“ A Domenico Mancini,
marito fedele, padre affettuoso
e nonno amorevole”
“Al prof. Giuseppe Jovine,
maestro ed amico sincero”
“Al dottor Carlo Jovine,
continuazione dell’amore paterno
per la terra di Molise”
“ Ai miei avi tutti”
SOMMARIO
Cenni storici e bibliografici
1
Jovine e la religione
16
Un tema ricorrente: la morte
30
Gli affetti
42
Il poeta e la sua terra
64
Jovine saggista
76
Un poeta vivo nel ricordo
85
Appendice
92
Bibliografia e pubblicazioni
95
CAPITOLO 1
Cenni storici e bibliografici
Giuseppe Jovine nasce a Castelmauro, in Molise, il 20 Novembre del 1922 nel
palazzo ducale acquistato dai suoi avi dai duchi di Canzano. La sua infanzia scorre
tranquilla tra i boschi e le colline della ridente regione del mezzogiorno, ma avverte
da subito la volontà di risolverne quei disagi di cui non si è mai raccontato nei
manuali di storia. Già dall’infanzia si insinua nel suo cuore un sentimento profondo
di giustizia sociale. Un aneddoto rivelatomi dal figlio Carlo ci mostra come l’idea
della comunione sia partecipe della sua vita. Tornato a casa, dopo un pomeriggio di
giochi, senza calzature, aveva ricevuto le attenzioni della madre Adele, preoccupata
dal fatto che il figlio fosse rientrato in casa senza le scarpe. Senza minimamente
scomporsi, Jovine spiegò che il suo compagno di giochi non ne aveva, e gliele aveva
regalate in quanto lui ne aveva molte altre. L’interesse per il prossimo, che man mano
diventerà amore per la
propria terra e i propri
corregionali, è vivo nel poeta
molisano sin dall’infanzia e si ripeterà nelle sue poesie e nei suoi racconti dove i
maggiori protagonisti sono per lo più contadini e poveracci. Nel 1933, all’età di
undici anni, viene mandato a studiare presso la Scuola dei Salesiani di Macerata dove
resterà sino al 1938. Qui inizia quel che gli antichi chiamavano il “cursus honorum”
pubblicando su un foglio studentesco la sua prima fatica: “Contemplazione della
morte di d’Annunzio”, mostrando così fin da subito quella attenzione nei confronti
del vate abruzzese che lo accompagnerà per tutta la vita. Terminate le scuole presso
Macerata si sposta a Chieti dove frequenta il Liceo Classico, che però interrompe per
1
una azione sconsiderata. Infatti insieme con un compagno di studi decide di
imbarcarsi per l’Albania ma viene fermato dal colonnello che si rende conto in tempo
che la divisa indossata dai due non è quella d’ordinanza e quindi li rimanda a casa.
Terminati gli studi liceali si trasferisce a Firenze dove frequenta l’Università, ma la
voglia di arruolarsi perdura sino al terzo anno quando viene distaccato al IV
Battaglione del Reggimento Bersaglieri dal quale si concederà nel 1945. Continua le
sue pubblicazioni maggiormente su fogli accademici come la “Gioventù” di Napoli in
cui appaiono diverse poesie. Si evince da queste prime pubblicazioni una certa
polemica nei confronti
dello strutturalismo e del decadentismo, a causa
dell’influenza di personaggi come Giorgio Pasquali e Giuseppe De Robertis, tesa a
far si che essi non scadano, seppur involontariamente, in una sorta di positivismo che
non permetterebbe di giungere ad una critica letteraria atta, secondo un dettame
marxista da lui seguito, a “guardare oltre il fenomeno puramente linguistico e
considerarlo nella sua complessa interazione dinamica con il contesto sociale che l’ha
generato”1. L’interesse par la politica si radicò in lui sin dall’età adolescenziale,
quando a soli quattordici anni seguiva lo zio Paolo Jovine, consigliere provinciale
socialista nei suoi comizi, maturando in lui la possibilità di una intesa tra comunismo
e valori cristiani; possibilità che lo spinse a seguire le ideologie di autori come
Stinmer e Troetsch. Nel 1945, quando ormai la caduta di Mussolini era irreversibile,
Jovine viene nominato Commisario Prefettizio a Castelmauro, ossia la carica attuale
di sindaco, e, non essendosi in Molise combattuta una guerra di resistenza, egli
1
LUGIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine”- Pag. 78 – Edizioni Enne - 2000
2
utilizzò la sua carica per permettere l’evasione di prigionieri inglesi. Castelmauro era
ovviamente sotto il controllo dei tedeschi che avevano minato il ponte di accesso al
piccolo borgo; ed allora Jovine, come egli ricorda in un passo de “La Luna e la
Montagna” incaricò una persona di andare a togliere le mine. Questa però, scoperta
dai tedeschi, fu costretta alla fuga. Nel 1948 vinse il concorso per i licei ed iniziò ad
insegnare prima filosofia, e poi italiano e latino nei vari licei della capitale. Continuò
ad insegnare sino al 1973, salvo poi divenire preside di scuole medie presso la
capitale; carica che mantenne sino al 1991. Il primo scritto di Jovine è un saggio sulla
poesia di Albino Pierro, terminato nel 1965 e uscito l’anno successivo in cui prende
in considerazione non solo l’intento poetico di Pierro ma cerca di incentrarlo anche in
un quadro culturale e politico. La sua critica cerca di conciliare insieme l’ideale
marxista dell’arte intesa come appropriazione del reale e quello che era stato
l’insegnamento di Croce sino a quel momento. Ma le idee delle riviste del primo
novecento, come ad esempio “La Voce” di Prezzolini, trovano un riscontro nel suo
voler inquadrare poeta e poesia in un quadro storico ben preciso. Egli allora affronta
questo suo lavoro intendendo la produzione di Pierro come la storia culturale della
borghesia italiana di formazione cattolico/idealista, e ponendosi a difesa di quel
popolo che da secoli scrive la storia del mondo ma che dal Pierro era inteso solo
come uno sfondo pittorico. Egli giustamente si prende l’onere di una critica che possa
far interagire insieme non solo la storia ma anche la filologia, che lui intende
ovviamente complementari. E termina così il suo studio definendo Pierro “poeta di
3
formazione e ispirazione cattolico/idealistica, che ha saputo darci quello che i
marxisti definiscono un rispecchiamento dialettico della realtà umana”2.
Pierro per molti anni fu collega di Jovine, e proprio da lui il nostro recepisce l’amore
per il dialetto e la sua importanza culturale, dando alla luce la sua prima produzione
in vernacolo nel 1970, “Lu Pavone”3, che deve essere inteso come un tentativo di
integrazione tra cultura dominante e cultura subalterna contadina. Nella sua ricerca di
un idioletto in grado di integrarsi con la cultura moderna Jovine troverà diversi
insegnanti, quali Gramsci che aveva iniziato i suoi studi sul Folklore, e maggiormente
Pier Paolo Pasolini che intendeva l’attacco contro le culture subalterne un autentico
genocidio. Vi sono però delle differenze importanti tra Pasolini e Jovine: laddove il
primo intende il dialetto come la ricerca di un linguaggio inedito “sottratto all’uso
quotidiano”4, per Jovine è invece un portatore di valori culturali. L’amore viscerale
che Jovine nutre per la sua terra molisana e per il suo paese Castelmauro, necessita
del linguaggio puro contadino, il linguaggio di quel popolo protagonista assoluto dei
suoi scritti, dei suoi pensieri. Ma non si tratta solo di copiare le parole pronunciate
dalle persone con cui egli si intratteneva nella piazza o nelle cantine: è la ricerca
costante di una modernizzazione dell’idioletto non solo castelmaurese, ma anche
molisano. Ricordo ora un aneddoto di Jovine che mi vede protagonista. Lo avevo da
poco conosciuto e gli avevo chiesto di recensire qualche mio scritto, confessandogli
successivamente che anche a me sarebbe piaciuto cimentarmi con qualche verso in
dialetto. Gli chiesi dunque dei consigli su come e dove poter trovare un lessico
2
3
4
“La poesia di Albino Pierro” – Edizioni Il nuovo Cracas - Roma 1966
“Lu Pavone” – Edizioni Enne -Campobasso 1983
LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine” -Pag.82 – Edizioni Enne - 2000
4
abbastanza importante per poter dar vita alla mia idea. Mi chiese di aspettare
dirigendosi verso la sua libreria e tornò indietro con in mano un libro. Pensai che si
trattasse di una raccolta da lui fatta sui termini dialettali (allora non avevo ancora a
mente la sua produzione letteraria), ma quando lessi il titolo del tomo rimasi senza
parola “Vocabolario ragionato del dialetto di Casacalenda”. Al che gli dissi che il mio
intento era quello di scrivere in dialetto castelmaurese, ma lui serafico “Devi
imparare a scrivere in dialetto molisano; e solo allora sarai in grado di esprimerti nel
dialetto di qualsivoglia paese”. Per Jovine il dialetto è lo status di una regione intera,
ancor prima di esserlo per un singolo borgo. Lui crea con il suo dialetto una koinè
particolare, cerca di fondere tutto il saggio sapere degli antichi in un linguaggio che
possa risultare comprensibile all’intero popolo molisano. Ecco perché spesso negli
scritti di Jovine un castelmaurese stenta a riconoscere la propria parlata, in quanto lui
cerca di dare ad ogni frase una dimensione universale e di vita. In “Cento proverbi e
detti di Castelluccio Acqua Borrana”5 ce n’è uno di cui non si trovano riscontri in
altri testi e che probabilmente Jovine ha inteso direttamente da qualche contadino in
una delle sue consuete passeggiate. “La grannela za recanosce ‘ncopp’all’uocchie e le
magliuole”. Tradotto verrebbe pressappoco così: la grandine si riconosce sopra gli
occhi e i germogli della vite. Ma come detto per Jovine il dialetto è trasmissione di
valori culturali ed umani, espressione di un linguaggio universale non solo letterario
ed estetico, ma maggiormente esistenziale, per cui nel suo intento egli voleva far
comprendere
5
come i colpi del tempo (vecchiaia) si riconoscono sulla propria
Edizioni Enne – Campobasso - 1991
5
esistenza. Se si vuole comprendere a pieno la produzione joviniana, sia essa in lingua
o in vernacolo, non ci si deve fermare al processo estetico o letterario, ma entrare a
fondo nel suo animo, nel suo modo di intendere la quotidianità.
La produzione di Jovine in dialetto risente molto del tema della morte che viene
inteso dal popolino come profondo momento di comunione fraterna. Le liriche in
dedica ai genitori mostrano tutta la padronanza del poeta verso una realtà cruda della
vita. Ne “Lu Pavone” sono notevoli le liriche che raggiungono picchi altissimi di
commozione, ma anche di ingenua naturalezza verso un fenomeno insito nel nostro
essere uomini dal primo momento della nostra vita. Jovine sarà un poeta dialettale
autentico, capace di mettere per iscritto i sapori reali della sua terra, le sue
tribolazioni, i suoi pregi, i suoi difetti. Amore che troverà il suo culmine in “Benedetti
Molisani” un saggio sulle reali condizioni della regione.
Certo la poesia di Jovine è incentrata non solo sulla consapevolezza della morte, ma
anche sulla identica consapevolezza che comunque ad ogni attimo la vita si rinnova; e
maggiormente al seguito di eventi tristi e difficili. “La vita sempre za rennova. / E’
murte tata / e iè penze a la giacchetta nova / che mmeia mette mò che vvè l’estate.
(La vita sempre si rinnova. È morto mio padre, ed io penso alla giacchetta nuova che
devo mettermi adesso che vien l’estate)6”. E lo stesso concetto che si trova in questo
vecchio proverbio castelmaurese . “Me so cadute le nielle ma le detera stanne ancora
all’ampiede (Mi sono caduti gli anelli ma mi restano ancora le dita)7”. Anche se le
ricchezze sono andate perdute ci resta la possibilità di poterle riconquistare di nuovo:
6
7
“Lu Pavone”- La vita – Pag.50 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983
“Cento proverbi e detti di Castelluccio Acqua Borrana” - Pag.46 n°94- Edizioni Enne – Campobasso- 1991
6
la morte, come qualsiasi altra disgrazia ha un unico valore per Jovine; è solo alla
morte non vi è rimedio. Nella vita vi sono gioie e dolori che conosciamo da sempre e
che dovremo essere in grado di affrontare. Questo è il suo monito maggiore. Quando
un uomo riconosce i propri limiti allora egli è veramente uomo capace di affrontare
ogni tipo di avversità e di vivere serenamente la propria esistenza. Il suo è quindi un
linguaggio universale che riesce a cogliere le varie sfaccettature di un realismo
assoluto che immette nei suoi versi, come nota lo stesso Tullio De Mauro nella
prefazione a “Lu Pavone”, in cui il dialetto è testimonianza viva di un mondo reale,
che vive delle sue emozioni e tramite la sua lingua. Scrivere in dialetto non vuol dire
necessariamente scrivere di cose metafisiche: le genti, i luoghi, i sentimenti di Jovine
sono reali. Tutti possono andare nel piccolo borgo molisano e chiedere di “Cinzinille
che faceia lu murte pe pazzia”8 o di qualche suo nipote; o sentire parlare dei
discendenti di “Surgetille”: <<Ta recurde cumpà de Surgitille?/ - Se mma recorde!
Coma stì cumpà?>>9( Ti ricordi, compare, di Surgetille?/ - Se mi ricordo! Come stai,
compare?), e via via tutti i poveri contadini che hanno avuto un minuto di gloria
all’interno della poesia joviniana. Il dialetto però è una lingua colorita, spesso
aggressiva, che però il nostro nel suo linguaggio tende a volte ad ammorbidire per
non cadere in una forma di espressionismo che potrebbe farne perdere il senso del
reale. Lo stesso cedere a volte a densità foniche per rendere più melodiosa la sua
poesia, fatta comunque di gesti rudi e pensieri grotteschi ed a volte volgari, come i
8
9
“Lu Pavone” – Cinzinille – Pag.58 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983
“Lu Pavone” – La grannela e la mazza – Pag.84 - Edizioni Enne – Campobasso – 1983
7
racconti della Sdrenga”10, è un peccato veniale che gli si può perdonare. Lo stesso
Belli riconoscerà al poeta molisano di utilizzare il dialetto senza alcun tipo di
artificio, in maniera semplice e lineare. “Na parola! Che gghie’ na parulella! / Basta a
fa luce e stuta lu turmiente (Una parola! Che cos’è una paroletta! / Basta a far luce e
spegne il tormento)11”.Ma questo legame viscerale che lega Jovine alla parola
dialettale, ha delle radici profonde, che si trovano racchiuse nella sua autenticità di
scrittore nazionale ed internazionale (“Lu pavone” e “La sdrenga” hanno visto la luce
anche in una edizione americana)12. Dunque si diceva la parola; un’arma misteriosa
che serviva a Jovine per rimettere in riga la realtà del mondo, della vita in generale.
Quell’esistenza che pesa come un macigno sulle spalle della povera gente e che
invece scorre liscia, per via di sotterfugi e finezze, per coloro che detengono il
bastone del comando. Ed è così che in alcuni scritti, utilizzando proprio la parola
come un’arma, il nostro prende le difese delle classi misere bacchettando, senza
esclusione di colpi, coloro che ne approfittano. Nemmeno le cariche ecclesiastiche
vengono risparmiate dalla sua arguzia e dai suoi moniti. A tal proposito ricordo le
parole di Monsignor Ferrara, intervenuto a Castelmauro per una commemorazione
del poeta, in cui lesse un brano preso da “Viaggio d’Inverno”13, ultima fatica poetica
di Jovine prima della sua scomparsa14. “[…] Ma tu Madonna tendici una mano, /
purchè non apri le porte del cielo / ai Caporali e ai Monsignori / che in Trono fanno
10
“La Sdrenga” – Edizioni Enne – Campobasso- 1989
“Lu Pavone” – La cundanna – Pag.30 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983
12
“The Peakock/ The Scraper” Edizioni Peter Lang. Gli scritti di Jovine sono stati tradotti presso la casa
newjorkese da LUIGI BONAFFINI nel 1993
13
“Viaggio d’inverno” Edizioni Enne – Campobasso – 1999, pubblicao postumo dal figlio Carlo
14
“Gente alla Balduina” – Edizioni Marsilio – Venezia. Fu pubblicato postumo nel 2005 ad opera del figlio
Carlo e raccoglie delle storie di abitanti di Roma, nel quartiere della Balduina, dove il poeta aveva la sua abitazione.
11
8
banco e in Concistoro / e si fanno il segno della croce / come un rapido giuoco di
prestigio / o un laido passamano sottobanco15”. Monsignor Ferrara gettò via con un
gesto di stizza il libro e poi si lasciò andare ad un profondo ricordo di quell’uomo
capace con la sola forza della parola di abbracciare tutto il mondo, in virtù di quel
desiderio di giustizia che, sin da piccolo, lo aveva spinto a ristabilire l’equilibrio tra
gli uomini, donando un paio di scarpe al suo compagno di giochi che non ne aveva.
Nel 1972 pubblica “La luna e la montagna” una raccolta di racconti che avevano
visto la luce negli anni tra il 1948 e il 1950 e che sono apparsi già su “Paese Sera” nel
1951. Anche qui egli segue la strada dei suoi personaggi, cogliendo i luoghi della sua
terra, imprigionando nei suoi versi le emozioni, i canti, i sapori del suo Molise. Ma il
suo realismo non è lo stesso che aveva animato il Verga o Francesco Jovine, <<la cui
occasionale propensione alla prosa d’arte era una tentazione da evitare>>, come
scriverà il Bonaffini. Jovine vuole l’immediatezza dell’espressione, quella
espressione in cui, sempre secondo il Bonaffini, <<si avverte il sostrato dialettale, il
sapore, la cadenza, la corposità, la vitalità e potenza espressiva del dialetto>>16. Il
linguaggio di Jovine resterà sempre ancorato al contesto sociale in cui opera,
cercando di dare una seria determinazione storica ai suoi racconti ed alle sue ricerche
sul dialetto che non terminano mai. Quando nei capitoli successivi affronteremo
organicamente il problema del dialetto, ci renderemo conto che la koine joviniana
presenta un continuo percorrere nuove strade, una continua ricerca nei calanchi e
nelle crepe della sua regione. Prendiamo ad esempio “L’alluvione”: Jovine non si
15
16
“Viaggio d’inverno” - Il narratore ambulante – Pag.48 – Edizioni Enne – Campobasso- 1999
LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazioale di Poesia Giuseppe Jovine” - Pag.87 – Edizioni Enne - 2000
9
perde dinanzi ad una situazione drammatica, ma cerca di cogliere non solo la crisi del
momento, ma anche di stabilire un rapporto tra realtà narrativa e realtà storica in
modo che poi il lettore sia in grado non solo di riconoscerlo ma anche di accettarlo
come realmente accaduto. Non sono gli argomenti più sensibili come la guerra,
l’omosessualità, il fratricidio a mettergli un freno in quanto essi rappresentano il
mondo reale dei suoi racconti. In questo possiamo affermare che Jovine è più realista
di Verga e dell’autore de “Le terre del sacramento”17.
Nel 1975 vede la stampa la sua prima opera in lingua “Tra il Biferno e la Moscova”
con una raccolta di poesie scritte tra il 1950 e il 1960 in cui egli prende le distanze
dalle posizioni dominanti degli ermetici e della neo-avanguardia dando alla luce un
libro con un diffuso condizionamento letterario, suo primo omaggio alla poetica
dannunziana che proprio le
correnti letterarie del periodo volevano mettere in
secondo piano. Reiterazioni anaforiche e lunghi cataloghi di immagini immergono
Jovine dentro la poetica del vate abruzzese, pur mantenendo chiara la sua missione di
rendere protagonista delle sue poesia la gente normale, come accade in “Suor
Bianca”18
Io busso ogni mattina ad una porta
di fronte al tuo convento, in una via…
in Via, ahimè, delle Botteghe Oscure.
per voi, per voi, sorelle castigate
17
18
Cfr Francesco Jovine
“Tra il Biferno e la Moscova” - Cartia Editore – Roma 1975
10
quella porta è la porta dell’inferno!
Jovine si riferisce in questo passo alla sede centrale del partito comunista che viene
visto dalle monache come la porta dell’inferno; ma proseguendo nella poesia egli
quasi sussurra <<Suor Bianca, orsù, prendiamoci per mano>>19, chiaro segnale di una
possibile riconciliazione tra l’ideologia cristiana e la filosofia marxista. Questa
raccolta di poesie è di certo anche un impegno sociale per il poeta molisano che cerca
non solo di preservare le classi meno abbienti dalle grinfie degli industriali in uno
slancio di autentico comunismo:
Vampiri d’Italia
se avete sete
andate a bere il sangue ai petrolieri
che comprano i Ministri a peso d’oro,
ma non bevete il sangue proletario.20
continuando poi a difende la sua molisanità confrontandola con quella di un altro
Castelmaurese illustre, Padre Giovanni Boccardi, astronomo di indubbia fama:
[…] Alfa Andromeda resta quindici ore
sull’orizzonte prima di svanire,
ma non sai dirmi quanto resta il sole
sul balconcino ove le notti insonni
contemplavi le stelle ad occhio nudo […]
19
20
“Tra il Biferno e la Moscova” - Suor Bianca – Pag.69 - Cartia Editori – Roma - 1975
“Tra il Biferno e la Moscova”- Brescia '74- Pag. 139 Cartia Editori – Roma - 1975
11
[…] Sai quanto pesa Marte e quanto Giove
ma sai tu dirmi il peso degli affanni
che opprime la tua gente di Borrana21?
[…] Nell’equinozio d’autunno la luna
dall’equatore celeste, tu dici,
dista all’ingrosso cento ottanta gradi,
ma quanto dista il cuore di un barone
dalla pelle rugosa di un cafone?
[…] Oh! L’oro delle lampade dei vichi
del tuo paese antico abbandonato
l’hai ritrovato in qualche via del cielo?22
Jovine è deluso dal comportamento del suo concittadino che tempo prima aveva
scelto il Piemonte per dimora e, nonostante i tributi della sua terra, si era rifiutato di
rimettere piede in Castelmauro. L’ultima strofa è una richiesta autentica da parte di
Jovine che non ha mai smesso di correre alle antiche sorgenti, a percorrere gli antichi
sentieri, a considerare come sua la terra in cui aveva avuto i natali. Ma in ogni passo
di questa poesia il tema non riguarda tanto l’emigrazione del Padre e la sua volontà di
non far ritorno al suo paese, ma quello di rinnegare le proprie origini, ritenendo di
essere superiore per il solo fatto di vivere a Torino. Jovine si sente grande perché
grande è l’aiuto che riceve dalla sua terra: senza i personaggi infimi di cui tratta,
senza i sentieri e gli odori da raccontare della sua terra egli non sarebbe nessuno.
21
Jovine si riferisce al vecchio nome di Castelmauro che ai tempi dei duchi di Canzano, era denominato
Castelluccio Acqua Borrana
22
“Tra il Biferno e la Moscova” - Alfa Andromeda - Pag.89 – Cartia Edizioni – Roma - 1975
12
Ecco perché tutta la produzione joviniana è un incessante ringraziamento alla sua
terra.
Nel 1979 vede la luce “Benedetti Molisani” un saggio, come detto, sulle condizioni
del Mezzogiorno d’Italia, e sulla sua regione in particolare, che egli definisce “Il
Mezzogiorno del Mezzogiorno”. Sin dalla nota introduttiva Jovine si esprime in un
linguaggio diretto e deciso, teso certamente a far comprendere come la comprensione
della sua fatica si possa avere solo guardando al problema di fondo nella giusta
prospettiva. Stilisticamente questa prosa ha una difficoltà interpretativa per il
semplice fatto che alla fine si presenta come un insieme di appunti scritti in momenti
disparati e riuniti poi per dargli forma di saggio. Ciò che Jovine vuole dare è un
messaggio chiaro e veritiero sulla condizione dei molisani ai quali però non rivolge
solo parole di conforto ma anche frecciatine taglienti come quando li paragona al
Biferno << … I molisani sono come il loro fiume, il Biferno, che scorre talmente
lentamente, che sembra non arrivi mai al mare”23>>. Egli affronta sempre situazioni
di carattere sociale e politico, insistendo sul fatto che i molisani devono essere i primi
a volere una rinascita, distaccandosi dalla loro tradizionale propensione a farsi
sfruttare. Un richiamo duro anche ai galantuomini e alle sfere clericali, ai proprietari
terrieri che ostacolano la civilizzazione del territorio. Ricordiamoci che ci troviamo
nel 1979 e la popolazione del sud Italia è in massima parte analfabeta. Ed è proprio la
mancanza di cultura e di storia che pone il Molise in una condizione di inferiorità
dinanzi alle grandi problematiche dello stato. Basti pensare che tuttora la Bifernina,
23
“Benedetti Molisani” - Pag.62 - Edizioni Enne – Campobasso - 1979
13
arteria principale della viabilità bassomolisana, presenta delle notevoli carenze di cui
Jovine parlava nel lontano 1973 in occasione di un viaggio affrontato insieme con
Tommaso Fiore24; sin da allora Jovine aveva chiesto maggiore celerità per dare anche
all’area bassomolisana una strada percorribile. Non manca poi di omaggiare la
tradizione narrativa molisana prendendo in esame scrittori come Francesco Jovine,
Lina Pietravalle, Sabino D’Acunto, Vincenzo Rossi, Franco Ciampitti, Felice del
Vecchio e Giose Rimanelli.
Nel 1990 infine vede la luce la raccolta di racconti anonimi molisani “La sdrenga”25,
una serie di storielle, con sfondo piccante, che gli anziani raccontavano dinanzi ai
fuochi accesi e che il nostro raccoglie con meticolosa cura e li trasforma in
quotidianità. Alcuni di questi racconti hanno come protagonisti anche delle persone
reali, alcune delle quali ancora in vita nel piccolo borgo.
Nel 1992 invece vede la luce “Chissà se passa u Patraterne” ossia la traduzione in
dialetto molisano di Orazio, Marziale e Montale per riproporre <<in chiave
sperimentale la fondamentale universalità dell’esperienza umana>>26.
Ultima fatica è un opuscolo intitolato “Fascismo ed antifascismo alla luce degli
accadimenti e delle componenti culturali nazionali e regionali”, composto nel 1995,
una analisi sulle contraddizioni delle diverse categorie sociali presenti nel territorio
molisano.
24
“Benedetti Molisani” - Viaggio nel Molise con Tommaso Fiore (1973) – Pag. 39– Edizioni Enne- Campobasso
- 1979
25
Sdrenga è termine dialettale molisano che indica il raschietto, ma nel nostro caso indica metaforicamente il
membro maschile.
26
LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di poesia Giuseppe Jovine” - Pag.94 - Edizioni Enne- Campoabasso
- 2000
14
Prima di chiudere questo breve cenno sulla sua vita, ricordiamo la sua scesa diretta in
politica nel 1979 quando si candidò prima alla regione e poi alla Camera, ed i suoi
insistenti viaggi all’estero come conferenziere. Molto importante fu per lui la figura
di Tommaso Fiore, che lo fece interessare alla precaria condizione dei suoi
corregionali. Membro del direttivo del Sindacato Nazionale Scrittori nel 1998 si fa
promotore della fondazione dell’Unione omonima. Jovine muore improvvisamente
all’età di 76 anni il 29 Agosto del 1998 nella sua casa di Castelmauro; da poche ore
era rientrato da Roma.
Nel 1999 ad opera del figlio Carlo vede la luce l’ultima raccolta in lingua “Viaggio
d’inverno”, che comprende poesie scritte tra il 1975 e il 1998; mentre sempre per
opera del figlio nel 2005 esce “Gente alla Balduina” , un ritratto simpatico di alcuni
conoscenti che abitavano, insieme a lui, nell’omonimo quartiere romano.
15
CAPITOLO 2
Jovine e la religione
Madonna, Tu ritorni al nostro villaggio dal convento che veglia i nostri
morti, quando le quaglie volano tra gli orzi,
e tutti tornano a Borrana.
Tornano i vivi e tornano i morti e i vivi e i morti ti fanno da scorta
tra suoni di trombe e luci di bengala.
Ecco nostra Madonna di Borrana torniamo alla poesia della capanna,
dopo l’orgia dei folli grattacieli, delle cupole pari alle colline
e il suon delle sirene scorderemo,
ci sveglieremo all’alba al suon delle campane, ogni morte e ogni nascita
udremo salutare da un rintocco,
qui sarà dolce vivere e morire.
Sulle montagne e i boschi d’abete il legno prenderemo per le bare,
e nelle valli il vino per la messa,
porteremo il grano nei sepolcri,
il farro, l’uva, il miele in processione
e dinanzi all’altare Madonna
ascolterai la voce di coloro che si portano dentro pel mondo il tuo paese.
Oggi la nostra patria è questa valle,
all’ombra dell’antico campanile.
16
Qui resteremo Madonna appagati
lucideremo il rame sulle soglie con la rena gialla ed il sambuco,
l’appenderemo alle pareti per chiamare il sole nelle stanze.
E quando sarà venuta l’ora nostra,
se udienza ci darai e perdonanza
Madonna, col Tuo nome sulle labbra
e negli occhi il colore azzurrino del Tuo manto
al Tuo soglio verremo col nostro corpo pieno di cicatrici e lividure
ma Ti rendiamo l’anima pulita
come un’acqua bianca di sorgiva. 27
Solo chi nasce a Castelmauro sa cosa significa avere amore per la Madonna della
Salute, che tutti gli anni si festeggia dal 7 al 10 di settembre. È questo il regalo più
grande che jovine fa alla sua terra, scoprendo il suo amore per la Vergine della Salute
che richiama al suo santuario tutti i figli che sono sparsi per il mondo. Ed ancora
torna il tema della morte che sembra essere legato al nostro poeta con un filo doppio,
ed anche i morti che sorvegliano la sua dimora nel santuario accanto al cimitero, egli
li sente lasciare le loro dimore eterne per seguire la fiaccolata chilometrica che la sera
del sette settembre accompagna la statua alla chiesa madre di San Leonardo
Confessore. Abbandonare per quei pochi giorni tutto ciò che la vita ci offre per
perdersi in un crogiuolo di emozioni che non si possono trovare altrove, quando si
rivedono a Castelamuro un nugolo di emigrati provenienti dai più disparati paesi.
27
Dalla poesia Il canto dell’emigrante inserita nella raccolta “Tra il Biferno e la Moscova” ma che è giunta nelle
mani dei suoi lettori castelmauresi singolarmente, ultimo regalo del poeta prima di morire.
17
“Qui sarà dolce vivere e morire” ed ancora “ Sulle montagne e nei boschi d’abete il
legno prenderemo per le bare” fa pensare alla morte come un qualcosa che ci
appartenga da sempre. Il comunista Jovine crede nella Vergine della Salute, la madre
di tutti i castelmauresi: una preghiera che solo un cuore profondo poteva far partorire.
Una immagine dei tempi della sua infanzia, quando si lucidavano le suppellettili di
rame e si appendevano ai muri in punti precisi per permettere loro di carpire la luce
del sole che entrava dalla porta o dalle piccole finestre. “[…] ogni nascita ed ogni
morte udremo salutare da un rintocco […]” un ritorno all’antico che riprende lo
scandire del tempo da parte delle campane che ricordano a coloro che lavorano nei
campi la presenza di Cristo nella loro vita. “Prenderemo […] nelle valli il vino per la
messa” è una chiaro richiamo alle funzioni religiose alle quali lui partecipava in
silenzio nel profondo del suo cuore. E poi la preghiera finale in cui rimette il suo
spirito nelle mani della Vergine chiedendo perdono per le sue colpe, e la sua colpa
più grande è forse quella di averla amata sempre in silenzio.
E’ un rapporto particolare quello che lega Jovine alla religione: un rapporto
turbolento nei confronti delle istituzioni. Non siamo dinanzi ad un poeta di occasione,
ma dinanzi ad un artista che accoglie nel suo animo le emozioni e le sensazioni più
profonde per trasformarle poi in versi sempre incisivi e mai banali. Ecco perché le
sue sentenze fanno si del male, mettono in crisi i loro destinatari, ma hanno anche il
merito di portarli a riflettere sulle parole. La sua invettiva non si smentisce nemmeno
quando si tratta di tirare in ballo il Santo Padre, non tanto per remore nei suoi
confronti, ma solo per mettere in evidenza il grado di lascivia che c’era, ai suoi tempi,
18
all’interno delle istituzioni ecclesiastiche: “[…] o del papa belante alla finestra/ che
lancia gli anatemi e froda il fisco,/ orologio a cucù lubrificato/ con l’olio santo e
l’olio della Cia, / che segna l’ora dell’apocalisse / per le turbe reiette di Cafarnao/ e
dell’ingrasso per i Farisei […]28. Una critica che, usando il linguaggio dialettale,
sembra essere ancora più pungente:
A ventequattrore
la chiesa de Santa Lunarde
pareia nu castielle affatturate.
[…] <<Arrescente le diavule na chiesa!
Tienne le pide tunne coma palle>>.
Diceiene a chell’ora nu paiese
le guagliune che l’uocchie speretate.
Iè m’acciuccave
e pe la scetta de la Porta Santa
vedeie nu zeffunne scure scure
coma ffunne de cutture.
Iè ma penzave
ca na chiesa ce stevene le Sante
E lla vucella arrachita arrachita:
<<Zitte zitte, nen parlà,
lu iurne ce stanne le Sante
28
“Tra il Biferno e la Moscova” – Mosca – Pag.133 - Cartia Editori – Roma - 1975
19
e la notte ce ballene le diavule>>29.
(A ventiquattore/ la chiesa di San Leonardo / pareva un castello incantato. /[…]
<<Appaiono i diavoli in chiesa!/ Hanno i piedi tondi come palle>>. / dicevano a
quell’ora nel paese / i ragazzi con gli occhi spiritati. / Io mi chinavo e attraverso la
crepa della Porta Santa / vedevo un vuoto scuro scuro / come il fondo di un caldaio. /
Io pensavo / che nella chiesa ci stessero i Santi / e quella vocetta arrochita arrochita: /
<<Zitto zitto, non parlare, / il giorno ci stanno i Santi / e di notte ci ballano i
Diavoli>>.) Non ci troviamo dinanzi ad un ateo che non ha rispetto per la religione o
per coloro che ad essa credono: siamo dinanzi ad un uomo che avverte la presenza
dell’Eterno a suo modo, non legato necessariamente a quelle credenze popolari che
hanno accompagnato gli uomini per secoli. La sua verve si acuisce in un passo de “La
sdrenga”. Protagonista è un tale Cianè che si era recato in ospedale per chiedergli di
accorciargli il membro. Anestetizzato i dottori si interrogano su quanti centimetri
debbano tagliare e non riuscendo a trovare un accordo mandano a chiamare una
monaca, suor Teresa, cugina del paziente.
<<Suor Teresa!… Ch’emma fa?.
Suor Teresa cannaliatte lu sagnule de Cianè, ze mettette le mane
‘nnante’all’uocchie e arespunnette. “Le canosche le canosche llu sagnule!… E’
nu peccate assemà tanta grazia de Ddie!”.
“ E allora ch’emma fa? – Decette lu miedeche cchiù giovene.
29
“Lu Pavone” - Le diavule na’ chiesa – Pag.133 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983
20
Suor Teresa arecannaliatte llu sagnule, tamendette lu miedeche e sbuttatte:
“Allungateglie le cosse e lu cippe z’aretire”30
(“Suor Teresa!… Che dobbiamo fare?” Suor Teresa guardò il sagnuolo di Cianè, si
mise le mani innanzi agli occhi e rispose: “Lo conosco lo conosco quel sagnuolo!…
E’ un peccato accorciare tanta grazia di Dio!”. “ E allora che dobbiamo fare?” – disse
il medico più giovane. Suor Teresa tornò a guardare il sagnuolo, guardò il medico e
sbottò: “Allungategli le gambe e il cippo (membro) si ritira”. ).
Jovine non perde la sua arguzia nemmeno quando si tratta di modellare alcuni
racconti che forse aveva sentito nelle piazze, o addirittura da bambino dalle numerose
persone che lavoravano a palazzo. E magari ha anche conosciuto personalmente i
personaggi in questione. E non è un dettaglio insignificante per un poeta realista
autentico come lui, quello di poter verificare direttamente le sue storie. Jovine
trascorreva nella piazza del paese e tra i campi tantissime ore, a parlare con contadini
e perdigiorno. Passava il tempo nelle osterie e si fermava a parlare con chiunque.
La formazione religiosa di Jovine nasce da radici profonde, da lui mai rinnegate in
vita, ma mai espresse chiaramente per via di quella concezione politica dapprima
socialista e poi comunista che aveva nell’ateismo un caposaldo essenziale. Ed allora
lo Jovine uomo affida la sua voglia di eternità allo Jovine poeta, che resta lontano dai
legami convenzionali, e può esprimere senza veli il suo stato d’animo. Lontano dai
giochi di potere, il poeta riesce ad esprimere tutto se stesso, lasciando a quei fogli
bianchi il compito di imprimere nel tempo il suo pensiero. Ho già accennato alla
30
“La sdrenga” - L’uprazione – Pag.47 - Edizioni Enne – Campobasso - 1989
21
poesia “Il narratore ambulante”31, dedicata allo “scianachì” Pierluigi Giorgio32, in cui
chiede alla Vergine di non precludere ai poveri diavoli le porte del Paradiso. È facile
vedere in questo passo uno Jovine comunista, ma ad ogni modo la sua richiesta di
aiuto la rivolge alla Vergine. Il rapporto con la religione per Jovine diventa un dare
ed avere, una sorta di baratto che il Padreterno dona agli uomini per condurre la
propria vita secondo il libero arbitrio:
Cianè teneia la bboggia.
Ze ne menia da Foggia,
na vesazza vine e pane,
pe ‘na grazie a Caburrane.
‘Na matine da la loggia,
a vvedè Santa Lurenze,
ze palpatte la crescenza.
<<Patrannostre o prucessione>>.
Ie decette nu preitone.
<<Nce sta grazie pè le bbogge;
Cianè ce vo pacienza,
che ppò fa Santa Lurenze
se nen vò lu Capaddozie?
Pure d’aventre’a le sciamme d’infirne
31
Cfr nota numero 15
Pierluigi Giorgio era lo schianachì del Molise, ossia il cantastorie. Letteralmente scianachì vuol dire “colui che
sa le cose”.
32
22
Cianè, chi tarde arriva male alloggia>>.
Cianè scacchiatte l’uocchie e pù sputatte:
<<Ma nen ce sta nu ccone de cuscienza?
Che z’è fatte nu mamuozie
loch’a llà lu Patraterne?
Ioca a palle che le bbogge?
Allora chille c’aveme arrenneme.
Vù sapè, ne ll’aie che ttè, Santa Lurenze,
ndo ce sta guste nen ce sta perdenza>>.
E sparatte ‘na crona de gasteme
ca cirte le sentettere a Celenza.
<<Quisse è lu patrannostre de le scigne!>>.
Alluccatte ‘llu preitone.
<<Criste chiagne e lu diavule aregregna>>.
Cianè scacchiatte l’uocchie e aresputatte:
<<E che chiagnesse! Senza ruspe ‘ncurpe
me sente ligge coma ‘n’ostia santa.
Tu vvù sapè, fatte lu tante e quante
iè meglie a iesse diavule ca sante>>33.
33
“Lu Pavone” – Lu patrannostre de le scigne – Pag.101 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
23
(Cianè teneva l’ernia./ Si metteva in cammino da Foggia/ in bisaccia pane e vino,/ per
una grazia a Caborrana./ Una mattina dalla loggia, / nel vedere Santo Lorenzo, / si
palpò la sua crescenza./ <<Paternostro o processione>>. / gli disse un grosso prete/
<<Non c’è grazia per le bogge (l’ernia), / Cianè ci vuole pazienza, / che può fare San
Lorenzo / se non vuole il capobanda (Dio)?/ Pure dentro le fiamme dell’inferno /
Cianè, chi tardi arriva male alloggia>>. / Cianè sbarrò gli occhi e poi sputò: /<< Ma
non c’è un poco di coscienza? / Che s’è fatto,
un ragazzino / nell’al di là il
Padreterno? / Gioca a palle con le bogge? / Allora quello che abbiamo rendiamo; /
vuoi sapere, non l’ho con te, Santo Lorenzo, / dove c’è gusto non c’è perdenza>>. / e
sparò una tal corona di bestemmie / che certi lo sentirono a Celenza/ <<E questo è il
paternostro delle scimmie>> / - gridò quel grosso prete - / <<Cristo piange e il
diavolo digrigna>>. / Cianè sbarrò gli occhi e risputò. / << E che piangesse! Senza
rospi in corpo / mi sento leggero come un’ostia santa. / Tu vuoi sapere, fatto il tanto e
quanto / è meglio essere diavolo che santo>>). Come sempre accade con Jovine, il
linguaggio dialettale rende tutto più acuto, più vivo, più umano. Così il gioco che lui
sostiene con la religione si veste a volte di situazioni grottesche ed ogni pretesto da
occasione di mettere a nudo i propri pensieri. Nella poesia precedente lo spunto viene
dato da un’ernia. Il protagonista, Cianè, cerca una grazia per risolvere il suo malanno
e chiede aiuto a San Lorenzo. Un prete gli dice che non è colpa di San Lorenzo “ che
po’ fa Santa Lurenze se nen vo lu Capaddozie?” Dio governa ogni cosa e questo
Jovine inconsciamente lo sa, ma si domanda il perché a volte Dio resta in silenzio
dinanzi ad un richiesta così semplice come il far guarire da un’ernia. E jovine cosa
24
fa? Non chiama in ballo la Provvidenza, o il disegno divino, ma immagina il
Padreterno tornato fanciullo: “Che z’è fatte nu mamuozie, loch’a lla lu Patraterne?
Ioca a palle che le bbogge?” L’arguzia del poeta non è mai banale ed unita alla sua
fervida fantasia riesce ad elaborare delle storie in cui la vena polemica dell’uomo
politico si fonde con le sue radici popolari. Tutto quello che Jovine dice nella sua
poesia sembra però essere in preparazione della frase finale. “Tu vu sapè, fatte lu
tante e quante, iè meglie a iesse diavule ca sante”. Sarebbe errato voler scovare nella
sua chiusa finale uno scarica barile da parte del nostro, che andrebbe a scegliere la
strada più breve e comoda. Per lui la situazione è identica: per guadagnarsi un posto
in Paradiso si deve fare molta fatica (secondo una concezione cristiana) e lo stesso
vale anche per l’inferno “Pure daventr’a le sciamme d’infirne Cianè, chi tarde arriva
male alloggia”. Non siamo dinanzi ad un Don Giovanni novecentesco che non crede
ne al Cielo ne all’Inferno, come direbbe Sganarello34 del suo padrone. Jovine infatti
crede nell’eterno, nel sovrannaturale. Diciamo anche che crede in Dio, ma non in
quel Dio, direbbe lui <<castigamatti>> creatosi con le credenze medievali, ma come
la parte di assoluto che ognuno ha dentro di se. Come detto il suo è un modo di fare
burlesco, grottesco anzi, e lo si evince già dal titolo che egli sceglie per questa poesia
“Lu patrannostre de le scigne” (Il paternostro delle scimmie) volendo alludere ad una
bestemmia.
34
Sganarello è il servo di Don Giovanni nell’omonima opera di Moliere. Parlando con il servo di Donna Elvira,
egli presenta il suo padrone come uno che non ha rispetto ne per il cielo ne per la terra.
25
Il contrasto tra il credere e non credere raggiunge così l’apice in un altro
componimento dialettale, un ricordo turbolento dei suoi genitori, un sogno affannoso
di ogni notte in cui lui vede le loro figure, o le loro anime, sbiadite:
[…] Ie vulesse arefà la facce e ll’uocchie
gn’a ddù pupazze spierte a ‘nu curnicchie
o ddù sante scurdate ‘nda ‘na nicchia,
ma me ze squaglie la creta e me lasse
le mane senza sanghe e ragnecose
ca vularrie struzzà lu Padraterne
o pregà gna nu pazze pe sapè
che gghie che gghie stu gliommere ‘mbrugliate,
‘sta matasse d’ardiche de lu munne.35
([…] Vorrei rifargli la faccia e gli occhi / come a due pupazzi sperduti in un
cantuccio / o due santi dimenticati in una nicchia/ ma la creta mi si squaglia e mi
lascia / le mani esangui e rattrappite / sicché vorrei strozzare il Padreterno / o pregarlo
come un pazzo per sapere / che cos’è che cos’è questo gomitolo arruffato / questa
matassa d’ortiche che è la vita). Nei confronti del grande mistero della vita e della
morte Jovine non compie una scelta, ma resta quasi a guardare impotente ciò che Dio,
35
“Lu Pavone” – Ogne notte –Pag.67 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
26
o semplicemente il caso, hanno scelto per noi. Quello che colpisce di Jovine è <<il
suo pensare per immagini… lo snodarsi dei sentimenti>>36.
Il carattere tipicamente burlesco e popolare lo ritroviamo in un racconto de “La
Sdrenga” dal titolo “Preiete e sacrastane”37. Il cafone Cola dice a Michele il
sagrestano che il prete, Don Felice, è stato visto uscire dal pagliaio dove era entrata la
moglie. Dapprima egli cerca di denigrare il suo avversario : “Don felice è n’ome? E
cchiu brutte de lu diavule sott’a San Michele (Don Felice è un uomo? E’ più brutto
del diavolo che sta sotto a San Michele); poi decide di vendicarsi rubando al prete un
maiale. Don Felice si adira per il maiale scomparso e confessa tutto il paese per
trovare il colpevole, che però non viene trovato. La burla, che tende a smascherare i
vizi di qualsiasi uomo, nasce quando Don Felice si accorge che l’unico a non essersi
confessato è proprio il suo sagrestano e lo invita a farlo.
A ventunora Michele steia ‘ngenucchiate annant’a rattacasce ‘mbaccia a Don Felice.
“Dimme la veretà, Miche! . facette Don felice - […] M’i frecate lu purcille?”
“Che ddice Don Felì!”
“Si ssurde?… M’i frecate lu purcille?”
“Nze sente niente Don Felì”
“e vva bbune!… Faceme a cagna puste” – decette Don Felice – “Ie da fore e tu
daventre.”
36
37
LUIGI VOLPICELLI – Alcuni giudizi della critica, su “Lu Pavone - Edizioni Enne – Campobasso 1983
“La Sdrenga” - Preiete e sacrastane –Pag.69 - Edizioni Enne – Campobasso 1989
27
Michele z’assettatte arret’a rattacascee e ze decette : <<Michè! Nu luche de
cumbessone pure se pungeche lu preiete t’i raggione>> e addumannatte a Don Felice:
“Don Felì! Me le frecate tu mugliereme?”
“Hi raggine tu Michè! “ – arespunnette Don Felice – “Nze sente niente! Pruprie
niente!”.
(A ventunora Michele stava inginocchiato dinanzi alla grata del confessionale, di
fronte a Don Felice. “Dimmi la verità Michele!” – fece Don Felice – […] M’hai
rubato tu il maiale?”. “Che dici Don Felice?” . “Sei sordo?… M’hai rubato il
maiale?” . “Non si sente niente Don Felice!” . “E va bene!…Cambiamo posto” –
disse Don Felice - !Io di fuori e tu di dentro!” . Michele si sedette dietro la gratella e
si disse <<Miche! In confessione pure se dici male del prete hai ragione>> e chiese a
Don Felice “Don Felice! Me l’hai rubata tu mia moglie?” . “Hai ragione tu Michele!”
– rispose Don Felice – “Non si sente niente. Proprio niente)”. Jovine utilizza il gioco
per rivisitare alcuni racconti popolari che nascondono sempre un fondo di verità. Il
suo intento però non è solo quello di mettere a nudo le debolezze di un prete, o come
nel caso di Suor Teresa, di una suora, per innescare una invettiva, ma proprio per far
comprendere a coloro che egli identifica nel passo de “Il cantastorie” come <<i
monsignori>> che la natura umana è debole. Sono loro che devono comprendere che
ogni uomo, e loro sono uomini, possono commettere degli errori: la religione non
deve opprimere la povera gente lasciando correre i peccati di coloro che la religione
la rappresentano. Jovine vuole che venga lasciata da parte della chiesa e delle sue
28
istituzioni ad ogni uomo l’autonomia di vivere la propria religione, in maniera
personale. Ossia, ciò che egli ha fatto sin dall’infanzia.
29
CAPITOLO 3
Un tema ricorrente: la morte.
“La morte nen z’accorde
che l’argiente; la morte
paghe tutte le cambiale”
Giuseppe Jovine
Per comprende il valore che Jovine da alla morte, riprendo la frase che lui mi disse
qualche anno fa: “Ti accorgi degli anni che passano quando inizi a salutare più gente
tra i morti che tra i vivi”. Per Jovine la morte è la meta finale dello scorrere del
tempo, è il traguardo che ci viene assegnato al momento della nascita e verso cui
dobbiamo correre. Ecco perché Jovine vive la morte intendendola come parte
essenziale ed integrante della vita.
Le poesie che Jovine dedica a questo tema sono numerose: la morte come meta finale
dell’esistenza, come premio per l’esistenza. La morte è anche l’imput dei ricordi: gli
affetti più cari, gli amici fraterni che non ci sono più. E come sempre accade con le
sue poesie, sono i componimenti dialettali a rendere al meglio il suo pensiero. Ciò
che è legato profondamente alla morte è la concezione del tempo:
E’ Ventunora!
Lu sole stenne la mureia
attira attira per lu vosche.
‘Na casarella a mezza costa
30
sente e guarda e nen ze move,
come pell’aria passasse ‘nu murte.
E nu murte passa:
passa lu tiempe!38
(E’ ventunora! / Il sole stende l’ombra / lungo tutto il bosco./ Una casetta a mezza
costa / sente e guarda e non si muove, / come se per l’aria passasse un morto. / Ed un
morto passa: / passa il tempo!). Il tempo che passa è paragonato alla morte per via del
silenzio osservato da tutto ciò che la circonda. Da qui deve partire lo studio della
morte nel panorama joviniano. Dall’idea del tempo. Si è detto: Jovine intende la
morte come il traguardo finale della vita. La vita, nel suo insieme di emozioni e
sfaccettature, altro non è che uno scorrere di tempo. Così il legame tra la vita e la
morte diviene il ricordo ricorrente per la figura dei suoi cari, di amici o di semplici
conoscenti che hanno lasciato una traccia nella sua esistenza.
La vita sempe za rennova.
E’ muorte tata
e iè penze a la giacchetta nova
che mmeia mette mo’ che vvè l’estate39.
38
39
“Lu Pavone” – Ventunora –Pag.36 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
“Lu Pavone” – La vita – Pag.50 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
31
(La vita sempre si rinnova. / E’ morto mio padre / e io penso alla giacchetta nuova /
che devo mettermi adesso che viene l’estate).
Non è indifferenza al dolore che vuole esprimere qui il poeta, ma è la coscienza di
essere dinanzi ad un destino ineluttabile, che in quanto uomini ci appartiene. Jovine
ha un rispetto profondo per la morte e per i morti. Vi sono altre due poesie, una in
lingua e l’altra in vernacolo, che fanno notare come sia sì aspro, ma anche sincero,
questo suo rispetto:
Nuvimbre!
Negghia e fridde apprisse!
Castagne e grane allisse!
<<Cuocce de murte>> appise
a lume de cannele
ze guardene nu viche a porta a porta.
Ze rire e ze pazzeia che la muorte40.
(Novembre! / Nebbia e freddo appresso! / Castagne e grano lesso! / <<Teste di
morto41>> appese / a lume di candele / si guardano nel vico a porta a porta. / Si ride e
si scherza con la morte).
Qui il tono di Jovine è sereno, quasi scherzoso: ma è l’ultima frase che deve portarci
a riflettere. Vi sono occasioni in cui si può anche scherzare con la morte, ma non si
40
“Lu Pavone” – Nuvimbre –Pag.63 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
La tradizione di halloween è radicata anche in Molise, quando la notte tra il 1° e il 2 Novembre i ragazzini
vanno in giro per le case portandosi dietro una zucca incavata e riempita con delle candele accese.
41
32
deve mai eccedere. A volta sembra quasi che il nostro si rivolga ad essa come ad una
sorella o ad una persona che non sa come comportarsi.
[…] e tu morte non t’avvedi
che cio che tocchi strenuamente vive
e fai dolce ed ingannevole la vita […]42.
Un fare rispettoso ovviamente, quasi a ricordare ad essa che comunque la sua
funzione è crudele e mal sopportata dagli uomini. Così quando egli diventa nonno ed
accoglie nel suo cuore l’affetto del piccolo Riccardo, scrive per lui una serie di
consigli da tenere a mente, dove il cammino della vita che conduce necessariamente
alla morte viene messo in risalto in maniera pacata e con molta discrezione.
[…] E se tempo verrà che avrai più amici
tra i morti che tra i vivi, fai che il cuore
batta sempre tenace come un maglio.
E se allo specchio scoprirai le rughe
per la scalata raddoppia lo slancio […].
[…] e con fili di seta, rame e acciaio
trama la vita ed inventala ogni giorno,
addentala vorace la tua vita
42
“Viaggio d’inverno” - Due novembre – Pag.66 -Edizioni Enne –Campobasso 1999
33
come la tigre addenta la gazzella
e guarda il sole anche se l’aria è scura […].
[…] Si dice nella terra dei Frentani:
la morte non s’accorda con l’argento,
la morte paga tutte le cambiali […].
[…] Ma forse anche tu dirai
come i bifolchi della frentania,
la muorte è ‘na pazziella de quatrare.
(La morte è un gioco da bambini)43.
Sembra a volte che Jovine quasi invochi la morte, che la cerchi, che ne avverta la
mancanza al suo fianco:
Sono stanco di dipingermi.
La tavolozza gremita di tinte
non ha il colore del tocco finale44.
È in questa poesia intitolata Il tocco finale che Jovine ammette la superiorità della
morte sulla vita. Il colore che manca è il nero della morte, e manca perché solo questa
sa quando viene l’ora di dare il tocco finale. È una superiorità che non viene mai
messa in discussione dal poeta, ma qui per la prima volta Jovine veste la morte dei sui
43
44
“Viaggio d’inverno” – Consigli al nipotino Riccardo – Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
“Viaggio d’inverno” – Il tocco finale – Pag.63 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
34
veri abiti. La morte si fa attendere: si fa attendere per portare con se l’anima nell’al di
là, nell’eterno. Jovine è ateo, lo abbiamo ribadito più volte, ma il senso dell’eterno in
lui è molto sentito, ed è sempre il filo dei ricordi il saldo legame tra la vita e la morte.
Mio nonno fumava la pipa di coccio,
io fumo la pipa di coccio,
figlio!
Fuma la pipa di coccio.
Questo gesto
segna il sentiero dell’eterno45.
Il sentiero dell’eterno! Il lungo sentiero dove, dopo la morte, ognuno di noi ritrova
quello che ha perso nel passaggio finale dalla vita. La pipa è il ricordo tangibile del
legame tra nonno e nipote che si tramanderà di generazione in generazione.
Saranno poi molti i componimenti che riguarderanno gli amici casi, come Marcello
de Notariis, Saverio Trincia, Nino Fratamico, Franco Amicarelli, ma anche persone
comuni, quei bifolchi di frentania che lui incontrava per i borghi e le contrade e che
sono stati l’ingrediente segreto della sua sfrenata fantasia. È sentito e scherzoso il
ricordo di Pasquale Guancione, uno dei tanti personaggi con cui si fermava a parlare
per strada. Egli era noto a Castelmauro col nomignolo di Capparella: un pover’uomo
45
“Viaggio d’inverno” – La pipa di coccio – Pag.93 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
35
che aveva sempre svolto piccoli lavori per le famiglie agiate ricevendo un minimo
compenso per le sue giornate di fatica. Jovine lo consola affermando:
[…] Lu cacciune mocceche a ‘stu munne
sempe a chi te rutte li calzune […]46
([…] Il cane morde a questo mondo / sempre a chi ha rotti i calzoni).
In una sorta di “livella” decurtissiana, egli mette a confronto la morte di un
personaggio importante con il povero Capparella.
Quanne murette Don Cicce,
a lu “libbere me Domine”
ballavene le vrite e le cannele,
lu catafalche pareia nu bastemente;
l’orghene ‘ntrunava
le recchie a le cafune.
[…] lu tavute pareia ‘na casciaforte
mizz’a quattre carbuniere
che la sciabbula e pennacchie
e la campana grossa spandecava
come lu jurne de Sabbete Sante […]47.
46
47
“Lu Pavone” – Lu murte – Pag.51 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
Ibidem
36
(Quando morì Don Ciccio / al “libera me Domine”/ ballavano i vetri e le candele, / il
catafalco pareva un bastimento, / l’organo intronava le orecchie ai cafoni […] La bara
pareva una cassaforte / in mezzo a quattro carabinieri / con la sciabola e il pennacchio
/ e la campana grossa spasimava / come il giorno di Sabato Santo).
Torna poi al suo amico Capparella:
Capparè! Se tu sapisse!…
Mo che lu preiete t’ha cantate
‘ncim’a la chiazza lu requiemmaterne
a abbaiate sule nu cacciune.
Se vedisse lu tavute che t’ha fatte lu cummune!
‘Na cascia, Capparè, de cuntrabbanne […]48.
(Capparella, se tu sapessi!… / Adesso che il prete ti ha cantato / in cima alla piazza il
“requiem aeternam” / ha abbaiato solo un cane. / Se vedessi la bara / che ti ha fatto il
comune! / Una cassa, Capaprella, di contrabbando! ).
48
Ibidem
37
Il contrasto è notevole, ma fortunatamente la morte appiana ogni cosa, dona agli
uomini la medesima dignità, elimina le classi sociali ed opera secondo giustizia non
preferendo i ricchi ai poveri.
Troppa gente hi salutate Capparè,
troppa volte t’hi cacciate lu cappille,
p’ù padrone hi llisciate li muscille.
E vva bbune, chi sci ccise,
si nu mariule, nu chiappe de mbise,
si nu galiote, ‘na crema de fogna,
ma ndò vì nen ce sta nu ticchie de cristiane
ca te vè prisse e t’arrenne lu salute?49
(Troppa gente hai salutato, Capparella, / troppe volte ti sei tolto il cappello, / per il
padrone hai lisciato i gattini . / E va bene, che sia ucciso, / sei un ladro, un farabutto, /
un galeotto, una crema di fogna, / ma dove vai non c’è un pezzo di cristiano / che ti
vien dietro e ti rende il saluto?).
Jovine crede nella giustizia della morte e sa che li anche il suo amico Capparella
verrà rispettato per quello che in realtà è: ossia un uomo. Quanti si sono tolti il
cappello dinanzi a Don Ciccio per rispetto dell’uomo e quanti invece per riverenza
49
Ibidem
38
alla sua posizione sociale? Qui sta la vittoria del povero nei confronti del ricco: con la
morte, quando tutti diventano uguali, con l’eliminazione delle classi sociali il povero
non farà fatica a stare insieme al ricco, mentre per il ricco sarà un tormento stare
insieme al povero:
Perciò stamme a sentì nun fa u restive.
Suppuorteme vicine che t’emporte:
sti pagliacciate e ffanne sule e vive,
nuje simme serie, appartenimm’a morte.50.
Possiamo così concludere che per Jovine la morte comporta necessariamente
un’attesa:
Nella sala dei miei avi
sul grande tavolo di quercia
mio padre nella bara
in marsina di vigogna!
Così morire, al canto delle rondini una sera,
adagiato nella bara
sul grande tavolo di quercia
50
(Per questo stammi a sentire, non fare il restio, sopportami vicino, cosa t’importa ormai: queste pagliacciate le
fanno solo i vivi, noi siamo seri, apparteniamo alla morte) è questa la strofa conclusiva della Livella di Antonio de
Curstis, in cui due anime, quella del Marhcese di Belluno e del netturbino Gennaro Esposito si ritrovano vicini con le
loro bare. Il Marchese si sdegna di avere un vicino che non è del suo rango, ma il netturbino con profonda pazienza e
filosofia gli fa intendere che una volta varcato il cancello del cimitero tutti gli uomini diventano uguali.
39
nella sala dei miei avi!
E intorno
il silenzio dei contadini
che portano nelle scarpe
l’erba dei prati51.
Il rito della morte è radicato nella famiglia di Jovine: nel palazzo dei duchi di
Canzano a Castelmauro vi è una sala dove trovano posto le salme della famiglia per
ricevere l’ultimo saluto. Jovine vi entrò il 29 Agosto del 1998, appena rientrato da
Roma. Il legame stretto con la morte consentì al poeta non solo di superare, non senza
tedio, dei momenti difficili, ma anche di sentire quando ormai la tavolozza stava per
trovare quel colore in grado di dare alla sua esistenza il tocco finale:
Ho appreso a morire. Viene il momento
che ti guarda fissa la morte
senza parlare e non la vedi,
perché si maschera
con volto delle cose ancora vive,
quando ti prende continui a non vederla.
Dinanzi sino all’ultimo avrai
51
“Tra il Biferno e la Moscova” – Così morire – Pag.43 - Cartia Editore – Roma 1975
40
le cose e soltanto le cose
come quando a letto
leggi il giornale e il sonno ti prende.52.
20 agosto 19998
Questa fu la sua ultima poesia!
52
“Viaggio d’inverno” – Morire –Pag. 115 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
41
CAPITOLO 4
Gli affetti
4.1 I genitori
Sono diverse le poesie che Jovine compone per la sua famiglia, in particolare per i
genitori, e come sempre accade in questi casi la figura predominante nei ricordi del
poeta è la madre. Adele Gallina fu importante per la formazione del nostro, a lei si
associano in futuro i migliori ricordi dell’infanzia. Commovente il ricordo di un
viaggio che il poeta compie con la madre, di ritorno dal collegio per le festività
natalizie:
Una sera nebbiosa di dicembre,
tornando dal collegio al mio paese,
nella corriera in sosta alla taverna
che raccoglieva gente dagli scali
agl’incroci di strade di montagna,
vidi mia madre sola avvoltolata
nel suo pellicciotto di capra cinese […]53.
Si nota un certo distacco da parte del poeta, dovuto non ad una mancanza di affetto,
ma ad un atteggiamento di riverenza ed ubbidienza. A volte si restava in collegio
53
“Viaggio d’inverno” – Viaggio d’inverno – Pag.13 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
42
anche per anni senza mai tornare a casa, di sicuro gli affetti non mutavano, ma
restava comunque un po’ di soggezione:
[…] Facemmo insieme il viaggio nella notte
seduti l’uno accanto all’altro muti,
legati da sorrisi d’altro luogo,
da straniti stupori senza oggetto
e dalla pena di scoprirci spogli
di sensi inavvertiti o disarmati
nel volgere dei nostri chiusi esili […]54.
Non riesce a trovare le giuste emozioni. Il desiderio di abbracciare la madre è forte,
ma non osa in quanto essa mantiene un atteggiamento severo. La madre ha lo stesso
desiderio del figlio, ma al mancato slancio affettivo da parte del piccolo Giuseppe
ella non sa come comportarsi e mantiene intatta la sua compostezza:
[…] E dura ancora quel viaggio d’inverno!
Sempre più fredda e bianca è quella neve,
sempre più scura e fitta è quella nebbia
e l’ombra di mia madre si dirada,
uccello ad ali spente che dirupa,
54
Ibidem
43
non come al tempo dei gabbiani
che mi librava sul canto del mare,
strascico nero che un fiume trascina
o il vento che nel turbo lo raggira
e ti sta sempre sul collo a soffiarti
quella parola quieta che non dice55.
La poesia Jovine la compone quando la madre Adele ormai è morta. Nel capitolo
precedente abbiamo spesso verificato che la morte e il ricordo sono legati nel
pensiero del poeta. Egli riesce ad entrare, tramite i ricordi, nelle scene impresse nella
sua memoria quasi a poterle cambiare. Solo a distanza di anni egli si rende conto di
quante e quante parole sono state dette durante quel viaggio, ma sfortunatamente si
sono perse nel silenzio. Lui allora rivive nei suoi ricordi quel viaggio, modificandolo
in continuazione, scrivendo e riscrivendo quel lungo dialogo che in quella occasione
era andato perduto.
Questo dialogo mancato con la madre è un sogno ricorrente nelle notti del poeta, un
sogno che diventa quasi un tormento:
Nella notte, madre,
è come quando alla luce del sole
avevo il tempo di parlarti
55
Ibidem
44
e tenni chiuso in petto ogni parola.
Allora almeno avevo la speranza
di dirti in una volta tutto quello
che per pudore non ti dissi mai.
Oggi in un guscio di noce mi chiude,
mi soffoca l’angoscia insostenibile
del mare d’ombra in cui dilaga
il silenzio di allora e quello d’oggi56.
Il pensiero come sempre a quel viaggio in carrozza dove potevano essere dette molte
cose e non fu detto nulla; dove poteva far comprendere alla madre tutto il suo affetto.
La vita a volte offre più di una occasione, ed a volte non ne riserva nemmeno una;
ma noi sappiamo che Jovine conosce a fondo la vita, sa che il suo traguardo è trovare
il “tocco finale” sulla tavolozza e dopo, con i ricordi, tutto è possibile. Da questa
concezione nascono le poesie in dialetto, che nell’asprezza dei termini rende il
momento dell’addio qualcosa di incommensurabile ed impalpabile.
Quanne si mmorta chella sera , mà,
mmizz’a la chiazza sunava la bbanda
e iè m’addecreiave nen chiagneie
ca’ me pareia la muorte ‘na canzona
56
Ibidem
45
ca te porte lu viente dall’are
o ‘na sera d’estate ca nen sì
pecchè pe tante tiempe tu taminde
la volta arescarate da lu ciele
ca ten trona le recchie gna ‘na stanza
spiccia ca pare chiena de cichele […]57.
(Quando sei morta quella sera, mamma, / in mezzo alla piazza suonava la banda, / ed
io mi rallegravo e non piangevo / che mi sembrava la morte una canzone/ che ti porta
il vento dall’aia / o una sera d’estate che non sai / perché per tanto tempo tu
contempli / la volta chiara del cielo / che ti rintrona le orecchie come una stanza /
vuota che pare piena di cicale).
Jovine è ancora un ragazzo quando la madre muore ed ancora, come tutti i ragazzi,
non si rende conto di che cosa vuol dire morire. Gioca il poeta. È un giorno di festa e
lui non sa perché gli altri non sono a divertirsi come lui. Solo il silenzio lo scuote,
quello stesso silenzio che durante quel viaggio in carrozza aveva tenuti lontano madre
e figlio. A poco a poco allora il piccolo Peppe inizia a rendersi conto della situazione.
Pecch’esse, doppe morte, che le vracce
t’eie stritte forte coma ‘na tenaglia
e pprime aveie paure de vasciarte […]58.
57
58
“Lu Pavone” – Quanne si mmorte chella sera, mà – Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
Ibidem
46
(Per questo, dopo morta, con le braccia, / ti ho stretta forte come una tenaglia / e
prima avevo paura di baciarti).
I ricordi iniziano così pian piano a cogliere la quotidianità, tutta la varie cose che la
madre faceva durante il giorno, sente ancora, come ai tempi di Natale in mezzo alla
neve.
[…] lla vucella
ca m’arechiama ancora: Peppe, Pè…[…]59.
(… quella vocetta/ che mi richiama ancora. Peppe, Pè…).
Poi parte lo sconforto, nel suo io inizia a capire che non rivedrà più la madre ed allora
la vorrebbe tutta per se come mai aveva avuto prima la possibilità:
Pecch’esse, mà, nen pozze arepenzà
a cchille mane sdreuse de cafune
che z’arrangavene gna ssierpe o sciamme
atturne a lu tavute a strapurtarte
gna ‘na quatrara arrannecchiate na cunnela
o ‘na some de mmaste che traccheia
59
Ibidem
47
nnanza e arrete a la scesa e alla ‘nghianata
e fa ciò ciò fine all’utema svota
mizz’a sciure de miendre e spinapoce […]60.
(Perciò, mamma, non posso ripensare/ a quelle mani storte di cafoni / che
s’inerpicavano come serpi o fiamme / attorno alla bara a straportarti / come una
bambina rannicchiata nella culla / o un soma di basto che traballa / innanzi e indietro
all’ascesa e alla salita / e fa capolino fino all’ultima svolta / tra fiori di mandorli e
biancospino).
Non può Jovine permettere che la madre venga profanata da gente che forse non
l’aveva mai conosciuta; lui deve averla per se perché solo lui sa rispettarne il riposo e
il silenzio. Come il silenzio che aveva rispettato in quel viaggio di ritorno a Natale.
Così in questo suo profondo rispetto, il poeta non riesce nemmeno a rientrare a casa,
dove la madre era solito attenderlo:
Pecch’esse, mò, nen pozze ‘ntrà na casa
mo’ ca sule le vespe ce cantene
nchille cavute nere de palomme
e ‘nfrocene ne mure le spripingule,
ma tu nen ti la scopa pè sfraccarle
60
Ibidem
48
e nen stute la luce pe la stanze
pe faie vedè la luna na fenestra
e na scurdia aresentì la cuccuvaglia61.
(Perciò, mamma, non posso entrare in casa / adesso che solo le vespe ci cantano / in
quelle buche nere di colombi / e cozzano contro i muri i pipistrelli / ma tu non hai la
scopa per schiacciarli e non spegni la luce per le stanze / per fargli vedere la luna
nella finestra / o risentire il gufo nello scuro).
Il poeta ricorda commosso le piccole azioni quotidiane che la madre compiva, sono le
piccole cose infatti che gli mancano, è li che corre il ricordo di Jovine. C’è un
qualcosa che ormai cambia nella sua vita: non la presenza della madre che resterà
viva nel cuore di Peppe, ma le cose materiali che rimandano ad essa. Quei momenti
particolari che forse egli amava rubare alla madre di nascosto. I pensieri continuano
ad accavallarsi, tornano gli anni dell’infanzia come falshback. Vi affiorano anche dei
lievi rimorsi.
Quanta volte eie lassate mamma sola
pe chille stanze spicce
ca parevene cisterne[…]62.
61
62
Ibidem
“Lu Pavone” – Quanta volte eie lassate mamma sola -Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
49
(Quante volte ho lasciato mamma sola / per quelle stanza vuote / che parevano
cisterne).
Sono momenti che ricorda di aver carpito alla madre come quando scorgeva
[…] la bella capellere
a recumponne chille trecce lustre
e ‘lla faccella ghianca ‘na specchiera! […]63.
(…la bella capelliera / ricomporre quelle trecce lustre / e quella faccetta bianca alla
specchiera!).
O di quando scorge nella stanza la madre che dorme e vede adagiati sul tavolino i
suoi occhiali, ed altri oggetti muti ed immobili che rendono la figura della madre
“Gna nu recurde de ‘na mamma muorte (come il ricordo di una mamma morta)64”.
Forse qui per la prima volta Jovine ha paura della morte.
A lu scure currive ‘na stanzetta
e mamma ze sbegliatte pe le vasce.
me parette ‘na morta ravvevata65.
63
64
65
Ibidem
Ibidem
Ibidem
50
(Al buio corsi nella stanza / e mamma si svegliò per i baci./ Mi parve una morta
ravvivata).
Come credo accade per ognuno nella vita, il distacco dalla madre è duro, ma Jovine
ha una profonda ammirazione anche per il padre Carlo, il suo maestro di vita, il suo
esempio quotidiano. Un uomo però che non lasciava trasparire sino in fondo il suo
amore per i figli, legato ad una istruzione severa ma giusta e ad un affetto per la
famiglia comunque composto. Non era eccessivamente severo, perché la sua severità
era atta ad inculcare nell’animo dei figli il senso della giustizia: Jovine avrebbe
voluto conoscere il padre più a fondo, ma non gli fu possibile. Allora prova a farlo
con una poesia:
Sarai sempre padre
la voce muta di quell’oboe chiuso
in un astuccio dentro la vetrina
nella sala degli avi che profuma
di polvere, di spigo e pergamene.
Come avrei padre voluto sondare
il lago perso della tua solitudine
quando scrutavi il corso della luna
e ti chiedevi che c’era nel fondo
della parola fioca della fiamma
nella gola brunita del camino,
51
presentando dai refoli e le fusa
dei gatti sulla cenere la neve!
E quando mi prendevi per la mano
alle mie fragili membra chiedevi
la forza che mancava alle tue fibre?
La mia innocenza prensile ed inerme
era forse per te una guida e un’arma.
Il tuo pallore mi accendeva l’ira
come un’esca e penavo nel vederti
riarsa foglia riaprirti alla mia linfa.
Solo quando cantavi la tua voce
alzava le montagne fino al cielo
e tra un turgore e l’altro di tue vene
il mio orgoglio pulsava come un cuore.
In un breve giro d’orizzonte
si è consumato un destino di naufrago,
di re senza corona, di poeta
senza carmi, d’armigero senz’armi;
arreso tra le mura del tuo mastio
guardavi il cielo stretto tra cimase
come dal pozzo un annegato, e l’albero
che dal chiuso dirama della corte.
52
Per vele avevi rauche pergamene
e il frullo delle rondini alla gronda;
e ancora padre ti vedo vagare
in un paese strano senza sole.
Senza canto mi volgi le tue spalle
e sto qui ancora a darti la mia forza
perché riprenda fiato, inutilmente66.
La figura del poeta stanco non è isolata, Camillo Sbarbaro per primo dedicò un
componimento al genitore, che troviamo in “Pianissimo 1914”, inaugurando un filone
nuovo nel quale con questa poesia si inserisce anche il poeta maurese. Il distacco dal
padre di solito non è doloroso come quello dalla madre. La morte della madre riporta
il poeta nel passato, ai ricordi tangibili, a quella quotidianità che perde dei momenti
salienti ed essenziali. La morte del padre ha in Jovine l’effetto opposto, lo proietta nel
futuro, segno quasi di un passaggio di consegne; lui diviene ormai simbolicamente
l’uomo di casa, colui che dovrà condurne le redini.
La vita sempe z’arennova.
È murte tata
e ie penz’a la giacchetta nova
che meia mette mo’ che vvè l’estate67.
66
67
“Viaggio d’inverno – Padre – Pag.21 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
“Lu Pavone” – La vita -Pag50 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
53
(La vita sempre si rinnova. / E’ morto mio padre/ ed io penso alla giacchetta nuova /
che devo mettermi adesso che viene l’estate).
Al momento di scrivere questa poesia Jovine ha già raggiunto la maturità del suo
pensiero e con esso la sua concezione della morte come premio finale della vita. Ma
noi sappiamo che la poesia del nostro che meglio esprime il suo stato d’animo è
quella in vernacolo. Ora anche per la figura del padre vale il ricordo che arriva
quando il poeta nell’armadio contempla le cravatte che il padre gli lascia, e prosegue
così.
[…] A ogne nude de chille cravatte
ievene sciure le mane de tata,
a ogne nude de chille cravatte
‘nnanz’a lu specchie ‘na stanza lucente
sunavene lle mane nu struminte!
Tutte chille cravatte culurate
mo’ parene sturminte senza fiate68.
(Ad ogni nodo di quelle cravatte / erano fiori le mani di mio padre/ ad ogni nodo di
quelle cravatte / innanzi allo specchio nella stanza luminosa / suonavano quelle mani
68
“Lu Pavone” – Le cravatte de tata – Pag. 47 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
54
uno strumento! / Adesso tutte quelle cravatte colorate / sembrano strumenti senza
fiato).
Un’armonia che si perde nel ricordo lontano, di quando il poeta osservava il padre
nella meticolosa opera di annodarsi la cravatta. La grazia con cui Carlo compiva
queste azioni fa venire in mente al poeta un maestro che accordava il suo strumento.
Come abbiamo detto in precedenza la poesia di Jovine è composta per immagini, e
quella più bella lo accompagna tutte le notti nel buio della sua stanza
Ogne notte arepenze a mamma e tata.
Le vede com’arrete a ‘na tendina
o pettate né mure de la stanza
coma chilla fegure ‘mgiallanite
e tutte pezze e crepe e ciammaragne
né lamie de ‘na chiesa addò ce cantene
le grille e le cichele.
Ie vulesse arefà la facce a ‘ll’uocchie
gna ddù pupazze spierte a ‘nu curnicchie
o ddù sante scurdate ‘nda ‘na nicchie,
ma me ze squaglia la creta e me lasse
le mane senza sanghe e ragnecose
ca vularrìa struzzà lu Patraterne
55
o pregà gna ‘nu pazze pè sapè
che gghiè che gghiè su gliommere ‘mbrugliate,
sta matasse d’ardiche de lu munne69.
(Ogni notte ripenso a mamma e papà. / Li vedo come dietro a una tendina / o dipinti
sui muri della stanza / come quelle figure ingiallite / e tutte pezze e crepe e ragnatele /
sulle volte di una chiesa dove ci cantano / i grilli e le cicale./ Vorrei rifargli la faccia e
gli occhi / come a due pupazzi sperduti in un cantuccio / o due santi dimenticati in
una nicchia / ma la creta mi si squaglia e mi lascia / le mani esangui e rattrappite /
sicché vorrei strozzare il Padreterno / o pregare come un pazzo per sapere / cos’è
cos’è questo gomitolo arruffato / questa matassa di ortiche che è la vita).
4.2 Jovine padre e nonno
Gli affetti non si limitano ovviamente solo alla figura dei genitori, che sono le più
importanti. Nelle sue poesie ha parole di affetto e commozione anche per i figli e,
maggiormente, per i nipoti. Nelle vesti di nonno il poeta sente di tornare bambino.
Nel quarantesimo giorno di sua vita
Le tue parole sono per ora
il tuo faccino affondato nel cuscino,
i tuoi occhietti fissi ai geroglifici
69
“Lu Pavone” – Ogne notte –Pag. 67 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
56
della tenda fiorita della stanza.
Io ho consumato tutte le parole.
Le tue manine come alghe d’acquario
mi ricompongono nel muto lettino
della mia nuova ed ultima infanzia
e fringo e rido e annaspo e mi assopisco
tuo docile compagno e tuo gemello70.
Roma 3/7/92 Nonno Peppe
La nascita della piccola Silvia porta nella vita del poeta una forza vitale nuova.
Insieme col piccolo Riccardo formano il filo conduttore del tempo che lega il passato
al futuro, ed in questo lasso di tempo Jovine si pone come il presente. Le parole che
egli dedica loro fanno in modo che essi mai e poi mai possano dimenticarsi delle loro
origini, delle loro radici molisane.
Ti ho rivista Silvia
correre tra le spighe di grano del Molise
gridavi nonno, nonno ho visto un grillo!
E per sempre quel grido irripetibile
di felice scoperta avrò nel petto
quando avrà passo di danza o di fuga la tua corsa
70
“Viaggio d’inverno” – A Silvia – Pag.33 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
57
al di là delle spighe fatate
dove più vedrò le tue manine
nuotare in sì dolce mareggiata d’oro
che ti portava alle mie braccia tese.
E tu sarai le nipotina di sempre,
la nipotina che sulle stoppie del Molise gridava
nonno, nonno ho visto un grillo!71
Sarebbe troppo lungo riportare qui la bellissima poesia che Nonno Peppe scrive al
piccolo Riccardo, una serie di consigli di cui nei capitoli precedenti abbiamo colto
alcuni passi. Ne prendiamo qui altri che hanno un significato molto toccante
Ora tu guardi come un puledrino
la brughiera infinita che spaura
ed ogni oggetto bruchi come un sorcio
e non sai quale nome e senso dargli.
Non sarà così diverso il mondo quando
comincerai “ad inciampare nell’uomo”
e duro gioco sarà compitare
l’alfabeto dell’essere e non essere,
e non saprai se avrai torto o ragione
71
“Viaggio d’inverno” – 14 agosto 1998 – Pag.34 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
58
e scoprirai che un’esile farfalla
può sapere più cose che gli uomini non sanno72.
Questa è una poesia diversa dalle altre, in quanto Jovine associa a versi nuovi alcuni
dei proverbi da lui raccolti in “Cento proverbi e detti di Castelluccio Acquaborrana73.
Sogna lontani approdi e resta fermo,
abbarbicato al suolo come quercia
che i succhi della terra sugge e lancia
nelle ramaglie pieghevoli e ferme
al sole, al vento, all’acqua e alle bufere74.
Il desiderio del poeta, resta sempre quello di vedere i suoi figli ed i suoi nipoti amare
la sua terra di Molise allo stesso modo che l’amava lui.
Percorrerai la terra dei tuoi avi,
la rude terra dei Pentri e dei Frentani,
vedrai la valle del pigro Biferno
che sembra non arrivi mai al mare,
e la valle romita del Cervaro
dove bevono i morti alle peschiere,
72
73
74
“Viaggio d’inverno” – Consigli al nipotino Riccardo – Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
Edizioni Enne – Campobasso 1991
Ibidem
59
vedrai boschi color aragosta,
e fughe delle volpi sulle nevi,
nelle colline danze di puledri,
le forche tra la pula d’oro al sole
vedrai la quercia del Pontone che da secoli vive
e più di te vivrà nei secoli
e scoprirai dalle voci dei vichi
che il tarlo ti sotterra e non la morte.
Il tarlo è ruggine che mangia il ferro75.
Il culto della patria è profondo in Jovine, e come abbiamo visto nella splendida poesia
alla Vergine della Salute egli dirà “ Oggi la nostra patria è questa valle”76. Ma
bisogna anche essere in grado di affrontare la vita nelle diverse situazioni: importante
per il nostro è restare fermi sulle proprie idee senza mai comportarsi come bandiere al
vento.
Sarai quarzo e non stoppia di conocchia
o ruscelletto torpido e tortuoso
che come il solco gli fai poi si rigira.
[…] fa che la verità sia come l’olio
che venga sempre luminosa a galla!
75
76
Ibidem
“Tra il Biferno e la Moscova” – Il canto dell’emigrante – Pag.81 - Cartia editore – Roma 1975
60
Non dire come la mosca sul collo del bove:
anche oggi abbiamo arato insieme.
[…] Gli occhi non stanno in fronte alle ginocchia,
guarda dritto negli occhi della gente.
[…] E se tu perdi gli anelli ricordati
che le tue dita stanno sempre in piedi77.
Prima ancora di scrivere questi versi per i nipoti Jovine aveva indicato, come un buon
padre, la strada da seguire per i figli.
Vi guardo da lontano
fiori inermi tremanti alle raffiche
col rimorso di avervi piantati
in un giardino brullo senza sole,
ma mi crescete in petto ogni ora,
inespresso mio grido, e già vi sento
garrire al vento candide bandiere78.
Jovine ha un solo obiettivo, quello di insegnare ai figli e ai nipoti, ponendosi egli
stesso come esempio, l’importanza della famiglia, l’amore per la propria terra.
Quell’amore profondo e viscerale che lo costringeva, anche da vecchio, a tornare da
77
78
Ibidem
“Viaggio d’inverno” – Ai miei figli Carlo e Lucia –Pag.27 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
61
Roma per assaporare la fine brezza mattutina dall’alto del suo terrazzo, dove
dominava la valle del Cervaro e dove, come da lui confidatomi, sono nati molti dei
suoi versi.
Manca ormai solo la figura del marito per completare lo Jovine uomo; egli si mostra
come sempre dolce ed affettuoso, ma anche pragmatico, predicendo quasi alla moglie
la sua prematura scomparsa.
Tornerai lungo i sentieri dei boschi
ove i ragazzi colgono le fragole
e uccidono le serpi ed i ramarri,
ritornerai sull’erba del cortile
tra i muri tiepidi della mia casa
ove il fiato dei miei morti arriva
dalla valle romita del Cervaro
col quieto odore della genzianella.
E tenderai le mani sulle siepi
e voleranno i passeri sui fili.
L’uno nell’altro ogni giorno entreremo
come nell’ombra tranquilla di un viale
e tra cima e cima all’imbrunire
nell’odore dei fieni e degli erbai
e tra i vapori lenti di marcite
62
sarai quiete dorata di cielo79.
Con questi versi della poesia alla moglie Franca si chiude la panoramica sugli affetti
di Jovine. Quello che si evince dalle varie poesie e dai piccoli frammenti presi in
considerazione è un amore profondo verso la famiglia, verso la sua casa, verso la sua
terra. E queste poesie hanno proprio questo filo conduttore: in ognuna di esse il
nostro vuole imprimere la sua molisanità e vuole trasmetterla agli altri. “Si indovina,
talvolta, un’enfasi epica di queste poesie, che nasce dalla consapevolezza celebrativa
ma, attenzione, mai retorica del ruolo comunque classico del poeta” scriverà
Francesco D’Episcopo nella prefazione a “Viaggio d’inverno”. Le parole sono il
succo vitale per il poeta: con esse costruisce i suoi sogni, le sue emozioni, le sue grida
di gioia e di dolore.
79
“Viaggio d’inverno” – Lettera a mia moglie –Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
63
CAPITOLO 5
“Il poeta e la sua terra”80
I temi ricorrenti della produzione joviniana sono quattro. Le religione, la morte e la
famiglia hanno trovato spazio nei capitoli precedenti. Ci resta ormai da trattare solo
della sua terra di Molise, che lui ha sempre portato nel cuore. Jovine pensa in
continuazione a coloro che sono stati costretti ad abbandonare Castelmauro, e lui è
uno di questi, che però a differenza sua non potevano tornare con una certa
frequenza. È forte nelle sue produzioni l’idea della sua molisanità.
Non so chi pietra su pietra ha composto
la mia casa grigia come il fango,
so che le crepe aperte nel suo fianco
sono ferite vive nel mio corpo.
[…] Qui torno a rannicchiarmi come i cani
che vedevo agli angoli dei muri
solo alla cuccia prima di morire:
qui la vita ha gli stessi stupori,
ha le stesse impazienze della morte
che ti prende per mano e ti conduce
80
“Il poeta e la sua terra” fu il titolo di un convegno – ricordo tenutosi a Castelmauro nel 1999
64
dove tu vuoi sull’antico sentiero
che mena al piano di Santa Lucia
tra il verde dei vigneti e il canto fioco
delle peschiere muschiate degli orti
dove corrono i morti a rinfrescarsi.
Qui torno amaro dopo ogni sconfitta
per non desistere dal denso esistere
col cuore d’esule senz’altro arredo
che il canto dei mattini e ogni sconfitta
torna a splendermi come una vittoria.
[…] Qui ogni albero ha il suo vento,
ogni rovo il suo lamento
ogni radura il suo silenzio.
Qui nasce la mia storia,
qui ciò che penso è mio.
Dal cuore della terra che è il mio cuore
vedo dai botri con l’erba novella
la verità rifiorire sorella81.
Castelmauro è il luogo dove Jovine trova conforto, ricarica la spina. Qui riprende le
forze rivivendo le emozioni passate della sua vita. E' legato con un filo doppio alla
81
“Viaggio d’invenro” – Le mie radici – Pag.14 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
65
sua terra, ne sente i lamenti persino nella sua dimora capitolina. Il poeta però porta
nel cuore la sua terra, ed allora gli basta chiudere gli occhi per perdersi nel suo
mondo fatato
[…] E ci tornavano in sogno le notti
il canto dei pollai,
le stanze odorose di strame,
le stanze odorose di spico,
la luna d’argento sull’aia,
il fermento del mosto nei tini,
l’erba fresca e la lingua degli agnelli,
l’acqua riccia dei ruscelli,
la spuma dei torrenti,
le raganelle del Sabato Santo,
la fuga delle volpi sulle nevi,
il canto degli ubriachi,
gli organetti nelle valli,
l’afrore delle fiere,
le forche tra la pula,
il vento tra gli ulivi,
l’oro sabbioso delle stoppie,
i lumi dei treni sui colli
66
nell’ora che annega il paese
in un mare di grilli,
i boschi color d’aragosta
e le radure tepide di sulla82.
Come abbiamo visto in precedenza questa poesia Jovine la dedicò a Pierluigi Giorgio,
un uomo che come lui amava profondamente il suo Molise, che lui cantava alla
maniera joviniana, con ardore e ricorrendo talvolta alla burla, girovagando con la sua
carovana per i vecchi borghi della regione.
Importante per Jovine però è la casa dove vede i natali, quel palazzo che la sua
famiglia acquistò dai duchi di Canzano e che si erge in Piazza Municipio, proprio a
ridosso della piazza principale del paese, da dove poteva dominare tutta la valle del
Cervaro sino al mare. Qui trascorre la sua infanzia, qui muove i primi passi dentro la
poesia, qui torna ogni tanto da Roma per ritrovare il suo essere. A rivedere il colore
dei suoi boschi, a sentire la brezza mattutina, e dove tornò a prendersi l’ultimo saluto
[…] Casa che invecchi
come invecchia il mio corpo,
con le stesse rughe della mia pelle,
con gli stessi tonfi misteriosi,
gli stessi silenzi,
82
“Viaggio d’inverno” – Il narratore ambulante –Pag. 48 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
67
le stesse ombre,
gli stessi nascondigli,
con lo stesso battito del tempo,
la stessa voce della vita e della morte
dolci avventure…83
Il palazzo di Castelmauro diviene il nascondiglio perfetto, dove tiene custoditi tutti i
suoi ricordi, che sono il tramite con i suoi avi. Ricordo che mi ripeteva sempre,
quando ripartiva per Roma, che era importante il ritorno da Roma; l’idea del ritorno
doveva essere un tarlo che ti rodeva il fegato. Quel vecchio detto del “partire è un po’
morire” vale nella realtà jovinana, solo che poi il poeta tornava a riprendere linfa
vitale alle sue radici. Per lui tornare significa rinascere. “Ci rodeva la nostra sorte
d’esuli” recita la poesia Ritorno a Borrana.84 Come sempre però le emozioni
maggiori si colgono leggendo le sue poesie dialettali, in cui maggiormente esprime il
ricordo per i luoghi della sua infanzia, una infanzia certamente priva di orpelli,
semplice.
Ancora mo’ ne Sanguinette
ce sta ‘na casarella fore d’use,
la stessa fenestrella sempe chiusa!
Ci iettavame turze, scorce e prete,
83
84
“Viaggio d’inverno” – La mia casa – Pag.108 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
“Viaggio d’inverno” –Pag.17 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
68
ma nesciune arespunneia.
coma tanta timpe arrete
ancora mò tenesse la gulia
de tuzzà ‘lla fenestrella scunzulate,
pu penze: è cchiù bella barrecate:
se z’arrapre z’encanta la malia85.
(Ancora adesso alle Sanguinette / c’è una casetta fuori d’uso, / la stessa finestrella
sempre chiusa! / Vi lanciavamo torzi, scorze e pietre / ma nessuno rispondeva. /
Come tanto tempo addietro, / ancora adesso ho voglia / di bussare a quella finestrella
sconsolata, / poi penso: è più bella chiusa; / se si apre si incanta la malia).
Sono i luoghi dell’infanzia abbiamo detto, dove trascorre le giornate insieme con gli
amici.
[…] Che gghiva allora lu Chianitte!
Coccia rotte, gasteme, llucche e chiante!
Lu sole aveia paura de le prete
e annascuse pur’isse pazzeiava
tra fronna e fronna coma nu quatrare.
Ma pe chella maramaglia
nu mirche ‘n fronte o ‘na chiazza de sanghe
85
“Lu Pavone” – La fenestrella –Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
69
era coma ‘na medaglia86.
(Che diventava allora il Pianetto! / Teste rotte, bestemmie, urla e pianti! / Il sole
aveva paura delle pietre / e nascosto anche lui giocava / tra foglia e foglia come un
bambino. / Ma per quella marmaglia / un marchio in fronte o una chiazza di sangue /
era come una medaglia).
Ancora più sentita la poesia dedicata al giorno della fiera, una ricorrenza molto
sentita negli anni dell’infanzia del poeta, da considerarsi quasi un giorno di festa.
Tutti i contadini tornavano dalle loro masserie per vendere i loro prodotti o gli
animali, vi erano persone dai paesi vicini e si faceva conoscenza, e tutto era un
fermento.
Addore de zoche e de tumaie
de scapece, de sive e de fumiere!
Nuvele de zucchere filate
e provele de mandre e afa!
Ma tutte punte e virgule e rizzille,
cappille a sguince e culle ‘mpusemate
e varva lisce e zizza de pacchiana,
lu Barone z’appoia a nu bastone
86
“Lu Pavone” – Lu Chianitte –Pag.39 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
70
cu lu maneche d’argiente,
e ‘n zenghera smurfiosa
i’adduvine la ventura.
Trumbette e sunagline,
guagliune e cacciunille,
scupine e ciaramelle
tutte quante a sguagnalià!
Pu nu core de mizzeiurne
z’arraia la campane de lu Turche
e ‘nchell’aria infucata e senza vinte
c’addore de lacce e de vrasciole
fanne feste le ssierpe e lu sole87.
(Odore di corde e di tomaie / di scapece, di sego e di letame! / Nuvole di zucchero
filato / e polvere di mandre e afa! / Ma tutto punto e virgola e ingalluzzito / cappello a
sguincio e colletto inamidato / e barba liscia a mammella di villana / il Barone
s’appoggia a un bastone / col manico d’argento / e una zingara smorfiosa / gli
indovina la ventura. / Trombette e sonaglini, / bambini e cagnolini, / sonagli e
zampognette / tutti a miagolare. / Poi nel cuore del mezzodì /si arrabbia la campana
del Turco / e in quell’aria infuocata e senza vento / che odora di sedano e braciole /
fanno festa le serpi ed il sole).
87
“Lu Pavone” – Iurne de firie –Pag.41 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
71
Ancora oggi il giorno della fiera è un brulicare di persone; nella visione data da
Jovine manca solo la buonanima del Barone che s’appoggia al bastone col manico
d’argento. Questa poesia è una perfetta composizione di immagini che Jovine
comunque ha vissuto sino agli ultimi giorni della sua vita. Un’altra serie di immagini
è la poesia Lu Paradise di cui prendiamo solo alcuni passi
[…] Quant’è bbille ‘llu paiese!
Ze sbelava acchiane acchiane
e la terra arehiatava
gna nu lievete de pane:
fume e ‘ncinze ‘ncera a ssole!
[…] tutte l’uocchie a cchella via
a sunnà le nevelelle
‘ncima ‘ncima a lu Calvarie,
le coste de Genuarie,
lu Campusante e le Murgette…
[…] E ‘llu talurne d’azze
nu core de mezzeiurne?
[…] Eppù a n’ora de notte che la luna!
Luciacappelle luciacappelle!
E le trascurze che le stelle?
72
Che tta cride, che gghiè lu Paradise?
E ‘na staggiona spierte
sunnate a uocchie apierte88.
(Quanto è bello quel paese! / Si liberava dalla neve pian piano / e le terra rifiatava /
come un lievito di pane: / fumo ed incenso innanzi al sole! / […] tutti gli occhi a
quella parte / a sognare nuvolette / in cima in cima al Calvario, / le coste di Genuario,
/ il Camposanto e le Morgette…/[…] E quella nenia d’azze nel cuore di
mezzogiorno? / […] E poi a un’ora di notte con la luna! / Lucciole lucciole. / E i
discorsi con le stelle? / Che credi, che cos’è il Paradiso? / E’ una stagione perduta /
sognata ad occhi aperti).
Quando torna al suo paese Jovine scopre una forza sconosciuta, che lo trattiene, lo
avvinghia
Mi trattengono i secoli, è difficile
riemergere dal tempo e ripartire89.
Continua poi con altri versi che, come sempre, richiamano i suoi avi
Lascio i miei morti e le viole intristire
88
89
“Lu Pavone” – Lu Paradise –Pag.60 - Edizioni Enne – Campobasso 1983
“Viaggio d’inverno” – Ritorno al paese –Pag.111 - Edizioni Enne – Campobasso 1999
73
sotto la neve senz’altro tepore
che un lume di lanterna che trapela?
[…] Lascio incompiuta la mia valle bianca,
un quadro che ogni giorno il tempo stinge
ed ogni giorno a dipingere torno.
Ma chi può dire come dolcemente
nella tormenta si incanti il paese
nel lucore di un sole d’alabastro
che intiepidisce i morti a Somasella?90
Il suo essere molisano e castelmaurese lo spinge anche ad un rimprovero profondo
nei confronti dell’astronomo castelmaurese Padre Giovanni Boccardi che, emigrato a
Torino, non volle più rimettere piede sul suolo del suo paese natio
[…] Alfa Andromeda resta quindici ore
sull’orizzonte prima di svanire,
ma non sai dirmi quanto resta il sole
sul balconcino ove le notti insonni
contemplavi le stelle ad occhio nudo
ed ora accenna un gambo di geranio.
Sai quanto pesa Marte e quanto Giove,
90
Ibidem
74
ma sai tu dirmi il peso degli affanni
che opprime la tua gente di Borrana?
[…] Nell’equinozio d’autunno la luna
dall’equatore celeste, tu dici,
dista all’ingrosso cento ottanta gradi,
ma quanto dista il cuore di un barone
dalla pelle rugosa di un cafone?
[…] Padre Giovanni, vivi in Alfa Andromeda!
[…] Oh! L’oro delle lampade nei vichi
del tuo paese vivo abbandonato
l’hai ritrovato in qualche via del cielo?91
Sono parole pesanti quelle che il poeta rivolge, in un finto dialogo, alla memoria del
padre castelmaurese, senza però mai mancare di rispetto. Facendo notare che anche
nel suo piccolo borgo vi è vita, e vi sono persone che vivono, e che negli anni non lo
hanno mai dimenticato. Quando Jovine scrive questa poesia Padre Giovanni è già
morto, ed è già una istituzione all’interno dell’astronomia. Castelmauro non ha mai
dimentica il suo figlio, anche se questi non gli ha mai voluto riconoscere la maternità.
Sono modi di vivere, certo. Per Jovine abituato a correre a Castelmauro ad ogni
richiamo della sua terra, la scelta del padre astronomo è sembrata davvero senza
senso. Il poeta e la sua terra, si è detto: un connubio indissolubile nel tempo.
91
“Tra il Biferno e la Moscova” – Alfa Andromeda – Pag.89 - Cartia Editore – Roma 1975
75
CAPITOLO 6
Jovine saggista
La poesia è per Jovine non un passatempo, ma il modo di allontanarsi dal mondo
della capitale che sente stretto, un modo per tornare, almeno con lo spirito, a
percorrere i suoi boschi, a girovagare nei vicoli del suo borgo molisano; per tornare a
scambiare chiacchiere e risate con i suoi compaesani. Jovine però, come abbiamo
visto, è costantemente alla ricerca di un qualcosa, e come uomo e come poeta. Oltre
alla poesia, egli si dedica anche alla narrativa.
Come sempre il fulcro principale delle sue ricerche risulta essere la sua terra di
Molise e i suoi abitanti. La prima opera portata a termine è il “Saggio sulla poesia di
Albino Pierro”, uno dei maggiori poeti dialettali del secolo, << un cesello di analisi
estetico/ sociale nel quadro mitografico del nostro Sud>>92. Lo stampo erotico della
poesia dialettale del sud rientra a pieno titolo sia nei lavori di Pierro che ovviamente
in quelli di Jovine, come ritroveremo anche ne “La sdrenga”, unica produzione
saggistica di Jovine in vernacolo. Osservando attentamente questa sua produzione
notiamo il meticoloso lavoro di ricerca che il poeta compie per giungere alla fine
della sua fatica, passando ore ed ore per le campagne del suo paese ad interrogare i
suoi compaesani. E non ci si dovrebbe nemmeno meravigliare se una buona
percentuale delle storie raccontante siano autentiche. Noi sappiamo che Jovine
innanzi tutto è un poeta autentico, che mira al sodo, che non risparmia mai le parole.
92
Da Gradiva - “Homage to Giuseppe Jovine”- Pag66 - di GIOSE RIMANELLI – International Journal of
Italian Literature – New York 1999
76
Ma è in questi contesti, diciamo frivoli, che il poeta castelmaurese da il meglio di se.
Ed è anche con grande maestria che riesce a trasformare i personaggi di queste
piccole commediuole in autentici attori capaci di imbastire una trama interessante ed
avvincente. Come in tutti i racconti, tutto ruota intorno alla battuta finale, quella per
la quale di solito si ride. Ma essa coincide anche con la frase che ne indica la morale.
Jovine è moralista come poeta e resta moralista anche come scrittore di saggi, nella
ricerca sfrenata di situazioni particolari come quelli de “La Sdrenga”. Nel racconto
“Preiete e sacrastane”93 notiamo la ripresa della solita tenzone con le cariche
ecclesiastiche, in cui si vuole mettere a nudo la debolezza carnale di un prete che non
riesce a resistere dinanzi ad una donna. Le sue parole finali non solo ci fanno
sorridere, ma ci inducono a riflettere. Siamo in un periodo in cui la religione continua
ad essere inattaccabile, si guarda agli uomini di chiesa con riguardo, e lo Jovine
comunista viene etichettato anche come mangiapreti. Ma noi siamo consapevoli che
quando il poeta prende in mano la penna per scrivere le sue storie, per riportare i
racconti dei suoi paesani, per imprigionare sui fogli i suoi versi, egli non è altro che
un uomo immerso nel suo mondo che ha i colori verde e marrone dei prati e dei monti
del Molise.
Lo stesso vale se prendiamo in considerazione il racconto “L’uprazione” in cui Suor
Teresa è costretta a tornare indietro negli anni quasi confessa un peccato di gioventù
che ormai non le appartiene dopo la scelta compiuta. La vergogna la riporta nella sua
93
“La Sdrenga” – Edizioni Enne – Campobasso 1989
77
dimensione umana, dove si possono commettere degli errori, dove sbagliare è,
appunto, umano.
Tutti i racconti nascondono la sagacia della terra molisana in un infinità di doppi
sensi, che mostrano storie vere raccontate come favole e favole che si possono anche
considerare storie vere.
Di ben altra natura invece il saggio “Benedetti Molisani” in cui il poeta si spinge sino
a toccare il fondo della sua terra con le mani, dove ne mette a nudo i pregi ed i difetti.
Un saggio ricercato, dove cerca di dipanare la matassa imbrogliata della sua regione,
che non riesce ad uscire da un carattere di vassallaggio nei confronti delle regioni
limitrofe in grado di trovare al proprio interno le risorse necessarie per uscire dalla
situazione stantia del dopoguerra.
Un Molise che lui gira tutto in compagnia di Tommaso Fiore nel 1973, cercando di
puntare il dito sulle sue reali condizioni, soffermandosi su quella che dovrebbe essere
la sua arteria principale, la Bifernina, a tutt’oggi un eterno cantiere, dove i politici si
arricchiscono alle spalle di una comunità ancora in preda all’analfabetismo. Conosce
però le reali potenzialità dei suoi corregionali e si lagna della loro misera voglia di
rivalsa, del loro mancato tentativo di uscire dal torpore in cui è riversa. “I Molisani
amano più il Cristo in croce che il Cristo risorto”94 è una frase che coglie in pieno il
carattere del molisano, che non è in grado di compiere il gesto del suo riscatto e resta
aggrappato alla sua condizione di contadino che però difende sempre con orgoglio e
con abnegazione. Continua Jovine “Il Cristo in croce è insomma il Cristo ufficiale,
94
“Bendetti Molisani” - I Molisani e la politica (1979) – Pag.31 – Edizioni Enne – Campobasso 1976
78
emblematico, della voluttà o della consuetudine della sofferenza o della tradizionale
condizione di emarginazione sociale delle popolazioni meridionali; gli altri Cristi
d’occasione sono modellati sui tipi ricorrenti nel caleidoscopico spettacolo della vita
regionale. Cristo è di casa in Molise: ora è un piccolo marioncello acchiappacore;
com’è definito nei canti popolari, ora un gaudente fratacchione che fa scricchiolare i
pagliericci, ora un maldicente canterino che invoca l’infradiciatura delle salsicce del
compare spilorcio, ora il magano che guarisce col concubito l’isteria. Ogni molisano
si sveglia la mattina con un Cristo sotto il cuscino, tanto che i giovani novizi
francescani si chiedono quale Cristo debbano presentare ai fedeli”95. Ma la
prosecuzione della frase si spegne in un laconico “ […] è con tutti e benedicente,
meno che con i comunisti”96. Anche Jovine ha il suo Cristo nascosto sotto il cuscino,
un Cristo al quale lui si lega a suo modo, con il quale discute sulle reali condizioni
della sua terra, che tiene lì come un confessore personale con il quale confidare le
sensazioni alla fine di una giornata di lavoro. La rudezza del molisano, quella che gli
permette di guardare “[…] Dio in faccia, senza scomporsi, lo bestemmia anche se non
ci crede, perché vorrebbe che esistesse solo per rifargli i connotati e rinfacciargli i
suoi torti”97 è anche il freno allo slancio verso il passaggio ad una condizione
migliore. Jovine dice “I molisani sono come il loro fiume, il Biferno, che sembra non
arrivi mai al mare”98, mettendo a nudo il loro punto debole. Non è incapacità a
ribellarsi della propria condizione di inferiorità: è semplicemente pigrizia. Il molisano
95
96
97
98
Benedetti Molisani – Pag.31- Edizioni Enne – Campobasso 1976
Ibidem
Ibidem
Ibidem
79
è pigro, pensa sempre che sarà qualcuno a provvedere per lui. Non si ritiene un uomo
d’azione, ma crede di essere una semplice comparsa.
Se la poesia, maggiormente quella dialettale, è l’arma che Jovine sceglie per mettere
a nudo le debolezze delle persone in maniera ironica, il saggio Benedetti Molisani è
un’aspra ramanzina verso gli abitanti della sua terra. Quegli abitanti che hanno il
difetto di accettare senza controbattere qualsiasi situazione. Ma la dedica che Jovine
fa nel suo libro alla sua gente “ Ai molisani con rabbia e con amore”, oltre ad ispirare
ricordi di ovidiana memoria, tende quasi a scagionare i suoi corregionale deviando le
colpe della loro gravosa situazione su altri. E questi altri sono i politici, molisani e
non, che non si interessano della piccola regione del Molise in quanto non ha le
dimensioni adatte per essere appetibile. Egli segue da vicino, pur alloggiando nella
capitale, le vicende non tanto politiche, ma sociali della sua regione. Egli crede
fortemente nella rivalsa sociale della sua gente, visto che seguendo la strada politica
la situazione non si evolve. Un credo dovuto alla conoscenza diretta della sua gente,
che lui considera ben capace di giungere alla rinascita definitiva. Ha solo bisogno di
una guida che la distolga dal torpore e dalla pigrizia. Con Benedetti Molisani Jovine
compie un giro completo nel panorama regionale, andando a far visita anche a coloro
che per disparati motivi hanno dovuto non solo abbandonare la regione ma anche la
nazione. Importante il viaggio compiuto a Mosca, a scopo di studio, dove Jovine
viene a contatto con una popolazione diversa rispetto a quella che le fazioni fasciste e
comuniste avevano messo nelle piazze e nei loro comizi. Forse la forma di
comunismo autentico Jovine in Russia la trova davvero, ma resta affascinato
80
dall’amore che i russi nutrono nei confronti del suo antenato Francesco Jovine, di dui
amano ricordare i testi e i luoghi da lui narrati nei suoi testi. Ecco allora che al
momento di rientrare in Italia Jovine, che vive della nostalgia per la sua terra di
Molise, riesce a perdonare un arrotino di Frosolone arrestato sul Don e mai più
rientrato a casa dalla moglie, ora addetto alla molatura elettrica di coltelli in una
fabbrica nei dintorni di Mosca, o il suo “comprovinciale di Petrella Tifernina”99
incontrato a Zagorsk dove suonava il tromboncino in una banda specializzata in
musica leggera che non aveva mai sentito la nostalgia per il suo piccolo villaggio
molisano. Quello del molisano a Mosca è solo uno dei capitolo che Jovine dedica agli
emigrati molisani: Svizzera (1970), Belgio (1977), Germania (1980) sono solo alcuni
dei viaggi che il poeta compie per portarsi a contatto con i suoi corregionali
all’estero. Egli nota la profonda differenza tra coloro che sono emigrati e i molisani
che ancora vivono nella loro regione: l’ospitalità, la tenacia sono sempre radicate in
loro ma hanno smesso quella loro veste diciamo contadina, legata alla terra. Come
ricorda nel suo viaggio in Svizzera, l’amico presso il quale dimora era nella sua
regione un umile contadino, mentre ora nella sua nuova patria si occupa di prodotti
chimici in una grande azienda, conosce la storia di Vercingetorice e le imprese di
Cesare in Gallia, pur conservando tutti i caratteri che distinguono un molisano da uno
svizzero. Chi ha il coraggio di mettersi in gioco, in Molise, deve farlo
necessariamente lontano dai suoi affetti, lontano dalla sua patria. E questa situazione
da fastidio al poeta che vorrebbe che i suoi corregionali mettessero a frutto le loro
99
“Benedetti Molisani” – Un molisano a Mosca (1967) – Edizioni Enne – Campobasso 1979
81
idee all’interno della loro regione, che si impegnassero a coinvolgere quanta più
gente possibile. Benedetti Molisani, come abbiamo visto, parla della politica, del
sociale, della religione e dei giovani, ma punta il dito maggiormente su ciò che
l’arretratezza della regione a livello di mentalità ha creato. Se chi di dovere avesse
deciso di investire sulla propria terra, magari puntando sul turismo, unica risorsa vera
sfruttabile del Molise, adesso molti, se non tutti, di quei molisani sparsi per il mondo
starebbero a godersi le magie della loro terra.
Jovine conosce profondamente la vita dell’emigrante, in quanto anche lui per lavoro è
costretto a stare lontano dai suoi boschi, a respirare il cemento della città. Ma non
perde mai occasione per tornare nella sua Castelmauro. L’altro saggio in cui Jovine
mette a nudo la sua straordinaria capacità di entrare nella psiche dell’uomo è “Gente
alla Balduina”100, uscito postumo nel 2005. Qui egli traccia un perfetto identikit
psicologico di alcuni conoscenti che abitano con lui nel quartiere romano, andando a
ravanare nei loro intenti reconditi, cercando di carpire dai loro gesti quelle che sono
le loro reali emozioni. “Qui a Roma le menti e le coscienze sono atrofizzate… Ogni
parola ci arriva in ritardo, come la luce di una stella morta da millenni…Sentiamo il
suono, ma non la parola… una parola quand’è parola è una boa, un’ancora, un faro in
mezzo a un mare infido…”101. Jovine bussa ad ogni porta ed ogni porta gli viene
aperta, entra all’interno delle case e delle vite umane, ne coglie lo spirito e le modella
creando delle favole per i suoi scritti. Jovine nasconde abilmente l’identità delle
persone reali dietro i costumi ed i vizi dei suoi personaggi, in una saggio particolare
100
101
“Gente alla Balduina” – Edizioni Marsilio – Roma 2005
GIUSEPPE JOVINE – Note a Gente alla Balduina – Edizioni Marsilio – Roma 2005
82
che vuole dimostrare la mortalità di ogni uomo. “Un quartiere diventa metafora di
una società con le sue laceranti contraddizioni, con la continua ricerca di significati e
valori nel rapporto tra la città eterna e l’eterna provincia”, scriverà il figlio Carlo nella
prefazione all’opera. L’intento del poeta è sempre quello di mettere in risalto la
medesima condizione di ogni uomo dinanzi al proprio destino. La nobiltà è per
Jovine solo una convenzione tra gli uomini, e non un tratto di distinzione che tenda a
mettere ogni pregio ed ogni virtù nelle mani dei nobili e tutti i difetti ed i vizi nelle
azioni dei poveracci. Egli si sente sempre vicino alle sue origini comunali, è un uomo
di provincia e non lo nasconde; anzi, cerca di mostrare la sua provincia alle persone
che incontra nella sua vita, le invita a trascorrere con lui delle giornate nella sua
Castelmauro. Vuole mettere a contatto il nobile metropolitano con il bifolco molisano
per dimostrare che nobile e bifolco non sono altro che due vocaboli del nostro
parlare, e che non hanno nulla a che fare con gli uomini. Vi sono uomini fortunati e
meno fortunati, ma dinanzi alla morte, e noi sappiamo la morte cosa rappresenta per
il poeta, sono tutti uguali. Ogni scritto di Jovine, anche quando si interessa come in
questo caso di personaggi squisitamente cittadini, conduce ad un raffronto con la sua
terra e con i suoi corregionali, i suoi scritti sono una continua difesa delle sue radici
contadine e molisane, ma sono anche un monito che lui vorrebbe giungesse alle
orecchie dei molisani e che prendessero da esso lo spunto per poter attuare quella
rivalsa sociale che era il sogno nel cassetto del poeta.
Un ultimo sguardo va dato anche all’opera di traduzione che il poeta compie sugli
scritti di Marziale, Orazio e Montale. Egli compie un viaggio all’interno della
83
produzione dei due poeti latini e del poeta romano, traducendo i loro versi con grande
sagacia e con un pizzico di quella matrice piccante che ha sempre caratterizzato la
produzione vernacolare del poeta molisano. “Chissà se passa u Patraterne”102 è il
titolo di questo gioco che Jovine vuole compiere ponendo una trasposizione di
Orazio, Marziale e Montale a Campobasso. E’ questa un’opera che dichiara la
volontà di Jovine di trasmettere quel messaggio di “rifiuto nei confronti delle
megalopoli emarginanti e disumanizzanti, il ripudio delle meccanicità e della
ripetitività irriflessa di un costume di vita che idealizza e mitizza i beni materiali e il
potere demoniaco del denaro, il vagheggiamento di una realtà popolare semplice e
genuina, fondata su gratificanti relazioni amicali e amorose e il recupero delle
esigenze interiori”103; le stesse idee che si ritrova in tutta la cultura moderna e
contemporanea, partendo da Marx e sino a Marcuse, Adorno ed Horkeimer. Jovine
sceglie questi tre scrittori antichi per compiere questo nuovo esperimento per il tema
comune che essi sviluppano, ovvero, prosegue Jovine, “l’elogio della vita semplice,
del ritorno al paese, della fuga verso la campagna, del rifiuto del consumismo, della
contestazione delle metropoli”104. Se prima con “Benedetti Molisani” aveva messo a
nudo le reali condizioni della sua regione, e se con “Gente alla Balduina” tende ad un
confronto tra metropoli e provincia, in “Chissà se passa u Pataterne” egli completa la
sua opera mettendo a confronto il parlare colto con quello popolare facendo notare la
perfetta resa estetica dell’uno e dell’altro.
102
103
104
“Chissà se passa u Patraterne” – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1991
“Chissà se passa u Patraterne” - Nota di MARIALUISA SPAZIANI – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1991
Ibidem
84
CAPITOLO 7
Un poeta vivo nel ricordo
7.1 Giuseppe Jovine uomo del suo e del nostro tempo di Gaetana PACE
“Grande affabulatore, amico sincero; capace di indignarsi dinanzi alla mediocrità e al
falso perbenismo, tenace nel difendere la sua fede politica; valente critico letterario e
polemista”105. La Pace sente, leggendo il poeta, la sua grande attenzione per la sua
terra, il suo sentirsi emigrante a Roma, ma anche tenace nell’andare alla ricerca di
“quel patrimonio originario che lo faceva sentire parte integrante del suo paese”106. Si
sente la forza della sua parlata dialettale, di cui lui si serve per portare a conoscenza il
“mondo del quotidiano”107 con le sue mille sfaccettature. “Una poesia, quella di
Jovine, che ha le componenti della musica, dell’immagine, del sentimento; che ha il
discorso gnomico alle spalle, convinto come era che fosse possibile produrre poesia
solo se dietro c’è anche un profondo pensiero”108.
7.2 Letteratura
come
racconto
campagna/città,
dialetto/lingua
di
Giose
RIMANELLI
Jovine è il tempio della parola, quella parola dialettale vincolo profondo che lo lega
alla sua terra di Molise. Nel racconto di una telefonata con il poeta, Rinanelli ne
105
106
107
108
Gaetana Pace – I Belli, Quadrimestrale di poesia e di studi sui dialetti – Edizioni dell’Oleandro – Aprile 1999
Ibidem
Ibidem
Ibidem
85
tratteggia gli interessi intorno alla scelta dello stile riguardo alla poesia dialettale. Noi
sappiamo cosa sia per Jovine la parola; e Rimanelli lo stimola proprio su questo
argomento. Un argomento che il poeta molisano condivide con il genovese Franco
Loi. Egli, come Jovine, lascia il suo piccolo borgo per andare a vivere in città, dove
continua la sua produzione vernacolare. Il punto è però sullo stile: basso o aulico? La
risposta Jovine la da con “Chissà se passa un Patraterne”, con le traduzioni in dialetto
molisano di Marziale, Orazio e Montale. Così, per bocca dello stesso Jovine,
Rimanelli scioglie ogni dubbio sulla questione <<[…] non si può misconoscere il
rapporto sotterraneo ed osmotico tra cultura “aulica” e cultura “popolare” al di la dei
presunti processi di “italianizzazione” del dialetto>>109. Ecco allora qual è la vera
poetica joviniana, la ricerca incessante della parola, lo studio dei testi, un lavoro
psicologico da compiere su ogni idioma.
7.3 Il mio amico D’Artagnan di Giose RIMANELLI
Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 4 settembre 1998
<<Pareva fatto di fili di ferro intrecciati e durissimi più che di vene, ma aveva la gran
vena dell’aneddoto comico e finemente licenzioso, di tipo rabelaisiano; della risata
paesana strillata, mista a carezze e sarcasmo, e la scrittura veloce e senza
cancellature; quella tale scrittura propria del mnemonico ingegno che assorbe a volo
libri di ogni tipo e cultura, filosofia e politica, linguistica e letteratura>>. E tali
caratteristiche accomunano Jovine ad Albino Pierro, grande poeta dialettale
meridionale. <<Sempre convergente al rapporto Pierro/ Jovine un’altra indagine di
109
Come detto sopra, qui lo scrittore italoamericano si riferisce ad una conversazione avuta al telefono con il
poeta molisano. Da Studi Italiani 20 – Edizioni Cadmo 1998
86
struggente importnaza andrebbe fatta: e riguarda l’aspetto eroico di speciale icasticità
che essa offre, e uno in grado di evocare il timbro lirico della poesia arabopersiana,
che è oscuratamente morbido. La cosiddetta psicoerotomachia, sempre evidente in
Jovine e in genere nella poesia dialettale del Mezzogiorno, viene con Jovine infitta di
un linguaggio/ metafora ricco di “connotativi”, appunto perché in esso si radica la
struttura semiologica del dialetto dentro la quale filtrano voci di altri linguaggi,
riconducibili per lessicali analogie>>.
7.4.1 Giuseppe Jovine cinque anni dopo di Giose RIMANELLI con nota di Mario
LUZZI
Da Il Quotidiano del Molise Lunedì 8 settembre 2003
<<Ma ora tu mi sei venuto a mancare con dolore che dentro si scava sempre più coi
minuti che passano, perché mi preservavi ancora il Molise con la tua vita baronale e
contadina, coi tuoi racconti licenziosamente sapienti, e con quella tua poesia con la
lacrima e la favola, il rintocco di campane nel sortilegio delle ore, la bellezza e la
paura nella landa molisana assiepata di sterpi e desolato verde. Questo Molise era e
resta il Primo Luogo della tua e della mia vita, concluso già nel farsi dentro di noi e
quindi sacro al di la del travaglio, l’estraniamento, l’emigrazione>>. Rimanelli
conclude, in questo struggente ricordo del suo amico fraterno, tratteggiando le due
qualità migliori della personalità di Peppe: <<La profondità del pensiero che
l’induceva a interrogarsi sulle cose della vita, ch’egli sapeva rappresentare con
indiscusso talento letterario; e la vitalità travolgente con cui sfidava le malinconie in
agguato con una gioia di vivere a tratti addirittura contagiosa>>.
87
7.4.2 Le radici di Jovine di Mario LUZZI
Il maggiore poeta italiano ricorda il poeta molisano nel quinto anniversario della sua
morte scegliendo un tema a lui caro: la sua terra e le sue radici. Prendendo come
esempio alcune poesie del poeta Molisano “Le mie radici”, “Le cose”, “La mia casa”,
Luzzi le nota “pregnanti di significati” ne “Le cose” attraverso “l’elencazione di cose
ed oggetti anche banali e quotidiani rendendole vive e depositarie di significati
profondi ed universali” e ne “La mia casa” esasperando “il sentimento della perdita”
e facendo emergere “un senso di grande umanità e profondo intelletto”.
7.5
Jovine vivo di Domenico FRATIANNI
Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 11 settembre 1998
<<Sanguigno, passionale, tumutluoso, mordace, idillico, ironico: Peppe Jovine era
tutto questo messo insieme>>. Così apre il suo ricordo il maestro Domenico
Fratianni, pittore campobassano, e fraterno amico del poeta. <<Ecco cos’era per me
Peppe Jovine! Una presenza sempre gioiosa anche quando, a volte, montavano i
furori e gli sdegni per viltà ricevute! Un “Don Chisciotte” moderno, gentile, affabile,
disponibile che non si arrendeva mai di fronte alle avversità della vita e che si
divertiva a sbeffeggiare la morte di continuo, quasi a volerla esorcizzare>>.
7.6
In memoria di Giuseppe Jovine110 di Mons Vincenzo FERRARA
110
La commemorazione viene pubblicata in due puntate dal quotidiano molisano. La seocnda parte, uscita
Mercoledì 21 ottobre 1998, reca il titolo “Signore nella parola e nella vita”.
88
Da Novo Oggi Molise Martedì 20 ottobre 1998
Mons. Ferrara, sottosegretario al Dicastero per il culto e i Sacramenti in Vaticano,
declama la sua commemorazione funebre nella parrocchia “Santa Maria Stella
Mattutina” a Roma. Spesso, come lo stesso Jovine amava dire, i due “incrociavano le
spade” sulle pagine della critica storica e letteraria. Jovine aveva interesse letterario
per l’analogia tra fede e poesia di cui Mons Ferrara aveva accennato in una lettera del
Natale del 1965 indirizzata al poeta. Ma quello che poteva sembrare solo in interesse
poetico si trasforma per Mons Ferrara anche in interesse religioso; con l’intento di
cogliere il luogo nascosto della fede nell’animo di un uomo come Giuseppe Jovine.
Mons Ferrara seguirà gran parte della produzione joviniana in quanto il poeta amava
conoscere i giudizi del prelato, in grado ovviamente di inquadrare i suoi scritti anche
all’interno del pensiero cattolico.
7.7
“Il poeta e la sua terra”111 di Pierluigi GIORGIO
<<Mi tornano in mente l’impeto creativo, lo sfavillio ironico degli occhi, la postura,
l’incisività, il piglio sanguigno, l’espressione>>. Perluigi Giorgio era anch’esso un
profondo amico del poeta, al quale viene dedicata una bella poesia sul suo mestiere
di narratore ambulante. Jovine considera Giorgio come lo scrigno prezioso in cui
sono racchiuse tutte le tradizioni della sua terra Molisana.
7.8
Molise orfano di poesia di Pierluigi GIORGIO
111
E’ Questo il titolo di un incontro – ricordo promosso dal sottoscritto per commemorare il primo anno della
scomparsa del poeta, tenutosi a Castelmauro presso il palazzo dello scomparso poeta, organizzato con l’aiuto
dell’Associazione Culturale Padre Giovanni Boccardi
89
Da Nuovo Oggi Molise Sabato 5 settembre 1998
Parlando del riguardo che il poeta aveva nei confronti del suo lavoro di scrittore e
cantastorie, Giorgio ricorda quando si fermava a parlare in via Macrobio a Roma “o
tra i compaesani in Molise, che lo fermavano e che fermava ad ogni istante,
interloquendo, impastando, scandendo e gustando il suo dialetto” Era sempre intento
a cogliere la “molisanità”, ovvero l’ingrediente segreto della sua gente. “Vita e morte
convivevano in lui in serena coscienza e lo affascinavano, così come passione e
tenerezza struggente”. Il comune denominatore tra Giorgio e Jovine è l’amore per i
segreti della loro terra con l’unica differenza che Jovine li immortala nei suoi scritti e
Giorgio li armonizza nella magia delle sue rappresentazioni sceniche.
7.9
Il Molise segreto di Giuseppe Jovine di Giulio de Jorio FRISARI
Da il Tempo venerdì 29 novembre 2002
“La dura pena del vivere è mezzo di arcani significati e strumento che ha permesso
all’immaginazione dell’uomo di costruire segreti e spazi ove proteggere i momenti di
felicità ove nascondere i propri dolori”. Ecco cosa coglie Frisari nella poesia
joviniana, con la quale egli ritrova “Tra le mura delle masserie molisane una
immemorabile ricerca di sogno e di felicità” . Ogni immagine del poeta castelmaurese
lo vede ritratto con lo sfondo della sua terra, aggrappato alle sue radici. “Il senso della
fatica, il senso della sopravvivenza che si dispera e gode è stato avvertito nella
costruzione biblica del messaggio poetico di Giuseppe Jovine in cui il confronto con
la morte non ha mai ceduto alla lusinga estetizzante ma ha composto le parole con la
90
saggezza che soltanto il senso della responsabilità civica nei rispetti della storia e
dell’umanità poteva dare: esso si configura come un raro riferimento educativo”.
7.10 Se n’è andato l’ultimo poeta di Antonio SORBO
“Un tramite importante tra il Molise e la cultura nazionale, grazie al suo lavoro (come
collaboratore a Paese Sera) e ai suoi contatti (come il sodalizio con Tommaso
Fiore)”.
7.11 Roma ricorda Giuseppe Jovine di Massimo NARDI
Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 15 ottobre 1999
“Fuor di metafora, Giuseppe Jovine non poteva considerarsi certo un poeta romano,
tanto la sua vena poetica era pervasa dall’identificazione con le radici del suo Molise,
con i suoi colori, i suoi odori, il rintocco di campane perdute, eppure la sua molisanità
racchiudeva un significato universale che ha lasciato un segno profondo anche
nell’ambiente culturale della capitale. Perché del mondo culturale romano Giuseppe
Jovine era, a tutti gli effetti, un protagonista”.
91
APPENDICE
Conobbi personalmente il Prof. Giuseppe Jovine nel 1995, per una intervista su un
foglio cittadino intitolato “Che c’azzecca”. Trascorsi con lui un piacevole
pomeriggio, discutendo di poesia e di Molise. Uscendo dal Palazzo, sulla piazza del
paese, lo vedevo affaccendato con chiunque, sempre pronto alla battuta mordace e
licenziosa, senza però mai scadere nel volgare. Tempo dopo, per via di una lettera che
correggeva alcuni errori presenti nella sua intervista, iniziammo una corrispondenza
che si interruppe drasticamente nell’estate del 1998.
Così volli ricordarlo all’incontro – memoria che si tenne nel Palazzo nel novembre
del 1999, intitolato “Il Poeta e la sua terra”.
ODE A GIUSEPPE JOVINE
E quel raggio di sole giallo,
misto d’un caldo azzurro cielo,
bagnava di splendore la vita, là,
in quell’eterno paese or ora acceso
di un rosso infuocato, or ora tinto
di un verde speranza. E così, tra un misto
di colori, volgeva lo sguardo
alla sua gente il poeta: così, mentre
un uomo sudava il suo pane, una donna
l’amor dell’amato, un bimbo l’affetto di una madre.
È lontano ormai quel tempo;
distante come un volo di gabbiano
tra onde e onde,
come un volo d’aquile
tra cime e cime.
E la montagna dorme sommessa
92
mentre, tra un misto di colori,
volgeva lo sguardo alla sua terra
il poeta. E tu, vecchio amico d’infanzia
mancato; e tu, maestro di tanti ricordi e
di sogni, che unisci l’argilloso e impavido futuro
al glorioso e ferreo passato,
ascolta il mio pianto.
I prati in fiori sorridono mentre,
tra un misto di colori,
volgeva lo sguardo alla sua gente
il poeta. Con spade di ferro e petali
di rose, per nemici e fratelli,
alzava gli occhi al cielo turchino
di quell’eterno paese: or canto libero
d’un poeta, or affannosa e desiosa
preghiera d’un uomo. Infinito è il
risveglio della natura mentre,
tra un misto di colori;
volgeva lo sguardo alla sua terra
il poeta. Qual angelo in seno crescesti,
Casteluccio mia?; quale pensiero formasti
al suo grido misto d’incommensurabil
amore, e di fraterno odio? E così,
nell’amore e nell’odio, tra un misto
di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente
il poeta. E ora che tu, cielo, t’imbianchi
e che porti dipinto d’azzurro il suo nome,
sento nel cuore uno struggente ed eterno
tintinnio di campane; e il pensiero mi porta
lontano, tra valli sperdute di viti e d’acqua
di sorgenti, a svelare la sua nuova dimora
ai suoi sogni. E così un ricordo si tuffa
impaziente nell’animo mentre, tra un misto
di colori, volgeva lo sguardo alla sua terra
il poeta. E non solo l’eterno e sconfinato
mormorio del passato rimpiange
le or meste or pesanti parole;
e quel lieve raggio di sole già
guarda nei suoi occhi lo spuntar della
luna. E così trascorre la vita
mentre, tra un misto di colori,
volgeva lo sguardo alla sua gente
il poeta. Ricordalo ora, tu, uomo
che sudi il tuo pane; ricordalo ora, tu,
93
donna che cerchi l’amore dell’amato;
ricordalo ora, tu, bambino che cerchi un affetto di madre.
Ricordalo ora, tu, mio cuore,
padrone dei più lunghi sospiri:
ricorda il suo genio, ricorda la sua arte;
or cerca l’uomo, ora il poeta. E così
una lacrima scende mentre,
tra un misto di colori,
volgeva lo sguardo alla sua gente
il poeta. Or piangi morte nemica,
che strappasti al sua voce alla sua
terra; tormentati nell’affanno del tuo vile
coraggio, tu che prendesti, furtiva,
il suo cuore. Ahi! piangete piccole e misere
stelle mentre, tra un misto di colori,
da lassù, volge lo sguardo alla sua gente
il poeta.
Gianluca Ricciardi
17/10 1998
al prof. Giuseppe Jovine
94
BIBLIOGRAFIA E PUBBLICAZIONI
95
Opere dell’autore
Sezione A -Poesia dialettale 1. Lu Pavone – Edizioni Enne – Campobasso 1983
2. Chissà se passa u Patraterne – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1992
3. The peackok and the scraper – Edizioni Peter Lang – New York 1993
Sezione B -Poesia in lingua 1. Tra il Biferno e la Moscova – Cartia Editore – Roma 1975
2. Viaggio d’inverno – Edizioni Enne – Campobasso 1999 (postumo)
Sezione C –Racconti1. La luna e la montagna – Adriatica Editore – Bari 1972
2. La sdrenga -– Edizioni Enne – Campobasso 1989
3. Cento proverbi e detti di Castelluccio Acquaborrana – Edizioni Enne –
Campobasso 1991
Sezione D - Saggistica 1. La poesia di Albino Pierro – Il nuovo Cracas – Roma 1965
2. Benedetti Molisani – Edizioni Enne – Campobasso 1979
3. Gente alla Balduina – Gli specchi Marsilio – Roma 2005 (postumo)
Sezione E - Articoli su giornali e riviste Da “Il Paese”
1. A colloquio con Pejerfitte
24/05/1949
2. Su Paul Gogain
21/02/1950
96
3. Morte del diavolo
07/05/1950
4. Notturno romano
13/12/1950
5. Le prime edizioni giornalistiche
11/07/1951
6. Il gusto del canto e della poesia nel Molise
06/02/1952
7. Indagini su Leonardo
07/06/1952
8. Nascita e condanna del “Santo” di Fogazzaro
21/08/1952
9. Florilegio “atlantico”
07/11/1952
10. I canti molisani
25/02/1954
11. L’oboe prigioniero
12/11/1954
12. Donne e costumi di altri tempo
24/12/1954
13. Il simbolismo
27/01/1955
14. Umanità di Wilde
14/02/1955
15. Un duello celebre
22/03/1955
16. Lawrence d’Arabia
18/10/1955
17. La pedagogia di Makarenko
07/11/1955
18. Il dramma di Kierkegaard
24/04/1956
19. L’opera di Igino Petrone
14/05/1956
20. Sigmund Freud
06/06/1956
21. Le crudeltà storiche
22/06/1956
22. Un poeta molisano
26/06/1956
23. Viaggio nel Molise
27/09/1956
24. Una biografia di Kafka
22/02/1957
97
25. La chiesa di Canneto
30/05/1957
26. Roger Pejerfitte
13/06/1957
27. Il cavallo di Don Tito
12/01/1958
28. La poesia di Pierro
04/03/1958
29. La sogliola
25/06/1958
30. Il cappello verde
10/10/1958
31. Atlantismo
12/02/1959
32. Leopardi e la luna
21/02/1959
33. Il romanzo italiano
10/06/1960
34. Poeti molisani
02/09/1960
35. Le vicissitudini vaticane del “Santo” di Fogazzaro
31/03/1961
36. Lingua e dialetto di Ippolito Nievo
26/04/1961
Da “Paese Sera”
1. La nostalgica poesia di Pierro
07/09/1976
2. L’antica festa della radeca
06/11/1976
3. Indimenticabile scorribanda nel Molise con T. Fiore
30/12/1978
4. Un romanzo di Giose Rimanelli
14/01/1979
5. Futuristi e crepuscolari
20/02/1979
6. La poesia di Cerri
04/09/1979
7. Per lui il sesso non era tabù
20/03/1981
8. Simboli di un potere
27/11/1983
9. L’amore abruzzese è vino da nulla
08/12/1983
98
10. Il moralismo di Francesco Jovine
18/02/1984
11. L’ira sacra di Tommaso Fiore
18/02/1984
12. Cofelice non si nutre più di dialetto
20/06/1984
13. Tornar di notte come un grillo
09/05/1984
14. Il molisano cantò l’amore l’emigrazione…
17/07/1984
15. Più il liceale deve ignorar la poesia più…
05/09/1984
16. Le lotte contadine nel secondo dopoguerra
22/10/1984
17. Morte del dialetto, viva il dialetto
28/01/1985
18. Romaccia dal corpo malato
17/01/1985
19. Il compromesso tra lingua e dialetto
28/01/1985
20. Un metodo per girare Roma stando all’ombra
04/08/1985
21. Agrigento discute di Pirandello
29/12/1985
22. Fate luce sul poeta dialettale
27/03/1986
23. Una storia d’amore e rivoluzione
04/04/1986
24. Il meridione tra riso e dolore
15/07/1986
25. Grillandi lo ricordo così
08/01/1986
26. La piuma sul tetto
30/08/1988
Da “Momento Sera”
1. Casa romana dell’Acquaiolo
07/09-1949
2. Lo spadone di Zurlino
16/11/1978
Da “La Repubblica”
1. La poesia di Ungaretti
05/02/1949
99
Da “La Fiera Letteraria”
2. Amore di terra
anno 49 n°32 12/08/1973
3. Poeti toscani
anno 50 n° 13 31/03/1974
4. Casa Repaci
anno 51 n° 16 20/04/1975
5. Orazio Belli
anno 52 n° 63 14/03/1976
6. Un romanzo di D’Acunto
anno 52 n° 67 11/04/1976
7. Poesie di Renzo Barzacchi
anno 53 n° 108 26/09/1976
8. L’ultimo Pierro
20/02/1977
Da “Il Risveglio del Mezzogiorno”
1. Love story best seller
n°2/1971
2. Poesie dal carcere
n°3/1971
3. La poesia dialettale molisana
n°4/1971
4. Mosca
n°4/1971
5. La psicologia del fascismo
n°5/1971
6. La filosofia della reazione
n°6/1971
7. Una giornata di Ivan Demisovic
n°6/1971
8. La cultura meridionale
n°3/1972
9. Capire la Cina
n°6/1972
Da “Critica Letteraria”
1. Poesia romanesca
n°12 pag.613/1976
2. Graffiti di G. Rimanelli
n°20 pag.628/1978
3. Meridionalità e magia nella poesia di Pierro
n°22 pag99-116/1979
100
4. Nascita della poesia dialettale di A. Piero
n°90 pag.429-469/1996D
Da “Crisi” l’uomo della letteratura
1. Ricordo è amore
n°19-21 aa.11° G-Dic1971
Da “Misure Critiche”
1. L’avventura umana e letteraria di Giose Rimanelli
n°65-67 aa17-18 pag.19
Da “Produzione e cultura”
1. Dibattito precongressuale
2. La difesa del dialetto
3. Piattaforma politica 16° Congr. Naz
4. Intervento 16° Congr. Naz
5. Questioni di dialetto
anno I n°4 pag.66/1986
anno IV pag.60-63/1990
anno V n°1-2 pag. 5-16/1991
anno V n° 3-4 pag.26/1991
anno VII n°3-4 pag.34/1993
6. Le sorti del libro a Roma e in Italia
anno VII N°5-6 PAG.20/1993
7. Sulle traduzioni
anno VIII n° 1-2 pag.43/1994
8. Verso il congresso del S.N.S.
anno VIII n°3-4 pag.8 /1994
9. Giallo a Stoccolma
anno VIII n°5-6 pag.28 /1194
10. Dialettalità della poesia: Pierro
annoIX n°1-2 pag. 12-13/1995
11. Il premio Nobel e altro a Stoccolma
anno IX n°4-5 pag.36-37/1995
12. Dell’eleganza
anno IX n°4-5 pag.23-24/1995
13. Un caso di persecuzione burocratica
anno IX n°2-3 pag.7-8/1997
14. Tra Stoccolma e l’Italia
anno X n°2-3 pag.7-8/1997
15. Sulle condizioni dello scrittore in Italia
anno X n°4 pag.36-37/1997
101
Da “Nord e sud”
1. L’avventura umana e letteraria di F. Jovine
2. Albino Pierro. Ricordo di un poeta
anno 37°n°4,pag.59-74/1990
anno42°pag.92-100/1995
Da “Volume Tradizioni popolari, Atti 1° Congresso Internazionale
1. Rapporto tra arte popolare e arte colta Metaponto Lido23-24/05/1986 pag.63-68
Da “Nuovo Mezzogiorno”
1. Essere se stessi
anno15°n°10 pag.24-24/1972
2. Cultura e società molisana
anno23° n°9 pag.25-28/1980
Da “Rassegna delle Tradizioni Popolari”
1. In difesa del dialetto
2. Ricordo di A. Dommarco
3. Benedetti Molisani
4. Legge l’Etrusco attraverso l’Albanese
5. Chissa se passa u Patraterne
anno4°n°2 pag.15/1991
anno 10°pag.16/1997
anni 10° pag16-17/1997
anno4°pag7/1991
anno5° n°4, pag.2-6/1992
Da “Molise”
1. Benedetti Molisani
anno 1° n°1 pag.48-56/1977
Da “Molise Oggi”
1. Tra gli immigrati molisani in Belgio
25-10/1981
2. Tra gli immigrati molisani in Germania
01/08/1982
3. Avventura a Gadames
4. Spettacolo e scienza da Termoli a Roma
n°31-32 pag.11/1981
16/06/1985
Da “Mediterraneo”
102
1. Complementarità delle culture linguistiche
n°5pag.20-23/1989
Da “IL vetro” Convegno di Chianciano 1995
1. Creatività del dialetto
vol.1-2pag154/1996
Da “Atti 1° Convegno Espressione Latina. Su quali valori ricerca l’uomo…
2. Complementarità delle culture linguistiche
pag.44-48/1986
Da “La Lapa”
1. Danze a Castelmauro
pag.23-24/1955
Da “IL Risveglio del Molise”
1. Su Igino Petrone
1964
2. Fuoco alle batterie
1966
3. Vergogna!
1966
4. Crucifige, Crucifige
1967
4a. In viaggio nell’Unione Sovietica
1967
5. Isernia, capoluogo di provincia
1967
6. Ricordo di C. Marinelli
1968
7. I Bulgari nel Molise
1968
8. Il Canto dell’Emigrante
1968
9. I cicalamenti di San Vincnezo
1968
10. Benedetti Molisani
1969
11. Il Molise nelle indagini di Felice Del Vecchio
1969
12. La luna e la provincia
1969
13. Viaggio in Molise con Tommaso Fiore
1969
103
14. Pierro in Alaska
1970
15. Amico Borrelli…
1970
16. Ricordo di G. Cerri
1970
17. Discorso sulla poesia dialettale molisana
1971
18. Ricordo di T. D’Amico
1972
19. Tra gli emigranti molisani in Svizzera
1972
20. La vessata questione dell’Università Molisana
1973
21. Guglionesi e la chiesa di San Nicola
1973
22. Il mondo antico di R. Tullio
1977
23. Il Convento
1977
24. Invito a conoscere il Molise
1977
25. Cultura e società molisana
1982
26. Ricordo di M Marracino
1982
27. I giovani molisani e la cultura
1982
28. L’uomo e l’artista (M Scarano)
1986
29. Il P.C.I. allo specchio
1986
30. Ritorno di G. Rimanelli
1987
31. Un castello per la cultura
1987
32. Il mito di Roma nei poeti e scrittori
1988
33. Cupini, da medico a scrittore
1988
34. Cara Italia, tuo Molise
1988
35. Moliseide di G. Rimanelli
1991
104
36. La pittura di D. Fratianni
1992
Da “Socialismo democratico”
1. La pena dei ricordi…
1964
2. Gli scrittori e il romanzo sceneggiato
1965
- Altri scritti1. Non ci sta - Il cavallo di Troia 1982
2. Coraggiosa maestra di Campagna – L’Unità 1988
3. È possibile ridare autorità al sapere? – Tuttoscuola 1980
4. Insegnamento confessionale e non - Scuola e didattica 1981
5. Informaitca e scuola – Computer 1990
6. L’orologio del Pincio – Lares 1982
Da “Letteratura italiana del 900: Il ritorno di Giose Rimanelli –pag.1063-1069Editore Marzoratti 1989
Da “Il Tempo Molise”
1. Morire è peccato
2/11/1993
2. Mani pulite in Molise
08/10/1993
3. Le tre povertà del Sud in crisi
03/1994
Bibliografia critica
- Antologie 1. GABRIELE DI GIAMMARINO, Il dialetto di Jovine, “ L’atrio delle Muse” –
Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1969
105
2. ANDREA CALARCO – GABRIELE DI GIAMMARINO – MARIO TICCONI ,
Momenti, “Antologia italiana per le scuole medie” – Vol.1° - Edizioni Fratelli
Conte, Napoli 1972
3. ANDREA CALARCO -GABRIELE DI GIAMMARINO – MARIO TICCONI,
Comunicare con… “Antologia italiana per le scuole medie” – Vol.2° - Edizioni
Fratelli Conte, Napoli 1980
4. GABRIELE DIGIAMMARINO – MARIO TICCONI, Mille pagine - Edizioni
Loffredo, Napoli 1988
5. R MAGHERESCU, Scrittori del Messaggio, “Antologia Autori Italiani e
Romeni” –Edizioni Istar, 1995
6. Spazio totale, “Antologia del 3° reading di Poesia Contemporanea” – Edizioni
Tracce
7. FRANCO LOI - DAVIDE RONDONI, Il pensiero dominante, “Antologia Poesia
Italiana” – Edizioni Garzanti 2001
- Dizionari –
1. LUIGI BONAFFINI, “Dictionary of Literary Biography” – Vol.128 – New York
1992
2. LUIGI BONAFFINI, Twentieth – Century Italian Poets, “Dictionary of Literary
Biography” – Second series – New York 1992
3. VINCENZO ROSSI, Giuseppe Jovine, “Dizionario dei poeti del 2000 – Edizioni
Latmag, Bolzano 1993
- Giornali e riviste –
1. P. ALTOBELLI MASCIANGELI, Le traduzioni in dialetto di Giuseppe Jovine,
“La Ginestra” – San Vito Chietino, gennaio 1944
2. RAFFAELE BIONDI, Contributo alla conoscenza di Pierro, “La gazzetta nuova
di Reggio” – 5/10/1965
3. SABINO D’ACUNTO, Un saggio di Jovine su Pierro, “La Tribuna del Molise” –
Roma, 31/07/1965
4. GIULIANO MANACORDA, Un libro su Pierro, “Paese sera” – 06/08/1965
5. FRANCO SIMONGINI, Un saggio su Pierro, “Socialismo Democratico” –
Roma, 27/02/1966
6. EMILIO CECCHI – NATALINO SAPEGNO, Storia della letteratura italiana, “Il
Novecento” – pag.990. – Edizioni Garzanti, 1968
7. F GABRIELLI, Studi su Pierro, “Il Messaggero” – 11/04/1968
8. TOMMASO FIORE, Introduzione alla prima edizione de Lu Pavone- Edizioni
Adriatica – Bari, 1970
9. TOMMASO FIORE, Un autentico poeta, “Il Risveglio del Mezzogiorno” – Bari –
Marzo-Aprile 1970
106
10. SABINO D’ACUNTO, Un libro di Jovine sul Molise, “Molise Oggi” –
Campobasso, 20/02/1970
11. MASSIMO GRILLANDI, La Poesia di Jovine, “Il Risveglio del Mezzogiorno” –
22/06/1970
12. SABINO D’ACUNTO, Lo stilnovismo di Jovine, “Echi d’Italia” – Roma 1971
13. GIANNI BARRELLA, La vocazione del romanzo, “Il Giornale d’Italia” –
08/11/1972
14. TOMMASO FIORE, Prefazione a La Luna e la Montagna, Edizioni Adriatica –
Bari 1972
15. PAOLO GIOVANNELLI, Giuseppe Jovine narratore, “Attraverso l’Abruzzo” –
Pescara – Ottobre 1972
16. WALTER MAURO, Dove va la cultura meridionale?, “Scrittori del Sud” –
Edizioni Nuovo Mezzogiorno – Roma, Ottobre 1972
17. MASSIMO GRILLANDI, I racconti di Giuseppe Jovine, “Il Ponte” – 31/03/1973
18. IRENE MARUSSO, I racconti di Jovine, “Il Faro” – Palermo 03/10/1973
19. SALVATORE MOFFA, I racconti di Jovine, “Il Risveglio del Molise” – Roma –
Marzo 1973
20. MASSIMO GRILLANDI, Prefazione a Tra il Biferno e la Moscova, “Tra il
Biferno e la Moscova” - Edizioni Cartia – Roma 1975
21. MARIO LUNETTA, Linea meridionale della poesia di Jovine, “L’Unità” –
15/12/1975
22. LUIGI VOLPICELLI, Premessa a Tra il Biferno e la Moscova, “Tra il Biferno e
la Moscova” - Edizioni Cartia – Roma 1975
23. MARIO POMILIO, La narrativa del Molise, “Il Tempo” – 27/06/1975
24. TITINA SARDELLI, “Narratori Molisani” – pag.165 – Edizioni Marinelli –
Isernia 1975
25. GIANNI BARRELLA, Il Molise emblematico di Giuseppe Jovine, “Il Giornale
d’Italia” – 16/03/1976
26. TITINA SARDELLI, “Poeti Molisani” – pag.55 – Edizioni Marinelli – Isernia
1977
27. UGO REALE, Benedetti Molisani, “Nuovo Mezzogiorno” – Maggio 1979
28. ANDREA DE LISIO, Benedetti Molisani, “Oggi e Domani” – Pescra, 08/08/1979
29. PITRO CIMATTI, Premessa a Benedetti Molisani, “Benedetti Molisani” –
Edizioni Enne – Campobasso 1979
30. VINCENZO FERRARA, Benedetti Molisani, “Molise Oggi” – Campobasso,
23/03/1980
31. FRANCESCO D’EPISCOPO, Benedetti Molisani, “Critica Letteraria” – n°29 –
Napoli 1980
32. TOMMASO FIORE, Gli studi di Jovine su Pierro, “Lettere ad Albino Pierro”
curate da Aldo Rossi e Paola Sgrilli su “Poliarma” Edizioni Cappelli, 1980
33. MARIO GABRIELE, I racconti di Jovine, “Poeti del Molise” – Edizioni Forum –
pag.46 – Forlì 1981
34. MARIO GABRIELE, La poesia di Jovine, “Poeti del Molise” – Edizioni Forum –
pag. 7 – Forlì 1981
107
35. ANTONIO MOTTA, Omaggio a Pierro, - pag.22 – Edizioni Licata – Manduria
1982
36. TULLIO DE MAURO, Premessa a Lu Pavone, “Lu Pavone” –Edizioni Enne –
Campobasso 1983
37. STEFANO GENSINI, La poesia in molisano di Jovine, “Paese Sera” –
01/07/1984
38. SALVATORE MOFFA, La poesia di Jovine, “Nuova Dimensione” – Isernia 1984
39. NICOLA IACOBACCI, Lu Pavone, “La Scuola Molisana” – Campobasso –
03/06/1985
40. P SERARCANGELI, La Poesia di Jovine, “Il Calandrino” – Roma – 21/08/1985
41. FRANCESCO D’EPISCOPO, Il racconto poetico di Jovine, “Nuovo
Mezzogiorno” – n°3, anno 28 – Marzo 1985
42. GIULIO CARLO ARGAN, “Premessa al saggio su Marcello Scarano” – Edizioni
Scarano – Cassino, 20/09/1985
43. RENZO BRESCIANI, La lezione di Jovine, “Il Giornale di Brescia” – 29/10/1985
44. FRANCO SIMONGINI, La pittura di Marcello Scarano, “Il Tempo” 07/03/1986
45. GILDA ANTONELLI, Lu Pavone, “Il Tratto d’Unione” – Brindisi – 1986
46. UGO REALE, Undici poeti del Sud, “Nuovo Mezzogiorno” – 07-04/1986
47. ORAZIO TANELLI, La poesia di Jovine, “Nuova Dimensione” – Isernia –
Ottobre 1986
48. ETTORE PARATORE, Il Convegno di Tursi, “Il Tempo” – 30/06/1986
49. PIETRO TRIVELLI, Incontro con Jovine, “Il Messaggero” – 08/03/1988
50. CARLO LAURENZI, Narrate la nostra storia, “Il Giornale” – 29/10/1990
51. NICOLETTA PIETRAVALLE, La Sdrenga, “Il Tempo” – 17/05/1991
52. M DI TOMMASO, La Sdrenga, “Molise Oggi” – Campobasso – n°28 –
20/07/1991
53. RENATO CIVELLO, Se Orazio e Marziale parlassero in dialetto, “Il Secolo” –
17/05/1992
54. FRANCESCO D’EPISCOPO, La Passione e la Parola, “Oggi e Domani” –
Pescara 1992
55. FRANCESCO DESIDERIO, Le Traduzioni in dialetto di Jovine, “Oggi e
Domani” – Pescara 1992
56. CARMELA DI SOCCIO, L’ennesima avventura di Jovine, “Corriere del Molise”
– 16/04/1992
57. ROSANNA JACOVINO, Il Molise di prestigio, “Forche Caudine” – 27/02/1992
58. MICHELA MASTRODONATO, Lu Pavone, la Perla del Molise, Bologna 1992
59. MARIO GRAMEGNA, La poesia di Jovine, “Letteratura Dialettale Molisana” –
pag.153 – Edizioni Cultura e Sport – Campobasso 1993
60. ANTONIO GIAMPIETRO, Orazio Flacco nella traduzione dialettale di Jovine,
“Rassegna delle Traduzioni Popolari” – pag. 30. – Gravina di Puglia 1993
61. GILDA ANTONELLI, Lu Pavone, “Il Ponte Italo Americano” – 1993
62. LUIGI BONAFFINI, Introduzione a The Peacock – The Scraper, “The Peacock
and The Scraper” – Edizioni Peter Lang – New York 1993
63. DARIA GRIMANI, Il Molise che non va, “Forche Caudine” – 1993
108
64. LUIGI BONAFFINI, Introduzione a Poesia dialettale del Molise, Edizioni
Marienelli – Isernia 1993
65. IRENE MARUSSO, La poesia di Jovine, “Il Giornale di Sicilia” – 09/04/1993
66. SEBASTIANO MARTELLI, I racconti di Jovine, “Letteratura delle Regioni
d’Italia – Molise” pag. 46,51,52,55,56,70,71,139,233,235 – Edizioni La Scuola –
Brescia 1994
67. Al bar con lo scrittore Jovine, “Il Tempo Molise” – 08/12/1994
68. F. DE NICOLA – GIULIANO MANACORDA, Poesia in Italia nel 1995, “I
Limoni” – pag. 153- Edizioni caramanica – 1995
69. LUIGI BONAFFINI, Worl Literature Today, “A Literary Quarterly of The
University of Oklahoma” – pag. 281-282, 287-288 – Maggio 1997
70. FRANCO LOI, Versi scaturiti tra i sassi e gli sterpi, “Il Sole 24 ore” –
05/01/1997
71. ANTONIO SORBO, Se n’è andato l’ultimo poeta, “Nuovo Molise” –
Campobasso - 30/08/1998
72. PITRO CORSI, Peppe jovine se n’è andato, ricordo di un amico, “Nuovo Molise”
– Campobasso – 01/09/1998
73. SERGIO BUCCI, Quel Benedetto Molisano, “Nuovo Molise” – Campobasso –
01-09/1998
74. GIOSE RIMANELLI, Il mio amico D’Artagnan, “Nuovo Molise” – Campobasso
– 04/09/1998
75. RITA FRATTOLILLO, Peppe picaro e gentiluomo, “Nuovo Molise” –
Campobasso – 04/09/1998
76. PIERLUIGI GIORGIO, Molise orfano di poesia, “Nuovo Molise” – Campobasso
– 05/09/1998
77. DOMENICO FRATIANNI, Jovine vivo, “Nuovo Molise” – Campobasso –
11/09/1998
78. GIOSE RIMANELLI, Omaggio inedito, “Nuovo Molise” – Campobasso –
11/09/1998
79. VINCENZO FERRARA, In Memoria di Giuseppe Jovine, “Nuovo Molise” –
Campobasso – 20/10/1998
80. VINCENZO FERRARA, Signore nella parole e nella vita, “Nuovo Molise” –
Campobasso – 21/10/1998
81. MASSIMO NARDI, Gli amici dell’UNS ricordano Giuseppe Jovine, “Notiziario
dell’Unione Nazionale Scrittori” – anno1°, n°24 –Novembre 1998
82. CARLO JOVINE, Un ricordo di mio padre, “Nuovo Molise” – Campobasso –
19/11/1998
83. FRANCA MARTINO, L’Ultimo viaggio di Giuseppe Jovine, “Musa Romana” –
anno 1°, n° 2 – Novembre 1998
84. ANTONIO PASQUALE, Quel Benedetto Molisano di Jovine, “Musa Romana” –
anno 1°, n°2 – Novembre 1998
85. GIOSE RIMANELLI, Letteratura come racconto, campagna- città, dialettolingua, “Studi Italiani” – pag.155-182 – anno X – Edizioni Cadmo 1998
109
86. GIOSE RIMANELLI, A Peppe jovine tra canto ed aneddoto, ovvero frammenti di
un discorso in corso… , “Gradiva” – Vol.7, N°1 – Pag.63-85 – 1999
87. GAETANA PACE, Giuseppe Jovine, un uomo del suo e del nostro tempo, “Il
Belli” – pag.75-76, n°1 – Aprile 1999
88. S FOLLIERO, Ricordando Giuseppe Jovine, poeta e narratore, “Pomezia
Notizie” – pag.5 – Aprile 1999
89. IVO DAVID, Poeti molisani contemporanei, “Il Ponte Italo – Americano” –
pag.5-6, anno 10°, n°3 – Maggio 1999
90. VINCENZO FERRARA, In Viaggio d’Inverno, lo Jovine…cristiano, “Nuovo
Molise” – Campobasso – 25/06/1999
91. VINCENZO FERRARA, Finalità pedagogiche della poesia di Jovine, “Nuovo
Molise” – Campobasso – 02/07/1999
92. VITTORIA TODISCO, Un premio nazionale di poesia intitolato a Peppe Jovine,
“Nuovo Molise” – Campobasso – 30/05/1999
93. CARLO JOVINE, Mio padre Giuseppe Jovine, poeta per stile di vita, “Il Tempo”
– 13/10/1999
94. MASSIMO NARDI, Roma rende omaggio alla poesia del Molise, “Il Quotidiano
del Molise” – Campobasso – 19/10/1999
95. MASSIMO NARDI, Roma ricorda Giuseppe Jovine, “Nuovo Molise” –
Campobasso – 15/10/1999
96. Il Premio Nazionale di Poesia in memoria di Giuseppe Jovine, “Nuovo Molise” –
Campobasso – 06/08/2000
97. I vincitori del premio Jovine, “Il Messaggero” – 25/08/2000
98. Il Premio Jovine, “Il Mattino” – 22/08/2000
99. Assegnato il Premio Jovine, “L’Avvenire” – Roma 22/08/2000
100. I vincitori del Premio Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 26/08/2000
101. Assegnato il Premio Jovine, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso –
27/08/2000
102. FRANCESCO D’EPISCOPO, Nel labirinto delle passioni, “Il Quotidiano del
Molise” – Campobasso – 27/08/2000
103. CARLO JOVINE, Mio padre, poeta per stile di vita, “Il Quotidiano del
Molise” – Campobasso – 27/08/2000
104. Il Premio Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 27/08/2000
105. Ricordando il poeta gentiluomo, “Nuovo Molise” – Campobasso – 03/09/2000
106. MARIO DI NUNZIO, Giuseppe Jovine, o della passione e della pietas,
“Novecento Molisano” – pag.133-143 – Edizioni Palladino – 2001
107. La poesia dialettale, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso- 18/08/2002
108. CAMILLO VITI, Il Premio Jovine, “Il Tempo” – 01/09/2002
109. GIULIO DE JORIO FRISARI, Ricordando lo scrittore Giuseppe Jovine, “Il
Tempo Molise” – Campobasso – 20/11/2002
110. GIULIO DE JORIO FRISARI, Il Molise segreto di Giuseppe Jovine, “Il
Tempo” – 29/11/2002
111. MARIO LUZZI – GIOSE RIMANELLI, Giuseppe Jovine cinque anni dopo,
“Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 08/09/2003
110
A mio padre Vincenzo e mia madre Teresa che non mi hanno mai fatto mancare il
loro sostegno, a nonna Maria Donata che ha trepidato insieme a me ad ogni esame.
A Giulia, Simona e Caterina, preziose collaboratrici in terra d’Abruzzo; ed
Annamaria Iorio che non mi ha mai negato la propria ospitalità nelle vigilie
importanti.
A Vincenzo Iuliano, futuro e promettente architetto, che mi ha aiutato a superare
l’esame più difficile, quello di Storia dell’Arte.
Un saluto particolare a Bonfitto Michelina e Straniero Enrico che mi hanno fatto
sorridere in un momento non proprio felice.
A tutti coloro che mi hanno sopportato non facendomi mai mancare amicizia e
comprensione.
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“ A Domenico Mancini, marito fedele, padre affettuoso e nonno