ὅρμος ISSN 2036-587X n.s. 2-2010 Ricerche di storia antica Truppe e comandanti nel mondo antico Atti delle giornate di studio a cura di Daniela Bonanno Rosalia Marino Daniela Motta Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Beni Culturali Sezione di Storia Antica n.s. 2-2010 |1 Indice Truppe e comandanti nel mondo antico Atti del Convegno di Palermo, 16-17 novembre 2009 Rosalia Marino, Premessa 3 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà 5 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive 17 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio 38 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica 55 Roberto Sammartano, La formazione dell’esercito di Dionisio I. Tra prassi, ideologia e propaganda 67 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli 79 Antonino Pinzone, L’interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l’Africano 91 Jonathan R.W. Prag, Truppe e comandanti: auxilia externa in età repubblicana 101 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche 114 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale 128 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno 138 Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania 157 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana 164 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe: stereotipi culturali e ricerca di nuovi equilibri in Ammiano Marcellino 175 Riassunti 189 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X n.s. 2-2010 |2 Contents Troops and commanders in the ancient world Proceedings of the Conference Palermo, 16-17 novembre 2009 Rosalia Marino, Introduction 3 Giovanna Bruno Sunseri, The battle exhortations in ancient historiography. Rhetorical invention or fact 5 Francesca Mattaliano, The battle exhortation in Greek historiography: Allocution practice and composition ways 17 Carmela Raccuia, Troops and commanders in Greek Sicily: cases study 38 Marco Vinci, Recruitment of picked troops in Syracuse during the Classical Age 55 Roberto Sammartano, The making of Dionysiusʼ army: Between praxis, ideology and propaganda 67 Luisa Prandi, Soldiers of Alexander the Great. Some remarks about their debts and sons 79 Antonino Pinzone, The interaction milites-imperator during the Hispanic expedition of Scipio Africanus 91 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic 101 Daniela Motta, Honorary inscriptions of commanders: the city of Ilion during the campaign against the pirates and the Mithridatic wars 114 Rosalia Marino, Policy and psycho-drama in military rhetoric in the triumviral age 128 Davide Salvo, Germanicus and Rhine mutiny 138 Giuseppe Zecchini, The military factor in Roman failure to conquer Germany 157 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. Dacians, Decebalus and Trajan’s Column 164 Marina Usala, The relationship between Julian and the troops: cultural stereotypes and new balances in Ammianus Marcellinus 175 Abstracts 189 on line dal 15 giugno 2011 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Premessa Questo numero ospita gli Atti delle Giornate di Studio su “Truppe e comandanti nel mondo antico. Tra politica società cultura” organizzate nell’ambito delle attività del dottorato di ricerca in Storia della Sicilia e del Mediterraneo antico (Palermo, 16-17 Novembre 2009). Il tema, inserito in un ampio quadro prospettico, si presenta ancora come un fertile e vitale campo esplorativo sulla funzione catalizzatrice di una trave portante dei meccanismi statali nel mondo antico. La forza propulsiva che gli eserciti liberarono sul territorio si riverberava, infatti, oltre che sugli equilibri politici, sugli assetti socio-economici, in un intreccio inestricabile di valori che interferivano nella sfera dei codici sociali e morali. I fattori di dinamismo che emergono dai contributi degli studiosi che hanno animato il dibattito, pur lambendo diversi aspetti della fenomenologia della guerra, lungi dall’offrire una storia militare, aprono ad una riflessione che dagli stadi precoci dell’evoluzione degli eserciti conduce sino al polimorfismo della cultura, laica e religiosa, attraverso processi di interazione a corrente alternata. La tradizione antica, inoltrandosi consapevolmente nel territorio di molte domande qual è quello dominato dalla guerra, ha affinato gli strumenti euristici e, grazie al medium efficace della retorica, è riuscita a ricostruire itinerari ideologici, scenari politici, sfondi culturali e sociali, processi economici. In tale cornice si inseriscono gli studi [presenti in questo volume] che, nella emersione di strategie storiografiche, offrono nuovi spunti di riflessione, per esempio, sui contesti nei quali parenesi e paraclesi si fanno oggetto di storia lacerando il silenzio complice su vicende centrali che coinvolsero, quando non travolsero, nel mondo greco e romano, vecchi assetti socio-politici (G. Bruno Sunseri, F. Mattaliano, R. Marino) o sul problema socio-economico del pagamento dei debiti che Alessandro Magno decise per i soldati macedoni e delle provvidenze per i figli di quelli nati da donne asiatiche con implicazioni politico-strategiche dato che l’iniziativa era funzionale a istanze militari di controllo duraturo sui territori asiatici (L. Prandi). Del grande laboratorio politico che in Sicilia coinvolse l’organizzazione militare percepita come forza di supporto a svolte istituzionali e ad aggregazioni surrettizie alla ricerca di equilibri sempre nuovi, spazi di partecipazione politica vennero “fisicamente” condivisi – tra la nascita di apoikiai e la creazione di ipparchi e di combattenti selezionati a Siracusa tra il 461 e il 397 a.C. – con truppe mercenarie sicule che attiravano gli strali polemici di una storiografia greca autoreferenziale sempre disposta ad evidenziare polemologie d’avanguardia nell’isola (C. Raccuia, M.Vinci, R. Sammartano). La consapevolezza di un impero territoriale multipolare da controllare e ampliare si tradusse abbastanza presto, per la classe dirigente romana, nella ricerca di formule organizzative polifunzionali, proiettate verso il coinvolgimento, a ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Rosalia Marino, Premessa |4 diverso titolo, di soggetti estranei al sistema. I criteri di attrazione nell’orbita romana, ispirati a Realpolitik, venivano caricati di ideali ecumenici per camuffare istanze di consenso di cui gli eserciti divenivano vettori privilegiati, nobilitando – così ritengo – le azioni dei comandanti-uomini politici. Lungo questa traiettoria si collocano le indagini relative: all’interazione milites-imperator che, nel segno del massimo impegno, agevolò la vittoria di Scipione, acclamato imperator a Cartagena (A. Pinzone); alla nomina di Romani al vertice della gerarchia negli eserciti ausiliari oltre che all’investitura di comandanti “indigeni” voluta dai Romani attraverso il sistema clientelare e la promozione nelle strutture civiche locali (J. Prag); agli onori di dediche a comandanti romani da parte della città libera di Ilio (80-62 a.C.) a conferma della fedeltà a Roma che, generalmente, ricambiava con aiuti militari secondo i meccanismi dell’organizzazione provinciale – onori che nell’epigrafe dedicata a Pompeo preludono, nella menzione dei neoi fra i dedicanti, alle forme di omaggio nei confronti degli imperatori romani, quale recupero del culto dei sovrani in epoca ellenistica (D. Motta). Una pagina di storia imperiale scritta dalle legioni presenti sul territorio della Germania (magna) sino all’Elba lega i destini di quella provincia, la cui creazione Augusto datava nell’8/7 a.C., alle drammatiche vicende che misero fuori gioco Germanico e alle insurrezioni dell’esercito renano (nel 69 d.C. e sotto i Flavi), che allertarono gli imperatori sui rischi che la provincia prefigurava per la stabilità del loro potere (G. Zecchini). Collocata in un panorama cronologicamente più ristretto, la rivolta delle legioni del Reno contro Germanico delinea, nel secondo contributo sul tema, i contorni di conflitti di potere – la domus imperiale, la Curia, il popolo – che evidenziano nella sostanza un salto di qualità del ruolo dei militari sul piano dei condizionamenti della politica e dell’accresciuto potere contrattuale. Proprio in virtù della carica militare di Germanico, Agrippina pretese di assumere una funzione centrale nel solco tracciato dalla madre e dalla sorella (D. Salvo). La rappresentazione iconografica delle imprese di Traiano nella famosa colonna sembra riscattare la dignità dei Daci di Decebalo, sottraendo formule e schemi «alla logica degli stereotipi costantemente associati alla barbarie» nelle iconografie ufficiali dello stato romano (A. Mandruzzato), anche se forse non si può escludere che l’intento dell’artista sia stato quello di nobilitare gli avversari per esaltare meglio la grandezza della vittoria romana. La percezione di una svolta culturale, che si esprime nella dialettica tra conservazione e innovazione, attraversa, nelle Res Gestae di Ammiano, i discorsi di Giuliano alle truppe. Lo strumento della retorica ci mette al corrente delle oscillazioni tra le aperture alle moderne istanze sociali e valoriali e la tensione verso l’ideale della aeternitas di Roma che il sovrano doveva essere in grado di realizzare, così come teorizzato nei circoli aristocratici (M. Usala). Palermo, maggio 2011 Rosalia Marino on line dal 15 giugno 2011 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 3-4 GIOVANNA BRUNO SUNSERI Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà Nell’introduzione al volume pubblicato nel 2004 sulla guerra dei Greci, Hans van Wees1 rileva giustamente come tattica e strategia, armi e corazze e i minimi particolari delle battaglie e delle campagne, sino a qualche decennio fa, hanno mantenuto la loro posizione tradizionale di interessi dominanti degli studiosi della guerra dei Greci. Il punto di vista di costoro appare, per certi versi, distante dalla realtà che ritraggono, come «se fossero sospesi in una mongolfiera»,2 al di sopra del massacro che avviene sul campo, con un atteggiamento freddo, privo di partecipazione affettiva nei riguardi delle truppe, dei singoli soldati disperati, veri protagonisti della guerra. Poco spazio è dedicato, in effetti, nelle opere di questi autori, al quadro più ampio che spazia dalle cause e dagli obiettivi della guerra alla relazione fra guerra, società e Stato. Tale tendenza, «buona solo a soddisfare le pazzie intellettuali di un colonnello a riposo» si è fortunatamente attenuata dagli anni ’70 del secolo scorso, ma, dico cose note, con la pubblicazione dell’opera di Yvon Garlan3 seguita da numerosi contributi che hanno volutamente ignorato logistica, strategia e tattica4 nella consapevolezza che una guerra è sempre uno scontro tra collettività organizzate. La guerra ha dunque una natura politica e pubblica, non è un fatto privato e individuale; essa può venir compresa in pieno soltanto quando è vista nel suo intero ed è correlata al proprio contesto sociale, economico e politico. Ernst Jünger, il grande scrittore della guerra, si chiedeva, parafrasando Marx: sarebbe possibile l’Iliade con il piombo e la polvere da sparo? È fuori da ogni discussione che il soldato, in quanto uomo che pratica il mestiere della guerra, la fa o si prepara a farla, cambia carattere, immagine, vocazione seguendo l’evoluzione della pubblica morale, dei valori che animano la società, dei regimi politici e dei 1 H. van Wees, Greek Warfare, London 2004, 15. La felice espressione è di V.D. Hanson, L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, trad. it. di D. Panzieri, Milano 2001, 45. 3 Y. Garlan, La guerre dans l’antiquité, Paris 1972. La citazione è dello stesso Garlan, ibid., 14. 4 Cfr. J. Keegan, The Face of Battle, NewYork 1976. 2 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà |6 progressi tecnici. Anche un diverso modo di schierare le truppe può rivoluzionare l’arte di far guerra.5 Non è un caso che al lacedemone Aristodemo che a Platea, come riferisce Erodoto,6 si slancia pieno di furore fuori dallo schieramento, alla maniera dell’eroe arcaico, pronto a morire più per liberarsi dell’onta subita (in quanto unico dei trecento era scampato alle Termopili) che per salvare la patria, i suoi stessi concittadini preferiscano Posidonio, figura emblematica della decadenza degli ideali eroici e dell’affermazione di nuovi valori etici: egli, infatti, rimasto al suo posto, si era battuto preoccupato più del bene collettivo che della gloria personale.7 Tucidide, da par suo, contrapponeva la silenziosa coesione degli opliti spartani alla rumorosa indisciplina di Macedoni e Illiri che, privi di un ordine tattico, si impegnavano in combattimenti in cui ognuno faceva quello che voleva senza ricevere ordini da chicchessia.8 Nello stesso mondo greco l’etica militare o meglio la concezione della guerra, poteva variare da città a città con tutte le conseguenze possibili per i protagonisti. Dalla diversità di approccio alla guerra degli Ateniesi e degli Spartani, Pericle traeva spunto nella famosa 0razione funebre per fare un confronto tra le due diverse società: «Anche nel modo in cui ci prepariamo alle pratiche di guerra siamo diversi dai nostri avversari … In realtà più che dei preparativi e degli stratagemmi, noi ci fidiamo del nostro coraggio, di cui diamo prova nell’azione».9 Pur ammettendo che il discorso di Pericle, tenuto conto della circostanza che l’ha prodotto, possa riflettere un’opposizione puramente retorica e quindi ingannevole,10 non è da trascurare, tuttavia, il fatto che anche la città di Sparta, con una sapiente ed efficace propaganda, tendeva a sottolineare la sua diversità con il costruire e diffondere una certa immagine di sé dal forte contenuto ideologico: un’idea militaresca della vita per cui l’unico valore è l’eroismo in guerra, l’unico scopo la vittoria ed estremo ideale della gioventù spartana morire in battaglia per 5 Vd. tra gli altri G. Brizzi, Guerre des Grecs, guerre des Romains: les différentes âmes du guerrier ancien, «Cahiers Glotz» X (1999), 39-41; Id., Il guerriero e il soldato: le linee del mutamento dall’età eroica alla rivoluzione militare dell’Occidente, in M. Sordi (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, CISA XXVIII, Milano 2002, 87-107 e bibliografia ivi cit.; Id., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna 2002, 14 ss.; A.M. Snodgrass, The hoplite reform and the history, «JHS» LXXXV (1965), 119-122; P. Ducrey, Guerre et guerriers dans la Grèce antique, Fribourg 1985. 6 Hdt. IX 71. 7 Per quanto concerne gli sviluppi ideologici vedi anche, Brizzi, Il guerriero e il soldato, cit., 87 ss. Per una analisi sociologica della guerra cfr. J. Freund, La guerre dans les sociétés modernes, in J. Poirier (Éd.), Histoire des moeurs, Paris 2002 (1991), III. 1, 382-458. 8 Thuk. IV 126, 5. Sulla resa di Sfacteria, vd. G. Bruno Sunseri, La resa di Sfacteria e l’identità spartana, «Thalassa» III (2006), 295-308. 9 Thuk. II 39, 1, 4. Cf. Xen. Lac. XIII 5; hell. VI 1, 5; Mem. III 5, 15, 21; III 12, 5; Arist. pol. 1338b 25-39. A proposito dell’astuzia spartana va ricordato quanto Euripide fa dire alla sua Andromaca: «Abitanti di Sparta odiosi a tutti gli uomini, signori dell’inganno, maestri di menzogne, orditori di trame malvage, intriganti, disonesti» (Androm. 445). 10 S. Hornblower, Warfare in Ancient Literature the Paradox of War, in Ph. Sabin - H. Van Wees M. Whitby (Eds.), The Cambridge History of Greek and Roman Warfare, I: Greece, The Hellenistic World and The Rise of Rome, Cambridge 2007, 22-53. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà |7 difendere la patria. La resa degli Spartani a Sfacteria, nell’agosto del 425, difatti fu per l’opinione pubblica greca un grande choc, come rileva con una certa enfasi lo stesso Tucidide: «Senza dubbio, tra gli avvenimenti verificatisi nel corso della guerra, questo fu per i Greci al di là di ogni logica previsione (παρὰ γνώμην), in quanto ritenevano che i Lacedemoni né per fame, né costretti da alcuna altra necessità avrebbero consegnato le armi, ma che piuttosto sarebbero morti senza cederle, continuando a battersi al limite delle possibilità».11 Gli stereotipi, è vero, sono duri a morire; ma al di là della retorica bellicosa e mortuaria che attraversa molta letteratura, è opportuno rilevare che la stessa realtà presentava sovente numerose discrasie o dissonanze rispetto al modello ideale non sempre facilmente riscontrabili nei meandri di una propaganda contraddittoria. Quali che fossero i veri o presunti motivi ideali con i quali i soldati venivano incitati alla battaglia dai loro generali, motivi manipolati e sublimati nell’affresco della Storia, della politica o delle ideologie che tutto inghiottono, impastando la materia prima nel prodotto finito e confezionato per le Rimembranze e per i posteri, non trascurabile appare il fatto che nel momento dello scontro esisteva effettivamente un codice di valori condiviso sia dal comandante che dai subalterni. Sebbene la guerra occupi grandissima parte delle opere storiche antiche, i riferimenti alla psicologia dei combattenti non sono numerosi. Tuttavia, pur dietro l’ideologia dominante, qualche fugace concessione alla realtà permette di intravedere drammi, dolori, scoraggiamento e paura accanto a “madri eroicamente inumane”12 e a soldati che non esitano a combattere sino alla fine, in difesa della patria. In particolare merita di essere ricordato, a questo riguardo, il racconto della partenza della flotta ateniese per la Sicilia. Con il consueto lucido realismo che contraddistingue le sue analisi, il laico Tucidide si sofferma a descrivere lo stato d’animo sia di quelli che si accingevano ad imbarcarsi sia dei parenti o amici che li accompagnavano alle navi. Uno stato d’animo ispirato a principi di Realpolitik, né guerrafondaio, né ispirato ad un bolso pacifismo, ma laicamente consapevole dei rischi cui si andava incontro con quella spedizione oltremare. «Gli abitanti della città – così riferisce lo storico – scortavano ciascuno i propri cari, chi i parenti, chi i figli, e procedevano pieni di speranza e, contemporaneamente, tra i lamenti: da un lato pensavano che avrebbero fatto nuove conquiste, ma dall’altro si chiedevano se mai li avrebbero rivisti, nel considerare quanto lontano dalla loro terra venivano inviati. E così in quel momento, quando ormai si apprestavano a separarsi e incombenti erano i pericoli, il pensiero degli spaventosi rischi in agguato si insinuava nelle loro menti, più vivido di quanto non fosse allorché avevano decretato la spedizione; pur tuttavia, tale era lo spettacolo di forza che si parava loro dinnanzi che di fronte all’enorme massa di ogni genere di armamenti 11 12 Thuk. IV 4, 1. L’espressione è di N. Loraux, Les Méres en deuil, Paris 1990, 23, 2. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà |8 che si offriva ai loro occhi si riaccendevano di nuovo di coraggio».13 Non va trascurato che sempre Tucidide aveva sottolineato il grande entusiasmo che la spedizione in Sicilia aveva suscitato tra il popolo e tra i soldati che pensavano di trarne grandi vantaggi di natura economica. Solo pochissimi fra gli Ateniesi non erano favorevoli, ma se ne stavano in silenzio per paura di apparire cattivi patrioti votando contro.14 Anche sul fronte opposto, a Sparta, la retorica patriottarda in taluni casi sembra affievolirsi e con essa il rapporto paradigmatico tra soldato spartano e coraggio portato alle estreme conseguenze. In seguito al disastro di Leuttra, Senofonte così annota: «Nell’apprendere la notizia gli efori provarono un dolore, a mio avviso inevitabile… Comunicarono quindi i nomi dei caduti ai parenti, con la raccomandazione alle donne di non abbandonarsi a scene di dolore e di sopportare in silenzio la sciagura».15 La sofferenza dei familiari in questo caso non è mistificata, viene soltanto scoraggiata la manifestazione pubblica del loro lutto.16 Siamo ben lontani dalla madre, che rivedendo il figlio tornato a casa dopo una battaglia dove erano caduti tutti i suoi compagni, gli rompe in testa una tegola e lo uccide perché non ha fatto il suo dovere di morire anche lui sul campo insieme agli altri17o di quell’altra che, avendo saputo che il figlio era caduto nel corso di un combattimento così esclama: «Che si pianga per i vigliacchi, io, ragazzo, ti seppellisco senza lacrime, tu che sei figlio mio e di Sparta».18 In tale contesto profondamente ideologizzato va inserito anche un aneddoto, riferito da Diodoro e relativo alla madre di Brasida.19 Costei, avendo appreso da alcuni emissari la notizia della vittoria di Brasida e della sua morte, domandò come si fosse comportato il figlio durante il combattimento. Quando quelli risposero che di tutti gli Spartani era stato il migliore, la donna, anteponendo l’elogio della patria alla gloriosa reputazione del figlio, aggiunse che suo figlio era agathos, ma che Sparta aveva figli migliori di lui. Da queste premesse vorrei partire per affrontate un aspetto della Greek way of war, quello relativo all’atteggiamento dei combattenti, generali e soldati quando si profilava lo spaventoso spettro dell’esercito nemico. La volontà del comandante e la sorprendente importanza dell’individuo, pur in una scena di massa come quella della lotta tra due eserciti avversari, furono ben evidenziati da Carl von Clausewitz ancora nel pieno delle guerre napoleoniche.20 13 Thuk. VI 30-31 (Trad. di A. Corcella, Torino 1996). Thuk. VI 24, 3-4. 15 Xen. hell. VI 4, 16. 16 Cfr. N. Bernard, À l’épreuve de la guerre. Guerre et societé dans le mond grec V e IV siècles avant notre ère, Paris 2000, 126 ss. 17 Plut. Apopht. Lac. 5. 18 Plut. Apopht. Lac. 2. 19 Diod. XII 74, 2-4. L’aneddoto viene riferito anche da Plutarco (Lyc. 25, 8-9; mor. 190b e 240c). 20 C. Von Clausewitz, Della guerra, I 7 (Trad. it. di G.E. Rusconi, Torino 2000, 71 ss.). 14 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà |9 «Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile. “Pronti per l’assalto!” ripeté ancora il capitano. L’assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra. Le parole del capitano caddero come un colpo di scure. La nona era in piedi, ma io non la vedevo tutta, talmente era addossata ai parapetti della trincea. La decima stava di fronte, lungo la trincea, e ne distinguevo tutti i soldati. Due soldati si mossero e io li vidi, uno a fianco dell’altro, aggiustarsi il fucile sotto il mento. Uno si curvò, fece partire il colpo e s’accovacciò su se stesso. L’altro imitò e stramazzò accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia?». Questo brano, tratto da Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, descrive con molta crudezza il momento che precede uno scontro durante la Grande guerra, e precisamente il momento in cui, nonostante tutto, l’esortazione del capitano spingeva i soldati al combattimento. Il forte nazionalismo che animava in quella guerra i soldati di mestiere e quelli richiamati alle armi, non li esimeva però, cosa del tutto naturale, dal provare sentimenti di paura in vista dello scontro. Per il mondo antico noi non abbiamo racconti di soldati relativi alle guerre combattute, alle loro sofferenze, al terrore della morte prima del combattimento. Tirteo esortava i soldati a resistere, ben piantati con le gambe al suolo, mordendosi le labbra con i denti.21 Plutarco descrive con grande efficacia la scena terrificante dell’avanzare di una falange greca nella battaglia di Platea nel 479: «La falange assunse in un baleno l’aspetto di un unico animale che, inferocito, si pone in guardia e rizza il pelo».22 A tale riguardo, non è da trascurare la paura di Paolo Emilio a Pidna, nel 168, nel vedere i Greci schierati: «Di fronte alla saldezza dei loro scudi affiancati e alla violenza dell’urto un brivido di paura corse per le sue vene; ebbe l’impressione di non aver mai veduto spettacolo più terrificante di quello e spesso, ancora molto tempo dopo, ricordava l’emozione provata a quell’apparizione».23 Ificrate, nonostante avesse più soldati dei nemici e gli indovini che preannunciavano auspici favorevoli, secondo quanto leggiamo in Polieno, non si decideva ad attaccare battaglia perché sentiva più il battere dei denti dei suoi soldati che il clangore delle armi.24 Del disagio che provava il soldato greco prima della battaglia, troviamo una flebile traccia nello Ierone senofonteo. Per evidenziare le tensioni cui viene sottoposto il tiranno, Ierone ricorda, per analogia, quelle del soldato prima della battaglia: «Se anche tu, Simonide, hai conosciuto l’esperienza della guerra e ti sei mai trovato a doverti schierare contro la linea della falange nemica, cerca di ricordare quale cibo mangiasti allora, quale sonno dormisti. Quei 21 Tyrt. fr. 8, 21-22. Plut. Arist. 18, 2. 23 Plut. Aem. 19, 3. 24 Polyain. strat. III 9, 8. 22 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 10 dolori che tu hai allora patito sono quei medesimi che – più acuti – conosce il tiranno».25 Nonostante paure, timori del tutto naturali in un esercito, come sottolinea Tucidide parlando dell’ultima ritirata delle truppe ateniesi in Sicilia,26 il cittadinosoldato affrontava il conflitto con grande determinazione. Dei resoconti bellici degli storici antichi, forse i discorsi dei generali pronunciati prima della battaglia possono fornirci qualche particolare sui momenti che precedevano la battaglia, sull’atteggiamento dei combattenti sempre che l’esaltazione dei valori bellici e delle ambizioni degli strateghi fosse pari al grado di motivazione con cui i soldati affrontavano il conflitto. Come Iscomaco spiega dettagliatamente a Socrate, l’abilità del comandante si riconosce qualora egli riesca a rendere i subalterni compiacenti di obbedirgli e zelanti nel compiere le loro missioni.27 Prenderò in considerazione, pertanto, i discorsi pronunciati da due generali del grande conflitto peloponnesiaco, lo spartano Brasida, e l’ateniese Demostene, per verificare su quali valori, su quali istanze facevano leva, da campi opposti, per suscitare sentimenti di condivisione nei rispettivi soldati e spingerli al combattimento con coraggio e determinazione.28 In questa sede non affronterò, in maniera approfondita, il dibattuto problema relativo all’inserimento di discorsi nelle opere storiche su cui già manifestavano perplessità gli antichi stessi. Dionigi di Alicarnasso, nell’opuscolo retorico De Thucydide, in riferimento al dialogo dei Meli, trovava una contraddizione tra i propositi tucididei di rigorosa veridicità e il carattere evidentemente fittizio di molti discorsi.29 Di tale difficoltà peraltro era consapevole lo stesso Tucidide 30 che, a proposito dei discorsi riportati nelle Storie, sottolineava di aver riferito quanto a lui pareva (ὠς δ᾿ἀν ἐδόκουν ἐμοί) che ciascuno avrebbe appropriatamente riferito nelle varie circostanze (τὰ δέοντα), attenendosi beninteso al senso generale delle parole effettivamente pronunciate ἡ ξύμπασα γνώμη).31 Affermazione questa che continua a suscitare non poche perplessità perché difficilmente conciliabili appaiono i due criteri: quello dell’opportunità e della soggettività e quello della 25 Xen. Hier. VI 3, 7. Thuk. VII 80, 3. 27 Xen. oik. 21, 5-9. Sull’ideologia del comando in Senofonte, cfr. N. Wood, Xenophon’s Theory of Leadership, «C&M» XXV (1964), 33-66; M. Woronoff, L’autorité personelle selon Xénophon, «Ktema» XVIII (1993), 41-48. 28 Secondo Platone (Phil. 55e-56 a-b), l’arte del comando non è una scienza esatta; essa non obbedisce a precise norme cui i subordinati devono attenersi. 29 Dion. Hal. de Thucydide 41. 30 Thuk. I 22, 1. 31 Concordano con tale interpretazione P. Huart, Le vocubulaire de l’analyse psycologique dans l’oeuvre de Thucydide, Paris 1968, 308; R. Nicolai, La storiografia nell’educazione antica, Pisa 1992, 65, 66; L. Piccirilli, L’invenzione della diplomazia nella Grecia antica, Roma 2002, 66. Di diverso tenore, non del tutto condivisibile, l’interpretazione di I. Plant, A Note on Thucydides I 22. 1: ἡ ξύμπασα γνώμη = General Sense?, «Athenaeum» LXXVI (1988), 201-202. Su tale questione, vd. da ultimo L. Porciani, Come si scrivono i discorsi. Su Tucidide I 22, 1 ἄ… μάλισ᾿εἰπεῖν, «QS» IL (1999), 103-135. 26 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 11 verità e oggettività; l’uno esclude l’altro o è comunque con l’altro in contrasto.32 Tuttavia, al di là delle rielaborazioni operate dallo storico, per lo meno nella forma letteraria, non si può non convenire con quanti interpretano l’espressione tucididea, «l’attenersi il più vicino possibile al senso generale di ciò che fu effettivamente pronunciato», riferita alle argomentazioni non ai discorsi autentici proferiti da politici o ambasciatori e quant’altri. Nella stesura dei discorsi egli avrà proceduto sia tenendo conto di quanto poteva lui stesso ricordare sia selezionando le testimonianze che si era procurato, privilegiando gli aspetti di particolare interesse, integrando, ove necessario, con argomentazioni utili ai fini della rappresentazione storica.33 In particolare, a proposito delle arringhe dei generali prima della battaglia, quello che qui mi preme sottolineare è il ritenere tale prassi, sulla scia anche di qualificati studi,34 un fatto storico, e non puro esercizio retorico, privo di alcun referente storico, come è stato pure affermato.35 Sino al lavoro di Hansen del 1993, relativo alle parenesi belliche nell’antica storiografia, l’esortazione del generale prima della battaglia era considerata, senza ombra di dubbio, un fatto storico 36 e nessuno avrebbe considerato i discorsi di battaglia come più problematici di altri discorsi in Tucidide. La maggior parte dei generali avrebbe colto questa opportunità per arringare i propri soldati. Secondo Hansen, invece, Tucidide avrebbe inventato l’orazione archetipica prima della battaglia e dal momento che fu il primo degli storici avrebbe inaugurato una moda che gli storici successivi avrebbero seguito senza molto dissentire. L’affermazione categorica dello studioso lascia più dubbi che certezze dal momento che non viene suffragata da alcuna prova. Ricordiamo, per esempio, che tra i compiti che Cesare ricordava ai potenziali lettori del De bello gallico, tra cui ci sarebbero stati anche personaggi esperti dell’arte militare, c’era il milites cohortari,37 accezione che è molto di più, e in questo concordo pienamente con Ehrhardt,38 che poche parole di incoraggiamento o un semplice apoftegma. Anche nella vita di Tiberio39 è chiara l’allusione alle esortazioni dei generali. Questi ultimi esempi riguardano è vero il 32 Per l’ampia bibliografia su Thuk. I 22, 1, cfr. O. Luschnat, Thukydides, in RE, Suppl.-Bd. XII, 1970, 1085-1354; Id., Thukydides, in RE, Suppl.-Bd. XIV (Nachträge zu Suppl.-Bd. XII, 10851353), 760-786. Si veda inoltre l’ ampia e articolata disamina in Piccirilli, L’invenzione della diplomazia, cit. 65 ss. 33 Cfr. Nicolai, La storiografia nell’educazione, cit., 68. 34 Ch.W. Fornara, The Nature of History in Ancient Greece and Rome, Berkeley and Los Angeles, 1983, 162; W. Kendrick Pritchett, The Greek State at War, IV, Berkeley and Los Angeles 1985, 1-2; cfr. V.D. Hanson (Ed.), Hoplite. The Classical Grek Battle Experience, London and N.Y. 1991, in particolare, J. Lazenby, The Killing Zone, ibidem, 87-109; E.L. Wheeler, The General as Hoplite, ibidem, 121-174. 35 M.H. Hansen, The Battle Exhortation in Ancient Historiography. Fact or Fiction?, «Historia» XLII (1993), 161-180. 36 S. Hornblower, A Commentary on Thucydides, II, Books IV-V. 24, N.Y. 1996, 81 ss. 37 Caes. Gall. 20. 38 C.T.H.R. Ehrhardt, Speeches before Battle?, «Historia» XLIV (1995), 120-121; M. Clark, Did Thucydides invent the Battle Exortation?, ibidem, 375-376. 39 Plut. Tib. Gracch. 9. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 12 mondo latino, ma anche per il mondo greco non mancano elementi che possano supportarne l’esistenza. Senofonte, nell’Economico, fa dire a Socrate rivolto a Critobulo: «E spesso l’agricoltore deve esortare i lavoratori non meno che lo stratego i soldati…».40 Cambise si meraviglia del fatto che l’educatore del figlio Ciro, non gli abbia insegnato alcun metodo per infondere coraggio ( προθυμίαν ἐμβάλλειν) all’esercito.41 Analogamente, Socrate mostra stupore nell’apprendere da un ipparco il suo scarso interesse per l’uso della dialettica ( τοῦ λέγειν δύνασθαι) nel rapporto coi subordinati.42 Della consuetudine della parenesi bellica rimane traccia anche nel resoconto tucidideo relativo alla battaglia di Mantinea del 418.43 Quest’ultima testimonianza, peraltro sfuggita anche a coloro che hanno contestato Hansen, appare invece degna di considerazione.44 Prima dello scontro, lo storico così riferisce: «Quando oramai erano sul punto di scontrarsi i singoli reparti ricevettero anche dai propri comandanti le seguenti raccomandazioni: ai Mantineesi fu detto che avrebbero combattuto per la patria e al tempo stesso per il dominio o la schiavitù; per non perdere l’uno, dopo averlo sperimentato, e per non riprovare di nuovo l’altra. Agli Argivi fu detto che avrebbero combattuto per l’antica supremazia e per la parità dei diritti che c’era stata un tempo nel Peloponneso, per non subire le conseguenze di esserne privati per sempre…. Agli Ateniesi fu detto che era bello non essere inferiori a nessuno combattendo a fianco di molti e valorosi alleati, e che, se avessero riportato la vittoria sugli Spartani nel Peloponneso avrebbero rafforzato e ingrandito il loro impero e nessun altro avrebbe mai più attaccato il loro paese…. Invece gli Spartani, reparto per reparto e accompagnati da canti di guerra che conoscevano, si esortavano fra di loro con i ricordi, valorosi com’erano, sapendo che torna più utile una lunga pratica di azioni che non una breve esortazione fatta di belle parole (ἠ λόγων δι᾿ὀλίγου καλῶς ῤεθεῖσαν παραίνεσιν)». Come si evince dal passo sopra indicato, lo storico si limita ad informare gli eventuali lettori delle esortazioni dei comandanti senza ricorrere ad alcuno sfoggio di retorica. Da sottolineare il giudizio negativo sull’oratoria militare dei comandanti spartani che ricorre in altri contesti45 e dai quali sembra distaccarsi il generale Brasida, definito da Tucidide uomo di grande intelligenza e onestà e non un cattivo oratore, per essere uno Spartano.46 Proprio il riferimento al disprezzo degli Spartani per le esortazioni fatte di belle parole induce a pensare che la tipologia riportata nella storiografia costituisse, a dispetto delle affermazioni di 40 Xen. oik. 5, 16. Xen., Kyr. I 6, 13. 42 Xen. mem. III 3, 11. 43 Thuk. V 69. 44 Su questa testimonianza, cfr. Hornblower, A Commentary on Thucydides, cit., 81. 45 Thuk. I 84, 3; 86, 3. 46 Thuk. IV 84, 2. Sulla presentazione tucididea del personaggio cfr. H.D. Westlake, Individuals in Thucydides, Cambridge 1968, 148 ss.; L. Prandi, Sintonia e distonia fra Brasida e Sparta, in C. Bearzot - F. Landuci (a cura di), Contro le ‘leggi immutabili’. Gli Spartani fra tradizione e innovazione, Milano 2004, 91-113. 41 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 13 Hansen, un genere retorico riconosciuto nella società greca. Ancora, la stessa difficoltà avanzata dallo studioso circa l’impossibilità di tutte le truppe di ascoltare l’arringa, credo che possa, in parte, essere superata sulla base di quanto fornisce la tradizione stessa. Come leggiamo in Tucidide, Pagonda, il beotarca di Tebe, pronunciò il discorso, prima della battaglia di Delio, dopo aver convocato i battaglioni separatamente (προσκαλῶν ἑκάστους κατὰ λόχους) per evitare che lasciassero tutti insieme il loro posto.47 Archidamo, invece, pronunciò il suo discorso prima dello scontro con gli Arcadi, passando in rassegna i battaglioni.48 A questo punto, la domanda semmai più difficile a cui rispondere è con quanta precisione o accuratezza gli storici antichi rappresentavano la sostanza dei discorsi veramente pronunciati. Certamente l’affermazione di Plutarco49 che le παρακλήσεις che Eforo, Teopompo e Anassimene hanno fatto pronunciare ai capi militari immediatamente prima di una battaglia sono inadatte alla situazione, sicché si può applicare ad esse il verso di Euripide «Nessuno dice queste sciocchezze quando si trova vicino al ferro», non può essere generalizzata. Nell’opera tucididea, infatti, logoi ed erga sono posti sullo stesso piano.50 A ragione Polibio, memore dell’ammaestramento tucidideo può affermare: «Il compito dello storico non consiste nell’ostentare la sua abilità oratoria ai lettori ma piuttosto nel dedicare tutte le proprie energie alla scoperta e alla registrazione di ciò che fu effettivamente detto o fatto e poi accertare la ragione per cui ciò che fu fatto o detto portò al fallimento o al successo».51 In altre parole, la dichiarazione programmatica di Tucidide nei noti capitoli metodologici52 può essere compresa, come già evidenziato, nel senso che l’elaborazione dei discorsi da parte dello storico viene fatta sulla base della compresenza, con pari validità, della coerenza con le circostanze da un lato e della fedeltà di massima al senso generale di quanto fu detto dall’altro.53 Quindi non una riproduzione fedele né delle parole, né degli argomenti, ma la ricostruzione di fatti e parole compiuta dallo storico.54 A questo punto sembra opportuno passare in breve ad esaminare il contenuto dei due discorsi di cui ho fatto cenno, e precisamente quello di Brasida e quello di Demostene. Il primo pronunciato, prima di combattere contro gli Illiri, 47 Thuk. IV 91. Xen. hell. VII 1, 10. 49 Plut. mor. 803 B. 50 Cfr. L. Canfora, Il ciclo storico, «Belfagor» XXVI (1971), 653-670. 51 Pol. XXXVI 1, 6-7. 52 Thuk. I 22: «e quanto ai discorsi che ciascuno pronunciò o nella fase che immediatamente precedette la guerra o durante il suo svolgimento, era difficile ricordare puntualmente alla lettera le parole dette: sia per me, relativamente ai discorsi che io stesso udii, sia per coloro che me li riferivano attingendo alle varie fonti. I discorsi li ho perciò scritti – attenendomi beninteso al senso generale di ciò che fu effettivamente detto – come a me pareva che ciascuno avrebbe appropriatamente parlato nelle varie circostanze». 53 R. Nicolai, Il generale, lo storico e i Barbari: A proposito del discorso di Brasida in Thuc. IV 126, in G. Arrighetti - M. Tulli (a cura di), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica, Atti del Convegno (Pisa, 7-9 giugno1999), Pisa 2000, 145-155. 54 W.K. Pritchett, Essays in Greek History, Amsterdam 1994, 27-109. 48 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 14 dal generale Spartano davanti alla massa composita del suo esercito formata da Peloponnesiaci, Calcidesi e per la prima volta nella storia di Sparta da 700 Iloti 55 il secondo rivolto ai soldati ateniesi durante la spedizione a Pilo.56 Ho scelto volutamente i discorsi di Brasida e di Demostene, perché Tucidide risulta particolarmente informato su questi due personaggi che operano contemporaneamente, su fronti opposti. La qual cosa è la riprova di informazioni accurate avute dallo storico, perlomeno per Brasida, se non direttamente, almeno da personaggi vicini al suo entourage.57 A proposito di Brasida, egli rileva che in un discorso lo Spartano ha fornito una versione deliberatamente falsa.58 E molte delle notizie relative all’impresa in Tracia riflettono più il pensiero di Brasida che del governo spartano.59 Anche riguardo alla particolare vicenda di Pilo Tucidide si mostra prodigo di dettagli relativi a fatti di non grande rilievo.60 La strategia comunicativa utilizzata dai comandanti nelle due occasioni è apparentemente finalizzata a risollevare il morale delle truppe, colte da improvviso panico, per usare lo stesso lessico tucidideo: «come di solito capita a grandi eserciti che si lasciano prendere dal panico senza un motivo apparente ritenendo che gli assalitori siano di gran lunga più numerosi di quelli che si presentano effettivamente».61 In realtà, in entrambi i casi, i due comandanti tendono a trarre il massimo vantaggio personale dalla situazione in cui si trovano facendo leva, opliti tra gli opliti, al codice di valori condivisi. L’ideologia mostra la sua natura imbonitoria. Il comandante spartano, sin dalle prime battute sottolinea che non si limiterà a pronunciare semplici parole di incoraggiamento alle truppe, ma fornirà anche una informazione, anzi una corretta informazione in modo che i soldati possano avere non una conoscenza superficiale, basata sulla vista o sul sentito dire, ma una chiara visione della situazione.62 Egli contrappone lo stile di battaglia degli Illiri, Barbari in cui ognuno è comandante di se stesso (il termine utilizzato è αὐτοκράτωρ), cioè ognuno va in battaglia senza obbedire a chicchessia, senza un ordine tattico, al modo di combattere degli Spartani e al loro innato valore. Su 55 Thuk. IV 126. Thuk. IV 10. 57 H.D. Westlake, Thucydides, Brasidas and Clearidas, «GRBS» XXI (1980), 333-339; Hornblower, A Commentary on Thucydides, cit., II 47, 280, 344 ss.; Nicolai, Il generale, lo storico, cit. 152. 58 Thuk. IV 108, 5. Sulle volute mistificazioni di Brasida anche Thuk. IV 85, 7. 59 Thuk. IV 117. Sull’indipendenza delle iniziative di Brasida, cfr. G. Daverio Rocchi, Brasida nella tradizione storiografica: aspetti del rapporto fra ritratto letterario e figura storica, «Acme» XXXVIII (1985), 69 ss., Cfr. anche Westlake, Individuals, cit., 153; S. Hodkinson, Social Order and the Conflict of Values in Classical Sparta, «Chiron» XIII (1983), 279; J. Roisman, Alkidas in Thucydides, «Historia» XXXVI (1987), 418; G. Wylie, Brasidas - Great Commander or Whiz-Kid? «QUCC» LXI (1992), 95. 60 S. Valzania, Settantadue giorni a Sfacteria, in Tucidide, Settantadue giorni a Sfacteria, Palermo 1993, 15-53; Bruno Sunseri, La resa di Sfacteria, cit., 295-306. 61 Thuk. IV 125, 1. 62 Thuk. IV 126, 1-4. 56 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 15 questo fa leva per spingere all’attacco i soldati del Peloponneso, come egli apostrofa le sue truppe, senza fare alcuna distinzione tra di esse: «Perciò, se resisterete al loro attacco e al momento opportuno riprenderete la ritirata con ordine e disciplina (κόσμῳ καὶ τάξει),63 più presto vi metterete al sicuro e imparerete per l’avvenire che masse siffatte indugiano ad ostentare la loro forza con minacce da lontano se uno resiste al loro primo assalto; ma a chi cede loro terreno dimostrano immediatamente il loro coraggio con un rapido inseguimento perché ormai si sentono al sicuro». Il coraggio e l’audacia nell’affrontare i combattimenti non dovevano essere disgiunti dalla lucidità nel valutare opportunamente le situazioni. L’arringa di Brasida, in linea, presumibilmente, con una nuova visione politico-strategica della sua città, è espressione di sano pragmatismo o di “prudente saggezza” per usare le parole di Archidamo del famoso dibattito che si tenne a Sparta alla vigilia della guerra del Peloponneso:64 «La stagione degli eroismi epici di massa era tramontata per sempre».65 Quanto a Demostene, egli è il soldato figlio dell’ideologia democratica. Ciò emerge già dall’esordio del discorso con cui arringa le truppe «uomini che insieme a me affrontate questo pericolo», e dall’epilogo, «a voi chiedo di restare ora saldi al vostro posto e, respingendo l’assalto presso il limite della riva rocciosa, di salvare noi e la postazione». La situazione di estrema difficoltà in cui l’esercito ateniese si è venuto a trovare a Pilo, non lascia spazio, come dice Demostene, a calcolo o riflessione alcuna. Essa impone invece audacia e valore. Certamente la facoltà di saper ragionare, e giudicare e avere una visione globale è la facoltà di Pericle.66 Ma talora il calcolo, il logismos, come sottolinea sempre il Pericle tucidideo, in altro contesto, può condurre all’esitazione e procurare conseguenze irreversibili. Ma questo non si adatta agli Ateniesi giacché essi sono gli unici a saper coniugare audacia con riflessione. «A differenza degli altri, noi possediamo anche questa qualità: siamo estremamente audaci e nello stesso tempo valutiamo con distacco quello che stiamo per intraprendere; per tutti gli altri, l’ignoranza spinge all’ardimento e la riflessione induce ad esitare».67 Il discorso di Demostene, ricostruito dallo storico, presenta una fase di elaborazione sicuramente in linea con le finalità della sua opera e con la ricostruzione operata dallo storico della spedizione di Pilo e dell’ambigua posizione di Demostene nella particolare vicenda. Esso non è in contrasto con il tradizionale agire degli Ateniesi. La situazione particolare impone l’azione, non la riflessione. L’audacia è dettata dal timore che possa verificarsi un combattimento 63 Thuk. IV 128, 6. Thuk. I 84. 65 Cfr. Petrocelli, Il sorriso del lupo, in C. Petrocelli (a cura di), Lo spionaggio politico nella Grecia classica, Palermo 1993, 43 ss. 66 Thuk. I 140, 1. 67 Thuk. II 40, 3; cfr. anche 40, 2. 64 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà | 16 terrestre tra i suoi uomini e gli opliti lacedemoni, tale da pregiudicare l’esito di quell’impresa. Un’impresa, fortemente voluta dallo stratego ateniese e condivisa poi con coraggio dalle truppe che riusciranno, come è noto, nell’intento, grazie anche alla nuova tattica di combattimento messa a punto dallo stesso Demostene con il ricorso alle truppe armate alla leggera. Scelta che avrà la meglio sulla mitica imbattibilità spartana. Ma questa è un’altra storia. Giovanna Bruno Sunseri Dipartimento di Beni Culturali Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, 90128 Palermo [email protected] on line dal 15 giugno 2011 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16 FRANCESCA MATTALIANO La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive Nella Grecia antica la pratica della parenesi bellica,1 ovvero la declamazione di discorsi esortativi alle truppe in procinto di un’offensiva, si lega indissolubilmente all’affermazione e alla diffusione del sistema oplitico:2 la coesione di immense schiere di uomini pronti a scagliarsi contro il nemico doveva essere costruita e scandita attraverso una precisa retorica dell’areté.3 La cosiddetta battle exhortation, voce generica riferita a un modello piuttosto variegato di discorsi militari,4 non sembra costituire un genere letterario autonomo ma piuttosto un micro-genere all’interno di quello storiografico. Con il termine si intendono le esortazioni di un comandante ai soldati schierati nell’imminenza della 1 Il verbo παραινεῖν, in alternanza con παρακαλεῖν, è utilizzato da Tucidide per le esortazioni alle truppe, mentre in Senofonte il termine impiegato per indicare la parenesi bellica è παράκλησις. Per un esaustivo catalogo delle occorrenze si rimanda a J. Albertus, Die Παρακλητικοί in der griechischen und römischen Literatur, Strassburg 1908, 9-16. 2 Sulle circostanze e le determinanti della riforma oplitica, come è noto, non vi è accordo tra gli studiosi; in particolare, sulle rilevanti innovazioni che segnarono il definitivo declino del combattimento “omerico”, basato sull’affermazione del kleos del singolo, e l’avvento della battaglia per falangi attestata in età classica. Tuttavia l’isomorfismo tra potere politico e funzione militare, condizione evidenziata dalla riflessione aristotelica che prevede la sostanziale reciprocità di ruolo tra cittadino e guerriero, rende manifesto il legame imprescindibile sussistente tra prassi di combattimento e ordinamento civico, consentendo di mettere in relazione la nascita del sistema oplitico, fenomeno certo graduale, con l’avvento stesso della società poleica. Il complesso tema dell’oplitismo non può in questa sede ricevere adeguata trattazione: si rimanda pertanto al lavoro di P. Cartledge, La nascita degli opliti e l’organizzazione militare, in S. Settis (a cura di), Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, III, Milano 2008, 681-714, per un’ampia bibliografia e status quaestionis. Una diversa proposta di lettura del fenomeno dell’oplitismo viene da M. Bettalli, Ascesa e decadenza dell’oplita, «ὅρμος» n.s. I (2008-2009), 5-12. 3 Cfr. N. Cusumano, Spazio, corpo, identità. Definirsi e definire a Sparta, in M. Giangiulio - C. Peri - G. Regalzi (a cura di), Definirsi e definire: percezione, rappresentazione e ricostruzione dell’identità, Atti del 3° Incontro “Orientalisti” (Roma, 23-25 febbraio 2004), Roma 2005, 113-130: «anche nel mondo greco i modi della guerra rivelano la società di cui sono espressione e sono perciò atti fondanti dell’identità, continuamente definita e rifondata anche attraverso gli scontri col nemico esterno». 4 In area tedesca la battle exhortation è nota come Feldherrenrede e il primo studioso ad occuparsene sistematicamente è Albertus, Die Παρακλητικοί, cit., cui fa seguito, in merito alla composizione dei discorsi in Tucidide, il lavoro di O. Luschnat, Die Feldherrenreden in Geschichtswerk des Thukydides, Leipzig 1942. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 18 battaglia, ma talvolta anche nel dispiegarsi della stessa. 5 In quest’ultimo caso, tuttavia, in conformità a ragioni di contingenza, l’esortazione deve essere limitata a brevi apophtegmata. Le modalità della comunicazione, come si vedrà in seguito, possono altresì variare a seconda delle circostanze e dell’uditorio. Prototipi di esortazioni sul campo in opere letterarie, esempi di una prassi più che di un genere, occorrono già in alcuni passaggi dell’Iliade, costituendo antecedenti autorevoli della cohortatio,6 e in seguito nell’elegia tirtaica,7 che tuttavia si caratterizza per il forte impianto etico, per essere indirizzata a una ristretta cerchia elitaria e per essere alimentata da sentimenti aristocratici. Una più precisa codificazione della parenesi bellica, contraddistinta da precise strutture retoriche e modalità espressive e manifestazione di forti principi identitari e comunitari, si trova nella storiografia greca del V secolo a.C. In Erodoto sono presenti alcuni esempi, anche se non nella struttura standardizzata che sarà propria della storiografia tucididea. La maggior parte delle parenesi erodotee figura infatti nella forma del discorso indiretto, come durante il famoso syllogos degli epibati greci prima della battaglia di Salamina: «Intanto, già l’aurora cominciava ad apparire e avendo essi radunati i soldati imbarcati sulle navi, fra tutti Temistocle fu quello che tenne loro il discorso più appropriato: il suo parlare era tutto un confronto tra le migliori disposizioni contrapposte alle disposizioni peggiori, quali sogliono presentarsi nella natura degli uomini e nella loro condizione, dopo averli incitati a preferire, tra i due, il partito migliore, giunto alla fine della sua allocuzione, impartì l’ordine che salissero a bordo».8 L’oratio obliqua 5 Come notato da E. Keitel, Homeric antecedents to the cohortatio in the ancient historians, «CW» LXXX (1987), 153-172, le parenesi omeriche sono pronunciate quasi sempre durante lo scontro. Nella storiografia greca, invece, le esortazioni di norma lo precedono; a quanto risulta dalle testimonianze storiche, inoltre, trascorreva molto tempo prima dello scontro effettivo tra due eserciti: libagioni, dialoghi tra ambasciatori, manovre di schieramento e intonazione del peana. È probabile che proprio a causa di questa lunga fase propedeutica alla battaglia nascesse la necessità di esortare e motivare i soldati schierati. Altre esortazioni durante la battaglia si trovano in Curzio Rufo, ad esempio in IV 15, 19: «Allora i Persiani, levato un gran grido, come sono soliti levare i vincitori, si avventarono ferocemente sui nemici, come se li avessero sopraffatti da ogni parte. Alessandro prese a rimproverare i suoi, atterriti, a rincuorarli, a riaccendere da solo la battaglia che già stava languendo, e finalmente, risollevati gli animi, li lancia di nuovo nella mischia» (trad. A. Giacone). Si vedano anche altri esempi in Curt. III 10, 4 -10; IV 14, 1-7. 6 Sulla parenesi omerica si vedano G.A. Kennedy, The ancient Dispute over Rhetoric in Homer, «AJPh» LXXVIII (1957), 23-35 e Keitel, Homeric antecedents, cit., 153-172. 7 Cfr. G. Tarditi, Parenesi e areté nel Corpus tirtaico, «RFIC» CX (1982), 257-276 = in L. Belloni - G. Milanese - A. Porro (a cura di), Studi di poesia greca e latina, Milano 1998, 149-166. 8 Hdt. VIII 83: Ηώς τε διέφαινε καὶ οἳ σύλλογον τῶν ἐπιβατέων ποιησάμενοι· προηγόρευε εὖ ἔχοντα μὲν ἐκ πάντων Θεμιστοκλέης· τὰ δὲ ἔπεα ἦν πάντα <τὰ> κρέσσω τοῖσι ἥσσοσι ἀντιτιθέμενα, ὅσα δὴ ἐν ἀνθρώπου φύσι καὶ καταστάσι ἐγγίνεται· παραινέσας δὲ τούτων τὰ κρέσσω αἱρέεσθαι καὶ καταπλέξας τὴν ῥῆσιν, ἐσβαίνειν ἐκέλευσε ἐς τὰς νέας (trad. L. Annibaletto). La tradizione erodotea è ripresa, con delle varianti, da Plutarco (Them. 12, 7-8), dove è Temistocle che esorta Aristide a pronunciare la parenesi e non nel momento immediatamente precedente allo scontro: «Temistocle, consapevole della dirittura di Aristide e particolarmente ammirato della sua presenza in quel momento, gli rivela la missione di Sicinno e lo prega di aiutarlo a trattenere i Greci e a procurare insieme a lui, col maggior credito di cui godeva, che disputassero la battaglia in mare, nello stretto. Aristide elogiò Temistocle e si recò presso gli altri generali e i ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 19 di Temistocle offre un importante esempio delle testimonianze in possesso di uno storico che potevano costituire l’ossatura di un logos parenetico.9 Le uniche due esortazioni erodotee espresse in forma diretta si trovano nel nono libro: quella del comandante Armocide a mille opliti focesi poco prima della battaglia di Platea10 e quella pronunciata dal comandante Leotichida prima della battaglia di Micale. La particolarità di quest’ultima parenesi 11 è data dal fatto che lo stratego, che si trova su una delle navi che costeggiano la spiaggia, non si rivolga ai propri uomini, ma ai Sami schierati nel campo persiano: «Uomini della Ionia, quanti di voi sono a portata di voce, sentite quello che vi dico, tanto i Persiani non capiranno nulla dei moniti che vi rivolgo. Quando avrà luogo la battaglia, ci si ricordi prima di tutto della libertà, e poi della parola d’ordine: Era.12 E questo chi ha ascoltato lo riferisca a chi non l’ha udito».13 Il discorso non viene pronunciato direttamente, ma per mezzo di un araldo e, tuttavia, appare importante la precisazione «quanti di voi sono a portata di voce» cui fa seguito il monito di diffondere il messaggio anche a coloro che non potevano averlo ascoltato. L’intera esortazione si regge su una solidarietà molto forte, quella di identità linguistica, 14 capitani delle triremi incitandoli a combattere» (trad. C. Carena). Cfr. anche Plut. Arist. 18, 6, dove tuttavia non si parla dell’esortazione. 9 Secondo W. Fornara, The Nature of History in Ancient Greece and Rome, Berkeley and Los Angeles 1983, 163, Erodoto avrebbe ascoltato un reportage delle parole di Temistocle: «The alternative could not be clearer. If Herodotus has invented this report of a speech, he is fundamentally mendacious not only because the false notice is gratuitous but because it is not a (mere) speech but the fabrication of a deed (ergon). Herodotus (on this view) has provided a false description of an event, alleging that something occurred that did not take place. Suspicion of the Greeks, and of Herodotus in particular, surely cannot reach this far. […] The only conclusion possible is that Herodotus heard a report of Themistocles’ words». Una più cauta visione della problematica troviamo in G. Abbamonte, Discorsi alle truppe: documenti, origine e struttura retorica, in G. Abbamonte - L. Miletti - L. Spina (a cura di), Discorsi alla prova, Atti del Quinto Colloquio italofrancese, Discorsi pronunciati, discorsi ascoltati: contesti di eloquenza tra Grecia, Roma ed Europa (Napoli-S. Maria di Castellabate, 21-23 settembre 2006), Napoli 2009, 29-46, 38, dove si prendono in considerazione entrambe le possibilità: che Erodoto abbia ridotto il testo della sua fonte oppure offra un esempio del tipo di documentazione a disposizione di uno storico. 10 Hdt. IX 17, 4: «O Focesi, è chiaro che costoro intendono darci senz’altro la morte, in seguito alle calunnie, a quanto io credo dei Tessali. Ora è necessario che ognuno di voi si dimostri prode, poiché è decoroso por fine alla vita nell’atto di compiere qualche cosa di grande e di difenderci, piuttosto che lasciarci distruggere nel modo più turpe. Suvvia, che ognuno di essi impari che, Barbari come sono, hanno tramato la morte contro dei soldati greci» (trad. L. Annibaletto). Su questa orazione si veda L. Miletti, Contesti dei discorsi alle truppe nella storiografia greca: Erodoto, Tucidide, Senofonte, in Abbamonte - Miletti - Spina (a cura di), Discorsi alla prova, cit., 47-61. 11 Il verbo παραινεῖν è usato in riferimento alle parole di Leotichida in Hdt. IX 99, 1. 12 Sull’utilizzo di parole d’ordine durante gli scontri cfr. Xen. Kyr. III 3, 58; VII 1, 10. 13 Hdt. IX 98: Ἄνδρες Ἴωνες, ὅσοι ὑμέων τυγχάνουσι ἐπακούοντες, μάθετε τὰ λέγω· πάντως γὰρ οὐδὲν συνήσουσι Πέρσαι τῶν ἐγὼ ὑμῖν ἐντέλλομαι. Ἐπεὰν συμμίσγωμεν, μεμνῆσθαί τινα χρὴ ἐλευθερίης μὲν πάντων πρῶτον, μετὰ δὲ τοῦ συνθήματος Ἥρης. Καὶ τάδε ἴστω καὶ ὁ μὴ ἀκούσας ὑμέων πρὸς τοῦ ἀκούσαντος (t rad. F. Barberis). 14 Il passo richiama la risposta degli Ateniesi agli ambasciatori persiani giunti nel 479 a.C. per proporre un’alleanza che non comprendesse i Lacedemoni. Gli Ateniesi rigettano le profferte persiane adducendo come motivazione del diniego le ragioni costitutive che definiscono l’Hellenikon: la comunità di sangue e di lingua dei Greci, i comuni santuari degli dei, i comuni culti e gli identici ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 20 da cui i Persiani per ovvie ragioni vengono esclusi e porta avanti una proposta di fratellanza con i Greci della madrepatria basata su una parola d’ordine, il nome della dea Era. Già gli esempi erodotei presentano in nuce le principali questioni relative alle modalità pratiche di comunicazione: Erodoto si pone dinanzi ai resoconti sulle battaglie con un atteggiamento estremamente critico ed evidentemente non rischia di attirarsi giudizi negativi relativi alle modalità di composizione dei discorsi e al reperimento delle testimonianze.15 Tucidide, invece, nel riportare i discorsi dei generali alle truppe, si dimostra fedele alle sue intenzioni programmatiche di I 2216 riportando il senso generale di quanto probabilmente detto. Inoltre, le esortazioni riportate da Erodoto sono piuttosto brevi e concise, a differenza della maggior parte di quelle tucididee. Un’ampia casistica delle parenesi belliche nelle Storie di Tucidide è stata raccolta e catalogata da Oddone Longo.17 Lo studioso evidenzia come, di fronte a un uditorio indiviso, l’oratore cerchi di creare e sottolineare la compattezza ideologica dei soldati: è il caso, ad esempio, del logos di Demostene a Pilo,18 dove si registra l’esiguità del numero dei soldati, che dovevano essere un centinaio circa. 19 costumi e istituzioni. L’homoglossia, la condivisione della stessa lingua, è dunque una delle caratteristiche costitutive che concorre a definire l’identità e l’unità di un ethnos. Cfr. Hdt. VIII 144, 2 su cui si vedano: G. Nenci, Discussion, in O. Reverdin - B. Grange (Édd.), Hérodote et les peuples non grecs, Entretiens sur l’antiquité classique 35, Genève 1990, 33; M. Moggi, Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in M. Bettini (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari 1992, 5176; J.M. Hall, Ethnic identity in Greek antiquity, Cambridge 1997; R. Thomas, Ethnicity, Genealogy, and Hellenism in Herodotus, in I. Malkin (Ed.), Ancient Perceptions of Greek Ethnicity, Cambridge and London 2001, 213-233, 215. 15 Degna di considerazione la posizione di Miletti, Contesti dei discorsi, cit., 49-50, che si stupisce di come ancora oggi Erodoto sia considerato un semplice precursore del genere e non piuttosto l’iniziatore. 16 Per una rassegna degli studi tucididei sui discorsi si rimanda al volume di A. Rengakos A. Tsakmakis (Eds.), Brill’s companion to Thucydides, Leiden-Boston 2006, e in particolare al contributo di J.V. Morrison, Interaction of Speech and Narrative in Thucydides, 251-277, in esso contenuto. Si vedano anche Ph.A. Stadter (Ed.), The speeches in Thucydides, Chapel Hill 1973, e, per il capitolo metodologico di I 22, L. Porciani, Come si scrivono i discorsi. Su Tucidide I 22, 1 ἂν … μάλιστ᾿ εἰπεῖν, «QS» IL (1999), 103-135. 17 O. Longo, I discorsi tucididei: uditorio indiviso e scomposizione d’uditorio, «Museum Criticum» XVIII (1983), 139-160. 18 Thuk. IV 9, 4 - 10, 5. Sulla parenesi di Demostene si veda S. Santelia, Tucidide. Settantadue giorni a Sfacteria, Palermo 1993, n. 32, 130: «Nell’esordio del discorso con cui arringa le truppe, Demostene cita volutamente tutte le qualità che dovrebbero caratterizzare un valente stratego, per dimostrare come esse debbano sempre accompagnarsi all’audacia e al valore militare. Anzi si sottolinea come è opportuno che, in situazioni di estrema difficoltà, la riflessione, la capacità di calcolare cedano il posto all’azione risoluta e alla fiducia in se stessi». La studiosa segnala altresì la ricorrenza di alcuni termini cari al progetto tucidideo quali ξυνετός, ἐκλογιζόμενος, λογισμόν, e legati alla sfera semantica dell’ingegno e all’abilità di agire su situazioni concrete. Sugli aspetti connessi al vocabolario tucidideo si rimanda a P. Huart, Le vocabulaire de l’analyse psycologique dans l’ouvre de Thucydide, Paris 1968. 19 In Thuk. IV 10, 2 è detto che Demostene prese con sé sessanta opliti con pochi arcieri, notazione quest’ultima che dovrebbe far risalire il numero a non più di cento elementi in totale dal ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 21 Mentre nel caso di un uditorio articolato si ricorre spesso alla pratica della scomposizione, mediante un appello alle singole unità, differenziate per etnico, ruolo o grado militare, oppure attraverso la cosiddetta epipolesi: il comandante percorre le differenti sezioni delle truppe ripetendo più volte uno stesso messaggio breve e conciso. Gli interventi più noti che inevitabilmente hanno segnato gli studi sulla battle exhortation sono i due contributi di Mogens Herman Hansen.20 Lo studioso danese, attraverso analogie con eventi della storia moderna, conclude che la maggior parte dei discorsi parenetici riportati da storici quali Tucidide o Senofonte, per l’eccessiva lunghezza e complessità dei periodi, non potevano essere uditi dall’intero esercito schierato e che per siffatta ragione sono da ritenersi pura costruzione, sebbene autorevole, degli antichi. Tra le varie argomentazioni Hansen propone un argumentum ex silentio: dal momento che non ci sono pervenuti frammenti di discorsi parenetici21 (come invece delle demegoriai e dei presbeutikoi logoi) e che non vi è cenno ad essi nella trattatistica antica, la battle exhortation sarebbe, secondo lo studioso, «a type of speech found in historiography but not in rhetoric. It is known as a literary genre only and consequently there is good reason to question its existence as a genuine type of speech to be delivered before a battle and not just read in an account of the battle».22 Una tesi tanto negazionista appare eccessiva soprattutto dal punto di vista metodologico e se le conclusioni di Hansen possono essere condivisibili in certa misura (le battle exhortations sarebbero in effetti composizioni retoriche costruite ad arte dagli storici) non altrettanto condivisibile è il dato dell’impossibilità materiale momento che la notazione “pochi” dovrebbe riferirsi a un numero inferiore rispetto a quello degli opliti. 20 M.H. Hansen, The battle exhortation in ancient historiography. Fact or fiction?, «Historia» XLII (1993), 161-180 e Id., The little grey Horse. Henry V’s Speech at Agincourt and the Battle Exhortation in Ancient Historiography, «Histos» II (1998), ora in «C&M» LII (2001), 95-115, con l’inserzione di una terza appendice che offre spunti di riflessione inerenti al tema trattato. Si veda infra, p. 24. 21 Come già notato da W.K. Pritchett, The General’s Exhortation in Greek Warfare, in Essays in Greek History, Amsterdam 1994, 27-109, Hansen tralascia le declamazioni di Lesbonatte di Mitilene, autore di età imperiale che compone due discorsi fittizi di un generale alle sue truppe. Una di esse non presenta precisi riferimenti temporali, mentre l’altra è il logos di un generale ateniese tenuto nel 413 a.C. prima di uno scontro contro i Lacedemoni. Su questo argomento si veda anche J.C. Iglesias Zoido, The battle exhortation in ancient Rhetoric, «Rhetorica» XXV (2007), 141-158, 154-155. 22 Hansen, The battle exhortation, cit., 165-166. M. Clark, Did Thucydides invent the battle exhortation?, «Historia» XLIV (1995), 375-376, in netta opposizione ad Hansen, riassume così il suo pensiero: «in Hansen’s view, once ancient troops had begun to take up information for an approaching battle their generals could not possibly harangue them with the sort of lengthy orations we find in ancient historians who record them». Secondo Hansen sarebbe stato proprio Tucidide, all’inizio della catena storiografica l’inventore del genere. Non si occupa direttamente delle arringhe militari H. van Wees, La Guerra dei Greci, Gorizia 2009, 311, poiché ritiene, in linea con il punto di vista di Hansen, che: «i lunghi e rifiniti discorsi che ritroviamo nella maggior parte delle fonti debbono essere una finzione letteraria: le arringhe vere, in apparenza, consistevano in brevi frasi ed esortazioni e potevano venire interrotte bruscamente quando il nemico cominciava ad avanzare». ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 22 di discorsi lunghi:23 se al contrario dimostrassimo la possibilità di pronunciarli, analizzando i singoli discorsi nel loro contesto storico, il problema sarebbe nuovamente quello della modalità di elaborazione dei logoi nelle opere storiche e del loro rapporto con la realtà storica al di là della “patina” retorica. Ad esempio, in Tucidide la maggior parte delle esortazioni parenetiche è pronunciata da Brasida in area tracia: è forse probabile che lo storico ateniese, la cui famiglia era originaria di quell’area, avesse informazioni di prima mano. In merito a questi aspetti, la storiografia greca sembra oscillare continuamente tra problematiche di natura pratica (possibilità o meno che i logoi parenetici venissero uditi) e piena accettazione del paradigma retorico codificato. Sembra infatti che proprio a partire da Tucidide si consolidi una sorta di accordo tra autore e fruitori dell’opera secondo cui, al pari delle convenzioni sceniche del teatro, il reportage dei discorsi diveniva fededegno. È possibile notare, tuttavia, come a tale tendenza di “drammatizzazione” della storia se ne affianchi una antitetica: prima di tali logoi Tucidide riporta talvolta il numero preciso degli uomini schierati, come se intendesse effettivamente inserire i suoi “pezzi” di retorica in un contesto quanto più possibile reale e concreto. Lo storico ateniese riferisce, ad esempio, che le esortazioni erano pronunciate per mezzo di alte grida, come nel caso delle battaglie notturne, piuttosto temute da parte dei soldati: «i Siracusani e gli alleati come vincitori si esortavano con grida altissime, dato che di notte era impossibile farsi intendere in qualche altro modo, e intanto resistevano a chi li assaliva»;24 o quelle navali, dove il rumore dei vogatori e dei flussi marini era senz’altro prevalente: «[Brasida], vedendo che per l’asprezza del luogo i trierarchi e i timonieri, anche se da qualche parte sembrava possibile l’approdo, esitavano e guardavano di non far cozzare le navi l’una contro l’altra, si rivolgeva loro con alte grida, dicendo che non era ragionevole che risparmiassero dei legni e trascurassero i nemici, i quali avevano costruito un forte sulla loro terra»;25 o nel caso di epipolesi: «Nicia, vedendo che l’esercito era scoraggiato e in preda a un grande turbamento, passandolo in rivista cercava, per quanto era 23 Contro le tesi di Hansen si segnalano i lavori di Pritchett, The General’s Exhortation, cit., 27109; C.T.H.R. Ehrhardt, Speeches before battle?, «Historia» XLIV (1995), 120-121; Clark, Did Thucydides invent, cit., 375-376. 24 Thuk. VII 44, 4: οἵ τε γὰρ Συρακόσιοι καὶ οἱ ξύμμαχοι ὡς κρατοῦντες παρεκελεύοντό τε κραυγῆ οὑκ ὀλίγῃ χρώμενοι, ἀδύνατον ὂν ἐν νυκτὶ ἄλλῳ τῳ σημῆναι, καὶ ἅμα τοὺς προσφερομένους εδέχοντο (trad. F. Ferrari). La testimonianza tucididea fa luce sull’aspetto della gestualità in un discorso parenetico: durante la notte non si poteva infatti comunicare come di giorno e quindi attraverso il canale visivo si integravano le eventuali carenze acustiche di un logos parenetico. 25 Thuk. IV 11, 4: τριηραρχῶν γὰρ καὶ ὁρῶν τοῦ χωρίου χαλεποῦ ὄντος τοὺς τριηράρχους καὶ κυβερνήτας, εἴ που καὶ δοκοίη δυνατὸν εἶναι σχεῖν, ἀποκνοῦντας καὶ φυλασσομένους τῶν νεῶν μὴ ξυντρίψωσιν, ἐβόα λέγων ὡς οὐκ εἰκὸς εἴη ξύλων φειδομένους τοὺς πολεμίους ἐν τῇ χώρᾳ περιιδεῖν τεῖχος πεποιημένους. L’azione è descritta in maniera pressoché identica in Diod. XII 62, 2. Nel brano di Diodoro, tuttavia, l’esortazione è rivolta a gran voce al solo pilota della nave di Brasida, e non a tutti i trierarchi e timonieri come in Tucidide. Dato che la fonte di Diodoro sembra Tucidide, è probabile che l’Agirinense volesse riportare l’intero evento in una cornice più realistica non ritenendo possibile che un solo uomo, sebbene a gran voce, potesse raggiungere con la voce tutti i timonieri contemporaneamente. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 23 possibile in quella situazione, di incoraggiarlo ed esortarlo, alzando sempre più la voce man mano che li incontrava, spinto dall’impeto e nella speranza che il suo forte gridare potesse servire a qualcosa».26 Anche in Senofonte sono presenti molte indicazioni “realistiche” sulla battaglia, come in un passaggio delle Elleniche dove è descritto un discorso esortativo rivolto a quasi un migliaio di soldati:27 «Gli uomini di Phyle occuparono a loro volta la strada, con una profondità non superiore a dieci file di opliti, rinforzati alle spalle da peltofori, lanciatori di giavellotti e di pietre, questi ultimi in numero cospicuo perché si erano aggiunti quelli provenienti dal Pireo stesso. Nell’imminenza dell’attacco nemico Trasibulo diede ordine ai suoi di deporre gli scudi; egli fece altrettanto, senza tuttavia abbandonare le altre armi e ritto in mezzo alle truppe, tenne un discorso».28 La notazione sulla disposizione dell’esercito rende certo più verosimile la possibilità di ascolto della lunga esortazione di Trasibulo.29 Trattare il problema delle arringhe militari ci pone così dinanzi alla questione delle modalità di fruizione delle orazioni.30 Da questo punto di vista, l’atto comunicativo informativo, appare strettamente legato a quello ingiuntivo, ossia la possibilità che le esortazioni fossero udite dall’intero esercito è anche subordinata alla necessità di ricevere i comandi durante le fasi della battaglia. Se pensiamo a un’assemblea di cittadini riuniti attorno al palco dell’oratore, l’efficacia della mediazione è chiaramente subordinata alla possibilità che il messaggio venga udito dal maggior numero possibile di individui.31 L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra venne pronunciato, secondo quanto 26 Thuk. VII 76: ῾Ορῶν δὲ ὁ Νικίας τὸ στράτευμα ἀθυμοῦν καὶ ἐν μεγάλῃ μεταβολῇ ὄν, ἐπιπαριὼν ὡς ἐκ τῶν ὑπαρχόντων ἐθάρσυνέ τε καὶ παρεμυθεῖτο, βοῇ τε χρώμενος ἔτι μᾶλλον ἑκάστοις καθ᾿ οὓς γίγνοιτο ὑπὸ προθυμίας καὶ βουλόμενος ὡς ἐπὶ πλεῖστον γεγωνίσκων ὠφελεῖν τι (trad. A. Corcella). 27 28 Xen. hell. II 4, 10. Xen. hell. II 4, 12: οἱ δὲ ἀπὸ Φυλῆς ἀντενέπλησαν μὲν τὴν ὁδόν, βάθος δὲ οὐ πλέον ἢ εἰς δέκα ὁπλίτας ἐγένοντο. ἐτάχθησαν μέντοι ἐπ᾿ αὐτοῖς πελτοφόροι τε καὶ ψιλοὶ ἀκοντισταί, ἐπὶ δὲ τούτοις οἱ πετροβόλοι. οὗτοι μέντοι συχνοὶ ἦσαν· καὶ γὰρ αὐτόθεν προσεγένοντο. ἐν ᾧ δὲ προσῇσαν οἱ ἐναντίοι, Θρασύβουλος τοὺς μεθ᾿ αὑτοῦ θέσθαι κελεύσας τὰς ἀσπίδας καὶ αὐτὸς θέμενος, τὰ δ᾿ἄλλα ὅπλα ἔχων, κατὰ μέσον στὰς ἔλεξεν (trad. G. Daverio Rocchi). 29 Xen. hell. II 4, 13-17. Cfr. Hansen, The little grey Horse, cit., 109, che ammette la possibilità che il discorso di Trasibulo fosse effettivamente ascoltato dai soldati schierati. 30 E. Anson, The General’s pre-battle Exhortation in Graeco-Roman Warfare, «G&R» LVII (2010), 304-318, con una serie di calcoli basati principalmente su studi sulla trasmissione del suono, conclude che il numero massimo di uomini schierati in grado di ascoltare interamente i discorsi di un comandante era, con un margine di approssimazione, di circa 1200. 31 O. Longo, L’informazione e la comunicazione, in M. Vegetti (a cura di), Oralità, Scrittura, Spettacolo, Milano 1983, 15-29, nota che «nel caso speciale del contingente militare, può accadere che un’informazione o un ordine vadano diffusi mentre il gruppo è in marcia: in questo caso, non potendosi riunire un’assemblea, si sovviene alla necessità di una rapida diffusione della comunicazione con la tecnica del parenghyan, e cioè del far passare il comando, la notizia, la parola d’ordine, di bocca in bocca, mettendo in opera una vera e propria catena di trasmissione dell’informazione». Si veda anche Id., Tecniche della comunicazione nella Grecia antica, Napoli 1981. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 24 riferisce Tucidide, da «una tribuna fatta costruire elevata per essere ascoltato dal maggior numero possibile di persone».32 Aristotele, che si occupa a più riprese33 delle problematiche connesse con la diffusione del suono, in particolare del linguaggio umano, è ben consapevole del fatto che «la voce, che è una specie di flusso, si sente meglio dall’alto in basso che dal basso in alto»34 e trattando il problema della giusta dimensione di una polis diffida dalle comunità composte da un numero troppo ampio di cittadini: «chi potrebbe esserne l’araldo – domanda lo Stagirita – se non uno con la voce di Stentore?».35 Per Aristotele, è il raggio di ricezione della voce del κῆρυξ a determinare i confini stessi della polis: la dimensione dello spazio civico e la stessa comunità degli abitanti vengono così a definirsi attraverso una delimitazione invisibile – ma assolutamente vincolante – di tipo percettivo-uditivo. Sul versante “mediatico” – con riferimento al medium di trasmissione – i testi aristotelici rappresentano inoltre un’importante spia di come gli antichi fossero al corrente di alcuni piccoli espedienti per esercitare la voce rendendola forte e capace di raggiungere distanze elevate: uno di questi era l’essere a digiuno, dal momento che la voce risulta alterata se si grida dopo aver mangiato. Proprio per questo motivo, afferma Aristotele, «coloro che esercitano la voce, per esempio gli attori, i coreuti e altri artisti dello stesso genere, fanno gli esercizi sempre al mattino presto e a digiuno».36 Oltre agli accorgimenti incentrati sull’emissario dell’atto comunicativo è probabile pensare – pur in assenza di specifiche testimonianze a riguardo – che vi potessero essere anche degli strumenti utilizzati per amplificare la voce. A tal proposito Hansen, in una breve appendice al suo secondo articolo sulla battle exhortation,37 riferisce che lo scienziato tedesco Athanius Kircher, vissuto nel diciassettesimo secolo, nella sua opera Phonurgia Nova,38 inserisce un capitolo intitolato De cornu Alexandri Magni. In esso, Kircher racconta di essersi imbattuto in un manoscritto inedito conservato nella Biblioteca Vaticana intitolato Secreta Aristotelis ad Alexandrum magnum nel quale era descritto un corno di cinque cubiti di diametro capace di richiamare i soldati dispersi per cento stadi. Hansen, definendo “megafono” lo strumento descritto da Kircher così commenta: «I am certainly not the first to have wondered how Alexander the Great could deliver a speech to his army when drawn up in full battle line». L’esempio condotto da Kircher nella sua 32 Thuk. II 34, 7. Al riguardo, sembra interessante la dichiarazione di Isocrate che nel Filippo (Isokr. Phil. 81) afferma di essere stato, fra i suoi concittadini, il meno adatto alla politica, poiché non dotato di «voce sufficiente» ( οὔτε γὰρ φωνὴν ἔσχον ἱκανήν). 33 Lo ha fatto nel De sensu, nel De Anima e nei Problemata XI. 34 Ar. probl. 904 a. 35 Ar. pol. 1326 b. L’interrogativa retorica, evidentemente volta a colpire le poleis troppo numerose perché difficilmente governabili, attraverso un’espressione idiomatica pone in risalto tuttavia il tema della fruizione di un messaggio da parte della comunità quale costitutivo della stessa. 36 Ar. probl. 901b. 37 Si veda supra, n. 20. 38 A. Kircher, Phonurgia nova, sive de mirabilibus prodigiis soni, vocisque per machinas omnis generis propagandi, Kempten 1673. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 25 Phonurgia Nova su come i bovari richiamassero i buoi al pascolo concorre però a smentire che il corno di Alessandro fosse un megafono: gli armenti non erano certo richiamati dai discorsi dei pastori, ma semplicemente dall’effetto acustico dello strumento. Lo strumento usato da Alessandro era certamente utilizzato per chiamare a raccolta i soldati o per dare segnali prestabiliti e non per trasmettere loro la voce umana.39 La contingenza dei logoi parenetici è senz’altro correlata al tema del phobos,40 la paura indiscriminata che si impadronisce delle truppe in procinto della battaglia; benché esso sia soggetto diffuso nella storiografia antica, è ben lungi dall’essere un topos letterario. All’incertezza dell’esito finale si aggiungono infatti le condizioni fisiche degli uomini spesso logorati da ore di marcia, scarsità di viveri e lunghe attese in piedi con condizioni climatiche avverse; dovevano essere minuti di frenetica agitazione collettiva e un buon generale doveva senz’altro utilizzare qualsiasi sistema per tenere coeso lo schieramento e alto il morale per la buona riuscita della battaglia.41 Nessun esercito poteva sottrarsi alla paura,42 neanche i coraggiosi Lacedemoni quando, in un episodio descritto da Tucidide, di ritorno al proprio accampamento «videro che i nemici erano a poca distanza, tutti già schierati, e che erano scesi dalla collina. Quello che gli Spartani provarono in quel momento fu senza dubbio il più grande spavento di cui avessero memoria».43 Nel trattato Sul comandante, scritto intorno alla metà del I secolo d.C., il filosofo platonico Onasandro44 mette in guardia proprio dagli attacchi notturni alle città assediate, perché capaci di generare panico e confusione tra le truppe: «Nessuno riesce ad essere lucido in simili circostanze, ma addirittura di molti episodi non verificatisi si parla come fossero accaduti, e non potendo capire dove i nemici attaccheranno né quanti sono né in quanti punti daranno la scalata alle 39 Sull’utilizzo delle trombe in guerra abbiamo peraltro diverse attestazioni: come strumento per incoraggiare le truppe si veda Ath. X 414f-415a, dove è detto che Amaranto di Alessandria, nella sua opera Questioni di teatro, raccontava delle notevoli doti del trombettiere Erodoro di Megara. Quest’ultimo, pur essendo poco più alto di un metro e mezzo, era in grado di suonare contemporaneamente due trombe e di produrre un suono capace di raggiungere suoni altissimi. Nel 303 a.C., durante l’assedio di Argo da parte di Demetrio, poiché i soldati non riuscivano a posizionare la torre alle mura della città, «Erodoro diede il segnale con le sue due trombe e l’intensità del suono riempì i soldati d’un ardore che li costrinse a spingere avanti la macchina» (trad. R. Cherubina). La particolarità della preparazione fisica dai trombettieri, come si ricava dalle pagine di Ateneo, relativa alle capacità “manducatorie” dei suonatori (Erodoro era solito mangiare sei chenici di pane e venti libbre di carne accompagnati da due boccali di vino) appare in stridente contrasto col digiuno raccomandato da Aristotele per gli oratori. Sull’utilizzo delle trombe per stratagemmi militari si vedano Polyaen. V 23 e Onasand. 42, 17. 40 Sul tema della paura negli eserciti si veda V.D. Hanson, L’arte occidentale della Guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Milano 1989, 109-117. 41 Per una nutrita rassegna si veda Hanson, L’arte occidentale della Guerra, cit., 109-117. 42 Cfr. Thuk. VII 80, 3: «Ma come suole avvenire in tutti gli eserciti, soprattutto quelli più grandi, che sorgano cioè paure e terrori, tanto più se si trovano a marciare di notte, per una terra ostile e con i nemici non molto distanti, i soldati caddero in preda allo scompiglio» (trad. A. Corcella). 43 Thuk. V 66, 1-2 (trad. L. Canfora e A. Favuzzi). 44 Onasandro sarebbe un filosofo platonico secondo la Suda (s.v. Ὀνόσανδρος). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 26 mura, nasce un andare e venire di corsa in tutte le direzioni che genera Panico e confusione».45 Lo stesso Tucidide riferisce del terrore provato dai Siracusani durante l’assalto ateniese all’Epipole a causa di un attacco notturno improvviso 46 e del panico che si impadronì dei soldati di Brasida durante una missione in Macedonia al sopraggiungere della notte.47 Al terrore sconsiderato che scoppia durante un assedio è dedicato un apposito passaggio dei Poliorcetica di Enea Tattico.48 Quest’ultimo segnala gli strumenti migliori per sopire tali sentimenti: intonare il peana o diffondere la voce che si tratta di un attacco di panico, non causato dunque da cause contingenti. E ancora due intere sezioni degli Strategemata di Frontino49 sono dedicati proprio agli stratagemmi ideati per esortare l’esercito alla battaglia e per dissolverne la paura. Numerose sono le testimonianze sugli imbarazzanti effetti di incontinenza che il terrore per la guerra poteva causare finanche nei comandanti: soprattutto Aristofane ama scherzarci sopra con battute più o meno velate sintomatiche del fatto che il problema doveva essere ben noto al suo pubblico. L’esempio più esplicito di tale casistica figura nella Pace quando il commediografo prende di mira il capitano di fanteria eccessivamente arrogante e sfarzoso che si gloria del suo manto scarlatto. Quello stesso mantello, avverte Aristofane, quando giungerà il momento di combattere «prenderà un colore diverso!». 50 Sullo stesso tema si segnala che anche Plutarco, nella Vita di Arato, riprende una delle accuse messe in circolazione contro il generale degli Achei. In un primo momento, si limita a riportare che Arato «aveva chiaramente paura e sfiducia quando affrontava una guerra e una battaglia»51 ma, in seguito, riferisce che la vittoria contro il tiranno di Argo Aristippo «mise a tacere le continue calunnie, le dicerie, le facezie, le arguzie degli adulatori dei tiranni, tuttavia questi per far loro cosa gradita, raccontavano come, nel corso delle battaglie, lo stratego degli Achei avesse disturbi intestinali, come torpore e vertigini lo cogliessero all’apparire del trombettiere». 52 45 Onasand. 41, 2 (trad. C. Petrocelli, come le successive di Onasandro). Thuk. VII 43, 6: «I Siracusani, gli alleati e Gilippo con i suoi uomini accorsero allora in aiuto delle fortificazioni avanzate; ma, dato che l’azione avversaria era avvenuta quando meno se l’aspettavano, di notte, attaccarono in preda allo spavento, cosicché furono respinti dagli Ateniesi e dovettero da principio ritirarsi» (trad. A. Corcella). 47 Thuk. IV 125, 1: «Sicché, quando ormai entrambi pensavano di ritirarsi per paura di quegli uomini bellicosi, ma per i loro contrasti non avevano affatto deciso quando partire, calata la notte i Macedoni e la massa dei barbari furono colti da un improvviso timore, come di solito capita a grandi eserciti che si lasciano prendere dal panico senza un motivo apparente; e ritenendo che gli assalitori fossero di gran lunga più numerosi di quelli che si presentarono effettivamente, e che mancasse poco al loro arrivo, si volsero improvvisamente in fuga per tornare in patria» (trad. A. Favuzzi e S. Santelia). 48 Ain. Takt. 27. M. Bettalli (a cura di), in Enea Tattico. La difesa di una città assediata (Poliorketica), Pisa 1990, 292, nel suo commento al testo segnala come il notevole spazio dedicato da Enea al tema della paura sia testimonianza dell’importanza del fenomeno presso gli antichi. 49 Frontin. strat. XI-XII. 50 Aristoph. Pax 1176. 51 Plut. Ar. 10, 2 (trad. M. Manfredini, come la successiva). 52 Plut. Ar. 29, 7. 46 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 27 Oltre ai discorsi esortativi, abbiamo testimonianza di ulteriori sistemi utilizzati dai comandanti per risollevare gli animi delle truppe: ad esempio, la somministrazione di vino. Plutarco nella Vita di Dione riferisce come Dionisio II durante l’assalto del 357 a.C. contro la città di Siracusa in mano a Dione «fatti riempire di vino schietto i mercenari, li mandò di corsa contro la fortificazione fatta dai Siracusani intorno all’acropoli».53 I barbari al comando del tiranno «con molta audacia e grande tumulto abbatterono il muro e si gettarono sui Siracusani: nessuno osava resistere e respingerli tranne i mercenari di Dione». 54 Come si evince dalla testimonianza plutarchea, il vino55 veniva utilizzato al fine di rendere più ardimentosi i soldati, in questo caso dei mercenari che non potevano certo trovare nelle parole del proprio comandante motivazioni altrettanto persuasive. Talvolta il vino invece poteva rivelarsi un’arma contro i soldati che ne avessero abusato, come nel caso della sconfitta spartana a Leuttra dove l’uso eccessivo di vino prima della battaglia aveva contribuito, secondo una voce riferita da Senofonte, ad agitare i soldati.56 Un altro sistema, secondo Onasandro, era quello di portare dinanzi alle truppe i soldati nemici catturati, dopo averli avvinti in catene e terrorizzati a parole. Col loro aspetto essi riveleranno «quanto siano privi di coraggio, miseri e degni di nessuna considerazione e che loro stanno per combattere contro uomini siffatti, i quali a tal punto temono la morte, da afferrare le ginocchia e prostrarsi ai piedi di ciascuno».57 Secondo Onasandro, l’esercito prende coraggio (ἐπαναθαρρεῖ) da questa visione «avendo già conosciuto in anticipo l’aspetto dei nemici e i loro patimenti».58 È possibile considerare tale pratica un’evoluzione di uno dei topoi retorici sull’inferiorità del nemico in cui la parenesi si esprime attraverso il doppio canale della vista e dell’udito. Grida di esortazione potevano essere lanciate anche da parte degli stessi 59 soldati e, talvolta, era anche opportuno diffondere notizie menzognere per tenere alto il morale, come fece Agesilao quando rivelò al proprio esercito che Pisandro era morto nella battaglia di Cnido ma aveva vinto la battaglia navale. Per legittimare l’annuncio compì un sacrificio di buoi per festeggiare la vittoria e nello scontro che ne seguì i suoi uomini «ebbero la meglio, per l’idea che gli Spartani avevano vinto sul mare».60 Tali sistemi “alternativi” alla parenesi bellica, sintomatici della copiosa aneddotica fiorita attorno al tema del phobos, non scalfiscono il peso e il valore del 53 Plut. Dio 30, 5 (trad. P. Fabrini, come la successiva). Plut. Dio 30, 6. 55 Un intero paragrafo è dedicato al tema da Hanson, L’arte occidentale, cit., 167-173. 56 Cfr. Xen. VI 4, 8. 57 Onasand.14, 3. 58 Onasand.14, 4. 59 Cfr. Thuk. VII 44, 4: «Ché i Siracusani e gli alleati come vincitori si esortavano con grida altissime, dato che di notte era impossibile farsi intendere in qualche altro modo, e intanto resistevano a chi li assaliva» (trad. F. Ferrari). 60 Cfr. Xen. hell. IV 3, 13-14. 54 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 28 logos parenetico, di fondamentale propedeuticità allo scontro. Tra le doti espressamente richieste a un comandante, di basilare importanza figura lo stretto binomio costituito dalle abilità propriamente strategiche e da quelle oratorie. Tracciando il ritratto di Socrate nei Memorabili,61 Senofonte segnala come il proprio maestro si rendesse «utile a coloro che aspiravano all’onore delle cariche pubbliche, spingendoli a impegnarsi nelle cose che desideravano». 62 Il Socrate senofonteo afferma che la tattica è solo uno degli aspetti che dovrebbero dirsi propri di un buon generale; e se l’arte oratoria non figura tra le qualità espressamente citate dall’autore, tuttavia la capacità di «fornire ciò che serve ai suoi soldati»63 e di «rendere felici coloro su cui comanda» è da intendersi come il dovere di ogni buon comandante di soddisfare le esigenze delle proprie truppe al di là dei semplici bisogni materiali.64 Poco oltre, nel medesimo capitolo, a un ipparco neoeletto Socrate presenta la necessità di «toccare l’animo dei cavalieri» e di «infiammarli contro i nemici» al fine di rendere più valorosi i propri uomini»;65 e alla domanda di quest’ultimo se tra le doti di un buon comandante di cavalleria Socrate intendesse suggerire anche quella oratoria, la risposta è offerta attraverso un’interrogativa retorica: «E tu credevi» replicò «che l’ipparco dovesse essere muto? Non ti è mai venuto in mente che quante cose abbiamo imparato secondo la legge, bellissime, con le quali sappiamo vivere, tutte le abbiamo imparate attraverso la parola?». E, come a volere sottolineare la concreta difficoltà per gli Ateniesi nel farsi udire, non essendo popolo dotato per natura di particolare euphonia, Socrate sottolinea come la dote più importante per essi sia il desiderio di gloria, il quale «più di ogni altra cosa li incita ad azioni belle e onorevoli». 66 Più che considerazioni “socratiche” tali notazioni sembrano piuttosto appunti senofontei: più volte nelle sue opere lo storico ateniese ritorna sul problema delle qualità specifiche di un buon comandante; nell’Ipparchico segnala che compito «di un buon ipparco è saper individuare coloro che nell’attacco contro il nemico diano prova di accorta capacità, fedeltà, ardore e saldezza d’animo. Infatti egli deve essere capace di discorsi e azioni sulla cui scorta quelli al suo comando comprenderanno che è un bene obbedirgli, seguirlo e andare dritto all’attacco contro i nemici, desidereranno elogi e saranno in grado di tradurre in pratica con fermezza le nozioni ricevute».67 61 Xen. mem. III 1-5 (trad. Anna Santoni, come le successive). Xen. mem. III 1, 1. 63 Xen. mem. III 1, 6. 64 Su questo aspetto si vedano Xen. Ag. 2, 8 e 6, 4, dove si parla del favore dimostrato dalle truppe di Agesilao verso i suoi continui incitamenti. 65 Xen. mem. III 3, 7. 66 Xen. mem. III 3, 13. Il concetto è ribadito anche oltre a III 5, 3: «E inoltre gli Ateniesi sono i più desiderosi di gloria e i più capaci di grandi sentimenti fra tutti gli uomini; e queste doti li incitano non poco ad esporsi al pericolo per la propria gloria e per il bene della patria». 67 Xen. hipp. VIII 21-22 (trad. C. Petrocelli, come le successive dell’Ipparchico). Medesime qualità Senofonte auspica si trovino anche in alcuni elementi dello schieramento equestre: «A tutti i costi è necessario che a chiudere la fila sia posto un uomo dotato di capacità: essendo infatti valido, se occorresse lanciarsi contro i nemici, saprebbe come esortare quelli davanti a sé a riprendere 62 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 29 Lo stesso Senofonte, nel tratteggiare il personaggio dello stratego siracusano Ermocrate, di cui Tucidide riporta tre importanti logoi diretti,68 riferisce che nel periodo della guerra in Ionia, il comandante siracusano era solito riunire ogni giorno nella propria tenda i più capaci tra i trierarchi, i timonieri e i soldati di marina per metterli a parte dei propri progetti e insegnare loro l’arte oratoria: «e li esercitava obbligandoli ad esporre discorsi, ora improvvisati, ora preparati. Per questo Ermocrate godeva di grande fama nel sinedrio, in quanto sembrava prendere la parola e consigliare per il meglio».69 La prassi della pratica parenetica nell’esercito lacedemone trova una sua precisa codificazione anche nella Costituzione degli Spartani dove Senofonte mostra un quadro verosimile della funzione paracletica delegata alla figura, tipicamente spartana, dell’enomotarco: «Istruzioni ed esortazioni sono rivolte dal comandante di plotone (enomotarches), perché ogni plotone (enomotia) non riesce a sentire completamente che gli ordini provenienti dal proprio comandante». 70 La tradizione senofontea sulle capacità oratorie di un buon comandante71 si fissa inoltre nella trattatistica militare successiva. Secondo Onasandro, a un bravo coraggio, se invece si rivelasse opportuno ripiegare, impartendo sagge direttive dall’ultima fila potrebbe verosimilmente salvare i suoi compagni» (Xen. hipp. II 5). 68 Cfr. Thuk. IV 59-64; VI 33-34; VI 76-80. Su Ermocrate di Siracusa si vedano F. Grosso, Ermocrate di Siracusa, «Kokalos» XII (1966), 102-143; H.D. Westlake, Hermocrates the Syracusan, in Essays on the Greek historians and Greek history, New York 1969, 101-122; N.G.L. Hammond, The Particular and the Universal in the speeches in Thucydides with special reference to that of Hermocrates at Gela, in Stadter (Ed.), The Speeches in Thucydides, cit., 49-59; G. Fontana, Alcune considerazioni su Ermocrate siracusano, in I. Gasperini (a cura di), Scritti sul mondo antico in memoria di F. Grosso, Roma 1981, 151-163; M. Sordi, Ermocrate di Siracusa: demagogo e tiranno mancato, in Scritti sul mondo antico, cit., 595-600; C. Bearzot, Τἀπόρρητα ποιεῖσθαι. Ancora su Ermocrate e Teramene, «RIL» CXXVIII (1994), 271-281; G. Vanotti, Quale Sicilia per Ermocrate?, in C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini (a cura di), Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano 2003, 179-197; D. Sinatra, Le accuse allo stratega siracusano Diocle e la politica di Ermocrate, «Thalassa» II (2005), 131145; G. Vanotti, L’Ermocrate di Diodoro: un leader ‘dimezzato’, in C. Bearzot - F. Landucci Gattinoni (a cura di), Diodoro e l’altra Grecia. Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica, Atti del Convegno (Milano, 15-16 gennaio 2004), Milano 2005, 257-281; F. Mattaliano, Forme di associazione nella Sicilia del V secolo a.C., «ὅρμος» VIII (2006), 49-64. 69 Xen. hell. I 1, 30-31 (trad. G. Daverio Rocchi). 70 Xen. Lak. pol. 13, 9: καὶ παρακελεύονται δὲ τ ἐνωμοτάρχῳ· οὐδ' ἀκούεται γὰρ εἰς ἑκάστην πᾶσαν τὴν ἐνωμοτίαν ἀφ' ἑκάστου ἐνωμοτάρχου ἔξω· (trad. L. Canfora). Il passo, tuttavia, può essere inteso anche in altro modo, sulla scorta della traduzione di ἀκούω: piuttosto che col significato proprio di “percepire la voce” con quello di “dare ascolto”. I componenti di ogni enomotia, legati da giuramento a ogni comandante, prestavano ascolto soltanto alle esortazioni provenienti dai propri enomotarchi. Nella testimonianza senofontea, dunque, non necessariamente si deve leggere, a mio avviso, una notizia sull’impossibilità di ascoltare nessun altro al di fuori del proprio comandante. Sulla figura dell’enomotarco si veda anche Xen. Lak. pol. 11, 4. 71 Le notazioni socratiche relative alle capacità oratorie di un buon comandante sembrano contrapporsi decisamente alle dichiarazioni che lo stesso Senofonte mette in bocca a un altro dei suoi personaggi-chiave: nella Ciropedia, Ciro il Grande afferma che «non c’è esortazione al mondo, per quanto efficace, che possa trasformare all’istante in soldati valorosi uomini che valorosi non sono» (Xen. Kyr. III 3, 50). Le parole di Ciro, tuttavia, non intacca il senso delle dichiarazioni dell’Ipparchico, ossia che le strategie oratorie siano doti essenziali di un buon comandante. La considerazione sull’inutilità delle esortazioni, piuttosto, caratterizza efficacemente la figura del ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 30 generale sono esplicitamente richieste abilità dialettiche e forza espressiva per la parenesi bellica: «Bravo oratore: da questa qualità credo verrà all’esercito il vantaggio più grande; quando infatti un comandante schiera l’esercito in vista della battaglia, l’incitamento delle parole lo rende sprezzante dei pericoli e desideroso di gloria; una tromba, quando risuona nelle orecchie, non incita gli animi allo scontro di guerra, così come un discorso – pronunciato per incitamento al valore militare – spinge la volontà di guerra verso i rischi; qualora poi accadesse all’esercito una qualche sventura, l’incoraggiamento della parola risolleva gli animi».72 Le parole del proprio comandante, dalle proprietà “terapeutiche”, sono infatti paragonate alle cure prodigate a un malato dalla scienza medica, delle quali risultano ben più efficaci nel difficile compito di rianimare coloro che si trovano in difficoltà.73 Il paragrafo si chiude con un efficace sillogismo volto ad affermare il valore dell’oratoria militare: «Nessuna città darà vita ad una spedizione militare senza generali, né sceglierà un generale che non abbia familiarità con la facoltà di eloquio».74 Il trattato onasandreo non si distingue per originalità dei contenuti né per le scelte stilistiche; oltretutto per il periodo di composizione dell’opera saremmo più portati a riconoscere una diversa realtà della res militaris, quella romana coeva. Tuttavia, in tale opera, caratterizzata da una notevole sovrapposizione dei piani cronologici che molto spesso porta a dei veri anacronismi,75 la realtà militare ellenica appare presente e viva nel ricordo, soprattutto per il riferimento a fonti greche che, sebbene mai menzionate esplicitamente, risultano comunque riconoscibili. Senofonte, come si diceva, è certamente modello fondante, oltre a Isocrate e Polibio, identificabili in alcune caratterizzazioni del generale.76 Il topos letterario delle esortazioni alle truppe prima di uno scontro si è dunque cristallizzato e si trova pienamente codificato in un’opera che non si segnala per il comandante persiano e il suo disprezzo verso un coraggio che non giunga dalla coscienza del proprio valore personale. 72 Onasand. 1, 13: λέγειν δ' ἱκανόν· ἔνθεν γὰρ ἡγοῦμαι τὸ μέγιστον ὠφελείας ἵξεσθαι διὰ στρατεύματος· ἐάν τε γὰρ ἐκτάττῃ πρὸς μάχην στρατηγός, ἡ τοῦ λόγου παρακέλευσις τῶν μὲν δεινῶν ἐποίησε καταφρονεῖν, τῶν δὲ καλῶν ἐπιθυμεῖν, καὶ οὐχ οὕτως ἀκοαῖς ἐνηχοῦσα σάλπιγξ ἐγείρει ψυχὰς εἰς ἅμιλλαν μάχης, ὡς λόγος εἰς προτροπὴν ἀρετῆς ἐναγωνίου ῥηθεὶς αἰχμάζουσαν ἀνέστησε πρὸς τὰ δεινὰ τὴν διάνοιαν, ἄν τέ τι συμβῇ πταῖσμα περὶ τὸ στρατόπεδον, ἡ τοῦ λόγου παρηγορία τὰς ψυχὰς ἀνέρρωσε. 73 Onasand. 1, 13-14: «Il discorso di un generale, di efficacia tale da alleviare le disgrazie verificatesi fra gli uomini, è di gran lunga più utile dei medici che seguono i feriti. I medici infatti curano con i farmaci solo i feriti, il generale invece rianima coloro che si trovano in difficoltà e ne risolleva gli animi». 74 Onasand. 1, 16. οὐδὲ χωρὶς στρατηγῶν οὐδὲ μία πόλις ἐκπέμψει στρατόπεδον, οὐδὲ δίχα τοῦ δύνασθαι λέγειν αἱρήσεται στρατηγόν. 75 Si veda D. Ambaglio, Il trattato «Sul comandante» di Onasandro, «Athenaeum» LIX (1981), 353- 377, 357. 76 Su tali aspetti si rimanda al volume di C. Petrocelli (a cura di), Onasandro. Il generale. Manuale per l’esercizio del comando, Bari 2008 e ad Ambaglio, Il trattato, cit., 358-366. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 31 suo valore pratico, ma che certamente, come è stato brillantemente sostenuto da Delfino Ambaglio, aveva un suo valore culturale.77 Hansen ritiene che il logos parenetico non possa costituire un genere letterario a sé stante perché non vi sarebbe alcun cenno ad esso nella trattatistica antica. Lo studioso segnala altresì come nella Retorica e nella Retorica ad Alessandro Aristotele dedichi invece ampio spazio alle modalità di composizione dei discorsi deliberativi e giudiziari stupendosi di come «any mention of the genre can be found in rhetorical textbook».78 Sebbene possiamo convenire con Hansen che una vera e propria codificazione del genere non trovi spazio nell’opera aristotelica,79 tuttavia gli argomenti dominanti dei logoi parenetici sembrano espressamente enucleati proprio in un passaggio della Retorica. Il brano, che per l’interesse offerto al tema riporteremo nella sua interezza, fa probabilmente luce sul desiderio aristotelico di sistematicità nei confronti di una materia non ancora pienamente formalizzata: «Queste sono inoltre le disposizioni d’animo nelle quali gli uomini si sentono coraggiosi: quando pensano di aver conseguito molti successi e di non aver sofferto, oppure quando si sono trovati spesso in mezzo ai pericoli e ne sono scampati; è infatti in due modi che gli uomini diventano insensibili di fronte ai pericoli, o perché non li hanno mai sperimentati, o perché hanno la possibilità di trovare aiuti (come ad esempio nelle situazioni di pericolo in mare hanno fiducia nel futuro quelli che non hanno mai sperimentato una tempesta e quelli che, per loro esperienza, dispongono di mezzi di soccorso); inoltre, quando una cosa non incute timore a chi è loro pari, ai loro inferiori o a quelli cui si ritengono superiori (e si ritengono tali rispetto alle persone sulle quali hanno ottenuto il predominio – sia che lo abbiano ottenuto su loro stesse, o sui loro superiori o sui loro pari); e anche quando credono di disporre di mezzi più ampi e più numerosi, superiorità grazie alla quale risultano temibili (e tali mezzi sono l’abbondanza di ricchezze, la forza fisica e quella rappresentata da amici, terre, equipaggiamenti militari: tutte queste cose o le più importanti); quando non abbiano fatto torto a nessuno, o a pochi o a persone tali da non doverle temere; e, 77 Non credo si possa considerare artefatta la tradizione riportata dalle fonti sulle specifiche doti oratorie richieste ai comandanti, tuttavia sarebbe opportuno fare delle distinzioni tra comandanti di cavalleria e di fanteria. Presumibilmente i primi, consapevoli del buon livello culturale dei propri sottoposti, dovevano dedicare più tempo alla preparazione dei discorsi affinché in essi i cavalieri potessero ritrovarvi non solo i nobili principi aristocratici utili a rinsaldare il sentimento di appartenenza al gruppo, ma anche una elaborata costruzione formale. Al contrario, il comandante di eserciti, come si vedrà in seguito, poteva probabilmente concedersi qualche deviazione dalla norma esponendo un discorso meno elaborato formalmente ma che potesse essere recepito e compreso dalla totalità dell’esercito. 78 Cfr. anche Hansen, The battle exhortation, cit., 164: «It is much more important to recognize that the genre is absent from the rhetorical treatise as well». 79 Iglesias Zoido, The battle exhortation, cit., 157-158, conclude la sua analisi affermando che la mancata codificazione sulla battle exhortation da parte della trattatistica antica sia dovuta principalmente al carattere “misto” del genere parenetico che condividerebbe il proprio statuto con le demegoriai, i discorsi funebri e, in generale, con i discorsi legati alla guerra, come quelli assembleari: un dato che giustificherebbe anche le numerose oscillazioni onomastiche da parte degli storiografi. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 32 nel complesso quando la relazione con gli dèi sia buona, in senso generale e in particolare per quel che riguarda segni e oracoli (l’ira ispira infatti coraggio, e il fatto di non aver commesso un torto ma di averlo subito genera ira e si suppone che gli dèi vengano in soccorso di chi subisce ingiustizie); e anche quando, sul punto di intraprendere qualche azione, credono di non dover soffrire alcun male o di avere successo. E abbiamo concluso per ciò che ispira paura o coraggio». 80 In questo passaggio denso di suggestioni, Aristotele enuclea i principali argomenti cui un oratore può attingere al fine di infondere coraggio al proprio uditorio. Gli stati d’animo in cui gli uomini si sentono coraggiosi, infatti, sono – come ricorda lo stesso Aristotele – la frequente esperienza, o, al contrario, la totale inconsapevolezza dei pericoli, la sicurezza che, in previsione di una minaccia, scaturisce dalla coscienza della propria preparazione, dalla consapevolezza dei mezzi posseduti, dalla propria posizione in relazione alle circostanze e dalla posizione degli avversari ritenuti pari o inferiori e, infine, la legittimità del proprio agire in virtù di una relazione positiva con la divinità. Il passo in questione, dunque, assolvendo a una precisa funzione espositiva, crea una sorta di repertorio di argomenti utili per la composizione di un logos parenetico. La maggior parte di questi aspetti sono già riscontrabili nei logoi tucididei: ad esempio, l’esperienza dei pericoli e la grandezza dei mezzi a disposizione sono i due capisaldi del discorso parenetico del re spartano Archidamo nell’imminenza della prima invasione dell’Attica, 81 il favore delle condizioni contingenti è ricordato da Demostene nel suo logos a Pilo,82 la legittimità della propria posizione in rapporto alla divinità si trova nell’esortazione del 80 Aristot. rhet. 1383 a 19 - 1383 b 19: ἔστι δὲ θαρραλέα τά τε δεινὰ πόρρω ὄντα καὶ τὰ σωτήρια ἐγγύς, καὶ ἐπανορθώσεις ἂν ὦσι καὶ βοήθειαι πολλαὶ ἢ μεγάλαι ἢ ἄμφω, καὶ μήτε ἠδικημένοι μήτε ἠδικηκότες ὦσιν, ἀνταγωνισταί τε ἢ μὴ ὦσιν ὅλως, ἢ μὴ ἔχωσιν δύναμιν, ἢ δύναμιν ἔχοντες ὦσι φίλοι ἢ πεποιηκότες εὖ ἢ πεπονθότες, ἢ ἂν πλείους ὦσιν οἷς ταὐτὰ συμφέρει, ἢ κρείττους, ἢ ἄμφω. αὐτοὶ δ' οὕτως ἔχοντες θαρραλέοι εἰσίν, ἂν πολλὰ κατωρθωκέναι οἴωνται καὶ μὴ πεπονθέναι, ἢ ἐὰν πολλάκις ἐληλυθότες εἰς τὰ δεινὰ καὶ διαπεφευγότες ὦσι· διχῶς γὰρ ἀπαθεῖς γίγνονται οἱ ἄνθρωποι, ἢ τ μὴ πεπειρᾶσθαι ἢ τ βοηθείας ἔχειν, ὥσπερ ἐν τοῖς κατὰ θάλατταν κινδύνοις οἵ τε ἄπειροι χειμῶνος θαρροῦσι τὰ μέλλοντα καὶ οἱ βοηθείας ἔχοντες διὰ τὴν ἐμπειρίαν. καὶ ὅταν τοῖς ὁμοίοις φοβερὸν μὴ ᾖ, μηδὲ τοῖς ἥττοσι καὶ ὧν κρείττους οἴονται εἶναι· οἴονται δὲ ὧν κεκρατήκασιν ἢ αὐτῶν ἢ τῶν κρειττόνων ἢ τῶν ὁμοίων. καὶ ἂν ὑπάρχειν αὑτοῖς οἴωνται πλείω καὶ μείζω, οἷς ὑπερέχοντες φοβεροί εἰσιν· ταῦτα δέ ἐστι πλῆθος χρημάτων καὶ ἰσχὺς σωμάτων καὶ φίλων καὶ χώρας καὶ τῶν πρὸς πόλεμον παρασκευῶν, ἢ πασῶν ἢ τῶν μεγίστων. καὶ ἐὰν μὴ ἠδικηκότες ὦσιν μηδένα ἢ μὴ πολλοὺς ἢ μὴ τούτους παρ' ὧν φοβοῦνται, καὶ ὅλως ἂν τὰ πρὸς τοὺς θεοὺς αὐτοῖς καλῶς ἔχῃ, τά τε ἄλλα καὶ τὰ ἀπὸ σημείων καὶ λογίων· θαρραλέον γὰρ ἡ ὀργή, τὸ δὲ μὴ ἀδικεῖν ἀλλ' ἀδικεῖσθαι ὀργῆς ποιητικόν, τὸ δὲ θεῖον ὑπολαμβάνεται βοηθεῖν τοῖς ἀδικουμένοις. καὶ ὅταν ἐπιχειροῦντες ἢ μηδὲν ἂν παθεῖν *μηδὲ πείσεσθαι+ ἢ κατορθώσειν οἴωνται. καὶ περὶ μὲν τῶν φοβερῶν καὶ θαρραλέων εἴρηται (trad. M. Dorati). 81 Thuk. II 11, 1: «Peloponnesiaci e alleati! Anche i nostri padri intrapresero molte spedizioni all’interno del Peloponneso e fuori, ed i più anziani tra noi non sono privi di esperienze di guerra. Mai però fino ad ora avevamo condotto una spedizione con un apparato bellico più poderoso di questo» (trad. M. Cagnetta). Altri esempi in merito all’esperienza dei pericoli in Thuk. II 87, 1; IV 92, 3. 82 Cfr. Thuk. IV 9, 4 -10, 5. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 33 beotarco Pagonda di Eolade ai Beozi.83 Un caso esemplare è il logos parenetico di Brasida84 rivolto probabilmente ai soli trecento soldati di retroguardia con lui nella regione macedone della Lincestide.85 I cardini dell’esortazione riguardano il valore degli uomini cui è rivolta e il disprezzo per il nemico da affrontare: «Costoro rappresentano una prospettiva temibile per quelli che non li conoscono: si presentano, infatti, come temibili alla vista a causa del loro numero e l’intensità delle loro grida è difficile da sopportare, mentre il loro agitare le armi a vuoto ha un effetto minaccioso. Tuttavia, quando si tratta di venire alle mani contro avversari che sopportano queste manifestazioni, risultano ben diversi: non disponendo, infatti, di uno schieramento, non sono indotti a vergognarsi di abbandonare una posizione quando vengono incalzati; inoltre, dal momento che la fuga e l’attacco sono considerati presso di loro ugualmente onorevoli, anche il loro coraggio non viene messo alla prova, mentre una battaglia, nella quale ciascuno si comporta in maniera autonoma, offre i migliori pretesti per mettersi in salvo in maniera decorosa».86 Sembra inoltre che la modalità di rielaborazione dei discorsi praticata da Tucidide assuma una precisa funzione testuale: attraverso una prolessi narrativa degli eventi la maggior parte delle circostanze segnalate dai comandanti nei logoi parenetici si verifica puntualmente nel corso della narrazione. La lungimiranza 83 Thuk IV 92, 7: «fiduciosi che sarà dalla nostra parte il dio di cui empiamente i nemici occupano il tempio con un forte, e fiduciosi per le vittime che nei nostri sacrifici appaiono favorevoli, devono attaccare costoro» (trad. F. Ferrari). 84 Thuk. IV 125. Importante è in questo discorso di Brasida il riferimento alla διδαχή su cui cfr. Petrocelli (a cura di), Onasandro. Il generale, cit., n. 43, 149: «Brasida vuole offrire una διδαχή incentrata sul valore degli uomini che ha dinanzi, grazie al quale si sono ottenute molte vittorie ma anche la δυναστεία; i barbari sono terribili solo in apparenza, ma fanno più affidamento sul terrore che incutono piuttosto che sulle reali capacità belliche, per le quali si dimostrano disorganizzati e vili». Si veda anche Hammond, The Particular and the Universal, cit., 50: «The particular elements are minimal: the dismay of the deserted Greeks, the yelling and spear-brandishing of the Illyrian savages, and the tactic Brasidas advised of standing firm under attack and of orderly withdrawal as occasion offered. The universal elements are prominent; they are what Brasidas calls ta megista (126.1). They are as follows. Prowess in battle is due to aretê, itself developed in a society which is free and is not dominated by a military clique. Any unknown opponent is alarming; to learn his true measure is advantageous if he is weaker than he seems but may be disadvantageous if he is stronger than he seems. Free range fighting permits a man to run away: but fighting in a regiment under discipline involves a sense of honor and an obligation to stand one’s ground. […] That the universal elements far out-weigh the particular elements is due not only to Thucydides’ preference for the universal but also to the fact that the actual words of Brasidas could hardly have been obtained by him». 85 Forse esorta i soli trecento soldati scelti che erano di retroguardia con lui e non l’intero esercito. Si veda Longo, I discorsi tucididei, cit., 147. 86 Thuk. IV 126, 5: οὗτοι δὲ τὴν μέλλησιν μὲν ἔχουσι τοῖς ἀπείροις φοβεράν· καὶ γὰρ πλήθει ὄψεως δεινοὶ καὶ βοῆς μεγέθει ἀφόρητοι, ἥ τε διὰ κενῆς ἐπανάσεισις τῶν ὅπλων ἔχει τινὰ δήλωσιν ἀπειλῆς. προσμεῖξαι δὲ τοῖς ὑπομένουσιν αὐτὰ οὐχ ὁμοῖοι· οὔτε γὰρ τάξιν ἔχοντες αἰσχυνθεῖεν ἂν λιπεῖν τινὰ χώραν βιαζόμενοι ἥ τε φυγὴ καὶ ἡ ἔφοδος αὐτῶν ἴσην ἔχουσα δόξαν τοῦ καλοῦ ἀνεξέλεγκτον καὶ τὸ ἀνδρεῖον ἔχει (αὐτοκράτωρ δὲ μάχη μάλιστ' ἂν καὶ πρόφασιν τοῦ σῴζεσθαί τινι πρεπόντως πορίσειε), τοῦ τε ἐς χεῖρας ἐλθεῖν πιστότερον τὸ ἐκφοβῆσαι ὑμᾶς ἀκινδύνως ἡγοῦνται (trad. M. Moggi). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 34 degli strateghi sembra assolvere una particolare finalità di caratterizzazione dell’ethos: le previsioni di Archidamo 87 e di Formione,88 ad esempio, hanno un preciso riscontro nelle successive azioni militari e la stessa parenesi di Demostene a Pilo ha il merito di incidere direttamente sugli eventi futuri (nel caso specifico gli Ateniesi riusciranno a mantenere una difficile posizione sul territorio spartano). La circostanza prolettica non si verifica però indiscriminatamente in tutti i logoi. La prassi storiografica di Tucidide non si lascia cristallizzare in formule standardizzate e la sua procedura compositiva offre anche un eloquente prototipo di deviazione dalla norma: è il caso della “inadeguata” parenesi di Nicia ai trierarchi prima dell’ultima battaglia navale contro i Siracusani. 89 Lo sventurato stratego ateniese, conscio della pericolosa situazione del suo esercito in Sicilia, poco prima della definitiva disfatta, chiama a raccolta i trierarchi ricordando loro i principali argomenti parenetici: il valore dei padri, la libertà della patria e «tutti quegli argomenti a cui gli uomini, quando si trovano in un frangente del genere, fanno sempre ricorso senza curarsi di aver l’aria di ripetere vecchi discorsi triti e ritriti, sempre simili in ogni occasione – i richiami alle mogli, ai figli, agli dei patrii – ma che pure vengono gridati a gran voce perché si ritiene che siano effettivamente utili nel momento in cui la paura regna sovrana». 90 L’evidenza di una crepa estesa che incrina la fede dottrinaria del momento parenetico è eloquente spia di un sentimento di fuga dalle prescrizioni imposte da un genere letterario, circostanza questa che, contestualizzata, restituisce anche una lucida caratterizzazione del “personaggio” Nicia, la cui mancata fiducia nell’incisività della parenesi si traduce inevitabilmente in un’inefficacia sul versante militare. Una volta rilevata l’importanza della prassi allocutiva parenetica e dell’oratoria quale arma essenziale della «panoplia di un comandante»91 e segnalata la consuetudine invalsa nella storiografica greca di indicare le modalità pratiche di allocuzione delle esortazioni attraverso notazioni sulla disposizione dell’uditorio e sulle strategie allocutive, riteniamo che sussista la possibilità concreta che i logoi parenetici potessero essere effettivamente pronunciati e ascoltati dalle truppe schierate. Ogni singolo contesto andrà altresì analizzato in relazione alle circostanze, al tipo di uditorio e al momento di allocuzione. Le procedure compositive dei logoi, infatti, variano in relazione agli obiettivi e alle scelte stilistiche operate dal singolo storico: in Tucidide, la rielaborazione storiografica è 87 Thuk. II 10, 3-11. Anche U. Fantasia (a cura di), Tucidide. La guerra del Peloponneso. Libro II, Pisa 2003, 260, nota un certo parallelismo tra le riflessioni di Archidamo e lo svolgimento delle vicende in 21, 2. 88 Si veda soprattutto Thuk. II 90, 3. 89 Cfr. D. Lateiner, Nicias’ inadequate Encouragement (Thucydides 7. 69. 2), «CPh» LXXX (1985), 201-213. 90 Thuk VII 69, 2 (trad. A. Corcella). 91 P. Fleury, La flûte, le générale et l’esclave: analyse de certaines métaphores rhétoriques chez Fronton, «Phoenix» LV (2001), 108-123. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 35 senz’altro presente e fedele agli intenti programmatici di I 22;92 in Erodoto, i logoi sembrano costruiti su una serie di notazioni schematiche reperibili dalle fonti; in Senofonte, generale e storico allo stesso tempo, appare costante il ricorso a indicazioni sulle capacità oratorie di un comandante di eserciti. Le massime stilisticamente elevate contenute nei brani degli storici sono probabilmente distanti dalla prassi allocutiva; tuttavia, per ritenere artificioso l’intero genere non si ritiene probante il tema dell’impossibilità dell’ascolto del messaggio parenetico. Senz’altro, discorsi tanto elaborati si confacevano più ai fruitori delle opere storiche che alle schiere dei soldati, ma non appare un criterio metodologicamente corretto concludere che tutte le allocuzioni ampie e articolate non potessero avere luogo.93 A questo proposito,94 sembrano importanti alcune notazioni plutarchee. Il biografo di Cheronea, nel suo trattato Sull’arte di ascoltare, mette in guardia proprio dalle trappole insite in una copiosa dissertazione: «Come in guerra, così anche in un ascolto ci sono molti vani apparati: la canizie, l’intonazione suadente, lo sguardo accigliato e la tendenza all’autoelogio di chi parla, ma soprattutto le acclamazioni, gli applausi e i sobbalzi del pubblico sconcertano l’ascoltatore giovane e inesperto, che finisce per essere trascinato via dalla corrente». 95 E ancora più oltre: «la maggior parte dei sofisti, quando disserta o declama, non si limita a utilizzare le parole per velare i pensieri, ma, addolcendo la voce con modulazioni, morbidezze e trilli, manda in delirio e in visibilio l’uditorio».96 Le grida degli altri soldati, lo spirito di commilitanza, magari anche una nutrita claque coinvolgevano il singolo soldato in una sorta di ebbrezza da retorica bellica. 92 Il noto capitolo metodologico è testimonianza imprescindibile sulle procedure compositive dei discorsi tucididei. Cfr. Thuk. I 22, 1: «E quanto ai discorsi che ciascuno pronunciò o nella fase che immediatamente precedette la guerra o durante il suo svolgimento, era difficile ricordare puntualmente alla lettera le parole dette: sia per me, relativamente ai discorsi che io stesso udii, sia per coloro che me li riferivano attingendo alle varie fonti. I discorsi perciò li ho scritti – attenendomi beninteso al senso generale di ciò che fu effettivamente detto – come a me pareva che ciascuno avrebbe appropriatamente parlato nelle varie circostanze» (trad. L. Canfora). 93 È probabile che qualche deroga alla veridicità storica a favore di una rappresentazione d’effetto sia stata compiuta in alcune circostanze, ma ciò non può e non deve essere ritenuta la norma. A questo proposito si vedano le conclusioni di Anson, The General’s, cit., 317: «While Hansen is certainly correct that those speeches supposedly given to large numbers of soldiers spread across half a mile or more are fictional, a relatively small force could be and probably was addressed in toto». 94 Cfr. K. Yellin, Battle Exhortation: the rhetoric of combat leadership, University of South Carolina 2008. Lo studioso, comandante di marina e dottore di ricerca in scienze della comunicazione, che analizza i diversi livelli cronologici delle esortazioni da campo, partendo proprio dal mondo greco, sottolinea come anche il solo tono della voce possa avere un effetto rassicurante, come nel caso dei neonati e degli animali, e spesso anche la sola vista del comandante serva a infondere coraggio negli animi dei soldati. Probabilmente più i discorsi erano lunghi più i soldati venivano confortati dal suono della voce della propria guida, che magari segnalava con il tono di voce concetti e parole chiave che potevano essere ribaditi più volte nel corso dell’esortazione con effetti sui soldati più rassicuranti certamente dei brevi incitamenti. 95 Plut. mor. 41 b-c (trad. G. Pisani, come la successiva). 96 Plut. mor. 41 c. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 36 Proprio sullo scarto sussistente tra prassi militare e retorica libresca è significativa una testimonianza di Polibio:97 lo storico acheo, riportando i maggiori capi d’accusa contro il predecessore Timeo, definisce i tre livelli di ciò che lui ritiene «il caposaldo degli avvenimenti che tiene insieme l’intera materia storica»; essi sarebbero: i discorsi pubblici (demegoriai), le esortazioni (parakleseis) e i discorsi degli ambasciatori (presbeutikoi logoi). Per ciascuno dei tre tipi Polibio riporta un preciso esempio tratto dall’opera timaica: rispettivamente il logos di Ermocrate a Gela nel 424 a.C.,98 la parenesi bellica di Timoleonte al Crimiso99 nel 340/339 a. C. e il noto logos100 di Gelone agli ambasciatori greci nel 480 a.C. Il testo del secondo passaggio, quello sulle esortazioni belliche, recita così: «E che dire poi di quel passo in cui Timoleonte, nel medesimo libro, esorta i Greci alla battaglia contro i Cartaginesi, proprio mentre erano sul punto di scontrarsi con nemici superiori per numero? Innanzi tutto, Timoleonte consiglia ai suoi di non considerare il numero degli avversari, ma la loro mancanza di coraggio. – Difatti – dice – pur essendo tutta quanta la Libia ininterrottamente abitata e piena di uomini, tuttavia nei proverbi, quando intendiamo accentuare l’idea di solitudine, noi diciamo “più solitario della Libia”, non certo riferendoci alla mancanza di popolazione ma all’assenza di coraggio dei suoi abitanti. E, in generale – dice Timoleonte – chi potrebbe aver paura di persone tali che, nonostante la natura abbia conferito al genere umano una peculiarità rispetto agli altri animali, alludo alle mani, se le portano tuttavia appresso inoperose per tutta la vita, tenendole nascoste dentro le tuniche? Ma la cosa peggiore – aggiunge – è il fatto che i Cartaginesi, sotto le loro tunichette, portino delle mutande, in modo da non farsi vedere dai nemici durante le battaglie quando muoiono…».101 In primo luogo, Polibio si stupisce del contenuto certo inadatto al tenore di un’orazione bellica, ma non dell’orazione in sé, e neanche del momento in cui 97 Pol. XII 25 a. Su cui cfr. anche Thuk. IV 59-64. Su Ermocrate si veda supra, n. 68. 99 Su Timoleonte si vedano M.J. Fontana, Fortuna di Timoleonte. Rassegna delle fonti letterarie, «Kokalos» IV (1958), 3-23; M. Sordi, Timoleonte, Palermo 1961, Ead., Timeo e Atanide, fonti per le vicende di Timoleonte, «Athenaeum» LV (1977), 239-249; S. Dagasso, Timoleonte a Corinto, «ACME» LIX (2006), 322; C. Bearzot, La Sicilia isola «sacra a Demetra e a Core» (Diod. 16.66.4-5), «Aristonothos» II (2008), 141151. 100 Si rimanda a S. Cataldi, Tradizioni e attualità nel dialogo dei messaggeri greci con Gelone (Erodoto VII 157-162), in M. Giangiulio (a cura di), Erodoto e il ‘modello erodoteo’. Formazione e trasmissione delle tradizioni storiche in Grecia, Trento 2005, 123-171. 101 Pol. XII 26, a: Τί δὲ πάλιν ὅταν ὁ Τιμολέων ἐν τῇ αὐτῇ βύβλῳ παρακαλῶν τοὺς 98 Ἕλληνας πρὸς τὸν ἐπὶ τοὺς Καρχηδονίους κίνδυνον, καὶ μόνον οὐκ ἤδη μελλόντων συνάγειν εἰς τὰς χεῖρας τοῖς ἐχθροῖς πολλαπλασίοις οὖσι, πρῶτον μὲν ἀξιοῖ μὴ βλέπειν αὐτοὺς πρὸς τὸ πλῆθος τῶν ὑπεναντίων, ἀλλὰ πρὸς τὴν ἀνανδρίαν; καὶ γὰρ τῆς Λιβύης ἁπάσης συνεχῶς οἰκουμένης καὶ πληθυούσης ἀνθρώπων, ὅμως ἐν ταῖς παροιμίαις, ὅταν περὶ ἐρημίας ἔμφασιν βουλώμεθα ποιῆσαι, λέγειν ἡμᾶς ‘ἐρημότερα τῆς Λιβύης’, οὐκ ἐπὶ τὴν ἐρημίαν φέροντας τὸν λόγον, ἀλλ' ἐπὶ τὴν ἀνανδρίαν τῶν κατοικούντων. καθόλου δέ, φησί, τίς ἂν φοβηθείη τοὺς ἄνδρας, οἵτινες τῆς φύσεως τοῦτο τοῖς ἀνθρώποις δεδωκυίας ἴδιον παρὰ τὰ λοιπὰ τῶν ζῴων, λέγω δὲ τὰς χεῖρας, ταύτας παρ' ὅλον τὸν βίον ἐντὸς τῶν χιτώνων ἔχοντες ἀπράκτους περιφέρουσι; τὸ δὲ μέγιστον ὅτι καὶ ὑπὸ τοῖς χιτωνίσκοις, φησί, περιζώματα φοροῦσιν, ἵνα μηδ' ὅταν ἀποθάνωσιν ἐν ταῖς μάχαις φανεροὶ γένωνται τοῖς ὑπεναντίοις ... (trad. M. Sonnino). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive | 37 veniva pronunciata, sintomo ormai delle poche deroghe a criteri di verosimiglianza che il paradigma della parenesi bellica nella storiografia, fissato da Tucidide, concedeva e in cui l’intento moralistico e quello letterario erano senz’altro prevalenti. Polibio, secondo Vattuone «totalmente inadatto, quanto a mentalità e cultura, per comprendere ed accogliere la storiografia timaica», 102 si stupisce degli sciocchi proverbi menzionati da Timoleonte e riferiti da Timeo. Quest’ultimo, tuttavia, com’è noto, proprio sul comandante corinzio, aveva presumibilmente materiale di prima mano, dati i rapporti sussistenti tra Timoleonte e il tiranno Andromaco, padre dello storico tauromenita. Probabilmente Polibio, preso dalla foga della sua critica non è in grado di comprendere l’operazione timaica che, riportando la parenesi bellica timoleontea, fa luce proprio sullo scarto sussistente tra l’elaborazione storica e la realtà di campo, dove i richiami alla tapéinosis del nemico, alla sua sventura, all’abbandono degli dèi, venivano certo declinati in maniera diversa rispetto all’elaborata retorica tucididea. Battute volgari e conclusioni semplicistiche sui costumi cartaginesi non oscurano certo la figura del condottiero corinzio; piuttosto, aiutano a comprendere meglio la sua figura storica, le sue abilità oratorie e i felici rapporti instaurati con le truppe, di cui dimostra di conoscere bene il livello culturale. L’operazione timaica sul successo del Crimiso è spia eloquente di una tendenza critica sviluppatasi nei confronti delle convenzioni “sceniche” della battle exhortation e di cui il punto d’approdo è una notazione plutarchea nei Politika Paraggelmata. Lo scrittore di Cheronea, dopo aver lodato lo stile solenne e grandioso delle Filippiche e, fra i discorsi di Tucidide, quello dell’eforo Stenelaida, del re Archidamo a Platea e di Pericle dopo lo scoppio della peste, con un’efficace citazione di un verso appartenente al perduto dramma satiresco euripideo Autolico,103 stigmatizza un genere letterario la cui divaricazione dalla pratica da campo era ormai percepita come netta: «Quanto invece agli artifici retorici e alle frasi tornite che Eforo, Teopompo e Anassimene, fanno pronunciare dopo aver armato e schierato a battaglia gli eserciti, si può dire che: nessuno, vicino al ferro, è tanto sciocco!».104 Francesca Mattaliano Dipartimento di Beni culturali Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, 90128 Palermo [email protected] on line dal 15 giugno 2011 102 71. R. Vattuone, Sapienza d’Occidente. Il pensiero storico di Timeo di Tauromenio, Bologna 1991, 110 n. 103 L’intero frammento è conservato da Ateneo (X 5, 413 C). Sull’Autolico si vedano F. Angiò, Euripide. Autolico, fr. 282 N.2, «Dioniso» LXII/2 (1992), 83-94; A. Iannucci, Euripide (satiresco) e gli ‘sportivi’: note di lettura a Eur. fr. 282 N2, «Quaderni di Filologia, Linguistica e Tradizione Classica dell’Università di Torino» XI (1998), 31-48; N.P., Euripides Satyrographos, Stuttgart-Leipzig 1998. 104 Plut. mor. 803 b : «Οὐδεὶς σιδήρου ταῦτα μωραίνει πέλας» (trad. G. Pisani). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37 CARMELA RACCUIA Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio La stimolante tematica proposta da Lia Marino per questo – ormai regolare – appuntamento in seno alle attività del Dottorato di ricerca da lei diretto, è per me un’occasione preziosa per mettere a fuoco riflessioni sedimentate nel tempo e nuovi spunti di analisi sulla fenomenologia del binomio truppe-comandanti nella Sicilia greca. In particolare, nel vasto campo della polemologia, sempre attuale e proficuo per messe di contributi,1 la mia attenzione è attirata dalle implicazioni sociali ed istituzionali sottese alla formazione di eserciti poleici variamente articolati, e, in seno alla catena di comando, dall’esplorazione nei “quadri” intermedi, liminali tra l’espletamento di un mandato civico, il concreto apprendistato nell’esercizio del potere militare, l’irresistibile tentazione di tradurre tale comando in potere tirannico.2 1 Ricordo, tra i più recenti, i due volumi di Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico (VIIIIII sec. a.C.), Arte, prassi e teoria della pace e della guerra, Atti delle quinte giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo (Erice, 12-15 ottobre 2003), Pisa 2006; P. Sauzeau - T. Van Compernolle, Les armes dans l‟antiquité: de la technique à l‟imaginaire (Montpellier, 20-23 marzo 2003), Montpellier 2007; E.L. Wheeler (Ed.), The armies of classical Greece, Aldershot 2007. Sul tema rinvio ai contributi – densi di riferimenti bibliografici e rassegna delle interpretazioni antiche e moderne – di P. Cartledge, La nascita degli opliti e l‟organizzazione militare, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 2: Una storia greca I. Formazione, Torino 1996, 681-714; K-J. Hölkeskamp, La guerra e la pace, ibid., II. Definizione, Torino 1997, 481-539; M. Bettalli, L‟esercito e l‟arte della guerra, ibid., III. Trasformazioni, 728-742, nonché all’agile dossier di A. Cristofori, La guerra, ibid., 4: Atlante, I, Torino 2002, 421-526. 2 In questa direzione, se statisticamente è significativo l’esito della carica di stratega, non meno ricche di opportunità appaiono altre funzioni, come quella di ipparco su cui più oltre indugerò. Per il dossier sulle “carriere” dei tiranni, H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, München 1967; sulla strategia autocratica H. Scheele, ΣΡΑΣΗΓΟ ΑΤΣΟΚΡΑΣΩΡ. Staatsrechtliche Studien zur griechischen Geschichte des 5. und 4. Jahrhunderts, Leipzig 1932; su casi particolari C. Bearzot, Strategia autocratica e aspirazioni tiranniche. Il caso di Alcibiade, «Prometheus» XIV (1988), 39-57, e per la realtà focidese S. Consolo Langher, Stati federali greci, Messina 1996, 201-208, 219-223. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 39 1. Mi sembra opportuno premettere ai casi di studio su cui mi soffermerò alcune considerazioni d’ordine generale sul nodo problematico dell’organizzazione militare nelle poleis greche di Sicilia. È evidente infatti che le modalità dell’insediamento, la correlata difesa ai fini di uno stabile radicamento e, perché no, di un’auspicabile espansione, debbono avere imposto alle comunità la tempestiva costituzione di un potenziale militare non episodico ma affidabile ed immediatamente attivo. Invero, nelle apoikiai di Sicilia gli echi di conflitti con residenti ostili filtrano, già all’atto di fondazione, per Siracusa, Lentini, Gela, Agrigento: l’espulsione dei Siculi da Ortigia comportò un conflitto, al pari degli scontri nel territorio leontinoo, presentati col termine polemos;3 mura furono costruite per tempo a Gela4 e, secondo una tradizione eterodossa, vi effettuarono servizio di phylakia5 quegli antenati di Terone che vantavano una compartecipazione alla fondazione di Agrigento dopo una vittoria sui “barbari”;6 e ancora, l’ecista Antifemo si era vittoriosamente scontrato con i Sicani. 7 Registriamo, in controtendenza, la munificenza di un «principe amico»8 locale, Iblone, ma i Siculi di Ortigia – e, verosimilmente non solo loro – finirono sconfitti, scacciati e destinati alla schiavitù.9 3 In Thuc. VI 3, 2-3, ricorrono i termini exelaunein e polemos; per Lentini vd. anche Polyaen. V 5, 1. Su questa ed altre fondazioni è canonico il rinvio a J. Bérard, La colonisation grecque de l‟Italie méridionale et de la Sicile dans l‟Antiquité, Paris 1957, trad. it. La Magna Grecia, Torino 1963, nonché alle singole voci in BTCGI. 4 Thuc. VI 4, 3 (è la celebre e problematica connessione con Lindioi, su cui si vedano la recente messa a punto di P. Anello, La storia di Gela antica, in «Per servire alla storia di Gela», Colloquio I.S.S.A. (Gela, 2-3/X/1998), «Kokalos» XLV (1999), 386-398 ed il contributo di R. Sammartano, Le tradizioni letterarie sulla fondazione di Gela e il problema di Lindioi, ibid., 471-499). 5 In Schol. Pind. Pyth. II 15d, alla vulgata sulla agiatezza di Terone, accolta da Ippostrato, si oppone la malevola versione sui progonoi emmenidi che vivevano stentatamente a Gela ἐπὶ φυλακῇ μισθαρνούντες. In chiave di organizzazione militare, la menzione della phylakia è comunque rilevante, al di là della sua afferenza al vivace dibattito su itinerario, nobiltà e ricchezza degli ascendenti di Terone (su cui mi sono soffermata in La fondazione di Gela, «Kokalos» XXXVIII (1992), 273-302, partic. 289 ss.). 6 Schol. Pind. Ol. II 15b. 7 Per il saccheggio di Omface, Paus. VIII 46, 2 e IX 40, 4. Nell’amplificare le difficoltà affrontate da Antifemo ed Entimo per realizzare la ktisis, Artemone ricorda infine le lotte nel territorio contro i Sicani (ap. Schol. Pind. Ol. II 16b= FGrHist 569 F1). 8 Le peripezie del gruppo megarese in Thuc. VI 4, 1. Mutuo la definizione da D. Musti, La Magna Grecia, Roma-Bari 2005, 62 ss., ove si focalizza l’importanza del “potere locale amico” in area magnogreca. 9 Con antagonisti siculi sono generalmente identificati i douloi, detti Cilliri, che più tardi collaborarono col demos di Siracusa per scacciarne i Gamoroi: Hdt. VII 155, 2 (è l’antefatto alla situazione critica che sfociò nell’appello rivolto da costoro a Gelone, ancora signore di Gela, perché intervenisse a mediare in Siracusa, nel 485/4 a.C.). Su ciò B. Bravo, Citoyens et libres non citoyens dans les cités coloniales à l‟époque archaïque. Le cas de Syracuse, in R. Lonis (Éd.), L‟étranger dans le monde grec, 2, Nancy 1992, 43-85; N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia, Firenze 1994, 281 ss.; G. Mafodda, La monarchia di Gelone tra pragmatismo, ideologia e propaganda, Messina 1996, 67 ss.; S. Consolo Langher, Un imperialismo tra democrazia e tirannide: Siracusa nei secoli V e IV a.C., Roma 1997, 4 ss.; M. Hofer, Tyrannen, Arystokraten, Demokraten. Untersuchungen zu Staat und Herrschaft im griechischen Sizilien von Phalaris bis zum Aufstieg von Dionysios I, Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt a.M.-New York-Wien 2000, 84 ss. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 40 Come si rispose dunque da parte degli apoikoi alla necessità di strutturare l’organizzazione militare delle neonate comunità, atteso che vecchi e nuovi contrasti con precedenti occupanti il territorio si profilano come una realtà endemica ravvivata dall’infittirsi di fondazioni secondarie, fossero esse vere e proprie comunità poleiche che phrouria utili al controllo politico, militare ed economico di una chora dilatata? Gli ecisti e la prima generazione di apoikoi, consapevoli che machai, polemos ed eris appaiono inestirpabili dall’esperienza relazionale umana,10 affrontata l’emergenza del primo impatto, debbono aver considerato come vitale l’esigenza di disporre durevolmente di truppe addestrate, funzionali ad azioni militari efficaci, sia di tipo puramente difensivo che di respiro espansionistico, tradottosi anzi, ben presto, in aspirazione egemonica. Tra i modelli disponibili importati dagli ecisti – talora prestigiosi rampolli di ascendenza eroica, come l’eraclide Archia – l’ipoteca culturale omerica poteva aver operato in duplice direzione, attivando da un lato l’ambizione di emulare eroi esemplari, conduttori di popoli (ἡγεμόνες… καὶ κοίρανοι),11 dall’altro enfatizzando, in un contesto di frontiera, la maniera greca di combattere κόσμηθεν ἅμ᾿ ἡγεμόνεσσιν ἕκαστοι, cioè ordinatamente e sinergicamente,12 disposti in file serrate ed incalzanti, in silenzio e timorosi dei capi,13 con un diakosmos opposto allo sciamare urlante degli “altri guerrieri” «simili a gru che stridono in cielo quando fuggono l’inverno e le sue piogge incessanti…».14 En passant, in merito ai concetti di taxis e kosmos va ricordato come il saggio Nestore suggerisca e motivi la migliore disposizione delle truppe: «dividi gli uomini kata phyla, kata phretras, o Agamennone, perché fra di loro si aiutino…; se fai così e gli Achei ti obbediscono, saprai allora chi dei duci, chi dei guerrieri è vile o valoroso; combatteranno a gruppi distinti; e saprai se è volontà degli dei che tu non abbatta la città, oppure è viltà degli uomini e ignoranza di guerra». 15 Che si 10 Paradigmatica l’ampia genealogia della Notte, madre di Eris, che a sua volta genera Πόνον ἀλγινόεντα… ῾Τσμίνας τε Μάχας τε Υόνους τ᾿ Ἀνδροκτασίας, nonché Pseudea, Logoi, Dysnomie, Ate, Horkos: Hes. Theog. 223-232, da affiancare ad Op. 14-15, dove la cattiva Eris è detta nutrice di polemos e dēris. 11 Hom. Il. II 487, in avvio a quel Catalogo delle navi, la cui composizione e confluenza nel poema è oggetto di serrato dibattito tra chi lo ritiene un fossile dall’età micenea e chi vi scorge riflessi di epoche successive: vd. D. Marcozzi - M. Sinatra, Il catalogo delle navi: un problema ancora aperto, «SMEA» XXV (1984), 303-316 e Alcuni aspetti del «Catalogo delle navi» del II libro dell‟«Iliade» come riflesso di una situazione di transizione, in D. Musti (a cura di), La transizione dal Miceneo all‟Alto Arcaismo. Dal palazzo alla città, Atti del Convegno internazionale (Roma, 14-19 marzo 1988), Roma 1991, 145-154; F. Bertolini, La guerra di Troia, in I Greci, cit., 2. I, 1227-1230 (con altra bibliografia). Per i termini koiranos e poimen laon cfr. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969, II, 89-95. Quanto ad Achille e Aiace, è noto come essi costituissero, ancora agli occhi di Aristotele, eroi esemplari per megalopsychia (Analit. poster. II 13, 97 b). 12 Hom. Il. III 1. 13 Il. IV 427-432: ἐπασσύτεραι Δαναῶν κίνυντο φάλαγγες Éνωλεμέως πόλεμόνδε…κ.τ.λ.. 14 Hom. Il. III 2-6 (trad. M.G. Ciani, Iliade, Torino 1998, 205). Per la coppia di opposti diakosmos e diaspasma si vedano, ad es., Thuc. IV 93, 5 e Plut. Lyc. XXII 5. 15 Hom. Il. II 362-368, su cui A. Andrewes, Phratries in Homer, «Hermes» LXXXIX (1961), 120-140; P. Carlier, La regalità: beni d‟uso e di prestigio, in I Greci, cit., 2. I, 255-294, partic. 263 s.; J.K. Davies, Strutture e suddivisioni delle poleis arcaiche, ibid., 599-652, partic. 607 ss. In generale, su questi ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 41 tratti di una modalità realmente esperita nella cd. età eroica o di una retrodatazione della pratica e dell’etica oplitica (quali si apprezzano, ad es., nell’elegia parenetica di Tirteo) in questi versi affiora una precettistica empirica, illuminante su aspetti squisitamente tecnici (come il potenziamento dell’efficacia bellica grazie alla collaborazione istintiva all’interno di cerchie parentali o gruppi ristretti) e sui quadri mentali ed i valori ispiranti truppe e comandanti (come la corretta individuazione di meriti e demeriti, l’equa corresponsione di premi o sanzioni per un comportamento da guerriero ἐσθλός o κακός o ἀφραδὴς πολέμοιο). E così, all’inizio del VII a.C., un altro eraclide, il rodio Antifemo, a cui merito la tradizione ascrive successi militari a spese di Omface, può aver disposto il potenziale umano e militare della neo-fondata Gela con quel criterio filetico ternario – adombrato nel διὰ τρίχα κοσμηθέντες e nel τριχθὰ δὲ ᾤκηθεν καταφυλαδόν dei Rodii governati da Tlepolemo –16 che appare comunque consustanziale alle genti di stirpe dorica;17 e di nomima dorika, appunto, Antioco e Tucidide accreditavano la fondazione rodio cretese.18 In questa direzione, un valido indizio mi sembra rappresentato più avanti da quella triade, formata da Gorgo, Testore, Epiterside, cui, nella tradizione diodorea,19 si affidarono i dori Cnidi nel 580 a.C., dopo che il loro heghemon Pentatlo era caduto nel conflitto fra Selinuntini e Segestani. Lasciando ai margini le incompatibilità col noto frammento antiocheo,20 mi sembra che questa sostituzione “triumvirale” adombri, sul campo, un’articolazione militare del gruppo cnidio secondo un criterio tripartito, consueto nel mondo dorico. Ed Archia, Antifemo, gli Cnidii, che Erodoto gruppi minori cfr. M. Guarducci, L‟istituzione della fratria nella Grecia antica e nelle colonie greche d‟Italia, Roma 1937-1938; D. Roussel, Tribu et cité. Etudes sur les groupes sociaux dans les cités grecques aux époques archaïque et classique, Besançon-Paris 1976; N.F. Jones, Public Organization in ancient Greece: a documentary Study, Philadelphia 1987. 16 Hom. Il. II 655 e 668; significativamente le navi guidate da Tlepolemo sono nove: II 654. Su questi versi D. Musti, Continuità e discontinuità tra Achei e Dori, in Id. (a cura di), Le origini dei Greci. Dori e mondo egeo, Roma-Bari 1990, 37-71, partic. 38 ss. con n. 3; Davies, Strutture e suddivisioni, cit., 611 s. 17 Tyrtaeus fr. 19, 8 West = 10, 3, 65 Gentili-Prato, dal quale si desume una modalità di combattimento univoca pur nella distinzione tra Panfili, Illei e Dimani. Sulle tribù e le obai, oggetto delle disposizioni licurghee, Plut. Lyc. VI 1-3 (vd. commento ad l. di L. Piccirilli, Plutarco. Le vite di Licurgo e di Numa, Milano 1980, 235 s.); sull’articolazione dell'esercito spartano in funzione delle tre tribù, J.F. Lazenby, The Spartan Army, Warminster 1985, 68 ss. Per i nomi delle partizioni interne e dei rispettivi responsabili (polemarchi, locaghi, penteconteri, enomotarchi), vd. Thuc. V 66, 3 e 68, 3 (i lochoi constano di quattro sottounità o pentekostyes, ciascuna formata da quattro enomotiai). Alla fine del V ca. sono attestate le morai basate sulla suddivisione in classi di età: Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 513, con nutrita bibliografia (in Xen. Lac. Resp. XI 4, abbiamo il dato numerico di sei morai di cavalleria e altrettante di opliti). 18 Thuc. VI 4, 3. Sul punto mi sia lecito rinviare al mio Riflessioni e ipotesi sugli ordinamenti di Gela arcaica, in S. Consolo Langher - C. Raccuia - G. Mafodda, Studi di Storia greca. Forme del potere, problemi storiografici e percorsi istituzionali in Sicilia, Messina-Civitanova Marche 2007, 123-219. 19 Diod. V 9, 2. Per l’afferenza di Cnido all’esapoli (e poi pentapoli) dorica Hdt. I 144, su cui D. Asheri, Erodoto. Le Storie. Libro I. La Lidia e la Persia, Milano 1988, 349. 20 FGrHist 555 F 1 ap. Paus X 11, 3 su cui vd. ora C. Cuscunà, I frammenti di Antioco di Siracusa. Introduzione, traduzione e commento, Torino 2003, 133-143, con discussione ed ampia bibliografia. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 42 definisce apoikoi degli Spartani,21 afferiscono tutti a quella cultura che attribuiva allo stesso Licurgo l’introduzione delle istituzioni militari (τα; εjς ποvλεμον ε[[χοντα) con le unità giurate (o enomotiai), le triakades,22 gli oulamoi,23 imperniando solidamente (se non maniacalmente) il kosmos spartano sulla virtù militare e, per ciò, destando poi le critiche di Platone e di Aristotele.24 Del resto, ad esemplificazione della vitalità pratica e culturale delle phylai in quest’ambito e, pur nella variabilità delle denominazioni, possiamo richiamare – per una metropolis, Lindo – l’attestazione di tre tribù nell’offerta XV della cd. Cronaca25 o la tarda menzione di Illei in un’epigrafe di quell’Agrigento che ricevette νόμιμα δὲ τὰ Γελῴων,26 mentre ad Imera, e dunque in un contesto civico misto e spesso rimaneggiato,27 ricorre menzione di phyla danklaia nell’arcaica legge di ridistribuzione della terra, edita da Antonietta Brugnone.28 21 Hdt. I 174, 2; cfr. I. Malkin, The Spartan Mediterranean, Cambridge 1994, 67 ss. In tal senso Hdt. I 65, 5, su cui Asheri, Erodoto. Le Storie. Libro I, cit., 307 ss., ed Hdt. IX 53, 2 (per il cd. lochos pitanate). Per queste formazioni/partizioni, interne ai lochoi, e per la cavalleria (vd. nota successiva) oltre al citato Lazenby, The Spartan army, cfr. M. Clauss, Sparta. Eine Einführung in seine Geschichte und Zivilisation, München 1983, 153 ss. 23 Philosteph. FHG III, 33 fr. 30, ap. Plut. Lyc. XXIII 1: si trattava di squadroni di cavalleria formati da cinquanta unità in formazione quadrata. Nel medaglione di Erodoto su Sparta arcaica, in connessione al secondo conflitto con Tegea, ricorre menzione di un corpo parallelo di agathoergon formato da anziani che, usciti dal servizio attivo di cavalleria, annualmente e cinque alla volta, confluivano in questa formazione e svolgevano funzione di ricognizione nel territorio (Hdt. I 67, 5). Cavalieri per antonomasia erano i cento (Hdt. VI 56) o meglio trecento elementi scelti che affiancavano e vigilavano sul re nelle campagne militari (Hdt. VII 205, 2 e VIII 124, 3; Thuc. V 72, 4; in Xen. Lac. Resp. IV 3, si precisa che la selezione dei trecento è effettuata da tre ippagreti). 24 Plat. Leg. I 630d; 631 c; Aristot. Pol. II 9, 1271b. 25 Chron. Lind. XV = FGrHist 240 F 8. Le tribù degli Eliadi, degli Autoctoni e dei Telchini, in seguito ad una vittoria nelle Lampadodromie, avevano offerto ad Atena ciascuna un pinaka panarchaikon dove erano raffigurati il phylarchos e nove dromeis: cfr. C. Highbie, The Lindian Chronicle, Oxford 2003, 93 ss.; sulle variabili denominazioni tribali nell’isola, Roussel, Tribu et cité, cit., 222 ss. e Jones, Public Organization, cit., 242 ss. 26 Così Thuc. VI 4, 4. IG XIV 952, cfr. L. Dubois, Inscriptions grecques dialectales de Sicile, Rome 1989, 210 nr. 185, datata intorno al 210 o nel corso del I sec. a.C. 27 Thuc. VI 5, 1: καὶ φωνὴ μὲν μεταξὺ τῆς τε Φαλκιδέων καὶ Δωρίδος ἐκράθη, νόμιμα δὲ τὰ Φαλκιδικὰ ἐκράτησεν. Una più marcata coloritura dorica volle imprimere più tardi Terone, dopo aver composto la ribellione degli Imerei al proprio figlio Trasideo (476/5 a.C.): ad elementi dori e a quanti degli altri ne avessero il desiderio fu rivolto il suo invito a ridisegnare la cittadinanza (Diod. XI 48, 6-9; 49, 3). Caduta infine la signoria emmenide, la polis riaccolse i suoi profughi (Diod. XI 76, 4). Per le peculiarità linguistiche ed istituzionali della città e per la sua storia cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, 85 ss., 295 ss., 313 ss.; H. Meier-Welcker, Himera und die Geschichte des griechischen Sizilien, Boppard am Rhein 1980. 28 A. Brugnone, La legge di Himera sulla ridistribuzione della terra, «PP» LII (1997), 262-305; Ead., Nomima Kalkidika, in Atti Quarte Giornate Internazionali di studi sull‟area elima (Erice, 1-4 dicembre 2000), I, Pisa 2003, 77-91; sull’alfabeto della città Ead., Gli alfabeti arcaici delle poleis siceliote e l‟introduzione dell‟alfabeto milesio, «ASNP» s. III, XXV 4 (1995), 1297-1327, partic. 1303 ss. Che si tratti di un “fossile” dell’originaria filiazione dalla città sullo Stretto (Thuc. VI 5, 1) o di una rivitalizzazione per effetto dell’afflusso di profughi danklaioi (come vuole G. Manganaro, Metoikismos dei Danklaioi a Mylai, in B. Gentili - A. Pinzone (a cura di), Messina e Reggio nell‟Antichità: storia, società, cultura, Atti del Convegno della S.I.S.A.C., (Messina-Reggio Calabria, 24-26 maggio 1999), Messina 2002, 83-95, partic. 90) il nesso è propositivo dell’esistenza di una partizione interna al corpo civico imereo 22 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 43 A queste, ed altre partizioni similari (comprensive, ad es., di lemmi come demoi, phratra, pentekostys, triakas, hikas di Camarina, o pentas di Gela)29 si può pensare come alla griglia “paraistituzionale”30 entro cui andava a disporsi il potenziale demografico della apoikia: una sorta di pinax mentale scaturito dall’assegnazione primaria dei lotti, una “fucina” in cui si forgiava il sinolo dei diritti e dei doveri di apoikoi che lievitavano in politai e stratiotai. In altri termini, la dimensione individuale e privata veniva indirizzata dalle incognite ed emergenze ambientali verso la costruzione solidale e comunitaria d’una nuova identità civica, sia pure quantitativamente provvisoria in ragione di rincalzi coloniari, inclusioni, decessi, rinunce. Nella corsa all’armamento, nel senso concreto del dotarsi di ta hopla funzionali al combattimento, e nelle implicazioni di tipo economico e psico-fisico che ciò comportava, si lascia dunque individuare il nesso profondo, direi germinale, con la titolarità dello statuto civico, con la dimensione politica del soggetto, col dinamismo sociale, economico ed istituzionale della comunità, da cui trae consistenza l’icastica definizione della guerra quale «grande levatrice delle comunità politiche».31 In questo senso, soprattutto per le apoikiai isolane, vale innescata dal “fattore etnico”. Altro termine pregnante potrebbe essere quel lochos che è stato sottinteso su ghiande missili (di II a.C.?) rinvenute a Monte Iato da H.O. Isler, Glandes. Schleudergeschosse aus den Grabungen auf dem Monte Iato, «AA» II (1994), 239-254. Quanto all’esistenza di tribù a Siracusa cfr. Cic. Verr. II 51, 127 (con la precisazione numerica di tre); Plut. Nic. 14, 6 (su cui infra); multiplo di tre appare il numero degli strateghi siracusani al tempo della spedizione ateniese (Thuc. VI 72, 4: collegio di quindici, poi semplificato in tre, vd. Thuc. VI 103, 4). 29 Le attestazioni epigrafiche relative all’esistenza di phylai, phratriai, demoi in ambito coloniale appaiono ancora «tutte relativamente recenti»: F. Cordano, Antiche fondazioni, Palermo 1986, 132; Ead., Le istituzioni delle città greche di Sicilia nelle fonti epigrafiche, in M.I. Gulletta (a cura di), Sicilia epigraphica, Atti del convegno di studi (Erice, 15-18 ottobre 1998), «ASNP» s. IV, Quaderni 1, Pisa 1999, 149158; M.L. Lazzarini, Instrumentum publicum. Problemi di organizzazione civica in Magna Grecia e in Sicilia tra V e IV sec. A.C., in A. Storchi Marino (a cura di), L‟incidenza dell‟antico. Studi in onore di E. Lepore, Napoli 1996, 415-425; L. Del Monaco, Le fratrie di Camarina e gli strateghi di Siracusa, «MediterrAnt» VII 2 (2004), 597-613, con altra bibliografia. Per le funzioni di tali organizzazioni – alcune attestate in Grecia già dalla metà del VII a.C. – vd., in generale, Roussel, Tribu et cité, cit., 93 ss.; K.W. Welwei, Die Griechische Polis, trad. it. La polis greca, Bologna 1988, 75 ss., e Davies, Strutture e suddivisioni, cit., 619 ss., con n. 76 per altra bibliografia. Per la defixio da Gela con la lectio π]ενταδα, Dubois, IGDS, 155 ss. nr. 134 b l. 8; cfr. A.P. Miller, Studies in early Sicilian epigraphy. An opisthographic lead tablet, Diss. Chapel Hill 1973, e D. Jordan, ap. W.C. West, New light on an opistographic lead tablet in Chapel Hill, Atti XI Congresso internazionale di Epigrafia greca e latina (Roma, 18-24 settembre1997), Roma1999, 205-214. 30 Ovviamente, uso l’aggettivo non nel senso negativo corrente (con riferimento a un quid di parallelo e inquietante) ma con accezione diacronica e funzionale (oscillante tra pre- e metaistituzionale), applicabile cioè a “catalizzatori polivalenti” del potenziale umano della apoikia, ed esprimente “contesti d’interazione”. Condivido, infatti, quanto – in calce all’esegesi di Xen. Hier. IX 5-7 – scrive il Davies, Strutture e suddivisioni, cit., 606, sulle varie unità minori, depositarie di «funzioni molteplici», in cui non è possibile «separare unità ‘militari’ da unità ‘civili’». 31 Così Y. Garlan, L‟uomo e la guerra, in J.P. Vernant (a cura di), L‟uomo greco, Roma-Bari 1991, 85. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 44 l’“assioma” weberiano – riecheggiante in recenti contributi – che legge la polis arcaica come associazione di guerrieri, come polis degli opliti.32 Ma è la stessa riflessione antica ad imprimere questa direzione: Aristotele, nel secondo libro della Politica, nella rassegna critica loro dedicata, apprezza che acclamati modelli teorici di costituzione – da Ippodamo a Platone –33 abbiano previsto la presenza di custodi, guerrieri, difensori; mentre il punto debole del modello vagheggiato da Falea di Calcedone, centrato sull’uguaglianza dei possessi, viene individuato proprio nell’inesistenza di una forza militare,34 sotto l’illusoria convinzione che l’isomoiria – «non difficile da realizzare negli stati in corso di fondazione» – annulli in radice l’insorgere di contese.35 E, di suo, lo Stagirita, convinto com’è che ogni polis è una comunità costituita in vista del bene supremo,36 stigmatizza più oltre il cumulo delle cariche abituale presso i Cartaginesi con l’icastica raccomandazione che «una cosa sola è fatta benissimo da uno solo, e il legislatore deve badare alla realizzazione di questo e non comandare che lo stesso individuo suoni il flauto e cucia le scarpe».37 Di più, egli afferma che questo principio “politico” è valido anche «nelle cose militari e navali: in questi due settori il comandare e l’obbedire si ripartisce, per così dire, tra tutti», e non in base al censo –come nella pur ben governata Cartagine –38 ma in 32 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, hg. J. Winckelmann, Tübingen 1964, II, 660 ss., 796, 826 s., trad. it. Economia e società, Milano 1974, 203 ss., 375, 826 s.; cfr. Cartledge, La nascita degli opliti, cit., 693 ss.; Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 483 ss. (con ampia bibliografia e rassegna delle diverse interpretazioni sullo spazio della guerra nella realtà greca). Nel vivace dibattito sulla genesi ed essenza della polis, si vedano ora le importanti puntualizzazioni di M. Giangiulio, Stato e statualità nella polis: riflessioni storiografiche e metodologiche. Ovvero del buon uso di Max Weber e del paradigma dello stato moderno, in S. Cataldi (a cura di), Poleis e politeiai. Esperienze politiche, tradizioni letterarie, progetti costituzionali, Atti del Convegno Internazionale di Storia Greca (Torino, 29-31 maggio 2002), Alessandria 2004, 31-53; e, ancora, la riflessione a tutto campo di C. Ampolo, Il sistema della «polis». Elementi costitutivi e origini della città, in I Greci, 2. I, cit., 297-342, col forte richiamo a non astrarre la città dal suo contesto storico e dall’insieme di relazioni tra i membri di una comunità, inclusa la lotta politica vuoi intestina (stasis) vuoi esterna (mache, polemos: 305, 312 ss.). Per il dibattito su formazione, articolazione e fenomenologia delle apoikiai, in particolare, M. Lombardo, Poleis e politeiai nel mondo “coloniale”, in Cataldi (a cura di), Poleis e politeiai, cit., 351-367. 33 Cfr. rispettivamente Pol. II 8, 1267 b e II 6, 1265 b. Su Ippodamo cfr. I. Lana, L‟utopia di Ippodamo di Mileto, in Id. Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 107-137 e P.B. Falciai, Ippodamo di Mileto architetto e filosofo, Firenze 1982. 34 Pol. II 7 1267 a: ἀναγκαῖον ἄρα τὴν πολιτείαν συντετάχθαι πρὸς τὴν πολεμικὴν ἰσχύν, περὶ ἧς ἐκεῖνος οὐδὲν εἴρηκεν. Su Falea, forse contemporaneo di Platone, cfr. W. Nestle, s.v. Phaleas, RE XXXVIII, Stuttgart 1938, 1658 s.; I. Lana, Le teorie egualitarie di Falea di Calcedone, in Id., Studi sul pensiero politico classico, cit., 215-230; R. Vattuone, Alcune riflessioni sulla νομοθησία di Falea di Calcedone, «RSA» X (1980), 145-155. 35 Pol. II 7, 1266 a-b: Δεῖν ἴσας εἶναι τὰς κτήσεις τῶν πολιτῶν. 36 Αὔτη δ᾿εἰσὶν ἡ καλουμένη πόλις καὶ ἡ κοινωνία ἡ πολιτικὴ; si tratta della nota sphragis iniziale della Politica (I 1, 1252 a), su cui E. Lanzillotta, Lo stato del cittadino nella Politica di Aristotele, in Cataldi (a cura di), Poleis e Politeiai, cit., 385-391. 37 Pol. II 11, 1273 b. 38 Pol. II 11, 1272 b; Aristotele ritorna sulla costituzione di Cartagine anche in IV 7, 1293 b. Sul punto cfr. A. Santoni, Considerazioni su Aristotele e la guerra di conquista. Tre stati modello: Sparta, Creta e Cartagine, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit., 29-44. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 45 rapporto alla capacità specifica di ciascuno. Dunque, sebbene la caratura militare non compaia nella nota definizione del polites in assoluto, qualificato «dalla partecipazione alle funzioni di giudice (krinein) ed alle cariche (archein)»,39 nel delineare una politeia ben temperata Aristotele precisa che essa deve risultare solo di chi possiede le armi40, aggiunge che, dopo la fase monarchica, la prima costituzione tra gli Elleni «risultò di combattenti» e ricorda che, ad Atene, con Dracone la politeia ἀπεδέδοτο … τοῖς ὅπλα παρεχομένοις.41 2. Ma veniamo dallo scenario aurorale e dall’analisi teoretica a quel V secolo a.C. sul quale la tradizione storiografica sull’isola, meno avara e desultoria rispetto ai tre secoli precedenti, elargisce notizie di scontri, sciorina dati su eserciti e comandanti, risuona pressoché continuativamente del fragore delle armi.42 È questo un tempo, in cui l’intreccio, la complessa alchimia degli aspetti economici, sociali, istituzionali e culturali sottesi alla fenomenologia militare nonché al suo stretto legame con l’esercizio e le forme del potere si manifestano con drammatica asprezza, al punto che Mauro Moggi si è chiesto se la guerra in Sicilia nel V e IV sec. non assuma tratti di particolare efferatezza.43 In effetti, nella storia “militare” dell’isola, con la sua variegata composizione antropica ed i dinamismi connessi, si erano accumulate e come incattivite le varie tipologie di conflitto: dai movimenti di migrazione/pressione ai sussulti di resistenza epicoria, 39 Pol. III 1, 1275 a. Pol. IV 13, 1297 b; di seguito si precisa che tra i Maliesi sono inclusi nel corpo civico, oltre agli opliti in servizio, anche quelli ormai a riposo che però non possono ricoprire magistrature. 41 Pol. IV 13, 1297b: δεῖ δὲ τὴν πολιτείαν εἶναι μὲν ἐκ τῶν τὰ ὅπλα ἐχόντων μόνον ; Ath. Resp. IV 2. Nel valorizzare l’analisi aristotelica sullo sviluppo delle comunità poleiche in relazione all’organizzazione militare, Cartledge, La nascita degli opliti, cit., 693 ss., scrive: «secondo la concezione aristotelica, essere cittadino significa, tra l’altro, essere un guerriero, un membro della milizia cittadina, e il tipo di cittadinanza di cui si gode … dipende direttamente dal tipo di guerriero che si è» (694). Lo studioso è, peraltro, consapevole che si tratta di un modello interpretativo governato da «un profondo isomorfismo tra potere politico e funzione militare», addirittura imputabile di meccanicismo laddove Aristotele individua rigide corrispondenze tra funzioni lavorative (agricoltori, meccanici, mercanti, teti), nerbo militare (cavalleria, fanteria pesante, fanteria leggera e marina), caratteristiche del suolo (adatto al maneggio dei cavalli o allo schieramento di fanti) e tipologie di governo (oligarchia potente dei facoltosi allevatori di cavalli, oligarchia e governi popolari): Pol. VI 7, 1321a. 42 Per le vicende belliche isolane, non volendo appesantire un apparato bibliografico che, dalle fondative monografie di Holm e Freeman, si è dilatato in maniera impressionante, mi limito a rinviare a G. Maddoli, Il VI e il V secolo, in E. Gabba - G. Vallet (a cura di), La Sicilia antica, II, Napoli 1980, 1-102; S. Consolo Langher, Un imperialismo tra democrazia e tirannide. Siracusa nei secoli V e IV, Roma 1997; M. Gras, L‟Occidente e i suoi conflitti, in I Greci, cit., 2. II, 61-85; L. Braccesi - G. Millino, La Sicilia greca, Roma 2000 e ai due densi volumi di Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit. 43 M. Moggi, Peculiarità della guerra in Sicilia?, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit., 67-89. Per l’ambito magnogreco si veda M. Lombardo, La norma e l‟eccesso: la guerra tra Sibari e Crotone e alcuni aspetti della “greek way of war”, in M. Sordi (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Milano 2002, 43-67. 40 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 46 dalle scaramucce frontaliere alle revanches dettate dall’«etica della ritorsione»,44 dalla volontà competitiva/espansiva45 alla aggressività sistematica che taluno definisce «caccia agli schiavi» o ai servi.46 In questa specifica direzione, dopo la doulosyne inflitta ai Siculi/Cilliri in area siracusana, possiamo registrare altri eloquenti episodi come, proprio in apertura di V secolo, la decisione di patteggiare ἀνδραπόδων τὰ ἡμίσεα τῶν ἐν τῇ πόλι, misthòs che Ippocrate concordò con i Sami occupanti Zancle47 o, ancora, l’avvio del demos di Megara Iblea ed Eubea alla vendita fuori dalla Sicilia, decisa da Gelone.48 E, riguardo al ruolo strutturale della schiavitù nella vita economica e sociale di Siracusa, piace richiamare anche l’adagio presente in Aristotele, «c’è schiavo e schiavo, c’è padrone e padrone», corredato della preziosa notizia che in quella città esisteva un maestro/istruttore degli schiavi.49 Comunque nelle dinamiche militari isolane vediamo intersecarsi e combinarsi: - istanze identitarie che, spronate da tensioni nel territorio, cementavano meccanismi di autodeterminazione rafforzandosi anche attraverso la prova delle armi;50 44 Così Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 487 s. Paradigmatico del “dovere della vendetta” è il riferimento di Gelone allo “invendicato” Dorieo (Hdt. VII 158, 2; sul personaggio e le sue “peripezie” cfr., fra gli ultimi, S. De Vido, Gli Elimi. Storie di contatti e di rappresentazioni, Pisa 1997, 172 ss.; L. Braccesi, L‟enigma Dorieo, Roma 1999; E Galvagno, Politica ed economia nella Sicilia greca, Roma 2000, 20 ss.). 45 Per l’incidenza della mentalità agonale e dei «competitive values» nell’attivismo bellico, anzi nella vita stessa delle comunità greche, cfr. E. Havelock, War as a way of life in classical culture, in E. Gareau (Éd.), Valeurs antiques et temps modernes, Ottawa 1972, 15-78. In particolare, il tema della guerra di aggressione in Aristotele è focalizzato in Santoni, Considerazioni su Aristotele, cit., 29-44. 46 Garlan, L‟uomo e la guerra, cit., 59-64 (con rinvio alle concezioni di Platone e di Aristotele, e sulla scia di M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum, in Handwörterbuch der Staatswissenschaft, Jena 19093, trad. it. Storia economica e sociale dell‟antichità, Milano 1981, 20 s.); Id., Guerra, pirateria e schiavitù, in M. Finley (a cura di), La schiavitù nel mondo antico, trad. it. Roma-Bari 1990, 3-26, partic. 13 ss.; J. Andreau - R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, trad. it., Bologna 2006, 74 s.; Santoni, Considerazioni su Aristotele, cit., 30 s. 47 Hdt. VI 23, 5; su queste vicende cfr. Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 130 ss. e S. Consolo Langher, Zancle in età arcaica e classica (La ktisis. Ippocrate. I Sami. Anassila), in Ead., Siracusa e la Sicilia greca, Messina 1996, 377-415, partic. 394 ss. 48 Hdt. VII 156, 2-3. 49 Pol. I 7, 1255 b: καὶ ὁ δοῦλος καὶ ὁ ἐλεύθερος (che riecheggia un verso dal Pancratiaste di Filemone, comico nativo forse di Siracusa ed attivo al tempo di Alessandro Magno, citato in Suda s.v. πρὸ, cfr. R. Kassel - C. Austin, Poetae comici Graeci, VII, Berolini et Novae Eboraci 1989, 256 fr. 57). Contestualmente, Aristotele precisava che a Siracusa c’era una episteme doulike: Ἐκεὶ γὰρ λαμβάνων τις μισθόν ἐδίδασκε τὰ ἐγκύκλια διακονήματα τοὺς παίδας. 50 Per questo aspetto, J.P. Vernant, Introduction, in Id. (dir.), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris 1968, 19 ss.; Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 486 s.: «la polis che andava consolidandosi assorbiva in sé il mondo della guerra e faceva dell’elemento bellico un aspetto costitutivo integrante della propria cultura politica». Ne constatiamo un significativo riflesso in quei donativi che, orgogliosamente inviati a santuari metropolitani a suggello di scontri nelle aree di nuovo insediamento, sono spesso corredati di dediche identificative della comunità vittoriosa e del vinto (cfr., in merito, Di Vita, Olimpia e la Grecità siceliota, «SicAnt» II (2005), 63-73; A. Jacquemin, I grandi santuari greci e la guerra attraverso la documentazione epigrafica, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit., 3-9; K.W. Arafat, War and Greek sanctuaries in Pausania‟s description of Greece, ibid., 11-18). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 47 - implicazioni socio-economiche, che, annoverando la guerra tra le attività acquisitive naturali,51 potevano favorire – se non istituzionalizzare – la divaricazione tra funzione guerriera e attività lavorativa (come suggeriscono il binomio Cilliri-Gamoroi e la sperimentazione degli Cnidi nelle Eolie);52 - articolazioni produttive e – soprattutto dal V a.C. in avanti – innovazioni nelle tecnologie nautica e poliorcetica;53 - interferenze tra pratica militare ed assetto politico, facilitate dalla comprovata utilità di un’azione bellica resa efficace dall’addestramento e dalla familiarità col comando: due requisiti spendibili in vista dell’affermazione di un potere personale che in Sicilia ha spesso stravolto comunità poleiche, alterandone la compagine civica e la realtà urbana, e – agitando slogan etnico-culturali – si è spesso autogiustificato e celebrato quale campione nella lotta contro il “pericoloso nemico”.54 Non stupisce pertanto che staseis55 e tyrannides, appaiano spesso il frutto avvelenato di un apprendistato militare o magistratuale. I loro effetti indotti, sul piano socio-economico e politico, sono fenomeni quali il fuoruscitismo, il mercenariato, l’appannamento dell’etica oplitica, le spregiudicate manipolazioni di corpi civici, i risentimenti di archaioi politai e le resistenze di xenoi/neopolitai, le 51 Istruttivo, in questa direzione, Aristot. Pol. I 8, 1256 b: passando in rassegna le attività produttive “autarchiche” (autophytoi ergasiai) di nomadi, predoni, pescatori, cacciatori, contadini – negati agli scambi o al commercio – il filosofo considera l’arte bellica arte d’acquisizione quasi per natura, comprensiva della caccia praticata contro le bestie e contro quegli uomini che, nati per obbedire, si rifiutano. Su questa guerra «giusta» cfr. Santoni, Considerazioni su Aristotele e la guerra di conquista, cit., 30 ss. 52 Diod. V 9, 3-6. L’insediamento cnidio nelle Eolie è una preziosa attestazione riguardo alla istituzionalizzazione di ruoli funzionali differenti per la “comunità cittadina”, in questo apportando forse una variante rispetto al noto binomio “asimmetrico”, Spartiati-Iloti (in merito alla diversificazione tra funzione guerriera/titolarità della terra e lavoro dei campi cfr., e.g., Aristot. Pol. II 10 1271b, con rubricati i casi degli iloti per Sparta e dei perieci per Creta). 53 In fatto di armamenti, per i secoli V e IV a.C., possiamo allineare le informazioni sull’abilità del siracusano Cefalo, padre di Lisia, che, su invito di Pericle, trasferì ad Atene la sua attività di produttore di armi e scudi (Lys. XII 4); i dati sulla progettazione, per impulso di Dionisio il Vecchio, di grandi navi a quattro e a cinque ordini di remi (Diod. XIV 41, 3; 42, 2-3) e sull’invenzione della catapulta ed altre armi da lancio in funzione della lotta contro i Cartaginesi (Diod. XIV 42-43); il dettaglio sulla produzione di tuniche siciliane afferenti all’hoplismos, un cui esemplare fu indossato da Alessandro, quale ὑπένδυμα, sotto la corazza doppia di lino (Plut. Alex. XXXII 8). In generale, sul tema, C. Solís Santos, Macchine, tecniche e meccanica, in I Greci, cit., 2. III, 705728, partic. 709. 54 Scontato il rinvio ai Dinomenidi o a Dionisio il Vecchio. Come si è visto (supra, n. 51), sotto il profilo teorico Aristotele definiva giusta la guerra contro gli uomini che, nati per essere schiavi, si rifiutavano e, in Pol. I 2, 1252b, citando Euripide (Iph. Aul. 1000), affermava l’equazione barbaro-schiavo. Sul phobos del nemico punico nella politica dei vari signori siracusani cfr. G. Mafodda, Studi dionigiani, in Consolo Langher – Raccuia - Mafodda, Forme del potere, problemi storiografici, percorsi istituzionali in Sicilia, cit., 223-311 (partic. 293 ss.), con la bibliografia pertinente. 55 In merito (riecheggiando vagamente i rilievi mossi da Dario a Megabizo: Hdt. III 82, 3), si ricordi l’osservazione di Aristotele, critica rispetto all’utopistica politeia egalitaria di Falea: «Le sedizioni nascono non solo dall’ineguaglianza degli averi ma anche degli onori: i due motivi, però, operano in senso opposto, giacché le masse si rivoltano per l’ineguaglianza della proprietà, le classi superiori per gli onori, se sono distribuiti in maniera uguale» (Pol. II 7, 1266 b). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 48 redistribuzioni di terre e case, l’avvio al “genere” giudiziario per risolvere questioni gravanti sulla proprietà, la ridefinizione di meccanismi regolativi della politeia affidata a normative, scritte e sancite da giuramenti. Sono tutti temi che di per sé costituiscono altrettanti casi di studio monografico, si avvalgono di un’ampia, articolata base documentale e vantano una cospicua messe di contributi illuminanti. 3. In margine a due di questi fenomeni che nel V sec. a.C. vengono decisamente in superficie, ovvero il mercenariato e l’articolazione delle cariche militari, con l’apparizione dell’ipparchia, piace qui recuperare alcuni spunti pescando in un bacino abbastanza inusuale. Si tratta infatti di due proverbi conservati nella Paroimion Epitome di Zenobio, un erudito di età adrianea sul quale periodicamente ritorno e che sta conoscendo un rinnovato interesse.56 Richiamo brevemente i dati strutturali della raccolta zenobiana, nata – come la coeva opera di Diogeniano –57 a tavolino; l’autore dichiara, infatti, il suo debito nei confronti di due paremiografi precedenti, ovvero Lucio/Lucillo di Tarra, e il ben più noto, infaticabile, Didimo.58 Il primo dei due proverbi che ha attirato la mia attenzione recita ικελὸς στρατιώτης ed è così chiosato da Zenobio: «soldato siculo, detto proverbialmente poiché si ricorreva a soldati stranieri, come per lo più quelli di Ierone».59 Presente anche nella raccolta che va sotto il nome di Diogeniano col lapidario commento 56 W. Bühler, Zenobii Athoi proverbia vulgari ceteraque memoria aucta ed. et enarrata, Gottingae 19871999 (I, 1987, Prolegomena; IV-V, 1982-1999); E. Lelli (a cura di), I proverbi greci. Le raccolte di Zenobio e Diogeniano, Soveria Mannelli 2006; C. Raccuia, La fondazione di Gela, cit., 281 ss.; Ead., Rileggendo Zenobio: una nota sulla percezione e rappresentazione dei Siculi, «Polifemo» IV (2004), 195-212; Ead., Pirati e barbari. Rappresentazioni di Fenicio-Punici nella Sicilia greca, in Greci e Punici in Sicilia tra V e IV secolo a.C., Caltanissetta-Roma 2008, 173-191; Ead.,“Schiavo comprato col sale”. Riflessioni sul tema, relaz. al XXXII Colloquio internazionale del GIREA (Messina, 15-17 maggio 2008), in c.d.s. 57 Su questo autore ci informa Suda, s.v. Διογενειανὸς Ἡρακλείας; nella sua produzione figuravano una Lexis pantodape (epitome delle omonime raccolte di Panfilo e Zopirione) ed un Peri potamon, emendato da Schott (1612) in Peri paroimion; cfr. E.L.A. Leutsch - F.G. Schneidewin, Corpus Paroemiographorum Graecorum, I, Göttingen 1839 (phot. Nach. Hildesheim 1958), XXVII ss.; cfr. L. Cohn, Diogenianos 4, in RE V 1 (1903), 778-783; e, più recentemente, Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 188 ss.; Lelli, I proverbi greci, cit., 29 ss. 58 Su questi letterati, dopo le voci di A. Gudeman, Lukillos, in RE XIII (1927), 1785-1791; di L. Cohn, Didymos, in RE V (1905), 445-472, e di H. Gärtner, Zenobios, in RE z.R. XIX (1972), 11 s.; si vedano ora R. Tosi, La lessicografia e la paremiografia in età alessandrina e il loro sviluppo successivo, in La philologie grecque à l‟époque hellénistique et romaine, Entretiens Hardt 40, Genève 1994, 143-209; Lelli, I proverbi greci, cit., 25 s. 59 Zenob. V 89: παροιμιῶδες. Ἐπεὶ ξένοις ἐχρῶντο στρατιώταις ὡς ἐπὶ πολὺ οἱ ὑπὸ Ἱέρωνα. Il codice B, ovvero il Bodleiano, Auct. T 2.17 (ed. T. Gaisford, Paroemiographi Graeci, 1836) presenta la variante sikelikos ed aggiunge a Ierone la qualifica τὸν τύραννον. Sulla recensio B dello Zenobius vulgatus cfr. Buehler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 126 ss. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 49 «si servivano sempre di xenoi»,60 il proverbio ritorna nel lessico di Esichio con un’esegesi così implementata:61 ὡς ἐπιπολὺ οἱ περὶ Ἱέρωνα τὸν τύραννον ὡς διορθουμένων (Albertius διωθουμένων) αὐτῶν τὸν μισθὸν μηδενὶ ἀποδιδόντων (Albertius μηδενὸς ἀποδίδοντος), ovvero «soldato siculo: detto proverbialmente poiché si ricorreva a soldati stranieri, come per lo più quelli di Ierone il tiranno, in quanto essi riscuotevano la ricompensa62, senza restituire il dovuto a nessuno». Gli interventi albertiani63 sul tradito, consistenti nella modifica di διορθουμένων in διωθουμένων e di μηδενὶ ἀποδιδόντων in μηδενὸς ἀποδίδοντος, risentivano della suggestione di Macario,64 nella cui raccolta appariva il proverbio «il soldato siculo rifiuta il compenso», con valenza antifrastica come denuncia il suo uso per «quelli che fingono di respingere (o di dedicare) ciò che nessuno dà loro» (ἐπὶ τῶν ἀποθεῖσθαι προσποιουμένων ἃ μηδεὶς αὐτοῖς δίδωσιν), per cui l’esegesi finale del detto farebbe del soldato siculo il prototipo di coloro che fingono di disdegnare la ricompensa o pretendono di offrire (e addirittura consacrare) somme puramente virtuali.65 Se in generale le espressioni proverbiali prendono le mosse da un’esperienza reale esprimendone il senso in maniera concentrata ed icastica e con l’ambizione di diventarne emblematiche – come aveva scritto Aristotele –66 è da ritenere che in questo adagio si stigmatizzi un tratto comportamentale di militanti “siculi”. Che l’aggettivazione infatti sia utilizzata nel senso etnico proprio e non come un vago sinonimo di “isolano” mi pare venga confermato dal confronto con altri proverbi della raccolta zenobiana, in cui il termine indica indubitabilmente i Siculi e ne 60 Diogen. VIII 6: ξένοις ἐχρῶντο ἀέι. Cfr. Apostol. XV 47, in Leutsch-Schneidewin, CPG, II, Göttingen 1851, 641. Come si può agevolmente constatare nel caso in esame, le spiegazioni apposte nel Diogeniano vulgato sono sempre più concise rispetto a Zenobio. 61 Hesych. s.v. ικελὸς στρατιώτης. Del proprio debito rispetto a Diogeniano Paremiografo fa cenno lo stesso Esichio nella prefazione al suo lessico, ma il proverbio in oggetto – contenuto nelle Paroimiai demodeis ek tes Diogenianou synagoges, o Diogeniano vulgato – esibisce un’interpretazione la cui estensione ha indotto Leutsch-Schneidewin, CPG, I, cit., XXVIII ss., ad ipotizzare l’uso di una perduta redazione dei proverbi commentati in maniera più circostanziata da Diogeniano o il ricorso ad altri autori vantato dal lessicografo. Sulle fonti di Esichio, K. Latte, Hesychii Alexandrini Lexicon, I, Hauniae 1953, VIII-XI; Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 302. 62 Uguale significato del verbo in Pol. XI 28, 5. 63 Johannes Alberti, Hesychii Lexicon, cum notis doctorum virorum integris, vel editis antehac, nunc auctis et emendatis, Lugduni Batavorum 1766. 64 Machar. VII 65 (ικελὸς στρατιώτης μισθὸν διωθεῖται), cfr. Leutsch-Schneidewin, CPG, II, cit., 208). Su questo erudito bizantino, autore della raccolta Rhodonia, e su Apostolio, raccoglitore di un cospicuo materiale paremiografico, ereditato poi da suo figlio Arsenio, si vedano O. Crusius, Apostolios, in RE III Hlb. (1895), 182 s.; Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 275-277 e 291-299; e, in breve, Lelli, I proverbi greci, cit., 55. 65 Sul variabile significato di ἀποθεῖσθαι (respingere, rifiutare, ma anche dedicare), cfr. ThGL s.v., 1591. 66 Sines. Enc. calv. XXII 85=Aristot. fr. 13 Rose: παλαιᾶς εἰσι … φιλοσοφίας ἐγκαταλείμματα περισωθέντα διὰ συντομίαν καὶ δεξιότητα (con enfatizzazione della concentrazione ed efficacia comunicativa del proverbio). Cfr., in merito, A.M. Ieraci Bio, Il concetto di paroimia in Aristotele, «RAAN» LVI (1978), 235-248. Va altresì ricordato che Aristot. Rhet. 1376 a; 1395 a, 10-12; 1395 b, sottolineava il ruolo strumentale e probatorio della “massima” specie nel campo della comunicazione giudiziaria. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 50 irride dei comportamenti come nei detti «il Siculo e il mare»;67 «il Siculo rubacchia uva acerba»68 ed, indirettamente, anche nel modo di dire «patto di Locresi» a danno dei Siculi.69 Notiamo inoltre che – eccetto l’ultimo – i tre proverbi sono racchiusi tutti nella quinta centuria; che l’interpretamentum di V 84 rinvia all’uso del detto in una commedia di Epicarmo70 e che, infine, nella raccolta è presente ed usato correttamente anche il termine Sikeliotai: si pensi alle espressioni «o è morto o insegna a leggere», sc. ai figli dei Sicelioti71 e «la mensa di Siracusa», inclusa tra le città siceliote.72 Tornando dunque al nostro “soldato siculo”, è evidente che sotto il profilo storico la spiegazione dell’adagio rinvia espressamente ad un uso intensivo di mercenari, Siculi compresi, sotto Ierone, di cui proprio ieri si è parlato. Preme poi evidenziare, una volta di più, la cattura nel proverbio di una communis opinio irridente e negativa nei confronti di questa componente anellenica: se in Zenobio – e, ancor di più, in Diogeniano – figurava una spiegazione “neutra” e così asciutta da indurre a sospettare che tra i Siculi l’opzione verso il mercenariato fosse talmente diffusa da non richiedere un chiarimento (anzi da apparire quasi antonomastica), il corollario apposto al detto da Esichio, restituendo un prezioso frustulo di immaginario collettivo,73 crocifiggeva le abborracciate milizie sicule allo 67 Zenob. V 51 ( Ὁ ικελὸς τὴν θάλασσαν), cfr. Diogen. VII 6. Questa la vicenda che ne sta all’origine: «Dicono che un mercante siculo che trasportava fichi naufragò; dopo, standosene seduto su uno scoglio e guardando il mare in bonaccia, disse: – So cosa vuole, vuole i fichi!». Su questo ed i successivi proverbi, mi sia lecito rinviare al mio Rileggendo Zenobio: una nota sulla percezione e rappresentazione dei Siculi, cit., 207 ss. 68 Zenob. V 84 (ικελὸς ὁμφακίζεται); cfr. Diogen. VIII 15. Implicitamente ai Siculi può ricondursi l’altro proverbio (IV 54) «Più dei Calliciri» in cui Zenobio precisava «così erano chiamati in Siracusa coloro che attorniarono i Geomoroi. Da ciò proverbialmente, se per avventura volevano indicare un affollamento, usavano dire che “erano più dei Calliciri”. Costoro erano schiavi – δοῦλοι – ed espulsero i padroni. Il motivo della loro chiamata in causa sta nel fatto che confluirono da ogni parte nello stesso punto sì che soverchiarono i padroni». 69 Zenob. IV 97 (Λοκρῶν σύνθημα), corredato della spiegazione «si impiega per chi è ingannatore» ed esemplificato con un rinvio ad antefatti mitici o, «secondo altri», all’inganno dei Locresi nei confronti dei Sikeloi, all’atto della fondazione di Locri Epizefiri. Cfr., in merito, Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., IV, 61-66; Lelli, I proverbi greci, cit., 441 s. 70 Kassel-Austin, PCG, I, Berolini et Novae Eboraci 2001, 137 fr. 239; cfr. Lelli, I proverbi greci, cit., 461, n. 538. 71 Zenob. IV 17 (ἤτοι τέθνηκεν, ἢ διδάσκει γράμματα), che richiama la dolorosa sorte dei prigionieri ateniesi dopo l’Assinaro. Questo il corollario apposto da Zenobio: «alcuni morirono, altri furono presi prigionieri e insegnavano a leggere ai figli dei Sicelioti. E quelli che erano riusciti a scappare ad Atene e venivano interrogati sulla sorte di quelli rimasti in Sicilia, dicevano: “O è morto o insegna a leggere”». Il particolare ricorre anche in Diod. XIII 33 e Plut. Nic. 19. Cfr. Diogen. V 9. In merito, Lelli, I proverbi greci, cit., 427, n. 363. 72 Zenob. V 94 (υρακουσία τράπεζα) sulla habrosyne dei Sicelioti. Sul detto cfr. Lelli, I proverbi greci, cit., 463, n. 549. Diogen. VIII 7, presenta invece ικελικὴ τράπεζα e nella recensio B σικελή. 73 Appare esercizio fantasioso, seppur allettante, decifrare la matrice non proprio benevola di questo giudizio esplicativo attestato da Esichio: essa può indifferentemente inscriversi tanto in una cornice isolana (si potrebbe pensare ad un personaggio della scena comica o ad uno storico dalla risentita vena civica) quanto al di fuori di essa e coerente con la ben nota visualizzazione dell’isola ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 | 51 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio stereotipo di gente taccagna e debitrice incallita (se seguiamo la lezione dei codici) o millantatrice (se accettiamo la modifica albertiana). In ogni caso, è evidente che nell’isola la milizia e lo spirito oplitico erano illanguiditi o profondamente rimaneggiati in seguito alle manipolazioni del corpo civico attuate dai tiranni ed al ricorso sistematico a forze mercenarie. E veniamo all’altro proverbio che, a mio parere, configura un duplice, prezioso contributo di tipo “tecnico” e politico-culturale. Si tratta della espressione ἱππάρχων πίναξ, ovvero «la tavoletta degli ipparchi», cui Zenobio appone questa esegesi: «poiché presso i Siracusani gli ipparchi segnalavano i nomi degli indisciplinati scrivendoli su registri o tavolette» ( Ἐπεὶ παρὰ υρακουσίοις οἱ ἵππαρχοι ἐν πίναξι παρεσημειοῦντο).74 τὰ ὀνόματα γράφοντες τῶν ἀτακτούντων Il proverbio che, con qualche variante, è ricordato anche da Esichio, 75 richiama irresistibilmente la mentalità sottesa al detto κύρβεις κακῶν corrente ad Atene e riferito a provvedimenti legislativi impopolari per le punizioni comminate.76 Stando alla ambientazione puntualizzata da Zenobio (e certo risalente ai suoi predecessori Lucillo e Didimo),77 siamo indotti a postulare l’esistenza di questi importanti “ufficiali” – meglio noti per la realtà ateniese –78 anche nell’organizzazione militare di Siracusa, con specifiche funzioni di comando e responsabilità di sorveglianza e sanzione per gli indisciplinati. L’altro rilevante dato, di sapore politico e culturale, che preme recuperare in questa inopinata fonte, è l’affermarsi della annotazione scritta e – probabilmente – pubblica dei nominativi di quanti, con termine altamente tecnico sono definiti ataktounton: in verità, si è fortemente tentati di supporre, già a monte, elenchi scritti come terra dagli eterogenei abitanti, a rischio di ekbarbarosis (cfr. rispettivamente gli ochloi xymmiktoi evocati da Alcibiade in Thuc. VI 17, 2-4, e Plat. Ep. VIII 353 a). 74 Zenob. IV 42. Sul lemma πίναξ (chiosato come sanis ezographemene) Phot. s.v. 75 Hesych. s.v. ἱππάρχου πίναξ: nel testo manca la localizzazione in Siracusa (e invece di epei si citano enioi). 76 Zenob. IV 77: «un codice dei misfatti. Kyrbeis erano chiamate dagli Ateniesi le tavole triangolari (sanides trigonoi) su cui erano incise le leggi e le pene per i colpevoli. Per cui si disse il proverbio per chi compie misfatti» (tr. Lelli, I proverbi greci, cit., 175); sul detto nello Zenobio Atoo cfr. Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., IV, 108-113, con elenco dei loci (ad es., Aristoph. Av. 1354; Lys. 30, 17, 20; Plat. Resp. 298) e rassegna delle opinioni sulla struttura delle kyrbeis, cui va ad aggiungersi G. Nenci, La ΚΥΡΒΙΣ selinuntina, «ASNP» s. III, XXIV 2-3 (1994), 459-466. 77 Il Latte, Hesychii Alexandrini Lexicon, I, 364, in apparato al testo di Esichio, propone a monte il nome di Epicarmo, seguito da punto interrogativo. 78 Aristot. Ath. resp. XLIX 2 e LXI 4-5, si sofferma sull’arruolamento dei cavalieri in seno alle tribù, per cura dei dieci katalogeis; precisa che i selezionati sono subordinati ai rispettivi phylarchoi, a loro volta sottoposti a due soli ipparchi, e che questi hanno nei confronti dei cavalieri le stesse attribuzioni degli strateghi sugli opliti; aggiunge, infine, che i filarchi sono omologhi ai tassiarchi dell’esercito oplitico. Oltre alla vetusta sintesi di E. Caillemer, Hipparchos, in DAGR, III, Paris 1900, 188-193, vd. ora L.J. Worley, Hippeis. The cavalry of ancient Greeks, Boulder 1994 e, per l’arruolamento, J. Ducat, Xénophon et la sélection des «hippeis», «Ktema» XXXII (2007), 327-340. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 52 di reclutabili e reclutati, magari differenziati per “armi”. Più che nel parallelismo con Atene, dove è ben attestata la redazione di un pinax contenente i nominativi del ruolo dei cavalieri,79 una valida testimonianza in tale direzione trapela nella vita di Nicia di Plutarco dove, poco prima del richiamo di Alcibiade dalla spedizione in Sicilia, si narra della cattura, nel porto interno, di una nave siracusana a bordo della quale c’erano le tavolette (sanidas) con annotati i nomi dei cittadini siracusani divisi per tribù. Si aggiunge anche il particolare che le tavolette di norma erano riposte (keimenai) nel tempio di Zeus Olimpio, fuori città, e che, nell’emergenza dell’attacco ateniese, erano state prelevate per procedere all’arruolamento di quanti fossero in età da servizio militare.80 Da parte sua, Tucidide fornisce un dettaglio significativo su questo sito “sensibile” allorché, riferendo operazioni militari successive, precisa che un terzo della cavalleria siracusana fu lasciato di stanza ἐπὶ τῇ ἐν τῷ Ὀλυμπιείῳ πολίχνῃ.81 Se dunque non v’è dubbio che, alla fine del V a.C., le procedure di arruolamento si siano standardizzate avvalendosi della modalità scritta, mancano appigli cronologici per inquadrare questa conversione da un pinax mentale ad uno reale. Volendo valorizzare la menzione di ipparchi nel nostro proverbio, la prima attestazione letteraria di questa carica militare in Sicilia si inquadra notoriamente nel settennato di Ippocrate, di cui Gelone appunto fu hipparchos.82 Quanto alla vocazione ippotrofica dei Pantaridi di Gela, degli Emmenidi e Dinomenidi, essa è troppo nota perché mi ci soffermi in dettaglio e ne ricordi anche la prestigiosa sanzione nella grande poesia celebrativa e negli anathemata destinati ai grandi santuari metropolitani83. Eloquenti, del pari, le testimonianze archeologiche (si 79 In Aristot. Ath. resp. XLIX 2, ricorre la menzione di una sorta di ruolo permanente dei cavalieri, redatto su un pinax che veniva aperto dai filarchi (anoixantes) ed aggiornato in seno alla boule ove si depennava chi avesse giurato di essere ormai inabile al servizio τῷ σώματι ἢ τῇ οὐσίᾳ. 80 Plut. Nic. XIV 6-7 (cfr. L. Piccirilli, Plutarco. Le vite di Nicia e di Crasso, Milano 1993, 286 s.); segue il dettaglio sulla preoccupazione degli indovini nel constatare il gran numero dei nomi contenuti. 81 Thuc. VII 4, 6 (seguirà la narrazione degli scontri in cui – a varie riprese – restano impegnati cavalieri e fanti siracusani guidati da Gilippo). In particolare, sulla consistenza originaria della cavalleria siracusana (ca. 1200 unità col supporto dei contingenti da Gela e Camarina) Thuc. VI 64, 1 e 67, 2. 82 Hdt. VII 154, 1; Tim. FGrHist 566 F 18. Deliberatamente contengo i riferimenti bibliografici su Ippocrate e Gelone a Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, I-II, cit., 137 ss. e 597 s.; Maddoli, Il VI e V secolo, cit., 30 ss.; Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 127 ss. e 273 ss.; S.N. Consolo Langher, Politiche egemoniche e ristrutturazioni sociali nelle tirannidi di età arcaica e nella repubblica siracusana postdinomenide, in Ead., Siracusa e la Sicilia greca, cit., 211 ss.; Mafodda, La monarchia di Gelone, cit., 28 ss.; L. Braccesi, I tiranni di Sicilia, Roma-Bari 1998, 21 ss., 31 ss.; Hofer, Tyrannen, Arystokraten Demokraten, cit., 81 ss., 97 ss. 83 Sul punto si vedano i contributi menzionati in n. 50 e nella nota precedente; per gli anathemata mi sia consentito il rinvio al mio Tra eusebeia e dynamis. Donativi „eccellenti‟ dalla Sicilia alla Atena Lindia, in M. Caccamo Caltabiano - C. Raccuia - E. Santagati (a cura di), Tyrannis, basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli del potere nel mondo greco e romano, Giornate seminariali in onore di S.N. Consolo Langher (Messina, 17-19 dicembre 2007), Messina 2010, 97-122. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 53 pensi, ad es., ai numerosi acroteri equestri a Gela) 84 e quelle numismatiche che, a Gela e a Siracusa, propongono l’effigie di cavalieri con una scelta tipologica che dissimula una complessa ideologia del potere e veicola un raffinato messaggio.85 In questa temperie ben potrebbe inquadrarsi quella tavoletta bronzea – forse proveniente da Casmene-Monte Casale –86 che fissa per iscritto la concessione di ἀτέλεια ed ἔγκτασις e la partecipazione alle ἀρχαί, con l’apparente eccezione per la carica di ipparco. In letteratura prevale un inquadramento cronologico del documento nel V sec. iniziale, poiché alla linea 3 compare la menzione di Gamoroi che ha suggerito una connessione del testo all’esilio di costoro a Casmene dal 491 a.C.: una lontananza da Siracusa cui, come attesta Erodoto, porrà fine Gelone.87 E dunque (sempre che non si tratti di un antroponimo) potremmo disporre, per questo torno di tempo, di un’ulteriore attestazione dell’esistenza e dell’importanza di questa carica nonché del ruolo pregnante dei comandi militari nella dimensione civica. Tuttavia i primi hippeis, nella storia politico-militare dell’isola, vengono ricordati già sul finire del VII a.C., in relazione all’assunzione della tirannide in Lentini da parte di Panezio88 onde – al di là della dubbia interpretazione del termine nel senso di guerrieri a cavallo – si è legittimati a postulare «uno sviluppo tattico precoce della cavalleria» nell’Occidente greco rispetto alla maggior parte della grecità metropolitana.89 Ma, quanto alla connessione con la procedura di una “conta”, con la trasparenza e “pubblicità” di un sistema di gratifiche e punizioni attraverso lo strumento scrittorio, sembra proprio che le condizioni più propizie per siffatta mentalità (o comunque per il suo irrobustimento) si lascino individuare soprattutto dopo il tempo terribile delle manipolazioni e destrutturazioni civiche attuate dai vari tiranni. Nell’urgenza di ridefinire identità e patrimoni di archaioi politai, di rintuzzare le reazioni risentite di neopolitai, di restaurare o adeguare 84 Ne sono stati restituiti dall’Athenaion di età arcaica (tempio B, VI a.C.), esplorato da P. Orsi, Gela. Nuovo tempio greco arcaico in Contrada Molino a Vento, «NSc» IV (1907), 38-40. Analoghe decorazioni provengono da un edificio sull’acropoli (primo quarto del V a.C.) e sono state rinvenute nel fondo di una cisterna: P. Orlandini, Nuovi acroteri a forma di cavallo e cavaliere dall‟acropoli di Gela, in Miscellanea G. Libertini, Catania 1958, 117-128; cfr. R. Panvini (a cura di), Gela. Il Museo archeologico. Catalogo, Gela 1998, 29, 39 s., 61, 67, 171. 85 Cfr. M. Caccamo Caltabiano, La mistica e il ruolo politico. L‟ideologia del cavaliere nell‟età delle tirannidi siceliote, in R. Pera (a cura di), L‟immaginario del potere. Studi di iconografia monetale, Roma 2005, 132, partic. 23, con la suggestiva lettura simbolica del cavaliere/signore vittorioso, cacciatore di fiere e di avversari. 86 SEG IV, n. 27; Dubois, IGDS, 275 s., n. 219; Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 283 n. 43, e, di recente, D. Erdas, Forme di stanziamento militare e organizzazione del territorio nel mondo greco: i casi di Casmene e Brea, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit., 45-55. 87 Hdt. 7, 155; Erdas, Forme di stanziamento militare, cit., 46 s. 88 Eus. II 91 Schoene, 97b Helm: secondo il noto stratagemma conservato in Polyaen. V 47, Panezio avrebbe eliminato gli euporoi e gli hippeis della città, con l’aiuto degli eniochoi. Su ciò Luraghi, Tirannidi arcaiche, 11 ss., il quale propende a ritenere tali hippeis omologhi agli omonimi «guerrieri aristocratici, che costituiscono lo strato sociale più elevato, per i quali il cavallo è in prima istanza un simbolo di status, mentre il suo impiego militare è limitato al trasporto dei guerrieri stessi» (14). 89 Così Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 179. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio | 54 meccanismi e regole nelle comunità liberate, la tecnica scrittoria era destinata ad accrescersi ed affermarsi quale strumento di garanzia e tutela dei diritti e dei doveri civici. Carmela Raccuia Dipartimento di Scienze dell’Antichità Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Messina Polo Annunziata 98168 Messina [email protected] on line dal 15 giugno 2011 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54 MARCO VINCI Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica Nel corso degli ultimi quattro decenni si è assistito ad un proliferare di studi riguardanti la guerra nel mondo antico, o meglio tutto il complesso delle problematiche connesse con il concetto anglosassone di «warfare», espressione che in italiano non trova una traduzione appropriata. Mi sembra, però, che l’attenzione degli studiosi si sia incentrata principalmente su due poli complementari ed opposti al contempo: da un lato sulla figura del cittadino-oplita possessore di terra, fondamento essenziale della polis in età arcaica; dall’altro sul fenomeno del mercenariato, affermatosi alla fine del V secolo e poi pienamente diffusosi nel IV, cui diedero impulso sia ragioni di tipo demografico (la cittadinanza non bastava da sola come bacino di reclutamento) sia l’evolversi della tecnica e delle tattiche di guerra.1 Nonostante l’identità tra oplita e cittadino iniziasse ad attenuarsi, comunque essa non si dissolse del tutto, persino quando i mercenari acquistarono ovunque maggiore importanza militare rispetto alla leva ordinaria dei cittadini, cui però non si voleva veramente rinunciare dal momento che così si sarebbero colpite nel loro nucleo anche l’autoconsapevolezza e l’identità collettiva di ciascuna polis. È forse in virtù di questa motivazione, e della crescente richiesta di professionalità nei combattimenti, che andrebbe spiegata l’istituzione di corpi d’armata speciali che si pongono in una posizione mediana tra le truppe ordinarie e le bande di μισθοφόροι. Le fonti attestano per diverse realtà politiche l’impiego di unità speciali costituite per la maggior parte dei casi da opliti, che pertanto continuano a rappresentare il nerbo dell’armamento di uno stato. I termini solitamente adoperati per designare queste milizie sono λογάδες ed ἐπίλεκτοι che trovano però diversa diffusione cronologica: ad esempio, in scrittori come Erodoto e Tucidide si registra un uso esclusivo di λογάδες, mentre nell’ultimo scorcio del V secolo a.C., come dimostra un frammento di Ctesia di Cnido, inizierà ad affermarsi anche ἐπίλεκτοι che, in alcuni autori come Senofonte, e in netta La bibliografia sull’argomento è vastissima: per una veloce rassegna V.D. Hanson, The Status of Ancient Military History: Traditional Work, Recent Research, and On-Going Controversies, «The Journal of Military History» LXIII (1999), 379-413; per gli studi più recenti Ph. Sabin - H. van Wees - M. Whitby (Eds.), The Cambridge History of Greek and Roman Warfare, I-II, Cambridge 2007 (da qui in avanti CHGRW). 1 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 56 controtendenza rispetto al passato, rimpiazzerà totalmente λογάδες.2 In successione di tempo i due vocaboli, adoperati indifferentemente come sinonimi, saranno di gran lunga i più diffusi per definire truppe scelte a carattere sia temporaneo che permanente.3 A λογάδες/ἐπίλεκτοι corrispondono in ambito romano le forme lecti/delecti derivanti dalla medesima radice indeuropea (*leĝ);4 diversa, invece, è la natura dei cosiddetti extraordinarii che, seppur Polibio assimila al greco ἐπίλεκτοι, designano nella fattispecie truppe d’élite reclutate tra i contingenti delle comunità italiche alleate di Roma, come del resto specifica lo stesso Megalopolitano.5 La diversa natura e abbondanza delle fonti al riguardo lascia pensare che l’istituzione di truppe speciali rientrasse nell’ordinaria amministrazione di molte città-stato tanto che, perfino nella tragedia, troviamo qualche riferimento a queste unità (Eur. Hec. 525, Andr. 324). Purtroppo non conosciamo né la composizione né le modalità di reclutamento di questi eserciti; gli stessi manuali di poliorcetica rimangono vaghi in proposito pur menzionando in diversi passi il coinvolgimento di truppe scelte in operazioni belliche: ad esempio Polieno usa sia λογάδες che ἐπίλεκτοι; Onasandro (22, 1) dedica un paragrafo all’uso di ἐπίλεκτοι, così come si legge nella titolatura, definiti però λογάδες nel prosieguo della narrazione dove sembra circoscrivere l’impiego di questi contingenti speciali a funzioni ausiliarie.6 Tuttavia a tale ricchezza documentaria non corrisponde a tutt’oggi una trattazione organica generale e i parziali studi al riguardo si dimostrano alquanto insufficienti. 7 William Kendrick Pritchett – nella sua monumentale opera divenuta punto di riferimento negli studi specialistici – pur dedicando all’argomento poche pagine, operò una prima e sostanziale distinzione tra Selected corps of citizen troops e Specialized training. Nel primo gruppo lo studioso passava in rassegna alcune realtà politiche per le quali le fonti attestavano l’impiego di corpi speciali in genere: i seicento Per Ctesia FGrH 688, F 1b: Σεμίραμις μετὰ στρατιωτῶν ἐπιλέκτων μαχομένη καὶ τῶι προτερήματι δεξιῶς χρησαμένη, τοὺς ᾿Ινδοὺς ἐτρέψατο; per Senofonte Hell. V 3, 23; VII 1, 19; VII 2 2, 10; VII, 2 12; An. III 4, 43; VII 4, 11. 3 Per un elenco comprendente altre varianti cfr. Poll. I 176: στρατιῶται ἐπίλεκτοι, ἔκκριτοι, πρόκριτοι, δόκιμοι, εὐδόκιμοι, ἄριστοι, ἀριστεῖς, ἀριστεύοντες, κρατιστεύοντες, λογάδες, λόγιμοι. J. Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, I-III, Bern und München 1959, II, 658; P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecques, I-IV, Paris 1968-1980, III (1974), 626. 5 Polyb. VI 26, 6. Per gli extraordinarii R. Cagnat, in Daremberg - Saglio, II 1 (1892), 945-946 e W. Liebenam, in RE VI 2 (1909), 1696-1698 con le fonti e la bibliografia relativa; per un’analisi aggiornata P. Erdkamp, Polybius and Livy on the Allies in the Roman Army, in L. de Blois - E. Lo Cascio (Eds.), The Impact of the Roman Army (200 BC-AD 476) Economic, Social, Political, Religious and Cultural Aspects. Proceedings of the Sixth Workshop of the International Network Impact of Empire (Roman Empire, 200 BC-AD 476), Capri, March 29-April 2, 2005, Leiden-Boston 2007, 47-74. 6 Per il passo in questione cfr. B. Campbell, Greek and Roman Military Writers. Selected readings, London-New York 2004, 112. 7 Così V. Alonso - K. Freitag, Prolegomena zur Erforschung der Bedeutung der Eliteeinheiten im archaischen und klassischen Griechenland, «Gerion» XIX (2001), 199-219, 200. Molto scarno il lemma Ἐπίλεκτοι curato da A. Hauvette, in Daremberg - Saglio, II 1 (1892), 666; altrettanto succinto, oltre che inadeguato, l’omologo a firma di E. Szanto, in RE VI 1 (1907), 157 che restringe lo statuto di «Elitetruppen» ai soli contingenti della Lega Achea. 4 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 57 ἐπίλεκτοι che a Siracusa scacciarono i mercenari nel 461 a.C.; i trecento ἐπίλεκτοι Beoti impiegati nella battaglia di Delio del 424 a.C; i mille ἐπίλεκτοι argivi (421- 418 a.C.) scelti tra i più giovani che eccellevano in vigore fisico; i trecento ἐπίλεκτοι componenti il Battaglione Sacro (ἱερὸς λόχος) tebano (379-338 a.C.); gli Ἐπάριτοι della Lega Arcadica (371-363 a.C.) nati in seguito ad una rivolta guidata da Tebe contro Sparta; i trecento Elei di cui parla Senofonte (365-364 a.C.); i 2.500 Cartaginesi componenti uno ἱερὸς λόχος che combattè nel 340 a.C. contro Timoleonte e nel 310 a.C. contro Agatocle. Nel secondo gruppo il Pritchett incluse truppe speciali, addestrate a compiti specifici e ben definiti, la cui attestazione ricorre solo per Sparta dove troviamo i cosiddetti Σκιρῖται e gli ἱππεῖς. I primi, così chiamati perché erano Arcadi provenienti dalla Sciritide, combattevano nell’ala sinistra dell’esercito, avevano funzione di avanguardia ed erano spesso associati alla cavalleria; i secondi, che a dispetto del nome non erano cavalieri ma opliti a cavallo, costituivano la guardia del corpo del re; dapprima cento (Hdt. VI 56), divennero trecento all’epoca di Leonida che li scelse personalmente per combattere alle Termopili (Hdt. VII 205, 2; VIII 124; Thuc. V 72; Strab. X 4 18).8 Nel corso degli anni lo studio del Pritchett è stato arricchito e ulteriormente perfezionato.9 Una lacuna importante era costituita dal caso di Atene, studiato e approfondito da Lawrence A. Tritle il quale operò una seconda distinzione. Lo studioso notò che mentre λογάδες restava circoscritto alle opere di Erodoto e Tucidide, le fonti sia letterarie che epigrafiche, comprese tra la metà del IV fino al II secolo a.C., si riferivano a truppe scelte ateniesi adoperando solo ed esclusivamente ἐπίλεκτοι. Da qui Tritle dedusse che ad Atene – non essendosi verificata l’identità semantica riscontrabile in altre realtà politiche – tale variatio terminologica fosse correlata ad una diversità strutturale in base alla quale λογάδες designasse truppe scelte ma temporanee e improvvisate, cioè reclutate nell’occasione di un particolare evento contingente, mentre ἐπίλεκτοι si riferisse a truppe scelte permanenti, istituite appunto dal IV secolo in poi. Tritle addusse come esempi di truppe temporanee i trecento Ateniesi al comando di Olimpiodoro nella battaglia di Platea del 479 a.C., di cui ci parlano Erodoto (IX 21, 3) e Plutarco (Arist. 14, 5), e i trecento λογάδες impegnati nei combattimenti attorno alle mura di Siracusa nel 414 di cui riferisce Tucidide (VI 100, 1; VI 101, W.K. Pritchett, The Greek State at War, I-V, Berkeley-Los Angeles 1971-1991, II (1974), 221225 con le fonti e la bibliografia relativa. Secondo E.L. Wheeler, The General as Hoplite, in V.D. Hanson (Ed.), Hoplites. The Classical Greek Battle Experience, London-New York 1993, 121-170, 131 queste unità speciali potrebbero avere avuto rapporti di continuità con la falange di epoca arcaica sebbene l’appartenenza ad esse, in epoca classica, non fosse più garantita da privilegi ereditari. 9 Si veda la rassegna in G. Daverio Rocchi, “Promachoi” ed “epilektoi”: ambivalenza e ambiguità della morte combattendo per la patria, in M. Sordi (a cura di), “Dulce et decorum est pro patria mori”. La morte in combattimento nell‟antichità, Milano 1990, 13-36; utile anche il catalogo con altri esempi in Alonso Freitag, Prolegomena, cit., 204-215. 8 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 58 4).10 A mio avviso, però, stabilire sulla scorta di criteri esclusivamente terminologici la natura improvvisata o permanente di questi contingenti non mi pare così probante in quanto ogni attestazione andrebbe singolarmente appurata e contestualizzata. Si noti, infatti, che nel caso della battaglia di Platea tali combattenti sono definiti sia da Erodoto che da Plutarco οἱ λογάδες dove l’articolo determinativo indicherebbe piuttosto un corpo permanente;11 al contrario, nel caso dell’assedio a Siracusa, il contesto sembrerebbe suggerire un ingaggio temporaneo, circoscritto a quella specifica missione. Atene offre inoltre qualche notizia in più sulle modalità di reclutamento dove gli ἐπίλεκτοι, come si è detto, sono menzionati anche in alcuni decreti che ammontano ad una trentina. Ne prendo ad esempio tre. Nel primo di essi, risalente al 330 a.C., la tribù Antiochide onora il tassiarco Proclide per l’eccellente servizio svolto (SEG III 116). In questo decreto (ll. 2-3) si fa menzione di ἐπίλεκτοι πρεσβύτεροι, segno che esistevano anche ἐπίλεκτοι νεώτεροι. Al 317 a.C. risale il decreto della tribù Cecropide (SEG XXI 319) che onora i propri ἐπίλεκτοι per avere ucciso alcuni pubblici nemici; in un terzo decreto (SEG XXV 149), probabilmente del 303 a.C., gli ἐπίλεκτοι volontari ateniesi onorano Demetrio Poliorcete con una grande statua equestre di bronzo nell’Agorà in riconoscimento dei recenti successi militari contro Cassandro. Queste epigrafi dimostrano che tali unità militari erano suddivise ed organizzate κατὰ φυλάς e per fasce d’età sotto il comando di un tassiarco e godevano di una propria autonomia ed identità civica perché non solo erano oggetto di pubblici provvedimenti ma emettevano promulgazioni proprie. Si tratta dunque di corpi indipendenti che si affiancano alle truppe oplitiche regolari ma con la sostanziale differenza di ricevere un intenso addestramento specifico. Soffermandoci su Siracusa, punto focale della nostra indagine, abbiamo visto con il Pritchett che la polis siceliota disponeva di truppe scelte già dal 461 a.C., quando un corpo di ἐπίλεκτοι ἑξακόσιοι pose fine a una rivolta di mercenari che avevano occupato l’isola di Ortygia e l’Achradina. A ricompensa del loro valore (ἀριστεῖα), questi seicento uomini ricevettero una mina d’argento a testa, come specifica Diodoro (XI 76, 2): μετὰ δὲ τὴν μάχην οἱ Συρακόσιοι τοὺς μὲν ἐπιλέκτους, ὄντας ἑξακοσίους, αἰτίους γενομένους τῆς νίκης, ἐστεφάνωσαν ἀριστεῖα δόντες ἀργυρίου μνᾶν ἑκάστῳ. Secondo la cronologia diodorea la rivolta era scoppiata due anni prima, nel 463, poiché i mercenari erano stati esclusi dalla partecipazione alle pubbliche cariche. Questo provvedimento era stato ratificato dall’assemblea istituita dal nuovo governo di stampo repubblicano, affermatosi in seguito al rovesciamento della tirannide dinomenide nel 466/5.12 L’uso di truppe 10 L.A. Tritle, Epilektoi at Athens, «AHB» III (1989), 54-59, 54-56. Sul carattere temporaneo delle truppe speciali impegnate a Platea si è espressa anche Daverio Rocchi,“Promachoi” ed “epilektoi”, cit., 29. 11 Dello stesso avviso Pritchett, The Greek State at War, cit., 224. Lo studioso, a seguito dell’articolo del Tritle, trattò il caso di Atene nel quinto ed ultimo volume della sua opera (1991), 484 n. 733. 12 La data del 461 come fine del conflitto è accettata, seppur con qualche perplessità, da E.A. Freeman, History of Sicily from the Earliest Time, I-IV, Oxford 1891-1894, II (1891), 313 n. 2; al contrario ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 59 scelte a Siracusa prima della metà del V secolo a.C. è spiegabile dunque alla luce della storia del mercenariato in Sicilia che si afferma precocemente rispetto ad altre zone del mondo greco. Si pensi infatti che Gelone introdusse a Siracusa, in un momento imprecisato, diecimila mercenari e che ancora settemila di essi perduravano all’interno della città dopo l’abbattimento della tirannide (Diod. XI 72, 3; 73): non è impossibile supporre che tra le misure adottate dall’assemblea, oltre all’esclusione di costoro dai diritti politici, vi fosse anche l’istituzione di corpi speciali che potessero tenere testa all’efficienza militare di tali individui. Negli studi anteriori alla disamina del Pritchett l’intervento da parte di questo corpo d’armata scelto è stato variamente recepito: o è stato acquisito senza porsi alcun interrogativo sull’identità di questi uomini13 o non è stato affatto menzionato14 o al contrario ha suscitato suggestioni tali da sconfinare in ipotesi peregrine. La più audace è senza dubbio quella di coloro che attribuiscono agli ἐπίλεκτοι un ruolo politico all’interno della nuova compagine statale. Il primo a proporre un’ipotesi di tal genere fu Hermann Wentker il quale vi riconobbe una milizia combattente a favore dell’antico ceto aristocratico siracusano che, secondo lo studioso, dopo la cacciata del tiranno, aveva preso le redini del governo della città.15 Più oltre, rispetto al Wentker, sono andati coloro che hanno proposto l’assimilazione degli ἐπίλεκτοι con i cosiddetti χαριέστατοι τῶν πολιτῶν, definizione che Diodoro adopera per connotare i maggiorenti della Siracusa postdinomenide.16 Questa tesi muove dal confronto con i seicento membri, definiti anch’essi χαριέστατοι τῶν πολιτῶν, componenti un sinedrio oligarchico (ἑξακοσίων συνέδριον) attestato dalle fonti per l’epoca di Agatocle 17 ma la cui G. Busolt, Griechische Geschichte, I-III, Gotha 1893-1904, III 1 (1897), 172 n. 2 ritiene un’eventualità impossibile la resistenza dei mercenari per un periodo così lungo; a questa affermazione obietta W. Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, Prag 1929, 67 n. 10 il quale ipotizza che essi avrebbero potuto ricevere aiuto via terra dai mercenari di Aitna come aveva sostenuto già K.J. Beloch, Griechische Geschichte, I-IV, Strassburg 1912-1927, II 1 (1914), 128. L’aiuto da parte degli Aitnaioi è a mio avviso impossibile da sostenere dato che i ribelli erano isolati da ogni collegamento con l’entroterra, ma evidentemente Beloch e Hüttl sono ancora legati alla concezione topografica ottocentesca di Siracusa secondo cui per Achradina si intendeva tutta la zona costiera nord-orientale, dalla sponda antistante Ortygia fino all’insenatura di Santa Panagia, cioè la fascia orientale dell’altipiano roccioso delle Epipolai. Anche G. Manganaro, La caduta dei Dinomenidi e il „politikon nomisma‟ in Sicilia nella prima metà del V sec. a.C., «AIIN» XXI-XXII (1974-1975), 9-40, 10 ritiene improbabile che il conflitto si fosse risolto solamente nel 461 stante il vuoto di un anno (il 462) riscontrabile nel resoconto diodoreo. 13 Così in Freeman, History of Sicily, II, cit., 314 e in A. Holm Storia della Sicilia nell‟antichità, I-III, Torino 1896-1901, I (1896), 472. 14 Busolt, Griechische Geschichte, III 1, cit., 172; Beloch, Griechische Geschichte, II 1, cit., 128; Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, cit., 67 non fanno parola dei seicento epilektoi. 15 H. Wentker, Sizilien und Athen. Die Begegnung der attischen Macht mit den Westgriechen, Heidelberg 1956, 80 criticato acutamente da M. Wörrle, Untersuchungen zur Verfassungsgeschichte von Argos im 5. Jahrhundert vor Christus, Bonn 1964, 130 n. 102. La visione di Wentker, che ammette una continuità della Adelsherrshaft per la Siracusa post-tirannica, è negata da P.A. Brunt, Athens and Sicily, «CR» VII (1957), 243-245 che approda all’estremo opposto teorizzando l’affermazione di una democrazia tout court. 16 F.P. Rizzo, La repubblica di Siracusa nel momento di Ducezio, Palermo 1970, 5-14. 17 Diod. XIX 4, 3; 5, 6; 6, 3-5. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 60 istituzione viene fatta risalire da alcuni studiosi alle riforme costituzionali operate da Timoleonte.18 Come si può notare, l’unico dato in comune tra gli ἐπίλεκτοι e tale consesso oligarchico è il numero dei componenti, cioè seicento; per il resto tale teoria appare alquanto debole e non esente da critiche espresse da più parti e alle quali mi associo.19 Escluso dunque ogni coinvolgimento di tipo politico di questi militari, altri hanno tentato di dare corpo all’idea che costoro fossero mercenari corrotti passati dalla parte avversaria, stante l’elargizione di un donativo così ingente.20 A smentire questo assunto basti la constatazione che, seppur nell’antichità la modalità di pagamento più usuale per i mercenari fosse costituita da premi in danaro e che spesso alcuni tipi monetali venissero emessi proprio in occasione di tali ricompense,21 arguire da ciò che gli ἐπίλεκτοι fossero stranieri prezzolati non mi pare così evidente; anzi bisogna tenere presente che non era insolito, anche in Sicilia, ricompensare i mercenari sia con danaro liquido che con terre e beni requisiti ai cittadini.22 In effetti è probabile che l’alto valore della somma corrisposta (si ricordi che una mina era l’equivalente di 100 dracme ovvero 1/60 di talento) si possa spiegare interpretando le 600 mine come una sorta di emissione commemorativa, coniata cioè nella speciale occasione di una così importante vittoria, non necessariamente conseguita da parte di μισθοφόροι.23 Oltretutto, se costoro fossero stati mercenari, Diodoro lo avrebbe quasi certamente specificato come dimostra un passo, relativo all’epoca di Agatocle, in cui menziona μισθοφόροι ἐπίλεκτοι.24 Da quanto detto bisogna allora identificare questi «scelti» con truppe cittadine selezionate. A questo punto si pone il dubbio se questi seicento uomini fossero stati reclutati per l’occasione di tali turbolente vicende all’interno dell’esercito regolare o se costituissero un corpo a sé stante e Cfr. S.N. Consolo Langher, Siracusa e la Sicilia greca tra età arcaica ed alto ellenismo, Messina 1996, 255-279; Ead., Un imperialismo tra democrazia e tirannide. Siracusa nei secoli V e IV a.C., Roma 1997, 179 con la bibliografia relativa. 19 Ad es. J. Briscoe, Ducetius, «CR» XXIV (1974), 245-247, 246; Manganaro, La caduta dei Dinomenidi, cit., 10 n. 2; D. Asheri, Sicily, 478-431 B.C., in CAH2, V (1992), 147-170, 166 n. 20. 20 P. Green, Diodorus Siculus. Books 11-12.37.1. Greek history, 480-431 B.C. The Alternative Version, Austin 2006, 147 n. 91. 21 M. Trundle, Greek Mercenaries. From the Late Archaic Period to Alexander, London 2004, 83; Id., Ancient Greek Mercenaries (664-250 B.C.), «History Compass» III (2005), 1-16, 7. 22 I Siracusani ricompensano con 100 mine i mercenari di Dione che nel 357 liberano la città dalla tirannide di Dionisio II (Plut. Dion. 31, 1); di converso nel 406 Dionisio I con i beni confiscati ai magnati geloi paga i suoi soldati (Diod. XIII 93, 1-3) mentre nel 396 dona loro la città e il territorio di Leontini (Diod. XIV 78, 1-3). 23 Secondo alcuni studiosi la nuova moneta corrisponderebbe al decadrammo d’argento solitamente identificato con il cosiddetto Damareteion, così C.M. Kraay, Greek Coins and History. Some Current Problems, London 1969, 19-42; Id., The Damareteion Reconsidered: a Reply, «NC» XII (1972), 13-24.; Id., Archaic and Classical Greek Coins, Berkeley 1976, 205, 211; Manganaro, La caduta dei Dinomenidi, cit., 29 sgg. 24 Diod. XIX 72, 2: χωρὶς γὰρ τῶν συμμάχων καὶ τῶν ἐκ Συρακουσσῶν καταγραφέντων εἰς 18 τὴν στρατείαν μισθοφόρους ἐπιλέκτους εἶχε πεζοὺς μὲν μυρίους, ἱππεῖς δὲ τρισχιλίους πεντήκοντα. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 61 permanente di professionisti.25 A mio avviso, l’uso dell’articolo determinativo farebbe propendere per questa seconda soluzione.26 Un ulteriore impiego di truppe scelte a Siracusa è attestato nelle fasi iniziali dell’assedio posto alla città siceliota dagli Ateniesi nel corso della grande spedizione. Come si cercherà di dimostrare, anche attraverso il confronto con le altre fonti, la menzione più o meno esplicita da parte di Tucidide di questi contingenti è, in un modo o nell’altro, finalizzata ad attenuare le responsabilità di alcuni errori tattici commessi dagli strateghi siracusani, soprattutto di Ermocrate nei confronti del quale, com’è noto, lo storico ateniese nutrì una certa ammirazione.27 Il primo episodio si riferisce all’estate del 414, quando cioè dopo la pausa invernale, i Siracusani, avendo saputo che gli Ateniesi erano in procinto di passare all’attacco, si organizzano per sbarrare agli avversari le vie d’accesso all’altopiano delle Epipole, posizione dominante e strategica (VI 96, 1-2). Tucidide fornisce preliminarmente tre informazioni, quasi delle premesse, che troveranno, come vedremo, una loro ragion d’essere nello sviluppo degli avvenimenti (VI 96, 3): 1) i Siracusani sono impegnati, sul far del giorno, a passare in rassegna le truppe sulla pianura nei pressi del fiume Anapo (καὶ οἱ μὲν ἐξελθόντες πανδημεὶ ἐς τὸν λειμῶνα παρὰ τὸν ῎Αναπον ποταμὸν ἅμα τῇ ἡμέρᾳ […] ἐξέτασίν τε ὅπλων ἐποιοῦντο); 2) gli strateghi eletti con Ermocrate sono entrati «da poco» in carica (ἐτύγχανον γὰρ αὐτοῖς καὶ οἱ περὶ τὸν ῾Ερμοκράτη στρατηγοὶ ἄρτι παρειληφότες τὴν ἀρχήν); 3) i Siracusani hanno già «in un primo tempo» selezionato un contingente di seicento λογάδες a capo del quale pongono un certo Diomilo, profugo di Andros, con il precipuo compito di impedire agli Ateniesi di impadronirsi delle Epipole (καὶ ἑξακοσίους λογάδας τῶν ὁπλιτῶν ἐξέκριναν πρότερον, ὧν ἦρχε Διόμιλος φυγὰς ἐξ ῎Ανδρου, ὅπως τῶν τε ᾿Επιπολῶν εἶεν φύλακες, καὶ ἢν ἐς ἄλλο τι δέῃ, ταχὺ ξυνεστῶτες παραγίγνωνται). Gli Ateniesi però, al comando di Nicia, precedendo con tempestività il piano dei Siracusani, nottetempo salpano di nascosto da Catania, dove hanno svernato, facendo scalo nel luogo chiamato Leone, al nord delle Epipole. Qui fanno sbarcare le truppe di fanteria mentre ormeggiano le navi a Thapsos, l’attuale Tale incertezza per il caso di Siracusa è espressa da P. Hunt, Military Forces, in CHGRW, I, 108-146, 144. 26 Così anche E.L. Wheeler, Land battles, in CHGRW, I, 186-222, 220 che parla di «permanent unit». Meno credibile mi sembra l’opinione di Wentker, Sizilien und Athen, cit., 173 n. 356 secondo cui gli ἐπίλεκτοι siracusani non furono un’unità permanente ma sarebbero stati reclutati di volta in volta all’occorrenza. 27 Il grado di stima da parte di Tucidide per Ermocrate sembra oggi ridimensionato rispetto al passato a partire dalle considerazioni di F. Grosso, Ermocrate di Siracusa, «Kokalos» XII (1966), 103143, soprattutto 126. Secondo F.T. Hinrichs, Hermokrates bei Thukydides, «Hermes» CIX (1981), 46-59 l’alta considerazione di Tucidide per Ermocrate deriverebbe da un confronto con la vicenda politica di Alcibiade, simile per certi aspetti a quella del generale siracusano. Per una bibliografia sul personaggio cfr. G. Vanotti, Quale Sicilia per Ermocrate?, in C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini (a cura di), Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano 2003, 179-197, 180 n. 4. 25 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 62 penisoletta di Magnisi, dopo aver bloccato l’istmo con una palizzata. Dal Leone corrono con facilità alle Epipole e salgono sull’Eurialo prima che i Siracusani se ne accorgano e possano arrivarci abbandonando il prato e la rivista (VI 97, 1-2). Nella descrizione dello scontro (VI 97, 3-4), dall’esito disastroso per i Siracusani, le tre premesse assumono i connotati di vere e proprie attenuanti degli errori tattici commessi dai Sicelioti, constatazione che salta ancor di più agli occhi dal confronto con Plutarco (Nic. 17, 1) e Diodoro (XIII 7, 3) in cui tali giustificazioni sono del tutto assenti. 1) Tucidide pone la rivista delle truppe cittadine nel punto più lontano ed opposto al luogo dell’attacco, specificando che le due zone distavano non meno di venticinque stadi; Plutarco e Diodoro non accennano affatto a questioni di topografia e distanza; 2) Tucidide dice che i tre strateghi plenipotenziari sono entrati in carica da poco tempo (ἄρτι). Questa precisazione cozza inevitabilmente con un’affermazione precedente in cui lo storico rivela invece che gli strateghi furono eletti nell’autunno del 415, dopo la grave sconfitta subita all’Olympieion dove gli Ateniesi avevano installato il loro quartier generale. Ermocrate, in assemblea, aveva giudicato eccessivo il numero di quindici strateghi giacché proprio ad un siffatto frazionamento del comando imputava la disfatta subita (Thuc. VI 72). Per questo motivo i comandanti furono portati da quindici a tre, e con pieni poteri, tra i quali vi era lo stesso Ermocrate (Thuc. VI 73, 1). Per Diodoro (XIII 4) i tre strateghi sono eletti addirittura al momento della partenza della flotta ateniese, cioè prima che iniziassero le ostilità. Giulio Beloch, tentando di fornire una spiegazione di quella che sembra essere una palese incongruenza tucididea, conciliò le due affermazioni presupponendo che le elezioni degli strateghi avessero avuto luogo verso il solstizio d’inverno mentre la loro entrata in carica sarebbe avvenuta tre mesi più tardi, all’equinozio di primavera, coincidente con l’inizio dell’anno civile a Siracusa.28 Al contrario, per Santo Mazzarino, la predilezione nei confronti di Ermocrate raggiungerebbe qui il suo culmine tanto da condurre Tucidide alla menzogna. Questa è l’unica chiave di lettura possibile, secondo lo studioso, per spiegare l’inciso στρατηγοὶ ἄρτι παρειληφότες τὴν ἀρχήν (Thuc. VI 96, 3) «parole in cui c’è, indubbiamente, un’intenzione apologetica, che fa a pugni con la verità».29 3) Plutarco e Diodoro menzionano i nomi dei condottieri di parte ateniese: il primo, concentrato sulla figura di Nicia, parla al singolare per meglio esaltare le virtù del generale ateniese; il secondo nomina esplicitamente anche Lamaco. Tucidide al contrario ricorda due esponenti di parte siracusana: Ermocrate e Diomilo, il luogotenente a capo dei seicento λογάδες, del quale tramanda oltre al G. Beloch, L‟impero siciliano di Dionisio, Roma 1881, 17 seguito da Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, cit., 78-79. 29 S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, Roma-Bari 20003, 284. 28 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 63 nome, unica attestazione nell’ambito dell’onomastica greca, anche il demotico.30 Primo fra tutti, William Mitford tentò di fornire una motivazione plausibile del perché Tucidide citasse esplicitamente questo personaggio non altrimenti noto. L’isola di Andros, la più settentrionale delle Cicladi, è – durante la guerra del Peloponneso – alleata di Atene: Diomilo sarebbe stato pertanto un dissidente che avrebbe messo al servizio della parte avversaria la propria esperienza delle tattiche militari ateniesi e Tucidide ne ricorderebbe il nome e l’etnico per rimarcare l’inefficienza dei comandanti siracusani.31 Altri hanno visto in Diomilo ora un mercenario32 ora un ὁπλομάχος al comando di una unità permanente, diretta filiazione del contingente del 461.33 In effetti dalla narrazione sembrerebbe prevalere a prima vista il carattere di temporaneità di questo battaglione, reclutato in un momento particolarmente concitato. Tuttavia l’avverbio πρότερον farebbe pensare ad una misura attuata in un tempo precedente sia alla rassegna militare presso l’Anapo sia all’entrata in carica degli strateghi, quasi a giustificare che l’elezione di questo corpo non rientrasse nelle responsabilità di costoro. Secondo Tucidide, Diomilo e circa trecento dei suoi uomini vengono uccisi nello scontro, unico dato su cui le tre fonti concordano, nonostante sulla composizione e identità delle forze militari accorse alle Epipole, sussistano alcune varianti. Tucidide menziona infatti, oltre ai λογάδες di Diomilo, degli indefiniti ἄλλοι con cui designa il resto dell’esercito siracusano; Diodoro parla genericamente di Συρακόσιοι; Plutarco affianca ai λογάδες, di cui però non fornisce il nome del comandante, i reparti della tanto decantata cavalleria, particolare attinto molto probabilmente da Filisto.34 Alla luce di quanto detto si chiarisce allora la menzione esplicita in Tucidide di Diomilo, oscuro luogotenente straniero, il quale avrebbe meritato una lode come eroe anziché una menzione come vittima, o forse sarebbe meglio dire capro espiatorio, di un palese errore tattico compiuto dagli strateghi siracusani.35 S. Hornblower, A Commentary on Thucydides, I-III, Oxford 2003-2009, III (2009), 524: «Διόμιλος: ‘Diomilos’. A rare name; this is the only attestation in LGPN I-VA. Why named? Honoris causa? Because his family were a source?». 31 W. Mitford, The History of Greece, I-V, London 1784-1818, II (1790), 479; così più o meno anche D. Kagan, The Peace of Nicias and the Sicilian Expedition, New York 1981, 261. 32 P. Green, Armada from Athens, New York 1970, 188. 33 E.L. Wheeler, The hoplomachoi and Vegetius Spartan drillmasters, «Chiron» XIII (1983), 1-20, 3-4 n. 16; Id., Land battles, cit., 220. 34 Così P. Pédech, Philistos et l‟expédition athénienne en Sicile, in M.J. Fontana - M.T. Piraino - F.P. Rizzo (a cura di), Φιλίας Χάριν, Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, I-VI, Roma 1980, V, 1710-1735, 1728; per una rassegna bibliografica sulla Quellenfrage della Vita di Nicia plutarchea cfr. U. Laffi, La tradizione storiografica siracusana relativa alla spedizione ateniese in Sicilia (415-413 a.C.), «Kokalos» XX (1974), 18-45, 28 n. 44. 35 Thuc. VI 97, 5 informa che, dopo la battaglia, gli Ateniesi eressero un trofeo e si accordarono per la restituzione delle salme ai Siracusani (καὶ μετὰ τοῦτο οἱ ᾿Αθηναῖοι τροπαῖόν τε στήσαντες καὶ τοὺς νεκροὺς ὑποσπόνδους ἀποδόντες τοῖς Συρακοσίοις […]). Vincenzo Mirabella (1570-1624), Delle antiche Siracuse, II, Palermo 1717, 124 n. 178, tav. VIII; 129-130 n. 189, tav. IX interpretando erroneamente il passo, confuse il trofeo con un ipotetico sepolcro di Diomilo e la restituzione dei cadaveri con la loro sepoltura. Da qui dedusse di aver individuato nella zona denominata Sinerchia, compresa tra l’Eurialo e l’Anapo, il luogo ove vennero sepolti Diomilo e i 30 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 64 Nonostante la morte di Diomilo, Tucidide continua a parlare, relativamente all’anno 413 a.C., di un contingente di seicento uomini posto a guardia delle Epipole, ritornate frattanto in mano siracusana. Lo scenario di guerra passa da azioni condotte prevalentemente sulla terraferma al mare. Gli Ateniesi costruiscono un muro di circonvallazione che stringe la città da un capo all’altro come in una morsa; tuttavia ciò non basta perché resta comunque aperta la via del mare sia quello esterno sia quello interno al Porto Grande dove, da Thapsos, trasferiscono la flotta determinandone il blocco e un diretto controllo della costa orientale (VI 102, 3). Da questo momento il Porto Grande di Siracusa è al centro di quattro grandi battaglie navali. Alla fine della seconda, che vede per la prima volta i Siracusani vittoriosi, gli Ateniesi tentano di riprendere il controllo delle Epipole per riaprire un effettivo assedio di Siracusa. Dopo un tentativo fallito di distruggere mediante macchine da guerra le fortificazioni della città (VII 43, 1), le truppe ateniesi, nottetempo e con un lungo giro, salgono in forze sull’Eurialo (VII 43, 2). Giunte sulle Epipole, al comando di Demostene, uccidono alcuni uomini del corpo di guardia; la maggior parte riesce però a fuggire e a dare l’allarme (VII 43, 3-4). È in questo frangente che entrano in gioco i seicento uomini cui si è accennato: costoro sono schierati in prima posizione a guardia di questo settore del distretto ma, nonostante il loro rapido soccorso, sono volti in fuga dagli avversari (VII 43, 4). Tucidide non specifica se si tratti di truppe scelte, ma il numero degli uomini e la missione di guardia alle Epipole portano a identificare questi combattenti come diretti sostituti dei λογάδες di Diomilo sbaragliati qualche tempo prima. La reazione siracusana non si fa attendere e il merito di aver respinto i nemici viene conferito da Tucidide ad un drappello di Beoti (VII 43, 7).36 Medesima versione dei fatti troviamo in Plutarco (Nic. 21, 7); Diodoro però (XIII 11, 4) fornisce dell’episodio una variante non indifferente in quanto attribuisce l’allontanamento degli Ateniesi non ai Beoti ma ad Ermocrate, ora alla testa di un contingente di uomini scelti di numero imprecisato.37 La versione diodorea stupisce ancor di più alla luce della scarsa e superficiale attenzione che il Siciliano riserva allo stratego siracusano, menzionato solo quattro volte nell’ambito della trattazione della seconda spedizione ateniese in Sicilia.38 Tuttavia essa non sarebbe 300 epilektoi uccisi dagli Ateniesi. Effettivamente le moderne indagini archeologiche hanno confermato la presenza della necropoli vista dal Mirabella, cfr. M. Musumeci, Indagini archeologiche a Belvedere e Avola, «Kokalos» XXXIX-XL (1993-1994), 1353-1366, 1353-1360; resta però da dimostrare la destinazione proposta dallo studioso siracusano costruita, come si è detto, su una cattiva interpretazione di Tucidide, menda già a suo tempo evidenziata da Giacomo Bonanni († 1636), Delle antiche Siracuse, I, 215-216. 36 Sulla presenza dei Beoti fra i difensori di Siracusa cfr. M. Sordi, La partecipazione dei Beoti alla spedizione in Sicilia del 413 a.C., in J. Bintliff (Ed.), Recent Developments in the History and Archaeology of Central Greece. Proceedings of the 6th International Boeotian Conference, Oxford 1997, 227-229. 37 Diod. XIII 11, 4: τῶν δὲ Συρακοσίων πανταχόθεν συνδραμόντων ἐπὶ τὸν τόπον, ἔτι δὲ ῾Ερμοκράτους μετὰ τῶν ἐπιλέκτων ἐπιβοηθήσαντος, ἐξεώσθησαν οἱ ᾿Αθηναῖοι καὶ νυκτὸς οὔσης διὰ τὴν ἀπειρίαν τῶν τόπων ἄλλοι κατ' ἄλλους τόπους ἐσκεδάσθησαν . Per questa valutazione e in generale sulla figura di Ermocrate in Diodoro cfr. G. Vanotti, L‟Ermocrate di Diodoro: un leader „dimezzato‟, in C. Bearzot - F. Landucci (a cura di), Diodoro e l‟altra Grecia. Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica, Milano 2005, 257-282, 279. 38 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 65 priva di fondamento giacché, secondo uno stratagemma di Polieno (I 43, 1), sempre durante l’assedio ateniese del 413, Ermocrate al comando di ἑξακόσιοι ὁπλίται reprime una rivolta di schiavi che, evidentemente, approfittano del momento di difficoltà in cui si vengono a trovare i Siracusani. Se dunque gli ἐπίλεκτοι diodorei sono da identificare con gli ἑξακόσιοι tucididei, come è stato ragionevolmente supposto,39 la tradizione storiografica sembrerebbe aver agito ancora una volta in funzione filo-ermocratea, sia pur attraverso espedienti diversi. Se infatti Tucidide nel narrare la sconfitta siracusana (VII 43, 4) si limita ad omettere il nome di Ermocrate, Diodoro va oltre: non solo tace della disfatta – silenzio in verità giustificabile data la natura compendiativa della Bibliotheke – ma, nel riferire della vittoria, sostituisce ai Beoti il contingente di scelti agli ordini di Ermocrate. L’incongruenza è stata spiegata da alcuni presupponendo come fonte dell’episodio Timeo che, in forza della sua nota avversione a Gilippo, gli avrebbe preferito Ermocrate, defraudando così di qualunque merito la componente spartana.40 Altri hanno supposto a monte Filisto il quale – volendo rendere giustizia a Gilippo, a cui riconosceva apertamente un certo valore (FGrH 556 F 56 = Plut. Nic. 19, 6) – avrebbe ricordato il ruolo rivestito nella battaglia da ciascun contingente, notizia che l’abbreviatore Eforo avrebbe a sua volta semplificato tramandando il solo nome di Ermocrate.41 Più semplice, a mio avviso, è ammettere una derivazione, sia pur mediata ma non necessariamente compendiata, da Filisto il quale in un’ottica filo-siracusana avrebbe preferito insistere sui meriti dei suoi concittadini in una vittoria dalle conseguenze così importanti per tutta la spedizione.42 Il numero di seicento uomini che, come abbiamo visto, troviamo quasi sempre correlato a contingenti scelti, fu assunto da Adolf Holm come una riprova di un reclutamento attuato nell’ambito delle tre presunte tribù doriche in cui la popolazione siracusana dovette essere suddivisa, evenienza non impossibile se instauriamo un confronto con il caso di Atene sopra esaminato. 43 Un passo della W. Stern, Zu den Quellen der sicilischen Expedition, «Philologus» XLII (1884), 438-470, 442 n. 12; Id. Beiträge zu den Quellen der sicilischen Geschichte. Zur Kritik der Nachrichten des Philistos und Timaios über die sicilische Expedition, Pforzheim 1886, 12; R. Zoepffel, Untersuchungen zum Geschichtswerk des Philistos von Syrakus, Diss. Freiburg im Breisgau 1965, 134. 40 E. Bachof, Timaios als Quelle Diodors für die Reden des dreizehnten und vierzehnten Buches, «Neue Jahrbücher für Philologie und Paedagogik» CXXIX (1884), 445-478, 473-474, seguito da Stern, Beiträge zu den Quellen der sicilischen Geschichte, cit., 12. Per i giudizi negativi di Timeo su Gilippo Plut. Nic. 19, 5-6 = FGrH 566 F 100a; Plut. Nic. 28, 3-4 = FGrH 566 F 100b; Plut. Timol. 41, 4 = FGrH 566 F 100c; Laffi, La tradizione storiografica siracusana, cit., 30 nn. 46 e 47. 41 Pédech, Philistos et l‟expédition athénienne en Sicile, cit., 1726. 42 Com’è noto, la critica moderna è concorde nel riconoscere le fonti di Diodoro, relativamente alla spedizione ateniese in Sicilia, in Eforo e Timeo, a loro volta mediatori di Filisto, fonte principale per la storia siciliana, cfr. C. Bearzot, Filisto di Siracusa, in R. Vattuone (a cura di), Storici greci d‟Occidente, Bologna 2002, 91-136, 111. Per l’episodio in questione G. Busolt, Plutarchs Nikias und Philistos, «Hermes» XXXIV (1899), 280-297, 295 parla genericamente di «syrakusanische Darstellung» espressione che in Griechische Geschichte, cit., III 2 (1904), 735 lo studioso rettificherà in «philistisch-syrakusanischen Darstellung»; Filisto è ammesso con certezza da Laffi, La tradizione storiografica siracusana, cit., 18-45, 20-21 n. 13, 27 n. 39 e da Sordi, La partecipazione dei Beoti, cit., 227. 43 Holm, Storia della Sicilia, cit., III (1901), 183-184 n. 1. 39 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica | 66 vita plutarchea di Nicia ci informa che al tempo della spedizione ateniese in Sicilia i Siracusani fossero registrati κατὰ φυλάς su delle tavolette depositate nel santuario suburbano di Zeus Olimpio (Plut. Nic. 14, 5-6): si trattava molto probabilmente di un sistema per stabilire, fra l’altro, quanti avessero l’età prescritta per l’arruolamento. Di φυλαί con funzioni militari ci parla Tucidide in relazione agli avvenimenti del 414 a.C. (VI 100, 1). Da un passo delle Verrine di Cicerone (II 51, 126-127), apprendiamo che la scelta dell’amphipolos di Zeus Olimpio, sommo magistrato dell’ordinamento timoleonteo (Diod. XVI 70, 6), era sorteggiato annualmente cum suffragiis tres ex tribus generibus, espressione controversa che per alcuni costituisce la dimostrazione della presenza delle tre tribù,44 per altri alluderebbe alla scelta ristretta nell’ambito di tre nobili famiglie ereditarie di quel sacerdozio, in quanto il termine latino genus sarebbe da accostare al greco γένος piuttosto che a φυλή.45 È probabile però che il bacino di reclutamento si fosse con gli anni notevolmente ampliato dato che i Siracusani nel 409 a.C. inviano a soccorso di Selinunte e di Akragas, insidiate dalla minaccia cartaginese, στρατιῶται τρισχίλιοι ἐπίλεκτοι (Diod. XIII 59, 1). Con l’instaurazione della tirannide di Dionisio I, il corpo di seicento ἐπίλεκτοι sembra permanere sotto altre forme se, come sostenne il Beloch, dobbiamo intravedere nella guardia del corpo di seicento uomini che il tiranno si fa assegnare nel 405 (Diod. XIII 95, 5) una «riorganizzazione del corpo scelto di 600 opliti».46 Nel 397 a.C., durante l’assedio di Mozia, un tal Archilo di Thurii è a capo di un numero imprecisato di ἐπίλεκτοι artefici della sofferta espugnazione della città (Diod. XIV 52, 5; 53, 4). Questa è l’ultima attestazione da parte delle fonti delle truppe scelte siracusane, un tempo civica arma di difesa, ora strumento esiziale nelle mani del tiranno.47 Marco Vinci [email protected] on line dal 15 giugno 2011 Ivi, 163 n. 11; Busolt, Griechische Geschichte cit., I (1893), 419 n. 2; G. De Sanctis, Scritti minori, Roma 1976, IV, 468 n. 1; M. Sordi, Timoleonte, Palermo 1961, 117. 45 Beloch, L‟impero, cit., 15; Id. Griechische Geschichte, cit., III 1 (1922), 590; E. Ciccotti, Il processo di Verre. Un capitolo di storia romana, Milano 1895, 68; E. Pais, Ricerche storiche e geografiche sull‟Italia antica, Torino 1908, 343 n. 1; E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell‟antica Sicilia, Catania 1911, 136 n. 4; Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, cit., 122-123; H.D. Westlake, Timoleon and the Reconstruction of Syracuse, «CHJ» VII (1942), 73-100, 90. 46 Beloch, L‟impero, cit., 21. 47 È evidente che questa è l’ultima attestazione di epilektoi reclutati all’interno della compagine civica siracusana; come abbiamo visto infatti Agatocle assolderà forze scelte tra le fila di reparti mercenari (vd. supra, n. 24). 44 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66 ROBERTO SAMMARTANO La formazione dell’esercito di Dionisio I. Tra prassi, ideologia e propaganda Sulla conquista del potere assoluto da parte di Dionisio I (406 a.C.), com’è noto, l’unica narrazione pervenuta in forma completa è quella fornita da Diodoro Siculo, che si caratterizza per i suoi toni fortemente critici nei confronti del protagonista.1 Lo storico di Agirio sottolinea a più riprese come Dionisio, sin dai suoi esordi sulla scena politica siracusana, abbia sfruttato la grave situazione di pericolo determinata dall’offensiva punica in Sicilia per instaurare un sistema di potere autocratico forte, di tipo militare, e modellato sull’esperienza delle più antiche tirannidi del mondo greco. Il giovane seguace di Ermocrate, infatti, da quando si era distinto per il suo valore in alcuni combattimenti contro i Cartaginesi, aveva guadagnato grande reputazione presso i Siracusani e per questo motivo «fu indotto a concepire grandi aspettative e congegnò ogni cosa per diventare tiranno della sua patria».2 La fonte diodorea, che viene comunemente identificata con Timeo, 3 mette in evidenza come il passo decisivo verso l’instaurazione della tirannide sia stato la 1 Diod. XIII 91-96. Per l’analisi puntuale di questi capitoli diodorei vd., in particolare, K.F. Stroheker, Dionysios I. Gestalt und Geschichte des Tyrannen von Syrakus, Wiesbaden 1958, 42 ss.; M. Sordi 1990, L‟elezione di Dionigi, «Messana» I (1990), 17-26 = La dynasteia in Occidente (Studi su Dionigi I), Padova 1992, 25-32; B. Caven, Dionysius I. War-Lord of Sicily, New Haven-London 1990, 56 ss.; S. PéréNoguès, Les enseignements d‟un récit: l‟exemple des débuts politiques de Denys l‟Ancien selon Diodore de Sicile, «Pallas» LXXIX (2009), 105-118. 2 Diod. XIII 92, 1. 3 Sulla fonte diodorea sempre valide sembrano le considerazioni formulate a più riprese da M. Sordi (vd., soprattutto, L‟elezione di Dionigi, cit., 17-26), secondo la quale gli accenti di aperta condanna verso i metodi illegittimi seguiti dal tyrannos per salire al potere assoluto sono imputabili all’uso diretto da parte di Diodoro dell’opera di Timeo, celebre per la sua ostilità quasi viscerale nei confronti di Dionisio. Timeo, a sua volta, si sarebbe basato sul racconto dettagliato del Perì Dionysíou di Filisto, di chiara tendenza filo-tirannica, ma lo avrebbe riscritto in chiave negativa, eliminandone gli aspetti encomiastici e ribaltando il quadro positivo della dynasteia dionisiana tratteggiato dal “teorico della tirannide”. La tesi è condivisa ora da C. Bearzot, Filisto di Siracusa, in R. Vattuone (a cura di), Storici greci d‟Occidente, Bologna 2002, 91-136, 122, che sottolinea come nel resoconto diodoreo «la versione di Filisto, con la sua ricchezza di documentazione, la sua competenza ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 68 creazione di un potente esercito personale, formato da mercenari e da cittadini legati a Dionisio da obblighi di fedeltà. Per raggiungere tale obiettivo il seguace di Ermocrate non solo faceva in modo di gettare continuamente discredito sugli altri strateghi siracusani, ma cercava anche con tutti i mezzi possibili di crearsi un seguito personale tra le truppe dell’esercito siracusano. Dionisio si era segnalato in ben due occasioni per il maldestro tentativo di procacciarsi il favore delle milizie siracusane con allettanti promesse di denaro. La prima volta a Gela, quando utilizzò i beni confiscati ai ricchi aristocratici, fatti condannare a morte dopo un giudizio sommario, per pagare gli stipendi dovuti ai mercenari guidati dallo spartano Dexippo, che erano stati inviati dai Siracusani per presidiare la città rodio-cretese.4 Nella stessa circostanza, Dionisio promise una paga doppia ai 2.000 fanti e 400 cavalieri che lo avevano seguito fin lì, affinché potesse procurarsi, come sottolinea Diodoro, «il favore sia dei soldati che erano a Gela sia di quelli venuti con lui».5 Egli tuttavia non riuscì nell’intento, soprattutto a causa del rifiuto di Dexippo di prendere parte alla sua impresa. Il condottiero lacedemone, evidentemente, aveva già compreso la natura del piano di Dionisio, e non è certo un caso che per indicare tale piano Diodoro usi qui il termine epibole, allusivo forse ad un tentativo di colpo di stato a Siracusa (vd. infra). La seconda occasione si presentò pochi giorni dopo, durante la concitata assemblea in cui Dionisio venne nominato strategos autokrator. Approfittando del torbido clima di accuse reciproche, della confusione generale e del crescente timore per l’avanzata dell’esercito cartaginese in direzione di Gela, egli fece approvare in tutta fretta, al termine della seduta, un decreto che autorizzava il raddoppio della paga ai soldati, con la scusa che ciò serviva da sprone per le truppe in vista dello scontro ormai inevitabile con i Punici.6 Appare chiaro che in realtà con questa proposta, come non manca di osservare in chiave polemica la fonte diodorea, Dionisio mirava a ottenere il consenso dell’esercito in vista di un colpo di mano a Siracusa. Il tentativo, tuttavia, non andò subito in porto. Appena terminati i lavori dell’assemblea i Siracusani si resero conto dell’errore commesso e in città cominciò a formarsi subito un movimento di opposizione contro il neo-eletto strategos autokrator. La reazione di Dionisio fu, come al solito, prontissima. Allo scopo di politico-militare e la sua impostazione favorevole, traspare pure sotto i commenti ostili del mediatore, che spesso palesano il loro carattere posticcio rispetto alla struttura di base del racconto». Poco seguito ha riscosso invece la tesi proposta da L.J. Sanders, Dionysius of Syracuse and Greek Tyranny, London-New York-Sydney 1987, secondo cui la fonte diretta di Diodoro sarebbe Filisto, sia pure rielaborato da parte dello storico di Agirio. Sull’uso di Eforo da parte di Diodoro per alcune sezioni della narrazione su Dionisio I vd., ora, G. Mafodda, L‟ascesa politica di Dionisio I nella tradizione storiografica diodorea tra demagogia e strumentalizzazione del “pericolo cartaginese”, in D. Ambaglio (a cura di), συγγραφή 7. Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura antica, Como 2005, 137149; T. Alfieri Tonini, Il destino del tiranno nell‟aneddotica diodorea su Dionisio I, «Aristonothos» II (2008), 93-108. 4 Diod. XIII 93, 1. 5 Diod. XIII 93, 1. Sull’episodio vd. ora P. Anello, Violenza e consenso nella Sicilia di fine V secolo a.C., «Hormos» VIII (2006), 7-13, sp. 12, secondo la quale l’obiettivo reale di tutta l’operazione geloa era quello di acquisire le ricchezze dei benestanti locali. 6 Diod. XIII 95, 1. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 69 prevenire un repentino voltafaccia delle masse siracusane, egli spostò il teatro delle operazioni a Leontini, ove fece trasferire un contingente militare non piccolo composto dai più giovani fra i Siracusani atti alle armi.7 La scelta del luogo rispondeva ad una duplice strategia: la città di origine calcidese era allora un phrourion di pertinenza siracusana, ma si trovava ad una distanza tale da non essere coinvolta direttamente nelle lotte tra le varie fazioni politiche a Siracusa. Per questo motivo Dionisio sperava che i suoi avversari, tra cui in primo luogo gli appartenenti alle classi agiate dei dynatoi, non lo seguissero subito fin lì, ma attendessero ancora qualche giorno a Siracusa, forti della presenza in città di una parte ancora cospicua dell’esercito regolare e di truppe mercenarie. Inoltre, Leontinoi in quel momento accoglieva una massa consistente di stranieri e profughi provenienti dalle città siceliote già cadute in mano punica, che erano ben disposti a collaborare con Dionisio per i notevoli vantaggi personali che avrebbero ottenuto da un eventuale rovesciamento della situazione politica a Siracusa.8 Non è escluso, peraltro, che a Leontinoi fossero presenti anche alcuni gruppi di esuli siracusani, che erano stati richiamati poco tempo prima dallo stesso Dionisio, con il pretesto che la città aveva bisogno di uomini disposti a morire per la propria patria piuttosto che di soldati provenienti dall’Italia e dal Peloponneso. 9 Il riferimento era chiaramente alle truppe di Italioti e di Greci della madrepatria arruolate a suo tempo da Dexippo, che con tutta evidenza sfuggivano al controllo diretto da parte di Dionisio. Il rimpatrio degli esuli siracusani era considerato invece dallo stratega come una possibile fonte di reclutamento per il suo esercito personale. Il phrourion di Leontinoi, quindi, si presentava come un bacino di raccolta di uomini di varia origine ed estrazione, tra i quali vi erano sia cittadini siracusani sia stranieri che aspiravano a prendere la cittadinanza siracusana. Dionisio inscenò qui uno scontro armato, per far credere che i suoi avversari politici avessero ordito una congiura contro di lui; quindi, appena scese la notte, si rifugiò sull’acropoli fingendo di organizzarvi la resistenza. Grazie a questo stratagemma la mattina seguente persuase la folla lì riunita a concedergli una guardia del corpo personale di seicento soldati, che gli avrebbe permesso finalmente di soddisfare le sua ambizioni di potere. Così conclude il racconto Diodoro: «e si dice che ciò facesse ricalcando Pisistrato di Atene: il quale pure, dicono, dopo essersi ferito da solo si presentò all’assemblea come vittima d’un attentato, e con questo espediente ottenne dai cittadini un corpo di guardia che usò per procurarsi la tirannide; anche Dionisio 7 Diod. XIII 95, 2. Sulla particolare condizione di Leontinoi in questi anni vd. M. Giuffrida, Leontini, Catane e Nasso dalla II spedizione ateniese al 403, in φιλίας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, IV, Roma 1980, 1139-1156, 1143; S. Berger, Great and Small Poleis in Sicily: Syracuse and Leontinoi, «Historia» XL (1991), 129-142, 137 ss.; R. Vattuone, „Metoikesis‟. Trapianti di popolazioni nella Sicilia greca fra VI e IV sec. a.C., in M. Sordi (a cura di), Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, CISA XX, Milano 1994, 81113, 91 s.; G. Vanotti, Leontini nel V secolo, città di profughi, in M. Sordi (a cura di), Coercizione e mobilità umana nel mondo antico, CISA XXII, Milano 1995, 89-106, 102-105; M. Giuffrida, I Dionisî e l‟area calcidese, in N. Bonacasa - L. Braccesi - E. De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî. Atti della settimana di studio (Agrigento, 24-28 febbraio 1999), Roma 2002, 417-426, 421. 9 Diod. XIII 92, 2. 8 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 70 allora, ingannando il popolo con una macchinazione quasi identica, agiva in direzione della tirannide».10 La versione dei fatti offerta da Timeo/Diodoro mira, in definitiva, a presentare l’episodio di Leontinoi come l’atto culminante di una lunga serie di tentativi fatti da Dionisio per creare la base militare del proprio potere assoluto. Sulla scia di altre esperienze tiranniche del mondo greco, Dionisio aveva utilizzato mezzi ingannevoli e illegittimi per trasformare la carica costituzionale di strategos autokrator, assegnatagli con regolare delibera dell’assemblea, in quella di tyrannos, che egli stesso si attribuì quando ormai aveva il pieno controllo delle forze militari a Siracusa (XIII 96, 1). Sullo stesso episodio di Leontinoi, tuttavia, dovevano circolare altre versioni, certamente più favorevoli a Dionisio, che cercavano di porre l’accento sulla legittimità delle decisioni prese in quel frangente. Ne abbiamo una traccia, sia pur labile, in una celebre notizia attinta da Cicerone a Filisto, che com’è noto aveva fornito nella sua opera storiografica un’immagine positiva della tirannide dionisiana.11 Racconta Cicerone che Dionisio, mentre attraversava un fiume nei pressi di Leontinoi, si trovò costretto ad abbandonare il suo cavallo poiché era stato travolto dalle acque del fiume; ma quando si era ormai allontanato, sentì un nitrito e vide il cavallo avvicinarsi con uno sciame d’api attorno alla criniera; di lì a poco Dionisio cominciò a regnare (paucis post diebus regnare coeperit).12 Lo stesso evento è riferito da Eliano, con l’aggiunta di alcuni particolari che spiegano il messaggio contenuto nel prodigio: l’apparizione miracolosa delle api venne interpretato dagli indovini siculi denominati Galeotai come un segno premonitore del potere regale che Dionisio avrebbe conseguito dopo poco tempo (ὅτι ταῦτα μοναρχίαν δηλοῖ).13 Come ho già cercato di dimostrare in un’altra sede, dietro la densa simbologia del prodigio di Leontinoi si possono scorgere i termini della 10 Diod. XIII 95, 2. Tra i numerosi studi sulla ideologia filo-monarchica di Filisto si segnalano soprattutto, tra i più recenti, M. Sordi, Filisto e la propaganda dionisiana, in Purposes of history. Studies in Greek Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B.C. Proceedings of the International Colloquium (Leuven, 24-26 may 1988), Studia Hellenistica XXX, Lovanii, 1990 159-171= La dynasteia in Occidente, cit., 93104; G. Vanotti, Filisto teorico della tirannide, in L. Braccesi (a cura di), Hesperìa, 4. Studi sulla Grecità di Occidente, Roma 1994, 75-82; Bearzot, Filisto di Siracusa, cit., 91-136; K. Meister, Filisto e la tirannide, in Bonacasa - Braccesi - De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî, cit., 453-462; M. Sordi, Dionigi I e gli intellettuali: tirannide-regalità nell‟interpretazione delle fonti, in E. Luppino Manes (a cura di), Storiografia e regalità nel mondo greco. Colloquio interdisciplinare (Chieti, 17-19 gennaio 2002), Alessandria 2003, 267-277. 12 Philist. apud Cic. div. I 73 = FGrHist 556, F 58. Allo stesso storico siracusano risale anche il sintetico racconto di Plinio il Vecchio (nat. VIII 64; 158), che però, a differenza di quanto riportato da Cicerone, qualifica come tirannide il potere ottenuto da Dionisio subito dopo l’accaduto. Va notato che Felix Jacoby riporta nella raccolta dei frammenti di Filisto solo il brano di Cicerone, dandone per scontata la perfetta corrispondenza con l’estratto di Plinio. In realtà, le pur lievi divergenze fra le due citazioni possono essere spiegate, a mio avviso, con l’uso indiretto di Filisto da parte di Plinio. 13 Aelian. var. XII 46. 11 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 71 rappresentazione offerta da Filisto sul nuovo sistema di governo instaurato da Dionisio.14 Nel mondo antico molteplici sono le valenze simboliche e religiose legate all’immagine dell’ape.15 Una delle più note proiezioni semantiche collega questo insetto alla sfera del potere regale, in virtù della spontanea e quasi “naturale” sovrapposizione fra la figura dell’ape regina, che sta al vertice dell’organizzazione interna dell’alveare, paragonabile ad una società strutturata in senso rigidamente piramidale, e il modello politico della monarchia di stampo assolutistico.16 La comunità dell’alveare incarna il modello di una società perfetta, strutturata in maniera armonica nelle sue articolazioni interne e organizzata nel complesso secondo il sistema razionale tipico di un esercito o di una comunità statale. Le api infatti «rappresentano un esempio straordinario ed ineguagliabile di società comunitaria in cui l’unica priorità conosciuta risiede esclusivamente nel bene comune».17 Ma al contempo è un tipo di società che non può funzionare senza la figura centrale dell’ape “regina”, che nell’ottica maschilista dei Greci diventa il “re delle api”. Tra il sovrano e la comunità dell’alveare si instaura sempre un rapporto non soltanto molto stretto, ma anche ben equilibrato tra le due parti. Se è indubbio che al re delle api «si deve l’esistenza stessa della collettività»,18 è pur vero che la schiera dei sudditi svolge un ruolo di non secondaria importanza ai fini del mantenimento e della difesa del potere del sovrano. Lo sciame di api rappresenta, in sostanza, il modello perfetto di una monarchia assoluta di tipo militare, imperniata sulla disciplina e sull’ordine delle truppe regolari. È quanto viene indicato esplicitamente da Varrone,19 e soprattutto da Plinio il Vecchio, il quale paragona l’apparato della difesa dell’alveare al ben regolato sistema delle guardie more castrorum.20 Afferma a tal proposito Plinio, utilizzando una terminologia desunta non a caso dal lessico militare, che «una volta stretta attorno ad un capo (duce prenso) tutta la schiera (agmen) resta compatta; ma, se lo perde, essa si fraziona, emigrando verso altri capi. In nessun caso possono stare senza re. Tuttavia, li uccidono a malincuore quando ce ne sono molti, e preferiscono distruggere le celle di quelli che nascono, se disperano del raccolto».21 14 R. Sammartano, Il satiro e le api. Le profezie dei Galeotai su Dionisio nell‟opera di Filisto, in M. Caccamo Caltabiano - C. Raccuia - E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli del potere politico nel mondo greco e romano. Atti delle giornate seminariali in onore di S.N. Consolo Langher (Messina, 17-19 dicembre 2007), Messina 2010, 165-191. 15 Sulla ricca e complessa polisemia delle api e del miele nel mondo antico, vd., tra tutti, M. Bettini, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell‟anima, Roma 1994, 205-235; F. Roscalla, Presenze simboliche dell‟ape nella Grecia antica, Firenze 1998; M. Giuman, Melissa. Archeologia delle api e del miele nella Grecia antica, Roma 2008. 16 Vd. soprattutto D. Peil, Untersuchungen zur Staats und Herrschaftsmetaphorik in literarischen Zeugnissen von der Antike bis zur Gegenwart, München 1983, 167 ss.; Roscalla, Presenze simboliche dell‟ape nella Grecia antica, cit., 15 ss.; e Giuman, Melissa, cit., 17 ss. 17 Giuman, Melissa, cit., 20. 18 Giuman, Melissa, cit., 20. 19 Varr. rust. III 16, 9. 20 Plin. nat. XI 20; 10. 21 Plin. nat. XI 56; 18. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 72 La “scelta” del capo da seguire appare dunque la condizione necessaria per il benessere dell’intera collettività. Lo sciame, infatti, in caso di perdita della propria guida, è costretto ad andare subito in cerca di una valida alternativa per la propria sopravvivenza. Ma non solo. Tra il re delle api e lo sciame si stabilisce un “patto” di reciproca assistenza: il gruppo si sottopone sua sponte alla guida di un capo, ma allo stesso tempo deve assolvere al ruolo non secondario di difesa del sovrano, eliminando tutti quei componenti dell’alveare che possano aspirare a posizioni di comando e minacciare il potere centrale, riconosciuto da tutti come l’unico potere legittimo. In poche parole, gli sciami d’api hanno il delicato compito di indicare chi è degno del potere e chi invece non è predestinato a ricoprire ruoli di comando. Per tornare dunque al prodigio di Leontinoi, la scena delle api che salvano il cavallo di Dionisio da una morte ormai certa e lo riaccompagnano fino al proprio padrone (secutum vestigia domini examine apium iubae inhaerente) costituisce una calzante metafora del pieno consenso accordato dall’esercito e dall’intera massa dei sudditi verso il potere assoluto che si stava per affermare a Siracusa. I segni comparsi in occasione del miracoloso salvataggio avrebbero indicato, nel messaggio lanciato da Filisto, che nella fase decisiva del passaggio dalla strategia autocratica al governo monocratico il favore mostrato dagli dei passava attraverso l’investitura del popolo siracusano, che individuava in Dionisio la guida più adatta a ricoprire ruoli di comando legittimandone così il nuovo tipo di potere assoluto.22 Alla rappresentazione ideologica in chiave positiva del potere dionisiano doveva corrispondere nell’opera di Filisto anche una versione dell’episodio di Leontinoi che tendesse a dimostrare la piena legittimità “costituzionale” della carica “monarchica” assegnata in quella circostanza a Dionisio. Le decisioni prese dalla folla riunita nel phrourion siracusano erano infatti al centro di una controversia storiografica, che riguardava in primo luogo la validità giuridica della guardia del corpo assegnata a Dionisio. 22 Resta però da chiarire come mai nel brano di Filisto trasmesso da Plinio il potere conseguito da Dionisio viene definito come una tirannide (eoque ostento tyrannidem a Dionysio occupatam), mentre Cicerone adopera i termini regnare e regnum, equivalenti al concetto di “monarchia” presente nel passo di Eliano. È verosimile che l’oratore abbia letto direttamente e ammirato l’opera dello storico siracusano, da lui definito come et doctum hominem et diligentem et aequalem temporum illorum (Cic. div. I 39 = FGrHist 556, F 57). Secondo la convincente ipotesi di Sanders, Cicerone ha avuto modo di cogliere nel Perì Dionysíou notevoli punti di contatto con le proprie idee sulla figura esemplare del princeps, al punto da adottare proprio il ritratto di Dionisio elaborato da Filisto come uno dei modelli principali per la stesura di pagine famose del De Republica dedicate alla forma ideale della monarchia (L. Sanders, Cicero and Philistus, «Kokalos» XXXII (1986), 3-17). Di contro, Plinio non sembra avere una grande dimestichezza con l’opera di Filisto, dal momento che lo cita, oltre al passo preso in considerazione, in una sola occasione certa, allorché accenna alla notizia relativa al nome Pyrrhum dato al cane del tiranno Gelone (nat. VIII 144 = FGrHist 556, F 48). È invece alquanto probabile che le notizie di derivazione filistiana siano giunte a Plinio per il tramite di altre fonti intermedie, tra cui in primo luogo l’opera di Timeo, ben nota all’autore latino. Se si accetta l’ipotesi della ricezione della tradizione filistiana attraverso il filtro timaico, allora si può comprendere come mai la caratterizzazione originaria del potere dionisiano in termini di legittima monarchia e di regnum slitti nel dettato pliniano su un piano del tutto negativo. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 73 Da alcune indicazioni di Platone23 e di Aristotele24 si ricava che la concessione di un corpo di phylakes ai magistrati che erano ritenuti in pericolo di vita era una prassi abbastanza frequente nelle poleis greche, anche se veniva sfruttata molto spesso dai demagoghi per accedere alla tirannide. I problemi sorgevano quando non veniva rispettato il numero massimo di guardie concesse dall’assemblea popolare, come testimonia proprio il caso di Pisistrato addotto a paragone da Diodoro. Le fonti principali sulla tirannide di Pisistrato (Erodoto, Aristotele e lo stesso Diodoro) non specificano quanti fossero i phylakes (korynephoroi) accordati dagli Ateniesi al capo dei diacrii, ma sappiamo grazie ad un passo della Vita di Solone di Plutarco che l’ekklesia approvò la proposta di un tale Aristone di concedere a Pisistrato soltanto cinquanta mazzieri;25 la delibera, però, venne di fatto disattesa nel momento in cui, come riferisce Plutarco, «il popolo, approvato il decreto, non sottilizzava più nei confronti di Pisistrato neppure circa il numero dei mazzieri, ma tollerava che ne mantenesse e radunasse apertamente quanti voleva, finché egli occupò l’acropoli».26 Secondo una divergente notizia di Polieno27 e di uno scolio a Platone28 i mazzieri utilizzati da Pisistrato erano in realtà trecento, mentre stando a Diogene Laerzio29 arrivavano anche a quattrocento. Queste diverse indicazioni difficilmente possono essere considerate solo il frutto di un’esagerazione intervenuta nella tradizione,30 ma corrispondono più probabilmente alla cifra delle guardie del corpo reclutate di fatto da Pisistrato in contravvenzione al limite stabilito dal decreto di Aristone. Tutto lascia pensare che un problema analogo sia sorto appunto in merito alla decisione votata a Leontinoi a favore di Dionisio. Afferma infatti lo storico di Agirio che lo strategos autokrator, non appena venne autorizzato a dotarsi di una guardia del corpo di seicento soldati, cominciò a scegliere, tra le persone più “bisognose e audaci”, quelle più adatte a partecipare al suo esercito personale, e alla fine raggiunse una cifra superiore alle mille unità. Le ragioni che avrebbero spinto Dionisio a non tenere conto del limite legale di phylakes si possono dedurre dallo stesso racconto diodoreo. Senza l’ampliamento del numero di guardie del corpo, infatti, non sarebbe stato possibile fronteggiare la prevedibile reazione della fazione oligarchica guidata da Dafneo e Demarco, che poteva contare ancora sull’appoggio di una parte dell’esercito regolare cittadino e di alcune frange dell’esercito impegnate in quel momento fuori dai confini del territorio siracusano. Inoltre, occorreva fare i conti ancora con i 1.500 (o forse più) mercenari stanziati a Gela sotto la guida dello spartano Dexippo. 23 Plato rep. VIII 566 b. Aristot. rhet. I 1357 b, 30-36. 25 Plut. Sol. 30, 3. 26 Plut. Sol. 30, 5. 27 Polyaen. I 21, 3. 28 Schol. ad Plato rep. 566 b. 29 Diog. Laert. I 66. 30 Come pensa invece L. Piccirilli, in M. Manfredini - L. Piccirilli (a cura di), Plutarco, La vita di Solone, Milano 1977, 274. 24 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 74 Che Dexippo ricoprisse un ruolo determinante in questo frangente si può evincere da un episodio riferito da Diodoro in XIII 93, 4. Quando Dionisio si trovava a Gela, prima della sua nomina a strategos autokrator, aveva invitato Dexippo a partecipare «alla sua impresa», ricevendo però un netto rifiuto da parte dello Spartano. Dietro questa espressione è forse possibile vedere il progetto di un colpo di stato a Siracusa, come suggerisce il termine epibole adoperato da Diodoro.31 La richiesta di collaborazione avanzata da Dionisio denota certamente che Dexippo poteva avere un peso notevole in un’eventuale azione tesa al rovesciamento del governo repubblicano a Siracusa. Pertanto, il rifiuto opposto dallo Spartano non può essere visto semplicemente come un mancato accordo per questioni di denaro, tanto più che Dionisio si era già premurato di pagare la guarnigione stanziata a Gela mediante le confische dei beni degli aristocratici fatti giustiziare dal demos geloo. Piuttosto, tale diniego acquista una più precisa coloritura politica, se si ritiene, secondo la convincente ricostruzione di S. Péré-Noguès, che Dexippo fosse rimasto sempre allineato alle posizioni dell’oligarchia siracusana, vuoi per convinzioni ideologiche personali, orientate più verso un regime oligarchico di tipo spartiata che verso un governo autoritario di stampo tirannico, vuoi per una tenace fedeltà, per ragioni di opportunismo, al partito guidato da Dafneo e Demarco, ancora molto influente durante le vicende di Gela.32 In teoria, Dionisio, subito dopo la sua elezione a strategos autokrator, avrebbe avuto tutte le carte in regola per richiamare a Siracusa Dexippo, ma sapeva bene che così facendo avrebbe rischiato di consegnare i mercenari nelle mani dell’opposizione oligarchica, data la situazione politica ancora fluida ed incerta all’interno di Siracusa. Fatto sta che soltanto dopo aver aggiunto al piccolo esercito di Leontinoi una guardia del corpo superiore alle mille unità Dionisio si trovò finalmente nelle condizioni di rispedire Dexippo a Sparta, nel timore che questi potesse «restituire la libertà ai Siracusani». Fece seguito subito dopo il tentativo di attrarre i mercenari di Gela dalla sua parte con le solite lusinghe, a dimostrazione del ruolo determinante svolto da quei 1.500 xenoi presenti a Gela, aumentati forse nel frattempo a più di duemila unità. Questi ultimi, del resto, una volta privati della guida dello Spartano, non avevano più motivo di passare dalla parte di Dafneo, il quale, ormai quasi del tutto isolato, venne prontamente giustiziato. Che la questione del numero dei phylakes accordati a Dionisio fosse considerata di cruciale importanza per le sorti di Siracusa viene confermato da un interessante passo della Politica di Aristotele, ove si trova un curioso particolare dello stesso episodio ambientato a Leontini: quando Dionisio avanzò la richiesta di una guardia del corpo uno fra i presenti consigliò i Siracusani di concedergliela in misura tale che la milizia personale di Dionisio avesse una consistenza «superiore a quella dei cittadini presi singolarmente o riuniti in gruppi, ma inferiore rispetto a quella della massa» (εἶναι δὲ τοσαύτην τὴν ἰσχὺν ὥστε ἑκάστου μὲν καὶ ἑνὸς καὶ 31 È quanto ipotizza in maniera convincente Sordi, L‟elezione di Dionigi, cit., 27-28. S. Péré-Nogués, Un mercenaire grec en Sicile (406-405): Dexippe le Lacédémonien, «DHA» XXIV, 2 (1998), 7-24, sp. 16 s. 32 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 75 συμπλειόνων κρείττω τοῦ δὲ πλήθους ἥττω).33 Come sottolinea Aristotele, questa proposta corrisponde alla prassi seguita normalmente dagli archaioi quando concedevano la guardia del corpo ad un cittadino scelto come guida della città, indicato come esimneta o tiranno. Lo stesso criterio doveva essere adottato, secondo il parere del filosofo, per stabilire il numero di soldati da assegnare ad un basileus affinché questi potesse difendere le leggi patrie. La notizia di Aristotele viene solitamente messa in relazione con il passo di Diodoro sulla delibera presa a Leontinoi in merito al numero di guardie concesso a Dionisio. Secondo lo Stroheker, la proposta avanzata dall’anonimo personaggio può coincidere grosso modo con la cifra di seicento uomini accordata allo stratega plenipotenziario, in quanto i cittadini siracusani allora presenti a Leontinoi non raggiungevano tale cifra.34 Sembra tuttavia più plausibile che l’indicazione, volutamente vaga e generica, della consistenza della guardia del corpo si accordi meglio con un numero più elevato di phylakes, e più vicino al numero degli uomini effettivamente reclutati da Dionisio (più di mille, secondo Diodoro), piuttosto che con la cifra netta di seicento guardie. Dal testo aristotelico non si evince con chiarezza, in effetti, a quale numero si riferisse il proponente per indicare il limite minimo delle guardie del corpo: si tratta dei pochissimi cittadini siracusani allora presenti a Leontinoi, oppure dell’intera comunità siracusana (come lascerebbe pensare il contesto della notizia di Aristotele)? E inoltre, cosa intendeva esattamente il proponente con il termine plethos usato per indicare il limite massimo delle guardie consentite: alludeva all’insieme degli abitanti di Siracusa, oppure alla grande massa riunitasi a Leontinoi, comprensiva di esuli, stranieri oltre che di una parte dei Siracusani (plethos è il termine che non a caso ritroviamo in Diodoro, a proposito della folla presente nel phrourion al momento dell’arrivo di Dionisio)? È senz’altro più economico pensare che la proposta sia stata presentata in termini appositamente ambigui (all’interno di una situazione già di per sé poco chiara) sì da permettere a Dionisio un’arbitraria applicazione della delibera e dunque una maggiore libertà nella scelta del numero dei phylakes. Se questa lettura è corretta, se ne deduce che la notizia di Aristotele risale ad una versione dei fatti alternativa rispetto alla ostile tradizione diodorea, e protesa a difendere il tiranno dalle accuse mosse dai contemporanei di aver superato in maniera illegittima ogni limite consentito per la formazione del suo corpo di guardia. Si ritiene generalmente che la fonte diretta di questa informazione, così come degli altri exempla riguardanti la tirannide dionisiana presenti nella Politica di Aristotele, sia da individuare in Eforo di Cuma.35 Ciò nonostante, come ha ribadito di recente R. Vattuone, non è irragionevole vedere in Eforo il tramite di informazioni risalenti in ultima analisi a Filisto, data la stretta corrispondenza tra 33 Aristot. pol. 1286 b, 34-40. Stroheker, Dionysios I, cit., 151 ss. 35 Sul problema, in generale, dell’uso di Eforo da parte di Aristotele vd., da ultimo, M. Moggi, Eforo e Aristotele, in Eforo di Cuma nella storia della storiografia greca. Incontro internazionale di studi (Fisciano-Salerno, 10-12 dicembre 2008), in c.d.s. 34 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 76 le sequenze storiografiche di Aristotele sulla tirannide di Dionisio e le tematiche presenti nell’opera filistiana.36 È verosimile infatti che per gli argomenti relativi alla signoria dionisiana Eforo si sia basato direttamente sull’opera di Filisto, da lui certamente letta e forse anche apprezzata, come attestano, oltre ad una testimonianza assai controversa offerta dalla Vita di Dione di Plutarco,37 anche altre sezioni dell’opera diodorea meno ostili nei confronti di Dionisio, che secondo l’opinione prevalente derivano appunto da Filisto per il tramite Eforo. 38 Ma come sarebbe avvenuta in concreto, secondo Filisto, l’investitura popolare del potere di Dionisio? La risposta può essere fornita dalla lettura in controluce del testo di Diodoro. Riconsideriamo nuovamente il passo. Lo storico di Agirio afferma (XIII 95, 5) che grazie allo stratagemma dell’aggressione simulata nella chora leontinese, Dionisio riuscì a convincere la massa (plethos) raccoltasi nel phrourion che i suoi oppositori stavano organizzando una congiura per eliminarlo, e in questo modo persuase la folla (ochlos) ad assegnarli una guardia del corpo di seicento soldati scelti. Nel testo, a ben vedere, non si dice con chiarezza da chi fosse composto esattamente il plethos riunitosi a Leontinoi nella mattina successiva alla sceneggiata dell’agguato. Secondo lo Stroheker Dionisio si sarebbe assicurato in questa circostanza il favore dei Siracusani più giovani ed abili con le armi, e la folla (ochlos) che approvò l’assegnazione della guardia del corpo sarebbe stata una sorta di rappresentanza popolare avente la funzione e le competenze dell’assemblea dell’esercito.39 Per la Sordi, invece, quella tenutasi a Leontini sarebbe stata un’assemblea costituita formalmente da alleati e da mercenari, ma non da Siracusani, durante la quale sarebbe stato conferito a Dionisio un potere di tipo monarchico, distinto dal titolo di strategos autokrator, e assimilato piuttosto ad una basileia di carattere territoriale, corrispondente alla carica di archon tes Sikelias con cui il dinasta verrà onorato più tardi in tre decreti ateniesi.40 Comunque sia, è indubbio che la fonte di Diodoro, data la sua profonda avversione a Dionisio, ha voluto sottolineare il carattere illegittimo dei provvedimenti presi nella circostanza, in quanto deliberati non dall’intera 36 R. Vattuone, La necessità del tiranno. Tendenze della storiografia greca di IV sec. a.C. sulla dinastia dionigiana, in Bonacasa - Braccesi - De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî, cit., 533-553, 544. 37 Plut. Dion 36, 3. Su questo passo, tuttavia, è in corso un vivace dibattito, incentrato sull’identificazione dell’autore che, nel giudizio di Plutarco, sarebbe stato capace «di ammantare di motivi dignitosi le azioni ingiuste e le peggiori abitudini, e a trovare parole decorose»: vd., da ultimi, R. Vattuone, Eforo e Filisto (apud Plut. Dio 36.3), in D. Ambaglio (a cura di), συγγραφή 2. Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura antica, Como 2000, 65-71; Vattuone, La necessità del tiranno, cit., 538-544, il quale ritiene che il soggetto della frase plutarchea sia Filisto; mentre, C. Bearzot, Ancora sul giudizio di Eforo a proposito di Filisto (Plut. Dion XXXVI, 3 = FGrHist 70 F 220), in D. Ambaglio (a cura di), συγγραφή 4. Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura antica, Como 2002, 125-134 (ed ivi discussione della bibliografia precedente), sostiene che Plutarco si riferisca qui a Eforo. Nessun dubbio permane invece sull’atteggiamento favorevole mostrato da Eforo nei confronti di Filisto: vd., da ultima, Bearzot, Ancora sul giudizio di Eforo a proposito di Filisto, cit., 126 s. 38 Cfr. Bearzot, Filisto di Siracusa, cit., 119-122. 39 Stroheker, Dionysios I, cit., 151 ss. 40 Sordi, L‟elezione di Dionigi, cit., 31 s. Per i decreti onorifici attici: Tod, II, 1948, n. 108 (24 ss.), n. 133 (102 ss.), n. 136 (107 ss.). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 77 cittadinanza siracusana bensì da un’accozzaglia di persone di varia origine che erano prive dei necessari diritti politici; una moltitudine che poteva raggiungere numeri assai elevati, tant’è che viene indicata con i termini generici plethos e ochlos, ma che non aveva i requisiti politici per poter essere equiparata al corpo civico siracusano. A stretto rigore, non è escluso che di questa moltitudine facessero parte, oltre ai soldati di età inferiore ai 40 anni, anche gruppi di cittadini appartenenti ai ceti più bassi di Siracusa, spostatisi nel frattempo a Leontinoi nella speranza che il colpo di mano dello strategοs autokrator potesse migliorare la loro posizione economica e sociale. Lo suggerisce lo stesso Diodoro qualche riga più avanti, laddove afferma che tra i più recenti sostenitori di Dionisio vi erano, in particolare, τοὺς χρημάτων μὲν ἐνδεεῖς,41 i quali si unirono ai mercenari presenti a Siracusa e a quelli richiamati da Gela, nonché alle torme di «esuli ed empi radunati da ogni parte, sui quali Dionisio sperava di costituire la base più salda della tirannide»,42perché cercavano di riscattarsi dalla loro condizione precaria passando nelle fila dell’esercito dionisiano. La presenza di questi gruppi di Siracusani autorizzava dunque lo strategos autokrator a dare una veste di legalità all’assemblea radunata nel phrourion. Era questo il passo decisivo per la formazione di un vasto e temibile esercito legato direttamente a Dionisio, di fronte al quale gli altri Siracusani, rimasti in città, non poterono più opporre alcuna resistenza: essi erano infatti minacciati all’interno delle mura dalle armi dei mercenari e all’esterno dall’esercito di Imilcone, sicché furono costretti ad accettare, obtorto collo, la proclamazione di Dionisio a sovrano assoluto (tyrannos, nel testo diodoreo). Anche in questo caso, il racconto originario di Filisto traspare attraverso la versione “riveduta e corretta” del mediatore Timeo. Tutto lascia pensare, infatti, che lo storico “amico della tirannide” 43 abbia voluto ribaltare del tutto le accuse lanciate dagli avversari politici verso i metodi ingannevoli e coercitivi adottati da Dionisio per estorcere ai Siracusani il riconoscimento formale della sua signoria.44 Le basi di tale potere erano costituite, nella visione di Filisto, non da un manipolo di persone prive di diritti e marginali rispetto al corpo civico siracusano, come vuol far intendere il commento ostile confluito nel dettato diodoreo, ma piuttosto da masse cospicue di cittadini siracusani di pieno diritto (celate forse dietro i 41 Diod. XIII 96, 1. Diod. XIII 96, 2. 43 Secondo la formula adoperata da Nep. Dion 3, 1: […] Philistum […] hominem amicum non magis tyranno quam tyrannidi, sulla quale vd., in particolare, Vanotti, Filisto teorico della tirannide, cit., 75-82; e, ora, Meister, Filisto e la tirannide, cit., 453 ss. 44 È un dato di fatto, come osserva a ragione Stroheker, Dionysios I, cit., 150, che le fonti non fanno mai riferimento ad una legittimazione popolare dell’usurpazione del potere da parte di Dionisio. Secondo quanto afferma F. Sartori, Sulla δυναζηεια di Dionisio il Vecchio nell‟opera diodorea, «Critica storica» V, 1 (1966), 58: «l’illegalità cominciò quando lo stratego autocratore si circondò di una guardia del corpo e ottenne, con mezzi non sempre leciti, la conferma pluriennale e poi permanente di tale magistratura». Sul problema della legittimità del potere dionisiano vd., ora, Péré-Nogués, Les enseignements d‟un récit, cit., 105 ss., la cui ricostruzione delle vicende legate all’elezione di Dionisio, tuttavia, si discosta molto dal quadro offerto dalle fonti letterarie. 42 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda | 78 termini generici plethos e ochlos presenti nel testo diodoreo?),45 masse che peraltro venivano a costituire il nerbo dell’esercito dionisiano. Ce n’era abbastanza per affermare con orgoglio che lo “sciame” rappresentato dall’esercito vedeva nell’investitura di Dionisio a sovrano incontrastato della scena politica siracusana l’unica via di salvezza per le sorti della città minacciata dall’esercito punico. Roberto Sammartano Dipartimento di Beni Culturali Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, 90128 [email protected] on line dal 15 giugno 2011 45 A tal proposito può sembrare suggestivo (se non lo si vuole intendere come una semplice coincidenza) il fatto che il termine plethos venga adoperato anche da Eliano (var. XII 46) in riferimento allo sciame d’api che avrebbe circondato la mano di Dionisio durante il tentativo di salvataggio del cavallo. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78 LUISA PRANDI I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli Il tema del pagamento dei debiti ed il tema delle provvidenze per i figli dei soldati macedoni partecipanti alla spedizione asiatica di Alessandro Magno hanno a prima vista in comune il fatto che si ricollegano a grandi distribuzioni di denaro da parte del re. Tuttavia, poiché non si tratta di elargizioni necessarie che ogni comandante dovrebbe prevedere ma di iniziative che derivano da scelte particolari del re, essi ci consentono di esplorare i caratteri del rapporto fra l’egemone e le sue truppe, fra il singolo che detiene il potere ed una massa di persone che da lui dipendono. Occorre ricordare sempre quanto sia difficile indagare e conoscere le reali intenzioni di Alessandro, data la situazione in cui versa per noi l’Alessandrografia: le opere degli storici di prima generazione in frammenti, poi una soluzione di continuità e infine, fra il I sec. a.C. e il II d.C. un gruppo di autori dipendenti da quelli ma influenzati, inevitabilmente, sia dall’elaborazione multiforme della tradizione su un personaggio così fuori dagli schemi, sia dal contesto politicoculturale in cui essi vivevano. Farò ancora riferimento a questi problemi, quando mi parrà necessario nel considerare le singole testimonianze, perché la decisione di Alessandro di estinguere i debiti dei soldati e quella di emanare provvidenze per i figli di sangue misto sono esemplari anche dal punto di vista metodologico. 1. Nel 324 le nostre fonti collocano la decisione di procedere ad un censimento dei debiti contratti dai soldati e alla loro estinzione con denaro da lui appositamente destinato. Gli autori però non sono concordi circa l’occasione precisa. Arriano (VII 5, 1-3), Plutarco (Alex. 70, 3) e Trogo/Giustino (XII 11, 1-3) ne parlano in connessione con la cerimonia delle nozze multiple fra i membri del suo stato maggiore e nobili persiane, nonché con i festeggiamenti per quelle di massa già avvenute fra i soldati e donne asiatiche,1 collocati a Susa dai primi due e 1 Che si trattasse di una regolarizzazione di unioni di fatto è opinione diffusa, cfr. fra gli altri N.G.L. Hammond, The Genius of Alexander the Great, London 1997, 188; J.C. Yardley - W. Heckel (Eds.), Justin. Epitome of the Philippic History of Pompeius Trogus. Books 11-12: Alexander the Great, Oxford 1997, 271; E. Fredricksmeyer, Alexander the great and the Kingship of Asia, in A.B. Bosworth - ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 80 genericamente nell’area di Babilonia dal terzo; 2 invece Diodoro (XVII 109, 1-2) e Curzio (X 2, 9-11) la collocano sempre a Susa ma la collegano con il momento, di poco successivo, del congedo dei Macedoni inabili al servizio militare che sfociò in una sorta di ammutinamento. Questa diversità si riflette sull’indicazione dei destinatari del gesto, che per Arriano e Trogo/Giustino sono genericamente i soldati della spedizione ma per Diodoro e Curzio sono il gruppo dei veterani; Plutarco ha un’espressione apparentemente ambigua, perché nel contesto dei lussuosi festeggiamenti organizzati dal re per le nozze parla semplicemente di “debitori”. 3 Anche a proposito della somma impegnata vi è una discrepanza: 10mila talenti per Diodoro e 10mila talenti con una rimanenza di 130 per Plutarco e Curzio, mentre Arriano e Trogo/Giustino parlano di 20mila talenti. Quanto alla reazione dei soldati indebitati, se si escludono Diodoro e Trogo/Giustino che sono assai sintetici e non conservano particolari, abbiamo tre racconti in Arriano, Curzio e Plutarco che occorre considerare con più attenzione perché non sono omogenei e presentano un unico dato comune: che ad un certo punto Alessandro fece disporre per l’accampamento delle tavole per la distribuzione del denaro. Arriano infatti offre una narrazione articolata nella quale, all’offerta del re di ripianare i debiti previa registrazione di nomi e di somme, corrisponde una diffusa sfiducia da parte dei soldati ed una forte renitenza al controllo; Alessandro è deluso e chiama in causa il carisma del sovrano che deve dire il vero e per questo deve essere creduto dai sudditi;4 soltanto allorché provvede comunque a far collocare i tavoli nell’accampamento e dispone che il denaro venga distribuito contro la presentazione di un συμβόλαιον, ma senza registrare nomi, i soldati approfittano lietamente dell’occasione. Invece nel racconto di Curzio, che è fortemente contrassegnato da un tono moralistico a proposito dei debiti contratti per lusso e da una vena sarcastica a proposito del rapporto deteriorato fra Alessandro e le sue truppe, il re chiede una dichiarazione esplicita dei debiti; i soldati esitano perché non vogliono controlli ma quando vengono disposte nell’accampamento le tavole con il denaro procedono alle dichiarazioni. Non sembra di percepire un cambiamento di regole come in Arriano, da una registrazione completa dei nomi ad una consegna semplice contro la visione di un contratto da parte dell’incaricato: qualunque cosa intendesse Curzio scrivendo ‹cum› fide facta professio est, nella frase non è evidente un cedimento da parte di E.J. Baynham (Eds.), Alexander the Great in Fact and Fiction, Oxford 2000, 158-59; C.G. Thomas, Alexander the Great in his World, London 2007, 20. 2 Nell’Epitome di Giustino compare solo il toponimo Babilonia, probabilmente un esito del lavoro di selezione e abbreviazione; secondo Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 272 Trogo seguiva la tradizione che collocava a Susa l’ammutinamento; cfr. F. Sisti - A. Zambrini (a cura di), Arriano. Anabasi di Alessandro, II, Milano 2004, 590 su Susa. 3 Cfr. anche infra n. 5. 4 Per il tema del rapporto fra il re e la verità, ben presente in Arriano, rimando a L. Prandi, Il monarca greco, in G. Zecchini (a cura di), Lo storico antico. Mestieri e figure sociali, Atti del Convegno (Roma, 11-12 novembre 2007), Bari 2010, 53-64. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 81 Alessandro; e questo è tanto più notevole in quanto l’autore romano è fonte notoriamente non favorevole al Macedone. Con la testimonianza di Plutarco, a prima vista poco più che un aneddoto, siamo calati in medias res. Il biografo infatti, dopo aver genericamente detto che Alessandro pagò i debiti a coloro che ne avevano contratti, 5 si sofferma (70, 4-6) sul caso di un ufficiale – Antigene o Atarria – 6 che si era fatto registrare come debitore sebbene non lo fosse, presentando una persona che assicurava di avergli prestato denaro; la successiva scoperta della frode, e la rimozione dal comando che aveva, condussero l’ufficiale sull’orlo del suicidio, tanto che alla fine il re, anche in considerazione che si trattava di un valoroso, gli lasciò il denaro. Il caso di Antigene/Atarria potrebbe offrirci uno spiraglio su qualche risvolto pratico dell’operazione di ripianamento, come la possibilità di ottenere somme di denaro su testimonianze verbali e non su contratti; 7 inoltre, anche se non chiarisce i dubbi sull’esistenza di una registrazione (negata da Arriano ma apparentemente ammessa da Curzio), sembra presupporre un elenco di nomi e di obblighi che permettesse anche a posteriori di scoprire e verificare le frodi, e ci prospetta la possibilità di atteggiamenti non di renitenza al controllo ma di sfruttamento piuttosto disinvolto della situazione. Per tracciare ora un bilancio della nostra documentazione, credo occorra puntualizzare in primis che le differenze fra gli autori non sono tali da far ipotizzare 5 Il testo greco suona τὰ χρέα τοῖς δανείσασιν ὑπὲρ τῶν ὀφειλόντων αὐτὸς διαλύσας e non mi sembra autorizzi a pensare agli sposi quali destinatari, come fa C. Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus. Books XVI. 66 - XVII, Cambridge (Mass.)-London 1963, 438 n. 3. La formulazione che Plutarco usa quando ne parla, senza collegamenti con le nozze, in De Al. M. fort. aut virt. – cfr. nota seguente – contiene ancora un riferimento generico ai debitori ma i beneficiari del provvedimento di Alessandro sono esplicitamente i Macedoni (ὅτε τῶν χρεῶν ἠλευθέρου Μακεδόνας Ἀλέξανδρος καὶ διελύετο τοῖς δανεῖσασιν ὑπὲρ πάντων). 6 Plutarco riporta per due volte il caso del sedicente debitore che viene smascherato, in Alex. 70, 4-6 e in De Al. M. fort. aut virt. II 7 (Mor. 339b). Caratterizzazione del personaggio, monocolo come Filippo, e dipanarsi della vicenda sono analoghi ad eccezione del dato dell’atimia che è menzionata solo nella Vita; nel primo caso il protagonista è chiamato Antigene, nel secondo la tradizione manoscritta ha Tarria, probabilmente Atarria. In De Al. M. fort. aut virt. anche Antigene è citato ma per ricordare che si finse inabile al servizio per poter tornare in patria con la donna greca di cui era innamorato; una vicenda che in Alex. 41 ha invece come protagonista l’altrimenti ignoto Euriloco. L’accostamento fra i nomi Antigene e Atarria si ripropone in un passo di Curzio (V 2), in cui essi figurano insieme a Filota come i tre vincitori di una gara di valore in Sittacene e sono definiti uomini coraggiosi ma inclini ai piaceri e al lusso. Per una disamina dei problemi suscitati da queste testimonianze rimando, oltre a J.R. Hamilton, Plutarch, Alexander: A Commentary, Oxford 1969, 196 per quanto riguarda Plutarco, a W. Heckel, The Marshals of Alexander’s Empire, London 1992, 308312, ripreso in W. Heckel, Who’s Who in the Age of Alexander the Great. Prosopography of Alexander’s Empire, Oxford 2006, 31 e 60. 7 Plutarco è l’unico autore che conservi un cenno, peraltro non chiarissimo, al fronte dei creditori. Già Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 438 n. 3, si domandava da chi mai tanti soldati avessero potuto ottenere denaro in prestito. Una posizione peculiare è assunta in merito da N.G.L. Hammond, The Genius of Alexander the Great, Chapel Hill 1997, 188 – cfr. anche infra n. 8 – secondo il quale i prestatori di denaro non potevano che essere asiatici e il fatto che Alessandro pagò i debiti senza nulla chiedere (lo studioso non considera la renitenza dei soldati alle richieste di registrazione) dimostra che non discriminava le etnie. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 82 più di un saldo dei debiti da parte di Alessandro. 8 Sembra piuttosto di essere di fronte a due filoni di tradizione: uno, rappresentato da Arriano e da Trogo/Giustino, che collegano il provvedimento ai festeggiamenti per le nozze miste di Susa, individuano i destinatari genericamente nelle truppe e l’ammontare della somma impegnata in 20mila talenti; l’altro, rappresentato da Diodoro e da Curzio, che collegano il provvedimento alla decisione di congedare a Susa i veterani macedoni, lo considerano a loro finalizzato e individuano l’ammontare della somma impegnata in 10mila talenti con un resto di 130. Rispetto a questo schema, Plutarco – come spesso gli accade – è portatore di elementi misti: momento e destinatari del primo, cifra del secondo. 9 Oltre a ciò, è interessante rilevare che nelle testimonianze di ambedue i filoni l’iniziativa di Alessandro – che è di per sé un gesto di risanamento – ha il risultato di far emergere invece un grave deterioramento dei rapporti fra lui e le truppe. I soldati infatti considerano l’offerta di pagamento dei debiti un gesto di dissimulazione e nutrono sfiducia circa le vere intenzioni del re: questo è evidente in Curzio ma forse ancora più evidente in Arriano, di solito fonte non incline ad enfatizzare situazioni negative per Alessandro. Se la diversa collocazione dell’episodio all’interno del 324, in rapporto alle nozze o in rapporto al congedo, abbia un preciso significato e se si possa definire quale delle due sia più probabile sono a questo punto quesiti fondamentali. Tuttavia prima di procedere in questo senso, è necessario considerare anche le notizie sull’atteggiamento di Alessandro nei confronti delle unioni miste dei soldati e dei figli nati da esse, non per complicare inutilmente lo scenario ma proprio per riuscire a decidere su basi più certe. 2. A differenza delle informazioni sui debiti, quelle sulle iniziative per i figli dei soldati fanno riferimento a momenti della spedizione scaglionati su anni diversi: il 330, il 326 e infine, ancora una volta, il 324. Una testimonianza particolarmente interessante, anche perché offre una visione di sintesi, è quella di Trogo/Giustino (XII 4, 2-11): egli fra l’assunzione da parte di Alessandro dei costumi persiani e l’eliminazione di Filota e Parmenione, quindi nel 330, parla della decisione di regolarizzare le unioni miste fra soldati macedoni e prigioniere persiane e di stabilire provvidenze per l’educazione dei figli (alimenta, instrumenta), nonché premi di prolificità e reversibilità della paga per gli orfani; l’intento che viene attribuito ad Alessandro è quello di rendere più stanziali 8 Come suggerisce invece N.G.L. Hammond, Sources for Alexander the Great of Plutarch’s Life and Arrian’s Anabasis Alexandrou, Cambridge 1993, 285 n. 16: una prima volta, in relazione alle nozze, con uno stanziamento di 20mila talenti, e una seconda con uno stanziamento di 10mila, dopo l’organizzazione del rientro dei Macedoni. Per alcune riflessioni, peraltro non conclusive, sul denaro per i pagamenti cfr. G. Le Rider, Alexandre le Grand. Monnaie, finances et politique, Paris 2003, 8993. 9 Non capisco su quali basi Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 393 n. 2, dica che Plutarco e Trogo/Giustino riportano la medesima tradizione. Un quadro delle testimonianze ora in J.E. Atkinson - J.C. Yardley (Eds.), Curtius Rufus, Histories of Alexander the Great. Book 10, Oxford 2009, 121-122. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 83 in Asia i Macedoni e di poter avere in futuro nei loro figli dei rinforzi già in loco e legati alla terra d’Asia.10 Momento e motivazioni assai diverse costituiscono invece l’oggetto della prima di due testimonianze diodoree. Lo storico (XVII 94, 4) mostra Alessandro, alla vigilia della progettata spedizione contro i Gandaridi nel 326, molto impegnato in opere di captatio benevolentiae presso le sue truppe: all’esercito, in pessime condizioni fisiche e di equipaggiamento dopo anni e anni di campagne, concede libertà di saccheggio;11 riunisce intanto donne e bambini dei soldati, offrendo alle prime vettovaglie per un mese e per i secondi provvidenze specifiche commisurate al valore dei padri. L’espressione greca ἐπιφορὰς ταγματικὰς ... κατὰ τοὺς τῶν πατέρων συλλογισμούς costituisce quasi un hapax in questa forma, anche se lascia intendere bene quale fosse il fine dell’iniziativa.12 Tutto ciò non impedì, come è noto, che gli venisse espresso un netto rifiuto a proseguire oltre verso Oriente. A proposito del 324, l’anno del pagamento dei debiti, possediamo tre testimonianze, correlate al momento del congedo dei veterani. Ancora Diodoro (XVII 110, 3), soffermandosi sul processo di equiparazione militare degli Iranici ai Macedoni, segnala che Alessandro a Susa fece calcolare ἀκριβῶς il numero dei figli nati da unioni con prigioniere – in totale circa 10mila – e che stanziò delle risorse perché ricevessero un’educazione da uomini liberi. Più articolato è il passo di Arriano (VII 12, 1-3) il quale, dopo il resoconto dell’ ammutinamento dei Macedoni e della sua sofferta conclusione,13 ricorda che i veterani macedoni da congedare a Opis erano circa 10mila, che ognuno ricevette oltre la paga 1 talento per il viaggio, e attribuisce ad Alessandro lo scrupolo di non far trasportare in Macedonia anche le donne asiatiche e gli eventuali figli, per non creare là problemi di coesistenza; il re assicurò peraltro che avrebbe fornito a questi ultimi un’educazione militare macedone e che li avrebbe riportati egli stesso ai padri in età adulta. Va notato che Arriano commenta che si trattava di promesse vaghe e incerte, immagino soprattutto l’ultima. Da parte sua Plutarco (Alex. 71, 9), quando dice che Alessandro congedò i veterani con ricchi doni e riconoscimenti, aggiunge il dato – a prima vista eterogeneo – che rese ἐμμίσθους gli orfani dei caduti. Se si trascura per adesso il fatto che Diodoro ambienta il fatto a Susa e Arriano invece ad Opis – su questo torneremo – l’elemento comune a Trogo/Giustino, ad Arriano, al primo passo di Diodoro e, parzialmente, anche a Plutarco è che Alessandro intendeva garantire sopravvivenza ed addestramento 10 Il passo sembra una razionalizzazione delle notizie ed ha come risultato quello di obliterare la gradualità cronologica delle iniziative; cfr. anche infra n. 14. 11 Che accanto al sostantivo χώραν si accolga la lezione πολεμίαν, come Bradford Welles, oppure quella παραποταμίαν, come Goukowsky, probabilmente doveva trattarsi di una zona in realtà amica; cfr. Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 392 n. 1 e P. Goukowsky, Diodore de Sicile. Bibliothèque historique. Livre XVII, Paris 1976, 251. 12 L’unicità della notizia diodorea è già stata segnalata da Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 393 n. 2 e da Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 252. 13 Sull’opportunità di mantenere per questi fatti la definizione e il concetto di ammutinamento cfr. I. Worthington, How Great was Alexander?, «AHB» XIII (1997), 45. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 84 militare ai figli delle unioni miste. Questa misura appare poco congruente con la situazione del 330, dove la colloca Trogo/Giustino, perché allora era forse troppo presto perché il fenomeno delle unioni miste avesse un peso per così dire sociale:14 non è fuori luogo pensare che l’epitomatore, o forse anche Trogo stesso, nel contesto delle scelte orientalizzanti di Alessandro abbia sintetizzato la sua politica verso gli Iranici, anticipandone indebitamente gli aspetti salienti;15 che si tratti di una sorta di sintesi sembra confermato anche dagli accenni al fatto che i successori di Alessandro lo imitarono in questo, e alla formazione del corpo degli Epigoni, che qui con un fraintendimento sembrano i figli delle unioni miste. 16 Quanto alla prima delle due testimonianze di Diodoro, quella relativa al 17 326, essa riferisce di provvidenze non soltanto strumentali ma anche estemporanee nella realizzazione: esse paiono destinate – non meno della raccolta di bottino per i soldati18 o del vettovagliamento per un mese per le loro donne – a garantire il benessere dei figli per un certo tempo; inoltre avevano come caratteristica di essere in rapporto di proporzionalità con il valore dei padri, e questo potrebbe anche far pensare che il rifiuto dei soldati a proseguire la marcia e le conquiste ne avesse vanificato l’applicazione. Nel 324 invece, quando collocano le iniziative a favore dell’educazione dei figli di unioni miste tanto Arriano quanto il secondo passo di Diodoro e Plutarco, erano assai attuali e anzi non rinviabili, molti problemi organizzativi della conquista; inoltre l’allontanarsi nel ricordo degli ultimi scontri vittoriosi imponeva un’attenzione non più rivolta ai premi del valore. In questo quadro risultano ben comprensibili le ricognizioni attribuite ad Alessandro, quella sui soldati in debito e quella sui figli delle unioni miste, tanto più che la seconda si collega all’esigenza di un duraturo controllo su territori assai vasti rispetto alle possibilità della Macedonia. 3. È il momento di riprendere la questione che ho lasciato precedentemente in sospeso al fine di introdurre i dati relativi ai figli dei soldati, cioè quando avvenne nel 324 il pagamento dei debiti e, soprattutto, chi ne furono i destinatari. Dal momento che le nostre fonti sono esplicite nel collegare il fatto o alle nozze, come Arriano, Plutarco e Trogo/Giustino, o al congedo, come Diodoro e 14 Cfr. anche D.W. Engels, Alexander the Great and the Logistic of the Macedonian Army, BerkeleyLos Angeles 1980, 36, a proposito di Arr. I 24,1. 15 Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 206-207, ipotizza interventi attualizzanti di Trogo e di Giustino, pur segnalando, 208, l’unicità delle notizie dell’Epitome nel contesto cronologico del 330 e suggerendo la possibilità di notizie date in prospettiva futura. Cfr. anche supra n. 10. 16 Cfr. Anche Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 208. Invece A.B. Bosworth, Alexander and the Iranians, «JHS» C (1980), 18 pensa ad un corpo di Epigoni di sangue misto, in un certo senso parallelo a quello dei giovani Iraniani: tuttavia le testimonianze che egli adduce per suffragare tale idea sono in realtà le medesime che qui utilizzo e che si riferiscono ad anni successivi; inoltre va tenuto presente che i primi figli delle unioni con donne persiane dovevano essere nati al più presto fra Isso e Gaugamela e quindi avere, alla morte di Alessandro, meno di 10 anni. 17 Della quale Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 252, sottolinea l’isolamento nella tradizione. 18 Cfr. supra n. 12. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 85 Curzio, purtroppo non mi sembra che definire il luogo in cui in realtà si verificò il cosiddetto ammutinamento dei Macedoni – se a Susa o piuttosto ad Opis, come i moderni ritengono – 19 sia fondamentale per comprendere meglio questi fatti. Qualche riflessione merita invece un dato che fa la sua comparsa in molte delle nostre testimonianze, il numero 10mila. A fronte di tante cifre dettagliate e differenti fra loro che l’Alessandrografia conserva a proposito di perdite umane in battaglia, ma anche di entità di bottino o di distribuzioni di denaro,20 nei passi che ho qui considerato ricorre ossessivamente lo stesso numero a proposito di realtà diverse. Sono 10mila, in Arriano VII 4, 8, i Macedoni che regolarizzarono a Susa le unioni con donne asiatiche e che Alessandro fece accuratamente registrare, e gratificare con doni nuziali; altrettanti sono i veterani macedoni che vengono dopo non molto congedati, in Arriano VII 12, 1 e in Diod. XVII 109, 1. Ma sono 10mila anche i figli nati da unioni di soldati macedoni con donne persiane, fatti censire con cura da Alessandro in occasione del suddetto congedo, in Diodoro XVII 110, 3. Passando dagli uomini alle cose, 10mila sono i talenti che secondo Diodoro XVII 109, 2, Plutarco 70, 3 e Curzio X 2, 20, Alessandro aveva messo a disposizione per il ripianamento dei debiti. Può essere banale notare che 10mila è una cifra arrotondata e che potrebbe essere convenzionale ma diviene fuori luogo pensarlo dal momento che nostre fonti lo presentano come il risultato di registrazioni e calcoli accurati. Vale la pena di segnalare in tal senso sia il dato conservato in Plutarco 70, 3, che 9mila erano le tazze auree donate dal re agli sposi di Susa, sia il logos cui accenna Arriano VII 11, 9, che al banchetto di riconciliazione fra Alessandro e i Macedoni dopo l’ammutinamento ad Opis parteciparono 9mila commensali: un numero forse arrotondato ma significativamente diverso. Purtroppo però il fatto che le fonti indichino con la stessa cifra ora il totale dei Macedoni sposati con donne asiatiche ora quello dei Macedoni destinati al congedo non è di aiuto per comprendere se i debitori sollevati dall’impegno, a spese di Alessandro, appartenessero all’una o all’altra categoria. Che coloro che regolarizzarono le unioni fossero le stesse persone che vennero poi congedate appare difficile da dimostrare; e sarebbe anche non facile comprendere perché Alessandro abbia in primavera solennizzato le unioni di soldati che subito dopo, in 19 Cfr. P.A. Brunt (Ed.), Arrian. History of Alexander and Indica, II, Cambridge (Ma)-London 1983, 218 n. 1 e 219 n. 2; J. Seibert, Die Eroberung des Perserreiches durch Alexander den Grossen auf kartographischer Grundlage, Wiesbaden 1985, 186-187; Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 273 e Heckel, Alexander Conquest of Asia, in W. Heckel - L.A. Tritle (Eds.), Alexander the Great: a new History, Chichester 2009, 52; Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 121-122. Invece Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 267, preferisce seguire le fonti che parlano di Susa. 20 Rinvio, quale esempio, a Diod. XVII 64, 6 a proposito del bottino distribuito dopo la vittoria di Gaugamela; a Diod. XVII 74, 3-5, a proposito del congedo dei Greci e degli incentivi per l’arruolamento. Cfr. anche Curt. V 1, 45 e VI 2, 17. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 86 estate, non soltanto congedò per evidenti inabilità al servizio ma ai quali – come segnala Arriano – non consentì di portare con sé le nuove famiglie.21 Ulteriori riflessioni merita, nella prospettiva del rapporto comandantetruppe, la reazione negativa dei soldati alla richiesta di registrare nomi e somme. Essi sembrano quasi preferire di rimanere in debito piuttosto che manifestare i particolari della propria situazione finanziaria al controllo del re. Mi fa piacere segnalare qui un’ipotesi che il collega Bosworth mi ha comunicato prima della sua pubblicazione: che i soldati temessero la ricognizione promossa dal re perché ricordavano bene che dopo l’assassinio di Parmenione i militari scontenti e protestatari erano stati indagati, identificati e radunati in una compagnia di disciplina (ἀτάκτων τάγμα, cfr. Diod. XVII 80, 4).22 Questo atteggiamento di sfiducia, questo timore che un gesto apparentemente positivo come il ripianare dei debiti nascondesse, da parte di Alessandro, l’arrière pensée moraleggiante di voler verificare il tenore di vita dei soldati non mi sembra in carattere con il momento delle nozze di Susa in cui lo collocano Arriano e Trogo/Giustino: il re in quell’occasione allestì cerimonie e festeggiamenti di eccezionale sfarzo per tutte le coppie coinvolte e fece mostra di una ricerca del lusso che difficilmente avrebbe potuto nell’immediato criticare o condannare in altri.23 La reazione dei militari si attaglia piuttosto al momento, di poco successivo, in cui i essi videro il re assumere una serie di iniziative sorprendenti o sgradevoli per loro.24 Dall’accoglienza entusiasta mostrata agli Epigoni, il cui arrivo deve essere stato spettacolare e certo non improvviso o imprevisto; all’ufficializzazione di un congedo per i Macedoni inabili al servizio, che scontentò sia chi sarebbe dovuto partire sia chi sarebbe dovuto rimanere, perché ciò che sembrava 21 Dubbi anche in W. Heckel, The Conquests of Alexander the Great, Cambridge 2008, 139-140, il quale conclude che qualche sovrapposizione fra i due gruppi dovesse però esistere, e Atkinson Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 122. 22 Cfr. anche Polyaen. IV 3, 19. 23 Cfr. Chares 125F4 (= Athen. XII 538b-539a). Sono maggiormente incline a considerare i matrimoni di Susa come l’esplicitazione di una sorta di patto di governo, cfr. in tal senso Hamilton, Plutarch, Alexander, cit., 195; A.B. Bosworth, Conquest and Empire, Oxford 1988, 157 e Alexander the Great, in D.M. Lewis - J. Boardman - S. Hornblower - E.M. Harris (Eds.), CAH, 2nd Ed., VI, Cambridge 1994, 840; P. Briant, Alexandre le Grand, Paris 19944, 114; Heckel, The Conquests of Alexander the Great, cit., 137-139, che vi individua il momento di fondazione di una nuova aristocrazia; G. Weber, Alexander’s Court as Social System, in Heckel - Tritle (Eds.), Alexander the Great: a new history, cit., 92. Pensa invece ad una politica di fusione Fredricksmeyer, Alexander the great and the Kingship of Asia, cit., 159. Sulla possibilità che la cerimonia di Susa avesse anche un significato di legittimazione religiosa per Alessandro cfr. M. Marchini, Alessandro, Sisigambri e le nozze di Susa, «RSA» XXXIV (2004), 273-284. 24 Non mi sembra opportuno enfatizzare fra le iniziative sgradite ai Macedoni le nozze multiple, come fa Hammond, The Genius of Alexander the Great, cit., 188, perché molti di loro avevano unioni di fatto con donne asiatiche e ne avevano avuto dei figli. Cfr. invece C. Mossé, Alessandro Magno. La realtà e il mito, (trad. it.), Roma-Bari 2003, 48-49; e Thomas, Alexander the Great in his World, cit., 215, la quale pone inoltre in evidenza le affinità fra la politica matrimoniale di Alessandro e quella di Filippo; nonché Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 122, che rileva la differenza fra nozze e arrivo degli Epigoni. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 87 allontanarsi nel tempo e nello spazio era il rientro di Alessandro in Macedonia. 25 Si potrebbe osservare che l’ammutinamento dei Macedoni mise in luce tanto la sua debolezza quanto la sua forza come comandante;26 e si risolse almeno sul momento perché egli seppe dimostrare, con un ennesimo ricorso all’imitatio Achillis,27 che non lui aveva bisogno di loro ma loro di lui e che la loro posizione di preminenza – visibile a tutti nel corso del banchetto di riconciliazione dei 9mila che ho già menzionato – era indiscussa28 ma da lui derivava. Tutto ciò può incoraggiare, io credo, a prendere in più seria considerazione la tradizione accolta da Diodoro e da Curzio, che narrano del pagamento dei debiti dopo l’arrivo degli Epigoni e lo collegano con l’ammutinamento, e a ritenere che il provvedimento fosse diretto prevalentemente ai Macedoni che erano destinati al rientro.29 A favore di questa possibilità vorrei aggiungere qualche elemento particolare. Pur con tutta la prudenza che richiede lo sfruttamento di dati presenti in discorsi messi sulla bocca di Alessandro, vorrei attirare l’attenzione sull’allocuzione ai Macedoni ammutinati di Arriano (VII 9-10):30 essa contiene elementi – come la localizzazione a Susa dell’ammutinamento e la menzione dei debiti pagati ai Macedoni – che contrastano con l’esposizione narrativa dell’Anabasi 25 Come afferma Curt. X 2, 12, cfr. Briant, Alexandre le Grand, cit., 116; Worthington, How Great was Alexander?, cit., 44; Mossé, Alessandro Magno, cit., 36-37, coglie il problema del rientro di Alessandro ma ne colloca la percezione da parte dei soldati in occasione delle nozze: io credo che fosse invece il congedo, ed i movimenti di truppe collegati, a rendere visibile che il re non sarebbe tornato in patria. Sulla perdita di centralità della Macedonia si sofferma E.Carney, Women in Alexander’s Court, in J.Roisman (Ed.), Brill’s Companion to Alexander the Great, Leiden-Boston 2003, 247. 26 Sottolinea la debolezza di Alessandro E. Carney, Artifice and Alexander History, in A.B. Bosworth - E.J. Baynham (Eds.), Alexander the Great in Fact and Fiction, Oxford 2000, 283-84; ne sottolineano invece la forza Hammond, The Genius of Alexander the Great, cit., 190; W. Heckel, A King and his Army, in W. Heckel - L.A. Tritle (Eds.), Alexander the Great : a new History, Chichester 2009, 81. 27 Cfr. le interessanti suggestion di Carney, Artifice and Alexander History, cit., 283-284. 28 Circa la preminenza conservata dai Macedoni cfr. E. Badian, Alexander the Great and the Unity of Mankind, «Historia» VII (1958), 429-430; Bosworth, Conquest and Empire, cit., 160; Briant, Alexandre le Grand, cit., 119; Worthington, How Great was Alexander?, cit., 54; Weber, Alexander’s Court as Social System, cit., 95-96. Pensa invece ad un successo della politica “asiatica” Hammond, The Genius of Alexander the Great, cit., 190. 29 Mi sembra un elemento rivelatore il fatto che anche Bosworth, Conquest and Empire, cit., 158, nel ripercorrere i fatti del 324, abbia la sequenza ragionata nozze-Epigoni-debiti-congedo. Situazione non dissimile in J.D. Grainger, Alexander the Great Failure. The Collapse of the Macedonian Empire, London 2007, 90, che ricorda l’iniziativa per i debiti come un mezzo per riconciliare i Macedoni inaspriti per la formazione degli Epigoni. 30 Scettici Brunt (Ed.), Arrian, cit., 532-33; A.B. Bosworth, From Arrian to Alexander, Oxford 1988, cit., 112-113; E. Carney, Macedonians and Mutiny: Discipline and Indiscipline in the army of Philip and Alexander, «CP» XCI (1996), 29, 33 e 38. Fiduciosi D.B. Nagle, The cultural Contest of Alexander Speech at Opis, «TAPhA» CXXVI (1996), 152; N.G.L. Hammond, The Speeches in Arrian’s Indica and Anabasis, «CQ» XLIX (1999), 249. G. Squillace, Propaganda macedone e spedizione asiatica: gli oikeioi logoi di Alessandro Magno alle truppe, «LEC» LXXII (2004), 217-234 affronta il problema dei discorsi con un sostanziale ottimismo. Cfr. anche infra n. 31. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 88 e richiamano piuttosto quella di Diodoro.31 Infatti a VII 10, 3 il re dice di avere, con grande magnanimità e senza fare indagini, pagato i debiti da loro contratti nonostante i grandi bottini, e a 10, 7 ricorda come luogo dove loro lo hanno “abbandonato” la città di Susa. Il fatto che Arriano conoscesse la tradizione che collocava a Susa l’ammutinamento e che collegava il pagamento dei debiti al congedo (e non alle nozze), e che l’abbia incorporata con qualche stridore, visto che esponeva i fatti secondo una successione cronologica e topografica diversa, dovrebbe far riflettere.32 Inoltre l’aneddoto che Plutarco conserva sul falso debitore, pur essendo narrato in concomitanza con le nozze e pur contenendo elementi di incertezza sull’identità del protagonista,33 riconduce almeno per uno dei due nomi attestati alle operazioni di rimpatrio: Antigene è infatti ricordato da Iust. XII 12, 8 fra gli ufficiali che con Cratero e Poliperconte dovevano condurre i congedati verso la costa dell’Asia Minore.34 Infine vi è il fatto che Alessandro offrì ai Macedoni che rimanevano nei ruoli la somma di 3 talenti, mentre ai congedati assegnò – oltre alla paga - 1 talento ciascuno per le spese del viaggio: è ovvio che tale disparità di trattamento è nella logica di qualsiasi congedo parziale, come mostra nel caso di Alessandro quello dei Greci nei primi anni della spedizione,35 ma una conseguenza fra le altre è che i Macedoni rimasti in servizio nel 324 avevano a disposizione una somma con la quale provvedere anche a saldare eventuali debiti. 4. Se – accanto a questa che suggerisco come un’ipotesi di lavoro – vi è una via per uscire anche meglio da questo labirinto, peraltro non inusuale nell’Alessandrografia, di dati e di particolari difficili da organizzare in un quadro sistematico e coerente, forse è quella comunque pericolosa di sondare le ragioni del Macedone. A condizione di riuscire a farlo sfuggendo almeno in parte ai luoghi comuni della ricerca moderna. Sovente il percorso mentale delle indagini su Alessandro mira a comprendere quale idea o progetto egli avesse nella mente quando prese determinate decisioni; in pratica, riteniamo che egli avesse delle finalità teoriche e 31 Un discorso è prestato ad Alessandro anche in Curt. X 2, 15-30 e 3, 7-14, in una parte dell’opera che soffre di lacune di trasmissione; a X 2, 25 compare un’allusione ai debiti. Cfr., per una visione d’insieme, Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 126-129, che considera il confronto con Arriano e il problema delle fonti. 32 Mi sembra riduttivo pensare ad una scelta dettata solo dalla maggior risonanza di Susa, come suggerisce Bosworth, Conquest and Empire, cit., Oxford 1988, 107, o da motivazioni retoriche, come suggerisce Sisti - Zambrini (a cura di), Arriano, cit., 605. Siamo più probabilmente di fronte a due tradizioni che non si armonizzano bene nell’opera di Arriano, cfr. anche Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 126-127. 33 Cfr. supra n. 6. 34 Di Atarria non sappiamo nulla di definito, ma anche nulla che contrasti con la possibilità che fosse coinvolto. 35 Cfr. Diod. XVII 74, 3-4 (a chi si arruolò ex novo toccarono 3 talenti); Curt. VI 12, 17; Plut. Alex. 42, 5; Arr. III 19, 5; Iust. XII 1, 1. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 89 che cercasse il modo di concretizzarle.36 Questo è un sistema che può essere adeguato all’itinerario della conquista, intendo dire agli aspetti tattico-strategici, ma non mi sembra lo sia altrettanto per gli argomenti che vi ho proposto. Probabilmente nel 324 Alessandro stava soprattutto facendo i conti, e conti non rinviabili, con varie conseguenze della conquista stessa. 37 L’esistenza di una diffusa situazione di indebitamento – che 10mila fossero i debitori o i talenti destinati non cambia di molto questa sensazione – 38 costituiva un disagio o disordine di tipo socio-economico che non poteva essere impunemente ignorato. La scelta di non effettuare una generica distribuzione di denaro, che forse le truppe avrebbero preferito ma che rischiava di essere sperperato, e di intervenire invece direttamente ed in modo mirato sui debiti rispecchia la volontà di risolvere con sicurezza tale problema. 39 Può essere utile notare che Alessandro non ignorava né disdegnava l’uso di distribuzioni generiche, in cui il denaro non era vincolato ad un particolare uso: ricordo ancora che dopo il congedo degli inabili egli assegnò 3 talenti ad ognuno di coloro che rimanevano nei ranghi. Analogamente, l’esistenza di figli generati da soldati macedoni con donne asiatiche era una realtà di fatto, inevitabile fardello di un decennio di campagne, e doveva essere una realtà numericamente non trascurabile – anche tenendo conto di un immaginabile alto tasso di mortalità infantile – e quindi problematica. Alessandro, assumendosi una forma di responsabilità nel loro mantenimento e nella loro educazione,40 potrebbe aver cercato di trarre da tale fardello un partito non svantaggioso nella prospettiva – ben attestata da Trogo/Giustino – di avere in futuro soldati in Asia. Non del tutto differente da questa è l’iniziativa presa nel 326 di addestrare militarmente una schiera di giovani iranici, 41 i cosiddetti Epigoni che fecero la loro comparsa nel fatidico 324 fra le nozze e il congedo, probabilmente prima dell’offerta di pagamento dei debiti:42 anche ammettendo che il totale di 30mila attestato nelle fonti sia esagerato, doveva trattarsi di forze fresche 36 Mi riferisco ovviamente a temi come l’orientalizzazione, la successione ai Persiani, la fusione fra i popoli. 37 Sull’importanza del 324 come anno di sostanziale stasi dal punto di vista militare e di attività invece da quello organizzativo cfr. Heckel, The Conquests of Alexander the Great, cit., 141; Thomas, Alexander the Great in his World, cit., 19-20. 38 Mi sembra però semplicistico pensare – come fa Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 438 n. 3, in base alla notizia di Arr. VII 12, 1 – che ogni uomo avesse avuto un talento. 39 Trovo interessanti le riflessioni di Worthington, How Great was Alexander?, cit., 43-44, sulla debolezza del ricorso al denaro per risolvere situazioni difficili ma ritengo che, nel caso dei debiti, Alessandro abbia usato lo strumento finanziario con oculatezza anche se questo non scongiurò un ammutinamento. 40 Elemento sottolineato da Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 268. 41 Non va trascurato il fatto, messo in evidenza da Thomas, Alexander the Great in his World, cit., 214, che l’incorporazione nell’esercito di contingenti allogeni aveva dei precedenti nelle decisioni di Filippo. 42 L’arrivo di un cospicuo corpo militare non poteva non essere preavvertito con un certo anticipo e non era quindi necessario che gli Epigoni giungessero al campo perché i Macedoni sapessero di loro. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli | 90 comunque considerevoli, che Alessandro non avrebbe potuto, o comunque dovuto, trascurare, correndo magari il rischio che andassero ad alimentare opposizioni locali, guerriglie o instabilità nei territori conquistati. 43 Colte in questa prospettiva, le iniziative parallele di Alessandro nei confronti degli Iranici e dei mezzosangue appaiono le soluzioni date da un comandante a situazioni di surplus di risorse umane. Che la scelta pragmatica di costituire, nell’immediato con gli Epigoni ed in prospettiva con i figli delle unioni miste, effettivi militari potenzialmente vincolati a lui e all’Asia corrisponda anche ad una visione del mondo in cui l’appartenenza etnica non era immediato motivo di discriminazione, e per gli Iranici contava semmai il rango sociale, è innegabile.44 Ma ci si può domandare se veramente avrebbe potuto adottare, in modo proficuo, un comportamento diverso. Luisa Prandi Dipartimento di Arte, Archeologia, Storia e Società Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Verona Via San Francesco 22 - 37129 Verona [email protected] on line dal 15 giugno 2011 43 Cfr. un cenno in Sisti - Zambrini (a cura di), Arriano, cit., 591. Per una rassegna delle testimonianze sugli Epigoni, a beneficio di un’ipotesi sul rapporto con gli insediamenti promossi dal Macedone, rimando a N.G.L. Hammond, Alexander’s Newly-Founded Cities, «GRBS» XXXIX (1998), in part. 244-247. 44 Questo si può ammettere anche senza attribuire ad Alessandro una politica di fusione, della quale fu portavoce in antico Plutarco nei moralia sul Macedone e teorizzatore principale in età moderna W.W. Tarn (rinvio d’obbligo alla confutazione di Badian, Alexander the Great and the Unity of Mankind, cit., in part. 428-430 e 438-439, per gli episodi di Susa e di Opis che qui interessano). Cfr. in tal senso, fra gli altri, A.B. Bosworth, Alexander and the Iranians, «JHS» C (1980), 1-21, in maniera ragionata e documentata, ripreso poi in Bosworth, Conquest and Empire, cit., 161; Briant, Alexandre le Grand, cit., 104 e 118-119; Worthington, How Great was Alexander?, cit., 53, ripreso in Worthington, Alexander the Great. Man and God, London 2004, 246-47 e Mossé, Alessandro Magno, cit., 70-71, che sottolineano la pragmaticità delle sue azioni; A.Sh. Shahbazi, Irano-Hellenic Notes. 3. Iranians and Alexander, « AJAH» n.s.II 2003, 24; Heckel, Alexander ‘s Conquest of Asia, in W. Heckel - L.A. Tritle (Edd.), Alexander the Great : a new History, Chichester 2009, 51. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90 ANTONINO PINZONE L’interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l’Africano Vorrei innanzitutto ringraziare le carissime amiche e colleghe Lia Marino e Clara Gebbia, nonché gli altri organizzatori tutti, per l’invito a partecipare a queste importanti giornate seminariali, un’occasione che mi ha permesso di riprendere alcune riflessioni avviate un paio di anni fa e di riproporle ad un pubblico di specialisti di tematiche attinenti l’oggetto della mia relazione e mi riferisco in particolare, ma non soltanto, ai colleghi Giovanni Brizzi, che abbiamo appena ascoltato, e al presidente di questa seduta, Giuseppe Zecchini. Il tema da me prescelto non è certo nuovissimo e su esso si sono in fondo cimentati, chi più chi meno, quanti in passato si sono trovati a discutere delle imprese di Scipione l’Africano e delle sue altissime doti di comandante e stratega, fin dai tempi, oserei dire, dei famosi raffronti fra grandi condottieri, romani e non romani, quali quello liviano,1 quello lucianeo2 e la più tarda Collatio inter Scipionem Alexandrum Hanibalem et Pyrrum, attribuita ormai unanimemente a Francesco Petrarca.3 Le grandi capacità strategiche e militari di Scipione sono ormai conosciute in tutte le sfaccettature e sono state valutate in tutte le possibili articolazioni prospettiche. Chi volesse approfondire nei particolari tali tematiche può rivolgersi ai numerosi scritti di Brizzi (non ultimo il suo avvincente romanzo su Scipione e Annibale) per avere tutte le risposte del caso.4 La vittoria finale contro Annibale, a Zama, mostrò il grado di affinamento raggiunto dall’Africano nell’applicazione delle nuovissime e spregiudicate tattiche e strategie che avevano consentito al grande condottiero cartaginese di sbaragliare ripetutamente le legioni romane (il riferimento è alla nova sapientia, indice di un 1 Liv. IX 17-19; XXXV 14, 5-12. Luc. dial. X 12. 3 Cfr. G. Martellotti, La Collatio inter Scipionem Alexandrum Hanibalem et Pyrrum. Un inedito del Petrarca nella Biblioteca della University of Pennsylvania, in Mediaeval and Renaissance Studies in Honor of B.L. Ullman, II, Roma 1964, 145-168 (ora in Id., Scritti petrarcheschi, a c. di M. Feo e S. Rizzo, Padova 1983, 321-346). Utili osservazioni sullo Scipione petrarchesco in A. Tedeschi, La partenza di Scipione per la Spagna fra problemi di coscienza e problemi di tradizione letteraria (Livio, Silio Italico e Petrarca a confronto), «Aufidus» VIII (1994), 7-24. 4 Il romanzo storico in oggetto è G. Brizzi, Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma, Roma-Bari 2007 (con elenco dei suoi numerosi titoli relativi al tema, 387-389). 2 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 92 rovesciamento di prospettive etico-politico-militari che tanta fortuna avrebbe avuto nel prosieguo della storia di Roma),5 ma non si può evitare di risalire alla guerra condotta in Hispania per meglio cogliere i termini del processo evolutivo che avrebbe portato Scipione a raggiungere vertici nell’arte militare mai attinti prima da generali romani. Secondo gli studi più recenti6 è in Spagna, con lui, che sembra esser nata la struttura coortale delle legioni, innovazione che era tradizionalmente attribuita dagli studiosi a Gaio Mario; così come l’apertura pubblica della coscrizione ai capite censi, una misura che, al di là della coloritura rivoluzionaria in essa individuata concordemente dagli storici antichi, non era però del tutto nuova, avendo altri fatto, in maniera però occulta, quello che Mario avrebbe reso pubblico.7 La legalizzazione dell’uso ebbe conseguenze imprevedibili come quella di creare eserciti professionali e, soprattutto, quella di instaurare strettissimi vincoli di fedeltà fra truppe e comandanti, col risultato che i soldati, ormai veri e propri professionisti, finirono col considerarsi al servizio del loro dux prima che della res publica, con le devastanti ripercussioni delle guerre civili a tutti noi più che note.8 Va da sé che un saldo vincolo di solidarietà tra milites e dux non aveva certo bisogno di riforme siffatte per nascere ed affermarsi, come mostrano numerosi esempi, molti dei quali riguardanti proprio Scipione fin dai tempi della sua avventura ispanica. Non è mia intenzione entrare nella ricostruzione minuziosa degli eventi che riguardarono l’Africano negli anni del suo incarico in terra di Spagna né sui relativi aspetti storiografici, su cui ha contribuito a far luce abbastanza 5 Cfr. Liv. XLII 47, 9 (Haec seniores, quibus nova ac callida minus placebat sapientia; vicit tamen ea pars senatus, cui potior utilia quam honesti cura erat). Cfr. J. Briscoe, Q. Marcius Philippus and nova sapientia, «JRS» LIV (1964), 66-77. 6 Cfr. M.J.V. Bell, Tactical Reform in the Roman Republican Army, «Historia» XIV (1965), 404-422; le cui conclusioni sono sviluppate in G. Brizzi, I Manliana imperia e la riforma manipolare: l‟esercito romano tra ferocia e disciplina, «Sileno» XVI (1990), 185-206, 201 ss.; Id., Fides, Virtus, Disciplina, in C. Fiore (a cura di), Stato maggiore dell‟esercito. Esercito e comunicazione, Latina-Roma 1993, 69-100, 94 ss.; Id., Storia di Roma, Bari 1997, 535; Id., Il guerriero, l‟oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna 2002, 113 ss. 7 Come scrisse già H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen Geschichte, I3, Berlin 1920, 453, la riforma mariana dell’arruolamento «ha dato la forma corrispondente ad un fatto già esistente». Sulla tematica cfr., fra le tante, le varie posizioni di A. Schulten, Zur Heeresreform des Marius, «Hermes» LXIII (1928), 240; J. Harmand, Le proletariat dans la légion de Marius à la veille du second Bellum civile, in J.-P. Brisson (Éd.), Problemes de la guerre à Rome, Paris 1969, 161 ss.; Id., L‟armèe et le soldat à Rome de 107 à 50 avant notre ére, Paris 1967, 9-25; P.A. Brunt, Italian Manpower, 225 B.C.-A.D. 14, Oxford 1971, 391-415; E. Gabba, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973, 1-174; M. Sordi, L‟arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell‟azione politica di Mario, «Athenaeum» n.s. L (1973), 379385; H. Aigner, Gedanken zur sogenannten Heeresreform des Marius, Innsbruck 1974, 11-23; K. Hopkins, Conquerors and Slaves, Cambridge 1978, 25-37; R. Marino, Mario e i capite censi, in La rivoluzione romana: inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1982, 128-138; e, da ultimo, C.A. Matthew, On the Wings of Eagles. The Reform of Gaius Marius and the Creation of Rome‟s First Professional Soldiers, Newcastle 2010. 8 Sugli effetti della professionalizzazione dell’esercito cfr., ad es., E. Gabba, Il declino della milizia cittadina e l‟arruolamento dei proletari, in A. Schiavone (dir.), Storia di Roma, II 1, Torino 1990, 691 ss.; Id., L‟età della tarda repubblica, in Id., D. Foraboschi, D. Mantovani, E. Lo Cascio, L. Troiani, Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, 120 ss. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 93 recentemente il nostro Zecchini in una convincente relazione tenuta nel convegno sulla Hispania della Fondazione Canussio, ai cui Atti naturalmente rimando.9 Vorrei solo limitarmi a proporre alcune piccole riflessioni riguardanti la gestione dei soldati da parte del comandante durante l’impresa e sulla considerazione che per converso questi avevano nei suoi confronti.10 Bisogna anzitutto dire che l’adozione di tattiche spregiudicate come quelle di Annibale da parte di un generale, tattiche non più statiche, come quelle tradizionali, ma altamente dinamiche, complesse, spregiudicate, presupponevano grande flessibilità, donde, ad esempio, l’intelligente scelta dell’introduzione di unità compatte, ma agili e numericamente congrue come le coorti (unità di 600 uomini in tre manipoli, intermedie tra questi e la legione), che avevano anche «il merito di scandire lo schieramento nel senso della profondità, dando vita ad un reparto più solido e compatto».11 Un generale che, messa da parte la concezione “cavalleresca” e arcaica della guerra e l’obsoleto codice bellico dei romani, volesse far uso di tali tattiche, frutto dei più avanzati dettami della scuola militare ellenistica, la migliore del tempo, doveva poter contare su soldati assolutamente fedeli e altamente disciplinati ed addestrati, pronti senza esitazione alcuna a recepire le direttive del dux, per controbattere immediatamente le inattese mosse di un nemico scaltro, geniale e perfido, senza alcun senso di rispetto della tradizionale fides.12 Quanto leggiamo nelle fonti conferma che il giovanissimo Scipione aveva piena coscienza di ciò e di conseguenza adottò nella provincia iberica, ai tempi della sua primissima esperienza di comandante in capo, cui l’abilitava l’imperium proconsulare per la prima volta concesso ad un privatus,13 comportamenti atti ad accrescere nei soldati che militavano nel suo esercito sia il senso della fedeltà al comandante che quello della più rigorosa disciplina. Il discorso della fedeltà riguardava anche, se non soprattutto, la componente dell’esercito costituita dai socii, cioè precipuamente dai guerrieri ispani, che, spregiata l’alleanza punica, erano andati a schierarsi a poco a poco sotto le sue insegne. Non è difficile pensare che gli atti di magnanimità nei confronti dei locali e soprattutto degli ostaggi liberati dalle mani dei cartaginesi a 9 G. Zecchini, Scipione in Spagna: un approccio critico alla tradizione polibiano-liviana, in G. Urso (a cura di), Hispania Terris Omnibus Felicior. Processi ed esiti di un processo di integrazione. Atti del Convegno Internazionale (Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001), I Convegni della Fondazione Canussio, Pisa 2002, 87-103. 10 In generale, sulle strutture di comando romane e la Spagna, utili R.C. Knapp, Aspects of the Roman Experience in Iberia 206-100 B.C., Valladolid 1977; V. Sumner, Proconsuls and Provinciae in Spain 218/7-196/5 BC, «Arethusa» III (1979), 85-102; R. Develin, The Roman Command Structure and Spain 218190 B.C., «Klio» LXII (1980), 355-368; R.T. Ridley, The Extraordinary Commands of the Later Republic – a Matter of Definition, «Historia» XXX (1981), 280-297; M. Salinas de Frias, El gobierno de las provincias hispanas durante la república romana (218-27 A.C.), Salamanca 1995; J.-M. Roddaz, Les Scipions et l‟Hispanie, «REA» C (1998), 341-358. 11 Brizzi, Scipione e Annibale, cit., 121. 12 Su tutto ciò vd. Brizzi, Il guerriero, cit. e la bibliografia ivi citata. 13 Sul tema, da ultimo, W. Blösel, Die „Wahl‟ des P. Cornelius Scipio zum Prokonsul in Spanien im Jahr 210 v. Chr., «Hermes» CXXXVI (2008), 326-347 (al quale si rimanda per la bibliografia precedente). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 94 Cartagena (le donne in particolare) ricordati dalle fonti 14 avessero lo scopo precipuo di attirare dalla sua parte il maggior numero possibile di ispani, cosa che, a giudicare dagli eventi tràditi, gli riuscì pienamente. Un esempio tra i tanti, molto significativo, è quello che riguarda il giovane Allucio che si vede del tutto inaspettatamente restituita la bellissima fidanzata senza riscatto alcuno, perché l’oro, che i genitori della ragazza hanno a tal uopo destinato e che Scipione rifiuta ma è poi costretto ad accettare, viene subito trasformato da Publio in dote nuziale per i futuri sposi, col risultato che di lì a poco tempo il giovane principe corre a schierarsi nell’esercito romano alla testa di un gran numero di cavalieri (ben 1400 secondo Livio.)15 Atteggiamenti fondamentalmente propagandistici, non c’è dubbio, ammantati di generosa magnanimità dalle fonti, che avevano grande impatto tra gli ispani, distogliendoli dall’alleanza punica, ma in contemporanea rendendoli oltremodo riconoscenti verso il loro benefattore, per il quale avrebbero volentieri combattuto da quei formidabili guerrieri che erano e volentieri dato in battaglia la loro vita. La fedeltà e la benevolenza dei soldati la si guadagna in tante maniere e mettendo in atto accorgimenti che sicuramente saranno stati codificati nella casistica riguardante qualsiasi modello di perfetto condottiero. A giudicare dalle fonti Publio ne era ben conscio. Non solo non lesinò gli elogi per i combattenti di Spagna, a cui già al suo arrivo riservò lodi sperticate, riconoscendo che, sebbene sconfitti due volte in veloce successione, non si erano scoraggiati e avevano mantenuto il controllo della provincia, tenendo a bada un nemico molto superiore di forze.16 L’intensità degli elogi crebbe poi a dismisura in seguito alle vittorie subito da lui riportate, come quella dell’espugnazione di Cartagena.17 La susseguente contesa per l’assegnazione della corona murale, reclamata in contemporanea da un legionario e da un socius navalis con l’appoggio dei relativi comandanti e commilitoni, vide all’opera un Publio non soltanto generoso e giusto (con la sua salomonica decisione di premiare entrambi), ma altamente perspicace e lungimirante: sia esercito che flotta gli sarebbero rimasti riconoscenti. Queste doti sono ampiamente testimoniate dagli elogi e dai premi che distribuì poi a piene mani prout cuiusque meritum virtusque erat,18 traendoli dal bottino concesso ai soldati una volta conquistata la città.19 Il tutto secondo la rigida regola tramandataci da Polibio, che ricorda il giuramento dei singoli soldati di non impossessarsi di nessun oggetto predato.20 14 Liv. XXVI 49 e 50. L’episodio è riferito da Liv. XXVI 50, 1-14; Val. Max. IV 3, 1; Sil. XV 268 ss. Nel Rinascimento l’episodio divenne esemplare e furono numerose le sue riproduzioni pittoriche, tese ad esaltare “La continenza di Scipione”. A scopi politici lungimiranti rispondeva anche la decisione di liberare il giovane nipote di Massinissa (Liv. XXVII 19). 16 Liv. XXVI 20, 1 ss. 17 Liv. XXVI 48, 4: Militum deinde virtutem collaudavit, quod eos non eruptio hostium, non altitudo moenium, non inexplorata stagni vada, non castellum in alto tumulo situm, non munitissima arx deterruisset, quominus transcenderent omnia perrumperentque. 18 Liv. XXVI 48, 14. 19 Liv. XXVI 46, 10. 20 Polyb. X 16. 15 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 95 La fedeltà dei soldati era garantita dalla benevolenza del comandante, ma anche dalla sua severità, come mostrano ampiamente gli eventi del 206 legati al furor in castris ad Sucronem ortus.21 Tornato dall’abboccamento con Siface in terra d’Africa, Scipione era caduto gravemente ammalato e si era addirittura diffusa la notizia della sua morte, cosa che provocò una seditio tra parte delle truppe (Omnia libidine ac licentia militum, nihil instituto ac disciplina militiae, aut imperio eorum qui praeerant, gerebatur, scrive Livio).22 Ripreso il controllo della situazione, con un giusto mix di iusta ira e di clementia,23 di rigore, cioè, e umanità, Publio punì con la morte i capi e i promotori dell’ammutinamento, ma perdonò tutti gli altri, cui fece subito distribuire lo stipendium, nella ritardata corresponsione del quale avevano essi indicato la causa prima dell’ammutinamento.24 Questo ci dà naturalmente lo spunto per inserire anche la puntualità nel pagamento del soldo tra gli elementi capaci di assicurare fedeltà ed obbedienza al comandante. Il discorso ai ribelli del Sucrone riportato da Polibio25 ci fa capire come Scipione ritenesse anche essenziale, in tale prospettiva, che il comandante distribuisse fatiche e pericoli in maniera equa e uniforme tra i suoi uomini e così i vantaggi e le gratificazioni. Né si deve trascurare tra gli elementi utili alla captatio benevolentiae l’efficacia dell’esempio personale del comandante, soprattutto in battaglia, quando il dux deve essere hortator testisque (secondo un comportamento di Marcello sottolineato da Livio),26 ma deve anche essere praesens, partecipare in prima persona, come faceva Scipione,27 alla battaglia, correre, con le dovute precauzioni (precisate da Polibio nel racconto dell’assalto a Cartagena),28 gli stessi rischi dei suoi uomini, secondo quella che era affermata tradizione negli eserciti romani, i cui capi non disdegnavano neppure, all’occorrenza, di ricorrere a gesti estremi come la devotio per assicurare la vittoria ai loro uomini e alla loro res publica. Oltre che di fedeltà e obbedienza un denso rapporto del comandante col suo esercito si nutre anche di disciplina ed esercizio. L’ozio dei soldati è di per sé pericoloso (e l’episodio del Sucrone, secondo le parole riferite da Livio o da Polibio, ne dà una chiara dimostrazione),29 ma l’esercizio diventa essenziale se si voglia disporre di soldati all’altezza della situazione, fisicamente in forma, allenati al combattimento, capaci di eseguire prontamente le evoluzioni richieste. Anche a questo provvedeva Scipione se si deve prestar fede al dettagliato racconto polibiano 21 Per la vicenda (Liv. XXVIII 24, 5 ss.) cfr. E.T. Salmon, Scipio in Spain and the Sucro Incident, «Studii Clasice» XXII (1986), 77-84; e G. Chrissanthos, Scipio and the Mutiny in Sucro, «Historia» XLVI (1997), 172-184. 22 Liv. ibid. 23 Liv. XXVIII 25. 24 Polyb. XI 25-30; Liv. XXVIII 24, 5-29. 25 Polyb. XI 28. 26 Liv. XXVII 14, 4. 27 Liv. XXVI 41 e 44. 28 Polyb. X 13, 1. 29 Liv. XXVIII 24, 5 ss. Polibio, in particolare, nel descrivere gli eventi (XI 25), attribuisce a Scipione l’affermazione che non bisogna permettere che prevalgano l’ozio e l’inerzia, specialmente quando le cose vanno bene e si dispone di grande abbondanza di mezzi. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 96 e a quello liviano relativi al duro addestramento cui avrebbe sottoposto i suoi uomini dopo la presa di Cartagena.30 Per farla breve, la tradizione storiografica pervenutaci ci presenta uno Scipione che niente trascurò in terra ispanica per farsi benvolere, rispettare ed ubbidire dal suo esercito, che, da parte sua, corrispose in pieno alle aspettative. L’Africano fu accusato dai suoi avversari politici di adottare atteggiamenti regali (e non solo a livello meramente storiografico). La cosa, come è noto, era strettamente collegata anche con un paio di episodi della epopea militare di Scipione in terra ispanica31 e tramandatici da Polibio nel X libro delle Storie32 e, in parte, da Livio, nel XXVII dei suoi ab Urbe condita libri.33 Il racconto polibiano è quello più dettagliato ed è per noi prezioso nella misura in cui le fonti di informazione di cui poteva disporre lo storico acheo (si pensi, ad es., a Lelio, testimone oculare dei fatti, o ad altri esponenti della cerchia degli Scipioni, con cui il Megalopolitano aveva grande familiarità) erano molto attendibili.34 Altrettanto preziosa è la tradizione liviana relativa ai detti eventi, che, pur essendo di chiara ascendenza polibiana, mostra una evidente commistione con elementi desunti da buona fonte annalistica.35 Stando a quanto si legge in Polyb. X 40, già durante la marcia verso Becula (siamo nel 207), Edecone e Indibile lo avevano interpellato col titolo di re (ἁπάντων βασιλέα προσφωνούντων), prosternandosi davanti a lui. Senza rifletterci su, Scipione aveva allora fatto passare la parola (ἀνεπιστάτος αὐτὸν παρέδραμε τὸ ρηθέν). Ma quando, dopo la battaglia, tutti gli iberi concordemente lo chiamarono re, si rese conto dell’enormità della cosa e, riunitili, dichiarò che accettava il titolo di “regale” (βασιλικὸς μεν ἔφε βούλεσθαι καὶ λέγεσθαι παρὰ πᾶσι), ma che non acconsentiva né ad essere re, né a ricevere il titolo di re da nessuno (βασιλεύς γε μὴν οὔτε ἐθέλειν (εἷναι) οὔτε λέγεσθαι παρ᾿ οὐδενί). Ciò detto ordinò loro di salutarlo col titolo di στρατηγός. Livio tramanda una versione analoga a quella polibiana. Aggiunge, desumendolo probabilmente dalla buona fonte annalistica cui si accennava prima o facendo di 30 Polyb. X 20; Liv. XXVI 51, 3 ss. Per la consistente bibliografia sulla spedizione ispanica si rimanda a Brizzi, Storia di Roma, cit., 505; e a Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 87 ss. 32 Polyb. 10, 40. 33 Liv. XXVII 19, 3-6. Che il dilungarsi sull’episodio servisse nel racconto storiografico a coprire quello che in realtà, nonostante la vittoria riportata sul campo, era stato quasi un insuccesso (poiché Asdrubale era riuscito ugualmente a disimpegnarsi e a procedere verso l’Italia e la tragica disfatta del Metauro), sosteneva R. Combès Imperator: recherches sur l‟emploi et la signification du titre d‟imperator dans la Rome républicaine, Paris 1966, 59 s. Un giudizio non del tutto positivo su Scipione a Becula (un “successo tattico”, ma un “insuccesso strategico”) in Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 95 s. 34 Per la possibilità polibiana di attingere a certe fonti (circolo dell’Emiliano, Lelio), cfr., ad es., A. Aymard, Polybe, Scipion l‟Africain et le titre de “roi”, «Revue du nord» XXXVI (1954), 121-128, 125 (ora in Id., Etudes d‟Histoire ancienne, Paris 1967, 391); R.M. Haywood, Studies on Scipio Africanus, Baltimore 1933, 38; F.W. Walbank, A Historical Commentary of Polybius, II, Oxford 1967, 252; É. Foulon, BASILEUS SKIPIWN, «BAGB» 1992, 10. 35 G. De Sanctis, Storia dei Romani, 3, 2, Firenze 1916, 480 n. 60; Aymard, Polybe, cit., 1954, 30 s.; Walbank, A Historical Commentary, cit., 252; Foulon, BASILEUS, cit., 10. 31 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 97 suo una riflessione dettata da atmosfere ideologiche a lui più vicine, che Scipione avrebbe precisato che regium nomen alibi magnum, Romae intolerabile esse e che pertanto sibi maximum nomen imperatoris esse ... quo se milites sui appellassent. Era disposto ad accettare solo il titolo di imperator, con cui era stato acclamato dai suoi milites, non quello di re.36 Sul tema della regalità di Scipione mi sono intrattenuto altrove37 e questo mi esime dal trattare l’argomento, peraltro inutile ai fini del mio discorso. Il passo liviano prima riportato, secondo molti studiosi (con in testa Combès), costituirebbe la primissima attestazione del titolo di imperator, che tanta fortuna avrebbe poi avuto nel corso dei secoli.38 Il confronto col testo polibiano, dove si legge che Scipione avrebbe accettato di essere chiamato στρατηγός – non c’è l’uso del termine αὐτοκράτωρ, che da età sillana in poi e per tutta l’età imperiale sarebbe stato il corrispondente greco del termine imperator –39 e i noti riscontri epigrafici,40 ci inducono a credere che con tale termine durante l’età scipionica si indicasse il detentore di un potere esclusivamente militare e che esso fosse intimamente collegato con l’acclamazione del capo vincitore da parte delle truppe a lui subordinate.41 Le considerazioni del de oratore ciceroniano42 con la netta distinzione tra l’imperator e il rei publicae rector, l’inserimento dell’Africano tra gli imperatores dotati dei necessari requisiti (administratores belli gerendi con tutti i compiti connessi, esperti, sia per ingegno naturale che per studi teorici, dei problemi della guerra),43 confermano, se ce ne fosse bisogno, tale interpretazione. Si potrebbe forse discutere, ma bisognerebbe molto approfondire l’indagine, come non è possibile fare in questa sede, l’idea di quanti sostengono che Scipione avrebbe conferito al titolo un valore istituzionale, dato che si trovava in una condizione giuridica speciale, che era poi, notoriamente, quella del privatus cum imperio, di un privatus, cioè, che, al di fuori del tradizionale cursus honorum, ricopriva i comandi più elevati, anche di rango proconsolare.44 36 Liv. XXVII 19, 6. Cfr. (anche per i relativi riferimenti bibliografici) A. Pinzone, La regalità di Scipione, in M. Caltabiano, C. Raccuia, E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli del potere politico nel mondo greco e romano. Giornate seminariali in onore di S. Nerina Consolo Langher (Messina 17-19 Dicembre 2007), Pelorias 18, Soveria Mannelli 2010, 385-391. 38 Combès, Imperator, cit. Sul tema cfr. pure le posizioni, anche contrastanti, di De Sanctis, Storia, cit., 454 n. 18; A. Momigliano, Ricerche sulle magistrature romane, II, Imperator, «BCAR» LVIII (1930), 52 (ora in Id., Quarto Contributo, Roma 1969, 282); M.A. Levi, L‟appellativo imperator, «RFIC» LX (1932), 207 ss.; H.H. Scullard, Scipio Africanus, Soldier and Politician, Bristol 1970, 76; 81; R. Develin, Scipio Africanus Imperator, «Latomus» XXXVI (1977), 110-113 ; P.M. Martin, L‟idée de royauté à Rome, II: Haine de la royauté et séductions monarchiques (du IV e siècle av. J.–C. au principat augustéen), Clermont Ferrand 1994, 297. 39 Cfr. Combès, Imperator, cit., 55 ss.; Develin, Scipio, cit., 111. 40 CIL II 3836; I2 2, 622 (cfr. Liv. XLIV 2, 7); II 5041; I2 2, 626. 41 Cfr Combès, Imperator, cit., 55 ss.; e soprattutto 111 ss.; Scullard, Scipio, cit., 96; H. Versnel, Triumphus, Leiden 1970, 340 ss.; Develin, Scipio, cit., 110-113; B. Tisè, Imperialismo romano e imitatio Alexandri. Due studi di storia politica, Lecce 2002, 51 s. 42 Cic. de or. I 210-211. 43 Tisè, Imperialismo, cit., 51. 44 Cfr. Combès, Imperator, cit., 55 ss.; Develin, Scipio, cit., 110; Tisè, Imperialismo, cit., 51. Sull’imperium pro consule concesso all’Africano per la sua spedizione ispanica (per cui Liv. XXVI 18; 37 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 98 Ma non è esattamente su questo aspetto del problema, peraltro dibattutissimo, che volevo richiamare la vostra attenzione, quanto piuttosto sull’acclamazione a imperator dei soldati, sul suo momento, sulle cause. Su tali aspetti della problematica le fonti tacciono completamente e sta quindi a noi cercare di chiarirli. Quanto al possibile momento dell’acclamazione, mi pare difficile pensare ad altro che a quello dell’arrivo di Scipione in Spagna tra i soldati rimasti a difendere la provincia o a quello immediatamente successivo alla gloriosa e importante conquista di Nova Carthago. Nel primo caso l’acclamazione si visualizzerebbe come un riconoscimento a Scipione del suo buon diritto a essere soggetto attivo di imperium, un riconoscimento, però, fatto a scatola chiusa, forse in rispondenza alla grande fiducia nei suoi mezzi che il giovane mostrava, al presunto favore divino di cui si vociferava godesse, o, forse meglio, in omaggio al padre e allo zio, sotto le cui insegne molti di quegli uomini avevano militato. Sicuramente più probabile riterrei il secondo momento, quando la vittoria venuta in seguito alla lungimiranza e alle grandi capacità del comandante e all’aiuto divino, come pensavano in molti (contro la volontà di Scipione e del suo razionalismo ampiamente rivendicato da Polibio),45 aveva mostrato che era degno dell’imperium che gli era stato conferito a Roma ancorché privatus, e soprattutto che era “ancora” titolare di tale imperium. Non suonino strane o erronee queste ultime parole, ma a me risulta difficile liberarmi dall’impressione, fortemente alimentata dalla lettura di molte acute pagine di Pierangelo Catalano, che la mente e gli animi dei romani dello scorcio finale del terzo secolo a.C. non si fossero ancora del tutto liberati dalle arcaiche convinzioni ingenerate dal rispetto di norme spaziale – giuridico – religiose, come quella che voleva che il magistrato perdesse l’imperium conferitogli a Roma secondo la procedura, cioè col benestare dell’augure (auspicato) e con la lex curiata de imperio,46 già solo attraversando un corso d’acqua, che frapponendosi tra cielo, uomo e terra, faceva venir meno quel compatto nesso verticale imprescindibile per il suo mantenimento.47 O ancora, se vogliamo, l’importanza Val. Max. III 7, 1; App. Ib. 18-19; Cass. D. LVII 39-40; Zon. IX 7) cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II3, Leipzig 1887, 652, 659 n. 4; De Sanctis, Storia, cit., 454 n. 18; Levi, L‟appellativo, cit., 210-218 ; H. Siber, Römische Verfassungsrecht in geschichtlicher Entwicklung, Lahr 1952, 214 s.; D. Kienast, Imperator, «ZRG» XCI (1961), 403-421, 408 ; W.F. Jashemski, The Origins of the Proconsular and the Propraetorian Imperium to 27 B.C., rist. anast. Roma 1966, 29; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, Cleveland 1968, 280; Scullard, Scipio, cit., 32; F. De Martino Storia della costituzione romana, Napoli 19732, II, 224; P. Pinna Parpaglia, La carriera di Scipione nella guerra annibalica, «Labeo» XXVI (1980), 339-354, 344 s.; Brizzi, Storia di Roma, cit., 200; Id., Scipione e Annibale, cit., 367; Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 89; e Blösel, Die „Wahl‟, cit. (con ulteriore bibl.). 45 Cfr. infra, n. 50. 46 Cfr. J. Toutain, Imperium, in D.A.G.R. III, 1900, 418 s. 47 Mi riferisco in particolare a P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, «ANRW» II 18, Berlin-New York 1978, 535 s., con sottolineatura dell’importanza della differenza nel diritto augurale di terra e aqua. L’interruzione dell’augurium aquae intercessu, è testimoniata da Serv. ad Aen. IX 24. Altra documentazione in A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l‟antiquité, IV, Paris 1882, 230 ss.; e R. von Scheliha, Die Wassergrenze im Altertum, Historische Untersuchungen 8, Breslau 1931, 56 ss. Per l’importanza religiosa dell’acqua, vd. M. Ninck, Die Bedeutung des Wassers im Kult und Leben der Alten. Ein symbolgeschichtliche Untersuchung, Philologus Suppl. 14, 2, Leipzig 1921 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 99 giuridico – sacrale della terra Italia ai fini del conferimento di cariche magistratuali, del mantenimento di certe prerogative, dello svolgimento di determinati riti augurali,48 una condizione assente in territorio provinciale (come mostra il caso di Levino, che, nel 210, vuole procedere alla nomina di un dictator in Sicilia e il senato glielo impedisce perché l’ager Romanus necessario per la nomina era circoscritto all’Italia (eum in Italia terminari).49 Sono diversi gli esempi che si potrebbero aggiungere a tal proposito, ma che il rispetto dei limiti di tempo mi induce a tralasciare. Sulla base del presupposto prima enunciato, l’acclamazione di Scipione ad imperator da parte dei soldati potrebbe avere un significato che travalica quello di uno scontato ossequio al proprio generale: gli eventi di Carthago Nova (con particolare riferimento anche al preteso intervento nettunio sulla marea che aveva favorito l’assalto)50 dimostravano ampiamente che l’imperium di Publio non si era volatizzato nel tragitto da Roma alla Spagna (o che perlomeno una difficilmente proponibile ripetizione dei riti augurali in Spagna glielo avesse fatto recuperare). I soldati avrebbero potuto fare un atto di fede acclamando Scipione subito, al suo arrivo, ma solo il suo comportamento, la sua vittoria, l’uccisione di un certo numero di nemici,51 avrebbero dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che egli deteneva ancora l’imperium, quell’imperium (e quell’auspicium) che, come sembra credere Livio in un passo molto significativo ai nostri fini,52 i ribelli del Sucrone, rompendo sacramenti religionem, avrebbero poi rinnegato. Quello dei soldati finiva con l’essere non solo un riconoscimento, ma anche una testimonianza precisa, che, 48 Sul tema della terra Italia, vd. Catalano, Aspetti, cit. 534 ss.; Id., Appunti sopra il più antico concetto giuridico di Italia, «AAT» XCVI (1961-1962), 198-228; V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari romane, Milano 1974, 3-4, n. 9; G. Urso, Il concetto di alienigena nella guerra annibalica, C.I.S.A. XX, Milano 1994, 223-236; H. Mouritsen, Italian Unification: A Study in Ancient and Modern Historiography, London 1998, 50 s.; e E. Bispham, From Asculum to Actium. The Municipalization of Italy from the Social War to Augustus, Oxford 2007, 53 ss. 49 Liv. XXVII 5, 15; cfr. 29, 5, su cui cfr. De Martino, Storia, cit., 272; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römisches Völkerrecht im dritten und zweiten Jahrhundert v. Chr., München 1968, 161 n. 5; Catalano, Aspetti, cit., 501; A. Pinzone, Provincia Sicilia. Ricerche di storia della Sicilia Romana da Gaio Flaminio a Gregorio Magno, Catania 1999, 83; Bispham, From Asculum, cit., 67. 50 Cfr. Liv. XXVI 45, 9: hoc ... in prodigium ac deos vertens Scipio ... Neptunium iubebat ducem itineris sequi. Non Scipione, ma alcuni storici avrebbero, secondo il razionalista Polibio (X 8 e 9), attribuito ad un intervento divino o alla fortuna il merito della riuscita dell’impresa, dovuta invece a fenomeni naturali noti al giovane generale, per averli appresi da pescatori del luogo. Nella vasta bibliografia sull’argomento, vd., ad es., Scullard, Scipio, cit., 59-60; A. e M. Lillo, On Polybius X, 10-12 and the Capture of New Carthage, «Historia» XXXVII (1988), 477-480; B.D. Hoyos, Sluice-gates or Neptune at New Carthage 209 B.C., «Historia» XLVII (1992) 124-128; E. Foulon, Polybe X, 2-20: la prise de Carthagène par Scipion, «RPh» LXIII (1989), 241-264; Id., Un miracle de Poséidon: Polybe X, 8, 15, «REG» CX (1998), 503-517; B.J. Lowe, Polybius 10.10.12 and the Existence of Salt-Flats at Carthago Nova, «Phoenix» LIV (2000), 39-52; Tisè, Imperialismo, cit., 50; Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 94; A. Acimovic, Scipio Africanus, New York 2007, 8 ss. 51 Per come l’acclamazione ad imperator fosse legata al numero dei nemici uccisi (con cifre crescenti nel tempo), cfr. E. De Ruggiero, Imperator, in D.E., IV, 1950, 41 s. (con rinvio a Cic. Phil. XIV 5, 12; App. b.c. II 44; Diod. XXXVI 14; Cass. D. XXXIV 40; Val. Max. II 8, 1). 52 Liv. XXVIII 27, 4. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano | 100 al di là (o prima) della vittoria, si alimentava del complesso dei fatti e degli atteggiamenti messi in essere dal futuro Africano fin dal momento in cui aveva messo piede in Spagna, soprattutto quelli che avevano per destinatari i suoi soldati. In tale prospettiva l’acclamazione ad imperator finiva per assumere i connotati di una vera e propria sanzione di un patto tra milites e condottiero, un patto che entrambe le parti si dovevano impegnare a conservare e rispettare con tutte le loro forze. Antonino Pinzone Dipartimento di Scienze dell’Antichità Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Messina Polo Annunziata 98168 Messina [email protected] on line dal 15 giugno 2011 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100 JONATHAN R.W. PRAG Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic* I. Introduction During the last two centuries of the Roman Republic, the Roman state made use of troops from outside of Italy, i.e. from peoples not included in the formula togatorum, and who were not part of the socii ac nomen Latini. These soldiers can be classified under the semi-formal designation of auxilia externa, although the term is used with little regularity, and they are more usually described by our sources in diverse ways (typically by ethnic, e.g. ‘Aetolians’, and/or type of soldier, e.g. funditores); frequently their presence can only be inferred or guessed at. 1 The evidence exists to suggest that the use of these troops was extensive, but their existence is rarely acknowledged in modern discussions of the Roman army, and there is to date no systematic collection or analysis of the material as a whole.2 * This paper derives from ongoing work on a monograph provisionally entitled Non-Italian Manpower: auxilia externa under the Roman Republic, with support from the AHRC; see already J.R.W. Prag, Auxilia and gymnasia: a Sicilian model of Roman Republican Imperialism, «JRS» XCVII (2007), 68-100. I am grateful to Prof.ssa R. Marino for the invitation to participate at the conference at which a version of this paper was first presented, and to the department of ancient history at Palermo as a whole, and Davide Salvo in particular, for their generous hospitality. 1 The key texts are: Fest. 16 L: Auxiliares dicuntur in bello socii Romanorum exterarum nationum ...; Varro ling. V 90: auxilium appellatum ab auctu, cum accesserant ei qui adiumento essent alienigenae; Liv. XXII 37, 7-8 (a view attributed to Hieron II in early 216 BC): Milite atque equite scire nisi Romano Latinique nominis non uti populum Romanum; levium armorum auxilia etiam externa vidisse in castris Romanis; itaque misisse mille sagittariorum ac funditorum, aptam manum adversus Baliares ac Mauros pugnacesque alias missili telo gentes. 2 Of note are: A. Afzelius, Die römische Kriegsmacht während der Auseinandersetzung mit den hellenistischen Grossmächten, Aarhus 1944, 90-98 reviews the Livian evidence for 200-167 BC; C. Hamdoune, Les auxilia externa africains des armées romaines, IIIe siècle av. J.-C.- IVe siècle ap. J.-C, Montpellier 1999, 7-104 discusses the Numidian evidence in detail; F. Cadiou, Hibera in terra miles. Les armées romaines et la conquête de l’Hispanie sous la République (218-45 av. J.-C.), Madrid 2008, 611-84 discusses the Spanish evidence in detail; J.B. McCall, The Cavalry of the Roman Republic, London 2002, 100-113 on cavalry auxiliaries. The best overviews of the place of Republican auxiliaries can be found in G.L. Cheesman, The Auxilia of the Roman Imperial Army, Oxford 1914, 7-11, and V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari romane, Milan 1974, 25 n. 1. By contrast, J. Harmand, L’Armée et le Soldat à Rome de 107 à 50 avant notre ère, Paris 1967, 41-51 largely repeats the misleading generalisations of Passerini, Marquardt and others. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 102 This study will take the existence and use of such auxilia in the Republican period for granted, and instead focuses on the question of who commanded the units of auxilia. In existing studies the specific question of who commanded these troops is rarely addressed. Modern scholarship either emphasises our lack of knowledge, or notes the (limited) presence of native commanders, or suggests that things became more regularised over time (although how this took place is generally unclear). Most observations are restricted to the civil war period (i.e. post-49 BC), in which period Roman commanders are common; this is part of a more general tendency only to examine auxilia from 49 BC onwards.3 The nearest thing to a discussion of relevance is to be found in Suolahti’s Junior Officers of the Roman Army; Suolahti’s focus was not, however, the foreign auxilia and his study did not go below the level of praefectus.4 For practical reasons, the discussion which follows will be restricted to land forces only, looking firstly at the evidence for Romans in command of auxilia – broadly, but not wholly, equivalent to the upper levels of command – and secondly at the evidence for non-Romans commanding auxilia – generally, but not entirely, equivalent to the level of individual unit commanders. This latter section will incorporate some discussion of the problem of classification of auxilia (allies, auxiliaries, or mercenaries?), since it is relevant to the level of autonomy with which they were entrusted. This will be followed by a brief consideration of the value of “native” commanders and the Roman recognition of this, through clientela and mechanisms of reward and civic incorporation. By way of conclusion, I shall speculate briefly on some possible patterns of development that might be discernible. The material cited throughout is intended to be exempli gratia, rather than exhaustive. II.i Romans commanding auxiliaries It follows from the simple existence of auxiliary forces that senior Roman commanders frequently commanded a mixed force, which included units of foreign auxiliary soldiers. Below the level of overall command however, several ranks of Roman officer can be discerned in command of these bodies of auxiliary soldiers. Perhaps the most striking are those occasions when, typically, Roman legati command reasonably substantial numbers of auxiliaries, often in autonomous actions, and often without any Roman or Italian troops in attendance.5 Legati are 3 See especially D.B. Saddington, The Development of the Roman Auxiliary Forces from Caesar to Vespasian (49 B.C. - A.D. 79), Harare 1982, on imperial auxilia. T. Yoshimura, Die Auxiliartruppen und die Provinzialklientel in der römischen Republik, «Historia» X (1961), 473-495 has relevant comments on auxilia and clientela. 4 J. Suolahti, The Junior Officers of the Roman Army in the Republican period. A Study on Social Structure, Helsinki 1955, esp. 203-204 (although the passages there cited do not always support the claims in the text). 5 Liv. XXX 42, 3 (Greece, 203-201 BC, activities of M. Aurelius, cf. XXX 26, 4, XXXI 3, 46); Liv. XXXV 39 and 50 (Greece, 192 BC, activities of T. Quinctius and L. Villius); Liv. XLII 56, 3-4 (Greece, 171 BC, activities of P. Lentulus with Boeotians); Liv. Per. L (Macedonia, 150 BC, legati ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 103 also to be found commanding the various units of auxiliary troops in the battle line.6 However, if instances involving legati appear to predominate, it is nonetheless true that both quaestors and military tribunes are also to be found fulfilling broadly similar roles.7 Praefecti can also be found in this sort of position, but at this point the situation becomes much less clear-cut – partly because the evidence is limited, and partly because, in contrast to the pre-Social War organisation of the Italian allies who were placed under the command of the praefecti sociorum, the organisation of the foreign auxiliaries seems to have been much more fluid.8 On the rare occasions when we explicitly find Roman praefecti commanding auxilia, these can either be in overall command of multiple units as in many of the cases noted above, or else in the rather varied and dynamic situations of local garrisons, or, most frequently in the available evidence, in the specific role of cavalry commander.9 However, two points need to be made concerning the examples cited so far. Firstly, almost all of these Roman commanders, whatever their rank, were commanding multiple units, often of varying sorts. In general, when a Roman commanding Achaean auxiliaries, cf. Cic. prov. 5); BE 1963, 220 (Asia, 129 BC, actions of Q. Servilius Caepio); Caes. Gall. II 11 (Gaul, 57 BC, legati sent out with cavalry), III 11 (Gaul, 56 BC, legatus sent out with cavalry), V 17 cf. V 5 (Britain, 54 BC, C. Trebonius leads Gallic cavalry with legionary support). 6 Liv. XLII 58, 11-14 (Greece, 171 BC); Sall. Iug. 100, 2-4 (Africa, 107 BC); Cic. fam. XV 4, 8 (Cilicia, 51/50 BC). 7 Liv. XXI 49, 7 (Sicily, 218 BC, legati and tr. mil. commanding local forces); Liv. XXII 21,4 (Spain, 217 BC, anonymous tr. mil.); Plut. Aem. 15, 3 (Greece, 168 BC, Scipio Nasica as tr. mil.); Sall. Iug. 105, 1-2 (Africa, 107 BC, Sulla as quaestor, leading cavalry, Balearic funditores, sagittari, and a cohors Paeligna); Syll.3 700 (Lete, Macedonia, 118 BC, actions of a quaestor with what may well have been local auxiliaries); CIL X 7258 (= I2 843 = ILLRP 446) and IG XIV 282 record Sicilian garrison forces at Eryx under the overall command of a quaestor, as probably does P. Ryl. 473, 1 (fragment of Sallust, on which see C.F. Konrad, Marius at Eryx, «Historia» XLVI (1997), 28-64). Note also the interesting case of Pol. X 17, 9-10, when Scipio Africanus puts a quaestor in charge of 2000 Iberian δημόσιοι at New Carthage in 210 BC. 8 Contra Suolahti, Junior Officers, cit., 204 who simply states that, «The infantry detachments from the provinces, apart from their own officers also had Roman prefects who shared the command». He cites five passages from Caesar (Gall. I 39, 2; III 7, 3; III 11, 1; VI 29, 4; Bell. Afr. 86, 3) in support of this claim, none of which however demonstrate the point explicitly, and only the latter three of which actually refer to Roman praefecti commanding auxiliaries, in all three cases cavalry, not infantry. On praefecti sociorum and the Italians, see Ilari, Gli Italici, cit., 127-132. 9 Liv. XXIV 40, 7-17 (Q. Naevius Crista, praef. soc., 214 BC, commanding Italian allies but also local troops at Apollonia); Liv. XLIII 18, 5-11 (a similar role played by praefecti praesidii, with Roman and local troops, Illyria, 170/169 BC); Sall. Iug. 77, 4 (108/7 BC, four cohorts of Ligurians under a praefectus); Sall. Iug. 46, 7 (Africa, 109 BC, auxiliarii equites distributed among the tr. mil. and the praef. cohortium); Caes. Gall. VIII 28 (Gaul, 51 BC, Q. Atius Varus, praefectus equitum). M. Antonius appears to have been Gabinius’ praefectus equitum, 57-55 BC, commanding Germans, Gauls, and various local forces (see Plut. Ant. 3, Caes. civ. III 4, and Ios. ant. Iud. XIV 84 with bell. Iud. I 162). A problem of terminology also arises, as in e.g. Caes. Gall. I 52, where P. Crassus is described as qui equitatui praeerat (Gaul, 58 BC), but in subsequent years he appears to be a legatus, not a praefectus; it is not clear that the verb praeesse necessarily equates to praefectus esse. On praefecti, see esp. G. Tibiletti, Governatori romani in città provinciali, «RIL» LXXXVI (1953), 64-100; T. Ñaco del Hoyo, Gadès et les précédents des attributions politiques des praefecti praesidii républicains, «DHA» XXXV (2009), 1-19. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 104 commander is named, the subordinate commanders of individual units or peoples are omitted in our sources (an inevitable consequence of the Romano-centric nature of most of our evidence), although examples to the contrary certainly exist and we shall consider such (normally native) commanders below. 10 Secondly, just because we know of Roman commanders, it does not follow that the commanders above the level of the individual units were always Roman. Quite apart from the many ambiguous cases, there are, as we shall see in the next section, reasonably clear cases of non-Romans higher up the hierarchy, especially once we get onto the looser structures associated with “allies”.11 Lastly, one should keep in mind the variety created by non-typical areas of operation, such as the occasional mentions of Roman specialists (usually centurions) working with non-Romans, for example the unnamed centurion helping the Cyzicenes with mining operations when their city was besieged by Mithridates, c. 73 BC.12 Actual Roman commanders of individual units of auxiliaries at the lowest level are, unsurprisingly perhaps, very hard to find. The only certain examples of which I am aware belong to the period after the Social War: a cavalry decurio under Caesar in the Gallic War called L. Aemilius, and a cavalry decurio under Pompeius in the Mithridatic War (the uncle of Pompeius Trogus).13 While we cannot say anything more about the case of L. Aemilius, that of Pompeius Trogus’ uncle opens up a further consideration, namely that the principal context in which we find local troops under the immediate command of a Roman citizen is likely to be in a situation where a member of the local élite has been enfranchised (and so not necessarily holding the post because they were Roman citizens). Something similar would seem to be implied by the case of one Piso Aquitanus, whose death Caesar describes in the context of a cavalry action led by praefecti equitum.14 The cavalry 10 Liv. XLIV 30, 13 (Illyria, 168 BC, local cavalry and infantry commanders of the Parthini, supplementing the existing auxilia of Anicius); SEG XV 254 (Achaeans honouring their own στρατηγός, after service under a consul Domitius; transl. in R.K. Sherk, Rome and the Greek East to the Death of Augustus, Cambridge 1984, no. 11; discussion with earlier bibliography in R.M. KalletMarx, Hegemony to Empire, Berkeley 1995, 352-353). There are also occasions when we cannot know the exact structure, as e.g. the tribunus militum sent out cum expeditis auxiliis in 217 BC, who may or may not have had subordinate commanders (Liv. XXII 21, 4). 11 E.g. the ἵππαρχος Biesios leading Spanish cavalry in 153 BC, who may or may not be Roman (App. Ib. 47): J.S. Richardson, Wars of the Romans in Iberia, Warminster 2000, 144 suggests the text is corrupt as the name is unknown; see however, J.S. Traill, Persons of Ancient Athens, IV, no. 265590 and W. Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, Berlin 1904, 587 add. 133; Suolahti, Junior Officers, cit., 282 suggests that he was a Hispanus by birth, «the prefect of his national cavalry contingent», and he is the only non-Italian example included in his study (but Suolahti subsequently lists him as an Italus (no. 52) in his main list). 12 Diod. XXXVII 22b; cf. Liv. XXIV 48, 2-13 for Q. Statorius, a legatus, training troops for Syphax of Numidia, 213 BC. 13 Caes. Gall. I 23, Iust. XLIII 5, 11-12; note also CIL I2 1860 = ILLRP 500, although it may be of civil war date. 14 Caes. Gall. IV 12: vir fortissimus Piso Aquitanus, amplissimo genere natus, cuius avus in civitate sua regnum obtinuerat, amicus ab senatu nostro appellatus; cf. the case of C. Valerius Procillus, serving Caesar and fluent in Gallic, whose father «had been presented with the citizenship by C. Valerius Flaccus» (Caes. Gall. I 47). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 105 were certainly Gallic, but Piso’s precise rank and relationship to them is left unstated, although he is described as grandson of the tribal rex and a formal amicus of the Roman people. In any case, his name as given by Caesar surely implies an enfranchised Gaul.15 At the same time, it is clear that at least some of Caesar’s praefecti equitum were unenfranchised natives, not Romans, as in the case of Vertiscus, the princeps civitatis of the Remi, described explicitly as a praefectus equitum, in command of his own cavalry as a part of Caesar’s army, but whose name suggests that he was not enfranchised.16 Alongside the occasional enfranchisement of native commanders this latter example illustrates the way in which Roman titles came to be applied to non-Roman commanders. Both of these aspects will be addressed further below. As regards command structures, we are therefore left with glimpses of a very fluid organisation, in which some of the individual unit commanders were Romans, rather than natives, while some of those at the level of praefectus, or equivalent, were non-Romans. II.ii Non-Romans commanding auxiliaries Notwithstanding the partial counter-examples noted at the end of the previous section, the general rule can be proposed that the auxilia were, in all periods of the Republic, led by their own native commanders (under some overall Roman command). This reflects the situation reported for the Italian socii by Polybius, but we lack an equivalent explicit statement for the non-Italian allies, even if a passing observation by Cicero concerning the provision of naval forces by all Rome’s socii, both Italian and provincial, certainly implies such a situation in its reference to local nauarchi.17 The command of individual units by their local leaders is indeed well-attested and would seem to be unproblematic.18 15 Cf. App. Ib. 66 (Spain, 143 BC), C. Marcius, a Spaniard ( ἄνδρα Ἴβηρα), sent out on multiple occasions from Italica against Viriathus by the Roman commander. 16 Caes. Gall. VIII 12: amisso Vertisco, principe civitatis, praefecto equitum. 17 Pol. VI 21, 5; Cic. II Verr. V 60: Sumptum omnem in classem frumento stipendio ceterisque rebus suo quaeque nauarcho civitas semper dare solebat. […] Erat hoc, ut dico, factitatum semper, nec solum in Sicilia sed in omnibus provinciis, etiam in sociorum et Latinorum stipendio ac sumptu, tum cum illorum auxiliis uti solebamus. («All expenditure on the fleet, for grain, pay and everything else, each city has always entrusted to its own navarch, as a matter of habit. […] This was done, as I say, repeatedly and always, not only in Sicily, but in all the provinces, and likewise for the pay and expenses of the allies and Latins, at the time when we were accustomed to employ auxilia from them.») Much of the rest of the speech concerns Verres’ treatment of various Sicilian nauarchs. On this passage and the question of pay, see esp. C. Nicolet, Le stipendium des alliés italiens avant la guerre sociale, «PBSR» XLVI (1978), 1-11 (repr. in Censeurs et publicains, Paris 2000, 93-105). 18 A few examples from many: the diverse units with their own leaders that joined Flamininus against Philip V in 197 BC (Liv. XXXIII 3, 7-10); Thurrus, the Spanish chieftain who supported Ti. Sempronius, Spain 179 BC (Liv. XL 49, 5-7); Catmelus, with 3000 Galli, supporting C. Manlius Volso, in Istria, 178 BC (Liv. XLI 1, 8); Gallic cavalry under Cassignatus, dux Gallorum, engaged the cavalry of Perseus, 171 BC (Liv. XLII 57, 5-7); the praetor Anicius supplemented his forces with Parthinian auxiliaries under their own commanders, Illyria 168 BC (Liv. XLIV 30, 8- ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 106 Furthermore, these auxilia could be entrusted with autonomous action, whether in the case of Vertiscus and the Remi under Caesar, already cited, or Muttines and his Numidians serving as the advance guard for L. Cornelius Scipio’s march through Thrace in 190 BC, or in the appointment by a Roman legatus of local forces (under their own commander) to garrison duty in the war against Aristonicus. 19 However, the common presence of native commanders and their potential for autonomous action raises the difficult question of classification: to what extent should one distinguish between different categories of auxiliary troops in the Roman army? There have been several attempts do so, but although these schemes overlap, there is little uniformity.20 Leaving aside for a moment the thorny problem of mercenaries, it is at least tempting to suggest that the principal difference would seem to be between Rome’s major allies (including, but not restricted to “client-kings”) and ad hoc levies from provincial/subject peoples. However, it is very hard to insist upon any formal classification of Rome’s “allies” in this regard, not least since the category of ally (socius) itself appears relatively flexible (certainly not dependent, for instance, upon the existence of a written foedus).21 Nonetheless, forces provided by those such as the Attalids, the Achaeans, the Aetolians, and the Rhodians in the early second century BC, or even Deiotarus in the mid-first century BC, clearly have a rather different status compared to the smaller units of civic and tribal peoples levied by Roman commanders in the field. This is best demonstrated by the presence of non-Roman commanders at Roman consilia, or those instances when they hold substantial positions of command on the battlefield.22 Given the apparent lack of strictly applied formal categories of ally, the decisive factor may be the much more practical and realistic one of the proportion of participation/size of force and therefore the more intangible factor 13); Achaeans who served under a consul Domitius honour their own strategos (SEG XV 254); Mauretanian auxiliaries under their commander Gomon in the Second Slave War, Sicily, c.104 BC (Diod. XXXVI 5, 4). 19 Muttines (himself a Roman citizen by this date, Liv. XXVII 5, 7), Liv. XXXVIII 41, 1214; local troops honour their commander Hephaistion son of Alkaios of Sardis, appointed by the Roman legatus Q. Servilius Caepio to a garrison command in Maeonia, E. Lydia, c.129 BC (BE 1963, 220 = TAM V 1, 528). See also, e.g., the Chaeronaeans assisting Sulla, 86 BC (Plut. Sulla 17, 6-7); or the Poemaneni ordered by the Roman proconsul to send a garrison, under their own commander Nikander son of Menophilos, to Ilion in 80/79 BC (OGIS 443 = IGR IV 196 = I.Ilion 73). 20 Four different schemes in P.A. Brunt, Italian Manpower, Oxford 1987, 169; Ilari, Gli Italici, cit., 25-27 n. 1; Yoshimura, Die Auxiliartruppen, cit., 479; Cheesman, The Auxilia, cit., 8. 21 See e.g. Kallet-Marx, Hegemony to Empire, cit., 195 and note the pairing in Cic. Balb. 49, ... qui sociis, qui foederatis in defendenda re publica nostra spem praemorium eripi vellet? For recent discussion of Roman treaties see J.W. Rich, Treaties, allies and the Roman conquest of Italy, in P. de Souza - J. France (Eds.), War and Peace in Ancient and Medieval History, Cambridge 2008, 51-75. 22 Participation at consilia: Liv. XXXIV 26, 4-6 (principes Graeciae at consilium of Flamininus, 195 BC), cf. XXXIV 33, 5 (sociorum etiam principibus adhibitis habuit consilium); Liv. XLIV 36, 8 (Macedonia, Pydna, 168 BC, legati circa imperatorem ducesque externi erant…). Major positions of command, e.g. App. Syr. 31 (Eumenes commands the left wing at Magnesia). Note the Athenian perspective on service at Pydna under Rome and the Attalids (Moretti, ISE I 35, transl. in Sherk, Rome and the Greek East, cit., no. 23): Kalliphanes «campaigned with the Romans and with King Eumenes’ brothers Attalus and Athenaios». ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 107 of authority. In Rome’s early campaigns in Greece, the allies frequently provided at least half of the military force – an explicit recognition of this situation is to be found in the treaty of c.211 BC with the Aetolians, which included clauses for the division of booty.23 Throughout this period, Roman commanders commonly appear alongside foreign commanders, whether Attalid kings, Achaean generals, or Rhodian navarchs.24 Although this sort of situation would appear to become less common over time, as both Rome’s allies diminished in power and Rome’s own forces and reach increased – so, for instance, Iugurtha’s position at Numantia in 134/3 BC is clearly subordinate to Scipio and Rome – nonetheless such a situation never entirely disappeared, as Cicero’s relationship with Deiotarus in 51 BC makes clear:25 context and basic relations of power would therefore seem to be the defining factors. At the opposite end of the scale it is no easier to distinguish the status of the smaller, often specialised, units of foreign troops regularly employed by Rome, or their commanders. There is little agreement among modern authors over whether Rome did, or did not, employ mercenaries among its auxilia.26 Ideologically it was an important part of Roman self-presentation that they did not employ mercenaries, and the occasional explicit mention of their use in the third century is frequently treated both as exceptional and with moralising intent by our sources.27 All the same, mercenaries certainly serve under Rome at one 23 Roman-Aetolian treaty: Moretti, ISE II 87 = Sherk, Rome and the Greek East, cit., no. 2 (cf. Liv. XXVI 24, 11; Pol. IX 39, 1-3; XVIII 38, 5-9); joint campaigning and command, e.g. Pol. IX 42, 1-4, Liv. XXVI 26, 1-3, XXVII 30, 1-3. 24 Liv. XXXI 44-46 (Romans with Attalus and others); Pol. XVIII 1, 3-4 (Achaeans, Aetolians, and Rhodians at Nicaea with Flamininus); Pol. XXI 20, 3-21, 4 cf. XXX 1, 2 (general account of Attalid participation); Liv. XXX 33, 2 (Massinissa at Zama holding comparable position to Laelius). Note the negative perspective on such co-operation expressed in the Senate in Liv. XXXVIII 45, 9 (concerning Manlius Glabrio and Attalus, 189/8 BC). Foreign commanders occupy substantial roles in the Third Macedonian War also, as in Liv. XLII 58, 11-14 or XLII 65, 12-14. 25 Iugurtha at Numantia: App. Ib. 89, Sall. Iug. 7-9, Vell. II 9, 4 (but compare already Liv. XXXVIII 20-23 for the treatment of the young Attalus, suggesting that this is as much about status of a prince in contrast to a king); Deiotarus in Cilicia: Cic. Att. VI 1, 14, fam. XV 4, 5. 26 There is no adequate treatment of this problem. Cheesman, The Auxilia, cit., 8 perhaps comes closest in his simple observation that the Romans «... could imitate their opponents and raise mercenaries, although they might save their pride by including such contingents as “allies”». G.T. Griffith, The Mercenaries of the Hellenistic World, Cambridge 1935, devotes a mere two pages (234235) to the question of mercenaries in the service of Rome, but while arguing for a distinction between mercenaries and auxiliaries, his list of examples rapidly loses sight of that distinction. Vice versa, L. Keppie, The Making of the Roman Army, from Republic to Empire, London 1984, 23 appears to imply that all Roman auxiliaries were mercenaries (cf. Afzelius, Die römische Kriegsmacht, cit., 98). Neither J.A. Krasilnikoff, Mercenary Soldiering in the West and the Development of the Army of Rome, «ARID» XXIII (1996), 7-20 nor Hamdoune, Les auxilia externa africains, cit., 20-30 significantly advance the discussion. Contrast the rather different perspective offered by E. Gabba, Il declino della milizia cittadina e l’arruolamento dei proletari, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia di Roma, II.1, Torino 1990, 691-695 at 692, that Roman auxiliary service replaced earlier local traditions of mercenary service. 27 The locus classicus is the hiring of Celtiberians by the elder Scipiones in Spain, in 213-212 BC (principally Liv. XXIV 49, 7-8 (213 BC), and XXV 33 (212 BC)), with Livy’s comments ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 108 remove (i.e. in the employ of a Roman ally, such as Hieron II or the Attalids), while the status, for instance, of Cretans serving Rome in the second century is very unclear indeed.28 Crete was hardly under direct Roman control for most of this period, and yet the contribution of troops was not merely requested, but apparently “ordered”. Whether these troops served for pay, or merely in the expectation of booty and in order to keep the regional “superpower” favourable is unknown: in the most notorious case (171 BC), Livy employs both the verbs rogare and imperare of the Roman request for troops, and the Senate alludes to official friendship with the Roman People (the Cretans were however serving on both sides).29 However, for the purposes of this discussion, it is not clear from the evidence that it made much, if any, difference to command structures. Smaller units of auxiliaries, whether local levies or mercenary units, almost universally come with their own commanders, who are in turn under the orders of the senior Roman commanders, either directly or at one remove. 30 One notable feature of these native commanders of auxilia, visible in Roman armies of the mid- to late Republic, is that they often appear to hold positions with Roman titles, despite their clearly non-Roman status. Examples from within literary texts of this practice are inevitably problematic, since they may simply reflect the indiscriminate use by Roman authors of what, for them, was standard vocabulary. However, Caesar’s use of the term praefectus for some of his Gallic cavalry commanders would seem to belong in a different category from including the advice to Roman generals never to allow auxiliaries to outnumber Roman forces (XXV 33, 6; subsequent Roman campaigns in the East show little sign of heeding such advice). For the discourse over the use of mercenaries by Rome, e.g. Pol. III 109, 6-7, VI 52, Diod. XXIX 6, 1. See e.g. A.M. Eckstein, Mediterranean Anarchy, Interstate War and the Rise of Rome, Berkeley 2006, 154 n. 158 for the wider currency in antiquity of the negative view of mercenaries in relation to a citizen army. Hamdoune, Les auxilia externa africains, cit., 20-30 explores the relationship between mercenaries and deserters (from the non-Roman side); by no means every instance of mercenary service under Rome can be so explained, but the theme is important, ideologically at least: note e.g. Liv. XXXIV 19, 3-9 (Spain, 195 BC), where the consul offers to buy the service of the Turditani, or Diod. XXXVII 18 (Italy, 90 BC) when the consul’s initial offer of citizenship to a Cretan is met by laughter and is followed by the more material offer of 1000 drachmai. 28 Pol. III 75, 7 (Cretans provided by Hieron II, 216 BC); Liv. XXVIII 7, 4-6 (Attalids employing Cretans when fighting alongside Rome, 207 BC); Liv. XXXII 40, 4 (600 Cretans supplied to Flamininus by Nabis of Sparta); Liv. XXXVII 39, 10 (Cretans on the right flank at Magnesia, subsequently, XXXVII 41, 9-12, shown to be under Eumenes’ command); Liv. XXXVIII 13, 3 (Cretans amongst the Attalid forces which join Manlius Glabrio); Plut. Aem. 15-16, cf. Pol. XXIX 15, 1 (Cretans with Aemilius Paullus in 168 BC); Val. Max. IX 3, 7 (Cretans in Spain, 141 BC); Plut. C. Gracchus 16, 3 (Cretans in Rome, 121 BC); Diod. XL 1, 1-2 (Cretans in Rome, 69 BC, defending their record of service); Caes. Gall. II 7 (in Gaul, 57 BC). 29 Liv. XLII 35, 6-7 (171 BC levy for Macedonian War), Cretan archers requested (incertus numerus, quantum rogati Cretenses misissent), and legati are sent to make the request; yet in Liv. XLIII 7, 1-4 (170 BC) Cretan envoys in Rome report that they sent as many as were ordered (quantum sibi imperatum). The same passage contains acknowledgement of Cretans serving Perseus also (cf. XLII 51, 7, XLII 58, 6). The Cretans are then told to demonstrate their friendship with the Roman People by recalling those serving on the Macedonian side. 30 Cretan commanders are mentioned at Plut. Aem. 15, 4 (Harpalus); Liv. XXXV 28, 8 and 29, 1 (Telemnastus); Liv. XXXVIII 13, 3 (Leusus). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 109 examples of such usage in say Livy or Cicero, since in the former case it is actually a Roman commander reporting on his own troops and consciously choosing to use such language. At the same time, Cicero’s professed outrage at the idea of a Syracusan being placed in command of a Romano-Sicilian fleet in 71 BC, which Cicero claims would ordinarily have been commanded by a legatus, quaestor, or praetor (or even a praefectus or tribunus militum), in fact rather implies that such appointment of a non-Roman was by no means unknown, even if the title which Cleomenes of Syracuse either used, or was granted, remains obscure (although praefectus seems most likely).31 Moreover, epigraphic sources suggest that the practice visible in Caesar is not simply careless use of language. Two clear examples come from Sicily, where native Sicilians acting as the commanders of a special Sicilian garrison based at the sanctuary of Venus Erycina at Eryx in western Sicily are described as χιλίαρχοι (i.e. tribuni militum).32 A third example is the Thracian Amatokos, son of Teres, honoured at Chaeronea for his service under Sulla as a χιλίαρχος ἱππέων.33 The title, which lacks a direct parallel, is most easily explained as a variation upon the normal Greek for praefectus equitum, rather than signifying the non-existent title of tribunus equitum. Both Sicilian and Thracian examples illustrate a process of “Romanisation” which has clear parallels in military, civic, and juridical contexts, namely the gradual adoption of Roman forms and terms.34 Mommsen aptly commented on the Sicilian examples that, [Videtur] dux pro tribuno fuisse, quod deinde Graeci ore rotundo ut solebant paullo inflatius extulerunt.35 The fact that Iugurtha learned Latin while serving in the camp of Scipio at Numantia is another illustration of the general processes involved, as well as offering one very simple explanation for the adoption of Roman titles, namely translation into a common tongue.36 These instances are important indicators of the ways in which the military service of auxilia acted as a potential channel for integration in much the same way as Italian service in the Roman army is often 31 Cic. II Verr. V 82ff. Cleomenes is variously called dux, praefectus, and imperator by Cicero (V 89-91, 94); the last of these at least is patently ironic; the individual Sicilian ships’ captains are also variously called praefecti navium (V 91) and navarchi (V 102), which pairing certainly implies little more than translation. 32 IG XIV 282 (Segesta, Greek chiliarch under Roman quaestor), 355 (Halaesa, Greek chiliarch); cf. CIL X 7258 (Eryx, fragmentary Latin text recording both quaestor propraetore and a tribunus militum, names lost). 33 M. Holleaux, Décret de Chéronée relatif à la première guerre de Mithradates, in Études d’épigraphie et d’histoire grecques, Paris 1938, I, 143-159, with comments at 150. 34 An apparent early example of the uncertainties of translation in the unusual choice of ἐπιμελητάς for praefectus in Entella B1, Sicily (see M. Corsaro, La presenza romana ad Entella: una nota su Tiberio Claudio di Anzio, «ASNP» ser. 3, XII 3 (1982), 993-1032). Obvious examples of the general phenomenon include the Lex osca Tabulae Bantinae (M.H. Crawford, Roman Statutes, London 1996, I, no. 13) or the Tabula Contrebiensis (J.S. Richardson, The Tabula Contrebiensis: Roman Law in Spain in the Early First Century B.C., «JRS» LXXIII (1983), 33-41). 35 Comment ad CIL X 7258. 36 Sall. Iug. 101, 6. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 110 presumed to have done so.37 The fact that commanders, who were in turn the local élite, offer the principal illustrations of this process should come as no surprise. III. Rewards, citizenship, and clientela There is no doubt that the native commanders of auxiliary units occupied a pivotal role, not simply in the chain of command, but in ensuring the loyalty, or otherwise, of such troops, as well as indirectly in the potential acculturation of such forces. Individuals can be found in close intimacy with Roman commanders, virtually their contubernales – whether Eumenes’ brother Attalus in the Third Macedonian War, Iugurtha with Scipio Aemilianus at Numantia, or the Scythian Olcaba with Lucullus in the Mithridatic Wars. 38 Such proximity and trust entailed risk also. As already noted, Livy used the most famous case of such betrayal (by the Celtiberians of the elder Scipiones in Spain in 212 BC) to make precisely this point, but there are other examples, such as the use by the Italians of one of Iugurtha’s sons to encourage the desertion of the Numidians serving under Sex. Caesar in the Social War in 90 BC, or the attempt by Olcaba to murder Lucullus. 39 The military service of 40 Spanish nobles under Tiberius Gracchus in 179 BC, to ensure the loyalty of their home community, is a good demonstration of the issues involved, combining hostage-taking with the more constructive –- and potentially rewarding – role of military service.40 The risks of desertion and betrayal highlight the importance of the local princeps for levying, leading, and maintaining, or winning over, the loyalty of these troops, and in turn the importance of the relationship to Rome of that local princeps.41 As already noted, one means by which that relationship could be reinforced was through the granting of citizenship (although, as the laughter of a Cretan soldier at the very idea illustrates, this was hardly a sufficient incentive in all cases).42 Whether Rome paid any of its auxilia or not (see above, nn. 17, 26, 27), 37 For a recent discussion, see R. Pfeilschifter, The allies in the Republican army and the Romanization of Italy, in R.E. Roth - J. Keller (Eds.), Roman by Integration: dimensions of group identity in material culture and text, JRA Suppl. LXVI, Portsmouth RI 2007, 27-42, who adopts a deliberately negative assessment of the extent to which this might be true (acknowledged on p. 35). 38 Attalus, Pol. XXX 1, 2; Iugurtha, Sall. Iug. 7-9; Olcaba, App. Mith. 79; cf. Cic. Balb. 40 for the general principle, and Dio XXVI fr. 89, 4 for the expectation. 39 Iugurtha’s son in the Social War, App. civ. I 42; Olcaba, App. Mith. 79. 40 Liv. XL 47, 10. 41 See especially Yoshimura, Die Auxiliartruppen, cit. on this particular theme. Caes. Gall. V 5-7 well illustrates the concerns (but compare already the Gallic chieftain Contionatus described in Diod. XXXIV/XXXV 36). The case of Polybius is exemplary, beginning with his service as hipparch of the Achaeans (Pol. XXVIII 6, 9), negotiating demands of military service from Roman generals in the Third Macedonian War (Pol. XXVIII 13, XXIX 24), his subsequent transportation to Rome as a hostage (Pol. XXX 13, 8-11, XXX 32, cf. Paus. VII 10, 11, Liv. XLV 31, 9), his later service at Carthage alongside Scipio (Pol. XXXVIII 19-22 and esp. Amm. XXIV 2, 16-17), and his role in the reorganisation of Greece after 146 BC (Pol. XXXIX 3, XXXIX 8, 1, Paus. VIII 30, 8-9 and 37, 2). 42 Diod. XXXVII 18 (Italy, 90 BC). ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 111 it is certain that Rome frequently rewarded the auxilia, and in particular the leaders of those auxilia: such practice was an important part of encouraging and maintaining loyalty, as well as developing personal loyalty and friendship between Roman and native leaders. Most obviously, and as detailed extensively by Cicero in the Pro Balbo, such soldiers, and especially their commanders, could receive citizenship virtutis causa. The best known examples are the various African and mercenary commanders who transferred their loyalty from Carthage to Rome in the Punic Wars, such as Muttines and Moericus. 43 Cicero in the Pro Balbo lists a greater number of examples from the first century, but this need not be more than a reflection of his normal tendency to use exempla from the preceding two generations where possible. The famous bronze inscription from Asculum appears somewhat unusual, in that here we see an entire unit receiving citizenship, rather than the commanders alone – for which the unusual circumstances of the Social War might provide sufficient explanation on this occasion. 44 However, apart from the relatively limited use of civitas virtutis causa, it is important to emphasise (because it has been denied) that auxiliaries could also be rewarded in the “normal” fashion with dona militaria, in contione, as after the battle near Sycurium in Greece in 171 BC, when the disgraced Aetolian duces were sent to Rome for punishment, whereas «The Thessalians were praised before an assembly (pro contione laudati), and their leaders (duces) were also awarded presents for valour (virtutis causa donati)».45 It is however true that there is, so far as I know, no evidence for auxiliaries participating in a triumph and distribution of booty at Rome, in contrast to the Italian allies.46 Material rewards could also include substantial benefits such as land, as in the grants of land in Sicily made to various of those who had assisted Marcellus in 211 BC, or to the Gaetulians who had served under Marius (lands in 43 Cic. Balb. passim, but esp. 5-6, 22-24, 26, and the list of individuals at 50-51. For Muttines, Liv. XXVII 5, 6-7, cf. Syll.3 585 ll. 86-7; Moericus the Iberian, Liv. XXVI 21, 9-13. Compare the material collected in A. O’Brien-Moore, M. Tullius Cratippus, Priest of Rome, «YCS» VIII (1942), 25-49 at 38ff and in E. Badian, Foreign Clientelae, Oxford 1958, 302-308. 44 ILS 8888 = CIL I2 709 = ILLRP 515, on which see N. Criniti, L’Epigrafe di Asculum di Gn. Pompeo Strabone, Milan 1970, esp. 43-48, 188-192; G.H. Stevenson, Cn. Pompeius Strabo and the Franchise Question, «JRS» IX (1919), 95-101 at 98-100. Earlier block enfranchisments of Italians virtutis causa are attested however, e.g. Marius and the Camerinum cohorts (Cic. Balb. 46, Val. Max. V 2, 8, Plut. Mar. 28, 3), or Campanian equites in 338 BC (Liv. VIII 11, 15-16) and 215 BC (Liv. XXIII 31, 10-11). 45 Liv. XLII 60, 8-10. Compare, e.g. Liv. XXIX 35, 3 (rewards granted to Massinissa, his officers and troops after Zama), XXXVIII 23, 11 (praise of Attalus in contione by Manlius Vulso); Cic. II Verr. III 185-187 (military rewards in contione for Siculos praeterea potentissimos nobilissimosque in 71 BC). For further examples of rewards in the Republican period, see also V.A. Maxfield, The Military Decorations of the Roman Army, London, 126-127. C.S. Mackay, Sulla and the Monuments: Studies in his Public Persona, «Historia» XLIX (2000), 161-210 at 169 n. 27 asserts that such rewards are only attested jointly with citizenship, as in the Asculum inscription, but this ignores the literary evidence which contradicts that claim, and his discussion is limited to the problematic restoration of Syll.3 744, which records uncertain honours for an Aetolian in the service of Sulla (which could be either material and/or citizenship). 46 On Italian participation see Ilari, Gli Italici, cit., 140-142, and Pfeilschifter, The allies in the Republican army, cit., 31, 36-38. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 112 North Africa, c. 103 BC).47 Again, the point to be highlighted is that in the majority of these cases, it is the leaders of the auxilia who are singled out. This pattern is then repeated in the local honours which we can see granted to the individuals who organise and lead such units, a process which emphasises the important interaction between Roman treatment and local standing, and the crucial role in binding centre and periphery together played by the auxiliaries’ own commanders.48 IV. Conclusions Although the evidence for auxilia externa under the Republic is surprisingly plentiful, it is probably not sufficient to identify significant trends over time, particularly in relation to specific practices such as structures of command. With that caveat in place, it is nonetheless tempting to speculate on possible changes in practice and developments in the later Republic, and in particular possible changes in practice after the Social War when the Italian socii no longer constituted a distinct part of the Roman army, with the result that the auxilia now constituted the principal secondary branch of the Roman army. 49 There are some grounds for suggesting that two particular phenomena appear to be more visible in the postSocial War period, and might therefore reflect an increasing incorporation and regularisation of auxilia externa in the structure of the Roman army of the late Republic. Firstly, the only securely identifiable examples of individual unit commanders holding Roman citizenship, noted above (§ II.i), belong to the postSocial War period. Secondly the only secure examples of native commanders using Roman titles likewise appear to belong to the post-Social War period. If these are genuine trends – and not, for instance, simply a function of the increasing quantity of evidence in the late Republic –, then they do provide some grounds for assuming increased integration and “Romanisation” of the auxilia over time. The granting of citizenship as a reward in particular to local elites, and the (continued) service of these men in command of non-citizen units is a very logical 47 Liv. XXVI 21, 9-13; Bell. Afr. 56. For rewards to an individual, cf. also Liv XLIV 16, 4-7 (Onesimus, son of Pytho, a Macedonian nobilis, granted ager publicus in the territory of Tarentum in 169 BC). Zonar. VIII 15 has a story that Carthaginian allies (or mercenaries) deserted to Rome in exchange for land in Sicily in 250 BC. Note the demand for land in return for military service made by the Cimbri, Teutones and Tigurini in 109 BC, rejected by the Senate (Florus I 38, 1-3). 48 E.g. Syll.3 744 (cited above) records honours from Sulla within an honorific erected by the Aetolian league; SEG XV 254 (cited above); Moretti, ISE I 35 (cited above); SEG XLIV 867 and BE 1963, 220 from the war against Aristonicus in Asia Minor; IG XIV 282 and 355 for local commanders in a Sicilian garrison (cited above). 49 Cf. McCall, The Cavalry, cit., 100-113 for the suggestion that the final transition from citizen to auxiliary cavalry was effected at the time of the Social War. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic | 113 development and an obvious precursor to the later Imperial practice of granting the auxilia citizenship at the end of their service.50 Such a conclusion is appealing, even if speculative. The more fundamental point that should be emphasised, however, is the simple fact of the widespread presence of local elites in a (subordinate) position of command, at the head of their own fellow soldiers, within most, if not all, Roman armies across the later Republican empire. The existence of such a situation should not come as a surprise, and is very much in line with the sort of flexible, adaptive, and frequently integrative (but of course also exploitative) imperialism that is so familiar in the Republican empire; but its significance for understanding processes of Romanisation and imperial control in the mid- to late Republic has almost certainly been greatly understated and deserves considerably more attention in future. Jonathan R.W. Prag Merton College, University of Oxford Merton Street Oxford OX1 4JD [email protected] on line dal 15 giugno 2011 50 Cf. A.N. Sherwin-White, The Roman Citizenship, Oxford 19732, 245-246, linking the practice of granting viritane citizenship, especially virtutis causa, with stages in the expansion of Roman power. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113 DANIELA MOTTA Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche Due iscrizioni che onorano comandanti a vario titolo collegati alla salvezza di Ilio contribuiscono ad illuminare il quadro politico della storia della polis nel ventennio intercorso fra la fine della prima guerra mitridatica e la complessiva risistemazione data all’Oriente da Pompeo. Riguardo alle sorti della città ed al trattamento ricevuto nel corso della prima guerra contro Mitridate informano diffusamente Strabone 1 ed Appiano che nel Mithridateios prendeva spunto probabilmente anche dalla perduta opera storica dell’amaseno.2 Stando a Strabone, un tempo Ilio era soltano una κώμη, finché non venne innalzata al grado di polis da Alessandro dopo la vittoria del Granico, ricevendo proprio dal re macedone tanti benefici; fra questi l’abbellimento del tempio di Atena, prima μικρόν ed εὐτελές, e soprattutto la eleutheria ed aphoria.3 Tuttavia la polis, che da Roma aveva ottenuto condizioni di favore dopo la guerra contro Antioco III,4 aveva subito una dura sorte nel corso del primo conflitto 1 Strab. XIII 1, 26-27 C 593-594. App. Mithr. 53; Sulle fonti del libro mitridatico di Appiano vd. le osservazioni di A. Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, Historia Einzelschriften 124, Stuttgart 1999, 59-75; per Mastrocinque le Storie di Strabone diventano fonte fondamentale per il Mithridateios nella seconda parte dell’opera, a partire dalla narrazione delle campagne di Licinio Murena (vd. Appiano, Le guerre mitridatiche, a cura di A. Mastrocinque, Milano 1999, XII-XIII). 3 Strab. XIII 1, 26 C 593. 4 Che Ilio fosse stata beneficiata dai Romani già dopo la guerra contro Antioco è attestato da Livio XXXVIII 39, 10, che ricorda la concessione di immunitas e l’attribuzione di Rhoeteum e Gergithum, e ciò secondo lo storico non tam ob recentia ulla merita quam originum memoria. La veridicità della notizia, anche se non trova conferma in Polibio, è da ultimo sostenuta da J. Briscoe, A Commentary on Livy. Books 38-40, Oxford 2008, 141-142. Sui dati forniti dal passo liviano cfr.: A. Brückner, Geschichte von Troja und Ilion, in W. Dörpfeld (Hg.), Troja und Ilion. Ergebnisse der Ausgrabungen in der vorhistorischen und historischen Schichten von Ilion, 1870-1892, II, Athens 1902, 586; D. Magie, Roman Rule in Asia Minor to the End of the Third Century after Christ, I, Princeton 1950, 108, sottolinea che i privilegi di Ilio furono ottenuti in quell’occasione «although it had contributed nothing and had even received Antiochus»; R. Bernhardt, Imperium und Eleutheria. Die römische Politik gegenüber den freien Städten des griechischen Ostens, Diss., Hamburg 1971, 66 e Rom und die Städte des hellenistischen Osten (3.-1. Jahrhundert v.Chr.), HZ Sonderheft 18, München 1998, 91-92, per il quale la testimonianza prova che la leggenda troiana diviene dall’inizio del II secolo parte della «Selbstdarstellung» romana in Oriente; a favore della possibilità che tale beneficio sia stato ottenuto a seguito di un’ambasceria inviata da Ilio, che 2 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 115 contro il sovrano pontico. Nell’86 Fimbria dopo l’ammutinamento nei confronti del console Valerio Flacco, percorrendo la provincia d’Asia, si era abbandonato ad ogni violenza insieme al suo esercito punendo τοὺς καππαδοκίσαντας e le città che non gli avevano aperto le porte.5 Ilio era fra le poleis colpite, poiché aveva mostrato fedeltà a Silla e non aveva accolto Fimbria considerandolo alla stregua di un brigante (λῃστής).6 L’attacco che ne era seguito aveva permesso al ribelle di prendere possesso della città in soli undici giorni. La disfatta di Ilio è rievocata con dovizia di particolari da Appiano, che la illustra in termini di distruzione dell’intera polis, cui non era sfuggito nemmeno il tempio di Atena e chi vi aveva trovato rifugio.7 Erano vicende che nella storiografia trovavano facile parallelo nelle sventure che la tradizione epica aveva attribuito ad Ilio per mano di Agamennone.8 In seguito, dopo la disfatta di Mitridate, Silla aveva lasciato liberi gli Iliensi, così come i Chii, i Lici, i Rodii ed i Magneti, ed Appiano individuava le ragioni di tale privilegio nella volontà di Silla di ricompensarli della symmachia o per quanto avevano subito per la prothymia che avevano mostrato nei suoi confronti.9 vantava i legami di consanguineità, si è espresso A. Erskine, Troy between Greece and Rome. Local Tradition and Imperial Power, Oxford 2001, 175-176. 5 Le violenze di Fimbria e del suo esercito in Asia sono descritte, oltre che da Strab. XIII 1, 27 C 594 e App. Mithr. 53, anche da Diod. XXXVIII/XXXIX 8 e Cass. Dio fr. 104, 6 (Boissevain I 348, 24-30). Sulla storia delle vicende di Fimbria alla luce della comparazione della tradizione letteraria Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, cit., 60-62. Sul personaggio ed il problema della carica da lui ricoperta, su cui non vi è accordo fra le fonti, cfr. in particolare gli studi di A.W. Lintott, The Offices of C. Flavius Fimbria in 86-5 B.C., «Historia» XX (1971), 696-701 e Mithridatica, «Historia» XXV (1976), 489-491 ed inoltre J. Muñiz Coello, C. Flavius Fimbria, Consular y Legado en la provincia de Asia (86-84 a. de C.), «SHHA» XIII-XIV (1995-1996), 257-275. 6 Strab. XIII 1, 27 C 594. Sulla distruzione di Ilio anche Liv. per. LXXXIII, Cass. Dio fr. 104, 7 (Boissevain I 348, 31-349, 1) e fra la tradizione tardoantica, in particolare Aug. civ. III 7 e Oros. VI 2, 11. 7 Appiano (Mithr. 53) tuttavia riferisce una tradizione secondo la quale la statua di Atena era rimasta intatta nonostante il crollo delle mura; la notizia si ritrova anche in Aug. Civ. III 7 che attingeva da Livio (fr. 17 dal l. LXXXIII). 8 Su queste vicende e il loro significato politico, sull’analisi della tradizione letteraria e delle sue divergenze, soprattutto relative alle modalità di ingresso di Fimbria nella città, cfr.: Brückner, Geschichte von Troja und Ilion, cit., 587-588; Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 228, 234; A.N. SherwinWhite, Roman Foreign Policy in the East 168 B.C. to A.D. 1, London 1984, 244; R. Bernhardt, Polis und römische Herrschaft in der späten Republik (149-31 v.Chr.), Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte 21, Berlin-New York 1985, 61; R.M. Kallet-Marx, Hegemony to Empire. The Development of the Roman Imperium in the East from 148 to 62 B.C., Berkeley-Los Angeles-London 1995, 275; in particolare anche per una comparazione con i più recenti dati archeologici sugli effetti distruttivi della presa della città vd. Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 238-241. 9 App. Mithr. 61, su cui vd. A. Mastrocinque, Comperare l’ immunitas, in Τὸ πάντων μέγιστον φιλάνθρωπον. Città e popoli liberi nell’ imperium Romanum, Atti del Convegno (Roma, 1415 gennaio 1999), «MediterrAnt» II, 1 (1999), 85-93, in part. 88-89 con riguardo alla questione dell’identificazione dei Magneti, se in essi debba riconoscersi Magnesia sul Meandro o Magnesia del Sipilo. Inoltre secondo Oros. VI 2, 11 Silla restaurò quanto era stato distrutto. Sullo status della città in quegli anni vd.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 234; Sherwin-White, Roman Foreign Policy in the East, cit., 245; Bernhardt, Imperium und Eleutheria, cit., 127-128; B.C. McGing, The Foreign Policy of Mithridates VI Eupator King of Pontus, Leiden 1986, 111-112 nota la mancanza di dati sulla lealtà di Ilio e sulla sua resistenza nei confronti di Mitridate, mentre fu il rifiuto di ammettere Fimbria che le valse ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 116 Questo quadro trova conferma in Strabone, secondo il quale Silla aveva consolato gli Iliensi πολλοῖς ἐπανορθώμασι, mentre Cesare rappresentava colui che, emulando l’esempio del macedone, sarebbe stato successivamente benefattore della città. Ricordando, inoltre, i vincoli di syngheneia che legavano Roma ad Enea ed in particolare la gens Iulia alla discendenza dell’eroe troiano, il geografo riconosceva a Cesare l’aver garantito e protetto la eleutheria ed aleitourghesia della polis: χώραν τε δὴ προσένειμεν αὐτοῖς καὶ τὴν ἐλευθερίαν καὶ τὴν ἀλειτουργησίαν αὐτοῖς 10 συνεφύλαξε. Le due iscrizioni onorarie iliensi per comandanti si inseriscono dunque nell’ambito delle nostre conoscenze sulla storia della città aggiungendo qualche ulteriore informazione al quadro delineato sulla base delle fonti letterarie, per quanto riguarda il rapporto della polis con Roma. 1. La prima iscrizione che si prenderà in considerazione è datata all’anno 80 a.C. Si tratta di un’epigrafe apposta in onore di un Nicandro, figlio di Menofilo, 11 il favore di Silla; H. Behr, Die Selbstdarstellung Sullas. Ein aristokratischer Politiker zwischen persönlichen Führungsanspruch und Standessolidarität, Europäische Hochschulschriften R. III, Geschichte und ihre Hilfswissenschaften Bd. 539, Frankfurt am Main 1993, 157 pone le relazioni fra Silla e la città di Ilio nel solco del «Venus-Bezug» coltivato quale «Sympathiegewinn» presso i Greci e per legittimare la presenza romana in Oriente; Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 241-244 evidenzia la continuità della vita della città, nonostante i danni causati dall’esercito fimbriano, e richiama l’attenzione sull’uso propagandistico da parte di Silla, quale favorito di Afrodite, dell’immagine di protettore di Ilio, in quanto forma di legittimazione e promozione non tanto presso il mondo greco quanto a Roma stessa. 10 Strab. XIII 1, 27 C 595, su cui cfr.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 405; Bernhardt, Imperium und Eleutheria, cit., 154-155; Polis und römische Herrschaft, cit. 205; Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 247-248, accanto all’ipotesi più comune secondo cui Cesare beneficiò la città durante il suo soggiorno in Asia dopo la disfatta di Pompeo, fa riferimento alla possibilità che tali benefici siano da ascrivere al periodo in cui il destino di Pompeo era ancora sconosciuto e quindi era fondamentale attrarre dalla propria parte le città greche. La libertà ed immunitas di Ilio sono testimoniate anche in un’epigrafe frammentaria, in cui il privilegio appare garantito da un magistrato romano il cui nome è perduto, forse Silla o Cesare: Brückner, Geschichte von Troja und Ilion, cit., 457-458 N. XVI; IGR IV 199; R.K. Sherk, Roman Documents from the Greek East. Senatus Consulta and Epistulae to the Age of Augustus, Baltimore 1969, 277-279, nr. 53; P. Frisch, Die Inschriften von Ilion, IK 3, Bonn 1975, nr. 77; E. Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit. Eine neue Pompeius-Inschrift aus Ilion, in E. Schwertheim - H. Wiegartz (Hg.), Die Troas. Neue Forschungen zu Neandria und Alexandria Troas II., Kolloquium 13/15-03-1995, Universität Münster, Asia Minor Studien 22, Bonn 1996, 175194, 180 n. 13. Sull’immunitas del territorio del tempio di Atena stabilito da un censore della gens Iulia, forse nell’89 o nel 61 (IGR IV 194; IK Ilion, nr. 71) vd. quanto osservato da C. Nicolet in J.C. Dumont - J.-L. Ferrary - P. Moreau - C. Nicolet, Insula sacra. La loi Gabinia-Calpurnia de Délos (58 av. J.C.), Edition et commentaire sous la direction de C. Nicolet, CEFR 45, Rome 1980, 119-122, e Bernhardt, Polis und römische Herrschaft, 195 e n. 442. 11 OGIS 443; IGR IV 196; IK Ilion, nr. 73. Si riporta di seguito il testo secondo l’edizione di P. Frisch: Ἐπεὶ τοῦ ἀνθυπάτου Γαίου Κλαυδίου Ποπλίου υἱοῦ Νέρωνος ἐπιτάξαντος τοῖς Ποιμανηνῶν ἄρχουσιν ἐξαποστεῖλαι πρὸς ἡμᾶς εἰς παραφυλακὴν τῆς πόλεως στρατιώτας καὶ ἐπ’ αὐτῶν ἡγεμόνα, Ποιμανηνοί, ὄντες ἡμῶν φίλοι καὶ εὐνόως διακείμενοι πρὸς τὸν δῆμον ἡμῶν ἐξαπέστειλαν τούς τε στρατιώτας καὶ ἐπ’ αὐτῶν ἡγεμόνα Νίκ[αν]δρον Μηνοφίλου, ὃς καὶ παραγενόμενος εἰς τὴν πόλιν ἡμῶν [τήν] ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 117 distintosi in qualità di ἡγεμών a favore della città di Ilio. Per motivi cronologici, sebbene nel testo pervenuto non ci sia riferimento ai nemici combattuti dal comandante, il documento è stato connesso da Ormerod e Frisch con il problema della pirateria.12 Le motivazioni dell’elogio nei confronti di ἡγεμών e στρατιώται non si discostano dal repertorio comune di questo tipo di documentazione. L’accento è posto sulla condotta rispettosa dei militari durante la permanenza nella polis. Di Nicandro, cui è attribuito l’epiteto di ἀνὴρ καλὸς καὶ ἀγαθός, è elogiata τὴν ἐνδημιάν […] καλὴν καὶ εὐσχήμονα καὶ ἀξίαν τοῦ τε ἡμετέρου δήμου καὶ 13 τῆς ἑαυτοῦ πατρίδος; analogamente dei neaniskoi a lui sottoposti è lodata 14 ἐνδημίαν εὔτακτον […] καὶ ἄμεμπτον. Si tratta dunque di una formula di ringraziamento per un comportamento scevro da quegli elementi di conflittualità che la presenza di un contingente militare in città avrebbe potuto innescare in termini di prevaricazione e soprusi. La lealtà del comandante è sottolineata dalla πίστις κάλλιστα καὶ ὁσιώτατα da lui osservata nella difesa tanto della polis quanto τε ἐνδημίαν ποιεῖται καλὴν καὶ εὐσχήμονα καὶ ἀξία[ν τοῦ τε ἡμετέ]ρου δήμου καὶ τῆς ἑαυτοῦ πατρίδος, τήν τε τῶν [ὑποτεταγμένων] ἑαυτῶι νεανίσκων ἐνδημίαν εὔτακτον παρ[έχεται καὶ ἄμεμπ]τον, καθάπερ ἐπιβάλλει ἀνδρ[ὶ καλῶι καὶ ἀγαθῶι, καὶ τὴν ἐγκε]χειρισμένην ἑατῶι πίσ[τιν κάλλιστα καὶ ὁσιώτατα διατηρεῖ] τὴν ὑπὲρ τῆς φυλακ[ῆς τῆς τε πόλεως καὶ τῆς χώρας, καὶ πλείστην] εἰσφέρεται σπουδὴ[ν καὶ προθυμίαν ὑπὲρ αὐτῆς ] ἐκκλίνων οὐδέν[α κίνδυνον ] [․]μων κατα[-- 12 ]. H.A. Ormerod, Piracy in the Ancient World. An Essay in Mediterranean History, London 1924, 206, n. 4: Frisch, Die Inschriften von Ilon, cit., 176. Più cauto sulla possibilità che l’epigrafe si riferisca ad incursioni di pirati si dichiara P. de Souza, Piracy in the Graeco-Roman World, Cambridge 1999, 123-124, che tuttavia ricorda la notizia di Appiano (Mithr. 63) relativa all’attacco di bande di pirati che si spingevano ad assalire anche le città prima della partenza di Silla dall’Asia. 13 IK Ilion, nr. 73, ll. 6-9. 14 IK Ilion, nr. 73, ll. 9-10. Sulla funzione del ginnasio per l’addestrametno dei neoi/neaniskoi alla guerra vd.: V. Launey, Recherches sur les armées hellénistiques, BEFAR 169, Paris 1950, 813-873 (860 con riferimento all’iscrizione di Ilio); P. Roesch, Une loi fédérale béotienne sur la préparation militaire, in Acta of the fifth international Congress of Greek and latin Epigraphy Cambridge 1967, Oxford 1971, 81-88, sulla legge del koinon dei Beoti concernente la nomina di didaskaloi che istruissero la gioventù locale anche con riguardo alle esercitazioni militari di paides e neaniskoi; Ph. Gauthier - M.B. Hatzopoulos, La loi gymnasiarchique de Béroia, Μελετήματα 16, Athènes 1993, 68-72, 104-105, sulla legge ginnasiarchica di Beroia, importante testimonianza sul ruolo del ginnasio quale centro locale d’istruzione militare, ed anche probabilmente quale centro militare amministrativo; L. Migeotte, Les dépenses militaires des cités grecques: essai de typologie, in J. Andreau - P. Briant - R. Descat (textes rassemblés par), Économie antique. La guerre dans les économies antiques, Entretiens d’archéologie et d’histoire 5, Saint-Bertrand-deComminges 2000, 145-176, in part. 152-154; M.B. Hatzopoulos, L’organisation de l’armée macédonienne sous les Antigonides. Problèmes anciens et documents nouveaux, Μελετήματα 30, Athènes 1989, 137; D. Kah, Militärische Ausbildung im hellenistischen Gymnasium, in D. Kah - P. Scholz (Hgg.), Das hellenistische Gymnasium, Wissenkultur und Gesellschaftlicher Wandel 8, Berlin 2004, 47-90; M-B. Hatzopoulos, La formation militaire dans les gymnases hellénistiques, ibidem, 91-96; L. D’Amore, Ginnasio e difesa civica nelle poleis d’Asia Minore (IV-I sec. A.C.), «REA» CIX (2007), 147-173, in part. 170 a proposito dell’epigrafe di Ilio. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 118 della chora,15 mentre soltanto in secondo luogo compaiono le qualità più prettamente ascrivibili alla sfera del valore militare, quali σπουδή e προθυμία adoperati senza sottrarsi ad alcun pericolo (ἐκκλίνων οὐδένα κίνδυνον). Lessico e contenuto del decreto colgono nell’eutaxia, ovvero nella disciplina del contingente, la condizione essenziale del buon rapporto con la città, 16 ed il richiamo al rispetto della disciplina, che si trova di norma in questa tipologia di documenti in età ellenistica, non stupisce nel decreto iliense tanto più in quanto emanato da una città libera. L’occasione dell’intervento dell’ἡγεμών costituisce un primo punto di riflessione. È indubbiamente significativo che, su ordine del proconsole Gaio Claudio Nerone,17 i Ποιμανηνοί abbiano inviato στρατιώται e con essi un ἡγεμών allo scopo di salvaguardare la città (εἰς παραφυλακὴν τῆς πόλεως). È noto come già qualche anno addietro in Asia si fosse fatto ricorso alle forze locali da parte di L. Licinio Murena, lasciato da Silla dopo la pace di Dardano nella provincia d’Asia per allestire una spedizione contro i pirati: Cicerone informa infatti che alla città di Mileto era stato ordinato di fornire dieci navi ex pecunia vectigali, come d’altronde pro sua quaeque parte Asiae ceterae civitates.18 Tuttavia l’efficacia dell’intervento di Murena era stata irrilevante, a giudizio di Appiano, poiché egli 19 οὐδὲν ἐξείργαστο μέγα. Negli anni 80-79, periodo al quale si data l’iscrizione di Ilio, anni in cui era proconsole d’Asia Claudio Nerone, doveva aver assunto il comando delle operazioni navali antipiratiche Gneo Cornelio Dolabella, in qualità di proconsole della Cilicia, avendo quale suo legato Verre. Mentre di fatto tutto ciò aveva dato occasione a depredazioni nei confronti dei provinciali da parte del 15 Sul siginificato del termine pistis nell’ambito dei rapporti interstatali greci, concetto ricorrente nelle formule degli horkoi dei trattati, si vd. S. Calderone, Pistis-Fides. Ricerche di storia e diritto internazionale nell’antichità, Biblioteca di Helikon, Testi e studi 1, Messina 1964, 33-57. 16 Su questo aspetto vd.: Launey, Recherches sur les armées hellénistiques, cit., 633-689; L. Robert, Études d’épigraphie grecque, «RPhil» s. 3, I (1927), 97-132, in part. 121=Id., Opera minora selecta. Épigraphie et antiquités grecques, Amsterdam 1969, III, nr. 69, 1052-1087, in part. 1076; Id., Collection Froehner. I. Inscriptions grecques, Paris 1936, 75; L. et J. Robert, La Carie, II, Paris 1954, 289; J. et L. Robert, Fouilles d’Amyzon en Carie. I. Exploration, histoire, monnaies et inscriptions, Paris 1983, 198; N.B. Crowther, Euexia, Eutaxia, Philoponia: Three Contests of the Greek Gymnasium, «ZPE» LXXXV (1991), 301-304, in part. 303; F.J. Fernández Nieto, Los reglamentos militares griegos y la justicia castrense en época helenística, in G. Thür - J. Vélissaropoulos-Karakostas (Hgg.), Symposion 1995. Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte (Korfu, 1-5. September 1995), Akten der Gesellschaft für griechische und hellenistische Rechtsgeschichte 11, Köln 1995, 221-244, in part. 224-228; A. Chaniotis, Foreign Soldiers – Native girls? Constructing and Crossing Boundaries in Hellenistic Cities with Foreign Garrisons, in A. Chaniotis - P. Ducrey (Eds.), Army and Power in the Ancient World, Stuttgart 2002, 99-113, in part. 99-105. Sul significato di eutaxia nella sfera militare in età ellenistica G. Salmeri, Empire and Collective Mentality: The Transformation of eutaxia from the Fifth Century BC to the Second Century AD, in B. Forsén - G. Salmeri (Eds.), The Province Strikes back Imperial Dynamics in the Eastern Mediterranean, Papers and Monographs of the Finnish Institute at Athens 13, Helsinki 2008, 137-155, in part. 142. 17 Su questo magistrato vd. Broughton, MRR II, 80. Il personaggio è ricordato da Cicerone (II Verr. I 71-76, 83-84) quale giudice nel processo che vide condannato Filodamo di Lampsaco. 18 Cic. II Verr. I 35, 89. In proposito vd. H. Pohl, Die römische Politik und die Piraterie im östlichen Mittelmeer vom 3. bis zum 1. Jh. v Chr., Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte 42, Berlin-New York 1993, 258-259; de Souza, Piracy in the Graeco-Roman World, cit., 154. 19 App. Mithr. 93. Pohl, Die römische Politik und die Piraterie, cit., 258-259. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 119 legato corrotto, la resistenza in concreto agli attacchi era lasciata spesso alle iniziative locali. Spedizioni di soccorso potevano essere inviate a favore dei propri vicini in difficoltà da città alleate di Roma, per via degli obblighi di symmachia previsti dal foedus, come nel caso di Astipalea,20 giunta in aiuto di Efeso a seguito del saccheggio del santuario di Artemide.21 In altri contesti l’intervento militare doveva seguire l’ordine delle autorità romane a comunità facenti parte della formula provinciae. È quest’ultimo il caso dei Ποιμανηνοί scesi in campo a favore di Ilio, per disposizione del proconsole. Nel frangente di pericolo Ilio doveva aver avanzato una richiesta di aiuto al magistrato provinciale che di norma poteva procedere all’invio di soldati solo dietro l’autorizzazione della stessa città, stante la condizione di quest’ultima di eleutheria che la esentava dallo stazionamento di phrourá.22 L’iscrizione, menzionando φιλία ed εὔνοια dimostrate dal popolo dei Ποιμανηνοί verso il demos di Ilio, mette in luce i vincoli di affinità che congiungono le due comunità quale impulso all’invio del contingente. Tuttavia, nell’incipit dell’epigrafe il ricordo dell’epitagma proconsolare ai magistrati dei Ποιμανηνοί costituisce il riconoscimento della suprema autorità rappresentata dall’organizzazione provinciale nella regolamentazione dei rapporti fra le poleis, anche quando c’è in gioco, da una delle due parti, una città libera quale era Ilio a quel tempo. Un secondo nodo problematico è rappresentato dall’identificazione di Poimanenon. In realtà, l’iscrizione di Ilio costituisce la prima attestazione di questa località, successivamente menzionata nelle fonti letterarie a partire da Plinio il Vecchio fino ad autori di tarda età bizantina: la questione è stata recentemente ristudiata da F.M. Kaufmann e J. Stauber che hanno rispolverato l’ipotesi di una identificazione con il sito di Eski Manyas in Misia, sito che ha restituito un certo numero di iscrizioni comprese fra I secolo a.C. e I d.C. rivelanti «eine städtische Kultur».23 Una di tali epigrafi attesta la presenza di un ginnasio, dei suoi ginnasiarchi, di neoi, epheboi e paides,24 e si può ritenere quindi che i neaniskoi 20 IG XII 3, 173; Sherk, Roman Documents, cit., nr. 16, in part. 95-96, ll. 26-44. IG XII 3, 171; IK Ephesos Ia, nr. 5. Su questa iscrizione cfr. Ormerod, Piracy in the Ancient World, cit., 206, e soprattutto de Souza, Piracy in the Graeco-Roman World, 100-101 che conclude «the suppression of piracy was the concern of both the Romans and their allies». 22 Vd. a tal proposito, ad esempio, quanto previsto dagli statuti di città libere quali Afrodisia e Termesso a proposito dello stazionamento di soldati in città: J. Reynolds, Aphrodisias and Rome. Documents from Excavation of the Theatre at Aphrodisias conducted by Professor T. Erim, together with some related Texts, JRS Monographs 1, London 1982, 92-93, doc. 9, ll. 1-6; M.H. Crawford, Roman Statutes, BICS Suppl. 64, London 1996, 334, nr. 19, ll. 6-11. In generale, sui privilegi delle città libere in campo militare J.-L. Ferrary, La liberté des cités et ses limites à l’époque républicaine, in Τὸ πάντων μέγιστον φιλάνθρωπον, «MediterrAnt» II, 1 (1999), cit., 69-84, in part. 74-75. 23 P.M. Kaufmann - J. Stauber, Poimanenon bei Eski Manyas? Zeugnisse und Lokalisierung einer kaum bekannten Stadt, in Studien zum antiken Kleinasien II, Asia Minor Studien 8, Bonn 1992, 43-85 (citazione a p. 69), cui si rinvia per la completa raccolta e discussione di fonti letterarie ed epigrafiche. 24 H.G. Lolling, Inschriften aus den Küstenstädten des Hellespontos und der Propontis, «AM» IX (1884), 15-35, in part. 28-34; F.W. Hasluck, Inscriptions from Cyzicus, «JHS» XXIII (1903), 75-91, in part. 89-91; Kaufmann - Stauber, Poimanenon bei Eski Manyas?, cit., 63-67, nr. 10. L’iscrizione fa menzione dell’aiuto di Asclepiade nel corso della guerra alessandrina e secondo Hasluck (90, n. 6) seguito da Kaufmann e Stauber (67) la notizia sarebbe da leggere in parallelo a quanto trasmesso da Irzio (de 21 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 120 comandati da Nicandro fossero stati addestrati proprio in tale struttura. Stando a Stefano Bizantino si trattava di χωρίον Κυζίκου,25 mentre semplicemente come 26 χωρίον τῆς Μυσίας il luogo è indicato in Elio Aristide. Ilio era stata dunque soccorsa da una comunità situata nelle vicinanze della più nota polis cizicena, ma che tale comunità si trovasse nel territorio di sua pertinenza rimane ipotesi opinabile. Per un verso, la testimonianza di Stefano Bizantino potrebbe infatti essere pertinente ad epoca più tarda. Per altro verso l’attestazione di magistrati locali, gli ἄρχοντες dei Ποιμανηνοί dell’iscrizione di Ilio, e di ginnasiarchi nell’epigrafe proveniente dal sito di Eski Manyas non implica di per sé l’autonomia di questa comunità rispetto alla più importante città di Cizico: anche nel caso di pertinenza al territorio ciziceno resta plausibile la coesistenza di quelle strutture amministrative e culturali che sono tipiche di una polis. È verosimile, in realtà, che Poimanenon sia stata parte di quell’incremento territoriale che Cizico ottenne dopo il 73, a seguito della sua eroica resistenza all’assedio di Mitridate. Infatti, stando a Strabone, dopo quella data Cizico fu ricompensata della sua fedeltà alla causa dei Romani con la libertà ed insieme con l’aggiunta di territorio a quello che già possedeva: ἐλευθέρα μέχρι νῦν καὶ χώραν ἔχει πολλὴν τὴν μέν ἐκ παλαιοῦ, 27 τὴν δὲ τῶν Ῥωμαίων προσθέντων. Per gli anni precedenti proprio l’iscrizione di Ilio, con l’ingiunzione del proconsole di fornire soldati, implicherebbe che la comunità di Poimanenon non doveva far parte del territorio di una città libera, cui formalmente non si poteva ingiungere la prestazione di assistenza militare, in quanto esclusa dalla formula provinciae.28 D’altra parte, un contributo alla comprensione dei rapporti esistenti fra Cizico ed Ilio negli anni, immediatamente successivi, del terzo conflitto mitridatico può provenire da un passo della plutarchea Vita di Lucullo relativo al famoso assedio di Cizico, posto dal sovrano pontico e sostenuto dagli abitanti con coraggio encomiabile in nome della fedeltà ai Romani ed in attesa di un Lucullo che tardava ad arrivare. La straordinaria resistenza dei Ciziceni era oggetto di ammirazione, secondo Plutarco, anche presso gli dei: fra gli aneddoti rievocati a questo proposito dal biografo vi era quello relativo alla dea Atena che era apparsa in sogno a molte persone di Ilio, grondante sudore e con un lembo del peplo bell. Alex. 13) sulle dodici navi dall’Asia facenti parte della flotta di Cesare e da CIG 3668 (= IGR IV 135) sull’aiuto dei Ciziceni a Cesare contro i pompeiani in Africa. 25 Steph. Byz. Ποιμανηνόν· πόλις ἤτοι φρούριον. ἔστι δ᾿ καὶ χωρίον Κυζίκου. Τὸ ἐθνικὸν ὁμοίως (Meineke 530). 26 Aristid. Hier. Log. 4, 3 (Dindorf I 502). 27 Strab XII 8, 11 C 576. Così interpreta già J. Teichmann, Das Territorium der Stadt Kyzikos zu Beginn der römischen Kaiserzeit, in A. Schütte - D. Pohl - J. Teichmann (Hgg.), Studien zum antiken Kleinasien, Friedrich Karl Dörner zum 80. Geburtstag gewidmet, Asia Minor Studien 3, Bonn 1991, 139-150. Sulla condizione di Cizico in questi anni vd.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 234; Bernhardt, Imperium und Eleutheria, cit., 134, secondo cui la città ottenne da Lucullo anche un foedus sebbene non specificato dalle fonti; Id., Polis und römische Herrschaft, cit., 65; J. Thornton, Una città e due regine. Eleutheria e lotta politica a Cizico fra gli Attalidi ed i Giulio Claudii, in Τὸ πάντων μέγιστον φιλάνθρωπον, cit., «MediterrAnt» II, 2 (1999), 497-538, in part. 506-508. 28 Secondo Teichmann, Das Territorium der Stadt Kyzikos, cit., 147-148, l’iscrizione di Ilio indica che «den Ort als eine von Kyzikos unabhängige Stadt». ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 121 stracciato, raccontando come stesse tornando dall’aver soccorso i Ciziceni. 29 A riprova di ciò Plutarco fa menzione di un cippo, un tempo esistente presso Ilio, che recava decreti connessi con questo fatto (δόγματα καὶ γράμματα). La notizia è significativa delle relazioni fra le due città che in occasione dell’assedio avevano dovuto esplicitarsi attraverso manifestazioni pubbliche di sostegno. I decreti menzionati da Plutarco esprimevano la devozione alla dea, con cui gli Iliensi ricordavano la miracolosa salvezza della vicina Cizico accreditando, in maniera autocelebrativa, l’importanza del culto; forse vi erano commemorati comandanti vittoriosi, devoti alla divinità, comandanti ciziceni oppure iliensi che avevano cooperato alla difesa. D’altra parte, da un altro passo della biografia plutarchea si può dedurre la fattiva collaborazione di Ilio in quel frangente e la fedeltà verso Roma mantenuta dalla polis. Secondo lo storico di Cheronea, infatti, il generale romano dopo il suo ingresso a Cizico era avanzato verso l’Ellesponto ed aveva messo in cantiere un flotta;30 quindi entrato in Troade, era stato allarmato da una visione di Afrodite, mentre si trovava accampato nel tempio della dea, ed avvertito da alcuni di Ilio dell’avvistamento di tredici triremi del re Mitridate dirette a Lemno. Questa informazione avrebbe indotto Lucullo all’immediato intervento in mare ed evitato un sicuro disastro. In ogni caso, al di là delle ipotesi, l’esistenza presso Ilio di decreti connessi con le vicende dell’assedio di Cizico, unitamente all’iscrizione in onore di Nicandro e dei Ποιμανηνοί, è testimonianza di una reciprocità nella condivisione dei pericoli bellici da parte delle poleis della stessa area schierate dalla parte romana, ora sul piano concreto ora su quello delle manifestazioni di devozione religiosa che dovevano aver luogo in tali contesti. 2. La fedeltà a Roma da parte di Ilio rimane inalterata nel corso della terza guerra mitridatica. Un’attestazione in tal senso è costituita dal secondo documento epigrafico che si intende analizzare in questa sede, un’iscrizione dedicata in onore di Pompeo da parte del demos e dei neoi di Ilio, studiata in anni recenti da E. Winter.31 Per quel che concerne la datazione, il decreto presenta un terminus post quem costituito dalla menzione della terza acclamazione imperatoria di Pompeo, che risale agli anni 63-62 a seguito dei successi contro Mitridate, ed è d’altronde da considerare precedente al ritorno del generale a Roma nel 61. Pompeo è inoltre ricordato in qualità di πάτρων καὶ εὐεργήτης τῆς πόλεως e l’iscrizione 29 Plut. Luc. 10. Cfr. McGing, The Foreign Policy of Mithridates VI Eupator, cit., 148, su questo passo, esempio della propaganda religiosa antimitridatica, ed ancor prima più in generale, sulla propaganda sillana ispirata alla religione greca che vedeva in Silla il favorito di Afrodite confrontarsi con il nuovo Dioniso. 30 Plut. Luc. 12. 31 E. Schwertheim, Forschungen in der Troas im Jahre 1988, VII Araştırma sonuçları toplantısı 1989, 229 ss. (non vidi); AE 1990, nr. 940; Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 176: ὁ δῆμος κα[ὶ οἰ ν]εόι ǀ [Γναῖον Πο]μπήιον, Γναίου [ὑ]ίον, Μάγνον, τὸ τρίτον ǀ Αὐτοκράτορα, τὸν πάτρωνα καὶ εὐεργέτην τῆς πόλεως ǀ [εὐσεβεία]ς ἕνεκεν τῆς πρὸς τὴν θεὸν τὴν οὖσαν αὐτῶι ǀ [--]ν καὶ εὐνοίας τῆς πρὸς τὸν δῆμον ἀπολύσαντα ǀ [τοὺς μὲν ἀνθρώπους ἀπό τε τῶν βαρβαρικῶν πολέμων ǀ [καὶ τῶν π]ιρατικῶν κινδύνων ἀποκαθεστάκοτα δὲ ǀ [τὴν εἰρ]ήνην καὶ τὴν ἀσφάλειαν καὶ κατὰ γὴν καὶ κατὰ θάλασσαν. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 122 documenta, insieme ad altre, l’importanza dei rapporti clientelari istituiti dal generale con le città dell’Oriente. Ad attestare i legami fra Pompeo e la polis è anche un’altra iscrizione pervenutaci dal territorio di Ilio, che è caratterizzata tuttavia da un formulario assai più sintetico, con la menzione del dedicatario, questa volta il solo demos, che celebra il generale sempre come τὸ τρίτον αὐτοκράτορα.32 Viceversa della ricchezza di motivi della prima iscrizione menzionata in onore di Pompeo vanno ricordati almeno alcuni aspetti maggiormente significativi. A motivazione della dedica sono citate per un verso l’eusebeia nei confronti della dea, per un altro l’eunoia verso il demos, un termine che rientra nella consuetudine del lessico delle epigrafi onorarie e che rinvia al contesto evergetico dell’iscrizione. Il motivo dell’eusebeia impone invece alcune ulteriori riflessioni. A giudizio di Engelbert Winter, essa alluderebbe all’attività di munificenza di Pompeo nei confronti del tempio della dea che era andato distrutto per opera di Fimbria nel corso della prima guerra mitridatica. Ciò certamente darebbe ragione anche dell’epiteto di euergetes attribuito al comandante, ma più in generale va ricordata la frequente presenza della eusebeia verso la dea in varie iscrizioni di Ilio,33 che è spia del significato mistico che il santuario di Atena conferiva alla città attirando i visitatori stranieri; un viaggio ad Ilio di re e comandanti militari doveva includere sempre un sacrificio alla dea quale gesto propiziatorio divino che mirava al tempo stesso al favore della popolazione locale.34 L’eusebeia di Pompeo e la sua possibile, correlata opera evergetica nel campo dell’edilizia religiosa, evidentemente in occasione del passaggio del generale nella città, sono indicative della volontà di rinsaldare i legami con la polis anche da un punto di vista ideologico, nel solco della tradizione leggendaria che rintracciava nelle radici troiane le origini di Roma, e che di lì a breve sarebbe divenuta fortunato ed esclusivo patrimonio culturale della gens Iulia. Inoltre, l’eventuale attività evergetica di Pompeo ispirata ad eusebeia appare del tutto comprensibile anche considerando la funzione di questo culto nella propaganda religiosa antimitridatica.35 Il secondo epiteto riferito a Pompeo, quello di patron, è pertinente alla sfera più precipuamente giuridica e denuncia l’inclusione della città in quella rete di clientele che Pompeo veniva costruendo in Oriente fissando i vincoli reciproci a seguito della risistemazione di tutta l’area prima del suo rientro a Roma.36 C’è da chiedersi se in tale riordino fosse prevista, per Ilio, una conferma di 32 CIG 3608; IGR IV 198; IK Ilion, nr. 74. Per i confronti cfr. Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 177. 34 Su questi aspetti vd. Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 226-253. 35 Su cui cfr. supra, n. 29. 36 Per il significato del termine patron attribuito a magistrati provinciali da parte delle città ellenistiche e sulla funzione di tali dediche vd. J. Touloumakos, Zum römischen Gemeindepatronat im griechischen Osten, «Hermes» CXVI (1988), 304-324; J.-L. Ferrary, The Hellenistic World and Roman Political Patronage, in P. Cartledge - P. Garnsey - E. Gruen (Eds.), Hellenistic Constructs. Essays in Culture, History, and Historiography, Berkeley-Los Angeles-London 1997, 105-119; sull’incremento delle attestazioni di clientele delle città dell’Oriente nei confronti di patroni di rango senatorio negli anni delle campagne piratiche e mitridatiche condotte da Pompeo vd. C. Eilers, Roman Patrons of Greek Cities, Oxford 2002, 146. Per l’importanza dei rapporti clientelari di Pompeo con le città dell’Oriente vd. Bernhardt, Rom und die Städte des hellenistischen Ostens, cit., 48. Sulla riorganizzazione pompeiana 33 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 123 quella libertà che già Silla aveva garantito all’indomani della pace di Dardano, sebbene il nome di Pompeo non compaia nel testo straboniano, che menziona solo le benemerenze verso la polis di Silla e di Cesare. In questa direzione potrebbe orientare il confronto con un’iscrizione da Mitilene, la quale proprio da Pompeo aveva ottenuto per la prima volta la eleutheria:37 questa iscrizione onora il generale con formulario per certi versi analogo a quella di Ilio, ricordando la liberazione τοὶς κατάσχοντας τὰν οἰκημέναν πολέμοις καὶ κατὰ γᾶν καὶ κατὰ θάλασσαν.38 Come si è ipotizzato, l’occasione della dedica di Ilio dovette essere fornita dal passaggio di Pompeo nel viaggio che lo portò al rientro in Italia, così come delle diverse tappe di questo itinerario sono testimonianza le epigrafi onorarie concernenti Pompeo apposte da poleis dell’Oriente greco, nelle quali egli figura con il titolo di patron ed euergetes.39 In tale circostanza la città probabilmente si attendeva una conferma dei privilegi concessi da Silla. Se la documentazione non consente di rispondere in maniera definitiva, l’analisi dell’iscrizione restituisce comunque significative suggestioni a propostio della rappresentazione di Pompeo vincitore e del rapporto fra il comandante e la città. Di particolare interesse è la definizione di Pompeo, fornita dalla dedica, come colui che ha liberato gli uomini dai βαρβαρικοὶ πόλεμοι nonché dai πιρατικοὶ κίνδυνοι. Si tratta di un elogio che probabilmente non rinvia a vicende specifiche che avevano coinvolto la polis, come è evidente invece per l’iscrizione in onore di Nicandro, ma che denota il consenso della città ai temi della pubblicistica pompeiana. Le gesta di Pompeo sono infatti definite in relazione all’intero genere umano, τοὺς ἀνθρώπους, così come ecumenico è il valore di εἰρήνη e ἀσφάλεια ristabilite κατὰ γὴν καὶ κατὰ θάλασσαν.40 Studi recenti hanno messo in evidenza come la formula κατὰ γὴν καὶ κατὰ θάλασσαν, che si trova in età imperiale dell’Oriente: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 368-378; Sherwin-White, Roman Foreign Policy in the East, cit., 226-234; M. Gelzer, Pompeius. Lebensbild eines Römers, Stuttgart 19842, 87-99; Kallet-Marx, Hegemony to Empire, cit., 323-334; R. Seager, Pompey the Great, Oxford 20022, 60-62; E. Baltrusch, Caesar und Pompeius, Geschichte kompakt. Antike, Darmstadt 2004, 34-37. 37 IG XII 2, 202; Syll.3 751. Sullo status di eleutheria di questa città, su cui pesò favorevolmente la provenienza dello storico Teofane, vd. in particolare: A. Donati, I Romani nell’Egeo. I documenti dell’età repubblicana, «Epigraphica» XXVII (1965), 3-59, in part. 20-25 e 29; L. Robert, Théophane de Mytilène à Constantinople, «CRAI» 1969, 42-64=Id., Opera minora selecta. Épigraphie et antiquités grecques, V, Amsterdam 1989, nr. 119, 561-583; Bernhardt, Polis und römische Herrschaft, cit., 246; Kallet-Marx, Hegemony to Empire, cit., 331; G. Grimm, «Der als Gott erscheint». Gnaeus Pompeius Theophanes von Mytilene – Ein wenig bekannter Wohltäter Griechenlands, «AW» XXXV (2004), 63-70. 38 Syll.3 751; ILS 8776. 39 Si tratta del koinon delle città ionie, di Pompeiopoli, Mileto, Side, per cui vd.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., II, 1230 n. 28; Donati, I Romani nell’Egeo, cit., 42 ss; Bernhardt, Polis und römische Herrschaft, cit., 176 e n. 273 con bibliografia; Eilers, Roman Patrons, cit., 235, C92; 236 C94; 261 C146; 262, C149. Sulla nuova dimensione costituita dall’attribuzione dell’epiteto ellenistico di euergetes riferito in queste iscrizioni a Pompeo da ultimo anche Baltrusch, Caesar und Pompeius, cit., 35. 40 Si veda l’interessante parallelo della singolare espressione τοὺς ἀνθρώπους, che rinvia ad una prospettiva ecumenica, con IK Ephesos II, nr. 251, dedica delle città greche d’Asia a Giulio Cesare definito τοῦ ἀνθρωπίνου βίου σωτήρ, su cui Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 194. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 124 riferita ad alcuni principes a partire da Augusto, sia caratteristica di iscrizioni onorarie aventi per destinatario proprio Pompeo.41 Oltre che nell’epigrafe in esame, l’utilizzo del sintagma compare in altri tre documenti, di cui è stata proposta una datazione negli anni 63-62, provenienti da Mitilene, Miletupolis e da Klaros, relativamente al koinon degli Ioni: in tutte queste iscrizioni il generale è definito ἐπόπτης γῆς καὶ θαλάσσης.42 Il motivo certamente non è nuovo trovando attestazione già a partire dal V secolo, e tuttavia ha affermazione in connessione con personaggi romani per la prima volta riferito a Pompeo; con ogni probabilità è quindi da ricondurre alla propaganda che il generale romano promuoveva di se stesso.43 Prima ancora che nelle epigrafi greche questo concetto ha attestazione nel lessico latino: terra marique è la corrispondente iunctura che si riscontra nella tradizione letteraria latina, come evidenziato dalle famose definizioni ciceroniane inerenti al comando pompeiano del 67, intorno alla diffusione delle sue gesta terra marique ed al suo imperium terra marique.44 Il valore ecumenico del potere di Pompeo emerge dalla iscrizione di Mitilene sopra menzionata ed è parimenti sintetizzata da Cassio Dione, che commenta la fine avvenuta παραλόγως di un condottiero quale Pompeo, che aveva ottenuto innumerevoli vittorie in Africa, in Asia, in Europa καὶ κατὰ γῆν καὶ κατὰ 45 θάλασσαν. D’altra parte, in quegli anni il sintagma con ogni probabilità era in uso come forma di elogio nei confronti di chi aveva combattuto vittoriosamente contro i pirati. Si pensi, ad esempio, al decreto cirenaico che versosimilmente è da datare proprio intorno al 62-61, come proposto dalla Reynolds, in cui ad essere oggetto di onore è un privato benefattore, un cittadino discendente da nobili antenati, di nome Apollodoro, che aveva assunto il comando di neaniskoi per combattere i pirati, indicati ora come κακοῦργοι, ora come πιρατικοὶ στόλοι, che avevano approfittato della situazione di anarchia interna per praticare azioni di 41 K. Tuchelt, Frühe Denkmäler Roms in Kleinasien. Beiträge zur archäologischen Überlieferung aus der Zeit der Republik und des Augustus, I, Roma und Promagistrate, Instanbuler Mitteilungen 23, Tübingen 1979, 62; J.-L. Ferrary, Les inscriptions du sanctuarie de Claros en l’honneur de Romains, «BCH» CXXIV (2001), 331376, in part. 341-345; C. Schuler, Augustus, Gott und Herr über Land und Meer. Eine neue Inschrift aus Tyberissos im Kontext der späthellenistischen Herrscherverehrung, «Chiron» XXXVII (2007), 383-403, in part. 389-397; L. Amela Valverde, La «nueva» inscripción de Pompeyo Magno en Claros, in M. Mayer I Olivé - G. Baratta - A. Guzmán Almagro (Ed.), XII Congressus internationalis epigraphiae graecae et latinae. Provinciae imperii Romani inscriptionibus descriptae, (Barcelona, 3-8 Septembris 2002), Monografies de la Secció Històrico-Arqueològica X, Barcelona 2007, I, 41-48. 42 Mitilene: IGR IV 54; ILS 8776; Syll.3 751; Miletupolis: F.W. Hasluck, Inscriptions from the Cyzicus District, 1906, «JHS» XXVII (1907), 61-67, in part. 64; ILS 9459; IK Kyzikos II, nr. 24; Claros: Ferrary, Les inscriptions du sanctuarie de Claros, cit., in part. 341-345. 43 A. Momigliano, ‘Terra marique’, «JRS» XXXII (1942), 53-64, in part. 62-64, che nota in particolare come «Ruler over Land and Sea had been the condition of Athenian liberty; Ruler over Land and Sea had been the Hellenistic defintion of a sovereign» (p. 64); e da ultimo L. Amela Valverde, Terra marique. Un dato pasado por alto en relación con Pompeyo Magno (Dio Cass. 42, 5, 2), «Helmantica» LV (2004), 225-230. 44 Cic. Sest. 67; Balb. 16; Manil. 56. Cfr. in proposito Ferrary, Les inscriptions du sanctuaire de Claros, cit., 343; Amela Valverde, Un dato pasado por alto, cit., 226; Schuler, Augustus, Gott und Herr, cit., 396397. 45 Cass. Dio XLII 5, 2. Su questo passo Amela Valverde, Terra marique, cit. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 125 brigantaggio.46 Nella parte frammentaria del testo l’espressione κατὰ γᾶν καὶ κατὰ θά[λασσαν47 ne documenta l’uso in relazione a successi contro i pirati. Pompeo, potendo impossessarsi in piena coerenza di tale formulario, ne faceva un simbolo del suo ruolo di pacificatore a livello ecumenico. La prospettiva universale adottata da Pompeo a proposito delle sue gesta in Oriente trova importante riscontro nella iscrizione il cui testo è restituito da un frammento diodoreo, in cui il generale si vanta τὴν παράλιον τῆς οἰκουμένης καὶ πάσας τὰς ἐντὸς ᾿Ωκεανοῦ νήσους ἐλευθερώσας τοῦ πειρατικοῦ πολέμου, oltre che per aver soccorso o sottomesso un lungo elenco di popoli secondo una struttura che sarà ripresa dalle Res Gestae Divi Augusti.48 Anche la definizione dei πόλεμοι cui Pompeo ha posto termine come βαρβαρικοί, con indubbio riferimento alle guerre mitridatiche, mentre non possiede paralleli nel linguaggio epigrafico come evidenziato dal Winter,49 indica l’adesione della polis di Ilio ai motivi utilizzati nella battaglia ideologica antimitridatica presso il mondo greco orientale. L’autorappresentazione di Pompeo come vincitore di barbari è infatti una costante nella definizione delle fonti letterarie dell’impresa contro il sovrano pontico tanto nella biografia plutarchea, che per il resoconto delle guerre orientali doveva derivare dallo storico Teofane di Mitilene, quanto in Cassio Dione, così come più in generale quali barbari sono designati i nemici affrontati dai Romani in tutti i conflitti contro Mitridate.50 46 J.M. Reynolds, A civic Decree from Benghazi, «SLSR» V (1973-1974), 19-24; A. Laronde, Cyrène et la Libye hellénistique. Libykai Historiai de l’époque républicaine au principat d’Auguste, Étude d’Antiquités africaines 22, Paris 1987, 463-472 (citazione a p. 465, ll. 8 e 15). 47 Ibid., 465, l. 24. 48 Diod. XL 4. Su questa testimonianza vd. Greenhalgh, Pompey. The Roman Alexander, London 1980, 176 e di recente W. Dahlheim, Gnaeus Pompeius Magnus - «immer der erste zu sein und die anderen überragend», in K.-J. Hölkeskamp - E. Stein-Hölkeskamp (Hgg.), Von Romulus zu Augustus. Große Gestalten der römischen Republik, München 2000, 230-249, 238. Si veda anche nella biografia di Plutarco (Pomp. 45, 2) il resoconto del trionfo pompeiano nel 61, in cui l’elenco delle popolazioni sconfitte che appare nelle scritte fatte sfilare nel corteo si chiude con τὸ πειρατικὸν ἅπαν ἐν γῇ καὶ θαλάσσῃ καταπεπολεμήνον. 49 Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 177. Cfr. ad esempio: Plut. Pomp. 35, 3 (sulla partecipazione delle Amazzoni a fianco dei barbari, nello scontro di Pompeo contro gli Albani, lanciatosi all’inseguimento di Mitridate); App. Mithr., 104 (con riferimento alla giustizia e lealtà di Pompeo presso i barbari, che sembrerebbe riflettere una tradizione filopompeiana a differenza di altri passi dell’opera appianea, su cui vd. le osservazioni di Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, cit., 108); inoltre Cass. Dio XXXVI 45, 2 (πρὸς δὲ δὴ τὸν τῶν βαρβάρων πόλεμον παρεσκευάζετο); 48, 4-5; 49, 3; 54, 4. Sulla rappresentazione dei barbari in Plutarco ed in particolare su alcuni dei topoi presenti nella biografia di Pompeo relativi a Mitridate ed al suo popolo vd. Th.S. Schmidt, Plutarque et les Barbares. La rhétorique d’une image, Collection d’études classiques 14, Louvain-Namur 1999, 111, 162. Sulla descrizione plutarchea della campagna orientale di Pompeo, evidentemente dipendente da Teofane di Mitilene e che aderisce alla autorapppresentazione del generale sia nel richiamo ad Alessandro Magno, sia nell’immagine di pacificatore dei confini dell’ecumene vd. il commento alla biografia di H. Heftner, Plutarch und der Aufstieg des Pompeius. Ein historischer Kommentar zu Plutarchs Pompeiusvita. Teil I: Kap. 1-45, Europäische Hochschulschriften R. III Geschichte und ihre Hilfwissenschaften 639, Frankfurt am Main 1995, 224. Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 191 sottolinea 50 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 126 Infine, è necessario riflettere sul fatto che ad apporre la dedica compaiano, oltre al demos come consuetudine, anche i neoi. L’identificazione del loro ruolo appare problematica. Per un verso, neoi non sempre appare come sinonimo di neaniskoi, riferendosi il secondo termine più tecnicamente alla sfera militare;51 si è visto come neaniskoi si alterni a stratiotai nell’iscrizione iliense in onore di Nicandro. Per altro verso, come notato dal Winter, il contesto della dedica a Pompeo farebbe ritenere che la menzione dell’organizzazione dei neoi sia qui correlata all’adempimento di compiti militari ed ai conseguenti benefici da loro ottenuti quale ricompensa dal generale romano.52 La preparazione alla vita militare era certamente una delle attività pregnanti delle organizzazioni giovanili nel mondo ellenistico,53 e dunque non è inverosimile interpretare la presenza dei neoi quali dedicanti come segno della partecipazione di contingenti della città alle guerre condotte da Pompeo. L’appoggio militare al condottiero di una città, cui era stata riconosciuta la eleutheria per la fedeltà mostrata a Roma nel primo conflitto mitridatico, doveva essere garanzia del rinnovo di tale beneficio. Tuttavia, accanto a questa interpretazione della presenza dei neoi nella dedica, non vanno trascurate le numerose attestazioni del ruolo di queste organizzazioni nell’ambito del culto dei sovrani ellenistici.54 Da Ilio proviene un documento che testimonia tali manifestazioni religiose, l’iscrizione datata al 281 menzionante concorsi istituiti dalla città in onore di Seleuco I sotto la direzione del ginnasiarca. 55 Certamente la dedica da parte dei neoi in onore di Pompeo costituirebbe un’eccezione dal punto di vista cronologico, se la si vuole intendere come ripresa di tradizioni rimontanti ad epoca ellenistica: gli studi della documentazione in nostro possesso hanno messo in l’antinomia presente nell’iscrizione fra la menzione dei barbari e quella degli anthropoi che Pompeo avrebbe liberato. Per converso Mitridate tentava di far apparire stranieri i Romani presso le popolazioni che aspirava a controllare: si pensi all’adesione dell’Armenia Minore a Mitridate per il misos nei confronti dei Romani διὰ τὸ ὀθνεῖον in Cass. Dio XXXVI 9, 2. 51 Così C.A. Forbes, NEOI. A Contribution to the Study of Greek Associations, Philological Monographs II, Middletown 1933, 61-67, secondo cui pur nella sostanziale corrispondenza fra i due termini «Neaniskoi seem to have been more concerned with military affairs than neoi» (p. 65), come per altro testimoniato dall’iscrizione iliense in onore di Nicandro. Launey, Recherches sur les armées hellénistiques, cit., 859-862 sulla pertinenza precipuamente militare del termine neaniskoi rispetto alla valenza più ampia dell’efebia. Sull’uso dei termini neoi e neaniskoi in epigrafi di contesto militare vd. da ultimo B. Dreyer - H. Engelmann, Die Inschriften von Metropolis, I, Die Dekrete für Apollonios: Städtische Politik unter den Attaliden und im Konflikt zwischen Aristonikos und Rom, IK 63, Bonn 2003, 34-38. 52 Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 185. 53 Cfr. supra, n. 14. 54 Vd. in proposito Forbes, NEOI, cit., 55; J. Delorme, Gymnasion. Étude sur les monuments consacrés à l’éducation en Grèce (des origines à l’Empire romain), BEFAR 196, Paris 1960, 342-346; S. Aneziri D. Damaskos, Städtische Kulte im hellenistischen Gymnasion, in Kah - Scholz (Hgg.), Das hellenistische Gymnasion, cit., 247-271, in part. 262-268. Più in generale sul tema del culto dei sovrani presso le città ellenistiche F.W. Walbank, Könige als Götter. Überlegungen zum Herrscherkult von Alexander bis Augustus, «Chiron» XVII (1987), 365-382. 55 IK Ilion, nr. 31 (in part. ll. 9-10 per la notizia relativa ad un agon di neoi ed epheboi). Vd. Forbes, NEOI, cit., 23-24; Delorme, Gymnasion, cit., 342 n. 8 che si chiede se questo documento non costituisca la più antica attestazione al riguardo; Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 185, che mette in evidenza a questo proposito l’importanza sociale del ginnasio nella città. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche | 127 evidenza che, se è vero che i neoi ricorrono in numerosi documenti d’Asia Minore in onore di magistrati romani o imperatori, d’altra parte in età preaugustea non vi è attestazione di dediche di statue innalzate da corporazioni o privati per magistrati romani.56 Ma non si può trascurare la profonda innovazione che con Pompeo si registra in termini di autorappresentazione, che si esplicita sia nella introduzione di nuovi epiteti che entreranno nell’uso di età imperiale, quale il già menzionato 57 ἐπόπτης γῆς καὶ θαλάσσης, sia nel richiamo al modello di Alessandro Magno, che doveva tradursi in un forte stimolo per le città ellenistiche. 58 La probabile presenza di Pompeo presso Ilio nel suo viaggio orientale ricalcava l’itinerario alessandrino.59 Il fatto che il testo dell’iscrizione, pur in un contesto militare del tutto evidente, sia slegato da riferimenti localistici, menzionando guerre che avevano coinvolto tutta l’Asia e dalle quali Pompeo aveva liberato l’intero genere umano, può indirizzare verso una lettura diversa del significato della dedica apposta dai neoi. Nel 63-62 Pompeo aveva raggiunto in Oriente l’apice del successo, a seguito delle vittorie militari abilmente messe a frutto nella caleidoscopica costruzione di un potere personale, che ad arte si sostanziava di immagini allusive ad ideali ecumenici; a lui rimaneva il compito della risistemazione amministrativa di quelle aree con la connessa distribuzione di privilegi a città e territori. Forse la menzione dei neoi nell’epigrafe iliense indica l’inizio di una trasformazione dei modi in cui una città dell’Oriente greco si rivolgeva a magistrati romani, retaggio degli onori ai sovrani ellenistici e preludio agli atti di omaggio verso gli imperatori. 60 Daniela Motta Dipartimento di Beni Culturali Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, 90128 [email protected] on line dal 15 giugno 2011 56 Vd. Tuchelt, Frühe Denkmäler Roms in Kleinasien, cit., 59; Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 184. 57 Cfr. supra, n. 41. 58 Tuchelt, Frühe Denkmäler Roms in Kleinasien, cit., 125: «Erst Pompeius griff mit seiner Nachahmung Alexanders über das hinaus, was hellenistischen Städte bereit waren, römischen Machthabern an Auszeichnungen zuzugestehen». D. Michel, Alexander als Vorbild für Pompeius, Caesar und Marcus Antonius. Archäologische Untersuchungen, Coll. Latomus 94, Bruxelles 1967, 47-50, evidenzia il richiamo ad Alessandro Magno nelle iscrizioni greche onorarie che recano gli epiteti di megas, magnos, ktistes e soter. Per il richiamo ad Alessandro rappresentato anche dalla fondazione di città vd. in particolare A. Dreizehnter, Pompeius als Städtegründer, «Chiron» V (1975), 213-245; Seager, Pompey the Great, cit., 60. 59 Secondo Greenhalgh, Pompey. The Roman Alexander, cit., 165, Pompeo visitò Ilio «to enjoy the satisfaction wich Agamennon had felt after the fall of Troy». 60 Sulla nuova dimensione di questa iscrizione che preannuncia l’età imperiale Bernhardt, Polis und römische Herrschaft, cit., 176 e Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 194. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127 ROSALIA MARINO Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale La declinazione delle tensioni ideali nelle allocuzioni esortative e nei discorsi – in oratio recta o obliqua – dei comandanti in campo in età triumvirale passa attraverso la polifonia narrativa che orienta la proiezione di icone politiche nei tenebrosi scenari del “dopo-Cesare”. In un vortice emotivo che trascina il lettore, il confronto tra gli schieramenti registra il protagonismo degli eserciti che si fanno specchio e, insieme, immagine del rovesciamento dei valori di una società disorientata, alla ricerca di referenti credibili.1 E mentre alla palpabile accelerazione del tempo storico fanno riscontro le dinamiche poste in essere dall’inarrestabile cammino verso cesure politico-istituzionali,2 lo strumento della retorica, oltre a scandire i Ancora centrali sul tema gli studi di E. Gabba attenti agli intrecci del proletariato militare e della plebe urbana con i potenti capifazione, oltre che alla maturazione di processi di discontinuità “indotta” in un clima di grave fervore intellettuale quale fu appunto quello qui preso in esame per cui vd. in particolare L’età triumvirale, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo. 1. La repubblica imperiale, Torino 1990, 795-808 con bibliografia. Presupposti anche gli studi ormai classici di H. Botermann, Die Soldaten und die römische Politik in der Zeit von Caesars Tod bis zur Begrundüng des zweiten Triumvirats, Zetemata 46, 1, München 1968; I. Hahn, Die Legionsorganization des zweiten Triumvirates, «AAnt» XVII (1969), 285-313; H. Aigner, Die Soldaten als Machtfaktor in der ausgehenden römischen Republik, Innsbruck 1974; V. Ortmann, Cicero, Brutus und Octavian. Republikaner und Caesarianer. Ihr gegenseitiges Verhältnis im Krisenjahr 44/43 v. Chr., Bonn 1988; sul potere dei dinasti grandi generali nel quadro istituzionale rivisto da Silla vd. M. Pani, La politica in Roma antica. Cultura e prassi, Roma 1997, 152 s. e 234 s. 2 La tesi che nega cesure politiche dopo le Idi di marzo del 44 per privilegiare l’idea di un processo evolutivo all’insegna di una sostanziale continuità nell’articolazione dei rapporti tra i protagonisti sulla scena e i vari gruppi politici, trascura il fatto che nella tradizionale dialettica delle consorterie si introdusse, di là da progetti strategici definiti, un potenziale eversivo che mise a nudo – nel merito e nel metodo – i punti di criticità non che della compagine sociale, dell’apparato statale nel suo complesso. Alleanze schizofreniche ed estemporanee, di cui i matrimoni dinastici divennero collante strutturale, fanno emergere l’inefficacia politica del Senato unicamente votato alla sopravvivenza più che a rafforzare le istituzioni e, ancora, alla mercé di potentati giudicati meno pericolosi. La tendenza psicostorica “inquinante” che, da una prospettiva teleologica, appanna il profilo dinamico degli eventi riletti in età imperiale sino ai giudizi di Dio di Orosio (sui rischi di tale lettura A. Giardina, Cesare vs. Silla, in G. Urso (a cura di), Cesare: precursore o visionario?, Atti del Convegno Internazionale (Cividale del Friuli, 17-19 settembre 2009). I Convegni della Fondazione N. Canussio 9, Pisa 2010, 31-46) viene superata negli studi di F. Rohr Vio da analisi di ampio respiro che riescono a cogliere nella frammentazione del quadro politico l’itinerario ideologico – 1 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 129 ritmi delle drammatiche vicende che condussero ad Azio, consente di individuare, nei frastagliati affreschi di scelte di campo fluide, il livello di consapevolezza politica e l’intreccio ossimorico di reciprocità e asimmetria. 3 E così, la deliberata marginalizzazione storiografica dei fautores dei triumviri,4 diviene speculare alle istanze ideologiche di età imperiale che, nulla concedendo alla rimozione della memoria, recuperano il coinvolgimento delle masse nella deriva delle responsabilità, masse la cui autonomia di giudizio viene espressa, in chiave di radicalizzazione, tanto nel cuore pulsante di Roma, quanto nelle aree municipalizzate della penisola.5 tra Modena e il II triumvirato – filtrato, quando non costruito, da Cicerone e rivisto più tardi in chiave cesariana dagli storici filoaugustei: vd. specialmente Publio Cornelio Dolabella. Ultor Caesaris Primus. L’assassinio di Gaio Trebonio nella polemica politica del postcesaricidio, «Aevum» LXXX (2006), 105119; ma anche Marco Emilio Lepido tra memoria e oblio nelle Historiae di Velleio Patercolo, «RCCM» XLVI, 2 (2004), 235-256 con una cospicua e consapevole bibliografia. Sugli indirizzi storiografici relativi al problema della definizione delle forme di governo a Roma, che attraversa il territorio più esteso del rapporto tra democrazia e aristocrazia (oligarchia) quale viene rappresentato dalle fonti, si sofferma in termini esaustivi M. Pani, La politica, cit., 140-155. Lo studioso sottolinea i limiti di indagini a indirizzo sociologico che tengono in scarsa considerazione la storicizzazione dei fenomeni non riconducibili sotto un unico denominatore. Sui fattori di debolezza del senato illuminante F. De Martino, Storia della Costituzione romana, IV 1, Napoli 1961, 43-48. 3 Sul valore e il tenore di rinvii allusivi o espliciti a vicende della storia più recente nella raccolta di materiali declamatori antologizzati da Seneca il Vecchio da ultima E. Migliario, Le proscrizioni triumvirali fra retorica e storiografia, in M.T. Zambianchi (a cura di), Ricordo di Delfino Ambaglio, Biblioteca di Athenaeum 55, Como 2009, 55-66, sulle orme di E. Gabba, Miscellanea triumvirale, in A. Gara - D. Foraboschi (a cura di), Il triumvirato costituente alla fine della repubblica romana. Scritti in onore di Mario Attilio Levi, Como 1993, 127-134. Ma cfr. anche G. Mazzoli, La guerra civile nelle declamazioni di Seneca il Retore, in Ciceroniana. Atti del XII Colloquium Tullianum (Salamanca 2004), Roma 2006, 45-57; F. Berti, Scholasticorum Studia. Seneca il Vecchio e la cultura retorica della prima età imperiale, Pisa 2007. 4 “Comprimari” li definisce la Rohr Vio, Publio Ventidio Basso. Fautor Caesaris tra storia e memoria, Roma 2009. Sulla riflessione di Appiano relativamente alle vicende e agli immediati antefatti di questo periodo vd. gli studi di Chiara Carsana, Il dibattito politico a Roma nel 49-48 a.C. e i discorsi di Appiano, «RIL» CXXXVIII (2004), 215-232; La cultura storica di Appiano nel II libro delle Guerre civili, in L. Troiani - G. Zecchini (a cura di), La cultura storica nei primi due secoli dell’impero romano, Roma 2005, 231-241. Fondamentale per le problematiche di carattere storiografico il Commento storico al libro II delle Guerre Civili di Appiano (parte I), Pisa 2007. 5 Per una valutazione politica ad ampio spettro delle vicende sino ad Azio ancora utile De Martino, Storia della Costituzione, cit., 43-78. Sul problema centrale del rapporto fra crisi e trasformazione M. Pani, L’ultimo Cicerone fra crisi dei principes e ciclo delle repubbliche, in A. Gara - D. Foraboschi (a cura di), Il triumvirato costituente, cit., 21-36. Per l’irruzione sulla scena politica delle masse A. Rini, La plebe urbana a Roma dalla morte di Cesare alla sacrosancta potestas di Ottaviano, in M. Pani (a cura di), Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romana, Bari 1983, 161-190. Sui nuovi equilibri sino al secondo triumvirato, ma dall’ottica della continuità di politiche di gruppo R. Cristofoli, Dopo Cesare. La scena politica romana all’indomani del cesaricidio, Napoli 2002, con recensione abbastanza analitica di F. Rohr Vio in «RCCM» XLVI (2004), 347-349; Ead., Ex virtute nobilitas coepit: percorsi di affermazione politica nell’età del secondo triumvirato, «AIV» CLXIII (2004-2005), 19-46. Sull’opposizione optimates-populares che, mentre non esaurisce – dal nostro punto di vista – il problema di contrapposizioni di classe, riflette in ogni caso sistemi di valori M.T. Schettino, I partiti politici nell’età postsillana, in G. Zecchini (a cura di), Partiti e fazioni nell’esperienza politica, Contributi di Storia antica 7, Milano 2009, 87-104 e per una storia degli studi sulla lotta politica nella Roma tardo-repubblicana, G. Zecchini, I partiti politici nella crisi della repubblica, ibid., 105-119. Sui processi ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 130 Trascinati, infatti, dallo sfondo verso il centro della scena, instabili gruppi di pressione sollecitavano di volta in volta, anche per il tramite degli eserciti presenti sul territorio, riflessioni a “corrente alternata” sul deficit di democrazia, stimolando presso gli intellettuali del neonato regime il dibattito sul significato e sulle ragioni dell’adesione culturale, più che politica, – così riteniamo – al Principato. I valori di libertà e democrazia, gridati nelle assemblee civili e militari, persero a poco a poco la loro carica ideologica ed emotiva diluendosi nei tatticismi di cesariani e cesaricidi con un naturale approdo a rovesciamenti di prospettiva che implicavano, in ogni caso, l’evocazione della tirannide e/o della monarchia anche se ridotte a semplici fantasmi intellettuali.6 Alla vigilia della guerra di Modena, le ombre di bandiere strumentalmente esibite da Antonio e Ottaviano, nel nome della tutela dello stato e del bene dei cittadini, si proiettavano sinistramente sul popolo, traducendo in disincanto opzioni frustranti. I più infatti ταῖς στρατείαις ἅμα καὶ ταῖς ἐσφοραῖς βαρούμενοι erano convinti che chiunque avesse vinto τῷ νικήσαντι δουλεύσουσι.7 evolutivi dell’ordine senatorio E. Gabba, Il senato romano nell’età dell’imperialismo e della rivoluzione, in AA.VV., Il Senato nella storia. Il Senato nell’età romana, I, Roma 1998, 85-127. Sul rapporto con le aree municipalizzate della penisola M. Sordi, Ottaviano e l’Etruria nel 44 a.C., «StEtr» XL (1972) 3-17; C.M. Volponi, Lo sfondo italico della lotta triumvirale, Genova 1975; E. Bispham, From Ausculum to Actium. The Municipalization of Italy from the Social War to Augustus, Oxford 2007; G. Bandelli, La formazione delle clientele dal Piceno alla Cisalpina, in J. Mangas (Ed.), Italia e Hispania en la Crisis de la Republica romana, Actes del III Congreso Hispano-Italiano (Toledo, 20-24 septiembre 1993), Madrid 1998, 51-70. Sui rapporti di singole aree municipali con Roma, U. Laffi - M. Pasquinucci (a cura di), Ausculum, I, Pisa 1975, XILXII; Id., Sull’organizzazione amministrativa dell’Italia dopo la guerra sociale, in Akten des VI. Internationalen Kongresse für Griechische und Lateinische Epigraphik, München 1972, 37-52; ora in Id., Studi di storia romana e di diritto, Roma 2001, 113-135; importanti gli atti del convegno Les bourgeoisies municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av. J-C., Parigi-Napoli 1983; L. Gasperini - G. Paci, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: regio V Picenum, in AA.VV., Epigrafia e ordine senatorio, Tituli IV 2, Roma 1982, 201-244; 507-509; G. Bandelli, Considerazioni sulla romanizzazione del Piceno (III-I sec. a.C.), in Il Piceno romano dal III sec. a.C. al III d.C., Atti XLI Convegno di Studi Maceratesi (Abbadia di Fiastra - Tolentino, 26-27 novembre 2005), Macerata 2007, 1-26. 6 C. Dognini, Cicerone, Cesare e Sallustio: tre diversi modelli di “libertas” nella tarda antichità, «InvLuc» XX (1998), 85-101; C. Monteleone, Prassi assembleare e retorica libertaria. La Quarta Filippica di Cicerone, Bari 2005; R. Marino, Sulla percezione del regnum a Roma in età repubblicana, in M. Caccamo Caltabiano - C. Raccuia - E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli del potere politico nel mondo greco e romano. Giornate seminariali in onore di S.N. Consolo Langher (Messina, 17-19 dicembre 2007), Pelorias 18, Messina 2010, 375-384. Questi studi presuppongono J. Bleicken, Der Begriff der Freiheit in der letzen Phase der römischen Republik, «HZ» CXCV (1962), 1-20. 7 Cass. Dio XLVI 32, 1. Le categorie politico-ideologiche al servizio della storia di quegli anni aprono in Cassio Dione all’analisi sociologica che individua nella irritazione del popolo (oἰ πλείοι) i fattori di crisi del sistema aggredito dalle turbolenze e sovrastato dalle richieste incalzanti dei militari. Neppure Appiano aveva risparmiato critiche al πλῆθος (il termine è più esplicito) che durante i contrasti scoppiati subito tra Antonio e Ottaviano, aveva tenuto un atteggiamento fluttuante, passando dalla parte di chi prometteva di più (BC III 39-45, 164-184, 207. Ma vd. anche Cass. Dio XLV 13, 1). Analogamente si era comportato l’ὄχλος dei militari al servizio di Antonio console, scegliendo di sfuggire alla fatica dei campi grazie ai donativi promessi dal figlio di Cesare, mentre i cavalieri Celti, per lo stesso motivo passarono per la seconda volta ad Antonio (Cass. Dio XLVI 37, 2). Sulla guerra di Modena (Cass. Dio XLVI 29-39; App. B.C. III 49, 198-199, III 50; 52, ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 131 E così il risalto, nel resoconto di Cassio Dione, al generale smarrimento delle coscienze e alla reazione schizofrenica del Senato incapace di qualsivoglia strategia politica di fronte alle spregiudicate alchimie tattiche dei vari gruppi di potere, apre ampi squarci – anche se in chiave assolutoria dell’ordo – su ribaltamenti di responsabilità.8 In un soprassalto di appartenenza lo storico introduce il sospetto sul coinvolgimento di Ottaviano nella morte dei consoli in carica, Irzio e Pansa, volendo giustificare l’abolizione dei privilegi concessi poco prima dal Senato9 e stigmatizzare, razionalizzandolo, un percorso storico costruito attraverso l’intreccio di diagnosi e prognosi, di futuro cioè (l’età di Settimio Severo) e passato (l’età triumvirale), sul filo di una memoria consapevolmente selezionata.10 Il disastro della Cisalpina viene letto, quindi, come l’esito scontato di una crisi generale di valori la cui soluzione, affidata all’intervento della Τύχη, avrebbe 213; 76, 308; 399, 408; Cic. Phil. V e VII; Plut. Ant. 17. Ma vd. anche Cic. Phil. III 11, 28 in cui si esalta come vittoria della libertà l’azione illegale di Ottaviano, la diserzione delle legioni e la loro disobbedienza verso il comandante, il rifiuto di Decimo Bruto di lasciare la Cisalpina) il vero paradosso della politica – puntuale la ricostruzione di J.M. Roddaz, L’héritage, in F. Hinard (sous la direction), Histoire romaine. Tome I. Des origines à Auguste, Paris 2000, 825-912, in part. 836-841), ma cfr. anche i contributi di V. Manfredi, Le operazioni militari intorno a Modena nell’aprile del 43 a.C., CISA 1, Milano 1972, 126-145, H. Bengtson, Untersuchungen zum Mutinensischen Krieg, in Id., Kleine Schriften zur alten Geschichte, München 1974, 479-531. 8 XLVI 34, 1-5. Colpisce la rappresentazione di un senato ondivago, che opera scelte tattiche funzionali all’autodifesa di classe, mentre la riflessione sui vizi della natura umana giustifica l’esito finale, e cioè che τόν τε δῆμον καταλυθῆναι καί δυναστείαν τινὰ γενέσθαι (§ 4). 9 Cass. Dio XLVI 39, 1. Tale sospetto è presente in Tacito Ann. I 10. Sull’episodio della morte dei consoli in carica durante la guerra per il governo della Cisalpina, episodio sicuramente centrale per la ricerca di soluzioni “costituzionali”, vd. la recente ricostruzione di L. Canfora, 19 agosto 43 a.C. Ottaviano e la prima marcia su Roma, in I giorni di Roma, Bari 2007, 33-53, che attraverso una rilettura delle fonti focalizza l’attenzione sui due giganti politici di quei giorni convulsi, Cicerone e Ottaviano. Ma vd. anche B. Zucchelli, Il colloquio tra Ottaviano e Pansa in Appiano (b.c. 3,75-76), in Studi di Filologia classica in onore di G. Monaco I: Letteratura greca, Palermo 1991, 439-453 e Roddaz, L’héritage, cit. 838 s. La versione di Cassio Dione vuole forse giustificare l’abolizione di quei privilegi che, in contrasto con le tradizioni patrie, avevano costituito in un passato recente la base del potere personale di alcuni dinasti. La misura restrittiva, emanata contro Antonio e Ottaviano, doveva suonare come un avvertimento per quello dei due che sarebbe risultato vincitore, tanto più in quanto si sarebbe fatta ricadere la responsabilità sullo sconfitto (XLVI 39, 2). L’ostilità dello storico nei confronti di Ottaviano emerge poi dalla sottolineatura della svolta autoritaria che Ottaviano console diede ai provvedimenti urgenti che premiavano i militari τοῖς μὲν ὅσa τε καὶ ὅθεν ἐψήφιστο τοῖς δὲ λοιποῖς ὡς ἑκάστοις, λόγῳ μὲν οἴκοσθεν ἔργῳ δὲ ἐκ τῶν κοινῶν ἔδωκε (XLVI 46, 5). Sulla devozione dei soldati e la sottomissione (ἐδουλώσατο) dei senatori al giovane XLVI 48, 1. 10 Negli ultimi anni la bibliografia sull’opera di Cassio Dione si è arricchita di pregevoli contributi. Dalla prospettiva nella quale ci siamo collocati indicheremo quelli che ci sembrano più significativi, pur essendo passati da puntuali analisi filologiche: D. Fachner, Untersuchungen zu Cassius Dios Sicht der römischen Republik, Altertumswissenschftliche Texte und Studien 14, Hildesheim 1986; G. Wirth, Einleitung zu Cassius Dio. Römische Geschichte, Band 1, Zürich-München, 1985; A.M. Gowing, The triumviral Narratives of Appianus and Cassius Dio, Michigan 1992. Vanno tenuti presenti P. Grattarola, I cesariani dalle idi di marzo alla costituzione del secondo triumvirato, Torino 1990 e Cristofoli, Dopo Cesare, cit. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 132 innalzato il crinale tra buoni e cattivi, tra vincitori e vinti, a scapito, in ogni caso, della democrazia.11 Nel quadro delle vicende del triumvirato la centralità dell’elemento militare diviene punto di snodo dei grovigli politici che, solo nella lotta armata e per la lotta armata, avrebbero orientato il cammino della storia: ἀσθενέστατα γὰρ ἤδη τὰ ψηφίσματα πρὸς τοὺς τὰς δυνάμεις ἔχοντας pensava Lepido nel momento in cui rinunciò a marciare con Planco sull’Ι talia per fermarsi in Gallia su ordine del senato e fondare Lugudunum.12 Il pessimismo sul recupero della legalità trova espressione nella valutazione dionea degli esiti politici di Filippi letti come il naturale approdo alla monarchia poiché οὐ γὰρ ἔστιν ὅπως δημοκρατία ἄκρατος, ἐς τοσοῦτον ἀρχῆς ὄγκον προχωρήσασα, σωφρονῆσαι δύναται.13 I percorsi di teoresi politiche divaricate trovano proprio a Filippi una perfetta sintesi nelle parakleseis ai soldati che, costruite a notevole distanza dai fatti,14 sottolineano con accenti drammatici la discontinuità segnata dalla vittoria contro i Cass. Dio XLVI 34, 4-5. Contrasta con tale visione deterministica la dichiarazione programmatica di Cassio Dione sul distacco dello storico dalla materia narrata παίδευσις […] τὰ 11 μάλιστα εἶναι […] ὅταν τις τὰ ἔργα τοῖς λογισμοῖς ὑπολέγων τήν τε ἐκείνων φύσιν ἐκ τούτων ἐλέγτῃ καί τούτους ἐκ τῆς ἐκείνων ὀμολογίας τεκμηριοῖ. La colpevolizzazione del senato raggiunge toni più alti quando se ne descrive l’incapacità di misurarsi con Ottaviano sulla base di un programma esente da ambiguità e da colpi di mano quale quello di onorarne i nemici nell’ignoranza del risultato finale (XLVI 40, 1-6; ma cfr. anche 41, 1-5). Le critiche a soluzioni repubblicane alla vigilia di Modena sembrano volere orientare verso l’assoluzione dei cesariani e giustificare gli ormai vicini accordi di Bologna (Cass. Dio XLVI 55, 1-5; App. B.C. IV 2, 4-7; Plut. Ant. 19). Ma gli attacchi pressoché indiscriminati ai protagonisti e ai comprimari, ai civili e ai militari, alle masse e alle élites vogliono trasmettere la percezione del naufragio dei codici sociali e politici. L’imperativo della svolta avrebbe ricevuto la sua consacrazione presentandosi come il superamento naturale, in quanto volontario, dei danni del terremoto che aveva aggredito il cuore dell’impero. La ritrovata armonia tra vincitori e vinti, quale turner point imprescindibile, superava così le antinomie nel nome del bene comune. 12 XLVI 50, 5; ma vd. Vell II 63, 1. Su Lepido cfr. il vecchio ma puntuale L. Hayne, Lepidus’ Role after the Ides of March, «Acta Classica» XIV (1971), 109-117; A. Allély, Lépide le triumvir, Bordeaux 2004; e per una migliore comprensione del percorso del triumviro “oscurato” M. Amela Valverde, Lépido en Spagna, «Hispania antiqua» XXVI (2002), 35-58 e ancora Roddaz, L’héritage, cit., passim; Rohr Vio, Marco Emilio Lepido tra memoria e oblio, cit., 235-256. 13 XLVII 39, 5. Sui passaggi storici che condussero a Filippi attraverso il triumvirato la bibliografia è sterminata. Ci limitiamo a ricordare in questa sede, oltre ai citati studi sul “dopo Cesare”, P. Walmann, Triumviri rei publicae constituendae. Untersuchungen zur politischen Propaganda im Zweiten Triumvirat (43-30 v. Chr.), Frankfurt am Main 1989; Gara-Foraboschi (a cura di), Il triumvirato costituente, cit.; U. Gotter, Der Diktator ist tot! Politik im Rom zwischen den Iden des März und der Begründung des zweiten Triumvirats, Stuttgart 1996; J.M. Roddaz, Les triumvirs et les provinces, in E. Hermon (Éd.), Pouvoir et “Imperium”, Diáphora VI, Napoli 1996, 77-96. Sul peso politico ed economico che ebbero le proscrizioni come immediata conseguenza dell’accordo a tre fondamentale F. Hinard, Les proscriptions de la Rome républicaine, CEFR 83, Roma 1985 e da una prospettiva socio-economica L. Canfora, Proscrizioni e dissesto sociale nella repubblica romana, «Klio» LXII (1980), 431. 14 Cass. Dio XLVII 42, 1-5. Dal racconto emerge una forte tensione nel nome della libertà e della democrazia che caratterizza i discorsi dei comandanti dal campo dei repubblicani preoccupati dell’uguaglianza dei cittadini di fronte la legge, e non, come i cesariani, del governo su tutti i propri concittadini o delle promesse di ricchi donativi. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 133 tirannicidi. I discorsi si traducono in manifesti programmatici funzionali – è il caso di Cassio Dione – ad una denuncia forte della svendita dell’ideologia patriottica erosa da promesse al rialzo di donativi che «eccitavano» – ἐπέρρωσε – i soldati.15 La vicenda di Filippi rappresentò, in definitiva, sul versante storiografico, il tornante della crisi della repubblica attorno al quale coagulare l’attenzione per l’esemplarità dei temi che essa suggeriva e per la riproposizione di una scala valoriale alla quale ci si sarebbe richiamati di lì a poco nello scontro finale tra i due titani rimasti sulla scena. L’avvolgente corrente emozionale che attraversa la trama dei racconti di diversa ispirazione sulla tragedia personale di Bruto e Cassio se, da un lato, porta in superficie l’intreccio inestricabile di psicologismo e tatticismo, di cui, si resero protagonisti gli eserciti, dall’altro, proprio attraverso l’esaltazione dell’eroismo degli “eredi spirituali” di Cesare, sembra volere rendere più incisiva la vittoria degli avversari politici. I circostanziati e concitati discorsi rivolti alle truppe destinatarie di vere e proprie lezioni di politologia, mentre permisero agli oratori di turno di filtrare spinte ideologiche, linee programmatiche, aggregazioni estemporanee, adesioni e diserzioni, fecero da cornice a quadri politici dinamici, delineati più tardi da una prospettiva teleologica aperta alla percezione del processo irreversibile verso la rivoluzione del 27 a.C.16 Il martellante elogio della democrazia nelle reiterate esortazioni di Bruto e Cassio alle truppe chiamava in causa quella parte del Senato che, per essere ostile ai triumviri, non poteva che condividere l’azione eversiva delle due vittime della “coerenza” politica, promossi a custodi della libertas. XLVII 42, 5, 1. La percezione del cambiamento nell’articolazione dei rapporti fra truppe, comandanti e imperatore, si riflette nel disincanto e nel pessimismo ai quali cedette Agrippa dopo la vittoria navale su Sesto Pompeo quando ribadì ciò che soleva dire agli amici intimi e cioè che οἱ πλείους τῶν ἐν ταῖς δυναστείαις ὄντων οὑδένα ἐθέλουσι κρείττων σφῶν εἶναι, concludendo che per sfuggire ai problemi il comandante deve affrancare quanti sostengono il potere supremo dalla difficoltà delle imprese e attribuire loro il merito del successo (XLIX 4, 2-4) 16 Gli argomenti che Cassio sviluppa (alla vigilia dello scontro a Filippi) in una delle allocuzioni esortative più intense dei Romaika appianei insistono, all’interno di un’ampia retrospettiva storica, sul valore della reciproca fiducia che le promesse ai commilitoni sin lì mantenute, incoraggiavano a coltivare (IV 90, 377). Le ragioni del partito anticesariano, adeguatamente enfatizzate, penetrano nella coscienza collettiva dei militari con il conforto delle tecniche della retorica, divenendo una metafora della crisi in atto, che registrava il protagonismo degli eserciti. Nei quadri delineati da Appiano mentre la figura di Antonio viene definita a tinte fosche e Ottaviano rimane nell’ombra, la centralità riconosciuta al senato come istanza suprema della legalità sollecita nello storico un’attenta riflessione sul valore della guerra come affermazione di una giustizia condivisa dal favore della divinità (IV 94, 391-406). Su Appiano oltre al già citato Gowing, The triumviral Narratives, cfr. D. Magnino, Le “Guerre civili” di Appiano, in ANRW II 34, 1, Berlin-New York 1993, 523-554 e Id., Appiani Bellorum Civilium Liber tertius, Testo critico, introduzione, traduzione e commento a cura di, Firenze 1984. Utile anche I. Hahn, Appian und seine Quellen, in G. Wirth (Hg.), Romanitas–Christianitas. Untersuchungen zur Geschichte und Literatur der römischen Kaisezeit, Berlin-New York 1982, 251-276. 15 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 134 Dalla consapevolezza della forza contrattuale degli eserciti 17 alla scelta programmatica del suicidio in caso di sconfitta,18 alla fede indiscussa nella Fortuna,19 questi sapientissimi ac fortissimi viri20 sarebbero divenuti, proprio in virtù della scelta estrema, il propugnacolo dei valori collettivi che travalicano il tempo, tranne poi a far coincidere nella lunga durata la morte del progetto politico di Cesare con congiunture di segno positivo che, nei fatti, avevano permesso la rivitalizzazione di consorterie, al di fuori però di etichette di partito, eventualmente funzionali a istanze di visibilità. Il rapporto di reciproca dipendenza dei comprimari dell’emergenza, icasticamente espresso da Appiano nel discorso di Pisone contro Cicerone – κατηγορεῖ γὰρ ᾿Αντωνίου τυραννίδα καὶ κόλασιν στρατιωτῶν, ἀεὶ τῶν ἐπιβουλευόντων τὰ στρατεύματα θεραπευόντων, οὐ κολαζόντων –21 trova conferma nella molteplicità di casi rappresentati dalle fonti che trasferirono la dialettica politica negli accampamenti. Significativo l’episodio della rivolta dei veterani che, puntando su nuovi parametri distributivi dell’ager publicus, stravolgevano vecchi e nuovi equilibri socio-economici con il rischio, per di più, di trasformare larghe fasce di ceti possidenti in strumenti di manovra dei nuovi rampanti della politica individuati in Lucio Antonio e Fulvia. 22 Le esitazioni di Ottaviano, rimasto in Italia alla ricerca di soluzioni indolori, costituirono terreno fertile per una rivolta di militari in congedo, il cui protagonismo animò e potenziò il contrasto con i parenti di Antonio sino alla guerra di Perugia (41 a.C.).23 Plut. Brut. 38 e 46; di defezioni di soldati si parla in 39, 9. Plut. Brut. 40, 8: ἀλλ᾿ ἀπαλλάξομαι, τὴν τύχην ἐπαινῶν, ὅτι Μαρτίαις εἰδοῖς δοὺς τῇ πατρίδι τὸν ἐμαυτοῦ βίον, ἄλλον ἔζησα δι᾿ ἐκείνην ἐλεύθερον καὶ ἔνδοξον. Dello stesso valore morale la risposta di Cassio all’amico ἢ γὰρ νικήσομεν, ἢ νικῶντας οὐ φοβηθησόμεθα. 19 Un pathos struggente attraversa il testo sul rapporto culturale di Bruto con la Τύχη. Ma vd. Flor. II 17, 10 dove si afferma che quanto efficacior est fortuna quam virtus: at quam verum est, quod moriens efflavit, non in re, sed in verbo tantum esse virtutem. Sul rapporto privilegiato della Fortuna con i capi carismatici cfr. R. Marino, Felicitas. Una dea dall’ambiguità politica, «Mythos» I (1989), 127-137. 20 Flor. II 17, 15 dove l’ammirazione si rivolge anche alle modalità scelte per la morte da Bruto e Cassio che, in coerenza con la loro dottrina filosofica, non si servirono delle loro mani per non violarle (ne violarent) sed in emolitione fortissimarum pessimarumque animarum iudicio suo, scelere alieno uterentur. Su Bruto e Cassio come «gli ultimi veri romani» Suet. Tib. 61. 21 App. B.C. III 56, 233. Ma vd. anche Plut. Ant. 76. Sul rapporto fra triumvirato e assegnazione di terre si veda il classico L. Keppie, Colonisation and Veteran Settlement in Italy 47-14 B.C., London 1983 e Gabba, L’età triumvirale, cit., con bibliografia. 22 Cass. Dio XLVIII 9, 3. Cfr. App. B.C. V 25, 98; 27, 105 e sulla spiegazione alle truppe dei motivi della guerra contro Ottaviano 39, 159-166 e ancora i paragrafi 176-190. Uno squarcio emotivo, che sembra veicolare il rifiuto – sul piano concettuale – della guerra civile in V 46, 196 che descrive la spontanea comunanza che si creò tra i soldati di Lucio e quelli di Ottaviano come tra commilitoni. Sulle vicende del movimento creato in Italia dai due cognati cfr. soprattutto J.M. Roddaz, Lucius Antonius, «Historia» XXXVII (1988), 317-346 ripreso in L’héritage, cit., spec. 854-864. 23 Cass. Dio XLVIII 14, 4-5 sulla tragica fine degli abitanti di Perugia. Sulla guerra di Perugia – un secondo bellum italicum (Roddaz, L’heritage, cit., 864) – cfr. E. Gabba, The Perusin War and Triumviral Italy, «HSCP» LXXV (1971), 139-160; P. Wallmann, Untersuchungen zur militarischen Problemen des Perusinischen Krieges, «Talanta» VI (1975), 58-76; M. Sordi, La guerra di Perugia del libro V dei Bella Civilia di Appiano, «Latomus» XLIV (1985), 301-316. 17 18 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 135 Incerti sul loro futuro, quelli pretesero risposte precise e definitive sulla distribuzione di terre già deliberata da Ottaviano e ostacolata dalle parti in causa, che ottennero correzioni alle misure assunte precedentemente, alimentando lo scontro che culminò nell’uccisione di centurioni e di sostenitori del triumviro. Questi, per placarli, dovette assicurare che τοῖς τε συγγενέσι σφῶν καὶ τοῖς τῶν ἐν ταῖς μάχαις πεσόντων πατράσι καὶ παισὶ τὴν χώραν, ὅσην τινες αὐτῶν εἷχον, ἀφεθῆναι24 provocando la reazione cruenta del popolo e numerosi incendi. La confusione e l’incertezza del quadro politico che produceva accordi poco chiari, spinsero i veterani a marciare su Roma e a pretendere di leggere e siglare patti definitivi. Il cedimento di Ottaviano, che aveva rischiato di essere ucciso, si spinse sino all’accettazione della clausola sulla nomina dei militari a giudici dei contratti che i nuovi criteri di assegnazione delle terre prevedevano e alla trascrizione di tale decisione su tavolette cerate sigillate e consegnate in custodia alle Vestali. Lucio e Fulvia, dipinti come sobillatori delle rivolte che attraversarono la penisola, si rifiutarono di sedere al tavolo delle trattative con i veterani che Cassio Dione, per bocca loro, definì con efficacia «senatori caligati». 25 Il “sistema” dell’interdipendenza di truppe e comandanti contribuì fra l’altro ad una nuova articolazione della morfologia socio-economica nelle aree municipali, percepita quale effetto naturale della fenomenologia della guerra civile e destinata a creare nuove sacche di clientela.26 La tragedia dei vinti offrì alla storiografia spunti di riflessione sulle ragioni dei vincitori, sulle politiche personalistiche, sugli scompaginamenti sociali. E, sullo sfondo del dramma umano che si consumava all’ombra delle armi, sembra delinearsi con contorni nitidi l’interazione, a livello puramente concettuale, di truppe e comandanti la cui tensione emotiva, affidata a dialoghi serrati, sollecita nel lettore l’esigenza tutta psicologica di superare il guado nel quale affogava la Cass. Dio XLVIII 9, 3. La logica dello scambio di favori tra comandanti-uomini delle istituzioni e truppe trova spazio nel racconto su rivendicazioni “sindacali” delle legioni di Ottaviano nel corso della guerra contro Lepido in Sicilia. Il triumviro ἅτε μηδενὸς ἔτι πολεμίου οἱ παρόντος, ἐν ὀλιγωρίᾳ αὐτοὺς ἐποιεῖτο (XLIX 13, 2). Quelli minacciavano però di congedarsi convinti che Ottaviano avrebbe ceduto a causa della prevedibile guerra civile. Ma sul debole filo di un compromesso con la coscienza, smentito dai fatti, lo storico costruisce un profilo etico di Ottaviano-comandante, tranne a modificarlo poco dopo. La dura reazione contro i soldati viene ricondotta alla convinzione che μηδὲν δεῖν τὸν ἄρχοντα παρὰ γνώμην ὑπὸ τῆς τῶν στρατιωτῶν βίας ποιεῖν, ὡς καὶ ἄλλο τι αὖθίς σφων διὰ τοῦτο πλεονεκτῆσαι ἐθελησόντων (XLIX 13, 4). Il giovane congedò sia i soldati che avevano combattuto con lui a Modena, sia quelli che avevano maturato dieci anni di servizio, per trattenere i rimanenti, aggiunse che in avvenire non avrebbe reintegrato alcuno dei congedati οὐδ᾿ ἂν τὰ μάλιστα ἐθελήσῃ. Promesse di premi ribaltarono la situazione anche perché ai centurioni ὡς καὶ ἐς τὰς βουλὰς αὐτοὺς τὰς ἐν ταῖς πατρίσι καταλέξων, ἐπήλπισε. In tal modo placò i soldati ai quali diede immediatamente il denaro, subito dopo le terre: XLIX 13-14, 1-4. 25 Cass. Dio XLVIII 8, 12. 26 Sul progetto politico elaborato da Cesare in cui «l’esercito rappresentava una delle occasioni maggiori di integrazione degli alleati italici dopo il bellum sociale» e sull’accesso agli honores per gli esponenti delle élites italiche cfr. per ultimo Rohr Vio, Publio Ventidio Basso, cit. 170 s. 24 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 136 coerenza di scelte di parte responsabili, nel nome e nel segno di un programma credibile di rinnovamento. Secondo questo schema si struttura il racconto sulla fine di Antonio, il cui progetto politico venne filtrato dalle lenti deformate e deformanti della propaganda augustea.27 L’ipoteca culturale dei valori della res publica, ben presenti alla storiografia più tarda, orientò la rimodulazione dei puntelli ideologici della vicenda triumvirale sino al suo epilogo, ancorandoli ai sintagmi cristallizzati di tirannide e democrazia, di schiavitù e libertà cui, però, gli eserciti non sempre furono permeabili. 28 La possibilità che la retorica di campo offriva alla riflessione politica e all’analisi introspettiva permisero, per esempio, di ricondurre le colpe politiche di Antonio all’ambito delle patologie amorose che sfibravano le virtù civiche: “l’anima dell’amante”, disse un tale scherzando, vive in un corpo altrui giacché Antonio si lasciò trascinare da Cleopatra, dopo Azio, quasi fosse attaccato e si muovesse con lei.29 Plut. Ant. 76. Prima dello scontro ad Azio Antonio chiese ai suoi soldati di valutare tanto i pericoli che le speranze, e di puntare sui vantaggi della vittoria con gli immancabili richiami al valore della libertà e ai rischi della tirannide (vd. i capp. 43-44). La sensazione che si respira dai temi che rimbalzano in queste allocuzioni conferma il livello di percezione della fine di un’epoca fondata sui valori tradizionali urlati sino ad Azio. Sui “vizi” della propaganda esemplare ci sembra il tentativo in Cassio Dione di scagionare Ottaviano dalla ferocia delle proscrizioni che egli addirittura avrebbe frenato e disciplinato grazie al provvedimento, sostenuto da lui, che ne fissava le regole (XLVII 7, 1-5). 28 Accanto ai casi di svendita della coerenza sin qui indicati, la vicenda di Filippi, dove le allocuzioni dei protagonisti trovano ampio spazio nei racconti di Appiano e di Cassio Dione, costituisce la cartina di tornasole di un sentire diffuso tra i comandanti dei rischi che derivavano dagli eserciti recalcitranti ad un pieno coinvolgimento politico. Paradigmatiche in tal senso le riflessioni di Bruto e Cassio, di Antonio e Ottaviano – inserite alla fine delle parakleseis dallo storico di Alessandria – sulla propensione delle truppe alle defezioni e al passaggio di fronte, a meno di “foraggiamenti” cospicui (B.C. III 86, 353-357; 87, 358-360; 88, 361-366; IV 124, 520-521; 126, 525529; V 47, 197). Anche in Cassio Dione è palpabile il senso della volubilità degli eserciti per esempio nell’episodio dello scontro tra il Senato e Ottaviano per l’attribuzione del consolato a quest’ultimo, scontro nel quale non sfuggì a nessuno il peso di quelli per la ricomposizione delle fratture che straziavano la res publica (XLVI 39-46). Ma si possono richiamare numerosi altri esempi su questo tema destinato ad arricchirsi di un elenco interminabile di colpi bassi quali strumento della lotta politica (XLVIII 13, 1-4 dove si fa dire ad Ottaviano di ritenere che μηδὲν δεῖν τὸν 27 ἄρχοντα παρὰ γνώμην ὑπὸ τῆς τῶν στρατιωτῶν βίας ποιεῖν, ὡς καὶ ἄλλο τι αὖθίς σφων διὰ τοῦτο πλεονεκτῆσαι ἐθελησόντων (§ 4); cfr. anche XLV 18-47 in cui il discorso di Cicerone contro Antonio – una lunga rassegna di quegli anni turbolenti – contiene numerosi riferimenti al comportamento degli eserciti e XLVI 1-28: il discorso di Caleno in difesa di Antonio). 29 Plut. Ant. 66, 7 ma vd. anche 36, 1-7. Sull’attribuzione di questo detto a Catone il Vecchio in altri luoghi dell’opera plutarchea vd. P. Boyancé, Caton ou Catulus?, «REG» LXVIII (1955), 324 ss. Sul rapporto di Antonio con le truppe cfr. R. Scuderi, M. Antonio nell’opinione pubblica dei militari, CISA V, Milano 1978, 117-137. A fronte di una bibliografia sterminata sul triumviro ci limitiamo a segnalare saggi riguardanti l’organizzazione della propaganda dal datato C.L. Babcock, Dio and Plutarch on the Damnatio of Antony, «CP» LVII (1962), 30 ss.; a J. Geiger, An overlooked Item of the War of Propaganda between Octavian and Antony, «Historia» XXIX (1980), 112-114; P. Walmann, Münzpropaganda in den Anfängen des Zweiten Triumvirats (43-42 v. Chr), Bochum 1977; A.J. Woodmann, Velleius Paterculus. The Caesarian and Augustan Narrative (2, 41- 93), Cambridge 1983. Limitatamente alla ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale | 137 L’idealizzazione dei protagonisti, accomunati nel racconto degli storici da aspettative ireniche che, in taluni casi sembrano appiattirsi e omologarsi negli scenari sconvolti dal rumore cupo delle armi, trovò un medium efficace nelle allocuzioni dei comandanti ispirate al valore supremo della libertas, ormai percepita come tragicamente assente. E l’insistente richiamo ad essa sottolinea la consapevolezza della svolta politica che, oltre a cancellare i partiti «nel momento in cui avevano cominciato a prendere forma»,30 accelerò la creazione di una formula costituzionale più matura e adeguata al governo dell’impero, grazie al superamento dello strapotere dei “dinasti” e allo spazio lasciato formalmente intatto al senato ormai storicamente rigenerato, ma politicamente disarticolato.31 Rosalia Marino Dipartimento di Beni Culturali Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, 90128 [email protected] on line dal 15 giugno 2011 prima fase del “dopo Cesare” K. Matijević, Marcus Antonius Consul-Proconsul-Staatsfeind. Die Politik der Jahre 44 und 43 v. Chr., Rahden 2006. Per la ricostruzione delle alleanze A. Valentini, Gli Antoniani nelle Historiae di Velleio Patercolo: il caso di Lucio Munazio Planco, «RCCM» L (2008), 71-96. Sul metodo di Plutarco C.B.R. Pelling, Plutarch’s Method of Work in the Roman Lives, «JHS» IC (1979), 74-96; Id., Plutarch’s Adaptation of his Source-Material, «JHS» C (1980), 127-140; B. Scardigli, Die Römerbiographien Plutarchs. Ein Forschungsbericht, München 1979. 30 Partiti e fazioni, cit., 119. 31 Su questi aspetti vd. l’analisi magistrale di Pani, La politica, cit., 237-250. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137 DAVIDE SALVO Germanico e la rivolta delle legioni del Reno Il resoconto tacitiano1 dell’ammutinamento delle legioni stanziate lungo il confine renano nel 142 offre interessanti spunti di riflessione su aspetti di storia politica e sociale. La rivolta si configura come un tentativo di delegittimazione di Tiberio messo in atto dalla fazione giulia della domus Augusta che utilizzò l’elemento militare come strumento di pressione politica sul nuovo imperatore che si accingeva, non senza riluttanza,3 a ricevere il gravoso fardello dell’imperium lasciatogli dal suo predecessore. Augusto morì a Nola il 19 agosto del 14 d.C. 4 Svetonio scrive che Tiberio esitò a lungo prima di assumere il potere imperiale a causa di tre pericoli che incombevano su di lui, cioè la rivolta dello schiavo Clemente, la congiura di Druso Libone e l’ammutinamento delle legioni stanziate in Germania e in Pannonia;5 in particolar modo egli temeva la sedizione delle legioni renane, che spingevano Germanico ad impossessarsi del potere, a tal punto che finse di essere ammalato affinché il nipote, con animo più tranquillo, aspettasse celerem successionem.6 1 Tutti i passi di Tacito sono tratti dagli Annales. L’esposizione della vicenda costituisce un case-study che permette di indagare il metodo di lavoro seguito da Tacito nella stesura degli Annales (fonte principale della rivolta) e contribuisce a svelare alcune linee guida presenti nell’opera. 2 L’episodio ha ispirato il dramma per musica di Giovanni Legrenzi, Germanico sul Reno, libretto di Giulio Cesare Corradi, rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1676. 3 Tac. I 11-12; Suet. Tib. 24; Cass. Dio LVII 2, 4-7; 3, 2-4. 4 Suet. Aug. 100, 1 e Cass. Dio LVI 29, 2 e 30, 5. Il giorno della morte è registrato anche nei fasti Amiterni e nei fasti Ostienses. Cfr., inoltre, Vell. II 123 e Tac. I 5. Sulle reazioni che suscitò la morte di Augusto e sul funerale celebrato a Roma cfr. Suet. Aug. 100 e Cass. Dio LVI 31, 34 e 42, ma anche Vell. II 124, 3. Cfr. A. Fraschetti, Roma e il principe, Bari 20052, 40-44 e 66-81. 5 Sull’ammutinamento delle truppe stanziate in Pannonia vedi il dettagliato resoconto di Tacito I 16-30, ed inoltre Vell. II 125, Cass. Dio LVII 4 e il breve cenno in Suet. Tib. 25, 1. Cfr. V. Pagan, The Pannonian Revolt in the Annals of Tacitus, in C. Deroux (Ed.), Studies in Latin Literature and Roman History, XII, Bruxelles 2005, 414-427 con bibliografia. Alcuni studiosi, analizzando le analogie esistenti nelle narrazioni delle due rivolte, sono arrivati alla conclusione che i due racconti sono l’uno la duplicazione dell’altro. L’ipotesi del «conte géminé», prospettata per la prima volta da E. Bacha, Le génie de Tacite: la création de Annales, Bruxelles 1906, 103-104 e 287-290, è stata ripresa da D.O. Ross, The Tacitean Germanicus, «YClS» XXXIII (1973), 209-227 e A.J. Woodman, Mutiny and Madness: Tacitus Annals 1.16-49, «Arethusa» XXXIX (2006), 203-329 (con una lista delle corrispondenze tra i due resoconti alle pp. 305-307). 6 Suet. Tib. 25. Cfr. M. Pani, La politica in Roma antica. Cultura e prassi, Roma 1997, 259-260. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 139 Tiberio, dunque, nonostante avesse l’imperium proconsulare e la tribunicia potestas e quindi, de iure, fosse legittimato a governare,7 era ben consapevole della presenza a corte di agguerriti gruppi di potere pronti a indebolire la sua posizione. Lo stesso schema della successione appariva tutt’altro che fissato in modo definitivo. A tal proposito Pani, giustamente, sottolinea il fatto che «all’avvicinarsi di Augusto verso la fine della propria reggenza la discussione a Roma sul problema della successione era probabilmente più viva di quanto, in seguito, uno schema di successione ormai collaudato non portasse gli stessi storici antichi delle generazioni successive a considerare».8 In alcuni ambienti di corte, infatti, si discuteva la possibilità di designare un princeps civitatis,9 mentre in altri si vagliavano le candidature familiari interne alla domus Augusta; i rumores registrati da Tacito, sembrano alquanto critici sia nei confronti di Agrippa Postumo, qualificato come trux et ignominia accensus, sia verso Tiberio, la cui personalità si contraddistingueva non solo vetere atque insita Claudiae familiae superbia, ma anche per la sua incapacità di arginare le bramosie di potere della madre Livia, nonché quelle di Germanico e Druso, definiti adulescentes qui rem publicam interim premant quandoque distrahant.10 Nel passo tacitiano sono ben delineati le dinamiche e i protagonisti dello scontro che incise profondamente nella vita politica dell’Impero dopo la morte di Augusto: da un lato vi era Tiberio, scelto da Augusto come suo legittimo successore, dall’altro Agrippa Postumo, giovane strumentalizzato da gruppi di potere che in base a legami di consanguineità con il defunto imperatore rivendicavano il loro diritto a governare e che avevano come referente Agrippina. Vi era poi Germanico,11 cui veniva attribuito – a torto o a ragione – un M. Pani, Lotte per il potere e vicende dinastiche. Il principato fra Tiberio e Nerone, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo. 2: I principi e il mondo, Torino 1991, 226-227. 8 M. Pani, Tendenze politiche della successione al principato di Augusto, Bari 1979, 7. Cfr. inoltre Id., La politica in Roma antica, cit., 258-259. 9 Tac. I 13, 2-3. Su questo passo cfr. Pani, Tendenze politiche, cit., 8-9 e Id., Principato e società a Roma dai Giulio Claudi ai Flavi, Bari 1983, 18. 10 Tac. I 4, 3-5. Cfr., inoltre, I. Shatzman, Tacitean Rumours, «Latomus» XXXIII (1974), 560561 ed E. Keitel, Principate and Civil Wars in the Annales of Tacitus, «AJPh» CV (1984), 315. In un altro passo Tacito (IV 57, 3) afferma che Augusto vagliava la possibilità di designare Germanico come successore ma, vinto dalle preghiere della moglie Livia, alla fine scelse Tiberio imponendogli di adottare Germanico. 11 A parte le monografie di V.F. Akveld, Germanicus, Groningen 1961 e B. Gallotta, Germanico, Roma 1987, la figura di Germanico è stata trattata direttamente in numerosi articoli tra i quali ricordiamo W. Seston, Germanicus héros fondateur, «PP» V (1950), 171-181; M. Pani, Osservazioni intorno alla tradizione di Germanico, «AFMB» V (1966), 107-120; D.C.A. Shotter, Tacitus, Tiberius and Germanicus, «Historia» XVII (1968), 194-214; S. Borzsák, Das Germanicusbild des Tacitus, «Latomus» XXVIII (1969), 588-600; C. Rambaux, Germanicus ou la conception tacitéenne de l’histoire, «AC» XLI (1972), 174-199; Ross, The Tacitean Germanicus, cit., 209-227; H.W. Bird, Germanicus Mytheroicus, «EMC» XVII (1973), 94-101; A. Wankenne, Germanicus, ideal du Prince selon Tacite, «LEC» XLIII (1975), 270-277; L.W. Rutland, The Tacitean Germanicus. Suggestions for a Re-Evaluation, «RhM» CXXX (1987), 153-164; C. Pelling, Tacitus and Germanicus, in T.J. Luce - J. Woodman (Eds.), Tacitus and the Tacitean tradition, Princeton 1993, 59-85; O. Devillers, Le rôle des passages relatifs à Germanicus dans les Annales de Tacite, «AncSoc» XXIV (1993), 225-241; alla figura del principe giulio-claudio, inoltre, sono stati dedicati due convegni: G. Bonamente - M.P. Segoloni (a cura di), Germanico. La persona, la personalità, il 7 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 140 protagonismo politico che se da un lato preoccupava lo zio Tiberio, dall’altro alimentava le velleità di potere della moglie Agrippina. Si ricrearono, dunque, quelle tensioni esistenti tra le varie fazioni della famiglia imperiale, combattute energicamente da Augusto ma mai sopite del tutto,12 che causarono episodi di rottura quali la rivolta delle legioni stanziate lungo il Reno. Punto di inizio della nostra indagine sarà l’ampia sezione del primo libro degli Annales (capp. 31-49) riservata alla descrizione della rivolta. Tacito inizia il resoconto scrivendo che apud ripam Rheni vi erano due eserciti:13 quello stanziato a nord, composto da quattro legioni (I, V, XX e XXI),14 ubbidiva ad Aulo Cecina,15 personaggio nel bimillenario della nascita. Atti del Convegno (Macerata - Perugia, 9-11 maggio 1986), Roma 1987, e A. Fraschetti (a cura di), La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Convegno Internazionale di Studi (Cassino, 21-24 ottobre 1991), Roma 2000. 12 Augusto fu talmente risoluto nel combattere queste tensioni da non avere alcuna esitazione a infliggere l’esilio a sua figlia Giulia e ai suoi nipoti, Giulia Minore e Agrippa Postumo. Su Giulia Maggiore vedi Vell. II 100, 2-5; Sen. benef. VI 32; Plin. nat. VII 149 e XXI 9; Tac. I 53, 1-2; IV 44, 3; VI 52, 2; Suet. Aug. 65, 2-7; 101, 5; Tib. 10, 1; 11, 7; 50, 2; Cass. Dio LV 10, 12-16; 14, 1; Macr. Sat. I 11, 7. Cfr. inoltre G. Zecchini, Il Carmen De Bello Actiaco, Stuttgart 1987, 64-73; 7677; F. Rohr Vio, Le voci del dissenso. Ottaviano Augusto e i suoi oppositori, Padova 2000; Ead., Reviviscenze dell’eredità politica cesariana nello scandalo del 2 a.C., in G. Cresci Marrone - A. Pistellato (a cura di), Studi in ricordo di Fulviomario Broilo, Padova 2007, 531-548; A. Galimberti, Fazioni politiche e principesse imperiali (I-II sec. d.C.), in G. Zecchini (a cura di), “Partiti” e fazioni nell’esperienza politica romana, Milano 2009, 126-127; F. Cenerini, Dive e donne. Mogli, madri, figlie e sorelle degli imperatori romani da Augusto a Commodo, Imola 2009, 24-28. Su Giulia Minore vd. Tac. III 24, 3 e IV 71, 4; Suet. Aug. 19 e 65; Schol. Iuv. VI 158. Cfr. inoltre B. Levick, The Fall of Julia the Younger, «Latomus» XXXIV (1976), 301-309; A. Luisi, L’opposizione sotto Augusto: le due Giulie, Germanico e gli amici, in M. Sordi (a cura di), Fazioni e congiure nel mondo antico, CISA 25, Milano 1999, 181-192; Cenerini, Dive e donne, cit. 28-31. Su Agrippa Postumo Vell. II 104, 1 (adozione da parte di Augusto) e II 112, 7; Tac. I 6; Suet. Aug. 65, 2 e Tib. 22; Cass. Dio LV 32, 1 e LVII 3, 5-6; Plin. nat. VII 150; Plut. de garrul. 11, 508 a. Vd. inoltre S. Jameson, Augustus and Agrippa Postumus, «Historia» XXIV (1975), 287-314; M. Sordi, La morte di Agrippa Postumo e la rivolta di Germania del 14 d.C., in Scritti di storia romana, Milano, 2002, 309-323 (= Studi su Varrone, sulla retorica, storiografia e poesia latina. Scritti Riposati, II, Rieti-Milano 1979, 481-495); J. Bellemore, The Death of Agrippa Postumus and Escape of Clemens, «Eranos» XCVIII (2000), 93-114. Cfr. nn. 67 e 75. 13 Sulla divisione degli eserciti in Germania vedi C. Rüger, Germany, in A.K. Bowman - E. Champlin - A. Lintott (Eds.), The Cambridge Ancient History, X, The Augustan Empire. 43 BC - AD 68, Cambridge 1996, 528-529. Sulla composizione e le trasformazioni dell’esercito nella prima età imperiale, sul reclutamento e i vari dislocamenti delle legioni vedi G. Forni, Il reclutamento delle legioni da Augusto a Diocleziano, Roma 1953; L. Keppie, The Making of the Roman Army. From Republic to Empire, London 1984, 173-198 e 205-212. Cfr. anche B. Campbell, The Roman Army: 31BC - AD337, New York 1994 e Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, ed. it., Roma 2008. 14 Legio I Germanica, V Alaudae, XX Valeria Victrix e XXI Rapax. Cfr. Keppie, The Making, 205206 e 211. 15 Su Aulo Cecina cfr. A. Barrett, Aulus Caecina Severus and the Military Woman, «Historia» LIV (2005), 301-314. Lo studioso ricostruisce la carriera politico-militare di Cecina soprattutto soffermandosi su una delle pagine più misogine degli Annales, cioè III 32-35, dove viene riportato l’intervento in senato del nostro personaggio il quale proponeva che ai magistrati provinciali non fosse permesso di condurre nelle province le loro mogli, in quanto la donna «non solo è debole e impari alle fatiche ma, se presa dalla sfrenatezza, è esigente, intrigante, assetata di potere» (ann. III 33, 3). Ritorneremo più avanti su questo passo. Sulla misoginia negli storici romani cfr. Cenerini, Dive e donne, cit. 9-11. Sulle donne in età giulio-claudia cfr. M.F. Nanna, Donne in politica in età giulio- ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 141 mentre quello che si trovava a sud, anch’esso composto da quattro legioni (II, XIII, XIV e XVI),16 era affidato a Gaio Silio. Il comando supremo era esercitato da Germanico.17 La presenza di ben otto legioni rendeva il fronte renano un punto nevralgico di grandissima importanza, il cui controllo poteva alterare gli equilibri di potere.18 Quando si diffuse la notizia della morte di Augusto,19 l’esercito stanziato negli alloggiamenti estivi in finibus Ubiorum sotto il comando di Cecina20 in rabiem prolapsus est:21 la scintilla della rivolta scoppiò tra i soldati della quinta e ventunesima legione e in seguito divampò anche tra gli uomini della prima e ventesima legione i quali speravano che Germanico non sopportasse l’impero di un altro e che daret se legionibus vi sua cuncta tracturis. Da rilevare che la matrice politica della rivolta risulta preponderante in Cassio Dione, il quale scrive che i soldati dislocati in Germania τὸν Γερμανικὸν καὶ Καίσαρα καὶ πολὺ τοῦ Τιβερίου κρείττω ὁρῶντες ὄντα, οὐδὲν ἐμετρίαζον ἀλλὰ τὰ αὐτὰ προτεινόμενοι τόν τε Τιβέριον ἐκακηγόρησαν καὶ τὸν Γερμανικὸν αὐτοκράτορα ἐπεκάλεσαν.22 In Tacito, invece, la vernacula multitudo,23 giunta da Roma in seguito a recenti arruolamenti e che, a giudizio dello storico, era lasciviae sueta, laborum intolerans, iniziò a sobillare ceterorum rudes animos, che reclamavano congedi anticipati per i veterani, claudia, in Epigrafia e territorio, politica e società. Temi di antichità romane, Bari 1983, 137-153; sulle figure femminili nelle opere di Tacito, tra i tanti studi, cfr. B. Riposati, Profili di donne nella storia di Tacito, «Aevum» XLV (1971), 25-45 e la rassegna bibliografica ragionata di K. Gilmartin, Women in Tacitus 1903-1986, in ANRW II 33, 5, Berlin-New York 1991, 3556-3574. 16 Legio II Augusta, XIII Gemina, XIV Gemina e XVI Gallica. Cfr. Keppie, The Making, 205 e 210211. 17 Tac. I 31, 2. Il comando supremo di Germanico sulle otto legioni renane è ricordato anche in I 3, 5. 18 Cfr. G. Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania, in questo stesso volume. Da un passo degli Annales (IV 5) siamo a conoscenza del fatto che nel 23 d.C. Tiberio disponeva in totale di 25 legioni. Da questo dato, riferibile anche al 14 d.C., emerge che quasi un terzo delle forze armate romane (48.000 uomini su un totale di 150.000) erano state dispiegate lungo il Reno tanto che Tacito (in IV 5, 1 citato prima) evidenzia che praecipuum robur Rhenum iuxta, commune in Germanos Gallosque subsidium. Cfr. E. Luttwak, The Grand Strategy of the Roman Empire. From the First Century A.D. to the Third, Baltimore-London, 1979, 16-17. 19 La cronologia degli eventi dalla morte di Augusto sino alla conclusione della rivolta è stata ricostruita, in modo minuzioso, da B. Levick, Tiberius the Politician, London 1976, 69-79; secondo la studiosa la notizia della morte di Augusto arrivò agli eserciti renani non prima del 27 agosto, la delegazione senatoria raggiunse Ara Ubiorum intorno al 9 ottobre (data dell’allontanamento di Agrippina e Gaio dagli accampamenti) e la carneficina finale a Vetera è collocabile il 19 ottobre. Dunque secondo tale ricostruzione la rivolta continuò a divampare per più di 50 giorni (27/28 agosto-19 ottobre). 20 In merito all’attività di Cecina durante la rivolta delle legioni Barrett, Aulus Caecina Severus, cit., 312, osserva che «Tacitus find fault with Caecina, berating his failure to control events, and suggesting that his nerve broke in the general violence». 21 Woodman, Mutiny and Madness, cit., 319, rileva che anche Vell. II 125, 1, associa il termine rabies ai soldati che diedero l’avvio agli ammutinamenti. Lo studioso, analizzando le occorrenze di termini quali rabies, ira, furor e simili, arriva alla conclusione che Tacito, nel descrivere gli ammutinamenti, trae dal linguaggio medico «metaphorical terms of (mental) illness» (329). 22 Cass. Dio LVII 5, 1. 23 Cfr. infra, 152-153. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 142 paghe migliori per i giovani e vendetta per i soprusi da parte dei centurioni.24 Seguirono gravi disordini che sfociarono nell’assassinio dei centurioni e nell’anarchia.25 A questo punto nel resoconto degli Annales fa la sua comparsa Germanico. La sua “apparizione” segna una pausa narrativa all’interno del racconto relativo alla rivolta; Tacito, infatti, dedica un capitolo (I 33) alla descrizione del giovane principe, dei suoi legami familiari e delinea il Leitmotiv dei primi due libri della sua opera, cioè lo scontro Tiberio-Germanico: scrive infatti che Germanico, il quale aveva sposato Agrippina, nipote di Augusto, dalla quale aveva avuto molti figli,26 era fortemente preoccupato a causa dell’odio segreto che Tiberio e Livia covavano nei suoi confronti. Inoltre lo storico aggiunge che Germanico era molto amato presso il popolo romano poiché era vivo ancora il ricordo del padre Druso, di cui si riteneva che si rerum poti<t>us foret, libertatem redditurus.27 Dopo questa pausa narrativa, Tacito riprende le fila del racconto e scrive che Germanico, il quale si trovava in Gallia per un censimento, dopo aver vincolato con un giuramento di fedeltà le Belgarum civitates, giunse agli accampamenti estivi nel territorio degli Ubii, dove regnava una grande confusione: ai rivoltosi, che gli erano andati incontro lamentandosi delle dure condizioni della leva, ordinò di ricomporre i manipoli. Dopo che l’ordine – molto lentamente – fu ricostituito, il comandante parlò ai soldati dapprima elogiando Augusto, poi ricordando le vittorie di Tiberio e la fedeltà dei Galli.28 Alla fine quando biasimò il comportamento dei rivoltosi scoppiarono dei disordini: tutti protestarono per le dure condizioni della leva, i veterani con grida chiedevano il congedo dopo trent’anni di servizio, altri ancora reclamavano il pagamento dei legati di Augusto e offrivano il loro supporto nel caso in cui Germanico volesse diventare imperatore; non appena udì queste parole il giovane principe, quasi scelere contaminaretur, balzò giù dalla tribuna dalla quale aveva pronunciato il suo discorso;29 quando i soldati gli sbarrarono il passo e lo Tac. I 31. Tac. I 32. 26 Tacito mette in evidenza la discendenza diretta di Agrippina da Augusto con lo scopo, secondo Ross, The Tacitean Germanicus, cit., 214, «to emphasize Germanicus’ alliance with the Julian side». 27 Tac. I 33, 2. Gli orientamenti repubblicani di Druso Maggiore sono menzionati anche in II 82, 2 dove i seniores ricordavano una battuta del condottiero e sostenevano che Druso e il figlio Germanico erano stati tolti di mezzo perché populum romanum aequo iure complecti reddita libertate agitaverint. Su questi passi cfr. Shatzman, Tacitean Rumours, cit., 573 e 577 e O. Devillers, Tacite et les sources des Annales, Louvain-Paris 2003, 195. Sentimenti repubblicani animavano anche una parte della storiografia, purtroppo perduta, risalente agli ultimi anni del principato di Augusto e al regno di Tiberio, come ad esempio le opere di Tito Labieno, Cassio Severo, Cremuzio Cordo e Seneca il Retore definiti da A. Rostagni, Storia della letteratura latina, II, Torino 1952, 294-307 “gli storici della libertà”. Cfr. D. Salvo, Intellettuali e potere sotto il principato di Tiberio, «ExNovo» V (2008), 43-58. È ipotizzabile che all’interno di questo filone storiografico (incluso Tito Livio) sia stata elaborata la caratterizzazione di Druso come restauratore della libertà repubblicana. 28 Tac. I 34. 29 I passi relativi ai discorsi che Germanico pronunciò ai rivoltosi (ann. I 34, 2 - 35, 4; 39, 56; 42-43) sono stati esaminati da C. Buongiovanni, Il generale e il suo “pubblico”: le allocuzioni alle truppe in 24 25 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 143 minacciarono, Germanico estrasse un pugnale con l’intenzione di trafiggersi ma i suoi amici lo trattennero.30 A questo punto avvenne un episodio, narrato sia da Tacito sia da Cassio Dione, che rivela tutta la drammaticità della situazione: i rivoltosi lo incitarono a ferirsi con il pugnale e un soldato di nome Calusidio gli offrì la sua spada dicendo che quella era più affilata. Vedendo che Germanico era in balia dei ribelli e incapace di fronteggiare la situazione, gli amici, approfittando di un momento di tranquillità, lo condussero nella sua tenda. 31 Dopo aver valutato la pericolosità della situazione, il condottiero, consigliato dal suo entourage, simulò di aver ricevuto una lettera da Tiberio, nella quale venivano soddisfatte le richieste dei soldati e si stabiliva di elargire i donativi promessi da Augusto in quantità doppia.32 I rivoltosi, sospettando che la lettera fosse un’invenzione, pretesero che le disposizioni di Tiberio fossero applicate all’istante. I congedi ai veterani furono rilasciati subito, mentre si stabilì che i donativi fossero elargiti nei quartieri di inverno. I soldati della quinta e ventunesima legione, però, pretesero di essere pagati prima di lasciare gli accampamenti estivi: Germanico fu costretto, allora, a sottrarre denaro dalla cassa militare. Soddisfatti nelle loro richieste i rivoltosi si mossero verso i quartieri di inverno: la prima e la ventesima legione si diressero ad Ara Ubiorum, la quinta e la ventunesima a Vetera, a sessanta miglia di distanza mentre Germanico raggiunse le quattro legioni che si trovavano sotto il comando di Silio e, dopo aver ricevuto il loro giuramento di fedeltà, ritornò ad Ara Ubiorum.33 In questa località scoppiarono nuovi disordini quando da Roma giunse una delegazione inviata dal senato con a capo Lucio Munazio Planco:34 i soldati della ventesima legione cominciarono ad accusare Planco, credendo che fosse giunto per revocare ciò che era stato loro concesso. In preda al furore, di notte, irruppero in casa di Germanico, dopo aver abbattuto le porte, e strapparono il loro comandante dal letto minacciandolo di morte se non avesse consegnato loro il vessillo. Ancora una volta Germanico appare completamente incapace di arginare il furore dei suoi soldati e privo della dignità di comandante. Dopo l’irruzione, i ribelli, riversatisi in strada, maltrattarono i legati e costrinsero Planco a fuggire presso gli Sallustio, Tacito e Ammiano Marcellino, in G. Abbamonte - L. Miletti - L. Spina (a cura di), Discorsi alla prova. Discorsi pronunciati, discorsi ascoltati: contesti di eloquenza tra Grecia, Roma ed Europa, Atti del Quinto Colloquio italo-francese, Napoli - S. Maria di Castellabate (Sa) 21 - 23 settembre 2006, Napoli 2009, 63-80 (su Germanico cfr. soprattutto 67- 69 e 75); lo studioso ha rivolto la sua attenzione non solo al carattere retorico e contenutistico delle adlocutiones ma anche agli “aspetti tecnici”, come ad esempio l’acustica del discorso, la presenza del podio, etc. 30 Tac. I 35, 1-4. 31 Tac. I 35, 5; Cass. Dio LVII 5, 2 che però omette il nome di Calusidio. 32 Tac. I 36. La stessa notizia in Cassio Dione LVII 5, 3. 33 Tac. I 37. 34 Su questo personaggio cfr. R. Hanslik, Munatius 31, in RE XVI 1, 1933, 551. Stesso resoconto in Cassio Dione LVII 5, 4-5, il quale però, aggiunge una considerazione, attribuibile alla fonte da lui seguita, secondo cui Tiberio comunicò ai senatori inviati in Germania solo quello che desiderava far sapere a Germanico, nascondendo i suoi veri propositi per paura che il nipote, in combutta con i legati, potesse tramare qualcosa. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 144 accampamenti della prima legione.35 Il giorno seguente Germanico pronunziò un discorso ai rivoltosi chiarendo i motivi per cui era giunta la delegazione, (cioè la notifica del decreto con il quale Tiberio concedeva al nipote la carica di proconsole a vita oltre che offrire conforto per la morte di Augusto) 36 e biasimò il comportamento violento dei soldati. Infine congedò la delegazione e la fece scortare da cavalieri.37 Tacito riporta i commenti sull’operato di Germanico: al generale veniva rimproverato di non dirigersi verso l’esercito della Germania Superiore per ricevere aiuti, di aver elargito con troppa facilità i donativi cedendo alle pressioni dei rivoltosi (biasimo che si ritrova anche in Velleio Patercolo che paragona, crediamo in modo polemico, la severità di Druso in Pannonia, con l’indulgenza di Germanico)38 e di tenere il figlio e la moglie incinta inter furentes omnis humani iuris violatores.39 Germanico, allora, decise di mandare al sicuro, presso i Treviri, il figlio Caligola e la moglie Agrippina, la quale, seppur recalcitrante, alla fine fu costretta dalle insistenze del marito ad andare via.40 A questo punto Tacito descrive la patetica scena dell’allontanamento di Agrippina e di Gaio, accompagnati da altre donne, e del sentimento di vergogna provato dai rivoltosi alla vista del muliebre et miserabile agmen. Quegli stessi rudi e violenti soldati, che Germanico non era stato in grado di contrastare, appaiono ora in preda alla commozione e pentiti delle loro azioni al solo pensiero della nobiltà e della fecondità di Agrippina e del piccolo Gaio, il quale in castris genitus, in contubernio legionum eductus, era chiamato militari vocabulo Caligulam, perché era solito indossare le calzature militari ad concilianda vulgi studia. Mentre alcuni soldati affollandosi intorno alla donna la supplicavano di restare, altri imploravano Germanico di impedire che la moglie andasse via.41 Il comandante, dopo una lunga adlocutio retoricamente Breve accenno a questo fatto in Cassio Dione LVII 5, 6. Tac. I 14, 3. 37 Tac. I 39. 38 Vell. II 125, 4: Quo quidem tempore, ut pleraque ignouit Germanicus, ita Drusus, qui a patre in id ipsum plurimo quidem igne emicans incendium militaris tumultus missus erat, prisca antiquaque seueritate usus, ancipitia sibi tamque re quam exemplo perniciosa, et his ipsis militum gladiis quibus obsessus erat,obsidentes coercuit. 39 M.F. Williams, Four mutinies: Tacitus Annales 1.16-30; 1.31-49 and Ammianus Marcellinus Res Gestae 20.4.9-20.5.7; 24.3.1-8, «Phoenix» LI (1997), 56, mette in evidenza il fatto che trattenere Agrippina e Gaio fino a quel momento in mezzo ai ribelli si rivelò, alla fine, una scelta giusta – e forse frutto di calcoli ben precisi – se è vero che i rivoltosi cambiarono atteggiamento quando videro la donna e il bambino lasciare l’accampamento. 40 Tac. I 40. 41 Tac. I 41. R. Mellor, Tacitus, New York-London, 1993, 124, descrive il passo come «a contrived scene and a melodramatic one». È possibile che la descrizione dell’allontanamento di Agrippina e Gaio confluita negli Annales si trovasse nei Commentari di Agrippina Minore. Il tono patetico del passo e il grande rilievo dato ad Agrippina e alle donne del suo seguito rivelano non solo un intento celebrativo nei confronti della donna ma anche, a nostro avviso, una sensibilità femminile in contraddizione con i toni misogini usati altrove da Tacito (cfr. ad esempio l’episodio di Cecina nn. 13 e 88). Crediamo, inoltre, che Tacito abbia mutuato la descrizione direttamente dai Commentari senza la mediazione di fonti intermedie quali ad esempio Plinio. Ma cfr. nn. 86 e 97. 35 36 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 145 costruita e infarcita di echi virgiliani,42 assecondando le richieste dei soldati, fece ricondurre al campo il piccolo Gaio, mentre Agrippina, prossima al parto, rimase presso i Treviri.43 Siamo di fronte a una vera e propria glorificazione di Agrippina di cui troviamo traccia in un altro passo di Tacito, che esamineremo più avanti,44 nel quale Tiberio, lamentandosi del fatto che Agrippina aveva grande potere presso l’esercito, sosteneva che compressam a muliere seditionem, cui nomen principis obsistere non quiverit.45 Il confronto con il resoconto di Svetonio e Cassio Dione svela pienamente il carattere celebrativo sotteso al passo tacitiano. Mentre Svetonio, senza fare alcun accenno ad Agrippina, sostiene che i rivoltosi si placarono solamente alla vista del 42 251. Cfr. R.T.S. Baxter, Virgil’s influence in book 1 and 2 of the Annals, «CPh» LXVII (1972), 249- 43 Tac. I 44, 1. L’identità del nascituro non è sicura. Svetonio (Cal. 7) scrive che Agrippina diede alla luce nove figli tra i quali sei raggiunsero l’età adulta (Nerone, Druso, Caligola, Agrippina Minore, Livilla e Drusilla), due morirono subito dopo il parto e un altro neonato, nato a Tivoli nell’11 d.C. e chiamato Gaio Cesare, si spense in tenera età. Il biografo, inoltre, aggiunge che Agrippina Drusilla Livilla continuo triennio natae (sunt). A ciò bisogna aggiungere che Tacito sostiene che Agrippina partorì per l’ultima volta a Lesbo all’inizio del 18 d.C. dando alla luce Livilla. Se si interpreta l’espressione di Svetonio continuo triennio come “nate in tre anni consecutivi”, e se si accetta la notizia di Tacito relativa a Livilla, bisogna collocare la nascita di Drusilla nel 17 e quella di Agrippina nel 16. Questa ricostruzione però non è accettabile in quanto siamo a conoscenza del genetliaco di Agrippina (6 novembre secondo gli Acta Fratrum Arvalium e i Fasti Antiates) e da Tacito si desume che Livilla nacque nel gennaio del 18. Quindi se si colloca la nascita di Agrippina Minore il 6 novembre del 16 e quella di Livilla nel gennaio del 18 risulta impossibile che la moglie di Germanico abbia potuto partorire anche Drusilla nel 17. Già il Mommsen, Die Familie des Germanicus, «Hermes» XIII (1878), 245-265 (= Gesammelte Schriften, IV, Berlin 1906, 271-290) aveva messo in evidenza la questione e aveva ipotizzato che la notizia di Tacito fosse inesatta ritenendo più probabile che Livilla fosse nata alla fine del 17, Drusilla alla fine del 16 e Agrippina nel novembre del 15. Se così fosse il bambino che Agrippina portava in grembo durante la rivolta è uno dei figli morti subito dopo il parto (così Mommsen, Die Familie., cit.: «Ich habe weiter die Möglichkeit erwogen, einer der beiden früh verstorbenen Sohne des Germanicus im Herbst des J. 14 geboren sein können», 259). Altri studiosi sostengono che l’espressione continuo triennio vada interpretata nel senso di “nell’arco di un triennio” e credono che in quelle drammatiche circostanze venne al mondo Agrippina Minore (novembre del 14) mentre le sue sorelle nacquero nel periodo compreso tra novembre del 14 e novembre del 17. Contro questa ipotesi, però, osta il fatto che Agrippina Minore nacque ad Ara Ubiorum cioè Colonia (cfr. Tac. XII 27, 1), mentre Tacito sostiene che Germanico allontanò la moglie da Colonia in modo che potesse partorire in sicurezza presso i Treviri. Su tutta la questione vedi J. Humphrey, The Three Daughters of Agrippina Maior, «AJAH» IV (1979), 125-143; H. Lindsay, A Fertile Marriage: Agrippina and the Chronology of her Children by Germanicus, «Latomus» LIV (1995), 8-9; D.W. Hurley, The Politics of Agrippina the Younger’s Birthplace, «AJAH» n.s. II (2003), 95-117 e soprattutto le considerazioni di A. Barrett, Agrippina Mother of Nero, London 1996, 269-271 (appendice del libro dedicata proprio a “The Year of Agrippina the Younger’s Birth”), riprese anche in Id., Agrippina: Sex, Power and Politics in the Early Empire, New Haven - London 1996, 230-232. 44 Cfr., infra, 152. 45 Tac. I 69, 4. Suggestivo appare il parallelo istituito dalla Williams, Four mutinies, cit., 59, la quale paragona il ruolo avuto dalla donna nel domare la rivolta in Germania con quello di Seiano in Pannonia. Cfr., inoltre, Galimberti, Fazioni politiche, cit., 133. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 146 piccolo Gaio,46 nella versione di Cassio Dione lo svolgimento dei fatti differisce totalmente da quanto narrato negli Annales. Lo storico niceno, infatti, riporta che i ribelli per fare pressione su Germanico catturarono ᾿Αγριππῖναν, τοῦ τε ᾿Αγρίππου καὶ τς ᾿Ιουλίας τς τοῦ Αὐγούστου θυγατέρα οὖσαν, καὶ τὸν υἱόν, ὃν Γάιον Καλιγόλαν, ὅτι ἐν τῷ στρατοπέδῳ τὸ πλεῖστον τραφεὶς τοῖς στρατιωτικοῖς ὑποδήμασιν ἀντὶ τῶν ἀστικῶν ἐχρτο, προσωνόμαζον, ὑπεκπεμφθέντας ποι ὑπὸ τοῦ Γερμανικοῦ συνέλαβον. καὶ τὴν μὲν ᾿Αγριππῖναν ἐγκύμονα οὖσαν ἀφκαν αὐτῷ δεηθέντι, τὸν δὲ δὴ Γάιον κατέσχον. χρόνῳ δ᾿ οὖν ποτε καὶ τότε, ὡς οὐδὲν ἐπέραινον, ἡσύχασαν, καὶ ἐς τοσαύτην γε μεταβολὴν ἦλθον ὥστε καὶ αὐτοὶ τοὺς θρασυτάτους σφῶν αὐτοκέλευστοι συλλαβεῖν. 47 Nel racconto di Dione non compare la schiera di donne che mestamente si allontana dagli accampamenti, non vi sono soldati commossi alla vista di Agrippina e Gaio e che scongiurano Germanico di fare rimanere la moglie, non vi è, insomma, traccia della patetica scena descritta da Tacito.48 Dopo l’allontanamento di Agrippina, i soldati, con animo mutato, cercarono i più sediziosi e li punirono facendo strage di uomini, che Germanico, volutamente,49 non impedì.50 Sistemate le cose ad Ara Ubiorum, la rivolta divampò negli accampamenti di Vetera, dove si trovavano la quinta e la ventunesima legione.51 Questa volta Germanico appare più risoluto: scrisse lettere a Cecina nelle quali esortò gli stessi soldati a punire i facinorosi e aggiunse che, nel caso in cui il suo ammonimento fosse stato disatteso, egli avrebbe punito tutti i legionari senza distinzione tra buoni e cattivi. Ne scaturì una vera e propria carneficina durante la quale i soldati trucidarono i sediziosi.52 Tacito descrive la truculenta strage, che qualifica come guerra civile, con un certo trasporto emotivo; egli scrive che i sediziosi impugnarono le armi per difendersi, scatenando in tal modo una feroce lotta dove uomini che fino a poco prima avevano condiviso i pasti e il riposo ora si fronteggiavano pronti ad uccidersi. Quando più tardi Germanico entrò negli accampamenti dei ribelli, vide uno spettacolo agghiacciante di fronte al quale non Suet. Cal. 9. La notizia viene in parte corretta in Cal. 48, 1, dove si afferma che Caligola meditò di massacrare le legioni che post mortem Augusti seditionem olim moverant…quod et patrem suum Germanicum ducem et se infantem tunc obsedissent. Cfr. D.W. Hurley, Gaius Caligula in the Germanicus tradition, «AJPh» CX (1989), 316-338 e G. Guastella (a cura di), Gaio Svetonio Tranquillo. La Vita di Caligola, Roma 1992, 108 e 256. 47 Cass. Dio LVII 5, 6-7. 48 Le differenze, come vedremo più avanti (infra, 151), quando si esamineranno i problemi connessi con la Quellenforschung dell’episodio, dipendono dall’uso di fonti diverse da parte dei due storici. 49 La Williams, Four mutinies, cit., 56, commentando l’episodio, scrive che «Germanicus is very conscious of his image and by this action that is really non-action he is able to have the ringleaders punished without incurring any resentment» e aggiunge che «this episode illustrates Germanicus’ mild character». 50 Tac. I 44, 1-4. 51 Tac. I 45, 1. 52 Tac. I 48. 46 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 147 poté trattenere plurimas lacrimas.53 Con questa orrida scena di morte54 Tacito conclude il resoconto della rivolta. Anche Cassio Dione accenna alle stragi compiute dagli stessi soldati e in più afferma che χρόνῳ δ᾿οὖν ποτε καὶ τότε, ὡς οὐδὲν ἐπέραινον, ἡσύχασαν.55 La Sordi ha richiamato l’attenzione su questo passo sottolineando il fatto che «la soluzione della rivolta non venne da un magistrale colpo di scena operato da Germanico con una tempestiva ed abile mozione degli affetti, ma dalla stanchezza subentrata col tempo nei soldati … quando si accorsero che non concludevano nulla e che era inutile aspettare ulteriormente».56 La studiosa ipotizza che i rivoltosi aspettassero l’arrivo di Agrippa Postumo, fratello di Agrippina. Il giovane fu fatto uccidere subito dopo la morte di Augusto (non è chiaro se per ordine di Tiberio, di Livia o dello stesso Augusto) prima che un suo schiavo, di nome Clemente potesse liberarlo e condurlo ad exercitus Germanicos. 57 Tacito precisa che Clemente arrivò troppo tardi a Planasia a causa della lentezza della nave su cui viaggiava e, dal momento che il suo padrone era stato giustiziato, cambiò i suoi piani: rubò le ceneri di Agrippa, si nascose in luoghi impervi e si fece crescere barba e capelli in modo da somigliare al suo padrone. Per mezzo di complici fece spargere la voce che Agrippa era vivo e quando nel 16 sbarcò ad Ostia una multitudo ingens lo accolse con giubilo. Tiberio con uno stratagemma riuscì ad imprigionarlo e dopo averlo interrogato lo fece giustiziare in secreta Palatii parte ordinando poi che il suo corpo fosse portato via in gran segreto. Si vociferava inoltre che multi e domo principis equitesque ac senatores avevano aiutato lo schiavo nel suo tentativo di rivolta.58 Si potrebbe avanzare qualche ipotesi circa la loro identità. La contemporaneità con la congiura di Druso Scribonio Libone, accusato di res novas moliri59 (e di esercitare pratiche astrologiche, riti magici e l’interpretazione dei sogni),60 risulta significativa: i due episodi potrebbero essere collegati tra di loro e si potrebbe supporre che l’espressione res novas moliri/ νεωτερίζειν alluda a un coinvolgimento di Libone nella vicenda di Clemente. Se si accetta tale ipotesi, Tac. I 49, 1-2. Mellor, Tacitus, cit., 124 considera questa scena, insieme a quella dell’allontanamento di Agrippina e Gaio «the most graphic drama produced in ancient Rome». 55 Cass. Dio LVII 5, 7. 56 Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 321. 57 Tac. II 39, 1. 58 Sulla congiura di Clemente cfr. M.L. Paladini, La morte di Agrippa Postumo e la congiura di Clemente, «Acme» VII (1953), 313-329; J. Mogenet, La conjuration de Clemens, «AC» XXXIII (1954), 321330; I. Cogitore, Mancipii unius audacia (Tacite Annales II, 39, 1): le faux Agrippa Postumus face au pouvoir de Tibère, «REL» LXVIII (1990), 123-135; Bellemore, The death of Agrippa Postumus, cit.; O. Devillers F. Hurlet, La portée des impostures dans le Annales de Tacite: la légitimité imperial à l’épreuve, in M.A. Giua (a cura di), Ripensando Tacito (e Syme). Storia e storiografia. Atti del Convegno Internazionale (Firenze, 30 novembre - 1 dicembre 2006), Pisa 2007, 136-141 e 146-151; R. Marino, Schegge di storia sociale nella storiografia sull’età giulio-claudia, «MediterrAnt» XI (2009), cds. 59 Tac. II 27-32; Suet. Tib. 26; Cass. Dio LVII 15, 4-5. 60 Tra le fonti che ricordano la vicenda di Druso Libone (vedi n. precedente), solo Tacito riporta le accuse connesse con le pratiche magiche. Su questo aspetto e sulla repressione attuata da Tiberio cfr. D. Salvo, Sull’oniromanzia nel mondo greco-romano, «Hormos» IX (2007), 314-317. 53 54 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 148 sarebbe svelata l’identità di un primo complice, cui ipoteticamente potrebbe essere aggiunto il nome di Scribonia, madre di Giulia Maggiore e amita di Libone la quale, secondo Seneca,61 cercò di convincere il nipote a non suicidarsi. Crediamo, comunque, che il ruolo più importante in tutti questi episodi sia stato quello di Agrippina Maggiore, l’unica figlia di Giulia a trovarsi nelle condizioni di poter orchestrare piani eversivi contro Tiberio e che forse aveva precedentemente pianificato un altro tentativo per liberare il fratello, fatto ricordato da Svetonio, il quale scrive che Lucio Audasio, un infermo di mente e di corpo, e Asinio Epicado, ex gente Parthina ibridae, cercarono di rapire Giulia Maggiore e Agrippa Postumo dai luoghi dove erano stati relegati per portarli ad exercitum.62 L’episodio è stato variamente datato. Mentre la Levick sostiene che «the attempt of Asinius and Epicadus may have been engineered by her daughter (si riferisce a Giulia Minore) in A.D. 8»,63 collegandolo in tal modo alle trame sovversive della nipote di Augusto e del suo amante Decimo Silano, la Sordi, invece, colloca l’episodio nel 13 d.C. 64 La studiosa pone in rilievo il fatto che in questo piano sia coinvolto l’esercito e sostiene che ciò è indizio di un cambiamento di strategia da parte della fronda gravitante intorno alle due Giulie. Dopo la relegazione di Giulia Minore, Agrippina rimase l’unica discendente diretta di Augusto a poter avere la possibilità di riorganizzare il gruppo di fronda della pars giulia e ad essa, dunque, sembrano riconducibili queste nuove modalità di azione dell’opposizione. Se dietro il tentativo di Audasio ed Epicado vi è Agrippina, l’episodio trova la sua collocazione cronologica nel 13 o 14 d.C., quando la donna si trovava sul fronte renano.65 L’interesse per questo episodio non si esaurisce con le considerazioni appena svolte. È stato rilevato che il nomen di Epicado, Asinio, rimanda alla gens Asinia cui apparteneva Asinio Gallo, che fu uno dei protagonisti della scena politica fino al 33, anno della sua morte, e che sembra essere stato molto vicino ad Agrippina dopo la morte di Germanico.66 La Sordi ipotizza che tra i due vi sia Sen. epist. VIII 70, 10 Suet. Aug. 19: Audasius atque Epicadus Iuliam filiam et Agrippam nepotem ex insulis, quibus continebantur, rapere ad exercitus. La Levick, Tiberius, cit., 61, seguita da Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 313 osserva che la notizia del biografo è inesatta: al tempo della congiura, infatti, Giulia si trovava a Reggio e non più a Pandataria. 63 Levick, Tiberius, cit., 61. 64 Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 316-317. 65 Per questo aspetto è importante ricostruire i movimenti di Agrippina e Germanico nel 13 e 14 d.C. Da Svetonio Cal. 8 sappiamo che la donna si trovava ad Anzio il 31 agosto del 12 d.C., dove partorì Caligola, che l’anno successivo Germanico fu inviato al fronte renano, e che Augusto nel maggio del 14 d.C. inviò il piccolo Gaio in Germania alla madre. È lecito pensare che Agrippina si trovava sicuramente accanto al marito verso gennaio-febbraio del 14, se al tempo della rivolta, cioè ottobre, era prossima al parto. Nulla vieta di ipotizzare che Agrippina avesse seguito il marito già a partire dal 13, quando Germanico fu preposto alle otto legioni che erano stanziate lungo il Reno (Tac. I 3, 5). 66 Notizie su Asinio Gallo in Tac. I 13, 2; VI 23, 1; Cass. Dio LVIII 3, 1-7. Sulle vicende di questo complesso personaggio rimandiamo agli studi di D.C.A. Shotter, Tiberius and Asinius Gallus, «Historia» XX (1971), 443-457; M. Pani, Seiano e la nobilitas: i rapporti con Asinio Gallo, «RFC» CVII (1979), 142-156; K.A. Raaflaub, Grundzüge, Ziele und Ideen der Opposition gegen die Kaiser im 1.Jh. n. Chr.: 61 62 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 149 stato un accordo politico – rumores circolanti nel 33 insinuavano vi fosse stato persino un rapporto adulterino –67 che portò al tentativo di liberazione di Giulia Maggiore per mezzo di individui di condizione libertina e popolare. È utile ricordare che le due Giulie avevano avuto un grande seguito presso la plebs urbana utilizzata spesso come strumento di pressione sull’imperatore. Alcuni episodi, su cui vale la pena soffermarsi, mettono in evidenza questo legame. Nel 6 a.C. il ceto popolare aveva chiesto il consolato per il quindicenne Gaio Cesare, provocando lo sdegno di Augusto, che si rifiutò di accordare il privilegio al nipote ma che fu costretto a causa delle incalzanti richieste a concedere al giovane una carica sacerdotale.68 Nel 3 d.C. a causa delle insistenti suppliche di perdonare Giulia da parte del popolo romano, l’imperatore fece trasferire la figlia sulla terraferma, precisamente a Reggio, con condizioni di vita più miti.69 Altri episodi significativi, collocabili nel 6 e 7 d.C. sono riportati da Cassio Dione, il quale narra che a causa di una carestia 70 e degli effetti di un incendio ὁ ὅμιλος ἤσχαλλε. Ad alimentare il malcontento contribuì l’introduzione di un’imposta del cinque per cento sulle eredità e sui lasciti dei defunti che Augusto aveva stabilito per far fronte alle ingenti spese militari.71 Lo storico niceno dichiara apertamente che vennero discussi molti piani per attuare un vero e proprio “colpo di stato” e che alla fine si scatenò una caccia agli eversori – con l’istituzione di taglie – che fece piombare la città di Roma nel caos. Egli inoltre riporta la notizia che venne sospettato un certo Publio Rufo, dietro al quale, però, vi erano ἕτεροι δὲ τῷ ἐκείνου ὀνόματι καταχρώμενοι καινοτομεῖν ἐπιστεύοντο . Questo personaggio è forse identificabile con il Plauzio Rufo, che congiurò insieme a Lucio Emilio Paolo, marito di Giulia Minore.72 È condivisibile l’ipotesi della Levick73 che scorge dietro le macchinazioni di Rufo le trame del gruppo di Giulia Minore e del marito che proprio quell’anno fu incriminato per lesa maestà. Versuch einer Standortbestimmung, in Opposition et résistance à l’Empire d’Auguste à Trajan, Entretiens Hardt 33, Vandoeuvres - Genève 1987, 9-10. 67 Tac. VI 25, 2. 68 Cass. Dio LV 9, 2. 69 Giulia era stata relegata a Ventotene nel 2 a.C. da dove poi, nel 3 d.C., fu trasferita a Reggio dove morì. Tacito ( I 53, 1) è l’unico a riportare i nomi dei due luoghi di relegazione; Cassio Dione (LV 10, 14) indica solo la relegatio a Pandataria mentre Svetonio (Aug. 65) afferma genericamente che dopo cinque anni Augusto ex insula in continentem transtulit eam (cioè Giulia); Velleio Patercolo (II 100, 5), infine, scrive sbrigativamente che Iulia relegata in insulam e aggiunge che la madre Scribonia – voluntaria exilii comes – la seguì. Vedi inoltre supra, n. 12. 70 La carestia si diffuse a settembre, come si ricava da Cassio Dione LV 26, 3 dove si specifica che Augusto, a causa di questa calamità vietò banchetti pubblici per festeggiare il suo compleanno, che ricorreva, secondo Svetonio Aug. 5, 1, il 24 settembre. 71 Cass. Dio LV 25, 5- 26, 1. Questa tassa, insieme a quella relativa alla vendita degli schiavi (vd. infra, n. 75), fu utilizzata per alimentare l’erario militare. Su questo aspetto cfr. G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Bologna 2002, 139-140. 72 Suet. Aug. 19, 1. 73 Levick, Tiberius, cit., 58-59. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 150 Dalla confusa narrazione di Cassio Dione sembra di capire che questo stato di agitazione, momentaneamente rientrato allorché la carestia era cessata e Germanico e Claudio avevano organizzato giochi gladiatori in onore del padre Druso,74 si protrasse in realtà fino ai Ludi Megalenses del 7 d.C. (4-10 aprile) quando lo storico registra nuovamente malumori del popolo a causa del divampare di una nuova carestia e del prolungarsi dello sforzo bellico, malumori che, anche in questa circostanza, furono accresciuti dall’introduzione di una nuova tassa 75 e dalle limitazioni delle spese per i munera gladiatoria.76 In questo infuocato clima in cui difficoltà economiche, disagio sociale e spietate lotte politiche interne alla domus Augusta convergevano creando una humus ideale per la progettazione di piani eversivi da parte dell’opposizione, Augusto relegò Agrippa Postumo a Sorrento (probabilmente nei primi mesi del 7 d.C.) e diede il suo patrimonio all’erario militare.77 Secondo la Levick78 il giovane principe, dalla Campania, protestò contro il trattamento che Augusto gli aveva riservato privandolo dei beni familiari e inviò una lettera all’imperatore. Questa asperrima epistula – così la definisce Svetonio –79 fu divulgata dal plebeo Giunio Novato, cui Augusto inflisse una multa. Questo personaggio potrebbe essere stato collegato a Decimo Giunio Silano,80 l’amante di Giulia Minore. L’accusa del giovane principe fu diffusa probabilmente nello stesso periodo in cui scoppiarono disordini che turbarono l’elezione dei magistrati alla fine del 7 d.C. e costrinsero Augusto a scegliere personalmente i magistrati a causa delle lotte tra le varie fazioni.81 Vista la gravità della situazione, il vecchio imperatore prese la decisione di trasferire il nipote a Pianosa dove rimase fino al momento della sua uccisione nel 14 d.C. È ipotizzabile che i disordini popolari del 7 d.C., la divulgazione della lettera da parte di Novato e il confino a Pianosa di Agrippa Postumo, siano eventi 74 75 LV 27, 3-4. A questi giochi fa riferimento Plin. nat. VIII, 4. Si tratta della vicesima venalium mancipiorum, cioè una tassa sulla vendita di schiavi. Cfr. supra, n. 72. LV 31, 3-4. LV 32, 1-2. Agrippa Postumo dapprima fu confinato a Sorrento (Suet. Aug. 65, 2) e in seguito fu trasferito a Planasia (Suet. Aug. 65, 9: (scil. Augustus) Agrippam nihilo tractabiliorem, immo in dies amentiorem in insulam trasportavit saepsitque insuper custodia militum). Tacito (I 3, 4) e Cassio Dione (LV 32, 2) indicano il nome dell’isola ma non accennano al periodo trascorso a Sorrento. In Schol. Iuv. VI 158, invece, è riportato erroneamente che Agrippa fu confinato in Sicilia. Vd. Inoltre supra n. 12. 78 Levick, Tiberius, cit., 59-61. La ricostruzione della studiosa per gli avvenimenti del 7 d.C. è seguita anche da Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 311-313. 79 Suet. Aug. 51. 80 Levick, Tiberius, cit., 60. Decimo Giunio Silano divenne l’amante di Giulia dopo la morte del marito Lucio Paolo, accusato di lesa maestà nel 7 d.C. Coinvolto nello scandalo dell’ 8 d.C. fu esiliato ma nel 20 d.C. rientrò a Roma grazie all’intervento del fratello, M. Silano, che godeva di grande influenza presso la corte di Tiberio. L’uomo, però, non ricoprì più cariche pubbliche. Cfr. Tac. III 24. 81 LV 34, 2. Augusto promulgò una lex Julia maiestatis, con la quale diede un assetto stabile al crimine di lesa maestà, nel 27 a.C. o 8 d.C. Se si accetta quest’ultima data è possibile che l’imperatore abbia preso l’iniziativa di ridefinire il crimen maiestatis proprio a causa della gravità degli eventi connessi con le trame eversive della nipote Giulia. Vedi Ulpiano in Dig. 47, 10, 5 e cfr. R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Republic and Augustan Principate, Johannesburg 1967. 76 77 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 151 connessi tra di loro e orchestrati da un regia occulta dietro la quale è possibile scorgere l’azione eversiva di Giulia Minore e Decimo Silano che furono esiliati l’anno successivo.82 Se evidenti appaiono le connessioni tra plebs urbana e i circoli delle due Giulie, non vi è alcuna traccia di collegamenti con l’esercito, che invece, come si è già detto, entrerà a far parte dei piani politici di Agrippina, la quale in vari modi cercò di garantirsi l’appoggio dei legionari. Quando nel maggio del 14 d.C. Gaio fu portato in Germania, la madre lo utilizzò come strumento per ricavare un facile consenso tra i soldati; a questo proposito si costruisce ad arte la notizia della nascita del piccolo in castris83 e si usano accorgimenti quali ad esempio abbigliare il piccolo gregali habitu e fargli indossare quelle caligae, dalle quali riceverà il celebre soprannome, con il solo proposito di compiacere quei soldati che ben presto si affezionarono al bambino manipulario habitu.84 La stessa Agrippina non si sottraeva a simili espedienti: durante un’operazione bellica contro i Germani, in un momento di grande difficoltà, assunse le funzioni di comandante, distribuì ai soldati vesti e bende, e si collocò presso un ponte a tributare lodi e ringraziamenti alle legioni che ritornavano.85 A questo protagonismo di Agrippina,86 forse, alludeva Cecina nel suo discorso al 82 Cfr. Pani, Tendenze, cit., 71-90. Suet. Cal. 8. La nascita in castris di Caligola era sostenuta da Plinio il Vecchio in polemica con Getulico che sosteneva che il bambino fosse nato a Tivoli. La notizia, che si ritrova anche in Sen. const sap. 18, 4 e Athen. IV 148, fu accolta poi da Tacito. Cfr. Guastella, Gaio Svetonio, cit., 100106. 84 Suet. Cal. 9. Cfr. Guastella, Gaio Svetonio, cit., 107-108. 85 Tac. I 69, 1-2. Tacito scrive di aver desunto la notizia da Plinio il Vecchio. Disamina del passo in Hurley, Gaius Caligula, cit., 330-332. Secondo R.G. Lewis, Imperial Autobiography from Augustus to Hadrian, in ANRW II 34, 1, Berlin-New York 1993, 655, seguito da Devillers, Tacite et les sources, cit., 37, Plinio probabilmente ricavò questa informazione dai Commentari di Agrippina Minore, sui quali cfr. C. Questa, Studi sulle fonti degli Annales di Tacito, Roma 1960, 145 e n. 60 e il già citato Devillers, Tacite e les sources, 35-37. Vd. anche nn. 42 e 97. Il passo, inoltre, è stato analizzato da M. Kaplan, Agrippina semper atrox: a Study in Tacitus’s Characterization of Women, in C. Deroux (Ed.), Studies in Latin Literature and Roman History, I, Bruxelles 1979, 412-413, che qualifica l’atto di Agrippina di passare in rassegna le truppe come «one of the cardinal acts of Roman non – feminity» (412). L’autore mette in rilievo il fatto che Tacito caratterizza le due Agrippine, madre e figlia, utilizzando termini come audax, ferox e atrox che di solito vengono associati a personaggi maschili e, inoltre, sottolinea il fatto che tale connotazione, quando riferita a donne, ha solo una valenza negativa mentre associata a uomini, soprattutto in ambito bellico, può assumere connotazioni neutre (sulla ferocia in Tacito cfr. H.W. Traub, Tacitus’ Use of Ferocia, «TAPA» LXXXIV (1953), 250-261 (soprattutto 256-257 relative ad Agrippina Maggiore). Cfr. inoltre D.C.A. Shotter, Agrippina the Elder - a Woman in a Man’s World, «Historia» IL (2000), 346. 86 Negli anni successivi alla morte di Germanico, il protagonismo politico di Agrippina si scontrerà con le ambizioni di potere di Seiano. Tacito IV 17, 3 scrive che nel 24 d.C. il panorama politico a Roma era dominato dalla lotta tra le partes di Agrippina e quelle di Seiano. A tal proposito R.A. Bauman, Women and Politics in Ancient Rome, London 1992, 143, considera le partes Agrippinae «the first specific political movement to be headed by a woman». Cfr. inoltre Galimberti, Fazioni politiche, cit., 132-133. 83 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 152 senato quando affermava che praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum.87 Tacito aggiunge che l’atteggiamento della donna e la strumentalizzazione di Gaio colpirono Tiberio il quale credeva che quelle azioni fossero mirate a sollecitare il favore dei soldati non soltanto contro nemici esterni. L’imperatore constatava che nihil relictum imperatoribus, ubi femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet, tamquam parum ambitiose filium ducis gregali habitu circumferat Caesaremque Caligulam appellari velit. potiorem iam apud exercitus Agrippinam quam legatos, quam duces; conpressam a muliere seditionem, cui nomen principis obsistere non qui verit. 88 È opportuno ora interrogarsi sul motivo per cui proprio le legioni del Reno costituirono la base operativa dei progetti eversivi di Agrippina. La risposta a tale domanda si trova in Tacito e Cassio Dione. Il primo, in un passo che abbiamo già preso in considerazione all’inizio del nostro discorso,89 scrive che quando la notizia della morte di Augusto arrivò negli accampamenti renani la vernacula multitudo, nuper acto in urbe dilectu incominciò a scaldare ceterorum rudes animos.90 Il secondo precisa il momento in cui avvenne l’arruolamento affermando che Germanico per sedare la rivolta congedò coloro che avevano sorpassato l’età per la ferma militare, i quali per lo più provenivano ἐκ τοῦ ἀστικοῦ ὄχλου che Augusto aveva arruolato μετὰ τὴν τοῦ Οὐάρου συμφοράν 91 I metodi di coscrizione dopo la disfatta di Teutoburgo furono molto brutali: Cassio Dione scrive che un disperato Augusto,92 poiché non erano rimasti molti uomini in età di Tac. III 33, 3. In questa adunanza del senato del 21 d.C. Cecina chiedeva che fosse imposto ai governatori il divieto di portare nelle province le loro mogli in quanto le donne erano un intralcio nella gestione della provincia; prova di ciò era il fatto che le cause di molti processi di malversazione a carico di funzionari provinciali erano riconducibili all’avidità femminile. L’allusione, però, potrebbe essere riferita anche a Plancina, che seguì il marito Pisone in Siria, dove furono implicati nella morte di Germanico e ritenuti responsabili dei disordini che ne seguirono. In questa provincia Plancina nec intra decora feminis tenebat, sed exercitio equitum, decursibus cohortium interesse (Tac. II 55, 6). Cfr. Barrett, Aulus Severus Caecina, cit., 303-304, M. Sordi, La donna etrusca, in Misoginia e maschilismo in Grecia e Roma, Genova 1981, 61-63 e Galimberti, Fazioni politiche, cit., 131. 88 Tac. ann. I 69, 3-4. 89 Cfr. supra, 141. 90 Tac. I 31, 4. 91 Cass. Dio LVII 5, 4. La clades Variana (sulla quale cfr. Vell. II 117-119; Suet. Aug. 23; Cass. Dio LVI 18-22; Tac. I 60, 3 - 62), ebbe come conseguenza non solo il massiccio arruolamento di masse cittadine ma anche, probabilmente, il ripensamento della politica espansionistica in Germania e l’abbandono dell’obiettivo di estendere i confini dell’impero romano sino al fiume Elba; contro questa interpretazione si è espresso J. Von Ungern-Sternberg, Germania Capta. Die Einrichtung der germanischer Provinzen durch Domitian in römischer Tradition, in W. Dahlheim - W. Schuller - J. Von Ungern - Strenberg (Hgg.), Festschrift Robert Werner zu seinem 65. Geburtstag. Dargebracht von Freunden, Kollegen und Schülern, Xenia 22, Konstanz 1989, 165 ed ora anche Zecchini, Il ruolo dei soldati, cit., il quale attribuisce a Tiberio, e non ad Augusto, il rinvio di piani di conquista del territorio germanico compreso tra il Reno e l’Elba. In generale sulla politica di Augusto e Tiberio in Germania cfr. M.A. Giua, Roma e i Germani, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo. 2: I principi e il mondo, Torino 1991, 507-522 (con bibliografia) e Rüger, Germany, cit., 517-534. 92 Sulla disperazione di Augusto all’annunzio della disfatta di Varo vedi Cassio Dione, secondo il quale l’imperatore τήν τε ἐσθτα … περιερρήξατο, καὶ πένθος μέγα ἐπί τε τοῖς ἀπολωλόσι καὶ ἐπὶ τῷ περί τε τῶν Γερμανιῶν καὶ περὶ τῶν Γαλατιῶν δέει ἐποιήσατο 87 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 153 reclutamento, per mezzo di metodi “polizieschi” – confische e condanne a morte – costrinse ad arruolarsi coloro che, pur essendo nell’età giusta, erano riluttanti ad entrare nell’esercito; inoltre tramite sorteggio riuscì a chiamare alle armi un cospicuo numero di liberti e soldati già congedati che inviò in Germania al seguito di Tiberio.93 Questi metodi coercitivi, che probabilmente vennero percepiti come un vero e proprio sopruso, portarono in Germania una massa malcontenta – e quindi più facilmente manovrabile – di uomini poco motivati nelle imprese militari e sottoposti per di più a dure condizioni di vita; tutto ciò modificò profondamente la composizione delle legioni renane e creò un background idoneo alle trame eversive di Agrippina, la quale sembra aver assimilato la capacità della madre di acquisire e organizzare il consenso della plebs urbana arruolata ora tra i ranghi dell’esercito. L’attuazione dei suoi piani eversivi, inoltre, fu facilitato dal fatto che a capo di queste legioni fosse stato posto il marito Germanico. Come si è già accennato prima,94 esistevano due tradizioni storiografiche diverse relative all’ammutinamento delle legioni del Reno:95 una riconosceva le (LVI 23, 1) e Svetonio, il quale sostiene che Augusto rimase talmente sconvolto dalla notizia ut per continuos menses barba capilloque summisso caput interdum foribus illideret vociferans “Quintili Vare legiones redde!” diemque cladis quotannis maestum habuerit ac lugubrem (Aug. 23, 2). 93 LVI 23, 1-3: καὶ οὔτε πολιτική οἱ ἡλικία ἀξιόλογος ὑπελέλειπτο, καὶ τὰ συμμαχικά, ὧν τι καὶ ὄφελος ἦν, ἐκεκάκωτο. ὅμως δ᾿ οὖν τά τε ἄλλα ὡς ἐκ τῶν παρόντων παρεσκευάσατο, καὶ ἐπειδὴ μηδεὶς τῶν τὴν στρατεύσιμον ἡλικίαν ἐχόντων καταλεχθναι ἠθέλησεν, ἐκλήρωσεν αὐτούς, καὶ τῶν μὲν μηδέπω πέντε καὶ τριάκοντα ἔτη γεγονότων τὸν πέμπτον, τῶν δὲ πρεσβυτέρων τὸν δέκατον ἀεὶ λαχόντα τήν τε οὐσίαν ἀφείλετο καὶ ἠτίμωσε. καὶ τέλος, ὡς καὶ πάνυ πολλοὶ οὐδ᾿ οὕτω τι αὐτοῦ προετίμων, ἀπέκτεινέ τινας. ἀποκληρώσας δὲ ἔκ τε τῶν ἐστρατευμένων ἤδη καὶ ἐκ τῶν ἐξελευθέρων ὅσους ἠδυνήθη, κατέλεξε, καὶ εὐθὺς σπουδῆ μετὰ τοῦ Τιβερίου ἐς τὴν Γερμανίαν ἔπεμψεν. Cfr. supra, 146. Recentemente S.J.V. Malloch, The End of the Rhine Mutiny in Tacitus, Suetonius, and Dio, «CQ» LIV (2004), 198-210, riprendendo un’idea prospettata da Mommsen, Die Familie, cit., 258, ha messo in dubbio l’ipotesi della duplice tradizione relativa all’ammutinamento sostenendo che «Tacitus and Dio are not based on different tradition on the end of Rhine mutiny: they display similarities to one other which indicate that they drew on a common source; discrepancies in details and in presentation, on the other hand, arise as a result of their different narratives strategies». Le argomentazioni di Malloch si basano sul presupposto che Tacito «engaged with his source material and considered it a legitimate part of his task to contribute artistically to his narrative». Tacito, inoltre, sarebbe stato agevolato nella rielaborazione “artistica” del suo materiale dal fatto che negli Annales vi è più spazio narrativo rispetto all’opera di Cassio Dione, il quale, invece, è costretto a riassumere la fonte nei punti essenziali e a tralasciare tutti i dettagli. Sebbene queste considerazioni risultino in generale valide, nel caso specifico della fine della rivolta renana, però, non siamo di fronte a dettagli omessi, abbellimenti retorici e capacità scrittorie diverse (che pur esistono tra Tacito e Cassio Dione) ma abbiamo due resoconti che narrano fatti differenti: se Tacito dice che Agrippina e Gaio furono allontanati da Germanico in mezzo a uno stuolo di soldati piangenti e doloranti per l’accaduto, ciò non può essere considerato una rielaborazione artistica della notizia dionea secondo la quale i soldati catturarono i due che di nascosto erano stati inviati altrove, a meno che Tacito non abbia attuato una vera e propria mistificazione delle notizie che ricavava dalle fonti. Nonostante il raffronto tra i due testi, le tesi dello studioso non ci sembrano convincenti. Sulla rielaborazione letteraria del materiale relativo agli ammutinamenti in Pannonia e Germania cfr. F.R.D. Goodyear, The Annals of Tacitus, I, Cambridge, 1972, 30 e Mellor, Tacitus, cit., 124. 94 95 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 154 motivazioni politiche della rivolta, l’altra quelle sociali;96 la prima fu seguita da Cassio Dione,97 la seconda da Tacito.98 La Sordi reputa più credibile la versione di Dione,99 mentre la Giua ritiene che la tradizione confluita in Tacito sia più fededegna, svalutando così le implicazioni politiche della rivolta.100 La studiosa porta a sostegno della sua tesi il resoconto di Velleio Patercolo, il quale scrive che i ribelli cercavano novum ducem, novum statum, novam rem publicam e che ausi sunt minari daturos senatui, daturos principi leges; modum stipendii finem militiae sibi ipsi constituere conati sunt.101 Alla luce di tale testimonianza riteniamo che le rivendicazioni sociali e politiche siano state compresenti nelle richieste dei rivoltosi; le due tradizioni, La discrepanza tra le fonti era già stata messa in evidenza da J. Froitzheim, Ein Widerspruch bei Tacitus und seine Losung, «RhM» XXXII (1877), 345-46 e G. Kessler, Die Tradition über Germanicus, Berlin 1905, 23-30. Più recentemente ha analizzato questo aspetto Questa, Studi sulle fonti, cit., 30-31 e 104-145, che, sviluppando un’intuizione di F.A. Marx, Die Quellen der Germanenkriege bei Tacitus und Dio, «Klio» XXVI (1933), 323-329, ha ipotizzato che per i libri tiberiani l’opera di Aufidio Basso fosse stata la fonte comune di Cassio Dione e Tacito e che quest’ultimo, nel resoconto relativo alla rivolta delle legioni renane e alle campagne militari del 14-16 di Germanico, si fosse distaccato dal resoconto di Aufidio preferendo la narrazione contenuta nei Bellorum Germaniae libri XX di Plinio il Vecchio. La Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 320, osserva che le divergenze tra Tacito e Cassio Dione diventano rilevanti a partire dall’episodio dell’allontanamento di Agrippina e Gaio e per tal motivo ritiene che Tacito si sia staccato dalla fonte comune a partire da questo episodio. Perplessità su questa ricostruzione sono avanzate da Hurley, Gaius Caligula, cit., 330-335. Sull’utilizzo dell’opera annalistica di Aufidio Basso da parte di Tacito e Cassio Dione cfr. G. Walser, Rom, das Reich und die Fremden Völker in der Geschichtsschreibung der frühen Kaiserzeit, Basel 1951, 65; E. Noè, Storiografia imperiale pretacitiana. Linee di svolgimento, Firenze 1984, 80-82; Gallotta, Germanico, cit., 119 n. 45; Devillers, Tacite et les sources, cit., 12-15 con bibliografia precedente. Sull’uso dei libri XX bellorum Germaniae di Plinio da parte di Tacito, invece, cfr. Walser, Rom, das Reich, cit., 65; Gallotta, Germanico, cit., 119 n. 45; Hurley, Gaius Caligula, cit., 330-335; Devillers, Tacite et les sources, cit., 17-21 e soprattutto n. 124 con bibliografia; sulla data di composizione e sulla prefazione dell’opera di Plinio cfr. Noè, Storiografia imperiale, cit., 129-130. Da rilevare che Plinio attinge notizie da una tradizione filogermaniciana precedente ben consolidata. 97 Tale tradizione trova eco anche in Suet. Cal. 48, 1. 98 Tracce di essa in Suet. Cal. 9. 99 Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 321. 100 M.A. Giua, Germanico nel racconto tacitiano della rivolta delle legioni renane, «RIL» CX (1976), 102113, reputa che «la relazione tacitiana sulla rivolta delle legioni germaniche non può essere ridotta entro i limiti di quella visione agiografica della figura di Germanico che domina la versione data da Cassio Dione e, più ancora, da Svetonio. Questi ultimi, facendo del personaggio il perno attorno al quale ruota la narrazione, sembrano accogliere pressoché incondizionatamente una tradizione dinastica che, interessata a porre in primo piano il contrasto Tiberio-Germanico, doveva interpretare in chiave politica l’episodio della sedizione» (112-113). La stessa studiosa ribadisce la sua posizione sia in Contesti ambientali e azione umana nella storiografia di Tacito, Como 1988, 91-94, dove sostiene che nei capitoli dedicati alla sedizione delle legioni e alle spedizioni militari del 14-16 d.C. «Tacito non si limita ad accogliere quella visione agiografica del giovane principe (scil. Germanico) che risaliva probabilmente ad un tradizione dinastica ma inserisce una pluralità di temi entro lo schema convenzionale ereditato dalla storiografia del I sec. d.C.» (92), sia in Una lettura della biografia svetoniana di Tiberio, in ANRW II 33, 5, Berlin - New York 1991, 3740- 3741 dove scrive che «il ruolo di Germanico nei resoconti di Svetonio e Cassio Dione risulta enfatizzato sulla scia di una tradizione dinastica» (3741). La posizione della Giua è condivisa da Gallotta, Germanico, cit., 82-84. 101 Vell. II 125, 1-2. 96 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 155 infatti, appaiono complementari ed entrambe attendibili in quanto nella rivolta la matrice politica e quella sociale si intrecciarono e si fusero creando una situazione di instabilità in cui le ambizioni di potere delle classi alte si confusero con le rivendicazioni sociali dei ceti bassi. Pani 102 giustamente pone l’accento sul fatto che le legioni rivendicavano un proprio ruolo nella nomina del nuovo imperatore, contestando la legittimazione di Tiberio da parte del senato. In questa contrapposizione tra esercito e senato si inserisce l’opposizione capeggiata da Agrippina che, facendo leva sul disagio sociale, proponeva ai soldati personaggi alternativi a Tiberio con la prospettiva, forse, di un miglioramento della loro attuale condizione; non è da escludere che le concessioni e le elargizioni di Germanico alimentassero le speranze dei ribelli. Per tal motivo crediamo che le legioni avrebbero accettato Germanico più facilmente rispetto ad Agrippa Postumo, che le fonti presentano come un giovane ribelle ed inetto, che trascorreva il suo tempo a pescare e che per questo motivo si faceva chiamare Nettuno.103 Il comandante, però, non si prestò alle macchinazioni della consorte e del suo entourage, come chiaramente afferma Cassio Dione scrivendo che Germanico δυνηθεὶς ἂν τὴν αὐτοκράτορα ἀρχὴν λαβεῖν... οὐκ ἠθέλησε. Τιβέριος δὲ ἐπῄνεσε μὲν αὐτὸν ἐπὶ τούτῳ, καὶ πολλὰ καὶ κεχαρισμένα καὶ ἐκείνῳ καὶ τῆ ᾿Αγριππίνῃ ἐπέστειλεν, οὐ μέντοι καὶ ἥσθη οἷς ἔπραξεν, ἀλλὰ καὶ ἐπὶ πλεῖον αὐτὸν ὡς καὶ 104 τὰ στρατεύματα ἀνηρτημένον ἔδεισεν. Anche le altre fonti sono concordi nel ritenere che il comandante non nutriva velleità di potere: come si è già detto quando i soldati gli proposero di diventare imperatore egli balzò giù dalla tribuna sulla quale si trovava «come se si fosse macchiato di un delitto».105 Sarà proprio la fermezza dell’uomo nel mantenere il vincolo di fedeltà a Tiberio a decretare la fine della ribellione e il fallimento dei piani della moglie. Giustamente Velleio Patercolo ritiene che alla rivolta mancò qui contra rem publicam duceret, non qui sequerentur.106 Negli anni successivi, però, il comandante si orientò sempre di più verso atteggiamenti meno lealisti e ispirati a concezioni dinastiche di stampo ellenistico. Segnali di questo cambiamento sono riscontrabili sia nell’elaborazione del tema della imitatio Alexandri107 sia nell’atteggiamento tenuto durante il suo viaggio in Pani, Lotte per il potere, cit., 227. Cass. Dio LV 32, 1. 104 Cass. Dio LVII 6, 2. 105 Tac. I 35, 4. Cfr. p. 5. 106 Vell. II 125, 2. 107 Tra i tanti studi cfr. G. Cresci Marrone, Germanico fra mito d’Alessandro ed exemplum d’Augusto, «Sileno» IV (1978), 209-226 (=Germanico e l’imitatio Alexandri in Oriente, in G. Bonamente M.P. Segoloni, Germanico. La persona, la personalità, cit., 67-77) e D. Sidari, Problema partico e imitatio Alexandri nella dinastia giulio-claudia, Venezia 1982, 51-70. Secondo L. Braccesi, Germanico e l’imitatio Alexandri in Occidente, in Bonamente – Segoloni (a cura di), Germanico. La persona, la personalità, cit. 5365, il tema dell’imitatio Alexandri sarebbe stato elaborato già nel 15 in Occidente durante la spedizione verso il Mare del Nord. 102 103 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno | 156 Egitto del 18 d.C., effettuato senza il permesso dell’imperatore. 108 Si potrebbe inoltre supporre che Tiberio, resosi conto della pericolosità delle legioni renane così facilmente manovrabili dal gruppo di opposizione capeggiato da Agrippina, abbia maturato l’idea di allontanare il comandante dalla Germania e di mandarlo il più lontano possibile; cosa che puntualmente avvenne nel 17 d.C. quando l’imperatore lo inviò in Oriente e nello stesso tempo assegnò il governo della Siria a Pisone al quale fu affidato il compito, afferma Tacito, di tenere a freno Germanico.109 A questo punto dell’indagine riteniamo si possa sostenere che la rivolta delle legioni renane abbia avuto origine da un complesso intreccio di motivazioni: lotte politiche interne alla domus Augusta, disagio sociale dei legionari, contrapposizione tra senato ed esercito. Se da un lato Germanico costituì l’elemento catalizzatore di queste spinte, dall’altro la sua fedeltà a Tiberio permise di ricomporre la sedizione prima che potesse degenerare in un vero e proprio “colpo di stato” ad opera della moglie. Sul ruolo della donna nella vicenda crediamo sia interessante ricordare come nel 29 d.C., a distanza di quindici anni dall’ammutinamento, in certi ambienti di corte si ritenesse – a torto o a ragione – che Agrippina potesse perfugere ad Germaniae exercitus e che per tal motivo fosse deciso di esiliarla.110 Indizio – forse – del fatto che il ruolo di Agrippina nella rivolta delle legioni dovette essere più centrale di quanto le fonti lascino intuire. Davide Salvo [email protected] on line dal 15 giugno 2011 Tac. II 59, 2. Germanico entrò ad Alessandria senza l’autorizzazione del principe, trasgredendo, in tal modo, le disposizioni di Augusto. Cfr. C. Questa, Il viaggio di Germanico in Oriente e Tacito, «Maia» IV (1957), 291-321; M. Pani, La missione di Germanico in Oriente: politica estera e politica interna, in Bonamente - Segoloni (a cura di), Germanico. La persona, la personalità, cit., 1-23; Gallotta, Germanico, cit., 147-181. 109 Tac. II 43, 4. 110 Tac. IV 67, 4; Suet. Tib. 53. Cfr. Galimberti, Fazioni politiche, cit., 133. 108 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156 GIUSEPPE ZECCHINI Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania* Le campagne di Druso maggiore tra il 12 e il 9 e poi quella di Tiberio nell’8 a.C. avevano ridotto la Germania in uno stato adatto alla sua provincializzazione; così ci riferisce Velleio (sic perdomuit eam, ut in formam paene stipendiariae redigeret prouinciae)1 e così ci conferma sotto il medesimo anno Aufidio Basso, conservatoci dal Chronicon di Cassiodoro (inter Albim et Rhenum Germani omnes Tiberio Neroni dediti):2 non per nulla per quest’impresa Tiberio si meritò il trionfo proprio a suggellare l’avvenuta conquista. Tra le due date dell’8/7 a.C e del 9 d.C. (battaglia di Teutoburgo) ci dovette essere una provincia di Germania (magna), di cui Varo fu l’ultimo governatore (con ogni probabilità lo precedette almeno C. Senzio Saturnino fino al 7 d.C.); 3 in questi anni Augusto aveva forse già steso una prima redazione delle Res gestae, dove dà chiaramente per avvenuta la sottomissione della Germania sino all’Elba: Gallias et Hispanias prouincias et Germaniam qua includit Oceanus a Gadibus ad ostium Albis fluminis pacaui.4 L’uso del verbo pacare è tecnico nell’indicare una realtà che si giudica ormai sotto controllo e non a caso è ripreso dai Commentarii di Cesare, che lo impiega per descrivere la situazione in Gallia prima dello scoppio della grande insurrezione del 54/53 a.C. (omni Gallia pacata);5 la distinzione tra la Spagna e la Gallia definite prouincias e la Germania non definita corrisponde proprio alla situazione di questo periodo, quando la Germania era già conquistata, ma non se ne era ancora compiuto il censimento, né avviata la conseguente riscossione del tributo, operazioni di cui fu incaricato proprio Varo, come peraltro si può ricavare con * Una versione più ampia delle prime pagine di questo saggio è stata utilizzata in G. Zecchini, La politica di Roma in Germania da Cesare agli Antonini, «Aevum» LXXXIV (2010), 187-198, 189196. 1 Vell. II 97, 4. 2 Cassiod. Chron. 588. 3 W. Eck, Augustus und die Grossprovinz Germanien, «Kölner Jahrbuch» XXXVII (2004), 11-22; su Saturnino in particolare cfr. Vell. II 105. 4 Res gestae diui Augusti 26. 5 Caes. BG III 28, 1. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania | 158 sufficiente certezza da Cassio Dione;6 l’espressione ad ostium Albis fluminis indica con chiarezza i confini orientali della recente conquista. Augusto morì cinque anni dopo Teutoburgo, ma, pur avendone tutto il tempo, non intervenne in questo punto delle Res gestae: la sconfitta di Varo non lo indusse a modificare i confini “sino all’Elba” del suo impero. Naturalmente, se si opta per una redazione unica delle Res gestae nel 14,7 le considerazioni precedenti acquisiscono una forza ancora maggiore, nel senso che Augusto riteneva pacata la Germania sino all’Elba anche dopo Teutoburgo. D’altra parte già nel 13 Augusto stesso affidò a Germanico, l’erede al trono, che egli intendeva imporre a Tiberio, il comando supremo degli eserciti renani. 8 Allora, quando Augusto aggiunse in calce al consuntivo del suo principato il consiglio di mantenere l’impero nei suoi confini (addiderat…consilium coercendi intra terminos imperii), si deve, a mio avviso, dedurne che egli si riferisse al confine dell’Elba, non a quello del Reno.9 La figura di Arminio, il vincitore di Teutoburgo, era anch’essa in piena sintonia con questa visione augustea dei rapporti romano-germanici: il principe dei Cherusci era con ogni probabilità anche un cavaliere romano, il prefetto di un contingente ausiliario cherusco reclutato per la guerra in Pannonia del 6-9, e aveva servito con efficienza e fedeltà sotto Tiberio;10 poi per motivi, che restano in ultima analisi non chiari, che di solito si collegano con le pesanti conseguenze fiscali della provincializzazione,11 ma che potrebbero anche riguardare l’esigenza di affermare il proprio carisma presso i Cherusci, si era ribellato, come i capi gallici dell’insurrezione contro Cesare, Vercingetorige e Commio, che prima avevano goduto della sua amicizia e sotto di lui avevano svolto il proprio apprendistato militare; a Teutoburgo aveva guidato contro le legioni di Varo non certo barbari sprovveduti, bensì soldati esperti delle tecniche romane di combattimento: lo scontro era stato tra legiones ed auxilia. Come è noto, la reazione romana è da situarsi tra il 15 e il 17 e fu affidata a Germanico; ci si può domandare perché si sia aspettato qualche anno, ma la risposta è qui abbastanza soddisfacente: dopo la terribile rivolta pannonica, appena domata, anche il più forte esercito del mondo aveva bisogno di una pausa; inoltre l’esigenza immediata era quella di impedire che la ribellione si estendesse e coinvolgesse le truppe ausiliarie dell’esercito renano, affini agli uomini di Arminio: L. Nonio Asprenate assolse in modo egregio a questo compito;12 la tarda età di 6 Dio LVI 18, 3 si riferisce a imposizione di ordini come a schiavi e ad esazioni come a sudditi, che si potrebbero rendere con la locuzione iura ac tributa. 7 Così ora A.E. Cooley, Res Gestae Divi Augusti, Cambridge 2009, 42-43. 8 Tac. Ann. I 3, 5. 9 Tac. Ann. I 11, 4 (e cfr. anche Dio LVI 33, 5). Questi termini sono riferiti all’Oriente da D. Timpe, Der Triumph des Germanicus, Bonn 1968, 34, al Reno da K. Christ, Zur augusteischen Germanienpolitik, «Chiron» VII (1977), 149-205, all’Elba molto opportunamente, ma anche isolatamente solo dall’ormai dimenticata dissertazione di B.J. Wendt, Roms Anspruch an Germanien, Hamburg 1961. 10 Su Arminio ritengo sempre attendibile l’accurata ricostruzione di D. Timpe, ArminiusStudien, Heidelberg 1970. 11 Così in breve D. Kienast, Augustus, Prinzeps und Monarch, Darmstadt 19993, 373 n. 202. 12 Vell. II 120, 3 e Dio LVI 22, 2b col commento di Timpe, Arminius-Studien, cit., 104-115. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163 Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania | 159 Augusto e l’approssimarsi di una non facile successione consigliò di non farsi trovare coinvolti in una difficile opera di riconquista. Tuttavia, domate le inquietudini delle truppe sul Reno e sul Danubio, il nuovo principato esordì proprio con l’avvio di un recupero della Germania sino ad allora solo dilazionato, ma da tutti atteso almeno fin dal 13. Germanico condusse due campagne nel 15 e nel 16, conseguì un successo, che Tacito ci presenta come importante, ma non dirimente, ad Idistaviso, diede sepoltura ai caduti di Teutoburgo e recuperò una delle insegne perdute da Varo. 13 Si apprestava a rimettersi in campagna l’anno successivo per proseguire un’opera ancora incompiuta, il cui orizzonte geografico era ancora quello augusteo dell’Elba: egli stesso lo aveva chiaramente indicato su un monumento da lui eretto e dedicato a Marte, Giove e Augusto in seguito alla sconfitta dei popoli tra il Reno e l’Elba, come ci riporta Tacito (debellatis inter Rhenum Albimque nationibus).14 Invece fu richiamato a Roma per celebrare il 26 maggio del 17 il trionfo, che poneva fine in forma spettacolare alle sue campagne germaniche e di fatto sanciva, almeno per il momento, la rinuncia alla riconquista della Germania; dopo la sua morte precoce, avvenuta in Oriente due anni dopo, nel 19, gli onori funebri, che gli furono concessi, ribadirono in modo esplicito il significato del suo trionfo. Infatti la tabula Siarensis annovera tra i meriti di Germanico quelli di aver sconfitto i Germani, di averli tenuti lontani dalla Gallia, di aver ricuperato le insegne perdute a Teutoburgo e di aver vendicato una sconfitta dovuta all’inganno (Germanis bello superatis [et longissime?] a Gallia summotis receptisque signis militaribus et uindicata frau[dulenta clade] exercitus p.R.):15 di riconquista della perduta provincia non c’è più traccia. Da un lato dunque il richiamo di Germanico a Roma, il suo trionfo presentato come atto di chiusura della questione germanica e l’assenza di ulteriori iniziative in Germania per tutto il resto del lungo governo di Tiberio indicano in modo inequivocabile che l’imperatore aveva rinunciato ai territori tra il Reno e l’Elba. Dall’altro lato la rinuncia stupisce e va motivata, perché è del tutto contraria alla tradizione romana; lasciamo stare l’esempio di Cesare, che non pensò affatto a rinunciare alla conquista gallica né dopo Atuatuca, né dopo Gergovia: in questo caso siamo infatti di fronte a una guerra personale e a un territorio non ancora costituito in provincia; pensiamo invece ai due casi successivi della Britannia e della Dacia: davanti alla terribile rivolta di Boudicca Nerone pensò 13 Idistaviso: Tac. Ann. II 16-18; sepoltura dei caduti a Teutoburgo: Tac. Ann. I 61-62; recupero dell’aquila della XIX legione: Tac. Ann. I 60, 3; recupero della seconda insegna: Tac. Ann. II 25, 1; della terza nel 41: Dio LX 8, 7. Cfr. ora M. Colombo, Le tre 'aquilae' di Varo: Tacito, Germanico Cesare e l'imperatore Tiberio, «RSA» XXXVIII (2008), 133-145. 14 Tac. Ann. II 22, 1. 15 Tab. Siar. I 13-15. L’integrazione et longissime, che qui accolgo, è di W.D. Lebek, Die drei Ehrenbögen für Germanicus, «ZPE» LXVII (1987), 129-148, 137, mentre l’editio princeps aveva et deinceps; in ogni caso l’integrazione proposta da J. Deininger, Germaniam pacare. Zur neueren Diskussion über die Strategie des Augustus gegenüber Germanien, «Chiron» XXX (2000), 749-771, 754-755 (et ultra oppure et trans Albim) sarebbe in evidente contrasto con la volontà di Tiberio di tacere dell’Elba, confine individuato da Augusto e ora abbandonato, ed è perciò da respingere. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163 Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania | 160 seriamente di rinunciare all’isola, ma, pur non essendo né espansionista, né tradizionalista, abbandonò l’idea perché temeva che ciò apparisse troppo disonorevole;16 la Dacia fu invece abbandonata da Aureliano in seguito alla gravissima crisi del III secolo, ma sia Costantino, sia ancora Valente circa un secolo dopo pensarono seriamente di rioccuparla, perché la consideravano una provincia solo temporaneamente perduta;17 ancora Giustiniano riteneva “cosa sua” la Britannia e sollecitò gli Ostrogoti a migrare su quell’isola e a riconquistarla in suo nome:18 ciò che era appartenuto all’impero si poteva in qualsiasi momento rivendicare, poiché era per sempre Romani nominis. Come è noto, il problema della rinuncia se l’era già posto Tacito. Secondo questo storico Tiberio aveva interrotto e sospeso la riconquista della Germania per meschina gelosia nei confronti di Germanico19 così come Domiziano aveva impedito ad Agricola di conquistare Ierne (l’Irlanda) per i medesimi motivi: 20 per Tacito, sempre così sospettoso e prevenuto nei confronti del potere imperiale, c’è il risentimento personale e la volontà di ridimensionare valorosi esponenti del ceto senatorio dietro queste scelte di príncipi giudicati in modo molto negativo. È sempre bene non fidarsi di Tacito; tuttavia, al di là delle spiegazioni fornite, egli ci conferma che oltre un secolo dopo i fatti, quando scrive gli Annales a cavallo fra Traiano e Adriano, la decisione di Tiberio era vista come una frattura rispetto alla politica augustea e ci si interrogava sui motivi di quella decisione. Io credo che la ragione principale della rinuncia alla Germania sia stata l’esigenza di non destabilizzare il potere imperiale. Una Germania sottomessa da Germanico avrebbe conferito a quest’ultimo un prestigio incompatibile col suo ruolo di successore designato di Tiberio, ma a lui per il momento sottoposto (SC de Cn. Pisone patre ll. 35-36: dum in omni re maius imperium Ti. Caesari Aug(usto) quam Germanico Caesari esset); dietro Germanico si profilava l’ombra dell’ambiziosa moglie Agrippina, già ambigua protagonista della rivolta delle legioni renane nel 14; un’elementare prudenza consigliava quindi a Tiberio di rimuovere una coppia così pericolosa dal settore germanico e di tutelarsi da un’eventuale usurpazione: non la gelosia suggerita da Tacito dunque, ma, se mai, l’insicurezza sulla propria legittimità e una cautela forse eccessiva ispirarono Tiberio. Poi, dopo la morte di Germanico, affidare a un altro la conquista della Germania sarebbe suonato come un affronto alla memoria del giovane principe così precocemente scomparso: Tiberio non era certo uomo da commettere simili imprudenze. La decisione di Tiberio fu dettata dunque, a mio avviso, da ragioni contingenti, ma essa non legava i suoi successori: perché dopo la sua morte nel 37 non si riprese ciò che Germanico aveva lasciato incompiuto contro la sua volontà? Perché soprattutto non lo fecero i successori di Tiberio, Caligola e Claudio, che 16 Suet. Nero 18. Per questa problematica cfr. M. Raimondi, Temistio e la prima guerra gotica di Valente, «MedAnt » III (2000), 633-683; Ead., Costantinopoli e la politica militare nei discorsi di Temistio a Costanzo II (Or. III e IV), «MedAnt» V (2002), 769-812. 18 Procop. BG VI 6. 19 Tac. Ann. II 26, 5. 20 Tac. Agr. 39-40. 17 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163 Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania | 161 erano rispettivamente il figlio e il fratello di Germanico, legati alla sua memoria e alla sua eredità? Di Caligola in realtà sappiamo che stava valutando un’iniziativa militare di grande portata in Britannia o, più probabilmente, proprio in Germania, quando fu costretto a rientrare precipitosamente a Roma per ragioni di ordine interno: 21 la sua morte precoce gli impedì di sviluppare una qualsiasi forma di politica estera di ampio respiro. Claudio invece ne ebbe tutto il tempo, ma scelse la Britannia: in lui sul modello di Germanico prevalse indubbiamente il modello di Cesare, di cui fu attento imitator.22 In Germania nel 47 l’ambizioso fratellastro della moglie di Caligola, Cn. Domizio Corbulone, coltivò progetti di conquista riguardo al territorio dei Cauci, che l’imperatore stroncò sul nascere, proibendogli di muover guerra, giacché riteneva formidolosum paci uirum insignem: Corbulone se ne lamentò invano.23 Di Nerone si è già accennato: a differenza del suo predecessore non ebbe mai mire di conquista e si rassegnò a consolidare l’occupazione della Britannia quasi a malincuore e per puro senso del dovere. 24 Nel 68/69 la fine della dinastia giulio-claudia ridiede alla Germania un ruolo da protagonista, ma in senso opposto a quello che i Romani si auguravano: fu l’esercito del Reno a svelare gli arcana imperii, almeno secondo Tacito,25 proclamando il proprio comandante, Vitellio, imperatore, e fu l’esercito del Reno con le sue truppe ausiliarie gallogermaniche a invadere l’Italia e a saccheggiarla così da evocare l’antico sacco di Roma da parte dei Galli.26 Ancora tra il 69 e il 70 l’imperium Galliarum costituito a cavallo del Reno dalla collaborazione tra i notabili gallici Classico, Sabino e Tutore e il bátavo Giulio Civile fece intravedere i pericoli di un’alleanza tra barbari capace di minacciare tutto il sistema difensivo di Roma sul basso Reno.27 Superata la crisi, la nuova dinastia flavia necessitò di un decennio di pace e di assestamento; questa esigenza peraltro non impedì a Vespasiano di preparare attraverso la spedizione di Cn. Pinario Clemente nel 73/74 l’avanzamento del confine germanico al Meno e la conseguente annessione dei cosiddetti agri decumates.28 In effetti, quando l’ambizioso figlio minore di Vespasiano, Domiziano, divenne imperatore nell’81, tutto era pronto per una vigorosa ripresa dell’espansionismo romano. In teoria tre direttrici erano aperte alle nuove conquiste, la britannica, la germanica e la dacica, e Domiziano scelse quest’ultima, 21 Sulla progettata spedizione germanica di Caligola (Tac. Agr. 13, 4; Germ. 37, 5; Dio LIX 21, 1-2) cfr. ora E. Bianchi, La politica dinastica di Caligola, «MedAnt» IX (2006), 597-630, 623 n. 125. 22 Sull’imitatio Caesaris di Claudio cfr. B. Levick,Claudius: Antiquarian or Revolutionary?, «AJPh» IC (1978), 79-105. 23 Tac. Ann. XI 19, 2-20,1; Dio LX 30, 4-6. Cfr. B. Levick, Divus Claudius, London 1990, 151155. 24 Cfr. supra n. 16. 25 Tac. Hist. I 4, 2. 26 Per l’esercito di Vitellio qualificato come Senonum furias cfr. Stat. Sil. V 3, 198. 27 Su questo cosiddetto imperium Galliarum basti il rinvio a G. Zecchini, Los druidas y la oposición de los Celtas a Roma, Madrid 2002, 123-126 (ove bibliografia precedente). 28 Per gli ornamenta triumphalia decretati a Cn. Pinario Clemente cfr. CIL XI 5271; in genere sulla politica germanica di Vespasiano cfr. B. Levick, Vespasian, London 1999, 160-162. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163 Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania | 162 preludio alla grande conquista traianea.29 Ora, di fronte a questa spettacolare avanzata fino ai Carpazi, sul fronte germanico, tra il Reno e l’Elba, non successe nulla dal punto di vista militare, se non due brevi campagne contro i Catti (82 e 89),30 ma si verificò invece proprio un’usurpazione, sia pur rapidamente rientrata, quella di L. Antonio Saturnino nell’89;31 il fatto che Traiano, prima di diventare imperatore, avesse comandato proprio l’esercito sul Reno, non lo indusse a manifestare un particolare interesse per quei territori; anzi, anche qui egli mantenne il recente assetto amministrativo introdotto da Domiziano con la trasformazione dei due distretti militari dell’alto e basso Reno in due normali province, la Germania superior e la Germania inferior.32 Proprio questa provincializzazione è il primo passo formale verso la rinuncia alla Germania: di Germanie se ne creano addirittura due, ma nessuna di queste occupa neppure parte dell’antica provincia di Germania di età augustea. Il secondo passo, altrettanto formale, è il consolidamento del limes renano sotto Domiziano, a cui Traiano e Adriano apportarono aggiunte di non grande rilievo:33 per quanto, come è noto, non si debba intendere il concetto di limes come un confine lineare,34 resta il fatto che si aggiungeva una fitta rete di fortificazioni in senso parallelo al corso del Reno e del Meno e si rinforzava così quella percezione del Reno come barriera naturale tra l’impero e il barbaricum esterno, quale Cesare aveva per primo intuito. Si può dire che così dall’Elba di Augusto si tornava al Reno di Cesare. Il rinvio di ogni progetto di conquista della Germania fino all’Elba fu quindi un’iniziativa di Tiberio, ma questo rinvio si trasformò gradualmente in un definitivo abbandono, perché fu confermato da tutti gli imperatori successivi. La motivazione per tale uniformità di comportamenti e di scelte trascende allora ogni contingenza e va ricercata nella struttura stessa dell’impero. Penso che essa si possa individuare all’interno del rapporto tra principe ed esercito; proprio Tiberio aveva ben chiaro che il suo potere si fondava sulla lealtà dei militari, come ci 29 Sulle guerre daciche (84-86) e pannoniche (89-95) di Domiziano cfr. B.W. Jones, The Emperor Domitian, London 1992, 138-143 e 150-154. 30 Sulle guerre contro i Catti cfr. A. Becker, Rom und die Chatten, Darmstadt 1992 e R. Wolters, Die Chatten zwischen Rom und den germanischen Stämmen. Von Varus bis zu Domitianus, in H. Schneider (Hrsg.), Feindliche Nachbarn. Rom und die Germanen, Köln-Wien 2008, 77-96. 31 Sulla rivolta di Saturnino cfr. Dio LXVII 11 e Suet. Domit. 7, su cui sempre Jones, The Emperor Domitian, cit., 144-150. 32 Sull’istituzione delle due province di Germania superior e inferior agli inizi del regno di Domiziano mi limito a rinviare agli status quaestionis di M.T. Raepsaet-Charlier - G. RaepsaetCharlier, Gallia Belgica et Germania Inferior, in ANRW II 4, Berlin-New York 1975, 11-299 e di Ch.M. Ternes, Die Provinz Germania Superior im Bilde der jüngeren Forschung, in ANRW II 5.2, Berlin-New York 1976, 726-1200. 33 Limes germanico: E. Birley, Hadrianic frontier policy, in E. Swoboda (Hrsg.), Carnuntina, GrazKöln 1956, 25-33; D. Baatz, Zur Grenzpolitik Hadrians in Obergermanien, in E. Birley - B. Dobson - M.G. Jarret (Eds.), Roman Frontier Studies 1969, Cardiff 1974, 112-124 e da ultimi A.R. Birley, Hadrian. The restless Emperor, London 1997, 113-122 e R. Wiegels Limes. Germania, in Der neue Pauly VII, Stuttgart 1999, 200-203. 34 Cfr. G. Forni, «Limes». Nozioni e nomenclature, CISA XIII, Milano 1987, 272-294. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163 Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania | 163 testimonia il SC de Cn. Pisone patre:35 in questo testo redatto dal senato nel 20 certamente d’accordo con l’imperatore e affisso in tutti gli hiberna sparsi per l’impero si riconosceva senza ipocrisie che la salvezza di Roma dipendeva dalla domus Augusta, ma che quest’ultima a sua volta si reggeva sulla fides e sulla pietas dei soldati; ai soldati, fondamento e baluardo dell’impero, veniva anche affidato il compito di vigilare sulla lealtà dei loro comandanti e di ubbidire solo a quelli a loro volta fedeli al nomen Caesarum; in un certo senso si affidava demagogicamente ai soldati il compito di “commissari politici” dei loro superiori: Tiberio si fidava dei soldati più che dei loro ufficiali, che pure egli stesso aveva scelto, e si mostrava così ben consapevole delle radici “cesariane” del principato, nato dal rapporto diretto tra imperator e militari, che scavalcava ed escludeva la gerarchia di estrazione senatoria, prima legata alla repubblica, ora insofferente del nuovo potere e potenzialmente foriera di usurpazioni. Ora, l’esercito renano era proprio la parte più cospicua di tutte le forze armate romane: se è vero, come ho appena osservato, che il principe affidava ai soldati il compito di conservare la fedeltà nei suoi confronti, è altrettanto vero che concedere a un comandante un successo come la sottomissione della libera Germania gli avrebbe conferito una popolarità presso le truppe difficilmente controllabile, avrebbe indotto i soldati stessi nella tentazione di trasferire la propria lealtà dal principe lontano al vittorioso condottiero vicino, sarebbe stata, in altre parole, la via maestra verso l’usurpazione. I timori di Tiberio furono confermati forse già nel 47 da Corbulone, poi nel 69 da Vitellio e ancora nell’89 da Saturnino: bastava essere alla guida dell’esercito renano per essere tentati dal contrapporsi all’imperatore e tanto più pericoloso sarebbe stato allora un governatore della Germania, dotato per necessità di un ingente numero di legioni. Si deve quindi concludere che la causa non unica, ma principale della reiterata decisione di lasciare libera la Germania fu l’esigenza, drammaticamente avvertita da tutti i príncipi, di privilegiare la stabilità interna del potere imperiale fondata sulla fedeltà degli eserciti. Giuseppe Zecchini Dipartimento di Scienze storiche Facoltà di Lettere e Filosofia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli 1 - 20123 Milano [email protected] on line dal 15 giugno 2011 35 Sc de Cn. Pisone patre ll.159-165 (item senatum probare eorum militum fidem, quorum animi frustra sollicita- / ti essent scelere Cn.Pisonis patris, omnesq(ue), qui sub auspicis et imperio principis / nostri milites essent, quam fidem pietatemq(ue) domui Aug(ustae) praestarent, eam sperare / perpetuo praestaturos, cum scirent salutem imperi nostri in eius domu<s> custo- / dia posita<m> esse{t}: senatum arbitrari eorum curae atq(ue) offici esse, ut aput eos ii, / qui quandoq(ue) ei<s> praessent, plurumum auctoritatis <haberent>, qui fidelissuma pietate / salutare huic urbi imperioq(ue) p(opuli) R(omani) nomen Caesarum coluissent), su cui rinvio a G. Zecchini, Regime e opposizioni nel 20 d.C.: dal S.C. de Cn.Pisone patre a Tacito, CISA XXV, Milano 1999, 309-335, 330-331. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163 ANTONELLA MANDRUZZATO “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana* Nel suo ben noto libro sull’arte romana nel “centro del potere” del 1969,1 nel quale riprende e amplifica le idee formulate un trentennio avanti intorno all’anonimo Maestro creatore dei rilievi della Colonna Traiana, 2 R. Bianchi Bandinelli scrive: « Quel rispetto per il nemico vinto, che si trova espresso sulla Colonna Traiana, era ancora un riflesso di un’etica derivata dalla cultura greca e dalla filosofia stoica. […] Ma nei rilievi della Colonna Traiana vi è anche qualche cosa di più. Si resta dubbiosi se nella evidente simpatia con la quale sono raffigurati i Daci […] si debba riconoscere un tratto superiore della equanimità di giudizio voluta da Traiano o non piuttosto l’espressione di sentimenti personali dell’artista che come provinciale conosceva direttamente la miseria della soggezione a Roma». 3 La sapiente, filologica disamina degli aspetti stilistico-formali del rilievo che si dipana sulle spire della Colonna, di cui il Bandinelli ha colto il valore fortemente innovativo, ha avuto un’eco vasta e duratura nella storia degli studi. Il ritratto d’artista che emerge dalle sue pagine è quello di un raffinatissimo innovatore, che rielabora con sicurezza i portati della tradizione ellenistica, dettando un linguaggio nuovo che ne fa il maggiore rappresentante dell’arte di Roma: idea questa che – com’è noto – ha segnato una tappa fondamentale negli studi sull’arte romana.4 *Le figure sono tratte da F. Coarelli, La Colonna Traiana, Roma 1999. 1 R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano 1969. 2 Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 230-250. Id., Il «Maestro delle imprese di Traiano», in Storicità dell’arte classica, Firenze 19502, 209-228: il saggio, apparso per la prima volta su «Le Arti» I (1938-1939), 325-334, con il titolo Un problema di Arte Romana: Il «Maestro delle imprese di Trajano» e ripubblicato in Storicità dell’arte classica (Firenze, 1943 e 19502, Bari 19733), è stato riproposto come pubblicazione a sé stante nel 2003, a cura della Soprintendenza archeologica di Roma, con una breve storia delle edizioni. 3 Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 242. 4 Bianchi Bandinelli, Il Maestro, cit., in particolare 217, 220, 278 n. 237; Id., Roma. L’arte romana, cit., 229, 242, 249-250; Id., La Colonna Traiana: documento d’arte e documento politico (o Della libertà dell’artista), in Dall’ellenismo al medioevo, Roma 1978, in particolare 137. Sulla storia critica del ‘Maestro’: S. Settis, s.v. Imprese di Traiano, Maestro delle, in EAA, II Suppl. 1971-1994, III, 1995, 93-95, con bibl. prec.. Nella ricca produzione critica intorno all’artista ideatore, segnalo, in particolare, G. Becatti, La Colonna Traiana, espressione somma del rilievo storico romano, in ANRW II, 12.1, 1982, 551-552 e F. Coarelli, La Colonna Traiana, Roma 1999, 28-31. Un’articolata analisi della personalità del Maestro, chiamato al «compito ben arduo […] di misurarsi con i desideri del committente e con le attese del ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 165 L’incursione da parte dello studioso nel campo dei sentimenti personali del Maestro, con il riferimento alla “simpatia” per i vinti espressa nella narrazione delle campagne daciche, non ha avuto uguale fortuna: ne è stata sottolineata l’incompatibilità con la destinazione stessa del monumento, eretto per esaltare le doti di condottiero e le virtù di buon sovrano di Traiano e per eternare la sconfitta dei barbari suoi avversari.5 Ciò ha portato non solo a porre in discussione la “partecipazione emotiva” del Maestro nella rappresentazione dei vinti, ma anche il rapporto tra il committente e l’artista creatore, e l’effettivo livello di autonomia di quest’ultimo.6 “Simpatia”: così Bianchi Bandinelli definisce l’atteggiamento del Maestro nei confronti dei Daci. Sympátheia, conformità di sentire, ma anche compassione, e si chiede se non sia «l’espressione di sentimenti personali dell’artista». A chiarire il senso di tale interrogativo provvede egli stesso, ribadendo con chiarezza che la Colonna «dal punto di vista della tematica, senza dubbio [è] un’opera d’arte al servizio della propaganda imperiale e di carattere celebrativo». «La superiore libertà dell’artista» si manifesta, a suo giudizio, «nel modo di rappresentare e comporre l’argomento nei suoi episodi, tanto che allo scopo egli ha creato un pubblico» cui era destinato il lungo racconto a rilievo, è in S. Settis, La Colonna, in S. Settis - A. La Regina - G. Agosti - V. Farinella, La Colonna Traiana, Torino 1988, 100 sgg. 5 «Oggi […] si tende a non sopravvalutare gli indizi che […] sembrano incoraggiare una lettura di questo tipo, forse un po’ troppo modernizzante nel suo applicare a un monumento ufficiale di età romana una sensibilità e un’attenzione per i risvolti sociali delle vicende belliche che il mondo antico non ha certamente mai avuto»: così riassume le posizioni della critica recente S. Rambaldi in Alterità etnica e conquista: lo straniero nell’arte romana, «Griseldaonline» II (2002-2003), 3. Sulla questione è tornato a più riprese S. Settis: La Colonna, cit., 230; Id., Fuga e morte di Decebalo, in H.-U. Cain - H. Gabelmann - D. Salzmann (Hgg.), Festschrift für Nikolaus Himmelmann, Mainz a. Rhein 1989, 381-382; Id., Imprese di Traiano, cit., 94. Ricordo, inoltre, E. La Rocca, Ferocia barbarica, «MDAI(R)» CIX (1994), passim, in particolare 3-5, e più recentemente Martin Galinier, che fa sue e sviluppa le osservazioni avanzate da G.G. Belloni (La Colonna Traiana: qualche questione, «Aevum» LXIV, 1 (1990), 101-102) e da G.Ch. Picard (L’idéologie de la guerre et ses monuments dans l’Empire romain, «RA» 1992, 1, 136138): M. Galinier, La Colonne Trajane et les Forums Impériaux, Roma 2007, 65, n. 171; 67. Sul tema, ampiamente dibattuto, della rappresentazione del Barbaro sui monumenti ufficiali di Roma ricordo: La Rocca, Ferocia barbarica, cit., 1-40; P. Zanker, I barbari, l’imperatore e l’arena. Immagini di violenza nell’arte romana, 38-62; Id., Le donne e i bambini barbari sui rilievi della Colonna Aureliana, 63-78, in Un’arte per l’impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Milano 2002; Rambaldi, Alterità etnica e conquista, cit., 1-9, e i più recenti saggi di J.J. Aillagon, I Barbari e Roma, 42-53, A. Chauvot, La rappresentazione romana dei Barbari, 156-159, ed E. Rosso, I Barbari nell’arte romana (I-III sec. d.C.), 162-165, in J.J. Aillagon (a cura di), Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo, Catalogo della Mostra di Palazzo Grassi (Venezia), Milano 2008. Pone fortemente l’accento sulla persistenza della tradizione culturale dell’ellenismo nella resa delle figure e nella funzione dei barbari sulla Colonna il Settis, da ultimo nel saggio La Colonna traiana: l’imperatore e il suo pubblico, in F. Bertini (a cura di), Giornate filologiche «Francesco Della Corte», IV, Genova 2005, 65-86, in particolare 81-85. 6 Mi chiedo se questa lettura colga pienamente il pensiero del Bandinelli, sempre attento al ruolo centrale del “committente”, che sottolinea come «la tematica di fondo della narrazione è senza dubbio l’esaltazione dell’imperatore», perfettamente interpretata dal Maestro nella concezione complessiva del fregio. Bianchi Bandinelli, La Colonna Traiana, cit., 128. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 166 linguaggio formale nuovo».7 La libertà dell’artista appare dunque consegnata alla sfera della “creazione artistica”, attraverso una costante e consapevole rielaborazione di modi e di modelli tràditi dalla cultura ellenistica, genialmente espressa in tutto lo svolgersi della vicenda, e in particolare negli episodi che vedono protagonisti i Daci: «… artisticamente – scrive – proprio le raffigurazioni della resistenza dacica sono fra gli episodi più validamente espressi».8 Quale che sia il ruolo attribuito ai Daci nel rilievo della Colonna, il lungo racconto della conquista della loro terra mette in scena, innanzi tutto, l’operato di Traiano e del suo esercito, poiché «la Colonna è in primo luogo la celebrazione delle vittorie daciche e delle virtutes di Traiano, non certo un monumento eretto a gloria imperitura dell’avversario»,9 avversario destinato alla sconfitta fin dalle battute iniziali della prima guerra.10 Nel coerente sviluppo della narrazione vi sono, tuttavia, alcune scene che, per il loro contenuto, o per le formule e gli schemi adottati nella rappresentazione di Decebalo e dei suoi uomini, si sottraggono alla logica degli stereotipi ricorrenti; su di esse intendo soffermarmi, seguendo le vicende che si svolgono sul fusto marmoreo. Il resoconto delle imprese daciche si apre con l’attraversamento del Danubio e prosegue con le fasi iniziali dell’avanzata nel territorio nemico; il primo contatto con i Daci è raffigurato nella scena XVIII,11 nella quale un Dace “comato” viene condotto davanti a Traiano per essere interrogato: «presentazione, sì, di un episodio della guerra (nota Settis) – ma anche – perché prima comparsa dei Daci sulla Colonna – condensatissima prolessi che nella sorte di uno solo prefigura la sconfitta di un popolo».12 Ma è nella raffigurazione della battaglia di Tapae, primo scontro tra i due eserciti, quando le truppe romane stanno per travolgere le ultime resistenze degli avversari, che appare per la prima volta Decebalo (scena XXIV): al margine della mischia, poco distanti dai combattenti incalzati dalle truppe imperiali, due Daci avanzano a fatica tra i caduti trasportando il corpo di un compagno, laica pietà contrapposta alla figura del re che assiste impotente, tra gli alberi, alla disfatta dei suoi.13 7 Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 242. E ancora Id., La Colonna Traiana, cit., in particolare 136-137. 8 Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 242. A questo riguardo, si veda anche Il Maestro delle imprese, cit., 215-216. 9 La Rocca, Ferocia barbarica, cit., 5. 10 Ne è un esempio l’episodio, raffigurato nella scena IX, dell’uomo caduto dal mulo alla presenza di Traiano, se se ne accetta l’interpretazione come omen: Settis, La Colonna, cit., 192 sgg.; C. Ampolo, L’omen victoriae della Colonna Traiana: Il principe e l’uomo caduto dal mulo, «ArchClass» XLVII (1995), 317-327. 11 La numerazione delle scene segue quella di C. Cichorius, Die Reliefs der Trajanssäule, Textband IIIII, Berlin 1896-1900. Settis, La Colonna, cit., tav. 21; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 16. Su questa scena cfr. le considerazioni di Martin Galinier, La Colonne Trajane, cit., 47. 12 Settis, La Colonna, cit., 153. 13 Settis, La Colonna, cit., 206; 145, fig. 52 e tav. 31. Coarelli, La Colonna, cit., tav. 24. Com’è noto, non vi è accordo sul numero di ricorrenze del re dace nella rappresentazione delle vicende belliche, ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 167 È noto che le scene di battaglia non costituiscono il soggetto principale del fregio, benché questo tramandi le vicende di due spedizioni militari; al contrario, assai più ampio è lo spazio riservato alla descrizione delle attività di pacificazione e di riorganizzazione del territorio, intese ad esaltare le capacità di governo di Traiano e la funzione civilizzatrice di Roma. 14 Proprio tali scene – che sottolineano il ruolo protagonista dell’esercito romano, del quale il principe è sì il comandante supremo, ma costantemente partecipe delle vicende belliche, circondato com’è dai suoi ufficiali, e impegnato nelle fatiche della guerra insieme ai suoi soldati – mostrano anche gli effetti dell’avanzata romana nel paese dei Daci. Così assistiamo alle vicissitudini della popolazione civile, costretta ad abbandonare i propri villaggi incendiati e a fuggire portando con sé armenti e masserizie, ritirandosi davanti al nemico: particolarmente pesante il bilancio alla fine della seconda guerra quando, morto suicida il re e con lui una parte dei nobili, la resa a Traiano appare definitiva, e le terre assegnate ai veterani vengono sgomberate dai loro precedenti occupanti. E con grande crudezza sono descritte le scene di battaglia, scandite dalla disposizione delle figure dei caduti,15 tutti Daci, come richiede la destinazione celebrativa del monumento,16 e dai gesti di disperazione e di sofferenza dei guerrieri sopravvissuti, come quelli che, all’inizio dell’offensiva in Mesia, guardano i compagni travolti dalla corrente del Danubio (scena XXXI).17 In tale contesto narrativo mi sembra meriti particolare attenzione la scena successiva: nonostante le perdite subìte nell’attraversamento del fiume, l’esercito dacico sferra un attacco contro una fortezza romana presidiata da truppe ausiliarie (Fig. 1). Di questo episodio il Bandinelli ha posto in evidenza la capacità degli assedianti di apprestare «una difesa militare assai più efficiente delle consuete masse di armati barbarici».18 Sostenuti dalla cavalleria sarmatica, in questa circostanza i Daci vengono rappresentati come capaci di coordinamento e di organizzazione, in modo ben diverso, dunque, dallo stereotipo del barbaro feroce e caotico, e per questo inferiore all’avversario romano, di fronte al quale è destinato alla sconfitta.19 e non tutti gli esegeti riconoscono Decebalo nel Dace “pileato” raffigurato nella scena XXIV. In proposito si veda ora Galinier, La Colonne Trajane, cit., 64, n. 160. 14 Settis, La Colonna, cit., 120-121. 15 Su cui il Bandinelli si è particolarmente soffermato. Ricordo le sue considerazioni in Il Maestro delle imprese, cit., 215-216, Roma. L’arte romana, cit., 249-250 e La Colonna Traiana, cit., 137 (con precisi richiami all’ellenismo pergameno). I modelli greci ed ellenistici degli schemi utilizzati per le rappresentazioni dei vinti sono stati indagati a più riprese dagli esegeti della Colonna. Per la bibliografia fondamentale si veda Settis, La Colonna, cit., 114 sgg., n. 57. Sull’utilizzo e la “reinvenzione” di tipi pergameni da parte del Maestro interessanti le osservazioni di A. Stewart, Attalos, Athens and the Akropolis. The Pergamene “Little Barbarians” and their Roman and Renaissance Legacy, Cambridge 2004, 170 sgg. Sulla ricezione dei modelli ellenistici delle scene di battaglia nel rilievo storico romano si veda T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, Torino 1993, 35-42. 16 Settis, La Colonna, cit., 121. 17 Settis, La Colonna, cit., tav. 38; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 30. 18 Grazie anche alla presenza di tecnici militari che Roma aveva dovuto consegnare dopo le sconfitte subìte da Domiziano: Bianchi Bandinelli, La Colonna Traiana, cit., 132-133. Settis, La Colonna, cit., tav. 40; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 31. 19 «Soccombenti o già vinti, soltanto in attesa di essere trucidati dai soldati romani, se non già stesi a terra morti», per usare l’efficace descrizione di Zanker, Le donne e i bambini barbari, cit., 63. Non ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 168 Nella scena XXXII, inoltre, ricorrono precisi dettagli compositivi, utilizzati anche in una sequenza di assedio romano, quello alla cerchia di fortezze daciche poste a difesa di Sarmigezetusa, durante la seconda guerra (scena CXIII).20 Tornando al racconto della prima guerra – scandita dal succedersi di adlocutiones e sacrifici officiati dall’imperatore, battaglie e assedi, ambascerie, dedizione di barbari – lo stesso messaggio è ribadito dalla rappresentazione di un gruppo di Daci al lavoro, impegnati nel disboscamento per completare alcune opere difensive (scena LXVII), che nella studiata alternanza delle pose richiama analoghi schemi utilizzati per raffigurare i soldati romani (Fig. 3).21 Quasi a sottolineare questa affinità, la scena successiva mostra dei legionari impegnati a trasportare tronchi e ad edificare un campo (Fig. 4).22 Attraverso la combinazione di schemi analoghi, che appartengono a un codice visivo di immediata comprensione, i Daci, benché già consegnati alla sconfitta, sembrano tuttavia affrancati dall’abituale condizione di subalternità nei confronti dei loro avversari. Tale messaggio viene nuovamente suggerito sul finire della seconda spedizione, quando Decebalo, l’esercito dacico ormai in rotta, si rivolge ai suoi uomini secondo gli stereotipi dell’adlocutio imperatoria: ma su questo torneremo più avanti. La prima guerra si chiude con il saluto di Traiano alle guarnigioni lasciate di stanza in Dacia; la scena dell’imperatore che arringa le truppe dall’alto di un podio è seguita dalla raffigurazione della Vittoria alata che scrive su uno scudo le res gestae dei Romani, immagine enfatizzata dai trofei con le armi daciche e con le armi sarmatiche che la affiancano.23 Di grande impatto è la lunga sequenza che precede le scene ora descritte, e che mostra la sottomissione dell’esercito dacico e del suo comandante a Traiano, attorniato dagli ufficiali e dalla guardia pretoriana. Il Maestro crea una perfetta coincidenza tra schemi figurativi (nobili “pileati” inginocchiati ed enfaticamente protesi verso la figura seduta dell’imperatore / prigionieri a capo scoperto, in piedi, le mani legate dietro la schiena / schiera di Daci inginocchiati seguita da un gruppo di uomini in piedi, con le braccia protese in un gesto di supplica) e valenze ideologiche: a chiudere la sequenza, in netta contrapposizione con l’imperatore seduto, è Decebalo, in piedi su una roccia. Il gesto di supplica rivolto a Traiano è si pongono in atto, in sintesi, quei modelli comportamentali costantemente associati alla “barbarie” ampiamente descritti da La Rocca, Ferocia barbarica, cit., passim. Della superiorità ideologica dell’esercito romano rispetto ai Daci «crude and uncivilized» si è occupato N. Hannestad, Rome – Ideology and Art. Some distinctive Features, in M. Trolle Larsen (Ed.), Power and Propaganda. A Symposium on ancient Empires, Copenhagen 1979, 370. L’inserimento della scena in un sistema di “lettura verticale”, nel quale diventerebbe l’enunciazione dell’inevitabile sconfitta dei barbari (Settis, La Colonna, cit., 208 e 222), non ne inficia, a mio avviso, la rilevanza e la singolarità. 20 Mi riferisco in particolare al gruppo di tre Daci che si spingono sotto le mura con un movimento avvolgente nella scena XXXII (Fig. 1), cui fanno riscontro le figure di tre combattenti romani, compresi nel gruppo di armati che si accalcano sotto gli spalti nemici nella scena CXIII (Fig. 2). Settis, La Colonna, cit., tavv. 39, 209; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 31, 137. 21 Settis, La Colonna, cit., tav. 109; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 74-75. 22 Settis, La Colonna, cit., tav. 111; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 76. Sul significato e sul valore delle scene di lavoro: Settis, La Colonna, cit., 198, con bibl. prec. 23 Settis, La Colonna, cit., tavv. 136-138; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 91-92. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 169 compensato e quasi contraddetto dalla postura e dallo sguardo fermo che rivolge al vincitore; il profilo, cesellato sullo sfondo, appare improntato ad un forte patetismo (Fig. 5).24 Già in questa scena, come in altre successive di cui diremo, nella raffigurazione di Decebalo sono utilizzati, dunque, alcuni «meccanismi formulari»25 ideati per rappresentare l’imperatore: la posizione elevata, rispetto alla massa di figure circostanti, l’atteggiamento nei confronti di Traiano, e la presenza alle sue spalle di due comites che si guardano reciprocamente. Di indubbia efficacia è, poi, l’atteggiamento del Dace nei confronti di Traiano. Nella scena successiva il suo popolo, smantellate le opere difensive come imponevano le condizioni dettate da Roma, abbandonati i villaggi, prende la via dell’esilio.26 Il re compare di nuovo durante i preparativi di una grande offensiva contro le guarnigioni romane rimaste in Dacia, all’inizio delle operazioni della seconda guerra. Benché sia raffigurato senza alcuna enfatizzazione in mezzo ai suoi, egli è chiaramente individuabile tra gli altri guerrieri: per sottolinearne la presenza, vengono messi in opera infatti, anche in questo caso, gli stessi accorgimenti riservati alla rappresentazione di Traiano, ponendolo tra due figure di nobili “pileati” i cui sguardi convergono verso di lui (Fig. 6).27 Viene così ribadito il rapporto di collaborazione e di prossimità che unisce il capo dei Daci al suo esercito, nello stesso modo in cui viene costantemente sottolineato il rapporto strettissimo di Traiano con i suoi ufficiali e il sentimento di assoluta lealtà delle sue truppe. Episodio centrale della seconda spedizione è la presa di Sarmigezetusa, preceduta da lunghe manovre di avvicinamento: sul fregio si alternano l’assedio e lo smantellamento di un sistema di fortificazioni posto a difesa della capitale con sortite e scontri in campo aperto.28 Il frenetico susseguirsi di tali avvenimenti è interrotto dalla rappresentazione della sottomissione di un nobile “pileato” a Traiano alla presenza della guardia pretoriana, momento protocollare che smorza la climax innescata dagli eventi precedenti.29 Di seguito, improvvisa, la sequenza dell’incendio della città per mano dei Daci, che si aggirano con le torce tra le loro stesse case prima di darsi la morte per sottrarsi alla cattura. «Ai fatti qui rappresentati non c’erano testimoni romani – scrive S. Settis – e mai come qui, in quella che è certamente la scena più originale e il più alto raggiungimento della 24 Becatti, La Colonna Traiana, cit., 560; Settis, La Colonna, cit., tavv. 128-131; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 86-88. 25 È proprio l’uso delle “formule di attenzione” normalmente riservate a Traiano che «assicurano l’identità del sovrano nemico» (Settis, La Colonna, cit., 144). In generale, sull’uso delle “formule di attenzione” nel racconto della Colonna, ibid., 137-148. 26 Settis, La Colonna, cit., 126-128. 27 È questo lo schema più usato per Traiano: Settis, La Colonna, cit., 144. Si veda ad esempio l’episodio della sottomissione di alcuni nobili daci alla presenza di Traiano e dei suoi ufficiali (scene XXXIX-XL): Settis, La Colonna, cit., tav. 56; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 41 (Fig. 7). 28 Sull’uso dei rilievi della Colonna per integrare gli eventi descritti dall’epitome di Xifilino e dagli excerpta bizantini del testo dioneo si veda G. Migliorati, Cassio Dione e l’mpero romano da Nerva ad Antonino Pio alla luce dei nuovi documenti, Milano 2003, 67 sgg. 29 Scena CXVIII: Settis, La Colonna, cit., tav. 222; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 145. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 170 Colonna, la scarna notizia di un evento ha saputo trasformarsi in drammatica rappresentazione di passioni, che non potevano essere raccontate se non assumendo, per osservarle, il punto di vista del nemico». 30 Il potente racconto del suicidio collettivo coinvolge sia nobili “pileati” sia semplici “comati” e si chiude con il gruppo costituito da un nobile che piange un compagno reggendone il corpo senza vita: nuova, profonda suggestione consegnata agli artisti delle epoche successive.31 Decebalo non compare in queste fasi concitate della guerra, né quando vengono avviate le operazioni destinate a fiaccare le ultime resistenze dei Daci. È durante l’assedio di un forte romano, estremo tentativo messo in atto per opporsi al nemico vittorioso, che, di nuovo secondo una “formula di attenzione” ampiamente utilizzata nelle rappresentazioni di Traiano, lo vediamo in piedi tra due nobili “pileati”. Il re e i suoi compagni volgono lo sguardo a seguire l’azione dall’esito annunciato: sulle mura del forte è già esposto il cadavere di uno dei Daci.32 E veniamo alle ultime battute della vicenda bellica, quando è Decebalo a tenere un discorso alle truppe, l’ultimo della guerra e l’unico del re immortalato sulla Colonna. In un bosco, in piedi tra i suoi, si rivolge loro secondo modi e gesti che attingono allo stesso repertorio al quale si ispirano le adlocutiones imperatorie: è la fine, per l’esercito dacico, il re stesso si prepara a tentare la fuga, come mostra la presenza nella scena del suo cavallo, in primo piano, tenuto per le briglie da un soldato (Fig. 8).33 Le immagini successive ci mostrano alcuni Daci in corsa tra gli alberi, mentre altri scelgono di darsi la morte per sottrarsi alla cattura. Il discorso di Decebalo è immediatamente successivo alla rappresentazione dell’adlocutio di Traiano (Fig. 9), di cui costituisce l’efficace contrappunto: il re barbaro è presentato nello stesso schema dell’imperatore.34 Tali scene precedono di poco l’ultima apparizione di Traiano sulla Colonna. Questi, infatti, non partecipa alle operazioni conclusive della spedizione. Comparirà invece ancora il suo avversario, quando, dopo una lunga fuga insieme a pochi compagni, incalzato dalla cavalleria nemica, si sottrarrà al disonore della cattura togliendosi la vita (Fig. 10).35 La sua morte segna la fine dell’ultima 30 Settis, La Colonna, cit., 136. Scene CXIX-CXX: Settis, La Colonna, cit., tav. 225; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 146. 31 Scena CXXI: Settis, La Colonna, cit., tav. 230; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 149. 32 Scene CXXXIV-CXXXV. Settis, La Colonna, cit., 144, 180 sgg. 33 Settis, La Colonna, cit., 170, 143-144, tav. 256; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 165. 34 Nelle nove scene di adlocutio di Traiano, sei nella prima e tre nella seconda guerra, lo schema dell’imperatore presenta alcune varianti; d’immediata evidenza, e di forte significato, la posizione del braccio destro, talvolta proteso in avanti e verso l’alto, o piegato, la mano stretta intorno a un rotulo, o ad una lancia a due punte, o ancora piegato e accostato al corpo, come appare nella scena esaminata e nell’adlocutio di Decebalo. 35 Settis, La Colonna, cit., passim, in particolare 115, 206, 226 sgg., con bibl. prec. Della rappresentazione del suicida, creata apportando significative varianti al tipo del barbaro/supplice, e dell’originale messaggio visivo così veicolato, si è recentemente occupato anche Stewart, Attalos, Athens and the Akropolis, cit., 173: «[…] the designer radically shifts the meaning of the whole motif, converting it from an icon of barbarian abjection into one of bitter recalcitrance». ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana | 171 resistenza dei Daci. Le truppe romane alle quali verranno presentate la testa e la mano destra di Decebalo, sono impegnate ormai solo in operazioni di pacificazione del territorio. La popolazione civile – morto il re, sbandati e in fuga gli ultimi difensori – lascia la propria terra e si avvia, con poche masserizie e con le greggi, verso le nuove sedi assegnate. Poche, e isolate nel lungo racconto della Colonna, sono le scene prese in esame. Tuttavia ho creduto utile evidenziare come che riscattano l’immagine che esse danno degli antagonisti barbari sembri affrancata dal consueto e consolidato ruolo subalterno, generato dalla loro stessa alterità, che li destina alla sconfitta. 36 Sia quegli episodi che hanno come protagonisti i Daci, raffigurati nell’assedio di un forte romano, o nel taglio degli alberi per il potenziamento delle opere di difesa, sia quelli dove appare Decebalo, ora impegnato in un consiglio di guerra tra i nobili “pileati”, ora ritratto mentre segue le fasi di una battaglia, o, infine, mentre parla agli ultimi guerrieri fedeli prima di tentare la fuga, tutti ci trasmettono un’idea del nemico barbaro che non trova confronti nel repertorio ufficiale corrente.37 Essi devono avere la giusta collocazione nel percorso conoscitivo e nell’analisi dei portati della nuova cultura figurativa espressa attraverso schemi e strutture compositive del fregio, che inducono vari livelli di interpretazione, e che ancora una volta evidenziano la singolarità della personalità artistica che ha concretato le intenzioni del committente imperiale. Antonella Mandruzzato Dipartimento di Beni culturali Università di Palermo Viale delle Scienze (Ed. 12) 90128 Palermo [email protected] on line dal 15 giugno 2011 36 Non ritengo che questa interpretazione delle singole scene si giustifichi soltanto con il carattere “narrativo” della Colonna (su cui si vedano Bianchi Bandinelli, La Colonna Traiana, cit., 129, e La Rocca, Ferocia barbarica, cit., 5), né mi sembra che sia in conflitto con una lettura complessiva, in cui tali scene sono integrate nel sistema di rimandi del racconto: cfr. Settis, La Colonna, cit., 159, 208, 222. 37 Valga l’esempio, proprio per l’età traianea, del Grande Fregio: A. M. Leander-Touati, The Great Trajanic Frieze: the Study of a monument and of the Mechanisms of Message Transmission in Roman Art, Stockholm 1987. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana Fig. 1 - Colonna Traiana, scena XXXII. Assedio di una fortezza romana. Fig. 3 - Colonna Traiana, scena LXVII. Daci al lavoro. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 | 172 Fig. 2 - Colonna Traiana, scena CXIII. Assedio delle fortezze intorno a Sarmizegetusa. Fig. 4 - Colonna Traiana, scena LXVIII. Legionari al lavoro. Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana Fig. 5 - Colonna Traiana, scena LXXV. Resa di Decebalo. Fig. 6 - Colonna Traiana, scena XCIII. Decebalo partecipa a un consiglio di guerra. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 Fig. 7 - Colonna Traiana, scene XXXIXXL. Traiano accoglie la sottomissione di alcuni nobili daci. | 173 Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana Fig. 8 - Colonna Traiana, scene CXXXIXCXL. Discorso di Decebalo alle truppe. Fig. 9 - Colonna Traiana, scena CXXXVII. Discorso di Traiano alle truppe. Fig. 10 - Colonna Traiana, scena CXLV. Suicidio di Decebalo. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174 | 174 MARINA USALA Il rapporto di Giuliano con le truppe: stereotipi culturali e ricerca di nuovi equilibri in Ammiano Marcellino La rappresentazione storiografica del rapporto tra eserciti e generali, quale microcosmo in cui si manifestano le caleidoscopiche tensioni dell’impero romano nel IV secolo, sottoposto alle pressioni dei barbari lungo i confini e ai grovigli delle dinamiche sociali, registra la centralità di Giuliano l’Apostata nell’opera di Ammiano Marcellino.1 La lettura degli eventi, connotata in senso etico-politico, restituisce un profilo del giovane imperatore coerente con i fattori di discontinuità di un’età complessa, tesa tra un’aspirazione al cambiamento delle dinamiche culturali e la ricerca di nuovi equilibri sociali e politici, mentre i Rerum Gestarum Libri,2 inquadrandosi nel generale movimento di rinascita pagana in linea con il progetto voluto da certa parte dell’aristocrazia senatoria, offrono un affresco, spesso deformato nei toni, ma non artefatto delle vicende, che consente di chiarire la tipologia dei rapporti e le modalità di relazioni instaurate da Giuliano con le truppe. Così, un’esplorazione in tale direzione contribuirà a definire l’orizzonte ideale del cambiamento in atto, relativo non solo alla rappresentazione ideologica della figura del sovrano ma anche alla trasformazione delle relazioni sociali orientate verso nuovi di tipi di gerarchie e verso nuovi modelli di organizzazione.3 1 Amm., Rerum gestarum libri, trad it. Le storie a cura di Antonio Selem, Torino 2007. Per le complesse problematiche concernenti il messaggio politico e culturale dell’opera di Ammiano si rimanda tra gli altri a V. Neri, Ammiano e il cristianesimo. Religione e politica nelle «Res Gestae» di Ammiano Marcellino, Studi di Storia Antica 11, Bologna 1985, su cui l’interessante recensione di A. Marcone, «Athenaeum» LXXV (1987), 592. Sul metodo storiografico dello storico e sull’importanza del panegirico come modello letterario: G. Sabbah, La méthode d’Ammien Marcellin: recherches sur la construction du discours historique dans le Res Gestae, Paris 1978; sui problemi fontuali dell’opera cfr. R. Marino, Patologie tra etica e politica in Ammiano Marcellino, in R. Marino - C. Molè - A. Pinzone (a cura di), Poveri ammalati e ammalati poveri. Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure assistenziali nell’Occidente romano in età tardoantica, Atti del Convegno di Studi (Palermo, 13-15 ottobre 2005), Catania 2006, 486 n. 2 con bibliografia. Per una valutazione sui legami intertestuali con le fonti d’età classica e sulle capacità di manipolazione della scrittura da parte del più importante scrittore della seconda metà del IV secolo si veda G. Kelly, Ammianus Marcellinus. The Allusive Historian, Cambridge 2008. 3 In merito al particolare rapporto tra insegnamento ed educazione religiosa dell’Apostata, affrontato agli inizi del secolo scorso, interessante la lettura proposta da A. Marcone, Il Giuliano 2 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 176 Le epiche battaglie,4 le strategie adottate dall’Apostata e la sua biografia storica che, in alcuni casi sembra oltrepassare il limite di una prospettiva scientifica per il fascino che può esercitare, sono note e sono state ripetutamente indagate;5 nel nostro caso, si tenterà di intravedere, attraverso l’intelaiatura del racconto ammianeo, quel codice di comportamento sperimentato dal giovane imperatore che pur riproponendo il canonico cliché del capo militare lo aveva profondamente rinnovato nella sostanza. In questo modo, anche grazie alle caratteristiche morali e umane del Giuliano delle Res Gestae, considerato strenuus et rector al punto che ignoratus ubique dux esset an miles,6 sarebbe stato realizzato il progetto di restaurazione della romanitas l’Apostata di Gaetano Negri, in Sul Mondo Antico. Scritti vari di storia della storiografia moderna, SUSMA 7, Milano 2009, 191-205=L. Canfora (a cura di), Studi sulla tradizione classica per Mariella Cagnetta, Bari 1999, 311-329. 4 La bibliografia sull’Apostata è assai vasta e ci limitiamo a ricordare: oltre l’oramai classico J. Bidez, La vie de l’empereur Julien, 2 ed., Paris 1965; R. Browning, The Emperor Julian, London 1975; G.W. Bowersock, Julian the Apostate, London 1978; P. Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano. Lo statista, il soldato, il filosofo, Milano 1984. Per un aggiornamento bibliografico L’Empereur Julien et son temps, «AntTard» XVII (2009), 9-250. Su Giuliano personaggio e sui rischi di parzialità di giudizio derivanti dal fascino della biografia del giovane imperatore: A. Marcone, L’imperatore Giuliano e la crisi del IV secolo, «PP» CXCII (1980), 235-240. Sull’adozione di tattiche di guerriglia testimoniate da Ammiano a proposito delle strategie giulianee: N.J.E. Austin, Ammianus on Warfare. An investigation into Ammianus’ military knowledge, Coll. Latomus 165, Bruxelles 1979, 44; J.M. Carrié, Eserciti e strategie, in A. Carandini - L. Cracco Ruggini - A. Giardina (a cura di), Storia di Roma, III, L’età tardoantica, I, Crisi e trasformazioni, Torino 1993, 83-151; Y. Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell’impero, Roma 2008, con riguardo 57-77. Su Giuliano modello di riferimento sia per il suo progetto politico che per la sua figura morale si veda anche Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 300-303. 5 Sull’interesse di Giuliano per l’arte militare già S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo. Ricerche di storia tardo-romana, Roma 1951, 129-130 e 132; G.A. Crump, Ammianus and the Late Roman Army, «Historia» XXII (1973), 91-103; sul fascino del personaggio di Giuliano cfr. A. Marcone, Giuliano l’Apostata, Firenze 1994, 9-10 successivamente 60 e ss.; J. Bouffartigue, Julien entre biographie et analyse historique, in L’Empereur Julien et son temps, cit., 79-89. 6 XXIV 6, 11-15; lo storico pur provando nei riguardi del giovane comandante una grande ammirazione riconosce che questi appare segnato da una forma levioris ingenii (XXV 4, 16). Il passo indicato si riferisce alla battaglia contro i Persiani combattuta presso il canale artificiale Naarmalcha, che collegava il fiume Tigri all’Eufrate, organizzata da Giuliano facendo ricorso ad un’antica tattica omerica che prevedeva l’inserimento dei soldati meno agguerriti nelle file centrali dell’esercito. Tutto il racconto è pervaso dallo spirito eroico del comandante che, armato alla leggera, non si risparmierà in alcun modo combattendo in mezzo ai suoi uomini e rimanendo in campo per tutta la durata dello scontro. Anche Zosimo (III 24-26), seppur con un tono più asciutto, evidenzia la grande astuzia strategica di Giuliano che riuscirà a ribaltare, a favore dei Romani e dei Goti alleati, una situazione di svantaggio, accusando al termine della battaglia un’assai improbabile perdita di soli settantacinque uomini a fronte dei duemilacinquecento Persiani caduti. L’attenzione di Giuliano alle sorti degli eserciti era anche connessa al fatto che in quel momento risultava necessario far fronte all’insieme dei pericoli derivanti tra l’altro dallo stato di corruzione, generato dagli intrighi di corte e dalla decadenza dello spirito militare, allorché con gli interventi posti in essere da Settimio Severo si era proceduto ad un profondo rinnovamento del servizio militare, per renderlo più allettante, e della geografia del reclutamento aperta alle periferie dell’Impero. Sul rapporto tra esercito romano e reclutamento anche C. Giuffrida Manmana, L’esercito del principato. Il reclutamento. Il limes, in Storia della Società Italiana, III, Milano 1996, 435- 480 con ampia bibliografia; Le ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 177 coerente con quella prassi politica allora in atto che si distingueva per alcuni connotati di tipo propagandistico se non addirittura di rituale rappresentativo.7 Nel contempo, a dispetto di una pretesa oggettività dello storico, nella fitta trama degli avvenimenti sarà possibile intravedere valutazioni e giudizi che, sia pure con qualche reticenza, tendono a fissare i personaggi alle loro responsabilità in un momento di trasformazione dell’impero e di cui lo stesso storico sarebbe stato testimone non indifferente. Sul versante della costruzione testuale, i procedimenti formali svelano la cifra stilistica persino nella stesura, a volte concitata se non drammaticamente formulata, per cui se il nostro autore risulta generalmente parco nel ricorso ai discorsi diretti, la presenza di un congruo numero degli stessi, concentrati nella parte dell’opera dedicata al regno dell’Apostata, sembra confermi la volontà di tratteggiarne a tutto tondo il ruolo di protagonista nella scena politica.8 Punto di avvio della nostra riflessione sono due allocuzioni, pronunciate da Costanzo alle truppe, il cui messaggio sarebbe stato riutilizzato in un’ottica ben diversa proprio dallo stesso Giuliano. Il primo intervento9 si inscrive in un momento delicato per le sorti della stabilità imperiale allorquando il sovrano, dopo aver deciso di muovere guerra agli Alamanni per i loro continui attacchi in Gallia, alla vigilia dello scontro armato in prossimità del fiume Reno, forse consapevole delle condizioni di difficoltà in cui si trovava l’esercito, deciderà di accettare la proposta di pace dei barbari, presentandola «a giuste condizioni» e soprattutto «conveniente per lo Stato».10 L’Augusto, cogitationibus magnis attonitus, aveva optato per il ritiro militare, ma poiché temeva pericolose reazioni che avrebbero potuto innescare la miccia dei rovesciamenti, aveva radunato le truppe e le alte cariche presenti e, con scaltra lungimiranza e raffinate capacità oratorie, era riuscito a plagiare l’assemblea in modo tale che la proposta di pace fosse percepita come esito di una scelta condivisa. Bohec, L’esercito romano, cit. 91-130 ma soprattutto Carrié, Eserciti, cit., 85-87 e poco oltre 137 sulla fisionomia degli eserciti nel IV secolo. 7 Al riguardo anche Marcone, Giuliano, cit., 11. Per la disapprovazione di Costanzo da parte di Ammiano si veda A. Selem, L’atteggiamento storiografico di Ammiano nei confronti di Giuliano dalla proclamazione di Parigi alla morte di Costanzo, «Athenaeum» IL (1971), 89-110. 8 Per il ricorso alle tecniche dei panegirici come i discorsi diretti, gli elogi e le digressioni in alcuni passaggi cruciali del racconto ammianeo per delineare a tutto tondo l’immagine di un Giuliano eroe romano Sabbah, La méthode d’Ammien Marcellin, cit., 243-292 e 321-346 ma anche M. Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae di Ammiano Marcellino: tra panegirico e realtà, in Giuliano imperatore. Le sue idee, i suoi amici, i suoi avversari, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lecce, 10-12 dicembre 1998), «Rudiae» X (1998), 344-345. 9 XIV 10. 10 Per il confronto dell’imperatore con le truppe per giustificare le trattative diplomatiche con i barbari si vedano le considerazioni di R. Marino, Su alchimie diplomatiche tra Roma e barbari in età tardoantica, in D. Bonanno - R. Marino - D. Motta (a cura di), Guerra e diplomazia nel mondo antico. Tra istanze politiche e strategie culturali, Atti delle Giornate di studio (Palermo, 21-22 novembre 2008), «῞Ορμος» n.s. I (2008/2009), 265. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 178 Così il richiamo ai compiti del soldato e a quelli del comandante che «provvede equamente ad ognuno» poiché «custode della vita di tutti ben sa che gli interessi della sua gente sono difesi esclusivamente da lui» richiama, a nostro avviso, quella che è stata definita l’ideologia politica della civilitas11 consolidatasi nel corso del IV secolo. Dello stesso tenore si può considerare anche la conclusione del discorso allorchè sono enucleati i caratteri ideali del princeps tranquillus, condottiero di eserciti nonché temperanter adhibere modum adlapsa felicitate decernens.12 La prassi inaugurata dal sovrano risultava permeata di valori quali l’humanitas, la tranquillitas, la modestia, di matrice vagamente pacifista, che, sconfinando nella sfera militare, avrebbero però inquinato quell’arte che sino ad allora si era distinta per il coraggio, la temerarietà e l’aggressività, caratteri su cui da sempre si era fondato il codice di comportamento dei duces e degli eserciti. A questo manifesto dai sottili e contraddittori richiami ideologici, farà da pendant il secondo discorso, pronunciato qualche tempo dopo, al momento della nomina di Giuliano a Cesare nel 355, dopo la condanna a morte del fratello di questo, Gallo.13 Come prevedibile, lo storico antiocheno presenta uno scenario di contesto assai grave in cui diversi gruppi di barbari premevano lungo il confine renano, in Pannonia e in Mesia Superiore mentre, in Oriente, i Persiani iniziavano nuove operazioni di mobilitazione armata ed allora il suggerimento dell’imperatrice di designare il giovane fratello del Cesare, testé condannato, si sarebbe rivelato oculato per i successi militari.14 11 In merito all’uso dei termini civilis e civilitas estesi in età imperiale alla sfera ideologicopolitica cfr. A. Marcone, A proposito della “civilitas” nel Tardo Impero: una nota, «RSI» XCVII (1985), 969982=Id., Di Tarda antichità. Scritti scelti, SUSMA 6, Milano 2008, 29-40, in part. 30-31 n. 8. 12 Nella seconda metà del secolo trova luogo l’idea di un’apertura dei sovrani alla promozione di uno spazio di consenso assembleare e popolare che acquisirà una certa rilevanza anche come ideologia politica. Nel nostro caso la coincidenza dello stereotipo del buon principe con quello di buon comandante, in coerenza con la considerazione che l’impero romano fosse una monarchia caratterizzata in senso militare, presenta alcuni segnali del cambiamento culturale che aveva investito la società del IV secolo. Al riguardo anche A. Marcone, Giuliano e lo stile dell’imperatore tardoantico, «Rudiae» X (1998), 43-58=Id., Di Tarda antichità, cit., 127-139, in part. 128. 13 Sulla condanna a morte di Gallo Cesare e sui suoi presunti crimini cfr. XIV 11, mentre il capitolo XV 8 è dedicato alla nomina di Giuliano; il resoconto di Zosimo (II 55, 1-3) si concentra soprattutto sulle responsabilità di alcuni eunuchi di corte che avrebbero ordito un piano contro il Cesare mentre tace sulle presunte crudeltà compiute in Oriente dallo stesso con la complicità della moglie. Al riguardo anche F. Conca, Storia e narrazione nella Storia Nuova di Zosimo, in U. Criscuolo (a cura di), L’antico e la sua eredità, Napoli 2004, 153-166. 14 Il resoconto dettagliato in XV 8, 2-18; al momento della nomina Giuliano si trovava in Acaia e indossava il pallio, la sopravveste greca, segno distintivo, se non ostentato, di quanti si dedicavano agli studi filosofici. Per una riflessione più ampia sulle problematiche politiche relative all’eredità di Costantino, vedi G. Gigli, La dinastia dei secondi Flavii: Costantino II, Costante, Costanzo II (337-361), Roma 1959, 140 ss.; C. Di Spigno, Studi su Ammiano Marcellino, «Helikon» III (1963), 301ss.; J. Burckhart, L’età di Costantino, Roma 1970, con riguardo all’introduzione di Santo Mazzarino; D. Bowden, The Age of Constantine and Julian, London 1978, in particolare 28 e ss.; Ch. Pietri, La politique de Constance II: un premier césaropapisme ou l’imitatio Constantini?, in L’Église et l’Empire au IVe siècle, Entretien Hardt 34, Genève 1989, 162; N. Baglivi, Da Diocleziano a Costantino: un punto di vista “storiografico” in alcune ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 179 Zosimo, a proposito della nomina di Giuliano, ricorderà che Eusebia, donna colta e oltremodo intelligente, per convincere il marito dell’opportunità di tale scelta, aveva fatto leva su alcuni “particolari” punti di forza del candidato come la giovane età, la semplicità del carattere e l’inesperienza politica, qualità che, pur risultando non adeguate alla gravità della situazione che invece avrebbe richiesto la presenza di uomini esperti nel comando, sembravano essere invece solide garanzie agli occhi di chi intravedeva nei propri collaboratori potenziali oppositori in campo politico.15 Così le parole dell’Augusto, pronunciate al momento dell’investitura,16 richiamando l’attenzione sui compiti che avrebbe dovuto svolgere il giovane cugino, consentono riflessioni di più ampio respiro circa le capacità e le competenze necessarie per ricoprire il ruolo a cui era stato chiamato. Il Cesare, rappresentante di un’auctoritas derivante direttamente dal potere imperiale, avrebbe solo dovuto difendere la Gallia, funestata da pericolose rivolte mentre, solo dopo il successo conseguito sui Franchi, sarebbe stato chiamato «valoroso tra i valorosi».17 In quell’occasione la sollecitazione dell’imperatore ad essere moderatamente critico nei confronti dei pigri e dei neghittosi, crediamo possa riferirsi all’esigenza del potere centrale di tenere alta l’attenzione sui fenomeni di insubordinazione rappresentazioni tardoantiche, G. Bonamente - F. Fusco (a cura di), Costantino il Grande: dall’antichità all’umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata, 18-20 dicembre 1990), Macerata 1992-1993, 59-72; A. Cameron, Il tardo impero romano, Bologna, 1995, in particolare 86-141 e poco oltre 151 ss.; A. Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Roma 2002. 15 III 1, 1-3; con grande senso pratico l’abile consigliera politica farà notare che il sovrano poteva temere, dalla nomina del Cesare, solo una disgrazia mortale proprio per il cugino inesperto. In seguito la stessa avrebbe convinto il marito ad affidare a Giuliano anche l’amministrazione dei territori sottoposti al suo controllo militare servendosi, come lascia intendere lo storico, delle stesse argomentazioni che aveva utilizzato in precedenza. Al riguardo G. Bonamente, Giuliano l’Apostata e il Breviario di Eutropio, Roma 1986, 19-45; Cameron, Il tardo impero, cit., 109-113. 16 Come di consueto all’investitura aveva fatto seguito la celebrazione del matrimonio con Elena, sorella dello stesso Costanzo (Zosimo III 2, 1). Per il progetto politico dell’imperatrice Eusebia si veda N. Aujoulat, Eusébie, Hélène et Julien. I. Le témoignage de Julien. II. Le témoignage des historiens, «Byzantion» LIII (1983), 78-103 e più oltre 421-452. Sul complesso intreccio di calcoli politici fatti dall’imperatrice per la nomina di Giuliano si veda Marino, Patologie tra etica e politica in Ammiano Marcellino, cit., 489-490 n. 12. Per il discorso pronunciato da Costanzo al momento della nomina del Cesare, Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae, cit., 346. 17 Parla di ruolo di immagine attribuito al giovane cugino del sovrano al momento dell’ingresso nella scena politica anche Marcone, Giuliano, cit., 34-36. Sulla cerimonia d’investitura si veda R. Teja, Il cerimoniale imperiale, in Storia di Roma, III, L’età tardoantica, I, Crisi e trasformazioni, cit., 624629. Sui compiti del giovane Cesare Ammiano (XV 8, 13) riferisce: si hostilibus congredi sit necesse, fixo gradu consiste inter signiferos ipsos, audendi in tempore consideratus hortator, pugnantes accendens praeeundo cautissime turbatosque subsidiis fulciens, modesteque increpans desides, verissimus testis adfuturus industriis et ignavis. Per le competenze dei signiferi in battaglia si veda Arriano nell’opera dedicata alla trattazione delle strategie militari (Ars Tattica 14, 4). Il signifero era in genere colui che indicava materialmente il cammino da seguire sia in battaglia che in marcia e che nell’accampamento si occupava di gestire i depositi di denaro posti sotto le edicole ma aveva anche compiti di vigilanza sul commercio e sull’approvvigionamento. Su ciò cfr. Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, rist. Roma 2008, 63-64. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 180 disciplinare degli eserciti,18 intanto che il registro delle responsabilità dell’Apostata, limitato alla sfera militare, pur ricalcando un modello di cerimoniale imperiale, in sostanza gli aveva precluso la possibilità di interferire nello spazio politico e di governo che, almeno per il momento, sarebbe rimasto di esclusiva pertinenza dell’Augusto in carica.19 Il discorso di Costanzo trova il suggello nella fragorosa e consueta approvazione della maggior parte dei soldati anche se, viene fatto notare, quasi come un’anticipazione degli eventi futuri, gli stessi non intendevano lodare in maniera cortigiana il Cesare preferendo riservargli una grande severità di giudizio pari a quella dei censori.20 L’operato del giovane comandante da subito avrà come modello di riferimento Costantino il Grande, lo zio che, paradossalmente, poteva essere considerato il diretto responsabile dell’innesto della religione cristiana nelle fibre del sistema culturale romano, mentre, i suoi inaspettati successi militari sul fronte occidentale e il prestigio presso le truppe provocheranno timori e sospetti nonché un inevitabile allontanamento tra i due potenziali contendenti. 21 Un primo tentativo del Cesare, apparentemente maldestro, di proporsi in termini alternativi al modello di comportamento rappresentato da Costanzo si registra già nel 357 alla vigilia della battaglia di Strasburgo.22 18 Anche Zosimo (III 3, 1-2) ricorda che Giuliano subito dopo la sua nomina a Cesare aveva scoperto che la maggior parte degli eserciti era corrotta e non in grado di opporre resistenza ai barbari che riuscivano ad attraversare il fiume Reno senza alcuna difficoltà. Il tema della disciplina militare nel IV secolo preoccupava non poco le alte gerarchie militari. La storiografia più recente ha conosciuto sostanzialmente due scuole di pensiero: la prima che ha ritenuto un luogo comune l’idea del rilassamento dei soldati, l’altra che lo ha assimilato a quello delle epoche precedenti. Al riguardo A.D. Lee., The army, in A. Cameron - P. Garnsey (Eds.), The Cambridge Ancient History, XIII, The Late Empire AD 337-425, Cambridge 1998, 211-237. Altri ritengono che il periodo fosse caratterizzato da un netto declino evidenziato dai numerosi casi di diserzione rispetto al passato. Su ciò, cfr. A. Milan, Le forze armate nella storia di Roma antica, Roma 1993; Y. Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell’impero romano, Roma 2008, 126-129. 19 Zosimo (III 5, 3) evidenzia il legame che da subito avrebbe unito i soldati a Giuliano di cui ammiravano «la semplicità di vita, il coraggio in guerra, la moderazione nei guadagni» virtù che poco alla volta suscitarono l’invidia dell’imperatore. 20 XV 9, 17. 21 Per il frequente paragone con i grandi del passato come Alessandro e Traiano quale emerge dalle Res Gestae, Bowersock, Julian, cit., 16; Marcone, Giuliano, cit., 11; più recentemente I. Tantillo, L’imperatore Giuliano, Roma-Bari 2001. Sulla volontà di Ammiano di costruire un racconto, centrato anche sulla contrapposizione esemplare tra l’imperatore Costanzo e Giuliano, cfr. Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 303-304. 22 XVI 12, 3; sulla fortitudo e sul genio militare del giovane comandante ancora lo storico in XXV 4, 10-14. Per una valutazione sulle pressioni esercitate dagli Alamanni, dai Franchi e dai Sassoni, Zosimo (III 1) a proposito degli avvenimenti del 357, sottolinea l’esiguità del numero dei soldati affidati al comando di Giuliano e il dilagante fenomeno della corruzione dei soldati. Il Cesare pertanto avrebbe dovuto far ricorso all’arruolamento di numerosi volontari per affrontare i nemici. Al riguardo anche Kaegi (Constantine’s and Julian’s strategies of strategic surprise against the Persians, «Athenaeum» LIX (1981), 209-213) ne ha valorizzato le scelte strategiche; H. Elton, Warfare in Roman Europe AD 350-425, Oxford 1996, 254-256. La Caltabiano (Giuliano Imperatore nelle Res Gestae, cit., 350) evidenzia il contesto, di grande drammaticità, in cui risulta inserito il discorso proposto da ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 181 In maniera non casuale lo storico farà allora ricorso all’espediente narrativo dell’eloquio per riproporre toni e contenuti già sperimentati in occasione della rinuncia al combattimento con gli Alamanni,23 solo che, nell’episodio che aveva visto l’Augusto protagonista, l’esercito era apparso condividere le motivazioni addotte ed accettare la proposta di rinunciare allo scontro, mentre nel caso del cugino, si assisterà ad una plateale reazione di opposizione dei soldati nei suoi confronti. L’intervento, con un consueto refrain, è preceduto dal dettagliato riferimento alle congiunture metereologiche ed organizzative che avevano costretto il comandante a spostare a marce forzate l’esercito al fine di predisporre quanto necessario per affrontare una battaglia campale. Sul piano della narrazione colpisce il coup de théâtre che vede Giuliano protagonista, il quale, dopo i preparativi per l’imminente battaglia, annuncia inaspettatamente di essere costretto a posticipare lo scontro ritenendo che i propri uomini, stanchi ed affamati, non fossero ancora pronti. La paventata rinuncia, presentata come una necessità imposta dalle debilitate condizioni fisiche delle truppe, otterrà una reazione di opposizione da parte degli stessi soldati i quali, «digrignando i denti ed esprimendo il loro desiderio di combattere percuotendo gli scudi con le lance» avevano messo in discussione la decisione annunciata dal loro comandante.24 Colui che poteva esser ritenuto il nuovo campione della romanità, solo apparentemente “costretto” dai suoi uomini a scendere in campo, era stato in effetti posto in una posizione drammaticamente antitetica rispetto a quella dell’immagine sbiadita e anti-eroica di Costanzo, promotore di un accomodante accordo di pace con i barbari qualche anno prima. L’episodio, in una prospettiva di più ampio respiro, non aveva rappresentato un momento di difficoltà del giovane comandante quanto piuttosto una sua probabile mossa per indurre le truppe, provate dai lunghi trasferimenti e dalle marce, a una presa di posizione decisa e a favore del conflitto armato. Che l’intervento di Giuliano fosse stato riferito proprio per enfatizzare la reazione dei soldati, emulatori del loro comandante, non sembra ipotesi peregrina: infatti giova ricordare che lo stesso, nel corso del racconto ammianeo, sarà ritratto come un campione di coraggio, pronto al combattimento. In questo caso la scelta di presentarlo rinunciatario era stata funzionale semmai all’intento di deformazione e di demolizione del cliché del princeps tranquillus, Giuliano ai suoi soldati, alla vigilia della battaglia di Argentoratus. Sulla sopravvalutazione della vittoria, in funzione dell’esigenza dello storico di amplificare la percezione delle abilità militari del giovane Cesare anche la Marino, Su alchimie diplomatiche, cit., 266. In merito al nome del luogo, teatro della celebre battaglia, è da notare che in Ammiano (XV 11, 8; XVI 2, 12 e 12; XVII 1, 1) compare il toponimo Argentoratus; per le altre varianti del toponimo vd. M. Ihm, Argentorate, in RE II.1, Stuttgart 1895, 713-714. 23 XVI 12, 9-12; ancora Marino, Su alchimie diplomatiche, cit., 267-268. 24 XVI 12, 13. Anche Kelly (Ammianus Marcellinus, cit., 313-317) si sofferma sulle modalità narrative e testuali con cui è riferito l’episodio della battaglia di Strasburgo evidenziando una serie di esempi del passato a cui lo storico intendeva richiamarsi in maniera ideale. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 182 cauto amante della pace e che in Giuliano trovava un modello alternativo di comportamento. In virtù di ciò le parole di ringraziamento di un ignoto alfiere, per avergli fatto riscoprire la voglia di combattere, sigleranno, in maniera coerente, la chiusa dell’episodio dando voce a quel tentativo di recupero del mito dell’invincibilità romana allora in atto.25 Il definitivo distacco da Costanzo è riferito di lì a poco, nel capitolo26 dedicato alla proclamazione di Giuliano Augusto da parte delle truppe a lui fedeli. Il passo, con grande perizia narrativa, è costruito con un procedimento dicotomico che vede opporre alla lucida tranquillità di Giuliano la tumultuosa insicurezza delle truppe. Per enfatizzare il momento, l’Antiocheno costruisce uno scenario drammatico che avvolge il lettore in un’atmosfera elettrizzata e carica di pathos; l’accampamento è descritto in preda ad un furore irrazionale, attraversato da voci sempre diverse, a volte assolutamente contrastanti, come quella relativa alla notizia, rivelatasi infondata, della morte del comandante, e che avranno l’effetto di accrescere lo stato di insicurezza generale. Solo all’inizio della sequenza, in contrasto con la risolutezza del carattere, il comandante è descritto timoroso e incerto sul partito da prendere, come a voler evitare l’accusa di un suo coinvolgimento nel pronunciamento militare, eppure è consapevole della causa di malcontento dei militari, residenti nella regione gallica ma costretti a spostarsi in Oriente per difendere i confini dalle scorrerie dei Persiani.27 Per il momento, non volendo disobbedire a un ordine superiore, il Cesare, che ritiene un’ingiustizia assai grave separare le famiglie dagli uomini, si limiterà a 25 XVI 12, 18 assai interessanti le parole del soldato: Cunctis igitur summis infimisque approbantibus tunc opportune congrediendum, … Exclamavit subito signifer: «Perge, feliccissime omnium Caesar, quo te fortuna prosperior ducit; tandem per te virtutem et consilia militare sentimus. Praevius ut faustus antesignanus et fortis, experieris quid miles sub conspectu bellicosi ductoris testisque individui gerendorum, modo adsit superum numen, viribus efficiet excitatis». Al discorso avrebbe fatto seguito la reazione dell’esercito pronto a schierarsi. 26 XX 4. Per Ammiano la morte delle mogli dei due contendenti avrebbe spezzato in maniera irreversibile il sottile legame familiare che fino a quel momento li aveva uniti: XXI 1, 5 per la morte di Elena e XXI 64 per quella di Eusebia. Secondo Libanio (or. XXXVII 9-10) l’improvvisa e per certi versi misteriosa morte di Elena, assistita da un medico amico dello stesso Giuliano, sarebbe stata adoperata dai detrattori del giovane antagonista di Costanzo per suscitare imbarazzo e sospetti nella corte vd. Marino, Patologie tra etica e politica, cit., 490, n. 12. 27 Al riguardo anche Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano, cit., 83-85; sui negoziati con Sapore II cfr. R.C. Blockley, The Romano-Persian Treaties of AD 299 and 363, «Florilegium», VI (1984), 28-49. Per l’analisi delle fonti sulla spedizione contro i Persiani si veda M.H. Dodgeon - S.N.C. Lieu, The Roman eastern Frontier and the Persia Wars (AD 226-363): A Documentary History, London- New York 2003, 201-235. Zosimo (III 9, 1-7) intravede, nell’ordine di trasferimento delle truppe, il tentativo dell’imperatore di indebolire il Cesare i cui successi militari rappresentavano una minaccia per la sua autorità. Sul racconto della proclamazione di Giuliano e sui problemi fontuali in Zosimo, Bowersock, Julian, cit., 49-50. Libanio (or. XVIII 106) farà riferimento all’esitazione di Giuliano al momento della nomina. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 183 concedere loro l’autorizzazione ad andare sui carri militari per seguire quanti erano stati costretti al trasferimento.28 L’accelerazione degli eventi, “ufficialmente” imposta dai soldati, affranti dal rischio di perdere il comandante, darà infine ragione all’autorevolezza politica e militare che Giuliano aveva progressivamente acquisito. Saranno infine le truppe più fedeli a decidere di opporsi alla volontà imperiale, proclamando il nuovo Augusto mentre questi, per non tradire il patto di fedeltà che lo legava, almeno sulla carta, all’imperatore, continuerà a rifiutare il titolo. Il ritmo convulso degli avvenimenti, ancora per poco, farà da sfondo al travaglio del Cesare che, nel corso della sequenza, si andrà trasformando da paredro comprimario in antagonista del dominus, occupando il teatro degli eventi in modo sempre più deciso e propositivo. La seconda parte del capitolo, proseguendo il racconto della sedizione, continua a focalizzare l’attenzione sulla figura esemplare di Giuliano finalmente disposto, in virtù della fiducia accordata dai suoi sostenitori, ad accettare l’investitura imperiale e con essa le grandi responsabilità politiche e di governo. La «quiete assoluta» che promanava la figura dell’Apostata contribuisce a creare, attorno alla sua persona, un’aura taumaturgica e benevola per le sorti degli uomini che a lui speravano di potersi affidare e insieme a dissipare quella terribile incertezza in cui ancora molti si trovavano. L’incipit del capitolo successivo29 registra il cambiamento dello stato d’animo dei soldati finalmente «pieni di entusiasmo e lieti» per aver trovato un sovrano in grado di difenderli e di chiamarli a nuove e gloriose imprese. Tutta la sequenza narrativa si illumina di una nuova luce, generata dalla fiducia nel futuro, e troverà una solenne conclusione nel leitmotiv del racconto dell’apparizione onirica avuta dal giovane Augusto. Il sogno del Genio dello Stato,30 che rimprovera Giuliano perché sembrava voler sfuggire alle responsabilità cui era stato chiamato già in altre occasioni, è in effetti la stereotipata celebrazione di un’investitura politica che intendeva richiamarsi a quel codice semico che aveva accompagnato l’immagine 28 Per le problematiche relative all’ ingiusto provvedimento da parte di Costanzo, pressato lungo i confini orientali e nel contempo intenzionato ad indebolire il prestigio del giovane Cesare si veda: G. Negri, Giuliano L’Apostata, Genova 1990, 64-65. 29 XX 5; a proposito dell’acclamazione imperiale di Giuliano, Eutropio (X 16) si limiterà a dire che questo era stato proclamato con il consenso dei soldati. Per il racconto eutropiano della ribellione di Giuliano nei confronti dell’imperatore Costanzo vd. Bonamente, Giuliano l’Apostata, cit., 76-78. 30 Anche Zosimo (III 9, 6-7), a proposito del dubbio di Giuliano se accettare la nomina proposta dalle truppe, farà ricorso al topos del sogno profetico attribuendo al sole l’annuncio della morte, «odiosa e dolorosa» di Costanzo di lì a qualche mese. Al riguardo Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano, cit. , 85-87; Neri (Ammiano e il Cristianesimo, cit., 41-42) rileva che il riferimento alla visione onirica, riferita in segreto ai soldati più intimi, possa essere considerato come un espediente proposto dallo storico per sostenere la veridicità di quanto raccontato. Sul frequente ricorso e sull’importanza dei sogni e delle visioni per Giuliano, confronta, tra gli altri, anche Bowersock, Julian, cit., 17-18. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 184 dell’istituzione imperiale nel corso dei secoli e che nel caso di Giuliano lasciava trasparire un’apertura verso una concezione teocratica del regno.31 Confortato dall’approvazione generale e dall’investitura divina, l’Apostata può finalmente sganciarsi dall’autorità vessatoria di Costanzo, cosa che farà inviandogli una lettera in cui, con toni che non lasciano spazio ad alcun compromesso, presenta la sua idea di governo32 e di organizzazione degli eserciti, ridefinita sui principi politici della collegialità, delle responsabilità e delle specifiche competenze. Il rischio di una guerra, paventata dalla reazione dell’Augusto, che non voleva accettare in alcun modo le condizioni poste dal cugino considerato usurpatore, sarebbe stato evitato solo dalla notizia della sua morte improvvisa e per motivi naturali.33 Il destino aveva deciso che l’impero, per il momento, dovesse restare sotto l’egida di un unico dominus. Nel capitolo XXI è riferito un altro discorso fatto da Giuliano imperatore alle truppe, subito dopo la sua proclamazione. Da notare che molto opportunamente li chiama commilitoni, compagni d’arme ed a loro si considera unito già dai primi anni della sua giovinezza, dal momento che il ricordo di tante battaglie combattute insieme non poteva che rinsaldare quel legame di fiducia che li aveva portati a sceglierlo come sovrano con la benedizione divina. Nella duplice veste di dominus, «attento ad alti obiettivi», e di comandante dell’esercito, le sue parole pretendono, in effetti, di richiamare in auge alcuni canoni di tradizione pagana come la benedizione degli dei e il sostegno della fortuna, considerate formule di buon auspicio di una liturgia capace di garantire la stabilità dell’impero e il successo militare. 31 Giuliano parlando ai commilitoni a cui si considerava «unito già dai primi anni della giovinezza» avrebbe ricordato di essere stato elevato alla dignità augusta per volontà divina (sempre Ammiano al capitolo XXI 5). Per il tema della costrizione divina come risulta rappresentata da Ammiano cfr. S. Conti, Da eroe a Dio: la concezione teocratica del potere in Giuliano, in L’Empereur Julien, cit., «AntTard» XVII (2009), in particolare 120-121 e n. 9; riguardo alla particolare concezione religiosa dell’impero in Giuliano sono molto interessanti le considerazioni di M. Mazza, Filosofia religiosa ed “Imperium” in Giuliano, in B. Gentili (a cura di), Giuliano Imperatore. Atti del Convegno della S.I.S.A.C. (Messina, 3 aprile 1984), Urbino 1986, 39-108 con bibliografia; inoltre Marcone, Giuliano, cit., 11-13. Riguardo lo stretto legame tra il sogno e il sistema ideologico politico del mondo romano cfr. R. Marino, Il sogno e l’ideologia della vittoria, in R. Marino - D. Motta - S. Giannobile (a cura di), Sogni e visioni nel mondo antico, Giornate di studio (Palermo, 17-18 ottobre 2007), «῞Ορμος» IX (2007), 185194. 32 XX 8: il capitolo riferisce di una lettera che l’Apostata invierà al collega Costanzo dopo aver accettato l’investitura dei soldati che erano stati considerati rivoltosi. L’inizio del capitolo è caratterizzato da una dichiarazione di fedeltà rispetto ai compiti che gli erano stati assegnati cui però farà seguito la perentoria proposta di collaborazione paritaria, rispetto alle condizioni che lo stesso Giuliano pensava di proporre al fine di garantire la sicurezza dello Stato. Sull’atteggiamento di Giuliano nei riguardi del cugino e sul suo progetto di condivisione del potere politico e militare cfr. Negri, Giuliano, cit., 75-76. 33 Lo stesso Giuliano (Misop. 357 b) afferma che per volontà divina lo scontro con Costanzo aveva avuto un esito a lui favorevole. Sul ricorso ai sogni e ai vaticini per annunciare la morte dell’augusto cfr S. Conti, Da eroe a Dio: la concezione teocratica, cit., 121-122. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 185 Parimenti, la sottolineatura di un Giuliano tranquillus, moderatus in pace ma cautus et consideratus in crebritate bellorum, ne completerà lo stereotipato breve ritratto,34 in una sorta di epifania del futuro campione, simbolo di una romanità rinnovata. La cerimonia d’investitura e la conseguente richiesta di una solenne promessa di fedeltà «secondo l’abitudine di quanti hanno fiducia nei loro comandanti» segnerà il momento di massima tensione dell’episodio cui farà seguito l’approvazione dell’assemblea, desiderosa rerum novandarum, ed espressa con urla orrende e tremendo fragore di scudi. Come antica consuetudine, i soldati avrebbero poi prestato giuramento, accostando le spade al collo e invocando su loro stessi le peggiori maledizioni in caso di tradimento.35 Le truppe avevano trovato in Giuliano un nobile duce, vincitore fortunato di popoli e di re, la cui statura morale, ben si conciliava con l’auspicata possibilità di promuovere una saldatura tra elaborazione politica ed elaborazione culturale, necessaria premessa per realizzare un recupero della rappresentazione ideologica della romanitas vittoriosa. Nonostante il legame di rispetto e di fiducia che univa il sovrano ai soldati, al punto che il suo esempio di coraggio accendeva in tutti il desiderio di comportarsi in maniera valorosa,36 lo stesso avrebbe dovuto affrontare alcuni casi di diserzione, dando prova di saperli reprimere con fermezza proprio per evitare pericolose reiterazioni. Così alla notizia dell’improvviso attacco di tre squadroni romani e del furto di un vessillo da parte del capo persiano Surena, Giuliano, concitus ira immani, festinatione ipsa tutissimus riuscirà a raggiungere il luogo dell’agguato respingendo gli aggressori con una violenza inaspettata.37 Ciò che poi colpisce è il racconto della dura reazione nei confronti delle truppe che erano fuggite dall’accampamento. In maniera esemplare, secutus veteres leges, punirà per prima cosa i due tribuni sopravvissuti, sciogliendoli dal giuramento di fedeltà poiché li aveva ritenuti desides e ignavos, in seguito individuerà dieci uomini 34 Nel capitolo XVII 11 troviamo il riferimento al fatto che Giuliano, pur vittorioso in Gallia, sarà deriso dagli invidiosi e chiamato pigro e timido. Sull’adventus del Cesare e sulle modalità di rappresentazione di tale evento si veda anche Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae, cit., passim. 35 XXI 15 come prevedibile il racconto della morte di Costanzo sarà preceduto da presagi e premonizioni per suffragare l’idea della nomina di Giuliano voluta dal destino. Sul discorso alle truppe al momento del giuramento di fedeltà si veda Browning, The emperor, cit., 117-118. 36 In XXIV 12, sono ricordate ancora una volta le virtù militari di Giuliano. Questi appariva sempre pronto al combattimento disposto in prima fila al punto che, con il suo coraggio, accendeva in tutti i soldati il desiderio di comportarsi valorosamente. Lo stesso era rappresentato come exemplum di specchiata moralità e coraggio, non amante del lusso e dei donativi come ricorda lo stesso Zosimo (tutto il III libro è dedicato al nostro personaggio). Un’appassionata rilettura delle imprese del giovane sovrano è presente in Negri, Giuliano, cit., 101-106. Sull’importanza simbolica delle insegne militari si veda tra gli altri Milan, Le forze armate, cit., 252-256. 37 Per quanto concerne le difficoltà incontrate dal comandante durante la campagna persiana: Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano, cit., 208 -209 in particolare n. 8. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 186 tra i fuggitivi e, dopo averli pubblicamente degradati, procederà alla loro condanna capitale. Da severo dux aveva voluto stigmatizzare l’accaduto, proprio per scoraggiare sul nascere il ripetersi di altri casi del genere, facendo ricorso alla decimazione, una pratica che, com’è noto, apparteneva alla tradizione militare romana e che prevedeva la pena di morte individuale o collettiva.38 Nel contempo da accorto capo politico, attento a non fomentare pericolose forme di malcontento che avrebbero potuto destabilizzare la sua autorità, si rivolgerà al resto delle truppe confermando la promessa fatta a suo tempo di un donativo di argenteos nummos centenos a testa per celebrare il successo conseguito nella campagna militare persiana. L’intervento non susciterà l’approvazione auspicata poiché il premio promesso non era stato ritenuto congruo e pertanto, alla reazione di malcontento, lo stesso Augusto si troverà costretto ad una replica moderata ma ferma, in cui avrebbe richiamato all’attenzione dei suoi uomini, le difficili condizioni economiche dell’erario e di lui stesso, privato delle ricchezze, nonostante le nobili origini.39 Il rimprovero, a dire dello storico Ammiano, avrebbe placato i malumori al punto che tutti i presenti si sarebbero poi decisi a rinnovare la promessa di sottomissione in attesa di tempi migliori. Per l’occasione, l’allusione ad un grande della storia, come Traiano,40 per l’abitudine comune ai due imperatori di incoraggiare i propri uomini riferendosi non già alle persone care ma alla grandezza delle imprese militari – affinché il ricordo di quanto già compiuto potesse servire da incitamento per il futuro – serviva probabilmente a richiamare alla mente dei soldati la grandezza del loro comandante anche nei momenti di difficoltà. In seguito, il riferimento all’epica vittoria ottenuta presso il canale Naarmalca, poco plausibile per le cifre riferite di 2500 persiani colpiti a fronte della perdita di soli 70 uomini dalla parte romana, vedrà Giuliano, sicuro di sé, 38 Anche Zosimo (III 19, 2) ricorda che sarebbe stato punito solo il capo degli esploratori, reo di aver abbandonato il vessillo ai nemici, togliendogli la cintura da cui pendevano pugnale e spada, segni distintivi della condizione del soldato e del suo importante servizio. Per Milan (Le forze armate, cit., 205 e 258) ancora nell’età imperiale la decimazione consisteva nell’allontanamento dei soldati dall’esercito mentre la disciplina era ispirata alla difesa dei valori civici. Nello specifico le osservazioni di Athanassiadi-Fowden (L’imperatore Giuliano, cit., 236-238) riguardano le difficoltà incontrate durante la spedizione persiana che avrebbero influito in maniera negativa sul temperamento del comandante al punto che, poco alla volta, questi avrebbe perso i contatti con la realtà finendo per differenziarsi da Alessandro Magno, suo modello politico e umano. 39 XXIV 3. Sulla modificazione dell’ideale della generosità da parte di Giuliano cfr. Marcone, Giuliano, cit., 52 e sul rimprovero fatto ai soldati in quell’occasione, 62. 40 Il capitolo (XXV 4), come consuetudine del genere biografico classico, si richiama ai grandi sovrani del passato. Di necessità di emulazione dei grandi del passato, come Alessandro, parla Marcone, Giuliano, cit., con particolare riguardo 58-59, ma anche Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 299-300. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 187 incarnare ancora una volta l’ideale del valoroso comandante, esempio per quanti si sarebbero cimentati in altri combattimenti.41 Al termine dello scontro, dopo aver indicato per nome i compagni d’arme che si erano distinti, li avrebbe insigniti di corone navali, civiche e castrensi, mentre la prosecuzione dei festeggiamenti con il sacrificio cruento di un toro sembra si possa considerare piuttosto come un atto di tipo propagandistico, teso a confermare quella volontà politica allora messa in campo dall’imperatore che si realizzava anche mediante il recupero delle vecchie rappresentazioni liturgiche della vittoria militare di chiara origine pagana. 42 Il rito però, anche agli occhi di Ammiano, era apparso funesto e foriero di cattivi presagi per le particolari modalità con cui si era concluso – la fuga di tutti gli animali, eccetto uno solo che sarebbe stato così sacrificato all’altare – velando di tristezza il momento dei festeggiamenti. In effetti, la parabola discendente del giovane sovrano era iniziata e si sarebbe conclusa di lì a poco in battaglia aperta, in maniera coerente con quell’immagine stereotipata del valoroso combattente. L’autore, ricorrendo al modello della tradizione biografica, riuscirà a rappresentare l’immagine “ovvia” del giovane Augusto che affronta il momento esiziale in maniera non diversa da quella di altri grandi del passato.43 Al momento del commiato dai compagni d’arme, Giuliano, ricordando le imprese realizzate e i servigi resi all’impero, ut alumnus rei publicae, preferiva tacere sul nome del successore dichiarando di desiderare solo un buon imperatore. Che tale scelta velasse una strategia politica, ci sembra trovi conferma nelle parole di un anonimo ufficiale, se non addirittura di Ammiano stesso, forse presente in quella tragica circostanza,44 il quale, rivolgendosi ai compagni, li spronava a non individuare alcun candidato sino a quando tutto l’esercito non fosse stato riunito, onde evitare il rischio di pericolosi pronunciamenti. 41 Per le considerazioni storiografiche relative alla ripetizione del racconto della battaglia vedi n. 6. 42 Anche Marcone, Giuliano, cit., 23-26. Per quanto concerne i riferimenti ai sacrifici cruenti di animali lo stesso storico (XXV 4, 17) aveva sottolineato con una qualche ironia: «si credeva che, se fosse ritornato (scil. Giuliano) dalla campagna contro i Parti, sarebbero spariti tutti i buoi». Poco dopo il giovane sovrano sarà paragonato all’imperatore Marco Aurelio per la consuetudine, comune ad entrambi, di effettuare riti sacrificali. Per il ricorso alle decorazioni militari di tipo tradizionale: V.A. Maxfield, The military decoration of the Roman army, London 1981, 250-251. 43 Dopo aver salutato i suoi compagni discuterà sulla nobiltà d’animo sino alla fine con i filosofi Massimo e Prisco. Per il racconto sulla morte di Trasea Peto simile nei modi a quella del nostro personaggio: Tac. Ann. XVI 34. Libanio (or. XXIV 6) nel riferire la morte di Giuliano sospetta che il sovrano fosse stato colpito da qualche soldato che militava nell’esercito romano. È da notare però che Ammiano e Zosimo non lasciano trapelare alcun sospetto al riguardo. Su ciò Cameron, Il tardo impero, cit., 123-124; Bowersock, Julian, cit., 116-118. 44 Dello stesso parere Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae di Ammiano, cit., 341 n. 17 ma anche Cameron, Il tardo impero, cit., 110-111. Sui passaggi autobiografici ravvisabili nel racconto di Ammiano, cfr. anche Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 35-44 ma soprattutto 96-97 laddove si fa riferimento alla sequenza relativa alla morte di Giuliano. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino | 188 In tal modo quella che può essere considerata un’espressione di Realpolitik – frutto della lucida consapevolezza45 dell’imperatore che nessun altro avrebbe proseguito con il suo programma di governo – sarebbe stata consegnata, grazie al racconto ammianeo, in una prospettiva sublimata seppur alterata nel significato, come l’estremo gesto di un comandante,46 sensibile alle sorti del suo esercito, attento a scongiurare il pericolo di conflitti interni derivanti dalla scelta da parte sua di un eventuale successore. Il meccanismo dei rapporti di Giuliano con le truppe, emerso dalla sapiente rappresentazione storiografica e retorica dei Rerum Gestarum Libri di Ammiano, è apparso un prodotto destinato ad un pubblico aristocratico, colto e difensore della tradizione, interessato ancora nel IV secolo all’elaborazione di un modello di sovrano in grado di realizzare un’idea grandiosa di romanitas. 47 La prassi instaurata dall’Apostata, non si sarebbe però affermata in maniera univoca, ma avrebbe percorso binari a volte contorti se non addirittura contaminati da elementi etici e morali differenti, d’ispirazione a volte genericamente pacifista se non cristiana. Del resto tali dinamiche erano lo specchio di una società, attraversata da grandi contraddizioni, divisa tra il bisogno di recuperare i modelli che in passato avevano garantito a Roma e alla sua classe dirigente il controllo politico e militare sul palcoscenico della storia dei popoli, e un presente, privo di precisi riferimenti culturali e non più in grado di assicurare gli stessi esiti. Pertanto il complesso progetto di Giuliano, nei modi riproposti da Ammiano, per il ricorso a interventi dalle geometrie variabili che sembravano lambire i tratti di una prospettiva antistorica e utopica, non poteva che rappresentare la Weltanschauung che lo aveva idealmente nutrito e lo spirito di un’epoca di profonda trasformazione. Marina Usala [email protected] on line dal 15 giugno 2011 45 Negri, Giuliano, cit., 115; Bowersock, Julian, cit., 106. Sulla figura di Giuliano, costruita come modello rinnovato di imperatore romano adattato ai progetti politici dell’aristocrazia senatoria del IV secolo: J. Matthews, The Roman Empire of Ammianus, London 1989, 81-114; Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae di Ammiano, cit., 343 e inoltre 350; più recentemente Conti, Da eroe a Dio: la concezione teocratica del potere in Giuliano, cit., 124126. 47 Sulla ricostruzione del regno di Giuliano come emerge dalla lettura complessiva delle Res Gestae, si veda Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 316-317. 46 ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188 Giovanna BRUNO SUNSERI, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà La guerra è il tema dominante della storiografia antica e di conseguenza le parenesi belliche sono ampiamente attestate in quasi tutti gli storici. Scopo dell’indagine è lo studio delle esortazioni dei generali prima della battaglia in Tucidide. L’analisi che qui si propone intende in primo luogo sottolineare la storicità di tali esortazioni e quindi valutare su quali sentimenti o valori facevano leva i generali per spingere i soldati ad affrontare il combattimento con audacia e determinazione. In particolare l’attenzione si è rivolta alle esortazioni di due generali, lo spartano Brasida e l’ateniese Demostene che da fronti opposti combattono durante la guerra del Peloponneso. Tucidide, generale a sua volta, è stato fedele, secondo quanto dichiara nei noti capitoli metodologici, nel riportare i discorsi dei due strateghi e mostra, tra lʼaltro, di essersi accuratamente documentato. Brasida potrebbe essere stato tra coloro che fornirono informazioni allo storico, informazioni poi rielaborate dal punto di vista stilistico e lessicale. Anche il discorso di Demostene risponde alle stesse finalità e riflette perfettamente l’ambigua posizione del generale ateniese nella particolare vicenda di Pilo. Battaglia arringa Tucidide retorica realtà Since war is the dominant subject matter in ancient historiography, the general’s speech to his men before battle is attested in almost all historians. The aim of the work was the study of the commander exhortations before the battle in Thucydides. Particular attention was devoted to the exhortations by two commanders during the Peloponnesian War: Brasidas, from Sparta, and Demosthenes, from Athens. The scope was to investigate what arguments they used in order to spurring the troops in the battle with audacity. Fact or Fiction? Thucydides had been a general himself. The speeches which he puts into generals’ mouths before battle are not rhetorical invention. They keep as close as possible to the total sense of what was truly said on these occasions. Brasidas may have been among the informants from whom Thucydides derived material for the narrative on event and for the battle exhortation to his army. The speech of Demosthenes before the battle reflects the point of view of Thucydides concerning both expedition of Pylos and ambiguous role played by the general in that occasion. Battle exhortation Thucydides rhetorical invention fact ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010 ISSN 2036-587X Riassunti/Abstracts | 190 Francesca MATTALIANO, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive Nell’articolo vengono analizzate le principali questioni relative alle esortazioni ai soldati, soprattutto in relazione alle modalità pratiche di comunicazione e alla prassi di rielaborazione dei testi nelle opere storiografiche antiche. Attraverso l’analisi di alcune notazioni delle fonti in merito alle indicazioni realistiche di allocuzione alle truppe, al tema del phobos diffuso negli eserciti e alle specifiche doti richieste ai comandanti di esercito, si avanzano alcune osservazioni che giungono a posizioni in parte lontane da quelle di Mogens Herman Hansen, anche se non del tutto opposte. Lo studioso danese ritiene infatti che la maggior parte dei discorsi parenetici sia da ritenersi pura costruzione, sebbene autorevole, degli antichi: per l’eccessiva lunghezza e complessità dei periodi, non potevano essere udite dall’intero esercito schierato e nella trattatistica antica non vi sarebbe alcun cenno al genere delle battle exhortation. A tale proposito, saranno esaminati un brano della Retorica in cui Aristotele sembra teorizzare proprio il modello delle parenesi belliche e un’orazione di Timoleonte risalente a Timeo il cui testo sembra molto vicino a quella che poteva essere la realtà della pratica militare. Parenesi bellica storiografia Tucidide Erodoto Timeo The article analyzes the main subjects of the ancient battle exhortations, especially the ways of communication and the practice of text’s reprocessing in the Greek historiography. Throughout the analysis of some fonts about the realistic suggestions of soldier’s keynote, as well as the popular theme of phobos in the army and the specific skills required to the commanders, we get to some observations that come from different opinions, but not so far from Mogens Herman Hansen’s point of view. The Dutch scholar thinks that most of the battle exhortations are a fictitious ancient reconstruction: the complexity and length of the sentences, in fact, couldn’t be heard from soldiers in the field and furthermore in rhetorical theory there is not any sign of the battle exhortation. For this reason it will be analyzed a text of Aristotele’s Rhetorica, in which the Author seems to theorize the pattern of battle exhortation, and a speech of Timoleon, written by Timaeus and reported by Polybius, whose text seems to be very close to the real military practice. Battle exhortation historiography Thucydides Herodotus Timaeus ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 191 Carmela RACCUIA, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio La prima parte del contributo è centrata sulla ricostruzione dell’organizzazione militare nelle apoikiai di Sicilia. L’esame delle fonti storiografiche consente di ritenere tale esigenza precoce, anzi contestuale alla fondazione delle città perché necessaria al loro impianto e funzionale alla loro affermazione. Ne discende che i conflitti nel territorio – e presto le contese fra le stesse comunità greche – possono aver accelerato il processo di irrobustimento della polis favorendo il senso comunitario e di appartenenza. In questo senso è valida quell’equazione fra politai ed hoplitai che Aristotele individuò come la prima politeia tra gli Elleni e si comprende come, proprio per la mancata inclusione di forze militari, il filosofo censurasse il modello utopistico di Falea di Calcedone. Tra le conseguenze più significative della guerra vanno sottolineate, in Sicilia, le ricadute economiche come la diffusione di forza-lavoro schiavile o servile (Aristotele ci informa addirittura che a Siracusa esisteva una episteme doulike) e la produzione e la ricerca avanzata in fatto di tecnologia militare. Nell’ultima parte dell’indagine, sono analizzati due aspetti specifici della storia militare isolana attraverso l’esegesi di due proverbi presenti nelle raccolte di Zenobio e Diogeniano. Nel primo affiora la communis opinio sul conto dei Siculi, mercenari millantatori e avidi. Il secondo è doppiamente prezioso perché permette di recuperare l’esistenza di ipparchi in Siracusa fra i cui compiti rientra pure la prassi di registrare per iscritto i casi di insubordinazione. Sicilia greca organizzazione militare mercenari ipparchi pinakes The first part of this contribution focuses on the military organization in the apoikiai of Sicily. Historical sources suggest that this need was early, indeed at the same time of the foundation of the cities because it was deemed necessary to their success and expansion. It follows that the conflicts in the territory, and soon the struggles between the Greek communities themselves, may have accelerated the process of the strengthening of the polis favouring the sense of community and belonging. So we understand the equation between politai and hoplitai, that Aristotle identified as the first politeia among the Greeks. We also understand why he criticized the utopian model of Phaleas because it did not include military forces. One of the most significant consequences of the war in Sicily is represented by the spreading of the servile or slave workforce: Aristotle tells us that in Syracuse there even existed an episteme douliké. Another aspect is the production and advanced research in terms of military technology. In the third part, the survey analyzes specific aspects of the island’s military history through the exegesis of two proverbs in the collections of Zenobius and Diogenian. The first saying reflects the common opinion that Sikeloi were boastful and greedy mercenaries. The second is doubly valuable because it allows us to suggest the existence of hipparchoi in ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 192 Syracuse, one of whose tasks was the practice of recording cases of insubordination on pinakes. Greek Sicily military organization mercenaries hipparchs pinakes Marco VINCI, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica L’articolo passa in rassegna le fonti letterarie attestanti il reclutamento di armate speciali, composte da combattenti selezionati (epílektoi), a Siracusa tra il 461 e il 397 a.C. Dall’analisi e dal confronto con altre realtà politiche si delineano le caratteristiche di questi contingenti che si configurano come corpi d’armata dalla natura permanente, composti da unità minime di 600 opliti. In Tucidide la menzione di queste truppe scelte, impiegate per fronteggiare l’assedio ateniese del 414/3, sembrerebbe finalizzata ad attenuare le responsabilità di alcuni errori tattici commessi dagli strateghi siracusani, soprattutto Ermocrate. Siracusa epilektoi seicento opliti Ermocrate The article reviews the literary sources concerning the recruitment of special armies, composed of selected soldiers (epílektoi), in Syracuse between 461 and 397 BC. The analysis and the comparison with other political realities allow to define those contingents as permanents corps, consisting of a minimum of 600 hoplites. The words of Thucydides about the picked troops used to face the Athenian siege during 414/3 BC, would seem to be aimed at mitigating the responsibility of some tactical errors committed by the Syracusan generals, especially Hermocrates. Syracuse epilektoi six hundred hoplites Hermocrates Roberto SAMMARTANO, La formazione dell’esercito di Dionisio I. Tra prassi, ideologia e propaganda In questo contributo sono esaminate le vicende relative allo stratagemma di Leontinoi del 406 a.C. grazie al quale Dionisio I riuscì a ottenere una guardia del corpo personale e a formare la base militare del suo potere autocratico. Su questa vicenda circolavano due versioni antitetiche. Da una parte, la tradizione ostile, risalente a Timeo e confluita nel racconto di Diodoro Siculo, poneva l’accento sui provvedimenti illegittimi presi da Dionisio, non solo a Leontinoi ma sin dalla sua prima comparsa sulla scena politica siracusana, per creare un esercito personale molto forte e di dimensioni maggiori rispetto alle milizie regolari siracusane e ai gruppi di mercenari guidati dallo spartano Dexippo, che gli consentì di proclamarsi tiranno di Siracusa. Dall’altra, Filisto, della cui versione restano alcune ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 193 tracce in un passo della Politica di Aristotele e in una citazione di Cicerone, mirava invece a rappresentare la formazione dell’esercito di Dionisio come un processo legittimo, paragonabile alla spontanea sottomissione di uno sciame d’api al potere carismatico dell’ape “regina”; tale processo permise allo strategos autokrator di trasformare il suo potere in una “monarchia” basata sul consenso di tutto l’esercito e della massa dei Siracusani accorsi in quel frangente a Leontinoi. Dionisio I Filisto Leontinoi tirannide monarchia api This paper examines the ruse lead by Dionysius I in Leontinoi in 406 BC in which he obtained body guards and formed the military basis of his autocratic power. There were two antithetical versions circulating in regard to this episode. On the one hand, the hostile tradition, which is dated back to Timaeus and merged into Diodoro, stressed on the illegitimate measures taken by Dionysius, not only in Leontinoi but also in Syracuse. Since his first appearance on political stage, he had managed to create a very strong personal army, greater than the regular militia in Syracuse and the groups of mercenaries led by Spartan Dexippus, which allowed him to declare himself tyrannos of Syracuse. On the other hand, Philistus, whose report can be traced back to a passage of Aristoteles’ Politics and in a quotation by Cicero, aimed at representing the making of Dionysius’ army as a legitimate process, comparable to the spontaneous obedience of a swarm of bees to the charismatic power of the “queen bee”; such process allowed the strategos autokrator to turn his power into a “monarchy”, grounded on the consensus of the whole army and the mass of Syracusans, who in this juncture rushed to Leontinoi. Dionysius I Philistus Leontinoi tyranny monarchy bees Luisa PRANDI, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli Il pagamento dei debiti dei soldati macedoni e le provvidenze per i loro figli nati da unioni con donne asiatiche sono legati a grandi distribuzioni di denaro da parte di Alessandro nel 324, quando egli stava facendo i conti con le conseguenze della conquista; la tradizione antica su entrambi costituisce un caso di studio metodologicamente esemplare. Il pagamento dei debiti era un gesto di risanamento ma fece emergere un grave deterioramento dei rapporti fra lui e le truppe: vari elementi inducono a datarlo dopo l’arrivo degli Epigoni, collegandolo con l’ammutinamento dei Macedoni, e a ritenere che riguardasse prevalentemente i veterani destinati al rientro. La ricognizione attribuita ad Alessandro sul numero dei figli di sangue misto era un’iniziativa doverosa e mostra che egli intendeva garantire loro sopravvivenza ed addestramento militare, anche in vista dell’esigenza di un duraturo controllo sui territori asiatici. Alessandro Magno veterani debiti figli Asiatici ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 194 This topic is a good case of study, on a methodological perspective, because ancient sources are not unanimous. In 324 B.C. Alexander decided to discharge all the debts of his soldiers but this action indicated that the relationship between the king and the troops had got worse; some evidences invite to date this episode after the arrival of the Epigoni, linking it with the strong discontent among the Macedonian troops to mainly refer it to the veterans discharged and directed home. The idea of counting the number of the soldiers’ sons born from Asian wives was an almost necessary measure: Alexander wanted to guarantee to them survival and military training, in order to, in the future, maintain the control of the Asiatic territories. Alexander the Great veterans debts sons Asia Antonino PINZONE, L’interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l’Africano I comportamenti di Scipione con i suoi soldati ai tempi della sua spedizione ispanica erano funzionali all’ottenimento del massimo impegno e, naturalmente, alla buona riuscita dell’impresa. La risposta fu del tutto positiva. L’intesa raggiunta con l’esercito è testimoniata, tra l’altro, dall’acclamazione a imperator, avvenuta, probabilmente, dopo la vittoria di Cartagena. Interazione milites imperator Hispania Scipione Scipio’s behaviors with his soldiers to the times of the Hispanic expedition was functional to the obtaining of the maximum engagement and, naturally, to the good resolution of the enterprise. The answer was completely positive. The understanding caught up with the army is testified, among other things, by the acclamation to imperator, happened, probably, after the victory of Cartagena. Interaction milites imperator Hispania Scipio Jonathan R.W. PRAG, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic This paper examines what it is possible to say about who commanded the nonItalian, auxiliary troops which frequently served in the armies of the Roman Republic. The discussion is restricted to land forces, looking firstly at the evidence for Romans in command of auxilia – mostly found at the upper levels of command – and secondly at the evidence for non-Romans commanding auxilia – mostly found at the level of individual unit commanders. The problem of classification of auxilia (allies, auxiliaries, or mercenaries?) is briefly considered, with reference to their military autonomy. The final section explores the potential value of ‘native’ commanders and Roman recognition of this, through clientela and mechanisms of ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 195 reward and civic incorporation. The paper concludes with brief speculation on developments in practice over the course of the Republic. Età repubblicana esercito romano ausiliari magistrati romani capi militari alleati mercenari Il campo d’indagine sui comandanti delle truppe ausiliarie non-italiche che prestavano servizio in epoca repubblicana è circoscritto alle truppe di terra. L’analisi ha riguardato in primo luogo le testimonianze relative alla presenza di Romani a capo degli auxilia, quindi ad alto livello gerarchico, e, in seconda battuta, i non Romani al comando di tali truppe. Mentre il problema della classificazione degli auxilia è stato affrontato marginalmente – alleati, mercenari, ausiliari – uno spazio più ampio è stato dedicato all’importanza dei comandanti scelti dai Romani sul territorio in base a sistemi clientelari e civici. Una breve riflessione sugli sviluppi di questa pratica in età repubblicana chiude il contributo. Roman Republic Roman army auxiliaries Roman magistrates military commanders allies mercenaries Daniela MOTTA, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche L’analisi di due iscrizioni onorarie per comandanti dedicate dalla città di Ilio consente di acquisire utili informazioni sul rapporto della polis con Roma nel periodo compreso fra l’anno 80 a.C e la conclusione della spedizione di Pompeo in Oriente, confermando il quadro offerto dalle fonti letterarie di fedeltà all’imperium Romanum. Il primo documento illustra il modo in cui Ilio ottiene il soccorso di una comunità vicina per ordine del proconsole romano d’Asia, probabilmente per difendersi da attacchi di pirati, ed offre un esempio delle procedure attraverso cui una città quale Ilio, nella sua posizione privilegiata di eleutheria, poteva usufruire di aiuto militare secondo i meccanismi dell’organizzazione provinciale romana. Il secondo documento onora Pompeo con un linguaggio che rinvia alla dimensione ecumenica delle conquiste del generale romano e prelude, anche nella menzione dei neoi fra i dedicanti, alle forme di omaggio nei confronti degli imperatori romani, quale recupero del culto per i sovrani in uso presso le città ellenistiche. Ilio Neoi/neaniskoi comandanti militari Pompeo The analysis of two honorary inscriptions of military commanders dedicated by the city of Ilion illustrates the relationship between the polis and Rome in the period between 80 BC and the conclusion of the expedition of Pompey in the East. These documents confirm the fides of the city to the imperium Romanum, as represented in the literary sources. The first inscription sets out the way Ilion obtains the aid of a neighboring community by order of the Roman proconsul of ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 196 Asia, in order to defend itself against attack pirate ’attack. It offers an example of the procedures by which a city such as Ilion, in its privileged position of eleutheria, could benefit from military assistance in accordance with the Roman provincial administration. The second inscription honors Pompey with a language that refers to the ecumenical dimension of the conquests of the Roman general: even in the reference of the neoi as dedicators, it represents a re-establishment of the worship of the rulers as practiced in the Hellenistic cities and anticipates the paying of homage to the Roman emperors. Ilion Neoi/neaniskoi military commanders Pompey Rosalia MARINO, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale Da Modena a Filippi la retorica di campo diviene la metafora delle tensioni politiche che attraversarono i cupi scenari del “dopo Cesare”, la cifra della crisi che travolse la repubblica provocando un cortocircuito tra le parti in campo. Gli appelli ai valori della democrazia e della libertà risuonano con una ripetitività logora che riconduce l’ispirazione narrativa nel perimetro della propaganda da una prospettiva teleologica. Modena Filippi Cesare democrazia libertà tirannide From Mutina to Philippi the military rhetoric became the metaphor of the political tensions that traversed the dismal scenarios after Caesar’s death, the character of crisis which overwhelmed the republic provoking a short-circuit between the parties involved. The appeals to values of democracy and freedom resounded with worm-out repetitiveness which took narrative inspiration back into propaganda’s perimeter from a teleological perspective. Modena Philippi Caesar democracy freedom tyranny Davide SALVO, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno La rivolta delle legioni renane ebbe origine da un complesso intreccio di motivazioni: lotte politiche interne alla domus Augusta, disagio sociale dei legionari, contrapposizione tra senato ed esercito. Nella vicenda un ruolo importante fu ricoperto da Agrippina Maggiore la quale, in continuità con l’attività di fronda svolta dalla madre e dalla sorella, ordì trame eversive contro Tiberio sfruttando l’importante carica militare ricoperta dal marito Germanico. Germanico Agrippina Maggiore Tiberio Tacito ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 197 The mutiny of the Rhine legions originated from a complex twist of motivations: the political fights within the domus Augusta, the social unrest of soldiers and the contrast between the senate and the army. Agrippina the Elder who had the political legacy of her mother and sister, played an important role: she plotted to deprive Tiberius of his power using the military prominence of her husband Germanicus. Germanicus Agrippina the Elder Tiberius Tacitus Giuseppe ZECCHINI, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania Secondo Augusto la Germania (magna) sino all’Elba era ridotta in provincia sin dall’8/7 a.C. La rinuncia a questa provincia da parte di Tiberio era contraria al mos Romanus: essa si spiega nel 17 d.C. col timore di rendere Germanico troppo popolare e potente; nel 69 e poi sotto i Flavi le insurrezioni dell’esercito renano convinsero gli imperatori che ancor più la provincia di Germania (magna) sarebbe stata un rischio troppo grande per la stabilità del loro potere. Roma Germania Teutoburgo Tiberio S.C. de Cn. Pisone patre From Augustus’ point of view the Germania (magna) until the Elbe river had to be considered a province since 8/7 B.C. Tiberius’ decision to give it up was against the mos Romanus: in 17 A.D. it was justified by the fear that Germanicus would have become too popular and too mighty. In 69 A.D. and then under the Flavians the uprisings of the Rhine army persuaded the emperors that a province of Germania (magna) would have been a still more dramatic challenge to the stability of their power. Rome Germany Teutoburg Tiberius S.C. de Cn. Pisone patre Antonella MANDRUZZATO, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana Lo studio riguarda il ruolo svolto dai Daci e da Decebalo nel racconto del fregio della Colonna Traiana secondo la lettura di diversi studiosi, a partire da R. Bianchi Bandinelli, e dalla sua ben nota ricostruzione della figura dell’anonimo “Maestro delle Imprese di Traianoˮ. Segue la lettura di alcune scene (quali la XXXII, la LXVII, la XCIII), che vedono protagonisti il capo dace e il suo popolo. Si tratta di sequenze episodiche nel lungo e coerente racconto della Colonna, che celebra la tragica e inevitabile sconfitta del popolo dace, le quali, per contenuto, o per formule e schemi adottati, sembrano sottrarsi alla logica degli stereotipi costantemente associati alla barbarie sui monumenti ufficiali romani. ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198 Riassunti/Abstracts | 198 Colonna Traiana Dacia Daci Decebalo Traiano The role played by Dacians and Decebalus on frieze of Trajan’s Column in the different opinions of some scholars, beginning from that of R. Bianchi Bandinelli and from his well know figure of the anonymous ’Maestro delle Imprese di Traiano’. Some scenes on the frieze are considered afterwards: XXXII, LXVII, XCIII …, on which Decebalus and Dacians are protagonists. These scenes are isolated in the long and coherent report on tragic, unavoidable Dacians’ defeat, but it seems that they are not in accord with the idea of Barbarians represented on Roman official reliefs. Trajan’s Column Dacia Dacians Decebalus Trajan Marina USALA, Il rapporto di Giuliano con le truppe: stereotipi culturali e ricerca di nuovi equilibri in Ammiano Marcellino Attraverso il racconto di Ammiano Marcellino, l’articolo affronta il complesso sistema dei rapporti tra Giuliano l’Apostata e le truppe, improntato in alcuni casi alle moderne istanze sociali e valoriali ed in altri ad un ritorno alla tradizione. La ricostruzione del meccanismo dei rapporti di Giuliano con i suoi soldati, emerso dalla sapiente rappresentazione storiografica e retorica dei Rerum Gestarum Libri, consente inoltre di rivedere in una luce diversa proprio l’opera dello storico che appare un prodotto destinato ad un pubblico aristocratico, colto e difensore della tradizione, interessato ancora nel IV secolo all’elaborazione di un modello di sovrano in grado di realizzare un’idea grandiosa di Romanitas. Ammiano Marcellino Giuliano l’Apostata soldati Through the narration of Ammianus Marcellinus, the paper deals the complex system of relations between Julian the Apostate and the troops, based in some cases on the new social and cultural instances and in others on a return to tradition. The reconstruction of the mechanism of Julian’s relationship with his soldiers, showed by the expert and historiographical rhetoric representation of Rerum Gestarum Libri, also allows to review from a different point of view the really work of the historian, that appears as a product devoted to an aristocratic audience, cultured and defender of the tradition, still interested in the fourth century on the elaboration of a model of a monarch able to realize a great idea of Romanitas. Ammianus Marcellinus Julian the Apostate soldiers ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198