Rassegna Stampa
FONTE: http://www.criticaliberale.it/news/217927 DEL: 7 aprile 2014 Le menzogne della politica ovvero la politica come
menzogna
paolo fai
Plutarco, in un opuscolo “morale” sulla curiosità, intesa nel senso deteriore di faccenderia, ficcanasaggine e
simili, tra gli altri consigli rivolti al ficcanaso, aggiunge quello di tenersi lontano soprattutto dai potenti, dai
re: «Quello che i re hanno di più piacevole e bello è esposto all’esterno, e sono i banchetti, le ricchezze, le
feste, i favori, ma se hanno qualche segreto, non accostartici, non smuoverlo! Quello che tiene nascosto,
invece, è terribile, cupo, senza sorriso, inavvicinabile».
Questo passo mi pare individui con grande precisione la specificità caratteriale del politico: la doppiezza o
l’ipocrisia.
Quasi negli stessi anni in cui il dotto biografo-conferenziere-moralista greco tracciava il rapido ritratto del
politico, attraverso poche considerazioni gettate lì come monito per quella figura umana del ficcanaso,
giudicata tra le più biasimevoli, più vicino al Palazzo imperiale, da dove si diffondevano i pestilenziali miasmi
d’una politica di intrighi e di corruzioni, lo storico Tacito, che, con realismo, giudicava inevitabile ed
ineluttabile l’impero, dopo che, morto Augusto, i senatori erano prontamente corsi a inchinarsi, come dei
servi, al nuovo princeps Tiberio, schizzava di lui un ritratto destinato a diventare la sinistra incarnazione, il
turpe prototipo della doppiezza, della menzogna.
Già nel discorso di insediamento a capo dell’Impero, dopo la morte di Augusto, quando Tiberio «dissertava
in vario modo sulla vastità dell’impero e sulla propria modestia», lo storico ravvisa «più affettazione che
sincerità e Tiberio, per natura sua o per abitudine, anche in quelle cose che non c’era bisogno di tenere
nascoste usava sempre parole a mezz’aria e accenti velati; in questa circostanza, poi, ove si sforzava di
nascondere del tutto i suoi pensieri, ancor più si avvolgeva nell’indeterminatezza e nell’ambiguità».
Qualcuno potrebbe indicare in queste parole di Tacito l’atto di nascita del politichese, cioè di quel
linguaggio settoriale la cui caratteristica precipua è lo sciorinare frasi, generalmente collegate a formare
periodi lunghi e contorti, privi di consistenza logica.
Andando a ritroso nel tempo, però, stando a Platone, la colpa dei fumosi discorsi dei politici sarebbe da
imputare ai sofisti, abili a rendere “migliore il discorso peggiore”. Ma forse neppure il suggerimento del
filosofo delle Idee riuscirà a soddisfarci, perché si ha l’impressione che, più sfondiamo il muro del tempo,
più apparirà inconfutabilmente vera la nozione che la politica è costruita sulla menzogna.
Si pensi al mito greco, che – così dicono gli studiosi – ha valore fondante e riassume, con pregnante valenza
simbolica, verità non suscettibili di dimostrazione e confutazione. Agamennone, re di Micene, conduce la
figlia Ifigenia in Aulide, falsamente promettendole che l’avrebbe fidanzata con Achille, ma di fatto per
immolarla ad Artemide ad espiazione di una sua colpa commessa contro la dea. Così, placata l’ira della dea,
gli Achei potranno salpare per Troia, a vendicare il ratto di Elena da parte di Paride. Altro che amore di
padre!
Dunque, già nella sfera del mito appare sinistramente manifesta quella che, in termini di pura teoria politica,
si considera la più durevole conquista del pensiero politico moderno, cioè la natura demoniaca del potere,
che Machiavelli fisserà, con rigore assiomatico, nel “terribile” capitolo XVIII del Principe: «Quanto sia
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laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende;
nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno
tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli delli homini». Insomma, bene etico e
bene politico non coincidono. Infatti, se all’idea di bene, in senso etico, è connesso il concetto di azione
disinteressata, cioè fare il bene per il bene, questo concetto non può applicarsi al bene in senso politico.
Non si è mai visto, infatti, un uomo politico compiere una buona azione «anche con eventuale sacrificio del
suo interesse particolare» (Kant), e quelli che lo hanno fatto “ruinorno”, per usare una parola
machiavelliana. Come sperimentò, sulla sua pelle, il marchese Domenico Caracciolo, viceré di Sicilia dal
1781 al 1786, uomo di formazione illuministica, fieramente avversato dalla nobiltà e dalla plebe per le
riforme attuate, compresa la riduzione del Festino di Santa Rosalia da cinque a tre giorni. Caracciolo, dopo
aver vissuto per vent’anni a Parigi e avere «sperato di restarci per gli anni che ancora aveva da vivere, […] già
vecchio, a sessantasette anni», era stato «invece mandato a Palermo come viceré: dal luogo della ragione
all’hic sunt leones, al deserto in cui la sabbia della più irrazionale tradizione subito copriva l’orma di ogni
ardimento» (Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto).
In questo senso, tutti i politici sono in fondo dei narcisisti, sono cioè innamorati di sé stessi e dell’ebbrezza
che provoca il sentirsi ammirati o odiati, poco importa, ma comunque oggetto di attenzione e di discussione
da parte di una moltitudine. E ancora, non fa granché differenza che si tratti di uno stato totalitario o
democratico: i meccanismi mentali e comportamentali che si mettono in moto sono gli stessi, anche se in
uno stato di diritto, fondato cioè sul governo delle leggi, i governanti agiscono (dovrebbero agire) in
conformità di leggi stabilite, sono controllati (dovrebbero essere controllati) dal consenso popolare e sono
(dovrebbero essere) responsabili delle decisioni che prendono.
E allora? Allora dovremo ammettere, anche se con riluttanza, che i politici sono uomini «con la mente aperta
al come più che al perché, […] abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso particolare con
le vaghe idealità pubbliche», come, nel romanzo Il Gattopardo, don Fabrizio Corbera dice all’emissario
sabaudo Chevalley.
Ma, per chiudere il circolo delle argomentazioni, è bene tornate a Plutarco e alla sua biografia di Lisandro, il
generale spartano che trionfò su Atene nel 404, nella ventisettennale guerra che aveva opposto le due città
della Grecia in quel torno di tempo più fiorenti, Atene e Sparta. Dal racconto di Plutarco emerge «la
convinzione, radicata in Lisandro (ma anche in tanti altri aspiranti al potere monocratico), della piena
coincidenza tra il proprio potere personale e l’interesse generale. […]. Naturalmente in questo meccanismo
mentale interferisce, ad un certo momento, un fattore di accecamento: interviene l’adulazione, che spinge
verso una ambizione incontrollata, e questa, a sua volta, costituisce elemento di crisi, se non anche di
caduta, del politico. La traiettoria di Lisandro è esemplare. Egli ha raggiunto il massimo potere, anche
perché graniticamente persuaso dell’effetto positivo generale del suo successo individuale, ma, a quel
punto, l’eccesso di potere personale incontrollato lo ha portato a compiere errori via via più dannosi proprio
al suo potere (cap. 19)».
Così scriveva Luciano Canfora nel 2001 nell’Introduzione alla vita di Lisandro (Plutarco, Lisandro – Silla,
BUR Rizzoli, Milano 2001), prefigurando una cornice idealtipica nella quale si può opportunamente
mettere il quadro politico attuale con al centro il suo principale e più inquietante personaggio.
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