552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 552 C hiese nel mondo Terrorismo come sfida etica Presentazione I vescovi tedeschi a dieci anni dall’11 settembre 2001 Gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno una portata periodizzante: a partire da quella data da un lato lo stato di diritto è stato posto di fronte alla necessità di reagire a un nuovo tipo di minaccia senza porre in discussione i propri principi fondanti, e dall’altro la Chiesa si è trovata a vagliare il proprio insegnamento tradizionale sulla pace, dovendo reagire alla convinzione di molti che gli attacchi terroristici lo avessero ormai messo in discussione. Nel documento Terrorismo come sfida etica. Dignità dell’uomo e diritti umani, pubblicato il 5 settembre 2011, i vescovi tedeschi tracciano un bilancio critico, benché provvisorio, della politica degli stati occidentali dopo l’«11 settembre», e tentano di offrire dei criteri di valutazione aggiornati in tema di «pace nell’epoca del terrorismo». La prospettiva suggerita va verso uno spostamento del problema nell’ambito del diritto internazionale e una relativizzazione della sovranità statale, che non si esaurisca nell’affermazione e difesa degli interessi dello stato, ma consideri suo compito prioritario la responsabilità per la dignità dell’uomo e per i diritti umani. Opuscolo, «Die deutsche Bischöfe» n. 94, Bonn 2011. Nostra traduzione dal tedesco. IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 In questi giorni si ricordano in molti luoghi le vittime degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. A dieci anni di distanza da quei terribili avvenimenti abbiamo ancora davanti agli occhi le immagini di New York e di Washington. Allora ci rendemmo immediatamente conto che il terrorismo internazionale aveva raggiunto un nuovo stadio e che il mondo politico non sarebbe mai più stato lo stesso di prima. In realtà, gli attacchi con migliaia di morti – compiuti nel cuore degli Stati Uniti, la nazione più potente del mondo – hanno prodotto una percettibile cesura nelle relazioni internazionali e hanno cambiato la politica della sicurezza interna di molti paesi. Da allora politica estera e politica interna degli stati hanno preso nuovi binari. Le guerre ancora in atto in Afghanistan e in Iraq sono state essenzialmente motivate con la necessità di combattere il terrorismo internazionale. In tutto il mondo, anche in Occidente, sono state votate leggi drastiche in materia di sicurezza per ridurre il campo d’azione dei terroristi. A dieci anni di distanza da quell’11 settembre i vescovi tedeschi hanno deciso di fare un bilancio provvisorio della politica contro il terrorismo, fondato sull’etica della pace propria della Chiesa, che è anche sempre un’etica del diritto. Ora gli aspetti etico-giuridici del nostro insegnamento sulla pace emergono in primo piano nella discussione intellettuale con le strategie politiche per la lotta al terrorismo. Negli anni passati le Chiese cristiane hanno ripetutamente ricordato che lo sgomento e lo sdegno, indubbiamente giustificati, nei riguardi degli atti criminali dei terroristi non possono spingere le nostre società a scivolare in una spirale di violenza e contro-violenza. Questa motivazione centrale dell’etica della pace, così come è stata sviluppata dai vescovi tedeschi nel loro documento Pace giusta del 2000 (Regno-doc. 1,2001,27-62), è alla base di questo nuovo documento sul terrorismo. Noi crediamo che la Chiesa abbia un dovere particolare di opporsi con decisione alle tendenze a inimicare le religioni (un obiettivo che rientra nei calcoli dei terroristi islamici e dei loro consiglieri spirituali). 552 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 553 Ringrazio in modo particolare la commissione Weltkirche della Conferenza episcopale tedesca, che si è occupata della preparazione di questo testo, nonché gli studiosi coinvolti, che hanno offerto benevolmente le loro competenze e il loro lavoro. Mentre riflettiamo sui fondamenti etici e sugli aspetti giuridici della lotta contro la forza distruttrice della violenza terroristica non dimentichiamo le vittime. A loro va la nostra partecipazione. Non solo l’11 settembre 2001 e in occasione dei grandi attentati a Londra e a Madrid, ma in tutte le parti del mondo, negli anni scorsi, sono rimaste vittime di attentati terroristici innumerevoli persone. Molte hanno perso la vita o hanno riportato danni permanenti alla salute. A parenti e amici sono state addossate terribili sofferenze. A tutte queste persone va la nostra compassione. Noi le includiamo nella nostra preghiera. Bonn/Freiburg, 5 settembre 2011. ROBERT ZOLLITSCH, presidente della Conferenza episcopale tedesca Introduzione Gli attacchi terroristici che l’11 settembre 2001 hanno scosso il mondo segnano una cesura nelle relazioni internazionali e hanno prodotto effetti a lungo termine nella politica interna degli stati. L’opinione pubblica mondiale è stata profondamente colpita dalla violenza e dalla sofferenza causata in grandi città degli Stati Uniti e alcuni anni dopo in metropoli europee. E non colpiscono di meno altri brutali atti terroristici che continuano a essere compiuti in gran numero. Dopo gli attacchi di New York e di Washington la politica si è trovata evidentemente davanti a nuove sfide. Ma quali concezioni e strategie per la difesa a breve termine dai pericoli, nonché per il superamento a lungo termine della minaccia terroristica, sono idonee e moralmente praticabili? Sconvolti dagli avvenimenti, non pochi si sono mostrati pronti a usare la forza militare e persino a mettere in discussione le conquiste del diritto internazionale. Parecchi hanno visto nei principi fondamentali dello stato di diritto degli ostacoli al dovere della protezione dei cittadini da parte dello stato piuttosto che dei paletti irrinunciabili per lo sviluppo di una convivenza ordinata. Anche la Chiesa, soprattutto in un primo momento dopo gli attacchi negli Stati Uniti, ha avvertito l’esigenza di riflettere sulle sue posizioni in materia di etica della pace, per tener conto delle nuove realtà. Dopo una lunga fase di riflessione e consultazione, noi vescovi tedeschi ci colleghiamo con questo documento al testo fondamentale Pace giusta. In quel testo la sfida del terrorismo non gioca ancora un ruolo centrale, tuttavia esso offre orientamenti etici irrinunciabili per la ricerca di risposte alle nuove minacce. Questo nuovo documento episcopale affronta soprattutto questioni di etica del diritto a causa della mu- tata situazione della politica mondiale e del tema. Infatti molte proposte per la lotta al terrorismo e anche varie misure prese effettivamente dalla politica inducono a chiedersi se si tenga sufficientemente conto dei principi del diritto o se non si accantonino principi giuridici sperimentati per esigenze pratiche a breve termine. Una delle grandi concezioni dell’umanità, raggiunta con dure lotte e sofferenze, è indubbiamente la garanzia del rispetto della dignità dell’individuo mediante un’adeguata giurisprudenza e istituzioni giuridiche. La Chiesa ha partecipato intensamente a questo processo. Fin dai primi padri della Chiesa ha introdotto nel pensiero occidentale la «razionalità» della filosofia greca, stimolandola a sempre nuove acquisizioni. Ha promosso e preteso «il diritto» della tradizione romana come categoria importante della vita sociale. Non doveva essere l’arbitrio, bensì il diritto stabilito e scritto, vincolante per tutti – anche per il potere dello stato – a regolare la vita. L’offerta di Gesù Cristo sulla croce, sul Golgota, per amore dell’umanità ha introdotto nella storia la categoria della «misericordia basata sull’amore», che stimola la ratio sia a cercare il meglio per ogni persona sia a non corrompere il diritto, trasformandolo in «massima ingiustizia» (summum ius – summa iniuria); il diritto deve piuttosto servire alla giustizia per ognuno. Si può affermare che nella triade Areopago, Campidoglio e Golgota si trovano i fondamenti dell’Occidente, che la Chiesa ha contribuito a stabilire. Oggi la Chiesa si sente chiamata, come alle sue origini, a difendere questa triade e con essa anche il valore del diritto. Soprattutto nel XX secolo, il magistero della Chiesa ha ripetutamente sottolineato che la conservazione del diritto e la preservazione della dignità dell’uomo difendono in modo permanente dalla violenza. Si deve vedere in questo contesto anche il forte richiamo dei papi alle attuali organizzazioni internazionali a garantire la difesa della dignità e dei diritti di ogni uomo. In questo cammino della Chiesa assume un’importanza particolare l’enciclica Pacem in terris (1963). In essa il papa Giovanni XXIII ricordava i diritti dell’individuo come scopo specifico del bene comune: «Come il bene comune delle singole comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana. Per cui anche i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona» (n. 139; Regno-doc. 7,2003,206). A partire dal pontificato di Giovanni XXIII, non è più possibile escludere i diritti dell’uomo dall’etica della pace proposta dalla Chiesa. La dignità dell’uomo e la protezione della persona attraverso i diritti umani sono diventate l’obiettivo più importante dell’insegnamento sulla pace. Il papa Giovanni Paolo II non ha lasciato alcuna enciclica dedicata espressamente all’etica della pace. Ma anche il suo pontificato è stato caratterizzato dalla discussione di problemi relativi alla pace e all’ordina- IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 553 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 554 C hiese nel mondo 11 settembre: il papa all’arcivescovo di New York N el decimo anniversario dell’attentato terroristico che l’11 settembre 2001 distrusse il World Trade Center di Manhattan, Benedetto XVI ha indirizzato al card. Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, una lettera pubblicata su L’Osservatore romano l’11 settembre 2011. Grazia a lei e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo! In questo giorno, rivolgo i miei pensieri ai tristi eventi dell’11 settembre 2001, quando così tante vite innocenti sono andate perdute nel brutale attenato alle torri gemelle del World Trade Center e negli attacchi a Washington DC e in Pennsylvania. Mi unisco a lei nell’affidare le migliaia di vittime alla misericordia infinita di Dio onnipotente e nel chiedere al nostro Padre celeste di continuare a confortare quanti piangono la perdita dei loro cari. La tragedia di quel giorno è resa ancor più grave dalla rivendicazione dei suoi autori di agire in nome di Dio. Ancora una volta, bisogna affermare senza equivoci che nessuna circostanza può mai giustificare atti di terrorismo. Ogni vita mento giuridico internazionale. I suoi messaggi annuali per la Giornata mondiale della pace della Chiesa cattolica, il 1° gennaio, offrono complessivamente un importante compendio di etica cristiana della pace, che illustra tutte le sue sfaccettature. Con la sua particolare sensibilità per il cambiamento delle correnti culturali e spirituali, il papa Giovanni Paolo II ricordava già alcuni mesi dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 che «esiste un diritto a difendersi dal terrorismo», ma che questo diritto «deve rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi sia dei mezzi». E continuava: «L’identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi» (Messaggio per la XXXV Giornata mondiale della pace, n. 5; Regno-doc. 1,2002,3). Dopo le esperienze della politica contro il terrorismo degli anni seguenti e l’ingresso delle truppe americane in Iraq, il tono diventa chiaramente più incisivo: «I governi democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai principi di uno stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!» (Messaggio per la XXXVII Giornata mondiale della pace, n. 8; Regnodoc. 1,2004,4). Il papa ammoniva con chiare parole anche le religioni: esse «devono collaborare fra loro per eliminare le cause sociali e culturali del terrorismo, rifiutando a 554 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 umana è preziosa allo sguardo di Dio e non bisognerebbe lesinare alcuno sforzo nel tentativo di promuovere nel mondo un rispetto autentico per i diritti inalienabili e la dignità degli individui e dei popoli ovunque. Il popolo americano dev’essere lodato per il coraggio e la generosità che ha dimostrato nelle operazioni di soccorso e per a sua tenacia nell’andare avanti con speranza e fiducia. Prego con fervore affinché un fermo impegno per la giustizia e per una cultura globale di solidarietà aiuti a liberare il mondo dal rancore che così spesso scatena atti di violenza e crei le condizioni per una pace e una prosperità maggiori, offrendo un futuro più luminoso e più sicuro. Con questi sentimenti, porgo i miei saluti più affettuosi a lei, ai suoi fratelli vescovi e a tutti coloro che sono affidati alla vostra sollecitudine pastorale e imparto volentieri la mia benedizione apostolica quale segno di pace e di serenità nel Signore. Dal Vaticano, 11 settembre 2011. BENEDETTO XVI chi se ne rende partecipe ogni forma di legittimazione religiosa o morale» (Messaggio per la XXXV Giornata mondiale della pace, n.12; Regno-doc. 1,2002,5). La Chiesa del XXI secolo può quindi guardare a una lunga tradizione di discussioni etico-giuridiche sui problemi della violenza, a livello statale e internazionale. Nel corso della storia, essa ha ripetutamente ricordato che ogni atto del potere statale deve essere orientato al rispetto della dignità dell’uomo, che trova la sua espressione giuridica nei diritti dell’uomo. Anche nel loro confronto con la politica antiterroristica dell’ultimo decennio i vescovi tedeschi si sono lasciati guidare da questo pensiero fondamentale. Nel documento che ora presentiamo ci siamo sforzati di valutare le decisioni pratiche della politica estera e interna e lo sviluppo del diritto positivo con l’ausilio di quei criteri che lo stesso diritto mette a disposizione. Gli sviluppi degli anni scorsi corrispondono al compito del diritto di servire ad arginare e superare la violenza terroristica? Preservano o anche ampliano lo spazio di libertà che è iscritto nei diritti umani per la protezione della dignità dell’uomo? Noi vescovi siamo consapevoli che su molte questioni particolari occorrono considerazioni complicate e che concezioni politiche diverse, quando vengono motivate con cura, meritano rispetto. Le analisi e riflessioni a volte dettagliate, la cui lettura richiede al lettore attenzione e tempo, illustrano le difficoltà a pervenire su determinati temi a giudizi chiari. Esse non mirano a ottenere un rapido consenso, ma vogliono stimolare una riflessione comune e un proprio giudizio. 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 555 Comunque noi ci proponiamo con decisione di rafforzare il diritto come fondamento della nostra civiltà. Se in questo campo stati e società sono disponibili a fare degli sconti per poter perseguire più facilmente o impedire atti criminali, alla fine a vincere la battaglia non saranno la libertà e la pace, ma sarà il terrorismo. Bonn, 5 settembre 2011. LUDWIG SCHICK, presidente della commissione Weltkirche della Conferenza episcopale tedesca I. Breve descrizione del problema. Cambiamenti nella situazione mondiale L’11 settembre 2001 segna una netta cesura nella storia recente. In molti paesi le persone possono ricordare dove quel giorno hanno visto per la prima volta le immagini degli aerei che si schiantavano contro le «torri gemelle» del World Trade Center a Manhattan. L’attacco compiuto da terroristi islamici a New York e quello quasi contemporaneo, sempre con un aereo di linea dirottato, al Ministero della difesa a Washington, hanno fatto circa 3.000 vittime. Quasi subito si è scoperto che gli attacchi erano stati organizzati e realizzati dalla rete terroristica Al-Qaeda. Una cosa del genere non era mai successa. Gli Stati Uniti erano stati oggetto anche prima dell’11 settembre di singoli attacchi terroristici. Le loro strutture militari o civili all’estero erano state ripetutamente prese di mira dai terroristi. Solo gli attacchi coordinati alle ambasciate a Nairobi (Kenya) e Dar es Salaam (Tanzania), nell’agosto del 1998, avevano fatto varie centinaia di vittime. Ma all’attacco dell’11 settembre è stata attribuita fin dall’inizio una diversa qualità. Non solo per il numero delle vittime, che anche osservatori moderati come l’allora cancelliere tedesco Helmut Schmidt ha definito «un crimine colossale», ma anche per la percezione di innumerevoli persone a livello mondiale e per la reazione della politica, è stato considerato qualcosa di gran lunga più decisivo. I terroristi erano riusciti a portare la loro violenza distruttiva nel centro economico e politico dell’unica superpotenza rimasta dopo la fine della «guerra fredda» e, ancor più, a mostrare a tutta l’opinione pubblica mondiale, sugli schermi televisivi, le immagini delle loro azioni e delle loro distruttive conseguenze. Gli Stati Uniti, e con loro la maggior parte della comunità internazionale degli stati, hanno compreso l’azione proprio nel modo in cui l’avevano intesa i terroristi: una sorta di sfida finale alla civiltà occidentale, nonché alla potenza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ciò che è seguito è stato un crollo della temperatura politica, che ha cambiato profondamente la situazione del mondo e anche la politica interna di molti paesi. Nell’elenco delle priorità politiche è schizzata al primo posto la lotta al «terrorismo internazionale» (etichettata nel lin- guaggio politico degli Stati Uniti come «guerra», war on terror). Già il 12 settembre la NATO, per la prima volta nella sua storia, dichiarava che il fatto impegnava l’alleanza, per schierarsi a fianco degli Stati Uniti, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite equiparava l’attacco terroristico a New York e a Washington a un’aggressione militare esterna, alla quale si sarebbe dovuto reagire con un’autodifesa militare. Con la copertura della comunità internazionale degli stati, gli Stati Uniti intervenivano già nell’ottobre 2001 in Afghanistan, dove la rete terroristica Al-Qaeda, con l’approvazione del governo dei talebani, aveva trovato asilo e intratteneva una serie di campi di addestramento per i suoi «combattenti». Mentre le azioni militari in Afghanistan e il crollo del regime dei talebani in Occidente hanno avuto l’appoggio internazionale, così come il piano di avviare una stabilizzazione e trasformazione fondamentale di quel paese, le più ampie concezioni di politica estera dell’amministrazione del presidente americano George W. Bush hanno incontrato in ampie parti del mondo scetticismo e, in certi casi, addirittura un massiccio rifiuto. Questo ha riguardato, in particolare, l’intervento militare in Iraq cominciato nel marzo 2003, motivato da parte americana anche con il fatto che il dittatore iracheno Saddam Hussein sosteneva le organizzazioni terroristiche ed era in relazione – sia pure indirettamente – con i terroristi dell’11 settembre. Nella motivazione della decisione americana a favore della guerra giocava anche, accanto a questi collegamenti mai dimostrati fra il regime iracheno e AlQaeda, la visione politica di una ristrutturazione della regione del mondo caratterizzata dall’islam che si estende dal Nord Africa all’Indonesia. L’esperienza quotidiana di una statualità mal funzionante, della mancanza di libertà personale e di una gestione non democratica del potere avrebbe secondo gli USA favorito il consolidamento delle ideologie islamiche che avrebbero assunto comportamenti violenti sia all’interno degli stati islamici sia nei riguardi dell’Occidente. Perciò, la trasformazione dell’Iraq in un paese democratico, basato sullo stato di diritto e sull’economia di mercato, avrebbe prosciugato il terreno di coltura dell’estremismo e del terrorismo. Inoltre, da una riuscita modernizzazione di questo paese ci si aspettava un ampio irradiamento in tutto il mondo arabo e al di là di esso («effetto domino»). Non era certo che gli Stati Uniti volessero allargare il processo di trasformazione del «Grande Medio Oriente» mediante un ulteriore impegno militare verso i cosiddetti «stati canaglia» (Siria, Iran). In ogni caso nel 2002 l’amministrazione Bush adottava una strategia della sicurezza nazionale, che era caratterizzata dallo spirito dell’unilateralismo e metteva in discussione le competenze decisionali del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Al riguardo, l’opinione pubblica internazionale ha prestato una particolare attenzione all’autorizzazione datasi dall’amministrazione a rispondere militarmente alle situazioni di minaccia che già si profilavano, ma non erano ancora acute (preemptive strike). Il difficile, a volte addirittura catastrofico, andamento delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq, la sempre minore disponibilità della popolazione, anche negli IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 555 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 556 C hiese nel mondo Stati Uniti, a sostenere, o comunque ad accettare, questi impegni militari e, infine, il cambiamento dell’amministrazione nel gennaio del 2009, hanno fatto sì che scomparissero nuovamente dall’ordine del giorno i nuovi orientamenti fondamentali della politica estera e della politica della sicurezza degli Stati Uniti, che erano stati elaborati e introdotti a partire dall’11 settembre. Al momento non si può dire con certezza se le cose resteranno in questo modo. Non solo nella politica americana, ma anche nei think tank degli esperti influenti in campo politico continua a esservi una forte corrente, che vuole ricollegarsi con gli approcci «strategici» del decennio appena concluso. Ma l’11 settembre non ha prodotto solo cambiamenti nella politica estera e nella politica della sicurezza, ma anche nuove valutazioni nel campo della sicurezza interna. Questo vale in ugual misura anche per l’Europa. Gli attacchi ai treni a Madrid, che nel marzo 2004 hanno fatto quasi 200 vittime, e ai mezzi di trasporto pubblici a Londra, dove nel luglio 2005 vi sono stati 56 morti, sono solo una piccola parte del bilancio del terrorismo degli ultimi anni in Europa. Che anche la Germania sia un obiettivo dell’islamismo violento dovrebbe essere fuori di dubbio, perlomeno a partire dalla scoperta del «Gruppo Sauerland», che è stato processato nel 2010. Dopo l’11 settembre 2001 sono state emanate in Germania, in materia di sicurezza, molte nuove leggi, che hanno notevolmente ampliato lo strumentario della difesa dai pericoli. Negli anni scorsi, governi e parlamenti hanno emanato tutta una serie di cosiddette leggi e norme contro il terrorismo. Fra queste, maggiori controlli e regole più severe per i viaggi aerei (fino al discusso body scanner); estensione delle indagini di polizia e raccolta dati su determinati gruppi di persone; moltiplicazione delle telecamere per la sorveglianza dei luoghi pubblici; più ampie autorizzazioni alla polizia e ai tribunali a fare intercettazioni telefoniche e spiare computer e abitazioni. L’impressione di una mutata situazione in materia di sicurezza e la crescente sensazione di minaccia hanno assicurato a queste misure un ampio consenso da parte della popolazione. In questo modo si sono ampliate sempre di più le competenze della polizia nel campo di pericoli considerati reali. Mentre il raggio d’azione della polizia si estende in direzione delle competenze specifiche dei servizi segreti, questi ultimi, da parte loro, hanno ottenuto alcuni diritti di intervento classicamente riservati alla polizia. Così polizia e servizi segreti si sono avvicinati quanto a competenze e funzioni. E si è intensificato anche il flusso reciproco di informazioni. A causa dei confini sfumati e dell’abbassamento delle soglie di intervento, il controllo democratico e dello stato di diritto sulla polizia e l’intelligence risulta più difficile. Quanto siano precarie le decisioni da prendere e quanto sia stretta la cengia percorribile fra aspettative giustificate e azione preventiva degli organi di sicurezza per la difesa dal terrorismo, da una parte, e una limitazione o addirittura svuotamento dei diritti alla libertà individuale, che lo stato è obbligato a proteggere, dall’altra, lo dimostrano i giudizi della Corte costituzionale federale, 556 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 che ha chiesto ripetutamente al legislatore correzioni delle leggi in materia di sicurezza introdotte in seguito all’11 settembre. Fra l’altro, è stata dichiarata incostituzionale una legge che regolava l’abbattimento di aerei civili finiti in mano ai terroristi. Mentre la Corte costituzionale federale raccomanda una maggiore sensibilità nei riguardi dei diritti fondamentali, nella società, e anche nel mondo accademico, si levano voci contrarie, che spingono lo stato a interventi più drastici anche nel campo dei diritti dell’uomo e dei diritti fondamentali. Così alcuni pretendono di regolare in modo nuovo la tutela di vari doveri dello stato in materia di sicurezza attraverso un nuovo «diritto fondamentale alla sicurezza». Altri chiedono l’introduzione di un «diritto del nemico» per coloro che si pongono in modo aggressivo e violento contro il libero ordinamento fondamentale, e mettono in guardia da un «sentimentalismo della legalità», che impedirebbe l’effettiva protezione dei cittadini. Nonostante le esperienze degli Stati Uniti, la cui precedente amministrazione attraverso le sue norme ha favorito le pratiche di tortura e di umiliazione nel campo di Guantanamo e in quello iracheno di Abu Ghraib ed esposto gli Stati Uniti a una perdita di fiducia, a lungo andare insanabile, nei paesi musulmani, negli ultimi anni è sorta anche in Germania una discussione sul divieto incondizionato della tortura. Una valutazione alla luce dell’etica della pace e del diritto della lotta contro il terrorismo internazionale dovrà concedere, proprio se discute in modo critico le tendenze in politica interna e in politica estera degli anni scorsi, che da qualche tempo le società nei paesi occidentali si trovano a dover affrontare fenomeni minacciosi e distruttivi, per i quali non esistevano, e non esistono, risposte semplici, ma che rendono nondimeno necessarie misure di difesa. In realtà, finora è difficile concettualizzare il fenomeno chiamato «terrorismo internazionale» e comprenderne adeguatamente la portata e le cause. In questa sede non possiamo definire più precisamente ciò che si intende con terrore, terrorismo o terrorismo internazionale. Tuttavia si citano sempre vari elementi basilari quando si descrive il fenomeno: in questo documento intenderemo con terrorismo atti violenti contro persone civili non coinvolte o terze persone, i quali atti diffondono la paura e il terrore fra la popolazione o dovrebbero spingere i governi a intraprendere certe azioni o a rinunciarvi. Anche se, di fronte a circostanze molto complicate, non si può attendere una definizione generale approfondita per lottare contro il terrorismo, bisogna comunque ricordare che per navigare in alto mare occorre una bussola affidabile. Le esperienze dell’ultimo decennio dovrebbero aver mostrato che ancora non l’abbiamo. Perciò queste riflessioni tentano di predisporre una bussola, basandosi sull’etica della pace e sull’etica del diritto della Chiesa. Non si occupano di singoli problemi politici, ma si chiedono che cosa bisogna fondamentalmente considerare e tener presente perché: – una società libera possa sostenere lo scontro con avversari militanti, garantire la sicurezza e preservare al tempo stesso il proprio carattere libero; – un pensiero che contrappone «amico» e «nemico» 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 557 non diventi una categoria politica che domina su tutto, ma si possano piuttosto superare le inimicizie; – la comunità internazionale possa approfondire in modo affidabile le sue relazioni e così contribuire all’eliminazione di tensioni e alla costruzione della fiducia reciproca; – negli attuali sviluppi possa promuovere la modernizzazione dei paesi islamici del Medio Oriente, le cui condizioni sociali, politiche ed economiche offrono un terreno di coltura per l’estremismo e il terrorismo, e così evitare uno scontro fra le culture. Riflettendo su queste questioni, rafforziamo la prospettiva del documento programmatico Pace giusta, pubblicato dai vescovi tedeschi nel 2000. Questa Carta sull’etica della pace proposta e promossa dalla Chiesa conserva la sua validità. Le sue concezioni essenziali non sono superate. Allora come ora, per noi si tratta di affermare la precedenza della prevenzione della violenza sul ricorso a mezzi di tipo violento, considerare le misure militari come ultima ratio e incoraggiare l’ulteriore elaborazione e costruzione di un ordinamento internazionale basato sul diritto e sulla pace. Il documento Pace giusta non affrontava il tema del terrorismo internazionale. Ma già allora sottolineavamo che «il tipo per così dire classico di guerra, nel quale si affrontano eserciti regolari di stati nemici, ha perso gran parte della sua importanza».1 Constatavamo invece una diffusione delle potenzialità violente, un aumento dei conflitti violenti all’interno di certi stati e un conseguente rischio di erosione del monopolio statuale della violenza in molti luoghi del mondo. Questa perdita del monopolio della violenza da parte degli stati è proseguita e gradualmente aumentata. Sono sorte reti internazionali, spesso prive di un coordinamento centrale, ma tenute insieme da un’ideologia comune. Esse mirano consciamente a uccidere persone civili in tutto il mondo. Queste stragi indiscriminate mirano proprio a suscitare ansia e panico fra la popolazione, a intimidire i governi e influenzarne la politica. Anche la popolazione del nostro paese si sente minacciata da questa violenza. Contrastarla con decisione, senza perdere ciò che forma la nostra società e il nostro stato e che quindi occorre proteggere, è un compito che ci occuperà ancora a lungo. Noi siamo convinti che la dignità dell’individuo costituisce al riguardo un immutato quadro di riferimento, che non permette di escludere nessuna persona dalla comunità di diritto. La dignità dell’uomo esige piuttosto il superamento dell’inimicizia come fenomeno sociale e politico. Bisogna valutare tutte le misure di lotta al terrorismo in base a questo obiettivo. Come è indispensabile un’efficace protezione della popolazione dagli attentati terroristici, così è irrinunciabile l’orientamento di tutte le misure di sicurezza alla dignità dell’uomo. Ciò vale sia per le misure nazionali sia per tutte le decisioni che vengono prese nel campo del diritto 1 VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, 11.10.2000, n. 6; Regno-doc. 1,2001,29. 2 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, cost. past. Gaudium et spes (GS) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 76; EV 1/1583. internazionale durante il processo di coordinamento. Il diritto nazionale e quello internazionale hanno il dovere di mettere a disposizione, nell’orientamento alla dignità dell’uomo, efficaci strumenti di difesa. La Chiesa cattolica ritiene che «sempre e dovunque sia suo diritto (…) dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine pubblico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime».2 Con il nostro documento Pace giusta abbiamo proposto una concezione dell’etica della pace, che offre un quadro orientativo fondamentale per la politica della pace nell’epoca post-guerra fredda. Ora questo paradigma di una pace giusta ci serve a prendere posizione anche sulle difficili questioni della difesa dal terrorismo. Affronteremo, in particolare, questioni fondamentali dell’architettura dell’ordinamento giuridico statale e internazionale. Infatti, siamo convinti che il diritto è «un elemento centrale della politica di prevenzione della violenza».3 Le nostre riflessioni cercano di affrontare, sulla base dell’etica della pace proposta dalla Chiesa, questioni che o riguardano direttamente la difesa della dignità umana, o si riferiscono al suo nucleo centrale. Vogliamo delimitare il quadro nel quale deve muoversi il diritto legittimo. II. La lotta al terrorismo. Prospettive dell’etica della pace 1. L’at tualità del concet to «pace giusta»: prevenzione della violenza come dovere etico prioritario Dopo l’11 settembre 2001 a non poche persone, a volte anche nei contesti ecclesiali, è sembrata plausibile l’idea secondo cui quell’avvenimento e le sue conseguenze avevano messo radicalmente in discussione la concezione dell’etica della pace delle Chiese cristiane. L’avvenimento non dimostrava forse chiaramente che non si poteva cambiare nulla nelle realtà del «mondo intriso di violenza»,4 nel fatale intreccio di sempre nuova violenza e controviolenza, nonostante tutti gli sforzi per la costruzione di strutture di pace giusta? Le Chiese avevano chiesto insistentemente il superamento dell’istituto della guerra e di incentrare, più di quanto non si fosse fatto in precedenza, l’argomentazione morale sulle condizioni che rendono possibile la pace. Ora non poche persone pensavano di dover consigliare le Chiese di abbandonare nuovamente questo cambiamento di prospettiva che avevano appena elaborato. A loro avviso, il servizio che ora dovevano rendere allo stato e alla società doveva consistere soprattutto in un’attualizzazione della tradizione della guerra giusta 3 4 VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 64; Regno-doc. 1,2001,45. VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 55; Regno-doc. 1,2001,43. IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 557 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 558 C hiese nel mondo in modo tale da permettere decisioni chiare in materia di uso dei mezzi violenti, ma anche di legittimarlo, nelle condizioni della nuova situazione che si era venuta a creare. Seguire questo consiglio equivarrebbe ovviamente a stravolgere gravemente le intenzioni e i contenuti della concezione proposta nel documento Pace giusta. Infatti, in quella concezione si tratta sia di prendere sul serio il non-valore della violenza bellica, soprattutto alla luce delle sue dinamiche intrinseche, sia di comprendere che non si può eliminare dal mondo solo in forza di questo rifiuto etico il problema di conflitti violenti che riesplodono sempre di nuovo. Proprio per questo bisogna sviluppare, nell’etica della pace, una posizione tale da non poter essere ridotta in definitiva a un’opzione fondamentale che accetta la violenza, un’opzione che, come è accaduto spesso riguardo alla tradizione della dottrina della guerra giusta, possa diventare facilmente vittima della strumentalizzazione politica. Nel documento Pace giusta abbiamo formulato i concetti decisivi, dai quali prende avvio la prospettiva basilare della pace giusta, in questo modo: «Nelle mutate condizioni a livello di politica mondiale diventa un compito prioritario la ricerca di strade che consentano l’elaborazione dei conflitti al fine di evitare o limitare la violenza. Al riguardo, non dovrebbe esistere alcun insormontabile dissenso fra coloro che rifiutano radicalmente l’uso della forza e coloro che la permettono in casi estremi. Infatti, il fatto che l’uso della forza vada preso in considerazione solo quando sono falliti tutti gli altri tentativi pacifici di comporre il contrasto significa, in positivo, che ogni tentativo di impedire la violenza è non solo raccomandato, ma strettamente obbligatorio. In ogni caso vale il principio fondamentale secondo cui la politica preventiva è preferibile al successivo contenimento dei danni. Occorre comunque rendere operativa anche questa precedenza fondamentale, accordata alla prevenzione della violenza, indicandone le conseguenze sul piano politico, giuridico e istituzionale. Qui si apre un ventaglio di compiti ampio che coinvolge varie discipline. Si va dall’allarme tempestivo alle procedure di contenimento dei conflitti fino alla gestione della crisi con supporto militare».5 Perciò, nella logica di questa concezione della prevenzione e della riduzione al minimo della violenza, bisogna riflettere eticamente anche sui mezzi e i modi di un’adeguata trattazione del problema del terrorismo internazionale. Solo allora si potranno comprendere il significato e il peso di domande come queste: – la disponibilità dei terroristi alla violenza si nutre di abusi sociali e/o politici, ai quali si può e si deve porre rimedio? – In tutte le misure che in questo contesto sono state, e sono, esaminate o applicate, si è valutato seriamente quanto esse possano essere controproducenti, quindi – ad esempio, riguardo al fomentare il risentimento già presente anche indipendentemente dalle stesse – quanto rischiano globalmente di accrescere ulteriormente il male del terrorismo da combattere? – Questo vale in modo comparabile per altre conseguenze non intenzionali, ma inevitabili, di determinate 558 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 misure, ad esempio per il fatto che una misura del genere promette sì di arginare il male del terrorismo, ma con un prezzo politico e morale troppo alto? Si diffonde sempre più l’idea che tutte le strategie repressive della lotta al terrorismo abbiano senso ed efficacia solo nel contesto di un quadro politico, che miri all’eliminazione delle cause primarie di una tale disponibilità alla violenza. 2 . La protezione della dignità dell’uomo e la garanzia dei dirit ti umani come fondamenti di legit timità della lot ta al terrorismo Negli ultimi anni si è molto pubblicato e anche discusso sulla tensione fra ordinamento costituzionale liberal-democratico e interesse a una sua protezione attraverso, all’occorrenza, estesi provvedimenti di sicurezza, che rischiano di minare le strutture liberali e democratiche. Ma c’è di più. A volte un segno distintivo delle strategie terroristiche è proprio quello di sfruttare questa tensione e di attirare lo stato, nel suo tentativo di difendersi, nella trappola di un processo di trasformazione, nel quale alla fine si perde ciò che costituisce la sua essenza degna di protezione e di difesa: un ordinamento pubblico conforme ai diritti dell’uomo che limita al minimo le intromissioni nelle libertà personali dei cittadini. Ad esempio, lo scontro con la Rote-ArmeeFraktion (RAF) in Germania negli anni 1970 e 1980 era determinato essenzialmente da questo motivo. Il compito dei responsabili, da parte dello stato, consisteva nell’assicurare una lotta efficace al terrorismo, senza che questo minasse il fondamento di legittimità dello stato, il suo ordinamento costituzionale. In altri termini: se si risolvesse tutta la tensione unicamente a favore dell’aspetto della sicurezza, si creerebbe al tempo stesso una situazione nella quale i terroristi potrebbero ritenersi confermati nel raggiungimento di uno dei loro obiettivi più importanti. Perciò fatalmente uno stato globale di sicurezza non aprirebbe la prospettiva di un superamento del terrorismo, ma finirebbe per capitolare davanti a esso. In definitiva si lascerebbe dettare dal terrorismo le forme politiche in base alle quali reagire allo stesso. È quindi evidente il fatto e il motivo per cui il punto di partenza dell’argomentazione delle Chiese, in materia di etica della pace, cioè la dignità di persona di ogni essere umano e l’importanza del criterio del diritto per la protezione di questa dignità6 non hanno perso nulla del loro carattere vincolante anche in relazione alla problematica del terrorismo. «Il modello della pace giusta si basa su una visione tutto sommato molto semplice: un mondo nel quale alla maggior parte degli uomini viene negato ciò che serve a condurre una vita degna dell’uomo non è un mondo capace di futuro. Esso è immerso nella violenza, anche se non c’è alcuna guerra. Rapporti di grave, persistente ingiustizia sono di loro natura rapporti che grondano violenza e generano violenza (…) L’intima reciproca relazione fra giustizia e pace (…) reca in sé sia la possibilità di una politica della prevenzione della vio- 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 559 lenza, sia il dovere di realizzarla».7 Occorre sottolineare questo concetto, perché nelle attuali discussioni sul problema del terrorismo esso finisce spesso ai margini e si nota, inoltre, una tendenza chiaramente riconoscibile a relativizzare la protezione della dignità dell’uomo e la garanzia dei diritti umani nel loro significato centrale per la struttura di legittimità degli ordinamenti politici. Nell’uso del monopolio della violenza, lo stato di diritto democratico si assoggetta a condizioni giuridiche, il cui rispetto viene controllato mediante meccanismi di separazione dei poteri, nonché mediante un collegamento dell’azione politica all’opinione pubblica democratica. L’introduzione di un monopolio statale della violenza vincolato giuridicamente, che ha permesso di superare il farsi giustizia da sé e il diritto del più forte e di pacificare la società, rappresenta una conquista di civiltà. Ciò che è in gioco nella perdita del monopolio della violenza statale esercitata nell’ambito del diritto lo dimostrano le spaventose condizioni degli «stati disgregati», nei quali i signori della guerra e le organizzazioni mafiose prendono il comando, senza garantire neppure una sicurezza precaria. Il riconoscimento della dignità dell’uomo da parte dello stato di diritto e della comunità di diritto che lo sostiene ha, da parte sua, delle motivazioni. Da una parte si tratta di motivazioni dettate dall’esperienza, dall’altra si può mostrare che il valore fondamentale della dignità dell’uomo è il presupposto implicito di tutti gli obblighi normativi, anche giuridici. Poiché sono basati sulla dignità «inviolabile» dell’uomo, inoltre, i diritti fondamentali o diritti umani occupano un posto particolare. Sono «inalienabili». In questo senso non solo sono fissati nella Costituzione, ma mostrati ancor prima nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (1948). Il preambolo si apre con quest’affermazione: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Oggi malgrado queste affermazioni si chiede una relativizzazione dell’importanza della protezione dei diritti dell’uomo non più solo in singoli stati, ma anche nel quadro del discorso politico internazionale sulla pretesa universalità dei diritti umani. A partire da motivazioni diverse si incontrano al riguardo informazioni sia implicite che esplicite su un’obbligatorietà solo particolare – perlomeno de facto – del rispetto della pretesa giuridica dei diritti umani, quindi l’idea che i diritti dell’uomo varrebbero nel sistema di riferimento sociale, politico e culturale degli stati di tipo occidentale, ma non in altri luoghi del mondo. Non di rado questa riflessione viene condotta al punto di affermare che persino il tentativo di proteggere dalla violazione di diritti umani fondamentali persone che vivono in luoghi diversi dal mondo occidentale equivale a un’intromissione nel diritto di autodeterminazione dei relativi stati e società coinvolte. 5 VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 66; Regno-doc. 1,2001,45. Cf. VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 57ss; Regno-doc. 1,2001,44. 6 Tuttavia le Nazioni Unite hanno chiaramente riconosciuto in tutta una serie di documenti la validità universale dei diritti dell’uomo. Hanno sottolineato con forza l’obbligatorietà universale, presupposta da ogni ordinamento giuridico statale, di proteggere le persone in tutto il mondo da violazioni particolarmente gravi della loro dignità e dei loro diritti: di proteggerle da «genocidio, crimini di guerra, pulizie etniche e crimini contro l’umanità».8 Questo è stato proclamato con forza nella Risoluzione 60/1 dell’Assemblea generale del settembre 2005 come dovere della comunità degli stati. Tuttavia bisogna constatare che la protezione dei diritti umani nella prassi politica è sempre più sotto pressione, una pressione esercitata non di rado anche da un risentimento basato su esperienze negative nei confronti degli stati del mondo occidentale. Essi sono accusati in blocco di interessarsi ai diritti umani solo per camuffare il perseguimento di interessi del tutto diversi, cioè interessi tradizionalmente orientati al potere e all’influenza. 3. L’intervento della Chiesa a favore del valore universale e della protezione dei dirit ti dell’uomo Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 18 aprile 2008, il papa Benedetto XVI fece un riferimento diretto a questa discussione. Disse fra l’altro: «Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e di ogni donna trovano oggi una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere (…) Ogni stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura sia dall’uomo. Se gli stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata o come una limitazione di sovranità. Al contrario, sono l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale (…). La vita della comunità, a livello sia interno sia internazionale, mostra chiaramente come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il rapporto fra giustizia e ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto. La promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata impunemente, divengono facile preda del 7 VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 59; Regno-doc. 1,2001,44. CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE, Risoluzione 60/1, 16.9.2005, 139. 8 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 559 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 560 C hiese nel mondo richiamo alla violenza e possono diventare in prima persona violatrici della pace».9 In questo discorso, il papa conferma la posizione della Chiesa cattolica riguardo all’estensione e all’importanza dei diritti dell’uomo, così come era stata formulata nell’enciclica Pacem in terris (1963) dal papa Giovanni XXIII e poco dopo nella costituzione pastorale Gaudium et spes del concilio Vaticano II, soprattutto la convinzione della validità universale di questi diritti: «Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere a una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti».10 Il compito è quindi quello di confutare, con un’argomentazione in grado di mostrare l’importanza di questi diritti e della loro garanzia in altri contesti diversi da quello occidentale, i tentativi di contestazione dell’universalità dei diritti dell’uomo, contestazione in genere molto più politica che originariamente culturale. Decisive dovrebbero essere al riguardo le esperienze che, nello stesso mondo occidentale, hanno condotto alla scoperta dei diritti dell’uomo come fondamento di legittimità degli ordinamenti politici, cioè le esperienze di sofferenza e ingiustizia sia individuali sia collettive, che si fanno regolarmente là dove mancano le fondamentali assicurazioni dei diritti dell’uomo. L’universalità della concezione dei diritti dell’uomo si basa essenzialmente sull’universalità di quelle esperienze negative, che questi diritti vogliono prevenire o alle quali vogliono rimediare. Una relativizzazione dei diritti umani mediante un rinvio a differenze culturalmente condizionate si rivela di regola insostenibile, se si dà realmente la parola alle vittime delle violazioni dei diritti dell’uomo in contesti culturali diversi da quello occidentale: esse attestano che anche lì queste ferite comportano una profonda umiliazione, una violazione della dignità umana e che le ferite dell’anima provocate in questo modo guariscono più difficilmente della maggior parte dei danni arrecati al corpo. Questa visione offre il punto di partenza appropriato per un dialogo sui diritti dell’uomo che sovrasta e ingloba tutte le culture. Occorre al tempo stesso condurlo, proprio in vista di prevedibili controversie, nel rispetto del patrimonio culturale delle tradizioni diverse da quella occidentale, per evitare che la preoccupazione della realizzazione universale dei diritti dell’uomo sia screditata fin dall’inizio dal modo in cui si svolge il dialogo. La dignità dell’uomo e i diritti umani che la assicurano non sono beni da valutare in relazione ad altri beni, giungendo persino a considerarli secondari rispetto ad essi. La loro protezione deve costituire il quadro di riferimento normativo, sul quale misurare gli sviluppi politici di ogni sorta e anche le misure per la lotta contro il terrorismo internazionale: «Nello stesso senso, la dottrina moderna dei diritti umani stabilisce condizioni minime per un’esistenza umanamente degna, condizioni a partire dalle quali si deve valutare eticamente ogni legisla- José-Román Flecha Andrés Il Dio degli anziani I l testo disegna gli orizzonti della vecchiaia, profondamente mutati nella società contemporanea, e raccoglie i passi fondamentali sul tema presenti nella rivelazione biblica e nel magistero recente della Chiesa. Per chiarire il senso della vecchiaia cristiana, illuminata dalla speranza. «Itinerari» pp. 296 - € 27,00 Nella stessa collana: Alfio Mariano Pappalardo Chi non è ospitale non è degno di vivere Suggestioni per una spiritualità dell’accoglienza pp. 224 - € 19,50 EDB Edizioni Dehoniane Bologna Via Nosadella 6 - 40123 Bologna Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099 www.dehoniane.it 560 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 561 zione concreta».11 Perciò una critica su proposte di innalzamento del livello della sicurezza interna in Germania che siano problematiche dal punto di vista dei diritti fondamentali, ma anche di pratiche internazionali nella lotta contro il terrorismo che violino i diritti umani fondamentali delle persone sospettate di terrorismo, non costituisce uno sconfinamento delle competenze del ministero ecclesiale nel campo della politica, ma un esercizio del compito stesso della Chiesa. Infatti, «nel punto di incontro fra la missione della Chiesa e il compito politico si trova il rispetto della dignità dell’uomo».12 Inoltre, nella necessaria attenzione al pericolo che nella lotta al terrorismo si mini il fondamento di questa lotta dal punto di vista dei diritti dell’uomo, convergono riflessioni etiche e calcolo politico: quanto una pratica contraria ai diritti dell’uomo abbia ripercussioni fatali a breve termine è apparso chiaramente negli anni scorsi in una serie di scandali, con le loro estese conseguenze per la riputazione degli attori coinvolti. Così la credibilità politico-morale della lotta al terrorismo è stata gravemente intaccata su un punto decisivo e questo conferirà un vantaggio a coloro che comunque cercano di screditare il modello politico occidentale. Bisogna ricordarlo nel caso in cui dovesse riuscire il tentativo di contrastare in modo sostenibile i fattori predisponenti della violenza terrorista. 4. Solidarietà internazionale come prevenzione delle esperienze di violenza Occorre adottare condizioni generali di «garanzia dei diritti umani» – sia all’interno degli stati sia a livello internazionale – non solo perché la protezione dei diritti umani e la prevenzione della violenza sono strettamente connesse. Già nell’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) si legge: «Ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati». Quindi non basta una garanzia legale di questi diritti finché mancano i presupposti politici, economici e sociali per poter realizzare queste garanzie. In molti paesi si può parlare di una vera e propria «sindrome del sottosviluppo», nella quale determinati effetti negativi si rafforzano continuamente a vicenda come in un circolo vizioso. Infatti spesso lì mancano quelle caratteristiche strutturali, che potrebbero permettere al governo di perseguire il benessere di tutti i cittadini e non solo gli interessi delle classi dirigenti («good governance»). Con le carenze in questi settori va di pari passo una predisposizione alle catastrofi naturali di ogni sorta. Anche i notevoli danni ambientali possono essere ricondotti continuamente alla generale situazione di povertà e miseria. Proprio per questo oggi l’idea della solidarietà inter9 BENEDETTO XVI, Discorso alle Nazioni Unite, 18.4.2008; Regnodoc. 9,2008,271-272. 10 BENEDETTO XVI, Discorso alle Nazioni Unite, 18.4.2008; Regnodoc. 9,2008,272. nazionale deve rappresentare il punto di vista decisivo per le concezioni della cooperazione allo sviluppo. Qui si tratta di forme attive di impegno e di aiuto, che pongano finalmente i popoli e gli stati svantaggiati in condizione di consolidarsi e di svilupparsi con le loro forze. Le misure solidali della comunità internazionale per la lotta alla povertà e all’insufficienza alimentare – e così anche al tempo stesso alle carenze che le accompagnano – devono mirare alla costruzione di sistemi di sicurezza sociale efficienti, alla riduzione della corruzione, allo stabilimento della sicurezza giuridica, ai miglioramenti nel campo dell’educazione e della formazione, alla possibilità della crescita anche in economie in via di sviluppo, nonché alla protezione dei fondamenti naturali della vita. In questa misura esse si possono comprendere come elementi di una strategia per l’assicurazione dei beni collettivi, di una strategia dal cui successo ci si possono aspettare ampie e profonde ripercussioni sullo sforzo per la prevenzione della violenza nel sistema internazionale. 5. Passi verso la comprensione anziché il consolidamento di modelli interpretativi antagonistici Nel contesto della lotta al terrorismo occorrono, inoltre, maggiori sforzi per impedire che gli scontri unilaterali o anche bilaterali vengano sempre più interpretati erroneamente come una conferma della tesi del presunto inevitabile «scontro delle culture» (cf. Samuel Huntington). Infatti a determinare spesso l’iter delle decisioni politiche non sono necessariamente i fatti dimostrabili, ma le interpretazioni dominanti. Esse creano così nuove realtà, che rischiano di ridurre ulteriormente le prospettive di una fine dei conflitti violenti. Parecchie correzioni di falsi modelli interpretativi sono necessarie anche nelle opinioni pubbliche dell’Occidente. Soprattutto non si può suggerire un’equiparazione fra le convinzione di fede musulmane e una disponibilità quasi illimitata alla violenza. Gli attentati terroristici dell’ultimo decennio sono stati decisamente criticati e rifiutati da molti musulmani in tutto il mondo, e anche da importanti autorità religiose. Questo non rende meno problematica l’interpretazione radicale del termine jihad in vari circoli musulmani, ma essa può essere criticata a partire dagli stessi principi dell’islam e non viene condivisa dalla maggior parte dei musulmani, benché la crescita di minoranze radicali debba preoccupare. Le Chiese e le comunità religiose possono e devono contribuire alla conservazione, e possibilmente, al consolidamento, di una chiara distanza dalla disponibilità alla violenza. Devono accordarsi, anche nel campo del dialogo interreligioso, su un’interpretazione delle loro tradizioni, che mostri chiaramente che in ogni appello all’inimicizia e all’odio basato sulla religione ci si richiama indebitamente alle verità della rivelazione. 11 12 VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 76; Regno-doc. 1,2001,46. VESCOVI TEDESCHI, Pace giusta, n. 58; Regno-doc. 1,2001,44. IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 561 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 562 C hiese nel mondo Diventa, inoltre, sempre più importante affrontare le cause profonde per cui molti musulmani percepiscono il comportamento «dell’Occidente» come aggressivo e si sentono da esso umiliati. Si tratta non solo del ricordo della storia non elaborata della politica coloniale europea nei paesi musulmani, ma anche di una riflessione critica sulle categorie dell’attuale linguaggio politico, ad esempio, sull’espressione «guerra contro il terrorismo». In definitiva, si possono ridurre i pericoli del terrorismo solo contrastando i fattori primari che causano la violenza politica. Ogni forma di violenza terroristica ha bisogno di un ambiente politico, che le esprima simpatia e la favorisca. Bisogna influenzare quest’ambiente con una politica caratterizzata da empatia verso le preoccupazioni e le necessità delle persone, realizzando così alternative al ricorso alla violenza. L’odio e la violenza prosperano specialmente là dove la maggior parte delle persone vive in condizioni di povertà e miseria, si sente sradicata, non vede alcuna prospettiva per il futuro e deve sperimentare una continua violazione dei diritti elementari. Che sia sempre più urgente eliminare queste carenze politiche e sociali, esattamente identificabili, lo sottolineano con forza anche quelle analisi del problema del terrorismo, che mirano anzitutto a scelte operative efficaci a breve termine. La constatazione di quanto limitata e in parte controproducente appaia la loro efficacia, induce a prestare maggiore attenzione alle strategie «indirette». Questo lavoro su solide correzioni a lungo termine di sistemi politici e sociali carenti non richiederà solo un’intensa collaborazione fra l’Europa e gli Stati Uniti. Richiederà anche nelle rispettive società una lobby che mantenga sveglia la consapevolezza dell’importanza di questi compiti di fronte alla casualità delle congiunture tematiche politiche. Non si può certamente pensare di poter eliminare completamente il problema del terrorismo, ma si dovrebbe conseguire una notevole riduzione di questa minaccia già per il fatto di sottrarle presunte giustificazioni. III. Libertà e sicurezza nello stato di diritto 1. Liber tà e sicurezza. Nessun antagonismo astrat to, ma conf lit ti concreti Solo in collegamento con i diritti alla libertà il monopolio statale della violenza acquista il carattere proprio dello stato di diritto. La libertà è «vivibile» solo in un ordinamento statale pacifico, che per garantirne la validità deve, in caso di necessità, minacciare l’uso della coercizione e anche ricorrervi. Perciò diritti alla libertà e politica della sicurezza statale non sono assolutamente in una relazione di contrapposizione astratta, come a volte si afferma. 562 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 Nello stesso tempo, anche le garanzie giuridiche umane cozzano continuamente contro i loro limiti. Possono scontrarsi fra loro o entrare concretamente in tensione con altri beni giuridici elevati, fra cui il compito dello stato di garantire la sicurezza. Sulle difficili questioni che ne derivano si discute e decide nei parlamenti e nei tribunali. Perciò i diritti umani non sono completamente sottratti alle procedure della negoziazione. Il loro elevato valore è dimostrato piuttosto da una serie di garanzie tese ad assicurare che i diritti umani siano preservati anche nella loro inviolabilità. Affinché il rinvio, giusto e banale al tempo stesso, al fatto che anche la libertà garantita dal diritto alla luce della contingenza delle condizioni della vita umana può essere solo una libertà finita, limitata, non conduca a interventi a caso o addirittura ad atti che svuotano di fatto i diritti fondamentali alla libertà, occorrono determinate garanzie, cioè chiari criteri e limiti all’interno dei quali devono muoversi possibili valutazioni e limitazioni. 2 . Limiti della riducibilità dei dirit ti alla liber tà Alcune norme relative ai diritti umani non possono essere assoggettate per principio ad alcuna limitazione o intervento. Un caso paradigmatico è soprattutto il divieto della tortura.13 Anche riguardo a quelle disposizioni che non valgono in modo assoluto, vi sono nuclei protetti in modo assoluto. Lo ha ricordato la Corte costituzionale federale, ad esempio, nella sua decisione del 2004 sull’«Operazione grande ascolto» (che ha legalizzato la sorveglianza costante, in certe condizioni, con microfoni e telecamere; ndr). Sul diritto relativo all’inviolabilità dell’abitazione, la Corte afferma: «L’abitazione privata, come “ultimo rifugio”, è un mezzo per preservare la dignità dell’uomo. Questo non esige un’assoluta protezione dei locali dell’abitazione privata, ma un’assoluta protezione del comportamento in questi locali, nella misura in cui esso si presenta come espressione individuale nel nucleo intimo della configurazione della vita privata». Anche là dove sono possibili, in linea di principio, limitazioni dei diritti umani, esistono comunque garanzie sostanziali e istituzionali, miranti ad assicurare che queste limitazioni non intacchino il contenuto essenziale dei rispettivi diritti umani e restino globalmente controllabili in un quadro sostenibile, nonché nei loro effetti. Così in alcune norme relative ai diritti umani le limitazioni o gli interventi legittimi possibili nella sostanza sono elencati alla fine; anche il legislatore è tenuto al rispetto di quell’elenco e non può oltrepassarlo. Un’ulteriore garanzia consiste nell’obbligo fatto al legislatore di formulare, nel quadro delle possibili limitazioni legislative dei diritti umani, chiare norme corrispondenti, in modo che le persone colpite possano opporsi a eventuali interventi e, all’occorrenza, adire anche alle vie legali. Non deve succedere che le autorità intervengano di propria iniziativa negli ambiti protetti dei diritti umani; nelle questioni relative a possibili limitazioni dei diritti umani bisogna piuttosto coinvolgere il legislatore parlamentare, il quale deve pubblicamente discutere e decidere in merito. 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 563 Il principio della proporzionalità, centrale per lo stato di diritto, richiede che le eventuali limitazioni o interventi servano a uno scopo importante e legittimo e siano, inoltre, idonee, necessarie e adeguate per il suo raggiungimento. Il criterio dell’«idoneità» deve, fra l’altro, escludere misure legislative o amministrative semplicemente simboliche, che magari servono unicamente a dimostrare la determinazione politica. Il criterio della «necessità» esige la continua ricerca dell’intervento più leggero per il raggiungimento di un obiettivo politico relativo alla sicurezza. Una misura politica in materia di sicurezza, che potrebbe essere chiaramente raggiunta anche con un intervento meno invasivo, sarebbe quindi sproporzionata e illegittima. Infine, il criterio della «adeguatezza» (detta per lo più «proporzionalità in senso stretto») comprende il dovere di mantenere gli interventi, dal punto di vista sia della loro profondità sia della loro ampiezza, in un quadro adeguato. Attraverso i suoi tre sottocriteri – idoneità, necessità, adeguatezza – il principio di proporzionalità opera come una sorta di «test di sopportabilità della libertà». Si dovrebbero, inoltre, ricordare le riserve dei giudici, che rappresentano una specifica soglia istituzionale per eventuali interventi. Infine, si devono mettere a disposizione strumenti giuridici che permettano alle persone colpite di potersi opporre efficacemente agli interventi. Ne fanno parte i diritti di informazione, la possibilità di adire le vie legali fino alla Corte costituzionale federale e, al di là di essa, alla Corte europea per i diritti dell’uomo o agli organi preposti ai ricorsi presso le Nazioni Unite. 3. Un dirit to alla sicurezza? L’importanza del compito spettante allo stato in materia di garanzia dei diritti umani ha recentemente indotto a chiedersi con maggiore insistenza se non fosse sensato introdurre uno specifico diritto fondamentale dell’uomo alla sicurezza. A parte il fatto che né le Convenzioni ONU sui diritti umani, né il sistema europeo dei diritti dell’uomo, né la sezione sui diritti fondamentali della Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca offrono un solido appiglio per un tale diritto umano (o fondamentale) alla sicurezza, esso si rivela una categoria problematica soprattutto dal punto di vista sistematico. In termini strettamente formali, si può affermare che il concetto di «diritto alla sicurezza» da una parte è troppo ristretto, dall’altra è collocato troppo in alto. Il concetto è troppo ristretto rispetto alla responsabilità dello stato per la garanzia di tutti i diritti umani. Se lo stato ha il compito di assicurare i diritti alla vita, alla libera espressione delle opinioni, alla proprietà, alla libertà di associazione ecc., sembra difficilmente plausibile aggiungere ancora uno specifico «diritto alla sicurezza». La funzione protettiva dello stato riguarda tutti i diritti e non si trova accanto a essi come un’esigenza giuridica separata. Inoltre, un tale accostamento categoriale nasconde – seconda perplessità – il rischio che il compito della sicurezza si scolleghi dal suo ordinamento funzionale ai diritti alla libertà e diventi un obiettivo in sé. In questo caso, la relazione fra sicurezza e diritti alla libertà non sarebbe più pensata come relazione fra mezzo e fine, bensì come relazione fra obiettivi politici ultimi dotati dello stesso valore e potenzialmente concorrenti. Ma in tal modo la struttura dello stato di diritto si sposterebbe notevolmente. La politica della sicurezza non sarebbe più al servizio dei diritti alla libertà fondati sulla dignità dell’uomo, ai quali essa sarebbe al tempo stesso normativamente ricollegata, ma avrebbe il suo proprio significato accanto ai diritti alla libertà. Perciò, in caso di conflitto fra politica della sicurezza e diritti alla libertà, il peso dell’argomentazione non ricadrebbe più su coloro che propugnano misure che limitano la libertà. Non spetterebbe più a loro mostrare concretamente che le misure proposte sono sia necessarie sia anche, perlomeno nel loro nocciolo, compatibili con i diritti alla libertà. Vi sarebbe invece il rischio di accreditare più o meno a piacimento diritti alla libertà e interessi alla sicurezza, con questi ultimi rivalutati sotto il titolo di diritto alla sicurezza. Non sembra quindi sensato formulare l’irrinunciabile funzione politica della sicurezza dello stato come esigenza di un diritto fondamentale. 4. Stato di dirit to come strut tura di solidarietà Lo stato di diritto come tale, ricollegato alla dignità dell’uomo, è anche espressione istituzionale della solidarietà sociale, dato che attraverso di esso ottiene riconoscimento e protezione la libertà di tutti, specialmente la libertà dall’emarginazione e dalla discriminazione. Un eventuale smantellamento dello stato di diritto colpirebbe certamente in generale tutti i membri della comunità di diritto, ma avrebbe probabilmente conseguenze più o meno gravi per i cittadini e in non cittadini, per i membri delle maggioranze o minoranze etniche o religiose, per le persone con o senza una storia di emigrazione alle spalle. Mentre lo sviluppo dello stato sociale viene espressamente discusso nell’ambito dell’opinione pubblica dal punto di vista della solidarietà sociale, il concetto di solidarietà nei dibattiti sullo stato di diritto non gioca praticamente alcun ruolo. Nel contesto dello stato sociale si definisce la solidarietà come disponibilità di coloro che, ad esempio, personalmente rischiano poco (o nulla) di perdere il lavoro a sostenere politicamente e finanziariamente strutture sociali che servono concretamente le persone colpite dalla disoccupazione o da altri rischi della vita. La solidarietà è quindi più di una semplice mentalità assicurativa che anima ogni persona a investire unicamente in base alle sue personali aspettative di rischio. Proprio su una tale solidarietà si basa invece non solo lo stato sociale, ma anche una cultura dello stato sociale, la quale presuppone che le persone non considerino solo il 13 Cf. al riguardo in dettaglio il c. IV.1, «Il divieto assoluto della tortura». IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 563 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 564 C hiese nel mondo loro proprio, personale, rischio derivante dalle limitazioni della libertà, ma tengano anche sempre presenti anche coloro che, ad esempio, a causa della loro minoritaria condizione etnica, religiosa, politica o di altro genere rischiano più degli altri di essere ostacolati nei loro diritti alla libertà. Perciò bisogna prestare una particolare attenzione a quelle misure della politica statale della sicurezza che riguardano fin da principio gli appartenenti a determinate minoranze etniche o religiose. Gli organismi delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa a tutela dei diritti umani hanno messo in guardia dal cosiddetto ethnic profiling, perché vedono in esso maggiori rischi di discriminazione. Con il cosiddetto ricorso a profili di persone basati sulla provenienza si intendono indagini di polizia basate ad esempio sulla provenienza etnica o sull’appartenenza religiosa e stimolate da aspetti individuali vistosi e/o strani. Perciò misure del genere dovrebbero comportare molte restrizioni a livello di intervento. Altrimenti si potrebbe verificare una perdita dello stato di diritto, che oggettivamente dovrebbe essere descritta come una desolidarizzazione sociale. Questo aspetto della preservazione dello stato di diritto merita un’attenzione molto maggiore di quanto non si sia fatto finora. IV. Limiti dell’uso legittimo della forza: dibattiti esemplari della politica interna 1. Il divieto assoluto della tor tura È compito dello stato proteggere i suoi cittadini. Per questo può, anzi deve, in casi estremi usare anche la violenza. Ma dove si trovano i limiti dell’uso legittimo della violenza? Fra le norme assolute, che devono essere incondizionatamente rispettate anche in situazioni di necessità, c’è il divieto della tortura. L’insegnamento della Chiesa al riguardo è chiaro: «Tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito…: tutte queste cose e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l’onore del Creatore».14 Il divieto della tortura segna un limite invalicabile anche per lo stato di diritto democratico. Qui l’inviolabilità della dignità dell’uomo passa direttamente in un divieto categorico, la cui stretta osservanza assume, al di là della funzione di protezione concreta delle persone minacciate di tortura e maltrattamenti, un alto valore simbolico per la concezione che ha di se stesso lo stato di diritto democratico. Anche nella lotta contro presunti terroristi, per i quali può essere letteralmente giusto ogni mezzo per il raggiungimento dei loro obiettivi, lo stato non può prendere la strada della barbarie. 564 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 Il fatto che il divieto della tortura, anche in situazioni di crisi, sia sottratto a tutte le limitazioni legittimabili, ha a che fare con il carattere specifico della tortura. La particolarità della situazione della tortura non consiste solo nel togliere alla persona, con mezzi coercitivi, il dominio sulla sua volontà. A questo si aggiunge il fatto che essa sperimenta e vive consciamente lo strazio al quale è sottoposta. Infatti non deve svenire e viene mantenuta cosciente con la stessa violenza che spezza la sua volontà. In questo modo viene costretta a essere testimone della sua riduzione a cosa, a un mucchio completamente manipolabile di sofferenza, paura e vergogna, fino a cedere. Consiste in questo la perfidia della tortura. In essa non solo si ferisce, ma si nega sistematicamente, volutamente e completamente, l’esigenza di rispetto dell’uomo per se stesso e per ogni altro uomo. Perciò non si può giustificare in alcun modo la tortura. Il divieto della tortura e delle altre forme di trattamento o castigo crudele, disumano e umiliante in tutte le convenzioni internazionali e continentali dei diritti umani come divieto assoluto (e valido anche in situazioni di emergenza) è quindi coerente e deriva necessariamente anche dalle premesse dello stato di diritto in quanto tale. 2 . Il divieto assoluto dell’uccisione di persone non coinvolte e dell’abbat timento di aerei civili Nel 2005, in Germania è entrata in vigore una legge denominata legge sulla sicurezza aerea. Il suo scopo era quello di impedire possibilmente attacchi come quelli dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Nella legge si prevedeva anche l’abbattimento, in determinate circostanze, di un aereo dirottato da terroristi. Il paragrafo 14 (3) recitava: «L’intervento diretto con la forza delle armi è ammissibile solo se, in base alle circostanze, si ritenga che l’aereo possa essere usato contro la vita di persone ed esso sia l’unico modo per evitare questo pericolo esistente». Nel 2006 la Corte costituzionale federale ha dichiarato incostituzionale questa norma. Nella motivazione della sentenza si legge: «Alla luce della validità dell’art. 1 § 1 della Legge fondamentale è assolutamente impensabile uccidere deliberatamente, sulla base di un’autorizzazione legislativa, persone innocenti, che come l’equipaggio e i passeggeri di un aereo dirottato si trovano in una situazione per loro disperata».15 Perciò non esiste finora alcun fondamento legislativo per l’abbattimento di un aereo civile dirottato. Ma la Corte costituzionale federale era chiamata a pronunciarsi solo sulla conformità costituzionale della legge sulla sicurezza aerea. Non era suo compito rispondere alla domanda fondamentale: si possono uccidere persone innocenti, nel caso in cui questo permetta di salvare la vita di un maggior numero di persone o addirittura la stabilità dello stato? Ci si rese subito conto che la sentenza della Corte non chiudeva la discussione, ma piuttosto la apriva. Nel nucleo più interno delle norme della Chiesa c’è la convinzione che una persona che non commette un’in- 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 565 giustizia e non rappresenta un pericolo per gli altri non può mai essere uccisa direttamente. Quindi non si può volere la sua morte né come fine di un’azione né come mezzo per raggiungere un altro fine. Il divieto generale di uccidere ammette eccezioni solo riguardo a chi fa illegittimamente violenza ad altre persone. Ma anch’esse possono essere prese in considerazione solo in pochissime situazioni, soprattutto se il pericolo che tale violenza rappresenta per il corpo e la vita di altre persone estranee al generarsi di essa può essere evitato solo in questo modo. Nella valutazione della legge sulla sicurezza aerea e di altre misure della lotta contro il terrorismo si è reintrodotta recentemente l’argomentazione tradizionale di un’«azione con un doppio effetto». Il principio del doppio effetto parte dalla constatazione che certi atti hanno due effetti, nel nostro caso uno è l’uccisione, l’altro la salvezza di persone innocenti. In presenza di determinati criteri, l’effetto negativo dell’atto viene considerato indiretto e quindi permesso in questo contesto. Sostanzialmente i criteri sono questi: non deve esservi alcuna alternativa meno problematica per la realizzazione dell’effetto positivo; l’effetto negativo deve derivare dall’atto contemporaneamente a quello positivo;16 deve esservi un motivo gravissimo per accettare l’effetto negativo; chi agisce deve volere solo l’effetto positivo. Senza entrare nei dettagli della discussione in parte controversa sull’applicazione di questi criteri, ci sembra decisivo il fatto che l’applicazione del principio del doppio effetto di un atto nelle discussioni degli ultimi anni sulla questione della legge della sicurezza aerea non ha prodotto alcun risultato chiaro. Vi sono autori che, richiamandosi ad alcuni criteri, sostengono che un abbattimento è in linea di principio illegittimo. Ma si sentono anche voci che, richiamandosi agli stessi criteri, contestano questa tesi. Perciò, applicando la dottrina degli atti con doppio effetto, si può giungere a conclusioni diverse. Noi siamo convinti che la stessa dottrina degli atti con doppio effetto, nella teologia morale cattolica, anche e soprattutto riguardo alla questione della sua applicabilità in contesti politici complessi, sia controversa. Non si tratta piuttosto di un argomento per la ricerca di una decisione etica individuale, che non può essere trasferito senza problemi alle istituzioni politiche? Inoltre non bisogna dimenticare che anche conseguenze non volute o indirette di un atto, considerate a lungo termine, potrebbero comportare un prezzo politico e morale troppo alto. Inoltre rimangono aperte molte domande alle quali si può difficilmente rispondere in linea di principio, ma solo alla luce della rispettiva situazione: con quale sicurezza si può decidere da terra che un aereo è stato dirottato? Molto spesso, per motivi puramente tecnici, si perde il contatto radio. Con quale certezza si può valutare da terra la determinazione dei terroristi? Si può escludere che i passeggeri riescano a sopraffare i terroristi? Nel no14 GS 27; EV 1/1405. Decisioni della Corte costituzionale federale (BVerG), 1 BvR 357/05 del 15.2.2006, Ansatz-Nr. (1-156), Randziffer 130. 16 Questo è il motivo per cui l’insegnamento della Chiesa non ammette alcuna tortura indiretta. Il conseguimento del dominio sulla volontà del torturato è un elemento necessario nella catena 15 stro paese densamente popolato, l’abbattimento di un aereo rischia di provocare a terra un inferno molto maggiore di quello che attraverso di esso si può impedire. Il rischio di una valutazione sbagliata non è talmente grande da indurre a prendere decisamente le distanze da un abbattimento? Perciò la questione della legittimità dell’abbattimento di un aereo di linea dirottato sfocia in un groviglio di questioni normative e valutazioni dei fatti difficilmente districabile. Noi oltrepasseremmo ampiamente l’autorità del nostro magistero se pretendessimo, in queste questioni, che consideriamo inevitabili, di poter giudicare in modo definitivo e (generale).17 3. Categoria del dirit to del nemico. Un at tentato all’ordinamento giuridico nel suo complesso Qua e là si levano voci a favore di una radicale revisione del vincolo giuridico dello stato nella lotta contro il terrorismo. Queste considerazioni mirano esplicitamente o implicitamente a introdurre il concetto di un «diritto del nemico». Esse sostengono che, nella lotta con i terroristi, che contestano in modo aggressivo le premesse fondamentali dello stato di diritto, lo stato in caso di necessità dovrebbe essere in grado di sospendere, in ambiti particolari, o violare, in un caso specifico, il vincolo giuridico del suo esercizio della violenza. Le conseguenze di questa concezione appaiono già quando organi dello stato ricorrono a informazioni che sono state molto probabilmente acquisite in violazione dei parametri internazionali vigenti. Non a caso il concetto di diritto di punizione del nemico ricorda la categoria dell’unlawful enemy combatant (combattente nemico illegale), che l’amministrazione degli Stati Uniti, sotto il presidente George W. Bush, aveva usato per gli internati a Guantanamo Bay, per negare loro sia lo status di prigionieri di guerra previsto dal diritto internazionale, sia la protezione del diritto penale o del diritto al processo penale, e quindi collocarli di fatto al di fuori del diritto. Ma in questo modo non si violano solo norme concrete del diritto della persona o principi dello stato di diritto. Attraverso la costruzione di un «diritto del nemico» si mette fondamentalmente in discussione la validità dei diritti umani e dello stato di diritto nella lotta contro il terrorismo, con estese conseguenze per l’ordinamento giuridico nel suo complesso. Le soglie di intervento legale da parte dello stato e le esigenze di trasparenza, i criteri di valutazione e di limitazione all’interno del principio di proporzionalità, la separazione dei poteri e la garanzia di vie legali, il principio di colpevolezza nel diritto penale, infine anche il diritto alla vita, il divieto della tortura e altre norme relative ai diritti umani verrebbero ridotte a delle cause, per indurre la persona a fare ciò che con la sua libera autodeterminazione non farebbe. Perciò l’effetto negativo e positivo non derivano contemporaneamente dall’atto della tortura. In questo caso l’effetto negativo serve necessariamente a produrre quello positivo. 17 Cf. GS 43; EV 1/1454. IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 565 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 566 C hiese nel mondo Innocenzo Gargano variabili dipendenti dalle valutazioni di efficacia della politica della sicurezza; potrebbero essere accantonate in qualsiasi momento in modo discrezionale. Se non si vuole svuotarlo, e ridurlo a un’etichetta utilizzabile a piacere, bisogna che lo stato di diritto si senta legato al rispetto dei diritti fondamentali alla libertà e ai principi su cui si fonda e configuri questo legame in modo controllabile. L’«inviolabilità» dei diritti dell’uomo significa che il dovere dello stato di garantirli non ha solo il valore di un obiettivo da perseguire. Ciò che distingue lo stato di diritto da regimi autoritari o semiautoritari non è solo il richiamo generale al valore o all’obiettivo della libertà giuridica dell’uomo, che come tale non costa molto, ma lo stretto legame con i diritti alla libertà che valgono qui e ora. Eventuali interventi nei diritti alla libertà motivati con la politica della sicurezza devono essere, nell’ordinamento dello stato di diritto, costituzionalmente legittimi, idonei, necessari e adeguati, e non devono essere mantenuti come occasione per allentare o denunciare il vincolo giuridico dell’azione statale nella crisi. «Lectio divina» su il Vangelo di Matteo/6 Israele non riconosce Gesù messia (cc. 19,1–22,46) P rosegue l’apprezzata lectio divina dell’autore sul Vangelo di Matteo. La sezione narrativa che introduce il quinto discorso, quello escatologico, è ampia e densa di argomenti cruciali: controversie e parabole con le quali l’evangelista si avvicina gradualmente al compimento della vita pubblica di Gesù, cioè alla sua passione, morte e risurrezione a Gerusalemme. «Conversazioni bibliche» pp. 128 - € 13,50 EDB Edizioni Dehoniane Bologna 4. Altre violazioni dei dirit ti fondamentali e dei dirit ti dell’uomo at traverso le leggi sulla sicurezza Via Nosadella 6 - 40123 Bologna Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099 Globalmente la serie delle nuove leggi sulla sicurezza ha comunque chiaramente ampliato, in alcuni ambiti macroscopici, le competenze di intervento dello stato anche nei diritti fondamentali e nei diritti dell’uomo. Si è colpito, ad esempio, il diritto all’autodeterminazione nel campo dell’informazione. Attraverso molte misure – indagini di polizia su gruppi di persone via computer, sorveglianza con telecamere di luoghi pubblici, memorizzazione e conservazione dei dati raccolti in Internet – si costruisce un’ampia rete di informazioni generali, mentre le ricerche mirate on-line, già a causa dei loro costi, vengono effettuate raramente, ma costituiscono forme di intromissione particolarmente profonde. Tutto questo è aggravato dal fatto che le persone interessate spesso non conoscono questi interventi nella loro autodeterminazione nel campo dell’informazione, per cui non possono opporsi in sede giudiziaria. L’obiettivo della sicurezza preventiva si ripercuote anche nel diritto penale, e precisamente nei «delitti di minaccia astratti» di nuova creazione, nei quali non si punisce la concreta violazione di un diritto, ma la creazione di una possibile situazione di pericolo. Non è facile inquadrare questi delitti di minaccia astratti nel sistema finora esistente di un diritto penale orientato alla protezione di diritti concreti. Nell’ambito del diritto di soggiorno si notano inasprimenti della politica della sicurezza, ad esempio nell’ampliamento delle norme relative ai documenti di identità delle persone non appartenenti allo stato tedesco, che, anche in assenza di una condanna penale, vengono considerate possibili pericoli per la sicurezza interna. Così anche il diritto di soggiorno viene inserito più decisamente nello strumentario delle sanzioni dello stato. www.dehoniane.it Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI Nei 150 anni dell’Unità d’Italia Tradizione e progetto X Forum del Progetto Culturale L a ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stata al centro degli interventi al X Forum del Progetto Culturale della CEI (Roma, 2-4.12.2010). Due gli assi principali della riflessione: il variegato mondo cattolico, con la sua storia e le forme in cui si è articolata la sua proposta culturale, e il rapporto tra politica e istituzioni. «Oggi e domani» pp. 336 - € 22,50 EDB Edizioni Dehoniane Bologna Via Nosadella 6 - 40123 Bologna Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099 www.dehoniane.it 566 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 567 La dignità dell’uomo come dignità di un soggetto responsabile fonda anche quelle diversificate norme del diritto statuale che devono assicurare un atteggiamento accurato, preciso, rispettoso e controllabile nei riguardi di eventuali limitazioni del diritto dell’uomo alla libertà. Dal punto di vista del rispetto della dignità dell’uomo c’è una notevole differenza fra informare una persona su interventi nella sua autodeterminazione nel campo dell’informazione, perlomeno successivamente, in modo che possa eventualmente opporsi anche in sede giudiziaria, e tenere nascosti questi interventi senza alcuna possibilità di informazione e controllo e lasciare la persona esposta a essi senza difesa. I fastidiosi controlli delle persone negli aeroporti non dovrebbero rappresentare un’offesa, se servono allo scopo, facilmente comprensibile da ognuno, della sicurezza pubblica, vengono compiuti con il maggior rispetto possibile e riguardano allo stesso modo tutti, non discriminano quindi nessuno. Si potrebbero fare altri esempi. Fondamentalmente si manifesta il dovuto rispetto per la dignità dell’uomo anche nel fatto di spiegare le richieste, mantenere eventuali limitazioni dei diritti entro precisi confini controllabili, rinunciare all’arbitrio e soprattutto alle discriminazioni e offrire alle persone la possibilità di opporsi in sede politica e giudiziaria agli interventi con prospettive di successo. V. La risposta del diritto internazionale alle sfide del terrorismo 1. La funzione del dirit to internazionale in materia di ordinamento e di pace L’ordinamento giuridico internazionale stabilito attraverso il diritto internazionale non è scosso nel suo nucleo, ma è messo a dura prova dal terrorismo. A spiegare e applicare il diritto internazionale anche e soprattutto in relazione alla minacce terroristiche sono chiamati, come soggetti del diritto internazionale, gli stati e le organizzazioni internazionali. Dietro a questi soggetti di diritto si trovano gli uomini preposti ad assumere decisioni difficili e di ampia portata. Devono essere consapevoli del fatto che, nell’assunzione di queste decisioni, uno degli orientamenti basilari etici più importanti è offerto proprio dal diritto. Il diritto internazionale non è certamente un’etica diventata diritto, ma offre, con la sua funzione di ordinamento e di pace, un minimo etico, che in situazioni di conflitto assicura un irrinunciabile orientamento fondamentale. In definitiva, questo orientamento fondamentale deriva dal fatto che i principi del diritto internazionale sono strutturalmente orientati alla reciprocità. Solo chi si sforza di tenere un comportamento conforme al diritto e quindi non delude le aspettative di analoghe risposte da parte degli altri attori del diritto inter nazionale può aspettarsi che regnino la pace e l’ordine. Chi invece si comporta in modo contrario al diritto e quindi delude l’aspettativa altrui mette in discussione la funzione di ordinamento del diritto internazionale e frustra il raggiungimento dell’obiettivo di una pace internazionale duratura. Di fronte alla sfida terroristica spetta agli stati e alle organizzazioni internazionali non perdere la consapevolezza della natura giuridica delle loro relazioni. Quella che suona come una facile ovvietà si dimostra essenziale. Solo quando l’idea del diritto rimane presente anche nelle relazioni internazionali, solo quando si praticano la comunicazione, la cooperazione e una collaborazione internazionale basata sul principio della reciprocità, resta esclusa la ricaduta nello stato antecedente al diritto, nel dominio della mera forza. Oggi le relazioni internazionali sono relazioni giuridicamente ordinate. La forza militare rivolta all’esterno non è più un attributo della sovranità statale svincolata dal diritto, bensì un potenziale necessario, moderato e regolato dal diritto, della statualità moderna. Il suo uso può essere in certi casi inevitabile, ma richiede comunque una giustificazione. Il dispiego non giustificato della forza è al di fuori del diritto ed è, in questo senso, contrario al diritto. Non per caso oggi ogni stato che ricorre alla forza militare si preoccupa di una giustificazione giuridica. Il diritto internazionale, la nuova moneta delle relazioni sovranazionali, pone alte richieste alla comunità degli stati. Per poter compiere la sua funzione di ordinamento, deve esservi un consenso sulla sua origine, il suo sviluppo e il suo impiego. Ogni dissenso pubblico o latente sul diritto induce a temere una ricaduta nel dominio arbitrario della pura forza. La minaccia alla funzione di ordinamento del diritto internazionale entra nei tipi fondamentali delle fonti giuridiche del diritto internazionale – il diritto contrattuale e quello consuetudinario – in modi diversi, ma è presente in forma latente in entrambi. Nel diritto contrattuale internazionale manca per lo più, se non espressamente prevista, un’istanza giuridica che decida in modo vincolante sull’esistenza e sulla portata dei diritti e dei doveri oggetto del contratto. In mancanza di una giurisprudenza internazionale obbligatoria le parti che stipulano il contratto sono rinviate alla propria valutazione giuridica e quindi anche alla domanda se prendere contromisure, e in caso affermativo quali, nei riguardi di un comportamento contrario al trattato, reale o anche solo presunto, del loro partner. Così si passa non di rado dalla controversia sul trattato a una controversia di potere e a una prova di forza, nel corso della quale si tiene conto a fatica, o non si tiene conto affatto, del dovere imposto dal diritto internazionale di procedere a una composizione pacifica della vertenza. Nel diritto internazionale consuetudinario un’ulteriore insicurezza deriva dai meccanismi della sua formazione e del suo sviluppo. I principi giuridici del diritto consuetudinario derivano da una prassi degli stati rappresentativa, sostenuta da una convinzione giuridica. Se uno stato si discosta da un principio ba- IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 567 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 568 C hiese nel mondo sato sulla consuetudine, cerca a volte di dichiarare il suo comportamento deviante come l’inizio della costruzione di un nuovo diritto consuetudinario. In alcuni casi, ad esempio nella creazione del diritto di autodifesa preventivo,18 questa strategia si è dimostrata efficace, naturalmente al prezzo di una fatale insicurezza giuridica dagli effetti durevoli. 2 . Il divieto della violenza nel dirit to internazionale Ciò che realizza più efficacemente di qualunque altra cosa la funzione di ordinamento e di pace del diritto internazionale è il divieto universalmente valido della violenza. Il divieto di usare la forza militare, o anche solo di minacciarla, possiede un doppio fondamento normativo. È ancorato contrattualmente nella Carta delle Nazioni Unite,19 che è stata ratificata da 192 stati, quindi praticamente da tutti gli stati del mondo, ed è inoltre basato sul diritto internazionale consuetudinario. L’osservanza di questo divieto è un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per la pace, perché nel conflitto armato non c’è spazio per la realizzazione delle esigenze materiali della pace. Il divieto della violenza riguarda tutti gli stati. Con questa pretesa di validità universale il divieto della violenza non si limita a rinviare al di là della messa al bando della guerra elaborata dopo la prima guerra mondiale.20 Agli stati non si vieta solo la guerra come mezzo della politica, ma ogni uso della forza militare armata anche al di sotto del livello dello scontro bellico («short of war»). Il fatto che oggi il concetto di guerra sia particolarmente confuso dipende anche dal fatto di essere irrilevante per l’estensione e la portata del divieto della violenza. Il divieto della violenza nel diritto internazionale consuetudinario non comprende la violenza privata, non imputabile a uno stato, perpetrata da singoli soggetti o da bande organizzate. Queste forme di violenza rilevanti anche a livello internazionale, per esempio la pirateria e la pirateria aerea, non cadono sotto il divieto generale della violenza del diritto internazionale. Questo vale anche per gli attacchi terroristici. Gli attentati terroristici riguardano norme di sicurezza nazionali e sono di competenza degli organi di sicurezza interni (polizia, organi giudiziari, difesa della costituzione ecc.), anche quando sono perpetrati da stranieri. Per la lotta preventiva ai pericoli e per l’azione penale repressiva di terroristi operanti a livello internazionale occorre un adeguato ampliamento delle forme già esistenti di collaborazione sovranazionale fra le forze di polizia (Interpol, Europol). Sullo sfondo del diritto internazionale finora vigente, occorre chiarire la sottrazione dell’azione terroristica dal contesto della difesa dai pericoli e dell’azione penale nazionale e internazionale e lo spostamento del contenuto al livello internazionale del divieto della violenza sancito dal diritto internazionale. L’espressione politica «guerra al terrorismo» non 568 IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 offre la necessaria chiarificazione, ma ne evidenzia molto chiaramente la necessità. Infatti l’innalzamento concettuale del terrorismo dal piano nazionale a quello internazionale con l’aggiunta del concetto di guerra produce anche l’effetto di mettere a disposizione lo strumentario della contro-violenza militare legale in base al diritto internazionale sotto forma di autodifesa individuale e collettiva.21 Ma in questo modo si provoca anche il pericolo di un’escalation e di un suo uso scorretto. Inoltre l’esperienza recente dimostra che il conflitto armato asimmetrico, nel quale si trovano di fronte stati e attori armati non statali, equivale di fatto, per i suoi effetti sulla popolazione civile non coinvolta, ai conflitti armati «classici» fra gli stati. In entrambi i conflitti la popolazione civile, che non rappresenta alcun pericolo, sperimenta grandi sofferenze. Gli attacchi terroristici possono essere inclusi nella fattispecie del divieto della violenza del diritto internazionale solo se si realizzano due presupposti. Anzitutto gli attacchi, per la loro intensità, devono essere comparabili all’uso della forza fra stato e stato. Non si deve porre troppo in alto questa soglia, ma essa esiste. Anche se ogni attacco terroristico è abominevole, possono esistere atti di violenza che non possono essere assolutamente considerati una violazione del divieto della violenza stabilito dal diritto internazionale. Comunque, a causa della loro crudeltà e della loro continuazione nel tempo, gli attacchi perpetrati dalla rete terroristica Al-Qaeda superano quei confini. In secondo luogo, l’attacco terroristico deve poter essere attribuito a un altro stato. Solo in presenza di questo presupposto è legittimo un appello alla regolamentazione del diritto internazionale in materia di violenza e risposta militare. Sotto l’impressione suscitata dagli avvenimenti dell’11 settembre 2001, la comunità internazionale degli stati ha cambiato i criteri di imputazione, nel senso che ora è possibile un’imputazione in presenza di presupposti chiaramente più leggeri. Se prima occorreva che uno stato fosse coinvolto in notevole misura nell’uso non statale della violenza, ora basta semplicemente il fatto di tollerare consapevolmente la preparazione di azioni terroristiche sul proprio territorio. Si è chiaramente abusato dell’appello a questi mutati criteri di imputazione riguardo al presunto coinvolgimento dell’Iraq nel terrorismo internazionale, che – fra l’altro – ha offerto l’occasione e la giustificazione per la guerra contro quel paese nel 2003. La guerra in Iraq dovrebbe servirci da ammonimento e indurci a stabilire misure estremamente accurate e rigide riguardo all’attribuzione di attacchi terroristici a un altro stato, che viene invaso con una risposta militare. La comunità degli stati soddisferà la sua responsabilità per la pace solo se sarà consapevole che la regolamentazione della violenza e della reazione dello stato che il diritto internazionale richiede nella lotta al terrorismo internazionale può essere usata unicamente come ultima ratio, dopo aver esaurito tutte le altre opzioni in materia di azioni di polizia e aver analizzato con cura la situazione. 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 569 3. Autodifesa militare contro gli at tacchi terroristici 4. La responsabilità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Anche quando gli attacchi terroristici possono essere addebitati, in base ai criteri succitati, a un altro stato, quindi può essere applicata la regolamentazione del diritto internazionale in materia di violenza e reazione dello stato al conflitto asimmetrico fra uno stato e un’organizzazione terroristica, questo non significa ancora che ora lo stato aggredito possa procedere senz’altro contro lo stato aggressore con la forza militare. Il diritto internazionale ammette la violenza militare solo nella situazione di autodifesa personale o collettiva22 o in base a un’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.23 Nella sua forma originaria l’autodifesa non può essere invocata negli attentati terroristici. Essa presupporrebbe che abbia luogo un attacco armato e che esso perduri nel suo effetto; è il caso, ad esempio, di un’invasione da parte di forze d’attacco terrestri. Ma i recenti attacchi terroristici presentano un effetto puntuale e massiccio al tempo stesso. Essi scuotono gli stati proprio perché non si può prevedere quando e dove avverrà l’attacco successivo. Perciò la reazione militare ammessa dal diritto internazionale diventa possibile solo se si soddisfano, oltre ai succitati presupposti di aggressione, anche i presupposti dell’autodifesa preventiva. A partire dal XIX secolo si riconosce che l’autodifesa preventiva di uno stato contro un altro stato possa essere legale sul piano del diritto internazionale, cioè che uno stato possa precedere con la forza militare un attacco imminente di un altro stato. Ma se il ricorso all’autodifesa preventiva, a causa della sua evidente tendenza all’abuso, non è privo di problemi già nella relazione tra gli stati, sarà necessariamente ancor più problematico nella situazione conflittuale asimmetrica. Infatti in questi conflitti si potrà invocare un attacco imminente e formidabile tutt’al più se si può prevedere con la massima probabilità che l’ultimo attacco sarà seguito da altri. Per ora si può attribuire quest’intenzione di continuare gli attacchi fondamentalmente solo al terrorismo rivolto contro gli Stati Uniti e contro Israele. Non c’è posto, in base al diritto internazionale vigente, per un allargamento del diritto di autodifesa a situazioni di pericolo astratto. Una dottrina della sicurezza, che si prefigge l’estensione temporale del diritto di autodifesa per reagire a minacce che potrebbero materializzarsi solo in un lontano futuro (la cosiddetta preemption) confonde i contorni del divieto della violenza fino a renderli irriconoscibili. Nella relazione fra stati l’autodifesa preventiva è esclusa e lo è soprattutto nel quadro comunque discutibile del conflitto asimmetrico fra uno stato e un’organizzazione terroristica. La comunità internazionale confida nella responsabilità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per la pace mondiale. Il Consiglio di sicurezza è un organo costituzionale delle Nazioni Unite; la sua competenza è basata sul diritto. Ma il Consiglio di sicurezza può, e potrà, giustificare la fiducia riposta in esso solo se agisce a norma del diritto e non si limita a una giuridicità apparente. Al riguardo, non si devono misconoscere le implicazioni politiche che caratterizzano il Consiglio di sicurezza fin dall’inizio. Con il diritto di veto dei cinque membri per manenti, il Consiglio di sicurezza è costretto talvolta a difficili compromessi politici e tuttavia l’organo nel suo insieme viene giudicato in definitiva dal fatto o meno di assolvere in modo legale dal punto di vista del diritto internazionale il proprio compito di evitare le minacce alla pace mondiale. Il Consiglio di sicurezza non è al di sopra del diritto. Se desse l’impressione di disporne liberamente, minerebbe la stessa autorità del diritto che è chiamato a proteggere. Alla ricerca di una risposta legale dal punto di vista del diritto internazionale alla minaccia del terrorismo internazionale, il Consiglio di sicurezza e sulla sua scia alcune organizzazioni come la NATO hanno esaurito, e ampliato, la lista delle misure coercitive militari e non a loro disposizione. Non sempre possiamo riconoscere se il regime internazionale costruito in questo modo è adatto a evitare i conflitti armati internazionali e salvaguardare o ristabilire un ordinamento pacifico. E non è sempre evidente che le misure prese per il raggiungimento dell’obiettivo perseguito siano proporzionate. Le sanzioni economiche devono superare una rigida prova di proporzionalità. Non si possono adottare sanzioni che causano una penuria di generi alimentari e medicine per la popolazione civile. Lo stesso vale per le misure economiche, prese contro le persone sospettate di sostenere finanziariamente attività terroristiche; un uso proporzionale del diritto obbliga in questo caso a far spazio a una prova oggettiva, in sede giudiziaria, del sospetto. Ma le Nazioni Unite e le organizzazioni subordinate devono soddisfare esigenze particolarmente elevate riguardo al principio di proporzionalità quando sostengono per lungo tempo un regime militare in uno stato estero. In questi casi viene compresso il diritto di autodeterminazione dei popoli, un titolo giuridico la cui violazione non può essere assolutamente accettata. Forse nel danno arrecato al diritto di autodeterminazione si trova già il germe di nuove azioni terroristiche. 18 Sulla differenza fra l’autodifesa preventiva, dottrina del XIX secolo, e il preemptive strike dell’amministrazione Bush del XXI secolo cf. sotto, c. V.3. 19 Carta delle Nazioni Unite, art. 2, § 4, in COMMISSIONE STRAORDINARIA PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI DEL SENATO DELLA REPUBBLICA, Manuale dei diritti umani. Trattati, convenzioni, dichiarazioni, statuti, protocolli tradotti in italiano, Roma 2004, 23. 20 21 Cf. il Patto Briand-Kellogg del 1928. Carta delle Nazioni Unite, art. 51, in Manuale dei diritti umani, 22 Carta delle Nazioni Unite, art. 51, in Manuale dei diritti umani, 23 Carta delle Nazioni Unite, c. VII, in Manuale dei diritti umani, 31s. 31s. 30ss. IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011 569 552-570:Layout 3 17-10-2011 17:48 Pagina 570 C hiese nel mondo 5. Il dirit to internazionale umanitario: la III Convenzione di Ginevra sul trat tamento dei prigionieri Come abbiamo già mostrato, non si tratta più del termine guerra nella valutazione dei conflitti armati a partire dal diritto internazionale. Il diritto internazionale moderno distingue fra conflitto armato internazionale e conflitto armato non internazionale. Non considera entrambi i conflitti situazioni prive di diritto, ma cerca di fissare parametri minimi di un diritto internazionale umanitario. Il cosiddetto diritto dell’Aia e di Ginevra, dal suo luogo di origine, vieta alle parti in conflitto di usare ogni mezzo crudele e ordina loro di trattare con rispetto la popolazione civile, i feriti e i prigionieri di guerra. L’efficacia umanitaria della III Convenzione di Ginevra, che regola in dettaglio il trattamento dei prigionieri di guerra, dipende decisamente dalla ripartizione delle persone coinvolte nel conflitto in combattenti, appartenenti a un’unità irregolare, spie, mercenari o civili. Nei nuovi conflitti asimmetrici questa ripartizione è difficile da fare. Perciò la III Convenzione prevede che una persona, che ha compiuto un’azione di guerra ed è caduta in mano al nemico, goda della protezione della III Convenzione fin quando la sua posizione giuridica non è stata stabilita da un tribunale competente. Resta comunque assodato che chi ha compiuto azioni di guerra senza poter ottenere lo status di prigioniero di guerra deve essere trattato come civile, il che Arnaldo Pangrazzi I volti della sofferenza e i cuori della speranza Guida per stare vicino al malato F rutto di anni di presenza sul campo, un viaggio nell’interiorità di chi è colpito da vulnerabilità fisiche, psichiche e spirituali. Vera e propria guida, ogni capitolo è un itinerario per comprendere meglio le singole patologie, soprattutto dal punto di vista umano e spirituale. Per quanti si trovano a stare accanto a chi vive l’esperienza della sofferenza. «Fede e annuncio» pp. 200 - € 16,00 EDB esclude chiaramente un internamento di più anni senza l’apertura di un processo penale. In questo contesto, non si può considerare adeguata per descrivere il loro status giuridico, e deve quindi essere respinta, la categoria finora sconosciuta di unlawful combatant, introdotta dagli Stati Uniti per indicare gli appartenenti alla rete terroristica di Al-Qaida, che hanno partecipato ad azioni di lotta in Afghanistan. Anche accettando l’idea che lo status di civili per queste persone difficilmente potrebbe essere adeguato, bisogna considerare che ogni uso analogo di uno status di prigioniero di guerra comporterebbe tutte le garanzie giuridiche di quest’ultimo. Ma anche con lo status di prigioniero di guerra sarebbe incompatibile internare per molto tempo in condizioni discutibili un unlawful combatant. 6. Sul ritorno alla dignità dell’individuo da par te del dirit to internazionale Nella terminologia e nei fondamenti del diritto internazionale moderno praticamente l’individuo non appare. Solo da qualche tempo compare come soggetto di diritto con una limitata soggettività a livello di diritto internazionale. Questo è riuscito solo all’ultima fase di sviluppo della Convenzione europea sul diritti dell’uomo, con propri diritti umani rivendicabili per vie legali, e solo dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma sul Tribunale penale internazionale nel 2002 un individuo può essere citato come soggetto di un’azione penale diretta nel diritto internazionale. La rappresentazione del singolo da parte di altri finora prevalente nel diritto internazionale e l’orientamento prevalente dell’ordinamento del diritto internazionale all’interesse degli stati e delle organizzazioni internazionali impedisce la visione dello scopo specifico del diritto internazionale: permettere all’uomo una pace giusta e una vita in dignità. Noi siamo convinti che la relativizzazione della sovranità statale, che si fa gradualmente strada nel concetto della responsabilità di proteggere,24 permette di avvicinarsi a questo obiettivo. Così la sovranità statale non si esaurirà nell’affermazione e difesa degli interessi dello stato, ma considererà suo compito prioritario la responsabilità per la dignità dell’uomo e per i diritti dell’uomo (sovereignity as responsibility). Tuttavia ancor prima che questo concetto si consolidi e diventi un nuovo diritto internazionale, non bisogna, in base al diritto internazionale attualmente vigente, ridurre il terrorista, in quanto nemico, a un obiettivo da distruggere per l’autoaffermazione e autodifesa dello stato. Anche il terrorista è un uomo amato da Dio, creato a sua immagine e somiglianza e dotato di dignità, che merita rispetto per se stesso. Anch’egli è fondamentalmente detentore di diritti umani. La protezione dei diritti umani in vigore permette certamente interventi per la protezione di beni giuridici superiori, ma non cessa mai completamente di valere. I diritti umani e la dignità dell’uomo non sono soggetti, nell’ordinamento del diritto internazionale, a una «riserva del terrorismo». 24 Edizioni Dehoniane Bologna Via Nosadella 6 - 40123 Bologna Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099 www.dehoniane.it 570 Responsibility to protect; cf. sopra, c. II.2. IL REGNO - DOCUMENTI 17/2011