L'Oracolo
1 [1]
Giuliano Pergreffi
(2012)
Tag: e-book
Ultima versione
La Cidade Maravillhosa
Le questioni di sentimento si sa che sono piuttosto importanti, e a volte inducono a fare delle scelte
che altrimenti non verrebbero mai prese in considerazione. Se la sua fidanzata avesse insistito per andare
domenica all’Ikea a comprare i mobili per mettere su casa, per esempio, Ettore non avrebbe comprato il
biglietto aereo a cuor leggero, ma dato che la fidanzata non ce l’aveva il problema non se l’era neppure
posto. Preferiva non avere fidanzate perché tante volte è meglio avvicinarsi all’estasi metafisica
sperimentando una sorta di trinità come addentellato fisico, parlando di orifizi e sfinteri femminili vari,
con tutto il rispetto naturalmente, perché anche a loro piace alla fine, e rinunciare alle estenuanti e
inevitabili discussioni che la loro complicata intelligenza esige a valle delle sperimentazioni. Così
poteva sempre ricordarle nei loro momenti migliori, come loro del resto quasi certamente facevano, e poi
era sicuro di averle amate tutte per davvero, quei dieci minuti.
Si distrasse chiedendosi cosa mai c’entrassero quelle riflessioni col fatto che l’Ihla do Gobernador si
stava ingrossando sotto la pancia del Boeing 747 mentre atterrava a Rio de Janeiro, e alla sua destra oltre
l’oblò, lo sconfinato tessuto urbano della Città Meravigliosa lo stava agguantando, ma visto che non
sapeva cosa rispondersi decise di non pensare più alla questione e di stare a guardare. La foresta di
Tijuca faceva la sua bella figura, col Morro do Corcovado sul quale era stata eretta una scultura assai
discutibile, e che per giunta era diventata il simbolo internazionale della città. Il resto non fece in tempo a
vederlo perché l’aereo stava atterrando piuttosto rapidamente. In ogni caso, dato che lungo i corridoi di
sbarco non c’era aria condizionata, come dentro l’aereo, avvertì come particolarmente intensa la
temperatura di trentasette gradi, visto anche che a Londra il giorno prima quando era partito, la
temperatura era di tre gradi a esagerare. Daniel, che viveva a Rio da anni, era stato particolarmente
insistente: - te vieni che qualcosa combiniamo - aveva detto. Aveva pensato di partire da Londra perché
la decisione era maturata all’ultimo minuto e i last minute delle varie agenzie italiane erano convenienti
soprattutto per le agenzie italiane, mentre a Londra invece no, e poi anche perché nella capitale del Regno
Unito c’era una sua cara amica che aveva particolarmente insistito perché lui passasse di là: . te vieni e
vedrai che qualcosa si combina, aveva detto - La sua cara amica aveva anche appena scritto un libro in
qualità di Psicobiologa dal titolo: Neuroni Vaganti, in cui cercava di analizzare sottilmente la delicata
funzione dei neuroni di Serie B, i cosiddetti BSN (B Side Neuron) quelli che stanno normalmente a
osservare ciò che decidono gli altri e poi si adeguano. Da Bologna a Heathrow fu un unico sonno, mentre
invece da Heathrow, dove lei lo aspettava, a Gatwick fu più movimentato perché si impegnarono in una
estenuante discussione su chi avesse dovuto portare i preservativi; fino a che lei, dando prova della
maggiore lungimiranza della propria specie, ne tirò fuori uno dal cruscotto e tutto andò per il meglio. Ma
col tacito accordo che la multa eventuale l’avrebbe pagata lui, visto che stavano facendo sesso in
automobile e quasi certamente in divieto di sosta. Si salutarono molto romanticamente al parcheggio
dell’aeroporto internazionale con un bacio, e lei disse che gli avrebbe spedito una mail con il link per il
download del libro, così magari lui le avrebbe detto cosa ne pensava, e in ogni caso era arrivato in
tempo per il volo intercontinentale.
Il rivoletto di sudore che gli colava sulla schiena lo riportò al presente, e mentre usciva dall’aeroporto
per cercare un taxi ricevette in pieno corpo il colpo di maglio del sole tropicale. Comunque a Rio non
pioveva, e magari non erano così severi con il divieto di sosta. Ancora non sapeva bene perché aveva
accettato l’invito del suo amico Daniel, che gestiva con soddisfazione da anni un Cafè etilico-letterarioartistico a Leblon, di venire a passare qualche tempo a Rio. Intanto che aspettava di avere qualche
illuminazione al riguardo e che magari si confacesse al suo temperamento di Etnologo-fai-da-te, che tanto
prima o poi sarebbe senz’altro arrivata, decise di concentrarsi sul sorriso sdentato del tassista e sulla
strada che gli faceva fare; perché certamente aveva una dotazione formidabile di istinto del turista, e
senza curarsi di nascondere che lo scopo evidente era quello di far pagare di più la corsa. Daniel gli
aveva consigliato di trovarsi un appartamento a Barra da Tijuca, perché sosteneva che negli ultimi tempi
la vita era diventata troppo febbrile sia a Ipanema che a Leblon, tanto Copacabana era comunque a due
passi e avrebbe trovato tutte le ragazze che voleva, e in ogni caso là sarebbe stato più tranquillo. Anzi se
tante volte lo avesse trovato in un condominio con piscina e campo da calcetto la cosa certamente non
avrebbe guastato perché, sosteneva sempre Daniel, dopo la grigliata era prassi digerire con una partitella
a quelle latitudini. Erano già sulla Linha Vermelha e stavano andando verso il centro, che tutti
conoscevano come la Cidade e a sinistra c’era l’immenso quartiere universitario mentre a destra c’era la
favela di Marè, che era un primo assaggio dell’amore per le contraddizioni di quell’immenso bel paese.
Sempre approfittando del fatto che il tassametro girava e che il tessuto urbano scorreva fuori dai
finestrini e sotto le gomme del taxi, si diceva che forse la favela gli aveva fatto venire un’idea carina.
Perché mai non lavorare sulle contraddizioni di quell’immenso bel paese, appunto. Nelle favelas c’era
sicuramente materiale umano e spirituale in abbondanza per farci un capolavoro: dall’Africa al Nuovo
Mondo a braccetto col VooDoo, forse non era meglio di Neuroni Vaganti, ma nemmeno peggio, e intanto
stava andando verso Barra da Tijuca a bordo di un taxi giallo. Sempre ascoltando il traffico scorrere,
visto che i finestrini erano aperti per via del fatto che non c’era aria condizionata a bordo vettura, si era
appena accorto che avevano lasciato la Linha Vermelha e stavano procedendo lungo l’Avenida
Presidente Vargas in direzione dello svincolo per Santa Teresa e Botafogo. Perché aspettare o por tempo
in mezzo, visto che aveva anche una certa età, e quarant’anni vengono una volta sola nella vita, come tutti
gli altri del resto, ma è proprio in quel momento che cominci a farci caso e poi ciccia se va male, al
massimo ti sei fatto una vacanza ai tropici anche se non era davvero un’idea originale. Un editore
indipendente che accettasse il suo lavoro l’avrebbe trovato e se anche non lo trovava c’era sempre
l’editoria fai-da-te, oppure un qualsiasi blog, tanto un dominio costava una minchiata, e il più era
comunque far arrivare la gente sulla tua pagina, magari pagando qualcosina in ‘pay per click’. Certo però
che il tassinaro ce l’aveva per davvero l’istinto del turista, ma almeno gli stava facendo vedere la parte
più romantica di Rio perché erano appena sbucati dal tunnel di Santa Barbara, e a sinistra, molto in alto,
svettava piuttosto ben visibile il Corcovado mentre stavano attraversando lo splendido quartiere di
Laranjeiras, pieno di villette in stile coloniale dolcemente immerse nella vegetazione tropicale che
sembrava invadere con tatto, delicatezza e profumo l’abitato; e inevitabilmente alla fine della discesa
sbucarono a Botafogo. Certo anche che a Rio, come a Roma o Palermo per dire, il codice della strada è
un optional, anche se a Roma o Palermo, per dire, non c’è il Pao de Acucar che cattura completamente
l’attenzione mentre percorri la curva della piccola spiaggia prima di imboccare l’Avenida Principessa
Isabela per andare a Copacabana. Qui come là, un semaforo rosso non significa che ti devi fermare, basta
rallentare, dare un colpo di clacson e andare. A meno che, naturalmente, qualcuno che arriva da un’altra
direzione non abbia avuto in quel preciso istante la medesima idea, ma se stai attento te ne accorgi. Infatti
tutti lo sanno e tutti stanno in campana e il traffico scorre sempre fluido. E soprattutto nessuno ha la
spiacevole sensazione di fare una cosa così stupida come stare fermo davanti a un semaforo mentre non
c’è nessuno dall’altra parte. Passata Ipanema e lasciata indietro la laguna Rodrigo de Freitas, che oltre al
primato di bellezza detiene anche quello di laguna più inquinata del mondo, il tassista, per fare un piacere
a Ettore, decise di prendere l’Avenida Niemayer, uno dei pochi luoghi geografici al mondo, per quel che
se ne sa, intitolati a una persona ancora viva. Magari quella vecchia volpe dell’editoria di Daniel gli
avrebbe dato qualche dritta per la sua idea, semprechè non fiutasse inconvenienti soprattutto per lui, stava
pensando mentre osservava un grappolo di deltaplani scendere dalla Pedra de Gavea verso la Spiaggia
dei Cetrioli. Chissà perché gli veniva da pensare che a Bologna in quel momento probabilmente c’era la
nebbia, ma tanto lui era lì. Anzi non c’era già più lì perché era entrato nell’ennesimo tunnel e da un certo
punto in poi aveva smesso di contarli, per quanti erano, quasi più delle cifre del tassametro che
continuava a scorrere insensibile anche lì dentro; e in ogni caso appena sbucati erano finalmente arrivati
a Barra da Tijuca. In uno dei tanti canali di quel luogo idilliaco, un paio di ragazzi giocavano con le moto
d’acqua davanti a un ristorante dal nome improbabile: ‘La Gondola’. Poco dopo il taxi si fermò davanti
al n. 570 di Rua Olegario Marcel, in perfetto orario per l’appuntamento con Mr. Renato il proprietario
dell’appartamento che aveva affittato. Mr. Renato, l’advogado, era esattamente come Ettore si aspettava
che fosse dopo avergli parlato al telefono da Londra. Piccolo, paffutello, allegro e vampiro. Voleva e
ottenne una cauzione di quattrocento dollari americani, neppure reais… dollari, per consumi
eventualmente alti di elettricità e telefono nel periodo, ma comunque anche l’appartamento era come se lo
aspettava. Stava in un condominio con guardia armata in Avenida Sernambetibo, il lungomare di Barra.
Dal terrazzo si vedevano l’oceano e la Pedra de Gavea e l’aria condizionata funzionava.
Una spiaggia conchiglifera
- Gattina, mi porti un’Agua de coco? Daniel Lopes Da Silva aveva cinquanta e passa anni ma ancora strizzava l’occhio alle ragazzine che
potevano essere sue nipoti più che sue figlie, mentre il sole picchiava ancora duro sul Posto Due della
spiaggia di Barra da Tijuca, nonostante fossero passate le quattro del pomeriggio e in Europa fosse pieno
inverno.
- Ben ghiacciata, mi raccomando Alla fine la ragazzina si sentì obbligata a fargli un sorriso e lui si sentì appagato. Aveva passato i primi
cinquant’anni della sua vita tra Lima e Bologna vendendo libri di design a Architetti e a qualcun’altro, ma
poi evidentemente in seguito a una deriva esoterica, si era trasferito a Rio dove aveva fondato l’Oficina
Cultural che era poi il secondo nome del Cafè Miranda, dove spacciava: libri sui Tarocchi, libri
sull’Astrologia, bevande alcooliche varie e organizzava concerti di musica sudamericana e qualche volta
europea, ma del sud. Ettore aveva il sospetto che ci fosse anche dell’altro, ma non sapeva immaginare
cosa, al momento.
Il triangolo di scorza di noce di cocco era caduto dalla parte della scorza, appunto, sulla sabbia
bianchissima che aveva il pregio di non scottare la palme dei piedi, proprio come non faceva quella di
Rimini. Come facesse il barista a calibrare con precisione i tre colpi di machete era un mistero che prima
o poi Ettore avrebbe affrontato, per il momento preferiva concentrarsi sul colore delle cannucce infilate
nella noce molto ben ghiacciata e sul buon sapore del latticello trasparente. Almeno supponeva che fosse
trasparente dal fatto che era gradevole e dolcissimo, quando era guasto era gialliccio. La spiaggia di
Barra è lunga ventotto chilometri e profonda una minchiata o poco più, anche se in quel punto sembrava
allargarsi e penetrare nell’oceano. Considerando poi che al largo c’era una graziosa isola piena di
vegetazione e verso Sao Conrado il mare era pieno di surfisti, e in più c’era il promontorio Arpoador ben
visibile, e da li a là la spiaggia era piena di gente che chiacchierava e prendeva il sole, sembrava proprio
di essere in vacanza anche se era solo martedì. Quel meraviglioso paese era veramente pieno di cose
meravigliose.
- Ma che ti frega del VooDoo… L’Agua de coco che percolava nella pancia di Daniel faceva lo stesso rumore, di acqua zampillante, che
doveva aver sentito Carlo Magno mentre ascoltava le mille fontane di Aquisgrana, appena arrivato dopo
l’incoronazione a Roma.
- No… niente, ma mi sembra un’idea carina. - Ma non sei venuto a fare una vacanza? Che c’azzecca il VooDoo? Dovresti pensare alle ragazze…-
- Mah… sai… vedi una favela e ti viene un’idea… Cento metri verso il promontorio Arpoador, Telemar, l’equivalente di Telecom in Italia, stava
approntando una tensostruttura che il 22 aprile di quell’anno avrebbe ospitato festeggiamenti per il
cinquecentenario della scoperta del Brasile, probabilmente qualcuno avrebbe intascato tangenti per
quello, ma in ogni caso l’effetto era scenograficamente superbo.
- …tutto quel brulicare di vita caotica ti da l’idea della creazione, dell’opportunità… Aveva detto Ettore sempre parlando delle favelas e avrebbe voluto continuare, ma Daniel non glielo
lasciò fare.
- A me sembra che sia solo un problema di jet-lag, probabilmente dopo una caipirinha e una buona
dormita la penserai diversa. Gattina! Una caipirinha per il mio amico che ne ha bisogno, e una birra per
me. - Urlò strizzando di nuovo l’occhio alla ragazzina del bar.
Mentre impercettibilmente l’ombra proiettata dal corpo tozzo di Daniel si allungava verso est, in
ossequio al fatto che il sole impercettibilmente stava calando verso ovest anche se era ancora bello tosto,
la ragazza del bar arrivò con la caipirinha e la birra. La brezza dal mare soffiava regolarmente e Daniel
tolse il cappuccio all’inverti-thermos. Ettore non sapeva perché gli era venuto in mente il nome: invertithermos, per descrivere il contenitore di polistirolo espanso a forma di bottiglia di birra, che proteggeva
la bottiglia di birra, appunto e bella fresca, che Daniel in quel momento stava portando alla bocca per
tracannare a garganella. Forse era posseduto, a sua insaputa, dalle meraviglie di quel bel paese, come per
esempio le favelas e gli inverti-thermos, ma andava bene anche così, anzi pensava che probabilmente
andava meglio così.
- No, credo che invece sia una specie di amore a prima vista… – Continuò insensibile Ettore mentre
auscultava la birra finire nella pancia bella rotonda di Daniel, e gli veniva in mente sempre Carlo Magno,
e mentre anche sorseggiava con parsimonia la sua caipirinha, perché cominciare a bere alcool alle
quattro del pomeriggio non era un’idea molto salutare, né ai tropici, né in Europa.
- …credo che dovrei ascoltare questa sensazione e anzi credo che tu, che conosci il mondo intero da
queste parti, dovresti sforzarti di introdurmi nell’ambiente. Daniel si stava grattando la testa come se stesse pensando con una certa concentrazione, mentre invece
l’unica cosa certa era che alzando il braccio destro metteva in evidenza la piega della pelle non
abbronzata sotto la mammella, destra appunto ma grassoccia e cascante. Infatti Ettore non pensò nemmeno
per un istante che il suo amico stesse pensando con concentrazione e non si stupì quando gli disse che
proprio perché erano amici gli avrebbe presentato qualcuno che gli avrebbe fatto cambiare idea alla
svelta, così magari si sarebbe concentrato sulla vacanza e non su quelle minchiate dal sapore esoterico. Il
sole, con la calma serafica che lo contraddistingue da qualche miliardo di anni, continuava sempre più
percettibilmente a procedere verso ovest facendo allungare le ombre sempre più percettibilmente verso
est. A un certo punto si resero conto, Ettore, Daniel e tutta l’altra gente che stava sulla spiaggia, da lì al
promontorio Arpoador, che la notte sarebbe arrivata con la consueta rapidità tropicale, e per non farsi
trovare impreparati decisero di andare a casa. Si dissero qualche stupidaggine mentre andavano dalla
spiaggia al parcheggio, dove Daniel salì sulla sua auto di colore chiaro, e si misero d’accordo per
sentirsi non appena avessero avuto qualcosa da dirsi, in relazione alla ansie esoteriche di Ettore
naturalmente, e che in ogni caso avrebbero organizzato cene e magari eventi vari. A quel punto a Ettore
non restava che avviarsi verso casa. Dal posto due al posto sei che era proprio di fronte a casa sua c’era
circa un chilometro, il che significava circa dieci minuti a piedi. Era partito con la luce ancora piena del
giorno e ora, mentre cercava di attraversare Avenida Sernambetibo senza farsi investire dai cariocas in
automobile, era già notte, fatta e finita. Vicino al suo condominio c’era la sede di una delle tante sette che
stanno sulla linea di confine tra Esoterismo e Cristianesimo, e sopra la porta c’era scritto con grandi
lettere nere: ‘CULTO DOS MILAGRES’. La guardò con curiosità perché gli faceva venire in mentre
Padre Pio da Pietralcina e poi puntò dritto alla padaria a fianco; forse faceva in tempo prima che
chiudesse a rifornirsi di birra. Poi, mentre entrava nel palazzo, salutò con un cenno la guardia nera in
portineria e salì nel suo appartamento. Si distese sulla sdraia in terrazzo e si disse proprio convinto che
gli effetti del jet-lag si stavano facendo sentire. Ma poteva anche dipendere dal fatto che non dormiva da
quarantotto ore.
Le strade di Rio
L’influenza del sub-continente nord-americano era chiarissima nell’architettura degli edifici di
Avenida Chile, così come sui modelli di automobili che si potevano noleggiare, pensava Ettore mentre si
rendeva conto che la sua mente era ormai sgombra dai residui del tempo europeo di un paio di giorni
prima. E con attenzione fresca e mente libera ammirava il paesaggio urbano, senza perdere d’occhio
naturalmente le intenzioni degli altri umani, che in quella tarda mattinata erano alla guida delle numerose
automobili intorno a lui. La Nova Catedral faceva una certa figura col suo bel tronco conico alto
novantasei metri e dotato di una scalinata che faceva invidia ai templi Incas, che stavano proprio in
quella parte del pianeta. Pareva che potesse contenere fino a ventimila persone; chissà che aria viziata
con quel caldo. Il fatto poi che la Chevrolet avesse il cambio automatico gli ricordava vagamente di aver
letto un articolo di un giornalista anglosassone che riteneva che gli italiani potrebbero considerare la
mancanza della cloche come un insulto alla propria virilità. Lui lo trovava comodo anche perché c’erano
un sacco di costruzioni in vetro-cemento che lo distraevano e la cosa gli aveva anche ricordato, forse
un’ultima volta, la sua amica di Londra per via dell’associazione di pensieri con anglosassone. Rio de
Janeiro ha da sempre una vocazione per gli eccessi. Possiede la laguna più bella ma anche più inquinata
del mondo, ha più gallerie che qualsiasi altra città, certamente più mignotte per chilometro quadrato in
relazione ai turisti che qualsiasi altro luogo al mondo e anche più alberi per abitante. La sede della
Petrobras sulla destra, poco prima dell’incrocio con l’Avenida Rio Branco, teneva alta la media.
Sembrava fatta con il Lego, una serie di cubi di cemento sovrapposti con dentro alberi giganteschi. Ma
faceva un certo effetto, proprio come il Lego. Si sentì quasi obbligato a svoltare a sinistra, naturalmente
passando col rosso perché le automobili premevano dietro, anche se con la prudenza dovuta dai neofiti, e
poi tirò dritto con noncuranza facendo un paio di svolte a caso finché non fu costretto a fermarsi davanti
alla Cafeitaria Colombo. Che poi era il luogo dove le gente che ritiene di contare qualcosa, da quelle
parti, ci finisce prima o poi. Si diceva che fosse un luogo impreziosito da certi specchi importati
dall’Europa il secolo scorso. Già non aveva significato pensare al secolo scorso, che era finito ieri
l’altro, figurarsi gli specchi europei e figurarsi la gente che pensava che tutto questo avesse un
significato. Comunque le ragazze che stavano li non erano niente male e forse valeva la pena di
frequentare il luogo. In ogni caso avrebbe riflettuto sulla questione, pensava mentre svoltava a destra e
poi smise immediatamente di pensare alla questione perché si trovò di fronte, improvvisamente, alla
chiesa della Candelaria. O meglio, al centro di una immensa e caotica Avenida, tutta circondata da
grattacieli costruiti nel peggior stile nord-americano, era apparsa, come una visione metafisica, la Igreja
de Nossa Signora da Candelaria. Stava là, immersa in una dimensione senza tempo e in uno spazio
seraficamente sottratto a tutto il resto, meravigliosa reminiscenza di un’epoca in cui la più febbrile
attività era aspettare la prossima caravella dall’Europa. Ma dato che nel tempo in cui Ettore aveva
pensato tutto questo, partendo dal momento in cui aveva premuto il freno e accostato in seconda fila per
godersi lo spettacolo della Cattedrale, almeno tre Boeing erano atterrati all’aeroporto internazionale,
pensò che forse era un bene darsi una mossa e partire, anche perché i carioca suonavano in continuazione
il clacson perché lui si togliesse dai piedi. Ancora non sapeva perché ma quel luogo gli faceva venire in
mente un crocevia. Non un incrocio con semaforo, che tra le altre cose come l’ora legale, era stato
inventato dai soliti nord-americani, pragmatici fino allo sfinimento, ma un vero crocevia. Un luogo dove
passa e si incontra la gente e dove secondo gli africani passano e si incontrano anche gli spiriti, e quello
infatti è il posto giusto per piazzare le offerte e i doni per avere qualcosa in cambio. E siccome questa
venalità pagana non era mai andata persa pensava che tutto sommato la chiesa stava bene lì dov’era e lui
si sarebbe diretto verso Barra. Anche perché Daniel gli aveva detto tra le altre cose che a Niteroj c’era
un posto che si chiamava la Casa della Macumba, che oltre a vendere materiale rituale era anche un punto
di incontro dove potevi trovare di tutto, e quindi anche quello che stava cercando lui, anche se ancora non
aveva idea di cosa fosse. Ci sarebbe andato il giorno dopo però, ora aveva voglia di passeggiare sulla
sabbia conchiglifera di Barra che era certamente meglio di quella della riviera romagnola. Non appena
parcheggiò la Chevrolet, infatti, vide che c’era poca gente e la spiaggia era bellissima quel giorno. Dopo,
a casa, avrebbe controllato la posta.
Niteroi
Oltre che essere bello, il ponte di Niteroi è un capolavoro di ingegneria. Una fettuccia di asfalto lunga
quattordici chilometri che taglia in due la baia di Guanabara e collega Rio a Niteroi, che ormai è un
quartiere della città carioca. E sta sospeso su pilastri ficcati nel fondale marino e anche è leggermente
convesso. Come se non bastasse il pedaggio si paga in una sola direzione: da Rio a Niteroj. Anche quello
era un problema che, prima o poi, Ettore avrebbe dovuto affrontare anche se una mezza idea già l’aveva.
Nel sedicesimo secolo o giù di lì, Arariboia, che era il capo degli Indios di allora, aveva aiutato i
portoghesi a cacciare i francesi da Rio, e probabilmente i cariocas, come pegno di eterna gratitudine,
avevano esonerato lui e i suoi discendenti dal pagare qualsiasi balzello, ignorando allora di fatto, i futuri
problemi del pendolarismo, ma come avrebbero potuto immaginarlo d’altra parte i cariocas di allora. A
dispetto di tutte queste considerazioni l’aliscafo alla sua destra scivolava veloce nella stessa direzione
della sua auto su un mare calmo e intensamente azzurro senza dover pagare nessun pedaggio ma anzi
raggranellando reais. Non considerò particolarmente di buon auspicio il fatto di aver trovato parcheggio
subito e proprio vicino alla statua del famoso capo Indio, limitandosi a considerarlo una coincidenza
fortuita per cui si incamminò senza indugi verso l’avenida centrale. Almeno così gli pareva perché stava
proprio in mezzo alla piazza che a sua volta era proprio davanti al molo di attracco ma dietro le
biglietterie. Avviarsi a piedi, oltretutto senza sapere dove andare, per quella strada era come immergersi
in un mondo già caotico e colorato alle dieci del mattino, per via delle bancarelle a bordo piazza e
strada, dove si vendeva praticamente di tutto. Dalle batterie al litio per gli orologi giapponesi ai piccoli
elettrodomestici a batteria, non fotovoltaiche però le batterie, per quelle si doveva aspettare ancora un
decennio circa, ma c’era in ogni caso una dimostrazione di efficacia inclusa. Poi c’erano gli odori: dai
salgadinhos fritti nelle cafeitarias varie, alla puzza di piscia onnipresente sotto ai portici dell’avenida
che insieme ai rumori garantivano il regolare svolgimento della vita di quartiere, come lo sgocciolio dei
condizionatori a bordo strada e la voce del poliziotto in divisa blu, che stazionava davanti a una banca e
che gli stava dando le informazioni che lui stesso gli aveva chiesto. Entrò in un vicolo dove, come in tutti
gli altri del resto, si propagava anche se con minore intensità il caos dell’avenida. Tante volte uno fa
cose senza un particolare motivo, per cui entrò nella prima bottega di pedicure che gli capitò di vedere,
probabilmente per chiedere informazioni si disse come per giustificarsi. Due minuti esatti dopo era
seduto su una poltrona girevole, come quelle usate dai barbieri europei una ventina di anni prima, e si
accorse di avere i suoi piedi tra le mani di una mulatta decisamente carina soltanto quando ormai era
cosa fatta, a prescindere dal fatto che lo avesse voluto oppure no. Dato che il muro scrostato gli
ricordava gli ambulatori medici di trent’anni prima in Emilia, più o meno al tempo della sua infanzia, non
perse tempo a guardarsi in giro e si concentrò sulla maglietta della mulatta che era sul trasparente, però
era brava con i massaggi ai piedi in ogni caso, e che non nascondeva praticamente niente. I capelli poi
erano neri e ricci e raccolti in un crocchio astutamente disordinato in modo da farla sembrare proprio
sbarazzina. Il suo seno color cioccolato chiaro era ben visibile, così come si vedeva l’areola dei
capezzoli. Sollevando lo sguardo, come per beccarlo con le dita nella marmellata, la ragazza gli chiese:
- Come mai da queste parti amigo gringo? - Si sente molto che sono straniero?. - Solo quando parli… - Praticamente sempre allora pensò ma non disse Ettore.
- Non è che per caso sai dirmi dove posso trovare un Pai de Santo, vero? - Disse invece.
Abituata alle stranezze degli europei la ragazza non si scompose più di tanto.
- Un Pai de Santo proprio non lo so, ma posso darti il mio numero di telefono, vedi mai che ti annoi la
sera… Il bianco dei suoi denti era luminoso come quello dei suoi occhi e certamente senza carie, si sarebbe
detto.
- Magari mi sai anche dire dov’è la Casa della Macumba… Mamy Wata
Aveva il corpo massiccio e la pelle nera e lucida. Mamy Wata aveva l’aspetto di una donna che
prendeva a sberle il marito tutte le mattine prima di colazione, giusto per ricordargli chi comandava.
Ettore la osservava incuriosito cercando di indovinare a quale tribù africana appartenessero i suoi avi.
Prudentemente decise di fare un piccolo acquisto, una ciotola rituale decorata con disegni geometrici e
una mezza dozzina di candele bianche. - Mamy, conosci un Pai de Santo? - le chiese poi con indifferenza.
Il Pai de Santo
Mamy Wata gli aveva detto di trovarsi sul lungomare della spiaggia di Ingà alle otto precise di quella
sera. Avrebbe incontrato una persona che faceva al caso suo. Aveva tutto il pomeriggio a disposizione e
stava osservando com’era tonda la cifra ‘quaranta’ che rappresentava la temperatura di quel momento sul
lungomare mostrata da un grande pannello a display rossi e che guardacaso era anche la sua età. Che
strane coincidenze a volte. Data la temperatura comunque decise di fare il turista. Comprò O Globo e si
avviò verso la vicina spiaggia di Boa Viagem. Che era più raccolta e articolata di quella di Ingà. La
sabbia era più scura di quella di Barra e dopo qualche metro la spiaggia si trasformava in terreno che
saliva ripido verso la strada. Formava una graziosa baia e proprio al centro dell’insenatura c’era una
piccola isola vicinissima alla terraferma su cui stava un convento. Il convento era raggiungibile da terra
attraverso un ponticello sotto il cui arco erano ormeggiate barche di pescatori. Poco più avanti, su di un
promontorio, c’era il Museo di Arte Contemporanea voluto e costruito dal noto Oscar Niemayer, una
delle poche persone a cui sia stato intitolato un luogo geografico prima della partenza per il grande
viaggio, come già detto perché comunque è una cosa simpatica. La costruzione sembra una nave spaziale
aliena, un gigantesco e affascinante disco volante delicatamente appoggiato alla sommità di una collina
color ruggine. Questo, e la statua di Arariboia costituiscono il simbolo universalmente riconosciuto della
città-quartiere-dormitorio. Quante cose interessanti si potevano leggere su un guida turistica. Scese per un
sentiero ripido che l’avrebbe portato direttamente sulla spiaggia, facendosi largo tra la bassa
vegetazione. Sulla spiaggia non c’era molta gente. A differenza di Barra, dove l’acqua era limpida e
azzurra, qua era torbida e color diarrea. Decise quindi di non fare il bagno limitandosi a sdraiarsi sulla
sabbia e si mise a leggere il giornale. Un po’ più tardi mangiò spiedini di gamberoni e un po’ di Tapioca,
bianca come la neve e con sopra un dito di latte condensato della Nestlè, giusto per ammazzare la noia
aspettando il tramonto.
- Tu non hai un problema da risolvere… Gli stava dicendo il Pai de Santo inviato da Mamy Wata mentre passeggiavano sulla spiaggia di Ingà alle
otto di quella sera, che era illuminata da molti lampioni. Ettore si fermò per riflettere. Jose Antonio era di
bassa statura, di razza indefinibile e con la pelle scura. Una spruzzata di bianco sulle tempie e la pancetta
abbondante lo facevano sembrare più vecchio di quanto non fosse in realtà. In lontananza un paio di
pantegane, grandi come gatti ben nutriti, stavano uscendo da una fogna per cercare cibo tra i rifiuti del
giorno sparsi sulla spiaggia.
- ..tu vuoi soltanto sapere molte cose. E io non posso aiutarti. - Perché no? Si sentiva un po’ scemo ma non gli veniva in mente niente di meglio da dire. Josè lo guardava in modo
tropicale.
- Tu puoi solo chiedere l’aiuto degli spiriti e degli Dei per ottenere giustizia se qualcuno ti ha fatto un
torto.. non puoi pretendere di sapere come si fa.. tu questo non puoi farlo.. - Capisco… - riuscì a dire Ettore.
Tutto sommato la giornata non era stata poi così negativa. Aveva rimediato una buona pedicure e passato
un bel pomeriggio sulla spiaggia, tra Tapioca e spiedini di gambero, pensava Ettore mentre transitava per
Copacabana, a quell’ora ancora piena di poliziotti. Più tardi, verso le tre del mattino, si sarebbe riempita
di Viados e prostitute varie sedute sui cofani delle auto parcheggiate e con le tette al vento. Poco dopo
l’Hotel Hoton e circa all’altezza dell’Help, una delle discoteche più conosciute al mondo, che oramai
purtroppo non c’è più, un sacco di gente passeggiava per il mercatino che tutte le sere fino a mezzanotte
colorava quella parte della passeggiata. Mentre entrava nel quartiere Arpoador dirigendosi verso Barra,
pensò che Rio era dannatamente grande.
Rallentando, in uscita dall’Avenida Sernambetibo per entrare nel suo condominio, ebbe come la
sensazione che ci fosse qualcosa di diverso dal giorno precedente. Una cosa che gli era sfuggita quel
mattino uscendo di casa, posto che non fosse invece preda di isterismi esoterico-tropicali. Si fermò per
osservare meglio il Savoir Vivre, il suo condominio, e dopo un po’ capì cosa lo aveva colpito. La scritta
a grandi caratteri neri, era diversa dal giorno prima, ora c’era scritto: ‘RENOVACAO ESPIRITUAL’.
Non si ricordava cosa ci fosse scritto il giorno prima ma era certo che fosse diverso. Curioso pensò,
mentre saliva con l’ascensore dal garage seminterrato. Nella mail trovò un messaggio di Daniel: Chiamami domani in ufficio, ho un contatto -.
Jardim Botanico
Ettore di suo non era un fan dei segni del destino, oppure dei: non poteva che andare in questo modo,
era scritto che accadesse, e così via… Normalmente preferiva pensare a coincidenze. Certo però che
trovare facilmente parcheggio nella Rua Jardim Botanico vicino all’Hipodromo, e a due passi
dall’ingresso principale del giardino metteva in discussione queste sue convinzioni. Poi però il fatto che
dovesse pagare il biglietto di ingresso lo riconciliò con le aspettative nei confronti della vita, avrebbe
certamente considerato con maggiore distacco e in un secondo momento l’intera questione. Si incamminò
quindi con un buon’umore del tutto immotivato lungo l’Aléia Custodio Serrao, che non era altro che una
stradina, ma da quelle parti la chiamavano in quella maniera. Daniel gli aveva segnalato il nome di una
Mae de Santo: una tale Tania, con l’avvertenza che non aveva la minima idea di che cosa avrebbe
ottenuto da quell’incontro, ma che era comunque un inizio e che di più da lui non poteva pretendere
perché anche lui aveva il suo daffare. E gli aveva anche detto che lavorava nella Biblioteca del Giardino
Botanico. La mattina era luminosa, come spesso capita da quelle parti, e il suo umore ne risentiva
positivamente e sempre in modo del tutto immotivato, anche perché non aveva chiesto nessun
appuntamento ma qualcosa si sarebbe inventato. Dal momento che era in quel luogo idilliaco,
apparentemente senza saperne il motivo, decise di trarne comunque un vantaggio leggendo le didascalie a
bordo sentiero. Memorizzò che sui lati del viale che stava percorrendo crescevano imponenti esemplari
di Abrico de Macaco con i fiori carnosi e sgargianti che spuntavano direttamente dal tronco e frutti che
sembravano cocomeri attaccati con una liana all’albero. Il turista era avvisato anche del fatto che insieme
alle calde folate di brezza mattutina potevano arrivare alle sue narici lievi aromi di tè e caffè che
crescevano ai lati della stradina, e che poteva anche farci caso prima se solo fosse stato un po’ più
attento. L’olfatto si e no si abituava all’aroma del caffè che si arrivava all’Aleia Pedro Gordilho, dove ci
si trovava praticamente circondati dalla storia di quel meraviglioso e contraddittorio paese. C’era Dom
Joao VI, o almeno il suo busto, inventore dell’Impero e dello Stato e poi c’era la Palma Mater, e anche se
ancora non sapeva come, pensava che prima o poi qualcosa tra lui e quel vegetale ci sarebbe stato, e poi
c’era un altro vegetale che rivendicava con una certa dignitosa tristezza il suo posto nella storia: il Pao
Brasil, malinconicamente rosso e malinconicamente solo. Una targhetta lignea, anche se artisticamente
incorniciata da un supporto metallico brunito, ne descriveva troppo brevemente la storia. Era meglio la
Palma Mater perché anche se era sola sembrava godere di buona salute, alta, erettile e con uno sbuffo di
foglie al vertice che ricordava vagamente la vita. A parte tutto questo era abbastanza contento che le
indicazioni della piantina, allegata al biglietto di ingresso, fossero esatte perché poi lasciando alla sua
sinistra i monumenti storici, vegetali e minerali, e percorrendo tutta l’Aleia Joao Gomes, che era poi
un’altra stradina, arrivò alla biblioteca Barbos Rodriguez. Dove si notava subito che l’intonaco aveva
visto momenti migliori perché non aveva né un colore né una consistenza uniformi, ma nel complesso
l’edificio faceva la sua figura anche perché c’erano condizionatori gocciolanti e palmette piantate nelle
aiuole intorno alla scalinata di accesso, e a quel punto non gli restava che entrare spingendo la porta in
legno dipinto di marrone, ma con ampie vetrate. Entrare e rendersi conto di due cose fu un tutt’uno: la
temperatura era decisamente inferiore e c’era una ragazza, sulla destra, che scartabellava alcuni fascicoli
posti su uno scaffale di legno scuro e lucido e poi era talmente indaffarata che non sembrava essersi
accorta della presenza di Ettore. E dato che lui aveva l’impressione di trovarsi di fronte a uno sportello
di Equitalia, oppure, il che più o meno è la stessa cosa, in fila per un prelievo del sangue, cercò di
impressionare positivamente il bel corpo che stava dentro ai blue jeans e camicetta bianca con il suo
portoghese-fai-da-te.
- Bom dia. Quiero falar com Tania, por favor. - Non c’è oggi. Se telefonavi ti risparmiavi il traffico del mattino. - Rispose la ragazza in un italiano
certamente migliore del brasiliano di Ettore e senza voltarsi.
- Ah… si sente molto che sono italiano? - Questa battuta ormai era collaudata.
- Solo se parli in fretta… - Ok, prendo nota. Magari puoi aiutarmi tu? - Chi lo sa, prova… Si era voltata verso di lui e lo stava osservando con curiosità. Sulla camicetta bianca di cotone semitrasparente si notava la targhetta col suo nome, oltre al reggiseno e inevitabilmente in trasparenza l’areola
scura dei capezzoli, neri come i suoi capelli. Aveva la pelle morena e probabilmente era di origini
europee, quasi certamente spagnola. Occhi più neri del nero e labbra sensuali e morbide, il seno era
piccolo ma aveva un gran culo e un bel sorriso, e quasi certamente era simpatica. Non poteva a questo
punto non leggere il nome sulla targhetta che, chissà come stava appesa sulla camicetta, forse c’era una
piccola calamita dietro o forse la ragazza era dotata di poteri paranormali.
- Ecco… avrei qualche curiosità sulla Macumba… - Lo immaginavo. - E come mai lo immaginavi, Isis? - Te come ti chiami? - Ettore. - Perché faccio i Tarocchi Ettore. E perché il novanta per cento degli stranieri cerca Tania per quel
motivo. Era simpatica, ne era certo.
- Ora puoi fare due cose – continuò Isis con una certa scioltezza - prendere un appuntamento per domani
con Tania, oppure aspettare che io finisco il lavoro e provare a spiegarmi cosa vuoi sapere con
precisione, oppure tutte e due le cose. - Magnifico… a che ora stacchi? - Alle cinque e questo è il mio numero – su un bugiardino plastificato che decantava mille e una
meraviglie del Jardim Botanico aveva scritto il suo numero di telefono di traverso e con una grafia
tropicalmente femminile.
- Ora devo finire un lavoro, a dopo… – Glielo aveva detto con bel sorriso.
Come prima cosa in assoluto doveva dotarsi di una sim brasiliana, vedi mai che Isis avesse cambiato
idea se per qualche motivo lui non l’avesse cercata, dieci minuti al massimo dopo le cinque. Fatto questo
se ne andò a cercare una spiaggia qualsiasi, tanto lì abbondavano, per godersi il massaggio del sole e per
meglio aspettare le cinque e dieci del pomeriggio. In ogni caso la laguna Rodrigo de Freitas gli sembrava
più bella che mai, anche se era notoriamente molto inquinata. Non pensava per niente a cosa avrebbero
scritto quel giorno i simpatici amici della setta cristiano-esoterica a caratteri cubitali nelle loro chiesa al
Savoir Vivre, che era poi anche il suo condominio.
Il drink
- Dove abiti Isis? Erano seduti al chiosco del posto sei a Barra da Tijuca e stavano bevendo Caudo de cana. Il macinino dal
quale usciva il succo verde-bianco, appena spremuto di canna da zucchero, sembrava arrivare
direttamente dalle officine della Fiat di Torino degli anni sessanta. Era di un colore verde tornio e con
tutte le sue belle macchie di grasso e una reticella circa-bianca dalla quale usciva il succo con attorno
uno sciame di mosche che sembravano gli elettroni intorno all’atomo di Bohr. Quando l’aveva chiamata,
alle sei del pomeriggio, Isis gli aveva detto dove dovevano trovarsi e poi era arrivata a piedi.
- Qua dietro – disse indicando la direzione con la sua manina tropicale. - Due strade, giri a destra e sei
arrivato. - Incredibile – disse Ettore.
- Cosa è incredibile? - Quanto sia dolce il Caudo de cana, anche se impercettibilmente ha un sapore verde e vegetale. - Beh, vegetale lo è, e poi pensavo che alludessi al fatto che sono qui che ti ascolto anche se neanche ti
conosco. - Ah si, in effetti anche questo è incredibile… A proposito.. come mai sei qui che mi ascolti se neanche
mi conosci? - Perché faccio i Tarocchi te l’ho detto, e sapevo che saresti arrivato e che avrei dovuto darti una mano. Disse Isis con sciolta naturalezza.
Ettore mentre la osservava con sorridente noncuranza, cercava di trovare da quale parte stesse mai il
difetto, ma tutto quello che riusciva a vedere era il suo cappellino di paglia che teneva a posto una parte
dei capelli neri e lunghi fino alle spalle mentre gli altri si scompigliavano alla brezza che spirava
dall’oceano. Poi non poteva non vedere la camicetta leggera che aderiva, incoraggiata da ogni folata di
vento, alla pelle facendo risaltare le sue forme e poi era piuttosto evidente che aveva deciso di fare a
meno del reggiseno per finire la giornata. La gonna poi, che aveva indossato al posto dei blue jeans e
certamente corta, era un utile ornamento per le sue gambe color cioccolata. Forse il Caudo de cana col
suo sapore insolito, o forse la brezza di mare così insistente, ma la ricerca di un difetto in quello che lei
aveva detto si perse in quello che lei era dopo una ridicola manciata di secondi. E così senza quasi
accorgersi del perché e messo in una situazione di agio spirituale da una sconosciuta sulla spiaggia di
Barra da Tijuca decise di raccontarle tutto quello che gli veniva in mente. E cioè che non sapeva bene
nemmeno lui cosa ci faceva in Brasile ma che qualcosa doveva pur fare e gli sembrava non peggio di
tante altre idee il fatto di indagare sulla Macumba magari partendo dalle sue chiare origini africane, dalla
tratta degli schiavi e di come si fossero portati dietro i loro riti e le loro credenze. Ma le disse anche che
nella sua mente il progetto era una nebulosa confusa di cui percepiva solamente i contorni, che lo
affascinavano, ma non aveva la minima idea di dove lo avrebbe portato questa sua ansia di ricerca. Lei lo
ascoltò senza batter ciglio e con una certa attenzione, annuendo ogni tanto come se già fosse al corrente di
molte delle cose di cui parlava Ettore. Qualche volta lo aveva interrotto per fare una domanda e
approfondire un argomento. Alla fine fecero le sette. Si alzarono per sgranchirsi le gambe passeggiando
lungo l’Avenida Sernambetibo verso casa di Isis mentre il giorno si preparava a lasciare il posto alla
notte.
- Domani cerco di procurarti un appuntamento con Tania ma non so se sarà collaborativa. E’ piuttosto
gelosa della sua conoscenza, come tutti i macumbeiros del resto. Vedrai che non ti dirà niente di utile. - Te ne sono grato comunque – disse Ettore.
- Avevo già sentito parlare… anzi avevo letto da qualche parte di un riferimento a una sorta di Oggetto
misterioso – continuò Isis – in un momento particolare della storia del nostro paese, ma sai… la cosa
passa inosservata, come una delle tante leggende che si sentono, ma ora che me ne hai parlato mi è tornata
in mente. Magari vale la pena di fare un tentativo… probabilmente l’ho visto da qualche parte in
Biblioteca… domani ci provo… - Saresti incredibile se facessi tutto ciò che hai detto per un tipo che si è no conosci. Ma dici sul serio per
la leggenda? - Non lo faccio solo per un tipo che si è no conosco. Certo che dico sul serio… Ti sembra strana la cosa?
- Beh, si. Due giorni fa non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare qui a parte una vacanza al
caldo e ora invece ho una traccia inaspettata e un’aiuto multimediale… - Multimediale? - Oh si, nel senso di incredibile, meravigliosa e simpatica! Isis era assolutamente priva di carie dentali. Quante informazioni si possono avere da una persona che
ride di gusto. - Io sono arrivata – disse non appena finito di ridere - Sentiamoci domani verso l’ora di
cena che ti so dire. Dicendo questo Isis diede un bacio lieve sulle labbra a Ettore e poi s’incamminò verso casa voltandosi
per fargli un sorriso e salutarlo con la mano.
- Ma se non lo fai solo per uno sconosciuto perché lo fai? - Le chiese a voce alta Ettore, quasi gridando,
mentre la salutava.
- Per me. Restò abbastanza a lungo a osservarla camminare mentre teneva le mani nella tasca delle bermuda
colorate e il traffico scorreva insensibile allo sciabordìo dell’oceano alle sue spalle. Poi, mentre
camminava verso il Savoir Vivre si sorprese a pensare a quanto il tempo fosse diverso in sudamerica,
anche perché gli sembrava che fossero passati solo cinque minuti da quando guardava i capezzoli di Isis
in trasparenza e solo dieci da quando il sole brillava in tutto il suo splendore e adesso mentre camminava
verso la padaria per la solita birra serale, era già notte fonda. In ogni caso ‘CURA INTERIOR’ era la
Frase del giorno al Savoir Vivre.
- Fica quella leggenda sull ‘Oggetto - Pensò, prima di prendere l’ascensore con la birra in mano.
Tania
Modalità provvisoria. Era quello che gli faceva venire in mente la Mae de Santo Tania, anche perché
era seduto nel suo ufficio e le stava di fronte, erano le tre del pomeriggio e non sapeva come comportarsi.
I tempi di reazione di Tania somigliavano a quelli di un computer sottodimensionato rispetto alle
esigenze del suo sistema operativo. Ettore si stava seriamente chiedendo se fosse un atteggiamento
studiato per prenderlo per stanchezza, che se ne andasse a un certo punto, o se invece la donna fosse in
perenne stato di trance, anche durante l’orario di lavoro. Optò per la pazienza anche perché lei aveva
delle curiose abrasioni supporose sulla pelle delle mani e degli avambracci.
- E’ insolito quello che mi chiedi, signor Ettore. Di solito le persone vengono da me per trovare soluzioni
ai loro problemi, non per sapere come faccio a trovare le soluzioni. Lo stato di swap era terminato. Chissà se c’era una relazione tra le abrasioni supporose e la lentezza di
elaborazione si domandò Ettore. Durante il tempo di swap, mentre si chiedeva che cosa mai stesse
elaborando Tania, aveva approfittato per dare un’occhiata in giro e aveva notato che sul mobile dietro la
scrivania della Mae de Santo Tania c’erano due oggetti curiosi e probabilmente pertinenti al Candomblè,
ma che non riusciva a mettere in relazione con niente di conosciuto. Uno era una figura filiforme, esile e
costruita in metallo, poteva somigliare a un candelabro e curiosamente i bracci non erano verticali ma
orizzontali, con accanto una specie di tridente, e l’altro era una ciotola di cocco con dentro conchiglie. Si
ripromise di approfondire non appena avesse potuto, come d’altra parte fanno tutti.
- Quello che posso fare è invitarti a una cerimonia, se vuoi sapere qualcosa in più. Ma ti avverto che
probabilmente ti annoierai. Occorre avere fede. Non è un spettacolo sai… è una religione. Tipico dei politici, dei religiosi e degli imbonitori alla Vanna Marchi, invece che rispondere alle
domande propongono uno show; i romani direbbero: buttarla in caciara. Lui invece decise di tentare un
affondo per vedere la reazione di Tania.
- Ho sentito parlare di storie locali circa un potente Oggetto misterioso arrivato dall’Europa molto tempo
fa, non hai mai sentito nulla al riguardo? - Disse ricamando un poco sulla leggenda di cui gli aveva
parlato Isis.
La letargia abituale di Tania–Mae-de-Santo contribuì all’assoluta fissità della muscolatura facciale,
mentre un vago sentore d’inquietudine balenò dietro il nero dei suoi occhi, così almeno avrebbe giurato
Ettore che poi pensò che probabilmente aveva colto nel segno, la letargica Tania la sapeva lunga. Ma
quasi certamente non ne avrebbe parlato.
- Candomblè è una parola di origine africana che significa danza. - disse Tania per tutta risposta alla
domanda di Ettore.
- E’ una danza religiosa praticata principalmente da donne tramite la quale gli adepti tentano di mettersi
in comunicazione col proprio Orixa, lo invocano. Orixa anche, è una parola di origine africana e indica le
diverse manifestazioni del medesimo spirito divino: Olorum.
Stava tenendo una lezione sulla Macumba che non era di nessuna utilità pratica a Ettore anche perché con
un paio di click su Google avrebbe imparato le stesse cose, forse di più, comunque la buona educazione
gli imponeva di ascoltarla, oltretutto adesso che si era decisa a parlare dopo il silenzio-swap.Sembrava che stesse leggendo l’opuscolo plastificato sulle curiosità e i misteri di quel meraviglioso
paese disponibile presso tutte le edicole di Rio e invece con tutta probabilità lo aveva imparato a
memoria, pensava Ettore, ma pensava anche che era molto ovvio che fosse così come diceva lei, perché
in quella maniera il lavoro non sarebbe mai mancato. Forse più che sulla Macumba-VooDoo avrebbe
dovuto scrivere un saggio sulla prevedibile somiglianza delle varie religioni esistenti sul pianeta, ognuna
che si inventava le migliori storie per giustificare le sfortune dello sciagurato genere umano, dal senso di
colpa degli Ebrei al peccato originale dei Cristiani e così via. Secondo la Macumba invece gli uomini si
distraggono e si allontanano dalle vibrazioni della manifestazione del divino, ma siamo sempre lì.
- Le origini africane sono l’unica influenza esterna che io conosco nella Macumba. - Con questo
chiudendo l’argomento sollevato da Ettore. Non gli rimaneva che ringraziare per il tempo concesso e
salutare cordialmente. Mentre usciva dalla biblioteca vide Isis che gli faceva il gesto internazionale del:
chiamami dopo che ti devo dire una cosa importante.
A casa di Isis
Correre nell’emisfero australe era uguale a correre nell’emisfero boreale, non c’era proprio nessuna
differenza, non era come per i vortici d’acqua che girano da una parte oppure dall’altra a seconda,
appunto, dell’emisfero. Questa importante convinzione era affiorata all’improvviso nella sua mente,
sottoforma di brillante intuizione circa un chilometro prima, da quando aveva superato lo svincolo che
portava a casa di Isis. Probabilmente prima di aver corso il prossimo chilometro avrebbe dimenticato la
brillante intuizione, anche perché sarebbe arrivato al Savoir Vivre, che era poi sempre il suo
condominio, dove inevitabilmente gli adepti della setta misteriosofica certamente avevano cambiato la
scritta a caratteri cubitali nel frattempo, e l’unica sua preoccupazione sarebbe stata quella di fare la
doccia, perché Isis lo aveva invitato a cena per quella sera. E comunque non fece caso neppure alla
scritta perché era tutto sudato e col fiatone per cui prese l’ascensore pensando solo a fare alla svelta.
- Abita da queste parti Isis, gentilmente? - Proprio là, guarda… vedi quella porta a vetri? A destra c’è il campanello. Gentilmente la guardia armata, grande come un armadio a due ante, mostrava la direzione a Ettore e lui
ancora non sapeva in che modo ma qualcosa, tra lui e quell’uomo che si chiamava Ruben, ci sarebbe
stato, proprio come tra lui e la Palma Mater.
- Grazie –
Fu l’unica cosa che gli venne in mente come risposta ma comunque non era una cattiva risposta. In ogni
caso la ragazza si trattava bene a giudicare dalla piscina, dai campi di calcetto e dagli spazi verdi a gogò
che c’erano tutt’intorno ai quattro palazzi del condominio, pensava Ettore mentre cercava il nome di Isis
sul campanello a destra della porta a vetri; ma prima ancora che cominciasse a leggere la lista dei
condomini la serratura elettrica scattò.
- Che sia anche telepate? - pensò inevitabilmente e con un filo di preoccupazione Ettore.
- Al primo piano… ciao… ti ho visto arrivare dalla finestra… La voce di Isis arrivava dall’alto, dalla tromba delle scale e quel tardo pomeriggio era piuttosto
argentina. Ettore non nascose a sé stesso un certo sollievo.
- Benvenuto! Era solo questione di tempo, Ettore ne era convinto, e poi avrebbero finito per fare sesso. Il sorriso di
Isis era radioso, la canottiera rossa attillata e la minigonna superflua.
- Buonasera a te… cara. Durante la conversazione passavano con scioltezza da una lingua all’altra: inglese, italiano e portoghese
a seconda delle circostanze oppure degli stati d’animo oppure per gioco. Un cosa nata per caso bevendo
Caudo de cana sulla riva dell’Oceano Atlantico e proseguita poi per tacito accordo, che già di per sé era
un inequivocabile segno di feeling, come se non fosse stata sufficiente la canottiera rossa attillata e la
minigonna superflua. Come in ogni situazione complice che si rispetti, l’unica regola era che non c’erano
regole e Isis ne stava approfittando mischiando le lingue usate nell’ambito della stessa frase, e come in
ogni situazione complice che si rispetti Ettore trovava stimolante capire al volo le nuove regole e
adeguarsi. Alla fine riuscirono a trovare un accordo sul fatto che avevano fame e che sarebbe stata una
buona idea mangiare qualcosa. L’ingresso era piccolo ma grazioso e portava nel soggiorno, spazioso e
con un terrazzo proprio sopra il campo da calcetto. Il resto della casa era piuttosto articolato, la cucina
era lunga e stretta e alla fine aveva una porta da dove si accedeva a un altro corridoio che comunicava
con la zona notte e col bagno. Ettore rimase colpito dalla quantità di scarpe che vide appese in uno
sgabuzzino, almeno cento, forse di più. Isis gli fece vedere ancora una stanza da letto, uno studio e poi era
finita. Carina, molto femminile. Ci viveva da sola non c’era nessun dubbio, al massimo con una
domestica part-time che probabilmente abitava in una favela lì vicino. Isis aveva preparato una comida
tipicamente brasiliana, riso appuntito, fagioli e uova fritte, tutto mischiato in un unico piatto. Per
l’occasione il vino invece era italiano, anche perché in Brasile di vino se ne produce poco e quel che si
produce certamente non è come quello europeo, e poi le luci erano abbassate le candele accese e i Red
Hot Chilli Pepper facevano da sottofondo musicale. Come se non bastasse, la porta finestra era
spalancata sulla profumata notte tropicale, dato tutto questo era sconveniente e forse anche un po’
maleducato parlare subito di lavoro.
- Lugarto? - Si, lugarto che vuol dire lucertola. Abbronzato come sei come minimo passi tanto tempo al sole quanto
una lucertola. - Ah certo, è che favorisce la concentrazione e la riflessione, insomma lavoro meglio in riva al mare.
Certo che anche te… - Stessa ragione – disse lei sorridendo.
Isis era una chiacchierona. Gli raccontò in sintesi la sua storia, delle sue origini spagnole, come Ettore
aveva intuito il giorno prima, del suo lavoro alla Biblioteca, del suo amore per l’Europa e per l’Italia in
particolare. Del suo hobby esoterico, i Tarocchi, e di come ne avesse fatto un secondo lavoro. Parlava di
se stessa in brasiliano che è più musicale del portoghese mentre Ettore era affascinato dal suo parlare e
dal suo accento quasi quanto dalle sue tette e dalle sue gambe color cioccolato. Semmai aveva avuto un
dubbio sulla presenza di una coscienza forte, chiara e cristallina nella mente di Isis, come se lui del resto
fosse autorizzato a nutrire dubbi di quel genere sugli altri, la conversazione di quella sera lo aveva
convinto di trovarsi di fronte a una persona speciale, con convinzioni chiare e aperta alle collaborazioni.
Verso le undici della sera la bottiglia di vino era finita la conversazione aveva incontrato una pausa e Isis
ne aveva approfittato per andare un momento nello studio a fare quelle cose che le ragazze fanno quando
spariscono un attimo nello studio, per riapparire in soggiorno con un sorriso dicendo: - Ora sparecchio –
In determinate condizioni, ma soprattutto nelle notti tropicali dopo che si è bevuta una intera bottiglia di
vino italiano e se ci si conosce da poco, armeggiare in cucina può favorire di molto l’attività erotica,
anche perché per il gran caldo le gonne strette e superflue tendono a scivolare in su, indifferenti alla forza
di gravità. Ettore si avvicinò rapace e lei lo guardò,con un certo interesse, avvicinarsi rapace.
Mentre migravano verso lo studio-stanza-da-letto togliendosi i vestiti, a quel punto inutili, Isis riuscì a
bisbigliare qualcosa come: - …Tarocchi… lo sapevo… - Ettore si limitò a pensare che lui lo sapeva
anche senza fare i Tarocchi, ma non lo disse anzi si impegnò parecchio per soddisfarla senza
contraddirla. Il suo impegno durò fino alle quattro del mattino circa, quando dopo almeno quattro orgasmi
dichiarati da Isis, contati uno alla volta con le dita della sua abbronzata e tropicale mano sinistra,
sollevata in bella vista a intervalli regolari, smisero di fare sesso. Il sibilo del condizionatore cullò gli
ultimi pensieri coscienti di Ettore e presumibilmente anche di Isis, e visto che nessuno dei due russava
dormirono tranquilli fino a tardi.
Vitamine e trabalho
- Buongiorno mio caro, cosa vuoi per colazione? - Un momento… – Fu la prima cosa cosciente che pensò appena sveglio nello studio-alcova di Isis.
Mancavano dieci minuti a mezzogiorno e l’oro in bocca delle prime ore del mattino era ormai perduto.
Isis lo guardava sorridente e nuda dalla porta della stanza.
- Buongiorno a te cara, non è che tante volte posso fare la doccia prima? - Naturalmente… ti aspetto per la colazione… Fuori c’erano almeno 35 gradi ma Ettore fece una doccia bollente uguale, riempendo di vapore il piccolo
bagno cieco di Isis. Poi la raggiunse in sala.
- Ben svegliata selvaggia… ieri sera mi hai ucciso. - Disse un po’ più sveglio e con un buonumore
stavolta del tutto motivato mentre si sedeva.
- Eu nao falo italiano, ma entiendo o que voce vai dizer – disse sorridendo la domestica di Isis. Una
minuscola donna avanti negli anni e piena di pieghe e di allegria mentre metteva sul tavolo la colazione:
uova, formaggio, yogurt, pane e succo di frutta. Evidentemente Ettore non era del tutto sveglio ancora
perché non si era reso conto delle presenza di Maria, la domestica part-time di Isis che viveva in una
favela lì vicino, come aveva intuito del resto la sera prima. Ma la sera prima sembrava un secolo prima e
tutto quello che aveva pensato allora non aveva apparentemente significato adesso. Il tempo lo prendeva
sempre in contropiede ai tropici.
- Vedo che vi siete conosciuti – disse Isis sorridendo mentre usciva dalla cucina col caffè.
- Ecco le vitamine per i ragazzi che ne hanno tanto bisogno – disse Maria sempre sorridente e con uno
sguardo tropicalmente complice. Prima di andarsene avrebbe preparato anche il pranzo, almeno per Isis.
- Ma quanto guadagni Isis? - Chiese distrattamente curioso Ettore.
- Stai pensando di sposarmi e vuoi sapere se sono un buon partito? - Uh… no, no. Solo curiosità, giuro… - Allora non mi preoccupo – disse sorridendo. Quel mattino indossava una canottiera troppo grande e
bianca come i suoi denti quando rideva.
- Guarda cosa ho trovato… caro. Avevano liberato il tavolo dalla colazione, Maria aveva finito il turno e se n’era andata salutando. Isis
era arrivata con un volume e un classificatore della Biblioteca. Ettore era sicuro che Isis quando lo
chiamava ‘caro’ lo facesse convinta e non per convivialità. Per Isis tutto quello che stava succedendo era
scritto nei Tarocchi, stabilito dal fato. Sapeva che sarebbe accaduto e lo stava vivendo come un destino
suo proprio, e tutto questo pur essendo assolutamente sana di mente.
- Ti ho già detto che ricordavo di aver letto qualcosa di particolare relativamente a un potere o che
facesse pensare a un qualche mistero, in ogni caso qualcosa di interessante nel Regio Decreto di
Istituzione del Jardim Botanico. - Quello fatto da Dom Joao VI nel 1808 se non ricordo male? - In persona, e l’anno era il 1809. - E cos’hai trovato nel Regio decreto? - Niente, Ricordavo male. - Ah… - Sai chi era Vandelli? - Perché è morto? Mi sembrava che godesse di buona salute - Ma di che Vandelli stai parlando, Ettore? - Maurizio no? Quello dell’Equipe 84. - Meu Deus, ma dove sei con la testa? Domenico Vandelli, il padre delle scienze naturali brasiliane. - Ah naturalmente… parlamene dai… - Ta bom. Dal nome avrai capito che era italiano, il suo merito riconosciuto fu quello di organizzare e
dirigere le spedizioni scientifiche portoghesi della fine del XVIII secolo, in Brasile con lo scopo di
elaborare una storia naturale della colonia - Ammirevole… - La corte portoghese allora patrocinava quelli che sono passati alla storia come i viaggi filosofici.
Allora la filosofia… -
- Stringi ‘cara’, non abbiamo tutto il tempo di questo mondo – Gli era sfuggito un ‘cara’ tra virgolette e la
ragazza non aveva fatto una piega, come d’altra parte era lecito attendersi.
- Sei un insensibile. Allora, come funzionavano le cose, lui dirigeva e organizzava, gli altri andavano
catalogavano e riportavano le informazioni a lui che stava a Lisbona. - Come… non era in Brasile? - Non si è mai mosso da Lisbona. - Che tipo. - Ora… i viaggi filosofici descrivevano le piante del luogo, gli animali, le acque, i minerali eccetera..
eccetera.. e a un certo punto sono stati raccolti in un’opera che si chiama: O Gabinete de Curiosidades
de Domenico Vandelli. Otto libri, di cui uno si chiama: Memoria sobre a Utilidade dos Jardins
Botanicos, questo. Isis mise il volume preso dalla Biblioteca sotto il naso di Ettore che ancora non capiva quando sarebbe
saltata fuori la parte interessante, ma si era fatto attento e concentrato. Il volume era veramente bellino e
ben rilegato. Che personaggio quel Vandelli in ogni caso.
- Due anni fa, avevo appena iniziato a lavorare per il Jardim Botanico e ho voluto documentarmi sulla
sua storia. In una sezione di questo volume si parla del Jardim di Rio e quando ieri mi hai parlato delle
tue ragioni mi è venuto subito in mente questo Così dicendo aprì il volume alla pagina contrassegnata da un segnalibro con fiorellini rosa, veramente
molto femminile. Ettore riconobbe immediatamente nel disegno la linea erettile della Palma Mater,
sebbene più giovane, con sullo sfondo il morro Corcovado. Guardò Isis come per dire: - Beh? - Lei gli
fece cenno di leggere sotto la figura. La nota a margine sosteneva che Dom Joao VI in persona,
immediatamente dopo aver piantato il seme della Palma Mater avesse pronunciato le parole:
- Quando tutti correranno, governeranno molte teste e l’uomo non capirà che molte teste governano
male e che solo una testa dovrebbe governare. Tante teste cercano il proprio tornaconto. E il giusto
viene scacciato. Nel tempo delle molte teste cadranno. E una sola sarà la testa. In figuram Baphometi.
Ettore fece un salto sulla sedia mentre provava un brividino lungo la schiena e i capelli gli si erano
rizzati sulla nuca. Guardò Isis con aria stupita e poi lesse ancora una volta quella che sembrava una
profezia. Più sotto c’era scritto che il monarca aveva voluto che fosse scritto quello che aveva detto,
esattamente quello che aveva detto e fosse conservato in archivio. - Somiglia a una dannata profezia –
disse rivolto a Isis.
- Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelsus, o Paracelso se
preferisci. E una sua profezia. Naturalmente fatta eccezione per la parte riguardante il Bafometto…
presumo. -
- Niente meno… Ettore più che stupito era stordito. Sentiva che stava mettendo le mani su qualcosa di interessante, anche
se gli mancava qualche particolare oltre il contorno, e cioè in pratica gli mancava tutto.
- Ma a prescindere dal fatto che il nostro monarca può aver preso in prestito una profezia da Paracelso.
Ma che c’azzecca con il Baphomet… mi chiedo. Mentre ci pensava sopra, Isis, sorridente, prese in mano il raccoglitore della Biblioteca lo aprì e lo porse
a Ettore.
Mentre lei faceva questo lui esclamò: - Non mi dirai che… - Si. Tra I tanti titoli che aveva, Dom Joao era anche Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Cristo,
ossia dei Templari. Verifica tu stesso. - Eh… là là… Vediamo cosa abbiamo tra le mani… - Disse mentre in modo del tutto automatico pensava
a quello che aveva la sera prima tra le mani, cioè buona parte del corpo di Isis e per questo le rivolse un
sorriso riconoscente, che lei ricambiò anche se probabilmente pensava che lui le fosse riconoscente per
via della documentazione. Per un motivo o per l’altro in ogni caso la riconoscenza c’era. E questo era
quello che contava.
Più Ettore guardava la documentazione più era stupito, anzi sbalordito per il lavoro fatto. In poche ore e
partendo da chiacchiere fatte tra un aperitivo e una passeggiata sull’oceano era riuscita a definire un
quadro convincente di qualcosa che somigliava parecchio a uno scoop allettante, anche se diciamo che il
Baphomet era un argomento non certo nuovissimo ma anzi trito e abusato un po’ da tutti. Comunque era
una traccia, alla quale lui probabilmente non sarebbe mai arrivato da solo.
- Ascolta Isis, e dimmi cosa ti fa venire in mente. Una prima informazione ci dice che il Baphomet, a
questo punto l’Oggetto misterioso è il Baphomet, viaggia verso l’America del sud al tempo delle grandi
esplorazioni oceaniche, più o meno verso il 1500. Ne troviamo una seconda traccia nel 1809 e in più in
questo caso abbiamo una profezia associata. - E un monarca che si assicura che il messaggio della profezia, più il riferimento al Baphomet arrivi ai
posteri – Sottolineò Isis.
- Giusto. Ma che vorrà mai dire? - E’ un messaggio - Cosa la profezia? Tutte le profezie sono messaggi, normalmente talmente criptici che nessuno sa
interpretarli - Si, ma qui è chiaro: quando i tempi saranno maturi qualcuno troverà il Baphomet e sarà padrone del
mondo. - Oh beh, potrebbe anche essere riferibile a una partita di calcio, dove il pallone per convenzione assume
il nome di Oggetto misterioso. -
Isis lo guardò molto di traverso.
- D’accordo… ripartiamo dalla tua ipotesi. Proviamo a pensare che dietro tutto questo ci sia un progetto,
talmente folle da sembrare persino vero. Se supponiamo che il Baphomet sia arrivato fino a qui,
dobbiamo supporre che lo abbia portato qualcuno, e chi se non un Templare? O meglio un nuovo
Templare, perché qui dice… - sfogliò il tomo della biblioteca per cercare il riferimento al Monarca Dom
Joao – che il ramo portoghese dell’Ordine sopravvisse a se stesso eccetera eccetera e si chiamò: Ordine
dei Cavalieri di Cristo. Se così fosse, da qualche parte dovremmo trovarne traccia, non credi? - Corretto – convenne Isis.
- Quindi se riusciamo a trovare traccia di qualche Nuovo Templare nella storia delle origini del Brasile
l’ipotesi ne uscirebbe rafforzata. In caso contrario dovremmo pensare qualcos’altro. - Concluse Ettore.
Exu e Ifa
Isis avrebbe fatto ricerche in biblioteca, Ettore invece avrebbe fatto ricerche in Rete. La gara
terminava il giorno dopo a quell’ora. Chi trovava qualcosa prima vinceva.
- Ascolta Isis, nell’ufficio di Tania ho visto un paio di cose curiose - gli descrisse in modo sommario il
tridente e la mezza noce di cocco piena di conchiglie. Lei si alzò e andò in cucina senza dire niente.
- Cerchi un’idea in un libro di ricette cara? - No, faccio il caffè. Il libro che ti serve è accanto alla televisione e si chiama: A pratica do Candomblè
no Brasil. Lo vedi? - Mmm…certo, ora lo prendo Il libro era carino, bello colorato e guarda caso edito dalla Oficina Cultural del suo amico Daniel. Si
ripromise di contattarlo in giornata. A pagina trentuno trovò il tridente. L’Orixa di riferimento era Exu, il
messaggero di tutti gli altri Orixas. Legba nella cosmologia Voodoo spesso rappresentato con un tozzo
feticcio col pene eretto.
- Niente di più lontano da Tania – Pensò, ma si sbagliava.
Dovette andare fino a pagina 120 per trovare le conchiglie. O Jogo do Buzios, altrimenti detto o Jogo de
Ifa, ovvero l’Oracolo, la divinazione. Davvero facile trovare il suo corrispondente Voodoo: Fa,
l’oracolo. Come aveva fatto a non pensarci. Le abrasioni supporose di Tania lo avevano fuorviato,
certamente.
- Di solito si gettano le conchiglie dentro a un cerchio, o Colar de Ifa, e poi il Babalao le interpreta. - Babalao? - Si. La divinazione nella Macumba è affidata a persone che seguono un training particolarmente duro e
che superano una serie di esami e test fatti da altri Babalao. - disse Isis mentre beveva il caffè.
- Ah, ho capito. Anche noi in Italia abbiamo qualcosa del genere: gli ordini professionali, sai…
giornalisti, avvocati eccetera…. salvo che da noi basta essere raccomandati e non superare test
particolarmente duri. - Più o meno come qui – Rispose Isis. - Tornando a noi, mio caro, è curiosa la presenza di due Orixa
come il messaggero Exu e l’oracolo Ifa. Rifletti, cosa veicola un messaggero? Informazioni, sapere. E a
cosa serve un oracolo? Sempre il sapere, la conoscenza. - Dove vuoi portarmi Isis? - Da nessuna parte. Dico solo che in qualche modo la conoscenza, il sapere e la divinazione hanno a che
fare con il tuo Baphomet. Erano le quattro del pomeriggio, erano ai tropici e l’unica cosa sensata da fare per quel giorno era di
andare in spiaggia a godersi le ultime ore di sole che, anche a quella latitudine e seppure con la piaga
dell’ora legale se ne andava presto. Raggiunsero la spiaggia bianca e si stesero al sole a guardare le onde
dell’oceano Atlantico.
- Credo che Isis abbia ragione. - Pensò Ettore prima di chiedere una Agua de coco al ragazzo del posto
sei di Barra da Tijuca.
Zangbeto
Aeroporto Galeao (Rio de Janeiro)
I capelli erano lunghi, crespi e scuri, sembrava proprio una giovane greca in attesa del volo per
tornare a casa ma era anche seduta a gambe incrociate sulla poltroncina della sala e scriveva qualcosa su
di un minuscolo taccuino con la mano sinistra. Ogni tanto sollevava la testa per guardarsi intorno e la
scollatura della sua maglietta lasciava indovinare la giovane forma del suo seno, ma in ogni caso il
colore della pelle era chiaro e si vedeva lontano un chilometro che era appena arrivata dall’Europa. Si
sarebbe scottata per bene se non fosse stata attenta.
Un posto decisamente curioso per un appuntamento anche perché Daniel non gli aveva detto come mai
voleva incontrarlo nella sala d’attesa degli arrivi internazionali dell’aeroporto Galeao. D’altra parte era
matto come un cavallo e andava assecondato.
- Eccoti qua Ettore – La voce di Daniel, un tantino in affanno, lo distolse malvolentieri dal bel profilo,
anche se lievemente aquilino, del naso della ragazza.
- Che ti salta in mente? Perché ci vediamo qui e non sulla spiaggia di Copacabana, tanto per dire… - Vieni con me… - Che mi devi far vedere di così terribilmente importante? - Niente. E’ che devo incontrare una persona e non avevo un altro momento per dirtelo – disse
camminando rapido verso il portale degli arrivi.
- Dirmi cosa… - Non stavi cercando informazioni sul Baphomet? - Sicuro… - Allora ne puoi trovare a Cananeia. Cerca informazioni in rete su un Templare arrivato nel 1500 o giù di
lì. - E dov’è Cananeia? - Giù, dopo San Paolo Casa di Isis
- Guarda Ettore… sembra uno spermatozoo. - Mmm… oppure un neurone fiacco. Forse c’è davvero qualcosa di interessante laggiù. Prova un po’ a
calcolare la distanza di Cananeia da San Paolo Isis, mi sembra troppo lontano per andare in auto da qui. Isis cercò il menu itinerari di Google Earth e impostò il percorso da San Paolo a Cananeia. Uscirono
duecentosessantuno chilometri percorribili in quasi quattro ore; strade tortuose a occhio e croce.
Zoomarono con Google fino a che non videro il tessuto urbano di Cananeia che sembrava una
smagliatura, ma anche un eczema, sulla testa dello spermatozoo, come aveva chiamato Isis la curiosa
isola inglobata come in un involucro tra la terraferma e la più lunga Ilha Comprida. Decisamente un posto
curioso.
- Si potrebbe andare in aereo fino a San Paolo e poi noleggiare un’auto, e stare via in tutto due o tre
giorni. Ti va di venire? - Perché no, una gitarella non si rifiuta mai, dovremo portare una felpina però, laggiù fa fresco. - Ma ci saranno almeno venticinque gradi - Appunto… Ma ti ha detto Daniel come ha avuto l’informazione Cananeia? - Macché, ha dovuto correre in soccorso di una sua amica che era stata colta da panico da controlli
doganali. Ha ‘vinto’ il controllo della guardia di finanza locale pigiando sul pulsantone giallo
all’ingresso. - Ah vabbè, ma ti fanno solo vuotare la valigia per ficcarci il naso dentro, tutto lì - Si, ma lei non poteva saperlo e si era preoccupata. - Non è poi tanta la roba che abbiamo trovato su quel posto curioso – cambiò discorso Isis – giusto il
riferimento a quel Templare, Bacharel, per il resto si parla parecchio di oro e argento e di porta dell’El
Dorado. - Guarda… anche solo per il riferimento a Bacharel vale la pena di andare - Pare comunque che Cananeia sia un posto particolare. - In che senso? - A parte che tutti passavano di là per cercare l’El Dorado, è stata una delle prime città a essere fondate,
forse la prima in Brasile. - Curioso – disse quasi tra sé Ettore – e poi comunque Daniel mi ha sempre dato delle dritte interessanti.
- Pare anche che a quell’epoca – disse Isis scartabellando una decina di fogli sparsi sul tavolo del suo
soggiorno – ci fosse un certo via vai di Gesuiti da quelle parti. - Ecco, se avevamo dubbi ora non ne abbiamo più. Dove ci sono loro normalmente c’è del sugo. Il sole tropicale splendeva forte anche quel giorno, rimbalzava appena sulla tenda che copriva il
terrazzino e poi penetrava con forza nel soggiorno. La luminosità era commovente e il profumo della
Mata Atlantica mischiato con quello dell’oceano si infilava dolce nelle narici. Non valeva la pena di
partire subito, se puoi rimandare qualcosa, fallo; si sarebbero limitati a organizzare il viaggio, anche
perché lui aveva giusto il tempo di fare un salto al suo appartamento per preparare i pochi bagagli
necessari, mentre Isis faceva la solita nuotata pomeridiana. Chissà perché non rinunciava
all’appartamento che aveva affittato visto che di fatto viveva a casa di Isis. Forse per non rinunciare alle
massime filosofiche della setta semi-esoterica che stava di sotto e che cambiavano ogni giorno o forse
per qualche altro motivo misterioso che immancabilmente prima o poi avrebbe scoperto. A proposito,
chissà quale sarebbe stata la scritta di quel giorno… anche se cominciava a pensare che tutto sommato
gliene fregava il giusto.
Aeroporto di San Paolo
Visto dall’oblò del Boeing 737 della Varig, il Cumbica International Airport di Sao Paulo era un poco
più malinconico del Galeao di Rio. Solo il terminal visto dall’alto, mentre il volo delle otto e venti del
mattino atterrava, contribuiva a migliorare, anche se di poco, l’umore perché ricordava vagamente, con i
suoi tre bracci protesi, la penisola calcidica e il monte Athos. Anche se non aveva la minima idea del
perché il monte Athos gli facesse quell’effetto; ma come sempre prima o poi avrebbe capito.
Movida Rent a Car era subito piaciuta a Isis per via del colore arancio sgargiante, e inevitabilmente
avevano noleggiato da loro una Volkswagen Golf che Ettore stava guidando. Lei era fatta così, aveva
scelto il volo della Varig solo perché le piaceva la rosa dei venti arancione sul blu cobalto della coda,
mica per altro.
Stavano uscendo dalla rampa dell’aeroporto direttamente sulla rodovia Helio Smidth e andavano verso
Guarulhos, che era poi il vicino centro abitato. L’idea era quella di percorrere tutta la rodovia fino alla
confluenza con l’Ayrton Senna che passava proprio vicino al Parque ecologico do Tiete e proseguiva poi
in direzione di Sao Paulo. La mano gigante in simil-plastica che reggeva un telefonino Samsung altrettanto
gigante e sempre in simil-plastica, al bordo della strada, lo rafforzò nella convinzione di costeggiare
qualcosa di simil-naturale; con questo dimostrando che il marketing non è sempre una cosa negativa.
Passarono sopra il Rio Tiete e costeggiarono il parco. Procedevano a bassa velocità per godersi il
paesaggio ma soprattutto per non prendere multe e ogni tanto vedevano gruppetti di Opossum rovistare tra
le foglie secche sul terreno. A destra e a sinistra in lontananza i grattacieli di Guarulhos sorvegliavano
discreti.
- Alcool? - Certo, alcool. Guarda là quel distributore. Vedi quella colonnina azzurra? Distribuisce alcool - Che si ottiene dalla canna da zucchero in modo ragionevolmente economico. Da quanto lo usate? Chiese Ettore.
- Anni. Quasi tutte le nostre auto, come questa, sono dotate di Flexfuel Sensor che identifica il tipo di
carburante: benzina, alcool o miscela dei due, e adegua il funzionamento del motore - Fico - Il dispositivo che controlla tutto questo ce lo dà la vostra Magneti Marelli. Con questa roba le auto
inquinano meno e il pieno costa la metà. -
- Mi chiedo che fine facciano tutte le nostre barbabietole da zucchero… - Come? - Niente… Oh, guarda, mi sa che finisce la verdura - Indicando con la mano la fine del parco ecologico. Ti va se ci buttiamo dentro al caos urbano? - Se lo vuoi… Seguirono il Rio Tiete fino al ponte Tatuapè e svoltarono a sinistra sull’Avenida Salim Farah Malut, una
linea retta in mezzo a un fittissimo tessuto urbano basso e uniforme dal quale spuntavano a casaccio
grattacieli. Svoltarono poi a destra sull’Avenida Machado avviandosi decisamente verso il centro della
città. Sao Paulo è una sterminata distesa di tessuto urbano più o meno uniforme dal quale i grattacieli
sembrano spuntare come funghi, figli di spore sparate con uno starnuto, anche se gigantesco. All’altezza
del Viaduto Sampa, che ricorda vagamente la tangenziale Est di Roma dalle parti di piazza dell’Amba
Aradam, decisero che ne avevano abbastanza del centro città e voltarono decisamente verso sud, sull’
Avenida do Estado e poi su Avenida Nazarè passando per il quartiere Ipiranga dove una profusione di
monumenti e musei celebrano la giornata dell’indipendenza del Brasile dal Portogallo, avvenuta per
bontà dell’Imperatore Pedro I.
Una serie di svolte e giravolte e arrivarono infine sulla Rodovia Anchieta senza trascurare di dare
un’occhiata alla favela di Heliopolis, un elegante tocco di disordine nel tessuto iper-ordinato e
geometrico di Sao Paulo. Un po’ come un villaggio gallico in mezzo a un acquartieramento romano. E
poi, finalmente liberi dall’oppressione urbana, sulla strada del sud verso Sao Vicente, altrimenti detto
Cananeia, e l’oceano.
Zangbeto
Visto alla tremula luce delle molte candele accese sembrava ancora più spettrale, anche perché il
sangue quasi rappreso era di un colore rosso che virava verso il marrone e come se non bastasse
insozzava tutto il volto e parte del sudario che gli avvolgeva il busto. Due lunghe orecchie appuntite che
sembravano corna spuntavano dal capo tozzo e reso ancor più grottesco da un naso simile a una vistosa e
corta proboscide, per non parlare poi della forma delle orecchie che erano nere e rivolte in avanti.
Sembrava seduto o appoggiato su uno scranno di pietra, e lo scranno si confondeva con il pavimento sul
quale era sistemato e intorno c’erano ciotole di terracotta con dentro strane polveri colorate. Sparse qua
e là c’erano bottiglie verdi che una volta probabilmente contenevano birra, ma ora certamente un’altra
cosa.
Dietro alla raffigurazione terrena del Dio Legba seduto sul trono e appesi a una corda c’erano diversi
Gankeke di varie dimensioni. Il sacro gong Voodoo, Gankeke appunto, era fatto con due specie di imbuti
di ferro battuto, di grandezze diverse ma uniti per mezzo del collo ricurvo che tutti avevano. Questi
curiosi strumenti musicali producono un suono simile a un “kay-kay-kay” che era poi anche il suono che
risuonava, sacro e in quello stesso istante, dentro al Tempio.
Il Tempio era una costruzione fatta in mattoni e dalla forma di pagliaio che è caratteristica e piuttosto
evocativa per tutti gli adepti al Voodoo, ma che per un occidentale al massimo evoca il passato contadino
dell’Emilia Romagna, con una apertura al vertice per far uscire i fumi delle celebrazioni e dei riti che
normalmente si celebrano al suo interno.
Lui aveva visto risplendere le decorazioni esterne, caratteristiche e molto evocative come si diceva
prima, alla luce della luna mentre arrivava a piedi. Non gli sembrava infatti carino arrivare in Suv e farsi
vedere, anche per sbaglio, da qualche fedele di origine africana, perché per sovrammercato lui era
bianco e piuttosto sovrappeso. E poi era entrato dal retro perché, per la stessa ragione di prima, non gli
sembrava opportuno farsi vedere mentre si infilava dentro al costume rituale, sempre a forma di pagliaio
e dotato di una sola apertura per vedere quello che succede fuori. Che era poi la stessa apertura dalla
quale stava osservando Legba alla luce delle candele in quell’ istante. Non sapeva se sudava
abbondantemente perché il costume rituale, molto carino in ogni caso, ostacolava la sua
termoregolazione, oppure perché era nervoso. Lei lo aveva rassicurato: la tradizione Yoruba sostiene che
all’interno del costume sia presente lo spirito divino, oppure in alternativa, l’umano che lo indossa sia
pervaso dallo spirito divino e sia dotato di poteri e capacità sovrannaturali e che proprio per quello
qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stata accolta come proveniente da un’autorità che non si poteva
mettere in discussione. Tuttavia lui stava sudando abbondantemente e a quel punto si era convinto di
essere nervoso. In ogni caso lei sembrava avere in pugno la situazione e aveva particolarmente insistito
perché lui fosse stato presente alla cerimonia che stava per iniziare. Era importante, anzi molto
importante per il lavoro che stavano facendo e doveva assolutamente fidarsi perché soltanto insieme
avrebbero raggiunto il risultato. C’era poi da dire che il suo ruolo era poco più che scenografico, doveva
stare lì e agitarsi ogni tanto, magari facendo finta di capire quello che stava succedendo, il che era
ampiamente alla sua portata.
La cerimonia stava entrando nel vivo e il ritmo dei gong rituali si stava facendo più intenso, come per
sottolineare l’avvicinarsi di un momento importante. Un giovane uomo vestito con un drappo multicolore
stava portando una ciotola alla donna corpulenta che era seduta su uno scranno in muratura, una specie di
trono proprio di fronte alla raffigurazione di Legba. Era vestita anche lei in modo rituale per gli adepti
Voodoo, mentre per l’uomo bianco dentro al costume a forma di pagliaio aveva addosso solo un sudario
bianco candido che ricopriva un enorme seno e avvolgeva fianchi e natiche proporzionate alla
dimensione del seno. Aveva la pelle olivastra e i capelli corti e neri, le braccia e gli avambracci erano
scoperti. Non era molto avanti negli anni perché la sua pelle non cascava ancora pietosamente e il volto
era coperto da una maschera che con tutta probabilità rappresentava Legba, con due enormi buchi per gli
occhi, evidentemente lei doveva vedere bene e i suoi occhi dovevano essere ben visibili.
Alzò una mano come per ottenere un silenzio concentrato mettendo in mostra, anche alla poca luce delle
candele, alcune strane abrasioni che aveva sugli avambracci. Si fece il silenzio che lei aveva chiesto e
soltanto un Gankeke diffondeva nell’aria, che si era fatta acquosa per la tensione, un’appena percettibile
e mistico chiacchiericcio di fondo. L’uomo bianco dentro al costume a forma di pagliaio si sentiva come
uno che è imbarazzato a livello intestinale ma che non può liberarsi e gli tocca di stare piegato in due dal
dolore, mentre il giovane vestito in modo variopinto stava offrendo al donnone sul trono la ciotola, e tra
uno spasmo e l’altro, da dentro il costume, ne vedeva il contenuto. Che poi non era altro che vetro
macinato sottoforma di frammenti bianchi e verdi, più o meno in ugual misura. Con una lentezza e una
drammaticità degne di una attrice consumata, il donnone, prese una manciata di vetruzzi colorati e li
ingoiò, una, due, persino tre volte. Poi con una certa solennità alzò le braccia e scuotendo con vigore il
grosso seno, cosa che non mancò di affascinare i presenti, raccolse il meritato plauso per l’impresa
appena compiuta, mentre il suono del sacro gong riprendeva vigore come per sottolineare il
compiacimento della divinità a supporto.
Con la stessa sorpresa con cui un ipocondriaco sente allentarsi la morsa del presunto male non appena si
distrae quel tanto che basta, l’uomo bianco nel costume da pagliaio era talmente affascinato dallo
spettacolo che smise di pensare ai suoi presunti spasmi intestinali nello stesso momento in cui lei
ingoiava la prima manciata di vetri colorati. Addirittura smise di percepire il caldo come qualcosa di
fastidioso ma lo considerò come parte inevitabile di tutto quello che stava accadendo. Il suo stato di
grazia continuò mentre la vedeva guardarsi intorno compiaciuta scuotendo la testa in segno di assenso e
sorridere con le mani appoggiate sulle grasse ginocchia, come se fosse in attesa del momento opportuno
per il prossimo show. E infatti un attimo prima che la meraviglia per quello che aveva fatto si
stemperasse nello scorrere del tempo, richiese di nuovo il solito silenzio concentrato. Con i suoi utenti ci
sapeva fare, e infatti sempre con una lentezza da accademia d’arte drammatica alzò il braccio sinistro
tenendolo ben fermo, immobile e orizzontale, proprio come un male necessario. Un nanosecondo dopo, il
giovane della ciotola e col vestito variopinto, arrivava solerte con due ceri bianchi accesi, alti un paio di
centimetri e del diametro di un uovo sodo. Poi con una sincronizzazione da orchestra sinfonica il suono
dei sacri gong divenne più intenso quando il ragazzo fece colare la cera bollente su un lembo di pelle
sana dell’avambraccio della donna, facendo poi aderire i ceri sulla pelle per mezzo, appunto, della cera
bollente, in modo che potessero continuare a bruciare indisturbati. Subito dopo, il tintinnio dei gong si
fece leggero e inconsistente come per introdurre un tempo di attesa.
A quel punto, e non poteva essere diversamente, il tempo parve collassare. Naturalmente in situazioni
così esoteriche come quella presente, è ovvio che lo sguardo di tutti si fissi sulle fiammelle dei ceri che
si consumano piano piano. Ma anche sul braccio del donnone che restava fermo, ma proprio fermo come
se lei fosse in trance. E infatti guardandola con una certa attenzione si notava che aveva gli occhi
arrovesciati, in pratica si vedeva solo il bianco proprio come se la sua mente fosse chissà dove e, per
l’appunto, insensibile al dolore e alla fatica del corpo. L’uomo bianco nel costume a forma di pagliaio
aveva la netta impressione che che la donna nel sudario bianco-abbondante fosse una sorta di polo
magnetico che calamitava tutta la concentrazione dei presenti, eccetto lui naturalmente. Poi a un certo
punto, forse per distrarsi dalla distrazione che non gli faceva più percepire nessun malessere, decise di
avvertire di nuovo qualcosa di stimolante. Credeva, oppure ne era convinto, di farsi cullare, come
probabilmente anche tutti gli altri del resto, da certe onde viscose che pareva girassero in tondo
nell’atmosfera densa e amniotica creata dalla donna sul trono. Gli sembrava di essere dentro a uno di
quei sogni in cui, per quanto ti sforzi, i tuoi movimenti risultano lenti e pesanti, come se il tuo corpo, per
qualche ragione sovrannaturale, pesasse dieci volte tanto. Come se anche lo stesso pensiero non riuscisse
a trovare una via di fuga e a riacquistare la leggerezza sua propria. La differenza era che in questa forma
di pre-trance non c’era nessuna volontà di fuga ma solo il desiderio di restare, in quel non-stato,
all’infinito. Non percepiva più nè caldo nè fastidio. Avvertiva solo il ritmo pastoso dell’onda densa che
lo avvolgeva.
Fu riportato al presente, dopo un tempo che non si curò di quantificare, ma piuttosto improvvisamente, da
uno sfrigolio e da un odore dolciastro di carne bruciacchiata. Riportato così violentemente alla realtà,
non onirica, del suo presente fece in tempo comunque a vedere la porzione superficiale della pelle del
braccio della donna sul trono, in corrispondenza naturalmente dei due ceri, avvolta da una debole fiamma
in via di estinzione, mentre piccole scintille, come quelle delle girandole di natale, scoppiettavano
allegre prima di toccare il terreno e sparire per sempre. Come se l’incendio di una parte del suo corpo,
ne aveva tanto del resto, fosse stato un segnale la donna sul trono riacquistò la coscienza piena di sè
stessa mostrando ai presenti le pupille nere. Poi con il massimo distacco, si sarebbe detto con
noncuranza, appoggiò il braccio, ancora fumante, allo scranno e si guardò intorno compiaciuta, per
constatare quanto i fedeli del Dio Legba adorassero lei come sua rappresentante. Se soffriva non lo dava
a vedere anche perché sembrava proprio la rappresentazione fisica del benessere mentre il suono dei
gong era partito di nuovo verso i toni alti. A un certo punto decise di averne abbastanza dell’adorazione
dei presenti perché con un cenno della mano, del braccio fumante naturalmente, ottenne che il suono
diventasse poco più che un sussurro e conquistò di nuovo l’attenzione piena di tutti quanti.
Fatto questo sforzo, cominciò a parlare in una lingua che il bianco nel costume rituale non conosceva per
niente, anche se viveva in sudamerica da una cifra ormai. Un po’ per volta si presentarono davanti a lei
gruppetti di persone, tutte invariabilmente di sesso maschile per esporre, almeno così pareva, certe loro
ragioni e poi ascoltare certe altre ragioni e poi accettare il verdetto a malincuore, proprio come si fa in
Europa di fronte al commercialista. Ma anche in sudamerica comunque, mentre in Africa non è detto. Il
bianco ricominciò a sudare copiosamente e a percepire di nuovo gli strani dolorini. Svanita la magia non
vedeva l’ora che tutto finisse per togliersi di dosso il dannato costume.
- Ma era davvero necessario mangiare vetro colorato e darsi fuoco? Domani come farai? - Come farò a fare cosa? - A cagare… Il tempio era ormai vuoto e con sua molta soddisfazione il bianco era potuto uscire dal costume rituale e
aveva smesso di sudare, almeno così tanto. L’amministrazione della giustizia Zangbeto era durata fino a
oltre mezzanotte, anche perché dopo quell’ora, eccitazione o no, non c’era più nessuno disposto a
rivendicare angherie subite. Alle due di notte erano rimasti completamente soli nell’enorme edificio. A
giudicare da come gli cascava la pancia sui pantaloni di lino, anche se di ottimo taglio, sembrava che
l’uomo bianco fosse un po’ provato dalle emozioni della serata, mentre invece la donna era fresca come
una rosa e smaniosa di discutere di certi particolari.
- Tieni, rimettiti in sesto, abbiamo ancora da fare. Gli allungò un piattino di metallo con sopra una riga di coca e poi iniziò a togliersi lentamente il sudario
bianco, scoprendo i due grandi capezzoli neri, che in quel preciso istante a lui sembravano due grani di
noce moscata appiccicati proprio lì. Oltretutto poi le tette sembravano tornite, lucide e
sorprendentemente autoreggenti, un osservatore distratto le avrebbe scambiate facilmente per due rocce
gemelle esposte al sole dell’estate australe. - Ah beh… una riga risolve –
Nonostante le prove della serata l’uomo conservava un certo interesse per le esperienze eccitanti, mentre
la sua amica continuava l’opera di svestizione.
- Prima ero Legba che dispensa la giustizia … - Mormorò la donna.
- E rincoglionisce un bel mucchio di persone che potranno certamente esserti utili, prima o poi… - pensò
ma evitò accuratamente di dire il bianco mentre la guardava scoprire i suoi grandi fianchi e poi sfilarsi il
sudario fino alle natiche, tutto questo mentre sentiva i suoi occhi lacrimare per l’eccitazione e aveva
paura che un filo di bava gli scendesse dall’angolo della bocca, ma fortunatamente non accadde.
La donna, nonostante fosse abbondantemente sovrappeso e di lineamenti neanche particolarmente fini,
riusciva a conquistare un po’ come voleva la sua popolazione di affezionati e anche a eccitare
sessualmente l’uomo bianco che prima stava dentro al costume rituale. Avesse mai dovuto interrogarsi su
che cosa esattamente lo affascinava di lei, avrebbe detto proprio la sua abbondanza, ma anche le
abrasioni che si autoprocurava sulla pelle; quella sera sembravano particolarmente fresche, puzzolenti e
umidicce e la cosa lo eccitava.
- Ora io sono Gaia e tu Urano e dobbiamo unirci affinché il nostro potere sia rafforzato e diventi
invincibile… - Ma falla corta e dimmi che vuoi trombare…. - Pensò ma non disse l’uomo bianco anche se questo, in
ogni caso, era nei loro rapporti carnali il segnale di inizio del rito di rafforzamento. Lo chiamavano
proprio così e anche in modo convinto, ma agli occhi di un qualsiasi europeo si sarebbe trattato
semplicemente di sesso sfrenato.
Lei si era liberata completamente di ogni indumento e si era messa carponi sul pavimento del tempio
oscillando ritmicamente in avanti e all’indietro, in quella maniera le sue tette dondolavano in modo
vistoso. Visti dal davanti, dove del resto lui era, i capezzoli apparivano e scomparivano
alternativamente, e lui dovette ammettere con se stesso che la cosa lo stava facendo infoiare, magari non
ancora arrivare al parossismo perché tante volte per quello ci voleva ben altro, ma quasi. Il passo
successivo era avvicinare il membro ormai completamente eretto e piuttosto turgido, ma con una certa
lentezza, alla bocca di lei giocando sadicamente con i movimenti, come per assecondare o contrastare le
oscillazioni dell’enorme corpo della sua partner. Una bella liturgia sado-maso avrebbe convenuto un
osservatore esterno e disincantato. In ogni caso la bocca di lei accolse il membro del suo partner in modo
quasi passivo, senza stringere il muscolo sul pene ma con voluttà, in modo che fosse lui a guidare
l’operazione o almeno ne avesse l’impressione. Lui intanto, per non sbagliarsi, spingeva prima con
prudenza ma poi in modo sempre più energico, e lei piano piano cominciava a stringere la bocca,
offrendo in questo modo resistenza. Al culmine di questo gioco erotico il glande di lui arrivava a
occludere, nel momento di massima spinta pelvica, la faringe di lei, impedendo ritmicamente per un
insieme di brevi attimi il respiro e provocando in questo modo tante piccole anossie che trasportavano
per mano la donna fino al culmine del piacere, che corrispondeva con una grande anossia, the big one
alcuni potrebbero arrivare a chiamarla, che durava tutto il tempo in cui il pene di lui riversava lo sperma
nella sua gola. Così normalmente arrivavano al piacere contemporaneamente, lui eiaculando e lei
sperimentando un orgasmo quasi in punto di morte.
Ma il gioco comunque era ancora lontano dalla fine. Quasi sicuramente aiutati dalla coca piuttosto pura
che avevano sniffato, e da qualche altro artificio conosciuto dalla donna, potevano andare avanti ancora
per ore. Dopo essersi ripresa dalla piccola morte rituale, forse praticata anche come terapia
desensibilizzante nei confronti di quella grande che inevitabilmente prima o sarebbe arrivata, lei intinse
la mano destra in una ciotola contenente una specie di crema giallognola. Con la mano sinistra stringeva
forte alla base il pene dell’uomo, impedendo al sangue di defluire dai corpi cavernosi e con la destra
invece spalmava dappertutto l’intruglio in modo piuttosto accurato, senza trascurare nemmeno un
millimetro quadrato della pelle delicata e rosea. Poi finì il lavoro con la bocca, convinta che la mucosa
buccale fosse uno strumento certamente più idoneo per quell’attività. Della qual cosa lui non poteva che
ritenersi soddisfatto, anche se a margine di questa operazione ogni volta si chiedeva cosa potesse mai
esserci nella poltiglia giallastra ma poi inevitabilmente concludeva che non gliene fregava assolutamente
niente, la cosa importante era che il suo uccello, dopo il trattamento, assumeva la consistenza del legno di
quercia, o di pau brasil che alla fine è la stessa cosa. Percepiva la sua bocca, per l’appunto, come
velluto, anche se caldo, sul suo glande e sentiva il desiderio scoppiare di nuovo dentro, dentro al pene
naturalmente. Quando lei si rese conto che l’uomo aveva riacquistato vigore, e chi mai non lo farebbe con
un trattamento così, gli sussurrò:
- Ora dietro, per il mio piacere e la nostra forza… Non aveva mai capito se lei gli imponeva la penetrazione anale per via della ricaduta anticoncezionale o
per altri motivi suoi più metafisici. Inevitabilmente finiva col pensare che gli fregava il giusto, senza
stupirsi più di tanto del fatto che in quell’occasione finiva sempre per arrivare alle stesse conclusioni e
che avrebbe risparmiato fatica se non si fosse più posto la questione. In ogni caso quando ne parlavano
ritenevano, a dire il vero più lei di lui, che i risultati che volevano ottenere fossero non comuni e che
andassero rafforzati in una maniera non comune. Si fa per dire naturalmente, essendo la sodomia una
pratica con una certa diffusione a livello planetario, pensava inevitabilmente senza dirlo lui. Dicendo
questo, con un’agilità insospettata per una donna della sua stazza, si girò con un balzo tale che un
osservatore indipendente lo avrebbe definito felino, mostrando i glutei con lo sfintere anale pulsante. Se
lui fosse stato un frequentatore del Bar Sport di una qualsiasi città europea, avrebbe detto il giorno dopo
agli amici che in quel momento era eccitatissimo, invece si limitò a introdurre un dito nella cavità anale,
come per saggiare il grado di umidità della mucosa e decidere se fosse in grado di accogliere il suo pene.
Poi con moto alternativo, introducendo il dito e parzialmente sfilandolo, la induceva a emettere una serie
modulata di gemiti, mentre lei contemporaneamente accompagnava con il suo corpo, ma in senso
negativo, il ritmo del dito di lui, spingendo nella direzione contraria a quella del movimento delle sua
mano, in modo tale da far penetrare sempre un po’ di più il suo dito, appunto. Queste loro spinte uguali e
contrarie provocavano delle onde, nel grasso della donna, che andavano e tornavano, dalle natiche al
collo e viceversa, quasi come il moto perpetuo. Lui introdusse due dita quando ebbe la sensazione che lei
lo pretendesse e continuarono il gioco delle spinte e contro spinte. Quando lui afferrò una delle sue
grosse tette, con la mano sinistra, lei alzò il volto e ululò di piacere. D’altra parte questo era il segnale
convenuto. Lui si mise dietro e introdusse il suo pene, piuttosto ben turgido, nello sfintere anale di
lei.Come sempre all’inizio le sue spinte erano misurate, anche perché la mano di lei si opponeva nel caso
in cui lui, vinto dall’eccitazione esagerasse. Ma da un certo punto in poi lei smetteva di opporre qualsiasi
resistenza e quando l’eccitazione toccava vette infallibilmente elevate, offriva contro-resistenza alla
penetrazione di lui, in modo che lui fosse indotto a penetrare ancora di più, lo stesso criterio del dito ma
applicato al pene, a dimostrazione che le cose semplici, spesso sono anche quelle più funzionali. Questo
era il segnale che tutti aspettavano per arrivare al meglio del gioco, almeno dal loro punto di vista, che
tra le altre cose era quello che contava. Interruppe per un attimo il ritmo delle spinte pelviche. Afferrò le
grasse cosce di lei per aprirle ancora di più. Lei sapeva che cosa lui stava facendo e modulò un mugolio
soddisfatto. Vista dall’alto lei ora sembrava la rana di Galvani a gambe divaricate, e pronta per compiere
il balzo nell’iperorgasmo. Lui riprese con convinzione le spinte pelviche e a ogni colpo il pene penetrava
sempre un poco di più nell’ano della donna, che messa in quella maniera offriva la minor resilienza
possibile. In quella situazione il pene, naturalmente dipende dalla sua dimensione ma nella maggior parte
dei casi è vero, penetra sempre un poco di più, naturalmente dipende anche dall’elasticità dello sfintere
in questione, e comunque in quel caso specifico lei cominciò a sottolineare il fatto che la sua resilienza
stava inevitabilmente calando con versetti che migravano verso la parte acuta dell’onda sonora man mano
che il lavoro progrediva. Quando a un certo punto la lunghezza del pene non fu più sufficiente per il
desiderio della donna, e osservando la scena da una certa angolazione, si sarebbe detto che persino lo
scroto cominciasse a penetrare nello sfintere ormai divaricato che di più non si può. Colpo dopo colpo in
preda a un desiderio amplificato dalla droga e dalla eccitazione esoterica, lo scroto penetrava sempre di
più nell’ano fino a che raggiunsero il culmine. Il culmine del piacere, come sempre lo raggiunsero
insieme, e insieme alla massima penetrazione resa possibile dalle circostanze, con pene e scroto
completamente dentro allo sfintere anale, eiaculante tutto il desiderio di potere nel ricettacolo più adatto
a contenerlo: la smisurata ambizione della donna. Quando estrasse il pene avvertì, come al solito, un
rumore come di risucchio umido.
L’alba li trovò sudati e ansimanti, finalmente appagati sessualmente e con un briciolo ancora di lucidità
per organizzare il futuro prossimo venturo.
- Sta andando a sud con la sua amica il nostro… - Disse lui.
- Ma non hai amici laggiù? Non credi che potremmo far lavorare loro al posto nostro? - Immagino di sì. E che mi dici di lei? - E’ sveglia. Non sa nulla dei nostri affari ma può fare in modo che lui ci aiuti. - Bene, stiamo a vedere che succede. Dopo aver finito con le occupazioni della giornata caddero di colpo in un sonno pesante e senza sogni, lì
dov’erano, nel tempio dello Zangbeto, almeno lui di sicuro.
- Ah! Che ne è del nostro uomo importante? - Squittì lei svegliandosi improvvisamente dopo qualche
minuto o secondo, chi poteva stabilirlo del resto. Anche da addormentata il suo cervello continuava a
macinare informazioni e possibilità. Si levò su un gomito e richiamò l’attenzione di lui scuotendogli le
spalle perché era già addormentato.
- Il nostro uomo… che dice? - Eh? Cosa? E’ tutto a posto… è dalla nostra parte… Ma ora dormi perdio Lui si girò dandole le spalle, almeno mezz’ora doveva dormire sennò era uno straccio per tutto il giorno
dopo, cioè oggi. Lei non chiuse gli occhi perché non aveva più sonno ma rimase a osservare invece la
luce del giorno che rapidamente si impossessava della realtà, speculando per l’ennesima volta su come i
loro piani si sarebbero realizzati.
Il Cippo di Vespucci
- Quel tipo al Kurt Kaffee aveva ragione, ecco il cippo di Vespucci. - Disse con soavità Isis.
- Si, ma il Kurt Kaffee è un po’ troppo europeo per i miei gusti. Troppo ordinato e pulito, e poi con tutte
quelle robe da mercato delle pulci sembra di essere a Parigi e non ai tropici. Erano partiti neanche mezz’ora prima dal porto di Cananeia. Avevano noleggiato un barcone colorato da
un pescatore per dieci Reais all’ora. Si erano lasciati alle spalle l’imbarco per il Ferry-boat con il
corrimano di metallo verniciato di giallo canarino e stavano puntando verso il Morro di Sao Joao.
L’acqua della laguna era verde e calma e le case colorate di Cananeia erano tutte in fila lungo la riva,
bianche, azzurre, gialle e rosse, proprio come le barchette ormeggiate davanti, anche loro tutte in fila. La
vegetazione era verde e rigogliosa, e probabilmente riconoscente al destino per essere nata e cresciuta in
un ambiente dove c’erano più o meno 25-30 gradi di temperatura tutto l’anno.
Si erano portati verso il centro del Mar Pequeno che poi in realtà è un grosso canale che divide l’isola di
Cananeia da Ilha Comprida sulla terraferma e avevano incrociato la Balsa, che poi è un traghetto ma lì lo
chiamano così, che collega le due isole, e che era un lungo barcone piatto rosso e giallo con la sigla FB13 stampata sul ponte di poppa, con due auto sopra e un gruppo di turisti con zaini colorati di azzurro. Se
lo erano poi lasciato alle spalle insieme al suo rumore sordo e gorgogliante, da Balsa appunto.
Proseguendo verso sud avevano dovuto, per forza, ammirare la vegetazione costiera del Morro do Sao
Joao, con i suoi intricati intrecci di mangrovie, palme e jacaranda, una specie di muraglia verde e
compatta con la caratteristica vegetazione epifita che cresce persino nel tronco delle palme. Ettore ancora
non sapeva perché ma si diceva certo che tra lui e quelle mangrovie ci sarebbe stato qualcosa. Poi, e non
poteva essere diversamente, la montagna aveva lasciato il posto alla pianura, anche questa ricchissima di
vegetazione atlantica, da una parte e dall’altra del Mar Pequeno. Giusto arrivati alla confluenza del
Piccolo Mare con la Bocca che portava fuori nell’ oceano Atlantico, erano stati assaliti improvvisamente
dalla sua immensità color cobalto. Senza farsi intimorire più di tanto avevano virato decisamente verso
est seguendo il profilo della costa di Ilha Comprida e poi, sempre decisamente, verso sud in pieno
oceano seguendo per un poco la costa di Ilha do Cardoso fino a che non avevano avvistato i primi banchi
di sabbia sotto il pelo dell’acqua e in lontananza avvistato il profilo di Ilha do Bom Abrigo e giusto un
secondo prima che Ettore dicesse a voce alta che c’erano più isole che sardine in quel tratto di mare. A
quel punto sapevano di essere arrivati alla spiaggia di Itacuruca, detta anche Praia do Perigo. Questo lo
sapevano non perché glielo avevano detto al Kurt Cafe, ma perché l’avevano visto su Google Earth.
Girare verso la costa e spiaggiare il barcone colorato, dopo aver spento il motore che girava allegro
come un orologio a cucu svizzero, fu questione di poco. Poi si erano incamminati, in direzione sud, sulla
battigia tenendo sempre d’occhio la linea della vegetazione.
Il cippo era scolpito nel granito grezzo. Era alto circa due metri e sopra c’era la croce dei Templari o
meglio dell’Ordine dei Cavalieri di Cristo e sotto l’emblema della Corona Portoghese.
- Hai di fronte la Storia e pensi alle cianfrusaglie parigine – disse Isis sorridendo.
- Se è davvero il cippo di Vespucci, e lo sembra proprio, è qui dal 1502. - rispose Ettore – Hai notato
come è grezzo il lavoro? Quasi come se fosse stato fatto in fretta e furia per riparare a un errore. - poi
proseguì dicendo – Si dice, infatti, che questo cippo insieme a un altro molto più a nord, dovesse
delimitare l’intersezione con il meridiano di Tordesillas, che come ben sai delimitava la zona di
influenza portoghese rispetto a quella spagnola qui in America del sud. Pare che originariamente il cippo
dell’intersezione sud del meridiano fosse stato messo un po’ più a nord di qui, sempre nel territorio di
San Paolo, per via, sempre si dice, di dettagli sulle unità di misura dell’arco di meridiano. Poi un bel
giorno Vespucci fa un nuovo calcolo e scopre che i territori di sua maestà il Re del Portogallo sono più
estesi. E allora in fretta e furia fa scolpire questo cippo, la cui fattura grossolana testimonierebbe appunto
la fretta e la furia di cui sopra e lo fa sistemare proprio qui… davanti a noi. - Certo se avesse immaginato quanti rifiuti ci sarebbero stati un giorno… - commentò Isis.
- Ah beh… Ora tocca trovare qualcosa su quel Bacharel. Hai notato che c’è un canale che porta il suo
nome a Cananeia? - Forse potremmo cominciare da lì le ricerche. Che ne dici caro? - Forse… Hai visto com’è calmo l’oceano oggi? Perché non facciamo il bagno prima di tornare in città,
cara? Ormai lo scambio di carinerie era all’ordine del giorno a quanto pareva.
Cananeia
- Di solito I turisti vogliono sentir parlare del tesoro do Bom Abrigo oppure di quelli sepolti qui a
Cananeia, oppure nella Ilha do Cardoso. Joao Rius aveva appena appoggiato sul tavolo di legno grezzo al quale erano seduti Ettore e Isis la sua
ultima creazione: Alquimia de la Tarde, una bebida a base di aguardiente, erbe e radici, e si era seduto a
chiacchierare con loro. La ‘Farmacia’ l’aveva creata appena arrivato a Cananeia, una ventina di anni
prima. Da allora in quello che era in realtà un Bar Metafisico creava delle deliziose, si diceva in giro,
Bebidas. Le ricette derivavano direttamente dalla cultura Caboclo dei Caicarà, una entità umana
formatasi immediatamente dopo l’arrivo dei portoghesi e che si poteva descrivere come intreccio
genetico e culturale fra bianchi europei, indios originari e neri discendenti degli schiavi importati dal
Golfo di Guinea. Entità che presumibilmente conservava una memoria storica di cui non si poteva trovare
traccia altrove. Era per quello forse che avendo chiesto informazioni su Bacharel i pescatori gli avevano
indicato, tutti quanti, la Farmacia. Se il Kurt Kaffee era un posto da parigini, questo era l’esatto opposto.
L’arredamento era funzionale e non ricercato, e arricchito da una disposizione degli oggetti assolutamente
casuale, in due parole la perfetta icona di una cultura etilico-letteraria-musical-esoterica come la si
poteva trovare solo e soltanto in quella parte del sudamerica, dove il meticciato e l’incrocio
multirazziale erano di casa da secoli.
- Muito agradavel Joao - disse Ettore rivolto al barman, tra un sorso e l’altro di Alquimia de la Tarde,
fresca, lievemente alcolica e con un retrogusto di Caudo de Cana.
- Noi invece siamo interessati alla storia iniziale di Cananeia. In particolare di uno dei suoi personaggi
più famosi: Bacharel – proseguì. Joao gli fece col dito il segno internazionale dell’aspetta un secondo.
Dalla porta sempre aperta che dava su Rua Tristao Lobo, oltre al profumo del mare, entravano e uscivano
in continuazione persone che consumavano la bebida al banco oppure al tavolo, oppure portavano a casa
una garrafa di mistura scelta tra quelle già pronte del giorno che la socia-amante di Joao vendeva
volentieri. L’occhio allenato di Joao aveva notato una figura che richiedeva la sua attenzione. Un uomo
che sembrava lontano, tanto era piccolo, era entrato e si era fermato, come per vedere che effetto avesse
fatto il suo arrivo ai presenti. Dietro a lui due ‘gorilla’ muscolosi e scuri di pelle, tra la porta e la strada,
gli facevano da guardie del corpo guardandosi in giro con fare professionale, o almeno davano
l’impressione di voler dare quell’impressione.
- Renato che piacere avervi qui – disse ostentatamente Joao avvicinandosi al nuovo arrivato. Lo prese
sottobraccio, si fa per dire perché sembrava che lo tenesse per mano, e lo accompagnò verso il bancone
completamente tappezzato di manifesti e locandine che pubblicizzavano Bebidas e belle ragazze. Le
guardie del corpo continuavano a fare il loro lavoro con scrupolo a una certa distanza.
- Una Mistura Fina per il nostro prefetto, se ricordo bene i vostri gusti Renato. Il piccolo uomo agitava con soddisfazione la grossa testa in segno di assenso, muovendo grottescamente
una matassa di capelli neri. Si misero a chiacchierare come vecchi amici. Joao era rilassato come
solamente le persone esoteriche lo sanno essere e Renato invece agitava le braccia, corte
all’inverosimile, per sottolineare le sue ragioni, somigliando molto a un burattino coi fili.
La gente intanto continuava a entrare e uscire. Il locale si stava affollando, tutti i tavoli erano occupati da
uomini e donne che bevevano e chiacchieravano. Due grossi ventilatori arrancavano oscillanti nel
tentativo di rinfrescare un poco l’aria della Farmacia. Erano le undici di sera, la notte tropicale era
ancora giovane e il sindaco Renato decise finalmente di andare a passarne il resto da qualche altra parte.
Joao allora disse qualcosa alla sua socia, sottolineando il concetto con una pacca nel suo bel culo tosto
di quarantenne che ancora non ha ceduto le armi al tempo. Lei lo ricambiò con un sorriso e un cenno di
intesa.
- E’ un rompicoglioni inverosimile – disse Joao sedendosi nuovamente al tavolo di Ettore e Isis e
parlando palesemente del prefetto Renato – ma le pubbliche relazioni vanno curate. E’ maleducato e fa
politica con l’uccello invece che col cervello, posto che ne abbia uno. Scommetto che la sua grossa testa
è piena di gamberi. D’altra parte va capito, avete visto com’è… deve vivere in uno stato di perenne
frustrazione. - poi disse riprendendo il discorso interrotto prima.
- Ma non è sufficiente andare in biblioteca oppure fare una ricerca sulla rete per saperne di più sulla
nostra storia? - Giusta osservazione – gli rispose Ettore – ma quello che noi vogliamo sapere probabilmente non sta
scritto, nè in rete nè in biblioteca. - In che senso volete saperne di più allora? - Vedi Joao - disse Isis precedendo Ettore – circolano alcune voci su un Idolo che sarebbe arrivato da
queste parti insieme ai portoghesi e che darebbe a chi lo possiede un potere forte, molto forte… - Ho capito… ho capito… - disse Joao corrugando la fronte per concentrarsi e facendo così risaltare la
differenza tra la pelle arricciata della fronte e quella liscia del cranio, visto che non aveva capelli. credo di conoscere la persona che fa per voi… - Magari Joao… e magari se ci fai avere ancora un poco di Alquimia de la Tarde a questa giornata non
mancherebbe più niente… o quasi. - disse strizzando l’occhio a Isis. - Oh! Desculpe meu amigo, Maria por favor… le troppe chiacchiere distraggono…Maria, la sua socia-amante si avvicinò sorridendo e mostrando oltre ai denti bianchi anche una bella
vista sulle sue tette mentre appoggiava i bicchieri sul tavolo prima di andarsene sculettando.
- Dicevi Joao? - riprese il filo del discorso Isis.
- Ah si… Voi dovete parlare con Janjau. E’ discendente di cananeiensi da tempo immemorabile, ha un
patrimonio di conoscenza riconosciuto persino dal Ministero della Cultura di San Paolo (per quello che
serve) circa: rituali, musiche, leggende, danze, strumenti tipici, fantasie e racconti che costituiscono il
patrimonio storico e culturale non scritto della nostra zona. Se c’è qualcuno che può aiutarvi, quello e lui.
- Bingo – esclamò Ettore – e come e dove possiamo trovarlo? La pousada Retiro das Caravelas era stata scelta da Isis con i consueti criteri. Per via dei colori
sgargianti del logo: azzurro mare e arancio tarocco, e per la bella caravella nera con la croce dei
templari che certamente non guastava. La stavano raggiungendo in auto, dopo essere usciti dalla Farmacia
di Joao. - Com’è che abbiamo fatto le due di notte? - Chiese Isis con un sbadiglio.
- Bevendo misture varie e chiacchierando con Joao e Maria. - Ma quanto alcool c’era in quelle bebidas? -
Erano usciti dalla Farmacia incamminandosi, nel caldo della notte tropicale, verso l’auto che avevano
parcheggiato a un paio di incroci di distanza, nell’avenida Barbosa, vicino al mare. A ben pensarci,
camminando per le vie del centro sarebbero arrivati prima alla pousada, ma quando erano partiti ancora
non lo sapevano. La brezza che spirava diluiva il loro tasso alcoolico circolante e poi era profumata.
Avevano recuperato l’auto e imboccato l’avenida in direzione nord, verso la rotatoria. Avevano poi
preso la seconda uscita verso ovest, ovvero verso l’entrata di Cananeia. La pousada era da quelle parti
lungo l’avenida Pinta. L’entrata di Cananeia li aveva accolti due giorni prima. Erano arrivati con la Balsa
da Porto Cubatao, dalla terraferma, avevano poi percorso l’Avenida Luis Washington fino a infilarsi
nella rotatoria e trovarsi di fronte all’entrata della città. Lì davanti, tutti loro dubbi circa l’utilità del
viaggio si erano dissipati. Sopra a una bizzarra costruzione che evocava i guelfi e i ghibellini, con
un’arco per entrare e uno per uscire, stava appoggiata sorniona una caravella, stilizzata naturalmente
perché di quelle vere ormai non ce n’erano più, con persino una bella croce templare. Si trattava solo di
saper cercare, non se fosse opportuno cercare, avevano pensato contemporaneamente. Parcheggiarono di
fianco alla piscina con le palmette tutto intorno, piccola ma carina e tutta illuminata. Il rosso vermiglio
col quale erano dipinti i muri della pousada spiccava nitido. La loro stanza era proprio sopra la sala
colazione e aveva un balcone con la ringhiera fatta di assi di legno marrone e con vista sulla piscina. Il
letto aveva le lenzuola azzurre, c’erano un tavolino e due sedie di plastica bianca in un angolo, c’era una
TV e c’era anche un ventilatore appeso in alto. Non c’era bisogno del condizionatore come a Rio,
bastava tenere la finestra aperta.
- Meu amor, le era scappato un meu amor probabilmente perché aveva bevuto tanto e il controllo si era
allentato, domani quando tu andrai a parlare con Janjau io credo che mi farò una nuotata in piscina. Ti
dispiace? - Claro che nao querida – Rispose Ettore che non aveva bevuto di meno.
Caicaros
La sua figura era piuttosto tozza ma stava seduto sul treppiede di ottone con la leggerezza di un
trampoliere e stava fissando da ormai cinque minuti una bacinella, sempre di ottone, piena di acqua oli e
spezie. Lo scopo, l’aveva detto prima a Ettore, era quello di entrare in trance per sondare il suo futuro in
relazione alla domanda sull’idolo che gli aveva rivolto circa sette minuti prima. Janjau era di corporatura
massiccia, capelli e baffi nerissimi e indossava una canottiera da muratore, proprio come Bruce Willis.
- Il passato non possiamo cambiarlo, per il futuro si può vedere… - Gli aveva detto in risposta alla sua
domanda sul perché mai volesse parlargli del futuro dato che lui gli aveva rivolto una domanda sul
passato. L’aveva anche pregato di starsene fuori dai maroni e senza rompere le scatole fino a che lui non
si fosse fatto vivo… un affare di venti minuti al massimo.
Sul lato sinistro della piccola casa fatta di legno e mattoni rossi era parcheggiata una piroga rossa e blu
in perfetto stato. Probabilmente il caboclo la usava per pescare in laguna. E forse vendeva il pesce che
non consumava, almeno a giudicare dalla grossa bilancia nera appesa al soffitto della veranda sotto la
quale era parcheggiata la barchetta. La pavimentazione era costituita da sassi irregolari e cementati.
Sempre su quel lato della casa si apriva una finestra che sembrava ottenuta inserendo sopra una fila di
mattoni rossi la parte posteriore del telaio in legno di un letto a una piazza di inizio secolo scorso, con gli
interstizi chiusi da vetri. Era verniciata con un gran bel celeste provenza e poi era sorretta da asticciole
di legno che pendevano dalla sovrastante struttura, sempre in legno. Il tetto della veranda era il naturale
proseguimento del tetto della casa. Una parte della parete era costituita da una specie di ringhiera di assi
marroni verticali piuttosto distanziati tra di loro e poi c’era la porta, dello stesso colore della finestra. I
coppi erano semplicemente appoggiati alla struttura di legno formata da travi portanti incastrate e da
travetti più leggeri annodati con una corda di origine vegetale. Il porticato si estendeva anche sul davanti
della casa. C’era un vialetto di accesso e un giardino con palme e alberi da frutto. Il tutto dava
un’impressione di serenità e di pace, se non fosse stato per i palazzi in cemento armato che costituivano
lo sfondo della veduta dalla parte opposta al Morro de Sao Joao. Dalla parte del mare invece c’era il
recinto in bambù, e in effetti era un’altra cosa.
- Vuoi conoscere il tuo futuro amigo? - la voce di Janjau proveniva smorzata dall’interno della casa.
- Chiaro che si, Janjau… - Che minchia sono venuto a far qui sennò, pensò ma non disse Ettore.
- Allora entra. Sulla superficie dell’acqua contenuta nella bacinella di ottone, Ettore vide disegnato una sorta di
esagramma. Vide fluttuare su una specie di piano oleoso sei linee poste una sotto l’altra, in bell’ordine.
La prima continua, la seconda spezzata, la terza continua, la quarta spezzata la quinta e la sesta continue.
Come se le spezie gettate nell’acqua fossero state sospinte, un po’ come l’ago della bussola segue il polo
magnetico, da una forza esoterica in questo caso, ugualmente forte e necessaria e si fossero disposte di
conseguenza, oppure come se le avesse messe lì il caboclo invece che stare in trance, che come
spiegazione tutto sommato aveva più o meno le stesse probabilità. Ma non si muovevano proprio e
sembravano dotate di sovrannaturalità andante. Aveva raggiunto JanJau che ancora stava seduto con
levità sul treppiede di ottone, ma si stava stiracchiando come se si fosse appena svegliato e che disse
senza aspettare la domanda di Ettore.
- Sopra il fuoco, sotto il lago. L’immagine della contrapposizione. - Ehmm… in altre parole? - Riuscì a dire Ettore dopo aver realizzato che il suo amico occasionale non
avrebbe aggiunto altro e anche perché gli sembrava comunque la cosa giusta da dire - Quello che ho potuto vedere, l’ho detto. Per il resto chi lo sa…. - gli rispose il caboclo, mentre lo
invitava nella parte anteriore della casa. Prese una bottiglia e versò in due bicchieri un tot di cachaca.
- Bevila tutta d’un fiato. Ho come l’impressione che ti servirà - poi aggiunse – probabilmente dovrai fare
i conti con qualcosa di piuttosto forte nei prossimi tempi. Non è dato conoscere l’esito del confronto e
neanche so dirti quali saranno i tempi perché, quasi sicuramente, non è ancora stabilito… almeno credo. Fece una pausa, si versò un altro bicchiere di cachaca, lo trangugiò e poi aggiunse:
- Normalmente riesco a intravedere l’esito, o almeno qualche indizio sull’esito del confronto di cui mi si
chiede. Non so come interpretare questo fatto. La prima cosa che mi viene in mente è che una forza
maggiore della mia mi nasconde quello che normalmente vedo. Questo è tutto quello che posso dirti…
Buona fortuna. - Con ciò chiudendo la discussione.
Ettore non era proprio soddisfatto. Il caboclo si era messo a scolpire una statuetta di legno che
rappresentava una figura femminile con un idolo tra le mani ignorando, da quel momento, la sua presenza.
E poi quell’esagramma fatto di verdure che galleggiavano sull’olio. Gli ricordava vagamente I CHING, il
Libro dei Mutamenti, ma che c’entrava col Baphomet? Forse Isis poteva aiutarlo, con la sua vena
esoterica. Insomma, non aveva cavato un ragno dal buco. Solo la sera prima pensava di aver trovato un
buona pista, ora invece gli sembrava un vicolo cieco.
- Almeno non ho pagato una ceppa… – pensò avviandosi verso l’auto parcheggiata in Rua Ernesto
Simoes, sotto il sole di mezzogiorno e con le mani in tasca, senza salutare Janjau che tanto non lo avrebbe
sentito.
Regina Celia
- Ricordate… deve sembrare un furto qualsiasi… un drogato, in cerca di un portafogli ben fornito per
comprarsi la dose. Pero ricordava benissimo la notte prima, quando il piccolo uomo con la testa grossa e le braccia corte
era venuto a trovarli. Aveva portato un bel po’ di reais e le istruzioni per il lavoro. Nei prossimi giorni il
gringo sarebbe venuto a trovare il caboclo, ne era certo, e loro dovevano attirarlo nella loro casa al Beco
do Inferno, mentre lui lasciava l’abitazione di Janjau, drogarlo e scoprire che cosa il caboclo gli avesse
detto, e comunque tutto quello che lui sapeva circa una storia particolare e strana. Dovevano pronunciare
la parola Baphomet e lui avrebbe detto tutto quello che sapeva. Aveva poi lasciato, con un gesto che lui
certamente riteneva elegante, un pacco di soldi sul tavolo di legno della cucina e ne aveva promessi
altrettanti a lavoro fatto e finito. Gli occhi di Regina Celia, sua madre, erano diventati fosforescenti e
quella notte non aveva neppure russato. Era arrivata trent’anni prima, poco più che ventenne da Sao
Paulo. Aveva creduto all’entusiasmo e alle idee di Helio, un giovane pescatore con idee imprenditoriali.
Voleva creare una flotta di barche da pesca e, perché no, lavorare col turismo. Magari ci sarebbe anche
riuscito se non fosse morto sei mesi dopo che si erano stabiliti a Cananeia. Una inopportuna tempesta
tropicale aveva fatto colare a picco la sua imbarcazione. A quel tempo Regina Celia era incinta da due
mesi di Pero. Regina non tornò più a Sao Paulo, forse per non ammettere neppure con se stessa quanto
fosse stata maltrattata dalla vita; era arrivata a Cananeia per fare fortuna e l’avrebbe fatta o sarebbe
morta nel tentativo. Strinse i denti e si mise a lavorare sodo come domestica ma senza trascurare la sua
naturale tendenza esoterica e la sua innata conoscenza di erbe e radici selvatiche. Quello che era un
hobby era diventato piano piano la sua prima attività, ora a Cananeia era conosciuta per le sue arti
esoterico-curative con qualche addentellato magico-metafisico. Il figlio, Pero, non era intraprendente
come il padre e probabilmente oppresso dalla forte personalità della madre era sempre vissuto alla sua
ombra. Per lei era il garzone tuttofare, l’uomo di fiducia, il braccio destro ma anche quello sinistro, e lui
provava per lei un amore che sconfinava nella venerazione. - Pero… sveglia. Mi devi portare qualche sarmento di Ayahuasca e me li devi portare prima del sorgere
del sole… Vai… Ah! Anche un po’ di Chacruna. Pero aprì gli occhi e vide il volto, con tutte le sue belle rughe, della madre che gli sorrideva alla fioca
luce dell’abat-jour in stile europeo che lei gli aveva regalato in occasione del suo ventesimo
compleanno.
Stava camminando da una decina di minuti sul sentiero che portava in cima al Morro, erano le cinque del
mattino e ce l’avrebbe fatta. Girò a sinistra, su un viottolo appena percettibile che lo avrebbe portato
verso una radura che pochi conoscevano, anzi solo lui. Era la sua riserva di Ayahuasca, nome indigeno
per Banisteriopsis capii, una pianta rampicante che contiene un potente allucinogeno. Mentre si
avvicinava al luogo gli sembrava già di vedere Regina Celia battere i fusti, del diametro di un dito di
uomo che lui le avrebbe portato, fino a sfibrarli. Poi li avrebbe messi a bollire nel paiolo scuro per
almeno due ore e infine avrebbe filtrato il decotto e lo avrebbe mischiato con chachaca pura per attenuare
il sapore amarognolo dell’alcaloide e per accentuare l’effetto post-amnesico.
Era quasi arrivato nel frattempo, lo sapeva perché anche se non vedeva il mare ne sentiva il profumo e il
rumore di risacca in lontananza. La luna stava scendendo verso ovest piano piano. Conosceva a memoria
la posizione della pianta, avrebbe potuto raccoglierla a occhi bendati, si sentiva nel suo elemento e il
padrone dell’universo. Trovò il ceppo che aveva usato l’ultima volta e notò con piacere che c’erano
nuovi teneri rametti che stavano rimpiazzando quelli tagliati. Si spostò un poco di lato e trovò i sarmenti
dello spessore giusto, tagliò un paio di fusti rampicanti col suo coltello, in modo da ottenere una mezza
dozzina di bastoncini di circa venti centimetri di lunghezza, e li liberò dalle foglie. Poi si incamminò
rapido verso il luogo dove sapeva che avrebbe trovato la Chacruna, anche perché il sole di lì a poco
sarebbe sorto come sempre. Più che camminare spedito quasi correva lungo la pista che soltanto lui
conosceva e vedeva, e che era scolpita col fuoco nella proiezione mentale che gli consentiva di girare a
sinistra dopo il cespuglio giusto, prendere a destra dopo l’albero al quale mancava la corteccia basale e
di deviare per evitare cespugli spinosi; fregandosene completamente del fatto che svegliava stormi interi
di pappagalli infastiditi e che di lì a poco avrebbe fatto fuggire un piccolo branco di capibara che viveva
vicino allo stagno dove lui era diretto. Quello che contava era arrivare a casa in tempo.
- Ora non resta che attendere che il gringo vada a trovare Janjau Disse tra sé Regina Celia mentre finiva di filtrare la pozione. Aveva assunto un colore lievemente
ambrato ma trasparente, poteva essere mischiato alla cahcaca senza destare sospetti. E per di più erano
solo le dieci del mattino. Era pronta anche se il gringo fosse venuto il giorno stesso.
- Madre, abbiamo fortuna, il nostro uomo sta andando dal caboclo. - Pero era fermo sulla porta di casa,
palesemente soddisfatto.
- Ne sei sicuro figlio? - Impossibile sbagliare, Renato ce lo ha descritto con cura e poi l’ho sentito parlare - E con chi? - Mi ha chiesto dove abitava Janjau - Bravo ragazzo… quando esce portalo qui e intanto prendi questo Normalmente a Ettore piaceva camminare in riva al mare, ma visto che quel giorno il sole sembrava
particolarmente bollente decise di deviare per le viuzze del centro per raggiungere l’auto, che erano
meno assolate del lungomare. Prese il primo vicolo a sinistra che incontrò senza riuscire a decidere se il
nome lo incuriosiva o preoccupava, in ogni caso Beco do Inferno, era un nome particolare. Come
particolare e forse stridente era il contrasto tra le case del lato sinistro, tutte precisine e pitturate di
bianco e azzurro con tanto di sfavillante bouganvillea sul muro, e quelle del lato destro che erano
praticamente fatiscenti.
- Desculpe senhor … La voce apparteneva a una donna di mezza età che una volta era stata bella ma che ora era sciupata dal
tempo e forse dall’infelicità. Era ferma sulla porta di casa, una di quelle del lato destro naturalmente, che
per effetto dell’intensa luminosità esterna sembrava più nera di qualcosa di molto, ma molto, nero.
- Puoi aiutarmi a spostare un mobile pesante? A parte la richiesta come minimo insolita, il fatto che il vicolo fosse deserto e l’interno della casa
completamente buio, non vedeva motivi per rifiutare un favore a una sconosciuta che una volta era stata
certamente carina. - Ma certo Mae… - le rispose familiarmente Ettore. Nel momento preciso, non un
secondo dopo, in cui entrò nella zona d’ombra della casa, sentì qualcuno che gli afferrava, con un vigore
che non esitò a definire malvagio, il suo braccio destro e iniziava una sgradevole torsione. Invece che
resistere a quella inopportuna forza, Ettore la assecondò, ruotando il corpo di circa centottanta gradi e
avendo cura di sollevare, nel mentre, il gomito del braccio libero all’altezza circa del naso di Pero, o
almeno all’altezza dove Ettore supponeva dovesse essere il naso, e senza neanche sapere come si
chiamasse il proprietario. Proprio per quello Pero fu colto di sorpresa e reagì un secondo troppo tardi
per evitare la gomitata fastidiosa. Come diretta conseguenza la presa si allentò e istintivamente Ettore si
fiondò in strada in piena luce. Pero, istintivamente, fece la stessa cosa e inevitabilmente fu accecato
dall’intensa luminosità, anche se non per molto. Ettore si trovò d’un colpo davanti un ragazzo di circa
trent’anni piccolo ma muscoloso e piuttosto agitato e che già di suo aveva un ghigno decisamente
preoccupante senza considerare il fatto che il sangue, colando dal naso spaccato, arrossava labbra e denti
in modo praticamente animalesco.
Quel pomeriggio, a sua insaputa, Ettore avrebbe preso una serie di decisioni senza rifletterci sopra
nemmeno un nanosecondo. La prima fu di colpire con un pugno il ragazzo al plesso solare avendo cura di
farlo almeno un attimo prima che lui si riavesse dal parziale accecamento, e aspettandosi per questo di
vederlo crollare a terra con gemiti vari. Pero però, si piegò un solo istante portandosi le mani allo
stomaco ma poi, ancora piegato, rialzò la testa mostrando di nuovo il suo ghigno improbabile e
sanguinolento. A prescindere dalla situazione insolita e certamente scomoda, Ettore fu colpito dal viso
del ragazzo che lo aveva aggredito. Una certa ordinarietà di pensiero malcelata dal velo acquoso e
assente dello sguardo, il tutto sottolineato da un filo di barba che cominciava dalle tempie e incorniciava
con cura maniacale la mascella, rotonda e inutile. Oltre a essere stupito dalla fisionomia dell’individuo,
cominciava a preoccuparsi un poco dalla sua reazione, anche perché una resistenza del genere non era
normale. Quel ragazzo doveva aver preso una certa dose di anfetamina e questo complicava un tantino le
cose. Approfittando, come fanno le malattie opportuniste come per esempio nel caso di AIDS
conclamato, del fatto che Pero era ancora piegato in due, gli tirò un calcio sul lato sinistro del volto,
oltretutto portato con tutta la forza della rotazione dell’anca, che scaraventò a terra l’aggressore, stavolta
con un gemito adeguato. La donna nel mentre era sparita dalla circolazione, il vicolo era sempre deserto
e l’aggressore sembrava, stavolta, definitivamente fuori combattimento.
Ettore ansimava e sudava di brutto faticando a farsi una ragione di quello che era accaduto nel giro di due
minuti si e no, ma prima che potesse cominciare a immaginare un qualsiasi perché, Pero si rialzò
appoggiandosi sulle braccia, proprio come per fare flessioni, scosse la testa due o tre volte e si rimise in
piedi. E ghignava, o meglio digrignava i denti, con un certo gusto ora che cominciava a notare una certa
perplessità sul volto di Ettore.
- E’ confermato: quest’uomo è drogato o ubriaco e non sente il minimo dolore, decise a quel punto Ettore
– E pensò anche che in casi come quelli non c’era che una via d’uscita. Senza perdere altro tempo si girò
e si mise a correre il più velocemente possibile verso il lungomare. Naturalmente Pero gli corse dietro
senza perdere altro tempo e il più velocemente possibile. Ettore sbucò sul lungomare, appunto, e continuò
a correre d’istinto nella direzione opposta a quella dov’era parcheggiata la sua auto. Si voltò a guardare
indietro e vide con disappunto che il ragazzo gli stava alle calcagna e la via era sempre deserta e
immersa nel torrido calore del primo pomeriggio. Continuò a correre senza pensare a nient’altro lungo la
strada e a voltarsi indietro ogni tanto per controllare la posizione di Pero. Che non guadagnava terreno
ma neppure ne perdeva. - Merda – pensò. Era un gioco che non poteva durare a lungo, lui presto avrebbe
accusato una certa stanchezza mentre l’altro poteva andare avanti finché non lo avesse preso oppure gli
fosse scoppiato il cuore. Era necessario un diversivo oppure un cambio di prospettiva, ma quale? La
strada stava finendo e presto si sarebbe trasformata in un sentiero che si inerpicava su per il Morro. Se
fosse andato di là Pero l’avrebbe preso e fatto a pezzi, ne era certo. Senza sapere perché saltò sul molo
di assi di legno che si era materializzato alla sua sinistra, anche se le fottute assi erano talmente
distanziate l’una dall’altra che temeva di infilarci dentro un piede e stramazzare. Sul molo erano
ormeggiate diverse barche ma lui non notò più di tanto i colori sgargianti, e raggiunta la fine del molo si
tuffò nelle acque del mare piccolo, sempre senza sapere perché. Nuotò con un certo vigore verso il largo
per un bel po’ prima di fermarsi a controllare la posizione del suo indesiderato tampinatore.
Se non fosse stato pericoloso sarebbe svenuto per il sollievo. Evidentemente il ragazzo non sapeva
nuotare. Era sul molo e sembrava un animale in gabbia per quanto si agitava, ma non si era tuffato. Droga
o alcool che fosse evidentemente non era così suonato da dimenticarsi di non saper nuotare.
Rallentare il ritmo e recuperare le forze nuotando in scioltezza fu un’altra di quelle cose che decise senza
pensarlo, ma con l’istinto, in quella giornata che sarebbe stata piuttosto lunga, anche se ancora lui non lo
sapeva. E siccome c’era un limite a tutto, non ci pensava neppure di nuotare fino a Ilha Comprida,
dall’altra parte del Mare Piccolo, per cui si diresse in diagonale verso il Morro, che era comunque a una
certa distanza. L’idea era quella di approdare in un posto che fosse lontano, oppure scomodo da
raggiungere via terra e non vedere più, almeno per quel giorno e magari per sempre, la inutile e rotonda
faccia di Pero. Tra una bracciata e l’altra teneva sotto controllo la riva, visto che era abbastanza vicina,
per vedere che intenzioni mai avesse il suo inseguitore, vedi mai che avesse deciso di smettere, e invece
era là che correva sulla riva apparendo e scomparendo tra le banchine e le barche.
- Merda… non è ancora finita. Pensò, cominciando a dubitare di risolvere il problema prima dell’ora di pranzo. Aveva comunque un
po’ di tempo per riflettere, mentre nuotava piano verso un punto imprecisato della costa piena di
vegetazione del Morro.
Saltafango
Ciò che catturò la sua attenzione fu un impercettibile movimento registrato con la coda dell’occhio. Un
saltafango lungo una quindicina di centimetri stava emergendo dall’acqua e usando le pinne pettorali
come zampe, si arrampicava su uno dei tronchi semi-sommersi del complicato intrico di mangrovie fra le
quali aveva trovato rifugio Ettore. Era di un colore che tendeva al marrone screziato con bande nere e
ricoperto di puntini chiari. Aveva sul capo due enormi occhi rotondi, con cerchiature rosse, che usava per
ispezionare con curiosità l’ambiente circostante. Presto ne arrivarono altri e a quel punto tutti quanti si
esibivano in veri e propri salti sulle radici emerse delle mangrovie, ignorando l’umano Ettore.
Probabilmente erano in cerca di cibo e lui non faceva al caso loro. Ettore invece, nonostante
l’affascinante spettacolo biodiverso, cercava di capire se l’approdo era sicuro oppure no. Era un po’ che
non aveva notizie del suo inseguitore intrepido, ma data la tenacia che aveva dimostrato la prudenza non
era mai troppa. Arrivando a nuoto aveva individuato un gruppo di enormi mangrovie con le radici
abbastanza grandi e spaziose da permettergli di nascondersi tra i loro rami semi-sommersi senza essere
notato da un osservatore proveniente dall’interno del Morro, almeno così supponeva e sperava. Era
immobile da qualche minuto e aveva l’acqua alla gola, in quel momento il modo di dire gli sembrava
inusualmente appropriato, e si aspettava di veder apparire il pazzoide da un momento all’altro. Poco più
in là sfociava un torrentello, un approdo ideale per tornare a Cananeia visto che tra le altre cose non
aveva nessuna voglia di nuotare ancora, anche perché cominciavano a infastidirlo i suoi vestiti bagnati e
la permanenza in acqua. Esattamente un nanosecondo prima che decidesse di muoversi per andare verso
la piccola foce avvertì chiaramente qualcuno che si avvicinava. Fortunato com’era quel giorno non
poteva che essere il forsennato. Quel porco certamente conosceva il territorio e quella piccola foce. Lì
per lì gli venivano in mente due sole alternative: fuggire di nuovo a nuoto verso Cananeia e qualche
nuova strana peripezia, oppure stare fermo, mimetizzarsi come meglio poteva e sperare bene. Proprio in
quell’istante, il grosso Boa constrictor color pantano e maculato di scuro che stava nuotando verso di lui
lo convinse che l’assoluta immobilità era da preferirsi. Ne vedeva chiaramente la testa affiorare sul pelo
dell’acqua e dirigersi proprio da quella parte, probabilmente incuriosito dalla insolita presenza di un
umano tra le mangrovie voleva verificare se poteva essere trasformato in un pranzo. A giudicare dalla
dimensione della testa doveva essere uno di quelli grossi e si stava avvicinando sempre più. Già Ettore
si sentiva stritolare dalle sue spire, oltretutto fredde e viscide. Lo avrebbe sicuramente soffocato e non lo
consolava sapere che il boa si sarebbe reso conto che lui era una preda irrimediabilmente troppo grande
da inghiottire poco dopo che lui avesse esalato l’ultimo rantolo. La testa del boa si avvicinava sempre di
più, i suoi occhi celeste opaco e il suo sorriso diabolico erano ormai a una spanna da Ettore quando
improvvisamente, come nelle migliori situazioni dotate di suspance, cambiò direzione e si diresse
lontano, verso la foce del fiume ma anche oltre. Quasi contemporaneamente Ettore avvertì una specie di
tramestio provenire direttamente da sopra la sua testa, o giù di lì. Cercò di rendersi il più invisibile
possibile, avvinghiandosi con le gambe ai viscidi tronchi sommersi, e tenendo sopra il pelo dell’acqua
solo il naso e gli occhi. Cercava di respirare il meno rumorosamente possibile e di stare assolutamente
immobile, ma gli sembrava di fare più rumore di un intero ipermercato europeo il sabato mattina verso
mezzogiorno. Dopo un minuto fu tentato di muoversi visto che non ne poteva più di stare fermo ma non lo
fece. Dopo un altro minuto, lungo come un’ora, gli sembrò di veder colare una goccia di sangue sulla
parte emersa di una radice a mezzo metro da lui in direzione della foce. Se qualcuno glielo avesse chiesto
non avrebbe saputo dire se fosse la percezione di una realtà oppure la proiezione di un desiderio,
ingigantito dal suo stato di semi incoscienza catatonica. In ogni caso, se era sangue dell’aggressore, quel
mastino le aveva prese bene se non altro. Tenne duro ancora fino a che non si sentì come inebetito e
insensibile agli stimoli esterni, quasi come se fosse caduto in una sorta di opportuna catalessi. Dopo un
certo tempo, che poteva essere: un minuto, un’ora ma anche il giorno prima oppure dopo, quando oramai
non ricordava di sentire altro che il respiro della Mata Atlantica, capì che era giunto il momento di
muoversi e facendo uno sforzo che gli sembrava una cosa che non sarebbe mai riuscito a fare, cominciò a
sciogliere le braccia e le gambe rattrappite e a riattivare la circolazione, preparandosi a uscire
dall’intrico di mangrovie.
- Oh! Amorcito… come ti sei fatto tutti questi graffi? - Isis non aveva ancora bevuto quel giorno, come
mai si lasciava andare con vezzeggiativi di quella portata? Pensò Ettore, ma le disse invece:
- Scivolando dal sentiero mentre salivo sul Morro… - E quel livido sul braccio? - Ah.. quello? Una noce di cocco, c’è caduta sopra mentre mi riposavo sotto una palma. - Che giornataccia che hai avuto mio caro, ora ti porto una birra fresca. Scherzare sulle disavventure era il modo di Isis per esorcizzare la sfiga, ne era certo. Il fresco della sera
entrava dalla finestra spalancata sul terrazzo portando con sé il rumore del traffico, ancora intenso,
sull’avenida Pinta. Era un mormorio lontano, attenuato e mischiato al suono prodotto dalle foglie delle
Chamaerops Humilis che circondavano la piscina, che facevano un caratteristico rumore di forbici. Non
si era reso conto di quanto tempo fosse rimasto a mollo tra le mangrovie fino a che non aveva ripreso
possesso della piena funzionalità del suo organismo camminando nella Mata atlantica. Potevano essere
passati, nel frattempo, altri dieci boa constrictor e i saltafango probabilmente potevano aver trovato cibo
e magari potevano anche essersi accoppiati, approfittando della bella giornata di sole, ma lui non si era
accorto di nulla. Era come se fosse stato posseduto da una forza misteriosa, mentre era tra le mangrovie,
e cacciato in un limbo dal quale era poi uscito in virtù di una volontà non sua, come per una specie di
richiamo. Sicuramente in Europa non gli sarebbe successo, anche perché in Europa non ci sono né boa
constrictor, né saltafango.
- Quando ho visto che tardavi sono stata a casa di Janjau ma non mi ha saputo aiutare, non ha neppure
visto in che direzione ti sei allontanato. Se tu non fossi tornato entro stanotte domani sarei andata dalla
polizia. Anche se immagino proprio che non sarebbe stato di grande aiuto. - Un pensiero carino ma non sarebbe servito a niente, querida… - Nello spazio di un nanosecondo
considerò che anche lui doveva essere ridotto così male da lasciarsi andare con carinerie che poco
avevano a che fare con la sua personalità abituale, o almeno così credeva o forse non lo credeva più, ma
in quel momento era più confuso che altro e quindi aveva deciso di smettere di speculare su cose di
dubbia importanza. In ogni caso dal momento in cui aveva ripreso possesso del suo corpo e della sua
mente era stato tutto più facile. Era uscito dalla Mata atlantica che il sole era basso sull’orizzonte. Il
tempo di arrivare all’inizio dell’abitato e la notte aveva preso a calci il giorno. Col fresco Cananeia si
era popolata e questo era uno dei motivi per cui si sentiva relativamente al sicuro percorrendo a ritroso il
cammino che aveva fatto di corsa con l’energumeno dietro. L’altro motivo era che il pazzoide dalla
faccia inutile e rotonda a quell’ora doveva essere a pezzi. L’effetto anestetico di quella qualsiasi cosa
che aveva preso doveva ormai essere finito e probabilmente stavano affiorando ematomi e dolori vari.
Raggiunta la sua auto aveva ficcato le mani in tasca e spulciando nella fanghiglia semi-secca che si era
depositata nei suoi vestiti aveva ritrovato le chiavi, una sciacquata nell’acqua del mare piccolo per
liberarle dalle incrostazioni e poi via, in direzione della Pousada Retiro das Caravelas.
- Probabilmente quel tipo era interessato ai soldi che avevi in tasca e poi si è offeso perché gli hai rotto
il naso . Disse Isis indovinando quello che stava passando per la testa di Ettore mentre lui beveva la sua
cerveza bem gelada. - Quasi sicuramente è come dici tu. Anche se una vocina mi dice che quel tipo, anzi
quei due, volevano qualcos’altro da me. Sfortunatamente non ho idea di cosa. - Beh… prima o poi lo verremo a sapere… immagino. - Si sentì di dire Isis mentre si spogliava in bagno.
- Torniamo a Rio domani? Non sentendo nessuna risposta Isis si affacciò alla porta e vide Ettore profondamente addormentato sul
letto. Spense la luce e si sdraiò vicino a lui, come per proteggerlo.
Fuori il rumore del traffico si stava affievolendo.
Regina Celia era più preoccupata per come l’avrebbe presa Renato che per lo stato di salute di suo
figlio, visto che lui era forte e a parte il naso non aveva nessuna frattura. Sugli ematomi aveva messo
unguenti fatti con erbe e grasso di capibara e domani Pero non avrebbe più pensato al suo orgoglio ferito
anche perché ora stava dormendo profondamente, così non avrebbe sentito il dolore. Avvertiva un senso
di colpa per non aver mai permesso al suo ragazzo di imparare a nuotare, ma non voleva che avesse
niente a che fare con quel mare che le aveva strappato Helio e la sua stessa vita. Importante era che il
sindaco Renato non volesse indietro i reais, ma non le sembrava un’ipotesi plausibile. Spense la abatjour che aveva regalato al suo ragazzo tanti anni prima e si sdraiò vicino a lui, come per proteggerlo.
Traficantes
Cafè Miranda
Quel raggio di sole lambiva il sandalo fatto di fettucce incrociate di pelle rossa. Non era più
giovanissima ma era ancora una bella donna, e poi aveva una gamba accavallata sull’altra e il piede che
non appoggiava sul pavimento del Cafè Miranda era colpito in pieno dalla luce del sole, che entrava
dalla finestra aperta su Rua Ferreira a Leblon, e mobile come la scarpetta di una ballerina. Era vestita
veramente a tono, portava un paio di calzoni di stoffa leggera in tinta con i sandali e in quel preciso
istante era seduta su un divanetto di pelle screziata color venerdì santo. Chiacchierava languidamente con
un ragazzo, di molto più giovane di lei, con i capelli rasta e un berretto di cotone grezzo, una maglietta
bianco-sporco, una collana di perline di plastica e aveva le mani infilate nelle tasche. Il barista, mentre
sciacquava i bicchieri prima di metterli nella lavastoviglie quella domenica mattina, notava
distrattamente i capezzoli della donna coi sandali rossi farsi turgidi sotto la maglietta di cotone sottile
bianco-candido. Evidentemente la conversazione con il ragazzo abbronzato doveva essere interessante.
La zona riservata al Cafè Miranda era molto luminosa e arredata con mobili rustici in legno che si
accordavano bene col pavimento in cotto e col perlinato che ricopriva parte del soffitto e che era sorretto
da colonnine in legno. Il luogo ideale dove i clienti della Oficina Cultural di Daniel Moraes potevano
gustarsi un caffè mentre leggevano i libri esoterici disponibili per l’acquisto, oppure organizzare orgasmi
come in quel preciso istante, oppure ancora concedersi un drink e rilassarsi tra un concerto e l’altro la
domenica mattina.
- Daniel… telefono. Nella parte opposta della bottega, quella adibita a libreria vera e propria, il peruviano si scusò con le
persone con le quali stava chiacchierando, si avvicinò al banco e portò la cornetta all’orecchio.
- Sono io. - Riconobbe la voce del suo contatto di Cananeia - La consegna non è stata effettuata. C’è stato
un incidente, la merce è finita in mare e non si è più trovata. - Non è grave – Rispose con noncuranza – provvederemo a un nuovo invio. - Rimise la cornetta con
indifferenza sull’apparecchio telefonico e si avviò sorridendo verso un altro gruppo di persone, mentre in
realtà pensava a cosa poteva essere andato storto.
Nella sala di mezzo, tra la libreria e il Cafè Miranda, il gruppo fadista ‘Amalia Rodrigues’ si stava
preparando per il concerto di quella domenica mattina. La cantante, una bella donna tra i trenta e i
quaranta con un paio di chili di troppo ma ben distribuiti, diede il la, e le malinconiche note di Lagrima,
la più famosa canzone della cantante portoghese da cui il gruppo traeva il nome, cominciarono a
diffondersi e a riempire l’ambiente. Dal lento e ondeggiante ritmo di fondo della chitarra spagnola
emergevano suoni che sembravano scalfire l’anima. Erano le note ruvide e malinconiche della guitara
potuguesa, simili a quelle del mandolino napoletano. La cantante accarezzava la lingua portoghese con la
lirica del brano e la sua voce, dal timbro profondo e sensuale, insieme al suo fascino calamitava
l’attenzione degli ascoltatori. I due accompagnatori erano assorti nell’esecuzione e le loro mani
sembravano fondersi con gli strumenti musicali, di fatto erano parte integrante della vibrazione musicale
che diffondeva nell’ambiente.
- Che bella gnocca – esclamò a voce alta il nuovo arrivato non appena messo piede nella libreria,
circondato dalle sue guardie del corpo. Era di bassa statura e con un evidente riporto di capelli sul
cranio. I capelli, quelli suoi, erano tinti al di là di ogni ragionevole dubbio e probabilmente aveva diversi
lifting all’attivo. Era tendente al grasso e con un perenne sorriso stampato sulla faccia, che ricordava il
Joker, l’acerrimo nemico di Batman. Era arrivato e si era presentato, alla sua maniera, il Ministro do
Interior del Governo Federale brasiliano: Cielo Alto Capelli.
Il gruppo fadistas aveva ignorato con eleganza il complimento e continuava a produrre musica
malinconica. Il Banana, come era ormai chiamato da tutti il Ministro per via della ginnastica che amava
far fare nonostante l’età avanzata al suo organo sessuale, aveva preso sottobraccio Daniel e si erano poi
diretti verso il banco del bar chiacchierando amabilmente e ordinando una serie di prosecchi, sempre ben
ghiacciati però. Quelli che amavano la musica malinconica ostentavano indignata indifferenza all’entrata
in scena del Banana e della sua corte. Quelli che invece speravano di ottenere un qualche favore dal
politico, o anche solo per dire che c’erano quella domenica mattina, erano migrati nella sfera
gravitazionale di Cielo Alto e lo circondavano leggiadri come elettroni in ansiosa attesa di ridere delle
sue battute. Daniel gongolava e si congratulava con se stesso, mentre rideva e chiacchierava con Cielo
Alto, per l’idea vincente di aprire la sua Oficina Cultural a Leblon. Aveva capito che il quartiere sarebbe
emerso economicamente e sarebbe diventato un punto di riferimento per la gente di Rio che riteneva di
contare qualcosa, come se potesse anche solo esistere un concetto del genere. Le visite dei politici,
quindi dei corrotti, e dei corruttori si sprecavano, l’esoterismo andava molto di moda in quel periodo e
lui faceva buoni affari. In ogni caso, con la stessa rapidità con la quale era apparsa, la meteora Cielo
Alto si dileguò insieme alla sua corte, lasciando buona parte dei presenti orfani di gloria e un po’ incerti
sul da farsi. Il dubbio era se ascoltare ancora il Fado oppure correre a raccontare in giro l’emozione a
parenti e amici. I fadistas, invece, stavano eseguendo Uma casa portuguesa con la consueta precisione e
amore, dopo aver raccolto il plauso meritato per Lagrima. Daniel, invece, aveva ricevuto un messaggio in
codice dal Banana: vieni domani a Santa Teresa, e si stava chiedendo cosa mai volesse stavolta Cielo
Alto, ma era convinto di saperlo già.
Castelo do Valentin
Solo alle teste di gambero carioca, poteva venire in mente di usare un acquedotto come ponte per
l’autobus. Daniel lo pensava invariabilmente tutte le volte che prendeva la Bondihna per andare a Santa
Teresa. Sulle pedane esterne, a due spanne dalla rete da pollaio che delimitava i venti metri di
strapiombo sul piano stradale, i turisti facevano il loro lavoro: ridevano e fotografavano. Visti dal basso
gli Arcos da Lapa ricordavano un acquedotto romano appoggiato su un altro acquedotto romano, entrambi
bianchi e pieni di archi. Il binario a scartamento ridotto era appoggiato sopra, e sopra ancora erano tirati
i fili della corrente che faceva andare il vecchio bus. Quando passava, giallo, completamente aperto e
con grappoli di turisti appesi aveva un’aria vagamente surreale. Anche per distrarsi dallo strapiombo
Daniel stava guardando con un certo interesse le tette della giovane turista tedesca alla sua destra, mentre
lei era occupata a fotografare Rio.
- Le voglio più giovani. - Io invece vorrei un prosecco - Ramon, una bottiglia di prosecco per il mio amico Daniel – Cielo Alto fece un cenno al barman che
stava dietro al bancone di uno dei suoi personal bar fatti costruire all’aperto, in giardino. Ramon era un
buon diavolo, era in pensione ma doveva pensare anche a sua figlia che aveva sposato un fannullone, e al
suo nipotino, che era la sua gioia anche se suo padre era quel che era. L’unica cosa che che trovava
inaccettabile del suo lavoro, era perché mai doveva stare con le gambe immerse nell’acqua per tutto il
fottutissimo turno. Cielo Alto aveva diversi Personal Bar nella sua villa e a lui era capitato il più sfigato:
il Bar in Palude. L’unica cosa che era riuscito a ottenere, protestando, era un paio di stivali di gomma,
color verde militare e alti fino alla coscia. Per il resto era contento della sua vita.
Anche quel giorno non c’era una nuvola in cielo. Daniel e Cielo Alto erano seduti all’ombra di un finto
capanno con tetti di foglie di palma secche, ma sudavano lo stesso. Il grasso ventre di Daniel cascava
impietoso sulle bermuda colorate. Invece il Banana era impeccabile nel suo completo di costoso lino
artificialmente invecchiato, e sudava ovunque tranne che in viso. Evidentemente il cerone impedisce la
traspirazione stava pensando Daniel mentre Ramon si avvicinava con una bottiglia deliziosamente
imperlata di promettente umidità. Nel centro esatto del giardino pensile del Castelo Valentin, con
splendida vista sul centro urbano di Rio de Janeiro, che sta più in basso rispetto a Santa Teresa, due
ragazze stavano nuotando in una piscina a forma di coppa di champagne completamente fuori terra.
Naturalmente la piscina a forma di calice era completamente trasparente e loro erano completamente
nude. In modo tale che Cielo Alto, e i suoi ospiti, potessero gustarsi le evoluzioni fatte in immersione.
Erano disponibili anche alcuni binocoli da teatro per quegli ospiti che volevano contare i peli sul pube
delle ragazze.
- Le voglio giovani ma con un minimo di classe. Le ultime che mi hai trovato vanno giusto bene per la
piscina – indicando con un cenno le ragazze che stavano uscendo per il turno di riposo al sole. Altre due
ragazze prontamente si stavano tuffando.
- Vedo quello che posso fare – Rispose Daniel mentre osservava le due nuove arrivate che si
intrattenevano eroticamente tra loro, piene di energia. Inizio turno, evidentemente, smaniose di fare bella
figura.
- Posso cercare nel giro delle squillo importanti, oppure tra le pollastre della borghesia rampante, c’è
sempre qualcuna desiderosa di provare emozioni forti. - Ecco bravo, vedo che mi hai capito…. - E non ne farò un problema di costo, naturalmente - Prevenendo la immancabile domanda di Daniel.
Per tutta risposta Daniel bevve d’un fiato la coppetta di prosecco, del tutto simile alla piscina ma senza
ragazze dentro, e se ne versò un’altra. Effettivamente poteva essere un’idea quella di rallegrare il giallo
del prosecco con salatini o caramelle a forma di passera colorata pensò, ma in quel momento aveva cose
più importanti da discutere, si sarebbe ricordato di valutare l’idea più tardi e con calma.
Nei prossimi giorni… - riprese Daniel, dopo essersi leccato le labbra con la sua grassa lingua, forse per
non consumare nemmeno una goccia del vino frizzante o forse perché stava osservando i capezzoli di una
delle due ragazze ingigantiti dall’effetto lente della parete della piscina contro la quale erano stampati.
- … nei prossimi giorni ci sarà un’operazione nella favela. - Rocinha o Marè? - Rocinha… Sarebbe auspicabile che le ottime forze dell’ordine fossero impegnate urgentemente altrove.
- Eh… ci stiamo avvicinando al carnevale. I miei ragazzi saranno certamente molto impegnati dalle parti
del Sambodromo, almeno per i prossimi giorni… Oh, senti, è un po’ che te lo voglio chiedere… inspiegabilmente e in modo del tutto stravagante Cielo Alto mostrava di avere interessi che andavano al
di là della sfera sessuale, sua naturalmente - ma com’è che hai chiamato Miranda il tuo Cafè? - Oh… la più piccola luna di Urano… Al Tempio
- Tra poco Urano sarà nel Leone - E quindi? - Tira… e fai il tuo lavoro – tagliò corto Tania allungando a Daniel il piattino con la riga di coca rituale.
C’erano luoghi e luoghi a Rio e Daniel aveva le sue teorie sul come raggiungerli. Se alla villa di Cielo
Alto preferiva andare con la Bondinha, al Tempio preferiva andare col Suv, anche se lo parcheggiava
sempre lontano. Andare con la Bondinha gli consentiva di stare in mezzo alla gente e di assaporarne gli
umori, cogliendo brani di conversazioni sciolte che avevano il pregio di parlargli dei pensieri del
mondo, e poi a Santa Teresa non si trovava mai parcheggio. Altra cosa era al Tempio. Non gli garbava
l’atmosfera e voleva essere pronto per andarsene in qualsiasi momento, ma si guardava bene dal dirlo a
Tania. E poi trovare parcheggio lì era facile. Stavolta era arrivato a cose fatte. Lei aveva già
amministrato la giustizia Zangbeto e ora stavano per dedicarsi alle loro pratiche sessuali. Tania aveva
due nuove piaghe purulente e fresche di bruciatura che gli facevano venire l’acquolina in bocca e i suoi
capezzoli sembravano sempre due noci moscate
- Quando Urano entra nel Leone è il tempo della profezia. - gli sussurrò nell’orecchio mentre il primo
raggio di sole illuminava il Tempio e lui si era appena addormentato.
- Uh… - Urano… - No! uh… che minchia vuoi a quest’ora… - mi ero appena addormentato, non so se ti ricordi, ma
abbiamo fatto sesso tutta la notte.
- Si, ma ora dobbiamo parlare - Ecco… Era inutile contraddirla. Era matta come un cavallo e toccava assecondarla.
- Quando Crono tagliò le palle a Urano, lui lo maledì - Lui chi? - Biascicò Daniel.
- Urano no? Il padre - Ah… vai avanti.. - Gli disse che gli sarebbe toccata la stessa sorte. - Poveretto e fu davvero così? - Certo. Anche se Crono, per stare nel sicuro si mangiò (così credeva) tutti i suoi figli, tranne l’ultimo che
era Zeus, e che riuscì a fotterlo con l’aiuto di sua madre e conquistò il potere. - Non mi piace quando mi chiami Urano. Suona male, come se qualcuno volesse tagliarmi le palle. - E’ una allegoria. Urano in questo caso è il gringo Ettore e la falce con la quale gli taglieremo le palle
per poi buttarle nel mare in modo che possa nascere dalla spuma il nostro potere è l’Oracolo. Fece una pausa a effetto, come quando ipnotizzava la sua gente, guardando rapita la luce già intensa del
mattino entrare dalle finestre del Tempio.
- Aiutami a trovare l’Oracolo e non te ne pentirai. - E tutto questo solo perché ti ho mandato quel desapareicido di Ettore? - Rispose Daniel dopo una pausa
a effetto con la quale intendeva mostrare la sua allibita sorpresa e anche il fatto che ormai non dormiva
più.
- Non proprio. Sapevo che c’era qualcosa nel nuovo mondo che poteva darmi il Potere. Ma non sapevo
cos’era e soprattutto non sapevo dov’era. Ora grazie al tuo amico sappiamo cos’è: l’Oracolo. E prima o
poi sono certa che sapremo anche dov’è. A proposito… cos’è successo poi a Cananeia? - E’ stata colpa del nanerottolo. Ha affidato il lavoro a un rubagalline che va giusto bene per spaventare i
turisti fai-da-te o gli sprovveduti, ma si è trovato in difficoltà col nostro amico. - Nanerottolo? - Si, il prefetto di Cananeia. Devi vederlo, sembra lontano anche quando è vicino, talmente è piccolo e
probabilmente ha la testa piena di gamberi al posto del cervello. - dopo una breve riflessione Daniel
aggiunse – D’altra parte va capito, una persona così vive in un perenne stato di frustrazione.
Probabilmente ragiona con l’uccello anziché col cervello, cioè coi gamberi. Tania sollevò il sopracciglio sinistro come per mostrare stupore. Poi aggiunse, mentre si rivestiva.
- Com’è che hai quell’aggancio laggiù? - Questi sono affari miei. Piuttosto… Avendo capito come buttava la mattinata Daniel cominciò a rivestirsi. Rinunciava a dormire, tanto ormai
era giorno fatto e il rumore della vita ai margini della foresta urbana più grande del mondo cominciava a
investire il Tempio come un mantra.
- Piuttosto… da domani comincia un’operazione diciamo… delicata a Rocinha. E avrei bisogno
dell’assistenza della tua gente. - Di che si tratta? – chiese distrattamente Tania mentre avvolgeva le sue enormi tette con una fascia di
lino bianca.
- Una consegna… - Ah! Va bene. Domani la favela è a tua disposizione. Ma tu mi devi aiutare a trovare l’Oracolo. - Va bene. - rispose Daniel soddisfatto – e comunque se non mi chiami più Urano mi fai un favore. -
Rocinha
Rocinha
Le piante dei piedi, appoggiate tallone contro tallone e con le dita ripiegate e abbandonate sul granito
scuro, viste da una certa angolazione formavano una struttura plastica, triangolare e con evidenti richiami
metafisici. Avrebbero potuto trovare posto al Museo di Arte Contemporanea di Niteroi, se non fossero
stati attaccati al corpo, da poco senza vita, di Casimiro, ormai ex pusher che occasionalmente lavorava
per Comando Vermelho e che ora stava riverso sul marciapiede grigio. Il sangue usciva ancora dai
numerosi fori che gli Ak47 della Policia Civil gli avevano procurato e si era raccolto in una piccola
cavità del marciapiede. Percolava verso il piano stradale indifferente al fatto che era osservato con una
certa curiosità da un ragazzino, magro, che mangiava un panino. Era a torso nudo e aveva due bermuda a
scacchi azzurri. Il padre, anche lui in bermuda e infradito era uscito dalla padaria in Rua do Canal in
tempo per vedere gli agenti della Policia Civil portare via il cadavere avvolto in un lenzuolo trovato da
qualche parte. Tre agenti lo stavano sollevando per buttarlo sulla Chevrolet d’ordinanza. Si sforzavano
un poco anche perché uno dei tre stava mangiando un panino che teneva nella mano libera. Altri tre
poliziotti tenevano d’occhio la situazione, con le canne dei Kalashnikov ancora calde, rivolte gentilmente
verso il basso. Poco lontano l’Avenida Niemayer incrociava l’elegante Estrada Lagoa Barra, da poco
sbucata dal tunnel e poco più in là ancora c’erano i lussuosi Hotel di Sao Conrado, con splendida vista
sulla favela e sull’Oceano Atlantico.
- Il vero mentitore è colui che dice che non mente sapendo di mentire. Il fornaio, chiamato in quella maniera perché si vestiva sempre di bianco, era il luogotenente dei narcos
di Daniel a Rocinha e amava le citazioni insolite.
- Falla più facile. E’ quasi ora di pranzo e sono sudato come tre. Quanti ne hanno fatti fuori? - Gli chiese
Daniel.
- Tre, per l’appunto… - E la merce? - Ce l’abbiamo. Il nostro uomo della Policia ha fatto bene il suo lavoro. - Ah si… basta pagarlo… - Convenne Daniel.
Non c’è dubbio – confermò il fornaio. Con i vestiti bianchi e i capelli quasi del tutto bianchi dava
l’impressione di essere perennemente infarinato. Aveva una voce un po’ sottile, in ogni caso, per il ruolo
che la vita gli aveva assegnato. Daniel si stava asciugando il sudore. Il suo schema di spostamento, in
questo caso, prevedeva il parcheggio del Suv a Sao Conrado, un mezzo pubblico fino al tunnel e poi a
piedi, anche se Rocinha era tutta in salita, ma non si poteva fare diversamente almeno per il momento,
forse più avanti… una portantina e qualche schiavo. Comunque si era inerpicato per Rua do Valao fino a
un certo punto, passando in mezzo a case multicolori, poi aveva preso a sinistra seguendo un dedalo di
viuzze senza nome e contorte, con le fogne a cielo aperto che gorgogliavano allegramente di acqua
nerastra, fino a che arrivò al luogo dell’appuntamento col suo contatto. Lo aveva trovato in uno dei tanti
larghi senza nome della favela più grande del mondo. Era appoggiato a un palo di legno e osservava
divertito un paio di ragazzini che giocavano al ‘tiro al topo’. Da un grosso cumulo di immondizia, infatti,
ogni tanto spuntava la testa di un ratto e i ragazzini facevano a gara a chi lo colpiva per primo lanciando
sassi.
- Aggiornami mentre andiamo in Laboratorio – Daniel si mise il fazzoletto in tasca e si chinò per evitare
il groviglio di cavi che partiva dal palo di legno, mentre si avviavano.
- C’è corrente in questi cavi vero? - Chiese Daniel indicandoli con il dito.
- Claro che si, altrimenti come faremmo? - No… dico bene… Sul tetto di ogni casa c’era un’antenna parabolica e tutti i favelados che vedeva invariabilmente stavano
parlando al telefonino.
- L’operazione è durata tre ore in tutto. Un centinaio di poliziotti hanno setacciato la zona bassa della
favela, fatto fuori un po’ di gente e sequestrato machona, un bel po’ e anche pasta di coca. - Continuò il
fornaio.
- La marjuana l’hanno tenuta loro? - Si. E la pasta di coca l’hanno data a noi. - Bene – gonogolò Daniel e si ripromise di guardare il notiziario quella sera per vedere in quale maniera
celebrassero la brillante operazione. - è ancora disponibile l’informatore oppure ha finito i colpi? - E’ la seconda soffiata che fa in un anno. Quelli di Comando Vermelho non sono fessi. Se ne fa un’altra
lo capiscono e lui non esiste più. Anzi, probabilmente è già defunto. - Va bene. Dobbiamo trovarne un altro. - Non sarà facile Avevano superato la mezza costa del versante sud della collina sulla quale sorgeva la favela e stavano
salendo per una scaletta ripida percorrendo la quale Daniel abitualmente faceva almeno un paio di soste.
In quel punto il frastuono del traffico non arrivava più e Daniel era certo di essere quasi arrivato al
Laboratorio e di aver completamente sudato il litro di birra ghiacciata prudentemente bevuto prima di
partire da Sao Conrado.
- Passami quei polli Dumbo, i bimbi hanno fame. La voce di Risonete Cerqueira, detta la nonna della polvere per la sua età di 60 e passa anni, era forte e
chiara. Aveva allungato la mano libera verso un ragazzo sui trenta, cicciottello e tarchiato, mentre con
l’altra mangiava una porzione di tapioca con latte condensato sopra. Era magra scattante e nervosa, aveva
i capelli grigi raccolti a crocchio e poi era vestita come un uomo. Dumbo lasciò perdere il sacco di
cemento grigio che stava per caricarsi sulle spalle e pescò da una cassetta di plastica, impilata con altre
vicino al muro, un paio di polli morti e spennati e li portò a Risonete.
- Ne vuoi ancora? - Meglio di si, non mangiano da due settimane questi, e cominciano a essere nervosi. Le bestie avevano sentito l’odore della morte e si erano agitate. Emettevano sordi brontolii eccitandosi
l’un l’altro e aprivano e chiudevano con un rumore secco la bocca enorme, facendo sbattere la mandibola
contro la mascella. Erano lunghi circa quattro metri e non erano ancora completamente adulti, avevano
delle bande grigie e marroni sulla parte inferiore della mascella e bande bianche e gialle sul corpo. I due
caimani dell’Orinoco premevano contro la recinzione in metallo rinforzato che divideva in due la stanza.
Non appena la nonna della polvere buttò dalla loro parte del recinto i polli, i due rettili si gettarono sulle
prede con un’agilità insospettabile e con un rumore di squame che strusciano tra loro. L’idea era venuta a
Epaminonda e Dinis. I due passerotti, come li chiamava Daniel, erano inseparabili. Uno pensava e l’altro
parlava. Erano esperti di sistemi di sicurezza a bassa tecnologia, ma con un alto impatto, in termini di
efficacia. Se qualche favelado troppo curioso, o meglio ancora, qualcuno di Comando Vermelho fosse
entrato in Laboratorio quando i bimbi erano liberi di circolare per le stanze, non lo avrebbe raccontato in
giro. E loro avrebbero risparmiato sulle spese di alimentazione del sistema di sicurezza. Dinis era la
mente, magro e nervoso anche se mangiava a crepapelle e beveva cachacha a garganella. Epaminonda era
un cultore del proprio fisico. Mangiava almeno sei volte al giorno, e quando non spacciava cocaina
faceva palestra e diceva quello che Dinis pensava. E mostrava sempre al mondo una forma smagliante e
la testa rasata. Dumbo, nel gruppo, era il più sentimentale. Un giorno una bimba di undici anni, Giliane do
Nascimento, era entrata incautamente in Laboratorio da una finestra aperta e poi era stata divorata dal
maschio. Dumbo lo aveva trovato con il vestitino della piccola ancora attaccato alla mascella. Non lo
aveva rimproverato perché in fondo aveva fatto il suo lavoro. Però aveva portato una grosso mucchio di
reais ai genitori di Giliane, i quali, senza fare troppe domande da allora avevano accolto l’invito di
Dumbo a non far più giocare gli altri loro sette figli dalle parti del Laboratorio. La nonna della polvere,
da quando suo nipote era diventato ospite fisso delle galere brasiliane, aveva preso il suo posto di lavoro
nel gruppo e si era affezionata a Dumbo. Un po’ perché le ricordava il nipote e un po’ perché aveva il
cuore buono, proprio come lei.
- Ma lo sapete parlare il portoghese, passerotti? - Daniel si rivolse a Epaminonda e Dinis che stavano
allineando una serie di vaschette di plastica sul pavimento in simili-cotto di una delle stanze più
illuminate sul retro del Laboratorio.
- E tu lo sai che i bimbi ti guardano con avidità? - Rispose Epaminonda, in portoghese, con un sorriso
certamente falso e forse anche perverso, mentre Dinis sorrideva divertito. Del gruppo, i due passerotti
erano quelli di cui Daniel si fidava di meno. Senza scrupoli e avidi. Tuttavia finché i loro interessi
coincidevano sentiva di poter dormire tranquillo. Daniel li aveva beccati mentre stavano allungando la
pasta di coca col cemento grigio e chiacchieravano tra loro nel dialetto dei traficantes. Una curiosa
variazione del brasiliano in cui l’ordine delle lettere nell’ambito delle sillabe era invertito, così come
era invertito l’ordine delle sillabe nell’ambito della parola stessa. Un po’ gutturale ma efficace. Dumbo
stava facendo una pila di sacchi di cemento vicino ai contenitori di kerosene, tra le latte di acido
solforico e quelle di ammoniaca, andando e tornando da una stanza all’altra.
- Quanto ci vorrà per allungare il brodo? - Chiese Daniel cambiando prudentemente discorso.
- Ci servono un paio di giorni. Questa volta sono cinquanta chili di pasta da allungare… diventeranno
ottanta. - Disse il fornaio che nel mentre si era unito al gruppo entrando dalla porta sul vicolo. Il fornaio
aveva una certa esperienza nella preparazione della pasta di coca dovuta al fatto che aveva lavorato nel
settore, in Colombia, per dieci anni. I due passerotti lavoravano direttamente sotto la sua supervisione.
Suoi erano anche i contatti per la fornitura di pasta di coca grezza da quel paese, quando non la fottevano
ai loro concorrenti di Comando Vermelho, come in quel caso. Daniel aveva le conoscenze giuste per
instradare la pasta, che loro allungavano, verso l’Europa e gli Stati Uniti, oltre che garantire una certa
sicurezza al loro lavoro in loco.
L’idea di mettersi in concorrenza con Comando Vermelho, a dire il vero, era venuta a Cielo Alto Capelli.
Perché lasciare solo alle bande organizzate gli sfacciati guadagni del narcotraffico, quando ci si poteva
mettere in proprio e averne una bella fetta? Trovare l’equipaggio giusto non era un problema, bastava
piluccare nelle galere brasiliane. Non restava che cercare il timoniere. Chi meglio del peruviano che gli
procurava le mignotte? Furbo, discreto e soprattutto avido. Avevano celebrato l’accordo bevendo
prosecco e toccando le tette a cinque diciottenni convocate per l’occasione, nella villa di Cielo Alto a
Santa Teresa.
- Facciamo come al solito ragazzi? - propose Daniel – sessanta chili per l’esportazione e venti per il
mercato locale? - - Si, può andare. - Rispose Epaminonda parlando per Dinis e anche per gli altri, che
assentirono. Anche la nonna e Dumbo si erano uniti alla discussione a quel punto. Come nell’antica
Atene, anche per il gruppo dei narcos di Daniel, finché la combriccola era piccola la democrazia poteva
essere diretta. I guai cominciano normalmente quando è rappresentativa.
- D’accordo. Tra due giorni arriverà il corriere. Solita procedura? - Solita procedura - Ah… ne tenete un po’, pura naturalmente, per la mia amica? - Naturalmente… -
La telefonia in favela
- Atencao querido… ho sentito dire che i narcos usano caimani come cani da quardia. - La voce di
Isis era poco più che un bisbiglio.
- Ma va la… - Rispose Ettore.
- Ma va la? - Uh… ok, starò attento. Ma non vedo un accidente. - Tra un po’ vedrai – disse lei seria.
- Le tue facoltà divinatorie? - No, solo le pupille che si adattano lentamente all’oscurità - Ah… già Tornati da Cananeia con qualche interrogativo in più, dopo qualche giorno di riflessione, Isis in piscina
mentre Ettore rifletteva sulla sabbia bianca di Barra, avevano deciso di cercare ispirazione con una visita
alla favela più grande del sudamerica. E avevano deciso di farlo, con un raro tempismo, il giorno stesso
dell’operazione della Policia Civil contro Comando Vermelho e con la partecipazione straordinaria dei
narcotraficantes di Daniel. Erano arrivati oltre la mezza costa del versante nord della favela quando
sentirono arrivare dal basso le prime raffiche secche e caratteristiche dei Kalashnikov. Tra la prima e la
seconda raffica la loro guida, che tra l’altro avevano già pagato, si volatilizzò e non fecero nemmeno in
tempo a vedere in quale direzione. Quando si resero conto che le raffiche non diminuivano d’intensità ma
anzi sembravano avvicinarsi, d’istinto si infilarono nella prima porta aperta che trovarono.
- E poi non è detto che siamo finiti in un covo di Narcos – Disse Ettore.
- Ma va la… - Disse Isis.
- Ma va la? - No. Guarda là… un filo di luce sotto quella porta Si trovarono sul tetto piatto della casa che stava sotto a quella nella quale erano entrati, che sembrava
essere disabitata o non utilizzata da tempo. Poi videro una scaletta ripida in mattoni grezzi che portava
sul tetto. Come il fagiolo rampicante da cui prende il nome, le case della favela si arrampicavano sul
versante della collina.
- Trovato. Ce ne andiamo dal tetto.. e andiamo in su. - E se qualcuno ci becca? - Speriamo non abbia un Kalashnikov - Giusto. Non trovarono nessuno sui tetti, data la sparatoria in corso, ma si trovarono in un vicolo cieco. Dopo tre
o quattro piani di case, percorsi scansando parabole e bidoni di plastica blu colmi di acqua, erano
arrivati alla fine della pista. O tornare indietro per cercare un altro percorso oppure sfondare la porta che
avevano davanti.
- La finestra – suggerì Isis. - D’accordo. Aiutami… La finestra non era molto in alto ma era piccola. Ettore bestemmiò tutti gli Dei nei quali non credeva e
sudò parecchio per entrare ma alla fine ruzzolò dentro con un tonfo sordo.
- Ettore? Querido… ci sei? Tutto bene? - Di qua Isis… la porta era aperta. - Disse Ettore aprendo la porta dall’interno, massaggiandosi
l’avambraccio sul quale stava apparendo un piccolo ematoma e togliendosi una ragnatela dai capelli.
- Ah… - Con il casino che abbiamo fatto se c’era qualcuno sarebbe già arrivato. Entriamo dai. Si trovarono dentro una specie di magazzino pieno di scatole di cartone di varie dimensioni. C’erano
anche scaffalature in legno e metallo vicino alle pareti, che erano fatte di materiale grezzo senza intonaco.
Gli scaffali erano pieni di cavi, cavetti e materiale di ricambio per apparati elettronici, almeno così
sembrava. C’era anche un’altra porta che non era chiusa a chiave e portava in una stanza ampia,
intonacata in modo grezzo e con due larghe finestre chiuse con vetri opachi e un inconfondibile ronzio da
ventole di raffreddamento di apparati elettronici.
- E questa che roba è? - Si chiese Isis.
- Sembrano computer cara, un certo numero di computer – Disse Ettore non meno sorpreso di lei. E se mi
chiedi a cosa servono ti dico che non ne ho la minima idea. Guardò in giro con maggiore attenzione cercando segni di una presenza umana recente, come: mozziconi
di sigarette, resti di panini, siringhe usate o fornelletti per droghe varie ancora caldi, ma dato che non
aveva trovato niente di tutto ciò, pensò che probabilmente avevano un po’ di tempo per curiosare. I
server erano allineati in batteria sotto un lungo tavolo sopra il quale c’erano due monitor spenti e due
apparati che somigliavano parecchio a due switch.
- Mentre tu dai un’occhiata a queste macchine io esploro l’ambiente - Ottima idea Isis… e occhio ai caimani… – rispose Ettore mentre accendeva i due monitor e prendeva
una sedia.
- Puoi esserne certo… Dopo aver acceso i monitor, Ettore vide su ogni schermo quattro finestre che rappresentavano altrettanti
terminali, uno per ognuno degli otto server accesi. Su ogni finestra scorrevano transazioni. Guardando
con maggiore attenzione Ettore vide che rappresentavano chiamate telefoniche. Telefonate, decine di
telefonate in corso.
- Guarda guarda… - disse tra se Ettore – che mi venisse una diarrea tropicale se questa non è una
centrale telefonica digitale in piena regola… Istintivamente guardò dietro ai server, trovati i cavi di connessione alla rete locale li seguì fino dentro a
un router a sua volta connesso a un doppino telefonico, a sua volta connesso presumibilmente a Internet.
Non riusciva neppure a immaginare come, ma avrebbe scommesso sul fatto che fosse connesso alla Rete.
Si guardò in giro con maggiore attenzione e vide appesi in alto su di un muro due Gateway FCT per la
connessione ai cellulari. - Sorprendente… - mormorò tra se.
- Sorprendente… - La voce di Isis proveniva da un’altra stanza. - Vieni a vedere cosa c’è qui - Trovato i caimani cara? - Le disse mentre la raggiungeva.
- No, no. Solo un arsenale. - Eh!? Diverse casse senza coperchio e ordinatamente allineate al muro, grigiastro, mostravano il loro
contenuto.
- Questi sono AK47, fratelli di quelli dai quali siamo fuggiti. E questi invece sono… M16 perbacco… la
par condicio va di moda a quanto pare… un po’ da destra e un po’ da sinistra, un po’ dai Russi e un po’
dagli Americani. - Che dici? Uh guarda… ci sono anche dei lanciagranate. Si chiamano M203, è scrito qui, e possono essere montati
sui fucili d’assalto… qui ci sono le granate… - continuò Ettore aggirandosi fra le casse – e qui, vediamo
cosa c’è qui… Ah! Pistole Tokarev… giusto, sempre per par condicio. - Ettore si grattò il mento in
atteggiamento di riflessione mentre Isis osservava con crescente preoccupazione l’arsenale.
- C’è qualcosa che non mi quadra – rifletté a voce alta Ettore.
- Queste casse sembrano piene, non manca niente. Se questi non partecipano alla sparatoria chi sono? O
forse è solo un magazzino? Ma è lontano dal luogo della sparatoria. Mmm… mi chiedo chi siano i
proprietari di questo luogo.- Io invece mi chiedo ‘dove’ siano i proprietari di questo luogo – Disse Isis.
- Corretta osservazione cara… - disse Ettore come se l’avesse pensato lui in quel momento – Provo a
indovinare? - Prova - O sono andati a mangiare un panino, oppure sono andati a godersi la sparatoria. - La stessa cosa ho pensato io. - In entrambi i casi credo che faremmo bene a sparire alla svelta cara… ora che me l’hai fatto notare - Concordo –
- Nonna… non è che uno di noi due doveva restare alla Centrale? -
- Smettila di chiamarmi nonna, non sono vecchia. - No? E cosa sei? - Diversamente giovane. - Naturalmente! - E poi col casino che c’è stato oggi chi vuoi che ci fosse in giro… neanche due turisti scemi riesco a
immaginare. Dumbo, oltre che avere il cuore tenero, fin da piccolo aveva dimostrato un carattere introspettivo e
analitico. Il massimo risultato che poteva ottenere, con un carattere così e oltretutto essendo nato in
favela, era di fare il giardiniere da qualche parte. E così infatti era stato. Poi, a un certo punto, quando lui
era convinto che ormai il suo destino professionale fosse stabilito, aveva visto un computer a casa di un
cliente. Nel suo piccolo aveva subito capito le potenzialità dello strumento ma non era riuscito a
trasformare questa sua nuova passione in un lavoro. Poi aveva conosciuto Daniel, che aveva la capacità
di riconoscere le potenzialità delle persone meglio delle persone stesse. Ora era il gestore titolato della
centrale telefonica pirata della favela, oltre che narcotrafficante honoris causa.
- Che forniture abbiamo oggi ragazzo? - La voce della nonna della polvere era chiara e forte come
sempre.
- Coca e telefonini per Terceiro Comando al Frei Caneca qui a Rio, e invece solo coca per Comando
Vermelho a Carandirù. - Sta per caso battendo la fiacca Zico? MI stai dicendo che non ha venduto neanche un cellulare? - Lascia a tuo nipote il tempo di ambientarsi, in fin dei conti il carcere è un posto difficile. - Si, ma pieno di opportunità. - concluse Risonete Cerqueira.
- Siamo arrivati – disse Dumbo appoggiando la mano sulla porta della Centrale.
- Ehi nonna! Qui c’è stato qualcuno… sono più che sicuro di averla chiusa a chiave. La porta si era aperta sulla sala dei server al semplice tocco della mano di Dumbo.
Carcere di Carandirù
- E’ Beppe Vaniglia che dovete ringraziareee… a gratis vi faccio divertireee… non voglio niente,
solo incontrare bella genteee… La base musicale della sua personalissima composizione, un misto di tecno e disco, usciva amplificata da
un groviglio di altoparlanti tenuti insieme con gabbie di fili di ferro. Lui accarezzava le corde di una
improbabile chitarra elettrica tozza e surreale mentre Gaetana, la più vecchia e grassa trans del carcere si
produceva in una danza simil-sensuale. Intorno alla motocicletta stilizzata di Beppe Vaniglia si era
formato il solito capannello di detenuti sfaccendati, che invece di grattarsi la pancia ascoltavano le
fesserie che lui stava dicendo. L’idea della motocicletta stilizzata era venuta a Beppe il giorno dopo che
era arrivato a Carandirù. Gli dava l’idea della libertà e del vento sulla pelle e nessuno degli altri detenuti
l’aveva mai toccata. Questa sua ultima creazione musicale, invece, l’aveva chiamata Lobotomia e
contava di incidere un dvd non appena ne avesse avuto la possibilità. La sala pesi era ai piani alti. Sul
tetto del portico che circondava tutto il cortile interno del carcere alcuni detenuti avevano ricavato la
palestra. Sbarre non mancavano per esercitarsi alla trazione e con qualche bottiglia d’acqua legata alle
estremità di altre sbarre di metallo, divelte da chissà dove, avevano creato dei bilancieri. Dovevano solo
stare attenti a non cascare giù, anche se non sarebbero mancati a nessuno, probabilmente. Nell’angolo a
sud c’era la chiesa degli Avventisti, dentro una stanza aperta sul cortile. Una enclave di protestanti in un
paese cattolico (di giorno) e dedito alla Macumba (di notte) era già una cosa strana nel Brasile libero,
figurarsi nel carcere di Carandirù. Ma siccome le vie del signore sono misteriose ma infinite, una buona
dozzina di detenuti si stordivano quotidianamente con la lettura della sacre scritture e commentavano
l’infallibilità delle stesse e di quanto fosse importante per un buon cristiano un corretto stile di vita e una
alimentazione equilibrata, possibilmente vegetariana.
- Candido! Alta Marea! Volete preservativi? Un po’ di polvere? Semplici sigarette? Firmino, aveva fatto leva con la sua carrozzella sulla porta della cella dei due novelli sposi. Era la terza
cella del quarto braccio ma era arredata con gusto. A memoria di detenuto Firmino non aveva mai avuto
l’uso delle gambe. Sulla sua carrozzella erano appesi i prodotti in vendita: preservativi, sigarette e
bustine di crack che svolazzavano allegramente quando faceva le curve in velocità.
- No Firmino… obrigada. - Rispose gentilmente Alta Marea.
La cella era arredata oltre che con gusto, anche con un pizzico di civetteria. Un letto matrimoniale, una
coperta bucata come divisorio tra il letto e l’angolo cottura, una TV portatile con un vaso di fiori di
plastica sopra. Alta Marea e Candido si erano conosciuti in infermeria, quando lei aveva informato il
medico, che per pura curiosità scientifica le aveva chiesto che ormoni avesse mai usato per avere delle
tette così sode e grosse, di aver avuto circa duemila partner sessuali negli ultimi tempi. Aveva un viso
delicato e poi era buona e gentile. Candido che faceva l’infermiere le chiese se poteva infilarle l’ago
personalmente nella vena e fu amore fin da subito. La cerimonia con la quale si erano uniti in matrimonio
era stata toccante. Lei aveva sfilato tra due ali di trans invidiose e raggianti lungo il corridoio che
portava in infermeria. Il cuoco, Julio Cesar, che di fatto era il luogotenente della direzione del carcere,
nonché esponente di primo piano di Comando Vermelho, nonché persona dotata di uno spiccato senso
della morale (carceraria) li aveva uniti in matrimonio. Per l’occasione anche il Medico era presente al
bacio. Da allora si amavano di un amore esclusivo e tenero anche se lei era alta un buon venti centimetri
più di lui. Miracolosamente le analisi a cui si era sottoposta Alta Marea avevano dato esito negativo per
l’AIDS, come anche quelle di Candido. L’unico cruccio era che lui sarebbe uscito prima da Carandirù.
Ma in qualche maniera avrebbero fatto, importante era amarsi. Mentre Firmino sgommava via, lei in
sottoveste trasparente, stava preparando la cena per Candido.
Zico, invece, il nipote della nonna della polvere, stava camminando sicuro di sè verso la cella di Julio
Cesar.
- Ha fatto bollire l’acqua mentre Ezechiel dormiva e poi gli ha cotto il cervello versandogliela addosso. Julio Cesar si era rivolto a Domingos, che era a Carandirù perché aveva favorito la fuga del suo migliore
amico Eusebio, dopo che lui aveva ucciso la moglie che lo aveva tradito. L’aveva uccisa mentre lei
aveva in braccio il loro figlioletto di due anni. Eusebio di questo si faceva un cruccio. Domingos stava
pensando a Ezechiel, con i capelli tinti di giallo in piedi sopra la sua tavola da windsurf appoggiata su
due sedie. Non era una cima ma era simpatico, e ora era in ospedale e forse non se la sarebbe cavata.
- Ma perché lo ha fatto? - Chiese a Julio Cesar.
- Sembra che Ezechiel non gli abbia pagato qualche dose di crack e un cellulare - Zico è impulsivo… - E questo non va bene. Chiama gli altri. Zico aveva appena svoltato l’ultimo angolo prima della cella di Julio Cesar, sorridente e sicuro. Il
sorriso gli sparì dal viso quando vide Julio Cesar scuro in volto e con un lungo coltello da cucina in
mano, sulla porta della sua cella. Mentre pensava a cosa diavolo stesse accadendo un lenzuolo bianco gli
coprì il volto e Julio Cesar sferrò la prima coltellata al costato. Poi passò la mano e undici persone
sferrarono tre coltellate a testa nel corpo sempre più inerte di Zico, per un totale di trentatré profonde
ferite. Solo Valentim, l’ultimo assassino non ebbe il coraggio di trafiggerlo per tre volte. L’ultima
coltellata non la sferrò. Ma Zico ormai era già morto dissanguato. Di lì a pochi giorni Valentim si unì agli
avventisti, pentendosi di tutti i suoi peccati, in special modo dell’ultimo. Ogni uomo ha un grande amore
oppure un ultimo peccato a cui pensare con malinconia. A sua insaputa, Julio Cesar, luogotenente della
direzione nonché esponente di spicco di Comando Vermelho, aveva inferto un colpo a una organizzazione
concorrente di cui non sospettava neppure l’esistenza.
Il Mondo Piccolo e i sei gradi di separazione.
- Perché la clessidra si è fermata? - Se vuoi ottenere qualcosa da qualcuno non devi chiederlo a lui ma a qualcun altro, che lo dica a un altro
ancora e poi ancora… fino a sei volte. - Va bene… ma perché la sabbia non va più giù? A fianco del Tempio c’era un edificio basso con molte stanze con aria condizionata ma Tania voleva che
si incontrassero sempre nella sala del Dio Legba per le loro battaglie erotiche, sudando immersi nel
caldo tropicale. Anche stavolta era quasi mattina e Daniel era provato dall’intensità dell’incontro,
nonostante avessero entrambi preso certe dosi di cocaina pura sufficienti per tener sveglia una mandria di
giovenche.
- Il mondo è piccolo – riprese Tania. - Tu devi dare una cosa o far arrivare un messaggio a uno
sconosciuto e sai soltanto come si chiama e si e no dove abita? Non devi fare altro che parlare della cosa
a un tuo conoscente, affidargli il messaggio e chiedergli di farlo arrivare a destinazione. Infallibilmente
dopo sei passaggi il messaggio arriva. - Daniel ascoltava inebetito dalla notte insonne le parole di Tania
ma guardava la sabbia che non scendeva dal bulbo superiore della grande clessidra e si chiedeva come
mai.
- Nello stesso modo – continuò Tania instancabile – se vuoi chiedere qualcosa oppure far arrivare un
messaggio a qualcuno di cui conosci solo il nome e/o dove abita, devi affidarti ai sei gradi di
separazione della rete di conoscenze. Altrimenti il messaggio o l’azione saranno inefficaci. La clessidra, quel mattino mentre i rumori del mondo cominciavano a entrare di soppiatto nel Tempio, lo
aveva colpito più che le inafferrabili parole di Tania. Lei aveva l’abitudine di scandire il tempo dei loro
incontri con una grande clessidra a sabbia il cui periodo durava una notte intera, capovolgendola poco
prima di spogliarsi e di eccitare il suo compagno. Invariabilmente Daniel vedeva gli ultimi granelli di
sabbia bianca passare dal bulbo superiore a quello inferiore un attimo prima di addormentarsi oppure un
attimo prima di svegliarsi del tutto, per ascoltare rassegnato le fantasie della sua improbabile amica.
Quella notte, mentre il buio lasciava il posto alla luce del mattino, non era andato tutto come al solito.
- Tra il desiderio e il suo compimento ci sono sei gradi di separazione, non uno di più e non uno di meno.
Ormai lei era completamente assorta nelle sue considerazioni metafisiche e parlava a se stessa e al suo
immaginario uditorio più che a Daniel.
- Le cose fatte bene devono rispettare la regola dei sei gradi di separazione. Tempo e spazio hanno le
loro necessità, non esistono scorciatoie… ricordalo. - Certo, come no… Intanto non ricordo di aver mai visto una clessidra più sfigata di questa. Mentre si rivestiva muovendosi a fatica in un’aria che sembrava liquida talmente torrida si annunciava la
giornata, cercava di capire da cosa avesse origine quel lieve senso di pesantezza che avvertiva tra
esofago e intestino. Gli affari stavano andando bene e non riusciva proprio a immaginare un solo motivo
di preoccupazione. Ma perché cazzo mai s’era inceppata poi quella fottuta clessidra.
Tijuca
Hacking
- Così è perfetto. Dumbo pensava che uno script, per essere veramente efficace, doveva avere anche una sua bellezza
intrinseca. Dopo aver digitato l’ultimo byte lo aveva girato e rigirato come un guanto, disponendo le
istruzioni nel modo migliore per l’esecuzione del compito loro affidato.
- Quello script ha una sua bellezza intrinseca – commentò Isis che lo osservava lavorare da dietro le
spalle.
- Grazie – rispose Dumbo provando una genuina simpatia per Isis e decidendo di condividere con lei il
piacere che quel lavoro gli dava.
- E oltretutto sarà anche piuttosto efficace. Questo Spider percorrerà in lungo e in largo il cyberspazio
alla ricerca dei siti nel cui contenuto profondo si nascondono le keywords che mi avete dato, ma non
solo, creerà per voi una mappa geografica con l’ubicazione dei siti e l’elenco di tutti i documenti che
contengono una o più parole chiave. E se lo volete farà il download dei documenti interessanti e li
salverà proprio su questo computer, a vostra completa disposizione. Dumbo sorrideva radioso a Isis e cominciava a notare, ora che la concentrazione per il lavoro stava
calando, quanto fosse carina quella carioca. Aveva le tette un po’ piccole ma aveva un gran bel culo.
- Più o meno come gli spider di Google, o mi sbaglio? - squittì Isis probabilmente contenta di essere in
empatia con Dumbo, anche se non sapeva perché ma tanto prima o poi l’avrebbe capito. E comunque
avrebbe scommesso subito, dieci a uno, che gli piaceva il suo culo anche se probabilmente pensava che
aveva le tette un po’ piccole.
- Non ti sbagli. Ma fa anche qualcosa in più. Un server esposto sulla Rete potrebbe nascondere una rete
privata oppure un altro computer, inaccessibile ma promettente. Quando questo spider si trova di fronte a
una situazione del genere, lo forza e penetra dentro. - Oh… ma è così facile penetrare dentro? - Non proprio. Se questo script non potesse fare affidamento su una potenza di calcolo distribuita su una
nuvola di computer compiacenti, che lui sa come e dove trovare in Rete, impiegherebbe un’eternità per
individuare le credenziali per accedere. - E tutto questo è già cominciato? - Chiese seria Isis.
- Comincerà quando qualcuno di voi premerà quel pulsante – disse Dumbo indicando il tasto Enter.
- Ettore, Daniel… venite… -
Ettore arrivò subito, incuriosito. Daniel invece, prima di muoversi, prese dal frigorifero del soggiorno
una bottiglia di prosecco fresca.
Neanche una settimana prima, tornati dalla visita alla favela di Rocinha il giorno dell’operazione contro i
Narcos, Ettore e Isis avevano pensato a lungo a come fare per trovare l’Oracolo ma non avevano avuto
nessuna idea soddisfacente. Ettore aveva proposto di parlarne con Daniel e Isis, in mancanza di meglio,
si era trovata d’accordo. Daniel aveva avuto subito un’idea che Ettore giudicava interessante: si voleva
sapere di più su qualcosa, su qualsiasi cosa? Che si cercasse in Rete. Ma una ricerca fatta come si deve.
E gli aveva parlato di Dumbo, uno dei migliori hacker che lui conoscesse. Seduti al Cafè Miranda verso
l’imbrunire di una torrida giornata tropicale persino a Isis l’idea pareva buona. Però Daniel non le
piaceva, e comunque era convinta che presto avrebbe capito il perché, semprechè non fosse troppo tardi.
Avevano poi conosciuto Dumbo un mattino, durante una colazione sulla terrazza della ‘chopperia’
Academia da Cachaça dove, a dispetto del nome etilico, si potevano trovare cornetti e cappuccino come
a Roma e godere di una splendida vista sulle spiagge di Leblon e Ipanema. La quiete mattutina
dell’oceano Atlantico aveva favorito l’individuazione delle keywords necessarie e sufficienti per
l’accurata ricerca che avevano in mente di fare.
- Non vi consiglio più di due o tre parole – aveva detto Dumbo con ancora la patina di schiuma bianca
della birra sul labbro superiore. - Ci sono alcune centinaia di milioni di computer connessi alla Rete –
continuò dopo essersi pulito col dorso della mano. - e lo script che vi preparerò li esamina tutti. Più
parole deve cercare, più tempo perde… lo dico per voi. - Va bene, però non possiamo rischiare di perdere informazioni, magari preziose, per impazienza. - Disse
Ettore passandosi le mani tra i capelli e agganciandole dietro la nuca - Considerate poi il problema delle lingue – suggerì Daniel – anche una sola parola moltiplicata per un
certo numero di lingue ritenute interessanti fanno un bel mucchietto e siamo fuori dal ragionevole. - Tutto questo è vero – disse a quel punto Isis – ma dobbiamo per forza ficcare il naso in tutte quelle
centinaia di milioni di computer connessi? Non possiamo localizzare geograficamente la ricerca? Per
esempio tra Europa, Medio Oriente e Asia… - Certo, la ragazza ha ragione. Possiamo farlo. - Rispose Dumbo rivolgendo un sorriso a Isis.
- Ottima idea – disse Ettore come se l’avesse pensata lui – Ma.. perché Asia querida? - Ormai le
sdolcinature tra lui e Isis erano all’ordine del giorno, indipendentemente dal tasso alcoolico circolante.
Dumbo non sapeva perché ma quell’ultimo querida dell’italiano, che rendeva esplicita una circostanza
già di per sè chiara lo infastidiva un poco.
- Perché in Asia ci sono i cinesi. E loro c’entrano sempre… mio caro - Anche quel ‘mio caro’ lo
infastidiva, e continuava a chiedersi il perché.
Bene – ipotizzò Daniel. - Stabilita la localizzazione geografica della ricerca, suggerirei di vedere cosa
dice Wikipedia della nostra keyword preferita. Magari ci viene qualche idea circa la lingua da usare. Tirò fuori il telefonino e si connesse alla rete, ma solo dopo aver ordinato un altro bicchiere di prosecco
ghiacciato.
- Ecco qua… – disse mentre sorreggeva con tre, delle sue dita grassocce, la flute di vino bianco,
traendone ispirazione e giovamento man mano che le bollicine salivano, allegre e indifferenti alla forza
di gravità - …un termine estorto sotto tortura ai Templari… Deformazione latinizzata di Mahomet… Uh!
Questa è carina, deformazione di due parole greche che starebbero per battesimo di saggezza… e poi
corruzione di un termine ebraico del tipo: Bestie di Behemah che non ho la minima idea di cosa siano e
così via… Ettore e Isis ascoltavano in silenzio le parole di Daniel mentre osservavano l’oceano sotto la terrazza,
appena increspato verso riva da baffi di spuma bianca e Dumbo continuava a bere la sua birra ghiacciata
senza mostrare emozioni particolari. Il traffico scorreva indifferente sull’avenida Niemayer proprio
dietro la chopperia, costruita su una terrazza naturale di granito scuro e a strapiombo sul mare.
- Ho l’impressione – disse Ettore distogliendo lo sguardo dall’oceano – che mai siano state spese tante
parole e tante energie per un termine che ricorre una sola volta in un documento medievale. E proprio per
questo probabilmente può essere sufficiente usare una sola keyword, vale a dire: Baphomet. Dovrebbe
bastare per individuare tonnellate di documenti digitali. Una parola bastante a sè stessa e non legata a una
lingua in particolare, una specie di brand, come Coca Cola, oppure Ferrari - Sono d’accordo – disse Isis – Io però aggiungerei anche la sua declinazione genitiva: baphometi. - Mm… e perché? - chiese Ettore.
- Mi è venuta in mente così. Un’intuizione, direi… per trovare anche tutti i riferimenti indiretti. - Si. Mi sembra utile. - convenne Ettore. E poi aggiunse - Qualche altra idea? - Rivolgendosi a tutti.
- C’è un’altra parola che mi sta venendo in mente in modo prepotente: Meridiana… ma non so il perché. continuò Isis.
- Meridiana uguale misura del tempo, uguale tempo. Oppure aggettivo riferito al tempo – pensò a voce
alta Ettore – forse c’entra, forse non c’entra. Mettiamola comunque, tanto è simile all’aggettivo latino.
Una lingua molto parlata… un tempo. - Bene – Concluse Daniel – propongo un brindisi per festeggiare… - e alzò la mano con la flute vuota in
direzione del cameriere. L’ora di pranzo si stava avvicinando, il rumore del traffico arrivava sempre
attutito dall’Avenida Nyemayer e l’oceano continuava instancabile a sciabordare sulla spiaggia bianca.
Si erano poi accordati per vedersi il sabato successivo, a casa di Isis, per l’installazione e il collaudo
dello Spider che Dumbo avrebbe scritto nel frattempo.
Nel breve percorso dal soggiorno allo studio, la bottiglia che Daniel aveva in mano si era ricoperta di un
delizioso velo di condensa.
- Chi preme il tasto? - chiese Dumbo.
Daniel stava stappando la bottiglia per festeggiare, mentre Isis guardava con gli occhi socchiusi Ettore
che sorridendo le disse: - Vai Isis… tocca a te. - Isis premette il tasto e con grande soddisfazione di
Dumbo sul monitor del computer apparve immediatamente la rappresentazione geografica dell’area
interessata allo scanning. Sulla barra di stato in fondo allo schermo alcuni numeri scorrevano veloci.
- Questo a sinistra – spiegò Dumbo - rappresenta il numero dei server ispezionati e questo a fianco
invece è il tempo impiegato, a partire da un attimo fa. Quando e se viene trovato un documento utile si
accende un puntino rosso sulla mappa. Se i punti sono geograficamente vicini si uniscono e diventa un
punto un po’ più grande e così via. Cliccando sui punti si ottengono i dettagli per quella localizzazione.
Quando i numeri in basso non scorrono più siamo arrivati alla fine della ricerca. Semplice no? - Fico – disse Isis – e quanto tempo ci vorrà? - Qualche giorno come minimo – rispose Dumbo. - Io ora me ne vado a dormire. Se si pianta il
programma chiamatemi. Non spegnete il computer e non abbiate fretta. Qualcosa accadrà. Ah!
Dimenticavo… Lo script cerca anche i riferimenti indiretti all’oggetto in questione. Nella nuvola di
computer a sua disposizione sono presenti algoritmi genetici che in primo luogo si fanno un’idea del
significato del bersaglio e poi scatenano per conto loro una ricerca parallela sui documenti contenenti i
riferimenti - Fai un esempio – Disse Ettore incuriosito.
- Supponiamo che il Baphomet sia descritto come un cerchio giallo con naso e bocca, la ricerca parallela
individuerà tutto ciò che è descritto come un cerchio giallo con naso e bocca, anche se non viene
esplicitamente chiamato Baphomet. - Indipendentemente dalla lingua in cui è descritto? - Indipendentemente - Questo può dare luogo a insiemi molto eterogenei e abbastanza inutili. - Si, e per questo i puntini sono gialli e non rossi, e se volete potete anche ignorarli. Tuttavia è
un’informazione in più. E non c’è niente di più prezioso e costoso dell’informazione amici miei, al giorno
d’oggi Per un po’ tutti, tranne Dumbo, fissarono attenti il monitor, poi visto che nell’immediato non accadeva
nulla, decisero di brindare al successo dell’impresa. Finita la bottiglia Dumbo e Daniel se ne andarono
salutando.
- E ora che facciamo Ettore? - Andiamo a prendere il sole… Hacking
- E’ pieno di puntini rossi… venite a vedere! - La voce eccitata di Isis arrivava dallo studio.
- Controlli te la brace Daniel? Torno subito… - Suggerì Ettore mentre un grosso cilindro di filetto di
manzo si stava rosolando lentamente sul barbecue in giardino. L’ombra degli alberi si stava allungando e
presto avrebbero dovuto accendere le luci esterne. Con un raro tempismo la ‘Compagnia delle Luci’
aveva organizzato una cena proprio nel momento in cui lo script di Dumbo stava dando i primi risultati.
- Due giorni di nulla assoluto e adesso, improvvisamente, si accendono le luci rosse. - Commentò Ettore
appena entrato in studio.
- Non è strano? – Chiese Isis.
- No no… questa improvvisa apparizione è normale. Nella prima fase della ricerca si raccolgono quante
più informazioni si possono sulle keywords. Poi una volta che gli algoritmi genetici, dopo aver analizzato
i link inviati dallo Spider riescono a creare una definizione più precisa del bersaglio e dei suoi
riferimenti, inviano un feedback allo script che è in grado di cercare in modo più raffinato
l’informazione. Ti faccio un esempio: - disse Ettore a Isis che ancora stava elaborando quanto detto - per
i primi due giorni lo Spider ha cercato un cerchio giallo con naso e bocca e ha ignorato tutto il resto dal
punto di vista sostanziale. Supponiamo che gli algoritmi genetici abbiano scoperto che in una parte
significativa di casi il cerchio giallo con naso e bocca è associato al fatto che parla. Hanno quindi
modificato lo schema di ricerca definendo un cerchio giallo con naso e bocca che parla. Lo hanno
sostanziato insomma, hanno creato un’immagine più precisa dell’oggetto da cercare. E così avanti finché
non decidono che creare un’immagine ancor più precisa non è conveniente. - Che significa non è conveniente? - Chiese Isis senza nascondere una certa perplessità.
- Che oltre una certa misura non paga lavorare ancora per stabilire, per esempio, che sul naso c’è un
foruncolo grosso e peloso. Arrivati a un certo grado di definizione insistere ancora è tempo perso.
Chiudono la prima fase e inviano il nuovo schema di ricerca allo Spider. Che da quel momento passa alla
seconda fase indagando in modo mirato, mentre prima sparava nel mucchio. E da quel momento,
generalmente, i puntini cominciano a saltare fuori. Daniel che era rimasto tranquillo vicino al barbecue, quando Ettore se n’era andato decise che era il
momento di muoversi. - Controlli te la brace, Bernarda meu amor? Torno subito… - Disse mentre
pensava a qualcos’altro, alla ragazza che lo aveva accompagnato alla cena da Isis quella sera - Mi
raccomando gira il filetto ogni tanto… sennò si brucia e non è più buono… - E i puntini gialli? - Chiese Isis.
- Ah… per quelli gialli ci vuole ancora un po’. - Si intromise Daniel che nel mentre era apparso nello
studio con la solita bottiglia di prosecco ricoperta dal solito velo di condensa che la calzava come un
preservativo profumato.
- Ho pensato che dovremmo festeggiare l’arrivo delle luci, amici… - aggiunse.
- Danieeeel… le luci… - La voce di Bernarda, arrivava attutita dal giardino, dove nel mentre era
arrivata, non certo inattesa, la notte tropicale.
- Probabilmente era uno svalvolato – fu il commento di Daniel dopo aver ascoltato il racconto di Ettore
sulla sua avventura a Cananenia.
- D’altra parte lo hai detto anche te che era drogato oppure ubriaco. Quasi sicuramente aveva bisogno di
qualche spicciolo per la dose quotidiana. Mi passi la birra cara? - disse rivolgendosi con noncuranza a
Bernarda tanto per cambiare discorso. - Immagino che sia andata proprio così. Delizioso il filetto vero? Disse Ettore guardando dritto negli occhi scuri di Isis, e notando appena che Daniel toccava le cosce di
Bernarda sotto al tavolo.
Erano seduti su poltroncine di bamboo intrecciato e appena un poco più comode perché c’era un cuscino
colorato come ‘add on’. La veranda era in legno grezzo e si affacciava sul giardino del condominio dove
abitava Isis. Le piante di bouganvillea si arrampicavano sui pali scuri e ricoprivano il tetto, fatto di
cannicciato e, probabilmente per mostrare la loro riconoscenza agli Dei del Fato che le avevano fatte
crescere in un posto così privilegiato dal punto di vista climatico, debordavano con festoni colorati di un
intenso rosso che brillava alle luci notturne del giardino. In un angolo le braci del barbecue si stavano
spegnendo e la bottiglia di cachaca sul tavolo era ormai tristemente vuota. Anche per quello Daniel era
passato alla birra ghiacciata, ma anche perché però il caldo li avvolgeva ancora in modo piuttosto
intenso. Ettore non riusciva a capire a quale razza appartenesse Bernarda. Aveva la pelle lievemente
olivastra, i capelli neri e gli occhi grandi. Dai lineamenti sembrava più mediorientale che sudamericana.
Molto più giovane di Daniel naturalmente, la sua partecipazione alla sciolta discussione fino a quel
momento era stata un curioso miscuglio di minchiate e risate circa-isteriche. A Ettore ricordava Lory del
Santo, o almeno una sua versione d’esportazione. Non riusciva a capire se faceva apposta o se era
veramente così svampita. In compenso non protestava quando Daniel la toccava grossolanamente,
mettendo le sue grasse mani sulla sua pelle elastica un po’ dappertutto, mentre i versi dei gechi, appesi
sui pali scuri della veranda, si potevano ascoltare a intervalli regolari. - E così siete andati a Cananeia
per niente. - Disse Daniel approfittando di un pausa nella inutile, fino a quel momento, conversazione
della serata.
- Pare di si – rispose Ettore. - Dopo aver avuto una conferma da Isis, convinto che Daniel non si fosse
accorto dello scambio di sguardi.
- E’ stato un viaggio deludente, escludendo le bebidas della Farmacia. L’unico riferimento a Bacharel
che abbiamo trovato è un canale che porta il suo nome. - Mentì Ettore – tempo sprecato. Non parlò delle oscure previsioni di Janjau il caicaro, fatte pochi minuti prima dell’aggressione al Beco
do Inferno, il cui nome da solo era un programma, nè di quanto fosse strano quell’episodio e neanche di
come avesse avuto l’impressione che qualcosa di insolito, in ogni caso, stesse accadendo. Poco prima
che gli ospiti arrivassero per la cena Isis aveva detto a Ettore che non era necessario possedere delle doti
divinatorie per notare che l’idea di andare a Cananeia era stata proprio di Daniel, e di quanto sembrasse
distrattamente interessato alla questione era una sensazione che proprio non riusciva a ignorare. E che
probabilmente la questione interessava anche terze persone ma che al momento non riusciva proprio a
immaginare chi fossero. E che non gli chiedesse come mai pensava tutto questo perché non lo sapeva
neppure lei. E in ogni caso il suo amico conosceva il mondo intero a Rio e non solo, se come sospettava
lei, Daniel era implicato nel fallito attentato di Cananeia. Ettore non voleva crederci. Conosceva Daniel
da anni e non lo riteneva capace di tanto. Tuttavia aveva imparato a fidarsi delle intuizioni di Isis e
decise di non trascurare la sua opinione. Sarebbe stato al gioco e non avrebbe comunicato niente di
interessante a Daniel pur continuando a servirsi di lui per la ricerca, in modo da non destare sospetti.
Daniel, in ogni caso, aveva perfettamente intuito che Ettore gli stava mentendo spudoratamente anche se
lo conosceva da anni e non lo riteneva capace di tanto. Decise di far finta di nulla per non destare
sospetti. Ettore e Isis, prima o poi, lo avrebbero portato dove lui e Tania supponevano valesse la pena di
andare.
- Auguriamoci allora di avere maggior fortuna con questa ricerca e beviamoci sopra. - Aggiunse
rimettendosi a toccare Bernarda che riprese a squittire felice, più o meno con le stesse tonalità dei gechi.
Ricominciarono a chiacchierare in modo leggero come se non avessero una preoccupazione al mondo
fino a che la birra finì. Verso le quattro del mattino, quando anche i gechi avevano smesso di lanciare i
loro richiami e mangiare insetti, Ettore e Isis andarono a letto sfiniti e un po’ brilli, dopo aver salutato gli
ospiti. Non passarono per lo studio e non videro le luci gialle che avevano cominciato a spuntare sul
monitor del computer, formando come un alone o una scia complementare alle luci rosse, che erano
cresciute di molto nello spazio di quella cena. Sembrava una cometa. La testa della cometa purpurea
stazionava sopra al centro dell’Italia, la coda fiammeggiante si estendeva fino al Medio Oriente per poi
deviare e diluirsi in un giallo che introduceva al mistero sull’Asia, fino a svanire sopra il Tibet. In basso,
sulla barra di stato del computer, i numeri non scorrevano più.
Un latinista d’esportazione
Serafino Esposito si era laureato a pieni voti in archeologia all’Università della Sapienza a Roma.
Alla festa di Laurea si sentiva felice perché pensava di avere davanti a sè un futuro, se non proprio
facile, almeno possibile. Parlava correntemente tre lingue vive e poteva leggere e commentare qualsiasi
testo in una importante lingua morta: il Latino. Aveva un carattere solare e il lavoro duro non lo
spaventava. Decise quindi di non tornare nella sua Napoli ma di tentare la fortuna nella capitale, dove
riteneva di avere maggiori possibilità. Il suo entusiasmo non fu scalfito minimamente dal fatto che fece
volontariato a lungo un po’ in tutti gli scavi di Roma e che per permettersi questo doveva lavorare la sera
come cameriere a Trastevere. Quando tornava verso le due di notte nel suo monolocale, poco prima di
buttarsi esausto sul letto pensava sempre che il giorno dopo sarebbe stato quello buono, sarebbe accaduto
qualcosa che lo avrebbe messo sulla strada giusta. Invece la strada giusta la trovavano infallibilmente gli
altri, che erano più dotati di lui in fatto di buone conoscenze. Non si perse d’animo nemmeno quando
decise di fare un downgrade delle sue ambizioni e frequentò un corso di archivista presso il Vaticano,
con la speranza di mettere a frutto le sue ottime conoscenze di latino. In fondo frugava tra la terra alla
ricerca di reperti archeologici con lo stesso piacere con cui cercava il pezzo raro tra i fondi vaticani.
Alla fine ottenne il diploma, ma continuò a fare il cameriere a Trastevere. Decise allora di fare una scelta
che non aveva niente a che fare con le sue ambizioni ma che comunque gli avrebbe permesso di
traslocare dal monolocale che ormai associava alle sue frustrazioni professionali. Partecipò a un
concorso per vigile urbano e lo vinse senza difficoltà. Si impose di non essere infastidito più di tanto dal
fatto che l’Amministrazione metteva a bilancio le entrate relative alle contravvenzioni e distribuiva
incentivi a chi si distingueva particolarmente nell’applicazione delle sanzioni. Decise che era una
questione di secondaria importanza il fatto che il suo futuro se lo era immaginato immerso nella storia
dell’umanità e non nel traffico generato dall’umanità e cercò di andare avanti sereno nel suo bilocale
nuovo di zecca. Un giorno però, il suo medico gli disse: - Devo prescriverti un esame che di solito si fa
per due soli motivi: accertare la paternità, oppure diagnosticare un tumore ai testicoli. - Capisco – Rispose Serafino con la sua solita gentilezza d’animo.
Il tumore aveva colpito un solo testicolo e fortunatamente si risolse senza altre conseguenze se non quelle
legate all’operazione. Serafino si convinse che quel tumore a un solo testicolo era un avvertimento del
Fato nel quale lui comunque non credeva. Finora aveva interpretato la sua esistenza al ribasso, era stato
troppo accondiscendente con tutto e con tutti, non aveva colto i segnali di ribellione che cercavano di
affiorare e di imporre scelte inconsuete. Aveva interiorizzato tutto, complice il suo essere così paziente e
incline al compromesso e aveva covato il male dentro di sè, colpito nella parte più sensibile. Non
avrebbe ripetuto lo sbaglio, avrebbe salvato l’altro testicolo, la sua vita e la stima che aveva di sè stesso.
Si licenziò dalla Pubblica Amministrazione e con i soldi della liquidazione comprò un biglietto di sola
andata per Rio de Janeiro insieme alla certezza che per un po’ di tempo avrebbe vissuto alla grande.
Dopo quindici giorni, in un bar di Copacabana aveva conosciuto Daniel che subito, ascoltando la sua
storia e intuendo le sue qualità, gli aveva proposto di lavorare con lui nella Oficina Cultural, come Art
Director. Da allora Serafino usava il testicolo che gli era rimasto nella maniera più propria, e in più era
certissimo di non covare nessun’altra malattia dentro di lui.
La Cometa del Baphomet
Il giorno dopo la grigliata in giardino, Ettore e Isis videro la Cometa del Baphomet. Si liberarono in
fretta dei postumi dell’alcool bevuto la sera prima e si misero al lavoro. Bastava aprire un link rosso a
caso e subito appariva in una nuova finestra un elenco di file alla moda dei primi browser della rete,
come Gopher. I file avevano tutti estensioni sconosciute, quando le avevano. Ne scaricarono uno sul
desktop e lo osservarono per un po’ chiedendosi cosa farsene. Provarono a caricarlo con un editor di
testo qualsiasi e videro una sequenza di caratteri strani.
- Guarda, i primi caratteri sono in chiaro – disse Isis.
- Si, e sembrano metainformazioni. Istruzioni per l’interpretazione dei caratteri seguenti… - confermò
Ettore.
- Proviamo a fare una ricerca sull’estensione del file – suggerì Isis.
- Buona idea – rispose Ettore mentre digitava su Google l’estensione del file e subito dopo wiki,
aspettandosi in quella maniera, di vedere a inizio pagina i link relativi all’Enciclopedia libera. E infatti
diversi link di Wikipedia apparirono in prima pagina.
- Guarda guarda… l’estensione FITS è acronimo di Flexible Image Transport System. E non è niente
meno che una tecnologia messa a punto dalla Nasa negli anni sessanta per archiviare e rendere facilmente
accessibili, anche in un remoto futuro, le informazioni stesse. Sia che si tratti di immagini che di dati
strutturati eccetera eccetera… A pensarci bene è ovvio che sia stata fatta una scelta come questa. Non è mica immaginabile mettersi a
copiare digitando a mano incunaboli e pergamene, tanto per fare un esempio. - L’unica scelta possibile è archiviarli come immagini. – convenne Isis, e poi disse – C’è qualcosa sul
come aprirli? Ma come ha fatto lo script a trovare riferimenti in questa roba illeggibile? - Allora vediamo. Si, pare che diversi software Open Source siano in grado di leggerli. Come per
esempio Gimp, e i riferimenti probabilmente li ha trovati nella parte in chiaro, nelle note a inizio
pagina… suppongo. - Gimp? - Si, un software per il trattamento delle immagini – Disse Ettore mentre lo scaricava dalla rete, dato che
era gratis.
- Ecco fatto – disse Ettore dopo l’istallazione del software – ora proviamo a vedere il documento…
Bingo! – Esclamò Ettore all’aprirsi del documento in chiaro.
- Ma è tutto scritto in latino… - disse Isis sconsolata.
- Eh… lo vedo. - Fu il solo commento di Ettore – troveremo qualcuno che lo traduce, intanto
scarichiamo… Lavorarono sodo per tutto il giorno, dalla tarda mattinata fino a sera inoltrata, quasi notte. Ettore
esaminava i link forniti dallo Spider cominciando ovviamente dalla testa purpurea della cometa, e li
spediva via mail a Isis che esaminava i riferimenti leggibili. Quello che giudicava interessante lo
scaricava e archiviava in una cartella, il resto in un’altra. Alle nove della sera avevano analizzato
praticamente tutti i link sottesi dalle luci rosse. Erano tutti documenti provenienti da server stanziati tra
Roma e Medio Oriente, passando per Cipro. Impiegarono un’altra mezz’ora per esaminare con maggiore
attenzione i documenti che avevano archiviato come interessanti.
- E’ tutta roba che sembra provenire da un’unica fonte, e mi sa tanto Isis che a occhio e croce abbiamo
bucato l’Archivio Segreto del Vaticano. Ora non ci resta che procurarci un latinista. - Intanto che pensi a come, io metto su la pasta. Ho fame Cafè Miranda
- Quanto tempo credi che ti servirà? Serafino si passò una mano tra i capelli rossi per pensare meglio. Dimostrava poco più di trent’anni,
aveva un sacco di efelidi ma anche ascoltato con attenzione la sintesi che Ettore e Isis gli avevano fatto
prima di proporgli l’affare. Sul tavolino del Cafè Miranda c’era un DVD con la copia dei documenti
digitali in latino che ritenevano importanti e che gli chiedevano di tradurre. Era quasi ora di cena e
nell’Oficina Cultural c’era poca gente. Il barista, dopo aver portato loro tre boccali di birra chiara, stava
chiudendo bottega.
- Ho la sensazione – disse Ettore, cambiando posizione sul divanetto di pelle screziata color venerdì
santo e approfittando del silenzio di Serafino – che abbiamo messo le mani su qualcosa di importante e
forse di segreto… - Quando lavoravo in Vaticano – disse Serafino dopo aver bevuto un sorso di birra e come se la parola
segreto gli avesse suggerito una linea di pensiero adeguata – sono stato avvicinato da un prelato irlandese
- Avvicinato? - chiese Isis.
- Si, si… si era invaghito di me, forse il colore dei miei capelli gli ricordava la sua gioventù o per altri
motivi suoi, voleva portarmi a letto. Era una persona di mezza età e di mezza tacca direi, perché
certamente i personaggi importanti hanno altri mezzi per procurarsi il divertimento. Fatto sta che nel
corso dei suoi tentativi aveva provato a sedurmi intellettualmente, raccontandomi di progetti di
digitalizzazione dell’Archivio Segreto del Papa. Isis si accomodò meglio sul divanetto a fianco di Ettore incuriosita.
- Ora, l’Archivio segreto Vaticano tutti sanno che esiste … - riprese Serafino.
- Ma che segreto è allora… - disse Isis candidamente allargando le mani a palma in su.
- Segreto deve essere inteso come privato – continuò Serafino sorridente – A più riprese, nel corso della
storia diversi Papi ne hanno divulgato parti. Solo quello che pareva a loro naturalmente. -
- Ma… e col mezzo prelato come è poi finita? - Chiese Ettore curioso.
- Ah… nulla. Io gentilmente ho declinato l’invito e lui non mi ha più rivolto la parola. Ma di questa storia
della digitalizzazione dell’archivio segreto ho sentito parlare ancora. Naturalmente solo voci di
corridoio, niente di certo. Tuttavia… non si può mai dire… - Poi aggiunse, dopo una breve pausa - Credo
che tra un paio di giorni sarò in grado di dirvi qualcosa circa quei documenti. - indicando il DVD sul
tavolino.
- Ottimo – concluse Ettore – Naturalmente non c’è bisogno di chiederti di essere molto riservato - Naturalmente - Simpatico quel ragazzo – disse Isis a Ettore mentre tornavano a piedi verso l’auto uscendo dall’Oficina
Cultural. - Ma Daniel dov’è?
- Oh, lui fa quel che vuole… – rispose Ettore.
Già… - aggiunse quasi tra sè Isis.
Calidarium
- No. Lui non fa quello che vuole, ma quello che voglio io. - Non ne sono molto convinta. E’ un italiano, e quelli fanno sempre come gli pare. - Tania esprimeva in
questa maniera i suoi dubbi circa l’influenza di Daniel su Serafino.
- Ti dico che mi deve molto e che farà la sua brava analisi di quei documenti e che poi lo dirà prima a
noi e poi a loro. Poi noi li facciamo lavorare e al momento buono li fottiamo. Daniel non amava parlare al cellulare e quando lo faceva lo teneva davanti a sè e parlava a voce alta nel
microfono. Mentre Isis e Ettore uscivano dalla sua libreria, lui stava concordando una ennesima fornitura
di ragazze con Cielo Alto Capelli. Per l’occasione l’affare lo stavano trattando nel grottino privato della
sua villa di Santa Teresa, che lui chiamava con una certa magnificenza Calidarium. Cielo Alto aveva
seguito personalmente i lavori di posa di ogni singola piastrella del complesso mosaico irregolare e
leopardato che costituiva l’ambiente, una roba che più ridicola non si poteva. Due panche ai lati e una
finta fonte di calore contro la parete di fondo che in realtà produceva aria fresca. Una finta volta rocciosa
era stata ottenuta con materiale sintetico verniciato di grigio opaco. Alla fine dei lavori avrebbe voluto
far sopprimere gli operai, alla moda degli antichi tiranni, ma i suoi legali gli avevano suggerito che
poteva bastare un licenziamento. A malincuore si era adeguato per senso dello Stato. Nel Calidarium
erano sempre presenti almeno tre ragazze, che dovevano fingere di essere lì per caso e dimostrarsi
benevole nei confronti degli ospiti di Cielo Alto. Proprio mentre una ventenne mulatta stava
massaggiando Daniel, Tania lo aveva chiamato.
- Ora ho un affare importante tra le mani – disse Daniel al palmare davanti al suo naso che trasmise
l’informazione a Tania – non posso stare al telefono di più. Ti aggiorno domani sera quando ci vediamo -
- Già… - pensò Tania mentre chiudeva la comunicazione.
L’origine del Baphomet
- Anche a voler essere sintetici la roba che ho da dire è tanta. Mettetevi comodi. Serafino aveva detto questo con calma e cognizione di causa. Poi aggiunse, mentre agitava con la
cannuccia il ghiaccio nel bicchiere di Caipirinha, che lui come anche gli altri avevano in dotazione – non
ho scritto praticamente niente, parlerò a braccio per cui interrompetemi quando volete se avete domande
da fare. D’accordo? Ettore e Isis annuirono attenti mentre bevevano un sorso della loro razione di bevanda ghiacciata. Poi si
accorsero che lo avevano fatto insieme e sorrisero. Sembravano due scolaretti attenti davanti alla
lavagna. Erano le sei del pomeriggio, la tenda sul terrazzo di Isis era stata abbassata in modo che entrasse
solamente una quantità di luce sufficiente per il lavoro che dovevano fare e restasse fuori un po’ del
calore tropicale. Nell’aria c’era il profumo della Mata Atlantica.
- Verso i vent’anni d’età – Serafino aveva il vezzo di passarsi le mani nei capelli rossi mentre parlava,
come per disciplinare i suoi pensieri – Cristo fece un viaggio in India, dove rimase per circa sei anni. - Chi? - chiese Ettore sollevando un sopracciglio.
- Cristo, Gesù, Issa. O in qualsiasi altro modo tu lo vuoi chiamare - Così alla larga la prendiamo? - Temo sia necessario Ettore…- Vai avanti… - Oh, c’è da dire che prima di andare in Oriente aveva fatto un bel po’ di praticantato presso gli Esseni.
Sapete chi erano? - Una vaga idea… - rispose Ettore.
- Bene, ne riparleremo in seguito, per ora ci basti sapere che oltre a inventare la religione monoteista
passata alla storia come Cristianesimo, erano forti nelle guarigioni apparentemente miracolose. - Ma sei certo di quel che dici? - Mormorò Isis guardando Ettore che fece spallucce. - Sta scritto qui,
nell’Archivio Segreto Vaticano Digitalizzato. Il progetto si chiama ASV, acronimo di: Archivum
Secretum Vaticanum. Sembra il nome di un antivirus ma in realtà è la storia, documentale almeno, del
Potere Temporale della Chiesa di Roma. Forse avrei dovuto annunciarlo come premessa, ma ormai è
tardi per farlo… E comunque il progetto ha avuto inizio negli anni 70 del secolo scorso durante il
pontificato del Papa polacco… ecco… qualche nota l’ho presa… - disse scartabellando fra i fogli sparsi
che aveva davanti a sè sul tavolo e poi continuò – esatto… proprio così. Il giorno sedici luglio del 1978
fu digitalizzato il primo documento su una serie di server la cui esistenza avrebbe dovuto rimanere
sconosciuta ai più, ma che a quanto pare, sono stati bucati. L’intento, condivisibile o meno, era e ancora è
naturalmente, quello di preservare questo sapere da distruzioni accidentali dei supporti fisici, tipo
l’incendio della Biblioteca di Alessandria tanto per fare un esempio. Insomma, eternalizzare questo
sapere. Data la natura poco divulgabile di queste informazioni ritengo che questo archivio sia stato creato
a beneficio di una sorta di consiglio di amministrazione del Potere Temporale. - Parli dei Cardinali per caso? - No, un centinaio e passa di persone non possono mantenere un segreto in modo efficace. Parlo di un
sottoinsieme, i Cardinali diaconi o suburbicari, sei o sette in tutto. - Diaconi? Ma non devi essere almeno prete per diventare Cardinale? - Chiese incuriosito Ettore - Fino a Paolo VI no. Poi si, ma d’ufficio. Nel senso che chi viene nominato Cardinale viene, un momento
prima, nominato Vescovo. - Ah! Come per la diossina nell’acqua italiana… quando ne trovavano troppa elevavano il limite per
legge. Chi era… un politico del passato, un democristiano mi pare di ricordare… - Si, una cosa del genere. - Convenne Serafino.
- Tutto questo è estremamente interessante – ammise Isis – ma come ci aiuta a trovare il Baphomet? - Porta pazienza che c’arriviamo – La rassicurò Serafino dopo aver finito la Caipirinha – Ora, il nostro
Issa, come chiamavano Gesù i Tibetani, era arrivato in Oriente ben dotato di nozioni esoteriche e
spirituali grazie agli Esseni. E durante i sei anni della sua permanenza ebbe modo di assorbire molta
della conoscenza orientale sempre sul filo della lama che separava esoterismo e spiritualità. - Un Blade Runner ante litteram – commentò Ettore.
- Dai documenti pare che rimase folgorato dal Cilindro della Preghiera tibetano. - Continuò Serafino.
- Cilindro della preghiera? - Certo un cilindro che ruota intorno al proprio asse e che contiene un lungo foglio con su scritta una
preghiera. Fatto roteare diffonde nell’aria, a beneficio delle persone che si trovano nelle vicinanze, il
Mantra la preghiera appunto, in grado di assicurare un buon Karma per le vite future. - Interessante - Fu, a quanto pare, quello che pensò anche Issa. Fu anche ospite per diversi mesi in un monastero di
Lhasa dove ebbe modo di discutere di rituali e di spiritualità con i monaci. Venne a conoscenza del fatto
che alcuni tra i monaci più intraprendenti avevano messo a punto una versione particolare di cilindro
della preghiera. Una sorta di sfera con un foro di ingresso e sei linee di uscita. Dai documenti risulta che
immettendo un liquido sufficientemente viscoso nella sfera e muovendola secondo un preciso rituale e
ancora, recitando una adeguata invocazione allo spirito divino eccetera… questo oggetto, questa sfera
fosse in grado di tracciare su una pergamena sei linee, intere o spezzate, che contenevano un preciso
messaggio, una informazione relativa al futuro. - Un esagramma! - disse subito Isis – I CHING… è Dio che parla all’uomo -
- Dio che parla all’uomo non saprei… - disse Serafino pragmatico – ma l’accostamento con l’Oracolo
cinese mi pare evidente, anche se il documento non fa menzione direttamente all’Io CHING. Fa menzione
invece del sistema individuato dai monaci per interpretare l’esagramma. - Ah si!? E in che modo? - Ho la lingua secca – disse Serafino sorridendo, quasi come per scusarsi.
Il tempo sembrava quasi essersi fermato per ascoltare il resoconto del latinista part-time ma la caipirinha
invece era finita. Il frigo però era ancora mezzo pieno.
- Allora… - Riprese Serafino che si era ripreso dopo aver bevuto una bella sorsata della bevanda etilica
opportunamente preparata da Isis.
- … l’esagramma va letto da destra a sinistra e vanno considerate le posizioni delle linee, che
cominciano dalla posizione zero. La linea intera è da considerarsi un uno. - Uno? - Certo, il numero uno. Mentre la linea spezzata va considerata come uno zero. Il trucco sta nell’ottenere
una somma elaborando le singole linee. La linea spezzata vale sempre zero, qualsiasi posizione occupi,
se la linea è intera invece e si trova nella posizione zero vale zero, se è nella posizione uno vale uno;
nelle posizioni che vanno dalla seconda alla sesta si deve moltiplicare il numero due tante volte quanto è
il numero espresso dalla posizione della linea stessa. Alla fine la somma dei singoli numeri è il risultato.
E’ chiaro? - No, ma c’è qualcosa di familiare in tutto questo. Aspetta che prendo carta e matita – disse Ettore. Ettore trafficò per un paio di minuti con fogli e matita e poi disse: - Ma certo. E’ la notazione binaria… E visto che le facce di Isis e Serafino rimanevano perplesse aggiunse – …il modo in cui ogni computer a
questo mondo elabora i byte che ha nella pancia. - Ah! Lo stupore stavolta era evidente per tutti. Serafino era un latinista d’esportazione, Isis una Bibliotecaria
Esoterica, Ettore invece un Etnologo in aspettativa che seguiva una traccia meta-funambolica. Tra tutti e
tre non erano tenuti a conoscere la notazione binaria e la sua storia ma erano abbastanza certi che fosse
stata concepita molto più recentemente di venti secoli fa. Svegliarono il portatile, dallo stand by, e fecero
una rapida ricerca su Wikipedia. Il risultato confermò che il primo a proporre una sorta di notazione
binaria ai fini del calcolo era stato Leibnitz nel diciassettesimo secolo. Si guardarono per un po’ l’un
l’altro incerti sul cosa pensare poi si trovarono d’accordo sul non trarre conclusioni affrettate e andare
avanti con l’esposizione. Il giorno dopo probabilmente avrebbero avuto le idee più chiare.
- Va bene… andiamo avanti che ci pensiamo poi. - Suggerì Isis.
- A questo punto è interessante parlare della chiave di lettura che il nostro Issa dà della Testa Parlante,
trasformandola in Oracolo. -
Fece una pausa per bere e cambiare posizione sulla poltrona. Si lisciò i capelli e poi continuo.
- Abbiamo già detto che la combinazione Testa Parlante – Esagramma fornisce un suggerimento, una via
da percorrere per il futuro. Quindi un modo, sebbene indiretto, di modificare il futuro addomesticandolo.
Issa si spinge oltre sostenendo che: se l’Oracolo, usando per la prima volta questo termine, è in grado di
influire sui pensieri degli umani che a loro volta sono in grado di influire sugli eventi, allora è in grado di
influenzare il futuro. Quindi lo crea. Quindi lo prevede. - Ecco su questo passaggio devo riflettere un po’. Mi è molto più chiara l’interpretazione
dell’esagramma, devo dire. - Disse Ettore grattandosi il mento. Mentre Isis sembrava assorta in
riflessioni esoteriche. Serafino non trovò di meglio che concludere la parte della storia dell’Oracolo
relativa alla sua origine.
- C’è poi qualche passaggio non chiaro – disse come per scusarsi di interrompere le loro riflessioni – ma
pare assodato il fatto che tornando dal Tibet portava con sè questa Testa Parlante. Parlante, appunto, nel
senso che pare potesse prevedere o suggerire o meglio creare il futuro. - Ma che ci faceva in Tibet? - Chiese curiosa Isis che sembrava essersi ripresa dallo stato meditativo.
- Sembra che avesse problemi con le autorità indiane e avesse riparato lassù temporaneamente - Un recidivo decisamente… - Commentò Ettore.
- Indiscutibilmente – Disse Serafino e poi continuò – Insomma, quando Issa-Gesù tornò in Palestina,
aveva con sè la Testa Parlante.
La luce del giorno aveva da un po’ lasciato il posto alla notte tropicale. Questo fatto risvegliò l’appetito
della compagnia. Isis insistette perché Serafino restasse a cena da loro così poi avrebbe potuto
continuare con la sua esposizione. Serafino accettò piuttosto volentieri e anzi, da buon napoletano,
preparò in pochi minuti spaghetti aglio e olio, mentre in frigo era rimasta una bottiglia di prosecco.
Mangiarono rapidamente commentando il resoconto fino a quel punto, poi fecero il caffè e ripresero
posto in salotto accomodandosi sulle poltrone come se fossero al cinema.
Silvestro II e la fata Meridiana
- Della Testa Parlante, Oracolo oppure Baphomet in Palestina si perdono le tracce. Evidentemente
Issa o Gesù era piuttosto occupato con il suo lavoro di promozione della nuova religione, come è noto
del resto, per pensare anche all’Oracolo. Dobbiamo aspettare dieci secoli per sentirne parlare ancora. Serafino fece una beve pausa per bere un sorso di cachaca ghiacciata e per lasciare appesi al filo della
curiosità i suoi ospiti e poi continuò.
- Silvestro II era un uomo di grande cultura e di intelligenza straordinaria. A lui toccò celebrare la messa
del trentun dicembre del 999. A un certo punto, stufo di sentire le lamentele della gente circa la fine del
mondo imminente, pochi minuti prima della mezzanotte spostò il calendario in avanti per abolire l’anno
mille e di conseguenza la spaventosa e temuta fine del mondo - Furbo o geniale? - si chiese Ettore.
- Decidi tu… – sorrise Serafino e continuò – E’ stato chiamato anche il Papa Mago, oppure Negromante
dai suoi nemici. Sembra che a seguito del suo incontro con la Fata Meridiana la sua ascesa al potere sia
stata irresistibile e pare anche, e questo ci interessa, che avesse provato a ricreare una specie di Oracolo
domestico, una sorta di Testa di Bronzo. - Fammi indovinare – disse Ettore – in qualità di Papa faceva parte del Consiglio di Amministrazione
dell’Impero e quindi era a conoscenza dell’Oracolo, ma la sua grande cultura e intelligenza non
bastavano per tentare l’esperimento, aveva bisogno di qualcosa in più, giusto? Non certo la Fata
Meridiana comunque che mi sembra più una leggenda che altro. - Sorrise a Isis che ricambiò, avrebbero
discusso in privato della sua intuizione.
- Esatto. Durante la sua gioventù frequentò gli arabi di Spagna, lui era francese, e assorbì la loro cultura e
il loro sapere. Gli islamici, evidentemente per i loro contatti con l’Oriente, erano a conoscenza del
viaggio dell’Oracolo e probabilmente sapevano qualcosa in più che comunicarono a Silvestro, il quale
volle provare a farne uno diciamo: fai-da-te. - Evidentemente non sapevano dov’era, gli islamici, altrimenti lo avrebbero usato loro, dato che
sapevano cos’era. - Intervenne Isis.
- Penso che sia andata proprio così. - confermò Serafino. E poi continuò.
- Comunque fu lui a parlare per la prima volta di una crociata in Terrasanta, segno evidente del rinato
interesse dell’Impero per l’oggetto e del sospetto o certezza che fosse rimasto laggiù. E infatti di lì a
poco, come è noto cominciarono le Crociate. Il che ci porta direttamente alla terza traccia dell’Oracolo. Ettore a quel punto suggerì di fare una pausa per assorbire e meditare su tutto quello che Serafino aveva
esposto e di continuare il giorno dopo. Serafino fu piuttosto d’accordo con la cosa sostenendo che se
avesse bevuto ancora un bicchiere di Cachaca, che gli serviva per inumidire la lingua, sarebbe svenuto
sul divano. Si accordarono per vedersi il giorno dopo più o meno alla stessa ora.
- E’ Dio che parla agli uomini. E lo fa con la matematica – Fu il commento di Isis prima di andare a
dormire. Ettore invece aveva un sacco di perplessità, ma ne avrebbero discusso. Il giorno dopo mentre
Isis rifletteva nuotando in piscina Ettore lavorò alla consultazione dei log creati dallo Spider di Dumbo
durante lo scanning del cyberspazio. L’italiano arrivò alle cinque del pomeriggio e subito si
accomodarono in salotto.
Il Baphomet tra Europa e Terrasanta
- Circa due secoli dopo il Papa Mago, si torna a parlare dell’Oracolo. Riprese Serafino, quasi come se si fosse interrotto cinque minuti prima e non il giorno precedente. Quel
pomeriggio il sole era velato da uno strato di nubi talmente spesso da rendere opaca la luce del salotto
senza attenuare il caldo anzi, rendendolo più opprimente. Il frigo era pieno di birra chiara, meno alcolica
della caipirinha e più adatta allo sforzo intellettuale a cui stavano per sottoporsi.
- A quell’epoca - continuò – e stiamo parlando della seconda metà del dodicesimo secolo, in Medio
Oriente c’erano, tra gli altri protagonisti, due entità interessanti: gli Assassini e i Templari. Suggerirei di
considerarli entrambi come prelature personali. I Templari avevano il Gran Maestro e gli Assassini il
Vecchio della Montagna. Erano fatti delle stessa pasta; facevano cioè un po’ come gli pareva e lavorando
sulla linea del fronte una certa osmosi era inevitabile. Collaboravano o si combattevano a seconda delle
circostanze. Serafino si aggiustò meglio sul divano e dando un’occhiata ai suoi appunti continuò.
- Gli Assassini sapevano dove era conservato l’Oracolo in Palestina e i Templari volevano
l’informazione a tutti i costi. - Ovvio che i Templari sapessero dell’Oracolo. Rispondevano direttamente al Papa, il quale sapeva. Commentò Ettore attento.
- Corretto – disse Serafino. Poi proseguì.
- Un giorno i Templari fecero fuori una delegazione di Assassini che erano stati ricevuti da Re Amalrico
in persona e che avevano un suo lasciapassare, per carpire l’informazione. La cosa fece infuriare sia
Amalrico che il Vecchio della Montagna ma poi venne assorbita per vie diplomatiche. Intanto però, i
Templari avevano l’informazione e recuperarono l’Oracolo. - Ah! quindi la Chiesa ha posseduto l’Oracolo - No. I Templari… fa differenza. - Illuminaci - Come è noto, a un certo punto i Templari sono spariti dalla scena, ma senza mollare l’osso - Che intendi dire? - Non erano fessi, quando capirono che il Papa voleva la loro testa usarono l’Oracolo come merce per la
trattativa. Temporeggiarono e trattarono e intanto tornarono in Europa. Quando il Papa forzò la mano e
convinse Filippo il Bello a imprigionarli non si fecero cogliere impreparati. Nessuno fu capace di
trovare niente di prezioso, a parte i soldi naturalmente, che appartenesse loro. Tantomeno l’Oracolo. - Bingo - Disse Ettore sorridendo - Inaspettatamente uno dei misteri della storia è stato svelato. Ora noi
tre sappiamo qual’era il famoso tesoro dei Templari. - Noi quattro, corresse Serafino. Daniel ha voluto sapere tutto prima di voi – disse candidamente mentre
si passava la mano tra i capelli. Isis propose, tempestivamente, una pausa per fare il caffè e Ettore con la
scusa del rifornimento di birra la raggiunse in cucina. Si guardarono in faccia pensando la stessa cosa. La
curiosità di Daniel poteva essere solo curiosità oppure essere fortemente sospetta, più probabile la
seconda. Serafino era candido… proprio come appariva. E comunque stabilirono che non gli avrebbero
detto niente di non strettamente necessario.
- A questo punto si perdono di nuovo le tracce dell’Oracolo – riprese Serafino dopo il caffè – A dire il
vero c’è un documento che parla della possibilità che la Testa Parlante sia finita in Portogallo, ma niente
di più di questo. - Come mai in Portogallo? - chiesero Ettore e Isis praticamente insieme.
- Perché Re Diniz interpretò a modo suo il decreto di Clemente V che d’autorità sopprimeva i Cavalieri
del Tempio. Li ospitò in una fortezza trattandoli con tutti i riguardi e qualche anno dopo la soppressione
dell’Ordine lo rifondò, usando il nome: Ordine dei Cavalieri di Cristo, che era poi il secondo nome dei
Templari. E restituì loro tutti i beni sequestrati, ripeto: tutti. La notte tropicale era arrivata con la consueta rapidità e si era levata una brezza calda che stemperava
l’umidità e rendeva il caldo più sopportabile. Si spostarono sul terrazzo a fumare e a commentare il
resoconto di Serafino, Isis non amava che si fumasse in casa sua.
- Quindi se abbiamo capito bene, l’Oracolo è arrivato dal Tibet grazie ai buoni uffici di Issa, altrimenti
noto come Gesù. Il quale è poi stato talmente assorbito dalla promozione della sua (in realtà degli
Esseni) nuova religione da non potersi più occupare della Testa Parlante. E la Chiesa, o meglio, la sua
derivazione rappresentata dal Potere Temporale è sempre stata a conoscenza di tutto questo. Dico bene? chiese Ettore. - Mi sembra una sintesi corretta fino a qui – rispose Serafino. - Bene. Allora mi mancano due cose: dove è stato nascosto/conservato l’Oracolo e come mai nessuno ha
mai parlato di questa storia sconosciuta di Issa, detto anche Gesù. In cielo erano ricomparse le stelle dell’emisfero australe dopo che la brezza aveva spazzato via tutte le
nubi.
- A Qumran per rispondere alla prima domanda. C’è un documento dei Templari che testimonia il
recupero dell’Oracolo poco dopo il massacro della delegazione degli Assassini. E per quanto riguarda la
seconda questione molti ne hanno scritto, nei vangeli apocrifi per esempio. Anche un russo
intraprendente, un certo Nicolas Notovich, ha scritto un libro sulla vita sconosciuta di Gesù in India e
Tibet appunto e anche piuttosto documentato. Ma tutte queste cose sono sempre state liquidate come
fesserie o deliri di svalvolati grazie ai buoni uffici della Chiesa e dei poteri Istituzionali a lei legati. - Ok. Veniamo al resto – disse Ettore appoggiando i piedi a un tavolino e bevendo un sorso di birra,
mentre Serafino continuava a fumare appoggiato alla ringhiera del terrazzo e Isis sedeva sul pavimento
tenendosi le ginocchia con le braccia. Era un poco in ombra e il bianco dei suoi occhi brillava intenso,
sembrava riflettere la luce delle stelle oppure della luna, oppure di tutte e due.
- La Chiesa è a conoscenza di tutto questo ma è troppo occupata a gestire i suoi affari, che prosperano
anche senza l’Oracolo come è noto, per occuparsi appunto della Testa Parlante. A un certo punto però
rinasce l’interesse. E sembra quasi che il Papa, facendo finta di niente, organizzi una milizia personale, i
Templari, per il recupero dell’Oracolo. E poi una volta ottenuto il risultato, o almeno così il Papa di
turno ritiene, si sbarazza di questa milizia personale (essendo testimoni scomodi) senza però mettere le
mani sull’osso. Una nuova teoria sui Templari, se non altro. - Ne sono state fatte tante che una più o una meno non fa differenza. Diciamo che su questi fatti potrebbe
anche calzare. - Constatò Serafino.
- Concludendo però – disse Isis – si può dire che siamo di nuovo di fronte al nulla. Si sono perse le
tracce dell’oggetto intorno al milleduecento e c’è una sola flebile traccia che parla del Portogallo del
secolo successivo – scosse la testa sconsolata. - temo che non arriveremo a nulla con questa traccia - Eh… temo che tu abbia ragione cara… ho paura che sia veramente difficile ritrovare notizie del
Baphomet. A proposito – chiese Ettore quasi distrattamente a Serafino – c’è niente circa l’origine del
nome? - Ah si… dimenticavo quasi di dirvelo… - Disse Serafino empaticamente sconsolato.
- Trovandosi i Templari di fronte alla necessità di dare un nome in codice all’Oracolo ricorsero al
codice Atbash, molto diffuso in quei tempi in Medio Oriente. Siccome la Testa Parlante sottendeva la
conoscenza (del futuro) decisero di tradurre la parola SOFIA, ovvero conoscenza, con quel codice e ciò
che ne usci fu: BAPHOMET. Fece una pausa per rovistare tra i suoi appunti e poi disse – ecco qui… il Maestro dei Templari di allora
utilizzò in un documento il termine: in figuram baphometi. Proprio mentre pronunciava la citazione in latino la luce della luna piena lo illuminò, come se fosse sorta
solo in quell’istante e solo per conferirgli un aspetto metanaturale. Invece era solo sparita l’ultima
nuvola.
Algebra Esoterica
Città del Vaticano
- Narciso! Narciso… Era come se lo chiamassero in molti. Il suo nome echeggiava in modo surreale sulle ampie volte decorate
della Sala Leonina dei musei vaticani, mentre la luce del giorno pieno entrava gloriosa dalle finestre
aperte sul Cortile del Belvedere, rimbalzando sul pavimento a scacchi e rendendo preziosi gli ori e gli
indachi degli affreschi, e trasformando, in quel modo, una giornata cominciata in maniera così quieta, in
qualcosa di imprevedibile. Benaccolto, tra tutti quelli che lavoravano con Narciso nella Biblioteca
Vaticana, era uno dei ragazzi più a posto. Cosa lo spingeva a comportarsi in modo così stravagante che
quasi gli stava correndo incontro dall’altro lato dell’ampio corridoio? Si stava chiedendo il giovane
prete. Lo avrebbe scoperto presto, si voltò e si avviò in modo pacato e misurato, come la sua posizione
richiedeva del resto, verso lo stagista che invece camminava piuttosto velocemente verso di lui come se
fosse agitato da qualcosa di molto urgente.
- L’hanno fatto Narciso, l’hanno fatto… - Cosa hanno fatto? Di che stai parlando? - Chiese il prete al giovane collaboratore non appena gli fu
vicino.
- Sono entrati nel Server, Narciso… Benaccolto era più giovane di Narciso solo di due o tre anni, era intelligente e preparato e a volte la sua
ingenuità faceva sorridere. Era biondo e aveva gli occhi azzurri e poi aveva dei modi di fare che
sembravano appartenere a un’altra epoca, a un passato gentile e aristocratico che era sparito da un pezzo.
Narciso, invece, che era molto ben dotato dal punto di vista intellettuale, aveva fatto presto a scalare la
piramide del potere e ora ricopriva una carica delicata e importante: era il responsabile della sicurezza
informatica della Biblioteca Apostolica Vaticana anche se aveva l’età di uno stagista. Quei due erano
legati da una disinteressata e dolce amicizia maturata durante il periodo dello stage e Narciso era sicuro
che se Benaccolto fosse rimasto con lui avrebbero potuto trarre vantaggio entrambi dalla profondità di
quel sentimento, era molto tentato dal suggerirglielo ma non l’avrebbe fatto. Sapeva benissimo che la
cosa non avrebbe retto l’urto del tempo, prima o poi Benaccolto si sarebbe reso conto che il suo posto
era in mezzo al mondo secolare, anche se magari in questo momento poteva essere convinto del contrario.
La sua bellezza e il suo candore non erano fatti per ammuffire dentro le mura vaticane.
- Intendi dire… quel Server? - Si… -
La falla era evidente e chiara. Lo si notava dai logs. Per un periodo di due minuti, che era un tempo
mostruosamente lungo, erano stati prelevati documenti. Poi l’intrusione era stata intercettata e il server,
ritenendo di essere sotto attacco, aveva disattivato la connessione di rete isolandosi da tutto. Quindi la
protezione di secondo livello aveva funzionato. Ma la prima barriera no. Perché? La prima barriera era
costituita dalle credenziali di accesso al server, ottenute con una chiave criptata a 256 bit, che era
ritenuta inviolabile fino al 2030, così avevano detto, e infatti aveva ceduto… Una certa potenza di fuoco
quella che era stata impiegata per questo attacco a forza bruta. E chi era stato? Sul perché non c’era
bisogno di interrogarsi naturalmente.
- Puoi farmi l’elenco dei file prelevati per favore? - La cosa più urgente era circoscrivere il danno –
Abbiamo l’IP di provenienza dell’attacco? - Si, ti ho già spedito tutto via mail… Narciso guardò con riconoscenza Benaccolto e si allontanò scuro in volto, non sapeva come ma
l’impressione che quella non fosse una giornata tranquilla l’aveva avuta non appena aveva sentito il suo
nome ripetuto dall’eco, come se fosse una cosa non necessaria e più che altro inutile al cospetto del suo
Dio. In ogni caso sapeva cosa doveva fare.
Una casa dell’Opus Dei a Niteroi (Rio de Janeiro)
Alle sei e trenta precise la sveglia suonò e Ubirani riemerse dal sogno che lo tormentava in modo
ricorrente, ma comunque non concesse nemmeno un secondo alla pigrizia e balzò giù dal letto. Definirlo
letto era un’operazione audace. Un’asse di legno sul quale era sistemata una coperta di cotone grezzo
piegata in due. Su questa coperta era preparato il letto che era costituito da due lenzuola di cotone più
fine e un cuscino. Il suo minuto eroico iniziava con il bacio al pavimento in segno di umiltà e servizio,
mentre recitava interiormente la giaculatoria ‘Serviam’: ‘Servirò’. Il suo piano di vita, quel giorno,
prevedeva una visita a un indirizzo di Barra da Tijuca che gli era stato comunicato il giorno prima dal
Direttore del centro, dopo la tertulia che aveva seguito la cena. Ubirani amava la vita ascetica della casa
nella quale viveva, si sentiva gratificato dal rispetto che gli altri fratelli mostravano per lui e protetto
dall’affetto del direttore. Purtroppo qualche volta doveva uscire per andare in missione. Immergersi nel
mondo invariabilmente intaccava la sua fede. Non che vacillasse, questo mai, ma si indeboliva e lui si
sentiva più esposto alla tentazione e inevitabilmente il sogno si ripresentava, come quella notte, e doveva
lottare contro la tentazione per giorni prima di riuscire a liberarsene. La sua guida spirituale gli ripeteva
con pazienza che Dio lo amava di più tanto più lui combatteva contro la tentazione e gli aveva suggerito
qualche metodo pratico per non scivolare, anche inconsapevolmente, nel peccato. Per esempio avrebbe
dovuto andare a letto infilando i blue jeans a rovescio, sia come offerta aggiuntiva di mortificazione
corporale sia per non toccarsi involontariamente durante il sonno. Gli aveva anche consentito di usare la
Disciplina tutte le volte che voleva, ma non più di una volta al giorno, per purificarsi quando faceva
brutti sogni. Quel giorno dopo la colazione e prima di uscire in missione, si sarebbe frustato per bene,
cosa che un qualsiasi osservatore indipendente avrebbe giudicato una roba da manicomio. Lui invece
l’avrebbe fatto con gioia, adorava indossare il cilicio e usare la frusta. Il dolore istantaneo che pativa era
lenito meravigliosamente dalla consapevolezza di compiacere il direttore e i suoi fratelli, non voleva più
tornare nella favela dalla quale era stato così opportunamente tolto. Avrebbe preferito la morte, anche
improvvisa e dolorosa. Da Roma era giunta una richiesta da parte di un numerario. La richiesta era
arrivata con la raccomandazione dell’Assessorato del centro di governo, cosa piuttosto insolita e che
implicava una certa sollecitudine e cura nello svolgimento del compito. E il direttore che naturalmente
era una persona solerte aveva pensato subito a Ubirani, che era un po’ la sua arma segreta. Le istruzioni
erano decisamente chiare: carta bianca per l’esecuzione, una sola informazione: un indirizzo IP di Rio e
un solo obbiettivo: capire chi o cosa c’era dietro a quel computer. Non perse tempo e compose
personalmente il numero della segreteria del Ministro do Interior Cielo Alto Capelli, chiedendo un
appuntamento, anche se gli ripugnava rivolgersi a un personaggio squallido come quello. Ma uno
strumento è uno strumento e niente di più, non merita il tempo sprecato per formulare giudizi morali. Il
problema, in ogni caso non era la richiesta, ovvero ottenere informazioni circa il titolare della
connessione alla rete, ma quello che doveva dare in cambio. E sapeva già che cosa gli avrebbe chiesto il
Ministro. Di lì a poco sarebbe stata inaugurata una nuova sede dell’Opera a Rio e il Ministro aveva già
fatto sapere che avrebbe presenziato molto volentieri alla cerimonia. Le elezioni si avvicinavano e i voti
dell’Opera erano graditi.
Paineiras
- Se ne sono accorti Isis. - Che non abbiamo pagato la birra al Cafè Miranda l’altra sera? - No, che abbiamo prelevato dei file dal server del Vaticano. - Come dici? Il rumore della cascatella di acqua calda sotto la quale si era ficcato Ettore distorceva le parole rivolte a
Isis. La cascatella sgorgava da un tubo marrone di metallo arrugginito lungo circa trenta centimetri e che
usciva da un manufatto di cemento, semicoperto dalla vegetazione della Mata Atlantica. L’acqua che
usciva proveniva da uno dei tanti torrenti che scendevano dal Morro Corcovado. Trent’anni prima,
l’ingegnere che aveva presentato il progetto di regolazione delle acque che scendevano dal Morro, non
aveva certamente pensato a un utilizzo ricreativo del suo progetto ma solo a regimare le acque in modo
tale che non corrodessero la montagna. L’inesauribile creatività dei Carioca aveva superato
istantaneamente la sua idea. Non appena avevano visto le cascatelle di acqua riversarsi sulle piattaforme
di cemento avevano pensato a una situazione balneare. Da allora percorrere la Estrada do Redentor (la
strada panoramica che da Rio porta al Cristo Redentore sul Corcovado) nel tratto conosciuto come
Paineiras, dove sgorgavano le cascatelle, con i costumi da bagno era la regola e tutte le volte che gli
pareva si fermavano e facevano un idromassaggio sotto un getto d’acqua calda alto all’incirca tre metri.
- Come lo sai? Nonostante il rumore Isis aveva alla fine capito. Ettore le aveva fatto cenno di pazientare almeno un po’,
col dito indice, per potersi godere il massaggio del getto d’acqua, mentre si contorceva per ricevere in
tutte le maniere immaginabili la sollecitazione. Intanto si era fermata una chevrolet rossa dalla quale
erano scesi un uomo e i suoi tre figli in costume da bagno. Si erano messi in fila dietro Isis, proprio come
alle poste, per aspettare pazientemente il loro turno, dato che anche lei aspettava la fine della doccia di
Ettore sotto l’idromassaggio estemporaneo. Tutto intorno alla piazzola da bagno la vegetazione Atlantica
lussurreggiava. Le acacie e le passiflore sovrastavano le felci attratte dall’umidità, begonie, citronelle e
salvie assediavano gli originali manufatti di cemento previsti dall’ingegnere. L’acqua defluiva dalla
piattaforma di cemento ignara delle intenzioni dell’ingegnere e delle preoccupazioni di Ettore, mentre il
traffico continuava a scorrere sulla Estrada do Redentor.
- Ho visto i log del software di Dumbo - Eh? Isis che aveva preso il posto di Ettore sotto la cascatella, era troppo impegnata a godersi il massaggio del
getto d’acqua calda per attribuire un senso a quello che diceva lui. L’uomo della chevrolet rossa e i suoi
tre figli chiacchieravano e ridevano senza mostrare segni d’impazienza. A seconda delle contorsioni di
Isis l’acqua disegnava curiose introflessioni sulla sua pelle ambrata oppure distraeva il minuscolo
reggiseno dal coprire i suoi capezzoli scuri.
- Ti dico che ho letto i log del software di Dumbo e ho visto che il server del Vaticano si è accorto
dell’attacco! - Che cosa? Dici sul serio? - Si. - Allora abbiamo un problema. - Lo credo anch’io. Isis e Ettore si guardavano incerti e grondanti acqua calda mentre i figli dell’uomo della Chevrolet rossa
prendevano il loro posto, ridendo, sotto la cascatella.
- Credo che dovremmo trasferirci nel mio appartamento, almeno per un po’. Si erano fermati su un terrazzo panoramico lungo la Estrada do Redentor con una bella vista sulla Lagoa
Rodrigo de Freitas. Dopo la doccia tonificante si erano asciugati, rivestiti e avevano cercato un posto
dove riflettere. Erano appoggiati alla ringhiera metallica e osservavano i colori della Laguna
all’imbrunire. Le isole di fronte a Ipanema sembravano sospese tra cielo e terra, a quella distanza e a
quell’ora tarda del pomeriggio l’orizzonte oceanico si stemperava nel cobalto del cielo. Ipanema e
Leblon sono separate da uno stretto canale che mette in comunicazione la laguna con l’oceano che,
sempre da quella distanza, era appena percettibile. I fanali delle automobili formavano delle scie
luminose bianche e rosse e davano l’impressione di tenere insieme il tessuto, formato dalla terra tra
laguna e mare, come punti di sutura brillanti e adeguati.
- Non credi che sia una precauzione eccessiva? - Disse Isis.
- Probabilmente si, ma perché correre rischi inutili? Quando ci sono poteri forti in gioco a essere
prudenti non si sbaglia mai. - Va bene. Ho del materiale da prendere a casa, oltre allo spazzolino da denti. Sto lavorando a una teoria
interessante che forse ci aiuterà a trovare l’Oracolo - E che aspettavi a dirmelo? - Scaramanzia, dovevo avere qualche conferma, e non ti dirò altro fino a che non avrò finito. - Non gli
disse che prudentemente gli aveva spedito una copia delle sue riflessioni via mail a scopo di backup.
- Inutile provare a farti cambiare idea vero? - L’hai detto – rispose con un sorriso Isis.
Risalirono in auto e si avviarono verso Barra. Il tempo di arrivare e sarebbe stata notte fatta.
Calidarium di Cielo Alto. Santa Teresa
- Che fine ha fatto quella mulatta carina con le tettone che c’era la volta scorsa? - Chiese Daniel.
- Scusa mi squilla – Disse il Ministro do Interior.
- Fai… fai… - Eminenza, che piacere risentirla. Come va? Tutto bene? Ah! Ottimo… Certo che ho l’informazione,
prenda nota: Isis Escorihuela Rubra, Rua Ulisses Alcantara, Barra da Tijuca… Non si preoccupi non mi
deve nulla… Quando inaugurate la nuova casa? Sarei felice di esserci…. buona giornata a lei… tante
cose… - Che due maroni questi dell’Opus Dei, ti chiedono aiuto e poi arricciano il naso quando devono
restituirti il favore. - Che ci fai con quelli? - chiese stupito Daniel.
- Io niente. Sono loro che spaccano i coglioni con richieste strambe. Gliel’ho dato il fottuto indirizzo. Che
cazzo vogliono ancora da me? Perché non mi hanno detto: certo Ministro, la aspettiamo volentieri…
invece che dicono questi stronzi? La questione è all’ordine del giorno, le faremo sapere al più presto…
Che si fottessero nella merda… di topo. - Un altro prosecco perdio! - Disse con voce piuttosto alta Daniel, come per sottolineare le ragioni di
Cielo Alto Capelli, rivolto a uno dei camerieri personali del Ministro. Se Isis era, come era, l’amica di
Ettore, doveva assolutamente e al più presto parlarne con Tania. Se l’Opus Dei si interessava a quei due
il sugo era quasi pronto. Ci sarebbe stato il tempo per riflettere. L’importante ora era arrivare per primi.
- Ti porto due ragazze in più al solito prezzo. Che ne dici? Tutte le volte che il Ministro do Interior provava una soddisfazione per come era bravo a trattare affari,
per l’effetto traspirazione il cerone cominciava a scivolare sulla pelle sottostante provocando un effetto
curioso, quasi stroboscopico. L’accordo era raggiunto. Ora Daniel doveva escogitare uno strattagemma
per andarsene da Santa Teresa alla svelta senza destare i sospetti del Ministro. Aveva urgenza di parlare
con Tania.
- Che succede Daniel? Se tu mi chiami sul cellulare deve essere successo qualcosa di grave. - Tania era
ragionevolmente stupita.
- Poi ti spiego, dobbiamo vederci urgentemente! - Vediamoci al Tempio. Quanto ci metti per arrivare? - Un’ora. - Ok, ci vediamo là Tempio Zangbeto
- Come fa di cognome la fighetta che sta con Ettore? - Escorihuela Rubra, perché? - Allora l’Opus Dei la vuole Di fianco al Tempio Zangbeto, sul lato destro, c’era un edificio a due piani alto circa un terzo dell’altezza
del Tempio e col tetto piatto e verniciato di rosso. Tutta la gente della favela Modesto Brocos sapeva che
quegli edifici ospitavano gli uffici amministrativi della comunità Zangbeto. Al piano terra c’era anche un
ristorante tipico africano. In pochi però sapevano che nel seminterrato c’era la prigione dove un tempo
veniva rinchiuso chi si rifiutava di osservare la Legge Zangbeto; anche perché non era più usata da
decenni. Rispetto ai trentotto gradi dell’esterno i venti gradi circa di quel sotterraneo facevano venire i
brividi a Daniel. La principale fonte di illuminazione erano alcune lampadine a incandescenza da pochi
watt che proiettavano deboli sfere di luce in un ambiente vasto e composto da diverse stanze. L’umidità
era elevatissima e l’odore di stantio prendeva alla gola.
- Non sono più frequentati da tempo ma con una ripulita e un po’ d’aria fresca… magari qualche cuscino
colorato, penso che Isis apprezzerà l’intimità del luogo, tu che ne dici Daniel? Tania lo guidò attraverso una serie di corridoi fino a una grande sala centrale in mezzo alla quale c’era
un lungo tavolo che a Daniel diede l’impressione di altare sacrificale. Come tutte le altre stanze non
aveva finestre ma sembrava avere una debolissima fonte di luce sul soffitto, la cui origine non era in
grado di identificare. Piano piano i suoi occhi si abituarono alla semioscurità e cominciò a notare oggetti
lungo le pareti: un cippo di legno mezzo marcio con conficcata una mannaia arrugginita e appese alle
pareti vecchie catene e qualcosa che somigliava a strumenti di tortura. Gli sembrò di riconoscere una
cintura di costrizione, poi ancora uno straziaseni che era una specie di doppia pinza destinata,
probabilmente arroventata, a torturare i seni di qualche sfortunata ragazza e qualche altro oggetto che non
riusciva a identificare ma il cui utilizzo era facilmente intuibile. Il fascino macabro del luogo aveva
relegato in secondo piano la puzza di chiuso e il forte puzzo di umidità.
- E’ perfetto. Se la fighetta ha qualche segreto, qui verrà fuori - Sono contenta che ti piaccia – Disse Tania guardandolo con occhi che brillavano nell’oscurità e
cominciando a spogliarsi. Tania era una creativa, non c’erano dubbi. Aveva l’usta del cacciatore che
coglie l’attimo di distrazione della preda e la ghermisce. Daniel intuiva la rotondità del suo seno e gli
sembrava di percepirne l’afrore. Lasciò che lei gli slacciasse la cintura.
Verso casa di Isis
Era già notte fatta quando Ettore e Isis arrivarono sulla Estrada Barra-Lagoa-Rio vicino a Sao
Conrado, circa quindici minuti dopo che erano partiti dal terrazzo panoramico sulla Estrada do Redentor.
Presero a destra e si immisero sulla Via Expressa, un serpente di cemento e asfalto su due livelli che di
giorno contrasta con il granito scuro della costa rocciosa e di notte si infila, tutto illuminato, nella grande
bocca nera del Tunel do Joà. Ettore, mentre guidava in silenzio la Ford verso casa di Isis, cercava
inutilmente di farsi un quadro mentale della situazione. Non appena sbucò dal tunnel, all’inizio del canale
do Marapendi ai piedi della Pedra de Gavea, decise che non aveva elementi sufficienti per stabilire
niente e quindi avrebbe cercato di capire qualcosa dagli eventi futuri, mancava solo il Vaticano per
complicare le cose comunque. Imboccò l’Avenida Sernambetiba e si diresse verso casa, sempre in
silenzio.
Ubirani era soddisfatto. Si era frustato a lungo con la disciplina e aveva portato il cilicio sulla coscia per
un’ora in più, e poi era uscito con animo lieto dalla casa. Sapeva che fino a quando le sue natiche
avessero bruciato per le frustate e fino a che il dolore alla coscia fosse stato presente, lui si sarebbe
sentito al sicuro dalla tentazione. Si diresse con la dolce compagnia della sua sofferenza verso l’Estacao
das Barcas di Niteroj. Mentre camminava sotto i portici dell’Avenida Ernani do Amaral Peixoto, tra lo
sgocciolio dei condizionatori e i venditori di qualsiasi cosa, verso l’imbarcadero ripassava mentalmente
il piano. Voleva arrivare con un certo anticipo all’indirizzo che il direttore gli aveva dato, per osservare
l’ambiente nel quale doveva muoversi. Avrebbe agito con circospezione e prudenza, anche perché
doveva soltanto osservare e capire chi era o chi erano le persone che stavano dietro a quel computer, e
poi riferire direttamente e soltanto al direttore. Questa missione gli ricordava un po’ il suo passato,
quando partiva dalla favela per andare a rifornirsi di materiale da vendere. Conosceva almeno cento
modi per entrare in una casa senza essere visto nè sentito, come se fosse un fantasma, oppure
qualcos’altro che al momento era meglio neanche pensare. Riflettendo e camminando era arrivato
all’incrocio con l’avenida Rio Branco all’altezza dell’antico palazzo della posta. Dall’altra parte della
strada c’era il piazzale per l’imbarco da dove il Ferry Boat sarebbe partito di lì a venti minuti. Siccome
quando era in missione si sentiva in una specie di Duty Free, anche se usava la disciplina e il cilicio,
decise di entrare in un bar e di farsi una birra ghiacciata, cosa che non avrebbe mai fatto nella casa,
neanche sotto tortura. Dopo aver ceduto a quella umana debolezza attraversò la piazza illuminata dal sole
tropicale che stava scendendo verso ovest, verso l’altra parte della baia di Guanabara, come se per
qualche ragione sua il sole, avesse deciso di andare a dormire nella Città Meravigliosa. Passando sotto
lo sguardo instancabilmente eterno della statua di Arariboia entrò sul pontile d’imbarco e vide subito che
non c’era molta gente, anche perché normalmente i pendolari tornavano da Rio a quell’ora. Trovò senza
problemi una sistemazione nella prima fila di sedie di legno del ponte interno, proprio come se fosse
seduto nella prima fila del cinema Politeama e infatti aveva una bella vista sulla baia e sul ponte di
Niteroj, che era lungo tredici chilometri e visibile in lontananza alla sua destra oltre i grandi oblò, e in
ogni caso la traversata durò venti minuti. Scese al Terminal Charitas e notò come quel giorno il cobalto
del cielo s’intonasse con il colore delle finestre e della cupola del vecchio terminal del Ferry in stile
coloniale. Uscendo dalla porta centrale sull’Avenida Presidente Vargas trovò i grattacieli del centro di
Rio, ma anche un taxista disposto a portarlo a Barra. Quaranta minuti dopo, in perfetto orario con il suo
piano di vita e a dimostrazione del fatto che nelle case dell’Opus Dei sanno organizzarsi bene, scese dal
taxi sull’Avenida Sernambetiba, piuttosto vicino a casa di Isis e si avviò a piedi verso il condominio in
Rua Ulisses Alcantara; mentre l’oceano Atlantico dietro di lui sciabordava pigramente, ignaro del suo
piano di vita e di tutto il resto e in lontananza si sentiva il rumore di un incidente stradale. Ma sembrava
una cosa priva di importanza.
Lo sforzo dovuto alla contrazione lo rendeva tornito, bruno (veramente questo perché era abbronzato, non
contratto) e luccicante di sudore. Il bicipite di Epaminonda si contraeva ritmicamente per sollevare il
manubrio da venti chilogrammi, gonfiandosi e poi rilassandosi. Prima un braccio e poi l’altro per tre
serie di ripetizioni. Alla fine, stanco e soddisfatto, si piazzò davanti al grosso specchio che aveva
sistemato nella sua palestra personale, a sinistra del bagno e prima della cucina, per ammirare da diverse
angolazioni le sue braccia con i muscoli gonfi di sangue. Piano piano le fibre muscolari che si erano
spezzate per le intense contrazioni alla quali lui le aveva sottoposte, si sarebbero ricostituite più grosse e
forti di prima, e quella constatazione lo riempiva di soddisfazione. Dopo la doccia scese in strada dove
c’era già Dinis che lo aspettava.
- Ma come… – gli disse Epaminonda stiracchiandosi i muscoli delle braccia per sentire l’allenamento
appena concluso – andiamo a rapire una fighetta in moto? E dove la mettiamo? - Abbi fede fratello e salta su che è ora di andare - Se lo dici tu… Epaminonda saltò sul sellino posteriore della Guzzi Nevada di Dinis e cercò qualcosa a cui tenersi con le
mani. Dinis tolse il piede dal freno e la grossa motocicletta si avviò lentamente in discesa sulla Estrada
da Gavea, tra le case colorate e i grovigli di cavi elettrici penzolanti. La Estrada tagliava a metà la favela
di Rocinha inerpicandosi sul versante nord fino a raggiungere la piazzola dove Dinis lo stava aspettando
per poi scendere verso sud; e fino alla confluenza con la Estrada di Sao Conrado, in riva all’oceano, era
tutta in discesa e come sempre l’avrebbero percorsa in caduta libera con il motore spento. Era
un’abitudine che risaliva a prima che conoscessero Daniel, quando dovevano economizzare sul
carburante, come facevano poi tutti i favelados. Dinis non aveva un piano. Non riusciva proprio a capire
come si potesse pensare di addomesticare l’infinita casualità che faceva di ogni cosa un’avventura
dall’esito imprevedibile. Per questo si era allenato tutta la vita a cogliere l’attimo e a improvvisare, e a
stare sempre molto attento a quello che succedeva intorno a lui. A differenza di Epaminonda che, quando
non doveva menare le mani, era sempre concentrato sul suo corpo… ma quanto gli piaceva il suo corpo,
Dinis proiettava fuori da sè come un radar, una sfera di attenzione reattiva invariabilmente creativa e
piuttosto efficace. Arrivati alla Estrada do Sao Conrado Dinis accese il motore, visto che era tutta pari
come un tavolo da biliardo, e si avviarono a destra verso Barra da Tijuca, e poco dopo mentre uscivano
dal Tunel do Joa e si avviavano verso l’Avenida Sernambetiba le luci di Barra si riflettevano già
sull’Oceano alla loro sinistra, che a quell’ora sembrava proprio nero come l’inchiostro.
- Non c’è niente in frigo Ettore. Fermiamoci in quella padaria a prendere qualcosa. La padaria all’angolo con Rua Prudencia do Amaral, sulla Sernambetiba, era sempre aperta fino a tardi.
L’Avenida che percorre tutta Barra è una strada importante, con due corsie per senso di marcia, uno
spartitraffico che in Europa sarebbe considerato parco urbano e molti parcheggi. Ettore non riuscì a
centrarne nemmeno uno e si fermò tra strada e pedonale poco prima della padaria.
- Faccio in un attimo – disse Isis prima di avviarsi verso il negozio.
Ettore cercava di concentrarsi e riflettere sugli ultimi eventi, mentre l’aspettava in auto, ma era distratto
dal rumore del traffico e dalla fretta di arrivare a casa sua. Avvertiva un senso di urgenza che premeva
come una scoreggia nel culo, anche se non riusciva a capirne del tutto la ragione e il traffico continuava a
scorrere, insensibile alle sue preoccupazioni e piuttosto fastidioso. Mentre usciva, Isis era stata
agganciata da un tipo che sembrava uno dei tanti sfaccendati cronici di Barra. Le stava chiedendo con
insistenza qualcosa, probabilmente un real per comprarsi una birra, e la seguiva mentre tornava
all’automobile. Prima che Ettore potesse scendere per dire qualcosa all’uomo, che dimostrava una
trentina di anni, Isis che era ormai vicina alla macchina apri la portiera e appoggiò sul sedile la sportina
di plastica con birra, formaggio e pane. Poi frugando nella borsetta trovò una banconota da due reais e la
mise nelle mani dell’uomo, che all’istante se ne andò soddisfatto. Poi ripartirono in silenzio diretti a Rua
Ulisses Alcantara. Isis, mentre tirava fuori la banconota dalla borsetta, aveva fatto cadere sull’asfalto
dell’avenida la chiave del suo appartamento. Lei non se n’era accorta perché il tintinnio metallico era
stato coperto dal rumore del traffico, Ettore non se ne era accorto perché era in auto e osservava l’azione
dello sconosciuto, il quale invece aveva visto benissimo le chiavi cadere, gli era anche parso di sentire il
tintinnio metallico perché supponeva che avrebbe dovuto esserci, ma aveva fatto finta di niente. E ora che
la macchina era ripartita Luis, questo era il suo nome, stava tornando indietro per recuperarle. Una volta
uno sprovveduto aveva perduto le chiavi di casa con tanto di targhetta col numero di cellulare. Non era
stato difficile trovare l’indirizzo e fare un buon lavoro. Ma la concorrenza è spietata a qualsiasi
latitudine. Prima che riuscisse a impossessarsi delle chiavi, un suo collega che aveva seguito tutta la
scena a insaputa di Luis, già le stava raccogliendo.
- Lasciale, sono mie – disse al mulatto chino sulle chiavi, che dimostrava tre o quattro anni in più di lui e
aveva già qualche filo bianco nella rada e riccia barba scura. Il mulatto, ancora piegato sulle gambe alzò
lo sguardo per osservare Luis e valutare l’esito di un possibile scontro, dato che sicuramente non voleva
offrirgli qualcosa da bere.
- Non c’è scritto il tuo nome, mi pare – Rispose, avendo optato a questo punto per il possibile scontro e
pur non avendo la minima idea di come si chiamasse Luis. Ma siccome Luis non aveva intenzione di
mollare l’osso, nè tempo da perdere, senza dire altro mise le mani addosso al mulatto che però non era
addormentato e stava in guardia. Dato che come forza e corporatura erano all’incirca simili e nessuno dei
due conosceva tecniche particolari di combattimento, la faccenda diventò una confusione disordinata di
sberle e spintoni che qualcuno si era già fermato a osservare. Tra una sberla e l’altra, Luis inciampò e
rotolò in mezzo alle due corsie sud della Avenida, trascinando con sè nella caduta il mulatto. Le chiavi
invece erano rimaste per terra più o meno dov’erano prima.
L’uomo al volante della Chevrolet Convair era vecchio come la macchina che guidava, ma era più attento
di un ventenne. Guidava un tantino oltre il limite di velocità e non appena percepì un movimento insolito
sotto al lampione della padaria all’angolo con Rua Prudencia do Amaral, pigiò con estrema decisione il
pedale del freno. Negli anni sessanta del secolo scorso nessuno sospettava nemmeno l’esistenza di un
dispositivo come l’ABS, per cui tutte e quattro le ruote della vettura si bloccarono all’istante e
l’automobile si fermò, in mezzo al fumo azzurrognolo dei copertoni bruciacchiati e senza deviare dalla
sua traiettoria, a due metri circa da Luis e dal mulatto, che ancora si davano cazzotti sdraiati sull’asfalto,
uno sopra e l’altro sotto. Il ragazzo al volante della Ford Escort, che stava dietro alla Chevrolet, aveva
all’incirca trent’anni e stava portando a casa sua, tre isolati avanti, una mulatta rimorchiata all’Help di
Copacabana e siccome le aveva promesso sessanta reais, si aspettava una serata piacevole. Lei per non
deluderlo lo stava masturbando strada facendo. Lui si rese conto che la Chevrolet stava inchiodando
troppo tardi, e dato che neanche la Ford aveva l’ABS e per di più il ragazzo aveva sterzato lievemente
verso sinistra perché gli era parso di vedere una via di fuga verso lo spartitraffico, la macchina sculò
pesantemente e finì con la fiancata destra addosso alla Chevrolet, spostandola di un buon metro verso
Luis e il mulatto, che smisero di darsi sberle e si voltarono verso la Chevrolet, quasi certamente
incuriositi da quello che succedeva. I due a bordo della Ford non si fecero nemmeno un graffio ma la
mulatta smise immediatamente di masturbare il ragazzo. Al volante della Hiunday Lantra che seguiva a
ruota la Ford c’era un ragazzo di nemmeno vent’anni che stava litigando al cellulare con la sua fidanzata,
dopo che l’aveva piantata in asso perché gli avevano detto che l’avevano vista mentre baciava un altro.
Le stava dicendo una cosa come: col cazzo che sarebbe tornato a prenderla, quando percepì
un’ammucchiata sospetta di auto sull’Avenida davanti al muso della sua auto. Frenò con decisione e
stavolta l’ABS fece il suo lavoro. Però gli sembrò di vedere una possibile via di fuga sulla destra e girò
il volante sensibilmente. Non lasciò nessuna striscia di pneumatici sull’asfalto, ma ugualmente la sua
fiancata sinistra andò a sbattere con violenza sulla Ford Escort che stava inclinata a sinistra, spostandola
avanti di un altro metro circa. La Ford Escort a sua volta trasmise l’energia alla Chevrolet che si spostò
in avanti di un altro metro circa. In quel momento il ragazzo capi che avrebbe certamente mantenuto la
minaccia fatta alla sua fidanzata.
Luis e il mulatto, con il muso della Chevrolet a due centimetri dal loro naso, si resero conto di quello che
stava accadendo. Si guardarono in faccia per un secondo e poi si alzarono e si misero a correre a
perdifiato lungo Rua Prudencia do Amaral scomparendo nel buio senza più pensare alle chiavi, e
nemmeno a fare a cazzotti. La gente che passeggiava lungo l’avenida si era raggruppata intorno
all’incidente visto che nessuna macchina bruciava. Le tre automobili avevano completamente ostruito la
corsia sud dell’avenida, spargendo vetri e preservativi nuovi di zecca e nella loro bella confezione
colorata sull’asfalto. Dietro di loro c’era già un centinaio di metri di fila e anche dall’altra parte
dell’avenida cominciavano a fermarsi i primi curiosi col risultato che la strada era completamente
bloccata nelle due direzioni.
Dinis si rese conto subito che qualcosa non andava dal numero di automobili ferme o che stavano per
fermarsi davanti a loro. Sbirciò l’altra corsia e capì subito che anche da quella parte non si passava. Non
aveva voglia di perdere tempo per cui non gli rimaneva che il percorso pedonale a destra, oppure la
spiaggia al di là della strada. Optando per il pedonale, rallentò e deviò la motocicletta a destra,
zigzagando tra aiuole e insulti dei carioca di Barra, in quell’occasione pedoni. Arrivò all’origine del
casino giusto in tempo per vedere un mulatto e un barbone che correvano e sparivano nel buio. Per una
delle sue intuizioni certamente metafisiche si fermò a osservare la scena. Epaminonda gli fece cenno di
proseguire con un gesto simile al premere le cosce contro il fianco del cavallo, ma mentre Dinis stava
ingranando la marcia notò un paio di chiavi sull’asfalto. Disse a Epaminonda di raccoglierle e poi si
avviarono verso Rua Ulisses Alcantara, mentre gli automobilisti illesi uscivano dalle loro auto e
cominciavano a litigare e a insultarsi.
- Devono essere cadute quando sono uscita dalla padaria… La frustrazione dava un tono roco alla voce solitamente argentina di Isis, molto intonata in
quell’occasione all’oscuro garage seminterrato del condominio. Si era accorta davanti alla porta di casa
che non trovava le chiavi nella borsetta. Erano scesi di nuovo in garage con l’ascensore per cercare le
chiavi nell’auto ma non le avevano trovate. Il garage era ampio quanto l’intero condominio, poco
illuminato e con una rampa che portava all’esterno. In quel momento c’erano molte automobili
parcheggiate.
- Non ne hai una copia da qualche parte? - disse Ettore con un tono che voleva essere conciliante.
- La guardia all’ingresso… - Ah, ok vado io. Credi che me le dà? - Si, ormai ti conosce… io intanto cerco meglio in macchina… - D’accordo, faccio in un minuto. Dinis aveva preferito parcheggiare la motocicletta lontano dall’ingresso del condominio e entrare a
piedi. Lui e Epaminonda avevano chiesto dove abitava Isis alla guardia che gli aveva indicato la strada e
gli aveva anche detto che era appena rientrata in auto e che l’avrebbero trovata di sicuro. Avevano
ringraziato e si erano avviati. Invece che entrare dalla porta principale avevano preso la rampa che
portava al garage seminterrato, seguendo naturalmente l’istinto di Dinis. Avevano sentito le voci prima di
vederne i proprietari per cui raggiunsero l’ascensore facendo un giro un po’ largo per evitare i punti
illuminati e poi, nascosti dietro a una colonna avevano ascoltato tutto il dialogo tra Ettore e Isis. Tutte le
volte che ne azzeccava una, Dinis gongolava molto orgoglioso di se stesso. Qualcosa gli diceva che
aveva fatto bene a raccogliere quel mazzo di chiavi e non appena Ettore sparì dentro l’ascensore e mentre
Isis era piegata dentro l’automobile per cercare inutilmente le chiavi, Dinis uscì dall’ombra.
- Cerchi queste sorella? - Le disse facendo tintinnare il mazzo di chiavi.
- Ecco le chiavi. Ma ricorda di riportarle altrimenti la prossima volta… Ruben, la gigantesca guardia del condominio non aveva fatto storie, stava facendo tintinnare le chiavi
dell’appartamento di Isis sotto al naso di Ettore.
- Non dubitare Ruben… – rispose afferrandole.
- Ehi… ma non è l’auto di Isis quella là? - Ruben stava guardando la Ford percorrere, con una certa
velocità, il viale d’uscita. Ettore si girò giusto in tempo per vedere l’automobile schizzare fuori dal
cancello del condominio. Gli sembrava d’aver contato due o tre persone a bordo e l’automobile era
proprio quella di Isis. Di corsa uscì dalla guardiola e si fiondò in strada in tempo per vederla allontanare
in direzione dell’Avenida Sernambetiba.
- Il numero della Policia Federal Ruben… presto… - disse concitato Ettore tornando verso la guardiola.
- 194… ma vedrai che non ti crederanno. - Eh? - Ettore corse verso la rampa del garage per verificare. Prima di telefonare alla polizia doveva
essere certo di non aver sognato.
- Se sono un parente dice? No sono un amico… Se abbiamo litigato? No… no… certo che no. Si… si…
lo so che le donne sono imprevedibili, ma le assicuro che in questo caso… Come? Oggi sono scomparse
trentacinque persone a Rio… si ma… Ho capito. Se domani non ho notizie vengo da voi. Va bene, grazie.
- Se non ti da soddisfazione la Policia ci sono sempre le agenzie private, tante volte funzionano. Conosco
gente in gamba, fammi sapere se ti serve qualcosa… ok? Ruben, che nel mentre era arrivato in garage gli aveva messo una mano sulla spalla mentre gli diceva
questo, Ettore aveva l’impressione che il valore di quello che aveva detto Ruben andasse oltre lo stretto
significato letterale, ma non sapeva spiegarsi il perché. Poi Ruben gli fece cenno che tornava al suo
lavoro. Ettore lo ringraziò sollevando il pollice come si fa in sudamerica, e visto che lui ora era in
sudamerica gli sembrava la cosa giusta da fare. E visto anche che in ogni caso da qualche parte doveva
pur partire per cercare Isis, perché mai non cominciare dal suo appartamento, dato che ora aveva le
chiavi. Chissà perché non era stupito del caos nell’appartamento, e neanche del fatto che la porta non era
chiusa a chiave… sarebbe stato sufficiente girare la maniglia, entrare e forse si sarebbero risparmiati un
bel po’ di casini, sparizione di Isis inclusa; ma ormai non c’era più niente che lo stupiva. Cassetti aperti,
biancheria sul pavimento, libri ammonticchiati sul divano, persino le cento scarpe di Isis sparse sul
pavimento del disimpegno. Il visitatore aveva cercato con metodo ma probabilmente senza trovare quello
che adesso stava cercando anche Ettore. Dove poteva conservare Isis le ricerche fatte? Su carta? Forse si
ma improbabile, sul computer? Perché no. Si avviò verso lo studio scavalcando scarpe, libri e carte
sparse. Il computer c’era e certamente non a caso mostrava la schermata iniziale che chiedeva una
password.
Quando lavorava nella favela lo chiamavano il Fantasma. Ubirani poteva entrare in un appartamento e
rubare l’argenteria mentre il padrone di casa e sua moglie fottevano senza essere nè visto nè sentito.
Arrivato al condominio non era entrato dal cancello ma, come era solito fare in quelle situazioni,
scavalcando la recinzione del parco in un punto non troppo illuminato e in questo caso vicino a un grosso
albero di maria-mole, che stava appena all’interno del recinto e aveva dei bei rami grossi e bassi;
probabilmente gli sarebbe servito come riferimento per uscire in fretta casomai avesse dovuto farlo.
Senza difficoltà aveva trovato l’ingresso e poi era salito per le scale fino al primo piano. Non aveva
avuto problemi neppure per entrare in casa di Isis, la difficoltà più grossa era stata far finta di suonare il
campanello mentre una vicina scendendo dalle scale gli passava accanto. Ma non l’aveva neppure
guardato e dopo che era stata inghiottita dalla semioscurità della rampa lui aveva forzato la serratura,
chiudendo però poi con gentilezza la porta dietro di sè, e aveva cominciato a cercare. Cercava qualcosa
che si riferisse in qualche maniera al Vaticano. Era metodico e lo cercava ovunque: un documento, un
tovagliolo di carta, carta arricciata come imbottitura per le scarpe, carta igienica oppure pannolini. Nel
corso della sua vita precedente aveva visto di tutto usato come nascondiglio. Nessun buco
dell’appartamento, nessun libro, nessun oggetto che potesse servire a nascondere qualcosa fu trascurato.
Quando ormai aveva ispezionato tutto l’ispezionabile gli venne il dubbio che forse le informazioni che
cercava stavano da un’altra parte. Tornò nello studio che aveva controllato minuziosamente a eccezione
del computer, gli venne in mente in quel momento ma poteva pensarci anche prima, si disse non senza una
certa stizza mentre lo accendeva e aspettava che la macchina si svegliasse da quel letargo che lui
inopinatamente aveva trascurato. Quando lo schermo gli presentò la richiesta della password di accesso,
mormorò sottovoce: - E adesso? - E adesso? Non trovo le chiavi dell’appartamento - disse una frustrata Isis a un Ettore perplesso davanti
alla porta dell’appartamento.
Un nanosecondo prima che avesse il tempo di afferrare il computer e sparire da qualche parte, Ubirani
percepì le voci di Ettore e Isis oltre la porta dell’appartamento e si rese conto che probabilmente la sua
visita era già terminata da qualche secondo. Ma siccome non poteva uscire da dove era entrato scivolò
velocemente verso il terrazzo per vedere se c’era una via di fuga. Si rese conto in quel momento che era
stato imprudente, avrebbe dovuto cercare una via di fuga prima di iniziare il lavoro, ma in ogni caso era
al primo piano e qualcosa si poteva fare certamente. Infatti, sotto il terrazzo c’era il tetto di un gazebo
ricoperto di cannicciato e quasi completamente invaso da bouganvillea. Si diceva certo che i travetti
della struttura avrebbero retto il suo peso. Scavalcando il parapetto si lasciò penzolare all’esterno
attaccato con le mani al pavimento del terrazzo, che sporgeva dalla proiezione della struttura metallica,
offrendo un buon appiglio e da quella posizione provò la resistenza della struttura di legno con i piedi.
Visto che sembrava tenere, delicatamente lasciò la presa e si abbassò mantenendo l’equilibrio, proprio
come un gatto, e raggiunto il bordo del gazebo si lasciò cadere, sempre in silenzio e proprio come un
gatto, sul terreno. Il problema immediato sembrava risolto, però non aveva cavato un ragno dal buco e
questo non gli piaceva. Tante volte proprio per quello, guardandosi intorno vide una porta che sembrava
l’ingresso di un locale di servizio e che oltretutto era aperta, spingendola con una certa circospezione
entrò. Scese per una rampa di scale stretta e buia che aveva un corrimano metallico ma anche una luce
che però proveniva dal locale seminterrato che stava poco più in là, perché l’unica lampada delle scale
era spenta e probabilmente fulminata; e si trovò nel garage condominiale. Percepì una conversazione
rapida, forse concitata, che non somigliava proprio a quelle che si possono sentire verso le sette della
sera alla Cafeitaria Colombo in centro, ma piuttosto a qualcosa del tipo: e ora che minchia si fa, che gli
ricordava curiosamente, per timbro e sonorità, quello che aveva sentito due minuti prima dall’interno
dell’appartamento, a dimostrazione del fatto che in centoventi secondi possono accadere molte cose.
- Che ci fanno qui quei due? - pensava mentre si appiattiva contro il muro e muovendosi come un gatto, o
forse qualcos’altro ma al momento non si può dire, tra una macchina, una colonna e una zona d’ombra si
avvicinava per sentire quello che dicevano. Siccome non voleva commettere due errori in una sola
serata, prima di ogni spostamento controllava l’ambiente a trecentosessanta gradi. E infatti percepì
piuttosto chiaramente due ombre in silenzioso avvicinamento.
- Affollato il garage stasera – Pensò come se quella battuta detta tra sè e sè potesse fargli venire in mente
una buona idea per aggiustare la serata. Si era avvicinato quel tanto che basta per intuire la conversazione
tra Ettore e Isis e capì subito che era un problema di chiavi. Subito dopo decise di stare fermo per vedere
quello che succedeva anche perché doveva tenere d’occhio la traiettoria dell’ombra che camminava,
anche se erano in due. Vide Ettore allontanarsi verso l’ascensore e suppose che stesse andando alla
guardiola del condominio per chiedere le chiavi di scorta. Mentre Isis stava cercando, inutilmente a
occhio e croce le chiavi nell’auto, da una colonna sbucò una delle ombre con le chiavi che lei cercava,
come ormai era chiaro a tutti nel posto sbagliato, ma comunque tintinnanti in mano. Quello che volevano
quei due era chiaro: la ragazza, e preferibilmente prima che Ettore tornasse, avrebbe detto qualsiasi
osservatore. E siccome Dinis stava tra Isis e l’ascensore, Ubirani era certo che lei si sarebbe catapultata
verso la rampa che portava all’esterno. Infatti un nanosecondo dopo Isis si precipitò di corsa verso la
rampa senza sapere che c’era Epaminonda sul suo cammino, che naturalmente uscì dall’ombra e la
bloccò, anzi la placcò al di là di ogni ragionevole dubbio. Fu questione di un attimo per i due sbatterla
sul sedile posteriore dell’auto, accendere il motore, ingranare la marcia e partire imboccando la rampa di
uscita.
Tutto sommato Ubirani poteva aggiustare la serata, si fiondò verso la rampa e una volta all’esterno
individuò l’albero di maria-mole che gli faceva da riferimento. Saltò sui primi rami mentre l’auto di Isis
usciva dal cancello e mentre Ettore correva sulla strada giusto per vederla allontanarsi verso l’Avenida
Sernambetiba. Balzò elasticamente su un ramo più alto e poi si lanciò oltre la recinzione atterrando sul
marciapiede e attutendo la caduta con le mani e la flessione di una gamba. Ignorando la Ford di Isis in
accelerazione, ormai oltre la sua posizione, scattò di corsa verso il lato opposto della strada ancora
prima di essersi alzato del tutto e mentre Ettore tornava sconsolato verso la guardiola di Ruben. Mentre
attraversava la strada individuò una Opel Corsa parcheggiata, e naturalmente non fece caso al colore ma
al fatto che non aveva bisogno del transponder nella chiave per decodificare la frequenza radio criptata
necessaria per l’accensione del motore, questo perché era un modello vecchiotto. Sfondò con un calcio il
finestrino anteriore sinistro, aprì la portiera e mentre si sedeva al posto di guida cercò i cavi sotto al
volante. Individuò il fascio che arrivava al rocchetto di accensione lo strappò e cominciò a
cortocircuitare triplette di cavi. Al terzo tentativo il motore si avviò docile. Partì senza guardare dietro
ma davanti e vide i fanali della Ford di Isis girare a destra sull’avenida. Niente male, pensò della sua
prestazione, anche dopo mesi di forzata inattività e pensò anche che con un po’ di fortuna non li avrebbe
persi. Arrivato all’incrocio con l’avenida voltò a destra cercando, avanti sulla strada, la sagoma della
Ford che aveva memorizzato, ma con sorpresa la vide reimmettersi sulla corsia della grande strada
appena poco più avanti a lui, come se si fosse fermata una manciata di secondi per fare chissà che cosa.
Non perse tempo a chiedersi il perché ma poi notò, mentre seguiva la Ford, il tipo muscoloso che aveva
placcato la ragazza nel garage salire su una grossa motocicletta, avviarla e immettersi nella strada
qualche automobile più indietro per poi rapidamente superare sia lui che la Ford e portarsi avanti come
per guidare il convoglio. Curioso… pensò, volendo in realtà significare molte cose, tra cui: che minchia
sta succedendo?. All’altezza del numero 3650 la moto e la Ford girarono a destra e si diressero verso il
canale di Marapendi, attraversandolo sul ponte Lucio Costas per poi immettersi sull’Avenida Grande
Canal. La Ford e la motocicletta procedevano tranquillamente, come se stessero andando al ristorante
oppure al cinema e Ubirani li seguiva con certamente non meno tranquillità, visto che ora li aveva
sott’occhio e oltretutto era mischiato al traffico serale e anche se a lui fregava solo di sapere chi mai
fosse la fighetta che avevano sequestrato. Poco più avanti incrociarono inevitabilmente l’Avenida das
Americas e la imboccarono in direzione Sao Conrado, mentre Ubirani al volante della sua Opel, che tra
l’altro non era neppure in riserva, li seguiva. Superata la favela de Sao Tillon, i due girarono a sinistra
sul Ponte Nova e si avviarono lungo la strada che costeggiava il Morro sul quale si inerpicava la favela
Floresta Barra da Tijuca sulla destra, mentre sulla sinistra invece faceva la sua bella figura il Golf Club
Ithananga, tutto illuminato come se l’energia elettrica non costasse niente o la pagasse qualcun’altro.
Probabilmente quella favela era la destinazione della comitiva, pensò Ubirani, ma si sbagliava un’altra
volta. Arrivati alla fine del Golf Club i due veicoli presero una strada secondaria in direzione nord che
saliva direttamente dentro la foresta di Tijuca. D’impulso naturalmente li seguì anche se però ora aveva
un problema: quei due si sarebbero accorti molto presto che lui li seguiva. Conosceva quella strada,
andava avanti per una decina di chilometri su e giù per il Morro Corcovado prima di finire in tre
quartieri diversi di Rio. Molto improbabile passare inosservato mentre li tampinava, ci voleva un’idea e
serviva subito.
Quando non puoi passare inosservato fai di tutto per farti notare pensò, fai più casino che puoi. Visto che
quelli guidavano sempre piano, Ubirani accelerò fino a portarsi addosso al culo della Ford dove stava
Isis, quasi certamente sdraiata sul sedile posteriore e legata, e Dinis al volante. Provò ripetutamente a
sorpassarli sfanalando, supponendo che Dinis pensasse di avere dietro un coglione impaziente e
nient’altro. - Che cazzo vuole quel deficiente – mormorò tra sè Dinis in gergo, mentre pensava che il tipo
al volante della macchina dietro fosse solo un coglione impaziente e nient’altro. Posto che il gringo
avesse chiamato la Policia Federal, quelli certamente non lo avrebbero preso in considerazione fino a
domani. E come minimo nessuno tra quei rincoglioniti federali avrebbe pensato di cercarli su quella
strada.
- Passa pezzo di merda… e stampati contro un palo di cemento… - rallentò un poco all’inizio di un tratto
rettilineo e lo fece passare, facendogli il gesto del dito medio col braccio sinistro teso fuori dal
finestrino.
- Pare che sia andata… – mormorò tra sè Ubirani mentre lo sorpassava e gli faceva il gesto del dito
medio col braccio sinistro teso fuori dal finestrino. Epaminonda, che stava davanti alla guida della moto,
non si era accorto di niente di diverso da un sorpasso ma non ci fece caso. Procedeva tranquillo come
d’accordo verso la favela Modesto Brocos, otto chilometri più avanti. Il problema di Ubirani ora era
quello della direzione da prendere, e inevitabilmente sarebbe arrivato presto, qualche tornante più avanti
infatti c’era la prima biforcazione della strada. Naturalmente ci arrivò alla massima velocità possibile
per quel tracciato e poi si fermò tre secondi a riflettere. A sinistra si andava dritti verso il centro-nord di
Rio, verso lo Stadio Maracana e la baia di Guanabara. Troppo lontano, pensò e si avviò a destra sulla
strada che portava giù verso Sao Conrado, oppure con un giro un po’ più lungo alla Lagoa e alla favela
Modesto Brocos e intanto cercava un’idea per la direzione da prendere al prossimo bivio, che
inevitabilmente qualche chilometro dopo si materializzò, oltretutto quando ancora non aveva preso
nessuna decisione. Continuando a scendere si andava a Sao Conrado; perché viaggiare per un’ora quando
potevano arrivarci in quindici minuti sulla strada dell’Oceano a Sao Conrado, con più o meno gli stessi
rischi, pensò Ubirani, dovevano essere diretti a Modesto Brocos, il motivo lo avrebbe capito poi, anche
perché li avrebbe preceduti là. Girò a sinistra e si avvio sulla strada che in modo più o meno orizzontale
costeggia il massiccio del Morro Corcovado in direzione della favela che sovrasta il Jardim Botanico e
la Lagoa.
Nel garage seminterrato Isis si rese immediatamente conto di due cose: la prima era che Ettore aveva
ragione a preoccuparsi e la seconda che probabilmente non sarebbe tornato in tempo per darle una mano.
Da quel soggetto magro, col naso affilato e lo sguardo da serpente che aveva le sue chiavi, c’erano
discrete probabilità che fossero le sue chiavi dopotutto, avrebbe dovuto liberarsi da sola o almeno
provarci. Quello stava tra lei e la porta dell’ascensore e da quella parte non poteva andare, la rampa del
garage non era poi così lontana e se fosse riuscita a raggiungere l’esterno aveva una speranza. Un
nanosecondo dopo averlo pensato schizzò verso la rampa senza ricordare di averlo ordinato al suo corpo
e con un’energia che superava la soglia psichica ordinaria, come quando non si ricorda di come si è saliti
su un albero per sfuggire a un cane, oppure come si sia potuto portare fuori dalla casa che brucia un
mobile così pesante. Ma da una colonna del garage sbucò un tizio enorme che la placcò al di là di ogni
ragionevole dubbio. Era stato come sbattere contro un muro e prima che riuscisse a organizzare il
pensiero per decidere il da farsi si trovò legata, bendata e imbavagliata sul sedile posteriore della sua
auto, che nel mentre partiva sgommando. Era stato tutto talmente rapido e inaspettato che le pareva
persino di sentire quei due parlare tra loro in una lingua strana mentre uscivano dal cortile del
condominio. Mentre percepiva (visto che era sdraiata, legata e imbavagliata sul sedile posteriore della
sua auto) nell’ordine: la luminosità del posto di guardia di Ruben, l’ombra indistinta del cancello di
ingresso e le luci intermittenti dei lampioni di rua Ulisses Alcantara, era convinta che la lingua in cui
parlavano i due fosse incomprensibile ma familiare, come se non potesse capirla perché era organizzata
nel modo sbagliato. L’unica cosa che le avevano detto in portoghese era di starsene buona e tranquilla sul
sedile posteriore. Il fatto poi che l’avessero bendata la rassicurava, almeno per l’immediato, perché
come in tutte le situazioni ricche di suspance, se bendi qualcuno per portarlo da qualche parte è evidente
che non lo vuoi ammazzare, almeno non subito. Percepì la macchina fermarsi un momento e poi ripartire
subito dopo che uno dei due era sceso, poi cominciò un viaggio che durò una mezzora circa di cui lei
riuscì a indovinare solo le curve e le frequenti salite e discese, e che altro mai avrebbe potuto indovinare
visto che era legata, imbavagliate e sdraiata sul sedile posteriore della sua auto, e comunque tutto questo
le fece pensare a una strada che probabilmente si inerpicava sul Morro. Quando ormai aveva perso il
conto delle curve e delle salite e delle discese sentì la macchina fermarsi.
Le luci di Rio apparivano e sparivano alla sua destra nascoste dalla vegetazione mentre Epaminonda
portava la moto, a bassa velocità, sulla strada sinuosa che andava a Modesto Brocos. Non perdeva
d’occhio però le luci della Ford dietro di lui con Isis sempre legata sul sedile posteriore, di questo fatto
si sarebbe detto ragionevolmente certo se qualcuno glielo avesse chiesto. Era stato un lavoro facile da
fare, come sempre quando c’era Dinis. Alla loro sinistra si percepiva, più che vederla, la sagoma
massiccia del Morro Corcovado mentre la strada davanti era libera, e a parte il tipo che li aveva
sorpassati prima, nessuno sembrava circolare a quell’ora. Superata un’ultima curva in salita, vicino a una
delle tante cascatelle che scendevano dal morro e non appena svanito il rumore dell’acqua si trovarono
immersi di colpo nel tessuto urbano e illuminato della favela.
Ubirani sentì con soddisfazione il rumore della Guzzi Nevada 750 annunciare l’arrivo del convoglio di
Isis, anche perché stava aspettando da almeno cinque minuti seduto sulla Opel, presa opportunamente in
prestito a Barra, e cominciava a pensare di aver sbagliato i calcoli, ma invece stavano arrivando. Aveva
parcheggiato in mezzo alle altre macchine su una piazzola poco illuminata a bordo strada all’inizio della
favela. Dalla curva che stava proprio in salita, poco dopo una delle numerose cascatelle che
caratterizzano quel luogo, uscì prima la moto e poi la Ford di Isis. E visto che non l’avevano notato da lì
in poi sarebbe stato più facile seguirli, per cui non gli rimaneva altro da fare che ficcarsi nel traffico
serale della favela senza perderli di vista. Li seguì per un paio di minuti fino a che, un chilometro più
avanti, i due si fermarono davanti a una curiosa costruzione a forma di covone di grano: il tempio
Zangbeto della comunità Voodoo della favela.
Isis non poteva vederlo perché era ancora bendata, ma percepiva la presenza di qualcosa di parecchio
esoterico. Non riusciva però a immaginare che si trattasse proprio del tempio Zangbeto. Dinis e
Epaminonda, mentre Ubirani appoggiato a un albero dall’altra parte della strada li osservava con
attenzione, fecero scendere Isis dalla sua macchina e come se fossero tre amici si avviarono verso
l’ingresso di un edificio basso e col tetto verniciato di rosso che stava di fianco al Tempio. Dinis e Isis
furono inghiottiti dalla porta buia mentre Epaminonda saliva sulla Ford e ripartiva in direzione Lagoa.
Ubirani, a quel punto, si aspettava che Dinis uscisse dopo un poco e ripartisse in moto nella stessa
direzione, cosa che infatti puntualmente si verificò di lì a poco. Consegnato il pacco probabilmente
sarebbero andati a mangiare una pizza da qualche parte parlando del più e del meno e dei prossimi affari.
Era ora di tornare a casa. Avrebbe raggiunto il centro di Rio con un Autobus e poi avrebbe preso un taxi
fino a Niteroj. Qualche informazione tutto sommato l’aveva avuta e l’Open rubata poteva restare dov’era.
Avrebbero pensato a un favelado ubriaco che voleva tornare a casa in auto.
Algebra esoterica
- E adesso? Pensò Ettore davanti al monitor che chiedeva la password. Curiosamente quella era un’informazione che
non si erano mai scambiati. Ma ci avrebbe pensato con comodo a casa, magari sul terrazzo con vista
oceano. Il computer fermo alla richiesta della password poteva significare una cosa sola: il visitatore
farabutto non aveva fatto in tempo a trovare nulla. L’informazione, posto che ci fosse, stava ancora nella
pancia del computer, per cui lo chiuse, se lo mise sottobraccio e uscì dall’appartamento di Isis.
- Fammi sapere se ti serve qualcosa – disse gentile Ruben mentre salutava Ettore.
- Obrigado – Rispose Ettore sollevando il pollice, all’americana, mentre si incamminava verso
l’Avenida Sernambetiba per cercare un taxi.
- Ecco perché non ho mai rinunciato a questo appartamento… - Pensò Ettore più tardi seduto al tavolo
del soggiorno con la porta finestra aperta sul balcone, così poteva sentire il profumo dell’oceano
lievemente salso, come d’altra parte è ovvio che sia - …perché poteva servirmi, proprio come adesso. Considerazione piuttosto ovvia ma non priva di un certo interesse, data la situazione. La sua pancia gli
diceva che se dava un’occhiata al computer di Isis probabilmente gli sarebbe venuto in mente uno
straccio di idea per cominciare il recupero della sua amica. Poi pensò che se lei avesse saputo che lui la
considerava solo amica, mentre magari lei si considerava già la sua fidanzata non sarebbe stato carino,
ma poi pensò anche che era una complicazione di natura talmente femminile da non riguardarlo.
Importante era tirarla fuori dai guai. Non provò neppure a forzare la password. Cominciò col cercare
sulla Rete un software che facesse quel lavoro al posto suo, visto che era mezzanotte passata e non aveva
sonno; si preparò quindi una caipirinha per propiziare la ricerca e si mise al lavoro. Digitò su Google:
recuperare la password di windows e in prima pagina trovò il link a un software che lo ispirava. Scaricò
e masterizzò Ophcrack in un cd che poi infilò nel lettore del computer di Isis e si mise a guardare quello
che succedeva dopo averlo riavviato. Una sequenza di caratteri che sfilavano sul monitor gli diceva che
il sistema operativo, dal cd stava migrando verso la memoria. Poi si materializzò un’interfaccia grafica
piuttosto spartana; sulla parte inferiore scorrevano lentamente alcune progress bar e su quella superiore
individuò subito il nome utente: Isis, che sembrava promettere bene. Dopo neanche due minuti, che sono
pur sempre centoventi secondi, apparve nella colonna password il nome Sephirot. Secondo il software
c’erano ancora una dozzina di password da violare ma Ettore aveva fretta di guardare dentro al portatile.
Bloccò il processo poi spense il computer e lo riaccese dopo aver tolto il cd dal lettore. Digitò la
password alla richiesta ma il sistema gli negò l’accesso. Ridigitò la password con la S maiuscola e
stavolta il sistema concesse, non senza una certa gentilezza l’accesso, per cui apparve il desktop di Isis
con tutte le sue icone metafisiche. Tante volte, nei momenti di necessità arrivano le ispirazioni giuste e
proprio per quello diede un’occhiata al menu dei dati recenti e trovò un file dal nome interessante:
Algebra Esoterica. Prima di copiarlo sul suo computer diede un’occhiata anche alla posta elettronica,
chissà… forse poteva esserci qualcosa di interessante. Il sistema esigeva ancora la parolina magica e
sperando che Isis fosse mono-password come lui la digitò di nuovo, e in effetti il programma si aprì
subito. Controllò la posta in ingresso ma non c’era niente di sospetto, in quella in uscita invece c’era una
mail indirizzata a lui con in allegato un file: Algebra Esoterica. Sospirò. Se avesse controllato prima la
sua posta si sarebbe risparmiato la fatica di forzare la password del computer di Isis anche se in ogni
caso aveva imparato una cosa nuova. Aprì il file e si mise a leggerlo con attenzione sorseggiando la
Caipirinha ben ghiacciata. Si trattava di una serie di riflessioni e considerazioni organizzate in modo
cronologico con tanto di grafici e assi cartesiani a supporto della tesi. In sostanza Isis sosteneva che
tramite le proprietà dell’astro di riferimento dell’Oracolo, considerate nel tempo t (tempo Oracolo) che
va da x a y, semprechè considerato come sottoinsieme di T (tempo cosmico) che va da alfa all’infinito,
da non intendersi però come eternità ma come anno cosmico, che dura circa 25.868 anni e purché tutto
questo fosse messo in relazione con le Tabelle Arcobaleno (una sua invenzione) ecco che allora lei era in
grado di determinare con una certa precisione l’ubicazione dell’Oracolo. Che era quello che interessava
un po’ tutti quanti. Purtroppo senza sapere il momento esatto in cui l’Oracolo era stato forgiato,
l’equivalente della nascita, non era possibile determinare l’astro di riferimento e tutto questo non serviva
a una ceppa. E tutto questo,appunto, riportava Ettore di fronte a un bicchiere vuoto di caipirinha e a un
paio di riflessioni. Chi aveva rapito Isis ben presto si sarebbe accorto del particolare che lei era
indispensabile per arrivare all’Oracolo e quindi era relativamente al sicuro. La seconda riflessione era
che doveva ritrovarla e in subordine scoprire il momento esatto in cui quella minchia di Oracolo era stato
forgiato. Ma questa era facile: il Vaticano lo sapeva. Per come trovare Isis avrebbe cominciato a
pensarci mentre si riempiva di nuovo il bicchiere, di dormire non c’era verso.
The Secret Power
Umidità
Le si arricciavano tutti i capelli tanta era l’umidità, ma non era quello il problema del giorno, e
neppure il fatto che il letto fosse fatto con tre assi e quattro cassette di legno, se non altro era sollevato
dal pavimento di terra battuta. La questione era come uscire da lì, oppure almeno come far sapere a
Ettore dove si trovava. E poi c’era un’altra questione non meno urgente da sistemare. Per un po’ Isis
aveva cercato di memorizzare il percorso dell’automobile mentre la portavano via. Curiosamente si
interrogò per qualche secondo sul fatto se fosse più corretto definirlo rapimento anziché ‘portare via’,
anche se in ogni caso non faceva molta differenza. Era come se avesse voluto costruire una sorta di
mappa mentale registrando le sensazioni di movimento che riceveva sdraiata sul sedile posteriore: svolta
a destra, avanti un po’, ancora svolta a destra e avanti un bel po’, semicurva a sinistra, avanti un tot e così
via. Ma inevitabilmente dopo un poco rinunciò. L’unica cosa sulla quale avrebbe scommesso era che
erano saliti da qualche parte sulla Pedra de Gavea oppure sul Morro Corcovado. In ogni caso quando
l’auto si fermò non aveva la minima idea di dove fossero. Le aveva tolto la benda lo stesso uomo che
aveva visto per la prima volta nel suo garage con le chiavi di casa sua in mano. L’aveva portata in una
stanza, scarsamente illuminata da una lampadina a incandescenza, attraverso una serie di corridoi umidi,
e poi se n’era andato senza dire una parola ma aveva appoggiato su un tavolo di legno la sportina di
plastica con pane, formaggio e birra. Era la spesa che aveva fatto nella padaria neanche due ore prima.
La birra ormai era calda ma la infastidiva di più l’umidità elevata e i venti gradi di temperatura che la
facevano sentire in frigorifero. C’era una coperta e se la tirò addosso anche se puzzava un po’ di muffa,
rannicchiandosi sulle tre assi del letto visto che non c’era altro da fare che aspettare. Non ricordava di
essersi addormentata quando si svegliò. Aveva la vescica piena e da una piccola feritoia in alto sulla
parete di fronte a lei entrava la luce del giorno che stava arrivando. Si mise a sedere sulle assi stirandosi
per bene i muscoli e chiedendosi dove mai avrebbe potuto farla, perché era proprio urgente, ma prima di
individuare un angolo qualsiasi sentì un rumore di passi arrivare dal corridoio, poi il rumore di un
catenaccio che scorreva cigolando e la porta che si apriva. Un ragazzo non troppo alto si materializzò
davanti a lei.
- Tu? - disse Isis con la voce più stupita che impastata.
Ruben e Rafaela
- Sei stato alla Policia? - Credo che la useranno come carta igienica la denuncia che ho fatto -
- Facile – convenne Ruben appoggiato alla porta del suo ufficio all’ingresso del condominio.
Verso le sei del mattino Ettore era crollato addormentato sul divano, dopo aver cercato inutilmente di
escogitare qualcosa per liberare Isis. Si era svegliato alle otto per il caldo che entrava dalla portafinestra spalancata sull’oceano e con una gran fame, anche perché la sera prima non aveva mangiato una
cippa lippa. Dopo la pisciata e prima del caffè decise di tornare a dare un’occhiata al condominio,
magari nella confusione del giorno prima gli era sfuggito qualche particolare. Noleggiò un’auto e si
avviò, passando però prima dal comando della Policia Civil.
- Trovato niente di utile in casa? - Gli chiese Ruben spostando il peso del corpo sull’altra gamba ma
avendo cura di tenere le mani ben infilate nelle tasche.
- Assolutamente niente – rispose Ettore con le mani in tasca anche lui e palesemente sconsolato.
- Forse qualcosa si può fare… Ettore guardò Ruben con incredula curiosità, soprattutto per quel ‘qualcosa si può fare’ che aveva detto,
sollevando un sopracciglio ma senza però togliere le mani dalle tasche per non alimentare facili
speranze.
Rafaela, la sorella di Ruben, non era stata baciata dalla fortuna. All’età di sei anni era stata colpita da
glaucoma, e siccome nessuno in favela sapeva neppure di cosa si trattasse, non ebbe alternativa alla
cecità, che puntualmente arrivò quando aveva circa vent’anni. Però era forte e non si scoraggiava
facilmente. Padre Manoel, parroco della Chiesa di Nossa Senora do Boa Viagem, era un gesuita
vulcanico e instancabile, e nel suo piccolo un creativo. Era inevitabile che i due si incontrassero e che il
gesuita organizzasse un corso di Braille per Rafaela, che lo apprese rapidamente. Padre Manoel aveva
anche la vocazione per le situazioni di vita densa, dove più era apprezzato il supporto materiale e il
conforto spirituale che sapeva così ben distribuire, e infatti era diventato anche il prete del carcere di
Carandirù. Usando tutta l’influenza di cui poteva disporre, convinse il direttore del carcere a dotarsi di
un apparato telefonico Braille allo scopo di assumere Rafaela a mezza giornata, come centralinista
speciale aggiunta. Fu là che conobbe Casimiro. Rafaela non si vedeva allo specchio da quando aveva
vent’anni e non aveva la minima idea di che aspetto potesse mai avere. D’altra parte non aveva avuto
neanche tanto tempo per considerarsi in quella maniera, era stata sempre molto occupata a far quadrare
ciò che il mondo sembrava offrirle con quello che invece desiderava. Quando cominciò a lavorare a
Carandirù si disse che forse aveva ottenuto tutto quello che poteva avere dalla sua vita, date le
condizioni, infatti ora era economicamente indipendente, proprio come suo fratello Ruben. Casimiro le
fece cambiare idea. Ai suoi occhi Rafaela era una dea. Era bella come nessun’altra donna poteva essere,
e il fatto che non avesse quella cura eccessiva del proprio aspetto la rendeva ancora più desiderabile.
Decise che lei sarebbe diventata la sua donna quando ancora Rafaela non aveva percepito la sua
presenza, visto che lui la vide da lontano il giorno in cui lei cominciò a lavorare al carcere e da quel
momento le sue azioni si adeguarono all’inevitabile percorso che l’avrebbe portata dove lui sapeva che
lei desiderava andare. Le portava tutti i giorni piccoli regali, oggetti rubati ai compagni o costruiti da lui
la sera mentre gli altri guardavano la TV, e lui pensava a cosa dirle il giorno dopo. Piano piano e
inevitabilmente la familiarità rubò spazio alla diffidenza e lei lo lasciò avvicinare. Casimiro adorava il
fatto che lei lo sfiorasse lievemente per prendere coscienza di lui, di com’era fatto, oppure per accertarsi
della sua posizione nello spazio intorno a lei. Rafaela si accorgeva del suo arrivo quando era ancora
lontano e Casimiro pensava che riconoscesse il rumore dei suoi passi perché non sapeva pensare a
qualcosa di metafisico, che era come dire a nient’altro. Rafaela si era fatta una mappa mentale
dell’aspetto di Casimiro. Sapeva che il suo volto era ovale, che aveva sempre la barba di qualche giorno
e che era alto e muscoloso con appena un po’ di pancetta. Dal timbro della voce era certa che lui fosse
nero, proprio come lei. A un certo punto si rese conto che desiderava vederlo tutti i giorni e se qualche
volta lui non veniva a trovarla rimaneva in ansia fino al giorno dopo. Quindi prese atto del fatto che i
suoi desideri erano diversi da come aveva sempre pensato che fossero. Casimiro doveva scontare una
pena lieve e che forse era già finita ma siccome non sapeva che farsene della sua vita, fino a che non
aveva conosciuto Rafaela, non se n’era mai andato da Carandirù. Il giorno in cui, assecondando la loro
passione, si erano nascosti in bagno per baciarsi a lungo e con emozione, Casimiro le disse che dovevano
vivere insieme. Lei riconobbe le sue ragioni e lui decise che era tempo di uscire per mettere su casa. La
vita con lui era proprio come lei l’aveva immaginata. Era un uomo dolce e pieno di attenzioni che
arricchiva la sua esistenza con la sua presenza e con piccoli doni quotidiani. Un giorno era tornato a casa
con un forno a microonde, un altro giorno l’aveva stupita regalandole la sua intera collezione di musica,
personalmente creata registrando una quantità infinita di CD, che lei ascoltava uno alla volta, mentre lo
aspettava il pomeriggio a casa nella parte vecchia della favela. Spesso Rafaela pensava che erano così
tanti i CD di Casimiro che avrebbe potuto ascoltarli all’infinito mentre aspettava che lui tornasse dal
lavoro e il tempo si sarebbe piegato alle sue esigenze prolungandosi all’infinito o almeno fino a che le
sarebbe parso. Ancora una volta pensava di aver ottenuto tutto quello che poteva ottenere, date le
circostanze. L’unico lavoro che sapeva fare Casimiro però era il pusher. Quel pomeriggio in favela c’era
un’atmosfera densa e appiccicosa. La pasta di coca arrivava dalla Colombia e di lì a poco ci sarebbe
stata la consegna. C’era un silenzio surreale e sospetto nella parte bassa, come se la gente avesse
avvertito il pericolo, che anche Casimiro percepiva come un disagio, e tutti quanti fossero in silenziosa
attesa della sventura. Sfortunatamente non aveva la minima idea circa la direzione dalla quale sarebbe
arrivato il colpo che tutti quanti si aspettavano, e non poteva fare altro che stare attento, che del resto in
ogni circostanza è una buona cosa. Nel momento preciso in cui, nella piazzetta, scelta come incontro per
lo scambio si materializzò l’uomo della Colombia, apparve anche la Policia Civil urlando a tutti di stare
fermi e con le mani bene in vista. L’uomo della Colombia pensava di essere più furbo o più veloce della
Policia, e questo gli costò la vita perché fu crivellato da raffiche di mitraglietta automatica prima che
facesse in tempo a usare la sua pistola. Approfittando della confusione Casimiro infilò di corsa un vicolo
verso il basso, istintivamente fuggendo nella direzione contraria a casa sua. Sbucò in una strada,
ansimante, e si trovò di fronte un uomo della Policia che gli urlò di fermarsi, ma Casimiro si voltò e
scappò nella direzione opposta. Dopo neanche un secondo, i proiettili usciti dalla mitraglietta del
poliziotto gli spaccavano in due il cuore e riducevano a un colabrodo il suo polmone sinistro. Come
chiunque si sarebbe aspettato che accadesse, morì prima ancira di stramazzare al suolo, in una porzione
di tempo troppo breve per essere accettabile. Dal suo corpo cominciò a uscire il sangue che formò un
rivoletto sul marciapiede e i suoi piedi si incastrarono in una posizione innaturale, appoggiati per i
talloni e con le palme rivolte verso l’alto formando un malinconico triangolo. Dalla padaria vicina uscì
un bimbo a torso nudo e con un panino in mano incuriosito dalla confusione, mentre poco lontano il
poliziotto con l’arma ancora calda in mano stava chiamando i suoi colleghi.
- Me l’hanno ammazzato quei maiali Ettore non sapeva cosa dire a Rafaela. Erano seduti, lui e Ruben a casa di lei e stavano bevendo birra
mentre ascoltavano il suo racconto.
- Eh… la Policia qui non va tanto per il sottile – riuscì a dire banalmente Ettore, proprio perché gli
sembrava che la pausa nel racconto di Rafaela esigesse qualche sua parola.
- Non sto parlando della Policia. Sono stati quelli di Terceiro Comando. Loro hanno fatto la soffiata, lo
sanno tutti qui. Se non avessero parlato, Casimiro sarebbe ancora vivo. Il dolore per la perdita non aveva intaccato la sua energia, aveva solo qualche ruga in più intorno agli
occhi. Ettore non ricordava di aver mai parlato con una cieca, anche se adesso si dovrebbe dire non
vedente, e ci mise un poco per collegare il fatto che lo sguardo di Rafaela sembrava lambirlo per poi
fuggire altrove, al suo stato particolare. Non appena lo intimizzò come cosa normale riuscì a vederla
come una donna. Era sciolta, acuta e aveva una memoria infallibile. E inoltre era anche una bella
creativa. Dopo aver ascoltato le ragioni di Ettore gli disse: - Io forse posso fare qualcosa per te, ma tu
dovrai fare qualcosa per me. Dine in the Dark
La prima cosa da fare, in questi casi, è un periodo di adattamento al buio. Per ottenere questo Ettore
passò dieci minuti in una stanza senza illuminazione. L’unica luce proveniva dalle due finestre sul vicolo,
già di suo scarsamente illuminato.
- Devi toglierti l’orologio se ha le lancette luminose, spegnere il cellulare e sbarazzarti dell’accendino o
dei fiammiferi, se li hai. Rafaela era gentile, ma Ettore aveva il sospetto che lei pretendesse da lui il comportamento di un bimbo
ubbidiente, per cui si sbarazzò del sovrappiù senza fare storie, mentre aspettava che i suoi occhi si
abituassero alla semioscurità, ma già sapeva che lo attendeva dell’altro. Lei prese la mano di Ettore nella
sua, toccandola con delicatezza ma analizzandola con la curiosità di uno scanner, anche se biologico,
soprattutto tra pollice e indice.
- Sei snello, alto e non hai più di quarant’anni – gli disse mentre lo guidava verso la sala da pranzo nera
come la pece.
Quante informazioni si possono avere a sapere come e dove cercarle, stava pensando Ettore a margine
del fatto che comunque il contatto con la mano di Rafaela era rassicurante, anche perché lo stava
introducendo nel nulla nero, ma proprio nero. Talmente nulla e nero da sembrare l’universo prima della
sua nascita.
- Ecco. Qui c’è il tavolo, torno subito L’ultima volta che si era sentito così solo e indifeso probabilmente era stato il primo giorno di scuola.
Dove poteva essere il tavolo? Davanti o di fianco? Non aveva neppure fatto caso alla direzione in cui era
svanita Rafaela. Doveva stare più attento d’ora in poi. In una situazione di visibilità normale avrebbe
aspettato tranquillo seduto e guardandosi un poco in giro. Qui c’era da trovare il posto in cui sedersi,
intanto.
- Mi versi un po’ di vino? Ettore percepì l’infinitesimo spostamento d’aria provocato dalla mano di Rafaela nell’afferrare il
bicchiere mentre lo avvicinava a lui prima ancora che glielo dicesse. Le bottiglie erano alla sua destra
mentre alla sua sinistra c’erano i vassoi col cibo, questa era la convenzione. Lentamente spostò la mano
destra facendo aderire il mignolo al tavolo per non perdere il riferimento con qualcosa di certo, fino a
che non incontrò il vetro di una bottiglia. A giudicare dalla forma e dalla temperatura non era una
bottiglia di vino, avrebbe detto acqua. Spostò ancora lentamente la mano fino a che toccò un altro
recipiente dalla forma più conveniente. La sfiorò lentamente fino al collo e si disse che somigliava
proprio a una bottiglia di vino. La sollevò un poco per verificare se fosse piena, poi si concentrò sulla
mano sinistra. La fece avanzare lentamente verso la posizione da dove riteneva che fosse partita la
perturbazione provocata dallo spostamento della mano di Rafaela, strusciando sempre con il mignolo sul
tavolo. Rafaela, che era più esperta, avvertendo l’errore della traiettoria spostò la sua mano verso quella
di Ettore per aiutarlo. In presenza di un senso così ingombrante come quello della vista e in assenza di
intenzioni erotiche, il contatto con la mamo di un interlocutore passa più o meno inosservato. Nel buio
totale di quella sala da pranzo invece, assunse un significato diverso. Mentre afferrava delicatamente la
mano di Rafaela per avvicinarla, bicchiere incluso, al collo della bottiglia del vino, un intero universo gli
si mostrò in una prospettiva inaspettata. Non appena le toccò la mano fu come se un’immagine virtuale
della donna prendesse forma nel buio di fronte a lui e si chiese se era in quel modo che i ciechi
vedevano. Ombra nel buio, delimitata da indefinibili confini, gli pareva perfino di intuire le espressioni
del viso e i leggeri mutamenti di umore che i suoi commenti sul cibo di quella sera producevano in lei,
quando rideva gli sembrava di vedere i suoi occhi, arrovesciarsi all’indietro circondati dalla nuvola
riccia dei suoi capelli nerissimi e a tratti gli sembrava di percepirla in trasparenza come se fosse
sottoposta a una esposizione a raggi x, carie dentali incluse, ove presenti. Si dimenticò di essere in
condizione di cecità pressoché totale e gli parve del tutto naturale ridere e chiacchierare con Rafaela sui
sapori dei cibi di cui non vedevano forma e colore, oppure scommettere sul colore del vino, se fosse
bianco oppure rosso, mentre a Rafaela era appena stata sottratta una splendida ragione per la sua felicità
e Ettore era corroso dall’impazienza di ritrovare Isis. Quando la cena finì, Ettore sapeva di avere due
cose in più nel bagaglio in continua crescita della sua esistenza. Il numero di telefono di Julio Cesar,
detenuto, cuoco e factotum del direttore del carcere di Carandirù e una insopprimibile malinconia per la
serata appena trascorsa. Sapeva benissimo che certamente non avrebbe mai più riprovato quelle
sensazioni di armonia e benessere tanto più sorprendenti perché provate con una persona sconosciuta fino
a un’ora prima. Ma magari Julio Cesar poteva aiutarlo a trovare Isis.
Umidita bis
- Si… proprio io - L’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere qui.
- La vita è complicata a volte. - Già – rispose Isis. - Cominciamo dalle cose semplici: dov’è il cesso? - Spiegami ancora la faccenda dell’astro di riferimento – Le chiese Dumbo dopo averla accompagnata in
bagno e dopo che le aveva spiegato cosa volevano da lei. Dumbo era la persona più indicata per gestire
Isis, aveva un debole per lei e Daniel aveva insistito perché se ne occupasse. Le aveva portato un un
panino e un caffè per renderla più collaborativa. Chissà perché Isis non era sorpresa dalle sue domande.
Le ci volle meno di un minuto per individuare la strategia da seguire per gestire la situazione.
- Si tratta di una teoria che sta ai confini tra algebra e esoterismo per individuare la posizione
dell’Oggetto che tutti noi vorremmo avere, ma senza la data di nascita di quell’oggetto siamo tutti a piedi.
Ettore la conosce – mentì sperando di non essere smentita dai fatti nei prossimi cinque minuti – dobbiamo
per forza sentire lui. - disse sorridendo candidamente e sperando di portare a casa un contatto con Ettore.
Poteva essere vero oppure falso, pensava Dumbo, l’alternativa alla trattativa attuale era di incaricare
Dinis e Epaminonda di convincerla. Se come pensava, lei gli stava dicendo la verità, avrebbero perso
tutti tempo e poi non voleva che accadesse niente di male a quella brunetta simpatica e attraente, che
oltretutto aveva un bel culo. - Possiamo creare un canale di comunicazione col tuo amico. Aspettami qui - Eh… dove vuoi che vado? -
Julio Cesar
- Chi sei? - Ho avuto il tuo numero da Rafaela – A Ettore sembrava la cosa migliore da dire, anche se non ne era
sicuro.
- Cosa vuoi? Ettore avvertì una variazione di attenzione da parte di Julio Cesar quando pronunciò la parola Terceiro
Comando. Uno dei molti regali di Rafaela era la sua acquisita sensibilità per le informazioni
normalmente offuscate dalla comunicazione visiva. Stava parlando al telefono con gli occhi chiusi e si
era concentrato sulla respirazione di Julio Cesar che gli arrivava via radio dal cellulare. Quando avvertì
la variazione del respiro fu certo di aver trovato l’argomento giusto.
- Chiamami domani – Gli disse Julio Cesar dopo qualche secondo di riflessione.
Ancora una volta doveva ringraziare Rafaela. Era stata lei che gli aveva suggerito di parlare di Terceiro
Comando come dei presunti rapitori di Isis. Non era sicura che Julio Cesar l’avrebbe aiutato ma era
quello che poteva fare, e porca zozza sembrava funzionare.
Il Contatto
L’appartamento di Ettore sul lungomare di Tijuca era diventato l’unità di crisi. Daniel non rispondeva
al telefono e sapeva solo lui perché, Serafino il latinista era sempre molto vago nelle sue inutili risposte
quando lo cercava al cafè Miranda. Doveva mettere in ordine le informazioni che aveva a disposizione.
Tutto quello che poteva fare nell’immediato l’aveva fatto. Isis aveva inventato l’Algebra Arcobaleno che
era del tutto inutile, posto che avesse un’utilità, senza la data di forgiatura dell’Oracolo. A occhio e croce
la data di nascita dell’oggetto la sapeva il Vaticano, come collettore di documenti che riguardavano la
vita privata di Gesù, e stava da qualche parte nel loro archivio digitale. Neanche a pensarci a bucarlo
un’altra volta, ora stavano certamente in campana, e forse non erano estranei al rapimento. Se non erano
estranei la frittata era fatta, Isis aveva seri problemi e probabilmente anche lui. Se invece l’aveva rapita
qualcun altro, e questa ipotesi piaceva già di più, c’era la possibilità di trattare. Se i rapitori, come
erano, erano interessati all’Oracolo avrebbero voluto conoscere la data di forgiatura perché sapevano da
Isis della sua importanza. Ma come contattare il Vaticano? Proprio adesso che serviva, Daniel era
sparito. Appoggiò il cellulare, che ancora aveva in mano, sul tavolo a fianco dei due computer accesi il
suo e quello di Isis. Poteva chiamare Julio Cesar solo il giorno dopo e non poteva fare altro che
aspettare. Certamente gli sarebbe sembrata una giornata piuttosto lunga.
- Almeno un riferimento personale, diciamo intimo, lo dobbiamo fare. Altrimenti potrebbe pensare che
non è vero che sono vostra prigioniera oppure che non sono in buona salute, che sarebbe peggio Isis aveva ragione, però era pericoloso spedire un’informazione sulla quale non aveva controllo, poteva
essere falsa e contenere un messaggio in codice, in fin dei conti chi non ha visto almeno un film con
James Bond da cui trarre spunto in situazioni come quelle. Dopo una lunga discussione avevano raggiunto
un accordo. Dumbo avrebbe inviato una mail a Ettore con due informazioni: Isis era viva e vegeta ma lui
doveva smollare la data di forgiatura dell’Oracolo se voleva rivedere Isis. La necessità, poi, di impedire
a Isis di fare riferimenti intimi nella mail gli dischiudeva orizzonti di cattiveria che non sapeva di avere.
Ma decise di non farsi trascinare in quegli abissi e di essere pragmatico. - Deve bastare il riferimento
all’Algebra Colorata o come minchia la chiami te. Sarà sufficiente. - Disse Dumbo.
Quello che contava era avere un contatto con Ettore in fin dei conti. Isis mise su carta una sintesi di
informazioni da spedire e la richiesta della data di forgiatura. Dumbo non le consentiva ovviamente
l’accesso diretto a un computer, quindi avrebbe pensato lui a spedire la mail. Quello che poteva fare
l’aveva fatto, toccava a Ettore inventarsi qualcos’altro ora.
Ettore in pratica viveva da diverse ore davanti ai due computer accesi, certo che se qualche novità
doveva arrivare sarebbe arrivata dal cyberspazio. Teneva a bada l’ansia e l’impazienza con panini e
caipirinha, ma era un sistema che stava esaurendo la sua efficacia. Verso l’ora di pranzo poco prima che
fosse tempo di chiamare Julio Cesar arrivò la mail.
- Chi c’è dietro a tutto questo Dumbo? - Lo sai che è meglio che non lo sai… non me lo chiedere - C’è Daniel vero? - Meno cose sai più, facile che ti salvi il culo - non poté fare a meno di provare uno slancio di tenerezza
pensando a quella parte del corpo di Isis - Non insistere ti prego Isis aveva capito che non era solo per gentilezza che Dumbo la trattava così bene. Più che sua prigioniera
sembrava una sua gradita ospite. Suo malgrado sentiva di provare persino affetto per quel ragazzo dai
modi gentili e educati. Provò a cambiare discorso.
- Ha già risposto Ettore? - Probabilmente non è ancora arrivata la mail, l’ho spedita dal tuo account ma le ho fatto fare un giretto
per il pianeta. Se Ettore tenta una geolocalizzazione può solo vedere che è arrivata dall’Alaska - Che succederà dopo che avrà risposto? - Eh.. questo dipende un po’ da come si mettono le cose. Io ogni caso io ti proteggerò. - Grazie – gli disse Isis e gli diede un bacio sulla guancia e Dumbo si sentì un po’ felice. - Ora però, dobbiamo traslocare – Aggiunse Dumbo.
Il quadro cominciava a prendere forma e colore. La conversazione con Julio Cesar era stata molto
interessante. Doveva per forza parlare con Daniel. Il cellulare squillò prima che componesse il numero,
per la ventesima volta .
- Daniel… finalmente… dove ti eri ficcato? Ho una patata bollente tra le mani - Vorrei averla io… - Disse Daniel dall’altra parte del cellulare constatando dal tono di Ettore che: o non
sapeva che lui era un cattivo oppure faceva finta di non saperlo.
- Non fare il mongolo. Ho bisogno del tuo aiuto - Vediamoci all’Academia da Cachaça tra un’ora Infallibilmente il sole inondava la terrazza di granito scuro e l’oceano sciabordava blu sotto la scogliera
come si conviene in un giorno d’estate australe. Daniel e Ettore bevevano birra all’ombra del gazebo di
foglie vere di palma intrecciate dell’Academia.
- Chi? - Julio Cesar - E chi è? Daniel sapeva benissimo chi era Julio Cesar. Quando lui e Cielo Alto Capelli, Ministro do Interior
avevano creato Terceiro Comando si erano scontrati con la sua egemonia nel carcere. Avevano potuto
arruolare solo elementi che lui non aveva attirato nella sua sfera di influenza. E senza andare tanto lontani
era lui che aveva giustiziato il nipote della nonna della polvere. Una perdita sensibile. Ma doveva far
finta di cascare dalle nuvole. - Quindi i due narcos di Terceiro Comando - che erano sorvegliati speciali
a loro insaputa dopo l’ultima battaglia in favela - hanno prelevato la tua amica da casa e l’hanno
portata… dove? - Eh… questo non si sa, quando gli uomini di Julio Cesar hanno visto che quello che facevano non
c’entrava niente con Comando Vermelho hanno lasciato perdere. Fortunatamente, pensò ma non disse Daniel. Quante belle cose che stava imparando. Dinis e Epaminonda
avevano urgente bisogno di una vacanza e di essere sostituiti da forze fresche e un pochino più anonime.
- E c’è dell’altro… hanno notato un curioso personaggio che ai suoi tempi si faceva chiamare Fantasma
da Morada per la sua capacità di entrare e uscire dagli appartamenti senza che nessuno se ne accorgesse.
E’ stato visto curiosare sulla scena del rapimento e poi seguire i due narcos. La cosa non sarebbe strana
più di tanto se non fosse che il tipo in questione da un pezzo era sparito dalla circolazione entrando in
servizio, si dice, dell’Opus Dei di Niteroj. Ma come tutto quadra in questo meraviglioso paese, stava pensando Daniel, anche per merito di Cielo
Alto Capelli, mentre diceva a Ettore facendo finta di essere stupito: - Opus Dei? Quelle due mezzeseghe non si erano nemmeno accorte di essere seguite. Quindi il Fantasma da Morada
poteva essere un testimone scomodo se era vero che Ettore non sapeva dov’era Isis e doveva essere
rimosso prima che lui lo agganciasse. Dumbo, per bocca di Isis gli aveva detto che Ettore aveva
l’informazione di cui tutti avevano bisogno. Chissà che non la smollasse al volo, così magari poteva
chiudere la vicenda per ora di cena. - E io come posso aiutarti? - Devi farmi arrivare al Fantasma da Morada, o meglio, all’Opus Dei- Ah… bene. E posso chiederti perché? Ettore trovava fastidiosamente sospetta questa domanda. Come faceva Daniel a sapere che i due rapitori
erano di Terceiro Comando, per esempio, visto che lui non ne aveva fatto cenno.
- E’ importante per la trattativa – Gli disse Ettore, restando sul vago e riferendosi alla liberazione di Isis.
Era meglio non dire troppo ovviamente. Per ora di cena non la risolvo, pensò Daniel decidendo di non
insistere. - Vedo quello che posso fare – Disse a Ettore. Il resto della conversazione si stemperò in
banalità e nella leggera brezza di mare che faceva schioccare le foglie di palma e copriva il rumore del
traffico sulla sempre meravigliosa Avenida Niemeyer.
Al Tempio
- E questo è tutto. - Tania aveva insistito con Daniel perché si vedessero al Tempio. Voleva essere
aggiornata sugli sviluppi della vicenda.
- Probabilmente Ettore non sa qualcosa di fondamentale per localizzare l’Oracolo e lo sa l’Opus Dei o
chi per loro. Isis ha detto che lo sa lui solo per avere un contatto. - Commentò Tania.
- Allora potremmo fottercene di Ettore e trattare direttamente con quelli. - Non è una buona idea. Lasciamo fare a loro il lavoro sporco e freghiamoli al momento giusto. - Si, hai ragione. E’ già abbastanza complicata di suo questa faccenda. - Dove vai? - Chiese Tania con gli occhi che brillavano.
- Devo parlare con Cielo Alto… - Non essere impaziente, questa storia ha tempi suoi che non badano alla tua fretta. E fino a stasera non
verrà nessuno al Tempio - Più che un suggerimento sembrava un ordine. Poi cominciò a togliersi il
sudario di lino bianco che avvolgeva le sue enormi tette color ebano.
www.vanilla.org
La stanza si chiamava allegria e gli ricordava molto Mike Bongiorno, pace all’anima sua. Aveva
ricevuto una mail, dall’account vanilla.org e spedita da chissà chi, con le coordinate per connettersi a una
chat criptata su un server supersicuro, così almeno sostenevano. Il suo nick era ‘oil’, quello del suo
interlocutore era ‘vinegar’ e la password non poteva che essere ‘and’.
Cielo Alto non si era fatto pregare, una volta che aveva capito la posta in gioco. L’unico vincolo che
aveva imposto era che voleva essere presente al fatto, quando e dove mai si fosse consumato. Daniel non
aveva fatto obiezioni, con la riserva mentale di fotterlo se avesse potuto. Cielo Alto aveva convinto il
Direttore del Centro di Niteroj a farlo parlare direttamente con Narciso, veramente aveva espresso il
desiderio di parlare con il Papa in persona ma aveva poi ceduto al pragmatismo e si era accontentato.
Narciso ovviamente era molto curioso di sentire cosa voleva da lui la persona che aveva violato il
server. Aveva solo bisogno di un paio di giorni per ottenere l’autorizzazione all’operazione e
predisporre il server per la comunicazione sicura. Ettore aveva scaricato dalla rete il software per
connettersi al server che aveva il nome di un gelato. Guardò l’ora sulla tray bar del portatile. Mancava un
minuto a mezzogiorno, l’ora in cui doveva connettersi. Prima di premere Enter pensò che probabilmente
‘vinegar’, in Italia, si era appena svegliato dalla pennichella. E comunque era agitato come se avesse
dovuto incontrare ‘al buio’ una ragazza conosciuta in chat. A Roma, un minuto prima delle quattro del
pomeriggio, ora italiana della connessione, Narciso aveva spento il cellulare si era reso invisibile su
skype e aveva chiuso a chiave la porta della sua stanza. Due ore prima aveva cercato di immaginare chi
fosse e che cosa volesse dal Vaticano il perfetto sconosciuto col quale stava per chattare. Aveva deciso
che non poteva fare altro che ascoltare le richieste dalla sua voce, anche se digitale. Quindi non valeva la
pena di preoccuparsi, quindi avrebbe meditato con serenità fino alle quattro del pomeriggio.
- Credo che dovresti essere più generoso nelle tue spiegazioni – aveva digitato qualche frazione di
secondo prima Narciso.
In effetti l’uomo del Vaticano era sveglio e acuto. Aveva capito subito di cosa si stava parlando e aveva
chiesto a Ettore per quale motivo mai gli servisse la data di forgiatura dell’Oracolo. Non era sicuro di
trovarla negli archivi ma c’erano buone probabilità. Ettore stava tergiversando.
- Io sto giocando a carte scoperte, sarebbe carino che lo facessi anche te – scrisse Narciso, bianco sul
nero del monitor, un secondo dopo.
- Hai ragione vinegar, non c’è altra via… Digitò le sue ragioni per due minuti abbondanti senza curarsi degli errori ortografici, sicuro che
sarebbero stati interpretati correttamente e usando tutte le abbreviazioni e i neologismi che la Rete aveva
coniato. Non nascose nulla, rilesse quanto scritto e sfiorò con l’anulare il tasto Enter.
- Una cosa ancora – aggiunse – è veramente sicura questa connessione? E’ di vitale importanza… - e
attese la risposta cercando di non farsi ipnotizzare dal cursore bianco che lampeggiava insensibile alla
sua impazienza. Data l’occasione non aveva perso tempo a personalizzare i colori della chat e aveva
mantenuto l’impostazione di default che simulava un terminale vecchia maniera, infatti il tema si
chiamava ‘nostalgia’. Dall’altra parte del monitor Narciso stava assorbendo le parole apparse. Dopo
dieci secoli riappariva una traccia della Testa Parlante. Dovevano cogliere l’occasione che aspettavano
dall’epoca dei Templari. Gli serviva tempo per organizzare per bene le cose, e naturalmente doveva
avere un avallo superiore. Ma era certo che non sarebbe mancato.
- Questa chat è assolutamente sicura, puoi esserne certo – digitò poi sulla tastiera Narciso.
A Roma era inverno ma il cielo era azzurro e il sole giallo entrava senza chiedere permesso nella stanza
di Narciso, riflettendosi sulla custodia marrone della sua chitarra creava giochi di luci e ombre con la
parete bianca. La stanza era spartana, come si conveniva a un monaco.
- Mi devi lasciare un po’ di tempo per la ricerca dell’informazione – mentì sapendo di mentire il giovane
prete – ma fin da subito posso dirti che vogliamo essere presenti al recupero dell’Oggetto. - Spedì le
parole a Ettore cliccando delicatamente su enter e dopo poco prosegui – non appena saremo pronti, e non
tarderemo tanto te lo assicuro, riceverai una mail con le istruzioni - Istruzioni? - Non riuscì a trattenersi dal digitare Ettore, dalla sua stanza a Barra da Tijuca.
- Ti prego di avere fiducia in me caro ‘oil’ - Che altro posso fare… ‘vinegar’, aspetto istruzioni allora… Chiusa la chat Ettore provo a digitare sul browser: www.vanilla.org e naturalmente trovò molte
informazioni relative al vegetale tropicale e ai suoi usi nell’industria del gelato. Non che avesse dubbi
sul fatto che in Vaticano c’erano delle persone spiritose.
L’Oracolo
L’Oracolo
Vediamo chi commette per primo un errore, stava pensando Ettore. Chissà perché non era sorpreso di
vedere Dumbo insieme a Isis, e poi c’erano quei due che dovevano essere i narcos implicati nel
sequestro. Uno aveva la faccia da topo furbo e l’altro era una matassa di muscoli con probabilmente poco
cervello. Daniel lo aveva messo in contatto con Ubirani, che a quanto pareva era l’uomo di Narciso, e
che l’aveva portato quasi senza dire una parola in uno dei covi dei narcos in favela, e poi aveva anche
dovuto portare il computer di Isis che serviva per il calcolo esoterico e colorato inventato da lei. La data
di forgiatura dell’Oracolo la conosceva ufficialmente Ubirani, ma gli era anche arrivata via mail da
Narciso. Come in ogni situazione ingarbugliata che si rispetti ognuno aveva qualcosa che serviva all’altro
e il più bravo era quello che afferrava per primo il malloppo e scappava. Non era sorpreso neppure di
ritrovarsi con Isis nella centrale telefonica clandestina dei narcos, dove si era infilato per sbaglio con lei
neanche venti giorni prima, e non era sorpreso che non ci fosse Daniel. Probabilmente per la sua entrata
in scena aveva in mente qualcosa di più adeguato.
- Magari ci muoviamo? Mica vogliamo passare qui tutta la serata vero ragazzi? Dinis, faccia da topo, sollecitava gentilmente, forse pensava di cavarsela prima della pizza. Intanto la
luna era sparita dietro una calzamaglia di nuvole, il caldo era opprimente e l’aria appiccicosa. Isis si
avviò verso il tavolo contro la parete grezza guardando Ettore come per dirgli che ai saluti avrebbero
pensato non appena possibile.
- Ho bisogno della Rete e della Data di Forgiatura. – disse rivolgendosi a Dumbo che le sorrise e le
chiese di che cos’altro avesse bisogno che ci avrebbe pensato lui, con un certo piacere avrebbe aggiunto,
ma non lo disse perché riteneva che la situazione fosse inadeguata. La voce di Isis era ferma e limpida,
segno che stava bene pensò Ettore. Isis poi si concentrò subito sul lavoro, isolandosi dalla tensione che
riempiva la stanza dei computer, ma anche perché c’era molta gente e mancava completamente l’aria
condizionata; prima finiva, prima usciva. Ubirani era un tipo come minimo bizzarro. Si erano trovati a
Sao Conrado su raccomandazione di Daniel e ai tentativi di comunicazione di Ettore aveva risposto, anzi
meta risposto, con un chiaro: non mi rompere i coglioni che con te non ho niente da spartire. Importante
era saperlo, poi uno si adeguava, e in ogni caso camminava come se avesse un dolore alla gamba sinistra
ma sembrava comunque padrone del suo corpo, nel caso in cui ne avesse avuto bisogno. Ora era alla sua
destra vicino alla porta che dava sul vicolo. La strana coppia, Dinis e Epaminonda, stava all’erta pronta
a intervenire e solo loro sapevano con quali regole erano stati ingaggiati.
Più o meno nello stesso momento, almeno dieci persone stavano convergendo verso il Jardim Botanico
con l’idea di trovarsi tutti quanti a due passi dalla Palma Mater, per vedere cosa sarebbe successo quella
notte. In tutti scorreva abbondante il sangue indio e il libero arbitrio , infatti alcuni stavano arrivando in
automobile, altri in autobus e alcuni a piedi percorrendo i sentieri della Mata Atlantica partendo dalla
favela Modesto Brocos, ma tutti sembravano sapere bene che cosa fare e come farlo. Quando arrivarono
vicino alla Palma Mater, rimasero in silenzio nascosti tra la vegetazione del Giardino.
Si ritrovarono tutti quanti, sudati e stanchi, circa un’ora dopo davanti alla Palma Mater al Jardim
Botanico, senza neppure sospettare di essere osservati da una comunità silenziosa e attenta; e sicuramente
ognuno degli osservati pensava più o meno a come fare per arraffare il malloppo e sparire dalla
circolazione, e la strana coppia aveva sempre le medesime misteriose, si fa per dire, regole d’ingaggio.
Non appena Isis aveva detto con la sua voce da bambina adulta: - So dov’è – L’atmosfera nella centrale
clandestina si era agitata. Il tempo, che fino a quel momento era rimasto in uno stato di sospensione
viscosa, in un nanosecondo cominciò a scorrere più veloce, con tutti che osservavano tutti con ansia; poi
Dinis e Epaminonda si erano precipitati verso Isis, ma erano stati fermati da Dumbo che si era messo in
mezzo. Neanche un secondo dopo Ettore era corso verso Isis, ma si era dovuto fermare davanti a Ubirani
che teneva d’occhio sia lui che la strana coppia, ma anche Dumbo. Ubirani era il più calmo mentre
Epaminonda era il più frustrato, perché avrebbe voluto spezzare le reni a tutti e poi andare a mangiare la
pizza, e invece doveva intuire che cosa voleva fare Dinis. Data la torbidità del momento e visto che
nessuno poteva farcela contro tutti, Dinis cervello-fino decise di chiedere a Isis se poteva dire loro dove
fosse l’oggetto, cosicché poi tutti quanti avrebbero potuto avviarsi simpaticamente in quella direzione.
Avevano impiegato venti minuti buoni per uscire dai vicoli della favela, poi con due automobili erano
partiti in convoglio per la Lagoa Rodrigo de Freitas. Ettore Dinis e Ubirani erano su una Ford rossa.
Dinis aveva guidato in silenzio tenendo costantemente d’occhio Ettore e Ubirani, che stavano sul sedile
posteriore e non avevano scambiato una parola naturalmente, ma ogni tanto si guardavano di traverso.
Procedevano velocemente sulla Estrada Lagoa Barra e subito dietro a loro c’era una vecchia Chevrolet
grigia con Epaminonda al volante e sui sedili posteriori Isis e Dumbo.
- Non ti serviva niente di quello che ti ha portato Ettore , vero? - Te ne sei accorto? - Sapevi già tutto quando ti hanno portata al Tempio Zangbeto. Puoi dirmelo… Epaminonda non poteva aver sentito quello che Dumbo aveva sussurrato a Isis. La sua guida era nervosa
e con i finestrini sempre aperti. Non poteva neppure aver notato gli occhi di Isis che scintillavano nel
buio mentre aveva guardato Dumbo con aria interrogativa. Dumbo le aveva sorriso e stretto una mano.
Isis si era sentita un po’ più al sicuro e aveva sussurrato: - …quindi quello era il tempio Zangbeto… Poco prima di arrivare davanti alla sede della Biblioteca, sulla Rua Jardim Botanico avevano girato a
sinistra in un vicolo anonimo fiancheggiando il muro perimetrale del Jardim. Avevano parcheggiato a due
passi da un ingresso di servizio e nessuno si era stupito di trovare la porta socchiusa e nemmeno una
guardia. Quella notte la macchina era calda, sembrava vivere di vita propria e portarli dove voleva. Tutti
quanti comunque erano molto attenti, persino agli addentellati architettonici nelle immediate prossimità. Il
blu Provenza delle porte finestre e del ballatoio in legno dell’antica residenza di Pacheco Leao, infatti, si
percepiva più che vedersi alla luce della luna che nel mentre era emersa dalla cappa delle nuvole. La
casa era rimasta alla loro sinistra non appena avevano incontrato la fontana di Teti, la madre di Achille,
sottoforma di monolito fuso in ferro, per avviarsi poi verso il busto di Joao VI e la Palma Mater. Verso
sud, appena sotto la sagoma scura del Morro Corcovado c’era l’antica residenza dei direttori della
fabbrica di polvere da sparo, dove si diceva che fossero interrati decine e decine di corpi di schiavi.
- E’qui - Qui dove? Dinis guardava Isis con decisione mentre glielo chiedeva. Isis indicò con un dito della sua manina
tropicale la base della Palma Mater. A quel punto la brezza che spirava dall’oceano aveva spazzato via
tutte le nuvole dal cielo notturno. Filtrando tra la vegetazione illuminava con decisione e noncuranza lo
strano gruppo. Dinis si avvicinò ancora di più a Isis senza che Dumbo lo perdesse d’occhio. Ubirani era
sempre serafico e Ettore non aveva idea di cosa sarebbe successo.
- Non è che ci stai prendendo per il culo eh piccoletta? Stai dicendo che dobbiamo buttare giù una
palmetta di venti metri circa e rovistare tra le sue radici per trovare quella dannata cosa? E tutto in
un’oretta massimo due? E magari senza far rumore? - Sono sicura dei miei calcoli. Sono praticamente certa che l’Oracolo è stato interrato da Don Joao VI
insieme alla Palma Mater nel 1809 - - Praticamente?! Che significa praticamente?!Dinis, abitualmente calmo si stava innervosendo. Epaminonda era contento perché finalmente la piega
degli eventi stava andando nella direzione che più gli piaceva e stava sciogliendo i muscoli. La tensione
nel gruppo stava salendo in modo preoccupante e mentre tutto questo accadeva, Ettore stava pensando che
la situazione richiedeva un diversivo, anzi due: uno per Epaminonda e uno per Ubirani.
- Allora non può essere lì. - La voce di Tania si materializzò insieme al suo corpo massiccio alle spalle
del gruppo e insieme a una decina di persone di colore che la circondavano con aria protettiva, che non
andrebbero però confusi con gli osservatori silenziosi nascosti tra la vegetazione. Gli amici di Tania
Avevano i muscoli gonfi e la pelle lucida perché si erano spalmati di olio senza badare a spese, anche
perché pagava Tania, uno spettacolo, visto alla luce della luna. Mentre Isis e Tania si fissavano in volto
senza sorpresa ma con l’aria di volersi scannare di lì a poco, Ettore pensò che quello non era il diversivo
di cui c’era bisogno.
- Perché no? - sibilò Isis.
- Già. Perché no? Dinis avanzò di qualche passo verso Tania come per incoraggiarla a rispondere, subito
imitato da quattro dei neri di Tania che avanzarono verso Dinis minacciosi, subito imitati da Epaminonda
che si portò al fianco di Dinis.
- Calma gente. Stasera siamo alleati. - Daniel si fece strada in mezzo al gruppo di Tania – prima
recuperiamo l’Oracolo e poi discutete di quel che volete. Ma come tutto torna in questo meraviglioso paese, pensò Ettore mentre si diceva convinto che ora
c’erano propri tutti.
- Perché quella è la Palma Filha – Rispose Tania rivolta a Isis.
- Che stupida – esclamò Isis – nel 1972 la palma originale fu distrutta da un fulmine e poi è stata piantata
questa. Ma non esattamente al suo posto… Come ho fatto a non pensarci prima… - Spiazzando tutti si
avviò di corsa verso la vecchia Casa della Polvere, verso il sito originale della Palma Mater. Dumbo si
precipitò dietro a Isis e Ettore dietro a loro due. Poi tutti gli altri insieme si misero a correre nella stessa
direzione. Tania e Daniel si avviarono con calma.
- Tanto è a venti metri da qui – Disse Tania a Daniel che la guardò con gratitudine. Il Morro Corcovado
osservava impassibile e lontano, illuminato dalla luna. Non appena Tania si dichiarò d’accordo con il
punto indicato da Isis, Dinis non perse tempo e prese in mano la situazione. Organizzò tre squadre di
scavatori che prima con pale recuperate nel magazzino della Biblioteca, e se fosse stato necessario anche
a mano, dandosi il cambio ogni 5 minuti dovevano scavare fino a trovare quel coso o fino alla loro morte.
Gli altri sarebbero stati a guardare e magari avrebbero sostituito i deceduti.
- Avrebbero già dovuto trovare qualcosa… - disse Isis, sempre tallonata da Dumbo e dopo che si era
avvicinata a Ettore e lo aveva abbracciato, ma non con la scioltezza e il trasporto che lui si sarebbe
aspettato dopo tanti giorni di forzata lontananza. Probabilmente era imbarazzata dalla presenza di Dumbo,
come se tra loro si fosse creata una sorta di complicità, che cosa curiosa, pensò ma non disse.
- Probabilmente si è accumulato uno strato di suolo oppure è stata riportata terra. - Disse invece Ettore. Sono certo che i tuoi calcoli sono corretti. - Aggiunse stringendola a sé con la scioltezza e il trasporto
dovuto ai diversi giorni di lontananza forzata e senza curarsi di quello che poteva pensare Dumbo, e
intanto pensava a come afferrare il malloppo e scappare. Sfortunatamente l’unico piano che gli veniva in
mente era afferrare il malloppo e scappare. Ma non poteva funzionare. Erano in troppi e poi c’era Isis e
così via. Era necessario inventarsi qualcosa lì per lì. - C’è qualcosa lì Uno degli uomini che scavavano dentro la piccola buca, che ormai si era formata, smuovendo il terriccio
aveva urtato contro qualcosa di solido facendolo rotolare tra i piedi dell’uomo che gli stava di fronte.
L’uomo che gli stava di fronte lo raccolse e senza neanche guardarlo lo porse alle prime mani che
incontrò sollevandolo che, guarda caso, erano le mani di Ettore. Che si trovò in mano un involucro che
sembrava fatto di tela cerata fragile, umida e sottile, proprio come la pelle di un vecchio e oltretutto
dentro c’era un oggetto sferico che a giudicare dal peso sembrava fatto di metallo. Cominciò a liberare
l’oggetto dalla sua esausta protezione. La brezza aveva smesso di soffiare da un paio di minuti e non si
sentiva nessun rumore, nemmeno una foglia che sbatteva contro un’altra foglia, nemmeno un pappagallo
ciangottare. Tutti i presenti stavano col fiato sospeso, si fa per dire naturalmente perché sennò sarebbero
cascati morti, in attesa di vedere che cosa mai fosse l’oggetto misterioso che li faceva stare svegli quella
notte. Il doppio strato di tela cerata inframezzato da grasso che Joao VI aveva usato come protezione nel
1809 prima di interrarlo, col tempo si era trasformato in una specie di fanghiglia rossastra che aveva
protetto l’Oracolo dall’aggressione biochimica del terreno, ma in modo piuttosto inutile, perché al
terreno probabilmente non fregava niente di aggredire biochimicamente un oggetto metafisico. In ogni
caso man mano che Ettore toglieva il rivestimento putrido con la mano, quasi accarezzando l’oggetto, la
testa parlante prendeva forma e brillantezza. Il cranio era semplicemente sferico e rifletteva la luce della
luna con bagliori cromati. I due padiglioni auricolari erano diversi: uno stilizzava la forma femminile,
chiaramente intuibile da tette e culo, e l’altro la forma maschile con un pene eretto in bella evidenza. Il
naso era bifido alla base e mentre saliva si trasformava in due ramificazioni simili a corna di capra che
formavano un tutt’uno con le sopracciglia, sotto le quali si trovavano i due occhi a forma di mandorla e
con fattezze decisamente orientali. La bocca a forma di imbuto perfettamente circolare era sottolineata da
un mento che richiamava inutilmente la sfericità dell’intero oggetto, il quale evocava una sorta di
articolata, per l’appunto, sfericità.
- Molto bello, ma serve a me. Daniel tolse di mano il Baphomet a Ettore dando così inizio, a sua insaputa, a una serie di eventi piuttosto
complessi e interrompendo la contemplazione dell’Oracolo da parte di tutti meno che lui.
Immediatamente gli uomini di Tania, con l’aggiunta di Dinis e Epaminonda circondarono Daniel, Tania e
l’Oracolo. Dall’altra parte rimasero Ettore, Dumbo che sembrava non avere dubbi sulla scelta fatta, e
Isis, mentre Ubirani era sparito. Ettore guardò Dumbo e intendendosi come se fossero stati amici
d’infanzia, anziché semplici conoscenti, si fiondò a sorpresa sul gruppo che proteggeva Daniel. La sua
idea era che magari non se lo aspettavano e forse con un’azione rapida avrebbe potuto afferrare il
malloppo e dileguarsi, mentre a proteggere Isis avrebbe pensato Dumbo. Ma gli uomini di Tania e Daniel
erano attenti come si conveniva e avevano fatto muro, e contro quel muro Ettore si era stampato. Fece in
tempo a sentire Daniel che commentava: - …tentativo coraggioso ma inutile… - mentre molte mani lo
afferravano. Fece anche in tempo a vedere Daniel e Tania che si allontanavano con il Baphomet
chiacchierando tranquillamente e poi non vide, né sentì, più nulla, almeno per un po’.
- Ruben… Che ci fai qui? - - Le spiegazioni a dopo amico mio, te la senti di correre dietro al ciccione e
alla sua amica? Purtroppo non sono arrivato in tempo per evitarti la botta in testa… - Ecco perché aveva
quel dolore. Si guardò intorno e vide Dumbo e Isis che gli sorridevano.
- Dove sono andati e quanto tempo fa? - Chiese.
- Credo di saperlo e siamo ancora in tempo – rispose Ruben.
- Allora andiamo… Non appena si erano resi conto che il tentativo di Ettore si era infranto contro la muraglia umana agli
ordini di Tania, Dumbo e Isis si erano precipitati in suo soccorso ma, data l’inferiorità numerica, stavano
cominciando a prenderle per bene. A un certo punto Dumbo, che anche se era piccolo era tosto e
agguerrito, senti calare la pressione dei neri di Tania intorno a lui e prima che riuscisse a immaginare un
perché qualsiasi, dalla vegetazione uscirono almeno una decina di uomini, le cui fattezze ricordavano a
Dumbo una inequivocabile presenza di sangue indio nelle vene, che venivano in loro soccorso. Si accertò
che Isis fosse al sicuro e si buttò nella mischia senza chiedersi chi minchia fossero quelli e per quale
misterioso motivo lo facessero. Vide Epaminonda colpire alla testa con un grosso sasso Ettore e corse
verso di lui per fargliela pagare ma fu preceduto da un nero gigantesco che prese e sberle Epaminonda
fino a fargli perdere conoscenza, per cui si concentrò sugli altri, notando a margine degli eventi come
fosse curioso il fatto che in quel momento sentiva di dover riparare il torto subito da una persona con la
quale probabilmente in futuro poteva essere in competizione. Ma avrebbe considerato con calma la
questione in un altro momento. Nel giro di un quarto d’ora, chi tra gli uomini di Tania non era per terra
dolorante e con più nessuna voglia di fare a cazzotti era corso lontano. Dinis e Ubirani si erano dileguati,
Daniel e Tania anche, ma con la Testa Parlante.
- Non so perché sei qui ma sono felice che tu ci sia. Dove pensi che siano andati? - Chiese Ettore e
Ruben mentre gli stringeva la mano all’americana, visto sempre il fatto che erano in America, anche se
del sud.
- Certamente in favela, il Tempio Zangbeto è fuori gioco credo - Tempio Zangbeto? - Si dov’ero prigioniera io… Ettore capì che gli mancava un pezzetto di storia ma si sarebbe informato in seguito, anche perché si
stavano immettendo in quell’istante sulla Rua do Jardim Botanico in automobile, Ruben al volante, al suo
fianco Ettore con la testa ancora dolorante e dietro Isis e Dumbo, in direzione favela da Rocinha.
- La favela è grande Ruben – Obiettò Ettore
- Sono certamente al Covo dei Caimani Ettore si voltò per guardare Isis e le disse – quindi esiste davvero… - Dumbo autorevolmente confermò e
lei fece spallucce sorridendo.
Il Covo dei Caimani
- Non è la strada per il Tempio -
- E’ più sicuro andare a Rocinha con quel che è successo stanotte Già si vedevano in lontananza le luci della favela brulicare nel buio di fronte ai grattacieli di Sao
Conrado. Tania non era per niente sicura che il motivo per cui andavano in favela fosse quello di cui
parlava Daniel. D’altra parte aveva preso le sue precauzioni. Non appena sistemati gli affari urgenti
relativi alla Palma Mater i suoi uomini l’avrebbero seguita per proteggerla. Era sicura che il rischio
maggiore della serata sarebbe stato quello di prendere una multa per eccesso di velocità per come stava
guidando Daniel, quindi fece finta di credere a quello che lui le aveva appena detto. Sfortunatamente i
suoi uomini erano a terra doloranti, oppure avevano già percorso una notevole distanza dal Jardim
Botanico, ma non nella direzione che lei si augurava, come poteva immaginare d’altra parte la presenza
degli uomini silenti intorno alla Palma Mater che avevano scombinato i piani un po’ di tutti?
Percorsero in silenzio il resto del tragitto in auto e sbuffarono all’unisono sudando mentre risalivano i
vicoli della favela. Ogni tanto Tania sbirciava dietro per vedere se c’era traccia dei suoi e cominciava a
sentire una vaga inquietudine, anche se non sapeva il perché. Anche Daniel era nervoso. Il Baphomet gli
pesava in mano come se fosse stato fatto di plutonio arricchito e non di una lega metallica sconosciuta e
luccicante. Doveva risolvere la questione ‘Tania’ prima di affrontare la questione ‘Cielo Alto’, e per
questo aveva già una mezza idea, ma doveva arrivare al covo. Non aveva, invece, la minima idea di
quale valore potesse avere il Baphomet, al di là naturalmente del valore del reperto archeologico in sé,
posto che fosse stato autentico. Era però più interessato al suo valore venale, posto che fosse stato
autentico. Se entità come il Vaticano, per mano dell’Opus Dei, oppure il Ministro do Interior erano
interessati a possederlo, lui ci doveva pure guadagnare qualcosa e stavolta pensava proprio che avrebbe
giocato al rialzo. Il piano per liberarsi di Tania era semplice. Appena arrivato al covo aveva deposto con
cura il Baphomet al centro del tavolo di legno dopo aver acceso la luce al neon. Tutta l’inquietudine di
Tania si era dileguata di fronte al luccichio della testa parlante. Si tolse un lembo del sudario che
avvolgeva il suo sempre enorme corpo per pulire e lucidare amorevolmente l’Oracolo. Non si era
accorta che Daniel era andato in un’altra stanza, e tutta persa nell’adorazione dell’oggetto che le avrebbe
dato potere eterno, non pensava più ai suoi uomini che avrebbero già dovuto esser lì per proteggerla, e
non si era neppure accorta che Daniel era tornato dall’altra stanza e si stava avvicinando da dietro. E
comunque non si accorse più di nulla. Daniel sollevò in alto a braccia unite, con non poca fatica va detto,
una grossa pietra di granito scuro e poi, avvicinandosi quel tanto che bastava, la calò con la forza di un
maglio esoterico, o almeno con una certa forza, sul cranio di Tania. E c’era da dire che l’effetto che
notava era esattamente quello che si era aspettato di vedere. Vale a dire che il sangue e la materia
cerebrale di Tania stavano formando una polla vischiosa intorno all’Oracolo e sul tavolo di legno, ma
pensò anche che tutto sommato lui non era un uomo d’azione e che i lavori manuali era meglio farli fare
agli altri, certo quando serve uno poi si deve adeguare, anche se adesso era sfinito. E in ogni caso,
mostrando una certa prudenza, aveva scelto per la terminazione di Tania la stanza che di solito usavano
per il taglio della pasta di coca, che non era troppo distante dal recinto dei caimani. Contava astutamente
sul loro appetito per far sparire il cadavere, a quello che rimaneva del cervello sul tavolo avrebbe
pensato poi. Spedì l’sms convenuto a Cielo Alto Capelli: - Il lavoro è fatto, possiamo vederci domani,
solita ora solito posto… - e si mise al lavoro. Stava trascinando il cadavere verso il recinto, imprecando
contro le cattive abitudini alimentari di Tania che l’avevano resa così pesante, quando senti il segnale di
sms arrivato, provenire dal suo cellulare, che aveva lasciato appoggiato sul tavolo proprio a fianco
dell’Oracolo e del cervello spappolato, per non rischiare di farlo cadere a causa della inusuale azione
fisica intrapresa.
- Curioso – pensò – chi mi manda messaggi a quest’ora? - Lo ignorò, anche perché il protocollo di
comunicazione col Ministro do Interior non prevedeva risposte e in ogni caso chiunque fosse stato
avrebbe aspettato. Si rimise a trascinare il cadavere sbuffando anche perché doveva ancora risolvere il
problema di come buttarlo dentro al recinto. Avrebbe dovuto organizzare meglio quell’attività, ora gli
toccava fare certamente non poca fatica, e poi dove minchia era finito il Fornaio? Avrebbe già dovuto
essere presente per aiutarlo, stava sudando abbondantemente e questo era estremamente spiacevole.
- Non guardi il messaggio? Daniel era piuttosto vicino al recinto e i caimani cominciavano a essere irrequieti perché avevano fiutato
l’odore del sangue e aprivano e chiudevano le mandibole con rumori secchi e poco piacevoli, e poi
agitavano le grandi code nervosamente, e questo lo faceva sudare ancora di più.
- Dove ti eri cacciato? Dammi una mano… Disse Daniel, ma visto che nessuno rispondeva, si asciugò con stizza il sudore dagli occhi col dorso della
mano e guardò nella direzione della voce. Invece che il Fornaio vide tre, piuttosto grossi, agenti della
Policia Civil. Uno di loro, mentre gli metteva il cellulare davanti agli occhi, disse: - Il tuo uomo non può
più aiutarti… - Era come se una vocina gli avesse suggerito che avrebbe fatto meglio a leggere il
messaggio, e infatti mollò il cadavere e prese il telefono. Il messaggio diceva: - perché aspettare… dai il
malloppo ai miei uomini e magari ci vediamo domani, solita ora, solito posto. Non ci voleva un oracolo per capire che se avesse dato la Testa Parlante a Cielo Alto avrebbe perso tutto
il potere contrattuale, mentre i caimani sembravano impazziti per la fame e i tre poliziotti lo guardavano
con un certo cinismo, e quel ‘magari’ del messaggio gli suonava sospetto. Più che con la ragione fu con il
testosterone che prese una decisione.
- D’accordo… lo vado a prendere I poliziotti sembravano abbastanza inconsapevoli, tanto per non dire rincoglioniti. Avevano preso il
telefonino e lasciato sul tavolo l’Oracolo in mezzo alla polla di sangue con i grumi bianchicci di materia
cerebrale, si stavano proprio comportando come un politico che legge in modo acritico un comunicato
stampa, senza pensare a quello che dice ma solo a come lo dice. Che Daniel fosse incazzato era palese
anche per i caimani, ma non è dato sapere se fece apposta a gettare la Testa Parlante dentro al recinto o
se invece fu dovuto al fatto che inciampò nel cadavere di Tania e per non cadere lo buttò di là. I caimani
non si accorsero della nuova mistica presenza nel loro recinto, probabilmente perché il sangue di Tania
era sicuramente più saporito. Quello che era certo invece, fu che Daniel disse con un tono ancora
inconsapevole del suo prossimo triste futuro – Eccolo, tutto vostro.. - Negli istanti di vita che gli
rimasero, Daniel non seppe spiegarsi come mai le cose fossero andate in quella direzione… soprattutto
era stupito del fatto che lui non lo aveva proprio previsto. Cominciò a rendersene conto quando uno di
loro gli disse:
- Mossa sbagliata ciccione… Probabilmente era convinto che al massimo i poliziotti avrebbero fatto fuori i caimani e poi sarebbero
andati a prendere l’Oracolo, bestemmiando perché dovevano sporcarsi le scarpe e guardandolo di
traverso, poi magari lui avrebbe chiamato Cielo Alto e sistemato tutto. Ma i tre avevano ricevuto altre
regole d’ingaggio. Il recinto era alto poco meno di una persona di media altezza, costrinsero Daniel a
sollevare di peso quel che rimaneva di Tania e a gettarla dentro. Mentre lui cercava di capire, tra le altre
cose, come mai era stato capace di tanta forza, i caimani cominciarono a contendersi il cadavere con una
certa foga. E sul pavimento cominciava a espandersi una poltiglia rossastra con screziature filamentose
giallicce e bianche, quasi certamente il grasso di Tania.
- Ora vallo a prendere… - Dissero mostrando di possedere una creatività sadica di tutto rispetto nel
dargli una possibilità, piuttosto remota a dire il vero, di cavarsela al massimo perdendo un piede o un
polpaccio, nel caso in cui i caimani avessero finito Tania prima che lui fosse uscito. Come spesso accade
in quelle situazioni antipatiche, Daniel aveva perso molta della sua abituale lucidità, e quindi non si rese
conto del fatto che l’avrebbero accoppato in ogni caso, anche se fosse uscito senza un polpaccio dal
recinto e porgendo gentilmente l’Oracolo.
- Ma quelli hanno ancora fame – Fu tutto quello che riuscì a dire.
- Prova a essere veloce… - gli disse ghignando il poliziotto del telefonino. E per convincerlo gli
appoggiò la canna della pistola d’ordinanza alla tempia, caricando il cane con uno schiocco metallico
che Daniel trovò estremamente convincente. A riprova del fatto che tante volte è meglio agire piuttosto
che riflettere, durante il tempo che Daniel aveva usato per pensare al da farsi i caimani avevano finito
Tania, e sembravano soddisfatti come si può essere soddisfatti di un antipasto dopo una settimana di
digiuno, per cui continuavano a girare e agitarsi in attesa del piatto di portata. Daniel sentì una
contrazione alla bocca dello stomaco proprio nel momento in cui si rese conto che poteva diventare una
pietanza e cercò con una certa urgenza una via d’uscita, ma riusciva a ragionare solo per gli istanti
immediatamente successivi e sentiva il fiato del tempo sul collo, proprio come quando arriva l’ora
legale. Doveva guadagnare tempo, ecco cosa doveva fare… I caimani lo guardavano agitando le
mandibole, ma forse un modo c’era, almeno così pensò. La stanza a fianco era la dispensa delle
simpatiche bestiole e con un po’ di fortuna avrebbe trovato qualcosa per loro. C’erano due contenitori di
carcasse di pollo fresche, probabilmente le aveva portate il Fornaio come penultima azione della sua
vita, le prese e le accatastò verso l’angolo del recinto il più lontano possibile da dove era finita la Testa
Parlante e cominciò a buttarle dentro. Ovviamente i caimani si azzuffarono contendendosi il pasto mentre
i poliziotti osservavano divertiti. Daniel si fiondò, con l’agilità che la prossimità del rischio concreto di
morte sembra donare a chiunque, dall’altra parte del recinto e con un balzo lo scavalcò. I caimani
continuavano a mangiare polli crudi a tre metri circa di distanza. Cercando di correre in mezzo alla
melma sanguigna tutto quello che riusciva a ottenere era di scivolare e correre a vuoto, come su un tapis
roulant, cadde e rotolò, si rialzò e rotolo di nuovo e alla fine riuscì a prendere con una mano l’Oracolo. I
caimani stavano finendo i polli, era urgentemente ora di tornare al recinto e forse era già tardi. Si buttò
con tutta la forza della sua disperata volontà di vivere verso il recinto, ma scivolò sul pantano puzzolente
e fini per incastrarsi tra le sbarre. Nella mano sinistra aveva il Baphomet e l’avambraccio era teso in
fuori verso i militari, con la destra aveva afferrato una sbarra urlando:
- Sparate maledizione… ammazzateli! In quel preciso istante, quando si dice il caso, qualcuno all’esterno tagliò i cavi della corrente facendo
precipitare il covo nel buio più completo. L’ultima sensazione vera e propria che Daniel avvertì, fu la
mandibola di uno dei due caimani che gli tranciava il braccio sinistro, quello del Baphomet, il resto si
stemperò in una insensibile perdita di conoscenza, non provò dolore neppure quando l’altro caimano gli
addentò l’inguine strappandogli le viscere, indumenti inclusi.
Si fermarono, come per un momento di riflessione, all’entrata della Favela: Ettore, Ruben, Dumbo, Isis e
altri tre indios. Senza scambiarsi una parola Ruben e gli altri Indios cominciarono a risalirne, con una
certa agilità, i vicoli. Ettore e gli altri li seguirono senza fiatare, ma con minor agilità. Dopo circa dieci
minuti, quando ormai erano vicini al covo, Ruben e gli altri tre indios si fermarono improvvisamente e
guardarono tutti e quattro verso la rientranza di una baracca così buia che sembrava un buco nero. Ruben
avanzò di un paio di passi e tirò fuori il cadavere del Fornaio con la gola squarciata.
- E’ ancora caldo, non sono lontani – Disse Ruben a beneficio, almeno così sembrava, di Ettore, Dumbo e
Isis. Gli Indios ripresero a camminare un po’ più lentamente, dopo aver rimesso il cadavere al suo posto.
- Hai notato che sembrano essere telepati? E come hanno fatto a vedere il cadavere in quel posto così
buio? - Mi sembra di ricordare qualcosa, anche se non so che cosa. - rispose Dumbo a Ettore - non appena mi
viene in mente te lo dico. Ora è meglio che stiamo zitti, siamo vicini al covo. Ruben chiese conferma a
Dumbo quando si trovò a pochi metri dalla porta di ingresso del covo. Si avvicino a Ettore e agli altri e
disse:
- Lasciate fare a noi… vi spiegheremo dopo. - Quante cose dovrai spiegare dopo… - sorrise Ettore. Ruben ricambiò il sorriso e disse: - Faremo
presto. - Ma naturalmente erano le ultime parole famose. Sempre senza scambiarsi una parola Ruben e gli
Indios cominciarono. Uno andò verso il fianco della casa a cercare la scatola di derivazione della
corrente oppure il cavo che arpionava la corrente e la portava nell’edificio. Gli altri svanirono silenziosi
sul retro per vedere se la porta posteriore era ancora aperta, visto che ogni casa ha una porta posteriore,
oppure alla ricerca di un qualsiasi pertugio per entrare. Dopo aver tranciato il cavo che portava la
corrente al covo, Macario entrò dalla porta posteriore come tutti gli altri. Ruben, Luz e Lucillo erano già
in posizione e stavano scandagliando la stanza della coca e la stanza del recinto. Macario percepì nitida
la comunicazione di Lucillo, che era andato subito verso la stanza del recinto, rivolta a tutti: - Tre umani
in lento movimento, stanno tentando di uscire dalla stanza. Dentro al recinto i caimani stanno finendo la
festa. - Raggiunse in silenzio i suoi amici all’entrata della stanza del recinto evitando agilmente tutti gli
ostacoli sparsi sul percorso, poi concentrò l’emissione degli ultrasuoni verso l’interno della stanza. Il
quadro che le onde di ritorno costruivano nella sua mente era impressionante anche per un post-umanopipistrello. I due caimani stavano finendo di devastare la carcassa di Daniel agitandosi nella poltiglia
sanguinolenta come maiali nel fango. I tre poliziotti stavano schiena contro schiena e si stavano
muovendo con una certa lentezza, che si sarebbe potuta definire esasperante, in cerchio e con i coltelli in
mano.
- Sembrano bene addestrati - disse Ruben sempre usando gli ultrasuoni in modo tale che nessun umano
avrebbe potuto sentirlo. - Si, rispose Macario, e aggiunse: - hanno mantenuto la calma, stanno uniti e
avanzano con prudenza verso la salvezza… quello che va fatto in questi casi. - Un peccato eliminarli… ma dobbiamo farlo sennò poi ci troviamo qui tutta la Policia di Rio. - Disse
Ruben.
- Non abbiamo altra scelta – convennero Luz e Lucillo.
- Ruben, tu vai alla porta, non si sa mai. Noi ne prendiamo uno per uno.. se qualcuno scappa ci pensi te - Ok I quattro indios che erano tutti neri e vestiti di nero e indossavano mocassini in pelle di capibara ma
rivestiti con una pelliccetta di topo opossum, si misero ai loro posti silenziosi come la morte che
incombe.
- Qui c’è qualcosa… – rantolò uno dei tre poliziotti, urtando con la lama del coltello contro lo stipite
della porta che comunicava con la stanza della pasta di coca. - … si è la porta… calma e andiamo avanti.
Se non ricordo male dobbiamo trovare un’altra porta e poi siamo vicini all’uscita… - Si ma chi ha tolto la corrente, probabilmente non la pensa come te… - Commentò il poliziotto che in
quel momento si trovava di fronte a Macario, naturalmente a sua insaputa.
- Può essere un black out accidentale maledizione, siamo in una favela dopotutto… – stava dicendo il
poliziotto di prima, ma non riuscì a finire la frase. Tutto quello che si sentì, prima del tonfo sordo del
corpo che cascava e poco dopo che la frase gli era morta in gola, fu una specie di sibilo, lo stesso rumore
che fa, tanto per fare un esempio, un coltello di acciaio lanciato verso la gola di un umano.
- Black out un paio di palle… maledizione c’è qualcuno qui… - I poliziotti superstiti cominciavano a
dubitare seriamente di finire vivi la serata.
- Calmati e stiamo vicini… è l’unico modo per uscirne… - In ogni momento critico c’è sempre qualcuno
che mantiene la calma, o almeno cerca di farlo. Ma ignobilmente il Fato, nel quale probabilmente il
poliziotto non credeva, lo scelse e stramazzò al suolo prima di finire la frase ma dopo il consueto sibilo.
Il terzo poliziotto più che perdere la calma perse la ragione, o almeno cominciò a farlo, ma non riuscì a
portare a compimento il processo perché la sua vita terminò prima. Infatti cominciò a dimenarsi e a tirare
coltellate nell’aria a casaccio urlando frasi sconnesse. Lucillo pensò che poteva essere una buona idea
cambiare strategia per l’eliminazione dell’umano, visto che non stava fermo un secondo e lui rischiava di
sbagliare la mira lanciando il coltello come avevano fatto i suoi amici. Per cui si allineò ai movimenti
apparentemente disordinati del poliziotto, perché sapeva che uno non si muove mai veramente a casaccio,
ma spesso a sua insaputa, tende a generare un ritmo, una ripetizione di sequenze che è possibile violare,
come una password azzeccata viola un server. Non appena ebbe la certezza di aver indovinato la
sequenza, lanciò l’attacco che pose fine all’armonia dei movimenti e alla vita dell’umano poliziotto.
Agganciando con leggerezza una sua gamba lo fece cascare rumorosamente sul pavimento. E nello stesso
preciso istante in cui il poliziotto toccava il suolo il coltello di Lucillo tranciava di netto la sua carotide,
per cui dalle inevitabili scanalature dell’acciaio uscivano insieme il sangue e la vita dell’ultimo umano
semplice presente nel covo dei caimani. Nello stesso istante Ruben capì che non ci sarebbe stato bisogno
del suo intervento. A un certo punto della nottata, che comunque non era durata quei dieci minuti, Ettore,
Dumbo e Isis videro aprirsi la porta principale del covo dei caimani e uscire Ruben e gli altri indios. E
visto che Ruben fu il primo a rendersi conto che di lì a pochi minuti sarebbe stato giorno, non ci fu
bisogno di arpionare energia elettrica da qualche parte per far vedere la macelleria sociale agli altri.
- Non sentite i pappagalli che ricominciano a parlare? - disse - Tra un po’ arriva il giorno. Riposiamoci,
è stata una notte faticosa…. - Dieci minuti dopo era praticamente giorno fatto e tutti insieme entrarono nel
covo dei caimani per fare le loro considerazioni. Ma siccome nessuno voleva essere il primo a
commentare la scena di morte e devastazione, alla fine decisero di assorbirla ognuno a modo suo. In ogni
caso c’era sangue dappertutto, nella stanza della pasta della coca il tavolo di legno aveva assorbito gran
parte del sangue e rimanevano in bella evidenza solo i brandelli di materia cerebrale. I tre poliziotti,
ognuno con un coltello nella gola erano a poca distanza l’uno dall’altro, un gruppo compatto anche oltre
la morte. Mentre Ettore e Isis andavano nella stanza del recinto, i tre indios recuperavano le armi
pulendole sui vestiti dei cadaveri; li avevano lasciati conficcati in gola per far defluire completamente il
sangue, evidente segno di meticolosità. Dentro al recinto i due caimani si muovevano ormai piuttosto
pigramente e sembravano prossimi alla sazietà. Una scarpa con ancora dentro quello che sembrava un
piede grassoccio, si sarebbe detto di di Daniel, e un resto del sudario non più bianco che usava Tania per
fasciarsi il corpo, emergevano dalla fanghiglia rossastra mentre il resto era indistinto. L’odore della
morte stazionava pigro, come l’anticiclone delle Azzorre fa sul mediterraneo d’estate, sulle pance dei
caimani che sembravano scoppiare, oppresse dall’alta pressione. Fu Isis la prima a vedere la mano di
Daniel ancora stretta al Baphomet. Era attaccata all’avambraccio che però era mozzato sotto al gomito e
sporgeva dalle sbarre del recinto nell’angolo destro, era molto pallida ma era la mano sinistra di Daniel.
Come se in un anelito di volontà post-mortem Daniel avesse voluto proteggere oltre la vita il suo tesoro,
il che naturalmente non è possibile, ma quando ci sono di mezzo cose metafisiche allora si possono avere
dei dubbi che l’impossibile diventi possibile. Toccò a Ettore il lavoro di togliere l’Oracolo dalla ormai
ex mano di Daniel. Notò distrattamente che i caimani non si agitavano più, probabilmente avrebbero
dormito per un paio di giorni, inconsapevoli delle riflessioni degli umani.
Ultimo capitolo
Casa di Isis
- Di Ubirani si sa qualcosa Ruben? Ettore stava portando sul tavolo del giardino di Isis un paio di bottiglie di birra ghiacciata perché
nessuno aveva avuto l’idea di portare prosecco. Dumbo stava aiutando Isis a rosolare il filetto e Rafaela
stava discutendo di musica con Serafino il latinista.
- Quasi dimenticavo – disse Ruben allungando la mano col bicchiere per farselo riempire di birra da
qualcuno – si è accorto di essere un bat-man, proprio come noi, la notte della Palma Mater – Bevve un
sorso di birra con gusto e osservò la faccia stupita di Ettore, che sapeva degli uomini-pipistrelo da
almeno una settimana ma di Ubirani nessuno gli aveva detto niente, e per quello aveva fatto la domanda.
- Siamo stati zitti, ma proprio zitti, a osservare quello che stavate combinando, senza emettere suoni nè
ultrasuoni per un bel po’. Poi quando l’atmosfera si è scaldata abbiamo iniziato a comunicare,
naturalmente con ultrasuoni per non rivelare la nostra presenza agli umani cattivi. Comunque rise pensando all’aggettivo che aveva appena usato. Ruben aveva una faccia simpatica, ma
sapeva fare anche pause a effetto, e poi disse sorridendo.
- Avendo la nostra stessa struttura fonica e uditiva, Ubirani ha avvertito subito la nostra presenza, per
quello a un certo punto è sparito dalla circolazione, è venuto a vedere chi diavolo mai fossimo. - Ettore mi porti un po’ di rosmarino? Non posso abbandonare a se stesso l’arrosto… - Disse Isis.
Approfittando della pausa nel racconto di Ruben Ettore stava per alzarsi ma Dumbo si offrì di farlo al
posto suo. Da quando era stata al tempio Zangbeto, tra Isis e Dumbo si era creata una affettuosa
complicità e proprio per questo Ettore si era più volte chiesto fino a dove erano arrivati, pensando che
fosse lecito almeno chiederselo. Ma poi aveva accantonato il pensiero come una minchiata, e forse non
gliene fregava proprio niente del: fino a dove erano arrivati. Isis con lui non era cambiata, e la sua
tenerezza nei confronti di lei non era diversa da prima. Che ben venisse questo nuovo affetto che
arricchiva Isis, e quindi anche lui, in qualunque maniera si manifestasse.
- Non aveva mai detto con nessuno che riusciva a sentire i pipistrelli e che vedeva nel buio, aveva paura
di passare per pazzo. - Continuò Ruben – e in effetti ci ha poi raccontato che, sotto sotto, anche lui
pensava di essere un po’ svalvolato; ma visto che la cosa gli tornava utile per il suo lavoro aveva deciso
di non farci caso più di tanto. Immagina che razza di botta per lui scoprire di non essere un diverso ma di
appartenere a un gruppo, anche se inconsueto. - Inconsueto è un aggettivo un po’ blando per descrivere la vostra particolarità. - Intervenne Serafino che
nel mentre si era unito all’aperitivo insieme a Rafaela, avendo terminato gli argomenti musicali. Dumbo e
Isis erano sempre indaffarati al barbecue.
- Probabilmente hai ragione – disse Ruben – sorridendo dopo aver bevuto un sorso di birra.
- Voglio raccontarti una leggenda che circola tra noi Indios. - Continuò – Si dice che una tribù che viveva
in un remoto angolo del Mato Grosso fosse arrivata tardi alla scoperta del fuoco. Il filetto era pronto ma Isis e Dumbo lo misero in caldo tra due vassoi e si unirono all’aperitivo per
ascoltare il racconto di Ruben. La notte aveva preso il posto del giorno con la consueta rapidità e le luci
erano state accese.
- Tante volte una grossa sfiga si trasforma in opportunità o viceversa – proseguì Ruben - il fatto è che non
avendo avuto a disposizione uno strumento così performante come il fuoco, i nostri parenti di allora
hanno dovuto arrangiarsi, come tutti del resto, a parte i politici in ogni epoca e a qualsiasi latitudine. Tutti gli diedero ragione con convinzione, probabilmente per i politici più che per il resto.
- Arrangiarsi allora significava tirare le cuoia il più delle volte, e in tanti lo hanno fatto, perché nel giro
di venti-trenta giorni il morso del vampiro infetto fa quest’effetto. A un certo punto però, qualcuno stufo
di crepare si è inventato una mutazione che gli faceva capire il linguaggio dei pipistrelloni e così poteva
fotterli alla grande. Poi è arrivato il fuoco e tutto il resto, ma la mutazione è rimasta, più o meno invariata
come la si può vedere oggi.
- Affascinante – ritenne di dover dire Ettore anche se non capiva ancora come mai la sera della Palma
Mater si erano fiondati, assai opportunamente, in loro soccorso. Ma era certo che nel corso della serata
sarebbe uscito qualcosa, e se non fosse uscito quella sera sarebbe uscito prima o poi.
- Io comincerei a mangiare… che ne dite? - ritenne anche di dover dire Ettore a quel punto della serata.
Durante la cena chiacchierarono circa la piega presa dagli avvenimenti dopo la notte della Palma Mater.
Di come Ubirani si stesse felicemente integrando nella comunità Indio alla quale sentiva di appartenere, e
di come non avesse nessuna nostalgia della casa dell’Opus Dei, nella quale non aveva fatto più ritorno.
Di come la sparizione di Tania dalla Biblioteca del Jardim Botanico avesse suscitato neanche più di
tanto rumore, più o meno come la sparizione di Daniel. Chi li conosceva li riteneva probabilmente
invischiati in affari che potevano portare anche in direzioni imprevedibili, oppure prevedibili a seconda
di chi lo pensava. Serafino aveva rilevato la gestione del Cafe Miranda senza cambiarne il nome, forse
per un residuo omaggio al personaggio che in ogni caso aveva contribuito a cambiare la sua vita.
Terceiro Comando in pratica non esisteva più, tutti i suoi componenti erano stati assorbiti altrove o erano
stati terminati. Solo di Dinis non si era più saputo nulla. Evidentemente il suo sesto senso aveva
funzionato bene anche in quella circostanza. Cielo Alto Capelli continuava, indisturbato, nelle sue
sordide attività ma non frequentava più il Cafè Miranda. Dopo il caffè e la caipirinha Serafino disse:
- Mentre mangiavo l’ultima fetta di arrosto ho capito che c’era qualcosa che non avevo capito… Ruben:
come mai siete così interessati all’Oracolo? - Il Baphomet era al centro del tavolo su un vassoio di
metallo luccicante.
- In effetti, amico mio non ho ancora detto tutto quello che so sul Baphomet. - Si voltarono tutti verso
Ruben in attesa del resto e forse per uno strano gioco di luci l’Oracolo sembrava sorridere, almeno così
era parso a Ettore, e in ogni caso luccicava parecchio.
- Cinquecento anni fa, quando il Baphomet arrivò dall’Occidente insieme al Bacharel, una compatta
comunità di Indios mutanti lo incontrò. - Chi incontrò, il Baphomet o Bacharel? - Chiese Dumbo.
- Entrambi. Mestre Cosme era il Maestro dei Templari e aveva con sè il Baphomet. Mestre Cosme e gli
Indios fecero un patto. Lui li avrebbe protetti e fatti diventare potenti e loro avrebbero dovuto proteggere
il Baphomet per cinquecento anni circa. - Circa? Che vuol dire circa? - Serafino aveva espresso la curiosità di tutti. Ruben fece la consueta pausa
a effetto che un racconto come questo richiedeva, giusto per poter vedere una certa curiosità sul volto di
tutti, e poi continuò.
- Ah… fino a quando non sarebbe arrivato il nuovo Maestro dei Templari. Dopo di che il loro compito si
sarebbe esaurito. - E il nuovo Maestro dei templari dove sta, visto che i cinquecento sembrano passati? - Chiese Isis
genuinamente incuriosita.
- Devo parlarvi di una profezia, a questo punto. - Rispose Ruben. Visto che a questo punto e anche senza
volerlo fare e oltretutto apparentemente dotata di vita propria una certa ‘suspance’ esoterica sembra
dover essere presente, anche in una storia come questa, Ruben continuò il racconto assecondando la piega
che lo spazio-tempo sembrava voler prendere.
- Il Bacharel, che visse a lungo, ebbe molte mogli e vedeva lontano disse poco prima di morire: non
passeranno più di cinquecento anni e arriverà un uomo come me, che saprà interrogare l’Oracolo, e gli
farà dire che il Tempo è buono per ricominciare. Quelle Furono le sue ultime parole. - Forse perché
Ruben fece un’altra pausa a effetto, visto che funzionava bene, un po’ più lunga del solito o forse per
qualche altra ragione Ettore improvvisamente si sentì osservato. Se ne rese conto anche perché guardando
gli altri si accorse che tutti lo guardavano. Il Baphomet sembrava risplendere di impazienza, Ettore lo
guardò, guardò di nuovo i suoi amici e un sorriso incredulo apparve sul suo viso, e d’altra parte non
poteva essere diversamente in circostanze simili.
- Eh?! Che succede amici? Rafaela e Serafino si accomodarono meglio, sorridendo, sulle poltroncine come per godersi la scena
madre di un film improbabile, Dumbo e Isis andarono a prendere altre bottiglie di birra fresca, Ruben gli
sorrideva e lui continuava a guardare tutti quanti uno alla volta. Il Baphomet luccicava più che mai.
- Senti Ettore, fai una prova – suggerì Isis col suo pragmatismo e con le bottiglie di birra in mano –
quando vedi che risponde come gli pare sei a posto, no? - Tutti gli altri ne convennero.
- Si, ma chi va adesso a caccia di capibara o di gatti o di cani per poi prenderne uno e usare il suo
sangue… – obiettò Ettore senza esserne molto convinto.
- Andiamo… – disse Ruben - quelle robe vanno bene per sottolineare la solennità del momento.
Qualsiasi liquido viscoso può andare bene: inchiostro denso, conserva di pomodoro e così via… - Oh… come vi pare – acconsenti Ettore – tanto alla fine ci faremo due risate. Isis hai della conserva in
casa? Prese l’Oracolo e suo malgrado dovette ammettere che lo sentiva vivo e pulsante. Lo guardò affascinato
mentre Isis prendeva in cucina la passata di pomodoro. Fece spazio sul tavolo davanti a sè dove
appoggiò un foglio bianco che gli aveva portato Isis insieme al vasetto col pomodoro. Versò un po’ di
liquido rosso in una ciotola per saggiarne la viscosità, aggiunse un poco di acqua e agitò per mezzo
minuto il tutto. Poi, sempre suo malgrado, alzò solennemente il braccio sinistro che reggeva l’Oracolo e
con la mano destra lentamente versò la conserva nella bocca a imbuto del Baphomet. Lo senti ronzare
sommessamente mentre il liquido rosso entrava dentro di lui; lui Oracolo naturalmente non lui Ettore,
come se un meccanismo discreto si fosse messo in moto. Senza sapere perché interruppe l’afflusso del
liquido nel momento preciso in cui doveva farlo, nè un secondo prima nè un secondo dopo. Gli altri che
lo osservavano gli avrebbero detto poi che aveva, in quei momenti, la faccia di uno che sapeva quel che
faceva. Il sistema di rulli e tamburi che funzionava perché la gravità faceva il suo lavoro e tirava verso il
basso il liquido, cessò di funzionare quando tutto il liquido si fu depositato nell’urna sottostante, il ronzio
finì e Ettore seppe che doveva ripristinare la posizione verticale della testa e appoggiarla sul foglio
bianco. In seguito gli chiesero anche come mai conosceva in modo intuitivo la corretta liturgia, ma lui non
seppe rispondere, naturalmente. Nell’urna alla base della Testa Parlante si aprì un minuscolo foro dal
quale il liquido cercò la via più breve per il foglio di carta. La via più breve cambiava di volta in volta
in virtù di microvalvole sparse lungo la complicata rete di percorsi che portavano il liquido dall’urna
verso il basso. Se la viscosità era troppo elevata si correva il rischio di non avere nessun risultato, se
invece era poca l’esagramma poteva essere non nitido o confuso, le infinitesime variazioni dal troppo al
poco influivano sull’apertura delle valvole. Ogni Maestro del Tempio sapeva intuitivamente come
calibrare la viscosità. Ettore aveva fatto un passo indietro incredulo di sè stesso, dopo aver depositato il
Baphomet sul foglio, proprio come Frankenstein Junior appena letto il libro di nonno Viktor. Nessuno
fiatava e tutti guardavano prima Ettore poi l’Oracolo, mentre Ettore sembrava ascoltare lo scorrere del
tempo. Dopo un minuto esatto, nè più nè meno Ettore disse: - Ora – E tolse l’Oracolo dal foglio
appoggiandolo delicatamente sul vassoio metallico.
- E adesso? - Disse Ettore osservando la linea rossa sul foglio bianco.
- Devi farlo altre cinque volte, se non ricordo male – Disse Serafino…
- Ah già è vero sapete… l’emozione. E poi va calcolato il numero e poi va interpretato. Ma il manuale?
Vabbè, una cosa alla volta. Speriamo che basti la conserva… - Alla fine Ettore si era fatto prendere la
mano dal gioco. Rifece il procedimento per le altre cinque volte canoniche e alla fine sul foglio bianco ci
furono le sei linee: le prima spezzata la seconda intera, altre tre spezzate e l’ultima intera.
- Allora, da destra a sinistra giusto Serafino? - Si – Rispose Serafino lisciandosi i capelli rossi.
- Dunque vediamo… spezzata sempre zero… intera vale a seconda della posizione… facile: il numero è
diciassette. - Beh… non è un brutto numero – Commentò Isis – mi ricorda qualcosa… - Dumbo non fece in tempo a
pensare nulla che lei sparì in camera sua. A me fa venire in mente la sfiga e il numero tredici – commentò
Serafino da buon napoletano d’esportazione.
- Ah si… io avrei preferito qualcosa come tre per esempio… - Aggiunse Ettore - Si dice che sia il
numero perfetto… il triangolo, la divinità e robe così. Il diciassette, a parte giocarlo al Lotto non riesco a
immaginare che significato possa avere - Il diciassette è il numero dei Templari – Isis apparve in giardino con un libro in mano – Ora leggo:
- Il diciassette è considerato il numero del Tempio e dei Cavalieri Templari. Scindendo il numero 17 in 1
e 7 (17=1+7) avremo per il numero 1 il significato di Essere Unico o Cosa Unica che viene posta in
relazione con la Potenza Suprema, il Polo Radiante e il Centro mistico. Il 7 invece, è il numero della
Conoscenza e della Sapienza: simboleggia quindi la profonda saggezza e la ricerca della verità ma anche
introspezione e meditazione. Dopo un secondo Ettore le chiese: - Si, ma che libro è quello? - Dumbo,
Serafino, Rafaela e Ruben che stavano guardando Ettore si girarono verso Isis, più o meno tutti insieme.
- Miti e Misteri, il libro delle Leggende, dei misteri, del paranormale – Rispose Isis con una certa
serietà.
- Ecco… – disse Ettore.
- E’ un vero piacere stare a sentire le vostre meravigliose argomentazioni sui numeri – Intervenne a quel
punto Ruben – ma mi sono dimenticato di dirvi che il Bacharel in persona ha lasciato precise indicazioni
circa il numero che il suo ultimo successore avrebbe dovuto generare. - Che significa ha lasciato indicazioni… e perché non lo hai detto prima – sbottarono praticamente
insieme Ettore Isis e Serafino.
- Eh… non è proprio facile dirvi tutto in una volta… comunque: Mestre Cosme Fernandez ha scritto di
suo pugno su una pergamena, che è arrivata fino a noi, l’esagramma del successore. Fedeli al patto che
abbiamo stretto con lui cinquecento anni fa l’abbiamo conservata, senza mai guardarla… – disse questo
per prevenire le inevitabili domande che stavano certamente per fargli Ettore e tutti gli altri – e la
vedremo insieme stasera per la prima volta. - Ruben… tu non finirai mai di stupirci – disse Ettore – dov’è questa pergamena? Ruben rispose guardando Rafaela che sorrise e porse a Ettore un involucro che aveva tirato fuori da una
borsa che aveva con sè. Era la seconda volta in poco tempo che aveva tra le mani un oggetto proveniente
da un passato decisamente attuale e gli sembrava di sentirlo vibrare in modo infrasonico tra le sue mani,
cosa evidentemente impossibile tranne che in quella serata. Lo depose con cura sul tavolo e lo aprì con
tutta la delicatezza esoterica di cui era capace. Tutti gli altri esclusa Rafaela si misero dietro di lui per
vedere quali segni fossero tracciati su quella pergamena vecchia di cinquecento anni. Il rosso era
talmente scuro da sembrare nero. Probabilmente Bacharel aveva intinto la penna nel sangue di qualche
capibara rantolante e allo stremo delle forze. In ogni caso le sei linee erano perfettamente leggibili, la
prima spezzata, la seconda intera, le tre successive spezzate e l’ultima intera. Esattamente come quelle
che aveva generato Ettore.
- Ma che significa tutto questo? - Mormorò in modo incerto Ettore…
- Che forse devi cominciare a considerare il fatto - propose Isis.
- Fatto? Quale fatto… - Che sei l’ultimo Maestro dei Templari. - Oppure il primo di una nuova Era – Suggerì Serafino, mentre Rafaela annuiva convinta tenendolo per
mano.
Qumran
Cavalcando verso Masyaf, settembre 1172
Diya Ed Din pensava che forse le sue sottili argomentazioni teologiche non erano state del tutto capite
dai barbari infedeli. A dire il vero più che le sottili argomentazioni teologiche lo preoccupava la
reazione dei Templari alla loro proposta. Era stato inviato da Sinan, che tutti i Franchi conoscevano
come il Vecchio della Montagna, a offrire la loro conversione al re Amalrico, che regnava sul Regno
Latino di Gerusalemme. E naturalmente, visto che nulla si dà per nulla, la contropartita diretta sarebbe
stata la soppressione del tributo che versavano annualmente ai Cavalieri del Tempio e in subordine
ottenere un aiuto nella loro lotta contro gli eretici Sunniti che impedivano la diffusione della vera fede
nell’Islam. Stava tornando a cavallo verso Masyaf, l’inespugnabile fortezza dei Nizari pari solamente
alla mitica Alamut, insieme alla scorta che prudentemente il re cristiano gli aveva fornito e con la stessa
regolarità del galoppo queste riflessioni rimbalzavano da una parete all’altra della scatola cranica.
L’Ismailita, il cui nome evocava le virtù della fede, era certo che le allusioni circa l’importanza della
figura di Gesù come profeta di Dio erano state scambiate, da quei barbari con la pelle chiara e l’accento
strano, per un riconoscimento della superiorità del loro Dio… il che era semplicemente ridicolo. In ogni
caso la situazione in Medio Oriente era piuttosto complicata e Diya Ed Din non era del tutto convinto che
nei prossimi anni si sarebbe risolta e magari neppure nei prossimi secoli. Il suo modesto parere era che
Templari e Assassini non potevano fare altro che vivere alla giornata e stringere accordi osmotici che
vibrassero come una risacca sull’instabile linea di confine tra l’Islam, del quale forse loro malgrado gli
Assassini facevano parte, e il mondo Cristiano, del quale forse loro malgrado i Templari facevano parte.
Diya Ed Din apparteneva al popolo curdo, gente fiera e poco incline ai compromessi. Era convinto che i
Templari non obbedissero al loro re e non sapeva spiegarsi il perché. Era gente strana, mancavano di
disciplina, erano avventati e individualisti, ecco cos’erano i Templari. In qualche maniera tutto questo lo
disgustava e lo obbligava a seguire percorsi logici che non gli appartenevano e che non aveva tempo di
studiare con attenzione. Qualcosa di simile alla frustrazione lo opprimeva. Il loro re Amalrico, che
sembrava persino dotato di buon senso, aveva accolto con qualche obiezione formale la loro richiesta di
non pagare più i duemila denari che ogni anno i Templari pretendevano come riparazione per l’uccisione
di Raimondo conte di Tripoli, tanto andavano a loro e non a lui, ma alla fine aveva acconsentito. Capiva
bene che la complicità politica degli Assassini valeva molto di più. E poi si parlava di una cosa accaduta
vent’anni prima e in ogni caso aveva il suo salvacondotto nella borsa.
Erano ormai prossimi ai confini del Regno Latino. Stavano cavalcando lungo la via che passando vicino
al lago di Tiberiade portava alle alture del Golan e poi in Siria. In accordo al suo stato d’animo, la falce
di luna che illuminava quel sentiero sembrava riversare luce spettrale e malaugurante e non si sarebbe
sentito al sicuro fino a quando non fosse stato nella fortezza di Masyaf dove, durante la sua iniziazione,
aveva sperimentato le gioie del paradiso. Procedevano al leggero galoppo per risparmiare i cavalli.
Erano in cinque e la brezza gentile della sera di settembre, mentre cercava di penetrare dolcemente le
vesti che indossavano, portava l’odore dell’acqua del pesce e del lago che era da qualche parte nascosto
dai rilievi alla loro sinistra. Presto se lo sarebbero lasciato alle spalle arrivando in territorio sicuro.
Fino a quel momento, tutto poteva accadere. Mentre i cavalli affrontavano le prime salite delle alture li
videro. I tre Cavalieri del Tempio erano fermi alla fine della salita, immobili sui loro cavalli. Erano
inconfondibili, la tunica bianca sembrava grigia, fiocamente illuminata dalla luna, e le croci allargate alle
estremità sembravano disegnate col sangue rappreso di infiniti morti. La brezza gentile della sera di
settembre non agitava le cotte di maglia che racchiudevano i Cavalieri del Tempio. Semmai ne
sottolineava la lucida, determinata immobilità. Ecco cosa pensano i Templari del nostro accordo con il
loro re. Forse poteva esserci spazio per una trattativa dell’ultimo minuto. Diede un’occhiata alle sue
spalle e vide altri tre cavalieri.
– Brutto segno – pensò.
- Ho un salvacondotto del tuo re… cristiano… - Il Nizaro non si faceva illusioni circa la sua sorte - …
perché non lo hai rispettato? Si rendeva conto che aveva appena formulato l’ultima domanda della sua vita, i cadaveri degli uomini
della scorta glielo confermavano. Se i Templari avevano ucciso senza batter ciglio dei Cristiani loro
confratelli, cosa poteva aspettarsi lui? Ma aveva un’ultima curiosità da soddisfare.
- Perché non mi hai ucciso subito come loro? - Lo disse con voce ferma e guardando dritto negli occhi
Gualtiero du Mesnil detto il Guercio, o Al-Mansì come era chiamato dai Musulmani, precettore del
Tempio di Sidone.
Perché tu hai una cosa che io voglio – disse pacato Du Mesnil. Il Nizaro non batté ciglio, ma si chiese cosa mai volesse con una certa curiosità, a margine del fatto che
tra i tanti Templari Al-Mansì era il peggio che poteva capitargli. Aveva perso un occhio, quando ancora
era un giovane cavaliere arrivato fresco fresco e pieno di fervore religioso dall’Europa, durante i
disordini seguiti all’uccisione di Raimondo di Tripoli. Il suo integralismo era incorruttibile e conosciuto.
Non condivideva la politica di collaborazione tra i suoi confratelli e i Nizari e non perdeva occasione
per affermarlo pubblicamente. Il Curdo poteva solo sperare che la sua fine fosse rapida e del tutto
irrilevante ai fini della serata era il fatto che il mandante dell’uccisore di Raimondo era probabilmente
sua moglie Hodierna e che lo sapevano tutti che non andavano d’accordo e in quell’epoca era comodo
attribuire tutte le colpe dei morti ammazzati in medio oriente a loro. Anche se non serviva a niente gli era
venuto in mente come tragico addentellato. In ogni caso Al-Mansì non fu generoso con Diya Ed Din e
prima che esalasse l’ultimo respiro dovette pagare tutte le colpe, anche quelle non sue e quelle di cui la
sua setta si sarebbe macchiata in futuro. Le sue ultime parole risuonarono sinistre nel boschetto di
Tamerici sulle alture del Golan alla luce del fuoco di legna:
- Hai avuto quello che volevi, Cristiano. Ora io dico che sia una maledizione, per te e per i tuoi simili.
Sparirete dalla storia con vergogna e dolore e brucerete nel fuoco che voi stessi avrete alimentato. Poi rese l’anima al suo Dio, fiducioso nella ricompensa cui la sua vita retta gli dava certamente diritto.
Lo lasciarono morto ammazzato steso sulla sabbia vicino al boschetto, la sabbia intorno a lui scura del
suo sangue. I Cristiani raccolsero con cura tutti gli oggetti e i documenti contenuti nella borsa del curdo e
si avviarono al piccolo trotto verso Gerusalemme. Prima di tornare a Sidone du Mesnil doveva
consegnare i documenti al Maestro, e nel mentre, la luna contemplava indifferente la radura dove si era
consumata la tragica fine del Nizaro.
Gerusalemme, Tempio di Salomone
- Fratello, posso parlarti? Alla luce delle candele il Maestro dei Templari di Outremer, Odo de St. Amand stava fissando
pensieroso l’esagramma tracciato sulla pergamena ismailita insieme a molti altri simboli e scritte. – Un
istante ancora… – rispose senza sollevare la testa dal simbolo, ma solo l’indice della mano destra - …
un solo momento fratello Humbert, poi ti ascolterò. –
Humbert de Peyraud, siniscalco del Tempio, rimase in silenzio aspettando pazientemente sulla porta della
cella del Maestro. Unica concessione al rango di maestro dei Templari era il tavolo su cui era posata la
pergamena oggetto della sua attenzione. Il resto della stanza era del tutto simile alle altre camere dei
cavalieri: un pagliericcio con due lenzuola e una coperta a righe bianche e nere e un panchetto con sopra
una candela che doveva stare accesa tutta la notte. Il Maestro dei Templari alzò lo sguardo e guardò
Humbert pensieroso.
– Dimmi… scusa se ti ho fatto attendere. –
- Non ti devi scusare, è un tuo privilegio. Ho cattive notizie purtroppo. Re Amalrico, che come sai è
uomo energico, sta marciando verso Sidone con l’intenzione di farla pagare a Gualtiero. - Temo che non possiamo fare nulla per impedirlo. Sai bene che non possiamo alzare le armi contro i
cristiani, rischieremmo di perdere l’abito e di essere cacciati dall’Ordine. La Regola è molto chiara in
proposito. - Dobbiamo lasciare il nostro fratello al suo destino? - I nostri destini sono decisi da molto tempo dal nostro Signore. Forse il sacrificio di Gualtiero non sarà
inutile. Ora vai a riposarti, domani sarà una giornata lunga. Ah, non dimenticare di avvisare un novizio
bravo a cavalcare, digli di tenersi pronto. Ho un incarico delicato da affidargli subito dopo il Mattutino. Qumran
Fratello Jocelyn era in tenuta da viaggio e non da combattimento per due buone ragioni. In primo luogo
erano solo le dieci del mattino e la temperatura già sfiorava i quaranta gradi e la cotta metallica e l’elmo
avrebbero notevolmente peggiorato le sue condizioni termiche. In secondo luogo stava avvicinandosi ai
confini del regno e l’arte della dissimulazione, arte che avevano appreso dai Nizari, gli sarebbe stata
decisamente utile. Non era prudente in quella situazione mostrare al mondo la croce dei Templari. Aveva
impiegato quasi quattro ore per percorrere poco più di venti chilometri nel deserto di Giuda. Seguendo
wadi asciutti e salendo e scendendo colline, dove il tracciato del letto dei torrenti invernali deviava
troppo dal suo percorso, era arrivato quasi fino al grande lago salato: il Mar Morto. I Poveri Cavalieri di
Cristo potevano arrivare persino a rinnegare la loro fede e a sputare sulla croce se fosse stato necessario
per salvare la loro vita. Avrebbero poi recitato almeno settanta Pater Noster come espiazione. Doveva
trovare un antico monastero o almeno quello che ne rimaneva. Doveva trovarsi su una terrazza di argilla e
calcare, da una parte c’era il burrone costituito dalla costa del wadi e dall’altra era schiacciato dalla
falesia del deserto che strapiombava poi sul Mar Morto. Il Maestro Odo era stato molto chiaro. Era
estremamente importante che questa missione avesse un esito certo: o trovava l’oggetto oppure doveva
essere assolutamente sicuro della sua non esistenza. Il suo cavallo, che già da un po’ dava segni di
stanchezza, sembrava eccitato e trottava più volentieri. Jocelyn si concentrò e percepì l’odore di umidità
nell’aria rovente, un alito lontano ma che il suo cavallo prima e poi anche lui avevano riconosciuto
benissimo: il Mar Morto era vicino. La luce era abbacinante, la roccia calcarea delle pareti
dell’ennesimo wadi che stavano percorrendo rifletteva in modo spietato la luminosità del sole. Questo
wadi comunque sembrava essere più grande degli altri e in fondo sembrava aprirsi in una piccola valle
dalla quale arrivava il dolce profumo della vegetazione e dell’umidità. La giornata sembrava promettere
cose buone. Ancora un poco e lo avrebbe scoperto.
Il sentiero lo aveva individuato quasi subito. Il Maestro era stato chiaro. Ai piedi del Wadi Qumran
troverai le rovine. Sull’altro lato in alto, guarda e vedrai alcune grotte. Sali entra e cerca. Se vedi giare
di terracotta cilindriche non le toccare, cerca piuttosto un’urna metallica. Prendi il suo contenuto e senza
perdere tempo portamelo. E accertati che nessuno ti veda oppure ti segua. Dato che Fratello Jocelyn era
giovane e pieno di energia, una salita di almeno un’ora anche sotto il sole spietato di quella giornata non
lo spaventava. Assicurò il cavallo a un grosso cespuglio che gli garantiva anche un po’ di ombra e che
cresceva protetto in un anfratto alla base della parete calcarea. Prima di salire doveva bere. Dalla
borraccia di pelle versò acqua in una ciotola di legno e fece bere il cavallo. Gli fece una carezza e poi
versò un po’ d’acqua anche per sé. Il sole era allo zenit, luce e calore erano meravigliosamente
intollerabili e a Jocelyn non restava che imboccare il sentiero sperando che fosse quello giusto. Fino a
metà il percorso fu piuttosto facile anche se ripido. La vera fatica cominciò quando il sentiero si fece più
stretto fino a scomparire quasi del tutto obbligandolo a procedere appiccicato alle rocce sporgenti e alle
radici degli arbusti rinsecchiti che riuscivano a sopravvivere in quelle condizioni. Si era liberato anche
della tunica leggera che indossava e la sua pelle bianca luccicava di sudore mentre poggiava i piedi
sull’ultimo tratto di sentiero che fortunatamente si faceva meno ripido. In quell’istante un falco si alzò in
volo. Probabilmente era solo disturbato dalla sua presenza e il grido di protesta che emise fu scambiato
da Jocelyn per una testimonianza del favore divino. Rincuorato da quella manifestazione dell’Altissimo,
ma soprattutto dal fatto che il sentiero si allargava avanzò più velocemente e raggiunse una spianata. Si
riposò per un poco sciogliendo i muscoli delle braccia e delle gambe. Non pensava di essere salito così
in alto. In lontananza vedeva il grande lago salato color blu cobalto e reso ancora più luminoso dal
contrasto con il bianco calcareo delle rocce del wadi di fronte a lui, dove quasi sull’orlo del precipizio
alcune capanne bianche erano circondate da striminzite palme da datteri. Restò per un poco a osservare il
paesaggio affascinante poi pensò al lavoro. Nella spianata su cui stava non vedeva niente che somigliasse
a una grotta. Seguì il suo istinto e imboccò il sentiero che iniziava a sinistra. La sinistra pensò, la via del
diavolo che in quel momento gli sembrava la via giusta. Tanto per cambiare anche stavolta il sentiero si
faceva più stretto, fino a costringerlo a strisciare contro la roccia. Stava per tornare indietro quando gli
sembrò di vedere un’ombra, una soluzione nella continuità del bianco accecante della parete rocciosa.
Guardò con maggiore attenzione e vide che era proprio l’ingresso di una grotta, impossibile a vedersi dal
basso. Il sentiero andava dritto verso l’apertura, probabilmente era sulla strada giusta. La raggiunse
rapidamente, entrò e vide esattamente quello che si aspettava di vedere. L’interno era asciutto e
piacevolmente fresco, un sollievo dopo la salita. La grotta era ampia e per un gioco di luci e riflessi,
all’ingresso era sufficientemente illuminata. C’erano molte giare di terracotta ammassate alle pareti,
proprio come aveva detto il Maestro. Si chiese in quale maniera Odo avesse delle informazioni così
dettagliate su un luogo di cui né lui né gli altri suoi compagni avevano mai sentito nemmeno parlare ma
archiviò immediatamente il problema come uno dei tanti Misteri Divini. Quando i suoi occhi si furono
abituati alla scarsa luminosità guardò in giro per cercare l’Urna. La grotta non era molto profonda. C’era
una giara verso la fine, dove il soffitto si avvicinava al suolo che sembrava diversa dalle altre. Si
avvicinò con prudenza anche se non sapeva perché. Nel momento esatto in cui la sua mano la sfiorò,
avvertì distintamente il brivido mistico insieme a una eco di Misteri e di Mondi Sovrannaturali e lontani
e come naturale conseguenza ebbe paura. Tuttavia lo spaventava di più l’idea di tornare dal Maestro a
mani vuote. Non avrebbe mai potuto raccontare una bugia a Odo. Si fece coraggio e aprì la giara.
Cominciava a sentire il fresco dell’ambiente e rimpianse di aver lasciato la tunica nascosta in una
rientranza della roccia lungo il sentiero. Si sorprese di trovare un’altra giara dentro quella che aveva
aperto. Che cosa curiosa… quanto doveva essere prezioso l’oggetto custodito nell’ultimo contenitore?
Oppure era semplicemente la suggestione del luogo e della situazione che faceva venire queste idee a
Jocelyn? Dentro la giara più piccola c’era quello che cercava. Una scatola di metallo sigillata,
abbastanza grande da dover essere tenuta con due mani e lucida come se il metallo fosse stato appena
forgiato. A giudicare invece dallo strato di polvere che ricopriva i recipienti di terracotta, sembravano
passati almeno due secoli dall’ultima volta che qualcuno aveva manipolato quegli oggetti. I sigilli erano
tre, uno per ognuno dei tre lati dell’oggetto e sul quarto lato invece c’erano due cardini intorno ai quali
ruotava il coperchio. Non aveva mai visto niente di simile. Sembrava un oggetto fatto in terre lontane e le
istoriazioni e le decorazioni sembravano riprodurre cose e storie ignote e misteriose, inconoscibili e
pericolose. Pensò al Maligno e improvvisamente ebbe voglia di essere al sicuro al Tempio insieme ai
suoi confratelli. Uscì alla luce del sole tenendo tra le mani la scatola di metallo e non pensò neppure per
un istante al contenuto. La temperatura torrida e la luce accecante lo riportarono a dimensioni conosciute
e gestibili e si rinfrancò. Con circospezione si avviò verso il basso, verso il suo cavallo che lo avrebbe
riportato a casa. Durante tutto il tragitto si sarebbe voltato con frequenza per vedere se qualcuno lo
seguiva.
Gerusalemme, Tempio di Salomone
Odo de St. Amand si accertò che nessuno stesse ascoltando dietro la porta della sua stanza, mise la
scatola al centro del tavolo e accese un’altra candela per poter vedere meglio. Forzò i tre sigilli di fattura
orientale ma esitò un momento prima di aprire il coperchio. Osservò le decorazioni in rilievo e gli parve
di sentire una eco del lontano Oriente, di intravedere templi e architetture esotiche, di sentire il respiro di
valli immense e catene montuose imponenti come non se ne vedono in tutta la Cristianità. Sollevò il
coperchio e trattenne il respiro mentre guardava l’oggetto; richiuse il coperchio e sospirò. Era quello che
pensava e immediatamente orizzonti infiniti si di schiusero, percepiva chiaramente il potere che
quell’oggetto avrebbe donato ai Poveri Cavalieri di Cristo, un potere che attraversava i secoli e i
millenni un potere che poteva anche essere usato in modo malvagio, se solo fosse finito nelle mani
sbagliate. Prese una pergamena nuova e scrisse a lungo. Alla fine la arrotolò con cura e la mise dentro la
scatola di metallo insieme all’Oggetto. In fondo alla pergamena aveva scritto: In Figuram Baphometi.
Baia di Guanabara
Il tempo di bordo
L’ultima sincronizzazione del tempo l’avevano fatta appena arrivati nelle agitate acque intorno a Cabo
Sao Roque, quindici giorni prima, a metà dicembre. Da allora, dirigendosi verso sud, si erano mantenuti
sempre sulla stessa longitudine senza guadagnare tempo, come durante la traversata oceanica dal
Portogallo al Nuovo Mondo. Gonzalo Coelho, da marinaio navigato quale era, sapeva che i rituali della
vita di bordo, oltre che essere utili, avevano il potere di rafforzare il senso di appartenenza al gruppo e la
fiducia nel proprio operato della ciurma, quindi stabilì che si doveva procedere inn ogni caso a una
sincronizzazione del tempo. Il mozzo di guardia alla clessidra era sveglio al di là di ogni dubbio. Il turno
era cominciato alle undici di quel mattino e la parte superiore della clessidra era ancora piena per un
terzo dopo che l’aveva capovolta già una volta. La brezza di quel primo di gennaio 1502 soffiava dolce
nell’ampia baia e mitigava il calore che l’estate australe riversava sul mare e sulle tre caravelle alla
fonda. Avevano gettato l’ancora a circa mezzo miglio dalla costa, quando lo scandaglio aveva segnato 18
piedi di profondità. Il cielo era sgombro da nuvole e l’acqua trasparente, si potevano vedere i pesci
nuotare curiosi sotto la chiglia. Le caravelle erano all’ancora, come d’abitudine, a poca distanza l’una
dall’altra. Sulla sinistra un promontorio di granito scuro sembrava eiaculare una spiaggia dolorosamente
bianca che si perdeva in lontananza verso sud. Verso nord si percepiva l’immensa grandiosità della baia
delimitata da un cordone bianchissimo della stessa sabbia conchiglifera. Subito dopo la striscia di sabbia
cominciava la foresta tropicale e anche da quella distanza si vedeva il colore rosso del Pao Brasil. Il
primo portoghese che vide il colore del legno dell’albero più diffuso, allora, sulle coste del Brasile era
un marinaio timido e disse a mezza voce che gli ricordava il colore della brace. Da allora tutti i
portoghesi chiamarono ‘brezil’ il legno di quell’albero. Quel legno aveva anche un’altra interessante
caratteristica: era resistente alle Teredini. Le tenere assi europee con le quali erano fatte le prime navi
arrivate a quelle latitudini non avevano retto all’assalto dei molluschi del Nuovo Mondo che, senza porsi
problemi etici, si erano messi a scavare gallerie nelle parti sommerse delle caravelle e a digerire il legno
con un enzima. Tante volte persino la pece, usata per calafatare gli scafi, cedeva al loro attacco. Per di
più il Pao Brasil era anche apprezzato dai tintori europei per la colorazione delle stoffe. Meno pregiato
dell’Indaco d’Oriente, ma più economico, non poteva che avere successo. C’è sempre qualche
imprenditore, in qualsiasi epoca e a qualsiasi latitudine, che ha fiuto per un buon affare. Pedro Alvarez
Cabral, nel suo mordi e fuggi di due anni prima, aveva segnalato alla Corona portoghese la possibilità
del business. La Corona portoghese ne aveva parlato con la ricca borghesia di allora e ne era nata la
spedizione comandata da Cohelo. A tutte queste cose appunto stava pensando il Capitano Gonzalo de
Cohelo seduto sul cassero di poppa della caravella. A margine di queste riflessioni pensava comunque
che tutte e tre le caravelle erano costruite con legno di Pau Brasil e che certamente avrebbero avuto –
loro, non le caravelle - altri problemi che in quel momento non potevano nemmeno immaginare. E quasi
certamente altri fastidi ancora glieli avrebbe procurati quel Vespucci. Quando due anni prima Cabral, al
largo del Monte Pascoal, gli aveva detto che sarebbe dovuto tornare in patria per riferire alla Corona
dell’importante scoperta, non poteva immaginare che di lì a poco si sarebbe trovato tra i piedi uno
scocciatore professionale come Amerigo. Quello aveva la sgradevole abitudine di attribuirsi ogni merito
e si considerava l’Ammiraglio della spedizione. Quasi come se volesse entrare nella Storia. Insomma…
qualche capacità l’aveva pure. Sapeva maneggiare l’Astrolabio e se non si erano persi durante i quaranta
e passa giorni di tempesta in mezzo al Mare Oceano il merito era in parte anche suo. In ogni caso la linea
della caravella era agile e slanciata con due soli castelli a poppa e a prua e dato che la poppa era rivolta
al mare e la brezza soffiava verso terra infiltrandosi gentile tra l’alberatura, portava alle sensibili narici
del comandante l’odore delle latrine che stavano tutte quante sul retro della nave. Invariabilmente, tutte le
volte che l’odore delle seggette gli arrivava al naso non poteva fare a meno di sorridere ripensando al
culo bianco e flaccido di un vescovo che, cercando di liberarsi del valore aggiunto dell’abbondante pasto
pagato dai contribuenti, veniva punito dalle sferzanti e atee onde dell’Oceano. Ma era successo parecchio
tempo prima.
- Stai pronto mozzo Amerigo pensava che la mantellina di raso colorato buttata sulle spalle fosse più che sufficiente a
differenziarlo dal resto della maggior parte dei membri dell’equipaggio che, racchiusi nei loro sacchi di
lana, somigliavano a dei salumi. Aveva anche il volto ben rasato e i capelli ancora neri e fluenti
nonostante i suoi quarant’anni. Però sudava parecchio, come gli altri del resto. Quel giorno poi, sembrava
risplendere di luce propria sul ponte appena lavato con acqua di mare mentre stava chino sul quadrante
della bussola e osservava con attenzione l’ombra proiettata dall’asticella ficcata nel mezzo. La nitida riga
nera era ormai prossima al fiordaliso che al di sotto della linea equinoziale segnava il sud. Il
mezzogiorno sarebbe stato vero e reale nel momento in cui l’ombra avesse ricoperto il peduncolo del
fiordaliso e allora, ma solo allora, sarebbe stato possibile sincronizzare il tempo di bordo col tempo
reale capovolgendo rapidamente la clessidra. Il tempo sembrava comunque sospeso tra caldo e umidità
che, salendo dalle assi del ponte appena lavate, portava ai nasi di tutti, anche a quello di Vespucci,
l’odore del legno bagnato mischiato alla salsedine e forse a echi di forme di vita sconosciute ai più.
Piuttosto lentamente e con gesto studiato a lungo, l’Ammiraglio in pectore sollevò il braccio e, dopo
averlo tenuto alzato per un tempo che sembrava molto lungo, aprì la mano e scandì con voce decisa:
- Ora, Grumete! -
Il mozzo, che avrebbe preferito perdere un dito piuttosto che essere distratto il quel momento,
rapidamente capovolse la preziosa clessidra fabbricata a Murano e la sabbia ricominciò a scorrere
lentamente verso la metà inferiore. Gonzalo Coelho fece di malavoglia un cenno di assenso con la testa al
mozzo che si sentì rincuorato. Il tempo ricominciava a scorrere con una certa precisione a bordo e il
marinaio sottolineò l’avvenuto passaggio d’orario con il canto rituale riservato alla sincronizzazione del
tempo.
Rio de Janeiro
Verso metà del pomeriggio Coelho aveva fatto sapere a tutti, con la sua consueta disinvoltura, che
quel luogo si sarebbe chiamato, d’ora in poi e per la gloria della Corona portoghese, Rio de Janeiro.
Perché, sosteneva, quella baia non poteva che essere la foce di un fiume e, dato che si era in gennaio, era
cosa ovvia chiamarlo in quella maniera. E visto che sulla spiaggia si era notato un certo movimento di
indigeni l’altra idea del giorno era quella di inviare qualcuno in avanscoperta per prendere contatti con la
popolazione locale, secondo la tradizione iniziata da Colombo dieci anni prima a nord della linea
equinoziale. Coelho decise di avvicinarsi a terra con la sola sua caravella. Le altre due sarebbero
rimaste a distanza di sicurezza per qualsiasi evenienza. Quando fu a un quarto di miglio lo scandaglio
segnalò fondali bassi per cui dovette fermarsi.
- Né io né te possiamo andare a vedere quello che succede, sei d’accordo Gonzalo? Cohelo in realtà era un po’ infastidito dal fatto che Amerigo avesse esternato la constatazione prima di
lui, tuttavia non poteva che essere d’accordo. La spiaggia sembrava affollata da sole femmine,
all’apparenza giovani e più o meno completamente nude, il che costituisce una cosa probabilmente
sospetta in ogni tempo e in ogni luogo.
- Certo che no, siamo troppo preziosi a bordo. - E prima che Vespucci glielo suggerisse, urlò - Juan! - Capitano… - rispose pronto il mozzo, senza perdere d’occhio la clessidra perché era nuovamente
prossima allo svuotarsi e doveva essere capovolta di nuovo. Una volta all’ora toccava farlo.
- Guarda laggiù e dimmi cosa vedi Juan si avvicinò e seguì con lo sguardo il dito del suo Comandante puntato verso la terraferma. Anche da
quella distanza, e forse perché a quel tempo aveva venticinque anni e forse perché gli ultimi mesi li
aveva vissuti in mezzo all’oceano in compagnia di soli maschi e neppure tanto attraenti, ci mise un
nanosecondo a percepire: capezzoli, pubi, peli nerissimi e sguardi invitanti. Come tutti i maschi presi alla
sprovvista supplicò il suo Capitano per avere il privilegio della missione esplorativa e Cohelo, facendo
finta di cedere alla sue insistenze, gli concesse il privilegio della missione esplorativa. Juan non aveva
idea naturalmente di quanto gli sarebbe costato, come tutti i maschi presi alla sprovvista del resto.
Indios Tupi-Guarani
Le ragazze indios dovevano avere poco più di vent’anni ciascuna, anche se tra loro ce n’era una un
poco più vecchia. Vecchia si fa per dire, non doveva avere più di trentacinque anni almeno
all’apparenza. I loro volti erano belli anche se con lineamenti un po’ forti, labbra grandi e carnose e
occhi nerissimi, la pelle era scura e tendente al rosso. I corpi erano opere d’arte, pensava Juan mentre
tirava in secco la scialuppa sulla spiaggia. L’armonia delle forme era pari solo alla consistenza della
carne così come la si percepiva al primo sguardo. Seni eretti e capezzoli turgidi, gambe lunghe e
affusolate, natiche quasi eccessivamente rotonde e dolorosamente eccitanti. Lo avrebbe pensato anche se
non avesse passato gli ultimi mesi della sua vita in compagnia di maschi puzzolenti e sdentati. Era
eccitato e si riteneva fortunato di essere in quell’istante con i piedi piantati nella sabbia umida e calda di
quel Mondo Nuovo, protagonista di quel momento unico e certamente esclusivo. Al suo ritorno avrebbe
avuto cose interessanti da raccontare, pensava. Non fece in tempo a fare un passo sulla battigia che fu
circondato dalle ragazze che gli strappavano i vestiti di dosso toccandolo proprio dove lui avrebbe
voluto. Fu un delirio per Juan. Gli sfilarono la braghe da marinaio, strofinarono tette e culi sul suo corpo
in modo tale che lui non sapeva più cosa fare, quale pezzo di carne afferrare e stringere. Non fece caso al
fatto che la diversamente giovane si stava allontanando verso la foresta, anche perché non riusciva a
controllare minimamente la sua erezione. Una delle ragazze, senza dubbio intraprendente, decise di
assaggiare il sapore del sesso dell’uomo bianco e ne parlò talmente bene con le altre che a turno ognuna
voleva assaggiarlo. I muscoli di Juan, nessuno escluso, erano sottoposti a una certa contrazione. In quei
casi si sa che le energie che non hanno potuto trovare sbocchi per molti mesi tendono a raccogliersi e poi
esplodere in modo incontrollato. Era proprio la sensazione che Juan si aspettava di avere, anche se in
modo non conscio, un attimo prima dell’inevitabile e violento orgasmo. Invece, un attimo prima
dell’inevitabile e violento orgasmo avvertì un tonfo sordo, come di una noce di cocco che si spappola
sotto a un grosso sasso e poi non sentì più nulla.
Carne alla brace
Da bordo avevano seguito con attenzione tutte le fasi dell’esplorazione di Juan. Coelho, Amerigo e
tutti quelli che in quel momento non avevano niente da fare erano stipati sul cassero di prua della
caravella. Avevano visto le ragazze strofinarsi su Juan e le avevano viste assaggiare il suo sesso. Tutti i
presenti, eccezion fatta per Coelho e Amerigo, che mantenevano il contegno che ci si aspettava dal loro
rango anche se sudavano abbondantemente non si sa se per il caldo o lo sforzo, soffiavano come gatti
selvatici o mugolavano eccitati. Ammutolirono di colpo quando videro ciò che Juan non vide. La più
vecchia, che doveva essere anche il capo della banda, corse verso la foresta e dopo un paio di secondi
tornò con in mano un nodoso ramo di Pao Brasil. Stando bene attenta a non farsi vedere da Juan, che in
ogni caso aveva il suo da fare, cercò la posizione giusta per colpirlo. Dalla nave urlarono tutti gli
avvertimenti conosciuti e sconosciuti, ma per Juan non c’era più niente da fare, era troppo tardi. Con
perizia e mestiere la diversamente giovane indio assestò un unico colpo micidiale sulla testa del mozzo.
Dalla nave sentirono chiaramente il tonfo della clava sulla testa, come di un cocomero che si spappola e
non poterono fare altro che assistere impotenti alla fine di Juan. Lo videro cadere sulla sabbia senza un
grido e con il pene ancora oscenamente eretto dal quale zampillava sperma, più bianco della sabbia
conchiglifera, qualche istante dopo la sua morte cerebrale.
Quando la scialuppa dei soccorsi fu a meno di venti metri dalla spiaggia si conficcarono sulla prua le
prime frecce intinte nel curaro. Cinque minuti prima, senza che nessuno avesse dato l’ordine, due
scialuppe di soccorso erano state calate in mare con una decina di marinai armati a bordo. Volevano
recuperare il corpo del mozzo e magari dare una lezione a quelle femmine. Gli indios nudi e armati di
arco e frecce avvelenate erano usciti dalla foresta dove se ne erano stati buoni e nascosti prevedendo una
mossa simile da parte degli uomini bianchi non appena questi erano arrivati a tiro. Prima ancora che
qualcuno desse l’ordine di ritiro le scialuppe invertirono la rotta all’unisono e tornarono verso le
caravelle rinunciando a Juan e alla lezione da dare alle femmine.
- Curaro - disse Cohelo contento per una volta di saperne di più di Amerigo e prima che lui gli chiedesse
come mai dieci uomini armati scappavano di fronte a dieci indigeni nudi.
- Gli Indios lo fabbricano con piante della loro foresta. Sai come si muore col curaro? Due anni fa ho
visto morire un marinaio. Era stato scalfito da una freccia e dopo un po’ ha smesso di respirare e se n’è
andato, ma non prima di diventare blu. Non è un bello spettacolo sai, il cadavere poi si gonfia e non lo
riconoscerebbe nemmeno la madre. I marinai lo sanno bene e girano al largo. Le donne intanto, visto che nessuno le minacciava più, stavano trascinando il corpo di Juan verso la
foresta. Vespucci non fece commenti ma osservò con attenzione quello che gli indigeni stavano facendo
sulla riva. Le scialuppe ancora non erano arrivate vicino alle caravelle che già i Tupi-Guarani avevano
innalzato una catasta di legna secca ai bordi della foresta. Gli uomini accesero il fuoco e le donne con
coltelli di legno indurito cominciarono a sventrare Juan, togliendo con cura le interiora per metterle da
parte. Poi lo appesero a un trespolo di legno in modo che tutto il sangue defluisse. La vecchia, si fa per
dire, capobanda strappò con un colpo di coltello il pene di Juan agitandolo poi come un osceno trofeo
verso la caravella e ridendo in modo sguaiato. Il sole cominciava a calare con la consueta rapidità
tropicale quando misero quello che rimaneva di Juan sulle braci. Amerigo era sicuro di sentire lo
sfrigolio della giovane carne del mozzo a contatto con la brace. Gli sembrò di sentire l’acre odore dei
capelli bruciati e della pelle che si accartocciava e si ritirava lasciando penetrare il calore che arrostiva
la carne nel suo stesso grasso intorno alle ossa. Non smise di guardare neppure quando i Tupi-Guarani si
disputavano le parti di quello che era il corpo di Juan prima di mangiarselo. A notte fonda i Tupi-Guarani
scomparvero nella foresta e di tutto quello che era accaduto il misterioso passeggero della terza
caravella non si accorse. E nessuno gliene parlò.
Cananeia, la seconda nascita dell’Oracolo
La brezza di mare giungeva attenuata a quella profondità della foresta di Pao-Brasil. Filtrava dal
margine della radura agitando con gentilezza le foglie composte che a ogni refolo si muovevano lasciando
intravedere i piccoli baccelli nerastri pieni di frutti maturi. Tutti gli europei di quel tempo pensavano che
l’esposizione della loro pelle chiara al sole tropicale facesse male alla salute, perciò se ne stavano
avvolti nei loro vestiti di lana a fare la sauna. Anche attenuata, la brezza era piacevole e gratuita.
Amerigo Vespucci stava seduto all’ombra di una delle più grandi Ocas del villaggio che li stava
ospitando. Almeno centocinquanta Indios tutti più o meno imparentati ci vivevano in allegra armonia e
promiscuità. E tutti quanti erano disposti a non fare caso al grado di parentela quando si trattava di fare
sesso. Le donne erano straordinariamente libere e lussuriose. Avevano messo a punto un metodo a base
di erbe e trattamenti particolari che faceva crescere a dismisura il pene dei maschi. A volte esageravano
e qualcuno ci rimaneva secco, almeno all’inizio la cura sembrava efficace e piacevole, come gli avevano
raccontato alcuni suoi compagni di viaggio, fortunati ospiti degli Indios amichevoli che abitavano la baia.
Se cinquecento anni dopo le considerazioni che stava facendo Amerigo in quel preciso istante, qualcuno
avesse guardato dall’alto l’isola di Cananeia, magari utilizzando Google Earth, avrebbe certamente
notato la sua somiglianza con uno spermatozoo. Vespucci e i suoi si limitavano a considerarlo uno
spettacolo affascinante anche visto da terra. Ci erano arrivati dopo una settimana di navigazione lungo la
costa. Lo spettacolo era notevole anche visto in orizzontale. C’erano due isole. La più grande, quella che
aveva la forma di uno spermatozoo, stava esattamente in mezzo alla baia occupandone quasi tutta
l’estensione e sembrava circondata da un anello di mare. A sinistra, venendo dal mare aperto c’era la più
piccola. Cohelo aveva deciso con la consueta scioltezza che il braccio di mare dove avevano gettato le
ancore si sarebbe chiamato il Mare Piccolo per l’eternità perché effettivamente era piccolo e si trattava
pur sempre di mare. Come per sottolineare l’acutezza della scelta il via vai di canoe cominciò
immediatamente, praticamente quando ancora l’ancora della terza caravella doveva toccare il fondale
sabbioso. Dopo un paio d’ore di trattative e scambio di doni, Amerigo e Coelho si resero conto che
avevano appena fatto la conoscenza della tribù del Cacicco Piquerobi, sempre Tupi-Guarani ma
decisamente più gentili della banda incontrata nella baia di Guanabara. A metà del pomeriggio fu chiaro
a tutti che ci si poteva fidare reciprocamente e gli uomini bianchi furono invitati alla festa di Caapora di
lì a tre giorni, ma intanto potevano scendere subito a fraternizzare, se volevano.
Tre giorni dopo il sole stava perdendo quota sulle Ocas disposte a cerchio intorno allo spiazzo centrale.
Gli Indios avevano riservato i posti in prima fila per i loro ospiti dalla pelle bianca. Tutta la tribù era
radunata intorno allo sciamano Arariboia, tutti aspettavano che si decidesse a celebrare Caapora, il Dio
della foresta, così subito dopo avrebbero potuto cominciare a mangiare, bere e a fare casino. Tra caldo e
zanzare Amerigo si stava appisolando visto che non c’era niente che tenesse viva la sua attenzione ma
proprio un secondo prima dell’abbiocco percepì un mutamento nella sonorità dell’ambiente. Il rumore di
fondo del villaggio era diventato un brusio indistinto mentre Arariboia avanzava verso il centro dello
spiazzo tenendo tra le mani un Feticcio. L’unico segno evidente del fatto che non fosse più giovane erano
le rughe che aveva in quantità industriale intorno agli occhi e sulla fronte. Per il resto conservava una
elasticità e tonicità sorprendenti. E aveva ancora i capelli neri e folti. Su ogni guancia, incastonate in
qualche maniera nella pelle aveva almeno cinque pietre dal colore brillante, dal turchese al nero. Da ogni
lobo delle orecchie pendevano tre grossi anelli di ‘Guanin’ una lega indigena di oro e rame. La
necessaria luce metafisica, che ogni sciamano che si rispetti deve avere, brillava forte negli occhi di
Arariboia, anche mentre guardava gli europei senza mostrare nemmeno curiosità. Se non fosse stata una
sciocchezza Vespucci avrebbe detto che lo sciamano si aspettava da tempo la loro visita. Arariboia posò
il Feticcio, in cui si concentrava il potere di Caapora, su una foglia di palma. Era un oggetto piuttosto
strano. Soltanto la forma ricordava qualcosa di familiare: diciamo un cilindro. Se qualcuno gli avesse
chiesto di descrivere il Feticcio, l’immagine più prossima sarebbe stata quella di un grosso cero. Ma non
riusciva a immaginare di cosa fosse fatto. Il colore, anzi, i colori variavano dal giallo rancido al rosso
sangue rappreso, dal colore del granito delle rocce della costa a qualche bagliore blu elettrico. Moriva
dalla curiosità di saperne di più sull’oggetto e sulla sua origine ma prudentemente decise di fare domande
solo dopo aver visto quello che c’era da vedere. Il vecchio si mise a sedere per terra accanto al Feticcio.
Stese vicino a sé altre due foglie di palma. Evidentemente quello era il segnale d’inizio del rito perché
subito, una alla volta, si avvicinarono alcune giovani donne, depositando sulle due foglie di palma le loro
offerte: pietruzze d’oro, perle e schegge di roccia granitica, opali. Arariboia selezionò con cura esoterica
il materiale che riteneva migliore. Lo dispose in un mucchietto accanto al Feticcio recitando quelle che
agli europei sembravano invocazioni o preghiere. A un certo punto dovette ritenersi soddisfatto perché a
un suo cenno il rito cambiò completamente di tono. Dal cerchio di assistenti intorno al capo Arariboia
uscì un gruppetto di danzatori. Alcuni avevano in mano le zucche-crepitacolo e cominciarono a
percuoterle producendo un suono che somigliava al rumore di fucileria, come lo si sarebbe potuto sentire
nel vecchio continente di lì a poco, mentre altri indossavano maschere fatte con noci di cocco con
ornamenti di argilla secca e piume colorate. Poi tutti gli uomini e le donne presenti cominciarono a
danzare, prima lentamente spalmandosi a vicenda sul corpo nudo una poltiglia giallastra e poi più
rapidamente fino a diventare frenetici. In quel preciso istante il sole sparì dietro gli alberi della foresta.
Tempo dieci minuti e l’unica luce sarebbe stata quella dei fuochi del villaggio. Mentre già i primi Indios
entravano in trance, prima del mattino la maggior parte li avrebbe seguiti, tre assistenti di Arariboia si
stavano avvicinando trascinando un grosso pecari che manifestava il suo disappunto urlando terrorizzato
con le grosse narici da porco dilatate e il pelo grigio rizzato sul dorso. Mentre un altro Indio stramazzava
al suolo rantolando nella trance e veniva portato fuori dal sacro cerchio illuminato in modo
stroboscopico dai capricci del fuoco, il pecari fu sgozzato. Un assistente gli ficcò due dita nelle narici
sollevando il grugno mentre la grande ghiandola posta sulla parte superiore del dorso pulsava come
un’ulcera disperata. Un altro indio gli ficcò, con gesto esperto, un coltello di legno nella gola così
esposta. Il sangue cominciò a uscire ritmicamente dalla giugulare dentro a una ciotola di terracotta
decorata con disegni geometrici. Quando la ciotola fu piena gli occhi della bestia erano arrovesciati e la
vita lo aveva abbandonato insieme al sangue. Rapidamente lo sventrarono per prendere il grasso migliore
che, flaccido e brillante, fu posto ai piedi di Arariboia insieme alla ciotola piena di sangue caldo. Il
vecchio allora tirò fuori da una tasca nascosta una ciotola che conteneva polvere nera come il carbone
finemente macinato. Cantilenando, mentre ormai ogni trenta secondi c’era una trance giunta a compimento
e i restanti coscienti immancabilmente trascinavano fuori dal cerchio di luce il loro compagno, Arariboia
cominciò a impastare i doni che avevano portato le donne con il grasso ancora caldo, il sangue e la
polvere nera e certamente magica che aveva tirato fuori all’ultimo minuto. Quando l’impasto raggiunse
una buona consistenza lo spalmò con cura intorno al Feticcio fino a farlo diventare un po’ più grande di
prima pur mantenendo inalterata la forma. A notte inoltrata gli indios, almeno quelli che non erano ancora
in trance, danzavano instancabili e Amerigo aveva risolto l’enigma dell’origine di Caapora, il Dio
protettore della foresta, senza fare domande che rischiavano di apparire sciocche. Il giorno dopo, quando
fu il momento di partire, non tutti gli uomini tornarono sulle caravelle. L’ospite misterioso della terza
caravella, Mestre Cosme Fernandez, ebreo e appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Cristo, poco più
che trentenne e detto Bacharel, rimase a terra avendo come unico bagaglio per il suo futuro di confinato
su quella terra un sacco di iuta. Non appena le lance furono issate a bordo delle caravelle si diresse
verso l’Oca di Piquerobi tenendo stretto tra le mani il suo sacco. Aveva già in mente come avrebbe
chiamato quel luogo: Cananeia.
Ordine dei cavalieri di Cristo
Venerdì 13 ottobre 1307, all’alba, su ordine di Filippo il Bello tutti (o quasi) i Templari di Francia
furono arrestati e i loro beni finirono nelle casse del re. Il 22 novembre 1307 papa Clemente V emanò il
decreto che sollecitava tutti i principi della cristianità a incarcerare i Templari e a consegnare i loro beni
alla Chiesa, motivando tale scritto con i gravi sospetti di eresia del ramo francese dell’Ordine. In
Portogallo re Diniz seguì l’ordine del papa, ma a sua discrezione. Invitò i Templari nella fortezza di
Castro Morim come suoi ospiti e nel frattempo fece amministrare con oculatezza i loro beni. Il 3 aprile
1312 durante una solenne seduta nella cattedrale di Vienne, alla presenza di Filippo il Bello, fu resa di
pubblico dominio la bolla papale Vox in Excelso che sopprimeva, non in virtù di una sentenza giudiziaria
ma ex autoritate, l’Ordine del Tempio e tutte le sue istituzioni. Il 5 maggio 1319 Re Diniz fondò l’Ordine
dei Cavalieri di Cristo, utilizzando quello che fino a quel tempo era stato il loro secondo nome e
restituendo loro, intatte, le proprietà dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio. Il ramo portoghese del
Tempio sopravvisse così a sé stesso. L’aver difeso l’Ordine del Tempio fu un atto che il destino ripagò
generosamente al Portogallo. Col denaro dei Cavalieri di Cristo vennero finanziate le scoperte del nuovo
mondo. Enrico il navigatore fu tra i membri del nuovo Ordine. La croce dei Templari, con una piccola
crocetta bianca al centro come segno dell’innocenza dell’Ordine, sventolò su tutti i mari del mondo.
The Fetish
Mestre Cosme Fernandez o Bacharel
Trent’anni prima nel 1502, appena arrivato dall’Europa, la sua quinta e ultima moglie Maria, ancora
non era nata. Quello però non era il nome con cui era conosciuta dalla tribù del Cacicco Piquerobi. In
realtà si chiamava Ajuricaba, che nel loro linguaggio significava Piuttosto Irritabile e inoltre era l’ultima
delle dieci figlie riconosciute del Cacicco. Lui però la chiamava un po’ come gli pareva. A qualsiasi
latitudine e in qualsiasi epoca imparentarsi con chi conta è una buona idea. Se poi le figlie di chi conta
sono lussuriose tanto meglio. Tanto più se te ne puoi permettere più di una. Una serie fortunata di buone
idee l’aveva poi fatto diventare uno che conta. Ora era conosciuto come ‘O Rei Branco’ e poteva
disporre di un piccolo esercito di almeno duemila Indios, pronti a presidiare con efficacia la fertile e
fluttuante terra di confine tra domini spagnoli e portoghesi, anche se erano del tutto all’oscuro del fatto
che la questione era stata discussa con raffinatezza anni prima a Tordesillas. Dato poi che si era diffusa
in Europa la convinzione che nei territori spagnoli a ovest del meridiano in questione ci fossero smisurate
ricchezze a disposizione del primo che arrivava, a Cananeia c’era un certo via vai di gente. Questa gente
aveva bisogno di manodopera a buon mercato cioè schiavi e navi adatte alla navigazione fluviale, perché
le caravelle andavano bene per l’oceano e basta. Mestre Cosme procurava gli uni e le altre. Gli schiavi li
prendeva dalle tribù dell’interno sfruttando le beghe che da sempre c’erano con le tribù costiere. Quelli
che non vendeva li usava per costruire brigantini, navi con basso pescaggio e adatte alla risalita del Rio
de la Plata che era a due passi da lì. Tutti quindi alla ricerca dell’El Dorado meno lui. Per quanto lo
riguardava e almeno in quel momento il tesoro favoloso lo aveva tra le mani. Il seno di Piuttosto
Irritabile era grosso e tondo. I capezzoli erano come grani di noce moscata, duri e saporiti. Come tutte le
native brasiliane non conosceva le inibizioni comuni alla maggior parte delle europee non essendo
radicata nel nuovo mondo nessuna religione che fosse qualcosa di più di un semplice animismo. Tutte
concedevano tutto a tutti essendo funzionale alla buona convivenza e non c’era limite alla fantasia. La
pelle delle natiche e dell’inguine era soffice e vellutata e trascolorava appena nel pelo pubico nero come
la pece. Quando rideva di gusto come in quel momento si vedeva benissimo che non aveva nessuna carie.
Stavano per fare sesso nella loro Ocas e lei era di buonumore anche se lui aveva circa sessant’anni a
quell’epoca. Però non aveva un capello bianco e il suo corpo era ancora pieno di vigore. Bacharel
sapeva che avrebbe dovuto chiedersi come mai ma preferiva non farlo. Solo ogni tanto, quando saliva
sulla collina di fronte alla baia di Cananeia per stare un po’ da solo guardando il Grande Mare Oceano,
attribuiva la causa all’oggetto che aveva portato con sé dal vecchio mondo.
Martim Afonso de Sousa e Bacharel
Martim Alfonso de Sousa si trovava a passare da quelle parti per lavoro. Doveva creare, per conto
della corona portoghese, una serie di Capitanias ereditarie e decise di cominciare da Cananeia
ribattezzandola Sao Vicente per due buoni motivi. Il primo era che quel lavoro lo annoiava e il secondo
era che anche lui aveva sentito parlare di El Dorado e in ogni caso era piuttosto ansioso di conoscere O
Rei Branco. Bacharel era invece ansioso di assaggiare il vino rosso che sicuramente gli avrebbe offerto
De Sousa per cui l’incontro fu cordiale. Parlarono a lungo di politica internazionale e di massimi sistemi
stando bene attenti a non irritarsi a vicenda e alla fine Martim Alfonso accettò il suggerimento di
Bacharel di tentare la via di terra alternativa alla risalita del Rio de la Plata. Una passeggiata, gli
assicurò Mestre Cosme, gli avrebbe anche fornito delle guide e non era davvero il caso di preoccuparsi
dei francesi che essendo stati esclusi dal trattato di Tordesillas stavano facendo i pirati da quelle parti,
tutto era sotto controllo. Alla fine della serata o Rei Branco tornò tre la braccia di Piuttosto Irritabile e
De Sousa andò a dormire un po’ ebbro e sognando oro e argento più per sé che per la corona portoghese.
Domani sarebbe stata una giornata memorabile. L’ultima figlia riconosciuta del Cacicco chiese almeno
due volte a suo marito cosa avesse da ridere, dopo che avevano fatto sesso, ma non ottenendo risposte
comprensibili si mise a dormire in ogni caso soddisfatta.
La Battaglia del Rio Paranà
Cinquecento anni dopo Gonzalo da Costa sarebbe stato sul libro paga di un Tour Operator della prima
città fondata in Brasile, a quell’epoca invece era sul libro paga di Mestre Cosme Fernandez. Invece che
guidare una spedizione di annoiati turisti europei alla ricerca di finte emozioni ai tropici stava portando
verso El Dorado un manipolo di uomini di Martim de Sousa alla ricerca di un vero tesoro e con vere
preoccupazioni, vestiti di lana e con armature armi e vettovaglie incluse. Probabilmente perché erano
esausti per aver marciato nella Mata Atlantica tutto il giorno con tutta quella roba addosso e visto che
erano arrivati alla riva sinistra del Rio Paranà accolsero la proposta di Gonzalo di accamparsi lì per la
notte come una cosa meravigliosa. Lui avrebbe pensato a scroccare un passaggio sull’altra riva a una
tribù di indios che conosceva e che stava proprio da quelle parti. E così mentre lui spariva nella foresta
seguendo sentieri invisibili, gli uomini di De Sousa si accasciavano esausti sulla ghiaia del fiume senza
far caso alle zanzare, inevitabili come l’anticiclone delle Azzorre e che sarebbero state il tormento della
notte che senza dubbio sarebbe arrivata di lì a poco. A notte fatta gli uomini si chiedevano come mai la
loro guida ancora non si vedeva e si chiedevano anche se le zanzare si sarebbero stufate prima o poi ma
per entrambe le curiosità dovevano aspettare fino all’alba. Intanto Gonzalo, che aveva avuto carta bianca
dal Bacharel, stava negoziando un accordo con il Cacicco della tribù in questione. O Rei Branco si
impegnava a non schiavizzare i membri della tribù per almeno sei mesi e loro avrebbero dovuto fare un
lavoretto per Gonzalo all’indomani. Non avevano sollevato obiezioni di principio circa il lavoro da fare,
avevano invece tirato sul tempo: almeno un anno senza razzie e per convincere Gonzalo gli avevano
offerto una Ocas per la notte e le due più belle ragazze del villaggio a sua scelta. Raggiunsero
rapidamente l’accordo.
Poco prima dell’alba Paco da Silva che era a capo della spedizione e visto che non aveva dormito tutta
notte stava pensando di dare la sveglia ai suoi ma fu preceduto, seppure di poco, da Gonzalo e dagli
indios che stavano arrivando canoe incluse attraverso la foresta svegliando tutti i pappagalli e gli umani
nel raggio di duecento metri. Nel giro di una mezzora i portoghesi avevano: pisciato, fatto la colazione e
infilato l’armatura e stavano salendo sulle canoe degli Indios armi e bagagli. Paco da Silva era sulla
prima delle cinque canoe che avrebbero dovuto portarli sull’altra riva del Rio Paranà e si stava
guardando in giro con una certa apprensione. Erano oltre la metà del fiume e dovevano percorrere ancora
una trentina di metri prima di arrivare al sicuro sulla terraferma. Se fosse successo qualcosa alle canoe lì
in mezzo al fiume sarebbe stata la morte certa per tutti e oltretutto ingloriosa, senza poter combattere
contro nessuno. Una serie di tonfi in acqua lo costrinsero e osservare il mondo immediatamente
circostante con maggiore attenzione. Erano gli indios che invece di pagaiare per portarli a riva si erano
tuffati nel fiume e stavano nuotando con vigore verso la riva. Il perché gli fu chiaro quando sentì ancor
prima di vederla l’acqua che saliva dentro la canoa. Si maledisse per aver pensato una realtà che si stava
concretizzando e urlò all’imboscata e di togliersi l’armatura e raggiungere la riva a nuoto per chi sapeva
nuotare, per gli altri amen. Di cinquanta uomini solo una decina riuscì a togliersi la ferraglia di dosso e a
nuotare verso riva. Gli Indios però li aspettavano con arco e frecce. I primi tre vennero infilzati come
polli, gli altri preferirono una nuotata verso la riva opposta alla morte certa per infilzamento. Dei sette
sopravvissuti solo due riuscirono a tornare vivi a Sao Vicente da De Sousa, gli altri morirono durante il
viaggio di ritorno a causa delle ferite riportate perché comunque qualche freccia era arrivata a
destinazione e anche se non erano intinte nel curaro qualcosa avevano fatto. Il 17 febbraio 1532 Bacharel
venne a sapere che de Sousa aveva rinunciato al regno dell’argento e dell’oro e aveva intenzione di
andare verso nord prima di tornare in Portogallo.
Il Rito
Come trent’anni prima la brezza che veniva dal mare filtrava appena tra le fronde degli alberi di Pau
Brasil, almeno di quelli che erano rimasti. Piquerobi era ancora il Cacicco e continuava a gestire la vita
del villaggio anche se era ormai un vecchietto. Anche lo stregone Arariboia che si era occupato dello
show di quando Bacharel era arrivato a bordo della caravella di Amerigo Vespucci era lo stesso.
Apparentemente il tempo non aveva effetti apprezzabili su di lui a eccezione delle rughe che erano
sempre presenti in quantità industriale. Il gonnellino rituale era l’unico indumento che avevano addosso i
cinque bei ragazzi dai muscoli torniti e pronti per la celebrazione. Le ragazze, dopo aver impastato olio
di palma con fiori di mais e qualche altra cosa conosciuta soltanto da loro spalmavano la mistura, il cui
nome era noto come ‘djassi’, sul corpo dei cinque guerrieri con la convinzione che tutto questo li avrebbe
resi più forti e soprattutto più entusiasti nell’affrontare la prova della giornata. Al centro della radura lo
sciamano aveva sistemato lo stesso Feticcio che Mestre Cosme Fernandez aveva visto per la prima volta
trent’anni prima e che nel corso del tempo si era ingrandito di parecchio mantenendo naturalmente
inalterata la forma. In quelle occasioni si sa che l’eccitazione va di pari passo con la capacità di cadere
in trance e poi è importante cadere in trance almeno una volta nella vita per un indio altrimenti si rischia
di godere di scarsa considerazione, per cui i cinque giovani stavano facendo del loro meglio respirando
il più rumorosamente possibile mentre le ragazze continuavano a spalmare per bene il ‘djassi’ anche
sotto il gonnellino rituale. L’occasione comunque era di quelle che capitano ogni tanto. Arariboia e
Bacharel avevano discusso a lungo se si potesse davvero fare una cosa del genere e il vecchio sciamano
alla fine non aveva trovato nella sua memoria niente che ostacolasse l’unione dei suoi Dei con il Dio
degli uomini dalla pelle bianca che veniva dal mare, sognando un futuro diverso da quello che avrebbe
invece avuto la sua gente. C’era tutto il villaggio intorno ai tre fuochi che illuminavano lo radura al centro
del villaggio. Arariboia guardò negli occhi Bacharel in modo complice, a dire il vero avrebbe ormai
dovuto saperlo che quell’uomo era complice solo di se stesso e per Mestre Cosme fu il segnale di inizio
dei giochi. Si avvicinò al centro della radura e con una certa dignitosa lentezza tirò fuori dallo stesso
sacco di iuta di trent’anni prima, appena un po’ più sgualcito, l’oggetto che aveva portato dall’Europa: il
Baphomet. Dato che Bacharel era un furbacchione aveva negoziato con una certa cura l’ora della
cerimonia. Non appena lo aveva messo sopra al Feticcio il metallo lucidissimo col quale era forgiato il
Baphomet si colorò dei bagliori dei tre fuochi fino a sembrare un sole freddo la cui brillantezza
contrastava con l’opacità secolare del Feticcio. Aveva la forma di una piccola testa umana e forse poteva
stare nel palmo di una mano e sembrava che fosse stato fatto il giorno prima da un fabbro esoterico,
invece era stato forgiato molti secoli prima più o meno dall’altra parte del mondo, sempre però da un
fabbro esoterico. C’era una bocca fatta a imbuto nella quale chiunque avrebbe giurato si sarebbe dovuto
mettere qualcosa, due fessure oblique che certamente erano occhi curiosamente a mandorla e due
orecchie che però si intuiva soltanto che fossero orecchie. Infatti una ricordava un maschio stilizzato con
un bel pene in evidenza e l’altra era certamente una femmina perché si vedevano le tette. Era tempo di
cominciare la cerimonia. Lo sciamano fece il gesto appropriato e i cinque guerrieri che tra l’altro non
vedevano l’ora di, liberarsi un poco delle energie accumulate con i massaggi iniziarono a danzare con
una certa energia. Senza che nessuno dei presenti sapesse dire con certezza quando, la danza si trasformò
in un combattimento simulato. Senza che nessuno dei presenti sapesse dire come, nelle mani dei guerrieri
erano spuntati dei coltelli di legno indurito al fuoco e ognuno dei guerrieri cercava di ferire gli altri
anche se in modo superficiale. Quasi in modo stroboscopico, data l’aritmia dei tre fuochi intorno, ferite e
sangue che cola dal corpo e che si mischia alla terra rossa erano come un’offerta al supermercato: paghi
uno e prendi tre a ogni percezione visiva. Naturalmente più sangue scorre più l’eccitazione monta e se si
considera che il tutto si mischiava con la mistura a base di olio di cocco e mais e qualcos’altro si faceva
presto a raggiungere il parossismo e la frenesia. Ma non bastava ancora, ci voleva qualcosa di più per
raggiungere lo stato di trance. Qualcuno, probabilmente una donna, cominciò a buttare tra i piedi dei
guerrieri così impegnati pietre affilate di granito scuro. Come se non avessero aspettato altro i guerrieri
buttarono i coltelli e cominciarono a ferirsi il capo con le pietre dopo averle raccolte. Chiunque dei
presenti, anche Mestre Cosme Fernandez, poteva chiaramente vedere gli schizzi del sangue dei giovani
guerrieri uscire dalle tempie e da altrove in sintonia con il rispettivo battito cardiaco. Quando è troppo è
troppo e per davvero o per finta uno dopo l’altro i giovani caddero in trance. Le donne, a quel punto
soddisfatte delle prove dei futuri uomini li raccolsero e li portarono all’interno dell’Ocas più grande per
lavarli e assisterli fino a che non si sarebbero ripresi. Il che naturalmente dipendeva dalla genuinità della
trance. A quel punto poteva cominciare la seconda parte della cerimonia, quella per la quale Bacharel
era arrivato nel Nuovo Mondo. Senza che nessuno dei presenti sapesse dire come nelle mani dello
sciamano apparve un teschio di cane, bianco e immacolato. Le donne portarono svelte i gonnellini rituali
tolti ai cinque giovani e Arariboia con gesto consumato li torse talmente tanto da spremere fino all’ultima
goccia di sangue dei cinque giovani che erano appena diventati uomini. Lo sciamano spiegò poi a fine
serata a Mestre Cosme che i gonnellini erano fatti di spugna dell’oceano. Il sangue ancora caldo di vita
appena verificata fu raccolto naturalmente nel teschio immacolato di cane dopo averne chiuso i bulbi
oculari con cera rituale. Con malcelata stizza, questo era stato uno dei punti più controversi della
trattativa, Arariboia porse il cranio tiepido a Bacharel che in questo modo assicurò a sé e per l’eternità la
paternità della seconda nascita dell’Oracolo. Mestre Cosme simulando dignità accettò la coppa col
sangue. Si avvicinò al Baphomet e al rullo dei tamburi rituali magicamente generato dal silenzio
precedente versò una parte del sangue dal cranio bianco immacolato nella bocca a imbuto dell’oracolo.
Sempre con una certa dignità sollevò il Baphomet con le mani in modo tale da rovesciarlo e permettere al
sangue contenuto nel retrobocca di defluire verso la cavità cranica dove stava la sorpresa. Poi con una
serie di movimenti più utili a confondere la platea che al buon esito della performance appoggiò il
Baphomet sul Feticcio che era stato precedentemente preparato allo scopo sistemandovi sopra una bianca
pergamena. In questo modo il Feticcio somigliava sempre a un grosso cero ma con una bianca pergamena
sopra. Il sangue ancora tiepido rifluì verso la base del Baphomet tracciando una piccola riga intera sulla
pergamena. Il sacerdote Bacharel ripeté sei volte lo stesso rituale tracciando sei linee sulla pergamena e
finendo il sangue disponibile giusto in tempo. Le prime quattro linee erano intere e le ultime due spezzate.
A quel punto Bacharel, palesemente soddisfatto rimise il Baphomet consacrato dall’unione esoterica di
misticismi vari: orientale, occidentale e amazzonico, nel sacco di iuta ormai prossimo alla consunzione e
sollevando la pergamena con le mani in modo che tutti la potessero vedere anche se nessuno l’avrebbe
capita disse:
- L’oracolo ha parlato! L’oracolo da detto: Grande Potere! Piquerobi sorrideva soddisfatto toccando il seno alla sua ultima e giovane moglie. Lo sciamano finito di
fare il suo lavoro spariva come sempre senza dire una parola per dedicarsi alle sue questioni occulte e
tutti gli altri Indios avrebbero continuato a festeggiare fino al mattino oppure allo sfinimento.
Palma Mater
Palma Mater
Il sole tropicale picchiava forte anche quel giorno di inverno, tredici di giugno del 1808, spalmando
luce e calore che arrivavano intensi e proiettavano le ombre direttamente sotto le cose e le persone
mentre il corteo regale stava percorrendo gli ultimi metri a piedi verso la capace buca. La capace buca
era stata scavata dagli schiavi, rigorosamente di pelle nera, che ora riposavano col torso lucido di sudore
a due passi da lì. D’altra parte anche Dom Joao Maria Josè Francisco Xavier de Paula Luis Antonio
Domingos Rafael, Principe Reggente del Regno del Portogallo e del nuovo Impero d’oltremare sudava
abbondantemente sotto ai pesanti tendaggi europei coi quali si ostinava a ricoprirsi, come tutti gli altri
possessori di pelle bianca del resto. Forse sudava così tanto anche perché sapeva che in quello stesso
istante in cui lui stava officiando la cerimonia di piantumazione del primo esemplare di Roystonea
oleracea in seguito conosciuta in tutto il paese come Palma Mater, sua moglie dona Carlota Joaquina
figlia di Carlo IV di Spagna lo tradiva certamente con gusto e magari con più di una persona
contemporaneamente. Tutto questo a prescindere dal fatto che sua madre la Regina dona Maria I era
evidentemente e universalmente riconosciuta come pazza e che lui anche per questo era Principe
Reggente.
Come esercizio per distrarsi da questi tristi pensieri domestici, mentre precedeva solennemente lo
schiavo che portava il seme della futura Palma Imperiale, pensava che tutto sommato i francesi gli
stavano tornando utili. Se Napoleone non avesse invaso il Portogallo, come il resto dell’Europa d’altra
parte, lui non avrebbe mai potuto esportare il suo regno in Brasile e prendere due piccioni con una fava.
Mentre salvava infatti la dignità reale della Corona Portoghese portandola lontano dalle grinfie del
Piccolo Esaltato, nella stessa maniera poteva compiere il suo dovere di Maestro dei Templari, dato
anche il fatto che era uno dei suoi molti titoli. Veramente si parlava di Maestro dei Cavalieri di Cristo
che era poi il ramo portoghese dei templari sopravvissuto alle trame di Filippo e di Clemente ma la
sostanza certamente non cambiava. Per sovrammercato poi sempre per mano dei francesi c’era stato un
altro colpo di culo. Poco tempo prima un certo Luiz de Abreu Vieira e Silva era naufragato a Goa nelle
Indie Orientali dove comunque era riuscito a trovare un passaggio per il Portogallo ma era poi stato
catturato dai francesi e portato alle Isole Mauritius. Luiz de Abreu era un curioso osservatore e aveva
notato il Giardino Gabrielle che era un orto botanico di tutto rispetto e prima di fuggire, dato il suo
temperamento iperattivo, aveva preso una serie di piante e di sementi da portare in Brasile, casomai ci
fosse arrivato. Insieme a noce moscata e acacie varie c’era anche il seme della palma che Joao VI aveva
deciso diventasse la Palma Reale prima e Imperiale poi. Dato che proprio la sera prima lui e Carlos
Antonio Napion, Direttore della Reale Fabbrica di polvere da sparo che occupava la stessa casa che era
stata di Rodrigo de Freitas, il quale tra le altre cose aveva dato il nome alla laguna che il principe
Reggente aveva appena comprato, avevano eseguito la cerimonia del Baphomet perché non sapevano che
pesci pigliare, e il risultato era stato sorprendentemente l’attesa, decisero di interpretare alla lettera la
profezia e di sotterrare il Baphomet insieme al seme della Palma Mater. Cosicché per chiunque lo avesse
saputo sarebbe stato facile in un futuro qualsiasi ritrovarlo. Si stavano avvicinando lentamente alla Casa
do Salitre quella dove appunto ora stava Napion e presso la quale sarebbe stata piantata la Palma e così
poterono essere quasi accecati dal riverbero del sole sulle pareti bianche. Ma non talmente tanto da non
vedere sulla sinistra un gruppetto di schiavi, sempre neri naturalmente, che assistiti da maestranze cinesi,
già allora, piantavano semi di Tè in una radura a due passi calla calma torrida della laguna che però non
era niente in confronto all’erettile maestosità del Pao de Acucar laggiù verso il mare. Per non parlare poi
del Morro Corcovado signore della Floresta da Tijuca sul quale secoli dopo sarebbe stata eretta una
discutibile scultura, e in ogni caso dagli alberi intorno a loro scimmiette minuscole e chiassose facevano
la spola dai rami più bassi al terreno in cerca di cibo. Naturalmente per fare in modo che chi dovesse
sapere sapesse, di lì a poco il Principe Reggente avrebbe promulgato un reale decreto che avrebbe fatto
diventare quel luogo un Orto Reale e poi un Giardino Botanico, destinato a ospitare e acclimatare specie
provenienti dalle Indie Orientali, ma anche da altrove vista la creatività di Luiz de Abreu Vieira e Silva.
Dom Joao si concesse un reale sospiro, quasi uno sbuffo per il caldo e il sudore ora che era finalmente
arrivato alla buca fatta per accogliere la futura palma, e pensava anche che come sempre non tutti i mali
vengono per nuocere dato che il Baphomet era nascosto tra i tendaggi che costituivano il suo regale
abbigliamento e quindi la cerimonia poteva iniziare. Il lavoro che doveva fare era quello, il più
simbolico possibile, di preparare il terreno per accogliere il seme per poi piantarlo e lasciare il resto del
lavoro naturalmente agli schiavi. Visto che non si sapeva per quanto tempo l’Oracolo sarebbe stato lì
sotto nè chi l’avrebbe risvegliato dal suo sacro sonno, anche se era certo che qualcuno prima o poi
l’avrebbe fatto, era stato accuratamente avvolto in un doppio strato di tela cerata inframezzata da grasso
animale e il tutto poi sigillato con una colla speciale a base di pece. Carlos Antonio Napion che assisteva
il futuro Sovrano aveva diligentemente preparato una manciata di terra rossa che ora gli porgeva con la
solennità richiesta dalla situazione, esortandolo anche a fare un po’ presto, non si sa se per il gran caldo
oppure perché nessuno si accorgesse di quello che stavano facendo. Accogliendo di buon grado l’invito
il Principe depose seme e Oracolo vicini li ricoprì con la terra rituale e poi esausto si fece da parte.
Nobilmente, mentre gli schiavi finivano il lavoro, osservò un minuto di raccoglimento pensando a quanto
sudore e fatica e certamente molte vite umane erano state spese per far arrivare l’Oracolo fino a quel
punto e poi visto che era quasi ora di pranzo decise che era meglio mettere qualcosa sotto i denti prima di
scrivere il Regio Decreto che aveva in animo di promulgare. Raggiunse Carlos Antonio che assentì
gravemente e tutti si incamminarono verso la Casa do Salitre che era bella fresca e a due passi da lì
mentre le scimmiette minuscole facevano a gara per infastidirli e la frutta esotica continuava a maturare
sotto il sole tropicale, assolutamente indifferente alle vicende umane.
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