Internet non dimentica
a cura di Piero Almiento - Consulente di Direzione e Docente in Area Marketing, Comunicazione e Business Development
C’è una rete di spie che controlla da vicino persone e aziende:
raccoglie materiale su di noi, su cosa facciamo al lavoro e nel tempo
libero. Siamo quasi tutti schedati, e le informazioni raccolte sono in
grado di causare danni incalcolabili a persone e attività imprenditoriali,
che vedono sfumare posti di lavoro, incarichi e commesse.
Raccogliere informazioni personali dannose per la nostra
reputazione e renderle di pubblico dominio è illegale, perché
viola la privacy. Tuttavia, denunciare coloro che ci diffamano è
impossibile, per un motivo assai semplice: quelle spie siamo noi
stessi, attraverso l’attività che svolgiamo ogni giorno sul web,
spesso con disarmante superficialità.
Principali responsabili di questa situazione sono i social network:
spesso i nostri profili dicono troppo (e male) di noi, perché non
siamo consapevoli della dirompenza delle informazioni che inseriamo
e di come gli altri potranno utilizzarle contro di noi.
L’ha imparato, nel 2007, una certa Stacy, una laureanda
statunitense che era giunta a un passo dal conquistare l’abilitazione
all’insegnamento. Non la ottenne, perché fu accusata -dall’Università
che avrebbe dovuto rilasciarle l’abilitazione - di incoraggiare l’uso
dell’alcool tra i giovani. A tradire la laureanda fu una foto
inserita qualche anno prima nel suo profilo “Myspace”, ancora
attivo: la ritraeva mentre beveva da un bicchiere di plastica, e
la didascalia (scritta dalla stessa Stacy) era inequivocabile: “La
piratessa ubriaca”.Rimase piratessa ubriaca, Stacy, e non diventò
insegnante.
Nessuno ha due vite, ma si cerca comunque di gestire in
modo differente l’aspetto “pubblico” da quello “privato”. La
nostra condotta a lavoro, che deve essere coerente con lo stile
aziendale, è solo una parte della nostra esistenza e quindi della
nostra immagine, che però risente anche dei comportamenti che
teniamo nella vita privata: soprattutto quando sono molto diversi
dall’atteggiamento che assumiamo a lavoro. Se così non fosse,
il Garante per la protezione dei dati personali non avrebbe
realizzato l’opuscolo “Social network: attenzione agli effetti
collaterali” per metterci in guardia.
Siamo entrati ormai da anni nella cosiddetta “epoca digitale”, ma
ancora molte, troppe persone non si rendono conto che la vita
reale è intrecciata sempre più con la vita virtuale, vale a dire la
nostra esistenza così come viene rappresentata sul Web.
Internet non dimentica. Occorre essere prudenti su tutto ciò
che mettiamo online riguardo a noi, perché la maggioranza dei
responsabili delle risorse umane o delle società di selezione fanno
ricerche on line sulle persone e sempre più spesso si scartano
potenziali aspiranti sulla base delle indagini compiute sul Web.
La prudenza non è mai troppa. Il legale di una multinazionale può
avere tatuaggi su tutto il corpo, ma per una questione d’immagine
dovrebbe evitare di esaltare questa sua passione nel proprio
profilo Facebook: sarebbe giudicato solo sulla base di questa. Un
professionista dovrebbe fare a meno di pubblicare nel proprio
blog commenti negativi su aziende e persone con cui lavora.
Negli Stati Uniti diversi impiegati sono stati licenziati sulla
base dei loro commenti su Twitter, riferiti all’azienda da cui
dipendevano e ai propri colleghi.
Anche le imprese devono prendere consapevolezza che
la propria presenza su Internet non può essere ridotta al
sito aziendale: è necessario un controllo costante della propria
reputazione nel Web, può essere indispensabile tenere sotto controllo
alcuni blog per replicare a eventuali commenti lesivi dell’immagine
aziendale. Gruppi di blogger hanno preso di mira diverse
aziende, accusandole di realizzare prodotti o servizi scadenti o,
addirittura, di provocare danni ambientali.
Per questo, negli Stati Uniti è nata una figura di professionista,
il “reputation manager”, che ha il compito di curare la
reputazione sul Web di aziende, professionisti e privati.
Qui da noi, sarebbe già un grande passo in avanti se almeno si
prendesse coscienza che su Internet non abbiamo una seconda
vita, bensì l’immagine pubblica dell’unica che abbiamo.
Magari, metteremmo a tacere i nostri peggiori biografi: noi stessi.
Living Marketing & Communication
1
Scarica

Scarica l`articolo in pdf