tanto più comode quanto più brevi. Chiunque osservi tutto ciò, non mi sembrerà aver
omesso nulla di quel che concerne questa parte.
12. Ma per affrontare anche la seconda parte, distinguere accuratamente le nozioni delle
cose semplici da quelle che sono composte per loro tramite, vedere, in entrambi i gruppi, dove
possa essere la falsità, per essere in guardia, e quali cose per certo si possano conoscere, per
curarcene esclusivamente, in questo luogo, come già sopra, sono da assumere alcune cose che
forse non sono ammesse da tutti; ma poco importa se non siano credute più vere di quei circoli immaginari, con cui gli Astronomi descrivono i loro fenomeni, se per mezzo loro si distingua poi quale conoscenza, su qualsiasi soggetto, possa essere vera o falsa.
13. Affermiamo dunque in primo luogo che le singole cose devono essere considerate diversamente riguardo alla nostra conoscenza, di quando ne parliamo come effettivamente
esistenti. Infatti, se, per esempio, consideriamo qualche corpo esteso e figurato, concederemo
certamente che quello sia, dal punto di vista della cosa, uno e semplice, né può dirsi in questo
senso composto dalla natura del corpo, dall’estensione e dalla figura, nella misura in cui
queste parti non sono mai esistite separate le une dalle altre; rispetto al nostro intelletto, invece, lo definiamo un composto di quelle tre parti, dal momento che le abbiamo concepite singolarmente distinte, prima che potessimo giudicare che si trovano tutte e tre in un unico e
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Regole per la guida dell’intelligenza
medesimo soggetto. Per questo motivo, non trattando qui delle cose se non in quanto sono
percepite dall’intelletto, chiamiamo semplici solo quelle la cui conoscenza è tanto perspicua e
distinta da non poter essere analizzate dalla mente in ulteriori elementi conosciuti più distintamente: tali sono la figura, l’estensione, il moto ecc.; tutte le rimanenti, invece, in qualche
modo si concepiscono composte da quelle. Ciò deve assumersi in termini così generali, che
non si eccettuino neppure quelle che talvolta astraiamo dalle stesse cose semplici, come accade se affermiamo che la figura è il termine della cosa estesa, intendendo per termine qualcosa
di più generale che figura, dal momento che si può dire termine di durata, termine di moto,
ecc.. Allora infatti, sebbene il significato di termine sia astratto dalla figura, non per ciò deve
in ogni modo sembrare più semplice di quanto sia la figura, piuttosto, essendo attribuito anche
a altre cose, come estremi di durata o di moto, ecc., che differiscono completamente dalla
figura, deve essere astratto anche da questi, e quindi è qualcosa di composto da più nature del
tutto diverse, cui s'applica non senza equivoci.
14. Affermiamo, in secondo luogo, che quelle cose che rispetto al nostro intelletto sono
dette semplici, sono o puramente intellettuali, o puramente materiali, o comuni. Puramente
intellettuali sono quelle che, per un certo lume ingenito e senza contributo d'alcuna immagine
corporea, sono conosciute dall’intelletto; è certo infatti che alcune sono tali, né si può fingere
alcuna idea corporea, che ci rappresenti che cosa sia la conoscenza, che cosa il dubbio, che
cosa l’ignoranza, e ugualmente che cosa sia l’azione della volontà che si possa chiamare
volizione, e simili: cose che in ogni caso conosciamo tutte realmente e così facilmente, che a
ciò è sufficiente essere partecipi della ragione. Puramente materiali sono quelle che non si
conoscono se non nei corpi, come figura, estensione, moto, ecc.. Infine, comuni sono da
definirsi quelle che ora alle cose corporee, ora alle spirituali sono attribuite senza discriminazione, come esistenza, unità, durata e simili. A queste sono da riportare anche quelle nozioni
comuni che costituiscono come dei legami per collegare tra loro altre nature semplici, la cui
evidenza è alla base di tutto ciò che concludiamo con l’argomentazione: in altre parole, che
quelle cose sono identiche a una terza, sono identiche tra loro; che quelle che non possono
riferirsi allo stesso modo a una terza, hanno anche tra loro qualcosa di diverso, ecc.. Certamente tali nozioni comuni possono essere conosciute o dall’intelletto puro, o dall’intelletto
intuente le immagini delle cose materiali.
15. Del resto, tra queste nature semplici mi piace enumerare anche le loro privazioni e negazioni, per quanto da noi comprese, dal momento che non è conoscenza meno vera quella
per il cui tramite intuisco che cosa sia il nulla, o l’istante, o la quiete, rispetto a quella per cui
comprendo che cosa sia l’esistenza, o la durata, o il moto. Questo modo d’intendere sarà utile
per poter dire, in seguito, che tutte le altre cose che conosciamo sono composte da queste
nature semplici; così come quando giudico che una certa figura non si muove, dirò che il mio
pensiero si compone in qualche modo di figura e quiete, e analogamente per il resto.
16. Diciamo in terzo luogo che quelle nature semplici sono tutte note per sé, e mai contengono qualche falsità, cosa che si può facilmente mostrare se distinguiamo quella facoltà
dell’intelletto, attraverso cui la cosa si intuisce e conosce, da quella con cui esso giudica,
affermando o negando; può infatti accadere che noi riteniamo d'ignorare quelle cose che in
realtà conosciamo, come quando sospettiamo che ci sia qualcos’altro di misterioso, oltre a ciò
che intuiamo, o a ciò che attingiamo con la riflessione, e che questo nostro pensiero sia falso.
Da ciò è evidente che ci sbagliamo quando giudichiamo di non conoscere completamente
qualcuna di queste nature semplici: infatti se di quella attingiamo con la mente anche un
minimo, il che è certamente necessario, essendo presupposto che noi giudichiamo intorno a
essa qualcosa, da ciò stesso si deve concludere che la conosciamo completamente; né infatti
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Regole per la guida dell’intelligenza
potrebbe essere detta semplice, ma composta di ciò che in essa percepiamo e di ciò che giudichiamo d'ignorare.
17. Diciamo in quarto luogo, che la reciproca congiunzione di tali nature semplici è necessaria o contingente. È necessaria quando l’una, per qualche confusa ragione, è così implicata
nel concetto di un’altra, che non possiamo concepire distintamente né l’una né l’altra, se
giudichiamo che siano tra loro disgiunte: in questo modo la figura è congiunta all’estensione,
il moto alla durata o al tempo, ecc., dal momento che non si può concepire né la figura priva
di ogni estensione, né il moto di ogni durata. Così anche se affermo: 4 e 3 fanno 7, questa
composizione è necessaria, infatti non concepiamo distintamente il numero sette se non includiamo in esso, in qualche maniera confusa, il numero tre e il numero quattro. Allo stesso
modo tutto ciò che è dimostrato intorno alle figure e ai numeri, necessariamente connesso con
ciò su cui si fa l’affermazione. Né tale necessità si trova solo nei sensibili, ma anche, per
esempio, se Socrate dice di dubitare di tutto, ne segue necessariamente che egli sa almeno di
dubitare; dunque sa anche che qualcosa può essere vero o falso, ecc.: infatti queste cose sono
connesse necessariamente alla natura del dubitare. È invece contingente l’unione di quelle
cose che non sono congiunte da alcuna relazione inscindibile: come quando affermiamo che il
corpo è animato, l’uomo vestito, ecc.. E inoltre molte cose, spesso necessariamente congiunte
tra loro, sono annoverate tra le contingenti dai più, che non percepiscono la loro relazione,
come questa proposizione: io sono, dunque Dio esiste; così, io comprendo, quindi ho una
mente distinta dal corpo, ecc.. Infine si deve notare che la conversione della maggior parte
delle proposizioni necessarie, le rende contingenti: così, per esempio, sebbene dal fatto che io
sono, certamente possa concludere che Dio esiste, non si può in ogni caso affermare che, dal
fatto che Dio esiste, debba esistere anch’io.
18. Affermiamo, in quinto luogo, che non possiamo comprendere mai altro all’infuori di
queste nature semplici, e di una certa loro mescolanza o composizione; e certamente è spesso
più facile avvertirne simultaneamente parecchie congiunte insieme, che separarne una dalle
altre; infatti, per esempio, posso conoscere il triangolo, sebbene non abbia mai pensato che in
tale concetto sia contenuto anche quello di angolo, linea, numero tre, figura, estensione, ecc.;
ciò in ogni caso non impedisce che si dica che la natura del triangolo sia composta di tutte
queste nature, e che esse siano più note del triangolo, essendo proprio ciò che in esso è compreso; e nel triangolo sono forse coinvolte molte altre nature che ci sfuggono, come la grandezza degli angoli, che sono eguali a due retti, e innumerevoli relazioni che intercorrono tra i
lati e gli angoli, o la capacità dell’area, ecc..
19. Affermiamo, in sesto luogo, che quelle nature che chiamiamo composte sono da noi
conosciute o perché sperimentiamo quali esse siano, o perché noi stessi le componiamo.
Sperimentiamo tutto ciò che percepiamo con il senso, che udiamo da altri, e generalmente
qualsiasi cosa pervenga al nostro intelletto o dall’esterno o dalla sua stessa contemplazione
riflessa. Dove si deve notare come l’intelletto non possa mai essere ingannato da alcuna esperienza, se solo intuisca precisamente la cosa che gli è oggetto, così come l'ha o in se stesso o
nell’immaginazione, e non giudichi soprattutto che l’immaginazione riproduca fedelmente gli
oggetti dei sensi, né che i sensi prendano le vere figure delle cose, né infine che le cose esterne siano sempre come appaiono. In tutte queste cose siamo in effetti soggetti all’errore: così
come se qualcuno ci narrasse una favola e credessimo la cosa veramente accaduta; come se
chi soffra d'itterizia giudicasse che tutte le cose siano gialle, dal momento che ha l’occhio
tinto di colore giallo; come se, infine, a causa di un’affezione dell’immaginazione, come
accade ai melanconici, giudicassimo che le sue immagini turbate rappresentino cose vere. Ma
queste cose non inganneranno l’intelletto del sapiente, poiché tutto quello che riceverà
dall’immaginazione, giudicherà in vero dipinto in essa; mai, in ogni caso, asserirà che ciò sia
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Regole per la guida dell’intelligenza
passato integro e senza alcuna mutazione dalle cose esterne ai sensi, e dai sensi alla fantasia, a
meno di non essere dapprima arrivato a tale conclusione anche con altro argomento. Noi
stessi componiamo al contrario le cose che comprendiamo, tutte le volte che crediamo essere
presente in esse quanto non è percepito attraverso alcuna esperienza immediatamente dalla
nostra mente: così se l’itterico si persuade che le cose viste sono gialle, questo suo pensiero
sarà composto da ciò che gli rappresenta la sua fantasia, e da ciò che assume di suo, in altre
parole che il colore giallo appare non per vizio dell’occhio, ma poiché le cose viste sono
realmente gialle. Donde si conclude che noi possiamo essere ingannati solo quando le cose
che crediamo sono in realtà da noi stessi composte in qualche modo.
20. Affermiamo, in settimo luogo, che tale composizione può essere condotta in tre modi,
cioè per impulso, per congettura o per deduzione. Per impulso compongono i propri giudizi
sulle cose coloro che sono portati per loro disposizione a credere a qualcosa, non persuasi da
qualche argomento, ma solo determinati o da qualche potenza superiore, o dalla propria libertà, o dalla disposizione della fantasia. La prima non sbaglia mai, la seconda raramente, la
terza quasi sempre: tuttavia la prima non pertiene a questo luogo, dal momento che non rientra nell’arte. Per congettura, ad esempio partendo dal fatto che l’acqua, più distante dal centro
che la terra, è anche di sostanza più tenue, e similmente che l’aria, sovrastante l’acqua, è a sua
volta più rarefatta, congetturiamo che sopra l’aria non possa esserci altro che un etere purissimo, e di gran lunga più tenue dell’aria. Tutto ciò che poi componiamo in tal modo non c’
inganna certamente, se solo lo giudichiamo probabile e mai affermiamo sia vero, ma non ci
rende neppure più dotti.
21. Rimane quindi la sola deduzione, per il cui tramite possiamo comporre così le cose, da
essere certi della loro verità; nella quale tuttavia possono esserci anche numerosi difetti: come
se dal fatto che in questo spazio pieno d’aria non percepiamo nulla, né con la vista, né con il
tatto, né con altro senso, concludiamo che esso è vuoto, confondendo malamente la natura del
vuoto con quella di questo spazio. Così accade tutte le volte che da una cosa particolare o
contingente giudichiamo possa essere dedotto qualcosa di generale e necessario. Ma evitare
questo errore è in nostro potere, certamente, se non congiungiamo mai tra loro delle cose, a
meno che non s'intuisca che la congiunzione dell’una con l’altra sia assolutamente necessaria:
così come deduciamo che nulla può essere figurato se non sia esteso, da ciò, che la figura ha
necessaria connessione con l’estensione, ecc.
22. Da tutto ciò si ricava, in primo luogo, che distintamente e, come credo, attraverso
un’enumerazione sufficiente abbiamo esposto ciò che all’inizio potevamo esporre soltanto in
modo confuso e rozzo: in altre parole, che nessuna via si apre, agli uomini, per la conoscenza
certa della verità, al di fuori dell’intuizione evidente e della necessaria deduzione; analogamente abbiamo esposto che cosa siano quelle nature semplici, di cui si è parlato nell’ottava
proposizione. È chiaro che l’intuizione della mente s'estende sia alla conoscenza di tutte
quelle verità, sia alle loro reciproche connessioni necessarie, sia, infine, a tutte le rimanenti
che l’intelletto esperisce precisamente in se stesso o nella fantasia. Sulla deduzione poi si dirà
di più in quel che segue.
23. Si ricava, in secondo luogo, che nessuna attività è da profondere per conoscere tali nature semplici, dal momento che esse sono di per sé sufficientemente note; ma solo per separarle reciprocamente, e intuirle a parte, singolarmente, con mente attenta. Nessuno infatti è
d’intelligenza così ottusa, che non percepisca come, mentre sta seduto, differisca in qualche
modo da se stesso mentre sta in piedi; ma non tutti separano in modo altrettanto netto la natura del luogo dal resto che in tale pensiero è contenuto, né possono asserire che niente allora è
mutato a eccezione del luogo. Ciò non richiamiamo qui all’attenzione in vano, dal momento
che spesso gli uomini di lettere hanno l’abitudine d'essere così ingegnosi da trovare il modo di
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Regole per la guida dell’intelligenza
diventare ciechi anche in quelle cose che sono per sé evidenti, e non sono ignorate neppure
dai rustici; ciò accade loro tutte le volte che tentano d'esporre tali cose note di per sé mediante
qualcosa di più evidente. Infatti o spiegano altro o non spiegano assolutamente nulla: chi c’è
che non percepisca tutto quello, qualunque esso sia, per cui è mutato quando cambiamo luogo, e chi è che concepisce quella stessa cosa, quando gli si dica che il luogo sia la superficie
del corpo ambiente? Questa superficie in effetti può mutare, mentre io rimango fermo e immobile, o, al contrario, può muoversi con me così che, sebbene mi circondi la stessa superficie, io non sia tuttavia più nello stesso luogo. Ma veramente non sembrano forse profferire
parole magiche, capaci di presa occulta e superiore alle possibilità dell’intelligenza umana,
coloro i quali sostengono che il moto, cosa notissima a chiunque, è l’atto dell’ente in potenza,
in quanto è in potenza? Chi infatti comprende queste parole? Chi ignora che cosa sia il moto?
E chi non ammette che essi ricercano il nodo in un giunco? Si deve quindi affermare che le
cose non sono mai da spiegare con simili definizioni, perché non s'apprenda in luogo delle
cose semplici quelle composte; ma devono essere intuite soltanto quelle, separate da tutte le
altre, e da ognuno attentamente e mediante il lume della propria intelligenza.
24. Si desume, in terzo luogo, che tutta la scienza umana consiste solo in questo, nel vedere distintamente in che modo queste nature semplici concorrano insieme alla composizione di
tutte le altre. Ciò è molto utile rilevare, dal momento che tutte le volte che è proposta
all’esame qualche difficoltà, quasi tutti s'arrestano al limite, incerti su quali pensieri debbano
volgere la mente, e convinti che si debba ricercare qualche nuovo genere di ente, prima ignoto: così, se si domanda quale sia la natura del magnete, quelli, che s'aspettano una cosa ardua
e difficile, subito spostano l’attenzione da tutto ciò che è evidente, per volgerla a quel che è
difficilissimo, e indecisi aspettano se per caso, vagando per lo spazio vuoto di molteplici
cause, non possano trovare qualcosa di nuovo. Ma chi pensa che nulla possa conoscersi nel
magnete che non consti di alcune nature semplici e per sé note, non incerto su ciò che si
debba fare, in primo luogo raccoglie diligentemente tutto ciò che si può avere dall’esperienza
su questa pietra, da cui poi cerca di dedurre quale mescolanza di nature semplici sia necessaria per produrre tutti gli effetti che ha sperimentato nel magnete. Una volta trovatala, può
asserire decisamente d'aver percepito la vera natura del magnete, per quanto dall’uomo, e
partendo da esperienze date, può essere reperito.
25. Infine, in quarto luogo, da quanto detto si ricava che le conoscenze delle cose non si
devono giudicare più oscure le une delle altre, essendo tutte della stessa natura, e consistendo
nella sola composizione delle cose per sé note. Di ciò quasi nessuno si rende conto, ma prevenuti dall’opinione contraria, i più confidenti si permettono d'affermare le proprie congetture
come vere dimostrazioni, e nelle cose che ignorano del tutto spesso fanno credere di vedere,
come attraverso la nebbia, verità oscure, che non s'impegnano a proporre, attribuendo ai
propri concetti certe parole, con l’aiuto delle quali usano discutere di molte cose e parlare
conseguentemente, ma che in realtà né loro stessi, né gli ascoltatori comprendono. I più modesti, in vero, spesso s'astengono dall’esaminare molte cose, sebbene facili e grandemente
necessarie alla vita, soltanto perché si ritengono impari a esse, e stimando che possano essere
percepite da altri dotati di maggiore intelligenza, abbracciano le opinioni di coloro sulla cui
autorità fanno maggiore affidamento.
26. Diciamo, in quinto luogo, che si possono soltanto dedurre o le cose dalle parole, o la
causa dall’effetto, o l’effetto dalla causa, o il simile dal simile, o le parti o il tutto stesso dalle
parti [...].
27. Del resto, affinché a qualcuno non rimanga celata la concatenazione dei nostri precetti,
dividiamo tutto ciò che si può conoscere in proposizioni semplici e questioni. Sulle proposizioni semplici non diamo altri precetti tranne quelli che preparano la forza conoscitiva
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Regole per la guida dell’intelligenza
all’intuizione più distinta e all’esame più sagace di qualsiasi argomento, poiché esse devono
presentarsi spontaneamente, né possono essere ricercate; di ciò ci siamo interessati nelle
dodici regole precedenti, nelle quali riteniamo d'aver esibito tutto ciò che giudichiamo possa
in qualche modo rendere più facile l’uso della ragione. Tra le questioni, invece, alcune sono
comprese perfettamente, anche se s'ignori la loro soluzione, e di queste tratteremo nelle dodici
regole seguenti; alcune infine non sono comprese perfettamente, e le riserviamo alle dodici
successive. Questa divisione è stata trovata non senza motivo, sia per non essere costretti a
dire nulla che presupponga la conoscenza delle cose seguenti, sia per insegnare prima quelle
cose cui avvertiamo si debba anche affidare il compito d'educare l’intelligenza. Si deve notare
che tra le questioni che sono comprese perfettamente noi poniamo soltanto quelle in cui percepiamo distintamente tre cose: cioè, con quali segni possa esser riconosciuto quanto si cerca,
quando si presenti, che cosa sia precisamente ciò da cui dobbiamo dedurlo, e in che modo sia
da provare che quelle cose così dipendono l’una dall’altra, che l’una non può in nessun modo
essere mutata, restando l’altra immutata: così abbiamo tutte le premesse, né rimane altro da
insegnare se non in che modo si trovi la conclusione, non certo deducendo una cosa sola da
una cosa semplice (ciò infatti, è stato già detto, si può fare senza regole), ma sviluppando con
tanta arte una cosa dipendente da molte implicate insieme, che mai si richieda maggiore
capacità d’ingegno, che per fare una semplicissima illazione. Simili questioni, dal momento
che per lo più sono astratte, e si presentano praticamente solo in Aritmetica e Geometria,
sembreranno poco utili agli inesperti; tuttavia voglio porre l'accento sul fatto che piuttosto a
lungo devono dedicarsi a imparare quest’arte e esercitarsi coloro che desiderino possedere
perfettamente la parte ulteriore di questo metodo, nella quale trattiamo di tutto il resto.
Commento
Il testo, molto articolato, di questa regola rappresenta per molti versi
una sintesi, per altri un approfondimento. In questo senso i primi dodici
capoversi affrontano il problema della conoscenza, isolandolo nell’analisi
della polarità soggetto-oggetto. Analisi nella quale è in qualche modo già
all’opera quel metodo di cui la regola è primo, provvisorio suggello.
Così, muovendo dal tema delle facoltà del soggetto, Descartes procede a
enumerarle (intelletto, immaginazione, sensi, memoria), mettendo in rilievo
le implicazioni reciproche. D’altra parte l’esplicazione del procedimento
gnoseologico è sviluppata in via ipotetica (analogamente alle postulazioni
geometriche), nella convinzione che niente esse tolgano alla verità delle
cose, ma soltanto le rendono tutte di gran lunga più chiare. L’autore provvede quindi a un modello di spiegazione sostanzialmente meccanicistico, in
cui, però, più che sul dinamismo del moto locale, s'insiste sulla possibilità di concentrare la teoria della percezione intorno a un concetto di
figura dallo statuto abbastanza ambiguo, perché se ne indica la portata
oggettiva (niente cade sotto i sensi più facilmente della figura: essa
infatti si tocca e si vede), ma, contestualmente, elencandola tra le nature
semplici materiali, se ne rimarca altrettanto decisamente il carattere di
strumento concettuale di analisi. È questo particolare statuto, per cui la
figura costituisce un ponte tra sensazione, immaginazione e intelletto, che
la fa privilegiare nella riduzione di tutto il sensibile a schema geometrico, in una direzione che ovviamente va al di là del mero dato empirico: la
figura è un “prius” [...] che appartiene a “ogni” sensibile, ma che - come
tale - non è sensibile 46 .
L’intelligibilità propria della figura, in quanto natura semplice materiale, ha dunque la funzione decisiva di illuminare, illustrare, fornire
indirettamente intelligibilità a ciò che immediatamente non l’avrebbe: il
46
) F. Bonicalzi, op. cit., p.67.
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Regole per la guida dell’intelligenza
sensibile. A riprova della matrice idealizzante (sulla scia della contemporanea rivoluzione scientifica) del metodo cartesiano, che emerge limpidamente laddove l’autore procede all’astrazione da tutti gli elementi qualitativi per concentrare l’indagine fisica sulla figura. La rottura con la
concezione puramente sensibile della figura, la sua centralità come schema
in grado di riassumere (nelle infinite modulazioni possibili) tutte le
differenze delle cose sensibili, rivelano, mi sembra, in modo piuttosto
netto, la sua funzione concettuale: il concetto di figura è tanto comune e
semplice, da essere implicato in ogni sensibile.
Quanto precede nell’opera ci ha già messo sull’avviso circa il rilievo
metodologico dell’universale e semplice; non sorprende quindi il privilegiamento della figura nel fondamentale compito di omogeneizzazione razionale di tutti i dati empirici:
<<La figura riscrive la realtà secondo le esigenze dell’intelletto, delineando una costruzione immaginata
omogenea all’esteso geometrico [...] La figura è prodotto ermeneutico e produce ermeneutica>> 47 .
Per il resto la teoria della percezione presentata in queste pagine, nella sua insistenza sul movimento (istantaneo) si presenta tipicamente meccanicistica, e in questo senso anticipa la dicotomizzazione tra corpo e spirito, tra esterno e interno, con cui Descartes chiude il proprio discorso
gnoseologico. Da un lato, quindi, i moti corporei, dall’altro quell’energia
per la quale propriamente conosciamo le cose, riconosciuta come puramente
spirituale. Se per modificazione riceviamo informazioni, secondo il modello
del meccanismo, è in virtù dell’articolarsi dell’unica energia spirituale
che conosciamo. Un articolarsi che, anche alla luce di quanto abbiamo letto
sopra a proposito della figura, fa sì che da una sola e medesima energia,
secondo l’applicazione, si possa parlare di immaginazione, senso, memoria,
comprensione. La percezione non è così mera ricezione meccanica: Descartes
prevede il meccanismo, ma la percezione è appannaggio spirituale.
Nella prospettiva del metodo, cioè dei soccorsi alle debolezze della intelligenza, diventa allora essenziale tenere conto di quell’articolazione,
per provvedere rispetto agli oggetti possibili di indagine, nonostante il
primato della comprensione (come puro intelligere), il raccordo tra intelletto, immaginazione e sensi, o la loro netta, mutua esclusione. In tal
senso è riproposto quanto già osservato circa il privilegiamento della
figurazione: l’orientamento richiede un lavoro di idealizzazione, di astrazione dal dato immediatamente empirico.
Per quanto attiene al polo oggettivo della conoscenza, Descartes ribadisce la propria concezione delle nature semplici, in polemica con la tradizionale gerarchia delle specie e dei generi. Il carattere ideale della
nuova classificazione cartesiana sembrerebbe confermato dall’attacco del
discorso al tredicesimo capoverso: [a]ffermiamo dunque in primo luogo che
le singole cose devono essere considerate diversamente riguardo alla nostra
conoscenza, di quando ne parliamo come effettivamente esistenti. È respectu
nostri intellectus che un corpo può essere analizzato in estensione e figura, rimanendo per altro, come reale in sé, uno e semplice. Ciò significa
che nell’analisi l’intelletto, per concepire adeguatamente il proprio oggetto, si serve di strumenti ermeneutici la cui oggettività si basa sul
fatto che sono i residui ultimi dell’analisi stessa, i fattori da cui essa
non che prendere le mosse per la ricostruzione: Per questo motivo, non
trattando qui delle cose se non in quanto sono percepite dall’intelletto,
chiamiamo semplici solo quelle [nature] la cui conoscenza è tanto perspicua
e distinta da non poter essere analizzate dalla mente in ulteriori elementi
conosciuti più distintamente: tali sono la figura, l’estensione, il moto
ecc.; tutte le rimanenti, invece, in qualche modo si concepiscono composte
da quelle.
Tenendo conto di tutta la complessa tematica dell’ordine, queste righe
cartesiane non possono sorprendere per la loro impronta idealizzante, per
47
) Ibidem, p.69.
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la centralità dell’attività di concettualizzazione da parte del soggetto.
L’oggetto è ridotto a quegli elementi concettuali non ulteriormente riducibili, che, in virtù della propria semplicità, hanno garantita quella evidenza che sola è capace di illuminare cognitivamente.
In quella direzione, l’autore procede a una classificazione delle stesse
nature semplici in puramente intellettuali (che escludono il coinvolgimento
dei sensi), puramente materiali (quelle che riconosciamo esistere solo nei
corpi) e comuni. Soltanto nel caso delle prime si richiama esplicitamente
la innatezza, anche se poi dal contesto si può evincere che anche per le
seconde il riferimento all’esperienza non esclude la apriorità. Per Descartes le nature semplici sono tutte note per sé e non contengono mai alcun
elemento di falsità; in quanto atomi d’evidenza non richiedono che di essere colte, né è possibile che vengano colte solo parzialmente, sempre a
motivo della loro semplicità. Per questo, più avanti, egli può affermare
che non possiamo comprendere mai altro all’infuori di queste nature semplici, e di una certa loro mescolanza o composizione. Tutta la scienza può
dunque essere ripresentata come illuminante gioco compositivo di tali nature, dove il limite delle nostre capacità conoscitive è segnato dalla possibilità, in ogni ambito, della loro individuazione.
Dario Zucchello, Como 1995-6
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