8039/01
M. Filippini
M.M. Campanelli
ISBN 978-88-324-8039-9
n 29,00
8039/01
Marco Filippini, Farmacista, Manager in ambito farmaceutico.
Manuela Maria Campanelli, Giornalista.
Cronaca di una legge che ci difende dal dolore
La data del 15 marzo 2010 rimarrà nella memoria di tutti coloro - politici e
clinici - che si sono impegnati affinché il dolore cronico fosse classificato e
trattato come una vera malattia, nonché di tutti i pazienti che hanno visto
tutelato il loro diritto ad essere curati per una patologia che, oltre al fisico,
infierisce sull’anima di chi ne è affetto.
La Legge 38 rappresenta un passo fondamentale in ambito sanitario: riconosce al dolore cronico la dignità di malattia, separa nettamente le cure
palliative dalla terapia del dolore, obbliga i clinici alla cura del dolore ma
anche a un suo attento monitoraggio, inserendo il dolore tra i cinque parametri vitali da valutare quotidianamente. è il raggiungimento di un importante traguardo e, al tempo stesso, il punto di partenza verso un approccio
al dolore cronico del tutto differente. Un grande risultato che va riconosciuto non solo a chi vi ha lavorato in anni recenti, ma anche a tutti gli operatori che, nell’ultimo decennio, hanno gettato le basi di quel cambiamento
culturale senza il quale tutto ciò non si sarebbe potuto ottenere.
Questo volume ripercorre le tappe fondamentali di un lungo cammino,
approfondendo alcune tematiche, ad esempio il pensiero della Chiesa in
materia, affrontando temi delicati come la gestione del dolore in ambito
pediatrico e, infine, chiarendo l’importanza di un trattamento terapeutico
adeguato, sfatando alcuni luoghi comuni come quelli inerenti l’impiego dei
farmaci oppioidi.
Un libro dedicato a tutti i malati di dolore cronico, che possono trovare in
queste pagine una risposta a molte loro domande, ma anche ai politici, per
mettere in luce come il lavorare per un fine comune – il bene del paziente –
porti a riconoscere il valore di quanto costruito da altri, anche se appartenenti a diverse correnti di pensiero.
Un’opera dedicata inoltre a tutti gli operatori del settore, affinché applichino quanto la Legge ha stabilito e continuino questo percorso di cambiamento culturale, e a quanti dedicano la loro vita alla cura degli altri, perché
non si lascino scoraggiare dai momenti cupi, ma trovino sempre la forza di
andare avanti.
de Il Sole 24 ORE Sanità
Marco Filippini - Manuela Maria Campanelli
Cronaca di una legge
che ci difende dal dolore
La Legge 38/10, la più evoluta d’Europa
CRONACA DI UNA LEGGE CHE CI DIFENDE DAL DOLORE
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Marco Filippini - Manuela Maria Campanelli
Cronaca di una legge
che ci difende dal dolore
La Legge 38/10, la più evoluta d’Europa
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Da un’idea di
ISBN 978-88-324-8039-9
© 2011 Il Sole 24 ORE S.p.A.
Sede legale e amministrazione: via Monte Rosa, 91 - 20149 Milano
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Stampa: Grafica Veneta S.p.a., via Malcanton, 2 - 35010 Trebaseleghe (Padova)
Prima edizione: ottobre 2011
Tutti i diritti sono riservati.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15 per
cento di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso
previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633.
Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o
comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano, e-mail
[email protected] e sito web www.aidro.org
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Sommario
Prefazione ...................................................................................pag.XI
di Umberto Veronesi
Introduzione
Che cosa è il dolore? Per molto tempo è stato un
inevitabile sintomo di molte patologie......................................» 1
Il dolore cronico.............................................................................» 2
Il dolore da cancro.........................................................................» 3
Parte prima - PRIMA DELLA LEGGE,
UNA SITUAZIONE DI OGGETTIVO
ARRETRAMENTO
Capitolo 1 – L’inizio della battaglia di “pensiero” ..................» 7
1.1 Quando la terapia del dolore si sovrapponeva
alle cure palliative.............................................................» 7
1.2 I pregiudizi più tenaci da sfatare....................................» 8
1.3 Gli oppiacei e la loro accettazione da parte dei clinici »
9
1.3.1 A livello mondiale......................................................» 9
1.3.2 …e in Italia...............................................................»10
Capitolo 2 – Il 2001: l’anno delle prime svolte culturali.........»11
2.1 Le principali tappe normative su ricette e oppiacei....»11
2.2 L’indagine multicentrica su 4.000 ricoverati:
dati allarmanti...................................................................»12
2.3 Il progetto “Ospedale senza Dolore”.............................»13
2.4.Nel 2003 si fa un triste punto della situazione.............»15
Capitolo 3 – L’indagine Pain in Europe.....................................»17
3.1 L’Italia e il dolore: una situazione anomala rispetto
all’Europa...........................................................................»17
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VI
Sommario
3.2 La ristretta rosa degli analgesici usati nel nostro
Paese
...................................................................................pag.18
3.3 Il Decreto del Ministro della Salute del 4 aprile 2003...»19
Capitolo 4 – La gratuità dei farmaci anti-dolore......................»21
4.1 I nuovi scenari e i fondamenti del Servizio Sanitario
Nazionale...........................................................................»21
4.2 Il Piano Sanitario Nazionale 2003-2005.........................»22
4.3 La terapia del dolore era ancora a carico delle cure
palliative.............................................................................»23
4.4 L’acquisto degli oppiacei viene facilitato......................»25
4.5 L’abbaglio dell’avere le carte in regola..........................»25
4.6 Il paradosso di un mercato insensibile
alla sofferenza....................................................................»26
Capitolo 5 – Il White Paper.........................................................»27
5.1 L’unione fa la forza: l’importante ruolo
di Associazioni, Organizzazioni e Società Scientifiche
europee e internazionali nella lotta al dolore...............»27
5.2 I messaggi del White Paper.............................................»28
5.2.1 Il freno legislativo era dettato dall’inutilità
di molte norme esistenti............................................»28
5.2.2 L’ostacolo culturale era reiterato da vecchi
pregiudizi..................................................................»31
5.2.3 L’antieconomicità del dolore non curato...................»31
5.3 L’invito all’azione di Open Minds..................................»32
Capitolo 6 – Il “Mercato” del dolore in Italia...........................»35
Capitolo 7 – Il dolore oncologico: lo studio EPIC....................»39
7.1 Ma quanto era trascurato il dolore oncologico?...........»39
7.2 La frequenza e la durata del dolore oncologico...........»40
7.3 Il trattamento del dolore oncologico..............................»40
7.4 Il dialogo mancante..........................................................»41
Parte seconda - LA LEGGE 38/10, LA PIÙ EVOLUTA
IN EUROPA PER LA CURA DEL DOLORE
Capitolo 1 – Il contributo di sette ministeri..............................»45
Capitolo 2 – Il trasferimento di alcuni farmaci oppiacei
dalla sezione “A” alla sezione “D” della Tabella II.»51
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Sommario
2.1
2.2
2.3
VII
Le polemiche dei media...................................................pag.52
Il consumo degli oppiacei: primi segnali di crescita....»54
Il ricorso ai FANS era ancora troppo elevato................»55
2.3.1 I risultati dello studio FATA.....................................»56
Capitolo 3 – Il contributo della Chiesa Cattolica.....................»59
3.1 Il messaggio di Papa Giovanni Paolo II sul dolore......»60
3.2 Le parole di Papa Benedetto XVI....................................»63
Capitolo 4 – Il diritto per ogni cittadino di accedere alla cure
palliative e alle terapie antalgiche e il dovere
etico di offrirle.........................................................»65
4.1 Nascita ed evoluzione della legge sul dolore...............»65
4.2 Il gruppo di lavoro e il ruolo centrale del ministro
Ferruccio Fazio..................................................................»66
4.3 I progetti da cui l’iniziativa ha tratto linfa vitale.........»68
4.4 I momenti critici vissuti nel percorso dell’approva zione
....................................................................................»68
Capitolo 5 – L’unicità della legge...............................................»71
5.1 Il dolore cronico deve essere trattato.............................»72
5.1.1 Una fotografia della sofferenza femminile.................»74
5.1.2 Le malattie reumatiche: un terzo dei pazienti
ha dolore continuo.....................................................»76
5.1.3 L’antieconomicità della sofferenza non curata..........»79
5.2 Chi è il fruitore delle cure analgesiche..........................»80
5.3 Il nuovo modello organizzativo per la gestione
del dolore...........................................................................»81
5.3.1 Il superamento delle passate esperienze....................»82
5.3.2 Le definizioni che circoscrivono il progetto...............»84
5.3.3 Il ruolo del medico di Medicina Generale..................»86
5.4 La formazione condivisa.................................................»87
Capitolo 6 – Una rivoluzione copernicana a livello pediatrico » 89
6.1 La tutela del mondo bambino.........................................»89
6.1.1 La prima presa di coscienza istituzionale
del dolore in pediatria................................................»90
6.1.2 La necessità di voltare pagina...................................»91
6.1.3 L’educazione al dolore prima di tutto:
l’obiettivo di formazione del gruppo di lavoro
in pediatria................................................................»92
6.2 Cura del dolore e minori: perché questo binomio.......»94
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VIII
Sommario
6.2.1 Le dimensioni del problema.......................................pag.95
6.2.2 Il ricorso improprio all’ospedale................................»96
6.3 L’esperienza dell’hospice pediatrico di Padova...........»97
6.3.1 Le peculiarità dell’essere bambino.............................»98
6.3.2 I bisogni complessi richiedono risposte
multispecialistiche.....................................................»99
6.4 Un’unica Rete di assistenza in pediatria....................... »101
Capitolo 7 – I risvolti della legge................................................
7.1 La prescrizione degli oppiacei........................................
7.1.1 La dispensazione degli oppiacei: il ruolo
del farmacista............................................................
7.2 La misura del dolore........................................................
7.2.1 Le scale di valutazione...............................................
7.3 L’approccio terapeutico di tipo sequenziale
nell’anziano.......................................................................
7.3.1 Gli oppiacei nell’anziano...........................................
»103
»103
»104
»106
»108
»109
»111
Parte terza - DOPO LA LEGGE
Capitolo 1 – La portata innovativa della legge........................
1.1 Il rapporto annuale della Camera dei Deputati...........
1.2 Un’Italia a due velocità: la regionalizzazione
della sua applicazione......................................................
1.2.1 Lo stato di attuazione della Rete di cure
palliative e della Rete di terapia del dolore................
1.2.1.1 La Rete delle cure palliative..........................
1.2.1.2 La Rete della terapia del dolore.....................
1.3 Un nuovo fermento in pediatria.....................................
1.3.1 La necessità di promuovere più cultura
sui bambini e sul dolore.............................................
1.3.2 I finanziamenti per la pediatria.................................
1.4 Il monitoraggio ministeriale............................................
1.4.1 I DRG specifici per la terapia del dolore....................
»115
»116
»116
»117
»117
»120
»121
»122
»123
»124
»125
Capitolo 2 – I cambiamenti nella pratica clinica:
i primi risultati......................................................... »127
2.1 Gli oppiacei forti e il loro impiego................................. »127
2.2 Gli oppiacei deboli: il loro uso è in aumento
per il dolore cronico.......................................................... »128
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Sommario
IX
Capitolo 3 – Il mercato degli analgesici oppioidi
nel post-legge.......................................................... pag.131
3.1 La fotografia dei consumi degli oppiacei forti
in Italia e in Europa: il dato a sei mesi dalla legge....... »131
3.2 L’impatto della legge sulle prescrizioni e sulle vendite
degli antidolorifici............................................................ »132
3.3 Gli oppioidi in Italia: la loro diffusione è a macchia
di leopardo......................................................................... »134
3.3.1 Il consumo di oppioidi in Italia a un anno
dall’approvazione della legge 38................................ »135
Capitolo 4 – Le nuove esigenze dei farmacisti......................... »141
Capitolo 5 – Le risposte dell’industria.......................................
5.1 L’incongruità tra l’obbligo di cura del dolore e
la pesante burocrazia del mercato italiano....................
5.2 Le molecole antidolore.....................................................
5.2.1 Una nuova formulazione contro il breakthrough
cancer pain...........................................................................
5.2.2 Un’innovativa associazione per controllare
congiuntamente il dolore e la costipazione
da oppiacei.................................................................
»143
Capitolo 6 – La comunicazione della legge..............................
6.1 La Giornata Nazionale del Sollievo...............................
6.2 Una nuova alleanza..........................................................
6.3 Un nuovo sito web dedicato al dolore...........................
6.4 Il progetto Change Pain...................................................
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Prefazione
di Umberto Veronesi1
Un tempo il diritto a non soffrire non era contemplato negli ospedali e,
ancora pochi anni fa, una inchiesta dimostrò che soltanto nel venti per
cento degli ospedali italiani si sapeva trattare il dolore in modo efficace. Personalmente, invece, ho sempre ritenuto che occorresse difendere
il malato dalla sofferenza inutile poiché essa tradirebbe, in una fase
delicata della vita, l’integrità intellettuale e morale dell’uomo. Non vi è
infatti confine allo sforzo di limitare il dolore, alla necessità di privare
i volti dei malati dai segni non solo fisici ma soprattutto psicologici e
spirituali che la malattia può lasciare. Così come non vi è confine che
debba frenare la scienza nell’obiettivo di spostare il fuoco dal “curare”
il dolore a “prendersene cura”, perché seppure esso faccia parte del
naturale ciclo vitale, non deve diventare esperienza mortificante e avvilente per la dignità di ogni creatura umana.
Invece, oggi, la cultura della morte non esiste più, non si comprende o non si vuole comprendere che essa è una scadenza biologica e
rientra nel grande processo della vita al quale tutti apparteniamo.
Oggi il malato, specie se terminale e necessita di cure palliative, è considerato un peso, una presenza scomoda e inutile, neppure buona per
l’epidemiologia e gli ospedali che, per non perdere punti nelle graduatorie d’eccellenza sanitaria, vogliono mantenere basse le cifre della
mortalità. Una concezione che non ho mai approvato, tanto da volere
percorrere in prima persona la strada tribolata delle cure palliative, tra
la disattenzione della società, lo scetticismo di molti medici, e l’arcaica
visione cattolica della sofferenza, con il preciso intento di voler dichiarare guerra al dolore. I primi passi furono ardui e annosi, ma la determinazione di alcune figure dall’alto profilo intellettuale ed umano,
Mario Pirani, un giornalista, e Vittorio Ventafridda, un grande medico,
consentirono di istituire all’interno dell’Istituto Nazionale dei Tumori
Ministro della Salute da aprile 2000 a giugno 2001 e attualmente Direttore Scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, da lui fondato.
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XII
Prefazione
di Milano uno fra i primissimi dipartimenti dedicati a combattere il
dolore e incentivarono l’impegno nel promuovere iniziative legislative
a favore dei malati terminali. Vittorio portò dagli Stati Uniti l’esperienza di una scuola già consolidata con entusiasmo fece nascere quasi dal
nulla la Società Italiana di Cure Palliative, trovando al suo fianco due
preziosi alleati, l’Ingegner Virgilio Floriani e sua moglie che, con la loro
Fondazione, si dedicarono all’assistenza delle persone in fine vita.
Ispirandosi al modello britannico, le cure palliative sono riuscite ad
adattarsi alle diversità culturali e sociali del nostro Paese, crescendo
sul piano della scienza e nelle capacità organizzative. Si è fatta ricerca;
si sono create scuole di formazione; si è testimoniato un nuovo modo
di fare medicina che oggi è entrato nelle università e nei collegi infermieristici; è stata modificata la legislazione sugli oppioidi, consentendone una più facile prescrizione; sono stati stanziati finanziamenti per
creare hospice in ogni Regione, è stato varato il progetto “Ospedale
senza Dolore“ per ridurre la presenza della sofferenza soprattutto nei
malati cornici e sono stati attivati programmi universitari di formazione per medici specializzati in cure palliative.
Un cambiamento culturale resosi necessario e sollecitato anche dalle cifre della sofferenza. Basti pensare che ogni anno in Italia muoiono
di cancro duecentomila malati, ma se si conta anche chi sta loro accanto – familiari, parenti, amici – le persone coinvolte in questo passaggio
estremo sono più di mezzo milione, un esercito di afflitti bisognosi di
aiuto.
Proprio in relazione a questo drammatico e doloroso panorama, si
è ricominciato a parlare della morte, che ha perso la sua aurea di tabù
indicibile, ma ancora oggi si trascura un aspetto fondamentale: assicurare al malato una morte in buone condizioni, sia che essa avvenga a
casa o in ospedale, affinché anche in quest’ultimo passaggio non si perda di vista la persona. Infatti, le cure di fine vita, tra le quali può e deve
rientrare in certi casi anche l’eutanasia, devono essere non solo clinicamente appropriate, ma rispettose del diritto di morire con dignità.
Il senso di queste mie parole è pienamente descritto da Dino Buzzati nel racconto I sette piani, nel quale attraverso la rappresentazione
di alcune stanze definisce in maniera pregnante la condizione umana e
del malato. Quando si è in buona salute, egli scrive, si abita a casa propria e non si avverte il proprio corpo. La prima stanza estranea che un
malato va ad abitare è una camera di passaggio, quella dove si viene
ricoverati per essere operati, oppure sottoposti a cure per una malattia,
una infezione. Questa stanza, dove il malato guarirà, è separata dalla
vita che fuori scorre con quotidiana monotonia da una finestra da cui
egli può vedere il colore del cielo, il sole, le nuvole, una rondine. I me-
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Prefazione
XIII
dici e gli infermieri che lo curano sono valorizzati intellettualmente
e moralmente: grazie a ciò che hanno appreso con lo studio sono in
grado di guarire il malato. Poi c’è una seconda stanza, quella della malattia cronica, dalla quale non si guarirà. Anche questa stanza possiede
una finestra che si affaccia sulla vita, ma l’orizzonte si è ravvicinato, ha
perso profondità. In questa stanza il paziente sarà medicato, potrà di
quando in quando lasciarla, ma poi dovrà tornarvi e farvi dei soggiorni più o meno frequenti; diventerà un pò la sua seconda casa. Infine il
malato può occupare una terza stanza, all’interno della quale la malattia ha vinto. Tutto ciò che si può fare per lui, tutti gli anni che i medici
hanno passato nelle università e tutti gli anni che gli infermieri hanno
trascorso al capezzale dei pazienti non servono più a nulla. Clinicamente, la malattia ha vinto. È in questo momento che la perdita di speranza e la tentazione dell’abbandono, nomi nobili della viltà, possono
impadronirsi del medico. Il malato vive in una stanza in cui c’è ancora
una finestra, da cui può intravedere la vita, ma questa finestra non si
aprirà più. Tuttavia, proprio in questa stanza in cui la malattia ha vinto, il medico e l’infermiere devono riscoprire il loro ruolo millenario,
che è quello di dare sollievo, di consolare, pensando che, se la guerra
contro la malattia è perduta, può essere ancora vinta la battaglia per la
salvaguardia della serenità del malato e della sua dignità.
In questa battaglia contro la malattia, dunque, la lotta al dolore assume una priorità, ma diventa un imperativo etico abbandonare trattamenti ormai inutili. È un fraintendimento pensare che l’abbandono
delle cure mediche a favore delle cure di sollievo o palliative configuri
la cosiddetta “eutanasia passiva”. In realtà si tratta di una restituzione
del malato al naturale processo del morire. Un processo eticamente
doveroso privare il malato di tutte le possibili sofferenze, anche se i
mezzi usati dovessero avvicinare il momento della morte, se questa è
la volontà del paziente. Nel rispetto al diritto di libertà, autodeterminazione e personalità che la malattia ed il dolore non devono alienare.
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Introduzione
Che cosa è il dolore? Per molto tempo è stato un inevitabile sintomo
di molte patologie
Il concetto di dolore si è evoluto negli anni: da realtà riservata soprattutto ai malati terminali, è oggi considerato una “malattia nella malattia”. Da sconosciuto, di cui tutti parlavano senza fare nulla o molto
poco, è diventato un fenomeno che si può controllare e di cui prendersi
cura. Questa esperienza comune tra le persone malate ha caratteristiche altamente personali e individuali. Soprattutto il dolore cronico, che
colpisce il fisico ma anche l’“anima”, spesso difficile da identificare,
nonché persistente nel tempo, generato da più cause e con un forte
impatto a livello psicologico.
Se ci viene chiesto di dare una definizione di dolore, spesso si risponde
spontaneamente che è un campanello d’allarme che mette in guardia
il corpo sulla presenza di stimoli pericolosi, o potenzialmente tali, presenti nell’ambiente o nell’organismo stesso. È infatti vero che di fronte
a un insulto o a un danno a carico di un tessuto, appositi recettori (nocicettori) dedicati a rilevarlo e posti alla periferia, si attivano e trasmettono l’impulso al nostro sistema nervoso centrale: dall’integrazione
di questi vari passaggi scaturisce la sensazione dolorosa percepita dal
paziente. A definire pertanto il dolore come un segnale che fa scattare
un sistema di protezione non si commette un errore, ma si coglie solo
un aspetto di questo sintomo, quello più utile, lo stesso che fa ritrarre
la mano dal fuoco o lanciare un urlo quando ci si taglia. Senza volerlo,
ci si è riferiti al dolore acuto, che ha la funzione di avvisarci quando
sopraggiunge un trauma o una lesione al corpo, che è di solito ben
localizzato e dura alcuni giorni diminuendo via via con la guarigione:
curarlo non è un problema perché le opzioni terapeutiche sono tante
ed efficaci. Ma il dolore non è solo questo. Una definizione più completa l’ha data per la prima volta l’International Association for the Study
of Pain (IASP) nel 1986. Eccola: “un’esperienza sensoriale ed emotivamen-
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Introduzione
te spiacevole associata a un effettivo o potenziale danno tissutale, o descritta
come tale”. In altre parole, è una risposta individuale e soggettiva, nella
quale si integrano fattori fisici, psichici, culturali, ambientali, affettivi
e religiosi, che ne modulano l’entità e le caratteristiche: di fronte allo
stesso stimolo pericoloso per la nostra integrità psico-fisica non rispondiamo, dunque, allo stesso modo.
Il dolore cronico
Accade spesso che il dolore sia duraturo perché lo stimolo dannoso
persiste o perché subentrano fenomeni di automantenimento che lo
fanno percepire nonostante la causa scatenante sia tenuta sotto controllo. È il dolore cronico, definito tale nelle sofferenze che durano più
del previsto e sono correlate a patologie progressive non neoplastiche:
esso si accompagna, infatti, soprattutto a malattie con un andamento
cronico, come per esempio quelle reumatiche, ossee o metaboliche. La
sua durata è imprevedibile e in alcuni casi può estendersi all’intera vita
del paziente. La sua intensità è variabile, anche se solitamente tende ad
aumentare con il passare del tempo. Stabilirne con precisione la causa
scatenante è spesso particolarmente difficile, poiché la sua insorgenza deriva di solito da una concomitanza di fattori. Il dolore cronico
può avere inizio da una malattia o da un trauma, persistere per via
dello stress, di problemi emotivi o cure sbagliate, oppure non essere
riconducibile a nessuna causa nota. Di certo la sua presenza continua
impregna l’esistenza di una persona perché innesca un circolo vizioso:
colpisce infatti il fisico ma anche la psiche promuovendo stati d’animo
negativi, ansia e frustrazione, da cui spesso si originano depressione,
fatica, disturbi del sonno e una riduzione delle facoltà intellettive. Da
sintomo, si trasforma in una vera e propria malattia capace d’influenzare notevolmente la sfera psicologica e sociale, provocando un impatto importante sulla qualità della vita. Il dolore cronico è dunque dolore
fisico ma anche dolore dell’anima. Una persona con un disturbo curabile ma inguaribile è come se fosse due volte malata: deve far fronte
alla sua malattia ma anche a quella nuova fragilità psicologica portata
dal pensiero di non potersi più liberare dalla fonte della propria sofferenza. Ha quindi sia una malattia intrinseca, cioè quella che oggettivamente ha colpito uno dei suoi organi o apparati, sia una malattia
estrinseca, sopraggiunta con la consapevolezza di non poter arrivare a
una definitiva guarigione, che gli dà angoscia, frustrazione e un senso
più precario della vita. Nel momento in cui ha incontrato il “male” fisico ha iniziato a essere anche un paziente cronico e a vivere un doppio
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Introduzione
3
stress: quello dettato dalla scoperta di avere un disturbo che necessita
di cure continue e di controlli puntuali, e quello dovuto alla sofferenza derivata dalla consapevolezza dell’inesorabile perdita della propria
salute. È tuttavia un errore pensare che se la malattia che causa il dolore non si può curare, non può esserlo neppure il dolore. Così come il
trattamento della patologia originaria richiede l’intervento dello specialista, anche quello del dolore necessita dell’intervento dello specialista in terapia del dolore che sappia somministrare farmaci analgesici
appropriati, compresi gli oppiacei, ma anche gestirlo sotto il profilo
psicologico favorendo l’integrazione sociale e, soprattutto, curarlo.
Il dolore da cancro
Esiste inoltre un tipo di dolore che può unire sia quello acuto sia quello
cronico: è il dolore da cancro definito “inutile” perché è fine a se stesso.
Non ha infatti quella valenza di segnale che spinge a promuovere comportamenti diversi per salvarsi da una sofferenza ancora più forte: fa
solo chiudere in se stesso chi lo subisce e allontanare chi lo osserva, rafforzando il cerchio della solitudine. Per questo motivo non deve essere
accettato ma contrastato con qualsiasi mezzo e al più presto: secondo
una regola biologica, infatti, la sofferenza incide un solco nel nostro
cervello e tutte le volte che si ripresenta viene vissuta dalla persona
malata come un drammatico ricordo.
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Parte prima
PRIMA DELLA LEGGE, UNA SITUAZIONE
DI OGGETTIVO ARRETRAMENTO
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L’inizio della battaglia di “pensiero”
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Capitolo 1
L’inizio della battaglia di “pensiero”
La presa di coscienza del dolore passa attraverso le cure palliative indirizzate ai malati terminali, volte a garantire una dignità di fine vita. Avviata
a Milano agli inizi degli anni ’70 per iniziativa di pochi, ha avuto tra i suoi
primi alleati la Fondazione Floriani, la Società Italiana di Cure Palliative, la
European Association for Palliative Care (EAPC), la Federazione Italiana
Cure Palliative e il volontariato: il supporto legislativo e i finanziamenti per
rendere operative le cure palliative e promuoverne la diffusione sono stati
più lenti ad arrivare. La loro storia, complessa e fatta di piccoli progressi
stemperati negli anni, s’intreccia con quella della cura del dolore destinata a
diventare nel tempo una sfida italiana ed europea.
1.1 Quando la terapia del dolore si sovrapponeva alle cure palliative
L’attenzione al dolore ha cominciato a svilupparsi grazie a un ristretto nucleo di medici, infermieri e operatori sanitari provenienti dall’Istituto Nazionale dei Tumori (INT) di Milano, che ha gettato le basi
di un’innovativa medicina capace di trattare le sofferenze fisiche e
psicologiche dei malati di cancro. È da questo privilegiato punto di
osservazione che le cure palliative hanno preso avvio in mezzo a non
poche resistenze politiche e culturali. L’aggettivo “palliativo” con cui
venivano indicate si rifaceva al termine latino pallium, che significa
mantello, per sottolineare l’avvolgente presa in carico, proprio come
un mantello, del dolore del malato con terapie mediche e psicologiche. L’inutilità del dolore da cancro, considerato una sofferenza fine
a se stessa perché priva del ruolo di campanello d’allarme, e la sua
insopportabilità, unite all’elevata incidenza e mortalità della malattia
neoplastica in quegli anni, hanno spinto l’oncologo Umberto Veronesi, a quel tempo direttore generale dell’INT dal 1975, e l’anestesiologo
professor Vittorio Ventafridda, responsabile del Servizio di Terapia
del Dolore e di Cure Palliative e direttore scientifico della Fondazio-
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
ne Floriani, a intraprendere una personale battaglia contro il dolore
neoplastico. Il professor Ventafridda, portando dagli Stati Uniti l’esperienza di una scuola già consolidata sul dolore, fondò nel 1986 la
Società Italiana di Cure Palliative. Dall’impegno di questi due clinici
e con l’aiuto di altri colleghi, venne istituita anche la European Association for Palliative Care volta a diffondere le cure palliative in Europa. Le cure palliative, che racchiudevano in sé il concetto di terapia
del dolore, hanno cominciato a organizzarsi negli anni ’80 con l’aiuto
anche della Fondazione Floriani, nata nel 1977 con il preciso scopo
di diffonderle e applicarle ai pazienti in fase terminale. Sono state
tuttavia recepite dal Governo e prese in considerazione dalle istituzioni solo negli anni ’90, grazie alla spinta delle organizzazioni
non profit e degli stimoli provenienti dalle realtà internazionali più
all’avanguardia della nostra in materia di assistenza. Da allora, l’opinione pubblica ha cominciato a far entrare nel proprio vocabolario
le parole “cure palliative” e a familiarizzare anche con la cura della
sofferenza.
1.2I pregiudizi più tenaci da sfatare
L’idea di indire una vera e propria lotta al dolore è nata, dunque, circa
50 anni fa dalla consapevolezza di alcuni medici illuminati di trovarsi
di fronte a una duplice realtà: essi constatavano da un lato una globale arretratezza di pensiero nel considerare il dolore e dall’altro una
mancata occasione di poterlo alleviare con farmaci oppiacei idonei a
combatterlo. La maggior parte dei malati e dei loro familiari aveva
infatti un atteggiamento di passiva accettazione della sofferenza, interpretata il più delle volte come una punizione o un fenomeno ineluttabile contro cui non bisognava ribellarsi, mentre i medici vivevano
la sua insorgenza come una sconfitta professionale oltre che umana.
Sugli oppiacei gravavano inoltre una serie di pregiudizi, primo tra
tutti quello secondo il quale questi farmaci davano tolleranza, determinavano cioè una sorta di assuefazione dell’organismo al farmaco e
la necessità di aumentare la dose per avere gli stessi benefici, nonché
quello di sviluppare dipendenza, cioè il bisogno di un uso continuo
per evitare crisi d’astinenza da brusca sospensione del farmaco e il desiderio fortissimo di assumerli per ottenere effetti psicotropi. Sebbene
la tolleranza non si sviluppi in modo rapido e si verifichi solo dopo
una somministrazione prolungata nel tempo e la dipendenza sia un
fenomeno raro, questi farmaci rimanevano nell’immaginario collettivo sostanze associate alla criminalità e all’abuso: una reputazione che
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non giovava certo a dar loro un ruolo terapeutico. In più, la maggior
parte dei pazienti e dei medici temeva i suoi effetti collaterali, quali per esempio sonnolenza, stato confusionale e stitichezza. Forte era
pertanto la tendenza a privilegiare i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), come per esempio l’acido acetilsalicilico, che agiscono
a livello periferico dove si origina di solito lo stimolo doloroso: dotati
di attività antinfiammatoria, antipiretica e analgesica erano considerati la terapia di prima scelta per controllare il dolore di intensità lievemoderata.
1.3Gli oppiacei e la loro accettazione da parte dei clinici
1.3.1 A livello mondiale…
Il primo riconoscimento dell’utilità degli oppiacei nel combattere
la sofferenza è arrivato nel 1961, quando i trattati internazionali sul
controllo dei narcotici hanno sottolineato che le politiche nazionali
dovevano riconoscere che gli analgesici oppiacei erano necessari per
contrastare il dolore: un appello che rimase per lo più inascoltato,
dato che molte leggi nazionali ne impedivano ancora l’utilizzazione
pratica. Un ulteriore passo avanti è stato tuttavia compiuto nel 1969,
quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha modificato
ufficialmente la sua posizione sull’uso in clinica della morfina, scagionandola dall’accusa di dare tolleranza e dipendenza fisica. Le porte
erano pertanto aperte per un’altra svolta, avvenuta nel 1986 sempre
a opera dell’OMS, che proponeva per alleviare il dolore da cancro
l’impiego della cosiddetta Scala Analgesica a tre gradini che prevedeva l’uso di tre categorie di farmaci: non oppioidi, oppioidi deboli
per il dolore moderato e oppioidi forti per il dolore moderato-severo.
Questi farmaci venivano usati seguendo un approccio progressivo e
sequenziale: il primo gradino era rappresentato dai farmaci non oppioidi, il cui prototipo erano l’aspirina e il paracetamolo, i quali, se
insufficienti, venivano sostituiti da un oppioide debole per dolori di
media entità come la codeina e il tramadolo. Se anche quest’ultimo
trattamento risultava inefficace, l’oppioide debole veniva sostituito
con un oppioide forte. Essi potevano essere integrati o meno da farmaci adiuvanti in ciascuno dei tre gradini e da terapie non farmacologiche ma fisioterapiche, psicologiche e antalgiche invasive come
infiltrazioni e neuromodulazioni. L’uso di questa strategia terapeutica aveva dato tuttavia i suoi frutti. Come risulta dai dati della letteratura, un controllo soddisfacente del dolore si era ottenuto a livello
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mondiale su oltre il 70% dei casi riportati nelle vecchie casistiche e
su circa il 95% in quelle più recenti (tratto dall’opuscolo “Approccio
globale al dolore cronico”).
1.3.2 …. e in Italia
Fino al 2001 gli oppiacei usati nella terapia del dolore ricadevano nella stessa disciplina degli altri farmaci stupefacenti. Erano pertanto dispensabili utilizzando una speciale ricetta ministeriale, valida per 10
giorni e distribuita dagli Ordini Provinciali dei Medici e Veterinari, che
dava la possibilità di prescrivere una sola preparazione o un dosaggio per la cura di durata non superiore agli 8 giorni. In caso di errori
erano inoltre previste sanzioni penali. Per colpa di questo ricettario
complicatissimo e per l’eccessiva rigidità delle disposizioni normative,
i medici prescrivevano con difficoltà gli oppiacei e con troppa facilità
gli altri farmaci analgesici.
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Capitolo 2
Il 2001: l’anno delle prime svolte culturali
Il 2001 è stato l’anno in cui in Italia si è iniziato a prendere coscienza della
sofferenza dei malati e a ricercare una soluzione che potesse dare loro dignità.
La legislazione sugli oppiacei è stata modificata all’insegna di una più facile prescrizione. Sono stati stanziati finanziamenti per creare hospice in ogni
regione. È stato varato il progetto “Ospedale senza Dolore” per ridurre la
sofferenza soprattutto dei malati di cancro ospedalizzati. Nonostante queste
innovazioni, la prescrizione di farmaci oppiacei nel nostro Paese continuava a
incontrare resistenze da parte dei medici.
2.1Le principali tappe normative su ricette e oppiacei
Nel periodo in cui è stato Ministro della Salute il professor Umberto
Veronesi (aprile 2000-giugno 2001) sono stati approvati diversi provvedimenti. Tra questi la legge n. 12 dell’8 febbraio 2001, contraddistinta da un titolo pieno di speranza: “Norme per agevolare l’impiego
dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”. Messa a punto da
un gruppo ministeriale interno alla Commissione Unica del Farmaco
(CUF) quando erano Ministri della Sanità Rosy Bindi e poi Umberto
Veronesi, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 41 del 19 febbraio
2001, ha di fatto introdotto sostanziali modifiche al D.P.R. n. 309/90
che disciplinava i farmaci stupefacenti. Individuava i farmaci per la
terapia del dolore e li elencava in uno specifico allegato (Allegato IIIbis): essi erano buprenorfina, codeina, diidrocodeina, fentanil, idrocodone, idromorfone, metadone, morfina, ossicodone, ossimorfone.
Successivi decreti e circolari hanno arricchito il testo originario della normativa. Uno di questi, il Decreto del Ministero della Sanità del
24 maggio 2001, ha introdotto nuove regole per la prescrizione dei
farmaci oppiacei indicati e dettato regole per il loro approvvigionamento da parte dei medici. Un’ulteriore agevolazione per i pazienti
è arrivata con la legge n. 405 del 16 novembre 2001, che ha concesso
i farmaci antidolore nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata.
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
Queste disposizioni normative nel loro complesso portavano alle seguenti innovazioni:
– i farmaci oppiacei, elencati nell’Allegato III-bis, potevano essere
consegnati anche dagli operatori sanitari al domicilio del paziente
dietro dichiarazione sottoscritta del medico di Medicina Generale,
di continuità assistenziale od ospedaliera che ne specificava la posologia e l’uso nell’assistenza domiciliare;
– le ricette, sebbene fossero sempre a ricalco, da compilare in duplice
copia per i farmaci non forniti dal SSN e in triplice copia per quelli
forniti dal SSN, permettevano di prescrivere più oppiacei (due preparazioni o dosi invece di una) e di allungare la durata della terapia
da 8 a 30 giorni;
– i medici dovevano tenere un registro delle prestazioni effettuate
con tali farmaci di cui si potevano approvvigionare mediante autoricettazione per uso professionale urgente, una copia della quale
doveva tuttavia essere conservata per due anni;
– i pazienti in dimissione dal ricovero ospedaliero potevano ricevere
direttamente dalla struttura sanitaria i farmaci necessari per il primo ciclo di terapia di 30 giorni in regime di fornitura a carico del
SSN.
2.2L’indagine multicentrica su 4.000 ricoverati: dati allarmanti
Oltre a rendere più accessibili i farmaci oppiacei, vi era la necessità
di abbassare le barriere ideologiche a essi contrarie e di superare il
rifiuto per principio. In altre parole, c’era bisogno di aumentare la sensibilità verso il dolore sia tra gli operatori sanitari che ancora troppo
spesso lo sottovalutavano, sia tra i cittadini fruitori dei servizi sanitari
del Paese che lo consideravano un evento ineluttabile. Negli ospedali
la sua prevalenza (presenza del dolore in un determinato periodo di
valutazione) restava elevata e superava in alcuni casi addirittura il
90% dei ricoverati: il suo controllo non costituiva una priorità ed era
ritenuto secondario rispetto alla malattia primaria da cui era afflitto il
paziente. A sottolineare il bisogno di una maggiore attenzione verso il
dolore nelle corsie, è stato uno studio eseguito in Liguria su oltre 4.000
ricoverati. I risultati, resi noti all’incontro “Forum one dolore” tenutosi a Cernobbio, hanno messo in evidenza come il 50% dei partecipanti alla ricerca avesse sofferto nelle ultime 24 ore di ricovero e il 15%
avesse dichiarato che il proprio dolore non era stato trattato sufficientemente. A questo studio si è aggiunta poco dopo la prima indagine
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multicentrica italiana sul problema dolore realizzata da un gruppo di
20 ospedali che, aderendo alla campagna internazionale “Verso l’Ospedale senza dolore” indetta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si proponeva di conoscere quanti malati avessero la percezione del dolore e quanto gli operatori sanitari sapessero trattarlo.
Con tale scopo era stato fatto compilare un questionario a circa 4.000
pazienti ricoverati di età superiore a 6 anni. I risultati ottenuti erano
stati alquanto preoccupanti: 9 ricoverati su 10 accusavano una qualche forma di dolore e quasi la metà lo avvertiva al limite della propria
sopportabilità. Dolore che arrivava a livelli elevati sia nei reparti medici sia in quelli chirurgici, era sopportato meglio dalle donne rispetto
agli uomini, raggiungeva la sua massima intensità prima dei 14 anni
e dopo i 75 anni e nel 15% dei ricoverati persisteva per più di 3 mesi.
Il dolore percepito dai pazienti non era tuttavia riconosciuto correttamente dalla maggior parte degli operatori sanitari. Meno di un terzo
dei ricoverati riceveva infatti una cura contro il dolore. Nonostante il
90% dei malati soffrisse di un dolore risolvibile, solo il 28% dei casi
era trattato con oppiacei, in particolare con la morfina. Solamente nel
6,2% dei partecipanti all’indagine il dolore era controllato con analgesici somministrati a orario fisso, oltre che su richiesta del malato, vale
a dire con modalità semplice e meglio rispondente alle esigenze del
singolo paziente.
2.3Il progetto “Ospedale senza Dolore”
È da questa realtà che il Ministero della Salute ha preso spunto per istituire, con il decreto del 20 settembre 2000, una Commissione di Studio
per elaborare le Linee Guida inerenti al progetto “Ospedale senza Dolore”, che si proponeva di promuovere un cambiamento di mentalità.
Varato il 24 maggio 2001 con un accordo sancito tra il Ministero della
Sanità, le Regioni e le province autonome, tale progetto aveva lo scopo
di prendersi cura del dolore e della sofferenza modificando attitudini
e comportamenti. Le Linee Guida, ispirate ad analoghi progetti internazionali e istituzionalizzati di altri Paesi europei, erano state approvate dalla Conferenza Stato-Regioni il 29 giugno 2001 e affidate alle
Regioni affinché fossero applicate. Esse dovevano consentire la realizzazione a livello regionale di progetti indirizzati al miglioramento del
processo assistenziale rivolto al dolore, percorrendo le seguenti finalità: coinvolgere il personale predisposto all’assistenza nelle strutture
sanitarie italiane affinché mettesse in atto tutte le misure possibili per
contrastare il dolore di qualsiasi tipo, indipendentemente dalle cause
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
che lo determinavano e dal contesto di cura; fare in modo che il dolore fosse costantemente misurato alla pari degli altri parametri vitali,
quali frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura corporea;
provvedere all’educazione e alla formazione continua del personale di
cura operante nelle strutture sanitarie nonché all’informazione e sensibilizzazione della popolazione. Le Linee Guida avrebbero dovuto
dare indicazioni ai responsabili legali di ciascuna Struttura Sanitaria
di ricovero e cura (Aziende Ospedaliere, IRCCS, Strutture accreditate, Policlinici universitari etc.) per l’istituzione al loro interno di un
Comitato per l’Ospedale Senza Dolore (COSD), formato da referenti
della direzione aziendale, personale curante dell’ospedale tra cui gli
infermieri (almeno un terzo dei membri), operatori delle Strutture di
Terapia del Dolore e/o Cure Palliative nonché di Anestesia e Rianimazione e da un referente del Servizio Farmaceutico. Erano previsti
anche rappresentanti delle Organizzazioni non profit in particolare del
volontariato. Sulla base di linee comuni stabilite a livello nazionale e
regionale, ciascun COSD avrebbe dovuto sviluppare azioni finalizzate
alla diminuzione del dolore dei pazienti ricoverati secondo i seguenti
criteri:
– promuovere un’educazione continua del personale sui principi di
trattamento, sull’uso dei farmaci e sulle modalità di valutazione del
dolore: lo stato delle conoscenze sul dolore del personale curante
andava infatti esaminato, i principali bisogni di formazione individuati e le attività formative programmate;
– creare un osservatorio specifico del dolore nella struttura sanitaria;
– monitorare i livelli di applicazione delle Linee Guida e la valutazione di efficacia: il dolore doveva essere misurato all’inizio del ricovero (misura di base) e durante la degenza ospedaliera mediante
strumenti di facile somministrazione e validati in lingua italiana,
quali righelli, scale analogiche, verbali, a colori; ogni ospedale poteva scegliere quelli ritenuti più adatti. La rilevazione del dolore
doveva essere inserita tra le competenze dell’infermiere, e le sue
caratteristiche e l’evoluzione durante il ricovero riportate nella cartella clinica;
– promuovere l’elaborazione e la distribuzione ai cittadini di materiale informativo relativo alla cura del dolore: materiale illustrativo
doveva essere consegnato al paziente al suo ingresso in reparto e
distribuito nella struttura sanitaria. Cartelloni che riportavano, tra
l’altro, la scala dell’OMS di somministrazione dei farmaci analgesici
dovevano essere per esempio appesi nei punti di passaggio del personale curante come i reparti e gli ambulatori.
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2.4Nel 2003 si fa un triste punto della situazione
A due anni dall’approvazione della legge n. 12, pochi traguardi erano stati tuttavia raggiunti. La prescrizione degli oppiacei era rimasta
pressoché invariata: le confezioni erano passate da 2.850.000 nel 2001 a
3 milioni nel 2002 (da Corriere della Sera). Questi farmaci ricoprivano
una quota di mercato assai modesta, complessivamente inferiore allo
0,3%, e di questa percentuale appena lo 0,06% era riferito alla vendita di oppiacei forti consentiti dalla legge e rimborsati quali morfina,
buprenorfina orale e fentanil TTS. La percentuale rimanente, pari allo
0,24% circa, apparteneva agli oppiacei deboli. Diversi oppiacei erano
ancora in attesa di essere immessi sul mercato italiano. Le aziende farmaceutiche multinazionali erano infatti poco sensibili a commercializzare in Italia, dato lo scarso giro d’affari che muovevano. La situazione
rimaneva ancora a livelli molto arretrati rispetto alla realtà internazionale e le ragioni erano diverse. I ricettari semplificati per la prescrizione degli oppiacei erano arrivati in ritardo alle ASL e la loro distribuzione aveva impiegato un anno per essere completata. La responsabilità
principale era stata della Zecca di Stato, impegnata nella stampa della
moneta europea. Si era dovuto pertanto aspettare marzo 2002 perché il
Poligrafico dello Stato provvedesse a inviare alle Regioni i 200 mila ricettari previsti, integrati con altri 50 mila nei mesi successivi, sufficienti
per i 300 mila medici italiani. Una volta disponibili, pochi medici erano
tuttavia andati a ritirarli, in media il 30%, con oscillazioni che andavano dal 5 al 50% a seconda delle Regioni. Il progetto “Ospedale senza
Dolore” aveva avuto anch’esso uno scarso successo. Nessuna Regione
aveva di fatto emesso delle normative per concretizzarlo e per attuare
le sue Linee Guida. Gli Ospedali senza Dolore istituiti erano il frutto
dell’impegno di pochi medici ospedalieri che avevano convinto le amministrazioni delle proprie strutture a rendere operativa l’iniziativa. Di
fatto, in Italia si contavano pochi Ospedali senza Dolore: c’era dunque
un solco profondo tra i dettami delle leggi e la realtà.
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Capitolo 3
L’indagine Pain in Europe
La più vasta ricerca sul dolore cronico mai realizzata in Europa metteva il
dito nella piaga: nel nostro Paese, la sofferenza cronica teneva in ostaggio il
26% della popolazione e la terapia del dolore era inadeguata in oltre la metà
dei casi. L’indagine evidenziava inoltre un bassissimo consumo pro-capite
di oppiacei maggiori e un minor numero di farmaci disponibili sul mercato
rispetto all’Europa.
3.1L’Italia e il dolore: una situazione anomala rispetto all’Europa
Il dolore era ancora un rilevante problema di salute pubblica in Italia.
In particolare il dolore cronico affliggeva 15 milioni di nostri connazionali. A rivelarlo era stata l’indagine Pain in Europe, condotta dal 2002
al 2003 da NFO WorldGroup e sponsorizzata da Mundipharma International Limited, che aveva dato per la prima volta una dimensione
alla prevalenza della sofferenza cronica in Europa, definito il suo reale impatto sulla vita di tutti i giorni, sull’economia e sulla società, e
indagato sul trattamento a essa riservato. I suoi contenuti erano stati
pubblicati da H Breivik, B Collett, V Ventafridda, R Cohen, D Gallacher
sullo European Journal of Pain (2006, pagg. 287-333). L’indagine aveva
coinvolto 46 mila malati, appartenenti a 15 nazioni europee più Israele, che avevano risposto a un’intervista telefonica computerizzata di
screening: il dolore di origine non oncologica doveva avere una durata
di oltre 6 mesi e un’intensità pari a 5 o più secondo una scala numerica
che andava da zero (corrispondente a nessun dolore) a dieci (corrispondente al massimo dolore). I risultati ottenuti avevano dimostrato come
il nostro Paese non reggesse il confronto con gli altri Paesi europei in
materia di sofferenza. Sebbene il dolore cronico fosse diffuso in tutta
Europa con una prevalenza media del 19%, in Italia colpiva il 26% della
popolazione. Da noi la situazione era particolarmente allarmante: se
in Europa 1 paziente su 5 soffriva di dolore cronico, nel nostro Paese
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
questa proporzione era di 1 a 4. In altre parole, la metà delle nostre famiglie aveva almeno un componente affetto da dolore cronico. Ma chi
erano questi malati? Nel 56% dei casi erano donne di cui il 62% di età
pari o inferiore a 50 anni. A scatenare la sofferenza era l’artrosi/artrite
nel 45% dei casi, seguita dall’ernia del disco (12%), dalle lesioni traumatiche (10%) e dall’artrite reumatoide (8%). Il dolore veniva descritto
come costante nel 32% dei pazienti e più della metà ne soffriva quotidianamente (59%). Anche la sua durata era più lunga: da noi i pazienti
soffrivano di dolore in media 7,7 anni contro una media europea di 7
anni e ben il 46% lo sopportava da più di 10 anni. La sua intensità era
inoltre più elevata: il 43% dei nostri pazienti dichiarava di provare un
dolore intenso contro una media europea del 34%. Per non parlare poi
dell’impatto registrato sulla qualità della vita e delle difficoltà economiche che comportava: il 22% dei nostri “malati di dolore” andava incontro a una forma di depressione e ogni anno ciascuno di loro perdeva
15 giorni di lavoro.
3.2La ristretta rosa degli analgesici usati nel nostro Paese
Il dolore cronico era anche sotto trattato: oltre la metà dei pazienti
italiani non praticava alcuna terapia contro il dolore rispetto al 31%
di quelli europei, mentre il 55% dei nostri connazionali aveva iniziato
e poi interrotto i farmaci prescritti per il dolore rispetto alla media
europea del 26%. In conclusione, in Italia solo il 22% dei malati assumeva regolarmente farmaci prescritti, cioè la metà rispetto al resto
d’Europa che si assestava sul 52%. Ma quali principi attivi venivano loro somministrati? Soprattutto gli antinfiammatori non steroidei
(FANS), prescritti dai nostri medici nel 68% dei casi, rispetto al 44%
dei loro colleghi europei: tra questi il paracetamolo era utilizzato solo
nella proporzione di un terzo (6%) rispetto al consumo medio europeo (18%), mentre gli inibitori della Cox-2 erano prescritti in quantità
leggermente maggiore (7%) rispetto al resto d’Europa (6%). Gli oppiacei deboli erano invece molto meno usati: appena il 9% dei nostri
pazienti li assumeva contro il 18% di quelli europei. In Italia nessuno
riceveva gli oppiacei forti per controllare il dolore cronico, mentre
in Europa venivano usati in media nel 5% dei casi, con realtà che
raggiungevano anche il 10% in Danimarca, Regno Unito e Irlanda.
L’indagine Pain in Europe aveva dunque portato alla luce una situazione alquanto critica: nel nostro Paese i FANS erano sovrautilizzati
e la morfina e i suoi derivati non venivano mai usati per il trattamento del dolore cronico non neoplastico. C’era dunque un larghissimo
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margine da colmare, in cui metodi, trattamenti e modelli efficaci già
esistenti potevano trovare posto per migliorare la vita di un’enorme
quantità di persone.
3.3Il Decreto del Ministro della Salute del 4 aprile 2003
L’Italia si poneva in coda agli altri Paesi europei per il più basso tasso
di prescrizione degli oppiacei registrato: a seguire vi erano solo la Polonia e la Norvegia rispettivamente con il 27% e il 30%. La terapia del
dolore rientrava ancora nelle aree terapeutiche definite “orfane”. Un
ulteriore passo avanti era stato tuttavia fatto con il Decreto del Ministro della Salute del 4 aprile 2003 che aveva facilitato ulteriormente la
loro prescrizione: oltre a introdurre la possibilità di inserire il dosaggio
del medicinale, la posologia e il numero di confezioni utilizzando i
caratteri numerici e le normali abbreviazioni, eliminava l’obbligo di indicare l’indirizzo di residenza del paziente e, per il prescrittore, di conservare per sei mesi la copia della ricetta a sé destinata. Per informare
gli operatori sulle novità introdotte da tale DM, erano state inviate lettere ai medici e la circolare esplicativa “I farmaci analgesici oppiacei nella
terapia del dolore” alle Regioni, alle Federazioni degli Ordini dei Medici,
Veterinari e Farmacisti. Grazie anche a questa iniziativa la terapia del
dolore aveva avuto un incremento del 219,2%: nel 2001 era assicurata
solo in 2 centri su 10, mentre nel 2003 ben 7 strutture su 10 erano dotate
di un servizio dedicato alla terapia del dolore da cancro. Le quantità
prescritte di analgesici oppiacei erano aumentate di +33,2% nel 2003 rispetto al 2002: un incremento attribuito per la maggior parte al fentanil
transdermico (+50,3%) e in maniera più limitata alla morfina (+11,1%).
In una comunicazione della redazione del sito ministerosalute.it del 27
maggio del 2004 si leggeva che “….l’aumentata prescrizione di morfina
era da considerarsi confortante, poiché il suo consumo pro-capite è considerato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità un indicatore primario della qualità della terapia del dolore”.
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Capitolo 4
La gratuità dei farmaci anti-dolore
4.1I nuovi scenari e i fondamenti del Servizio Sanitario Nazionale
Il quadro politico e istituzionale stava cambiando. Le modifiche legislative al titolo V della parte seconda della Costituzione intervenute
nel 2001 e l’approvazione del Disegno di Legge sulla devoluzione con
i conseguenti nuovi poteri attribuiti alle Regioni avevano determinato importanti trasformazioni nella sanità italiana. La missione del Ministero della Salute si era pertanto modificata in modo significativo,
passando da “pianificazione e governo della sanità” a “garanzia della
salute”.
L’accordo Stato-Regioni dell’8 agosto 2001 aveva disegnato un
buon modello di collaborazione tra lo Stato e le Regioni che andava a
costituire un prototipo di ogni futura iniziativa in sanità, in grado di
prevenire i conflitti istituzionali e di garantire ai cittadini una sinergia
tra le istituzioni, preziosa per mettere in pratica il principio di sussidiarietà che si avvale della partecipazione di diversi soggetti alla gestione
dei servizi, ritenuto il fondamento su cui basare le attività d’interesse
pubblico.
La legge costituzionale dedicata alle “Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione”, varata dal Parlamento l’8 marzo 2001 e approvata con referendum confermativo il 7 ottobre 2001, stabiliva i principi che regolavano le nuove competenze dello Stato e delle Regioni in
materia di sanità. Allo Stato spettava in modo esclusivo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ferma restando la tutela della salute che la Repubblica garantisce ai sensi
dell’articolo 32 della Costituzione. In altre parole, lo Stato formulava i
principi fondamentali ma non interveniva su come tali principi e obiettivi sarebbero stati attuati, perché ciò diventava competenza esclusiva
delle Regioni.
Poiché la funzione dello Stato in materia di sanità si era trasformata
passando da quella di organizzatore e gestore dei servizi a quella di ga-
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rante dell’equità sul territorio nazionale, anche i compiti del Ministero
della Salute erano stati rivisitati e ricondotti a:
– garantire a tutti l’equità del sistema, la qualità, l’efficienza e la trasparenza anche con una comunicazione corretta e adeguata;
– evidenziare le diseguaglianze e le iniquità, e promuovere le azioni
correttive e migliorative;
– collaborare con le Regioni a valutare e migliorare le realtà sanitarie;
– tracciare le Linee Guida dell’innovazione e del cambiamento, e
fronteggiare i grandi pericoli che minacciano la salute pubblica.
In questa transizione dalla “sanità” alla “salute”, anche i principi essenziali su cui si fonda il Servizio Sanitario Nazionale erano andati
incontro a un nuovo dettaglio comprendente:
– il diritto alla salute, che nella nuova visione costituiva un obiettivo
prioritario;
– l’equità all’interno del sistema, che coinvolgeva l’accesso ai servizi,
l’appropriatezza e la qualità delle cure;
– la responsabilizzazione dei soggetti coinvolti, fondamentale per
promuovere concreti percorsi di salvaguardia delle garanzie;
– la dignità e il coinvolgimento di tutti i cittadini, un principio imprescindibile che comprendeva anche la considerazione e l’attenzione
per la sofferenza;
– la qualità delle prestazioni, necessaria per raggiungere elevati livelli di efficacia ed efficienza dell’erogazione dell’assistenza e della
promozione alla salute;
– l’integrazione socio-sanitaria;
– lo sviluppo della conoscenza e della ricerca per vincere le sfide derivanti da malattie attualmente non guaribili;
– la sicurezza sanitaria dei cittadini.
Il raggiungimento di tutti questi obiettivi, poiché necessitava della misurazione e della valutazione comparativa dei risultati ottenuti, non
poteva prescindere dalla disponibilità di strumenti di verifica del lavoro svolto e della qualità raggiunta nelle varie realtà.
4.2.Il Piano Sanitario Nazionale 2003-2005
Il mandato del ministro Girolamo Sirchia si inquadra pertanto in un
periodo storico caratterizzato da un’ottica del tutto nuova e il Piano
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La gratuità dei farmaci anti-dolore
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Sanitario da lui firmato, il primo a essere varato in uno scenario sociale e politico radicalmente cambiato, ne era la conferma. La sua impostazione si era infatti trasformata, rispetto ai Piani precedenti, da atto
programmatico per le Regioni in progetto di salute condiviso e attuato
con le Regioni in modo sinergico e interattivo.
Esso si configurava come un documento di indirizzo e di linea culturale più che come un progetto che stabiliva tempi e metodi per il
conseguimento degli obiettivi, in quanto questi aspetti operativi rientravano nei poteri specifici delle Regioni cui il Piano era diretto e con
le quali era stato costruito.
Nello specifico, il Piano Sanitario 2003-2005 si proponeva di perseguire una migliore qualità dell’assistenza, un più razionale ed equo
utilizzo delle risorse, un’omogeneità dei livelli di prestazione e d’interpretazione dei bisogni sanitari. Esso delineava pertanto gli obiettivi da
raggiungere nel rispetto dell’accordo dell’8 agosto 2001 e in coerenza
non solo con i Livelli Essenziali di Assistenza programmati, ma anche
con gli obiettivi di salute dell’Unione Europea e delle altre organizzazioni internazionali quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) e il Consiglio d’Europa: la competenza dell’Unione Europea in
materia di sanità si era rafforzata con il Trattato di Amsterdam entrato
in vigore nel 1999, secondo il quale il Consiglio dell’Unione Europea
poteva adottare provvedimenti per fissare i livelli di qualità e sicurezza per organi e sostanze di origine umana, sangue ed emoderivati, e
misure atte a proteggere la sanità pubblica nei settori veterinario e fitosanitario. I commi secondo e quarto dell’articolo 117 del titolo V della
Costituzione affidavano, tra l’altro, nuove competenze alle Regioni in
materia comunitaria sia nel momento di formazione degli atti normativi comunitari, sia nell’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea.
L’efficacia del Piano Sanitario dipendeva, pertanto, da una produttiva cooperazione tra i diversi livelli di responsabilità volti a trasformare gli obiettivi in progetti e ad attuarli, a investire nella qualificazione
delle risorse umane, ad adottare soluzioni organizzative e gestionali
innovative ed efficaci, ad adeguare gli standard quantitativi e qualitativi e a garantire i Livelli Essenziali di Assistenza su tutto il territorio
nazionale.
4.3La terapia del dolore era ancora a carico delle cure palliative
Nel Piano Sanitario 2003-2005 si parlava di formulare e di offrire un
piano personalizzato di cura e assistenza al paziente terminale in
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modo da garantire la migliore qualità alla sua vita residua. Si era inoltre consapevoli che la fase terminale provocava una sofferenza globale
che andava ben oltre il dolore fisico e psichico avvertito dal paziente, in
quanto coinvolgeva anche il nucleo familiare e quello amicale, e metteva in crisi la rete delle relazioni sociali ed economiche del malato e
dei suoi cari. Si era altresì consci che non era una caratteristica esclusiva dei malati di cancro, ma rappresentava una costante anche tra i
pazienti con malattie respiratorie, cardiocircolatorie, neurologiche e
infettive.
Fino a che punto erano attuate le cure palliative nel nostro Paese?
La maggior parte delle Regioni aveva provveduto a definire la programmazione della rete degli interventi di cure palliative sebbene con
modalità differenti. Molte avevano, per esempio, elaborato programmi
regionali specifici, mentre altre avevano inserito lo sviluppo delle cure
palliative all’interno di un più vasto programma di riorganizzazione
della rete degli interventi domiciliari sanitari, socio-sanitari ed essenziali.
A quell’epoca mancava un modello di intervento di cure palliative flessibile e articolabile in base alle scelte regionali, che garantisse a
tutto il Paese una risposta ottimale ai bisogni della popolazione. Già
si era tuttavia capito che il sistema a rete era il prototipo di assistenza
che dava maggiori possibilità di integrazione tra i differenti modelli
e livelli d’intervento, e tra i diversi e numerosi soggetti professionali
coinvolti.
Al fine di promuovere la diffusione delle cure palliative, era pertanto necessario non solo implementare la rete assistenziale e promuovere l’integrazione nella rete di cure palliative delle Organizzazioni
non profit operanti nel settore attraverso la valorizzazione delle Associazioni di Volontariato, ma anche individuare precise Linee Guida
in materia di terapia antalgica per prevenire gli abusi, orientare il medico nella prescrizione, attivare un sistema di valutazione, realizzare
programmi di comunicazione e sensibilizzazione della popolazione e
sostenere specifici programmi di ricerca.
Prioritaria era tuttavia la revisione di alcuni aspetti normativi riguardanti l’uso di farmaci antidolorifici, migliorando la disponibilità
degli oppiacei, semplificando la prescrizione medica, prolungando il
ciclo di terapia e rendendone possibile l’uso anche a domicilio. Il consumo degli oppiacei in Italia era, infatti, ancora inferiore agli standard
europei per le difficoltà normative del nostro Paese, prive di una netta
distinzione tra uso illecito e uso terapeutico delle droghe.
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La gratuità dei farmaci anti-dolore
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4.4L’acquisto degli oppiacei viene facilitato
Proprio sulla burocrazia allora vigente per l’acquisto degli oppiacei ha
lavorato il ministro Girolamo Sirchia, firmando un provvedimento che
rendeva totalmente rimborsabili i composti e le associazioni di composti contro il dolore spostandoli dalla fascia C, totalmente a carico
dei cittadini, alla fascia A. L’annuncio di questa modifica è stato dato
dallo stesso Ministro durante un incontro organizzato a Milano dalla Fondazione Floriani per la “Quinta Giornata Nazionale contro la
sofferenza inutile della persona inguaribile – Estate di San Martino”.
Nell’occasione di questa ricorrenza sono state consegnate al ministro
Sirchia anche 80 mila firme di cittadini che chiedevano il suo impegno
al progetto “Ospedale senza Dolore” per migliorare le cure domiciliari
ai malati terminali.
Era l’11 novembre 2004 e la gratuità degli analgesici oppiacei sarebbe iniziata a partire dal 2005. I beneficiari dell’iniziativa non sarebbero
stati solo i malati terminali, ma chiunque avesse una malattia che comportasse dolore.
Sebbene il provvedimento allineasse l’Italia agli standard europei,
molte lacune restavano irrisolte, come la scarsa formazione del personale medico sulla terapia del dolore, la creazione di hospice ancora
fermi a 80, la mancanza di un tariffario nazionale per le prestazioni
domiciliari o in hospice.
Per risolvere alcuni di questi aspetti critici, il ministro Sirchia istituì
la prima cattedra di Cure palliative presso la facoltà di Medicina e Chirurgia di Milano, prevedendo anche una formazione medica a distanza
via internet per i medici di Medicina Generale.
4.5L’abbaglio dell’avere le carte in regola
Già alla fine del 2004 vi erano pertanto tutti gli strumenti legali, finanziari e burocratici per facilitare la reale applicazione della terapia del
dolore. Lo stesso ministro Girolamo Sirchia, in una sua lettera riportata sul portale del Ministero della Salute, riteneva che esistessero già le
condizioni procedurali, d’informazione e di rimborso per consentire al
medico di effettuare una cura del dolore acuto e cronico basandosi sulle
conoscenze disponibili e sulle Linee Guida riconosciute a livello internazionale. Le sue considerazioni non erano infondate e l’Ims Mat di luglio
2005, che aveva confrontato l’andamento del mercato nazionale degli
analgesici oppiacei con lo stesso mese dell’anno precedente, sembrava
dargli ragione: le vendite facevano registrare un tasso di crescita del
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18%. Era questo un reale segno ottimistico che doveva far ben sperare in
una maggiore diffusione del consumo di questi farmaci e in un’intensificazione della loro richiesta? A una prima lettura la risposta sarebbe stata
affermativa. Se tuttavia si analizzavano i dati in dettaglio, ci si accorgeva
che la realtà non era così rosea come pareva di primo acchito.
4.6Il paradosso di un mercato insensibile alla sofferenza
È vero. C’era stato un boom di farmaci analgesici ma bisognava saper
leggere i dati…In un mercato farmaceutico nazionale che registrava
una spesa annua di oltre 14 miliardi e mezzo di euro (da Ims Mat luglio
2005), la spesa attribuita agli analgesici oppiacei risultava relegata allo
0,21%, pari a 30,419 milioni di euro. Per di più, in questa percentuale
erano comprese anche le vendite di metadone, prevalentemente utilizzato per la disintossicazione dei tossicodipendenti. La ripartizione
del mercato non deponeva a favore di un incremento degli oppiacei:
dall’analisi quantitativa risultava per esempio che il fentanil TTS rappresentava il 79,8% del mercato totale, la morfina il 12,8%, la buprenorfina il 3,5%, il metadone il 2,3%, l’ossicodone l’1,2% e gli altri lo
0,4% (da Ims Mat luglio 2005). A dimostrazione del fatto che i numeri
sono utili concettualizzazioni che spesso tuttavia non aiutano a comprendere a fondo la realtà, c’erano anche i dati riguardanti la terapia
del dolore emersi dal rapporto Audit civico 2004 curato da Cittadinanzattiva: apprezzando che l’84,2% delle strutture sanitarie dichiarava di
disporre di uno o più servizi di cure palliative o di terapia del dolore,
si perdeva di vista il fatto che solo il 6,2% delle aziende ospedaliere era
in grado di garantire cure palliative per tutti i livelli assistenziali. Allo
stesso modo, considerando quel 37% di ospedali che aveva elaborato
Linee Guida per fornire informazioni sul trattamento del dolore ai pazienti, non si metteva in luce che ben il 31,5% degli ospedali non utilizzava nessun protocollo in materia. Passando poi a soppesare i vari
approcci impiegati per attuare la terapia del dolore, si comprendeva
quanta strada ci fosse ancora da percorrere per gestirla al meglio: il
55% degli italiani la riteneva inadeguata e non assumeva o interrompeva l’uso dei farmaci analgesici prescritti, rispetto a una media europea
del 26%. Solo il 22% dei nostri connazionali assumeva regolarmente
farmaci antidolorifici rispetto a una media europea del 52%, e di questi
il 68% prendeva i FANS contro il 44% del resto degli Europei. In altre
parole, nel nostro Paese si faceva ancora un uso eccessivo di FANS e
un uso limitato di oppiacei che posizionava l’Italia all’ultimo posto per
consumo in Europa.
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Capitolo 5
Il white paper
Questo documento, firmato a livello europeo da François Grosset e introdotto
in Italia dalla senatrice Manuela Baio e dal deputato Alberto Arrighi, ha sottolineato che il diverso accesso agli oppiacei dipendeva dal Paese in cui si viveva.
La causa di questa disomogeneità d’uso risiedeva dunque nelle politiche dei
governi delle singole nazioni.
5.1L’unione fa la forza: l’importante ruolo di Associazioni,
Organizzazioni e Società Scientifiche europee e internazionali
nella lotta al dolore
A cominciare a ridurre quell’attitudine negativa nei riguardi degli oppiacei avevano contribuito non poco importanti organismi internazionali nel settore sanitario. L’International Association for the Study of Pain
(IASP) aveva, per esempio, già riaffermato l’uso appropriato di questi farmaci, mentre la British Pain Society e l’Amsterdam Group avevano
sviluppato direttive sul loro uso ottimale. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS), la European League Against Rheumatism (EULAR),
la European Society for Medical Oncology (ESMO) e la European Association for Palliative Care (EAPC) avevano redatto Linee Guida volte a
dare un’indicazione pratica all’impiego di questa classe farmacologica,
che nel nostro Paese sono rimaste per lungo tempo solo un riferimento
teorico.
Nell’ottobre 2004 era stato inoltre creato lo European Pain Network,
un gruppo di organizzazioni di pazienti di tutta Europa nato con il
preciso scopo di rimuovere o ridurre quelle forze esterne, identificabili in stigma culturali, inadeguati trattamenti e ignoranza della
maggior parte dei medici e politici, che esacerbavano la sofferenza di
quanti soffrivano di dolore cronico. Come si legge nella Dichiarazione di Missione, il suo obiettivo era quello di “rappresentare e sostenere
attivamente le persone colpite da dolore, rilevare le loro necessità e battersi
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per migliorare la loro qualità di vita”. Questo Network aveva tratto la
motivazione a costituirsi dai preoccupanti risultati emersi dall’indagine Pain in Europe che sottolineavano come più di 75 milioni di Europei fossero afflitti da dolore cronico, la metà dei quali da 20 anni o
più: dolore che aveva fatto perdere ogni anno circa 500 giornate di
lavoro costate 34 miliardi di euro. Le similitudini, piuttosto che le diversità tra i vari Paesi in materia di gestione del dolore, e il fatto che
dovunque si abitasse in Europa ci si trovava di fronte all’accettazione
della sofferenza per via dei numerosi ostacoli che si frapponevano
all’accesso alle cure, avevano stimolato la creazione di questo Gruppo. All’identificazione dei problemi esso contrapponeva soluzioni: le
iniziative concrete che avevano dimostrato di funzionare in un Paese
dovevano continuare a funzionare anche negli altri grazie all’unione
delle esperienze maturate nelle singole associazioni nazionali impegnate nella lotta al dolore.
Nello stesso anno, e precisamente l’11 ottobre 2004, l’OMS sosteneva che “il trattamento volto ad alleviare il dolore cronico è un diritto umano”.
5.2I messaggi del White Paper
5.2.1Il freno legislativo era dettato dall’inutilità di molte norme esistenti
In questo scenario in movimento, in cui la parola d’ordine era “cambiare” per lasciarsi alle spalle un retaggio culturale retrogrado e per tendere sempre più verso una fattiva presa di coscienza della sofferenza e
delle sue possibili soluzioni, si era costituito anche Open Minds (Opioids
and Pain European Network of Minds), un gruppo di esperti nella ricerca
e nella clinica del dolore persistente che si proponeva di aiutare tutti
coloro che dovevano affrontare ogni giorno il problema dolore migliorando la conoscenza in materia e cercando di innalzarne gli standard
della gestione in tutta Europa.
Il momento di mettere alla prova la concretezza d’intenti e la capacità d’azione di questa e delle altre organizzazioni era arrivato quando
l’International Narcotics Control Board (INCB), l’unica organizzazione
incaricata di limitare l’abuso globale dei farmaci stupefacenti, aveva
reso noto la sua relazione annuale del 2004 in cui affermava che l’uso
dei narcotici per la cura del dolore era inadeguato. Da tempo l’INCB
cercava di supportare la disponibilità degli oppiacei per uso medico,
compresa la terapia del dolore, prevenendo tuttavia una loro deviazione verso l’uso illecito. Da poco aveva portato il problema del difficile
accesso a questi farmaci all’attenzione della comunità internazionale e
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Il white paper
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precisamente alla World Health Assembly e all’Executive Board dell’OMA
nel 2004. Per questo intento cooperava con l’OMS, che stava preparando una strategia globale contro il dolore volta a dare assistenza ai
vari Paesi in termini di strumenti e informazione sull’impiego clinico
degli oppiacei, e spronava la comunità internazionale ad appoggiare
gli sforzi dell’OMS per assicurare un adeguato trattamento del dolore
a livello mondiale.
A quell’epoca la Francia poteva essere portata ad esempio: nell’arco
di 10 anni aveva raddoppiato la disponibilità degli oppiacei per uso
clinico, grazie all’introduzione di nuovi principi attivi, alla semplificazione del sistema regolatorio e all’adozione di due piani d’azione
programmati per istruire gli operatori sanitari e il pubblico. In Africa
lodevoli progressi erano stati fatti in Uganda: qui le cure palliative erano state riconosciute come un servizio clinico essenziale, la terapia del
dolore era integrata agli altri servizi di salute e la morfina era rimborsata ai pazienti con HIV/AIDS o con tumore; il Governo ugandese aveva decisamente cambiato la sua legislazione sugli oppiacei analgesici e
con appositi corsi aveva formato gli operatori sanitari alla loro gestione. Non era però la norma. La maggior parte dei Paesi aveva una realtà
molto diversa che non permetteva di usufruire pienamente dei vantaggi forniti dagli oppiacei per la cura del dolore. Colpa delle norme e dei
regolamenti inutilmente restrittivi, che sbarravano l’accesso ai principi
attivi adeguati al controllo del dolore e ne perpetuavano una percezione negativa condivisa da medici e da pazienti, e di una mancanza
di opportuni mezzi economici e risorse sufficienti a promuovere una
nuova cultura del dolore. Parole pesanti perché cariche di significato
se si considera che erano state pronunciate dall’INCB, cioè dall’organo
indipendente di monitoraggio dell’implementazione delle convenzioni sul controllo delle droghe emanate dalle Nazioni Unite (definizione
tratta dal sito www.incb.org). Proprio dal dialogo sostenuto permanentemente con i Governi per assisterli nell’espletamento dei loro obblighi
sul controllo delle droghe, l’INCB era giunto alla conclusione che vi era
una congiuntura sbagliata: nel tentativo di limitare il consumo illecito
di oppiacei, i Governi avevano provocato anche un impedimento al
loro uso corretto in particolare nella cura del dolore.
Allo scopo di motivare questa incomprensione esistente tra l’impatto della sofferenza cronica e il ruolo che gli oppiacei forti potevano
svolgere nel suo trattamento e per la necessità di comunicare l’importanza di questi farmaci, Open Minds condusse nel 2004 un’indagine
sulle diverse politiche europee che influivano sull’accesso agli oppiacei forti per curare il dolore cronico. I risultati ottenuti, riportati nel
White Paper - un documento pubblicato con l’aiuto di Mundipharma
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International Limited - sottolineavano come esistessero delle diseguaglianze tra i Governi delle varie nazioni che in materia di oppiacei diversificavano le concrete possibilità dei cittadini di gestire al meglio
il proprio dolore. A rendere più tortuoso il percorso di questi farmaci
fino al paziente, concorrevano fattori legislativi, culturali ed economici
che alimentavano quell’incongruenza esistente tra il devastante impatto che la sofferenza causa nella vita di una persona e la disponibilità di
cure per alleviarlo.
Una prima ragione di questo inadeguato approccio era stata identificata nell’eccessiva severità di alcune norme che regolamentavano la
prescrizione dei farmaci oppiacei: in tutti i Paesi europei questi principi attivi dovevano essere infatti prescritti in modo diverso dagli altri
farmaci. Troppo complessa era la ricetta stessa e troppo rigide erano
le sue modalità di compilazione e di inoltro: il dosaggio consentito
era molto limitato e la sua validità temporale, vale a dire il tempo che
il paziente ha a disposizione per ottenere il trattamento dopo la sua
prescrizione, variava molto da nazione a nazione andando da nessun
limite, come in Belgio e nei Paesi Bassi, ai sette giorni previsti in Germania. Restrittive erano anche le norme che dettavano le regole per la
conservazione, la registrazione e il monitoraggio dei farmaci oppiacei:
in tutte le nazioni europee i documenti relativi alle prescrizioni dovevano essere conservati per un lungo periodo di tempo - in Finlandia
e in Svizzera addirittura per dieci anni - e solo nel Regno Unito e in
Danimarca non vigeva questo obbligo perché le ricette venivano registrate immediatamente dalle autorità.
I medici che dovevano prescrivere si trovavano pertanto a confrontarsi con una pesante burocrazia che allungava in maniera esagerata il
tempo da dedicare a un paziente con dolore cronico. Essi, oltre all’impegno necessario per compilare e registrare le prescrizioni, dovevano
infatti fissare successivi appuntamenti per rinnovare i dosaggi: era naturale che prevalesse l’istinto di indirizzarsi verso farmaci meno efficaci degli oppiacei forti ma senz’altro più facili da prescrivere.
La possibilità di guidare la propria auto non era poi riconosciuta a
tutti i pazienti in terapia costante con oppiacei forti: nei Paesi Bassi e in
Belgio per esempio non era consentita la guida, in Austria, Germania,
Finlandia, Danimarca, Norvegia, Spagna e Svezia era altamente limitata, mentre in Francia, Israele, Regno Unito, Portogallo e Svizzera era
legale. In Italia il quadro normativo in materia è ancora dibattuto e ci si
augura che, a breve, possa essere fatta chiarezza in merito.
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Il white paper
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5.2.2L’ostacolo culturale era reiterato da vecchi pregiudizi
Il White Paper rivelò anche come le normative esistenti in molti Paesi
europei alimentassero ancora una percezione negativa degli oppiacei
forti, considerati droghe che causavano dipendenza, abuso e morte.
In Austria venivano chiamati suchtmittel che significa letteralmente “il
mezzo per rendervi dipendenti”, mentre in Germania erano indicati
con il termine betaubungsmittel che vuol dire “il mezzo per mettervi a
terra”. A poco era valso l’unanime riconoscimento del mondo medico
nei riguardi della loro efficacia. Nell’immaginario comune questi farmaci rimanevano associati al concetto di criminalità. In tutta Europa
aleggiava pertanto un sentimento a essi contrario che continuava a ritenerli principi attivi di cui diffidare e nello stesso tempo da temere.
La paura dei loro effetti collaterali induceva i medici ad avere un comportamento cauto nei loro confronti, e i dubbi e le perplessità suscitati
innescavano nei familiari dei malati una mancanza di fiducia nelle loro
reali potenzialità terapeutiche. I vecchi pregiudizi erano duri da scalzare e continuavano a favorire un clima di incertezza che non giovava
alla loro affermazione.
5.2.3L’antieconomicità del dolore non curato
Il White Paper sottolineò inoltre come curare il dolore cronico fosse meno costoso che non trattarlo. Chi soffre di dolore cronico infatti
molto spesso compromette la propria carriera, perde il posto di lavoro,
ha bisogno di un sostegno, si rivolge spesso al medico; in altre parole,
è di solito una persona che necessita di assistenza, che subisce l’impatto psicologico scatenato dalla propria sofferenza e che si trova nella
condizione di dover spendere del denaro per alleviare il proprio dolore.
In molte nazioni europee gli oppiacei erano a carico del paziente
con dolore cronico: in Polonia, per esempio, veniva rimborsato un solo
oppiaceo forte e per di più solo al 50%, in Norvegia nessun oppiaceo
per il trattamento del dolore veniva rimborsato e in Portogallo gli oppiacei forti per lenire il dolore sia cronico sia da cancro erano rimborsati al 40%. Se il vero costo del dolore cronico era pressoché impossibile
da calcolare, più facile era evidenziare il collage di oneri sociali da esso
provocati. Secondo l’indagine eseguita da Open Minds, le persone affette da dolore cronico:
– si assentavano in media più di 15 giorni di lavoro: l’assenteismo dal
proprio impiego dovuto alla sofferenza costava all’economia europea circa 34 miliardi di euro all’anno;
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– perdevano spesso il lavoro: un lavoratore su 5 non portava più a
casa uno stipendio;
– si sottoponevano a frequenti visite mediche: più della metà dei malati di dolore era stato dal medico tre volte nei precedenti 6 mesi;
– necessitavano di assistenza: il 20% di essi non ce la faceva più a
condurre una vita normale con le proprie forze;
– avevano disturbi dell’umore: al 20% di essi era stata formulata una
diagnosi di depressione dovuta al dolore.
Questi costi sociali erano ancora più significativi se si considerava che
avrebbero potuto non esistere se gli stessi soggetti fossero stati adeguatamente curati dal dolore. Controllando la propria sofferenza, avrebbero potuto infatti tornare a lavorare e contribuire allo sviluppo economico della propria nazione.
5.3L’invito all’azione di Open Minds
Nonostante le leggi più antiquate fossero state superate e nuove norme
varate per cercare di seguire gli ultimi risultati della medicina in materia di oppioidi, rimaneva tuttavia ancora molto da fare. In risposta
alla generale disattenzione che i Governi europei avevano dimostrato
di avere verso l’impatto del dolore cronico, i costi a carico del Servizio
Sanitario Nazionale correlati alla sofferenza sotto trattata, gli ostacoli
legislativi e le false convinzioni ancora esistenti, Open Minds aveva steso un documento che li invitava a:
– rivedere le proprie politiche sull’accesso agli oppiacei forti per la
cura del dolore;
– stabilire come prioritaria l’offerta di un adeguato trattamento del
dolore cronico a tutti i cittadini;
– usare la checklist di autovalutazione, messa a punto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per soppesare il proprio operato sul
controllo dei farmaci ponendosi le seguenti domande:
1. Esisteva nelle politiche nazionali una disposizione sul controllo
dei farmaci che:
• riconoscesse che gli oppiacei erano assolutamente necessari
per alleviare il dolore e la sofferenza?
• stabilisse che era obbligo del Governo garantire la disponibilità agli oppiacei per scopo medico e scientifico, incluso il
sollievo dal dolore e dalla sofferenza?
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Il white paper
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• limitasse il quantitativo di farmaco prescritto ovvero la durata
del trattamento?
2. Esisteva, inoltre, nella politica nazionale una terminologia sul controllo dei farmaci che potesse indurre a confondere l’uso medico
degli oppiacei a scopo antalgico con la dipendenza dal farmaco?
Oltre a riflettere su questi aspetti generali, il Gruppo invitava i Governi
a rivalutare i propri regolamenti che non avrebbero dovuto causare
paure infondate, costi e disagi ai pazienti, ma se mai agevolare l’accesso alla prescrizione dei farmaci oppiacei, fare in modo che la durata
della prescrizione fosse personalizzata sulle esigenze del singolo, riconoscere il diritto delle persone con dolore cronico ad accedere alla
gamma completa di trattamenti disponibili e far sì che il rimborso per
il trattamento del dolore cronico non fosse diverso da quello per il dolore da cancro.
Un altro importante compito dei Governi era quello di combattere
la disinformazione, che ancora circondava gli oppiacei forti, con un’adeguata informazione rivolta ai cittadini, ai malati e alla comunità medica e con una formazione universitaria del personale medico e infermieristico. L’uso degli oppiacei forti non avrebbe dovuto infine essere
una controindicazione alla guida dei veicoli: la decisione di guidare o
meno sotto trattamento spettava al paziente dopo un consulto medico.
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Capitolo 6
Il “mercato” del dolore in Italia
Negli ultimi anni si stava facendo sempre più strada una crescente sensibilità
per la problematica del dolore, che rappresentava un grave carico di sofferenza parzialmente evitabile e un rilevante peso economico per il Servizio
Sanitario Nazionale e per la società. Considerata la diffusione della sofferenza
e il pesante impatto sulla qualità della vita e sull’aggravio economico a carico del servizio sanitario, ben si comprende la necessità di un’attenta analisi
del mercato italiano del dolore che consenta di individuare i percorsi di
cura più seguiti al fine di valutarne l’efficacia e la sostenibilità in termini
economici.
Purtroppo, rispetto agli anni precedenti, il mercato del dolore in Italia
non aveva subito sensibili cambiamenti. Nel nostro Paese la sofferenza continuava a essere combattuta principalmente mediante gli antinfiammatori non steroidei (FANS) e gli inibitori della ciclo-ossigenasi
(Coxib) che rimanevano i farmaci maggiormente prescritti: nel 2006,
infatti, la spesa lorda per l’acquisto di queste due classi di antinfiammatori era stata rispettivamente di 198 e 93 milioni di euro, contro soltanto i 61 milioni di euro spesi per gli oppiacei (senza distinzione tra
deboli e forti).
In Italia si tendeva a sottostimare i possibili rischi legati ai FANS
e ai Coxib, farmaci dagli effetti collaterali anche importanti. Una ricerca condotta tramite intervista telefonica a 1.438 medici di Medicina
Generale e a 5.803 pazienti con dolore cronico in Francia, Germania,
Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Spagna, Svezia, Svizzera aveva messo
in evidenza come, per esempio, in tutti i Paesi coinvolti dalla ricerca
una percentuale di medici compresa tra il 67 e il 94% avesse espresso
preoccupazione sui rischi connessi al trattamento con FANS tranne che
in Italia, dove i medici “preoccupati” risultavano appena il 28%.
Anche le note dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) diramate
dal Ministero della Salute evidenziavano come utilizzando i FANS non
selettivi e i Coxib il rischio di ospedalizzazione per una complicanza
grave e potenzialmente fatale fosse stimato tra l’1 e il 2% per anno,
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
incidenza che aumentava nei soggetti a rischio. L’AIFA aveva inoltre
lanciato un nuovo warning relativo ai prodotti medicinali a base di nimesulide, che avrebbe dato seguito al processo di revisione iniziato
dalla European Medicines Agency (EMA) nel maggio 2007 in seguito alla
segnalazione di un certo numero di casi di epatotossicità grave. In particolare, l’AIFA sottolineava nella nota la necessità d’introdurre delle
limitazioni all’uso del farmaco e di informare medici e pazienti sul rischio di possibili eventi avversi a carico del fegato.
L’Italia rimaneva agli ultimi posti in Europa per il consumo di oppiacei forti, farmaci raccomandati da OMS ed EAPC (European Association for Palliative Care) nel trattamento del dolore moderato-forte
(dati Ims-Midas IQ 2007 Mat incrociati con gli abitanti dei vari Paesi
europei censiti). Nel nostro Paese la spesa media annua pro-capite dei
maggiori oppiacei forti utilizzati nella lotta alla sofferenza, quali morfina, ossicodone, fentanil, idromorfone e buprenorfina, risultava pari
a 0,52 euro. Decisamente diversa era la situazione in Germania e in
Danimarca, dove la spesa annua pro-capite per l’acquisto di oppiacei forti era rispettivamente di 7,25 e di 7,14 euro; nel resto dei Paesi
censiti la spesa media si aggirava intorno ai 3 euro e l’Italia risultava
distaccata rispetto alle realtà europee immediatamente precedenti: in
Olanda la spesa media era di 2,47 euro, in Belgio di 2,38 euro e in
Francia di 2,36 euro.
Secondo dati raccolti e diramati dal Comitato Internazionale per
il Controllo dei Narcotici, un organismo dell’ONU, sei tra i Paesi più
ricchi - e precisamente Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna,
Canada e Austria - consumavano il 79% della morfina mondiale e l’Italia non figurava tra i Paesi più avanzati nella lotta al dolore.
Analizzando il mercato italiano dei principali farmaci nel Mat luglio 2007, colpiva il divario esistente tra quelli più diffusi e il primo
della classe degli oppiacei, riscontrato solo al 214° posto in ordine di
spesa.
Nonostante il dolore cronico fosse molto diffuso nel nostro Paese, il
mercato italiano degli oppiacei forti costituiva solo lo 0,23% della spesa
farmaceutica totale a carico del Servizio Sanitario Nazionale (26,988
milioni di euro su 11.652,987 milioni di euro complessivi, dato a valori
Ims Mat, luglio 2007).
Entrando più nel dettaglio e analizzando il consumo di oppiacei
forti, particolarmente interessante risultava il confronto tra i principali
oppiacei usati nei maggiori Paesi europei che si evinceva da una ricerca condotta dall’EAPC. Nel 2005 l’EAPC aveva infatti proposto alle
Associazioni di cure palliative di 52 Paesi un dettagliato questionario
di indagine che aveva prodotto una sorta di atlante europeo di cure
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Il “mercato” del dolore in Italia
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palliative, l’Atlas of Palliative Care. In Italia l’oppiaceo più utilizzato risultava il fentanil transdermico, seguito da morfina e metadone a scapito dei nuovi oppiacei disponibili sul mercato; nella maggior parte
delle altre realtà europee era invece la morfina orale l’oppiaceo più
prescritto nel rispetto delle Linee Guida. Un ruolo importante veniva
riconosciuto anche all’ossicodone CR, farmaco considerato dall’EAPC
una valida alternativa alla morfina orale.
Esaminando ancora il mercato dei principali oppiacei forti ossicodone CR, morfina CR, ossicodone più paracetamolo, fentanil TTS, buprenorfina transdermica, continuava a emergere il forte utilizzo in Italia di
preparati transdermici a scapito delle formulazioni orali. Mediamente
gli oppiacei orali costituivano solo il 21,86% degli oppiacei forti usati.
La prevalenza di preparati transdermici continuava a disattendere le
raccomandazioni ufficiali di OMS ed EAPC, che consideravano la via
transdermica come un’alternativa qualora la morfina orale non fosse
somministrabile e il dolore fosse stabilizzato, e raccomandavano l’uso
di oppiacei orali definiti agevoli e sicuri.
Particolare rilevanza veniva riconosciuta dalle raccomandazioni
ufficiali all’ossicodone CR, considerato dalle Linee Guida dell’ESMO
2007 come una valida alternativa alla morfina. Per quanto riguarda i
preparati transdermici, le Linee Guida ne relegavano l’uso ai pazienti
con dolore esclusivamente stabilizzato e quindi non in progressione di
malattia, citando per altro solo il fentanil e non menzionando mai la
buprenorfina transdermica. Tale farmaco veniva citato solamente nelle
Linee Guida dell’ESMO 2005 che raccomandavano però di utilizzarlo
con dosaggi iniziali ben al di sotto di quelli attualmente utilizzati.
Occorre osservare che rispetto alla registrazione relativa all’anno
2006 si rilevava un miglioramento nell’attitudine all’uso degli oppiacei
orali, soprattutto nelle regioni che avevano adottato precise Linee Guida o avevano elaborato documenti ufficiali a sostegno di un’adeguata
terapia del dolore. Il consumo medio degli oppiacei orali era cresciuto
infatti, rispetto al 2006, di oltre 3 punti percentuali, con picchi di crescita nelle aree più sensibilizzate.
La Sardegna aveva infatti scelto di dedicare spazio alla terapia del
dolore nel proprio Piano regionale dei Servizi Sanitari e Toscana ed
Emilia-Romagna avevano attivato diverse iniziative volte a migliorare
la lotta al dolore. Tale rilievo risultava particolarmente interessante e
dimostrava in maniera chiara come l’impegno istituzionale risultasse
essenziale nella promozione di un’adeguata cura del dolore. La scelta
di fare proprie le Linee Guida internazionali, razionalizzando l’uso degli oppiacei e riconoscendo la giusta efficacia delle formulazioni orali,
farmaci mediamente meno costosi rispetto ai transdermici, avrebbe
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
condotto inoltre a un’ottimizzazione della spesa e quindi a un risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale. Soprattutto, avrebbe contribuito a migliorare la vita dei pazienti con dolore dal momento che i dati di
letteratura confermavano come l’uso corretto della scala di analgesia
proposta dall’OMS, con l’utilizzo degli oppiacei nel dolore moderatosevero e la preferenza della somministrazione orale, garantisse un soddisfacente controllo del dolore in una percentuale di casi decisamente
elevata, addirittura oltre il 95% secondo i dati più recenti. A vantaggio
dei pazienti e delle loro famiglie, che potevano veder finalmente riconosciuto il diritto a una vita senza dolore.
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Capitolo 7
Il dolore oncologico: lo studio Epic
Mentre le terapie contro il cancro erano progredite velocemente negli ultimi
anni, la gestione del dolore oncologico aveva ancora non pochi traguardi da
raggiungere: non era compresa nei trattamenti che i pazienti ricevevano ed
era lontana dall’essere considerata e supportata dalla comunità medica. La
necessità del controllo del dolore era più che altro sentita nel campo delle
cure palliative: la European Association for Palliative Care (EAPC), nata nel
1988, aveva infatti avuto successo nel promuoverla aumentandone la conoscenza e favorendo la pianificazione di ulteriori ricerche in merito. Il dolore
non godeva tuttavia della stessa considerazione nelle altre aree specialistiche,
come per esempio in oncologia. Per un difetto dei pazienti o della classe medica? A oggi si può dire di entrambi. Molti malati pensavano che il dolore
facesse parte dell’avere il cancro e che il medico curante dovesse concentrarsi
sulla cura del tumore anziché su quella del dolore: spesso di quest’ultimo
non volevano neppure discutere per timore degli effetti collaterali dei farmaci analgesici. Nel contempo, molti medici non sapevano come controllarlo e
non incoraggiavano i propri assistiti a comunicare la loro sofferenza. In altre
parole, il dolore da cancro era poco riconosciuto e la sua gestione affatto integrata tra le cure oncologiche.
7.1 Ma quanto era trascurato il dolore oncologico?
Proprio per avere informazioni precise riguardo all’intensità e alla frequenza del dolore nei pazienti oncologici e all’impatto che esercitava
sulla qualità della vita, nonché riguardo ai trattamenti somministrati
per attenuarlo e a ciò che rimaneva ancora da fare per migliorarne il
controllo, è stata eseguita nel 2007 l’indagine EPIC (European Pain in
Cancer), il più grande studio finora svolto sulla prevalenza, la terapia e
l’impatto del dolore correlato al cancro. Ben 5.084 pazienti di età uguale o maggiore di 18 anni affetti da cancro solido o del midollo osseo
in stadio precoce, localmente avanzato, avanzato o metastatico, provenienti da Israele e da 11 Paesi europei, sono stati contattati ai fini di
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Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento
un’intervista di screening sul proprio dolore oncologico. Di questi, il
56% dei soggetti (2.864) accusava un dolore d’intensità pari o superiore
a 5 – su una scala da 0 a 10 in cui 0 significa completa assenza di dolore
e 10 coincide con il peggior dolore possibile – che sopraggiungeva in
modo ricorrente e con una frequenza di più volte al mese nell’ultimo
mese. Dopo un’accurata selezione i pazienti arruolabili nello studio
sono stati 2.400, di cui 573 scelti a caso per completare un questionario
attitudinale volto a valutare da quanto tempo soffrissero di dolore dovuto al cancro, quanto il dolore influenzasse la qualità di vita e in particolare le attività quotidiane, quali diversi metodi di trattamento del
dolore avessero ricevuto, se per alleviarlo usassero farmaci da banco o
prescritti dal medico o rimedi provenienti dalla medicina alternativa.
Fu inoltre chiesto loro a quale figura professionale attribuissero la responsabilità della gestione del dolore e se fossero stati indirizzati a uno
specialista nella cura del dolore.
7.2La frequenza e la durata del dolore oncologico
I risultati dello studio EPIC hanno sottolineato che i pazienti oncologici soffrivano di un dolore inutile e non trattato: il 94% di essi accusava
un dolore moderato-severo, mentre il 4% lo considerava il peggior dolore possibile. Il dolore attribuito al cancro era dunque più frequente
di quanto si pensasse: un terzo ci conviveva da più di 12 mesi e circa la
metà l’aveva sperimentato almeno una volta al giorno. Esso esercitava
un forte carico emotivo sulla persona, che di fronte a una sofferenza
così grande si sentiva impotente, priva d’aiuto e dipendente dagli altri.
Ma non solo. Il dolore influenzava in modo significativo la qualità della vita: il 37% lo trovava intollerabile e il 33% lo riteneva così impossibile da desiderare di morire. La sua insorgenza impediva di svolgere le
normali attività quotidiane al 69% dei pazienti intervistati, alterava le
relazioni familiari nel 41% dei casi e aveva indotto il 13% dei pazienti
a interrompere il lavoro perché impediva loro di pensare e di concentrarsi.
7.3Il trattamento del dolore oncologico
Il dolore da cancro era dunque spesso trattato in modo inadeguato,
pur essendo disponibili farmaci capaci di controllarlo: gli oppiacei,
infatti, anche se avevano dimostrato di essere efficaci e ben tollerati
nel lungo periodo, erano altamente sotto utilizzati e debolmente sosti-
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Il dolore oncologico: lo studio Epic
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tuiti con altri analgesici. Una buona parte dei partecipanti all’indagine
EPIC, pari al 23%, non riceveva infatti alcuna terapia per lenire il proprio dolore moderato-severo, mentre il 64% di chi assumeva analgesici
prescritti dal medico sosteneva che non sempre la terapia riusciva a
tenerlo sotto controllo. Più della metà degli intervistati avrebbe pagato
qualsiasi cifra pur di avere una terapia contro il dolore che funzionasse. Molti malati di cancro si preoccupavano per le complicanze dovute
ai farmaci analgesici. In particolare temevano la stipsi, che colpiva il
31% di coloro che assumevano una terapia analgesica prescritta dal
medico. Un effetto collaterale, questo, che non veniva gestito al meglio,
dato che al 27% dei pazienti che lo accusavano non venivano prescritti
lassativi. Forse proprio per aggirare questi inconvenienti, il 68% dei
partecipanti allo studio EPIC aveva scelto metodi alternativi per lenire
il proprio dolore: il 14% di essi aveva optato per i massaggi, il 12%
per l’assunzione di vitamine, l’11% per l’agopuntura, ma non mancava
neppure chi si era indirizzato alla fitoterapia, ai gruppi di auto-aiuto,
alle terapie fisiche e alla meditazione.
7.4Il dialogo mancante
Pochi tra i pazienti dello studio avevano tuttavia ricevuto un aiuto specialistico per gestire la propria sofferenza: solo il 3% era stato supportato da uno specialista del dolore, mentre la maggior parte era stata presa in carico dall’oncologo e seguita dal medico di Medicina Generale.
L’anello mancante era spesso la comunicazione tra paziente e medico.
Molti soggetti arruolati nello studio EPIC hanno riferito che il medico
non aveva tempo per discutere del loro dolore; altri, e precisamente
il 25%, hanno sottolineato come il medico curante non si fosse mai, o
raramente, interessato al loro dolore e altri ancora hanno evidenziato
che se il medico aveva domandato del dolore, non lo aveva considerato come un fenomeno in evoluzione e da valutare regolarmente; solo
al 15% dei pazienti era stata misurata l’intensità per mezzo di apposite
scale. I malati di cancro si sentivano pertanto soli nella lotta al dolore:
il 29% di essi sosteneva di non essere compreso dai propri familiari,
il 66% riferiva che gli altri non capivano quanto dolore avvertissero e
un altro 29% non voleva condividerlo con altre persone. I medici, dal
canto loro, sembravano non comprendere che il dolore rappresentava
un problema per i loro assistiti.
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Parte seconda
LA LEGGE 38/10, LA PIÙ EVOLUTA
IN EUROPA PER LA CURA DEL DOLORE
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Il contributo di sette ministeri
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Capitolo 1
Il contributo di sette ministeri
Una legge non si fa dall’oggi al domani. Quella sulle cure palliative e la terapia del dolore non ha fatto eccezione. La sua realizzazione è infatti il frutto di
semi gettati in passato e germogliati nel corso di sette Ministeri che si sono
susseguiti dal 1996 a oggi: una revisione critica del loro operato mette in
evidenza come tutti abbiano dato un contributo alla battaglia contro il dolore. Alcuni hanno messo a punto dei provvedimenti veri e propri, altri hanno
avuto il merito di preparare un terreno fertile e altri ancora hanno lasciato
delle lacune, colmate nelle legislazioni successive, che con il senno di poi si
sono dimostrate anch’esse preziose per non commettere gli errori compiuti in
precedenza. Nel complesso hanno innescato un effetto domino che alle soglie
del 2009 ha messo su una riga tutti i ritardi e tutte le pecche della gestione del
dolore fino ad allora accumulati, dalla disomogeneità dei servizi, allo scarso
coordinamento ospedale-territorio, dalle carenze dell’iter formativo del medico alla resistenza all’uso dei farmaci oppiacei. Da questa globale presa di
coscienza ha preso avvio la realizzazione della legge 38/10.
Era il 1999 quando l’allora ministro Rosy Bindi (giugno 1996-aprile
2000) firmò la prima legge, la 39/99, sulle cure palliative, che stanziava
circa 200 milioni di euro per la realizzazione di 188 centri residenziali – hospice, con una dotazione di 2025 posti letto. Si trattava di una
normativa e del suo decreto attuativo dedicati al mattone, cioè al finanziamento di strutture per l’assistenza palliativa e il supporto di malati
terminali affetti soprattutto da tumore. Essa ha avuto il merito di dare
una doverosa risposta alle problematiche legate alla fase terminale della vita, ma non aveva nessuna valenza nel campo del dolore. Non considerava infatti il dolore acuto, per esempio quello post-operatorio avvertito dall’80% delle persone che subiscono un intervento, e neppure
il dolore cronico che oggi sappiamo colpire ben 15 milioni di italiani affetti, per esempio, da artrite reumatoide, spondilite anchilosante, artropatia psoriasica, connettiviti, artrosi, sindrome fibromialgica, nonché
cefalee, ulcere diabetiche e malattie autoimmuni. Aveva demandato
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
alle Regioni l’organizzazione degli hospice in una rete assistenziale e le
attività da svolgere al loro interno, affrontato poco la formazione degli
operatori sanitari e per nulla approfondito la comunicazione all’opinione pubblica dell’esistenza, delle finalità e delle modalità d’accesso
alla rete stessa. All’epoca, la gente veniva a sapere delle cure palliative
solo se aveva un parente malato di cancro.
Al termine del Ministero Bindi la strada per dare al nostro Paese
una buona assistenza al dolore era ancora lunga e in salita, ma era
cominciata e aveva dato l’aggancio al Ministero di Umberto Veronesi
(2000-2001) per proporre un altro strumento di lotta al dolore, originale e innovativo: il progetto nazionale “Ospedale senza Dolore”, che
aveva la specificità italiana di prevedere la creazione di un comitato per l’Ospedale senza Dolore in ogni struttura ospedaliera. La sua
stessa nascita aveva segnato una svolta epocale: finalmente era stata
gettata la pietra miliare su cui cominciare a discutere di dolore. Era
il primo atto formale che evidenziava un percorso assistenziale sulla
sofferenza e le normative attuate negli anni successivi non hanno potuto prescindere dalla sua esistenza: la stessa legge 38/10 ha dovuto
tenerne conto, non fosse altro come precedente da cui partire. L’iniziativa ha avuto inoltre il merito di aver portato la cultura della sofferenza anche nel non profit. L’allora Comitato Gigi Ghirotti, diventato
in seguito Fondazione nazionale Gigi Ghirotti, si era impegnato a far
emergere la problematica. Costituito nel 1975, aveva integrato la prevenzione del dolore oncologico alla sua originaria missione volta a
favorire il miglioramento delle professionalità e delle strutture oncologiche per conseguire una sempre più efficace assistenza al malato.
Le sue finalità si erano ampliate: oltre a promuovere una nuova coscienza civile capace di affrontare la complessità delle esigenze dei
malati di cancro, informava e sensibilizzava gli operatori sanitari e
i cittadini sulla possibilità d’individuare e abbattere tutte le barriere
che ostacolavano la cura del dolore. Già promotore di una medicina
dal volto umano, si faceva ora portavoce di una nuova consapevolezza: alleviare la sofferenza non era solo desiderabile ma anche possibile. Sua è stata l’iniziativa, patrocinata dal Ministero della Salute
e dalle Regioni, di indire nel 2002 la prima Giornata nazionale del
Sollievo, un appuntamento che ricorre tutt’oggi e che si ripropone di
portare a tutte le persone che soffrono non solo terapie ma anche un
aiuto psicologico. In questa occasione, tutte le associazioni non profit
e le strutture ospedaliere impegnate a favore delle persone sofferenti
sono invitate a dare il proprio contributo, in termini di azioni e servizi, a favore del sollievo e di una maggiore diffusione della terapia del
dolore e delle cure palliative in Italia.
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Il contributo di sette ministeri
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Il progetto Ospedale senza Dolore aveva tuttavia il suo rovescio
della medaglia: purtroppo non prevedeva finanziamenti per sostenere
la sua attuazione, non forniva i requisiti per creare di fatto i Comitati
(dove dovevano essere ubicati all’interno dell’ospedale? Come dovevano funzionare?) e demandava troppi dettagli alle Regioni che allora,
prima della modificazione del capitolo V della Costituzione, avevano
meno potere decisionale di oggi. Poche Regioni avevano pertanto recepito le Linee Guida per rendere concreto il Progetto: la possibilità di
trattare adeguatamente il dolore e di registrarlo costantemente sulla
cartella clinica rimaneva ancora un sogno nella maggior parte degli
ospedali italiani.
L’iniziativa del professor Umberto Veronesi era stata tuttavia l’occasione per riparlare di sofferenza nel Ministero di Girolamo Sirchia (giugno 2001-aprile 2005) che, sebbene fosse incentrato sull’edilizia sanitaria e si fosse prefisso il compito di attuare la legge 39 e di finanziare le
Regioni per costruire gli hospice, aveva reso gratuiti i farmaci oppiacei
indicati per la cura del dolore. Ma non solo. Aveva istituito anche una
commissione ministeriale per le cure palliative di cui era presidente
il professor Vittorio Ventafridda, commissione che aveva prodotto un
documento, rivisto e approvato dall’Istituto Superiore di Sanità, che
dava le indicazioni su come costruire la rete delle cure palliative. Il suo
testo finale non era stato tuttavia approvato dalle Regioni. Il momento
storico era infatti cambiato: il capitolo V della Costituzione era stato
modificato e le Regioni cominciavano ad avere un ruolo decisionale
importante. Il modello proposto non aveva incontrato il loro favore
poiché individuava un prototipo di rete per le cure palliative che mal si
adattava alle realtà delle singole Regioni, la maggior parte delle quali
aveva già un proprio percorso assistenziale; il documento non ebbe
pertanto un futuro.
Benché il ministro Sirchia abbia avuto il merito di continuare il discorso sulla terapia del dolore, non aveva preso in considerazione la
sofferenza dei minori che fu appannaggio del Ministero di Francesco
Storace (aprile 2005-marzo 2006). Si partiva dalla constatazione che sebbene infanzia e sofferenza fossero un binomio molto duro da accettare
ed emotivamente difficile da gestire, anche i neonati e i bambini morivano e che negli ultimi anni la letteratura scientifica si era arricchita di
molti farmaci e protocolli di terapia antalgica in grado di controllare il
dolore nei piccoli pazienti. Mancavano tuttavia la conoscenza dell’argomento, la disponibilità di formulazioni farmaceutiche adeguate alle
età più estreme, il ruolo etico e sociale del bambino nella gestione della sua malattia. All’epoca, solo una minima parte dei bambini poteva usufruire di cure palliative: molti di essi erano costretti a passare
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
lunghissimi periodi in ospedale e meno del 40% dei minori affetti da
una malattia inguaribile moriva a casa. C’era dunque la necessità di far
conoscere questa realtà sommersa e di rompere il silenzio che spesso
circondava questo argomento al fine di offrire competenza e continuità assistenziale. È stato in questa occasione che Marco Spizzichino,
allora responsabile del Settore Cure Palliative e Terapia del Dolore del
Ministero della Salute, fu contattato da Silvia Lefebvre e Franca Benini, pediatra e creatrice a Padova dell’unico hospice pediatrico italiano.
Dall’incontro, favorito anche dall’allora dirigente della programmazione sanitaria del Ministero della Salute Filippo Palumbo, nacque l’idea di realizzare un gruppo di lavoro al Ministero che produsse un documento, approvato in Conferenza Stato-Regioni nel 2007 e dettagliato
nel 2008, che sanciva la presa di coscienza delle cure palliative pediatriche. Proprio nel febbraio 2006 la Fondazione Maruzza Lefebvre con
il supporto del Ministero della Salute, delle Società scientifiche e di
altre Fondazioni e Associazioni aveva dato vita al “Progetto Bambino:
Progetto nazionale di cure palliative pediatriche”, volto a organizzare
un sistema a rete per assicurare su tutto il territorio italiano cure palliative competenti e continuative. Cure, cioè, che non fornissero solo
terapie mediche ma anche un supporto all’“altra sofferenza”, quella
che si nutre della drammaticità dell’evento, dell’incertezza dell’esito
dei trattamenti, delle frequenti ospedalizzazioni, della separazione dal
contesto socio-familiare imposto dall’iter terapeutico, della frattura di
un progetto di vita che richiede una riorganizzazione della vita familiare. Per quest’altro aspetto della sofferenza occorreva un ambiente
confortevole dove effettuare le cure e mantenere le attività fondamentali svolte dal piccolo paziente, come il gioco, la scuola e l’incontro con
gli amici, affinché il prolungarsi della malattia non rischiasse di interrompere il processo di crescita.
Il successivo Ministero di Livia Turco (maggio 2006-maggio 2008)
ha proseguito questo cammino riguardante la sofferenza nei minori
firmando un protocollo d’intesa con la Fondazione Lefebvre per esportare il Progetto Bambino e il suo modello assistenziale di cure palliative
nelle Regioni.
Sebbene questo Ministero non abbia determinato nessun sostanziale cambiamento nella gestione del dolore negli adulti, ha innalzato
senz’altro la sensibilità sulla sofferenza. Ha istituito infatti la “Commissione sulla dignità di fine vita” che era tuttavia molto ambiziosa:
al suo interno convergevano tematiche inerenti le cure palliative, la
terapia del dolore, gli stati vegetativi, le terapie intensive e del fine vita
in generale. Proprio sotto il mandato di Livia Turco si è cominciato
a capire che la cronicità e la terminalità della vita, pur avendo come
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Il contributo di sette ministeri
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denominatore comune la sofferenza, erano due realtà che non si toccavano e che richiedevano offerte differenziate di assistenza e cura. In
tale senso furono prodotti due documenti, uno sul dolore e uno sulle
cure palliative, mai discussi con le Regioni, ma che di fatto ipotizzavano due filoni di gestione che saranno ripresi e attuati successivamente
dalla legge 38/10. Per poter proporre questa legge, tuttavia, bisognava
dapprima disegnarla e prima ancora occorreva formare un gruppo di
uomini accomunati dallo stesso obiettivo: vincere la battaglia sul dolore.
Preziose intese sono state imbastite in questo senso sotto il Ministero di Maurizio Sacconi (maggio 2008-dicembre 2009), accorpato all’epoca a quello del “Lavoro, Salute e Politiche sociali”. Ferruccio Fazio,
allora sottosegretario, incontrò Guido Fanelli, l’attuale presidente della
Commissione ministeriale sulle cure palliative e terapia del dolore, che
a sua volta cominciò a interloquire con Marco Spizzichino del Ministero della Salute: il primo nocciolo duro del gruppo di lavoro deputato
a stendere il disegno di legge si era formato. Prima di prendere carta e
penna bisognava, però, provvedere a rendere più accessibili i farmaci
oppiacei eliminando almeno il ricettario speciale: ci pensò lo stesso Ferruccio Fazio spostando gli oppiacei per la cura del dolore dalla sezione
A alla sezione D della Tabella II.
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Capitolo 2
Il trasferimento di alcuni farmaci oppiacei
dalla sezione “a” alla sezione “d”
della tabella ii
Il dolore cronico continuava a essere uno dei problemi meno misurati e affrontati dalla medicina. La causa principale a cui si attribuiva il suo scarso
trattamento era l’uso del ricettario speciale a ricalco, necessario per prescrivere i medicinali oppiacei per la terapia del dolore contenuti nell’Allegato IIIbis. Una semplificazione della loro prescrizione poteva essere la soluzione. Il
vice ministro Fazio scelse questa strada per renderli più accessibili firmando
la prima ordinanza che li spostava, sebbene per una durata temporanea di 12
mesi, dalla sezione A alla sezione D della stessa Tabella II, rendendoli dispensabili con una ricetta normale.
I farmaci oppiacei non erano ancora facilmente disponibili. Gli stupefacenti per uso terapeutico erano infatti sistemati in due tabelle che, a
seguito della legge 49 del 2006, avevano preso il posto delle vecchie
Tabelle I, II, III, IV, V e VI. Se nella Tabella I erano state indicate le
sostanze con forte potere tossicomanigeno e soggette ad abuso, nella
Tabella II erano state raggruppate quelle con attività farmacologica e
usate in terapia in quanto farmaci, distribuite nelle sezioni A, B, C, D
ed E in relazione al decrescere del loro potenziale di abuso.
Esisteva poi l’Allegato III-bis in cui erano elencati dieci farmaci con
forte attività analgesica (buprenorfina, codeina, diidrocodeina, fentanil, idrocodone, idromorfone, metadone, morfina, ossicodone, ossimorfone) che godevano di particolari facilitazioni prescrittive: la legge
n. 12 dell’8 febbraio 2001 prevedeva la loro prescrizione solo con ricette
a ricalco, l’allargamento della dispensazione a due farmaci o a due dosi
anziché una, l’allungamento della durata della ricetta da 8 a 30 giorni
e la possibilità per i pazienti di riceverli direttamente dall’ospedale al
momento della dimissione per iniziare il primo ciclo di terapia antalgica; successivi decreti e leggi avevano permesso agli operatori sanitari
di portarli a domicilio. I farmaci dell’Allegato III-bis erano comunque
sistemati all’interno della sezione A della Tabella II e prescrivibili con
ricetta a ricalco.
Al professor Ferruccio Fazio va il merito di aver alleggerito gli op-
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piacei per la terapia del dolore dai vincoli che ne scoraggiavano la
prescrizione, rendendoli più facilmente accessibili. Quando era ancora
vice ministro, aveva infatti firmato una prima ordinanza del 16 giugno
2009 (entrata in vigore il 20 giugno 2009) che spostava gli oppiacei non
iniettabili dell’Allegato III-bis, con esclusione dei composti a base di
metadone e di buprenorfina per uso orale, contenuti nella Tabella II,
dalla sezione A alla sezione D. La nuova collocazione cambiava le regole della prescrizione.
Grazie a questo provvedimento il ricettario a ricalco per le sostanze deputate al trattamento del dolore “andava in pensione”: il
medico poteva prescriverle usando una ricetta normale non ripetibile, cioè sia una ricetta bianca sia una ricetta del Servizio Sanitario Nazionale alla stregua di qualsiasi altro farmaco, e il farmacista
era alleggerito dalle manovre di carico e scarico di queste sostanze.
A dare l’annuncio della modifica è stato lo stesso vice ministro Ferruccio Fazio nel corso del convegno “Cura del dolore: un segno di
civiltà” promosso a Roma da Il Sole 24 Ore Sanità presso la Camera
dei Deputati. Una grande eco e molti commenti positivi hanno accompagnato questa innovazione. La lotta alla sofferenza aveva registrato dei concreti segni di svolta: una riforma non onerosa, come
la semplificazione della prescrizione degli oppiacei, era diventata
una realtà e costituiva un risultato enorme. Il massimo fino ad allora
raggiunto per la cura di 300 mila malati terminali e per i milioni di
persone che combattevano da anni, ingiustamente, contro il dolore
cronico quotidiano.
L’ordinanza, semplificando la dispensazione degli oppiacei destinati alla cura del dolore, aveva superato anche l’antica discriminazione rispetto agli altri prodotti farmaceutici. Il provvedimento era stato dunque vissuto come il raggiungimento di un traguardo di civiltà
dall’opinione pubblica e dalla maggior parte dei protagonisti della
battaglia, dagli specialisti ai medici di Medicina Generale, dalle Associazioni al volontariato.
2.1Le polemiche dei media
Si susseguono una seconda e una terza ordinanza ministeriale sugli
oppiacei analgesici che puntualizzano alcuni elementi rispetto alla prima. La seconda, quella del 2 luglio 2009, è dedicata alla tracciabilità
delle ricette bianche: su di esse devono essere riportati gli estremi di
un documento d’identità dell’acquirente. La terza, quella dell’8 ottobre
2009, specifica le composizioni di oppiacei contenute nella sezione D
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della Tabella II che devono essere assoggettate all’obbligo di monitoraggio d’identità dell’acquirente.
Il provvedimento presentava tuttavia un rovescio della medaglia: la
possibilità di usare la normale ricetta del medico aboliva di fatto per i
medicinali della terapia del dolore il ricettario speciale, quello a ricalco,
ma non implicava l’obbligo di riportare sulla ricetta normale il nome
e il cognome della persona a cui erano destinati gli oppiacei e quindi
chiunque poteva presentarsi dal farmacista con la ricetta per comprarli. Il problema della loro tracciabilità ricadeva sulle ricette bianche che
il medico staccava dal proprio ricettario personale e scriveva di proprio pugno, quelle del Servizio Sanitario Nazionale seguivano già un
percorso d’identificazione.
Il tema divenne ancora più scottante quando un giornalista dimostrò che bastava falsificare la ricetta bianca, imitando la firma del medico, per comprare quante scatole di oppiacei si volesse: se la loro prescrizione era stata semplificata, anche il loro abuso era diventato più
facile.
Per cautelarsi da questo inconveniente, il vice ministro Fazio ha
firmato pertanto un’altra ordinanza, il 2 luglio 2009, che obbligava
il farmacista a riportare sulla ricetta bianca il nome, il cognome e gli
estremi di un documento di riconoscimento dell’acquirente, qualora
fossero prescritti i farmaci contenuti nella sezione D della Tabella II. Il
farmacista stesso doveva inoltre inviare alla ASL e all’Ordine dei Farmacisti, entro la fine di ogni mese, una dichiarazione riassuntiva delle ricette spedite il mese precedente: la comunicazione doveva contenere anche la denominazione delle preparazioni e il numero delle
confezioni dispensate, distinte per forma farmaceutica e dosaggio. In
questo modo si potevano controllare gli illeciti dovuti a prescrizioni
multiple.
Il provvedimento aveva però generato un percorso laborioso per la
dispensazione di tutti i farmaci collocati nella sezione D della Tabella
II, sia per quelli transitati dalla sezione A sia per quelli che vi si trovavano già prima della prima ordinanza, alcuni dei quali erano di uso
abbastanza frequente. Per snellire le procedure, l’8 ottobre 2009 il vice
ministro Fazio ha firmato una terza ordinanza che riduceva il numero
dei prodotti per la terapia del dolore che, prescritti su ricette bianche,
fanno scattare per il farmacista l’obbligo di accertare l’identità dell’acquirente e di comunicare i dati delle ricette spedite.
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2.2Il consumo degli oppiacei: primi segnali di crescita
A piccoli passi ci si avvia verso un approccio terapeutico più corretto
della sofferenza. La semplificazione della prescrizione degli oppiacei
doveva contribuire a diffondere la cultura della palliazione e della
cura del dolore nel nostro Paese, dove il ricorso a questi farmaci era
ancora molto scarso. La migliore conoscenza della malattia dolore, oltre al lavoro svolto in merito dal Ministero della Salute e dall’AIFA,
aveva tuttavia già dato alcuni segnali positivi. I dati di mercato resi
noti dal Centro Studi Mundipharma avevano messo in evidenza come
l’Italia avesse registrato il maggior incremento di spesa e di consumi
pro-capite di farmaci oppiacei dal 2007 al 2008: queste stime al rialzo
facevano ben sperare per un futuro adeguamento dell’Italia agli standard europei.
Il trasferimento di alcuni oppiacei dalla sezione “A” alla sezione “D”
della Tabella II era stata considerata di buon auspicio dagli economisti:
l’abolizione del ricettario speciale avrebbe dovuto far finalmente decollare il mercato italiano degli oppiacei, che si posizionava ancora agli
ultimi posti rispetto a quello mondiale ed europeo.
La spesa pro-capite di questi farmaci per la cura del dolore, rilevata
nel 2008, toccava valori minimi nel nostro Paese: si assestava infatti
a 0,74 euro contro una media europea di 3,92 euro e un massimo di
7,83 euro registrato in Germania. I consumi riferiti allo stesso anno ed
espressi in mg pro-capite non erano da meno: se la media europea era
di 204,58 mg, in Italia era pari a 69,12 mg, un dato molto distante da
quello registrato in Germania che aveva il consumo di oppiacei più
alto pari a 433,92 mg, seguita dalla Danimarca con 408,05 mg, dalla
Spagna con 317,41 mg e dall’Inghilterra con 275,87 mg. La situazione, tuttavia, si ribaltava se si faceva un confronto tra il
2007 e il 2008. Secondo i dati provenienti da IMS Midas 2008 e rielaborati dal Centro Studi Mundipharma, l’Italia aveva registrato rispetto
agli altri Paesi europei il maggior incremento in percentuale della spesa
media a cittadino per l’utilizzo dei farmaci oppiacei osservata in questi
due anni pari a +23,83%, e della crescita dei consumi pari a +15,31%
rispetto allo stesso periodo di tempo. Se si considerava inoltre il quinquennio 2004-2008, il nostro Paese balzava al primo posto per l’incremento in percentuale del consumo espresso in mg pro-capite: in questi
anni la crescita registrata era pari a +151%. Sicuramente i valori di partenza erano molto bassi, ma un dato simile rappresentava comunque
un segnale positivo riconducibile alle politiche di rimborso, sviluppo
e investimento che Governo e Regioni avevano dedicato all’argomen-
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Il tresferimento di alcuni farmaci oppiacei dalla sezione “A” alla sezione “D” della Tabella II
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to. Gli ultimi trend di crescita erano inoltre incoraggianti anche per
le formulazioni orali rispetto a quelle transdermiche (+255,7% contro
+135,2%) e sottolineavano la tendenza ad aderire maggiormente alle
Linee Guida internazionali OMS, ESMO ed EAPAC che indicavano
nelle formulazioni orali la via di somministrazione di prima scelta. Gli
oppiacei somministrabili attraverso l’applicazione di cerotti erano tuttavia ancora preferiti nel nostro Paese, costituendo infatti circa l’80%
dei consumi con un aggravio dei costi a carico del Servizio Sanitario
Nazionale.
2.3Il ricorso ai FANS era ancora troppo elevato
Nel nostro Paese si assisteva a un divario. Da un lato c’era il dolore
cronico, sia oncologico sia di altra natura, che continuava a rappresentare uno scottante problema sanitario e sociale dato che un cittadino
su 4 ne soffriva, dall’altro c’era il basso consumo di analgesici oppiacei
registrato nelle nostre Regioni, nonostante fossero i farmaci più appropriati per curare un dolore di origine non infiammatoria. Qual era il
motivo di questa sbilanciata situazione? Alcuni sostenevano che fosse innanzitutto da riferire alla differente educazione dei nostri addetti
alla sanità rispetto a quelli che operavano a livello europeo, sebbene
l’Italia fosse stata tra le prime nazioni a prendere in considerazione la
necessità di istruire gli studenti alla medicina del dolore. Altri l’attribuivano invece ai troppi anni di oscurantismo sugli oppiacei che avevano provocato un vero e proprio abuso di farmaci antinfiammatori non
steroidei (FANS).
Se il nostro Paese era ancora un fanalino di coda nel consumo degli
oppiacei per la terapia del dolore, era capofila nel consumo di FANS. Il
dolore cronico era infatti ancora largamente controllato da questi ultimi che rappresentavano circa il 68% delle prescrizioni. L’appropriatezza terapeutica veniva così messa in pericolo.
I FANS sono infatti indicati in presenza di un processo infiammatorio in quanto agiscono sui mediatori dell’infiammazione che sono alla
base del dolore, ma vanno impiegati per un breve periodo di tempo.
Quando il dolore è cronico d’intensità moderata-severa, gli oppioidi
sono i farmaci di prima scelta, associati o meno ad adiuvanti.
Per arginare l’inadeguato uso di FANS non si era mai fatto molto.
Il bando di nimesulide dal mercato spagnolo e finlandese, avvenuto
nel 2002 per sospetta tossicità epatica, era stata l’occasione per approfondire il consumo e le complicanze di questa classe farmacologica.
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
Da allora infatti, questo FANS, con un profilo di rischio gastrico molto
basso e commercializzato in ben 50 Paesi, ha subito diverse vicissitudini. Prosciolto nel 2003 dall’European Medicines Agency (EMA) per il
mancato nesso causale con gli eventi di sospetta tossicità, nimesulide è
stato riaccusato nel 2007 dall’Agenzia del Farmaco irlandese che ne ha
sospeso la vendita per la segnalazione di 6 casi di insufficienza epatica
grave di cui sembrava responsabile. Una nuova revisione, riaperta dal
Comitato per i Prodotti Medicinali per Uso Umano (CHMP) al fine di
valutare i possibili effetti di questa molecola sull’apparato gastrointestinale ed epatico, lo aveva ancora una volta scagionato: l’EMA aveva pertanto confermato nuovamente il suo rapporto rischio/beneficio
come favorevole e promosso la sua commercializzazione in tutti i Paesi
europei, accompagnandola tuttavia da provvedimenti volti a limitarne
l’abuso e a incentivarne una corretta prescrizione.
A causa di questo tortuoso percorso prescrittivo, il farmaco aveva
perso in otto anni il 75% del mercato a livello mondiale. Ci si aspettava
che questi dati influenzassero il mercato dei FANS nel nostro Paese e
invece una sorpresa era dietro l’angolo...
Uno studio denominato FATA (Fans Analysis Therapeutical Audit),
che ha coinvolto la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale
(FIMMG), la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) e l’Università di Parma, ha infatti sottolineato come negli anni 2004-2009 il mercato nostrano di FANS non fosse affatto diminuito, ma anzi aumentato.
A seguito degli eventi che avevano coinvolto nimesulide era avvenuto
un vero e proprio scambio: al posto di nimesulide erano stati semplicemente prescritti altri FANS anziché farmaci più appropriati modulati
secondo le esigenze della persona, come per esempio gli oppiacei indicati per il dolore cronico moderato-grave. Il risultato di questa sostituzione era stato un aumento dei disturbi gastrointestinali e un incremento delle prescrizioni di farmaci antiulcera.
2.3.1 I risultati dello studio FATA
Su un milione e mezzo di assistiti riconducibili a 650 medici di Medicina Generale, recuperati dal database della Società Italiana di Medicina
Generale e riferiti a un periodo compreso tra il 2004 e il 2009, è stata
eseguita un’analisi retrospettiva del profilo prescrittivo di nimesulide
effettuato nella popolazione italiana afferente agli ambulatori di Medicina Generale. Si sono pertanto valutati i cambiamenti avvenuti in
termini di consumo, indicazioni e incidenza di sanguinamento gastrico in chi assumeva nimesulide e altri FANS, prima e dopo le restrizioni
introdotte.
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Il tresferimento di alcuni farmaci oppiacei dalla sezione “A” alla sezione “D” della Tabella II
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I risultati ottenuti hanno sottolineato che i consumi di nimesulide si
erano ridotti in modo significativo soprattutto nel periodo che comprendeva il ritiro del farmaco in Irlanda avvenuto a maggio 2007: tra
gennaio 2007 e giugno 2007, il numero delle dosi consumate giornalmente da 1000 soggetti (DDD/1000 abitanti die) erano infatti passate
da 8,15 a 4,77. A calare maggiormente era stato il consumo negli ultra
65enni e soprattutto per le indicazioni relative all’artrosi. Il trend era
rimasto costante nella fascia d’età più giovane, sotto i 45 anni, e mostrava una lieve contrazione nella fascia d’età media tra i 45 e i 65 anni.
Nei cinque anni 2004-2009 il mercato dei FANS era rimasto stabile
e aveva evidenziato un passaggio dei consumi da nimesulide ad altri
FANS soggetti a prescrizione medica. Se nel 2004 i consumi erano composti per il 55% da nimesulide e per il 45% da altri FANS, nel 2009 la
situazione si era ribaltata: nimesulide era sceso al 32% e gli altri FANS
erano saliti al 68%.
La riduzione dell’impiego di nimesulide, che presentava un più
basso rischio di sanguinamento rispetto agli altri FANS ed era associato a un inferiore utilizzo concomitante di farmaci gastroprotettori,
si accompagnava a un aumento delle complicanze gastrointestinali:
l’impiego più massiccio di altri FANS si presumeva fosse la causa della
comorbilità da reflusso gastroesofageo, pari al 33%, e dell’aumento dei
farmaci antiulcera, pari al 36%. La sostituzione di nimesulide con altri
FANS non aveva prodotto invece un innalzamento dei danni epatici
in quanto l’incidenza delle epatopatie restava molto bassa, pari al 5%.
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Capitolo 3
Il contributo della chiesa cattolica
Qualcosa stava dunque cambiando. Il convegno “Cura del dolore: un segno
di civiltà”, tenutosi a Roma alla Camera dei Deputati nel giugno 2009, era
stato un’occasione per analizzare anche lo scenario della terapia del dolore in
Italia. All’evento erano presenti tutti i protagonisti che da tempo portavano avanti la battaglia contro la sofferenza. C’erano le Istituzioni, le Società
scientifiche e le Associazioni di volontariato: insieme hanno riflettuto sulle
carenze attuali e sulle prospettive future. Gli argomenti delle loro discussioni avevano già preso una piega più concreta. Si parlava di formazione
dei medici, di un accesso più uniforme alle cure, della creazione di una rete
assistenziale sul territorio. Le vedute cominciavano a convergere su interventi ritenuti inderogabili che avrebbero trovato posto un anno dopo nella
legge 38/10. Nello stesso tempo la terapia del dolore si era ritagliata già un
ruolo di primo piano e risultava tra gli obiettivi prioritari del Piano Sanitario Nazionale per il 2009. In piena intesa con questi obiettivi si schierava
anche la Chiesa Cattolica, che si trovava a dover sfatare numerosi pregiudizi,
primo tra tutti quello che secondo la Dottrina Cattolica alla sofferenza ci
si debba rassegnare, anziché combatterla. Questa convinzione sfocia spesso
nel pensiero che la religione vieti il trattamento del dolore con la morfina o
più in generale con gli oppiacei. In realtà si tratta di luoghi comuni che si
alimentano con una mancata conoscenza e un’interpretazione distorta della
Dottrina della Chiesa, che più volte ha definito come fondamentale la prassi
caritatevole dell’assistenza non solo spirituale ma anche clinica nei riguardi
del dolore, nel rispetto della dignità della vita. Numerosi episodi e documenti
testimoniano un percorso articolato che la Chiesa ha fatto sulla concezione
del dolore e sulla sua cura, parallelamente al progresso fatto dalla scienza e
dalle tecnologie contro il dolore. Dagli anni ’50 a oggi il Vaticano ha infatti
ribadito che le pratiche antidolorifiche, oltre a essere eticamente legittime,
sono un dovere per gli operatori sanitari.
A dare una posizione ufficiale al dolore e al suo superamento è stato Papa
Pio XII, che durante un’assemblea internazionale di medici e chirurghi,
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
tenutasi il 24 febbraio 1957, disse: «La sopportazione cristianamente
motivata e corroborante del dolore non induce a ritenere che ogni sofferenza e ogni dolore vadano sopportati comunque e che non si debba
intervenire per lenirli. A lungo andare il dolore impedisce il raggiungimento di beni e interessi superiori. La stessa carità cristiana esige dagli
operatori sanitari l’alleviamento della sofferenza fisica. Per cui è legittimo, e oltre certe soglie di sopportabilità è anche doveroso, per l’operatore sanitario, prevenire, lenire ed eliminare il dolore». La sofferenza va
dunque contrastata, altrimenti aggrava lo stato di debolezza e di esaurimento fisico, ostacola lo slancio dell’anima e logora le forze morali.
A indicare l’atteggiamento pratico da adottare nei confronti del dolore
è stato tuttavia Papa Giovanni Paolo II. Egli ha sottolineato, sia nel
1984 durante il congresso dell’Associazione Italiana di Anestesiologia
sia nel 1985 in occasione dei lavori promossi dalla pontificia Accademia delle Scienze, che tra le cure da somministrare al malato terminale
vanno annoverate anche quelle analgesiche. Negli stessi frangenti ha
messo inoltre in evidenza che l’anestesia come l’analgesia, agendo su
ciò che il dolore ha di più aggressivo e sconvolgente, rende più umana
l’esperienza della sofferenza.
3.1Il messaggio di Papa Giovanni Paolo II sul dolore
Un discorso ancora più completo sull’uso degli analgesici e sulla loro
somministrazione proporzionata all’intensità del dolore è stato tenuto da Papa Giovanni Paolo II il 12 novembre 2004, in occasione della
XIX Conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per la Pastorale
della Salute. Si riporta qui di seguito il testo che per molti aspetti è profetico: nelle sue righe si legge la richiesta di intervento di una squadra
di specialisti competenti e affiatati tra loro, l’incoraggiamento alla loro
formazione e la necessità del sollievo proveniente dagli analgesici.
L’“appassionante missione” contro la sofferenza, come la definisce il
Papa stesso, si profila dunque come una difesa della vita che passa anche attraverso un’adeguata terapia del dolore la quale rappresenta un
insostituibile strumento per restituire dignità alla persona sofferente.
2. La medicina si pone sempre al servizio della vita. Anche quando sa di
non poter debellare una grave patologia, dedica le proprie capacità a lenirne
le sofferenze. Lavorare con passione per aiutare il paziente in ogni situazione
significa aver coscienza dell’inalienabile dignità di ogni essere umano, anche
nelle estreme condizioni dello stato terminale. In questa dedizione al servizio
di chi soffre, il cristiano riconosce una dimensione fondamentale della sua vo-
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cazione: nell’adempimento di tale compito, infatti, egli sa di prendersi cura di
Cristo stesso (cfr Mt 25, 35-40).
“Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte,
che al di fuori del Vangelo ci opprime”, ricorda il Concilio (Gaudium et spes,
22). Chi nella fede si apre a questa luce, trova conforto nella propria sofferenza
e acquista la capacità di lenire la sofferenza altrui. Di fatto esiste una relazione
direttamente proporzionale tra la capacità di soffrire e la capacità di aiutare
chi soffre. L’esperienza quotidiana insegna che le persone più sensibili al dolore altrui e più dedite a lenire i dolori degli altri sono anche più disposte ad
accettare, con l’aiuto di Dio, le proprie sofferenze.
3. L’amore verso il prossimo, che Gesù ha tratteggiato con efficacia nella
parabola del buon samaritano (cfr Lc 10, 29ss), rende capaci di riconoscere la
dignità di ogni persona, anche quando la malattia è venuta a gravare sulla sua
esistenza. La sofferenza, l’anzianità, lo stato di incoscienza, l’imminenza della
morte non diminuiscono l’intrinseca dignità della persona, creata a immagine
di Dio.
Tra i drammi causati da un’etica che pretende di stabilire chi può vivere e chi
deve morire vi è quello dell’eutanasia. Anche se motivata da sentimenti di una
mal intesa compassione o di una mal compresa dignità da preservare, l’eutanasia invece di riscattare la persona dalla sofferenza ne realizza la soppressione.
La compassione, quando è priva della volontà di affrontare la sofferenza e
di accompagnare chi soffre, porta alla cancellazione della vita per annientare il
dolore, stravolgendo così lo statuto etico della scienza medica.
4. La vera compassione, al contrario, promuove ogni ragionevole sforzo
per favorire la guarigione del paziente. Al tempo stesso essa aiuta a fermarsi
quando nessuna azione risulta ormai utile a tale fine.
Il rifiuto dell’accanimento terapeutico non è un rifiuto del paziente e della sua vita. Infatti l’oggetto della deliberazione sull’opportunità di iniziare o
continuare una pratica terapeutica non è il valore della vita del paziente, ma il
valore dell’intervento medico sul paziente.
L’eventuale decisione di non intraprendere o di interrompere una terapia
sarà ritenuta eticamente corretta quando questa risulti inefficace o chiaramente sproporzionata ai fini del sostegno della vita o del recupero della salute. Il
rifiuto dell’accanimento terapeutico, pertanto, è espressione del rispetto che in
ogni istante si deve al paziente.
Sarà proprio questo senso di amorevole rispetto che aiuterà ad accompagnare il paziente fino alla fine, ponendo in atto tutte le azioni e le attenzioni
possibili per diminuirne le sofferenze e favorirne nell’ultima parte dell’esistenza terrena un vissuto per quanto possibile sereno, che ne disponga l’animo
all’incontro con il Padre celeste.
5. Soprattutto nella fase della malattia, in cui non è più possibile praticare
terapie proporzionate ed efficaci, mentre si impone l’obbligo di evitare ogni for-
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
ma di ostinazione o accanimento terapeutico, si colloca la necessità delle “cure
palliative” che, come afferma l’Enciclica Evangelium vitae, sono “destinate a
rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento”.
Le cure palliative, infatti, mirano a lenire, specialmente nel paziente terminale, una vasta gamma di sintomi di sofferenza di ordine fisico, psichico e
mentale, e richiedono perciò l’intervento di un’équipe di specialisti con competenza medica, psicologica e religiosa, tra loro affiatati per sostenere il paziente
nella fase critica.
In particolare, nell’Enciclica Evangelium vitae è stata sintetizzata la dottrina tradizionale dell’uso lecito e talora doveroso degli analgesici nel rispetto
della libertà dei pazienti, i quali devono essere posti in grado, nella misura
del possibile, “di soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto
devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio”
(n. 65).
D’altra parte, mentre non si deve far mancare ai pazienti che ne hanno
la necessità il sollievo proveniente dagli analgesici, la loro somministrazione
dovrà essere effettivamente proporzionata all’intensità e alla cura del dolore,
evitando ogni forma di eutanasia quale si avrebbe somministrando ingenti
dosi di analgesici proprio con lo scopo di provocare la morte.
Ai fini di realizzare questo particolare aiuto occorre incoraggiare la formazione di specialisti delle cure palliative, in particolare strutture didattiche alle
quali possono essere interessati psicologi e operatori della pastorale.
6. La scienza e la tecnica, tuttavia, non potranno mai dare risposta soddisfacente agli interrogativi essenziali del cuore umano. A queste domande
può rispondere solo la fede. La Chiesa intende continuare a offrire il proprio
contributo specifico attraverso l’accompagnamento umano e spirituale degli
infermi, che desiderino aprirsi al messaggio dell’amore di Dio, sempre attento
alle lacrime di chi si rivolge a lui (cfr Sal 39, 13). Si evidenzia qui l’importanza
della pastorale sanitaria, nella quale ricoprono un ruolo di speciale rilievo le
cappellanie ospedaliere, che tanto contribuiscono al bene spirituale di quanti
soggiornano nelle strutture sanitarie.
Come dimenticare poi il contributo prezioso dei volontari che con il loro
servizio danno vita a quella fantasia della carità che infonde speranza anche all’amara esperienza della sofferenza? È anche per loro mezzo che Gesù
può continuare oggi a passare tra gli uomini, per beneficarli e sanarli (cfr At
10, 38).
7. La Chiesa offre così il proprio contributo in questa appassionante missione a favore delle persone che soffrono. Voglia il Signore illuminare quanti
sono vicini ai malati, incoraggiandoli a perseverare nei distinti ruoli e nelle
diverse responsabilità.
Tutti accompagni Maria, Madre di Cristo, nei momenti difficili del dolore
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Il contributo della chiesa cattolica
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e della malattia, affinché la sofferenza umana possa essere assunta nel mistero
salvifico della Croce di Cristo.
Accompagno tali auspici con la mia Benedizione.
3.2Le parole di Papa Benedetto XVI
Il Papa attuale, sostenendo la necessità di attivare politiche che consentano agli esseri umani di sopportare le malattie incurabili e di morire in
maniera degna, si è fatto portavoce di un concetto importante, quello
secondo cui la lotta al dolore è una battaglia di civiltà che una società
civile deve impegnarsi a portare avanti per garantire la difesa dei suoi
valori fondanti. Grazie anche alle sue parole si è fatto sempre più largo
il concetto secondo cui curare adeguatamente una persona malata di
dolore cronico significa tutelarne il suo intrinseco e inalienabile diritto
alla dignità. Qui di seguito si riportano alcune frasi del discorso tenuto
da Papa Benedetto XVI alla XXII Conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari il 17 novembre 2007.
«…La Chiesa desidera sostenere i malati incurabili e quelli in fase terminale esortando a politiche sociali eque che possano contribuire a eliminare le
cause di molte malattie e chiedendo con urgenza migliore assistenza per quanti stanno morendo e per quanti non possono contare su alcuna cura medica. È
necessario promuovere politiche in grado di creare condizioni in cui gli esseri
umani possano sopportare anche malattie incurabili e affrontare la morte in
una maniera degna. A questo proposito, è necessario sottolineare ancora una
volta la necessità di più centri per le cure palliative che offrano un’assistenza
integrale, fornendo ai malati l’aiuto umano e l’accompagnamento spirituale di
cui hanno bisogno. Questo è un diritto che appartiene a ogni essere umano e
che tutti dobbiamo impegnarci a difendere».
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Capitolo 4
Il diritto per ogni cittadino di accedere
alle cure palliative e alle terapie antalgiche
e il dovere etico di offrirle
I tempi erano maturi per pensare a una legge che potesse contenere i concetti
sulla gestione e sulla cura del dolore dibattuti, approfonditi e vagliati in più
occasioni. La burocrazia che pesava sugli oppiacei si era alleggerita dopo le
ordinanze firmate dal sottosegretario Ferruccio Fazio e la sofferenza cominciava a essere considerata una malattia e non più un sintomo. Finalmente
il dolore era diventato oggetto di discussione nelle sfere ministeriali e se ne
parlava ormai anche in termini legislativi.
4.1Nascita ed evoluzione della legge sul dolore
L’idea di mettere a punto una legge sul dolore è nata a luglio del 2008;
prima c’era una situazione di tabula rasa. Di fatto si era creato un vuoto
assistenziale sulle tematiche riguardanti il dolore, sia nelle forme croniche sia in quelle relative al fine vita, con una particolare evidenza in
ambito pediatrico. Le reti strutturate di terapia del dolore mancavano.
I centri e gli ambulatori che si occupavano dell’analgesia presentavano
caratteristiche diverse e una disomogenea distribuzione sul territorio.
Percorsi strutturati e condivisi con i medici di Medicina Generale e i
pediatri dovevano ancora essere messi a punto. L’equità di accesso alla
terapia del dolore non era inoltre garantita per carenza di coordinamento tra ospedale e territorio. D’altronde, la formazione pre e postlaurea del medico era carente in materia: la terapia del dolore e le cure
palliative non erano tra gli insegnamenti “obbligatori” del corso di laurea in Medicina e Chirurgia. La mancanza di formazione sulla gestione
della sofferenza era un po’ come “il cane che si morde la coda”: ostacolava ulteriormente la definizione e l’attuazione di percorsi assistenziali
per le principali malattie algiche. Prendendo coscienza di tutte queste
lacune, si decise di istituire all’interno della Commissione ministeriale
“Programmazione” un gruppo di lavoro dedicato all’elaborazione di
un modello assistenziale che potesse fornire risposte certe ai bisogni
primari della popolazione.
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
L’iniziativa è partita dall’allora deputato Giuseppe Palumbo, presidente della XII Commissione Affari Sociali, e da Antonio Tomassini, presidente della 12° Commissione Igiene e Sanità del Senato, che all’epoca
ebbero un’illuminazione: perché non spaccare in due quel disegno di
legge sulle cure palliative e testamento biologico e di fine vita che giaceva da tempo alla Commissione Affari Sociali e trasformarlo in un
progetto per le cure palliative e in uno per il testamento biologico e di
fine vita? La proposta piacque un po’ a tutti. Fu accettata dalle organizzazioni di Cure Palliative che speravano in una legge per sdoganare
una disciplina che non aveva corsi universitari né nell’ambito della
facoltà di Medicina né in quello delle specializzazioni. E fu appoggiata
da chi voleva mettere in evidenza il dolore e il suo trattamento: entrambi potevano essere aggiunti alla parte della legge riguardante le
cure palliative riformulandone la dicitura in “cure palliative e terapia
del dolore”. Il filo conduttore di questa scelta era l’evidenza che ben
il 96% dei malati in palliazione provava dolore e la sua cura meritava
attenzione. Dopo non poche discussioni si decise di prevedere anche
due reti, una per le cure palliative e una per la terapia del dolore, volte
ad assistere il malato con continuità dall’ospedale fino al proprio domicilio usufruendo di tutte le strutture sanitarie disponibili e di tutte le
figure professionali necessarie. Due profili distinti cominciavano a delinearsi pur rimanendo nella stessa cornice, quella di prendersi carico
della persona sofferente a 360 gradi.
4.2Il gruppo di lavoro e il ruolo centrale del ministro Ferruccio Fazio
In otto mesi si è organizzato un gruppo di lavoro e si è stesa la prima
bozza di legge da presentare alla Commissione Affari Sociali del Parlamento. La veloce tempistica della sua approvazione in legge si deve
a una felice alchimia di tempi storici e di personalità. Fondamentale
è stata anche l’azione del Ministro della Salute Ferruccio Fazio: suo il
“la” per iniziare a considerare l’argomento dolore e suo l’indirizzo a
spostare la cura e l’assistenza della sofferenza dall’ospedale al territorio. Il momento storico ha giocato senz’altro a favore di una presa di
coscienza concreta sulla tematica dolore. In altre parole, i tempi erano
maturi per occuparsene seriamente e ottenere dei risultati. Si arrivava
da un Ministero, quello presieduto dall’on. Livia Turco, che aveva innalzato la sensibilità sulla sofferenza con molti momenti di discussione
e di scambi d’idee, pur non arrivando di fatto a produrre nessun provvedimento attuativo. O meglio, aveva realizzato due documenti − uno
sul dolore e uno sulle cure palliative − in cui si sottolineavano i molte-
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plici nodi da sciogliere, documenti che non erano tuttavia mai diventati oggetto di confronto con le Regioni e tanto meno erano entrati in un
momento istituzionale con queste ultime. Ciononostante erano serviti
a gettare le basi di un ragionamento nuovo, che prendeva spunto dal
fatto che il dolore apparteneva a due mondi tra loro parzialmente intersecanti, quello della terminalità della vita e quello del dolore acuto
e cronico, avvertiti rispettivamente da chi aveva per esempio una sofferenza post-operatoria o un’ernia discale e da chi aveva un disturbo
curabile ma non guaribile. Ognuno di essi pretendeva professionisti
diversi e un sistema di assistenza specifico.
L’input a lavorare sulla tematica “dolore” l’aveva dato l’on. Ferruccio
Fazio, allora sottosegretario del ministro Maurizio Sacconi, che aveva
ripreso in mano ciò che allora esisteva, vale a dire la vecchia delibera
dell’“Ospedale senza Dolore” voluta da Umberto Veronesi, dandosi
l’obiettivo di riprogrammarla.
L’idea dell’on. Ferruccio Fazio era di spostare sul territorio la funzione di cura del dolore incentrata ancora nell’ospedale, per renderla
più capillare e quindi più efficace. La parola d’ordine era diventata
“territorializzare” e ad essa tutti hanno risposto.
Nacque, così, un gruppo di lavoro, composto da specialisti, tecnici
e amministrativi, di piccole dimensioni ed estremamente efficiente.
Esso era costituito dal presidente della Società Italiana di Cure Palliative Giovanni Zaninetta, dal responsabile dell’Area Dolore SIMG
Pierangelo Lora Aprile, dal medico palliativista Lorenzo Scaccabarozzi, da Rita Melotti dell’Agenzia Regionale Sanitaria e Sociale della
Regione Emilia-Romagna, dal terapista del dolore della Fondazione Salvatore Maugeri di Pavia Cesare Bonezzi, dal direttore dell’Unità Operativa di Cure palliative e Terapia del Dolore dell’Azienda
USL di Rimini William Raffaeli e dal dirigente tecnico del Ministero
Giovanna Romeo che traduceva in “linguaggio legale” i concetti che
dovevano trasmettere alla Commissione Affari Sociali del Parlamento
la posizione del Ministero sulle cure palliative e sulla terapia del dolore.
A metterli e tenerli insieme è stato Guido Fanelli, attuale presidente
della Commissione Ministeriale sul Dolore nonché professore ordinario all’Università di Parma e direttore della struttura complessa II Anestesia, Rianimazione e Terapia antalgica dell’Azienda Ospedaliera–
Universitaria di Parma, che grazie al suo spiccato pragmatismo unito
a una buona dose di determinazione è riuscito a ottenere un primo
risultato: quello di poter disporre nell’arco di pochi mesi di un nuovo
disegno di legge, frutto di una quasi interminabile serie di sedute e di
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ore trascorse a discutere su come imbastire un canovaccio comune e su
quali concetti farvi rientrare.
Se ora ci si chiede come sia stato possibile responsabilizzare tutti
i componenti del gruppo su un’unica tematica, quella delle cure palliative e della terapia del dolore, e far nascere tra loro una così spiccata fiducia reciproca, ebbene, il merito non va solo al momento storico
giusto: alla buona realizzazione del progetto molto ha concorso una
fortunata congiuntura di persone che con il loro temperamento e la
loro preparazione si sono completate, arricchite e modulate.
4.3I progetti da cui l’iniziativa ha tratto linfa vitale
Nello stesso tempo in cui stava scrivendo la bozza di legge, il gruppo di lavoro seguiva un Progetto formativo sperimentale volto a “formare” alcuni medici di Medicina Generale sulle cure palliative e sulla
terapia del dolore per farli diventare, a loro volta, formatori di altri
colleghi sulla stessa tematica. Questi corsi pilota, che prevedevano la
partecipazione di 40 trainers, erano stati avviati in quattro Regioni che
per omogeneità di popolazione erano Emilia-Romagna, Veneto, Lazio
e Sicilia. Il loro svolgimento era un buon esercizio per capire le necessità da soddisfare e i bisogni richiesti da malati e figure professionali.
Parallelamente, i componenti della squadra di lavoro si erano messi
a scrivere due libri, uno che trattava “Il dolore cronico in Medicina Generale” e l’altro “Il dolore nel bambino. Strumenti pratici di valutazione e
terapia”, che tiravano le fila di concetti importanti. Anche questa iniziativa è servita ad approfondire spunti, sondare conoscenze e mettere
insieme strategie d’azione che sono poi confluite nella legge sulle cure
palliative e terapia del dolore.
4.4.I momenti critici vissuti nel percorso dell’approvazione
I tentennamenti sono stati sostanzialmente due. Il primo si è avuto sul
numero di reti di assistenza da prevedere. Molti ne preferivano una
sola: i palliativisti volevano incamerarsi la terapia del dolore e i terapisti del dolore le cure palliative.
Alla fine è prevalso il buon senso, cioè la decisione di istituirne due,
perché si è capito che gli ambiti d’azione erano diversi come pure le
figure professionali che se ne dovevano occupare e le strutture sanitarie che si dovevano far carico dei differenti tipi di malati. Il secondo inghippo che merita di essere ricordato è stato quando il disegno
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di legge, dopo essere stato approvato in modo unanime e bipartisan
dalla Commissione Affari Sociali, aver ricevuto il benestare finale del
ministro Ferruccio Fazio ed essere passato alla Camera dei Deputati,
è arrivato alla Commissione Sanità del Senato non esattamente come
doveva essere, vale a dire con qualche rimaneggiamento che faceva
perdere il significato ad alcuni passaggi.
È stato quello il momento più critico dell’intero iter legislativo. Guido Fanelli si era consultato con l’on. Antonio Tomassini, presidente
della Commissione Sanità del Senato: non c’erano “ma” che tenessero, bisognava rivedere l’intera bozza. È stato allora che tutti i senatori
hanno lavorato come tecnici per rimettere a punto il testo in una seduta
durata ore e ore. Con qualche modifica e aggiustamento, ma integro
nella sua sostanza, il disegno di legge è tornato alla Commissione Affari Sociali del Parlamento per ricominciare di nuovo il suo percorso. Il
risultato? Il 15 marzo 2010 la legge è stata approvata in via definitiva,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 19 marzo 2010 ed entrata in vigore
il 3 aprile 2010.
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Capitolo 5
L’unicità della legge
Il nuovo provvedimento legislativo rappresenta una punta di eccellenza
del nostro Paese per ben quattro motivi. È il primo esempio a livello europeo
di normativa “quadro” che obbliga a occuparsi del dolore provato da ogni
cittadino, neonato e bambino compresi, qualunque ne sia la causa e senza
alcuna discriminazione di sorta. È un documento che ha avuto il consenso
congiunto del mondo scientifico, delle organizzazioni non profit e del volontariato. È un testo che propone numerose innovazioni, dalla ridefinizione
del modello assistenziale in materia di dolore alla creazione di due reti d’assistenza, una per le cure palliative e una per la terapia del dolore, alla particolare attenzione posta ai pazienti in età pediatrica. Ed è una legge che si
è subito resa attuativa: a soli due mesi dalla sua approvazione è stata creata
una Commissione nazionale che ha prodotto alcuni degli atti richiesti dalla
legge.
La legge 38/10 sulle cure palliative e la terapia del dolore rappresenta
un progresso fondamentale per la tutela della salute in Italia, in quanto
sancisce il dovere etico di offrire al cittadino il diritto a essere curato e
alleviato dal dolore, indipendentemente dall’età, dal tipo di malattia,
dal luogo di vita, dalla famiglia di appartenenza e dalla condizione
economica.
Essa rappresenta un grande risultato per il Servizio Sanitario Nazionale e posiziona il nostro Paese tra quelli più avanzati in questo ambito
assistenziale. Condivisa da tutte le parti politiche, è stata fortemente
voluta dal Ministero della Salute, che ha avuto un ruolo di primaria
importanza in tutto il percorso istituzionale, dallo spunto iniziale alla
sua approvazione.
A ragione è stata definita rivoluzionaria. Un aggettivo che si merita
a pieno titolo, perché è l’unica normativa esistente nel mondo occidentale che si occupa anche del dolore dei neonati e dei bambini e della
sua cura. In altre parole fa diventare il bambino sofferente una persona
di cui prendersi cura e riconosce al dolore la dignità di “malattia nella
malattia”: la sofferenza non è più un pegno da pagare e neppure un
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
sintomo, ma una vera e propria patologia meritevole dello stesso livello di assistenza delle altre patologie.
Prima dell’avvento di questa legge, i medici di Medicina Generale
come anche gli specialisti avevano la possibilità o meno di occuparsi
del dolore. In genere erano sensibili alla sofferenza dei propri assistiti,
ma pochissimi mettevano in campo strumenti seri per misurarla e controllarla, come per esempio i farmaci oppiacei. Il trattamento del dolore era considerato un po’ come la “ciliegina sulla torta” della terapia,
un di più che poteva essere dato o non dato, una scelta che dipendeva
dalla cultura e dalla preparazione del medico stesso.
La nuova disposizione legislativa ha ribaltato le regole del gioco e
ha fatto diventare obbligatori il trattamento del dolore e il suo monitoraggio: le strutture sanitarie come anche i singoli operatori sanitari che
non la osservano sono perseguibili e il cittadino può sporgere denuncia.
5.1Il dolore cronico deve essere trattato
In un certo senso la legge 38/10 precorre i tempi: i concetti e i risvolti
che propone sono infatti più avanzati rispetto alla situazione attuale.
Di solito le leggi si fanno per aggiungere caselle a un mosaico già impostato o per tappare buchi evidenti; in questo caso essa propone un
progetto a tutto tondo contro il dolore, studiato per affrontare qualsiasi
tipo di sofferenza – di cui soffre un terzo della popolazione – da quella
acuta a quella cronica non necessariamente dovuta al cancro ma provocata anche da malattie degenerative, come per esempio le patologie
reumatiche e osteoarticolari.
Prima dell’arrivo di questa normativa, il dolore cronico non era considerato in tutti gli ambiti in cui si può presentare. La legge 39 del 1999
si era occupata sostanzialmente della persona in fin di vita e aveva
cercato di dare una risposta assistenziale a questa situazione: lo Stato,
stanziando circa 200 milioni di euro per la costruzione degli hospice,
aveva definito e creato le cure palliative che erano tuttavia rivolte a
pazienti terminali, affetti da malattie progressive e in fase avanzata,
a rapida evoluzione e a prognosi infausta, per i quali ogni terapia finalizzata alla guarigione o alla stabilizzazione della patologia non era
possibile né appropriata.
Il progetto “Ospedale senza Dolore”, voluto dal ministro Umberto
Veronesi nel 2001, era soprattutto indirizzato ai ricoverati in ospedale
per cancro a cui si riconosceva per la prima volta la dignità della loro
sofferenza.
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Entrambe le iniziative di fatto lasciavano scoperta una serie di situazioni e di malattie non terminali che davano comunque sofferenza,
come per esempio i disturbi osteoarticolari, le cefalee o le malattie autoimmuni.
La nuova normativa invece si faceva carico, per la prima volta, anche del dolore cronico, di quella sofferenza che persiste per un periodo
maggiore di tre mesi, cioè più a lungo del corso naturale della guarigione e che si associa a un particolare danno o malattia: è la sofferenza
che può essere avvertita dentro o fuori da un ospedale, a seguito di
un intervento o di una patologia non necessariamente oncologica e da
qualunque persona, dai neonati ai bambini, agli adulti e agli anziani.
È questa la forma di dolore più invalidante, che colpisce il 25-30% della popolazione e soprattutto la componente femminile con il 56% dei
casi: le più recenti ricerche sostengono che un nostro connazionale su
quattro ne soffre con una durata media di sette anni.
Un’indagine eseguita in un Centro di Terapia del Dolore lombardo
su 234 soggetti di età media di 62 anni, giunti per una prima visita di
propria iniziativa o inviati dal medico di famiglia o dallo specialista, è
scesa nei particolari: il dolore di questi pazienti durava in media già da
56 mesi e il valore dichiarato della sua intensità era pari a 8 con valori
compresi tra 5 e 10.
Un altro studio, questa volta compiuto in Europa comprendente anche l’Italia, ha messo in evidenza la capacità del dolore di limitare in
modo significativo le attività quotidiane. Ben il 32% della popolazione
intervistata lamentava infatti un dolore muscolo-scheletrico, localizzato frequentemente nel tratto lombare della colonna: l’11% dei partecipanti alla ricerca aveva avuto un episodio di dolore nell’ultima settimana, mentre il 9% riferiva un dolore cronico in regione lombare. Le
donne lo presentavano assai più spesso degli uomini: una percentuale
del 28% contro il 22%.
Il dolore cronico merita dunque di essere considerato e trattato perché è una vera e propria malattia, causata da un’alterazione dello stesso sistema deputato alla rilevazione e decodificazione delle sensazioni
dolorose. È dunque il sistema nocicettivo che si ammala, per esempio
dopo un ictus o per una mielopatia, una vasculopatia diabetica o una
malattia muscolo-scheletrica.
Milioni e milioni di persone ne sono colpite. In geriatria affligge il
74,4% degli ultrasessantacinquenni: in un campione di anziani istituzionalizzati, si è rilevato che il 24% avvertiva dolore costante e solo il 29%
non riferiva alcuna sofferenza. Tra i portatori dell’infezione da HIV, il
dolore è presente nel 23% degli asintomatici e nell’80% di chi ha l’AIDS
conclamato. I suoi numeri nelle corsie degli ospedali sono ancora molto
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elevati. Il dolore è avvertito come moderato dal 38% dei ricoverati nei
reparti di oncologia e come severo dal 19%; sono necessarie cure palliative nel 50% dei casi; è il sintomo primario nel 30% delle situazioni ed è
la spia di neuropatie sensoriali periferiche nel 30% delle volte.
Sul territorio la situazione non è meno drammatica.
Secondo una ricerca osservazionale eseguita nell’ambito della Medicina Generale italiana e presentata al Congresso nazionale SIMG nel
2006, l’8-10% della popolazione in carico ha dolore, che è di tipo cronico nel 52,8% dei casi. Stando ai risultati ottenuti da un’altra ricerca
finalizzata del Ministero della Salute ed eseguita da Raffaeli e Bonezzi
nel 2008, l’intensità del dolore riferita dagli Italiani che si rivolgono ai
centri specialistici è molto elevata mentre l’offerta di cura è molto bassa. Questo squilibrio genera nei cittadini un disorientamento, che porta il 21% delle persone sofferenti a non sapere dove andare per trattare
il proprio dolore e il 33% a consultare dai tre ai sette medici prima di
trovare un interlocutore, con un notevole esborso di denaro e perdita
di tempo: l’attesa media prima di rivolgersi a un centro appropriato è
di settimane nel 39,2% dei casi, di mesi nel 36,6% delle situazioni e di
anni nel 24,5% delle volte.
Il dolore cronico non è dunque invalidante solo nelle persone affette da cancro, sebbene sia presente nella fase iniziale della malattia nel
30% dei casi e in fase avanzata in oltre il 70%. Distinguerlo dal dolore
oncologico può sembrare di primo acchito artificioso perché i meccanismi fisiopatologici che sottendono la sofferenza non sono poi così diversi l’uno dall’altro. Quello che cambia sono gli obiettivi e l’approccio
terapeutico: differenziarli è pertanto quanto mai utile per ottenerne il
controllo ottimale.
La persona con dolore cronico non dovuto a cancro deve, infatti,
essere trattata per ridurre la disabilità: il suo dolore deve essere curato
per evitare che possa perdere l’autosufficienza e la capacità di svolgere
attività quotidiane e di avere relazioni sociali. La persona con dolore
oncologico può perseguire questo stesso obiettivo nelle fasi iniziali della malattia, ma quando la malattia progredisce il dolore diventa “totale”, conferendo fragilità psicologica e coinvolgendo tutte le dimensioni
umane, ed è impensabile che possa essere controllato solo dalla terapia
farmacologica: occorre un approccio multidisciplinare che tenga conto
anche dei bisogni psicologici, spirituali e sociali dell’individuo.
5.1.1 Una fotografia della sofferenza femminile
Un’alta percentuale di donne subisce ancora un disagio costante nella
quotidianità della vita a causa del dolore cronico. È quanto emerge
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da una recente ricerca promossa da DonnEuropee Federcasalinghe, la
principale associazione che rappresenta in Italia chi svolge il lavoro familiare a tempo pieno o part-time in collaborazione con il Centro Studi
Mundipharma da tempo impegnato a divulgare una corretta cultura
contro la “malattia dolore”, ed eseguita su 684 casalinghe di 12 regioni
italiane.
I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come più della metà
delle intervistate, e precisamente il 65%, soffra di dolore cronico: nel
74% dei casi di origine non neoplastica e attribuibile per il 61% ad artrosi, osteoporosi e artrite reumatoide.
L’intensità della sofferenza provata non è inoltre da sottovalutare.
Su una scala numerica da 0 a 10, essa ha una media pari a 5,6 e si presenta in modo costante: nel 65% dei casi si protrae infatti per più di un
anno. La sua presenza grava in modo significativo sulla qualità della vita delle casalinghe, limitando le attività giornaliere nel 63,3% dei
casi, il riposo notturno nel 43% delle volte, le faccende domestiche nel
33% delle situazioni e le relazioni familiari nel 23% dei contesti.
Le terapie antalgiche assunte sono spesso inadeguate: la metà delle
donne intervistate giudica le cure somministrate poco o per nulla efficaci. Troppo spesso si ricorre infatti agli antinfiammatori non steroidei
(FANS), prescritti ancora nell’88% dei casi. A limitare una corretta presa in carico della sofferenza femminile è anche la mancanza di specialisti del dolore: nel 54% dei casi i trattamenti antalgici sono somministrati da medici esperti nella malattia primaria ma poco informati sulla
cura del dolore, mentre gli specialisti vengono consultati solo nel 17%
dei casi.
Andando a sondare la realtà della sofferenza nelle singole regioni, l’indagine ha evidenziato come il dolore cronico sia più frequente
in Lazio, Campania e Lombardia: qui si registrano rispettivamente il
74,8%, il 74,5% e il 72% di donne sofferenti. Se il Friuli Venezia Giulia
si propone come la regione più virtuosa in materia di dolore essendo
riscontrato in meno del 32% dei casi, la Campania è quella dove l’intensità della sofferenza raggiunge i livelli più elevati: secondo la scala
numerica che va da 0 a 10 esso è pari a 7.
Questi dati sono confermati pure dall’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP), che ha sottolineato come il dolore
cronico colpisca il 40% della popolazione femminile contro il 31% di
quella maschile. Il perché di questa differenza va senz’altro ricercato
nelle diversità anatomiche, ormonali e fisiologiche che caratterizzano
i due sessi. Basti pensare al dolore associato per esempio a gravidanza
e ciclo mestruale o alle emicranie quotidiane per comprendere anche
solo intuitivamente lo sbilanciamento della sofferenza verso l’universo
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
femminile. La maggiore longevità delle donne fa poi la sua parte in
quanto le espone più a lungo a un numero maggiore di disturbi degenerativi e di malattie croniche.
La differente percezione della sofferenza tra uomini e donne è stata
tuttavia approfondita da un’indagine, eseguita da O.N.Da e da Observa su 514 donne con un’età compresa tra 30 e 75 anni. I risultati ottenuti hanno indicato come il dolore cronico sia scomponibile in una
dimensione sensitiva, in una emotiva e in una sociale, ognuna delle
quali è percorsa in modo significativo dal gentil sesso.
Il primo aspetto, quello sensitivo, è giustificato dal fatto che la donna è altamente ricettiva al dolore, che pare essere una costante della
sua vita in molti casi: lo ha lamentato il 57% delle intervistate che lo ha
riferito come sporadico nel 38% dei casi e assiduo nel 20% delle situazioni, correlato a cancro (9,4%), dolori mestruali (8,3%), mal di denti
(7,8%), dolori alla schiena (6,7%), emicranie e cefalee (6,6%) e ad artriti,
osteoporosi e artrosi (6,7%), e avvertito con un’intensità media dal 28%
del campione.
Il secondo aspetto, quello emotivo, è riconducibile alla maggiore
intensità con cui la donna vive la sofferenza rispetto all’uomo. È infatti
lei che spesso è chiamata a occuparsi del dolore degli altri e ad accettare situazioni precostituite che l’hanno portata ad affrontare e a volte a
subire il dolore, e a riconoscerlo.
Il terzo aspetto, quello sociale, si declina nella minore disponibilità
di trattamenti antalgici adeguati alle proprie caratteristiche di genere
e nel riconoscere come la sofferenza nelle donne porti maggiormente
con sé depressione e distacco dalla vita quotidiana, con forti implicazioni umane ed economiche. Un dolore persistente, sebbene moderato,
altera l’umore delle persone nel 70% dei casi, le attività domestiche e
lavorative nel 36% dei casi, la qualità del sonno nel 47% e l’appetito nel
21%, causando un calo nel rendimento di qualsiasi prestazione.
A fronte di una discreta disponibilità a curare il proprio dolore, la
maggior parte delle donne, e precisamente il 61,3%, ricorre ancora a
farmaci tradizionali e il 23,7% alla fisioterapia; poche sono coloro che
optano per l’omeopatia o altre medicine alternative.
5.1.2Le malattie reumatiche: un terzo dei pazienti ha dolore continuo
Le malattie reumatiche sono la causa più frequente di dolore cronico. Secondo una recente indagine condotta in 15 Paesi europei, il 19%
degli adulti soffre di dolore cronico di intensità moderata-grave: l’osteoartrosi e l’artrite reumatoide sono le cause più comuni di dolore
reumatico, avvertito nel 35-48% dei casi.
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L’unicità della legge
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Nella realtà italiana questo gruppo eterogeneo di patologie, che
conta oltre 100 disturbi soprattutto a carico dell’apparato locomotore,
colpisce il 10% della nostra popolazione: la più diffusa di tutte è l’artrosi che affligge oltre 4 milioni di italiani.
Il dolore associato alle forme reumatiche cambia in rapporto alla natura della malattia e ai meccanismi patologici coinvolti. Quello di tipo
infiammatorio, tipico dell’artrite reumatoide, è particolarmente intenso
al mattino nel momento del risveglio, si accompagna alla caratteristica
e persistente rigidità articolare mattutina e tende a ridursi nel pomeriggio seguendo un ritmo circadiano. Il dolore meccanico, tipico dell’artrosi, è invece assente a riposo, è accentuato dal carico articolare e si accompagna a rigidità articolare generalmente di breve durata. Il dolore
da compressione nervosa, secondario alla sofferenza di radici nervose o
nervi periferici, è d’intensità variabile, si associa in alcuni casi a deficit
motorio e frequentemente a parestesie soprattutto nelle neuropatie da
intrappolamento quali la comune sindrome del tunnel carpale.
La maggior parte delle persone affette da una qualunque forma
reumatica va incontro a una sofferenza intensa e persistente, che rende
difficile la maggior parte delle attività quotidiane.
Nonostante i continui progressi nella comprensione della patogenesi delle malattie reumatiche e nello sviluppo di alcuni farmaci (basti
ricordare i farmaci “biologici” usati per le malattie reumatiche infiammatorie croniche quali l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante
e l’artrite psoriasica, e l’impiego sempre più precoce di farmaci tradizionali come i disease-modifyng antirheumatic drugs), il controllo del
dolore cronico muscolo-scheletrico resta tuttora un problema rilevante
per molte persone.
Problema che dovrebbe essere affrontato con una strategia terapeutica il più possibile personalizzata sul profilo clinico del paziente in
termini di sicurezza, efficacia, rapidità d’azione e persistenza dell’effetto, e che viene invece risolto il più delle volte in modo inappropriato
ricorrendo a FANS e Cox-2 inibitori, considerati ancora i farmaci di
prima scelta per il dolore reumatico, che comportano non pochi effetti collaterali tra cui tossicità gastrointestinale e renale e un aumento
del rischio cardiovascolare. A oggi, solo il 2% dei pazienti con malattie
reumatiche viene trattato con gli analgesici oppiacei sebbene per tali
malati la necessità primaria sia quella di poter controllare al meglio
il dolore. Ne consegue che la maggior parte dei pazienti si definisce
insoddisfatta delle terapie che gli vengono somministrate e chiede al
proprio medico trattamenti più efficaci.
A poco sono servite le Linee Guida, messe a punto già da qualche
anno, che raccomandano ai clinici di utilizzare i FANS e i Cox-2 inibito-
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ri solo in limitate circostanze e per il minor tempo possibile, portando
l’attenzione sull’impiego di paracetamolo e oppiacei, la cui efficacia
nel dolore cronico muscolo-scheletrico è stata confermata più volte
dalla letteratura scientifica. Uno studio controllato, a lungo termine,
della durata di 3 anni sull’utilizzo degli oppiacei in pazienti non oncologici, pubblicato nel 2007 su Clinical Journal of Pain, ha per esempio dimostrato l’efficacia e la sicurezza di questo tipo di trattamento. I
suoi risultati sono stati avallati anche da uno studio retrospettivo che
ha valutato l’impiego degli oppiacei in pazienti non oncologici per 5
anni. L’impatto del trattamento antidolorifico sulla qualità della vita e
sulla funzionalità è stato esaminato da uno studio pubblicato nel 1996
sulla rivista dell’American Society for Clinical Pharmacology and Therapeutics ed eseguito su 107 soggetti con artrite reumatoide, affetti da
dolore moderato-severo e non responsivi ai trattamenti convenzionali
a base di FANS e paracetamolo, che hanno assunto ossicodone a rilascio controllato per 90 giorni. La terapia proposta ha determinato una
significativa riduzione dell’intensità della sofferenza, una limitazione
dell’interferenza del dolore con le attività quotidiane e con la capacità
di camminare e lavorare, e un’influenza positiva sul tono dell’umore,
sul sonno, sulle relazioni sociali, nonché un miglioramento dei parametri di funzionalità.
L’utilizzo degli oppiacei in ambito reumatologico è stato inoltre
sottolineato nelle raccomandazioni EULAR (European League Against
Rheumatism) per il trattamento dell’osteoporosi di anca e ginocchio e
condiviso da una successiva Consensus italiana nella quale si sono confrontati diversi specialisti tra cui reumatologi, fisiatri, ortopedici, farmacologi e medici di Medicina Generale: il loro orientamento è stato
quello di somministrare gli analgesici oppiacei ai soggetti non responsivi a paracetamolo o a quelli in cui i FANS e i Cox-2 inibitori sono
controindicati, inefficaci e/o scarsamente tollerati.
Le Linee Guida elaborate consigliavano inoltre l’ossicodone a rilascio controllato per l’osteoartrosi associata a dolore moderato-severo.
Anche per la lombalgia vi sono evidenze di efficacia sull’uso degli
oppiacei nel dolore severo: una revisione, pubblicata nel 2007 sugli Annals of Internal Medicine ed eseguita dall’American Pain Society e dall’American College of Physicians, ha ulteriormente confermato l’utilità di
questa classe di farmaci nella cura della lombalgia cronica.
Uno studio in doppio cieco, pubblicato nel 2007 sull’American
Journal of Medicine ed eseguito in soggetti con fibromialgia, una sindrome caratterizzata da dolore muscolo-scheletrico diffuso e cronico,
ha infine messo in evidenza che il tramadolo associato al paracetamolo
induce un efficace controllo del dolore.
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5.1.3L’antieconomicità della sofferenza non curata
Il dolore cronico, aumentando con l’età, andrà incontro a un prevedibile aumento a livello mondiale e quindi anche nel nostro Paese, a causa
del progressivo invecchiamento della popolazione. Secondo le proiezioni epidemiologiche dell’ONU, nel 2050 gli ultrasessantacinquenni
sono destinati a raddoppiare: tra circa quarant’anni passeranno dagli
attuali 245 milioni a 406 milioni, a fronte di una diminuzione degli
individui con meno di 60 anni che caleranno dagli odierni 971 a 839
milioni. In Italia la quota di ultrasessantenni sarà di circa 2/3 della
popolazione generale.
La correlazione tra anzianità e maggiore probabilità di sviluppare malattie che comportino una sofferenza quotidiana ha indotto a una riflessione. Il fatto stesso che il dolore sia avvertito da una quantità di
persone pari a 15 milioni di italiani ha favorito la messa a punto della
legge per una sua gestione più consapevole.
Il dolore cronico comporta infatti una “malignità” sociale che coinvolge in una spirale negativa dapprima l’individuo, poi la sua famiglia, quindi la società e infine la nazione.
Di questa concatenata successione di eventi ci si era già accorti nel
2001, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva
pubblicato l’annuale World Health Report che classificava le malattie
non solo in base alla loro mortalità ma anche in base alla disabilità
che comportavano. Ebbene, questo nuovo modo di inquadramento ha
sottolineato come l’aspetto del dolore cronico derivante da patologie
“non mortali”, quali per esempio cefalee, lombalgie o artrosi, richiedesse un costo molto elevato e non solo sanitario. Basta pensare alla
ridotta efficienza lavorativa e alla progressiva diminuzione delle attività quotidiane dovute al dolore per comprendere l’alto prezzo causato
dalla sua sottovalutazione e dal mancato trattamento. A conti fatti, la
“malattia dolore” causa all’economia nazionale una perdita di oltre 3
milioni di ore lavorative e una spesa di 2.000 milioni di euro in prestazioni e farmaci. Stime che, se quantificate in anni vissuti con disabilità,
possono essere comprese tra il 2% e il 5% degli anni totali di vita.
Il dolore cronico esula pertanto dall’ambito personale per estendersi alla società e a tutto il Paese. Altre nazioni hanno da tempo valutato
i costi dovuti alla disabilità correlata a dolore e si sono accorte che sono
elevatissimi: negli Stati Uniti ammontavano già nel 1991 a 50-100 miliardi di dollari all’anno (Frymore. Orthop Clin N Am 1991; 22:263-71) e
nel Regno Unito a 680 milioni di sterline e a 52 milioni di sterline per
giornate di lavoro perse. Nei Paesi Bassi sono stati individuati già dal
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1993 ben 10 mila nuovi casi/anno di disabilità per dolore (Anderson.
Clin J Pain 1993; 9:174-182). Costi esorbitanti, dovuti anche al fatto che
il dolore cronico può scaturire da molteplici quadri clinici che nel loro
insieme fanno lievitare la dimensione del problema e le difficoltà di risolverlo. Consideriamo per esempio il dolore lombare: ebbene, le combinazioni delle possibili cause che lo determinano possono ammontare
a ben 841 se si riducono a cinque le strutture che possono essere sede di
processi algogeni – e precisamente a osso e periostio, capsula sinoviale,
legamenti, muscoli e fasce, borse – e se si limitano a cinque i processi
patologici considerati – traumi, infiammazioni, tumori, malattie degenerative, anomalie congenite.
Il dolore cronico colpisce l’individuo nella sua totalità: ne modifica il profilo del comportamento (la sofferenza è spesso associata alla
depressione e al cambiamento d’umore), influenza negativamente i
rapporti familiari e getta un’ombra sulle relazioni sociali e lavorative.
Molto spesso chi è affetto da dolore cronico muta il suo status sociale
in quanto il 14,17% perde il lavoro, il 20% cambia lavoro, il 22% è depresso e il 50% prova un senso di sfiducia e malessere.
Il dolore non trattato incide tra l’altro negativamente anche sulla malattia di base. Secondo uno studio eseguito da Yaeger MP et al.
su 27 pazienti e pubblicato su Anesthesiology nel 1997, esso causa insufficienza cardiovascolare nel 52% dei casi, insufficienza respiratoria
nel 32%, infezioni maggiori nel 40%, ricovero in terapia intensiva per
5,7 giorni, intubazione per 81,8 ore e può portare a morte il 16% dei
malati.
5.2 Chi è il fruitore delle cure analgesiche
La nuova legge imposta una mission ben definita: non lascia infatti nulla al caso o all’immaginazione dei singoli attuatori. Oltre a tutelare la
dignità del sofferente, definisce gli interventi che propone (che cosa
sono le cure palliative e la terapia del dolore) e chi è il destinatario che
le riceverà. Solo stabilendo in dettaglio i mezzi per ottenere un buon
controllo del dolore e i fruitori che se ne serviranno, il trattamento
somministrato potrà essere appropriato e dare risultati tangibili.
La legge 38/10 si propone pertanto come il manifesto del diritto,
sia del cittadino terminale sia di quello con dolore cronico, ad avere assistenza in strutture appropriate a sostenere la sua sofferenza,
farmaci appropriati per curarla, figure professionali appropriate a
somministrargliele: in altre parole tutti gli articoli e i commi di cui è
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composta la legge tendono a definire l’appropriatezza della sua presa
in carico.
Essa ribadisce che cosa sono le cure palliative e definisce per la prima volta la terapia del dolore, che è l’insieme degli interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e ad applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche,
strumentali, psicologiche e riabilitative tra loro variamente integrate,
allo scopo di rielaborare percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore. Le cure palliative e la terapia del
dolore assurgono così a vere e proprie discipline.
La legge circoscrive anche il malato idoneo a ricevere i trattamenti
analgesici.
A chi devono essere indirizzati questi trattamenti? Alla persona affetta da una patologia ad andamento cronico ed evolutivo, per la quale
non esistono terapie o, se esistono, sono inadeguate o sono risultate
inefficaci per stabilizzare la malattia o prolungare significativamente
la vita, nonché a chi è affetto da una patologia dolorosa cronica da
moderata a severa.
5.3Il nuovo modello organizzativo per la gestione del dolore
Si apre una nuova frontiera della Sanità italiana. Con la costituzione
di tre Reti nazionali assistenziali, due per la sofferenza dell’adulto e
una per quella dei neonati e dei bambini, che promettono una grande
accessibilità e un’appropriata organizzazione di offerte, si volta pagina. Il loro buon funzionamento passa infatti attraverso un’emancipazione del concetto stesso di assistenza non più basato esclusivamente
sull’“Ospedale senza Dolore” ma sull’Ospedale-territorio senza dolore. La loro forza parte dunque dal basso, da tutti gli operatori sanitari
del territorio, medici di Medicina Generale e pediatri di base in primis,
che adeguatamente formati devono dare una prima risposta alle richieste dei cittadini, deviandole dal Pronto Soccorso verso i Centri (Hub e
Spoke) o gli ambulatori di terapia del dolore, a seconda della gravità
del caso.
La nuova legge prevede la costituzione di due Reti nazionali, una per
le cure palliative e l’altra per la terapia del dolore, e di una sola Rete
nazionale per l’età pediatrica sia per le cure palliative sia per la terapia del dolore, radicate sul territorio e dunque decentrate rispetto
all’ospedale, che hanno i loro punti di forza su centri di riferimento
regionali e sull’assistenza domiciliare: esse devono garantire una con-
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tinuità dell’assistenza alla persona sofferente dal ricovero al domicilio
in maniera omogenea e in tutte le fasi della sua malattia.
Le Reti proposte coinvolgono ciò che c’è già.
Le strutture sanitarie, ospedaliere, territoriali e assistenziali, nonché
tutte le figure professionali e gli interventi diagnostici e terapeutici esistenti devono arricchirsi di un nuovo ruolo, quello di saper riconoscere, trattare e gestire la sofferenza.
5.3.1.Il superamento delle passate esperienze
Mettere a punto un modello di gestione del dolore che funzionasse non
è stato facile. La sua impostazione è il frutto di un lungo percorso di
analisi delle precedenti normative che, sebbene abbiano avuto il merito
di far partire il discorso della sofferenza, presentavano le debolezze
della “prima volta”. La legge 39/99 aveva realizzato gli hospice ma non
li aveva legati tra loro da una rete assistenziale ben definita. Il progetto
“Ospedale senza Dolore” è stato il primo atto legislativo sulle tematiche del dolore ma aveva non pochi lati oscuri, primo tra tutti quello
di proporre un modello unico, l’Ospedale senza Dolore appunto, poco
adattabile alle esigenze delle singole Regioni e dei cittadini. La nuova
legge ha colmato le loro lacune con un sistema assistenziale alternativo,
dando le linee di principio per costruirlo ma lasciando alle singole Regioni la possibilità di declinarle a seconda delle proprie esigenze. Esso
riprende gli elementi validi del passato (hospice, ospedale, cultura del
dolore), frammentati e dispersi tra più servizi e operatori, e li ricompone in un modello organico portatore di numerose innovazioni.
Per mettere a punto le due Reti assistenziali integrate in modo capillare con il territorio e previste dalla legge 38/10, i passi fatti sono stati
tanti. Si è dovuto innanzitutto rivoluzionare letteralmente la gestione del dolore nel nostro Paese e riorganizzarla secondo il bisogno dei
cittadini sofferenti, ovvero quello di essere raggiunti da un’assistenza
tempestiva ed efficace in ogni dove e di poter accedere con facilità alle
cure antalgiche.
Si partiva infatti da un profondo disagio. Secondo un’indagine finalizzata dal Ministero della Salute ed eseguita da Bonezzi e Raffaeli
nel 2008, nel nostro Paese esistevano fino a due anni prima 190 reparti,
servizi e ambulatori di terapia del dolore non modificati da almeno
dieci anni. Frequentati per il 60% da donne e per il 42% da persone in
età lavorativa, avevano un’utenza costituita per il 57% da pazienti con
dolore cronico che venivano presi in carico per tempi molto lunghi:
il 35,5% per più di un anno e il 13,1% per tre anni. Questi centri, pur
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essendo in contatto tra loro, facevano parte di una Rete incompleta che
non aveva una modalità di funzionamento programmata. La fotografia d’insieme era quella di un “vuoto” troppo grande che si frapponeva
tra ciò che c’era e ciò che ci sarebbe dovuto essere.
Il primo passo da compiere è stato quello di non commettere gli
errori passati.
La legge 39/99 aveva finanziato la realizzazione degli hospice senza
tuttavia creare una Rete assistenziale. Non rendendo obbligatoria l’attivazione dell’assistenza domiciliare di cure palliative, aveva di fatto
prodotto delle “cattedrali” nel deserto. I risultati non potevano che essere deludenti. A oltre 10 anni di distanza dall’approvazione della normativa, solo 117 hospice erano stati attivati con i fondi statali e 46 con
quelli provenienti da altre fonti di finanziamento (regionale, privato o
altro), di cui la maggior parte localizzati al nord: il finanziamento utilizzato ammonta a tutt’oggi all’82,49% dello stanziamento originario.
La scarsa capacità delle Reti di cure palliative di intercettare i reali
bisogni della popolazione era messa in evidenza dalle schede di dimissione ospedaliera, raccolte e analizzate tra il 2004 e il 2008: il numero
di malati con tumore che morivano nei reparti ospedalieri per acuti era
in quegli anni in continuo aumento e si assestava su 55.934 casi. È stato
necessario aspettare fino al 2008 per osservare un’inversione di tendenza e una lieve diminuzione pari a 55.198 casi: segno che gli hospice
cominciavano da quel momento a funzionare. Ciononostante un terzo
dei malati oncologici muore ancora nei reparti ospedalieri per acuti
con un tempo medio di permanenza per il ricovero pari a 12 giorni. La
valorizzazione economica di questi ricoveri molto spesso impropri è,
secondo le tariffe nazionali delle prestazioni ospedaliere, di 223 milioni
di euro circa, che potrebbero essere reinvestiti nelle cure palliative promuovendo un elevato risparmio e un’assistenza e gestione dei malati
terminali più specifica e appropriata.
I limiti della legge 39/99 hanno comunque fornito due insegnamenti, e precisamente: che sdoganare dei finanziamenti non significa
ottenere automaticamente un prodotto e che creare delle strutture residenziali non assicura la reale attivazione di una Rete di assistenza. In
senso più generale, non basta una legge per mettere in pratica i principi ispiratori, occorre una forte volontà di tutti gli operatori.
Il primo tentativo di assicurare le cure antalgiche alla popolazione proveniva dall’accordo effettuato nel 2001 nella Conferenza StatoRegioni e denominato “Ospedale senza Dolore” che aveva accentrato
tutto nell’ospedale. Grazie alla costituzione dei Comitati “Ospedale
senza Dolore”, realizzati secondo le linee guida dell’accordo, i cittadini
potevano trovare qui assistenza alla loro sofferenza e personale coor-
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dinato e istruito al trattamento del dolore e all’uso dei farmaci, analgesici oppioidi compresi, secondo specifici protocolli. Pur essendo stato
il primo atto legislativo volto a evidenziare un percorso di assistenza
sul dolore, aveva delle mancanze: era tarato soprattutto sull’obiettivo
di dare una risposta antalgica ai pazienti ricoverati in ospedale, faceva
transitare dal Pronto Soccorso l’accesso alle prestazioni, non specificava i requisiti minimi per rendere operativo il progetto ed era assente la
quantificazione dei bisogni dei cittadini in materia di cure palliative e
terapia del dolore.
5.3.2Le definizioni che circoscrivono il progetto
La necessità di mettere nel testo della legge dei punti fermi, dei “paletti”, era molto sentita. Permetteva di tracciare una linea di principio
comune sui mezzi, sull’assistenza e sulla formazione da proporre alle
Regioni: su questo impianto dai contorni netti sarebbe stato per loro
più facile costruire un sistema di offerta di cure contro il dolore per i
propri assistiti.
Proprio per rendere ben definita la struttura delle Reti assistenziali e
non cadere nel pressapochismo, la nuova legge inizia già dall’articolo
2 a dare le coordinate di che cos’è una Rete nazionale per le cure palliative e una Rete nazionale per la terapia del dolore, e spiega:
– qual è il loro compito – “garantire una continuità d’assistenza del malato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio”;
– da cosa sono costituite – “dall’insieme delle strutture sanitarie, ospedaliere, territoriali e assistenziali, delle figure professionali e degli
interventi diagnostici e terapeutici disponibili nelle regioni e nelle
province autonome”;
– cosa devono erogare – “le cure palliative e il controllo del dolore in tutte
le fasi della malattia.....il supporto dei malati e delle loro famiglie”.
A questo dettaglio ne seguono altri altrettanto importanti. Nel testo della legge vengono per esempio menzionate le figure professionali chiamate a svolgere i compiti di cura e assistenza. Nell’elenco sono citati i
medici di Medicina Generale, i medici specialisti in anestesia e rianimazione, geriatria, neurologia, oncologia, radioterapia, pediatria, nonché i
medici con un’esperienza almeno triennale nelle cure palliative e nella
terapia del dolore, gli infermieri, gli psicologi e gli assistenti sociali. Alle
Regioni vengono dati gli strumenti affinché individuino le tipologie di
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strutture che si devono articolare nella Rete e i requisiti minimi e le modalità organizzative per il loro accreditamento, e si prevedano delle tariffe di riferimento per rendere omogenea l’erogazione dell’assistenza:
l’accordo sulle linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordinamento degli interventi regionali, nell’ambito della Rete di cure palliative
e della Rete di terapia del dolore, è stato approvato nella Conferenza
Stato-Regioni il 16 dicembre 2010. In altre parole la nuova normativa ha
gettato basi concrete per costruire realmente le Reti di assistenza.
Affinché tutti questi tasselli trovino posto in un efficiente mosaico,
si è pensato di sperimentare un sistema organizzativo che scomponesse l’assistenza in tre livelli tra loro complementari. E precisamente nei
centri di riferimento di terapia del dolore (Hub), negli ambulatori di
terapia antalgica (Spoke) e nelle Aggregazioni Funzionali Territoriali
(AFT) della Medicina Generale.
I centri Hub sono strutture di III livello, cioè di alta specializzazione:
vi lavora un’équipe multidisciplinare che fa capo a un direttore specialista nel settore della terapia del dolore e vi afferiscono i casi più difficili, quelli che non hanno trovato una soluzione negli step precedenti.
Di solito si tratta di malati caratterizzati da dolore cronico o acuto associato a una patologia complessa, da un complicato inquadramento
della tipologia della sofferenza o che necessitano di una rivalutazione
del dolore stesso o della malattia sottostante o di procedure specialistiche per tenerlo sotto controllo. Qui possono essere sottoposti anche
a indagini specialistiche per studiare le vie di trasmissione dell’impulso doloroso, a test specifici invasivi, a esami di laboratorio per risalire
per esempio alle cause di una mancata risposta agli oppiacei, e alla
valutazione del profilo psicologico. In altre parole, a questi Centri vengono inviati soggetti con problematiche antalgiche complesse, come i
pazienti con un peggioramento della propria sofferenza nonostante il
trattamento antalgico appropriato, che necessitano di terapie invasive
o strumentali o di oppiacei forti per un lungo periodo di tempo, che
hanno effetti collaterali importanti o una risposta inadeguata alle cure.
Gli ambulatori di terapia antalgica Spoke sono strutture di II livello,
indicati per casi di media gravità: qui si tengono visite specialistiche e
si pianificano le terapie antalgiche.
Nelle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) operano medici di
Medicina Generale e due esperti del dolore che rispondono alle prime
necessità di diagnosi del dolore e di impostazione tempestiva di una
cura, ed eseguono il monitoraggio dei risultati nel tempo. Se, tuttavia,
la risposta al trattamento è inadeguata o ci sono già dei segnali che indicano la presenza di quadri clinici complessi, i malati sono inviati agli
altri due livelli di assistenza, Spoke e Hub.
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Per rispondere alle particolari esigenze dei minori sofferenti, si è
prevista un’ulteriore declinazione del modello basata sull’organizzazione dei Centri di riferimento di terapia del dolore pediatrici (Hub)
per problemi specialistici di macroaree, e sull’abilitazione di pediatri
ospedalieri e di libera scelta (in rete con il Centro di riferimento) alla
gestione della gran parte delle situazioni dolorose di più facile trattamento (vedi anche il capitolo “Una rivoluzione copernicana a livello
pediatrico”).
Per monitorare e valutare l’efficacia e l’efficienza delle Reti, la legge
istituisce anche un Osservatorio sulle cure palliative e sulla terapia del
dolore per raccogliere e analizzare specifiche informazioni sulle strutture già esistenti, sulla loro organizzazione, sulle prestazioni erogate e
sulla loro qualità.
5.3.3Il ruolo del medico di medicina generale
Una delle figure centrali del percorso assistenziale per gli adulti è il
medico di Medicina Generale che, prestando la prima risposta alle esigenze antalgiche degli assistiti, può assolvere alla gestione della maggior parte dei casi rilevati sul territorio. Egli stesso può decidere il da
farsi, come prescrivere direttamente una terapia antalgica e valutare la
risposta al trattamento; di fronte a un risultato insoddisfacente o a segnali che indicano la presenza di quadri clinici complessi, può indirizzare il paziente all’ambulatorio Spoke se lamenta un dolore di media
gravità o al centro Hub se la sofferenza si manifesta in un quadro più
complesso sia per intensità sia per frequenza.
I medici di Medicina Generale, oltre a essere in stretto contatto tra loro
attraverso le AFT gestite da un team di colleghi, comunicano anche con
i centri Hub e gli ambulatori Spoke per mezzo di protocolli di diagnosi e
terapia condivisi, per identificare il paziente con dolore cronico da inviare a uno dei tre livelli di assistenza, e di monitoraggio degli esiti ottenuti.
Questo modello assistenziale soddisfa anche le esigenze di aggiornamento della Medicina Generale, poiché consente di superare quelle
criticità che si rifanno all’impostazione settoriale dell’attuale sistema assistenziale. A tutt’oggi, quando una persona accusa un disturbo si rivolge di propria iniziativa al medico di famiglia o al Pronto Soccorso e se è
un minore viene portato dal pediatra di base. Queste figure di I livello
decidono in via del tutto autonoma e indipendente da protocolli diagnostico-terapeutici o da linee guida condivise il suo invio allo specialista o
in ospedale, nel caso abbia bisogno di cure particolari di II livello.
I soggetti che lamentano dolore cronico seguono lo stesso iter
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con alcune difficoltà in più: spesso, infatti, non è chiaro a quale specialista debbano rivolgersi o a quale centro bussare, e si trovano a
dover effettuare delle vere e proprie peregrinazioni in strutture non
appropriate alla loro condizione clinica. L’innovativo approccio assistenziale, basato sul concetto di Rete, consente invece di prendere
in carico queste persone sofferenti nel loro complesso, avviandole in
un percorso che supera la logica dell’assistenza a prestazione e che
garantisce una continuità della loro gestione tra i protagonisti delle
cure primarie e quelli delle cure specialistiche: una persona con dolore cronico può essere così visitata sempre dagli stessi medici, guidata
lungo percorsi specialistici e diagnostici, e contare su un’assistenza
domiciliare se necessario.
La gestione integrata, prevista dalla legge 38/10, permette ai singoli
medici di Medicina Generale di superare anche l’isolamento in cui spesso si trovano e di aprirsi a una nuova realtà, che li porta a colloquiare
con altri colleghi di Medicina Generale operanti sullo stesso territorio e
a imbastire rapporti con i servizi del territorio e i centri ospedalieri.
5.4La formazione condivisa
La legge 38/10 non trascura neppure la formazione di tutti i protagonisti delle cure palliative e della terapia del dolore: solo dando loro la
possibilità di familiarizzare con i trattamenti antalgici e con gli strumenti di misurazione del dolore, i vari operatori sanitari coinvolti possono portare la gestione della sofferenza nella propria pratica clinica,
essere all’altezza di affrontare i singoli casi che si presentano e far funzionare realmente le Reti di assistenza.
Il team di esperti che ha messo a punto il testo della legge, oltre a stabilire in dettaglio la gestione complessiva del dolore in ogni cittadino,
si è sensibilizzato anche alla promozione della conoscenza del dolore e
della sua cura. Molto spesso, quando si parla di cambiamento di scenari si danno quasi per scontato i cambiamenti dei singoli professionisti
coinvolti, dimenticando le naturali resistenze ad attuarli. Poiché non si
voleva che questo accadesse, si è costruito un progetto formativo volto
a dare strumenti utili per colmare le criticità riscontrate nella pratica
clinica quotidiana.
Tale progetto si proponeva di creare un sistema organico di approccio, valutazione e gestione della sofferenza raggiungibile, da un lato,
facendo acquisire a tutti gli operatori sanitari del territorio le conoscenze e competenze per essere all’altezza di trattare il dolore e, dall’altro,
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promuovendo uno sviluppo professionale continuo. In altre parole, si
è pensato già dall’inizio di realizzare un modello operativo integrato
che si basasse su una formazione comune.
Il modello didattico che meglio aderisce a questi obiettivi è quello
di tipo progressivo: esso si prefigge di creare un gruppo di “formatori”
che, a loro volta, formano altri colleghi nelle proprie sedi periferiche
di lavoro. Questo schema di azione consente di diffondere in modo
capillare e rapido un approccio operativo al dolore acuto e cronico,
di aggiornare le conoscenze e di permettere il superamento di dubbi,
incertezze e difficoltà sorti nella pratica di routine.
L’efficacia della formazione a cascata doveva tuttavia essere sperimentata. A tale scopo sono partiti dei corsi pilota per i medici di Medicina Generale in quattro Regioni omogenee dal punto di vista della
popolazione, e precisamente in Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Sicilia, con il coordinamento della regione Emilia-Romagna. Nel Veneto
inoltre, è stata avviata anche la formazione dei pediatri. La formazione
dei “formatori” avrebbe assicurato un’adeguata assistenza a oltre 4 milioni di cittadini nelle Regioni coinvolte dall’iniziativa.
Un gruppo di esperti in terapia del dolore, cure palliative e formazione è stato pertanto istituito ad hoc per preparare i pacchetti formativi, garantire i corsi di formazione e scrivere il libro “Il dolore cronico in Medicina
Generale”, che vuole essere un prototipo di guida a rapida consultazione,
aggiornabile, basato su schede diagnostico-terapeutiche e comprendente algoritmi e flow-chart per supportare la pratica clinica sul dolore.
L’acculturamento dei professionisti che partecipano alla costituzione della Rete nazionale della terapia del dolore non si esaurisce tuttavia
con l’istruzione dei medici di Medicina Generale e dei pediatri. Esso
deve poter partire da molto più lontano, e precisamente dagli Atenei,
e colmare i vuoti della formazione accademica attuale. A tutt’oggi infatti, la terapia del dolore non è tra gli insegnamenti dei corsi di laurea
delle Facoltà di Medicina e Chirurgia e nel percorso post-laurea è prevista solo nella Scuola di Specializzazione in Anestesia, Rianimazione
e Terapia intensiva.
La legge 38/10 propone pertanto l’organizzazione di specifici corsi
formativi e l’istituzione di master sia in cure palliative sia nella terapia
del dolore, nonché la pianificazione di programmi obbligatori nell’ambito della Formazione Continua in Medicina, utili per l’aggiornamento
periodico dei medici ospedalieri e del territorio, del personale sanitario e degli operatori socio-sanitari. Lo stile concreto di questa normativa traspare anche in materia d’istruzione: essa individua i contenuti da
proporre nella formazione obbligatoria e definisce i percorsi formativi
per i volontari che operano nelle due Reti assistenziali.
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Capitolo 6
Una rivoluzione copernicana a livello
pedriatrico
Dagli anni ’70 al 2004 nessuno si è interessato del dolore e della terminalità
in ambito pediatrico. Nessun accenno era stato fatto nella legge 39/99 dedicata alle cure palliative negli adulti e neppure nella delibera “Ospedale senza Dolore” del 2001. Il motivo? Si pensava che il neonato e il bambino non
provassero dolore con la stessa intensità dell’adulto. È stato con il ministro
Francesco Storace (aprile 2005-marzo 2006) che si è iniziato ad affrontare
la sofferenza nei piccoli pazienti. Durante il suo mandato è stata istituita
la Commissione sulle cure palliative pediatriche per il neonato, il bambino
e l’adolescente, e sancito un documento in merito: un sunto di quest’ultimo
è stato approvato nella Conferenza Stato-Regioni nel 2007 e un documento
a esso allegato nel 2008. Un protocollo d’intesa, messo a punto con la Fondazione Lefebvre e firmato dal ministro Livia Turco nel 2008 verso la fine
del suo mandato, ha dato il via al “Progetto Bambino” volto a formare un
network per le cure palliative e la terapia del dolore e ha proposto un primo
modello assistenziale da esportare a livello regionale inserito in seguito nella
legge 38/10: un’unica Rete specialistica dedicata, pensata sia per le cure
palliative sia per la terapia del dolore, coordinata da un Centro di riferimento regionale e supportata da tutte le figure professionali del territorio. Per
realizzarla occorre formare i pediatri di base e ospedalieri come gli operatori
sanitari alla gestione della sofferenza.
6.1La tutela del mondo bambino
Le dinamiche che hanno alimentato una cultura della sofferenza in età
pediatrica partono da lontano, da quando Franca Benini, responsabile del Centro Regionale Veneto di Terapia Antalgica e Cure Palliative
Pediatriche del Dipartimento di Pediatria dell’Università degli Studi
di Padova, e la Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus si sono
alleate per mettere a punto un network nazionale sulle cure palliative
al fine di promuovere una concreta presa di coscienza della sofferenza
in pediatria, gettando le basi del “Progetto Bambino”. Era il 2001 e il
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dolore nei bambini iniziava a rientrare anche negli intenti delle Società
Scientifiche: di cure palliative in pediatria non se ne parlava neppure.
Un paio d’anni prima l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
aveva definito queste ultime come l’attiva presa in carico globale del
corpo, della mente e dello spirito del bambino comprendente anche il
supporto attivo alla famiglia: erano rimaste solo delle parole scritte.
Per smuovere le coscienze, si è organizzata nel 2002 a Trento la prima
tavola rotonda europea insieme alla Fondazione Maruzza Levebvre e
all’associazione onlus No Pain for Children per il trattamento del dolore nei bambini: all’epoca avevano partecipato 12 Paesi europei più
il Canada e gli Stati Uniti. Dopo tre giorni di intenso lavoro era stato
redatto un documento che tracciava il profilo di ciò che come minimo doveva essere dato a un bambino inguaribile. Questi livelli minimi
di assistenza sono stati portati all’attenzione dei vari Ministeri della
Salute europei: quello italiano ha risposto in maniera particolarmente
convinta a questa proposta, grazie anche all’intermediazione di Marco
Spizzichino, responsabile della Sezione di cure palliative e terapia del
dolore del Ministero della Salute che con la sua spiccata sensibilità ha
compreso l’importanza dell’argomento. Le porte del Ministero si erano
dunque aperte.
6.1.1 La prima presa di coscienza istituzionale del dolore in pediatria
Mettendo un po’ d’ordine nella legislatura, si evince che l’argomento
della sofferenza nei neonati e nei bambini inizia a essere considerato
dal Ministero della Salute nel 2005. Prima si parlava della terapia del
dolore in pediatria ma non con un approccio sistematico sostenuto da
un documento che definisse quanto meno gli intenti di come procedere. Sebbene si riconoscesse già dagli anni ’90 la necessità di formare i
pediatri e i medici in generale sull’approccio e la gestione dei minori con dolore, non si era raggiunto un quid di conoscenze sufficienti
a poter rendere gli operatori sanitari capaci di affrontare anche i casi
più specifici. Con l’avvento della legge 39 del 1999 che disciplinava le
cure palliative, gli stessi professionisti che si erano avvicinati alla cura
del dolore avevano iniziato a occuparsi, grazie a un movimento più
filosofico che a una presa di coscienza medica, alla cura del bambino
inguaribile e terminale.
Il discorso sul dolore nei minori comincia a essere intrapreso 6 anni fa
con il ministro Francesco Storace e s’inquadra nell’ambito del sostegno alla terminalità della vita dei piccoli pazienti. Sotto il suo mandato
si è istituita la prima Commissione per le cure palliative pediatriche,
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composta da Franca Benini, Furio Zucco, Marco Spizzichino e Paola
Facchin, che ha prodotto un primo documento intitolato “Cure palliative rivolte al neonato, bambino e adolescente”. Il suo scopo era quello di
iniziare ad attivare l’interesse sull’inguaribilità pediatrica e sui suoi
sintomi di accompagnamento, e di portare all’attenzione degli operatori sanitari un modello di assistenza spendibile nella pratica clinica di
tutti i giorni.
Si cominciava così a soppesare i bisogni del bambino in fin di vita
e quelli della sua famiglia, a valutare le peculiarità di un piccolo paziente che non può guarire, a considerare la sua idoneità a ricevere un
trattamento cioè a riflettere sui criteri di eleggibilità alle cure palliative
e a ponderare quali strumenti mettere in campo. Da questo documento ne è nato un altro che portava la postilla di crearne un altro ancora
per ampliare il raggio d’interesse alla creazione di una Rete assistenziale: il volano delle cure palliative in pediatria era dunque partito.
È stato tuttavia nel 2007, durante il Ministero di Livia Turco, che è stato approvato nella Conferenza Stato-Regioni un documento sulle cure
palliative pediatriche per il neonato, il bambino e l’adolescente e firmato un protocollo d’intesa con la Fondazione Lefebvre che ha generato
il “Progetto Bambino” volto a offrire elementi utili alle Regioni, quali il
supporto formativo, le modalità di fund raising e la ricerca, per realizzare una Rete nazionale di cure palliative pediatriche. In questo modo la
Fondazione Maruzza Lefebvre diventava la mano del Ministero della
Salute per attuare un modello assistenziale esportabile a livello regionale. Il “Progetto Bambino” sarà in seguito firmato nuovamente dal
ministro Ferruccio Fazio.
6.1.2 La necessità di voltare pagina
L’input che ha portato a riprendere in mano l’argomento dolore nel
bambino in occasione della realizzazione della legge 38/10 è stata la
presa di coscienza che senza un cambiamento istituzionale non si sarebbe arrivati a nulla: purtroppo ci si era accorti che lasciare agli operatori sanitari la libertà di occuparsi della sofferenza nei minori non
faceva decollare una cultura in merito. Non rimaneva altra strada che
imporla.
Le persone che hanno portato avanti la causa della sofferenza in età
pediatrica si sono rese conto che occorreva una legislazione per dare
una reale considerazione al dolore nei minori. Lasciare alla libera scelta
dei singoli la sua cura non avrebbe portato a nulla di concreto, perché era troppo difficile inculcare questo concetto nella loro mente. Un
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esempio? Se i genitori e gli operatori sanitari di fronte alla febbre del
bambino non ci pensano due volte a misurargli la temperatura, la stessa dinamicità non era sperabile per la sofferenza: se il piccolo aveva
dolore non era infatti automatico che si misurasse la sua intensità e
tanto meno che si pensasse a come alleviarlo al meglio.
Una maggiore sensibilizzazione dei singoli protagonisti sull’inguaribilità del bambino, sulla sua sofferenza e sui sintomi a essa correlati sarebbe stata sufficiente a cominciare una presa di coscienza,
ma non a continuarla nel tempo. Per innescarla una volta per tutte
e per renderla duratura c’era bisogno di un mutamento radicale di
mentalità, perseguibile solo con un cambiamento istituzionale iniziato da un movimento importante. La legge 38/10 si è dimostrata
un’opportunità, un treno da prendere al volo e da non lasciarsi sfuggire.
6.1.3 L’educazione al dolore prima di tutto: l’obiettivo di formazione
del gruppo di lavoro in pediatria
A fianco del gruppo di lavoro che ha iniziato a imbastire il disegno di
legge sulle cure palliative e la terapia del dolore negli adulti, si è così
formata una piccola task-force di pediatri, che in qualità di tecnici
si occupava di redigere i passaggi relativi alla sofferenza in età pediatrica. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di occuparsi della formazione di chi poi, sul campo, avrebbe dovuto gestire fattivamente la battaglia contro il dolore nei neonati e nei bambini. Ecco
come è stato affrontato il tema dell’educazione dei singoli operatori
sanitari.
Per favorire l’apprendimento del giusto modo con cui rapportarsi
con i piccoli sofferenti, il team di pediatri ha scritto il manuale intitolato “Il dolore nel bambino. Strumenti pratici di valutazione e terapia”
da distribuire a 8 mila pediatri italiani. I suoi autori (Franca Benini,
Egidio Barbi, Michele Gangemi, Luca Manfredini, Andrea Messeri,
Patrizia Papacci) si sono proposti di approfondire la conoscenza del
tema dolore e nello stesso tempo di fornire una guida pratica al suo
trattamento: ogni capitolo è infatti corredato da flow-chart di facile
impiego, che ne indirizza la gestione sia in ambito territoriale che
ospedaliero.
Di rapida consultazione, aggiornabile e basato su schede operative
diagnostico-terapeutiche, tocca tutti i punti della gestione del dolore
sul campo relativa al neonato e al bambino: affronta la valutazione e la
misurazione del dolore in età pediatrica, la sua valenza diagnostica nei
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disturbi addominali, toracici e osteoarticolari nonché le cefalee, il trattamento non farmacologico e quello farmacologico con una particolare
puntualizzazione di indicazioni, dosi e limiti d’uso per gli analgesici,
oppiacei compresi.
Oltre alla sedo-analgesia in corso di procedure invasive, specifica
quando un bambino deve essere indirizzato a uno specialista in analgesia, richiama la normativa nell’ambito della terapia del dolore in pediatria e si sofferma sul ruolo delle Organizzazioni non profit nella
gestione della sofferenza nei minori.
In altre parole, vuole colmare quel vuoto d’informazione lasciato
dalla mancanza di corsi universitari pre-laurea e specialistici sulla gestione della sofferenza in pediatria, annullare quel gap esistente tra gli
avanzamenti scientifici in materia di dolore e il comportamento osservato tra i pediatri, ridimensionare il retaggio culturale che considera la
sofferenza uno strumento educativo e allentare il timore sull’uso dei
farmaci oppiacei.
Un libro poteva cominciare a spostare l’argomento dolore da uno
spazio marginale in cui era da tempo relegato a una posizione di primo piano. Per preparare in modo capillare i singoli professionisti al
trattamento del dolore ci voleva tuttavia qualcosa di più. Si è deciso
pertanto di seguire lo stesso iter educativo a cascata (alcuni formatori
educano altri formatori sul territorio che, a loro volta, insegnano ad altri colleghi un approccio pratico al dolore) scelto per l’istruzione degli
operatori sanitari coinvolti nelle due Reti nazionali di assistenza agli
adulti bisognosi di cure palliative e di terapia del dolore.
Il miglior modello didattico per raggiungere questo obiettivo era
quello di tipo progressivo, che si prefiggeva di creare un gruppo di
formatori che a loro volta avrebbero formato altri colleghi nelle loro
sedi periferiche di lavoro. La task-force di pediatri diventava così il
braccio lungo del Ministero della Salute e di Guido Fanelli, l’attuale
presidente della Commissione Ministeriale sul dolore, che avevano deciso di perseguire questa diffusione progressiva della nuova cultura
della sofferenza sul territorio lavorando alla messa a punto di un format educativo per le cure palliative e di uno per la terapia del dolore
nei piccoli pazienti.
Agli stessi autori del libro sarebbe spettato il compito virtuoso di
iniziare a istruire: essi sarebbero diventati il team centrale di docenti
impegnati a eseguire la “formazione dei formatori” che, attentamente
supervisionati, avrebbero attuato gli interventi educativi per i loro colleghi secondo i format realizzati dalla task-force.
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6.2 Cura del dolore e minori: perché questo binomio
Non esistono limiti d’età alla percezione del dolore. Già nel grembo
materno, a partire dal secondo trimestre di gestazione, il feto possiede
un sistema formato per percepire il dolore e sin dall’età neonatale è in
grado di avere “memoria” della sofferenza provata.
La valutazione, la cura e la gestione del dolore in età pediatrica sono
state giustamente previste dalla nuova legge anche in virtù dei progressi scientifici in materia e delle sempre maggiori evidenze a sostegno del fatto che anche il neonato e il bambino possono soffrire.
Già dalla 23a settimana di gestazione, cioè circa alla fine del secondo
trimestre di gravidanza, il sistema nervoso centrale è competente per
percepire la sensazione dolorosa. I suoi nocicettori sono in grado di
recepire un segnale chimico, proveniente dal danneggiamento di un
tessuto periferico, e di convertirlo in impulso nervoso di natura elettrochimica da inviare alle strutture centrali. Ma non solo.
A parità di stimolo, tanto più giovane è il paziente tanto più avverte
un dolore intenso, perché fino a circa 18 mesi di età il suo sistema di
nocicezione può contare su una minore inibizione: è pertanto meno
controllabile e maggiormente eccitabile. Il neonato, come il bambino
nato pre-termine, produce inoltre una precoce e abbondante quantità
di neurotrasmettitori in risposta a uno stimolo doloroso che può diventare così persistente nel tempo da scatenare reazioni simili a quelle
prodotte dallo stress nell’adulto, come per esempio modificazioni ormonali e metaboliche, di frequenza cardiaca, pressione arteriosa e pH
nonché comportamentali.
Ne consegue che in età pediatrica il dolore non trattato può comportare prognosi peggiori, complicanze e addirittura aumentare il rischio
di mortalità. La ripetizione delle stimolazioni dolorose, inoltre, può
essere a lungo andare particolarmente dannosa, perché promuove la
proliferazione delle terminazioni periferiche, incrementa l’eccitabilità
a riposo e mette a repentaglio la sopravvivenza dei neuroni stessi. Nel
complesso, un’esperienza dolorosa vissuta in tenera età può compromettere lo sviluppo del sistema antalgico e alterare la soglia del dolore
aumentando la vulnerabilità per ansia e stress nell’età adulta. Anche i
neonati possono ricordare il dolore: la sua memoria può influenzarne
la vita e determinare alterazioni comportamentali e cognitive nonché
problemi psicologici. Da tutte queste considerazioni si evince che il
dolore esiste a tutte le età, che anche nei neonati e nei bambini può cronicizzarsi e che deve essere valutato e trattato adeguatamente, se non
si vuole che lasci un segno indelebile nella loro esistenza.
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6.2.1 Le dimensioni del problema
Il dolore è parte integrante del bambino inguaribile, con malattie reumatiche od oncologiche, sottoposto a interventi chirurgici o a terapia
intensiva o neonatale. I “suoi numeri” devono far riflettere.
Nel momento in cui si è presa coscienza che l’essere un bambino non
esonera dalla sofferenza, si è cominciato a “contare” i minori che la
sperimentano e si è scoperto che sono molti. L’80% dei piccoli pazienti
ricoverati ha una patologia che dà dolore e coloro che presentano una
malattia reumatologica od oncologica, che hanno subito un intervento
chirurgico o che assumono una terapia intensiva, lo provano quotidianamente.
Non solo in ospedale ma anche tra le quattro mura di un ambulatorio i bambini possono sperimentarlo: un’infezione o un trauma può
scatenarlo nel 94% dei casi, mentre la cefalea o le coliche addominali
possono determinarlo nel 15-20% dei piccoli in età scolare.
Il progresso in campo medico e tecnologico ha portato inoltre a un
allungamento della sopravvivenza nella malattia; ne è conseguito un
incremento del numero di nuovi bambini malati, bisognosi di cure palliative anche per un periodo di tempo molto lungo e in varie fasi della
vita. A fornire un’aggiornata dimensione del problema dolore nei minori è stata l’esperienza veneta, capofila nella gestione della sofferenza
pediatrica, che già nel quinquennio 2000-2004 aveva svolto un’analisi
retrospettiva sulle schede di dimissione ospedaliera e sui dati di mortalità nei pazienti pediatrici: i risultati ottenuti avevano messo in evidenza come 10 minori su 10 mila avessero bisogno di cure palliative
specialistiche.
Tradotto in cifre, significava che 650 minori soffrivano ogni anno
di una malattia cronica inguaribile e richiedevano cure palliative pediatriche. Di essi, 65-70 bambini, pari a uno su 10 mila, morivano ogni
anno per malattie eleggibili a cure palliative. Questi dati sono stati confermati da uno studio eseguito dal Ministero della Salute insieme all’ISTAT, che ha evidenziato come nel nostro Paese muoiano ogni anno
1.100-1.200 bambini tra 0 e 17 anni per una malattia inguaribile/terminale, in pratica 1 su 10 mila. Di questi, il 40% decede a casa soprattutto
se ha un tumore (41%) e se risiede nel Mezzogiorno: la morte a domicilio avviene infatti nel 60-70% dei casi nelle regioni del Sud e nel 10-15%
in quelle del Nord. Eseguendo un’analisi delle schede di dimissione
ospedaliera eseguita nell’arco di tre anni (2002-2004), si è calcolato che
nel nostro Paese circa 11 mila minori, pari a 10 piccoli pazienti su 10
mila, hanno bisogno di cure palliative pediatriche, perché affetti da un
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cancro nel 30% dei casi o da malattie metaboliche, neurodegenerative
e genetiche nei rimanenti casi.
6.2.2Il ricorso improprio all’ospedale
Il dolore nel neonato e nel bambino è spesso affrontato in modo inadeguato. Gli effetti scatenati dalla scarsa attenzione nei suoi confronti
sono devastanti: oltre a compromettere la prognosi attuale e futura del
piccolo paziente, a peggiorare la sua qualità di vita e quella della famiglia e a inficiare il rapporto di fiducia tra l’utenza e l’istituzione sanitaria, comporta un enorme esborso di denaro dalle casse dello Stato, che
potrebbe essere risparmiato e reinvestito al meglio nell’ambito delle
cure palliative e della terapia del dolore.
La necessità di istituire una Rete assistenziale che regolamentasse l’offerta delle cure palliative e della terapia del dolore era scaturita anche
dall’evidenza che il 60% dei minori affetti da malattia inguaribile moriva nei reparti ospedalieri per acuti, e di questi il 25% in Terapia Intensiva, dove non si fa né palliazione né si somministra la terapia del dolore.
Un’analisi eseguita in Veneto e riferita ai ricoveri relativi a un gruppo di malattie presentabili da minori potenziali utenti di cure palliative, aveva sottolineato come questi ricoveri impropri conducessero a
un alto numero di giornate di degenza ospedaliera: un minore inguaribile effettuava circa 10 ricoveri all’anno con una media di 150 giorni di
degenza ospedaliera all’anno.
Proiettando queste stime a livello nazionale, i giorni di ricovero utilizzati dai pazienti in un anno arrivavano a ben 1.600.000: una cifra
esorbitante, a cui andava sommata la prolungata occupazione dei letti
in Terapia Intensiva generale, specialistica e semi-specialistica. Nel Veneto, il 50% dei bambini bisognosi di cure palliative veniva ricoverato
in questi reparti almeno una volta all’anno e vi trascorreva una media
di 100 giorni che, trasposti all’intera nostra nazione, lievitavano a ben
580 mila giorni di degenza.
La permanenza in questi reparti ad alta tecnologia, unita alla ripetizione di interventi e di complesse indagini strumentali eseguite anche
nelle ultime fasi della vita, faceva innalzare notevolmente i costi sostenuti annualmente dalla rete ospedaliera che, in base alle tariffe dei
DRG, ammontavano in Italia a circa 80 milioni di euro per i ricoveri ordinari e a 580 milioni di euro all’anno per le degenze in Terapia Intensiva. Il prezzo pagato inoltre dalle famiglie, in termini umani, sociali
ed economici, era estremamente gravoso: l’esperienza di dover gestire
un minore inguaribile sconvolgeva i progetti per il futuro della metà
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delle famiglie e portava alla rottura di un terzo di esse dopo la morte
del minore.
6.3L’esperienza dell’hospice pediatrico di Padova
Un esempio di assistenza che funziona è il Centro di riferimento veneto situato nell’Azienda Ospedaliera di Padova, declinato ad hoc per
far fronte alla sofferenza dei minori. Dalla sua lunga attività si è preso
spunto per proporre un modello di strutture sanitarie capaci di gestire
neonati e bambini inguaribili, e per definire le strategie operative che
possano metterle in collegamento con il territorio.
L’organizzazione di una Rete assistenziale in età pediatrica era quanto
mai utile per venire incontro a due necessità: la prima, quella del minore che non riceveva le cure di cui aveva bisogno e della sua famiglia
che doveva farsi carico a 360 gradi degli oneri assistenziali, economici
e gestionali della malattia inguaribile per il proprio figlio; e la seconda,
quella dello stesso Servizio Sanitario Regionale che si trovava a sostenere costi rilevanti senza fornire un’adeguata assistenza ai piccoli pazienti.
Da quali presupposti partire per progettare un network di condivisione di competenze, che potesse dare una maggiore offerta di salute e
ricollocare le risorse economiche derivanti dal risparmio sui costi impropri di assistenza, ridimensionando soprattutto il ricorso all’ospedale, molto accentuato quando il paziente è un minore? L’unico esempio
italiano di erogazione di cure palliative e di terapia del dolore a cui
rifarsi era il Centro di riferimento veneto.
Pensato dal 1989, tre anni fa è stato realizzato un hospice al suo
interno, costituito da piccoli monolocali dove la famiglia del bambino
inguaribile si trasferisce per imparare a vivere con questo figlio speciale. Esso viene attivato al bisogno da tutte le forze sanitarie operanti
sul territorio, per esempio i pediatri ospedalieri e di base, i medici di
Medicina Generale, i responsabili dei distretti. Il suo modello funziona perché è stato sviluppato con un sistema di assistenza domiciliare:
nell’hospice il piccolo paziente viene ricoverato per un periodo molto
breve, necessario a ricevere un intervento specialistico di cure palliative e terapia del dolore.
In questa sede infatti, per lenire il dolore può essere intrapreso un
trattamento non farmacologico che si avvale di tecniche cognitivocomportamentali, di distrazione, respirazione, rilassamento, visualizzazione (viaggio mentale nel luogo preferito), ipnosi e desensibilizza-
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zione, volte ad abbassare la sensibilità allo stimolo doloroso e a ridurre
l’ansia e la paura da esso derivanti.
Il paziente può beneficiare anche di metodi fisici capaci di ridurre
l’intensità del dolore avvertito, come il tocco, le carezze o il massaggio,
la fisioterapia, l’agopuntura o l’elettroneurostimolazione transcutanea
la quale, rilasciando stimoli elettrici attraverso elettrodi posti sulla pelle, interferisce con il sistema nocicettivo modulando la trasmissione
del dolore. Oppure può essere sottoposto a una terapia del dolore personalizzata sulle sue esigenze che prevede l’uso di FANS, oppiacei deboli o forti a seconda dell’intensità della sofferenza provata.
Il modello di assistenza proposto era da tenere senz’altro in considerazione per ideare un nuovo sistema organizzativo integrato nel
territorio e pensato per l’età pediatrica.
6.3.1 Le peculiarità dell’essere bambino
I piccoli pazienti terminali o con dolore acuto o cronico hanno caratteristiche che li diversificano dagli adulti sofferenti. La loro particolarità
guida i criteri di eleggibilità alle cure palliative o alla terapia del dolore
in età pediatrica e va tenuta in considerazione per promuovere interventi di assistenza mirati.
Il Centro di riferimento veneto con l’hospice di Padova è stato anche
una buona palestra per far confrontare gli operatori sanitari con le
peculiarità del piccolo inguaribile. Un bambino è infatti una persona
particolare e complessa, e lo è ancora di più quando diventa un “paziente”.
Questa sua tipicità non deve essere tuttavia vissuta come un limite,
ma come una sfida volta a promuovere un intervento estremamente
personalizzato anche nella cura del dolore. Per esempio non è semplice
capire quando un bambino soffre: la sua emotività ne modula la manifestazione. L’età è una variabile importante perché produce individui molto diversi tra loro per sviluppo fisico e psichico, maturità degli
organi e apparati, metabolismo e potenzialità di crescita: un neonato
è assai diverso da un adolescente e un lattante da un bambino in età
scolare.
Moltissime sono inoltre le malattie che in età pediatrica possono
richiedere le cure palliative o la terapia del dolore: un quarto di esse
origina da sequele di patologie neonatali e un altro quarto da malformazioni congenite, malattie cromosomiche o genetiche; tumori, disturbi neurologici, patologie metaboliche e un’ampia miscellanea di altre
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condizioni sono appannaggio dei casi rimanenti. Tutte danno un’altissima variabilità di quadri clinici: alcuni di essi possono richiedere un
supporto palliativo o analgesico circoscritto ai primi anni di vita, altri
per un breve periodo o per periodi intermittenti, altri ancora per tempi
decisamente maggiori come per esempio nel caso di fibrosi cistica, cardiopatie o malattie autoimmuni.
Bisogna poi tenere conto del fatto che un bambino inguaribile è pur
sempre un bambino che deve crescere nel fisico e maturare nella personalità, e a cui occorre dare anche istruzione, svago e affetto. Le sue
necessità non vanno disgiunte da quelle della sua famiglia, che deve
essere informata, addestrata a somministrare le cure, ascoltata e aiutata. Ma non solo. A rendere ancora più variegata la situazione è la diversa efficacia dei farmaci analgesici a seconda dell’età e della condizione
di salute.
Molte molecole terapeutiche si distribuiscono nell’organismo e agiscono in modo diverso da bambino a bambino. La stessa dose non è
valida in senso assoluto come nell’adulto, ma va stabilita di volta in
volta in base agli anni del piccolo paziente, al peso e alla superficie corporea. La modalità di risposta può tra l’altro cambiare per immaturità
degli organi, per una diversa concentrazione di proteine e di acqua,
per un numero variabile di recettori capaci di legare i farmaci somministrati e per i limitati meccanismi di compenso in caso di intossicazione ed effetti collaterali.
6.3.2I bisogni complessi richiedono risposte multispecialistiche
Il numero di minori che richiedono cure palliative e terapie del dolore specifiche è inferiore a quello degli adulti. Questo aspetto, unito
all’irrisoria esperienza maturata nella loro presa in carico, costituisce
a suo modo un limite al decollo di una gestione generale e individuale dei bambini sofferenti. In Italia alcune realtà assistono i bambini
negli stessi hospice creati per gli adulti, altre invece li seguono sulla
base di collaborazioni attivate tra medici e la Rete di cure palliative
per gli adulti, poche altre mediante programmi di assistenza domiciliare stabiliti per una precisa tipologia di malato, per esempio per
i piccoli pazienti con insufficienza respiratoria o con una patologia
emato-oncologica. Da un lato il loro fiorire ha contribuito a non lasciar cadere l’attenzione sul problema dolore nei minori, dall’altro
sono tentativi che meritano di essere organizzati in un assetto assistenziale più organico.
I bambini che richiedono interventi specifici di cure palliative e di te-
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rapia del dolore sono pochi: il loro numero è nettamente inferiore a
quello degli adulti e degli anziani. A questa particolarità si deve aggiungere la distribuzione dei limitati casi in ampie zone, l’eterogeneità
delle situazioni e i bisogni complessi dei piccoli pazienti e della loro
famiglia: la maggior parte dei genitori vuole infatti che il proprio figlio
sia curato a domicilio e il bambino stesso vuole rimanere a casa.
Ci si trova pertanto di fronte a piccoli pazienti ad altissima difficoltà
di gestione, distribuiti in aree assai vaste secondo un rapporto di 1 su
300-400 casi: ogni caso diventa pertanto un episodio a sé stante, che
merita una gestione alquanto personalizzata.
D’altro canto le esperienze pilota di Reti assistenziali pediatriche
internazionali e nazionali da cui prendere spunto sono state finora pochissime e tarate sulle cure palliative. Si può citare, per esempio, l’articolata Rete di hospice fiorita in Inghilterra: il fatto che sia supportata
da organizzazioni private la rende tuttavia molto dissimile dalla condizione che si è venuta a creare in Italia per l’adulto, in cui la Rete delle
cure palliative è sostanzialmente pubblica e il privato, pur svolgendo
un’importante azione di supporto, non si sostituisce mai a essa. Oppure si può ricordare la Rete di hospice integrati alle assistenze domiciliari satelliti nata negli Stati Uniti: per la grande estensione del bacino che
copre e per le elevate risorse disponibili anch’essa difficilmente può
essere adeguata alla situazione italiana.
Nel nostro Paese dal 2005 ci sono stati dei tentativi di organizzare
una Rete di servizi in pediatria. In Lombardia, per esempio, l’Ospedale
dei Bambini Buzzi di Milano ha istituito una collaborazione tra i medici della Terapia Intensiva pediatrica e la Rete di cure palliative degli
adulti, programmato le dimissioni “protette” per i piccoli inguaribili e
promosso una continuità assistenziale attraverso brevi ricoveri, ambulatori dedicati e assistenza domiciliare, mettendo in campo un approccio multidisciplinare specialistico; gli Ospedali Riuniti di Bergamo ha
iniziato un’attività sia di lavoro sia di formazione per sostenere l’assistenza domiciliare e, dove ci sia bisogno, l’accoglienza presso l’hospice
degli adulti; l’Istituto dei Tumori di Milano ha preso in carico nel 2006
ventinove su 47 bambini e adolescenti in fase terminale con un’équipe
multidisciplinare formata da pediatri, oncologi, chirurghi, psicologi,
infermieri e radioterapisti: 12 piccoli pazienti sono stati curati al proprio domicilio con la collaborazione dei servizi del territorio e 4 affidati
all’hospice dell’adulto.
In Campania è attiva da molti anni l’assistenza domiciliare dei bambini con insufficienza respiratoria presso la Rianimazione dell’Azienda
Ospedaliera di Rilievo Nazionale Santobono Pausilipon di Napoli: qui
vengono seguiti a domicilio in regime di assistenza domiciliare inte-
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Una rivoluzione copernicana a livello pediatrico
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grata secondo una convenzione stipulata con le strutture territoriali.
In Emilia-Romagna il bambino inguaribile viene gestito da una squadra multidisciplinare che si avvale dei servizi territoriali e ospedalieri.
Nel Lazio sono state fatte due esperienze di Home in Hospital presso
l’Ospedale Grassi di Ostia e l’Ospedale di Fondi; in Liguria un’équipe
specialistica dell’Istituto Gaslini di Genova ha valutato l’ospedalizzazione domiciliare per bambini emato-oncologici; in Piemonte si è condotta l’esperienza di una Rete per l’assistenza domiciliare che si vuole
estendere a tutta la Regione coinvolgendo Centri di riferimento regionali, Ospedali provinciali e periferici, il 118 e la Medicina del territorio;
in Toscana si è fatto finora riferimento alla Rete di cure palliative dell’adulto che di volta in volta integra i centri pediatrici con la mediazione
dell’Ospedale Meyer.
In Veneto, già nel 2003 era stata deliberata dalla Regione una Rete
di cure palliative pediatriche, facente capo a un Centro di riferimento
con un hospice pediatrico al suo interno, che per mezzo di un’équipe
multiprofessionale pianificava l’integrazione con i servizi territoriali e
ospedalieri per i minori con o senza malattia oncologica: un modello
che negli anni successivi si è concretizzato tanto che attualmente la
regione Veneto è l’unica ad avere una rete assistenziale. Come si nota
le esperienze sono variegate e si avvalgono di strutture e figure professionali già esistenti.
6.4 Un’unica Rete di assistenza in pediatria
Sfruttare ciò che c’è già e renderlo idoneo a prendersi carico delle articolate necessità dei minori con dolore: è questo il principio ispiratore che ha individuato nella Rete assistenziale specifica, decentrata
sul territorio e gestita da personale dedicato, il miglior modello per
risparmiare risorse e professionalità e per garantire una continuità di
cura e di assistenza.
L’obiettivo della legge 38/10 era quello di dare una risposta specifica
ai bambini che per la loro sofferenza, malattia, età e condizione richiedevano un’attenzione particolare. Quale modello di quelli già tentati
in embrione nel nostro Paese, attuati all’estero o riportati in letteratura
poteva fare al caso italiano? Quale poteva risultare il migliore per raggiungere ogni bambino con dolore nel luogo dove si trova, fornirgli
assistenza competente e prospettargli un’alternanza di opzioni diverse, ripartite tra la permanenza a casa e il soggiorno in una struttura sia
che necessiti di cure palliative sia che abbia bisogno di una terapia del
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
dolore momentanea o continuativa? Di certo una struttura di assistenza a Rete che porti l’équipe pediatrica al domicilio del piccolo paziente
poteva ben soddisfare queste esigenze.
Secondo questo indirizzo, la legge 38/10 ha proposto un’unica
Rete specialistica dedicata con riferimento ad ampi bacini d’utenza,
coordinata da un Centro di riferimento regionale, che possa rispondere ai bisogni di salute dei minori e delle loro famiglie e permettere la
valorizzazione delle risorse esistenti. Solo un sistema organizzativo e
assistenziale studiato ad hoc per il paziente pediatrico e che accomuni
le richieste di cure palliative e di terapia del dolore può, infatti, ottimizzare l’utilizzo di competenze, strutture, strumenti e tempo, nonché
migliorare e rendere contemporaneamente omogenea la risposta assistenziale per questi piccoli pazienti: bastava quindi formare in modo
adeguato i pediatri di base e ospedalieri e le figure professionali del
territorio per far fronte alla cura e all’assistenza dei bambini con dolore
o bisognosi di cure palliative.
La nuova legge ha pertanto proposto un modello generale di Rete
pediatrica, che sarà poi declinata dalle singole Regioni a seconda delle
proprie esigenze e che, anziché prevedere tre diversi livelli di assistenza come quella riferita agli adulti (Hub specialistico per i casi di
dolore grave, Spoke ambulatoriale per i casi di dolore moderato e Rete
dei medici di Medicina Generale), ne preveda solo due. E precisamente un livello specialistico che faccia capo a un Centro di riferimento
regionale o per ogni tre milioni di abitanti, e un livello generale che
si avvalga del personale sanitario già presente sul territorio (personale medico e infermieristico dei reparti di pediatria od ospedalieri
e pediatri di base). Al primo vengono indirizzati i casi complessi di
dolore pediatrico (20-30%), per esempio casi di dolore terminale, di
dolore acuto o cronico scarsamente rispondenti alla terapia di base o
poco supportati dalla famiglia per quanto riguarda la terapia antalgica, nonché casi che necessitano di programmi terapeutici articolati
gestiti da un’équipe dedicata con competenze specifiche; al secondo
vengono invece demandate le situazioni dolorose più comuni. I due
livelli di assistenza devono collaborare strettamente tra loro e condividere obiettivi e metodi.
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Capitolo 7
I risvolti della legge
I 12 articoli e i 38 commi che compongono il testo della nuova normativa
portano altre rilevanti innovazioni: dalla semplificazione della prescrizione
degli oppiacei, possibile oggi con una ricetta normale, alla misurazione e registrazione del dolore nella cartella clinica come uno dei cinque parametri vitali,
all’obbligo di cura del dolore anche negli anziani. Il controllo della sofferenza
nella terza età è infatti quanto mai importante perché innesca quella spirale
virtuosa che allontana dalla fragilità emotiva, alimentare, cognitiva, funzionale e sociale.
7.1La prescrizione degli oppiacei
L’articolo 10 della legge 38 sancisce lo spostamento degli oppiacei non
iniettabili utilizzati nella terapia del dolore contenuti nella Tabella II
dalla sezione A alla sezione D. In questo modo il medico può usare lo
stesso iter prescrittivo impiegato per un qualsiasi altro farmaco, come
per esempio un antibiotico somministrabile per bocca: è sufficiente
che compili la ricetta rossa del Servizio Sanitario Nazionale o la ricetta
bianca del ricettario personale perché il proprio assistito possa acquistarli. Le ordinanze ministeriali hanno di solito un carattere d’urgenza
e vengono emanate velocemente per porre rimedio a questo o a quel
problema imminente, ma hanno una durata limitata di 12 mesi. Quelle
firmate dal vice ministro Fazio sullo spostamento degli oppiacei dalla
sezione A alla sezione D della Tabella II non facevano eccezione: avevano apportato un grande cambiamento alla prescrizione dei farmaci stupefacenti per la terapia del dolore semplificandola molto, ma i
provvedimenti che sancivano restavano pur sempre in vigore solo un
anno: per non far decadere gli importanti progressi raggiunti occorreva inserirli in una forma legislativa permanente.
La legge 38/10 è stata l’occasione che si aspettava. Nell’articolo 10 è
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
stata inserita la semplificazione delle procedure d’accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore: esso sancisce che gli oppiacei
non iniettabili indicati per la terapia del dolore, contenuti nella sezione D della Tabella II, possono essere prescritti con una normale
ricetta medica, non ripetibile e rinnovabile volta per volta; per gli altri
farmaci stupefacenti deputati alla cura del dolore che restano nella sezione A della Tabella II, cioè il metadone, la buprenorfina non per via
transdermica e le sostanze iniettabili, vale ancora il ricettario speciale
a ricalco.
Le ricette rosse del Servizio Sanitario Nazionale devono essere compilate nel dettaglio: devono contenere il codice TDL (terapia del dolore) per l’esenzione alla partecipazione della spesa, la prescrizione dei
medicinali per la terapia deve coprire un arco di tempo non superiore
a 30 giorni e deve essere indicata la posologia.
Le ricette bianche devono riportare l’indicazione “terapia del dolore” per distinguerle dalle ricette relative alle prescrizioni per la disassuefazione e la posologia affinché sia rispettato il limite di 30 giorni
di trattamento. In entrambe le ricette, il farmacista annota il nome, il
cognome e gli estremi di un documento di riconoscimento dell’acquirente.
7.1.1 La dispensazione degli oppiacei: il ruolo del farmacista
La legge 38/10 ha regolamentato anche l’approvvigionamento degli
oppiacei non iniettabili, cioè somministrabili per via transdermica,
orale e rettale, contenuti nella Tabella II sezioni D ed E, al fine di snellirne le procedure d’acquisto. In tutti i passaggi di questo percorso di
semplificazione il farmacista è stato coinvolto e ha rafforzato la sua
alleanza con il cittadino. Non deve più compilare il bollettario “buoni
acquisto” e neppure il registro delle confezioni in entrata e in uscita, e
può interpretare la ricetta del medico in modo da garantire un’immediata copertura antidolorifica per 30 giorni. Grazie a queste modifiche,
il cittadino può avere subito il farmaco oppiaceo richiesto o al massimo
nell’arco di un giorno se, al momento della richiesta, la farmacia ne è
carente.
La Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani (FOFI) ha dato un
suo importante contributo per agevolare sul piano pratico il ricorso
agli oppiacei e smantellare i pregiudizi nei loro confronti, ancora troppo diffusi in Italia. Nella fase di elaborazione della legge ha sottolineato la necessità di rendere più agile la dispensazione di queste sostanze
anche interpretando la prescrizione che l’assistito porta in farmacia,
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così da evitargli il ritorno dal medico in caso di incongruenze formali.
Si è pertanto battuta per ridimensionare la burocrazia e rendere attuabile un appropriato approvvigionamento degli oppiacei.
La legge 38 ha apportato dei cambiamenti positivi per l’approvvigionamento degli oppiacei non iniettabili. Prima della sua approvazione, per ordinare un oppiaceo dal grossista il farmacista doveva compilare a mano una richiesta da staccare dall’apposito bollettario “buoni
acquisto”, consegnarla a mano al fattorino (e non inviarla via fax al fornitore) il quale doveva darla al responsabile del magazzino che, dopo
averla riportata sul registro, passava ad allestire l’ordine che ripassava
dal fattorino per arrivare al farmacista: una procedura macchinosa che
ora non è più necessaria.
Il bollettario “buoni acquisto” non deve più essere utilizzato per la
vendita o la cessione delle composizioni contenute nelle sezioni D ed E
della Tabella II degli stupefacenti. Per questa categoria di farmaci non
è, inoltre, più previsto il registro di carico e scarico su cui segnarne le
quantità e le dosi in entrata e in uscita. Oggi il farmacista si approvvigiona degli oppiacei per via informatica, come per gli altri farmaci:
usa un modulo elettronico che può contenere più di un medicinale
che arriva pertanto al distributore con una nota unica contenente
il fabbisogno della farmacia. È un sistema che porta la dispensazione
degli oppiacei allo stesso grado di efficienza e rapidità degli altri farmaci.
Grazie alla nuova legge, il farmacista può consegnare al cittadino
un numero di confezioni necessario per coprire i 30 giorni di terapia
consentiti dalla normativa (limite massimo) anche se le unità posologiche contenute nelle confezioni in commercio dovessero eccedere i 30
giorni. Se, per esempio, un medico prescrive una compressa al giorno
per un mese e la confezione in commercio ne contiene 28, oggi il farmacista può vendere due scatole, dandone comunicazione al medico
prescrittore. Fino a un anno fa doveva invece rimandare l’assistito dal
proprio medico di famiglia con la richiesta di una nuova ricetta in cui
fossero prescritte due compresse al giorno, in modo da avere un presupposto scritto per dispensare due confezioni.
Il farmacista può attualmente anche frazionare il numero di confezioni di oppiacei da consegnare al cittadino. Se, per esempio, riceve
una ricetta di prescrizione di oppiacei di durata superiore a 30 giorni,
può consegnare soltanto il numero di confezioni sufficienti a coprire
i 30 giorni di terapia in relazione alla posologia indicata dal medico,
dandone immediata comunicazione al medico. Prima della legge era
costretto invece a far tornare l’assistito dal proprio medico per ottenere
una nuova prescrizione.
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La legge 38/10, la più evoluta in Europa per la cura del dolore
Oltre alle ricette rosse del Servizio Sanitario Nazionale, per alcuni
analgesici il farmacista può accettare anche le ricette bianche provenienti dal ricettario personale del medico; si tratta dei cosiddetti farmaci transitati. Per queste ricette “bianche” il farmacista deve annotare
sulla prescrizione il nome, il cognome e gli estremi di un documento di
riconoscimento dell’acquirente, conservarne una copia per due anni e
inviare entro la fine di ciascun mese all’Ordine provinciale competente
per territorio una comunicazione riassuntiva del numero di confezioni dispensate nel mese precedente, distinte per forma farmaceutica e
dosaggio; la ricetta è inoltre da considerare non ripetibile e valida per
30 giorni.
Il farmacista è quindi entrato a pieno titolo nella battaglia culturale
contro il dolore rivolta a tutti gli operatori del campo sanitario. Si può
dire che oggi è anch’egli parte integrante di quella rete di alleanze che
questa legge vuole rafforzare sul territorio. E lo sarà ancora di più in
futuro. La legge n. 69 sull’attribuzione di nuovi servizi socio-sanitari
alle farmacie prevede il coinvolgimento del farmacista nell’assistenza
domiciliare integrata, in cui la palliazione e la terapia del dolore hanno
un ruolo di primo piano. Anche senza considerare i pazienti terminali
o con algie croniche, bisogna tener conto del vasto capitolo del trattamento del dolore post-operatorio, che in tempi di deospedalizzazione
precoce viene a ricadere sul territorio.
Tra le innovazioni apportate, nei decreti attuativi, vi è anche la possibilità di avvalersi di personale infermieristico, il quale potrà somministrare a un cittadino in terapia antalgica con oppiacei, la terapia
contenuta in un elastomero secondo il dosaggio prescritto dal medico
curante.
7.2La misura del dolore
Il monitoraggio del dolore diventa un obbligo di legge, esattamente
come il suo trattamento. Al medico e all’infermiere viene lasciata la
scelta degli strumenti più adeguati per valutarlo e rilevarlo. La sua
misura, oltre a essere una buona pratica clinica, è il segno incontrovertibile di un cambio di cultura che conferisce al dolore acuto e cronico
la dignità di patologia. Come per monitorare l’evoluzione del diabete
si misura la glicemia, così per seguire nel tempo la “malattia dolore”
deve essere rilevata l’intensità della sofferenza.
La registrazione del dolore è quanto mai importante per capire il suo
sviluppo e l’efficacia del trattamento scelto per curarlo. L’articolo 7 del-
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la legge 38 stabilisce proprio questo concetto, facendo diventare un dovere per medici e infermieri la misurazione del dolore, la registrazione
sulla cartella clinica e il controllo nel tempo per verificare l’efficacia del
trattamento attuato.
Tutte le strutture sanitarie devono assolvere a questi tre fondamentali passaggi. Devono infatti riportare all’interno della cartella clinica
le caratteristiche del dolore, le terapie antalgiche e i farmaci usati con
i relativi dosaggi e i risultati conseguiti, nonché la sua evoluzione durante il ricovero. In altre parole, il dolore deve essere considerato una
vera e propria patologia e quindi valutato alla pari di qualsiasi altra
malattia: come agli ipertesi si rileva la pressione arteriosa e ai diabetici la glicemia, così a chi soffre di dolore acuto o cronico deve essere
valutata l’intensità del dolore attraverso una scala di valutazione numerica da 0 a 10, dove lo 0 indica nessun dolore e 10 il peggior dolore
possibile.
La misura del dolore non è tuttavia una novità assoluta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosceva già da anni l’importanza di rilevare il dolore: essendo una sensazione soggettiva, solo chi
l’avverte può indicarne l’intensità e la variazione rispetto a un valore
iniziale. La valutazione del dolore e la sua registrazione in appositi
spazi predisposti nella cartella clinica erano state previste anche dalle
Linee Guida del progetto “Ospedale senza Dolore”, recepite nel 2001
con l’accordo tra il Ministero della Sanità, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano: doveva diventare una prassi costante
del personale curante al pari del monitoraggio di altri parametri vitali
quali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura corporea e la frequenza respiratoria, fondamentali per la presa in carico
della persona stessa.
Ai Comitati degli Ospedali senza Dolore spettava la scelta e la distribuzione agli operatori sanitari degli strumenti di valutazione del
dolore tra quelli considerati più idonei alla propria utenza. Poiché il
progetto “Ospedale senza Dolore” non aveva definito la struttura che
doveva erogare la terapia del dolore, non è partito neppure il monitoraggio dei Comitati e degli ospedali che avevano preso in carico la
sofferenza dei propri ricoverati: non conoscendo a tutt’oggi il loro numero, non è possibile risalire ai centri che hanno messo in pratica la
rilevazione del dolore.
Dare un valore al dolore è un atto indispensabile, la cui importanza
è nota da tempo: consente di mettere insieme una storia del dolore
avvertito e di approfondire la storia stessa della salute di una persona.
Porta a considerare le precedenti esperienze dolorose e i trattamenti
messi in atto per lenirle, a descrivere il dolore attuale e a specificar-
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ne la sede, l’andamento, le esacerbazioni, la risposta ai farmaci nonché le modificazioni del ritmo circadiano e della qualità della vita che
ne conseguono, tutti elementi utili per iniziare a considerare la sofferenza.
Più si documenta l’esperienza dolorosa vissuta, più si raccolgono
informazioni in merito e più si formula una diagnosi corretta con maggiori possibilità di efficacia del trattamento.
7.2.1 Le scale di valutazione
Il nuovo obbligo di legge ha indotto a tenere in maggiore considerazione il concetto che “non si può trattare il dolore senza prima misurarlo”
e a riesaminare in modo più organico i molteplici strumenti di rilevazione a disposizione di medici e infermieri: essi vanno scelti e utilizzati
sostanzialmente in base a età, condizione di salute e stato cognitivo
della persona sofferente.
Negli adulti si utilizzano di solito due scale. La VAS - Visual Analogic Scale (Scala Visiva Analogica) è rappresentata da una retta di 10 cm
con un’estremità che corrisponde a “0”, cioè a nessun dolore, e l’altra
che corrisponde a “10” cioè al massimo dolore possibile; quantifica in
mm ciò che la persona soggettivamente percepisce come dolore o come
sollievo. L’altra scala è la scala numerica NRS - Numeric Rating Scale
(Scala di valutazione numerica), che riporta su una retta di 10 cm tutti
i numeri da 0 a 10 in cui “0” corrisponde ad assenza di dolore e “10” al
massimo dolore.
Nei bambini sono state individuate tre scale che consentono di rilevare il dolore in tutte le età pediatriche con una buona accuratezza e
una facile esecuzione.
La scala FLACC - Face Legs Arms Cry Consolability (Faccia Gambe
Braccia Pianto Consolabile), viene consigliata per i pazienti al di sotto
dei 3 anni che non possono fornire una valutazione soggettiva del proprio dolore: si avvale di 5 categorie ognuna delle quali viene conteggiata da 0 a 2 per un punteggio totale compreso tra 0 e 10.
La scala di Wong-Baker FACES - Pain Raiting Scale (valutazione del
dolore con scala a faccine) viene usata nei bambini di almeno 4 anni
ed è costituita da sei faccine, da quella sorridente a cui corrisponde
“nessun male” a quella che piange e indica “il peggior male possibile”:
a ogni faccina è associato un numero da “0” a “10”. È una scala di autovalutazione che si basa sulla descrizione che il piccolo riesce a dare
del proprio dolore.
La Scala numerica, usata anche negli adulti, viene proposta ai bambini di età uguale o superiore a 8 anni che hanno già acquisito il con-
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cetto di proporzione: essa va da “0” (nessun dolore) a “10” (massimo
dolore).
Negli anziani con problemi cognitivi si può impiegare la scala BODIES che valuta comportamento, frequenza, durata, intensità, efficacia, inizio e termine del dolore.
7.3L’approccio terapeutico di tipo sequenziale nell’anziano
Per alcuni versi il controllo del dolore negli anziani può rappresentare
una sfida a cui i medici e gli operatori sanitari non possono più sottrarsi. Nella terza età è infatti difficile riconoscere la sofferenza che si
manifesta spesso in modo indiretto, per esempio con episodi di ansia
o irrequietezza, con disturbi del sonno o con posture particolari. Indispensabile è la sua misurazione: la ripetuta valutazione a riposo o
sotto carico è importante per capire quanto il dolore sia responsabile
di problemi alla deambulazione. Il suo trattamento può avvalersi degli
oppiacei, che nell’anziano hanno meno effetti collaterali dei FANS: la
scelta del farmaco e il momento della somministrazione devono tuttavia essere attentamente personalizzati.
L’articolo 1 della legge 38/10, tutelando il diritto di ogni cittadino a
ricevere la terapia del dolore, rende in modo implicito obbligatorio anche il trattamento della sofferenza degli anziani: la condizione dolorosa nell’età avanzata viene finalmente considerata.
Troppo spesso è stata infatti trascurata: nessuna indagine sistematica sulla sua prevalenza è stata finora eseguita per il fatto che è spesso
considerata una sorta di situazione fisiologica dovuta all’età e pertanto
oggetto di scarsa attenzione da parte sia dei medici che degli infermieri. Eppure si tratta di una condizione ricorrente: sebbene la sua presenza vari con il trascorrere degli anni, le modalità di vita e il generale
stato di salute, l’incidenza raddoppia negli individui con più di 60 anni
e la frequenza aumenta ogni dieci anni.
È la regola in circa la metà degli anziani operati: il 25% di essi
non riceve nessun tipo di analgesia per controllare il dolore e il 5075% riceve una terapia non adeguata all’intensità. Diversi studi hanno
rilevato che tra le persone che vivono in residenze sanitarie assistite,
la percentuale di trattamento non adeguato del dolore varia tra il 45 e
l’83%.
Negli anziani che si sono fratturati l’anca, il dolore viene avvertito
ben oltre la degenza in ospedale prolungandosi per molto tempo dopo
l’intervento chirurgico. In uno studio eseguito su 180 ultraottantenni
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con frattura del collo del femore si è protratto per circa 4 mesi dopo
l’intervento: il dolore era moderato nel 42% dei casi e intenso nel 27%.
In meno della metà dei casi erano stati tuttavia prescritti analgesici per
lenirlo, mentre nel 22% dei soggetti non era stata intrapresa nessuna terapia del dolore. Ma non solo: le fratture vertebrali da osteoporosi e la
poliartrosi sono condizioni sperimentate da numerosi anziani e causa
di un’elevata sofferenza.
Un gruppo di otto geriatri si è chiesto quale fosse la prevalenza
del dolore nei reparti di Geriatria italiani e come questo fosse trattato. Per rispondere a questi quesiti ha considerato una popolazione di
367 anziani di 78-81 anni e ha riscontrato che il dolore era riferito dal
67,3% di loro: di questi, ben il 58% aveva una sofferenza di intensità
superiore a 7 misurato con la scala NRS, e il 40% circa lo aveva da
oltre 6 mesi.
Indagando se fossero o no sottoposti a trattamenti specifici ed eventualmente quale tipo di approccio fosse stato utilizzato, si è riscontrato
che il 70% dei pazienti con dolore moderato (NRS = 5) e severo (NRS >
7) non veniva addirittura trattato.
Esaminando la tipologia di farmaci prescritti in relazione all’intensità della sofferenza, sono emerse numerose incongruità. L’impiego di
FANS risultava predominante anche per dolori molto forti, nonostante
siano ben noti gli effetti collaterali che questi rimedi causano. Gli oppiacei forti, indicati come farmaci di elezione per il trattamento del
dolore moderato-severo da tutte le Linee Guida internazionali (scala
4-10), erano impiegati solo per livelli di dolore pari a NRS = 9 (4,4% dei
farmaci impiegati) e NRS = 10 (36,4% dei farmaci impiegati). Nel 27,2%
dei soggetti con dolore NRS = 10 si continuavano a utilizzare FANS,
mentre gli oppiacei deboli erano prescritti a partire da un dolore d’intensità NRS = 7 in media nel 28,75% dei casi.
Di fronte a un dolore sotto valutato e poco o mal trattato, anche la
qualità della vita dei partecipanti all’indagine era scadente, con particolare riferimento a sonno, umore e attività quotidiane.
In tutti i casi menzionati il dolore correlava con la disabilità e la
perdita di autonomia: impediva lo svolgimento delle normali attività
quotidiane, minava alla base la sfera emotiva e poteva anche indurre
una compromissione delle vie nervose deputate alla conduzione degli
stimoli dolorosi. Controllare la sofferenza significa pertanto disinnescare la spirale negativa che alimenta la fragilità tipica dell’anziano che
a sua volta può evolvere velocemente verso una persistente vulnerabilità: lo squilibrio che comporta all’organismo è infatti un fattore che
predispone alla totale dipendenza dagli altri.
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7.3.1Gli oppiacei nell’anziano
L’obbligo di dover trattare il dolore anche negli anziani ha portato con
sé la necessità di acculturarsi in merito, lasciando alle spalle gli antichi
pregiudizi sugli oppiacei. I farmaci oppiacei sono infatti più indicati, rispetto ai FANS, nell’anziano con dolore cronico in quanto più tollerati a
livello di stomaco, intestino, cuore, rene e fegato. In altre parole danno
meno effetti collaterali: la loro scelta deve tuttavia essere ponderata sullo
stato di salute dell’anziano e sulla presenza di eventuali altre malattie.
A tale scopo il libro “Il dolore cronico in Medicina Generale”, scritto dal
gruppo di lavoro che ha messo a punto la legge 38/10 e che è in corso
di distribuzione ai medici di Medicina Generale, fornisce delle raccomandazioni sull’uso degli analgesici nella terza età, oppiacei compresi.
I farmaci devono essere somministrati attraverso la via meno invasiva,
in formulazioni preferibilmente a rilascio prolungato, introdotti uno
alla volta partendo da bassi dosaggi: si deve infatti valutare l’efficacia
e la tollerabilità dei principi attivi già prescritti, prima di aggiungerne
altri. La terapia va inoltre monitorata costantemente poiché può essere
necessario cambiare un oppiaceo con un altro.
Il libro propone un approccio sequenziale alla cura del dolore. Per un
dolore lieve viene consigliato il paracetamolo soprattutto per controllare la sofferenza di origine muscolo-scheletrica. Se da un lato può essere
somministrato per un lungo periodo di tempo, dall’altro è fortemente
controindicato per coloro che presentano una grave insufficienza epatica.
La seconda scelta cade sui FANS e sui Cox-2 inibitori, da utilizzare
di rado e per brevi periodi nell’anziano che, altrimenti, può andare incontro a disturbi a carico dell’apparato cardiovascolare, renale, epatico
e gastrointestinale: la raccomandazione è di assumerne non più di uno
per tenere sotto controllo il dolore e di monitorarne l’efficacia.
Il terzo passaggio è prescrivere gli oppiacei, indicati per combattere
il dolore moderato-severo che compromette la qualità della vita, limita le funzioni dell’organismo e influenza negativamente le relazioni
sociali. Come per gli altri principi attivi, anch’essi devono essere somministrati con cura valutando quali vantaggi ed eventi avversi comportano al paziente.
Una volta individuato il farmaco oppiaceo idoneo, si può optare
per una combinazione con paracetamolo e/o FANS: in questo caso è
bene diminuire la dose di questi ultimi. Le preparazioni a lento rilascio
sono le più indicate per trattare il dolore cronico, mentre vanno tenuti
presenti gli oppiacei ad azione rapida per controllare episodi di dolore
acuto. In tutti i casi la terapia con oppiacei va verificata nel tempo per
soppesarne i risultati e le eventuali complicanze.
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La portata innovativa della legge
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Capitolo 1
La portata innovativa della legge
Basta una legge per promuovere una svolta culturale? Una normativa ha
questo potere solo se è accompagnata da una volontà forte da parte dei suoi
promotori di attuare i principi che sancisce. E la legge sulle cure palliative e la terapia del dolore è supportata da questa spinta motivata che a un
anno dalla sua approvazione ha permesso di raccogliere già i primi risultati.
Il suo testo, ben fatto e dettagliato, ha consentito un rapido avvio della normativa. Passare dalla teoria alla pratica quotidiana richiederà tuttavia tempo e un grande lavoro corale perché molti sono gli ostacoli da superare ed
estremamente all’avanguardia sono gli obiettivi in essa contenuti. Oltre a
sancire il “diritto a non soffrire” di ogni cittadino e a riconoscere che il
dolore può costituire una malattia, la legge 38/10 ha infatti disciplinato
anche l’esercizio di tale diritto attraverso importanti novità assistenziali.
Programmi di cura individualizzati, risposte ad hoc per i minori inguaribili
e con dolore, prescrizione dei farmaci oppiacei con il ricettario normale, misurazione del dolore e registrazione sulla cartella clinica, nonché formazione
del personale sanitario e obbligo delle Regioni di fornire standard omogenei
in tutto il Paese pena la perdita dei fondi stanziati, sono le principali innovazioni che stanno diventando realtà. La sua entrata in vigore sta pertanto
facendo cambiare prospettiva di pensiero e di azione al personale sanitario
e con il tempo muterà anche il comportamento degli utenti, delle persone
sofferenti e delle loro famiglie. Ma non solo. Ha anche stimolato un largo
consenso da parte della popolazione. Iniziative e campagne di sensibilizzazione sulla cura del dolore continuano a essere proposte e non c’è conferenza
o congresso in cui non si faccia accenno ai suoi contenuti. L’approccio innovativo verso la sofferenza deve essere tuttavia ancora comunicato in modo
capillare ai cittadini, ma ci si è già mossi in merito: un logo, un poster, uno
spot e uno slogan pubblicitario, messi già a punto da giovani con meno di
30 anni, avranno il compito di far familiarizzare gli Italiani con la “malattia
dolore”.
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1.1Il rapporto annuale della Camera dei Deputati
La legge 38/10 è arrivata in punta di piedi, in sordina, cogliendo un
po’ di sorpresa anche le Regioni che avevano il compito di applicarla.
La sua penetrazione nei vari ambiti designati, da quelli assistenziali
e formativi a quelli ospedalieri e territoriali, è stata dunque discreta e
silenziosa, ma non per questo meno importante. Senza quasi accorgersene, sia il pubblico sia gli operatori sanitari si sono dovuti giocoforza
confrontare con una normativa altamente innovativa che conteneva
tutto quello che si poteva desiderare da una legge e che, volendo proprio fare un appunto, è così rivoluzionaria da trovare un territorio ancora poco preparato e ricettivo ai suoi regolamenti. Ci si trova pertanto
di fronte a una sorta di paradosso: è il territorio a rincorrere la legge e
non viceversa. Per velocizzare anche il cammino inverso e per accorciare la distanza tra i concetti sanciti e la realtà, le competenze ci sono,
ma bisogna rafforzare la parte organizzativa e gestionale.
Molti e importanti passi sono stati tuttavia già effettuati per rendere concreto il diritto di ogni cittadino a non soffrire. La relazione
sull’attuazione delle disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, previsto dall’articolo 11 della legge e
predisposto dalla Direzione Generale della Programmazione Sanitaria,
e sull’attuazione dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema
del Ministero della Salute, elenca tutti gli interventi effettuati nell’arco
del 2010.
Il documento evidenzia anche gli aspetti migliorabili della legge
nell’ottica di una più appropriata applicazione. Propone approfondimenti, strategie e dettagli che possono incrementare l’efficacia dell’assistenza alle persone inguaribili o con dolore cronico e che possono
colmare quella disparità di offerta, ancora presente sul territorio, che
limita un’adeguata risposta ai bisogni dei cittadini.
1.2Un’Italia a due velocità: la regionalizzazione della sua applicazione
La nuova sfida è passare da una legge innovativa a una legge del tutto operativa sul territorio. Il primo anniversario della normativa sulle
cure palliative e terapia del dolore ha tuttavia dato i primi risultati
anche in questo senso: gli strumenti necessari ad applicarla sono stati
già completati al 75-80%.
A soli due mesi dalla sua nomina, la Commissione ministeriale sulle cure palliative e la terapia del dolore ha già prodotto importanti documenti di indirizzo. In particolare, si è occupata della ripartizione dei
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fondi economici per la formazione del medico e della costituzione di
un tavolo tecnico con tutte le Fondazioni che operano nel mondo della sofferenza, soprattutto a livello pediatrico, per individuare il corecurriculum dei non sanitari operanti nelle cure palliative e del dolore.
La Conferenza Stato-Regioni nel dicembre scorso ha inoltre approvato
le linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordinamento degli
interventi regionali: si tratta ora di metterle in pratica.
Una condizione essenziale per poter pervenire a questo obiettivo è
la formazione di chi opera sul territorio e la presa di coscienza che la
legge 38/10 ha innescato un duplice effetto: sul piano culturale rendendo necessario un approccio del tutto nuovo alla gestione del dolore
e sul piano organizzativo istituendo due Reti distinte per le cure palliative e la terapia del dolore. La prima esiste già da tempo, grazie anche
al fondamentale contributo del volontariato e del non profit, mentre
la seconda deve essere creata. Come documenta il rapporto annuale
redatto dalla Camera dei Deputati, la loro disomogenea realizzazione
comporta a tutt’oggi un divario assistenziale tra Nord e Centro-Sud,
che si spera possa essere colmato dall’attuazione della legge 38/10 nei
prossimi due o tre anni.
1.2.1 Lo stato di attuazione della Rete di cure palliative e
della Rete di terapia del dolore
Una fotografia dell’attuale stato dell’arte delle Reti assistenziali, previste dalla legge 38/10, è stata elaborata con i dati provenienti da un questionario distribuito a tutte le Regioni e che si articola in due sezioni: la
prima è dedicata all’assistenza palliativa e la seconda a quella antalgica. Al questionario hanno tuttavia risposto 16 Regioni su 19 (mancano
Marche, Molise e Sardegna) e due Province autonome.
1.2.1.1La Rete delle cure palliative
La sua attuazione, iniziata anni addietro rispetto all’entrata in vigore della legge 38/10, deve essere ancora portata a termine. I ritardi
accumulati sono soprattutto attribuibili al mancato utilizzo da parte
di alcune Regioni dei finanziamenti erogati per la costruzione degli
hospice. Le cure palliative domiciliari, sebbene non siano ancora in
grado di rispondere adeguatamente ai bisogni dei cittadini, possono
tuttavia contare su Centri con équipe dedicate che erogano prestazioni
di buona qualità. Ciononostante, la disomogeneità dell’offerta divide
a tutt’oggi in due il nostro Paese: un’Italia all’avanguardia, tendenzialmente quella del Nord, in cui il malato incurabile può attendersi
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un’assistenza tecnicamente progredita, e un’Italia meno avanzata che
fa fatica a mettersi al passo con i nuovi dettami della legge 38/10 e che
si basa ancora su un’assistenza a domicilio e attuata dalla famiglia.
L’indagine svolta a livello regionale ha messo in evidenza come l’assistenza palliativa sia ancora fornita soprattutto a casa della persona bisognosa e non nelle strutture residenziali. La sua durata media è infatti
di quasi 32 giorni negli hospice e di 52 giorni al domicilio del paziente.
Il primo dato risulta tuttavia viziato dall’elevato valore dell’assistenza
residenziale riportato dalla regione Campania: in sua assenza si giunge a un dato di 19,2 giorni (mediana pari a 18) che è in linea con i dati
presenti in letteratura che si assestano su 20-21 giorni. L’assistenza domiciliare si mantiene invece abbastanza omogenea su tutto il territorio
nazionale, con la sola eccezione della regione Emilia-Romagna in cui si
dimostra particolarmente elevata.
Le persone prese in carico dalla Rete di cure palliative decedono in
prevalenza a casa propria: in Sicilia addirittura il 90% dei malati terminali muore a domicilio. Ciò avverrebbe anche perché alcune regioni,
quali Valle D’Aosta, Campania e Abruzzo, hanno accumulato un ritardo nell’utilizzo dei fondi messi a disposizione dalla legge 39/99 per la
costruzione degli hospice.
L’utilizzo dei posti letto degli hospice è molto elevato e raggiunge
una media nazionale dell’86%. Se da un lato questo risultato sottolinea
una positiva risposta alla richiesta assistenziale dei cittadini, dall’altro
mette in evidenza un’incapacità della Rete assistenziale di soddisfare
interamente il fabbisogno.
Assai poco diffuso risulta inoltre il sistema informativo regionale
dedicato al monitoraggio della Rete di cure palliative, come del resto
l’impiego sistematico di questionari di soddisfazione volti a misurare la qualità delle prestazioni. Per contro, la comunicazione dell’assistenza palliativa ai cittadini e agli operatori sanitari, comprendente le
informazioni sull’istituzione della Rete stessa, sulla localizzazione dei
servizi e delle strutture che vi fanno capo e sulle modalità d’accesso, è
abbastanza presente nel Paese.
Questi risultati confermano nel complesso quelli ottenuti dall’indagine conoscitiva nazionale, eseguita dall’Agenzia dei Servizi Sanitari Nazionali e dal Ministero della Salute insieme alla Società Italiana
di Medicina Generale e dalla Società Italiana di Cure Palliative, che ha
documentato come lo sviluppo dei servizi di cure palliative domiciliari, e tanto più il loro monitoraggio, non rappresenti una priorità per le
155 ASL che hanno partecipato all’iniziativa.
Diverse ASL sostengono di avere una Rete di cure palliative attri-
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buendo tuttavia al termine “rete” un significato diverso da quello citato nella legge: il controllo della loro gestione è poco applicato e, in ogni
caso, eterogeneo.
Sebbene ci si trovi di fronte a un’insufficiente offerta di servizi, numerosi sono i Centri con équipe dedicate – circa il 54% del campione
analizzato – che hanno un buon livello qualitativo: essi si basano su
un approccio multidisciplinare che garantisce nel 53% dei casi un’assistenza sia medica sia infermieristica continuativa nelle 24 ore.
Il loro operato soddisfa pertanto i criteri della buona pratica in cure
palliative domiciliari: la presa in carico del paziente avviene infatti
nell’arco di 72 ore nel 90% dei casi, è quasi sempre preceduta da un
colloquio strutturato con i familiari e i farmaci, i presidi e gli ausili
sono forniti nel 60% dei casi.
Grazie al supporto delle Organizzazioni non profit e a un’assistenza
erogata 7 giorni su 7 dalle ore 8:00 alle 20:00, questi Centri con équipe
dedicate garantiscono un’adeguata intensità assistenziale, caratterizzata da un Coefficiente di Intensità Assistenziale medio pari a 0,6 e da
un numero medio di Giornate Effettive di Assistenza di 4,2, un supporto formativo ECM nell’80% dei casi, un percorso formativo nel 90% dei
casi e una frequenza almeno settimanale di riunioni multidisciplinari
nel 65% dei casi.
Dall’analisi dei comportamenti dei principali professionisti, si evince il riconoscimento dell’importanza delle cure palliative da parte dei
medici di Medicina Generale e la loro buona disponibilità a esserne
coinvolti e a rafforzare la propria conoscenza sugli oppioidi.
Due indagini, eseguite dalla Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus in collaborazione con l’Istituto di ricerca GPF su 1.897 adulti
di 18-74 anni, interrogati con una serie di domande sui bisogni di assistenza dei malati inguaribili, hanno fatto toccare con mano la scarsa
conoscenza degli Italiani sulle cure palliative: il 41%, pari a 4 adulti
su 10 non ne ha mai sentito parlare, mentre il 7% sostiene di averne
un’idea molto precisa, il 16% abbastanza precisa e il 23% una buona
conoscenza. A essere più eruditi in materia sono le persone più istruite,
economicamente benestanti e abitanti nelle regioni del Centro-Nord.
Ancora oggi la maggioranza degli Italiani fa fatica a trovare le parole per definire le cure palliative e spesso le confonde con la terapia
del dolore, con trattamenti che migliorano in genere la qualità della
vita dei malati, con cure che trattano solo i sintomi della malattia o che
hanno una funzione psicologica.
Se i nostri concittadini hanno nozioni vaghe su cosa siano le cure
palliative, hanno tuttavia dimostrato di essere più precisi nel definire
i bisogni di un malato inguaribile, individuando come prioritaria la
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riduzione della sofferenza fisica, vale a dire del dolore e dei disturbi
associati alla patologia di base e, a seguire, una buona assistenza sanitaria, la disponibilità di medici e infermieri 24 ore su 24 e il sostegno
psicologico.
Tra i luoghi ideali di cura, la propria casa è la preferita: la maggior
parte degli intervistati vorrebbe essere accudito soprattutto dai propri
familiari e meno dal personale esterno. Una minoranza, sebbene sempre più consistente e riconducibile a persone benestanti e residenti nel
Nord-Ovest, è tuttavia in controtendenza e sceglie di essere assistita
presso una struttura sanitaria, un hospice o un ospedale.
1.2.1.2La Rete della terapia del dolore
Prima dell’approvazione della legge 38/10 era normale che chi accusasse dolore, per esempio un forte mal di schiena, si rivolgesse all’ospedale più vicino a casa, al Pronto Soccorso o al farmacista. Non esisteva
neppure il concetto di Rete per la terapia del dolore. Sebbene ancora
oggi si percorrano questi tradizionali canali di assistenza, la rete antalgica è in via di realizzazione. A poco più di un anno di distanza dal
varo della nuova normativa, sono state già gettate le sue fondamenta:
un numero sempre crescente di Regioni sta mettendo in pratica le linee
guida per la sua costruzione, tanto che ciò che è stato messo a punto
fino a oggi è sufficiente a supportare il 50% della popolazione italiana.
Ma non solo. Un’indagine eseguita dalla Associazione vivere senza dolore ha sottolineato come la reperibilità di un centro antalgico sia facile
e come l’acquisto dei farmaci oppiacei sia diventato semplice.
La Rete assistenziale di terapia del dolore si sta formando. La Lombardia, il Piemonte, la Sicilia, il Veneto e l’Emilia-Romagna hanno deliberato le loro Reti: ciò significa che è già stato individuato il nome e il
cognome del loro responsabile e della squadra che lo affiancherà.
Va inoltre precisato che dieci Regioni assicurano un valore intorno
all’80% di ASL con almeno un ambulatorio di terapia antalgica che,
sebbene spesso non sia totalmente dedicato a tale attività, garantisce
tuttavia la presenza di un medico anestesista rianimatore.
La registrazione dell’intensità del dolore nella cartella clinica è eseguita ancora da pochi ospedali al Centro-Sud e soprattutto da unità
operative chirurgiche al Nord.
Rare sono infine le Regioni che impiegano in modo sistematico nei
presidi ospedalieri delle proprie ASL i questionari di soddisfazione
sulla gestione del dolore.
Un’indagine eseguita nel 2010 dall’Associazione vivere senza dolore
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su 1.617 pazienti intervistati e presentata a Milano nell’ambito del convegno “La giornata senza dolore” ha dimostrato come l’accessibilità ai
servizi di terapia del dolore sia soddisfacente.
L’83% degli intervistati ha sostenuto di non aver avuto difficoltà
nel trovare un centro a cui rivolgersi, il 38% ha identificato nel proprio
medico di Medicina Generale e il 24% nei propri familiari gli interlocutori che hanno consigliato loro di rivolgersi a un centro specialistico.
L’impiego dei farmaci oppiacei è risultato confinato al 58% dei pazienti
con dolore cronico.
1.3Un nuovo fermento in pediatria
La legge 38/10 ha modificato in modo drastico l’approccio al bambino
malato, riconoscendogli a pieno titolo il diritto di essere curato per la
sua sofferenza. Di lui le Regioni cominciano a parlare e a interessarsi
deliberando, anche se ancora un po’ a macchia di leopardo, i Centri di
riferimento per le cure palliative e la terapia del dolore in pediatria.
L’esempio del Veneto, veterano nella presa in carico dei piccoli pazienti
inguaribili, ha fatto da volano per impostare e veicolare la formazione
dei formatori, vale a dire dei pediatri e degli operatori sanitari che dovranno educare altri colleghi sulle strategie d’approccio e di cura della
sofferenza. Il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca) sta lavorando per costruire un master in cure palliative e terapia del dolore. Molto resta tuttavia da fare: il dolore nei nostri bambini
è ancora sotto trattato. Ciononostante si è innescato un fermento culturale che, sebbene debba essere ancora stimolato e indirizzato a dare
risultati concreti, è partito e può essere definito come ineguagliabile
rispetto al resto d’Europa.
Alcune Regioni si stanno impegnando a pianificare strutture specialistiche capaci di rispondere alle peculiarità dei bisogni clinici, sociali
e assistenziali dell’età pediatrica. La Basilicata sta organizzando una
Rete assistenziale che promette di funzionare bene, Piemonte, Liguria e
Lazio l’hanno già deliberata e Friuli Venezia Giulia e Alto Adige, Trento e Bolzano e altre regioni sono sul nastro di partenza. Le Regioni sono
impegnate in questo momento a scegliere quali delle proprie strutture
sanitarie far diventare Centri di riferimento in pediatria: una volta individuate si potrà organizzare un’équipe specialistica nella cura dei
bambini sofferenti e imbastire una Rete di assistenza territoriale.
Parallelamente, si sta cercando una strategia condivisa di formazione di base in cure palliative e terapia del dolore in pediatria, da desti-
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nare ai pediatri di base e ospedalieri e a tutti gli operatori sanitari del
territorio. Una formazione specifica sui vari casi che si presentano può
essere invece impostata nel momento in cui la Regione abbia scelto il
Centro di riferimento da attivare.
A tale scopo, il libro “Il dolore nel bambino. Strumenti pratici di valutazione e terapia”, che si propone come un’agile guida nella pratica
quotidiana di gestione della sofferenza, può essere un utile compendio
anche alla formazione. Numerose copie sono già state distribuite ai
pediatri di base e ospedalieri, e le sue pagine si possono inoltre scaricare dal sito del Ministero della Salute (www.ministerosalute.gov) e da
quello dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari regionali (AgeNaS,
www.agenas.it). È già stato inoltre deliberato di trasformare il testo
del libro in un formato pocket, in modo da agevolare la consultazione
immediata di fronte a un caso reale.
La Regione Veneto, l’unica che dal 2003 ha istituito una Rete di assistenza specifica per le cure palliative e la terapia del dolore in pediatria
facente capo all’ospedale di Padova, è già partita con questa formazione ramificata mettendo a punto un corso educativo sul dolore mentre
è in fieri quello sulle cure palliative: 40 formatori sono pronti e piccole
équipe composte da 2 o 3 di loro sono già in grado di preparare ognuna
20 colleghi.
Il percorso abilitativo per gli educatori, la scelta della metodologia
didattica e i contenuti da proporre sono stati stabiliti. Resta da rilevare
l’impatto formativo di questa strategia educativa e verificare la sua efficacia mediante alcuni parametri per altro già definiti. A tutt’oggi non
esiste tuttavia in nessuna Regione un osservatorio dedicato a valutare non solo la formazione, ma anche l’appropriatezza dell’erogazione
delle cure secondo i criteri stabiliti dalla legge; solo in Veneto è presente una stazione di monitoraggio volta a rilevare ciò che si fa nel Centro
di riferimento di Padova.
1.3.1 La necessità di promuovere più cultura sui bambini e sul dolore
Sebbene sia stato riconosciuto che il dolore è frequente in età pediatrica
e accompagna in modo trasversale moltissime malattie, non si dispone
a tutt’oggi di stime dettagliate su quanti bambini e neonati lo accusino
e in quante strutture venga trattato. Grazie alla letteratura scientifica
si sa che il problema dolore è ampio: è sperimentato dal 60% dei piccoli che afferiscono al Pronto Soccorso pediatrico, avvertito dal 100%
dei bambini e neonati sottoposti a interventi diagnostici o terapeutici
invasivi e dall’80% dei post-operati, è presente nel 60% dei malati oncologici, nel 20% dei soggetti in forma di dolore cronico scatenato per
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esempio da cefalee o coliche addominali ricorrenti e nell’80% dei pazienti inguaribili e/o terminali.
Nel nostro Paese vi è ancora una situazione di deficit assistenziale nei
riguardi dei bambini sofferenti. La valutazione del dolore è prevista nel
40% delle strutture pediatriche ed effettuata realmente in meno del 20%
dei casi, il dolore post-operatorio viene monitorato con appositi protocolli solo nel 20% dei Centri di Chirurgia pediatrica italiani, la sofferenza
dei piccoli pazienti viene considerata nel 15-20% dei Pronto Soccorso, il
dolore associato alle malattie infettive intercorrenti viene gestito nel 15%
dei casi e quello che accompagna le procedure invasive dolorose in una
percentuale che varia da 0 al 40% a seconda del centro e, infine, il controllo del dolore nella terminalità pediatrica è effettuato nel 20% dei casi.
La gestione del dolore nei neonati e nei bambini non ha riferimenti
culturali, professionali, organizzativi e risorse specifiche. Ciò fa sì che
in Italia il dolore in età pediatrica sia globalmente sotto trattato e abbia
una ricaduta negativa sul vissuto della malattia e sulla qualità di vita
del bambino e della sua famiglia: attualmente, solo in quattro ospedali
pediatrici italiani è previsto un ambulatorio di terapia antalgica rivolto
in modo specifico ai bambini ed esclusivamente in Veneto vi è una Rete
di assistenza specialistica dedicata, coordinata da un Centro di riferimento regionale con sede a Padova.
Al momento, si stanno inoltre eseguendo diversi studi volti a quantificare i costi diretti e sociali della Rete assistenziale pediatrica prevista dalla legge 38/10. I dati preliminari consentono di sostenere che vi
sono tutti i presupposti affinché essa sia di qualità e non costi più di
quanto si spende per quello che c’è ora, e forse anche meno. Ad oggi,
infatti, la maggior parte dei bambini e dei neonati sofferenti si rivolge
al Pronto Soccorso o viene ricoverato nei reparti ospedalieri per acuti,
il cui costo giornaliero si aggira sui 1.500 euro. Con la concreta istituzione di Centri di riferimento regionali coadiuvati da tutte le risorse
presenti sul territorio, si recupererebbero molte figure professionali e
si alleggerirebbe la famiglia dalla presa in carico di un figlio bisognoso
di cure palliative o di terapia del dolore, che nella stragrande maggioranza dei casi è ancora interamente sulle sue spalle. Questa nuova
impostazione della gestione della sofferenza dei minori aumenterebbe
forse, anche se in modo contenuto, i costi del Servizio Sanitario Nazionale che attualmente sono pressoché pari a zero.
1.3.2I finanziamenti per la pediatria
L’attenzione verso i bambini sofferenti è ancora attenuata rispetto a
quella riservata agli adulti nelle medesime condizioni, soprattutto per-
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ché sono numericamente meno rappresentati. Accade così che i minori
con dolore restano un fanalino di coda, un appendice al grande problema della sofferenza.
Questo limite, che ha le sue radici in una scarsa e poco salda cultura
del bambino sofferente, ha reso meno brillante la partenza della Rete
assistenziale in pediatria. I fondi per il suo avvio, per la creazione dei
centri di riferimento in cure palliative e terapia del dolore e per la formazione delle figure professionali scarseggiano. Poterli svincolare non
sarebbe difficile se si seguissero due strategie.
La prima potrebbe essere quella di pianificare una nuova ripartizione delle spese sostenute attualmente: molti sono ancora oggi i ricoveri impropri, i passaggi al Pronto Soccorso, i decessi nei reparti ospedalieri per acuti. L’attivazione della Rete, promuovendo l’assistenza
domiciliare dei piccoli pazienti, permetterebbe di ricollocare le risorse
umane e di riqualificare le strutture sanitarie già esistenti: il denaro risparmiato potrebbe essere indirizzato verso le nuove esigenze di educazione, programmazione di centri regionali e avviamento della Rete
pediatrica.
L’altra iniziativa, che potrebbe essere adottata per limitare uno spreco di risorse, è la presa in carico dell’aspetto sociale della sofferenza:
la legge 38/10 non accenna a questa dimensione. Dietro a un bambino
incurabile c’è infatti sempre una famiglia che soffre: spesso i genitori
si dividono, uno dei due perde il lavoro, i fratellini hanno problemi
scolastici, altre persone devono essere gioco forza coinvolte per dare
un aiuto con un inevitabile esborso di denaro. Il nucleo familiare s’impoverisce, ma anche la società va incontro a spese. Se si provvedesse
invece a dare a queste famiglie un supporto sociale adeguato e organizzato che vada di pari passo con la gestione dei problemi clinici, ci
sarebbero senz’altro meno costi a cui far fronte.
1.4Il monitoraggio ministeriale
Per verificare lo stato di attuazione della legge è stato creato un punto
di riferimento apposito, l’Ufficio XI presso il Ministero della Salute.
Non a caso è stato inserito all’interno della Direzione generale della
Programmazione Sanitaria, che è ritenuta il cuore pulsante del Ministero, nel quale trovano posto i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA),
la ripartizione dei fondi, i piani di rientro, la qualità, le tariffe e ora
anche le cure palliative e la terapia del dolore.
Il fatto che in futuro questa stessa Direzione si occuperà anche di
stati vegetativi, dà la dimensione di voler continuare a seguire nel tem-
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po la fragilità e il dolore. Attraverso questo Ufficio, che rappresenta il
Ministero e che collabora con l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari regionali, la Commissione regionale per la formazione continua,
l’Agenzia Italiana del Farmaco e l’Istituto Superiore di Sanità, avviene
il monitoraggio previsto dalla legge per le cure palliative e la terapia
del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e
degenerative.
La sua attività è incentrata su uno scambio attivo di informazioni
tra il Ministero, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.
Se il primo dà gli strumenti per valutare l’andamento delle prescrizioni
degli oppiacei utilizzati nella terapia del dolore, lo stato di realizzazione e sviluppo delle Reti assistenziali, le disomogeneità territoriali e
l’erogazione delle cure palliative in età neonatale, pediatrica e adolescenziale, le seconde, cioè le Regioni e Province autonome, forniscono
i dati provenienti dal territorio riguardanti il consumo degli oppiacei
(dati che vengono confrontati con la farmacovigilanza), le prestazioni
erogate e i loro esiti (anche attraverso l’analisi qualitativa e quantitativa dell’attività delle strutture delle due Reti), le campagne d’informazione messe a punto a livello regionale e nazionale, e le informazione
di tipo economico su realizzazione e sviluppo delle reti.
Una funzione di osservatorio e di monitoraggio è stata data anche
alla Commissione Ministeriale delle cure palliative e terapia del dolore: a essa giungono i dati riguardanti lo sviluppo e l’avanzamento
delle Reti che devono soddisfare i criteri sanciti dalla legge, le attività
di formazione promosse a livello regionale e nazionale, e le attività di
ricerca.
1.4.1I DRG specifici per la terapia del dolore
L’Ufficio XI del Ministero della Salute ha inoltre istituito un Tavolo tecnico con le Regioni per definire le modalità di rimborso delle prestazioni relative alle cure palliative e alla terapia del dolore.
Questo Tavolo è già attivo e ha eseguito una ricognizione delle prestazioni relative alle cure palliative e alla terapia del dolore somministrate all’adulto: soppesando la valenza epidemiologica della sofferenza da un punto di vista sociale ed economico ha stimato insieme alle
Regioni le dimensioni del rimborso e definito i DRG.
Il prossimo passo da compiere sarà quello di confrontare il peso
sociale ed economico delle prestazioni erogate ai minori sofferenti.
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Capitolo 2
I cambiamenti nella pratica clinica:
i primi risultati
Un sondaggio eseguito da Doloredoc.it, il portale di riferimento per la terapia
del dolore che ha al suo attivo 15 mila utenti, ha approfondito la reazione dei
medici italiani riguardo ai cambiamenti legislativi introdotti nell’ultimo anno
sul trattamento del dolore.
I risultati ottenuti evidenziano una repentina presa di coscienza del mondo medico. Il 67,4% ritiene infatti che la semplificazione prescrittiva sancita
dalla legge 38/10 consentirà di ridurre l’oppiofobia, cioè i timori legati alla
somministrazione dei farmaci oppioidi ritenuti ancora spesso dei veri e propri
stupefacenti.
Il 65,9% degli intervistati punta inoltre il dito sulla persistenza di numerosi ostacoli alla loro prescrizione, riconducibili a una cultura obsoleta ma
anche a una scarsa formazione sulle reali possibilità terapeutiche degli analgesici oppiacei.
Un forte bisogno di acculturamento sull’utilizzo soprattutto degli oppiacei
forti è sentito dalla maggior parte dei medici: il 66,3% reputa di dover aggiornare le proprie conoscenze in materia, il 18,3% ne ha una forte necessità e solo
il 15,5% ritiene di saperne a sufficienza.
2.1 Gli oppiacei forti e il loro impiego
Sei mesi dopo l’entrata in vigore della legge, l’opinione pubblica si è
interrogata su come le nuove disposizioni siano state recepite. La risposta l’ha data un’indagine che ha sottolineato come la sofferenza dei
malati italiani sia più trattata rispetto a prima che la normativa sulle cure palliative e sulla terapia del dolore fosse promulgata, ma non
adeguatamente: soprattutto gli oppiacei forti sono ancora insufficienti
e somministrati in formulazioni non idonee. Il dolore è pertanto maggiormente considerato dai medici, sebbene gli strumenti per controllarlo, vale a dire dosaggio e scelta degli analgesici appropriati, debbano essere ancora affinati.
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Dopo la legge
Una recente indagine, promossa dall’Osservatorio Sul Dolore ed eseguita in collaborazione con Wolters Kluwer su 1.616 soggetti prevalentemente affetti da cancro, ha messo in evidenza come diversi aspetti
del problema “dolore” siano ancora da migliorare.
I risultati ottenuti hanno infatti dimostrato che il 99% dei pazienti
ha dolore cronico e che solo il 12,5% assume una terapia in grado di
controllarlo: nel rimanente, l’11,5% non assume alcuna terapia antalgica e nel restante 88,5% il trattamento è inadeguato. Segno che ancora
troppi malati soffrono inutilmente.
Ciononostante l’uso degli oppioidi forti è aumentato. In confronto
a molti altri sondaggi precedenti, che hanno messo in luce il loro mancato impiego nei soggetti con dolore cronico, questa indagine dimostra
che tali farmaci sono utilizzati nel 75% dei casi e di questi l’80,7% è
rappresentato da formulazioni orali. Quindi, se negli ultimi tempi si è
potuta registrare una maggior aderenza alle Linee Guida internazionali, il passo oggi da compiere è quello di un corretto monitoraggio della
terapia al fine di garantire quella adeguatezza terapeutica sancita dalla
legge 38.
Il controllo del dolore si può migliorare impostando una terapia a
un dosaggio adeguato alle esigenze antalgiche del paziente: un adeguamento terapeutico, che ha previsto una modificazione della via di
somministrazione da transdermica a orale per 90 pazienti e un incremento del 5,6% in equivalenti di morfina, ha permesso di ridurre l’intensità del dolore, misurata con la scala NRS, del 48,6% in una sola
settimana.
I clinici hanno tuttavia ancora una sorta di resistenza nei confronti
degli oppiacei e tendono a non andare oltre certi dosaggi. In presenza
di dolore NRS 4, il 32,2% dei medici non ha infatti ritenuto necessario
modificare ulteriormente la posologia. Un atteggiamento, questo, che
è stato rilevato, seppure in percentuali inferiori, anche per dolori d’intensità severa.
La causa di questo comportamento può essere attribuita al timore di
effetti collaterali, che tuttavia sono stati riscontrati in basse percentuali.
2.2 Gli oppiacei deboli: il loro uso è in aumento per il dolore cronico
L’evoluzione culturale in materia di dolore continua il suo percorso e
a un anno dall’approvazione della legge 38/10 fa guadagnare ulteriori
traguardi. La cura del dolore cronico dovuto alle malattie reumatiche
lo dimostra: a tutt’oggi essa passa soprattutto attraverso gli oppiacei
deboli, quali per esempio il tramadolo associato a paracetamolo, e
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I cambiamenti nella pratica clinica: i primi risultati
129
ancora poco attraverso gli oppiacei forti. Questa priorità terapeutica
sottolinea un differente atteggiamento prescrittivo nei confronti della
sofferenza, senz’altro più appropriato rispetto a prima dell’entrata in
vigore della legge 38/10 quando i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) venivano somministrati al posto degli oppiacei deboli.
La semplificazione della ricetta sta dunque cominciando a dare i suoi
frutti. Un sondaggio e un’intervista eseguita al professor Giovanni
Minisola, pubblicati su Mundipharma NEWS del primo trimestre di
quest’anno, mettono in evidenza come sia cambiato l’approccio dei
reumatologi al dolore cronico: esso è diventato più tempestivo e declinato sulle cause che lo determinano.
Nei pazienti affetti da malattie reumatiche, il dolore è considerato ancora un sintomo o viene trattato e curato come una malattia a sé stante?
È questa una delle domande poste a un campione di oltre 500 reumatologi, che hanno partecipato a un sondaggio sul tema “Dolore in reumatologia”, promosso da Wolters Kluwer.
I dati emersi sottolineano che nel 65,2% dei pazienti il trattamento
per il dolore inizia dalla presa in carico, nel 26% dei casi il clinico decide di trattare il dolore solo nel momento in cui la causa è stata chiaramente individuata e nel restante 6,7% la scelta è correlata al paziente. Eppure, secondo quanto indicato dal 68% dei medici intervistati, il
dolore si manifesta nei pazienti con patologie reumatiche nel 50% dei
casi.
Questo dato trova la sua conferma in un recente studio, dove patologie degenerative della colonna o forme di osteoartrosi e osteoartrite
interessavano rispettivamente il 64,7% e il 34,2% dei malati.
La cura del dolore viene intrapresa nel 25% dei casi ricorrendo ai
FANS e nel 59,7% agli oppioidi deboli, in particolare al tramadolo associato al paracetamolo, considerati i farmaci d’elezione dai clinici che
limitano l’uso degli oppioidi forti solo al 15% delle loro scelte terapeutiche. Tra questi ultimi, la molecola più utilizzata è l’ossicodone, con
il 63,3% delle preferenze, scelta dettata dalla maggiore tollerabilità ed
efficacia del farmaco, unitamente a una maggiore conoscenza da parte
dei clinici.
Ma questi dati rispecchiamo il reale approccio dei reumatologi al
dolore? Lo si è chiesto a Giovanni Minisola, presidente della Società
Italiana di Reumatologia e Direttore della Divisione di Reumatologia
dell’Ospedale San Camillo di Roma, che sostiene che negli ultimi anni
si sta assistendo a un radicale cambiamento dell’atteggiamento dei
reumatologi verso il paziente con dolore cronico, cioè un dolore che
dura da oltre tre mesi.
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Dopo la legge
In passato la sintomatologia dolorosa cronica veniva infatti trattata essenzialmente con i FANS, il cui impiego è particolarmente indicato quando è presente una componente infiammatoria. Attualmente c’è invece un forte orientamento a favore degli oppioidi deboli per
le condizioni dolorose croniche comprese quelle reumatiche. Il passo
successivo deve prevedere una maggiore familiarità con gli oppioidi
forti, considerati farmaci di riferimento per il trattamento del dolore
moderato-severo non responsivo ad altri interventi farmacologici. I
dati ottenuti riflettono tuttavia i comportamenti terapeutici dei centri
reumatologici italiani più avanzati, dove le problematiche relative al
dolore cronico sono oggetto di un’attenzione sempre maggiore.
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Capitolo 3
Il mercato degli analgesici oppioidi
nel post-legge
Un primo bilancio sulle vendite dei farmaci oppioidi dimostra che qualcosa è
già cambiato. Secondo i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), le unità dispensate in regime di Servizio Sanitario Nazionale nel periodo gennaioagosto 2010 registrano un aumento del 13,8% rispetto allo stesso periodo del
2009, passando da 6.700.000 a poco meno di 7.720.000. Da un consumo procapite di analgesici oppioidi pari a 0,67 euro registrato nel 2007, si è arrivati
a 1,18 euro nel 2010.
3.1La fotografia dei consumi degli oppiacei forti in Italia
e in Europa: il dato a sei mesi dalla legge
A sei mesi dall’approvazione della normativa sulle cure palliative e
la terapia del dolore, gli oppiacei forti hanno fatto registrare un aumento pro-capite nel nostro Paese che ci fa lentamente avvicinare alla
media europea. Il primo bilancio del dopo-legge è dunque positivo
e sottolinea una maggiore presa di coscienza dei clinici sul problema
dolore. L’impressione è pertanto quella che le attività formative, messe
in campo dalla Commissione sul dolore per preparare adeguatamente
i medici, stiano iniziando a dare i suoi primi risultati.
Il Centro Studi Mundipharma ha confrontato l’andamento del mercato
degli oppiacei forti nel nostro Paese con quello dei 5 stati europei più
importanti nel trimestre precedente e in quello successivo alla promulgazione della legge. I dati elaborati hanno messo in evidenza come il
consumo pro-capite di questa classe di farmaci abbia avuto l’aumento
più significativo in Italia, pari al 5,6%, contro il 3% osservato in Inghilterra, l’1,1% in Francia, l’1% in Germania e solo lo 0,2% in Spagna.
Per quanto riguarda la spesa pro-capite, essa è risultata di 0,95 euro
per l’Italia, di 9,05 euro per la Germania, di 4,23 euro per l’Inghilterra,
di 2,89 euro per la Francia e di 2,95 euro per la Spagna (fonte: Centro
Studi Mundipharma, su rielaborazione dati IMS MIDAS 2009-2010 e
dati ISTAT).
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Dopo la legge
La legge ha suggellato l’approccio alla malattia dolore in corso già
da diversi mesi in termini di prescrizioni più appropriate di farmaci,
con la semplificazione del ricettario per alcuni prodotti a base di ossicodone. Questo trend positivo è pertanto ancora più significativo se
si confrontano i tre mesi di aprile, maggio, giugno 2010 con lo stesso
periodo dell’anno precedente: la crescita registrata in Italia per il mercato degli oppiacei forti è stata pari al 19%, superando la Germania
(+10,3%), l’Inghilterra (+7,9%) e la Francia (+4,7%). In controtendenza
la Spagna che fa registrare un –4,5%.
Analizzando i dati relativi al nostro Paese sui farmaci oppiacei a rilascio controllato impiegati per il dolore cronico, si riscontra che mentre il I trimestre del 2010 è cresciuto di un +18% rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente, il II trimestre è cresciuto di un +21%.
Confrontando, infine, i tre mesi prima della legge con i tre mesi seguenti, si riscontra una crescita di +10% contro un +7% dello stesso
periodo dell’anno precedente. Un aumento più consistente è stato tuttavia registrato nel mese di luglio 2010, che segna un +24% di aumento
del mercato rispetto a gennaio 2010.
3.2L’impatto della legge sulle prescrizioni e sulle vendite
degli antidolorifici
L’entrata in vigore della legge 38/10 ha comportato un duplice fenomeno. Se da un lato ha assecondato la tendenza espansiva delle prescrizioni di antidolorifici da parte dei medici, dall’altro ha consentito
alla domanda nazionale di analgesici oppiacei di iniziare il recupero
rispetto ai livelli molto più elevati degli altri Paesi europei. In ogni
modo, ha innescato una risposta immediata del mercato che a dieci
mesi di distanza dalla sua approvazione ha fatto raddoppiare le vendite di questa classe di farmaci.
Le prescrizioni di analgesici narcotici e non narcotici hanno continuato
a crescere di circa l’8%. Lo sostiene l’analisi delle prescrizioni di farmaci
per il trattamento del dolore rilasciate dai medici italiani, eseguita da IMS
Health Italia, che ha confrontato nel tempo le quantità di pezzi appartenenti alle classi terapeutiche M1A1 (FANS), M1A3 (COX2) e N2A/B
(selezione di prodotti analgesici), prescritte tra un periodo precedente e
successivo all’entrata in vigore della legge 38/10 e precisamente dal III
trimestre 2009 al I trimestre 2010 e dal II al IV trimestre 2010.
Dopo la legge le vendite degli analgesici oppiacei sono cresciute più
velocemente, con la sola eccezione del segmento “a lento rilascio” che
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Il mercato degli analgesici oppioidi nel post-legge
133
pur aumentando i volumi di vendita ben oltre la doppia cifra sembra
aver rallentato rispetto al passato.
Lo dimostra l’analisi svolta da IMS Health Italia, che ha confrontato
nel tempo i diversi tipi di oppioidi in termini di giorni di trattamento. Essa ha infatti valutato gli oppiacei a lento rilascio (Jurnista, MS
Contin, Oxycontin), a lento rilascio transdermici (Durogesic, Matrifen,
Quatrofen, Transtec), a rilascio immediato [Abstral, Actiq, Effentora,
Oramorph, Tramadolo (os)] e le associazioni (Coefferalgan, Depalgos,
Kolibri, Patrol, Tachidol, Codamol), in un periodo precedente e successivo alla legge 38/10, e precisamente da maggio 2009 a febbraio 2010 e
da marzo a dicembre 2010.
I risultati ottenuti hanno sottolineato come i giorni di trattamento
con gli oppiacei siano passati da 64.220.447 a 71.738.984 dai tre trimestri prima dell’entrata in vigore della legge ai tre trimestri dopo, con un
incremento dell’11,7%.
L’approvazione della nuova normativa su cure palliative e terapia
del dolore ha indubbiamente causato un movimento culturale che ha
avuto ripercussioni anche sulla scelta dei farmaci. Grandi spostamenti
di prescrizioni di oppiacei si sono per esempio osservati in brevissimo
tempo per la cura del dolore oncologico. Una maggiore appropriatezza prescrittiva relativa agli oppiacei si è inoltre notata tra i medici di
Medicina Generale (MMG), segno che l’informazione sull’efficacia e
sulla sicurezza di questi farmaci ha raggiunto anche loro. L’analisi della ripartizione delle prescrizioni per origine, effettuata in un gruppo di
farmacie nel mese di dicembre 2010, ha infatti messo in evidenza come
le prescrizioni di oppiacei per mano dei MMG siano aumentate del
55%, quelle eseguite da MMG e specialisti del 27% e quelle effettuate
direttamente dagli specialisti del 15%.
L’impatto della legge su prescrizioni e vendite è stato pertanto immediato. Sebbene sia restato invariato il forte interesse dei medici per
gli antidolorifici in generale, la domanda di oppiacei ha subito un’evidente accelerazione che ha portato le vendite a essi riferite a raddoppiare nell’arco di dieci mesi. Il consumo di FANS resta ancora decisamente superiore rispetto agli altri Paesi europei: solo la Germania
fa registrare un elevato ricorso ai FANS simile a quello osservato in
Italia, che viene tuttavia implementato anche da un discreto impiego
di oppiacei. Già il Mat 09/09, valutando il peso delle varie classi terapeutiche sul totale del mercato, aveva sottolineato come nel nostro
Paese l’80% dei giorni di terapia fosse appannaggio dei FANS e il 7%
dei Cox-2 inibitori a fronte di una penalizzazione dei farmaci oppiacei.
Questa fotografia è valida tutt’oggi. Ciononostante si può sostenere
che con l’avvento della legge sia iniziato quel recupero del nostro Pae-
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Dopo la legge
se, nei confronti degli oppiacei per la cura del dolore, che in un futuro
non troppo lontano si spera possa fargli perdere finalmente la posizione di fanalino di coda per allinearlo ai comportamenti delle altre
nazioni europee.
3.3Gli oppioidi in Italia: la loro diffusione è a macchia di leopardo
A tutt’oggi si può affermare che la promulgazione della legge 38/10 ha
cambiato radicalmente l’approccio del clinico alla terapia del dolore.
Se, da un lato, i medici che operano all’interno di strutture ospedaliere
hanno delle regole ben precise da rispettare, quali per esempio la registrazione della misura del dolore nella cartella clinica e la valutazione
della coerenza terapeutica in atto, dall’altro i clinici che operano sul
territorio sono soggetti a controlli meno rigidi e, forse per questo motivo, sono meno ligi nell’applicare quanto la legge raccomanda. Ciononostante, la valutazione del ricorso ai farmaci oppiacei consente di
risalire al loro operato che porta con sé buone notizie. Un maggiore
adeguamento alle Linee Guida internazionali, che sta facendo prendere le distanze dalle somministrazioni per via transdermica a favore
delle formulazioni orali, e l’incremento degli oppiacei a rilascio controllato sono il segno inconfutabile di un cambiamento in atto.
Analizzando il consumo di farmaci oppiacei prescritti per il dolore cronico, si può notare come la percentuale di crescita, sia in valori sia in
unità, faccia registrare un continuo, seppur contenuto incremento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: il confronto tra i quattro trimestri, lo sottolinea.
Una nota positiva emerge tuttavia dall’analisi dei dati suddivisi per
formulazioni orali e transdermiche, che hanno registrato un incremento in valori e in unità. Ciò conferma una maggiore attenzione dei nostri
clinici alle indicazioni internazionali in tema di trattamento del dolore,
che raccomandano le formulazioni orali come via di somministrazione
di prima scelta.
Un altro risultato raggiunto riguarda l’aumento dei consumi procapite di oppiacei a rilascio controllato: si è passati dallo 0,50 euro del
2009 allo 0,59 euro del 2010, equivalente a un incremento del 18,1%. Un
aumento che non ha tuttavia interessato in maniera omogenea tutte le
Regioni: accanto a Piemonte e Lombardia, che continuano a crescere
come e più del resto d’Italia benché il loro consumo pro-capite sia già
superiore alla media nazionale e rispettivamente di 0,79 euro e di 0,66
euro, si trovano Liguria, Emilia-Romagna, Toscana e Umbria con un
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Il mercato degli analgesici oppioidi nel post-legge
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avanzamento meno marcato. Una riflessione va fatta poi sul Triveneto
che vive una condizione di stabilità da circa due anni e su regioni quali
il Lazio e la Sicilia (entrambe con 0,44 euro), Campania e Basilicata
(entrambe con 0,36 euro) e Calabria (0,35 euro), che sono ancora oggi
molto al di sotto della media italiana (0,59 euro).
Questi dati riflettono l’approccio che i clinici hanno verso i pazienti
affetti da dolore cronico e l’impiego sempre più corretto delle giuste
terapie per curarlo. La consapevolezza che un migliore controllo della
sofferenza è alla base di una qualità di vita più decorosa per i malati si
sta finalmente facendo largo tra gli operatori sanitari.
3.3.1 Il consumo di oppioidi in Italia a un anno dall’approvazione
della legge 38
Le Linee Guida internazionali indicano gli oppioidi come i farmaci di
riferimento per il trattamento del dolore cronico d’intensità moderata-severa, ma in Italia l’impiego di queste terapie è stato da sempre
relegato principalmente a pazienti con dolore oncologico o in stadio
terminale di malattia.
La legge 38 del 15 marzo 2010, mediante l’articolo 10, ha cercato di
rimuovere le barriere burocratiche che rappresentavano un ulteriore
ostacolo al corretto impiego di queste sostanze, uniformando così la
prescrizione di terapie orali o transdermiche a base di oppioidi a quella
di altri preparati farmacologici.
Ma cosa è realmente cambiato dall’entrata in vigore della legge
ad oggi? Le terapie a base di oppioidi hanno concretamente avuto un
maggior impiego per il trattamento del dolore cronico?
È possibile trovare alcune risposte a queste domande nell’analisi
dei dati sul consumo di questi farmaci.
Il 2010 si era chiuso con una spesa media pro-capite di oppioidi
forti − sia a rilascio immediato (IR) che controllato (CR) − pari a 1,03
euro, mentre la spesa relativa ai soli farmaci oppioidi CR (quelli, cioè,
impiegati per il trattamento del dolore cronico di base) risultava pari a
0,59 euro pro-capite.
Al 30 marzo 2011, a un anno dall’attuazione della legge, questo valore di spesa si è assestato a 1,11 euro, con un incremento di +24,28%
rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Analizzando questo
dato, suddiviso per consumo medio pro-capite per oppioidi forti CR
rispetto agli oppioidi forti IR, si nota come le formulazioni CR siano
cresciute di +14% toccando gli 0,74 euro pro-capite, mentre quelle IR
abbiano fatto registrare un +71,1% raggiungendo un valore pari a 0,19
euro pro-capite (tabella 1).
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Dopo la legge
Tabella 1
% incremento
marzo 2011 vs marzo 2010
% incremento
marzo 2011 vs marzo 2010
unità
valori
TOTALE MERCATO
12,01
24,28
Oppioidi a rilascio
controllato
15,4
14
Oppioidi a rilascio
immediato
6,9
71,1
Tra le formulazioni a rilascio controllato, sono quelle transdermiche
che fanno riscontrare i picchi più significativi (+97,65% a valori e
+86,11% a unità per il nuovo cerotto a matrice a base di fentanil), nonostante le indicazioni delle principali Linee Guida, oltre che della legge
stessa, indichino le formulazioni orali come le terapie di prima scelta e
consiglino i preparati transdermici solo in pazienti con dolore stabilizzato. Per quanto riguarda le formulazioni orali, i dati fanno registrare
il massimo incremento, pari a +14,57% a valori e +15,89% a unità, per
ossicodone CR, che rappresenta il farmaco orale più utilizzato per il
trattamento del dolore cronico.
Un altro dato di particolare interesse riguarda l’incremento dell’impiego delle formulazioni a rilascio immediato per il trattamento del
dolore episodico intenso (DEI): in questo caso si registra un importante
aumento a valori (+71,1%), mentre a unità la crescita rimane contenuta
a un +6,9%.
Una riflessione a parte deve essere fatta sulla formulazione di ossicodone IR che, per via della sua farmacocinetica, ha il suo principale
impiego non nel trattamento del DEI quanto nel dolore cronico, principalmente in fase di titolazione. Per questa tipologia di farmaco, i dati
di consumo fanno registrare a marzo del 2011, rispetto allo stesso periodo del 2010, un incremento del 32,4% sia a valori sia a unità.
Un aspetto che risulta interessante analizzare riguarda come si è
arrivati a ottenere questi valori.
Vale la pena sottolineare, infatti, che il trimestre immediatamente
successivo alla promulgazione della legge 38 rappresenta il periodo
con la maggior crescita percentuale di consumo di oppioidi forti sia a
valori (+12,8%) che a unità (+8,2%); nei trimestri successivi, invece, la
crescita (calcolata trimestre su trimestre) è stata contenuta e guidata
soprattutto dalle formulazioni a rilascio immediato.
Il primo trimestre del 2011, infine, ha fatto registrare una situazione
di stallo per quello che riguarda la crescita a valori (+0,7%) e addirittu-
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Il mercato degli analgesici oppioidi nel post-legge
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ra una perdita (-1,1%) se si considerano i dati a unità (tabella 2), rispetto al trimestre precedente.
Tabella 2
II trim 2010 vs
I trim 2010
III trim 2010 vs
II trim 2010
IV trim 2010
vs
III trim 2010
I trim 2011 vs
IV trim 2010
unità
valori
unità
valori
unità
valori
unità
valori
TOTALE
MERCATO
8,2
12,8
0,3
3,2
4,3
6
-1,1
0,7
Oppioidi a rilascio
controllato
10,1
9,5
1,7
2
3
1,6
0
0,4
Oppioidi a rilascio
immediato
0
27,2
-1,6
8,5
9,6
19,5
-0,9
3,8
Ossicodone IR
20
19,7
2,3
2,5
8,4
8,5
-0,5
-0,6
In relazione all’andamento dei consumi a valori dei farmaci oppioidi
a rilascio controllato è interessante analizzare anche il comportamento
delle diverse Regioni italiane. I primi tre mesi del 2011 vedono, rispetto all’ultimo trimestre del 2010, un rallentamento della crescita media
che riguarda, in particolare, alcune tra le Regioni più significative della
nostra penisola: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto fanno registrare percentuali d’incremento non solo inferiori alla media italiana, ma
addirittura una sorta di “involuzione” rispetto al trimestre precedente
(tabella 3).
Analizzando i dati relativi all’incremento, sempre a valori, del I trimestre 2011 rispetto al I trimestre 2010, prima quindi dell’attuazione della
legge 38, si nota come 11 su 20 Regioni abbiano avuto una crescita superiore alla media Italia (tabella 4) e come, anche in questo caso, le aree che
hanno fatto registrare gli incrementi maggiori siano principalmente rappresentate dalle Regioni che partivano da dati di consumo molto bassi.
Fanno eccezione Regioni come Friuli Venezia Giulia, Piemonte,
Liguria e Sardegna che da sempre hanno dimostrato una particolare
attenzione alla cura e al trattamento del dolore e che riescono anche a
mettere in pratica le indicazioni di legge.
In conclusione, è possibile affermare che la crescita complessiva del
consumo di oppioidi forti per il trattamento del dolore sembra essere
maggiormente legata non tanto a un incremento delle formulazioni a
rilascio controllato quanto a un aumento del consumo dei farmaci a
rilascio immediato, che dovrebbero essere utilizzati per la sola titolazione (ossicodone IR) o per la gestione del DEI.
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Dopo la legge
Tabella 3
I trim 2011 vs IV trim 2010
Valle d’Aosta
8,53
Basilicata
6,66
Friuli Venezia Giulia
4,15
Umbria
3,38
Marche
2,88
Calabria
2,49
Sardegna
1,79
Liguria
1,52
Sicilia
1,37
Campania
1,26
Trentino Alto Adige
1,13
Toscana
0,98
Piemonte
0,87
Lazio
0,46
Media Italia
Lombardia
0,40
0,07
Puglia
-0,06
Emilia-Romagna
-0,94
Veneto
-1,32
Abruzzo
-6,66
Molise
-7,75
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Il mercato degli analgesici oppioidi nel post-legge
139
Tabella 4
Basilicata
33,16
Umbria
26,05
Piemonte
18,13
Calabria
17,76
Liguria
16,77
Valle D’Aosta
16,10
Veneto
15,89
Friuli V. G.
15,72
Lombardia
15,46
Sardegna
15,11
Lazio
14,83
Totale
14,58
Emilia-Romagna
14,24
Molise
13,36
Trentino A. A.
12,87
Sicilia
12,82
Puglia
11,92
Campania
11,45
Toscana
10,85
Marche
7,97
Abruzzo
7,91
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Capitolo 4
Le nuove esigenze dei farmacisti
Le semplificazioni nella prescrizione e nella dispensazione dei medicinali impiegati nella terapia del dolore, apportate dalla legge 38/10,
hanno promosso un nuovo approccio culturale nei confronti della
sofferenza e generato nuove richieste di informazione da parte dei
farmacisti. Alla loro domanda di conoscenza, la Federazione Ordini
Farmacisti Italiani (FOFI) ha risposto con corsi ECM volti a dare un
aggiornamento sulla normativa dei farmaci stupefacenti, con ulteriori
corsi professionali residenziali presso gli Ordini Provinciali, con la revisione dei quiz previsti nella prova per i concorsi a sedi farmaceutiche
e con “La guida pratica per il farmacista”, un manuale che affronta la regolamentazione di tutti gli aspetti della pratica professionale compresa
quella sugli oppiacei. La conoscenza è infatti uno degli anelli fondamentali per garantire qualità e sicurezza nell’assistenza farmaceutica.
I nuovi adempimenti amministrativi relativi agli oppiacei non iniettabili, le semplificazioni nella loro gestione e nella loro dispensazione
(per esempio non più ricetta a ricalco in triplice copia, né bollettario
buoni-acquisto e nemmeno obbligo di tenere un registro d’entrata e
di uscita degli stupefacenti contenuti nella Tabella II sezione D ed E) e
la possibilità del farmacista di adeguare la prescrizione nell’atto della
dispensazione (il farmacista può consegnare una quantità inferiore di
confezioni di oppiacei non iniettabili o consegnarle in modo frazionato
rispetto alla quantità prescritta) hanno generato un nuovo complesso
di norme di cui il farmacista deve tenere conto. Come sostiene Andrea
Mandelli, presidente della FOFI, “Sarebbe però sbagliato considerare queste norme come un carico burocratico; mai come nel caso della legislazione
sul farmaco la forma discende dalla sostanza, la norma, cioè, è espressione del
progresso delle conoscenze scientifiche e del mutare della società stessa”.
I farmacisti hanno pertanto necessità di acquisire queste novità legislative per rendere concrete le agevolazioni nell’accesso ai farmaci contro il dolore che la legge sancisce e per garantire qualità e sicurezza
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nell’assistenza farmaceutica anche su questo versante. Per aggiornarli
in modo capillare sulle modifiche apportate dalla legge 38/10, la FOFI
ha realizzato un corso nell’ambito del Programma ECM PharmaFad
organizzato dalla Fondazione Cannavò, seguibile anche on line, sulla normativa riguardante la prescrizione degli stupefacenti e il trattamento del dolore: nell’edizione 2010-2011 ben 3.724 farmacisti si sono
iscritti in soli 27 giorni al modulo “Stupefacenti: aspetti legislativi” e
3.424 al modulo dedicato alla gestione del paziente con dolore osteoarticolare o da trauma. Nell’edizione precedente del 2009-2010, il corso
tenuto su questa tematica era stato seguito e completato da tutti i 20
mila iscritti al programma.
Nel 2011 sono previsti ulteriori corsi di aggiornamento professionale residenziali presso i diversi Ordini provinciali.
La FOFI si è tra l’altro impegnata nella revisione dei quiz della prova per i concorsi a sedi farmaceutiche, tra i quali saranno inserite anche
alcune domande sulla nuova legge al fine di promuoverne la conoscenza.
È inoltre in corso di pubblicazione la “Guida pratica per il farmacista”,
voluta dalla FOFI e curata dagli uffici federali, dedicata alla normativa
sul farmaco, nella quale le innovazioni in materia di stupefacenti sono
state trattate diffusamente e riassunte in forma di schemi e tabelle per
una facile consultazione. Si tratta di un manuale che illustra le leggi tenendo conto dell’attività quotidiana del farmacista: il testo cerca
infatti di rispondere ai quesiti maggiormente rivolti alla Federazione.
Pubblicato anche sul sito www.fofi.it, può essere aggiornato in tempo
reale quando se ne presenti la necessità e stampato nelle parti che interessano. Diviso per capitoli, si propone come uno strumento di facile
consultazione, utile da tenere sotto mano.
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Capitolo 5
Le risposte dell’industria
5.1L’incongruità tra l’obbligo di cura del dolore e la pesante burocrazia
del mercato italiano
La nuova normativa sul dolore non ha innescato un boom di nuovi
farmaci; anche dal punto di vista delle forze messe in campo dalle
aziende farmaceutiche, non ha favorito un incremento del numero di
informatori e quindi di investimenti in termini di risorse umane. Ciò
è avvenuto sostanzialmente per due motivi. Il primo è da attribuire al
fatto che la legge 38/10 è una realtà esclusivamente italiana, mentre le
multinazionali che a tutt’oggi finanziano la ricerca di nuovi farmaci
hanno una visione globale: i loro interessi esulano pertanto dallo stretto ambito di una nazione. Il secondo è da riferire alla complicata burocrazia che grava sull’immissione di nuovi prodotti sul mercato italiano: i lunghi tempi di approvazione richiesti dall’AIFA disincentivano
la commercializzazione anche di composti già ampiamente diffusi in
altri Paesi europei.
5.2Le molecole antidolore
Il dolore è una malattia e, di conseguenza, anch’esso deve avere i suoi
farmaci. È questo un concetto che si sta facendo sempre più spazio
e che ha prodotto per il momento ancora poche, ma nuove, opzioni
terapeutiche. Tra queste ultime vale la pena ricordare, per esempio,
il primo spray nasale a base di fentanil per controllare il breakthrough
cancer pain (BTcP), vale a dire il picco di dolore avvertito dai malati con
dolore cronico oncologico, e l’associazione di ossicodone e naloxone
per limitare la costipazione dovuta all’assunzione di oppiacei.
5.2.1 Una nuova formulazione contro il breakthrough cancer pain
Le persone affette da cancro vanno spesso incontro nell’arco della loro
malattia a un’esacerbazione del dolore cronico oncologico, nonostante
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esso sia ben controllato con l’assunzione di farmaci somministrati a
orari fissi. Questo picco di dolore, che insorge rapidamente ed è caratterizzato da intensità severa di breve durata e si ripresenta in media
da 1 a 4 volte al giorno, viene chiamato breakthrough cancer pain (BTcP),
o in italiano Dolore Episodico Intenso (DEI). Un’indagine eseguita da
Doloredoc.it su 779 clinici, suddivisi tra 184 medici di Medicina Generale e 523 specialisti del dolore, fornisce un quadro particolareggiato
della presa di coscienza di questo particolare tipo di sofferenza. Oltre
il 70% dei medici partecipanti all’iniziativa sostiene che l’attenzione al
suo trattamento sia aumentata negli ultimi due anni e il motivo è che il
BTcP è avvertito dal 50-70% dei malati oncologici.
Proprio per contrastare questo dolore che ha un importante impatto
fisico e psicologico sul paziente e determina un significativo innalzamento dei costi socio-sanitari, è stato messo a punto un farmaco con
caratteristiche temporali simili a un episodio di BTcP e che ha, pertanto, un’azione immediata e di breve durata, non superiore alle reali necessità. Si tratta del fentanil spray, il primo farmaco analgesico a
somministrazione intranasale, indicato per gli adulti con BTcP che già
assumono una terapia di mantenimento a base di oppioidi per il dolore
cronico oncologico. La sua rapida efficacia antalgica, unita a una buona
tollerabilità e a una semplice modalità di somministrazione, lo rendono un rimedio innovativo.
Questo nuovo prodotto va di fatto a colmare un vuoto, determinato
dalla mancanza di protocolli riconosciuti e di farmaci ad hoc per il trattamento di questo tipo di dolore. Le strategie di gestione finora messe
in atto prevedevano infatti l’uso di “farmaci di salvataggio” che nella pratica clinica sono di solito rappresentati da una dose addizionale
dello stesso oppioide usato per gestire il dolore cronico di base.
5.2.2 Un’innovativa associazione per controllare congiuntamente
il dolore e la costipazione da oppiacei
Anche la prospettiva con cui mettere a punto i farmaci è cambiata negli
ultimi anni. Se prima venivano realizzati solo con l’obiettivo di risolvere il problema più manifesto, ora si cerca di formularli in modo che
possano evitare, ridurre o risolvere anche tutte quelle complicanze correlate alle terapie. In altre parole, oggi si punta sempre di più a migliorare la qualità di vita di un ammalato: un farmaco deve pertanto non
solo curare, ma anche garantire un mutamento positivo dell’esistenza
del paziente e della sua famiglia. I nuovi analgesici non sfuggono a
questa nascente filosofia. È stato infatti da poco messo in commercio
un farmaco a base di ossicodone e naloxone, entrambi a rilascio pro-
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Le risposte dell’industria
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lungato, che oltre ad alleviare il dolore cronico severo previene la costipazione che è l’effetto collaterale più frequente causato dall’assunzione di oppiacei. La sua disponibilità sul mercato italiano rappresenta
pertanto un fondamentale passo avanti per una più ampia accettazione dei farmaci oppiacei per la cura del dolore.
Poter beneficiare dell’effetto antalgico degli oppiacei riducendo il più
possibile gli effetti collaterali non è più un’impresa impossibile. Coloro
che sono affetti da dolore cronico possono oggi contare su una nuova
combinazione orale, a rilascio prolungato, che unisce i vantaggi terapeutici di due noti principi attivi, l’ossicodone e il naloxone. Il primo è
la molecola più usata nel mondo per controllare il dolore cronico, mentre il secondo è un antagonista degli oppioidi che, bloccando i recettori
degli oppioidi solo a livello intestinale, previene la costipazione.
L’assunzione dell’innovativa associazione consente di avere contemporaneamente un buon controllo del dolore e contrastare l’insorgenza della stipsi indotta dagli oppioidi. Già in commercio in Germania dove la sua efficacia è stata documentata in oltre 7.800 pazienti, nel
Regno Unito, in Francia, Irlanda, Spagna e nei Paesi Scandinavi, l’associazione ossicodone/naloxone PR è disponibile ora anche nel nostro
Paese: essa rappresenta quella svolta terapeutica che i malati di dolore
cronico severo stavano aspettando da tempo e risponde a un bisogno
clinico finora irrisolto.
L’uso dei farmaci oppioidi è infatti associato a disfunzioni intestinali che inducono una serie di sintomi, il principale dei quali è la costipazione; questa rappresenta l’unico effetto collaterale che tende a
perdurare nel tempo ed è individuata come uno dei principali motivi
di non aderenza (sospensione o riduzione del numero di assunzioni
del farmaco) alla terapia.
Uno studio italiano, eseguito da Rosti, Gatti, Costantini, Sabato
e Zucco e pubblicato sulla European Review for Medical and Pharmacological Sciences nel 2010, ha evidenziato come la prevalenza della
costipazione raggiunga il 63,5% dei pazienti trattati con oppioidi e
come l’uso dei lassativi sia poco risolutivo del problema: nello studio
citato, l’89,5% di coloro che presentavano stipsi era in trattamento con
lassativi.
Il mancato o non corretto trattamento della costipazione genera inoltre costi sanitari elevati. Come dimostra una ricerca, svolta da
Panchal, Muller-Schwefe e Wurzelmann e pubblicata sull’International
Journal of Clinical Practice nel 2007, un paziente affetto da costipazione
grava sul Servizio Sanitario Nazionale per ben 500 euro in più al mese
tra costi diretti e indiretti, rispetto a un paziente non affetto.
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Che l’attenzione della comunità scientifica italiana sia sempre più
rivolta a tutti gli aspetti clinici ed economici che ruotano intorno a un
paziente affetto da dolore cronico è dimostrato dalla recente esperienza
promossa da Federdolore, in collaborazione con Wolters Kluwer Health Italy Ltd – casa editrice internazionale leader nella comunicazione medico-scientifica. Agli inizi del 2011, difatti, Federdolore ha promosso una raccolta dati condotta presso i centri di terapia del dolore
italiani, al fine di sondare quanto un approccio terapeutico che valuti
il paziente nella sua complessità possa migliorare non solo il controllo del dolore, ma anche gli effetti collaterali legati alla OBD (Opioid
Bowel Dysfunction) e, di conseguenza, la qualità di vita di questi
malati.
L’indagine ha portato all’analisi di dati relativi a oltre 2.900 pazienti con dolore non controllato, sia di natura oncologica che non oncologica; i risultati ottenuti sono stati presentati, suddivisi per coorti di
pazienti, in occasione dei principali congressi di terapia del dolore del
nostro Paese.
I dati più significativi emersi mostrano come ancora oggi, nonostante ci sia una Legge che tuteli il diritto alla cura del dolore, i pazienti soffrano a causa di terapie non sempre adeguate alla intensità
algica provata e che la prevenzione e gestione degli effetti collaterali
sia poco attuata. Tutto ciò con gravi ripercussioni sulla qualità di vita
dei pazienti e, di conseguenza, dei loro familiari. Lo studio ha dimostrato come l’impiego della nuova associazione ossicodone/naloxone
PR abbia portato a un rapido controllo sia del dolore che degli effetti
collaterali legati alla terapia con oppioidi e come questo abbia avuto
ripercussioni generali positive sul paziente.
Un altro aspetto che la ricerca ha evidenziato è che non tutti i farmaci si comportano allo stesso modo ed è quindi compito del clinico effettuare quella scelta che possa garantire al paziente il miglior risultato
globale possibile, nel rispetto delle linee guida internazionali.
Oggi l’unione d’intenti tra la ricerca clinica e le aziende farmaceutiche ha portato alla commercializzazione di farmaci che, tramite meccanismi di rilascio innovativi e associazioni di diverse molecole, vanno
incontro alla necessità di un mondo sempre più senza dolore inutile.
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Capitolo 6
La comunicazione della legge
L’articolo 4 della legge stabilisce che il Ministero della Salute, d’intesa con le
Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, promuova nel triennio
2010-2012 campagne istituzionali di comunicazione volte a informare i cittadini su tutto ciò che concerne la nuova normativa sulle cure palliative e la
terapia del dolore, dalle modalità di accesso alle prestazioni ai programmi di
assistenza, dall’utilizzo dei farmaci per il controllo del dolore al coinvolgimento dei medici di Medicina Generale, dei pediatri e delle farmacie pubbliche e
private. A tale scopo ha stanziato 50 mila euro per l’anno 2010 e 150 mila euro
per ciascuno degli anni 2011 e 2012. La Direzione Generale della Comunicazione e Relazioni Istituzionali del Ministero della Salute ha già messo in pratica il contenuto dell’articolo 4 prevedendo l’utilizzo di questo finanziamento
relativo all’anno 2010 per la realizzazione di due eventi regionali di sensibilizzazione, informazione e formazione sulle cure palliative e la terapia del dolore
rivolte al paziente pediatrico, precisamente nelle regioni Friuli Venezia Giulia
e Basilicata. La stessa Direzione Generale ha inoltre previsto di avviare, in collaborazione con le Organizzazioni non profit che si occupano di cure palliative
e di terapia del dolore, una campagna nazionale di informazione sulla legge
38/10 diretta alla popolazione.
Il Ministero della Salute e l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari
Regionali (AgeNaS), con il supporto delle Regioni e delle provincie
autonome di Trento e Bolzano, hanno dato avvio a una campagna informativa nazionale per sensibilizzare tutti gli Italiani sull’importanza
della terapia del dolore al fine di promuovere una nuova cultura che si
prefigga la lotta alla sofferenza.
Nell’ambito di questo programma che ha lo scopo di tutelare la qualità di vita dei malati adulti e pediatrici e dei loro familiari, AgeNaS ha
indetto quattro concorsi d’idee, rispettivamente per la realizzazione di
una sceneggiatura finalizzata alla messa a punto di un video/spot che
veicoli un messaggio educativo veloce e diretto, di un logo, di uno slogan e di un poster, tutti relativi alla diffusione della terapia del dolore.
Essi sono stati resi noti per mezzo di un bando pubblicato per estratto
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sulla Gazzetta Ufficiale e sul sito web di AgeNaS (www.agenas.it) e su
due dei principali quotidiani a diffusione nazionale.
Il Concorso d’idee è stato riservato ai giovani che non hanno superato i 30 anni: i loro lavori sono stati giudicati da una Commissione
nominata dal Direttore AgeNaS in base all’originalità dell’idea, all’impatto visivo e all’immediatezza del messaggio.
Al vincitore di ognuno dei quattro concorsi è assegnato un premio
di 10 mila euro. Per contro, il vincitore cede a titolo gratuito all’AgeNaS il diritto di utilizzare la propria opera che potrà essere diffusa via
web, attraverso mezzi d’informazione audiovisivi o qualunque altro
mezzo sia ritenuto opportuno da AgeNaS.
6.1La Giornata Nazionale del Sollievo
L’approvazione della legge 38/10 ha stimolato un movimento di interesse sul dolore che è partito dal basso, cioè dai destinatari della normativa stessa vale a dire i pazienti, i medici, le associazioni e le fondazioni che da tempo lottano contro la sofferenza inutile. Questo positivo
rimbalzo ha stimolato un dialogo tra i principali interlocutori della sofferenza, istituzioni comprese, nonché una lettura critica dei contenuti
della normativa e l’avvio di numerose iniziative. Diverse campagne di
sensibilizzazione, nuovi siti internet e preziose alleanze sono stati realizzati da un anno a questa parte. Nel loro insieme hanno rilanciato il
problema dolore, filtrato da riflessioni e confronti sul tema che stanno
trovando sempre più spazio nell’ambito di convegni, riunioni e incontri sia dedicati al mondo medico sia aperti al pubblico.
La Giornata Nazionale del Sollievo, giunta alla sua X edizione, è dedicata quest’anno in particolare al dolore cronico lamentato dal mondo femminile. Ben 62 ospedali italiani, premiati con un bollino rosa dall’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da) perché ritenuti “a
misura di donna”, hanno partecipato all’iniziativa di sensibilizzazione
patrocinata dal Senato della Repubblica e dalla Camera dei Deputati.
In risposta a questo riconoscimento, queste strutture hanno aperto
le proprie porte alla popolazione, organizzando convegni e incontri,
offrendo consulti medici e visite specialistiche gratuite e dando informazioni su possibili terapie, centri e figure di riferimento che si prendono cura del dolore a 360 gradi.
Con questa iniziativa si è portata l’attenzione sulla sofferenza cronica delle donne, molto diffusa nel nostro Paese. Un’indagine, eseguita
da O.N.Da su 1.000 pazienti affette da osteoporosi, ha sottolineato che
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sette donne su dieci la lamentano: circa la metà di esse, e precisamente
il 48,9%, ha riferito una sofferenza di forte intensità e il 90% si è ritenuta insoddisfatta dell’assistenza e delle terapie ricevute attribuite nel
59% dei casi a una mancata misurazione del dolore.
6.2Una nuova alleanza
La convinzione che il dolore non sia un prezzo da pagare sempre e comunque alla malattia e che sia possibile curarlo assicurando ai pazienti
una dignitosa qualità di vita, ha portato ad allacciare collaborazioni
virtuose, come per esempio quella tra Mundipharma, azienda leader
nella terapia del dolore, e vivere senza dolore, la prima associazione fondata dai pazienti per i pazienti per dare voce agli oltre 15 milioni di
Italiani che convivono ogni giorno con la sofferenza cronica.
Da questa intesa è nata l’iniziativa di supportare la campagna educativa itinerante CU.P.I.DO., acronimo di “Cura Previeni il Dolore”,
patrocinata dal Ministero della Salute, che ha avuto luogo nei mesi di
aprile e maggio 2011 e che è partita da Viterbo per arrivare a Messina
toccando 13 città italiane. Essa si è proposta come un viaggio tra le
diverse Regioni per rispondere alle domande degli italiani sul corretto
approccio alla diagnosi e al trattamento del dolore.
La campagna informativa CU.P.I.DO. prende spunto da un’indagine, eseguita su oltre 1.600 pazienti di tutta Italia in collaborazione con
la Commissione Ministeriale Cure Palliative e Terapia del Dolore, che
ha messo in evidenza il divario esistente tra Nord, Centro, Sud e Isole
sulla presenza di centri specialistici e sulla sensibilizzazione di clinici e
malati. I risultati ottenuti hanno sottolineato come le persone sofferenti
lascino passare molto tempo (il 26% dei pazienti attende circa 3 mesi
prima di recarsi dal medico) prima di riferire il proprio dolore a figure
competenti e come i pazienti soprattutto residenti al Sud e nelle Isole
siano disorientati e non sappiano a quale struttura fare riferimento.
Da questi dati e dall’esigenza di comunicare direttamente agli Italiani che il dolore è una vera malattia e come tale si può curare, Mundipharma e vivere senza dolore hanno deciso di realizzare una campagna
itinerante per informare e sensibilizzare la popolazione sulla sofferenza inutile. Facendo incontrare i cittadini con i medici operanti sul territorio, si è promosso anche un dialogo favorito da momenti d’incontro
e di dibattito tra istituzioni, comunità medica, media e associazioni di
pazienti, che ha avviato un confronto sul tema della sofferenza cronica
e sui punti di forza e di debolezza della sua gestione nelle diverse realtà regionali.
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In ogni città toccata dal tour informativo è stato allestito un gazebo
presidiato da medici specialisti che si sono resi disponibili per chiarire
i dubbi esposti dai visitatori in materia di dolore e per indicare le strutture locali a cui rivolgersi per una corretta diagnosi e cura. Nell’occasione è stato anche distribuito materiale informativo insieme a un
regolo per misurare ogni giorno l’intensità del dolore provato e a un
diario per annotarne le caratteristiche in modo da ricordarle allo specialista nel momento della visita.
6.3Un nuovo sito web dedicato al dolore
Un nuovo sito internet www.liberatidaldolore.it è stato realizzato
nell’ambito della campagna educazionale, avviata a novembre del
2010 e promossa dall’Associazione Nazionale Malattie Reumatiche
(ANMAR) e dall’Associazione Nazionale delle Università della Terza
Età (UniTre) con il contributo educazionale non condizionato di MSD,
per informare ed educare sulla possibilità di riconoscere precocemente
la sofferenza cronica, soprattutto di origine osteoarticolare, e di poterla
trattare con farmaci adeguati.
Strutturato con un linguaggio semplice ma rigoroso sotto il profilo
medico-scientifico, il sito si propone di far capire agli Italiani l’importanza di un consulto precoce con il medico: non bisogna infatti perdere
tempo prezioso se il dolore tende a mantenersi e a peggiorare. L’osteoartrosi per esempio viene spesso sottovalutata nelle sue fasi iniziali
dagli stessi pazienti, che si abituano a convivere per parecchi anni con
il dolore fintanto che non diventa insopportabile e refrattario ai comuni rimedi.
I suoi contenuti vogliono inoltre portare l’attenzione sulla numerosità delle malattie reumatiche osteoarticolari: se ne conoscono ben 150
tipi differenti e in termini di morbilità si collocano al secondo posto
dopo le malattie cardiorespiratorie. Un medico di Medicina Generale
riceve nel proprio ambulatorio almeno un paziente con dolori articolari o limitazioni funzionali del movimento. Disturbi che arrivano a
colpire il 9-10% degli assistiti, per un totale di 150 individui se si considera un medico massimalista. Le forme più frequenti sono l’artrosi e
l’osteoporosi, senza dimenticare le artriti, tra cui l’artrite reumatoide,
l’artrite psoriasica, le spondiloartriti e le connettiviti. Nel loro complesso colpiscono ben 5 milioni di nostri connazionali e oltre a provocare danni articolari e a limitare in modo significativo l’autonomia e
l’autosufficienza, fanno convivere la persona con il dolore e con le sue
conseguenze, vale a dire con alterazioni dei rapporti familiari, spesso
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con la perdita del lavoro e in alcuni casi con l’impossibilità a svolgere
determinate professioni, e con limitazioni della propria quotidianità.
Gli articoli che compongono il sito ribadiscono come lo specialista
delle malattie reumatiche, il reumatologo, non venga spesso consultato
e come ciò sia un vero peccato in quanto, per sua formazione, è meno
incline alle risoluzioni di tipo chirurgico e più orientato alla gestione
farmacologica del dolore e agli approcci riabilitativi. Purtroppo la scarsa numerosità di questa figura sul territorio non ha giovato alla promozione di una cultura sul corretto approccio alle malattie articolari.
Nel loro insieme gli articoli vogliono stimolare una prescrizione ragionata dei farmaci antinfiammatori e l’educazione del paziente al loro
corretto utilizzo, a comportamenti e a stili di vita idonei, nonché a una
riduzione degli accessi impropri allo specialista, a una migliore continuità nel tempo del rapporto tra medico e paziente e a una maggiore
condivisione del percorso diagnostico-terapeutico tra reumatologo e
medico di Medicina Generale.
6.4Il progetto Change Pain
Un mese dopo l’approvazione della legge 38/10 è stato avviato “Change Pain”, un progetto informativo, formativo e di ricerca promosso a livello internazionale da EFIC, l’associazione scientifica europea contro
il dolore, in partnership con la Società Italiana di Medicina Generale
(SIMG), FederDolore e l’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore
(AISD). L’iniziativa si è proposta di modificare l’atteggiamento culturale e assistenziale nelle nazioni, Italia compresa, in cui una nuova cultura di cura e prevenzione della sofferenza stenta a decollare: solo aumentando la sensibilità e l’attenzione sul tema dolore si possono infatti
comprendere appieno i bisogni dei cittadini e fornire delle soluzioni
che possano supportare gli operatori sanitari impegnati a migliorarne
la qualità della vita.
Il progetto Change Pain ha avuto il merito di essersi rivolto per la
prima volta a tutti gli interlocutori che in qualche modo hanno a che
fare con il problema dolore, facilitando il dialogo tra medici, pazienti
e istituzioni sanitarie, la divulgazione di nuove conoscenze nel campo
della terapia del dolore e la condivisione degli obiettivi di cura.
Dialogo che è stato favorito anche dalla realizzazione di specifici
progetti ECM, dedicati agli specialisti e ai medici di Medicina Generale e volti a rimuovere ostacoli e pregiudizi che possono intralciare
l’applicazione della legge, a trasmettere contenuti utili per superare le
difficoltà operative e a proporre un contesto formativo per acquisire
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modelli pratici per un adeguato problem solving quotidiano sui temi
del dolore.
Un filo diretto tra medici e cittadini è stato mantenuto inoltre grazie
al portale www.doloredoc.it, che dal 2003 a oggi ha messo in contatto
chi si è impegnato a combattere il dolore con chi lo subisce. In prima
posizione su Google per la terapia del dolore, il sito raggiunge oltre
15 mila utenti e si propone come riferimento per tutti i medici che si
interessano di algologia e per tutti coloro che vogliono essere maggiormente eruditi in questa tematica.
Notizie e informazioni, tratte dai più importanti siti specializzati di
divulgazione medica e scientifica italiani e stranieri, sono consultabili
facilmente e in modo rapido. Nell’area riservata ai medici è possibile accedere ad aggiornamenti realizzati ad hoc, a indagini periodiche
contestualizzate al mondo del dolore, a report e al calendario dei principali congressi internazionali del settore, nonché a casi clinici, a percorsi diagnostici interattivi, a video e altri servizi utili alla professione.
Nell’area dedicata ai pazienti si può trovare una finestra di consulenza con lo specialista, editoriali e commenti di esperti sulla sofferenza,
come anche i riferimenti ai Centri specializzati in terapia del dolore.
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Per tutte le informazioni sui nostri libri,
riviste, servizi on line e news
consulta il portale
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La data del 15 marzo 2010 rimarrà nella memoria di tutti coloro - politici e
clinici - che si sono impegnati affinché il dolore cronico fosse classificato e
trattato come una vera malattia, nonché di tutti i pazienti che hanno visto
tutelato il loro diritto ad essere curati per una patologia che, oltre al fisico,
infierisce sull’anima di chi ne è affetto.
La Legge 38 rappresenta un passo fondamentale in ambito sanitario: riconosce al dolore cronico la dignità di malattia, separa nettamente le cure
palliative dalla terapia del dolore, obbliga i clinici alla cura del dolore ma
anche a un suo attento monitoraggio, inserendo il dolore tra i cinque parametri vitali da valutare quotidianamente. è il raggiungimento di un importante traguardo e, al tempo stesso, il punto di partenza verso un approccio
al dolore cronico del tutto differente. Un grande risultato che va riconosciuto non solo a chi vi ha lavorato in anni recenti, ma anche a tutti gli operatori che, nell’ultimo decennio, hanno gettato le basi di quel cambiamento
culturale senza il quale tutto ciò non si sarebbe potuto ottenere.
Questo volume ripercorre le tappe fondamentali di un lungo cammino,
approfondendo alcune tematiche, ad esempio il pensiero della Chiesa in
materia, affrontando temi delicati come la gestione del dolore in ambito
pediatrico e, infine, chiarendo l’importanza di un trattamento terapeutico
adeguato, sfatando alcuni luoghi comuni come quelli inerenti l’impiego dei
farmaci oppioidi.
Un libro dedicato a tutti i malati di dolore cronico, che possono trovare in
queste pagine una risposta a molte loro domande, ma anche ai politici, per
mettere in luce come il lavorare per un fine comune – il bene del paziente –
porti a riconoscere il valore di quanto costruito da altri, anche se appartenenti a diverse correnti di pensiero.
Un’opera dedicata inoltre a tutti gli operatori del settore, affinché applichino quanto la Legge ha stabilito e continuino questo percorso di cambiamento culturale, e a quanti dedicano la loro vita alla cura degli altri, perché
non si lascino scoraggiare dai momenti cupi, ma trovino sempre la forza di
andare avanti.
Marco Filippini, Farmacista, Manager in ambito farmaceutico.
Manuela Maria Campanelli, Giornalista.
ISBN 978-88-324-8039-9
n 29,00
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Cronaca di una legge che ci difende dal dolore