LADOMENICA
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
NUMERO 426
DIREPUBBLICA
CULT
All’interno
La copertina
“Societing”
le nuove imprese
che risolvono
problemi sociali
GIANCARLO BOSETTI
e VANNI CODELUPPI
Il libro
L’esordio
della Coplin
tra Far West
e passioni
SUSANNA NIRENSTEIN
Straparlando
Boris Pahor
“A cent’anni
mi salva
la letteratura”
ANTONIO GNOLI
Aveva detto che non avrebbe più scritto
Con questo articolo inedito in Italia ha voluto fare un’eccezione
Per celebrare l’uomo che gli ha insegnato a diventare grande
L’immagine
PHILIP ROTH
L’olimpica
eleganza
di Mancioli
vevo dodici anni quando, nel febbraio del 1946, entrai alla Hawthorne Avenue Annex. L’Annex, a un
quarto d’ora di autobus dalla sede centrale, era la
succursale dove andavano le matricole del liceo di
Weequahic a quei tempi. Il primo insegnante che
mi trovai di fronte, la prima ora del mio primo giorno all’Annex, fu Bob Lowenstein. Il dottor Lowenstein. Doc
Lowenstein. Era fresco reduce dalla seconda guerra mondiale, diversamente da quasi tutti i professori di liceo era in possesso, senza darsi arie, di un dottorato, e quello che perfino un dodicenne poteva capire era che si trattava di un uomo straordinario che non tollerava di buon grado i cretini.
Bob era l’insegnante della mia aula di coordinamento. Questo
significava che era la prima cosa che vedevo la mattina, ogni singolo giorno dell’anno scolastico. Non ho mai frequentato un suo
corso – avevo mademoiselle Glucksman per il francese e la señorita Baleroso per lo spagnolo – ma non l’ho dimenticato. Chi l’ha dimenticato a Weequahic? Di conseguenza, quando toccò a lui fini-
GIANNI BRERA, GIANNI CLERICI
e OTTORINO MANCIOLI
L’incontro
Stephen Frears
“Con gli attori
ci vuole la pistola”
MARIO SERENELLINI
A
re sbranato dalla crociata anticomunista degli anni Quaranta e
Cinquanta, seguii le sue vicende come meglio potei attraverso gli
articoli dei giornali di Newark che mi facevo ritagliare e spedire dai
miei genitori.
Non ricordo come ci ritrovammo negli anni Novanta, più di cinquant’anni dopo che mi ero diplomato al Weequahic High. Io ero
tornato in America dopo dodici anni vissuti prevalentemente all’estero, e o fui io che gli scrissi riguardo a qualcosa o fu lui che mi
scrisse riguardo a qualcosa, e ci incontrammo per pranzo nella casa sua e di Zelda a West Orange. Nello spirito di Bob Lowenstein,
esporrò la questione in parole semplici, le più dirette che posso:
credo che ci innamorammo l’uno dell’altro.
Lui mi inviava le sue poesie, a volte appena finiva di scriverle, e
io gli spedivo i miei libri appena venivano pubblicati. Gli mandai
perfino la bozza finale di un libro – Pastorale americana – da leggere in manoscritto.
(segue nelle pagine successive)
con un articolo di ANTONIO MONDA
DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI
Al mio Maestro
DISEGNO DI GIPI PER REPUBBLICA
PHILIP ROTH
L’opera
Maggio fiorentino
un Don Carlo
dai toni cupi
e per destini incerti
GUIDO BARBIERI
L’arte
Il Museo
del mondo
La Crocifissione
di Grünewald
MELANIA MAZZUCCO
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
LA DOMENICA
■ 28
La copertina
Philip Roth
Il grande scrittore americano ricorda Bob Lowenstein,
l’ex professore di liceo cui si è ispirato
per uno dei personaggi della trilogia di Newark
“Furono uomini come lui ad essere sbranati
dalla marmaglia al potere all’epoca del maccartismo”
Ho amato
un comunista
PHILIP ROTH
(segue dalla copertina)
erano tantissime
cose sulla Newark
di inizio Novecento e volevo sottoporle a lui per essere sicuro di aver
C’
fatto tutto giusto.
Mandai un autista a West Orange per
prendere Bob e accompagnarlo fino alla mia casa, a due ore e mezza di macchina, nelle campagne del Connecticut nordoccidentale, e pranzammo insieme e gli chiesi di dirmi cosa pensava
di quello che avevo scritto. Parlammo a
tavola, parlammo tutto il pomeriggio.
Lui, come al solito, aveva tantissimo da
dire, e credo di aver ascoltato tutto
quello che mi disse con la stessa attenzione con cui ascoltavo in quell’aula di
coordinamento alle 8.30 del mattino
alla Hawthorne Avenue Annex, quando leggeva le sue comunicazioni per la
giornata scolastica.
In Ho sposato un comunista, uno
Zuckerman adulto dice: «Penso alla
mia vita come a un lungo discorso che
ho ascoltato». Bob per me è una delle
voci persuasive che ancora sento parlare. I suoi discorsi erano permeati del
sapore intenso del reale. Come tutti i
grandi insegnanti, personificava il
dramma della trasformazione attraverso la parola.
È il caso di segnalare che, quando arrivò alla mia casa nel Connecticut da
West Orange, scese dall’auto con un libro in mano. Lungo il tragitto aveva letto, in francese, le poesie scritte dal poeta cattolico francese Charles Péguy,
morto prematuramente un secolo fa.
Io sapevo, naturalmente, che Bob era
un uomo serio, ma solo quando vidi
che si era portato da leggere Péguy lungo la strada capii fino a che punto fosse
serio.
Nel 1993, il giorno in cui compii sessant’anni, tenni una lettura alla Seton
Hall e i finanziatori dell’evento mi organizzarono al termine una piccola festa di compleanno. Bob e Zelda erano
presenti. Anzi, quella sera a farmi la
presentazione era stato Bob, che come
ricorderete viveva a un chilometro e
mezzo dalla Seton Hall e non si era mai
perso una lettura di poesie organizzata
lì. All’epoca aveva ottantacinque anni.
Che gli rimanessero ancora vent’anni
di vita spumeggiante da vivere, beh, chi
avrebbe potuto saperlo, se non forse lo
stesso Bob?
Gli avevo scritto per chiedergli di farmi la presentazione, e vederlo al leggio
della Seton Hall quella sera, che raccontava con grande arguzia, sottigliez-
za e charme della prima volta che ci conoscemmo, quando io ero allievo e lui
insegnante, mi procurò una felicità
smisurata. Penso che la cosa rese felice
anche lui.
Bob è stato il modello di un personaggio di primo piano del mio romanzo Ho sposato un comunista, un libro
del 1998 in cui rievocavo il periodo anticomunista a cui ho accennato in precedenza e la crudeltà e la ferocia con cui
persone come Bob vennero sbranate
con le unghie e coi denti dalla marmaglia al potere all’epoca.
Il personaggio in questione è un in-
L’AUTORE
Philip Roth,
è nato a Newark
(New Jersey)
ottant’anni fa
Ha scritto ventotto
romanzi vincendo
un Pulitzer nel ’98
per Pastorale
americana
Di recente ha detto
di non volerne
scrivere più
Tra i titoli più noti
Lamento di Portnoy,
Ho sposato
un comunista
e Everyman
segnante di liceo in pensione di nome
Murray Ringold, e come Bob insegna al
Weequahic High, anche se lui insegna
inglese e non lingue romanze, come
Bob. Cambiai, rispetto a Bob, anche l’aspetto, il curriculum militare e certi
dettagli significativi della sua vita personale — Bob, ad esempio, non aveva
per fratello un fanatico omicida —, ma
per il resto cercai di rimanere fedele alla forza delle sue virtù, così come le percepivo io.
Inclusi anche, di sfuggita, il suo singolare vezzo di scagliare un cancellino
quando un allievo diceva qualcosa che
gli sembrava eccezionalmente balordo
e quasi certamente la stolta conseguenza della disattenzione, il più grave
dei crimini. Il tema di Ho sposato un comunista, in fondo, è l’educazione, l’insegnamento, il rapporto mentore-allievo: in particolare un adolescente diligente, zelante e impressionabile che
impara come diventare — e anche come non diventare — un uomo coraggioso, onesto ed efficace. Non è un
compito facile, come sappiamo, perché ci sono due grandi ostacoli: l’impurità del mondo e l’impurità di se stessi,
per non parlare delle enormi imperfezioni di intelligenza, emozione, lungimiranza e giudizio di un individuo.
I mentori dell’adolescente in questione, Nathan Zuckerman del quartie-
re di Newark Weequahic, sono principalmente il patriota americano Tom
Paine, lo sceneggiatore radiofonico
Norman Corwin, l’autore di romanzi
storici Howard Fast, l’insegnante di inglese Murray Ringold e il fratello di
Murray, il comunista arrabbiato e fanatico Ira Ringold, dalla cui furia omicida, dalla cui essenza distruttiva l’uomo stesso cerca invano di fuggire. «Gli
uomini che mi hanno istruito», li definisce Nathan. «Gli uomini da cui provengo».
Questo libro su un ragazzo e i suoi
uomini si apre con un breve ritratto di
Murray Ringold, il fratello Ringold che
non è violento e che tempera e riserva
la sua rabbia per un’immotivabile ingiustizia. Murray Ringold, tra l’altro,
viene a sua volta educato. Lo stesso naturalmente successe a Bob quando,
trafitto all’improvviso dal suo momento storico, finito nella trappola destinata a rovinare tante carriere promettenti di quell’epoca della storia americana
— una vittima come migliaia d’altre del
primo, vergognoso decennio della storia del dopoguerra del suo Paese — fu
tenuto lontano per sei anni dalle scuole di Newark e dalla sua professione
prediletta, espulso come pervertito politico e uomo troppo pericoloso per lasciarlo a contatto con i giovani.
Ora non sto parlando dell’educazio-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
DISEGNO DI GIPI PER REPUBBLICA
■ 29
‘‘
Insegnamenti
Bob per me è una delle voci persuasive che ancora sento parlare
I suoi discorsi erano permeati del sapore intenso del reale
Come tutti i grandi insegnanti
personificava il dramma della trasformazione attraverso la parola
ne di un ragazzo, ma dell’educazione di
un adulto: l’educazione alla perdita, al
dolore e a quell’inevitabile componente della vita che è il tradimento. Bob era
fatto di ferro e resistette all’atrocità dell’ingiustizia con un coraggio e una prodezza straordinari, ma era un uomo e
provava i sentimenti di un uomo, e
quindi soffrì anche.
Spero nel mio romanzo di aver reso
ampio riconoscimento alle qualità del
nostro compianto, leggendario e nobile amico, che sapeva, come sapeva il
poeta Charles Péguy, che «la tirannia è
sempre meglio organizzata della libertà». Non so per quali vie vi fosse arrivato Péguy, ma Bob lo imparò sulla
sua pelle.
Concludo con qualche riga dalle prime pagine di Ho sposato un comunista,
dove descrivo l’immaginario professor
Ringold, meglio noto nel mondo al di
fuori della pagina scritta come Doc
Lowenstein: «Negli atteggiamenti e
nelle pose era assolutamente naturale,
ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul
piano intellettuale, quasi minaccioso.
La sua passione era spiegare, chiarire,
farci comprendere, col risultato che
ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore
a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. (...) Il professor Ringold portava
circondarsi di amici leali, cercando di godere il più possibile della loro presenza: è segnato da sincera stima il
hi conosce Philip Roth non può stupirsi del fatto rapporto con Don DeLillo, che lo invita costantemenche abbia scritto un accorato ricordo del suo mentore te, con un misto di affetto ed ironia, a godere dei piaceBob Lowenstein pochi mesi dopo aver annunciato il ri- ri semplici che offre ogni giorno l’esistenza. E va oltre
tiro definitivo dalla scena letteraria. Ancora adesso, a l’ammirazione letteraria quello con E.L. Doctorow, al
quale si sente vicino per l’ironia
ottanta anni compiuti, la narratagliente con cui si difende a sua
zione continua a rappresentare
volta dalle ferite della vita. Per
per Roth una necessità, oltre
Roth l’amicizia è scambio, arche un elemento di condivisioricchimento, curiosità: ogni
ne, sopravvivenza e persino
volta che parla del suo altro
espiazione, all’interno di una
mentore Saul Bellow, la voce
concezione dell’esistenza ses’incrina lievemente di malingnata da un senso freddo e lanconia, ma è sinceramente dicinante di fallacia. Di fronte al
ANTONIO MONDA
vertito quando dialoga con
decadimento di ogni cosa che
scrittori giovani che ammira,
arreca piacere, Roth continua a
come Nathan Englander e Joopporre la propria scrittura,
nella quale cerca una forma di calore simile a quella che nathan Lethem. Questo atteggiamento è ribadito dal
ha riposto da sempre nel valore dell’amicizia: l’ultima rapporto con amici non celebri, ai quali per anni ha afpossibilità di rimanere legato a qualcosa che non fidato i manoscritti dei propri libri, prima ancora di sotmuoia, a differenza di quanto avviene con le persone toporli agli editori, confidando imprescindibilmente
care. Se Everyman, uno dei suoi libri più cupi e dolenti, nel loro giudizio. Sono autentiche e profonde anche le
nasceva dal senso di vuoto provato al funerali di amici amicizie femminili, a cominciare da quella con Edna
intimi, questo encomio funebre sigilla la motivazione O’Brien e Mia Farrow, a dispetto delle accuse di misointima di questa condizione, e colpisce il riferimento a ginia: come nel caso della scrittura, l’amicizia rappreCharles Péguy, che a differenza di Roth individuava la senta un valore da tenere in vita sforzandosi di andare
oltre la propria natura.
propria redenzione e felicità nella trascendenza.
Nel tardo autunno dell’esistenza, lo scrittore ama
© RIPRODUZIONE RISERVATA
C
NEW YORK
L’amicizia
ultimo rifugio
con sé in aula una carica di viscerale
spontaneità che, per dei ragazzi come
noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere
che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva
nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era più importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine
che aveva di tirarti il cancellino quando
la risposta che davi non colpiva il bersaglio. (....) Si sentiva la forza, in senso
sessuale, di un insegnante liceale come
Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si
sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante come Murray
Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che — diversamente dagli insegnanti di sesso femminile — avrebbe
potuto scegliere di fare qualunque cosa o quasi e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva
far altro che occuparsi dei giovani che
poteva influenzare, ed era dalle loro
reazioni che ricavava la sua massima
soddisfazione».
Addio, stimato mentore.
© 2013 Philip Roth
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
LA DOMENICA
■ 30
Il reportage
Una rivista nata nelle baraccopoli della capitale argentina
Una redazione nell’ex caserma dove i militari di Videla
torturavano gli oppositori. Inchieste scomode, denunce,
interviste a personaggi famosi. Si chiama “La Garganta”,
in Argentina è diventato un caso giornalistico
e ha sempre pronta una domanda: “Perché?”
Buenos Aires.
L’urlo
dei villeros
ATTILIO BOLZONI
C
BUENOS AIRES
ome si scrive un articolo? Quali sono le regole del buon giornalismo? Come s’inizia
un “pezzo”? Il vecchio reporter, uno dei
più popolari di Buenos Aires, si accende la
sigaretta e allenta il nodo della cravatta. Comincia a spiegare, lentamente. Dice che nelle prime righe di ogni cronaca o corrispondenza, i punti irrinunciabili per far capire subito al lettore di cosa si parla sono le famose cinque W: who (chi), what (cosa), when (quando), where
(dove) e why (perché). Nella baracca di lamiera ascoltano in silenzio, qualcuno prende appunti. Poi, mentre il
giornalista sta per raccontare del suo ultimo reportage
giù alle Malvinas presidiate dalle truppe scelte britanniche, dal fondo della stamberga si alza una voce. È quella
di Claudio Savanz, un ragazzino di tredici anni che nel
quartiere tutti conoscono come Kiki. È arrabbiato da
quando è nato e anche questa volta Kiki non riesce a trattenere la sua ira: «Io non sono d’accordo con le tue cinque W, per noi che siamo nati qui e abitiamo qui, in questo posto di merda, secondo me vale solo una regola del
giornalismo. E sai quale è? È quella delle cinque P: perché? perché? perché? perché? perché?».
Qui, periferia sud della Capital Federal. Qui, città nella città che sulle mappe ufficiali è un quadrato grigio in
mezzo a luccicanti torri di vetrocemento e smisurate
avenidas. Qui, dove ventimila fra argentini e peruviani e
uruguagi sono ammucchiati nel barrìo che non ha mai
avuto un nome ma porta un numero: il 21/24. Così — in
un giorno caldissimo del 2010 — dentro una fossa di fango, fra legni marci inchiodati uno all’altro, mute di cani
affamati, fumi velenosi e l’odore della paura nell’aria, nasce una redazione per dare voce a chi è sempre stato condannato a stare zitto. Sono loro, gli umiliati, i calpestati
che sopravvivono in quelle che in Brasile chiamano favelasma che sul Mar de La Plata sono le villas. Case di cartapesta colorate, cubi di mattoni che sembrano bare, vicoli che trascinano all’inferno. Un altro mondo. E un altro giornalismo.
Il primo numero l’hanno impaginato tre anni fa in un
buco di calle Ernesto Che Guevara, blocco 6, casa 85 bis.
L’ultimo lo stanno chiudendo in un capannone dove
nella primavera del 1976 — l’anno del golpe militare in
Argentina — gli ufficiali si allenavano allegramente in
una palestra prima di torturare gli studenti “comunisti”
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
■ 31
per poi gettarli giù dagli aerei in volo verso Montevideo.
La redazione de La Garganta — “la gola”, in spagnolo —
mensile delle villas di Buenos Aires oggi si disegna e si
scrive in quelli che una volta erano i tetri stanzoni dell’Escuela de Mecanica de la Armada, la famigerata Esma del
generale Videla, una grande caserma dove di ragazzi ne
sono entrati 5052 e ne sono usciti vivi meno di duecento.
È lì, fra foto di desaparecidos e manifesti di curas-villeros
— i preti rivoluzionari che si tormentano e pregano nelle miserabili borgate — che La Gargantaè stata insignita
dalla stampa nazionale e dalla televisione argentina come la “revelacion cultural 2012”. Pubblica le notizie che
gli altri quotidiani o periodici non pubblicano mai. Informano sulla loro disgraziata esistenza nel barrìo: l’acqua
che non c’è, la fame, le malattie, i bivacchi degli immigrati boliviani e peruviani, le donne già vecchie a
trent’anni, i bambini che muoiono per niente, le droghe
che si portano via gli altri un po’ più grandi.
Ogni copertina è diversa e uguale a se stessa: sempre
una faccia e una bocca aperta che fa vedere la gola di
qualcuno che grida con tutto il fiato che ha in corpo. Una
volta è lo scrittore Eduardo Galeano, un’altra sono i grandi campioni del pallone come Messi e Aguero, una prima
pagina dedicata al produttore cinematografico Charly
Garcia, altre due al compositore spagnolo Joan Manuel
Serrat e al poeta Joaquin Sabina.
L’uomo che urla nell’agosto del 2011 è Diego Armando Maradona. «Diego, perché hai accettato di incontrarci, noi siamo solo dei villeros?», gli chiede Kiki quando comincia la sua intervista. «Proprio per questo: perché siete villeros», gli risponde El Diego.
Tutti gli articoli sono scritti da uomini e donne delle
baraccopoli e non sono firmati. Nel consiglio di direzione de La Garganta ci sono gli abitanti «de todas las asambleas de todos los barrios en America Latina», il redattore
capo è Rodolfo Walsh, un mito del giornalismo argentino, quello che con Gabriel Garcia Marquez fondò a L’Avana l’agenzia Prensa Latina in piena rivoluzione cubana. Un uomo coraggioso, Walsh. Negli anni della dittatura scrisse una lettera aperta ai generali («La Carta di
uno scrittore alla Giunta Militare») e appena qualche
giorno dopo — il 25 marzo del 1977 — cadde in un’imboscata. Gli assassini in divisa bruciarono il suo cadavere e lo scaraventarono in un fiume. Se l’anima di Walsh
ispira La Garganta, fra i suoi collaboratori figurano nella
gerenza molti ragazzi spariti per mano dei generali. Il primo è Miguel Sanchez, maratoneta, un piccolo grande
eroe argentino. Di ritorno da un meeting di atletica a San
Paolo del Brasile fu preso e torturato in un’altra Escuela,
a Moron, quaranta chilometri dalla capitale. Ogni anno,
a Buenos Aires a marzo e a Roma a gennaio, si corre in suo
onore “la corsa di Miguel”.
Ma cosa è veramente questo giornale distribuito gratis in ventiduemila copie — la prima tiratura fu di tremila — nelle villas argentine? «È un’arma», risponde il ragazzo che l’ha inventato e non vuole che il suo nome venga citato «perché non ci sono differenze fra noi, quando
parliamo del nostro giornale parliamo sempre a nome di
tutti e mai di uno solo». Firme collettive, un solo respiro.
Il ragazzo ha deciso di vivere nel barrìo numero 21/24 anche se viene da una famiglia borghese di Recoleta, il quartiere più elegante di Buenos Aires. La rivista non ha fi-
nanziamenti pubblici, non ha un solo modulo di pubblicità, si sostiene con le donazioni. E con riffe e tornei di carte. I suoi cronisti ogni giorno sono invitati nei talk show
televisivi più seguiti in Argentina, ma non ci vanno mai
(«Assomigliano a un circo») e solo qualche volta si concedono, a turno e anonimamente, alle trasmissioni radiofoniche per riportare le notizie delle borgate: «Siete in
collegamento con la villa numero 18 dalla postazione
della Poderosa...».
La Poderosa, che prende il nome dalla famosa moto
del Che Guevara, è un po’ cooperativa e un po’ assemblea permanente di tutte le baraccopoli e da nove anni
difende i diritti dei villeros contro tutto e tutti. Fino a
quando ha stampato La Garganta, giornale a colori che è
LE IMMAGINI
un pugno nello stomaco.
Nella pagina accanto
Quelle facce e quelle urla e poi
alcune copertine
le storie di dolore e di miseria,
di Garganta. I personaggi
scritte dalle vittime. L’interviintervistati sono,dall’alto:
sta alla madre di Luisito, bimJoaquìn Sabina,
bo assassinato per caso nella
Guillermo Francella,
villa numero 11. Il resoconto
Diego Maradona,
sui rifiuti tossici rovesciati nel
Carlos Tevez,
cimitero delle auto della villa
Sergio Aguero
numero 20. I racconti dei care Juan Riquelme
toneros che vagano di notte a
Nelle foto la redazione:
raccattare rifiuti per mangiasi trova all’interno
re. Cronache dal di dentro. Un
della ex Escuela
notiziario dell’altra umanità,
de Mecanica
uno strappo con la comunicade la Armada
zione tradizionale per riportaSu una parete
re testimonianze sempre neè affisso il poster
gate, quelle degli ultimi.
di Miguel Sanchez,
A Buenos Aires ce ne saranvittima della dittatura
no più di un milione, inghiottiti in mucchi di calcestruzzo
informe, quindici le villas più
disperate. La numero 31 è la
più nota e pericolosa, a solo trecento metri in linea d’aria
dalle luci e i manifesti colorati dell’Avenida 9 de Julio, con
le sue ventidue corsie la strada cittadina più larga del
mondo. Tanti quadratini grigi sulla cartina, i taxi che non
si spingono mai oltre quei confini, niente fogne, niente
luce, niente gas, niente cibo. Terra di pellegrinaggio di
Papa Francesco, quando era cardinale quaggiù e dove
ancora si mescolano sentimenti e risentimenti forti su
Jorge Bergoglio. Una metà dei villeros lo rimpiange, l’altra metà lo ha sempre giudicato un «capo della Cupola
della Chiesa e non un capo della Cupola della villa». Tutti insieme i villeros, però dicono: «Non è mai stato uno di
noi, uno di noi è Padre Pepe, uno di noi era padre Mugica». Preti di frontiera.
Carlos Mugica, uno dei tanti sacerdoti uccisi dalla Tripla A, l’Alianza Anticomunista Argentina che spadroneggiava e assassinava ancora prima del golpe dei generali. L’hanno giustiziato mentre stava andando a celebrare messa in una delle sue infelici periferie, nel Gran
Buenos Aires. Il suo ritratto risalta sul muro della nuova
redazione de La Garganta. Anche lui, come Rodolfo Walsh, è l’esempio per questi giornalisti ribelli. Quelli che
chiedono sempre cinque volte perché.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
Revolución
Menem ha svenduto
questo paese privatizzandolo
Ma il fuoco
della rivoluzione cubana
rinascerà e non si spegnerà mai
JOAQUÌN SABINA
(cantautore)
Censura
Ho solo detto che vincere un Oscar
mi ha emozionato
quanto incontrare Fidel
Non ci potevo credere che gli Usa
mi abbiano censurato per questo
GUILLERMO FRANCELLA
(attore)
Anima
I figli delle borgate come me
si porteranno sempre
la borgata nell’anima
Non la perderanno mai,
anche se tutti cercheranno di educarli
DIEGO MARADONA
(allenatore)
Disuguaglianza
Io penso che nessuno nasca ladro,
ma che tutta questa disuguaglianza
faccia sì che molti ragazzi
vadano a rubare
Questo è il problema
CARLOS TEVEZ
(calciatore)
Guevara
Fosse vivo, il “Che” sarebbe
la prima persona che vorrei conoscere,
per tutto quello che ha significato
per l’Argentina
Per me è Dio
SERGIO AGUERO
(calciatore)
Deboli
Molta gente perbene si droga,
ma attaccano solo i più deboli
Chi giudica da fuori,
non ha vissuto quel che ho vissuto io
nel mio quartiere
JUAN RIQUELME
(calciatore)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
LA DOMENICA
■ 32
L’immagine
ni
n
a
t’ port nza e
n
a
ar o lo s lega asion
u
q
e
t
Per dipin pica in occali, ma
ha n olim ora, zion a Ro
co a solo terna tra
M gli In os
de na m ette rire
Colpi di classe
u rm op e
pe risc and re
di gr ato ato
un ustr tic
ill men
di
I
L
O
I
C
AN
M
O
N
I
R
O
T
T
O
GIANNI CLERICI
u davantial muro che rimasi folgorato. Era, il muro, quello del vecchio Tennis Club Parioli di Roma, divenuto Circolo dei Giornalisti in seguito a dislocazioni causate dall’Olimpiade del 1960. Era stato, il vecchio Parioli, la sede
nella quale noi tennisti azzurri ci si rifugiava, durante gli
allenamenti della Nazionale, a partire dagli Anni Cinquanta. Qualche volta, nei momenti in cui un gioco quale il tennis
necessita di meditazione, mi era accaduto di ribattervi la palla, contro quel muro, per scoprire le ragioni di un’improvvisa insufficienza, della crisi di un colpo. Ma non riuscivo a immaginare che il muro
potesse diventare il luogo di illustrazione degli sport dei quali una
vocazione mi aveva spinto a occuparmi, sulle pagine della Gazzetta
dello Sport, e poi del Giorno, sempre nella benefica ombra di un fratello maggiore, Gianni Brera.
Su quel muro c’erano affreschi che, pure nella mia modestissima
cultura di visitatore di pinacoteche, e caricaturista per diletto di tennisti, mi parevano straordinari: diciotto sport, divisi geometricamente l’uno dall’altro in sette metri per due, ma tanto egualmente
ispirati e, nello stile, somiglianti da rimanere attoniti. Erano gemelli, quegli affreschi, a disegni che Brera era andato pubblicando sulla Gazzetta quando ne era direttore, e della quale, diciottenne tennista, ero divenuto collaboratore.
Mi ricordavo di avergliene parlato con curiosità, di quei disegni, e
Gianni mi aveva risposto: «È Mancioli. Cacciatore e paracadutista
come me. Ci siamo conosciuti alla Scuola di Viterbo del 1941, una élite di sciagurati, un po’ come i goliardi che eravamo appena stati, e
forse eravamo ancora. Poi sono accadute varie cose, certo più drammatiche per lui. L’hanno spedito in Africa, a El Alamein. Ma, soprattutto perché il cielo era in mano degli inglesi, mandano i paracadutisti a dare il cambio alla Divisione Brescia. Mentre vanno di pattuglia su una camionetta, la notte, saltano in aria. Ci sono i neozelandesi pronti a prenderli prigionieri. Ma Ottorino ha tre bombe a mano. E fa parte di un club molto esclusivo: “Prigionieri mai”. Finisce
che fa saltare una camionetta, ma con un Thompson gli bucano una
spalla. Appena tornato a Roma sarà costretto a disegnare con la sinistra, a diventare, come dici tu, bimane. Anche adesso, quando
spesso andiamo insieme a caccia, tira come fosse mancino».
Questo dialogo non figura certo nel carteggio 1955-1988 tra Brera
e Mancioli, morto nel 1990, che viene conservato con amore da Laura, uno dei due figli sopravvissuti all’eclettico pittore per diletto, giacché campò facendo il medico come sua principale attività. Ma il ricordo mi fu sufficiente, dopo un’occhiata ai disegni apparsi sulla
F
Palleggiando
sugli affreschi
Gazzetta, per inquadrare, almeno un poco, quell’opera veramente
inattesa. Alla fine della contemplazione mi affrettai dal Segretario
del Circolo dei Giornalisti per domandargli se non sembrasse il caso
di proteggerla, quella che era sicuramente un’opera d’arte. Alla sua
sorpresa, dissi che era possibilissimo ricoprire il dipinto con una plastica trasparente, di quelle che si usano nei quadri per difenderli dal
sole. «E chi gioca a muro, che fa?» rispose il poveretto, scettico. Affermai che lo spessore della vetrina in plastica non avrebbe impedito il palleggio. Ma, da questo, e da un successivo tentativo presso
amici giornalisti, non venne nessun aiuto, e ora il dipinto appare, mi
dicono, trasformato in una successione di macchie. Tutto ciò fa parte del destino non certo felice che contrassegnò la vita di Mancioli.
Subito dopo la guerra venne “epurato”, come si diceva allora di
chi era stato fascista. Mi domando, e sempre mi domandai, io che
vengo da una storica famiglia di antifascisti, cosa avrebbe potuto
fare un giovane pittore, se non partecipare a mostre in qualche modo collegate con il Partito. Alla cui dipendenza, in qualche aspetto,
furono correlati i bozzetti relativi al Mondiale di scherma, a Merano nel 1939, o alla Triennale d’Oltremare — vedi il destino di El Alamein — nel 1940 e, precedentemente, nel 1932 le opere inviate alle Olimpiadi dell’Arte a Los Angeles, nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino, o il Premio nazionale per l’illustrazione del libro, a pari merito col più noto Spazzapan.
Il carteggio con Brera, ai suoi tempi spesso retrocesso non meno
di Mancioli in serie B, illustra tra l’altro il passaggio alla democrazia
di chi nacque fatalmente sotto il fascismo. E ci aiuterebbe a capire
qualcosa di più di noi stessi.
Ci limiteremo, per ora e forse per sempre, ad ammirare le gigantografie tratte da immagini di Mancioli, e molte delle sue opere, che
appariranno in quella che fu, curiosamente, la sede dei processi alle Brigate Rosse, altra ferita del Paese, all’ingresso del Foro Italico, nel
corso degli Internazionali di Tennis. Così come in altre nazioni storicamente più felici, nelle annuali mostre create dal Tennis Museum
di Wimbledon, e dal Tenniseum del Roland Garros, anche il Foro Italico (ex Mussolini) potrà gloriarsi di un grande artista che ebbe, in vita, soltanto da lamentarsi di chi avrebbe dovuto esser fiero di lui.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
■ 33
NI e
0)
ZIO rand (193 ra
A
R
g
s
i
s
T
i t
ù
n
LUSno pi l Ten i a sin lustra
L
I
I
LE iseg lato a qu tra il ttuta
Il d tito enz des ba
)
è in sequ so a della
29
La bas enti stra, a (19
n
i
e i ovim sin mod stra,
i m alto a i alla sini tro
o
In nnist sso a u ve ni ’50 gon
s
n
a
e
n
,
e
T in b ete li A i v li
e, rso r , deg agin ncio
Ve arta imm Ma
e c tte le hivio
Tu ll’Arc
da
o
f
o
s
o
l
i
f
ro
a
m
a
,
o
t
t
O
o
r
a
C
84
19
aio
r
nb
ma cofeb
i
7
,2
o d di
LI
erc vero
MA
O
c
I
O
e
v
R
h
NC
o c ti o
MA
en efun
O
to
m
d
IN
al
Ot
ni o dei
OR
n
T
a
r
84
OT
tre me
19
po l nu
Ae
o
o
z
R
r
d ne
e
RE
ma
all
rti…esso
IB
,5
to
e
N
s
v
»
O
i
o
N
r
N
im
p
elre…
i sc ha
ris
GIA
ILA
o d are
ive
a d : mi
i
M
p
v
r
n
è
pe sta
em
rda co m
ra
os
a la rispo
au
ilia geris
g
H
p
l
.
m
r
i
r
o
e
va
un . D
an
av
oe
se ave
i a otto
nv
o. scov hé
so nza ero… che esso
i
d
t
i
s
c
n
u
fa ve rc a
no se è v an st
rch
e la nza
ne io pe
ni, nto : ed «… e lo
i ce
vi l asta
iù i Il m orse ieri m
o
p
m
an ame no» ivevi ben
r
i
i
t
b
p
G g
r
o
e
ta
mo ian o. F len
nn
ap ab
far
aro colle «con ui sc vogli
ea
ttis omp e mi to vo
dis Sono
r
o
t
c
u
i
z
l
r
ion tratl
a
t ul.
i on i in
t
r
B
r
u
o
d
t
a
e
e
i
o
p
e
er e n p e —
ch nb
ssa e s
el b nz ep re m
ch
a
ten o ch i tem mpr
po anch
re
eto a Ista ltro. uo n roma bra n emp
i
e
l
rò
à
r
i
e
g
t
l
li i, ne
lo Bel a si
ive
eg riti. ente no d do a lang lio il sem rei s
a
l
r
t
t
i
i
c
s
a v ers
ad
ti s
o d me lm tor ten he ag mi ed
Ha
ari imm
isc he ti ossa o. Io n po to è c abb non o, ti v
lta
no
n
p
o
u
i
s
v
a
t
t
u
o
d
c
d
n
o
t , n Fa cci ni e ri
s
t ia
r
o
ne
ara cri
.
z
ma
ao am
re
ici to p hai s ontà mo n ti fa u’ an o Ott
ssi i.
str ale si
a
o
nn
m
a
u
r
n
b
i
n
p ron an
tu l qu
l’a i se o m con e, il f . No di d . Car
ioâ
a
a
g
n
l
G
L
o
i
o
TA
co o m en ne
er ere hi ett a. he ne
VA
re. itto in
ER
Tu
no re i p n può
tue dess sì alm don te, il b i viv vecc Oliv gann ro c ondo
RIS
o
NE
d
u
i
O
e
o
È
I
e
a
i
n
UZ
E e: co do l iabe rm ito. ni d a e i i aug è il m
tu fott a no
OD
r
n
IPR
l
c
d
fa
rt
e in scia mar
©R
r
l’a e gua sia il a stu co us o 45 a lla go Io m o che
a
a
s
a
i u . L do
le no cio a po dop de a vivi? cchi
o d amis ssen
co min se d o, ren gi, era
z
i
r
,
D co es
an p
in at
sfo ao e e
In imal o a m a mi i, dip ile p
mi o. Ci ia, ch
e
b
t
n
t
f
n
m
h
o
i
rz
g
le a o scr o? Ro Dise o ign ro. na, c e sfo filoso
t
r
n
h
e
s
d
l’ an fai? ue o n pe ino tua
re.
qu Che e in q ozz re la n m a la
mp
r n p gge o co attu
e
p
s
i
e
t
’u
sem se d o a r e cer ura e ie. tto d
tas Fatic ina, pitt Graz ’affe
l
.
a
cch tu i te on
ma Fa’ la ne d cio c
c
o
ezi bra
ecc Ti ab
C
S
LA MOSTRA
“Il tennis: un gioco alla moda”
è il titolo dell’allestimento
curato da Luca Leonori,
Isabella Rességuier de Miremont
ed Emanuele Tarducci, nella Sala
della Scherma del Foro Italico
di Roma. La mostra con i dipinti
di Ottorino Mancioli aprirà
sabato 11 in occasione
degli Internazionali di Tennis
A destra la Piccola guida di tennis
di Mancioli, e a sinistra
l’artista nel suo studio
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
LA DOMENICA
■ 34
Spettacoli
Légami
Abbandonata dalla madre e molestata dal padre
fu segretaria, maestra, modella, attrice ma soprattutto
“pornostar” del dopoguerra. Di lei si invaghirono
Katherine Hepburn e Jfk, prima che la follia
prendesse il sopravvento. A novant’anni
dalla nascita ecco come la storia andò a finire
GIUSEPPE VIDETTI
A
NEW YORK
l 303 della Bowery, nella Manhattan che fu il
teatro di beatnik e
punk, c’è un negozio di
abbigliamento rétro che porta il suo
nome, Bettie Page. Top leopardati, bustier glitterati, négligée di voile rosso,
culotte di pizzo, giarrettiere maliziose,
pantaloni da odalisca in crêpe trasparente, abiti attillatissimi in raso nero,
accessori in pelle da mistress sadomaso; quel misto di erotismo ed esotismo
che hanno trasformato una pin-up nel
più peccaminoso oggetto di desiderio
del dopoguerra, e successivamente in
un marchio formidabile che non ha
mai smesso di solleticare erotomani e
fashion designer. Un emporio ben più
grande, sullo stile di quelli che accolgono i fan di Elvis a Graceland, sta per
aprire nel cuore di Nashville, la capitale della country music che novant’anni
fa diede i natali alla scandalosa signorina. È il sedicesimo punto vendita gestito dalla Tatyana Design ad essere inagurato in punti strategici degli Stati
Uniti (uno, ovviamente, si trova a Las
Vegas, sin city per eccellenza).
Bettie Page non avrebbe fatto quella carriera se fosse rimasta prigioniera
del conformismo del sud; non sarebbe
diventata un’icona celebrata in un vasto repertorio di libri, film e fumetti se
la sua vita “scandalosa” non fosse ancora tema di dibattito per biografi e
psicanalisti. Ultimo in ordine di arrivo,
Betty Page - La vita segreta della regina
delle pin-up (Bettie è una deformazione del vero nome, Betty Mae Page) indaga ora sul passato della brunetta
esplosiva le cui la nudità, che oggi finirebbero nella pubblicità del bagnoschiuma, erano materiale pornografico scambiato sottobanco e a rischio di
pene severissime. Degli anni in cui posava in topless o nuda a Miami e New
York si sa praticamente tutto. Più
oscuro è invece il periodo in cui si dileguò dalle scene — enigma che ha già
ispirato due film usciti nel periodo in
cui la rinascita del burlesque ha riportato prepotentemente a galla le immagini bondage scattate alla metà degli
anni Cinquanta, quando apparve anche sulle pagine di Playboy.
Il fatto che non avesse mai scelto un
nome di fantasia è testimonianza che la
Page non appartenesse al circuito delle
spogliarelliste. Era una segretaria, diplomata a pieni voti, che sbarcava il lunario facendo la modella; figlia della
Grande Depressione cresciuta in una
famiglia in cui ogni femmina che nasceva era accolta come una disgrazia.
Mamma Edna non riuscì a prendersi
cura dei sei fratelli, decise di tenere con
sé i maschietti e affidare le bambine a un
orfanotrofio. «Era una moglie fedele,
mio padre un verme. Molestò tutte e tre
le sue figlie», confessò la Page sessant’anni dopo. Abusò sessualmente di
lei quando aveva tredici anni. «Non mi
ha mai stuprata per paura di mettermi
incinta, ma mi toccava continuamen-
Splendori e miserie
di un angelo nero
te». Roy Page, un meccanico squattrinato, comprava il silenzio della piccola
con gli spiccioli per il cinematografo.
Ragazza modello, studentessa zelante,
figlia remissiva: avrebbe fatto qualsiasi
cosa per sciogliere il gelo di una madre
anaffettiva. Divenne sposa precoce di
un marito che le fu scippato dalla guerra e iniziò la carriera di maestra. La bellezza, una condanna. «Non potevo
controllare i miei studenti, specialmente i ragazzi», raccontava, sottolineando che i più grandi non le risparmiavano apprezzamenti da scaricatore
‘‘
Non ho cercato di essere
scandalosa né pioniera,
di cambiare la società
o di anticipare i tempi
Non credo di aver fatto
qualcosa d’importante
Sono stata me stessa
non conosco altro modo
di essere o vivere
di porto. Decise di investire sul suo corpo, sacrificandolo per la propria indipendenza. Hollywood era tappa obbligata; forte accento del sud, trucco sbagliato: la Warner la tenne in
ballo per ruoli di serie B. Quando
tornarono a cercarla, lei per restare
accanto al marito Billy Neal tornato dalla guerra non rispose al telegramma.
Ventisette anni e poche prospettive,
fino a quando non incrociò Jerry Tibbs,
un poliziotto di colore con la passione
per la fotografia. Iniziò la carriera da
pin-up nei Camera Clubs, modella a ore
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
■ 35
LE IMMAGINI
FOTO
© IRW
ING K
LAW
/ COU
RTES
Y OF
PAOL
O CA
NEVA
RI
Bettie Page
nelle fotografie
scattate presso
la Movie Star News
tra il 1951 e il 1955,
tratte dalla collezione
privata di Maurizio
Rebuzzini
e pubblicate
nel libro Betty Page La vita segreta
della regina
delle pin-up
A destra,
la locandina
del documentario
Bettie Page All
di Mark Mori (2012)
IL LIBRO
Betty Page - La vita segreta della regina delle pin-up
(Giulio Perrone editore, 290 pagine, 16 euro)
è la prima biografia italiana dedicata
alla controversa artista americana. Sarà in libreria
da domani con la prefazione di Vincenzo Mollica
L’autrice è Lorenza Fruci
per professionisti e/o erotomani in incognito. Lo stile Bettie Page nacque negli squallidi scantinati di Brooklyn e
Manhattan dove venivano allestiti i set:
capelli neri con la frangetta, occhi blu,
forme perfette. Bettie posò dal 1950 al
’57 e nell’arco di questi anni fu ritratta in
una grandissima quantità di scatti che
non ha uguali nella storia della fotografia, alcuni dei quali pubblicati sui girlie
magazine, gli antenati di Playboy, molti dimenticati e recuperati solo negli anni Novanta. Le molestie erano consuetudine, la rassegnazione causa di molte
occasioni perdute. «Nel 1955 mi
chiamò Howard Hughes», raccontava.
«Disse che voleva farmi un provino nel
suo studio. Ma io avevo sentito dire che
non avrebbe fatto niente a meno che
non fossi andata a letto con lui. Non sono una di quelle. Non l’ho mai richiamato». Confessò anche di aver ricevuto
una telefonata in incognito da Katharine Hepburn, intrigata dalle sue foto
bondage con altre donne. «Mi sono stesa sul letto e ho chiuso gli occhi. Ha fatto tutto lei. Avrei potuto vendere la storia alla rivista Confidential, allora nessuno sapeva della sua doppia vita. Ma
L’ARRESTO
La foto segnaletica di Betty Mae Page scattata il 29 ottobre 1972
dalla polizia di Hialeah (Florida) dopo una violenta lite col secondo
marito Harry. Fu poi ricoverata in una struttura psichiatrica
La modella era nata a Nashville (Tennessee) il 22 aprile del 1923
ed è morta a Los Angeles (California) l’11 dicembre del 2008
non volevo che i miei fan pensassero
che anch’io fossi lesbica». A nessuno
passò mai per la mente una cosa del genere. Tanto meno a Frank Sinatra che la
invitò nella sua villa di Palm Springs per
presentarle un amico che si rivelò essere J. F. Kennedy (il futuro presidente ebbe anche un flirt con Tempest Storm, la
rossa incendiaria del burlesque). Fecero sesso a bordo piscina. «Aspettavo da
tanto», le disse, «ho tutte le tue foto».
Con tutto quel materiale “pornografico” che circolava in buste chiuse per
gli States non meraviglia che nel 1960
l’Fbi aprisse un file su Bettie Page (reso
pubblico nel 2010) nel corso di una gigantesca inchiesta sull’influenza nefasta della stampa erotica. Dopo gli interrogatori e una serie di episodi di stalking
Bettie volò via da New York e cominciò
una nuova vita. L’illuminazione avvenne in una chiesa di Miami la notte di capodanno del 1960. Ma chi voleva una
missionaria ex pin-up e pluridivorziata? Visse in solitudine, perseguitata dai
suoi fantasmi, più incline alla follia che
alla preghiera. L’angelo nero che turbava i sogni degli uomini diventò una psicopatica che brandiva coltelli e pistole
in preda a deliri mistici. Diagnosi: schizofrenia paranoide. Nel 1982, dopo
l’ennesima aggressione, fu condannata e internata per dieci anni in una casa
di cura per malattie mentali. Il suo nome era diventato un brand quando fu
dimessa. Non le restò che riavvicinarsi
ai fratelli e consultare un avvocato (l’ultimo di tanti truffatori) per cercare di recuperare i diritti sulla sua immagine e
tirare avanti con gli introiti dell’autobiografia The life of a pin-up legend
(2006). Sarebbe morta in miseria se Hugh Hefner, l’editore di Penthouse, non le
avesse dato una mano. Nell’opuscolo
commemorativo che fu distribuito al
funerale, nel 2008, c’erano le sue ultime
parole: «Non ho cercato di essere scandalosa o di essere una pioniera. Non ho
cercato di cambiare la società o di anticipare i tempi. Non ho pensato di essere un’emancipata e non credo di aver
fatto qualcosa d’importante. Sono solo
stata me stessa. Non conosco altro modo di essere o di vivere». E difatti ha creato uno stile. Imitabile. La Madonna di
Sex e la Uma Thurman di Pulp fiction—
dive più fortunate — ringraziano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
LA DOMENICA
■ 36
Next
TARGA AUTO
Gli agenti di San Francisco hanno una app
che permette loro di identificare i veicoli
semplicemente scansionando la targa
con la fotocamera del telefonino
Guardie & ladri
Sparano, ma solo dati in tempo reale
Sentono gli odori. Sorvegliano a distanza
Sono i telefonini di ultimissima
generazione le nuove armi
delle polizie. E in alcune metropoli
sono già a caccia dei soliti sospetti
FEDINA PENALE
Quattrocento agenti di New York
digitando un nome o anche solo
l’indirizzo accedono in tempo reale
a tutte le info (precedenti, residenza,
occupazione) di un soggetto
FABIO TONACCI
l sospettato immobile, con le mani alzate, in attesa. Davanti a lui un poliziotto in divisa che gli punta contro uno smartphone. L’atavica e mai risolta rincorsa tra guardie e ladri si arricchirà presto di una scena come questa. Perché nella fondina adesso trova posto una nuova arma. Che spara
dati, recupera fedine penali in tempo reale, identifica volti, riconosce le impronte, annusa. E che potrebbe servire a svuotare le carceri. Succederà
presto, e qualcosa succede già.
A New York, per esempio. Quattrocento uomini del Ny Police Department sono stati forniti di un cellulare Android di ultima generazione, modificato. Non può
ricevere né fare chiamate, ma con un’applicazione dà accesso a qualsiasi tipo di
informazione su luoghi, palazzi, persone, ricercati. L’agente Tom Donaldson al
New York Times la racconta così. «Mi trovo davanti a una palazzina di 14 piani ad
Harlem per un controllo. Digito l’indirizzo sul telefonino e mi compaiono tutti i
nomi dei residenti con precedenti penali e quelli con un porto d’armi regolare, la
lista degli appartamenti teatro di incidenti domestici, le foto di chi è stato arrestato. In tempo reale ho anche la mappa delle telecamere di sorveglianza puntate sul palazzo». Il lavoro di due giorni, tra scartoffie e confronto dei profili, in poco più di dieci secondi. Altra sperimentazione a San Francisco. Qui capita spesso
di vedere agenti che fotografano i “sederi” delle automobili: sui loro telefonini
hanno un’applicazione che, attraverso la fotocamera, scansiona la targa e si collega alla centrale, ricavando tutte le informazioni sul veicolo: se l’auto è rubata, a
chi appartiene, se l’assicurazione è scaduta.
«Tutto questo è solo un assaggio di cosa si potrà fare con la realtà aumentata»,
dice Gerardo Costabile, direttore Forensic Technology di Ernst & Young per l’Italia. Realtà aumentata, dunque. Con un po’ di approssimazione, la si può definire
arricchimento della percezione umana attraverso un dispositivo elettronico. Di
fatto, un sesto senso digitale. Qualcosa c’è già nelle città più smart, dove i turisti
ricevono notizie su un monumento inquadrandolo. Ecco, è lì, in quella direzione, che bisogna guardare per immaginare come sarà utilizzato lo smartphone tra
dieci anni dalle polizie. «Riprendendo una folla — spiega Costabile — i dispositivi saranno in grado di identificare i volti, confrontandoli via web con quelli archiviati nei database. Chi fa ordine pubblico negli stadi, ad esempio, con il suo cellulare potrà individuare i soggetti con precedenti per violenza, e ricevere la scheda con età, residenza, occupazione. Un po’ come faceva Robocop, il superpoliziotto d’acciaio e microchip, nel film». Algoritmi sempre più sofisticati riescono
già oggi a simulare il processo di invecchiamento di una persona, permettendo a
telecamere e telefonini il riconoscimento di un ricercato sfruttando una foto vecchia di vent’anni. Del resto, se il prossimo iPhone monterà, come sembra, un let-
I
BANCHE DATI
Sono già molti gli esperimenti
per far “parlare” i tanti database
esistenti (forze dell’ordine,
amministrazioni comunali, agenzie
fiscali). Presto saranno consultabili
in tempo reale attraverso il telefono
Uno smartphone per l’ispettore
tore ottico per le impronte digitali, difficile non intravedere l’utilità di una tecnologia del genere messa nelle mani di un poliziotto.
Un po’ più sfumato, invece, è lo scenario immaginato da alcuni esperti della Deloitte, una delle Big Four, le quattro aziende di revisione e consulenza più influenti
del mondo (tra queste c’è anche Ernst & Young). Rifacendosi idealmente al Panopticon, il carcere perfetto dove un unico guardiano controllava tutti i detenuti in qualunque momento, progettato nel 1791 dal filosofo Jeremy Bentham, hanno ipotizzato qualcosa di completamente nuovo. Nel dossier, intitolato non a caso Beyond
the Bars, oltre le sbarre, spiegano come sia possibile, grazie agli smartphone, ai modelli di analisi geospaziale e agli algoritmi di simulazione del comportamento umano, monitorare i detenuti ai domiciliari. Creando di fatto un sistema carcerario virtuale, che costa la metà di quello reale e permette di avere il doppio dei detenuti.
Inquietante? Sì secondo Evgeny Morozov, sociologo e giornalista bielorusso,
sempre diffidente verso il facile entusiasmo dei positivisti della Rete, «Le tecnologie intelligenti non sono sempre rivoluzionare — dice — a volte servono a preservare lo status quo». Come a dire, occhio, la mania del controllo a distanza può
sfuggire di mano. «Di sicuro — ragiona Rosanna Colonna, primo dirigente della
Polizia di Stato — al legislatore spetta l’oneroso compito di segnare il confine tra
la crescente esigenza di pubblica sicurezza e il diritto primario dell’individuo a
tutelare la propria privacy».
Ma intanto lo sviluppo degli smartphone avanza. Tra qualche anno, per dirne
un’altra, sui comuni cellulari sarà installato un sensore che capta odori e tracce chimiche, le elabora e le registra. Utilissimo per l’investigatore che sulla scena del crimine ha bisogno di capire se ci sono residui di polvere da sparo. E quanto tempo
passerà prima che qualcuno inventi un’applicazione per far telecomandare agli
agenti piccoli droni dotati di telecamere?
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
■ 37
DRONI
Una delle applicazioni
più futuristiche
è la possibilità
di telecomandare
piccoli droni dotati
di cam per riprendere
dettagli altrimenti
inaccessibili
della scena del crimine
‘‘
Le tecnlogie intelligenti
non sono sempre
rivoluzionarie,
a volte possono servire
a preservare lo status quo
Eugeny Morozov
sociologo
ODORI
Raccogliere elementi
chimici sarà possibile
anche sui telefonini:
“nasi” elettronici
permetteranno
di identificare
un odore o la presenza
di polvere da sparo
TRACCE DI SANGUE
In futuro non si esclude
che con gli smartphone gli agenti
potranno raccogliere tracce
di sangue con dei micro tamponi
e catalogarle automaticamente
RICONOSCIMENTO
È possibile riconoscere un soggetto
via smartphone sviluppando
gli algoritmi che simulano
l’invecchiamento basandosi
solo su una vecchia foto del ricercato
FOLLA
Sarà possibile
in futuro individuare
in tempo reale chi,
in un gruppo
di persone
inquadrato
col telefonino,
ha precedenti
per violenze o risse
IMPRONTE DIGITALI
Sarà possibile per un poliziotto
prendere sul suo telefonino
le impronte digitali di un sospettato
o identificarlo attraverso esse, grazie
ai lettori ottici di ultima generazione
BRACCIALETTO
ELETTRONICO
GLOSSARIO
Realtà aumentata
Il telefonino intelligente
riesce ad abbinare
la funzionalità di cellulare,
la connessione alla rete,
la gestione di dati personali
e le varie applicazioni
La possibilità di avere
informazioni, oltre a quelle
che abbiamo attraverso
i cinque sensi,
tramite impianto ottico,
su persone o oggetti
4G
Drone
Cloud
Indica la rete di connessione
per cellulari ultraveloce
che permette l’utilizzo
di applicazioni multimediali
avanzate e collegamenti dati
con banda molto larga
Robottino telecomandato
(di solito sono velivoli senza
pilota per le missioni militari)
usato anche in ambito civile,
ma col divieto di sorvolare
le persone
Tecnologie per memorizzare
o elaborare dati da “remoto”,
cioè non direttamente
sul dispositivo in uso. Le app
più avanzate si basano
sul cloud computing
INFOGRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA
Con la tecnologia smartphone,
si potrebbe rivoluzionare il sistema
carcerario seguendo i detenuti
ai domiciliari grazie all’individuazione
geospaziale e ai modelli di analisi
del comportamento
Smartphone
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
LA DOMENICA
■ 38
I sapori
Diminuire il consumo di carne è un’esigenza
sia per la salute che per l’ambiente
E così, anche in pausa pranzo, la proposta
vegetariana o vegana si fa sempre più ricca,
gustosa e soprattutto veloce. E ora accetta
Verdi
la sfida più ardita e diretta:
quella del fast food
L’enciclopedia
Dall’antipasto al dolce senza passare
per la carne. Sono più di millecinquecento
ricette “verdi” quelle contenute nei dodici
volumi de La grande cucina vegetariana
proposta da Repubblica e L’Espresso
Ogni volume è composto da tre parti:
scuola di cucina, ricettario e piatti
per bambini. Tutti i sabati (a partire da ieri)
in edicola a 9,90 euro
LICIA GRANELLO
n hamburger vi conquisterà. Ma non il solito, figlio più o meno evoluto dei dischi di carne tritata che i marinai delle linee navali amburghesi cuocevano sulle griglie durante le
traversate atlantiche. Il pane è lo stesso, senape e maionese non possono mancare. A
cambiare, la farcitura: purè di fagioli, zucchine croccanti e
maggiorana, oppure melanzane, ricotta e menta fresca, e
poi a piacere pomodori freschi e secchi, lenticchie, mandorle, fettine di mela. Benvenuti nel nuovissimo regno dei
fast-veg, che stanno faticosamente cercando di ridare dignità alimentare alle eateries (luoghi di ristorazione veloce)
U
BigVeg
americane e riproponendo la cultura dell’alimentazione
mediterranea in chiave rapida e nuova. La richiesta di un approccio diverso al cibo è mondiale. Troppa sproporzione fra
la dimensione agricola destinata agli allevamenti e le quantità di cui abbisognano gli umani. Troppo profonda l’impronta ecologica che la produzione di carne lascia sul pianeta. Troppo alte le evidenze che legano l’abitudine alle proteine animali con gli stati infiammatori cronici a rischio di
tumori. I numeri dell’economia alimentare sanciscono
un’inversione di tendenza nei consumi mai registrata
lontano dai periodi di guerra. Si mangiano meno bistecche&affini per una somma variegata di motivi. Al
loro posto, legumi e ortaggi in primis, con il difetto
congenito della scarsa accessibilità nei ritmi convulsi
della quotidianità lavorativa. Perché un piatto di verdure non si nega a nessuno, nella calma (almeno apparente) della cena, in casa propria, da amici o al ristorante. Ma il pranzo ha esigenze diverse, tra chi addenta un panino, chi una porzione di pasta purchessia
e chi si impegna scegliendo un’insalata, purtroppo quasi mai oltre il limite della stretta commestibilità.
Così, l’idea di proporre menù vegetariani/vegani (ovvero con o senza proteine da animali vivi) facili, svelti e davvero buoni sta guadagnando consensi entusiastici. Certo, essere la patria della dieta mediterranea aiuta parecchio, se è
vero che il trittico farina-verdure-extravergine ci appartiene da millenni, tra focacce, verdure imbottite e crocchette.
A saldarsi in un unicum interessante, tradizione culinaria e
nuove esigenze eco-gastronomiche. Finito il tempo delle ricette velleitarie — equiparare il seitan a una cotoletta non ha
giovato alla causa — i locali di cucina green e veloce si stanno moltiplicando: luminosi, allegri, sensibili a biologico e
km zero, servono al banco o a domicilio cibi sani e sfiziosi
(anche senza ricorrere alla frittura, facile scorciatoia anche
per i bocconi più insipidi).
Negli Stati Uniti, i primi bagliori della rivoluzione “McVegan” hanno indotto Mark Bittman, food editor del New York
Magazine,a scrivere il libro VB6: Eat Vegan Before 6:00 to Lose Weight and Restore Your Health... for Good, cioè niente
proteine animali fino a metá pomeriggio per dimagrire e
riacquistare la salute. Se proprio non potete farne a meno,
l’arrosto mangiatelo a cena.
Un altro
hamburger
è possibile
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
■ 39
Gli indirizzi
TORINO
MILANO
TRENTO
TRIESTE
GENOVA
Gastronomia Vegetariana
Via Di Nanni 116
Tel. 011-3828605
I Love Vegetarian
Piazza IV Novembre 1
Tel. 02-39468072
Codamacchiata
via San Sebastian 21
Tel. 3473811491
Zoe Food Fast Good
Via Felice Venezian 24
Tel. 040-2460420
La cucina di Giuditta
Via Trebisonda 75
Tel. 010-581172
PRATO
ROMA
NAPOLI
BARI
CATANIA
Genuine Tentazioni
Via Soffici 54
Tel. 3497015274
Bios Logos
Via Alessandrini 84
Tel. 06-91712035
Un Sorriso Integrale
Vico S.Pietro a Majella 6
Tel. 081-455026
Ekoiné ri-pub vegetariano
Via De Ferraris 39
Tel. 3281172981
Haiku
Via Quintino Sella 28
Tel. 095-530377
Gratin di cavolfiori
Cappuccino
Crocchette
Insalata pantesca
Cimette cotte al vapore, salate,
infornate e grigliate dopo averle condite
e coperte con besciamella e rifinite
con Parmigiano e fiocchetti di burro
Zucca infornata, tagliata a cubetti,
rosolata con porro, frullata,
servita in un bicchiere. Per decorare,
caprino fresco montato con panna di soia
Lenticchie bollite, asciugate in padella
con poco olio e rosmarino, passate
al mixer, arricchite con dadini
di mozzarella. Pan grattato e frittura
Patate lessate e tagliate a tocchi,
pomodori maturi a fette, cipolle rosse
a rondelle, olive nere, origano fresco,
capperi di calibro medio, extravergine
A tavola
La mia dieta sana, buona e giusta
MONI OVADIA
eorge Bernard Shaw diceva: “Gli animali sono miei amici e io non mangio
i miei amici”. Basterebbe questa sola considerazione nello stile arguto del
grande commediografo irlandese per optare per una dieta vegetariana.
Sono molte le grandi figure che hanno segnato il cammino filosofico, scientifico
e spirituale della nostra umanità e che si sono schierate a favore della causa degli
animali e contro la crudele brutalizzazione perpetrata nei loro confronti dagli uomini arbitrariamente proclamatisi padroni e dominatori del pianeta.
“L’uomo è un animale addomesticato che per secoli ha comandato sugli altri animali con la frode, la violenza e la crudeltà” (Charlie Chaplin).
“La grandezza di una nazione e il suo progresso morale, si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali” (M. K. Mahatma Gandhi).
“Verrà il tempo in cui l’uomo non dovrà più uccidere per mangiare ed anche l’uccisione di un solo animale sarà considerata un grave delitto” (Leonardo da Vinci).
“Nulla darà la possibilità di sopravvivenza sulla Terra, quanto l'evoluzione
verso una dieta vegetariana” (Albert Einstein).
Questi brevi pensieri esprimono in sintesi le ragioni etiche che mi hanno portato a praticare un’alimentazione vegetariana. Quanto alle ragioni dietetiche,
si fondano anch’esse su un assunto etico: non posso credere che nutrirsi di un
cibo generato dalla violenza della morte, spesso accompagnata da sofferenze
atroci, possa essere sano e buono nel senso più profondo che questi concetti
hanno. Inoltre, la natura ci fornisce una sterminata varietà di alimenti sublimi,
senza fare ricorso a carne e pesce. E chi come me ama i dolci ne fa quotidianamente un’esperienza decisiva.
G
Sandwich
Panini guarniti con semi di sesamo
farciti con tofu tagliato a fettine
e funghi enoki. Tocco finale all’erba
cipollina per dare sapore e colore
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Chips
Patate bio tagliate sottilissime
senza sbucciarle, lasciate un’ora in acqua
salata e molto fredda. Si friggono poche
alla volta dopo averle ben asciugate
In carrozza
Pan carrè sbordato, immerso in uovo
sbattuto (senza sale) e pan grattato
Tra due fette, un disco di mozzarella
fatta scolare. Impanare e friggere
Crumble
Pizzetta di scarola
Panzanella
Impasto di farina, acqua e olio
Un’ora in frigo, sminuzzato e pressato
in teglietta. Sopra, tofu lavorato con latte
di soia, pepe, olive, pomodori secchi
Farina, acqua, olio e lievito madre
Dopo il riposo, impasto steso e richiuso
All’interno, verdura spadellata con olio,
aglio, olive nere, uvetta e pinoli
Pane casareccio raffermo, ammollato
in acqua fredda e aceto, strizzato,
lavorato con le mani insieme
a pomodoro, cipolle, cetrioli, extravergine
LA RICETTA
Ingredienti per 4 persone
Pietro Leemann - Joia, Milano,
unico ristorante vegetariano
stellato d’Italia - ha ideato
per i lettori di Repubblica
un piatto fast-veg dedicato
a Tiziano Terzani, dove soia
e tofu servono ad assemblare
una ricetta sana e golosa
400 g. di tofu
40 g. di salsa tamari
20 g. di olio di semi bio
40 g. di zenzero fresco
tagliato a cubetti
100 g. di purea di broccoli
200 g. di asparagi puliti
4 fette sottili di limone
4 foglie di alloro
40 g. di olio extravergine d’oliva
Sale e pepe
Bollire 6 minuti i broccoli in acqua salata,
raffreddarli in acqua ghiacciata, sgocciolarli
e frullarli con una goccia di olio extravergine
Ridurre quindi gli asparagi a cilindretti
di circa 3 centimetri, sbollentarli per 30 secondi
in acqua salata e raffreddare in acqua ghiacciata
Tagliare il tofu in quattro in modo da formare
altrettanti grossi cubi, arrostire con l’olio di semi
sui quattro lati, bagnare con il tamari e infine
farlo assorbire bene rigirando. Lessare
poi gli asparagi e la purea di broccoli con l’alloro
e con 50 grammi d’acqua per circa 2 minuti, aggiungere
l’olio extravergine e portare a cottura. Sul fondo di quattro piatti
mettere una fetta sottile di limone, una foglia d’alloro e gli asparagi
Appoggiarvi sopra il tofu e condirlo con lo zenzero
✃
Un indovino mi disse
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA
DOMENICA 5 MAGGIO 2013
■ 40
L’incontro
Combattenti
Studiando legge a Cambridge
si innamorò del teatro e poi del cinema:
“Sono un regista per caso”
confessa oggi l’autore di “The Queen”,
grande scopritore di talenti
(“Daniel Day-Lewis
è stato la mia Anna
Magnani”) dal pessimo
carattere: “Per tenere
a bada una troupe
c’è da andare sul set
con la pistola, mentre i produttori
andrebbero presi a pugni
Quanto al pubblico...”
Stephen Frears
a le mani piene di
schiaffi. Mani palmari,
gonfie di schiaffi mai
dati. Ma a quanti li
avrebbe rifilati con gusto... «Quando
ho cominciato a fare il regista, ho rivissuto l’incubo dell’insegnante, con attorno gente da rispedire al posto con
una pedata. Anche il set è spesso una
scuola d’incompetenti o prepotenti, i
produttori in prima fila: da prendere a
pugni. Ma, a differenza dei professorini in cattedra, i produttori più indisponenti spesso conoscono bene il loro
mestiere. Unico caso nella storia dell’umanità in cui i peggiori sono i migliori». Fiero delle sue provocazioni,
Stephen Frears stempera le abituali dichiarazioni di guerra nel largo sorriso
d’orso bonaccione: in un angolino
d’hotel, infilato dentro pantaloni senza piega e un maglione senza camicia,
con giro di sciarpa penzolone fino alla
pancia, il regista rischiara l’aria con la
trasparenza azzurra del suo sguardo
arguto, lumicino gentile su una mole
altrimenti minacciosa. Più pacato rispetto al passato, quando lanciava
strali contro Tony Blair («Non sono per
la pena di morte, ma nel suo caso farei
un’eccezione») o contro il degrado
‘‘
Laundrette è una tappa cruciale della
mia vita, non solo professionale. Un
po’ com’era stato, nel 1957, il London
Film Festival che a me sedicenne aveva spalancato un mondo nuovo: il cinema europeo, soprattutto italiano e
francese. È stato l’inizio di una passione, per Renoir, la Nouvelle Vague, per
quei registi che tutti amiamo: i primi
che parlavano della nostra realtà sociale, i maestri del mio cinema e di altri
della mia generazione». Perché My
Beautiful Laundrette, che l’ha lanciata
quasi trent’anni fa, se lo sente ancora
appiccicato addosso? «Ritrae la brutalità sociale della Gran Bretagna nell’era Thatcher. Anche se, per uno di quei
paradossi insondabili che si fan beffe
di noi e delle nostre migliori intenzioni, il mio durissimo attacco al thatcherismo s’è ribaltato, grazie al successo
del film, in un punto a favore della politica mediatica del primo ministro:
ecco la prova d’un prodotto di qualità
Quelli della Thatcher
per noi sono stati
anni duri, altroché
Prima di lei
la Gran Bretagna
sembrava
un Paese
socialista
FOTO PHOTOMOVIE
H
LONDRA
dello spettacolo cinematografico
(«Darei fuoco alla sala dove si proietta
un film che non mi dà esaltazione
mentale»), Frears oggi restringe i suoi
campi di battaglia: «Per tenere a bada
la troupe si può andare sul set con una
pistola. Con il pubblico, la soluzione è
forse meno semplice». In costante, britannico equilibrio tra ironia e autoironia, il cineasta, che a giugno compirà
settantadue anni, gioca al monello perenne, all’indisciplinato di genio: «Sono un regista per caso. Da giovane, mai
m’era passata l’idea per la testa: non
sospettavo nemmeno che esistesse
questo mestiere. Me ne stavo tranquillo, e annoiato, al Trinity College dell’università di Cambridge, dove mi ero
trasferito a diciotto anni dal paesello
natale di Leicester, a studiare giurisprudenza. È lì che ho cominciato a
frequentare il teatro, da cui mi sono
fatto docilmente sequestrare anche
perché avevo capito che, con le regie,
si poteva mettere in tasca qualcosa».
Negli incontri con il pubblico di solito si dondola tra boutades e risposte
al risparmio. L’ultima volta è stata al
Bif&st di Bari, dove ha ricevuto il premio alla carriera e dove il direttore di
Positif, Michel Ciment, in platea sussurrava all’orecchio del vicino: «Pare il
remake delle interviste a John Ford,
monosillabi in replica a domande sterminate». Ma nel faccia a faccia, il guardingo Frears si liquefa in affabile lago.
Perché questo cambiamento? «In
pubblico ho l’impressione che la gente non creda a quel che dico. Perciò mi
tengo allo scherzo. Ma, soprattutto,
non ho il talento del racconto: sono un
artigiano del cinema — anche Fellini lo
diceva di sé — non sono capace di spiegare quel che faccio. Chiedetemi film,
non discorsi».
I film, appunto. Che meraviglia —
d’attori, di storie e di “discorsi” — da
My Beautiful Laundrette a The Queen,
da Relazioni pericolose a Alta fedeltà,
da Eroe per caso a Rischiose abitudini e
allo straordinario Lady Henderson del
2005, dove sfolgora l’ineguagliabile Judi Dench, quattro volte presente nel cinema di Frears: una lunga festa di premi, da Cannes a Venezia, agli Oscar, e
un invidiabile tapis rouge d’interpreti,
da Daniel Day-Lewis (ai suoi esordi,
nel 1985) a John Malkovich, a Glenn
Close, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman, Dustin Hoffman, Helen Mirren,
Anjelica Huston, Kathy Bates, Julia Roberts, Gary Oldman... «My Beautiful
e dal sicuro ritorno commerciale». Era
stato inizialmente previsto per la sola
tv, dove Frears sguazzava negli anni
belli della Bbc: «Sì, dopo essere stato
assistente di Karel Reisz, vi avevo scodellato nel 1972 il primo titolo, Sequestro pericoloso. È stata, per tutti, un’epoca d’oro quella precedente alla Lady
di Ferro. Una Gran Bretagna modellata a Paese socialista, con uno Stato protettivo delle produzioni Bbc e di ogni
forma di cultura. Ma anche su di noi s’è
rovesciata presto l’ossessione del profitto, dei grandi numeri, con tutti i
meccanismi del capitalismo: che vita
dura, dopo...».
E comunque nei suoi viavai internazionali, tra cui l’immancabile Hollywood, Frears ha finito per tornare
sempre all’ovile britannico: «In Gran
Bretagna, c’è di bello che molta gente
passa il tempo a scrivere storie, mentre
molti altri si applicano a rappresentarle. Non mi sono nemmeno messo in coda: ho preso un po’ come capitava qua
e là, in modo inconsapevole, come avviene con una moglie che ti trovi accanto senza ricordarti com’è successo. Anche gli attori, lascio che vengano scelti
dalle storie. Prendiamo la Pfeiffer e
Malkovich in Relazioni pericolose: entrambi estremamente sexy, non potevano che innamorarsi l’uno dell’altra.
Filmarli è stato un gioco da ragazzi. Al
contrario di Elia Kazan, che gli attori li
forgiava, io li prendo come sono, già
pronti. Anche con Daniel Day-Lewis,
oggi “super-oscarizzato” e superpagato, è avvenuto lo stesso: quando l’ho
cercato per My Beautiful Laundretteera
giovane, sconosciuto e poco costoso (il
mio problema è sempre stato quello di
fare un cinema cheap, ipereconomico).
E lui era lì, l’attore giusto per me, lancia
in resta per cambiare un po’ tutto. Perché la prima regola di ogni rivoluzione
con garanzie di successo è che ci sia
qualcuno su cui poter contare e che si
trovi lì in quel momento. Come Anna
Magnani quando Rossellini girò Roma
città aperta. Ecco: Daniel Day-Lewis è
stato la mia Anna Magnani».
Anche nella vita, nelle fasi di cambiamento, ha potuto contare su qualcuno a lei vicino? «Ho avuto una madre
molto forte. E ho sposato due donne
molto forti, da cui sono nati quattro figli: il primo, Will, è lui pure regista, a
Hollywood, e padre di due figli. Sono
nonno, ma con un oceano in mezzo tra
me e i nipotini. Spero di essere stato io,
per mio figlio, la persona giusta su cui
contare, quando ha avuto bisogno. Se
vuoi aiutare un figlio, devi lasciarlo libero di scegliere. Quando ha voluto diventare regista, trasferendosi negli
Stati Uniti, gli ho detto “va’”, comincia
ora a farsi conoscere. Spero diventi il
nuovo Frears, anche prima che me ne
sia andato».
Nel frattempo il nonno è operosissimo. Due film all’anno. L’ultimo è Philomena, con Judi Dench in cerca del figlio che le è stato sottratto perché ragazza madre, «una donna irlandese
che si trova faccia a faccia con l’intransigenza della Chiesa cattolica». Si
aspetta censure? «Mi auguro di no. Il
vostro nuovo Papa ha un’aria simpatica. Di ostacoli, preventivi, ne ho trovati piuttosto in patria, quando nel 2006,
con The Queen, tra mille acrobazie, sono entrato nei luoghi più augusti del
Regno per tentare un ritratto meno imbalsamato di Elisabetta II e della famiglia reale nei giorni del crash di Lady D.
Quando è morta ero in Messico a girare un western. Ne ho percepito la tragedia, ma ho perso l’evento. Il film, infatti, è sulla quotidianità della monarchia, non sulla fatalità di un’auto principesca entrata in un tunnel». E allora
perché ha voluto a tutti i costi realizzarlo? «Per quello scrupolo missionario che accomuna insegnanti e registi:
insegnare come stare al mondo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
Scarica

philip roth - La Repubblica.it