PARTI LIBRO
DA
UN
DAL 5 ALL’8 DICEMBRE 2013 ROMA EUR PALAZZO DEI CONGRESSI
35-36
€ 6,00 - Autorizzazione Tribunale di Roma 153/2004 dell’8/04/2004
TERZA PAGINA
TRIMESTRALE DI EDITORIA E CULTURA
SETTEMBRE-DICEMBRE 2013 www.soveraedizioni.it
Dal libro all’indice al libro a margine
 Leggere Anima mundi
 Fantarcheologia: non confondiamo
la fantascienza con la scienza 
 Cartoline di una Gorgone:
una giovane rilegge la memoria
POESIA
FUGGE L’ORIGINE
L
eggere in questo nostro tempo una serie di poesie presentate dall’autore nell’ordine cronologico di composizione significa forse percorrere
una via molto vicina a quella dell’autobiografia?
E ammesso che la risposta a questa prima domanda sia
sì, quanto quel percorso autobiografico è voluto, cercato, consapevole? Difficile, indubbiamente, accettare su
questa seconda domanda un sì immediato, anche se
problematico. Il poeta classico - da Petrarca a Leopardi,
per intendersi - che costruiva il suo percorso in versi, rispettandone o meno la cronologia di composizione,
cercava certo un’immagine letterariamente autobiografica di sé, e chiedeva al lettore di seguire quelle tappe
appunto come tappe, lineari o contraddittorie, pietre
miliari o bagatelle che fossero. Ma oggi? Come ubbidire oggi alla decisione di un poeta di oggi - o appena di
ieri - che ha amorosamente rispolverato le parole che
più lo appagano, le ha corredate di data progressiva
quasi estraendole dalle pagine di un diario, e infine ce
le ha offerte, ce le offre in questo libro? Certo il ruolo
di noi lettori oggi, e da tempo, è cambiato, poiché è
cambiato il rapporto fra il poeta e il suo pubblico, forse fra il poeta e la poesia stessa. E ritengo che, nel bene
e nel male, un poeta possa essere oggi - per fortuna? meno legato alle necessità di un “progetto” di scrittura,
sia pure a posteriori, e che anche il lettore possa essere
oggi - per fortuna? - meno legato, nel senso di essere
meno artatamente guidato a riconoscere, e quindi seguire, un percorso. Ritengo cioè che, se è stato vero
sempre che ogni singolo oggetto di un “canzoniere”
merita comunque e pretende una lettura singola, e risponde solo a se stesso pur essendo inserito in una strada di vita, tanto più oggi i singoli oggetti di Luigi Arista vivono ciascuno di vita propria, e meritano e pretendono ciascuno su di sé la luce dei riflettori della nostra
personale simpatia - in senso letterale - emotiva con essi. Dovrei dunque adesso rivendicare la mia autonomia
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di lettore moderno di un poeta moderno, e mostrare di
questo libro solo il mio privato e saltellante viaggio di
illuminazioni e consonanze emotive; ma forse questo,
concesso e richiesto a chiunque di questo libro sfoglierà le pagine, me compreso, non si presterebbe ora molto a un prefatore, tenuto ad offrire uno sguardo possibile, certo non l’unico possibile, sull’intera raccolta.
Prendo dunque per buono, in nome, comunque, della
stessa autonomia del lettore di cui sopra, il “sì” come risposta anche alla seconda delle mie domande iniziali, e
mi pongo ad accompagnare la semplice apparenza di fasi successive nel percorso di un’anima che è stata sempre interamente aperta alla sfida del confronto fra il sé
e il mondo, e in questa sfida ha accettato il dolore e la
gioia, più spesso la malinconia o infine la nostalgia, di
un continuo mutamento.
Il sé, appunto, il soggetto poetante, il tradizionalmente detto “io lirico”, in assenza del quale, è ovvio, nessuna raccolta di versi potrebbe nemmeno lontanamente
richiamare il concetto di autobiografia: ebbene, questo
io, nei primi “Ritrovamenti”, provenienti da “un quaderno distrutto”, brilla proprio per la sua assenza. Vi si
trovano viaggi e soste, sirene di «metropoli pirata»,
suoni aspri di un paesaggio «lurido e frammentario e
sacro», lenzuola che si trasformano in sudari, ma non
vi si trova, o quasi, un verbo alla prima persona: la ricerca con cui il libro si apre è tutta di osservazione dura e disincantata del mondo. E quando, proprio alla fine della sezione, la domanda volge all’intimo, l’io scopre solo il proprio silenzio: «Che vuol dire amore? / Sono muto». Ma basta voltare pagina, e entrare nella
“Lettera”, così si chiama la seconda sezione e non a caso, per trovare una breve lirica, “Un giorno”, tradizionalmente e esplicitamente - forse anche troppo - soggettiva, quasi prevedibilmente giovanile: «me ne andrò
da questa casa, / prenderò le mie cose». Una madre,
“mia” madre, osserva il fuggitivo, ma la direzione è ormai stabilita, ineluttabile: «cercherò di te inevitabil-
POESIA
mente». Forse non sono i versi più belli del libro, forse la via di scoperta dell’identità attraverso l’altro è, appunto, troppo riconoscibile, ma non si può non pensare, di fronte a questi versi, che una nuova fase si apre,
e non si può non disporsi a seguirla, questa e le successive: in un libro di versi non sono importanti i passaggi, ma cosa c’è al di là. E se i temi, nelle ugualmente
brevi liriche successive, sono insistentemente di sangue
e di morte, anzi di «estreme morti» - impossibile non
provare un brivido ascoltando il suono stesso della fine
- in realtà ciò a cui andiamo incontro sono «vivi e velati purissimi tremori», bellissima ipermetria che ci accompagna di nuovo, ma adesso in modo molto più
personale, e accattivante, a un «tu che dormi», e al tentativo di svegliare l’altro, l’imprescindibile complemento di un io la cui prima autodefinizione non può
che essere la poesia stessa: «sono io che vengo con questo canto fra le braccia». Si chiama “Notturno e come
un preludio”, e tale è: una notte da cui si cerca disperatamente di uscire, un nuovo inizio, un dire di sé, un
dirlo a un altro da sé. Ecco, il poeta ha lanciato il suo
amo, la poesia ha magistralmente riattivato la sua eterna fascinazione: sfido chiunque sia giunto all’inizio di
questo lungo “Notturno” a non volerlo percorrere avidamente, a non volere continuare ad ascoltare “questo
canto”. Ed è un canto ormai disteso, lontanissimo dal
mutismo iniziale, un canto in versi privi di ogni regola che non sia quella del loro stesso suono, del loro stesso ritmo, mentre quasi insensibilmente l’io, il tu - il
mio, il tuo - invadono ogni spazio: è davvero un “accanito amore”, come ci indica la successiva sezione, amore per “una donna” e, di conseguenza, per la bellezza di
cui tutto è - era? - portatore: «e in cielo vede una rondine bianca / incendiata d’amore e di purezza», dove
anche la ritrovata regolarità del metro classico segna
una di nuovo sognata serenità. Ma iniziano anche a
farsi sempre più invadenti i verbi al passato, inizia - ed
era inevitabile - una poesia della memoria, la possibilità che esista perfino un “lirico raccontato”, ed è un filo che il poeta non abbandonerà più. E nella memoria
il primo sogno è infranto, “Piccolo Cuore” è stato
sconfitto, e «Il mondo è un dormitorio per sogni pubblici»: si può inviare un canto “forte e notturno” alla
madre - quella che sconsolata osservava il figlio fuggitivo? - se anche questo serve, finalmente, a riconoscersi in un “bianco alato” che «soffia via dal mare il mio
essere uno / spargendo con tutto ciò che posso / sentirmi d’essere / il sentimento fiume».
La memoria e la consapevolezza, il donarsi e il capirsi,
il sentirsi, appunto, in ciò che è assonante col sentire,
ma non tautologico: il “sentimento”, e il sentimento è
un “fiume”. E siamo quasi inavvertitamente entrati in
una ulteriore tappa del percorso: l’io è più adulto, si
sente parte di un mondo e allo stesso tempo centro di
una difficilissima soggettività e di un difficilissimo rapporto con quello stesso mondo - sordo? borghese? disperatamente immutabile o segnato da una presenza, la
nostra stessa individuale presenza? Così in “Tirinzania”
la “ferita” è “civile”, e il bersaglio è la massificante ipo-
crisia, ma c’è comunque un Dio visibile nella minima
quotidianità: «io ero il pane, ero il vino, ero il vento».
Sì, forse è impossibile, forse la “fame” è destinata a giacere per sempre, «assopita / da introvabile cosa»; ma
d’altro canto non si può smettere di cercare - «Dov’è la
luce?», e il tempo dei verbi può anche essere il futuro,
e i “poeti” possono essere anche al plurale, e possono,
pasolinianamente, avere un “sangue”. È il momento
mediano di questa evoluzione, dove le parole possono
evocare - richiamarsi a, discendere da - «opuscoli»,
«manuali di parole, / enciclopedie di parole», e dove la
“poesia” può sposarsi a qualcosa sulla cui solidità la discussione è aperta e che si chiama “ideologia”. C’è stato un tempo, però, e questa raccolta ce lo ricorda, in
cui su quella solidità non si avevano dubbi, tanto è vero che quel matrimonio ideologico produce ulteriori
passi dell’io: prima la scoperta, o l’infinita ricerca, di
un “dove” si è - «Io sono nel pollaio, nella fabbrica…»;
poi la scoperta, o l’infinita ricerca, di un cosa si è - «Sono l’assassino impagliato / nel fango delle ore da fieno,
/ sono il pozzo di sonno del villano, / sono l’impronta
umana…». Se il “sentimento” è nel “fiume” della collettività, il poeta è ora una “impronta” dell’uomo; solo
un passo ci separa dal vedere che “Sulle nostre bandiere” c’è un soggetto ormai plurale: «questo noi abbiamo
per crear poesia» proprio perché «non siamo / divertevoli anticonformisti, non siamo…»: è ovvio, se anche
in quel tempo “Si parlava con te”, che si parlava «intrecciando passato, responsabilità, / il credo di un colore o di un altro, / vincoli d’amicizia, il partito / e la
lotta di classe». L’occhio scende irresistibilmente in
basso, alla data che correda questa poesia come tutte le
altre, e trova ciò che si attendeva, “settembre 1977”:
chiaro, viene da dirsi, ma di questo alla fine, qui continuiamo a seguire il percorso, in un momento mediano, come si diceva, in cui evidentemente l’io e il tu che
lo accompagna sono diventati parte di un noi più
grande, il sogno non è più quello altero e un po’ solipsistico della prima giovinezza, e si è tinto di “rosso” e
di collettività. Come si legge tutto questo nella più generale atmosfera della poesia? Si legge ad esempio nelle insistenze descrittive su squallide periferie e su quartieri «dormitorio / e cortile d’inferno», si legge cioè
nella nuova accusa del degrado culturale e sociale, e nel
conseguente accendere i riflettori sugli ultimi, abitino
«in case di borgata o nei convulsi / rami di policentrimegalopoli» oppure in più classiche e «ruvide osterie».
Ma si gira pagina, e di nuovo non sono importanti i
passaggi, ma cosa c’è al di là. Al di là adesso ci sono
“Atti coatti”, e non si è ancora spenta nell’anima del
lettore l’eco dell’ennesimo suono significante che lo
stesso lettore non può non notare il prepotente ritorno
di una parola, la parola “amore”, presente in tutte le
poesie iniziali della sezione e, in due di esse, proprio
nel primo verso. Ma è un amore che si nutre ora, allo
stesso tempo, sia di slanci per «questa nuova / vita perenne» sia di ricordi, di attimi che sono fuggiti «dove
non riuscii mai a seguirti»; ed è un amore che ora può
essere anche per una «figlia dell’acqua e dell’esplorazioTERZA PAGINA  dicembre 2013
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POESIA
ne». Se a questo si aggiunge che il poeta non smette per
questo di guardarsi intorno, di considerare «le genti / a
moltitudini appigliate / ora a questa ora a quella / solida idea» vuol dire allora che siamo ormai in una piena maturità di arte e di riflessione, e la dialettica della
vita sta ormai tutta in un difficile equilibrio fra il dentro - memoria e speranza dei sentimenti e degli affetti
- e il fuori - memoria e speranza della società e del
mondo. Ecco allora le insistite venature religiose di
“Parola buffa” - «noi ancora crediamo / ultimi e solitari nella terra», ma anche, nella stessa sezione, e con più
forza, quello che definirei il coraggio della nostalgia,
cioè il superare il passato ma senza negarlo, il mantenerlo vivo ma come interrogazione del presente: «eppure in queste acque gelate / allorquando scoprimmo
le vene / del fiume quotidiano che contiene / i grandi
vessilli dell’avvenire». Si rileggano questi versi: il primo
è un novenario, il secondo ha dieci sillabe, il terzo è un
endecasillabo perfetto, e si concede anche il bacio della rima; ma l’ascesa alla classica regolarità è bruscamente interrotta dal quarto, che pur essendo di undici sillabe ha un suono sporco, con gli accenti sulle sillabe
dispari: come dire che gli ideali giovanili sono sempre
luminosi nella memoria - questo dice la sostanza delle
parole - ma quell’avvenire di allora non è diventato il
nostro oggi - questo dice il ritmo di quelle stesse parole e questo, tutto questo, può dirlo così solo la poesia.
Poi le “Liriche di Via Lurida”, pezzi di vita che il poeta aveva prestato a un romanzo e che adesso, come è
giusto, si riprende, e poi - finalmente, verrebbe da dire - “Poesia”: i versi assumono orgogliosamente il loro
titolo eponimo, perché ormai hanno il coraggio di assumere tutti i significati, tutti i riferimenti, tutto il fascino intramontabile di quella parola. E qui, in un
flusso memoriale - «Ora è rumore di flussi sotterranei»
- che ormai è diventato la cifra dominante della scrittura, emerge il definitivo autoritratto di quell’io che all’inizio era muto, e che poi è giunto fino a noi attraverso tutte le sue vicissitudini, per essere infine protagonista solo dopo - bisogna dirlo - che la scena se l’è conquistata. «Erro, di nuovo solo e mai sazio, / sento, nella mente e nel sangue emozioni / concetti e anche più
forti contatti»: qui all’assonanza sulla “s” della solitudine e del sangue segue quella più insistita del terzo verso - endecasillabo puro - sul “con”, e quindi sul senso
di unione che è - sarà - la via d’uscita a quella stessa solitudine. Intorno a questi versi, dopo questi versi, si
snoda la parte più bella, più piena di questo libro, perché in fondo ogni autobiografia è sempre un autoromanzo di formazione: da un lato viaggiamo ormai irrevocabilmente con un «io dentro me stesso», accompagnati dal suo sguardo chiaro, spesso tagliente, su sé e
sul mondo; dall’altro quell’io e quello sguardo hanno
raggiunto ormai una tale consapevolezza e una tale
densità di ispirazione che ogni verso, ogni suono, ogni
variazione di ritmo può incantare: «e il pensiero è un
rigagnolo che scende / ai fiumi azzurri e amari del mio
petto», oppure «e i miei rami e le fronde cresceranno /
proprio nel disinganno di quest’ora». Ma mi rendo
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conto che, giunto alle ultime pagine, riesco solo a sottolineare le mie più forti consonanze emotive con questi versi, e quindi a fare ciò che all’inizio mi ero ripromesso di non fare, cioè esercitare il mio diritto di prefatore mostrando solo un privato e saltellante viaggio
di illuminazioni. E mi rendo conto anche che - chissà
perché - gli esempi che scelgo sono tutti bellissimi e
perfetti endecasillabi: sarà forse il mio mestiere di insegnante nutrito di poesia classica? Forse. E se poi fosse
anche lo stimolo per qualche considerazione del tipo
“dove va la poesia contemporanea” certo non sarei in
grado di argomentarla, e se anche lo fossi questo non
sarebbe il luogo. Meglio dunque lasciare che la poesia
dica da sola tutto quello che ha da dire, che lo fa benissimo anzi meglio da sola, salvando solo un’ultima considerazione e un conseguente dubbio.
La considerazione è che sono grato a Luigi Arista di
avere non solo presentato cronologicamente i suoi lavori, ma anche di avere mantenuto le date precise in
cui ognuna di queste sezioni è nata. Quelle date sono
state per me una sorta di guida e di significato aggiunto, nel senso che leggere la cifra di un anno dopo aver
letto una poesia di quell’anno, o accedere a una piccola raccolta interna conoscendone il periodo, mi ha
coinvolto ulteriormente, nell’attesa di una conferma o
di una smentita di ciò che, per consonanza anagrafica,
anche a me la memoria di quelle date, di certe date suscita. Ma poi, scrivendone, ho cercato quasi sempre di
evitare queste troppo facili corrispondenze, anche se in
fondo è lo scrittore stesso ad autorizzarle: come non ricordare infatti, ad esempio, che quell’io imbozzolato
dei primi “Ritrovamenti” è anche figlio di un’ostilità al
“privato” tipica di quegli ultimi anni Sessanta? O il
movimentismo del decennio successivo? O il senso di
fine e il brutale degrado culturale degli anni Ottanta?
Ho dunque unito la poesia alla data solo quando il rapporto mi sembrava non solo richiesto ma esplicito, dichiarato, e l’ho fatto sia per non ostentare un legame
troppo personale e troppo facile, in fondo, con questi
versi, sia anche perché strada facendo ho lavorato di lima su un dubbio: quanto la mia consonanza emotiva
con la poesia di Luigi Arista dipende proprio da una
consonanza anagrafica? Quanto cioè la memoria poetica e il sentimento coinvolgono se ad essi si sovrappongono - o anche si oppongono - la propria privata
memoria e il proprio privato sentimento? Ma strada facendo, appunto, il dubbio si è dissolto: la vera poesia
trova come sempre la sua strada, e parla fuori del tempo a chiunque sappia e voglia ascoltarla. Questo è un
libro sulla formazione di una coscienza, è la storia di
un’anima che ha faticosamente costruito il proprio
rapporto con se stessa e col mondo, è infine il coraggio
di un poeta che ha messo a nudo le tappe della sua stessa crescita poetica, e per tutto ciò mi auguro che questo libro e questa storia vadano nelle mani di tanti giovani di oggi, sappiano o non sappiano cosa è successo
quando eravamo giovani noi.
Andrea Matucci
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