MARIO MORGANTI I MISTERI DI MONTEPULCIANO Montepulciano Dicembre 2000 A mia moglie Fabrizia E ai miei figli Massimo e Michela Un ringraziamento sincero e riconoscente a due persone che mi onorano della loro amicizia e stima: il prof. Emo Barcucci e Antonio Sigillo per avermi più volte sollecitato a scrivere sugli argomenti di tante nostre conversazioni. Queste brevi sintesi sono il frutto di letture, studi e riflessioni sull’arte e la storia di Montepulciano: la mia città che amo profondamente e del suo affascinante passato, del quale mi occupo da sempre. Ringrazio inoltre la Biblioteca-Archivio “Piero Calamandrei”, Riccardo Pizzinelli Boris Cozzi, Giuseppe Pisi, mons. Agostino Mangiavacchi, don Azelio Mariani e Antonio Avignonesi. Mario Morganti INTRODUZIONE La parola “Misteri”, come il lettore si renderà conto sviluppando il suo interessamento a quest’opera, che con entusiasmo presento, non va interpretata nel senso negativo del termine, ma all’opposto in quello coerente e positivo per affermare che molto si è detto e studiato su Montepulciano, ma che tanta ancora dovrà essere l’attenzione degli studiosi per allargare la sfera della ricerca, che come si sa, ha il pregio di non finire mai. Questo termine quindi va visto in senso provocatorio, perché misteri? Non ci accontentiamo di quanto è stato detto e scritto finora, andiamo avanti. In un certo senso molti quesiti posti nell’ottocento tutto romantico, proteso verso la storia, sono rimasti tali: é tempo di rimetterci le mani. Il lavoro che Mario Morganti ha voluto con passione portare avanti ha validissimi meriti; ma uno in particolare quello di testimoniare il proprio attaccamento alla sua città natale, attaccamento, che lo ha spinto ad affinare le sue doti indiscusse di ricercatore. Infatti su questo campo l’autore dei “Misteri di Montepulciano” non ha rivali, riesce con singolare acume a porsi tanti quesiti, suggerendo anche molte ipotesi risolutive. Qualche studioso locale potrà arricciare il naso e sorridere su certe conclusioni del tutto innovative, che invece a mio avviso, anche se non condivise, vanno viste come stimoli a nuove ricerche. Qualora fosse, anche questo non è merito da poco. Alcune ricerche sono poi del tutto nuove, mi riferisco a Jacopo Da Ponte, alla famiglia Boscoli, a Pietro di Domenico da Montepulciano. Le capacità di sintesi in questi casi sono evidentissime, e mettono alla prova lo sforzo di una comunicazione semplice ed immediata, che si fa leggere con facilità. Chi scrive, conosce bene l’autore di questa importante opera; da tanti anni, ha avuto il merito di seguire quasi sul nascere la tendenza alla ricerca e la volontà di memorizzare ed associare; ha anche talvolta gettato acqua sul fuoco, come è inevitabile, quando le informazioni si accavallano e si ampliano. È stato perciò per me facile comprendere il significato nuovo di queste informazioni, che ora fanno bella mostra di sé nel presente volumetto. C’è solo da sperare che lo sforzo di Mario Morganti trovi estimatori che amplino e continuino una mole tanto vasta di ricerca. Con il prossimo anno saranno riaperte al pubblico l’archivio storico e la biblioteca comunale nella nuova sede di Palazzo Sisti a Montepulciano. Ci auguriamo che questo avvenimento faciliti sempre più la ricerca e il propagarsi di tanta passione storica come l’esempio di Morganti ci spinge a fare. Grazie ed auguri. Emo Barcucci IL MISTERO DELLA SUA NASCITA Qual è l’origine di Montepulciano? Etrusca, Romana, Medioevale? I primi documenti scritti comprovanti l’esistenza della città risalgono al 714 d.c. alla famosa contesa tra i Vescovi di Siena e di Arezzo per alcune Pievi del senese. In quella carta il nome di Montepulciano appare nella forma Baptisterium a sancta Mater Ecclesia in castello Politiano. Questo strumento e gli altri seguenti, fino al termine della disputa, attestano dunque l’esistenza di Montepulciano, ma non ne indicano la data di nascita. Alcuni documenti appartenuti all’Abbazia di S.Salvatore sull’Amiata, rogati in “Castello di Policiano” alla presenza di vari testimoni, fra i quali un Petrone Orefice ed un Sasso Chierico e Medico (E. Repetti Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, Firenze 1839), dimostrano che nell’ottavo secolo la città era già evoluta al punto di annoverare entro le sue mura orefici e medici. Si vedano le numerose leggende legate alla fondazione di Montepulciano, ed anche se la saggezza popolare insegna che ogni leggenda ha in sé un fondo di verità, tuttavia, ed è comprensibile, gli storici le hanno liquidate senza alcuna esitazione. A sostegno dell’origine etrusca della città gli storici locali recano notizie di ritrovamenti di tombe, monete e ceramiche, avvenimenti che vengono giudicati casuali e non idonei a provare l’origine etrusca della città. Più probabile la tesi che accredita l’origine romana, in epoca tardo-imperiale. Nel 1989, durante gli scavi per la metanizzazione del centro storico, accadde ciò che si auspicava ma che non si osava sperare. Nel luogo dove tutti ritenevano più probabile la presenza di un eventuale insediamento abitativo, proprio davanti al cancello della Fortezza, vennero alla luce tracce consistenti di quello che al momento sembrò un abitato etrusco o una fattoria, i cui reperti, fra cui frammenti di ceramica attica, ed un pezzo di muro giudicato sul momento altomedioevale, una canaletta di scolo delle acque, un focolare, tracce di incendio e di crollo, pesi da telaio, tegole di grandezza inusitata e frammenti di dolia di enorme ampiezza come difficilmente si è riscontrata altrove. In tutto un centinaio di casse di <cocci>. Gli archeologi si dimostrarono assai prudenti sostenendo, in assenza di tombe nelle vicinanze, trattarsi di un insediamento sporadico che nulla aggiungeva a quanto già noto o ipotizzato sull’origine di Montepulciano; inoltre il sito venne ufficialmente datato intorno al III secolo a.c. senza dare peso alla presenza di altri reperti anche più antichi. In questi mesi, quanto ritrovato in Fortezza, dopo una lunga permanenza preso il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi, è tornato a Montepulciano. E’ iniziata la fase di studio delle circa settanta casse restituiteci. Soltanto settanta delle cento che erano state inviate a Chiusi e manca anche il fiorino di bronzi ritrovato nello strato superficiale proprio sopra al focolare. Se si prende in esame la scoperta di questo sito, nel contesto del panorama dei ritrovamenti effettuati nei secoli scorsi nel territorio intorno alla città: Martiena, S. Martino, Madonna della Querce, Ciarliana, Acquaviva, Cervognano, Argiano, S. Albino, Poggio alla Sala, Paterno, Totona, Casa al Vento, La Pievina, Villoni, Poggiano, Salarco, Poggio Saragio, Abbadia, Gracciano, Ascianello, ci rendiamo conto che la presenza di reperti archeologici in fortezza, ritenuta da molti probabile, alla fine si è concretizzata. La cosa non deve destare alcuna meraviglia, e deve incoraggiare i ricercatori a scavare proprio nei luoghi indicati dalle leggende. Una decina di anni dopo è accaduto un altro evento di straordinaria importanza per datare la nascita della città. Dopo che gli operai del Comune tagliarono la foresta di erbacce che invadeva il pendio che da S. Maria degrada verso il parcheggio del Bersaglio, apparve agli occhi di alcuni osservatori una serie di strani avvallamenti, dove sembrava che la grotta avesse inghiottito la terra. Era facile desumere la presenza di una serie di buche o tombe. Le piogge novembrine svelarono il segreto: crollò la grotta ed apparve una camera di 4 o 5 metri per circa 2 metri con due nicchie sulla parete di destra, una di cm. 60 e l’altra di 30. E’ superfluo sottolineare l’importanza di un secondo sito scoperto sul colle a poco più di cento metri in linea d’aria dal luogo dove otto anni prima era venuto alla luce il primo. Lo scavo del 1989 fu frettolosamente archiviato insieme alla promessa di ulteriori indagini all’interno del giardino della Fortezza, ma se mettiamo in relazione i due luoghi, l’insediamento abitativo in alto e la necropoli in basso abbiamo le necessarie conferme per concludere che il Colle Poliziano è abitato da almeno 2500 anni. Intanto, mentre negli ultimi dieci anni non è stato dato impulso alle ricerche, è accaduto che per riparare la recinzione del parcheggio a sinistra della Fortezza è stato sepolto sotto una coltre di cemento un muro a coccio pesto che attraversava il piazzale diagonalmente mentre nelle vicinanze emergevano frammenti di ceramica a vernice nera. Allora tutto chiaro? nemmeno a parlarne, infatti gli scavi al Bersaglio, dopo tutti questi anni, non riescono a partire, e non si capisce perché questo disinteresse. Anche questo è un bel mistero. E pensare che gli studi intrapresi sui reperti potrebbero riservare nuove, clamorose, inaspettate sorprese! ------------------------------------- IL MISTERO DEL SUO NOME Qual’è l’origine e l’etimologia di poliziano ? Dopo duemilacinquecento anni ancora l’enigma non è stato risolto. Gli estensori delle Guide locali, ma anche gli storici si sono sempre trovati in serio imbarazzo nel tentativo di delineare la storia di Montepulciano ed in particolare nel voler rispondere al primo quesito : l’origine del termine poliziano. Qualcuno ha ipotizzato che sulle pendici del colle ci fosse una villa di tal Publicio, dal cui nome avrebbe dovuto derivare Publicianum e poi Pullicianum, ma purtroppo da Publicianum sarebbe casomai derivato il termine Pubblicianum raddoppiando la “b”. inoltre, dobbiamo riconoscere che che non vi sono traccie di una “gens publicia” né che sia stata reperita una lastra, una pietra tombale, un’urna cineraria o altre lastre incise con questo gentilizio nei dintorni del Colle Poliziano. Qualcuno suppone che poliziano derivi da Politus, ma i linguisti non lo ritengono filologicamente compatibile, altri da Politicus, collegato con la nota leggenda che coinvolgerebbe Città della Pieve. La Dott.ssa Giovannangela Secchi Tarugi propone una derivazione da Politorium, ma anche questa non sembra convincente. Infine Giulio Caporali (Montepulciano, l’Ultima Reggia, Editrice Le Balze, 1999) immagina una derivazione dall’etrusco Purz, corrispondente a dittatore o condottiero, questo sarebbe il nome del re di Chiusi in quanto condottiero per antonomasia. Purz, poi latinizzato passando da Purz a Purzna e a Purzina o Pursina. Anche Ilio Calabresi in (Le origini e il nome di Montepulciano, appendice alla ristampa anastatica della “Storia di Montepulciano di S. Benci, Verona 1968) citando S.P. Cortsen crede possibile la derivazione di Porsenna da Purthne (Re). Dunque pensando ad una corruzione del termine da Purz a Pulz e da Purthne o Purzne a Pulzna quindi Pulzina o Pulizina o Pulitina. Questa ipotesi nella sua conclusione combacia con quanto dice l’etruscologo Pauli a proposito dei nomi Pol(l)itianum e Clantianum, che lui considera romani di origine etrusca corrispondenti agli etruschi Pulitina e Clantina indicando come varianti i nomi gentilizi Pulzna e Clanzna. Lo apprendiamo ancora da Ilio Calabresi nel suo intervento “L’etimologia del nome di Chianciano : Clantianum o Clancianum ?” al Convegno “Chianti storia e origine di un nome” 1988. Quindi il termine Poliziano come trasformazione da Purz o Purthne, potrebbe significare “reale o del Re” o altro equivalente. Di conseguenza anteponendo la parola “Monte”, il significato di Monte Poliziano potrebbe essere “Monte del Re” o anche “Monte di Porsenna”, queste sono le conclusioni del Caporali che, se accettiamo quanto detto sulla derivazione da Purz o Purthne non possono essere né trascurate né tantomeno rigettate. Ogni supposizione o ipotesi di studio è degna di essere o condivisa o ritenuta infondata, tuttavia crediamo che i filologi che indagano l’etimologia delle parole debbano esprimersi su le argomentazioni poste sul tappeto dai ricercatori così da far chiarezza sulla fondatezza delle tesi elaborate. Allora è tutto chiaro ?, l’origine del nome è svelata? Tutt’altro perché né i linguisti, né gli etruscologi hanno, finora, ritenuto che il problema del nome di Montepulciano abbia fatto passi avanti, perciò, in assenza di pronunciamenti ufficiali, la questione resta un mistero. MISTERI L’origine di Montepulciano. Etrusca ? Romana ? medioevale ? I primi documenti scritti comprovanti l’esistenza della città risalgono al 714 d.c. la famosa contesa fra i Vescovi di Siena e di Arezzo su alcune Pievi del senese. In quella carta il nome di Montepulciano appare nella forma Baptisterium a sancta Mater Ecclesia in castello Poliziano (A. Maroni Prime Comunità Cristiane e strade romane nei territori di Arezzo Siena Chiusi, Cantagalli Siena 1990). Quello strumento e gli altri seguenti, fino al termine della disputa attestano dunque l’esistenza di Montepulciano, non segnano la data di nascita, infatti alcuni documenti sempre del secolo VIII appartenuti all’Abbazia di S. Salvatore sull’Amiata rogati in Castello di Poliziano alla presenza di vari testimoni, fra i quali un Petrone Orefice ed un Sasso chierico e medico (E. Repetti Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, Firenze 1839) dimostrano che nell’ottavo secolo la città era evoluta al punto che vi abitavano orefici e medici. Numerose le leggende legate alla fondazione di Montepulciano, ed anche se la saggezza popolare insegna che ogni leggenda ha in sé un fondo di verità, tuttavia, ed è comprensibile gli storici le hanno liquidate senza tenerle in alcun conto. A sostegno dell’origine etrusca della città alcuni storici locali recano notizie di ritrovamenti di tombe, monete e ceramiche, che vengono giudicati come sporadici e non idonei a dimostrare che il colle sia stato abitato da quel popolo. Più probabile si ritiene l’origine romana, in epoca tardo-imperiale. Ricordiamo che il Prof. Ilio Calabresi auspicava la scoperta sul colle di reperti etruschi, ed ecco che nel 1989, durante gli scavi per la metanizzazione del centro storico, accade ciò che nemmeno si osava sperare, nel luogo più indiziato per un eventuale insediamento etrusco vengono alla luce, proprio davanti al cancello della Fortezza, tracce consistenti di un abitato etrusco, i cui reperti, fra cui un piede di vaso di ceramica attica. Si datano dal VI al III secolo a.c., con un frammento di muro giudicato alto-medioevale, una canaletta, un focolare, tracce di incendio e crollo, pesi da telaio, tegole di grandezza inusitata e frammenti di dolia di enorme grandezza come difficilmente si è riscontrata altrove. Gli archeologi si dimostrano assai prudenti e sentenziano, in assenza di tombe nelle vicinanze, trattarsi di un insediamento sporadico che non dimostra nulla di più di quanto non si sappia già o si ipotizzi sull’origine di Montepulciano, inoltre si data il sito intorno al III secolo a.c. trascurando la presenza della ceramica attica e di altri reperti reperti più antichidel III sec. Se si prende in esame la scoperta di questo sito sul sasso in cima al Colle, nel contesto del panorama dei ritrovamenti effettuati nei secoli nel territorio intorno a Montepulciano : Martiena, Madonna della Querce, Ciarliana, Acquaviva, Cervognano, Argiano, S. Albino, Poggio alla Sala, Paterno, Totona, Casa al Vento, La Pievina, Villoni, Poggiano, Salarco, Poggio Saragio, Abbadia, Gracciano, Ascianello, ci rendiamo conto che il ritrovamento di reperti archeologici in fortezza non è la cosa che tutti attendevamo da tempo e che alla fine è accaduto, per ciò la cosa non deve destare alcuna meraviglia, è la risposta che tutti attendevamo, è la logica conferma che Montepulciano era abitato in epoca etrusca. Dieci anni dopo accade un altro evento, che per la sua incidenza sulla datazione della nascita della città, è secondo noi straordinario. Dopo che gli operai del Comune tagliarono la foresta di erbacce che invadeva i grottoni che da S. Maria digradano verso il parcheggio del Bersaglio, apparve agli occhi di alcuni appassionati (Mario Morganti e Antonio Sigillo) una serie di strani avvallamenti, dove sembrava che la grotta avesse inghiottito la terra. Era facile desumere la presenza di una serie di buche o tombe che andava dall’inizio della grotta fino alla strada del Bersaglio. Le piogge novembrine svelarono il segreto, crollò un frammento di grotta ed apparve una camera di 6 o 7 metri per circa 2 metri e mezzo con due nicchie una di cm. 60 ed una di 30. Sulle prime qualcuno penso che si trattasse di cantine, poi fu chiaro trattarsi di tombe. Ma la cosa straordinaria sta nel fatto che queste si trovano ad un centinaio di metri, in linea d’aria, dal luogo dove otto anni prima venne alla luce l’insediamento, che venne frettolosamente archiviato insieme alle promesse di ulteriori scavi all’interno del giardino della Fortezza. I due siti archeologici, se messi in relazione portano ad una sola conclusione, che il Colle Poliziano è abitato da almeno 2500 anni. Allora è tutto chiaro ? nemmeno a parlarne, infatti gli scavi al Bersaglio dopo più di tre anni non decollano, gli addetti ai lavori non traggono alcuna conclusione : allora ? Mistero. Mario Morganti ------------------------------------MONTEPULCIANO E LA VIABILITÀ ETRUSCO-ROMANA, PRIMA DELL’IMPALUDAMENTO DELLA CHIANA Per identificare le antiche strade di maggiore o minore importanza, sia etrusche, sia romane, sia medioevali, presenti nel nostro territorio, e precisamente tra il torrente Salarco e la Foce, dobbiamo prendere spunto o dai casuali ritrovamenti di tratti selciati, affioranti durante scavi agricoli o per la posa di acquedotti, elettrodotti e simili, ma anche dal rinvenimento di tombe lungo il presunto percorso, o anche dalla presenza in loco di toponimi che richiamino la strada, le pietre o selci con cui le strade venivano costruite, l’esistenza di Chiese Matrici, Pievi e Battisteri, la presenza di “Hospitales” di “fontes”e del toponimo “milliare o milliarino”. Ma per una conoscenza più generale ed attenta della rete stradale al tempo dei nostri progenitori etruschi e romani, dobbiamo fare riferimento ad alcuni documenti che ne riproducono la tessitura e che sono giunti a noi attraverso copie e frammenti. Il più importante di questi, la “Tabula”, del I secolo d.c., riprodotta forse tra il III ed il V secolo, ed ancora tra il XII ed il XIII, si compone di 12 segmenti e misura nella sua totale estenzione ml. 6,752 per ml. 0,34, fu ritrovata nel 1507 da Konrad Celtes bibliotecario dell’Imperatore Massimiliano I d’Austria, e prende il nome di “Tabula Peutingeriana” da Konrad Peutinger Cancelliere di Augsburg, al quale pervenne in eredità alla morte del Celtes. L’ altra carta fondamentale per comprendere il depanarsi di quell’intrigo di strade, di maggiore o minore importanza, presenti nel nostro territorio in quell’epoca, è certamente l’Itinerario Antonino, “Itinerarium Antonini Augusti” del III secolo. Entrambe le carte, riprodotte ed interpretate da persone diverse dal suo iniziale estensore, rivelano evidenti mancanze, abrasioni, aggiunte, modifiche ed integrazioni, dovute alla mano dei vari copisti. Da un attento esame sono stati accertati spostamenti di nomi delle poste stradali, alcune deviazioni sono state unificate, altre sono state omesse, ed altre imprecisioni e dimenticanze varie, dovute alla grande quantità di dati da trascrivere. Due sono le ricerche da fare, la prima è certamente quella per individuare le “statio” o “mansiones”, cioè le poste dove si cambiavano i cavalli, riposavano e potevano essere accolti in appositi “hospitales” per trascorrere la notte, la seconda è la ricerca delle diramazioni e dei tracciati delle strade. Secondo la Tabula Peutingeriana, la Cassia dopo Chiusi, proseguendo verso Nord, incontrava dopo 9 miglia la “Statio ad Novas”, ma prima di giungervi, sulla sinistra, esisteva la diramazione per Siena, mentre subito dopo si staccava sulla destra la strada per Arezzo. L’Itinerario Antonino invece pone a dodici miglia dopo Chiusi una “Statio ad Statuas”. Abbastanza comune tra studiosi come Guazzesi, Sterpos, Gamurrini, Miller, Martinori, Lopes Pegna, Liverani, Braschi è l’identificazione della Statio ad Novas con Acquaviva, mentre controverso è il riconoscimento della Statio ad Statuas e del tracciato della strada per Siena, argomenti sui quali esprimono le più diverse ipotesi, e di cui ci vogliamo adesso occupare. Mentre molti ritengono che la deviazione per Siena attraversasse le Mansio Manliana (Torrita di Siena) e Ad Mensulas (Sinalunga), il Maroni nel suo volume sulle strade romane pubblica una cartina nella quale pone la deviazione per Siena circa all’altezza di Montallese (Borgo vecchio). salendo in prossimità di S. Savino a fianco del podere il Termine, seguendo il torrente Parcia, lungo il cui corso esistevano numerose antiche Pievi, fino a S. Albino e poi salendo in direzione di Totona in prossimità della Pieve di S. Silvestro per proseguire verso S. Martino in Fabrica, la Valle dell’Asso per giungere a Siena costeggiando il fiume Arbia. E’ certo che una strada romana seguisse quel percorso, che forse si snodava sull’antico tracciato di un’importante strada etrusca che giunta alle falde del Monte Totona proseguiva alla volta di Casa al vento (Poggio Tolle, toponimo di particolare riferimento geografico poiché lo troviamo in diversi territori e regioni) per scendere verso la Foce collegando Chiusi con la costa tirrenica. L’ipotesi può essere avvalorata dal fatto che le zone attraversate hanno restituito nei secoli numerose vestigia etrusche e romane, basti pensare che Poggio alla sala, Argiano, la Parcia, S. Albino, Totona, Pianoia e Casa al vento, nel territorio di Montepulciano, sono siti archeologici di grande importanza. Per meglio capire alcune nostre argomentazioni, occorre spiegare che la via Cassia, proseguendo da Chiusi verso nord non era ubicata dov’è l’odierno tracciato della Chiusi Acquaviva, ma correva certamente più a monte. In conseguenza di ciò si può supporre che il tracciato fosse più vicino alle località S. Savino e il Termine, da dove forse si diramava l’antica strada, invece che da Montallese. Se si accetta quest’ultima ipotesi è facile intuire che la colonna miliare rinvenuta in quella zona, a sei chilometri da Montepulciano, potrebbe essere stata ritrovata proprio nella località il Termine o nelle vicinanze, giacché quella denominazione ancorché dovuta alla presenza del confine dei territori di Montepulciano Cianciano e Chiusi, può trarre origine dal rinvenimento della colonna stessa e per essere quello il punto dal quale si misurava la distanza da Firenze. La variante per Siena, a parer nostro doveva staccarsi invece dalla Cassia nei pressi delle Tre Berte dove si trova la località denominata la “Selce Acquavivana”, come ci informa Ilio Calabresi nelle : Deliberazioni consiliari del Comune di Montepulciano 1508/1515; “Note alla ricostruzione stradale del Lopes Pegna” opera citata dal Maroni. In quel luogo doveva trovarsi anche una fortificazione giacché il suo nome era Castel Vecchio e nei dintorni si trova una località denominata “Poggio Remunito” (Calabresi) che indica un luogo fortificato forse posto a guardia della strada. Da queste località la strada saliva verso Cervognano, Sanguineto, Ciarliana, e poi alla volta di Gracciano Vecchio passando per il podere Strada e verso il Salarco ad incontrare le località Villastrada, le Pietrose per salire poi a Casale Ursino (Montefollonico), quindi attraversando la valle dell’Asso verso Siena. La strada romana che si diramava in loc. S. Savino sull’antico tracciato etrusco, giungendo presso l’antica Pieve di S. Silvestro, alle pendici del Monte Totona, proseguiva poi scendendo verso S. Benedetto e quindi costeggiando il Poggio di Montorio (Mons Aureus) andava verso Pescaia lambendo la Sancta Mater Ecclesia in Castello Pulliciano (San Biagio), scendeva verso San Selvagio ad incontrare la strada per Siena nel punto in cui piegava per salire verso Casale Ursino. Tenendo presente la relativa affidabilità della Tabula Peutingeriana, dell’Itinerario Antonino delle altre carte più recenti e della casualità dei rinvenimenti dei tratti stradali, abbiamo tentato la ricostruzione della principale rete viaria, presente nella zona, cercando di formulare un ipotesi, forse nemmeno originale, che riteniamo più prossima ad un intuizione che al frutto della fantasia. Confidiamo che questa possa costituire occasione di riflessione, perché, malgrado le supposizioni degli storici, pensiamo che esistano notevoli margini di indagine. Questa nostra ricostruzione, non risulterà oziosa se consentirà anche il più piccolo progresso di quella ricerca storica che, sostenendo il pragmatismo con una buone dose di fantasia, apra nuove prospettive e consenta intuizioni altrimenti inimmaginabili. Non stupisca, e non sembri esagerato pensare che Montepulciano sia stato al centro di questa fitta ragnatela di strade in quei tempi, giacché Francesco Liverani nel libro dal titolo “Il Ducato e le Antichità Longobarde e Saliche di Chiusi” Siena 1875, afferma che Montepulciano era luogo fortificato, sede di Presidio di un esercito romano posto a guardia di possessioni fiscali, che dunque necessitava di strade per esercitare la propria giurisdizione. ------------------------------------LA COLONNA MILIARE RINVENUTA A MONTEPULCIANO “ IMP. CAESAR DIVI TRAIANI PARTHICI FIL. DIVI NERVAE NEP. TRAIANUS HADRIANUS AUG. PONT. MAX. TRIB. POT. VII COS. III VIAM CASSIAM VETUSTATE COLLABSAM A CLUSINORUM FINIBUS FLORENTIAM PERDUXIT MILIA PASSUUM …(X)X(C)L.non.I “. Nel 1566 esisteva nella Piazza Grande di Montepulciano la Colonna Miliare, con incisa la precedente iscrizione, che il Maroni (Prime Comunità Cristiane e strade romane nei territori di Arezzo Siena Chiusi, Cantagalli, Siena 1990), ha tradotto così : “L’Imperatore Cesare Traiano Adriano Augusto, figlio del divino Traiano il partico, nipote del divino Nerva, insignito della podestà tribunizia per la settima volta e del consolato per la terza volta, condusse la via Cassia, rovinata per vecchiezza, dal territorio di Chiusi a Firenze per la lunghezza di…miglia “. Sempre il Maroni (op. cit.) informa che il Panvinio,”passando per Montepulciano nel 1566, aveva notato in Piazza Grande una colonna miliare che veniva usata per mettere la gente alla berlina o “alla merlina”, come fu annotato nel Libro delle Deliberazioni Comunali di Montepulciano l’11 giugno 1588, quando si decise di mandarla a Firenze in seguito alla richiesta del Granduca”. Il Maroni continua e conclude così : “E’ assai strano poi che la notizia del rinvenimento di un simile cimelio storico sia sfuggito a eruditi di Montepulciano del tipo di Pietro Bucelli, /+++/ il quale si limitò a notare in un breve scritto su Montepulciano, databile tra il 1747 e il 1754 : “colonna migliaria ritrovata in Monte Pulciano, che si dice situata fosse lungo la via Cassia, che da Chiusi conduceva a Firenze distante dalla città nostra cinque miglia”. Quello che rimane certo è che la colonna ritrovata in Montepulciano, vi fu trasportata (in Piazza Grande n.d.r.) in un periodo ormai ignorato da tutti, probabilmente in epoca medioevale. Un fatto dunque è chiaro, a S. Albino o ad Acquaviva, alle Tre Berte o al Salarco, la colonna è stata rinvenuta nel territorio del Comune di Montepulciano, fu portata in epoca imprecisata a far bella mostra di sé, ma per un uso improprio, nella piazza grande, e di essa trattarono con dovizia di ipotesi e congetture numerosi storici. Di questi succintamente daremo conto. G. F. Gamurrini in (Recognizione delle mansiones ad Novas, ad Statuas, ad Grecos, lungo la Cassia, in Notizie degli Scavi di Antichità, 1898) riferisce della lettera del Panvinio nella quale sostiene di aver notato la colonna miliare in Piazza Grande a Montepulciano nel 1566. Giovanni Targioni Tozzetti, scrisse nel 1776 e nel 1779 in (Relazioni d’alcuni viaggi ecc.) e dietro segnalazione di Mariano Cinelli di Sinalunga, che la colonna fu rinvenuta nel greto del torrente Salarco nel 1584. Peraltro se prestiamo fede alla testimonianza del Panvinio riportata dal Gamurrini dobbiamo ritenere la notizia del Cinelli e del Targioni Tozzetti infondata o almeno inesatta la data del ritrovamento. Anche Ranuccio Bianchi Bandinelli propende per la tesi che la colonna sia stata recuperata in proda a quel torrente. Claudio Braschi nelle sue (Notizie Storiche di Acquaviva di Montepulciano, Gentilini Chiusi 1922), tutto intento a cercare di dimostrare che in epoca etrusco-romana Acquaviva era il centro più importante della Valdichiana, e che Montepulciano non esisteva, pone il ritrovamento della colonna ai Salcini presso Montallese, ma non contento delle deduzioni che il dott. Desiderio Maggi ne trae, entra con lui in polemica volendo a tutti i costi affermare che ad Acquaviva era situata la Statio ad Statuas della via romana, mentre molti storici di oggi sostengono che in quella Frazione era la Statio ad Novas. Emanuele Repetti nel suo (Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana alla voce S. Albino) scrisse che la colonna fu ritrovata a S. Albino dove Ersilio Fumi nella sua (Guida di Montepulciano e dei Bagni di Chianciano, 1894), situa la Statio ad Statuas. Anche il dott. prof. Gelasio Chiucini poliziano, docente presso l’Università di Roma, nelle sue note storiche archeologiche de (Il Monte di Totona 1946) rilancia la tesi che la Statio ad Statuas fosse a S.Albino e che le statue colossali da cui prendeva nome altro non erano che le statue di un tempio edificato sulla cima del Monte Totona, nome derivato dall’improbabile: Mons Latonae vulgo Totone vivant incolae ad Statuas, Idolorum Simulacris Vatibus venerandus, conditis Porsenae Thesauris praestigis horrendus, Anum (anuum) nugis natis fabulosus, dirutis magnis saxis strata in apice Platea aeris hilaritate periucundus. Così come si apprende dalla descrizione che ne fa Francesco Dini, avvocato senese secentesco, autore di (Antiquitatum Etruria seu de situ Clanarum fragmenta historica stampato in Senigallia nel 1696). Anche secondo la dott.ssa Giovannangiola Secchi Tarugi, la colonna fu ritrovata a S. Albino (Guida di Montepulciano, Pleion). Molti altri scrittori e storici studiarono il tracciato della via Cassia e l’ubicazione ed il ritrovamento della colonna miliaria presente in piazza grande a Montepulciano fino al 1588 e come spesso accade, molti sono i pareri e tutte le tesi esposte sono degne di esser prese in considerazione, ma in assenza di prove inconfutabili dalla moderna critica storica, l’unica verità è, e rimane, il fatto che la colonna era stata trasportata a Montepulciano e piantata in Piazza Grande, e che vi rimase fino a che il Granduca la richiese; allora fu portata a Firenze dove ancora è esposta nel giardino del Museo Archeologico. ------------------------------------LE MURA DI MONTEPULCIANO OVVERO UN RECUPERO MISTERIOSO Ilio Calabresi in una delle appendici alla “Storia di Montepulciano” di Spinello Benci, ristampa anastatica Arco de’ Gavi Verona 1968, ci ricorda che l’antico Castrum o Castellum Politianum non occupava tutto il colle, così come la Montepulciano attuale, ma solo la cima, che era costituita da una “grande roccia calcarea dai fianchi scoscesi”. Sicuramente, “il Sasso”, come era chiamato nel medioevo, era quanto di meglio si potesse richiedere per costruire una fortezza o un insediamento abitativo, e infatti sul “Sasso” si sviluppò il primo nucleo della Città che pur essendo naturalmente difesa, aveva comunque bisogno di essere fortificata e recinta di mura, almeno da sud. La prima cerchia che comprendeva le antiche contrade di San Donato e Talosa, fu infatti costruita nel secolo XI per circondare e proteggere l’antico Castello, ed arrivava fino all’antica Chiesa di Santa Margherita del sasso, situata dov’è oggi quella dedicata a San Francesco. Il primo recinto aveva almeno tre porte: la porta detta la “Porticciuola verso Sant’Antonio”, situata dove la strada che dalla piazza grande scende verso il Teatro Poliziano si stringe e fa una curva ad angolo retto, distrutta nell’800. La porta in fondo alla via Ricci, alla sinistra del palazzo Benincasa, detta del Paolino o di San Francesco, e quella sulla destra, facente angolo con l’Oratorio di Sant’Emidio, dalla quale si accedeva alla Contrada del Poggiolo attraverso un arco demolito in epoca imprecisata. Di fronte all’Oratorio si trova una costruzione che ingloba la vecchia torre di guardia, nel fianco della quale si può ancora riconoscere l’inizio dove stacca l’arco e sul culmine si distinguono ancora le aperture dell’altana di appostamento con le sue colonne in laterizio, e con un po’ di fantasia si riescono a distinguere anche le feritoie, oggi trasformate in piccole finestre. Oggi vediamo una quarta porta, detta porta S. Donato, situata a fianco della Fortezza, aperta nel 1794, come si legge nell’epigrafe murata sopra l’arco, a fini di beneficenza. La seconda cerchia edificata nel XII secolo, si estendeva dalla Fortezza scendendo verso la Porta di Collazzi, da dove, continuando verso la porta della Cavina o Gavina, incontrava la porta de’Grassi detta anche di S. Biagio. Il nuovo recinto comprendeva i borghi di Poggiolo, Collazzi e Voltaia, trasformati in contrade dopo essere state incorporati tra le mura ed aver ricevuto i relativi ordinamenti amministrativi. La città era costituita dal Sasso, e dalla spianata che andava dalla Fortezza fino alla Piazza Grande, dopo la quale, tramite una sella che si abbassava fino a toccare il livello di Collazzi ad Ovest e della via del Pié al Sasso ad Est, si collegava col Sasso di San Francesco dove era un fortilizio. Da qui la costa precipitava ancora verso l’attuale piazzetta di S. Lucia dov’era una piazzaforte, e da questo rialzo le pendici del Colle sprofondavano verso Colle Francole, dov’era un'altra fortificazione. La terza cerchia di mura costruita verso la fine del XIII secolo, comprendente le contrade di Gracciano, Cagnano e le Coste, fu l’ultimo ampliamento che scendeva a protezione del nucleo abitato duecentesco di quel borgo e della porta di Gracciano. Le mura risalivano poi verso la porta di Gozzano, facente parte della terza cerchia, costruita nel 1293, e si dirigevano poi verso Cagnano e la porta omonima detta anche delle farine, riallacciandosi alle mura della Fortezza all’altezza della porta di S. Maria oggi demolita, in prossimità della soppressa Chiesa di S: Lorenzo. Nel 1512 Antonio da Sangallo il Vecchio costruì per Cosimo I, la Fortezza Medicea nel poggio adiacente la vecchia porta di Gracciano, dove oggi si trova Conservatorio di S. Girolamo ed edificò l’attuale porta al Prato. Verso la fine degli anni 70, l’Architetto Samonà progettò il recupero degli antichi percorsi che dovevano consentire un giro completo delle mura cittadine. Ma non fu possibile realizzare quest’opera perché gli antichi camminamenti, i vicoli e le torrette, nei secoli passati, furono occupati e poi definitivamente acquisiti da privati cittadini, compiacenti i governanti comunali del tempo, ed altri furono distrutti dalle frane (nella zona tra il Torrino e la chiesa di S. Agostino), Sarebbe affascinante poter recuperare quei percorsi, ma purtroppo impossibile. Perché allora non completare la strada, così bella e panoramica che, partendo dalla via dei Filosofi, costeggiando le mura di Collazzi arriva alla porta de’Grassi? Perché il Comune di Montepulciano non restaura quelle mura che testimoniano la potenza e l’anelito di libertà che i nostri progenitori difendevano con orgoglio contro il nemico invasore? Il restauro in alcuni casi potrebbe consistere soltanto in una rimpellatura, cioè la muratura delle pietre esterne, distaccatesi col tempo e rotolate a valle, ma sempre recuperabili anche se coperte di terra e di macerie. ------------------------------------L’ANTICA PIEVE DI S. MARIA: UN MISTERO PIÙ VICINO ALLA REALTÀ Nel 1990 Alfredo Maroni nel suo libro dal titolo : “Prime Comunità Cristiane, e strade romane nei territori di Arezzo, Siena, Chiusi”, divulgò i risultati delle sue ricerche secondo le quali dove oggi sorge il Tempio della Madonna di San Biagio, esisteva una “Plebs Antiqua”, ed è quella documentata già nel 714 e nel 715 d.c. dagli atti della famosa controversia tra il Vescovo di Siena a quello di Arezzo, per il possesso di Chiese e Monasteri del territorio senese. In precedenza si credeva che la Sancta Mater Ecclesia in Castello Politiano descritta in quei documenti, corrispondesse alla Pieve di Santa Maria dentro le mura. Incerta è l’origine di entrambe le pievi. La prima paleocristiana forse di epoca longobarda o precedente, lambita dalla strada romana che proveniva da Chiusi, e l’altra, entro le mura, della quale sappiamo soltanto che già nel 1045 esisteva, ed era stata affidata da Immone Vescovo di Arezzo alla giurisdizione del proposto Petrone anch’esso aretino (1). Molti hanno tentato di immaginare l’aspetto di questa chiesa, sia all’esterno che all’interno. I documenti esistenti, alla base di tutti i tentativi di ricostruzione, sono la “Visita apostolica” che Mons. Angelo Peruzzi Vescovo di Sarsina, compì nel 1583 alla Diocesi di Montepulciano e l’ “Instrumentum Processus super statu Ecclesiae Politianae” del 1597. A questi si aggiungono il motuproprio di Cristina di Lorena del 1612, ed altri di molto posteriori come l’ottocentesco Repetti o moderni come lo studio del Saalman sul palazzo del Comune, e quello di Duccio Pasqui e Riccardo Pizzinelli nell’opuscolo “Il tempo della città” pubblicato dagli Editori del Grifo nel 1987 nell’ambito del 12° Cantiere Internazionale d’Arte. Così come altri hanno fatto prima di noi, cercheremo di svelare l’aspetto dell’antica Pieve di Santa Maria, cercando di offrire nuovi spunti alla ricerca. L’interno della pieve, in mancanza di documenti che consentano di conoscere la disposizione dei dodici altari, non è facilmente definibile, né siamo in grado di stabilire con certezza dove fossero collocati il Trittico di Taddeo, il Cenotafio Aragazzi e la Madonna di Sano di Pietro. Per quanto riguarda l’esterno, concordiamo con Pasqui e Pizzinelli quando ipotizzano che la Pieve di Santa Maria occupava interamente il Sagrato dell’attuale Duomo, tutta la scalea e parte della piazza, e col “Dizionario geografico…della Toscana” del Repetti, dove afferma che la nuova Cattedrale fu costruita accanto alla chiesa vecchia. Dando per scontata quindi la sua posizione da est a ovest, cioé con la facciata verso la via S. Donato, tentiamo di ricostruire il suo inserimento nella piazza grande. In un manoscritto dell’Archivio Capitolare, troviamo una miscellanea di notizie molto importanti per conoscere come doveva essere la pieve intorno al 1470. Il documento riporta notizie del campanile : “Il d(ett)[o] Campanile fù restaurato alle due Cantonate di facciata nel 1797”, e della Chiesa, che in antico doveva avere una sola navata, perché Mons. Fabiano Benci : “Ridusse il Duomo a tre Navate in volta…” . Continuando la lettura del manoscritto troviamo un’altra notizia molto importante “L’Ornato, che esiste nel Pilastro vicino al Coro, a Cornu Epistolae in marmo è il disegno della Facciata del Duomo nuovo costruito nel 1470 circa da Monsig(no)[re] Fabiano Benci Arciprete, e d(ett)[o] Ornato serve per custodire gli Oli Santi nella Cattedrale”. Per conoscere come doveva presentarsi l’esterno della pieve, oltre al Trittico di Taddeo di Bartolo del 1401, dal quale si evince la presenza di tre absidi e del campanile a vela, é altrettanto importante ciò che apprendiamo da un articolo di Ilio Calabresi sull’Araldo Poliziano dell’8 Agosto 1971: Un tale Nanni di Cecco il 16 Febbraio 1392, stipulò un contratto con il Comune per dipingere : “…a Montepulciano nella piazza del Comune, ossia sulla parete della pieve di Santa Maria sotto la loggia di detta pieve” (Archivio di Stato di Firenze, Notar. Antecos., n. 81, c. 53). Dunque la pieve doveva essere a tre navate, con tre absidi e con l’attuale campanile intersecato tra l’abside centrale e quella di destra. La facciata, come abbiamo visto, era quella rappresentata dal Ciborio del Vecchietta sul pilastro dell’Altar Maggiore a Cornu Epistolae, in stile gotico, con portale sormontato da arco ogivale e due nicchie in corrispondenza delle navate laterali, quattro guglie e tre cuspidi con relative merlature. La Pieve di Santa Maria doveva essere a forma di T come l’Abbazia di Farneta in Valdichiana, con il transetto sul quale si aprivano le tre absidi ed all’esterno due loggiati a riunire il transetto con la facciata, uno a sinistra sotto al quale erano gli affreschi di Nanni di Cecco, (Apodisse dei Priori) che furono restaurati nel 1451 dal pittore Marco da Montepulciano, allievo di Lorenzo di Bicci, che secondo il Calabresi affrescò anche una parte della parete. Le arcate dei loggiati poggiavano forse sulle stesse colonne di granito che, una volta tamponate le logge esterne, andarono a sostenere le arcate interne alla chiesa. Nei suoi appunti il Vescovo Mons. Giorgi parla di un frammento di colonna in granito dell’antica Pieve giacente nelle cantine dell’episcopio che proprio in questi giorni della fine di settembre 2000 abbiamo casualmente rinvenuta e misura ml. 1,70 per ml. O,45 circa di diametro. Dalla Visita Apostolica di Mons. Angelo Peruzzi, che recita così : “…vidit Ecclesiam ipsam satis antiquam et in omnibus partibus fumo aut polvere denigratam… propterea ordinavit parietes omnes debere bono calce incrustari et deinde dealbari, et tecta resarciri…”, si evidenzia un netto contrasto fra l’interno e l’esterno della pieve. Il Visitatore Apostolico ordinò che venissero intonacate ed imbiancate le pareti annerite dal fumo e dalla polvere, mentre la facciata, presumibilmente in pietra, e la loggia prospiciente la piazza, forse ingentilita da archi e colonnette, con la parete affrescata e protetta dal loggiato, dovevano risultare assai più gradevole. Anzi, se è vero che rimaniamo affascinati dall’austera bellezza delle piccole chiese medioevali sopravissute nel nostro territorio, è facile immaginare la meraviglia che proveremmo di fronte alla nostra pieve così come l’abbiamo descritta. E davanti ad essa, si estendeva la Platea Communis, da poco arricchita dalla nuova facciata che Michelozzo aveva disegnato per il palazzo del Comune. Tuttavia, mentre quell’angusta piazzetta, rappresentava per i poliziani del XV secolo il centro della vita quotidiana, lo stile austero del medioevo cedeva il passo all’ariosa ed elegante sobrietà del rinascimento, e nuovi equilibri si disegnavano all’interno della città. 1) Alfredo Maroni in “Prime comunità cristiane e strade romane nei territori di Arezzo Siena Chiusi” Cantagalli Siena 1990. Il documento del 1045, che riporta la notizia dell’affidamento della “Plebs S. Marie in Monte Policiano” al proposto Petrone di Arezzo cui fa riferimento il Maroni, fu pubblicato dal Pasqui. ------------------------------------IL MISTERO DELLA CERAMICA POLIZIANA La storia della ceramica italiana annovera fra le sue varie tipologie quelle di numerose piccole località come Bacchereto e Cafaggiolo, che hanno invece una grande importanza per quest’arte, ingiustamente considerata minore. Altre località sono entrate nella storia della ceramica in modo casuale, ad esempio Montalcino, la cui produzione arcaica è balzata all’attenzione degli studiosi e dei numerosi collezionisti per il ritrovamento fortuito di una notevole quantità di pezzi nascosti in un vano ricavato all’interno di uno spesso muro. Montelupo pur essendo già famoso, anche per i suoi “arlecchini” ha accresciuto la sua notorietà dopo il recente ritrovamento di fornaci, con i loro scarichi e di pozzi di butto, ricchi di materiale, oggi esposto in un museo di grande rilevanza. Montepulciano, fino ad alcuni anni fa, era assente dal giro della produzione ceramica, e la cosa ha da sempre destato la nostra curiosità. Le notizie che si potevano reperire sporadicamente nei libri sull’Arte della Ceramica, riguardavano principalmente nomi di poliziani esperti in quell’arte, ma operanti in altre località. Per esempio a Murano nel 1563 “Un Cosimo da Montepulciano il quale fa professione di lavorare vasi di terra grandi fino a due braccia o più, di bellissimi garbi…” G. Morazzoni, La Maiolica antica Veneta, Milano 1955, (pag. 99) ripreso poi e citato da “G. Conti, L’Arte della Maiolica in Italia, Bramante Editrice 1983 (pag.140)”. Mons. Silvano Cocconi nella sua “Relazione delle Nobili Famiglie poliziane, manoscritto in Archivio Privato Montepulciano” cita Pietro di Giovanni Bandini “…. perché fu fornaciaio di tali requisiti che fino al giorno d’oggi (circa 1638 data probabile del manoscritto) si vedono sue figure di Santi cotte fatte di terra, e dipinte...“. G. Milanesi in “Di Cafaggiolo e d’altre fabbriche di Ceramiche in Toscana, A. Forni Editore”, (Ristampa anastatica dell’edizione del 1902) riferisce di un Girolamo Lupacci vasaio, che nel 1701 prese in affitto dal Marchese Bonaventura Chigi Zondadari la Manifattura ceramica di San Quirico d’Orcia tenendola per quattro anni, fino all’ingresso in quella fabbrica del Maestro Francesco Antonio Piergentili a cui subentrò nel 1717 il Maestro Bartolomeo Terchi. Del Lupacci, Gaetano Milanesi dice “ non sappiamo donde venuto “ ma noi pensiamo sia di provenienza poliziana, dove era una famiglia Lupacci, che aveva posseduto una cava di travertino a S. Albino dalla quale nel ‘500 Tommaso Boscoli ricavava il materiale da costruzione per il San Biagio; di quella famiglia facevano parte nel sedicesimo secolo un omonimo Girolamo, pittore alla corte di Papa Gregorio XIII e Fulvio, copista anche lui operante a Roma alcuni decenni dopo. Se si considera che Montepulciano è una città di grande importanza storica ed artistica, e che lo è stata in passato per la presenza di numerosi artigiani e artisti, è difficile escludere che la produzione ceramica facesse parte delle attività produttive dei poliziani. Ilio Calabresi “Montepulciano nel Trecento, Contributi per la storia giuridica e istituzionale, Consorzio Universitario della Toscana meridionale, Tipografia Senese Siena, 1987”, riferendosi alla Quarta riforma (anno 1374) degli Statuti poliziani del 1337, alle pag. 270/271 alla nota (9) scrive : “Aldisotto la mano del Cancelliere Tieri di Baronto ha steso il seguente testo: “QUOMODO ARTES INCEDERE DEBENT IN FESTIVITATE SACRATISSIMI [COR]PORIS NOSTRI DOMINI YHESU | CHRISTI |” [I col.] – Molendinarii, Muliones, V[ir]idarii Ortolani, Carnifices, Vinactierii et Magisteri lapidum et lignamin(is), Cerdones, Banchi venditores, Sartores, Lapidum et lignamin(is) magisterium exercentes, Fabrilia testa facientes, Picçicagnoli, Medici, pigmentarii et aromatarii, Barbitonsores et pictores. In questo elenco appare l’Arte “Fabrilia testa facientes”, che corrisponde all’arte dei vasai, fornaciai, orciolai. Questa è la prova che nel XIV secolo quell’arte veniva regolarmente praticata a Montepulciano, ed era così diffusa e da così tanto tempo, che i suoi esponenti erano riuniti in quell’associazione o corporazione denominata “Arte”. Di recente abbiamo esplorato gli Estimi del 1410 e del 1571 dell’Archivio Storico Comunale ed abbiamo trovato i nomi di alcuni fra vasai ed orciolai operanti nella città a quei tempi. L’altra notizia che ci sembra importante è l’identificazione di una fornace settecentesca all’interno del palazzo Neri Orselli ampiamente documentata da alcune “Gazzette” dell’epoca e da notizie d’Archivio. Trovate le notizie storiche la cosa più ardua era identificare la produzione ceramica di questi nostri artisti. Le prime nozioni sulla produzione ceramica le abbiamo apprese da quello studioso e ricercatore della materia che è Giulio Brandi, dal quale abbiamo imparato a poco a poco ad riconoscere la produzione locale dal XVI al XVIII secolo, che molti identificavano con una produzione minore di Montelupo, ma che il Brandi ha sempre sostenuto essere produzione poliziana ed anche molto originale ed importante. Galeazzo Cora nel 1954, pubblicò sulla Rivista della Ceramica di Faenza, un articolo intitolato: “Cavalli” e maioliche italiane in “Faenza” dove affermava che i famosi “cavalli”, assegnati dal Brandi alla produzione poliziana, erano da attribuirsi alla ceramica montelupina, e alcuni anni dopo, il Cora mutò la sua posizione, riconoscendone l’origine poliziana. Altra tappa fondamentale per la scoperta della produzione ceramica poliziana è stata l’escavazione del pozzo di butto del Palazzo Neri Orselli, da parte dell’Associazione Amici del Museo, che ha portato alla luce una grande quantità di materiale stratigraficamente completo dal XIV al XIX secolo con pezzi pregiatissimi, fra i quali ricordiamo un mesciroba dei primi anni del trecento. Quei reperti, che sono stati oggetto di una mostra allestita nella Chiesa di S. Bernardo nel mese di Giugno dell’anno 2000, sono stati esposti nel nuovo Museo e costituiscono una sezione sulla ceramica locale. C’è ancora molto da fare per estrarre gli altri pozzi rimasti chiusi nei fondi del palazzo del Museo, ed altro ancora per individuare gli scarichi delle fornaci presenti in altre zone di Montepulciano; speriamo di poterlo fare presto, per portare ulteriori e più circostanziate conferme a quanto fin’ora conosciamo sull’arte della ceramica a Montepulciano. A noi sembra curioso che ci siano piccole località di cui conosciamo la produzione della ceramica prima ancora del nome del luogo. All’opposto, per la nostra città, gloriosa del suo passato, di produzione ceramica se ne parla solo da qualche anno. Per una Città come la nostra, del cui nome non si è certi dell’etimologia, e della quale, fino ad alcuni anni fa, si ignorava se fosse abitata in epoca etrusca, non conoscere neppure la produzione ceramica, che era usata quotidianamente non è cosa da poco. Ed anche questo è un bel mistero. Elenco dei vasa(r)i, orciola(r)i e fornacia(r)i Durante la consultazione di documenti dell’Archivio Storico del Comune di Montepulciano e dell’Archivio Storico Capitolare e della Curia Vescovile di Montepulciano, ho incontrato numerosi nomi di Vasai, orciolai e fornaciai operanti, presumibilmente all’interno della città di Montepulciano, del cui tessuto economico-produttivo erano parte integrante essendo costituiti in “Arte” o “Corporazione” come già detto sopra. Di tutti questi artigiani poliziani di quei secoli, dei quali è possibile indagare, perché di quei tempi esistono estimi, libri dei battesimi, stati delle anime, ed altre documentazioni atte a conservarne memoria; darò qui conto, elencandoli cronologicamente, Dagli estimi del 1410 Maestro Lo nardo di Xtofano da Ripa Sanvitale di Como Fornaciaio della Contrada di Cagnano Domenico orciolaio della Contrada del Poggiolo Pietro di Donato orciolaio della Contrada di Voltaia Dagli estimi del 1571 Pietro Paulo di Gostantino vasaio Attilio di Pietro Paolo di Gostantino vasaio Piero di Gostantino vasaio Marco di Maestro Cosimo di Marcho orciolaio della Contrada del Poggiolo Meo di Colonna vasaio Paulo di Bernardino fornaciaio Francesco di Bartolomeo fornaciaio Libri dei Battesimi dai 1464 Vico vasaio 1470 Tonio fornacciaio 1471 Tonio di Piero pentolaio 1471 Tonio pignattaio 1472 Gio[vanni] et Bartolomeo detto fornacciaio 1475 Luca et Angelo di Pietro Vasaio 1475 Pietro vasaio da Montepulciano 1486 Antonio et Gismondo di Pietro vasaio da Montpulciano 1486 Nannj di Marcho orciolaio 1488 Marco orciolaio 1490 Francesco di antonio fornaççaro 1492 Francesco di antonio fornaççaro 1495 Piero di Frosino Vasaio da Monte varchi 1495 Francesco di antonio fornaççaro 1496 Francesco dantonio fornacciaro 1497 Francesco del fornacciaio 1498 Francesco del fornacciaio 1498 Francesco dantonio fornaciaio 1499 Lorenzo dj dantonio fornacciaio 1501 Lorenzo decto fornaciaio 1503 Altre fonti Mazzuolo o Marzuolo orciolaio 1495 ------------------------------------IL MISTERO DI UNA FORNACE PER MAIOLICHE IN PALAZZO NERIORSELLI Era meglio conosciuto col nome di Corte d’assise, per aver ospitato nel secolo XIX quell’Istituzione Giudiziaria. Fino agli anni ‘50 il palazzo ospitava abitazioni private ed un salone veniva utilizzato per organizzare serate danzanti. Si tratta di un palazzo in puro stile gotico senese, “in cotto con filaretti in travertino, con elegantissime bifore partite da snelle colonnine, poggianti sul dorso di leoncini marmorei”. Così lo descrive Francesco Caroti nella sua “Guida di Montepulciano” del 1969. Nel 1954 nel quadro delle Celebrazioni del 5° Centenario della nascita del Poliziano, il palazzo Neri-Orselli fu recuperato dal Comune restaurato ed adibito a nuova sede del Museo Civico Pinacoteca Crociani. Oggi sono in via di completamento i lavori di ampliamento e ristrutturazione ad opera dell’ Arch. Riccardo Pizzinelli in collaborazione e sotto la guida della Soprintendenza ai Beni Storici ed Artistici di Siena ed in particolare della Direttrice Onoraria del Museo Dott.ssa Laura Martini. Antico palazzo di proprietà della nobile Famiglia Mancini, come ebbe a dirmi alcuni mesi orsono il Prof. Ilio Calabresi. Nel diciottesimo secolo il palazzo fu certamente di proprietà della Famiglia Neri prima di Placido, poi di suo figlio Giovan Filippo o Filippo, che fu Accademico Intrigato, e amministratore del Conservatorio S. Girolamo (1) il quale lasciò il palazzo ed altri beni per testamento in proprietà alla figlia Agnese sposata con il Nobile Sig. Cosimo Orselli di Cortona, dal quale non ebbe figli. Alla morte di Agnese avvenuta il 17 Maggio 1825, il palazzo e gli altri beni furono ereditati dal marito; di qui la denominazione Neri-Orselli. Nel Supplemento alla “Gazzetta di Firenze” n°. 61 del 1825, una corrispondenza da Montepulciano così riporta la dolorosa notizia : “Montepulciano 20 Maggio. Nel dì 17. Maggio corr. Dopo una lunga, e penosa infermità cessò di vivere con edificante rassegnazione la sig. Agnese Neri della Città di Montepulciano ultima della sua antichissima Nobile Famiglia unita in Matrimonio col sig. Cosimo Orselli Patrizio della Città di Cortona. I continui soccorsi agli indigenti, i segreti sussidi a tante povere oneste Fanciulle della sua Patria per prendere stato tanto al Secolo che al Chiostro, e tante altre Opere di pietà esercitate nel corso della sua vita hanno viepiù resa accetta questa incomparabil Donna ai suoi Concittadini, che ne compiangono a ragione la perdita: Non contenta di avere sparsi in vita i suoi Benefizi ha voluto puranche estendersi per dopo la sua morte con diversi pingui legati per mezzo delle ultime sue testamentarie disposizioni. Il di lei superstite Coniuge all’acerbità del doloroso distaccamento, e nella rimembranza che tutte le Operazioni della perduta Consorte sono state sempre regolate da uno spirito di vera Religione radicata già nel di lei Cuore, ha voluto renderle l’ultimo omaggio con un elegante, e dotta Sepolcrale Iscrizione”. Ritornando al Nobile Giovan Filippo di Placido Neri, di lui null’altro sapremmo se non ci venisse in soccorso la “Gazzetta Universale” n.29 di Sabato 10 Aprile 1779, che scrive come appresso : “Firenze 5. Aprile. Sentiamo da Montepulciano che quel Nobile Sig. Gio. Filippo Neri sempre più risquote (sic) continui applausi per l’ottima qualità di Maioliche che escono dalla sua fabbrica mercé la sua assidua assistenza, e premura in ritrovare la vera arte. La medesima è stata arricchita di nuovi modelli d’ultimo gusto scolpiti dal Sig. Vincenzo Silvestri di Fermo incisore, e scultore di detta Fabbrica. Ci dicono di più che la medesima riesce di perfetta qualità resistendo a più forti esperimenti tendenti alla distruzione di tal materia”. A rendere le maioliche ancora più belle e resistenti, non risulterà certamente estranea una speciale sabbia silicea proveniente da S. Albino, di cui parla il Repetti citando Giovanni Targioni Tozzetti nella sua opera dal titolo, Analisi Chimica delle acque min. di Chianciano Firenze 1833 pag.137. “…in vicinanza della Mofeta di S. Albino esistono alcuni strati di terra silicea bianca, ruvida e minutissima, della quale il ch. Giovanni Targioni Tozzetti lasciò ricordo fra i suoi MSS., notificato dal di lui nipote nell’opera testé citata (pag.137)”. La quale rena dice quel MS., sta vicino alla Mofeta di S. Albino nel Montepulcianese; e che quando sia mescolata con Stagno è buona per vetrina alle majoliche fini : serve per orologi a polvere, e mescolata con olio è più buona che lo smeriglio per pulire armi da fuoco. Anche attualmente si usa di un simile renischio per l’oggetto descritto da Gio.Targioni; e forse è di quella impiegata in Montepulciano in una fornace di vetri”. Ecco descritta da un documento, sul quale non si può dubitare, un attività artisticoartigianale presente in Montepulciano nel XVIII secolo e della quale conosciamo l’artefice principale, cioè quel Sig. Vincenzo Silvestri da Fermo, incisore e scultore e conosciamo l’imprenditore, cioè Giovan Filippo Neri proprietario del Palazzo oggi sede del Museo. Rinvenuta questa importante informazione storica, ci siamo posti la domanda: dove sarà stata ubicata la fabbrica ? In un secondo tempo essendo venuti in possesso del Supplemento alla Gazzetta di Firenze n.61, ed avendo appreso che la figlia di Giovan Filippo, Agnese aveva sposato Cosimo Orselli e poi lasciato al marito per testamento il suo patrimonio (palazzo compreso), è stato facile individuare che l’abitazione di quella Famiglia Neri non era che l’attuale palazzo Neri-Orselli. Non si riusciva a trovare il legame tra il palazzo e la fabbrica di maioliche, sapevo soltanto che di solito una fornace veniva impiantata nei fondi dell’abitazione del vasaio o orciolaio o fornaciaio o comunque del proprietario, come in questo caso. Alla fine del 1998, iniziati gli scavi del Pozzo di butto nel seminterrato del palazzo del Museo, grazie all’intervento finanziario dell’Associazione amici del Museo Civico, ecco che tra quella interessante quantità di reperti sono venuti alla luce alcuni frammenti di ceramica nella fase della lavorazione, e cioè della prima cottura, ingubbiati, ed alcuni piedi di gallo, che venivano utilizzati nelle fornaci per separare un oggetto dall’altro. Considerando tali informazioni, ne abbiamo dedotto che i nostri sospetti erano fondati: Nel seminterrato del Palazzo Neri-Orselli doveva essere ubicata la fornace del Nobile Giovan Filippo Neri proprietario del palazzo, ed i numerosi pozzi di butto presenti non fanno che confermare questa ipotesi, non soltanto per il numero così elevato di discariche domestiche, ma anche per i reperti recuperati così precisamente indicativi della presenza di una fornace. Questo è il nostro pensiero, se altri non ritenessero quelle addotte, prove sufficienti a dimostrare che la fabbrica di maioliche aveva realmente sede nel palazzo, perché non riprendere le ricerche e scavare gli altri pozzi di butto esistenti nel seminterrato del Museo? (1) Ilio Calabresi ha individuato nell’Archivio Storico del Conservatorio S. Girolamo la relazione di un viaggio a Firenze effettuato da Giovan Filippo Neri che riporta al 1787 la data più antica in cui si fa menzione del Vino Nobile di Montepulciano. ------------------------------------PIETRO DI DOMENICO DA MONTEPULCIANO: DISCUSSA E MISTERIOSA LA SUA ORIGINE Conosciuto precedentemente come Pietro da Recanati, perché la sua prima opera, firmata solo col nome di battesimo, fu rinvenuta nella città di Giacomo Leopardi: “Hoc Opus Factum Fuit Tempore Domini Francesi Prepositi Sacti Viti. MCCCCXXII Petrus Pinsit” Solo dopo il 1908 tale “Petrus” ritrovò il suo vero nome, ed ebbero un grande impulso gli studi a lui riservati dai maggiori studiosi, critici e storici dell’arte. Colasanti, Gnoli, Longhi, Zeri, Berenson dedicaro a Pietro di Domenico studi e ricerche, poi cominciarono le attribuzioni, alcune delle quali forse troppo affrettate. Ma torniamo al 1908, il Metropolitan Museum di New York entra in possesso di una tavola: la Madonna dell’Umiltà, già dei Camaldoli di Napoli, che nel bordo inferiore della cornice reca il nome dell’autore e la data: “PETRUS. DOMINICI. DE MONTE PULITIANO. PINSIT. MCCCCXX.”. Purtroppo Pietro non è storicamente documentato, se non attraverso le sue opere, che come abbiamo visto sono spesso solo attribuzioni, ragion per cui non è facile stabilire senza fare gli opportuni approfondimenti e riflessioni se il Pittore sia poliziano o marchigiano. A rendere più incerta l’origine di Pietro ha contribuito anche la presenza, nel Comune di Filottràno in Provincia di Ancona, di una piccola località che porta il nome di Montepulciano e che da informazioni raccolte nel luogo non ha lasciato tracce negl’Archivi Storici, solo nel 2001 abbiamo avuto notizia della conclusione, da parte dello studioso locale Giovanni Santarelli, di uno studio accurato della toponomastica del Comune di Filottrano che si è conclusa con il rinvenimento di notizie del villaggio o case sparse di Montepulciano solo dagli estimi del XIX secolo. Questa piccola località, dopo il secondo conflitto mondiale, avrà avuto si e no tre-quattro case, oggi forse una decina. In questa situazione di incertezza, alcuni studiosi locali hanno preso posizione dicendo che Pietro di Domenico da Montepulciano, avendo lasciato le sue opere in massima parte nelle Marche, ed avendo la sua pittura tardogotica le caratteristiche della scuola marchigiana di Gentile da Fabriano e dei Fratelli Salimbeni da San Severino, si deve ritenere marchigiano nato nella piccola località del Comune di Filottràno. Il Prof. Pietro Zampetti ex Soprintendente alle Gallerie delle Marche, in una Conferenza tenuta a Filottràno l’11 Marzo 1990, nell’occasione della celebrazione del 200° anniversario della fondazione di quel Comune, dichiarò, con intonazione di circostanza, quanto superficiale e non fondata su prova alcuna, che Pietro è nato non in Toscana, ma nella omonima località marchigiana. Alcuni altri storici condividono l’idea dello Zampetti, altri come lo Gnoli, il Longhi, accettano l’origine poliziana di Pietro e lo stesso Federico Zeri, pur ritenendolo un esponente della pittura marchigiana, trova che le sue prime opere risentano della scuola senese ed in particolare della pittura di Taddeo di Bartolo. Prendiamo in esame ora il percorso artistico di Pietro, e vediamo che la sua pittura giovanile risente del tardogotico senese e di Taddeo di Bartolo per approdare poi, alla pittura marchigiana di Gentile e dei Salimbeni passando attraverso l’influenza della pittura veneta di Jacobello del Fiore. Da questo percorso artistico e cronologico è facile dedurre che Pietro di Domenico da Montepulciano potrebbe aver appreso i caratteri del tardogotico senese nella sua stessa patria, dove dal 1401 esisteva nella Pieve di Santa Maria, il grande Trittico dell’Assunta, o a Siena nello studio del grande Maestro senese. Pietro nella tavola della Madonna dell’Umiltà di New York si firma Petrus Dominici de Monte Pulitiano. Solo un poliziano, con un pizzico di malcelato orgoglio, chiama la sua città “Monte Pulitiano o Politiano”. Prova ne sia che nelle testimonianze della Dieta di San Quirico, voluta dai Senesi per dimostrare che Montepulciano gli apparteneva, i testimoni di Montefollonico, di San Quirico e di Monticchiello, tutti amici di Siena e perciò nemici dei Poliziani, riferendosi alla Città Poliziana ed ai suoi abitanti con i termini “Montepulcianum Montepulcianensem”. Quest’usanza resiste anche oggi da parte di tutti coloro ai quali i Poliziani non vanno particolarmente a genio. Ma la cosa più importante da dire, riguardo alla confusione che si tende a fare fra Montepulciano in Toscana e l’omonima piccola località marchigiana è che “Mons Politianus” non è la semplice traduzione latina del nome di Montepulciano, ma porta con sé il bagaglio dell’origine storica ed etimologica del nome che racchiude in sé anche l’origine storica della città, per cui giudichiamo riduttivo e semplicistico ritenere non “poliziano” chi da sé stesso si definisce “de Monte Pulitiano”, infatti Pietro avrebbe potuto firmarsi “de Montepulciano” che come abbiamo visto è forma esistente già nel 1200. Le Opere di Pietro sono sparse, oltre che nelle Marche anche nei principali Musei e Gallerie del Mondo, dal Metropolitan di New York, al Petit Palais di Avignone, a Washington, ad Hannover. Forse anche Montepulciano ha un opera di Pietro, infatti nell’Araldo Poliziano n.30 del 23 Luglio 1939 nell’introduzione alla relazione dei restauri di quattro degli affreschi più importanti esistenti a Montepulciano si legge : “/+++/ e la Madonna del latte attribuita a Pietro di Domenico da Montepulciano, del sec. XV, nella Chiesa di S. Agnese.”. L’affresco, recentemente restaurato per iniziativa dell’Associazione Amici del Museo Civico di Montepulciano, fu attribuito a Pietro di Domenico dallo storico dell’arte Cesare Brandi già nel 1931. Oggi, dopo il restauro, si spera che venga accuratamente studiato, per averne un’attribuzione certa e motivata. Esso mostra evidenti affinità stilistiche con le altre opere del Maestro; specialmente le vesti, la bocca, le mani ed il viso della Madonna, la ricchezza ed il motivo delle decorazioni delle stoffe. Ed é altrettanto importante una ricerca d’archivio su Pietro e la sua famiglia sia a Montepulciano che a Filottràno. Dal momento che la “Madonna dell’umiltà” proviene dalla Chiesa del Convento dei Camaldoli di Napoli, Ordine che obbedisce alla regola di S. Benedetto, la cui casa madre si trova vicino a Bibbiena in Provincia di Arezzo a non molta distanza da Montepulciano, si rende necessaria una ricerca anche nell’archivio dei camaldolesi e dei silvestrini ordine presente in Montepulciano, nel cui oratorio recentemente sono stati rinvenuti due altari affrescati nel XV secolo. Tra le ipotesi emerse, può risultare attendibile quella già da noi proposta, che Pietro sia stato un monaco ed il suo percorso artistico dalla scuola pittorica senese e poi a quella marchigiana di Gentile da Fabriano, corrisponda ad una sua emigrazione da un convento all’altro. Del resto non sarebbe il primo pittore poliziano a lavorare fuori dalla patria, vogliamo ricordare i pittori Marco da Montepulciano allievo di Lorenzo di Bicci, Domenico suo collaboratore. Giovanni da Montepulciano, Priore del convento olivetano di Fabriano, documentato in tutta l’Italia centrale come pittore di miniature. Poiché anche di loro non troviamo notizie d’archivio sarebbe legittimo dubitare che anche loro siano di origine marchigiana. Tutto è possibile, ma ci sembra veramente incredibile pensare che in un villaggio, che mai ha superato le dimensioni di una fattoria, siano nati tanti personaggi così rilevanti. ------------------------------------I BOSCOLI A MONTEPULCIANO: UN MISTERO L’ATTRIBUZIONE DI MOLTE OPERE Il primo biografo di Tommaso di Piero o Pietro Boscoli, architetto e scultore, fu certamente il Vasari, che ne parlò nelle sue “Vite dei più eccellenti Pittori Scultori ed Architettori”. G. Milanesi nel suo commento all’edizione delle “Vite…” del 1875 affermò che Tommaso era nato all’incirca nel 1501 o 1503, mentre secondo il Parigi, nelle sue “Notizie del Cardinale Roberto Nobili degli altri Illustri Poliziani e della Città di Montepulciano, Fumi 1836, il Boscoli sarebbe nato fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Tommaso o Maso di Piero, sembra essere arrivato a Montepulciano in giovane età, secondo alcuni, al seguito di Antonio Giamberti detto Antonio da Sangallo il Vecchio, forse insieme al padre Pietro, anch’egli come il figlio, della scuola degli scalpellini di Settignano, o forse inviato dal Granduca Cosimo per riparare le mura e la Fortezza della quale poi divenne Sottoprovveditore. Stà di fatto che il Giornale della Fabbrica del Tempio della Madonna di San Biagio, racconta di un Pietro da Settignano, capomastro della Fabbrica stessa fino al 1520 a cui seguì poi Tommaso, che a quei tempi, secondo il Vasari avrebbe dovuto avere fra i 17 e i 19 anni, ed avrebbe già eseguito il Pozzo dei Grifi e dei Leoni su disegno del Sangallo come vuole la tradizioneco, anche se nelle carte relative a quell’opera del Sangallo non si fa menzione. Per questa ragione ci sembra più attendibile la tesi di Andrea Parigi, che lo ritiene nato negli ultimi anni del XV secolo. Il Boscoli, oltre ad aver diretto i lavori del Tempio di S. Biagio anche dopo la morte del grande Maestro fiorentino avvenuta nel 1534, ed avere nel 1550 progettata e costruita la facciata della Canonica, ristrutturando un edificio denominato “l’Osteria” acquistato dagli eredi di Messer Silvio Cervini, risulta aver lavorato a lungo a Firenze ed a Roma, prima sotto la direzione di Andrea Ferrucci da Fiesole, insieme a Silvio Cosini, al monumento funebre di Antonio Strozzi in S. Maria Novella dove avrebbe eseguito l’Angelo di sinistra di quel sepolcro. Nel 1532 scrissea Michelangelo dicendosi disponibile a lavorare per lui a Roma o altrove. In quella città eseguì importanti lavori ad iniziare dalla statua di Giulio II giacente, per il monumento che disegnò ed in parte eseguì il grande artista di Caprese. La statua del Pontefice fu definita da due storici dell’arte quali Gaetano Milanesi nel 1875 ed il Barocchi “Opera di scarso valore e priva di elementi caratterizzanti”, mentre proprio nella primavera del 1999, durante un restauro si cercò, da parte degli esperti, di dimostrare che per la bellezza e la perfetta esecuzione, di prima intenzione e senza ritocchi, non poteva essere del Boscoli ma di Michelangelo stesso. A ristabilire le cose pensò il Prof. Vittorio Sgarbi che nel corso di un sopralluogo al sepolcro di Giulio II in San Pietro in Vincoli, trasmesso dalla Televisione, affermò trattarsi dell’opera di un Manierista, che non riesce ad esprimere immediatamente la forza sprigionata dalla folgore dell’ispirazione, come invece avviene in Michelangelo, ma la creatività deve essere mediata dalla riflessione. Soggiunse poi, che attribuendola al grande Maestro, si farebbe a lui un torto, viceversa concedendone la paternità al Boscoli lo si innalzerebbe di molto. Nel 1544 scolpì un gruppo marmoreo con S. Anna, la Madonna il Bambino, e il committente Pietro de Velasco per la Chiesa di S. Giacomo in Agone oggi in S. Maria di Monserrato. Fra il 1547 ed il 1556 risulta aver scolpito una serie di capitelli per la Basilica di S. Pietro in Roma. Fra il 1561 e il 1563 eseguì alcuni stucchi per il Casino di Papa Pio IV al Belvedere, lavorando nella facciata ed al primo piano in compagnia di Rocco da Montefiascone. Ancora a Firenze, nel 1565, scolpì tre statue in terracotta rappresenanti (La Religione esteriore, la Grazia, la Santa Operazione) per l’apparato che V. Borghini aveva concepito per le nozze di Francesco I de’ Medici con Giovanna d’Austria. Tommaso fu ascritto alla cittadinanza di Montepulciano, dice il Vasari, per i meriti acquisiti nella costruzione della Chiesa della Madonna di S. Biagio, noi siamo propensi a credere che egli, abbia ottenuto la cittadinanza poliziana dopo la morte del Padre Pietro che pensiamo sia avvenuta nel 1520, data nella quale egli cessò la funzione di Capomastro della fabbrica. Il Boscoli rimase a Montepulciano dove già esisteva una famiglia con quel cognome e che forse era con lui imparentata. Nell’Estimo del 1571 del Quarto di S. Agostino, Contrada di Gracciano risulta accesa una partita a nome di Tommaso di Piero Boscholi schultore da Settignano, che dimostra il collegamento esistemte fra Pietro e Tommaso, e fa giustizia di quei dubbi che alcuni hanno avanzato pretendendo che tutte le opere ad esso ascritte fossero in effetti di due persone diverse, ipotizzando un errore da parte del Vasari, che invece doveva ben essere al corrente delle opere del Boscoli dato che suo figlio Giovanni, come vedremo più avanti, lavorò con l’aretino a Firenze e rimase poi sempre in contatto con lui. Tommaso prese per moglie una poliziana dalla quale ebbe un figlio di nome Giovanni che seguì le orme paterne diventando scultore ed architetto. Il giovane, lavorò dunque con Giorgio Vasari a Firenze, mettendo a stucco alcune sale in Palazzo Vecchio. Ancora come “maestro di stucchi” lavorò nel Duomo di Orvieto nel 1558. Nel 1563 è documentato a Roma insieme ad altri stuccatori e pittori fra cui Federico Baroccio. Nel 1564 Giulio de’ Cavalieri lo segnalò al Duca Ottavio Farnese di Parma, che gli fece erigere una fontana nel suo giardino, questa fu ritenuta opera mirabile, per cui Giovanni o Nanni da Montepulciano, fu da allora chiamato Giovanni della fontana. Rimase alle dipendenze di quella Corte progettando ed edificando fabbriche importanti come il Corridore, traendo ispirazione dal Corridoio Vasariano di Firenze eseguito dal suo antico maestro, una parte del Palazzo della Pilotta, le residenze ducali di Collecchio e Fornovo, e fabbriche militari come la Fortezza di Fidenza e Borgo S. Donnino. Nel 1583, chiamato dal Duca Alfonso di Ferrara, eseguì per lui fontane e fortificazione riportandone onori e benefici economici. Nel 1570, all’età di circa 45 anni sposò la nobile poliziana Eustachia Cocconi Tarugi, dalla quale ebbe un figlio che chiamò Ottavio come il Duca, del quale fu paggio d’onore, ed ebbe la cittadinanza di Parma. Morì in Parma nel 1589 e fu sepolto nella Chiesa di S. Pietro Martire. Alla sua morte il suo amico Architetto Simone Moschini ne sposò la vedova e nominò erede universale suo figlio Ottavio. Ottavio sposò Isabella Riccardi, dalla quale nacque nel 1612 Gian Simone, detto anch’egli Moschino. Divenne nel 1688 Marchese di Ravarano e morì nel 1701. Da Gian Simone e Domitilla de’ Conti nacque Lelio letterato e Protonotario Apostolico. Tornando a Tommaso, studi recenti di Mauro Cozzi e Luca Giorni sull’architettura sangallesca a Montepulciano forniscono nuove e interessanti ipotesi sulla sua attività artistica in Montepulciano. I maggiori storici dell’arte di questo secolo, commettendo l’errore già occorso ad altri loro predecessori, riconobbero in Antonio da Sangallo il Vecchio l’artefice di alcuni palazzi poliziani per le somiglianze stilistiche generali con le opere sicuramente eseguite dal Maestro fiorentino (Palazzo Del Monte – Contucci ed il Tempio della Madonna di San Biagio). Studi recenti (Vedi G. Miarelli Mariani, M. Cozzi, E. Tonietti, L. Giorni) conferiscono nuove interpretazioni alle più accurate ricerche d’archivio, e per discordanze cronologiche, oltre che per evidenti incongruenze stilistiche si ritiene che i palazzi, Nobili-Tarugi, Del PecoraCocconi, Cervini, e Avignonesi-Cappelli-Bernabei oltre ad altre opere minori, siano stati eseguiti da suoi seguaci, interpreti dei suoi ammaestramenti, ma in chiave provinciale e di maniera. Il Cozzi ipotizza che il seguace interprete e continuatore degli stilemi del Giamberti sia quel Tommaso Boscoli, noto architetto della sua cerchia per essere stato Capomastro della Fabbrica del Tempio di S. Biagio e poliziano d’adozione. Se è vero che quegli edifici non sono opera del Sangallo, evidentemente, sia per aver diretto la costruzione del San Biagio, sia per aver assimilato gli stilemi del suo maestro, sia per essere ormai da tempo inserito nella realtà del luogo, sia per aver usato lo stesso travertino delle cave di S. Albino, ma anche per aver dimostrato un’interpretazione di maniera anche se con evidenti lacune complessive, ci sembra che questi edifici si possano attribuire al Boscoli. Tommaso si ammalò gravemente e verso la fine dell’anno 1578 morì confortato dalla presenza del figlio Giovanni, che in una lettera inviata al Duca di Parma in data 15 Gennaio 1579 giustificava la sua prolungata assenza per la malattia e la morte del padre e per il disbrigo delle questioni relative alla successione patrimoniale. Come abbiamo accennato in precedenza, a Montepulciano, prima dell’arrivo di Piero e di Tommaso Boscoli, già esisteva una famiglia di quel casato, di questa gente fu Teodoro Boscoli, Architetto e Agrimensore nel XVI secolo. Egli fu adoperato dal governo granducale per progettare la regimazione delle acque del Salarco, della Foenna e delle Chiane, di tutto ciò esisteva il disegno nel Cassone della Comunità. Altri personaggi di cui tratteremo brevemente sono rimasti nella memoria della Comunità e ne scrive Mons. Silvano Cocconi nella sua “Relazione delle Nobili Famiglie della Città di Montepulciano trascritto e accresciuto da Pietro di Ricciardo Bucelli nel 1713”, manoscritto in Archivio Privato di Montepulciano. “Agostino Boscoli, fù onorato Sacerdote, e di molto garbo, si addottorò in Siena, et ivi in quel Pubblico Studio lesse “Istituta”, fù Canonico della Chiesa Cattedrale di Lorino, fù Teologo della detta Cattedrale di Lorino; fiorì questo virtuoso l’anno 1573 fù Vicario Generale di Belisario Balduccini Vescovo di Lorino”. “Agostino di Teodoro Boscoli fù allevato da giovinetto alla Madonna di S. Biagio, serviva per Chierico quella Chiesa fù Sacerdote onorato, e fù Cappellano nella Cattedrale di Monte Polciano”. “Fra Gabriello di Panfilo Boscoli fù allevato con il timor di Dio fino da’ teneri anni, si fece Religioso Cappuccino, e vive con esemplarità di vita”. Dagli Estimi del Comune apprendiamo che Bartolomeo di Raffaello Boscoli, era sposato con Faustina figlia di Galieno Spadetti. La famiglia in questione ci riserva altre sorprese, infatti dal Giornale delle Entrate e delle Uscite della Fraternità di S. Agostino troviamo altri due personaggi dai nomi evidentemente ripetuti forse per tradizione di famiglia, e sono Tommaso anch’esso Scalpellino e Scultore, che risulta documentato nei pagamenti del 1629 e del 1630, cioè cinquanta anni dopo la morte dell’omonimo. Fra gli altri egli eseguì per la Chiesa di S. Agostino lavori di scultura e costruzione delle Cappelle di S. Lazzaro e dell’Ascensione, fece lavori di muratura per una grossa vetrata sopra il pulpito, rifece l’orologio (della torre di Pulcinella?) e la scultura e montaggio della Cappella del Crocefisso detta di Spelucha o Spelucca. Teodoro omonimo dell’Agrimensore risulta documentato dal 1586 per aver fatto vari lavori di muratura e scultura. Nel 1587 per aver scolpito e murato una Cappella, nel 1593 per aver restaurato il Campanile, nel 1596 per aver scolpito e lucidato la Pila dell’acqua santa che si vede entrando nella Chiesa a destra, per aver rifatto il pavimento con seimila mattonelle. Dagli “Appunti Storici” sulla costruzione del nostro Duomo che crediamo siano opera del Vescovo Mons. Giuseppe Batignani, (Araldo Poliziano n.34 del 17 dicembre 1905, si apprende che : “Con atto del 24 Aprile 1600 si allogano agli scalpellini M. Giovanni di Francescho e M. Panfilo di Ventura Boscoli e loro compagni i mezzanini delle cappelle secondo il modello Scalzo (di Ippolito Scalza architetto da Orvieto) al prezzo di scudi 9 e la cornice di dentro e di fuori al prezzo di L. 16 al braccio andante”. Dai libri delle entrate e delle uscite della Fabbrica del Duomo” non solo è menzionato Teodoro ma anche Tommaso ed un suo figlio tra gli scalpellini che operavano insieme ad altri a squadrare ed acconciare le pietre e i travertini di quella costruzione. Dunque una famiglia di artisti, che hanno lasciato a Montepulciano l’impronta della loro arte nel periodo di passaggio dal Rinascimento al Manierismo ed al Barocco. ------------------------------------UNA TELA DI IACOPO E FRANCESCO DA PONTE Tutte le guide la descrivono come una tela fiamminga raffigurante la “Deposizione di Nostro Signore”, si trova nella Cappella Samuelli in fondo alla Navata di sinistra della Cattedrale di Montepulciano, invece è un’opera della pittura del cinquecento veneto, di Iacopo Da Ponte detto il Bassano raffigurante l’episodio evangelico di “Gesù al sepolcro” ed eseguita in collaborazione con ik figlio primogenito Francesco. Siamo giunti a questa importante conclusione grazie alle indicazioni forniteci da un turista appassionato d’arte, che entrando in Cattedrale guida alla mano, trovandosi di fronte alla tela, non ha potuto far a meno di notare l’affinità con altre opere a lui note e l’errore in cui erano occorsi gli autori delle guide locali nel descrivere il quadro dell’altare Samuelli. Il nostro attento ospite ha identificato alcune opere del Da Ponte, che più che simili sembrano eguali. Una è di proprietà privata, la seconda è esposta al Louvre, la terza donata da Papa Giovanni Paolo II al popolo polacco si trova a Varsavia, e l’ultima, ma forse prima in ordine di esecuzione è la nostra, che è anche la più grande di tutte. Sono partite così le ricerche che hanno portato alla individuazione di altre tele, oltre alle quattro descritte, tutte con caratteristiche simili e sorprendenti analogie. Ciò rende se non certissima assai probabile l’attribuzione della tela del Duomo a Iacopo Da Ponte. Le analogie più evidenti consistono nelle tonalità dei colori che creano zone d’ombra, interrotte da squarci di luce ad illuminare i volti, i panneggi e le acconciature; e la presenza di quei personaggi che fanno corona al Cristo deposto dalla Croce. Maria di Magdala, Maria madre di Gesù, Maria madre di Giacomo il minore e Giuseppe d’Arimatea, illuminato da una luce che ne mette in risalto una testa lucida per la calvizie ed una folta barba grigiastra. La sua posizione naturale è alle spalle del Cristo, a cui sorregge il lenzuolo e la testa reclinata. Sono questi i personaggi che ritroviamo insieme a Gesù in tutte le tele prese in esame. Fra queste, quella del Louvre attribuita a Iacopo è quasi identica alla nostra, mentre in quella di Varsavia manca Maria madre di Giacomo il minore ed è attribuita a Francesco il giovane. La differenza che più risalta, è la dimensione dell’opera, che nel caso della tela della Cattedrale di Montepulciano è maggiore delle altre simili. I Da Ponte erano una famiglia di pittori, tutti originari di Bassano del Grappa da cui assunsero il patrionimico. Francesco, il capostipite della dinastia nacque nel 1470 e morì nel 1540. Iacopo, suo figlio nacque nel 1510 o 1515 e morì nel 1592. La sua pittura, fatta di toni scuri e scoppi di luce, influenzò lo stile dei suoi quattro figli. Francesco il giovane nato nel 1540, morto a Venezia nel 1592, dopo una parentesi giovanile in cui subì l’influenza del padre, trasferitosi in Venezia, iniziò a dipingere alla maniera di Tintoretto. Giovanni Battista che soprattutto copiò le opere paterne. A questo proposito, vogliamo sottolineare la singolare somiglianza fra le tele in questione, infatti quella del Louvre e quella di Varsavia sembrano copie in formato ridotto, del quadro della Cattedrale di Montepulciano. Leandro nato nel 1557 e morto a Venezia nel 1622, curò più i valori grafici che quelli pittorici. Gerolamo nato nel 1566 e morto anch’egli a Venezia nel 1621, in gioventù imitò il padre, e nelle sue opere tarde, risentì dell’influenza del fratello Leandro. Il modo di dipingere dei Bassano, e le sue note distintive, si estese poi a tutto il Veneto facendo numerosi seguaci. Per quanto sopra accennato, ci sembra che il quadro della Cattedrale debba, senz’altro, essere attribuito a Iacopo Da Ponte da Bassano, tuttavia, considerando l’influenza che l’artista ha esercitato sui figli credo si possa ipotizzare una collaborazione del figlio Francesco. Quest’attribuzione accresce la valorizzazione del nostro patrimonio artistico e culturale, e di quest’opera in particolare che oggi esce dall’anonimato della generica definizione di “tela fiamminga” e che si accredita, a buon diritto, fra le opere d’arte importanti della città. La tela, purtroppo, si presenta all’osservatore in tutta la sua trascuratezza, impolverata e aggrinzita, il suo stato di conservazione è scandalosamente pessimo e necessita urgentemente di un accurato restauro e rintelatura, che raccomandiamo di eseguire al più presto, dopo di che si potranno valutare appieno le somiglianze e le analogie e trarre le logiche conclusioni e le necessarie conferme per la definitiva attribuzione.