3_1770-1830 RIVOLUZIONI E RESTAURAZIONE / SCHEDA 1
1. L’invenzione della politica moderna: tre rivoluzioni a confronto
Le rivoluzioni inglesi del Seicento sono state un laboratorio politico soprattutto perché hanno segnato la nascita dello
stato liberale: separazione dei poteri, ruolo del Parlamento, limitazione dei poteri del sovrano, riconoscimento dei diritti
civili (Habeas Corpus Act).
La guerra di indipendenza americana, oltre alla codificazione dei diritti naturali, ha dato vita alla prima Costituzione
moderna.
Tuttavia, è stata la Rivoluzione francese ad inventare le forme ed il linguaggio della politica, quali ancora vengono
praticati oggi.
La popolazione si fece sentire e scese in piazza: dai cahiers de doleances (la prima grande inchiesta di massa) , alla rivolta
contadina dell’estate de1 1789, alla presa della Bastiglia, al corteo di donne che "scortò" il re da Versailles a Parigi,
all’assalto del palazzo reale da parte dei sanculotti di Parigi nell'agosto de1 1792. La rivolta contadina " convinse"
l’Assemblea costituente ad abolire i diritti feudali; l’azione dei sanculotti aprì la strada alla Repubblica ed alla Convenzione
eletta a suffragio universale (maschile). Mentre nel passato le rivolte popolari quasi sempre fallirono, in questo caso esse
trovarono uno "sbocco politico".
Nacque un'opinione pubblica: si diffusero giornali ed opuscoli (famoso quello scritto da Siéyès); le adesioni ai club sono la
testimonianza di un alto livello di partecipazione politica (i club giacobini arrivarono a 150000 iscritti e a 400 società
affiliate).
Nacquero nuovi organismi: la Guardia nazionale, la Comune insurrezionale di Parigi, fino al nuovo esercito, la "nazione in
armi". La nazione divenne il nuovo soggetto politico ed il nuovo simbolo.
Fu soprattutto sul piano dei simboli e dei valori che la Rivoluzione francese elaborò un linguaggio nuovo: l'albero della
libertà, la coccarda tricolore, la festa nazionale, fino al Nuovo Catechismo imperiale (diffuso a Milano nel 1806),
divennero i simboli di una liturgia laica. Se i soldati di Cromwell andavano in battaglia cantando i Salmi della Bibbia, i
soldati francesi cantavano la Marsigliese.
L'adozione di un nuovo calendario (1793) è forse il segno più eloquente della volontà di cambiare anche la percezione del
tempo e l'immaginario collettivo. Il culto dei santi venne sostituito dal culto dei martiri della Rivoluzione (come Marat),
così come, dopo la prima guerra mondiale, si svilupperà il culto dei caduti ed in Unione Sovietica quello degli eroi del
lavoro. Le ideologie divennero un ingrediente fondamentale nel confronto politico e nella identità dei partiti. Liberalismo
e democrazia (ma anche la prima espressione di una ideologia socialista con Babeuf) costituiranno le prime due grandi
ideologie della Francia rivoluzionaria, destinate a diventare punto di riferimento di opposti schieramenti nel corso
dell'Ottocento.
[F. Feltri, I giorni e le idee, Categorie per capire la storia, SEI, Torino 2003]
2. La rivoluzione atlantica
A giudizio di Godechot (La Grande Nazione, 1956) la Rivoluzione francese non è un fatto isolato, come lo videro gli storici
dell'Ottocento, ma l'aspetto saliente di una più vasta rivoluzione, che investì i paesi dell’area europeo-americana o, come
suol dirsi, atlantica, tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX. «Non già una serie di rivoluzioni isolate e scarsamente
collegate tra loro, ma una grande rivoluzione occidentale o atlantica nella quale si possono distinguere una "fase
americana" e una "fase francese"». «Non si può non restar colpiti», osserva Godechot, «dalla successione rapida delle
rivoluzioni tra il 1763 e il 1848». Quali furono le ragioni che determinarono queste rivoluzioni politiche «a catena», destinate
a provocare «una profonda rivoluzione economica, industriale, agricola, sociale»? Lo storico indica varie componenti: le
nuove idee bandite dagli illuministi, lo squilibrio delle strutture sociali, la congiuntura economica (rialzo dei prezzi,
diminuzione del potere di acquisto per l'operaio, l'artigiano e il lavoratore agricolo a giornata, crisi degli
approvvigionamenti in conseguenza di cattivi raccolti), la continua crescita della popolazione (rivoluzione demografica). Nei
paesi ad est dell’Elba (Russia, Prussia), ma anche in Austria e in Spagna, i sovrani illuminati, sostenuti da quella parte
dell'aristocrazia che ha letto i «philosophes», si sforzarono di risolvere i problemi posti dalla rivoluzione demografica e dalla
congiuntura economica procedendo sulla via delle riforme; ma ciò non si verificò nell’Europa occidentale e in America, ove le
classi aristocratiche e quelle borghesi erano ormai orientate verso il liberalismo politico, cioè intendevano avere parte nel
governo dei rispettivi paesi. Su questa via, ossia quella della Rivoluzione, la borghesia trovò alleate le classi popolari, che
fornirono «la massa d 'urto che le era indispensabile per condurre a buon fine la Rivoluzione stessa» .
La tesi della «rivoluzione dell'Occidente» o della «rivoluzione atlantica», per usare l'espressione dello storico americano R
Palmer, ha sollevato obbiezioni e riserve. Soprattutto C. Lefebvre e, dopo di lui, A. Soboul hanno posto in evidenza il pericolo
1
di «stemperare» in un contesto rivoluzionario di così ampia portata le caratteristiche peculiari della Rivoluzione francese, di
allinearla ad altri moti che conservano caratteri regionali e si muovono in un ambito politico diverso, sostanzialmente
moderato.
Soltanto per una cattiva abitudine si è comunemente parlato sempre di una «Rivoluzione francese». Questa
espressione fa credere che alla fine del secolo XVIII si sia sviluppata in Francia una rivoluzione assolutamente isolata e senza
alcun rapporto con gli avvenimenti che si produssero nel resto del mondo nella medesima epoca. Tale era la visione della
maggior parte degli storici della Rivoluzione francese sino a poco tempo fa; tutt'al più, essi concedevano una certa influenza
sulla Rivoluzione francese alla rivoluzione americana, anch’essa concepita come un fenomeno isolato: a questa maniera di
vedere si conformarono tutti gli storici del XIX secolo e specialmente i più celebri tra loro fra cui Thiers, Mignet, Michelet,
Tocqueville; né diversamente si può dire per quelli che tra gli storici sono assai spesso classificati come «scientifici» e che
furono i nostri maestri: Aulard e Mathiez. «La Rivoluzione francese - scrive quest'ultimo - sorprese per la sua irresistibile
subitaneità... Scoppiò dal divorzio sempre più profondo di giorno in giorno tra la realtà e le leggi, tra le istituzioni e i
costumi, tra la lettera e lo spirito...». Ma Albert Mathiez non si domanda se questo divorzio fosse particolare alla Francia o
se lo si ritrova all’origine delle altre rivoluzioni che si moltiplicano alla fine del secolo XVIII e all'inizio del XIX. In verità fu
fuori della Francia che gli storici, indagando la propria storia nazionale, riconobbero alle rivoluzioni dei loro paesi delle
cause, alcune particolari ed altre analoghe a quelle della Rivoluzione francese. I primi a sviluppare queste idee sembra siano
stati gli storici italiani. Nel secolo scorso ed agli inizi del secolo presente, la maggior parte degli storici del Risorgimento
ricollegavano le origini di questo moto nazionale alla Rivoluzione francese, o almeno alla relativa unificazione dell'Italia
sotto lo scettro di Napoleone. [...]
Gli storici americani, analizzando le cause della rivoluzione degli Stati Uniti e paragonandole alle cause della
Rivoluzione francese, hanno anch’essi concluso che alla fine del secolo XVIII e all'inizio del secolo XIX vi fu non già una serie
di rivoluzioni isolate e scarsamente collegate tra loro, ma una grande rivoluzione occidentale o atlantica nella quale si
possono distinguere una «fase americana» e una «fase francese». [...]
In Francia questo modo d'intendere la Rivoluzione si è fatto strada solo in questi ultimi anni con la nuova edizione
della Révolution française di Georges Lefebvre, pubblicata nel 1951, nella quale l'autore consacra un importante capitolo
alla situazione del mondo verso la fine del secolo XVIII e mostra come, almeno nell'emisfero occidentale, esistesse una
situazione o un «clima» rivoluzionario. Del resto non si può non restar colpiti dalla successione rapida delle rivoluzioni tra
il 1763 e il 1848. [...]
Queste rivoluzioni politiche provocarono una profonda rivoluzione economica, industriale, agricola, sociale. A
parte il caso assolutamente particolare della Polonia, si può constatare che queste rivoluzioni si produssero in America e in
Europa occidentale, cioè nei paesi rivieraschi dell’Atlantico. Quale meraviglia, se si considera che alla fine del secolo XVIII il
mare era molto più «permeabile» della terra, che mercanzie ed idee vi camminavano più rapidamente? L' oro o il grano
varcavano più rapidamente l'oceano che non i continenti e creavano da una parte e dall'altra dell'Atlantico condizioni economiche assai simili; le lettere e le stampe passavano cosi molto rapidamente da un continente all'altro: la Dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti fu conosciuta a Parigi prima che in Georgia. Vi fu dunque una grande rivoluzione atlantica
composta di parecchie rivoluzioni «a catena».
[Godechot, La grande nazione]
3. Una rivoluzione senza ideologia
La storiografia ha sempre indicato uno stretto rapporto tra la rivoluzione americana e le rivoluzioni europee del
Sette e dell’Ottocento, facendone risalire le motivazioni alle idee politiche e sociali dell’Illuminismo. Recenti studiosi
statunitensi hanno tuttavia sottoposto a revisione tutta la questione giungendo alla conclusione che la rivoluzione dei coloni
inglesi d’America ha una propria originalità che la distingue dalle rivoluzioni europee. A loro giudizio c’è una profonda
differenza tra la rivoluzione americana e quella francese dell"89. La prima è, a loro dire, una rivoluzione di tipo legalistico,
che muove dai principi stessi del costituzionalismo inglese, dai diritti e dai privilegi consacrati sulle Carte inglesi («niente
tassazione senza rappresentanza»). Una rivoluzione «conservatrice», dunque, come l'ha definita un altro recente studioso, il
Brown («Questa lotta, per conservare e non per distruggere, ha fatto della nostra rivoluzione qualcosa di unico nella
storia»), laddove quella francese, che si rispecchia nella formula «libertà, uguaglianza, fratellanza», stabilisce non già quali
debbano essere i diritti e i doveri del cittadino francese, ma quali i diritti e i doveri dell'umanità in generale; e perciò tende
piuttosto all'umana rigenerazione che a riformare la Francia. Di fatto, come rileva Boorstin, la rivoluzione americana non
produsse un solo trattato importante di teoria politica e lo stesso Jefferson, che pure è considerato il filosofo che ha guidato
la rivoluzione, non nutrì un grande interesse per la speculazione politico-sociale.
Il giudizio di Boorstin ha pesato fortemente sulla storiografia americana, anche se altri storici non meno autorevoli
2
si discostano dalla sua interpretazione, rivendicando l'influsso determinante del pensiero illuministico e reinserendo con ciò
la rivoluzione americana nel circolo vitale della storia europea. «Gli Americani», scrive Bailyn, «erano profondamente
consapevoli di essere degli innovatori, di portare avanti l'umanità. Essi erano convinti di avere avuto successo nel loro
sforzo di modificare la situazione, per farla corrispondere agli ideali illuministici, mediante i quali essi avevano iniziato una
nuova era della storia umana. Ed erano confortati in questo dall'opinione di aggiornati pensatori d’Europa».
Noi Americani siamo abituati a pensare alla Rivoluzione come al periodo aureo del pensiero politico americano.
Può quindi essere uno choc accorgersi che in questo periodo non si produsse in America un solo trattato importante di
teoria politica. Uomini come Franklin e Jefferson dagli interessi universali, attivi e straordinariamente felici nelle loro
realizzazioni politiche, non produssero molto come teorici. [...]
Abbiamo tardato molto, prima di vedere alcune delle più evidenti e importanti caratteristiche della nostra
Rivoluzione, perché autorevoli studiosi dell'argomento hanno costruito la loro storia secondo i moduli della Rivoluzione
francese del 1789. Alcuni dei nostri migliori storici hanno cercato di togliere alla nostra Rivoluzione il suo colore locale,
esasperando ciò che aveva in comune con quel fenomeno tipicamente europeo [...]
Lo studioso, che avvicina per la prima volta la letteratura sulla nostra Rivoluzione, può essere probabilmente
deluso dal tono grigio e legalistico di ciò che deve leggere. Anche se la Rivoluzione americana si verificò in un momento in
cui in tutta l'Europa non mancavano la speculazione filosofica e importanti trattati, essa non fu né particolarmente ricca né
particolarmente originale nel suo apparato intellettuale. [...]
I due primi paragrafi della Dichiarazione d'Indipendenza si sono ormai logorati, ma pochi si curano di leggere i
restanti trenta. La gente ha affermato subito «la vita, la libertà e la ricerca della felicità», dimenticando che era per due
terzi un prestito e solo una parte del preambolo. Noi abbiamo ripetuto che «tutti gli uomini sono stati creati uguali», senza
curarci di analizzarne il significato e senza renderci conto che, probabilmente, per nessuno degli uomini che l'affermavano
significava ciò che a noi piacerebbe. [...]
Il tipico slogan della Rivoluzione - se davvero fu uno slogan - era: «niente tassazione senza rappresentanza».
Queste parole sono […] un po' troppo legalistiche per infiammare il cuore del popolo. Ma se le confrontiamo con il
principio «libertà, uguaglianza, fratellanza» della Rivoluzione francese e con quello «pace, pane e terra» della Rivoluzione
russa, possiamo avere una chiave, per interpretare lo spirito della Rivoluzione americana. Io sono convinto che il principale
oggetto in contestazione nella Rivoluzione americana fosse la natura della costituzione dell'Impero inglese, cioè qualcosa
di squisitamente giuridico. [...]
La nostra Dichiarazione d’indipendenza è essenzialmente un elenco di specifiche pretese storiche. Essa non è
diretta alla rigenerazione, ma solo alle «opinioni» dell'umanità. E strettamente legata al tempo e al luogo; lo speciale
attaccamento ai «fratelli inglesi» è apertamente ammesso; essa si occupa dei doveri di un determinato re e di alcuni dei
suoi sudditi.
Anche se prendessimo soltanto i due primi paragrafi o preambolo, che costituiscono la parte più generale del
documento, e li considerassimo separatamente, ci accorgeremmo facilmente che suonano come una riedizione ridotta
della teoria whig della Rivoluzione inglese del 1688. […] Alcuni storici, infatti (Guizot, per esempio), arrivarono a dire che la
Rivoluzione inglese trionfò due volte, una volta in Inghilterra, una volta in America.
I rimanenti tre quarti - i tre quarti ignorati - del documento sono tecnici e legalistici. Questo, naturalmente, è il
principale motivo per cui non si leggono. Perché si tratta di un atto di accusa contro il Re, redatto nelle forme del
costituzionalismo inglese. «La paziente sopportazione di queste Colonie» è il punto di partenza. Esso tratta di diritti e di
privilegi consacrati dalle Carte inglesi. Riferisce accuratamente che le forme tradizionali e consuetudinarie di protesta,
come le «reiterate petizioni», erano già state tentate.
Più si rilegge la Dichiarazione nel contesto, più essa si rivela un documento di relazioni giuridiche con l'Impero
piuttosto che un esempio di elevata filosofia politica. […]. La maggior parte del documento è una enumerazione degli errori,
degli eccessi, dei reati di Giorgio III in violazione della Costituzione e delle leggi della Gran Bretagna. Tutte queste accuse
hanno senso soltanto se si presuppone la struttura del costituzionalismo inglese. [...] [Boorstin, The genius of American
politics]
4. La Rivoluzione americana e le differenze rispetto alla Rivoluzione francese
La differenza essenziale dei rivolgimenti costituzionali in America alla fine del XVIII secolo sta nella circostanza che
colà i diritti umani e la libertà erano una realtà presente e operante in una società che non assomigliava più all'Antico
regime. Il compito era semplicemente quello di organizzare una struttura politica che non potesse attentare a tali diritti e a
quella libertà. Staccandosi dalla madre-patria - l'Inghilterra che con la legislazione opprimeva i diritti delle tredici colonie
della «Nuova Inghilterra» - l'America operava una rivoluzione politica, non una rivoluzione sociale, come era quella
3
francese.
In Francia, come si è visto, le necessità della rivoluzione sociale portavano all'onnipotenza del legislatore. In America, al
contrario, trattandosi di difendere diritti già esistenti di una società che voleva proteggere la sua libertà dagli arbitri politici,
la legge fin dall'inizio fu considerata limitata nella sua potenza. I diritti, considerati un patrimonio «naturale» dei cittadini,
valevano più della legge. Non alla legge, quindi, ma ai diritti si addiceva la sovranità. Da questo punto di vista, la vera
rivoluzione liberale con le sue esigenze di garanzia contro gli abusi del potere, è quella americana. La Rivoluzione francese,
invece, apriva la strada al potere illimitato del legislatore.
Il fondamento di questa concezione sta nella teoria della delegazione del potere. A differenza della Francia, dove si parlava
di poteri rappresentativi, in America si parla di poteri delegati. Secondo la famosa concezione espressa dal Federalist, lo
Stato si basa sui diritti naturali dei cittadini e i cittadini sovrani delegano ai propri rappresentanti in Parlamento (il
Congresso) i poteri necessari per la protezione di tali loro diritti. La Costituzione è appunto l'atto solenne col quale avviene
questa delega. La conseguenza è che, se i delegati (cioè i rappresentanti al Congresso) esercitano i loro poteri contro i diritti
dei cittadini, cioè fuori della delega ricevuta, i loro atti sono nulli, cioè non hanno alcun valore, anche se questi atti sono
leggi. Così si esprime il Federalist (n. 78) :
«Non esiste affermazione alcuna che discenda da più ovvi presupposti di quella che sostiene che ogni deliberazione di
un'autorità delegata che sia contraria allo spirito dell'atto di delega in virtù del quale essa viene esercitata, è nulla ( void).
Pertanto, nessuna legge contraria alla costituzione può essere valida. Il negarlo varrebbe ad affermare che colui che è
delegato ha funzioni di maggiore importanza di chi lo delega; che il servitore è al di sopra del padrone; che i rappresentanti
del popolo sono superiori al popolo stesso; che infine coloro che deliberano in virtù di determinati poteri non solo possono
fare ciò che non è autorizzato da questi poteri ma, addirittura, ciò che sarebbe a essi proibito» .
In questo modo, veniva realizzato un vero e proprio rovesciamento copernicano nel rapporto tra diritti e legge. Secondo le
concezioni politiche precedenti, nessun diritto dei singoli poteva dirsi esistente se non era proclamato dalla legge: i diritti
dipendevano dalla legge. In America si afferma il contrario: che i diritti esistono prima della legge, sono un patrimonio
proprio di ciascun individuo e la validità della legge dipende dal rispetto dei diritti. Naturalmente, come tutti sanno, queste
affermazioni valevano originariamente solo per gli uomini liberi. In America esisteva una stridente e radicale contraddizione
che gettava un'ombra pesante su queste concezioni dei diritti: la schiavitù. Essa poté però essere superata, all'epoca della
guerra civile, proprio appellandosi alla grande forza morale degli anzidetti principi contenuti nella Costituzione.
Nel descritto rovesciamento dei rapporti tra la legge e i diritti sta la premessa di una grande realizzazione costituzionale: il
controllo delle leggi da parte dei giudici. Tale controllo, non previsto espressamente dalla Costituzione americana, vale per
l'appunto per eliminare le leggi che violano i diritti e, corrispondendo pienamente alle concezioni costituzionali americane,
poté svilupparsi spontaneamente, a partire da una celebre sentenza del 1803 della Corte suprema federale, presieduta
dall'altrettanto famoso giudice Marshall. È la sentenza pronunciata nella causa Madison contro Marbury, nella quale si
afferma che se i giudici dovessero applicare le leggi incostituzionali tradirebbero il loro dovere di fedeltà alla Costituzione,
che invece vale di più del dovere di fedeltà alla legge. Da questa prima decisione, si è sviluppato negli Stati Uniti e poi nel
mondo intero - sia pure con modalità talora differenti - il controllo di costituzionalità sulle leggi.
Il legislatore è così sottoposto al diritto contenuto nella Costituzione e perde il suo carattere sovrano. Sovrana, semmai,
dovrà dirsi la Costituzione, o l'assemblea dei rappresentanti costituenti che, all'inizio della vita costituzionale, l'ha
approvata. Rispetto allo Stato di diritto di origine francese, la garanzia è molto più forte, perché vale a contenere anche gli
abusi che possono provenire dalle stesse assemblee legislative. L’intera organizzazione dello Stato è così assoggettata al
diritto. Questa è la situazione che si determinò in America e che si denomina costituzionalismo. Il costituzionalismo è
dunque una realizzazione più perfetta dello Stato di diritto.
[ G. Zagrebelsky, Questa Repubblica, Le Monnier]
4
Scarica

Rivoluzioni a confronto: letture (Scheda 1)