Notiziario settimanale n. 466 del 24/01/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace 27/01/2014: Giornata della memoria per ricordare la Shoa. 30/1/2014: Ricordo dell'assassinio di Gandhi avvenuto il 30 gennaio 1948 a Nuova Delhi Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek mori' ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. Primo Levi "Hurbinek" Indice generale Solidarietà delle scuole di Romagnano, Castagnola, Mirteto e Alteta con gli alunni di Muhanga in Congo (di AAdP, La Pietra Vivente)...................1 Abbiamo smesso di essere vittime (di Carlos Delclòs)............................... 1 Fiat e le politiche fallimentari (di Andrea Di Stefano , Roberto Romano) ..3 Nove milioni per una nuova politica di pace nel mondo: Quale? (di Antonino Drago)........................................................................................ 4 Il santo di Palermo. Vi racconto chi era Danilo Dolci (di Aldous Huxley) . 6 Per una legge elettorale rappresentativa (di Associazione per la Democrazia Costituzionale, Comitati Dossetti per la Costituzione)..........7 Miseria ladra! Crisi: Eurostat, in Italia allarme povertà, colpisce tre su dieci (di Gruppo Abele)............................................................................. 8 Le donne che fanno i nostri jeans (di Maria G. Di Rienzo)........................ 8 Una riflessione di capodanno su uno dei tanti mondi possibili. anzi, esistenti. il XXX dell’EZLN, il XX dell’insurrezione zapatista e il X dei Caracole (di Aldo Zanchetta)..................................................................... 9 Sosteniamo "Comune-Info": La stazione Comune dei mondi nuovi (di Comune-Info)........................................................................................... 11 Siria e Medio Oriente, Centro Africa e Sud Sudan: politica di pace, aiuto umanitario e preghiera per la riconciliazione (di Pax Christi Italia) .........12 1 La pagina dell'AAdP Solidarietà delle scuole di Romagnano, Castagnola, Mirteto e Alteta con gli alunni di Muhanga in Congo (di AAdP, La Pietra Vivente) L'ACCADEMIA APUANA DELLA PACE e il Centro Culturale LA PIETRA VIVENTE rivolgono un caloroso ringraziamento a tutte le alunne e gli alunni, a tutte le famiglie delle scuole di Romagnano, Castagnola, Mirteto e Alteta che con notevole impegno e generosità si sono attivati per raccogliere un congruo contributo da destinare ai 1082 alunni e alunne iscritti nelle due scuole di Muhanga, villaggio in mezzo alla foresta del Nord Kivu, regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni il Centro Culturale "La Pietra Vivente" è in contatto con il missionario padre Giovanni Piumatti e l'ostetrica Concetta Petriliggieri, che vivono in quella zona da oltre 40 anni, collaborando con loro per migliorare le condizioni di vita della gente del villaggio. Si è creato un gemellaggio tra famiglie della nostra zona con famiglie di Muhanga assicurando una quota mensile che permette loro anche di mandare i figli a scuola. Inoltre si è contribuito alla realizzazione di alcuni progetti, come la costruzione di un dispensario, di una maternità, di una scuola. Ogni anno appartenenti all'associazione si recano a Muhanga per portare aiuti e dimostrare concretamente la propria solidarietà; tuttora il presidente Elia Pegollo si trova laggiù dove rimarrà per alcuni mesi. Nella Repubblica Dem. Del Congo e in particolare nel Nord Kivu si trovano immense riserve di materiali preziosio come oro, diamanti, coltan (prezioso minerale utilizzato nella produzione di sofisticate apparecchiature elettroniche ), petrolio, legname. Tuttavia, come spesso accade anche in altri stati africani, a causa di un conflitto decennale favorito da interessi economici internazionali e da complicità interne, la popolazione vive in condizioni disperate. In tale situazione vivono i bambini della scuola di Muhanga ed è a nome loro che queste due associazioni dicono grazie. Naturalmente la nostra gratitudine è rivolta anche alla Dirigente dell'Istituto Comprensivo Statale Massa 6 e a tutto il corpo docente che, con la loro sensibilità, hanno promosso l'interesse e la partecipazione degli alunni e delle loro famiglie. link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2001 Approfondimenti Economia Abbiamo smesso di essere vittime (di Carlos Delclòs) n un paese come la Spagna, dove numerose famiglie dormono per strada, interi isolati sono vuoti di residenti e ovunque sulle case si leggono cartelli “Vendesi” , è emerso uno dei movimenti sociali più forti d’Europa, la Plataforma de Afectados pro la Hipoteca (Pah, “Piattaforma delle vittime dei mutui ipotecari”). Pah è importante non solo perchè ha ottenuto alcune vittorie contro le banche e i proprietari di case, ma perché ha mostrato che è possibile perseguire risposte semplici al diritto all’abitare, mettendo insieme nelle lotte persone che vivono negli stessi quartieri, promuovendo mutuo sostegno e disobbedienza civile, occupando interi edifici in diverse città. La maggioranza del Pah, che ha anticipato il movimento 15M, è costituita da nuclei familiari che subiscono il pignoramento Il Movimento delle Vittime degli Sfratti è uno dei movimenti spagnoli più forti. Carlos Delclòs parla con l’attivista del PAH Elvi Màrmol a proposito della chiave del suo successo. La storia della crisi economica, sociale e politica spagnola è una storia di proprietà, bisogni e valori. E al centro di tale storia c’è la domanda tanto familiare da essere divenuta un cliché: che cosa fa di un edificio una casa? Può suonare banale, ma in un paese in cui le famiglie dormono per strada, interi isolati sono vuoti di residenti e la casa resta fuori portata per larghi segmenti della popolazione (nonostante l’onnipresenza di cartelli “Vendesi” nel paesaggio urbano), è una domanda cui i politici in larga misura non danno risposta. Da più di quattro anni la Plataforma de Afectados pro la Hipoteca (PAH, “Piattaforma delle vittime dei mutui ipotecari”) persegue una risposta semplice e poetica a questa domanda: persone che vivono insieme, l’una per l’altra. La campagna di mutuo sostegno, solidarietà e disobbedienza civile del movimento colpisce il cuore stesso della struttura di potere della Spagna e, nonostante un blocco istituzionale spesso schiacciante, ha ricevuto il sostegno di fino al 90% della popolazione. Per capire lo spettacolare sostegno, la prassi radicalmente trasformativa e le sfide istituzionali affrontate dal PAH ho recentemente parlato con Elvi Màrmol, un’attivista del PAH della città di Sabadell, appena a nord di Barcellona. Pur avendo lavorato per diversi anni come contabile, oggi è una rappresentante di commercio libera professionista. Ciò, dice, le concede parecchio tempo da dedicare al PAH. E’ membro del Comitato Casi del PAH di Sabadell e responsabile comunitaria delle sue reti sociali, nonché membro dei Comitati di Negoziazione e Internazionale del PAH Catalogna. Come sei arrivata ad aderire al PAH? La differenza maggiore tra il movimento V de Vivienda e il PAH sono i rispettivi membri. Mentre il primo era composto principalmente da giovani con lavori precari che si organizzavano e lottavano per lasciare le case dei propri genitori, la maggioranza del PAH è composta da famiglie che stanno subendo il pignoramento. Qual è il rapporto tra il 15M e il PAH? Il PAH è stato creato due anni prima che il movimento 15M irrompesse sulla scena; c’erano già gruppi a Barcellona, Sabadell, Terrassa, Murcia e altre città. Il movimento 15M nelle piazze, e poi nelle assemblee di quartiere, ha contribuito a lanciare il PAH in tutta la Spagna. Oggi ci sono più di 200 gruppi PAH. E il movimento 15M è stato particolarmente d’aiuto nella campagna “Basta sfratti”: siamo passati da più o meno 50 presenze agli sfratti a centinaia di persone. Com’è la vita cittadina quotidiana in Spagna oggi? Oggi la vita quotidiana in Spagna è dura e sta diventando ancora più dura. Il diritto a una casa decente è sistematicamente violato. Ci sono più di quattro milioni di case vuote, gli sfratti infuriano tuttora, gli alloggi pubblici sono circa l’un per cento delle case totali e articoli di giornali stanno affermando che persino quelli saranno privatizzati. Solo pochi mesi fa la città di Madrid ha venduto 3.000 case sovvenzionate alla Goldman Sachs. La percentuale dei disoccupati è tuttora a livelli record, quasi il 28%. E’ superiore al 50% nel caso dei giovani, così essi non saranno in grado di lasciare le loro case e dovranno essere mantenuti dalle loro famiglie fino a quando avranno trent’anni. I tagli all’istruzione stanno rendendo più difficile ai giovani andare all’università e i tagli ai servizi sanitari stanno già escludendo migliaia di persona dal sistema sanitario pubblico spagnolo. Come molti, sono arrivata al PAH a metà del 2011 attraverso il movimento 15M. Non facevo parte del movimento 15M della mia città, ma ho ricevuto un opuscolo che pubblicizzava un dibattito del PAH nella piazza di fronte al municipio. Fino ad allora avevo soltanto sentire parlare del movimento sui media e non sapevo che fosse presente a Sabadell, così ho colto l’occasione e mi sono recata al dibattito. Sapevo che la mia conoscenza dei prodotti finanziari e la mia esperienza in consulenza fiscale e in trattative bancarie sarebbero state utili, così mi sono trovata immediatamente a lavorare. Sono stata in grado di aiutare, ma quello che non sapevo era quanto il PAH avrebbe aiutato me; è così tanto che ci vorrebbe un’altra intervista. Perché la lotta per una casa decente, e in particolare la campagna del PAH contro gli sfratti, è una lotta così importante in confronto con il lavoro, i servizi pubblici e altri problemi sociali? Che cosa ha dato il via alla creazione del PAH? Il PAH organizza assemblee cui tutti possono presenziare, in cui tutti possono spiegare la propria situazione e chiedere aiuto. Non diciamo mai a nessuno che il suo caso troverà soluzione per il solo fatto di essersi presentato. Quello che diciamo alle persone è che se continuiamo a lavorare insieme, le possibilità che la loro situazione migliori saranno maggiori. Abbiamo avuto molto successo perché abbiamo conseguito delle piccole vittorie. Ogni volta che festeggiamo un caso in cui siamo stati in gradi di far sì che una banca dichiari senza rivalsa * il debito per la casa in questione (nota: questo non è lo status quo in Spagna), si apre un mondo di speranze per le persone che aspirano alla stessa cosa. Ogni piccola conquista spinge la gente a continuare a battersi e poiché queste vittorie sono ottenute grazie alla forza complessiva di tutti quelli che lottano insieme, la gente comincia ad andare oltre il proprio problema individuale e a concepire una comunità. [* “non recourse debt” nell’originale; in pratica, nel caso di insolvenza del debitore, la banca si limita al pignoramento dell’immobile ipotecato assorbendo l’eventuale perdita tra il debito residuo e il valore di mercato dell’immobile; il pignoramento libera il debitore dal debito – n.d.t.]. Nel 2007 i prezzi degli alloggi avevano toccato picchi record. Se consideriamo questi prezzi sproporzionati assieme ai tassi d’interesse alle stelle e alla diminuzione del reddito (poiché la disoccupazione è passata dall’8,3 per cento del 2006 al 17 per cento del 2009), ci troviamo con una cittadinanza impoverita e gravata da debiti che vive nella paura di un futuro incerto. Nel 2006 era nato a Barcellona il movimento V de Vivienda (un riferimento a V per Vendetta che si traduce in “V per la casa”). Per due anni aveva articolato la lotta per il diritto ad alloggi decenti e denunciato la bolla residenziale, chiedendo la fine della violenza della speculazione immobiliare. Quando è scoppiata la bolla, due anni dopo, alcuni degli attivisti del gruppo si sono resi conto che la gente stava per non poter più essere in grado di rimborsare i propri mutui e che la lotta non sarebbe più stata per l’accesso alla casa ma che molte famiglie sarebbero state lasciate in realtà senza una casa. Hanno anche scoperto che la legge spagnola sui mutui ipotecari avrebbe lasciato le persone con un debito incombente sulla loro testa per il resto della vita. Così nel febbraio del 2009 è nata la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) che ha posto all’ordine del giorno il fallimento delle politiche abitative e che si sarebbe dimostrata un grosso colpo per i governi che aveva spinto la popolazione a indebitarsi. 2 Prima che una persona perda la casa, è parecchio probabile che abbia perso il lavoro o la principale fonte di reddito. L’ultima cosa che tutti pensano di perdere è la casa, il tetto sopra la testa, il luogo in cui si sentono al sicuro e di cui tutti hanno bisogno, che fosse una grotta migliaia di anni fa o i vari tipi di alloggi che esistono nella nostra attuale era consumistica. E’ nell’ambito di questo bisogno fondamentale che esiste la lotta fondamentale per una casa decente. Nelle lotte che tu citi e un po’ più difficile ottenere tali importanti e tangibili vittorie in così poco tempo. Ciò fa sembrare utopistiche queste lotte a chi è meno politicizzato. Dobbiamo trovare un modo per approfittare dell’occasione che il PAH ci offre di far crescere la lotta in altre aree, in modo che sia più globale e più unito. Qual è il rapporto tra il PAH e i partiti politici? Considerate il PAH un avversario diretto della politica partitica? Uno dei pilastri del PAH, così com’è espresso nel suo statuto e come prerequisito per formare un nuovo PAH, è che il PAH è esplicitamente non allineato con qualsiasi partito politico. Non apparteniamo ad alcun partito politico e non diventeremo mai uno di essi, e questa è una componente chiave del nostro successo. Le nostre assemblee sono molto pluraliste e comprendono persone che hanno affinità con una molteplicità di partiti politici, compreso il Partito Popolare che è di destra, una cosa che non capirò mai. Qual è il rapporto tra il PAH e la polizia? Il rapporto con le diverse forze di polizia spagnole varia secondo le città. A Sabadell i Mossos d’Escuadra catalani sono stati protagonisti di numerosi episodi orribili. Un paio d’anni fa, dopo un’iniziativa nella festa della befana in cui siamo passati da una banca all’altra lasciando sacchi di carbone, hanno affrontato un gruppo di attivisti e hanno ferito un minorenne. Solo pochi mesi fa, quando abbiamo occupato un grande isolato per traslocarvi alcune famiglie sfrattate, volevano passare attraverso le duecento persone che bloccavano l’ingresso. Una dei nostri legali ha detto all’unità che non poteva entrare senza un mandato e il giorno dopo i Mossos hanno accusato di resistenza lei e due attivisti. Naturalmente il giudici li ha poi assolti da quell’accusa. Molto presto il governo promulgherà la riforma del codice penale e anche se sappiamo che quella che è stata presentata non è la versione definitiva, è chiarissimo che i cambiamenti sono mirati a impedire le nostre proteste. Ad esempio bloccare uno sfratto o attuare un’escrache (in cui identifichiamo politici che sono contro la riforma a favore del popolo della legge spagnola sui mutui ipotecari) può comportare una sanzione tra i 1.000 e i 30.000 euro. Assistere immigrati con il permesso di soggiorno scaduta sarà reso reato penale. La resistenza passiva all’aggressione di un agente sarà trattata come “resistenza all’autorità”, che può essere punita con da due a quattro anni di carcere. Queste misure saranno estremamente dure e certamente puniranno le forme di solidarietà e i lavoratori. Che genere di tattiche e strategie attua il PAH e perché? La campagna forse più nota è “Basta agli sfratti”, ispirata da Lluis di La Bisbal che, dopo aver ricevuto la notifica di sfratto, si è recato in un’assemblea e ha dichiarato che non avrebbe lasciato la sua casa. Ha chiesto aiuto e l’ha trovato. Nel novembre del 2010 più di cinquanta persone era schierate all’esterno della sua casa e hanno impedito all’ufficiale giudiziario e alla polizia catalana di attuare lo sfratto. Lo sfratto è stato bloccato quattro volte da allora e oggi il caso è stato archiviato ed egli e suo figlio Lloid restano nella loro casa. Sino a oggi abbiamo bloccato più di 800 sfratti. Dopo di ciò abbiamo lanciato una campagna di promozione di una proposta di legge d’iniziativa popolare mirata a cambiare l’arcaica legge spagnola sui mutui ipotecari. Nonostante avessimo raccolto 1,4 milioni di firme il Partito Popolare l’ha rigettata, il che ha dato il via alla nostra campagna attuale, nota come Obra Social (un gioco di parole che utilizza l’espressione usata dalle banche spagnole nei loro programmi di responsabilità d’impresa e che letteralmente si traduce in “lavoro sociale”). Questa campagna è più rivoluzionaria e meno riformista delle precedenti, poiché implica l’occupazione di isolati residenziali di proprietà di società finanziarie per darli a famiglie sfrattate. In base alla mia esperienza personale, da membro del PAH di Sabadell posso dire che attualmente il nostro è il più forte dei gruppi PAH. Abbiamo occupato tre edifici nella nostra campagna Obra Social. Abbiamo combattuto più ampiamente di altri gruppi per il diritto ad alloggi decenti, poiché aiutiamo anche gli inquilini in affitto e non solo chi ha sottoscritto mutui ipotecari. Organizziamo seminari per occupanti 3 singoli e abbiamo attuato la più lunga occupazione di una banca nella storia del PAH, durata quattro giorni e tre notti nella sede dell’Unnim, una sussidiaria del BBVA [Banco Bilbao Vizcaya Argentaria]. Considerate le vostre tattiche parte di una politica a più lungo termine? Penso che ottenere che le banche dichiarino i mutui ipotecari debiti senza rivalsa, interrompere gli sfratti e ottenere affitti ridotti grazie all’edilizia pubblica siano alcune delle piccole vittorie che ci hanno reso forti e che ci differenziano oggi da altri movimenti sociali. Direi che le nostre tattiche e strategie sono prevalentemente a breve termine e consistono nel decidere obiettivi che siano conseguibili in termini dell’arco temporale e dell’energia che richiedono. Questi successi tangibili a breve termine inducono le persone a passare dall’essere scoraggiate e demoralizzate a sentirsi dotate di potere e ad avere un impatto sulle loro comunità, in tempi relativamente stretti. Ci aiutano anche a mantenere visibile il movimento, a raggiungere un numero maggiore di persone e a continuare a contestare politici e banchieri a proposito del cambiamento della legge. Contemporaneamente le nostre assemblee ci garantiscono di apprendere e addestrarci reciprocamente sempre, così da non perdere mai l’essenza di ciò che rende così importante il PAH, cioè le persone che partecipano al movimento. Senza dubbio il più grande successo del PAH è stato di dare potere alle persone. Sono uomini e donne che a un certo punto si erano convinte di far parte di una classe media e che ora si rendono conto di essere parte di una maggioranza molto più vasta, che è la classe lavoratrice. Un tempo erano soltanto un numero nella forza lavoro e oggi, grazie al PAH, sono attivisti che non difendono soltanto il diritto a un alloggio decente ma che lavorano con i militanti che hanno conosciuto in altri movimenti per tessere la rete sociale delle loro stesse comunità. Quali sono state sinora le chiavi del successo del movimento? Il successo del PAH sta in ciascuna delle sue assemblee locali. Le persone arrivano in tali assemblee in cerca di una soluzione alla propria situazione individuale, ma si rendono rapidamente conto che attraverso la solidarietà e la disobbedienza civile possono non solo trovare soluzioni ai propri problemi, ma anche di essere parte di una comunità che è capace di successi su larga scala. Il PAH è oggi il più importante movimento sociale della Spagna, ma né è perfetto, né è una panacea per tutti i mali del paese. Facciamo un sacco di cose che sono state fatte molti anni fa, nei movimenti di quartiere, nei movimenti di occupazione e così via. La piattaforma è nata nel posto giusto al momento giusto e ha imparato come apprendere, crescere ed espandersi senza perdere la sua essenza. Forse col tempo saremo in grado di riunire tutte le diverse lotte sociali che hanno luogo in questo momento della storia. Carlos Delclòs è docente di sociologia all’università Pompeu Fabra e redattore della rivista ROAR. Questo articolo è stato pubblicato in origine sotto licenza Creative Commons, Attribuzione, Non commerciale, 3.0, da openDemocracy, successivamente è stato tradotto da Giuseppe Volpe per znetitaly.org. (fonte: Omune-Info) link: http://comune-info.net/2014/01/abbiamo-smesso-di-essere-vittime/ Lavoro ed occupazione Fiat e le politiche fallimentari (di Andrea Di Stefano , Roberto Romano) Mentre nel Belpaese la politica si dibatteva nel sostegno o meno a Marchionne, in altri paesi la ristrutturazione del settore dell'auto è stata affrontata tramite la politica industriale. La recente operazione Fiat sul mercato americano non deve sorprendere. È perfettamente in linea con le politiche adottate da Marchionne. Non tanto per le politiche di delocalizzazione, serie ma non importanti, piuttosto per la necessità di Fiat di agganciare un player (paese) adeguato per conseguire le necessarie economie di scala al fine di ridimensionare gli alti costi fissi delle imprese automobilistiche. La Fiat è (forse) importante per l’Italia, ma nel consesso europeo non si configura nemmeno come una multinazionale tascabile. Nel settore dell’automotive non è tra le prime multinazionali. La sua dimensione è troppo piccola per far fronte al cambiamento di struttura che attraversa il settore delle automotive, il debito troppo alto (oltre 14 miliardi) e i profitti risicati: il prossimo passo, forse l’ultimo per Marchionne, è quello di arrivare ad un ulteriore step di aggregazione, forse con la stessa General Motors. In altro modo, l’operazione Chrysler è il tentativo di agganciare un’area economica (industria) capace di misurarsi con i colossi europei (Germania) e del sud est asiatico (Giappone). Diversamente la Fiat non potrebbe nemmeno essere considerata una società di subfornitura. Sostanzialmente Fiat è stata cacciata dall’Europa perché la Germania ha assunto un ruolo dominante, in cui solo alcune società di subfornitura possono partecipare. Se ci si pensa bene è stata anche la politica di Marchionne, ma i governi del Paese invece di fare politica industriale hanno esasperato il mercato via incentivi. Il colpo di grazia che proprio non serviva a Fiat. Sostanzialmente Fiat acquista se stessa per entrare nella filiera del settore delle automotive americano, visto che in Europa lo spazio di mercato è economicamente chiuso dalla Germania con sei milioni di auto prodotte e un tasso di utilizzo degli impianti superiore al 75%, cioè la soglia che permette di maturare dei profitti. Chiedete ai lavoratori della Fiat quale è il tasso di utilizzo degli impianti. La Fiat si trova nella non invidiabile situazione di non poter realizzare investimenti produttivi perché producono tecnicamente perdite. I piani annunciati (e sinora sempre rinviati) sono largamente inferiori a quelli dei concorrenti europei: nei giorni scorsi la sola Audi (gruppo Volskwagen) ha confermato che spenderà 22 miliardi di euro nell’arco temporale 2014-2018 pari a 4,4 miliardi l’anno. Il tasso di utilizzo degli impianti, la produzione complessiva di automobili sono troppo bassi per aspettarsi un qualsiasi ritorno in utili. Solo non investendo la società Fiat può produrre utili. Un paradosso, ma gli investimenti sono per loro natura un anticipo dei profitti futuri. Se le quote di mercato si riducono e i costi fissi crescono, possiamo ridurre il costo del lavoro (variabile) fino alla schiavitù, ma il risultato non cambierebbe. Quindi l’operazione negli Usa è figlia della policy industriale italiana. Appena iniziata la crisi economica, ancor prima dell’operazione negli Stati uniti, Marchionne ha cercato di costruire più di una alleanza con una società automobilistica tedesca (Opel). Marchionne disse al governo (di centro destra) che non voleva nessun incentivo per l’acquisto di nuove autovetture perché erano dannosi per il mercato. Marchionne aveva compreso perfettamente che stava cambiando in profondità il mercato dell’auto, e solo a determinate condizioni era possibile realizzare degli investimenti. Marchionne aveva tentato di agganciare un Paese che stava diventando uno dei due player internazionali del settore delle automotive. Utilizzando correttamente l’analisi economica circa la dinamica dei settori di scala, fin da l’inizio avremmo capito che il problema della Fiat era un problema del settore dell’auto europeo, con un particolare: la Germania aveva cominciato a conquistare quote di mercato e costruito una tale forza di fuoco che avrebbe messo in ginocchio tutti gli altri Paesi. Secondo l’indagine Mediobanca sulle multinazionali il comparto in Germania conta per il 40 per cento delle vendite di tutte le corporation tedesche e solo le aziende di quel paese sembrano avere le carte in regola per far fronte ad una rivoluzione che già nel 2010 la Kpmg, analizzando il settore, individuava come epocale e basata su una mobilità green: calo costante e verticale delle alimentazioni a benzina e gasolio, car sharing e massima integrazione con diverse forme di trasporto. Con oltre 6 milioni di auto prodotte si possono abbassare i costi di produzione in misura ben più alta di un paese che a mala pena arriva a 600 mila auto prodotte. Non 4 dimentichiamo mai che il costo del lavoro incide per una frazione dei costi generali per queste società. L’operazione di Marchionne è quella di affidare agli Stati Uniti il proprio marchio, inserendolo all’interno del necessario processo di ristrutturazione del settore automotive americano. Forse sarebbe possibile agganciare le policy americane relative al settore maturando una qualche politica industriale pubblica. Sempre che l’Europa permetta una operazione del genere. Ma l’errore è stato commesso tempo addietro, mentre la flessibilità dei contratti erano la foglia di fico per nascondere il problema di struttura del settore. Alla fine la politica si è schierata o meno con Marchionne, ma la politica in altri Paesi ha affrontato la ristrutturazione del settore con delle politiche industriali. Il settore deve affrontare l’eccesso di capacità produttiva e la compressione della domanda tendenziale, causata anche dagli infelici sussidi del 2009. In qualche modo le barriere all’entrata (nel settore delle automotive) sono più alte, cioè solo a determinate condizioni-dimensioni è possibile rimanere sul mercato. Sostanzialmente siamo in presenza di un oligopolio-monopolio tecnico: poche società coprono l’intera domanda. Di questo dovremmo parlare quando discutiamo di Fiat e del settore delle automotive. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. (fonte: Sbilanciamoci Info) link: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Fiat-e-le-politiche-fallimentari21583 Nonviolenza Nove milioni per una nuova politica di pace nel mondo: Quale? (di Antonino Drago) Nella recente legge di stabilità approvata dal Parlamento, sono stati inseriti 9 milioni in tre anni per “… l’istituzione di un contingente di corpi civili di pace, destinati alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500 giovani volontari da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto o nelle aree di emergenza ambientale”. Come utilizzarli per attuare una nuova politica di Pace, che sia esemplare nell’operare senza armi al fine di contribuire a risolvere i conflitti internazionali? Ma innanzitutto, come mai l’Italia si trova nella posizione del Paese leader mondiale nel proporre iniziative istituzionali per la Pace? Ha iniziato ad esserlo nel 1998 con la legge 230 sulla obiezione di coscienza, la quale prevedeva all’art. 8e una “istruzione e esercitazione di una difesa civile non armata e nonviolenta” degli obiettori di coscienza in Servizio civile. Poi anche la legge 64/01 sul servizio civile volontario ha finalizzato questo servizio a “contribuire alla difesa della Patria con mezzi ed azioni non militari”. Poi su questo tema nel 2004 un decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha istituito un Comitato consultivo, composto da una maggioranza di civili non istituzionali. Nel 2008 la vice Ministra AA.EE. On. Sentinelli ha finanziato con 170 mila euro un gruppo di associazioni per la formazione di personale di peacekeeping civile. Infine oggi questo consistente finanziamento, che è pari all’1 per mille della difesa militare (così come è il finanziamento dell’ONU rispetto alle spese mondiali per gli armamenti). Questa leadership dell’Italia vale anche rispetto alla Germania, che ha sì un servizio civile di Pace, però che “… seconds experts to assist local partner organisations” (vedi sito), cioè invia tecnici (psicologi, medici, amministrativi, ingegneri), che in zone a rischio lavorano secondo la loro professione, non per preparare direttamente la pace. In effetti l’Italia ha quattro “fortune”. La prima è di aver avuto più maestri di nonviolenza che qualsiasi altro Paese (a parte l’India): Capitini, Lanza del Vasto, Dolci, La Pira, Don Milani, Don Tonino Bello, ecc.. La seconda è di avere un art. 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra…”) che non ha uguali nelle altre Costituzioni. Terza fortuna è di aver avuto la Campagna di obiezione fiscale più forte del mondo; forte non solo per l’assemblearismo e i meccanismi di accumulazione delle somme obiettate su un fondo comune, ma anche per la prospettiva politica: appunto una nuova maniera di concepire lo Stato, tale da includere una difesa alternativa. Quarta fortuna è stata quella di un fattivo servizio civile degli obiettori, il quale ha tanto influito sulla società italiana che essa non ha potuto più farne a meno, sia per i servizi prestati, sia per la prospettiva educativa e politica sulla gioventù. Queste sono tutte fortune esclusive, nessun altro Paese le ha avute. Esse spiegano perché ancora nessun altro Paese ha una delle precedenti novità istituzionali per la Pace. Secondo punto da chiarire. Pur aspirando i proponenti (in particolare l’on. Marcon di SEL) a un Corpo autonomo di peacekeeping, il finanziamento sarà devoluto al Servizio civile nazionale, perché oggi la legge permette allo Stato solo questa attività di pace disarmata; la quale appartiene alla prospettiva che lanciarono gli obiettori di coscienza nella assemblea straordinaria di Bologna 1985: una prima istituzione italiana di difesa alternativa compiuta dai giovani obiettori, e oggi dai servizio civilisti. Quindi dieci anni prima che Langer trasferisse questa proposta in Europa; laddove aumentano gli studi anche ufficiali sul tema (l’ultimo di Clark e Dudouet, EXPO/B/DROI/2008/69), ma non iniziative e ancor meno le chiarificazioni sul tipo di intervento, se dipendente dai militari o non. Ora gli obiettori fiscali non ci sono quasi più, perché repressi duramente (ad es. il fermo macchina); mentre sono molto vivaci le associazioni (ad es. Operazione Colomba, IPRI-CCP, Un Ponte per…, ) e gruppi che intervengono in azioni di pace all’estero (le azioni italiane più famose sono state Time for Peace del 1989 a Gerusalemme, la quale eccezionalmente mise assieme pacifisti israeliani e palestinesi in una manifestazione relativamente di massa; e nel 1992 i 500 a Sarajevo in guerra, guidati da Don Tonino Bello.) Oggi ci si domanda: sapranno “i nuovi eroi” utilizzare il finanziamento statale per indicare la novità che li caratterizza, cioè azioni precise effettuate sul campo? I precedenti tentativi istituzionali non hanno dato una risposta. Dopo la 230/98, non ci fu adeguata pressione per farne attuare l’art. 8 e). Cosicché essa rimase materia di principio giuridico (al punto che nel 2010 un D. Lgs. n. 66 del 2010 l’ha abrogata, fatti salvi gli articoli sulla obiezione di coscienza e sull’Ufficio Naz. del servizio civile). Anzi, nel 2001 la leva è stata “sospesa” e solo l’intervento delle Associazioni, senza più giovani e interessate al servizio civile, portò alla 64/01, che significativamente all’art. 1 a) mantenne la finalità della difesa alternativa. Anche quell’articolo sarebbe caduto nell’oblio se le Regioni non avessero rivendicato alla loro gestione il Servizio civile affidato allo Stato centrale. A seguito di una decina di sentenze nello stesso senso, la sent. 228/04 della Corte Costituzionale ribadì che quel servizio è difesa della Patria senza armi, pertanto è da attribuire allo Stato. Per attuare questa difesa il governo fu costretto a istituire almeno il Comitato su menzionato. Ma al suo interno una maggioranza composta da rappresentanti di Associazioni bloccò il primo finanziamento per il 2004 (400.000 euro); tra altri motivi: un giovane all’estero costa tre volte uno in Italia. Dopo le dimissioni del presidente (il sottoscritto) e altri tre membri, il nuovo presidente del Comitato (Prof. P. Consorti) organizzò un convegno che rafforzava la sua interpretazione della finalità della 64/01: essa non aveva a che fare con i conflitti riguardanti la difesa della Patria, ancor meno la Pace all’estero. Cosicché questo Comitato, rinnovato tre volte, non ha prodotto che documenti e infine nel 2011, grazie a un piccolo finanziamento straordinario, ha inviato sei giovani per un anno nel tentativo di risolvere micro-conflitti (vendette) in zona non di guerra 5 (Albania). Una sorte non molto diversa ebbe nel 2008 il finanziamento straordinario del M.AA.EE per la formazione al peacekeeping civile. Avendo accettato un titolo poco qualificante (“Volontariato”), esso fu rivolto principalmente a studenti di scuola superiore (cioè giovani non indipendenti, che quindi non erano intenzionati a partecipare immediatamente a operazioni di pace) e solo in parte utilizzati per quattro corsi di 40 ore per adulti. I quali, d’altra parte, avrebbero potuto usufruire di corsi ben più impegnativi (800 ore) nella forma dei corsi professionali sul peacekeeping civile, istituiti dalle Regioni con fondi UE. Essi iniziarono dai primi anni 2000 a Bolzano e poi si diffusero in altre Regioni (notevoli i quattro corsi nella Campania di Bassolino nel 2004). Ma poi sono scomparsi progressivamente, benché Tecnostruttura (l’ufficio giuridico delle Regioni) abbia anche prodotto uno studio sulla figura professionale del peacekeeper (Franco Angeli, 2007). Da segnalare anche la istituzione di un corso di laurea di Scienze per la Pace all’Università di Pisa, che però ha confinato questa materia a un corso a scelta (tenuto dal sottoscritto); e anche un Centro Studi sul Servizio Civile, promosso dal Prof. Consorti; ma senza novità di rilievo né all’esterno, né tra gli studenti universitari. In questo panorama è evidente che una proposta d’impiego del nuovo finanziamento ha una natura critica: si giungerà finalmente a chiarire all’opinione pubblica che cosa significa la pace senza armi in zone di guerra? Rispetto alla trentina di proposte che nel 2004 furono presentate nel Comitato ministeriale e che restarono lettera morta, molte guerre e paci sono passate nel mondo. Oggi la situazione di questo tipo di interventi qual è? In Italia si è cominciato a elaborarli quando nel 1992 tutto il movimento per la pace italiano fu “aggredito” dalla emergenza della guerra alle nostre porte, in Jugoslavia, e i deputati pacifisti furono presi in contropiede dal “dover” approvare l’’intervento “umanitario” ONU in Somalia. Da allora è nato un sforzo eccezionale di nuovi gruppi che, con tante esperienze sul campo, hanno superato una serie di tappe di questa crescita. Ma questa crescita spontanea dal basso è sufficiente davanti a questo finanziamento impegnativo? Come confrontare questa crescita con gli almeno 150 giovani tra i 18 e 28 anni che per un solo anno del loro servizio civile dovrebbero essere prima formati e poi inviati in una zona “calda”? Certamente il loro intervento senza le armi (che costano oro e che distruggono tutto) è almeno 5 volte più economico di quello armato; ma solo se questo intervento è efficace. Qualche ONG potrebbe di nuovo esaurire l’attuale finanziamento in una formazione per una futura attività che ogni frequentante deciderebbe poi dopo nella sua vita privata. Oppure potrebbe scegliere un luogo critico (ad es. Cipro, secondo un progetto già sperimentato dalla città di Ferrara nel 2005-8). Oppure potrebbe indirizzare i giovani a dare protezione internazionale e sostegno alle Comunità di Pace della Colombia (benché l’attuale avanzamento del processo di pace potrebbe far scomparire a breve questa necessità). Oppure potrebbe cercare nella disastrata Africa uno Stato failed dove compiere una esperienza esemplare; ma di quale attività, mentre bande incontrollate scorrazzano impunite? Infatti le azioni sul campo (escludendo ovviamente quelle umanitarie che già altri fanno) sicuramente debbono difendere i diritti (umani e civili) e raggiungere almeno il livello dell’empowerment della popolazione (di più che la formazione alle soluzioni nonviolente). Allora, uscendo definitivamente dalla qualifica di “volontariato” e dalla crescita solo spontanea, che proporre di più, in modo da “pesare” sulla soluzione del conflitto armato? Finora le ONG italiane non hanno programmato interventi al livello granché superiore a quello dei diritti umani. Né all’estero hanno una rete di gruppi stabili nei quali i 150 giovani da inviare dovrebbero inserire la loro attività di solo un anno. Inoltre esse debbono sottostare al M.AA.EE che esclude alcune “zone calde” nel mondo e al Ministero della Difesa che esclude le zone dove esso non interviene (come fu nella guerra in Jugoslavia). Infine un sano realismo suggerisce che la grande diversità (di motivazioni, interessi, autorevolezza, capacità operativa, capacità amministrativa e gestionale) delle ONG (cattoliche e non, nonviolente e non, nonviolente pragmatiche e nonviolente di testimonianza, collaterali o autonome da partiti, affini ai militari o separate da essi) ha poche chances di raggiungere una immediata unità programmatica su un progetto “grosso” come quello che richiederebbe il finanziamento suddetto e che sia migliore di quelli delle coalizioni internazionali di ONG: le Peace Brigades International (dal 1981) e la Nonviolent Peaceforce (dal 2001). Queste sanno bene che un incisivo intervento sul campo pone una serie di problemi: 1) il dilemma partigianeria o indipendenza dagli interventi armati (dell’Italia, NATO e delle (due o più) parti in conflitto)? 2) lo scontro degli obiettivi immediati e ultimi della pletora di attori di “pace” sul campo, con problemi di mutua comunicazione (anche per la imprecisione dei mandati degli attori istituzionali, poco disponibili verso le ONG); 3) i grandi dilemmi etici nello scegliere la strategia e la tattica, fino al problema di come elaborare il lutto (sul luogo e nel Paese d’origine) per eventuali caduti sul campo. Le due suddette coalizioni potrebbero accettare il finanziamento tramite i loro rappresentanti italiani; ma questa soluzione ha lo svantaggio di dover scegliere due sole ONG italiane tra le tante che potrebbero essere coinvolte. Nella ipotesi più ottimistica, solo alcune ONG italiane, o autonome o legate a organizzazioni internazionali, riuscirebbero a esprimere un intervento all’altezza di tragiche situazioni belliche. All’estero a che livello si è arrivati? L’esempio del Servizio civile di pace della Germania è poco praticabile dal nostro servizio civile: abbiamo forse centinaia di giovani sotto i 28 anni da esportare così esperti da aiutare le organizzazioni locali di una realtà straniera in guerra (cioè, i nostri laureati sono in grado di capire quelle situazioni)? Possiamo creare in breve tempo un Consortium di tali organizzazioni locali? Piuttosto l’esperienza cruciale è quella del PK dell’ONU, che è l’unica forma attuale di governo mondiale, che per di più sviluppa nel mondo una politica di Pace come sua finalità specifica (Art. 1: “… evitare alle nuove generazioni il flagello delle guerre”) e financo con un peacekeeping civile (dal 1992 con l’Agenda per la Pace di B. Ghali). Anche la sua esperienza ha l’anno 1992 come discriminante. Da dopo la Somalia è stato chiaro che l’autorità morale degli interventi dell’ONU deve essere articolata in precise prescrizioni operative su come gestire una operazione; la quale per di più. date le numerosissime guerre in Stati failed (o disastrati) comporta un tipo di intervento ben più forte della separazione dei belligeranti; quindi rivolto non solo a stoppare la guerra (pace negativa), ma a intervenire costruttivamente sulle sue cause strutturali (pace positiva), affinché essa non si ripeta con grande probabilità nel giro di 5-7 anni. Perciò oggi gli interventi sono “multilaterali” e a tale scopo includono una essenziale componente civile, che deve affrontare problemi anche colossali. A livello di intelligenza collettiva su queste operazioni, si è usciti dallo studio del singolo intervento ONU per cercare di assumere, con un grande sforzo di teorizzazione (Bellamy e Williams 2010) un più ampio panorama di teoria politica su questi interventi (nonostante gli studiosi di Relazioni internazionali siano poco sensibili a questo problema). Alla metà degli anni ’90 una innovazione importante apparve la introduzione della teoria della risoluzione dei conflitti (Fetherstone 1994, Lederach 1997), benché poi essa non sia stata decisiva per giungere a una condivisa base teorica; che ancora viene ricercata, magari nel quadro più ampio di un cambiamento di tipo di società e di Stato, non necessariamente di tipo occidentale (Ramsbotham, Woodhouse e Miall 2011). 6 Nello stesso tempo le passate esperienze di oltre 50 anni di interventi ONU hanno dato materiale sufficiente per iniziare studi statistici che misurano quantitativamente la loro efficacia e le loro specificità positive o negative (Doyle e Sambanis 2006 per primi e più autorevolmente). Come primo dato si ha che questi interventi dell’ONU sono sostanzialmente efficaci e sicuramente costano molto di meno degli interventi unilaterali degli USA o della NATO (Rapporto RAND 2006). Quindi a livello internazionale da pochi anni siamo arrivati a un livello di quasi professionalità progettuale e operativa (che sarebbe ben più alto se l’ONU potesse agire senza la concorrenza NATO e ricevendo maggiori finanziamenti e burocrazia – solo 800 impiegati a New York per le attuali 17 operazioni di pace nel mondo). E’ bene riferirsi a essa anche perché l’obiettivo politico più alto del PK delle ONG dovrebbe essere collaborare con il PK dell’ONU. Qui aiuta una quinta “fortuna” dell’Italia: sul suo territorio, a Brindisi, c’è la base logistica per le operazioni di peacekeeping ONU nel mondo. Una base operativa di tale rilevanza ha certamente bisogno di tutti i tipi di personale di sostegno. Per lo Stato l’unico lavoro amministrativo sarebbe di siglare con il Dipartimento ONU di Brindisi un accordo che è tutto a vantaggio di quest’ultimo. I vantaggi politici sarebbero molti. Si avrebbe la sicurezza di contribuire alla Pace nel modo più politico e più esperto possibile; tanto che sarebbe chiara la validità di eventuali sacrifici anche della vita da parte dei giovani impegnati. Inoltre si riceverebbe la solidarietà di una ampia base sociale, quale è quella della marcia PGAssisi, che sempre ha manifestato per attribuire più potere all’ONU. Infine sarebbe possibile partecipare alla sfilata del 2 Giugno con persone che rendono chiaro a tutti come si può, senza armi, agire efficacemente per la pace nel mondo. Si noti anche che le Associazioni di servizio civile che vogliano presentare progetti in tal senso avrebbero come unico vincolo l’avere una sede vicino a Brindisi, dove ospitare i giovani. Questa scelta significa forse rinunciare alla crescita autonoma del PK delle ONG? Al contrario, dovendo presentare progetti compatibili con il lavoro dell’ONU a Brindisi, esse, tra le prime nel mondo, si qualificherebbero ai massimi livelli operativi e strategici. Per di più, questa attività prefigura quello storno di finanziamenti e personale dalle Difese nazionali che sin dalla nascita i vari Paesi sottoscrittori della Carta ONU si sono impegnati (Art. 43) a compiere; quindi questa partecipazione al lavoro ONU a Brindisi sarebbe anche una pressione politica internazionale delle ONG per affidare la Pace nel mondo più all’ONU che ai vari eserciti nazionali. Comunque nessuno vuole escludere una crescita delle ONG italiane attraverso le ONG internazionali o attraverso un salto di qualità che proponga progetti validi; ma certamente non per tutto il contingente dei giovani. Antonino Drago – primo presidente del Comitato per la Difesa civile non armata e nonviolenta, già docente all’Università di Pisa, dal 2001 per diversi anni, dei primi corsi universitari italiani su “Difesa Popolare Nonviolenta” e “Peacekeeping e Peacebuilding”, docente del corso di Peacekeeping and Peacebuilding della Transcend Peace University di Johan Galtung. 050937493 (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/01/10/nove-milioni-per-una-nuova-politica-dipace-nel-mondo-quale-antonino-drago/ Il santo di Palermo. Vi racconto chi era Danilo Dolci (di Aldous Huxley) Senza carità, la conoscenza tende a mancare di umanità; senza conoscenza, la carità è destinata sin troppo spesso all’ impotenza. In una società come la nostra – i cui enormi numeri sono subordinati a una tecnologia in continua espansione e pressoché onnipresente – a un nuovo Gandhi o a un moderno San Francesco non basta esser provvisto di compassionee serafica benevolenza. Gli occorrono una laurea in una delle discipline scientifiche e la conoscenza di una dozzina di studiosi di materie lontane dal proprio campo di specializzazione. È soltanto frequentando il mondo del cervello non meno del mondo del cuore che il santo del Ventesimo secolo può sperare in una qualche efficacia. Danilo Dolci è uno di questi moderni francescani con tanto di laurea. Nel suo caso la laurea è in architetturae ingegneria; ma questo nucleo centrale specialistico è immerso in un’ atmosfera di cultura scientifica generale. Dolci sa di cosa parlano gli specialisti di altri campi, rispetta i loro metodi ed è desideroso, bramoso addirittura, di giovarsi dei loro consigli. Ma ciò che sa e ciò che può apprendere dagli altri è sempre per lui strumento di carità: in un quadro di riferimento le cui coordinate sono un incrollabile amore del prossimo e una fiducia e un rispetto non meno incrollabili nei confronti dell’ oggetto di questo amore. L’ amore lo stimola ad adoperare le proprie conoscenze a beneficio dei deboli e degli sfortunati; la fiducia e il rispetto lo portano a incoraggiare costantemente deboli e sfortunati ad aver fiducia in se stessi, lo spingono ad aiutarli ad aiutarsi da sé. Quando Danilo Dolci giunse in Sicilia proveniente dal Nord Italia, il suo era un pellegrinaggio di carattere estetico e scientifico. S’ interessava dell’ architettura dell’ antica Grecia e aveva deciso di trascorrere un paio di settimane a Segesta, per studiarne le rovine. Ma lo studioso dei templi dorici era anche (e soprattutto) uomo di coscienza e di amorevole bontà. Venuto in Sicilia attratto dalla passata bellezza di questa terra, rimase in Sicilia a motivo del suo presente degrado. Quella che Keats chiamò «l’ enorme infelicità del mondo», in Siciliaè più gigantesca della media: in particolar modo nella parte occidentale dell’ isola. Per Dolci il primo sguardo sulla gigantesca infelicità della Sicilia occidentale agì da imperativo categorico. Bisognava fare qualcosa, punto e basta. Si stabilì pertanto a circa venti miglia da Palermo, in uno slum rurale chiamato Trappeto; sposò una sua vicina di casa, vedova con cinque figli piccoli; si trasferì in una casetta priva di ogni comfort e da questa base lanciò la propria campagna contro l’ infelicità che lo circondava. <…& Nella vicina Partinico e nelle campagne circostanti i problemi che si pongono all’ uomo di scienza e di buona volontà sono tanti, tutti difficili da risolvere. C’ è, innanzitutto, il problema della disoccupazione cronica. Per una consistente minoranza di uomini validi non c’ è, molto semplicemente, proprio nulla da fare. Ma il lavoro, sostiene Dolci, non è soltanto un diritto dell’ uomo: è anche un suo dovere. Per il proprio bene e per il bene degli altri, l’ uomo deve lavorare. In base a questo principio, Dolci organizzò uno «sciopero a rovescio», in cui i disoccupati protestavano contro la propria condizione mettendosi al lavoro. Un bel mattino, ecco che Dolci e un gruppo di senza lavoro di Partinico si dedicano alla riparazione – di propria iniziativa e del tutto gratis – di una strada del luogo. Puntualmente ecco piombare su questi eterodossi benefattori la polizia, che effettua una serie di arresti. Non si verificarono scontri, dacché per Dolci la non violenza è tanto un principio che una linea politica ben precisa. Dolci fu processato e condannato a due mesi di prigione per occupazione di suolo pubblico. Contro la sentenza ricorsero in appello tanto l’ imputato che l’ accusa: a parere delle autorità locali, infatti, quella a due mesi di carcere era una condanna troppo clemente. <…& Non meno grave della disoccupazione cronica è il problema del diffuso analfabetismo. Molti non sanno leggere affatto; e pochi, tra gli alfabetizzati, possono permettersi di acquistare un quotidiano. I trecentocinquanta fuorilegge responsabili di gran parte del banditismo per il quale la zona di Partinico è divenuta tristemente famosa, hanno trascorso complessivamente 750 anni a scuola e oltre 3.000 anni in prigione. L’ analfabetismo va a braccetto con un tradizionalismo addirittura primitivo. Ad esempio, la gente di campagna mangia patate: quando può permetterselo, dacché le patate arrivano da Napoli e costano. Ma i progenitori di queste persone nulla sapevano di tuberi: e perciò a nessuno viene in mente di coltivare le patate in loco. Allo stesso modo, manca la tradizione delle carotee della lattuga, pressoché sconosciute a Partinico. Le tradizioni in materia d’ «onore» sono altrettanto rigide che quelle riguardanti gli ortaggi. Qualsiasi offesa recata all’ «onore» di qualcuno esige uno spargimento di sangue; e, ovviamente, lo spargimento di sangue dev’ essere vendicato con un ulteriore spargimento di sangue, che a sua volta… Ai delitti d’ onore e di vendetta vanno aggiunti quelli commessi per brama di denaro e di potere dagli appartenenti alla mafia, la grande organizzazione malavitosa che per secoli ha costituito una sorta di stato segreto all’ interno dello stato ufficiale. <…& La soluzione di tutti 7 questi problemi richiederà tempo, molto tempo: intanto Dolci vi ha posto mano. Si istruiscono i bambini e si persuadono i genitori a mandarli a scuola (che ci sia bisogno di persuaderli è dovuto al fatto che i ragazzini vengono pagati 400 lire la giornata, laddove gli adulti ne ricevono 1.000. Naturalmente i datori di lavoro preferiscono impiegare lavoro minorile. E, altrettanto naturalmente,i capifamiglia indigenti preferiscono le 400 lire alla totale assenza di entrate). Dalla sua base in fondo alla società, Dolci è riuscito a far leva sui propri amici e simpatizzanti più vicini al vertice della piramide sociale. <…& Partinico, tuttavia, non è l’ unico né il più avvilente palcoscenico dell’ infelicità siciliana. C’ è anche Palermo. Palermo è una città di oltre mezzo milione di abitanti, oltre centomila dei quali vivono in condizioni che debbono essere definite di povertà asiatica. Nel cuore stesso della città, alle spalle degli eleganti edifici allineati lungo le sue arterie principali, si trovano acri e acri di slum che rivaleggiano quanto a squallore con quelli del Cairo o di Calcutta (uno dei peggiori slum si trova proprio nell’ area compresa tra la Cattedrale e il Palazzo di Giustizia). Nel suo Inchiesta a Palermo Dolci fornisce le statistiche di questa gigantesca miseria e testimonia, adoperando le loro stesse parole, del modo in cui gli abitanti dei bassifondi della città trascorrono le loro vite distorte, ciò che fanno, pensano e provano. Il libro è appassionante e al contempo assai deprimente: deprimente, vien quasi fatto di dire, su scala cosmica. Perché Palermo, ovviamente, è un caso tutt’ altro che unico. Sparse in tutto il mondo vi sono centinaia di città, migliaia e decine di migliaia di cittadine e villaggi, le cui attuali condizioni sono altrettanto cattive, ma nelle quali il futuro appare più tetro, le prospettive di miglioramento incomparabilmente peggiori. <…& Nel frattempo Dolci fa quello che un uomo di scienza e di buona volontà può fare, con una manciata di aiutanti, per mitigare l’ attuale degrado e per stabilire, in maniera sistematica e scientifica, ciò che occorrerà fare in futuro e come riuscire a farlo. <…& Che genere di industrie creare? E chi anticiperà i capitali necessari? E, una volta avviate, come faranno queste industrie (la cui mano d’ opera, teniamolo a mente, sarà in larga misura priva di specializzazione e spesso di alfabetizzazione)a competere con i grandi agglomerati di forza lavoro qualificata presenti a Milano, a Torino? Sono queste le domande alle quali Dolci l’ ingegnere, Dolci il sostenitore del metodo scientifico, dovrà trovare una risposta. Ce la farà? È possibile far qualcosa in un ragionevole lasso di tempo per dare lavoro ai disoccupati di Palermo, decoro agli abitanti degli slum e speranza ai loro figli? Chi vivrà vedrà. Traduzione Alfonso Geraci © Aldous Huxley, 1959 ALDOUS HUXLEY 16 dicembre 2013 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/16/ilsan to-palermo-aldous-huxley-vi-racconto-chi.html (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2013/12/20/il-santo-di-palermo-vi-racconto-chi-eradanilo-dolci-aldous-huxley/ Politica e democrazia Per una legge elettorale rappresentativa (di Associazione per la Democrazia Costituzionale, Comitati Dossetti per la Costituzione) Al Presidente del Senato, Sen. Pietro Grasso Al Presidente della Camera dei Deputati, on. Laura Boldrini Ill.mo Presidente, la recente decisione della Corte Costituzionale che, accogliendo i rilievi sollevati dalla Corte di Cassazione, ha dichiarato incostituzionale il “porcellum”, dimostra la lungimiranza dei padri costituenti che hanno armato la fragile democrazia riconquistata a prezzo della lotta di liberazione con robuste istituzioni di garanzia: la magistratura indipendente e la Corte Costituzionale che, in questo caso, sono riuscite ad intervenire e a sanare la ferita più grave che un sistema politico impazzito aveva inferto alla democrazia costituzionale. Le leggi elettorali hanno un influsso immediato e diretto su quel principio supremo della Costituzione che attribuisce la sovranità al popolo determinando la qualità della democrazia rappresentativa ed i suoi limiti. Esse danno contenuto al sistema politico e realizzano la Costituzione vivente con riferimento alla forma di governo, alla forma ed alla natura dei partiti politici ed alla possibilità dei cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.). L’esperienza storica ci insegna che lo Statuto Albertino è stato distrutto dalla legge Acerbo, che ha consentito a Mussolini di prevaricare sull’opposizione ed assicurarsi la fedeltà di un Parlamento ridotto ad un bivacco di manipoli. Nel 2005 con la legge Calderoli è stato introdotto un sistema elettorale molto simile alla legge Acerbo, in virtù del quale è stato fatto un ulteriore passo, dopo l’introduzione del maggioritario nel 1993, per una svolta in senso oligarchico del sistema politico, comprimendo il pluralismo attraverso la tagliola delle soglie di sbarramento e del premio di maggioranza, e consentendo ad una ristrettissima cerchia di capi di partito di determinare per intero la composizione delle Camere, “nominando” i rappresentanti del popolo, senza che il corpo elettorale potesse mettervi becco. Questo sistema elettorale ha favorito una evoluzione in senso “castale” del sistema politico rappresentativo, tanto che nel senso comune coloro che dovrebbero essere i rappresentanti dei cittadini vengono percepito come una “casta”, cioè un corpo estraneo, portatore di interessi suoi propri, contrapposti al corpo elettorale di cui dovrebbero essere espressione. La sentenza della Corte Costituzionale interviene a sanare questo vulnus alla democrazia poiché sancisce con autorità di giudicato, che i sistemi elettorali, seppur dominio riservato del Parlamento, devono essere coerenti con l’impianto costituzionale, che prevede che il voto deve essere libero (il che significa possibilità di scegliere più proposte politiche) ed uguale (il che significa che non ci deve essere un quoziente di maggioranza e uno di minoranza, come prevedeva la legge Calderoli) e conseguentemente le assemblee parlamentari devono essere rappresentative della pluralità di interessi, bisogni e domande presenti nel corpo elettorale e nella società italiana; ciò non è compatibile con il rifiuto pregiudiziale avanzato in questi giorni, non solo nei riguardi del principio della proporzionale ma anche di ogni sua più duttile attuazione. E’ compito precipuo del Parlamento mettere a confronto le diverse domande politiche e realizzare una sintesi che consenta un governo autorevole ed efficiente. Orbene, l’insegnamento della Corte Costituzionale non può essere ignorato o disatteso nel momento in cui il Parlamento è intento al compito di riscrivere la legge elettorale. Né si può accettare che il complesso dei partiti e dei media qualifichino come una sciagura il sistema elettorale proporzionale che residua dopo gli interventi correttivi della Corte Costituzionale poiché la Consulta ha reso la legge elettorale vigente coerente con l’ordinamento costituzionale ed i diritti dei cittadini elettori. Ove ritenga non adeguata la legge vigente, come corretta dalla Corte Costituzionale, il Parlamento è libero di intervenire ed introdurre delle modifiche al sistema elettorale, ma nel disegnare una riforma deve rispettare il parametro della compatibilità del sistema elettorale con la Costituzione repubblicana e non può sacrificare alla governabilità il pluralismo politico e la rappresentatività delle Assemblee parlamentari, né può inseguire miti anticostituzionali come quello del ricorso al corpo elettorale per realizzare l’investitura di un governo o di un capo politico. Povertà ed emarginazione Miseria ladra! Crisi: Eurostat, in Italia allarme povertà, colpisce tre su dieci (di Gruppo Abele) Italia al secondo posto della graduatoria di Eurolandia dei paesi a rischio poverta': una minaccia che colpisce tre persone su dieci. A suonare l'allarme e' l'Ufficio europeo di statistica, Eurostat, in un rapporto pubblicato oggi. Dati alla mano, infatti, nel nostro paese la percentuale della popolazione a rischio poverta' o esclusione sociale e' salita al 29,9% nel 2012 (in valori assoluti 18,2 milioni di persone), dal 25,3% del 2008 e il 28,2% del 2011. Peggio dell'Italia nella zona euro si trova solo la Grecia con 34,5% della popolazione che versa in condizioni di severa indigenza (3,8 milioni). In sostanza vuol dire questa questa percentuale della popolazione o e' a rischio poverta' dopo i trasferimenti sociali (il 19,4% degli italiani), o vive in condizioni di serie privazioni materiali (il 14,5%), oppure vive in un nucleo con una bassa intensita' lavorativa (il 10,3%). Allargando l'orizzonte al resto dei paesi Ue, in Francia e' a rischio poverta' il 19,1% dei cittadini, in Germania il 19,6%, in Finlandia 17,2%, in Olanda il 15%, tra gli altri. Quanto all'Ue nel suo insieme, l'anno scorso il 24,8% della popolazione era a rischio, ovvero 124,5 milioni di persone, una percentuale piu' alta dunque del 24,3% del 2011 e del 23,7% del 2008. Sociale. Eurostat: Italia a rischio povertà subito dopo le Grecia (DIRE) Roma, 5 dic. - L'Italia ha una quota di persone a rischio poverta' o di esclusione sociale inferiore solo alla Grecia. Infatti, nella zona euro, in Italia la quota di persone a rischio nel 2012 era del 29,9%, pari a 18,2 milioni di persone. Il primo posto e' riservato alla Grecia con una percentuale del 34,6%, pari pero' a 3,8 milioni di persone. E' quanto emerge da un rapporto Eurostat. Quello dell'Italia e' un trend negativo in aumento: nel 2008 la quota era del 25,3%, nel 2011 del 28,2%. Per quanto riguarda l'Ue a 28, nel 2012, un quarto della popolazione era a rischio di poverta' o esclusione sociale, pari a circa 125 milioni di persone. Sono state registrate le maggiori quote di persone a rischio in Bulgaria (49%), Romania (42%), Lettonia (37%) e Grecia (35%), e le piu' basse nei Paesi Bassi e la Repubblica Repubblica (entrambi 15%), Finlandia (17%), Svezia e Lussemburgo (entrambi 18%). Da registrare anche i numeri che riguardano la Germania, esempio e motore dell'Unione: il 19,6% della popolazione e' a rischio, ossia 15,9 milioni di persone. Per far fronte a questa situazione Libera e il Gruppo Abele hanno promosso, con un dossier, la campagna "Miseria Ladra".Una campagna nazionale contro tutte le forme di povertà: che fornisce dieci proposte concrete che da subito possono rispondere alla crisi economica e sociale, rafforzare la partecipazione e rivitalizzare la nostra democrazia. "Miseria Ladra" è cantiere aperto a tutte le associazioni del volontariato, ambientaliste, alle cooperative del sociale per "chiamare" e "convocare" alla mobilitazione su un problema che oggi tocca più tragicamente e in misura crescente alcune fasce sociali, ma domani potrebbe riguardare molti altri. link: http://www.gruppoabele.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4855 Signor Presidente, la chiediamo di vigilare per evitare che la prossima riforma elettorale non tradisca nuovamente la Costituzione e con essa la dignità del popolo italiano e la sua storia. Questione di genere Roma, 9 dicembre 2013. Le donne che fanno i nostri jeans (di Maria G. Di Rienzo) Raniero La Valle, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Giovanni Russo Spena link: http://cdperlc.wordpress.com/2013/12/13/per-una-legge-elettoralerappresentativa/#more-615 8 A tre mesi dal collasso di una fabbrica di indumenti a Rana Plaza, nella periferia di Dhaka in Bangladesh, che ha ucciso più di 1.100 lavoratori – il disastro più mortale nella storia dell’industria tessile – politici e investitori internazionali hanno cominciato a rispondere alla domanda pubblica di migliori condizioni di lavoro. Il 15 luglio scorso, il Parlamento del Bangladesh ha approvato una legge sul lavoro che rafforza i diritti dei lavoratori; la settimana precedente, 17 compagnie nordamericane – fra cui Wal-Mart, Gap e Target – hanno annunciato un piano per migliorare gli standard sulla sicurezza. Ma le iniziative che emergono dalle macerie sono solo un punto d’inizio, dice una delle più conosciute attiviste per i diritti dei lavoratori del suo paese, Kalpona Akter. Fondatrice e direttrice del “Centro per la solidarietà fra i lavoratori del Bangladesh”, Kalpona Akter rappresenta i tre milioni e mezzo di donne che sono i motori dietro l’affare più grande del paese. La missione, per lei, è anche profondamente personale: dopo che suo padre si ammalò e non fu più in grado di sostenere la famiglia, la 12enne Kalpona cominciò a guadagnare 6 dollari al mese per 400 ore di duro lavoro in fabbrica. Ha combattuto questa lotta e tenuto duro per anni, sino a che è stata licenziata per aver tentato di costituire un sindacato. organizzatore Aminul Islam (1) è stato assassinato. Dopo di ciò, molti membri del nostro staff hanno dato le dimissioni, temendo rappresaglie. Parlaci della tua esperienza come lavoratrice nelle fabbriche di indumenti a Dhaka. Le condizioni sono cambiate da quando tu hai cominciato a lavorare e se sì, come? (1) Nato nel 1973, era sposato e padre di due figli e una figlia. Arrestato con Kalpona nel 2010 era stato torturato durante la detenzione. Prima dell’assassinio stava organizzando i lavoratori dello “Shanta Group”, che produce indumenti per diverse compagnie statunitensi fra cui Nike e Ralph Lauren. Il suo corpo, che di nuovo recava segni di tortura, fu trovato privo di vita il 6 aprile 2012 su una strada di Ghatail, a nord di Dhaka. Kalpona Akter (KA): Poiché ho lavorato in fabbrica da quando avevo 12 anni, conosco bene le lunghe ore, i giorni persino, di lavoro senza pause; le difficoltà dovute alle paghe basse e le condizioni insicure in cui si lavora nel settore, e la tremenda pressione e gli abusi diretti a non farti parlare contro tutto ciò. Sebbene le condizioni in cui ho lavorato da bambina – incluse le scale inagibili e la sporcizia e la grande presenza di minori – non siano sempre prevalenti, restano le questioni meno visibili come l’impossibilità di organizzarsi collettivamente e di agire per il cambiamento all’interno delle fabbriche. Perché i diritti dei lavoratori sono una “faccenda di donne” in Bangladesh? KA: Nel settore degli indumenti chi lavora in modo predominante sono le donne; perciò, oltre ai mestieri domestici che fanno di prima mattina e la sera, le donne lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno in fabbrica. Il prezzo che l’orario lungo e le condizioni di lavoro fanno pagare alle famiglie in tutto il paese è un altro esempio del persistere degli effetti negativi. La tragedia di aprile ha cambiato il dialogo internazionale sulle condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori? KA: Rana Plaza è il più grande disastro delle centinaia di disastri già accaduti nelle fabbriche ovunque in Bangladesh e che hanno fatto molti più morti. Forse ha alzato il profilo ma certamente non è stato l’inizio del dialogo internazionale. Ciò che il collasso di Rana Plaza ha fatto (così come nei casi di Smart e Tazreen) è stato collegare specifici marchi/imprenditori a questi disastri, concentrando l’attenzione sulle loro responsabilità. Inoltre, ha fatto sì che oltre 60 “marchi” in tutto il mondo si sentissero costretti a firmare l’Accordo per la sicurezza in materia di fuochi e costruzioni in Bangladesh. E in generale, Rana Plaza fa luce sulle più profonde istanze infrastrutturali che fronteggiamo, qualcosa che va ben oltre l’industria tessile del paese. Che ne pensi del piano nordamericano che è stato proposto per migliorare la vita delle lavoratrici del Bangladesh? KA: In teoria, un documento firmato potrebbe incentivare relazioni buone e durevoli dei marchi con le fabbriche, il che fornirebbe il tempo e le capacità di migliorare le condizioni di lavoro. Tuttavia, il documento che è stato siglato questo mese con molte ditte nordamericane, incluse Wal-Mart e Gap, è peculiarmente differente dall’Accordo sulla sicurezza: quest’ultimo è un documento vincolante, l’altro permette alle ditte di non assumersi effettive responsabilità. Cosa mi dici delle minacce alla tua libertà e alla tua sicurezza? KA: Sono stata arrestata assieme a numerose mie colleghe nel 2010, dopo la nostra lotta per avere migliori stipendi. Di conseguenza, al “Centro per la solidarietà fra i lavoratori del Bangladesh” è stata revocata la registrazione legale. Nel 2012, mentre eravamo ancora “illegali”, il nostro 9 Come pensi i lettori dovrebbero agire riguardo le compagnie che fanno affari in Bangladesh? Cosa suggeriresti a loro? KA: L’industria degli abiti è incredibilmente importante nel nostro paese e quindi lo è per le vite di milioni di lavoratrici e delle loro famiglie: perciò, il nostro messaggio non è quello del boicottaggio. Piuttosto, i consumatori possono far pressione sulle ditte e sui loro governi affinché chi usa le fabbriche in Bangladesh lo faccia stabilendo con esse relazioni giuste e durevoli. (fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo) link: http://lunanuvola.wordpress.com/2013/07/29/le-donne-che-fanno-i-nostrijeans/ Notizie dal mondo America Latina Una riflessione di capodanno su uno dei tanti mondi possibili. anzi, esistenti. il XXX dell’EZLN, il XX dell’insurrezione zapatista e il X dei Caracole (di Aldo Zanchetta) Ricordo una serata di alcuni anni or sono ad Anguillara Sabazia, sul Lago di Bracciano. Jaime, yachak del popolo kitu-cara ecuadoriano , aveva celebrato il saluto al sole che tramontava e col rauco suono emesso da una grossa conchiglia marina aveva per quattro volte gridato il suo saluto di pace rivolto ai popoli del mondo viventi nelle quattro direzioni cardinali. Poco dopo in una grande sala affollata e festosa gli ospitanti avevano sfoggiato il meglio delle loro abilità culinarie. Infine era iniziato il dibattito, incentrato sul tema “Un altro mondo è possibile”, affrontato con impegno dai giovani di alcuni movimenti locali: un mondo naturalmente “giusto”, “comunitario”, “pacifico” …. Un solo problema: era un mondo da costruire, con i nuovi paradigmi appena espressi, di nuovo uguali per tutti i popoli. Aldo Gonzales, l’amico zapoteco che mi sedeva accanto, a un certo punto mi bisbigliò all’orecchio: “Glielo dici te che noi esistiamo già?”. Anni prima, proprio il primo gennaio del 1994, la mia allora recente iniziazione al mondo amerindio, avvenuta in Brasile, doveva subire una svolta. Seduto a tavola con tutta la famiglia festeggiavamo il nuovo anno. quando dalla radio una notizia ci zittì improvvisamente: in Messico nella notte migliaia di indigeni maya, col volto coperto, avevano occupato cinque capoluoghi del Chiapas, quel Chiapas che avevamo visitato tutti assieme appena sei mesi prima, per festeggiare un importante cambio nella mia vita lavorativa. E lì avevamo creduto di toccare con mano come il Messico fosse un paese liberale e lungimirante che trattava i propri popoli indigeni come gioielli … Ci guardammo stupiti: “Ma allora…?”. Già, allora ciò che il Messico ci aveva mostrato erano un paio di villaggi modello, disegnati apposta per turisti in cerca di esotismo. Nacque spontanea la voglia di capire meglio e così iniziò una lunga marcia di avvicinamento ai mondi amerindi, quello maya dapprima, altri poi. Mondi realmente esistenti, non “arretrati” e da “sviluppare”, come il mio lungo iter educativo mi aveva inculcato. E la loro conoscenza avrebbe poco a poco modificato profondamente la mia “cosmovisione”. In questo primo gennaio del 2014, 20 anni dopo, è di quello maya che voglio parlare, quello che più mi ha segnato, e cercare di comunicare un po’ di quello che una sua consistente porzione, riunita nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, e oggi nei 5 “caracoles” civili, mi sembra aver detto in questi anni di più universale a chi come me ha avuto la ventura di poterlo e volerlo ascoltare. Questi indigeni, incappucciati “per poter finalmente essere visti”, nella loro prima apparizione pubblica e armata, dichiararono: “Oggi diciamo basta! Al popolo del Messico. Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte […] (gli oppressori di ieri e di oggi, ndt) possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, né terra, né lavoro, né assistenza sanitaria, né cibo, né istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, (che) né vi è indipendenza dallo straniero, né vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo BASTA!” Il momento scelto per una insurrezione sembrava il meno felice, dopo la caduta del muro di Berlino, avvenuta 5 anni prima, che aveva fatto decretare la “fine della storia”. Ogni ipotesi di porre ostacoli alla marcia trionfale del pensiero e della prassi neoliberista, il nuovo rullo compressore della storia, sembrava follia. Ma, dovevo impararlo poi, il mondo indigeno non ha fretta, e quando comunitariamente ha stabilito un obiettivo, non divaga. “Per l’Umanità, contro il neoliberismo” fu il lemma antiretorico, unificante nella sua essenzialità, dell’incontro “intergalattico” nella Selva Lacandona, al quale gli zapatisti invitarono, meno di due anni dopo, i “non sottomessi” del mondo. Arrivarò qualche centinaio di persone, ciascuna con la sua “corazza”, le “sue” aspettative, la “sua verità” e la sua “ricetta”. Ma il discorso zapatista, che aveva fatto tesoro di molte esperienze della sinistra mondiale, sia positive che negative, non era inquadrabile negli schemi tradizionali. Ne nacque qualche tensione. Alcuni tornarono a casa forse delusi. “Per tutti tutto. Per noi nulla”, “comandare obbedendo”, “parlare e ascoltare”… tutta qui la Rivoluzione? Dov’erano il ruolo delle avanguardie lucide, la “presa del potere”, il demiurgico “partito rivoluzionario” con il suo compito storico? “Noi non vogliamo il potere, perché vogliamo cambiare il mondo!”. Che delusione! Molti però capirono che “camminare domandando” era un nuovo atteggiamento necessario per uscire dal labirinto e si rimisero in marcia. In una Carta a los compañeros zapatistas Sergio R. Lascano ha scritto in questo anniversario: <<Il pensiero libertario zapatista ha aperto un grande buco nell’apparentemente solido edificio ideologico del potere del capitale e ha reso possibile che attraverso di esso passassero vecchie buon idee e nuove buone idee.>> Posso segnare all’attivo sul pallottoliere dello zapatismo? I lunghi silenzi, di mesi o talora di anni, che tanto hanno irritato molti impazienti rivoluzionari dotati di certezze “scientifiche”, sono serviti a ripensare errori o mancati successi. Altre volte invece era stata la “società civile” che non aveva risposto alle attese. La lotta fra il topolino e il leone richiedeva pazienza e lucidità. L’elaborazione di nuove politiche doveva avvenire “con” e “dalla” base, in villaggi distanti giorni di cammino, affinché queste potessero essere condivise e sostenute nella difficile situazione. Posso mettere un pallino rosso anche per questa coerenza profonda fra enunciazioni e pratiche? Cambiare il mondo reale è difficile, talora impossibile. E allora perché non costruirne uno nuovo, si sono chiesti gli zapatisti. Nacquero così le Aguascalientes prima e i Caracoles (conchiglie, con l’emblematica spirale) poi, sulla base dei contenuti degli “Accordi di San Andres” -prima approvati e poi sconfessati dal governo- e alla fine applicati unilateralmente dagli zapatisti a partire dal 2003. Caracoles retti da “giunte di buon governo”, i cui componenti, uomini e donne, giovanissimi o anziani, cambiano per rotazione, senza “primarie” né preclusioni. Oggi, dopo 7 anni, l’esperienza è consolidata e rappresenta la forma di democrazia più avanzata che io conosca. Altro pallino rosso. Un giorno, anni fa, un giovane cattedratico italiano, compagno di alcuni viaggi in Chiapas, visitando con me la scuola primaria “Neno Zanchetta”, mi disse, guardando i bambini fra i 5 e i 10 anni che la frequentavano: “Se l’esperienza zapatista avrà avuto successo o meno potremo dirlo solo quando questi ragazzi avranno 20 anni”. Il 21 dicembre 2012 oltre 40mila giovani zapatisti sono tornati ad occupare pacificamente e in silenzio, sotto la pioggia, le cinque città del Chiapas che avevano occupato 10 militarmente nel 1994: 20 mila a San Cristobal, 8 mila a Palenque, 8 mila a Las Margaritas, 6 mila ad Ocosingo, ed almeno altri 5 mila ad Altamirano. Nella grande maggioranza assai giovani, che erano bambini o non erano ancora nati all’epoca dell’insurrezione. Si può mettere all’attivo? Quest’estate l’invito a 1500 persone a andare una settimana alle “escuelitas” zapatiste per dialogare su un tema di tremenda attualità: “La libertà secondo gli zapatisti”. I richiedenti sono stati molti di più e gli esclusi di agosto stanno partecipando in questi giorni ad un nuovo turno, per non escludere nessuno. Ho già pubblicato un bilancio tracciato da alcuni partecipanti di agosto e lo ripeteremo presto, dopo questo nuovo turno, per cui sorvolo. Altro pallino? Ma forse la lezione più importante, rivoluzionaria, è come un movimento insurrezionale armato abbia poco a poco trasferito il potere reale alla “società civile”, ovvero alle comunità. In Chiapas non è stata firmata la pace e tutto si regge su un armistizio fra governo e EZLN, ragione per la quale questo non ha smobilitato e resta come ultima ratio se il governo tentasse, come ha già fatto, un’azione di forza improvvisa. Ma ormai sono le comunità a gestire la loro incredibile esperienza di vita. Potrei dire altre cose, ma diventerei prolisso. Pallini però ce ne sarebbero ancora. Una riflessione conclusiva? Trenta anni or sono sei giovani militanti rivoluzionari cittadini, diventati poi 12, scampati alle feroci repressioni (ricordate Piazza Tlatelolco?), giungono braccati nelle cañadas di Ocosingo, in Chiapas, dove vivono varie decine di miglia di indigeni maya parlanti ben 6 lingue diverse.. Qui un vescovo anomalo, tatic Ruiz, da loro “convertito” al mondo dei poveri, stava stimolandoli a darsi una propria prospettiva politica di riscatto, da loro gestita.. L’acciarino aveva incontrato la paglia. e la scintilla prima o poi sarebbe stata inevitabile. I dialoghi di uno dei giovani intellettuali, il “sub-comandante Marcos”, con un vecchio indigeno ricco di sabiduria antica, il vecchio Antonio, sono come la metafora di questo incontro fra culture distanti e con tutte le probabilità di restare incomunicabili. Occorsero 10 anni, un “tempo indigeno”, con incontri cañada per cañada, villaggio per villaggio, casa per casa. Poi ”quando il fiume gonfia, dice il vecchio Antonio, è perché piove da molto tempo sulla montagna. Oggi il fiume ha cambiato corso, niente lo farà tornare al suo letto precedente…”. Il giorno scelto fu il primo gennaio del 1994, quello in cui entrava in vigore il trattato di libero commercio fra Stati Uniti, Canada e Messic, che avrebbe posto fine alla inalienabilità delle terre comunali indigene e campesine, consegnandole nelle mani del “libero mercato”. Oggi, 20 anni dopo, l’autonomia costruita fra estreme difficoltà nella fragile nicchia di un provvisorio armistizio, ha consegnato al mondo l’esperienza di democrazia probabilmente più avanzata che si conosca. Non è un fatto quasi incredibile? Che cosa può dire a noi scontenti e depressi individualizzati in questo caotico paese declinante? Non siamo un modello da imitare, ci avvertono gli zapatisti. Cercate e costruite il vostro. Noi abbiamo solo voluto dimostrare che i sogni possono diventare realtà, anche nelle situazioni più difficili. Se lo si vuole, naturalmente. Grazie fratelli e sorelle zapatiste ! Buon anno ! PS Qualcuno penserà che ho tracciato una sintesi troppo favorevole e che sul pallottoliere ho messo solo pallini rossi. Dice Gustavo Esteva rispondendo al medesimo dubbio, nel postscriptum del suo elogio : <<Rileggendomi constato che non ho detto nulla dei lati oscuri, “umani, troppo umani” della società zapatista, delle sue inevitabili tensioni e contraddizioni […] Io non ho voluto tracciare un bilancio e ancor meno realizzare un’inchiesta etnografica pretesa come “scientifica” e “obiettiva”. Non era questa la mia intenzione. Ho semplicemente voluto tradurre ciò che ho sentito e creduto di capire: queste donne e questi uomini ordinari sono stati capaci di trasformare una delle condizioni sociali fra le più ingiuste e miserevoli del mondo nella concretizzazione dei vecchi sogni di una società più giusta, degna e decente […] Forse altri, impegnati nella ricerca di una propria alternativa troveranno qualche ispirazione in questa narrazione.>> Ah, dimenticavo. Conoscete il libro “Racconti del vecchio Antonio”? Una lettura letterariamente godibile come poche. E intrigante, molto. Alcuni dei tanti testi comparsi in questo XX anniversario Gustavo Esteva : La rencontre de la mémoire et de l’avenir (dal sito www.kanankil.it) Carmen Aristegui : Así fue el levantamiento zapatista… hace veinte años http://aristeguinoticias.com/ezln-20-anos-de-alzamiento-en-chiapas/. Luis Hèrnandez Navarro : Zapatismo: veinte años después Fuente: http://www.jornada.unam.mx/2013/12/24/index.php? section=opinion&article=024a1pol Sergio Rodríguez Lascano : Carta a nuestr@s compañer@s del Ejército Zapatista de Liberación Nacional - enlacezapatista.ezln.org.mx/.../carta-anuestrs-com...? EZLN - Comunicado del EZLN en vísperas del aniversario: “Hace frío como hace 20 años” - www.nodal.am/.../comunicado-del-ezln-en-vispera... Gilberto López y Rivas : A 20 años de la rebelión de los mayas zapatistas www.jornada.unam.mx/2014/01/02/politica Desinformemonos: Speciale sui venti anni dell'insurrezione zapatista www.caferebeldefc.org/?p=1645 Adolfo Gilly : Carta a los comandantes David y Tacho La Jornada - http://www.jornada.unam.mx/2013/12/31/opinion/008a1pol E tanti altri sul sito italiano : chiapasbg.wordpress.com/ dallo stesso pentagramma usato da chi ha regalato tempo, fatica, qualche fantasia e una discreta esperienza giornalistica per fare Comune fin qui. Quanto è servito, insomma, a scrivere, correggere, titolare, illustrare, impaginare, promuovere il milione e mezzo di pagine che sono state aperte in soli venti mesi di esistenza. Senza lavoro retribuito né finanziatori sa di miracolo, dicono gli esperti. foto_pagina_webNessuno compra e nessuno vende, naturalmente. Abbiamo tutti altro da fare: per esempio proviamo a strappare il collante, la carta adesiva di un sistema che impone relazioni sociali fondate sulla paura di non riuscire a cavarsela e sull’ansia di accumulare, cioè sul dominio e sul profitto. Quel collante è una patina opaca, viscosa, perfetta per occultare un diverso modo di vivere che non solo è possibile ma è già in uso ovunque da tempo. Si tratta di saperlo vedere, di riconoscere forme di vita inventate e messe in atto in un mondo, anzi in parecchi mondi che resistono all’assalto di uno sviluppo mercificato e velenoso. È proprio per resistere che tessono, giorno dopo giorno, nuove esperienze comunitarie nei quartieri delle metropoli europee o nordamericane come nei deserti africani e negli altipiani asiatici o andini. link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1997 Appelli e campagne Appelli Sosteniamo "Comune-Info": La stazione Comune dei mondi nuovi (di Comune-Info) Dalla piccola stazione spaziale di Comune-info, prende il via la campagna 2014. Si chiama Ribellarsi facendo e andrà avanti per l’intero anno galattico. Suggerisce di strappare la carta adesiva che nasconde ai nostri occhi i mondi nuovi che già esistono e resistono all’assalto di uno sviluppo mercificato e velenoso. Sono quelli in cui crescono le relazioni sociali diverse che vogliamo raccontare, accompagnare e difendere. Per partecipare, cioè per cominciare a fare Comune con noi, inviate almeno 12 euro, uno al mese, e qualcosa che ci racconti cosa fate per ribellarvi e per creare adesso il mondo che vi piace . Accade spesso ma non sempre che la speranza di cambiare sia un privilegio riservato a chi ha la possibilità di poterlo comprare. Non è il nostro caso. Facciamoci un regalo: mettiamo insieme almeno un euro al mese perché chiunque ne abbia voglia possa leggere liberamente Comuneinfo per un altro anno. Sono dodici euro, tre per ogni stagione del 2014. Se qualcuno può mettere di più, lo faccia. Servirà a sostituire chi vorrebbe partecipare e non ce la fa. Potete versare come volete e quando potrete. Ci fidiamo: vogliamo scommettere sul fatto che cammin facendo, se lo avrete preso, non dimenticherete questo piccolo essenziale impegno. Il nostro tempo, quello di chi fa Comune con noi, non può essere quello dell’orologio, è il tempo della qualità delle relazioni. Gli antichi Greci lo chiamavano Kairos, il momento opportuno, quello in cui l’attività umana diventa autonoma dalla volontà divina. Il tempo giusto nel quale qualcosa di speciale accade. La cosa speciale, in questo caso, non è tanto Comune, che pure, tra i mezzi di comunicazione della galassia web, non è esattamente un esemplare di routine. A leggere quel che scrivono Cinzia di Avellino, Miguel di Firenze e altri, moltissimi altri, la cosa speciale potrebbe essere, e almeno noi speriamo che sia, la relazione tra chi legge e chi cucina le nostre pagine. Possiamo sbagliare, ovviamente, ma sono numerosi i segnali che indicano una lettura attenta, critica, a volte appassionata e poco orientata alla classica funzione consensuale. Ne siamo felici, cerchiamo (e proviamo a offrire) domande ricche di senso non consensi. La sola ipotesi di poter esser visti come “rassicuranti”, poi, ci suscita orticaria, come quella di formare coscienze e identità. Ci piacerebbe invece, semplicemente, mettere in comune qualche riflessione e un gran numero di attività ribelli. La disposizione d’animo di chi si sofferma sui testi che mettiamo in pagina sarà certo varia ma, per alcuni versi, sembra suonare note tratte 11 Noi lo chiamiamo il Ribellarsi facendo. Al dominio di poteri tecnocratici e scientistici si ribellano persone ormai note, come Maria de Biase, la preside terra-terra che, ai ragazzini del Gaza di San Giovanni a Piro, Salerno, fa mangiare pane e olio invece delle merendine confezionate prescritte dalla legge. La stessa legge che se ne infischia dei laboratori di auto-produzione, dell’orto sinergico, del recupero delle conoscenze e dei prodotti cilentani che al Gaza hanno messo su: la scuola stava per essere chiusa avendo solo 385 iscritti, quindici in meno del numero minimo che impone la legge 183 del 2011. A Roma, tra molte altre, si ribellano alcune persone comuni, cioè artisti. Dopo aver occupato un teatro del 1727, resistono dal giugno del 2011 per fare, dicono, una rivoluzione culturale. Niente di più necessario, niente di più urgente. Non si annoiano, al Valle. Solo nel 2013 hanno collezionato 1400 ore di formazione sul teatro e i linguaggi della scena, poi hanno avviato una fondazione bene comune e stanno producendo uno spettacolo. Deve essere perché pensano che la prudenza sia triste che hanno osato immaginare (e praticare) un altro modo di lavorare, di vivere la politica e di concepire il diritto. Dall’altra parte dell’Atlantico, si ribellano le Madres di Ituzaingó, un quartiere della città argentina di Cordoba. Sofia Gatica lì ha perso la sua bambina: i reni hanno cessato di funzionare. Quando ha smesso di piangere, Sofia ha cominciato a chiedersi perché l’80 per cento dei ragazzini del quartiere si ammalava. Ha scoperto così come l’avidità dei colossi delle colture Ogm rappresenti un pericolo per l’umanità. Ma si può vincere contro Monsanto? Sta accadendo a Malvinas Argentinas, quattordici chilometri da Cordoba. Le Madres e l’Asamblea dei Vecinos hanno fermato l’installazione di uno degli impianti più grandi del mondo per la produzione di semi. Oggi quel piccolo presidio è l’Estate senza Monsanto, una stagione da vivere in un’altra maniera. Manu Chao è venuto, ha portato il ritmo e pure l’allegria. Sono appena tre esempi di un enorme numero di persone che si ribellano facendo nelle società in movimento, quel che Comune si propone di raccontare, accompagnare e difendere. Il nostro lungo racconto sociale assume senso solo così, se viene percepito e vissuto come un momento di lotta, un frammento di vita ribelle. Alla presunta informazione oggettiva (e alla sua reciproca controinformazione), quella capace di scoprire e raccontare i fatti separati dalle opinioni, cioè la Verità, per fortuna non crede più nessuno. Sono i flussi di comunicazione che s’inseguono fulminei nella rete, oggi, il veicolo principale della penetrazione del consenso verso una sintesi molecolare complessa, una reazione utile a rigenerare di continuo il dominio delle cose, del denaro e del capitale sulla volontà e l’energia delle persone. Sostiene quel consenso, il suggestivo mito dell’autonomia e della neutralità di un mezzo dalle enormi possibilità come il web. La rete è però anche un fantastico spazio di espansione della creatività e dell’insubordinazione. Uno spazio costellato di stazioni dove rimbalzano segnali di ribellione assai difficili da definire, classificare, gerarchizzare, quindi anche da rendere inoffensivi. È indispensabile che le lotte del Ribellarsi facendo vengano da molti luoghi diversi e con forme differenti. Comune è una di quelle stazioni. La sua voce risuona chiara in una costellazione di mezzi autonomi e indipendenti che è attiva da tanto tempo e continua ad allargarsi. Fra non molto avremo due anni, un tempo adeguato per potersi reinventare e aprire nuovi percorsi. Potremmo provare a rendere più bella e resistente questa stazione (appena nati eravamo solo un asteroide, ricordate?), magari anche un po’ più comoda e sostenibile per chi vi dedica gran parte della sua esistenza? Sì, possiamo provare, a condizione di restare in costante movimento e di fare qualche vero cambiamento. Il primo (forse il più importante) dei quali è che una parte modesta ma significativa delle diverse migliaia di persone che aprono le nostre pagine ogni settimana decida davvero di cominciare a fare Comune con noi. C’è chi potrà rinnovare e dar nuovo vigore all’abbraccio che ci ha inviato nel 2013, per molti (noi speriamo moltissimi) altri sarà invece la prima volta: l’adesione alla campagna 2014 comincia inviando almeno 12 euro e un testo, una foto, un video, un disegno che racconti il vostro Ribellarsi facendo, collettivo o personale che sia (scrivete a [email protected])). Capiremo insieme, presto, se e come questa nuova o rinnovata relazione potrà diventare qualcosa di speciale. Nei periodi di crisi, e il tempo di Kairos è spesso percepito come tale, si ha la possibilità di partecipare alla costruzione di qualcosa di nuovo che nasce dentro qualcosa di vecchio. Si può dunque scegliere, sempre, tra un’interpretazione della crisi come pericolo o come opportunità. È avvenuto in maniera eclatante poco più di un anno fa, il 21 dicembre del 2012, quando i media di tutto il mondo (ma non quello che state leggendo) hanno fatto a lungo della facile ironia sulla “profezia maya della fine del mondo”. Gli indigeni hanno poi spiegato, a chi aveva voglia di ascoltare, che si trattava semplicemente dell’inizio di una nuova era. Chissà, forse quella di chi ha scelto di ribellarsi e non s’è rassegnato a interpretare la parte della vittima. Quella di chi vuole un mondo nuovo, e se lo fa. link: http://comune-info.net/2014/01/la-stazione-comune-dei-mondi-nuovi/ Associazioni Documenti Siria e Medio Oriente, Centro Africa e Sud Sudan: politica di pace, aiuto umanitario e preghiera per la riconciliazione (di Pax Christi Italia) In piena sintonia con le incalzanti iniziative di papa Francesco per la pace e il disarmo, la lotta alla fame e alla povertà, il contrasto alla corruzione e al crimine, la custodia del creato, che sono state riproposte dal coinvolgente messaggio per la Giornata mondiale della pace 2014 “Fraternità, fondamento e via per la pace” e dall'esortazione “Evangelii gaudium”, nei giorni della marcia della pace di Campobasso, Pax Christi intende evidenziare il bisogno di una grande politica di pace, di un forte aiuto umanitario, di intensa preghiera. La SIRIA, come ripetono molti osservatori e le agenzie l'ONU, sta vivendo la più grave crisi umanitaria della storia moderna. Nessun altro disastro provocato dalla natura o dagli uomini ha prodotto tanto male. Tre quarti del suo popolo sta perdendo tutto. Circa 10 milioni sono profughi e sfollati. L'Onu ha lanciato “un appello senza precedenti come non ha pari l'immensità della catastrofe umanitaria”. Nel CENTRAFRICA e in SUD-SUDAN, le cronache parlano di massacri, distruzioni, mutilazioni, esecuzioni extragiudiziali, sfollamento forzato, saccheggi e rappresaglie scatenati dalle parti in conflitto. Sembra possibile il ripetersi della tragedia rwandese. In PALESTINA-ISRAELE continua il dramma della popolazione palestinese vittima dell'occupazione e di ripetute offese alla sua dignità . In tali contesti di violenza e di disperazione, paesi generosi nel rifornire di 12 armi sia governi che gruppi armati in Siria, in Iraq, in tutto Medio Oriente e in varie località africane, sono sordi e ciechi alle emergenze provocate spesso da quei rifornimenti a forze in lotta fratricida che stanno commettendo crimini contro l'umanità. Tre ambiti di impegno diventano necessari per tutti. Politica. Torniamo a sollecitare Parlamento e governo italiano ad attivare interventi politici determinati verso i colloqui di “Ginevra 2” per la Siria; lo sviluppo delle trattative riaperte tra israeliani e palestinesi; l'attuazione degli strumenti di interposizione-mediazione delle Nazioni Unite, dell'Unità africana e dell'Unione europea al di fuori di risorgenti logiche neocoloniali per la Repubblica centroafricana e il Sud Sudan. Aiuto. E' urgentissimo un aiuto umanitario garantito e sicuro tramite le Caritas e altri enti. La situazione dei profughi, degli sfollati e degli abitanti di molte località è terrificante. Milioni di persone patiscono fame, malattie, freddo, miseria e ogni forma di degrado. Ciò che possiamo risparmiare nella sobrietà natalizia e nei giorni di Capodanno può essere orientato al soccorso di popolazioni a rischio di morte. Preghiera. Preghiamo intensamente per la Siria devastata, per l'Iraq insanguinato, per la fine delle violenze contro i palestinesi e i popoli del Medio Oriente, per le vittime africane di tante stragi. Preghiamo perché si aprano strade di riconciliazione con il contributo di un ampio movimento interreligioso a servizio della pace, della giustizia e del perdono. Preghiamo il Dio della pace, vivente nel bambino disarmato e disarmante, perché converta i cuori dei responsabili delle violenze, vinca il silenzio interessato di molti e sconfigga l'indifferenza di tanti che stanno a guardare. La Giornata mondiale della pace è per noi l'occasione per rendere operativo il cantiere della fraternità. Firenze, 28 Dicembre 2013 Pax Christi Italia d. Renato Sacco - coordinatore nazionale 348-3035658 - [email protected] (fonte: Sergio Paronetto) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1990