Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 1, 29-44
CONTENZIONE: ASPETTI CLINICI, GIURIDICI E PSICODINAMICI
Vittorio Ferioli
Introduzione
Con il termine di “contenzione” mi riferisco esclusivamente alla “contenzione meccanica”,
quell’insieme di strumenti fisici, applicati a segmenti corporei o a tutto il corpo della persona,
impiegati per limitare la capacità di movimenti volontari dell’individuo. Tralascio volutamente,
nel tentativo di focalizzare meglio il problema che mi sembra più rilevante, le accezioni più
ampie del termine, quali “contenzione chimica” e “contenzione ambientale” (Dodaro 2011).
Tornerò più avanti sulla possibile significatività della distinzione tra “contenzione fisica” (o
“manuale”) e “meccanica” (uso di strumenti).
“La contenzione meccanica dei pazienti psichiatrici, nelle situazioni di emergenza, è, ancora
oggi, una delle questioni più controverse e dibattute dell’assistenza psichiatrica, in Italia e nella
comunità internazionale” (Sangiorgio e Sarlatto 2007).
La pratica della contenzione solleva una grande quantità di problemi, di ordine tecnico,
clinico, organizzativo, etico, deontologico, giuridico e medico-legale.
Va rilevata la diffusione della contenzione come pratica d’emergenza, sia pure con notevole
variabilità nella frequenza e nella durata della stessa.
La “White Paper of the Council of Europe” dichiara che: ‘‘L’uso di brevi periodi di
contenzione fisica (blocco fisico non prolungato) dovrebbe tener conto del rapporto rischi/
benefici e la contenzione meccanica dovrebbe essere utilizzata solo come ultima risorsa e solo
in casi eccezionali per periodi prolungati” (Steering Committee on Bioethics of the Council of
Europe 2005).
La frequenza nell’uso di interventi coercitivi è stata più volte presa come indicatore della
qualità del trattamento psichiatrico dei pazienti ricoverati (International Quality Indicator
Project) (Strout 2010).
Lo scopo di questo lavoro è di proporre una rassegna della letteratura psichiatrica riguardante
questo controverso aspetto del lavoro clinico, evidenziandone alcuni nodi critici e proponendo
alcune ipotesi per il suo superamento.
Aspetti epidemiologici e clinici
Diversi ricercatori hanno rilevato che la contenzione meccanica rimane il metodo di gestione
più usato per i comportamenti ostili e/o violenti nei reparti psichiatrici, specialmente per gli
episodi di maggiore gravità (Fisher 1994, Sailas and Wajlbeck 2005, Biancosino et al. 2009).
SOTTOMESSO FEBBRAIO 2012, ACCETTATO APRILE 2013
© Giovanni Fioriti Editore s.r.l.
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È importante rilevare che anche dai dati (comunque non omogenei) emerge quanto ancora la
questione sia problematica.
Nei reparti psichiatrici per acuti, in Italia, avvengono in media 20 contenzioni ogni 100
ricoveri e queste riguardano 11 pazienti ogni 100 ricoverati. Alcuni lavori più recenti (Biancosino
et al. 2009) riportano percentuali più ottimistiche: 6,3% dei pazienti. Questi ultimi valori sono
in linea con altre realtà europee: Svizzera, 6,6% (Martin et al. 2007) e Finlandia, 5,7% (KaltialaHeino et al. 2000).
La durata del singolo evento varia da un minimo di 2 ore a un massimo di 60 ore, con una
durata media di 16 ore.
Negli USA (Allen et al. 2001) la contenzione riguarda l’8,5% dei pazienti, per una durata
media di 3,5 ore ± 3 ore.
Fattori di rischio
Da una ricerca italiana (Sangiorgio e Sarlatto 2007) sono segnalati, quali fattori di rischio per
la contenzione:
• Bassa sicurezza e comfort delle strutture;
• Frammentazione o compromissione della funzione di leadership, su cui poggiano identità e
continuità dell’istituzione. Questo porta a risposte regredite e massimali dello staff;
• Malfunzionamento dello staff e difficoltà d’integrazione dei diversi ruoli professionali che
aumentano le angosce primitive;
• Gigantismo dei bacini d’utenza con sovraccarico dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, alto
numero di ricoveri, riduzione delle informazioni utili e dei tempi necessari a gestire la crisi.
Aggiungerei una considerazione. I Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) in Italia
sono stati a lungo ritenuti, più o meno esplicitamente, a volte anche da chi vi lavora, il luogo del
fallimento terapeutico (Scala 2002), una sorta di sgradevole necessità.
In una prospettiva di prevalente dicotomia o, quanto meno, non integrazione tra “ospedale” e
“territorio”, raramente il personale viene motivato a elaborare la propria esperienza emotiva al
fine di migliorare le tecniche d’intervento.
Probabilmente per questa ragione, la formazione per i gruppi di lavoro degli SPDC italiani
non prevede, salvo qualche eccezione, un’attenzione agli aspetti psicodinamici dell’emergenza.
È come se questi ultimi fossero considerati estranei al problema, quando non controproducenti.
La maggior parte della formazione è orientata ad aspetti, certamente fondamentali, medici e
farmacologici, che però richiederebbero, per essere più efficaci, un’adeguata formazione alla
relazione terapeutica.
Mi sembra che perciò gli SPDC siano un punto delicato e fragile della relazione tra il paziente
e il Dipartimento di Salute Mentale e che questa fragilità contribuisca ad attivare meccanismi di
difesa primitivi, nei quali faccio rientrare anche il ricorso alla contenzione.
Può essere utile un confronto con la situazione degli Stati Uniti, dove, per la spinta di una
realtà economica difficile, i criteri per il ricovero obbligatorio si sono spostati da un modello di
trattamento in base alla “pericolosità”, a un modello di trattamento “meno restrittivo possibile”
(Currier e Allen 2000).
Aumentare la regolamentazione riduce la frequenza degli episodi, come indicano le prove
seguenti.
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Contenzione: aspetti clinici, giuridici e psicodinamici
L’introduzione nel 1999, da parte dell’Health Care Financing Administration (HCFA), di
regole per la contenzione meccanica impone una valutazione “faccia a faccia” del paziente, da
parte del medico, “entro un’ora” dall’inizio della contenzione.
Le regole JCAHO (Joint Commission on the Accreditation of Healthcare Organizations)
richiedono il monitoraggio “uno a uno” dei pazienti. Dopo l’entrata in vigore di questa norma,
il numero e la durata degli episodi di contenzione sono diminuiti del 50% (Currier e FarleyToombs 2002).
Sono stati identificati due fattori chiave, responsabili dell’aumento delle probabilità di episodi
di contenzione (D’Orio et al. 2004):
mancata identificazione precoce e gestione inefficace dei comportamenti problematici.
Le soluzioni proposte sono:
• Risposta di squadra, segnali in codice per allertare la squadra, re-training del personale nella
prevenzione dei comportamenti violenti, con particolare attenzione alle abilità di descalation
verbale come prevenzione, identificazione dei prodromi
• Gestione intensiva dei pazienti a rischio con metodi di descalation verbale, “time-out” e
terapia farmacologica
• Incremento del monitoraggio con videosorveglianza (continua) e addestramento del personale
al monitoraggio
Questo programma ha portato a una riduzione del 39% degli episodi di contenzione e ha fatto
salire al 100% l’aderenza ai protocolli standard per la contenzione.
La formazione specifica sulle tecniche di “descalation” e di “contenimento fisico sicuro”
nella gestione delle “emergenze comportamentali” è alla base del superamento della contenzione
meccanica. Gli interventi vanno dal solo colloquio, con o senza somministrazione di farmaci,
fino all’immobilizzazione momentanea del paziente, attuata dallo staff. Se è necessario si
attivano le Forze dell’Ordine. Durante la procedura si può ricorrere a trattamenti farmacologici.
La durata della manovra è tra i cinque e i dieci minuti. Questo tipo di contenimento corporeo, che
si contrappone alla classica contenzione meccanica, è necessario per dare sicurezza al paziente
in questione e agli altri ricoverati (Vanni et al. 1994).
È segnalato anche il ruolo della gestione del trattamento farmacologico precoce (nelle prime
48 ore di ricovero) nella prevenzione di isolamento e contenzione. I pazienti cui non è stata
incrementata o modificata la terapia farmacologica nelle prime 48 ore, hanno 5,5 volte più
probabilità di essere sottoposti a contenzione (Goldbloom et al. 2010).
Danni da contenzione meccanica
La pratica della contenzione è associata a morbilità e mortalità a breve e a lungo termine
(queste ultime meno note), in particolar modo per trombosi venosa profonda e per embolia
polmonare (Dickson e Pollanen 2009).
Si possono elencare più in dettaglio gli effetti dannosi della contenzione meccanica a livello
fisico (Gulizia et al. 2008).
Lesioni dirette
• Neurologiche (plesso brachiale) da compressione
• Ischemiche da compressione
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• Trombo-embolia nei pazienti contenuti a lungo, anche in assenza di fattori di rischio
• Asfissia
• Morte improvvisa, in seguito ad un periodo prolungato di agitazione psicomotoria, come
conseguenza dei dispositivi fisici di contenzione
• Ipertermia e “Sindrome Maligna da Neurolettici”
Effetti indiretti
• Maggiore durata della degenza
• Aumentata mortalità
• Declino nel comportamento sociale e cognitivo (soprattutto negli anziani)
• Rischio uguale o superiore di caduta (soprattutto negli anziani)
Una revisione degli eventi avversi e dei fattori di rischio associati (Mohr et al. 2003),
evidenzia alcune implicazioni della contenzione meccanica. I clinici dovrebbero ottenere una
valutazione cardiovascolare preliminare, considerare i fattori di rischio, l’osservazione “uno a
uno” dovrebbe essere lo standard clinico durante la contenzione.
Sempre secondo gli autori, i limiti di questa pratica sono: la dubbia collocazione tra gli
interventi terapeutici, la mancanza di solide prove scientifiche, la scarsa attenzione data alle
morti e alle lesioni correlate all’uso della contenzione.
Mancano indicatori per misurare la sofferenza soggettiva e l’impatto rilevante sul disturbo
post-traumatico in seguito agli interventi coercitivi.
Per comparare i diversi tipi di intervento coattivo e per selezionare i pazienti che necessiteranno
di supporto dopo tali interventi, è stato messo a punto un questionario di 44 item, la “Coercition
Experiens Scale” (Bergk et al. 2010):
9 item riguardano la restrizione dei diritti umani e 35 item riguardano gli stressor concernenti
l’episodio. Sono stati identificati 6 fattori: umiliazione, effetti fisici avversi, separazione,
ambiente negativo, paura, costrizione.
Strout (Strout 2010) prende in esame 12 studi, tra il 1966 e il 2009, che si occupano della
contenzione meccanica dal punto di vista dei pazienti (non solamente in contesti psichiatrici).
Sono stati identificati quattro aspetti:
1.“impatto psicologico negativo” che include: paura, rabbia, umiliazione, demoralizzazione,
degradazione, impotenza, percezione di violazione della propria integrità personale
2.“ripetizione del trauma”: essere sottoposto a contenzione riporta a pregresse esperienze di
violenza subita
3.“percezione di pratica non etica”: percepire da parte del personale atteggiamento punitivo o
abuso
4.“danni morali”: disperazione, mancanza di aiuto e sensazione di danno interiore.
Molti pazienti hanno riferito di sentirsi più aggressivi o violenti, come conseguenza della
contenzione. Secondo gli autori, la discrepanza tra l’intento del personale e la percezione dei
pazienti può seriamente compromettere lo stabilirsi e il mantenersi della relazione terapeutica.
Questo è particolarmente importante nel setting di emergenza psichiatrica, dove la relazione
terapeutica non è consolidata.
Concludo con un’affermazione di Prinsen e Van Delden (2009): “Esaminando il conflitto tra
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Contenzione: aspetti clinici, giuridici e psicodinamici
principio di beneficialità e autonomia, esperienza del paziente, dignità umana, efficacia, effetti
delle misure coercitive, il complesso di dati degli studi controllati circa i benefici delle misure
coercitive in differenti popolazioni depone, comunque, contro l’uso di tali misure”.
Aspetti giuridici
Dalla legge istitutiva dei manicomi (1904) fino ai nostri giorni, l’eliminazione della
contenzione meccanica nella gestione dei pazienti psichiatrici ha costituito un obiettivo e un
indicatore della qualità della psichiatria italiana.
L’art. 60 del regolamento manicomiale del 1909 disponeva:
“Nei manicomi devono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di
coercizione degli infermi […]”.
Questa norma è stata abolita, almeno secondo la maggior parte degli autori (Dodaro 2011),
con la riforma psichiatrica del 1978, così che attualmente nel nostro ordinamento non c’è
nessuna disposizione di legge che, implicitamente o esplicitamente, autorizzi l’uso di mezzi di
contenzione.
Ricerche in campo internazionale, soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Nord
Europa, hanno indagato il fenomeno e ne hanno misurata la consistenza, le caratteristiche, i gravi
eventi avversi e gli abusi (Currier e Allen 2000). Da quelle ricerche, le Associazioni scientifiche
di quei paesi hanno preso spunto per aprire un ampio dibattito e per elaborare precise linee guida,
al fine di minimizzare il ricorso alla contenzione meccanica ai casi di estrema necessità e per
evitarne ogni forma di evento avverso e di abuso.
In Italia, invece, sono ancora incomplete le informazioni sistematizzate e le ricerche mirate
sulla realtà della contenzione nei servizi psichiatrici e, in particolare, in quelli per acuti (Catanesi
e Troccoli 2005, Spinogatti e Agrimi 2005).
Si conoscono iniziative di “no restraint” realizzate da alcuni SPDC, tra questi il “Club SPDC
aperti no restraint”. Queste esperienze sono ancora poco conosciute e sono carenti le valutazioni
basate su evidenze scientifiche.
Nei grandi contesti urbani e metropolitani, più spesso che altrove, il fenomeno contenzione
tende ad assumere la connotazione di risposta standard a situazioni di pazienti a rischio di gesti
auto- o etero- lesivi (Allen e Currier 2004).
In merito alla contenzione si possono distinguere due posizioni che cercherò di sviluppare e
contrapporre dialetticamente: la posizione che chiamerò “riformista” e quella “massimalista1”.
La prima è in parte corrispondente a quanto dichiara Cerasoli (Cerasoli 2007), che sviluppa
alcuni concetti notevoli anche se opinabili.
La contenzione è intesa quale “ultima risorsa”, in “situazioni pericolose” “non altrimenti
risolvibili ed evitabili”. In altre parole, la contenzione è ciò che va fatto quando non si può fare
altro. Cerasoli ritiene la contenzione un “atto medico” che necessita, quindi, di prescrizione
medica e di consenso informato. L’autore, poi, prende in esame due condizioni: la prima, quella
dell’incapacità a esprimere un valido consenso o dissenso. In questo caso, è fatto riferimento
1 Uso termini dal sapore volutamente “antico”, mutuati dalla storia della politica italiana del primo
Novecento, perché altrettanto “antica” è la “questione” della contenzione.
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allo stato di necessità, disciplinato dall’art. 54 del Codice Penale. In tali circostanze il medico
avrebbe non solo il diritto ma anche il dovere di agire, anche in assenza di esplicito consenso, in
quanto, in caso contrario, potrebbe incorrere nell’accusa di abbandono d’incapace.
Si potrebbe, quindi, parlare di contenzione necessaria in assenza della quale si configurerebbe
abbandono. “È necessario - però - che sussista il cosiddetto principio di proporzionalità. È
evidente quindi che la contenzione non potrà mai essere dettata da motivazioni di carattere
punitivo o giustificata per sopperire a carenze organizzative”. Osserverei, però, che sono proprio
queste ultime, più spesso, a innescare il fenomeno.
L’autore rileva, peraltro, che: “Durante tutto il periodo in cui è contenuto, il paziente dovrà
essere assistito continuativamente e in maniera personalizzata […], la contenzione non è mai un
processo statico, ma sicuramente di tipo dinamico: la rivalutazione, sia nel perseguimento dei
suoi obiettivi (mettere in sicurezza il soggetto e gli altri), sia nei suoi standard procedurali, va
affrontato e rivisto periodicamente”.
In particolare, sempre secondo Cerasoli, “Per quanto riguarda la responsabilità infermieristica,
essendo la contenzione assimilabile a una pratica terapeutica, l’infermiere potrà ricorrervi
soltanto se esiste una prescrizione medica”.
La posizione dell’autore sembra incrinarsi quando è posta la questione del dissenso al
trattamento sanitario e, più precisamente, all’applicazione della misura di contenzione.
“Solo in presenza dell’esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio per legge il medico
potrà prescindere dal consenso del paziente. Né si può ritenere sussistente, nella fattispecie in
esame, lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., legittimante l’applicazione della misura di
contenzione prescindendo dal consenso perché:
• manca il requisito dell’attualità del pericolo perché raramente, a proposito dell’applicazione o
meno di misure di contenzione, esistono pericoli per la vita,
• né potrebbe ritenersi soddisfatto il principio di proporzionalità poiché la misura della
contenzione è limitativa della libertà personale e profondamente lesiva della dignità della
stessa”.
Alla luce delle predette considerazioni, l’autore conclude:
“Il medico non può fare altro che subire il fermo e lucido dissenso del paziente, pena il rischio
di essere accusato di sequestro di persona qualora procedesse ugualmente all’applicazione della
contenzione”.
La seconda posizione, “massimalista”, è sostenuta, invece, da Grassi e Ramacciotti (Grassi
e Ramacciotti 2009).
“Una psichiatria senza contenzione costituisce un obbligo giuridico e prima ancora
deontologico. Vi sono situazioni in cui è consentito, anzi doveroso, intervenire su una persona
anche usando la forza fisica […]. Deve trattarsi però soltanto di una forma di contenimento
momentaneo, inserita in un trattamento terapeutico, giustificabile dall’art. 54 del codice penale
[...]. La contenzione meccanica, oltre a essere illecita, è anche segnale dell’inadeguatezza tecnica
e organizzativa della struttura sanitaria ove sia praticata […] ancor più ingiustificata quando
abbia luogo presso strutture quali i centri diagnosi e cura, istituite proprio allo scopo di far fronte
a situazioni di crisi”.
Ancor più netta è la divergenza rispetto alla posizione “riformista” quando si afferma che
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Contenzione: aspetti clinici, giuridici e psicodinamici
la contenzione può integrare il delitto di sequestro di persona, e, secondo le circostanze, quello
di violenza privata, di maltrattamenti o anche quello di abbandono di incapace. Gli autori
sostengono inoltre che la contenzione meccanica non è un atto medico e non è scriminata dalla
causa di giustificazione atipica dell’esercizio della professione medica; inoltre non è scriminata
dall’art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto), perché l’applicazione dei mezzi di contenzione
è evidente conseguenza del rifiuto del paziente di sottoporsi alla terapia. L’art. 54 c.p. non può
essere utilizzato per scriminare l’uso di letti di contenzione o di altri mezzi atti a limitare in modo
persistente la libertà di movimento della persona.
Secondo gli autori, questa concezione appare l’unica compatibile con l’art. 13 della
Costituzione, che afferma l’inviolabilità della libertà personale. Né il trattamento sanitario
obbligatorio (che pure è autorizzato dal giudice e perciò soddisfa l’art. 13, nella parte in cui
prescrive che ogni limitazione della libertà può essere disposta o convalidata unicamente
dall’autorità giudiziaria) consente di per sé la contenzione, al di là cioè di quella minima
coercizione fisica di cui sopra già si è detto.
“La contenzione meccanica può integrare il delitto di abbandono di incapace. Mentre prima
della legge 180, infatti, l’obbligo di custodia poteva considerarsi soddisfatto con la contenzione
dell’infermo all’interno del manicomio, ora deve considerarsi abbandono il ricovero dell’infermo
in strutture inadeguate, sia sotto il profilo logistico sia sotto quello dell’assistenza e della cura
e in particolare può costituire abbandono il lasciare l’infermo legato a un letto di contenzione”.
Dodaro (2011) analizza approfonditamente il tema della contenzione, giungendo a conclusioni
analoghe:
1. la contenzione meccanica non può considerarsi legittimamente implicata dalla “posizione di
garanzia” perché vietata dalla legge o comunque proibita, mancando delle necessarie garanzie
costituzionali (art. 13)
2. in una interpretazione fermamente restrittiva dello “stato di necessità”, “quando la contenzione
non è circoscritta a pochi momenti necessari, diventa strumento illegittimo”.
Considerazioni teoriche e tecniche: rapporto tra “contenzione” e “contenimento”
Alla luce di questi dati, riprendo brevemente le due posizioni precedentemente affrontate.
Secondo la posizione “riformista”, la contenzione è ammissibile se sono rispettate alcune
condizioni (consenso informato o stato di necessità e durata minore possibile); secondo la posizione
“massimalista”, la contenzione non è comunque ammissibile.
In una versione teoricamente più sofisticata, potremmo immaginare una prospettiva “dialettica”:
si può “riformare” la contenzione, riportandola gradualmente dentro i confini del “contenimento”,
cioè al servizio della relazione terapeutica?
A questo proposito Moylan (2009) sostiene che se usata con approccio umanistico, la
contenzione può dare un esito terapeutico per i pazienti, proteggendo la sicurezza loro e degli altri.
Potremmo, cioè, avere come obiettivo una contenzione “terapeutica” nonché giuridicamente
e deontologicamente fondata?
Una risposta plausibile a tale domanda richiede, a mio parere, una sua riconsiderazione che
avvenga in base a una riflessione sulla letteratura psicodinamica.
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Aspetti psicodinamici
Per approfondire la questione della contenzione meccanica sul piano teorico e tecnico, ritengo
opportuno riprendere un concetto fondamentale, nato dalla teoria della tecnica psicoanalitica e
divenuto un concetto generale di ogni pratica psicoterapeutica e psichiatrica: il “setting”.
Il mio intento è dare solo qualche spunto di riflessione, riprendendo gli aspetti che più
attengono al tema di questo lavoro.
Comincerei da una suggestiva affermazione di Etchegoyen: “Dato che le norme del setting
sono concepite per far procedere la cura nel miglior modo possibile, implicano una posizione
non solo tecnica ma anche etica” (Etchegoyen 1986).
Il setting, la “situazione” (Gitelson 1952), l’ “ambiente” (Lagache 1951) nel quale avviene
la cura, il processo terapeutico, è la componente “costante” del trattamento ed è costituito
da “condizioni materiali” del trattamento (luogo, tempo, aspetti economici) e da “condizioni
psicologiche” intese come “atteggiamento del terapeuta” o “assetto interno” (Bolko e Merini
1988).
Nelle patologie gravi il setting riproduce le primissime cure materne, appagando i primi
bisogni dello sviluppo (Winnicott 1958).
Macalpine (1950) parla, d’altra parte, di “infantile setting”, ambientale ed emotivo, cui il
paziente si adatta gradualmente attraverso la regressione.
Il setting, attraverso la sua interiorizzazione, ha una funzione strutturante per il paziente: è il
luogo del possibile adattamento.
Etchegoyen (1986) riprende lo studio di Bleger sul setting psicoanalitico (Bleger 1967),
precisando alcuni concetti che estenderò alla situazione del trattamento psichiatrico intensivo
ospedaliero, quale va inteso il ricovero in reparto psichiatrico per acuti.
La situazione (analitica come di ricovero) include il processo (variabile) e il setting (costante)
che contiene il processo e si configura come non-processo, il contenitore del processo.
Il setting si presta in modo eccellente a ricevere la “traslazione” (ripetizione) o “transfert”
della realtà originaria della relazione simbiotica madre-bambino.
Nell’immobilità del setting si “deposita” soprattutto la parte psicotica che rimane “muta”, nel
senso che tende a non manifestarsi (Etchegoyen 1986).
Ripensando la situazione del ricovero alla luce di questi modelli psicodinamici, potremmo
parlare del setting come di un’architettura sufficientemente trasparente da permetterci di
ascoltare, vedere e dialogare con le parti psicotiche che inevitabilmente vi si depositano.
Il setting contiene il processo del ricovero, la cura.
Non è forse superflua una precisazione, a proposito del setting.
Nei pazienti gravi, è necessario un contesto istituzionale che, attraverso la molteplicità
delle figure che lo costituiscono, il “gruppo dei curanti”, sia in grado di garantire una presenza
costante, per contenere l’esplosività delle condizioni cliniche più difficili.
I bisogni dei pazienti gravi tendono a trascendere le possibilità di risposta di una singola
figura, per riguardare un intero gruppo, investito di affetti e fantasie dal paziente che gli
attribuisce (spesso a ragione) continuità, potenza e resistenza nel tempo molto superiori a quelli
di cui dispone il singolo (Correale 1997).
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Contenzione: aspetti clinici, giuridici e psicodinamici
In questo modo il peso della “presa in carico” può essere tollerato dai singoli membri del
gruppo attraverso la costituzione di una ”rete terapeutica” per il paziente e di una “rete protettiva”,
speculare alla prima, per i curanti. L’istituzione deve costruire per questi ultimi uno spazio che
abbia le stesse caratteristiche dello spazio terapeutico: di ascolto e di contenimento degli affetti,
dei pensieri e dei comportamenti sperimentati nel contatto con i pazienti (Rinaldi 1999).
Pertanto, nel trattamento psichiatrico intensivo ospedaliero, va tenuto sempre presente che il
“gruppo dei curanti” è “il terapeuta”.
Se sono accettabili le premesse teoriche e tecniche discusse in precedenza, si può ritenere che
tutto ciò che accade nel reparto, per tutto il tempo del ricovero, è da considerarsi all’interno del
“setting” (quindi spiegabile e negoziabile), oppure è “rottura” del setting.
Setting, “contenimento” e “contenzione”
Alla luce del modello teorico descritto, cercherò di sostenere l’ipotesi che la contenzione
meccanica costituisca “rottura” del setting, pertanto sia “non trattamento”, quindi “comportamento
non tecnico”, “malpractice” o, letteralmente, “mal-trattamento”.
Credo possibile proporre una soluzione che implica la revisione del concetto di “contenzione”,
scomponendolo negli elementi minimi costitutivi, direi caratteristici.
In questo modo, si può passare, dalla descrizione di un singolo evento del tipo “tutto o nulla”,
a quella di una catena sommatoria di eventi discreti ma convergenti (ognuno con aspetti psichici e
comportamentali), che dal “contenimento”, un fenomeno complesso finalizzato alla costruzione
della relazione terapeutica, può condurre alla “contenzione”, antitetica al “contenimento” perché
danneggia la relazione terapeutica.
La funzione di “contenimento” (Correale 1999) è il risultato della somma di varie funzioni.
1. Ristabilimento di un senso del “limite” (Correale 1991, Kernberg 1993), necessario al paziente
che vive una condizione di mancanza di confini.
2. Relativamente al concetto bioniano di “contenitore” (Bion 1961), si può pensare al
“contenimento” come all’individuazione di un luogo unitario e protetto, finalizzato a una
integrazione.
3. Riprendendo il concetto di “holding” di Winnicott (1958), il “contenimento” è assimilabile
al tenere in braccio, proteggere, accudire, implicando funzioni sensoriali-affettivo-cognitive
come il toccare, parlare, la “presenza”, dirette a ricostituire le basi del “senso di sé” del
paziente (Correale 1999, Lichtenberg 1992).
4. In un’accezione più ampia, il “contenimento” include anche il trattamento (cioè elaborazione
e trasformazione) dell’aggressività, nel senso di ostilità e distruttività, dei pazienti (Ferro
2009). Perché questo avvenga efficacemente, è necessario che sia elaborata anche l’aggressività
suscitata nel gruppo dei curanti.
“Contenimento” significa, in fondo, percepire correttamente lo stato affettivo dell’altro,
condividerlo e sopportarlo insieme (Correale 1997).
Un “setting” adeguato, permette e favorisce la funzione di “contenimento”, che comporta il
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passaggio dal comportamento, attraverso l’ascolto e la presenza intensiva, all’assenso e poi al
consenso informato, versante giuridico - deontologico della relazione, ove l’alleanza terapeutica
ne è il versante tecnico2, da sottoporre a negoziazione e verifica continua.
Intendo con il termine di “alleanza terapeutica” (Zetzel 1956) la relazione relativamente
razionale, “adulta”, in contrapposizione a quella “transferale”, “infantile”, tra paziente e terapeuta.
L’alleanza terapeutica è un obiettivo, solo parzialmente raggiungibile, ma anche un
fondamentale strumento di lavoro. Il livello di alleanza terapeutica costituisce un indicatore di
processo ma anche di esito del trattamento.
Se la funzione di “contenimento” è compromessa, può verificarsi una rottura del “setting”. In
quest’ambito si collocano il fenomeno e il problema della “contenzione”.
Il “contenimento” può avere vari gradi d’intensità crescente, fino a una “soglia”, superata
la quale la situazione subisce un cambiamento di stato di tipo catastrofico (sia in senso stretto,
matematico, sia in senso umano e clinico), tramutandosi in stato di “contenzione”.
Quando, cioè, si passa alla “contenzione”, l’intensità del “contenimento”, che avrebbe potuto
aumentare fino al livello massimo possibile (per un determinato gruppo dei curanti, in funzione
delle caratteristiche “strutturali”, combinate con i cambiamenti prodotti dalla formazione), crolla
drammaticamente, danneggiando la relazione.
Più che di “stato di necessità” sarebbe più corretto parlare di “stato di calamità” terapeutica.
Si può ritenere che, paradossalmente, il parametro che più oggettivamente indica il
raggiungimento della soglia superata la quale scatta lo stato di “contenzione”, sia osservabile
(poiché si manifesta anche nei comportamenti), pur essendo strettamente connesso a elementi
soggettivi (sostanzialmente ai vissuti e alle reazioni controtransferali dei curanti).
Non è superfluo precisare che, in questo caso, mi sembra più opportuno utilizzare una
definizione piuttosto “classica” del “controtransfert”, come insieme delle reazioni (almeno
inizialmente) inconsce del terapeuta (gruppo dei curanti) alla persona del paziente e più
particolarmente al suo “transfert”, inteso come complesso di affetti di segno positivo e negativo
diretti verso il terapeuta (gruppo dei curanti) (Laplanche e Pontalis 1967).
Il controtransfert, se prevalentemente inconscio, avrà una funzione inizialmente ostacolante
la relazione, mentre un’esperienza controtransferale sufficientemente elaborata, quindi divenuta
prevalentemente conscia o preconscia, sarà strumento utilissimo di comprensione della relazione
(Bolognini 1997).
Bolognini (1997) descrive tre possibili “situazioni empatiche” in analisi. Estendendo il
campo di osservazione al trattamento intensivo ospedaliero, ritengo particolarmente importante,
tra tutte, la “condivisione prolungata di stati di sofferenza del Sé” .
Il processo si articola in due tempi: condivisione, a livello del Sé, seguita (possibilmente) da
comprensione elaborativa.
Il terapeuta (nel nostro caso, il gruppo dei curanti), si trova a condividere col paziente
un’area di esperienza emotiva pervasiva e poco esplicitabile che porta il curante a un vero e
proprio “stato controtransferale” permanente, che il più delle volte procura disturbo e sofferenza.
Esiste un’affinità concettuale tra i termini “alleanza terapeutica” e “consenso informato”: entrambi
si riferiscono a una componente adulta e razionale della relazione e non si realizzano una volta per tutte, ma
attraverso un processo continuo.
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Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,1
Contenzione: aspetti clinici, giuridici e psicodinamici
L’azione trasformativa del terapeuta (gruppo dei curanti) si sviluppa attraverso il ricorso
all’immaginazione, libera associazione, ricordo, capacità di contatto che permettono di rendere
pensabili e dicibili queste esperienze.
Sembra che il paziente, per avere una sufficiente certezza di essere stato compreso, chieda al
terapeuta/i di tornare con lui sui luoghi della sofferenza e di sperimentarla e affrontarla, almeno
per qualche tempo. Bolognini afferma che “la condivisione è un precursore dell’empatia […] In
questa forma di empatia entra in gioco un fattore volontario e consapevole: la determinazione
del terapeuta (o del gruppo di curanti) a tener duro di fronte alla sofferenza, a non recedere di
fronte all’oscurità, a non abbandonare il paziente” (Bolognini 1997).
Possiamo osservare le difficoltà dei curanti anche da un’altra angolazione, utilizzando il
costrutto teorico kleiniano di “identificazione proiettiva”: meccanismo di difesa inconscio (e
modalità primitiva di comunicazione) attraverso il quale aspetti propri (rappresentazioni del Sé
e/o degli oggetti interni) vengono disconosciuti e proiettati in qualcun altro che si identifica
inconsciamente con quanto viene proiettato e tende a sentirsi o a comportarsi in modo conforme
a tale proiezione (Gabbard 2000). Bion (1962) pone l’accento sul versante comunicativo
dell’identificazione proiettiva, trattandola come comunicazione arcaica madre-bambino,
valorizzandola in questo modo nella relazione oggettuale precoce. Il bambino mette nella
madre, attraverso l’identificazione proiettiva, le proprie parti in difficoltà. La madre, attraverso
la funzione di “reverie” (analogamente alla formazione del sogno), permette il passaggio dal
processo primario del bambino al processo secondario. È il contatto emotivo intersoggettivo che
da significato alla relazione madre-bambino.
Osservando il fenomeno nuovamente dal lato del terapeuta (gruppo dei curanti), a seconda del
grado di consapevolezza, da parte dei curanti, di questi movimenti difensivi del paziente, si potrà
parlare, decrescendo la componente consapevole dei curanti, di controtransfert “concordante”,
“complementare” (Racker 1953) o addirittura, quando la risposta dei curanti avviene in modo
massiccio e largamente inconscio, di “controidentificazione proiettiva” (Grinberg 1979).
Si potrebbe dire, insomma, che “siamo della stessa sostanza di cui sono fatti” i pazienti.
In questa sede mi preme distinguere il più possibile e mettere l’accento sulle disfunzionalità,
non tanto dei pazienti, quanto del gruppo dei curanti (perché queste sono da trattare per prime
attraverso la formazione, precondizione al saper trattare i pazienti).
In altre parole, il gruppo curante non può essere genericamente presupposto “in assetto
adeguato”, perché è opportuno evitare accuratamente l’errore di manipolare i concetti di
“identificazione proiettiva” e di “controtransfert allargato” per “addebitare” esclusivamente ai
pazienti tutto ciò che accade (di negativo) nella relazione.
Sarebbe appropriato utilizzare, quindi, come indicatore, anche per ragioni operative, la (o la
perdita della) capacità da parte dello staff di fornire una presenza umana continua in prossimità
e in contatto col paziente, tale da non configurare più un rapporto di holding e condivisione, che
caratterizzano il “contenimento”, ma, al contrario, di abbandono (che principalmente caratterizza
e definisce la “contenzione”).
Si può sostenere la tesi che non è il blocco del paziente che definisce a priori lo stato della
relazione (“contenimento”) o (“contenzione”). Piuttosto è il vissuto soggettivo (oggettivabile
nei comportamenti) di tollerabilità della vicinanza continua al paziente da parte dei curanti, che
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configura la situazione di “contenimento”, quindi di mantenimento della relazione terapeutica,
o, al contrario, di “contenzione”, cioè danno alla relazione terapeutica.
Fino a quando si può resistere nello stare vicino a un paziente, a maggior ragione se bloccato
fisicamente, con l’obiettivo di entrare in contatto con lui, si può parlare di “contenimento”.
Quando, nella stessa condizione, non ce la si fa e si è costretti ad andarsene, cioè la vicinanza
diventa insostenibile, allora scatta la “contenzione”, cioè l’abbandono, il danno alla relazione
terapeutica. Il paziente “bloccato” è condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa
parlare di “contenzione”. La condizione discriminante la rottura (o violazione?) del setting” è il
fatto che non si sia in grado di stargli vicino e relazionarsi a lui, proprio mentre ne avrebbe più
bisogno (Norcio 2002).
Ridefinendo in tal modo il concetto di “contenzione” come abbandono, intendo sottolinearne
le ricadute teorico – tecniche, operative e terapeutiche:
1) la valutazione è correlata a un fenomeno accessibile all’osservazione che ha, però,
determinanti soggettive (il controtransfert, cioè i sentimenti e i comportamenti suscitati nel
gruppo dei curanti dai pazienti), a loro volta influenzabili positivamente attraverso il training
formativo, il costante lavoro di verifica e revisione della qualità del processo terapeutico (in altre
parole, il monitoraggio della tenuta del setting e dell’alleanza terapeutica);
2) in questo senso “restrittivo” (mi si perdoni il gioco di parole), è sostenibile un obiettivo
forte di “zero tolerance for restraint”;
3) è evidente quanto perseguire tale obiettivo abbia lo scopo di rendere l’intervento più
appropriato, intensivo, quindi tempestivo, proprio nelle prime e più delicate fasi dell’emergenza
comportamentale.
Si può ricapitolare il percorso in questo modo:
la “contenzione” è un fenomeno complesso definibile operativamente attraverso parametri
osservabili, principalmente (e pericolosamente) non verbali, cioè comportamenti, trasformabili,
elaborabili, esprimibili sul piano verbale attraverso la formazione del gruppo dei curanti. Tali
comportamenti sono espressivi di vissuti soggettivi dei pazienti e dei curanti, quindi davvero
transferali e contro-transferali in senso molto “classico”, (cioè di ostacolo alla cura):
immobilizzazione fisica del paziente + abbandono da parte dei curanti.
Le conseguenze immediate sulla relazione sono:
• riduzione del contatto (olfattivo, tattile, visivo, uditivo, verbale) e conseguente
• riduzione di intensità del “contenimento”;
• facilitazione della regressione “maligna” con prevalenza dei sintomi psicotici (anche altre
reazioni “maligne” di tipo somato-psichico divengono più probabili, leggi sindrome maligna
da neurolettici, ipertermia maligna, catatonia acuta);
• manifestazioni di angoscia, impotenza, rabbia, vissuti persecutori nel paziente e nel gruppo
dei curanti;
• compromissione della comunicazione col paziente, della possibilità di raggiungere il consenso
e di costruire l’alleanza terapeutica.
Non è il trattenere fisicamente il paziente, ma l’abbandono che definisce la “contenzione”:
finché è mantenuta in vita la relazione, si tratta di “contenimento” (cioè trattamento).
Lavoriamo nella direzione del “contenimento”, se riusciamo a comunicare emotivamente
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Contenzione: aspetti clinici, giuridici e psicodinamici
(attraverso qualsiasi canale) al paziente qualcosa del tipo: “Dobbiamo trattenerLa finché non
riusciamo ad aiutarLa a calmarsi e a stare almeno un po’ meglio. Vedrà che ce la faremo in
pochi minuti. Nel frattempo stiamo qui con Lei. Appena possibile vogliamo lasciarLa libero.
Intanto ci dica come va”.
Se manca questo, abbandoniamo il paziente, invece di curarlo, proprio nel momento in cui
siamo diventati importantissimi per lui (suo malgrado).
Probabilmente questo gli è già successo a partire da epoche molto precoci della sua vita,
perciò, per aiutare il paziente, bisogna saper utilizzare l’elevata “temperatura” della relazione.
Per con-tenere il paziente, è necessario saper tollerare questa temperatura, altrimenti finiremo
necessariamente per abbandonarlo (“contenzione”) (in tal senso psichico- relazionale è corretto
parlare di “stato di necessità”).
Lavorare temperature psichiche elevate in condizioni di sicurezza psichica (quindi fisica)
richiede da parte dello staff uno strumentario psichico idoneo e idonee misure di protezione
psichica.
Non ritengo questa una metafora, almeno non più del termine “salute mentale”.
Conclusioni
La contenzione meccanica è una modalità ancora largamente utilizzata in psichiatria, se
non la più utilizzata, per la gestione delle emergenze comportamentali, in modo particolare gli
episodi di ostilità e violenza.
La dimensione del fenomeno contrasta con la scarsità delle evidenze cliniche e con la
quantomeno controversa base giuridica e deontologica.
Alla luce di elementi psicodinamici ormai generalmente riconosciuti e clinicamente fondati,
ritengo che la contenzione, configurandosi come abbandono del paziente, non sia sostenibile
perché eticamente e deontologicamente, quindi tecnicamente, scorretta, recando danno allo
sviluppo della relazione terapeutica, in particolare dell’alleanza terapeutica.
Non è possibile alcuna “riforma” ma solo un cambiamento sostanziale, ottenibile attraverso
la formazione continua del gruppo dei curanti, specificamente orientata alla prevenzione e al
superamento della contenzione meccanica in quanto “malpractice”, nonché maltrattamento.
Ciò è possibile solamente attraverso un’attenzione continua all’integrità del setting, nelle
due componenti di “condizioni materiali del trattamento” e “assetto interno del terapeuta (cioè
del gruppo dei curanti)”, allo scopo di favorire lo sviluppo delle capacità di contenimento.
Queste includono necessariamente la padronanza delle tecniche di gestione dell’aggressività,
intendendo con questo termine non solo i comportamenti ostili e violenti, ma anche i sottostanti
vissuti transferali e contro-transferali.
Dichiarazione relativa al conflitto di interesse
L’autore dichiara che: dall’anno 1989 all’agosto 2005 ha prestato servizio in Servizi
Psichiatrici di Diagnosi e Cura di AUSL della Regione Emilia Romagna (Ferrara e Bologna). In
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alcune di queste strutture la contenzione era prevista, in altre era esclusa.
Dall’agosto 2005 lavora esclusivamente come libero professionista privato e NON ha
rapporti economici con strutture psichiatriche (pubbliche o private).
Riassunto
Parole chiave: alleanza terapeutica, contenimento, contenzione, gruppo dei curanti, setting
Si propone una rassegna della letteratura psichiatrica riguardante la contenzione meccanica. Si analizza,
in particolare, il rapporto antitetico tra “contenzione” e “contenimento”, alla luce di elementi giuridici,
deontologici, clinici e psicodinamici, specificamente il concetto di “setting”.
Si ipotizza che la “contenzione meccanica” costituisca “rottura” del “setting”, pertanto sia “non
trattamento”, “malpractice” e “maltrattamento”.
Il concetto di “contenzione” viene definito operativamente, in contrapposizione a quello di
“contenimento”, come perdita della vicinanza al paziente da parte dei curanti e danno alla relazione
terapeutica. Il superamento della contenzione è possibile attraverso la formazione del gruppo dei curanti.
RESTRAINT: MEDICAL, LEGAL AND PSYCHODYNAMIC ASPECTS
Abstract
Key words: therapeutic alliance, containment, restraint, group of therapeutists, setting
The purpose of the article is to present a literature review regarding mechanical restraint in psychiatry.
The main area of analysis is directed at the untitethical relationship between “restraint” and “containment”,
in the light of legal, ethical, medical and psychodynamic factors, in specific the concept of “setting”. The
ensuing assumption is that “mechanical restraint” constitutes “breach” of “setting”; namely, it is considered
to be “non-treatment”, “malpractice” and “maltreatment”. The concept of “restraint” is given an operational
definition, in contrast with that of “containment”, and is stated as the distancing of the therapeutists from the
patient with consequential damage to the therapeutic relationship. An alternative to restraint can be found
by training the group of therapeutists.
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Corrispondenza
dr. Vittorio Ferioli,
via Galletti, 2 – 40134 Bologna
tel. 3358247359 e-mail: [email protected]
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