Variazioni di voci
Facilitare lʼitaliano L2:
un percorso formativo
di
Alan Pona e Franca Ruolo
in collaborazione con
associazione El Mastaba
Briciole
Trimestrale del Cesvot - Centro Servizi Volontariato Toscana
n. 31, Gennaio 2012
Reg. Tribunale di Firenze n. 5355 del 21/07/2004
Direttore responsabile
Cristiana Guccinelli
Redazione
Cristina Galasso
Disegni di Franca Ruolo
Prodotto realizzato nell'ambito di un sistema di gestione certificato
alle norme Iso 9001:2008 da Rina Services Spa con certificato n. 23912/04
Briciole è il nome che abbiamo dato alle pubblicazioni dedicate agli Atti dei Corsi di Formazione. I volumi nascono da percorsi formativi svolti per conto del Cesvot dalle associazioni di volontariato della
nostra regione i cui atti sono stati da loro stesse redatti e curati.
Un modo per lasciare memoria delle migliori esperienze e per contribuire alla divulgazione delle tematiche di maggiore interesse e attualità.
Premessa
PREMESSA
Salah Ibrahim, presidente associazione El Mastaba
L’associazione El Mastaba nasce a Firenze nel 2003 con lo scopo di promuovere la conoscenza e la diffusione della musica popolare egiziana. Negli anni l’associazione è cresciuta e ha allargato i suoi obiettivi e attività: abbiamo organizzato incontri, seminari, iniziative attraverso cui promuovere la conoscenza della tradizione musicale egiziana, araba
e mediterranea in tutte le sue forme, ma anche laboratori di fiabe e racconti, canto e danza
e poi corsi di lingua araba e di lingua italiana L2 per bambini e adulti.
Una varietà di attività tutte accumunate da un unico obiettivo: promuovere la partecipazione e la socialità, la crescita culturale di tutti, dei nostri soci come dell’intera comunità. Ma c’è di più.
L’esperienza di questi anni ci ha portato a riflettere a lungo su ‘intercultura’ e ‘integrazione’ e sui tanti approcci ‘rassicuranti’ che vengono intrapresi da enti e istituzioni. Uno
esempio fra tutti: tradurre un depliant di un qualsiasi servizio in due o tre lingue, se possibile con alfabeti diversi dal latino ad es. il cinese o l’arabo, e con ciò pensare “ecco, siamo una
società interculturale”, quando invece quel depliant tradotto è un semplice atto dovuto
che ha lo scopo di facilitare ad un cittadino non italofono l’accesso ad un servizio. Niente
più di questo.
Come ci mostrano anche Alan Pona e Franca Ruolo, l’apprendimento e l’uso di una
lingua L2 sono questioni assai complesse, continuamente attraversate da condizionamenti
e pregiudizi. Per me e per quanti non sono italofoni, l’italiano è sì una seconda lingua ma,
come dicono le leggi e l’esperienza, è la lingua che mi permette di frequentare la scuola, di
lavorare, di conoscere e partecipare alla vita della città e del territorio in cui vivo.
Apprendere una lingua L2 è una questione che va ben oltre la grammatica e la sintassi
perché, come ci spiegano anche gli autori di questo libro, si tratta di pratiche ‘ambigue’ che
si possono trasformare in “politiche di integrazione linguistica forzata”. Altra cosa, invece,
è guardare all’apprendimento e all’insegnamento della lingua L2 come alla costruzione
di significati condivisi nella concretezza dello “stare insieme”, come ben sa chi opera nei
servizi, nel volontariato, nell’associazionismo.
Da qui l’importanza dei facilitatori linguistici e degli insegnanti di L2, il cui lavoro è
davvero efficace se tale è anche la loro formazione. Questo libro si rivolge proprio a loro:
un manuale teorico e pratico che nasce sul campo e propone, capitolo dopo capitolo, un
percorso multidisciplinare di formazione ma anche di consapevolezza.
Fin dall’introduzione Alan Pona e Franca Ruolo ci spingono a riflettere in modo critico sulle figure di insegnante/apprendente, sulle metodologie didattiche e sugli stereotipi che
spesso ci portiamo dietro quando parliamo di lingue e culture. E ci invitano soprattutto
3
a non dimenticare che le classi L2, come le nostre città, sono ‘pluringue’ e in quanto tali
sono luoghi di incontro e scambio fra esperienze di apprendimento che vanno ben oltre
le pretese del verbo insegnare.
Ringrazio dunque gli autori di questo libro e tutti coloro che l’hanno reso possibile.
4
Introduzione
INTRODUZIONE*1
Due anni di lavoro di formazione, di incontri e scontri con insegnanti e di apprendimenti reciproci, costituiscono il terreno su cui si basa questo lavoro. La pubblicazione di questo
materiale, vissuto e mutevole, fluidamente aperto – ci è sembrato – alle contestazioni e
agli apporti di tutti i partecipanti, vuole essere a sua volta una visione critica della glottodidattica delle università, per turbarne e complicarne le certezze esibite.
La glottodidattica, quella dei manuali divulgativi e più consultati, è lontana dagli apprendenti, persino da quegli apprendenti europei e universitari cui dichiaratamente (e, diremmo, con selezione classista) si rivolge. In questa sede, la convinzione che l’apprendente
di italiano L2 debba apprendere la lingua e la cultura italiana, idea su cui si plasma una
percentuale molto alta di materiali didattici per studenti stranieri, viene respinta perché
chi studia la lingua è ridotto a mera/o rappresentante di tradizioni e folklori, immaginati da chi domanda e propone attività didattiche con la convinzione che siano interculturali. L’emergere di una terminologia relativa alla “cultura”, quella delle cose tipiche che
recintano le persone, immaginandone come geograficamente connotati persino gli stili
di apprendimento, è una modalità che fa assurgere a rango di scienza la chiacchiera da
bar. Un’operazione pericolosa per la sua portata discriminatoria, che slitta costantemente
verso lo stereotipo, e lascia ben poco spazio all’apprendente, costringendolo a percorrere
strade programmate da chi si ritiene facilitatore di lingua. Questo modello di insegnante
regista, maestro delle tecniche glottodidattiche, esperto di lingua e abile intuitore dei bisogni dell’apprendente, che prende le distanze da quell’insegnante della tradizione scolastica, autoritario e trasmissivo, si rivela perfettamente coincidente con il vecchio modello
che critica. La sua abilità consisterebbe anche nel saper usare varie tecniche glottodidattiche, una sorta di espediente creativo tramite cui il facilitatore riuscirebbe ad alleggerire il
“peso” del fare grammatica, a sviluppare le abilità dell’apprendente e a farle/gli acquisire
regole, motivandola/lo e facendola/lo sentire soggetto del proprio apprendere.
Percorsi del libro
Ogni libro, forse sfuggendo anche alla volontà degli autori, possiede una fisicità ben
strutturata, che obbliga spesso il lettore a cominciare da una testa, l’indice, accompagnando il suo sguardo fino ai piedi, le conclusioni e la bibliografia di quel testo. Ci piacerebbe
che a chiunque capiti tra le mani il nostro libro fosse lasciata libertà di scegliere da dove
iniziare la lettura, se da pagina 1 o da pagina 100, se dalla prima o dalla seconda parte, come
fosse un ipertesto soggetto agli umori e alle curiosità di chi legge. Durante questi percorsi,
* Dedichiamo questo volume ai nostri studenti, che sempre ci spiegano come va il mondo.
5
il lettore sarà dunque tentato probabilmente di spaziare qua e là nel testo. Lo faccia. Lo
abbiamo fatto anche noi, che in fase di scrittura, pur trattando ciascuno la propria sezione,
ci siamo ritrovati più volte a intrecciare discorsi e parole.
L’argomento che trattiamo, l’apprendimento dell’italiano L2 nella classe plurilingue, si
coniuga in modo proficuo all’osservazione sul campo, dove l’osservatore e l’osservato mutano reciprocamente il loro sguardo, secondo ottiche pluriprospettiche. Ecco perché, nella
prima parte del testo, la presenza di schemi, frutto della ricerca di linguistica applicata,
deve essere solo uno strumento guida che non cerchi mai di ridurre la particolarità dell’apprendente alle generalizzazioni da laboratorio. Ed ecco anche perché, nella seconda parte,
risulta inevitabile una critica alla glottodidattica, che estrapolando da discipline scientifiche, spesso, a nostro avviso, ha edificato discorsi sulla lingua, sulle relazioni e sulla cultura, evidentemente pseudo-scientifici. Ci riferiamo, ad esempio, ad affermazioni smentite
dalla linguistica, dall’antropologia, dalla pedagogia, discipline alle quali attingiamo direttamente e che presentiamo nel testo, corroborate dall’esperienza umana e professionale.
In altre parole, come dice Leonardo Piasere, “l’esperienza per immersione ‘ti salva’ dagli
accessi delle ipotesi deduttive, per lasciare ampio spazio di manovra all’empiria induttiva
del quotidiano”.
Destinatari del volume
L’obiettivo di questo volume è quello di fornire uno strumento di riflessività a insegnanti, facilitatori linguistici e operatori sociali (di cooperative sociali e associazioni di
volontariato) sui discorsi che ruotano intorno alle cosiddette “politiche di accoglienza”.
L’insegnamento dell’italiano L2 ha rappresentato e rappresenta, infatti, uno spazio di pratica ambigua, in cui poco ci si interroga sul pericolo che le retoriche dei discorsi sulle differenze culturali si trasformino, come afferma Antonio Buttitta, in “politiche di integrazione
linguistica forzata” e in pratiche marginalizzanti. A nostro avviso, la classe e il gruppo di
italiano L2, è principalmente luogo in cui l’insegnante e gli apprendenti possono diventare
co-costruttori di significati condivisi e contrapporre all’immaginario socialmente e politicamente costruito la concretezza dello “stare insieme”. Si tratta, per l’operatore volontario, come per l’insegnante, non solo di possedere competenze su come si acquisisce una
lingua seconda e di adottare un approccio etnografico per muoversi nella complessità del
cosiddetto incontro interculturale; ma più in generale di sperimentare che la classe può
essere un luogo privilegiato per l’insegnante per riflettere sul fatto che, come sostiene Paul
Ricœr, “la scoperta della plurità delle culture non è mai un esercizio inoffensivo”. Speriamo
pertanto, con questo nostro lavoro, insieme a tutti i colleghi cui il volume si rivolge e grazie
ai nostri e ai loro apprendenti, di poter contribuire a creare una pratica dei contro-discorsi,
come progetto connesso ad una pratica etica e politica.
6
PARTE PRIMA
L’italiano e l’acquisizione dell’italiano come lingua seconda
Ricadute didattiche nella classe plurilingue
di Alan Pona
Capitolo I -Terminologia introduttiva
CAPITOLO I
Terminologia introduttiva
1. Laboratorio
Qual è il significato delle seguenti parole ed espressioni? Perché si trovano in opposizione?
Imparare/acquisire
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________
Facilitatore linguistico/insegnante, docente, ecc.
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
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Facilitatore linguistico/mediatore linguistico-culturale
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________
Apprendente/studente
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________
Lingua materna (L1)/Lingua seconda (L2)/Lingua straniera (Ls)
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ 10
Capitolo I -Terminologia introduttiva
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________
Approccio deduttivo/induttivo nella didattica delle lingue
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________
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Ecco una breve definizione dei termini che useremo nel nostro percorso laboratoriale: imparare ed acquisire, lingua seconda (L2) e lingua straniera (Ls). Daremo,
inoltre, una definizione anche dei termini insegnante/facilitatore linguistico ed apprendente1, confrontandoli con i più noti insegnante e studente.
La prima coppia di termini fa riferimento al primo “postulato” krasheniano2 (learning vs. acquisition3), che specifica la differenza sostanziale tra i due processi: il
primo è un processo consapevole che mette in gioco memorie dichiarative4 e conoscenze esplicite; il secondo è un processo subconscio che mette in gioco soprattutto memorie non dichiarative (tra queste, memorie di tipo procedurale5) e
conoscenze implicite a lungo termine6. Risulta interessante, a questo proposito, la
definizione di Stefano Rastelli dei diversi “domini” che caratterizzano il processo di
apprendimento/acquisizione della seconda lingua7:
gli esiti del processo di acquisizione della seconda lingua sono ascrivibili
a tre domini nettamente separati: quello del “sapere”, del “saper fare”, e
infine del “conoscere” la seconda lingua. Dal punto di vista del cervello
che apprende, esistono – e fino ad un certo punto hanno una vita anche
indipendente – una competenza (rappresentazioni grammaticali e statistiche), una capacità (processing) e infine anche una conoscenza (metalinguistica) della seconda lingua. (Nuzzo-Rastelli 2011: 43)
Questa distinzione terminologica riprende la dicotomia chomskyana tra know e
cognize, tra conoscenza linguistica implicita ed esplicita. Lo stesso Krashen definisce
i due processi anche “conscious and subconscious language development” (Dulay-
1 Si veda Masciello (2009 [2006]) per una definizione dei termini in questione.
2 Si rimanda al capitolo 3 sull’acquisizione delle lingue seconde per una puntuale trattazione della proposta di
Stephen Krashen.
3 In Italia, si è tradotto learning con ‘apprendimento’. Noi preferiamo, per chiarezza e per risolvere alcune
ambiguità derivanti dall’uso del termine apprendente, tradurre in questa sede learning con ‘imparare’. Per un
approfondimento dei motivi della nostra scelta, rimandiamo alla nota 15, più avanti.
4 L’espressione memoria dichiarativa rimanda alla possibilità di recupero verbale consapevole dei contenuti
della memoria stessa.
5 Le memorie di tipo procedurale corrispondono a quelle conoscenze acquisite in modo inconsapevole e che
permettono di eseguire procedure in modo automatico.
6 Per un approfondimento del rapporto tra memorie e linguaggio si vedano, tra gli altri, Aglioti-Fabbro (2006),
Fabbro (2004) e Marini (2008).
7 Per quanto riguarda il ruolo delle memorie nell’acquisizione della L1, riportiamo, qui di seguito, quanto scritto
da Marini (2008), che, rifacendosi agli studi di Franco Fabbro, sostiene: “si ritiene che nel corso del suo sviluppo
cognitivo […] il bambino acquisisca le competenze morfosintattiche e sintattiche in modo inconsapevole
grazie al sistema della memoria procedurale, e le competenze semantico-lessicali in modo consapevole
facendo ricorso alla propria memoria dichiarativa” (Marini 2008: 99).
12
Capitolo I -Terminologia introduttiva
Burt-Krashen 1982: 11). Per Krashen la differenza tra i due processi è così netta che
non ci sarebbe collegamento tra i due né passaggio dal livello di conoscenza conscia
a quello di conoscenza inconscia.
Veniamo adesso alle altre coppie terminologiche dell’attività laboratoriale di cui
sopra. L’attenzione che poniamo alle nozioni di apprendimento (inteso come il processo dell’imparare) e di acquisizione ci permette di rivedere i termini insegnante e
studente e di scegliere, all’interno del nostro lavoro, i termini insegnante/facilitatore linguistico ed apprendente, convinti come siamo che debba essere rivisto ogni
tipo di approccio/metodo glottodidattico che si incentri sulla figura dell’insegnante come protagonista indiscusso di un processo di insegnamento/apprendimento
inteso come trasmissione di conoscenza. Come sostiene Anna Ciliberti,
in approcci che si focalizzano sulla comunicazione e che adottano una pedagogia non direttiva, compito dell’insegnante non è tanto quello di “insegnare” quanto quello di rendere l’apprendimento possibile. La sua funzione
di guida e di consulente prevede che gli allievi assumano un ruolo attivo,
siano responsabili ad autonomi, partecipi, capaci di programmazione e di autovalutazione. L’insegnamento diviene così di tipo dialogico e bidirezionale;
l’insegnante diviene un animatore, un catalizzatore, un facilitatore dell’apprendimento e organizzatore delle risorse, e diviene egli stesso un discente.
(Ciliberti 1994: 200)
Per quanto concerne la distinzione tra lingua seconda (L2) e lingua straniera (Ls),
riprendiamo le definizioni in Faso-Pona (2011):
si parla di L2 quando l’apprendimento della lingua non materna avviene in un
contesto situazionale nel quale essa venga utilizzata come lingua di comunicazione quotidiana (per esempio l’italiano appreso in Italia attraverso i normali scambi comunicativi quotidiani); si parla, invece, di LS (lingua straniera)
quando l’apprendimento avviene in un contesto situazionale nel quale essa
non sia presente se non in contesti di apprendimento guidato (per esempio
l’italiano appreso all’estero in una scuola di lingua, o l’inglese appreso nelle
scuole in Italia).
Nel presente volume useremo entrambe le accezioni di lingua seconda: spesso,
però, ci avvarremo del termine generico di lingua seconda per indicare sia la lingua seconda vera e propria sia la lingua straniera, laddove non indicato diversamente, perché
siamo convinti che non esista una netta differenza per quanto concerne i meccanismi
inconsci che sottostanno al processo di acquisizione. Le differenze, quando presenti,
13
si fanno più forti laddove si voglia parlare di questioni relative alla glottodidattica.
Passiamo adesso ad una possibile definizione di approccio induttivo nei processi
di apprendimento. Attraverso l'approccio induttivo, l'insegnante ha il compito di
stimolare l'apprendente a formulare ipotesi sull'oggetto della conoscenza. Le ipotesi formulate non sono da considerarsi errori, ma indicano che l'apprendente sta
riflettendo in modo coerente sul proprio modo di appropriarsi alla realtà che sta
studiando. Grazie a questa competenza, l'apprendente costruisce/de-costruisce le
proprie ipotesi e ne riformula di nuove. L'approccio induttivo si rivela uno strumento efficace nel processo di apprendimento poiché lontano dall'idea che vi sia
un sapere trasmesso dall'insegnante agli apprendenti, secondo la vecchia immagine
che concepirebbe le teste degli apprendenti come imbuti in cui versare contenuti
nozionistici. L'insegnante è dunque colei o colui che crea possibilità per l'interazione in classe: si impara se, vivendo insieme agli altri, si accetta l'esistenza di differenti
interpretazioni della realtà prodotte da ciascun individuo. In tal senso, l'induzione è un approccio che stimola l'impiego di una didattica conversazionale (cfr. Freire
2004, Perticari (a cura di) 2005 [1996]) e induce ad accogliere una visione pluriprospettica del mondo. Tutte queste etichette descrittive che si usano per comprendere le specifiche
situazioni di insegnamento/apprendimento delle lingue potrebbero far pensare a
situazioni dai confini netti. In realtà, come puntualizza Rosa Pugliese,
costruire una tipologia delle diverse situazioni di apprendimento formale
delle lingue risponde allo scopo di comprenderle nella loro specificità, distinguendole l’una in rapporto all’altra, ma anche descrivendone le interrelazioni, approfondendo lo spazio intermedio in cui situazioni distinte possono
sovrapporsi, senza tuttavia perdere di vista l’insieme, vale a dire il lor essere
componenti di una più estesa categoria: gli apprendimenti linguistici. Non si
tratta, quindi, di tracciare contorni netti e definiti, quanto di puntualizzare
gli aspetti di distanza, di contiguità e di intersezione tra le varie situazioni.
(Pugliese 2003: 25)
Dietro ogni comoda etichetta ed ogni acronimo accademico si nasconde una
realtà più complessa e dai contorni più sfocati. Scopo del presente volume è anche
quello di facilitare il rapporto di comunicazione tra ricerca accademica e prassi didattica, riportare quindi le “scoperte” accademiche in ambito di pedagogia linguistica, linguistica teorica ed applicata e glottodidattica alla dimensione della classe per
favorire quell’insegnamento riflessivo che ci auguriamo possa caratterizzare sempre
di più la scuola italiana.
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
CAPITOLO II
Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito.
I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro.
O per bocciarlo.
(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, 1967)
1. Laboratorio
Che cosa è il linguaggio? Come si apprende?
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________
Quali sono le varietà dell’italiano? Che cosa è la varietà standard? Che cosa sono i dialetti?
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ 15
___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________
2. La variazione diafasica, diastratica e diamesica
LABORATORIO
Fare i giusti abbinamenti8
Contenuto da trasmettere:
“dire a qualcuno che non si può andare da lui”.
Trasmettiamo a Lei destinatario
ITALIANO FORMALE AULICO
A
l’informazione che la venuta di chi
sta parlando non avrà luogo.
ITALIANO TECNICOB
Le dico che non possiamo venire.
SCIENTIFICO
VARIETÀ
1
2
3
ITALIANO BUROCRATICO
C
Sa, non possiamo venire.
4
ITALIANO STANDARD
LETTERARIO
D
Mica possiam venire, eh.
5
ITALIANO NEO-STANDARD
E
La informo che non potremo venire.
6
ITALIANO PARLATO
COLLOQUIALE
F
7
ITALIANO POPOLARE
G
8
ITALIANO INFORMALE
TRASCURATO
H
Ci dico che non potiamo venire.
9
ITALIANO GERGALE
I
Vogliate prendere atto
dell’impossibilità della venuta dei
sottoscritti.
Mi pregio informarLa che la nostra
venuta non rientra nell’ambito del
fattibile.
Ehi, apri ‘ste orecchie, col cavolo
che ci si trasborda.
Risposte: ___________________________________________________________________
8 Liberamente tratto da: Berruto, G. (1993), Le varietà del repertorio, in Sobrero A. A. (a cura di), Introduzione
all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Roma-Bari, Laterza.
16
Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Qui di seguito, liberamente tratto da Berruto (1998 [1987]: 21), presentiamo lo
schema della gamma di varietà dell’italiano contemporaneo. Tuttavia tale schema,
come precisa Gaetano Berruto,
va preso con molta cautela, giacché […] sarebbe in linea di
principio impossibile ridurre a una rappresentazione grafica
necessariamente bidimensionale una fenomenologia essenzialmente pluridimensionale. (Berruto 1987: 20)
I tre assi di variazione:
- Asse diamesico: dal polo scritto scritto (a sinistra) al polo parlato parlato (a
destra);
-
Asse diastratico: dal polo alto (in alto) al polo basso (in basso);
-
Asse diafasico: dal polo formale-formalizzato (in alto a sinistra) al polo informale (in basso a destra).
Come si precisa in Berruto (1998 [1987]), occorre “evitare di mescolare le dimensioni di variazione, e nello stesso tempo tenere, e dar, conto del fatto che esse si
intersecano” (ibid.).
17
7. it. formale aulico
8. it. tecnico - scientifico
(PERIFERIA)
9. burocratico
... ...
(CENTRO)
1. it. standard
letterario
2. it. neo-standard
(= it. regionale colto medio)
(Asse diamesico)
3. it. parlato colloquiale
(Sub-standardità)
4. it. regionale
popolare
...
...
(Asse diafasico):
(Sottocodici Registri)
(PERIFERIA)
5. it. informale
trascurato
(Asse diastratico)
(tratto da Berruto 1998 [1987]: 21)
18
6. it. gergale
Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
3. Leggendo Noi la farem vendetta di Paolo Nori9
LABORATORIO
Leggere i periodi che seguono: come possiamo descriverli dal punto di vista
linguistico?10
Allora mi è venuto da pensare una cosa che ultimamente ogni tanto mi vien da pensarla [...]
descrizione:
___________________________________________________________________
Dopo qualche anno mi sono accorto che a me, l’automobilismo, mi fa venir sonno.
descrizione:
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[...] Come in generale i turisti in tutte le parti del mondo dove ci vanno a dare fastidio.
descrizione:
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Cosa vuoi che sappiano la televisione di Roma quel che succede a Parma.
descrizione:
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9 Paolo Nori, Noi la farem vendetta, Feltrinelli, Milano 2006.
10 Per una discussione dettagliata delle caratteristiche linguistiche dell’italiano spontaneo, si veda il paragrafo 6,
più avanti.
19
Io adesso, non solo Reggio Emilia, io non sono mai andato nel Museo Morandi [...]
descrizione:
___________________________________________________________________
[...] Per me io ho un rispetto, di Niccolò dell’Arca, che prima non ce l’avevo.
descrizione:
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[...] Non è un lavoro che si procede dal certo verso l’incerto [...]
descrizione:
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L’impero austroungarico una delle sue caratteristiche che durante la settimana gli
uomini andavano al bar [...]
descrizione:
___________________________________________________________________
Cioè praticamente questo libro vien fuori per via che nel nuovo millennio postimpero austroungarico che ci siamo dentro [...]
descrizione:
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20
Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
[...] E gli ho chiesto ma cosa è successo, davvero, nel 1960, a Reggio Emilia?
descrizione:
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[...] Per lui era come se era una cosa che era successa in Sud America [...]
descrizione:
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[...] Gli avevo detto io a Al’bin e lui No no, mi aveva detto [...]
descrizione:
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[...] La piazza dei commerci un po’ equivoci di San Pietroburgo che c’è in tanti romanzi di
Dostoevskij che adesso ci han messo un arredamento urbano che sembra una pizzeria [...]
descrizione:
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[...] Il momento che uno legge [...] È un momento che magari nel mondo non succede niente di speciale [...]
descrizione:
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21
[...] Però quello lì è un libro che se lo leggi nel momento buono, non so come dire.
descrizione:
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[...] Ah, non si dimentica queste cose [...]
descrizione:
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[...] Bei tranquilli
descrizione:
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[...] Le hanno prese, sode, la polizia
descrizione:
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[...] saltavamo il muro dell’ospedale, non si trovava uscite da scappare [...]
descrizione:
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Grande cultore delle scritture dei semicolti
L’italiano popolare è stato anche definito l’ “italiano dei semicolti” perché sarebbe usato dalle fasce meno istruite della popolazione accanto al dialetto e presenta quindi forti caratteri
regionali. Si è parlato – e si continua a parlare – di “semplificazione” rispetto all’italiano standard o normativo: da questo
deriva una forte censura sociale applicata a chi è parlante nativo di queste varietà linguistiche.
Il nostro punto di vista sull’italiano popolare ribalta questa
prospettiva:
- non vediamo la lingua standard come modello, né la usiamo
come continuo riferimento per sanzionare le altre varietà linguistiche;
- osserviamo le caratteristiche linguistiche di queste lingue
come possibilità formali offerte dalla nostra dotazione genetica: una forma non è mai, dal punto di vista linguistico,
migliore rispetto a un’altra; semmai esistono convenzioni che
danno maggiore prestigio ad una forma a danno di un’altra;
- riteniamo che occorra essere capaci di alternare le diverse
varietà linguistiche nelle varie situazioni concrete di uso della
lingua.
Quello che viene frequentemente definito come tratto “semplificato” dell’italiano popolare (e delle varietà d’apprendimento di italiano L2) compare in altri sistemi linguistici adulti,
spesso persino standard: da questo l’inadeguatezza dell’uso
del termine “semplificazione” e la nostra propensione verso
analisi che tentino una descrizione e, se possibile una spiegazione, delle scelte formali “altre”. (Masciello-Pona 2010)
Sarebbe utile, a questo punto, avviare una riflessione sulle varietà dell’italiano
(italiano standard o normativo, italiano neostandard o dell’uso medio, italiano regionale, italiano popolare o dei semicolti) e sulle caratteristiche che lo standard
impone alla lingua dei propri parlanti nativi.
Le varietà normative tendono a incamerare riflessioni di tipo logico, che poco
23
hanno a che vedere con la lingua come sistema umano innato autonomo prodotto
della facoltà del linguaggio. Non solo, le varietà standard tendono a caratterizzarsi
come prodotti storici in cui la componente sociale interviene in modo massiccio su
libere scelte linguistiche.
Il guaio l’hanno fatto, temporibus illis, un purismo intransigente e una grammatica logicizzante, che hanno ingenerato
la convinzione che la norma sia un logos astratto, metafisico, calato in un catechismo grammaticale, mentre la norma
è dentro i testi degli scrittori e i discorsi dei parlanti e spesso
si offre a loro come un fascio di possibilità alterne, di scelte,
ed essi possono più o meno consapevolmente, nel corso del
tempo e nel mutare di certe condizioni, confermarla o modificarla. (Nencioni 1985: 227)
A questo proposito, soccorre la riflessione di Laura Vanelli sulle lingue standard:
in italiano [...] le tendenze evolutive spontanee sono state
parzialmente bloccate da un processo di normalizzazione,
di cui la tradizione delle grammatiche normative e puriste si
è fatta interprete. La volontà di fissare la lingua a uno stato
particolare e definito ha avuto talvolta come esito quello di
reprimere le tendenze innovative. Questa attitudine normalizzatrice è stata tanto più incisiva quanto più la lingua cui si
è applicata non è stata per molto tempo una lingua praticata
come lingua nativa ad ampio raggio. Ma a questa constatazione se ne deve aggiungere un’altra: se è vero che l’evoluzione della lingua può essere in qualche modo controllata o
rallentata, è anche vero che le tendenze innovative, anche se
combattute, non possono essere represse completamente o
per sempre: resta comunque nella lingua il segno di contraddizione non risolta tra gli esiti imposti dalla norma e gli esiti
spontanei. (Vanelli 1999: 111)
Abbiamo visto come quelli che ho chiamato “punti di crisi” nell’italiano contemporaneo siano il risultato di un’evoluzione della nostra lingua che non ha avuto un percorso
lineare, accompagnato da quei processi di cambiamento
spontaneo che scandiscono la trasformazione delle lingue.
24
Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Conosciamo la causa di questa evoluzione parzialmente anomala: l’italiano è nato e si è diffuso per secoli piuttosto come “progetto” di lingua che come lingua effettiva,
con la conseguenza che a forgiarne la fisionomia sono stati non tanto i veri utenti, i parlanti, quanto piuttosto i suoi
“promotori”, i grammatici, che hanno assunto e promosso un modello sostanzialmente purista di lingua d’autore.
Gli effetti di questo atteggiamento si sono affievoliti da
quando l’italiano, e ormai è passato più di un secolo, è diventato una lingua come le altre, una lingua parlata da un’intera comunità che la trasmette alla generazione successiva
come lingua nativa. Ma tracce del suo passato si sono sedimentate nel suo sistema [...] Si tratta di elementi residuali
che, dal momento che provengono da una fase superata che
possedeva un sistema diverso, hanno difficoltà a integrarsi nelle strutture grammaticali vigenti: d’altra parte sono
elementi che hanno il prestigio che viene dalla tradizione
e, come tali, vengono tuttora conservati e salvaguardati.
Ma la possibilità di conservare queste forme ha un suo limite nel loro statuto ambiguo e perciò più debole all’interno
del sistema, e nella presenza di forme concorrenti al contrario ben integrate nel sistema stesso. La soluzione adottata è
quella per cui [...] le forme in conflitto si distribuiscono tra
registri diversi di lingua, con gli elementi meno stabili che
sono riservati alla varietà scritta della lingua e ai registri più
formali del parlato. Si tratta di varietà di lingua che, in quanto permettono per le loro proprietà intrinseche di esercitare
un maggior controllo sulla produzione linguistica, accedono
più lentamente ai cambiamenti linguistici e si propongono
perciò come espressione di fasi linguistiche più conservative
e tradizionali. (ivi: 118-119)
25
4. Fiore di maggio
LABORATORIO
Ascoltare la canzone di Fabio Concato “Fiore di maggio” (1994) ed individuare nel
testo audio possibili deviazioni dalla norma linguistica dell’italiano standard.
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Fiore di maggio
Fabio Concato (1994)
Tu che sei nata dove c’è sempre il sole
sopra uno scoglio che ci si può tuffare
e quel sole ce l’hai dentro al cuore
sole di primavera
su quello scoglio in maggio è nato un fiore.
E ti ricordi c’era il paese in festa
tutti ubriachi di canzoni e di allegria
e pensavo che su quella sabbia
forse sei nata tu
o a casa di mio fratello
non ricordo più.
E ci hai visto su dal cielo
ci hai trovato e piano sei venuta giù
un passaggio da un gabbiano
ti ha posata su uno scoglio ed eri tu.
Ma che bel sogno era maggio e c’era caldo
noi sulla spiaggia vuota ad aspettare
e tu che mi dicevi guarda su quel gabbiano
stammi vicino e tienimi la mano.
E ci hai visto su dal cielo
ci hai trovato e piano sei venuta giù
un passaggio da un gabbiano
ti ha posata su uno scoglio ed eri tu.
Tu che sei nata dove c’è sempre il sole
sopra uno scoglio che ci si può tuffare
e quel sole ce l’hai dentro al cuore
sole di primavera
su quello scoglio in maggio nasce un fiore.
27
5. La sintassi della frase
LABORATORIO
Immaginare che gli enunciati a destra siano risposte a possibili domande. Quali potrebbero essere queste domande?
Franca gli ha dato una caramella, a Guido.
Guido, Franca gli ha dato una caramella.
A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).
A Guido, Franca gli ha dato una caramella.
Franca ha dato una caramella a Guido.
È a Guido che Franca ha dato una caramella.
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
LABORATORIO
Fare i giusti abbinamenti
1
2
3
Ordine basico SVO
Dislocazione a sinistra
con tematizzazione
Dislocazione a destra
con tematizzazione
A
Guido, Franca deve comprare altre caramelle.
B
Franca gli ha dato una caramella, a Guido.
C
Guido, Franca gli ha dato una caramella.
4
Frase scissa
D
A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).
5
Frase a tema sospeso
E
A Guido, Franca gli ha dato una caramella.
6
Frase a tema libero
F
Franca ha dato una caramella a Guido.
7
Topicalizzazione/
Focus contrastivo
G
È a Guido che Franca ha dato una caramella.
Risposte: ___________________________________________________________
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LABORATORIO
Usando le parole in ordine sparso, qui di seguito, rispondere alla domanda: che cosa
è successo?
1.
I
ARRIVATI
NONNI
SONO
2.
HA
EDOARDO
LETTO
MAIL
UNA
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___________________________________________________________________
___________________________________________________________________
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Ordini diversi delle parole portano a diversi usi degli enunciati.
Solo l’enunciato Sono arrivati i nonni presenta l’evento come tutto “nuovo”. Se
abbiamo ordinato le parole a formare I nonni sono arrivati, può darsi il caso che gia
si aspettassero i nonni e che alla fine essi siano arrivati.
L’ordine della frase non marcata si caratterizza, generalmente, per una coincidenza dei tratti sintattico, semantico e pragmatico: si ha, generalmente, soggettotema11-dato alla sinistra e predicato-rema12-nuovo alla fine.
Esempio. Franca ha dato una caramella a Guido.
In realtà, la situazione è più complessa. Proviamo a riassumerla. Per quanto riguarda la posizione del soggetto sintattico, esso nella frase non marcata, cioè che
si adatta ad un numero maggiore di contesti di discorso, si trova in posizione preverbale con i verbi transitivi (es. Edoardo ha letto una mail [nuovo]) e in posizione
post-verbale con i verbi inaccusativi (quelli con ausiliare essere) (es. È caduta la torre
[nuovo]) e con alcuni verbi intransitivi (es. Ha telefonato Francesco [nuovo]).
Esempi.
VERBI TRANSITIVI: leggere.
Che cosa ha letto Edoardo? Edoardo ha letto [dato] una mail [nuovo]
Che cosa ha fatto Edoardo? Edoardo [dato] ha letto una mail [nuovo]
Che cosa è successo? Edoardo ha letto una mail [nuovo]
VERBI INACCUSATIVI (ausiliare “essere”): cadere
Che cosa è successo alla torre? La torre [dato] è caduta [nuovo]
Che cosa è successo? È caduta la torre [nuovo]
Presentiamo qui di seguito le frasi con ordine marcato: la dislocazione a sinistra, il tema
sospeso, il tema libero, la dislocazione a destra, la topicalizzazione ed infine la frase scissa.
La dislocazione a sinistra presenta un elemento dato tematizzato (tema = ciò di
cui si parla) alla sinistra della frase. Il costituente dislocato presenta una connessione
sintattica con il resto della frase: la preposizione e/o il pronome clitico di ripresa.
Esempio. A Guido, Franca gli ha dato una caramella.
11 Il tema, nella grammatica del discorso, è ciò di cui si parla, l’argomento dell’enunciato, o meglio ancora
l’informazione accessoria che facilita la comprensione del rema. Il tema tende a trovarsi alla sinistra degli
enunciati. Esempio. I nonni sono arrivati.
12 Il rema, nella grammatica del discorso, è quella parte dell’enunciato che ne realizza lo scopo informativo. Il
rema tende a trovarsi alla destra degli enunciati. Esempio. I nonni sono arrivati.
31
I costituenti dislocati possono essere pronunciati con una pausa intonativa dal
resto della frase. La virgola serve ad indicare tale pausa.
La dislocazione a sinistra prende il posto, nel parlato spontaneo, delle costruzioni passive, tipiche di registri più formali della lingua: entrambe le strutture permettono, infatti, di spostare in prima posizione elementi diversi dal soggetto.
Esempio. I ragazzi hanno rotto la finestra.
La finestra è stata rotta dai ragazzi.
La finestra, l’hanno rotta i ragazzi.
Il tema sospeso presenta caratteristiche simili alla dislocazione a sinistra, soprattutto relativamente alla sua funzione pragmatica di tematizzazione, ma ha caratteristiche sintattiche diverse: il tema sospeso non si accompagna agli indicatori sintattici (le eventuali preposizioni) e richiede necessariamente una ripresa (generalmente,
un pronome clitico).
Esempio. Guido, Franca gli ha dato una caramella.
In presenza di tematizzazione di soggetto od oggetto, è difficile distinguere la
dislocazione a sinistra dal tema sospeso: i costituenti dislocati non sono, infatti,
accompagnati da alcuna preposizione perché non lo sono neanche nella posizione
occupata nella corrispondente frase non marcata.
Esempi.
Guido, ama Franca.
Franca, Guido la ama molto.
Il tema libero prevede elementi alla sinistra della frase non legati sintatticamente al resto della medesima. Sarà il contesto linguistico ed extralinguistico ed il sistema di conoscenze dell’ascoltatore (nonché lo “spazio” comunicativo condiviso da
parlante/ascoltatore) a permettere la decodifica e la comprensione del messaggio.
Esempio. Guido, Franca deve comprare altre caramelle.
La dislocazione a destra presenta costituenti dislocati alla fine della frase che si
riferiscono a qualcosa ritenuto dal parlante dato come tema del discorso. Anche in
questo caso la funzione pragmatica di questo ordine marcato è la tematizzazione di
alcuni elementi della frase.
Esempio. Franca gli ha dato una caramella, a Guido.
Accanto a questi usi della dislocazione a destra, ne esistono altri in cui la frase
non è marcata né dal punto di vista sintattico né da quello pragmatico. In questi
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
casi, il pronome atono anticipa l’oggetto dislocato e funge da marca di accordo e la
frase è pronunciata come gruppo tonale unico senza una pausa che preceda l’elemento dislocato.
Esempio. Lo vuoi un bacino?
La topicalizzazione pone un costituente alla sinistra della frase, non come tema-dato ma come elemento nuovo. Per la topicalizzazione, si parla generalmente
di focus contrastivo perché il rilievo del costituente dislocato implicitamente od
esplicitamente richiama il contrasto. Per indicare il focus, si usa convenzionalmente
il maiuscolo.
Esempio. A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).
La frase scissa si costruisce tipicamente attraverso strutture del tipo è x che (oppure con una preposizione è a x che…, ecc.) ed ha la funzione pragmatica di mettere
in rilievo o enfatizzare un elemento della frase anche in termini di contrasto più o
meno esplicito.
Esempio. È a Guido che Franca ha dato una caramella.
Le frasi con ordine marcato vengono da molti considerate caratteristiche del
linguaggio popolare, a livello diastratico, o tipiche di contesti molto informali legati alla oralità, a livello diafasico. La nostra opinione è che tali ordini, come appare
chiaro dalla loro funzione pragmatica che abbiamo appena sottolineato, sono invece una risorsa importante ed indispensabile dei parlanti e come tale non dovrebbe
venire stigmatizzata (per approfondimenti, si veda Ferrari 2012).
33
6. Punti di crisi dell’italiano contemporaneo
Presentiamo qui di seguito alcuni fenomeni della lingua italiana tipici dello stile
spontaneo. Cercheremo di offrire una descrizione adeguata dei suddetti fenomeni
per allontanare il sospetto che tali deviazioni dalla norma libresca suscitano nei
parlanti scolarizzati.
6.1 A me mi
LABORATORIO
Inserire la negazione NON nelle due frasi seguenti
A me piace…
Mi
piace…
La negazione NON occupa la stessa posizione all’interno delle due frasi?
Quali conclusioni possiamo trarre circa la posizione occupata da A ME e MI?
Quali conclusioni possiamo tratte circa le funzioni di A ME e MI nella due frasi?
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
Non siamo di fronte a pleonasmo. Le informazioni apportate dagli elementi pronominali all’interno di frasi con A me mi, A te ti ecc. sono diverse: rispettivamente,
una di tipo pragmatico (che potremmo anche esprimere con Per quanto mi/ti riguarda), e una di tipo morfosintattico e semantico (chi sono i protagonisti di questi
eventi? a chi piace? a chi pare?). Se seguiamo l’impianto valenziale di Tesnière, riproposto in Italia da Francesco Sabatini, a me è espansione della frase minima con mi.
Abbiamo visto come frasi del tipo A me mi piace, A me mi
pare siano frasi corrette dell’italiano quando si interpreti (ed
è possibile farlo) a me come dislocato a sinistra. Magari si
può dare il consiglio, a insegnanti e alunni, di metterci una
virgola dopo, un modo per indicare in maniera non equivoca
che l’espressione è stata dislocata. (Vanelli 1998: 137)
Per approfondimenti, si veda Sabatini-Camodeca-De Santis (2011).
6.2 Soggetto, verbo
Questo fenomeno rientra nei precedenti. Quando l’alunno mette una virgola tra
il soggetto e il verbo sta marcando una dislocazione a sinistra. In questo caso, la
costruzione sarà linearmente identica all’equivalente non dislocata perché in italiano standard non esiste un pronome clitico di ripresa soggetto. Diverso è il caso dei
dialetti italiani.
Esempi. La mamma, va al mercato.
La mamma, la va al mercato. (Fiorentino)
6.3 Lui/egli
Nell’italiano dell’uso medio (Sabatini 1985) o neostandard (Berruto 1987) o italiano tendenziale (Mioni 1983), i pronomi lei, lui, loro sono le normali forme di 3a persona (vd. anche Vanelli 1999). Questo dipende dalle caratteristiche intrinseche dei
suddetti pronomi e dalle posizioni da essi occupate all’interno della stringa frasale.
Si prenda la frase del fiorentino: Maria la va al mercato.
Il sintagma referenziale (Maria) si può trovare o in posizione periferica di frase (vd.
Poletto 2000 per una possibile trattazione del soggetto preverbale come SpecC) o
in una posizione della frase più alta rispetto a quella del soggetto morfosintattico
(vd. Cardinaletti 2004); il pronome clitico (la) è il vero soggetto morfosintattico.
Potrebbero così trovare una possibile spiegazione diversi fenomeni come, per esempio, l'uso frequente di lei/lui al posto di ella /egli nell’italiano contemporaneo:
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essi occuperebbero, infatti, posizioni diverse all’interno della frase e non sarebbero
associabili solo ai diversi registri della lingua.
Rimandiamo alla Sintassi italiana dell’uso moderno di Raffaello Fornaciari per
una descrizione del fenomeno dell’uso delle forme pronominali oggettive al posto
delle soggettive nell’italiano del XIX secolo (Fornaciari 1881: 39). Si vedano, inoltre,
Cardinaletti (2004) e Rizzi (2005), per una accurata trattazione delle posizioni soggetto nella frase. Si veda, infine, Sabatini (1990) per una interessante trattazione
dell’uso di lui con funzioni di tema e rema e di egli come “mera ripresa anaforica,
quando si voglia evitare la ripetizione nominale e, nello stesso tempo, si ritenga
inopportuna l’ellissi, casi che si presentano, ovviamente, quasi soltanto nelle scritture formali” (Sabatini 2011 [1990]: 97).
Qui di seguito, si illustrano casi in cui l’uso di lei/lui risulta obbligatorio pena la
grammaticalità della frase.
Chi è stato? Lui.
Io e lui.
È venuto lui.
È lui.
Solo lui.
Proprio lui.
Chi è stato? *Egli.
*Io e egli.
*È venuto
egli.
*È egli.
*Solo egli.
*Proprio
egli.
6.4 Il dativo in italiano
L’uso di gli
In italiano standard, il pronome clitico gli esprime a lui in frasi del tipo Gli ho
dato un calcio (‘Ho dato un calcio a lui’).
Nelle diverse varietà dell’italiano, gli viene usato per esprimere a loro/loro in
frasi del tipo Gli ho dato un calcio (‘Ho dato loro un calcio).
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
LABORATORIO
Osservare le frasi qui sotto
Mi dice…
Ti dice…
Le/gli dice…
Ci dice…
Vi dice…
Dice loro…
In che cosa consiste la differenza del pronome LORO rispetto agli altri pronomi italiani cosiddetti dativi?
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Il pronome loro rappresenta un’asimmetria nel sistema pronominale italiano: è
bisillabo (lo-ro), porta l’accento (lóro), si colloca in una posizione diversa rispetto
agli altri pronomi clitici (Mi hai dato vs. Hai dato loro). Questa posizione di loro
all’interno della frase è in netto contrasto con il sistema della distribuzione del
carico informativo nella lingua italiana, nella quale si tende a porre “la punta di
“novità” (o rematicità)” (Sabatini 2011 [1990]: 93) sulla destra: loro è l’unico pronome
all’interno del paradigma dei pronomi cosiddetti dativi (mi, ti, le/gli, ci, vi, loro) che
presenta bassa informatività ma si colloca alla destra del verbo.
Il parlante risolve tutte queste asimmetrie sostituendolo.
Inoltre, gli tende ad essere usato per esprimere a lei in sostituzione del normativo le
37
in frasi del tipo Gli ho dato un mazzo di fiori (‘Le ho dato un mazzo di fiori’).
All’interno dei pronomi combinati (me lo, te la, ce le ecc.), l’unica forma possibile di
terza persona singolare/plurale e maschile/femminile è la forma gli: gliela, gliele,
glielo, glieli.
In latino, esisteva un’unica forma per a lei/a lui: ILLI e una forma, ILLIS, per a loro. Da
queste forme deriva il nostro gli.
Per approfondimenti, vd. Vanelli (1999).
L’uso di ci
L’uso di ci per esprimere il dativo al posto di gli/le/loro dell’italiano standard si
trova in molte varietà della penisola italiana: in molte varietà linguistiche meridionali-insulari e settentrionali.
La lessicalizzazione, nelle diverse varietà dell’italiano, del dativo tramite clitico
locativo di tipo ci (es. Ci do un libro ‘Gli/le do un libro’) è stata oggetto di numerosi
lavori, tra i quali suggeriamo i lavori di Monica Berretta (1985a, 1985b) e di ManziniSavoia (2005, 2007, 2008). L’interpretazione dativa di ci proviene dalla sua semantica di locativo direzionale: quando usiamo ci in frasi del tipo Ci do un libro stiamo
esprimendo la posizione finale dell’oggetto (nel nostro esempio un libro) alla fine
dell’evento. Niente di “illogico” od “irrazionale”.
6.5 Che nelle frasi relative
L’italiano standard presenta tre pronomi relativi che differiscono per funzione
all’interno della proposizione: che, con funzione di soggetto ed oggetto; la serie di
quale, con funzione di soggetto e complemento indiretto; la serie di cui, con funzione di complemento indiretto. Il sistema dell’italiano normativo è, a ben vedere,
alquanto complesso.
Accanto a questi usi strettamente normativi, esistono altri usi di che ampiamente accettati dai grammatici: che riferito ad un nominale che esprime tempo (Mi sono
innamorato di lui il primo giorno che l’ho visto) in sostituzione del normativo in cui.
Esiste, poi, una costruzione con che, tipica dello stile spontaneo, normalmente
considerata agrammaticale.
Presentiamo questa sezione sull’uso di che citando alcune belle parole in Noi la
farem vendetta di Paoli Nori, “grande cultore delle scritture dei semicolti”.
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
a.Allora mi è venuto da pensare una cosa che ultimamente ogni tanto mi vien da pensarla [...].
b.[...] per me io ho un rispetto, di Niccolò dell’Arca, che prima non ce l’avevo.
c. [...] Non è un lavoro che si procede dal certo verso l’incerto [...].
d. Cioè praticamente questo libro vien fuori per via che nel nuovo millennio postimpero austroungarico che ci siamo dentro [...].
e. [...] La piazza dei commerci un po’ equivoci di San Pietroburgo che c’è in tanti romanzi di
Dostoevskij che adesso ci han messo un arredamento urbano che sembra una pizzeria.
f. [...] Il momento che uno legge [...] È un momento che magari nel mondo non succede niente di
speciale [...].
In queste frasi, che non è un pronome relativo ma una congiunzione subordinante, un puro indicatore di subordinazione.
Lontano da essere innovazioni formali o recenti tendenze dell’italiano moderno, queste scelte parametriche hanno attestazioni che risalgono al Boccaccio e al
Petrarca per arrivare al Leopardi e al Manzoni (vd. Benincà 1993: 282-283), come
mostra anche il brano tratto dalla Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori
riportato qui di seguito (corsivi nostri).
Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio;
et in su l’uscio mi spoglio quella veste quotidiana, piena di
fango e di loto, e mi metto panni reali et curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui
uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di
quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io
non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione
delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e
non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro. (Dalla Lettera di Niccolò
Machiavelli a Francesco Vettori, Firenze, 10 dicembre 1513)
Anche in questo caso, si tratta di scelte parametriche diverse, non caratterizzabili
con “un suonar più o meno bene” o facendo appello alla “correttezza” e alla conseguente “scorrettezza”.
Per approfondimenti, vd. Renzi-Salvi-Cardinaletti (a cura di) 2001 [1988] e Salvi-Vanelli (2004).
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7. Alcune citazioni
L’insegnamento dell’italiano, sia in Italia che all’estero, non
può essere tenuto “al riparo” dai problemi fin qui considerati.
Almeno la distinzione – ormai fondamentale per la situazione italiana – tra VARIETÀ STANDARD PER L’USO SCRITTO
FORMALE e VARIETÀ DELL’USO MEDIO PARLATO E SCRITTO
– dovrebbe essere presa in seria considerazione, specialmente se nell’insegnamento della lingua si perseguono obiettivi
differenziati e graduati: ciò s’impone particolarmente per
l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, a discenti che molto spesso puntano ad acquisire una competenza
(dapprima passiva, poi attiva) innanzitutto sul piano della lingua dell’uso medio, parlato e scritto.
È facile constatare, invece, che in molti strumenti didattici manca proprio l’attenzione verso la varietà dei tipi di lingua. […]
Molti manuali, in verità, guardano ancora a un modello che
non è neppure “superiore”, ma semplicemente “astratto” della lingua. A volte, più che la censura, nuoce l’omissione: anche
questa rivela la mancanza di spessore nella considerazione
della lingua. (Sabatini 2011 [1985]: 30)
Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla
come loro. O per bocciarlo. (Scuola di Barbiana 1967)
I fenomeni studiati sono gli esiti di un’evoluzione dell’italiano – un percorso non lineare, accompagnato da processi di
cambiamento spontaneo - anomalo rispetto ad altre lingue,
perché nato e diffuso per secoli piuttosto come progetto
di lingua che come lingua effettiva, la cui fisionomia è stata
forgiata non tanto dai parlanti, quanto dai grammatici, che
hanno promosso un modello sostanzialmente purista di lingua d’autore.
Da circa un secolo, l’italiano è diventato una lingua come le
altre, parlata da un’intera comunità e trasmessa alla generazione successiva come lingua nativa. Elementi residuali hanno difficoltà a integrarsi nelle strutture grammaticali vigenti:
essi da una parte hanno il prestigio che viene loro dalla tradizione, dall’altra uno statuto ambiguo e perciò più debole
all’interno del sistema. La soluzione adottata è quella per
cui le forme in conflitto si distribuiscono tra registri diversi
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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche
di lingua: gli elementi meno stabili sono riservati alla varietà scritta e ai registri più formali del parlato – espressione
di fasi linguistiche più conservative e tradizionali. (Giuseppe
Faso su Vanelli 1999)
Questa breve rassegna ha mostrato come siano privi di fondamento giudizi che considerino “illogiche” o “irrazionali”
delle forme linguistiche solo perché sono assenti in una determinata lingua o perché vengono interpretate sulla base di
criteri irrilevanti o addirittura scorretti sul piano dell’analisi
linguistica. (Vanelli 1998: 137)
8. Possibili conclusioni
Non esistono errori all’interno delle varietà della lingua, come non ci sono
errori nelle varietà degli apprendenti stranieri di italiano L2. Ogni varietà è regolata dalla nostra grammatica interna, la cosiddetta Grammatica Universale, che è
espressione della Facoltà di linguaggio di cui tutti gli uomini sono dotati sin dalla
nascita, universalmente.
I dialetti e tutte le varietà della lingua sono lingue vere e proprie in cui tutto tiene.
Ascoltiamo, quindi, gli apprendenti perché la loro è una lingua splendida, libera
espressione della nostra Grammatica Universale.
41
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
CAPITOLO III
L’acquisizione delle lingue seconde
Io le lingue le ho imparate coi dischi. Senza neanche accorgermene ho imparato prima le cose più utili e frequenti.
Esattamente come si impara l’italiano.
(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, 1967)
1. Analisi/descrizione di testi autentici
LABORATORIO
Leggere il seguente testo autentico scritto da un apprendente di italiano come L2 e
descriverlo
Come sono cambiata/o da quando sono a Firenze
Quando sono arrivato a Firenze, io ha cambiato un può, come persona, qui io
visto piu culture la istoria dell’umanità, per questo adesso sono cresciuto la mia
personalità, ho migliorato mia parola, mia maturità, per mio lavoro io visto di più,
come le cose piu migliore per tratamenti, le medicina, la legge di protezione per
animali, chè non vedere in [...].
Penso io que quando ritornare in [...], io portare un saco di cose per mia Università, le cose buone que succede qui, que si può migliorare in mio Paese, ciao è finitto
arriveerdeci
Descrizione:
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Come sono cambiata/o da quando sono a Firenze
Quando sono arrivato a Firenze, io ha cambiato un può, come persona, qui io
visto piu culture la istoria dell’umanità, per questo adesso sono cresciuto la mia
personalità, ho migliorato mia parola, mia maturità, per mio lavoro io visto di più,
come le cose piu migliore per tratamenti, le medicina, la legge di protezione per
animali, chè non vedere in Brasile.
Penso io que quando ritornare in Brasile, io portare un saco di cose per mia Università, le cose buone que succede qui, que si può migliorare in mio Paese, ciao è
finitto arriveerdeci
Raphael
studente universitario brasiliano (veterinaria)
32 anni
da quattro mesi in Italia (Bologna, Firenze)
cerca possibilità di stage formativo in un ippodromo
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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
Leggere il seguente testo autentico (tratto da Giacalone Ramat 1993) e descriverlo
IO PENSO COSÌ
QUANTI TROVATO MOLTO BENE
STARE QUI
VA BENE
T
cinese
da 4 anni in Italia
Descrizione:
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io penso così quanti trovato molto bene stare qui va bene
‘se mi sarò trovato bene, rimarrò in Italia’
1) trovato:
il participio passato compare abbastanza presto nelle varietà di apprendimento per
indicare l’aspetto perfettivo, con verbi telici e puntuali. Spesso questo aspetto si
lega ad eventi non passati come nel caso di cui sopra.
2) stare qui:
gli infiniti che registriamo nelle varietà di apprendimento sin dalle prime fasi possono essere considerati o forme basiche del verbo (così come le forme sovraestese
del presente) o forme con sfumature aspettuali che esprimono la non effettiva collocazione dell’evento in questione in un preciso punto temporale.
Riflessione
Gli italiani, generalmente, non sono abituati a riflettere sull’aspetto verbale13 perché
la scuola pubblica li addestra all’individuazione del tempo verbale e solo su di esso
si sofferma, spesso, la riflessione metalinguistica.
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13 Per una definizione di Aspetto verbale si veda il Glossarietto.
46
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
2. Le varietà degli apprendenti
LABORATORIO
Formulare una definizione personale delle seguenti espressioni
Interlingua (Selinker 1972):
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Sistema approssimativo (Nemser 1971):
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Competenza transitoria, competenza di transizione (Corder 1967):
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Varietà di apprendimento (Klein – Dittmar 1979; Klein – Perdue 1992, 1997; Giacalone Ramat 1993; Andorno 2006a, 2006b):
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47
2.1 Le varietà degli apprendenti: alcune definizioni possibili
Larry Selinker
(vd. Selinker 1972)
INTERLINGUA
Un sistema linguistico a sé stante [...] che risulta dal tentativo
di produzione da parte dell’apprendente di una norma della
LO [lingua obiettivo, lingua target].
SISTEMA APPROSSIMATIVO
Il termine sistema approssimativo mette in risalto che lo
sviluppo della lingua del discente tende al sistema della
lingua d’arrivo (Corder 1983).
William Nemser
(vd. Nemser 1971)
Un sistema approssimativo è il sistema linguistico deviante
adottato dall’apprendente nel tentativo di utilizzare la L2 […]
La lingua dell’apprendente […] è organizzata strutturalmente
e manifesta l’ordine e la coesione di un sistema, anche se di
uno che cambia frequentemente, con una rapidità atipica, e
che è soggetto a radicali riorganizzazioni tramite l’inclusione
massiccia di nuovi elementi via via che l’apprendimento
procede.
COMPETENZA TRANSITORIA O DI TRANSIZIONE; DIALETTO
IDIOSINCRATICO
Stephen Pit Corder
(vd. Corder 1967, 1983)
Il termine interlingua suggerisce che la lingua del discente
presenterà dei tratti sistematici sia della lingua d’arrivo che
di altre lingue di sua conoscenza, soprattutto della sua lingua
madre. In altre parole il suo sistema è misto o intermedio. Il
termine in questione sottolinea una dimensione di variabilità
della lingua di chi sta imparando, mentre il termine sistema
approssimativo mette in risalto che lo sviluppo della lingua del
discente tende al sistema della lingua d’arrivo. Il termine che
io ho proposto, competenza di transizione, prende a prestito
il concetto di competenza da Chomsky e dà rilievo al fatto
che il discente possiede una certa quantità di conoscenza,
presumibilmente in continuo sviluppo, che sta alla base
degli enunciati che produce e che è il compito del linguista
applicato studiare.
48
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
Wolfgang Klein
(vd. Klein 1998)
VARIETÀ DI APPRENDIMENTO
L’alternativa alla prospettiva della deviazione da una lingua
target è di considerare la produzione dell’apprendente in ogni
dato momento come una manifestazione immediata della sua
capacità di parlare e di comprendere: la forma e la funzione di
tali enunciati sono governate da principi e questi principi sono
caratteristici della facoltà del linguaggio.
I primi tentativi in questa direzione si riflettono in nozioni
quali interlingua (Selinker), sistemi approssimativi (Nemser)
e nozioni correlate. Tuttavia queste nozioni si basano ancora
sull’assunzione che ci sia “la cosa reale” – la lingua target
e, similmente, la lingua di partenza -, e che ci siano sistemi
intermedi, o meglio sistemi che mancano la “la cosa reale” per
poco. La prospettiva che ho in mente – la prospettiva delle
varietà di apprendimento – è alquanto più radicale.
[…]
Sotto questa prospettiva, le varietà di apprendimento non
sono imitazioni imperfette di una “lingua reale” – la lingua
target – ma sistemi veri e propri, per definizione senza errori,
e caratterizzati da particolari repertori lessicali e particolari
interazioni di principi organizzativi.
Le lingue pienamente sviluppate, come l’inglese, il tedesco,
il francese, sono casi speciali di varietà di apprendimento.
Esse rappresentano uno stadio relativamente stabile di
acquisizione linguistica – quello stadio in cui l’apprendente
cessa di apprendere perché non c’è differenza tra la sua varietà
e l’input – la varietà del contesto sociale.
Heidi Dulay
Marina Burt
Stephen Krashen
(vd. Dulay – Burt –
Krashen 1982)
Quando la mente comincia ad incamerare parte della seconda
lingua, essa la organizza in modo tale da produrre l’ordine
comune in cui vengono apprese le strutture grammaticali,
gli errori sistematici che vengono fatti e le costruzioni
temporanee che usano gli apprendenti. Questa organizzazione
non riflette necessariamente l’organizzazione e il programma
di insegnamento e tende ad essere simile per la maggior parte
degli apprendenti della seconda lingua indipendentemente
dalla loro prima lingua.
49
Anna Giacalone Ramat
(vd. Giacalone Ramat
1993, 2003)
Gabriele Pallotti
(vd. Pallotti 1998)
L’interlingua è un insieme di varietà di lingua che si collocano
nel continuum che va dalla lingua di partenza alla lingua di arrivo
(lingua target): è un sistema linguistico in continua evoluzione,
organizzato sulla base di una “grammatica” specifica, cioè di
un sistema di regole (relative alla fonetica, alla fonologia,
morfologia ecc…) che l’apprendente “costruisce, elabora”, a
partire dalle caratteristiche dell’input (cioè “campioni” di
lingua target. Si può parlare di una vera e propria “costruzione
della grammatica”).
L’interlingua è un sistema linguistico vero e proprio, con le
sue regole e la sua logica, parlato da chi sta apprendendo una
seconda lingua. Per capire come un alunno sta progredendo
verso la lingua d’arrivo, la nozione di interlingua è più utile di
quella di errore, perché è formulata in positivo e dal punto di
vista di chi impara, cercando di dare conto delle sue ipotesi.
Vedremo come si possa parlare di interlingua sia per la lingua
seconda che per quella straniera, per le lingue classiche e
persino per l’italiano standard appreso dagli italiani.
Sistema linguistico elaborato dall’apprendente che risulta dai
tentativi di produrre una norma della lingua di arrivo.
La nozione di interlingua tiene conto del fatto che le
produzioni degli apprendenti non devono essere viste come
insieme di parole e frasi costellate di errori, ma un sistema
governato da regole ben precise.
Cecilia Andorno
(vd. Andorno 2006a)
L’ipotesi di interlingua suppone quindi che le regolarità che
si riscontrano nelle produzioni in lingua non nativa (lingua
seconda) siano dovute al fatto che un apprendente dispone,
in ogni momento del suo percorso di apprendimento, di una
competenza linguistica strutturata, basata su proprie regole e
principi1, e che sia sulla base di questa competenza che egli
produce i propri enunciati. Questa competenza linguistica
strutturata è detta sistema di interlingua.
1. Questo non significa che l’interlingua non sia una lingua che
“si serve” anche di strutture proprie della lingua di partenza e
di arrivo (anche se, specie nelle prime fasi di ricerca sulle lingue
seconde in prospettiva di interlingua, sono state adottate
anche prospettive “radicali” che escludevano specialmente il
peso della lingua di partenza), ma significa piuttosto che non
è sulla base della grammatica di queste lingue che l’interlingua
è organizzata.
50
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
Federica Ledda
Assunta Giuseppina
Zedda
(vd. Ledda – Zedda
2005)
Anna Ciliberti (1994)
Leonardo Maria Savoia
Benedetta Baldi
(vd. Savoia-Baldi 2009)
L’interlingua (IL) si può definire una varietà della L2 parlata
da un apprendente che si trova ad affrontare il compito
impegnativo di imparare una lingua straniera o seconda; è
un sistema linguistico instabile e incompleto caratterizzato
da regole che dipendono da quelle della lingua d’arrivo e da
quelle della L1 ma anche da regole indipendenti da entrambe.
Gli apprendenti riorganizzano continuamente il loro sistema
linguistico attraverso ipotesi, quali tentativi di raggiungere le
norme della L2, l’IL perciò attraversa molte fasi cambiando
frequentemente.
Interlingua
Sistema linguistico di natura instabile che il discente di una L2
costruisce dai dati della L2 cui è esposto. La denominazione
risale a Selinker (1972). significato analogo hanno le
espressioni: “dialetto idiosincratico” (Corder 1971) e “sistema
approssimativo” (Nemser 1971). La lingua del discente viene
denominata “interlingua” nel senso che costituisce una lingua
a mezza via – o, meglio, una lingua che sta in un continuum
– tra la lingua madre e quella straniera, e nel senso che è una
lingua dinamica, che cambia cioè nel tempo, essendo soggetta
a processi di accomodazione ai nuovi dati con cui il discente
viene via via a trovarsi in contatto.
Anche le varietà apparentemente più diverse dalla lingua
obiettivo e semplificate sono dotate di una specifica dotazione
grammaticale [...] possiamo pensare che la padronanza di una
lingua, compresa quella di L2 e le varianti pidginizzate di
italiano L2, debba essere interpretata come un particolare
sistema di conoscenza che l’individuo sviluppa sulla base di una
facoltà specializzata della sua mente, e non come il risultato di
un procedimento per prove ed errori o di dispositivi finalizzati
alla comunicazione.
Gloria Cocchi
Mariangela Giusti
Maria Rita Manzini
Tiziana Mori
Leonardo Maria Savoia
In nessuno dei casi che precedono, infatti, si può parlare di una
arbitraria e imprevedibile deviazione dalla norma. Al contrario
ciascun fenomeno riflette possibilità strutturali che sono
disponibili nelle lingue e sono realizzate in alcune di esse [...]
i costrutti che affiorano non corrispondono necessariamente
a strutture presenti nella lingua materna del bambino in
questione.
(vd. Cocchi et alii 1996)
51
2.2 Riflessioni
I registri più informali dell’italiano legati soprattutto all’oralità (ma non solo) presentano caratteristiche strutturali tipiche anche delle varietà d’apprendimento dell’italiano come
L2. [...] Ogni lingua, ogni varietà, è il prodotto di scelte di tipo
parametrico della mente-cervello dei parlanti/ascoltatori,
di scelte, in ultima analisi, di tipo lessicale. Per questo non
consideriamo la lingua standard come modello, né la usiamo come continuo riferimento per sanzionare le altre varietà linguistiche. Le caratteristiche strutturali di queste lingue
sono, quindi, possibilità formali offerte dalla nostra dotazione genetica: secondo questa concezione internalista, una forma non può essere mai migliore rispetto a un’altra; semmai
esistono convenzioni esterne alla competenza dei parlanti/
ascoltatori che danno maggiore prestigio ad una forma a
danno di un’altra. (Pona 2010)
Si tratta di scelte tutt’altro che innocenti. (Faso 2009: 29)
La scelta lessicale, al di là delle apparenze, è ben lontana dal
dirsi neutra poiché mette in essere campi semantici e associazioni di senso completamente differenti. (Savoia-Baldi
2009: 70)
[...] un approccio mentalista [...] chiarisce in maniera ancora
più netta il collegamento tra biodiversità e diversità linguistica: ogni varietà linguistica infatti attua in maniera particolare
le potenzialità della nostra facoltà di linguaggio, ritagliando
una specifica organizzazione cognitiva e dando vita a quello
che potremmo chiamare un particolare stile grammaticale.
In questo senso la diversità linguistica non è una sorta di superficiale e pittoresca coperta multicolore ma corrisponde a
proprietà fondamentali della nostra mente. (ivi: 222)
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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
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53
3. I cinque postulati di Stephen Krashen
1.
2.
3.
4.
5.
ACQUISIRE/IMPARARE
ORDINE NATURALE DI ACQUISIZIONE
TEORIA DEL MONITOR
INPUT COMPRENSIBILE e i + 1
FILTRO AFFETTIVO
Modello di Krashen:
INPUT - FILTRO - ORGANIZZATORE - MONITOR – OUTPUT
PERSONALITÀ
INPUT
FILTRO AFFETTIVO
ETÀ
ORGANIZZATORE
MONITOR
OUTPUT
PRIMA LINGUA
(adattato da Dulay-Burt-Krashen 1982)
54
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
LABORATORIO14
Completare la colonna “Le nostre ipotesi” prima di leggere le pagine seguenti
Il modello di S. Krashen
Le nostre ipotesi
Dopo la lettura
Acquisire /
Imparare15
Ordine naturale di
acquisizione
Teoria del Monitor
Input comprensibile
ei+1
Filtro affettivo
14 Questo percorso guidato alla scoperta del modello proposto da Stephen Krashen nasce dal confronto con
l’amico e collega Edoardo Masciello sull’importanza di un approccio di tipo induttivo anche nei percorsi di
formazione degli insegnanti/facilitatori linguistici.
15 Per la distinzione tra acquisire ed imparare, si rimanda al capitolo 1 sulla terminologia introduttiva. Le
traduzioni italiane della celebre coppia di termini proposta da Stephen Krashen, acquisition/learning,
riportano acquisizione/apprendimento. Un parlante nativo di italiano, tuttavia, non può non avvertire in tali
termini soprattutto le differenze dei due suffissi: “i nomi in -mento indicano a volte un’azione in corso, mentre
quelli in -zione il fatto che ne deriva” (Ambrosini 2002: 88). Noi abbiamo, quindi, preferito, acquisire/imparare,
per mantenere la distinzione originaria tra processo subconscio (acquisizione) e consapevole (imparare), che si
perderebbe, in parte, a nostro avviso, nella traduzione in acquisizione/apprendimento.
55
Il filtro
Il filtro è quella parte del sistema interno di elaborazione che
nel subconscio seleziona l’ingresso della lingua sulla base di
ciò che gli psicologi definiscono “affetto”: i motivi dell’apprendente, le esigenze, le attitudini e gli stati emozionali. Il
filtro sembra essere il primo grosso ostacolo che i dati linguistici in ingresso devono affrontare prima di venire elaborati
ulteriormente. Esso determina: 1) quali modelli della seconda
lingua selezionerà l’apprendente; 2) quali parti della lingua
saranno prese in considerazione per prime; 3) quando dovrebbero finire gli sforzi per l’apprendimento della lingua; 4)
quanto rapidamente un individuo può imparare una lingua.
(Dulay-Burt-Krashen 1985: 84)
L’ordine di acquisizione delle strutture
Gli studiosi hanno scoperto un ordine di apprendimento della L2 che è caratteristico sia dei bambini che degli adulti, e
che vale sia per le forme orali che scritte, purché l’interesse
del parlante sia di comunicare qualcosa. Questa scoperta di
ordine generale è uno dei risultati più stimolanti e significativi delle ricerche dell’ultimo decennio (anni ‘70) sull’apprendimento della seconda lingua. Evidentemente è l’organizzatore che guida il processo di apprendimento, limitando ciò
che può essere appreso soltanto al nuovo materiale che si
adatta alla crescente organizzazione del sistema della nuova
lingua, e rifiutando il materiale che non si è ancora adattato
al sistema emergente. Il risultato è che gli osservatori sono
effettivamente in grado di mostrare gruppi di strutture che
vengono apprese secondo un ordine quasi fisso ed uguale nei
sistemi linguistici di molti apprendenti di diverso background
nella prima lingua.
Queste gerarchie di apprendimento osservate, insieme alla
natura sistematica dei tipi di errori e delle costruzioni transitorie, sono tra le prove più evidenti dei controlli interni che
esercita l’organizzatore nello sviluppo della seconda lingua.
Tutte le osservazioni generali indicano che l’organizzatore
agisce da guida e da meccanismo regolatore che permette
la crescita graduale e sistematica che è stata osservata per
l’acquisizione della L2 in situazioni naturali e formali.
(Dulay-Burt-Krashen 1985: 96)
56
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
Il monitor
Il monitor è quella parte del sistema interno dell’apprendente che pare sia responsabile dell’elaborazione linguistica
consapevole (apprendimento).
Quando una persona tenta di imparare una regola leggendola da una grammatica o nel corso di una lezione in cui
l’insegnante la descrive in modo esplicito, la persona è impegnata nell’apprendimento cosciente della lingua. Tutte le
volte che si compie un’elaborazione linguistica consapevole,
l’apprendente fa uso del monitor. Allo stesso modo quando
si esegue un esercizio che chieda attenzione cosciente alla
forma linguistica, o quando si memorizza un dialogo, si compie un’elaborazione consapevole e si fa uso del monitor.
La conoscenza linguistica ottenuta grazie al monitor può essere utilizzata per formulare consapevolmente delle frasi e
per correggere la propria lingua scritta o parlata. La funzione
“correttiva” del monitor entra in gioco quando uno studente
tenta di correggere delle composizioni o delle frasi agrammaticali nelle parti di un test linguistico, o quando autocorregge spontaneamente gli errori fatti durante una conversazione naturale.
[…] Il grado di utilizzazione del monitor dipende almeno da
quanto segue:
1) età dell’apprendente;
2) insieme dell’istruzione formale ricevuta dall’apprendente;
3) natura e attenzione richieste dal compito verbale che si
sta eseguendo;
4) personalità individuale dell’apprendente.
Ad esempio, prestare attenzione a produrre espressioni
grammaticalmente corrette è un tratto della personalità di
molti adulti. Ciò da luogo spesso a molte autocorrezioni ed
esitazioni nel parlare. Allo stesso modo i compiti che spingono l’apprendente a concentrare la sua attenzione sull’analisi linguistica consapevole (come riempire gli spazi vuoti
con morfemi corretti) sollecitano l’azione del monitor; mentre ciò non avviene per gli esercizi che spingono il parlante
a concentrare la sua attenzione sulla comunicazione (come
rispondere a una domanda reale).
(Dulay-Burt-Krashen 1985: 99)
57
Ipotesi dell’input
Gli esseri umani imparano il linguaggio solamente in un modo
– comprendendo i messaggi, o ricevendo un “input comprensibile”. (Krashen 1985: 2)
La lingua che non è capita non è nemmeno appresa.
L’apprendimento progredisce quando il discente, giunto ad
un certo stadio di conoscenza, riceve un input che appartiene ad uno stadio immediatamente successivo e che, pur
essendo nuovo, viene capito con l’aiuto di informazione contestuale, linguistica o extralinguistica. (Ciliberti 1994: 52-53)15
4. La linguistica acquisizionale16
4.1 Cos’è una Lingua Seconda
La Lingua Seconda (L2) è la lingua appresa nel Paese in cui è parlata in un periodo
successivo all’apprendimento della lingua materna (o nativa o L1).
L’acquisizione avviene soprattutto attraverso contatti quotidiani con parlanti nativi.
Si apprende grazie alle relazioni: a scuola, in quanto ci si rapporta con altri bambini/
ragazzi e con adulti; fuori dalla scuola, in contesti sociali (da qui, l’importanza di frequentare amici, attività sportive, ricreative, musicali ecc.).
L’insegnante può solo agire da facilitatore, predisponendo percorsi didattici efficaci
e stimolando relazioni significative per facilitare l’apprendimento spontaneo della lingua seconda.
È importante che l’insegnante conosca le tappe di acquisizione della lingua, che sono
le stesse indipendentemente dalla lingua materna, e che conosca la differenza tra la
lingua della comunicazione di base e la lingua dello studio. Queste due “lingue” hanno
tempi di acquisizione diversi: almeno due anni per una comunicazione efficace - almeno
cinque/sei anni per la lingua dello studio; i tempi possono variare a seconda dell’apprendente e del contesto in cui è inserito. Il passaggio tra la lingua della comunicazione e la
16 Il presente paragrafo è il frutto di una riflessione laboratoriale di gruppo sulla Letteratura scientifica che fa
capo al Progetto di Pavia e sulle sue possibili ricadute didattiche e non solo nella Scuola; riflessione all’interno
del corso di formazione L’italiano in classe: per una costruzione del curriculum di apprendimento dei minori
non italofoni – intervento di ricercazione, tenuto dagli autori del presente volume durante l’anno scolastico
2010-2011 presso il 2° Circolo di Colle di Val d’Elsa, Firenze. Cogliamo l’occasione per ringraziare di cuore le
insegnanti del corso per il lavoro laboratoriale svolto con noi e per la dimensione umana che hanno saputo
valorizzare.
58
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
lingua dello studio è un passaggio impegnativo e necessario e va seguito con attenzione.
L’acquisizione è strettamente connessa alla ricchezza di stimoli ricevuti, alla qualità delle relazioni che si instaurano, ad un ambiente sereno e accogliente. È fondamentale, pertanto, curare le relazioni tra pari e tra insegnanti e alunni.
Nel percorso di insegnamento/apprendimento di una lingua seconda occorre
tenere conto dell’individualità, della provvisorietà, del “movimento” delle persone,
dello stile cognitivo17 che non è detto rimanga sempre lo stesso, ma che può cambiare a seconda del periodo, dello stato d’animo, delle attività.
Il processo di apprendimento di una lingua seconda e lo sviluppo cognitivo sono,
inoltre, favoriti dalla padronanza della lingua materna. È, quindi, importante che
l’apprendente possa mantenere la lingua d’origine in famiglia.
La L1 è la lingua degli affetti, la lingua della “pancia”: lingua che trova le parole
per riconoscere ed esprimere sensazioni, emozioni e sentimenti.
4.2 Fasi (e processi) acquisizionali18
L’acquisizione di qualsiasi nuova lingua segue gli stessi stadi indipendentemente
dall’età, dalle caratteristiche individuali e dalla lingua di origine; quelli che possono
cambiare sono i tempi.
Le lingue si imparano dapprima ascoltando: naturalmente, nei bambini piccoli che apprendono la lingua materna, c’è una fase di ascolto/elaborazione molto
lunga (fase del silenzio), poi compare la produzione di parole nome, i verbi sono
espressi in modo che noi definiremmo grammaticalmente non corretto dal punto
di vista della lingua di arrivo (l’italiano degli adulti italofoni). Gli adulti accolgono i
tentativi di comunicazione con gioia, sono consapevoli che è in atto un processo e
ne hanno fiducia.
Anche gli apprendenti di una lingua seconda vivono la fase del silenzio durante la
quale cominciano ad entrare in contatto con il nuovo sistema linguistico.
Molto spesso gli insegnanti devono confrontarsi con il silenzio iniziale dei propri
alunni apprendenti l’italiano L2, silenzio che sembra mettere in discussione la validità dell’intervento didattico e in crisi la loro stessa funzione di educatori/insegnanti. Questo periodo è normale nei bambini/ragazzi che imparano una lingua seconda. La durata della fase del silenzio varia molto da individuo a individuo: alcuni apprendenti si esprimono già dopo qualche giorno, altri impiegano più tempo per
iniziare a produrre oralmente brevi enunciati. Questo dipende da molti fattori indi17 Per approfondimenti sulla teoria degli stili cognitivi, rimandiamo al cap. 9 del presente volume.
18 Per una trattazione dettagliata delle fasi e dei processi dell’apprendimento dell’italiano come seconda lingua,
rimandiamo a Andorno 2003, 2006a, 2006b.
59
viduali e legati al contesto di apprendimento. Tuttavia è necessario non affrettare
o forzare i tempi: spesso capita che un alunno rimasto silenzioso per tre o quattro
mesi inizi improvvisamente a parlare esprimendosi come gli altri compagni e recuperando i tempi di “attesa” iniziali. Evidentemente è necessario un periodo nel
quale i dati linguistici siano elaborati e sistemati implicitamente dall’apprendente.
Questo periodo, dunque, ha un grosso valore per l’alunno. Il silenzio iniziale ha una
propria funzione nello sviluppo di una seconda lingua. Nella programmazione è bene prevedere attività che non richiedano subito la
produzione orale da parte dell’apprendente. Il primo periodo di inserimento scolastico, in pratica, dovrebbe essere dedicato all’ascolto e alla comprensione della
nuova lingua, la prima “abilità” a svilupparsi naturalmente anche nell’apprendimento della lingua materna (L1).
Durante questa prima fase, l’insegnante che voglia facilitare e non ostacolare il
naturale processo di acquisizione della lingua seconda si aspetta risposte orali nella
L1 dell’apprendente oppure “risposte fisiche”.
Per concludere, quindi, è bene ricordare che anticipare i tempi non è proficuo:
spingere incessantemente gli apprendenti di italiano L2 a parlare significherebbe
spingerli a compiere passi forzati e questo non faciliterebbe l’apprendimento della
lingua seconda.
Il processo di acquisizione di una lingua segue queste fasi, o varietà:
•
•
•
varietà iniziali
varietà basiche
varietà post-basiche:
◊◊
stadi intermedi
◊◊
varietà avanzate
◊◊
varietà quasi-native
Il passaggio dall’una all’altra fase è determinato da due momenti fondamentali:
Varietà iniziali 
Varietà basiche 
Varietà postbasiche
Scoperta delle categorie grammaticali Uso della morfologia
Quindi, nel passaggio tra la prima e la seconda fase si scoprono le categorie grammaticali, tra la seconda e la terza fase la varietà di lingua comincia ad utilizzare la morfologia,
nell’ultima si ha un progressivo ampliamento e raffinamento a livello lessicale, sintattico e
di competenza per quanto riguarda i registri comunicativi e le tipologie testuali.
60
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
Ciascuna varietà della lingua possiede una propria dignità. Si usa il termine varietà della lingua per indicare che le lingue non sono blocchi monolitici, ma sistemi
poliedrici con tante facce, ovvero tante varietà linguistiche, al loro interno: ne consegue che non esiste una lingua italiana, ma tante lingue italiane19 (vd. Pona 2010).
Se ascoltate e lette con sensibilità, in modo attento e senza pregiudizi, le varietà
linguistiche creano sorpresa, sono poesia, sono espressive e comunicano bellezza.
Le varietà di apprendimento dell’italiano L2 fanno parte integrante del repertorio delle varietà della lingua italiana.
Varietà iniziali20
Le varietà iniziali comprendono i primi tentativi di comunicare. Consistono prevalentemente di elementi lessicali e di pochi elementi funzionali e seguono principi
di tipo pragmatico. Ci si esprime usando:
- costrutti fissi e formule, pezzi di lingua non analizzati: comesichiama, nonloso.
- singole parole, che possono designare oggetti, persone, azioni: zio, penna, tavolo, parlare; ma anche intere situazioni: Cina, che vuol dire: ‘In Cina’, o ‘quando ero in
Cina’, o ‘la Cina’, o ‘i cinesi’ o, semplicemente, ‘prima, quando ero piccolo’.
- parole funzione, come io (‘chi parla’); non; basta, finito (‘non devo dire altro’
oppure, abbinato a un verbo ‘ho smesso di …’ o ‘non voglio …’).
- tema iniziale/rema finale: l’argomento di un enunciato è posto all’inizio dell’enunciato stesso, lo scopo informativo alla fine:
- io (tema) parlare italiano bene
- bambini niente (‘non ci sono bambini’)
In questa fase è massima la dipendenza dell’apprendente dall’interlocutore e dal contesto
19 L’Italiano L2 è una varietà linguistica autonoma e specifica caratterizzata, come altre, da tentativi, ipotesi
ed elaborazioni: dei veri e propri esperimenti inconsapevoli e/o consapevoli con la lingua. È una varietà
di apprendimento della lingua di arrivo. Ogni persona apprendente manifesta strategie di apprendimento:
attraverso un’analisi attenta, si possono cogliere le operazioni e i processi utilizzati per comunicare e per
acquisire la nuova lingua.
20Per una trattazione esaustiva delle varietà di apprendimento, si rimanda, tra gli altri, ad Andorno (2003, 2006a,
2006b), a Chini (2005), e a Giacalone Ramat (1986, 1988, 1993, 2003). Gli esempi illustrati sono, in parte, tratti
dalla copiosa Letteratura che fa capo al cosiddetto Progetto di Pavia, progetto interuniversitario di ricerca
coordinato prima da Anna Giacalone Ramat, poi da Giuliano Bernini e che ha coinvolto molti ricercatori
dell’Italia settentrionale. Le sedi universitarie che hanno partecipato al progetto sono state Pavia, Bergamo,
Milano Bicocca, Torino, Trento, Vercelli e Verona. Base comune dei diversi progetti locali è la condivisa
impostazione teorica di tipo funzionale. Spesso in letteratura si utilizzano termini come “varietà prebasiche”
per indicare le varietà iniziali: noi preferiamo quest’ultima etichetta, convinti che il termine prebasico possa
portare a contraddizioni interne al modello linguistico-comunicativo che seguiamo (come non può esistere,
per definizione di competenza comunicativa, un livello A zero (A0), così riteniamo che non possa esistere una
competenza linguistica osservata come prebasica) e a perniciose discriminazioni.
61
situazionale e discorsivo. Il massimo sforzo di apprendimento è volto al riconoscimento
e alla memorizzazione di vocaboli e alla strutturazione di enunciati. In questa fase – ma
anche nelle altre – il contesto interazionale è fondamentale per l’apprendimento.
Le varietà iniziale e basica sfumano gradualmente l’una nell’altra e paiono riflettere principi organizzativi simili e indipendenti dalla lingua di partenza (lingua
materna) e da quella di arrivo (lingua seconda).
Varietà basiche
La varietà basica è caratterizzata dall’aumento degli elementi lessicali e in particolare di quelli avverbiali. Non esiste ancora invece un uso della morfologia legata,
cioè delle terminazioni delle parole: le parole sono espresse in forme base non
flesse o la cui flessione è priva di valore distintivo.
I nomi non hanno marche di genere e di numero, la parte finale della parola
non ha quindi valore di marca grammaticale. “Ad es., possiamo trovare alternanze di
forme in -o e in -i nei nomi senza che si possa ancora parlare dell’acquisizione della
categoria grammaticale del numero” (Giacalone Ramat 1993: 348).
Il verbo italiano ha in questa fase una forma basica che coincide di solito con
una forma radice o con l’infinito. Infatti compare generalmente coniugato alla terza/seconda persona singolare del presente indicativo ed è utilizzato per esprimere
situazioni diverse nel tempo (Io mangia). Si può trovare anche l’infinito, spesso con
valore modale cioè per esprimere necessità, intenzionalità (Dire basta problema =
“io voglio dire basta ai problemi”).
Il discorso dell’apprendente è organizzato anche sulla base degli schemi valenziali del verbo, il quale, come ogni bravo regista, chiama intono a sé degli attori per
quel piccolo “dramma” che si chiama enunciato. Le frasi si strutturano maggiormente in modo autonomo sulla base di modelli come:
agente21 – verbo – oggetto: esperiente22 – verbo – oggetto: bambino lo prende vestiti
bambino guarda
21 L’agente è il ruolo tematico selezionato dal verbo/regista, che corrisponde a colui che compie l’azione.
Esempi.
Luigina (agente) mangia gli spaghetti.
Gli spaghetti sono mangiati da Luigina (agente).
Occorre, a questo punto, fare delle precisazioni. La grammatica tradizionale, generalmente, confonde i livelli di
analisi del linguaggio e chiama soggetto “colui che compie l’azione” (l’agente: nozione semantica) o “ciò di cui si
parla” (tema, topic, argomento: nozione che pertiene alla grammatica del discorso). In realtà, il soggetto è una
funzione morfosintattica: in italiano il soggetto accorda con il verbo flesso ed è quindi facilmente individuabile
prescindendo da considerazioni di tipo semantico e/o informativo. Spesso il soggetto grammaticale è anche
agente e/o topic: da qui la confusione che, tuttavia, non deve spingere verso inutili semplificazioni.
22 L’esperiente è il ruolo tematico selezionato dal verbo/regista, che corrisponde a colui che prova un’emozione
62
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
Varietà postbasiche
Nelle varietà postbasiche c’è una graduale acquisizione delle strutture (fonetiche, morfosintattiche, semantiche, pragmatiche, ecc.) della lingua italiana.
Per quanto riguarda l’aspetto del verbo, compare una prima distinzione nel
modo di esprimere gli eventi in corso, quindi di aspetto imperfettivo, e gli eventi
conclusi, quindi di aspetto perfettivo. In italiano queste due funzioni si realizzano
sulle forme:
azioni in corso (imperfettive): azioni concluse (perfettive): forma basica (Io gioca)
participio (Io giocato)
La distinzione aspettuale fra perfettivo e imperfettivo consente di esprimere
anche distinzioni di passato/non passato e di anteriorità, ma non coincide con esse.
Per esempio, io giocato indica azione conclusa, ma non necessariamente nel passato; potrebbe corrispondere anche ad un futuro anteriore dell’italiano normativo
(“Quando avrò giocato…”), ovvero azione conclusa nel futuro.
In un secondo tempo, questo sistema tende a introdurre, accanto alla distinzione
aspettuale, il riferimento temporale:
azioni del tempo presente e futuro: presente
azioni del tempo passato imperfettive: imperfetto
azioni del tempo passato perfettive: passato prossimo o participio
Accanto a queste tre forme di valore tempo-aspettuale, l’infinito si specializza
con valore modale, esprimendo vari casi di intenzionalità, volontà e futuro:
- e se non fossi costretto a stare a scuola cosa faresti?
- andare via
Il processo di elaborazione del sistema verbale inizia dall’aspetto, considera in
seguito il tempo e, successivamente, il modo, secondo un percorso di questo tipo:
aspetto > tempo > modo
Il tempo, come abbiamo visto per le fasi iniziali, può essere espresso attraverso eleo una sensazione.
Esempi.
A Luigina (esperiente) piace l’equitazione.
Luigina (esperiente) ama l’equitazione.
Sia l’agente sia l’esperiente sono ruoli semantici, con esiti grammaticali diversi che dipendono dalla scelta del
verbo/regista.
63
menti lessicali (“Cina”, “domani”, “ieri”, ecc.).
In questa fase si consolidano progressivamente gli altri elementi grammaticali,
come si può osservare dalle sequenze acquisizionali che seguono.
4.3 Sequenze acquisizionali
Numerose ricerche svolte in Europa hanno dimostrato le regolarità nel processo
di acquisizione linguistica; si parla allora di sequenze di acquisizione. Il concetto di
sequenza, come ci ricorda Anna Giacalone Ramat, consente agli insegnanti di fare
alcune predizioni importanti riguardo al percorso di acquisizione e alle competenze specifiche in ogni dato momento, in quanto:
- l’acquisizione segue stadi precisi, conosciuti, indagati, studiati.
- il passaggio ad uno stadio successivo è caratterizzato dall’uso sistematico di
una nuova struttura e avviene gradualmente: la nuova struttura acquisita può convivere più o meno a lungo con le strutture precedenti.
- gli stadi sono tra loro in rapporto implicazionale, cioè la presenza di una data
struttura nella varietà dell’apprendente implica la presenza di specifiche strutture che la precedono nella sequenza, come si è cercato di mostrare nelle tabelle a
gradoni qui di seguito: ogni stadio/gradone poggia sugli altri, permettendo all’apprendente ad ogni tappa di sostenersi sulle competenze acquisite nella tappa precedente.
Sequenza d’acquisizione per Tempo/Aspetto/Modo23 in italiano L2
(studi in Bernini-Giacalone Ramat (a cura di) 1990; Giacalone Ramat 1993, (a cura
di) 2003; Banfi 1993; Berretta 2002):
presente/infinito > participio passato (anche con ausiliare) > imperfetto > futuro >
condizionale > congiuntivo
23 L’espressione della temporalità nelle varietà deggli apprendenti una qualsiasi L2 tende a procedere da strategie
pragmatiche (legate all’universo del discorso come, per esempio, l’uso dell’ordine cronologico) a strategie
lessicali (l’uso di avverbiali temporali), fino a stategie di tipo grammaticale (l’uso della morfologia verbale).
64
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
6
5
congiuntivo
4
condizionale
condizionale
3
futuro
futuro
futuro
2
imperfetto
imperfetto
imperfetto
imperfetto
1
participio
passato
participio
passato
participio
passato
participio
passato
participio
passato
presente/
infinito
presente/
infinito
presente/
infinito
presente/
infinito
presente/
infinito
presente/
infinito
Acquisizione delle forme di imperativo in italiano L2 (Berretta 2002 [1993]):
2a Singolare (SG) Verbi(VB) in -ere/-ire, perché è la stessa forma del presente indicativo > 2a SG NEG > 2a PL > 2a SG Vb –are, perché è una forma diversa dal presente
indicativo > 2a SG ‘di cortesia’ (imperativo di cortesia, congiuntivo esortativo)
Ordine d’acquisizione per le categorie:
persona > numero > genere
Sequenza di acquisizione dell’accordo di genere (Chini 1995):
pronome anaforico (lui/lei) > articolo (la donna) > aggettivo attributivo (la donna
bella) > aggettivo predicativo (la donna è bella) > participio passato (la donna è arrivata)
65
5
4
1
pronome
anaforico (lui/
lei)
participio
passato
(la donna è
arrivata)
3
aggettivo
predicativo (la
donna è bella)
aggettivo
predicativo (la
donna è bella)
2
aggettivo
attributivo (la
donna bella)
aggettivo
attributivo (la
donna bella)
aggettivo
attributivo (la
donna bella)
articolo
articolo
articolo
articolo
(la donna)
(la donna)
(la donna)
(la donna)
pronome
anaforico (lui/
lei)
pronome
anaforico (lui/
lei)
pronome
anaforico (lui/
lei)
pronome
anaforico (lui/
lei)
Sequenza di acquisizione della negazione (Bernini 1996):
no > non > niente/nessuno > neanche/mica
Sequenza d’acquisizione dei pronomi clitici (Berretta 1986; cfr. Pona 2009a, 2009b):
ci (+ ‘essere’) anche non analizzato > mi dativo > mi riflessivo > si impers/passivante
> si riflessivo > ti > lo flesso (lo>la>li>le) > gruppi me lo/te lo > ci locativale > dativi di
3a > ci/vi di 1a pl. e 2a pl. > ne in gruppi (non analizzato: “non me ne frega niente”) >
66
Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde
ne partitivo (analizzato: “ne voglio due”) > ne accusativo genitivale (analizzato: “ne
ha parlato la maestra”)> ne locativo (dapprima non analizzato, poi analizzato: “me
ne vado”).
Come si vede da queste sequenze, il processo di elaborazione segue delle tappe forse influenzate dall’input e dalla frequenza di determinate strutture dell’input
stesso ma indipendenti da esso. Può accadere che strutture molto frequenti nell’input appaiano relativamente tardi nel percorso di apprendimento. Occorre, quindi,
non affidarsi ad esercitazioni e correzioni sistematiche di una determinata struttura,
ma fidarsi del naturale programma di apprendimento della lingua.
4.4 Riflessioni24
Qual è il ruolo dell’interferenza della lingua materna e delle strategie di apprendimento in generale? Qual è il ruolo della Grammatica Universale?
Come spiegare la performance di un apprendente ispanofono che produce frasi
del tipo io fare i compiti tutti i giorni (‘io faccio i compiti tutti i giorni’) o del tipo mi
piacerò andare a Parigi (‘mi piacerà andare a Parigi’)? Sicuramente l’apprendente non
sta facendo ricorso alla L1, lo spagnolo, che presenta caratteristiche strutturali simili a quelle della lingua italiana per quanto riguarda il presente abituale e la struttura
argomentale del verbo gustar ‘piacere’, ma a possibilità generali della Grammatica
Universale (vd. Pona 2009a, 2009b), possibilità altrimenti definite come strategie di
apprendimento (si veda tutta la letteratura che fa capo al Progetto di Pavia).
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24 Si rimanda a VanPatten-Williams (2008) per una presentazione introduttiva delle diverse teorie e dei diversi
modelli dell’acquisizione della seconda lingua e per un confronto dei medesimi su tematiche molto dibattute
quali, per esempio, il ruolo della lingua materna e quello della Grammatica Universale nel processo di
acquisizione della L2.
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68
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
CAPITOLO IV
L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
La prima lingua straniera è un avvenimento nella vita del ragazzo. Deve essere un successo, sennò guai.
(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, 1967)
1. Laboratorio
Quando sono stato studente in un corso di lingua…
Che cosa mi piaceva?
Che cosa non mi piaceva?
Quali erano gli aspetti positivi ai fini
dell’acquisizione/apprendimento della
seconda lingua?
Quali erano gli aspetti negativi ai fini
dell’acquisizione/apprendimento della
seconda lingua?
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Che cosa è la "grammatica"? Quale potrebbe essere una possibile definizione di "grammatica"?
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Qual è il ruolo della grammatica nell’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde?
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Qual è il nostro obiettivo come insegnanti/facilitatori linguistici?
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70
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
Che cosa è la “competenza comunicativa”?
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Qual è il nostro ruolo come insegnanti/facilitatori linguistici nel processo di sviluppo
della competenza linguistico-comunicativa degli apprendenti?
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2. Una possibile definizione di grammatica
1.
il libro scolastico che così si intitola (o ha mutato il titolo in
più accattivanti formule, rimanendo un insieme di prescrizioni
in parte inspiegabili);
2. l’insieme delle regole di senso comune, con forte impianto
normativo, tramandate fondamentalmente per via orale, senza
tema di smentite provenienti dall’uso o dalla teoria (ad es., l’uso
obbligatorio di “egli” contro il dirompente “lui” come pronome
soggetto di terza persona), con rimando indebito ad auctores
che, a leggerli davvero, si rivelano partigiani della pratica rispet-
71
to a quella imposta nelle scuole: tanto per citarne uno, e non
recente, Manzoni;
3. le competenze implicite, profondamente interiorizzate, che
permettono a ogni parlante di costruire, nella lingua materna,
frasi mai udite prima e di decidere della grammaticalità e accettabilità di quanto si ascolta: ad esempio, “ne sono arrivati tre”
oppure “ne hanno colpiti tre” viene universalmente accettato
dagli italofoni, mentre “ne hanno telefonato tre” no;
4. il sistema dei meccanismi che regolano il funzionamento della lingua, che va descritto e ricostruito scientificamente, senza
fermarsi di fronte a norme storicamente agitate da minoranze
di letterati o burocrati. Ad esempio, esiste una spiegazione del
perché dell’esempio fatto al n. 3, di cui non sono a conoscenza
le persone che “insegnano la grammatica” basandosi solo su (1)
e (2).
(da Bisogna insegnarla, la grammatica, di Giuseppe Faso)
2.1 Tipi di grammatiche (cfr. Giunchi 1990, Ciliberti 1991)
• Grammatiche teoriche (hanno l’obiettivo di validare una particolare teoria:
cfr. Aspects of a Theory of Syntax di Noam Chomsky)
• Grammatiche linguistiche (esplicitano le conoscenze che il destinatario, parlante nativo, già possiede implicitamente)
• Grammatiche pedagogiche e didattiche (contengono solo alcuni fatti poiché
limitano esplicitamente il loro ambito di indagine)
Con il termine grammatica, intendiamo più cose: la grammatica
intesa come conoscenza (implicita, inconsapevole, innata, creativa) che tutti i parlanti hanno della lingua; la descrizione di tale
conoscenza. All’interno di questo secondo gruppo, abbiamo una
ulteriore divisione:
1) le grammatiche teoriche, rivolte a destinatari specialisti, hanno
l’obiettivo di parlare dei fatti linguistici in modo da raggiungere
adeguatezza descrittiva ed esplicativa: fornire, cioè, al contempo
una descrizione e una spiegazione dei fatti linguistici in modo da
72
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
tentare di penetrare il fenomeno lingua. Un esempio noto di grammatica teorica è la Grammatica Generativa di Noam Chomsky;
2) le grammatiche linguistiche, rivolte generalmente ai parlanti nativi delle lingue medesime, hanno come obiettivo la descrizione
delle conoscenze implicite dei parlanti. Spesso, tuttavia, molte
grammatiche di questo tipo hanno natura prescrittiva, cioè impongono delle norme (delle regole) da rispettare e affrontano il
fenomeno lingua più come fatto convenzionale che scientifico. Le
grammatiche di questo ultimo tipo si rifanno ad una norma consolidatasi nel tempo attraverso gli usi letterari: impongono una
varietà di tipo standard e non si interessano degli usi, ovvero degli
aspetti dell’esecuzione. Esistono anche delle grammatiche linguistiche meno dogmatiche che si concentrano non sulla norma ma
sull’uso della lingua, evidenziandone, tra l’altro, la natura diatopica
(legata allo spostamento nello spazio geografico), diafasica (legata
ai diversi contesti di uso e alle diverse situazioni comunicative),
diastratica (legata alle diverse componenti sociali) ed infine diamesica (legata al mezzo di trasmissione, scritto od orale). Esempi
di buone grammatiche linguistiche sono la Grande grammatica
italiana di consultazione di Renzi-Salvi-Vanelli, la Nuova grammatica italiana di Salvi-Vanelli ed infine La grammatica italiana di
Andorno;
3) le grammatiche pedagogiche, rivolte agli apprendenti di L2,
hanno l’obiettivo di presentare una selezione dei fatti linguistici in
modo da facilitarne l’acquisizione negli apprendenti. Hanno carattere marcatamente non esaustivo. (Masciello-Pona 2010: 201)
3. Una possibile definizione di competenza comunicativa
Il termine competenza comunicativa descrive la capacità del
parlante di selezionare, nell’ambito di tutte le espressioni grammaticali a sua disposizione, quelle forme che riflettono in modo
appropriato le norme sociali che governano il comportamento in
situazioni specifiche. (Hymes 1972: 270)
Dobbiamo considerare il fatto che il bambino acquisisce non solo
la grammaticalità delle frasi ma anche la loro appropriatezza. Egli
acquisisce la capacità di sapere quando parlare o non parlare,
cosa dire con chi, quando, dove ed in che modo. In breve, il bambino impara ad usare un repertorio di atti linguistici, a prendere
parte ad eventi linguistici, a comprendere come gli altri li valuta-
73
no. Questa competenza, inoltre, si integra con attitudini, valori e
motivazioni che riguardano la lingua, le sue caratteristiche, i suoi
usi, fondendosi con la competenza che i parlanti hanno nell’integrare la lingua ad altri codici comunicativi. (ivi: 277-278)
[…] capacità dei partecipanti di procedere nell’interazione verbale con possibilità di successo. (Duranti 1996: 157)
La competenza comunicativa è “un sistema soggiacente di conoscenze e di abilità
richieste per comunicare” (Canale 1993: 5).
4. Oltre la competenza comunicativa: la competenza d’azione
La competenza d’azione può essere definita come “la capacità di interagire linguisticamente con altri individui in modo partecipativo ed orientato al messaggio
per raggiungere determinati scopi” (Diadori 2011: 57).
5. Modelli operativi
ATTIVITÀ 1
Scambiamoci delle opinioni.
Come abbiamo imparato le lingue straniere?25
ATTIVITÀ 2
Leggiamo il testo.
Ecco qui un metodo pratico per imparare una lingua straniera in classe. L’Ass. Vol. Centro
Internazionale Studenti “G. La Pira” segue, fra gli altri, anche questo metodo. Prima di tutto, il
nome: Unità di lavoro/apprendimento. Poi, le fasi che compongono l’unità. Presentiamole.
Nella fase di Motivazione/Contestualizzazione si sviluppano l’interesse e la
motivazione e, allo stesso tempo, si iniziano a conoscere gli argomenti dei testi
– audio (per esempio canzoni, dialoghi, conversazioni), video (per esempio pubblicità o film senza audio), audio-video (per esempio film, cortometraggi), scritti
(per esempio racconti, descrizioni) od iconici (per esempio immagini reali, vignette
25 Questa unità didattica è liberamente tratta da Gabbanini-Goudarzi-Masciello-Pona (2010). Le attività 4), 5), 6)
non sono pensate per un percorso di autoformazione rivolto agli insegnanti, ma agli apprendenti di italiano L2.
Abbiamo deciso di lasciare tali attività per mostrare l’intera unità didattica.
74
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
senza parole) - che si affrontano durante l’unità di lavoro/apprendimento. Durante
questa fase, si recuperano e si rielaborano le conoscenze e si attiva la grammatica
dell’aspettativa, cioè la capacità di ipotizzare, di immaginare quello che forse si dirà
o si scriverà in un dato contesto; si crea, inoltre, curiosità per quello che seguirà.
La fase di Globalità/Verifica della comprensione è la fase della scoperta del
testo. Questa scoperta sarà progressiva: si inizia con l’osservazione del paratesto
(immagini, titolo, aspetto del testo ecc.), e con la conseguente formulazione di ipotesi, si va avanti con l’analisi del cotesto e si arriva infine all’analisi del testo vero
e proprio. Si legge il testo dall’informazione generale all’informazione particolare
attraverso fasi di skimming e scanning: si fa skimming per stabilire di cosa tratta il testo e si passa allo scanning soltanto in una fase secondaria per recuperare nel testo
informazioni particolari e specifiche.
Nella fase di Analisi/Attività di Comunicazione sul testo si fa una ricerca sul
testo, precedentemente osservato e compreso, e si trovano: 1) i mezzi per esprimere bisogni comunicativi dell’apprendente (per esempio, “Come si invita qualcuno
ad uscire a cena fuori?”); 2) elementi linguistici e grammaticali (sottolineando, cerchiando, mettendo dentro delle tabelle o degli insiemi vuoti) (per esempio, “Sottolineiamo tutti i verbi che esprimono azioni al passato”); 3) elementi lessicali appartenenti a specifici campi semantici (“Sottolineiamo tutte le parole che associamo
alla colazione”). In questa fase, senza l’insegnante, si scoprono, da soli, cose molto
importanti e tutte queste scoperte vengono dal testo.
Nella fase di Sintesi/Attività di Comunicazione dal testo si usano le informazioni del testo, per parlare di altre cose (per esempio, se il testo conteneva verbi
imperfetti, una attività di sintesi potrebbe essere “Che cosa facevi per le vacanze
da bambino?”).
Nella fase di Riflessione/Attività metalinguistica si verificano quelle ipotesi
formulate nelle precedenti fasi dell’unità. L’insegnante può anche dare una spiegazione grammaticale delle strutture, ma prima si deve far riflettere gli apprendenti
da soli sulle regole.
Nell’attività di Rinforzo si va a fissare quanto appreso nelle fasi precedenti dell’unità. In questa fase si possono fare esercizi di tipo tradizionale (per esempio, “Coniuga il verbo fare”).
75
Nell’attività di Verifica/Output o Azione si mettono in pratica, fuori dalla classe, le
cose che si sono imparate precedentemente in classe.
ATTIVITÀ 3
Mettiamo in ordine e descriviamo le diverse fasi dell’unità di lavoro/ apprendimento
Unità di Lavoro/ Apprendimento
Descrizione
76
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
ATTIVITÀ 4
Sottolineiamo, nel testo, tutti i verbi e i loro soggetti grammaticali. Osserviamo i
verbi alla terza persona plurale. Quali sono i soggetti?
ATTIVITÀ 5
Quali lingue hai studiato a scuola e come? E qual è il tuo metodo preferito?
ATTIVITÀ 6
Quando si usa “si”? Come si usa?
5.1 Unità di lavoro/apprendimento
In questo paragrafo andiamo a descrivere i modelli operativi oggi maggiormente impiegati dagli insegnanti/facilitatori linguistici: l’unità di apprendimento proposta da Balboni (2002), l’unità didattica centrata sul testo proposta da Vedovelli
(2002) e l’unità di lavoro (UdL) proposta da Diadori (2009). Diamo, qui di seguito,
uno schema riassuntivo sia dei suddetti modelli (con l’indicazione delle fasi di cui
sono composti) sia del modello operativo proposto nel manuale di italiano come L2
Ci siamo! Comunicare, interagire, contaminarsi con l’italiano: la tabella permette un
rapido raffronto. Da ora innanzi useremo un solo termine per i diversi modelli glottodidattici – unità di lavoro/apprendimento – poiché risultano affini e facilmente
integrabili. Il primo modello, della scuola di Freddi, Balboni e Porcelli, si richiama
apertamente alla psicologia della Gestalt e alle nozioni di bimodalità e direzionalità proposte da Danesi (1988); i modelli di Diadori e Vedovelli rimandano, invece,
al Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue e alla funzione chiave del
testo nella comunicazione e nell’apprendimento delle lingue.
77
Gabbanini-GoudarziMasciello-Pona
(2010),
Unità di lavoro
Unità di
Apprendimento
(Balboni 2002)
Unità didattica
centrata sul testo
(Vedovelli 2002)
(Pierangela Diadori
2009)
Per cominciare
Motivazione
Contestualizzazione
Introduzione
Per capire
Globalità
Verifica della
comprensione
Per cercare
Analisi
Attività di
comunicazione sul
testo
Per usare
Sintesi
Attività di
comunicazione dal
testo
Per scoprire
Riflessione
Attività
metalinguistica
Esercizi
Attività di rinforzo
Attività di rinforzo
Attività di verifica
Output o Azione
Ci siamo!
Comunicare,
interagire,
contaminarsi con
l’italiano
78
UdL
Svolgimento
Conclusione
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
La Motivazione/Contestualizzazione è quella fase dell’unità di apprendimento/lavoro nella quale l’insegnante/facilitatore linguistico cercherà di motivare l’apprendente
e allo stesso tempo introdurrà l’universo del testo, sia esso audio, video, audio-video,
scritto od iconico, che affronterà durante l’unità di apprendimento/lavoro. Questa fase
ha anche lo scopo non secondario di facilitare la ripresa e la rielaborazione delle proprie
conoscenze, non solo linguistico-comunicative, e di attivare la expectancy grammar, la
capacità di ipotizzare quello che potrebbe venir detto o scritto in un dato contesto.
La fase di Globalità/Verifica della comprensione è la fase della scoperta del testo.
Questa scoperta sarà progressiva: si andrà dall’osservazione del paratesto (immagini, titolo, aspetto del testo ecc.), e dalla conseguente formulazioni di ipotesi, all’analisi del
cotesto per arrivare infine all’analisi del testo vero e proprio. La lettura del testo avviene
dal generale al particolare attraverso fasi di skimming e scanning. Swaffar (1983) propone
che gli apprendenti si muovano attraverso le due fasi di skimming e scanning per ogni
testo: si avrà skimming per stabilire di cosa tratti il testo e si passerà allo scanning soltanto in una fase secondaria per recuperare nel testo informazioni particolari e specifiche.
Nella fase di Analisi/Attività di Comunicazione sul testo si farà una ricerca sul testo
su come risolvere un bisogno comunicativo (analisi funzionale), una problematica linguistica (analisi grammaticale) o lessicale (analisi lessicale). Questa fase è induttiva perché
permette all’apprendente scoperte personali a partire dal testo.
La fase di Sintesi/Attività di Comunicazione dal testo permette all’apprendente di
riutilizzare le informazioni comunicative e linguistiche, precedentemente incontrate ed
analizzate nel testo per rispondere a propri bisogni comunicativi.
Nella fase di Riflessione/Attività metalinguistica gli apprendenti saranno indotti a
verificare quelle ipotesi formulate nelle precedenti fasi dell’unità. L’insegnante/facilitatore potrà anche offrire una spiegazione grammaticale delle strutture, ma solo dopo
che il gruppo-classe abbia riflettuto autonomamente sulle medesime. La novità di questi modelli rispetto agli approcci di tipo deduttivo risiede nel collocamento di questa
fase all’interno dell’unità: se metodi di tipo tradizionale (il modello operativo era quello
della lezione) partivano dalla spiegazione della regola da parte dell’insegnante per poi
chiedere agli studenti di lavorare su esercizi di tipo decontestualizzato (come i drills o gli
esercizi manipolativi) per fissare le strutture in un’ottica di tipo deduttivo, l’unità di apprendimento/lavoro si concentra sul testo e permette induttivamente all’apprendente
di fare delle ipotesi e di verificarle personalmente.
L’Attività di rinforzo è la fase nella quale si va a consolidare quanto appreso nelle
fasi precedenti dell’unità. In questa fase si possono proporre attività di tipo più tradizionale; quello che conta è che la somministrazione degli esercizi vada a seguire
una riflessione metalinguistica che l’apprendente ha fatto personalmente.
79
L’Attività di verifica/Output o Azione si riferisce, oltre alla possibilità di verificare formalmente quanto appreso in classe, alla possibilità di misurare fuori dal
contesto classe ciò che l’apprendente ha appreso all’interno del gruppo-classe.
Questo tipo di modello operativo permetterebbe, secondo Balboni (2002,
2008), che riprende le proposte del neurolinguista Marcel Danesi, di sfruttare la
bimodalità e la direzionalità26 del nostro cervello. Citiamo da Balboni (2008):
Il termine suggerisce che le modalità del cervello, quella analitica dell’emisfero sinistro e quella globale dell’emisfero destro, sono coinvolte nella comunicazione linguistica. Ne consegue che quando si studia una lingua, e soprattutto quando
la si usa per comprendere o per produrre testi, per dialogare
ecc., si devono attivare entrambi le modalità, quella globale
e quella analitica […]. (Balboni 2008: 15)
Il principio della direzionalità stabilisce che l’uso bimodale del cervello avviene secondo una direzione ben precisa:
dall’emisfero destro (modalità contestuali, globali, emozionali) a quello sinistro (modalità più formali, analitiche, razionali). Bisogna prestare molta attenzione a questo principio: il
percorso naturale (cioè quello previsto dal nostro patrimonio genetico) è quello direzionale, dalla percezione globale
a quella analitica, anche se molta tradizione scolastica ci
ha abituati al percorso opposto (prima il teorema e poi gli
esempi, prima le regole e poi le attività, prima la storia della
letteratura e poi i testi letterari). (ivi: 16)
Benché i suddetti modelli operativi possano, a nostro avviso, avere una loro utilità all’interno del processo di apprendimento/insegnamento di una seconda lingua,
qualora se ne superi la rigidità programmatica che li caratterizza e se ne consideri il
potenziale relazionale all’interno del gruppo-classe, siamo, tuttavia, d’accordo con
quanto affermato da Stefano Rastelli, il quale lamenta la mancanza di studi specifici
con riscontri empirici neurolinguistici sulla “bontà” di certe scelte didattiche e l’uso
di determinati modelli operativi. Occorre precisare che anche i modelli operativi
che abbiamo appena presentato, perché ampiamente utilizzati per l’insegnamento
26 Si veda Danesi (1998) per una trattazione diffusa delle caratteristiche neurolinguistiche dell’apprendimento di
una lingua seconda e per una riflessione attenta sulle possibilità glottodidattiche di tali caratteristiche.
80
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
dell’italiano come L2, in Italia e all’estero, non sono supportati da nessuno studio
specifico che dimostri un significativo rapporto di causa-effetto tra variazioni del
modello operativo e variazioni a livello fisiologico nel cervello degli apprendenti.27
5.2 Esempi di unità di lavoro/apprendimento
Diamo qui di seguito alcuni esempi pratici di unità di lavoro/apprendimento
(liberamente tratti da Gabbanini-Goudarzi-Masciello-Pona (2010), che possano descrivere un possibile incontro didattico basato sul testo. Siamo infatti convinti sostenitori della centralità del testo nell’insegnamento delle lingue straniere.
Abbiamo scelto questi esempi perché sperimentati in diversi gruppi classe che
hanno reagito dimostrando creatività ed entusiasmo nell’affrontare dei testi personali. L’ostentata partecipazione in prima persona dell’insegnante/facilitatore linguistico e la stesura di un testo marcatamente autobiografico ha spinto gli apprendenti
ad una maggiore partecipazione in prima persona e alla produzione di testi personali. Riteniamo, infatti, che l’autonarrazione non sia un mero strumento didattico, ma una componente fondamentale di riduzione delle distanze in classe e che
sostenga una modalità cognitiva lontana da qualunque forma di categorizzazione,
che si tratti della provenienza dell’apprendente o del suo particolare modo di conoscere e apprendere la lingua. Riuscire a raccontare di sé per l’apprendente richiede
specularmente l’attenzione e la preparazione all’osservazione dell’insegnante, che
dovrebbe sempre privilegiare l’aspetto dialogico. La classe ideale può divenire un
micocosmo di avvicinamenti spontanei, in cui “viversi la lingua” coincide con un
modo naturale di parlare di sé. Per tali ragioni, siamo convinti che l’unità didattica
conservi la sua efficacia solo se orientata alla conoscenza reciproca e solo se aperta
a metamorfosi durante il suo svolgimento, ovvero a modifiche provocate dal dialogo tra l’insegnante/facilitatore e gli apprendenti, al punto tale che l’idea stessa
di unità didattica talvolta svanisce, lasciando spazio ad una comunicazione fluida e
reale, profonda proprio perché distante dall’artificiosità di attività programmate. Le
unità di apprendimento qui proposte privilegiano pertanto spunti autobiografici,
mai da intendersi come racconti forzati di presunte differenze immaginate dall’insegnante/facilitatore (il classico e violento chiedere “da noi è così. Da voi?”) 28. Da
27 “Le ipotesi che si leggono in Danesi (1990) (oggetto di ampia divulgazione) non sono supportate da nessuno
studio di neuroimmagine condotto in una classe (all’epoca le tecniche di neuroimmagine non erano state
ancora inventate)”. (Nuzzo- Rastelli 2011: 39)
28 I capp. 9 e 10 del presente volume sono dedicati ad una trattazione critica del modello di unità didattica
standard (in cui la componente autonarrativa è assente o presente in termini di etnicizzazione), e ad alcune
81
un punto di vista strettamente operativo, l’unità di apprendimento ha inizio con
un brainstorming o una elicitazione sulle espressioni quando ero bambino..., posta
elettronica, il regalo più bello... rispettivamente. Dopo questa prima fase di motivazione, che ha permesso di introdurre l’universo del testo, abbiamo distribuito al
gruppo classe il seguente testo da noi elaborato e di chiara natura autobiografica29.
Lo abbiamo letto insieme ed infine siamo passati alle attività che seguono. Consigliamo di accompagnare tutte le attività che seguono con della musica o dei video
clip selezionati di volta in volta insieme agli apprendenti, contrariamente a quanto
suggerito dalla suggestopedia che vedrebbe nella musica barocca un veicolo privilegiato di apprendimento della lingua e che, in realtà, preseleziona “culturalmente”
modelli musicali di tipo eurocentrico30.
proposte per il suo superamento.
29 A teacher’s own story can serve as source for a personalized and thus ‘authentic’ text (Omaggio 2001: 223).
30 Per una trattazione dettagliata del metodo suggestopedico, si veda Vignozzi (2003).
82
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
Unità didattica per giovani-adulti
QUANDO ERO BAMBINO ...
ATTIVITÀ 1
Leggiamo il testo e rispondiamo alle domande:
Chi? .................................................................................................................................................
Dove? .............................................................................................................................................
Come? ............................................................................................................................................
Quando? .......................................................................................................................................
Azione? . ........................................................................................................................................
Perché? ..........................................................................................................................................
Quando ero bambino, in estate, andavo al mare in Toscana, a Marina di Massa,
ad un’ora di macchina da dove abito. Lì mia zia aveva una casa molto bella
con un giardino spazioso. La casa mi piaceva molto perché aveva un tavolo da
biliardo, un tavolo da ping pong e il calcio balilla. Che cosa è il calcio balilla?
La mattina appena alzato, la mia famiglia ed io andavamo a mangiare i bomboloni
caldi alla crema e poi, dopo tre ore, facevo il bagno nel mare. Il mar Ligure, che
non è un oceano perché è molto piccolo, è abbastanza caldo: noi diciamo che è
caldo come un brodo!
83
A Mezzogiorno pranzavo a casa, e, dopo pranzo, volevo tornare al mare.
Ma mia madre mi diceva sempre che non si può stare sulla spiaggia nelle
ore più calde della giornata perché i raggi violetti fanno molto male! Allora
aspettavo le 4 del pomeriggio e poi correvo a tuffarmi nell’acqua.
La sera andavo a fare quattro passi nel centro di Marina di Massa con tutte
le sue bancarelle di libri illuminate. Ovviamente compravo sempre dei libri
perché anche da bambino ero un secchione malefico! Che bei ricordi!
ATTIVITÀ 2
Leggiamo nuovamente il testo e rispondiamo alle domande:
1. Dove andava Alan da bambino in vacanza?
_ ______________________________________________________
2. Dov’è il mar Ligure?
_ ______________________________________________________
3. Quali sono le differenze tra il mare e l’oceano?
_ ______________________________________________________
4. Che cosa faceva Alan nel pomeriggio?
_ ______________________________________________________
5. Che cosa faceva Alan la sera?
_ ______________________________________________________
84
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
ATTIVITÀ 3
Sottolineiamo tutti i verbi al passato. Qual è la coniugazione dell’IMPERFETTO?
Andare
Volere
Partire
io
tu
avanti
lei / lui
noi
voi
loro
volevate
partivano
ATTIVITÀ 4
Che cosa facevi da bambino per le vacanze? Scrivi una breve composizione.
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
ATTIVITÀ 5
Quando si può usare l’imperfetto indicativo?
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
85
Unità didattica per il secondo ciclo delle primarie e i primi anni delle secondarie
IO, AL MARE...
Quando ero bambino, in estate, andavo al mare in Toscana, a Marina di
Massa, ad un’ora di macchina da dove abito. Lì mia zia aveva una casa molto
bella con un giardino spazioso. La casa mi piaceva molto perché aveva un
tavolo da biliardo, un tavolo da ping pong e il calcio balilla. Che cosa è il
calcio balilla?
86
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
La mattina appena alzato, la mia famiglia ed io andavamo a mangiare
i bomboloni caldi alla crema e le ciambelle e poi, dopo tre ore, facevo il
bagno nel mare.
87
Il mar Ligure, che non è un oceano perché è molto piccolo, è abbastanza
caldo: noi diciamo che è caldo come un brodo!
A Mezzogiorno pranzavo a casa, e, dopo pranzo, volevo tornare al mare.
Ma mia madre mi diceva sempre che non si può stare sulla spiaggia nelle
ore più calde della giornata perché i raggi violetti fanno molto male! Allora
aspettavo le 4 del pomeriggio e poi andavo nell’acqua e nuotavo.
La sera andavo a fare quattro passi nel centro di Marina di Massa con tutte le
sue bancarelle di libri. Ovviamente compravo sempre dei libri perché anche
da bambino ero un secchione! Che bei ricordi!
88
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
ATTIVITÀ 1
1.
Dove andava Alan da bambino in vacanza?
_ _____________________________________________________
2.
Quali sono le differenze tra il mare e l’oceano?
_ _____________________________________________________
3.
Che cosa faceva Alan nel pomeriggio?
_ _____________________________________________________
4.
Che cosa faceva Alan la sera?
_ _____________________________________________________
ATTIVITÀ 2
Cosa facevi quando eri molto piccolo per le vacanze? Scrivi una breve
composizione.
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
89
Unità didattica per giovani-adulti
PER COMINCIARE
ATTIVITÀ 1
Parliamo.
IL REGALO PIÙ BELLO…
PER CAPIRE
ATTIVITÀ 2
Leggiamo.
Cosa regaliamo ad Andrea?
Il 16 luglio è il compleanno di Andrea, un mio caro amico, e non so ancora
cosa regalargli. L’anno scorso gli abbiamo comprato una canottiera per
andare in palestra e gli è piaciuta molto. E quest’anno? Ho chiamato Gloria
e le ho chiesto un consiglio. Mi ha risposto che gli voleva acquistare un
abbronzante con filtro protettivo, visto che è sempre sulla spiaggia a
prendere il sole. Gli piacerà, ad Andrea, un regalo di questo tipo? E Silvia?
Le ho telefonato e mi ha risposto che voleva comprargli un libro su un
argomento molto interessante: smettere di fumare. Benissimo, perché
non aggiungere al regalo anche un bell’accendino per ridere un po’ del suo
proposito di smettere di fumare? Non riuscirà mai a smettere: fumare gli
dà tanta soddisfazione e sicurezza. Questa, infine, è stata la mia proposta.
Così per riassumere abbiamo deciso di fargli questo regalo: libro sul fumo,
accendino e crema solare con filtro protettivo. Gli piacerà? Mah, è difficile
accontentare Andrea ma devo ammettere che i regali che gli abbiamo dato
in passato gli sono sempre piaciuti. Speriamo bene!!! Quindi, stasera gli
abbiamo organizzato una cena a casa mia e di Silvia e gli offriremo una bella
torta al cioccolato con panna. Quando Andrea sarà sazio gli daremo i regali
e sono convinto che gli piaceranno molto.
ATTIVITÀ 3
Troviamo le affermazioni vere.
1. So cosa regalare ad Andrea.
2. È la prima volta che facciamo un regalo ad Andrea.
3. Lo scorso anno abbiamo sbagliato a fargli il regalo.
90
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
4. Gloria vorrebbe comprargli una crema protettiva per il sole.
5. Ad Andrea non piace prendere il sole.
6. Andrea è un grande appassionato di alta montagna.
7. Ho telefonato a Silvia ma non mi ha risposto.
8. Lo scorso anno ho regalato un libro per aiutarla a smettere di fumare.
9. Silvia vorrebbe regalare un libro ad Andrea.
10. Andrea fuma molte sigarette.
11. Vorrei regalare ad Andrea un pacchetto di sigarette.
12. Alla fine ho deciso cosa regalare ad Andrea: gli faremo tre doni.
13. Abbiamo organizzato una cena per Andrea a casa di Gloria.
14. Io e Silvia viviamo insieme.
15. Appena Andrea arriverà, gli daremo i regali.
PER CERCARE
ATTIVITÀ 4
Completiamo
Trovare nel testo dei verbi con un
significato simile a quello di “dare”.
Conosci altri verbi con un
significato simile a “dare”?
Trovare un verbo con significato
simile a “dire”.
Conosci altri verbi con un
significato simile a “dire”?
Trovare tutti i sinonimi di
“telefonare”.
Conosci altri modi per dire
“telefonare”?
91
ATTIVITÀ 5
Completiamo.
1) Sottolineare nel testo tutti i verbi e i pronomi e inserirli in due insiemi.
2) È possibile raggruppare i pronomi in modo diverso?
Perché?
PER USARE
ATTIVITÀ 6
Scriviamo un testo con massimo 80/100 parole.
L’ultimo regalo che ho fatto alla mia migliore amica o al mio migliore amico…
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
__________________________________________________________
92
Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde
PER SCOPRIRE
Attività 7
Completiamo.
A
gli comunica
le comunica
B
Qual è la posizione di gli e le rispetto al verbo?
C
Di solito usiamo i pronomi gli e le con questi verbi:
D
Quanti partecipanti all’azione/evento ci sono quando usiamo i verbi
della griglia “C”?
93
Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue
CAPITOLO V
Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue
Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani
e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli
uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
(Risposta di don Lorenzo Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11-2-1965)
Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue (Qcer, qui di seguito),
altrimenti conosciuto come Framework, è un documento del Consiglio d’Europa
(da non confondersi con l’Unione Europea), una organizzazione politica fondata nel
1949 con sede a Strasburgo. Apparso in versione elettronica negli anni 1996-1997 e
successivamente rielaborato ed integrato, viene pubblicato in versione cartacea nel
2001 in lingua inglese e francese. La prima versione tradotta in italiano è del 2002.
Il documento nasce dall’esigenza di promuovere all’interno della Comunità Europea
la conoscenza delle lingue straniere e, al contempo, uniformare la preparazione linguistica dei cittadini europei nell’ottica di una politica che favorisca il plurilinguismo e la
mobilità interna. Altro obiettivo del documento è quello di conformare i livelli di competenza linguistico-comunicativa raggiunti in ambito scolastico.
Il Qcer descrive in modo dettagliato ciò che gli apprendenti una lingua devono imparare a fare per usare la lingua nella comunicazione e quali conoscenze ed abilità devono sviluppare per essere capaci di operare efficacemente.
L’approccio promosso dal Qcer nell’apprendimento linguistico è orientato all’azione.
Il Qcer non è un modello prescrittivo o un insieme fisso e rigido di prescrizioni ma
un insieme aperto di indicazioni da selezionare in base al contesto e ai bisogni degli
apprendenti.
The Common European Framework provides a common basis for the
elaboration of language syllabuses, curriculum guidelines, examinations,
textbooks, ecc. across Europe. It describes in a comprehensive way what
language learners have to learn to do in order to use a language for communication and what knowledge and skills they have to develop so as to
be able to act effectively. The description also covers the cultural context
in which language is set. The Framework also defines levels of proficiency
which allow learners’ progress to be measured at each stage of learning
and on a life-long basis. (Common European Framework: 1)
95
1. LABORATORIO
Il Qcer stabilisce dei criteri generali per definire i livelli di competenza nelle lingue straniere. Qui sotto vengono riportati i sei livelli del Qcer: A1-A2 (basico), B1-B2
(indipendente), C1-C2 (competente).
A1 A2
B1
B2
C1
C2
CONTATTO (breakthrough)
SOPRAVVIVENZA (waystage) SOGLIA (threshold)31
PROGRESSO (vantage level)
EFFICACIA (proficiency)
PADRONANZA (mastery)
Nella tabella che segue si riporta una sintesi degli indicatori per ciascuno dei livelli
di competenza comunicativa. Abbinare ciascun livello del Qcer ai propri descrittori
di competenza comunicativa.
COMPETENZA COMUNICATIVA
Livello
Indicatori
Comprende un’ampia gamma di testi complessi e lunghi e ne sa riconoscere
il significato implicito. Si esprime con scioltezza e naturalezza. Usa la lingua
in modo flessibile ed efficace per scopi sociali, professionali e accademici.
Riesce a produrre testi chiari, ben costruiti, dettagliati su argomenti complessi,
mostrando un sicuro controllo della struttura testuale, dei connettori e degli
elementi di coesione.
Comprende e usa espressioni d’uso quotidiano e frasi basilari tese a soddisfare
bisogni di tipo concreto. Sa presentare se stesso/a e gli altri ed è in grado di
fare domande e rispondere su particolari personali come dove abita, le persone
che conosce e le cose che possiede. Interagisce in modo semplice purché
l’altra persona parli lentamente e chiaramente e sia disposta a collaborare.
31 “I livelli soglia per le varie lingue – il primo ad essere approntato fu quello per l’inglese […] – specificano quali
sono i mezzi linguistici 'minimi' per affrontare situazioni di uso comune nelle principali lingue occidentali”
(Ciliberti 1994: 215).
96
Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue
Comprende i punti chiave di argomenti familiari che riguardano la scuola,
il tempo libero, ecc. Sa muoversi con disinvoltura in situazioni che possono
verificarsi mentre viaggia nel paese in cui si parla la lingua. È in grado di
produrre un testo semplice relativo ad argomenti che siano familiari o di
interesse personale. È in grado di descrivere esperienze ed avvenimenti, sogni,
speranze e ambizioni e spiegare brevemente le ragioni delle sue opinioni e dei
suoi progetti.
Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti che
astratti, comprese le discussioni tecniche nel suo campo di specializzazione.
È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono
possibile un’interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per
l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un’ampia gamma
di argomenti e spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i
contro delle varie opzioni.
Comprende con facilità praticamente tutto ciò che sente e legge. Sa riassumere
informazioni provenienti da diverse fonti sia parlate che scritte, ristrutturando
gli argomenti in una presentazione coerente. Sa esprimersi spontaneamente
in modo molto scorrevole e preciso, individuando le più sottili sfumature di
significato in situazioni complesse.
Comprende frasi ed espressioni usate frequentemente relative ad ambiti di
immediata rilevanza (es. informazioni personali e familiari di base, fare la spesa,
la geografia locale, l’occupazione). Comunica in attività semplici e di routine
che richiedono un semplice scambio di informazioni su argomenti familiari
e comuni. Sa descrivere in termini semplici aspetti del suo background,
dell’ambiente circostante; sa esprimere bisogni immediati.
La competenza grammaticale viene così definita nel paragrafo 5.2.1.2:
La competenza grammaticale può essere definita come la conoscenza e la capacità di usare le risorse grammaticali della lingua. Formalmente la grammatica
di una lingua può essere considerata come un insieme di regole che governano
il modo in cui gli elementi si combinano per formare stringhe definite e delimitate, dotate di significato (le frasi). La competenza grammaticale consiste nella
capacità di comprendere ed esprimere significati riconoscendo e producendo
espressioni e frasi strutturate in base a queste regole (che è cosa diversa dalla
loro memorizzazione e riproduzione come formule fisse).
97
Nella tabella che segue si riporta una sintesi degli indicatori per ciascuno dei livelli
di correttezza grammaticale. Abbinare ciascun livello del Qcer ai propri indicatori di
correttezza grammaticale.
CORRETTEZZA GRAMMATICALE
Livello
Indicatori
Ha solo una padronanza limitata di qualche semplice struttura grammaticale e di
semplici modelli sintattici, in un repertorio memorizzato.
Comunica con ragionevole correttezza in contesti familiari; la padronanza
grammaticale è generalmente buona anche se si nota l’influenza della lingua
madre. Nonostante gli errori, ciò che cerca di esprimere è chiaro. Usa in modo
ragionevolmente corretto un repertorio di formule di routine e strutture d’uso
frequente, relative alle situazioni più prevedibili.
Mantiene costantemente il controllo grammaticale di forme linguistiche
complesse, anche quando la sua attenzione è rivolta altrove (ad es. nella
pianificazione di quanto intende dire e nell’osservazione delle reazioni altrui).
Mantiene costantemente un livello elevato di correttezza grammaticale, gli
errori sono rari e poco evidenti.
Usa correttamente alcune strutture semplici, ma continua sistematicamente
a fare errori di base – per esempio tende a confondere i tempi verbali e a
dimenticare di segnalare gli accordi; ciononostante ciò che cerca di dire è
solitamente chiaro.
Ha buona padronanza grammaticale; nella struttura delle frasi possono ancora
verificarsi sbagli occasionali, errori non sistematici e difetti minori, che sono
però rari e vengono per lo più corretti a posteriori.
Mostra una padronanza grammaticale piuttosto buona Non fa errori che possono
provocare fraintendimenti.
98
Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue
2. I livelli del Qcer e il loro possibile riadattamento nella Scuola
Il Qcer nasce per l’apprendimento, l’insegnamento e la valutazione delle lingue
straniere (LS).
Non è pensato per l’apprendimento di una lingua seconda (L2) nel senso ristretto
del termine, ovvero di lingua non materna appresa nel Paese dove questa lingua è
strumento di comunicazione quotidiana.
I descrittori del Qcer ai livelli più bassi presuppongono apprendenti che abbiano già
sviluppato competenze di base nella letto-scrittura.
I descrittori del Qcer ai livelli più alti presuppongono alti livelli di scolarizzazione.
Paradossalmente, un parlante nativo della lingua italiana con licenza media molto
probabilmente non rientra all’interno dei livelli C di competenza linguistico-comunicativa del Qcer.
I descrittori del Qcer sono pensati per adulti ed adolescenti, ma non possono essere applicati ai bambini.
I descrittori del Qcer non sono né esaustivi né specifici abbastanza da essere usati
nelle scuole per la costruzione di curricula per apprendenti di origine straniera (vd.
Van Avermaet 2008).
Da quanto affermato segue che occorre riadattare il Qcer ai diversi contesti che
si presentano, ai diversi apprendenti e ai loro diversi bisogni ed infine ai diversi scopi
di utilizzazione: pensiamo, per esempio, alla scuola italiana, con le sue bambine e i
suoi bambini figli di immigrati e/o con bisogni diversi e variegati.
Infine, ci vogliamo soffermare su un punto molto importante e che riguarda purtroppo l’Europa e, dal 2010 (si veda il Decreto Ministeriale del 4 giugno 2010), anche
l’Italia: il Qcer non può essere utilizzato all’interno di politiche linguistiche che leghino la concessione di diritti civili al superamento di un “test di conoscenza della
lingua italiana”: il Framework nasce per favorire il plurilinguismo e la mobilità all’interno dei Paesi rappresentati dal Consiglio d’Europa; il suo uso indiscriminato per
la tutela di un apparente monolinguismo e per assecondare istanze nazionalistiche
consiste in uno snaturamento degli scopi di questo strumento (vd. Faso-Pona 2011).
99
LABORATORIO
Qui di seguito, vengono proposte delle griglie per l’osservazione delle competenze/
abilità linguistico-comunicative in italiano L2. Esse sono ispirate al Qcer, ma riadattate al contesto scuola e all’apprendente.
Associare le quattro griglie di descrizione ai seguenti livelli: livello iniziale, livello A1,
livello A2, livello B1.
LIVELLO…
Comprende un breve enunciato orale se
articolato lentamente.
Comprensione
orale
Comprende e segue enunciati relativi a
contesti a lei/lui familiari.
Ricezione
Comprensione
scritta
Comprende testi molto brevi e semplici con
un lessico di uso frequente.
Sa gestire brevi enunciati su persone e luoghi.
Produzione orale
Sa fare brevi descrizioni.
È in grado di interagire in attività di routine
che richiedono scambi di informazioni su
argomenti personali, purché la comunicazione
sia facilitata dall’interlocutore.
Produzione
Produce autonomamente brevi testi
contenenti informazioni personali e
descrizioni minime.
Produzione scritta
Sa scrivere brevi messaggi e compilare
semplici moduli.
100
Sì
Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue
LIVELLO…
Comprensione
orale
Comprende brevi consegne e domande a
risposta chiusa.
Comprende brevi enunciati e domande.
Ricezione
Comprensione
scritta
Distingue le lettere dell’alfabeto
singolarmente ma non legge parole complete.
Comprende brevi testi scritti.
Si esprime utilizzando codici extralinguistici.
Produzione orale
Produce enunciati brevi ma comprensibili.
Produzione
Produzione
scritta
Sa copiare quello che scrivono gli altri in
stampato e/o in corsivo.
Sa scrivere sotto dettatura parole o brevi frasi.
101
Sì
LIVELLO…
Comprensione
orale
Comprende e segue agevolmente conversazioni
e monologhi nella maggior parte dei contesti
comunicativi.
Comprende i punti-chiave di argomenti relativi
alla lingua dello studio.
Ricezione
Comprende testi in lingua corrente relativi ad
interessi personali, opinioni, stati d’animo.
Comprensione
scritta
Legge e comprende in maniera globale testi
relativi a discipline scolastiche.
Si esprime nella maggior parte dei contesti
comunicativi, descrivendo esperienze,
avvenimenti e progetti ed esprimendo stati
d’animo e opinioni.
Produzione
orale
Riferisce i concetti principali relativi a testi
disciplinari orali e scritti di media difficoltà.
Sa gestire una conversazione in modo fluido
e autonomo condotta in un ambito a lei/lui
familiare.
Produzione
Produce testi con frasi subordinate generalmente
corretti su argomenti di tipo descrittivo e
narrativo; esprime stati d’animo e opinioni
motivandole in modo sintetico.
Produzione
scritta
Riferisce per iscritto i nuclei informativi di testi
disciplinari orali e scritti di media difficoltà.
È in grado di prendere appunti, scrivere lettere
personali, sms, e-mail, argomentare richieste e
opinioni, se l’interazione si svolge in un ambito a
lei/lui familiare.
102
Sì
Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue
LIVELLO…
Comprensione
orale
Comprende i punti principali di un discorso
chiaro su argomenti noti in campo scolastico ed
extrascolastico.
Comprende ed estrae informazioni essenziali da
un breve testo su fatti quotidiani.
Ricezione
Comprensione
scritta
Comprende testi relativi ai suoi interessi
(messaggi personali, opuscoli, moduli, istruzioni
di giochi, semplici giornalini).
Sa fornire una breve descrizione di soggetti vari
ed esperienze.
Produzione
orale
Sa raccontare una breve storia.
Sa interagire con facilità nelle situazioni
strutturate e in brevi conversazioni, purché
l’interlocutore collabori se necessario.
Produzione
Sa scrivere brevi testi in forma paratattica su
argomenti familiari.
Produzione
scritta
Sa scrivere brevi e semplici appunti che
trasmettono informazioni pertinenti a contesti
noti.
103
Sì
3. Il Qcer e il testo come unità base dell’azione didattica
3.1 Una possibile definizione di testo
Conoscere una lingua vuol dire attivare processi linguistici per produrre e/o ricevere testi.
Possibili definizioni di testo:
• il testo è l’uso linguistico correlato a uno specifico contesto e che diventa
occasione per mettere in pratica un atto linguistico;
• il testo è il perno centrale dell’evento comunicativo;
• il testo è l’unità della comunicazione.
Se, come appena sostenuto, il testo è l’unità base della comunicazione e, di conseguenza, della competenza comunicativa, all’interno di un impianto teorico di questo tipo, la
nozione di enunciato, ma soprattutto quella di frase (equivalente idealizzato e decontestualizzato dell’enunciato), subirà necessariamente un ridimensionamento rispetto ad
approcci formalistici all’insegnamento/ apprendimento delle lingue seconde.
Il termine testo32 ha principalmente due significati basilari in glottodidattica:
• si riferisce, comunemente, ad un enunciato scritto autonomo e autosufficiente;
• si riferisce, nel linguaggio scientifico, a tutti gli enunciati sia scritti sia pronunciati: il testo è allora una unità che va al di là e al di sopra della frase.
In questa seconda accezione, il testo viene considerato in glottodidattica come
l’unità base: si parte dal testo per arrivare ad analizzare le unità più piccole (frasi
complesse o periodi, frasi semplici o proposizioni, sintagmi, parole, morfemi, foni
e fonemi).
3.2 Il testo nel Qcer
Il documento europeo dedica molto spazio al testo. Le tipologie testuali (testo
descrittivo, testo narrativo, testo argomentativo, ecc.) si ritiene siano universali. È
quindi possibile aiutare l’apprendente a recuperare le proprie conoscenze enciclopediche sulla funzione comunicativa svolta da queste tipologie testuali. L’apprendente già gestisce, nella propria lingua, questi testi. Fatto questo che lo aiuterà a
cogliere più facilmente gli aspetti lessicali, morfosintattici che caratterizzano, a
grandi linee, queste tipologie nella LS/L2. Quello che invece è più specifico di ogni
appartenenza linguistica è il genere testuale (canzone, lettera, messaggio, relazione,
testo giornalistico, fiaba, filastrocca, poesia, romanzo, ecc.).
32 Questa sezione relativa al testo è liberamente tratta da Masciello-Pona (2010).
104
Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue
3.3 Le tipologie e i generi testuali
Tradizionalmente quando si parla di testo si fa riferimento alle seguenti tipologie testuali:
− testo descrittivo;
− testo narrativo;
− testo espositivo/informativo;
− testo regolativo/prescrittivo;
− testo argomentativo.
LABORATORIO
Fare i giusti abbinamenti tra tipologie, funzioni e generi testuali.
SERVE PER…
LO TROVI IN…
TESTO ESPRESSIVOPERSONALE
dare informazioni,
notizie su un
argomento.
articoli di giornale
(cronaca), libri
scolastici.
TESTO INFORMATIVOESPOSITIVO
comunicare i propri
pensieri, le proprie
emozioni.
saggi filosofici,
propaganda politica,
editoriali.
TESTO POETICO
sostenere una tesi
o una opinione e
convincere gli altri.
guide turistiche, libri,
avvisi, comunicati,
cronache.
TESTO NARRATIVO
dare regole da seguire
e/o istruzioni per l’uso
istruzioni
allegate, regole di
comportamento,
regolamenti, ricette.
TESTO DESCRITTIVO
trasmettere pensieri e
sentimenti attraverso
il suono e il ritmo
delle parole.
poesie, filastrocche,
canzoni.
TESTO REGOLATIVOPRESCRITTIVO
raccontare fatti che
accadono nel tempo.
fiabe, favole, romanzi,
racconti, leggende.
descrivere animali,
persone, cose,
ambienti ecc.
lettera, pagina di diario,
canzone.
TESTO ARGOMENTATIVO
105
106
Capitolo VI - La lingua dello studio. la facilitazione e la semplificazione dei testi nella scuola
CAPITOLO VI
La lingua dello studio.
La semplificazione e la facilitazione dei testi nella Scuola
La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle
cose che il mondo non insegna, sennò non va bene.
(Don Lorenzo Milani, Una lezione alla scuola di Barbiana)
1. Alcune premesse
La lingua dello studio presenta delle caratteristiche diverse dalla lingua della
comunicazione. Lo studioso canadese Jim Cummins, dividendo queste diverse competenze ed abilità linguistico-comunicative, introduce nel 1979 la distinzione tra
Calp (Cognitive Academic Language Proficiency) e Bics (Basic Interpersonal Communication Skills) e sottolinea quanto diversa sia la tempistica per il raggiungimento di
tali competenze ed abilità: almeno 2 anni per il possesso della competenza e delle
abilità comunicative di base e almeno 5/7 anni per la competenza e le abilità della
lingua dello studio (questi, ovviamente, sono solo numeri indicativi: ogni apprendente rappresenta un microcosmo di variabili che influenzano i diversi processi di
apprendimento/acquisizione).
In questa sede, continueremo ad usare questa comoda distinzione, utile nella
scuola per graduare la presentazione dell’input, la richiesta di riconoscimento/riutilizzo delle strutture dell’input stesso da parte degli apprendenti, e per rendere più
efficace l’osservazione delle competenze e delle abilità degli apprendenti. Tuttavia,
occorre precisare che cosa si intenda veramente per Calp: essa è costituita da un
insieme di varietà linguistiche, abilità e tecniche che, ed è bene evidenziarlo molto
bene, sono specifiche del contesto scuola e delle discipline della scuola e poco hanno a che fare con lo sviluppo cognitivo generale33 degli apprendenti (diversamente
33 Per una trattazione sintetica ma puntuale del cosiddetto “vantaggio bilingue”, si veda, tra gli altri, Bonifacci
(2011), dal quale citiamo, qui di seguito:
oggi la maggior parte di studi ha dimostrato che il bilinguismo costituisce […] un
potenziale vettore di migliore efficienza cognitiva. L’ambito nel quale il vantaggio è stato
osservato con maggiore coerenza è quello delle funzioni esecutive: i soggetti bilingui
sono più capaci di inibire le risposte “impulsive” e di controllare più informazioni fra
loro incongruenti. Gli studi più recenti sembrano sottolineare come sia soprattutto
la componente di controllo, e quindi la capacità di inibire informazioni interferenti e
gestire indicazioni incongruenti, a essere il marcatore più significativo che caratterizza
il vantaggio bilingue. […] Essendo competenze centrali per lo svolgimento di molte altre
107
da quanto affermato in più occasioni da Jim Cummins34, e, in Italia, da Marco Mezzadri 2011, che parla, al riguardo, di rischio di deficit cognitivo per gli apprendenti
di origine straniera). Il vantaggio di alcuni apprendenti italofoni nell’apprendimento
della lingua dello studio (rispetto agli altri italofoni e agli studenti di origine straniera), e il loro conseguente successo scolastico, deriva allora non tanto da un maggiore sviluppo cognitivo generale degli stessi ma dalla vicinanza di certo linguaggio al
linguaggio della classe media a cui appartengono e il cui ordine la scuola mantiene
e preserva (vd. MacSwan 2000)35.
Occorre, inoltre, liberare la distinzione lingua della comunicazione/lingua dello
studio da giudizi di valore di natura prescrittivista legati a presunte lingue migliori
di altre. Ogni lingua, ogni dialetto, ogni varietà linguistica (per noi tutti sinonimi)
possiedono sistematicamente una propria complessità intrinseca in quanto manifestazioni specifiche della Facoltà del Linguaggio, caratteristica biologica della specie
umana. Non ci sono, scientificamente parlando, lingue “buone” e lingue “cattive”,
lingue semplici e lingue complesse36. Lasciamo pure questi discorsi alla chiacchiera
del bar (per un’opinione diversa, si veda Mezzadri 2011).
La scuola richiede ai suoi allievi, a volte ignorando la specifica complessità della
lingua dello studio, la compresenza di queste competenze. Se da un lato la ricerca
scientifica ha dimostrato che gli apprendenti di italiano L2 impiegano naturalmente molto tempo a padroneggiare la lingua dello studio, altre ricerche rivelano che
molte difficoltà per quanto concerne tale lingua e le abilità richieste dalla scuola
sono riscontrabili anche negli apprendenti italiani (Basile et al. 2006). Questo dovrebbe stimolare a riflettere sull’utilità della facilitazione linguistica all’interno dell’intero
gruppo-classe. Sarebbe auspicabile, quindi, favorire la facilitazione a gruppi nella classe anche attraverso attività cooperative e di tutoraggio. Forse i primi tempi la quantità
operazioni cognitive, sono stati riscontrati effetti positivi anche in altri ambiti (ad es.
flessibilità cognitiva, problem solving) […] Un altro ambito nel quale è stato osservato un
relativo vantaggio in soggetti bilingui riguarda le abilità metalinguistiche […]. (Bonifacci
2011: 39)
34 Ci preme ricordare in questa sede che la nozione di “semilinguismo” (introdotta per la prima volta nel 1962,
all’interno di una trasmissione radio, dal filologo svedese Nils Erik Hansegård), di cui fa largo uso Jim Cummins
nelle sue pubblicazioni (sostituendola, poi, con la nozione di “bilinguismo limitato”), in riferimento alla
supposta mancanza di competenza linguistica di alcuni bambini di madrelingua spagnola negli Stati Uniti, non
ha fondamenti di tipo empirico. Si veda, a tal proposito, Valadez-MacSwan-Martínez (2002).
35 “This middle-class advantage relates not to some presumed superior quality of the oral language of middleclass children, but to some special alighnment of their particular home experiences and speech registers with
those encountered at school”. (MacSwan 2000: 18)
36 “Considerable research has shown that there simply is no human language or language variety which does not
have complex grammatical structures, or the mechanisms to create new words as new situations arise, or to
make complex meanings explicit by means of language itself”. (MacSwan – Rolstad 2003: 332)
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Capitolo VI - La lingua dello studio. la facilitazione e la semplificazione dei testi nella scuola
di programma svolto potrà diminuire; questo, tuttavia, a favore della qualità dell’apprendimento e delle emozioni positive associate alla vita scolastica (vd. Fabbro 2004).
In un secondo tempo, questo metodo di lavoro si coniugherà con i tempi frettolosi
della scuola e dei programmi ministeriali armonizzando quantità e qualità.
Per quanto riguarda i termini facilitazione e semplificazione linguistica in riferimento all’abilità di lettura, usiamo il primo per riferirci a tutta una serie di attività
atte a favorire la comprensione del testo scritto. Il testo, scritto nella lingua dello
studio, sarà presentato nella sua veste originaria (quella del libro di testo) e l’insegnante/facilitatore linguistico e, auspicabilmente, tutto il gruppo-classe lavoreranno in armonia alla ricerca della decodifica di un messaggio di difficile comprensione.
Si presenta qui di seguito un possibile percorso di facilitazione del testo, suddiviso in fasi, che riprende e riadatta le prime due fasi dell’Unità Didattica (Ud)
presentata al cap. 4.
Motivazione/Contestualizzazione: l’insegnante/facilitatore linguistico cercherà
di suscitare l’interesse dell’apprendente, motivandolo, e allo stesso tempo introdurrà l’argomento che si affronterà. Questa fase ha anche lo scopo non secondario
di recuperare e rielaborare conoscenze linguistico-comunicative e non solo e di attivare la capacità di ipotizzare quello che potrebbe venir detto o scritto in un dato
contesto (la grammatica delle aspettative).
Globalità/Verifica della comprensione: fase della scoperta del testo. Questa
scoperta sarà progressiva: si andrà dall’osservazione del paratesto (immagini, titolo,
aspetto del testo ecc.), e dalla conseguente formulazioni di ipotesi, all’analisi del
contesto e del cotesto (il contesto linguistico) per arrivare infine all’analisi del testo
vero e proprio. La lettura del testo avviene dal generale al particolare attraverso
fasi di lettura globale e lettura analitica. Nella prima fase, si avrà una comprensione generale del testo e nella seconda fase si recupereranno nel testo informazioni
particolari e specifiche. L’introduzione di nuovo lessico avviene gradualmente e sistematicamente.
La semplificazione, invece, è la riscrittura del testo in microlingua (linguaggio
specifico delle discipline) in un linguaggio più vicino alla comunicazione di base. L’italiano normativo, solitamente usato nei libri di testo, presenta delle caratteristiche
specifiche dovute al suo statuto centenario di lingua di cultura e non di comunicazione (vd. Vanelli 1999): per questo le tendenze creative dei parlanti sono a tuttoggi
condannate dai grammatici e tenute fuori dalla norma gelosamente custodita (vd.
109
Pona 2010). Questa varietà normativa è, quindi, di difficile impiego da parte degli
apprendenti di italiano L2 e l’uso della semplificazione dei testi in una prima fase
può essere di aiuto. In una seconda fase, i testi semplificati dovranno, tuttavia, essere sostituiti dai testi originali facilitati per permettere agli apprendenti di ricevere
input ed acquisire una familiarità con la lingua dei testi di studio.
Sarebbe opportuno, per concludere, non trascurare le attività di facilitazione linguistica all’interno di tutto il gruppo-classe e di fare della semplificazione un utile
strumento sia di riflessione sulla lingua per gli apprendenti italofoni sia di comprensione guidata per gli apprendenti di italiano L2. Le attività di semplificazione diventano più efficaci se portate avanti dai bambini/ragazzi, che collaborano a coppie,
a piccoli gruppi, a classe intera, condividendo, elaborando e negoziando significati.
2. Tecniche di semplificazione testuale
2.1
Lessico
1. Usare espressioni del vocabolario di base.
Esempi. volto > viso, faccia
porre > mettere
giungere > arrivare
avvenire, accadere > succedere
anche usando perifrasi: estrarre > tirare fuori
Se è necessario utilizzare lessico specialistico occorre facilitarne la comprensione.
2. Ripetere le parole chiave evitando sinonimi.
Esempio. Il congresso di Vienna ebbe luogo nel 1815. A tale consesso parteciparono
le autorità politiche di tutta l’Europa. > Il congresso di Vienna è del 1815. A questo
congresso hanno partecipato le autorità politiche di tutta l’Europa.
Tuttavia, si può gradualmente ridurre la ripetitività inserendo alcuni sinonimi (se
appropriati), guidando lo studente ad associarli al termine di primo riferimento.
Ogni parola fuori dal vocabolario di base deve essere facilitata per essere compresa.
3. Evitare le forme figurate e le espressioni idiomatiche che non siano di uso comune.
Esempio. Nei suoi romanzi, Paolo Nori pone l’accento sulla lingua della quotidianità. > Nei suoi romanzi, lo scrittore Paolo Nori usa la lingua di tutti i giorni.
Tuttavia, quando si introducono nuove parole, è buona prassi offrirne parafrasi e
facilitarne la comprensione.
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Capitolo VI - La lingua dello studio. la facilitazione e la semplificazione dei testi nella scuola
4. Evitare le nominalizzazioni.
Esempio. La costruzione del Colosseo da parte dei Romani impiegò 8 anni. > I Romani hanno costruito il Colosseo in 8 anni
Tuttavia, considerando l’importanza delle nominalizzazioni nelle microlingue disciplinari, se ne possono introdurre gradualmente alcune importanti (legate però a termini già acquisiti), facilitando la comprensione globale anche attraverso il contesto,
l’enciclopedia (quello che io so del mondo), e al contempo sollecitando l’attenzione
dell’apprendente alla composizione delle parole.
Esempio. L’altezza del Monte Bianco è di 4810 metri.
Quale parola semplice vi ricorda la parola altezza? Quale parola semplice troviamo
dentro altezza? Come possiamo riscrivere la frase?
Il Monte Bianco è alto 4810 metri.
5. Usare espressioni concrete ed evitare espressioni astratte e personificazioni.
Esempio. La Presidenza del Consiglio è a capo del CSLI. > Il Presidente del Consiglio
è a capo del Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI).
6. Preferire termini monosemici a termini polisemici.
Esempio. Secondo te, cosa significa il termine “emozione”? > Per te, cosa significa la parola “emozione”?
Secondo e termine sono parole polisemiche (con più significati) e spesso usate
nell’accezione rispettivamente di numero ordinale e di fine.
Occorre porre particolare attenzione ai termini specialistici trasversali a diverse discipline e spiegarne le singole accezioni. Tale strategia è utile in generale per facilitare il processo di comunicazione e apprendimento per tutto il
gruppo-classe.
2.2 Morfosintassi
7. Comporre frasi brevi (massimo 20-25 parole).
8. Preferire la coordinazione (paratassi) alla subordinazione (ipotassi). Preferire un
ordine di tipo cronologico e logico.
Esempio. Non conoscendo i piani offensivi delle forze nemiche, il generale non poté
adeguatamente organizzare la difesa... > Il generale non conosceva i piani di attacco
del nemico e, quindi, non ha potuto organizzare un efficace piano per difendere...
111
9. Evitare la subordinazione implicita, tendenzialmente polisemica.
Esempio. Sapendo dell’imminente sconfitta del proprio esercito, il sovrano fuggì. >
Il re è fuggito poiché sapeva che il proprio esercito stava perdendo.
Meglio ancora: Il re sapeva che il suo esercito stava perdendo ed è fuggito.
10. Evitare le forme impersonali e passivanti, preferendo invece soggetti espliciti e
con ruoli agentivi, se possibile.
Esempio. Nell’anno Mille si credeva che il mondo sarebbe finito. > Le persone credevano che il mondo finiva nell’anno Mille.
11. Usare verbi attivi di modo finito.
Esempio. La Triplice Alleanza fu sconfitta dalla Triplice Intesa. > La Triplice Intesa ha
sconfitto la Triplice Alleanza.
12. Preferire l’uso del presente storico (ma accompagnato da chiara indicazione
temporale) o il passato prossimo/imperfetto rispetto al passato remoto.
Esempio. Cristoforo Colombo arrivò in America nel 1492 > Cristoforo Colombo arriva in America nel 1492. > Cristoforo Colombo è arrivato in America nel 1492.
Tuttavia, si può lavorare con gli apprendenti e aiutarli a riconoscere la radice verbale, e la parziale equivalenza tra passato remoto e passato prossimo. Si può, per
esempio, richiedere agli apprendenti di sottolineare tutte le parole che esprimono
azioni, eventi, processi al passato e cercare di ricavarne delle regolarità nel paradigma. Si può anche richiedere di immaginare quali funzioni specifiche un tempo
come il passato remoto possieda e quali usi lo caratterizzino. Per fare questo, si
può chiedere a tutto il gruppo classe di fare dei piccoli “esperimenti grammaticali”
attingendo alla propria esperienza personale.
13. Usare, quando possibile, una sintassi della frase secondo l’ordine basico Soggetto-Verbo-Oggetto.
Esempio. Quello che il poeta vuole esprimere è... > Il poeta vuole esprimere...
14. Evitare incidentali e sintassi troppo frammentata che separi il verbo e i suoi argomenti l’uno dall’altro.
Esempio. Mario, funzionario di banca, ha deciso, dopo lunga riflessione, di telefonare, suo malgrado, al collega Giorgio, da poco trasferitosi in altra sede. >…
112
Capitolo VI - La lingua dello studio. la facilitazione e la semplificazione dei testi nella scuola
Tuttavia, si può lavorare con gli apprendenti ed aiutarli a riconoscere i costituenti di
frase, all’inizio nella frase semplice con ordine basico poi nella frase complessa con
costituenti lontani tra loro o dislocati.
15. Preferire il rimando anaforico al rimando cataforico.
Esempio. Sapendo di essere in vantaggio, il generale decise di continuare ad incalzare le truppe nemiche (occorre aspettare la fine della proposizione dipendente
per scoprire il soggetto del verbo sapere) > Il generale ha deciso di continuare la
battaglia poiché sapeva di essere in vantaggio.
2.3 Coerenza/coesione
16. Offrire ridondanza (più sintagmi nominali pieni che pronomi, poche ellissi, ripetere le stesse forme piuttosto che cercare sinonimi).
17. Organizzare i contenuti in modo da favorire la loro elaborazione cognitiva.
18. Esplicitare i passaggi tra argomenti con connettivi semplici e frasi di collegamento.
19. Segnalare il passaggio tra diversi argomenti con una paragrafatura adeguata.
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SECONDA PARTE
L’insegnante apprendente
La pratica etnografica nella didattica dell’italiano L2
di Franca Ruolo
Capitolo VII - Insegnare esige il saper ascoltare
CAPITOLO VII
Insegnare esige il saper ascoltare
Il dialogo come processo di apprendimento e conoscenza
deve sempre comprendere un progetto politico con l’obiettivo di smantellare le strutture e i meccanismi di oppressione più diffusi sia nell’educazione che nella società.
(Paulo Freire)
Il titolo è una citazione ripresa da Paulo Freire che, nel descrivere la dinamica del
rapporto insegnante/apprendente, definisce l’ascolto una pratica necessaria e costante, grazie alla quale l’educatore dubita delle proprie certezze e impara a tramutare il parlare all’apprendente unidirezionale e autoritario in un dialogo. La rinuncia
all’addestramento possiede una rilevanza etico-politica: l’insegnante dialogico non
instilla contenuti nella testa degli apprendenti, ma agisce con loro.37 In altre parole,
la didattica conversazionale consente di mantenere una tensione cognitiva costante verso l’oggetto della conoscenza, che è sempre una conoscenza e una comprensione più critica del mondo. (vd. Freire 2004, Brighi-Giornelli 2005).
Per sostenere questo cambiamento di sguardi da parte dell’insegnante, l’approccio alla facilitazione della lingua italiana L2, come uno dei luoghi della pratica educativa, si avvale in questa sede di alcune discipline scientifiche, la linguistica acquisizionale e l’osservazione etnografica. Esse segnano un progresso scientifico rispetto
alle indicazioni della glottodidattica e della pedagogia, ma non costituiscono un
metodo: possono essere invece usate strumentalmente, evitando l’ingabbiamento
metodologico, in quanto nessuna pratica educativa è possibile senza una diffidenza
costante nei confronti delle proprie certezze e una predisposizione alla pluridimensionalità del fare didattica, contro l’assolutizzazione delle idee e l’uso acritico di
metodologie (vd. Freire 2004, 2008, Perticari 2005).
La linguistica acquisizionale costituisce lo strumento scientifico per osservare le
varietà linguistiche di italiano L2 e aiuta l’insegnante ad operare una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio alla lingua seconda parlata e vissuta dagli appren37 Oggi il rischio per l’insegnante di tornare o rimanere su posizioni autoritarie non è affatto remoto, se si pensa
alla visibilità e ai consensi ottenuti da un libro come Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, che sostiene
il ritorno allo studio nozionistico, contro le proposte pedagogiche di Don Milani e Gianni Rodari. Per una
lettura attenta del libro della Mastrocola, si veda lo scrittore Paolo Nori all’interno del suo blog (http://www.
paolonori.it/ciao).
117
denti, affinché non ne venga forzato e travisato il percorso naturale di acquisizione.
Si accompagna, per questo, ad una pratica etnografica di osservazione, che agevola la conoscenza e la relazione all’interno della classe. L’insegnante come etnografo raccoglie dati di qualità, è competente nell’osservare gli imprevisti e flessibile
nell’accogliere i cambiamenti delle proprie ipotesi iniziali, assumendo uno sguardo
critico sul proprio modo di insegnare. La didattica dialogica s’interseca quindi ad
un’autoriflessività che è apprendimento anche per l’insegnante ed implica l’ammissione di poter imparare dai propri apprendenti. (vd. Freire 2008; Perticari 2005).
Questa autoriflessività non coincide con l’interrogativo sul “che ci faccio qui?” (Zoletto 2007: 159) con cui l’insegnante avrebbe la pretesa di vivere il senso di estraneità dei propri apprendenti. Tale domanda è autoreferenziale e riconduce il fare
della scuola ad un discorso ancora monodirezionato, dove la reciprocità con gli apprendenti è negata e sminuito il loro ruolo di partecipanti (vd. Baroni 2010: 48-49).
Le pratiche di osservazione aiutano a decostruire convinzioni e a costruire relazioni,
che si annodano e si arricchiscono nel quotidiano, opponendosi al bisogno di categorizzazione da parte dell’insegnante. L’osservatore che guarda e ascolta riconosce
di non essere invisibile e ammette che il suo lavoro non si predispone solo sulla
base dei dati raccolti nello spazio di osservazione, ma anche su quelli provenienti
da modifiche e reazioni suscitate in lui dalle situazioni osservate (vd. De Lauri 2008).
In altre parole, l’insegnante diventa un “apprendista perenne” (Piasere 2010: 55),
un etnografo che riconosce le voci delle molteplici agentività coinvolte nella ricerca, riconfigurando la pratica etnografica a scuola come lo strumento che “rende
possibili analisi e valutazioni più approfondite, più dettagliate e meno predeterminate” (Herzfeld 2006: 204).
1. Un bambino va alla guerra (o forse no)
LABORATORIO
LEGGERE IL TESTO E SVOLGERE LE ATTIVITÀ
C’è un bambino che si chiama Ernesto e c’è un’insegnante o un insegnante (non
ne abbiamo il nome). L’insegnante chiede a Ernesto di raccontare la storia osservata
in queste immagini: nella prima, dei ragazzi giocano a pallone, nella seconda c’è una
finestra rotta, nella terza una donna anziana, nella quarta un uomo, nella quinta si
vedono alcune persone che corrono.
118
Capitolo VII - Insegnare esige il saper ascoltare
Immaginiamo adesso che si verifichino due possibili situazioni dialogiche tra Ernesto e l’insegnante. Leggiamo i due dialoghi e le attività seguenti, liberamente tratti
da Marianella Sclavi (2003)38.
38 Anche la scelta del nome Ernesto è di paternità (o di maternità?) di Marianella Sclavi.
119
DIALOGO 1
DIALOGO 2
ERNESTO: Stanno giocando a pallone e lui gli dà un
calcio…
INSEGNANTE: Ci sono dei ragazzi che giocano a
pallone e succede qualcosa…
INSEGNANTE: Chi è che gioca a pallone? Qual è il
soggetto che compie l’azione?
ERNESTO: Stanno giocando a pallone e lui gli dà un
calcio e va a finire lì e rompe la finestra.
INSEGNANTE: e perché l’uomo li sgrida?
ERNESTO: Loro!
INSEGNANTE: Chi loro?
ERNESTO: I ragazzi!
INSEGNANTE: Bravo, e allora dillo. Bisogna sempre
precisare il soggetto altrimenti chi ti ascolta non
capisce. E quanti sono i ragazzi?
ERNESTO: Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida
perché l’hanno rotta.
INSEGNANTE: e poi qui i ragazzi scappano?
ERNESTO: Poi loro scappano e lei guarda fuori e li
sgrida.
ERNESTO:Tre!
INSEGNANTE: E scappano perché hanno paura, vero?
INSEGNANTE: Bravo! Allora come dovevi dire?
ERNESTO: Sì.
ERNESTO: (sta in silenzio).
INSEGNANTE: Sei un bravo narratore, Ernesto. Io,
guardando la vignetta, ho capito sempre a cosa ti
riferivi. Ma adesso ti vorrei porre un problema più
difficile: come racconteresti la storia a una persona
che non la sa e che non ha questa vignetta sotto gli
occhi?
INSEGNANTE: Tre ragazzi stanno giocando a pallone.
Adesso continua il racconto
ERNESTO: Lui gli dà un calcio.
INSEGNANTE: Chi è ‘lui’?
ERNESTO: Uno dei ragazzi!
INSEGNANTE: E allora dillo! Stai iniziando una nuova
proposizione e di nuovo devi precisare il soggetto.
Ve l’ho ripetuto tante volte. Allora, uno dei tre
ragazzi… cosa fa?
ERNESTO: Dà un calcio alla palla e va a finire lì.
INSEGNANTE: Lì dove? Vedi che non sei preciso?
Dove va il pallone?
ERNESTO: Il pallone rompe il vetro.
INSEGNANTE: Vedi che ti esprimi bene, quando
vuoi? Soggetto, verbo, complemento. Continua così.
INSEGNANTE: Per esempio facciamo finta che sul
banco tu abbia un telefono e tu chiami una tua
amichetta che è a casa ammalata. Per tenerle su
il morale, le racconti quello che abbiamo fatto in
classe e vuoi descriverle la vignetta. Lei non può
vederla e quindi tu in questo caso devi dirle proprio
tutto, devi essere un po’ pignolo in modo che lei
possa immaginarsi tutti i vari personaggi e quel che
succede. Vediamo se sei un bravo narratore anche in
questo caso…
INSEGNANTE: (fingendo di fare un numero in un
immaginario telefono) Ciao Giovanna, come stai?
Quando torni a scuola? C’è qui Ernesto che ti vuole
raccontare una storia sulla quale abbiamo lavorato
oggi. (Passa la cornetta ad Ernesto).
ERNESTO: Ciao Giovanna…
ERNESTO: Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida
perché l’hanno rotta. Poi loro scappano.
INSEGNANTE: Ma allora non mi ascolti quando
parlo! Hai troppa fretta, tiri via… Chi sono ‘loro’? ‘La
guardano’… chi, cosa guardano? Non puoi essere così
superficiale. Devi impegnarti di più. Adesso ascolta
gli altri e poi per casa ti darò dieci esercizi per
imparare a precisare soggetto e complementi.
120
Capitolo VII - Insegnare esige il saper ascoltare
Dopo aver letto i due dialoghi, riflettere sui seguenti punti.
Nei due scenari
•
•
•
•
Cosa osserva e cosa ignora l’insegnante nel racconto di Ernesto?
Nei due dialoghi, l’insegnante lo sta ascoltando nella stessa misura?
Quali differenze si possono riscontrare nei due modi di ascoltare?
È possibile ipotizzare, per entrambe le situazioni dialogiche, come Ernesto concepirà il suo rapporto con l’apprendimento e con la scuola?
È possibile pensare ad un’altra modalità dialogica tra Ernesto e l’insegnante?
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Capitolo VIII - L’illusione di insegnare la lingua
CAPITOLO VIII
L’illusione di insegnare la lingua
Il linguaggio non è un comportamento (più o meno raffinato e sancito), ma una forma di conoscenza, che non si lascia
mettere in scacco da chi nega l’evidenza, come i potenti
davanti al cannocchiale di Galileo, rischiando, come quelli,
tutta una serie di involontarie gags. A una persona che sostenga seriamente che il pronome di terza persona singolare maschile è “egli” basterà dopo pochi minuti chiedere,
alla prima occasione, “chi è stato”, “chi lo dice”, per sentirsi
infallibilmente rispondere “lui”.
Cosa si può fare a scuola? La proposta è in buona parte
implicita in quanto già detto. Si tratta di indagare la grammatica con metodi che qualifichino scientificamente il
percorso di indagine, e che quindi portino alla costruzione
condivisa di una grammatica.
Bisogna perciò imparare cosa fa l’apprendente spontaneamente, e intervenire a facilitare i processi di acquisizione. E
perciò non ci si illuda di insegnare grammatica.
(Giuseppe Faso)
1. Analisi di materiali didattici: le contraddizioni dei metodi e delle tecniche in
glottodidattica
LABORATORIO
Quali critiche si potrebbero muovere a metodi e tecniche glottodidattiche, ritenuti efficaci nell’insegnamento dell’italiano L2? Quali sono i punti deboli di queste
proposte?39
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39 Per un esame dei testi di italiano L2, in cui tali proposte vengono adottate, si può far riferimento a MezzadriBalboni (2003, 2005). La maggior parte dei testi di Italiano L2, comunque, presenta una suddivisione in
unità didattiche secondo i modelli proposti da Balboni e Vedovelli. Manuali di base di glottodidattica sono
considerati P. E. Balboni (2002), Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse e M. Vedovelli
(2002), Guida all’italiano per stranieri. La prospettiva del Quadro comune europeo per le lingue.
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2. Analisi di materiali didattici per l’italiano L2: critica degli stili cognitivi e della
culturizzazione
LABORATORIO
Leggere e riflettere sulle seguenti affermazioni relative agli “stili cognitivi analitico/
globale” (I) e sulle proposte sui “temi culturali” (II) presenti in testi sulla didattica
dell’italiano L2.
I. STILI COGNITIVI
Le persone possono essere “analitiche” o “sincretiche” […] e quindi risulterebbero poi intro- o estroverse […]. In sintesi […] nella fase iniziale è
opportuno spingere gli studenti più riflessivi a rischiare, a procedere intuitivamente, [mentre] è opportuno spingere gli studenti più tolleranti per
le ambiguità e gli errori a dedicare crescente attenzione alla riflessione
sulla lingua, anche se ciò non è tipico del loro stile di apprendimento.
(Balboni 2002: 44-47)
II. “TEMI CULTURALI”
[…] il modo di nutrirsi, di vestire, di formare famiglie e gruppi sociali, di
immaginare la divinità ecc. In didattica delle lingue si fa riferimento a
questo significato quando si parla di insegnamento della “cultura”. L’unità
minima di analisi della cultura è il “modello culturale” […] del paese di cui
si parla la lingua. (Balboni 2002: 64-65)
Culturizzazione, cioè la conoscenza e il rispetto (in alcuni casi può esserci
l’assunzione) di modelli culturali e di valori di civiltà dei paesi dove si
parla la lingua straniera. (ivi: 92)
[…] questo atteggiamento di rispetto, e possibilmente, interesse per la diversità culturale rappresenta una meta educativa essenziale della glottodidattica e viene definita relativismo culturale. (Mezzadri-Balboni 2005c: 25)
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Capitolo VIII - L’illusione di insegnare la lingua
Riflessioni
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Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
CAPITOLO IX
Uno sguardo critico sulla glottodidattica
Per questo è fondamentale che, nella pratica della formazione docente, l’apprendista educatore si convinca che l’irrinunciabile modo di pensare correttamente non è un dono
degli dei né lo si può trovare nei manuali per insegnanti
redatti da illuminati intellettuali che si collocano al centro
del potere.
L’accettazione superficiale e acritica di qualsiasi metodo, a
prescindere dalle sue promesse progressiste, può facilmente trasformarsi in una nuova forma di rigidità metodologica
che costituisce, dal mio punto di vista, una forma di terrorismo metodologico.
(Paulo Freire)
1. I rischi di banalizzazione nei modelli operativi standard nella didattica dell’italiano L2
La glottodidattica moderna, definita scienza pratica, si propone dei cambiamenti nella didattica delle lingue, sia per la sua componente teorica, da cui derivano approcci e metodi ritenuti più efficaci nell’insegnamento, sia per quella
operativa che ha proposto modelli e tecniche per l’acquisizione linguistica, affermando di distanziarsi dall’ insegnamento tradizionale delle lingue (vd. Serra
Borneto 2000). Il quadro teorico su cui la glottodidattica si basa ha contribuito
all’adozione di alcuni concetti chiave, come “centralità dello studente” e “facilitazione linguistica” binomio che, ritenendo l’insegnante “un alleato dello studente contro le difficoltà della lingua”, vedrebbe nello studente “il primo attore
del processo educativo e didattico” (Balboni 2002:14-30). In questa sede, le due
definizioni verranno messe in discussione attraverso l’analisi di una nozione base
ella glottodidattica: l’unità di apprendimento o di lavoro, uno schema elaborato
su presupposti teorici, da cui scaturiscono l’uso dell’approccio induttivo, il passaggio da una fase di comprensione globale ad una più analitica e riflessiva su
aspetti funzionali e metalinguistici (vd. Balboni 2002, Vedovelli 2002). Nell’unità
di apprendimento è previsto anche l’inserimento di elementi di “civiltà”, perché,
secondo Balboni, “non si insegna solo la lingua, ma anche la cultura che le sta
dietro” (ivi: 63)40.
40È diffuso, in glottodidattica, il ricorso al termine cultura. Si veda Balboni (2002), Vedovelli (2002), Scalzo (2004),
127
Questo modello operativo, fortunamente, si è rivelato inefficace nella pratica
quotidana della classe: esso è concepito a prescindere dalle individualità degli apprendenti, nonostante si ammetta l’esigenza di una certa “flessibilità” (vd. Balboni
2002: 100-109).
Ci si chiede quale concetto di flessibilità si possa conciliare con:
a. la convinzione che l’insegnamento linguistico sia strettamente connesso all’insegnamento di “civiltà e cultura”41. Questa idea muove dal convincimento che le
persone siano soggetti portatori di culture: in classe, dagli insegnanti e dagli apprendenti, nei modi di fare fino agli stili cognitivi, ci si attende conformità di comportamenti al modello culturale di provenienza. Questa visione essenzialistica delle
culture (il cosiddetto culturalismo), è un concetto semplicistico criticato nel dibattito scientifico e, come vedremo più avanti, produce effetti di banalizzazione e
di tipizzazione. Contrariamente agli intenti enunciati in glottodidattica (e, peggio,
stimolati a venir praticati in classe), l’idea che l’insegnamento della cultura sia una
meta educativa con cui si realizzerebbe “l’incontro interculturale”, impedisce la didattica e contribuisce ad erigere barriere, annullando qualunque pretesa di interazione positiva all’apprendimento della lingua.
b. l’idea che la lingua costituisca un ostacolo per l’apprendente e che l’insegnante sia un alleato “contro” la lingua. Se la lingua è concepita come una difficoltà, l’insegnante/facilitatore non solo non riconosce all’apprendente di sapere molto cose
(e qui, la linguistica generativa ha molto da dire ai glottodidatti: vd. cap. 3 e 4), ma si
affannerà a produrre nuovi schemi per superare presunte difficoltà dell’apprendente. Le tecniche didattiche non sono neutre, come si vorrebbe far credere (vd. Balboni 2002): la formulazione delle domande (attività di vero/falso, scelta multipla,
ecc.) non attivano una vera interazione e finiscono per rispecchiare l’inadeguatezza
dell’insegnante. Il dialogo tra gli interlocutori diventa vuoto e la tecnica inefficace,
Caon-Rutka (2004), che ritengono l’insegnamento della cultura una via per l’integrazione e/o assimilazione.
In merito alla parola integrazione, ricorda Giuseppe Faso:
Ogni volta che ci si sieda a discutere di immigrazione, la maggior parte di chi sta
dall’altra parte del tavolo, quella servita dal microfono, parla di integrazione.
Non se ne rendono conto, i più, ma intendono “assimilazione”. Come si dice
“cultura” o “etnia” e si intende “razza”, si dice “integrazione” e si intende
“assimilazione”. Che stiano qui, alle “nostre” regole, che si adattino; nulla di più
rassicurante, per una fetta (sembra, indecisa) di elettori. (Faso 2008: 76)
41 I termini civiltà e cultura vengono spesso usati in modo distinto, riproponendo un approccio etnocentrico con
cui si oppone la nostra civiltà (quella del “noi”, citata nelle retoriche politiche come unica detentrice della legalità
e del progresso) alla loro cultura (quella dei migranti) (vd. Gallissot [2001] 2007, Rivera 2005, Faso 2008).
128
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
distante da quella prospettiva conversazionale - vedremo più avanti - in cui l’insegnante impara dalle persone cui sta insegnando (Perticari 2005).
Accanto alla lingua come veicolo di contenuti culturali e alla lingua “ostacolo”,
vi sarebbe un terzo strumento della glottodidattica: l’individuazione dei “bisogni
pragmatici futuri” degli apprendenti , per lo sviluppo della loro “competenza comunicativa”, attraverso un esame del contesto extrascolastico (Balboni 2002: 73, 91).
La questione della conoscenza del contesto è delicata e richiede un’ analisi di tipo
scientifico: i dati sul territorio e le interviste alle famiglie, laddove hanno luogo,
spesso non solo ignorano tecnicamente la complessità di un’indagine di tipo qualitativo (Olivier De Sardan 2009: 27-60), ma ad un esame attento si rivelano discorsi
e pratiche di inferiorizzazione dello straniero (vd. Baroni 2010: 39-66), mostrando
come la cosiddetta accoglienza, dalla classe al contesto socio-politico più ampio,
mascheri spesso pratiche discriminanti, secondo una strategia che Aiwha Ong ha
definito “civilizzatrice salvifica” (Ong 2005). Su quali basi (a meno che l’insegnante
e la rete scolastica non dispongano di una formazione sociologica o antropologica
e di analisi approfondite dei contesti) la conoscenza della realtà extrascolastica e
delle famiglie degli apprendenti, dovrebbe essere impiegata praticamente per costruire un curricolo o una programmazione? Non rischia l’insegnante di impiegare
dati in modo superficiale, rafforzando o elaborando modelli lontani dalla complessità dei dati reali?42
Con queste premesse, la glottodidattica invita insegnanti e apprendenti a vivere
la classe come un luogo di banalizzazioni, dove vengono stimolati la produzione e lo
scambio di infiniti luoghi comuni, che rischiano di far emergere contenuti xenofobi
e razzisti in nome dell’interculturalità43.
Quando si dichiara che “come sempre lo stereotipo contiene probabilmente un
fondo di verità”, avvertendo al contempo del rischio di generalizzazioni (MezzadriBalboni 2005d: 38), ci si domanda su quali presupposti scientifici poggi questa affermazione. La conseguenza è che si accettino per vere spiegazioni culturaliste che
derivano dal senso comune44:
42 Per una analisi sulla complessità delle esperienze migratorie si veda Riccio (2007).
43 Un testo esemplare in questo senso e su cui si è discusso in altra sede (vd. Ruolo-Pona 2010) è Foto parlanti.
Immagini lingua e cultura (Tettamanti-Talini 2004), in cui il “fare intercultura” diviene pretesto per costruire
una unità didattica discriminante contro i Rom.
44 Al paragrafo 2 di questo capitolo, sono riportati brani tratti da alcuni noti manuali di didattica di italiano
L2, in cui emergono stereotipi e pregiudizi. La prima difficoltà riscontrata nell’impiego dell’unità di
apprendimento riguarda, infatti, proprio le proposte sui temi culturali (Balboni 2002: 102). Molti materiali di
didattica di Italiano L2, pensati per apprendenti di qualunque età (bambino, adolescente, adulto), presentano
129
nascendo dal luogo comune, lo stereotipo è molto prossimo al banale,
al déja vu, al giudizio dato a priori. Il termine designa associazioni di idee
condivise dai membri di un gruppo, idee così radicate che è difficile contestarle o rimetterle in discussione. (Kilani 2007: 337)
Con questi atti di nominazione dell’alterità, quale meta educativa può vantare
di perseguire la glottodidattica?45 La creazione di stereotipi semplifica la pratica
didattica e annulla qualunque processo pedagogico.
Il nodo cruciale, qui, consiste proprio in questo: l’apprendente non appare “il
primo attore del processo educativo e didattico” (Balboni 2002: 28-29): si trova
invece in un contesto in cui viene costruita una conoscenza fittizia, non solo
perché il processo conoscitivo è ricondotto alla meccanicità del domandare e
del rispondere, ma anche perché l’apprendente è etnicizzato e al contempo indotto a etnicizzare la cultura italiana. Il facilitatore di lingua, che seleziona testi
o input per l’insegnamento dell’italiano L2, diventa un “esecutore di banalità”
(von Foerster-Pörksen 2001: 61-72): il dialogo scolastico sostituisce il dialogo
naturale. Chiedere e rispondere non sono concepiti come una ricerca intorno
all’oggetto di conoscenza e possibilità di conoscenza tra le persone che vivono
e agiscono all’interno della classe, ma il dialogo è limitato a tutta una serie di
domande che svuotano il senso di una didattica realmente dialogica, oltretutto
in una dimensione culturalista e pertanto già falsata46.
i cosiddetti argomenti culturali in termini banalizzanti. Vengono reintrodotte generalizzazioni e cliché sulle
presunte abitudini degli italiani e sulle differenze tra nord e sud d’Italia, spesso ricorrendo ad argomenti tipici
dell’antimeridionalismo, come quando si afferma che, nonostante la forte richiesta di manodopera nel nord
d’Italia, i giovani meridionali disoccupati “non sono disposti a emigrare al nord, preferendo restare in famiglia
fino a 30, 35 anni in attesa di trovare un posto al sud” (Mezzadri-Balboni 2005c: 33) contrapponendolo ad un
modello di famiglia nord-settentrionale, dove “sia l’uomo che la donna devono lavorare” (Mezzadri-Balboni
2005d: 12). Le affermazioni di Mezzadri e Balboni risultano prive di basi scientifiche e non si comprende a
quali studi si rifarebbero. Oltretutto, i due glottodidatti ignorano gli studi sulla ripresa di migrazioni interne,
che nel 2005 (anno di pubblicazione del testo di Mezzadri e Balboni) erano ben conosciute e in atto già
dalla prima metà degli anni novanta, come confermano i rapporti dello Svimez (Associazione per lo Sviluppo
dell’Industria nel Mezzogiorno) e studi socio-antropologici sulle migrazioni dal Sud al Nord Italia (vd.BonifaziHeins 2005, Pugliese 2006, Berti-Zanotelli 2008).
45 Quando Balboni sostiene che una delle mete educative dell’educazione linguistica è la “culturizzazione,
cioè la conoscenza e il rispetto (e in alcuni casi l’assunzione) di modelli culturali e di valori di civiltà dei
paesi dove si parla la lingua straniera ” (Balboni 2002: 92), si sta sostenendo un lessico diffuso, quello del
“razzismo democratico” (Faso 2008), che esclude o assimila attraverso un esteso elenco di diversità culturali,
incoraggiando “l’integrazione nel senso dell’assimilazione” (ivi: 76), e un “differenzialismo culturale, che
è notoriamente la più insidiosa forma odierna del razzismo” (Faso 2005: 4). A proposito del neorazzismo
differenzialista, l’antropologa Annamaria Rivera precisa che il concetto genetico della razza, la cui assoluta
infondatezza è stata ampiamente dimostrata in ambito scientifico, viene sostituito da presunte differenze
culturali, immaginate come naturali, per cui al posto del determinismo biologico chiaramente espresso tramite
la parola razza, vengono utilizzate le nozioni di cultura o di etnia secondo una modalità che cela o legittima la
discriminazione (Rivera 2007: 295-296).
46 Si arriva a concepire la classe plurilingue come un universo codificabile in formule matematiche (Vedovelli
130
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
Anche le più belle definizioni possono diventare un’attribuzione di identità che bloccano anziché produrre un movimento verso un riconoscimento reciproco. Fino a che un bambino rimarrà bloccato nello stereotipo (già designato dall’attribuzione di appartenenza), sarà difficile realizzare un apprendimento che valorizzerà le sue potenzialità. Rimarrà nella
condizione di essere detto da un altro, e la sua voce faticherà ad aver
voce. (Perticari 2005: 285)
Nelle proposte didattiche presentate come interculturali, invece, i suoi autori
continuano a reificare stereotipi e aderiscono in modo acritico al concetto di cultura, già dibattutto da molti anni in antropologia, la quale riflette sulla visione sostanziale delle culture. La cultura ritenuta come sistema coerente e omogeneo, annulla
la complessità dell’essere individui 47. Così appiattita ed essenzializzata, la cultura
diviene inevitabilmente strumento di costruzioni dell’alterità, stabilisce separazioni
e conduce a istituire rapporti gerarchici tra le persone. In altre parole, il culturalismo non è un atto innocuo: la pratica in classe può rivelare il carattere performativo
delle affermazioni espresse in glottodidattica e produrre effetti sul reale.
Se osserviamo le varie proposte teoriche e didattiche per l’insegnamento della
seconda lingua, esse mostrano la loro inadeguatezza e non operano quel rovesciamento di prospettiva professato rispetto ai vecchi modelli di insegnamento della
lingua che vorrebbero criticare. Anzi, la glottodidattica moderna appare, a nostro
2002: 116-126) e l’unità di apprendimento, con le sue tecniche, i suoi approcci e modelli, è vista come “una
griglia di categorie strutturanti l’interazione […]”, dove la tecnica didattica è considerata “l’arte del maestro di
lingua” e lo strumento per “gestire correttamente la sempre nuova realtà sociale e comunicativa in cui si trova
inserita e che crea con la sua presenza” (ivi: 135-136). Questa metodologia didattica concepisce “il processo di
insegnamento e apprendimento della L2 […] un contatto tra culture e si nutre di un gioco di rinvii intertestuali
al quale gli apprendenti sono esposti” (Vedovelli 2002: 118). Di seguito, è riportato il brano tratto da Vedovelli
(2002: 117-118), da cui il lettore è libero di trarre le proprie conclusioni:
il Gruppo classe (GS) è, nella nostra proposta, un Universo di socialità (US):
è costituito da tutti i soggetti coinvolti nel processo di apprendimento/
insegnamento. I rapporti di socialità si stabiliscono fra i soggetti in una duplice
dimensione: l’Interazione sociale (IS) fra di loro (e pertanto i ruoli istituzionali
e spontanei che hanno e assumono) e lo Scambio comunicativo (Sc) che in
essa si sviluppa. L’ IS è caratterizzata dai ruoli sociali, dagli atteggiamenti, dalle
motivazioni, dalle identità culturali degli attori della comunicazione didattica.
Lo SC è costituito dai flussi di comunicazione che si sviluppano entro l’US.
Possiamo formalizzare tale rapporto come segue:
GC= US = IS + SC
[…] dal punto di vista semiotico, la Lingua (L) è costituita da testi (T), che
intrinsecamente costituiscono la Cultura (C). La lingua è perciò intrinsecamente
cultura in quanto istanza di formazione, di creazione di identità mediante la
forma del codice:
L=C
47 La bibliografia su questo tema è vasta. Si veda, tra gli altri, Abu-Lughod (1991), Amselle (1999), Fabietti (1999),
(2004), Hannerz (2001), Matera (2008), Remotti (2010), Rivera (2007), Wagner (1992).
131
avviso, potenzialmente più pericolosa, operando quelle semplificazioni che abbiamo affrontato sopra: semplificazioni didattiche e culturaliste e dove anche i bisogni
degli apprendenti sono ridotti a interpretazioni schematizzate.
Esattamente come i vecchi modelli che critica, l’unità di apprendimento esaminata non aiuta a creare in classe le condizioni reali di mutuo riconoscimento (vd.
Perticari 2005). L’insegnante di lingua (il cosiddetto facilitatore) crede di favorire il
processo di apprendimento e ritiene qui di aver perso il suo ruolo direttivo, proponendo attività libere o guidate di comprensione e di riflessione sul testo, ma riproduce gli stessi modelli autoritari biasimati e si pone nella prospettiva dell’ideologia
dominante48.
Un altro punto importante da sottolineare è il rischio di
percepire i facilitatori come non direttivi. Trovo che questo
sia un discorso ingannevole e che […] finisce per aiutare la
struttura di potere. […] I facilitatori sono autoritari perché,
in quanto soggetti della pratica educativa, essi riducono chi
apprende a un oggetto delle direzioni che essi impongono. In altre parole, il facilitatore finisce per non assumere
il proprio ruolo di educatore dialogico che può illustrare
l’oggetto di studio. Come insegnante, ho la responsabilità di
insegnare e, al fine di insegnare, cerco sempre di facilitare.
Per iniziare a comprendere il significato di una pratica dialogica, dobbiamo mettere da parte un’idea semplicistica di
dialogo come mera tecnica, [il quale] non dovrebbe mai essere concepito come una semplice tattica per coinvolgere
gli studenti in un certo compito. (Freire 2008: 10-13)
Interrogarsi sulla qualità dialogica del domandare e del rispondere evita l’abitudine di “fare e ricevere domande illegittime” (Perticari 2005: 77), ovvero quelle che
nascono nel contesto dialogico contraffatto delle risposte già attese dall’insegnan-
48 Si pensi ai test d’intelligenza somministrati ai bambini italiani in Germania nel corso del XX secolo, a cui
accenna Cesare Cornoldi, il quale afferma che tali test riflettevano i condizionamenti culturali, i modelli e
i valori di chi li aveva costruiti, manipolando i risultati sul presunto deficit intellettivo dei bambini testati
(Cornoldi 2007). Leonardo Piasere riporta la stessa critica riguardo ai test che negli anni Settanta dovevano
valutare a scuola i bambini Rom e finivano per “provarne” anch’essi il deficit intellettivo. Basati sull’idea di
una supposta oggettività, non essendo mai problematizzati, tali test si orientavano addirittura su teorie
di deprivazione culturale dei Rom (Piasere 2010). Il problema dell’equità dei test è oggi drammaticamente
attuale, a causa dell’introduzione dei test di lingua ai migranti per ottenere la carta di soggiorno. Sul pericolo
di assenza di eticità, vd. Faso-Pona (2011).
132
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
te, che non accetta opinioni inattese e non impara dagli imprevisti a scuola a ricercare e proporre “domande legittime” (ibid.). Il dialogo è efficace solo se si basa sulla
legittimità delle domande: su una curiosità autentica, legittima, che contraddistingue una relazione epistemologica, poiché il dialogo possiede un carattere sociale,
ossia è una modalità dell’apprendere e conoscere non solo l’oggetto di studio, ma
anche del conoscersi reciproco (vd. Freire 2008). L’input proposto dall’insegnante
è il testo su cui si negozia e si affrontano insieme domande e risposte fuori dalla
cornice costrittiva delle attività di vero/falso o di qualunque altra domanda nel
contesto artefatto del dialogo scolastico. L’errore dell’apprendente non comporta
un semplice “atto di tolleranza” (vd. Balboni 2002) da parte dell’insegnante: la prospettiva conversazionale vede nel dialogo naturale l’avvicinamento dell’insegnante
alle modalità di conoscenza che l’apprendente mette in atto (Perticari [1996] 2005).
In questo senso, l'insegnante esecutore di banalità è colui che, non imparando da
una conversazione naturale dai suoi apprendenti, diventa un prevaricatore di principi etici.
La classe, invece, è un luogo in cui quotidianamente si possono eludere i vincoli
meccanicistici e sperimentare quello che von Foerster definisce la de-banalizzazione delle pratiche di insegnamento (vd. von Foerster-Pörsken 2001). L’insegnante, con
le sue richieste preordinate, crea silenzi e chiusure attribuiti spesso alla presunta incapacità di comprendere o, peggio, a quelle caratteristiche ancora una volta etniche
dell’apprendente49. Invece, facilitare comporta riuscire a fare in concreto qualcosa
percepita e vissuta come importante da chi impara (Faso 2005), in cui l’apprendente diventa soggetto critico, in grado di ricostruire o riformulare ciò che apprende
e di esserne partecipe (vd. Freire 2004). Ciò comporta anche evitare domande e
percorsi didattici folclorizzati o che ricostruiscano situazioni realistiche a prescindere dall’apprendente, il quale risponderà sul chi e sul perché, sul vero e sul falso,
ma non sarà stimolato a comunicare il suo sguardo e i suoi racconti (vd. GiornelliMaioli 2003). La creazione di percorsi realmente condivisi con lo studente crea un’
esperienza di scombussolamento, negata nel modello operativo di unità didattica
49 Come facilitatrice di italiano L2 nella scuola pubblica, ho avuto modo di annotare molti episodi di
categorizzazione avvenuti in classe con la presenza di alunni stranieri (vd. Faso 2005). L’insegnante di italiano
di una seconda media giustificava così il proprio disagio nei confronti di un ragazzo albanese che parlava
e scherzava con i compagni italiani, rifiutandosi di “aprire bocca in classe” durante le ore di lezione, per
due anni: “all’inizio pensavamo che fosse disabile, poi abbiamo capito che è testardo e duro, come tutti gli
albanesi”. Questa impellenza di categorizzazione è radicata non solo fra molti insegnanti, ma anche facilitatori
di L2, quando affermano che “i cinesi sono chiusi, parlano solo tra loro e non capiscono nulla di italiano”, “i
giapponesi sono timidi e riservati”, “i peruviani parlano poco”. In definitiva, “accozzaglie di stereotipi etnici che
funzionano da modello e da spauracchio al tempo stesso” (Kilani 2007: 354-355).
133
(Balboni 2002, Vedovelli 2002)50, ma che è invece fondamentale: essa consente di
giocare “con gli eventi per trasformali in occasioni” per dirla come Michel De Certeau il quale, parlando di sociabilità e di quotidianetà, riconosce alla capacità di
inventare il quotidiano un potere altamente creativo (De Certeau 2005: 15).
La classe come spazio in cui l’apprendimento “procede soprattutto mediante
un chiarimento attraverso disorientamenti” (Herzfeld 2006: 24), dove sia possibile
una didattica che fa emergere la complessità di una visione multifocale. Una didattica dell’incontro, la cui dinamica articolata non può essere ridotta alla logica
del dialogo semplice con l’alterità (vd. De Lauri 2008: 9-25) ma si sottrae ad un
modo riduttivo di intendere l’insegnamento delle lingue, distanziandosi da quella
“galleria di stranezze esotiche” (Callari Galli 2000: 23) messe in atto ogni qualvolta
si parli di intercultura.
2. Contro la teoria semplicistica degli stili cognitivi
Lo stile cognitivo non è una caratteristica fissa dell’apprendente ma può, invece, essere una sua scelta strategica connessa al “qui e ora”, ossia connessa a circostanze variabili, alla
mutevolezza di eventi interni ed esterni, dipendenti da relazioni di reciprocità.
(Pona-Ruolo, domenica 26 Settembre 2010, durante una pausa caffè delle 17:43)
50 Nell’illustrare i “problemi” dei codici non verbali e della “comunicazione interculturale”, Balboni ritiene
che rappresentino “turbative alla serenità […], elementi che possono concorrere a una valutazione errata
dell’interlocutore” (Balboni 2002: 69), e sostiene che
l’insegnante di lingua straniera, che voglia contribuire a creare una competenza
comunicativa interculturale, non può “insegnarla”, date le dimensioni del
problema e la sua continua variabilità, ma può insegnare a “osservarla”. (ivi: 70)
134
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
TAVOLE SINOTTICHE
NO
SÌ
I cliché semplificanti sugli stili cognitivi
La complessità degli stili cognitivi
[Le persone] estroverse [...] sarebbero persone
più sociali e quindi avvantaggiate dall’approccio
comunicativo. (Balboni 2002: 44)
Utilizzando la distinzione gestaltica tra
persone analitiche/sincretiche e persone
globali/olistiche in maniera classificatoria, è
compiuta un’operazione semplicistica, spesso
accompagnata da affermazioni pseudoscientifiche, che attribuiscono uno stile cognitivo
al luogo d’origine dello studente.
un ragazzo “sincretico”, “olistico”, che da qualche
anno fa il poliziotto, ha assunto una forma
mentis che chiede grammatiche esplicite, a
differenza del suo gemello che è andato invece
in pellegrinaggio in Oriente. (Balboni 2002: 46)
Insegnando le lingue straniere dobbiamo
insegnare diverse forme di concettualizzazione;
un americano concettualizza secondo enunciati
che vanno straight to the point, un latino usa
enunciati interrotti da digressioni in cui si
esprimono condizioni, premesse, commenti e
così via, un orientale concettualizza secondo
una spirale che lentamente giunge all’obiettivo,
per avvicinamenti successivi, e ritiene che andare
straight to the point sia volgare… (Balboni 2002:
61)
Un altro punto debole degli studenti cinesi è la
comprensione globale di quello che si ascolta.
Siccome gli studenti cinesi generalmente sono
abituati a fare attenzione ai particolari e alle
sfumature, qualche volta anche eccessivamente,
gli insegnanti dovranno promuovere tecniche
che favoriscano un approccio mirato alla
comprensione globale dei contenuti e delle
informazioni. (Maggini 2006: 4-5)
La teoria degli stili cognitivi è un’idea categoriale.
Come afferma Paolo Perticari, la questione
degli stili cognitivi è da riportare su un piano di
maggiore complessità:
Questa distinzione olistico/seriale è utile, ma
molto probabilmente si dovrebbe moltiplicare
una immagine del genere per il numero dei casi
in cui una persona utilizza l’uno o l’altro stile, per
il numero dei partecipanti, per il numero delle
materie, argomenti e sottoargomenti affrontati
in una sequenza […] fino agli elementi dello stile
che sono inconoscibili, ai moltri altri elementi
dell’apprendimento che sono indeterminabili
[…]. Ne salta fuori un quadro sicuramente
complesso. Si potrebbe dire che confrontarsi con
l’enigma dello stile è una risorsa per cominciare a
limitare i tassi di banalizzazione che pervadono i
meccanismi di insegnamento/apprendimento di
cui siamo parte. (Perticari 2005: 47)
La ricerca di stili cognitivi specifici in diversi
gruppi etnico-linguistici può essere un’impresa
legittima e utile. (Pallotti 1998: 235)
135
3. Contro l’idea che “non si insegna solo la lingua, ma anche la cultura che le sta dietro”
NO
La “culturizzazione” e la creazione di stereotipi
La prima difficoltà riscontrata nell’impiego
dell’unità di apprendimento riguarda le proposte
sui temi culturali (vd. Balboni 2002: 102). Molti
materiali di didattica di Italiano L2 presentano
i cosiddetti argomenti culturali in termini
banalizzanti.
Affiorano, tra le proposte culturali, etichettature
che abituano al pensare la classe come un luogo
di rappresentanza delle culture, dove vi è la
pericolosa tendenza a stimolare la produzione
e lo scambio di infiniti luoghi comuni, che, nel
peggiore dei casi, fanno emergere contenuti
xenofobi e razzisti, in nome dell’interculturalità.
Nelle unità didattiche e nei testi in cui ogni
apprendente è etnicizzato e categorizzato, è
in atto un processo di esclusione sulla base di
classificazioni che hanno come fondamento una
visione inferiorizzante basata sull’opposizione
Io/l’Altro (vd. Herzfeld 2006; Piasere 2009, 2010;
Remotti 2001, 2007, 2010).
Quando i glottodidatti dichiarano che «come
sempre lo stereotipo contiene probabilmente
un fondo di verità», (Mezzadri-Balboni 2005d:
38), l’insegnante è giustificato a/ giustifica
la reificazione di spiegazioni culturaliste,
trasformando la classe in un luogo di
stigmatizzazioni e inficiando di fatto qualsiasi
interazione positiva all’apprendimento della
lingua seconda, oltre che qualunque pretesa di
relazione pedagogica.
136
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
4. Stereotipi e pregiudizi nei libri di italiano L2
Sapete cosa fa il pregiudizio? I miei pregiudizi mi impediscono di comprendere qualcuno. Se una persona mi piace avrò
pregiudizi favorevoli, se non mi piace avrò pregiudizi contro
di lui. Non voglio capirlo in entrambi i casi. Perciò il pregiudizio è come un vetro scuro che non mi permette di vedere
il sole.
(Jiddu Krishnamurti)
Lo stereotipo è un prodotto culturale. È l’immagine sintetica
che media il nostro rapporto con il reale. Noi percepiamo
infatti solo quello che la nostra cultura ha elaborato per noi:
la nostra visione della realtà e la nostra esperienza pratica si
formano entro i contesti trasmessi nella nostra cultura. In tal
senso, stereotipo e pregiudizio possono essere paragonati ai
concetti: come questi hanno la pretesa di significare il reale
e il modo di organizzarlo. La differenza fondamentale sta nel
fatto che gli stereotipi (e i pregiudizi) sono più rigidi dei concetti poiché resistono all’esame della critica. Sono un’opinione (o meglio una credenza) senza ragionamento.
(Mondher Kilani)
Di seguito sono elencati brani tratti da noti manuali di italiano L2. Le attività di
“civiltà e cultura”, così come teorizzate in glottodidattica (Balboni 2002, Vedovelli 2002) e solitamente previste come parte finale dell’unità didattica, nell’intento
di stimolare gli apprendenti a riflettere su aspetti culturali, si configurano come
reiterazione e reificazione di stereotipi. In questi testi, l’appropriazione non scientifica del termine cultura, ben lontana da una formulazione che ne restituisca la
complessità del dibattito antropologico, induce a considerare la classe plurilingue
uno spazio di alterità, secondo una logica schematica fortemente ideologizzata del
“noi” e “loro”, che costruisce recinti intorno agli individui anche nella retorica delle
pratiche dell’incontro interculturale, poiché, che si erigano confini per allontanare
o per incontrare gli Altri, con l’atto della separatezza si è già sulla strada della loro
cancellazione (vd. Remotti 2001, Herzfeld 2006).
137
Cliché sui temi culturali nei libri di italiano L2
IL NORD, IL SUD E GLI IMMIGRATI
Se lo ritiene opportuno e ne ha la possibilità, può dare agli studenti alcune di
queste informazioni.Oggi in Italia il lavoro c’è, ma è mal distribuito: le aziende del
nord, soprattutto quelle del nord-est, hanno un enorme bisogno di mano d’opera e
non riescono a trovarla, per cui si rivolgono a stranieri: a sud, c’è mano d’opera in
sovrabbondanza, con conseguente disoccupazione, ma non ci sono molte aziende
disposte a investire in quelle regioni e i giovani, spesso con un diploma o una laurea,
non sono disposti a emigrare al nord, preferendo restare in famiglia fino a 30, 35 anni in
attesa di trovare un posto al sud […] ma non si trovano disoccupati disposti a fare lavori
faticosi o ritenuti umili, quali l’infermiere, lo spazzino, il lavapiatti in un ristorante,
l’addetto alle pulizie. In tutti questi casi troviamo degli immigrati: i cittadini stranieri
con normale permesso di soggiorno. (Studiare e Lavorare, Mezzadri-Balboni 2005c:
33).
Ci sono molte differenze tra una parte e l’altra del paese […] soprattutto al centronord, in una famiglia sia l’uomo che la donna devono lavorare. (Il negozio, i soldi,
Mezzadri-Balboni 2005d: 12).
Le informazioni date in questi brevi testi sono quelle standard, tendenziali, ma va
ricordato che nel sud la tendenza è mangiare più tardi di quanto indicato [nella tabella],
e, nel nord, soprattutto nelle campagne della Pianura Padana e nelle montagne, si
mangia invece prima. (Il cibo, al ristorante, Mezzadri-Balboni 2005c: 55).
Come abbiamo visto parlando di prossemica, i corpi hanno bisogno di una distanza
di sicurezza: viviamo dentro una sorta di bolla che ha il raggio di un braccio teso: chi
entra nella bolla ci assale. Ma un mediterraneo entra senza problemi nella bolla altrui,
tocca l’interlocutore, lo prende a braccetto, il che infastidisce gli italiani del nord – ma
lo stesso italiano del nord non si rende conto che provoca altrettanto fastidio in un
inglese, in quanto in quella cultura è il doppio braccio teso a rappresentare il confine
della bolla. (I codici non verbali, Balboni 2002: 69)
[…] Allora, professore, gli uomini italiani sono ancora dei latin lover? […] Che peso
ha l’educazione familiare nella figura di un latin lover? Grandissimo: specialmente al
Sud ci sono ancora tante famiglie che considerano i figli maschi più importanti delle
femmine. È per questo che molte ragazze, appena ci riescono, si allontanano dalla
loro famiglia per avere una vita più indipendente e più libera. (Facciamo un’intervista!,
Trifone-Filippone-Sgaglione 2008: 168).
“NOI” E “LORO”
Faccia notare che è abitudine degli italiani lavarsi le mani prima di mangiare. Quando si hanno
138
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
ospiti si prepara un asciugamano pulito per loro. (La famiglia, Mezzadri-Balboni 2005c: 35).
La maggior parte degli italiani vivono in appartamenti di due stanze da letto, sala,
cucina e bagno, spesso con cantina e garage. (La casa, Mezzadri-Balboni 2005c: 40).
In molti paesi parlare del tempo e soprattutto seguire l’evoluzione del tempo
meteorologico in tv o alla radio fa parte della quotidianità […]. Gli italiani mediamente
non sono così legati al tempo […]. (Il tempo, Mezzadri-Balboni 2005d: 38).
È ovvio, per un italiano, che la giornata inizi con l’alba, mentre è ovvio a molti asiatici
e africani pensare che la giornata inizia al tramonto (…). Il concetto di puntualità ad
esempio è molto cangiante a seconda dell’industrializzazione, quindi della gestione
del tempo per fini produttivi: ne consegue che la chiave psicologica e i ruoli sociali dei
partecipanti possono essere espressi dalla puntualità, da un lato, e dal fare anticamera,
all’estremo opposto. (Il concetto di tempo, Balboni 2002: 66)
No, questo non si fa! L’educazione a tavola: in Italia e nel tuo Paese le regole sono le
stesse?
Parlare con la bocca piena
Ruttare dopo il pasto
Legare il tovagliolo al collo
Fumare durante il pasto
Rispondere al telefono
Dire “buon appetito” prima di iniziare a mangiare
Soffiare se il cibo è troppo caldo
Appoggiare i gomiti sul tavolo
Tenere la mano sotto il tavolo
Mangiare gli spaghetti aiutandosi con un cucchiaio
Versare da bere alle altre persone
Aspettare che tutti abbiano terminato di mangiare prima di alzarsi
Pulire il piatto con il pane
(Tutti a tavola!, Tettamanti-Talini 2003: 17).
Generalmente, per non disturbare, un italiano evita di telefonare a casa d’altri dopo le
10 di sera e prima delle 8 del mattino. (Scrivere e telefonare, Marin-Magnelli 2006: 55).
Gli italiani sono un popolo elegante e sono molto attenti alla moda. Tant’è vero che
spendono parecchio per l’abbigliamento, anche se non tutti si possono permettere i
capi firmati dei grandi stilisti. La maggior parte, infatti, si rivolge a tanti altri stilisti,
meno conosciuti all’estero, che offrono alta qualità e prezzi più bassi. (In giro per i
negozi, Marin-Magnelli 2006: 146).
139
Gli italiani amano molto la musica, ma anche cantare. Oggi la musica leggera italiana
piace sempre di più a livello internazionale e fa parte della cultura del Belpaese. (Un
concerto, Marin-Magnelli 2006: 182).
Un arabo, per quanto fluido sia il suo inglese, sarà in alcune situazioni incapace di dire
“I’m sorry”, se ritiene che scusarsi gli faccia perdere la faccia (Balboni 2002: 67).
La testa che annuisce significa sì per noi ma significa no dai Balcani al Medioriente
al Mediterraneo del sud; i nostri occhi fissano direttamente qualcuno per indicare
franchezza e sincerità, ma in molte culture comunicano una sfida; gli occhi ancora
possono restare semichiusi, il che in Europa significa noia, ma in Giappone può voler
dire no se si tratta di un sorriso silenzioso. Mani e braccia non solo informano sulla
nostra tensione, ma gli italiani le agitano troppo, quindi vengono percepiti dagli
anglosassoni come ridicoli, caricaturali, se non come aggressivi e scalmanati, e questo
è sufficiente a compromettere la comunicazione; i gesti cambiano da cultura a cultura
[…]. Il corpo emana odori e produce rumori che in alcune parti del mondo sono vietati:
soffiarsi il naso in Oriente è simile a defecare in pubblico da noi, quanto a effetto,
mentre un rutto sonoro sta a significare il piacere di un buon pranzo […]. Il corpo parla
con i suoi gesti, ma anche con i suoi vestiti: una giacca cammello, per quanto raffinata
e costosa, non va bene per un ambiente lavorativo in USA, che considera il marrone
adatto per il week-end e il grigio indispensabile per il lavoro […] (Balboni 2002: 68-69).
Modalità sensoriale: Cinestetica
Obiettivo: Conoscere i vestiti tipici di diversi paesi.
Livello: A1[…]
Svolgimento:
1. Ogni studente, oppure ogni coppia, riceve dall’insegnante le sagome (maschio e
femmina)
2. Su un foglio di carta che viene distribuito loro, gli studenti disegnano e colorano i
vestiti tipici del paese d’origine, per esempio: i vestiti per andare a scuola, per andare
in chiesa, per una festa, per il tempo libero, ecc. […]
3. In plenum, si avrà la possibilità di discutere le caratteristiche che riguardano la moda
e le tradizioni dei paesi di provenienza degli studenti.
Suggerimenti: Gioco per classi di bambini
(Dimmi come sei vestito e ti dirò chi sei, Ferencich-Torresan 2005: 99).
San Silvestro. Piccoli riti per il nuovo anno. Attenzione alla prima persona che incontrate
dopo la mezzanotte. Se è un barbone si profila un anno finanziario strepitoso! (Un
anno in Italia, Toffolo-Merklinghaus 2005: 113).
ITALIANI, BRAVA GENTE
Gli italiani sono persone aperte, molto cordiali e spesso per salutarsi si abbracciano o
si baciano sulla guancia. (Italia e Italiani, Toffolo-Nuti-Merklinghaus 2003: 31).
140
Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica
Che cosa fanno gli italiani per Capodanno?
[…] Da un po’ di tempo una parte degli italiani ha scoperto un Capodanno differente:
vicino ai poveri, ai malati, alle persone che hanno bisogno un po’ di affetto e di
attenzioni. Ci sono molte associazioni di volontariato che organizzano per la notte
del 31 dicembre cene nelle parrocchie o nelle palestre per dare conforto alle persone
bisognose o per offrire una fetta di panettone anche a chi non può comprarlo. (Feste
e tradizioni, Trifone-Filippone-Sgaglione 2007: 182).
GLI STILI COGNITIVI TIPICI
un ragazzo sincretico, olistico, che da qualche anno fa il poliziotto ha assunto una
forma mentis che chiede grammatiche esplicite, a differenza del suo gemello che è
andato invece in pellegrinaggio in Oriente (Balboni 2002: 46).
insegnando le lingue straniere dobbiamo insegnare diverse forme di concettualizzazione;
un americano concettualizza secondo enunciati che vanno straight to the point, un
latino usa enunciati interrotti da digressioni in cui si esprimono condizioni, premesse,
commenti e così via, un orientale concettualizza secondo una spirale che lentamente
giunge all’obiettivo, per avvicinamenti successivi, e ritiene che andare straight to the
point sia volgare… (Balboni 2002: 61)
un altro punto debole degli studenti cinesi è la comprensione globale di quello che
si ascolta. Siccome gli studenti cinesi generalmente sono abituati a fare attenzione
ai particolari e alle sfumature, qualche volta anche eccessivamente, gli insegnanti
dovranno promuovere tecniche che favoriscano un approccio mirato alla comprensione
globale dei contenuti e delle informazioni (Maggini 2006: 4-5).
LE “RAZZE”
Gli zingari causano solo problemi e vanno emarginati? Tu da che parte stai?
Leggi attentamente le affermazioni.
• Gli zingari sono una delle cause dell’aumento della microcriminalità.
• Gli zingari non devono vivere chiedendo l’elemosina, ma lavorare come fanno tutti.
• Gli zingari sono un costo per la comunità e non dovrebbero avere il permesso di
vivere in Italia.
• Gli zingari sfruttano le donne e i bambini quindi sono un esempio negativo.
• È giusto che gli zingari difendano le proprie tradizioni e il proprio modo di vivere.
• Hanno usanze molto diverse e “contaminano” la nostra cultura.
• La nostra società sta diventando sempre più multirazziale perciò bisogna educare
tutti alla tolleranza.
• Con l’apertura alle altre culture anche la nostra si arricchisce.
Cerca nella classe gli studenti che hanno le tue stesse opinioni e formate dei gruppi.
Avete 10/15 minuti di tempo per discutere insieme ed elaborare una serie di pro e contro.
Ogni gruppo deve presentare e sostenere il proprio punto di vista.
La discussione è libera. Sedetevi in cerchio e intervenite liberamente. Se necessario,
potete chiedere aiuto all’insegnante. (Dammi qualcosa!, Tettamanti-Talini 2003: 43).
141
C’è un secondo Diluvio Universale. Noè costruisce l’Arca per salvare gli animali. Tu
sei un cane di razza Dobermann. Corri verso la barca per essere il primo della tua
razza a salvarti. Ma davanti alla porta trovi questo manifesto: “Sull’Arca di Noè vietato
l’ingresso ai cani dobermann. I cani di razza dobermann non stati creati dal Signore
e quindi non sono ammessi sull’arca. Inoltre i dobermann, benché siano certamente
belli, possiedono evidenti problemi caratteriali di aggressività e pericolosità che
rischierebbero di creare seri problemi sulla nave. Stiamo stilando una lista con tutti
gli animali nati da incroci creati dall’uomo, come il Mulo e molte specie di cani e gatti.
Invitiamo quindi tutti gli animali di questo genere a non cercare di salire sull’Arca”.
Scrivi una lettera a Noè per sostenere la tua utilità e i tuoi pregi, invitandolo a farti
salire sull’Arca. (Opinione, Guastalla 2004: 89).
5. Lingua italiana e razzismi
LABORATORIO
Leggere:
Molte sono le parole che hanno contribuito in questi ultimi anni a diffondere,
riprodurre, legittimare il razzismo in Italia. Una buona parte ha seguito un percorso
discensionale, dalla bocca e dalla penna di uomini, o almeno con buon accesso ai
media, fino alle dicerie da cortile e da bar. Altre, presenti nel senso comune, sono
state avallate, come del resto alcune leggende urbane, da chi si presenta nella sfera
pubblica come detentore di un sapere accreditato. […]
Si tratta di scelte tutt’altro che innocenti. Come tutt’altro che innocenti sono
le strategie sottese non solo alla scelta del lessico, talora denigratorio fino alla disumanizzazione, con cui si parla di immigrati, ma alla posizione delle parole, ai giri
sintattici alle forzature semantiche e agli slittamenti di senso, per non parlare delle
manipolazioni dei dati statistici e dei sondaggi d’opinione. [Si tratta di] una strategia
comunicativa discriminatoria. (Faso 2009: 29-30)
Raccogliere materiali (da giornali, libri, slogan pubblicitari) in cui si ritiene siano
presenti parole e concetti discriminanti e razzisti.
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Capitolo X - Parlare insieme
CAPITOLO X
Parlare insieme
1. Una proposta didattica
LABORATORIO
Leggiamo insieme il testo.
UNA DECISIONE DIFFICILE
Molti anni fa un mercante non riuscì a pagare un grosso debito che aveva con un
usuraio. Il mercante doveva andare in prigione, ma quando l’usuraio, che era vecchio e
brutto, vide la bella e giovanissima figlia del mercante, ebbe un’idea: “Se la ragazza si
sposa con me, io ti cancello il debito e tu non andrai in prigione”- gli disse.
Il mercante e sua figlia rifiutarono la proposta, allora l’usuraio disse: -“Sapete che non
potete dire di no. Ma io sono buono e onesto, così ho deciso che lascerò decidere alla
sorte. Vi propongo un gioco: metto in questa borsa vuota due sassolini, uno bianco e
uno nero. Tu devi prenderne uno senza guardare e hai tre possibilità:
•
•
•
“se rifiuti di prendere i sassolini, tuo padre andrà in prigione e tu
morirai”.
“se prendi il sassolino nero, tu diventerai mia moglie e io cancellerò il
debito di tuo padre ”.
“se prendi il sassolino bianco, rimarrai con tuo padre e io cancellerò il
debito di tuo padre”.
In quel momento, il vecchio usuraio, il mercante e la ragazza si trovavano su un vialetto
pieno di sassolini.
Mentre l’usuraio sceglieva i sassolini da terra, la ragazza, che era più attenta a causa
della paura, vide che il vecchio metteva nella borsa due sassolini neri. Poi l’usuraio
invitò la ragazza a estrarre il sassolino, che doveva decidere la sua sorte e quella di suo
padre. La ragazza era molto spaventata, ma all’improvviso ebbe un’idea: introdusse la
mano nella borsa e prese un sassolino, poi lo lasciò cadere a terra in mezzo agli altri
sassolini e disse all’usuraio: “Che sbadata! Non riesco più a trovarlo. Ma se guardi nella
borsa, dal colore del sassolino rimasto, potrai dedurre il colore di quello che è caduto
a terra”.
Naturalmente, poiché il sassolino rimasto nella borsa era nero, l’usuraio capì che la
ragazza lo prendeva in giro ma, siccome non voleva ammettere la propria disonestà,
non disse nulla e la ragazza riuscì a salvare se stessa e il padre.
(liberamente tratto da Edward de Bono, Il pensiero laterale. Come diventare creativi,
Rizzoli, Milano, 1997 [1967]
143
•
Per riflettere un po’ sul testo, svolgiamo queste attività:
• Quali parole della storia conosco e quali non conosco: cerchiamo sul
vocabolario le parole difficili.
• Cosa ho capito/non ho capito: confrontiamoci con i compagni e,
insieme, chiariamo le parti più difficili del testo.
• Confrontiamo le nostre idee sul testo e, se abbiamo capito cose diverse,
discutiamone insieme.
•
Esprimiamo insieme una nostra opinione sul comportamento dei tre
personaggi di questa storia.
L’usuraio
Il padre
La ragazza
• Nel testo troviamo tanti verbi al passato. Riscriviamo i verbi trovati nella tabella
qui in basso.
I verbi al passato nella storia sono:
144
Capitolo X - Parlare insieme
• Discutiamo insieme sulla differenza di significato fra queste tre frasi.
La ragazza ha preso una decisione
La ragazza prese una decisione
La ragazza prendeva una decisione
• La storia letta insieme parla di una ragazza che deve decidere come comportarsi
in una situazione difficile.
Tu come ti comporteresti in una situazione difficile ?
145
2. Confronti
Individuare le differenze rispetto ad un’unità didattica standard51
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Esaminare la sezione grammaticale nell’unità didattica “Una decisione difficile” e
descrivere l’approccio adottato (quali differenze si notano con esercizi e/o attività
e tecniche glottodidattiche; quale approccio allo studio della grammatica viene privilegiato).
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51 Per le unità didattiche standard, si può fare riferimento a Mezzadri-Balboni (2003, 2005).
146
Capitolo X - Parlare insieme
3. Le fasi dell’unità di apprendimento: critica al modello di unità didattica e proposte per un percorso possibile
TAVOLE SINOTTICHE
Motivazione
Durante la fase di Motivazione, l’insegnante cerca di suscitare l’interesse della classe
per introdurla al testo. Le idee espresse dagli apprendenti in questa fase possono
essere spunti per riflettere e discutere insieme su parole e argomenti emersi in classe.
NO
La fase di motivazione nell’unità di
apprendimento standard si rivela poco
flessibile:
la motivazione non è una fase di libera
produzione orale da parte dello studente
(p.e. con la tecnica del brainstorming), ma
si configura come un’interazione forzata
perché:
• le tematiche con cui l’insegnante introduce
un testo (su cibo, vestiti, al bar, al ristorante
ecc.), potrebbero creare chiusure da parte
degli studenti, che percepiscono le domande
(p.e. “Cosa vi viene in mente se dico la parola
cibo?”) troppo generiche, astratte e spesso
illegittime.
• Sebbene non conosca quali associazioni
saranno espresse dagli studenti (p.e. con un
brainstorming sulla parola cibo), il rischio
è che l’insegnante richieda implicitamente
alla classe di non uscire fuori tema, perché
si aspetta una coerenza di associazioni.
Infatti, se uno studente fornisce una risposta
inattesa, interrompe il flusso di associazioni
previste dall’insegnante, che forse chiederà
una spiegazione, ma poi riprenderà il filo del
discorso e ricondurrà gli studenti a rientrare
nel percorso prestabilito.
SÌ
La fase di motivazione dovrebbe:
- stimolare lo studente a parlare di qualcosa
di rilevante per sé e non di argomenti in
termini astratti e culturalisti.
- riguardare un piano individuale/personale
(la quotidianità, le emozioni, la memoria
ecc.). Il parlare di sé non coincide con
uno strumento patologgizzante per ‘farsi
raccontare il trauma migratorio’, secondo
una logica che reifica identità e culture
(Baroni 2010)
- stimolare la curiosità di fronte ad un evento
spiazzante, adottando una metodologia
basata sulla dialogicità, che non ricorre a
spiegazioni rigide e stereotipate, ma si basa
su un apprendimento realmente condiviso,
che ammette la presenza di multiinterpretazioni e può procedere “mediante
un chiarimento attraverso disorientamenti”
(Herzfeld 2006)
- l’interazione studenti/insegnante non
è forzata, perché le domande (di tutti)
nascono realmente da un non sapere,
contrastando la formulazione di domande
illegittime e riconducendo il dialogo ad
una conversazione naturale (von FoersterPörksen 2001, Perticari 2005)
147
Globalità, analisi, sintesi, riflessione, rinforzo
Durante la fase di Globalità, l’insegnante presenta un testo (scritto, audio, video), che
viene scoperto progressivamente dagli studenti. Questa fase prevede: un’esplorazione
del paratesto (immagini, titolo, aspetto del testo ecc.), con ipotesi enunciate dagli
studenti e un’analisi del testo con attività di verifica della comprensione.
Durante la fase di Analisi, lo studente ricerca nel testo funzioni comunicative (analisi
funzionale) e elementi linguistici (analisi grammaticale) o culturali (analisi culturale).
Durante la fase di Sintesi, lo studente riutilizza le informazioni sulle ‘funzioni comunicative’ esaminate per “rispondere ai propri bisogni comunicativi”.
Durante la fase di Riflessione/Attività metalinguistica, lo studente scopre le strutture
grammaticali con un approccio di tipo induttivo.
Durante la fase di Rinforzo, lo studente svolge attività /esercizi sulla lingua.
NO
SÌ
In queste fasi, la rigidità è determinata dal
legame con la fase precedente di motivazione:
costituisce una sequenza meccanica, in cui
l’argomento presentato durante la motivazione
viene riorientato su un testo spesso situazionale
astratto (il viaggio, la stazione, la famiglia, la casa,
il tempo libero ecc.).
La situazione astratta non risponde ai bisogni
specifici degli studenti: p.e. proporre un’unità di
apprendimento su studio e lavoro, presentando
lessico e funzioni comunicative generiche,
ossia non connesse direttamente all’esperienza
quotidiana degli studenti, può rivelarsi
inefficace, perché la competenza comunicativa è
un’acquisizione legata all’esperienza personale in
un determinato contesto.
Le attività di verifica, su testi vissuti come non
rilevanti dallo studente, diventano meccaniche
e le domande di comprensione risultano
illegittime.
Spesso, la distanza pragmatica di una funzione
comunicativa non aiuta lo studente a riflettere
sulla lingua. In questa fase, la varietà delle
tecniche, che sarebbero proposti per non
annoiare gli studenti, diventa attività virtuosistica
e non riflessioni sulla lingua.
Infine, questa scansione è rigida e poco dinamica,
in quanto non lascia spazi di riflessione, di “attesi
imprevisti”.
148
Un testo (o input ) deve:
- essere vissuto come rilevante dall’allievo
(Faso 2005), vicino alla propria esperienza
individuale e quotidiana.
- essere stimolante
soggettività.
sul
piano
della
- le fasi di skimming (comprensione globale)
e scanning (comprensione analitica) non
risultano illegittime, perché la lettura e la
comprensione del testo è condivisa, discussa
e riformulata continuamente tra l’insegnante
e gli studenti (Brighi-Giornelli 1998).
La grammatica può:
- essere discussa con gli studenti, sotto
forma di “esperimenti grammaticali”,
considerando gli aspetti pragmaticolinguistici fondamentali per stimolare
riflessioni sulla lingua (Lo Duca 2004).
- Possono essere previsti momenti di
rinforzo
(attività/esercizi),
adottando
preferibilmente un approccio di tipo
induttivo.
Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni
CAPITOLO XI
Lo spazio comune delle relazioni
Un giorno è avvenuto un fatto che mi è rimasto nel cuore e che
ho portato con me in Italia. Qualcosa che mi hanno insegnato i
bambini e cioè che la diversità nella lingua, spesso, non rappresenta un problema di comunicazione.
Mi trovo nella sezione Bullerby che accoglie bambini da 1 a 2 anni.
Una bambina è arrivata a scuola da poco, ha 1 anno e 4 mesi e in
mano tiene stretto il piccolo libro che ha portato con sé da casa e
che le permette di separarsi dalla mamma. Io non parlo svedese,
lei non comprende l’italiano.
Mi prende per mano, mi invita a sedermi per terra, mi sale in braccio e mi consegna il suo libro. Glielo leggo in italiano affidandomi
alle figure, lei segue con il suo ditino e vocalizza. Un’altra bambina incuriosita dalle sonorità della lingua si avvicina, si ferma per
un momento in piedi, di fianco a me, e poi mi viene in braccio e
ascolta attenta. A dimostrazione che un’immagine, un gesto e un
suono possono bastare per incontrarsi e stare insieme.
(Astrid Valeck)
1. Quello spazio fra due punti
LABORATORIO
Riflettere sul concetto di ‘intercultura’ e scrivere una definizione.
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2. Lettura sul concetto di intercultura
[…] le culture sono semmai pensate come sfumanti le une sulle altre, senza confini precisi, con aloni che si sovrappongono in
abbondanza, come scivolamenti di enfasi, con le identità che si
configurano come autoenfatizzazioni locali. Ma nell’atlante non
esistono colori che sfumano uno sull’altro, come è pensabile
avvenga di fatto tra una cultura e l’altra e una lingua e l’altra. Il
relativismo classico, quello centrato sul soggetto, marcava la discontinuità e figurava i rapporti tra culture come dei “ponti” tra
due entità separate: è da qui che nascono espressioni come “intercultura” e simili, ancora molto in voga.
(Leonardo Piasere)
[…] bisogna interrogarsi sulle nozioni di cultura, appartenenza,
etnia, con cui si rischia di ricondurre il bambino a una supposta
differenza naturale (“… loro sono così), e che ci vengono incontro
ogni volta che insorge un conflitto o una difficoltà, con un ripiegamento sulle dicerie della nostra tribù (“lo sanno tutti che…”,
“sai come sono loro…” ecc.). […] Sappiamo bene che in questi casi
scattano alcune forme di difesa, anche rozze […] e quando si ha
il tempo per operare una maggiore riflessività, sorgono teorie
interpretative folk del malinteso. La più diffusa presso il senso
comune insiste sulla “differenza fra le culture”, e si espone ingenuamente agli sviluppi del differenzialismo culturale, che è notoriamente la più insidiosa forma odierna del razzismo.
(Giuseppe Faso)
150
Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni
Nessun individuo può essere considerato un soggetto da cui attendersi conformità di comportamenti in base alla cultura d’appartenenza. Questa visione essenzialista del termine cultura, che ritiene le persone assimilabili alla cultura d’origine
e le culture delle entità separate, restituisce una lettura uniformante e semplicistica
degli individui: essi vengono rinchiusi dentro interpretazioni culturaliste, dove ogni
atto è spiegato con la provenienza culturale, sottoponendo la cultura ad un processo di naturalizzazione. La ricerca antropologica ha mostrato, invece, che le culture
non sono contenitori chiusi ma reti mutevoli, i cui fili vanno costantemente ad intrecciarsi: si tratta di processi diversificati al loro interno e in continua alterazione
(Hannerz 2001, Matera 2008, Fabietti 2008).
Se con il termine cultura si vuole indicare una entità circoscritta, localizzata e descrivibile nei suoi elementi componenti, è evidente che oggi tale concetto è […] in crisi. Il processo di reificazione delle culture può essere sia interno […]
che esterno. Quello esterno coincide con una esagerazione
delle culture come quella che può risultare da una descrizione etnografica. Quello interno consiste invece nell’assegnazione, da parte di chi condivide certi codici e significati, di
una natura extra-culturale a questi ultimi, che diventano entità sottratte al flusso comunicativo basato sulla negoziazione, la convenzione e l’accordo. Tali codici e significati vengono in questo modo reificati, trattati come cose che, tuttavia,
invece di essere frutto di flussi negoziali che contrassegnano
lo stesso mutamento culturale, sono ipostatizzati, eternizzati. La cultura viene cioè destoricizzata. (Fabietti 2008: 42)
Al concetto di cultura, pensata con tratti distintivi e immutabili aderisce una modalità cognitiva che genera confini e che, come prevede lo spazio delimitato di un
contenitore, valuta l’elemento categorizzato per essere collocato al suo interno o al
suo esterno (vd. Piasere 2010). La conseguenza è quella di creare gli altri, di imporre identità, situandosi su un sentiero scivoloso dove anche la buona intenzione di
“congiungere trasversalmente popoli e culture e, nello stesso tempo, di raccontare
della loro specificità” (Favaro 2002), richiama inevitabilmente un argomento autocontraddittorio (vd. Herzfeld 2006), quello della “difesa dei propri principi” (Favaro
2002: 112), che conferma il pericolo dello slittamento dall’individuazione e dal rispetto delle differenze alla loro eliminazione (vd. Remotti 2001: 29). Ad entrare in
relazione sono invece gli individui, che non si assimilano né si separano ma operano
151
delle connessioni, oltrepassando i rispettivi confini e gli sbarramenti, seguendo anche procedure di ritessitura (vd. Remotti 2001).
Nelle reti di connessione (spesso confuse, non propriamente
nette, talvolta aggrovigliate, in alcuni punti mancanti o lacerate) l’identità è senz’altro presente; ma lo è con difficoltà: la
contrastano i fili che, in certi casi sotterranei, passano sotto
le linee di confine. In questo paesaggio connessionistico, prodotto dall’esigenza del “ricucire” […] non ci sono solo le costruzioni isolate dell’identità (forme prevalentemente stabili,
recinti eretti con materiali durevoli): ci sono anche le connessioni, e più ancora le “possibilità” di connessione, le quali, se
non altro, indicano modi alternativi di costruire le identità.
(Remotti 2001: 9)
Una visione sostanziale della cultura crea tipizzazioni e l’appropriazione del termine cultura, attraverso pratiche di etnicizzazione, assume un carattere performativo sulla realtà (Fabietti [1995] 2010). Verena Stolke identifica la retorica culturalista
che si cela dietro la parola “cultura”, fondando ideologie e pratiche di esclusione
sociale nei confronti dell’Altro. L’Autrice definisce queste retoriche “fondamentalismo culturale” (Stolcke 1995: 2): esso consiste nell’evidenziare le differenze culturali, ritenendo al contempo che la cultura sia un “insieme compatto, ben demarcato,
localizzato e storicamente radicato di tradizioni e valori trasmessi di generazione in
generazione” (ivi: 4). L’accezione del termine in chiave culturalista è quella di cui si è
appropriata il senso comune (anche in ambito politico), dove “è pleonastico sottolineare che nelle strategie retoriche del neorazzismo cultura, identità, etnia, risultano
sovente nient’altro che sostituti funzionali di razza” (Rivera 2008: 60). Questo fondamentalismo culturale è applicabile ad ogni forma di politica di integrazione o di
riconoscimento, in cui si parli di facilitare il contatto tra culture ed in cui si reifichino identità fittizie: atti di nominazione tramite cui sono stabilite relazioni di potere
e che producono l’effetto di far esistere ciò che annunciano e ci si rappresenta e,
per questo, non risultano mai innocui (Stolcke 1995, Sayad 2008).
Sull’idea di culture isolate, con caratteristiche di fissità e invariabilità, deriva in
modo analogico il termine “intercultura”, dove il prefisso inter specifica un collegamento tra quelle culture inscatolate. Con l’idea dell’ingabbiamento culturale si rafforza la convinzione che vi siano dei tratti culturali genetici o tipici, in altre parole
razze, che sostengono
152
Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni
[…] l’ibridazione, o il meticciamento culturali, e simili. Tale
metafora nascosta, pericolosa per la storia che veicola, appare a volte anche nei nomi delle associazioni o dei progetti di
educazione interculturale. Oggi, al contrario, in antropologia
prevale un approccio distributivo della cultura, intesa come
senso comune esternato e diversamente condiviso all’interno delle reti sociali, in cui agiscono persone con differenti
“agentività” e quindi diversamente in grado di influenzare il
cambiamento di un dato senso comune. Vista così, ogni persona diventa “un punto di congiunzione per un infinito numero di culture che si sovrappongono parzialmente” (Piasere
2007: 14, vd. Hannerz 2001).
Di conseguenza, accettare l’opposizione io/l’altro, noi/loro (la nostra cultura/
la loro cultura) significa attribuire una sostanza stabile all’identità, costantemente
orientata a controllare le possibili alterazioni prodotte dall’Altro e a produrre implicazioni che spaziano dal rifiuto delle differenze al rispetto delle diversità, ma che
sostanzialmente si muovono entrambe all’interno delle stesse pratiche di assoggettamento (Baroni 2010, Remotti 2010). Anche il principio del “rispetto delle differenze culturali”, infatti, si configura come una pratica di esclusione sociale: rimarcare
una differenza significa individuare una separazione netta tra culture e una divisione
del mondo in noi e gli altri, che è vincolata a scelte politiche di controllo sociale e
inferiorizzazione nei confronti di chi è visto come Altro, lo straniero (Herzfeld 2001,
Remotti 2010).
Operare un distacco netto dal modello noi/loro non significa rifiutare la diversità, ma ricondurre la relazione su un piano di somiglianza e di reciprocità, dove non
è soltanto la negoziazione dei significati a favorire le relazioni, ma soprattutto una
dinamica dove il vivere simbiotico comporta una vera condivisione di conoscenze
e competenze di tutti (Remotti 2010). Si tratta di non accettare acriticamente gli
incontri vìs a vìs nelle relazioni quotidiane e di osservare le potenzialità di conoscenza che essi comportano. Questo modello relazionale non implica una semplice
co-esistenza, su uno sfondo fondato sempre sul principio della separazione o su
discorsi interculturali atti a favorire forti asimmetrie nelle relazioni di potere (Remotti 2010). Con questi discorsi interculturali si ha sempre la sensazione di essere
“davanti ad un linguaggio costruito soprattutto per essere parlato dagli operatori
sociali e dai consulenti interculturali costruendo un’immagine delle migrazioni a
misura delle loro pratiche professionali e degli ambienti organizzativi in cui sono
collocati” (Baroni 2010: 44-45). Le relazioni di reciprocità e il confronto implicano,
153
invece, una progettualità del coinvolgimento. Sul piano sociale, il coinvolgimento
comporta non solo una riflessione critica sulla costruzione dei concetti di dominazione dell’Altro e sulle conseguenze che ne derivano (Herzfeld 2001), ma anche una
pragmatica dello stare insieme, dove la costruzione di significati assomiglia più ad
uno “sforzo di coerentizzazione” (Remotti 2010), ossia ad un tentativo di corrispondere ad una identità. Quest’ultima non presenta però caratteristiche di fissità: essa
è sottoposta a variabili diacroniche e sincroniche.
Per ricondurre il discorso sul piano della pratica educativa, se a scuola circolari e
documenti suggeriscono prassi fondate sulla relazione con l’Alterità52 e se in classe
l’insegnante attribuisce ai suoi alunni stranieri identità che incorporano problemi e
comportamenti etnicizzati, il piano di una possibile relazione e la sfera educativa
sono già invalidate. Mentre riconoscere uno sforzo verso la coerenza (e non arrivare
mai ad essa) (Remotti 2010) significa prendere atto che nella pratica dell’incontro,
ciascun individuo possiede una pluralità di sé, come l’alunno che afferma “io sono
italiano, albanese e interista”53, opponendo all’ideale abito fittizio di un’identità
monolitica che la scuola vorrebbe cucirgli addosso, la concretezza della molteplicità di relazioni intessute con i compagni. Francesco Remotti afferma che ogni persona è l’insieme delle relazioni in cui è coinvolta e che gli altri sono già dentro il
nostro mondo (Remotti 2010). “Per togliere quel bavaglio invisibile che non fa uscire
la voce” (Giornelli 1996: 318), a scuola, come in ogni sfera sociale e politica, risulta
efficace abbandonare il campo delle retoriche interculturali (Baroni 2010).
Quando si chiede ad un apprendente di italiano L2 di parlare, questa non è una
52 Sul rapporto tra il discorso interculturale (o delle differenze culturali) e gli effetti di assoggettamento da esso
prodotti, Walter Baroni (2010) fa una analisi lucida, esaminando alcuni testi sull’ intercultura, in cui si reificano
concetti fittizi, di fatto pregiudizi, come quello dello straniero portatore di diversità o dello straniero visto
come una risorsa (vd., tra gli altri, Demetrio-Favaro 2002, Zoletto 2007).
Preoccupa il fatto che nel documento ministeriale La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione
degli alunni stranieri del 2007, tutt’ora in vigore, permanga una visione incentrata sulla valorizzazione delle
differenze culturali e sull’idea che un alunno straniero sia una risorsa per la scuola italiana, suggerendo di
adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e del confronto tra le
culture […].come paradigma dell’identità stessa nella scuola del pluralismo, come occasione
per aprire il sistema a tutte le differenze[…]. Le strategie interculturali evitano di separare
gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili,promuovendo invece il confronto,
il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed
affrontare i conflitti che ne derivano [per] la ricerca di una coesione sociale […] in cui si
dia particolare attenzione a costruire la convergenza verso valori comuni. (Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale, 2007)
Per un’analisi sul rischio di una politica di “integrazione forzata” e sulla complessità dell’incontro tra differenti
identità culturali si vd. Callari Galli, Guerzoni, Riccio 2005.
53 La frase è di Erjon, un ragazzo di origine albanese, in Italia da 3 anni, che in un tema sulle differenze culturali
proposto in classe dall’insegnante di italiano, rispose così, opponendosi all’identità immaginata dalla scuola,
sulla quale si chiedeva di scrivere e di confrontarla con una altrettanto immaginata identità italiana.
154
Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni
semplice pratica informativa per l’insegnante (che dovrebbe, per altro, mettersi
sempre in gioco e comprendere la natura non neutrale della sua presenza in classe
) (vd. Freire 2004 ). Con il dialogo reale e legittimo si compie una sorta di viaggio
in cui il “capire attraverso la frequentazione” comporta un senso di sradicamento, ma anche un “lasciar macerare acquisizioni che non avvengono tramite semplici
concatenazioni lineari, ma con procedimenti complessi” (Piasere 2002: 56-57). Un
coinvolgimento che avviene nel mondo reale dell’esperienza, non sul riduzionismo
di un attività didattica precostituita.
Instaurare la relazione fra gli individui, fra le soggettività implicate, significa saper ascoltare anche racconti, non come esercizio di dialogo banalizzante interculturale, ma con
la possibilità di creare, preliminarmente, uno spazio comune […] d’intelligibilità condivisa, una relazione che sia anche
uno scambio di significati e processo comune di conoscenza:
della propria reciproca umanità e dei propri mondi sociali,
culturali e morali. […] Poiché l’estraneo non è veramente tale
e sono piuttosto le sue rappresentazioni sociali a restituirlo
connotato da qualche forma di alterità irriducibile. Alla luce
dell’esperienza, penso che la dialettica “familiarizzare l’estraneo/relativizzare il familiare” vada resa più problematica e
complessa: le biografie dei migranti spesso ci restituiscono
un altro volto di ciò che ci è familiare e un’altra dimensione
di ciò che ci è divenuto estraneo. (Rivera 2008: 47-61)
In questa relazione, tuttavia, è importante essere consapevoli di un pericolo in cui la
cosidetta didattica interculturale incorre. Il racconto di sé contiene delle ambiguità controproducenti. Visto come incontro delle differenze, e come risorsa per chi ascolta (vd.
Demetrio-Favaro 2002), il racconto autobiografico rischia di riproporre ancora una modalità differenzialista. Le differenze culturali vengono trasferite dal piano dell’esteriorità a
quello dell’interiorità del migrante, dove quest’ultimo è condannato a raccontare unicamente il proprio passato e sé stesso in un’ottica rassicurante per chi ascolta e che connota
l’Altro come soggetto deprivato e patologgizzato, recludendolo in una eterna condizione
di infantilismo (vd. Baroni 2010). Mentre, come sostiene lo scrittore martinicano Édouard
Glissant, un dialogo è liberato se, al contempo, è consapevole e rispettoso delle propria e
altrui sfumature, le quali conferiscono a chi racconta il diritto alla non trasparenza e dove
conoscere non coincide con la pretesa di una com-prensione totale e permanente delle
differenze, ma mantiene un grado di opacità che preserva i soggetti osservati dall’ossessio-
155
ne dell’incontro interculturale (Glissant 2007), in definitiva dal controllo inferiorizzante di
chi ha la presunzione di capire e rispettare le differenze.
3. Con-vivenze
LABORATORIO
Osservare e descrivere le competenze di M., autrice di questo testo54.
Happy. A … vita no-stop. Vita pazza prima gira.
A italia io ho vita lenta.
No rido tanto io sono sola
Nostalgia. Guardo fuori la finestra e penso dove amici che aiutare me?
Io arabbiata perché a italia no fai tutto esempio la musica.
Stanca
Stanca e stufa
Dire basta problema
Molta problema. Dio no amico perché no aiuta me
Contact. Mouse penna sono importanti perché amici sempre contacto.
Tristezza. Perché goccia acqua sempre sono problema.
Ho il mio stile che non possono essere copiate.
Io sola ho chiave mia camera e mi secreti io sola apro la camera.
io sono fuoco artificio no sai che esplodere
io e specchio
questa è mia caractere
Paura no guarda me.
Princess. (fine)
(M., 17 anni)
54 Il seguente racconto nasce senza alcun intento autonarrativo/autobiografico, all’interno di un laboratorio di
italiano L2. M., la mia apprendente e autrice di questo testo, durante le nostre conversazioni, mi raccontava
della sua passione per la fotografia. Durante una di queste chiacchierate, ho chiesto a M. se le sarebbe piaciuto
fotografare degli oggetti per lei significativi, accompagnandoli, se avesse voluto, con delle didascalie. Ne è
nato questo testo, un insieme di frasi che sottotitolano delle foto da lei scattate, e da cui, in collaborazione
con M., è stato realizzato un video.
Quest’esperienza di racconto si inserisce dunque in una pratica che, a mio avviso, non può essere ricercata
con l’obiettivo curativo del “far parlare di sé” (vd. Demetrio-Favaro 2002), riconducendo ancora il racconto
autobiografico alla “gabbia della propria cultura di appartenza” (Baroni 2010: 64). Tale pratica, al contrario, non
necessita di retoriche comunicative, in cui valorizzare significa ugualmente porre delle distanze, rischiando
di ri-creare l’Altro nell’accentuazione delle differenze. Saper ascoltare un racconto richiede un approccio
etnografico e una sospensione del giudizio. Con la consapevolezza che ogni persona è una pluralità di persone,
come recentemente ha affermato l’antropologo Remotti durante un incontro all’Università la Bicocca di
Milano, ricordando che, per i Kanach della Nuova Caledonia, “la persona è un fascio di relazioni, al cui centro
c’è il mondo. La persona è l’insieme delle relazioni in cui è coinvolta. Il che significa che gli altri sono già dentro
di noi” (Remotti, Identità o convivenza?, lezione tenuta al Corso di Antropologia delle Migrazioni, Bicocca,
Milano, il 19 ottobre 2011, vd. anche Remotti 2010).
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Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni
Osservazioni
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4. “Qualche piacevole sentimento”: un piccolo racconto sull’importanza delle
contro-rappresentazioni nella didattica dell’italiano L2
Nel mio gruppo di alunni cinesi che studiano italiano, è accaduto un fatto: i ragazzi producono controrappresentazioni. La proposta di realizzare un video tutti
insieme è nata con l’intento di contrapporre alle immagini arbitrarie che la scuola
produce sui ragazzi cinesi una propria costruzione di significati.
La scelta di fotografare oggetti importanti per gli studenti, accompagnati da una
serie di didascalie esplicative per esprimere pensieri ed emozioni, ha l’obiettivo di
rovesciare l’immaginario costruito su una presunta alterità chiusa, “tipica dell’essere cinese”. Questa categorizzazione racchiude uno spettro ampio di stereotipi,
da negativi a 'positivi', in cui l’immagine-schema della chiusura fornirebbe la chiave
interpretativa dei comportamenti dei ragazzi cinesi e delle misure che la scuola ha
adottato per integrarli, secondo una visione evoluzionistica in cui l’istituzione scolastica è convinta spesso di rappresentare un’opportunità di miglioramento.
La co-costruzione di questo video, in cui i ragazzi hanno scattato e selezionato
le foto, scritto testi, scelto la musica, rappresenta una forma di piccola protesta, un
tentativo sperato di decostruire la produzione di retoriche culturaliste.
Dal mio “diario di campo”, marzo 2012:
L. F.: “Franca, ieri hai detto facciamo un video”
Franca: “Sì, cominciamo oggi. Hai le foto?”
L. F.: “No, io sono poeta qui. Gli altri fanno foto, io penso qualche piacevole sentimento. Ti dico
e tu scrivi. Va bene?”
Franca: “Sì, allora dimmi”.
157
L. F.: “Prof, io dico ma tu scrivi bene, eh? Questo, attenta:
Ti ricordi il tuo sogno da bambino? Avevo tre anni, voglio diventare un pilota, ero otto anni
voglio diventare musicista, dodici anni voglio diventare scrittore, quindici anni voglio diventare astronomo. Oggi i miei genitori mi chiedono: chi vuoi diventare in fondo? Rispondo che
possibile sono la fantasma. Voglio dire che il mio futuro è come un foglio si disegnare da me”.
(L. F., 16 anni, gruppo di italiano L2)
158
Capitolo XII - L’insegnante-apprendente
CAPITOLO XII
L’insegnante-apprendente
Possiamo usare questa comunanza – questo “spazio condiviso”
[…] – per cercare di capirci l’un l’altro. Dobbiamo farlo, in realtà,
perché non abbiamo altro. […] Quello che conta è porre attenzione a quello che la gente ha da dire e all’intenzione che cerca di
trasmettere, e non brancolare alla ricerca di risposte “più ampie”
nei particolari delle parole che hanno pronunciato. Io lo chiamo
“andare oltre le parole”.
(Unni Wikan)
Il taglio volutamente laboratoriale di questo capitolo nasce dall’idea di auto-riflessività sulla pratica quotidiana dell’insegnante e si configura come una messa a fuoco
di alcuni concetti accennati o descritti e variamente sparsi nei capitoli precedenti.
La complessità che caratterizza lo spazio aggrovigliato e mutevole delle relazioni
tra l’insegnate e l’apprendente è così espresso dall’antropologa Matilde Callari Galli:
esistono analogie tra il lavoro sul campo, compiuto dagli antropologi e il lavoro svolto dagli insegnanti: si tratta in ambedue i casi di esplorare e registrare quotidiane dinamiche
scomposte, spesso apparentemente prive di un’organizzazione coerente e finalizzata, di intravedere i microprocessi e le
microrelazioni e di trovare strumenti di notazione e di interpretazione; e se il lavoro dell’antropologo era un tempo solo
dedicato al livello conoscitivo, sempre più numerose sono
oggi le esigenze che anch’egli, al pari di un insegnante, instauri con i suoi interlocutori un dialogo costruttivo di conoscenze comuni e dal quale ambedue escano profondamente
cambiati. (Callari Galli 2000: 97)
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1. Punti di vista
LABORATORIO
In che senso questa immagine può essere rappresentativa del rapporto tra l’insegnante e l’apprendente?
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Capitolo XII - L’insegnante-apprendente
Il taccuino dell’insegnante – etnografo
L’osservazione non è la colorazione di un disegno tracciato
preliminarmente: è la prova del reale a cui è sottomessa una
curiosità pre-programmata. La competenza del “ricercatore
sul campo” sta tutta nel poter osservare ciò a cui non era
preparato (mentre si sa quanto sia forte la normale propensione a scoprire soltanto quello che ci si aspetta) e nell’essere
in grado di produrre i dati che l’obbligheranno a modificare le
proprie ipotesi. (Olivier De Sardan 2007: 32)
Dopo aver letto il brano dell’antropologo Olivier De Sardan, riflettere su questi punti:
Cosa comporta, nella relazione in classe, che l’insegnante abbia una forte propensione a scoprire soltanto quello che si aspetta?
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Cosa significa per un insegnante cambiare le proprie ipotesi iniziali?
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2. Il paradosso dell’osservatore
LABORATORIO
L’osservatore stesso è una parte della sua osservazione. (LéviStrauss 1965: XXXI)
L’etnografia è una curvatura dell’esperienza ma, per cogliere i
significati altrui, si concentra nelle soste, negli angoli di mondo. (Piasere 2002 : 57)
L’etnografo, riflettendo il mondo all’interno del quale cerca
di intervenire, diviene egli stesso (s)oggetto deformabile del
processo conoscitivo. (De Lauri 2008: 11)
In che misura, come osservatore (insegnante/facilitatore) trasformo il modo di pensare, di vivere e di esprimersi degli apprendenti che osservo e con cui mi trovo in
classe o fuori dalla classe?
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Capitolo XIII - Osservare le relazioni
CAPITOLO XIII
Osservare le relazioni
Se è vero che un approccio antropologico può influenzare l’analisi e la presentazione dei dati […] è altrettanto vero che l’esperienza per immersione “ti salva” dagli eccessi delle ipotesi deduttive per lasciare ampio spazio di manovra all’empiria induttiva
del quotidiano. La conoscenza etnografica è sempre il risultato di
una relazione […]
(Leonardo Piasere)
1. Sguardi etnografici
LABORATORIO
Riflettere sui seguenti concetti e darne una descrizione, indicando in che modo possono contribuire alla costruzione (o all’ostacolo) delle relazioni/conoscenze in classe.
•
•
•
•
•
decentramento
spiazzamento/spaesamento
esperimento di un’esperienza
negoziazione
co-esistenza e condivisione
2. Riflessioni finali
Maa Ka maaya ka ca a yere kono. In bambara significa: le persone di una persona sono numerose in ogni persona. Mia madre,
quando voleva vedermi, aveva l’abitudine di chiedere a mia moglie “Quale persona di mio figlio abita qui oggi? Il toubab [l’uomo
bianco]? L’uomo di religione oppure mio figlio?” Se mia moglie
rispondeva “Tuo figlio” allora entrava in casa, senza cerimoniali e
mi diceva cosa voleva. Se diceva “è l’uomo di Dio” mia madre si
limitava a fare proposte, ma se mia moglie rispondeva “il toubab”,
allora mia madre ripartiva senza neppure provare a incontrarmi.
(Amadou Hampâté Bâ)55
55 Il racconto è riportato da Marco Aime in Eccessi di culture (Aime 2004 :57).
163
L’osservazione partecipante è principalmente una pratica, in cui l’osservatore
(l’insegnante-etnografo) s’incontra con la realtà che vuole studiare. Non s’intende qui fornire una metodologia sull’approccio all’osservazione, che renderebbe il
discorso sulle relazioni in classe un manualetto pratico sull’intercultura (Herzfeld
2001: 178-181). S’intende piuttosto illustrare una teoria e una pratica della riflessività,
quella sull’osservazione etnografica: essa parte dal presupposto che ogni giudizio
formulato è sempre sottoposto ad una auto-riflessione, in cui l’interazione esce dallo schema ideologizzato dell’io/altro per entrare nella complessità e fluidità delle
relazioni in cui è coinvolto, in “modi che le formule semplicistiche non possono
rilevare e che, di fatto, possono solo distorcere” (ivi: 181).
Nell’interazione, la componente dell’osservazione (essere spettatori) e quella
della partecipazione (essere co-attori) si realizzano contemporaneamente e tutto
ciò che viene osservato può essere trasformato o registrato in un dato (prendere
appunti, segnare una risposta, porsi una domanda, selezionare alcuni fatti ritenuti
importanti) e può essere successivamente rielaborato .
Il prendere appunti su ciò che succede in classe o fuori dalla classe comporta,
come abbiamo visto, una consapevolezza da parte dell’insegnante:
i dati, così come li intendiamo qui, […] sono la trasformazione in tracce oggettivate di “pezzi di realtà” come sono stati
selezionati e percepiti dal ricercatore. […] Le osservazioni del
ricercatore sono strutturate da quello che ricerca, dal suo linguaggio, dalla sua problematica, dalla sua formazione e dalla
sua personalità […]. [Ma] una problematica iniziale può, grazie
all’osservazione, modificarsi, ampliarsi, spostarsi. (Olivier De
Sardan 2009: 32)
Un’altra dimensione fondamentale dell’osservazione consiste in un sapere da
parte dell’insegnante-etnografo che viene incorporato senza essere annotato, e che
nella ricerca sul campo prende il nome di impregnazione.
Possiamo considerare il “cervello” del ricercatore come una
“scatola nera” […]. Ma ciò che egli osserva, vede, ascolta durante un soggiorno sul campo, così come le proprie esperienze nei rapporti con gli altri, tutto ciò ‘entrerà’ nella scatola
nera, produrrà degli effetti in seno al suo meccanismo di concettualizzazione, analisi, intuizione, interpretazione, per poi
‘uscire’ in parte dalla scatola nera contribuendo a strutturare
le sue interpretazioni […]. Qui sta tutta la differenza […] tra un
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Capitolo XIII - Osservare le relazioni
ricercatore sul campo che ha di quello di cui parla una conoscenza sensibile (“impregnazione”), e un ricercatore di biblioteca che lavora su dati raccolti da altri. Questa padronanza
che un ricercatore acquisisce del sistema di senso del gruppo
presso cui fa l’inchiesta si acquisisce per una buona parte in
modo inconscio, come la lingua, attraverso la pratica. (ivi: 34)
L’insegnante osserva un apprendente non isolandone le reazioni, ma rilevando
tutto ciò che accade, all’interno e fuori dalla classe, esaminando la complessità
delle interazioni tra gli apprendenti e tra gli apprendenti e l’insegnante stesso, gli
imprevisti che necessariamente accadono, ponendosi domande con la consapevolezza che la soggettività dell’osservato (e dell’osservatore) cambia forma e accoglie
in sé una pluralità irriducibile ad un’identità immutabile (Remotti 2010). Tutti questi elementi orientano l’insegnante verso la modifica delle proprie idee su un dato
evento , in cui i partecipanti di un incontro portano dentro di sé una molteplicità
di “noi” (ibid.) e non possono essergli attribuiti comportamenti identitari o etnici.
L’approccio etnografico all’osservazione e le riflessioni proposte per la classe
mirano a evidenziare lo spettro ampio di elementi di complessità, per un esame
approfondito e articolato imprescindibile dalla didattica. La cura e l’osservazione
degli aspetti relazionali implicano, come abbiamo cercato di mostrare, che qualsiasi
approccio, materiale o tecnica per quanto moderni si rivelano vani, ogni qualvolta
prescindano dagli aspetti relazionali che emergono solo se il dialogo tra insegnante
e apprendente è autentico. L’autenticità implica la capacità dell’insegnante di osservare/ascoltare e auto-osservarsi, grazie a cui l’azione pedagogica diventa efficace.
Non si tratta di nuove teorie sulla ricerca come spazio di socializzazione, poiché
“l’etnografo non è come un bambino che impara il mondo, perché un suo mondo
ce l’ha già e ben radicato dentro. Però è evidente che qualcosa impara […]” (Piasere
2002: 183), nel senso profondo di un’impressione iniziale di disorientamento e di
una conoscenza successiva che rende più competenti (ibid.), dove qualunque teoria
elaborata da qualunque esperto di didattica e pedagogia non può mai precedere la
concretezza dell’apprendere (vd. Perticari 2005).
Ma cosa comporta assumere un cambiamento di sguardi? Cosa significa saper
osservare/ascoltare in un’ottica in cui l’auto-osservazione dell’insegnante appare
imprescindibile dagli aspetti relazionali instaurati con i propri apprendenti?
Un primo passo essenziale è sicuramente la capacità di decentramento di sé.
La riflessione sul rapporto insegnante/apprendente, che necessita un ribaltamento
nella pratica scolastica quotidiana, il riconoscere da parte dell’insegnante la possibilità di un rovesciamento del proprio punto di vista, sono ben presenti nella ricerca
165
di due discipline specialistiche, l’antropologia dell’educazione e la pedagogia interculturale56. Tale de-centramento non significa però identificare differenze sostanziali o tratti culturali supposti come caratteristici dei nostri apprendenti, secondo
un’ottica, non è superfluo ribadire, distante dalle retoriche culturaliste. Il decentramento implica invece una modifica della distanza interpersonale, e una disponibilità a riconoscere come esperienza emotiva la sperimentazione e la consapevolezza
del punto di vista di ciascuno. La riduzione dello spazio sociale, l’avvicinamento fra
due persone con esperienze eterogenee, richiede una competenza empatica, condivisa perché fondata su un sistema di corporeità simile che fa esperire e conoscere
il mondo ed in cui le dinamiche relazionali appaiono come una “disomogenea continuità sfumata” (Piasere 2002: 129-130).
[…] l’empatia è un comportamento “affettivo” che ha come
prerequisito la capacità di riconoscere cognitivamente lo
stato emotivo di un’altra persona. Non è “pura sensibilità”,
ma “razionalità immaginativa” […]. Mettersi nei panni dell’altro […] non significa perdere la consapevolezza del proprio
punto di vista, che si conserva attivo e saliente. Nell’empatia
per “condivisione partecipatoria” (propria dell’età adulta, ma
anche dell’etnografo) l’osservatore non si perde nell’altro, si
mantiene un qualche distanziamento, non si fonde “contagiosamente”, ma piuttosto si avvicina all’altro. […] Talora l’atto empatico è circoscritto nella sua durata temporale, può
consistere in un micro-episodio, magari insignificante per
“l’osservatore”, ma denso di significato per colui che viene accettato nel gioco empatico. (Cappelletto 2009: 218)
Afferma Paulo Freire che l’nsegnamento è “una forma di intervento sul mondo”
(Freire 2004: 78) e questa affermazione si applica ogni volta che emerge la necessità
di distanziare e separare, omologare l’apprendente ad un modello culturale, che sia
quello della madrelingua o quello della lingua di studio, perché significa riprodurre
questioni di potere e comporta discriminazione (vd. Piasere 2002), a dispetto di una
apparente aurea progressista e moderna di modelli via via proposti.
Come espresso precedentemente, il dibattito antropologico sottolinea l’importanza di considerare l’interazione fra i differenti individui, la loro capacità di influenzare il cambiamento di un dato senso comune, attraverso esperienze costruite
e condivise, in cui la tracciabilità dei confini, sfumati e mai netti, si rivela una pratica
56 Per approfondimenti, vd. Callari Galli (2000), Gobbo (2004), Piasere (2010).
166
Capitolo XIII - Osservare le relazioni
impossibile (vd. Hannerz 2001, Piasere 2002).
L’osservazione, dunque, implica che l’insegnante non si aspetti di vedere quello
che conosce già57. Comporta, invece, un suo cadere dall’alto, un posizionamento diverso e spiazzante, che lo costringe a interrogarsi sulle perturbazioni che comporta
la sua stessa osservazione sui fenomeni osservati, sulle modifiche provocate dalla
sua presenza di insegnante in classe: un “esperimento di un’esperienza” in cui l’esperienza di osservazione deve essere pensata in termini soggettivi e di imperfezione,
piuttosto che di raccolta di dati coerenti e immutabili (vd. Piasere 2002). L’osservazione è, dunque, strettamente legata ad ogni singolo contesto, aperto a modifiche
dovute al tempo e allo spazio articolato dell’interazione (vd. Callari Galli 2000).
Essere consapevoli del carattere soggettivo delle osservazioni, la fonte di informazione “imperfetta” per l’insegnante, significa prendere atto del potere trasformativo dell’osservazione (ibid.), dove l’incontro traccia uno spazio fecondo di possibile
trasformazione politica e sociale anche futura (vd. De Lauri 2008: 20).
Ammettere che i giudizi sugli apprendenti possano derivare da una distorsione
dovuta alle proprie osservazioni, poter modificare le proprie certezze attraverso
l’ascolto e l’osservazione di concreti e quotidiani rapporti di relazione e interazione
tra gli apprendenti e l’insegnante, essere consapevoli che non esistono tratti culturali intrinseci da cui desumere i comportamenti degli individui, creare possibilità di
con-ricerca e di co-esperienze, significa di fatto pensare ad un progetto di coinvolgimento di tutte le persone, nel nostro caso degli “abitanti” di una classe, secondo
un progetto di convivenza (Remotti 2010) e significa anche osservare un “imperativo
etico e non un favore che possiamo o meno concederci reciprocamente” (Freire
2004: 48).
57 È qui espresso il concetto di “serendipità”, la quale “comporta che il ricercatore segua la corrente e, al tempo
stesso, si accorga degli eventi critici […]. Impossibile da programmare, la serendipità può essere tuttavia facilitata cercando di mantenere una condizione mentale disponibile alle eventualità […]” (Gobbo 2003: 11). Come
afferma l’etnografo Peter Woods, “seguire la corrente pone l’accento sul processo e implica intuizione, spontaneità, entusiasmo e divertimento. La serendipità nella ricerca è qualcosa di simile, poiché spesso i risultati più
esaltanti capitano nei momenti più inaspettati” (Woods in Gobbo 2003: 35).
167
Capitolo XIV - Possibili letture
CAPITOLO XIV
Possibili letture
Qui di seguito, si presenta una possibile rassegna di materiali teorici sulla pedagogia
linguistica dell’italiano L2.
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CONSIGLIO D’EUROPA, MODERN LANGUAGES DIVISION
2002 Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: insegnamento, apprendimento, valutazione, trad. it. sull’originale inglese di F. Quartapelle, D.
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Tuttavia, la glottodidattica nasce programmaticamente connessa a discipline scientifiche con tradizioni di ricerca consolidate, di cui ogni manuale compie una selezione
parziale e soggettiva.
Il nostro consiglio, quindi, è il rimando diretto a tali ambiti di indagine scientifica, di
cui proponiamo una bibliografia accurata, ma volutamente non conclusa.
Linguistica teorica ed applicata
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Materiali per la scuola primaria e secondaria
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http://osservatorioarticolo3.blogspot.com (Osservatorio sulle discriminazioni)
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http://www.secondegenerazioni.it/ (Rete G2 immigrazione)
192
Appendice
APPENDICE
Piccolo scritto sulle “parole parassite”
di Franca Ruolo
“Le parole parassite” è un’espressione con cui, nella prefazione a Lessico del razzismo democratico di Giuseppe Faso, lo scrittore Paolo Nori definisce quelle parole
che si annidano nei nostri pensieri (Nori in Faso 2008). Ma che non si fermano lì,
perché le parole “sono tutt’altro che innocenti” (Faso 2009: 29). Parole e frasi parassite che agiscono.
A scuola (e non solo) sopravvivono queste parole, a proposito di chi arriva ed è
subito extracomunitario. E siccome non sa niente, la scuola provvederà ad un corso
di alfabetizzazione, per affrontare l’emergenza.
Quell’alfabetizzazione che, a ben guardare, si rivela un utilizzo appartenente ad
una terminologia privativa. Alfabetizzare, dice il dizionario Devoto-Oli, è “liberare
dall’analfabetismo insegnando a leggere e scrivere”. E quindi, tanti manuali e corsi
per alunni di livello 0 che aiutano a contrastare il problema grave e urgente, come
se la scuola fosse diventata una sorta di pronto soccorso per curare dal virus che
avrebbe colpito la lingua italiana (paradossalmente, poi, quella normativa e nozionistica dei libri, che non è viva, né mai lo è stata).
Immaginare che adulti e bambini stranieri che imparano l’italiano vadano “alfabetizzati” può indurre a una grave confusione sugli scopi, i metodi, le maniere del lavoro stesso da
svolgere […] viene rimosso il fatto che l’apprendimento di una
lingua non consiste nell’acquisizione di convenzioni grafiche,
ma soprattutto in un buon processo di integrazione sociale
e, per i bambini, nell’inserimento in un gruppo di pari (prevalentemente) italofoni. Può darsi che una parte di bambini
non italofoni vada alfabetizzata, ma ciò avverrà nelle prime
elementari, con gli stessi tempi e metodi degli altri bambini,
senza immaginare di dover approntare spazi speciali per tale
scopo. Ovunque avvenga – nelle pratiche di chi “alfabetizza”
o nell’immaginario di chi viene a contatto con tale terminologia – tale distorsione non può che produrre inconvenienti.
(Faso 2008: 19)
Emerge negli insegnanti l’aspetto della carenza nell’alunno straniero collocando
quest’ultimo in un prima trascurabile, la vita del bambino nel paese d’origine. Di
193
quella bambina o di quel bambino al limite si rilevano conoscenze e competenze
nella propria madrelingua, una prassi certamente importante e indispensabile, ma
spesso un’arma a doppio taglio perché riduce l’osservazione solo alle competenze
linguistiche nella lingua d’origine, contrapposte o affiancate alle mancanze dell’alunno nella lingua italiana, quando si afferma a scuola che non capisce, non sa parlare, non sa leggere, non sa scrivere in italiano.
Il problema non riguarda solo la lingua, perché è anche attraverso i gesti che si
rischia di dare un’interpretazione alle reazioni di chi ci ascolta e ci osserva, quando
pensiamo di aver individuato il tratto culturale evidente: “loro sono così, è la loro
cultura…”. Allora, poi, si fa intercultura, perché è necessario che loro si integrino e
accogliamo progetti dai titoli che ci sembrano veramente interculturali e che, spesso, evidenziano la mappa concettuale del folklore che equivale, con tutte le buone
intenzioni, ad un vera e propria mancanca di riconoscimento della soggettività degli
individui.
Scrive ancora Giuseppe Faso:
Ogni volta che ci si sieda a discutere di immigrazione, la maggior parte di chi sta dall’altra parte del tavolo, quella servita
dal microfono, parla di integrazione. Non se ne rendono conto, i più, ma intendono “assimilazione”. Come si dice “cultura”
o “etnia” e si intende “razza”, si dice “integrazione” e si intende “assimilazione”. Che stiano qui, alle “nostre” regole, che
si adattino; nulla di più rassicurante, per una fetta (sembra,
indecisa) di elettori. (Faso 2008: 76)
La classe con bambine e bambini che parlano lingue diverse è invece uno dei
luoghi da cui iniziare a cancellare “parole parassite”, perché, come ci ricorda il pedagogista brasiliano Paulo Freire, la disuguaglianza sociale è resa invisibile dall’uso
di un certo linguaggio che distorce e condiziona la realtà, mentre essere insegnante
comporta il dovere etico di “intervenire e sfidare gli studenti a impegnarsi nel loro
mondo, per poter agire su di esso” (Freire 2008: 52).
194
Glossarietto
GLOSSARIETTO
Accordo. L’accordo è la condivisione di informazioni grammaticali tra più elementi all’interno della frase. Un esempio tipico è l’accordo tra soggetto e verbo:
Esempi.
Ludovico (3° persona singolare) legge (3° persona singolare).
I bambini (3° persona plurale ) leggono (3° persona plurale).
Un altro esempio di accordo è quello tra il nome e gli elementi che tipicamente
si accompagnano ad esso.
Esempi.
Il (maschile singolare) mio (maschile singolare) gatto (maschile singolare).
I (maschile plurale) miei (maschile plurale) gatti (maschile plurale).
Agente. L’agente è colui che compie un’azione.
Esempi.
1)
Edoardo parla.
2)
I leoni mangiano le gazzelle.
3)
Le gazzelle sono mangiate dai leoni.
Nelle frasi (2) e (3) cambia la struttura sintattica, ma i ruoli semantici restano
invariati: la scena è sempre la stessa. Nella frase (3), le gazzelle sono il soggetto e accordano con il verbo, però non compiono l’azione ma la subiscono: sono il paziente
o l’oggetto della frase.
Aggettivi. Gli aggettivi si accompagnano tipicamente ai nomi (sono modificatori
dei nomi): tra nomi ed aggettivi c’è accordo in genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale).
Esempi.
Qualche mese fa ho incontrato la moglie giapponese di Many.
Ieri ho visto un film noioso.
Se l’aggettivo precede il nome, esso ha generalmente funzione descrittiva; se
segue il nome, esso ha generalmente funzione restrittiva.
Esempi.
Ho giocato con la piccola figlia di Edoardo.
(La figlia di Edoardo è piccola)
Ho giocato con la figlia piccola di Edoardo.
(Ho giocato con la figlia piccola, non con la figlia più grande
195
Alfabeto. L’alfabeto è uno dei tanti sistemi di rappresentazione grafica delle lingue. Con l’alfabeto, questa rappresentazione avviene tramite segni convenzionali
(grafemi) che tentano di riprodurre i suoni (foni) della lingua.
Il risultato è soltanto parziale. Ci sono lingue come l’italiano in cui esiste una
buona corrispondenza tra la lettera dell’alfabeto (grafema) e il suono (fono): a volte,
però, una lettera può rappresentare più suoni (il grafema < c > corrisponde, generalmente, ai suoni [ k ] e [ tò ]) o, viceversa, sono necessarie più lettere per trascrivere
un suono (il grafema < sci > corrisponde, se seguito da altre vocali, al suono [ ò ]); ci
sono lingue come l’inglese in cui questa corrispondenza è meno forte: una lettera
rappresenta tipicamente più suoni (mum [ mʌm ] / put [ pʊt ]).
Non solo, l’alfabeto non rappresenta, se non parzialmente, informazioni come
l’intonazione, l’intensità di pronuncia, l’accento, ecc.
Per rendere veramente rappresentabili le lingue attraverso dei segni convenzionali, si sono creati dei sistemi fonetici di trascrizione: il più noto è l’Alfabeto Fonetico Internazionale (comunemente conosciuto come IPA, International Phonetic
Alphabet).
Articoli. Gli articoli sono elementi funzionali che si accompagnano ai nomi e li
precedono. Gli articoli determinativi (il, l’, lo, i, gli, la, le) accompagnano un nome a
referenza nota, cioè nomi il cui referente (a che cosa o a chi si riferiscono) è dato dal
parlante come conosciuto. Gli articoli indeterminativi (un, uno, una, un’, dei, degli,
delle) si accompagnano a nomi che hanno referenza indeterminata, cioè si riferiscono a cose, persone, ecc., date come non note.
Esempi. Il leone è un animale maestoso.
(Qui ci riferiamo al leone come specie animale, quindi nota)
Ho visto un video su Youtube su un leone. Il leone si chiamava Christian.
(La prima volta che ci riferiamo al leone e lo introduciamo nel testo usiamo un perché parliamo di qualcosa non noto, non conosciuto; la seconda occorrenza si accompagna all’articolo il perché ormai l’ascoltatore sa a che cosa ci si riferisca).
Aspetto verbale. L’aspetto è una categoria grammaticale che esprime i diversi
modi di presentare la situazione descritta dal verbo.
Ecco le maggiori dicotomie aspettuali:
Perfettivo/imperfettivo. La perfettività di una azione o di un evento coincide
con la sua compiutezza; l’imperfettività, invece, coincide con una presentazione
dell’evento dall’interno senza riferimenti alla compiutezza. Il passato prossimo in196
Glossarietto
dicativo, in italiano, si caratterizza generalmente per aspettualità perfettiva (Ieri
sono andato a Lucca); l’imperfetto, generalmente, per aspettualità imperfettiva (Ieri
andavo a scuola e per strada ho incontrato Elisa).
Abituale/continuo. Un evento di aspetto abituale si caratterizza come regolarmente ricorrente in un periodo piuttosto lungo di tempo ma senza precisazione del
numero delle ricorrenze (Da bambino, andavo sempre al mare in Versilia); un evento
di aspetto continuo è presentato come non interrotto nel suo svolgimento (Mentre
facevo la doccia, Elisa scriveva al computer; Mia madre era bella).
Progressivo/non progressivo. Un evento si caratterizza per aspettualità progressiva se osservato nel corso del suo svolgimento. In italiano, per esprimere un evento
progressivo al presente possiamo usare indistintamente la forma del presente indicativo (Che fai?) o una perifrasi con il gerundio (Che stai facendo?); per esprimere
un evento progressivo al passato possiamo usare indistintamente la forma dell’imperfetto indicativo (Che facevi?) o una perifrasi con il gerundio (Che stavi facendo?).
L’aspetto verbale è una delle categorie funzionali del verbo così come il tempo (presente, passato, futuro, ecc.) E l’Azione o Aktionsart (proprietà intrinseca del
significato dei singoli verbi e delle costruzioni in cui i verbi compaiono: azione durativa, azione non-durativa, ecc.). A differenza di quest’ultima, l’aspetto non è una
categoria lessicale legata al significato del verbo ma una categoria grammaticale
legata alle singole forme verbali.
Ausiliari. Gli ausiliari (dal latino auxilium ‘aiuto, soccorso’) sono quei verbi che ricorrono con altri verbi ed hanno funzione grammaticale (morfosintattica) perdendo
la propria autonomia semantica (di significato): servono, infatti, a formare i tempi
composti e le costruzioni passive.
Gli ausiliari essere e avere, seguiti da un participio passato, si utilizzano per formare i tempi composti (sono andato, ho mangiato, ero andato, avevo mangiato,
ecc.); l’ausiliare essere si utilizza per formare le frasi passive (La gazzella è mangiata
del leone). Nelle frasi passive possiamo utilizzare, come ausiliare, il verbo venire
che, rivestendo questa sua nuova funzione, perde la propria autonomia (semantica)
e si mette al servizio (grammaticale) del verbo che lo segue.
Avverbi. Il termine avverbio deriva dal latino adverbium e significa ‘accanto a
una parola’. L’avverbio, infatti, è la parte invariabile del discorso che si aggiunge a
una parola o a un gruppo di parole per spiegarne o modificarne il significato.
L’avverbio di solito sta vicino ad un verbo (mangio velocemente), ma lo troviamo
anche vicino a nomi (Una ventina circa di studenti erano di nazionalità brasiliana),
197
o ad aggettivi (Aurora è una bambina molto vivace), o ad avverbi (Mangio molto
velocemente), o può riferirsi a un’intera frase (Sicuramente, Aurora preferirà andare
ad atletica che al cinema).
La grammatica tradizionale ha spesso considerato la categoria dell’avverbio
come categoria “ripostiglio”: se una parola non rientrava chiaramente all’interno di
una categoria, diventava per i grammatici un avverbio.
Coniugazione. Il termine coniugazione indica la flessione del verbo: in italiano, il
verbo subisce una variazione morfologica in rapporto a diverse categorie grammaticali: il tempo (passato, presente, futuro), l’aspetto (perfettivo, imperfettivo, ecc.), il
modo (indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo, ecc.), la persona (1°, 2°, 3°), il
numero (singolare, plurale) e la diatesi (attiva, passiva).
In italiano, tutte queste informazioni grammaticali sono generalmente contenute alla fine del verbo (nella desinenza); la parte iniziale (la radice) porta con sé informazioni di tipo lessicale: per esempio, la forma (io) cammino può essere così scomposta cammin-o, nella quale cammin- porta l’informazione lessicale (quale verbo?);
-o, invece, ci dà informazioni grammaticali, tutte racchiuse in un unico suono [o]
(presente, indicativo, 1° persona, singolare).
In italiano, esistono 3 paradigmi di coniugazione in rapporto alla vocale tematica
del verbo: parlare (-a-), vedere (-e-), sentire (-i-). Si parla quindi di 1° coniugazione
(-are), 2° coniugazione (-ere), 3° coniugazione (-ire): per chiarire, tutti i verbi che fanno parte di una coniugazione presentano affinità formali che derivano dalla vocale
tematica (parl-ano, cant-ano, mangi-ano / ved-ono, mett-ono, legg-ono, ecc.)
Consecutio temporum. Il termine consecutio temporum (‘sequenza ordinata dei
tempi’) riguarda i tempi verbali all’interno della frase complessa e del periodo ed
esprime le regolarità nell’uso dei tempi nelle proposizioni subordinate: la relazione
tra il tempo della proposizione dipendente (o subordinata) e quello della proposizione reggente, che fa da punto di riferimento.
Coordinate (proposizioni). Le proposizioni coordinate sono proposizioni all’interno della frase complessa legate tra loro, ma che non hanno rapporto di dipendenza.
Esempi.
Sono andato al mare e mi sono rilassato.
Vieni con me o vai con Francesco?
198
Glossarietto
Dato. In ogni momento del discorso è dato ciò è attivo nella mente del ricevente.
Esempio. Dove è la mamma? L’ho vista al mercato.
L’informazione data (la mamma) può ricevere scarso rilievo informativo attraverso mezzi linguistici modesti (come, in questo caso, il pronome clitico la).
Ciò che è psicologicamente dato tende ad essere realizzato linguisticamente alla
sinistra della frase, tramite proforma e senza prominenza intonativa (o tramite forme non realizzate foneticamente).
(Vd. Nuovo)
Dislocazione a destra. La struttura della frase cosiddetta dislocazione a destra
presenta costituenti dislocati alla fine della frase che si riferiscono a qualcosa ritenuto dal parlante dato come tema del discorso. La funzione pragmatica di questo
ordine marcato è la tematizzazione di alcuni elementi della frase.
Esempio. Franca gli ha dato una caramella, a Guido.
(Vd. Dato, Tema)
Dislocazione a sinistra. La struttura della frase cosiddetta dislocazione a sinistra
presenta un elemento dato tematizzato (tema = ciò di cui si parla) alla sinistra della
frase. Il costituente dislocato presenta una connessione sintattica con il resto della
frase: la preposizione e/o il pronome clitico di ripresa.
Esempio. A Guido, Franca gli ha dato una caramella.
I costituenti dislocati possono essere pronunciati con una pausa intonativa dal resto
della frase. La virgola serve ad indicare tale pausa.
(Vd. Dato, Tema)
Frase. Frase è il termine generico per indicare l’unità strutturale di massima
estensione composta di unità più piccole e costruita secondo regole sintattiche. Ci
sono molte definizioni di frase: la definizione tradizionale, di tipo semantico, dice
che la frase è “ogni sequenza di parole dotata di senso compiuto”; un’altra definizione di frase definisce la frase come unità costituita da soggetto e predicato (elemento centrale), seguiti da eventuali complementi, o unità costituita da verbo e attanti
(argomenti e circostanziali); un’altra definizione vede la frase come unità formata da
un sintagma nominale e da un sintagma verbale (F = SN + SV); un’ultima definizione
individua la frase come “una forma linguistica indipendente, non compresa mediante alcuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”.
199
La frase può essere semplice e in tal caso prende il nome di proposizione (Ludovico legge un bel libro di linguistica), o composta da più frasi semplici e in tal
caso prende il nome di frase complessa o periodo (Ludovico legge un bel libro di
linguistica perché desidera migliorare la propria conoscenza dei meccanismi di funzionamento delle lingue).
Frase scissa. La frase scissa si costruisce tipicamente attraverso strutture del tipo
è x che (oppure con una preposizione è a x che…, ecc.) Ed ha la funzione pragmatica
di mettere in rilievo o enfatizzare un elemento della frase anche in termini di contrasto più o meno esplicito.
Esempio. È a Guido che Franca ha dato una caramella.
Genere. Il genere è una categoria grammaticale presente nel sistema nominale
(nomi, aggettivi, articoli) e talvolta anche nel sistema verbale. Il genere non apporta
solitamente, salvo rare eccezioni (uomo/donna), informazioni semantiche (o di significato): è semplicemente una categoria grammaticale, non semantica (gli oggetti,
per fare un esempio, non hanno sesso ma le parole che li designano possiedono
genere). Questa categoria si riflette nell’accordo, cioè in quelle regole di combinazione delle parole che prevedono la condivisione di informazioni grammaticali (La
mia mamma è andata al mercato preoccupata della salute di mio padre). In italiano,
troviamo genere maschile (libro, cane, ecc.) E femminile (penna, chiave, ecc.).
Grammatica. Con il termine grammatica, intendiamo più cose: la grammatica
intesa come conoscenza (implicita, inconsapevole, innata, creativa) che tutti i parlanti hanno della lingua e la descrizione di tale conoscenza. All’interno di questo
secondo gruppo, abbiamo una ulteriore divisione:
1) Le grammatiche teoriche, rivolte a destinatari specialisti, hanno l’obiettivo
di parlare dei fatti linguistici in modo da raggiungere adeguatezza descrittiva ed
esplicativa: fornire, cioè, al contempo una descrizione e una spiegazione dei fatti
linguistici in modo da tentare di penetrare il fenomeno lingua. Un esempio noto di
grammatica teorica è la Grammatica Generativa di Noam Chomsky;
2) Le grammatiche linguistiche, rivolte generalmente ai parlanti nativi delle lingue medesime, hanno come obiettivo la descrizione delle conoscenze implicite
dei parlanti. Spesso, tuttavia, molte grammatiche di questo tipo hanno natura prescrittiva, cioè impongono delle norme (delle regole) da rispettare e affrontano il
fenomeno lingua più come fatto convenzionale che biologico. Le grammatiche di
questo ultimo tipo si rifanno ad una norma consolidatasi nel tempo attraverso gli
200
Glossarietto
usi letterari: impongono una varietà di tipo standard e non si interessano degli usi,
ovvero degli aspetti dell’esecuzione. Esistono anche delle grammatiche linguistiche
meno dogmatiche che si concentrano non sulla norma ma sull’uso della lingua, evidenziandone, tra l’altro, la natura diatopica (legata allo spostamento nello spazio
geografico), diafasica (legata ai diversi contesti d’uso e alle diverse situazioni comunicative), diastrica (legata alle diverse componenti sociali) ed infine diamesica
(legata al mezzo di trasmissione, scritto od orale). Esempi di buone grammatiche
linguistiche sono la Grande grammatica italiana di consultazione di Lorenzo Renzi,
Giampaolo Salvi e Laura Vanelli, la Nuova grammatica italiana di Giampaolo Salvi e
Laura Vanelli, ed infine La grammatica italiana di Cecilia Andorno.
3) Le grammatiche pedagogiche, rivolte agli apprendenti di L2, hanno l’obiettivo
di presentare una selezione dei fatti linguistici in modo da facilitarne l’acquisizione
negli apprendenti. Hanno carattere marcatamente non esaustivo.
Italiano. Quale italiano parliamo? Quale italiano scriviamo? Quale italiano
insegniamo?
Queste domande, apparentemente scontate, in realtà non lo sono dal momento
che, al momento, senza contare i dialetti, nel nostro Paese convivono e vengono usate
diverse lingue italiane che la letteratura scientifica solitamente così identifica:
• Italiano standard (o normativo);
• Italiano neostandard;
• Italiano regionale;
• Italiano popolare.
L’italiano letterario prende le origini dal fiorentino del Trecento ed è stata per
molti secoli la lingua dell’arte, delle classi colte, usata nei testi scritti ufficiali ed è rimasta pressoché immutata fino al romanzo di Alessandro Manzoni I promessi sposi.
Per gli usi quotidiani, la popolazione usava il dialetto e ha continuato a farlo
praticamente fino alla metà del Novecento. È grazie alle migrazioni interne, all’aumento della scolarizzazione, all’avvento della radio e quindi della televisione, dell’istruzione obbligatoria e del servizio militare di leva che si è cominciato ad usare una
lingua italiana comune.
Italiano standard
Perché una lingua sia considerata standard è necessario che soddisfi tutti o la
maggioranza dei seguenti requisiti:
• Che sia di riferimento per tutta la società;
201
Che sia la più usata;
Che sia la meno marcata da un punto di vista sociolinguistico;
Che sia sovraregionale;
Che sia descritta e codificata da grammatiche e dizionari;
Che sia usata da parlanti appartenenti alle classi sociali dominanti;
Che sia utilizzabile come lingua scritta per tutti gli usi;
Che sia utilizzabile come lingua orale per parlare di qualsiasi argomento.
Ad oggi non tutti i linguisti sono concordi nell’identificare quale sia l’italiano
standard. Per quanto riguarda la pronuncia alcuni lo identificano con il fiorentino
contemporaneo depurato della gorgia, cioè l’aspirazione di alcuni suoni consonantici (tipicamente, in alcuni contesti, [k] diventa [h], [t] diventa [ɵ], ecc.). Per quanto
riguarda l’aspetto grammaticale, l’italiano standard sarebbe rappresentato dall’italiano dell’ottocento e del Novecento dopo Manzoni. Questa tipologia di italiano è
stata prevalentemente utilizzata per i testi scritti aventi un carattere formale.
Ad oggi la vitalità dell’italiano standard è messa in forte discussione non solo
perché non rintracciabile nell’oralità ma anche nei testi scritti: molte norme e forme
codificate come standard vengono, infatti, sempre più sostituite dalle corrispondenti ed equivalenti norme e forme orali, spesso esistite ed usate per secoli produttivamente a fianco delle prime e considerate, tuttavia, meno affettate di queste.
•
•
•
•
•
•
•
Italiano neostandard
L’italiano “neostandard” (Berruto 1987), indicato anche con i termini “comune”,
“dell’uso medio” (Sabatini 1985), “tendenziale” (Mioni 1983), è identificabile con la
lingua di questi ultimi cinquant’anni. È una varietà scritta e parlata, che coincide in
gran parte con l’italiano standard, ma accetta molti aspetti che in precedenza erano
percepiti come non accettabili: fenomeni linguistici caratteristici del parlato che
sono, ad oggi, accettati anche nello scritto.
In particolare, a livello morfosintattico, il neostandard accoglie forme appartenenti alle diverse varietà (diatopiche, diastratiche, diafasiche, diamesiche); vi è la
contaminazione con il lessico proveniente da linguaggi diversi (sportivo, tecnico,
scientifico, ecc.) E anche da lingue straniere (oggi molte parole inglesi sono abitualmente usate nell’oralità e nello scritto).
Oggi il neostandard è parlato e scritto dalla maggioranza della comunità italiana
come varietà di media formalità.
Italiano regionale
L’italiano regionale è descritto dai linguisti come una varietà di italiano, molto
202
Glossarietto
influenzata dal dialetto, che si distingue dall’italiano standard e dagli altri italiani regionali per elementi tipicamente locali. L’italiano regionale è la conseguenza dell’assorbimento dei dialetti nell’italiano neostandard secondo il seguente percorso:
Dialetto  dialetto regionale  italiano regionale  italiano neostandard.
Sentendo parlare una persona, ad esempio, anche in contesti molto formali, ci si
può rendere conto della regione di provenienza dalla pronuncia e dall’intonazione.
Si possono incontrare regionalismi per l’aspetto lessicale. Non accade altrettanto,
invece, specialmente in contesti formali, per la costruzione grammaticale delle frasi.
Le quattro varietà regionali principali sono: settentrionale, toscana, romana, meridionale; a queste si aggiungono le varietà sarde e quelle meridionali estreme.
Italiano popolare
L’italiano popolare è stato anche definito l’ “italiano dei semicolti” perché sarebbe usato dalle fasce meno istruite della popolazione accanto al dialetto e presenta
quindi forti caratteri regionali. Si è parlato – e si continua a parlare – di “semplificazione” rispetto all’italiano standard o normativo, relativamente all’italiano popolare: da questo ne deriva una forte censura sociale applicata a chi è parlante nativo di
queste varietà linguistiche.
Il nostro punto di vista sull’italiano popolare ribalta questa prospettiva:
• Non vediamo la lingua standard come modello, né la usiamo come continuo
riferimento per sanzionare le altre varietà linguistiche;
• Osserviamo le caratteristiche linguistiche di queste lingue come possibilità formali offerte dalla nostra dotazione genetica: una forma non è mai, dal punto di
vista linguistico, migliore rispetto a un’altra; semmai esistono convenzioni che
danno maggiore prestigio ad una forma a danno di un’altra.
• Riteniamo che occorra essere capaci di alternare le diverse varietà linguistiche
nelle varie situazioni concrete di utilizzo della lingua.
Quello che viene frequentemente definito come tratto “semplificato” dell’italiano popolare (e delle varietà d’apprendimento di italiano L2) compare in altri sistemi
linguistici adulti, spesso persino standard: da questo l’inadeguatezza dell’uso del
termine “semplificazione” e la nostra propensione verso analisi che tentino una descrizione e, se possibile una spiegazione, delle scelte formali “altre”.
203
L2. Parliamo di L2 quando l’apprendimento della lingua non materna avviene in
un contesto situazionale nel quale essa venga utilizzata come lingua di comunicazione quotidiana (per esempio l’italiano appreso in Italia attraverso i normali scambi
comunicativi quotidiani).
LS. Parliamo di LS (lingua straniera) quando l’apprendimento della lingua non
materna avviene in un contesto situazionale nel quale essa non sia presente se non
nella scuola (per esempio l’italiano appreso all’estero in una scuola di lingua).
Marcato. Si dice che un elemento della lingua all’interno di una coppia di elementi
correlati è più marcato se segnala esplicitamente la proprietà, l’informazione, il tratto,
la marca appunto, che lo distingue dall’altro elemento cosiddetto meno marcato.
Esempi. Studente/studentessa
Student/students
Nel primo esempio, studentessa è più marcato di studente perché aggiunge il
morfema -essa di genere femminile; nel secondo esempio, dall’inglese, students è
più marcato di student perché aggiunge il morfema -s di numero plurale.
C’è poi un altro significato più esteso del termine marcato che associa agli elementi meno marcati una maggiore semplicità e una maggiore basicità: secondo questi modelli linguistici, certe forme, certi elementi sarebbero più semplici, più basici,
più neutri, più versatili nell’uso, più naturali, più frequenti nelle lingue e anche più
facilmente acquisibili di altri.
Per quanto concerne l’apprendimento dell’italiano come L2, si sostiene l’esistenza di scale di marcatezza che permettano di spiegare l’ordine di acquisizione delle
strutture della lingua: le forme meno marcate sarebbero apprese prima e con minore difficoltà rispetto alle forme marcate. Secondo queste scale, il maschile sarebbe
meno marcato del femminile, il singolare del plurale, l’ordine della frase italiana
soggetto-verbo-oggetto (SVO) meno marcato di altri ordini, ecc.
Modali (verbi). I verbi modali (detti anche verbi servili per la loro funzione ancillare, servile nei confronti del verbo principale) sono quei verbi che si accompagnano ad altri verbi (all’infinito) modificando la modalità di realizzazione dell’evento
espresso dal verbo principale.
In italiano, i verbi generalmente considerati modali o servili sono, per esempio,
potere, volere e dovere: essi sono specializzati ad esprimere come il parlante si pone
verso ciò che dice.
204
Glossarietto
Nomi. I nomi si accompagnano tipicamente all’articolo e agli aggettivi e possiedono genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale).
Esempio. Il cane, il mio babbo, la mia mamma, i miei vecchi amici, la verde Umbria, i cari vecchi tempi.
Spesso, ma non sempre, i nomi si riferiscono a entità fisiche come gli oggetti, le
persone, gli animali, ecc.
Numero. Il numero è una categoria grammaticale che esprime, generalmente, la
quantità degli elementi presenti nell’enunciazione. In italiano, sono presenti il singolare (libro, cane, penna, chiave) e il plurale (libri, cani, penne, chiavi).
Nuovo. In ogni momento del discorso è nuovo ciò che psicologicamente non è
attivo nella mente del ricevente.
Esempio. Ieri ho visto un cane zoppo.
L’articolo indeterminativo possiede, solitamente, la funzione di introdurre nel
discorso elementi nuovi.
L’elemento nuovo tende ad essere codificato linguisticamente alla destra della
frase, tramite sintagmi pieni e sotto prominenza intonativa.
(Vd. Dato)
Ordine delle parole. Generalmente la struttura dell’enunciato tipico (non marcato) italiano presenta l’articolazione dato/nuovo, cioè elemento noto, dato, presupposto, in prima posizione, ed elemento nuovo, alla fine. Per chiarire, il parlante,
nell’enunciazione, cerca di adattare l’informazione a quello che pensa sia presente
nella mente dell’ascoltatore: pronuncerà prima quello che pensa sia già conosciuto
dall’ascoltatore e posticiperà le informazioni non note.
Per quanto riguarda la posizione del soggetto sintattico, esso nell’enunciato non
marcato, cioè che si adatta ad un numero maggiore di contesti di discorso, si trova
in posizione pre-verbale con i verbi transitivi (Edoardo ha letto un libro [nuovo]) e in
posizione post-verbale con i verbi inaccusativi (quelli con ausiliare essere) (È caduta
la torre [nuovo]) e con alcuni verbi intransitivi (Ha telefonato Francesco [nuovo]).
Esempi.
VERBI TRANSITIVI: leggere
Che cosa ha letto Edoardo? Edoardo ha letto [dato] un libro [nuovo].
Che cosa ha fatto Edoardo? Edoardo [dato] ha letto un libro [nuovo].
Che cosa è successo? Edoardo ha letto un libro [nuovo].
205
VERBI INACCUSATIVI (ausiliare essere): cadere
Che cosa è successo alla torre? La torre [dato] è caduta [nuovo].
Che cosa è successo? È caduta la torre [nuovo].
(Vd. Dato, Nuovo)
Preposizioni. Le preposizioni sono degli elementi funzionali che, posti davanti a
dei sintagmi (da qui, il prefisso pre-), ne definiscono le relazioni all’interno nella frase. Ci sono preposizioni tradizionalmente note come proprie (di, a, da, in, con, per,
tra, fra), che svolgono solo la funzione di preposizioni, ed altre preposizioni tradizionalmente note cone improprie perché svolgerebbero diverse funzioni all’interno
della frase (es. Le chiavi sono sul tavolo; Elisa ha chiesto a Ludovico di salire su).
Proposizione. La proposizione è una unità sintattica elementare (frase semplice): soggetto (quando presente) e predicato, seguiti da eventuali complementi; verbo e suoi argomenti, seguiti da eventuali circostanziali. Esistono proposizioni coordinate (Sono andato al mare e ho visto Andrea), legate tra loro ma indipendenti, e
proposizioni subordinate (Penso di andare al mare), legate tra loro da un rapporto
di dipendenza (la proposizione subordinata dipende dalla proposizione reggente).
Punteggiatura. Quando scriviamo, la punteggiatura scandisce pause e precisa
specifiche intenzioni pragmatiche (quello che “facciamo” con la lingua). Una buona
punteggiatura facilita la lettura/comprensione di un testo, chiarendone la struttura
sintattica e le diverse sfumature interpretative.
I segni di interpunzione in italiano sono:
. Punto o punto fermo
, virgola
; punto e virgola
: due punti
? Punto interrogativo o di domanda
! Punto esclamativo
… puntini di sospensione
( ) parentesi
- trattino
“ ” virgolette alte
« » virgolette basse
‘’ apici
206
Glossarietto
– lineetta
* asterisco
L’uso della punteggiatura, anche se regolato da norme e regole generali, dà spazio alla individualità e alla creatività di chi sta scrivendo.
Registro. In sociolinguistica il termine registro indica come viene realizzato un
evento comunicativo tenuto conto della situazione. Grazie ai registri abbiamo tanti
modi diversi di dire la stessa cosa. La scelta del come “dire” dipende dalla situazione.
Il registro pertiene alla variazione linguistica di tipo diafasico.
(Vd. Varietà linguistiche)
Rema. Il rema, nella grammatica del discorso, è quella parte dell’enunciato che
ne realizza lo scopo informativo.
Il rema tende a trovarsi alla destra degli enunciati.
Esempio. I nonni sono arrivati.
Soggetto. Il soggetto non è sempre “colui che compie l’azione” (agente) né tantomeno sempre “ciò di cui si parla” (topic); il soggetto è, in italiano, quell’elemento
della frase che accorda con il verbo. Questa analisi morfosintattica è l’unica possibile e l’unica che non cade in contraddizione. Nell’inglese it’s raining, il soggetto sintattico it non ha un referente (non si riferisce a niente e a nessuno) e non ha nessun
ruolo tematico: non compie l’azione né corrisponde a ciò di cui si parla; è soltanto
un elemento grammaticale.
Ci sono lingue che hanno soggetti espressi necessariamente (inglese) e lingue
che possono omettere il soggetto (italiano). La differenze tra questi due tipi di lingua consiste in una scelta parametrica.
Esempio. Piove.
(soggetto non espresso)
It’s raining.
(soggetto espresso)
Subordinata (proposizione). La proposizione subordinata dipende da una proposizione reggente. La proposizione principale è la proposizione che regge tutte le
altre all’interno di una frase complessa.
Esempio. Penso di andare al mare.
Penso:
proposizione reggente
Di andare al mare:
proposizione subordinata
207
Tema. Il tema, nella grammatica del discorso, è ciò di cui si parla, l’argomento
dell’enunciato, o, meglio ancora, l’informazione accessoria che facilita la comprensione del rema.
Il tema tende a trovarsi alla sinistra degli enunciati.
Esempio. I nonni sono arrivati.
(Vd. Rema)
Tema libero. La struttura della frase cosiddetta a tema libero prevede elementi
alla sinistra della frase non legati sintatticamente al resto della medesima. Sarà il
contesto linguistico ed extralinguistico ed il sistema di conoscenze dell’ascoltatore
(nonché lo spazio comunicativo condiviso da parlante e ascoltatore) a permettere
la decodifica e la comprensione del messaggio.
Esempio. Guido, Franca deve comprare altre caramelle.
Tema sospeso. La struttura della frase cosiddetta a tema sospeso presenta caratteristiche simili alla dislocazione a sinistra, soprattutto relativamente alla sua
funzione pragmatica di tematizzazione, ma ha caratteristiche sintattiche diverse: il
tema sospeso non si accompagna agli indicatori sintattici (le eventuali preposizioni)
e richiede necessariamente una ripresa (generalmente, un pronome clitico).
Esempio. Guido, Franca gli ha dato una caramella.
Topicalizzazione. La struttura della frase cosiddetta topicalizzazione pone un
costituente alla sinistra della frase, non come tema-dato ma come elemento nuovo.
Per la topicalizzazione, si parla generalmente di focus contrastivo perché il rilievo
del costituente dislocato implicitamente od esplicitamente richiama il contrasto.
Per indicare il focus, si usa convenzionalmente il maiuscolo.
Esempio. A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).
Valenza. La valenza del verbo si può spiegare come quel determinato numero di
posti vuoti, controllati dal verbo, da riempire all’interno della frase. Ogni verbo ha
un numero di posti vuoti (argomenti) da riempire secondo il suo significato. Ogni
verbo esprime una scena con degli attori (detti partecipanti o attanti) che possiedono ruoli specifici (ruoli tematici).
Esempio. Edoardo dà un fiore a Cristina.
Il verbo dare si accompagna tipicamente a 3 argomenti che possiedono dei ruoli
tematici all’interno dell’evento espresso dal verbo: Edoardo è l’agente della frase; un
208
Glossarietto
fiore subisce l’azione ed è quindi il tema o l’oggetto dell’evento; Cristina è il destinatario di questo evento del dare, più semplicemente dove termina l’evento, dove
viene a trovarsi l’oggetto alla fine dell’evento.
La frase minima si forma attorno ad un nucleo fondamentale, il verbo, ed è costituita da esso più i suoi argomenti (da 0 a 4); al di là della frase minima, possono
essere presenti altri elementi con funzione accessoria: le cosiddette espansioni.
Per quanto riguarda la valenza, i verbi si classificano in:
Verbi zerovalenti 
Piove.
Verbi monovalenti

Gino dorme.
Verbi bivalenti

Francesco bacia Francesca.
Verbi trivalenti

Francesco dà una lettera a Francesca.
Verbi tetravalenti

Marco trasferisce le sue cose da Firenze a Prato.
Nella frase Francesco va in Liguria in auto, soltanto Francesco e in Liguria sono
argomenti del verbo e costituiscono una frase minima; in auto è un elemento accessorio, fuori dalla frase minima.
Varietà linguistiche. Il modo con cui si usa la lingua può variare per situazioni,
canali di trasmissione, luoghi, tempo. Per questo motivo, in letteratura si usa fare
una distinzione tra:
• Varietà diamesica: la variazione linguistica determinata dal canale di trasmissione (lingua orale/lingua scritta) dell’evento comunicativo;
• Varietà diatopica: la variazione linguistica determinata dall’uso della lingua che
si fa in un determinato luogo geografico (l’italiano parlato in Toscana ha delle
peculiarità sue proprie rispetto a quello parlato, per esempio, in Lombardia o
nel Lazio);
• Varietà diafasica: la variazione linguistica determinata dal contesto d’uso della
lingua (italiano formale, italiano burocratico, italiano colloquiale, italiano informale trascurato);
• Varietà diastratica: la variazione linguistica determinata dalla situazione socioculturale del parlante.
(Vd. Registro)
209
Verbi. I verbi (dal latino verbum ‘il dire’) hanno una flessione che esprime, al suo
interno, persona, numero, tempo, aspetto e modalità.
Esempio. Ieri sono andato al mare.
Sono andato:
Persona e numero: 1a persona singolare
Tempo:
passato prossimo
Aspetto:
perfettivo (evento concluso, isolato)
Modo: indicativo
Spesso i verbi indicano un’azione, una cosa che si fa (es. Ludovico cammina).
Tuttavia, possono anche indicare: un processo, cose che capitano (es. Ludovico è
caduto); una proprietà del soggetto (es. Ludovico è basso e magro); uno stato (es.
Ludovico esiste); una sensazione (es. Ludovico ama Elisa).
I verbi possono essere transitivi, se possono essere seguiti da un oggetto diretto
e possono essere trasformati in passivi, e intransitivi, se hanno le caratteristiche
opposte.
Esempi.
Edoardo ama Cristina.
(verbo transitivo)
(Cristina è amata da Edoardo).
Edoardo dorme.
(verbo intransitivo)
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CHIAVI DELLE ATTIVITÀ
PRIMA PARTE
L’italiano e l’acquisizione dell’italiano come lingua seconda. Ricadute didattiche
nella classe plurilingue.
ATTIVITÀ cap. 2, par. 2
La variazione diafasica, diastratica e diamesica
1F
2A
3I
4E
5B
6C
7H
8D
9G
227
ATTIVITÀ cap. 2, par. 4
Fiore di Maggio
Tu che sei nata dove c’è sempre il sole
sopra uno scoglio che ci si può tuffare
e quel sole ce l’hai dentro al cuore
sole di primavera
su quello scoglio in maggio è nato un fiore.
E ti ricordi c’era il paese in festa
tutti ubriachi di canzoni e di allegria
e pensavo che su quella sabbia
forse sei nata tu
o a casa di mio fratello
non ricordo più.
E ci hai visto su dal cielo
ci hai trovato e piano sei venuta giù
un passaggio da un gabbiano
ti ha posata su uno scoglio ed eri tu.
Ma che bel sogno era maggio e c’era caldo
noi sulla spiaggia vuota ad aspettare
e tu che mi dicevi guarda su quel gabbiano
stammi vicino e tienimi la mano.
E ci hai visto su dal cielo
ci hai trovato e piano sei venuta giù
un passaggio da un gabbiano
ti ha posata su uno scoglio ed eri tu.
Tu che sei nata dove c’è sempre il sole
sopra uno scoglio che ci si può tuffare
e quel sole ce l’hai dentro al cuore
sole di primavera
su quello scoglio in maggio nasce un fiore.
Che polivalente
Dislocazione a sinistra con tematizzazione
DATO a sinistra, NUOVO a destra
Pensare + indicativo
Ci hai visti/o
Ci hai trovati/o
Preferenza del discorso diretto
228
ATTIVITÀ cap. 2, par. 5
La sintassi della frase
1F
2E
3B
4G
5C
6A
7D
ATTIVITÀ cap. 5, par. 1
Il Qcer: la competenza comunicativa
C1
A1
B1
B2
C2
A2
Il Qcer: la correttezza grammaticale
A1
B1
C2
C1
A2
B2
ATTIVITÀ cap. 5, par. 2
I livelli del Qcer e il loro possibile riadattamento nella scuola
A1
Livello iniziale
B1
A2
229
ATTIVITÀ cap. 5, par. 3.3
Le tipologie e i generi testuali
SERVE PER…
TESTO INFORMATIVOESPOSITIVO
LO TROVI IN…
dare informazioni, notizie
su un argomento.
articoli di giornale
(cronaca), libri scolastici.
comunicare i propri
pensieri, le proprie
emozioni.
lettera, pagina di diario,
canzone.
TESTO
ARGOMENTATIVO
sostenere una tesi o una
opinione e convincere gli
altri.
saggi filosofici,
propaganda politica,
editoriali.
TESTO REGOLATIVOPRESCRITTIVO
dare regole da seguire e/o
istruzioni per l’uso
istruzioni llegate, regole
di comportamento,
regolamenti, ricette.
trasmettere pensieri e
sentimenti attraverso il
suono e il ritmo delle
parole.
poesie, filastrocche,
canzoni.
TESTO NARRATIVO
raccontare fatti che
accadono nel tempo.
fiabe, favole, romanzi,
racconti, leggende.
TESTO DESCRITTIVO
descrivere animali,
persone, cose, ambienti
ecc.
guide turistiche, libri,
avvisi, comunicati,
cronache.
TESTO ESPRESSIVOPERSONALE
TESTO POETICO
230
SECONDA PARTE
L’insegnante apprendente. La pratica etnografica nella didattica dell’italiano L2.
ATTIVITÀ cap. 7, par. 1
Un bambino va alla guerra o forse no
Nel descrivere le differenze fra i due dialoghi, Marianella Sclavi afferma:
L’insegnante dello scenario 1 [dialogo 1] […] non ascolta
Ernesto, pretende solo di essere ascoltata. Mette in atto un
ascolto passivo e non attivo; ascolta e osserva del comportamento di Ernesto solo quanto si adegua o si discosta da
norme predeterminate, da quello che la scuola in cui opera
definisce “un comportamento adeguato”. Nella sua missionaria insistenza ad elevare la capacità di espressione di Ernesto,
ritiene sia del tutto legittimo e “professionale” trattarlo
come un minus habens. Non è difficile immaginare che la
valutazione di fine anno sarà del tipo: “io non ho pregiudizi
verso Ernesto. La sua cattiva fama si basa su una reputazione ben meritata”. […] il comportamento dell’insegnante nello
scenario 1 è chiaramente caratterizzato da un pregiudizio: c’è
l’omologazione sulla base di uno stereotipo negativo, c’è la
minaccia, la distorsione, l’irrigidimento dei rapporti e l’indicazione di una modalità di convivenza fondata sulla collusione della vittima con l’aguzzino. […] c’è l’interessamento benevolo e continuativo di riportare il dominato nel consesso civile e un esito facilmente immaginabile come deludente. […]
Un insegnante che desideri passare dallo scenario 1 [dialogo
1] allo scenario 2 [dialogo 2] non dovrà solo cambiare “metodo pedagogico”, dovrà abbandonare un atteggiamento rigido,
difensivo, di controllo a favore di un atteggiamento flessibile,
fiducioso, incerto, esplorativo. Deve cambiare il tipo di personalità che prima riteneva il più adeguato allo svolgimento
del suo lavoro. […] Possiamo per esempio faclmente immaginare che anche l’insegnante dello scenario 2 come quella
dello scenario 1, quando Ernesto inizia il suo racconto con le
parole: “Stanno giocando a pallone” abbia avuto come prima
reazione la tentazione di inchiodarlo sul suo errore, di riportarlo al proprio modo di inquadrare gli eventi. Il processo di
trattenersi cercando di rispettare la logica dell’altro è una disposizione d’animo di accoglienza delle ambiguità, della po-
231
lisemanticità, è un muoversi in attesa di una possibile bisociazione delle rispettive matrici percettivo-valutative. La constatazione che tale bisociazione ha dei fondamenti (Ernesto
dimostra una coerenza nel suo non rispetto delle norme…) rimanda a ulteriori esplorazioni in attesa che l’accumularsi dei
piccoli particolari, dei segnali metacomunicativi permetta di
interpretare con un grado soddisfacente di approssimazione
non solo il comportamento di Ernesto, ma l’intera dinamica e
gioco dei reciproci equivoci. (Sclavi 2003: 109-112)
L’Autrice considera la seconda modalità dialogica come rappresentativa di un
ascolto attivo. A nostro avviso, nonostante l’insegnante del secondo dialogo sia indubbiamente accogliente, anche in questa seconda situazione non si verificano le
condizioni per una efficace didattica conversazionale. L’insegnante guida il bambino
in una lettura poco spontanea, anticipandone e influenzandone le risposte: riconduce la conversazione all’innaturalità del dialogo scolastico, non adottando realmente un “atteggiamento di tipo esplorativo”. Infine, l’insegnante chiede ad Ernesto
di simulare una conversazione telefonica, in cui dovrà aggiungere ulteriori dettagli
al racconto precedente. Questo tipo di attività, per quanto possa apparire ludica,
non ci appare efficace né didatticamente, né pedagogicamente: il bambino dovrà
sforzarsi di ripetere la storia, aggiungendo quei particolari che l’insegnante si aspetta secondo un modello narrativo che lei /lui e la scuola considerano appropriato.
In realtà, Ernesto non sta commettendo alcun errore (non si capisce perché l’insegnante dello scenario 2 potrebbe avere la tentazione di “inchiodare” il bambino ai
suoi sbagli), mentre illegittime ci appaiono le anticipazioni fornite dall’insegnante
e le sue richieste: non vediamo lo spazio dato alla “polisemanticità” né il rispetto
della logica del bambino.
Una terza modalità dialogica potrebbe invece prevedere una sospensione
dell’intervento da parte dell’insegnante e la richiesta di descrivere semplicemente
le immagini, attendendone le connessioni/non connessioni spontanee che il bambino può elaborare parlando. Dal suo racconto (da cui potrebbe emergere, ad esempio, una descrizione diversa da quella elaborata dall’insegnante e/o da un testo
scolastico), è possibile trarre conoscenza sulla modalità interpretativa di Ernesto,
formulando domande volte a capire il motivo (il come e il perché) di interpretazioni eventualmente differenti. Questo tipo di dialogo consente all’insegnante di
mantenere un interesse euristico nell’apprendente, rispettare le differenti logiche
di appropriazione dell’oggetto di conoscenza, avere uno spazio di negoziazione dei
significati: ciò permette di comprendere/conoscere i propri apprendenti e di im-
232
parare da loro. Potremmo dire che è con questa terza modalità, secondo noi, che
si concretizza una didattica efficace: essa si basa su un concetto di insegnamento
che diventa accogliente ed efficace solo se abbandona l’idea del dialogo scolastico
(quello delle risposte attese dall’insegnante: vd. Perticari 2005).
ATTIVITÀ cap. 8, parr. 1 - 2
Analisi di materiali didattici: le contraddizioni dei metodi e delle tecniche in glottodidattica. Analisi di materiali didattici per l’italiano L2: critica degli stili cognitivi e
della culturizzazione.
Vd. cap. 9
ATTIVITÀ cap. 9, par. 5
Lingua italiana e razzismi
Per lo svolgimento di questa attività si consiglia la lettura di:
• AA.VV. 2011, Cronache di ordinario razzismo. Secondo libro bianco sul razzismo
in Italia, Roma, Edizioni dell’Asino.
• Faloppa, F. 2011, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Roma-Bari, Laterza.
• Faso, G. 2008, Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono, Roma,
Edizioni DeriveApprodi.
• Faso, G. 2009, La lingua del razzismo: alcune parole chiave, in Naletto G. (a cura
di), Rapporto sul razzismo in Italia, Roma, Manifestolibri: 29-36.
ATTIVITÀ cap. 10, par. 2
Confronti
L’unità didattica Una decisione difficile presenta un testo (input) su cui non si propongono attività predeterminate di vero/falso, scelta multipla, mappe predefinite
ecc. con cui si richiederebbe all’apprendente di fornire la risposta corretta, escludendo così la possibiltà che vengano formulate ed espresse altre risposte. Grazie
ad eventuali differenti interpretazioni e a dubbi che emergono in classe, è possibile
pensare ad un confronto di idee e consentire una conversazione/negoziazione dei
significati elaborati a partire dal testo. Questa dimensione di riflessione collettiva
è sottolineata anche dalla scelta di non esprimere le consegne con la forma imperativa o infinita del verbo, ma con la prima persona plurale (leggiamo, discutiamo,
svolgiamo ecc.). Non si tratta, a nostro parere, di un particolare dettato da scelte stilistiche, ma connesso al rifiuto di impiegare forme imperative in modo inadeguato
(leggi/leggete, svolgi/svolgete ecc.): l’insegnante è parte del contesto, non veicola
233
significati dall’alto, ma li condivide e li negozia con gli apprendenti, stimolando l’elaborazione di domande che possano mettere in crisi le spiegazioni date e sollecitino
a nuove ipotesi esplicative. In questa attività si propone di concepire la didattica
come luogo in cui riflettere significa ammettere le proprie incertezze, confrontandole con altre incertezze e procedendo verso nuove scoperte. Per questa ragione,
la riflessione sulla grammatica è proposta non attraverso tecniche insiemistiche e
procedurali, molto in voga nei testi di italiano L2 (vd. Balboni 2002: 258-261): esse
ripropongono un modello didattico di tipo impositivo (e l’imposizione, come ha
sempre sottolineato un grande educatore come Alberto Manzi, non produce e non
crea conoscenza). Si è preferito invece stimolare un ragionamento sulla grammatica
sollecitando gli apprendenti a riflettere partendo dalla propria competenza sulla
lingua (vd. Lo Duca 2004). Infine, la richiesta di elaborare una possibile soluzione di
“un problema difficile” non si configura come una proposta su elementi di “civiltà
e cultura” (vd. Balboni 2002, Vedovelli 2002), che riporterebbe ad una dimensione
di spiegazioni culturaliste, banalizzando la didattica in classe (vd. capp. 9-11). Le domande dell’attività non chiedono il “racconto di sé” secondo un’ottica che ristabilisce una visione dell’apprendente “patologizzato” (vd. Baroni 2010): durante l’esecuzione dell’attività in classe è possibile che emergano dei racconti spontanei di esperienze personali, ma questa proposta vuole stimolare l’apprendente ad esprimere
soluzioni possibili e creative. In essa la creatività non è semplice fantasia, ma è vista
come “la capacità produttiva della ragione ed è connessa alla fantasia, che serve per
affrontare, senza limitazioni e pregiudizi, ogni problema […]. La creatività [è] saper
riconoscere un problema e saper realizzare i modi per trovare una soluzione […], è la
capacità di rompere conformismi e adattamenti”. È quindi un’attività costante che
non può essere programmata: è un approccio che stimola alla scoperta e si scontra
con il mondo della velocità (vd. gli appunti di Alberto Manzi, scaricabili dal sito
http://www.centroalbertomanzi.it/linguistica.asp).
ATTIVITÀ cap. 11, par. 1
Quello spazio fra due punti
Per lo svolgimento di questa attività, si possono confrontare le proprie risposte con
la lettura del cap. 11.
ATTIVITÀ cap. 11, par. 3
Con-vivenze
Per una analisi delle competenze linguistiche di M., si rimanda alla lettura dei capp. 2-3.
Il testo, a nostro avviso, presenta ulteriori livelli di analisi non trascurabili e che
234
riguardano la sfera “percettiva” del lettore/insegnante, che assegna una propria interpretazione al testo. Esso offre una lettura parziale, opaca, non necessariamente suscettibile di una lettura chiaramente decifrabile, come a rivendicare da parte
dell’apprendente il diritto di sottrarsi alle interpretazioni dell’insegnante (vd. Glissant 2007).
ATTIVITÀ cap. 12, parr. 1-2; cap. 13, par. 1
Punti di vista.
Il paradosso dell’osservatore.
Sguardi etnografici.
Per lo svolgimento di queste attività, si rimanda ai capp. 11-13. L’immagine riportata nell’attività 12.1 è ricordata da Leonardo Piasere che, parlando dell’immaginario
che la scuola edifica sui bambini rom e dei test/valutazioni a cui questi bambini
sono stati sottoposti, commenta così:
Zingari disadattati? Rovesciamo il punto di vista. Si ricorderà quel topolino dei comportamentisti che diceva: “Questo
psicologo è condizionato. Ogni volta che premo la levetta
mi dà un po’ di cibo. Così potrebbe dire l’alunno zingaro:
“Questo educatore è condizionato. Ogni volta che entro in
classe io, diventa un disadattato”. […]
Ora, la cosa per me inaccettabile delle ricerche che leggevo
non era che venissero somministrati ai bambini zingari dei
test, ma che la somministrazione non venisse mai problematizzata: i risultati venivano presentati col distacco dell’oggettività derivante dalla “misurazione” decontestualizzata; e
quando non riuscivano a dimostrare deficit intellettivi scivolavano verso l’idea della deprivazione culturale (Piasere
2010: 98-103).
235
GLI AUTORI
Alan Pona, nato a Prato nel 1978, è dottore di ricerca in linguistica. Si è dedicato
soprattutto allo studio di alcuni aspetti della morfosintassi della lingua italiana e
dell’apprendimento dell’italiano come L2. Ha collaborato a pubblicazioni di didattica della L2. Al momento lavora come facilitatore linguistico di italiano L2 e formatore di docenti in Toscana.
Franca Ruolo, nata in Sicilia nel 1970, è facilitatrice linguistica di italiano L2 nelle
scuole primarie e secondarie e in corsi di italiano L2 e di letto-scrittura per migranti adulti. È formatrice di didattica dell’italiano come lingua seconda in Toscana, con
particolare attenzione all’approccio etnografico nella didattica della seconda lingua.
237
INDICE
Premessa di Salah Ibrahim................................................................................................................ 3
Introduzione ......................................................................................................................................... 5
PRIMA PARTE
L’italiano e l’acquisizione dell’italiano come lingua seconda.
Ricadute didattiche nella classe plurilingue, di Alan Pona .............................................. 7
Capitolo I
Terminologia introduttiva ............................................................................................................. 9
Capitolo II
Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche . ............................................... 15
1. Laboratorio .................................................................................................................................. 15
2. La variazione diafasica, diastratica e diamesica .......................................................... 16
3. Leggendo Noi la farem vendetta di Paolo Nori .............................................................19
4. Fiore di maggio .......................................................................................................................... 26
5. La sintassi della frase .............................................................................................................. 28
6. Punti di crisi dell’italiano contemporaneo .................................................................... 34
6.1 A me mi .................................................................................................................. 34
6.2 Soggetto, verbo .................................................................................................. 35
6.3 Lui/egli ................................................................................................................... 35
6.4 Il dativo in italiano . ........................................................................................... 36
6.5 Che nelle frasi relative ..................................................................................... 38
7. Alcune citazioni ....................................................................................................................... 40
8. Possibili conclusioni ................................................................................................................ 41
Capitolo III
L’acquisizione delle lingue seconde ......................................................................................... 43
1. Analisi/descrizione di testi autentici . ............................................................................. 43
2. Le varietà degli apprendenti . .............................................................................................. 47
2.1 Le varietà degli apprendenti: alcune definizioni possibili ................. 48
2.2 Riflessioni .............................................................................................................. 52
239
3. I cinque postulati di Stephen Krashen ............................................................................. 54
4. La linguistica acquisizionale ................................................................................................. 58
4.1 Che cosa è una Lingua Seconda ................................................................... 58
4.2 Fasi (e processi) acquisizionali ...................................................................... 59
4.3 Le sequenze acquisizionali ............................................................................. 64
4.4 Riflessioni .............................................................................................................. 67
Capitolo IV
L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde ................................................. 69
1. Laboratorio ................................................................................................................................. 69
2. Una possibile definizione di grammatica ....................................................................... 71
2.1 Tipi di grammatiche .......................................................................................... 72
3 Una possibile definizione di competenza comunicativa .......................................... 73
4. Oltre la competenza comunicativa: la competenza d’azione ................................ 74
5. Modelli operativi . .................................................................................................................... 74
5.1 Unità di lavoro/apprendimento .................................................................. 77
5.2 Esempi di unità di lavoro/apprendimento .............................................. 81
Capitolo V
Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue . .............................................. 95
1. Laboratorio ................................................................................................................................ 96
2. I livelli del Qcer e il loro possibile riadattamento a Scuola .................................. 99
3. Il Qcer e il testo come unità base dell’azione didattica ........................................ 104
3.1 Una possibile definizione di testo . ........................................................... 104
3.2 Il testo nel Qcer . .............................................................................................. 104
3.3 Le tipologie e i generi testuali .................................................................... 105
Capitolo VI
La lingua dello studio. La facilitazione e la semplificazione dei testi
nella scuola . ...................................................................................................................................... 107
1. Alcune premesse .................................................................................................................... 107
2. Tecniche di semplificazione testuale ............................................................................. 110
2.1 Lessico .................................................................................................................. 110
2.2 Morfosintassi ....................................................................................................... 111
2.3 Coerenza/coesione . ........................................................................................ 113
240
SECONDA PARTE
L’insegnante apprendente. La pratica etnografica nella didattica
dell’italiano L2, di Franca Ruolo ................................................................................................ 115
Capitolo VII
Insegnare esige il saper ascoltare ............................................................................................ 117
1. Un bambino va alla guerra (o forse no) .......................................................................... 118
Capitolo VIII
L’illusione di insegnare la lingua ............................................................................................. 123
1. Analisi di materiali didattici: le contraddizioni dei metodi e delle tecniche
in glottodidattica ................................................................................................................... 123
2. Analisi di materiali didattici per l‘italiano L2: critica agli stili cognitivi e
alla culturizzazione ................................................................................................................ 124
Capitolo IX
Uno sguardo critico sulla glottodidattica .......................................................................... 127
1. I rischi della banalizzazione nei modelli operativi standard nella didattica
dell’italiano L2. ........................................................................................................................ 127
2. Contro la teoria semplicistica degli stili cognitivi . .................................................. 134
3. Contro l’idea che “non si insegna solo la lingua, ma anche la cultura che
le sta dietro” . ........................................................................................................................... 136
4. Stereotipi e pregiudizi nei libri di italiano L2 .............................................................. 137
5. Lingua italiana e razzismi . ................................................................................................... 142
Capitolo X
Parlare insieme ................................................................................................................................ 143
1. Una proposta didattica ........................................................................................................ 143
2. Confronti ................................................................................................................................... 146
3. Le fasi dell’unità di apprendimento: critica al modello di unità didattica
e proposte per un percorso possibile ............................................................................ 147
241
Capitolo XI
Lo spazio comune delle relazioni ........................................................................................... 149
1. Quello spazio fra due punti ............................................................................................... 149
2. Lettura sul concetto di intercultura ............................................................................... 150
3. Con-vivenze .............................................................................................................................. 156
4. “Qualche piacevole sentimento”: un piccolo racconto sull’importanza
delle contro-rappresentazioni nella didattica dell’italiano L2 ........................... 157
Capitolo XII
L’insegnante-apprendente ......................................................................................................... 159
1. Punti di vista ............................................................................................................................. 160
2. Il paradosso dell’osservatore ............................................................................................. 162
Capitolo XIII
Osservare le relazioni ................................................................................................................... 163
1. Sguardi etnografici ................................................................................................................. 163
2. Riflessioni finali ....................................................................................................................... 163
Capitolo XIV
Possibili letture . .............................................................................................................................. 169
Appendice
Piccolo scritto sulle “parole parassite” di Franca Ruolo .................................................. 193
Glossarietto ...................................................................................................................................... 195
Bibliografia . ........................................................................................................................................ 211
Chiavi delle attività ...................................................................................................................... 227
Gli autori . ........................................................................................................................................... 237
242
Finito di stampare nel mese di maggio 2012
Grafica, Impaginazione e Stampa
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