L’ANTICLERICALISMO ITALIANO
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DEL SECONDO ‘800
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INTRODUZIONE Nel 1848, la nostra penisola era ancora divisa in diversi Stati
sovrani. In questo importante anno, abbiamo la prima carta ottriata concessa da un
sovrano in Italia: lo Statuto Albertino del 4 Marzo. Essa fu concessa da Carlo Alberto
in seguito ai moti liberali che caratterizzarono quel periodo, in Italia come in Europa.
Non si può ancora parlare di Costituzione in quanto fu una semplice concessione del
Sovrano. Il 1848 vide inoltre lo scoppio della I Guerra d’Indipendenza, combattuta
tra il Regno Sabaudo e l’impero asburgico. Essa fu un fallimento perché costrinse i
piemontesi ad abbandonare la Lombardia e a rimandare le mire espansionistiche nel
nord Italia. In seguito alla sconfitta, nel 1849, Carlo Alberto fu costretto ad abdicare
in favore del figlio Vittorio Emanuele II. La II Guerra d’Indipendenza, del 1858-59
portò alla conquista della Lombardia. L’anno seguente iniziò quel processo di
liberazione del Mezzogiorno d’Italia da parte di Giuseppe Garibaldi, che portò alla
proclamazione, nel 1861, del Regno d’Italia. Esso comprendeva ormai quasi tutta la
penisola ad eccezione del Lazio, ancora Stato Pontificio, e del Veneto, conquistato
nel 1866 con la III guerra d’Indipendenza. La piena unità nazionale si raggiunse solo
il 20 Settembre del 1870 con l’occupazione di Roma, che, incrinò in maniera
definitiva i già fragili rapporti tra la Santa Sede e il Regno dei Savoia.
ANALISI STORICO-GIURIDICA Prima della concessione dello Statuto Albertino i
privilegi ecclesiastici nel Regno Sabaudo erano molteplici: spettavano alla curie
vescovili i contenziosi relativi al matrimonio, alle decime, e a tutte le cause civili
nelle quali fosse coinvolto un chierico. Spettava altresì il giudizio per i reati di eresia,
bestemmia e offesa alla Religione. Erano poi comminate pene severe contro chi
recasse scandalo o turbasse l’esercizio del culto. La Chiesa poteva infine imporre
oneri ai fedeli a vantaggio di vescovadi, parrocchie e benefici, laddove non bastassero
le donazioni liberali. Con lo Statuto, si era però posta la premessa per l’abolizione di
questi privilegi poiché gli artt. 24 e 68 sancivano l’uguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge e il principio che la giustizia “emana dal Re”.
I rapporti tra il Regno Sabaudo e lo Stato Pontificio cominciarono perciò ad essere
compromessi a seguito della legislazione antiecclesiastica iniziata con la L.
777/1848. Con essa il parlamento subalpino soppresse l’ordine dei Gesuiti e delle
Dame del Sacro Cuore, incamerandone i beni e impedendo loro ogni forma di
riunione. La Compagnia di Gesù venne accusata, nei dibattiti parlamentari, di essere
“rappresentante di un funesto passato”, “corruttrice”, “appestata”, “eretica”, “torbida
malaugurata compagnia”. Per quale motivo i deputati Sabaudi fecero tutto ciò? Per
amore della “vera morale” e della “pura religione”, ripetevano in continuazione. Il
Cardinale Giacomo Antonelli, Segretario di Stato di Pio IX, manifestò il proprio
disappunto indirizzando una nota di protesta al governo piemontese, così
esprimendosi: “Non si saprebbe invero comprendere come mai siasi potuto divenire a
misure cotanto odiose ed ostili contro le due religiose corporazioni nell’estensione
che rispettivamente le riguarda, a fronte di quel pieno favore e di quelle solenni
guarentigie,che a tutti senza veruna distinzione vengono assicurate dallo Statuto e
legge fondamentale del Regno che promulgossi il dì 1 Marzo del corrente anno. Si
dichiara quivi infatti all’articolo 26 che la libertà individuale è garantita: e
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nell’articolo seguente si aggiunge che il domicilio è inviolabile; e finalmente si
enuncia nell’articolo 29 che tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili.
Con le quali disposizioni generali e solenni non si vede omnimamente come possa
mai conciliarsi il decreto di sopra allegato, con cui si bandiscono dallo Stato società
religiose, che vi avevano legittimo soggiorno, si tolgono ad esse i beni loro propri, e
si giunge pur anche a violentare l’individuo di una delle medesime nello stesso
delicatissimo e santissimo punto dei voti da loro fatti al Signore Iddio nella religiosa
professione […] Il Codice Albertino all’articolo 436 stabilisce che i beni della Chiesa
non possono essere amministrati ed alienati se non con la forma e con le regole che
loro sono proprie ossia con la forma e le regole canoniche. Quali poi si intendano per
beni della Chiesa lo determina il Codice medesimo nell’articolo 433; ove si legge
che: sotto nome di beni della Chiesa si intendono quelli che appartengono a singoli
benefici ed altri stabilmente ecclesiastici”.
D’altra parte, stabilendo solennemente l’art. 1 dello Statuto che: “La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato”, sembrava essere
implicito il riconoscimento delle leggi con le quali la Chiesa si governa.
In questo stato di cose, cominciarono i dibattiti parlamentari per l’abolizione del Foro
ecclesiastico. Data la volontà del Governo di giungere alla decisione di concerto con
Roma, come era già avvenuto per i cattolici Belgio, Austria e Baviera, si avviarono
le trattative con la Santa Sede a mezzo di illustri emissari quali: Giuseppe Rosmini,
Cesare Balbo e i ministri Pareto e Siccardi. L’esito fu negativo e anzi la Santa Sede,
tramite Mons. Catterini, proponeva un contro-concordato sciorinando dottrine di
diritto ecclesiastico che, a detta dello stesso Siccardi, “avrebbero potuto apparire
eccessive anche in altri tempi”. Infatti si sosteneva spettare al Papa di giudicare un
vescovo accusato di qualunque delitto e i magistrati laici non doversene in alcun
modo ingerire. Il governo si trovò costretto a decidere unilateralmente la questione: le
camere approvarono infatti in Aprile, la L. 1013/1850, detta “Legge Siccardi”. Essa
constava di nove articoli di cui cinque stabilivano l’abrogazione del privilegio del
Foro, il sesto aboliva il diritto d’asilo, il settimo limitava fortemente le pene stabilite
per l’inosservanza delle festività religiose, l’ottavo rendeva obbligatoria
l’autorizzazione per le donazioni di eredità e legati per tutti gli enti morali
ecclesiastici e laici e l’ultimo dichiarava la necessità che il governo presentasse al
parlamento un progetto di legge inteso a regolare il matrimonio con legge civile.
Questo progetto, non passato nel 1852, trovò formale riconoscimento nel Codice
Civile del 1865.
Il decennio che va dal 1849 al 1859 è dominato dalla politica cavouriana, anche in
ambito ecclesiastico. Il neo presidente del Consiglio Camillo Benso conte di Cavour,
succeduto a Massimo d’Azeglio, si era formato nella scuola di pensiero
filoprotestante dello svizzero Alessandro Vinet. L’idea centrale riguardo ai rapporti
tra Stato e Chiesa era la necessità di una separazione totale tra le due istituzioni,
sintetizzata nel motto “L’Eglise libre dans l’Etat libre” (libera Chiesa in libero Stato).
Altra corrente di pensiero in materia religiosa che influì sul Conte, fu quella cattolica
liberale, neo-guelfa, di Gioberti e di Balbo. Un terzo influsso cavuoriano, che ebbe
una peculiare importanza, fu quello giansenistico, acerrimo nemico dei Gesuiti e in
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genere antimonastico, che domina la politica ecclesiastica della Destra liberale. Il
Cavour, con la sua eminente personalità, seppe fondere in un pensiero unitario questi
elementi eterogenei.
La risolutezza del ministero Cavour, nato dal connubio con Rattazzi, e del parlamento
italiano, che Vittorio Gorresio definisce “legislatori coraggiosi”, portò
all’emanazione di altre importanti leggi in materia ecclesiastica tra cui la L.
879/1855, che soppresse ben 34 ordini religiosi su 56, allontanando dai conventi 4540
religiosi su 8570. Furono risparmiati gli ordini maggiormente benemeriti e più vicini
al popolo. Il Governo ritenne che frati e monache di clausura avessero fatto il loro
tempo e non fossero più utili in una società pacifica e liberale. Il ragionamento di
Rattazzi fu semplice: gli ordini contemplativi e mendicanti sono inutili; se tali sono
nocivi. Più complessa la motivazione del Cavour: il Conte volle dimostrare la
nocività di questi ordini osservando come si opponessero al progresso della moderna
civiltà, alla prosperità economica, industriale, agricola e perfino artistica del Paese.
Inoltre sottolineò come fossero molto più progrediti quei paesi nei quali gli ordini
erano stati aboliti da tempo e anzi l’attaccamento della popolazione al Cristianesimo
era ivi più radicato. Il Papa Pio IX, contrariato dal comportamento del legislatore
sabaudo, lanciò la scomunica contro tutti coloro che avevano cooperato alla stesura
della legge.
Un ulteriore e importante intervento del legislatore fu la L. 3725/1859 detta “legge
Casati”, dal nome del ministro dell’istruzione. Essa riformò in modo organico l’intero
ordinamento scolastico, dall’amministrazione all’articolazione per ordini e gradi alle
materie di insegnamento, confermando la volontà dello Stato di farsi carico del
diritto-dovere di intervenire in materia scolastica a fianco e in sostituzione della
Chiesa cattolica, che da secoli deteneva il monopolio dell'istruzione. Essa mantenne
l’insegnamento religioso nelle scuole, rendendolo tuttavia facoltativo. Ancor più dura
in tema d’istruzione fu la L. 3961/1877, detta “legge Coppino”, che cancellò
l’insegnamento della religione cattolica dalle scuole medie inferiori e superiori.
Con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, le leggi e i codici piemontesi
vennero estesi in gran parte della penisola.
In questi stessi anni il Governo non soltanto fronteggiò una sempre più fiera
opposizione della Sede Apostolica, ma condusse contro il clero e i religiosi una
politica di estrema severità. Nel giro di pochi mesi dall’impresa dei Mille, nelle
province meridionali furono arrestati, processati o confinati 66 vescovi. Nel giro di
quattro anni furono arrestati e processati ben otto cardinali, fra cui il Cardinal Pecci,
futuro Leone XIII. Fu così che nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere,
16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. Di 227 sedi vescovili,
108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale
Franzoni, arcivescovo di Torino, fu condannato ad un mese di carcere e costretto
all’esilio a Lione per aver ordinato che nessun ecclesiastico rispondesse a citazioni
davanti a un giudice o a un tribunale laico senza averne prima istruzioni dalla Curia
Arcivescovile; il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa fu arrestato e portato a Torino
per non aver permesso al clero diocesano di cantare il “Te Deum” in occasione della
celebrazione dello Statuto. Persino Vittorio Gorresio, storico di parte laicista, scrive a
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riguardo: "Legislatori intemerati in un primo tempo, i governanti liberali piemontesi
via via si fecero audaci e poi anche spregiudicati, anzi prepotenti. Difatti, non di tutti
i provvedimenti di polizia che nel giro di pochissimi anni furono presi a carico di otto
cardinali e di un'ottantina di vescovi, oltre che di centinaia di preti e di religiosi,
sapremmo oggi trovare una giustificazione che soddisfaccia l'animo di un laico
onesto".
Dopo la III Guerra d’Indipendenza, il disavanzo di bilancio dello Stato, che arrivò
alla cifra record di 721 milioni di lire, necessitò un ulteriore intervento sui beni
ecclesiastici. Le cosiddette “leggi eversive” (la L. 3036/1866, e la L. 3848/1867)
tolsero il riconoscimento di ente morale a tutti gli ordini, corporazioni nonché
congregazioni di carattere ecclesiastico, sicché il demanio dello Stato acquisì tutti i
loro beni. I fabbricati conventuali incamerati dallo Stato vennero poi concessi ai
Comuni e alle Province.
Rimaneva la questione di Roma capitale d’Italia, acclamata dal Cavour al parlamento
italiano nel memorabile discorso del 27 Marzo 1861. Nonostante Pio IX si fosse visto
ridotto il suo potere temporale, non acconsentiva a perderlo del tutto; egli era
fermamente convinto che il potere temporale, facendo del Papa anche un sovrano, era
garanzia indispensabile dell’esercizio dei propri atti in libertà e indipendenza. Le
trattative intavolate da Bettino Ricasoli per una soluzione amichevole della questione,
vennero infatti respinte energicamente e Pio IX assumeva sempre più deciso un
atteggiamento ostile che non abbandonerà fino a dopo la presa di Roma. Il pur fallito
tentativo garibaldino di Aspromonte (1862) e la Convenzione di Settembre (1864),
con il conseguente trasferimento della capitale da Torino a Firenze imposto dai
francesi come garanzia a tutela dello Stato Pontificio, segnarono le tappe provvisorie
verso Roma. Altri tentativi garibaldini si ebbero nel 1867 a Villa Glori, a
Monterotondo e a Mentana, ma senza successo. Lo scoppio della guerra francoprussiana e la caduta di Napoleone III a Sedan, nel Settembre 1870, renderanno
finalmente possibile l’occupazione di Roma. Il governo italiano, presieduto da
Giovanni Lanza, con la sconfitta dell’imperatore, si sentì sciolto da ogni obbligo di
gratitudine e libero dagli impegni contrattuali per cui ritenne possibile agire. Il re
Vittorio Emanuele II tentò un ultima volta di convincere Pio IX della ineluttabilità
dell’annessione di Roma; pur tuttavia il Papa, manifestando tutto il suo dolore e la
sua amarezza per quanto accadeva, concludeva: “Io non posso ammettere le domande
espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che essa contiene. Faccio di nuovo
ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa che è interamente la sua. Lo
prego di concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo e renderla
partecipe delle misericordie ond’Ella ha bisogno”.
Non restava altro da fare che dare ordini al generale Raffaele Cadorna di penetrare in
territorio pontificio, pur rispettando la città leonina, dove si trovava il Vaticano. La
mattina del 20 Settembre si aprì il fuoco tra il generale Kanzler, comandante delle
truppe pontificie, e le truppe regie. Dopo alcune ore di combattimento, solo per
dimostrare che lo Stato Pontificio cedeva alla violenza, i bersaglieri italiani entrarono
in Roma attraverso la breccia aperta a Porta Pia. Il 2 Ottobre 1870 i Romani, con
40000 voti favorevoli e 115 contrari dichiararono l’annessione al Regno d’Italia. Pio
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IX quindi, protestando per l’oltraggio subito, si fece volontario prigioniero in
Vaticano. Vittorio Emanuele II, prendendo possesso del Quirinale, dichiarava “il
fermo proposito di rispettare le libertà della Chiesa e l’indipendenza del Sovrano
pontefice”. Mentre Papa Mastai rinnovava la scomunica contro gli “usurpatori”, il
governo italiano elaborò la cosiddetta legge delle Guarentigie che garantiva al
pontefice le prerogative sovrane, la libertà della sua autorità spirituale,
l’extraterritorialità dei palazzi vaticani, del Laterano e di CastelGandolfo e fissava a
favore delle casse vaticane una dotazione monetaria annua non inferiore a quella
risultante dal bilancio pontificio prima del 1870. Questa legge aveva anche abolito
l’exequatur per la pubblicazione e l’esecuzione degli atti delle autorità ecclesiastiche
ma lo aveva conservato per i provvedimenti riguardanti la destinazione dei beni
ecclesiastici e la provvista temporale dei benefici; la legge prescriveva anzi che i
nuovi vescovi dovessero chiedere al governo il possesso dei beni annessi alla loro
carica, unendo alla domanda le bolle della loro nomina. La Santa Sede vietò tale
formalità perché la riteneva un atto di sottomissione e riconoscimento del nuovo
Stato. Le conseguenze furono che i vescovi di nuova nomina (le diocesi vacanti erano
circa una sessantina) dovettero abitare fuori dalla residenza vescovile e vivere di
poveri sussidi forniti dal Vaticano. Il Lanza, da parte sua, contava di vincere questa
battaglia “prendendo i vescovi per fame”. Grazie all’interessamento di Don Bosco e
alla sua particolare abilità di mediatore, il governo era sul punto di cedere ma uno
spaccio arrivato da Berlino, a firma di Bismarck, fece proseguire il Lanza per la sua
strada.
Pio IX tuttavia rifiutò la legge delle guarentigie, che rimase unilaterale ed interna
allo Stato Italiano. La sua intransigenza si spinse fino al punto di proibire, col “non
expedit”, ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana; iniziava così un nuovo e
doloroso conflitto fra Stato e Chiesa che si potrà comporre solo sessant’anni dopo,
nel 1929, con la firma dei Patti Lateranensi.
Negli anni immediatamente successivi alla presa di Roma, Lanza voleva estendere
alla ormai Capitale del Regno, gli effetti delle “leggi eversive” degli anni 1866-67.
Ciò era reso difficile dal fatto che nella città eterna avevano sede le case generalizie
degli ordini religiosi e il Santo Padre si sarebbe visto così privare di un efficace aiuto
al governo della Chiesa universale. Le rimostranze pontificie non bastarono a far
desistere il governo, che, con L. 1402/1873, decretò la soppressione degli ordini
religiosi e l’incameramento dei loro beni per pubblica utilità.
Dal 1876 in poi avremo al Governo la Sinistra Storica. In quello stesso anno si
verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico
di Bologna. Due anni dopo morivano i due più importanti protagonisti del secondo
‘800 italiano: Vittorio Emanuele II, cui succedette il figlio Umberto, e Pio IX, cui
succedette Leone XIII. Dopo il fragile governo trasformista di Depretis, il Re affidò
l’incarico a Francesco Crispi, ex mazziniano e grande ammiratore del militarismo
prussiano del Bismarck. Egli tentò un riavvicinamento tra Stato e Chiesa che fallì
però miseramente. Il problema era tornato di grande attualità per le cosiddette “tesi
conciliaristiche” in ambito cattolico, propugnate soprattutto dall’arcivescovo di
Milano Geremia Bonomelli e dallo storico Luigi Tosti, abate di Montecassino.
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Quest’ultimo scrisse, con la collaborazione dello stesso Crispi, un opuscolo intitolato
“La Conciliazione”, nel quale auspicava un rapido accordo tra Vaticano e Quirinale.
Tale aspirazione non si realizzò per l’intransigenza di alcuni ambienti ecclesiastici,
fermamente decisi a richiedere il riconoscimento del potere temporale e la
restituzione di Roma al suo “legittimo sovrano”. Di fronte a questo atteggiamento,
aggravato da una netta chiusura del Vaticano, che condannò lo scritto di Tosti, Crispi
si riarmò del suo antico anticlericalismo, rendendo di nuovo particolarmente acuta la
tensione tra Stato e Chiesa: fu abolito, ad opera del ministro dell’istruzione Paolo
Borselli, l’insegnamento religioso nelle scuole primarie; le istituzioni di beneficenza
(le cosiddette “opere pie”) furono sottratte al controllo delle autorità ecclesiastiche e
vennero amministrate dalle autorità civili sotto il diretto controllo dei prefetti; fu
istituita la punibilità per i ministri del culto che si fossero comportati in modo sleale e
oltraggioso nei confronti dello Stato e dei suoi legittimi rappresentanti.
Per dare l’idea del clima anticlericale che ancora si respirava in quegli anni vanno
citati alcuni aneddoti. Nel 1881, come ci racconta il Gorresio in rapide e avvolgenti
pagine, fu organizzato in gran segreto un corteo notturno per portare in processione la
salma di Pio IX dal Vaticano alla basilica di San Lorenzo al Verano, dove il Papa
aveva desiderato essere seppellito. Venuti gli anticlericali a sapere del corteo funebre,
lo assalirono con lanci di pietre e urla ingiuriose, esclamando: “Al fiume il papa
porco!”; ma fortunatamente non riuscirono nell’impresa di gettare la salma nel
Tevere.
Nel 1889, invece, a ‘Campo de’ Fiori’, a Roma, fu eretto un monumento a Giordano
Bruno, simbolo della inconciliabilità tra pensiero laico e religioso, provocando le
proteste dell’allora pontefice Leone XIII, che minacciò di trasferirsi in Austria.
Infine, non vanno dimenticati i famosi ‘banchetti anticlericali’, che il Venerdì Santo
si allestivano davanti al Vaticano e alle maggiori chiese di Roma, e durante i quali,
per sfregio verso i cattolici, gli anticlericali consumavano vino e carne di maiale.
TEORIE REVISIONISTE Bisogna citare sull’argomento una tesi elaborata negli
ultimi anni in ambienti cattolici, che analizza in maniera critica non solo le leggi
eversive e l’ anticlericalismo italiano, ma il Risorgimento tout-court; Rino
Cammilleri da tempo propone teorie revisioniste sul Risorgimento, mentre uno fra i
più autorevoli intellettuali cattolici, Vittorio Messori, in un articolo del 1990, “Chiesa
di Stato o Stato della Chiesa”, si fa difensore dei diritti di Pio IX a mantenere
l’integrità territoriale dello Stato Pontificio: “Si pretendeva, poi, che Pio IX
rinunciasse spontaneamente al possesso dello Stato pontificio a favore di quello
piemontese. E, anche qui, si dimenticava che, dietro il rifiuto papale, stava un
interesse religioso ben prima che politico ed economico, come riconobbe lo stesso
Cavour nel ‘Memorandum’ inviato a Napoleone III ai tempi dell'invasione e della
annessione di tutte le province papali, ad eccezione di quel Lazio che sarà occupato
anch'esso dieci anni dopo: «Il Papa, che per me non ha uno spirito largo né una
grande intelligenza, ha per contro una convinzione religiosa profonda. Se mai si
deciderà a cedere spontaneamente i suoi Stati, non lo farà che dopo avere acquisito la
convinzione che non solo può farlo senza mancare alla sua coscienza e ai doveri del
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suo Ministero Sacro, ma che la sua rinuncia al potere temporale sarebbe utile alla
Chiesa e servirebbe gli interessi veri della Religione».
Non di minor importanza l’opera della professoressa Angela Pellicciari, autrice del
libro “L’altro Risorgimento, una guerra di religione dimenticata”. Ella, nella
prefazione al libro, ritiene che l’immagine che ci hanno tramandato del Risorgimento
sia quella voluta da coloro che lo hanno costruito: i governanti del Regno di Sardegna
e i governi delle potenze alleate che ne hanno permesso la realizzazione. La
professoressa sottolinea come il governa sabaudo, che si dichiarava costituzionale e
liberale, avesse sistematicamente violato lo Statuto nel suo primo articolo, emanando
tutta quella serie di leggi anticlericali più sopra ricordate. Una esigua minoranza di
fede liberale (1,70% della popolazione), continua la Pellicciari, decide la
soppressione, uno dopo l’altro, a cominciare dai gesuiti, di tutti gli ordini religiosi
della religione di Stato. Infine, ella pone l’ accento sulle manchevolezze della
storiografia ufficiale circa la stampa e la storiografia cattolica dell’800. Infatti, in
decine di encicliche, Pio IX denunzia quali persecuzioni, violenze e rapine facciano
seguito alle dichiarazioni di costituzionalità e libertà, e condanna la lotta che le
società segrete, in primis la Massoneria, conducono in tutto il mondo contro la Chiesa
Cattolica; la maggiore insidia è che detti nemici della Religione non combattono a
viso aperto, ma si dichiarano fedeli e sinceramente devoti al bene della Chiesa. Non
bisogna pertanto stupirsi se Papa Mastai e il suo successore fossero convinti che il
Risorgimento era un tentativo di “sterminare la religione di Gesù Cristo”, voluto e
promosso dalla Massoneria nell’intento di distruggere il potere spirituale, usando
come grimaldello la fine del potere temporale. Il libro analizza poi, in chiave critica,
la soppressione degli ordini religiosi, e dei gesuiti in particolare, i plebisciti-farsa per
l’annessione al Regno d’Italia, le influenze massoniche e liberali sulla promulgazione
delle leggi anticlericali, il comportamento degli uomini di governo etc.
ANALISI FILOSOFICO-IDEOLOGICA Ma quali furono le origini
dell’anticlericalismo italiano? Quali le correnti che lo contraddistinsero? Esso è insito
nella storia d’Italia: dalla lotta delle investiture a Federico II di Svevia, a Lorenzo
Valla, a Paolo Sarpi, a Pietro Giannone. Ma è indubbio che la sua radice più forte fu
nell’Illuminismo di Voltaire. Potremmo dire col Pepe che “l’Italia fu fatta una da
Cavour e Mazzini: l’uno e l’altro furono anticlericali, l’uno implacabile
nell’anticlericalismo politico, cioè contro i privilegi del clero e contro il potere
temporale, l’altro implacabile in quello che potremmo chiamare anticlericalismo
metafisico, nella negazione, cioè, del Papato nella sua struttura etico-religiosa”.
Per quanto riguarda il pensiero di Cavour, la sua polemica anticlericale ha uno spirito
del tutto nuovo rispetto a quella che era stata la letteratura italiana: non vi troviamo
“filosofemi e requisitorie” ma una concreta denuncia dei soprusi e degli scandali di
una Chiesa ormai tagliata fuori dal mondo moderno e incapace di rendersene conto.
Sulla sua formazione influirono molto le correnti protestanti ginevrine da cui deriva
tutta la dottrina separatistica e in minor parte il cattolicesimo liberale, che il Conte
guardava con simpatia e scetticismo. Infatti ai margini della sua politica laica resta,
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potremmo dire, una traccia del sacro: la concezione del Cavour, nella sua struttura
formale, si avvicina a quella rosminiana o manzoniana per cui la soluzione ideale ai
rapporti tra Stato e Chiesa è quella della coesistenza armoniosa. Fedele sempre alla
formula separatistica, Cavour condusse anche altre politiche ecclesiastiche: fu
“giurisdizionalista al tempo delle leggi Siccardi, espropriatore dei conventi,
imperturbabile processatore e imprigionatore di vescovi […] nelle nuove provincie
rimetteva in auge gli strumenti regalistici della legislazione napoleonica e
settecentesca”. Potremmo quindi dire che il Conte usò strumentalmente le ideologie:
la sua politica ecclesiastica si servì tanto del giurisdizionalismo, quanto delle
trattative concordatarie e delle formule separatistiche, per raggiungere l’obiettivo di
instaurare uno stato moderno fondato sulla libertà, la laicità, il benessere e il
progresso.
Se dal Cavour passiamo al Mazzini, siamo in un mondo almeno alle apparenze
diverso da quello del Conte, e che assai spesso sembra peccare d’intemperanza.
Mazzini giudica il progresso inconciliabile col cattolicesimo: “La missione religiosa
consiste nella sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della
redenzione per grazia”. Nel suo articolo “Intorno all’enciclica di Gregorio XVI Papa”
del 1833, quando l’anticlericalismo risorgimentale era ancora da venire, egli
condanna non solo gli errori del La Mennais nell’accettare l’autorità come principio e
l’assenza di democrazia nella Chiesa, ma lo stesso papato, reo di invocare gli eserciti
stranieri. Assai più grave è il saggio sull’Enciclica di Papa Pio IX nel 1850, dove
Mazzini fa una difesa commossa agli uomini e alle donne della Repubblica Romana,
da lui istituita con Armellini e Saffi dopo la fuga di Pio IX a Gaeta (9 Febbraio-4
Luglio 1849). Egli si fa portatore dell’idea di un’Italia “una, indipendente, libera,
repubblicana”. Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel
1834, egli è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi
insurrezionali e di attentati. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani,
in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al
centro della propria attività politica: “Dio lo vuole”, non si stancherà di ripetere, e
scrivere, con ardore profetico. L’idea religiosa di Mazzini è lontana dalle religioni
positive, il suo è un deismo puro: “Dio e Popolo”, ovvero Dio si manifesta attraverso
il popolo. La nazione deve considerarsi come “un’operaia al servizio di Dio”. “Il
papato, sosteneva nel 1832, è una forma logora riservata ancora per qualche tempo
agli amatori di antichità” e nel 1834, rivolgendosi “Ai giovani italiani”, l’esule spiega
quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: “L’abolizione del
potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli
uomini dall’autorità spirituale”.
Mazzini quindi si prefigge l’obiettivo di smantellare l’impianto stesso della religione
cattolica e del papato. Obiettivo condiviso dalla Massoneria, società segreta a
carattere cosmopolita e iniziatico, sorta col fine di affratellare gli uomini di tutte le
nazioni e di organizzare la società su basi esclusivamente umanitarie e laiche. Le
origini leggendarie fanno risalire questa associazione ai primordi dell’umanità;
attraverso i Rosacroce, i Templari, i Pitagorici, i Caldei e gli Ebrei risalirebbe fino ai
tempi di Noè. In realtà le sue origini storiche non vanno oltre il XVII secolo, ma è
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indubbio che la Massoneria discende da organizzazioni muratorie medioevali di tipo
corporativo. In Italia la prima loggia massonica fu fondata a Firenze nel 1731,
tuttavia subì una dura persecuzione che comportò lo scioglimento durante la
Restaurazione. I massoni, ormai dispersi, trovarono rifugio presso il Grande Oriente
di Francia e cercarono di esplicare la loro azione attraverso la Carboneria, spesso
riuscendo ad accaparrarsi posti chiave nella classe dirigente politica ed economica.
La Massoneria italiana riprese vita a Torino nel 1859 per opera di persone molto
vicine al Cavour, il quale se ne servì senza tuttavia farne parte. Nel 1863, la
Costituente della rinata massoneria italiana stabiliva, all’articolo 3, che i principi
massonici dovessero gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti li atti
della vita individuale, domestica e civile”; all’articolo 8 specificava che “fine ultimo
dell’ordine è raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e
debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e
sull’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per
costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”. Nel bollettino del ‘Grande Oriente della
Massoneria in Italia’, del 1865, si legge poi: “Le nazioni riconoscevano nell’Italia il
diritto di esistere come nazione in quanto le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle
dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di
maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la massoneria si propone;
al quale da secoli lavora, attraverso ogni genere di ostacoli e di pericoli”.
A detta del Messori, “anche se ci sono ancora discussioni in proposito sembra che la
Massoneria ‘ufficiale’ non abbia avuto un ruolo scoperto sino al 1859, quando fu
ricostituita a Torino da Cavour. Sino ad allora, sembra agire attraverso organizzazioni
parallele, come la Carboneria. La sua presenza diventa invece decisiva a partire dagli
anni Sessanta dell'Ottocento, sino al fascismo. Ci sono decenni in cui il governo
italiano è praticamente governo dell'Ordine (come nella Terza Repubblica in
Francia). Non si dimentichi che, se fu scelto il 20 settembre per l'ingresso a Roma, è
perché in quella notte i Fratelli iniziano i lavori del loro nuovo anno. E, difatti, il rito
sì svolse al Colosseo”.
Possiamo prendere ad esempio la figura di Giuseppe Garibaldi, grande patriota
italiano, per denotare gli aspetti caratteristici dei massoni: l’anticlericalismo e l’odio
contro la fede cattolica tout court. L’ ‘eroe dei due mondi’, affiliato alla Massoneria
sin dal 1844, fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia col 33° grado del rito
scozzese ricevuto a Torino nel 1862 e con la suprema carica di Gran Hyrophante del
rito di Memphis e Misraim del 1881. Egli ebbe un ruolo di primo piano nel panorama
massonico italiano e internazionale; percepì dalla Loggia inglese i fondi (si parla di
milione dell’epoca) utili all’occupazione del Regno delle due Sicilie e partecipò all’
‘anticoncilio’ che la massoneria tenne a Napoli nel 1869 in contrapposizione al
Concilio Vaticano I, convocato da Pio IX nello stesso anno. “Io reputo i massoni
eletta porzione del popolo italiano” , affermava nella lettera al Supremo Consiglio di
Palermo. Il suo astio anticlericale (“Preti alla vanga” era il suo motto) è espresso
mirabilmente nella lettera da Caprera alla Guardia Nazionale di Napoli del 1861: “Il
peggiore dei vostri nemici è il Papa, e voi sciaguratamente avete provato quest’anno
quanto fossero vere quelle parole. Oggi devo manifestarvi un’altra verità,
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conseguenza della prima. I preti, complici del papato, sono vostri nemici, e voi
dovete lavare di questa sozzura le bellissime vostre contrade. Non sangue; voi sareste
riprovati. Ma ogni volta che si incontra sul vostro passaggio la figura grottesca,
ipocrita, dissimulata, d’un figlio del Sanfedismo e dell’Inquisizione, voi dovete
scacciarla come cosa schifosa, appestata! Voi dovete far sparire dalla luce del sole,
che offuscano, quei cappelloni multiformi, simboli per l’Italia delle miserie, delle
vergogne di 18 secoli”.
Sono moltissimi gli esponenti di spicco dell’ Italia unitaria legati alla Massoneria: i
Presidenti del Consiglio Giovanni Lanza, Benedetto Cairoli, Agostino Depretis,
Francesco Crispi, Antonio Starabba di Rudinì, Giuseppe Zanardelli e Alessandro
Fortis; il sindaco di Roma, fiero anticlericale, Ernesto Nathan (di cui si ricorda la
costruzione del quartiere Prati in modo tale da oscurare la vista del Vaticano) nonché
Giuseppe Mazzini, il quale però seppe tenersi abbastanza distaccato dalla Loggia.
I rapporti fra Chiesa e Massoneria furono conflittuali fin dalle origini: Papa Clemente
XII, infatti, con la lettera apostolica “In eminenti” del 1738, colpì con la scomunica
chiunque vi avesse preso parte. Altre condanne furono rinnovate da Leone XIII e Pio
X.
Un altro importante filone anticlericale del tempo è rappresentato dai giuristi
napoletani: Bertrando Spaventa, Francesco de Sanctis, Luigi Settembrini, Pasquale
Stanislao Mancini e Ferdinando Petruccelli della Gattina.
Lo Spaventa afferma l’idea dell’indipendenza dello Stato e la sua autonomia come “il
fondamento necessario di ogni buon governo”, definendo sacrilega la dottrina che
riconosceva come divino il diritto dei Principi assoluti. Attacca poi ferocemente i
Gesuiti, affermando che “la teoria politica della ‘Civiltà Cattolica’ è una mostruosa
mescolanza della vecchia tolleranza e del nuovo dispotismo”. L’anticlericalismo
dello Spaventa si rivolse anche alla Teologia: è notevole il saggio sulla Madonna
soprattutto perché vi appare come la Teologia sia asservita alla causa della politica.
Egli qualifica come “pie credenze” quelle popolari relative a Maria ed assume
posizioni antidogmatiche. Il dogma è interpretato alla luce del pensiero di
Gianbattista Vico, filosofo napoletano del ‘700: “Simbolo, figure, immagini, modi
[di] dire, metafore, aspirazioni devote o creazione della fantasia o dell’arte”.
Il de Sanctis fu uno dei principali fautori della liquidazione dell’Asse ecclesiastico,
dimostrando come l’unica forza capace di opporre ancora il Medioevo allo spirito
moderno era il clero cattolico. Stabilì l’equazione per cui riforme ecclesiastiche
significavano unità d’Italia e libertà, e invece trattative con Roma e riconoscimento
del clero come proprietario significavano Reazione.
Meno filosofo, ma ugualmente liberale e tollerante è il Settembrini. Egli sosteneva la
necessità della caduta del potere temporale, “frutto di rapine”. E’ sempre vivo il suo
monito: “Ricorderemo ai preti che se essi ad ogni modo vogliono conservare i beni
malamente acquistati, in questo modo essi potranno provocare una di quelle vendette
che toglie vita, beni e tutto.”
In questo clima di aspra contrapposizione fra Stato italiano e Chiesa Cattolica vi fu
un irrigidimento sulle proprie posizioni da parte di entrambi. Spesso si mascheravano
con il nome di separatismo delle autentiche persecuzioni della Chiesa e vi sono dei
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politici che avanzavano qualche velato desiderio di giurisdizionalismo; si tratta del
Ricasoli, che desidera una Chiesa libera dal dogmatismo e dalla gerarchia e del ben
più azzardato Crispi, che avrebbe voluto “chiudere la Chiesa nell’ ambito del culto, e
mettere il resto nelle mani dello Stato”. D’altra parte la Chiesa non è meno
intransigente; difende infatti strenuamente antichi privilegi che ormai appartengono al
passato, come il foro ecclesiastico, e il potere temporale.
Tuttavia il separatismo in Italia risulta stemperato rispetto a paesi come la Francia;
infatti nel popolo italiano vi è un forte attaccamento alla religione e non bisogna
dimenticare il ruolo del re, che cerca sempre un accordo con il Pontefice per evitare l’
ostilità aperta con la Chiesa.
Mentre in Europa la massa del clero e dei fedeli continua a ritenere che la sola
salvezza per la Chiesa è nel ristabilimento delle istituzioni politiche dell’ancien
régime e della situazione privilegiata della Chiesa nella società, un numero crescente
di ecclesiastici e laici, spinti dalla mistica della libertà, cominciano a chiedersi se non
sia possibile conciliare in qualche modo il cattolicesimo con il liberalismo ed
accettare, senza tradire la propria fede, un’organizzazione della società basata sui
principi del 1789: le libertà individuali che si sostituiscono all’arbitrio del potere; le
libertà politiche considerate non più come un privilegio concesso, bensì come un
diritto. Diritto dei popoli di disporre di se stessi, in nome del primato del principio di
nazionalità sul principio di legittimità e, negli ambiti interessati dalla vita religiosa,
libertà di stampa e libertà di culto, accompagnata da una limitazione dei privilegi
della Chiesa e del controllo del clero sulla nazione, eventualmente anche separazione
tra Chiesa e Stato. Questa corrente, tanto teologica quanto politica, del cattolicesimo
liberale ebbe come primo esponente il prete francese Hugues-Félicité Robert de La
Mennais. Alcuni facevano notare che nei paesi a maggioranza protestante od
ortodossa, nei quali i cattolici sono vittime del sistema di religione di Stato,
l’instaurazione di un regime più liberale si sarebbe tradotta per loro in seri vantaggi,
altri osservavano che lo stesso avverrebbe in numerosi paesi cattolici, dove le misure
regaliste costituiscono seri ostacoli all’ azione della Chiesa. Essi, trovando le
istituzioni liberali di gran lunga preferibili dal punto di vista apostolico alla
soffocante protezione nella quale sfocia spesso il connubio fra trono e altare,
ritenevano si dovesse non solo tollerare ma addirittura incoraggiare l’evoluzione in
corso, e provocarla laddove non si stesse realizzando. Taluni considerano l’ideale
democratico che ispirava i liberali come la realizzazione del messaggio evangelico,
che invita a sostituire l’ uguaglianza di natura all’ ineguaglianza delle condizioni e la
libertà di tutti al dominio di pochi. Ben presto una parte di essi andrà ancor più
lontano, auspicando l’introduzione all’interno della Chiesa delle aspirazioni di libertà
diffuse fra i contemporanei: relazioni meno autoritarie fra Vescovi e fedeli, maggiore
gli
studiosi
cattolici
e
per
i
teologi,
etc.
autonomia
per
In Italia sono considerati cattolico-liberali Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini e
Alessandro Manzoni.
Il Gioberti passò attraverso una crisi di scetticismo leopardiano, subì le tentazioni del
panteismo e della religione umanitaria di Saint Simon e del Mazzini, oscillò tra le
diverse lezioni religiose del reazionario De Maistre e del La Mennais, evangelico e
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democratico. Si proponeva di trasformare il cattolicesimo in “una religione civile”, in
un “cristianesimo progressivo”, di adeguarlo al secolo nuovo, potandolo dei rami
decrepiti: temporalismo, gesuitismo, ascetismo. Particolarmente interessante ed
originale è la sua opera letteraria: ne “Il primato morale e civile degli Italiani” del
1843, rivela il suo pensiero politico basato su un progetto riformistico e moderato, il
cui obiettivo era la creazione di una federazione nazionale dei vari stati della penisola
sotto la presidenza del papa. Occorreva creare un movimento d'opinione che
utilizzasse la forza del cattolicesimo, per poi tradursi politicamente in un partito
cattolico italiano, nazionale e moderno. L’opera ebbe un grande successo e da essa
nacque il cosiddetto partito neoguelfo che ispirerà poi la partecipazione di vari stati
italiani alla prima guerra d’indipendenza. Il neoguelfismo apparve come un mito di
straordinaria, anche se effimera, efficacia. In effetti l’opera era manchevole almeno
sotto due aspetti: in primo luogo trascurava il fatto che il futuro presidente della lega
avrebbe dovuto essere l'allora papa Gregorio XVI, pontefice reazionario, che
condannava ogni forma di pensiero liberale; in secondo luogo, Gioberti sembrava non
considerare che dalla lega sarebbe rimasto fuori il Lombardo-Veneto, sotto la
dominazione austriaca.
Passando all’analisi del pensiero di Rosmini, ne “Le cinque piaghe della Chiesa”, del
1832, si denota un esemplare anticurialismo cattolico; la sua ispirazione, come quella
del Manzoni, sorge dalla religione antica, dall’età dei Padri e dei santi Vescovi,
attorno ai quali doveva rifiorire la comunità religiosa: i vescovi erano canali che
avrebbero dovuto far circolare di nuovo attraverso il clero una dottrina “non scolpita
sulle tavolette ma nel profondo del cuore”. Era un concetto rivoluzionario, che
contrastava con l’indirizzo trionfante della Curia, tendente a burocratizzare
l’episcopato ed a limitare la sfera d’azione e l’inventiva individuale del clero minore.
Di fatti la riforma che egli propone è anzitutto riforma di istituti, con la fiducia che
una trasformazione radicale delle strutture ecclesiastiche bastasse a sollevare il
cattolicesimo dalla crisi.
Fieri patrioti, i cattolici liberali cercavano di coniugare l’unità d’ Italia con i legittimi
diritti della Chiesa e la propria fede con l’ impegno civile. Scontavano spesso un
grande dramma personale, incorrendo nella condanna della Chiesa e, se
partecipavano alla vita politica, nella scomunica. Infatti questo movimento non
godette del favore dei Gesuiti, rappresentanti dell’ estremismo cattolico, che
criticarono a più riprese nella rivista “ La Civiltà Cattolica” di Luigi Taparelli
d’Azeglio (fratello del più famoso Massimo), Matteo Liberatore e Carlo Maria Curci,
l’ unità d’ Italia, la laicizzazione, la scuola aperta al popolo e il suffragio universale.
LA REAZIONE DELLA CHIESA La reazione della Chiesa non si fece attendere:
nel 1832 con l’ enciclica “Mirari vos”, Gregorio XVI condannò tutti i principi del
liberalismo, religiosi e politici. Anche se non era mai nominato espressamente veniva
soprattutto respinto il tentativo di La Mennais e del suo giornale l’Avenir di
introdurre nell'alveo della Chiesa le tesi liberali. Il Pontefice negava le tesi della
necessità di un rinnovamento della Chiesa come anche la separazione fra i due poteri,
riaffermava l’indissolubilità del matrimonio e il celibato ecclesiastico. Ma la
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condanna più aspra è riservata all’ indifferentismo religioso e alla libertà di coscienza
(“Veniamo ora ad un’altra sorgente trabocchevole dei mali, da cui piangiamo afflitta
presentemente la Chiesa: vogliamo dire l’indifferentismo, ossia quella perversa
opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la
quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza
dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto”) e
soprattutto alla libertà di pensiero e di stampa, definita “ pessima, né mai abbastanza
aborrita”. L’enciclica riaffermava, sul piano politico, l'appoggio del Vaticano alle
posizioni favorevoli all’assolutismo (distacco delle posizioni della borghesia
intellettuale) e, sul piano ecclesiastico, il rigetto della linea dei cattolici liberali, ma
gli ammonimenti dell’ enciclica non ottennero l’ effetto sperato.
Morto Gregorio XVI, nel 1846, gli succedette Pio IX. Egli, fra i primi atti del suo
pontificato, decretò un’ amnistia per i reati politici, concesse una moderata libertà di
stampa, avviò una politica riformatrice dello Stato Pontificio e mostrò molto interesse
per l’ opera “Il primato” di Gioberti. L’ entusiasmo del popolo andava crescendo e
raggiunse l’ acme il giorno in cui papa Mastai Ferretti nominò Segretario di Stato il
cardinale liberale Gizzi. Quando inviò le truppe pontificie contro l’ Austria per la
causa unitaria italiana ( ufficialmente per difendere i confini dello Stato pontificio),
in tutta Europa si inneggiò al Papa liberale, ma dovette ben presto ritirarle, poiché il
Vicario di Cristo non può combattere contro uno Stato cattolico; il Papa dovette
quindi sconfessare il suo precedente operato con la celebre allocuzione “Non semel”
dell’ aprile 1848. Ma i rapporti di forza politici stavano cambiando e nella Penisola,
ancora divisa, vi fu una netta ripresa delle forze democratiche su quelle monarchiche
e neoguelfiste. Il Papa non era più sicuro in città, pertanto partì alla volta di Gaeta
nel novembre 1848. Poco dopo in Roma si ebbe l’ effimero governo della Repubblica
Romana. Si realizzavano così le profetiche parole di Klemens von Metternich:
“Caldo di cuore, ma debole di concezione e senza spirito di governo, si è lasciato
sorprendere e fu preso, dal momento in cui cinse la Tiara, in una rete dalla quale, da
molto tempo non sa come districarsi e se le cose seguono il loro corso naturale, sarà
costretto ad andarsene da Roma in carrozza”.
Tramontata definitivamente l’idea del Gioberti, il liberalismo si concretizzava in
forma anticlericale, e si prospettava agli occhi del Pontefice, il pericolo di perdere
Roma. Così il Santo Padre emanò, nella ricorrenza della solennità dell'Immacolata
Concezione, l’8 dicembre 1864, l’enciclica “Quanta cura”, con annesso il Sillabo,
elenco di ottanta proposizioni che la Chiesa condannava vivamente. L’idea di
pubblicare un elenco di errori da condannare in blocco non era nuova (si era già avuta
per gli eretici John Wycliffe, Jan Hus e Matin Lutero ), e fu proposta già nel 1849
dall'arcivescovo di Perugia, Gioacchino Pecci, futuro papa Leone XIII. Un errore
politico o sociale origina necessariamente da un errore teologico, e pertanto la
condanna del liberalismo non poteva non partire dalla condanna di vecchie eresie,
così come si vedevano rinascere nel liberalismo e nel socialismo. Il Sillabo contiene
nove gruppi di proposizioni, ognuno con un titolo diverso. Ogni gruppo riporta la
citazione di un precedente documento pontificio in cui l'errore era già stato
condannato.
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Nel primo gruppo (sette proposizioni) sono condannati panteismo, naturalismo e
razionalismo assoluto. Nel secondo gruppo (sette proposizioni) si condanna il
razionalismo moderato e la confusione tra natura e ragione. Il terzo gruppo (quattro
proposizioni) condanna l'idea relativista dell'uguaglianza di tutte le religioni
(indifferentismo). Seguono poi la condanna nel gruppo V degli errori sull'autorità del
Papa, sulla Chiesa e sui suoi diritti, e nel gruppo VI, diciassette errori relativi alla
società civile. C’è quindi una sezione di nove errori sulla morale naturale e cristiana,
fra cui l'idea che “l'autorità non è altro che la somma del numero e delle forze
materiali” (errore LX) e l'idea che “il negare obbedienza, anzi il ribellarsi ai Principi
legittimi, è cosa logica” (errore LXIII). Seguono tredici errori a proposito del
matrimonio cristiano. C'è quindi una breve sezione di due soli errori relativi al diritto
del Papa ad essere sovrano temporale dello Stato Pontificio. Ci sono infine dieci
errori relativi al liberalismo. C’è anzitutto la condanna dell'ingerenza politica in
campo religioso (proposizione LXXVII: “In questa nostra età non conviene più che la
religione cattolica si ritenga come l'unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri
culti, quali che si vogliano”). C'è infine la proposizione conclusiva in cui si condanna
l'influenza del contesto culturale in campo religioso (proposizione LXXX: “Il
Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col
liberalismo e con la moderna civiltà”).
I pubblicisti anticlericali mettevano in luce gli stretti rapporti che si erano avuti fra
Pio IX e la Compagnia di Gesù, nella stesura del Sillabo, omettendo tuttavia di
ricordare che, proprio in seguito alle violente polemiche anticlericali, il Papa decise
di rinunciare alla Bolla, così come era stata configurata dai teologi, per ripiegare su
una soluzione più moderata: la pubblicazione di un elenco di errori, di un’ antologia
da ricavare esclusivamente dalle sue precedenti encicliche, allocuzioni e lettere
apostoliche. Non vi era alcun bisogno, pensò il Papa, di arrivare a un vero e proprio
atto dogmatico per inquadrare e ribadire quelle violazioni o deformazioni dei principi
cristiani che egli aveva costantemente additato nella sua attività pastorale: bastava
riassumerle e coordinarle, in forma di ammonimento e di lezione ai fedeli, e riunirle a
fini esclusivamente pedagogici e didattici. Quale che fosse il valore del Sillabo,
dogmatico o meno, è certo che la stragrande maggioranza della gerarchia cattolica lo
accolse come “una pronuncia formale, ufficiale, definitiva e infallibile della Santa
Sede su materie attinenti alla fede, ai diritti della Chiesa, all’ unità dei credenti, alla
coscienza e alla salvezza eterna, e tali quindi da imporre l’obbedienza e l’osservanza
dei Cattolici tutti senza restrizioni di mente e di cuore”. Per dirla con Sant’Agostino:
“Roma locuta est, causa finita est”. Ma l’ “errore” continuava a diffondersi.
La pubblicazione del Sillabo fu proibita in Francia e successivamente in Italia,
incontrando la viva protesta dei Vescovi, che, ‘una voce’, condannarono il nuovo
modello di Stato; mirabilmente il Vescovo di Treviso così si espresse: “Pio IX mostrò
al secolo XIX, agli individui e alle Nazioni, ai popoli e ai Re, la norma infallibile
della Chiesa, secondo la quale debbono essere giudicati i procedimenti dei secoli
passati, del secolo presente e dell’ avvenire”. L’arcivescovo di Vienna, il cardinal
Rauscher, diede alla sua pastorale il significativo titolo: “Der Staat ohne Gott” (Lo
Stato senza Dio).
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La situazione in Italia si fece ancora più complessa con la presa di Roma, che non fu
accettata dal Papa. Si è di fronte alla grave e insanabile rottura fra i due poteri, che
sarà sugellata dal “Non expedit” del 1874, che vietava ai cattolici italiani di
partecipare alla vita politica. La formula era già penetrata nella coscienza di molti
cattolici dopo la presa di Roma ed aveva trovato seguaci soprattutto nell’ Azione
Cattolica, ma solo a livello di opinione personale. Quando si ebbe la prima pronunzia
ufficiale, si ebbero vive discussioni fra i cattolici, non sembrando la formula un
divieto assoluto, finché nel 1877 intervenne il Papa, condannando il procedere di
coloro che spingevano i cattolici alle urne. L’ intervento del Santo Padre troncò l'
attività della corrente interventista. Tale situazione perdurò fino al 1905, quando Pio
X con l’ enciclica “Il fermo proposito”, pur non revocando il “non expedit”, consentì,
a mo’ di dispensa e in circostanze speciali, la partecipazione alla vita politica per i
cattolici, quando essa fosse riconosciuta dai Vescovi come di vitale importanza per la
anime e per i supremi interessi della Chiesa. Papa Sarto spianò così la strada al suo
successore Benedetto XV, che, consentendo a tutti i cattolici di entrare nel nuovo
Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, revocò implicitamente il “Non expedit”.
A suggello della lotta tra Santa Romana Chiesa e la Società Moderna si deve citare la
lucida analisi di uno storico ufficiale, il cardinale Hergenrother: “Nella lotta
gigantesca fra autorità e libertà, fra Dio e il mondo, la Chiesa ebbe a soffrire
soprattutto per l’acciecamento di quelli fra i suoi figli, che sotto il nome di cattolici
liberali cercavano di tenere una via di conciliazione, accordando i principi della
Chiesa con quelli dei suoi nemici”. Si vuole concludere con una citazione del
professor Arturo Carlo Jemolo, insigne giurista e professore di diritto ecclesiastico:
“Il periodo di Pio IX fu pure quello dell'anticlericalismo più virulento; peraltro pure
quelli che inveivano contro il papa del Sillabo, contro il tenace difensore del potere
temporale...non poterono mai colpire l'uomo né il sacerdote. Gioberti e Farini
riconobbero in Pio IX il sacerdote pio, il credente senza ombra di dubbio, l'uomo
superiore ad ogni sospetto. Non papa politico... C'era in lui l'idea del dovere, dei
giuramenti prestati, la distinzione tra il compito dell'uomo che in date posizioni deve
agire in un determinato modo e la parte di Dio, che può confondere ogni previsione
umana e far si che anche i più santi desideri non siano esauditi. Giudicò tutto dal
punto di vista religioso. La popolarità di Pio IX nel mondo cattolico fu immensa. Ben
si disse che iniziò con Pio IX il culto personale verso il pontefice. Pur pastore di tutta
la cattolicità, nel fondo del cuore si sentiva anzitutto italiano che non avrebbe mai
potuto vivere in un esilio transalpino. In lui era l'umanità dell'uomo, quel suo
riconosciuto candore, quella sua bonarietà che impediva anche alla più gran parte dei
liberali, agli stessi repubblicani di odiarlo veramente; potevano detestare la funzione,
l'abito, ma avvertivano il calore umano, la profonda bontà dell'uomo; essi, per lo più
non credenti, avvertivano con uno stupore non scevro di rispetto, il prodigio di quegli
che accetta, nonché senza rancore, senza neppure una profonda tristezza, la volontà di
Dio, se pure suoni sconfitta delle tesi che egli ha sempre sostenuto, seppure ad occhi
umani possa apparire una propria umiliazione”.
Marco Bellucci e Fabrizio Petrillo
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