Notiziario settimanale n. 466 del 24/01/2014
versione stampa
Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
27/01/2014: Giornata della memoria per ricordare la Shoa.
30/1/2014: Ricordo dell'assassinio di Gandhi avvenuto il 30 gennaio 1948
a Nuova Delhi
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva
mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino
all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da
cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui
minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di
Auschwitz; Hurbinek mori' ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non
redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
Primo Levi "Hurbinek"
Indice generale
Solidarietà delle scuole di Romagnano, Castagnola, Mirteto e Alteta con
gli alunni di Muhanga in Congo (di AAdP, La Pietra Vivente)...................1
Abbiamo smesso di essere vittime (di Carlos Delclòs)............................... 1
Fiat e le politiche fallimentari (di Andrea Di Stefano , Roberto Romano) ..3
Nove milioni per una nuova politica di pace nel mondo: Quale? (di
Antonino Drago)........................................................................................ 4
Il santo di Palermo. Vi racconto chi era Danilo Dolci (di Aldous Huxley) . 6
Per una legge elettorale rappresentativa (di Associazione per la
Democrazia Costituzionale, Comitati Dossetti per la Costituzione)..........7
Miseria ladra! Crisi: Eurostat, in Italia allarme povertà, colpisce tre su
dieci (di Gruppo Abele)............................................................................. 8
Le donne che fanno i nostri jeans (di Maria G. Di Rienzo)........................ 8
Una riflessione di capodanno su uno dei tanti mondi possibili. anzi,
esistenti. il XXX dell’EZLN, il XX dell’insurrezione zapatista e il X dei
Caracole (di Aldo Zanchetta)..................................................................... 9
Sosteniamo "Comune-Info": La stazione Comune dei mondi nuovi (di
Comune-Info)........................................................................................... 11
Siria e Medio Oriente, Centro Africa e Sud Sudan: politica di pace, aiuto
umanitario e preghiera per la riconciliazione (di Pax Christi Italia) .........12
1
La pagina dell'AAdP
Solidarietà delle scuole di Romagnano, Castagnola,
Mirteto e Alteta con gli alunni di Muhanga in Congo
(di AAdP, La Pietra Vivente)
L'ACCADEMIA APUANA DELLA PACE e il Centro Culturale LA
PIETRA VIVENTE rivolgono un caloroso ringraziamento a tutte le alunne
e gli alunni, a tutte le famiglie delle scuole di Romagnano, Castagnola,
Mirteto e Alteta che con notevole impegno e generosità si sono attivati per
raccogliere un congruo contributo da destinare ai 1082 alunni e alunne
iscritti nelle due scuole di Muhanga, villaggio in mezzo alla foresta del
Nord Kivu, regione nord-orientale della Repubblica Democratica del
Congo.
Da diversi anni il Centro Culturale "La Pietra Vivente" è in contatto con il
missionario padre Giovanni Piumatti e l'ostetrica Concetta Petriliggieri,
che vivono in quella zona da oltre 40 anni, collaborando con loro per
migliorare le condizioni di vita della gente del villaggio. Si è creato un
gemellaggio tra famiglie della nostra zona con famiglie di Muhanga
assicurando una quota mensile che permette loro anche di mandare i figli a
scuola. Inoltre si è contribuito alla realizzazione di alcuni progetti, come la
costruzione di un dispensario, di una maternità, di una scuola. Ogni anno
appartenenti all'associazione si recano a Muhanga per portare aiuti e
dimostrare concretamente la propria solidarietà; tuttora il presidente Elia
Pegollo si trova laggiù dove rimarrà per alcuni mesi.
Nella Repubblica Dem. Del Congo e in particolare nel Nord Kivu si
trovano immense riserve di materiali preziosio come oro, diamanti, coltan
(prezioso minerale utilizzato nella produzione di sofisticate
apparecchiature elettroniche ), petrolio, legname. Tuttavia, come spesso
accade anche in altri stati africani, a causa di un conflitto decennale
favorito da interessi economici internazionali e da complicità interne, la
popolazione vive in condizioni disperate.
In tale situazione vivono i bambini della scuola di Muhanga ed è a nome
loro che queste due associazioni dicono grazie.
Naturalmente la nostra gratitudine è rivolta anche alla Dirigente
dell'Istituto Comprensivo Statale Massa 6 e a tutto il corpo docente che,
con la loro sensibilità, hanno promosso l'interesse e la partecipazione degli
alunni e delle loro famiglie.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2001
Approfondimenti
Economia
Abbiamo smesso di essere vittime (di Carlos Delclòs)
n un paese come la Spagna, dove numerose famiglie dormono per strada,
interi isolati sono vuoti di residenti e ovunque sulle case si leggono cartelli
“Vendesi” , è emerso uno dei movimenti sociali più forti d’Europa, la
Plataforma de Afectados pro la Hipoteca (Pah, “Piattaforma delle vittime
dei mutui ipotecari”). Pah è importante non solo perchè ha ottenuto alcune
vittorie contro le banche e i proprietari di case, ma perché ha mostrato che
è possibile perseguire risposte semplici al diritto all’abitare, mettendo
insieme nelle lotte persone che vivono negli stessi quartieri, promuovendo
mutuo sostegno e disobbedienza civile, occupando interi edifici in diverse
città. La maggioranza del Pah, che ha anticipato il movimento 15M, è
costituita da nuclei familiari che subiscono il pignoramento
Il Movimento delle Vittime degli Sfratti è uno dei movimenti spagnoli più
forti. Carlos Delclòs parla con l’attivista del PAH Elvi Màrmol a proposito
della chiave del suo successo.
La storia della crisi economica, sociale e politica spagnola è una storia di
proprietà, bisogni e valori. E al centro di tale storia c’è la domanda tanto
familiare da essere divenuta un cliché: che cosa fa di un edificio una casa?
Può suonare banale, ma in un paese in cui le famiglie dormono per strada,
interi isolati sono vuoti di residenti e la casa resta fuori portata per larghi
segmenti della popolazione (nonostante l’onnipresenza di cartelli
“Vendesi” nel paesaggio urbano), è una domanda cui i politici in larga
misura non danno risposta.
Da più di quattro anni la Plataforma de Afectados pro la Hipoteca (PAH,
“Piattaforma delle vittime dei mutui ipotecari”) persegue una risposta
semplice e poetica a questa domanda: persone che vivono insieme, l’una
per l’altra. La campagna di mutuo sostegno, solidarietà e disobbedienza
civile del movimento colpisce il cuore stesso della struttura di potere della
Spagna e, nonostante un blocco istituzionale spesso schiacciante, ha
ricevuto il sostegno di fino al 90% della popolazione.
Per capire lo spettacolare sostegno, la prassi radicalmente trasformativa e
le sfide istituzionali affrontate dal PAH ho recentemente parlato con Elvi
Màrmol, un’attivista del PAH della città di Sabadell, appena a nord di
Barcellona. Pur avendo lavorato per diversi anni come contabile, oggi è
una rappresentante di commercio libera professionista. Ciò, dice, le
concede parecchio tempo da dedicare al PAH. E’ membro del Comitato
Casi del PAH di Sabadell e responsabile comunitaria delle sue reti sociali,
nonché membro dei Comitati di Negoziazione e Internazionale del PAH
Catalogna.
Come sei arrivata ad aderire al PAH?
La differenza maggiore tra il movimento V de Vivienda e il PAH sono i
rispettivi membri. Mentre il primo era composto principalmente da
giovani con lavori precari che si organizzavano e lottavano per lasciare le
case dei propri genitori, la maggioranza del PAH è composta da famiglie
che stanno subendo il pignoramento.
Qual è il rapporto tra il 15M e il PAH?
Il PAH è stato creato due anni prima che il movimento 15M irrompesse
sulla scena; c’erano già gruppi a Barcellona, Sabadell, Terrassa, Murcia e
altre città. Il movimento 15M nelle piazze, e poi nelle assemblee di
quartiere, ha contribuito a lanciare il PAH in tutta la Spagna. Oggi ci sono
più di 200 gruppi PAH. E il movimento 15M è stato particolarmente
d’aiuto nella campagna “Basta sfratti”: siamo passati da più o meno 50
presenze agli sfratti a centinaia di persone.
Com’è la vita cittadina quotidiana in Spagna oggi?
Oggi la vita quotidiana in Spagna è dura e sta diventando ancora più dura.
Il diritto a una casa decente è sistematicamente violato. Ci sono più di
quattro milioni di case vuote, gli sfratti infuriano tuttora, gli alloggi
pubblici sono circa l’un per cento delle case totali e articoli di giornali
stanno affermando che persino quelli saranno privatizzati. Solo pochi mesi
fa la città di Madrid ha venduto 3.000 case sovvenzionate alla Goldman
Sachs. La percentuale dei disoccupati è tuttora a livelli record, quasi il
28%. E’ superiore al 50% nel caso dei giovani, così essi non saranno in
grado di lasciare le loro case e dovranno essere mantenuti dalle loro
famiglie fino a quando avranno trent’anni. I tagli all’istruzione stanno
rendendo più difficile ai giovani andare all’università e i tagli ai servizi
sanitari stanno già escludendo migliaia di persona dal sistema sanitario
pubblico spagnolo.
Come molti, sono arrivata al PAH a metà del 2011 attraverso il movimento
15M. Non facevo parte del movimento 15M della mia città, ma ho
ricevuto un opuscolo che pubblicizzava un dibattito del PAH nella piazza
di fronte al municipio. Fino ad allora avevo soltanto sentire parlare del
movimento sui media e non sapevo che fosse presente a Sabadell, così ho
colto l’occasione e mi sono recata al dibattito. Sapevo che la mia
conoscenza dei prodotti finanziari e la mia esperienza in consulenza
fiscale e in trattative bancarie sarebbero state utili, così mi sono trovata
immediatamente a lavorare. Sono stata in grado di aiutare, ma quello che
non sapevo era quanto il PAH avrebbe aiutato me; è così tanto che ci
vorrebbe un’altra intervista.
Perché la lotta per una casa decente, e in particolare la campagna del
PAH contro gli sfratti, è una lotta così importante in confronto con il
lavoro, i servizi pubblici e altri problemi sociali?
Che cosa ha dato il via alla creazione del PAH?
Il PAH organizza assemblee cui tutti possono presenziare, in cui tutti
possono spiegare la propria situazione e chiedere aiuto. Non diciamo mai
a nessuno che il suo caso troverà soluzione per il solo fatto di essersi
presentato. Quello che diciamo alle persone è che se continuiamo a
lavorare insieme, le possibilità che la loro situazione migliori saranno
maggiori. Abbiamo avuto molto successo perché abbiamo conseguito
delle piccole vittorie. Ogni volta che festeggiamo un caso in cui siamo
stati in gradi di far sì che una banca dichiari senza rivalsa * il debito per la
casa in questione (nota: questo non è lo status quo in Spagna), si apre un
mondo di speranze per le persone che aspirano alla stessa cosa. Ogni
piccola conquista spinge la gente a continuare a battersi e poiché queste
vittorie sono ottenute grazie alla forza complessiva di tutti quelli che
lottano insieme, la gente comincia ad andare oltre il proprio problema
individuale e a concepire una comunità. [* “non recourse debt”
nell’originale; in pratica, nel caso di insolvenza del debitore, la banca si
limita al pignoramento dell’immobile ipotecato assorbendo l’eventuale
perdita tra il debito residuo e il valore di mercato dell’immobile; il
pignoramento libera il debitore dal debito – n.d.t.].
Nel 2007 i prezzi degli alloggi avevano toccato picchi record. Se
consideriamo questi prezzi sproporzionati assieme ai tassi d’interesse alle
stelle e alla diminuzione del reddito (poiché la disoccupazione è passata
dall’8,3 per cento del 2006 al 17 per cento del 2009), ci troviamo con una
cittadinanza impoverita e gravata da debiti che vive nella paura di un
futuro incerto.
Nel 2006 era nato a Barcellona il movimento V de Vivienda (un
riferimento a V per Vendetta che si traduce in “V per la casa”). Per due
anni aveva articolato la lotta per il diritto ad alloggi decenti e denunciato
la bolla residenziale, chiedendo la fine della violenza della speculazione
immobiliare. Quando è scoppiata la bolla, due anni dopo, alcuni degli
attivisti del gruppo si sono resi conto che la gente stava per non poter più
essere in grado di rimborsare i propri mutui e che la lotta non sarebbe più
stata per l’accesso alla casa ma che molte famiglie sarebbero state lasciate
in realtà senza una casa. Hanno anche scoperto che la legge spagnola sui
mutui ipotecari avrebbe lasciato le persone con un debito incombente sulla
loro testa per il resto della vita. Così nel febbraio del 2009 è nata la
Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) che ha posto all’ordine del
giorno il fallimento delle politiche abitative e che si sarebbe dimostrata un
grosso colpo per i governi che aveva spinto la popolazione a indebitarsi.
2
Prima che una persona perda la casa, è parecchio probabile che abbia
perso il lavoro o la principale fonte di reddito. L’ultima cosa che tutti
pensano di perdere è la casa, il tetto sopra la testa, il luogo in cui si
sentono al sicuro e di cui tutti hanno bisogno, che fosse una grotta migliaia
di anni fa o i vari tipi di alloggi che esistono nella nostra attuale era
consumistica. E’ nell’ambito di questo bisogno fondamentale che esiste la
lotta fondamentale per una casa decente.
Nelle lotte che tu citi e un po’ più difficile ottenere tali importanti e
tangibili vittorie in così poco tempo. Ciò fa sembrare utopistiche queste
lotte a chi è meno politicizzato. Dobbiamo trovare un modo per
approfittare dell’occasione che il PAH ci offre di far crescere la lotta in
altre aree, in modo che sia più globale e più unito.
Qual è il rapporto tra il PAH e i partiti politici? Considerate il PAH
un avversario diretto della politica partitica?
Uno dei pilastri del PAH, così com’è espresso nel suo statuto e come
prerequisito per formare un nuovo PAH, è che il PAH è esplicitamente non
allineato con qualsiasi partito politico. Non apparteniamo ad alcun partito
politico e non diventeremo mai uno di essi, e questa è una componente
chiave del nostro successo. Le nostre assemblee sono molto pluraliste e
comprendono persone che hanno affinità con una molteplicità di partiti
politici, compreso il Partito Popolare che è di destra, una cosa che non
capirò mai.
Qual è il rapporto tra il PAH e la polizia?
Il rapporto con le diverse forze di polizia spagnole varia secondo le città.
A Sabadell i Mossos d’Escuadra catalani sono stati protagonisti di
numerosi episodi orribili. Un paio d’anni fa, dopo un’iniziativa nella festa
della befana in cui siamo passati da una banca all’altra lasciando sacchi di
carbone, hanno affrontato un gruppo di attivisti e hanno ferito un
minorenne. Solo pochi mesi fa, quando abbiamo occupato un grande
isolato per traslocarvi alcune famiglie sfrattate, volevano passare
attraverso le duecento persone che bloccavano l’ingresso. Una dei nostri
legali ha detto all’unità che non poteva entrare senza un mandato e il
giorno dopo i Mossos hanno accusato di resistenza lei e due attivisti.
Naturalmente il giudici li ha poi assolti da quell’accusa.
Molto presto il governo promulgherà la riforma del codice penale e anche
se sappiamo che quella che è stata presentata non è la versione definitiva,
è chiarissimo che i cambiamenti sono mirati a impedire le nostre proteste.
Ad esempio bloccare uno sfratto o attuare un’escrache (in cui
identifichiamo politici che sono contro la riforma a favore del popolo della
legge spagnola sui mutui ipotecari) può comportare una sanzione tra i
1.000 e i 30.000 euro. Assistere immigrati con il permesso di soggiorno
scaduta sarà reso reato penale. La resistenza passiva all’aggressione di un
agente sarà trattata come “resistenza all’autorità”, che può essere punita
con da due a quattro anni di carcere. Queste misure saranno estremamente
dure e certamente puniranno le forme di solidarietà e i lavoratori.
Che genere di tattiche e strategie attua il PAH e perché?
La campagna forse più nota è “Basta agli sfratti”, ispirata da Lluis di La
Bisbal che, dopo aver ricevuto la notifica di sfratto, si è recato in
un’assemblea e ha dichiarato che non avrebbe lasciato la sua casa. Ha
chiesto aiuto e l’ha trovato. Nel novembre del 2010 più di cinquanta
persone era schierate all’esterno della sua casa e hanno impedito
all’ufficiale giudiziario e alla polizia catalana di attuare lo sfratto. Lo
sfratto è stato bloccato quattro volte da allora e oggi il caso è stato
archiviato ed egli e suo figlio Lloid restano nella loro casa. Sino a oggi
abbiamo bloccato più di 800 sfratti.
Dopo di ciò abbiamo lanciato una campagna di promozione di una
proposta di legge d’iniziativa popolare mirata a cambiare l’arcaica legge
spagnola sui mutui ipotecari. Nonostante avessimo raccolto 1,4 milioni di
firme il Partito Popolare l’ha rigettata, il che ha dato il via alla nostra
campagna attuale, nota come Obra Social (un gioco di parole che utilizza
l’espressione usata dalle banche spagnole nei loro programmi di
responsabilità d’impresa e che letteralmente si traduce in “lavoro
sociale”). Questa campagna è più rivoluzionaria e meno riformista delle
precedenti, poiché implica l’occupazione di isolati residenziali di proprietà
di società finanziarie per darli a famiglie sfrattate.
In base alla mia esperienza personale, da membro del PAH di Sabadell
posso dire che attualmente il nostro è il più forte dei gruppi PAH.
Abbiamo occupato tre edifici nella nostra campagna Obra Social.
Abbiamo combattuto più ampiamente di altri gruppi per il diritto ad
alloggi decenti, poiché aiutiamo anche gli inquilini in affitto e non solo chi
ha sottoscritto mutui ipotecari. Organizziamo seminari per occupanti
3
singoli e abbiamo attuato la più lunga occupazione di una banca nella
storia del PAH, durata quattro giorni e tre notti nella sede dell’Unnim, una
sussidiaria del BBVA [Banco Bilbao Vizcaya Argentaria].
Considerate le vostre tattiche parte di una politica a più lungo
termine?
Penso che ottenere che le banche dichiarino i mutui ipotecari debiti senza
rivalsa, interrompere gli sfratti e ottenere affitti ridotti grazie all’edilizia
pubblica siano alcune delle piccole vittorie che ci hanno reso forti e che ci
differenziano oggi da altri movimenti sociali. Direi che le nostre tattiche e
strategie sono prevalentemente a breve termine e consistono nel decidere
obiettivi che siano conseguibili in termini dell’arco temporale e
dell’energia che richiedono. Questi successi tangibili a breve termine
inducono le persone a passare dall’essere scoraggiate e demoralizzate a
sentirsi dotate di potere e ad avere un impatto sulle loro comunità, in
tempi relativamente stretti. Ci aiutano anche a mantenere visibile il
movimento, a raggiungere un numero maggiore di persone e a continuare
a contestare politici e banchieri a proposito del cambiamento della legge.
Contemporaneamente le nostre assemblee ci garantiscono di apprendere e
addestrarci reciprocamente sempre, così da non perdere mai l’essenza di
ciò che rende così importante il PAH, cioè le persone che partecipano al
movimento. Senza dubbio il più grande successo del PAH è stato di dare
potere alle persone. Sono uomini e donne che a un certo punto si erano
convinte di far parte di una classe media e che ora si rendono conto di
essere parte di una maggioranza molto più vasta, che è la classe
lavoratrice. Un tempo erano soltanto un numero nella forza lavoro e oggi,
grazie al PAH, sono attivisti che non difendono soltanto il diritto a un
alloggio decente ma che lavorano con i militanti che hanno conosciuto in
altri movimenti per tessere la rete sociale delle loro stesse comunità.
Quali sono state sinora le chiavi del successo del movimento?
Il successo del PAH sta in ciascuna delle sue assemblee locali. Le persone
arrivano in tali assemblee in cerca di una soluzione alla propria situazione
individuale, ma si rendono rapidamente conto che attraverso la solidarietà
e la disobbedienza civile possono non solo trovare soluzioni ai propri
problemi, ma anche di essere parte di una comunità che è capace di
successi su larga scala.
Il PAH è oggi il più importante movimento sociale della Spagna, ma né è
perfetto, né è una panacea per tutti i mali del paese. Facciamo un sacco di
cose che sono state fatte molti anni fa, nei movimenti di quartiere, nei
movimenti di occupazione e così via. La piattaforma è nata nel posto
giusto al momento giusto e ha imparato come apprendere, crescere ed
espandersi senza perdere la sua essenza. Forse col tempo saremo in grado
di riunire tutte le diverse lotte sociali che hanno luogo in questo momento
della storia.
Carlos Delclòs è docente di sociologia all’università Pompeu Fabra e
redattore della rivista ROAR. Questo articolo è stato pubblicato in origine
sotto licenza Creative Commons, Attribuzione, Non commerciale, 3.0, da
openDemocracy, successivamente è stato tradotto da Giuseppe Volpe per
znetitaly.org.
(fonte: Omune-Info)
link: http://comune-info.net/2014/01/abbiamo-smesso-di-essere-vittime/
Lavoro ed occupazione
Fiat e le politiche fallimentari (di Andrea Di
Stefano , Roberto Romano)
Mentre nel Belpaese la politica si dibatteva nel sostegno o meno a
Marchionne, in altri paesi la ristrutturazione del settore dell'auto è stata
affrontata tramite la politica industriale.
La recente operazione Fiat sul mercato americano non deve sorprendere. È
perfettamente in linea con le politiche adottate da Marchionne. Non tanto
per le politiche di delocalizzazione, serie ma non importanti, piuttosto per
la necessità di Fiat di agganciare un player (paese) adeguato per
conseguire le necessarie economie di scala al fine di ridimensionare gli
alti costi fissi delle imprese automobilistiche. La Fiat è (forse) importante
per l’Italia, ma nel consesso europeo non si configura nemmeno come una
multinazionale tascabile. Nel settore dell’automotive non è tra le prime
multinazionali. La sua dimensione è troppo piccola per far fronte al
cambiamento di struttura che attraversa il settore delle automotive, il
debito troppo alto (oltre 14 miliardi) e i profitti risicati: il prossimo passo,
forse l’ultimo per Marchionne, è quello di arrivare ad un ulteriore step di
aggregazione, forse con la stessa General Motors. In altro modo,
l’operazione Chrysler è il tentativo di agganciare un’area economica
(industria) capace di misurarsi con i colossi europei (Germania) e del sud
est asiatico (Giappone). Diversamente la Fiat non potrebbe nemmeno
essere considerata una società di subfornitura.
Sostanzialmente Fiat è stata cacciata dall’Europa perché la Germania ha
assunto un ruolo dominante, in cui solo alcune società di subfornitura
possono partecipare. Se ci si pensa bene è stata anche la politica di
Marchionne, ma i governi del Paese invece di fare politica industriale
hanno esasperato il mercato via incentivi. Il colpo di grazia che proprio
non serviva a Fiat. Sostanzialmente Fiat acquista se stessa per entrare nella
filiera del settore delle automotive americano, visto che in Europa lo
spazio di mercato è economicamente chiuso dalla Germania con sei
milioni di auto prodotte e un tasso di utilizzo degli impianti superiore al
75%, cioè la soglia che permette di maturare dei profitti. Chiedete ai
lavoratori della Fiat quale è il tasso di utilizzo degli impianti. La Fiat si
trova nella non invidiabile situazione di non poter realizzare investimenti
produttivi perché producono tecnicamente perdite. I piani annunciati (e
sinora sempre rinviati) sono largamente inferiori a quelli dei concorrenti
europei: nei giorni scorsi la sola Audi (gruppo Volskwagen) ha confermato
che spenderà 22 miliardi di euro nell’arco temporale 2014-2018 pari a 4,4
miliardi l’anno. Il tasso di utilizzo degli impianti, la produzione
complessiva di automobili sono troppo bassi per aspettarsi un qualsiasi
ritorno in utili. Solo non investendo la società Fiat può produrre utili. Un
paradosso, ma gli investimenti sono per loro natura un anticipo dei profitti
futuri. Se le quote di mercato si riducono e i costi fissi crescono, possiamo
ridurre il costo del lavoro (variabile) fino alla schiavitù, ma il risultato non
cambierebbe.
Quindi l’operazione negli Usa è figlia della policy industriale italiana.
Appena iniziata la crisi economica, ancor prima dell’operazione negli Stati
uniti, Marchionne ha cercato di costruire più di una alleanza con una
società automobilistica tedesca (Opel). Marchionne disse al governo (di
centro destra) che non voleva nessun incentivo per l’acquisto di nuove
autovetture perché erano dannosi per il mercato. Marchionne aveva
compreso perfettamente che stava cambiando in profondità il mercato
dell’auto, e solo a determinate condizioni era possibile realizzare degli
investimenti. Marchionne aveva tentato di agganciare un Paese che stava
diventando uno dei due player internazionali del settore delle automotive.
Utilizzando correttamente l’analisi economica circa la dinamica dei settori
di scala, fin da l’inizio avremmo capito che il problema della Fiat era un
problema del settore dell’auto europeo, con un particolare: la Germania
aveva cominciato a conquistare quote di mercato e costruito una tale forza
di fuoco che avrebbe messo in ginocchio tutti gli altri Paesi.
Secondo l’indagine Mediobanca sulle multinazionali il comparto in
Germania conta per il 40 per cento delle vendite di tutte le corporation
tedesche e solo le aziende di quel paese sembrano avere le carte in regola
per far fronte ad una rivoluzione che già nel 2010 la Kpmg, analizzando il
settore, individuava come epocale e basata su una mobilità green: calo
costante e verticale delle alimentazioni a benzina e gasolio, car sharing e
massima integrazione con diverse forme di trasporto. Con oltre 6 milioni
di auto prodotte si possono abbassare i costi di produzione in misura ben
più alta di un paese che a mala pena arriva a 600 mila auto prodotte. Non
4
dimentichiamo mai che il costo del lavoro incide per una frazione dei costi
generali per queste società.
L’operazione di Marchionne è quella di affidare agli Stati Uniti il proprio
marchio, inserendolo all’interno del necessario processo di ristrutturazione
del settore automotive americano.
Forse sarebbe possibile agganciare le policy americane relative al settore
maturando una qualche politica industriale pubblica. Sempre che l’Europa
permetta una operazione del genere. Ma l’errore è stato commesso tempo
addietro, mentre la flessibilità dei contratti erano la foglia di fico per
nascondere il problema di struttura del settore. Alla fine la politica si è
schierata o meno con Marchionne, ma la politica in altri Paesi ha
affrontato la ristrutturazione del settore con delle politiche industriali.
Il settore deve affrontare l’eccesso di capacità produttiva e la
compressione della domanda tendenziale, causata anche dagli infelici
sussidi del 2009. In qualche modo le barriere all’entrata (nel settore delle
automotive) sono più alte, cioè solo a determinate condizioni-dimensioni è
possibile rimanere sul mercato. Sostanzialmente siamo in presenza di un
oligopolio-monopolio tecnico: poche società coprono l’intera domanda. Di
questo dovremmo parlare quando discutiamo di Fiat e del settore delle
automotive.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata
la fonte: www.sbilanciamoci.info.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Fiat-e-le-politiche-fallimentari21583
Nonviolenza
Nove milioni per una nuova politica di pace nel
mondo: Quale? (di Antonino Drago)
Nella recente legge di stabilità approvata dal Parlamento, sono stati
inseriti 9 milioni in tre anni per “… l’istituzione di un contingente di corpi
civili di pace, destinati alla formazione e alla sperimentazione della
presenza di 500 giovani volontari da impegnare in azioni di pace non
governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto o nelle aree di
emergenza ambientale”.
Come utilizzarli per attuare una nuova politica di Pace, che sia
esemplare nell’operare senza armi al fine di contribuire a risolvere i
conflitti internazionali?
Ma innanzitutto, come mai l’Italia si trova nella posizione del Paese leader
mondiale nel proporre iniziative istituzionali per la Pace? Ha iniziato ad
esserlo nel 1998 con la legge 230 sulla obiezione di coscienza, la quale
prevedeva all’art. 8e una “istruzione e esercitazione di una difesa civile
non armata e nonviolenta” degli obiettori di coscienza in Servizio civile.
Poi anche la legge 64/01 sul servizio civile volontario ha finalizzato
questo servizio a “contribuire alla difesa della Patria con mezzi ed azioni
non militari”. Poi su questo tema nel 2004 un decreto della Presidenza del
Consiglio dei Ministri ha istituito un Comitato consultivo, composto da
una maggioranza di civili non istituzionali. Nel 2008 la vice Ministra
AA.EE. On. Sentinelli ha finanziato con 170 mila euro un gruppo di
associazioni per la formazione di personale di peacekeeping civile. Infine
oggi questo consistente finanziamento, che è pari all’1 per mille della
difesa militare (così come è il finanziamento dell’ONU rispetto alle spese
mondiali per gli armamenti). Questa leadership dell’Italia vale anche
rispetto alla Germania, che ha sì un servizio civile di Pace, però che “…
seconds experts to assist local partner organisations” (vedi sito), cioè invia
tecnici (psicologi, medici, amministrativi, ingegneri), che in zone a rischio
lavorano secondo la loro professione, non per preparare direttamente la
pace.
In effetti l’Italia ha quattro “fortune”. La prima è di aver avuto più maestri
di nonviolenza che qualsiasi altro Paese (a parte l’India): Capitini, Lanza
del Vasto, Dolci, La Pira, Don Milani, Don Tonino Bello, ecc.. La seconda
è di avere un art. 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra…”) che
non ha uguali nelle altre Costituzioni. Terza fortuna è di aver avuto la
Campagna di obiezione fiscale più forte del mondo; forte non solo per
l’assemblearismo e i meccanismi di accumulazione delle somme obiettate
su un fondo comune, ma anche per la prospettiva politica: appunto una
nuova maniera di concepire lo Stato, tale da includere una difesa
alternativa. Quarta fortuna è stata quella di un fattivo servizio civile degli
obiettori, il quale ha tanto influito sulla società italiana che essa non ha
potuto più farne a meno, sia per i servizi prestati, sia per la prospettiva
educativa e politica sulla gioventù. Queste sono tutte fortune esclusive,
nessun altro Paese le ha avute. Esse spiegano perché ancora nessun altro
Paese ha una delle precedenti novità istituzionali per la Pace.
Secondo punto da chiarire. Pur aspirando i proponenti (in particolare l’on.
Marcon di SEL) a un Corpo autonomo di peacekeeping, il finanziamento
sarà devoluto al Servizio civile nazionale, perché oggi la legge permette
allo Stato solo questa attività di pace disarmata; la quale appartiene alla
prospettiva che lanciarono gli obiettori di coscienza nella assemblea
straordinaria di Bologna 1985: una prima istituzione italiana di difesa
alternativa compiuta dai giovani obiettori, e oggi dai servizio civilisti.
Quindi dieci anni prima che Langer trasferisse questa proposta in Europa;
laddove aumentano gli studi anche ufficiali sul tema (l’ultimo di Clark e
Dudouet, EXPO/B/DROI/2008/69), ma non iniziative e ancor meno le
chiarificazioni sul tipo di intervento, se dipendente dai militari o non.
Ora gli obiettori fiscali non ci sono quasi più, perché repressi duramente
(ad es. il fermo macchina); mentre sono molto vivaci le associazioni (ad
es. Operazione Colomba, IPRI-CCP, Un Ponte per…, ) e gruppi che
intervengono in azioni di pace all’estero (le azioni italiane più famose
sono state Time for Peace del 1989 a Gerusalemme, la quale
eccezionalmente mise assieme pacifisti israeliani e palestinesi in una
manifestazione relativamente di massa; e nel 1992 i 500 a Sarajevo in
guerra, guidati da Don Tonino Bello.)
Oggi ci si domanda: sapranno “i nuovi eroi” utilizzare il
finanziamento statale per indicare la novità che li caratterizza, cioè
azioni precise effettuate sul campo?
I precedenti tentativi istituzionali non hanno dato una risposta. Dopo la
230/98, non ci fu adeguata pressione per farne attuare l’art. 8 e). Cosicché
essa rimase materia di principio giuridico (al punto che nel 2010 un D.
Lgs. n. 66 del 2010 l’ha abrogata, fatti salvi gli articoli sulla obiezione di
coscienza e sull’Ufficio Naz. del servizio civile). Anzi, nel 2001 la leva è
stata “sospesa” e solo l’intervento delle Associazioni, senza più giovani e
interessate al servizio civile, portò alla 64/01, che significativamente
all’art. 1 a) mantenne la finalità della difesa alternativa.
Anche quell’articolo sarebbe caduto nell’oblio se le Regioni non avessero
rivendicato alla loro gestione il Servizio civile affidato allo Stato centrale.
A seguito di una decina di sentenze nello stesso senso, la sent. 228/04
della Corte Costituzionale ribadì che quel servizio è difesa della Patria
senza armi, pertanto è da attribuire allo Stato. Per attuare questa difesa il
governo fu costretto a istituire almeno il Comitato su menzionato.
Ma al suo interno una maggioranza composta da rappresentanti di
Associazioni bloccò il primo finanziamento per il 2004 (400.000 euro); tra
altri motivi: un giovane all’estero costa tre volte uno in Italia. Dopo le
dimissioni del presidente (il sottoscritto) e altri tre membri, il nuovo
presidente del Comitato (Prof. P. Consorti) organizzò un convegno che
rafforzava la sua interpretazione della finalità della 64/01: essa non aveva
a che fare con i conflitti riguardanti la difesa della Patria, ancor meno la
Pace all’estero. Cosicché questo Comitato, rinnovato tre volte, non ha
prodotto che documenti e infine nel 2011, grazie a un piccolo
finanziamento straordinario, ha inviato sei giovani per un anno nel
tentativo di risolvere micro-conflitti (vendette) in zona non di guerra
5
(Albania).
Una sorte non molto diversa ebbe nel 2008 il finanziamento straordinario
del M.AA.EE per la formazione al peacekeeping civile. Avendo accettato
un titolo poco qualificante (“Volontariato”), esso fu rivolto principalmente
a studenti di scuola superiore (cioè giovani non indipendenti, che quindi
non erano intenzionati a partecipare immediatamente a operazioni di pace)
e solo in parte utilizzati per quattro corsi di 40 ore per adulti.
I quali, d’altra parte, avrebbero potuto usufruire di corsi ben più
impegnativi (800 ore) nella forma dei corsi professionali sul peacekeeping
civile, istituiti dalle Regioni con fondi UE. Essi iniziarono dai primi anni
2000 a Bolzano e poi si diffusero in altre Regioni (notevoli i quattro corsi
nella Campania di Bassolino nel 2004). Ma poi sono scomparsi
progressivamente, benché Tecnostruttura (l’ufficio giuridico delle
Regioni) abbia anche prodotto uno studio sulla figura professionale del
peacekeeper (Franco Angeli, 2007).
Da segnalare anche la istituzione di un corso di laurea di Scienze per la
Pace all’Università di Pisa, che però ha confinato questa materia a un
corso a scelta (tenuto dal sottoscritto); e anche un Centro Studi sul
Servizio Civile, promosso dal Prof. Consorti; ma senza novità di rilievo né
all’esterno, né tra gli studenti universitari.
In questo panorama è evidente che una proposta d’impiego del nuovo
finanziamento ha una natura critica: si giungerà finalmente a chiarire
all’opinione pubblica che cosa significa la pace senza armi in zone di
guerra? Rispetto alla trentina di proposte che nel 2004 furono presentate
nel Comitato ministeriale e che restarono lettera morta, molte guerre e
paci sono passate nel mondo. Oggi la situazione di questo tipo di
interventi qual è?
In Italia si è cominciato a elaborarli quando nel 1992 tutto il movimento
per la pace italiano fu “aggredito” dalla emergenza della guerra alle nostre
porte, in Jugoslavia, e i deputati pacifisti furono presi in contropiede dal
“dover” approvare l’’intervento “umanitario” ONU in Somalia. Da allora è
nato un sforzo eccezionale di nuovi gruppi che, con tante esperienze sul
campo, hanno superato una serie di tappe di questa crescita.
Ma questa crescita spontanea dal basso è sufficiente davanti a questo
finanziamento impegnativo? Come confrontare questa crescita con gli
almeno 150 giovani tra i 18 e 28 anni che per un solo anno del loro
servizio civile dovrebbero essere prima formati e poi inviati in una zona
“calda”? Certamente il loro intervento senza le armi (che costano oro e
che distruggono tutto) è almeno 5 volte più economico di quello armato;
ma solo se questo intervento è efficace.
Qualche ONG potrebbe di nuovo esaurire l’attuale finanziamento in una
formazione per una futura attività che ogni frequentante deciderebbe poi
dopo nella sua vita privata. Oppure potrebbe scegliere un luogo critico (ad
es. Cipro, secondo un progetto già sperimentato dalla città di Ferrara nel
2005-8). Oppure potrebbe indirizzare i giovani a dare protezione
internazionale e sostegno alle Comunità di Pace della Colombia (benché
l’attuale avanzamento del processo di pace potrebbe far scomparire a
breve questa necessità). Oppure potrebbe cercare nella disastrata Africa
uno Stato failed dove compiere una esperienza esemplare; ma di quale
attività, mentre bande incontrollate scorrazzano impunite?
Infatti le azioni sul campo (escludendo ovviamente quelle umanitarie che
già altri fanno) sicuramente debbono difendere i diritti (umani e civili) e
raggiungere almeno il livello dell’empowerment della popolazione (di più
che la formazione alle soluzioni nonviolente). Allora, uscendo
definitivamente dalla qualifica di “volontariato” e dalla crescita solo
spontanea, che proporre di più, in modo da “pesare” sulla soluzione del
conflitto armato?
Finora le ONG italiane non hanno programmato interventi al livello
granché superiore a quello dei diritti umani. Né all’estero hanno una rete
di gruppi stabili nei quali i 150 giovani da inviare dovrebbero inserire la
loro attività di solo un anno. Inoltre esse debbono sottostare al M.AA.EE
che esclude alcune “zone calde” nel mondo e al Ministero della Difesa che
esclude le zone dove esso non interviene (come fu nella guerra in
Jugoslavia).
Infine un sano realismo suggerisce che la grande diversità (di motivazioni,
interessi, autorevolezza, capacità operativa, capacità amministrativa e
gestionale) delle ONG (cattoliche e non, nonviolente e non, nonviolente
pragmatiche e nonviolente di testimonianza, collaterali o autonome da
partiti, affini ai militari o separate da essi) ha poche chances di
raggiungere una immediata unità programmatica su un progetto “grosso”
come quello che richiederebbe il finanziamento suddetto e che sia
migliore di quelli delle coalizioni internazionali di ONG: le Peace
Brigades International (dal 1981) e la Nonviolent Peaceforce (dal 2001).
Queste sanno bene che un incisivo intervento sul campo pone una serie di
problemi: 1) il dilemma partigianeria o indipendenza dagli interventi
armati (dell’Italia, NATO e delle (due o più) parti in conflitto)? 2) lo
scontro degli obiettivi immediati e ultimi della pletora di attori di “pace”
sul campo, con problemi di mutua comunicazione (anche per la
imprecisione dei mandati degli attori istituzionali, poco disponibili verso
le ONG); 3) i grandi dilemmi etici nello scegliere la strategia e la tattica,
fino al problema di come elaborare il lutto (sul luogo e nel Paese
d’origine) per eventuali caduti sul campo. Le due suddette coalizioni
potrebbero accettare il finanziamento tramite i loro rappresentanti italiani;
ma questa soluzione ha lo svantaggio di dover scegliere due sole ONG
italiane tra le tante che potrebbero essere coinvolte. Nella ipotesi più
ottimistica, solo alcune ONG italiane, o autonome o legate a
organizzazioni internazionali, riuscirebbero a esprimere un intervento
all’altezza di tragiche situazioni belliche.
All’estero a che livello si è arrivati?
L’esempio del Servizio civile di pace della Germania è poco praticabile
dal nostro servizio civile: abbiamo forse centinaia di giovani sotto i 28
anni da esportare così esperti da aiutare le organizzazioni locali di una
realtà straniera in guerra (cioè, i nostri laureati sono in grado di capire
quelle situazioni)? Possiamo creare in breve tempo un Consortium di tali
organizzazioni locali?
Piuttosto l’esperienza cruciale è quella del PK dell’ONU, che è l’unica
forma attuale di governo mondiale, che per di più sviluppa nel mondo una
politica di Pace come sua finalità specifica (Art. 1: “… evitare alle nuove
generazioni il flagello delle guerre”) e financo con un peacekeeping civile
(dal 1992 con l’Agenda per la Pace di B. Ghali). Anche la sua esperienza
ha l’anno 1992 come discriminante. Da dopo la Somalia è stato chiaro che
l’autorità morale degli interventi dell’ONU deve essere articolata in
precise prescrizioni operative su come gestire una operazione; la quale per
di più. date le numerosissime guerre in Stati failed (o disastrati) comporta
un tipo di intervento ben più forte della separazione dei belligeranti;
quindi rivolto non solo a stoppare la guerra (pace negativa), ma a
intervenire costruttivamente sulle sue cause strutturali (pace positiva),
affinché essa non si ripeta con grande probabilità nel giro di 5-7 anni.
Perciò oggi gli interventi sono “multilaterali” e a tale scopo includono una
essenziale componente civile, che deve affrontare problemi anche
colossali.
A livello di intelligenza collettiva su queste operazioni, si è usciti dallo
studio del singolo intervento ONU per cercare di assumere, con un grande
sforzo di teorizzazione (Bellamy e Williams 2010) un più ampio panorama
di teoria politica su questi interventi (nonostante gli studiosi di Relazioni
internazionali siano poco sensibili a questo problema). Alla metà degli
anni ’90 una innovazione importante apparve la introduzione della teoria
della risoluzione dei conflitti (Fetherstone 1994, Lederach 1997), benché
poi essa non sia stata decisiva per giungere a una condivisa base teorica;
che ancora viene ricercata, magari nel quadro più ampio di un
cambiamento di tipo di società e di Stato, non necessariamente di tipo
occidentale (Ramsbotham, Woodhouse e Miall 2011).
6
Nello stesso tempo le passate esperienze di oltre 50 anni di interventi
ONU hanno dato materiale sufficiente per iniziare studi statistici che
misurano quantitativamente la loro efficacia e le loro specificità positive o
negative (Doyle e Sambanis 2006 per primi e più autorevolmente). Come
primo dato si ha che questi interventi dell’ONU sono sostanzialmente
efficaci e sicuramente costano molto di meno degli interventi unilaterali
degli USA o della NATO (Rapporto RAND 2006).
Quindi a livello internazionale da pochi anni siamo arrivati a un livello di
quasi professionalità progettuale e operativa (che sarebbe ben più alto se
l’ONU potesse agire senza la concorrenza NATO e ricevendo maggiori
finanziamenti e burocrazia – solo 800 impiegati a New York per le attuali
17 operazioni di pace nel mondo). E’ bene riferirsi a essa anche perché
l’obiettivo politico più alto del PK delle ONG dovrebbe essere collaborare
con il PK dell’ONU.
Qui aiuta una quinta “fortuna” dell’Italia: sul suo territorio, a Brindisi, c’è
la base logistica per le operazioni di peacekeeping ONU nel mondo. Una
base operativa di tale rilevanza ha certamente bisogno di tutti i tipi di
personale di sostegno. Per lo Stato l’unico lavoro amministrativo sarebbe
di siglare con il Dipartimento ONU di Brindisi un accordo che è tutto a
vantaggio di quest’ultimo. I vantaggi politici sarebbero molti. Si avrebbe
la sicurezza di contribuire alla Pace nel modo più politico e più esperto
possibile; tanto che sarebbe chiara la validità di eventuali sacrifici anche
della vita da parte dei giovani impegnati. Inoltre si riceverebbe la
solidarietà di una ampia base sociale, quale è quella della marcia PGAssisi, che sempre ha manifestato per attribuire più potere all’ONU. Infine
sarebbe possibile partecipare alla sfilata del 2 Giugno con persone che
rendono chiaro a tutti come si può, senza armi, agire efficacemente per la
pace nel mondo. Si noti anche che le Associazioni di servizio civile che
vogliano presentare progetti in tal senso avrebbero come unico vincolo
l’avere una sede vicino a Brindisi, dove ospitare i giovani.
Questa scelta significa forse rinunciare alla crescita autonoma del PK delle
ONG? Al contrario, dovendo presentare progetti compatibili con il lavoro
dell’ONU a Brindisi, esse, tra le prime nel mondo, si qualificherebbero ai
massimi livelli operativi e strategici. Per di più, questa attività prefigura
quello storno di finanziamenti e personale dalle Difese nazionali che sin
dalla nascita i vari Paesi sottoscrittori della Carta ONU si sono impegnati
(Art. 43) a compiere; quindi questa partecipazione al lavoro ONU a
Brindisi sarebbe anche una pressione politica internazionale delle ONG
per affidare la Pace nel mondo più all’ONU che ai vari eserciti nazionali.
Comunque nessuno vuole escludere una crescita delle ONG italiane
attraverso le ONG internazionali o attraverso un salto di qualità che
proponga progetti validi; ma certamente non per tutto il contingente dei
giovani.
Antonino Drago – primo presidente del Comitato per la Difesa civile non
armata e nonviolenta, già docente all’Università di Pisa, dal 2001 per
diversi anni, dei primi corsi universitari italiani su “Difesa Popolare
Nonviolenta” e “Peacekeeping e Peacebuilding”, docente del corso di
Peacekeeping and Peacebuilding della Transcend Peace University di
Johan Galtung. 050937493
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2014/01/10/nove-milioni-per-una-nuova-politica-dipace-nel-mondo-quale-antonino-drago/
Il santo di Palermo. Vi racconto chi era Danilo Dolci
(di Aldous Huxley)
Senza carità, la conoscenza tende a mancare di umanità; senza
conoscenza, la carità è destinata sin troppo spesso all’ impotenza. In una
società come la nostra – i cui enormi numeri sono subordinati a una
tecnologia in continua espansione e pressoché onnipresente – a un nuovo
Gandhi o a un moderno San Francesco non basta esser provvisto di
compassionee serafica benevolenza.
Gli occorrono una laurea in una delle discipline scientifiche e la
conoscenza di una dozzina di studiosi di materie lontane dal proprio
campo di specializzazione. È soltanto frequentando il mondo del cervello
non meno del mondo del cuore che il santo del Ventesimo secolo può
sperare in una qualche efficacia. Danilo Dolci è uno di questi moderni
francescani con tanto di laurea. Nel suo caso la laurea è in architetturae
ingegneria; ma questo nucleo centrale specialistico è immerso in un’
atmosfera di cultura scientifica generale. Dolci sa di cosa parlano gli
specialisti di altri campi, rispetta i loro metodi ed è desideroso, bramoso
addirittura, di giovarsi dei loro consigli. Ma ciò che sa e ciò che può
apprendere dagli altri è sempre per lui strumento di carità: in un quadro di
riferimento le cui coordinate sono un incrollabile amore del prossimo e
una fiducia e un rispetto non meno incrollabili nei confronti dell’ oggetto
di questo amore. L’ amore lo stimola ad adoperare le proprie conoscenze a
beneficio dei deboli e degli sfortunati; la fiducia e il rispetto lo portano a
incoraggiare costantemente deboli e sfortunati ad aver fiducia in se stessi,
lo spingono ad aiutarli ad aiutarsi da sé. Quando Danilo Dolci giunse in
Sicilia proveniente dal Nord Italia, il suo era un pellegrinaggio di carattere
estetico e scientifico. S’ interessava dell’ architettura dell’ antica Grecia e
aveva deciso di trascorrere un paio di settimane a Segesta, per studiarne le
rovine. Ma lo studioso dei templi dorici era anche (e soprattutto) uomo di
coscienza e di amorevole bontà. Venuto in Sicilia attratto dalla passata
bellezza di questa terra, rimase in Sicilia a motivo del suo presente
degrado. Quella che Keats chiamò «l’ enorme infelicità del mondo», in
Siciliaè più gigantesca della media: in particolar modo nella parte
occidentale dell’ isola. Per Dolci il primo sguardo sulla gigantesca
infelicità della Sicilia occidentale agì da imperativo categorico. Bisognava
fare qualcosa, punto e basta. Si stabilì pertanto a circa venti miglia da
Palermo, in uno slum rurale chiamato Trappeto; sposò una sua vicina di
casa, vedova con cinque figli piccoli; si trasferì in una casetta priva di ogni
comfort e da questa base lanciò la propria campagna contro l’ infelicità
che lo circondava. <…& Nella vicina Partinico e nelle campagne
circostanti i problemi che si pongono all’ uomo di scienza e di buona
volontà sono tanti, tutti difficili da risolvere. C’ è, innanzitutto, il problema
della disoccupazione cronica. Per una consistente minoranza di uomini
validi non c’ è, molto semplicemente, proprio nulla da fare. Ma il lavoro,
sostiene Dolci, non è soltanto un diritto dell’ uomo: è anche un suo dovere.
Per il proprio bene e per il bene degli altri, l’ uomo deve lavorare. In base
a questo principio, Dolci organizzò uno «sciopero a rovescio», in cui i
disoccupati protestavano contro la propria condizione mettendosi al
lavoro. Un bel mattino, ecco che Dolci e un gruppo di senza lavoro di
Partinico si dedicano alla riparazione – di propria iniziativa e del tutto
gratis – di una strada del luogo. Puntualmente ecco piombare su questi
eterodossi benefattori la polizia, che effettua una serie di arresti. Non si
verificarono scontri, dacché per Dolci la non violenza è tanto un principio
che una linea politica ben precisa. Dolci fu processato e condannato a due
mesi di prigione per occupazione di suolo pubblico. Contro la sentenza
ricorsero in appello tanto l’ imputato che l’ accusa: a parere delle autorità
locali, infatti, quella a due mesi di carcere era una condanna troppo
clemente. <…& Non meno grave della disoccupazione cronica è il
problema del diffuso analfabetismo. Molti non sanno leggere affatto; e
pochi, tra gli alfabetizzati, possono permettersi di acquistare un
quotidiano. I trecentocinquanta fuorilegge responsabili di gran parte del
banditismo per il quale la zona di Partinico è divenuta tristemente famosa,
hanno trascorso complessivamente 750 anni a scuola e oltre 3.000 anni in
prigione. L’ analfabetismo va a braccetto con un tradizionalismo
addirittura primitivo. Ad esempio, la gente di campagna mangia patate:
quando può permetterselo, dacché le patate arrivano da Napoli e costano.
Ma i progenitori di queste persone nulla sapevano di tuberi: e perciò a
nessuno viene in mente di coltivare le patate in loco. Allo stesso modo,
manca la tradizione delle carotee della lattuga, pressoché sconosciute a
Partinico. Le tradizioni in materia d’ «onore» sono altrettanto rigide che
quelle riguardanti gli ortaggi. Qualsiasi offesa recata all’ «onore» di
qualcuno esige uno spargimento di sangue; e, ovviamente, lo spargimento
di sangue dev’ essere vendicato con un ulteriore spargimento di sangue,
che a sua volta… Ai delitti d’ onore e di vendetta vanno aggiunti quelli
commessi per brama di denaro e di potere dagli appartenenti alla mafia, la
grande organizzazione malavitosa che per secoli ha costituito una sorta di
stato segreto all’ interno dello stato ufficiale. <…& La soluzione di tutti
7
questi problemi richiederà tempo, molto tempo: intanto Dolci vi ha posto
mano. Si istruiscono i bambini e si persuadono i genitori a mandarli a
scuola (che ci sia bisogno di persuaderli è dovuto al fatto che i ragazzini
vengono pagati 400 lire la giornata, laddove gli adulti ne ricevono 1.000.
Naturalmente i datori di lavoro preferiscono impiegare lavoro minorile. E,
altrettanto naturalmente,i capifamiglia indigenti preferiscono le 400 lire
alla totale assenza di entrate). Dalla sua base in fondo alla società, Dolci è
riuscito a far leva sui propri amici e simpatizzanti più vicini al vertice
della piramide sociale. <…& Partinico, tuttavia, non è l’ unico né il più
avvilente palcoscenico dell’ infelicità siciliana. C’ è anche Palermo.
Palermo è una città di oltre mezzo milione di abitanti, oltre centomila dei
quali vivono in condizioni che debbono essere definite di povertà asiatica.
Nel cuore stesso della città, alle spalle degli eleganti edifici allineati lungo
le sue arterie principali, si trovano acri e acri di slum che rivaleggiano
quanto a squallore con quelli del Cairo o di Calcutta (uno dei peggiori
slum si trova proprio nell’ area compresa tra la Cattedrale e il Palazzo di
Giustizia). Nel suo Inchiesta a Palermo Dolci fornisce le statistiche di
questa gigantesca miseria e testimonia, adoperando le loro stesse parole,
del modo in cui gli abitanti dei bassifondi della città trascorrono le loro
vite distorte, ciò che fanno, pensano e provano. Il libro è appassionante e
al contempo assai deprimente: deprimente, vien quasi fatto di dire, su
scala cosmica. Perché Palermo, ovviamente, è un caso tutt’ altro che
unico. Sparse in tutto il mondo vi sono centinaia di città, migliaia e decine
di migliaia di cittadine e villaggi, le cui attuali condizioni sono altrettanto
cattive, ma nelle quali il futuro appare più tetro, le prospettive di
miglioramento incomparabilmente peggiori. <…& Nel frattempo Dolci fa
quello che un uomo di scienza e di buona volontà può fare, con una
manciata di aiutanti, per mitigare l’ attuale degrado e per stabilire, in
maniera sistematica e scientifica, ciò che occorrerà fare in futuro e come
riuscire a farlo. <…& Che genere di industrie creare? E chi anticiperà i
capitali necessari? E, una volta avviate, come faranno queste industrie (la
cui mano d’ opera, teniamolo a mente, sarà in larga misura priva di
specializzazione e spesso di alfabetizzazione)a competere con i grandi
agglomerati di forza lavoro qualificata presenti a Milano, a Torino? Sono
queste le domande alle quali Dolci l’ ingegnere, Dolci il sostenitore del
metodo scientifico, dovrà trovare una risposta. Ce la farà? È possibile far
qualcosa in un ragionevole lasso di tempo per dare lavoro ai disoccupati di
Palermo, decoro agli abitanti degli slum e speranza ai loro figli? Chi vivrà
vedrà.
Traduzione Alfonso Geraci © Aldous Huxley, 1959
ALDOUS HUXLEY 16 dicembre 2013
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/16/ilsan
to-palermo-aldous-huxley-vi-racconto-chi.html
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2013/12/20/il-santo-di-palermo-vi-racconto-chi-eradanilo-dolci-aldous-huxley/
Politica e democrazia
Per una legge elettorale rappresentativa (di
Associazione per la Democrazia Costituzionale,
Comitati Dossetti per la Costituzione)
Al Presidente del Senato, Sen. Pietro Grasso
Al Presidente della Camera dei Deputati, on. Laura Boldrini
Ill.mo Presidente,
la recente decisione della Corte Costituzionale che, accogliendo i rilievi
sollevati dalla Corte di Cassazione, ha dichiarato incostituzionale il
“porcellum”, dimostra la lungimiranza dei padri costituenti che hanno
armato la fragile democrazia riconquistata a prezzo della lotta di
liberazione con robuste istituzioni di garanzia: la magistratura
indipendente e la Corte Costituzionale che, in questo caso, sono riuscite ad
intervenire e a sanare la ferita più grave che un sistema politico impazzito
aveva inferto alla democrazia costituzionale.
Le leggi elettorali hanno un influsso immediato e diretto su quel principio
supremo della Costituzione che attribuisce la sovranità al popolo
determinando la qualità della democrazia rappresentativa ed i suoi limiti.
Esse danno contenuto al sistema politico e realizzano la Costituzione
vivente con riferimento alla forma di governo, alla forma ed alla natura
dei partiti politici ed alla possibilità dei cittadini di concorrere a
determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.). L’esperienza storica ci
insegna che lo Statuto Albertino è stato distrutto dalla legge Acerbo, che
ha consentito a Mussolini di prevaricare sull’opposizione ed assicurarsi la
fedeltà di un Parlamento ridotto ad un bivacco di manipoli. Nel 2005 con
la legge Calderoli è stato introdotto un sistema elettorale molto simile alla
legge Acerbo, in virtù del quale è stato fatto un ulteriore passo, dopo
l’introduzione del maggioritario nel 1993, per una svolta in senso
oligarchico del sistema politico, comprimendo il pluralismo attraverso la
tagliola delle soglie di sbarramento e del premio di maggioranza, e
consentendo ad una ristrettissima cerchia di capi di partito di determinare
per intero la composizione delle Camere, “nominando” i rappresentanti
del popolo, senza che il corpo elettorale potesse mettervi becco. Questo
sistema elettorale ha favorito una evoluzione in senso “castale” del
sistema politico rappresentativo, tanto che nel senso comune coloro che
dovrebbero essere i rappresentanti dei cittadini vengono percepito come
una “casta”, cioè un corpo estraneo, portatore di interessi suoi propri,
contrapposti al corpo elettorale di cui dovrebbero essere espressione. La
sentenza della Corte Costituzionale interviene a sanare questo vulnus alla
democrazia poiché sancisce con autorità di giudicato, che i sistemi
elettorali, seppur dominio riservato del Parlamento, devono essere coerenti
con l’impianto costituzionale, che prevede che il voto deve essere libero
(il che significa possibilità di scegliere più proposte politiche) ed uguale
(il che significa che non ci deve essere un quoziente di maggioranza e uno
di minoranza, come prevedeva la legge Calderoli) e conseguentemente le
assemblee parlamentari devono essere rappresentative della pluralità di
interessi, bisogni e domande presenti nel corpo elettorale e nella società
italiana; ciò non è compatibile con il rifiuto pregiudiziale avanzato in
questi giorni, non solo nei riguardi del principio della proporzionale ma
anche di ogni sua più duttile attuazione. E’ compito precipuo del
Parlamento mettere a confronto le diverse domande politiche e realizzare
una sintesi che consenta un governo autorevole ed efficiente.
Orbene, l’insegnamento della Corte Costituzionale non può essere
ignorato o disatteso nel momento in cui il Parlamento è intento al compito
di riscrivere la legge elettorale. Né si può accettare che il complesso dei
partiti e dei media qualifichino come una sciagura il sistema elettorale
proporzionale che residua dopo gli interventi correttivi della Corte
Costituzionale poiché la Consulta ha reso la legge elettorale vigente
coerente con l’ordinamento costituzionale ed i diritti dei cittadini elettori.
Ove ritenga non adeguata la legge vigente, come corretta dalla Corte
Costituzionale, il Parlamento è libero di intervenire ed introdurre delle
modifiche al sistema elettorale, ma nel disegnare una riforma deve
rispettare il parametro della compatibilità del sistema elettorale con la
Costituzione repubblicana e non può sacrificare alla governabilità il
pluralismo politico e la rappresentatività delle Assemblee parlamentari, né
può inseguire miti anticostituzionali come quello del ricorso al corpo
elettorale per realizzare l’investitura di un governo o di un capo politico.
Povertà ed emarginazione
Miseria ladra! Crisi: Eurostat, in Italia allarme
povertà, colpisce tre su dieci (di Gruppo Abele)
Italia al secondo posto della graduatoria di Eurolandia dei paesi a rischio
poverta': una minaccia che colpisce tre persone su dieci. A suonare
l'allarme e' l'Ufficio europeo di statistica, Eurostat, in un rapporto
pubblicato oggi. Dati alla mano, infatti, nel nostro paese la percentuale
della popolazione a rischio poverta' o esclusione sociale e' salita al 29,9%
nel 2012 (in valori assoluti 18,2 milioni di persone), dal 25,3% del 2008 e
il 28,2% del 2011.
Peggio dell'Italia nella zona euro si trova solo la Grecia con 34,5% della
popolazione che versa in condizioni di severa indigenza (3,8 milioni). In
sostanza vuol dire questa questa percentuale della popolazione o e' a
rischio poverta' dopo i trasferimenti sociali (il 19,4% degli italiani), o vive
in condizioni di serie privazioni materiali (il 14,5%), oppure vive in un
nucleo con una bassa intensita' lavorativa (il 10,3%). Allargando
l'orizzonte al resto dei paesi Ue, in Francia e' a rischio poverta' il 19,1%
dei cittadini, in Germania il 19,6%, in Finlandia 17,2%, in Olanda il 15%,
tra gli altri. Quanto all'Ue nel suo insieme, l'anno scorso il 24,8% della
popolazione era a rischio, ovvero 124,5 milioni di persone, una
percentuale piu' alta dunque del 24,3% del 2011 e del 23,7% del 2008.
Sociale. Eurostat: Italia a rischio povertà subito dopo le Grecia
(DIRE) Roma, 5 dic. - L'Italia ha una quota di persone a rischio poverta' o
di esclusione sociale inferiore solo alla Grecia. Infatti, nella zona euro, in
Italia la quota di persone a rischio nel 2012 era del 29,9%, pari a 18,2
milioni di persone. Il primo posto e' riservato alla Grecia con una
percentuale del 34,6%, pari pero' a 3,8 milioni di persone. E' quanto
emerge da un rapporto Eurostat. Quello dell'Italia e' un trend negativo in
aumento: nel 2008 la quota era del 25,3%, nel 2011 del 28,2%. Per quanto
riguarda l'Ue a 28, nel 2012, un quarto della popolazione era a rischio di
poverta' o esclusione sociale, pari a circa 125 milioni di persone. Sono
state registrate le maggiori quote di persone a rischio in Bulgaria (49%),
Romania (42%), Lettonia (37%) e Grecia (35%), e le piu' basse nei Paesi
Bassi e la Repubblica Repubblica (entrambi 15%), Finlandia (17%),
Svezia e Lussemburgo (entrambi 18%). Da registrare anche i numeri che
riguardano la Germania, esempio e motore dell'Unione: il 19,6% della
popolazione e' a rischio, ossia 15,9 milioni di persone.
Per far fronte a questa situazione Libera e il Gruppo Abele hanno
promosso, con un dossier, la campagna "Miseria Ladra".Una campagna
nazionale contro tutte le forme di povertà: che fornisce dieci proposte
concrete che da subito possono rispondere alla crisi economica e sociale,
rafforzare la partecipazione e rivitalizzare la nostra democrazia. "Miseria
Ladra" è cantiere aperto a tutte le associazioni del volontariato,
ambientaliste, alle cooperative del sociale per "chiamare" e "convocare"
alla mobilitazione su un problema che oggi tocca più tragicamente e in
misura crescente alcune fasce sociali, ma domani potrebbe riguardare
molti altri.
link:
http://www.gruppoabele.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4855
Signor Presidente, la chiediamo di vigilare per evitare che la prossima
riforma elettorale non tradisca nuovamente la Costituzione e con essa la
dignità del popolo italiano e la sua storia.
Questione di genere
Roma, 9 dicembre 2013.
Le donne che fanno i nostri jeans (di Maria G. Di
Rienzo)
Raniero La Valle, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Giovanni Russo Spena
link:
http://cdperlc.wordpress.com/2013/12/13/per-una-legge-elettoralerappresentativa/#more-615
8
A tre mesi dal collasso di una fabbrica di indumenti a Rana Plaza, nella
periferia di Dhaka in Bangladesh, che ha ucciso più di 1.100 lavoratori – il
disastro più mortale nella storia dell’industria tessile – politici e investitori
internazionali hanno cominciato a rispondere alla domanda pubblica di
migliori condizioni di lavoro. Il 15 luglio scorso, il Parlamento del
Bangladesh ha approvato una legge sul lavoro che rafforza i diritti dei
lavoratori; la settimana precedente, 17 compagnie nordamericane – fra cui
Wal-Mart, Gap e Target – hanno annunciato un piano per migliorare gli
standard sulla sicurezza. Ma le iniziative che emergono dalle macerie sono
solo un punto d’inizio, dice una delle più conosciute attiviste per i diritti
dei lavoratori del suo paese, Kalpona Akter.
Fondatrice e direttrice del “Centro per la solidarietà fra i lavoratori del
Bangladesh”, Kalpona Akter rappresenta i tre milioni e mezzo di donne
che sono i motori dietro l’affare più grande del paese. La missione, per lei,
è anche profondamente personale: dopo che suo padre si ammalò e non fu
più in grado di sostenere la famiglia, la 12enne Kalpona cominciò a
guadagnare 6 dollari al mese per 400 ore di duro lavoro in fabbrica. Ha
combattuto questa lotta e tenuto duro per anni, sino a che è stata licenziata
per aver tentato di costituire un sindacato.
organizzatore Aminul Islam (1) è stato assassinato. Dopo di ciò, molti
membri del nostro staff hanno dato le dimissioni, temendo rappresaglie.
Parlaci della tua esperienza come lavoratrice nelle fabbriche di
indumenti a Dhaka. Le condizioni sono cambiate da quando tu hai
cominciato a lavorare e se sì, come?
(1) Nato nel 1973, era sposato e padre di due figli e una figlia. Arrestato
con Kalpona nel 2010 era stato torturato durante la detenzione. Prima
dell’assassinio stava organizzando i lavoratori dello “Shanta Group”, che
produce indumenti per diverse compagnie statunitensi fra cui Nike e
Ralph Lauren. Il suo corpo, che di nuovo recava segni di tortura, fu
trovato privo di vita il 6 aprile 2012 su una strada di Ghatail, a nord di
Dhaka.
Kalpona Akter (KA): Poiché ho lavorato in fabbrica da quando avevo 12
anni, conosco bene le lunghe ore, i giorni persino, di lavoro senza pause;
le difficoltà dovute alle paghe basse e le condizioni insicure in cui si
lavora nel settore, e la tremenda pressione e gli abusi diretti a non farti
parlare contro tutto ciò. Sebbene le condizioni in cui ho lavorato da
bambina – incluse le scale inagibili e la sporcizia e la grande presenza di
minori – non siano sempre prevalenti, restano le questioni meno visibili
come l’impossibilità di organizzarsi collettivamente e di agire per il
cambiamento all’interno delle fabbriche.
Perché i diritti dei lavoratori sono una “faccenda di donne” in
Bangladesh?
KA: Nel settore degli indumenti chi lavora in modo predominante sono le
donne; perciò, oltre ai mestieri domestici che fanno di prima mattina e la
sera, le donne lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno in fabbrica. Il prezzo
che l’orario lungo e le condizioni di lavoro fanno pagare alle famiglie in
tutto il paese è un altro esempio del persistere degli effetti negativi.
La tragedia di aprile ha cambiato il dialogo internazionale sulle
condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori?
KA: Rana Plaza è il più grande disastro delle centinaia di disastri già
accaduti nelle fabbriche ovunque in Bangladesh e che hanno fatto molti
più morti. Forse ha alzato il profilo ma certamente non è stato l’inizio del
dialogo internazionale. Ciò che il collasso di Rana Plaza ha fatto (così
come nei casi di Smart e Tazreen) è stato collegare specifici
marchi/imprenditori a questi disastri, concentrando l’attenzione sulle loro
responsabilità. Inoltre, ha fatto sì che oltre 60 “marchi” in tutto il mondo si
sentissero costretti a firmare l’Accordo per la sicurezza in materia di
fuochi e costruzioni in Bangladesh. E in generale, Rana Plaza fa luce sulle
più profonde istanze infrastrutturali che fronteggiamo, qualcosa che va
ben oltre l’industria tessile del paese.
Che ne pensi del piano nordamericano che è stato proposto per
migliorare la vita delle lavoratrici del Bangladesh?
KA: In teoria, un documento firmato potrebbe incentivare relazioni buone
e durevoli dei marchi con le fabbriche, il che fornirebbe il tempo e le
capacità di migliorare le condizioni di lavoro. Tuttavia, il documento che è
stato siglato questo mese con molte ditte nordamericane, incluse Wal-Mart
e Gap, è peculiarmente differente dall’Accordo sulla sicurezza:
quest’ultimo è un documento vincolante, l’altro permette alle ditte di non
assumersi effettive responsabilità.
Cosa mi dici delle minacce alla tua libertà e alla tua sicurezza?
KA: Sono stata arrestata assieme a numerose mie colleghe nel 2010, dopo
la nostra lotta per avere migliori stipendi. Di conseguenza, al “Centro per
la solidarietà fra i lavoratori del Bangladesh” è stata revocata la
registrazione legale. Nel 2012, mentre eravamo ancora “illegali”, il nostro
9
Come pensi i lettori dovrebbero agire riguardo le compagnie che fanno
affari in Bangladesh? Cosa suggeriresti a loro?
KA: L’industria degli abiti è incredibilmente importante nel nostro paese e
quindi lo è per le vite di milioni di lavoratrici e delle loro famiglie: perciò,
il nostro messaggio non è quello del boicottaggio. Piuttosto, i consumatori
possono far pressione sulle ditte e sui loro governi affinché chi usa le
fabbriche in Bangladesh lo faccia stabilendo con esse relazioni giuste e
durevoli.
(fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo)
link:
http://lunanuvola.wordpress.com/2013/07/29/le-donne-che-fanno-i-nostrijeans/
Notizie dal mondo
America Latina
Una riflessione di capodanno su uno dei tanti mondi
possibili. anzi, esistenti. il XXX dell’EZLN, il XX
dell’insurrezione zapatista e il X dei Caracole (di
Aldo Zanchetta)
Ricordo una serata di alcuni anni or sono ad Anguillara Sabazia, sul Lago
di Bracciano. Jaime, yachak del popolo kitu-cara ecuadoriano , aveva
celebrato il saluto al sole che tramontava e col rauco suono emesso da una
grossa conchiglia marina aveva per quattro volte gridato il suo saluto di
pace rivolto ai popoli del mondo viventi nelle quattro direzioni cardinali.
Poco dopo in una grande sala affollata e festosa gli ospitanti avevano
sfoggiato il meglio delle loro abilità culinarie. Infine era iniziato il
dibattito, incentrato sul tema “Un altro mondo è possibile”, affrontato con
impegno dai giovani di alcuni movimenti locali: un mondo naturalmente
“giusto”, “comunitario”, “pacifico” …. Un solo problema: era un mondo
da costruire, con i nuovi paradigmi appena espressi, di nuovo uguali per
tutti i popoli. Aldo Gonzales, l’amico zapoteco che mi sedeva accanto, a
un certo punto mi bisbigliò all’orecchio: “Glielo dici te che noi esistiamo
già?”.
Anni prima, proprio il primo gennaio del 1994, la mia allora recente
iniziazione al mondo amerindio, avvenuta in Brasile, doveva subire una
svolta. Seduto a tavola con tutta la famiglia festeggiavamo il nuovo anno.
quando dalla radio una notizia ci zittì improvvisamente: in Messico nella
notte migliaia di indigeni maya, col volto coperto, avevano occupato
cinque capoluoghi del Chiapas, quel Chiapas che avevamo visitato tutti
assieme appena sei mesi prima, per festeggiare un importante cambio nella
mia vita lavorativa. E lì avevamo creduto di toccare con mano come il
Messico fosse un paese liberale e lungimirante che trattava i propri popoli
indigeni come gioielli … Ci guardammo stupiti: “Ma allora…?”.
Già, allora ciò che il Messico ci aveva mostrato erano un paio di villaggi
modello, disegnati apposta per turisti in cerca di esotismo. Nacque
spontanea la voglia di capire meglio e così iniziò una lunga marcia di
avvicinamento ai mondi amerindi, quello maya dapprima, altri poi. Mondi
realmente esistenti, non “arretrati” e da “sviluppare”, come il mio lungo
iter educativo mi aveva inculcato. E la loro conoscenza avrebbe poco a
poco modificato profondamente la mia “cosmovisione”.
In questo primo gennaio del 2014, 20 anni dopo, è di quello maya che
voglio parlare, quello che più mi ha segnato, e cercare di comunicare un
po’ di quello che una sua consistente porzione, riunita nell’Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale, e oggi nei 5 “caracoles” civili, mi
sembra aver detto in questi anni di più universale a chi come me ha avuto
la ventura di poterlo e volerlo ascoltare.
Questi indigeni, incappucciati “per poter finalmente essere visti”, nella
loro prima apparizione pubblica e armata, dichiararono: “Oggi diciamo
basta! Al popolo del Messico. Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte
[…] (gli oppressori di ieri e di oggi, ndt) possono usarci come carne da
cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro
che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che
non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, né terra,
né lavoro, né assistenza sanitaria, né cibo, né istruzione, che neppure
abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri
rappresentanti politici, (che) né vi è indipendenza dallo straniero, né vi è
pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo BASTA!”
Il momento scelto per una insurrezione sembrava il meno felice, dopo la
caduta del muro di Berlino, avvenuta 5 anni prima, che aveva fatto
decretare la “fine della storia”. Ogni ipotesi di porre ostacoli alla marcia
trionfale del pensiero e della prassi neoliberista, il nuovo rullo
compressore della storia, sembrava follia. Ma, dovevo impararlo poi, il
mondo indigeno non ha fretta, e quando comunitariamente ha stabilito un
obiettivo, non divaga.
“Per l’Umanità, contro il neoliberismo” fu il lemma antiretorico,
unificante nella sua essenzialità, dell’incontro “intergalattico” nella Selva
Lacandona, al quale gli zapatisti invitarono, meno di due anni dopo, i “non
sottomessi” del mondo. Arrivarò qualche centinaio di persone, ciascuna
con la sua “corazza”, le “sue” aspettative, la “sua verità” e la sua “ricetta”.
Ma il discorso zapatista, che aveva fatto tesoro di molte esperienze della
sinistra mondiale, sia positive che negative, non era inquadrabile negli
schemi tradizionali. Ne nacque qualche tensione. Alcuni tornarono a casa
forse delusi. “Per tutti tutto. Per noi nulla”, “comandare obbedendo”,
“parlare e ascoltare”… tutta qui la Rivoluzione? Dov’erano il ruolo delle
avanguardie lucide, la “presa del potere”, il demiurgico “partito
rivoluzionario” con il suo compito storico? “Noi non vogliamo il potere,
perché vogliamo cambiare il mondo!”. Che delusione! Molti però
capirono che “camminare domandando” era un nuovo atteggiamento
necessario per uscire dal labirinto e si rimisero in marcia. In una Carta a
los compañeros zapatistas Sergio R. Lascano ha scritto in questo
anniversario: <<Il pensiero libertario zapatista ha aperto un grande buco
nell’apparentemente solido edificio ideologico del potere del capitale e ha
reso possibile che attraverso di esso passassero vecchie buon idee e nuove
buone idee.>> Posso segnare all’attivo sul pallottoliere dello zapatismo?
I lunghi silenzi, di mesi o talora di anni, che tanto hanno irritato molti
impazienti rivoluzionari dotati di certezze “scientifiche”, sono serviti a
ripensare errori o mancati successi. Altre volte invece era stata la “società
civile” che non aveva risposto alle attese. La lotta fra il topolino e il leone
richiedeva pazienza e lucidità. L’elaborazione di nuove politiche doveva
avvenire “con” e “dalla” base, in villaggi distanti giorni di cammino,
affinché queste potessero essere condivise e sostenute nella difficile
situazione. Posso mettere un pallino rosso anche per questa coerenza
profonda fra enunciazioni e pratiche?
Cambiare il mondo reale è difficile, talora impossibile. E allora perché non
costruirne uno nuovo, si sono chiesti gli zapatisti. Nacquero così le
Aguascalientes prima e i Caracoles (conchiglie, con l’emblematica
spirale) poi, sulla base dei contenuti degli “Accordi di San Andres” -prima
approvati e poi sconfessati dal governo- e alla fine applicati
unilateralmente dagli zapatisti a partire dal 2003. Caracoles retti da
“giunte di buon governo”, i cui componenti, uomini e donne, giovanissimi
o anziani, cambiano per rotazione, senza “primarie” né preclusioni. Oggi,
dopo 7 anni, l’esperienza è consolidata e rappresenta la forma di
democrazia più avanzata che io conosca. Altro pallino rosso.
Un giorno, anni fa, un giovane cattedratico italiano, compagno di alcuni
viaggi in Chiapas, visitando con me la scuola primaria “Neno Zanchetta”,
mi disse, guardando i bambini fra i 5 e i 10 anni che la frequentavano: “Se
l’esperienza zapatista avrà avuto successo o meno potremo dirlo solo
quando questi ragazzi avranno 20 anni”. Il 21 dicembre 2012 oltre 40mila
giovani zapatisti sono tornati ad occupare pacificamente e in silenzio,
sotto la pioggia, le cinque città del Chiapas che avevano occupato
10
militarmente nel 1994: 20 mila a San Cristobal, 8 mila a Palenque, 8 mila
a Las Margaritas, 6 mila ad Ocosingo, ed almeno altri 5 mila ad
Altamirano. Nella grande maggioranza assai giovani, che erano bambini o
non erano ancora nati all’epoca dell’insurrezione. Si può mettere
all’attivo?
Quest’estate l’invito a 1500 persone a andare una settimana alle
“escuelitas” zapatiste per dialogare su un tema di tremenda attualità: “La
libertà secondo gli zapatisti”. I richiedenti sono stati molti di più e gli
esclusi di agosto stanno partecipando in questi giorni ad un nuovo turno,
per non escludere nessuno. Ho già pubblicato un bilancio tracciato da
alcuni partecipanti di agosto e lo ripeteremo presto, dopo questo nuovo
turno, per cui sorvolo. Altro pallino?
Ma forse la lezione più importante, rivoluzionaria, è come un movimento
insurrezionale armato abbia poco a poco trasferito il potere reale alla
“società civile”, ovvero alle comunità. In Chiapas non è stata firmata la
pace e tutto si regge su un armistizio fra governo e EZLN, ragione per la
quale questo non ha smobilitato e resta come ultima ratio se il governo
tentasse, come ha già fatto, un’azione di forza improvvisa. Ma ormai sono
le comunità a gestire la loro incredibile esperienza di vita.
Potrei dire altre cose, ma diventerei prolisso. Pallini però ce ne sarebbero
ancora.
Una riflessione conclusiva?
Trenta anni or sono sei giovani militanti rivoluzionari cittadini, diventati
poi 12, scampati alle feroci repressioni (ricordate Piazza Tlatelolco?),
giungono braccati nelle cañadas di Ocosingo, in Chiapas, dove vivono
varie decine di miglia di indigeni maya parlanti ben 6 lingue diverse.. Qui
un vescovo anomalo, tatic Ruiz, da loro “convertito” al mondo dei poveri,
stava stimolandoli a darsi una propria prospettiva politica di riscatto, da
loro gestita.. L’acciarino aveva incontrato la paglia. e la scintilla prima o
poi sarebbe stata inevitabile. I dialoghi di uno dei giovani intellettuali, il
“sub-comandante Marcos”, con un vecchio indigeno ricco di sabiduria
antica, il vecchio Antonio, sono come la metafora di questo incontro fra
culture distanti e con tutte le probabilità di restare incomunicabili.
Occorsero 10 anni, un “tempo indigeno”, con incontri cañada per cañada,
villaggio per villaggio, casa per casa. Poi ”quando il fiume gonfia, dice il
vecchio Antonio, è perché piove da molto tempo sulla montagna. Oggi il
fiume ha cambiato corso, niente lo farà tornare al suo letto precedente…”.
Il giorno scelto fu il primo gennaio del 1994, quello in cui entrava in
vigore il trattato di libero commercio fra Stati Uniti, Canada e Messic, che
avrebbe posto fine alla inalienabilità delle terre comunali indigene e
campesine, consegnandole nelle mani del “libero mercato”.
Oggi, 20 anni dopo, l’autonomia costruita fra estreme difficoltà nella
fragile nicchia di un provvisorio armistizio, ha consegnato al mondo
l’esperienza di democrazia probabilmente più avanzata che si conosca.
Non è un fatto quasi incredibile?
Che cosa può dire a noi scontenti e depressi individualizzati in questo
caotico paese declinante? Non siamo un modello da imitare, ci avvertono
gli zapatisti. Cercate e costruite il vostro. Noi abbiamo solo voluto
dimostrare che i sogni possono diventare realtà, anche nelle situazioni più
difficili. Se lo si vuole, naturalmente.
Grazie fratelli e sorelle zapatiste ! Buon anno !
PS Qualcuno penserà che ho tracciato una sintesi troppo favorevole e che
sul pallottoliere ho messo solo pallini rossi. Dice Gustavo Esteva
rispondendo al medesimo dubbio, nel postscriptum del suo elogio :
<<Rileggendomi constato che non ho detto nulla dei lati oscuri, “umani,
troppo umani” della società zapatista, delle sue inevitabili tensioni e
contraddizioni […] Io non ho voluto tracciare un bilancio e ancor meno
realizzare un’inchiesta etnografica pretesa come “scientifica” e
“obiettiva”. Non era questa la mia intenzione. Ho semplicemente voluto
tradurre ciò che ho sentito e creduto di capire: queste donne e questi
uomini ordinari sono stati capaci di trasformare una delle condizioni
sociali fra le più ingiuste e miserevoli del mondo nella concretizzazione
dei vecchi sogni di una società più giusta, degna e decente […] Forse altri,
impegnati nella ricerca di una propria alternativa troveranno qualche
ispirazione in questa narrazione.>>
Ah, dimenticavo. Conoscete il libro “Racconti del vecchio Antonio”? Una
lettura letterariamente godibile come poche. E intrigante, molto.
Alcuni dei tanti testi comparsi in questo XX anniversario
Gustavo Esteva : La rencontre de la mémoire et de l’avenir (dal sito
www.kanankil.it)
Carmen Aristegui : Así fue el levantamiento zapatista… hace veinte años
http://aristeguinoticias.com/ezln-20-anos-de-alzamiento-en-chiapas/.
Luis Hèrnandez Navarro : Zapatismo: veinte años después
Fuente:
http://www.jornada.unam.mx/2013/12/24/index.php?
section=opinion&article=024a1pol
Sergio Rodríguez Lascano : Carta a nuestr@s compañer@s del Ejército
Zapatista de Liberación Nacional - enlacezapatista.ezln.org.mx/.../carta-anuestrs-com...?
EZLN - Comunicado del EZLN en vísperas del aniversario: “Hace frío
como hace 20 años” - www.nodal.am/.../comunicado-del-ezln-en-vispera...
Gilberto López y Rivas : A 20 años de la rebelión de los mayas zapatistas
www.jornada.unam.mx/2014/01/02/politica
Desinformemonos: Speciale sui venti anni dell'insurrezione zapatista
www.caferebeldefc.org/?p=1645
Adolfo Gilly : Carta a los comandantes David y Tacho
La Jornada - http://www.jornada.unam.mx/2013/12/31/opinion/008a1pol
E tanti altri sul sito italiano : chiapasbg.wordpress.com/
dallo stesso pentagramma usato da chi ha regalato tempo, fatica, qualche
fantasia e una discreta esperienza giornalistica per fare Comune fin qui.
Quanto è servito, insomma, a scrivere, correggere, titolare, illustrare,
impaginare, promuovere il milione e mezzo di pagine che sono state
aperte in soli venti mesi di esistenza. Senza lavoro retribuito né
finanziatori sa di miracolo, dicono gli esperti.
foto_pagina_webNessuno compra e nessuno vende, naturalmente.
Abbiamo tutti altro da fare: per esempio proviamo a strappare il collante,
la carta adesiva di un sistema che impone relazioni sociali fondate sulla
paura di non riuscire a cavarsela e sull’ansia di accumulare, cioè sul
dominio e sul profitto. Quel collante è una patina opaca, viscosa, perfetta
per occultare un diverso modo di vivere che non solo è possibile ma è già
in uso ovunque da tempo. Si tratta di saperlo vedere, di riconoscere forme
di vita inventate e messe in atto in un mondo, anzi in parecchi mondi che
resistono all’assalto di uno sviluppo mercificato e velenoso. È proprio per
resistere che tessono, giorno dopo giorno, nuove esperienze comunitarie
nei quartieri delle metropoli europee o nordamericane come nei deserti
africani e negli altipiani asiatici o andini.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1997
Appelli e campagne
Appelli
Sosteniamo "Comune-Info": La stazione Comune
dei mondi nuovi (di Comune-Info)
Dalla piccola stazione spaziale di Comune-info, prende il via la campagna
2014. Si chiama Ribellarsi facendo e andrà avanti per l’intero anno
galattico. Suggerisce di strappare la carta adesiva che nasconde ai nostri
occhi i mondi nuovi che già esistono e resistono all’assalto di uno
sviluppo mercificato e velenoso. Sono quelli in cui crescono le relazioni
sociali diverse che vogliamo raccontare, accompagnare e difendere. Per
partecipare, cioè per cominciare a fare Comune con noi, inviate almeno 12
euro, uno al mese, e qualcosa che ci racconti cosa fate per ribellarvi e per
creare adesso il mondo che vi piace .
Accade spesso ma non sempre che la speranza di cambiare sia un
privilegio riservato a chi ha la possibilità di poterlo comprare. Non è il
nostro caso. Facciamoci un regalo: mettiamo insieme almeno un euro al
mese perché chiunque ne abbia voglia possa leggere liberamente Comuneinfo per un altro anno. Sono dodici euro, tre per ogni stagione del 2014. Se
qualcuno può mettere di più, lo faccia. Servirà a sostituire chi vorrebbe
partecipare e non ce la fa. Potete versare come volete e quando potrete. Ci
fidiamo: vogliamo scommettere sul fatto che cammin facendo, se lo avrete
preso, non dimenticherete questo piccolo essenziale impegno. Il nostro
tempo, quello di chi fa Comune con noi, non può essere quello
dell’orologio, è il tempo della qualità delle relazioni. Gli antichi Greci lo
chiamavano Kairos, il momento opportuno, quello in cui l’attività umana
diventa autonoma dalla volontà divina. Il tempo giusto nel quale qualcosa
di speciale accade.
La cosa speciale, in questo caso, non è tanto Comune, che pure, tra i mezzi
di comunicazione della galassia web, non è esattamente un esemplare di
routine. A leggere quel che scrivono Cinzia di Avellino, Miguel di Firenze
e altri, moltissimi altri, la cosa speciale potrebbe essere, e almeno noi
speriamo che sia, la relazione tra chi legge e chi cucina le nostre pagine.
Possiamo sbagliare, ovviamente, ma sono numerosi i segnali che indicano
una lettura attenta, critica, a volte appassionata e poco orientata alla
classica funzione consensuale. Ne siamo felici, cerchiamo (e proviamo a
offrire) domande ricche di senso non consensi. La sola ipotesi di poter
esser visti come “rassicuranti”, poi, ci suscita orticaria, come quella di
formare coscienze e identità. Ci piacerebbe invece, semplicemente,
mettere in comune qualche riflessione e un gran numero di attività ribelli.
La disposizione d’animo di chi si sofferma sui testi che mettiamo in
pagina sarà certo varia ma, per alcuni versi, sembra suonare note tratte
11
Noi lo chiamiamo il Ribellarsi facendo. Al dominio di poteri tecnocratici e
scientistici si ribellano persone ormai note, come Maria de Biase, la
preside terra-terra che, ai ragazzini del Gaza di San Giovanni a Piro,
Salerno, fa mangiare pane e olio invece delle merendine confezionate
prescritte dalla legge. La stessa legge che se ne infischia dei laboratori di
auto-produzione, dell’orto sinergico, del recupero delle conoscenze e dei
prodotti cilentani che al Gaza hanno messo su: la scuola stava per essere
chiusa avendo solo 385 iscritti, quindici in meno del numero minimo che
impone la legge 183 del 2011.
A Roma, tra molte altre, si ribellano alcune persone comuni, cioè artisti.
Dopo aver occupato un teatro del 1727, resistono dal giugno del 2011 per
fare, dicono, una rivoluzione culturale. Niente di più necessario, niente di
più urgente. Non si annoiano, al Valle. Solo nel 2013 hanno collezionato
1400 ore di formazione sul teatro e i linguaggi della scena, poi hanno
avviato una fondazione bene comune e stanno producendo uno spettacolo.
Deve essere perché pensano che la prudenza sia triste che hanno osato
immaginare (e praticare) un altro modo di lavorare, di vivere la politica e
di concepire il diritto.
Dall’altra parte dell’Atlantico, si ribellano le Madres di Ituzaingó, un
quartiere della città argentina di Cordoba. Sofia Gatica lì ha perso la sua
bambina: i reni hanno cessato di funzionare. Quando ha smesso di
piangere, Sofia ha cominciato a chiedersi perché l’80 per cento dei
ragazzini del quartiere si ammalava. Ha scoperto così come l’avidità dei
colossi delle colture Ogm rappresenti un pericolo per l’umanità. Ma si può
vincere contro Monsanto? Sta accadendo a Malvinas Argentinas,
quattordici chilometri da Cordoba. Le Madres e l’Asamblea dei Vecinos
hanno fermato l’installazione di uno degli impianti più grandi del mondo
per la produzione di semi. Oggi quel piccolo presidio è l’Estate senza
Monsanto, una stagione da vivere in un’altra maniera. Manu Chao è
venuto, ha portato il ritmo e pure l’allegria.
Sono appena tre esempi di un enorme numero di persone che si ribellano
facendo nelle società in movimento, quel che Comune si propone di
raccontare, accompagnare e difendere. Il nostro lungo racconto sociale
assume senso solo così, se viene percepito e vissuto come un momento di
lotta, un frammento di vita ribelle. Alla presunta informazione oggettiva (e
alla sua reciproca controinformazione), quella capace di scoprire e
raccontare i fatti separati dalle opinioni, cioè la Verità, per fortuna non
crede più nessuno. Sono i flussi di comunicazione che s’inseguono
fulminei nella rete, oggi, il veicolo principale della penetrazione del
consenso verso una sintesi molecolare complessa, una reazione utile a
rigenerare di continuo il dominio delle cose, del denaro e del capitale sulla
volontà e l’energia delle persone. Sostiene quel consenso, il suggestivo
mito dell’autonomia e della neutralità di un mezzo dalle enormi possibilità
come il web. La rete è però anche un fantastico spazio di espansione della
creatività e dell’insubordinazione. Uno spazio costellato di stazioni dove
rimbalzano segnali di ribellione assai difficili da definire, classificare,
gerarchizzare, quindi anche da rendere inoffensivi. È indispensabile che le
lotte del Ribellarsi facendo vengano da molti luoghi diversi e con forme
differenti. Comune è una di quelle stazioni. La sua voce risuona chiara in
una costellazione di mezzi autonomi e indipendenti che è attiva da tanto
tempo e continua ad allargarsi.
Fra non molto avremo due anni, un tempo adeguato per potersi reinventare e aprire nuovi percorsi. Potremmo provare a rendere più bella e
resistente questa stazione (appena nati eravamo solo un asteroide,
ricordate?), magari anche un po’ più comoda e sostenibile per chi vi
dedica gran parte della sua esistenza? Sì, possiamo provare, a condizione
di restare in costante movimento e di fare qualche vero cambiamento. Il
primo (forse il più importante) dei quali è che una parte modesta ma
significativa delle diverse migliaia di persone che aprono le nostre pagine
ogni settimana decida davvero di cominciare a fare Comune con noi. C’è
chi potrà rinnovare e dar nuovo vigore all’abbraccio che ci ha inviato nel
2013, per molti (noi speriamo moltissimi) altri sarà invece la prima volta:
l’adesione alla campagna 2014 comincia inviando almeno 12 euro e un
testo, una foto, un video, un disegno che racconti il vostro Ribellarsi
facendo, collettivo o personale che sia (scrivete a [email protected])).
Capiremo insieme, presto, se e come questa nuova o rinnovata relazione
potrà diventare qualcosa di speciale.
Nei periodi di crisi, e il tempo di Kairos è spesso percepito come tale, si
ha la possibilità di partecipare alla costruzione di qualcosa di nuovo che
nasce dentro qualcosa di vecchio. Si può dunque scegliere, sempre, tra
un’interpretazione della crisi come pericolo o come opportunità. È
avvenuto in maniera eclatante poco più di un anno fa, il 21 dicembre del
2012, quando i media di tutto il mondo (ma non quello che state leggendo)
hanno fatto a lungo della facile ironia sulla “profezia maya della fine del
mondo”. Gli indigeni hanno poi spiegato, a chi aveva voglia di ascoltare,
che si trattava semplicemente dell’inizio di una nuova era. Chissà, forse
quella di chi ha scelto di ribellarsi e non s’è rassegnato a interpretare la
parte della vittima. Quella di chi vuole un mondo nuovo, e se lo fa.
link: http://comune-info.net/2014/01/la-stazione-comune-dei-mondi-nuovi/
Associazioni
Documenti
Siria e Medio Oriente, Centro Africa e Sud Sudan:
politica di pace, aiuto umanitario e preghiera per la
riconciliazione (di Pax Christi Italia)
In piena sintonia con le incalzanti iniziative di papa Francesco per la pace
e il disarmo, la lotta alla fame e alla povertà, il contrasto alla corruzione e
al crimine, la custodia del creato, che sono state riproposte dal
coinvolgente messaggio per la Giornata mondiale della pace 2014
“Fraternità, fondamento e via per la pace” e dall'esortazione “Evangelii
gaudium”, nei giorni della marcia della pace di Campobasso, Pax Christi
intende evidenziare il bisogno di una grande politica di pace, di un forte
aiuto umanitario, di intensa preghiera.
La SIRIA, come ripetono molti osservatori e le agenzie l'ONU, sta
vivendo la più grave crisi umanitaria della storia moderna. Nessun altro
disastro provocato dalla natura o dagli uomini ha prodotto tanto male. Tre
quarti del suo popolo sta perdendo tutto. Circa 10 milioni sono profughi e
sfollati. L'Onu ha lanciato “un appello senza precedenti come non ha pari
l'immensità della catastrofe umanitaria”.
Nel CENTRAFRICA e in SUD-SUDAN, le cronache parlano di massacri,
distruzioni, mutilazioni, esecuzioni extragiudiziali, sfollamento forzato,
saccheggi e rappresaglie scatenati dalle parti in conflitto. Sembra possibile
il ripetersi della tragedia rwandese.
In PALESTINA-ISRAELE continua il dramma della popolazione
palestinese vittima dell'occupazione e di ripetute offese alla sua dignità .
In tali contesti di violenza e di disperazione, paesi generosi nel rifornire di
12
armi sia governi che gruppi armati in Siria, in Iraq, in tutto Medio Oriente
e in varie località africane, sono sordi e ciechi alle emergenze provocate
spesso da quei rifornimenti a forze in lotta fratricida che stanno
commettendo crimini contro l'umanità.
Tre ambiti di impegno diventano necessari per tutti.
Politica. Torniamo a sollecitare Parlamento e governo italiano ad attivare
interventi politici determinati verso i colloqui di “Ginevra 2” per la Siria;
lo sviluppo delle trattative riaperte tra israeliani e palestinesi; l'attuazione
degli strumenti di interposizione-mediazione delle Nazioni Unite,
dell'Unità africana e dell'Unione europea al di fuori di risorgenti logiche
neocoloniali per la Repubblica centroafricana e il Sud Sudan.
Aiuto. E' urgentissimo un aiuto umanitario garantito e sicuro tramite le
Caritas e altri enti. La situazione dei profughi, degli sfollati e degli abitanti
di molte località è terrificante. Milioni di persone patiscono fame,
malattie, freddo, miseria e ogni forma di degrado. Ciò che possiamo
risparmiare nella sobrietà natalizia e nei giorni di Capodanno può essere
orientato al soccorso di popolazioni a rischio di morte.
Preghiera. Preghiamo intensamente per la Siria devastata, per l'Iraq
insanguinato, per la fine delle violenze contro i palestinesi e i popoli del
Medio Oriente, per le vittime africane di tante stragi. Preghiamo perché si
aprano strade di riconciliazione con il contributo di un ampio movimento
interreligioso a servizio della pace, della giustizia e del perdono.
Preghiamo il Dio della pace, vivente nel bambino disarmato e disarmante,
perché converta i cuori dei responsabili delle violenze, vinca il silenzio
interessato di molti e sconfigga l'indifferenza di tanti che stanno a
guardare.
La Giornata mondiale della pace è per noi l'occasione per rendere
operativo il cantiere della fraternità.
Firenze, 28 Dicembre 2013
Pax Christi Italia
d. Renato Sacco - coordinatore nazionale
348-3035658 - [email protected]
(fonte: Sergio Paronetto)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1990
Scarica

Scarica la versione stampabile del notiziario