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S C U O L A S E C O N D A R I A D I I° G R A D O “Giuseppe Garibaldi” Via Pirandello, 19 ‐ 71049 Trinitapoli Tel./fax: 0883/631182 e‐mail: [email protected] Cod. Mecc.: FGMM113004 – C.F.: 81004010716 VISITA D’ISTRUZIONE
GROTTE DI PERTOSA – CERTOSA DI PADULA
Opuscolo illustrativo a cura delle classi 2^E‐2^H anno scolastico 20
08 2009 Trinitapoli
Introduzione Tra i molti complessi monumentali monastici italiani, un posto eminente spetta senz’altro alla Certosa di Padula in provincia di Salerno. Per grandiosità è di gran lunga superiore a quelle di San Martino in Napoli, di Val d’Ema presso Firenze e di Pavia. Se, infatti, non può competere con quest’ultima per la meravigliosa grazia del Rinascimento fiorito, ad essa contrappone la maestosità del barocco napoletano, la vastità dello stile architettonico, la giusta opposizione non di elementi decorativi, bensì di volumi costruttivi. Ruggero Bonghi, che visitò, restandone ammirato, il monumento nel 1885, scrisse in seguito questa amara constatazione: “La Certosa, che da più anni è stata decretata in molte sue parti monumento nazionale, attesterà che questo onorato titolo vuole in verità dire monumento della trascuraggine della Nazione per la storia e per l’arte sua”. Con l’augurio che la profezia possa essere smentita da prossimi avvenimenti, ci siamo proposti di dare alle stampe questo opuscoletto, arricchito di illustrazioni, lieti di aver contribuito anche se modestamente alla conoscenza dell’impareggiabile Reggia del Silenzio. 1 Oggi la situazione è certamente mutata. Dal giugno del 1982, infatti, la Certosa di San Lorenzo è stata affidata alla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici di Salerno ed Avellino e chissà che, superata la fase provvisoria di “monumento aperto per restauro”, non ritorni a splendere a pieno titolo in un territorio che non faccia solo da inconsapevole e sonnolenta cornice. Tuttavia se il patrimonio culturale di una Nazione è il complesso dei suoi beni culturali ed ambientali e se fra i tanti beni rientra anche il libro in quanto parola tramandata e depositata, perché non ricordare ancora una volta, affinché non se ne perda la memoria storica, che per lunghi anni solo silenzio, incuria colpevole, polvere hanno coperto un complesso monumentale di tale importanza? In tale scenario si colloca la prospettiva didattica della nostra visita d’istruzione, che si arricchisce anche della visita alle grotte di Pertosa, attraverso i percorsi suggestivi danteschi. D’altra parte uno dei nostri obiettivi è proprio questo: smuovere l’inerzia e suscitare sulla scia di una scintilla una gran fiamma (“Poca favilla gran fiamma seconda....”, DANTE, Par., canto I, v. 34). Chi voglia approfondire, ha materiale da cui attingere ma è doveroso e giusto che non si perda l’eco di una voce lontana ma sempre chiara e libera. MICHELE ORLANDO ‐ MARZIA LUCERA ANGELO MAGGIO ‐ ALFONSINA SACCO 2 3 Cenni storici ALBA RADIOSA Nella ridente plaga salernitana, ai piedi di Padula, che si stende su di un conico colle, giace addormentata la casa dei Certosini, eternamente sognante la potenza e i fastigi di un tempo. Fu fondata, nell’anno 1306, da Tommaso Sanseverino, conte di Marsico e contestabile del Reame di Napoli; il 27 aprile dello stesso anno il re Carlo II lo Zoppo ne confermò la fondazione con decreto scritto da Bartolomeo di Capua. Il 16 settembre l’abate di Montevergine trasmise ai Certosini la propria giurisdizione. Dove sorge la Certosa c’era un monastero di Benedettini, appartenente alla Badia di Montevergine chiamato “Il San Lorenzo”. Il Conte in un primo tempo avrebbe voluto fondare la Certosa nei suoi territori di Sanseverino presso Salerno, ma l’abate di Montevergine, Guglielmo IV, avuto sentore di ciò, gli propose di edificar‐la nel territorio di Padula, mostrandosi disposto a cedere “Il San Lorenzo” in cambio dei beni dei Sanseverino. Al Conte non dispiacque la proposta ed accettò tutte le clausole imposte dall’abate, impegnandosi ad osservarle ed a farle osservare dai suoi discendenti. I lavori fatti eseguire furono molti e di varia natura, perché il monastero benedettino dovette subire una radicale trasformazione. Oltre alle munifiche donazioni del conte, apportarono, negli anni successivi, validi aiuti, prodigando numerosi benefici, il Canonico Andrea Agnezio di Napoli, abate commendatario di Santa Maria di Cadossa e molte altre eminenti personalità. E notevole l’atto dell’Arcivescovo di Salerno, che per incoraggiare i benefattori della nuova costruzione, promise agli stessi alcune indulgenze. L’esempio fu imitato da altri tre vescovi i quali incoraggiarono, come poterono, la fabbrica del colossale edificio. Quando questo fu in grado di poter ricevere i figli di San Brunone, il conte Tommaso inviò al Priore Generale di Grenoble il privilegio di donazione in cui erano espressi sentimenti di somma generosità ed elevati sensi di pietà cristiana. Il Priore Generale, commosso per l’atto munifico e sincero del conte, ordinò al Priore della Certosa di Trisulti, padre Michele, di recarsi a Padula per prendere possesso dell’edificio e sollecitare alcuni lavori ancora in corso. La notizia arrecò viva gioia all’insigne benefattore, che, radunati tutti i vassalli e gli alti funzionari della contea, accolse con grande pompa l’inviato pellegrino della nuova Certosa, infondendo nei fedeli nobili sentimenti di benevolenza. Dopo poco, riunitosi il Capitolo Generale a Grenoble, furono mandati alla Certosa, per stabilirvi l’osservanza della regola, i Padri della Certosa di S. Maria del Casotto ed alcuni di Trisulti, sotto la dipendenza priorale di Giovanni Tommaso De Vito. La vita dei Certosini di Padula aveva avuto così la massima sanzione e l’Ordine poteva vantare una nuova casa. L’edificio fu gradatamente abbellito ed ingrandito così che poteva, a ben ragione, essere definito in seguito dal Lenormant: “La plus considérable à la fois et la plus riche des Chartreuses de l’Italie”. 4 SAN BRUNONE ED I CERTOSINI Fin dai primi secoli della Chiesa, la dottrina Evangelica era penetrata negli animi di alcuni spiriti nobili, rendendoli non solo seguaci della religione cristiana, ma asceticamente uniti al Creatore, nella solitudine e nella pace di luoghi eremitici. Sant’Antonio e San Pacomio sono i primi che si ritirarono sulle sommità di monti solitari; San Basilio (sec. IV) però ha maggiore importanza dei suddetti. Difatti egli diede vita ad una istituzione religiosa che prende il nome da lui, con una regola propria. Perciò è chiamato il “Fondatore dei Monaci d’Oriente”. Nel VI secolo, in Italia, San Benedetto da Norcia diede vita all’Ordine religioso più ricco di tradizioni, di Santi e di gloria. La sua regola fu apprezzatissima, in breve tempo, in tutta Europa, ed i monasteri benedettini pullularono ovunque. Monarchi, principi e governanti lessero i canoni della sapiente regola, su di essa poggiando le colonne dei loro imperi. I motti “Ora et labora” e “Cruce et aratro” sintetizzano la regola del “Patriarca d’Occidente”. Nel corso dei secoli anime sante e devote di San Benedetto, imitando la sua regola, o prendendo da questa ispirazione, diedero vita ad altri ordini. Così nacquero i Cistercensi, i Cluniacensi, gli Olivetani, i Verginiani, i Camaldolesi ed i Certosini. Fermeremo la nostra attenzione su questi ultimi che più ci interessano. Nel 1035 nacque a Colonia Agrippina, in Germania, Brunone. Educato da religiosi di Reims, si mostrò, ancora piccolo, proclive alla scienza ed alla poesia. Diventato sacerdote iniziò il suo fecondo apostolato con la predicazione. Si recò in parecchie province e vari furono i frutti della sua parola, che guadagnò a Dio numerose conversioni. A Reims il suo nome diventava ogni giorno sempre più glorioso per simili affermazioni. Perciò l’Arcivescovo Gervaso di Chateau‐du‐Loir lo chiamò a Reims e gli affidò l’incarico di Cancelliere e di Scolastico della Cattedrale. Suo alunno, degno sopra gli altri di particolare menzione, fu il Papa Urbano II. 5 La cultura profonda e la sua norma severa di vita commossero tutti quelli che ebbero l’onore di avvicinarlo. Allorché si trattò di difendere la Chiesa seppe diventare lo strenuo combattente della Fede Cristiana. Difatti, da amoroso e fedele seguace di Gregorio VII, che in quei tempi sosteneva la lotta contro le “investiture”, lottò contro Manasse de Gournay ed i Simoniaci che, morto 1’Arcivescovo, avevano invaso Reims, usurpandone la sede arcivescovile. In difesa della verità e del diritto sacrificò la quiete e tutte le sue dignità. Dopo questo fatto subentrò in lui l’idea di una vita religiosa, ricca di penitenza e di continua preghiera. L’idea, maturatasi e diventata parte essenziale del suo spirito di solitudine, fu da lui stesso manifestata a due fedeli amici, che insieme decisero di abbracciare la nuova vita religiosa. Deposto Manasse nel Concilio di Lione, la sede arcivescovile di Reims rimase vacante per due anni, finché la popolazione ed il clero chiesero Brunone per loro Arcivescovo, ma questi rifiutò e fuggì, in cerca di solitudine e di pace, con i suoi due amici, nell’Abbazia di Molesmes, presso San Roberto. 6 S. Pietro Dopo quest’ultima tappa nella vita monastica, che gli valse molto per meglio approfondire le proprie idee intorno alla futura famiglia religiosa, andò a Grenoble e si presentò al Vescovo di quella città, Sant’Ugo, già suo discepolo, al quale manifestò le sue decisioni e le sue ardenti brame di vita contemplativa. Sant’Ugo gli concesse i monti della Chartreuse, dove accompagnò l’amante della solitudine, benedicendo la futura prima casa di quei Padri, figli della penitenza, che, dal primo luogo da essi abitato, si chiamarono Certosini (1084). Sei anni Brunone, con i suoi fedeli, aveva trascorsi nei monti della Chartreuse, ed il numero dei discepoli s’era gradatamente accresciuto, quando nel 1090 un messaggero del papa Urbano II si presentò alla porta della Certosa. Il Papa voleva a Roma Brunone che avrebbe dovuto aiutarlo nel governo della Chiesa. La notizia addolorò l’amante della solitudine, che non sapeva distaccarsi dalla vita di penitenza e preghiera. Ma bisognò obbedire. Si recò a Roma con pochi discepoli. In quei tempi la Cristianità era minacciata gravemente: in Italia erano ancora recenti il ricordo e gli effetti dell’usurpatore Guiberto ed i faziosi reclamavano la rivincita; in Germania Enrico IV appoggiava l’antipapa; in Oriente i Musulmani atterrivano e minacciavano i Cristiani; nell’Europa i principi erano discordi; a tutti questi pericoli s’aggiungeva quello, non meno terribile, dell’indebolimento della disciplina ecclesiastica. Dinanzi a questi problemi da risolvere si trovò Brunone, che con saggi consigli coadiuvò il Papa. In Italia furono opposti ad Enrico IV i duchi Normanni di Sicilia, Roberto e Ruggero Guiscardo alleati della Santa Sede; la disciplina ecclesiastica fu rafforzata ed il Papa stesso si recò in Francia a predicare la crociata contro l’Islam. S. Brunone Per le buone opere prestate, il Papa volle ricompensare Brunone, offrendogli il seggio arcivescovile di Reggio Calabria, ma questi si rifiutò pregandolo di farlo tornare nella pace della sua Certosa. Il Papa acconsentì, a patto che fosse rimasto in Italia. Il Conte Ruggero di Calabria si fece paladino di Brunone, cedendogli un vasto possedimento “della Torre”, nella diocesi di Squillace in Calabria. Quivi Brunone ed i suoi seguaci fondarono la seconda Certosa che subito si popolò tutta, tanto che fu necessaria la costruzione di un’altra Certosa, in un luogo vicino, che venne intitolata a Santo Stefano in Bosco. Il Papa ebbe ancora bisogno di Brunone e lo richiamò a Roma, ma infine lo lasciò libero per sempre nell’osservanza della vita religiosa, nel monastero “della Torre”. Qui insieme alla sagace ed intelligente collaborazione di Lanuino, suo primo successore, che era già stato Priore della Grande Certosa, Brunone dettò alcune note, che poi dovevano servire come base a Don Guigo, il quale scrisse “Le consuetudini dell’Ordine Certosino” (1134). Nel 1099 il Papa Urbano II morì, seguito a poca distanza dall’insigne benefattore, il conte Ruggero. Brunone quindi si vide privato dei suoi migliori amici, ed essendosi a causa delle penitenze e privazioni indebolito abbastanza si preparò all’ultimo trapasso, intensificando il già rigido tenore di vita. La domenica 6 ottobre dell’anno 1101 rese la sua anima eroica a Dio. Brunone scrisse i Commenti sui Salmi e sulle Lettere di San Paolo che, a giudizio dei Benedettini della Congregazione di San Mauro, autori di una Storia letteraria di Francia, “dovrebbero andare tra le mani di tutti i fedeli e particolarmente delle persone consacrate alle pubbliche preghiere, essendo lo stile conciso, semplice, robusto, chiaro, netto; ed il latino è pure buono, quanto lo può esse‐re quello di ogni altro scrittore del suo tempo”. Nell’anno 1622 Papa Gregorio XV elevò il Grande Patriarca agli onori degli altari. Varie leggende sono state create dalla fantasia dei romanzieri intorno ai certosini. Il popolo crede ancora a molte di queste leggende, forse perché, essendo l’Ordine interamente consacrato alla solitudine e vivendo perciò i suoi affiliati nelle Certose, lontani da ogni rumore 7 mondano, un’aura di mistero li ha avvolti nei secoli, dando origine così a quelle false interpretazioni sulla loro vita. Citeremo in proposito le sublimi parole di San Brunone, circa i vantaggi spirituali dell’Ordine: “Riguardo ai beni ed alle dolcezze che apportano la solitudine ed il silenzio del deserto a coloro che ne fanno la propria eredità, essi vengono conosciuti sol da quelli che ne fanno esperienza. Quivi è che uomini generosi ponno a loro agio rientrare nel proprio interiore, abitare seco stessi, coltivare senza posa il germe di tutte le virtù, e gustare in seno alla felicità i frutti del Paradiso. Quivi è che si possiede quello sguardo sereno che permette di vedere Dio, qui lavorasi tra i sollievi delle occupazioni; qui si riposa in un’attività insonne d’agitazione e di turbamento; qui ancora Dio novera le battaglie che sostengono per lui i suoi coraggiosi atleti, e loro concede quale ricompensa la pace ignota al mondo e la gioia dello Spirito Santo”. L’Ordine accoppia le due caratteristiche di quelli occidentali ed orientali. Difatti i monaci sono cenobiti come i Benedettini, e contemplativi e solitari ad un tempo come i primi eremiti. Perciò il Certosino si unisce alla comunità nel coro (giorno e notte), nei giorni festivi e la domenica nel refettorio, nel capitolo, al colloquio, e durante la passeggiata, detta “spaziamento” che dura tre ore e mezza (una volta alla settimana) fuori della Certosa. La vita eremitica del Certosino è essenzialmente contemplativa, secondo la giusta definizione di San Tommaso: “Contemplativi dicuntur, non qui contemplantur, sed qui contemplationi totam vitam deputant”. Perché questa vita contemplativa sia efficace e perfetta occorrono la solitudine ed il silenzio che non possono esistere se non nel chiostro e nella cella. Questa è tutto per il Certosino. In essa prega, mangia, studia e dorme. Ogni cella è munita di una piccola finestra sporgente nel chiostro dalla quale vengono dati al monaco i cibi e tutte le cose a lui necessarie. Il lavoro manuale, utile per mantenere il corpo nella sua piena energia, di solito è praticato col dipingere, scolpire, modellare, tornire, intarsiare: lavori questi che, oltre che a ricreare il corpo e lo spirito, nulla tolgono alla dottrina della contemplazione. Lo studio è raccomandato moltissimo da San Brunone, che non tralasciava mai di consigliare ai monaci il lavoro di trascrizione di codici e manoscritti. In quanto al vitto il magro assoluto è di regola e non si accordano dispense né per i viaggi, né in caso di malattia mortale. 8 Si aggiunge a tale astinenza il digiuno che dura otto mesi, dal 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, sino a Pasqua. Durante questi otto mesi, eccettuate le domeniche ed altre poche solennità, è d’obbligo un solo pasto: alla sera la cena è di un pezzo di pane con poco vino ed acqua. Di solito il Certosino dorme quasi vestito su di un umile pagliericcio e con una sola coperta; veste una tunica di lana bianca con lo scapolare, le cui due parti ai fianchi sono riunite da fasce. Usa il cappuccio solo in cella, il cappello fuori della Certosa. Come i Benedettini, i monaci si distinguono in due categorie: i sacerdoti (padri) ed i laici (frati). I primi addetti esclusivamente alla contemplazione, alla preghiera, allo studio ed all’esercizio delle sacre funzioni; i secondi al lavoro manuale necessario per il sostentamento dei sacerdoti. Oltre ai voti di castità, povertà ed obbedienza, è obbligatorio il voto di stabilità di corpo, riguardo cioè alla dimora prescelta della Certosa, e di spirito, riguardo alla perfezione dei tre voti essenziali. Nella distribuzione delle cariche e degli uffici è in primo luogo il “Reverendo Padre” che, in altri termini, è il Generale dell’Ordine, dal quale dipendono tutte le Certose. Nessun segno distintivo fa palese la sua alta dignità. Seguono i “Visitatori”, che vengono designati dal Capitolo Generale e che debbono, in date epoche, compiere le visite alle varie case Certosine, in qualità di ispettori. Il “Priore” è il capo della Certosa e viene eletto dai religiosi del luogo. Il “Vicario” sostituisce il “Priore” in caso di assenza; il “Procuratore” è addetto alla amministrazione dei beni; il “Sacrista” ai servizi della chiesa; il “Coadiutore” accoglie i forestieri 9 ed ascolta le confessioni ed infine il “Maestro dei Novizi”, addetto alla formazione spirituale dei giovani aspiranti alla vita Certosina. Ed ora un fugace cenno sulla liturgia dei Certosini, che ci renderà maggiormente edotti del misticismo e della pietà che infiorano le azioni di questi “Serafini della Chiesa militante”. L’illustre autore Certosino di “La Grande Certosa” ci dà queste spiegazioni per ciò che concerne il canto ed il modo di salmodiare dei monaci: “I Certosini hanno conservato i loro libri corali senza cambiarvi una nota: ma questo modo di cantare non è del gusto di tutti. Ecco un passo dei nostri antichi “Statuti”, tratto dal capitolo “De modo cantandi”. Come l’occupazione di un vero monaco è molto più di piangere che di cantare, serviamoci della nostra voce in tal guisa che essa procuri all’anima quella gioia intima che viene dalle lacrime, invece delle emozioni risultanti dagli accordi di una musica armoniosa”. Adunque i Certosini salmodiano con la voce melanconica del pianto. E nel canto è tutta la sacra passione che invoglia questi volontari penitenti a impetrare il perdono dal Dio giusto per le anime peccatrici e derelitte del mondo. Nessuno strumento di musica accompagna il loro pianto ed è logico, perché il pianto nasce spontaneo dal profondo del cuore e questo, quando è commosso, è più eloquente di qualsiasi strumento musicale. La “Messa dei Certosini” differisce in varie cerimonie da quella del Rito Romano. Così pure l’Ufficio divino ed altre preghiere di carattere comune. Ciò che desta impressione, e nello stesso tempo commuove l’animo di chi ascolta, è l’Ufficio notturno. Alle ore undici ed un quarto o sotto la mezzanotte (secondo il grado delle feste) la campana riempie la Certosa dell’onda sonora. Le celle ad una ad una sono aperte dai monaci silenziosi che, recanti piccole lanterne, illuminano il chiostro con luce fioca che a mano a mano scompare. In quell’ora notturna mentre il mondo, abbagliato dalle false luci, si diverte, questi umili soldati s’allineano compunti nel coro, in una oscurità quasi totale. Voci lente e calde danno inizio al canto. Non sai se questo è un gemito od una lode, tali sono la compunzione e la letizia che lo dominano. Certo quei momenti, per chi vi assiste, sono 10
sublimi, perché hanno la magia del sogno e la forza dell’incanto. Si estinguono i lumi; unica face accesa, simbolo costante della fiamma dell’amore, è la tremula lampada del Sacramento. I monaci non si distinguono più: o meglio nella loro immobilità statuaria si scorge ogni tanto il fluttuar ieratico dei panni, avvolti come nella nebbia, dietro cui voci misteriose s’intrecciano solenni, concordi nel pianto e nella lode. Il profano è preso da un sacro terrore: cessano allora tutti gli appetiti mondani, i pensieri che ci legano al mondo evadono dalla mente: tutto si dimentica. Unico pensiero dominante è l’eternità. Il coro termina. Le lanterne si riaccendono. I monaci ad uno ad uno si ritirano nelle celle: il chiostro si illumina ancora una volta di luce fioca, poi tutto è avvolto dalle tenebre. Sono le due. La morte è sempre presente dinanzi alla mente del Certosino. Difatti i simboli di questa sono sparsi ovunque nella Certosa. E non a caso il cimitero è situato nel Grande Chiostro. Inoltre simboli di morte si trovano nelle celle, nella chiesa e finanche in cucina. I panni che ricoprono il Certosino morto sono quelli dell’Ordine: il cadavere cinto da una corda viene fissato su di un’asse; il cappuccio gli copre il volto; le mani poggiano sul petto a forma di croce e la testa è leggermente sollevata da un cuscino di paglia. Dopo le funzioni religiose di rito il cadavere viene trasportato, senza cassa, nel cimitero. Qui la fossa viene aspersa di acqua santa dal celebrante, il quale dopo aver recitato le preghiere dei defunti, aspetta che il cadavere venga messo dentro; quindi getta tre pugni di terra nella fossa, che poi viene riempita dagli altri monaci. Una croce di legno sormonta la fossa, mentre per i Padri Generali la croce è di pietra. TOMMASO SANSEVERINO Turgisio, discendente dei duchi di Normandia, venuto in Italia al seguito di Roberto il Guiscardo, che gli donò la contea di Sanseverino, è il capostipite della famiglia. Sarebbe troppo lungo parlare delle vicende di Turgisio e dei numerosi discendenti. Al lettore interessa sapere che Tommaso discende in linea retta da Turgisio. Padre di Tommaso fu Ruggero, ricco di virtù e prode fino all’eroismo. Morto costui, nel 1285, in Marsico, di cui era signore, rimase unico erede Tommaso. Teodora d’Aquino, moglie di Ruggero e madre di Tommaso, era sorella dell’Angelico Dottore. Il fondatore quindi, ereditando i beni ed i feudi aviti, ereditava dalla madre preclare virtù di pietà, e dallo zio sante aspirazioni celesti. Come uomo d’armi e di governo fu degno di lode e di ammirazione. Roberto d’Angiò lo amò e lo protesse moltissimo. Immensi furono i benefici che gli concesse, proficue ed estese le donazioni. Sposatosi due volte ebbe complessivamente sei figli: due, Ruggero ed Enrico, dalla prima moglie Margherita, figlia del conte di Valdemonte e di Ariano; e quattro: Giacomo, Guglielmo, Roberto e Ruggero dalla seconda, Sveva d’Avezzano. Tutti questi figli seguirono la carriera delle armi e del governo, fatta eccezione del primogenito Ruggero che seguì la carriera ecclesiastica, diventando prima arcivescovo di Bari e poi di Salerno. Fin dalla sua infanzia, il conte Tommaso aveva nutrito una particolare e tenera 11
devozione per l’Ordine dei Certosini e sempre aveva ripetuto a se stesso ed agli amici queste parole: “Fonderò per i Certosini un monastero sulle mie terre, non appena potrò farlo”. Questo “suo zelo di sincera devozione”, come disse il re Carlo Il, divenne realtà viva e palpitante fatta d’amore e di perseveranza. Seppe usare della sua ricchezza, che lo rendeva uno dei più importanti signori del tempo, accoppiando alla sua potenza, che si estendeva in tutto il Vallo di Diano ed oltre, fino a San Severino, una munificenza degna di un santo. Prove di questa sono il diploma del 28 gennaio 1306, nel quale sono enumerati i benefici, le donazioni ed i privilegi concessi ai Monaci, ed il diploma del 20 gennaio 1307, indirizzato al Priore ed ai Monaci, in cui il suo animo nobile ed estremamente caritatevole così si manifesta: “Mentre noi, per fervoroso affetto al vostro Ordine, abbiamo fondato a proprie spese e dispendio la Certosa di San Lorenzo in Padula, dell’Ordine Certosino nella diocesi di Capaccio, il nostro cuore è molto preoccupato e siamo angustiati da continua sollecitudine, perciò mentre siamo ancora in vita...(noi pensiamo)... di provvedere la casa stessa dei beni temporali, affinché le persone che quivi servono il Signore possano dei beni stessi convenientemente sostentarsi”. Nell’anno 1321, dopo aver diviso i suoi beni tra i figli, senza trascurare la Certosa, morì tra il rimpianto dei sudditi e degli affeziona‐ti Monaci, che lo seppellirono nella reggia austera. Sono sette secoli ormai che tranquillo riposa nella pace e nella melodia del silenzio, ripetendo al monaco certosino, che, purtroppo, è assente HOC ‐ CLAUDOR ‐ SAXO PRIMUS ‐ QUI ‐ SAXEA ‐ FIXI FUNDAMENTA ‐ DOMUS CARTHUSIANAE ‐ TUAE MARSICUS ‐ ECCE ‐ COMES THOMMASEN ‐ SANSEVERINUS AD ‐ DOMINUM ‐ PRO ‐ ME ‐ FUNDITO CORDE ‐ PRECES (In questo sasso sono chiuso io che posi le fondamenta della tua casa Certosina; sono il conte di Marsico, Tommaso Sanseverino; dal profondo del cuore eleva preghiere a Dio per me). I discendenti furono di cuore non meno nobile del suo. Avendo infatti gli amministratori della casa, dopo la sua morte, mostrato freddezza ed incuria nel pagare quanto era stato stabilito da lui, i Monaci si risentirono con il figlio Guglielmo: questi, con una generosità degna del padre, colmò di benefici e donazioni i Monaci malmenati da quei “figli di iniquità e disprezzatori d’ubbidienza”. La Famiglia Sanseverino godette grande fama e molta influenza esercitò e non a torto fu detta “la prima casa del Regno”. Il suo prestigio, infatti, si estendeva in quasi tutta la penisola. Ciò è dimostrato dai monumenti e dagli stemmi sparsi in molte città d’Italia. E, infine, importante notare che l’esempio di Tommaso fu subito imitato, in Italia, da altri munifici principi, i quali, come lui, fondarono a proprie spese magnifiche Certose, abbellendole con notevoli opere d’arte e dotandole di cospicue rendite. 12
VERSO L’INGRANDIMENTO La fabbrica della Certosa fu grandemente coadiuvata dall’assistenza morale di eminenti personalità ecclesiastiche e da una costante munificenza dei fedeli. I re di Napoli, Angioini e Durazzeschi, furono tutti benevoli verso la Certosa. Il re Roberto, la regina Giovanna I, Carlo III, Ladislao, Giovanna II protessero e beneficarono il Cenobio con una larghezza che fa loro onore. Poiché molti preziosi documenti storici sono andati perduti, è impossibile narrare più dettaglia‐
tamente le gloriose vicende della Certosa. Di tutti i Priori del Cenobio non esistono dati biografici. Si sa solamente degli atti amministrativi da essi compiuti e di qualche notizia sporadica intorno al loro governo. Non potremo credere che i Monaci, così spiritualmente educati, abbiano scritto solo gli atti amministrativi priorali. Il tempo e gli eventi burrascosi hanno involato ai nostri occhi tutto ciò che fu vita vissuta con energia e santità. Tutti indistinta‐
mente furono attivi conservatori degli interessi del Cenobio e le donazioni come i privilegi furono costantemente favoriti dalla loro sagacia. La vita del Cenobio, sino all’anno 1451, durante il quale sotto il priorato di Don Nicola Congo, furono dati ad esso da papa Niccolò V i beni di Pisticci, Santa Maria e San Basilio, segue tranquilla il suo cammino copioso di costruzioni e florido per le opere d’arte. Dopo un secolo e mezzo dalla fondazione la bandiera Certosina veniva issata sui territori che già un tempo erano stati feudi del Sanseverino. In tal modo la creatura di sì nobile stirpe seguiva la politica e le orme di questa. Santa Maria e San Basilio di Pisticci hanno una storia 13
molto più antica del nostro Cenobio. Monarchi, principi e conti favorirono molto questi due monasteri; perciò la loro annessione alla Certosa segna per questa il periodo aureo della sua giurisdizione. Nel 1505 papa Giulio II donò la chiesa di San Demetrio presso il Basento, nel territorio di Brindisi. Sebbene tale donazione non abbia grande valore, segna per la Certosa un periodo di massima importanza; difatti questa può estendere il suo dominio più liberamente nei territori limitrofi a detta chiesa. Nel 1508 Roberto II Sanseverino vendette al Cenobio una sua ricca proprietà in Marsico, chiamata Mandranello, ed il feudo di Sant’Angelo nel territorio di Sala Consilina (non si confonda il feudo di Sant’Angelo con la chiesa ed il villaggio omonimi). Per detti acquisti fu necessaria la fondazione di una grangia che sorse in piazza S. Eustachio. Fu poco dopo necessaria l’edificazione di un’altra grangia a Saponara per l’amministrazione dei nuovi acquisti in Molitemo, in San Chirico Raparo e nella stessa Saponara. La vita del Cenobio continua così rigogliosa e florida. Donazioni, privilegi e compere effettuate con danaro proprio, e ciò dimostra la considerevole ricchezza, si susseguono meravigliosamente, rafforzando la dignità austera e maestosa della sua regale costituzione. La badia benedettina di Santa Maria di Cadossa, nel territorio di Casalbuono, più antica della Certosa e coeva di Santa Maria e di San Basilio di Pisticci, con bolla papale e con la conferma priorale fu incorporata alla Certosa. Per conseguenza Casalbuono spiritualmente dipese dalla Certosa e, quando verso la fine del secolo XVI cercò di sottrarsi alla giurisdizione priorale, subentrò la Santa Sede che confermò, decretando, il diritto priorale. La Certosa, se s’interessò moltissimo degli acquisti considerevoli, non trascurò quelli di minore importanza. Difatti in Teggiano, nei territori di Vibonati ed in quelli di Policastro, acquistò oliveti, querceti, case, beni mobili ed immobili. I successori di Tommaso, che moralmente potevano dire loro la Certosa, in quasi tutti gli acquisti, le oblazioni e le compere, stesero ai Monaci la loro mano ausiliatrice. Non bisogna però sottovalutare l’opera benefica dei piccoli donatori che, con somma devozione a San Lorenzo ed a San Brunone, portavano periodicamente ai Monaci grano, latticini ed altro. Le più belle ed ubertose contrade del territorio di Padula arricchirono i possedimenti certosini: Rofreddo (Rio freddo), Serra rotonda, Malanotte ed il Monastero benedettino di San Nicola al Turone erano tra le più antiche proprietà del Cenobio. Anche in Eboli, Salerno e Napoli vantava diritti e possedimenti. A Salerno la fiera di San Matteo (la cui origine risale ad epoca remota) era largamente sfruttata dai Monaci di Padula, i quali vantavano presso la Corte amministrativa salernitana numerosi privilegi e cospicue risorse economiche, soprattutto perché i Sanseverino diventarono signori di questa città. In Napoli i possedimenti erano considerevoli. Molti fabbricati della Certosa erano sparsi nelle principali vie della città. Varie grange tutelavano gli interessi del Cenobio che, nel quartiere del Pendino, in Piazza degli orefici, aveva un ospizio detto pure San Lorenzo. A causa del colera (1884) furono ordinate dal Municipio di Napoli molte demolizioni per il risanamento della città e l’ospizio venne atterrato dal piccone risanatore. Gli Aragonesi, succeduti agli Angioini ed ai Durazzeschi, non si mostrarono da meno di questi nella elargizione di benefici e privilegi. Colui che, tra i re Aragonesi, ebbe maggiori contatti con la Certosa fu Alfonso I. Questi, 14
infatti, creò per essa diritti di pascolo, pedaggio e pesca nel mare di Taranto. Gioviano Pontano, della celebre Accademia, che da lui s’intitola Pontaniana, fondata da Antonio Beccadelli, detto il Panormita, sotto il governo del magnanimo Alfonso, essendo intimo dei monarchi aragonesi ed amico e confidente dei Monaci della Certosa di San Martino di Napoli (tre dei quali divennero Priori di Padula), subentrò quale intermediario tra gli intimi e gli amici a vantaggio della Certosa. La sua opera non fu priva di risultati, specie nel campo cul‐
turale. Le lotte sostenute fra re e baroni, che ebbero come teatro i territori vicini alla Certosa ed ai suoi feudi, e le guerre fra i pretendenti francesi e spagnoli non poco danno arrecarono alla tranquillità ed all’arte del Cenobio. La terribile congiura dei Baroni (1485), tramata contro gli Aragonesi, ed in cui ebbero attiva parte i Sanseverino, segnò un periodo di sosta ignominiosa. Molti congiurati pagarono la loro tracotanza con la morte. Il ribelle Antonello Sanseverino riuscì a fuggire. Ma il suo atto fu tenuto presente da Federico d’Aragona, re di Napoli, il quale, partendo da questa causa remota e istigato dalla ribellione del Conte che si chiuse temerariamente nel castello di Teggiano, marciò con un esercito di ventimila uomini contro di lui. Dopo sei mesi di accanita resistenza Antonello fu costretto a capitolare. Se il rigoglio finanziario ed artistico fu turbato da queste guerre, la vita intima dei Monaci conservò sempre la più intima disciplina. La Certosa, infatti, era tanto stimata dalle altre consorelle, che queste vi inviavano quei Padri o conversi poco osservatori della Regola, per le necessarie correzioni. PROSPERANDO E BENEFICANDO L’anno 1514 fu per tutta la Comunità una data gloriosa ed apportatrice di letizia. Difatti sino a quell’epoca l’Ordine ignorava dove era sepolto il corpo del Patriarca Brunone. Molte erano state le ricerche e vani i risultati. Trovandosi quell’anno nella Certosa di Santo Stefano in Bosco, in Calabria, alcuni Monaci della Comunità di Padula, per affari inerenti all’Ordine e missioni di carattere spirituale, pensarono di rintracciare il corpo del Fondatore. Le ricerche furono diligenti ed alacri: finalmente, dopo alcuni mesi, poterono annunziare all’Ordine di aver trovato le ossa del Fondatore. Tale scoperta riempì di gioia i Monaci dell’Ordine ed in tutte le Certose furono celebrate preghiere ed inni di ringraziamento. La notizia giunse fulminea a Papa Leone X che, con animo lieto e sincera ammirazione per l’Ordine, beatificò il mistico Fondatore. Il cranio del Patriarca fu portato a Napoli, donde tornò solo nel 1516 racchiuso in un magnifico busto d’argento che ancora oggi si ammira nella Certosa calabrese. Ecco quanto scriveva un cronista dell’epoca sulla vita spirituale della Certosa: “Grazie alla santità della vita dei Monaci, alla prudente amministrazione degl’incaricati, al buon esempio dei conversi, all’ardente carità di tutti per Dio e per il prossimo, il monastero è molto prosperato. I religiosi sono numerosi, ma quello che si consuma per l’uso della casa è poco in confronto di ciò che si dà ai poveri di Gesù Cristo, a diverse persone ecclesiastiche ed agli Ordini mendicanti. Liberati dall’amore per le cose di quaggiù, i Padri si dedicano tutti interamente agli Uffici divini. Se qualche volta vengono ingiustamente molestati o se vengono privati dei loro diritti, essi sopportano l’ingiuria con pazienza piuttosto che d’intentare dei processi”. 15
E doveroso ricordare qui due nobili figure di Monaci. Giovanni di Balsamo Brancaccio, fin da quando era abate di San Nicola al Turone, aiutò finanziariamente i religiosi. Talmente si affezionò all’Ordine che chiese il permesso al Papa Clemente VII d’incorporare tutti i suoi benefici alla Certosa ed indossò l’abito dei figli di San Brunone. Uomo pietoso, buono, affabile, seppe guadagnarsi la venerazione e la stima dei monaci; dolce ed umile con tutti era servizievole e mite secondo i dettami del Vangelo. Dopo infiniti dolori cagionati da una inguaribile infermità, morì tra il compianto generale l’anno 1574. L’altra figura da ricordare è quella del Priore Don Lorenzo Giordani. Durante una grande carestia che desolava Padula ed i paesi limitrofi, aprì i granai della Certosa per alleviare gli indigenti. Ai consiglieri, che cercavano di distoglierlo dal dare grano ai poveri, rispose facendo distri‐
buire a questi tutto ciò che aveva conservato per i Monaci. La Provvidenza ne premiò la fede e la carità. Difatti una notte il granaio fu miracolosamente riempito di frumento, e gli operai di una grangia scoprirono una fossa piena d’oro che permise non solo di sovvenire alle necessità impellenti, ma anche di aumentare le rendite della Comunità. Per la sua grande umiltà volle ritornare semplice religioso. Morì nell’anno 1590. Molti storici, tra cui Camillo Tutini, Giovan Battista Pacichelli e Costantino Gatta parlano di una visita di Carlo V e di una colazione consumata in cantina, consistente in una frittata di mille uova. Monsignor Antonio Sacco non accetta, nella sua poderosa opera, ciò che per molti secoli fu opinione comune (ed erroneamente lo è tuttora) intorno a questa visita, perché, come afferma il medesimo: “è veramente incomprensibile come i diaristi della vita di Carlo V igno‐
rino la sua visita alla Certosa”. Sono invece vere le visite di Federico II d’Aragona e di Alfonso duca di Calabria, che poi successe al padre Ferrante sul trono di Napoli. Il Rinascimento, se fu la tomba dei patrii sentimenti, fu pure il periodo più ricco di artisti di ogni genere. Quelli che più di tutti venerarono l’Arte, incoraggiando gli artisti, furono i Papi e i Monaci. La Certosa non poteva rimanere indifferente di fronte a tanto splendore ed a tanto pullulare di artisti. Il Rinascimento, infatti, segna il periodo aureo dell’arte sua. Fu così grande la potenza raggiunta dai Monaci in questo periodo che, cosa rarissima nella storia dell’Ordine, volevano fondare a proprie spese una Certosa, intitolata alla Santissima Trinità nella città di Taranto. Non sappiamo quali furono le ragioni per cui tale disegno non fu attuato. Tuttavia edificarono una fiorentissima grangia presso la chiesetta di San Marco, un tempo proprietà di Santa Maria e di San Basilio di Pisticci, che anche oggi si può ammirare. Dopo l’istituzione della grangia in Taranto i Monaci, riuniti in Capitolo, nell’anno 1635, sotto il Priore Giovan Battista Manducci, decretarono la compera di Montesano da tempo vagheggiata. Detta compera fu effettuata nell’anno seguente, con atto notarile in cui si diceva “essere stato venduto Montesano dal barone Fulvio Ambrosino in persona di Tommaso Novellino al procuratore di questi Giovan Domen. Tassone per ducati 52.500”. Il Priore di San Lorenzo divenne barone di Montesano, ma la baronia fu esercitata dal compratore nominale Tommaso Novellino e dai suoi eredi fino all’anno 1770. L’acquisto di Montesano, che si erge su di un caratteristico cocuzzolo e che dista pochi chi‐
lometri da Padula, fu molto utile alla Certosa. Tale feudo consisteva in numerosi poderi e 16
fabbricati, sparsi nei limitrofi territori. E opportuno, a questo punto, osservare col Sacco che tutti i feudi acquistati “sono tanti corpi complessi, che entrano nel gran corpo della Certosa”. Contemporanee e poco posteriori al suddetto acquisto sono le donazioni spontanee di ricche persone di Tramutola e di Sanza. Tutti questi nuovi possedimenti furono confermati dal re Ferdinando il Cattolico e dal suo successore Carlo V. ULTIME VICENDE Sino al 1500 i Monaci (sacerdoti e laici) erano in numero di trenta. Dopo la compera di Montesano, secondo alcuni cronisti del tempo, la comunità salì alla rispettabile cifra di ottantacinque Monaci. Se questa cifra è un poco esagerata, deve però considerarsi come esatta quella di sessanta. Il nostro Cenobio aiutava finanziariamente e spiritualmente molte Certose d’Italia, essendo il suo tenore di vita, assai rigido, modello, guida ed emulazione per le altre comunità dell’Ordine. Le continue ruberie e le incursioni dei pirati e dei Turchi nei territori in cui aveva possedimenti, come in quelli di Taranto e di Policastro, recarono molti fastidi alla Certosa, costringendo i Monaci a fortificare le loro grange con torri di difesa per tener testa ad un even‐
tuale assalto. Padula, feudo successivamente di molti Principi della casa Sanseverino e delle famiglie Di Scocco, Cardona, Villamari, Gonzaga, D’Este, Grimaldi, De Ponte, Medici, D’Avalos guardava, dall’alto del conico colle, la potenza certosina. Nell’anno 1645, quando cioè era signore e proprietario di Padula e Buonabitacolo il marchese Diego D’Avalos, il sacro regio consiglio, con apposito decreto, autorizzò la vendita di Padula e di Buonabitacolo alla Certosa. La vendita fu effettuata fra il suddetto marchese e Pietro Ferro “dottore dell’arte della medicina”, per una somma di 60.000 ducati. Nel gennaio del seguente anno questi feudi venivano incorporati alla Certosa; così la reggia augusta poteva vantare domini, possedimenti e giurisdizione in ogni luogo, vicino e lontano. Dopo questi acquisti, la Certosa pone termine all’ingrandimento territoriale. Sino al fatale anno 1806 nulla d’importante da segnalare. Tutto il bagliore, meravigliosamente accresciutosi in sei secoli, con la tenacia e l’amore di quei venerandi Padri, che le loro energie spesero, per la vita veramente regale del Cenobio, si oscurò ad un tratto, con il sopravvenire di una nuvola plumbea apportatrice di oppressione. Nel 1806 si stabilì, funesta, nell’Italia meridionale la dominazione francese, segnando la fine della vita certosina ed il tracollo di sei secoli di storia intensamente vissuta. I Monaci furono bruscamente cacciati ed i quadri, le pergamene ed i cimeli più preziosi furono strappati alla custodia di quelle mura vetuste e l’edificio divenne il quartiere generale di quella buona gente. I beni ed i feudi furono incamerati e sola rimase, in mezzo a tanto squallore, la reggia austera, coperta dal velo nostalgico della storia passata. Nell’anno 1818 la monotonia della reggia abbandonata fu inter‐rotta dai canti e dalle preghiere dei Monaci che vi fecero ritorno. Giorni di pace, di letizia e di cantici furono quelli, non solo per i monaci, ma anche per la popolazione che, tripudiando, dava il benvenuto ai figli di San Brunone. 17
Però con la soppressione del 1866 la vita della Certosa fu nuova‐mente interrotta e da quell’epoca i monaci non vi hanno fatto più ritorno. I cinquecentosessanta anni di vita mistica ed intensa testimoniano a noi posteri la florida grandezza del Cenobio glorioso. Nell’anno 1882 l’onorevole Cesare di Gaeta la fece dichiarare Monumento Nazionale. FILO SPINATO DI DUE GUERRE Il munifico Conte, che aveva fondato “a proprie spese e dispendio la Certosa”, preoccupandosi in seguito “di provvedere la stessa dei beni temporali, affinché le persone che ivi servivano il Signore potessero dei beni stessi convenientemente sostentarsi”, non avrebbe mai immaginato che quella sua maestosa creatura sarebbe stata desti‐nata dalla superficiale valutazione dei posteri a campo di concentra‐mento peri prigionieri di guerra (1915‐1918), a sede di Comando della VII Armata nell’ultima guerra, e, successivamente, a campo di prigionieri inglesi (1942‐1943), ed infine, ironia delle cose!, a campo di concentramento di italiani prigionieri degli inglesi. Nel gennaio del 1944 la Certosa, infatti, cambiò il suo nome in questo più lungo e così poco cristiano di “A Civilian Internee Camp. 371 P.O.W.”. Sino all’agosto del 1945, quando cioè il campo fu sciolto con la parziale liberazione degli internati, oltre tremila uomini e circa duecento donne italiane e tedesche vi furono rinchiusi. La sontuosa “Reggia del Silenzio” era diventata la involontaria prigione di migliaia di italiani, provenienti da tutte le regioni della Penisola, dal Lazio alla Sicilia, dalle Marche alla Campania, dalla Toscana al Molise, diversi per censo ed intelletto, origini e cariche occupate, ma tutti ugualmente colpevoli dinanzi agli occhi dello straniero vittorioso, così facilmente incline a confondere il soldato valoroso come il Generale Bellomo col comune criminale di guerra. 18
Molti nomi di uomini che per anni, durante il regime fascista, avevamo ascoltato alla radio o letto sui giornali, erano diventati dietro la muraglia della Certosa dei numeri, e di loro ci si accorgeva soltanto quando i familiari, che avevano preso dimora nel paese per essere vicini ai loro cari, narravano le storie di ognuno, le tante peripezie subite durante un recente passato e che suonavano ormai come fantasie di un mondo lontanissimo. Così sapemmo che i personaggi più importanti reclusi nella Certosa si chiamavano Gaetano Polverelli, Orfeo Sellani, Maurizio Maraviglia, Andrea Carafa, l’ing. Roger, il progettista degli incrocia‐tori più belli della nostra marina d’anteguerra, Paolo Orano, Orsolino Cencelli, Achille Lauro, Giuseppe Frignani, Francesco Ruspoli, Massimo Tasca, Ezio Garibaldi, Giulio Quirino Giglioli, Gherardo Casini, Alberto Giannini, Valerio Pignatelli, Giorgio Vaccari, il pittore Baccio Maria Bacci, l’architetto Alberto Calza Bini, il maestro De Rewisky, ecc. INIZIATIVE CULTURALI Poiché nel 1942, quando cioè la Certosa ospitava 500 prigionieri inglesi, per la maggior parte ufficiali, il Comandante italiano del Campo, colonnello Santoro, aveva cercato, nei limiti del possibile, di rendere meno tediosa e triste la vita ai reclusi, permettendo loro di allestire un teatrino nel grande refettorio, il Comandante inglese del Campo, certamente memore di ciò, cercò anch’egli di alleviare ai prigionieri la vita di reclusione, consentendo loro di ascoltare conferenze, di fare lezioni, allestire un teatrino, servirsi di una biblioteca. Così il prof. Garoglio dell’Università Agraria di Firenze insegnò a molti agricoltori i segreti dell’enologia e della coltura dell’ulivo, il prof. Spazzi diede lezioni di stenografia, il prof. Coppi insegnò francese e arabo. Giulio Quirino Giglioli, esperto di storia antica e romana, tenne molte conferenze illustrando le origini romane del Vallo di Diano, e Alberto Calza Bini fece rivivere in dotte conferenze la gloriosa storia della Casa dei Certosini. In tal modo, grazie a queste iniziative cul‐
turali che grande giovamento arrecavano agli spiriti dei più sensibili e preparati, molti poterono apprendere che in quelle mura per seicento anni si erano avvicendati centinaia di bianchi monaci, i quali, ogni sera, sotto la mezzanotte, chiamati dal suono della campana, uscivano dalle proprie celle per recarsi in chiesa a cantare le lodi di Dio sino alle due del mattino. Per 545 giorni, ogni sera, migliaia di uomini, sconvolti e sopraffatti dagli eventi, vedendo crollare speranze e ideali, si accorgevano, con dolce meraviglia, che qualcosa in ognuno, il vecchio uomo cioè, veniva sostituito dall’altro, il credente. La Fede infatti tornò nei cuori di molti tra le mura della Certosa e molti furono quelli che poterono approfondire il significato del celestiale adagio “per aspera ad astra”. Prova di questo immenso beneficio della Fede riacquistata nel dolore e nella polvere sono la cristiana rassegnazione con la quale il generale Bellomo affrontò il plotone di esecuzione, le molte sofferenze di Paolo Orano, coraggiosamente sopportate sino alla morte, e quelle di tanti altri illustri che riposano ancora nel cimitero di Padula, sulle tombe dei quali pietose mani di ignoti fedeli depongono ogni anno, il 2 novembre, un crisantemo ed un cero. Un ex internato, così scriveva, pochi mesi dopo la liberazione sull’“Osservatore Romano della Domenica” del 28 ottobre 1945: “Nella chiesa settecentesca della Certosa di S. Lorenzo in Padula sono raccolti in preghiera gli internati dello “A Civilian Internee camp.”. L’altare è adorno di fiori campestri. 19
Sono stati raccolti con il permesso del Comando là dove crescono più rigogliosi, nel tratto coperto dalla fascia di filo spinato che cinge il campo. Qualche mano per coglierli ha sanguinato perché non mancasse a Dio questo tributo... S’alza un canto dietro l’altare e l’accompagna il suono delle fisarmoniche inviate da Papa Pio XII. E il “Coro Lauretiano” formato da internati e diretto da un monaco benedettino. Dio a Padula ha compiuto il miracolo di disarmare molti animi avvelenati dall’odio di parte. Tutti gli internati nel lasciare la Certosa si sono genuflessi nella chiesa settecentesca, facendo il proponimento di tornare nello stesso posto per rendere ancora grazie a Dio che li ha sorretti durante un angoscioso periodo della loro esistenza”. IL VALLO DI DIANO E LE ORIGINI DI PADULA L’ampio bacino, oggi ricordato come vallo di Diano, si estende da Polla a Casalbuono per circa 40 chilometri, con una larghezza di quattro e mezzo ed una superficie pianeggiante di circa diciassettemila ettari. I paesi del Vallo, oltre a Teggiano, che dà il nome alla zona e che sorge su una collina in mezzo ad essa, sono disposti in punti diversi, a poca distanza l’uno dall’altro, o sulle falde e sulle cime dei monti circostanti; essi sono Casalbuono, Montesano sulla Marcellana con la frazione Arenabianca, Padula, Monte San Giacomo, Sassano, Sala Consilina, Atena Lucana, Polla, Sant’Arsenio, San Pietro al Tanagro, San Rufo, Buonabitacolo, Sanza. L’intera vallata faceva parte della Lucania occupata dai Romani, che vi costruirono strade e vi fecero molte opere di bonifiche, specie di alcune parti infestate dalla malaria. Nell’Itinerario di Antonino, compilato per ordine di Giulio Cesare nel 44 a.C., vengono indicate le principali città e borgate, tra cui Atena, Marcelliana, Consilinum ad oriente e Tegianum e Sontia ad occidente. Mentre è storicamente accertato che Atena, Tegianum e Sontia sorgevano negli stessi luoghi ove tuttora sono Atena Lucana, Teggiano e Sanza, Consilinum sorgeva sul colle dietro Padula, oggi detto Civita, e Marcelliana, suburbio di Consilinum, sorgeva nella sottostante pianura, verso Sala. Successivamente questa si completò con l’appellativo di Consilina e Montesano con quello di “sulla Marcellana”. Nessuno ha mai saputo spiegare la curiosa inversione dei nomi, con palese confusione delle vere origini dei suddetti luoghi. Consilinum, che sorgeva a circa un miglio dall’attuale Padula, fu una delle sette antichissime prefetture della Lucania e, durante i primi secoli della Chiesa, anche residenza vescovile. Padula, dopo la totale distruzione di Consilinum avvenuta in epoca assai remota, agli inizi dell’ anno Mille, venne edificata dagli abitanti di Consilinum sull’attuale conico colle, per ben difendersi dalle frequenti invasioni dei Vandali, Goti, Longobardi e Saraceni. Per le genti di questa terra la vita è stata sempre difficile ed amara, sia per l’incuria dei vari governi nazionali che hanno lasciato il sud nel più riprovevole abbandono, e sia per l’indifferenza della restante Italia, quella del nord, che spesso ha sottovalutato ingiustamente lo spiriti) di sacrificio e di iniziativa delle popolazioni meridionali. E così, mentre, nel Medio Evo e dopo, Padula poteva disporre di un ospedale (San Clemente), di un brefotrofio (Annunziata), di un fiorente monastero (San Nicola al Turone), di attivi conventi (S. Agostino e S. Francesco), che ravvivavano la fede e la cultura nel luogo, successivamente i suoi figli si ricordarono di 20
essere italiani anch’essi solo quando il patrio governo li arruolò nell’esercito per mandarli sui campi di battaglia nelle molte guerre del periodo post‐risorgimentale. Prima di chiudere questo capitolo, ritengo utile accennare brevemente a due antichi monumenti, San Nicola al Turone e San Michele alle Grottelle, edificati quando la collina della moderna Padula era ancora priva di case e strade. Nell’alto Medio Evo, e cioè nel sec. XI, venne fondato il monastero benedettino di San Nicola al Turone, contemporaneamente all’altro di Santa Maria di Cadossa in Casalbuono, dallo stesso benefattore Ugo a favore dell’Abate caven‐
se Pietro. Assai poche sono le notizie di questa badia, anche perché non si conosce neppure quale sorte abbia avuto il suo importante archivio. Secondo il Tutini essa venne incorporata alla Certosa nell’anno 1538. Poiché è il più antico edificio, o meglio rudere, in vicinanza della distrutta Consilinum, tutto lascia supporre che assai importante fu la sua collocazione in questa zona. Anteriormente alla fondazione di San Nicola, sul luogo detto Civita, venne fondato un santuario rurale dedicato a San Michele, adattato in una Grotta. Certamente l’ignoto fondatore volle istituire nello stesso luogo, che fu testimone secolare della prefettura romana Consilinum, sia pure in una grotta, un tempio all’Arcangelo Michele, vincitore del paganesimo, per dare conforto ai contadini ed ai pastori nei circostanti “pagi et vici”. Dopo, la tradizione popolare lo ritenne sempre dipendente dalla vicina Badia benedettina di San Nicola al Turone, che certamente vi inviava i suoi monaci per le funzioni religiose, e per secoli venne chiamato S. Angelo la grotta, sino a quando, agli albori del secoli) scorso, venne chiamato San Michele alle Grottelle. Vi si possono ammirare una statua in pietra dell’Arcangelo Michele e la tomba marmorea di tal Brancaccio, del sec. XVI, che o fu un benefattore del santuario o fu addirittura Giovanni di Balsamo Brancaccio, già abate di San Nicola. Però, essendo l’epigrafe mortuale priva del nome di battesimo, quest’ultima ipotesi non può ritener‐si probabile. Gli abitanti di Padula, come nei secoli scorsi, ogni anno, durante il periodo estivo, si raccolgono numerosi nel piccolo santuario per venerarvi il loro patrono, San Michele. 21
Cenni artistici Quasi tutti gli artisti che abbellirono il sontuoso edificio furono figli di Padula. Disgraziatamente i loro nomi non ci sono pervenuti, eccetto qualcuno, e non sappiamo, se per la loro scarsa ambizione di gloria o per negligenza dei cronisti dell’epoca. La Certosa, come si rileva dalla visione dell’intero edificio, è costruita a forma di graticola per deferenza a San Lorenzo a cui essa è intitolata, martirizzato il 10 agosto dell’anno 258, sotto l’imperatore Valeriano. Difatti quel gruppo di fabbricati che chiude l’atrio rappresenta il manico); la vasta costruzione rettangolare, ove sono i quartieri dei Certosini, rappresenta i ferri della graticola e lo scalone a due rampe, coperto da un’artistica cupola, in cui si prolunga il primo corridoio, rappresenta il coppino per l’untume. Costruzione quanto mai simbolica e suggestiva, che ricorda il Palazzo dell’Escuriale in Spagna, fondato da Filippo Il. L’atrio, da cui si poteva accedere alle cantine, ai mulini ed ai frantoi, è circondato da due braccia di fabbrica entro cui, a pianterreno, vi erano le scuderie, i pastifici, i caseifici, la fonderia per le campane, la farmacia, la stalla e l’abitazione del portinaio. Al piano superiore sono ampie camere che servivano per alloggiare i pellegrini ed i “professori dell’arte salutare a servizio del Monastero”. LA FACCIATA Il visitatore è subito preso dall’aspetto maestoso della facciata. Cominciata nel 1718, fu terminata nel 1723. Il nome del suo architetto non ci è pervenuto, però alcuni studiosi, come lo Schiavo, sono concordi nell’attribuirla al Vaccaro (Domenico Antonio Vaccaro [Napoli 1681‐
1750], pittore, architetto e scultore, lavorò anche nella Certosa di S. Martino di Napoli), notando notevoli affinità fra questa e la facciata del palazzo progettato per il Principe di Tarsia, eseguito solo in piccola parte. 22
Lo stile è barocco, ma espresso in forme mature, esenti da tutte quelle esagerazioni, cui molte regioni, e non ultimo il Napoletano, andavano soggette. Il motivo centrale, che comprende il portone d’ingresso, è sormontato da una nicchia senza fondo in cui è la statua della Vergine che prega. Sotto è visibile una lapide con il motto: Felix coeli porta. I motivi laterali della balaustrata rappresentano guglie e due busti raffiguranti l’estate e l’inverno, con un curioso misto di sacro e profano. Le colonne del pianterreno sono incorporate al muro ed ai cunei degli archi. Inferiormente è decorata da quattro statue dei santi Lorenzo, Pietro, Paolo e Brunone, contenute in nicchie. 23
LA FORESTERIA A destra dell’ingresso c’è un chiostro, dal quale si accede alla Foresteria, ampia e sontuosa con dieci stanze. In essa c’è da notare il Trittico, murato sul pianerottolo della scala, dei Santi Tommaso d’Aquino, Caterina e Lorenzo, anteriore al 1300 e di autore ignoto. Qui venivano ospitati i pellegrini ed i signori di passaggio, ai quali si dava senza mercede alloggio e vitto. Sempre dal chiostro della Foresteria si entra nella Chiesa principale, priva di qualsiasi comunicazione esterna, perché serviva esclusivamente alle pie pratiche dei Certosini. 24
CHIOSTRO Sul portale si legge il seguente versetto: “Gloria in excelsis Deo et in terra pax horninibus”. La porta in cedro del Libano tutta a bassorilievi è del secolo XIV (1374). E intagliata con rosoni e lettere gotiche che compongono le parole: “Ave Maria gratia piena” e con figure rappresentanti scene della vita di San Lorenzo. Precede il coro dei padri quello dei laici, pregevole opera di intagli e intarsi. I tergali recano immagini di santi, tutti fondatori di Ordini religiosi. Sotto i sedili vi sono caratteristiche costruzioni architettoniche e curiosi paesaggi. I posti sono ventiquattro. Il coro dei padri è ancora più pregevole; consta di trentasei posti, diciotto a destra e diciotto a sinistra, tutti finemente intagliati ed intarsiati. I tergali di destra raffigurano scene della vita del Messia e del Nuovo Testamento; quelli di sinistra raffigurano meravigliosamente la passione di Cristo. Sui sedili sono raffigurate scene del Vecchio Testamento, di Santi e di Eremiti; sotto, costruzioni architettoniche e castelli medioevali; a destra ed a sinistra, sul davanti degli inginocchiatoi sono effigiate, con vero senso dell’arte, ventisette scene di martirio. Ricca di stucchi dorati e di affreschi è la volta; si vedono in giro alle pareti, sette posti per quadri. L’altare maggiore, in scagliola, è reso pregevole dall’inserimento di pietre dure e madreperla. I motivi sono rosoni, uva, fragole e fiori di trifoglio, che si intrecciano capric‐
ciosamente secondo un piano simmetrico originale. Le testate, in marmo levigato, terminano con un’aquila ed un angelo. Sulle pareti che circondano l’altare ci sono tre tele dipinte ad olio di Salvatore Brancaccio, pittore napoletano (1860). Quella di destra rappresenta la morte di San Brunone, quella di sinistra il martirio di San Lorenzo e la centrale l’apoteosi di San Lorenzo e di San Brunone: in mezzo ai due Santi, nel piano superiore, c’è la Madonna soavemente rivolta a Brunone, avente fra le braccia il Bambino che porge un libro (la regola) al santo Fondatore. Accanto a questo dipinto vi sono due nicchie, entro cui poggiano due busti in marmo raffiguranti uno la Madonna e l’altro un Angelo. Sotto i quadri laterali vi sono due scarabattoli murati, entro cui sono due artistici busti in cera: 1’Hecce Homo e l’Addolorata (1400). La loro espressione è veramente soprannaturale; non sembrano usciti dalle mani di un uomo tanta è l’armonia che li pervade. SAGRESTIA Rimonta al 1686. Le porte intagliate, a destra, raffigurano l’ingresso alla Certosa e, a sinistra, la chiesa, com’era al principio del sec. XVI. Stalli in legno di noce rivestono, per tre lati, le pareti, ordinati con diciotto colonnine, anch’esse in legno di noce, di stile corinzio. Degno di essere ammirato è il tabernacolo bronzeo a forma circolare, di nuovo nella sua sede originaria dal 1988. Nel centro della volta c’è un affresco di epoca incerta, raffigurante l’Assunzione di Maria Vergine. 25
CAPPELLE Per una porta, a destra dell’altare maggiore, si entra nelle seguenti cappelle: delle Reliquie, del Crocifisso, dell’Ecce Homo, della Via Crucis, dell’Immacolata. Tutte hanno gli altari in scagliola. Bello il Gesù morto nella cappella del Crocifisso. Più importante di tutte, però, è quella dell’Immacolata. L’altare è in pietra e su di esso c’è un busto in marmo del Cristo con piedistallo lavorato. Pregevole è la sedia del Priore con bracciuoli e baldacchino, tutta in legno di noce con figure a basso e ad altorilievo. 26
Dal baldacchino pendono due angioletti; sui bracciuoli sono due busti di Santi. Sulla spalliera è effigiato un altorilievo di San Lorenzo. In questa cappella il Priore riuniva i suoi Padri collaboratori per disposizioni di carattere disciplinare e spirituale. Per una porticina, a sinistra dell’altare maggiore, si entra nelle seguenti cappelle: del Tesoro, delle Campane e del Capitolo. La prima ha grandi scaffali intarsiati; l’altare è in scagliola, presenta ai due lati due nicchie, entro cui sono due statue in calcina rappresentanti magistrati romani. Quella del Capitolo è ampia, spaziosa e si potrebbe a buon diritto chiamare chiesa. All’estremità delle pareti dell’unica navata sono quattro nicchie, entro cui sono le statue in pietra dell’Angelo Custode, e dei Santi Lorenzo, Giovanni e Giuseppe. L’altare in pietra è ricco di ornati e di arabeschi. Qui si può ammirare una tela ad olio, rappresentante la Madonna col Bambino benedicente, fra i Santi Brunone e Lorenzo, di autore ignoto. Queste cappelle non erano aperte ai fedeli ma servivano solo ai Monaci per le loro funzioni, ed agli uffici divini. APPARTAMENTO DEL PRIORE Dal lato sinistro del corridoio di ingresso si passa al Chiostro dei Procuratori, del 1600. In mezzo, una ridente fontana circolare in pie‐tra. A metà fra il cortile ed il Chiostro c’è l’appartamento del Priore, che consta di dieci vani principali. Mirabile opera d’arte è la cappel‐
la personale del Priore, dedicata a San Michele Arcangelo. L’altare è in pietra colorata con colonnine di pietra grigia e capitelli di stile corinzio. L’ancóna, entro cui è una piccola statua in legno dorato, raffigurante San Michele, è incavata nella pietra. Sulle pareti si ammirano quattro dipinti ad olio su muro riproducenti scene di apparizioni di San Michele (1600), con cornici di stucco dorato. Nella volta una pittura a guazzo raffigura l’Immacolata e ricorda quella del Murillo. 27
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BIBLIOTECA Prima di entrare nel grande Chiostro, voltando a sinistra, si entra per una porta, poco distante dalla bella fontana di imitazione berniniana, nel pianerottolo di una meravigliosa scala a chiocciola di trentotto scalini che porta nell’anticamera della biblioteca, nella cui parete centrale c’è un armadio che doveva contenere i registri ed i cataloghi. Bellissimo il portale di pietra sul quale c’è la scritta: “Da sapienti occasionem et addetur ei sapientia. PR. VI.” (Da’ al sapiente l’occasione e la sapienza sarà data a lui). La sala è di forma rettangolare, con armadi di noce che girano intorno ai quattro lati, composti da ventisei scaffali nei quali vi erano moltissimi libri e pergamene, in gran parte trafugati. Attualmente alcuni codici sono conservati nell’Archivio della Badia di Cava, nella Certosa di Serra S. Bruno, nella Badia di Montevergine e presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Si può leggere anche la seguente distinzione per materia: Canonistae, Philosophi, Ascetes, Mathematici, Juris periti, Manoscripti, Enciclopedisti, Poétae, Libri prohibiti, Historici profani, Polemici, Teologici, Dogmatici, Medici, Oratores sacri, Sancti patres, Phisici, Scriptores cartusiani, Rhetorici, Sacra scriptura, Miscellanei, Expositores sacri. La volta è coperta da una grande tela dipinta a tempera da Giovanni Olivieri nel 1763 e divisa in tre riquadri: il primo raffigura l’Aurora sul carro tirato dal cavallo alato; il centrale raffigura il Giudizio Universale con allegorie di scene di martirio; l’ultimo raffigura un’allegoria della Scienza. Il pavimento è di maiolica con disegni a motivi floreali. CUCINA, REFETTORIO, CAPPELLA DEL FONDATORE Dallo stesso corridoio si entra, a destra, nella cucina, nella quale si ammirano l’enorme cappa del camino ed i grandi lastroni su cui venivano divisi i cibi. Sulla parete di fondo è visibile, dopo i recenti restauri, un grande dipinto che ha per soggetto una Deposizione a cui assistono diversi padri certosini. La firma in calce è di Anellus Maurus, 1650. Indi si passa all’ampio refettorio, le cui pareti sono in gran parte decorate a stucco. Il pavimento è in marmo. Sulla parete centrale c’è un dipinto ad olio che rappresenta le nozze di Cana, realizzato nel 1749 da Alessio d’Elia. Un lungo sedile in noce, per sessantuno posti, gira intorno alle pareti. Quasi a metà della parete destra si ammira il magnifico pulpito, prodigiosamente lavorato, sostenuto da un’aquila di finissimo marmo bianco. Da questo pulpito, durante il pranzo in comune, permesso dalla regola solo nelle grandi solennità, un frate leggeva brani delle Sacre Scritture. Dal refettorio si passa nella Cappella del Fondatore. Il paliotto dell’altare è in scagliola. Sulla 29
parete destra c’è la tomba cinquecentesca del Conte Tommaso. Una effigie del Conte scolpita in pietra sovrasta l’urna, entro cui sono le ossa. IL CHIOSTRO GRANDE In alto, sull’arco della porta che immette nel primo corridoio del chiostro grande, si legge la seguente scritta, che spiega, in meravigliosa sintesi, la vita stessa dei Certosini: “Hic secura quies, hac hospes, ad aethera gressus, constans hic maneas. Te manet ipsa quies”. (Qui c’è sicura quiete, di qui si passa per andare al cielo. Resta qui per sempre, o pellegrino. La quiete stessa ti farà perseverare). Vi predomina solenne l’austera maestosità del dorico che, per la grandezza del concetto architettonico, ottiene stupendi effetti di bellezza meravigliosamente espressa nell’armonica fuga delle colonne degli immensi portici. È formato da 84 pilastri che reggono altrettante arcate su cui poggia una trabeazione con le metope ornate da una ricca varietà di motivi, tra cui numerosi tipi di rosoni. Tanto i pilastri come gli archi, le paraste e la trabeazione sono di pietra estratta dalle cave di Padula. Per la sua grandezza è unico al mondo. Il fregio consta di 672 metope, che rappresentano teste di angeli, santi certosini, stemmi, segni religiosi, scene di martirio e della passione di Cristo. L’area del suolo scoperto è di mq 12.270, capace di contenere una folla di 60.000 persone. I lavori per la costruzione del chiostro furono iniziati nella prima metà del 1600 ed intensificati sotto il Priorato di Giovanni Battista Manducci (1628‐
1636). Thomas Salmon nella “Storia del Regno di Napoli antica e moderna” nota che la galleria per la passeggiata coperta fu condotta a termine durante i Priorati di A. M. Micheli, Priore due volte della Certosa dal 1747 al 1758 e dal 1761 al 1763. Nessun documento ci è pervenuto dal quale possa rivelarsi il nome dell’architetto, però molti studiosi sono concordi nell’attribuirne la paternità, o quanto meno l’influenza, a Cosimo Fanzago, che lavorò per molto tempo anche nella Certosa di Napoli ed in quella di Serra S. Bruno. In un lato c’è il cimitero dei Monaci, di forma quadrata circondato da una balaustrata, ricca di decorazioni rappresentanti simboli di morte (1729). Lungo le pareti del portico sono le celle dei Certosini, ognuna delle quali è composta da un corridoio, due stanze, un piccolo vano che immette in una loggia coperta la quale gira intorno all’area del rispettivo giardino con vasca e fontana. Accanto ad ogni porta vi è un finestrino attraverso cui veniva somministrato il cibo quotidiano. 30
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IL GRANDE SCALONE Costantino Gatta nelle “Memorie topografiche‐storiche della provincia di Lucania” (1732) scrive: “Fra gli Monasteri che possiede detta Sacra Religione, è fama che questo della Padula superi ogni altro”. Perciò i Certosini, consci della loro casa, nella costruzione dello scalone, che congiunge il portico del pianterreno con le galle‐rie di sopra, vollero che questo superasse in magnificenza e grandezza quelli di tutte le altre Certose e rappresentasse una ricca scenografia di chiaroscuri, offrendo nel contempo una visione meravigliosa di prospettiva in profondità. Il corpo di fabbrica ottogonale, in cui si svolge lo scalone ellittico a due rampe, è sormontato da una cupola anch’essa ellittica. Sette grandi aperture illuminano questa imponente gradinata, i cui archi sono simili alle opere del Vaccaro, Sanfelice e di altri archi‐tetti del Settecento. Fu costruito nella metà del secolo XVIII sul disegno dell’architetto Gaetano Barba e costò ai monaci la spesa di 64.000 ducati. Nel vano d’ingresso sono scolpiti gli emblemi della dignità feudale e vescovile del Priore della Certosa, e simboli del martirio e della gloria di San Lorenzo. 32
QUALCHE CIFRA Tutto il fabbricato racchiude il grandissimo spazio di cinquantadue‐mila metri quadrati. L’area della fabbrica abitabile è di trentaduemila metri quadrati. Le camere, tralasciando i corridoi, i vani accessori e gli androni, sono trecentoventi. Inoltre vi sono tredici cortili, cinquecento porte, cinquecentocinquanta finestre, cinquantuno scale e quarantuno fontane. La muraglia, che per tre lati circonda i giardini e la Certosa, è lunga più di due chilometri. POESIA E MISTICISMO DELLA CERTOSA Nell’ora del tramonto, quando il sole indora con gli ultimi raggi le guglie della facciata, è oltremodo suggestivo entrare nella Certosa. I suoi secoli di storia passano nella mente con la rapidità del baleno. Vediamo centinaia di bianche figure di Padri, stanchi del mondo e dediti alla contemplazione. Le celle ricordano i sacrifici e le privazioni, i digiuni e le penitenze: ognuna di esse racchiude una storia, tutte racchiudono un poema. Contemplando gli archi maestosi e le colonne massicce, il cuore si è spogliato di tutte le passioni umane ed è avvinto da estasi e misticismo. L’anima qui gioisce, la mente si riposa, le membra si fortificano: tutto si concilia col divino nella sublime ascesa dello spirito che vuol meditare. Una voce lontana, portata sulle ali del mistero dal ritmo celeste della salmodia, vibra intorno a noi: “Fermatevi. Voi, pellegrini affaticati del mondo, siete venuti fra queste mura a ritrovare la pace. La pace sarà con voi nelle meditazioni severe dell’esistenza e raggiungerete tutte le aspirazioni verso l’unico fine che ci governa: l’eternità. Numerose anime nei secoli passati, fra queste stesse mura, meditarono e piansero sulla parola morte. La meditazione profonda e sincera darà i frutti della vita buona, poiché non esisterà bontà senza che prima sia stato nel cuore il sacro timore della morte. Voi, ospiti del silenzio, se nella pace volete ritrovare l’anima vostra, ritempratela nelle fonti pure della preghiera, che l’uomo rende divino, e ringraziate Dio per questo dono”. La voce si allontana fra le arcate ed il cielo, e noi, rimasti fermi presso una colonna, ci muoviamo coi volti compunti in cerca di pace e solitudine. A passi lenti, misurati dai ricordi storici e da immagini fantastiche, facciamo il giro del grande chiostro. Dinanzi al cimitero, ove ogni simbolo induce alla preghiera ed al raccoglimento, sostiamo alcuni minuti. Leggiamo sui quattro lati della colonna centrale i versetti latini che potrebbero essere i titoli di altrettanti poemi di vita e santità. La fantasia vuole immaginare inginocchiate nei lati del cimitero, quattro figure di Padri che, come se salmodiassero, si vanno ripetendo le grandi verità. “Dies mei velocius transierunt” (i miei giorni passarono assai veloce‐mente), dice il primo bianco vegliardo, con la serenità e la calma della rassegnazione che genera i palpiti sacri della pietà. “Ne abscondas me, Domine, a facie tua” (non privarmi, o Signore, della Tua visione), dice il secondo bianco vegliardo, con la dolcezza di chi prega compunto ed è sicuro di ottenere con 33
commosse parole del cuore la misericordia di Dio. “In carne mea videbo Deum Salvatorem meum” (nella mia carne vedrò Dio mio Salvatore), dice il terzo bianco vegliardo, con la letizia angelica del credente che, nella forza sublime della fede, s’innalza etereo nei cieli dello spirito immortale. “Mors iustorum in refrigerio erit” (la morte dei giusti sarà premiata), dice il quarto bianco vegliardo con la veneranda certezza di chi nella vita mortale ha impiegato tutte le ore e le aspirazioni nelle opere infallibili del bene, secondo i dettami supremi dell’invitto Cristo. Poi l’ombra della morte passa dinanzi a noi e sembra fermarsi austera sui mucchi di terra nera, sotto cui riposano da secoli i resti di anime eroiche. Dopo questo lavacro di meditazione entriamo nella Chiesa, nella quale il tempo sembra passare più velocemente perché lo spirito si ricongiunge a Dio. I monaci sono tutti assenti. Leggiamo alcuni nomi di essi (gli ultimi) in una tabella murata. Vuoti i cori. Una forza arcana ci invita a restare ancora nella chiesa, perché le anime dei monaci ci esortano, invitandoci alla preghiera nella pace del silenzio. Quando usciamo è notte. La luna sorride nel cielo, inargentando le bianche arcate e le massicce colonne dei corridoi. È notte: ma nella Certosa la notte è tanto diversa da quella del mondo. Si direbbe quasi che qui è l’inizio della giornata laboriosa e della severa meditazione. E difatti, guardando nel corridoio le porte delle celle ordinate in una simmetria che ha del simbolico, pare che sia questa l’ora del coro notturno per modo che debbano uscire ad uno ad uno i bianchi Padri silenziosi, compunti, ed avviarsi in chiesa. La luna continua a sorridere. Non vorremmo lasciare questo luogo stupendo, dove l’anima diventa eterea e vola sulle fantastiche aureole della divina bellezza, e dove lo spirito s’impregna dello stesso misticismo Certosino, nella celestiale e confortevole contemplazione della natura e delle opere del Creatore. 34
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Pertosa
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L’origine delle Grotte di Pertosa (la cui denominazione ufficiale è "Grotte dell’Angelo di Pertosa"), è fatta risalire a ben 35 milioni di anni fa, sono le più importanti dell’Italia del sud, le uniche ad essere attraversate da un fiume sotterraneo, il Tanagro o Negro, il cui corso è stato deviato a scopo di utilizzo energetico. Così facendo l’entrata delle Grotte si è allagata, tanto da permettere l’accesso all’interno, solo attraverso suggestive barchette sapientemente guidate da esperte guide del Comitato Pro Grotte dell’Angelo. Incuneate per circa 3000 metri sotto gli Alburni le Grotte, si snodano in una suggestiva serie di cunicoli ed antri, fino a terminare in tante "Sale" naturali, tutte con una caratteristica diversa. I radicali cambiamenti climatici e territoriali che hanno caratterizzato la vita del nostro Pianeta, hanno lasciato il loro segno in questi luoghi che sono pertanto divenuti anche un’importante testimonianza delle diverse Ere geologiche. Grazie alla loro particolare conformazione, le Grotte non sono state scalfite nemmeno dall’ultimo terremoto che ha distrutto mezzo Vallo di Diano ne da molte altre calamità naturali. Questo fa si che all’interno di questi cunicoli si possa essere decisamente più al sicuro che fuori, oggi come ieri, come già sicuramente sapevano i nostri antenati dell’età del Bronzo, e forse anche della Pietra, che proprio qui scelsero di costruire le loro palafitte, le uniche, di cui si ha testimonianza, costruite all’interno di un sito come questo delle Grotte di Pertosa. Il particolare clima ed il tasso di umidità hanno fatto si che resti lignei di quelle antiche costruzioni, giungessero quasi intatti sino a noi, a testimonianza storica dell’avvenuto insediamento e di una lunga permanenza. Anche gli antichi Greci e poi i Romani, scelsero queste caverne naturali per i loro rituali e le cerimonie sacre, tanto che il primo ad accennare a questi luoghi fu Plinio il Vecchio. Rifugio dei Cristiani, che qui pregavano Cristo al sicuro da ogni pericolo, le Grotte continuarono a dare riparo all’uomo fino alla prima metà dello scorso secolo, quando gli abitanti del Vallo le usavano come 37
rifugio sicuro antiaereo. Purtroppo la permanenza dell’uomo ha anche interferito con la costruzione calcarea di stalattiti e stalagmiti, andando a toccare la superficie delle opere calcaree naturali e lasciano così una patina che non ha più permesso alle gocce di calcio di far crescere ulteriormente le colonnine naturali. Per questo viene raccomandato, durante la visita, di non toccare le composizioni calcaree, così da evitare ulteriori interferenze. Leandro Alberti, frate domenicano del XVI sec., parlò per primo, in modo esplicito, dell’esistenza delle Grotte di Pertosa, esplorate in seguito, per la prima volta, da P. Carucci e G. Patroni, a cavallo fra Ottocento e Novecento. Ancora oggi gran parte delle Grotte sono oggetto di studio da parte degli speleologi che continuano a portare alla luce , giorno dopo giorno, una meraviglia in più, ed ai quali è dedicato un apposito percorso parallelo al percorso turistico lungo ed aperto, ai soli speleologi, il secondo e quarto sabato di ogni mese. Il tour all’interno delle Grotte inizia a circa 263 metri di altitudine sulla sinistra idrografica del fiume Tanagro, con una piccola ma suggestiva traversata in barca sulle acque verdi e ricche di calcio del fiume sotterraneo. Seguendo un percorso ben delimitato da corde sospese, la guida traghetta l’imbarcazione per circa 200 metri verso il cuore del monte e la sorgente, da dove si diramano i vari percorsi. Il più breve è di circa un Km 1,5 dura circa 40 minuti, non include la visita alla Sala delle Meraviglie ed il ritorno attraverso il Ramo dei Pipistrelli, e riporta indietro i turisti attraverso la traversata in barca, percorsa di nuovo fino all’imbocco iniziale. Il secondo itinerario è quello lungo circa Km 2.5, dura un’ora, e prevede l’uscita a piedi attraverso il Ramo dei Pipistrelli fino alla balconata che affaccia sul fiume ed alla vicina uscita a piedi. Dal 1° luglio 2003 è stato poi inaugurato il percorso Extra, lungo circa Km 3 percorribili in un ora e mezza, che non si ferma di fronte alla Sorgente iniziale, posta a circa 300 metri a monte, che sgorga dove approdano le barchette e che è altrimenti solo visibile affacciandosi ad una balconata frontale, ma prevede il passaggio attraverso la Sorgente e la visita all’area posta dietro alla piccola cascata, proseguendo poi per il percorso lungo fino all’uscita a piedi. Con queste tre diramazioni, si esplora tutto il sentiero posto più a nord all’interno delle Grotte, l’unico visitabile. Esistono altri 2 sentieri, oltre a quello aperto al pubblico, uno mediano ed uno più a sud aperti esclusivamente al personale specializzato ed agli speleologi ed esploratori. 38
Il percorso turistico si snoda attraverso cunicoli, gallerie, strettoie e grandi Sale, tutte caratteristiche ed uniche nel suo genere: tra le tante segnaliamo la Sala delle Meraviglie; quella Grande, ove l’altezza sfiora i 24 metri senza che ci si renda conto di tale distanza. In realtà, i concetti di spazio e di tempo sono percepiti in modo diverso all’interno delle Grotte, come se il tempo scorresse più lento e lo spazio fosse più ristretto a misura d’uomo. Un sapiente gioco di luce ben evidenzia le mille figure e le costruzioni calcaree dalle forme più disparate che lasciano ampio spazio alla fantasia. Unica al mondo è la Sala delle Spugne, che da sola varrebbe tutta la visita. Anche la Sala dei Pipistrelli, così chiamata perché una volta era il rifugio di migliaia di questi animali che nel buio di questi luoghi trovavano conforto e riparo, presenta caratteristiche molto particolari e rare. Sulla roccia si vede ancora il segno di dove arrivavano gli escrementi di questi animali, che avevano ricoperto di tonnellate di guano oltre metà della Grotta dei Pipistrelli. Disturbati dalla presenza dell’uomo hanno poi lasciato questi luoghi per loro non più sicuri, lasciando a noi la scoperta delle meraviglie calcaree presenti in questa parte di Grotte. La Montecatini, oggi Montedison, società che si occupò di rimuovere il guano, ottenne da questo, tonnellate di materiale prezioso da utilizzare per fertilizzanti e cosmetici. La Sala dei Pipistrelli affaccia sul primo tratto del fiume sommerso percorso in barca all’entrata, proprio sopra un piccolo anfratto che fu scelto dal regista Dario Argento come location per una scena del film: "Il Fantasma dell’Opera". Ancora oggi si può ammirare questo set particolare, così come venne allestito dal celebre artista durante le riprese. Uscendo dalle Grotte ci si trova di nuovo immersi nella realtà del Vallo e nella ricca vegetazione che circonda questa zona. 39
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