LADOMENICA DOMENICA 5 MAGGIO 2013 NUMERO 426 DIREPUBBLICA CULT All’interno La copertina “Societing” le nuove imprese che risolvono problemi sociali GIANCARLO BOSETTI e VANNI CODELUPPI Il libro L’esordio della Coplin tra Far West e passioni SUSANNA NIRENSTEIN Straparlando Boris Pahor “A cent’anni mi salva la letteratura” ANTONIO GNOLI Aveva detto che non avrebbe più scritto Con questo articolo inedito in Italia ha voluto fare un’eccezione Per celebrare l’uomo che gli ha insegnato a diventare grande L’immagine PHILIP ROTH L’olimpica eleganza di Mancioli vevo dodici anni quando, nel febbraio del 1946, entrai alla Hawthorne Avenue Annex. L’Annex, a un quarto d’ora di autobus dalla sede centrale, era la succursale dove andavano le matricole del liceo di Weequahic a quei tempi. Il primo insegnante che mi trovai di fronte, la prima ora del mio primo giorno all’Annex, fu Bob Lowenstein. Il dottor Lowenstein. Doc Lowenstein. Era fresco reduce dalla seconda guerra mondiale, diversamente da quasi tutti i professori di liceo era in possesso, senza darsi arie, di un dottorato, e quello che perfino un dodicenne poteva capire era che si trattava di un uomo straordinario che non tollerava di buon grado i cretini. Bob era l’insegnante della mia aula di coordinamento. Questo significava che era la prima cosa che vedevo la mattina, ogni singolo giorno dell’anno scolastico. Non ho mai frequentato un suo corso – avevo mademoiselle Glucksman per il francese e la señorita Baleroso per lo spagnolo – ma non l’ho dimenticato. Chi l’ha dimenticato a Weequahic? Di conseguenza, quando toccò a lui fini- GIANNI BRERA, GIANNI CLERICI e OTTORINO MANCIOLI L’incontro Stephen Frears “Con gli attori ci vuole la pistola” MARIO SERENELLINI A re sbranato dalla crociata anticomunista degli anni Quaranta e Cinquanta, seguii le sue vicende come meglio potei attraverso gli articoli dei giornali di Newark che mi facevo ritagliare e spedire dai miei genitori. Non ricordo come ci ritrovammo negli anni Novanta, più di cinquant’anni dopo che mi ero diplomato al Weequahic High. Io ero tornato in America dopo dodici anni vissuti prevalentemente all’estero, e o fui io che gli scrissi riguardo a qualcosa o fu lui che mi scrisse riguardo a qualcosa, e ci incontrammo per pranzo nella casa sua e di Zelda a West Orange. Nello spirito di Bob Lowenstein, esporrò la questione in parole semplici, le più dirette che posso: credo che ci innamorammo l’uno dell’altro. Lui mi inviava le sue poesie, a volte appena finiva di scriverle, e io gli spedivo i miei libri appena venivano pubblicati. Gli mandai perfino la bozza finale di un libro – Pastorale americana – da leggere in manoscritto. (segue nelle pagine successive) con un articolo di ANTONIO MONDA DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI Al mio Maestro DISEGNO DI GIPI PER REPUBBLICA PHILIP ROTH L’opera Maggio fiorentino un Don Carlo dai toni cupi e per destini incerti GUIDO BARBIERI L’arte Il Museo del mondo La Crocifissione di Grünewald MELANIA MAZZUCCO Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 LA DOMENICA ■ 28 La copertina Philip Roth Il grande scrittore americano ricorda Bob Lowenstein, l’ex professore di liceo cui si è ispirato per uno dei personaggi della trilogia di Newark “Furono uomini come lui ad essere sbranati dalla marmaglia al potere all’epoca del maccartismo” Ho amato un comunista PHILIP ROTH (segue dalla copertina) erano tantissime cose sulla Newark di inizio Novecento e volevo sottoporle a lui per essere sicuro di aver C’ fatto tutto giusto. Mandai un autista a West Orange per prendere Bob e accompagnarlo fino alla mia casa, a due ore e mezza di macchina, nelle campagne del Connecticut nordoccidentale, e pranzammo insieme e gli chiesi di dirmi cosa pensava di quello che avevo scritto. Parlammo a tavola, parlammo tutto il pomeriggio. Lui, come al solito, aveva tantissimo da dire, e credo di aver ascoltato tutto quello che mi disse con la stessa attenzione con cui ascoltavo in quell’aula di coordinamento alle 8.30 del mattino alla Hawthorne Avenue Annex, quando leggeva le sue comunicazioni per la giornata scolastica. In Ho sposato un comunista, uno Zuckerman adulto dice: «Penso alla mia vita come a un lungo discorso che ho ascoltato». Bob per me è una delle voci persuasive che ancora sento parlare. I suoi discorsi erano permeati del sapore intenso del reale. Come tutti i grandi insegnanti, personificava il dramma della trasformazione attraverso la parola. È il caso di segnalare che, quando arrivò alla mia casa nel Connecticut da West Orange, scese dall’auto con un libro in mano. Lungo il tragitto aveva letto, in francese, le poesie scritte dal poeta cattolico francese Charles Péguy, morto prematuramente un secolo fa. Io sapevo, naturalmente, che Bob era un uomo serio, ma solo quando vidi che si era portato da leggere Péguy lungo la strada capii fino a che punto fosse serio. Nel 1993, il giorno in cui compii sessant’anni, tenni una lettura alla Seton Hall e i finanziatori dell’evento mi organizzarono al termine una piccola festa di compleanno. Bob e Zelda erano presenti. Anzi, quella sera a farmi la presentazione era stato Bob, che come ricorderete viveva a un chilometro e mezzo dalla Seton Hall e non si era mai perso una lettura di poesie organizzata lì. All’epoca aveva ottantacinque anni. Che gli rimanessero ancora vent’anni di vita spumeggiante da vivere, beh, chi avrebbe potuto saperlo, se non forse lo stesso Bob? Gli avevo scritto per chiedergli di farmi la presentazione, e vederlo al leggio della Seton Hall quella sera, che raccontava con grande arguzia, sottigliez- za e charme della prima volta che ci conoscemmo, quando io ero allievo e lui insegnante, mi procurò una felicità smisurata. Penso che la cosa rese felice anche lui. Bob è stato il modello di un personaggio di primo piano del mio romanzo Ho sposato un comunista, un libro del 1998 in cui rievocavo il periodo anticomunista a cui ho accennato in precedenza e la crudeltà e la ferocia con cui persone come Bob vennero sbranate con le unghie e coi denti dalla marmaglia al potere all’epoca. Il personaggio in questione è un in- L’AUTORE Philip Roth, è nato a Newark (New Jersey) ottant’anni fa Ha scritto ventotto romanzi vincendo un Pulitzer nel ’98 per Pastorale americana Di recente ha detto di non volerne scrivere più Tra i titoli più noti Lamento di Portnoy, Ho sposato un comunista e Everyman segnante di liceo in pensione di nome Murray Ringold, e come Bob insegna al Weequahic High, anche se lui insegna inglese e non lingue romanze, come Bob. Cambiai, rispetto a Bob, anche l’aspetto, il curriculum militare e certi dettagli significativi della sua vita personale — Bob, ad esempio, non aveva per fratello un fanatico omicida —, ma per il resto cercai di rimanere fedele alla forza delle sue virtù, così come le percepivo io. Inclusi anche, di sfuggita, il suo singolare vezzo di scagliare un cancellino quando un allievo diceva qualcosa che gli sembrava eccezionalmente balordo e quasi certamente la stolta conseguenza della disattenzione, il più grave dei crimini. Il tema di Ho sposato un comunista, in fondo, è l’educazione, l’insegnamento, il rapporto mentore-allievo: in particolare un adolescente diligente, zelante e impressionabile che impara come diventare — e anche come non diventare — un uomo coraggioso, onesto ed efficace. Non è un compito facile, come sappiamo, perché ci sono due grandi ostacoli: l’impurità del mondo e l’impurità di se stessi, per non parlare delle enormi imperfezioni di intelligenza, emozione, lungimiranza e giudizio di un individuo. I mentori dell’adolescente in questione, Nathan Zuckerman del quartie- re di Newark Weequahic, sono principalmente il patriota americano Tom Paine, lo sceneggiatore radiofonico Norman Corwin, l’autore di romanzi storici Howard Fast, l’insegnante di inglese Murray Ringold e il fratello di Murray, il comunista arrabbiato e fanatico Ira Ringold, dalla cui furia omicida, dalla cui essenza distruttiva l’uomo stesso cerca invano di fuggire. «Gli uomini che mi hanno istruito», li definisce Nathan. «Gli uomini da cui provengo». Questo libro su un ragazzo e i suoi uomini si apre con un breve ritratto di Murray Ringold, il fratello Ringold che non è violento e che tempera e riserva la sua rabbia per un’immotivabile ingiustizia. Murray Ringold, tra l’altro, viene a sua volta educato. Lo stesso naturalmente successe a Bob quando, trafitto all’improvviso dal suo momento storico, finito nella trappola destinata a rovinare tante carriere promettenti di quell’epoca della storia americana — una vittima come migliaia d’altre del primo, vergognoso decennio della storia del dopoguerra del suo Paese — fu tenuto lontano per sei anni dalle scuole di Newark e dalla sua professione prediletta, espulso come pervertito politico e uomo troppo pericoloso per lasciarlo a contatto con i giovani. Ora non sto parlando dell’educazio- Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 DISEGNO DI GIPI PER REPUBBLICA ■ 29 ‘‘ Insegnamenti Bob per me è una delle voci persuasive che ancora sento parlare I suoi discorsi erano permeati del sapore intenso del reale Come tutti i grandi insegnanti personificava il dramma della trasformazione attraverso la parola ne di un ragazzo, ma dell’educazione di un adulto: l’educazione alla perdita, al dolore e a quell’inevitabile componente della vita che è il tradimento. Bob era fatto di ferro e resistette all’atrocità dell’ingiustizia con un coraggio e una prodezza straordinari, ma era un uomo e provava i sentimenti di un uomo, e quindi soffrì anche. Spero nel mio romanzo di aver reso ampio riconoscimento alle qualità del nostro compianto, leggendario e nobile amico, che sapeva, come sapeva il poeta Charles Péguy, che «la tirannia è sempre meglio organizzata della libertà». Non so per quali vie vi fosse arrivato Péguy, ma Bob lo imparò sulla sua pelle. Concludo con qualche riga dalle prime pagine di Ho sposato un comunista, dove descrivo l’immaginario professor Ringold, meglio noto nel mondo al di fuori della pagina scritta come Doc Lowenstein: «Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. (...) Il professor Ringold portava circondarsi di amici leali, cercando di godere il più possibile della loro presenza: è segnato da sincera stima il hi conosce Philip Roth non può stupirsi del fatto rapporto con Don DeLillo, che lo invita costantemenche abbia scritto un accorato ricordo del suo mentore te, con un misto di affetto ed ironia, a godere dei piaceBob Lowenstein pochi mesi dopo aver annunciato il ri- ri semplici che offre ogni giorno l’esistenza. E va oltre tiro definitivo dalla scena letteraria. Ancora adesso, a l’ammirazione letteraria quello con E.L. Doctorow, al quale si sente vicino per l’ironia ottanta anni compiuti, la narratagliente con cui si difende a sua zione continua a rappresentare volta dalle ferite della vita. Per per Roth una necessità, oltre Roth l’amicizia è scambio, arche un elemento di condivisioricchimento, curiosità: ogni ne, sopravvivenza e persino volta che parla del suo altro espiazione, all’interno di una mentore Saul Bellow, la voce concezione dell’esistenza ses’incrina lievemente di malingnata da un senso freddo e lanconia, ma è sinceramente dicinante di fallacia. Di fronte al ANTONIO MONDA vertito quando dialoga con decadimento di ogni cosa che scrittori giovani che ammira, arreca piacere, Roth continua a come Nathan Englander e Joopporre la propria scrittura, nella quale cerca una forma di calore simile a quella che nathan Lethem. Questo atteggiamento è ribadito dal ha riposto da sempre nel valore dell’amicizia: l’ultima rapporto con amici non celebri, ai quali per anni ha afpossibilità di rimanere legato a qualcosa che non fidato i manoscritti dei propri libri, prima ancora di sotmuoia, a differenza di quanto avviene con le persone toporli agli editori, confidando imprescindibilmente care. Se Everyman, uno dei suoi libri più cupi e dolenti, nel loro giudizio. Sono autentiche e profonde anche le nasceva dal senso di vuoto provato al funerali di amici amicizie femminili, a cominciare da quella con Edna intimi, questo encomio funebre sigilla la motivazione O’Brien e Mia Farrow, a dispetto delle accuse di misointima di questa condizione, e colpisce il riferimento a ginia: come nel caso della scrittura, l’amicizia rappreCharles Péguy, che a differenza di Roth individuava la senta un valore da tenere in vita sforzandosi di andare oltre la propria natura. propria redenzione e felicità nella trascendenza. Nel tardo autunno dell’esistenza, lo scrittore ama © RIPRODUZIONE RISERVATA C NEW YORK L’amicizia ultimo rifugio con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era più importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. (....) Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante come Murray Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che — diversamente dagli insegnanti di sesso femminile — avrebbe potuto scegliere di fare qualunque cosa o quasi e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione». Addio, stimato mentore. © 2013 Philip Roth (Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 LA DOMENICA ■ 30 Il reportage Una rivista nata nelle baraccopoli della capitale argentina Una redazione nell’ex caserma dove i militari di Videla torturavano gli oppositori. Inchieste scomode, denunce, interviste a personaggi famosi. Si chiama “La Garganta”, in Argentina è diventato un caso giornalistico e ha sempre pronta una domanda: “Perché?” Buenos Aires. L’urlo dei villeros ATTILIO BOLZONI C BUENOS AIRES ome si scrive un articolo? Quali sono le regole del buon giornalismo? Come s’inizia un “pezzo”? Il vecchio reporter, uno dei più popolari di Buenos Aires, si accende la sigaretta e allenta il nodo della cravatta. Comincia a spiegare, lentamente. Dice che nelle prime righe di ogni cronaca o corrispondenza, i punti irrinunciabili per far capire subito al lettore di cosa si parla sono le famose cinque W: who (chi), what (cosa), when (quando), where (dove) e why (perché). Nella baracca di lamiera ascoltano in silenzio, qualcuno prende appunti. Poi, mentre il giornalista sta per raccontare del suo ultimo reportage giù alle Malvinas presidiate dalle truppe scelte britanniche, dal fondo della stamberga si alza una voce. È quella di Claudio Savanz, un ragazzino di tredici anni che nel quartiere tutti conoscono come Kiki. È arrabbiato da quando è nato e anche questa volta Kiki non riesce a trattenere la sua ira: «Io non sono d’accordo con le tue cinque W, per noi che siamo nati qui e abitiamo qui, in questo posto di merda, secondo me vale solo una regola del giornalismo. E sai quale è? È quella delle cinque P: perché? perché? perché? perché? perché?». Qui, periferia sud della Capital Federal. Qui, città nella città che sulle mappe ufficiali è un quadrato grigio in mezzo a luccicanti torri di vetrocemento e smisurate avenidas. Qui, dove ventimila fra argentini e peruviani e uruguagi sono ammucchiati nel barrìo che non ha mai avuto un nome ma porta un numero: il 21/24. Così — in un giorno caldissimo del 2010 — dentro una fossa di fango, fra legni marci inchiodati uno all’altro, mute di cani affamati, fumi velenosi e l’odore della paura nell’aria, nasce una redazione per dare voce a chi è sempre stato condannato a stare zitto. Sono loro, gli umiliati, i calpestati che sopravvivono in quelle che in Brasile chiamano favelasma che sul Mar de La Plata sono le villas. Case di cartapesta colorate, cubi di mattoni che sembrano bare, vicoli che trascinano all’inferno. Un altro mondo. E un altro giornalismo. Il primo numero l’hanno impaginato tre anni fa in un buco di calle Ernesto Che Guevara, blocco 6, casa 85 bis. L’ultimo lo stanno chiudendo in un capannone dove nella primavera del 1976 — l’anno del golpe militare in Argentina — gli ufficiali si allenavano allegramente in una palestra prima di torturare gli studenti “comunisti” Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 ■ 31 per poi gettarli giù dagli aerei in volo verso Montevideo. La redazione de La Garganta — “la gola”, in spagnolo — mensile delle villas di Buenos Aires oggi si disegna e si scrive in quelli che una volta erano i tetri stanzoni dell’Escuela de Mecanica de la Armada, la famigerata Esma del generale Videla, una grande caserma dove di ragazzi ne sono entrati 5052 e ne sono usciti vivi meno di duecento. È lì, fra foto di desaparecidos e manifesti di curas-villeros — i preti rivoluzionari che si tormentano e pregano nelle miserabili borgate — che La Gargantaè stata insignita dalla stampa nazionale e dalla televisione argentina come la “revelacion cultural 2012”. Pubblica le notizie che gli altri quotidiani o periodici non pubblicano mai. Informano sulla loro disgraziata esistenza nel barrìo: l’acqua che non c’è, la fame, le malattie, i bivacchi degli immigrati boliviani e peruviani, le donne già vecchie a trent’anni, i bambini che muoiono per niente, le droghe che si portano via gli altri un po’ più grandi. Ogni copertina è diversa e uguale a se stessa: sempre una faccia e una bocca aperta che fa vedere la gola di qualcuno che grida con tutto il fiato che ha in corpo. Una volta è lo scrittore Eduardo Galeano, un’altra sono i grandi campioni del pallone come Messi e Aguero, una prima pagina dedicata al produttore cinematografico Charly Garcia, altre due al compositore spagnolo Joan Manuel Serrat e al poeta Joaquin Sabina. L’uomo che urla nell’agosto del 2011 è Diego Armando Maradona. «Diego, perché hai accettato di incontrarci, noi siamo solo dei villeros?», gli chiede Kiki quando comincia la sua intervista. «Proprio per questo: perché siete villeros», gli risponde El Diego. Tutti gli articoli sono scritti da uomini e donne delle baraccopoli e non sono firmati. Nel consiglio di direzione de La Garganta ci sono gli abitanti «de todas las asambleas de todos los barrios en America Latina», il redattore capo è Rodolfo Walsh, un mito del giornalismo argentino, quello che con Gabriel Garcia Marquez fondò a L’Avana l’agenzia Prensa Latina in piena rivoluzione cubana. Un uomo coraggioso, Walsh. Negli anni della dittatura scrisse una lettera aperta ai generali («La Carta di uno scrittore alla Giunta Militare») e appena qualche giorno dopo — il 25 marzo del 1977 — cadde in un’imboscata. Gli assassini in divisa bruciarono il suo cadavere e lo scaraventarono in un fiume. Se l’anima di Walsh ispira La Garganta, fra i suoi collaboratori figurano nella gerenza molti ragazzi spariti per mano dei generali. Il primo è Miguel Sanchez, maratoneta, un piccolo grande eroe argentino. Di ritorno da un meeting di atletica a San Paolo del Brasile fu preso e torturato in un’altra Escuela, a Moron, quaranta chilometri dalla capitale. Ogni anno, a Buenos Aires a marzo e a Roma a gennaio, si corre in suo onore “la corsa di Miguel”. Ma cosa è veramente questo giornale distribuito gratis in ventiduemila copie — la prima tiratura fu di tremila — nelle villas argentine? «È un’arma», risponde il ragazzo che l’ha inventato e non vuole che il suo nome venga citato «perché non ci sono differenze fra noi, quando parliamo del nostro giornale parliamo sempre a nome di tutti e mai di uno solo». Firme collettive, un solo respiro. Il ragazzo ha deciso di vivere nel barrìo numero 21/24 anche se viene da una famiglia borghese di Recoleta, il quartiere più elegante di Buenos Aires. La rivista non ha fi- nanziamenti pubblici, non ha un solo modulo di pubblicità, si sostiene con le donazioni. E con riffe e tornei di carte. I suoi cronisti ogni giorno sono invitati nei talk show televisivi più seguiti in Argentina, ma non ci vanno mai («Assomigliano a un circo») e solo qualche volta si concedono, a turno e anonimamente, alle trasmissioni radiofoniche per riportare le notizie delle borgate: «Siete in collegamento con la villa numero 18 dalla postazione della Poderosa...». La Poderosa, che prende il nome dalla famosa moto del Che Guevara, è un po’ cooperativa e un po’ assemblea permanente di tutte le baraccopoli e da nove anni difende i diritti dei villeros contro tutto e tutti. Fino a quando ha stampato La Garganta, giornale a colori che è LE IMMAGINI un pugno nello stomaco. Nella pagina accanto Quelle facce e quelle urla e poi alcune copertine le storie di dolore e di miseria, di Garganta. I personaggi scritte dalle vittime. L’interviintervistati sono,dall’alto: sta alla madre di Luisito, bimJoaquìn Sabina, bo assassinato per caso nella Guillermo Francella, villa numero 11. Il resoconto Diego Maradona, sui rifiuti tossici rovesciati nel Carlos Tevez, cimitero delle auto della villa Sergio Aguero numero 20. I racconti dei care Juan Riquelme toneros che vagano di notte a Nelle foto la redazione: raccattare rifiuti per mangiasi trova all’interno re. Cronache dal di dentro. Un della ex Escuela notiziario dell’altra umanità, de Mecanica uno strappo con la comunicade la Armada zione tradizionale per riportaSu una parete re testimonianze sempre neè affisso il poster gate, quelle degli ultimi. di Miguel Sanchez, A Buenos Aires ce ne saranvittima della dittatura no più di un milione, inghiottiti in mucchi di calcestruzzo informe, quindici le villas più disperate. La numero 31 è la più nota e pericolosa, a solo trecento metri in linea d’aria dalle luci e i manifesti colorati dell’Avenida 9 de Julio, con le sue ventidue corsie la strada cittadina più larga del mondo. Tanti quadratini grigi sulla cartina, i taxi che non si spingono mai oltre quei confini, niente fogne, niente luce, niente gas, niente cibo. Terra di pellegrinaggio di Papa Francesco, quando era cardinale quaggiù e dove ancora si mescolano sentimenti e risentimenti forti su Jorge Bergoglio. Una metà dei villeros lo rimpiange, l’altra metà lo ha sempre giudicato un «capo della Cupola della Chiesa e non un capo della Cupola della villa». Tutti insieme i villeros, però dicono: «Non è mai stato uno di noi, uno di noi è Padre Pepe, uno di noi era padre Mugica». Preti di frontiera. Carlos Mugica, uno dei tanti sacerdoti uccisi dalla Tripla A, l’Alianza Anticomunista Argentina che spadroneggiava e assassinava ancora prima del golpe dei generali. L’hanno giustiziato mentre stava andando a celebrare messa in una delle sue infelici periferie, nel Gran Buenos Aires. Il suo ritratto risalta sul muro della nuova redazione de La Garganta. Anche lui, come Rodolfo Walsh, è l’esempio per questi giornalisti ribelli. Quelli che chiedono sempre cinque volte perché. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ Revolución Menem ha svenduto questo paese privatizzandolo Ma il fuoco della rivoluzione cubana rinascerà e non si spegnerà mai JOAQUÌN SABINA (cantautore) Censura Ho solo detto che vincere un Oscar mi ha emozionato quanto incontrare Fidel Non ci potevo credere che gli Usa mi abbiano censurato per questo GUILLERMO FRANCELLA (attore) Anima I figli delle borgate come me si porteranno sempre la borgata nell’anima Non la perderanno mai, anche se tutti cercheranno di educarli DIEGO MARADONA (allenatore) Disuguaglianza Io penso che nessuno nasca ladro, ma che tutta questa disuguaglianza faccia sì che molti ragazzi vadano a rubare Questo è il problema CARLOS TEVEZ (calciatore) Guevara Fosse vivo, il “Che” sarebbe la prima persona che vorrei conoscere, per tutto quello che ha significato per l’Argentina Per me è Dio SERGIO AGUERO (calciatore) Deboli Molta gente perbene si droga, ma attaccano solo i più deboli Chi giudica da fuori, non ha vissuto quel che ho vissuto io nel mio quartiere JUAN RIQUELME (calciatore) Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 LA DOMENICA ■ 32 L’immagine ni n a t’ port nza e n a ar o lo s lega asion u q e t Per dipin pica in occali, ma ha n olim ora, zion a Ro co a solo terna tra M gli In os de na m ette rire Colpi di classe u rm op e pe risc and re di gr ato ato un ustr tic ill men di I L O I C AN M O N I R O T T O GIANNI CLERICI u davantial muro che rimasi folgorato. Era, il muro, quello del vecchio Tennis Club Parioli di Roma, divenuto Circolo dei Giornalisti in seguito a dislocazioni causate dall’Olimpiade del 1960. Era stato, il vecchio Parioli, la sede nella quale noi tennisti azzurri ci si rifugiava, durante gli allenamenti della Nazionale, a partire dagli Anni Cinquanta. Qualche volta, nei momenti in cui un gioco quale il tennis necessita di meditazione, mi era accaduto di ribattervi la palla, contro quel muro, per scoprire le ragioni di un’improvvisa insufficienza, della crisi di un colpo. Ma non riuscivo a immaginare che il muro potesse diventare il luogo di illustrazione degli sport dei quali una vocazione mi aveva spinto a occuparmi, sulle pagine della Gazzetta dello Sport, e poi del Giorno, sempre nella benefica ombra di un fratello maggiore, Gianni Brera. Su quel muro c’erano affreschi che, pure nella mia modestissima cultura di visitatore di pinacoteche, e caricaturista per diletto di tennisti, mi parevano straordinari: diciotto sport, divisi geometricamente l’uno dall’altro in sette metri per due, ma tanto egualmente ispirati e, nello stile, somiglianti da rimanere attoniti. Erano gemelli, quegli affreschi, a disegni che Brera era andato pubblicando sulla Gazzetta quando ne era direttore, e della quale, diciottenne tennista, ero divenuto collaboratore. Mi ricordavo di avergliene parlato con curiosità, di quei disegni, e Gianni mi aveva risposto: «È Mancioli. Cacciatore e paracadutista come me. Ci siamo conosciuti alla Scuola di Viterbo del 1941, una élite di sciagurati, un po’ come i goliardi che eravamo appena stati, e forse eravamo ancora. Poi sono accadute varie cose, certo più drammatiche per lui. L’hanno spedito in Africa, a El Alamein. Ma, soprattutto perché il cielo era in mano degli inglesi, mandano i paracadutisti a dare il cambio alla Divisione Brescia. Mentre vanno di pattuglia su una camionetta, la notte, saltano in aria. Ci sono i neozelandesi pronti a prenderli prigionieri. Ma Ottorino ha tre bombe a mano. E fa parte di un club molto esclusivo: “Prigionieri mai”. Finisce che fa saltare una camionetta, ma con un Thompson gli bucano una spalla. Appena tornato a Roma sarà costretto a disegnare con la sinistra, a diventare, come dici tu, bimane. Anche adesso, quando spesso andiamo insieme a caccia, tira come fosse mancino». Questo dialogo non figura certo nel carteggio 1955-1988 tra Brera e Mancioli, morto nel 1990, che viene conservato con amore da Laura, uno dei due figli sopravvissuti all’eclettico pittore per diletto, giacché campò facendo il medico come sua principale attività. Ma il ricordo mi fu sufficiente, dopo un’occhiata ai disegni apparsi sulla F Palleggiando sugli affreschi Gazzetta, per inquadrare, almeno un poco, quell’opera veramente inattesa. Alla fine della contemplazione mi affrettai dal Segretario del Circolo dei Giornalisti per domandargli se non sembrasse il caso di proteggerla, quella che era sicuramente un’opera d’arte. Alla sua sorpresa, dissi che era possibilissimo ricoprire il dipinto con una plastica trasparente, di quelle che si usano nei quadri per difenderli dal sole. «E chi gioca a muro, che fa?» rispose il poveretto, scettico. Affermai che lo spessore della vetrina in plastica non avrebbe impedito il palleggio. Ma, da questo, e da un successivo tentativo presso amici giornalisti, non venne nessun aiuto, e ora il dipinto appare, mi dicono, trasformato in una successione di macchie. Tutto ciò fa parte del destino non certo felice che contrassegnò la vita di Mancioli. Subito dopo la guerra venne “epurato”, come si diceva allora di chi era stato fascista. Mi domando, e sempre mi domandai, io che vengo da una storica famiglia di antifascisti, cosa avrebbe potuto fare un giovane pittore, se non partecipare a mostre in qualche modo collegate con il Partito. Alla cui dipendenza, in qualche aspetto, furono correlati i bozzetti relativi al Mondiale di scherma, a Merano nel 1939, o alla Triennale d’Oltremare — vedi il destino di El Alamein — nel 1940 e, precedentemente, nel 1932 le opere inviate alle Olimpiadi dell’Arte a Los Angeles, nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino, o il Premio nazionale per l’illustrazione del libro, a pari merito col più noto Spazzapan. Il carteggio con Brera, ai suoi tempi spesso retrocesso non meno di Mancioli in serie B, illustra tra l’altro il passaggio alla democrazia di chi nacque fatalmente sotto il fascismo. E ci aiuterebbe a capire qualcosa di più di noi stessi. Ci limiteremo, per ora e forse per sempre, ad ammirare le gigantografie tratte da immagini di Mancioli, e molte delle sue opere, che appariranno in quella che fu, curiosamente, la sede dei processi alle Brigate Rosse, altra ferita del Paese, all’ingresso del Foro Italico, nel corso degli Internazionali di Tennis. Così come in altre nazioni storicamente più felici, nelle annuali mostre create dal Tennis Museum di Wimbledon, e dal Tenniseum del Roland Garros, anche il Foro Italico (ex Mussolini) potrà gloriarsi di un grande artista che ebbe, in vita, soltanto da lamentarsi di chi avrebbe dovuto esser fiero di lui. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 ■ 33 NI e 0) ZIO rand (193 ra A R g s i s T i t ù n LUSno pi l Ten i a sin lustra L I I LE iseg lato a qu tra il ttuta Il d tito enz des ba ) è in sequ so a della 29 La bas enti stra, a (19 n i e i ovim sin mod stra, i m alto a i alla sini tro o In nnist sso a u ve ni ’50 gon s n a e n , e T in b ete li A i v li e, rso r , deg agin ncio Ve arta imm Ma e c tte le hivio Tu ll’Arc da o f o s o l i f ro a m a , o t t O o r a C 84 19 aio r nb ma cofeb i 7 ,2 o d di LI erc vero MA O c I O e v R h NC o c ti o MA en efun O to m d IN al Ot ni o dei OR n T a r 84 OT tre me 19 po l nu Ae o o z R r d ne e RE ma all rti…esso IB ,5 to e N s v » O i o N r N im p elre… i sc ha ris GIA ILA o d are ive a d : mi i M p v r n è pe sta em rda co m ra os a la rispo au ilia geris g H p l . m r i r o e va un . D an av oe se ave i a otto nv o. scov hé so nza ero… che esso i d t i s c n u fa ve rc a no se è v an st rch e la nza ne io pe ni, nto : ed «… e lo i ce vi l asta iù i Il m orse ieri m o p m an ame no» ivevi ben r i i t b p G g r o e ta mo ian o. F len nn ap ab far aro colle «con ui sc vogli ea ttis omp e mi to vo dis Sono r o t c u i z l r ion tratl a t ul. i on i in t r B r u o d t a e e i o p e er e n p e — ch nb ssa e s el b nz ep re m ch a ten o ch i tem mpr po anch re eto a Ista ltro. uo n roma bra n emp i e l rò à r i e g t l li i, ne lo Bel a si ive eg riti. ente no d do a lang lio il sem rei s a l r t t i i c s a v ers ad ti s o d me lm tor ten he ag mi ed Ha ari imm isc he ti ossa o. Io n po to è c abb non o, ti v lta no n p o u i s v a t t u o d c d n o t , n Fa cci ni e ri s t ia r o ne ara cri . z ma ao am re ici to p hai s ontà mo n ti fa u’ an o Ott ssi i. str ale si a o nn m a u r n b i n p ron an tu l qu l’a i se o m con e, il f . No di d . Car ioâ a a g n l G L o i o TA co o m en ne er ere hi ett a. he ne VA re. itto in ER Tu no re i p n può tue dess sì alm don te, il b i viv vecc Oliv gann ro c ondo RIS o NE d u i O e o È I e a i n UZ E e: co do l iabe rm ito. ni d a e i i aug è il m tu fott a no OD r n IPR l c d fa rt e in scia mar ©R r l’a e gua sia il a stu co us o 45 a lla go Io m o che a a s a i u . L do le no cio a po dop de a vivi? cchi o d amis ssen co min se d o, ren gi, era z i r , D co es an p in at sfo ao e e In imal o a m a mi i, dip ile p mi o. Ci ia, ch e b t n t f n m h o i rz g le a o scr o? Ro Dise o ign ro. na, c e sfo filoso t r n h e s d l’ an fai? ue o n pe ino tua re. qu Che e in q ozz re la n m a la mp r n p gge o co attu e p s i e t ’u sem se d o a r e cer ura e ie. tto d tas Fatic ina, pitt Graz ’affe l . a cch tu i te on ma Fa’ la ne d cio c c o ezi bra ecc Ti ab C S LA MOSTRA “Il tennis: un gioco alla moda” è il titolo dell’allestimento curato da Luca Leonori, Isabella Rességuier de Miremont ed Emanuele Tarducci, nella Sala della Scherma del Foro Italico di Roma. La mostra con i dipinti di Ottorino Mancioli aprirà sabato 11 in occasione degli Internazionali di Tennis A destra la Piccola guida di tennis di Mancioli, e a sinistra l’artista nel suo studio Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 LA DOMENICA ■ 34 Spettacoli Légami Abbandonata dalla madre e molestata dal padre fu segretaria, maestra, modella, attrice ma soprattutto “pornostar” del dopoguerra. Di lei si invaghirono Katherine Hepburn e Jfk, prima che la follia prendesse il sopravvento. A novant’anni dalla nascita ecco come la storia andò a finire GIUSEPPE VIDETTI A NEW YORK l 303 della Bowery, nella Manhattan che fu il teatro di beatnik e punk, c’è un negozio di abbigliamento rétro che porta il suo nome, Bettie Page. Top leopardati, bustier glitterati, négligée di voile rosso, culotte di pizzo, giarrettiere maliziose, pantaloni da odalisca in crêpe trasparente, abiti attillatissimi in raso nero, accessori in pelle da mistress sadomaso; quel misto di erotismo ed esotismo che hanno trasformato una pin-up nel più peccaminoso oggetto di desiderio del dopoguerra, e successivamente in un marchio formidabile che non ha mai smesso di solleticare erotomani e fashion designer. Un emporio ben più grande, sullo stile di quelli che accolgono i fan di Elvis a Graceland, sta per aprire nel cuore di Nashville, la capitale della country music che novant’anni fa diede i natali alla scandalosa signorina. È il sedicesimo punto vendita gestito dalla Tatyana Design ad essere inagurato in punti strategici degli Stati Uniti (uno, ovviamente, si trova a Las Vegas, sin city per eccellenza). Bettie Page non avrebbe fatto quella carriera se fosse rimasta prigioniera del conformismo del sud; non sarebbe diventata un’icona celebrata in un vasto repertorio di libri, film e fumetti se la sua vita “scandalosa” non fosse ancora tema di dibattito per biografi e psicanalisti. Ultimo in ordine di arrivo, Betty Page - La vita segreta della regina delle pin-up (Bettie è una deformazione del vero nome, Betty Mae Page) indaga ora sul passato della brunetta esplosiva le cui la nudità, che oggi finirebbero nella pubblicità del bagnoschiuma, erano materiale pornografico scambiato sottobanco e a rischio di pene severissime. Degli anni in cui posava in topless o nuda a Miami e New York si sa praticamente tutto. Più oscuro è invece il periodo in cui si dileguò dalle scene — enigma che ha già ispirato due film usciti nel periodo in cui la rinascita del burlesque ha riportato prepotentemente a galla le immagini bondage scattate alla metà degli anni Cinquanta, quando apparve anche sulle pagine di Playboy. Il fatto che non avesse mai scelto un nome di fantasia è testimonianza che la Page non appartenesse al circuito delle spogliarelliste. Era una segretaria, diplomata a pieni voti, che sbarcava il lunario facendo la modella; figlia della Grande Depressione cresciuta in una famiglia in cui ogni femmina che nasceva era accolta come una disgrazia. Mamma Edna non riuscì a prendersi cura dei sei fratelli, decise di tenere con sé i maschietti e affidare le bambine a un orfanotrofio. «Era una moglie fedele, mio padre un verme. Molestò tutte e tre le sue figlie», confessò la Page sessant’anni dopo. Abusò sessualmente di lei quando aveva tredici anni. «Non mi ha mai stuprata per paura di mettermi incinta, ma mi toccava continuamen- Splendori e miserie di un angelo nero te». Roy Page, un meccanico squattrinato, comprava il silenzio della piccola con gli spiccioli per il cinematografo. Ragazza modello, studentessa zelante, figlia remissiva: avrebbe fatto qualsiasi cosa per sciogliere il gelo di una madre anaffettiva. Divenne sposa precoce di un marito che le fu scippato dalla guerra e iniziò la carriera di maestra. La bellezza, una condanna. «Non potevo controllare i miei studenti, specialmente i ragazzi», raccontava, sottolineando che i più grandi non le risparmiavano apprezzamenti da scaricatore ‘‘ Non ho cercato di essere scandalosa né pioniera, di cambiare la società o di anticipare i tempi Non credo di aver fatto qualcosa d’importante Sono stata me stessa non conosco altro modo di essere o vivere di porto. Decise di investire sul suo corpo, sacrificandolo per la propria indipendenza. Hollywood era tappa obbligata; forte accento del sud, trucco sbagliato: la Warner la tenne in ballo per ruoli di serie B. Quando tornarono a cercarla, lei per restare accanto al marito Billy Neal tornato dalla guerra non rispose al telegramma. Ventisette anni e poche prospettive, fino a quando non incrociò Jerry Tibbs, un poliziotto di colore con la passione per la fotografia. Iniziò la carriera da pin-up nei Camera Clubs, modella a ore Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 ■ 35 LE IMMAGINI FOTO © IRW ING K LAW / COU RTES Y OF PAOL O CA NEVA RI Bettie Page nelle fotografie scattate presso la Movie Star News tra il 1951 e il 1955, tratte dalla collezione privata di Maurizio Rebuzzini e pubblicate nel libro Betty Page La vita segreta della regina delle pin-up A destra, la locandina del documentario Bettie Page All di Mark Mori (2012) IL LIBRO Betty Page - La vita segreta della regina delle pin-up (Giulio Perrone editore, 290 pagine, 16 euro) è la prima biografia italiana dedicata alla controversa artista americana. Sarà in libreria da domani con la prefazione di Vincenzo Mollica L’autrice è Lorenza Fruci per professionisti e/o erotomani in incognito. Lo stile Bettie Page nacque negli squallidi scantinati di Brooklyn e Manhattan dove venivano allestiti i set: capelli neri con la frangetta, occhi blu, forme perfette. Bettie posò dal 1950 al ’57 e nell’arco di questi anni fu ritratta in una grandissima quantità di scatti che non ha uguali nella storia della fotografia, alcuni dei quali pubblicati sui girlie magazine, gli antenati di Playboy, molti dimenticati e recuperati solo negli anni Novanta. Le molestie erano consuetudine, la rassegnazione causa di molte occasioni perdute. «Nel 1955 mi chiamò Howard Hughes», raccontava. «Disse che voleva farmi un provino nel suo studio. Ma io avevo sentito dire che non avrebbe fatto niente a meno che non fossi andata a letto con lui. Non sono una di quelle. Non l’ho mai richiamato». Confessò anche di aver ricevuto una telefonata in incognito da Katharine Hepburn, intrigata dalle sue foto bondage con altre donne. «Mi sono stesa sul letto e ho chiuso gli occhi. Ha fatto tutto lei. Avrei potuto vendere la storia alla rivista Confidential, allora nessuno sapeva della sua doppia vita. Ma L’ARRESTO La foto segnaletica di Betty Mae Page scattata il 29 ottobre 1972 dalla polizia di Hialeah (Florida) dopo una violenta lite col secondo marito Harry. Fu poi ricoverata in una struttura psichiatrica La modella era nata a Nashville (Tennessee) il 22 aprile del 1923 ed è morta a Los Angeles (California) l’11 dicembre del 2008 non volevo che i miei fan pensassero che anch’io fossi lesbica». A nessuno passò mai per la mente una cosa del genere. Tanto meno a Frank Sinatra che la invitò nella sua villa di Palm Springs per presentarle un amico che si rivelò essere J. F. Kennedy (il futuro presidente ebbe anche un flirt con Tempest Storm, la rossa incendiaria del burlesque). Fecero sesso a bordo piscina. «Aspettavo da tanto», le disse, «ho tutte le tue foto». Con tutto quel materiale “pornografico” che circolava in buste chiuse per gli States non meraviglia che nel 1960 l’Fbi aprisse un file su Bettie Page (reso pubblico nel 2010) nel corso di una gigantesca inchiesta sull’influenza nefasta della stampa erotica. Dopo gli interrogatori e una serie di episodi di stalking Bettie volò via da New York e cominciò una nuova vita. L’illuminazione avvenne in una chiesa di Miami la notte di capodanno del 1960. Ma chi voleva una missionaria ex pin-up e pluridivorziata? Visse in solitudine, perseguitata dai suoi fantasmi, più incline alla follia che alla preghiera. L’angelo nero che turbava i sogni degli uomini diventò una psicopatica che brandiva coltelli e pistole in preda a deliri mistici. Diagnosi: schizofrenia paranoide. Nel 1982, dopo l’ennesima aggressione, fu condannata e internata per dieci anni in una casa di cura per malattie mentali. Il suo nome era diventato un brand quando fu dimessa. Non le restò che riavvicinarsi ai fratelli e consultare un avvocato (l’ultimo di tanti truffatori) per cercare di recuperare i diritti sulla sua immagine e tirare avanti con gli introiti dell’autobiografia The life of a pin-up legend (2006). Sarebbe morta in miseria se Hugh Hefner, l’editore di Penthouse, non le avesse dato una mano. Nell’opuscolo commemorativo che fu distribuito al funerale, nel 2008, c’erano le sue ultime parole: «Non ho cercato di essere scandalosa o di essere una pioniera. Non ho cercato di cambiare la società o di anticipare i tempi. Non ho pensato di essere un’emancipata e non credo di aver fatto qualcosa d’importante. Sono solo stata me stessa. Non conosco altro modo di essere o di vivere». E difatti ha creato uno stile. Imitabile. La Madonna di Sex e la Uma Thurman di Pulp fiction— dive più fortunate — ringraziano. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 LA DOMENICA ■ 36 Next TARGA AUTO Gli agenti di San Francisco hanno una app che permette loro di identificare i veicoli semplicemente scansionando la targa con la fotocamera del telefonino Guardie & ladri Sparano, ma solo dati in tempo reale Sentono gli odori. Sorvegliano a distanza Sono i telefonini di ultimissima generazione le nuove armi delle polizie. E in alcune metropoli sono già a caccia dei soliti sospetti FEDINA PENALE Quattrocento agenti di New York digitando un nome o anche solo l’indirizzo accedono in tempo reale a tutte le info (precedenti, residenza, occupazione) di un soggetto FABIO TONACCI l sospettato immobile, con le mani alzate, in attesa. Davanti a lui un poliziotto in divisa che gli punta contro uno smartphone. L’atavica e mai risolta rincorsa tra guardie e ladri si arricchirà presto di una scena come questa. Perché nella fondina adesso trova posto una nuova arma. Che spara dati, recupera fedine penali in tempo reale, identifica volti, riconosce le impronte, annusa. E che potrebbe servire a svuotare le carceri. Succederà presto, e qualcosa succede già. A New York, per esempio. Quattrocento uomini del Ny Police Department sono stati forniti di un cellulare Android di ultima generazione, modificato. Non può ricevere né fare chiamate, ma con un’applicazione dà accesso a qualsiasi tipo di informazione su luoghi, palazzi, persone, ricercati. L’agente Tom Donaldson al New York Times la racconta così. «Mi trovo davanti a una palazzina di 14 piani ad Harlem per un controllo. Digito l’indirizzo sul telefonino e mi compaiono tutti i nomi dei residenti con precedenti penali e quelli con un porto d’armi regolare, la lista degli appartamenti teatro di incidenti domestici, le foto di chi è stato arrestato. In tempo reale ho anche la mappa delle telecamere di sorveglianza puntate sul palazzo». Il lavoro di due giorni, tra scartoffie e confronto dei profili, in poco più di dieci secondi. Altra sperimentazione a San Francisco. Qui capita spesso di vedere agenti che fotografano i “sederi” delle automobili: sui loro telefonini hanno un’applicazione che, attraverso la fotocamera, scansiona la targa e si collega alla centrale, ricavando tutte le informazioni sul veicolo: se l’auto è rubata, a chi appartiene, se l’assicurazione è scaduta. «Tutto questo è solo un assaggio di cosa si potrà fare con la realtà aumentata», dice Gerardo Costabile, direttore Forensic Technology di Ernst & Young per l’Italia. Realtà aumentata, dunque. Con un po’ di approssimazione, la si può definire arricchimento della percezione umana attraverso un dispositivo elettronico. Di fatto, un sesto senso digitale. Qualcosa c’è già nelle città più smart, dove i turisti ricevono notizie su un monumento inquadrandolo. Ecco, è lì, in quella direzione, che bisogna guardare per immaginare come sarà utilizzato lo smartphone tra dieci anni dalle polizie. «Riprendendo una folla — spiega Costabile — i dispositivi saranno in grado di identificare i volti, confrontandoli via web con quelli archiviati nei database. Chi fa ordine pubblico negli stadi, ad esempio, con il suo cellulare potrà individuare i soggetti con precedenti per violenza, e ricevere la scheda con età, residenza, occupazione. Un po’ come faceva Robocop, il superpoliziotto d’acciaio e microchip, nel film». Algoritmi sempre più sofisticati riescono già oggi a simulare il processo di invecchiamento di una persona, permettendo a telecamere e telefonini il riconoscimento di un ricercato sfruttando una foto vecchia di vent’anni. Del resto, se il prossimo iPhone monterà, come sembra, un let- I BANCHE DATI Sono già molti gli esperimenti per far “parlare” i tanti database esistenti (forze dell’ordine, amministrazioni comunali, agenzie fiscali). Presto saranno consultabili in tempo reale attraverso il telefono Uno smartphone per l’ispettore tore ottico per le impronte digitali, difficile non intravedere l’utilità di una tecnologia del genere messa nelle mani di un poliziotto. Un po’ più sfumato, invece, è lo scenario immaginato da alcuni esperti della Deloitte, una delle Big Four, le quattro aziende di revisione e consulenza più influenti del mondo (tra queste c’è anche Ernst & Young). Rifacendosi idealmente al Panopticon, il carcere perfetto dove un unico guardiano controllava tutti i detenuti in qualunque momento, progettato nel 1791 dal filosofo Jeremy Bentham, hanno ipotizzato qualcosa di completamente nuovo. Nel dossier, intitolato non a caso Beyond the Bars, oltre le sbarre, spiegano come sia possibile, grazie agli smartphone, ai modelli di analisi geospaziale e agli algoritmi di simulazione del comportamento umano, monitorare i detenuti ai domiciliari. Creando di fatto un sistema carcerario virtuale, che costa la metà di quello reale e permette di avere il doppio dei detenuti. Inquietante? Sì secondo Evgeny Morozov, sociologo e giornalista bielorusso, sempre diffidente verso il facile entusiasmo dei positivisti della Rete, «Le tecnologie intelligenti non sono sempre rivoluzionare — dice — a volte servono a preservare lo status quo». Come a dire, occhio, la mania del controllo a distanza può sfuggire di mano. «Di sicuro — ragiona Rosanna Colonna, primo dirigente della Polizia di Stato — al legislatore spetta l’oneroso compito di segnare il confine tra la crescente esigenza di pubblica sicurezza e il diritto primario dell’individuo a tutelare la propria privacy». Ma intanto lo sviluppo degli smartphone avanza. Tra qualche anno, per dirne un’altra, sui comuni cellulari sarà installato un sensore che capta odori e tracce chimiche, le elabora e le registra. Utilissimo per l’investigatore che sulla scena del crimine ha bisogno di capire se ci sono residui di polvere da sparo. E quanto tempo passerà prima che qualcuno inventi un’applicazione per far telecomandare agli agenti piccoli droni dotati di telecamere? © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 ■ 37 DRONI Una delle applicazioni più futuristiche è la possibilità di telecomandare piccoli droni dotati di cam per riprendere dettagli altrimenti inaccessibili della scena del crimine ‘‘ Le tecnlogie intelligenti non sono sempre rivoluzionarie, a volte possono servire a preservare lo status quo Eugeny Morozov sociologo ODORI Raccogliere elementi chimici sarà possibile anche sui telefonini: “nasi” elettronici permetteranno di identificare un odore o la presenza di polvere da sparo TRACCE DI SANGUE In futuro non si esclude che con gli smartphone gli agenti potranno raccogliere tracce di sangue con dei micro tamponi e catalogarle automaticamente RICONOSCIMENTO È possibile riconoscere un soggetto via smartphone sviluppando gli algoritmi che simulano l’invecchiamento basandosi solo su una vecchia foto del ricercato FOLLA Sarà possibile in futuro individuare in tempo reale chi, in un gruppo di persone inquadrato col telefonino, ha precedenti per violenze o risse IMPRONTE DIGITALI Sarà possibile per un poliziotto prendere sul suo telefonino le impronte digitali di un sospettato o identificarlo attraverso esse, grazie ai lettori ottici di ultima generazione BRACCIALETTO ELETTRONICO GLOSSARIO Realtà aumentata Il telefonino intelligente riesce ad abbinare la funzionalità di cellulare, la connessione alla rete, la gestione di dati personali e le varie applicazioni La possibilità di avere informazioni, oltre a quelle che abbiamo attraverso i cinque sensi, tramite impianto ottico, su persone o oggetti 4G Drone Cloud Indica la rete di connessione per cellulari ultraveloce che permette l’utilizzo di applicazioni multimediali avanzate e collegamenti dati con banda molto larga Robottino telecomandato (di solito sono velivoli senza pilota per le missioni militari) usato anche in ambito civile, ma col divieto di sorvolare le persone Tecnologie per memorizzare o elaborare dati da “remoto”, cioè non direttamente sul dispositivo in uso. Le app più avanzate si basano sul cloud computing INFOGRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA Con la tecnologia smartphone, si potrebbe rivoluzionare il sistema carcerario seguendo i detenuti ai domiciliari grazie all’individuazione geospaziale e ai modelli di analisi del comportamento Smartphone Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 LA DOMENICA ■ 38 I sapori Diminuire il consumo di carne è un’esigenza sia per la salute che per l’ambiente E così, anche in pausa pranzo, la proposta vegetariana o vegana si fa sempre più ricca, gustosa e soprattutto veloce. E ora accetta Verdi la sfida più ardita e diretta: quella del fast food L’enciclopedia Dall’antipasto al dolce senza passare per la carne. Sono più di millecinquecento ricette “verdi” quelle contenute nei dodici volumi de La grande cucina vegetariana proposta da Repubblica e L’Espresso Ogni volume è composto da tre parti: scuola di cucina, ricettario e piatti per bambini. Tutti i sabati (a partire da ieri) in edicola a 9,90 euro LICIA GRANELLO n hamburger vi conquisterà. Ma non il solito, figlio più o meno evoluto dei dischi di carne tritata che i marinai delle linee navali amburghesi cuocevano sulle griglie durante le traversate atlantiche. Il pane è lo stesso, senape e maionese non possono mancare. A cambiare, la farcitura: purè di fagioli, zucchine croccanti e maggiorana, oppure melanzane, ricotta e menta fresca, e poi a piacere pomodori freschi e secchi, lenticchie, mandorle, fettine di mela. Benvenuti nel nuovissimo regno dei fast-veg, che stanno faticosamente cercando di ridare dignità alimentare alle eateries (luoghi di ristorazione veloce) U BigVeg americane e riproponendo la cultura dell’alimentazione mediterranea in chiave rapida e nuova. La richiesta di un approccio diverso al cibo è mondiale. Troppa sproporzione fra la dimensione agricola destinata agli allevamenti e le quantità di cui abbisognano gli umani. Troppo profonda l’impronta ecologica che la produzione di carne lascia sul pianeta. Troppo alte le evidenze che legano l’abitudine alle proteine animali con gli stati infiammatori cronici a rischio di tumori. I numeri dell’economia alimentare sanciscono un’inversione di tendenza nei consumi mai registrata lontano dai periodi di guerra. Si mangiano meno bistecche&affini per una somma variegata di motivi. Al loro posto, legumi e ortaggi in primis, con il difetto congenito della scarsa accessibilità nei ritmi convulsi della quotidianità lavorativa. Perché un piatto di verdure non si nega a nessuno, nella calma (almeno apparente) della cena, in casa propria, da amici o al ristorante. Ma il pranzo ha esigenze diverse, tra chi addenta un panino, chi una porzione di pasta purchessia e chi si impegna scegliendo un’insalata, purtroppo quasi mai oltre il limite della stretta commestibilità. Così, l’idea di proporre menù vegetariani/vegani (ovvero con o senza proteine da animali vivi) facili, svelti e davvero buoni sta guadagnando consensi entusiastici. Certo, essere la patria della dieta mediterranea aiuta parecchio, se è vero che il trittico farina-verdure-extravergine ci appartiene da millenni, tra focacce, verdure imbottite e crocchette. A saldarsi in un unicum interessante, tradizione culinaria e nuove esigenze eco-gastronomiche. Finito il tempo delle ricette velleitarie — equiparare il seitan a una cotoletta non ha giovato alla causa — i locali di cucina green e veloce si stanno moltiplicando: luminosi, allegri, sensibili a biologico e km zero, servono al banco o a domicilio cibi sani e sfiziosi (anche senza ricorrere alla frittura, facile scorciatoia anche per i bocconi più insipidi). Negli Stati Uniti, i primi bagliori della rivoluzione “McVegan” hanno indotto Mark Bittman, food editor del New York Magazine,a scrivere il libro VB6: Eat Vegan Before 6:00 to Lose Weight and Restore Your Health... for Good, cioè niente proteine animali fino a metá pomeriggio per dimagrire e riacquistare la salute. Se proprio non potete farne a meno, l’arrosto mangiatelo a cena. Un altro hamburger è possibile © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 5 MAGGIO 2013 ■ 39 Gli indirizzi TORINO MILANO TRENTO TRIESTE GENOVA Gastronomia Vegetariana Via Di Nanni 116 Tel. 011-3828605 I Love Vegetarian Piazza IV Novembre 1 Tel. 02-39468072 Codamacchiata via San Sebastian 21 Tel. 3473811491 Zoe Food Fast Good Via Felice Venezian 24 Tel. 040-2460420 La cucina di Giuditta Via Trebisonda 75 Tel. 010-581172 PRATO ROMA NAPOLI BARI CATANIA Genuine Tentazioni Via Soffici 54 Tel. 3497015274 Bios Logos Via Alessandrini 84 Tel. 06-91712035 Un Sorriso Integrale Vico S.Pietro a Majella 6 Tel. 081-455026 Ekoiné ri-pub vegetariano Via De Ferraris 39 Tel. 3281172981 Haiku Via Quintino Sella 28 Tel. 095-530377 Gratin di cavolfiori Cappuccino Crocchette Insalata pantesca Cimette cotte al vapore, salate, infornate e grigliate dopo averle condite e coperte con besciamella e rifinite con Parmigiano e fiocchetti di burro Zucca infornata, tagliata a cubetti, rosolata con porro, frullata, servita in un bicchiere. Per decorare, caprino fresco montato con panna di soia Lenticchie bollite, asciugate in padella con poco olio e rosmarino, passate al mixer, arricchite con dadini di mozzarella. Pan grattato e frittura Patate lessate e tagliate a tocchi, pomodori maturi a fette, cipolle rosse a rondelle, olive nere, origano fresco, capperi di calibro medio, extravergine A tavola La mia dieta sana, buona e giusta MONI OVADIA eorge Bernard Shaw diceva: “Gli animali sono miei amici e io non mangio i miei amici”. Basterebbe questa sola considerazione nello stile arguto del grande commediografo irlandese per optare per una dieta vegetariana. Sono molte le grandi figure che hanno segnato il cammino filosofico, scientifico e spirituale della nostra umanità e che si sono schierate a favore della causa degli animali e contro la crudele brutalizzazione perpetrata nei loro confronti dagli uomini arbitrariamente proclamatisi padroni e dominatori del pianeta. “L’uomo è un animale addomesticato che per secoli ha comandato sugli altri animali con la frode, la violenza e la crudeltà” (Charlie Chaplin). “La grandezza di una nazione e il suo progresso morale, si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali” (M. K. Mahatma Gandhi). “Verrà il tempo in cui l’uomo non dovrà più uccidere per mangiare ed anche l’uccisione di un solo animale sarà considerata un grave delitto” (Leonardo da Vinci). “Nulla darà la possibilità di sopravvivenza sulla Terra, quanto l'evoluzione verso una dieta vegetariana” (Albert Einstein). Questi brevi pensieri esprimono in sintesi le ragioni etiche che mi hanno portato a praticare un’alimentazione vegetariana. Quanto alle ragioni dietetiche, si fondano anch’esse su un assunto etico: non posso credere che nutrirsi di un cibo generato dalla violenza della morte, spesso accompagnata da sofferenze atroci, possa essere sano e buono nel senso più profondo che questi concetti hanno. Inoltre, la natura ci fornisce una sterminata varietà di alimenti sublimi, senza fare ricorso a carne e pesce. E chi come me ama i dolci ne fa quotidianamente un’esperienza decisiva. G Sandwich Panini guarniti con semi di sesamo farciti con tofu tagliato a fettine e funghi enoki. Tocco finale all’erba cipollina per dare sapore e colore © RIPRODUZIONE RISERVATA Chips Patate bio tagliate sottilissime senza sbucciarle, lasciate un’ora in acqua salata e molto fredda. Si friggono poche alla volta dopo averle ben asciugate In carrozza Pan carrè sbordato, immerso in uovo sbattuto (senza sale) e pan grattato Tra due fette, un disco di mozzarella fatta scolare. Impanare e friggere Crumble Pizzetta di scarola Panzanella Impasto di farina, acqua e olio Un’ora in frigo, sminuzzato e pressato in teglietta. Sopra, tofu lavorato con latte di soia, pepe, olive, pomodori secchi Farina, acqua, olio e lievito madre Dopo il riposo, impasto steso e richiuso All’interno, verdura spadellata con olio, aglio, olive nere, uvetta e pinoli Pane casareccio raffermo, ammollato in acqua fredda e aceto, strizzato, lavorato con le mani insieme a pomodoro, cipolle, cetrioli, extravergine LA RICETTA Ingredienti per 4 persone Pietro Leemann - Joia, Milano, unico ristorante vegetariano stellato d’Italia - ha ideato per i lettori di Repubblica un piatto fast-veg dedicato a Tiziano Terzani, dove soia e tofu servono ad assemblare una ricetta sana e golosa 400 g. di tofu 40 g. di salsa tamari 20 g. di olio di semi bio 40 g. di zenzero fresco tagliato a cubetti 100 g. di purea di broccoli 200 g. di asparagi puliti 4 fette sottili di limone 4 foglie di alloro 40 g. di olio extravergine d’oliva Sale e pepe Bollire 6 minuti i broccoli in acqua salata, raffreddarli in acqua ghiacciata, sgocciolarli e frullarli con una goccia di olio extravergine Ridurre quindi gli asparagi a cilindretti di circa 3 centimetri, sbollentarli per 30 secondi in acqua salata e raffreddare in acqua ghiacciata Tagliare il tofu in quattro in modo da formare altrettanti grossi cubi, arrostire con l’olio di semi sui quattro lati, bagnare con il tamari e infine farlo assorbire bene rigirando. Lessare poi gli asparagi e la purea di broccoli con l’alloro e con 50 grammi d’acqua per circa 2 minuti, aggiungere l’olio extravergine e portare a cottura. Sul fondo di quattro piatti mettere una fetta sottile di limone, una foglia d’alloro e gli asparagi Appoggiarvi sopra il tofu e condirlo con lo zenzero ✃ Un indovino mi disse Repubblica Nazionale LA DOMENICA DOMENICA 5 MAGGIO 2013 ■ 40 L’incontro Combattenti Studiando legge a Cambridge si innamorò del teatro e poi del cinema: “Sono un regista per caso” confessa oggi l’autore di “The Queen”, grande scopritore di talenti (“Daniel Day-Lewis è stato la mia Anna Magnani”) dal pessimo carattere: “Per tenere a bada una troupe c’è da andare sul set con la pistola, mentre i produttori andrebbero presi a pugni Quanto al pubblico...” Stephen Frears a le mani piene di schiaffi. Mani palmari, gonfie di schiaffi mai dati. Ma a quanti li avrebbe rifilati con gusto... «Quando ho cominciato a fare il regista, ho rivissuto l’incubo dell’insegnante, con attorno gente da rispedire al posto con una pedata. Anche il set è spesso una scuola d’incompetenti o prepotenti, i produttori in prima fila: da prendere a pugni. Ma, a differenza dei professorini in cattedra, i produttori più indisponenti spesso conoscono bene il loro mestiere. Unico caso nella storia dell’umanità in cui i peggiori sono i migliori». Fiero delle sue provocazioni, Stephen Frears stempera le abituali dichiarazioni di guerra nel largo sorriso d’orso bonaccione: in un angolino d’hotel, infilato dentro pantaloni senza piega e un maglione senza camicia, con giro di sciarpa penzolone fino alla pancia, il regista rischiara l’aria con la trasparenza azzurra del suo sguardo arguto, lumicino gentile su una mole altrimenti minacciosa. Più pacato rispetto al passato, quando lanciava strali contro Tony Blair («Non sono per la pena di morte, ma nel suo caso farei un’eccezione») o contro il degrado ‘‘ Laundrette è una tappa cruciale della mia vita, non solo professionale. Un po’ com’era stato, nel 1957, il London Film Festival che a me sedicenne aveva spalancato un mondo nuovo: il cinema europeo, soprattutto italiano e francese. È stato l’inizio di una passione, per Renoir, la Nouvelle Vague, per quei registi che tutti amiamo: i primi che parlavano della nostra realtà sociale, i maestri del mio cinema e di altri della mia generazione». Perché My Beautiful Laundrette, che l’ha lanciata quasi trent’anni fa, se lo sente ancora appiccicato addosso? «Ritrae la brutalità sociale della Gran Bretagna nell’era Thatcher. Anche se, per uno di quei paradossi insondabili che si fan beffe di noi e delle nostre migliori intenzioni, il mio durissimo attacco al thatcherismo s’è ribaltato, grazie al successo del film, in un punto a favore della politica mediatica del primo ministro: ecco la prova d’un prodotto di qualità Quelli della Thatcher per noi sono stati anni duri, altroché Prima di lei la Gran Bretagna sembrava un Paese socialista FOTO PHOTOMOVIE H LONDRA dello spettacolo cinematografico («Darei fuoco alla sala dove si proietta un film che non mi dà esaltazione mentale»), Frears oggi restringe i suoi campi di battaglia: «Per tenere a bada la troupe si può andare sul set con una pistola. Con il pubblico, la soluzione è forse meno semplice». In costante, britannico equilibrio tra ironia e autoironia, il cineasta, che a giugno compirà settantadue anni, gioca al monello perenne, all’indisciplinato di genio: «Sono un regista per caso. Da giovane, mai m’era passata l’idea per la testa: non sospettavo nemmeno che esistesse questo mestiere. Me ne stavo tranquillo, e annoiato, al Trinity College dell’università di Cambridge, dove mi ero trasferito a diciotto anni dal paesello natale di Leicester, a studiare giurisprudenza. È lì che ho cominciato a frequentare il teatro, da cui mi sono fatto docilmente sequestrare anche perché avevo capito che, con le regie, si poteva mettere in tasca qualcosa». Negli incontri con il pubblico di solito si dondola tra boutades e risposte al risparmio. L’ultima volta è stata al Bif&st di Bari, dove ha ricevuto il premio alla carriera e dove il direttore di Positif, Michel Ciment, in platea sussurrava all’orecchio del vicino: «Pare il remake delle interviste a John Ford, monosillabi in replica a domande sterminate». Ma nel faccia a faccia, il guardingo Frears si liquefa in affabile lago. Perché questo cambiamento? «In pubblico ho l’impressione che la gente non creda a quel che dico. Perciò mi tengo allo scherzo. Ma, soprattutto, non ho il talento del racconto: sono un artigiano del cinema — anche Fellini lo diceva di sé — non sono capace di spiegare quel che faccio. Chiedetemi film, non discorsi». I film, appunto. Che meraviglia — d’attori, di storie e di “discorsi” — da My Beautiful Laundrette a The Queen, da Relazioni pericolose a Alta fedeltà, da Eroe per caso a Rischiose abitudini e allo straordinario Lady Henderson del 2005, dove sfolgora l’ineguagliabile Judi Dench, quattro volte presente nel cinema di Frears: una lunga festa di premi, da Cannes a Venezia, agli Oscar, e un invidiabile tapis rouge d’interpreti, da Daniel Day-Lewis (ai suoi esordi, nel 1985) a John Malkovich, a Glenn Close, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman, Dustin Hoffman, Helen Mirren, Anjelica Huston, Kathy Bates, Julia Roberts, Gary Oldman... «My Beautiful e dal sicuro ritorno commerciale». Era stato inizialmente previsto per la sola tv, dove Frears sguazzava negli anni belli della Bbc: «Sì, dopo essere stato assistente di Karel Reisz, vi avevo scodellato nel 1972 il primo titolo, Sequestro pericoloso. È stata, per tutti, un’epoca d’oro quella precedente alla Lady di Ferro. Una Gran Bretagna modellata a Paese socialista, con uno Stato protettivo delle produzioni Bbc e di ogni forma di cultura. Ma anche su di noi s’è rovesciata presto l’ossessione del profitto, dei grandi numeri, con tutti i meccanismi del capitalismo: che vita dura, dopo...». E comunque nei suoi viavai internazionali, tra cui l’immancabile Hollywood, Frears ha finito per tornare sempre all’ovile britannico: «In Gran Bretagna, c’è di bello che molta gente passa il tempo a scrivere storie, mentre molti altri si applicano a rappresentarle. Non mi sono nemmeno messo in coda: ho preso un po’ come capitava qua e là, in modo inconsapevole, come avviene con una moglie che ti trovi accanto senza ricordarti com’è successo. Anche gli attori, lascio che vengano scelti dalle storie. Prendiamo la Pfeiffer e Malkovich in Relazioni pericolose: entrambi estremamente sexy, non potevano che innamorarsi l’uno dell’altra. Filmarli è stato un gioco da ragazzi. Al contrario di Elia Kazan, che gli attori li forgiava, io li prendo come sono, già pronti. Anche con Daniel Day-Lewis, oggi “super-oscarizzato” e superpagato, è avvenuto lo stesso: quando l’ho cercato per My Beautiful Laundretteera giovane, sconosciuto e poco costoso (il mio problema è sempre stato quello di fare un cinema cheap, ipereconomico). E lui era lì, l’attore giusto per me, lancia in resta per cambiare un po’ tutto. Perché la prima regola di ogni rivoluzione con garanzie di successo è che ci sia qualcuno su cui poter contare e che si trovi lì in quel momento. Come Anna Magnani quando Rossellini girò Roma città aperta. Ecco: Daniel Day-Lewis è stato la mia Anna Magnani». Anche nella vita, nelle fasi di cambiamento, ha potuto contare su qualcuno a lei vicino? «Ho avuto una madre molto forte. E ho sposato due donne molto forti, da cui sono nati quattro figli: il primo, Will, è lui pure regista, a Hollywood, e padre di due figli. Sono nonno, ma con un oceano in mezzo tra me e i nipotini. Spero di essere stato io, per mio figlio, la persona giusta su cui contare, quando ha avuto bisogno. Se vuoi aiutare un figlio, devi lasciarlo libero di scegliere. Quando ha voluto diventare regista, trasferendosi negli Stati Uniti, gli ho detto “va’”, comincia ora a farsi conoscere. Spero diventi il nuovo Frears, anche prima che me ne sia andato». Nel frattempo il nonno è operosissimo. Due film all’anno. L’ultimo è Philomena, con Judi Dench in cerca del figlio che le è stato sottratto perché ragazza madre, «una donna irlandese che si trova faccia a faccia con l’intransigenza della Chiesa cattolica». Si aspetta censure? «Mi auguro di no. Il vostro nuovo Papa ha un’aria simpatica. Di ostacoli, preventivi, ne ho trovati piuttosto in patria, quando nel 2006, con The Queen, tra mille acrobazie, sono entrato nei luoghi più augusti del Regno per tentare un ritratto meno imbalsamato di Elisabetta II e della famiglia reale nei giorni del crash di Lady D. Quando è morta ero in Messico a girare un western. Ne ho percepito la tragedia, ma ho perso l’evento. Il film, infatti, è sulla quotidianità della monarchia, non sulla fatalità di un’auto principesca entrata in un tunnel». E allora perché ha voluto a tutti i costi realizzarlo? «Per quello scrupolo missionario che accomuna insegnanti e registi: insegnare come stare al mondo». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ MARIO SERENELLINI Repubblica Nazionale