“ A Domenico Mancini, marito fedele, padre affettuoso e nonno amorevole” “Al prof. Giuseppe Jovine, maestro ed amico sincero” “Al dottor Carlo Jovine, continuazione dell’amore paterno per la terra di Molise” “ Ai miei avi tutti” SOMMARIO Cenni storici e bibliografici 1 Jovine e la religione 16 Un tema ricorrente: la morte 30 Gli affetti 42 Il poeta e la sua terra 64 Jovine saggista 76 Un poeta vivo nel ricordo 85 Appendice 92 Bibliografia e pubblicazioni 95 CAPITOLO 1 Cenni storici e bibliografici Giuseppe Jovine nasce a Castelmauro, in Molise, il 20 Novembre del 1922 nel palazzo ducale acquistato dai suoi avi dai duchi di Canzano. La sua infanzia scorre tranquilla tra i boschi e le colline della ridente regione del mezzogiorno, ma avverte da subito la volontà di risolverne quei disagi di cui non si è mai raccontato nei manuali di storia. Già dall’infanzia si insinua nel suo cuore un sentimento profondo di giustizia sociale. Un aneddoto rivelatomi dal figlio Carlo ci mostra come l’idea della comunione sia partecipe della sua vita. Tornato a casa, dopo un pomeriggio di giochi, senza calzature, aveva ricevuto le attenzioni della madre Adele, preoccupata dal fatto che il figlio fosse rientrato in casa senza le scarpe. Senza minimamente scomporsi, Jovine spiegò che il suo compagno di giochi non ne aveva, e gliele aveva regalate in quanto lui ne aveva molte altre. L’interesse per il prossimo, che man mano diventerà amore per la propria terra e i propri corregionali, è vivo nel poeta molisano sin dall’infanzia e si ripeterà nelle sue poesie e nei suoi racconti dove i maggiori protagonisti sono per lo più contadini e poveracci. Nel 1933, all’età di undici anni, viene mandato a studiare presso la Scuola dei Salesiani di Macerata dove resterà sino al 1938. Qui inizia quel che gli antichi chiamavano il “cursus honorum” pubblicando su un foglio studentesco la sua prima fatica: “Contemplazione della morte di d’Annunzio”, mostrando così fin da subito quella attenzione nei confronti del vate abruzzese che lo accompagnerà per tutta la vita. Terminate le scuole presso Macerata si sposta a Chieti dove frequenta il Liceo Classico, che però interrompe per 1 una azione sconsiderata. Infatti insieme con un compagno di studi decide di imbarcarsi per l’Albania ma viene fermato dal colonnello che si rende conto in tempo che la divisa indossata dai due non è quella d’ordinanza e quindi li rimanda a casa. Terminati gli studi liceali si trasferisce a Firenze dove frequenta l’Università, ma la voglia di arruolarsi perdura sino al terzo anno quando viene distaccato al IV Battaglione del Reggimento Bersaglieri dal quale si concederà nel 1945. Continua le sue pubblicazioni maggiormente su fogli accademici come la “Gioventù” di Napoli in cui appaiono diverse poesie. Si evince da queste prime pubblicazioni una certa polemica nei confronti dello strutturalismo e del decadentismo, a causa dell’influenza di personaggi come Giorgio Pasquali e Giuseppe De Robertis, tesa a far si che essi non scadano, seppur involontariamente, in una sorta di positivismo che non permetterebbe di giungere ad una critica letteraria atta, secondo un dettame marxista da lui seguito, a “guardare oltre il fenomeno puramente linguistico e considerarlo nella sua complessa interazione dinamica con il contesto sociale che l’ha generato”1. L’interesse par la politica si radicò in lui sin dall’età adolescenziale, quando a soli quattordici anni seguiva lo zio Paolo Jovine, consigliere provinciale socialista nei suoi comizi, maturando in lui la possibilità di una intesa tra comunismo e valori cristiani; possibilità che lo spinse a seguire le ideologie di autori come Stinmer e Troetsch. Nel 1945, quando ormai la caduta di Mussolini era irreversibile, Jovine viene nominato Commisario Prefettizio a Castelmauro, ossia la carica attuale di sindaco, e, non essendosi in Molise combattuta una guerra di resistenza, egli 1 LUGIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine”- Pag. 78 – Edizioni Enne - 2000 2 utilizzò la sua carica per permettere l’evasione di prigionieri inglesi. Castelmauro era ovviamente sotto il controllo dei tedeschi che avevano minato il ponte di accesso al piccolo borgo; ed allora Jovine, come egli ricorda in un passo de “La Luna e la Montagna” incaricò una persona di andare a togliere le mine. Questa però, scoperta dai tedeschi, fu costretta alla fuga. Nel 1948 vinse il concorso per i licei ed iniziò ad insegnare prima filosofia, e poi italiano e latino nei vari licei della capitale. Continuò ad insegnare sino al 1973, salvo poi divenire preside di scuole medie presso la capitale; carica che mantenne sino al 1991. Il primo scritto di Jovine è un saggio sulla poesia di Albino Pierro, terminato nel 1965 e uscito l’anno successivo in cui prende in considerazione non solo l’intento poetico di Pierro ma cerca di incentrarlo anche in un quadro culturale e politico. La sua critica cerca di conciliare insieme l’ideale marxista dell’arte intesa come appropriazione del reale e quello che era stato l’insegnamento di Croce sino a quel momento. Ma le idee delle riviste del primo novecento, come ad esempio “La Voce” di Prezzolini, trovano un riscontro nel suo voler inquadrare poeta e poesia in un quadro storico ben preciso. Egli allora affronta questo suo lavoro intendendo la produzione di Pierro come la storia culturale della borghesia italiana di formazione cattolico/idealista, e ponendosi a difesa di quel popolo che da secoli scrive la storia del mondo ma che dal Pierro era inteso solo come uno sfondo pittorico. Egli giustamente si prende l’onere di una critica che possa far interagire insieme non solo la storia ma anche la filologia, che lui intende ovviamente complementari. E termina così il suo studio definendo Pierro “poeta di 3 formazione e ispirazione cattolico/idealistica, che ha saputo darci quello che i marxisti definiscono un rispecchiamento dialettico della realtà umana”2. Pierro per molti anni fu collega di Jovine, e proprio da lui il nostro recepisce l’amore per il dialetto e la sua importanza culturale, dando alla luce la sua prima produzione in vernacolo nel 1970, “Lu Pavone”3, che deve essere inteso come un tentativo di integrazione tra cultura dominante e cultura subalterna contadina. Nella sua ricerca di un idioletto in grado di integrarsi con la cultura moderna Jovine troverà diversi insegnanti, quali Gramsci che aveva iniziato i suoi studi sul Folklore, e maggiormente Pier Paolo Pasolini che intendeva l’attacco contro le culture subalterne un autentico genocidio. Vi sono però delle differenze importanti tra Pasolini e Jovine: laddove il primo intende il dialetto come la ricerca di un linguaggio inedito “sottratto all’uso quotidiano”4, per Jovine è invece un portatore di valori culturali. L’amore viscerale che Jovine nutre per la sua terra molisana e per il suo paese Castelmauro, necessita del linguaggio puro contadino, il linguaggio di quel popolo protagonista assoluto dei suoi scritti, dei suoi pensieri. Ma non si tratta solo di copiare le parole pronunciate dalle persone con cui egli si intratteneva nella piazza o nelle cantine: è la ricerca costante di una modernizzazione dell’idioletto non solo castelmaurese, ma anche molisano. Ricordo ora un aneddoto di Jovine che mi vede protagonista. Lo avevo da poco conosciuto e gli avevo chiesto di recensire qualche mio scritto, confessandogli successivamente che anche a me sarebbe piaciuto cimentarmi con qualche verso in dialetto. Gli chiesi dunque dei consigli su come e dove poter trovare un lessico 2 3 4 “La poesia di Albino Pierro” – Edizioni Il nuovo Cracas - Roma 1966 “Lu Pavone” – Edizioni Enne -Campobasso 1983 LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine” -Pag.82 – Edizioni Enne - 2000 4 abbastanza importante per poter dar vita alla mia idea. Mi chiese di aspettare dirigendosi verso la sua libreria e tornò indietro con in mano un libro. Pensai che si trattasse di una raccolta da lui fatta sui termini dialettali (allora non avevo ancora a mente la sua produzione letteraria), ma quando lessi il titolo del tomo rimasi senza parola “Vocabolario ragionato del dialetto di Casacalenda”. Al che gli dissi che il mio intento era quello di scrivere in dialetto castelmaurese, ma lui serafico “Devi imparare a scrivere in dialetto molisano; e solo allora sarai in grado di esprimerti nel dialetto di qualsivoglia paese”. Per Jovine il dialetto è lo status di una regione intera, ancor prima di esserlo per un singolo borgo. Lui crea con il suo dialetto una koinè particolare, cerca di fondere tutto il saggio sapere degli antichi in un linguaggio che possa risultare comprensibile all’intero popolo molisano. Ecco perché spesso negli scritti di Jovine un castelmaurese stenta a riconoscere la propria parlata, in quanto lui cerca di dare ad ogni frase una dimensione universale e di vita. In “Cento proverbi e detti di Castelluccio Acqua Borrana”5 ce n’è uno di cui non si trovano riscontri in altri testi e che probabilmente Jovine ha inteso direttamente da qualche contadino in una delle sue consuete passeggiate. “La grannela za recanosce ‘ncopp’all’uocchie e le magliuole”. Tradotto verrebbe pressappoco così: la grandine si riconosce sopra gli occhi e i germogli della vite. Ma come detto per Jovine il dialetto è trasmissione di valori culturali ed umani, espressione di un linguaggio universale non solo letterario ed estetico, ma maggiormente esistenziale, per cui nel suo intento egli voleva far comprendere 5 come i colpi del tempo (vecchiaia) si riconoscono sulla propria Edizioni Enne – Campobasso - 1991 5 esistenza. Se si vuole comprendere a pieno la produzione joviniana, sia essa in lingua o in vernacolo, non ci si deve fermare al processo estetico o letterario, ma entrare a fondo nel suo animo, nel suo modo di intendere la quotidianità. La produzione di Jovine in dialetto risente molto del tema della morte che viene inteso dal popolino come profondo momento di comunione fraterna. Le liriche in dedica ai genitori mostrano tutta la padronanza del poeta verso una realtà cruda della vita. Ne “Lu Pavone” sono notevoli le liriche che raggiungono picchi altissimi di commozione, ma anche di ingenua naturalezza verso un fenomeno insito nel nostro essere uomini dal primo momento della nostra vita. Jovine sarà un poeta dialettale autentico, capace di mettere per iscritto i sapori reali della sua terra, le sue tribolazioni, i suoi pregi, i suoi difetti. Amore che troverà il suo culmine in “Benedetti Molisani” un saggio sulle reali condizioni della regione. Certo la poesia di Jovine è incentrata non solo sulla consapevolezza della morte, ma anche sulla identica consapevolezza che comunque ad ogni attimo la vita si rinnova; e maggiormente al seguito di eventi tristi e difficili. “La vita sempre za rennova. / E’ murte tata / e iè penze a la giacchetta nova / che mmeia mette mò che vvè l’estate. (La vita sempre si rinnova. È morto mio padre, ed io penso alla giacchetta nuova che devo mettermi adesso che vien l’estate)6”. E lo stesso concetto che si trova in questo vecchio proverbio castelmaurese . “Me so cadute le nielle ma le detera stanne ancora all’ampiede (Mi sono caduti gli anelli ma mi restano ancora le dita)7”. Anche se le ricchezze sono andate perdute ci resta la possibilità di poterle riconquistare di nuovo: 6 7 “Lu Pavone”- La vita – Pag.50 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 “Cento proverbi e detti di Castelluccio Acqua Borrana” - Pag.46 n°94- Edizioni Enne – Campobasso- 1991 6 la morte, come qualsiasi altra disgrazia ha un unico valore per Jovine; è solo alla morte non vi è rimedio. Nella vita vi sono gioie e dolori che conosciamo da sempre e che dovremo essere in grado di affrontare. Questo è il suo monito maggiore. Quando un uomo riconosce i propri limiti allora egli è veramente uomo capace di affrontare ogni tipo di avversità e di vivere serenamente la propria esistenza. Il suo è quindi un linguaggio universale che riesce a cogliere le varie sfaccettature di un realismo assoluto che immette nei suoi versi, come nota lo stesso Tullio De Mauro nella prefazione a “Lu Pavone”, in cui il dialetto è testimonianza viva di un mondo reale, che vive delle sue emozioni e tramite la sua lingua. Scrivere in dialetto non vuol dire necessariamente scrivere di cose metafisiche: le genti, i luoghi, i sentimenti di Jovine sono reali. Tutti possono andare nel piccolo borgo molisano e chiedere di “Cinzinille che faceia lu murte pe pazzia”8 o di qualche suo nipote; o sentire parlare dei discendenti di “Surgetille”: <<Ta recurde cumpà de Surgitille?/ - Se mma recorde! Coma stì cumpà?>>9( Ti ricordi, compare, di Surgetille?/ - Se mi ricordo! Come stai, compare?), e via via tutti i poveri contadini che hanno avuto un minuto di gloria all’interno della poesia joviniana. Il dialetto però è una lingua colorita, spesso aggressiva, che però il nostro nel suo linguaggio tende a volte ad ammorbidire per non cadere in una forma di espressionismo che potrebbe farne perdere il senso del reale. Lo stesso cedere a volte a densità foniche per rendere più melodiosa la sua poesia, fatta comunque di gesti rudi e pensieri grotteschi ed a volte volgari, come i 8 9 “Lu Pavone” – Cinzinille – Pag.58 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 “Lu Pavone” – La grannela e la mazza – Pag.84 - Edizioni Enne – Campobasso – 1983 7 racconti della Sdrenga”10, è un peccato veniale che gli si può perdonare. Lo stesso Belli riconoscerà al poeta molisano di utilizzare il dialetto senza alcun tipo di artificio, in maniera semplice e lineare. “Na parola! Che gghie’ na parulella! / Basta a fa luce e stuta lu turmiente (Una parola! Che cos’è una paroletta! / Basta a far luce e spegne il tormento)11”.Ma questo legame viscerale che lega Jovine alla parola dialettale, ha delle radici profonde, che si trovano racchiuse nella sua autenticità di scrittore nazionale ed internazionale (“Lu pavone” e “La sdrenga” hanno visto la luce anche in una edizione americana)12. Dunque si diceva la parola; un’arma misteriosa che serviva a Jovine per rimettere in riga la realtà del mondo, della vita in generale. Quell’esistenza che pesa come un macigno sulle spalle della povera gente e che invece scorre liscia, per via di sotterfugi e finezze, per coloro che detengono il bastone del comando. Ed è così che in alcuni scritti, utilizzando proprio la parola come un’arma, il nostro prende le difese delle classi misere bacchettando, senza esclusione di colpi, coloro che ne approfittano. Nemmeno le cariche ecclesiastiche vengono risparmiate dalla sua arguzia e dai suoi moniti. A tal proposito ricordo le parole di Monsignor Ferrara, intervenuto a Castelmauro per una commemorazione del poeta, in cui lesse un brano preso da “Viaggio d’Inverno”13, ultima fatica poetica di Jovine prima della sua scomparsa14. “[…] Ma tu Madonna tendici una mano, / purchè non apri le porte del cielo / ai Caporali e ai Monsignori / che in Trono fanno 10 “La Sdrenga” – Edizioni Enne – Campobasso- 1989 “Lu Pavone” – La cundanna – Pag.30 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 12 “The Peakock/ The Scraper” Edizioni Peter Lang. Gli scritti di Jovine sono stati tradotti presso la casa newjorkese da LUIGI BONAFFINI nel 1993 13 “Viaggio d’inverno” Edizioni Enne – Campobasso – 1999, pubblicao postumo dal figlio Carlo 14 “Gente alla Balduina” – Edizioni Marsilio – Venezia. Fu pubblicato postumo nel 2005 ad opera del figlio Carlo e raccoglie delle storie di abitanti di Roma, nel quartiere della Balduina, dove il poeta aveva la sua abitazione. 11 8 banco e in Concistoro / e si fanno il segno della croce / come un rapido giuoco di prestigio / o un laido passamano sottobanco15”. Monsignor Ferrara gettò via con un gesto di stizza il libro e poi si lasciò andare ad un profondo ricordo di quell’uomo capace con la sola forza della parola di abbracciare tutto il mondo, in virtù di quel desiderio di giustizia che, sin da piccolo, lo aveva spinto a ristabilire l’equilibrio tra gli uomini, donando un paio di scarpe al suo compagno di giochi che non ne aveva. Nel 1972 pubblica “La luna e la montagna” una raccolta di racconti che avevano visto la luce negli anni tra il 1948 e il 1950 e che sono apparsi già su “Paese Sera” nel 1951. Anche qui egli segue la strada dei suoi personaggi, cogliendo i luoghi della sua terra, imprigionando nei suoi versi le emozioni, i canti, i sapori del suo Molise. Ma il suo realismo non è lo stesso che aveva animato il Verga o Francesco Jovine, <<la cui occasionale propensione alla prosa d’arte era una tentazione da evitare>>, come scriverà il Bonaffini. Jovine vuole l’immediatezza dell’espressione, quella espressione in cui, sempre secondo il Bonaffini, <<si avverte il sostrato dialettale, il sapore, la cadenza, la corposità, la vitalità e potenza espressiva del dialetto>>16. Il linguaggio di Jovine resterà sempre ancorato al contesto sociale in cui opera, cercando di dare una seria determinazione storica ai suoi racconti ed alle sue ricerche sul dialetto che non terminano mai. Quando nei capitoli successivi affronteremo organicamente il problema del dialetto, ci renderemo conto che la koine joviniana presenta un continuo percorrere nuove strade, una continua ricerca nei calanchi e nelle crepe della sua regione. Prendiamo ad esempio “L’alluvione”: Jovine non si 15 16 “Viaggio d’inverno” - Il narratore ambulante – Pag.48 – Edizioni Enne – Campobasso- 1999 LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazioale di Poesia Giuseppe Jovine” - Pag.87 – Edizioni Enne - 2000 9 perde dinanzi ad una situazione drammatica, ma cerca di cogliere non solo la crisi del momento, ma anche di stabilire un rapporto tra realtà narrativa e realtà storica in modo che poi il lettore sia in grado non solo di riconoscerlo ma anche di accettarlo come realmente accaduto. Non sono gli argomenti più sensibili come la guerra, l’omosessualità, il fratricidio a mettergli un freno in quanto essi rappresentano il mondo reale dei suoi racconti. In questo possiamo affermare che Jovine è più realista di Verga e dell’autore de “Le terre del sacramento”17. Nel 1975 vede la stampa la sua prima opera in lingua “Tra il Biferno e la Moscova” con una raccolta di poesie scritte tra il 1950 e il 1960 in cui egli prende le distanze dalle posizioni dominanti degli ermetici e della neo-avanguardia dando alla luce un libro con un diffuso condizionamento letterario, suo primo omaggio alla poetica dannunziana che proprio le correnti letterarie del periodo volevano mettere in secondo piano. Reiterazioni anaforiche e lunghi cataloghi di immagini immergono Jovine dentro la poetica del vate abruzzese, pur mantenendo chiara la sua missione di rendere protagonista delle sue poesia la gente normale, come accade in “Suor Bianca”18 Io busso ogni mattina ad una porta di fronte al tuo convento, in una via… in Via, ahimè, delle Botteghe Oscure. per voi, per voi, sorelle castigate 17 18 Cfr Francesco Jovine “Tra il Biferno e la Moscova” - Cartia Editore – Roma 1975 10 quella porta è la porta dell’inferno! Jovine si riferisce in questo passo alla sede centrale del partito comunista che viene visto dalle monache come la porta dell’inferno; ma proseguendo nella poesia egli quasi sussurra <<Suor Bianca, orsù, prendiamoci per mano>>19, chiaro segnale di una possibile riconciliazione tra l’ideologia cristiana e la filosofia marxista. Questa raccolta di poesie è di certo anche un impegno sociale per il poeta molisano che cerca non solo di preservare le classi meno abbienti dalle grinfie degli industriali in uno slancio di autentico comunismo: Vampiri d’Italia se avete sete andate a bere il sangue ai petrolieri che comprano i Ministri a peso d’oro, ma non bevete il sangue proletario.20 continuando poi a difende la sua molisanità confrontandola con quella di un altro Castelmaurese illustre, Padre Giovanni Boccardi, astronomo di indubbia fama: […] Alfa Andromeda resta quindici ore sull’orizzonte prima di svanire, ma non sai dirmi quanto resta il sole sul balconcino ove le notti insonni contemplavi le stelle ad occhio nudo […] 19 20 “Tra il Biferno e la Moscova” - Suor Bianca – Pag.69 - Cartia Editori – Roma - 1975 “Tra il Biferno e la Moscova”- Brescia '74- Pag. 139 Cartia Editori – Roma - 1975 11 […] Sai quanto pesa Marte e quanto Giove ma sai tu dirmi il peso degli affanni che opprime la tua gente di Borrana21? […] Nell’equinozio d’autunno la luna dall’equatore celeste, tu dici, dista all’ingrosso cento ottanta gradi, ma quanto dista il cuore di un barone dalla pelle rugosa di un cafone? […] Oh! L’oro delle lampade dei vichi del tuo paese antico abbandonato l’hai ritrovato in qualche via del cielo?22 Jovine è deluso dal comportamento del suo concittadino che tempo prima aveva scelto il Piemonte per dimora e, nonostante i tributi della sua terra, si era rifiutato di rimettere piede in Castelmauro. L’ultima strofa è una richiesta autentica da parte di Jovine che non ha mai smesso di correre alle antiche sorgenti, a percorrere gli antichi sentieri, a considerare come sua la terra in cui aveva avuto i natali. Ma in ogni passo di questa poesia il tema non riguarda tanto l’emigrazione del Padre e la sua volontà di non far ritorno al suo paese, ma quello di rinnegare le proprie origini, ritenendo di essere superiore per il solo fatto di vivere a Torino. Jovine si sente grande perché grande è l’aiuto che riceve dalla sua terra: senza i personaggi infimi di cui tratta, senza i sentieri e gli odori da raccontare della sua terra egli non sarebbe nessuno. 21 Jovine si riferisce al vecchio nome di Castelmauro che ai tempi dei duchi di Canzano, era denominato Castelluccio Acqua Borrana 22 “Tra il Biferno e la Moscova” - Alfa Andromeda - Pag.89 – Cartia Edizioni – Roma - 1975 12 Ecco perché tutta la produzione joviniana è un incessante ringraziamento alla sua terra. Nel 1979 vede la luce “Benedetti Molisani” un saggio, come detto, sulle condizioni del Mezzogiorno d’Italia, e sulla sua regione in particolare, che egli definisce “Il Mezzogiorno del Mezzogiorno”. Sin dalla nota introduttiva Jovine si esprime in un linguaggio diretto e deciso, teso certamente a far comprendere come la comprensione della sua fatica si possa avere solo guardando al problema di fondo nella giusta prospettiva. Stilisticamente questa prosa ha una difficoltà interpretativa per il semplice fatto che alla fine si presenta come un insieme di appunti scritti in momenti disparati e riuniti poi per dargli forma di saggio. Ciò che Jovine vuole dare è un messaggio chiaro e veritiero sulla condizione dei molisani ai quali però non rivolge solo parole di conforto ma anche frecciatine taglienti come quando li paragona al Biferno << … I molisani sono come il loro fiume, il Biferno, che scorre talmente lentamente, che sembra non arrivi mai al mare”23>>. Egli affronta sempre situazioni di carattere sociale e politico, insistendo sul fatto che i molisani devono essere i primi a volere una rinascita, distaccandosi dalla loro tradizionale propensione a farsi sfruttare. Un richiamo duro anche ai galantuomini e alle sfere clericali, ai proprietari terrieri che ostacolano la civilizzazione del territorio. Ricordiamoci che ci troviamo nel 1979 e la popolazione del sud Italia è in massima parte analfabeta. Ed è proprio la mancanza di cultura e di storia che pone il Molise in una condizione di inferiorità dinanzi alle grandi problematiche dello stato. Basti pensare che tuttora la Bifernina, 23 “Benedetti Molisani” - Pag.62 - Edizioni Enne – Campobasso - 1979 13 arteria principale della viabilità bassomolisana, presenta delle notevoli carenze di cui Jovine parlava nel lontano 1973 in occasione di un viaggio affrontato insieme con Tommaso Fiore24; sin da allora Jovine aveva chiesto maggiore celerità per dare anche all’area bassomolisana una strada percorribile. Non manca poi di omaggiare la tradizione narrativa molisana prendendo in esame scrittori come Francesco Jovine, Lina Pietravalle, Sabino D’Acunto, Vincenzo Rossi, Franco Ciampitti, Felice del Vecchio e Giose Rimanelli. Nel 1990 infine vede la luce la raccolta di racconti anonimi molisani “La sdrenga”25, una serie di storielle, con sfondo piccante, che gli anziani raccontavano dinanzi ai fuochi accesi e che il nostro raccoglie con meticolosa cura e li trasforma in quotidianità. Alcuni di questi racconti hanno come protagonisti anche delle persone reali, alcune delle quali ancora in vita nel piccolo borgo. Nel 1992 invece vede la luce “Chissà se passa u Patraterne” ossia la traduzione in dialetto molisano di Orazio, Marziale e Montale per riproporre <<in chiave sperimentale la fondamentale universalità dell’esperienza umana>>26. Ultima fatica è un opuscolo intitolato “Fascismo ed antifascismo alla luce degli accadimenti e delle componenti culturali nazionali e regionali”, composto nel 1995, una analisi sulle contraddizioni delle diverse categorie sociali presenti nel territorio molisano. 24 “Benedetti Molisani” - Viaggio nel Molise con Tommaso Fiore (1973) – Pag. 39– Edizioni Enne- Campobasso - 1979 25 Sdrenga è termine dialettale molisano che indica il raschietto, ma nel nostro caso indica metaforicamente il membro maschile. 26 LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di poesia Giuseppe Jovine” - Pag.94 - Edizioni Enne- Campoabasso - 2000 14 Prima di chiudere questo breve cenno sulla sua vita, ricordiamo la sua scesa diretta in politica nel 1979 quando si candidò prima alla regione e poi alla Camera, ed i suoi insistenti viaggi all’estero come conferenziere. Molto importante fu per lui la figura di Tommaso Fiore, che lo fece interessare alla precaria condizione dei suoi corregionali. Membro del direttivo del Sindacato Nazionale Scrittori nel 1998 si fa promotore della fondazione dell’Unione omonima. Jovine muore improvvisamente all’età di 76 anni il 29 Agosto del 1998 nella sua casa di Castelmauro; da poche ore era rientrato da Roma. Nel 1999 ad opera del figlio Carlo vede la luce l’ultima raccolta in lingua “Viaggio d’inverno”, che comprende poesie scritte tra il 1975 e il 1998; mentre sempre per opera del figlio nel 2005 esce “Gente alla Balduina” , un ritratto simpatico di alcuni conoscenti che abitavano, insieme a lui, nell’omonimo quartiere romano. 15 CAPITOLO 2 Jovine e la religione Madonna, Tu ritorni al nostro villaggio dal convento che veglia i nostri morti, quando le quaglie volano tra gli orzi, e tutti tornano a Borrana. Tornano i vivi e tornano i morti e i vivi e i morti ti fanno da scorta tra suoni di trombe e luci di bengala. Ecco nostra Madonna di Borrana torniamo alla poesia della capanna, dopo l’orgia dei folli grattacieli, delle cupole pari alle colline e il suon delle sirene scorderemo, ci sveglieremo all’alba al suon delle campane, ogni morte e ogni nascita udremo salutare da un rintocco, qui sarà dolce vivere e morire. Sulle montagne e i boschi d’abete il legno prenderemo per le bare, e nelle valli il vino per la messa, porteremo il grano nei sepolcri, il farro, l’uva, il miele in processione e dinanzi all’altare Madonna ascolterai la voce di coloro che si portano dentro pel mondo il tuo paese. Oggi la nostra patria è questa valle, all’ombra dell’antico campanile. 16 Qui resteremo Madonna appagati lucideremo il rame sulle soglie con la rena gialla ed il sambuco, l’appenderemo alle pareti per chiamare il sole nelle stanze. E quando sarà venuta l’ora nostra, se udienza ci darai e perdonanza Madonna, col Tuo nome sulle labbra e negli occhi il colore azzurrino del Tuo manto al Tuo soglio verremo col nostro corpo pieno di cicatrici e lividure ma Ti rendiamo l’anima pulita come un’acqua bianca di sorgiva. 27 Solo chi nasce a Castelmauro sa cosa significa avere amore per la Madonna della Salute, che tutti gli anni si festeggia dal 7 al 10 di settembre. È questo il regalo più grande che jovine fa alla sua terra, scoprendo il suo amore per la Vergine della Salute che richiama al suo santuario tutti i figli che sono sparsi per il mondo. Ed ancora torna il tema della morte che sembra essere legato al nostro poeta con un filo doppio, ed anche i morti che sorvegliano la sua dimora nel santuario accanto al cimitero, egli li sente lasciare le loro dimore eterne per seguire la fiaccolata chilometrica che la sera del sette settembre accompagna la statua alla chiesa madre di San Leonardo Confessore. Abbandonare per quei pochi giorni tutto ciò che la vita ci offre per perdersi in un crogiuolo di emozioni che non si possono trovare altrove, quando si rivedono a Castelamuro un nugolo di emigrati provenienti dai più disparati paesi. 27 Dalla poesia Il canto dell’emigrante inserita nella raccolta “Tra il Biferno e la Moscova” ma che è giunta nelle mani dei suoi lettori castelmauresi singolarmente, ultimo regalo del poeta prima di morire. 17 “Qui sarà dolce vivere e morire” ed ancora “ Sulle montagne e nei boschi d’abete il legno prenderemo per le bare” fa pensare alla morte come un qualcosa che ci appartenga da sempre. Il comunista Jovine crede nella Vergine della Salute, la madre di tutti i castelmauresi: una preghiera che solo un cuore profondo poteva far partorire. Una immagine dei tempi della sua infanzia, quando si lucidavano le suppellettili di rame e si appendevano ai muri in punti precisi per permettere loro di carpire la luce del sole che entrava dalla porta o dalle piccole finestre. “[…] ogni nascita ed ogni morte udremo salutare da un rintocco […]” un ritorno all’antico che riprende lo scandire del tempo da parte delle campane che ricordano a coloro che lavorano nei campi la presenza di Cristo nella loro vita. “Prenderemo […] nelle valli il vino per la messa” è una chiaro richiamo alle funzioni religiose alle quali lui partecipava in silenzio nel profondo del suo cuore. E poi la preghiera finale in cui rimette il suo spirito nelle mani della Vergine chiedendo perdono per le sue colpe, e la sua colpa più grande è forse quella di averla amata sempre in silenzio. E’ un rapporto particolare quello che lega Jovine alla religione: un rapporto turbolento nei confronti delle istituzioni. Non siamo dinanzi ad un poeta di occasione, ma dinanzi ad un artista che accoglie nel suo animo le emozioni e le sensazioni più profonde per trasformarle poi in versi sempre incisivi e mai banali. Ecco perché le sue sentenze fanno si del male, mettono in crisi i loro destinatari, ma hanno anche il merito di portarli a riflettere sulle parole. La sua invettiva non si smentisce nemmeno quando si tratta di tirare in ballo il Santo Padre, non tanto per remore nei suoi confronti, ma solo per mettere in evidenza il grado di lascivia che c’era, ai suoi tempi, 18 all’interno delle istituzioni ecclesiastiche: “[…] o del papa belante alla finestra/ che lancia gli anatemi e froda il fisco,/ orologio a cucù lubrificato/ con l’olio santo e l’olio della Cia, / che segna l’ora dell’apocalisse / per le turbe reiette di Cafarnao/ e dell’ingrasso per i Farisei […]28. Una critica che, usando il linguaggio dialettale, sembra essere ancora più pungente: A ventequattrore la chiesa de Santa Lunarde pareia nu castielle affatturate. […] <<Arrescente le diavule na chiesa! Tienne le pide tunne coma palle>>. Diceiene a chell’ora nu paiese le guagliune che l’uocchie speretate. Iè m’acciuccave e pe la scetta de la Porta Santa vedeie nu zeffunne scure scure coma ffunne de cutture. Iè ma penzave ca na chiesa ce stevene le Sante E lla vucella arrachita arrachita: <<Zitte zitte, nen parlà, lu iurne ce stanne le Sante 28 “Tra il Biferno e la Moscova” – Mosca – Pag.133 - Cartia Editori – Roma - 1975 19 e la notte ce ballene le diavule>>29. (A ventiquattore/ la chiesa di San Leonardo / pareva un castello incantato. /[…] <<Appaiono i diavoli in chiesa!/ Hanno i piedi tondi come palle>>. / dicevano a quell’ora nel paese / i ragazzi con gli occhi spiritati. / Io mi chinavo e attraverso la crepa della Porta Santa / vedevo un vuoto scuro scuro / come il fondo di un caldaio. / Io pensavo / che nella chiesa ci stessero i Santi / e quella vocetta arrochita arrochita: / <<Zitto zitto, non parlare, / il giorno ci stanno i Santi / e di notte ci ballano i Diavoli>>.) Non ci troviamo dinanzi ad un ateo che non ha rispetto per la religione o per coloro che ad essa credono: siamo dinanzi ad un uomo che avverte la presenza dell’Eterno a suo modo, non legato necessariamente a quelle credenze popolari che hanno accompagnato gli uomini per secoli. La sua verve si acuisce in un passo de “La sdrenga”. Protagonista è un tale Cianè che si era recato in ospedale per chiedergli di accorciargli il membro. Anestetizzato i dottori si interrogano su quanti centimetri debbano tagliare e non riuscendo a trovare un accordo mandano a chiamare una monaca, suor Teresa, cugina del paziente. <<Suor Teresa!… Ch’emma fa?. Suor Teresa cannaliatte lu sagnule de Cianè, ze mettette le mane ‘nnante’all’uocchie e arespunnette. “Le canosche le canosche llu sagnule!… E’ nu peccate assemà tanta grazia de Ddie!”. “ E allora ch’emma fa? – Decette lu miedeche cchiù giovene. 29 “Lu Pavone” - Le diavule na’ chiesa – Pag.133 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 20 Suor Teresa arecannaliatte llu sagnule, tamendette lu miedeche e sbuttatte: “Allungateglie le cosse e lu cippe z’aretire”30 (“Suor Teresa!… Che dobbiamo fare?” Suor Teresa guardò il sagnuolo di Cianè, si mise le mani innanzi agli occhi e rispose: “Lo conosco lo conosco quel sagnuolo!… E’ un peccato accorciare tanta grazia di Dio!”. “ E allora che dobbiamo fare?” – disse il medico più giovane. Suor Teresa tornò a guardare il sagnuolo, guardò il medico e sbottò: “Allungategli le gambe e il cippo (membro) si ritira”. ). Jovine non perde la sua arguzia nemmeno quando si tratta di modellare alcuni racconti che forse aveva sentito nelle piazze, o addirittura da bambino dalle numerose persone che lavoravano a palazzo. E magari ha anche conosciuto personalmente i personaggi in questione. E non è un dettaglio insignificante per un poeta realista autentico come lui, quello di poter verificare direttamente le sue storie. Jovine trascorreva nella piazza del paese e tra i campi tantissime ore, a parlare con contadini e perdigiorno. Passava il tempo nelle osterie e si fermava a parlare con chiunque. La formazione religiosa di Jovine nasce da radici profonde, da lui mai rinnegate in vita, ma mai espresse chiaramente per via di quella concezione politica dapprima socialista e poi comunista che aveva nell’ateismo un caposaldo essenziale. Ed allora lo Jovine uomo affida la sua voglia di eternità allo Jovine poeta, che resta lontano dai legami convenzionali, e può esprimere senza veli il suo stato d’animo. Lontano dai giochi di potere, il poeta riesce ad esprimere tutto se stesso, lasciando a quei fogli bianchi il compito di imprimere nel tempo il suo pensiero. Ho già accennato alla 30 “La sdrenga” - L’uprazione – Pag.47 - Edizioni Enne – Campobasso - 1989 21 poesia “Il narratore ambulante”31, dedicata allo “scianachì” Pierluigi Giorgio32, in cui chiede alla Vergine di non precludere ai poveri diavoli le porte del Paradiso. È facile vedere in questo passo uno Jovine comunista, ma ad ogni modo la sua richiesta di aiuto la rivolge alla Vergine. Il rapporto con la religione per Jovine diventa un dare ed avere, una sorta di baratto che il Padreterno dona agli uomini per condurre la propria vita secondo il libero arbitrio: Cianè teneia la bboggia. Ze ne menia da Foggia, na vesazza vine e pane, pe ‘na grazie a Caburrane. ‘Na matine da la loggia, a vvedè Santa Lurenze, ze palpatte la crescenza. <<Patrannostre o prucessione>>. Ie decette nu preitone. <<Nce sta grazie pè le bbogge; Cianè ce vo pacienza, che ppò fa Santa Lurenze se nen vò lu Capaddozie? Pure d’aventre’a le sciamme d’infirne 31 Cfr nota numero 15 Pierluigi Giorgio era lo schianachì del Molise, ossia il cantastorie. Letteralmente scianachì vuol dire “colui che sa le cose”. 32 22 Cianè, chi tarde arriva male alloggia>>. Cianè scacchiatte l’uocchie e pù sputatte: <<Ma nen ce sta nu ccone de cuscienza? Che z’è fatte nu mamuozie loch’a llà lu Patraterne? Ioca a palle che le bbogge? Allora chille c’aveme arrenneme. Vù sapè, ne ll’aie che ttè, Santa Lurenze, ndo ce sta guste nen ce sta perdenza>>. E sparatte ‘na crona de gasteme ca cirte le sentettere a Celenza. <<Quisse è lu patrannostre de le scigne!>>. Alluccatte ‘llu preitone. <<Criste chiagne e lu diavule aregregna>>. Cianè scacchiatte l’uocchie e aresputatte: <<E che chiagnesse! Senza ruspe ‘ncurpe me sente ligge coma ‘n’ostia santa. Tu vvù sapè, fatte lu tante e quante iè meglie a iesse diavule ca sante>>33. 33 “Lu Pavone” – Lu patrannostre de le scigne – Pag.101 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 23 (Cianè teneva l’ernia./ Si metteva in cammino da Foggia/ in bisaccia pane e vino,/ per una grazia a Caborrana./ Una mattina dalla loggia, / nel vedere Santo Lorenzo, / si palpò la sua crescenza./ <<Paternostro o processione>>. / gli disse un grosso prete/ <<Non c’è grazia per le bogge (l’ernia), / Cianè ci vuole pazienza, / che può fare San Lorenzo / se non vuole il capobanda (Dio)?/ Pure dentro le fiamme dell’inferno / Cianè, chi tardi arriva male alloggia>>. / Cianè sbarrò gli occhi e poi sputò: /<< Ma non c’è un poco di coscienza? / Che s’è fatto, un ragazzino / nell’al di là il Padreterno? / Gioca a palle con le bogge? / Allora quello che abbiamo rendiamo; / vuoi sapere, non l’ho con te, Santo Lorenzo, / dove c’è gusto non c’è perdenza>>. / e sparò una tal corona di bestemmie / che certi lo sentirono a Celenza/ <<E questo è il paternostro delle scimmie>> / - gridò quel grosso prete - / <<Cristo piange e il diavolo digrigna>>. / Cianè sbarrò gli occhi e risputò. / << E che piangesse! Senza rospi in corpo / mi sento leggero come un’ostia santa. / Tu vuoi sapere, fatto il tanto e quanto / è meglio essere diavolo che santo>>). Come sempre accade con Jovine, il linguaggio dialettale rende tutto più acuto, più vivo, più umano. Così il gioco che lui sostiene con la religione si veste a volte di situazioni grottesche ed ogni pretesto da occasione di mettere a nudo i propri pensieri. Nella poesia precedente lo spunto viene dato da un’ernia. Il protagonista, Cianè, cerca una grazia per risolvere il suo malanno e chiede aiuto a San Lorenzo. Un prete gli dice che non è colpa di San Lorenzo “ che po’ fa Santa Lurenze se nen vo lu Capaddozie?” Dio governa ogni cosa e questo Jovine inconsciamente lo sa, ma si domanda il perché a volte Dio resta in silenzio dinanzi ad un richiesta così semplice come il far guarire da un’ernia. E jovine cosa 24 fa? Non chiama in ballo la Provvidenza, o il disegno divino, ma immagina il Padreterno tornato fanciullo: “Che z’è fatte nu mamuozie, loch’a lla lu Patraterne? Ioca a palle che le bbogge?” L’arguzia del poeta non è mai banale ed unita alla sua fervida fantasia riesce ad elaborare delle storie in cui la vena polemica dell’uomo politico si fonde con le sue radici popolari. Tutto quello che Jovine dice nella sua poesia sembra però essere in preparazione della frase finale. “Tu vu sapè, fatte lu tante e quante, iè meglie a iesse diavule ca sante”. Sarebbe errato voler scovare nella sua chiusa finale uno scarica barile da parte del nostro, che andrebbe a scegliere la strada più breve e comoda. Per lui la situazione è identica: per guadagnarsi un posto in Paradiso si deve fare molta fatica (secondo una concezione cristiana) e lo stesso vale anche per l’inferno “Pure daventr’a le sciamme d’infirne Cianè, chi tarde arriva male alloggia”. Non siamo dinanzi ad un Don Giovanni novecentesco che non crede ne al Cielo ne all’Inferno, come direbbe Sganarello34 del suo padrone. Jovine infatti crede nell’eterno, nel sovrannaturale. Diciamo anche che crede in Dio, ma non in quel Dio, direbbe lui <<castigamatti>> creatosi con le credenze medievali, ma come la parte di assoluto che ognuno ha dentro di se. Come detto il suo è un modo di fare burlesco, grottesco anzi, e lo si evince già dal titolo che egli sceglie per questa poesia “Lu patrannostre de le scigne” (Il paternostro delle scimmie) volendo alludere ad una bestemmia. 34 Sganarello è il servo di Don Giovanni nell’omonima opera di Moliere. Parlando con il servo di Donna Elvira, egli presenta il suo padrone come uno che non ha rispetto ne per il cielo ne per la terra. 25 Il contrasto tra il credere e non credere raggiunge così l’apice in un altro componimento dialettale, un ricordo turbolento dei suoi genitori, un sogno affannoso di ogni notte in cui lui vede le loro figure, o le loro anime, sbiadite: […] Ie vulesse arefà la facce e ll’uocchie gn’a ddù pupazze spierte a ‘nu curnicchie o ddù sante scurdate ‘nda ‘na nicchia, ma me ze squaglie la creta e me lasse le mane senza sanghe e ragnecose ca vularrie struzzà lu Padraterne o pregà gna nu pazze pe sapè che gghie che gghie stu gliommere ‘mbrugliate, ‘sta matasse d’ardiche de lu munne.35 ([…] Vorrei rifargli la faccia e gli occhi / come a due pupazzi sperduti in un cantuccio / o due santi dimenticati in una nicchia/ ma la creta mi si squaglia e mi lascia / le mani esangui e rattrappite / sicché vorrei strozzare il Padreterno / o pregarlo come un pazzo per sapere / che cos’è che cos’è questo gomitolo arruffato / questa matassa d’ortiche che è la vita). Nei confronti del grande mistero della vita e della morte Jovine non compie una scelta, ma resta quasi a guardare impotente ciò che Dio, 35 “Lu Pavone” – Ogne notte –Pag.67 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 26 o semplicemente il caso, hanno scelto per noi. Quello che colpisce di Jovine è <<il suo pensare per immagini… lo snodarsi dei sentimenti>>36. Il carattere tipicamente burlesco e popolare lo ritroviamo in un racconto de “La Sdrenga” dal titolo “Preiete e sacrastane”37. Il cafone Cola dice a Michele il sagrestano che il prete, Don Felice, è stato visto uscire dal pagliaio dove era entrata la moglie. Dapprima egli cerca di denigrare il suo avversario : “Don felice è n’ome? E cchiu brutte de lu diavule sott’a San Michele (Don Felice è un uomo? E’ più brutto del diavolo che sta sotto a San Michele); poi decide di vendicarsi rubando al prete un maiale. Don Felice si adira per il maiale scomparso e confessa tutto il paese per trovare il colpevole, che però non viene trovato. La burla, che tende a smascherare i vizi di qualsiasi uomo, nasce quando Don Felice si accorge che l’unico a non essersi confessato è proprio il suo sagrestano e lo invita a farlo. A ventunora Michele steia ‘ngenucchiate annant’a rattacasce ‘mbaccia a Don Felice. “Dimme la veretà, Miche! . facette Don felice - […] M’i frecate lu purcille?” “Che ddice Don Felì!” “Si ssurde?… M’i frecate lu purcille?” “Nze sente niente Don Felì” “e vva bbune!… Faceme a cagna puste” – decette Don Felice – “Ie da fore e tu daventre.” 36 37 LUIGI VOLPICELLI – Alcuni giudizi della critica, su “Lu Pavone - Edizioni Enne – Campobasso 1983 “La Sdrenga” - Preiete e sacrastane –Pag.69 - Edizioni Enne – Campobasso 1989 27 Michele z’assettatte arret’a rattacascee e ze decette : <<Michè! Nu luche de cumbessone pure se pungeche lu preiete t’i raggione>> e addumannatte a Don Felice: “Don Felì! Me le frecate tu mugliereme?” “Hi raggine tu Michè! “ – arespunnette Don Felice – “Nze sente niente! Pruprie niente!”. (A ventunora Michele stava inginocchiato dinanzi alla grata del confessionale, di fronte a Don Felice. “Dimmi la verità Michele!” – fece Don Felice – […] M’hai rubato tu il maiale?”. “Che dici Don Felice?” . “Sei sordo?… M’hai rubato il maiale?” . “Non si sente niente Don Felice!” . “E va bene!…Cambiamo posto” – disse Don Felice - !Io di fuori e tu di dentro!” . Michele si sedette dietro la gratella e si disse <<Miche! In confessione pure se dici male del prete hai ragione>> e chiese a Don Felice “Don Felice! Me l’hai rubata tu mia moglie?” . “Hai ragione tu Michele!” – rispose Don Felice – “Non si sente niente. Proprio niente)”. Jovine utilizza il gioco per rivisitare alcuni racconti popolari che nascondono sempre un fondo di verità. Il suo intento però non è solo quello di mettere a nudo le debolezze di un prete, o come nel caso di Suor Teresa, di una suora, per innescare una invettiva, ma proprio per far comprendere a coloro che egli identifica nel passo de “Il cantastorie” come <<i monsignori>> che la natura umana è debole. Sono loro che devono comprendere che ogni uomo, e loro sono uomini, possono commettere degli errori: la religione non deve opprimere la povera gente lasciando correre i peccati di coloro che la religione la rappresentano. Jovine vuole che venga lasciata da parte della chiesa e delle sue 28 istituzioni ad ogni uomo l’autonomia di vivere la propria religione, in maniera personale. Ossia, ciò che egli ha fatto sin dall’infanzia. 29 CAPITOLO 3 Un tema ricorrente: la morte. “La morte nen z’accorde che l’argiente; la morte paghe tutte le cambiale” Giuseppe Jovine Per comprende il valore che Jovine da alla morte, riprendo la frase che lui mi disse qualche anno fa: “Ti accorgi degli anni che passano quando inizi a salutare più gente tra i morti che tra i vivi”. Per Jovine la morte è la meta finale dello scorrere del tempo, è il traguardo che ci viene assegnato al momento della nascita e verso cui dobbiamo correre. Ecco perché Jovine vive la morte intendendola come parte essenziale ed integrante della vita. Le poesie che Jovine dedica a questo tema sono numerose: la morte come meta finale dell’esistenza, come premio per l’esistenza. La morte è anche l’imput dei ricordi: gli affetti più cari, gli amici fraterni che non ci sono più. E come sempre accade con le sue poesie, sono i componimenti dialettali a rendere al meglio il suo pensiero. Ciò che è legato profondamente alla morte è la concezione del tempo: E’ Ventunora! Lu sole stenne la mureia attira attira per lu vosche. ‘Na casarella a mezza costa 30 sente e guarda e nen ze move, come pell’aria passasse ‘nu murte. E nu murte passa: passa lu tiempe!38 (E’ ventunora! / Il sole stende l’ombra / lungo tutto il bosco./ Una casetta a mezza costa / sente e guarda e non si muove, / come se per l’aria passasse un morto. / Ed un morto passa: / passa il tempo!). Il tempo che passa è paragonato alla morte per via del silenzio osservato da tutto ciò che la circonda. Da qui deve partire lo studio della morte nel panorama joviniano. Dall’idea del tempo. Si è detto: Jovine intende la morte come il traguardo finale della vita. La vita, nel suo insieme di emozioni e sfaccettature, altro non è che uno scorrere di tempo. Così il legame tra la vita e la morte diviene il ricordo ricorrente per la figura dei suoi cari, di amici o di semplici conoscenti che hanno lasciato una traccia nella sua esistenza. La vita sempe za rennova. E’ muorte tata e iè penze a la giacchetta nova che mmeia mette mo’ che vvè l’estate39. 38 39 “Lu Pavone” – Ventunora –Pag.36 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 “Lu Pavone” – La vita – Pag.50 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 31 (La vita sempre si rinnova. / E’ morto mio padre / e io penso alla giacchetta nuova / che devo mettermi adesso che viene l’estate). Non è indifferenza al dolore che vuole esprimere qui il poeta, ma è la coscienza di essere dinanzi ad un destino ineluttabile, che in quanto uomini ci appartiene. Jovine ha un rispetto profondo per la morte e per i morti. Vi sono altre due poesie, una in lingua e l’altra in vernacolo, che fanno notare come sia sì aspro, ma anche sincero, questo suo rispetto: Nuvimbre! Negghia e fridde apprisse! Castagne e grane allisse! <<Cuocce de murte>> appise a lume de cannele ze guardene nu viche a porta a porta. Ze rire e ze pazzeia che la muorte40. (Novembre! / Nebbia e freddo appresso! / Castagne e grano lesso! / <<Teste di morto41>> appese / a lume di candele / si guardano nel vico a porta a porta. / Si ride e si scherza con la morte). Qui il tono di Jovine è sereno, quasi scherzoso: ma è l’ultima frase che deve portarci a riflettere. Vi sono occasioni in cui si può anche scherzare con la morte, ma non si 40 “Lu Pavone” – Nuvimbre –Pag.63 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 La tradizione di halloween è radicata anche in Molise, quando la notte tra il 1° e il 2 Novembre i ragazzini vanno in giro per le case portandosi dietro una zucca incavata e riempita con delle candele accese. 41 32 deve mai eccedere. A volta sembra quasi che il nostro si rivolga ad essa come ad una sorella o ad una persona che non sa come comportarsi. […] e tu morte non t’avvedi che cio che tocchi strenuamente vive e fai dolce ed ingannevole la vita […]42. Un fare rispettoso ovviamente, quasi a ricordare ad essa che comunque la sua funzione è crudele e mal sopportata dagli uomini. Così quando egli diventa nonno ed accoglie nel suo cuore l’affetto del piccolo Riccardo, scrive per lui una serie di consigli da tenere a mente, dove il cammino della vita che conduce necessariamente alla morte viene messo in risalto in maniera pacata e con molta discrezione. […] E se tempo verrà che avrai più amici tra i morti che tra i vivi, fai che il cuore batta sempre tenace come un maglio. E se allo specchio scoprirai le rughe per la scalata raddoppia lo slancio […]. […] e con fili di seta, rame e acciaio trama la vita ed inventala ogni giorno, addentala vorace la tua vita 42 “Viaggio d’inverno” - Due novembre – Pag.66 -Edizioni Enne –Campobasso 1999 33 come la tigre addenta la gazzella e guarda il sole anche se l’aria è scura […]. […] Si dice nella terra dei Frentani: la morte non s’accorda con l’argento, la morte paga tutte le cambiali […]. […] Ma forse anche tu dirai come i bifolchi della frentania, la muorte è ‘na pazziella de quatrare. (La morte è un gioco da bambini)43. Sembra a volte che Jovine quasi invochi la morte, che la cerchi, che ne avverta la mancanza al suo fianco: Sono stanco di dipingermi. La tavolozza gremita di tinte non ha il colore del tocco finale44. È in questa poesia intitolata Il tocco finale che Jovine ammette la superiorità della morte sulla vita. Il colore che manca è il nero della morte, e manca perché solo questa sa quando viene l’ora di dare il tocco finale. È una superiorità che non viene mai messa in discussione dal poeta, ma qui per la prima volta Jovine veste la morte dei sui 43 44 “Viaggio d’inverno” – Consigli al nipotino Riccardo – Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 “Viaggio d’inverno” – Il tocco finale – Pag.63 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 34 veri abiti. La morte si fa attendere: si fa attendere per portare con se l’anima nell’al di là, nell’eterno. Jovine è ateo, lo abbiamo ribadito più volte, ma il senso dell’eterno in lui è molto sentito, ed è sempre il filo dei ricordi il saldo legame tra la vita e la morte. Mio nonno fumava la pipa di coccio, io fumo la pipa di coccio, figlio! Fuma la pipa di coccio. Questo gesto segna il sentiero dell’eterno45. Il sentiero dell’eterno! Il lungo sentiero dove, dopo la morte, ognuno di noi ritrova quello che ha perso nel passaggio finale dalla vita. La pipa è il ricordo tangibile del legame tra nonno e nipote che si tramanderà di generazione in generazione. Saranno poi molti i componimenti che riguarderanno gli amici casi, come Marcello de Notariis, Saverio Trincia, Nino Fratamico, Franco Amicarelli, ma anche persone comuni, quei bifolchi di frentania che lui incontrava per i borghi e le contrade e che sono stati l’ingrediente segreto della sua sfrenata fantasia. È sentito e scherzoso il ricordo di Pasquale Guancione, uno dei tanti personaggi con cui si fermava a parlare per strada. Egli era noto a Castelmauro col nomignolo di Capparella: un pover’uomo 45 “Viaggio d’inverno” – La pipa di coccio – Pag.93 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 35 che aveva sempre svolto piccoli lavori per le famiglie agiate ricevendo un minimo compenso per le sue giornate di fatica. Jovine lo consola affermando: […] Lu cacciune mocceche a ‘stu munne sempe a chi te rutte li calzune […]46 ([…] Il cane morde a questo mondo / sempre a chi ha rotti i calzoni). In una sorta di “livella” decurtissiana, egli mette a confronto la morte di un personaggio importante con il povero Capparella. Quanne murette Don Cicce, a lu “libbere me Domine” ballavene le vrite e le cannele, lu catafalche pareia nu bastemente; l’orghene ‘ntrunava le recchie a le cafune. […] lu tavute pareia ‘na casciaforte mizz’a quattre carbuniere che la sciabbula e pennacchie e la campana grossa spandecava come lu jurne de Sabbete Sante […]47. 46 47 “Lu Pavone” – Lu murte – Pag.51 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 Ibidem 36 (Quando morì Don Ciccio / al “libera me Domine”/ ballavano i vetri e le candele, / il catafalco pareva un bastimento, / l’organo intronava le orecchie ai cafoni […] La bara pareva una cassaforte / in mezzo a quattro carabinieri / con la sciabola e il pennacchio / e la campana grossa spasimava / come il giorno di Sabato Santo). Torna poi al suo amico Capparella: Capparè! Se tu sapisse!… Mo che lu preiete t’ha cantate ‘ncim’a la chiazza lu requiemmaterne a abbaiate sule nu cacciune. Se vedisse lu tavute che t’ha fatte lu cummune! ‘Na cascia, Capparè, de cuntrabbanne […]48. (Capparella, se tu sapessi!… / Adesso che il prete ti ha cantato / in cima alla piazza il “requiem aeternam” / ha abbaiato solo un cane. / Se vedessi la bara / che ti ha fatto il comune! / Una cassa, Capaprella, di contrabbando! ). 48 Ibidem 37 Il contrasto è notevole, ma fortunatamente la morte appiana ogni cosa, dona agli uomini la medesima dignità, elimina le classi sociali ed opera secondo giustizia non preferendo i ricchi ai poveri. Troppa gente hi salutate Capparè, troppa volte t’hi cacciate lu cappille, p’ù padrone hi llisciate li muscille. E vva bbune, chi sci ccise, si nu mariule, nu chiappe de mbise, si nu galiote, ‘na crema de fogna, ma ndò vì nen ce sta nu ticchie de cristiane ca te vè prisse e t’arrenne lu salute?49 (Troppa gente hai salutato, Capparella, / troppe volte ti sei tolto il cappello, / per il padrone hai lisciato i gattini . / E va bene, che sia ucciso, / sei un ladro, un farabutto, / un galeotto, una crema di fogna, / ma dove vai non c’è un pezzo di cristiano / che ti vien dietro e ti rende il saluto?). Jovine crede nella giustizia della morte e sa che li anche il suo amico Capparella verrà rispettato per quello che in realtà è: ossia un uomo. Quanti si sono tolti il cappello dinanzi a Don Ciccio per rispetto dell’uomo e quanti invece per riverenza 49 Ibidem 38 alla sua posizione sociale? Qui sta la vittoria del povero nei confronti del ricco: con la morte, quando tutti diventano uguali, con l’eliminazione delle classi sociali il povero non farà fatica a stare insieme al ricco, mentre per il ricco sarà un tormento stare insieme al povero: Perciò stamme a sentì nun fa u restive. Suppuorteme vicine che t’emporte: sti pagliacciate e ffanne sule e vive, nuje simme serie, appartenimm’a morte.50. Possiamo così concludere che per Jovine la morte comporta necessariamente un’attesa: Nella sala dei miei avi sul grande tavolo di quercia mio padre nella bara in marsina di vigogna! Così morire, al canto delle rondini una sera, adagiato nella bara sul grande tavolo di quercia 50 (Per questo stammi a sentire, non fare il restio, sopportami vicino, cosa t’importa ormai: queste pagliacciate le fanno solo i vivi, noi siamo seri, apparteniamo alla morte) è questa la strofa conclusiva della Livella di Antonio de Curstis, in cui due anime, quella del Marhcese di Belluno e del netturbino Gennaro Esposito si ritrovano vicini con le loro bare. Il Marchese si sdegna di avere un vicino che non è del suo rango, ma il netturbino con profonda pazienza e filosofia gli fa intendere che una volta varcato il cancello del cimitero tutti gli uomini diventano uguali. 39 nella sala dei miei avi! E intorno il silenzio dei contadini che portano nelle scarpe l’erba dei prati51. Il rito della morte è radicato nella famiglia di Jovine: nel palazzo dei duchi di Canzano a Castelmauro vi è una sala dove trovano posto le salme della famiglia per ricevere l’ultimo saluto. Jovine vi entrò il 29 Agosto del 1998, appena rientrato da Roma. Il legame stretto con la morte consentì al poeta non solo di superare, non senza tedio, dei momenti difficili, ma anche di sentire quando ormai la tavolozza stava per trovare quel colore in grado di dare alla sua esistenza il tocco finale: Ho appreso a morire. Viene il momento che ti guarda fissa la morte senza parlare e non la vedi, perché si maschera con volto delle cose ancora vive, quando ti prende continui a non vederla. Dinanzi sino all’ultimo avrai 51 “Tra il Biferno e la Moscova” – Così morire – Pag.43 - Cartia Editore – Roma 1975 40 le cose e soltanto le cose come quando a letto leggi il giornale e il sonno ti prende.52. 20 agosto 19998 Questa fu la sua ultima poesia! 52 “Viaggio d’inverno” – Morire –Pag. 115 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 41 CAPITOLO 4 Gli affetti 4.1 I genitori Sono diverse le poesie che Jovine compone per la sua famiglia, in particolare per i genitori, e come sempre accade in questi casi la figura predominante nei ricordi del poeta è la madre. Adele Gallina fu importante per la formazione del nostro, a lei si associano in futuro i migliori ricordi dell’infanzia. Commovente il ricordo di un viaggio che il poeta compie con la madre, di ritorno dal collegio per le festività natalizie: Una sera nebbiosa di dicembre, tornando dal collegio al mio paese, nella corriera in sosta alla taverna che raccoglieva gente dagli scali agl’incroci di strade di montagna, vidi mia madre sola avvoltolata nel suo pellicciotto di capra cinese […]53. Si nota un certo distacco da parte del poeta, dovuto non ad una mancanza di affetto, ma ad un atteggiamento di riverenza ed ubbidienza. A volte si restava in collegio 53 “Viaggio d’inverno” – Viaggio d’inverno – Pag.13 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 42 anche per anni senza mai tornare a casa, di sicuro gli affetti non mutavano, ma restava comunque un po’ di soggezione: […] Facemmo insieme il viaggio nella notte seduti l’uno accanto all’altro muti, legati da sorrisi d’altro luogo, da straniti stupori senza oggetto e dalla pena di scoprirci spogli di sensi inavvertiti o disarmati nel volgere dei nostri chiusi esili […]54. Non riesce a trovare le giuste emozioni. Il desiderio di abbracciare la madre è forte, ma non osa in quanto essa mantiene un atteggiamento severo. La madre ha lo stesso desiderio del figlio, ma al mancato slancio affettivo da parte del piccolo Giuseppe ella non sa come comportarsi e mantiene intatta la sua compostezza: […] E dura ancora quel viaggio d’inverno! Sempre più fredda e bianca è quella neve, sempre più scura e fitta è quella nebbia e l’ombra di mia madre si dirada, uccello ad ali spente che dirupa, 54 Ibidem 43 non come al tempo dei gabbiani che mi librava sul canto del mare, strascico nero che un fiume trascina o il vento che nel turbo lo raggira e ti sta sempre sul collo a soffiarti quella parola quieta che non dice55. La poesia Jovine la compone quando la madre Adele ormai è morta. Nel capitolo precedente abbiamo spesso verificato che la morte e il ricordo sono legati nel pensiero del poeta. Egli riesce ad entrare, tramite i ricordi, nelle scene impresse nella sua memoria quasi a poterle cambiare. Solo a distanza di anni egli si rende conto di quante e quante parole sono state dette durante quel viaggio, ma sfortunatamente si sono perse nel silenzio. Lui allora rivive nei suoi ricordi quel viaggio, modificandolo in continuazione, scrivendo e riscrivendo quel lungo dialogo che in quella occasione era andato perduto. Questo dialogo mancato con la madre è un sogno ricorrente nelle notti del poeta, un sogno che diventa quasi un tormento: Nella notte, madre, è come quando alla luce del sole avevo il tempo di parlarti 55 Ibidem 44 e tenni chiuso in petto ogni parola. Allora almeno avevo la speranza di dirti in una volta tutto quello che per pudore non ti dissi mai. Oggi in un guscio di noce mi chiude, mi soffoca l’angoscia insostenibile del mare d’ombra in cui dilaga il silenzio di allora e quello d’oggi56. Il pensiero come sempre a quel viaggio in carrozza dove potevano essere dette molte cose e non fu detto nulla; dove poteva far comprendere alla madre tutto il suo affetto. La vita a volte offre più di una occasione, ed a volte non ne riserva nemmeno una; ma noi sappiamo che Jovine conosce a fondo la vita, sa che il suo traguardo è trovare il “tocco finale” sulla tavolozza e dopo, con i ricordi, tutto è possibile. Da questa concezione nascono le poesie in dialetto, che nell’asprezza dei termini rende il momento dell’addio qualcosa di incommensurabile ed impalpabile. Quanne si mmorta chella sera , mà, mmizz’a la chiazza sunava la bbanda e iè m’addecreiave nen chiagneie ca’ me pareia la muorte ‘na canzona 56 Ibidem 45 ca te porte lu viente dall’are o ‘na sera d’estate ca nen sì pecchè pe tante tiempe tu taminde la volta arescarate da lu ciele ca ten trona le recchie gna ‘na stanza spiccia ca pare chiena de cichele […]57. (Quando sei morta quella sera, mamma, / in mezzo alla piazza suonava la banda, / ed io mi rallegravo e non piangevo / che mi sembrava la morte una canzone/ che ti porta il vento dall’aia / o una sera d’estate che non sai / perché per tanto tempo tu contempli / la volta chiara del cielo / che ti rintrona le orecchie come una stanza / vuota che pare piena di cicale). Jovine è ancora un ragazzo quando la madre muore ed ancora, come tutti i ragazzi, non si rende conto di che cosa vuol dire morire. Gioca il poeta. È un giorno di festa e lui non sa perché gli altri non sono a divertirsi come lui. Solo il silenzio lo scuote, quello stesso silenzio che durante quel viaggio in carrozza aveva tenuti lontano madre e figlio. A poco a poco allora il piccolo Peppe inizia a rendersi conto della situazione. Pecch’esse, doppe morte, che le vracce t’eie stritte forte coma ‘na tenaglia e pprime aveie paure de vasciarte […]58. 57 58 “Lu Pavone” – Quanne si mmorte chella sera, mà – Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 Ibidem 46 (Per questo, dopo morta, con le braccia, / ti ho stretta forte come una tenaglia / e prima avevo paura di baciarti). I ricordi iniziano così pian piano a cogliere la quotidianità, tutta la varie cose che la madre faceva durante il giorno, sente ancora, come ai tempi di Natale in mezzo alla neve. […] lla vucella ca m’arechiama ancora: Peppe, Pè…[…]59. (… quella vocetta/ che mi richiama ancora. Peppe, Pè…). Poi parte lo sconforto, nel suo io inizia a capire che non rivedrà più la madre ed allora la vorrebbe tutta per se come mai aveva avuto prima la possibilità: Pecch’esse, mà, nen pozze arepenzà a cchille mane sdreuse de cafune che z’arrangavene gna ssierpe o sciamme atturne a lu tavute a strapurtarte gna ‘na quatrara arrannecchiate na cunnela o ‘na some de mmaste che traccheia 59 Ibidem 47 nnanza e arrete a la scesa e alla ‘nghianata e fa ciò ciò fine all’utema svota mizz’a sciure de miendre e spinapoce […]60. (Perciò, mamma, non posso ripensare/ a quelle mani storte di cafoni / che s’inerpicavano come serpi o fiamme / attorno alla bara a straportarti / come una bambina rannicchiata nella culla / o un soma di basto che traballa / innanzi e indietro all’ascesa e alla salita / e fa capolino fino all’ultima svolta / tra fiori di mandorli e biancospino). Non può Jovine permettere che la madre venga profanata da gente che forse non l’aveva mai conosciuta; lui deve averla per se perché solo lui sa rispettarne il riposo e il silenzio. Come il silenzio che aveva rispettato in quel viaggio di ritorno a Natale. Così in questo suo profondo rispetto, il poeta non riesce nemmeno a rientrare a casa, dove la madre era solito attenderlo: Pecch’esse, mò, nen pozze ‘ntrà na casa mo’ ca sule le vespe ce cantene nchille cavute nere de palomme e ‘nfrocene ne mure le spripingule, ma tu nen ti la scopa pè sfraccarle 60 Ibidem 48 e nen stute la luce pe la stanze pe faie vedè la luna na fenestra e na scurdia aresentì la cuccuvaglia61. (Perciò, mamma, non posso entrare in casa / adesso che solo le vespe ci cantano / in quelle buche nere di colombi / e cozzano contro i muri i pipistrelli / ma tu non hai la scopa per schiacciarli e non spegni la luce per le stanze / per fargli vedere la luna nella finestra / o risentire il gufo nello scuro). Il poeta ricorda commosso le piccole azioni quotidiane che la madre compiva, sono le piccole cose infatti che gli mancano, è li che corre il ricordo di Jovine. C’è un qualcosa che ormai cambia nella sua vita: non la presenza della madre che resterà viva nel cuore di Peppe, ma le cose materiali che rimandano ad essa. Quei momenti particolari che forse egli amava rubare alla madre di nascosto. I pensieri continuano ad accavallarsi, tornano gli anni dell’infanzia come falshback. Vi affiorano anche dei lievi rimorsi. Quanta volte eie lassate mamma sola pe chille stanze spicce ca parevene cisterne[…]62. 61 62 Ibidem “Lu Pavone” – Quanta volte eie lassate mamma sola -Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 49 (Quante volte ho lasciato mamma sola / per quelle stanza vuote / che parevano cisterne). Sono momenti che ricorda di aver carpito alla madre come quando scorgeva […] la bella capellere a recumponne chille trecce lustre e ‘lla faccella ghianca ‘na specchiera! […]63. (…la bella capelliera / ricomporre quelle trecce lustre / e quella faccetta bianca alla specchiera!). O di quando scorge nella stanza la madre che dorme e vede adagiati sul tavolino i suoi occhiali, ed altri oggetti muti ed immobili che rendono la figura della madre “Gna nu recurde de ‘na mamma muorte (come il ricordo di una mamma morta)64”. Forse qui per la prima volta Jovine ha paura della morte. A lu scure currive ‘na stanzetta e mamma ze sbegliatte pe le vasce. me parette ‘na morta ravvevata65. 63 64 65 Ibidem Ibidem Ibidem 50 (Al buio corsi nella stanza / e mamma si svegliò per i baci./ Mi parve una morta ravvivata). Come credo accade per ognuno nella vita, il distacco dalla madre è duro, ma Jovine ha una profonda ammirazione anche per il padre Carlo, il suo maestro di vita, il suo esempio quotidiano. Un uomo però che non lasciava trasparire sino in fondo il suo amore per i figli, legato ad una istruzione severa ma giusta e ad un affetto per la famiglia comunque composto. Non era eccessivamente severo, perché la sua severità era atta ad inculcare nell’animo dei figli il senso della giustizia: Jovine avrebbe voluto conoscere il padre più a fondo, ma non gli fu possibile. Allora prova a farlo con una poesia: Sarai sempre padre la voce muta di quell’oboe chiuso in un astuccio dentro la vetrina nella sala degli avi che profuma di polvere, di spigo e pergamene. Come avrei padre voluto sondare il lago perso della tua solitudine quando scrutavi il corso della luna e ti chiedevi che c’era nel fondo della parola fioca della fiamma nella gola brunita del camino, 51 presentando dai refoli e le fusa dei gatti sulla cenere la neve! E quando mi prendevi per la mano alle mie fragili membra chiedevi la forza che mancava alle tue fibre? La mia innocenza prensile ed inerme era forse per te una guida e un’arma. Il tuo pallore mi accendeva l’ira come un’esca e penavo nel vederti riarsa foglia riaprirti alla mia linfa. Solo quando cantavi la tua voce alzava le montagne fino al cielo e tra un turgore e l’altro di tue vene il mio orgoglio pulsava come un cuore. In un breve giro d’orizzonte si è consumato un destino di naufrago, di re senza corona, di poeta senza carmi, d’armigero senz’armi; arreso tra le mura del tuo mastio guardavi il cielo stretto tra cimase come dal pozzo un annegato, e l’albero che dal chiuso dirama della corte. 52 Per vele avevi rauche pergamene e il frullo delle rondini alla gronda; e ancora padre ti vedo vagare in un paese strano senza sole. Senza canto mi volgi le tue spalle e sto qui ancora a darti la mia forza perché riprenda fiato, inutilmente66. La figura del poeta stanco non è isolata, Camillo Sbarbaro per primo dedicò un componimento al genitore, che troviamo in “Pianissimo 1914”, inaugurando un filone nuovo nel quale con questa poesia si inserisce anche il poeta maurese. Il distacco dal padre di solito non è doloroso come quello dalla madre. La morte della madre riporta il poeta nel passato, ai ricordi tangibili, a quella quotidianità che perde dei momenti salienti ed essenziali. La morte del padre ha in Jovine l’effetto opposto, lo proietta nel futuro, segno quasi di un passaggio di consegne; lui diviene ormai simbolicamente l’uomo di casa, colui che dovrà condurne le redini. La vita sempe z’arennova. È murte tata e ie penz’a la giacchetta nova che meia mette mo’ che vvè l’estate67. 66 67 “Viaggio d’inverno – Padre – Pag.21 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 “Lu Pavone” – La vita -Pag50 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 53 (La vita sempre si rinnova. / E’ morto mio padre/ ed io penso alla giacchetta nuova / che devo mettermi adesso che viene l’estate). Al momento di scrivere questa poesia Jovine ha già raggiunto la maturità del suo pensiero e con esso la sua concezione della morte come premio finale della vita. Ma noi sappiamo che la poesia del nostro che meglio esprime il suo stato d’animo è quella in vernacolo. Ora anche per la figura del padre vale il ricordo che arriva quando il poeta nell’armadio contempla le cravatte che il padre gli lascia, e prosegue così. […] A ogne nude de chille cravatte ievene sciure le mane de tata, a ogne nude de chille cravatte ‘nnanz’a lu specchie ‘na stanza lucente sunavene lle mane nu struminte! Tutte chille cravatte culurate mo’ parene sturminte senza fiate68. (Ad ogni nodo di quelle cravatte / erano fiori le mani di mio padre/ ad ogni nodo di quelle cravatte / innanzi allo specchio nella stanza luminosa / suonavano quelle mani 68 “Lu Pavone” – Le cravatte de tata – Pag. 47 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 54 uno strumento! / Adesso tutte quelle cravatte colorate / sembrano strumenti senza fiato). Un’armonia che si perde nel ricordo lontano, di quando il poeta osservava il padre nella meticolosa opera di annodarsi la cravatta. La grazia con cui Carlo compiva queste azioni fa venire in mente al poeta un maestro che accordava il suo strumento. Come abbiamo detto in precedenza la poesia di Jovine è composta per immagini, e quella più bella lo accompagna tutte le notti nel buio della sua stanza Ogne notte arepenze a mamma e tata. Le vede com’arrete a ‘na tendina o pettate né mure de la stanza coma chilla fegure ‘mgiallanite e tutte pezze e crepe e ciammaragne né lamie de ‘na chiesa addò ce cantene le grille e le cichele. Ie vulesse arefà la facce a ‘ll’uocchie gna ddù pupazze spierte a ‘nu curnicchie o ddù sante scurdate ‘nda ‘na nicchie, ma me ze squaglia la creta e me lasse le mane senza sanghe e ragnecose ca vularrìa struzzà lu Patraterne 55 o pregà gna ‘nu pazze pè sapè che gghiè che gghiè su gliommere ‘mbrugliate, sta matasse d’ardiche de lu munne69. (Ogni notte ripenso a mamma e papà. / Li vedo come dietro a una tendina / o dipinti sui muri della stanza / come quelle figure ingiallite / e tutte pezze e crepe e ragnatele / sulle volte di una chiesa dove ci cantano / i grilli e le cicale./ Vorrei rifargli la faccia e gli occhi / come a due pupazzi sperduti in un cantuccio / o due santi dimenticati in una nicchia / ma la creta mi si squaglia e mi lascia / le mani esangui e rattrappite / sicché vorrei strozzare il Padreterno / o pregare come un pazzo per sapere / cos’è cos’è questo gomitolo arruffato / questa matassa di ortiche che è la vita). 4.2 Jovine padre e nonno Gli affetti non si limitano ovviamente solo alla figura dei genitori, che sono le più importanti. Nelle sue poesie ha parole di affetto e commozione anche per i figli e, maggiormente, per i nipoti. Nelle vesti di nonno il poeta sente di tornare bambino. Nel quarantesimo giorno di sua vita Le tue parole sono per ora il tuo faccino affondato nel cuscino, i tuoi occhietti fissi ai geroglifici 69 “Lu Pavone” – Ogne notte –Pag. 67 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 56 della tenda fiorita della stanza. Io ho consumato tutte le parole. Le tue manine come alghe d’acquario mi ricompongono nel muto lettino della mia nuova ed ultima infanzia e fringo e rido e annaspo e mi assopisco tuo docile compagno e tuo gemello70. Roma 3/7/92 Nonno Peppe La nascita della piccola Silvia porta nella vita del poeta una forza vitale nuova. Insieme col piccolo Riccardo formano il filo conduttore del tempo che lega il passato al futuro, ed in questo lasso di tempo Jovine si pone come il presente. Le parole che egli dedica loro fanno in modo che essi mai e poi mai possano dimenticarsi delle loro origini, delle loro radici molisane. Ti ho rivista Silvia correre tra le spighe di grano del Molise gridavi nonno, nonno ho visto un grillo! E per sempre quel grido irripetibile di felice scoperta avrò nel petto quando avrà passo di danza o di fuga la tua corsa 70 “Viaggio d’inverno” – A Silvia – Pag.33 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 57 al di là delle spighe fatate dove più vedrò le tue manine nuotare in sì dolce mareggiata d’oro che ti portava alle mie braccia tese. E tu sarai le nipotina di sempre, la nipotina che sulle stoppie del Molise gridava nonno, nonno ho visto un grillo!71 Sarebbe troppo lungo riportare qui la bellissima poesia che Nonno Peppe scrive al piccolo Riccardo, una serie di consigli di cui nei capitoli precedenti abbiamo colto alcuni passi. Ne prendiamo qui altri che hanno un significato molto toccante Ora tu guardi come un puledrino la brughiera infinita che spaura ed ogni oggetto bruchi come un sorcio e non sai quale nome e senso dargli. Non sarà così diverso il mondo quando comincerai “ad inciampare nell’uomo” e duro gioco sarà compitare l’alfabeto dell’essere e non essere, e non saprai se avrai torto o ragione 71 “Viaggio d’inverno” – 14 agosto 1998 – Pag.34 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 58 e scoprirai che un’esile farfalla può sapere più cose che gli uomini non sanno72. Questa è una poesia diversa dalle altre, in quanto Jovine associa a versi nuovi alcuni dei proverbi da lui raccolti in “Cento proverbi e detti di Castelluccio Acquaborrana73. Sogna lontani approdi e resta fermo, abbarbicato al suolo come quercia che i succhi della terra sugge e lancia nelle ramaglie pieghevoli e ferme al sole, al vento, all’acqua e alle bufere74. Il desiderio del poeta, resta sempre quello di vedere i suoi figli ed i suoi nipoti amare la sua terra di Molise allo stesso modo che l’amava lui. Percorrerai la terra dei tuoi avi, la rude terra dei Pentri e dei Frentani, vedrai la valle del pigro Biferno che sembra non arrivi mai al mare, e la valle romita del Cervaro dove bevono i morti alle peschiere, 72 73 74 “Viaggio d’inverno” – Consigli al nipotino Riccardo – Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 Edizioni Enne – Campobasso 1991 Ibidem 59 vedrai boschi color aragosta, e fughe delle volpi sulle nevi, nelle colline danze di puledri, le forche tra la pula d’oro al sole vedrai la quercia del Pontone che da secoli vive e più di te vivrà nei secoli e scoprirai dalle voci dei vichi che il tarlo ti sotterra e non la morte. Il tarlo è ruggine che mangia il ferro75. Il culto della patria è profondo in Jovine, e come abbiamo visto nella splendida poesia alla Vergine della Salute egli dirà “ Oggi la nostra patria è questa valle”76. Ma bisogna anche essere in grado di affrontare la vita nelle diverse situazioni: importante per il nostro è restare fermi sulle proprie idee senza mai comportarsi come bandiere al vento. Sarai quarzo e non stoppia di conocchia o ruscelletto torpido e tortuoso che come il solco gli fai poi si rigira. […] fa che la verità sia come l’olio che venga sempre luminosa a galla! 75 76 Ibidem “Tra il Biferno e la Moscova” – Il canto dell’emigrante – Pag.81 - Cartia editore – Roma 1975 60 Non dire come la mosca sul collo del bove: anche oggi abbiamo arato insieme. […] Gli occhi non stanno in fronte alle ginocchia, guarda dritto negli occhi della gente. […] E se tu perdi gli anelli ricordati che le tue dita stanno sempre in piedi77. Prima ancora di scrivere questi versi per i nipoti Jovine aveva indicato, come un buon padre, la strada da seguire per i figli. Vi guardo da lontano fiori inermi tremanti alle raffiche col rimorso di avervi piantati in un giardino brullo senza sole, ma mi crescete in petto ogni ora, inespresso mio grido, e già vi sento garrire al vento candide bandiere78. Jovine ha un solo obiettivo, quello di insegnare ai figli e ai nipoti, ponendosi egli stesso come esempio, l’importanza della famiglia, l’amore per la propria terra. Quell’amore profondo e viscerale che lo costringeva, anche da vecchio, a tornare da 77 78 Ibidem “Viaggio d’inverno” – Ai miei figli Carlo e Lucia –Pag.27 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 61 Roma per assaporare la fine brezza mattutina dall’alto del suo terrazzo, dove dominava la valle del Cervaro e dove, come da lui confidatomi, sono nati molti dei suoi versi. Manca ormai solo la figura del marito per completare lo Jovine uomo; egli si mostra come sempre dolce ed affettuoso, ma anche pragmatico, predicendo quasi alla moglie la sua prematura scomparsa. Tornerai lungo i sentieri dei boschi ove i ragazzi colgono le fragole e uccidono le serpi ed i ramarri, ritornerai sull’erba del cortile tra i muri tiepidi della mia casa ove il fiato dei miei morti arriva dalla valle romita del Cervaro col quieto odore della genzianella. E tenderai le mani sulle siepi e voleranno i passeri sui fili. L’uno nell’altro ogni giorno entreremo come nell’ombra tranquilla di un viale e tra cima e cima all’imbrunire nell’odore dei fieni e degli erbai e tra i vapori lenti di marcite 62 sarai quiete dorata di cielo79. Con questi versi della poesia alla moglie Franca si chiude la panoramica sugli affetti di Jovine. Quello che si evince dalle varie poesie e dai piccoli frammenti presi in considerazione è un amore profondo verso la famiglia, verso la sua casa, verso la sua terra. E queste poesie hanno proprio questo filo conduttore: in ognuna di esse il nostro vuole imprimere la sua molisanità e vuole trasmetterla agli altri. “Si indovina, talvolta, un’enfasi epica di queste poesie, che nasce dalla consapevolezza celebrativa ma, attenzione, mai retorica del ruolo comunque classico del poeta” scriverà Francesco D’Episcopo nella prefazione a “Viaggio d’inverno”. Le parole sono il succo vitale per il poeta: con esse costruisce i suoi sogni, le sue emozioni, le sue grida di gioia e di dolore. 79 “Viaggio d’inverno” – Lettera a mia moglie –Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 63 CAPITOLO 5 “Il poeta e la sua terra”80 I temi ricorrenti della produzione joviniana sono quattro. Le religione, la morte e la famiglia hanno trovato spazio nei capitoli precedenti. Ci resta ormai da trattare solo della sua terra di Molise, che lui ha sempre portato nel cuore. Jovine pensa in continuazione a coloro che sono stati costretti ad abbandonare Castelmauro, e lui è uno di questi, che però a differenza sua non potevano tornare con una certa frequenza. È forte nelle sue produzioni l’idea della sua molisanità. Non so chi pietra su pietra ha composto la mia casa grigia come il fango, so che le crepe aperte nel suo fianco sono ferite vive nel mio corpo. […] Qui torno a rannicchiarmi come i cani che vedevo agli angoli dei muri solo alla cuccia prima di morire: qui la vita ha gli stessi stupori, ha le stesse impazienze della morte che ti prende per mano e ti conduce 80 “Il poeta e la sua terra” fu il titolo di un convegno – ricordo tenutosi a Castelmauro nel 1999 64 dove tu vuoi sull’antico sentiero che mena al piano di Santa Lucia tra il verde dei vigneti e il canto fioco delle peschiere muschiate degli orti dove corrono i morti a rinfrescarsi. Qui torno amaro dopo ogni sconfitta per non desistere dal denso esistere col cuore d’esule senz’altro arredo che il canto dei mattini e ogni sconfitta torna a splendermi come una vittoria. […] Qui ogni albero ha il suo vento, ogni rovo il suo lamento ogni radura il suo silenzio. Qui nasce la mia storia, qui ciò che penso è mio. Dal cuore della terra che è il mio cuore vedo dai botri con l’erba novella la verità rifiorire sorella81. Castelmauro è il luogo dove Jovine trova conforto, ricarica la spina. Qui riprende le forze rivivendo le emozioni passate della sua vita. E' legato con un filo doppio alla 81 “Viaggio d’invenro” – Le mie radici – Pag.14 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 65 sua terra, ne sente i lamenti persino nella sua dimora capitolina. Il poeta però porta nel cuore la sua terra, ed allora gli basta chiudere gli occhi per perdersi nel suo mondo fatato […] E ci tornavano in sogno le notti il canto dei pollai, le stanze odorose di strame, le stanze odorose di spico, la luna d’argento sull’aia, il fermento del mosto nei tini, l’erba fresca e la lingua degli agnelli, l’acqua riccia dei ruscelli, la spuma dei torrenti, le raganelle del Sabato Santo, la fuga delle volpi sulle nevi, il canto degli ubriachi, gli organetti nelle valli, l’afrore delle fiere, le forche tra la pula, il vento tra gli ulivi, l’oro sabbioso delle stoppie, i lumi dei treni sui colli 66 nell’ora che annega il paese in un mare di grilli, i boschi color d’aragosta e le radure tepide di sulla82. Come abbiamo visto in precedenza questa poesia Jovine la dedicò a Pierluigi Giorgio, un uomo che come lui amava profondamente il suo Molise, che lui cantava alla maniera joviniana, con ardore e ricorrendo talvolta alla burla, girovagando con la sua carovana per i vecchi borghi della regione. Importante per Jovine però è la casa dove vede i natali, quel palazzo che la sua famiglia acquistò dai duchi di Canzano e che si erge in Piazza Municipio, proprio a ridosso della piazza principale del paese, da dove poteva dominare tutta la valle del Cervaro sino al mare. Qui trascorre la sua infanzia, qui muove i primi passi dentro la poesia, qui torna ogni tanto da Roma per ritrovare il suo essere. A rivedere il colore dei suoi boschi, a sentire la brezza mattutina, e dove tornò a prendersi l’ultimo saluto […] Casa che invecchi come invecchia il mio corpo, con le stesse rughe della mia pelle, con gli stessi tonfi misteriosi, gli stessi silenzi, 82 “Viaggio d’inverno” – Il narratore ambulante –Pag. 48 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 67 le stesse ombre, gli stessi nascondigli, con lo stesso battito del tempo, la stessa voce della vita e della morte dolci avventure…83 Il palazzo di Castelmauro diviene il nascondiglio perfetto, dove tiene custoditi tutti i suoi ricordi, che sono il tramite con i suoi avi. Ricordo che mi ripeteva sempre, quando ripartiva per Roma, che era importante il ritorno da Roma; l’idea del ritorno doveva essere un tarlo che ti rodeva il fegato. Quel vecchio detto del “partire è un po’ morire” vale nella realtà jovinana, solo che poi il poeta tornava a riprendere linfa vitale alle sue radici. Per lui tornare significa rinascere. “Ci rodeva la nostra sorte d’esuli” recita la poesia Ritorno a Borrana.84 Come sempre però le emozioni maggiori si colgono leggendo le sue poesie dialettali, in cui maggiormente esprime il ricordo per i luoghi della sua infanzia, una infanzia certamente priva di orpelli, semplice. Ancora mo’ ne Sanguinette ce sta ‘na casarella fore d’use, la stessa fenestrella sempe chiusa! Ci iettavame turze, scorce e prete, 83 84 “Viaggio d’inverno” – La mia casa – Pag.108 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 “Viaggio d’inverno” –Pag.17 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 68 ma nesciune arespunneia. coma tanta timpe arrete ancora mò tenesse la gulia de tuzzà ‘lla fenestrella scunzulate, pu penze: è cchiù bella barrecate: se z’arrapre z’encanta la malia85. (Ancora adesso alle Sanguinette / c’è una casetta fuori d’uso, / la stessa finestrella sempre chiusa! / Vi lanciavamo torzi, scorze e pietre / ma nessuno rispondeva. / Come tanto tempo addietro, / ancora adesso ho voglia / di bussare a quella finestrella sconsolata, / poi penso: è più bella chiusa; / se si apre si incanta la malia). Sono i luoghi dell’infanzia abbiamo detto, dove trascorre le giornate insieme con gli amici. […] Che gghiva allora lu Chianitte! Coccia rotte, gasteme, llucche e chiante! Lu sole aveia paura de le prete e annascuse pur’isse pazzeiava tra fronna e fronna coma nu quatrare. Ma pe chella maramaglia nu mirche ‘n fronte o ‘na chiazza de sanghe 85 “Lu Pavone” – La fenestrella –Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 69 era coma ‘na medaglia86. (Che diventava allora il Pianetto! / Teste rotte, bestemmie, urla e pianti! / Il sole aveva paura delle pietre / e nascosto anche lui giocava / tra foglia e foglia come un bambino. / Ma per quella marmaglia / un marchio in fronte o una chiazza di sangue / era come una medaglia). Ancora più sentita la poesia dedicata al giorno della fiera, una ricorrenza molto sentita negli anni dell’infanzia del poeta, da considerarsi quasi un giorno di festa. Tutti i contadini tornavano dalle loro masserie per vendere i loro prodotti o gli animali, vi erano persone dai paesi vicini e si faceva conoscenza, e tutto era un fermento. Addore de zoche e de tumaie de scapece, de sive e de fumiere! Nuvele de zucchere filate e provele de mandre e afa! Ma tutte punte e virgule e rizzille, cappille a sguince e culle ‘mpusemate e varva lisce e zizza de pacchiana, lu Barone z’appoia a nu bastone 86 “Lu Pavone” – Lu Chianitte –Pag.39 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 70 cu lu maneche d’argiente, e ‘n zenghera smurfiosa i’adduvine la ventura. Trumbette e sunagline, guagliune e cacciunille, scupine e ciaramelle tutte quante a sguagnalià! Pu nu core de mizzeiurne z’arraia la campane de lu Turche e ‘nchell’aria infucata e senza vinte c’addore de lacce e de vrasciole fanne feste le ssierpe e lu sole87. (Odore di corde e di tomaie / di scapece, di sego e di letame! / Nuvole di zucchero filato / e polvere di mandre e afa! / Ma tutto punto e virgola e ingalluzzito / cappello a sguincio e colletto inamidato / e barba liscia a mammella di villana / il Barone s’appoggia a un bastone / col manico d’argento / e una zingara smorfiosa / gli indovina la ventura. / Trombette e sonaglini, / bambini e cagnolini, / sonagli e zampognette / tutti a miagolare. / Poi nel cuore del mezzodì /si arrabbia la campana del Turco / e in quell’aria infuocata e senza vento / che odora di sedano e braciole / fanno festa le serpi ed il sole). 87 “Lu Pavone” – Iurne de firie –Pag.41 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 71 Ancora oggi il giorno della fiera è un brulicare di persone; nella visione data da Jovine manca solo la buonanima del Barone che s’appoggia al bastone col manico d’argento. Questa poesia è una perfetta composizione di immagini che Jovine comunque ha vissuto sino agli ultimi giorni della sua vita. Un’altra serie di immagini è la poesia Lu Paradise di cui prendiamo solo alcuni passi […] Quant’è bbille ‘llu paiese! Ze sbelava acchiane acchiane e la terra arehiatava gna nu lievete de pane: fume e ‘ncinze ‘ncera a ssole! […] tutte l’uocchie a cchella via a sunnà le nevelelle ‘ncima ‘ncima a lu Calvarie, le coste de Genuarie, lu Campusante e le Murgette… […] E ‘llu talurne d’azze nu core de mezzeiurne? […] Eppù a n’ora de notte che la luna! Luciacappelle luciacappelle! E le trascurze che le stelle? 72 Che tta cride, che gghiè lu Paradise? E ‘na staggiona spierte sunnate a uocchie apierte88. (Quanto è bello quel paese! / Si liberava dalla neve pian piano / e le terra rifiatava / come un lievito di pane: / fumo ed incenso innanzi al sole! / […] tutti gli occhi a quella parte / a sognare nuvolette / in cima in cima al Calvario, / le coste di Genuario, / il Camposanto e le Morgette…/[…] E quella nenia d’azze nel cuore di mezzogiorno? / […] E poi a un’ora di notte con la luna! / Lucciole lucciole. / E i discorsi con le stelle? / Che credi, che cos’è il Paradiso? / E’ una stagione perduta / sognata ad occhi aperti). Quando torna al suo paese Jovine scopre una forza sconosciuta, che lo trattiene, lo avvinghia Mi trattengono i secoli, è difficile riemergere dal tempo e ripartire89. Continua poi con altri versi che, come sempre, richiamano i suoi avi Lascio i miei morti e le viole intristire 88 89 “Lu Pavone” – Lu Paradise –Pag.60 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 “Viaggio d’inverno” – Ritorno al paese –Pag.111 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 73 sotto la neve senz’altro tepore che un lume di lanterna che trapela? […] Lascio incompiuta la mia valle bianca, un quadro che ogni giorno il tempo stinge ed ogni giorno a dipingere torno. Ma chi può dire come dolcemente nella tormenta si incanti il paese nel lucore di un sole d’alabastro che intiepidisce i morti a Somasella?90 Il suo essere molisano e castelmaurese lo spinge anche ad un rimprovero profondo nei confronti dell’astronomo castelmaurese Padre Giovanni Boccardi che, emigrato a Torino, non volle più rimettere piede sul suolo del suo paese natio […] Alfa Andromeda resta quindici ore sull’orizzonte prima di svanire, ma non sai dirmi quanto resta il sole sul balconcino ove le notti insonni contemplavi le stelle ad occhio nudo ed ora accenna un gambo di geranio. Sai quanto pesa Marte e quanto Giove, 90 Ibidem 74 ma sai tu dirmi il peso degli affanni che opprime la tua gente di Borrana? […] Nell’equinozio d’autunno la luna dall’equatore celeste, tu dici, dista all’ingrosso cento ottanta gradi, ma quanto dista il cuore di un barone dalla pelle rugosa di un cafone? […] Padre Giovanni, vivi in Alfa Andromeda! […] Oh! L’oro delle lampade nei vichi del tuo paese vivo abbandonato l’hai ritrovato in qualche via del cielo?91 Sono parole pesanti quelle che il poeta rivolge, in un finto dialogo, alla memoria del padre castelmaurese, senza però mai mancare di rispetto. Facendo notare che anche nel suo piccolo borgo vi è vita, e vi sono persone che vivono, e che negli anni non lo hanno mai dimenticato. Quando Jovine scrive questa poesia Padre Giovanni è già morto, ed è già una istituzione all’interno dell’astronomia. Castelmauro non ha mai dimentica il suo figlio, anche se questi non gli ha mai voluto riconoscere la maternità. Sono modi di vivere, certo. Per Jovine abituato a correre a Castelmauro ad ogni richiamo della sua terra, la scelta del padre astronomo è sembrata davvero senza senso. Il poeta e la sua terra, si è detto: un connubio indissolubile nel tempo. 91 “Tra il Biferno e la Moscova” – Alfa Andromeda – Pag.89 - Cartia Editore – Roma 1975 75 CAPITOLO 6 Jovine saggista La poesia è per Jovine non un passatempo, ma il modo di allontanarsi dal mondo della capitale che sente stretto, un modo per tornare, almeno con lo spirito, a percorrere i suoi boschi, a girovagare nei vicoli del suo borgo molisano; per tornare a scambiare chiacchiere e risate con i suoi compaesani. Jovine però, come abbiamo visto, è costantemente alla ricerca di un qualcosa, e come uomo e come poeta. Oltre alla poesia, egli si dedica anche alla narrativa. Come sempre il fulcro principale delle sue ricerche risulta essere la sua terra di Molise e i suoi abitanti. La prima opera portata a termine è il “Saggio sulla poesia di Albino Pierro”, uno dei maggiori poeti dialettali del secolo, << un cesello di analisi estetico/ sociale nel quadro mitografico del nostro Sud>>92. Lo stampo erotico della poesia dialettale del sud rientra a pieno titolo sia nei lavori di Pierro che ovviamente in quelli di Jovine, come ritroveremo anche ne “La sdrenga”, unica produzione saggistica di Jovine in vernacolo. Osservando attentamente questa sua produzione notiamo il meticoloso lavoro di ricerca che il poeta compie per giungere alla fine della sua fatica, passando ore ed ore per le campagne del suo paese ad interrogare i suoi compaesani. E non ci si dovrebbe nemmeno meravigliare se una buona percentuale delle storie raccontante siano autentiche. Noi sappiamo che Jovine innanzi tutto è un poeta autentico, che mira al sodo, che non risparmia mai le parole. 92 Da Gradiva - “Homage to Giuseppe Jovine”- Pag66 - di GIOSE RIMANELLI – International Journal of Italian Literature – New York 1999 76 Ma è in questi contesti, diciamo frivoli, che il poeta castelmaurese da il meglio di se. Ed è anche con grande maestria che riesce a trasformare i personaggi di queste piccole commediuole in autentici attori capaci di imbastire una trama interessante ed avvincente. Come in tutti i racconti, tutto ruota intorno alla battuta finale, quella per la quale di solito si ride. Ma essa coincide anche con la frase che ne indica la morale. Jovine è moralista come poeta e resta moralista anche come scrittore di saggi, nella ricerca sfrenata di situazioni particolari come quelli de “La Sdrenga”. Nel racconto “Preiete e sacrastane”93 notiamo la ripresa della solita tenzone con le cariche ecclesiastiche, in cui si vuole mettere a nudo la debolezza carnale di un prete che non riesce a resistere dinanzi ad una donna. Le sue parole finali non solo ci fanno sorridere, ma ci inducono a riflettere. Siamo in un periodo in cui la religione continua ad essere inattaccabile, si guarda agli uomini di chiesa con riguardo, e lo Jovine comunista viene etichettato anche come mangiapreti. Ma noi siamo consapevoli che quando il poeta prende in mano la penna per scrivere le sue storie, per riportare i racconti dei suoi paesani, per imprigionare sui fogli i suoi versi, egli non è altro che un uomo immerso nel suo mondo che ha i colori verde e marrone dei prati e dei monti del Molise. Lo stesso vale se prendiamo in considerazione il racconto “L’uprazione” in cui Suor Teresa è costretta a tornare indietro negli anni quasi confessa un peccato di gioventù che ormai non le appartiene dopo la scelta compiuta. La vergogna la riporta nella sua 93 “La Sdrenga” – Edizioni Enne – Campobasso 1989 77 dimensione umana, dove si possono commettere degli errori, dove sbagliare è, appunto, umano. Tutti i racconti nascondono la sagacia della terra molisana in un infinità di doppi sensi, che mostrano storie vere raccontate come favole e favole che si possono anche considerare storie vere. Di ben altra natura invece il saggio “Benedetti Molisani” in cui il poeta si spinge sino a toccare il fondo della sua terra con le mani, dove ne mette a nudo i pregi ed i difetti. Un saggio ricercato, dove cerca di dipanare la matassa imbrogliata della sua regione, che non riesce ad uscire da un carattere di vassallaggio nei confronti delle regioni limitrofe in grado di trovare al proprio interno le risorse necessarie per uscire dalla situazione stantia del dopoguerra. Un Molise che lui gira tutto in compagnia di Tommaso Fiore nel 1973, cercando di puntare il dito sulle sue reali condizioni, soffermandosi su quella che dovrebbe essere la sua arteria principale, la Bifernina, a tutt’oggi un eterno cantiere, dove i politici si arricchiscono alle spalle di una comunità ancora in preda all’analfabetismo. Conosce però le reali potenzialità dei suoi corregionali e si lagna della loro misera voglia di rivalsa, del loro mancato tentativo di uscire dal torpore in cui è riversa. “I Molisani amano più il Cristo in croce che il Cristo risorto”94 è una frase che coglie in pieno il carattere del molisano, che non è in grado di compiere il gesto del suo riscatto e resta aggrappato alla sua condizione di contadino che però difende sempre con orgoglio e con abnegazione. Continua Jovine “Il Cristo in croce è insomma il Cristo ufficiale, 94 “Bendetti Molisani” - I Molisani e la politica (1979) – Pag.31 – Edizioni Enne – Campobasso 1976 78 emblematico, della voluttà o della consuetudine della sofferenza o della tradizionale condizione di emarginazione sociale delle popolazioni meridionali; gli altri Cristi d’occasione sono modellati sui tipi ricorrenti nel caleidoscopico spettacolo della vita regionale. Cristo è di casa in Molise: ora è un piccolo marioncello acchiappacore; com’è definito nei canti popolari, ora un gaudente fratacchione che fa scricchiolare i pagliericci, ora un maldicente canterino che invoca l’infradiciatura delle salsicce del compare spilorcio, ora il magano che guarisce col concubito l’isteria. Ogni molisano si sveglia la mattina con un Cristo sotto il cuscino, tanto che i giovani novizi francescani si chiedono quale Cristo debbano presentare ai fedeli”95. Ma la prosecuzione della frase si spegne in un laconico “ […] è con tutti e benedicente, meno che con i comunisti”96. Anche Jovine ha il suo Cristo nascosto sotto il cuscino, un Cristo al quale lui si lega a suo modo, con il quale discute sulle reali condizioni della sua terra, che tiene lì come un confessore personale con il quale confidare le sensazioni alla fine di una giornata di lavoro. La rudezza del molisano, quella che gli permette di guardare “[…] Dio in faccia, senza scomporsi, lo bestemmia anche se non ci crede, perché vorrebbe che esistesse solo per rifargli i connotati e rinfacciargli i suoi torti”97 è anche il freno allo slancio verso il passaggio ad una condizione migliore. Jovine dice “I molisani sono come il loro fiume, il Biferno, che sembra non arrivi mai al mare”98, mettendo a nudo il loro punto debole. Non è incapacità a ribellarsi della propria condizione di inferiorità: è semplicemente pigrizia. Il molisano 95 96 97 98 Benedetti Molisani – Pag.31- Edizioni Enne – Campobasso 1976 Ibidem Ibidem Ibidem 79 è pigro, pensa sempre che sarà qualcuno a provvedere per lui. Non si ritiene un uomo d’azione, ma crede di essere una semplice comparsa. Se la poesia, maggiormente quella dialettale, è l’arma che Jovine sceglie per mettere a nudo le debolezze delle persone in maniera ironica, il saggio Benedetti Molisani è un’aspra ramanzina verso gli abitanti della sua terra. Quegli abitanti che hanno il difetto di accettare senza controbattere qualsiasi situazione. Ma la dedica che Jovine fa nel suo libro alla sua gente “ Ai molisani con rabbia e con amore”, oltre ad ispirare ricordi di ovidiana memoria, tende quasi a scagionare i suoi corregionale deviando le colpe della loro gravosa situazione su altri. E questi altri sono i politici, molisani e non, che non si interessano della piccola regione del Molise in quanto non ha le dimensioni adatte per essere appetibile. Egli segue da vicino, pur alloggiando nella capitale, le vicende non tanto politiche, ma sociali della sua regione. Egli crede fortemente nella rivalsa sociale della sua gente, visto che seguendo la strada politica la situazione non si evolve. Un credo dovuto alla conoscenza diretta della sua gente, che lui considera ben capace di giungere alla rinascita definitiva. Ha solo bisogno di una guida che la distolga dal torpore e dalla pigrizia. Con Benedetti Molisani Jovine compie un giro completo nel panorama regionale, andando a far visita anche a coloro che per disparati motivi hanno dovuto non solo abbandonare la regione ma anche la nazione. Importante il viaggio compiuto a Mosca, a scopo di studio, dove Jovine viene a contatto con una popolazione diversa rispetto a quella che le fazioni fasciste e comuniste avevano messo nelle piazze e nei loro comizi. Forse la forma di comunismo autentico Jovine in Russia la trova davvero, ma resta affascinato 80 dall’amore che i russi nutrono nei confronti del suo antenato Francesco Jovine, di dui amano ricordare i testi e i luoghi da lui narrati nei suoi testi. Ecco allora che al momento di rientrare in Italia Jovine, che vive della nostalgia per la sua terra di Molise, riesce a perdonare un arrotino di Frosolone arrestato sul Don e mai più rientrato a casa dalla moglie, ora addetto alla molatura elettrica di coltelli in una fabbrica nei dintorni di Mosca, o il suo “comprovinciale di Petrella Tifernina”99 incontrato a Zagorsk dove suonava il tromboncino in una banda specializzata in musica leggera che non aveva mai sentito la nostalgia per il suo piccolo villaggio molisano. Quello del molisano a Mosca è solo uno dei capitolo che Jovine dedica agli emigrati molisani: Svizzera (1970), Belgio (1977), Germania (1980) sono solo alcuni dei viaggi che il poeta compie per portarsi a contatto con i suoi corregionali all’estero. Egli nota la profonda differenza tra coloro che sono emigrati e i molisani che ancora vivono nella loro regione: l’ospitalità, la tenacia sono sempre radicate in loro ma hanno smesso quella loro veste diciamo contadina, legata alla terra. Come ricorda nel suo viaggio in Svizzera, l’amico presso il quale dimora era nella sua regione un umile contadino, mentre ora nella sua nuova patria si occupa di prodotti chimici in una grande azienda, conosce la storia di Vercingetorice e le imprese di Cesare in Gallia, pur conservando tutti i caratteri che distinguono un molisano da uno svizzero. Chi ha il coraggio di mettersi in gioco, in Molise, deve farlo necessariamente lontano dai suoi affetti, lontano dalla sua patria. E questa situazione da fastidio al poeta che vorrebbe che i suoi corregionali mettessero a frutto le loro 99 “Benedetti Molisani” – Un molisano a Mosca (1967) – Edizioni Enne – Campobasso 1979 81 idee all’interno della loro regione, che si impegnassero a coinvolgere quanta più gente possibile. Benedetti Molisani, come abbiamo visto, parla della politica, del sociale, della religione e dei giovani, ma punta il dito maggiormente su ciò che l’arretratezza della regione a livello di mentalità ha creato. Se chi di dovere avesse deciso di investire sulla propria terra, magari puntando sul turismo, unica risorsa vera sfruttabile del Molise, adesso molti, se non tutti, di quei molisani sparsi per il mondo starebbero a godersi le magie della loro terra. Jovine conosce profondamente la vita dell’emigrante, in quanto anche lui per lavoro è costretto a stare lontano dai suoi boschi, a respirare il cemento della città. Ma non perde mai occasione per tornare nella sua Castelmauro. L’altro saggio in cui Jovine mette a nudo la sua straordinaria capacità di entrare nella psiche dell’uomo è “Gente alla Balduina”100, uscito postumo nel 2005. Qui egli traccia un perfetto identikit psicologico di alcuni conoscenti che abitano con lui nel quartiere romano, andando a ravanare nei loro intenti reconditi, cercando di carpire dai loro gesti quelle che sono le loro reali emozioni. “Qui a Roma le menti e le coscienze sono atrofizzate… Ogni parola ci arriva in ritardo, come la luce di una stella morta da millenni…Sentiamo il suono, ma non la parola… una parola quand’è parola è una boa, un’ancora, un faro in mezzo a un mare infido…”101. Jovine bussa ad ogni porta ed ogni porta gli viene aperta, entra all’interno delle case e delle vite umane, ne coglie lo spirito e le modella creando delle favole per i suoi scritti. Jovine nasconde abilmente l’identità delle persone reali dietro i costumi ed i vizi dei suoi personaggi, in una saggio particolare 100 101 “Gente alla Balduina” – Edizioni Marsilio – Roma 2005 GIUSEPPE JOVINE – Note a Gente alla Balduina – Edizioni Marsilio – Roma 2005 82 che vuole dimostrare la mortalità di ogni uomo. “Un quartiere diventa metafora di una società con le sue laceranti contraddizioni, con la continua ricerca di significati e valori nel rapporto tra la città eterna e l’eterna provincia”, scriverà il figlio Carlo nella prefazione all’opera. L’intento del poeta è sempre quello di mettere in risalto la medesima condizione di ogni uomo dinanzi al proprio destino. La nobiltà è per Jovine solo una convenzione tra gli uomini, e non un tratto di distinzione che tenda a mettere ogni pregio ed ogni virtù nelle mani dei nobili e tutti i difetti ed i vizi nelle azioni dei poveracci. Egli si sente sempre vicino alle sue origini comunali, è un uomo di provincia e non lo nasconde; anzi, cerca di mostrare la sua provincia alle persone che incontra nella sua vita, le invita a trascorrere con lui delle giornate nella sua Castelmauro. Vuole mettere a contatto il nobile metropolitano con il bifolco molisano per dimostrare che nobile e bifolco non sono altro che due vocaboli del nostro parlare, e che non hanno nulla a che fare con gli uomini. Vi sono uomini fortunati e meno fortunati, ma dinanzi alla morte, e noi sappiamo la morte cosa rappresenta per il poeta, sono tutti uguali. Ogni scritto di Jovine, anche quando si interessa come in questo caso di personaggi squisitamente cittadini, conduce ad un raffronto con la sua terra e con i suoi corregionali, i suoi scritti sono una continua difesa delle sue radici contadine e molisane, ma sono anche un monito che lui vorrebbe giungesse alle orecchie dei molisani e che prendessero da esso lo spunto per poter attuare quella rivalsa sociale che era il sogno nel cassetto del poeta. Un ultimo sguardo va dato anche all’opera di traduzione che il poeta compie sugli scritti di Marziale, Orazio e Montale. Egli compie un viaggio all’interno della 83 produzione dei due poeti latini e del poeta romano, traducendo i loro versi con grande sagacia e con un pizzico di quella matrice piccante che ha sempre caratterizzato la produzione vernacolare del poeta molisano. “Chissà se passa u Patraterne”102 è il titolo di questo gioco che Jovine vuole compiere ponendo una trasposizione di Orazio, Marziale e Montale a Campobasso. E’ questa un’opera che dichiara la volontà di Jovine di trasmettere quel messaggio di “rifiuto nei confronti delle megalopoli emarginanti e disumanizzanti, il ripudio delle meccanicità e della ripetitività irriflessa di un costume di vita che idealizza e mitizza i beni materiali e il potere demoniaco del denaro, il vagheggiamento di una realtà popolare semplice e genuina, fondata su gratificanti relazioni amicali e amorose e il recupero delle esigenze interiori”103; le stesse idee che si ritrova in tutta la cultura moderna e contemporanea, partendo da Marx e sino a Marcuse, Adorno ed Horkeimer. Jovine sceglie questi tre scrittori antichi per compiere questo nuovo esperimento per il tema comune che essi sviluppano, ovvero, prosegue Jovine, “l’elogio della vita semplice, del ritorno al paese, della fuga verso la campagna, del rifiuto del consumismo, della contestazione delle metropoli”104. Se prima con “Benedetti Molisani” aveva messo a nudo le reali condizioni della sua regione, e se con “Gente alla Balduina” tende ad un confronto tra metropoli e provincia, in “Chissà se passa u Pataterne” egli completa la sua opera mettendo a confronto il parlare colto con quello popolare facendo notare la perfetta resa estetica dell’uno e dell’altro. 102 103 104 “Chissà se passa u Patraterne” – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1991 “Chissà se passa u Patraterne” - Nota di MARIALUISA SPAZIANI – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1991 Ibidem 84 CAPITOLO 7 Un poeta vivo nel ricordo 7.1 Giuseppe Jovine uomo del suo e del nostro tempo di Gaetana PACE “Grande affabulatore, amico sincero; capace di indignarsi dinanzi alla mediocrità e al falso perbenismo, tenace nel difendere la sua fede politica; valente critico letterario e polemista”105. La Pace sente, leggendo il poeta, la sua grande attenzione per la sua terra, il suo sentirsi emigrante a Roma, ma anche tenace nell’andare alla ricerca di “quel patrimonio originario che lo faceva sentire parte integrante del suo paese”106. Si sente la forza della sua parlata dialettale, di cui lui si serve per portare a conoscenza il “mondo del quotidiano”107 con le sue mille sfaccettature. “Una poesia, quella di Jovine, che ha le componenti della musica, dell’immagine, del sentimento; che ha il discorso gnomico alle spalle, convinto come era che fosse possibile produrre poesia solo se dietro c’è anche un profondo pensiero”108. 7.2 Letteratura come racconto campagna/città, dialetto/lingua di Giose RIMANELLI Jovine è il tempio della parola, quella parola dialettale vincolo profondo che lo lega alla sua terra di Molise. Nel racconto di una telefonata con il poeta, Rinanelli ne 105 106 107 108 Gaetana Pace – I Belli, Quadrimestrale di poesia e di studi sui dialetti – Edizioni dell’Oleandro – Aprile 1999 Ibidem Ibidem Ibidem 85 tratteggia gli interessi intorno alla scelta dello stile riguardo alla poesia dialettale. Noi sappiamo cosa sia per Jovine la parola; e Rimanelli lo stimola proprio su questo argomento. Un argomento che il poeta molisano condivide con il genovese Franco Loi. Egli, come Jovine, lascia il suo piccolo borgo per andare a vivere in città, dove continua la sua produzione vernacolare. Il punto è però sullo stile: basso o aulico? La risposta Jovine la da con “Chissà se passa un Patraterne”, con le traduzioni in dialetto molisano di Marziale, Orazio e Montale. Così, per bocca dello stesso Jovine, Rimanelli scioglie ogni dubbio sulla questione <<[…] non si può misconoscere il rapporto sotterraneo ed osmotico tra cultura “aulica” e cultura “popolare” al di la dei presunti processi di “italianizzazione” del dialetto>>109. Ecco allora qual è la vera poetica joviniana, la ricerca incessante della parola, lo studio dei testi, un lavoro psicologico da compiere su ogni idioma. 7.3 Il mio amico D’Artagnan di Giose RIMANELLI Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 4 settembre 1998 <<Pareva fatto di fili di ferro intrecciati e durissimi più che di vene, ma aveva la gran vena dell’aneddoto comico e finemente licenzioso, di tipo rabelaisiano; della risata paesana strillata, mista a carezze e sarcasmo, e la scrittura veloce e senza cancellature; quella tale scrittura propria del mnemonico ingegno che assorbe a volo libri di ogni tipo e cultura, filosofia e politica, linguistica e letteratura>>. E tali caratteristiche accomunano Jovine ad Albino Pierro, grande poeta dialettale meridionale. <<Sempre convergente al rapporto Pierro/ Jovine un’altra indagine di 109 Come detto sopra, qui lo scrittore italoamericano si riferisce ad una conversazione avuta al telefono con il poeta molisano. Da Studi Italiani 20 – Edizioni Cadmo 1998 86 struggente importnaza andrebbe fatta: e riguarda l’aspetto eroico di speciale icasticità che essa offre, e uno in grado di evocare il timbro lirico della poesia arabopersiana, che è oscuratamente morbido. La cosiddetta psicoerotomachia, sempre evidente in Jovine e in genere nella poesia dialettale del Mezzogiorno, viene con Jovine infitta di un linguaggio/ metafora ricco di “connotativi”, appunto perché in esso si radica la struttura semiologica del dialetto dentro la quale filtrano voci di altri linguaggi, riconducibili per lessicali analogie>>. 7.4.1 Giuseppe Jovine cinque anni dopo di Giose RIMANELLI con nota di Mario LUZZI Da Il Quotidiano del Molise Lunedì 8 settembre 2003 <<Ma ora tu mi sei venuto a mancare con dolore che dentro si scava sempre più coi minuti che passano, perché mi preservavi ancora il Molise con la tua vita baronale e contadina, coi tuoi racconti licenziosamente sapienti, e con quella tua poesia con la lacrima e la favola, il rintocco di campane nel sortilegio delle ore, la bellezza e la paura nella landa molisana assiepata di sterpi e desolato verde. Questo Molise era e resta il Primo Luogo della tua e della mia vita, concluso già nel farsi dentro di noi e quindi sacro al di la del travaglio, l’estraniamento, l’emigrazione>>. Rimanelli conclude, in questo struggente ricordo del suo amico fraterno, tratteggiando le due qualità migliori della personalità di Peppe: <<La profondità del pensiero che l’induceva a interrogarsi sulle cose della vita, ch’egli sapeva rappresentare con indiscusso talento letterario; e la vitalità travolgente con cui sfidava le malinconie in agguato con una gioia di vivere a tratti addirittura contagiosa>>. 87 7.4.2 Le radici di Jovine di Mario LUZZI Il maggiore poeta italiano ricorda il poeta molisano nel quinto anniversario della sua morte scegliendo un tema a lui caro: la sua terra e le sue radici. Prendendo come esempio alcune poesie del poeta Molisano “Le mie radici”, “Le cose”, “La mia casa”, Luzzi le nota “pregnanti di significati” ne “Le cose” attraverso “l’elencazione di cose ed oggetti anche banali e quotidiani rendendole vive e depositarie di significati profondi ed universali” e ne “La mia casa” esasperando “il sentimento della perdita” e facendo emergere “un senso di grande umanità e profondo intelletto”. 7.5 Jovine vivo di Domenico FRATIANNI Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 11 settembre 1998 <<Sanguigno, passionale, tumutluoso, mordace, idillico, ironico: Peppe Jovine era tutto questo messo insieme>>. Così apre il suo ricordo il maestro Domenico Fratianni, pittore campobassano, e fraterno amico del poeta. <<Ecco cos’era per me Peppe Jovine! Una presenza sempre gioiosa anche quando, a volte, montavano i furori e gli sdegni per viltà ricevute! Un “Don Chisciotte” moderno, gentile, affabile, disponibile che non si arrendeva mai di fronte alle avversità della vita e che si divertiva a sbeffeggiare la morte di continuo, quasi a volerla esorcizzare>>. 7.6 In memoria di Giuseppe Jovine110 di Mons Vincenzo FERRARA 110 La commemorazione viene pubblicata in due puntate dal quotidiano molisano. La seocnda parte, uscita Mercoledì 21 ottobre 1998, reca il titolo “Signore nella parola e nella vita”. 88 Da Novo Oggi Molise Martedì 20 ottobre 1998 Mons. Ferrara, sottosegretario al Dicastero per il culto e i Sacramenti in Vaticano, declama la sua commemorazione funebre nella parrocchia “Santa Maria Stella Mattutina” a Roma. Spesso, come lo stesso Jovine amava dire, i due “incrociavano le spade” sulle pagine della critica storica e letteraria. Jovine aveva interesse letterario per l’analogia tra fede e poesia di cui Mons Ferrara aveva accennato in una lettera del Natale del 1965 indirizzata al poeta. Ma quello che poteva sembrare solo in interesse poetico si trasforma per Mons Ferrara anche in interesse religioso; con l’intento di cogliere il luogo nascosto della fede nell’animo di un uomo come Giuseppe Jovine. Mons Ferrara seguirà gran parte della produzione joviniana in quanto il poeta amava conoscere i giudizi del prelato, in grado ovviamente di inquadrare i suoi scritti anche all’interno del pensiero cattolico. 7.7 “Il poeta e la sua terra”111 di Pierluigi GIORGIO <<Mi tornano in mente l’impeto creativo, lo sfavillio ironico degli occhi, la postura, l’incisività, il piglio sanguigno, l’espressione>>. Perluigi Giorgio era anch’esso un profondo amico del poeta, al quale viene dedicata una bella poesia sul suo mestiere di narratore ambulante. Jovine considera Giorgio come lo scrigno prezioso in cui sono racchiuse tutte le tradizioni della sua terra Molisana. 7.8 Molise orfano di poesia di Pierluigi GIORGIO 111 E’ Questo il titolo di un incontro – ricordo promosso dal sottoscritto per commemorare il primo anno della scomparsa del poeta, tenutosi a Castelmauro presso il palazzo dello scomparso poeta, organizzato con l’aiuto dell’Associazione Culturale Padre Giovanni Boccardi 89 Da Nuovo Oggi Molise Sabato 5 settembre 1998 Parlando del riguardo che il poeta aveva nei confronti del suo lavoro di scrittore e cantastorie, Giorgio ricorda quando si fermava a parlare in via Macrobio a Roma “o tra i compaesani in Molise, che lo fermavano e che fermava ad ogni istante, interloquendo, impastando, scandendo e gustando il suo dialetto” Era sempre intento a cogliere la “molisanità”, ovvero l’ingrediente segreto della sua gente. “Vita e morte convivevano in lui in serena coscienza e lo affascinavano, così come passione e tenerezza struggente”. Il comune denominatore tra Giorgio e Jovine è l’amore per i segreti della loro terra con l’unica differenza che Jovine li immortala nei suoi scritti e Giorgio li armonizza nella magia delle sue rappresentazioni sceniche. 7.9 Il Molise segreto di Giuseppe Jovine di Giulio de Jorio FRISARI Da il Tempo venerdì 29 novembre 2002 “La dura pena del vivere è mezzo di arcani significati e strumento che ha permesso all’immaginazione dell’uomo di costruire segreti e spazi ove proteggere i momenti di felicità ove nascondere i propri dolori”. Ecco cosa coglie Frisari nella poesia joviniana, con la quale egli ritrova “Tra le mura delle masserie molisane una immemorabile ricerca di sogno e di felicità” . Ogni immagine del poeta castelmaurese lo vede ritratto con lo sfondo della sua terra, aggrappato alle sue radici. “Il senso della fatica, il senso della sopravvivenza che si dispera e gode è stato avvertito nella costruzione biblica del messaggio poetico di Giuseppe Jovine in cui il confronto con la morte non ha mai ceduto alla lusinga estetizzante ma ha composto le parole con la 90 saggezza che soltanto il senso della responsabilità civica nei rispetti della storia e dell’umanità poteva dare: esso si configura come un raro riferimento educativo”. 7.10 Se n’è andato l’ultimo poeta di Antonio SORBO “Un tramite importante tra il Molise e la cultura nazionale, grazie al suo lavoro (come collaboratore a Paese Sera) e ai suoi contatti (come il sodalizio con Tommaso Fiore)”. 7.11 Roma ricorda Giuseppe Jovine di Massimo NARDI Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 15 ottobre 1999 “Fuor di metafora, Giuseppe Jovine non poteva considerarsi certo un poeta romano, tanto la sua vena poetica era pervasa dall’identificazione con le radici del suo Molise, con i suoi colori, i suoi odori, il rintocco di campane perdute, eppure la sua molisanità racchiudeva un significato universale che ha lasciato un segno profondo anche nell’ambiente culturale della capitale. Perché del mondo culturale romano Giuseppe Jovine era, a tutti gli effetti, un protagonista”. 91 APPENDICE Conobbi personalmente il Prof. Giuseppe Jovine nel 1995, per una intervista su un foglio cittadino intitolato “Che c’azzecca”. Trascorsi con lui un piacevole pomeriggio, discutendo di poesia e di Molise. Uscendo dal Palazzo, sulla piazza del paese, lo vedevo affaccendato con chiunque, sempre pronto alla battuta mordace e licenziosa, senza però mai scadere nel volgare. Tempo dopo, per via di una lettera che correggeva alcuni errori presenti nella sua intervista, iniziammo una corrispondenza che si interruppe drasticamente nell’estate del 1998. Così volli ricordarlo all’incontro – memoria che si tenne nel Palazzo nel novembre del 1999, intitolato “Il Poeta e la sua terra”. ODE A GIUSEPPE JOVINE E quel raggio di sole giallo, misto d’un caldo azzurro cielo, bagnava di splendore la vita, là, in quell’eterno paese or ora acceso di un rosso infuocato, or ora tinto di un verde speranza. E così, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta: così, mentre un uomo sudava il suo pane, una donna l’amor dell’amato, un bimbo l’affetto di una madre. È lontano ormai quel tempo; distante come un volo di gabbiano tra onde e onde, come un volo d’aquile tra cime e cime. E la montagna dorme sommessa 92 mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua terra il poeta. E tu, vecchio amico d’infanzia mancato; e tu, maestro di tanti ricordi e di sogni, che unisci l’argilloso e impavido futuro al glorioso e ferreo passato, ascolta il mio pianto. I prati in fiori sorridono mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. Con spade di ferro e petali di rose, per nemici e fratelli, alzava gli occhi al cielo turchino di quell’eterno paese: or canto libero d’un poeta, or affannosa e desiosa preghiera d’un uomo. Infinito è il risveglio della natura mentre, tra un misto di colori; volgeva lo sguardo alla sua terra il poeta. Qual angelo in seno crescesti, Casteluccio mia?; quale pensiero formasti al suo grido misto d’incommensurabil amore, e di fraterno odio? E così, nell’amore e nell’odio, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. E ora che tu, cielo, t’imbianchi e che porti dipinto d’azzurro il suo nome, sento nel cuore uno struggente ed eterno tintinnio di campane; e il pensiero mi porta lontano, tra valli sperdute di viti e d’acqua di sorgenti, a svelare la sua nuova dimora ai suoi sogni. E così un ricordo si tuffa impaziente nell’animo mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua terra il poeta. E non solo l’eterno e sconfinato mormorio del passato rimpiange le or meste or pesanti parole; e quel lieve raggio di sole già guarda nei suoi occhi lo spuntar della luna. E così trascorre la vita mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. Ricordalo ora, tu, uomo che sudi il tuo pane; ricordalo ora, tu, 93 donna che cerchi l’amore dell’amato; ricordalo ora, tu, bambino che cerchi un affetto di madre. Ricordalo ora, tu, mio cuore, padrone dei più lunghi sospiri: ricorda il suo genio, ricorda la sua arte; or cerca l’uomo, ora il poeta. E così una lacrima scende mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. Or piangi morte nemica, che strappasti al sua voce alla sua terra; tormentati nell’affanno del tuo vile coraggio, tu che prendesti, furtiva, il suo cuore. Ahi! piangete piccole e misere stelle mentre, tra un misto di colori, da lassù, volge lo sguardo alla sua gente il poeta. Gianluca Ricciardi 17/10 1998 al prof. Giuseppe Jovine 94 BIBLIOGRAFIA E PUBBLICAZIONI 95 Opere dell’autore Sezione A -Poesia dialettale 1. Lu Pavone – Edizioni Enne – Campobasso 1983 2. Chissà se passa u Patraterne – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1992 3. The peackok and the scraper – Edizioni Peter Lang – New York 1993 Sezione B -Poesia in lingua 1. Tra il Biferno e la Moscova – Cartia Editore – Roma 1975 2. Viaggio d’inverno – Edizioni Enne – Campobasso 1999 (postumo) Sezione C –Racconti1. La luna e la montagna – Adriatica Editore – Bari 1972 2. La sdrenga -– Edizioni Enne – Campobasso 1989 3. Cento proverbi e detti di Castelluccio Acquaborrana – Edizioni Enne – Campobasso 1991 Sezione D - Saggistica 1. La poesia di Albino Pierro – Il nuovo Cracas – Roma 1965 2. Benedetti Molisani – Edizioni Enne – Campobasso 1979 3. Gente alla Balduina – Gli specchi Marsilio – Roma 2005 (postumo) Sezione E - Articoli su giornali e riviste Da “Il Paese” 1. A colloquio con Pejerfitte 24/05/1949 2. Su Paul Gogain 21/02/1950 96 3. Morte del diavolo 07/05/1950 4. Notturno romano 13/12/1950 5. Le prime edizioni giornalistiche 11/07/1951 6. Il gusto del canto e della poesia nel Molise 06/02/1952 7. Indagini su Leonardo 07/06/1952 8. Nascita e condanna del “Santo” di Fogazzaro 21/08/1952 9. Florilegio “atlantico” 07/11/1952 10. I canti molisani 25/02/1954 11. L’oboe prigioniero 12/11/1954 12. Donne e costumi di altri tempo 24/12/1954 13. Il simbolismo 27/01/1955 14. Umanità di Wilde 14/02/1955 15. Un duello celebre 22/03/1955 16. Lawrence d’Arabia 18/10/1955 17. La pedagogia di Makarenko 07/11/1955 18. Il dramma di Kierkegaard 24/04/1956 19. L’opera di Igino Petrone 14/05/1956 20. Sigmund Freud 06/06/1956 21. Le crudeltà storiche 22/06/1956 22. Un poeta molisano 26/06/1956 23. Viaggio nel Molise 27/09/1956 24. Una biografia di Kafka 22/02/1957 97 25. La chiesa di Canneto 30/05/1957 26. Roger Pejerfitte 13/06/1957 27. Il cavallo di Don Tito 12/01/1958 28. La poesia di Pierro 04/03/1958 29. La sogliola 25/06/1958 30. Il cappello verde 10/10/1958 31. Atlantismo 12/02/1959 32. Leopardi e la luna 21/02/1959 33. Il romanzo italiano 10/06/1960 34. Poeti molisani 02/09/1960 35. Le vicissitudini vaticane del “Santo” di Fogazzaro 31/03/1961 36. Lingua e dialetto di Ippolito Nievo 26/04/1961 Da “Paese Sera” 1. La nostalgica poesia di Pierro 07/09/1976 2. L’antica festa della radeca 06/11/1976 3. Indimenticabile scorribanda nel Molise con T. Fiore 30/12/1978 4. Un romanzo di Giose Rimanelli 14/01/1979 5. Futuristi e crepuscolari 20/02/1979 6. La poesia di Cerri 04/09/1979 7. Per lui il sesso non era tabù 20/03/1981 8. Simboli di un potere 27/11/1983 9. L’amore abruzzese è vino da nulla 08/12/1983 98 10. Il moralismo di Francesco Jovine 18/02/1984 11. L’ira sacra di Tommaso Fiore 18/02/1984 12. Cofelice non si nutre più di dialetto 20/06/1984 13. Tornar di notte come un grillo 09/05/1984 14. Il molisano cantò l’amore l’emigrazione… 17/07/1984 15. Più il liceale deve ignorar la poesia più… 05/09/1984 16. Le lotte contadine nel secondo dopoguerra 22/10/1984 17. Morte del dialetto, viva il dialetto 28/01/1985 18. Romaccia dal corpo malato 17/01/1985 19. Il compromesso tra lingua e dialetto 28/01/1985 20. Un metodo per girare Roma stando all’ombra 04/08/1985 21. Agrigento discute di Pirandello 29/12/1985 22. Fate luce sul poeta dialettale 27/03/1986 23. Una storia d’amore e rivoluzione 04/04/1986 24. Il meridione tra riso e dolore 15/07/1986 25. Grillandi lo ricordo così 08/01/1986 26. La piuma sul tetto 30/08/1988 Da “Momento Sera” 1. Casa romana dell’Acquaiolo 07/09-1949 2. Lo spadone di Zurlino 16/11/1978 Da “La Repubblica” 1. La poesia di Ungaretti 05/02/1949 99 Da “La Fiera Letteraria” 2. Amore di terra anno 49 n°32 12/08/1973 3. Poeti toscani anno 50 n° 13 31/03/1974 4. Casa Repaci anno 51 n° 16 20/04/1975 5. Orazio Belli anno 52 n° 63 14/03/1976 6. Un romanzo di D’Acunto anno 52 n° 67 11/04/1976 7. Poesie di Renzo Barzacchi anno 53 n° 108 26/09/1976 8. L’ultimo Pierro 20/02/1977 Da “Il Risveglio del Mezzogiorno” 1. Love story best seller n°2/1971 2. Poesie dal carcere n°3/1971 3. La poesia dialettale molisana n°4/1971 4. Mosca n°4/1971 5. La psicologia del fascismo n°5/1971 6. La filosofia della reazione n°6/1971 7. Una giornata di Ivan Demisovic n°6/1971 8. La cultura meridionale n°3/1972 9. Capire la Cina n°6/1972 Da “Critica Letteraria” 1. Poesia romanesca n°12 pag.613/1976 2. Graffiti di G. Rimanelli n°20 pag.628/1978 3. Meridionalità e magia nella poesia di Pierro n°22 pag99-116/1979 100 4. Nascita della poesia dialettale di A. Piero n°90 pag.429-469/1996D Da “Crisi” l’uomo della letteratura 1. Ricordo è amore n°19-21 aa.11° G-Dic1971 Da “Misure Critiche” 1. L’avventura umana e letteraria di Giose Rimanelli n°65-67 aa17-18 pag.19 Da “Produzione e cultura” 1. Dibattito precongressuale 2. La difesa del dialetto 3. Piattaforma politica 16° Congr. Naz 4. Intervento 16° Congr. Naz 5. Questioni di dialetto anno I n°4 pag.66/1986 anno IV pag.60-63/1990 anno V n°1-2 pag. 5-16/1991 anno V n° 3-4 pag.26/1991 anno VII n°3-4 pag.34/1993 6. Le sorti del libro a Roma e in Italia anno VII N°5-6 PAG.20/1993 7. Sulle traduzioni anno VIII n° 1-2 pag.43/1994 8. Verso il congresso del S.N.S. anno VIII n°3-4 pag.8 /1994 9. Giallo a Stoccolma anno VIII n°5-6 pag.28 /1194 10. Dialettalità della poesia: Pierro annoIX n°1-2 pag. 12-13/1995 11. Il premio Nobel e altro a Stoccolma anno IX n°4-5 pag.36-37/1995 12. Dell’eleganza anno IX n°4-5 pag.23-24/1995 13. Un caso di persecuzione burocratica anno IX n°2-3 pag.7-8/1997 14. Tra Stoccolma e l’Italia anno X n°2-3 pag.7-8/1997 15. Sulle condizioni dello scrittore in Italia anno X n°4 pag.36-37/1997 101 Da “Nord e sud” 1. L’avventura umana e letteraria di F. Jovine 2. Albino Pierro. Ricordo di un poeta anno 37°n°4,pag.59-74/1990 anno42°pag.92-100/1995 Da “Volume Tradizioni popolari, Atti 1° Congresso Internazionale 1. Rapporto tra arte popolare e arte colta Metaponto Lido23-24/05/1986 pag.63-68 Da “Nuovo Mezzogiorno” 1. Essere se stessi anno15°n°10 pag.24-24/1972 2. Cultura e società molisana anno23° n°9 pag.25-28/1980 Da “Rassegna delle Tradizioni Popolari” 1. In difesa del dialetto 2. Ricordo di A. Dommarco 3. Benedetti Molisani 4. Legge l’Etrusco attraverso l’Albanese 5. Chissa se passa u Patraterne anno4°n°2 pag.15/1991 anno 10°pag.16/1997 anni 10° pag16-17/1997 anno4°pag7/1991 anno5° n°4, pag.2-6/1992 Da “Molise” 1. Benedetti Molisani anno 1° n°1 pag.48-56/1977 Da “Molise Oggi” 1. Tra gli immigrati molisani in Belgio 25-10/1981 2. Tra gli immigrati molisani in Germania 01/08/1982 3. Avventura a Gadames 4. Spettacolo e scienza da Termoli a Roma n°31-32 pag.11/1981 16/06/1985 Da “Mediterraneo” 102 1. Complementarità delle culture linguistiche n°5pag.20-23/1989 Da “IL vetro” Convegno di Chianciano 1995 1. Creatività del dialetto vol.1-2pag154/1996 Da “Atti 1° Convegno Espressione Latina. Su quali valori ricerca l’uomo… 2. Complementarità delle culture linguistiche pag.44-48/1986 Da “La Lapa” 1. Danze a Castelmauro pag.23-24/1955 Da “IL Risveglio del Molise” 1. Su Igino Petrone 1964 2. Fuoco alle batterie 1966 3. Vergogna! 1966 4. Crucifige, Crucifige 1967 4a. In viaggio nell’Unione Sovietica 1967 5. Isernia, capoluogo di provincia 1967 6. Ricordo di C. Marinelli 1968 7. I Bulgari nel Molise 1968 8. Il Canto dell’Emigrante 1968 9. I cicalamenti di San Vincnezo 1968 10. Benedetti Molisani 1969 11. Il Molise nelle indagini di Felice Del Vecchio 1969 12. La luna e la provincia 1969 13. Viaggio in Molise con Tommaso Fiore 1969 103 14. Pierro in Alaska 1970 15. Amico Borrelli… 1970 16. Ricordo di G. Cerri 1970 17. Discorso sulla poesia dialettale molisana 1971 18. Ricordo di T. D’Amico 1972 19. Tra gli emigranti molisani in Svizzera 1972 20. La vessata questione dell’Università Molisana 1973 21. Guglionesi e la chiesa di San Nicola 1973 22. Il mondo antico di R. Tullio 1977 23. Il Convento 1977 24. Invito a conoscere il Molise 1977 25. Cultura e società molisana 1982 26. Ricordo di M Marracino 1982 27. I giovani molisani e la cultura 1982 28. L’uomo e l’artista (M Scarano) 1986 29. Il P.C.I. allo specchio 1986 30. Ritorno di G. Rimanelli 1987 31. Un castello per la cultura 1987 32. Il mito di Roma nei poeti e scrittori 1988 33. Cupini, da medico a scrittore 1988 34. Cara Italia, tuo Molise 1988 35. Moliseide di G. Rimanelli 1991 104 36. La pittura di D. Fratianni 1992 Da “Socialismo democratico” 1. La pena dei ricordi… 1964 2. Gli scrittori e il romanzo sceneggiato 1965 - Altri scritti1. Non ci sta - Il cavallo di Troia 1982 2. Coraggiosa maestra di Campagna – L’Unità 1988 3. È possibile ridare autorità al sapere? – Tuttoscuola 1980 4. Insegnamento confessionale e non - Scuola e didattica 1981 5. Informaitca e scuola – Computer 1990 6. L’orologio del Pincio – Lares 1982 Da “Letteratura italiana del 900: Il ritorno di Giose Rimanelli –pag.1063-1069Editore Marzoratti 1989 Da “Il Tempo Molise” 1. Morire è peccato 2/11/1993 2. Mani pulite in Molise 08/10/1993 3. Le tre povertà del Sud in crisi 03/1994 Bibliografia critica - Antologie 1. GABRIELE DI GIAMMARINO, Il dialetto di Jovine, “ L’atrio delle Muse” – Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1969 105 2. ANDREA CALARCO – GABRIELE DI GIAMMARINO – MARIO TICCONI , Momenti, “Antologia italiana per le scuole medie” – Vol.1° - Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1972 3. ANDREA CALARCO -GABRIELE DI GIAMMARINO – MARIO TICCONI, Comunicare con… “Antologia italiana per le scuole medie” – Vol.2° - Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1980 4. GABRIELE DIGIAMMARINO – MARIO TICCONI, Mille pagine - Edizioni Loffredo, Napoli 1988 5. R MAGHERESCU, Scrittori del Messaggio, “Antologia Autori Italiani e Romeni” –Edizioni Istar, 1995 6. Spazio totale, “Antologia del 3° reading di Poesia Contemporanea” – Edizioni Tracce 7. FRANCO LOI - DAVIDE RONDONI, Il pensiero dominante, “Antologia Poesia Italiana” – Edizioni Garzanti 2001 - Dizionari – 1. LUIGI BONAFFINI, “Dictionary of Literary Biography” – Vol.128 – New York 1992 2. LUIGI BONAFFINI, Twentieth – Century Italian Poets, “Dictionary of Literary Biography” – Second series – New York 1992 3. VINCENZO ROSSI, Giuseppe Jovine, “Dizionario dei poeti del 2000 – Edizioni Latmag, Bolzano 1993 - Giornali e riviste – 1. P. ALTOBELLI MASCIANGELI, Le traduzioni in dialetto di Giuseppe Jovine, “La Ginestra” – San Vito Chietino, gennaio 1944 2. RAFFAELE BIONDI, Contributo alla conoscenza di Pierro, “La gazzetta nuova di Reggio” – 5/10/1965 3. SABINO D’ACUNTO, Un saggio di Jovine su Pierro, “La Tribuna del Molise” – Roma, 31/07/1965 4. GIULIANO MANACORDA, Un libro su Pierro, “Paese sera” – 06/08/1965 5. FRANCO SIMONGINI, Un saggio su Pierro, “Socialismo Democratico” – Roma, 27/02/1966 6. EMILIO CECCHI – NATALINO SAPEGNO, Storia della letteratura italiana, “Il Novecento” – pag.990. – Edizioni Garzanti, 1968 7. F GABRIELLI, Studi su Pierro, “Il Messaggero” – 11/04/1968 8. TOMMASO FIORE, Introduzione alla prima edizione de Lu Pavone- Edizioni Adriatica – Bari, 1970 9. TOMMASO FIORE, Un autentico poeta, “Il Risveglio del Mezzogiorno” – Bari – Marzo-Aprile 1970 106 10. SABINO D’ACUNTO, Un libro di Jovine sul Molise, “Molise Oggi” – Campobasso, 20/02/1970 11. MASSIMO GRILLANDI, La Poesia di Jovine, “Il Risveglio del Mezzogiorno” – 22/06/1970 12. SABINO D’ACUNTO, Lo stilnovismo di Jovine, “Echi d’Italia” – Roma 1971 13. GIANNI BARRELLA, La vocazione del romanzo, “Il Giornale d’Italia” – 08/11/1972 14. TOMMASO FIORE, Prefazione a La Luna e la Montagna, Edizioni Adriatica – Bari 1972 15. PAOLO GIOVANNELLI, Giuseppe Jovine narratore, “Attraverso l’Abruzzo” – Pescara – Ottobre 1972 16. WALTER MAURO, Dove va la cultura meridionale?, “Scrittori del Sud” – Edizioni Nuovo Mezzogiorno – Roma, Ottobre 1972 17. MASSIMO GRILLANDI, I racconti di Giuseppe Jovine, “Il Ponte” – 31/03/1973 18. IRENE MARUSSO, I racconti di Jovine, “Il Faro” – Palermo 03/10/1973 19. SALVATORE MOFFA, I racconti di Jovine, “Il Risveglio del Molise” – Roma – Marzo 1973 20. MASSIMO GRILLANDI, Prefazione a Tra il Biferno e la Moscova, “Tra il Biferno e la Moscova” - Edizioni Cartia – Roma 1975 21. MARIO LUNETTA, Linea meridionale della poesia di Jovine, “L’Unità” – 15/12/1975 22. LUIGI VOLPICELLI, Premessa a Tra il Biferno e la Moscova, “Tra il Biferno e la Moscova” - Edizioni Cartia – Roma 1975 23. MARIO POMILIO, La narrativa del Molise, “Il Tempo” – 27/06/1975 24. TITINA SARDELLI, “Narratori Molisani” – pag.165 – Edizioni Marinelli – Isernia 1975 25. GIANNI BARRELLA, Il Molise emblematico di Giuseppe Jovine, “Il Giornale d’Italia” – 16/03/1976 26. TITINA SARDELLI, “Poeti Molisani” – pag.55 – Edizioni Marinelli – Isernia 1977 27. UGO REALE, Benedetti Molisani, “Nuovo Mezzogiorno” – Maggio 1979 28. ANDREA DE LISIO, Benedetti Molisani, “Oggi e Domani” – Pescra, 08/08/1979 29. PITRO CIMATTI, Premessa a Benedetti Molisani, “Benedetti Molisani” – Edizioni Enne – Campobasso 1979 30. VINCENZO FERRARA, Benedetti Molisani, “Molise Oggi” – Campobasso, 23/03/1980 31. FRANCESCO D’EPISCOPO, Benedetti Molisani, “Critica Letteraria” – n°29 – Napoli 1980 32. TOMMASO FIORE, Gli studi di Jovine su Pierro, “Lettere ad Albino Pierro” curate da Aldo Rossi e Paola Sgrilli su “Poliarma” Edizioni Cappelli, 1980 33. MARIO GABRIELE, I racconti di Jovine, “Poeti del Molise” – Edizioni Forum – pag.46 – Forlì 1981 34. MARIO GABRIELE, La poesia di Jovine, “Poeti del Molise” – Edizioni Forum – pag. 7 – Forlì 1981 107 35. ANTONIO MOTTA, Omaggio a Pierro, - pag.22 – Edizioni Licata – Manduria 1982 36. TULLIO DE MAURO, Premessa a Lu Pavone, “Lu Pavone” –Edizioni Enne – Campobasso 1983 37. STEFANO GENSINI, La poesia in molisano di Jovine, “Paese Sera” – 01/07/1984 38. SALVATORE MOFFA, La poesia di Jovine, “Nuova Dimensione” – Isernia 1984 39. 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Assegnato il Premio Jovine, “L’Avvenire” – Roma 22/08/2000 100. I vincitori del Premio Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 26/08/2000 101. Assegnato il Premio Jovine, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 27/08/2000 102. FRANCESCO D’EPISCOPO, Nel labirinto delle passioni, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 27/08/2000 103. CARLO JOVINE, Mio padre, poeta per stile di vita, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 27/08/2000 104. Il Premio Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 27/08/2000 105. Ricordando il poeta gentiluomo, “Nuovo Molise” – Campobasso – 03/09/2000 106. MARIO DI NUNZIO, Giuseppe Jovine, o della passione e della pietas, “Novecento Molisano” – pag.133-143 – Edizioni Palladino – 2001 107. La poesia dialettale, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso- 18/08/2002 108. CAMILLO VITI, Il Premio Jovine, “Il Tempo” – 01/09/2002 109. GIULIO DE JORIO FRISARI, Ricordando lo scrittore Giuseppe Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 20/11/2002 110. GIULIO DE JORIO FRISARI, Il Molise segreto di Giuseppe Jovine, “Il Tempo” – 29/11/2002 111. MARIO LUZZI – GIOSE RIMANELLI, Giuseppe Jovine cinque anni dopo, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 08/09/2003 110 A mio padre Vincenzo e mia madre Teresa che non mi hanno mai fatto mancare il loro sostegno, a nonna Maria Donata che ha trepidato insieme a me ad ogni esame. A Giulia, Simona e Caterina, preziose collaboratrici in terra d’Abruzzo; ed Annamaria Iorio che non mi ha mai negato la propria ospitalità nelle vigilie importanti. A Vincenzo Iuliano, futuro e promettente architetto, che mi ha aiutato a superare l’esame più difficile, quello di Storia dell’Arte. Un saluto particolare a Bonfitto Michelina e Straniero Enrico che mi hanno fatto sorridere in un momento non proprio felice. A tutti coloro che mi hanno sopportato non facendomi mai mancare amicizia e comprensione. 111 112