DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA
Come e perché nasce un partito
Roma 2014
Questo libretto è stato curato amichevolmente dalla Fondazione Nuovo Millennio – Per una Nuova Italia (www.perunanuovaitalia.it). Ad essa e al suo presidente, Prof. Pellegrino
Capaldo, rivolgiamo un vivo ringraziamento.
democrazia partecipativa
Via Pierluigi da Palestrina, 63 – 00193 Roma
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INDICE
Premessa
1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
2. Il fallimento del leaderismo
3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione
4. Le regole che ci siamo dati
5. L’Italia ha bisogno di un «Progetto-Paese»
6. Un Progetto per il nostro Paese
I. Il ruolo dell’Italia nel mondo globale
7. Un Progetto per il nostro Paese
II. Una nuova macchina amministrativa
8. Un Progetto per il nostro Paese
III. Un nuovo welfare
9. Tra sviluppo e welfare
10. Per un welfare migliore
I. La destatalizzazione
11. Per un welfare migliore
II. Un’infrastruttura sociale sul territorio
12. Oltre lo Stato, la persona
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PREMESSA
Per leggere con attenzione questo libretto occorre
poco più di un’ora. Per dargli una scorsa e capirne il
senso basta un quarto d’ora.
Pensiamo che almeno 15 minuti valga la pena di
dedicarglieli, anche se tratta di un argomento – la
politica – che a molti ormai fa venire in mente solo
corruzione, ipocrisia, interessi di casta, ecc.
Vorremmo esortarvi a leggerlo perché della politica
– ci piaccia o no – non possiamo fare a meno. Del
resto se il nostro Paese è ridotto come è ridotto, forse
la causa va ricercata proprio nel disinteresse, e talora
nel disprezzo, con cui la maggior parte di noi ha
guardato alla politica.
In queste nostre riflessioni non c’è nessun accenno
a questioni di politica estera. Non è una lacuna
involontaria; è una scelta. Siamo convinti, infatti, che
il nostro Paese non abbia oggi la credibilità necessaria
per interloquire sui grandi temi internazionali, che
pure sono di grande importanza e hanno bisogno, a
loro volta, di un profondo ripensamento. Nessuno,
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certo, ci impedirebbe di dire la nostra. Tuttavia siamo
convinti che, se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo
dimostrare innanzitutto di saper mettere ordine
all’interno del nostro Paese.
Se, dopo aver letto quest’opuscolo, avrete qualcosa
di utile da suggerirci, saremo lieti di riflettere sulle
vostre osservazioni.
Democrazia Partecipativa
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DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA
Come e perché nasce un partito
1.
PERCHÉ NASCE
«DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA»?
Nasce «�����������������������������������������
»
tito politico. La decisione giunge a conclusione di
un ampio dibattito, iniziato nel mese di luglio con
una grande Assemblea Popolare, che ha visto la partecipazione (diretta o indiretta) di oltre trentamila
persone, e ha fatto emergere sia l’estrema gravità dei
problemi del Paese che l’inadeguatezza delle forze
politiche in campo.
L’attuale governo mostra di non aver compreso la
drammaticità della situazione e di non aver alcuna
idea sulla scala delle priorità. La disoccupazione
e la connessa povertà hanno raggiunto livelli che
fino a qualche anno fa nessuno osava nemmeno
immaginare, e che sono destinati a diventare ancora
più drammatici, perché in questi giorni si calcola
che molti di coloro che oggi hanno ancora un lavoro
rischiano di perderlo da un momento all’altro.
Disoccupazione e povertà non sono uno dei tanti
1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
nostri problemi, sono il problema del nostro Paese, che
il governo dovrebbe considerare una priorità assoluta,
e per la cui soluzione dovrebbe instancabilmente
impegnarsi giorno e notte.
Ormai non c’è più nessuno che creda alla favola
della ripresa imminente, perché questa – come dicono
innumerevoli indicatori econometrici – di settimana
in settimana si allontana sempre di più dal nostro
orizzonte. Ed è altrettanto chiaro che quando ci sarà
qualche miglioramento (com’è probabile), esso sarà
stato indotto dalla ripresa economica internazionale
e sarà comunque effimero, se non ci decideremo a
rimuovere i tanti ostacoli che rallentano, quando
addirittura non bloccano, l’iniziativa economica del
nostro Paese.
Mentre l’Italia sprofonda a vista d’occhio sotto il
peso della crisi, il governo non trova nulla di meglio
da fare che impegnarsi in un penoso braccio di ferro su
alcune cosiddette riforme, le quali potrebbero anche
essere utili, ma non sono certamente al vertice delle
necessità del Paese. Dal vicolo cieco in cui da tempo
ci siamo cacciati, si esce solo con lo sviluppo e con la
ripresa dell’occupazione. Rispetto a queste emergenze
le iniziative anti-crisi del governo sono nella migliore
delle ipotesi ininfluenti, se non addirittura nocive.
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Democrazia partecipativa
I posti di lavoro non si creano né con la demagogia
né con gli indiscriminati tagli della spesa pubblica.
La lotta ai privilegi che il governo ha platealmente
intrapreso – a parte le più ampie riserve sul modo
di procedere – è di per sé sacrosanta. Decisamente
sbagliato è invece che il governo, nella scomposta
ansia di fare ad ogni costo, prenda per privilegi le
normali articolazioni e differenziazioni di una società
pluralista, qual è la nostra in Italia e quale vogliamo
che continui ad essere.
Prima di muovere guerra ai privilegi bisognerebbe
essere sicuri che si tratti di autentici privilegi. Fare come
fa il governo – vale a dire prendersela a caso con questa
o quella categoria, talora senza motivo – aiuta forse a
strappare qualche applauso ad un corpo sociale sempre
più smarrito e disattento, ma alla lunga accresce il
risentimento e il disagio dei cittadini, mette gli uni
contro gli altri, lacera il tessuto civile, riduce il grado
di coesione sociale, fa smarrire il senso di appartenenza.
Al governo manca un metodo e probabilmente non
ha alcuna intenzione di darselo. Preferisce affidarsi
all’improvvisazione e a sporadici colpi di scena capaci
di stupire i cittadini, mentre la gravità dei problemi
del Paese esige che si cerchino delle soluzioni con
metodo e tenacia.
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1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
operazione-verità
Occorre, per prima cosa, fare un’operazione-verità
nei confronti dei cittadini. Non ha senso spargere
ottimismo a piene mani, diffondere messaggi che
vorrebbero essere tranquillizzanti ma che in realtà
non tranquillizzano più nessuno. Ai cittadini bisogna dire come stanno esattamente le cose. E le
cose stanno più o meno così. La malattia dell’Italia è
molto grave, ma non inguaribile. Possiamo superarla
se ritroviamo unità di intenti e se ognuno di noi
farà generosamente la propria parte. Non c’è, però,
tempo da perdere. Ecco perché noi siamo convinti
che occorra abbandonare la logica dei provvedimenti
estemporanei e costruire un grande Progetto-Paese
che disegni l’Italia del futuro (l’Italia nella quale
dovranno vivere i nostri figli), e definisca la complessa
strategia per arrivarci.
È solo con un atto di verità e di responsabilità
che possiamo chiamare a raccolta tutti i cittadini e
ottenere il loro convinto contributo a quella che si
prospetta come una vera e propria ricostruzione del
Paese, in cui un ruolo importante – è superfluo dirlo
– spetta ai giovani e ai giovanissimi, che vorremmo
esortare a non chiamarsi fuori. Non siamo per il
giovanilismo ad ogni costo, ma è innegabile che i
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Democrazia partecipativa
giovani hanno il diritto-dovere di immaginare l’Italia
dei prossimi decenni e di lavorare per realizzarla.
un «progetto-paese»
In secondo luogo dovremo mettere in campo un
grande «Progetto-Paese», che consisterà in due serie
di provvedimenti: una – tempestiva e chirurgica – che
miri, con tutta la determinazione di cui saremo capaci,
alle emergenze del Paese, l’altra – di lunga durata (e
in una prospettiva verisimilmente pluriennale) – che
assicuri all’Italia un suo ruolo nel mondo globalizzato.
A parte tutto questo – e non è poco –, un grande
«Progetto-Paese» è indispensabile per le seguenti tre
ragioni:
– recuperare il ritardo che il nostro Paese ha
accumulato nei confronti dei partner europei (che
a loro volta sono cresciuti nel loro complesso meno
degli Stati Uniti, per non parlare della Cina),
– sottoporre ad una radicale revisione la nostra
macchina amministrativa, ormai obsoleta, costosa e
sostanzialmente inefficiente,
– definire il ruolo che vogliamo avere in un mondo
che diventa sempre più globalizzato.
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1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
rifondare il rapporto con l’europa
Un grande «Progetto-Paese» serve anche per dare una
svolta ai nostri rapporti con la Comunità Europea.
Abbiamo imparato a nostre spese che con l’Europa
la voce grossa non serve, soprattutto quando – ed
è il nostro caso – siamo in difetto. Non ha alcun
senso rinfacciare ad alcuni paesi europei deroghe e
«sforamenti» passati.
Occorre guardare avanti e dire con chiarezza
che cosa intendiamo fare per rientrare nelle regole.
Le regole, sia chiaro, possono essere cambiate e,
probabilmente, quelle che l’Europa si è data in
materia di deficit e debito vanno cambiate. Ma per
cambiarle occorre avere le idee molto chiare e non
sembra che il governo le abbia. Non basta dire che
vogliamo maggiore flessibilità, parola dal significato
evanescente che si presta a mille interpretazioni.
Dobbiamo dare un preciso contenuto alle nostre
richieste. Se non lo facciamo, sarà difficile evitare
l’accusa che non vogliamo alcuna regola.
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Democrazia partecipativa
l’impresa come motore della crescita
e dell’occupazione
Per far ripartire la nostra economia è assolutamente
indispensabile superare alcuni tabù (diffusissimi nel
nostro Paese) sul ruolo delle imprese e sul profitto,
che troppi si ostinano ancora a considerare una sorta
di espropriazione ai danni dei lavoratori o come il
frutto perverso dello strapotere del capitale sul lavoro.
Nel nostro Paese manca una vera cultura dell’impresa
e una comprensione serena delle dinamiche del
profitto. Su questo punto la politica è colpevolmente
assente. Si crogiola nell’ambiguità, probabilmente per
non scontentare nessuno, non rendendosi conto che
l’unico vero modo per ottenere il ragionato consenso
dei cittadini è quello di spiegare con chiarezza, senza
infingimenti, i motivi che sono alla base di certe
decisioni.
Occorre cambiare registro. Deve essere a tutti
chiara l’insostituibile funzione dell’impresa come
motore della crescita e dell’occupazione.
Dobbiamo in particolare incoraggiare, soprattutto
nei giovani, la capacità di innovare. E dobbiamo
mettere di nuovo in moto il cosiddetto ascensore
sociale che un tempo non lontano consentiva al figlio
dell’operaio di raggiungere le vette più alte delle
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1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
professioni liberali. Oggi non è così. Statistiche alla
mano, constatiamo che il figlio dell’operaio nella
migliore delle ipotesi continua a fare l’operaio (se
non è addirittura disoccupato).
Siamo convinti che sostenere le imprese e la
capacità di iniziativa sia il mezzo migliore per fare
emergere i veri talenti, il cui apporto è indispensabile
perché il nostro Paese possa dire la sua in un mondo
che diventa sempre più competitivo.
un partito “nuovo” per attuare queste idee
Proprio per attuare queste idee, oggi del tutto assenti
dalla scena politica italiana, diamo vita ad un nuovo
partito.
Ci rendiamo conto che la nostra scelta è controcorrente. Sappiamo che la gente diffida dei partiti e
li considera all’origine di tutti i nostri mali. Eppure
siamo convinti che i partiti siano indispensabili. E
infatti, secondo noi, l’Italia sta pagando proprio
l’assenza di «veri» partiti, animati dalla partecipazione
di cittadini interessati a far progredire il loro Paese.
Ecco, noi vogliamo fare un partito diverso da
quelli che hanno dato pessima prova di sé e che
sono all’origine dell’allontanamento della gente
dalla politica. Non necessariamente un partito
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Democrazia partecipativa
politico deve essere un centro di malaffare e noi
vorremmo dimostrarlo. Abbiamo cominciato con
il porre molta cura nella redazione dello statuto,
che abbiamo affidato ad un comitato guidato da un
Presidente emerito della Corte Costituzionale, e che
sarà sottoposto al primo Congresso di «Democrazia
Partecipativa».
Riusciremo a fare tutto questo?
Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che tutto
dipende dal numero di donne, uomini e giovani
che, aderendo al nostro invito, vorranno impegnarsi.
Noi non ci proponiamo di fare un nostro partito, un
partito per noi, per i nostri interessi. Noi vogliamo
fare un partito di «tutti e per tutti»: un partito nel
quale ciascuno si trovi a proprio agio e si senta
personalmente gratificato e responsabile dei successi
e degli insuccessi. Saranno gli iscritti, infatti, a
scegliere liberamente le persone adatte: persone che,
alle indispensabili competenze specifiche, uniscano
il vivo desiderio di impegnarsi non per il proprio
tornaconto ma per il bene comune.
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1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
* * * Concludendo questo giro d’orizzonte e tirando le
fila di quello che abbiamo appena detto (e che nelle
pagine seguenti cercheremo di argomentare meglio),
vorremmo rivolgerci ai lettori di queste pagine in
modo più diretto e informale.
Se ritenete il messaggio inutilmente allarmistico,
perché siete convinti che le forze politiche e il governo
in carica sono sulla strada giusta, non vi resta che
cestinarlo e a noi non resta che scusarci per avervi
importunato.
Se, al contrario, lo ritenete condivisibile, se fate
vostri il nostro allarme e le nostre preoccupazioni,
dovete agire; non potete restare a guardare magari
perché ritenete di poter fare poco o nulla. Vi sbagliate.
Ognuno di noi, da solo, certamente può fare ben
poco, ma uniti e opportunamente organizzati,
possiamo fare molto. E allora unitevi a noi.
Se invece vi trovate – come dire? – in una posizione
intermedia, non vi resta che riflettere e approfondire
la questione. E questo, purtroppo, dovete farlo da
soli, dopo aver raccolto le necessarie informazioni.
Dal canto nostro vorremmo solo raccomandarvi
di non cedere alla pigrizia, di non far cadere nel
20
Democrazia partecipativa
vuoto questo messaggio. Non è tempo di pigrizia.
Dobbiamo acquistare consapevolezza dei problemi
che abbiamo di fronte. L’errore maggiore che
potremmo commettere, nella difficile fase storica in
cui viviamo, è rinunciare a farci un’opinione magari
ricorrendo al comodo alibi che non abbiamo mai
fatto politica, che la politica è per i furbi, per gli
imbroglioni e così via.
Alle donne rivolgiamo un appello particolare
perché con il loro senso del reale, più e meglio di
tutti, sanno quanto insostenibile sia diventata la vita
nel quotidiano e quanta disperazione sia calata sulle
famiglie che non sanno come arrivare alla fine del
mese. In special modo ci appelliamo alle tante donne
che, costrette alla disoccupazione, non sono più in
grado di dare il loro contributo, unico e insostituibile,
nei campi più disparati delle attività produttive.
È sbagliato disprezzare la politica per il solo fatto
che alcuni – troppi! – di quelli che vi si impegnano
perseguono unicamente interessi personali. Ignorare
la politica è un lusso che non ci possiamo permettere
e se ce lo permettiamo pagheremo, prima o poi, un
prezzo altissimo, perché l’alternativa alla crescita
economica e civile del Paese non è il mantenimento
dello status quo che ad alcuni di noi potrebbe,
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1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?
egoisticamente, anche andare bene. L’alternativa è
un inesorabile declino economico e civile, che sarà
anche molto rapido – come è rapida ogni cosa nel
mondo globalizzato – e che travolgerà tutto e tutti,
anche quelli che si ritengono al sicuro.
La politica è necessaria e non possiamo sottrarci
al dovere di darle, nelle forme più adatte, il nostro
contributo. Se vogliamo una società migliore, rendiamoci conto che dobbiamo fare tutti qualcosa in più
per la casa comune e per farlo non occorrono competenze particolari; basta il buon senso e il desiderio
di capire il mondo in cui viviamo e di renderlo più
ospitale.
22
2.
IL FALLIMENTO DEL LEADERISMO
l’ascesa dei leader in italia
Anche in tempi di democrazia molti italiani sono
convinti che sia conveniente o inevitabile affidarsi ad
un leader forte: un indiscusso trascinatore di folle, che
designa ministri e deputati e risolve da solo, come in
una magia, le difficoltà del paese.
E così di recente hanno anche finito con l’accettare
(o subire) che i deputati, che di solito in tutte le
democrazie del mondo vengono scelti dagli elettori,
fossero nominati da una manciata di leader a capo
di partiti personali, governati talvolta soltanto per
mezzo di imperiosi proclami.
Il risultato è stato che si è diffusa un’infatuazione
collettiva per il cosiddetto leaderismo, che ha mietuto
consensi perché è sembrato determinato a lottare
contro gli incubi che assediano la nostra vita (la
burocrazia che ci esaspera, l’inefficienza e le miserie
di una repubblica invecchiata, ecc.) e che alla fine si
è incarnato in personaggi che davano l’impressione
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2. Il fallimento del leaderismo
di poter liberare il paese dai riti inconcludenti
della vecchia politica e trascinarlo nella modernità,
vincendo di slancio le resistenze o saltando gli ostacoli.
In conclusione, il leaderismo appare a tutt’oggi
a molti come uno strumento capace di recuperare
il tempo perduto, imponendo soluzioni semplici
e veloci a problemi da troppi anni irrisolti. In
questo modo nella nostra società ha preso corpo
un’illusionistica euforia – alimentata da improvvisati
opinionisti televisivi e da una valanga di chiacchiere
di cosiddetti esperti –, che ha sostituito la politica,
ma non ha prodotto che il nulla.
l’agonia del paese al tempo dei suoi
ultimi 4 leader
Senza un progetto serio, un’idea o un pensiero meditato, il paese è precipitato nella recessione. Nello
scorso mese di agosto, in un rapporto redatto dagli
analisti di Brigdewater Associates (uno dei fondi di
investimento più importanti del mondo) si legge
testualmente quanto segue: “Le condizioni in Italia
sono depresse come non lo erano mai state dalla fine
della seconda guerra mondiale. E poiché l’economia
italiana non è competitiva, queste condizioni probabilmente persisteranno”.
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Democrazia partecipativa
Dopo l’annuncio di rivoluzioni miracolose, e tante
promesse svanite, lo smarrimento degli italiani è
evidente. Comincia ad essere sempre più chiaro che
è sbagliato il modo attuale di concepire la politica.
Il leaderismo è un fenomeno sconosciuto nelle
nazioni occidentali. L’uomo solo al comando
esiste unicamente nelle periferie del mondo. Negli
Stati Uniti, in Germania, in Francia i leader sono
personalità di rilievo che svolgono una funzione di
guida per un determinato periodo, il loro potere non
è mai illimitato ed è sottoposto sempre al controllo
del Parlamento, di specifici organi istituzionali e della
opinione pubblica. Negli Stati Uniti, la Costituzione
vieta che un presidente possa governare per più di
due mandati: otto anni in tutto, per impedire che
si crei un potere personale eccessivo, inconcepibile
in una grande nazione. Anche per questo le nomine
di competenza del presidente – dagli ambasciatori
ai vertici dei servizi di sicurezza – devono superare
il vaglio severo del Senato. In Germania, il ruolo
di guida politica delle maggioranze di governo
che assume il Cancelliere è bilanciato, oltre che
dalle opposizioni, dall’influenza che esercitano i
capi regionali del suo partito: nessuno può essere
onnipotente.
25
2. Il fallimento del leaderismo
l’auspicato balzo in avanti:
dal leader al cittadino che partecipa
Le società moderne devono fronteggiare problemi ed
eventi sempre più complessi che richiedono la riflessione e l’impegno di una classe dirigente allargata,
che di solito emerge – negli uffici, nelle professioni,
nelle imprese, nelle organizzazioni del volontariato
e nei sindacati – per meriti oggettivi e quasi mai per
cooptazione. Invece, nel nostro leaderismo il capo
decide la sua classe dirigente e la impone nei ruoli
di governo anche quando è palesemente priva delle
qualità necessarie. Un sistema, questo, che inevitabilmente porta al potere la superficialità e la corruzione.
I partiti personali, frutto avvelenato di un
leaderismo provinciale e inconcludente, non sono
in grado di innovare niente. Erano la caratteristica
della vecchia Italia prefascista, così diversa e lontana
dai più avanzati paesi europei.
Per evitare un triste ritorno al passato, l’Assemblea
Costituente concepì l’articolo 49 della nostra
Costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partito per
concorrere con metodo democratico a determinare
la politica nazionale”.
Rileggendo gli atti dell’Assemblea Costituente,
26
Democrazia partecipativa
un documento denso di passione civile, si coglie
l’ansia dei padri della Repubblica di evitare la
riproposizione della democrazia rattrappita dei primi
anni del ’900, quando i cittadini di sesso maschile
furono progressivamente ammessi al voto, ma non
partecipavano alla decisioni politiche.
I nuovi partiti, non più feudi di una persona,
avrebbero dovuto costituire un collegamento
permanente tra i cittadini e le istituzioni. Per
rendere efficace il dettato costituzionale sarebbe
stata necessaria una legge. Ma la legge non è stata
mai fatta. Sicché i partiti hanno subito con il passare
degli anni una trasformazione rovinosa, fino al punto
che in molti hanno creduto che il leaderismo fosse
la soluzione della grave crisi politica del paese. Ma
non è stato così. Nella realtà – come oggi sappiamo
– esso non ha fatto che aggravarla.
L’unica nostra speranza, per uscire da questa
situazione, è che i cittadini decidano di riprendere
nelle loro mani il proprio destino e di partecipare
attivamente alla gestione della cosa pubblica.
27
3.
NUOVI PARTITI ALL’INSEGNA
DELLA PARTECIPAZIONE
la crisi della rappresentanza politica in italia
La democrazia dei partiti
In Italia la democrazia rappresentativa è stata inizialmente caratterizzata dal forte legame che la società
civile intratteneva con i partiti che la rappresentavano.
Poi però, dopo anni di crescita economica e sociale, essa
ha subìto un cambiamento radicale, trasformandosi in
una democrazia dei partiti (ovvero in una democrazia
governata dalle organizzazioni politiche nazionali),
fortemente connotata da questi due tratti distintivi:
– la sclerotizzazione del rapporto tra le istanze dei
blocchi sociali – ufficialmente separati e antagonisti,
ma nella prassi con rapporti in continua evoluzione
(arrivando persino ad essere in osmosi tra loro) – e le
rappresentanze politiche (tendenzialmente bloccate
in rigidi schemi),
29
3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione
– il progressivo trasferimento delle prerogative dei
cittadini alla classe politica.
La regressione oligarchica
Perduta la funzione di mediazione (e integrazione)
degli interessi e di generazione di identità collettive
e di indirizzi politici unitari, i partiti politici italiani
hanno finito col diventare, in un breve giro di anni,
strutture autoreferenziali, sempre meno capaci di
occuparsi della crescita economica e sociale del Paese
e sempre più esclusivamente concentrate su questioni
“di bottega” (potere, visibilità, personalismi,
ambizioni di vario genere, ecc.), col risultato che
l’élite politica italiana, non più rappresentativa
delle articolazioni sociali, è diventata una casta
“onnipotente”.
Il collasso della rappresentatività dei partiti ha
prodotto col tempo una vera e propria regressione
oligarchica della rappresentanza politica democratica,
con due gravi conseguenze, una politica e l’altra
socio-economica:
– la polverizzazione (al livello delle istituzioni e
della vita civile) dei circuiti virtuosi tra aspettative
dei cittadini e risposte del sistema politico,
– il dissolvimento delle politiche unitarie per
30
Democrazia partecipativa
salvaguardare – nei nuovi contesti economici della
globalizzazione – le conquiste del welfare.
L’autoesclusione dei cittadini dalla vita politica
La conseguenza più vistosa di questa regressione, e
nello stesso tempo il dato più preoccupante sull’attuale
stato di salute dei princìpi e delle procedure della
democrazia nel nostro paese, è stata la progressiva
disaffezione della maggioranza dei cittadini nei
confronti delle istituzioni politiche nazionali e locali.
Iniziata come delusione per il modo in cui i politici
di professione avevano gestito per decenni la cosa
pubblica, questa disaffezione è poi diventata sistematica
autoesclusione da ogni forma di partecipazione ai processi
decisionali collettivi, con la conseguente cessione di
sovranità a ristretti ceti di partito e di governo.
L’esito finale: una «democrazia senza cittadini»
L’autoesclusione dei cittadini dalla vita politica ha
determinato lo svuotamento pressoché definitivo della
democrazia rappresentativa: il cittadino dal rango
di persona responsabile, vincolata a doveri civici e
portatrice di diritti garantiti, è scaduto a individuo
privo di identità democratica, ridotto al ruolo di
cittadino-elettore, semplice numero tra i tanti numeri
di cui si compone la massa del «pubblico».
31
3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione
E in effetti in questa cosiddetta democrazia del
pubblico il consenso politico si produce attraverso
il rapporto (non più mediato dai partiti) tra il
leader, indifferentemente di «destra» o di «sinistra»,
e un’opinione pubblica che non esprime alcun
pluralismo culturale e sociale, ma funziona – anche
grazie all’uso spregiudicato dei media e della rete
– come una sorta di canale, in cui per un verso
trascorrono e si affermano le leadership personali,
e per un altro verso si consolida, in modo spesso
inavvertito dai più, una democrazia senza cittadini.
L’esito finale di questo lungo processo di sfaldamento della democrazia rappresentativa è sotto i
nostri occhi: una classe politica priva del consenso dei
cittadini e impegnata a barcamenarsi in un riformismo
empirico e caotico tra le richieste dei mercati (miranti
per lo più alla ripresa dell’economia) e quelle delle
classi subalterne e dei sindacati (concentrate sui grandi
temi del lavoro e della disoccupazione).
una possibile rinascita politica dell’italia
Gli alti valori democratici della «partecipazione»
Se non si vuole rinunciare agli ideali della democrazia
(libertà, partecipazione, solidarietà ecc.), non si può
32
Democrazia partecipativa
ulteriormente procrastinare la ristrutturazione della
rappresentanza politica nella vita del nostro Paese,
affinché essa torni ad essere espressione dei bisogni e
delle aspirazioni dei cittadini.
Il modo più efficace per rigenerare la democrazia
rappresentativa è far sì che il cittadino torni ad
occuparsi attivamente di politica, perché solo così
essa tornerà ad essere una democrazia che si governa
con l’azione dei cittadini nella società e nelle istituzioni.
Ma per poter ottenere questo risultato è indispensabile che la partecipazione dei cittadini alla vita
pubblica sia ispirata ai valori democratici della
solidarietà e dell’equità sociale, gli unici capaci di
galvanizzare cittadini avviliti e ridotti ormai a semplici
pedine di un gioco che si fa al di sopra delle loro teste,
e alla fine, forse, anche di favorire il superamento di
vecchi automatismi ideologici.
È solo la condivisione di valori comuni di alto
profilo etico-politico (e, in modo del tutto particolare,
delle istanze di solidarietà espresse dalla società
odierna) che può permettere di superare le false
suggestioni dei partiti personali per approdare ai
partiti di persone.
33
3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione
Rivitalizzare i partiti con la partecipazione dei cittadini
Il grande obiettivo di «Democrazia Partecipativa» è
di contribuire a mettere in moto – non con proclami, ma con l’esempio – la più urgente trasformazione della vita politica italiana, che dovrà consistere
– come si è capito – nel collocare al centro della vita
pubblica i tre pilastri fondamentali della democrazia
partecipativa, e cioè:
– la prassi delle deliberazioni fondate sul metodo
dialogico e procedenti dalla periferia (e cioè dalle comunità di persone costruttivamente legate tra di loro
da interessi civici o economici) al centro (e cioè ai partiti, al parlamento, al governo) e non viceversa;
– la formazione permanente e di alto livello di
coloro che partecipano alla vita del partito, e in
modo particolare dei più giovani (ed è sui giovani in
particolare che «Democrazia Partecipativa» intende
far leva);
– il saldo e continuo collegamento delle organizzazioni politiche con le tante strutture associative
che, nello spirito della Costituzione, sono attive sul
territorio per aiutare (spesso con mezzi di fortuna)
i cittadini nelle loro necessità: un collegamento che
sia finalmente espressione di una nuova sensibilità
della politica per le dure condizioni di vita di milio34
Democrazia partecipativa
ni di cittadini (famiglie alla deriva, bambini e anziani abbandonati a se stessi, ecc.) e di una altrettanto
nuova capacità di assimilare e rilanciare proposte che
nascono sul campo da esperienze “di prima linea”.
alcuni effetti virtuosi della mobilitazione dei
cittadini
Un banco di prova: il finanziamento dei partiti
Nel proporsi come avanguardia del processo di
rinnovamento della democrazia rappresentativa in
Italia, «Democrazia partecipativa» (D.P.) può già
indicare, come esempio del metodo con cui intende
operare nell’interesse del Paese, la Proposta di legge
di iniziativa popolare sul finanziamento pubblico dei
partiti, presentata al Parlamento quando ancora D.P.
non si era costituita come partito.
Il metodo a cui si ispira questa Proposta di legge
è l’unico davvero degno di una democrazia partecipativa: fare in modo che lo Stato non si sostituisca
ai cittadini ma si limiti a creare le condizioni perché
emerga (e si imponga) nel modo più chiaro, semplice
e trasparente la loro volontà. E in effetti quella Proposta, facendo tabula rasa del meccanismo automatico
caldeggiato dai partiti (secondo cui i partiti rappresentati in Parlamento dovrebbero essere finanziati in
35
3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione
quota proporzionale, senza nessuna verifica dell’attuale, esplicita volontà dei cittadini), attribuisce allo
Stato solo il ruolo di gestore del meccanismo di verifica della volontà dei cittadini, che – come prevede
la Proposta di legge – scelgono direttamente il partito
che vogliono e si vedono riconosciuto dallo Stato un
credito d’imposta pari al 95% del contributo da essi
versato, con un limite massimo di 2.000 euro.
Rinnovamento del costituzionalismo democratico
La mobilitazione dei cittadini è destinata inoltre ad
avere un salutare effetto propulsivo a favore�����������
del rinnovamento del costituzionalismo democratico, perché
solo con il consenso dei cittadini si può imporre il
principio secondo cui i tecnicismi giuridici (oggi in
auge) non hanno ragioni autonome di sussistenza, ma
sono unicamente strumentali a una visione precisa dei
bilanciamenti delle istituzioni, sia per quanto riguarda
i poteri apicali dello Stato (esecutivo/rappresentativo/
giudiziario), che per quanto riguarda i rapporti tra
questi poteri, gli organi di controllo e i poteri locali
(le autonomie).
Vincoli costituzionali tra i cittadini
Un altro effetto positivo della mobilitazione dei cittadini consisterà nel fatto che si riuscirà finalmente
36
Democrazia partecipativa
a contrastare la tendenza, prevalente nella cultura
politica e giuridica, a privilegiare il carattere procedurale della democrazia rispetto ai suoi valori fondanti.
Ma soprattutto potrà finalmente imporsi l’idea
essenziale secondo cui – nel campo dei diritti civili e
sociali, delle persone e delle imprese – i cittadini sono
legati da vincoli che vanno oltre gli interessi particolari
e le strategie politiche. Sicché, per esempio, creare
condizioni di lavoro per i giovani dovrebbe essere
considerato oggi non solo una delle espressioni più
alte della solidarietà democratica, ma anche un vincolo
costituzionale che nessuna forza politica può eludere.
Tra politiche nazionali e vincoli internazionali
Le politiche domestiche degli Stati sono ormai circoscritte da indirizzi e scelte, assunti dagli organismi
sovranazionali, che tendono a limitare le sovranità
nazionali. È in ogni caso certo che le istituzioni democratiche dell’Unione Europea, pur non avendo potere
diretto di governo sui paesi membri, sono legittimate ad applicare specifici modelli di governance in
vari campi della vita pubblica, dall’economia alla
giurisdizione.
Tale indirizzo (peraltro inarrestabile), rendendo
obsoleta ogni controversia sul ruolo più o meno
37
3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione
imprenditoriale dei singoli Stati, lascia loro la funzione
di supremi organi regolatori della vita civile.
Di tali situazioni le tradizionali formazioni
politiche hanno avuto finora scarsa o insufficiente
consapevolezza: un nuovo partito fondato sui
valori della democrazia partecipativa non ne può
prescindere nella formulazione di qualsiasi progetto
di ripresa economica e di innovazione civile che miri
a migliorare le condizioni di vita (ormai intollerabili)
in cui versano fasce sociali sempre più ampie e
soprattutto i giovani e gli anziani.
38
4.
LE REGOLE CHE CI SIAMO DATI
Abbiamo redatto il testo dello Statuto in conformità
alla normativa vigente (con riferimento, in particolare, al D.L. n. 149 del 2013), dalla quale ci siamo
discostati solo in materia finanziaria, perché abbiamo
ritenuto di doverci dare regole molto più restrittive
di quelle previste dalla legge.
Qui di seguito richiamiamo gli aspetti più
importanti dello Statuto di «Democrazia Partecipativa»
il cui testo integrale, facilmente accessibile sul nostro
sito, sarà sottoposto per l’approvazione al prossimo
Congresso degli iscritti.
1. Finanziamento. – In materia di finanziamento
abbiamo escluso che, ordinariamente, il Partito
possa accettare contributi dalle società commerciali
che gestiscono imprese e abbiamo posto un tetto di
20.000 euro alle contribuzioni di tutti gli altri soggetti.
Com’è noto, il citato D.L.149/2013 consente che ogni
soggetto – compresa dunque la società commerciale
– possa versare contributi fino a 100.000 euro.
39
4. Le regole che ci siamo dati
Ci rendiamo conto che questa scelta restringe
di molto la possibilità di finanziamento del nuovo
Partito e può metterne seriamente a rischio la
sopravvivenza. Ma noi siamo fermamente convinti
che le società commerciali non possano finanziare
la politica: lo possono fare un imprenditore o un
azionista di maggioranza, a titolo personale, non certo
le società in quanto tali.
Ad ogni modo abbiamo fatto questa scelta in
perfetta consapevolezza, mettendo anche in conto
di dover abbandonare il campo qualora i cittadini ci
facciano mancare il loro sostegno. D’altra parte, che
senso avrebbe adottare modalità di finanziamento
che, con ogni probabilità, finirebbero per tradire i fini
del nuovo Partito, o ostinarsi a mantenerlo in vita,
anche se i cittadini mostrassero di non apprezzarlo
abbastanza?
2. Quota d’iscrizione. – Abbiamo fissato in 10 euro,
fino al 31.12.2015, la quota d’iscrizione al Partito
perché pensiamo che questa cifra sia più o meno alla
portata di tutti e non costituisca, per chi desideri
iscriversi, una barriera all’ingresso nel Partito.
Naturalmente, anche per le ragioni esposte più
sopra, ci auguriamo che chi possa dare una somma
maggiore, lo faccia.
40
Democrazia partecipativa
Dal canto nostro, oltre ad assicurare la più grande
trasparenza della gestione, ci impegnamo a rendicontare analiticamente le spese sostenute dal nostro
partito, che in ogni caso non prevedono nessun genere
di compenso ai dirigenti e che comunque dovranno
essere ridotte all’essenziale.
3. Simpatizzanti. – Accanto alla figura del tesserato
abbiamo previsto quella del simpatizzante (che non
sarà tenuto ad alcun pagamento), e ciò allo scopo
di avvicinare le persone interessate, che, pur non
ritenendosi pronte ad impegnarsi attivamente nel
Partito, ne condividono gli ideali e desiderano essere
informate sulle sue iniziative.
4. Scuola di cultura politica. – È prevista la costituzione di una Scuola di cultura politica che organizzerà
vari tipi di corsi e li strutturerà in modo che essi
possano essere agevolmente seguiti, anche a distanza,
da iscritti e simpatizzanti.
5. Decentramento, Autogestione, Rete territoriale.
– Puntiamo con decisione su un forte decentramento
territoriale e sulla costituzione di gruppi locali, che
potranno assumere anche la forma delle tradizionali
sezioni.
Questi gruppi o sezioni promuoveranno il dialogo e
41
4. Le regole che ci siamo dati
il dibattito di idee tra iscritti, simpatizzanti e semplici
elettori.
I gruppi locali, comunque strutturati, saranno retti
dalla regola della più ampia autogestione anche per
quanto riguarda la scelta delle candidature in tutte
le consultazioni elettorali che interessano il territorio
del gruppo stesso.
Per stimolare la costituzione di una forte rete
territoriale saranno effettuati appositi accantonamenti
di bilancio con questa specifica destinazione, in una
logica solidaristica.
6. Formazione dei gruppi locali. – Per favorire la
più ampia e libera partecipazione dei cittadini e
l’emergere di una nuova classe dirigente, abbiamo
previsto che, in una prima fase, l’iscrizione al Partito
faccia capo alla sede centrale di Roma.
Quando gli iscritti residenti in un dato Comune
abbiano raggiunto il 2 per mille della popolazione
residente (con un minimo e un massimo), la sede centrale
comunicherà agli iscritti che vi sono le condizioni per
istituire, in quel Comune, un gruppo locale. Si metterà
così in moto un processo che porterà alla costituzione
del gruppo locale e all’elezione dei dirigenti. Da quel
momento le nuove adesioni di residenti in quel Comune
faranno capo direttamente al gruppo locale.
42
5.
L’ITALIA HA BISOGNO DI UN
«PROGETTO-PAESE»
L’Italia soffre di molti mali che vengono da lontano.
Sono almeno 20 anni che il nostro Paese cresce in
modo stentato, e in ogni caso mediamente meno
degli altri paesi europei.
Inesorabilmente, a causa di questi suoi mali, l’Italia
– priva di una cura adeguata – non può che andare
incontro al suo declino, che sarà non solo socioeconomico, ma anche identitario.
Se vogliamo evitare il peggio, dobbiamo adottare
opportune e rapide misure, che non potranno essere,
com’è accaduto fin qui, occasionali, estemporanee,
slegate e talora incoerenti, ma saldamente connesse
in una complessa strategia di interventi diversi ma
convergenti.
Proprio per dare la necessaria coerenza agli
interventi è indispensabile un «Progetto-Paese», un
progetto che elimini ogni forma di improvvisazione
nell’azione di governo e le conferisca la necessaria
43
5. L’Italia ha bisogno di un «Progetto-Paese»
organicità, senza la quale è vano pensare di uscire
dalle difficoltà in cui ci dibattiamo.
Il «Progetto-Paese» ci aiuterà – l’abbiamo già detto –
anche a fare chiarezza sui nostri rapporti con l’Europa.
Questo è un punto decisivo. Noi dobbiamo dar prova
concreta all’Europa che vogliamo effettivamente, sia
pur con la dovuta gradualità, rientrare nelle regole.
Dobbiamo mettere da parte sotterfugi e arroganza
perché lo esige la serietà del nostro Paese e perché alla
lunga essi si rivelano sostanzialmente inutili.
Un altro suo effetto positivo sarà quello di risvegliare in noi cittadini il senso di appartenenza ad
una grande nazione, ricca di storia e di tradizioni,
desiderosa di recuperare il posto che ha avuto nella
storia del mondo: un senso di appartenenza ormai
pressoché smarrito, anche perché i governi che negli
ultimi decenni si sono succeduti non hanno fatto
nulla per custodirlo e vivificarlo, e così hanno finito
con l’operare in senso opposto.
A parte tutto questo – e non è poco! – un grande
«Progetto-Paese» è indispensabile anche per due altre
ragioni:
– perché è necessario che noi decidiamo quale
ruolo vogliamo avere nel mondo globalizzato,
– perché solo con un Progetto del genere si potrà
44
Democrazia partecipativa
avviare l’ineludibile riforma della nostra macchina
amministrativa.
45
6.
UN PROGETTO PER IL NOSTRO PAESE.
I. IL RUOLO DELL’ITALIA NEL MONDO GLOBALE
la difficile entrata dell’italia nel mondo
globale
Alcuni fenomeni economici del mondo globale
La cosiddetta globalizzazione – indotta principalmente da una generalizzata riduzione dei costi di
trasporto e da una spettacolare innovazione nel
campo delle comunicazioni – ha aperto la strada ad
una nuova divisione mondiale dei compiti, del lavoro
e delle produzioni.
In questa nuova divisione dei compiti, in cui
non c’è posto per l’approssimazione, ma solo per
l’eccellenza e la capacità di produrre a costi sempre
più bassi, le aziende ben amministrate tendono ad
attenersi a due semplici (e banali) regole:
– concentrarsi sulle produzioni più sicure (per le
quali credono di avere qualche vantaggio competitivo),
rinunciando tempestivamente a quelle che per un
motivo o per un altro sembrano essere problematiche;
47
6. Un progetto per il nostro Paese. I.
– abbandonare i Paesi nei quali, per un insieme di
ragioni, si produce a costi alti, per trasferirsi in Paesi
che offrono migliori condizioni; scelta, questa, che
comporta di regola effetti devastanti sia sui lavoratori
del paese abbandonato, che si trasformano ipso facto
in disoccupati, sia sulle altre imprese del distretto
industriale.
A parte il caos indotto dalle dislocazioni, la
globalizzazione ha imposto un importante elemento
di novità ai tradizionali flussi di scambio delle merci,
e cioè:
– la loro crescita vertiginosa, continuamente
stimolata dalla frenetica specializzazione delle
produzioni e dal bisogno di mercati sempre più vasti
(spesso coincidenti con l’intero globo terracqueo);
una crescita, questa, a cui è ragionevole pensare che,
nei prossimi decenni, farà seguito un incremento
spettacolare dei flussi umani (da regione a regione,
da continente e continente).
Potenzialità e limiti dell’Italia di fronte
alla globalizzazione
Guardando alle potenzialità dell’Italia, se ci chiediamo
come essa si collochi in questo scenario e quali siano
le sue prospettive, il giudizio potrebbe essere positivo,
48
Democrazia partecipativa
pensando ai vantaggi competitivi che il nostro Paese,
in passato, si è guadagnato in molti settori.
Se invece guardiamo a quello che si è fatto fin qui,
il giudizio non può che essere negativo: in Italia si è
sempre parlato tanto di globalizzazione (e sempre in
termini generici), ma non si è mai presa una decisione
operativa e coerente su questo difficile tema.
Le aziende si sono mosse in un contesto tutt’altro
che chiaro, barcamenandosi come hanno potuto.
E non hanno potuto concludere molto, anche
perché era difficile per loro operare da sole in uno
scenario così difficile e complesso, tanto più che le
aziende concorrenti (come, per es., quelle francesi,
tedesche, ecc.) godevano del supporto significativo
delle istituzioni dei loro paesi.
Le nostre imprese si sono preoccupate principalmente, com’è naturale, del loro conto economico, e
spesso – bisogna dirlo – in una visione non sempre
di ampio respiro. Ma questo non poteva bastare,
e ancora meno potrà bastare in futuro, tenendo
presente che nel frattempo le loro condizioni sono
peggiorate. Ed è difficile che in futuro possano – da
sole – fare meglio di quello che hanno fatto finora.
È senz’altro fondata l’opinione della stragrande
maggioranza degli italiani e della totalità dei più
49
6. Un progetto per il nostro Paese. I.
competenti commentatori di politica ed economia,
italiani ed esteri, secondo cui il declino dell’Italia è
essenzialmente da imputare non alle aziende o alla
fatalità, ma alla politica. E questo perché è la politica
la maggiore responsabile delle tre più gravi debolezze
dell’Italia in questo ambito:
– la mancanza di una strategia-paese capace di
fronteggiare i problemi della globalizzazione e di
coglierne gli innegabili vantaggi;
– l’incapacità di orientare le imprese e lo sviluppo
nella fase più critica dello sconvolgimento degli assetti
tradizionali;
– l’assoluto disimpegno dello Stato in materia
di ricerca e di innovazione (e non solo), quando
era urgente, nella difficile congiuntura, che esso
si assumesse il ruolo di regista (e insieme di attore
protagonista) delle ardue contromisure da adottare,
e cioè il ruolo di colui che si assume i rischi dell’azione
strategica da mettere in campo, che per definizione
non era (e continua a non essere) alla portata delle
singole imprese.
Necessità di una svolta radicale in politica
La situazione attuale richiede un cambiamento significativo di rotta, perché i vantaggi competitivi sui
50
Democrazia partecipativa
quali possiamo ancora contare, se non opereremo con
la dovuta razionalità e tempestività, sono destinati a
svanire da un momento all’altro o ad essere drasticamente ridimensionati.
Perché questo non accada, è necessario che la
politica e lo Stato non lascino sole le imprese di fronte
a questa importante sfida della modernità.
La politica deve agire e deve farlo in fretta, creando
condizioni idonee allo sviluppo delle imprese, tenendo
presente che in un mondo globale la competizione
si sviluppa non solo tra le imprese, ma anche tra
gli ordinamenti dei Paesi nei quali esse operano,
costringendoli ad essere attenti alle esigenze della
produzione, sia per trattenere nel proprio paese le
imprese nazionali, sia per attrarre quelle straniere.
In Italia tradizionalmente la politica non presta
attenzione a questi aspetti. Da anni continua a fare
leggi il più delle volte oscure e paralizzanti. E ora
che se ne sta rendendo conto, invece di fare mea
culpa, se la prende con la burocrazia, sulla quale cerca
di scaricare le proprie responsabilità. Ma la colpa è
della politica, che legifera in modo caotico e senza un
preciso disegno, non certo della burocrazia che – avrà
pure tanti difetti, ma non quello di non darsi da fare
perché la Legge sia rispettata.
51
6. Un progetto per il nostro Paese. I.
quale progetto per l’italia? una proposta e due punti
fermi
Un primo punto fermo: un «Testo Unico
sull’attività d’impresa»
Al punto in cui è giunta la confusione normativa
crediamo che occorra un Testo Unico sull’attività
d’impresa che dica con chiarezza a chi vuole fare impresa
quali sono le norme a cui deve sottostare e le sanzioni
in caso di inosservanza. Il Testo Unico dovrebbe essere
anche l’occasione per abrogare formalmente le tante
leggi e leggine esistenti in materia. Si dirà che quella
qui prospettata è un’operazione non facile. È vero:
l’operazione è tutt’altro che facile. Ma proprio per
questo è indispensabile: non possiamo chiedere a chi
vuol fare impresa di rispettare leggi di cui non si riesce
a fare un tutto organico in un apposito Testo Unico.
Un esempio di progetto ad alto tasso di
«vantaggio competitivo»
Sono tanti i settori produttivi della nostra economia
che hanno le potenzialità per essere varati – con
appositi programmi d’intervento e dopo aver ascoltato
e coinvolto gli operatori di tali settori – come grandi
aree di sviluppo.
52
Democrazia partecipativa
Fra questi il turismo è quasi certamente il settore
a più alto tasso di vantaggio competitivo.
È opinione largamente diffusa che il nostro Paese,
integrando opportunamente patrimonio artistico
e monumentale, musica, cinema e teatro, bellezze
paesaggistiche, mitezza del clima, artigianato,
agricoltura di qualità, moda, buona cucina e tante
altre cose, possa diventare la prima meta turistica del
mondo… un Paese che, almeno una volta nella vita,
ogni abitante (di media cultura) del nostro pianeta
(globalizzato) dovrebbe visitare!
Ma prima che l’idea decolli come «Progetto-Italia»
è necessario avere le risposte a queste (e tante altre)
domande:
– Chi fa questa integrazione?
– Chi riesce a far dialogare migliaia e migliaia di
piccole imprese?
– Chi promuove l’immagine dell’Italia nel mondo?
– Chi garantisce soprattutto al turista straniero la
qualità del servizio e dell’accoglienza?
– Chi costruisce il progetto e ne definisce i
contenuti?
Per l’insieme di queste domande la risposta non
può essere che una sola: in mancanza di grandi
imprese polisettoriali, chi può svolgere tutti questi
53
6. Un progetto per il nostro Paese. I.
compiti è solo lo Stato, che naturalmente non dovrà
fare l’albergatore o il ristoratore o la guida turistica,
ecc., ma dovrà svolgere la funzione nevralgica di
orientare indirettamente il comportamento di una
miriade di piccole e piccolissime imprese, svolgendo
un ruolo propulsivo e di coordinamento (rilasciando,
per es., un apposito «bollino» alle imprese che hanno
determinati requisiti e si impegnano a tenere un certo
comportamento in materia di qualità e di prezzo dei
loro beni e servizi, ecc., attivando forme di controllo
agili ed efficaci, ecc.).
Come si vede, non si tratta di attività che richiedono forti investimenti di capitale, i quali del resto
potrebbero rivelarsi anche remunerativi.
Resta comunque il fatto che lo Stato può fare
quello che realisticamente nessuno dei tanti piccoli
e piccolissimi operatori è in grado di fare: costruire
un progetto, dargli credibilità soprattutto all’estero e,
con opportune tecniche di comunicazione, garantirgli
il sostegno dei cittadini che vi dovranno vedere una
tappa del rilancio del Paese.
54
Democrazia partecipativa
Un secondo punto fermo: chi si assume
il rischio strategico?
In un Progetto come questo lo Stato non dovrebbe
assumere alcun compito operativo. Dovrebbe avere il
solo ruolo di realizzatore delle eventuali infrastrutture
occorrenti (materiali e immateriali), di divulgatore
e, all’occorrenza, del soggetto che si assume i rischi
che non siano alla portata dei privati.
Il tema dell’assunzione del rischio è una questione
nevralgica per il nostro Paese, soprattutto dopo lo
smantellamento, una ventina d’anni fa, del sistema
delle partecipazioni statali, quando l’Italia è diventata
sostanzialmente un’economia di piccole e medie imprese.
Ad imprese di queste dimensioni, per quanto
intraprendenti e vivaci, non si può chiedere di
assumere iniziative che comportano lunghi tempi
di attesa, forti investimenti e l’assunzione di elevati
rischi. Ci sono solo due opzioni: o si promuove
la crescita di grandi gruppi polisettoriali capaci di
assumersi grandi rischi (pensiamo, per fare solo un
esempio, a quelli connessi con l’invenzione di nuovi
materiali) o si fa in modo che – con le opportune
tecniche – sia lo Stato a farsene carico.
Continuare a ignorare il problema farà pagare un
prezzo molto alto al nostro Paese: lo conferma il fatto
55
6. Un progetto per il nostro Paese. I.
che negli ultimi decenni – a differenza di quanto era
accaduto in passato – nessuna delle grandi invenzioni
che hanno cambiato la vita dell’umanità può essere
attribuita ai nostri ricercatori e ai nostri laboratori.
56
7.
UN PROGETTO PER IL NOSTRO PAESE.
II. UNA NUOVA MACCHINA AMMINISTRATIVA
non spending review ma ristrutturazione
Naturalmente non basta avere idee chiare sul ruolo
dell’Italia nel mondo globalizzato, occorre anche una
buona «macchina amministrativa», competente e
veloce. Cosa tanto più difficile da ottenere quanto
più quella di cui adesso disponiamo è lenta (gravata
com’è da procedure macchinose) e costosa (come
ogni macchina invecchiata male).
A risolvere il problema non basta certamente la
cosiddetta spending review che, per come è concepita,
è essenzialmente un fatto di immagine, destinato a
brillare in superficie (come una falsa pietra preziosa).
Nella migliore delle ipotesi essa può eliminare qualche
spreco, ridurre qualche costo, ma non riuscirà ad
incidere sull’efficienza, la quale anzi, a seguito di tagli
non sempre ben meditati, può addirittura peggiorare.
Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione
57
7. Un progetto per il nostro Paese. II.
tutta la nostra Amministrazione nei suoi principi, nei
suoi metodi, nella sua prassi.
Anche un superficiale osservatore non avrebbe
difficoltà ad accorgersi che essa abbonda di sovrapposizioni e di passaggi inutili, che sono motivo non solo
di aumenti dei costi ma anche di disagio dei cittadini.
Del resto se ripercorriamo la storia e il processo di
formazione della nostra Pubblica Amministrazione
ci rendiamo conto che essa si è venuta formando, in
oltre 150 anni, per stratificazioni successive, spesso
senza un chiaro disegno unitario, presente forse solo
nei primi anni dell’unità d’Italia.
primo passo: definire i livelli di governo
Non è questa, naturalmente, la sede per analisi
storiche. Qui dobbiamo domandarci che cosa si
può fare per rendere l’Amministrazione Pubblica
più efficace e meno costosa.
A nostro parere occorre cominciare dai livelli di
governo, affrontando senza reticenze alcune questioni,
al cui confronto la spending review è un esercizio per
scolaretti. Basti solo qualche esempio:
– Le Regioni sono davvero necessarie?
– Sono solo un organo decentrato amministrativo
o debbono avere potere legislativo?
58
Democrazia partecipativa
– E le Province?
Attualmente le Regioni si occupano in prevalenza
di sanità, con risultati assai discutibili e con la
conseguenza che, invece di un Servizio Sanitario
Nazionale, abbiamo una ventina di Servizi Sanitari
Regionali, molto diversi tra loro per efficienza e per
costi. Mediamente il servizio reso al Sud è inferiore a
quello reso al Nord, mentre se vi fosse effettivamente
un Servizio Sanitario Nazionale, a direzione unitaria,
le cose andrebbero probabilmente meglio, perché ci si
uniformerebbe alla migliore pratica e si realizzerebbero
movimenti di personale in grado di innalzare la qualità
del servizio.
Per quanto poi riguarda le Province, non si è
ancora capito se e come esse siano state soppresse.
Non entriamo nel merito, ma è chiaro che, se si
decide di sopprimerle, occorre farlo con metodo e
con chiarezza, per evitare disagi ai cittadini e ridurre
i contraccolpi sui lavoratori.
secondo passo: ridefinizione dei compiti e delle
responsabilità
Una volta definiti i livelli di governo, si procede ad
una ridistribuzione razionale dei compiti e delle
responsabilità.
59
7. Un progetto per il nostro Paese. II.
È solo a questo punto che si può riuscire a porre
correttamente due questioni molto delicate, e
continuamente evitate dalla politica:
– il grande tema del decentramento del potere
d’imposizione tributaria.
– la solidarietà tra le varie parti del Paese.
In queste materie vanno escogitati meccanismi
capaci di stimolare le Amministrazioni locali
a svolgere sempre meglio le loro funzioni. Tali
meccanismi debbono essere semplici e, soprattutto,
debbono essere fatti conoscere per tempo a tutti i
cittadini, e non solo per un bisogno di trasparenza,
ma perché essi possano contribuire al loro migliore
funzionamento.
le scorciatoie inconcludenti
Quella qui delineata è un’operazione assai complessa
che richiede anni di lavoro e l’apporto di persone
specializzate nella gestione delle grandi organizzazioni. Ma è un’operazione inevitabile, se si vuole
dare una vera e duratura svolta alla nostra Pubblica
Amministrazione.
Non vi sono scorciatoie. O meglio, le scorciatoie ci
sarebbero, ma – come si sa – in cose di questo genere
allungano la strada, e non portano a destinazione!
60
Democrazia partecipativa
E infatti le scorciatoie, in questioni di tale gravità,
generano solo confusione, polemiche, disservizio,
causando avvilimento in chi fa il proprio dovere e
offrendo un alibi a chi non lo fa.
A ben vedere, la spending review è un buon esempio
di scorciatoia inconcludente, o meglio (tenendo conto
delle buone intenzioni e di qualche aspetto positivo)
poco concludente, perché essa, se ha eliminato qualche
vistoso spreco (per altro ben noto e facilmente
percepibile), ha soprattutto alimentato interminabili
polemiche non solo da parte di chi ritiene, a ragione
o a torto, d’essere stato colpito da determinati tagli,
ma anche da parte di chi ritiene, più o meno a
ragione, che questo o quel taglio pregiudichi l’efficacia
dell’azione dell’Amministrazione con conseguente
disagio dei cittadini. Ma la cosa decisiva è un’altra,
e cioè che – nel migliore dei casi – essa ha eliminato
qualche sperpero, ma non ha migliorato in nulla la
macchina amministrativa, anzi l’ha peggiorata…
anche perché è di gran lunga meglio che un impiegato
(o un funzionario) dello Stato abbia sul suo tavolo
due matite invece di una sola (che forse potrebbe
essere sufficiente), piuttosto che rischiare di non
averne nessuna!
Lo stesso discorso vale per la informatizzazione
61
7. Un progetto per il nostro Paese. II.
della Pubblica Amministrazione. È innegabile che
questa debba modernizzare il proprio modo di lavorare
e debba utilizzare le migliori tecniche informatiche.
Ma una tale operazione non può essere avviata a caso
(da questo o quel Ministero, da questa o da quella
Direzione Generale). Occorre un disegno unitario che
chiarisca il punto di arrivo e i tempi di attuazione,
e che sappia coinvolgere i cittadini, aiutandoli – se
occorre – a prepararsi opportunamente alla novità
di una Pubblica Amministrazione informatizzata.
62
8.
UN PROGETTO PER IL NOSTRO PAESE.
III. UN NUOVO WELFARE
i tre assi portanti del «progetto-paese»
Nei due capitoli precedenti abbiamo visto due dei
tre assi portanti del «Progetto-Paese»:
– lo sviluppo dell’economia,
– la revisione radicale della macchina amministrativa.
Qui ci soffermeremo sul terzo:
– la costruzione di un sistema di welfare (nel
significato che comunemente si dà a questa espressione)
rispettoso dell’uomo e della sua dignità.
Il primo e il terzo asse – economia e welfare –
sono inscindibilmente legati, costituendo insieme
l’unitario sistema socio-economico del Paese,
il cui funzionamento ottimale dovrebbe essere
supportato dal secondo asse (una buona macchina
amministrativa).
63
8. Un progetto per il nostro Paese. III.
l’asse del welfare e la metafora della torta
Una metafora di cui ci si serve volentieri per descrivere
alcune importanti dinamiche in tema di welfare è
quella della divisione della torta.
Secondo la versione più comune della metafora,
la migliore soluzione sarebbe quella di far sempre
la torta quanto più grande è possibile, per poterla poi
distribuire meglio.
Ma questa soluzione, in apparenza così sensata,
è – a ben vedere – del tutto estranea alla logica del
reale. E infatti, siccome la dimensione di una torta
dipende sempre dal modo in cui si intende dividerla
(distribuirla), non ha senso dire: “prima ingrandiamo la
torta e poi la distribuiamo”. Produzione e distribuzione
sono fenomeni interdipendenti, nel senso che i
meccanismi distributivi incidono fortemente sulla
quantità della produzione.
due opposte concezioni di welfare
Il tipo di società che «Democrazia Partecipativa» ha in
mente attribuisce al welfare una posizione molto alta
nella gerarchia della spesa pubblica, diversamente da
quanto accade oggi nel nostro Paese, dove esso viene
di solito considerato come qualcosa di residuale (…
“se rimane qualcosa in cassa, lo si da in welfare”), e
64
Democrazia partecipativa
si è sempre pronti, in caso di necessità, ad utilizzare
questo residuo come volano per aggiustare i conti
statali.
Sappiamo bene che, se si toglie al welfare l’attuale
carattere residuale e, di conseguenza, se ne irrigidisce
l’onere, si irrigidisce anche il bilancio dello Stato.
Né ignoriamo i complessi problemi di sostenibilità
che la sua posizione alta nella gerarchia della spesa
comporta. Ma queste ed altre simili difficoltà non
riescono a mettere in discussione la centralità del
welfare in una società che non voglia perdere di vista
l’uomo e la sua dignità.
Naturalmente i conti debbono quadrare, altrimenti
si costruiscono castelli di sabbia. E per farli tornare non
c’è altra soluzione che crescere. E, per crescere, non si
conosce finora altro modo che mettere le imprese in grado
di competere alla pari sui grandi mercati internazionali.
Cosa, quest’ultima, che si riesce a garantire solo se si
consente alle tante persone che hanno idee e capacità
innovative di esprimerle al meglio.
il problema della sostenibilità
Il problema della sostenibilità del welfare non va sottovalutato, ma non va neppure ingigantito. Nel nostro
Paese vi sono ancora ampi margini per recuperare
65
8. Un progetto per il nostro Paese. III.
efficienza, soprattutto attraverso una migliore organizzazione dei servizi, che dovrebbe mirare a due
obiettivi principali:
– dare maggiore spazio agli effettivi portatori di
bisogno,
– riservare allo Stato non il ruolo di produttore ma
quello – ben più importante – di garante del buon
funzionamento del sistema dei servizi.
Naturalmente non si può escludere che, in caso
di crisi particolarmente gravi, anche le risorse per il
welfare possano subire tagli. Ma dovrebbe trattarsi
in ogni caso di tagli sostenibili. E, soprattutto, le
procedure per effettuarli dovrebbero essere stabilite
in anticipo – ad esempio in sede di approvazione
parlamentare dei bilanci preventivi, precisando come
debbano essere fatti gli «aggiustamenti» dei conti
qualora la finanza pubblica abbia un andamento
difforme dalle previsioni e in quali specifiche
condizioni possano essere ridotte le spese per il
welfare.
Noi siamo convinti che il nostro sistema di welfare
(oggi caratterizzato da sovrapposizioni, alti costi di
gestione e gravi inefficienze) potrebbe essere reso più
efficace, a parità di condizioni, anche da una sua
semplice revisione generale, che potrebbe liberare
66
Democrazia partecipativa
risorse sufficienti a renderlo più sicuro o meglio
articolato, migliorare la qualità dei servizi, risolvere
alcuni gravi problemi endemici.
Nella nostra sanità vi sono casi di eccellenza, dovuti
per lo più all’abnegazione e allo spirito di sacrificio
di singole persone particolarmente motivate. Ma è
un fatto che le persone povere fanno fatica a curarsi.
Molte patologie sono curate solo parzialmente e,
spesso, proprio nella fase più delicata, il paziente
viene abbandonato a se stesso. Una conferma di
questa amara realtà l’abbiamo dalla circostanza che
in Italia una delle principali cause dell’usura è proprio
la sanità. Si può discutere quanto si vuole sull’usura
e sulla sanità. Resta il fatto che tra l’una e l’altra non
dovrebbe esserci alcuna connessione; e invece c’è ed
è anche molto stretta.
il welfare come diritto di cittadinanza
D’altra parte, quand’anche vi fossero seri problemi
di costo per conservare un buon livello di welfare,
rimarrebbero pur sempre queste domande:
– come rassegnarsi all’idea che i concittadini in
difficoltà debbano ricevere come elemosina ciò che
dovrebbe essere loro dovuto per diritto di cittadinanza?
– quale futuro può avere una società che non
67
8. Un progetto per il nostro Paese. III.
riesce a soddisfare i bisogni essenziali di una parte
dei suoi componenti e perciò stesso è soggetta a forti
lacerazioni del tessuto civile?
Sarebbe molto miope un comportamento che
guardasse solo agli aspetti di breve termine e non
s’interrogasse sugli effetti di lungo periodo. In questa
materia la miopia, col tempo, non paga. Non si può
ridurre un fatto di grande rilevanza etico-politica,
un fatto di civiltà – qual è un buon sistema di
welfare – ad un mero problema di conti. Tagliare il
welfare, negare a tante persone il minimo vitale, non
è un’opzione! Vanno esplorate altre strade per tenere
in equilibrio i conti pubblici.
68
9.
TRA SVILUPPO E WELFARE
chi deve farsi carico del welfare?
Non c’è dubbio che, nel mondo sempre più competitivo della globalizzazione, il welfare vada protetto,
riformato e migliorato. D’altra parte, per garantire
questa protezione e questo miglioramento, �������
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indispensabile consentire all’economia del Paese di
crescere e svilupparsi. Nemmeno di questo è lecito
dubitare.
Questo significa che la tutela (sempre più necessaria
e onerosa) dei soggetti che non reggono il ritmo della
competizione andrà garantita con criteri che non
compromettano l’economicità delle imprese. E infatti
è privo di senso comune pensare di scaricare su di esse
(come si fa oggi in Italia) la protezione dei soggetti
deboli, obbligandole ad assumere lavoratori scelti in
determinate categorie, oppure imponendo loro forti
limiti alla rescissione dei rapporti di lavoro, ecc. In
questo modo non si fa che indebolire la loro capacità
69
9. Tra sviluppo e welfare
di competere e, alla lunga, si rende assai precaria la
tutela stessa dei lavoratori.
Se si vuole ottenere la crescita dell’economia
– indispensabile per il sostegno del welfare –, si deve
consentire alle imprese di recuperare flessibilità anche
nel campo del lavoro. E di recuperarla in fretta.
Ma – sia chiaro – flessibilità dell’impresa non vuol
dire, per noi, precarietà dell’occupazione e del lavoro,
perché contrastare quest’ultima è altrettanto essenziale
quanto proteggere l’altra. L’impegno deve consistere
nel trovare soluzioni che rendano compatibili le due
cose.
E queste soluzioni ci sono, purché si abbandoni
l’idea che alla sicurezza dei lavoratori debbano
comunque provvedere le imprese in cui questi
prestano la loro opera; e infatti, se si vuole dare vera
stabilità alla tutela dei più deboli, non si può pensare
di caricare sulle imprese oneri che alla lunga esse non
potrebbero sopportare.
Tuttavia abbandonare tale idea non è possibile se
non si mette in discussione il convincimento che la
sorregge, vale a dire la tesi che tra capitale e lavoro
non possa esserci che un rapporto conflittuale, sicché
quando le parti hanno in qualche modo raggiunto
un’intesa lo Stato non avrebbe più niente da dire.
70
Democrazia partecipativa
E invece compito dello Stato dovrebbe essere
quello di non accontentarsi di apparenti soluzioni
dei conflitti tra capitale e lavoro, ma collaborare
alla neutralizzazione delle cause che li scatenano o
li alimentano. Pensando di rinunciare a questa sua
alta responsabilità, scaricando la patata bollente sulle
imprese, lo Stato non solo non assolve ad un suo
preciso compito, ma nuoce alle imprese e finisce alla
lunga col danneggiare gli stessi lavoratori.
Anche se non è facile liberarsi da idee e prassi così
fortemente radicate nella nostra cultura, bisognerà
provarci, nella consapevolezza che può riuscirci
solo una politica rinnovata in profondità dalla
partecipazione dei cittadini.
proteggere l’impresa per proteggere il welfare!
Resta naturalmente il fatto che lo sviluppo è opera
delle imprese e che la politica deve prestare la
massima attenzione ai loro problemi, e non certo per
arricchirne i proprietari, ma per far sì che le imprese
possano competere sempre più efficacemente nel
mondo globale.
Occorre cioè una vera e propria politica dell’impresa,
che tra l’altro crei le condizioni per una corretta
cultura d’impresa.
71
9. Tra sviluppo e welfare
Oggi nel nostro Paese questa cultura è praticamente
assente, intrisa com’è di luoghi comuni, di preconcetti
e di idee francamente sbagliate. Ma più che ricercare le
cause di questa situazione, qui ci interessa ribadire tre
concetti sul ruolo e sul funzionamento dell’impresa.
Il primo è che la produzione di beni e servizi, come
fonte di occupazione e di soddisfacimento dei bisogni
dell’uomo, può essere modellata nei modi più vari
e senza che implichino necessariamente il profitto
d’impresa. Ma, dopo il fallimento di tante ipotesi,
questi modelli vanno ancora ricercati e collaudati.
Sicché per adesso serie alternative all’impresa tipica
(all’impresa volta al profitto) non sono ancora emerse.
Il secondo è che, certamente, altri modelli – come
quelli non profit, cooperativistici, ecc. – si possono affiancare all’impresa volta al profitto, ma è innegabile
che questa rimane il modello di gran lunga più funzionale allo sviluppo.
Il terzo è che, si cerchino pure altri e più efficaci
modelli di produzione, ma intanto si faccia funzionare
al meglio l’impresa e si renda meno problematico (e
possibilmente anche più amichevole) il contesto in cui
essa deve operare. E lo si faccia, prendendosi cura dei
fattori che incidono sulle scelte d’impresa in materia
di crescita e di localizzazione.
72
Democrazia partecipativa
una fiscalità per lo sviluppo
Tra i fattori che più hanno bisogno di interventi
c’è certamente il trattamento fiscale, che in Italia è
estremamente confuso, oltre che molto oneroso.
In questa materia sono indispensabili essenzialmente
due cose: chiarezza nella normativa e meccanismi
idonei a stimolare gli investimenti.
Per quanto riguarda il primo punto, basterebbe
il già ricordato Testo Unico sull’attività d’impresa,
destinato ad essere il cuore di una politica di crescita
della nostra economia.
Sul secondo punto bisognerebbe varare una vera e
propria fiscalità per lo sviluppo, che affermi il principio
che – in materia d’imposizione diretta – le imprese
non sono soggetto d’imposta, mentre lo sono coloro (a
cominciare dagli azionisti e dagli investitori di capitale
in genere) che percepiscono da esse dei redditi. In tal
modo, tra l’altro, si combatterebbe energicamente
l’evasione, oggi in parte dovuta proprio al groviglio
di norme in materia di determinazione del reddito
d’impresa. E inoltre si accrescerebbero le possibilità
di autofinanziamento delle imprese (grazie al fatto
che, fino a quando non è distribuito, il reddito è
esente da imposta) e si favorirebbe il loro sviluppo.
Una trasformazione di questo tipo può essere
73
9. Tra sviluppo e welfare
fatta anche gradualmente, ma è innegabile che
il suo solo annuncio darebbe una vera e propria
scossa al mondo imprenditoriale e consentirebbe di
vincere uno dei mali endemici del nostro apparato
produttivo, costituito dalla scarsità del cosiddetto
capitale di rischio. E infatti il nostro Paese ha sì (o
meglio l’aveva fino a qualche anno fa) una certa
abbondanza di risparmio – che è cosa diversa dal
capitale di rischio, pur avendo con esso stretti legami
–, ma soffre di una grave carenza di capitale disposto
a correre l’alea dell’impresa, o – in altre parole – non
riesce a trasformare il risparmio in capitale di rischio,
probabilmente anche a causa di un trattamento
fiscale che, nel finanziamento dell’impresa, favorisce
l’indebitamento.
La riforma radicale che qui si propone sembra
essere – nelle attuali condizioni della finanza pubblica
– di problematica attuazione, anche perché, almeno
nei primi anni, potrebbe determinare un calo di
gettito. Ma la sua introduzione, oltre a dare quella
scossa di cui l’economia ha assoluto bisogno, potrebbe
essere l’occasione per aprire un dialogo franco e sereno
con l’Europa di cui non possiamo più fare a meno.
Di fronte ad un progetto serio, che porti nel tempo
al riequilibrio dei nostri conti, l’Europa potrebbe
74
Democrazia partecipativa
anche accordarci ulteriori e controllati sforamenti
di debiti e deficit.
A questo proposito è sciocco (oltre che inutile)
rivendicare con arroganza la nostra autonomia. La
verità è che la nostra autonomia è già compromessa,
e non tanto per colpa dell’Europa ma per il livello
di debito che abbiamo accumulato e per la nostra
pervicace ostinazione a non prenderne atto. Un gesto
di coraggiosa e responsabile umiltà potrebbe aiutarci,
ci renderebbe più forti e ci darebbe un ruolo che, per
ora, i nostri partner non ci riconoscono.
75
10.
PER UN WELFARE MIGLIORE.
I. LA DESTATALIZZAZIONE
destatalizzare non significa privatizzare
Per prima cosa giova ribadire il concetto di fondo.
Non si può avere un buon welfare se l’economia non
cresce. Chi desidera aiutare gli altri (in particolare i
più bisognosi) a migliorare le proprie condizioni di
vita, se non vuol fare opera vana, deve parallelamente
monitorare lo stato di salute delle imprese. Se non
c’è sviluppo dell’economia, non si può nemmeno
assicurare a nessuno un buon welfare. Si fanno solo
sterili denunce, vuote declamazioni di principio, vieta
demagogia.
Ciò premesso, riteniamo che il nostro sistema di
welfare – pieno di buchi e di incongruenze – debba
essere profondamente ripensato, e a partire dalle sue
basi, e cioè dal ruolo (così pieno di contraddizioni)
che in esso occupa lo Stato – assente là dove ci sarebbe
bisogno della sua presenza, e invece onnipresente
(senza che la sua presenza garantisca equità e qualità
77
10. Per un welfare migliore. I.
dei servizi) in situazioni in cui dovrebbe lasciare
spazio ad altri soggetti.
La quadratura del cerchio può essere garantita solo
da formule che per un verso coinvolgano sempre
più i cittadini (sia i portatori di bisogno che coloro
che vogliono dar loro una mano), e per un altro verso
affidino allo Stato il ruolo di garante o anche, quando
occorre, di finanziatore, ma non quello di gestore
o erogatore del servizio. Occorrerebbero insomma
soluzioni che in un modo o nell’altro mettano in
moto un vasto processo di destatalizzazione della
nostra società.
Destatalizzare non significa, per noi, semplicemente
privatizzare, nel senso che questa parola ha abitualmente di affidare alle imprese e al mercato compiti
in precedenza svolti dallo Stato, e non significa
nemmeno – come tanti credono (privilegiando
un’altra accezione vulgata di privatizzare) – tagliare
le spese, tagliare le imposte, ridurre sempre e comunque
il ruolo del pubblico.
Destatalizzare è un’operazione molto più
complessa, che definisce situazioni in cui lo Stato
rinuncia al ruolo di produttore di servizi necessari
ai cittadini e di interprete unico delle necessità delle
persone e si limita a porre le condizioni perché gli
78
Democrazia partecipativa
stessi cittadini – anche con il suo aiuto – possano
provvedervi direttamente, da soli o in concerto tra
loro, divenendo così attori, arbitri delle scelte su
materie che li riguardano da vicino.
Destatalizzare, insomma, non significa minore
attenzione dello Stato e della politica in genere ai
bisogni delle persone (e soprattutto delle più deboli),
significa soltanto manifestare questa attenzione in
modo diverso, in un modo che sia più rispettoso
della persona, della sua dignità e dei suoi naturali
diritti e, nello stesso tempo, più efficace, perché lascia
maggiore spazio ai soggetti interessati.
una nuova accezione di destatalizzazione
Non c’è dubbio che gli uomini, nelle loro azioni, non
sono mossi solo dal tornaconto personale. E infatti
non sono poche le persone disponibili ad un impegno
volontario gratuito in progetti di rilevanza sociale,
soprattutto se esse possono scegliere il campo d’intervento e possono contribuire a definire le modalità
della loro partecipazione.
Tenendo conto di questo ragionevole assunto
sul comportamento umano, un programma di
destalizzazione potrebbe prendere le mosse, nel nostro
Paese, dai seguenti punti fermi:
79
10. Per un welfare migliore. I.
a) la disponibilità a “dare una mano”. – La naturale
disponibilità degli uomini a «dare una mano» è una
straordinaria risorsa, destinata ad assumere rilievo
sempre maggiore in conseguenza dell’allungarsi
della vita media, perché è certo che in futuro l’uomo
disporrà di più tempo libero rispetto ad oggi.
b) il potenziale della reciprocità. – In uno spirito di
mutualità, l’uomo – l’uomo comune – è disposto a
sacrificarsi per le persone in difficoltà, se sa di poter
contare sulla reciprocità quando fosse lui a trovarsi
in situazioni di bisogno.
c) volontariato d’impresa. – Come la persona fisica,
anche l’impresa, nonostante punti al profitto, può
essere disponibile a svolgere attività su basi volontarie
e gratuite, a sostegno di iniziative socialmente utili.
Si parla in proposito di volontariato d’impresa.
Alla radice di questo tipo di volontariato, c’è la
constatazione che – per produrre – qualunque impresa
deve disporre di una struttura produttiva, intesa come
insieme coordinato di uomini e mezzi, i cui costi hanno
carattere di rigidità, nel senso che sono indipendenti
dalla maggiore o minore intensità della sua utilizzazione.
Ne deriva che, in date condizioni, un’impresa potrebbe
fornire determinate prestazioni senza alcun aggravio di
80
Democrazia partecipativa
costo o con costi trascurabili, mentre tali prestazioni
potrebbero avere un apprezzabile valore per il
destinatario, in funzione del prezzo che altrimenti egli
dovrebbe pagare. In questo divario tra l’utilità per il
destinatario e il costo per il donante sta il fondamento,
anche economico, del volontariato d’impresa.
Nel nostro Paese, nonostante le non lievi
complicazioni burocratiche, vi sono interessanti
esempi di volontariato d’impresa, ed è chiaro che
essi potrebbero moltiplicarsi, se si rimuovessero quelle
complicazioni e, ancor più, se di adottassero misure
idonee a incoraggiare simili forme di collaborazione.
due linee di azione
Muovendo da questi punti fermi, una politica che
voglia destatalizzare la società italiana deve agire contemporaneamente su due leve: l’una culturale e l’altra
economico-fiscale.
Sul piano culturale occorre, innanzi tutto, dare
un chiaro messaggio sulla superiorità etico-pratica
dell’azione individuale sull’azione statale, anche
nel variegato campo del sociale. A chiarire questo
punto possono servire le illuminanti considerazioni
sviluppate a questo proposito, in varie occasioni, da
Giovanni Paolo II.
81
10. Per un welfare migliore. I.
Occorre inoltre risvegliare negli italiani l’orgoglio
di appartenere ad una comunità ricca di storia e –
se potesse contare sull’impegno di tutti – anche di
prospettive.
Occorre infine risvegliare in tutti il senso dei doveri
civili.
A un tale messaggio (che va ribadito con forza,
perché i lunghi periodi di statalismo sembrano averlo
appannato nella prassi quotidiana) va unito un ben
calibrato insieme di provvedimenti (anche di carattere
fiscale) (a) che consentano ai cittadini – in tutti i casi
in cui ciò sia possibile – di scegliere, in condizioni di
neutralità e di equivalenza finanziaria, se accedere al
servizio pubblico o se provvedervi direttamente, e (b)
che siano capaci di attivare le «energie» (largamente
presenti nella società) disponibili ad impegnarsi per
promuovere iniziative utili alla crescita sociale e civile
della comunità e per soddisfare bisogni a cui dovrebbe
provvedere in qualche modo lo Stato.
Per quanto concerne in particolare lo strumento
tributario, occorre puntare sulla deducibilità fiscale
dei contributi dati dai cittadini alle istituzioni non
profit che perseguono finalità d’interesse generale,
opportunamente individuate.
I contributi vanno dedotti non dal reddito
82
Democrazia partecipativa
imponibile ma direttamente dalle imposte dovute
(attraverso un credito d’imposta agevolmente
recuperabile) allo scopo di non penalizzare persone
a basso reddito e con bassa aliquota marginale. La
misura della deducibilità può variare da un minimo
del 30-40% ad un massimo del 90-95%, a seconda
della rilevanza sociale dell’attività svolta dal soggetto
beneficiario del contributo. È chiaro che quando la
deducibilità è spinta fino al 90-95% il peso della
contribuzione ricade praticamente sullo Stato (che
rinuncia ad entrate tributarie pressoché pari al
contributo donato dal cittadino all’istituzione non
profit); e questo evidentemente ha senso solo per
quelle attività che – in assenza di iniziativa privata –
lo Stato dovrebbe comunque svolgere.
Con questa formula, il finanziamento di certe attività
ritenute d’interesse generale rimane sostanzialmente
a carico dello Stato, ma la loro gestione viene affidata
ad organismi non profit privati, scelti liberamente
da altri privati i quali, per avere questa possibilità di
scelta, debbono in qualche modo contribuire all’onere
del finanziamento. Per questa via, si introducono nel
finanziamento e nella gestione di quelle attività, diffusi
meccanismi di selezione e di controllo, dai quali è lecito
attendersi effetti positivi sull’efficienza delle risorse
83
10. Per un welfare migliore. I.
pubbliche e private impiegate e sulla congruità dei
risultati raggiunti dalle istituzioni finanziate.
Meccanismi di questo tipo sono particolarmente
adatti per promuovere – attraverso strutture non
profit – l’iniziativa privata in campo assistenziale,
culturale e scientifico nonché gli aiuti ai Paesi poveri
e il finanziamento della politica e dei partiti politici.
In verità, la normativa fiscale del nostro
Paese prevede qualche esempio del meccanismo
qui descritto. Ma si tratta di timidi tentativi
sostanzialmente inefficaci, perché farraginosi, poco
divulgati e, soprattutto, perché la misura della
deducibilità è assai limitata.
Occorre, al contrario, che questi meccanismi
siano introdotti su vasta scala, siano accompagnati
da consistenti e ben calibrate deduzioni fiscali
e – cosa molto importante – siano presentati
all’opinione pubblica come il portato di un profondo
cambiamento del rapporto stato-cittadino, statosocietà; insomma come il portato di una pacifica
«rivoluzione» che vuol rimettere la persona umana
al centro della politica.
È ragionevole prevedere che, per questa via,
grazie alla generosità e alla fantasia degli italiani
assisteremmo ad una grande fioritura di iniziative,
84
Democrazia partecipativa
capaci di migliorare largamente il nostro tessuto
sociale e civile.
A chi opponesse problemi di copertura della spesa
si potrebbe replicare che l’iniziativa prospettata –
implicando un diffuso cambiamento di mentalità e
di costume – richiede tempi di rodaggio non brevi e,
dunque, produce effetti differiti sul bilancio statale,
E in secondo luogo va chiarito che essa si inquadra
nel più ampio contesto del «Progetto-Paese», per il
quale, come si è già detto, occorre un’auspicabile
intesa con la Comunità Europea.
Non ci nascondiamo che il descritto processo di
destatalizzazione non può essere né breve né facile.
Per agevolarne il corso può rivelarsi utile la
costituzione di un apposito «Organismo» pubblicoprivato con struttura estremamente leggera, di durata
limitata e con una governance che veda largamente
presenti i cittadini e le loro organizzazioni. Alla
scadenza tale «Organismo» verrebbe sciolto, oppure
– previo drastico ridimensionamento – verrebbe
trasformato per assumere il compito di monitorare
per qualche anno ancora il buon funzionamento del
sistema di welfare così destatalizzato.
85
11.
PER UN WELFARE MIGLIORE.
II. UN’INFRASTRUTTURA SOCIALE SUL TERRITORIO
Non ci nascondiamo che un sistema di welfare, pur
costruito con cura, non dà la certezza che non si
manifestino carenze o disfunzioni dovute per lo più
all’insorgere improvviso di esigenze e situazioni non
prevedibili.
Per prevenire questi inconvenienti e dare al sistema
di welfare efficienza e prontezza d’intervento, sarebbe
opportuno realizzare un’infrastruttura sociale o, ciò
che è lo stesso, una rete di prevenzione sul territorio,
con il compito di ascoltare le persone in difficoltà
per consigliarle, orientarle e aiutarle; di monitorare
il territorio per cogliere bisogni generali o individuali
che il più delle volte, per malintesa riservatezza,
restano silenti e nascosti. I punti di ascolto e di
monitoraggio dovrebbero essere molto numerosi;
ad esempio uno ogni 10-30 mila abitanti.
Una tale infrastruttura sarebbe facilmente
realizzabile. Basterebbe coordinare – magari con un
87
11. Per un welfare migliore. II.
apposito «logo» – le tante Associazioni di volontariato
presenti sul territorio, alcune delle quali di provata
esperienza e di riconosciuta efficacia. A tal fine
sarebbe sufficiente un organismo di coordinamento
che chiarisse le finalità dell’infrastruttura e dettasse le
regole alle quali le Associazioni locali – ove decidano
di partecipare – debbono uniformarsi.
Sul piano giuridico tale organismo potrebbe avere
natura di soggetto privato incaricato di un pubblico
servizio: in ogni caso, come abbiamo già detto, nella
sua gestione occorrerebbe dare il dovuto rilievo ai
privati e al mondo del volontariato.
Si potrebbe anche esplorare la possibilità di
costruire l’infrastruttura utilizzando, ad esempio,
l’Arma dei Carabiniere ben presente e radicata sul
territorio.
Nel quadro di un auspicabile riordinamento delle
forze dell’ordine, si potrebbe affidare ai carabinieri anche
i compiti sopra indicati, magari attraverso la costituzione
di un’apposita sezione speciale dotata di personale
specializzato. Con la credibilità di cui gode e con la
capillare struttura territoriale di cui dispone, l’Arma dei
Carabinieri, potrebbe svolgere egregiamente il compito
coinvolgendo Associazioni di volontariato già esistenti
ed incoraggiando la costituzione di nuove Associazioni.
88
12.
OLTRE LO STATO, LA PERSONA
Per quanto ben costruito, per quanto integrato
con un’infrastruttura sociale sul territorio, il sistema
di welfare lascia – nell’assistenza delle persone in
difficoltà – comunque un vuoto che solo l’impegno gratuito e volontario e la partecipe attenzione
dell’uomo ai bisogni dei propri simili può colmare.
Dobbiamo renderci conto che le strutture più
o meno burocratiche o burocratizzate, per quanto
ben congegnate, non possono fare quello che solo
un rapporto personale – improntato ad amicizia e
solidarietà – riesce a fare.
Questo significa che la solidarietà istituzionale
che fa capo allo Stato – anche quando è realizzata
nel modo migliore e a misura d’uomo – non basta.
Occorre integrarla con la solidarietà individuale nelle
diverse forme che essa può assumere in funzione delle
caratteristiche e delle attitudini delle persone che se
ne fanno portatrici.
L’idea che possa far tutto lo Stato è fallace non solo
89
12. Oltre lo Stato, la persona
e non tanto perché esso non riesce a reperire i mezzi
necessari, ma perché, quand’anche vi riuscisse, non
sarebbe comunque in grado di dare alla sua azione
la cosa più importante, vale a dire la capacità di far
sentire all’altro amicizia e solidarietà.
La verità è che, se vogliamo fare della nostra
Comunità – o meglio delle nostre Comunità locali
(piccoli e medi comuni e quartieri delle grandi
città) – delle autentiche Comunità solidali, non
basta impegnarsi per realizzare un welfare sempre
migliore; dobbiamo saper andare oltre, e scoprire o
riscoprire l’importanza della partecipazione personale
e dell’impegno volontario.
Ecco perché noi auspichiamo che nelle piccole
e grandi Comunità locali sorgano Associazioni di
residenti con lo scopo di fare tutto quel che si può fare
per migliorarne le condizioni di vita e per occuparsi
di cose che un sistema di welfare – per quanto ben
costruito – non può fare.
Queste Associazioni si dovrebbero anche proporre
di diffondere – soprattutto tra i giovani – la cultura
della solidarietà, e in particolare l’idea che esistono
certamente i diritti di cittadinanza ma che, prima
di questi, ci sono i doveri di cittadinanza, senza
i quali i primi risulterebbero del tutto privi di
90
Democrazia partecipativa
significato. È solo così che si formano cittadini
consapevoli, oltre che dei diritti, anche dei doveri
di cittadinanza, e perciò disponibili, ad esempio, ad
accettare un aumento delle imposte per spostare verso
l’alto l’asticella della solidarietà istituzionale, come
condizione per migliorare sempre più il sistema di
welfare.
Il nostro Partito vede con grande favore queste forme
associative – con scopi, per così dire, indifferenziati –,
ma non se ne vuole fare diretto promotore, perché è
convinto che esse debbono nascere e crescere al di fuori
dei partiti. Queste Associazioni debbono coinvolgere
il meglio della comunità senza distinzione di credo
politico: il legame che deve unire gli aderenti non è
l’appartenenza ad uno stesso Partito, ma il rispetto
per i propri simili e la consapevolezza profonda che
al nostro simile in difficoltà dobbiamo prestare aiuto
non perché ne proviamo compassione ma perché ne
abbiamo il dovere.
Il nostro partito dunque guarda con grande favore
a queste Associazioni e si augura che i propri aderenti
vi partecipino attivamente. Per ora non può far altro.
Ma se in futuro avrà forza politica per incidere sulle
decisioni parlamentari si adopererà perché – nel
quadro delle cose dette in precedenza – i contributi
91
12. Oltre lo Stato, la persona
dati ad Associazioni aventi gli scopi sopra delineati
abbiano un favorevole trattamento fiscale.
92
Finito di stampare nell’ottobre 2014
presso Dali Studio srl, Viale delle Milizie 38 (Roma)
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