u baro
baro drom
drom
di Milena Cossetto
Elena Farruggia
Itinerari didattici
6. Itinerari didattici
a. L’ambiente raccontato
b. Mestieri
c. Fascino e paura del
diverso
Il rispetto per le persone comincia
almeno da questo: non passare sopra
alle loro parole
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Elias Canetti
u baro drom
di Milena Cossetto
Itinerari didattici: premessa
Premessa
Solo negli ultimi decenni del XX secolo il mondo degli Zingari, variegato
e complesso, ha trovato spazio, parola e dignità storico-culturale nella cultura
dei gagè.
La tradizione orale, da sempre, ha avuto scarso spazio nella storiografia e
nella letteratura europea, tranne per aspetti prettamente folklorici o anedottici.
Con questi materiali per le scuole, proponiamo quindi agli insegnanti, alle
ragazze e ai ragazzi, di assumere due diversi punti di vista: da un lato guardare
dall’interno i frammenti di storia e cultura tradizionale zingara, nel rispetto
della sua complessità, grazie a testimonianze e a leggende tradizionali, per
imparare a guardare il mondo anche con il punto di vista dell’altro.
In secondo luogo invitiamo a leggere e a decodificare l’immagine della vita
nomade degli Zingari, affascinante e temuta, che il mondo occidentale
propone attraverso i suoi poeti e i letterati, per scoprire insieme l’origine e i
meccanismi che contribuiscono a costruire i pregiudizi, gli stereotipi culturali,
che talvolta si irrigidiscono fino a rasentare vere e proprie forme di razzismo
e di xenofobia.
I materiali per le scuole attingono sia a documenti storici che a materiali
letterari, dando un ruolo importante anche a tutto l’apparato iconografico,
che non ha solo un ruolo di supporto, ma può essere utilizzato come un
itinerario a sé stante per stimolare le bambine e i bambini ad osservare, a
confrontare, a collocare nel tempo e nello spazio fatti ed idee, immagini e
valori, per imparare a costruire inferenze e a trarre informazioni nuove
dallo stesso linguaggio delle immagini.
Per le scuole elementari proponiamo uno studio d’ambiente, che si muove
nel tempo e nello spazio, utilizzando come fonti le testimonianze dirette, le
fiabe tradizionali dei Rom e dei Sinti e un apparato iconografico che si muove
dalla rappresentazione grafica alla fotografia.
Per le scuole medie tema centrale sono i mestieri tradizionali degli Zingari,
il loro ruolo nell’economia preindustriale europea e le rapide trasformazioni
subite nell’ultimo secolo con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie
industriali e la progressiva scomparsa dell’artigianato tradizionale. Anche
per questa sezione le scelte iconografiche, le fotografie dei mestieri artigianali
degli Zingari nel mondo, ci permettono di cogliere permanenze e mutamenti
nel tempo, ma anche nello spazio, là dove i tempi dei mutamenti economicosociali sono molto rallentati.
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u baro drom
Itinerari didattici: premessa
Per le scuole superiori, ma non solo, presentiamo un itinerario attraverso i
principali testi narrativi e poetici degli intellettuali europei che hanno descritto
la vita, la cultura e i sentimenti degli Zingari, facendone i protagonisti delle
loro opere; il mondo degli Zingari, dei Gitani, dei Rom e dei Sinti talvolta è
descritto come mondo della passione e dei sentimenti autentici, a volte invece
come spettro dell’inciviltà e dell’asocialità, guardato ora con occhio romantico,
ora con disprezzo. Non ci siamo limitati alle forme di letteratura colta, ma
abbiamo voluto affrontare un filone nuovo e, forse, più vicino ai gusti e agli
interessi immediati delle nuove generazioni: le canzonette.
Infine un percorso a sé è quello che affronta il tema della persecuzione e
sterminio degli Zingari da parte del regime nazista, deportati e assassinati nei
Lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Ravensbrück, Mauthausen. È stato
possibile ricostruire, anche se ancora in modo frammentario, il dramma della
persecuzione nazista degli Zingari anche alla luce della nuova storiografia e dei
movimenti zingari per i diritti civili, che hanno cominciato a far sentire la loro
voce a partire dalla seconda metà del Novecento. Anche per questa parte del
lavoro abbiamo utilizzato testi letterari, testimonianze dirette e immagini
dell’epoca, a cui si può attingere dal sito web: www.emscuola.org/labdocstoria
Utile strumento può essere Sulla strada del tempo, una cronologia in cui si
intrecciano vicende relative al lungo viaggio degli Zingari in Europa e alcuni
concetti essenziali della storia politico-istituzionale dell’Europa.
Una bibliografia essenziale, una filmografia aggiornata, una selezione di
risorse web mirata e un elenco accurato delle fonti iconografiche concludono
la proposta didattica, che ogni insegnante avrà modo di adattare alla
sensibilità, alle competenze, alle specificità delle alunne, degli alunni e delle
classi.
La nostra speranza è che questo lavoro possa far rimanere sempre viva,
nella nostra mente di insegnanti, educatori e cittadini, la raccomandazione di
Elias Canetti, che ha ispirato questo lavoro: Il rispetto per le persone comincia
almeno da questo: non passare sopra alle loro parole, soprattutto quando le parole
non sono scritte e sono figlie del vento.
Milena Cossetto
Coordinatrice del Lab*doc storia/Geschichte
della Sovrintendenza Scolastica di Bolzano
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u baro drom
di Milena Cossetto
L’ambiente raccontato
a. L’ambiente raccontato
“Ho camminato a lungo
per lunghissime strade”
Jarko Jovanovic
Quando ero bambina vivevo in un paese piutto-
sto piccolo, tra le montagne; d’inverno ci si sentiva
fuori dal mondo, perché la neve rendeva le strade
impraticabili. Noi, ragazzine e ragazzini, ci divertivamo molto con la neve d’inverno, ma d’estate ogni
giornata sembrava prometterci avventure straordinarie. Avevamo un nostro speciale calendario: per
noi l’estate non cominciava quando la scuola chiudeva e le nostre cartelle riposavano abbandonate su
una sedia; l’estate vera cominciava quando arrivavano i carrozzoni, le giostre e i giostrai e il grande,
favoloso carro del Tic Tac Pum, il tirassegno con i
73. Jean de Bar
suoi premi straordinari.
Stavamo ore ed ore a guardare a bocca aperta montare le giostre e ripulire
cavallini, carrozze, automobiline, lucidare e collegare i fili, provare il volume
degli altoparlanti e l’accensione delle luci. Quando la festa cominciava, la
musica aveva già percorso in lungo e in largo tutto il paese ed anche la gente
più diffidente aveva trovato il modo di passare inosservata davanti a quelle
scintillanti magie, per lanciare un’occhiata incuriosita. Poi c’erano le lunghe,
estenuanti trattative con i genitori, perché ci lasciassero provare, ci lasciassero
montare su una giostra o giocare al tiro a segno. Quando le giostre se ne
andavano, era un po’ come se fosse finita l’estate: ben presto i primi acquazzoni d’agosto avrebbero annunciato l’avvicinarsi dell’autunno.
L’ultima volta che i carrozzoni sono passati dal mio paese era l’estate del
1968, l’altoparlante aveva suonato per ore e ore “Azzurro” di Celentano; poi
non si sono visti più. Alla fine tutti in paese avevano trovato altri divertimenti: la Tv, i videogiochi, il ping pong, i roller, le discoteche. Il magico mondo
delle giostre era svanito insieme alla nostra infanzia; ho visto rivivere quel
mondo leggendo il libro di Annibale Niemen che ci narra la sua storia, la
vita di un giostraio zingaro, del circo, delle giostre e dei suoi spettacoli di
burattini e la storia di Gnugo De Bar, saltimbanco sinto.
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u baro drom
L’ambiente raccontato
Il circo di nonno Giovanni1
Racconta Giacomo (Gnugo) De Bar: questa è una piccola storia, per molti da poco, ma è una
storia vera. Parte di questa mi è stata raccontata dai miei nonni e dai miei genitori; parte l’ho
vissuta. Io la racconto perché è importante ricordare. (…)
Mio nonno era Jean De Bar, un sinto valcio, che
in lingua nostra vuol dire “francese”. Scese in Italia a piedi nel 1900. Lasciò i genitori in Francia e
venne a tentare la fortuna, senza niente, a quindici anni, solo con qualche costume da saltimbanco. Era uno dei più bravi contorsionisti del mondo, ma era bravo anche a fare i salti di scimmia,
in altre parole i salti mortali al tappeto: ne faceva
sei, sette o anche otto. I De Bar sono una famiglia
di saltimbanchi da sempre. Anche mio nonno aveva imparato a guadagnarsi la vita così. Lui posteggiava, che nella nostra lingua significa proprio fare i numeri di saltimbanco all’aperto, davanti alle chiese, nei mercati e nelle fiere.
Sarà stato il 1905 che posteggiando in giro per
l’Italia incontrò nel ferrarese anche i capostipiti
74. Circo
Paolo Orfei e i fratelli Nandino e Teta Togni e per
un breve periodo lavorarono anche insieme, ma soprattutto fecero amicizia perché, nonostante il nonno fosse francese, erano lo stesso tutti Sinti.
(…). Poi il nonno riprese a lavorare da solo, e fu allora che conobbe (…) la nonna Ida. Lei era
un’artista che posteggiava con la sua famiglia e faceva il numero del filo. Il numero del filo è
quel numero d’equilibrismo tipico femminile che consiste nel camminare su un cavo d’acciaio
sollevato di un paio di metri da terra.
La nonna Ida era molto brava: sapeva tenersi in equilibrio su un piede solo, fare capriole, fare
finta di bere il caffè e mantenere le tazzine sulla sua stessa corda. (…)
Verso la fine degli anni venti incontrarono di nuovo Teta Togni che nel frattempo aveva
costruito un postone, cioè un “Circo Arena”, uno dei primi – se non il primo in assoluto –
presente in Italia. Il nonno e la nonna si unirono a quel circo per qualche anno e lavorarono insieme a Paolo Orfei.
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u baro drom
L’ambiente raccontato
75. Zingara Kalderas in Svezia
Nonna indovina2
Mi chiamo Annibale Niemen, zingaro sinto. Sono nato in gennaio, nel 1944, da Niemen
Nello e Dubois Margherita. (…)
Mio padre proviene da una delle più antiche famiglie di artisti d’Italia. Mio nonno paterno gestiva un circo, lasciatogli da mio bisnonno. Gli artisti erano la sua famiglia: mia nonna Lucia e i suoi figli Guido, Ferruccio, Nello, Emma, Renato e Imperia. (…)
Molto spesso mia nonna Lucia si improvvisava indovina, come tutte le donne anziane e
sfruttava il fatto che le donne di paese volevano conoscere il futuro.
Nella loro ingenuità, senza rendersene conto, dicevano quello che era successo loro e
quello che volevano sapere. Le indovine, ripetendo con diverse parole, davano la risposta.
Le paesane andavano via soddisfatte e davano in cambio qualche soldo e il più delle volte
contraccambiavano in natura con polli, conigli, verdura, salami, patate.
Tutto questo era un reato (…), così le nostre nonne stavano molto attente a non farsi
scoprire e chiedevano alle loro interlocutrici di non parlare con nessuno, altrimenti la profezia non si sarebbe avverata, anzi avrebbero avuto una disgrazia…
I cortili delle osterie3
I cortili delle osterie erano anche luoghi in cui si facevano gli spettacoli sia con le marionette che quelli cantati. La scelta era un po’ a caso,
se per esempio ci si doveva fermare perché il viaggio era lungo e il
tragitto richiedeva le tappe.
Quindi, dopo un giorno, per non sfiancare i cavalli, si sostava nei
paesi che si incontravano.
Ricordo di una volta che ci fermammo ad Acquatico, piccolo paese
in provincia di Imperia. Mio padre e i miei zii chiesero subito al padrone dell’Osteria se nel suo cortile, che era anche il campo di bocce, si
poteva fare uno spettacolo di teatro. L’oste disse di sí e il giorno dopo
montammo tutto. Alla sera il cortile era pieno di gente, il pubblico si
divertì molto e chiesero a mio padre di fare un altro spettacolo. In
quel paese non c’era nessun divertimento e il giorno dopo ci sarebbe
stato ancora più pubblico, perché
sarebbero scesi anche i montanari.
76. Otto Pankok, Pranzo, 1965
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u baro drom
Le marionette4
Io all’età di sette anni ho dovuto smettere di
studiare, perché o si studiava o si mangiava; i
casi erano solo questi due. Quindi ho cominciato ad andare con mio padre nei paesi. Si
andava in bicicletta e si caricava il teatrino delle marionette, tutto costruito da noi,
smontabile e rimontabile in pochi minuti. È stato un periodo molto bello, perché dove si andava si lavorava.
Sotto la pioggia, il sole, nelle montagne, nelle colline. A volte si facevano 70 o 80 chilometri per fare una serata, tutti e due in bicicletta,
più il teatrino. Allora mi divertivo, perché a
sette anni per me era un’avventura. A volte i
paesi erano di 1000 o 5000 persone, a volte
solo di 50 o 60. In quegli anni l’entrata era di
10 o 20 lire. (…)
77. Il barbuto Karagoz, teatro turco
Allora si andava a cavallo. Noi avevamo due
cavalli uno per il carro e uno per la carovana. Mia madre guidava quello del carro; io e
mio padre quello della carovana. Mi ricordo un grande cavallo maremmano che era mio
amico, Topolino.
La carovana è un carrozzone con quattro ruote ed era la nostra casa; c’era la camera da
letto, la cucina. In cucina si ricavavano le cuccette. Adesso usiamo le roulottes.
Il carro aveva quattro ruote e un piano sopra, senza la sua struttura serviva per i trasporti.
Qualche giorno prima dello spettacolo si scrivevano i manifesti a mano
e si attaccavano sui muri, soprattutto nelle osterie. Io ho imparato a leggere e a scrivere a cinque anni, scrivendo quei manifesti. Ci presentavamo così: siamo una famiglia di burattinai, vogliamo portare lo spettacolo
in questo paese. Facciamo storie del
Medioevo, del settecento e dell’ottocento. Usiamo come marionette comiche Gianduia, Brighella, Pantalone,
Giuppin (…). Poi Arlecchino e tutta
la Commedia dell’Arte.
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u baro drom
L’ambiente raccontato
La stalla5
Le storie fanno parte della realtà. Laddove ci si fermava si prendevano gli spunti per i testi da scrivere.
C’era un’abitudine tra la gente. Quando andavamo nei
paesi oppure nelle frazioni dove non c’era una vera piazza, si andava quasi sempre vicino a una cascina e alla
sera, per ricambiare l’ospitalità, si andava nella stalla per
dipanare il granturco. Erano abitudini invernali. D’inverno c’era più contatto con le persone e tra un bicchiere di vino e una fetta di polenta i nostri vecchi raccontavano delle storie.
Noi eravamo grandi narratori. Si raccontava “Il
fornaretto di Venezia”, “Pia de’ Tolomei”, “Le due
orfanelle”, le grandi tragedie. Era l’occasione per poter
sostare in inverno e avere un po’ di legna e nello stesso
tempo era l’occasione la sera, preparando un po’ di grano, di avere il sostentamento che serviva.
La gente, quindi, ci raccontava a sua volta le storie del
posto, quel che succedeva allora e noi prendevamo spunto. Dal racconto locale si componeva una storia. Si inseriva una marionetta comica e al posto del più grande
proprietario terriero, ad esempio, si metteva il conte, an78. Hajske, Cecoslovacchia
che per camuffare un po’. (…)
Le serate erano molto belle,
perché la gente della borgata si radunava nella stalla.
La stalla era allora un luogo di vita, perché era calda, illuminata
e nello stesso tempo si lavorava. Noi abbiamo preso molta cultura
contadina. Tutto questo accadeva fino agli anni ’60, poi si è perso.
A me questo dispiace molto perché era un’occasione diversa.
In quegli anni nelle campagne si guadagnava più che nelle città
perché o si faceva il fabbro o si costruivano le selle e i finimenti dei
cavalli oppure si prendevano gli strumenti e si facevano le serate
musicali. Oggi si chiamano così ma allora erano l’occasione per
bere un bicchiere di vino, mangiare un piatto di polenta, il pane
bianco e fare tutti insieme bagna cauda, un piatto piemontese.
I Rom e i Sinti6
Gli Zingari si dividono in Rom e Sinti.
Preciso che Rom e Sinti non sono uguali, anche se l’origine è la stessa con qualche differenza. I Sinti sono originari del Rajastan, India del Nord, mentre i Rom sono
del Centro.
I Rom considerano i Sinti gagè, cioè forestieri, perché
il nostro sistema di vita è improntato sul lavoro, sul viaggiare e sullo spostarsi continuamente, mentre i rom sono
più sedentari.
I Sinti sono cattolici, i Rom sono di religione varie. (…)
La lingua, “il Romanès” è la stessa (…).
I Sinti hanno inserito nella lingua frasi e modi di dire
europei, tedeschi, inglesi e francesi. I Rom, invece i dialetti delle regioni dell’Est.
79. Zingare maritate
Tutti e due i gruppi non hanno difficoltà a comunicare tra di loro, perché parlano il Valcio, il Teich, il Manush
e il Kalò che sarebbe sempre il Romanès, parlato rispettivamente nella Francia Centrale; in
Germania, Alsazia Lorena e Inghilterra; in Piemonte, Savoia, Ungheria, Romania, Bulgaria; in Spagna e Portogallo.
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u baro drom
L’ambiente raccontato
Gli anziani7
Noi abbiamo un profondo rispetto per gli anziani, per qualunque divergenza all’interno del
gruppo ci rivolgiamo a loro, a loro chiediamo un
parere equo e riconosciamo la loro saggezza.
E’ nostra abitudine rivolgerci alle persone più
anziane che non siano i genitori, i nonni o i fratelli, chiamandoli zio o zia e non per nome come
facciamo con i giovani, in questo modo rispettiamo la loro anzianità.
80. Fioraia, Ungheria
Fiabe e storie degli Zingari.8
E’ proprio attraverso la memoria degli anziani, attraverso i racconti la sera accanto al fuoco, che la
tradizione millenaria degli zingari si riaccende e si tramanda di generazione in generazione. Molti hanno
raccolto queste storie e le hanno trascritte. Dietro ogni vicenda c’è un mondo che si svela a noi, c’è un
universo costellato di aspetti tragici e comici della vita.
Leggere quelle fiabe o leggende è un po’ come scoprire un tesoro, entrare in punta di piedi nel mondo
magico dei gitani per svelarne i misteri.
Ogni fiaba e ogni leggenda intrecciano l’esperienza del narratore sedentario, del contadino che non si è
mai mosso dalla sua terra, con quella del viaggiatore, del marinaio e del mercante, dell’artigiano e del
pellegrino sempre per la strada, in cammino.
Le fiabe contengono le due antiche saggezze dell’umanità, quella della terra e quella del mare: le hanno
intrecciate insieme indissolubilmente; come in un cesto di vimini o in un pizzo, come in un tessuto, tanto
prezioso proprio perché contiene le oltre seimila lingue vive del mondo.
Attraverso questa breve antologia di fiabe zingare, tratta dalle principali raccolte edite in Europa,
vogliamo indicarvi un sentiero. A volte sembra un po’ troppo faticoso, ma ci fa scoprire paesaggi
sconosciuti e meravigliosi: sono le storie che popoli diversi si sono raccontate, che nascondono modi
diversi di vedere la vita, il mondo, la natura e le relazioni tra gli esseri umani. Ci permettono di sorridere
e di piangere senza avere troppa paura. Ci fanno capire quanto l’incontro tra mondi e persone diverse sia
una ricchezza per tutti, se si impara a rispettare e apprezzare ciò che non ci è né consueto, né abituale.
104
u baro drom
L’ambiente raccontato
La creazione9
(Nuova Zelanda)
Al tempo della creazione Dio pensò che gli sarebbe piaciuto creare gli esseri umani a sua
immagine. Così prese un bel po’ di farina e di acqua e li impastò insieme fino a formare dei
piccoli uomini. Li mise a cuocere nel forno celeste ma, sfortunatamente, fu distratto da qualcos’altro e se ne dimenticò.
Quando li tirò fuori dal forno erano tutti bruciati e fu così
che furono creati i neri.
Allora impastò dell’altra farina con
dell’altra acqua, modellò l’impasto e
di nuovo mise tutti gli omini nel forno. Ma stavolta era un po’ preoccupato che non gli bruciassero di nuovo, così finì per tirarli fuori in anticipo. E questi diventarono i bianchi.
Quando riprovò per la terza volta,
tanto per essere sicuro di non sbagliare i tempi di cottura, creò prima
il tempo e l’orologio.
E infatti quando tolse gli uomini dal
forno, erano cotti proprio al punto
giusto, appena appena bruniti. E
questi erano gli zingari.
81. Bimbo
Questa fiaba è stata raccontata da R. A. W. (Ron) Barnes. Egli racconta della sua
infanzia: “La mia vita è iniziata molto poveramente sul drom, sulla strada, fino a
82. India
quando non ho compiuto otto anni. Poi, quando la grande depressione arrivò in
Inghilterra e non si trovavano più lavori occasionali, la mia famiglia si trasferì a Londra”. A 14 anni lascia la scuola, comincia
a lavorare alle poste, poi diventa un dirigente delle telecomunicazioni. Durante la Seconda Guerra Mondiale si arruola
nell’esercito inglese e nel 1948, finita la guerra, si trasferisce in Australia. Nel 1950 va in Nuova Zelanda. Ha creato il centro
sanitario “Opre Roma” (Sorgete zingari) e ora insegna nei centri sanitari di tutto il mondo. Questa fiaba è conosciuta e
raccontata anche in Alsazia e in Cile.
Le origini degli Zingari.10
(Spagna)
Il Signore quando stava per tornare in paradiso, chiamò a raccolta nella Grande Plaza tutti i
83. L’uomo più forte
del mondo
popoli del mondo e disse loro: “Domani vado in paradiso, ma
prima di partire assegnerò il suo posto nella vita a chi si presenterà qui: chi arriverà troppo tardi si arrangerà”.
Così, prima di andarsene assegnò ad ognuno una posizione: chi divenne maestro, chi dottore e così via. C’erano anche
due zingari molto pigri e uno disse all’altro:”Guarda, cugino.
Il Signore va via oggi. Se ne va in cielo e tutti sono andati a
farsi dare il proprio destino. Arriveremo tardi.”
Si misero a correre verso la Grande Plaza e quando arrivarono trovarono il Signore che stava già partendo, dato che
erano stati così pigri. Allora lo chiamarono: “Ma padre, hai
assegnato un destino a tutti gli uomini al mondo. Vuoi proprio andartene lasciando gli zingari senza un posto assegnato?”.
Il Signore allora disse: “Andrete avanti come potrete”.
E così se ne andò, lasciandoci senza un posto definito e che
ci arrangiassimo un po’ come potevamo. Ora questa leggenda
è mia, però è la verità. Gli zingari vivono d’espedienti e mangiano come possono. A loro non è stato assegnato un posto
preciso nel mondo.
Questa storia è stata raccontata da Isabel Fajardo Maya, una gitana del Sacro Monte, sorella dei famosi ballerini di flamenco
La Golondrina e Joaquin Fajardo Maya. E’ stata raccolta e registrata da Berta Quintana nel 1971.
105
u baro drom
L’ambiente raccontato
Perché gli zingari sono sparpagliati sulla terra11
(Russia)
Questo fatto accadde molto tempo fa.
Uno zingaro era in viaggio con la sua famiglia. Il suo cavallo era magro e malfermo sulle
gambe, e più la famiglia dello zingaro cresceva, più al cavallo riusciva difficile tirare avanti il suo pesantissimo carro. Ben presto, d’altronde, il carro fu talmente pieno di ragazzetti
che saltavano uno sull’altro che il povero cavallo poteva a malapena trascinarsi lungo la
pista sconnessa. Mentre il carro procedeva faticosamente, inclinandosi prima a sinistra,
poi piegandosi a destra, pentole e padelle finivano per rotolare fuori e, di tanto in tanto,
anche qualche bambino veniva scagliato a capofitto sulla strada.
Certo, non era poi così terribile di giorno, quando potevi sempre fermarti a raccogliere
da terra pentolame e marmocchi, ma di notte poteva cadere qualsiasi cosa e neppure te ne
saresti accorto. E in ogni caso, chi
mai sarebbe riuscito a tenere conto
di una tribù simile? E intanto il ronzino continuava per la sua strada.
Lo zingaro continuò a viaggiare
per il mondo e, dovunque andasse,
si lasciava dietro un figlio e un altro, e un altro ancora.
E così, vedete, accadde che gli zingari si sparpagliarono in tutto il
mondo.
Raccolta in Russia da Yefim Druts, figlio di un
rabbino di Mosca, e dal poeta Alexei Gressler
84. Ungheria
Perché gli zingari non hanno un alfabeto12
(Grecia)
C’era una volta un re che aveva l’alfabeto degli zingari. Dato che a
quel tempo non esistevano ancora gli scaffali e le librerie, lo avvolse in
certe foglie di cavolo e si mise a dormire vicino a una fonte. Passò di lì un
somaro, bevve un po’ d’acqua e, già che c’era, si mangiò anche le foglie di
cavolo. Ed ecco perché noi zingari non abbiamo un alfabeto.
Questa storia è stata raccontata da Anastasia Dimou nel 1985 ad Atene. Oggi a Salonicco alcuni
studenti zingari delle scuole superiori stanno progettando un’ortografia del romanès, la lingua
degli zingari, che meglio dell’alfabeto greco si adatti alla loro lingua.
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u baro drom
L’ambiente raccontato
Le lingue13
(Argentina)
U
n giorno Dio, prima di lasciare l’umanità, disse: “Là dove vado io voi non potete seguirmi.
E non provateci neppure” e, detto questo, se ne andò in cielo. Gli uomini però non gli diedero
ascolto e si misero a costruire una grande montagna (ma qualcuno dice che fosse una torre).
Lavorarono senza mai fermarsi e infatti arrivarono vicino al cielo. Quando Dio comprese che
gli uomini non gli avevano obbedito disse loro: “Mischierò le vostre lingue”. Così fece e nessuno
fu più in grado di finire la torre perché a chi chiedeva un martello veniva dato un chiodo e a chi
chiedeva una sega davano un martello e così via. Ed ecco perché parliamo lingue diverse.
Questa versione della storia della Torre di Babele è conosciuta tra gli zingari dell’Honduras, del Brasile e d’Argentina
originari della Russia.
14
Il violino Tzigano
A
(Svezia)
i tempi in cui gli zingari non avevano violini da suonare, viveva una splendida ragazza che era un po’ strega. (…) La ragazza faceva ogni tipo di sciocchezze e per questo
nessuno la voleva sposare.
La ragazza si era innamorata di un giovanotto (…). Il ragazzo era bello, forte e gran
lavoratore, ma non voleva avere nulla a che fare con lei. (…). Per questo la ragazza era
molto infelice.
… Mentre camminava nel bosco si trovò davanti il diavolo in persona, nei panni di un
giovane uomo tutto vestito di verde, dai capelli neri e con gli occhi fiammeggianti: dai
capelli spuntavano due cornetti e un piede aveva lo zoccolo di un capro…
“Ti ho vista piangere” disse alla ragazza. “Sei innamorata del figlio del tuo vicino ma lui
non ti ama. Eppure, se tu volessi fare per me una piccola cosa che ora ti dirò, quel ragazzo
ti amerebbe più della sua stessa vita e prestissimo ti sposerebbe”.
“Farò qualsiasi cosa al mondo purché lui mi ami”, rispose la ragazza.
“Allora fammi dono di tua madre e di tuo padre e dei tuoi quattro fratelli e io tornerò per
donarti uno strumento e insegnarti a suonarlo. Quando il tuo uomo te lo sentirà suonare,
ti amerà di un amore senza fine e farà per te qualunque cosa”.
E quella sventata rispose: “Potrai avere mio padre e mia madre, i miei fratelli e tutto ciò
che vorrai purché il mio amore mi sposi”.
Il piede-di-capro tramutò il padre della ragazza in un violino, la madre in un archetto che aveva per corde i suoi bianchi capelli. Infine mutò i quattro fratelli nelle corde del violino. Si sedette poi accanto alla ragazza e le insegnò a suonare quello strumento. Ben presto la ragazza imparò a suonare
così dolcemente che gli insetti smettevano di volare per ascoltarla e i rami degli alberi iniziavano a dimenarsi e a danzare. Era una musica che andava dritta al cuore e faceva venire la lacrime agli occhi. Mai era stata suonata una musica
simile. Quando il giovane la sentì dimenticò la casa, il focolare, il lavoro e il ballo. Non fece altro che sposarla e così
vissero felici insieme per molti anni. La tristezza non entrava mai nella loro casa poiché la musica argentina del violino
creava una magia che scacciava tutta la tristezza, proprio
85. Lautari della
come fa anche adesso. (…)
Transilvania
…Poi un giorno i due smarrirono il violino nel bosco, il Diavolo lo nascose ai loro occhi e li portò via con sé sul carro trainato da quattro cavalli neri…
Per anni il violino rimase lì, abbandonato tra gli alberi, nascosto sotto il muschio e il
fogliame. Per quanto tempo poi vi sia rimasto non saprei proprio dirvelo.
Un giorno certi zingari si accamparono in quella foresta.
Uno dei ragazzi zingari, uscito dall’accampamento in cerca di legna per il fuoco, capitò
107
u baro drom
L’ambiente raccontato
proprio nel posto dove era il violino e per caso colpì una delle corde con un pezzo di legno.
Ne uscì il suono più bello che avesse mai udito, ma lui si spaventò e corse via. Poi però non
potendo dimenticare quel suono magico, tornò sui suoi passi e tirò fuori il violino e l’archetto dal muschio e dal fogliame. Non appena iniziò a muovere l’archetto sulle corde,
sgorgarono i suoni più ricchi e commoventi. Continuò allora a muovere l’archetto sulle
corde e ne tirò fuori una musica, come fanno gli zingari ancora oggi. Gli uccelli smisero di
cantare e il vento smise di soffiare solo per ascoltarlo. Il ragazzo corse allora all’accampamento e suonò il violino per la sua tribù. Nessuno aveva ascoltato prima di allora una
melodia simile, e ciò agiva come un incantesimo su di loro: quando la musica era triste
anch’essi erano tristi, e quando la musica era forte e selvaggia, anche essi si sentivano forti
e selvaggi.
Ben presto anche gli altri zingari impararono a suonare il violino, costruirono altri violini
e insegnarono ad altri zingari ancora a suonarlo. Così oggi quasi tutti gli zingari sanno
suonare il violino e suonano le melodie più celestiali al mondo. Perché quello strumento sa
suonare solo queste melodie.
Questa fiaba sull’origine dei violinisti zingari, la cui musica scaccia la tristezza e acquieta gli animi, è stata narrata da Milos Taikon.
Come si sta nel Paradiso degli Zingari15
(Jugoslavia)
I
l figlio della santa Alta, la madre di tutti gli zingari, disse: “Che tu possa raggiungere la vecchiezza, mammina, ma dimmi: come si sta nel nostro paradiso zingaro?”
La madre di tutti raccolse i suoi pensieri finché nella
sua anima non si sentì pronta a rispondere. Allora
rispose con tutto il cuore: “Nel nostro paradiso zingaro, nel nostro superparadiso, è tutto bello, bellissimo.
Se solo sapessi che gran gioia attende noi zingari! I
campi sono vasti e larghi, i cavalli galoppano, ci sono
salici, c’è ombra e tutte quelle buone cose di cui abbiamo bisogno. E in mezzo ci sono grandi manzi che arrostiscono sugli spiedi mentre sulla brace tutt’intorno
86. Otto Pankok, Pasqua degli zingari, cuociono le trote. In tutta questa carne bella e grassa e
1953
ben arrostita sono infilzati dei coltelli d’oro.
‘Venite, fratelli, su, sedetevi e mangiate quanto il
vostro stomaco riesce a reggere! Tagliate e mangiate quanto potete! Chiunque voglia può
tagliare e mangiare quanto desidera il suo cuore. Bevete e mangiate tutto quello che volete!’ O buon Dio, devi essere stato anche tu uno zingaro per darci tutte queste ricchezze.
In questo nostro paradiso zingaro tutti i nostri figli zingari si incontrano per contarsela e
bere alla propria salute. I figli dei gagè, invece, se ne stanno fuori a tremare di fame e di
freddo e a elemosinare un po’ di cibo dai nostri figli. Ma i nostri fortunati figli zingari
ridono, ridono di loro. Li prendono in giro e mangiano, mangiano ma non danno loro
neanche un boccone….
Questa fiaba, che dà voce alla fantasia degli zingari di Bosnia, è stata raccolta da Rade Uhlik e pubblicata nel 1944 dal “Journal of the
Gypsy Lore Society” a cura di Frederick Gorge Ackerley.
108
u baro drom
L’ambiente raccontato
La famiglia zingara16
87. Yayà - nonna greca, Bimba, Germania meridionale, Vecchio,
Saintes Marie de la Mer, Francia
U
n inverno, una famiglia zingara si scaldava accanto al fuoco. La padrona disse: “Ah,
se avessimo del burro e anche della farina! Potremmo prendere una teglia in prestito, nel
villaggio vicino, e fare una pita da signori.”
Uno zingarello allora disse: “Io la porterei al forno per cuocerla”.
L’altro muovendo la mano come se portasse qualcosa alla bocca disse: “Io, mamma, la
mangerei così”. Vedendolo, il padre colpì il bambino sul braccio, dicendo: “E vacci piano!
La vuoi mangiare tutta da solo?”
Ninna
nanna
Rom17
Ninna nanna dormirà
Lele lele crescerà
Ninna nanna bambino mio
Fortunato della mamma
La pioggia cadrà
E ti laverà
Il vento soffierà
E ti asciugherà.
Nani nani ka sovól
lele lele ka baról
nani nani mo cavó
e nanako bachtaló
o buršun ka dol
tut ka najaról
i balval ka purdól
tut ka šucarol.
Ninna nanna crescerà
Lele lele dormirà
Gli agnelli passeranno
Con la lana ti copriranno
Le capre passeranno
Con il latte ti nutriranno
Non piangere
Bambino mio
Non piangere
Nani nani ka baról
Lele lele ka sovól
E bakré ka nacén
pe pošomasa
tut k’ucarén
e buzná ka nacen
tut cuci ka den
ma rov mo cavó
ma rov.
v
v
v
v
88. Skopie, Ex Jugoslavia
109
u baro drom
L’ambiente raccontato
Note:
DE BAR G., Strada, patria sinta. Cento anni di storia nel racconto di un saltimbanco sinto, Firenze 1998,
pp. 1-5.
2
NIEMEN A., La casa con le ruote. O ker kun le penjà, Viterbo 2000, pp. 12-16.
3
Ivi, p. 42.
4
Ivi, p. 50.
5
Ivi, p. 56.
6
Ivi, p. 66.
7
Ivi, p. 84.
9
TONG D. (a cura di), Storie e fiabe degli zingari, Milano 1997, pp. 192-193.
10
Ivi, p. 234.
11
Ivi, p. 57.
12
Ivi, p. 223.
13
Ivi, p. 243.
14
Ivi, pp. 71-73.
15
Ivi, pp. 216-218.
16
ŠUĆUR A., Fiabe dei Balcani, Torino 2000, p. 248.
17
CERCENÀ V., GIUSTI M., TASSINARI G., MORI T., ABMETOVIÈ L., Cici Daci Dom. Incontro con i bambini Rom, Firenze 1994, pp. 22-23.
1
Per saperne di più:
AWOSUSI A.(a cura di), Zigeunerbilder in der Kinder- und Jugendliteratur, Heidelberg 2000.
CAPORALI R., Fiabe zingare, Firenze 1980.
CERCENÀ V., GIUSTI M., T ASSINARI G., M ORI T., A BMETOVIÈ L., Cici Daci Dom. Incontro con i
bambini Rom, Firenze 1994.
D E B AR G., Strada, patria sinta. Cento anni di storia nel racconto di un saltimbanco sinto, Firenze
1998.
D ERDAK F., Zigeuner? Nein: Roma und Sinti, Wien 1994.
FICOWSKI J., Il rametto dell’albero del sole, Roma 1985.
Fra i Rom: vita e storie zingare, Brescia 1978.
I quattro fratelli (fiaba zingara), Torino 1993.
KARPATI M., I figli del vento. Gli zingari, Brescia 1978.
L AZZARATO F., O NGINI V., Il vampiro riconoscente. Fiabe, leggende e miti della tradizione zingara,
Milano 1993.
MARCOLUNGO E., K ARPATI M., Chi sono gli zingari?, Torino 1985.
MELIS A., Fiabe zingare, Cagliari 2000.
MODE H., HÜBSCHMANNOVÀ M. (a cura di), Zigeunermärchen aus aller Welt, Leipzig 1983- 85.
MOREAU R., Kinder des Windes, Bern 1999.
N IEMEN A., La casa con le ruote. O ker kun le penjà, Viterbo 2000.
ŠUĆUR A., Fiabe dei Balcani, Torino 2000.
TONG D. (a cura di), Storie e fiabe degli zingari, Milano 1997.
110
u baro drom
di Elena Farruggia
Mestieri
Ninna nanna Rom17
b. Mestieri
Come tutte le popolazioni nomadi, gli Zingari sviluppano nel tempo una
grandissima abilità tecnica che consente loro non solo una relativa
autosufficienza economica, ma anche la possibilità di proficui scambi commerciali con i sedentari con cui vengono in contatto.
E’ necessario inoltre riflettere sull’importanza in ogni attività economica,
sia commerciale che produttiva, dell’intreccio tra le varie culture ed esperienze: girando tra l’Asia, l’Africa, l’Europa dell’est e Europa occidentale, nel
tempo essi acquisiscono e perfezionano tecniche, conoscenze, abilità, (oltre a
prodotti o addirittura costumi) sconosciute in altri luoghi, che fanno proprie,
che si tramandano da gruppo a gruppo e che diffondono nei loro
spostamenti.
Risultano così nell’Europa preindustriale un tramite importantissimo di commercio e di scambio culturale, specie nel mondo rurale: pur rimanendo spesso ai margini dei villaggi (e pur con esempi di diffidenza nei loro confronti)
il loro arrivo come fabbri, calderai, falegnami, commercianti, “veterinari” e
venditori di “rimedi” contro i mali del corpo e dell’anima, oltre che suonatori,
giocolieri, circensi e ammaestratori di animali, è atteso dalla popolazione e
risulta fondamentale per molte delle esigenze materiali dei villaggi stessi o
delle case isolate nelle campagne.
“Secondo l’epoca e il paese, gli Zingari si adattano ai bisogni locali. Riempiono i vuoti. Là dove la massa dei contadini è priva di artigianato vi portano il loro ed esercitano dei veri e propri monopoli: nei paesi dove trovano al
loro arrivo un artigianato che corrisponde sufficientemente ai bisogni della
popolazione, cercano altre risorse.”1
Inoltre proprio le abilità tecniche e l’estrema specializzazione in alcuni
campi (come la lavorazione del metallo o l’allevamento dei cavalli) saranno in alcuni casi lo strumento di inserimento nel tessuto sociale e di parziale – o totale – sedentarizzazione di alcuni gruppi di Zingari: è quanto
avviene per l’allevamento dei cavalli in Ungheria, o per i fabbri e i calderai
nell’isola di Corfù (già documentati dal XIV secolo), per i fabbri nell’Italia meridionale: in Puglia ad esempio alcuni Zingari colpiti da decreto di
espulsione nel 1635 non vennero infine cacciati proprio perché si appurò
che lavoravano tutti come fabbri pagando regolarmente le tasse allo stato:
tengono le loro famiglie, e case in due Città, e Terre, dove fanno l’incolato, e sono nati,
e vivono con le loro mogli, e figli, e portano li pesi conforme tutti l’altri cittadini con
111
u baro drom
Mestieri
pagarne li pagamenti fiscali, allogiamenti; ed ogn’altra contribuzione, e non sono inquisiti de delitto nessuno, vivendo con loro arte de forgiare, e di seminare, ed altri loro
esercizji.”2
La lavorazione del metallo, del legno e del vimini
89. Fabbro zingaro con aiutante, XVII sec.
La tradizione zingara nel lavorare il metallo affonda nella notte dei tempi: si narra addirittura che siano
stati loro a introdurre il bronzo in Occidente.
Leggende a parte, l’abilità nelle lavorazioni del ferro e dei metalli in genere è, come abbiamo visto,
storicamente documentata a partire dal XIV secolo e così fortemente collegata al mondo zingaro che in
alcune zone (come ad esempio la Sicilia) l’appellativo “zingaro” è stato usato per indicare chiunque
lavorasse il metallo.
La vita nomade, i continui spostamenti richiedono che la grande specializzazione tecnica sia supportata
da attrezzature semplici e facili da trasportare.
Per lo più gli attrezzi consistevano dunque in una incudine (a volte sostituita da un semplice sasso), due
soffietti di solito in pelle di capra, un paio di pinze, un martello, una morsa, una lima, un piccolo fornello
o una mola conica.
Con questa strumentazione essenziale lo Zingaro lavorava nell’accampamento, di solito seduto all’aper-
91. Zingaro che intreccia canestri
90. Fabbro a Choisy-le-Roy, 1911
to (ma anche sotto una tenda quando la stagione era particolarmente inclemente), aiutato dalla moglie o
dai figli che manovravano il mantice.
112
u baro drom
Mestieri
92. Venditrice di trogoli in legno,
Ungheria
93. Zingaro che fabbrica trogoli,
XIX sec.
Il suo lavoro era indispensabile soprattutto per le comunità isolate, che potevano così acquistare ogni
oggetto in metallo indispensabile per il lavoro nei campi o nella casa (falci, falcetti, vomeri di aratro,
chiodi, punteruoli, aghi, coltelli, spiedi, paletti, tripodi, pentole, paioli…) o farsi riparare quelli rotti o
usurati, caldaie comprese.
Gli Zingari erano ottimi gioiellieri in grado di soddisfare nel loro commercio ambulante anche le
richieste più economiche; oltre a lavorare l’oro e l’argento, infatti, sapevano produrre mirabili collane,
orecchini, bracciali utilizzando il semplice stagno o il rame argentato.
Gli Zingari erano anche abili falegnami e tornitori: producevano casse per riporre i vestiti e la biancheria, oltre a vassoi, piatti e cucchiai in legno, che vendevano “al minuto” ma anche agli stessi mercanti. La
produzione di oggetti in legno era soprattutto praticata nei paesi balcanici e dell’Europa centrale. Ad essa
spesso si affiancava la abilità nel lavorare il vimini; in Francia fino a tutto il XIX secolo spesso i venditori
di cesti di vimini erano Zingari.3
Il commercio dei cavalli
er renderci conto di quanto e quanto a lungo sia stato importante il mestiere di commerciante di
cavalli dobbiamo riflettere su come sia breve, in un’immaginaria linea del tempo, la spazio in cui l’uomo
ha fatto uso dei sistemi di locomozione che a noi oggi sembrano quasi essere sempre esistiti: automobili,
treni, aerei; fino al XIX secolo in assoluto, e ancora per tutto il XX in alcune zone del mondo, invece, il
cavallo, il mulo, l’asino erano gli animali più usati per gli spostamenti di uomini e merci.
Dalla loro comparsa in Europa fino a tutto il XX secolo, il commercio dei cavalli è stata la professione
principale o accessoria di numerosi Zingari: una formula di ringraziamento molto in uso è: “Ti auguro
che i tuoi cavalli vivano a lungo”.4
La conoscenza dei cavalli, l’arte di curarli e di accudirli, l’amore per le cavalcature erano requisiti fondamentali per la loro vita nomade: nei loro spostamenti i cavalli servivano a una parte degli uomini, a
qualche donna e ai bambini piccoli; altri utilizzati come animali da soma erano carichi di materiali e
provviste; altri ancora erano attaccati ai carretti.
Ma gli Zingari non tenevano i cavalli solo per proprio uso: li compravano, li vendevano, li scambiavano; proprio grazie alla fama che li contraddistingueva, alle loro frequentazioni dei più importanti luoghi
P
113
u baro drom
Mestieri
94. Maniscalco, Appleby
95. Car ro a cavalli
di mercato degli animali, alla conoscenza delle strade, per lungo tempo (e in alcuni paesi ancora oggi)
furono considerati i migliori mediatori o comunque esperti da consultare per l’acquisto di una buona
cavalcatura.
Allo stesso modo l’arte di guarire i propri cavalli ne faceva anche degli abili veterinari, chiamati spesso
dai contadini per curare il bestiame ammalato.
In alcune zone d’Europa, in particolare in Francia e in Spagna, gli Zingari praticavano anche il commercio di muli e di asini; tra i Gitani di Spagna inoltre numerosi erano i tosatori di muli, che spesso nel
loro lavoro ambulante si spostavano fino in Francia.
Le elemosine, la buona ventura, l’arte del guarire
el loro continuo spostarsi da un luogo all’altro, fin dalla loro comparsa in Europa i gruppi Zingari
affidarono alle donne (e ai bambini) un particolare compito di sostentamento, praticato ancor oggi: la
raccolta delle elemosine.
Le donne zingare eccellevano nell’arte di impietosire i
sedentari e farsi dare non solo denaro ma ogni sorta di
provvigioni (cibo, vestiario, utensili) a volte esercitando
semplicemente una notevole capacità di persuasione, a
volte facendo leva sul timore, il pregiudizio, la paura.
Spesso accompagnavano questa attività con la lettura
della buona ventura, tanto che chiromante e zingara divengono presto quasi sinonimi: fin dal Cinquecento sia
nell’arte sia in letteratura la rappresentazione più tipica
della Zingara è quella che la raffigura nell’atto di leggere
96. Due indovine, Finlandia
la mano.
N
114
u baro drom
Mestieri
Attribuire agli Zingari poteri straordinari che consentono di leggere il futuro significa anche, specie in
epoche in cui medicina e magia sono ancora strettamente collegate, riporre fiducia nelle loro capacità di
guarire; per questa ragione (e per la loro effettiva conoscenza di erbe e sostanze medicinali, e addirittura
delle tecniche chirurgiche)) il ricorso alle cure degli Zingari non era praticato solo negli ambienti popolari, ma diffuso talvolta anche tra l’aristocrazia: in un curioso disegno del XVI secolo, incluso nella Raccolta
di Arras, in cui è raffigurata a mezzo busto una Zingara, la didascalia recita: L’Egiziana che rese salute
mediante arte di medicina al re di Scozia abbandonato dai medici.5
La loro competenza chirurgica era inoltre così riconosciuta che i chirurghi olandesi nel XVII secolo
facevano a volte il tirocinio presso gli Zingari.6
Il mestiere delle armi
er quanto possa sembrare curioso numerosi Zingari, soprattutto nel XVII e XVIII secolo servivano
negli eserciti. Erano ricercati per la loro resistenza, la forza fisica, la conoscenza dei luoghi e in particolare
di sentieri segreti e nascondigli, per
la loro abilità nelle sorprese e nelle
imboscate; ma anche e soprattutto
perché il mestiere delle armi era fortemente legato alla loro tradizione.
Infatti al loro apparire in Europa
nel XV secolo, gli Zingari si presentavano frequentemente in bande armate: la “grande banda” di Sindel,
la banda del Duca Andrea etc. “Le
tappezzerie di Tournai, dell’inizio del
XVI secolo, mostrano Zingari con
97. Armigeri con il carro del pane, XV sec.
un bastone in mano o sulle spalle,
una daga alla cintura, una spada dritta o una sciabola curva. I pedoni e i cavalieri Zingari, rappresentati su
quattro incisioni di Callot, sono simili a uomini di guerra, abbigliati con grandi cappelli dai lunghi pennacchi
o penne, stivali a imbuto; al fianco sinistro hanno la spada e a quello destro la daga ad anello, l’archibugio
a ruota o la pistola lunga ad armacollo, la mezza picca in mano o il moschetto sulla spalla.”7
A volte si arruolavano individualmente, a volte intere bande zingare si univano alle truppe in guerra.
Anche le donne (mogli o figlie di soldati), seguivano gli spostamenti dei reggimenti in cui prestavano
servizio i loro uomini, spesso con il ruolo di vivandiere o di lavandaie della guarnigione.
Durante la guerra dei Trent’anni, lo scrittore (e soldato) tedesco Grimmelshausen scrisse un romanzo
picaresco, La vagabonda Courage, che ha per protagonista, appunto, una vivandiera moglie di un luogotenente Zingaro assoldato nell’esercito; il personaggio, in tutta la sua tragicità, sarà ripreso nel Novecento
da Bertolt Brecht nel testo teatrale Madre Courage.
Tra gli Zingari francesi era spesso praticata anche la professione di maestro d’armi.8
P
115
u baro drom
Mestieri
98. Zingari con gli orsi che ballano, Berlino 1927
99. Turchia
Animali ammaestrati, circo, luna-park
Mi chiamo Annibale Niemen, zingaro sinto. Sono nato in gennaio, nel 1944, da Niemen
Nello e Dubois Margherita. [..] Mio padre proviene da una delle più antiche famiglie
di artisti d’Italia. Mio nonno paterno gestiva un circo, lasciatogli da mio bisnonno[…]
Mia nonna, a sua volta, apparteneva ad un’altra grande famiglia di artisti, molto antica,
la famiglia De Bianchi. La loro unione diede vita al più grande circo che girasse l’Italia in
quei tempi, «il Circo degli Angeli volanti». A loro volta le due famiglie erano imparentate
con un’altra grande famiglia di circensi, la famiglia Gerardi, che erano noti con il nome di
«I Diavoli del Trapezio». Il circo, quindi, era a conduzione familiare e gli spettacoli erano
maestosi. Erano in tutto una settantina di persone, quasi tutte giovani. Allora, come oggi,
ai bambini dai tre anni in su si insegnavano i numeri del circo, dall’acrobatica, che comprende tutti i numeri a terra, ai numeri volanti. Imparavano l’arte dei giocolieri (joungleur),
dei domatori e addestratori di cavalli, via via fino alla musica, secondo le loro attitudini.
Mio zio Guido era il comico. Oggi si chiama il clown; per noi è Toni, lo scemo. [..]
Nei periodi invernali, quando la neve non permetteva che si alzassero i teloni, ci si
divideva in squadre. Alcuni andavano nei paesi limitrofi e improvvisavano spettacolini
nelle osterie, altri si recavano con il «carro di Tespi» nelle fattorie e portavano in scena
storie importanti come «I Promessi Sposi», «Il Fornaretto di Venezia», «Pia
de’Tolomei» e, nel periodo di Pasqua, «La Passione di Cristo». Altri ancora, con le
marionette, facevano spettacoli nelle sale parrocchiali, oppure nei pochissimi teatri
comunali («le serate») o giravano paese per paese, fattoria per fattoria, suonando i
propri strumenti in veri e propri incontri musicali.” 9
G
irare per i paesi, le città, proponendo spettacoli di vario genere è un’attività praticata ancor oggi ma
che affonda le radici nella più antica tradizione zingara. Fin dal Cinquecento nelle fiere, nelle piazze, gli
Zingari proponevano spettacoli di acrobazia, di giochi di prestigio, di marionette.
In un mondo privo delle forme di comunicazione e divertimento che oggi conosciamo (giornali,
cinema, televisione, discoteche), le fiere, le sagre, le piazze erano i luoghi deputati al divertimento ma
anche in cui si scambiavano informazioni, si veniva a conoscenza delle opere (o di parte di esse) rappresentate nei veri teatri, si rimaneva strabiliati di fronte a costumi e rappresentazioni esotiche.
Tutto questo genere di esperienze veniva spesso portato dagli Zingari.
Uno degli aspetti più stupefacenti, che destava maggiore curiosità e ammirazione, era la loro grande
abilità nell’ammaestrare gli animali.
“Alla fine del XVIII secolo il capo zingaro Marcinkiewicz, per rendere visita in gran pompa al suo
116
u baro drom
Mestieri
100. Scimmia
101. Acrobata
102. Oreste De Bar
con zia Pepita
sovrano, principe Radziwill, arrivò al palazzo in una carrozza tirata da sei orsi; sulla schiena degli orsi,
scimmie vestite da postiglioni. Questo ingresso ottenne un vivo successo presso il principe, la sua corte e
la gente del vicinato.”10
Ma erano soprattutto gli orsi danzanti a divertire il pubblico. Furono per primi gli Zingari dei Carpazi
a ammaestrare gli orsi alla danza, ma dall’Europa Orientale alcuni ammaestratori d’orsi raggiunsero già
nel Settecento la Spagna, la Francia, l’Italia, dove fino ad allora erano tradizionali gli spettacoli di danza o
acrobazie di scimmie e di cani ammaestrati.
Nel corso dell’Ottocento e del Novecento accanto a queste forme di spettacolo (che si “formalizzarono”
nei circhi), gli Zingari aggiunsero alle loro attrazioni le giostre, la lanterna magica e il cinema ambulante.
Musica, canto e danza
Come gli zingari sono diventati musicisti
Una volta Iddio mise un violino sulle spalle di san Pietro. Senza saperlo, san Pietro andò in una locanda piena di gente allegra.
Quando videro san Pietro con un violino, gli gridarono: “Suona, suona!” Ma lui si
spaventò alle loro grida e si mise a scappare.
103. Il gruppo del Teatro Zingaro di Mosca, 1930
117
u baro drom
Mestieri
Sulla porta, però, il violino gli cadde dalle spalle. Lo tirò su e andò dritto da Dio
per chiedergli: “Dio, che cosa significa questo?”
“L’ho fatto per te” gli rispose il Signore. “Così potrai suonare per la gente quand’è
vivace, tenerli di buon umore e evitare che si mettano a litigare.”
“Se è questo che vuoi, allora fai che ci siano più musicisti.”
“Ma chi potrebbe fare il musicista?” chiese Iddio
“Potrebbero farlo gli zingari” rispose san Pietro. “Fai che divertano la gente così
che non si sparga mai sangue quando si beve e si fa festa”.
“Così sia” disse Dio.
E così fu.11
infatti la musica zingara ottenne, e ottiene ancora, l’ascolto fedele e appassionato
negli ambienti sociali più disparati.
Già alla fine del XV secolo la corte del re
Mattia Corvino e della regina d’Aragona accoglieva Zingari suonatori di liuto; nel 1525
alcuni zingari suonarono la cetra per Luigi II
di Polonia, re di Boemia e di Ungheria.12
In Europa orientale nel corso dei secoli
XVII, XVIII e XIX la loro presenza appariva
indispensabile nei balli, nelle feste pubbliche
o private, nelle fiere, nelle nozze paesane, nelle osterie dei villaggi come nei palazzi aristocratici; suonavano il cimbalo non pizzicando
le corde con le dita secondo l’uso comune,
ma servendosi di un bastoncino di legno; il
tamburino, il violino, la “cobza” (specie di
mandolino a nove corde), il “naiu” (flauto di
Pan). Gli “ursari”, cioè gli ammaestratori di
orsi, si accompagnavano con i tamburelli.13
Nell’Italia meridionale gli Zingari erano così abili a suonare e fabbricare lo “scacciapensieri” che questo semplice strumento ancora oggi, in Calabria, viene chiamato “tromba
104. Mera, Romania
degli Zingari”.14
In Francia la musica zingara non ebbe tanto uno sviluppo autonomo, ma strettamente connesso all’accompagnamento della danza: le Zingare ritmavano le loro danze facendo tintinnare campanelli o schioccare nacchere, o percuotendo un tamburello basco.15
Per la loro abilità di suonatori, spesso gli Zingari venivano arruolati nelle bande militari francesi; nel
corso della Rivoluzione vi fu un reggimento che addirittura reclutò una banda interamente zingara.16
In Spagna per molto tempo, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, salvo alcune eccezioni la
musica gitana rimase per lo più ignorata dai “payos” spagnoli (appellativo con cui i Gitani definiscono i
“non Gitani”) fino alla fine del Settecento; erano soprattutto i viaggiatori stranieri che lodavano musiche
e canti gitani. Nella prima metà dell’Ottocento, invece, i cantanti e i musicisti gitani, girando nelle città e
nei paesi, nelle piazze e nelle osterie in occasione di feste locali e di pellegrinaggi attiravano un pubblico
E
118
u baro drom
Mestieri
estremamente vasto e variegato che andava dalla “gente di malaffare” ai pellegrini, ai viaggiatori, ai
signori borghesi, all’aristocrazia (lo stesso re Ferdinando VII frequentava in incognito osterie dove si
esibivano musicisti gitani).17
E’ comunque da tener presente che la musica gitana è quasi sempre in stretta correlazione con la danza,
che è stata, fin dalla loro comparsa in Europa, una delle attività zingare più apprezzate tanto a livello
popolare quanto dalle aristocrazie europee.
Immagini di danze zingare figurano negli arazzi di Tournai del XVI secolo; gli Zingari ballavano nelle
piazze e nelle strade di città e villaggi, ma anche nei palazzi reali e nelle dimore principesche tanto che
numerosa è la documentazione (soprattutto per il XVII secolo) di danzatori Zingari ingaggiati (e ospitati) delle famiglie aristocratiche.
L’abilità nel ballo non si limitava a dare spettacoli: nei luoghi dove si fermavano gli Zingari (ma soprattutto le Zingare) davano anche lezioni di danza, spesso senza altro ausilio musicale che il tamburello o
addirittura il battito delle mani e dei piedi.
Note:
VAUX DE FOLETIER F., Mille anni di storia degli Zingari, Milano 1998, p. 177.
VIAGGIO G., Storia degli Zingari in Italia, Roma 1997, p. 56.
3
VAUX DE FOLETIER F., op. cit., p. 184.
4
Ibidem, p. 177.
5
Ibidem, p. 171.
6
Ibidem, p. 172.
7
Ibidem, p. 131.
8
Ibidem, p. 132.
9
NIEMEN A., O ker kun le penijà – la casa con le ruote, Roma 2000, pp. 11-12.
10
VAUX DE FOLETIER F., op. cit., p. 179.
11
TONG D. (a cura di), Storie e fiabe degli zingari, Milano 1997, pp. 141-142.
12
VAUX DE FOLETIER F., op. cit., p. 141.
13
Ibidem, p. 145.
14
Ibidem, p. 146.
15
Ibidem, p. 147.
16
Ibidem, pp. 147-148.
17
Ibidem, p. 148.
1
2
Per saperne di più:
ARCA (a cura di), La mano allo zingaro. Magia di una cultura, Milano 1978.
BLOCK M., Die Zigeuner : ihr Leben und ihre Seele - dargestellt auf Grund eigener Reisen und Forschungen, Frankfurt am Main, 1997.
COLOCCI A., Gli Zingari. Storia di un popolo errante, Torino 1889.
G ILSENBACH R., Weltchronik der Zigeuner : 2000 Ereignisse aus der Geschichte der Roma und Sinti, der Gypsies und Gitanos und aller
anderen Minderheiten, die “Zigeuner” genannt werden, Frankfurt am Main 1998.
SOEST VON G., Zigeuner zwischen Verfolgung und Integration: Geschichte, Lebensbedingungen und Eingliederungsversuche, Weinheim 1979.
VAUX DE FOLETIER F., Mille anni di storia degli Zingari, Milano 1998.
VIAGGIO G., Storia degli Zingari in Italia, Roma 1997.
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u baro drom
di Milena Cossetto
Alois Weber
Fascino e paura del diverso
c. Fascino e paura del diverso
Un percorso attraverso i testi letterari.
La diversità, di genere, di sensibilità, quella fisica, culturale, psicologica,
linguistica è stata da sempre uno degli ingredienti essenziali della letteratura
europea: ha affascinato tutte le generazioni, ha colpito la fantasia degli autori
e dei lettori, ha offerto occasioni per una scrittura d’intrattenimento o educativa,
poetica o satirica, comica o moralistica, ha dato l’opportunità di ridurre le
distanze nello spazio e nel tempo, per favorire nuovi contatti, immaginari
eppure così reali da sembrare veri, tra mondi irrimediabilmente lontani. Da
questi contatti, da questi scambi, da queste contaminazioni sono nate
straordinarie opere poetiche e narrative.
L’avventura dell’incontro con la diversità ha fatto della lettura e dell’ascolto
lo snodo essenziale per la formazione delle nuove generazioni, a cui spesso gli
autori affidavano il sogno di una vita diversa e di un mondo migliore. Sconfinare
in territori nuovi, fatti di sensibilità, di lingue, tradizioni, modi di vivere e di
percepire il mondo e le relazioni tra gli esseri umani diverse, affascinava e
faceva paura allo stesso tempo. La gioia nasce proprio dallo sconfinamento,
dall’incontro, dalla scoperta e dalle immagini che, dopo, riemergono alla
memoria come diari di viaggio, schegge colorate della polifonia della vita. In
questo cammino, attraverso i sentieri letterari dell’incontro con la diversità, gli
Zingari hanno un ruolo fondamentale: sono stati descritti come un mondo
orribile, rozzo, violento, privo di valori, incompatibile con la civiltà e quindi da
temere e tenere rigorosamente a distanza. Ma sono stati narrati anche come
un ambiente umano autentico e vitale, anticonformista e creativo, fatto di danze,
musiche, sentimenti forti e fragilità vissute con dignità e speranza. Il loro mondo
colorato e sonoro ci permette sconfinamenti che non ci lasciano smarriti, ma
affascinati e curiosi, pronti a nuovi incontri e nuovi scambi sulle strade delle
diverse lingue e culture dell’umanità.
Lo spazio, in questa pubblicazione, non permette una rassegna esaustiva di
tutti i testi letterari più significativi che, in diverso modo, hanno rappresentato
la figura dello Zingaro e della Zingara nella letteratura colta e popolare
europea. Proponiamo quindi un breve percorso tra frammenti di testi, tessere
di un mosaico più grande e policromo, dal quale, però, emergono i principali
modelli culturali che hanno fatto degli Zingari un ingrediente essenziale degli
intrecci narrativi tra il XVI e il XX secolo. In particolare i testi poetici di
120
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Puskin e di Baudelaire, a cui andrebbero affiancati alcuni versi tratti dal
Romancero Gitano di Federico Garcia Lorca1 , danno voce all’immagine positiva
del mondo Zingaro, assunto a simbolo della immediatezza e della istintività
della vita, in armonia con la natura.
Abbiamo scelto alcune pagine de La zingarella di Cervantes, che per primo
dà ruolo da protagonista ad una fanciulla rapita che vive tra i gitani e con la
sua danza e il suo canto tutti affascina e seduce; poi alcuni frammenti de
Quelli del colera di Giovanni Verga in cui la furia del popolo senza freni, come
nella novella Libertà, uccide e devasta spinta da un istinto primordiale, accecata
dalla ricerca di un capro espiatorio, di qualcuno a cui attribuire la responsabilità
della diffusione del colera, analogamente a come Manzoni ne I promessi sposi
o ne La colonna infame parla degli untori e della costruzione del pregiudizio.
Grazia Deledda, unica donna nella rassegna di autori che offrono spazio
all’immagine degli Zingari, dà la parola a Madlen, una bimba zingara, che
scopre oltre il dolore, la miseria e la malattia il vero tesoro degli Zingari.
Canetti e Hrabal, in tempi e luoghi diversi, fanno del mondo degli Zingari
un’esperienza personale; Sgorlon, infine, propone lo Zingaro eroe, come
paradigma dell’impegno sociale e della tolleranza in un’Europa trafitta dalla
guerra e dalle persecuzioni razziali.
Poi i testi delle canzonette di Jannacci, Dalla, De Gregori, De Andrè
ripropongono a livello di cultura di massa l’immagine romantica degli Zingari,
ma anche intravedono la condizione nomade dell’esistenza umana come
paradigma della sua caducità.
Apriamo con un testo del filosofo Lévinas sul rapporto con l’Altro e la
cultura del Novecento.
Emmanuel Lévinas2
Fraternità e volto dell’altro (1961)
Il povero, lo straniero si presenta come eguale. (...)
La sua uguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al
terzo, così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da
Altri.(...)
Egli si unisce a me. (...)Ogni relazione sociale, al pari di una derivata,
risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione
di immagini o di segni, ma grazie alla sola espressione del volto. (...)
Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro
somiglianza, né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede
per le medaglie che rinvìano allo stesso conio che le ha battute. (...)
La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui
parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto
105. Zingara
non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà.(...)
Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda
come assolutamente estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce
là dove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità; o l’uguaglianza non è che un’idea
astratta e una parola.
121
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Miguel de Cervantes 3
La Zingarella (1612)
Sembra proprio che gitani e gitane siano venuti al
mondo solo per rubare: nascono da genitori ladri,
sono allevati tra ladri, studiano da ladri e alla fine
ne escono ladri fatti e finiti, perfetti per ogni
occasione; la voglia di rubare e il rubare, in loro,
sono caratteri congeniti, che si tolgono solo con la
morte. V’era dunque, in questa razza, una vecchia
gitana, che poteva dirsi laureata nella scienza di
Caco, 4 la quale allevò come fosse la propria nipote
una ragazza, a cui mise il nome di Preciosa e a cui
insegnò tutte le sue gitanerie, i modi per raggirare e
l’arte del rubare. Questa Preciosa ne riuscì la
106. Hugo Pratt, Gitane, 1996
danzatrice più straordinaria che si potesse trovare
in tutto il mondo gitano e la più bella e assennata che si potesse incontrare non solo tra i gitani, ma anche in
confronto alle tante belle e assennate che la fama avesse proclamato tali. Né i soli, né i venti e neppure le tante
inclemenze del cielo, alle quali i gitani sono esposti più delle altre genti, riuscirono a deturpare il suo volto o a
scurirle le mani; e pure l’educazione rozza con cui era stata educata mostrava
in lei origini ben più elevate di quelle gitane, giacché era estremamente
gentile e accorta. Nondimeno era assai disinvolta, ma non in modo da
manifestare una qualche disonestà, anzi, pur essendo sagace, era così piena
di ritegno, che in sua presenza nessuna, né vecchia né giovane, osava cantare
canti lascivi né dire parole men che oneste. Fu così che un bel giorno la
nonna, resasi conto di quale tesoro avesse trovato nella nipote, da quella
vecchia aquila che era, decise di far volare il suo aquilotto e di insegnarle a
vivere grazie ai propri artigli.
Preciosa ne venne fuori ricca di ogni sorta di villanelle, strofette, seghidiglie
e sarabande, nonché di altri versi ancora, soprattutto romances,5 che cantava
con speciale garbo. La nonna sorniona aveva infatti ben inteso che tali
giochetti e grazie, per i pochi anni e la bellezza della nipote, potevano essere
attrazioni più che gradite e incentivi per incrementare il suo capitale; tant’è
che cercò e procurò ballate con tutti i mezzi che conosceva, e non mancò
poeta che le offrisse, perché ci sono anche poeti che se l’intendono coi gitani
e vendono loro le proprie opere, come ci sono quelli dei ciechi, che s’inventano
per loro dei miracoli per dividerne i profitti. C’è di tutto nel mondo e la
fame spinge talvolta gli ingegni a fare cose che non stanno né in cielo né in
terra. Preciosa crebbe in diversi luoghi della Castiglia e, quando ebbe quindici
anni, la nonna putativa la ricondusse alla capitale, nel vecchio
accampamento, dove generalmente si attendono i gitani, nei campi di Santa
Bárbara, perché pensava di vendere quella mercanzia nella capitale, dove
tutto si compra e si vende. Il debutto di Preciosa a Madrid avvenne il giorno
di Sant’Anna, patrona intermediaria della città, con una danza in cui
figuravano otto gitane, quattro anziane e quattro ragazze, e un gitano, gran
ballerino, che le guidava. E benché fossero tutte pulite e ben agghindate, lo
splendore di Preciosa era tale che faceva via via innamorare gli occhi di
quanti la guardavano. Tra il suono del tamburello, le nacchere e il vortice
107. Otto Pankok,
della danza, prese a levarsi un brusio che benediceva la bellezza e la grazia
Dinili la sordomuta
della piccola gitana. I ragazzi accorrevano per vederla e gli uomini per
ammirarla. E quando poi la udirono cantare, giacché era una danza cantata, allora sì che successe di tutto!
Allora sì che si diede voce alla fama della piccola gitana e, con il consenso unanime dei deputati alla festa, le
conferirono senz’altro il riconoscimento e il premio per la danza migliore.
122
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Aleksandr Sergeeviè Puškin6
Gli zingari (1823-25)
Gli zingari in chiassosa folla
Vagano per la Bessarabia,
Oggi sul fiume
Nelle lacere tende pernottano,
Come la libertà è giocondo il loro giaciglio
E il pacifico sonno sotto il cielo,
Tra le ruote dei carri
Coperti a mezzo da tappeti,
Arde il fuoco; la famiglia intorno
Prepara la cena; nell’aperta campagna
Pascono i cavalli; dietro la tenda
L’orso addomesticato giace in libertà.
Tutto è vivo in mezzo alle steppe:
Le calme occupazioni delle famiglie
Pronte di bel mattino al non lungo cammino,
E i canti delle donne e il grido dei bambini
E il suono dell’incudine portatile.
Ma ecco sul nomade campo
Scende silenzio di sonno
E s’ode nella quiete della steppa
Solo abbaiar di cani, nitrire di cavalli.
I fuochi sono ovunque spenti,
Tutto è tranquillo, la luna brilla
Solitaria dalla celeste altezza
E il calmo accampamento schiara.
In una sola tenda un vecchio non dorme;
Siede davanti alle bragi,
Scaldato dal loro ultimo ardore,
E guarda la lontana campagna
Velata dal notturno vapore.
La sua figliuola giovinetta
E’ andata a passeggiare nella campagna deserta.
Ella s’è avvezza a libertà vivace,
Verrà; ma ecco ormai la notte
E presto ormai la luna avrà lasciato
Le nubi del remoto cielo;
Zemfira non è giunta, e si raffredda
La povera cena del vecchio.
Ma eccola. Al suo seguito
S’affretta per la steppa un giovane;
Allo zingaro egli è del tutto ignoto,
“Padre mio, – dice la fanciulla –
Porto un ospite: oltre il tumulo
Nel deserto l’ho trovato
E l’ho invitato per la notte al campo.
Vuol essere zingaro come noi;
La legge lo perseguita
Ma io gli sarò amica.
108. Coppia in viaggio
Si chiama Aleko;
E’ pronto a seguirmi dovunque”
VECCHIO
Son contento. Rimani fino al mattino
All’ombra della nostra tenda,
O sta’ con noi anche più a lungo,
Come vorrai. Son pronto
A dividere teco pane e tetto.
Sii dei nostri, avvezzati alla nostra sorte,
Alla errante povertà e libertà;
E domani coll’aurora
Nello stesso carro partiremo;
Scegli il mestiere che ti piace;
Batti il ferro o canta canzoni
E gira i villaggi coll’orso
ALEKO
Resto.
ZEMFIRA
Sarà mio;
Chi mai potrà allontanarlo da me?
Ma è tardi… la giovane luna
E’ tramontata; i campi son coperti di tenebra,
E m’invade involontario sonno …
123
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Nicolaus Lenau7
I tre zingari (1830)
Vidi un giorno tre zingari
che stavano su un prato,
mentre la mia carrozza strisciava
faticosamente per la landa sabbiosa.
Il primo teneva in mano
un violino, solo per sé,
e nella luce del tramonto suonava
un canto appassionato.
Il secondo aveva in bocca una pipa e ne seguiva il fumo con lo sguardo,
contento, come se del mondo intero nulla gli ser visse per esser più felice.
Il terzo dormiva beato,
la sua cetra appesa a un ramo;
tra le corde passava il vento e nel suo cuore un sogno.
Gli abiti dei tre eran pieni
di buchi, rammendi e toppe,
eppure, testardi e liberi,
si facevan beffe del mondo.
Tre volte mi hanno mostrato
come si affronta la vita che ci sfug ge
fumando, dor mendo e suonando,
la si disprezza tre volte.
A lungo guardai i tre zingari
mentre la carrozza si allontanava,
guardai i loro volti abbronzati,
i capelli ricci e neri.
124
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Charles Baudelaire 8
Zingari in viaggio (1857-1861)
probabilmente ispirata ad un’incisione di Jacques Callot
Ieri s’è messa in viaggio la tribù profetica
Dalle pupille ardenti, i piccoli in spalla,
o abbandonando ai loro fieri appetiti
il tesoro sempre pronto delle mammelle pendule.
Gli uomini vanno a piedi sotto armi lucenti
Lungo i carrozzoni dove sono rannicchiati i loro cari,
scorrendo il cielo con gli occhi appesantiti
dal mesto rimpianto di assenti chimere.
Dal fondo della sabbiosa tana il grillo,
vedendoli passare, raddoppia il suo canto;
Cibele, che li ama, rende più vive le piante,
crea zampilli dalla roccia e fiori nel deserto
davanti a quei viaggiatori per i quali è aperto
l’impero familiare delle tenebre future.
109. Convivenza
Giovanni Verga9
Quelli del colera (1887)
Il colera mieteva la povera gente colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centurie, per tutto il
contado – e anche dei ricchi […].
Cose da far rizzare i capelli in testa! Avvelenata persino la fontana delle Quattro Vie; […]. Ciascuno badava
quindi ai casi propri, collo schioppo in mano, appiattato dietro l’uscio, accanto la siepe, bocconi nel fossatello,
per le fattorie, nei casolari, da per tutto. Quelli di San Martino s’erano anche armati, uomini e donne. Volevano
morir piuttosto di una schioppettata, o d’altra morte che manda Dio. Ma il colera, no, non lo volevano! […]
La domenica mattina, spuntava appena l’alba, si vide una cosa nuova nel Prato della Fiera, appena fuori del
villaggio. Era come una casa di legno, su quattro ruote, con certe figuracce brutte dipinte sopra, e lì vicino un
vecchio carponi, che andava cogliendo erbe selvatiche. […]
Sul finestrino del carrozzone era passata una figura scarna di donna, coi capelli scarmigliati; poi s’erano uditi
strilli di ragazzi e pianti soffocati. Dalla strada principale giungevano il farmacista, il Capo Urbano, le guardie,
col giglio sul berretto e grossi randelli in mano. La folla dietro, come un torrente, mormorando, uomini torvi,
donne col lattante al petto. Da lontano, verso San Rocco, la campana sonava sempre a distesa. Don Ramando,
colle mani e colla voce, andava dicendo alla folla: - Largo, largo, signori miei! Lasciatemi vedere di che si tratta
-. […]
- Niente! Niente! Son poveri commedianti che vanno intorno per buscarsi il pane. Poveri diavoli morti di fame
-. […]
La folla cominciò a diradarsi. Alcuni andarono a casa a contar la notizia […]. Qualcheduno, più ostinato,
ritornò verso il Prato della Fiera. Quei poveri diavoli di comici, che si tiravano dietro la loro casa al par della
lumaca, passato il temporale, tornarono a mettere fuori le corna ad uno ad uno, appunto come fa la lumaca. Il
vecchio aveva sciorinato all’uscio un gran cartellone dipinto. La moglie, con un tamburo al collo, chiamava
gente; i ragazzi, camuffati da pagliacci, facevano mille buffonerie, e la giovinetta, colle gambe magre nella
maglie color carne fresca, un fiore di carta nei capelli, il gonnellino più gonfio di una bolla di sapone, le braccia
e le spalle nere fuori dal corpetto di seta stinta, soffiava nella tromba col poco fiato del suo petto scarno. Pure
era una novità pel paese, e i giovinastri correvano a vedere, spingendosi col gomito. Inoltre i comici avevano altri
richiami per il pubblico: un cardellino che dava i numeri del lotto; il ronzino che contava le ore e indovinava gli
anni degli spettatori colla zampa; un ragazzo che camminava sulle mani, portando in giro, stretto fra i denti, il
piattello per raccogliere la buona grazia. Quando si era fatta un po’ di gente, calavano il tendone un’altra volta,
e rientravano tutti a rappresentare la commedia coi burattini, la donna col tamburone al collo, gridando
sempre dalla piattaforma: - Avanti, signori! Avanti, che comincia! -. […]
Nessuno pensava più al castigo di Dio che avevano addosso.
125
u baro drom
Fascino e paura del diverso
[Durante la notte il colera si diffonde e tutti
accusano gli zingari di essere gli untori]
Allora la folla, quasi fosse corsa una parola
d’ordine, si mosse tutta come una fiumana,
gridando e minacciando. […]
Quelli del baraccone stavano facendo cuocere
quattro fave, a ridosso del muricciolo, seduti
sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi,
tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: Dàlli! Dàlli! – e videro la folla inferocita che
correva per sbranarli. – Signori miei! Siamo
poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo
intorno per buscarci il pane! – Il vecchio
annaspava colle mani, per fare intendere le sue
ragioni; la donna copriva i figlioletti colle ali,
come una chioccia; la giovinetta colle braccia in
aria. Arrivò la prima sassata, che fece colare il
sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio
accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si
udivano più forte. – No! No! Non li ammazzate
ancora! Vediamo prima se sono innocenti!
Vediamo prima se portano il colèra! […]
Dove avevano saputo fare le cose per bene era
stato a Miraglia, un paesetto mangiato dal
colera e dalla fame, il giorno in cui s’erano viste
pure lì certe facce nuove per la via dove da un
mese non passava un cane, e la povera gente,
110. Sciallato, Sicilia, inizi del XX sec.
senza pane e senza lavoro, aspettava il colera
colle mani in mano. Anche costoro mostravano di essere dei viandanti rifiniti dal lungo viaggio, come una
famigliola di zingari: l’uomo che si dava per calderaio, la moglie che diceva la buona ventura, la figlia, una bella
bruna, la quale doveva averne fatte molte, così giovane com’era, e portava attaccato al petto cascante un bambino
affamato e macilento. Dei suoi diciotto anni non le erano rimasti che due grandi occhi neri, degli occhi scomunicati
che vi mangiavano vivo. Anch’essi si portavano dietro tutta la loro casa in un carretto sconquassato, coperto da
una tenda a brandelli, che veniva avanti traballando, tirato da un somarello sfinito.Siccome la popolazione si era
commossa al loro apparire, e minacciava, il sindaco accorse anche qui colle guardie, armate sino ai denti,
gridando da lontano: -Via! Via! – come si fa ai lupi. Loro a ripeter la commedia che venivano da lontano, che li
avevano scacciati da ogni dove, che erano affamati, e preferivano li uccidessero a schioppettate. Allora, per non
saper che fare, temendo di accostarsi per paura del colera, li lasciarono lì, fuori del paese, guardati a vista come
bestie pericolose. Nessuno chiuse occhio, quella notte, la vigilia di San Giovanni, che c’era un chiaro di luna
come di giorno. Tutt’a un tratto, coloro che stavano a guardia, nascosti dietro il muro, videro lo zingaro che
s’era avventurato carponi sino alle prime case, razzolando in un mondezzaio. Colà l’uccisero di una schioppettata,
senza dirgli neppure: - guardati! -. Dopo gli trovarono un torsolo di cavolo che ci aveva ancora in pugno, e il petto
della camicia tutto gonfio di bucce e frutta marcia. Al rumore, alle grida che si udivano da lontano, tutto il paese
fu in piedi subito, e la caccia incominciò. La vecchia fu raggiunta all’argine del fossatello, barcollando sulle
gambe stecchite. La giovane dinanzi al carretto, che voleva difendere la sua creatura, come succede anche alle
bestie, con certi occhi che facevano paura, e cercava di afferrare le scuri per aria, colle mani insanguinate.
Dopo, frugando fra i cenci della carretta, si disse che avevano scovato le pillole del colera e ogni cosa. Ma quegli
occhi più d’uno non poté dimenticarli. E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo
colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio.
Però, se erano davvero innocenti, perché la vecchia, che diceva la buona ventura, non aveva previsto come
andava a finire?
126
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Grazia Deledda10
Il tesoro degli Zingari
La notizia del tesoro ritrovato dagli zingari arrivò anche alla piccola
Madlen, che da settimane giaceva malata nella prima tenda del loro
accampamento; e non l’avrebbe distolta troppo dal suo soffrire senza i
particolari misteriosi coi quali la sorella maggiore l’accompagnava.
- Pare sia stata la vecchia a sognarselo. Sentiva come un rumore
d’acqua, sotto la testa, mentre dormiva; e vedeva una grande luce. Allora
hanno scavato, lei e il figlio, e hanno subito trovato un vuoto, perché
pare che qui sotto esistano grotte profonde, dove si nascondevano i
cristiani e vi seppellivano i loro morti. Il tesoro è, dicono, dentro un
vaso di oro: non si sa di preciso in che consista, forse in monete, forse in
diamanti. A guardarci dentro, nel vaso, viene una barbaglio che acceca.
La vecchia piange e ride; pare divenuta matta, mentre quel barbone del
figlio è più nero che mai: non parla con nessuno e non si allontana più
dalla loro tenda.
– Essi sono i padroni – mormorò Madlen, volgendosi verso la parete
di tela. Pareva infastidita; eppure da quel momento il pensiero del tesoro
111. Lettura
le alleggerì il mal di testa e il dolore alle reni che la stroncavano tutta. Il tesoro, infine, apparteneva a tutti;
perché tutto, nella tribù, era della comunità. Dunque apparteneva anche a lei, e lei doveva rallegrarsene, o
almeno interessarsene. Non che le premesse il valore delle cose contenute dal vaso: ma il mistero della cose
stesse, e quella luce che emanavano.
Che cosa sarà? Qualche cosa più fulgida degli zecchini, delle sterline, delle perle false e delle patacche rilucenti
che brillan sui corsetti delle sue parenti e compagne: qualche cosa che non si può fissare, come il sole. Ma il sole
lei era buona a fissarlo, quando stava bene, e dentro il vaso d’oro lei sola, forse, è capace di guardarci a lungo
come dentro un pozzo senza fondo.
Prima che la vecchia e il figlio lo lascino vedere ci vorrà del tempo, però. Loro sono i capi della tribù:
veramente il capo dovrebbe essere il figlio, ma è talmente attaccato e ligio alla madre, che la vera padrona di
tutti è lei. Lei tiene la cassa della comunità, lei impartisce ordini, da lei dipende lo stare in un posto o nell’Altro:
lei presiede ai lavori degli zingari magnani e ramai; infine è lei che adocchia se c’è qualche cosa da prendere nei
dintorni e comanda sia presa, o se la prende lei senza far chiacchiere.
– Adesso possono anche far venire il dottore a visitarmi – pensava Madlen, rivoltandosi con dolore nel suo
giaciglio. – Io sono stanca, stanca, stanca.
E più che stanca si sentiva infinitamente triste: il pensiero che la morte poteva dar fine al suo male non le
passava neppure in mente: la sua mente, anzi, era piena di immagini di vita, e questo continuo imponente
fantasticare accresceva la sua stanchezza.
Dall’apertura della tende intravedeva l’officina primordiale dove gli zingari, coi calzoni di velluto nero e la
camicia gialla o turchina, lavoravano il rame. I bei paioli dalle cupole splendenti, le teglie rotonde che luccicavano
al sole, le padelle fuori d’oro e dentro d’argento, le richiamavano continuamente al pensiero il misterioso vaso
ritrovato dai capi della tribù.
Eccola lì, la vecchia, con le mani sui fianchi, alta e dura come una regina. Dall’ampia sottana pieghettata si
slancia la vita sottile circondata da una cintura di perline: un fazzoletto verde e viola le stringe la testa serpentina,
e dalle orecchie le scendono, coi lunghi pendenti, due treccioline bianche con due uncini in fondo. Anche il viso
pare tinto con la terra gialla e il bistro; gli occhi dorati, il naso, le dita adunche, ricordano un qualche uccello da
preda. Va di qua, va di là, osservando tutto […].
Madlen la segue con uno sguardo fra di ammirazione e di odio. Di lei ha una grande stima, mista a terrore,
perché oltre il resto la sa brava a fare i sortilegi: ma dal giorno della notizia del tesoro sente anche di odiarla.
Il tesoro appartiene a tutti, perché dunque non lo lascia vedere, almeno vedere se non toccare? E perché non
spende una delle monete ritrovate, per chiamare il medico?
– Io sono stanca, stanca, stanca – ripete fra sé Madlen; e chiude gli occhi per sentire meglio la sua infinita
stanchezza. […]
127
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Di solito era la vecchia, che curava i malati; nella sua tenda esisteva un piccolo reparto farmaceutico, e lei
distribuiva continuamente il chinino agli zingari, e preparava unguenti contro le malattie della pelle: per questo
aveva fama di fare stregonerie.
Fu chiamata presso Madlen: il suo solo entrare maestoso e luminoso nella capanna fece bene alla fanciulla. Le
parve che il sole stesso, coi suoi zecchini scintillanti e il rosso il giallo il viola dei suoi raggi guardati ad occhi
socchiusi, si affacciasse all’apertura del suo triste covo. E quando le dita sottili della vecchia, dure e rossastre
come i pampini secchi, le toccarono il polso e le sollevarono le palpebre, rabbrividì tutta.
– Adesso le domando che mi faccia vedere il tesoro. Adesso le dico che è di tutti; che deve farlo vedere a tutti
– pensava con audacia. Ma non osava neppure guardarla in viso ed anzi aveva paura che quella indovinasse i suoi
pensieri.
Dopo aver bevuto un bicchierino d’acquavite offertole dalla madre della piccola malata, la vecchia andò
sull’apertura della tenda e sputò fuori.
– La bimba non ha niente – disse, senza voltarsi. – Piuttosto dovreste metterla un po’ fuori, al sole. Oggi è
davvero una giornata di primavera. […]
Questa cura le giovò meglio che se avessero chiamato il più famoso dei dottori. Già al terzo giorno poté,
sorretta dalla madre, fare qualche passo fino alla siepe dell’accampamento; vide gli orti già tutti fioriti, le
canne che rinascevano, i carciofi che parevano, sugli alti gambi argentei, grandi bocciuoli di rose. Un odore di
giaggioli e di glicine portato dal venticello d’aprile dava l’idea, a Madlen, che una bella signora passasse dietro
la siepe lasciando nell’aria il suo profumo. Era la signora primavera. […]
Stesa sulla pelle dell’orso il cui pelo e l’odore si confondevano con quelli dell’erba, pensava al tesoro della
vecchia e al modo di poterlo vedere.
Oh, ci arriverà certo: fra un anno, fra dieci, quando anche lei avrà venti anni e leggerà la sorte sulla palma
liscia dei bei ragazzi che vengono nell’accampamento per vedere le zingare belle, e sarà furba e forte anche lei,
arriverà a vederlo, il tesoro. E poi è di tutti, è della comunità, e la vecchia dovrà bene tirarlo fuori.
– È di tutti, come il sole – mormorava Madlen; e per farsi un’idea del misterioso splendore che sgorga dal vaso
d’oro, trae lo specchietto rotondo e lo contrappone al sole. Lo specchietto brilla e vuole davvero follemente
parere un piccolo sole. Madlen lo fissa, ma non è soddisfatta: altra luce è quella che splende dentro il vaso d’oro.
Allora dopo essersi divertita a giocare un po’ col sole, agitando lo specchietto e facendone balzare il riverbero
intorno sull’erba e la siepe, pensa che forse il tesoro si vedrà meglio nel sole stesso.
Si butta supina e poiché gli occhi non vogliono stare aperti si tira in su le palpebre con le dita: un grande
barbaglio la investe tutta: le lagrime che le velano gli occhi lo accrescono: le pare di essere sotto una pioggia di
perle, di monete, di gioielli e di stelle. E finalmente ha davvero l’impressione di quello che è il tesoro della
comunità degli uomini tutti, la gioia di vivere.
Elias Canetti 11
Gli zingari (1977)
112. Zingaro
Ogni venerdì arrivavano gli zingari. Il venerdì nelle case ebraiche era dedicato
ai preparativi per il sabato. La casa veniva ripulita da cima a fondo, le ragazzine
bulgare correvano avanti e indietro come razzi, in cucina tutti si davano un
gran daffare e nessuno aveva il tempo di occuparsi di me. Così ero completamente
solo e aspettavo gli zingari, la faccia premuta contro la vetrata che dal grande
salone dava sul giardino. Vivevo in un terrore panico degli zingari. Suppongo
che fossero state le ragazze a raccontarmi di loro nelle lunghe serate che
passavamo al buio sul sofà. Io pensavo che rubassero i bambini ed ero convinto
che avessero messo gli occhi su di me.
Ma nonostante questa tremenda paura, mai mi sarei lasciato sfuggire lo
spettacolo della loro visita, che era davvero splendido. Il cancello veniva
spalancato, perché loro avevano bisogno di spazio. Arrivavano come una vera
tribù, nel mezzo, a testa alta, il patriarca cieco, il bisnonno, mi fu detto, un
bellissimo vecchio dai capelli candidi che camminava molto lentamente sostenuto
a destra e a sinistra da due nipoti adulte, vestite di stracci multicolori. Intorno
a lui, pigiandosi gli uni contro gli altri, zingari di ogni età, pochissimi uomini,
quasi tutte donne e innumerevoli bambini, i più piccini in braccio alle madri,
128
u baro drom
Fascino e paura del diverso
altri che saltavano intorno senza però allontanarsi molto
da quel superbo vegliardo che restava sempre al centro
del gruppo. Il corteo folto e denso com’era aveva
qualcosa di inquietante, tanta gente che avanzava
compatta tutta insieme non l’avevo mai vista da nessuna
parte: ed era davvero lo spettacolo più variopinto che si
potesse osservare in quella città, pur così variopinta. I
pezzi di stracci di cui era fatto il loro vestiario erano
smaglianti di mille colori, ma sopra ogni altro era sempre
il rosso che spiccava. Dalle spalle di molti di loro
pendevano dei sacchi, ed io, guardandoli, non riuscivo a
fare a meno di immaginare che contenessero bambini
rubati.
A me quegli zingari sembravano ancora un’infinità,
113. Gertrude Kasebier,
La strada per Roma, 1903
ma se ora cerco di farmi un’idea del loro numero in base
all’immagine che me ne è rimasta, sono propenso a
credere che non fossero più di trenta o quaranta persone. D’altro canto, tante persone tutte insieme nel nostro
grande cortile non le avevo mai viste, e poiché a causa del vegliardo venivano avanti con grande lentezza, il
cortile rimaneva pieno per un tempo che a me pareva infinitamente lungo. Ma non si fermavano nel cortile,
giravano intorno alla casa fino a raggiungere il cortiletto della cucina in cui era accatastata la legna e poi si
mettevano a sedere.
Io ero solito aspettare il momento in cui comparivano davanti al cancello e, non appena avvistato il vecchio
cieco, mi mettevo a correre urlando con voce stridula “Ziganas! Ziganas!” per tutto il lungo salone e l’ancor più
lungo corridoio che lo collegava con la cucina, nella parte posteriore della casa. Là c’era la mamma che dava
istruzioni su quel che bisognava cucinare per il sabato […]. Ma invece di rimanere accanto a lei, ritornavo
indietro di corsa, gettavo un’occhiata dalla finestra all’avanzare degli zingari, che nel frattempo erano già un
po’ più vicini, e subito andavo a dare la notizia in cucina. Li volevo vedere, ero preso dalla smania di vederli, ma
non appena li avvistavo, subito mi riprendeva la paura che avessero messo gli occhi su di me e urlando me ne
scappavo via. […]
Non appena erano arrivati alla meta, davanti alla cucina, il vecchio si metteva a sedere e gli altri si
raggruppavano intorno a lui; venivano aperti i sacchi e le donne, senza bisticciarsi, prendevano i doni. Dalla
catasta di legna venivano loro offerti grossi ceppi, ai quali parevano tenere in maniera particolare; e il cibo che
ricevevano era vario e abbondante. Avevano la loro parte di tutto quello che stavano preparando in cucina, non
venivano certo nutriti con gli avanzi. Io provavo un gran sollievo quando vedevo che nei sacchi non avevano
bambini e, sotto la protezione della mamma, passavo in mezzo a loro, me li guardavo ben bene, stando attendo
però a non avvicinarmi troppo alle donne che mi volevano accarezzare. Il vecchio cieco mangiava lentamente
dalla sua ciotola, si riposava, se la prendeva comoda. Gli altri invece non toccavano cibo, tutto quello che
ricevevano scompariva nei grandi sacchi, e solo i bambini avevano il permesso di sgranocchiare i dolciumi che gli
erano stati regalati. Io ero stupito di quanto fossero affettuosi con i loro bambini, non avevano per nulla l’aria
di rapitori di bambini. Questo però non serviva a mitigare il terrore che mi incutevano. Dopo un certo tempo,
che mi pareva lunghissimo, si rimettevano in moto […]. Io li stavo a guardare dalla finestra mentre scomparivano
oltre il cancello. Poi correvo un’ultima volta in cucina e annunciavo: “Gli zingari se ne sono andati!”; il nostro
servitore mi prendeva allora per mano, mi conduceva fino al cancello e richiudendolo diceva: “Adesso non
torneranno”: Di solito il cancello rimaneva aperto di giorno, ma in quei venerdì lo si chiudeva, così se un’altra
carovana di zingari arrivava a seguito della prima, capiva che la loro gente era già stata lì, e procedeva oltre.
Carlo Sgorlon12
Calderas (1988)
Il vecchio si chiamava Vissalòm. Era nato in Valacchia13 tanti anni prima, ma non sapeva con precisione quanti
anni fossero. Aveva sempre girato per tutti i territori dell’Impero, dalla Boemia fino dove cominciavano le terre
dei turchi. Adesso aveva un solo pensiero, fuggire lontano, dove la notizia della moria non potesse neppure
arrivare. I cavalli corsero al trotto per ore, e lui cominciò a sentirsi più tranquillo. Vissalòm tendeva ad allargare
sopra tutte le cose il mantello pacato della saggezza. Sapeva che il mondo era pieno di fatti scuri e sconvolgenti,
129
u baro drom
Fascino e paura del diverso
e lui, di fronte ad essi, chinava il capo e li
accettava con tranquillità. Aveva pensato che
certi casi rivelano a prima vista il volere
misterioso di Devèl. 14 Cercare d’intenderli era
come voler entrare nei suoi enigmatici territori,
forzando i cancelli e i confini. No, non era una
cosa per Vissalòm.
I cavalli si misero al passo. La luna illuminava
debolmente la strada. Il bambino dormiva,
rilasciato sullo schienale. Era una cosa anomala
per uno zingaro andare così nella notte perché
le ombre e le tenebre non appartenevano a
Devèl, ma piuttosto a Beng, il suo nemico. Non
si poteva mai sapere cosa contenevano, e di esse
Vissalom diffidava, provando una segreta
ripugnanza. Di notte si era sempre fermato,
114. Otto Pankok, Notte di luna
per accamparsi alla periferia di un villaggio,
staccando i cavalli dal vecchio wurdon scolorito. 15 Ma quella era una notte speciale. Era la notte che veniva
subito dopo la strage assurda e senza spiegazioni. Via, via, il più lontano possibile da quell’evento pauroso.
“Dormi, dormi, bambino. Dormi Sindel (gli aveva detto di chiamarsi così) e dimentica nel sonno tutto quello che
hai visto” pensò. Lui stesso aveva voglia di fermarsi, di entrare nel wurdon e di scivolare nel sonno, o almeno di
riposare. Era combattuto tra il desiderio di accamparsi e quello di allontanarsi il più possibile dal villaggio della
morte…
Fermò i cavalli in mezzo alla campagna. L’aria fresca gli portava alle nari il vago sentore di un acquitrino. I
suoi occhi abituati all’oscurità riuscirono a distinguere due villaggi non lontani, uno di qua e uno di là. Vide
distintamente la chiesa con il campanile a cipolla di lamiera. Sollevò Sindel tra le braccia e lo portò all’interno
del carrozzone, su un giaciglio di paglia pulita e odorosa.
Poi sospirò, scosso da un brivido di malinconia improvvisa. Sarebbe stato in grado lui, anziano e senza donne,
di allevare da solo il bambino? Sua moglie, Runa, era morta da tempo, e i tre figli l’avevano lasciato per andare
a lavorare in un circo. Sarebbe vissuto abbastanza per insegnare a Sindel i mestieri degli zingari e a guidare il
wurdon da solo? Scosse la testa e alzò le spalle. Non voleva pensarci e non gli interessava. Gli parevano problemi
più remoti delle pianure ungheresi o rumene. […]
“Non devi piangere” disse Vissalòm.
“Non lo faccio apposta” fece Sindel
“Gli zingari non piangono mai, neanche quando hanno un grosso motivo per essere tristi. Gli zingari suonano
e ballano. Prova a cantare”.
Vissalòm gli insegnò delle canzoni, nel loro linguaggio che aveva qualcosa di indiano, ma anche di tedesco, di
slavo, di rumeno, anzi di tutti i linguaggi che si parlavano nei territori dell’Impero e in tutti i Balcani. Sindel
qualche filastrocca la sapeva già. E quando Vissalòm gli cantò una melodia conosciuta, lui fece gli occhi
dell’allegria, per il piacere di riconoscere qualcosa che aveva fatto parte del suo mondo prima di Novigora,
quando stava con i suoi.
“Ora suono il mio violino” disse il vecchio. E attaccò con musiche che nascevano da lui, inventate lì per lì,
sonate che avevano qualche rapporto con le canzoni popolari rumene, conosciute in gioventù.
Vissalòm intuiva che così stavano le cose con la musica, ma non sapeva bene perché, e non ci pensava neppure.
Quando suonava tutta la sua persona diventava nient’altro che la fontana delle note che stava inventando. La
musica gli faceva brillare gli occhi. Era una rivelazione che nasceva chissà come, e usciva così vivace dal suo
strumento che chi la sentiva non poteva trattenersi dal battere aritmicamente le mani o i piedi.
Da dove veniva? Vissalòm non lo sapeva. Gli sembrava che non nascesse da lui ma da molto più lontano. Forse
veniva da suo padre, Spiridon, o da suo nonno, Grigore, che suonavano come lui, inventando e inserendo nelle
proprie invenzioni le canzoni popolari di Moldavia, Valacchia e Transilvania. Ma a loro da chi veniva? Forse da
un ignoto spirito folletto, oppure da Devèl…Una cosa era certa, ossia che quando Vissalòm suonava, aveva la
sensazione di non sapere più dove cominciasse e dove finisse la sua persona. Capiva che lui era se stesso, ma era
anche nello stesso tempo tutti gli zingari, di ogni stirpe, che l’avevano preceduto nei secoli. Quella musica non
chagall
49
130
u baro drom
Fascino e paura del diverso
aveva né un prima né un poi. Un attimo avanti che nascesse dalla cassa del suo violino lui non sapeva nemmeno
che andamento avrebbe preso, e un attimo dopo spariva nell’aria e gli pareva di non ricordarla nemmeno. Così
era la musica degli zingari. Soltanto quella dei gagè veniva scritta sui fogli di carta rigata, e i loro musicisti ed
esecutori sapevano rifarla tale e quale. La loro musica aveva una durata e si conservava nel tempo. Ma per gli
zingari era una cosa diversissima. Per loro essa era estro, libertà, improvvisazione.
Era una cosa che correva nella mente e nel sangue, un’ispirazione, uno stato di grazia, come l’amore o il
desiderio di ballare e di cantare. Era un momento in cui si era in contatto con lo spirito del mondo, o con Devèl
stesso. Un momento unico.
Bohumil Hrabal 16
Una solitudine troppo rumorosa (1979)
Cosí lanciammo ancora alcune volte l’aquilone ai cieli, la zingara s’era
fatta coraggio e reggeva i fili e tremava tutta proprio come me, tremava
come tremava anche l’aquilone sotto i colpi del vento, reggeva il filo col
ditolino e gridava per l’entusiasmo... Una volta a sera tornai a casa, la
zingara non mi aspettava, accesi la luce, uscii e riuscii fino al mattino
davanti alla casa, ma la zingara non venne, non venne neanche il giorno
dopo, non venne mai piú. La cercai, ma non la vidi mai piú, la zingara
bambinella piccolina, semplice come un legno non sgrossato, la zingara
come respiro dello Spirito divino, la zingara che non voleva niente piú che
accendere la stufa con la legna che portava sulle spalle, quei pali e tavole
pesanti dei cantieri di demolizione, legni grandi come una croce, davvero
non voleva piú che cucinare gulasch di patate con salame di cavallo,
aggiungere carbone nella stufa e in autunno lanciare l’aquilone ai cieli.
Soltanto dopo venni a sapere che l’aveva presa la Gestapo con gli altri
zingari e l’aveva portata in un lager dal quale non tornò piú, la bruciarono
da qualche parte a Majdanek o Osvètim nei forni crematori. I cieli non
sono umani eppure io quella volta ero ancora umano. Dopo la guerra,
115. Zingare in festa
quando non venne, bruciai nel cortile l’aquilone con tutti i fili, la lunga coda
la cui colombella aveva fatta la zingara piccolina il cui nome ho ormai
dimenticato. Quando finí la guerra, ancora negli anni cinquanta avevo il magazzino pieno di letteratura nazista,
pressavo con enorme gusto, alla luce della leggiadra sonata della mia piccola zingara, quintali di quegli opuscoli e
libretti sempre sullo stesso tema, pressavo centinaia di migliaia di pagine con le fotografie di uomini e donne e
bambini esultanti, vecchi esultanti, operai esultanti, contadini esultanti, SS esultanti, soldati dell’esercito esultanti,
nel tino della mia pressa meccanica gettavo di gusto Hitler e il suo seguito che entrava in Danzica liberata, Hitler che
entrava in Varsavia liberata, Hitler che entrava in Praga liberata, Hitler che entrava in Vienna liberata, Hitler che
entrava in Parigi liberata, Hitler nel suo appartamento privato, Hitler alla festa del raccolto, Hitler col suo fedele
cane lupo, Hitler coi suoi soldati al fronte, Hitler che passava in rassegna il vallo atlantico, Hitler in partenza per le
città conquistate all’Est e all’Ovest, Hitler chino sulle mappe militari, e quanto piú pressavo le donne e gli uomini e
i bambini esultanti, tanto piú pensavo alla mia zingara, che non esultava mai, che non voleva niente altro che
aggiungere carbone nella stufa e cucinare gulasch di patate con salame di cavallo e andare a prendere la birra dalla
brocca grande, non voleva altro che spezzare il pane come l’ostia santa e poi guardare attraverso lo sportellino
aperto della stufa le fiamme e i raggi, lo scoppiettio melodioso del fuoco, il canto del fuoco che lei conosceva
dall’infanzia e che era sacralmente unito con la sua razza, il fuoco la cui luce lascia sotto di sé ogni dolore e evoca in
viso il sorriso malinconico che era il riflesso dell’idea che aveva la zingara della perfetta felicità….
La persecuzione nazista degli Zingari.
Sara Nomberg-Przytyk17
Il piccolo zingaro
I dottori tedeschi venivano di solito verso le dodici. Ispezionavano i malati che erano entrati in ospedale la
matttina e dopo firmavano la cosiddetta Beffkarte, che equivaleva al permesso di rimanere lì per un giorno.
Dopo restavamo sole. Pulivamo e preparavamo il necessario per la sera quando il kommando ritornava dal
lavoro. In quei momenti ci sentivamo un po’ meno tese.
131
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Eravamo sedute in una stanzetta dell’infermeria quando
Marusia gridò: “Achtung!”. Balzammo in piedi e corremmo
dentro. Stavamo sull’attenti quando Mengele entrò con un
piccolo zingaro che avrà potuto avere quattro anni. Il piccolo
era una bellezza. Indossava una sontuosa uniforme bianca
costituita da lunghi pantaloni bianchi dalla riga ben stirata,
una giacca con i bottoni d’oro, una camicia da uomo e una
cravatta. Era chiaro che a Mengele faceva piacere vederci
così incantate. Portò una sedia in mezzo all’infermeria e vi
116. Auschwitz
si sedette, tenendo il piccolo zingaro ben stretto tra le sue
ginocchia. Il bambino capiva il tedesco.
“Mostra loro come balli il kozak”, disse Mengele e iniziò a battere aritmicamente le mani. Il piccolo allora
iniziò a scalciare i talloni pur mantenendo la posizione seduta. Era stupefacente. “ E ora canta una canzone”. Il
picolo cantò un’ammaliante melodia zingara.
Noi continuavamo a stare sull’attenti mentre il bambino si esibiva di fronte a Mengele. Era evidente che a
Mengele piaceva. Se lo palleggiò delicatamente tra le braccia e lo baciò. “Sei stato molto bravo. Ed ecco qualcosa
per l’esibizione”, disse, tirando fuori dalla tasca una scatola di cioccolatini. Poi se ne andarono. Ci guardammo
l’un l’altra senza capire perché Mengele ci avesse portato il bambino, perché mai avesse voluto esibire il suo
talento davanti a noi.
Marusia disse: “Sono sicura che lo ucciderà presto”.
Noi tutte sentimmo un brivido freddo.
Per tutta l’estate Mengele sfilò per il campo con il piccolo zingaro che era sempre vestito di bianco. Anche
quando ci furono le selezioni il piccolo bambino così bello rimase al suo fianco. C’era un campo per le famiglie
di zingari ad Auschwitz nel settore “C”.
C’erano venticinquemila zingari nel campo. I bambini vivevano con le loro famiglie. È difficile dire perché ad
Auschwitz avessero aperto un campo per le famiglie, perché avessero fatto credere loro che gli avrebbero
permesso di sopravvivere alla guerra. Alla fine del 1944 arrivò la fine anche per il campo degli zingari. Non
ricordo la data esatta, comunque la soluzione finale ebbe luogo una sera d’ottobre. La mattina furono prese
tutte le giovani zingare. Mentre venivano radunate per essere portate via, le donne piangevano e gridavano in
maniera straziante. Avevano evidentemente capito che coloro che rimanevano nel campo erano condannati a
morte. Ed era vero. Quella stessa sera si udì il mormorio dei motori. Furono condotti tutti alle camere a gas. In
quella sola notte furono assassinati venticinquemila zingari.
E’ strano, ma in mezzo a tutta quella carneficina noi riuscivamo a chiederci solo una cosa: Mengele aveva
intenzione di salvare quel bambino bellissimo dalla camera a gas?
Ma il giorno dopo egli sfilò per il campo senza il piccolo zingaro. Gli uomini ci dissero che all’ultimo minuto
era stato lo stesso Mengele a gettarlo con le sua mani nella camera a gas.
Sono solo canzonette?
La radio sarà lo strumento che trasformerà radicalmente il ruolo della canzone nel panorama della
cultura del Novecento. Attraverso la radio l’aura della canzone, la cantata classica, si trasforma in prodotto
di massa e diventa canzonetta, proprio perché segna la diffusione popolare di motivi e testi di svago e
disimpegno: il Festival di Sanremo, poi la televisione e gli spettacoli d’intrattenimento, daranno alla canzonetta
il sigillo di paradigma di ogni stagione culturale.
I cantautori spezzeranno il binomio canzonetta/disimpegno, contribuendo, in Italia, in Francia e in
Germania, alla condivisione dell’impegno sociale e della critica agli stereotipi culturali.
Gli Zingari, nella canzonetta, sono entrati con tutto il bagaglio di pregiudizi e stereotipi della tradizione
popolare italiana. Così i primi testi, prevalentemente legati alla tradizione napoletana, parlano di Zingare
ammaliatrici, che leggono il destino e intravedono il futuro di amori infelici o incompresi.
Nun c’è bisogno ‘a zingara / p’andiviná, Cuncè’... / Comme t’ha fatto mámmeta,‘o ssaccio meglio ‘e te!...
(Non c’è bisogno di una zingara per indovinare, Concetta, come ti ha fatto mamma, lo so meglio di te!).
132
u baro drom
Fascino e paura del diverso
A Sanremo nel 1969 Iva Zanicchi presenta una canzone nella quale il /la protagonista si affida alla
Zingara che predice la buona ventura: “Prendi questa mano, / zingara, / dimmi pure che destino avrò
/ parla del mio amore, / io non ho paura / perché / lo so / che ormai / non m’appartiene./ Guarda
nei miei occhi, / zingara / vedi l’oro dei capelli suoi. / Dimmi se ricambia / parte del mio amore, / devi
dirlo / questo / tocca a te. Ma se e’ scritto che / lo perderò, / come neve al sole / si scioglierà / un
amore.”
È dello stesso anno la canzonetta di rottura, che muta il punto di vista: non si parla più di Zingara, ma
di Zingari, del popolo intero. “E quando gli Zingari arrivarono al mare” è di Enzo Jannacci, cantautore,
medico cardiochirurgo milanese di origini mediterranee, che con Giorgio Gaber e Dario Fo ha inaugurato
la grande stagione del Cabaret milanese degli anni Sessanta. Jannacci aveva avuto grande successo di
pubblico nel 1968 con una canzonetta apparentemente disimpegnata (o forse solo ironica) “Vengo anch’io.
No, tu no!”; l’anno dopo presenta al pubblico una canzone che invece fa riflettere sulla vita, la sensibilità
e la cultura degli Zingari:
Enzo Jannacci18
E quando gli zingari arrivarono al mare
Fu quando gli zingari arrivarono al mare che la gente li vide,
che la gente li vide come si presentano loro,
loro, loro gli zingari,
come un gruppo cencioso,
così disuguale e negli occhi,
negli occhi impossibile, impossibile poterli guardare.
E allora gli zingari guardarono il mare
e restettero muti perché subito intesero
che lì non c’era niente, niente da dover capire,
niente da stare a parlare, niente da stare a parlare
c’era solo da stare, fermarsi e ascoltare.
Sì perché il vecchio,
proprio lui, il mare,
parlò a quella gente ridotta, sfinita,
parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi,
di guerra, d’amore, di bene e di male,
non disse
lui li ringraziò solo tutti
di quel loro muto guardare.
E allora lui il vecchio, sì proprio lui, il mare
parlò a quella gente bizzarra, svilita
e diede al suo corpo un colore anormale
di un rosso tremendo,
qualcuno a star male, qualcuno a star male
questo
fu quando gli zingari arrivarono al mare.
117. Gustave le Gray, Il sole allo zenith in Normandia
133
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Altri cantautori presero questa direzione, in Italia: Zingaro/Zingari divenne il paradigma di libertà,
spontaneità, autonomia, anticonformismo, critica sociale.
Umberto Tozzi
Zingaro (1978)
Zingaro voglio vivere come te / andare dove mi pare non come me
e quando trovi uno spiazzo nella città / montare la giostra e il disco di un anno
fa.
Zingaro senti l’ossido di che sa / attento a non ammalarti di civiltà
tua moglie col parrucchiere e’ quel che vuoi / la scuola ti prende i figli e non son
più tuoi.
Zingaro dente d’oro dell’Ungheria / un piatto dei tuoi fagioli che vuoi che sia
la notte io dormo al fuoco se tocca a me / ma zingaro voglio vivere come te.
Abito là ma vengo via / costa un’enormità e poi non c’e’ più poesia
lei su di me pesa di più /di tutta la neve che negli anni avrai visto tu.
Zingaro voglio vivere come te / oh zingaro voglio vivere come te
Zingaro quel seno al lunapark / e quello era il tirassegno degli occhi miei
mia madre diceva zingaro finirai / e adesso che sono zingaro e ha vinto lei.
Sento che va sento che va / delle frittelle il fumo ecco la libertà.
Vento che va vento che va / non sono una Ferrari eppure sento che
amico mio amico dio / dimmi la verità il pazzo sono io
che amo di più che ho i nervi giù.
118. Il violinista
Zingaro voglio vivere come te /oh zingaro voglio vivere come te
Lucio Dalla
Quante notti da ragazzo / m’addormentavo sopra al tetto
e sognavo di andare / m’arrampicavo a dorso nudo
sui cornicioni del collegio / per sentire il vento
un pensiero come un tarlo la mia mente divorava / città e immagini passavano
furbo e bugiardo fin da bambino / non dormivo la notte / per aspettare il mattino
19
Zingaro (2001)
Andare senza meta e vagare / per i paesi e le città
sognare ad occhi aperti anche per ore / così incontrai la musica
per non lasciarla mai / e questa sì che è libertà
Quanti volti scoloriti / quanti giorni spettinati
vivo così senza rimpianti / angeli e demoni
nascosti tra le note / da usare come un Dio / indifferentemente
quante notti ho rubato per le strade e tra la gente / illusioni e sofferenze
vento nel vento / voglio essere io / senza confini e pareti
Andare senza meta e vagare / per i paesi e le città
amare quello che ti porta il cuore / partire e poi tornare
e non fermarsi mai / andare fino al cielo e ritornare
è il gioco dell’amore non finirà mai / andare fino in fondo con amore
e vivere felici anche il dolore che ti dà
Ecco stasera mi piace così /con queste stelle appiccicate al cielo
Francesco De Gregori20
Due zingari (1978)
la lama del coltello nascosta nello stivale / e il tuo sorriso trentadue perle
così disse il ragazzo nella mia vita non ho mai avuto fame / e non ricordo sete di acqua o di vino
134
u baro drom
Fascino e paura del diverso
ho sempre corso libero, felice come un cane.
Tra la campagna e la periferia e chissà da dove venivano i miei / dalla Sicilia o dall’Ungheria
avevano occhi veloci come il vento leggevano la musica / leggevano la musica nel firmamento
Rispose la ragazza ho tredici anni / trentadue perle nella notte
e se potessi ti sposerei per avere dei figli / con le scarpe rotte
girerebbero questa ed altre città / questa ed altre città a costruire giostre e a vagabondare
ma adesso è tardi anche per chiacchierare.
E due zingari stavano appoggiati alla notte / forse mano nella mano e si tenevano negli occhi
aspettavano il sole del giorno dopo / senza guardare niente
sull’autostrada accanto al campo / le macchine passano velocemente
e gli autotreni mangiano chilometri / sicuramente vanno molto lontano
gli autisti si fermano e poi ripartono / dicono c’è nebbia, bisogna andare piano
si lasciano dietro un sogno metropolitano.
Prendi questa mano, zingara dimmi pure che futuro avrò.
Ora che il vento porta in giro le foglie e la pioggia fa fumare i falò.
E c’è uno che dice Guarda! Uno che dice Dove?, uno che dice Chissà.
E c’è acqua che è ferma, acqua che si muove, acqua che se ne va.
Prendi questa mano zingara, leggila fin che vuoi.
Leggila fino all’ultimo, leggila come puoi.
Prendi questa mano zingara, dimmi ancora quanta vita ci va.
Di quanti anni sarà fatto il tempo, e il tempo cosa sembrerà.
Saranno macchine o fili d’erba?
Saranno numeri da ricordare.
Saranno barche da ridipingere,
saranno alberi da piantare.
Prendi questa mano, zingara. Raccontami il buio com’è.
La notte è lunga da attraversare, fammi spazio vicino a te.
I tuoi occhi risplendono nel buio.
La tua bocca e le tue dita parlano.
Il tuo anello rovesciato si illumina.
Alla luce dell’insegna dell’albergo di fronte
i tuoi denti e la tua schiena brillano
mentre i tuoi sensi scintillano, nell’oscurità.
Prendi questa mano, zingara. Fammi posto vicino a te.
La notte è lunga da attraversare, fammi posto vicino a te.
I tuoi occhi sorridono nell’ombra
le tue carte si aprono le nostre mani si mischiano.
E il presente e l’infinito nel buio si confondono,
mentre i tuoi sensi rispondono, nell’immensità.
Francesco De Gregori 21
Prendi questa mano, zingara (1996)
119. Otto Müller,
Le due zingare
Fabrizio De Andrè22
Khorakhanè (A forza di essere vento)
I l cuore rallenta la testa cammina / in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento / a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi / ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto / un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue / per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina / in un buio di giostre in disuso
135
u baro drom
Fascino e paura del diverso
qualche rom si è fermato italiano / come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo / con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano / i segreti che fanno paura
finchè un uomo ti incontra e non si riconosce / e ogni terra si accende e si arrende la pace
i figli cadevano dal calendario /Yugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti / e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di maggio / tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi / e dagli occhi cadere
ora alzatevi spose bambine / che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi / anche oggi si va a caritare
e se questo vuol dire rubare / questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina / ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca / il punto di vista di Dio
Cvava sero po tute / i kerava
jek sano ot mori / i taha jek jak kon kasta
Poserò la testa sulla tua spalla / e farò
un sogno di mare / e domani un fuoco di legna
vasu ti baro nebo / avi ker
kon ovla so mutavia / kon ovla
perché l’aria azzurra / diventi casa
chi sarà a raccontare / chi sarà
ovla kon ascovi / me gava palan ladi
me gava / palan bura ot croiuti
sarà chi rimane / io seguirò questo migrare
seguirò / questa corrente di ali.
120. Otto Müller, Zingare
Wolfdietrich Schnurre23
Ballata degli Zingari (1988)
A mezzogiorno gli zingari non viaggiano. A mezzogiorno c’è in giro Mulo,
lo spirito dei morti. E’ l’ora senza ombre. Il sole è allo Zenit tra Oriente e
Occidente. Ora tutto appartiene ai Mulé: i campi scintillanti e le luccicanti antenne
della televisione, le borchie cromate delle macchine e la venata volta celeste.
Vito va a prendere le patate. Gaspar e Kukas scendono dai loro trattori. I
glutei sono ancora contratti; si stiracchiano lamentandosi. Chrapos protegge
dalla parte del sole le gomme del suo camion con del cartone ondulato.
Ruben mette dell’acqua nel radiatore che sfrigola. C’è sabbia rossa sulle
roulotte, sulle carrozzerie. Le donne la puliscono dai vetri dei finestrini con il
palmo delle mani. Il cane di Mischgas ha catturato una talpa.
Tutte le famiglie del clan fanno un fuoco; ogni famiglia un fuoco per sé.
Fino a quando le patate non sono nere come il carbone di legna e dentro
dolci come il pane bianco, gli uomini parlano. Il loro parlottare è gradevole.
Si sa, dove è il posto di ognuno, lo si ha nell’orecchio. Però Vito oggi lo
dimenticherà. Perché Vito avrebbe parlato volentieri al Mulo, per quanto
davvero terribile possa apparire. Vito lo aspetta da molto. Ma il Mulo da lui
non si fa vedere.
Le donne dicono che di giorno lui abita nel vento. Certo nelle scie di polvere,
che il respiro dell’estate soffia sui campi, non si riesce a distinguere il Mulo.
136
u baro drom
Fascino e paura del diverso
Note:
GARCIA LORCA F., Romancero Gitano, 1928.
Federico Garcia Lorca (1899-1936), poeta e drammaturgo spagnolo, tra i fondatori dell’Associazione degli intellettuali antifascisti
(1936) fu arrestato e fucilato dai franchisti all’inizio della guerra civile. La sua attività si muove nel campo della musica, del teatro, della
poesia, della pittura ed è caratterizzato da una molteplicità di suggestioni e ispirazioni: il canto e la poesia gitana, la tradizione Andalusa,
la tradizione metaforica, il surrealismo, l’impegno sociale. Pubblica Romancero Gitano nel 1928 dove rappresenta il mondo dei Gitani
dell’Andalusia deformandolo in chiave irreale, per trasformarlo nel simbolo della naturalità e della innocenza che sono, per Lorca, il
paradiso della poesia. Amore e morte sono colti nella loro essenzialità e fisicità umana, come ingredienti della vita.
2
LÉVINAS E., Totalità e infinito, Milano, 1980, p. 217-219.
Emmanuel Lévinas è nato a Kaunas, in Lituania, il 12 gennaio del 1905. Ha vissuto la rivoluzione russa in Ucraina. Nel 1923 insieme
alla sua famiglia si trasferisce in Francia a Strasburgo, dove inizia gli studi univeristari. È di questi anni la sua amicizia con Maurice
Blanchot. Nel 1928-1929 va a Friburgo, dove assiste alle ultime lezioni di Husserl e conosce Heidegger. Consegue il dottorato nel 1930,
con la tesi La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl. Partecipa nell’immediato dopoguerra all’avanguardia filosofica francese
con G. Marcel e J. Wahl. In questi anni inizia anche la direzione della Scuola Normale Israelita Orientale e l’amicizia con Henri Nerson
a cui dedicherà il suo primo libro di scritti giudaici, Difficile Liberté (1963). Nel 1957 inizia anche l’attività di lettura e commento del
Talmud ai Colloqui degli intellettuali ebrei francesi. Nel 1961, dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito, inizia l’insegnamento all’Università
di Poitiers, nel 1967 passa all’Università di Paris-Nanterre e dal 1973 alla Sorbonne. Muore il 25 dicembre del 1995.
Tra le altre opere: Dall’esistenza all’esistente (1947); Il tempo e l’altro (1949); Alla scoperta dell’esistenza con Husserl e Heidegger (1949); Quattro
letture talmudiche (1968); Umanismo dell’altro uomo (1972); Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974); Nomi propri (1976); Di Dio che
viene all’idea (1982); Etica e infinito (1982).
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CERVANTES DE M., La zingarella, in Novelle esemplari, Torino 2002, pp. 9-85.
Si è deciso di tradurre, scrivono i curatori, il titolo originale La gitanilla con il termine “zingarella”, perché non andasse perduta la
consuetudine di riferirsi in lingua italiana a questa novella chiamandola La zingarella. In realtà si vuole distinguere, nella presente
traduzione, il termine gitano dal termine zingaro: mentre gli zingari sono una popolazione prettamente nomade proveniente da Oriente,
i gitani, che pare provengano dal medesimo ceppo, si sono fin dall’antichità stabiliti e integrati in Spagna, e sono portatori di un intreccio
culturale ormai antico e specifico.
Miguel de Cervantes (1547-1616), scrittore spagnolo, fu in Italia per sfuggire a una condanna in patria, intraprese la vita militare,
combatté a Lepanto, dove fu ferito, a Navarino, Biserta e Tunisi. Catturato da pirati barbareschi, fu schiavo ad Algeri per cinque anni.
Riscattato e tornato in Spagna negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla scrittura. Scrisse Il fantastico cavaliere Don Chisciotte della Mancia
(1605) e le 12 Novelle esemplari (1613), che vanno dal racconto di aventura, allo studio di caratteri, alla rappresentazione realistica di
ambienti umili.
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Si intende l’arte del furto. Caco era un mostro a tre teste, figlio di Vulcano, che sottrasse alcuni buoi a Ercole il quale, scopertolo, lo
uccise.
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Romances, componimento di origine casigliana a carattere epico e lirico.
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PUŠKIN A., Gli zingari, in Poemi e liriche, versioni, introduzione e note di Tommaso Landolfi, Torino 1982, pp. 195-231. Nasce a Mosca
nel 1799 e muore in duello a S. Pietroburgo nel 1837. È il più importante poeta russo di tutti i tempi. Esponente del movimento
romantico, autore di racconti e poemi in versi, tra cui Evgenij Onegin Eugenio Onegin musicato in seguito da Piotr Ilic Ciakovskij; trascorse
un periodo della sua vita tra gli Zingari.
7
LENAU N., Die drei Zigeuner, in Gedichte, Stuttgart und Augsburg 1857; traduzione italiana di Maria Soresina in Testi originali
e traduzioni Lieder, Milano 1970.
Nikolaus Lenau nasce nel 1802 e muore nel 1850, poeta austriaco dell’epoca del Biedermeier. Nella sua poesia melanconica e
triste costruisce metafore con immagini della natura per rappresentare la condizione umana, fatta di fragilità e di caducità.
8
BAUDELAIRE C., I fiori del male, Milano 1996, p. 47.
9
VERGA G., Quelli del colera (1887), in Tutte le novelle, Milano 1996.
10
DELEDDA G., Il tesoro degli zingari, in Romanzi e novelle, Milano 1994.
Grazia Deledda (1871-1936), scrittrice, autodidatta, autrice di romanzi e racconti, anche romanzi d’appendice, fu premio Nobel per
la letteratura nel 1926. L’ambiente verista e il clima dannunziano hanno caratterizzato la sua produzione narrativa. Opere principali: La
via del male, La giustizia, Elias Portolu, Cenere, I giuochi della vita, L’edera, Chiaroscuro, Canne al vento, La madre, Il segreto dell’uomo solitario, Il
Dio dei viventi, Annalena Bilsini, Il dono di Natale.
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CANETTI E., La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Milano 1980, pp. 25-26.
Elias Canetti nasce nel 1905 in Bulgaria da una famiglia ebraica di origine spagnola. Ebbe come lingue materne l’antico spagnolo parlato
in casa e il bulgaro. Nel 1911 si trasferì con la famiglia a Manchester, dove imparò l’inglese. Viaggiò molto, e, tra il 1913 e il 1916, acquisì
come quarta lingua il tedesco, prediletto dalla madre: lo definirà poi «la lingua salvata», alla quale resterà sempre fedele, anche negli anni
del nazismo e dell’esilio a Londra, dal 1938. Dal 1924 a Vienna, studiò chimica per volere della madre, ma, pur laureandosi, decise di
dedicarsi alla letteratura. Nel 1935 esce il suo primo e unico romanzo, Die Blendung, tradotto in italiano, per volere dello stesso Canetti,
come Auto da fé (1935), incentrato sulla solitudine nella società contemporanea. Vanno segnalati Massa e potere (1960), saggio sulla
psicologia del controllo sociale e l’autobiografia, divisa nei volumi La lingua salvata (1977), Il frutto del fuoco (1980) e Il gioco degli occhi
(1985). Nel 1981 ottiene il premio Nobel per la letteratura. Muore a Zurigo il 14 agosto del 1994.
12
SGORLON C., Il Caldèras, Milano 1988 e 1991, pp. 8-17. Carlo Sgorlon nasce a Cassacco, in Friuli, nel 1930, scrittore e giornalista, ha
raccontato nelle sue opere la vita e i miti di un Friuli arcaico e fiabesco. Tra le sue opere principali ricordiamo: Il trono di legno (1973),
Regina di Saba (1975), L’armata dei fiumi profondi (1985), La fontana di Lorena (1990), Il regno dell’uomo (1994).
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Fascino e paura del diverso
Regione della attuale Romania tra le Alpi Transilvaniche e il fiume Danubio. Il romanzo fa riferimento ai territori dell’Impero
Austroungarico tra il 1914 (vigilia della prima guerra mondiale) e il 1948 (secondo dopoguerra).
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Devèl è la divinità, la forza del bene, cui si oppone Beng, divinità che rappresenta la forza del male.
15
Così gli Zingari chiamano il carrozzone.
16
HRABAL B., Una solitudine troppo rumorosa, Torino 1987, pp. 54-55.
Bohumil Hrabal nasce il 28 marzo1914 a Brno-Zidenice. Scrittore ceco, autore di racconti dalla paradossale ironia, costruiti avvicinando
elementi e linguaggi diversi. Tra le sue opere principali ricordiamo: 1964 L’uragano di novembre; Lezioni di ballo per adulti e perfezionandi;
Vuol vedere Praga d’oro?; 1965 Inserzione per una casa che non voglio più abitare; Ostre sledované vlaky – Treni strettamente sorvegliati; 1968 Leggende
e storie truci ;1970 Boccioli; 1971 Obsluhoval jsem anglického krále - Ho servito il re d’Inghilterra; 1973 Un tenero barbaro; 1976 Tonsura;
1976 Una solitudine troppo rumorosa; 1979 Tristezza per la bellezza; 1981 I club della poesia; Kluby poezie: Prilis hlucná samota - Una solitudine
troppo rumorosa; 1985 Autobiografia [3 voll.]; 1990 Totální strachy - La tendenza alle sbornie e al comunismo; 1991 L’uragano di novembre; Nozze
in casa. Muore a Praga nel 1977.
17
PRZYTYK S., Auschwitz: storie vere da un paese grottesco, cit. in TONG D. (a cura di), Storie e fiabe degli Zingari, Milano 1997, pp. 15-16.
18
JANNACCI E., E quando gli Zingari arrivarono al mare (1969), in La mia gente, 1970.
19
DALLA L., Luna Matana, 2001.
20
DE GREGORI F., De Gregori, 1978.
21
DE GREGORI F., Prendi questa mano, Zingara, da Prendere o lasciare, 1996.
13
DE ANDRÈ F., Khorakhanè, in Anime Salve, 1996. Khorakhanè è tribù Rom di provenienza serbo-montenegrina. 23
SCHNURRE W., Zigeunerballade, Berlin 1988, pp. 7-8. Immagini di Marina Schnurre.
Wolfdietrich Schnurre nasce il 22 agosto 1920 a Francoforte e muore il 9 giugno 1989 a Felde. Trascorre la sua infanzia a Berlino; è
soldato durante la seconda guerra mondiale. Dopo la guerra torna a Berlino, inizialmente nel settore Est della città, dove vive il padre
con cui ha un buon rapporto. Lavora come redattore volontario presso Ullstein e nel 1946, quando i sovietici gli impediscono di
collaborare per un giornale dell’Ovest, si trasferisce nel settore occidentale di Berlino. Dal 1950 è un libero professionista della scrittura,
prima a Berlino e poi a Felde, vicino a Kiel. Co-fondatore della associazione di intellettuali Gruppo 47, ottiene il premio Georg-Büchner
e il premio Fontane. Nel 1962 si dimette da membro del P.E.N.-Club, poiché l’associazione non si era pronunciata apertamente contro
la costruzione del muro di Berlino. I suoi libri per l’infanzia si avvalgono del contributo artistico della moglie Marina.
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Per saperne di più
BAUDELAIRE C., I fiori del male, Milano 1996.
CANETTI E., La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Milano 1980.
CERVANTES DE M., La zingarella, in Novelle esemplari, Torino 2002.
D ELEDDA G., Il tesoro degli zingari, in Romanzi e novelle, Milano 1994
G ARCIA L ORCA F., Romancero Gitano (1928), Milano 1977.
HRABAL B., Una solitudine troppo rumorosa, Torino 1987.
L ÉVINAS E., Totalità e infinito, Milano, 1980.
N ARCISO L., La maschera e il pregiudizio. Storia degli Zingari, Roma 1990.
PUŠKIN A., Poemi e liriche, Torino 1982.
SGORLON C., Il Caldèras, Milano 1988 e 1991.
VAUX DE F OLETIER F., Mille anni di storia degli Zingari, Milano 1990.
VERGA G., Quelli del colera (1887), Tutte le novelle, Milano 1996.
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