L’ANTICLERICALISMO ITALIANO E DEL SECONDO ‘800 1 INTRODUZIONE Nel 1848, la nostra penisola era ancora divisa in diversi Stati sovrani. In questo importante anno, abbiamo la prima carta ottriata concessa da un sovrano in Italia: lo Statuto Albertino del 4 Marzo. Essa fu concessa da Carlo Alberto in seguito ai moti liberali che caratterizzarono quel periodo, in Italia come in Europa. Non si può ancora parlare di Costituzione in quanto fu una semplice concessione del Sovrano. Il 1848 vide inoltre lo scoppio della I Guerra d’Indipendenza, combattuta tra il Regno Sabaudo e l’impero asburgico. Essa fu un fallimento perché costrinse i piemontesi ad abbandonare la Lombardia e a rimandare le mire espansionistiche nel nord Italia. In seguito alla sconfitta, nel 1849, Carlo Alberto fu costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II. La II Guerra d’Indipendenza, del 1858-59 portò alla conquista della Lombardia. L’anno seguente iniziò quel processo di liberazione del Mezzogiorno d’Italia da parte di Giuseppe Garibaldi, che portò alla proclamazione, nel 1861, del Regno d’Italia. Esso comprendeva ormai quasi tutta la penisola ad eccezione del Lazio, ancora Stato Pontificio, e del Veneto, conquistato nel 1866 con la III guerra d’Indipendenza. La piena unità nazionale si raggiunse solo il 20 Settembre del 1870 con l’occupazione di Roma, che, incrinò in maniera definitiva i già fragili rapporti tra la Santa Sede e il Regno dei Savoia. ANALISI STORICO-GIURIDICA Prima della concessione dello Statuto Albertino i privilegi ecclesiastici nel Regno Sabaudo erano molteplici: spettavano alla curie vescovili i contenziosi relativi al matrimonio, alle decime, e a tutte le cause civili nelle quali fosse coinvolto un chierico. Spettava altresì il giudizio per i reati di eresia, bestemmia e offesa alla Religione. Erano poi comminate pene severe contro chi recasse scandalo o turbasse l’esercizio del culto. La Chiesa poteva infine imporre oneri ai fedeli a vantaggio di vescovadi, parrocchie e benefici, laddove non bastassero le donazioni liberali. Con lo Statuto, si era però posta la premessa per l’abolizione di questi privilegi poiché gli artt. 24 e 68 sancivano l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e il principio che la giustizia “emana dal Re”. I rapporti tra il Regno Sabaudo e lo Stato Pontificio cominciarono perciò ad essere compromessi a seguito della legislazione antiecclesiastica iniziata con la L. 777/1848. Con essa il parlamento subalpino soppresse l’ordine dei Gesuiti e delle Dame del Sacro Cuore, incamerandone i beni e impedendo loro ogni forma di riunione. La Compagnia di Gesù venne accusata, nei dibattiti parlamentari, di essere “rappresentante di un funesto passato”, “corruttrice”, “appestata”, “eretica”, “torbida malaugurata compagnia”. Per quale motivo i deputati Sabaudi fecero tutto ciò? Per amore della “vera morale” e della “pura religione”, ripetevano in continuazione. Il Cardinale Giacomo Antonelli, Segretario di Stato di Pio IX, manifestò il proprio disappunto indirizzando una nota di protesta al governo piemontese, così esprimendosi: “Non si saprebbe invero comprendere come mai siasi potuto divenire a misure cotanto odiose ed ostili contro le due religiose corporazioni nell’estensione che rispettivamente le riguarda, a fronte di quel pieno favore e di quelle solenni guarentigie,che a tutti senza veruna distinzione vengono assicurate dallo Statuto e legge fondamentale del Regno che promulgossi il dì 1 Marzo del corrente anno. Si dichiara quivi infatti all’articolo 26 che la libertà individuale è garantita: e 2 nell’articolo seguente si aggiunge che il domicilio è inviolabile; e finalmente si enuncia nell’articolo 29 che tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili. Con le quali disposizioni generali e solenni non si vede omnimamente come possa mai conciliarsi il decreto di sopra allegato, con cui si bandiscono dallo Stato società religiose, che vi avevano legittimo soggiorno, si tolgono ad esse i beni loro propri, e si giunge pur anche a violentare l’individuo di una delle medesime nello stesso delicatissimo e santissimo punto dei voti da loro fatti al Signore Iddio nella religiosa professione […] Il Codice Albertino all’articolo 436 stabilisce che i beni della Chiesa non possono essere amministrati ed alienati se non con la forma e con le regole che loro sono proprie ossia con la forma e le regole canoniche. Quali poi si intendano per beni della Chiesa lo determina il Codice medesimo nell’articolo 433; ove si legge che: sotto nome di beni della Chiesa si intendono quelli che appartengono a singoli benefici ed altri stabilmente ecclesiastici”. D’altra parte, stabilendo solennemente l’art. 1 dello Statuto che: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato”, sembrava essere implicito il riconoscimento delle leggi con le quali la Chiesa si governa. In questo stato di cose, cominciarono i dibattiti parlamentari per l’abolizione del Foro ecclesiastico. Data la volontà del Governo di giungere alla decisione di concerto con Roma, come era già avvenuto per i cattolici Belgio, Austria e Baviera, si avviarono le trattative con la Santa Sede a mezzo di illustri emissari quali: Giuseppe Rosmini, Cesare Balbo e i ministri Pareto e Siccardi. L’esito fu negativo e anzi la Santa Sede, tramite Mons. Catterini, proponeva un contro-concordato sciorinando dottrine di diritto ecclesiastico che, a detta dello stesso Siccardi, “avrebbero potuto apparire eccessive anche in altri tempi”. Infatti si sosteneva spettare al Papa di giudicare un vescovo accusato di qualunque delitto e i magistrati laici non doversene in alcun modo ingerire. Il governo si trovò costretto a decidere unilateralmente la questione: le camere approvarono infatti in Aprile, la L. 1013/1850, detta “Legge Siccardi”. Essa constava di nove articoli di cui cinque stabilivano l’abrogazione del privilegio del Foro, il sesto aboliva il diritto d’asilo, il settimo limitava fortemente le pene stabilite per l’inosservanza delle festività religiose, l’ottavo rendeva obbligatoria l’autorizzazione per le donazioni di eredità e legati per tutti gli enti morali ecclesiastici e laici e l’ultimo dichiarava la necessità che il governo presentasse al parlamento un progetto di legge inteso a regolare il matrimonio con legge civile. Questo progetto, non passato nel 1852, trovò formale riconoscimento nel Codice Civile del 1865. Il decennio che va dal 1849 al 1859 è dominato dalla politica cavouriana, anche in ambito ecclesiastico. Il neo presidente del Consiglio Camillo Benso conte di Cavour, succeduto a Massimo d’Azeglio, si era formato nella scuola di pensiero filoprotestante dello svizzero Alessandro Vinet. L’idea centrale riguardo ai rapporti tra Stato e Chiesa era la necessità di una separazione totale tra le due istituzioni, sintetizzata nel motto “L’Eglise libre dans l’Etat libre” (libera Chiesa in libero Stato). Altra corrente di pensiero in materia religiosa che influì sul Conte, fu quella cattolica liberale, neo-guelfa, di Gioberti e di Balbo. Un terzo influsso cavuoriano, che ebbe una peculiare importanza, fu quello giansenistico, acerrimo nemico dei Gesuiti e in 3 genere antimonastico, che domina la politica ecclesiastica della Destra liberale. Il Cavour, con la sua eminente personalità, seppe fondere in un pensiero unitario questi elementi eterogenei. La risolutezza del ministero Cavour, nato dal connubio con Rattazzi, e del parlamento italiano, che Vittorio Gorresio definisce “legislatori coraggiosi”, portò all’emanazione di altre importanti leggi in materia ecclesiastica tra cui la L. 879/1855, che soppresse ben 34 ordini religiosi su 56, allontanando dai conventi 4540 religiosi su 8570. Furono risparmiati gli ordini maggiormente benemeriti e più vicini al popolo. Il Governo ritenne che frati e monache di clausura avessero fatto il loro tempo e non fossero più utili in una società pacifica e liberale. Il ragionamento di Rattazzi fu semplice: gli ordini contemplativi e mendicanti sono inutili; se tali sono nocivi. Più complessa la motivazione del Cavour: il Conte volle dimostrare la nocività di questi ordini osservando come si opponessero al progresso della moderna civiltà, alla prosperità economica, industriale, agricola e perfino artistica del Paese. Inoltre sottolineò come fossero molto più progrediti quei paesi nei quali gli ordini erano stati aboliti da tempo e anzi l’attaccamento della popolazione al Cristianesimo era ivi più radicato. Il Papa Pio IX, contrariato dal comportamento del legislatore sabaudo, lanciò la scomunica contro tutti coloro che avevano cooperato alla stesura della legge. Un ulteriore e importante intervento del legislatore fu la L. 3725/1859 detta “legge Casati”, dal nome del ministro dell’istruzione. Essa riformò in modo organico l’intero ordinamento scolastico, dall’amministrazione all’articolazione per ordini e gradi alle materie di insegnamento, confermando la volontà dello Stato di farsi carico del diritto-dovere di intervenire in materia scolastica a fianco e in sostituzione della Chiesa cattolica, che da secoli deteneva il monopolio dell'istruzione. Essa mantenne l’insegnamento religioso nelle scuole, rendendolo tuttavia facoltativo. Ancor più dura in tema d’istruzione fu la L. 3961/1877, detta “legge Coppino”, che cancellò l’insegnamento della religione cattolica dalle scuole medie inferiori e superiori. Con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, le leggi e i codici piemontesi vennero estesi in gran parte della penisola. In questi stessi anni il Governo non soltanto fronteggiò una sempre più fiera opposizione della Sede Apostolica, ma condusse contro il clero e i religiosi una politica di estrema severità. Nel giro di pochi mesi dall’impresa dei Mille, nelle province meridionali furono arrestati, processati o confinati 66 vescovi. Nel giro di quattro anni furono arrestati e processati ben otto cardinali, fra cui il Cardinal Pecci, futuro Leone XIII. Fu così che nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. Di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Franzoni, arcivescovo di Torino, fu condannato ad un mese di carcere e costretto all’esilio a Lione per aver ordinato che nessun ecclesiastico rispondesse a citazioni davanti a un giudice o a un tribunale laico senza averne prima istruzioni dalla Curia Arcivescovile; il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa fu arrestato e portato a Torino per non aver permesso al clero diocesano di cantare il “Te Deum” in occasione della celebrazione dello Statuto. Persino Vittorio Gorresio, storico di parte laicista, scrive a 4 riguardo: "Legislatori intemerati in un primo tempo, i governanti liberali piemontesi via via si fecero audaci e poi anche spregiudicati, anzi prepotenti. Difatti, non di tutti i provvedimenti di polizia che nel giro di pochissimi anni furono presi a carico di otto cardinali e di un'ottantina di vescovi, oltre che di centinaia di preti e di religiosi, sapremmo oggi trovare una giustificazione che soddisfaccia l'animo di un laico onesto". Dopo la III Guerra d’Indipendenza, il disavanzo di bilancio dello Stato, che arrivò alla cifra record di 721 milioni di lire, necessitò un ulteriore intervento sui beni ecclesiastici. Le cosiddette “leggi eversive” (la L. 3036/1866, e la L. 3848/1867) tolsero il riconoscimento di ente morale a tutti gli ordini, corporazioni nonché congregazioni di carattere ecclesiastico, sicché il demanio dello Stato acquisì tutti i loro beni. I fabbricati conventuali incamerati dallo Stato vennero poi concessi ai Comuni e alle Province. Rimaneva la questione di Roma capitale d’Italia, acclamata dal Cavour al parlamento italiano nel memorabile discorso del 27 Marzo 1861. Nonostante Pio IX si fosse visto ridotto il suo potere temporale, non acconsentiva a perderlo del tutto; egli era fermamente convinto che il potere temporale, facendo del Papa anche un sovrano, era garanzia indispensabile dell’esercizio dei propri atti in libertà e indipendenza. Le trattative intavolate da Bettino Ricasoli per una soluzione amichevole della questione, vennero infatti respinte energicamente e Pio IX assumeva sempre più deciso un atteggiamento ostile che non abbandonerà fino a dopo la presa di Roma. Il pur fallito tentativo garibaldino di Aspromonte (1862) e la Convenzione di Settembre (1864), con il conseguente trasferimento della capitale da Torino a Firenze imposto dai francesi come garanzia a tutela dello Stato Pontificio, segnarono le tappe provvisorie verso Roma. Altri tentativi garibaldini si ebbero nel 1867 a Villa Glori, a Monterotondo e a Mentana, ma senza successo. Lo scoppio della guerra francoprussiana e la caduta di Napoleone III a Sedan, nel Settembre 1870, renderanno finalmente possibile l’occupazione di Roma. Il governo italiano, presieduto da Giovanni Lanza, con la sconfitta dell’imperatore, si sentì sciolto da ogni obbligo di gratitudine e libero dagli impegni contrattuali per cui ritenne possibile agire. Il re Vittorio Emanuele II tentò un ultima volta di convincere Pio IX della ineluttabilità dell’annessione di Roma; pur tuttavia il Papa, manifestando tutto il suo dolore e la sua amarezza per quanto accadeva, concludeva: “Io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa che è interamente la sua. Lo prego di concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond’Ella ha bisogno”. Non restava altro da fare che dare ordini al generale Raffaele Cadorna di penetrare in territorio pontificio, pur rispettando la città leonina, dove si trovava il Vaticano. La mattina del 20 Settembre si aprì il fuoco tra il generale Kanzler, comandante delle truppe pontificie, e le truppe regie. Dopo alcune ore di combattimento, solo per dimostrare che lo Stato Pontificio cedeva alla violenza, i bersaglieri italiani entrarono in Roma attraverso la breccia aperta a Porta Pia. Il 2 Ottobre 1870 i Romani, con 40000 voti favorevoli e 115 contrari dichiararono l’annessione al Regno d’Italia. Pio 5 IX quindi, protestando per l’oltraggio subito, si fece volontario prigioniero in Vaticano. Vittorio Emanuele II, prendendo possesso del Quirinale, dichiarava “il fermo proposito di rispettare le libertà della Chiesa e l’indipendenza del Sovrano pontefice”. Mentre Papa Mastai rinnovava la scomunica contro gli “usurpatori”, il governo italiano elaborò la cosiddetta legge delle Guarentigie che garantiva al pontefice le prerogative sovrane, la libertà della sua autorità spirituale, l’extraterritorialità dei palazzi vaticani, del Laterano e di CastelGandolfo e fissava a favore delle casse vaticane una dotazione monetaria annua non inferiore a quella risultante dal bilancio pontificio prima del 1870. Questa legge aveva anche abolito l’exequatur per la pubblicazione e l’esecuzione degli atti delle autorità ecclesiastiche ma lo aveva conservato per i provvedimenti riguardanti la destinazione dei beni ecclesiastici e la provvista temporale dei benefici; la legge prescriveva anzi che i nuovi vescovi dovessero chiedere al governo il possesso dei beni annessi alla loro carica, unendo alla domanda le bolle della loro nomina. La Santa Sede vietò tale formalità perché la riteneva un atto di sottomissione e riconoscimento del nuovo Stato. Le conseguenze furono che i vescovi di nuova nomina (le diocesi vacanti erano circa una sessantina) dovettero abitare fuori dalla residenza vescovile e vivere di poveri sussidi forniti dal Vaticano. Il Lanza, da parte sua, contava di vincere questa battaglia “prendendo i vescovi per fame”. Grazie all’interessamento di Don Bosco e alla sua particolare abilità di mediatore, il governo era sul punto di cedere ma uno spaccio arrivato da Berlino, a firma di Bismarck, fece proseguire il Lanza per la sua strada. Pio IX tuttavia rifiutò la legge delle guarentigie, che rimase unilaterale ed interna allo Stato Italiano. La sua intransigenza si spinse fino al punto di proibire, col “non expedit”, ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana; iniziava così un nuovo e doloroso conflitto fra Stato e Chiesa che si potrà comporre solo sessant’anni dopo, nel 1929, con la firma dei Patti Lateranensi. Negli anni immediatamente successivi alla presa di Roma, Lanza voleva estendere alla ormai Capitale del Regno, gli effetti delle “leggi eversive” degli anni 1866-67. Ciò era reso difficile dal fatto che nella città eterna avevano sede le case generalizie degli ordini religiosi e il Santo Padre si sarebbe visto così privare di un efficace aiuto al governo della Chiesa universale. Le rimostranze pontificie non bastarono a far desistere il governo, che, con L. 1402/1873, decretò la soppressione degli ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni per pubblica utilità. Dal 1876 in poi avremo al Governo la Sinistra Storica. In quello stesso anno si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna. Due anni dopo morivano i due più importanti protagonisti del secondo ‘800 italiano: Vittorio Emanuele II, cui succedette il figlio Umberto, e Pio IX, cui succedette Leone XIII. Dopo il fragile governo trasformista di Depretis, il Re affidò l’incarico a Francesco Crispi, ex mazziniano e grande ammiratore del militarismo prussiano del Bismarck. Egli tentò un riavvicinamento tra Stato e Chiesa che fallì però miseramente. Il problema era tornato di grande attualità per le cosiddette “tesi conciliaristiche” in ambito cattolico, propugnate soprattutto dall’arcivescovo di Milano Geremia Bonomelli e dallo storico Luigi Tosti, abate di Montecassino. 6 Quest’ultimo scrisse, con la collaborazione dello stesso Crispi, un opuscolo intitolato “La Conciliazione”, nel quale auspicava un rapido accordo tra Vaticano e Quirinale. Tale aspirazione non si realizzò per l’intransigenza di alcuni ambienti ecclesiastici, fermamente decisi a richiedere il riconoscimento del potere temporale e la restituzione di Roma al suo “legittimo sovrano”. Di fronte a questo atteggiamento, aggravato da una netta chiusura del Vaticano, che condannò lo scritto di Tosti, Crispi si riarmò del suo antico anticlericalismo, rendendo di nuovo particolarmente acuta la tensione tra Stato e Chiesa: fu abolito, ad opera del ministro dell’istruzione Paolo Borselli, l’insegnamento religioso nelle scuole primarie; le istituzioni di beneficenza (le cosiddette “opere pie”) furono sottratte al controllo delle autorità ecclesiastiche e vennero amministrate dalle autorità civili sotto il diretto controllo dei prefetti; fu istituita la punibilità per i ministri del culto che si fossero comportati in modo sleale e oltraggioso nei confronti dello Stato e dei suoi legittimi rappresentanti. Per dare l’idea del clima anticlericale che ancora si respirava in quegli anni vanno citati alcuni aneddoti. Nel 1881, come ci racconta il Gorresio in rapide e avvolgenti pagine, fu organizzato in gran segreto un corteo notturno per portare in processione la salma di Pio IX dal Vaticano alla basilica di San Lorenzo al Verano, dove il Papa aveva desiderato essere seppellito. Venuti gli anticlericali a sapere del corteo funebre, lo assalirono con lanci di pietre e urla ingiuriose, esclamando: “Al fiume il papa porco!”; ma fortunatamente non riuscirono nell’impresa di gettare la salma nel Tevere. Nel 1889, invece, a ‘Campo de’ Fiori’, a Roma, fu eretto un monumento a Giordano Bruno, simbolo della inconciliabilità tra pensiero laico e religioso, provocando le proteste dell’allora pontefice Leone XIII, che minacciò di trasferirsi in Austria. Infine, non vanno dimenticati i famosi ‘banchetti anticlericali’, che il Venerdì Santo si allestivano davanti al Vaticano e alle maggiori chiese di Roma, e durante i quali, per sfregio verso i cattolici, gli anticlericali consumavano vino e carne di maiale. TEORIE REVISIONISTE Bisogna citare sull’argomento una tesi elaborata negli ultimi anni in ambienti cattolici, che analizza in maniera critica non solo le leggi eversive e l’ anticlericalismo italiano, ma il Risorgimento tout-court; Rino Cammilleri da tempo propone teorie revisioniste sul Risorgimento, mentre uno fra i più autorevoli intellettuali cattolici, Vittorio Messori, in un articolo del 1990, “Chiesa di Stato o Stato della Chiesa”, si fa difensore dei diritti di Pio IX a mantenere l’integrità territoriale dello Stato Pontificio: “Si pretendeva, poi, che Pio IX rinunciasse spontaneamente al possesso dello Stato pontificio a favore di quello piemontese. E, anche qui, si dimenticava che, dietro il rifiuto papale, stava un interesse religioso ben prima che politico ed economico, come riconobbe lo stesso Cavour nel ‘Memorandum’ inviato a Napoleone III ai tempi dell'invasione e della annessione di tutte le province papali, ad eccezione di quel Lazio che sarà occupato anch'esso dieci anni dopo: «Il Papa, che per me non ha uno spirito largo né una grande intelligenza, ha per contro una convinzione religiosa profonda. Se mai si deciderà a cedere spontaneamente i suoi Stati, non lo farà che dopo avere acquisito la convinzione che non solo può farlo senza mancare alla sua coscienza e ai doveri del 7 suo Ministero Sacro, ma che la sua rinuncia al potere temporale sarebbe utile alla Chiesa e servirebbe gli interessi veri della Religione». Non di minor importanza l’opera della professoressa Angela Pellicciari, autrice del libro “L’altro Risorgimento, una guerra di religione dimenticata”. Ella, nella prefazione al libro, ritiene che l’immagine che ci hanno tramandato del Risorgimento sia quella voluta da coloro che lo hanno costruito: i governanti del Regno di Sardegna e i governi delle potenze alleate che ne hanno permesso la realizzazione. La professoressa sottolinea come il governa sabaudo, che si dichiarava costituzionale e liberale, avesse sistematicamente violato lo Statuto nel suo primo articolo, emanando tutta quella serie di leggi anticlericali più sopra ricordate. Una esigua minoranza di fede liberale (1,70% della popolazione), continua la Pellicciari, decide la soppressione, uno dopo l’altro, a cominciare dai gesuiti, di tutti gli ordini religiosi della religione di Stato. Infine, ella pone l’ accento sulle manchevolezze della storiografia ufficiale circa la stampa e la storiografia cattolica dell’800. Infatti, in decine di encicliche, Pio IX denunzia quali persecuzioni, violenze e rapine facciano seguito alle dichiarazioni di costituzionalità e libertà, e condanna la lotta che le società segrete, in primis la Massoneria, conducono in tutto il mondo contro la Chiesa Cattolica; la maggiore insidia è che detti nemici della Religione non combattono a viso aperto, ma si dichiarano fedeli e sinceramente devoti al bene della Chiesa. Non bisogna pertanto stupirsi se Papa Mastai e il suo successore fossero convinti che il Risorgimento era un tentativo di “sterminare la religione di Gesù Cristo”, voluto e promosso dalla Massoneria nell’intento di distruggere il potere spirituale, usando come grimaldello la fine del potere temporale. Il libro analizza poi, in chiave critica, la soppressione degli ordini religiosi, e dei gesuiti in particolare, i plebisciti-farsa per l’annessione al Regno d’Italia, le influenze massoniche e liberali sulla promulgazione delle leggi anticlericali, il comportamento degli uomini di governo etc. ANALISI FILOSOFICO-IDEOLOGICA Ma quali furono le origini dell’anticlericalismo italiano? Quali le correnti che lo contraddistinsero? Esso è insito nella storia d’Italia: dalla lotta delle investiture a Federico II di Svevia, a Lorenzo Valla, a Paolo Sarpi, a Pietro Giannone. Ma è indubbio che la sua radice più forte fu nell’Illuminismo di Voltaire. Potremmo dire col Pepe che “l’Italia fu fatta una da Cavour e Mazzini: l’uno e l’altro furono anticlericali, l’uno implacabile nell’anticlericalismo politico, cioè contro i privilegi del clero e contro il potere temporale, l’altro implacabile in quello che potremmo chiamare anticlericalismo metafisico, nella negazione, cioè, del Papato nella sua struttura etico-religiosa”. Per quanto riguarda il pensiero di Cavour, la sua polemica anticlericale ha uno spirito del tutto nuovo rispetto a quella che era stata la letteratura italiana: non vi troviamo “filosofemi e requisitorie” ma una concreta denuncia dei soprusi e degli scandali di una Chiesa ormai tagliata fuori dal mondo moderno e incapace di rendersene conto. Sulla sua formazione influirono molto le correnti protestanti ginevrine da cui deriva tutta la dottrina separatistica e in minor parte il cattolicesimo liberale, che il Conte guardava con simpatia e scetticismo. Infatti ai margini della sua politica laica resta, 8 potremmo dire, una traccia del sacro: la concezione del Cavour, nella sua struttura formale, si avvicina a quella rosminiana o manzoniana per cui la soluzione ideale ai rapporti tra Stato e Chiesa è quella della coesistenza armoniosa. Fedele sempre alla formula separatistica, Cavour condusse anche altre politiche ecclesiastiche: fu “giurisdizionalista al tempo delle leggi Siccardi, espropriatore dei conventi, imperturbabile processatore e imprigionatore di vescovi […] nelle nuove provincie rimetteva in auge gli strumenti regalistici della legislazione napoleonica e settecentesca”. Potremmo quindi dire che il Conte usò strumentalmente le ideologie: la sua politica ecclesiastica si servì tanto del giurisdizionalismo, quanto delle trattative concordatarie e delle formule separatistiche, per raggiungere l’obiettivo di instaurare uno stato moderno fondato sulla libertà, la laicità, il benessere e il progresso. Se dal Cavour passiamo al Mazzini, siamo in un mondo almeno alle apparenze diverso da quello del Conte, e che assai spesso sembra peccare d’intemperanza. Mazzini giudica il progresso inconciliabile col cattolicesimo: “La missione religiosa consiste nella sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia”. Nel suo articolo “Intorno all’enciclica di Gregorio XVI Papa” del 1833, quando l’anticlericalismo risorgimentale era ancora da venire, egli condanna non solo gli errori del La Mennais nell’accettare l’autorità come principio e l’assenza di democrazia nella Chiesa, ma lo stesso papato, reo di invocare gli eserciti stranieri. Assai più grave è il saggio sull’Enciclica di Papa Pio IX nel 1850, dove Mazzini fa una difesa commossa agli uomini e alle donne della Repubblica Romana, da lui istituita con Armellini e Saffi dopo la fuga di Pio IX a Gaeta (9 Febbraio-4 Luglio 1849). Egli si fa portatore dell’idea di un’Italia “una, indipendente, libera, repubblicana”. Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, egli è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di attentati. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: “Dio lo vuole”, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico. L’idea religiosa di Mazzini è lontana dalle religioni positive, il suo è un deismo puro: “Dio e Popolo”, ovvero Dio si manifesta attraverso il popolo. La nazione deve considerarsi come “un’operaia al servizio di Dio”. “Il papato, sosteneva nel 1832, è una forma logora riservata ancora per qualche tempo agli amatori di antichità” e nel 1834, rivolgendosi “Ai giovani italiani”, l’esule spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: “L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale”. Mazzini quindi si prefigge l’obiettivo di smantellare l’impianto stesso della religione cattolica e del papato. Obiettivo condiviso dalla Massoneria, società segreta a carattere cosmopolita e iniziatico, sorta col fine di affratellare gli uomini di tutte le nazioni e di organizzare la società su basi esclusivamente umanitarie e laiche. Le origini leggendarie fanno risalire questa associazione ai primordi dell’umanità; attraverso i Rosacroce, i Templari, i Pitagorici, i Caldei e gli Ebrei risalirebbe fino ai tempi di Noè. In realtà le sue origini storiche non vanno oltre il XVII secolo, ma è 9 indubbio che la Massoneria discende da organizzazioni muratorie medioevali di tipo corporativo. In Italia la prima loggia massonica fu fondata a Firenze nel 1731, tuttavia subì una dura persecuzione che comportò lo scioglimento durante la Restaurazione. I massoni, ormai dispersi, trovarono rifugio presso il Grande Oriente di Francia e cercarono di esplicare la loro azione attraverso la Carboneria, spesso riuscendo ad accaparrarsi posti chiave nella classe dirigente politica ed economica. La Massoneria italiana riprese vita a Torino nel 1859 per opera di persone molto vicine al Cavour, il quale se ne servì senza tuttavia farne parte. Nel 1863, la Costituente della rinata massoneria italiana stabiliva, all’articolo 3, che i principi massonici dovessero gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile”; all’articolo 8 specificava che “fine ultimo dell’ordine è raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e sull’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”. Nel bollettino del ‘Grande Oriente della Massoneria in Italia’, del 1865, si legge poi: “Le nazioni riconoscevano nell’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la massoneria si propone; al quale da secoli lavora, attraverso ogni genere di ostacoli e di pericoli”. A detta del Messori, “anche se ci sono ancora discussioni in proposito sembra che la Massoneria ‘ufficiale’ non abbia avuto un ruolo scoperto sino al 1859, quando fu ricostituita a Torino da Cavour. Sino ad allora, sembra agire attraverso organizzazioni parallele, come la Carboneria. La sua presenza diventa invece decisiva a partire dagli anni Sessanta dell'Ottocento, sino al fascismo. Ci sono decenni in cui il governo italiano è praticamente governo dell'Ordine (come nella Terza Repubblica in Francia). Non si dimentichi che, se fu scelto il 20 settembre per l'ingresso a Roma, è perché in quella notte i Fratelli iniziano i lavori del loro nuovo anno. E, difatti, il rito sì svolse al Colosseo”. Possiamo prendere ad esempio la figura di Giuseppe Garibaldi, grande patriota italiano, per denotare gli aspetti caratteristici dei massoni: l’anticlericalismo e l’odio contro la fede cattolica tout court. L’ ‘eroe dei due mondi’, affiliato alla Massoneria sin dal 1844, fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia col 33° grado del rito scozzese ricevuto a Torino nel 1862 e con la suprema carica di Gran Hyrophante del rito di Memphis e Misraim del 1881. Egli ebbe un ruolo di primo piano nel panorama massonico italiano e internazionale; percepì dalla Loggia inglese i fondi (si parla di milione dell’epoca) utili all’occupazione del Regno delle due Sicilie e partecipò all’ ‘anticoncilio’ che la massoneria tenne a Napoli nel 1869 in contrapposizione al Concilio Vaticano I, convocato da Pio IX nello stesso anno. “Io reputo i massoni eletta porzione del popolo italiano” , affermava nella lettera al Supremo Consiglio di Palermo. Il suo astio anticlericale (“Preti alla vanga” era il suo motto) è espresso mirabilmente nella lettera da Caprera alla Guardia Nazionale di Napoli del 1861: “Il peggiore dei vostri nemici è il Papa, e voi sciaguratamente avete provato quest’anno quanto fossero vere quelle parole. Oggi devo manifestarvi un’altra verità, 10 conseguenza della prima. I preti, complici del papato, sono vostri nemici, e voi dovete lavare di questa sozzura le bellissime vostre contrade. Non sangue; voi sareste riprovati. Ma ogni volta che si incontra sul vostro passaggio la figura grottesca, ipocrita, dissimulata, d’un figlio del Sanfedismo e dell’Inquisizione, voi dovete scacciarla come cosa schifosa, appestata! Voi dovete far sparire dalla luce del sole, che offuscano, quei cappelloni multiformi, simboli per l’Italia delle miserie, delle vergogne di 18 secoli”. Sono moltissimi gli esponenti di spicco dell’ Italia unitaria legati alla Massoneria: i Presidenti del Consiglio Giovanni Lanza, Benedetto Cairoli, Agostino Depretis, Francesco Crispi, Antonio Starabba di Rudinì, Giuseppe Zanardelli e Alessandro Fortis; il sindaco di Roma, fiero anticlericale, Ernesto Nathan (di cui si ricorda la costruzione del quartiere Prati in modo tale da oscurare la vista del Vaticano) nonché Giuseppe Mazzini, il quale però seppe tenersi abbastanza distaccato dalla Loggia. I rapporti fra Chiesa e Massoneria furono conflittuali fin dalle origini: Papa Clemente XII, infatti, con la lettera apostolica “In eminenti” del 1738, colpì con la scomunica chiunque vi avesse preso parte. Altre condanne furono rinnovate da Leone XIII e Pio X. Un altro importante filone anticlericale del tempo è rappresentato dai giuristi napoletani: Bertrando Spaventa, Francesco de Sanctis, Luigi Settembrini, Pasquale Stanislao Mancini e Ferdinando Petruccelli della Gattina. Lo Spaventa afferma l’idea dell’indipendenza dello Stato e la sua autonomia come “il fondamento necessario di ogni buon governo”, definendo sacrilega la dottrina che riconosceva come divino il diritto dei Principi assoluti. Attacca poi ferocemente i Gesuiti, affermando che “la teoria politica della ‘Civiltà Cattolica’ è una mostruosa mescolanza della vecchia tolleranza e del nuovo dispotismo”. L’anticlericalismo dello Spaventa si rivolse anche alla Teologia: è notevole il saggio sulla Madonna soprattutto perché vi appare come la Teologia sia asservita alla causa della politica. Egli qualifica come “pie credenze” quelle popolari relative a Maria ed assume posizioni antidogmatiche. Il dogma è interpretato alla luce del pensiero di Gianbattista Vico, filosofo napoletano del ‘700: “Simbolo, figure, immagini, modi [di] dire, metafore, aspirazioni devote o creazione della fantasia o dell’arte”. Il de Sanctis fu uno dei principali fautori della liquidazione dell’Asse ecclesiastico, dimostrando come l’unica forza capace di opporre ancora il Medioevo allo spirito moderno era il clero cattolico. Stabilì l’equazione per cui riforme ecclesiastiche significavano unità d’Italia e libertà, e invece trattative con Roma e riconoscimento del clero come proprietario significavano Reazione. Meno filosofo, ma ugualmente liberale e tollerante è il Settembrini. Egli sosteneva la necessità della caduta del potere temporale, “frutto di rapine”. E’ sempre vivo il suo monito: “Ricorderemo ai preti che se essi ad ogni modo vogliono conservare i beni malamente acquistati, in questo modo essi potranno provocare una di quelle vendette che toglie vita, beni e tutto.” In questo clima di aspra contrapposizione fra Stato italiano e Chiesa Cattolica vi fu un irrigidimento sulle proprie posizioni da parte di entrambi. Spesso si mascheravano con il nome di separatismo delle autentiche persecuzioni della Chiesa e vi sono dei 11 politici che avanzavano qualche velato desiderio di giurisdizionalismo; si tratta del Ricasoli, che desidera una Chiesa libera dal dogmatismo e dalla gerarchia e del ben più azzardato Crispi, che avrebbe voluto “chiudere la Chiesa nell’ ambito del culto, e mettere il resto nelle mani dello Stato”. D’altra parte la Chiesa non è meno intransigente; difende infatti strenuamente antichi privilegi che ormai appartengono al passato, come il foro ecclesiastico, e il potere temporale. Tuttavia il separatismo in Italia risulta stemperato rispetto a paesi come la Francia; infatti nel popolo italiano vi è un forte attaccamento alla religione e non bisogna dimenticare il ruolo del re, che cerca sempre un accordo con il Pontefice per evitare l’ ostilità aperta con la Chiesa. Mentre in Europa la massa del clero e dei fedeli continua a ritenere che la sola salvezza per la Chiesa è nel ristabilimento delle istituzioni politiche dell’ancien régime e della situazione privilegiata della Chiesa nella società, un numero crescente di ecclesiastici e laici, spinti dalla mistica della libertà, cominciano a chiedersi se non sia possibile conciliare in qualche modo il cattolicesimo con il liberalismo ed accettare, senza tradire la propria fede, un’organizzazione della società basata sui principi del 1789: le libertà individuali che si sostituiscono all’arbitrio del potere; le libertà politiche considerate non più come un privilegio concesso, bensì come un diritto. Diritto dei popoli di disporre di se stessi, in nome del primato del principio di nazionalità sul principio di legittimità e, negli ambiti interessati dalla vita religiosa, libertà di stampa e libertà di culto, accompagnata da una limitazione dei privilegi della Chiesa e del controllo del clero sulla nazione, eventualmente anche separazione tra Chiesa e Stato. Questa corrente, tanto teologica quanto politica, del cattolicesimo liberale ebbe come primo esponente il prete francese Hugues-Félicité Robert de La Mennais. Alcuni facevano notare che nei paesi a maggioranza protestante od ortodossa, nei quali i cattolici sono vittime del sistema di religione di Stato, l’instaurazione di un regime più liberale si sarebbe tradotta per loro in seri vantaggi, altri osservavano che lo stesso avverrebbe in numerosi paesi cattolici, dove le misure regaliste costituiscono seri ostacoli all’ azione della Chiesa. Essi, trovando le istituzioni liberali di gran lunga preferibili dal punto di vista apostolico alla soffocante protezione nella quale sfocia spesso il connubio fra trono e altare, ritenevano si dovesse non solo tollerare ma addirittura incoraggiare l’evoluzione in corso, e provocarla laddove non si stesse realizzando. Taluni considerano l’ideale democratico che ispirava i liberali come la realizzazione del messaggio evangelico, che invita a sostituire l’ uguaglianza di natura all’ ineguaglianza delle condizioni e la libertà di tutti al dominio di pochi. Ben presto una parte di essi andrà ancor più lontano, auspicando l’introduzione all’interno della Chiesa delle aspirazioni di libertà diffuse fra i contemporanei: relazioni meno autoritarie fra Vescovi e fedeli, maggiore gli studiosi cattolici e per i teologi, etc. autonomia per In Italia sono considerati cattolico-liberali Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni. Il Gioberti passò attraverso una crisi di scetticismo leopardiano, subì le tentazioni del panteismo e della religione umanitaria di Saint Simon e del Mazzini, oscillò tra le diverse lezioni religiose del reazionario De Maistre e del La Mennais, evangelico e 12 democratico. Si proponeva di trasformare il cattolicesimo in “una religione civile”, in un “cristianesimo progressivo”, di adeguarlo al secolo nuovo, potandolo dei rami decrepiti: temporalismo, gesuitismo, ascetismo. Particolarmente interessante ed originale è la sua opera letteraria: ne “Il primato morale e civile degli Italiani” del 1843, rivela il suo pensiero politico basato su un progetto riformistico e moderato, il cui obiettivo era la creazione di una federazione nazionale dei vari stati della penisola sotto la presidenza del papa. Occorreva creare un movimento d'opinione che utilizzasse la forza del cattolicesimo, per poi tradursi politicamente in un partito cattolico italiano, nazionale e moderno. L’opera ebbe un grande successo e da essa nacque il cosiddetto partito neoguelfo che ispirerà poi la partecipazione di vari stati italiani alla prima guerra d’indipendenza. Il neoguelfismo apparve come un mito di straordinaria, anche se effimera, efficacia. In effetti l’opera era manchevole almeno sotto due aspetti: in primo luogo trascurava il fatto che il futuro presidente della lega avrebbe dovuto essere l'allora papa Gregorio XVI, pontefice reazionario, che condannava ogni forma di pensiero liberale; in secondo luogo, Gioberti sembrava non considerare che dalla lega sarebbe rimasto fuori il Lombardo-Veneto, sotto la dominazione austriaca. Passando all’analisi del pensiero di Rosmini, ne “Le cinque piaghe della Chiesa”, del 1832, si denota un esemplare anticurialismo cattolico; la sua ispirazione, come quella del Manzoni, sorge dalla religione antica, dall’età dei Padri e dei santi Vescovi, attorno ai quali doveva rifiorire la comunità religiosa: i vescovi erano canali che avrebbero dovuto far circolare di nuovo attraverso il clero una dottrina “non scolpita sulle tavolette ma nel profondo del cuore”. Era un concetto rivoluzionario, che contrastava con l’indirizzo trionfante della Curia, tendente a burocratizzare l’episcopato ed a limitare la sfera d’azione e l’inventiva individuale del clero minore. Di fatti la riforma che egli propone è anzitutto riforma di istituti, con la fiducia che una trasformazione radicale delle strutture ecclesiastiche bastasse a sollevare il cattolicesimo dalla crisi. Fieri patrioti, i cattolici liberali cercavano di coniugare l’unità d’ Italia con i legittimi diritti della Chiesa e la propria fede con l’ impegno civile. Scontavano spesso un grande dramma personale, incorrendo nella condanna della Chiesa e, se partecipavano alla vita politica, nella scomunica. Infatti questo movimento non godette del favore dei Gesuiti, rappresentanti dell’ estremismo cattolico, che criticarono a più riprese nella rivista “ La Civiltà Cattolica” di Luigi Taparelli d’Azeglio (fratello del più famoso Massimo), Matteo Liberatore e Carlo Maria Curci, l’ unità d’ Italia, la laicizzazione, la scuola aperta al popolo e il suffragio universale. LA REAZIONE DELLA CHIESA La reazione della Chiesa non si fece attendere: nel 1832 con l’ enciclica “Mirari vos”, Gregorio XVI condannò tutti i principi del liberalismo, religiosi e politici. Anche se non era mai nominato espressamente veniva soprattutto respinto il tentativo di La Mennais e del suo giornale l’Avenir di introdurre nell'alveo della Chiesa le tesi liberali. Il Pontefice negava le tesi della necessità di un rinnovamento della Chiesa come anche la separazione fra i due poteri, riaffermava l’indissolubilità del matrimonio e il celibato ecclesiastico. Ma la 13 condanna più aspra è riservata all’ indifferentismo religioso e alla libertà di coscienza (“Veniamo ora ad un’altra sorgente trabocchevole dei mali, da cui piangiamo afflitta presentemente la Chiesa: vogliamo dire l’indifferentismo, ossia quella perversa opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto”) e soprattutto alla libertà di pensiero e di stampa, definita “ pessima, né mai abbastanza aborrita”. L’enciclica riaffermava, sul piano politico, l'appoggio del Vaticano alle posizioni favorevoli all’assolutismo (distacco delle posizioni della borghesia intellettuale) e, sul piano ecclesiastico, il rigetto della linea dei cattolici liberali, ma gli ammonimenti dell’ enciclica non ottennero l’ effetto sperato. Morto Gregorio XVI, nel 1846, gli succedette Pio IX. Egli, fra i primi atti del suo pontificato, decretò un’ amnistia per i reati politici, concesse una moderata libertà di stampa, avviò una politica riformatrice dello Stato Pontificio e mostrò molto interesse per l’ opera “Il primato” di Gioberti. L’ entusiasmo del popolo andava crescendo e raggiunse l’ acme il giorno in cui papa Mastai Ferretti nominò Segretario di Stato il cardinale liberale Gizzi. Quando inviò le truppe pontificie contro l’ Austria per la causa unitaria italiana ( ufficialmente per difendere i confini dello Stato pontificio), in tutta Europa si inneggiò al Papa liberale, ma dovette ben presto ritirarle, poiché il Vicario di Cristo non può combattere contro uno Stato cattolico; il Papa dovette quindi sconfessare il suo precedente operato con la celebre allocuzione “Non semel” dell’ aprile 1848. Ma i rapporti di forza politici stavano cambiando e nella Penisola, ancora divisa, vi fu una netta ripresa delle forze democratiche su quelle monarchiche e neoguelfiste. Il Papa non era più sicuro in città, pertanto partì alla volta di Gaeta nel novembre 1848. Poco dopo in Roma si ebbe l’ effimero governo della Repubblica Romana. Si realizzavano così le profetiche parole di Klemens von Metternich: “Caldo di cuore, ma debole di concezione e senza spirito di governo, si è lasciato sorprendere e fu preso, dal momento in cui cinse la Tiara, in una rete dalla quale, da molto tempo non sa come districarsi e se le cose seguono il loro corso naturale, sarà costretto ad andarsene da Roma in carrozza”. Tramontata definitivamente l’idea del Gioberti, il liberalismo si concretizzava in forma anticlericale, e si prospettava agli occhi del Pontefice, il pericolo di perdere Roma. Così il Santo Padre emanò, nella ricorrenza della solennità dell'Immacolata Concezione, l’8 dicembre 1864, l’enciclica “Quanta cura”, con annesso il Sillabo, elenco di ottanta proposizioni che la Chiesa condannava vivamente. L’idea di pubblicare un elenco di errori da condannare in blocco non era nuova (si era già avuta per gli eretici John Wycliffe, Jan Hus e Matin Lutero ), e fu proposta già nel 1849 dall'arcivescovo di Perugia, Gioacchino Pecci, futuro papa Leone XIII. Un errore politico o sociale origina necessariamente da un errore teologico, e pertanto la condanna del liberalismo non poteva non partire dalla condanna di vecchie eresie, così come si vedevano rinascere nel liberalismo e nel socialismo. Il Sillabo contiene nove gruppi di proposizioni, ognuno con un titolo diverso. Ogni gruppo riporta la citazione di un precedente documento pontificio in cui l'errore era già stato condannato. 14 Nel primo gruppo (sette proposizioni) sono condannati panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto. Nel secondo gruppo (sette proposizioni) si condanna il razionalismo moderato e la confusione tra natura e ragione. Il terzo gruppo (quattro proposizioni) condanna l'idea relativista dell'uguaglianza di tutte le religioni (indifferentismo). Seguono poi la condanna nel gruppo V degli errori sull'autorità del Papa, sulla Chiesa e sui suoi diritti, e nel gruppo VI, diciassette errori relativi alla società civile. C’è quindi una sezione di nove errori sulla morale naturale e cristiana, fra cui l'idea che “l'autorità non è altro che la somma del numero e delle forze materiali” (errore LX) e l'idea che “il negare obbedienza, anzi il ribellarsi ai Principi legittimi, è cosa logica” (errore LXIII). Seguono tredici errori a proposito del matrimonio cristiano. C'è quindi una breve sezione di due soli errori relativi al diritto del Papa ad essere sovrano temporale dello Stato Pontificio. Ci sono infine dieci errori relativi al liberalismo. C’è anzitutto la condanna dell'ingerenza politica in campo religioso (proposizione LXXVII: “In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l'unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti, quali che si vogliano”). C'è infine la proposizione conclusiva in cui si condanna l'influenza del contesto culturale in campo religioso (proposizione LXXX: “Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà”). I pubblicisti anticlericali mettevano in luce gli stretti rapporti che si erano avuti fra Pio IX e la Compagnia di Gesù, nella stesura del Sillabo, omettendo tuttavia di ricordare che, proprio in seguito alle violente polemiche anticlericali, il Papa decise di rinunciare alla Bolla, così come era stata configurata dai teologi, per ripiegare su una soluzione più moderata: la pubblicazione di un elenco di errori, di un’ antologia da ricavare esclusivamente dalle sue precedenti encicliche, allocuzioni e lettere apostoliche. Non vi era alcun bisogno, pensò il Papa, di arrivare a un vero e proprio atto dogmatico per inquadrare e ribadire quelle violazioni o deformazioni dei principi cristiani che egli aveva costantemente additato nella sua attività pastorale: bastava riassumerle e coordinarle, in forma di ammonimento e di lezione ai fedeli, e riunirle a fini esclusivamente pedagogici e didattici. Quale che fosse il valore del Sillabo, dogmatico o meno, è certo che la stragrande maggioranza della gerarchia cattolica lo accolse come “una pronuncia formale, ufficiale, definitiva e infallibile della Santa Sede su materie attinenti alla fede, ai diritti della Chiesa, all’ unità dei credenti, alla coscienza e alla salvezza eterna, e tali quindi da imporre l’obbedienza e l’osservanza dei Cattolici tutti senza restrizioni di mente e di cuore”. Per dirla con Sant’Agostino: “Roma locuta est, causa finita est”. Ma l’ “errore” continuava a diffondersi. La pubblicazione del Sillabo fu proibita in Francia e successivamente in Italia, incontrando la viva protesta dei Vescovi, che, ‘una voce’, condannarono il nuovo modello di Stato; mirabilmente il Vescovo di Treviso così si espresse: “Pio IX mostrò al secolo XIX, agli individui e alle Nazioni, ai popoli e ai Re, la norma infallibile della Chiesa, secondo la quale debbono essere giudicati i procedimenti dei secoli passati, del secolo presente e dell’ avvenire”. L’arcivescovo di Vienna, il cardinal Rauscher, diede alla sua pastorale il significativo titolo: “Der Staat ohne Gott” (Lo Stato senza Dio). 15 La situazione in Italia si fece ancora più complessa con la presa di Roma, che non fu accettata dal Papa. Si è di fronte alla grave e insanabile rottura fra i due poteri, che sarà sugellata dal “Non expedit” del 1874, che vietava ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica. La formula era già penetrata nella coscienza di molti cattolici dopo la presa di Roma ed aveva trovato seguaci soprattutto nell’ Azione Cattolica, ma solo a livello di opinione personale. Quando si ebbe la prima pronunzia ufficiale, si ebbero vive discussioni fra i cattolici, non sembrando la formula un divieto assoluto, finché nel 1877 intervenne il Papa, condannando il procedere di coloro che spingevano i cattolici alle urne. L’ intervento del Santo Padre troncò l' attività della corrente interventista. Tale situazione perdurò fino al 1905, quando Pio X con l’ enciclica “Il fermo proposito”, pur non revocando il “non expedit”, consentì, a mo’ di dispensa e in circostanze speciali, la partecipazione alla vita politica per i cattolici, quando essa fosse riconosciuta dai Vescovi come di vitale importanza per la anime e per i supremi interessi della Chiesa. Papa Sarto spianò così la strada al suo successore Benedetto XV, che, consentendo a tutti i cattolici di entrare nel nuovo Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, revocò implicitamente il “Non expedit”. A suggello della lotta tra Santa Romana Chiesa e la Società Moderna si deve citare la lucida analisi di uno storico ufficiale, il cardinale Hergenrother: “Nella lotta gigantesca fra autorità e libertà, fra Dio e il mondo, la Chiesa ebbe a soffrire soprattutto per l’acciecamento di quelli fra i suoi figli, che sotto il nome di cattolici liberali cercavano di tenere una via di conciliazione, accordando i principi della Chiesa con quelli dei suoi nemici”. Si vuole concludere con una citazione del professor Arturo Carlo Jemolo, insigne giurista e professore di diritto ecclesiastico: “Il periodo di Pio IX fu pure quello dell'anticlericalismo più virulento; peraltro pure quelli che inveivano contro il papa del Sillabo, contro il tenace difensore del potere temporale...non poterono mai colpire l'uomo né il sacerdote. Gioberti e Farini riconobbero in Pio IX il sacerdote pio, il credente senza ombra di dubbio, l'uomo superiore ad ogni sospetto. Non papa politico... C'era in lui l'idea del dovere, dei giuramenti prestati, la distinzione tra il compito dell'uomo che in date posizioni deve agire in un determinato modo e la parte di Dio, che può confondere ogni previsione umana e far si che anche i più santi desideri non siano esauditi. Giudicò tutto dal punto di vista religioso. La popolarità di Pio IX nel mondo cattolico fu immensa. Ben si disse che iniziò con Pio IX il culto personale verso il pontefice. Pur pastore di tutta la cattolicità, nel fondo del cuore si sentiva anzitutto italiano che non avrebbe mai potuto vivere in un esilio transalpino. In lui era l'umanità dell'uomo, quel suo riconosciuto candore, quella sua bonarietà che impediva anche alla più gran parte dei liberali, agli stessi repubblicani di odiarlo veramente; potevano detestare la funzione, l'abito, ma avvertivano il calore umano, la profonda bontà dell'uomo; essi, per lo più non credenti, avvertivano con uno stupore non scevro di rispetto, il prodigio di quegli che accetta, nonché senza rancore, senza neppure una profonda tristezza, la volontà di Dio, se pure suoni sconfitta delle tesi che egli ha sempre sostenuto, seppure ad occhi umani possa apparire una propria umiliazione”. Marco Bellucci e Fabrizio Petrillo 16 BIBLIOGRAFIA AA.VV. Enciclopedia Cattolica - voci: Compagnia di Gesù;Massoneria, Firenze, 1950 AA.VV. 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