storia
OUT OF CONTROL: VITA DI GEROLAMO CARDANO (1501-1576)....................................................................2
ULISSE ALDROVANDI: L’ALBA DELLA MORFOLOGIA...................................................................................17
MARCELLO MALPIGHI TRE SECOLI DOPO........................................................................................................23
AD 1700: DE MORBIS ARTIFICUM DIATRIBA BERNARDINI RAMAZZINI IN PATAVINO ARCHILYCEO PRACTICAE MEDICINAE ORDINARIAE PUBLICI PROFESSORIS. SONO NATE LA
MEDICINA DEL LAVORO E L’EPIDEMIOLOGIA................................................................................................27
A CACCIA DI VAMPIRI. BREVE STORIA DEI FENOMENI POSTMORTALI. ................................................30
JOHANN WOLFGANG GOETHE (1749-1832): IL CREATORE DEL TERMINE E DEL CONCETTO
DI MORFOLOGIA.........................................................................................................................................................34
RIFLESSI GOETHIANI SUI PROBLEMI DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA ..........................................40
IL DIO DI EINSTEIN: LA RIVOLUZIONE TARDIVA DEL MICROSCOPIO … ED ALTRO..........................44
APPUNTI SU CAMILLO GOLGI, IL PATOLOGO CHE TROVÒ LA CHIAVE D’ACCESSO AL
NEURONE.......................................................................................................................................................................49
SULLE ORME DI MALPIGHI - CAMILLO GOLGI E LA TRADUZIONE DELL’ISTOLOGIA DI
SCHENK. .........................................................................................................................................................................60
FORTUNA E GENIALITÀ NELLA RICERCA: RIPENSANDO A CAMILLO GOLGI 100 ANNI DOPO
LA SCOPERTA DEL SUO APPARATO. ....................................................................................................................63
ROBERT KOCH (1843-1910): UNA VITA IN TRINCEA (CONTRO I MICROBI, CONTRO VIRCHOW,
E CONTRO TANTI ALTRI) … ED UN INASPETTATO “PARALLELO” CON GOLGI....................................68
Paolo Scarani
Out of control: vita di Gerolamo Cardano (1501-1576)
Pathologica 93, 565-574, 2001.
I was out in the city
I was out in the rain
I was feeling down-hearted
I was drinking again
I was standing by the bridges
Where the dark water flows
I was talking to a stranger
About times long ago
I was young
I was foolish
I was angry
I was vain
I was charming
I was lucky
Tell me how have I changed
Now I’m out
Oh out of control
Oh help me now
Mick Jagger e Keith Richards, 1997 12
Giunto cardanico, sospensioni cardaniche .... automobili, treni, aerei, navi, e chissà quanti altri
strumenti della nostra vita funzionano grazie a questo diabolico congegno concepito nel
Cinquecento. Infinite alternative ad esso proposte non sono mai state altrettanto duttili ed
efficienti. E allora ..... benedetto Cardano, per le meraviglie del mondo d’oggi? .... o maledetto
Cardano per il traffico infernale della terra del cielo e del mare, per gl’incidenti, per i carri
armati, gl’incrociatori, i bombardieri, i missili, i cannoni ... la fame ... la morte anticipata?
Benedetto e maledetto: questa è stata la vita di Gerolamo Cardano, medico, professore
universitario, scienziato e mago, soprattutto mago, dalla nascita ad oggi.
In me ha suscitato soprattutto compassione.
Milano, 1501 dopo Cristo
Brutti tempi per l’Italia. La morte di Lorenzo il Magnifico (8 aprile 1492) segna sicuramente
la fine dell’autonomia e dell’intraprendenza degli stati italiani. L’intraprendenza, a dire il
vero, è anche troppa. La ricchezza e lo splendore del rinascimento fanno guardare con troppa
altezzosità al resto dell’Europa, dove invece si stanno consolidando i grandi stati moderni e
l’Impero asburgico. Gl’Italiani sono ricche, splendide galline dalle uova d’oro, ma galline.
Lorenzo, da grande uomo d’affari, capisce la minaccia, e cerca di mettere tutti d’accordo, per
difendersi dai nuovi sovrani, fra l’altro troppo propensi a non pagare i debiti. Purtroppo, però,
gli uomini intelligenti sono pochi, ed alla morte di Lorenzo, forse propiziata dalle isterie del
Savonarola, le galline cominciano a litigare, senza accorgersi d’essere manovrate dai futuri
padroni del pollaio. Forse il nero porta veramente male: la gallina Lodovico il Moro decide di
chiamare in proprio aiuto Carlo VIII (1494), dando inizio alle nostre sventure (ancora in
corso) ed all’epidemia della sifilide.
Nel 1500 i Francesi mettono definitivamente fine ad ogni velleità da parte di Lodovico il
Moro, mentre in tutta Europa si attua la rivoluzione dei prezzi: questi crescono
vertiginosamente, decretando il successo del Settentrione (Olanda ed Inghilterra, soprattutto)
sul Meridione del mondo (Spagna e Italia). Comincia in tal modo a svilupparsi lo iato tra
ricchi e poveri1.
Milano è ancora splendida, seppure malcontenta per la brutalità dei Francesi. È la città forse
più ricca delle meraviglie di Leonardo, posta al centro di un territorio florido, incredibilmente
bello e di straordinaria dolcezza, con una popolazione laboriosa ed intraprendente. Il clima
umano è tempestoso, ma la concorrenza estera non appare ancora preoccupante. E soprattutto,
anche se i moderni eserciti di Luigi XII avevano mostrato capacità di distruzione decisamente
inaspettate, nessuno è in grado di immaginare quello che fra qualche decennio capiterà a
Pavia, men che meno il sacco di Roma4. La battaglia di Pavia (1525)2 rappresenta più che altro
un cambio di padrone, per i Milanesi (arrivano gli Asburgo): una storia destinata a ripetersi
ancora a lungo1. Il sacco di Roma è già un evento più serio: con esso praticamente muore il
Rinascimento4. Dopo, si vivrà di nostalgie, ed i nostri grandi scienziati ed artisti si sentiranno
perduti in un mondo troppo smisurato ed oramai fuori della nostra portata.
Il tramonto di una civiltà non è cosa di giorni, di attimi. Le estinzioni non capitano molto
spesso. Pavia ed il sacco di Roma sono infatti conseguenza di una lunga crisi, preparata dallo
spostamento dell’asse dei commerci verso l’Atlantico e le Americhe, dall’apogeo dell’Impero
Ottomano, complicata dai già accennati problemi economici e dall’impossibile convivenza fra
i vari governi peninsulari.
La vita umana procede spesso in un curioso stato di torpore, il quale non permette di
accorgersi delle nubi tempestose delle grandi tragedie. Milano nel 1501 non fa eccezione. E
per Girolamo Cardano l’inizio della vita (a Pavia, il 24 settembre) e l’infanzia potrebbero
essere belli 3-10. E invece no: Cardano nasce, e cercherà di dimostrarlo con l’astrologia, sotto
una cattiva stella.
Senza radici
Il padre di Gerolamo è un giurista. È però soprattutto un pregevole matematico, apprezzato,
fra gli altri, da Leonardo. Nessuna meraviglia che anche il figlio lo diventi. Le dinastie
familiari dei matematici e dei musicisti sono ben conosciute. Quantunque egli ammiri il
proprio padre per tutta la vita, ne celebri spesso le qualità mentali, ed impari forse da lui
l’amore per le scienze, come figlio illegittimo, non verrà mai accettato con quella convinzione
che consente ad un ragazzo di maturare in modo normale. Alla fine, il padre sposerà sua
madre: troppo tardi. Fra l’altro, conseguita la laurea, Gerolamo, come illegittimo, non fu
ammesso al collegio dei medici milanesi.
Questa non sembra tuttavia una scusa valida, o, per lo meno, non la sola, a escluderlo.
Gerolamo è infatti un selvaggio, aggressivo, con la lingua affilata come un rasoio. Le sue
critiche mordaci rimarranno una costante della sua esistenza, e gli creeranno infiniti problemi.
È forse inutile asserire che non si può crescere e vivere bene, in queste condizioni.
Specialmente in una società come quella dell’Occidente, in cui la figura del padre ha quasi
caratteristiche divine. La mancanza dell’affetto e della guida di un padre non ha i connotati
distruttivi posseduti dall’assenza della madre. Tuttavia, è orribilmente destabilizzante nella
crescita di un uomo come essere sociale. Evidentemente, un padre esistente, buono o cattivo
che sia, più o meno consapevolmente riesce a togliere, alla propria creatura che cresce, una
specie di involucro velenoso, il quale le impedirebbe di porsi in modo normale con tutte le
altre persone che incontrerà, e di sentirsene accettata.
Il persistere di quest’involucro velenoso sarà il pungolo costante della vita di Gerolamo: la
causa della sua sfrenata attività, dei suoi infiniti interessi, dei suoi successi, delle sue
indiscutibili scoperte, della sua ciarlataneria, delle sue follie inaspettate ed autodistruttive, del
suo fallimento come padre.
Scienza
Gerolamo è un medico (si laurea a Pavia). Si sentirà sempre tale, nonostante la matematica,
l’astronomia, la divinazione. Ed è convinto di essere grande. Una vita familiare devastata
induce facilmente ad affrontare il mondo con piglio aggressivo. Si può diventare pericolosi
delinquenti, esploratori, scienziati di valore, grandi statisti. In genere, persone non mediocri.
Per lo meno, persone incapaci di sentirsi mediocri. Indubbiamente, piace il successo e
l’ammirazione. Non si tratta però di semplice albagia, ma di fame. Fame di conoscenza, di
verità.
La verità è l’assoluto. È qualcosa che non può essere più messo in discussione. Che cosa può
desiderare di più un uomo rinnegato alla nascita?
La matematica è particolarmente adatta a fornire un’illusione di verità. In realtà è soltanto una
fuga. Gerolamo l’ha sicuramente ereditato dal padre, il talento per la matematica. Dopo aver
esercitato la professione medica a Saccolongo (vicino a Padova, il paesino cui si sentirà
delicatamente legato per tutta la vita) e a Gallarate, dal 1535 tiene a Milano lezioni festive di
matematica, come il padre. L’anno dopo inizia a pubblicare libri di medicina e di matematica.
Che cos’è la matematica del Cinquecento? È la figlia dell’ingegneria. Leonardo è l’ingegnere.
Essere ingegneri (non, laureati in ingegneria, si badi bene!) significa saper risolvere problemi
pratici di varia difficoltà con estrema maestria grazie ad una profonda immersione nella realtà
naturale, con le sue insidie, col suo fascino, col suo non essere mai completamente uguale a se
stessa, e, ciononostante, così regolare e coerente. Leonardo era avidamente curioso, e
desideroso di copiare dalla natura, in tutti i modi possibili. La sua curiosità era però anche
finalizzata ad un numero straordinario di applicazioni pratiche. Spesso tali applicazioni
concernevano la guerra. Ci si trovava infatti di fronte a nuove armi, le armi da fuoco, che
richiedevano radicali modifiche alla struttura delle fortificazioni ed una conoscenza molto più
approfondita della balistica 10. L’uso delle frecce e delle catapulte già da tempo aveva
prospettato il problema delle traiettorie curve (balistiche). L’arma da fuoco è però una
struttura molto più complessa e delicata, e prospetta la necessità di una standardizzazione.
Non basta quindi più il lavoro sul campo dell’ingegnere. Leonardo ha lasciato innumerevoli
rappresentazioni grafiche di traiettorie balistiche, ma non ha elaborato una teoria sistematica:
occorrono i matematici. Il percorso è simile a quello attuatosi con Galileo e Newton.
Quest’ultimo ha infatti prodotto la necessaria elaborazione teorico-matematica al lavoro
sperimentale dell’italiano. Cardano è un avido ammiratore di Leonardo.
Nel Cinquecento i matematici sono estremamente attivi, particolarmente in Italia. Il loro
lavoro riguarda particolarmente la geometria analitica, e soprattutto la soluzione delle
equazioni di grado superiore.
La matematica delle scuole è molto, troppo pura, ed ha completamente ‘dimenticato’ le
proprie origini pratiche. Questo è il motivo per cui gli studenti hanno la sensazione di
compiere esercizi sterili e fini a se stessi. Una volta, a Chicago, seguii alcune lezioni di
matematica presso un equivalente di una nostra scuola tecnica (o liceo scientifico). Non mi
sembrava che gli studenti fossero più volonterosi di quelli italiani. Tuttavia mi divertì molto
l’uso degli integrali per descrivere la superficie non euclidea dello scafo di una barca.
Il grande lavoro compiuto nel cinquecento attorno alle equazioni di grado superiore costituisce
appunto il tentativo di descrivere con precisione le curve balistiche. Il bolognese Scipione del
Ferro ed il veneziano Niccolò Tartaglia sono considerati i pionieri in questo campo. E
Cardano riesce a risolvere le equazioni di terzo grado, tentando anche di enunciare i
fondamenti della matematica stessa, quantunque ci si trovi ancora lontano dall’immane sforzo
attuatosi dal diciottesimo secolo in poi14. E cominciano i successi. Nel 1539 pubblica le sue
lezioni, riuscendo anche ad essere finalmente accolto nel collegio dei medici milanesi,
divenendone il rettore. Nel 1543 ha una cattedra medica a Pavia e nel 1545 pubblica le proprie
scoperte matematiche nella ‘Ars magna’. È oramai considerato il più grande matematico del
suo tempo, e precorre addirittura Pascal nello studio del calcolo della probabilità con l’opera
‘De ludo aleae’. Non si può tuttavia ancora dire che egli abbia acquisito il senso
deterministico proprio del calcolo della probabilità. Egli vive infatti sotto l’influenza del
concetto di magicità del gioco della fortuna.
Il successo non dispiace a Gerolamo, che dimostra anzi di essere un accademico moderno,
dotato di concetti molto attuali sulla preparazione di un decoroso curriculum scientifico. Egli
comincia infatti a tenere liste aggiornate della propria produzione, allegate alle pubblicazioni
nuove, in modo tale che i lettori possano avere sempre e con facilità sott’occhio il panorama
dei suoi scritti.
Grafton gli attribuisce un’idea demoniaca, quasi da informatico10. Per sveltire l’elaborazione
di nuovi scritti egli escogita infatti l’artifizio di ritagliare parti di precedenti pubblicazioni e di
ricombinarle insieme opportunamente in modi diversi, un po’ come nel ‘taglia e cuci’ dei
word processors (ho un sentito rispetto per Grafton; questa non mi sembra però un’idea di
gran pregio).
L’accrescersi della fama porta alla fine Gerolamo all’università di Bologna (1562), dove, per
le notevoli capacità pratiche diviene probabilmente il medico più di moda tra i potenti d’Italia,
ed anche d’Europa.
Eppure non è felice. Ha rapporti difficili con tutti. Conduce una vita estremamente
dispendiosa e disordinata, anche nell’abbigliamento. Egli stesso sostiene infatti di essere
portato, dagli sbalzi dell’umore, ora ad indossare vesti quasi principesche, ora a conciarsi
come uno straccione.
E spende patrimoni in libri. Perché continua a studiare in modo quasi invasato. La matematica
è una maga incantatrice. Quelli particolarmente portati per essa fatalmente tendono a
mitizzarla come un mondo a sé, più reale del reale. E invece non lo è: si adatta al mondo fisico
e naturale soltanto con grandi limitazioni e riserve.
Dipende dal dosaggio: se si esagera, la matematica può avere un effetto simile a quello degli
stupefacenti. Essa spiega la realtà in modo semplice e chiaro, tuttavia astrae da essa. In tal
modo crea un mondo parallelo che in realtà non può mai esistere in alcuna forma. Gli uomini
sono straordinari elaboratori di miti, e con la fantasia hanno creato splendide favole
completamente in antitesi con la squallida realtà quotidiana, nelle quali hanno finito per
credere. Il fascino del mondo dei numeri, la sua stretta correlazione con la musica, l’eleganza
delle procedure connesse continuano da millenni a far pensare che questa scienza regoli il
funzionamento dell’universo. In realtà si tratta soltanto di un modesto strumento per
destreggiarsi nei meandri complicatissimi della vita quotidiana. E neanche tanto perfezionato.
La matematica è qualcosa che viene dopo l’esperienza. Leonardo è venuto prima di Cardano;
Galileo prima di Newton, Michelson e Morley prima di Einstein. Se bastassero un po’ di
calcoli per mandare in orbita un satellite, gli Americani avrebbero messo in orbita il proprio
poche ore dopo il lancio del primo Sputnik. E invece, la loro tecnologia missilistica faceva
ridere i polli: dovettero così ricorrere a Von Braun, che aveva duramente lavorato sul campo
per quasi trent’anni, affrontando ostacoli apparentemente insormontabili, in genere non
previsti dal calcolo … e fecero quel che tutti sappiamo.
Il mondo è molto più complesso dei nostri modelli. La paura del mondo, può indurre a cercare
rifugio nel paradiso della matematica. Così fa Gerolamo. La sua attività in questo campo è
violenta. Così affronta vivaci polemiche con Tartaglia, cerca le soluzioni ai problemi come un
generale cercherebbe di stanare un nemico nascosto. Cerca soprattutto certezze: lo si vede da
come affronta il problema della probabilità nel gioco. Proprio quest’ultima ricerca in uno dei
settori più beffardamente aleatori della nostra esistenza ci fa capire la sua profonda intima
insicurezza 11.
Anche la matematica non gli può bastare. Il suo carattere magico ci fa però immaginare quale
sarà l’ulteriore tentativo di Gerolamo per trovare la quiete: l’astrologia.
Una cosa che non capirò mai: l’astrologia
Non so che cosa sia l’astrologia. Per questo ho usato la parola ‘cosa’. Le costellazioni sono
belle e riconoscibili. Non è sempre facile riconoscervi gli animali ed i personaggi ad esse
associati. Tuttavia la loro regolare disposizione e le cadenze con cui si presentano nelle varie
fasi dell’anno possono permettere di orientarsi di notte in mezzo al mare o in un luogo
disabitato (se il cielo è limpido) e di capire in quale stagione ci si trovi, in mancanza di
calendario, magari dopo un accesso ischemico transitorio. Oppure consentono di avviare
lungo un sentiero meno ripido la prima conversazione con una persona che ci stia a cuore, ma
con cui non siamo particolarmente in confidenza (i gusti, però, variano, in questo campo: mio
padre e mia madre leggevano I promessi sposi nel parco di Villa delle Rose, mentre gli
Americani bombardavano Bologna, senza scendere nel rifugio).
Mi è invece difficile concepire questa meccanizzazione della vita umana e della terra, alla
mercé del controllo di queste strane figure astrali. Le quali per di più sono congelate all’epoca
in cui Giulio Cesare istituì il calendario che porta il suo nome. Col passare del tempo, le
costellazioni si spostano a causa della precessione equinoziale. Cesare fece infatti un
calendario capace di dare un anno di lunghezza abbastanza costante (poi perfezionato da Papa
Gregorio XIII, bolognese). Cesare sapeva della precessione. Tuttavia, lo zodiaco non gli
interessava di per se stesso: fatto il calendario della durata giusta, si guardava il calendario,
per guardare il giorno, mica il cielo!
Clube e Napier 6 hanno ipotizzato che il cielo astrologico sia una sorta di mistificazione,
dovuta ad una reale profonda paura di eventi catastrofici. I crateri da impatto di meteoriti
fanno pensare che in effetti gli uomini del passato potessero aspettarsi la morte dal cielo in
modo inaspettato. Non so se sia accettabile lo stabilirsi del culto della morte in novembre per
la concomitanza col passaggio della terra in un’area nella quale si estinse una cometa,
lasciando un’enorme quantità di residui. Tuttora le stelle cadenti sembra siano, in questo
periodo, molto più numerose che in agosto. Le vediamo poco perché il tempo è spesso
perturbato o nebbioso. Nelle epoche più vicine all’estinzione della cometa i residui erano più
abbondanti, con ovvia maggior evidenza dei fenomeni. Curiose descrizioni di ‘esplosioni’
sulla luna in epoca altomedievale farebbero pensare ad osservazioni di impatti di bolidi6.
Oggi comincia a spargersi nuovamente la paura della morte dal cielo, specialmente dopo gli
effetti spettacolari del bombardamento di Giove da parte della cometa Shoemaker-Levy 9 17.
Clube e Napier vedono il progressivo svilupparsi della credenza di potenze arcane presenti
nelle costellazioni zodiacali come la creazione di un succedaneo alla terribile imprevedibilità
della morte dal cielo. Se, in effetti, la credenza in misteriose potenze astrali, influenti sulla vita
umana e sulla terra, tende ad annullare e mortificare l’autonomia ed il libero arbitrio degli
uomini, essa tuttavia garantisce la loro interpretazione, e, quindi, una loro prevedibilità quasi
stucchevole, per mezzo di una corretta applicazione delle regole astrologiche 6.
Sono una persona poco intelligente. Vi dirò: se il Papa avesse indetto, nell’ambito del
Giubileo, anche la giornata per quelli coi corpi cavernosi dentro il cranio, ci sarei andato con
piacere. Non riesco quindi a capire come mai persone intelligenti possano credere
nell’astrologia. Nonostante, come i Massoni, gli astrologi facciano risalire le proprie origini a
tempi remoti, l’astrologia vera (intendo, vera nel senso di oggi, 2000 d. C.) nasce nel mondo
ellenistico, su ispirazione mesopotamica, affermandosi decisamente attorno all’epoca della
riforma di Cesare16. E fa riferimento alla divisione dell’anno conforme al calendario giuliano.
Esso, come ho detto, non guarda allo stato attuale dello zodiaco, ma cerca semplicemente di
dare all’anno un assetto tale da avere anni solari di durata più o meno costante. E lo zodiaco
giuliano non è quello attuale: Cesare non fa infatti il ricalcolo basato sulla precessione degli
equinozi, ma si attiene a quanto era stato già fatto molto tempo prima dagli astronomi del
vicino oriente16. Il calendario ed i cieli non dicono quindi la stessa cosa. Da allora questo
ricalcolo non è mai stato rifatto, anche perché agli astronomi ed ai navigatori ciò non importa
più di tanto. Il fatto è comunque che io dovrei essere dei pesci, e invece dovrei fare un bel po’
di lavoro per capire com’era veramente il cielo all’una di notte del 16 marzo 1950.
Gli astrologi hanno sempre avuto tante difficoltà nell’elaborare i loro oroscopi. Per questo
hanno dovuto elaborare costruzioni molto complesse. A un certo punto, poi, ai pianeti
tradizionali, si sono aggiunti i nuovi (Urano, Nettuno e Plutone). Anche questi vengono ora
considerati negli oroscopi da alcune scuole. Secondo me con un po’ di fretta, almeno per
Plutone, la cui orbita estremamente irregolare non ha fatto ancora ben intendere se si comporti
da pianeta serio o no.
Il maggiore astrologo del Cinquecento
Medico di gran classe e di grande cultura, Cardano è consapevole delle proprie capacità
cliniche tutt’altro che mediocri. È grazie a queste che può compiere un lungo viaggio,
diremmo oggi, di studio, attraverso l’Europa. In tale circostanza, in Edimburgo (1552), cura
l’Arcivescovo John Hamilton (quello decapitato quindici anni più tardi durante le ben note
dispute religiose). Cardano stesso sostiene però che in questa come in altre circostanze è stato
per lui fondamentale costruire un accurato oroscopo del religioso 3.
Ciò non deve indurre in errore. Gerolamo ammette gravi limiti in questa disciplina. Fra l’altro,
poco tempo dopo il brillante successo col vescovo, conoscerà re Edoardo, di cui pure costruirà
un oroscopo, che si rivelerà completamente erroneo nell’attribuire una lunga vita al
giovanissimo e promettente sovrano (1537-1553) 3.
Le sollecitazioni alla prudenza nell’uso dell’astrologia sono quasi continue in Cardano. Ciò
non è una novità. Lo stesso atteggiamento è presente anche in Claudio Tolomeo.
Quest’ultimo, più noto come il formalizzatore del geocentrismo, è il prototipo dell’astrologo
moderno. In lui si trova proprio l’archetipo del frasario con cui gli astrologi d’ogni tempo
cercano di accreditare la propria ragion d’essere 5.
La partenza è semplice. Le stagioni hanno ritmi regolari e prevedibili, che si accompagnano ad
eventi celesti ritmici (ciclo solare e fasi lunari, e, meno intuitivamente, moti dei pianeti), nel
contesto del moto più grandioso e regolare delle costellazioni. L’indubbia potente azione del
sole sui cicli stagionali ed il ruolo lunare sulle maree e sulla vita di molti animali notturni
hanno indotto a credere che anche i pianeti e le costellazioni abbiano simili effetti. Il variare
dei mesi dell’anno è infatti scandito dal passaggio del sole in un nuovo gruppo di
costellazioni, dotate, per deduzione, delle proprietà caratteristiche di quel determinato periodo.
Insomma, il sole è importante, tuttavia la primavera non si manifesta perché dopo l’equinozio
le giornate si allungano, ma per l’azione dell’ariete. Liberi di credere in questo. Però, la
precessione degli equinozi, il noto evento dovuto al fatto che l’asse della terra non è
perpendicolare al suo piano di rotazione intorno al sole, porterà a un certo punto l’equinozio di
primavera a localizzarsi nel capricorno. Secondo Sesti 16, come ho già detto, prima della
riforma di Giulio Cesare, gli antichi astronomi periodicamente ricalcolavano la posizione del
sole nei solstizi e negli equinozi. Dalla riforma del calendario in poi, invece, non ci si è più
curati di questo. Gli astronomi, chiaramente, sanno quello che succede in cielo. Che cosa
facciano gli astrologi a me non è chiaro. Chiaramente, sostenere che chi sia nato tra il venti
febbraio e il 20 marzo è dei pesci non è corretto. Non lo era più ai tempi di Cesare (si era già
abbondantemente nell’acquario), tanto meno lo è oggi (sinceramente, non so se l’equinozio sia
già nel capricorno, ma non ci perdo il sonno). Non so come esattamente si comportino gli
astrologi: un conto sono infatti gli oroscopi stereotipi dei quotidiani, un altro i conteggi
sofisticati (alla Cardano), a volte computerizzati, per gli oroscopi personali. Alcuni astrologi
che ho interpellato ad hoc mi han detto di tener conto della precessione. Debbo però
ammettere che le loro dichiarazioni sono state successive alla mia citazione delle contestazioni
fatte da Sesti.
Altre perplessità sull’astrologia sono prodotte dal fatto che le costellazioni ed i pianeti non
sono visibili allo stesso modo nelle diverse parti della terra. Quante correzioni debbono essere
fatte, per l’allestimento dell’oroscopo di chi nasca nell’emisfero meridionale della terra? E
vengono apportate realmente? Il modo ambiguo in cui è affrontata la precessione degli
equinozi lascia francamente dubbiosi. Le perplessità sono ulteriormente alimentate dal fatto
che la sistematizzazione dell’astrologia attuata nel passato, non è mai stata smentita. Essa si
fonda infatti ancora su osservazioni astronomiche remote, effettuate in Mesopotamia ed in
Egitto, nonché su dottrine scientifiche geocentriche e presupponenti l’esistenza di un etere
cosmico in grado di trasmettere alla terra le influenze dei pianeti e degli astri sulla terra,
nonché sulla teoria dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco). Le scienze moderne ed il
loro linguaggio sono stati adottati dagli astrologi. Ma il tutto ha più l’aria di un velo
scenografico che di vera sostanza.
Supponiamo, comunque, che quanto sostenuto dagli astrologi sia corretto. Il passo successivo
di Tolomeo e degli altri astrologi consiste nel dire: se gli astri agiscono con tanta potenza sul
mondo in cui viviamo, è inevitabile ammettere che con grande potenza agiscano anche su di
noi. Come i cicli della natura sono passo dopo passo guidati dall’incedere regolare degli astri e
dalle loro proprietà, così la vita di ogni uomo ne è fatalmente condizionata. Pertanto, il fatto di
nascere in un determinato momento fa sì che le proprietà maschili o femminili, benefiche o
malefiche, dei diversi astri o costellazioni condizioneranno ineluttabilmente la vita di ognuno,
in funzione della loro precisa posizione in quel certo momento 3.
E qui Cardano è drastico3. Bisogna essere estremamente precisi nell’eseguire questi calcoli.
L’ora ed il luogo della nascita necessitano di un’assoluta definizione: come altrimenti stabilire
quale costellazione era allo zenit, quale al nadir, quale stava sorgendo, quale stava
tramontando? E i pianeti soprattutto: ce n’erano allo zenit? C’erano delle congiunzioni? Le
reciproche posizioni dei pianeti davano luogo a combinazioni sfavorevoli?
Penso che Cardano dormisse molto poco, soltanto per allestire gli oroscopi … un lavoro
veramente da Certosini. Gerolamo è furioso con gli altri astrologi, a causa della loro sciatteria,
della loro scarsa conoscenza dell’astronomia e della matematica. Egli sostiene di aver
sviluppato un metodo rigoroso ed altamente efficace, benché faticoso: se tutti lo seguissero,
egli sostiene, l’astrologia non darebbe mai luogo a polemiche e contestazioni.
Gerolamo è un uomo di grande abilità nel propagandare le proprie virtù: lo abbiamo già visto
a proposito delle pubblicazioni scientifiche. È evidente che queste sue violente polemiche sul
metodo in astrologia sono più che altro indirizzate a convogliare verso di lui chi abbia bisogno
di un oroscopo. Tuttavia, egli è fondamentalmente onesto. Avendo fallito anche
clamorosamente, Gerolamo è costretto ad ammettere i limiti oggettivi dell’astrologia.
Quanto previsto dall’astrologia non è ineluttabile. Tolomeo per primo sostiene che, come la
diagnosi di una grave malattia non presuppone necessariamente la morte di chi ne sia affetto,
anche per il possibile adeguato intervento del medico, così una previsione astrologica può
essere modificata dall’attività dell’uomo volta a contrastare il suo attuarsi 5. Anche Cardano fa
propria questa concezione intorno al ruolo positivo dell’attività umana. Egli tuttavia cerca
scuse per i possibili fallimenti nell’allestimento degli oroscopi nella grande quantità di
parametri da valutare, ivi comprese le caratteristiche intrinseche dell’esaminato. Il lato più
buffo di Cardano astrologo sta tuttavia nel fatto che egli sconsiglia di esaminare il futuro. Egli
consiglia invece di esaminare quasi esclusivamente il passato in chiave astrologica. In tal
modo è possibile giustificare la vita di un uomo, la storia di una città, il decorso di una certa
malattia sulla base delle condizioni astrali sotto le quali i fatti in esame hanno avuto il loro
inizio.
Un simile esercizio può apparire, giustamente, una perdita di tempo. Eppure allora un gran
numero di uomini di profonda cultura credeva fortemente in tutto ciò. Basti pensare come fu
deliberatamente falsificata la data di nascita di Martin Luther per associarla ad una
combinazione astrale malefica, adatta a definirlo come l’Anticristo. Lo stesso Luther, che
derideva i suoi nemici per questa sciocchezza, era pronto a ripagarli della stessa moneta,
perché anch’egli, come molti altri uomini di fede cristiana, credeva nell’astrologia. Non
dobbiamo fra l’altro dimenticare che fu anche creato uno zodiaco cristiano, con numerosi santi
al posto delle divinità pagane 16.
In tutti i tempi sono esistiti personaggi più o meno illustri che si sono dimostrati convinti e
convincenti critici dell’astrologia. Quello che più colpisce per la logica stringente e per il tono
sprezzante è Pico della Mirandola 3. Gli astrologi lo odiavano tanto che gli assegnarono con un
oroscopo il giorno della morte … e morì proprio quel giorno. Cardano considera questo un
grande successo dell’astrologia. Io li avrei condannati tutti per omicidio. Non è del tutto
peregrina l’idea che una simile previsione sbandierata ai quattro venti abbia potuto creare
gravi turbamenti psicologici in Pico. E l’ansia potrebbe avergli giocato un brutto scherzo. Gli
astri, però, a mio avviso, c’entran poco. È sempre uguale, la storia dell’astrologia: previsioni
oscure, ambigue, con occasionali successi enormemente propagandati, ed innumerevoli
insuccessi finiti nell’oblio.
Finché si guarda il cielo, si cerca di riconoscere le costellazioni ed i pianeti e ci si meraviglia
ad ogni stagione per il concatenarsi ritmico tra cielo e terra nell’alternarsi delle stagioni, è
tutto bello e divertente. Ma poi, quando si chiede qualcosa di più, a queste strane cose, ci si
accorge che rimane soltanto un gusto amaro in bocca.
Eppure ancor oggi, persone colte e smaliziate non vivono senza l’oroscopo.
Non è affatto difficile capire il perché di questo, ed il perché di Cardano astrologo:
l’insicurezza.
Si cade sempre lì: il tempo va in una direzione aperta verso l’ignoto. Un ignoto capriccioso,
sempre pronto ad atterrare le costruzioni più solide e robuste.
E, alla fine, la morte.
L’astrologia, una matematica perversa, andata oltre i limiti consentiti, vuol tentare di creare un
castello di razionalità dove essa non esiste.
E non c’è razionalità, non c’è spiegazione che valga a distogliere la gente dall’astrologia: si
tratta di un bisogno elementare, tanto più forte in chi, come Gerolamo, è out of control.
Out of control
Gerolamo non proviene da una famiglia particolarmente ricca. Come tutti i medici, non ha un
inizio di carriera particolarmente facile, dal punto di vista economico. Tuttavia, le sue doti
indubbiamente non comuni e la sua abilità nel valorizzarle (non si dimentichi la sua
perspicacia nel pubblicizzare l’elenco continuamente aggiornato delle proprie opere
scientifiche), gli permettono di trarre dalle proprie attività lauti guadagni. La sua stessa
carriera di docente universitario a Pavia (1553-1561 e 1559-1560) e a Bologna (1562-1570) si
presenta discretamente remunerativa 10.
Già i soli guadagni derivanti dall’attività professionale e dagli stipendi di docente ci
permettono di immaginare Gerolamo come uomo ricco e soddisfatto. Per di più, egli gode
della simpatia di potenti famiglie italiane, come i Borromeo, che ne favoriscono
l’insediamento a Bologna, ed i Gonzaga. Ho già detto dei suoi rapporti con la Corte inglese.
Gerolamo gode anche della stima di Francesco I e di Carlo V. Tutto ciò non è tuttavia il frutto
dell’astuzia di un abile e cinico cortigiano. Costantemente si può invece notare che è la sua
grande abilità di medico, magari un po’ stregone, con le sue mattane astrologiche, che gli
consente, salvando la vita a qualche infermo illustre, quella sorta di magico e indissolubile
legame, ben noto ai medici, capace di coinvolgere anche le persone più aride e smaliziate,
come spesso sono i potenti della terra (non ridiamo troppo, comunque, di queste cose: il
medico mago e le dottrine degli umori cominceranno a vacillare soltanto con la rivoluzione
ottocentesca dell’anatomia patologica).
Anche quando la notte più nera sembrerà avvolgere Gerolamo, uno dei tanti ecclesiastici che
lo ammirarono e lo protessero, si ricorderà di lui: Papa Gregorio XIII, il bolognese che
riformò il calendario, lo chiama a Roma nel 1573, garantendogli anche una pensione.
Non dobbiamo dimenticare che le opere di Cardano incontravano molto interesse, pur
suscitando violente polemiche ed odio cieco, a causa del carattere pestifero del Nostro.
Ma quale interesse possono suscitare, in un pubblico vasto, libri di matematica, di astrologia,
di medicina? In effetti, questo è vero. Le opere di uomini di scienza molto famosi vissuti un
secolo dopo (per tutti basti Newton) produssero numeri limitatissimi di copie, spesso molto al
di sotto delle cento.
Non è qui che dobbiamo però cercare il successo di Gerolamo. Il suo grande successo, che
giunge ad impressionare anche uomini vissuti molto tempo dopo di lui (Goethe, fra gli altri),
deriva dalla sua sofferenza, dalla sua ‘distonia esistenziale’.
Il mestiere dello psichiatra è probabilmente il più affascinante e difficile di tutti perché deve
esplorare la parte più umana dell’uomo. Nello stesso tempo si trova però di fronte ad atroci
dilemmi, legati alla spesso insormontabile e beffarda difficoltà di stabilire il confine tra il
normale ed il folle.
Ancora peggio va per chi questa condizione la vive. La persona ‘non normale’ che abbia
coscienza di questo conduce un’esistenza straziante. Avere doti non comuni, magari di
notevole pregio, ma non trovarsi in sintonia con l’ambiente umano circostante è senz’altro
molto peggiore dell’imbecillità. Difficilmente, infatti, il mondo comune accetta integralmente
le bizzarrie dei ‘diversi’. Può apprezzarne le doti eccezionali, può trarre divertimento dai
comportamenti strani, mantenendosi però a debita distanza, salvo intervenire con brutalità
quando nella condotta del ‘diverso’ si ravvisino comportamenti contrari alla morale o alla
sicurezza.
L’esempio più doloroso è senz’altro fornito, in questo settore, dalla psicosi bipolare. Questi
malati, che fra l’altro hanno un senso paurosamente acuto della necessità di combattere il
proprio male, se ben curati possono sprigionare fantastici talenti ed energie dalla propria
mente, la quale possiede spesso la capacità di lavorare con velocità ed efficienza estreme ….
purché non vada out of control.
Tanti episodi della vita di Gerolamo mi fanno pensare a quella malattia. Dispute furenti.
Depressioni inaudite, come quella dell’abbandono della compilazione di una nuova opera a
causa di un gatto che aveva orinato sui manoscritti (Alium quoque de pituita, et alium de re
Venerea: quos ambos nondum absolutos, felis urina corrupit: unde illos abieci Conscripsi et
alium de Chiromantia, quem in libros de rerum varietate transtuli: ita toto illo sexennio, quo in
eo oppido artem exercui, magnis cum laboribus, parum mihi, multo minus aliis profui.
Detinebar inconditis cogitationibus et studiis irritis, non satis prospera et foelice Minerva? 10).
Un carattere difficile ed imprevedibile, che induceva la gente a trattare Gerolamo con le molle.
A Bologna egli costituiva, con Ulisse Aldrovandi, il polo d’attrazione per gli studenti che
visitavano il famoso, quantunque già decadente, Ateneo. Mentre Aldrovandi era considerato
uomo di estrema bontà e cortesia, si raccomandava invece esplicitamente ai visitatori di non
rinunciare ad una visita a Cardano, ma di usare estremo tatto, onde non stimolarne l’estrema
suscettibilità10.
Salvo credere che nel Rinascimento si sapesse mantenere in equilibrio la psicosi bipolare
genuina meglio di oggi, non posso pensare che Gerolamo, con un simile male abbia potuto
raggiungere la vecchiaia. Non curata, infatti, questa psicosi porta alla distruzione, anche fisica.
Non mi sento in grado di comprendere se Cardano faccia parte della categoria di uomini di
genio affetti dalla psicosi bipolare. Di essi tratta ampiamente Kay Jamison, la maggiore
esperta di questa malattia, dalla quale essa stessa è affetta 13. I suoi accurati criteri diagnostici
non mi sembrano facilmente applicabili a Cardano, del quale essa non tratta. Ciò non è
comunque significativo, in quanto la sua revisione storica è rivolta esclusivamente agli artisti.
Comunque sia, Gerolamo soffre profondamente per il suo male esistenziale, e, oltre che con
l’attività frenetica in molteplici campi del sapere, cerca di renderne gli altri partecipi creando
un nuovo genere letterario: l’autobiografia. Il ‘De subtilitate’, saggio di consigli pratici, ed una
vera e propria autobiografia, il ‘De propria vita’, completato in età avanzata, sono gli esempi
più esaurienti di quest’attività del nostro. Tuttavia, in buona parte dei suoi scritti, Gerolamo
parla di se stesso con profondo realismo.
Non si può dire che il diario intimo sia propriamente una novità. Agostino e Francesco
Petrarca costituiscono due autorevoli precedenti. La loro intimità è però trasfigurata: sembra
quasi appartenere ad un altro mondo. I tormenti più crudi sono in essi presentati al lettore da
enormi distanze, quasi a volerne eliminare la fisicità. Gerolamo non ha invece il minimo
pudore a trattare di sue malattie, di problemi personali imbarazzanti, che lo potrebbero rendere
ridicolo, come l’episodio, già descritto, del gatto. O come il periodo di impotenza sessuale
giovanile, cui cercò di porre rimedio tramite maratone erotiche con compagne di gioco
certamente molto pazienti.
Tanta crudezza e sincerità si spiegano col fatto che un’autobiografia come quella di Gerolamo
interessa il pubblico di chi può leggere e permettersi l’acquisto di un libro. Cardano è un uomo
importante, e alla gente normale fa piacere di sapere che anche lui soffre di problemi comuni
agli altri uomini e, soprattutto, di conoscere il modo in cui li ha affrontati ed eventualmente
risolti. Si potrebbe dire che Cardano è fra i primi a capire il ruolo della stampa divulgativa e
dei libri con consigli volti a risolvere problemi pratici.
Non è fra l’altro difficile immaginare l’interesse per il problema dell’impotenza maschile,
molto sentito, e, fra l’altro, non di rado attribuito ai malefici delle streghe. Gerolamo non
sembra tuttavia particolarmente convinto di questo, pensando piuttosto alla solita azione del
macrocosmo astrale sul microcosmo umano3.
La divulgazione della scienza non basta tuttavia a giustificare il grande interesse suscitato da
Cardano, non solo nei contemporanei, ma anche nelle epoche successive, ed in uomini non
banali.
Chi più forse si avvicina alla profondità dell’animo di Cardano è Goethe, il quale consulta le
opere di Gerolamo a proposito della dottrina dei colori. Goethe non trova molto su quello che
precipuamente l’interessa, ma rimane profondamente colpito dalla sua straordinaria capacità
di essere medico e scienziato ‘vivo’, non cattedratico, pur nella bizzarria che può lasciare
sconcertati. Un uomo pieno di passione, di profondo interesse per il mondo che gli sta attorno,
come Leonardo. Nella rappresentazione lasciataci da Goethe, ritroviamo proprio lo spirito di
Leonardo, con quella vivace e indomita volontà di tuffarsi nella natura, pervasi dall’unico
desiderio di conquistarne i segreti, incuranti di vecchie regole da eruditi ammuffiti:
Schließlich haben wir zu bemerken, daß bei Cardan eine naivere Art, die Wissenschaften zu
behandeln, hervortritt. Er betrachtet sie überall in Verbindung mit sich selbst, seiner
Persönlichkeit, seinem Lebensgange, und so spricht aus seinen Werken eine Natürlichkeit und
Lebendigkeit, die uns anzieht, anregt, erfrischt und in Tätigkeit setzt. Es ist nicht der Doktor
im langen Kleide, der uns vom Katheder herab belehrt; es ist der Mensch, der umherwandelt,
aufmerkt,
erstaunt, von Freude und Schmerz ergriffen wird und uns davon eine leidenschaftliche
Mitteilung aufdringt.
Nennt man ihn vorzüglich unter den Erneuerern der Wissenschaften, so hat ihm dieser sein
angedeuteter Charakter so sehr als seine Bemühungen zu dieser Ehrenstelle verholfen. 8
L’attrazione esercitata da Cardano su Goethe, e, si può dire, su tutti coloro che si imbattono
nei suoi scritti, è la profonda, tragica umanità, l’angoscia esistenziale, resa più cruda dal
disordine culturale e mentale dovuto alle condizioni difficilissime in cui Gerolamo fu costretto
a crescere e ad istruirsi; tutto ciò fa probabilmente di lui una delle più vive e contraddittorie
figure dell’epoca del grande travaglio spirituale del cinquecento ….. un Benvenuto Cellini
medico:
Cardan gehört unter diejenigen Menschen, mit denen die Nachwelt nie fertig wird, über die
sie sich nicht leicht im Urteil vereinigt. Bei großen angebornen Vorzügen konnte er sich doch
nicht zu einer gleichmäßigen Bildung erheben; es blieb immer etwas Wildes und Verworrenes
in seinen Studien, seinem Charakter und ganzen Wesen zurück. Man mag übrigens an ihm
noch so vieles Tadelnswerte finden, so muß er doch des großen Lobes teilhaft werden, daß es
ihm sowohl um die äußern Dinge, als um sich selbst Ernst und zwar recht bitterer Ernst
gewesen, weshalb denn auch seine Behandlung sowohl der Gegenstände als des Lebens bis an
sein Ende leidenschaftlich und heftig war. Er kannte sein eigenes Naturell bis auf einen
gewissen Grad, doch konnte er bis ins höchste Alter nicht darüber Herr werden. Gar oft haben
wir bei ihm, seiner Umgebung und seinem Bestreben, an Cellini denken müssen, um so mehr,
als beide gleichzeitig gelebt. Auch die Biographien oder Konfessionen beider, wie man sie
wohl nennen kann, treffen
darin zusammen, daß die Verfasser, obschon mit Mißbilligung, doch auch zugleich mit
einigem Behagen von ihren Fehlern sprechen und in ihre Reue sich immer eine Art von
Selbstgefälligkeit über das Vollbrachte mit einmischt. Erinnern wir uns hiebei noch eines
jüngern Zeitgenossen, des Michael Montaigne, der mit einer unschätzbar heitern Wendung
seine persönlichen Eigenheiten sowie die Wunderlichkeiten der Menschen überhaupt zum
besten gibt, so findet man die Bemerkung vielleicht nicht unbedeutend, daß dasjenige, was
bisher nur im Beichtstuhl als Geheimnis
dem Priester ängstlich vertraut wurde nun mit einer Art von kühnem Zutrauen der ganzen
Welt vorgelegt ward. Eine Vergleichung der sogenannten Konfessionen aller Zeiten würde in
diesem Sinne gewiß schöne Resultate geben. So scheinen uns die Bekenntnisse, deren wir
erwähnten, gewissermaßen auf den Protestantismus hinzudeuten.
Gerolamo è un uomo capace di parlare all’anima di chi legge. Il suo scrivere ricco di
immagini, di incubi, di sogni, di rivelazioni risveglia in noi i temi centrali della nostra terribile
esistenza.
È chiaro, per partecipare attivamente all’esperienza di Gerolamo, bisogna essergli
compartecipi e somigliargli un po’: Goethe possiede questo requisito, e ne diventa un fedele
lettore:
An Charlotte von Stein
[Weimar] d. 8. S. 78.
Ihr schlimmes Reise Wetter hab ich bedauert, und hoffte noch auf ein rückgelassnes
Zettelgen von Ihnen. Es war Ihnen aber nicht so. Heut früh besucht ich das Bauwesen. Blieb
dann einmal, o Wunder! Bey mir. Sezte mich an mein Küchenfeuer und las den Cardan wieder
einmal, mit vieler Freude und Rührung.
Gute Nacht. d. 8. S. 9
Non ho tradotto Goethe, perché mi mantengo fedele ai precetti del mio Maestro Anselmo
Turazza: bisogna essere molto presuntuosi, nel tradurre Goethe. Mi sono così limitato a
scrivere qualche nota di sommario.
Contro la società
Le tempeste non sono state soltanto intime, nella vita di Cardano. E non sono state soltanto il
frutto di polemiche con colleghi più o meno giustamente adirati per la sua aggressività, spesso
culminante nell’insolenza. L’astrologia è un lavoro pericoloso. I temi astrali sono pagani.
Ricordano infatti festività e consuetudini remotissime, fatte proprie dal Cristianesimo, anche
con la sostituzione delle divinità e degli eroi pagani con momenti, aspetti e personaggi della
Bibbia e della storia dei Santi. È tuttavia più che evidente che l’astrologia e le cerimonie
stagionali del mondo agricolo sono l’espressione della sotterranea persistenza delle antiche
religioni naturali, ancora vive al di fuori delle mura delle città. I Papi mecenati, fino al sacco
di Roma, sono stati ampiamente tolleranti nei confronti dei miti astrali. A Roma troviamo
deliziosi capolavori trattanti questi temi, anche in ambienti religiosi: e si tratta di oroscopi,
trasfigurati dall’arte, ma di oroscopi. Ancora oggi sulle pitture dei palazzi vaticani si
riscoprono le ingiurie contro la Chiesa, scritte dai lanzichenecchi 4 Ciò produsse una profonda
paura nei confronti della libertà di pensiero rinascimentale ed un forte desiderio d’ordine. Gli
oroscopi non sparirono, anzi, continuarono a fiorire più che mai. Tutti i medici nemici di
Malpigli erano medici astrologi: e ci si trovava già a quasi un secolo da Cardano. Tuttavia,
l’astrologo, dopo il sacco di Roma, e, soprattutto, dopo il Concilio di Trento, deve fare
maggiore attenzione, coi suoi oroscopi. Nella prima metà del Seicento, Ovidio Montalbani
prevede, nel progetto del bellissimo teatro anatomico di Bologna, un soffitto celeste, col soleApollo al centro di un ottagono (simbolo del Battesimo o, in genere, di un trapasso
esistenziale), delimitato da una serie di costellazioni, le quali probabilmente alludono al
periodo di transizione tra inverno e primavera (carnevale), quando a Bologna si teneva la
pubblica funzione dell’anatomia. Montalbani, un attivissimo autore di oroscopi, ha
probabilmente qualcosa di più profondo in mente, che al momento mi sfugge. Alcune frasi di
Manilio, e Ovidio scritte attorno al sole sono rimaste a testimoniare che Montalbani si muove
nella tradizione astronomica dei Romani. Deve però aver inteso rappresentare qualcosa di
fastidioso per l’autorità ecclesiastica, in quanto una serie di altre iscrizioni furono vietate,
perché giudicate inopportune (Archivio della Gabella Grossa, Bologna 1649).
Cardano esagera veramente: fa l’oroscopo di Gesù Cristo. Ed è arrestato dall’Inquisizione per
eresia, allontanato dall’insegnamento, e costretto all’abiura. Costringere Dio alle regole degli
astri, per di più con nomi pagani, è veramente troppo. Penso che l’Inquisizione spagnola
l’avrebbe condannato al rogo 15. E invece, pur vivendo praticamente emarginato sino alla
morte (1576), riesce a ricevere la pensione da un Papa, come ho scritto più sopra.
L’Inquisizione dà il colpo finale a Gerolamo, che oramai è già morto a se stesso. La vita
famigliare continua infatti a serbargli amarezze anche da adulto.
Nell’autobiografia, Cardano non fornisce molti dettagli sulla moglie e sui figli (due maschi ed
una femmina). Dedica ampio spazio a come e quando s’innamorò della moglie. È invece
molto più avaro di notizie sulla quotidianità degli affetti famigliari. Ciò sorprende un po’,
visto il modo quasi morboso con cui ci fornisce dettagli sui propri difetti anche più sgradevoli,
a causa del suo desiderio smodato di sincerità e di mettersi a nudo.
Tuttavia, proprio alla luce di questa sua inquietante peculiarità, Gerolamo non nasconde gli
episodi più tragici della vita dei suoi cari. Il figlio maggiore Giambattista, medico di grande
valore, uccide la moglie con l’arsenico, viene scoperto, processato e, nonostante la disperata
intercessione del padre, decapitato (1560). Un colpo terribile, che causa sostanzialmente la
morte civile di Gerolamo, e lo convince fra l’altro a cercare il trasferimento a Bologna, come
insegnante di medicina teorica. L’episodio lo precipita in una ricerca astrologica quasi folle,
che lo porta a vedere scritti negli astri il destino del figlio, il proprio, ed anche quello di Cristo
3
. Il figlio minore è invece un buono a nulla e un ladruncolo.
Poco si sa della figlia, tranne un fatto oscuro: il genero a un certo punto accusa Gerolamo di
immoralità. Non si capisce bene di quale immoralità si tratti. Forse non varrebbe la pena di
soffermarsi più di tanto su questo. Il fatto è che viviamo in un mondo pieno di pruderie, e
quando si pensa all’immoralità si pensa subito al sesso. Anche i politici, i funzionari, i preti, i
medici, i professori che si comportino da disonesti, sono immorali. Anche un ladro o un
assassino, è immorale. Chissà perché l’immoralità fa pensare tanto al sesso? Forse è roba che
piace troppo.
In particolare, Cardano sarebbe stato omosessuale e pedofilo.
Quest’ipotesi è poco realistica. Quasi certamente Cardano era bisessuale, forse anche pedofilo.
La cultura rinascimentale era diversa da quella ufficiale d’oggi. Somigliava di più a quella
delle tendenze androgine odierne, e non condannava, di fatto, la pedofilia. Trumbach ha
recentemente dimostrato, nella società inglese un fenomeno largamente diffuso nel mondo
maschile occidentale: una sorta di iniziazione pedofila, seguita da un’adolescenza
omosessuale, seguita da un graduale transito verso la bisessualità 18. Generalizzare,
naturalmente, è pericoloso. Tuttavia, come tra gli antichi Greci e Romani, anche nel
Rinascimento la pedofilia e la bisessualità esistevano e, se ufficialmente erano condannate e
sanzionate, conformemente alla morale, comune e cristiana,, non comportavano l’ostracismo
da parte del mondo circostante, che, anzi, le tollerava ampiamente. Fra l’altro, Gerolamo
proviene da un ambiente familiare sessualmente disinvolto. Penso quindi che, se il genero di
Gerolamo avesse veramente segnalato le abitudini sessuali del suocero, non gli avrebbe recato
troppo danno. L’Inquisizione italiana è sempre stata piuttosto benigna e tollerante in
quest’ambito 15.
Mi sembra invece più probabile che l’attacco del genero riguardasse altre questioni di
moralità: quelle eretiche e stregonesche. E qui il terreno è minato. Nel cinquecento, come ho
detto, si stabiliscono, nel mondo cristiano in genere, limiti al di là dei quali i pensatori e gli
scienziati non possono andare15. In Italia, comunque, raramente è comminata la pena capitale.
In ogni caso, l’oroscopo a Cristo costa caro a Gerolamo. Gli è infatti vietata la cosa a lui più
cara: lo scrivere libri. Il francese Charles Spon raccolse 111 opere di Cardano, nel 1663 3.
Distrutto nel fisico, cagionevole di salute come è sempre stato, e nel morale, Gerolamo si
dedica oramai soltanto al completamento della sua autobiografia (De propria vita liber).
Esercitando oramai solo sporadicamente la professione, costruisce il proprio oroscopo, volto a
dimostrare l’influenza di astri malefici. Naturalmente, prevede anche la propria morte, per il
1571 o 1573. Per adempiere alla predizione, si lascia praticamente morire di stenti: out of
control sino alla fine.
Gerolamo e noi
Il giunto cardanico ha cambiato il mondo. La soluzione delle equazioni cubiche e l’Ars magna
sono degne precorritrici del grande lavoro di Newton. La codificazione, poi, dell’astrologia, ha
contribuito alla fortuna di un mare di astrologi, fino ai giorni nostri.
Eppure, Cardano ha suscitato forse più interesse per le sue bizzarrie che per i suoi grandi
meriti. Lombroso stesso lo considerò un genio alienato, come Schumann e Tasso.
Questi giudizi infastidiscono, in tutta sincerità. Si potrebbe dire: ben gli sta. Se Gerolamo non
avesse riempito il De subtilitate e il De propria vita liber di fatti personali, intimi, spesso con
la patente intenzione di catturare l’attenzione dei lettori, non vi sarebbero stati tanti giudizi
successivi sulla sua figura, spesso pettegoli.
D’accordo: noi medici dobbiamo però darci regole precise, e, soprattutto rispettarle.
La medicina è una professione riservata, nella quale ai colleghi si comunicano dati essenziali
ai fini della salute del paziente o della ricerca scientifica.
Dall’ottocento in poi si è sviluppato tra i medici un vezzo sterile e discutibile di fare diagnosi
su presunte malattie di personaggi storici più o meno noti. Una diagnosi è sempre qualcosa
che si riferisce ad un paziente reale, od a materiale concretamente disponibile che riguardi tale
paziente (preparati istologici, radiografie, dati di laboratorio, cartelle cliniche ben scritte).
È già tremendamente difficile conseguire tale diagnosi nello studio della paleopatologia di
epoca storica! Figuriamoci quando si vuol fare della paleopsichiatria, basandosi su materiale
autobiografico. Un’autobiografia è raramente oggettiva: è un po’ come un autoritratto, nel
quale l’artista si mostra in base a come vede se stesso.
Si potrà dire che si tratta di morti del passato. Non sono d’accordo. Un anno dopo che mio
padre era morto, pubblicarono un lavoro, non ricordo più dove, sulla sua malattia neurologica,
il cui abstract iniziava ‘A case of dementia ….’. d’accordo…. Però, ci rimasi male. Questo era
un episodio recente. Tuttavia ho saputo di casi di risentimento tra discendenti odierni di
antiche mummie studiate da paleopatologi.
Il rispetto del segreto professionale non dovrebbe avere mai limiti.
La triste storia di Gerolamo Cardano pone anche un altro interessante problema di etica
medica: i crimini sessuali.
Cardano forse era un pedofilo, Leonardo aveva comportamenti bisessuali ed ebbe relazioni
pedofile, Mahatma Gandhi e Lewis Carroll, pure. Rapporti pedofili sono comuni negli animali
e nell’uomo 7. Pochi sono gli adulti preparati ad affrontare queste insidie, a causa dello scarso
interesse che si ha ad insegnare l’uso corretto dell’enorme organo che abbiamo dentro il
cranio.
Mi domando quanti medici, e quanti patologi siano adeguatamente preparati su questo tema,
che oramai si interseca con la nostra attività diagnostica.
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Scarani P.: Ulisse Aldrovandi: l’alba della morfologia. Pathologica 93, 561-564, 2001.
Paolo Scarani
Ulisse Aldrovandi: l’alba della morfologia.
Pathologica 93, 561-564, 2001.
Bologna, 30 anni dopo la scoperta dell’America
Vicolo de’ Pepoli è un vicolo che immette nell’antica piazza delle sette chiese, da via
Castiglione, costeggiando il più antico dei palazzi della famiglia Pepoli. Un vicolo stretto,
ancora circondato da altissimi edifici con scale ripide che salgono fin quasi al cielo, senza
ascensore, per le difficoltà poste dall’architettura tardomedievale e rinascimentale, così
incredibilmente labirintica. Quando si salgono queste scale, si dimentica presto la fatica, per la
voglia di arrivare in cima, alla scoperta del cielo, il quale, fra voli di rondini, di passeri, di
piccioni, di taccole, di pipistrelli seccati per il brusco risveglio, abbraccia un mondo irreale di
tetti antichissimi e strani, non ancora rassegnati a morire. Entrando da vicolo de’ Pepoli nella
piazza delle Sette Chiese, inevitabilmente si prova una strana inquietudine, al cospetto di
quelle lunghe fila di teste di pietra, le quali sorvegliano con aria ambigua, dai meravigliosi
palazzi rinascimentali, chiunque si avventuri in questo strano posto.
Giovinezza tempestosa in un mondo inquieto
L’11 settembre 1522, Ulisse Aldrovandi nacque in vicolo de’ Pepoli. La sua casa, nella quale
morì (4 maggio 1605), è tuttora in piedi. Famiglia nobile, la sua. La tomba degli Aldrovandi,
molto elegante, si trova all’interno delle Sette Chiese.
Ulisse aveva numerosi fratelli, e rimase presto orfano di padre, il Conte e Senatore Teseo.
Da quando son nato, ho sempre sentito genitori lamentarsi delle loro terribili difficoltà nei
rapporti coi figli. Avranno anche ragione. Mi piacerebbe però di far resuscitare la madre
d’Ulisse e di fargliela incontrare. Una vedova non povera e certamente di rango, Veronica
Marescalchi: era cugina d’Ugo Boncompagni, più noto come papa Gregorio XIII, il
riformatore del nostro calendario [8]. Con sei figli per le mani, doveva avere nervi d’acciaio,
se resistette alle mattane di quel peperino prodigio. Forse la strana via in cui vivevano, forse
gli enigmi della piazza delle Sette Chiese, forse l’immane inquietudine fisica e spirituale del
Cinquecento (Ulisse, a Bologna, presenziò alla memorabile pace tra Clemente VII e Carlo V,
tra il Natale e l’Epifania 1529-1530) gli misero presto addosso una curiosità frenetica. A 12
anni scappò di casa senza soldi, per andare a vedere Roma. Oggi, non è semplice andare a
Roma. In autostrada ci si può anche ammazzare. Il treno e l’aereo, non si sa mai quando
arrivano. Allora era ancora peggio. Il sacco di Roma del 1527 aveva gettato nel caos una
povera Italia lacerata da lotte furibonde tra infinite fazioni. Chiunque viaggiasse poteva quindi
essere sottoposto a mille arbitrii, senza possibilità di ottenere giustizia. Figuriamoci un
ragazzino …. Eppure, Ulisse arrivò a Roma, e vi rimase per qualche tempo, mantenendosi
come paggio di camera d’un vescovo.
Il viaggio romano coincise con la nascita dell’interesse d’Ulisse per gli studi, soprattutto
matematici. Cominciò a provare il gusto per il ‘mettere ordine alle cose’. La sua abilità nel
fare i conti e la sua meticolosità incontrarono l’apprezzamento di vari mercanti. Appena
quattordicenne, andò così a fare apprendistato mercantile a Brescia, riscotendo un successo
lusinghiero. Bologna, poi, era un’ottima scuola di matematica: il successo d’Ulisse non è
quindi da sottovalutare.
Egli avrebbe potuto quindi iniziare una vita tranquilla e ricca di successi economici. [8] Testa
a partito? Macché! A sedici anni, ancora una volta senza avvisare i familiari, partì per la
Spagna con un pellegrino siciliano: un viaggio piuttosto lungo, all’incirca di un anno. Nelle
sue memorie dell’età matura, Aldrovandi sostenne di aver scoperto la natura, durante quel
lungo viaggio pieno di avventure, che gli presentò tanti ambienti così profondamente diversi,
dalle vette alpine e dei Pirenei all’Oceano. Animali, piante, minerali, ma anche popoli diversi:
indubbiamente, questi sono i temi fondamentali degli studi aldrovandiani. Sandra Tugnoli
Pattaro, probabilmente la maggiore studiosa italiana d’Aldrovandi, sostiene che Ulisse da
adulto vedeva la propria giovinezza nella prospettiva della sua esperienza futura,
dimenticando probabilmente che cosa lo avesse spinto ad intraprendere un’avventura così
temeraria. [8]
Un uomo di profonda spiritualità
Penso che la spiegazione del viaggio in Spagna, oltre che nel desiderio d’avventure, risieda nel
compagno di viaggio e nei luoghi visitati. Il Siciliano era un pellegrino, e i luoghi toccati
durante il viaggio erano in gran parte centri di spiritualità.
Tornato dalla Spagna, Ulisse intraprese una dura carriera di studi, che lo portò, iniziando dalla
giurisprudenza e terminando con la medicina, ad abbracciare, in poco più di un decennio
(1539-1550) quasi tutto il sapere accademico che gli potevano fornire i due grandi atenei di
Bologna e di Padova. La decisione di studiare era nata probabilmente nel corso del viaggio.
Non era però una decisione da uomo giunto alla fine di un percorso. Semmai, il cammino
stava appena iniziando. Gli studi aldrovandiani ricordano infatti moltissimo la pena di Faust:
la giurisprudenza non basta, la filosofia non basta, la matematica non basta, le scienze naturali
non bastano. Rimane la medicina, la scienza più tipicamente umana.
Ma basta, la medicina? Potrebbe bastare, ma è un mezzo, non un fine.
Un motore moveva l’animo inquieto d’Ulisse: la necessità di capire il mondo. Il suo modo di
pensare non era quello degli scienziati d’oggi. Il suo sapere scientifico era subordinato alla
filosofia. Un filosofo non spiega semplicemente la realtà che lo circonda: vuole anche arrivare
all’interpretazione dei suoi significati più intimi. Gli artificiosi dualismi cartesiani, e del
mondo moderno, non esistevano ancora. Oggi fatichiamo a capire un uomo del Rinascimento.
Siamo troppo fragili e nevrotici. Troppo tecnici. Anche i filosofi sono divenuti degli
scimmiottatori dei matematici. Forse, siamo così perché abbiamo avuto troppe delusioni
(lager, bombe atomiche ….). Ulisse viveva invece in un mondo crudele, sì, ma indomito, ricco
di forze nuove, traboccante di vitalità dopo la scoperta, da parte di Colombo, di terre selvagge,
dove la natura sembrava molto più ricca e complessa di quanto avessero mai potuto supporre
gli studiosi antichi.
Ecco, dunque, che cosa aveva partorito, vicolo de’ Pepoli: un formidabile figlio del
Rinascimento. Essere figli del Rinascimento significa aprire gli occhi, contemplare il mondo,
e desiderare di conquistarlo in tutte le sue parti: Dio compreso. E qui è il punto: l’uomo del
Rinascimento vuole cogliere Dio con le proprie forze. Ulisse cercava Dio. L’uomo è un
animale che ha bisogno di fini, per realizzarsi: altrimenti, tende a divenire una macchina
inerte, preda delle routines e delle droghe.
Cercava Dio con tale energia, che nel 1549 fu arrestato e processato per eresia. Era in odore di
anabattismo. E abiurò. Forse, per convenienza. L’eretico cui Aldrovandi era sospettato
d’ispirarsi, la dice lunga sulla sua mentalità e spiritualità.
Il siciliano Camillo Renato (probabile pseudonimo di Paolo Ricci), operò fra gli anabattisti
italiani della Valtellina e dei Grigioni. Presentava tuttavia tratti peculiari che rimandano al
neoplatonismo ed alla dottrina dell’amore di Marsilio Ficino. [1] Pur agendo in un’area
geografica limitata, produsse una gran quantità d’opuscoli che ebbero ampia diffusione. Forse
Ulisse lesse soltanto gli scritti di Renato. Non bisogna però dimenticare che, durante il viaggio
verso la Spagna, Aldrovandi vagò a lungo per le Alpi occidentali, territorio anticonformista in
materia religiosa da tempi remoti. Non posso poi negare che il pellegrino siciliano (dunque,
compatriota del Renato), mi lascia qualche sospetto sulla sua reale natura. L’abiura
d’Aldrovandi non esclude una profonda influenza del pensiero Renatiano su Ulisse. La
comunità cristiana concepita dal Renato era infatti pervasa da un forte senso di amore e
dedizione reciproca, a mio avviso sempre ben evidente nella definizione del ruolo sociale
dello studioso e del medico da parte di Aldrovandi, ed anche nella configurazione dei suoi
rapporti con gli altri.
L’interesse d’Ulisse nei confronti di Dio era strettamente privato. Dopo l’abiura, non creò mai
più alcun problema ai propri parenti curiali, ed Ugo Boncompagni fu eletto tranquillamente
Papa nel 1572 [8].
Nel corso della sua vita, Ulisse fu sempre prudente nei confronti dell’Autorità ecclesiastica,
dominante in Bologna. Se ne servì, anzi, con grande abilità, per sviluppare i sui progetti, di cui
parlerò, per sviluppare l’orto botanico, e per combattere contro gli abusi dei medici e degli
speziali.
Le convinzioni religiose erano un fatto privato. A mio avviso, tuttavia, il rigorismo dell’uomo
influenzato dalla Riforma emerge costantemente nella dirittura morale e nella profonda
sensibilità sociale di questo straordinario studioso.
La natura e l’uomo
Aldrovandi era affascinato dalla bellezza e dalla ricchezza del mondo. Non era tuttavia il tipo
da limitarsi a gigioneggiare sulla bellezza e basta. Neppure poteva limitarsi a studiare
afinalisticamente il mondo circostante. La sua profonda conoscenza filosofica, nonché l’intima
religiosità, lo spingevano infatti a vedere il bene come fine ultimo delle sue ricerche. Come
medico, egli interpretava il bene come salute fisica e spirituale. Il mondo, giorno dopo giorno,
gli rivelava straordinarie ricchezze e conoscenze utili ad alleviare le sofferenze umane. Le sue
ricerche naturali erano quindi, fondamentalmente, finalizzate ad armare la medicina di mezzi
sempre migliori per curare le malattie, e per fornire i propri simili di nuovi mezzi di
sostentamento.
La concezione aldrovandiana di medico era profondamente morale. La sua ricerca scientifica
non era quindi strettamente individuale, ma pubblica e collettiva. Come insegnante
universitario, aveva un profondo rispetto per gli studenti.
Desiderava inoltre che le proprie ricerche non andassero perdute. Aveva sviluppato un acuto
senso della precarietà della vita, a causa della perdita precoce del padre. Ciò è evidente
quando, nel 1559, progettando un incompiuto viaggio esplorativo nelle Indie Occidentali
(Americhe), fece ripetute allusioni all’importanza di farsi accompagnare da validi sostituti, per
porre rimedio all’eventualità della propria morte durante l’impresa. [8]
La consapevolezza dell’utilità del proprio lavoro spinse Aldrovandi a sviluppare strumenti
utili a garantirne nel modo migliore la fruibilità per gli altri. Su tale consapevolezza si fondano
lo sviluppo del metodo per lo studio della natura e la creazione dell’orto botanico, del museo e
delle tavole illustrative.
Il metodo
La riscoperta dei Greci e della loro filosofia fu fondamentale per l’abbozzo del piano
metodologico aldrovandiano [8]. La filosofia gli forniva dunque quella chiarezza matematica
nell’organizzazione dei suoi piani per lo studio. Chiarezza: terminologica e rappresentativa.
Le piante, gli animali e i minerali dovevano essere classificati in modo ordinato. In ciò
Aldrovandi non ebbe forse grande fortuna. Capì tuttavia il problema, a causa probabilmente
del senso pratico acquisito con l’esperienza mercantile: nello studio della natura occorre
parlare lo stesso linguaggio. L’impresa era quasi apocalittica, a causa della totale anarchia
nell’uso dei nomi (volgari, latini, esotici) per designare le varie specie naturali. Eppure, tale
confusione era inaccettabile. Moltissimi prodotti naturali erano infatti utilizzati sull’uomo, per
curare le malattie, o con altri fini. Errori interpretativi potevano quindi produrre risultati
catastrofici. L’importanza di un linguaggio scientifico comune indusse a sollevare anche un
altro problema, da parte d’Ulisse: quello dei pesi e delle misure. Anche in questo campo il
caos era totale. Secondo Aldrovandi, tale disordine e la profonda ignoranza degli speziali
erano stati frequentemente la causa della morte dei pazienti. [8]
L’orto, il museo e le tavole
La conoscenza della natura assunse in Aldrovandi un ruolo duplice: quello di approfondire
continuamente le proprie conoscenze e quello di trasmetterle agli altri (particolarmente ai
medici ed agli speziali) nel modo più efficace possibile.
Per conseguire tale fine, Ulisse creò un museo imponente, nel quale raccolse migliaia di
preparati naturali. Oltre alla cura della catalogazione, il museo aldrovandiano si distingue per
la tecnica di conservazione dei materiali essiccati, animali e vegetali. Le tecniche di
preparazione di tali materiali non sono nuove [3-7-8]. Tuttavia, Ulisse si distinse da tanti
predecessori, non solo per la quantità dei materiali raccolti, ma anche, e soprattutto, per
l’eccezionale qualità raggiunta. I preparati tuttora disponibili (l’erbario in particolare), sono
ancora oggetto di studio e d’ammirazione. Forse, se ne parla e se ne scrive troppo poco [3],
occupandosi più di minuzie sulla priorità aldrovandiana rispetto ad altri studiosi che non della
monumentalità del lavoro compiuto. Neppure mi risulta che siano stati tentati studi di biologia
molecolare, nonostante le sollecitazioni da parte di studiosi dell’evoluzione, come Stephen Jay
Gould.
Un archivio di materiali essiccati non poteva comunque bastare alle esigenze didatticoscientifiche d’Ulisse. Il problema maggiore posto da tale tipo d’archivi era costituito dalla
scarsa conservazione, o, addirittura, dalla perdita totale dei colori naturali.
Le piante possono, ovviamente, essere coltivate. Fu questo il motivo per cui Ulisse creò l’orto
botanico di Bologna, situato dapprima all’interno del palazzo comunale, poi a porta Santo
Stefano, lungo l’attuale via San Giuliano. Nell’allestimento e nella cura di quest’orto
Aldrovandi si distinse da tanti altri botanici. Egli infatti se ne occupava personalmente. Non si
curava di essere giudicato male dagli altri intellettuali, per questa sua propensione a compiere
lunghe peregrinazioni attraverso l’Italia, alla ricerca di nuove specie, e di dedicarsi poi
personalmente alla cura delle stesse nell’orto.
Si era infatti reso conto di quanto tempo fosse stato gettato alle ortiche studiando la natura
esclusivamente sui testi degli antichi [8].
L’avversione di Ulisse nei confronti di un sapere puramente libresco è anche dimostrata alla
grande quantità di tempo che dedicava all’insegnamento a studenti, medici e speziali, nel
museo, nell’orto ed anche, ovviamente, in natura.
Ho detto di quanto Aldrovandi tenesse ad una precisa conoscenza delle terminologie. I suoi
tentativi volti a conseguire una nomenclatura unica furono inascoltati. D’altra parte, non
possiamo meravigliarci di ciò, se, circa due secoli dopo, Linneo dovette patire le pene
dell’inferno prima di veder quasi unanimemente accettata la propria nomenclatura.
Per ovviare alla grave lacuna prodotta dall’assenza di una terminologia univoca, Aldrovandi
pose tutta la propria attenzione sullo sviluppo d’immagini appropriate. Ho detto che Ulisse
aveva avuto discreti contatti col mondo della Riforma. Un sintoma quasi sicuro di questo è
sicuramente costituito dalla sua grande fiducia nelle illustrazioni.
Il Settentrione dell’Europa aveva visto la nascita della stampa a caratteri mobili. Tale
invenzione fu subito percepita da Martin Luther come formidabile mezzo di propaganda delle
dottrine religiose contro Roma. Gli opuscoli illustrati divennero così un’arma efficacissima ed
economica per propagandare le nuove idee.
In Italia, si credeva ancora molto, ai tempi d’Aldrovandi, nei bei testi ricchi di discorsi forbiti.
Le illustrazioni erano invece considerate adatte alla ‘gentaglia analfabeta’ [8]. Vesalio (uomo
del Settentrione) collaborò con la scuola di Tiziano, per le sue tavole, ma stampò il De
Humani Corporis Fabrica a Basilea (1543). Certamente Ulisse conobbe Vesalio [8]. Non so
tuttavia quanto quell’opera meravigliosa influenzò il suo successivo culto per l’immagine
colorata. Il colore fu, infatti, la vera passione d’Ulisse illustratore della natura. Egli comprese
l’importanza, in zoologia come in botanica, della percezione di minime sfumature di colore
per distinguere specie tra loro molto simili.
Nacque così qualcosa che ci consente finalmente di capire il perché dei musei scientifici di
Bologna. Da quando ho cominciato ad occuparmi del museo Taruffi, sono rimasto colpito
dalla stretta corrispondenza tra preparati e tavole illustrative delle pubblicazioni d’epoca che
riguardavano tali preparati. Questa è una caratteristica comune a tutti i musei dell’Ateneo [6].
Oggi sono sicuro che il merito primario di questa straordinaria operazione culturale va ad
Ulisse Aldrovandi. Egli voleva fornire informazioni quanto più possibile vicine alla realtà
naturale. Constatando l’inefficacia dei preparati naturali (deteriorabili) e della parola, ricorse
all’illustrazione di qualità.
Per questo volle artisti abili, sì, ma estremamente duttili: pronti, cioè, a cercare con la sua
stessa passione le forme ed i colori più ‘identici’ possibile al naturale. Un lavoro immane,
improbo, pieno d’incomprensioni, da parte degli artisti, che si sentivano spesso sottoutilizzati
e sottopagati.
Per la produzione di migliaia di tavole colorate ad acquerello e, più tardivamente, d’incisioni
lignee per la stampa in bianco e nero [2], Ulisse consumò una quantità enorme di tempo (e,
quasi completamente, la vista) ed anche le proprie risorse finanziarie. I risultati furono
magnifici, per valore scientifico e bellezza. Per troppo tempo se n’è solo parlato, senza avere
la possibilità di ammirarlo. Nel 2001, finalmente, l’Università bolognese ha reso disponibili in
internet queste splendide immagini a colori in gran formato. Il fotografo Marco Ravenna ha
compiuto un’opera veramente meritoria. L’indirizzo è www.filosofia.unibo.it/aldrovandi.
Non voglio trattare il tema degli artisti che collaborarono con Aldrovandi. Esso è da lungo
tempo oggetto di controversie. Anche in una recentissima pubblicazione a cura dei maggiori
esperti aldrovandiani, i diversi contributi sono in reciproco disaccordo [5-7]. In particolare, la
polemica rimane sempre vivace a proposito del ruolo avuto dal grandissimo autore di nature
morte Jacopo Ligozzi (1547-1626) [4]. Federico Zeri riteneva che il Ligozzi cui sono attribuite
alcune tavole della collezione aldrovandiana fosse in realtà un nipote di Jacopo [9].
Chi vuole entrare nella polemica, si accomodi pure a leggere la bibliografia. Io concludo.
Un genio della morfologia.
Guardando le tavole d’Ulisse in internet sono rimasto profondamente commosso. Un’opera
viva, che vuole coinvolgere chi guarda: non, semplicemente, informarlo. Spesso le tavole
recano un’infinità di sinonimi per la specie trattata, anche in più lingue. Talora sono anche
riportati nomi dialettali e popolari che fanno tornare alla mente tanti particolari della nostra
tradizione bolognese.
Ciò che sorprende è però il lavoro immenso svolto da Ulisse. Non solo uno studio della forma
esterna delle specie studiate, ma anche degli organi interni. Compaiono infatti anche tavole
illustranti la dissezione di organi interni, ed attestanti gli studi embriologici aldrovandiani,
connessi sicuramente con la teratologia.
Le tavole teratologiche mostrano quanto Aldrovandi sia ancora poco conosciuto. Certamente,
Ulisse, come uomo del Rinascimento, vedeva il mostruoso con gli occhi talora un po’ esaltati
e fantasticheggianti dei contemporanei. Tuttavia, ben pochi hanno percepito il realismo e
l’attualità delle tavole riguardanti malformazioni osservate direttamente da Ulisse. Proprio la
loro straordinaria sovrapponibilità coi casi d’oggi ci permette di capire quanto attento fosse
quest’osservatore.
Non voglio parlare troppo. È molto meglio andare a guardare le immagini (il computer deve
essere un tantino potente!).
Vorrei concludere con una domanda senza risposta. Se tornasse a nascere, quale mestiere
sceglierebbe, secondo voi, Ulisse, vista la sua passione per i colori? ……
1. Cantimori D.: Eretici italiani del Cinquecento. Sansoni, Firenze 1939, pagg. 71-87
2. Gaeta Bertelà G. e Ferrara S.: Catalogo generale della raccolta di stampe antiche della
Pinacoteca nazionale di Bologna – gabinetto delle stampe. Sezione III: incisori
bolognesi ed emiliani del secolo diciassettesimo. Edizioni Associazione per le Arti
“Francesco Francia”, Bologna 1973
3. Cristofolini G.: Luca Ghini a Bologna. La nascita della nuova scienza della natura.
Museologia scientifica (1991) 3, 207-221
4. Laclotte M. e Cuzin J. P.: Dizionario della pittura e dei Pittori. (traduzione italiana a
cura di E. Castelnuovo et Al.) Larousse Einaudi, Torino 1992, vol. 3
5. Olmi G.: Il collezionismo scientifico. In: Simili R., Tugnoli Pattaro S. et Al.: Il teatro
della natura di Ulisse Aldrovandi. CLUEB, Bologna 2001, pagg. 20-50
6. Scarani P. et Al.: The contemporaneous anatomic collections and scientific papers
from the 19th century school of anatomy of Bologna. Preliminary report. Clin Anat
2001, 14 (1), 19-24.
7. Tommasini S. e Tagliaferro M. C.: La ricerca zoologica. In: Simili R., Tugnoli Pattaro
S. et Al.: Il teatro della natura di Ulisse Aldrovandi. CLUEB, Bologna 2001, pagg. 6082
8. Tugnoli Pattaro S.: Metodo e sistema delle scienze nel pensiero di Ulisse Aldrovandi.
CLUEB, Bologna 1981
9. Zeri F. et Al.: La natura morta in Italia. Electa, Milano 1989. Vol. 2. Pagg. 524-527
Marcello Malpighi tre secoli dopo
Paolo Scarani, Gian Paolo Salvioli, Vincenzo Eusebi
Gastroenterologia Ed Endoscopia Digestiva, 7, 40-44, 1994
Quest’anno ricorre il terzo centenario della morte di Marcello Malpighi, evento già
considerato sin dall’inizio di quest’anno come uno dei più rilevanti del 1994 per la storia della
scienza (6), in particolare dagli studiosi inglesi, i quali furono i primi, vivente Malpighi, ad
apprezzarne la grande rilevanza come ricercatore. Probabilmente quest’uomo è la più alta
espressione della Scuola medica Bolognese, in quanto le sue ricerche sulla morfologia di
numerosi organi ed apparati, contrariamente a quelle di altri Maestri bolognesi precedenti o
successivi al Malpighi, sono ancora facilmente verificabili nel loro ruolo fondamentale per la
conoscenza ed anche riproducibili, grazie alla particolare cura con cui egli descrisse le proprie
osservazioni ed i metodi usati (2).
Nonostante ciò, Malpighi, dopo le sofferenze che dovette patire in vita da parte di svariati suoi
conterranei, nelle epoche successive non ha mai goduto a Bologna degli onori che pure gli
sono stati tributati in tutto il mondo. Non meraviglia il fatto che a Bologna presso il grande
pubblico il nome di Malpighi sia esclusivamente riferito alla piazza ed all’ospedale omonimi,
senza il pur minimo riferimento alla realtà del personaggio. Sorprende invece la scarsità degli
scritti a lui dedicati dagli storici della medicina, per di più confinati a riviste locali ed a scarsa
distribuzione (4-5). Unica recente eccezione l’opera del compianto Giuseppe Minelli (8).
Rivisitazioni molto interessanti sono invece state compiute da Luigi Belloni, che fra l’altro ha
anche ricostruito una parte dei suoi metodi per gli studi morfologici (1-2-3).
Molto più frequentemente si occupano del Malpighi gli studiosi stranieri, testimoniando
l’esattezza di quanto un contemporaneo scrisse nell’affresco commemorativo
dell’Archiginnasio: un grande nome non ha bisogno di fronzoli, perché saranno i secoli futuri
a parlare di lui.
In questo lavoro presentiamo la vita, gli studi e le scoperte del Malpighi ed i metodi da lui
usati nella ricerca, nella speranza di suscitare in chi non lo conosca il senso di viva
ammirazione che la lettura delle sue opere ha prodotto in noi.
Biografia
Malpighi nacque a Crevalcore il 10 marzo 1628. Si trasferì a Bologna nel 1645 presso il
precettore Francesco Natali, da cui apprese per anni, e con molto interesse, la filosofia. A 21
anni, perduti i genitori, fu indirizzato dal precettore allo studio della medicina. Fu per la sua
formazione di grande importanza l’essere discepolo di Bartolomeo Massari e di Andrea
Mariani, fondatore, quest’ultimo, di un’accademia in cui si studiavano i nuovi problemi aperti
dalle scoperte sulla circolazione del sangue e si praticava intensamente la dissezione
anatomica. L’accademia era violentemente osteggiata, e fu anche per questo, che Malpighi fu
respinto al suo primo esame di laurea. Si laureò soltanto quando si fece presentare da medici
ben visti dalla classe accademica dominante. La laurea fu tuttavia dichiarata inizialmente
nulla, e venne ratificata molto più tardi, senza tuttavia impedire a Malpighi la continuazione
dell’apprendistato sotto i suoi maestri.
A 28 anni, nel 1656, il Senato bolognese gli concesse l’insegnamento, tuttavia si recò a Pisa,
su invito del Granduca Ferdinando II, alla cattedra di medicina teorica. Ciò gli permise di
entrare in contatto con Alfonso Borelli, di cui sempre si professò debitore per i propri
progressi nella “filosofia sperimentale”. Presso la casa del Borelli praticò numerosi
esperimenti e studi anatomici, collaborando anche alla scoperta del decorso spirale delle fibre
miocardiche.
Malpighi dopo tre anni (1661) tornò a Bologna, dove descrisse la struttura dei polmoni; presto
però il Borelli ne favorì la chiamata a Messina, alla cattedra di medicina, dove poté servirsi dei
pesci per le dissezioni anatomiche. Soprattutto queste gli furono utili per lo studio del sistema
nervoso centrale, molto semplificato in questi animali. Anche a Messina i suoi studi
continuavano a suscitargli violente opposizioni, pur tra i numerosi ammiratori. Tornò così a
Bologna, e la sua avversione per l’ambiente messinese lo indusse successivamente a rifiutare
un nuovo invito a recarsi in quella città con uno stipendio ancora più pingue del precedente.
A Bologna continuò i propri studi, pur tra violente manifestazioni di ostilità da parte degli
avversari. Strinse anche intensi rapporti con studiosi stranieri (Silvio, Willis, Bartolino).
Gli studi più interessanti di questo nuovo periodo bolognese furono quelli sulle ghiandole
conglobate (fegato, rene, milza).
Malpighi era uno sperimentatore, ma rimaneva sempre legato alla clinica. Ciò è documentato
dal suo interesse per i metodi del Silvio per la cura dell’isteria e per il modo di trasmettersi di
alcuni casi di rabbia.
La sua curiosità lo spinse anche a Padova, per avere contatti con gli Aristotelici locali e con la
scuola dell’Highmoro. Qui constatò anche la profonda ignoranza intorno alla struttura degli
organi. Si accorse per esempio che il testicolo era ancora considerato un ammasso di strutture
vascolari e che i muscoli intercostali erano interpretati come carne destinata a riempire gli
spazi vuoti tra le coste.
Intanto gli giungevano riconoscimenti anche dall’estero. Divenne infatti membro della Società
Reale di Londra. Nel frattempo cominciava gli studi sul baco da seta.
Nel 1671 comparve il suo scritto sull’anatomia delle piante, e nel 1672 quello, inviato alla
Società Reale di Londra, sulle uova incubate della gallina, oggetto, quest’ultimo, di uno studio
già pluriennale.
Dopo il 1684, furono particolarmente intensi gli studi morfologici, in particolare sulla
circolazione e sulle ghiandole nella rana. Su quest’argomento inviò un’ulteriore
comunicazione alla Società Reale di Londra nel 1686. Erano di questo periodo anche scambi
epistolari col Vallisneri sul tema della superfetazione.
A quell’epoca appartennero purtroppo anche i ben noti attacchi da parte del bolognese Mini,
che culminarono in una pubblica disputa sostenuta da quest’ultimo nel 1689. A ciò si
aggiunse, nello stesso anno, il libello anonimo dello Sbaraglia “De recentiorum medicorum
studio dissertatio epistolaris ad amicum”. Queste furono le più note e volgari aggressioni
verbali al Malpighi. Non ne mancarono tuttavia altre meno famose, e non solo bolognesi.
Furono però tanti anche i difensori del Nostro. Fra essi il Papa (Innocenzo XII), che nel 1691
lo chiamò come proprio medico a Roma, poco dopo il tristemente noto assalto alla sua casa,
capeggiato dallo Sbaraglia. L’odio da parte dello Sbaraglia, per la pertinacia e l’aggressività
dimostrate, è inspiegabile, se si considerano come suo fondamento le diverse idee sulla
scienza medica e sul metodo scientifico professate dai due uomini. In realtà Le famiglie
Malpighi e Sbaraglia erano proprietarie di terreni confinanti a Crevalcore, ed avevano in corso
dispute molto violente sui confini già da lungo tempo. Inoltre, quando già Malpighi aveva
raggiunto una cospicua reputazione, un suo fratello uccise un fratello dello Sbaraglia in duello,
ottenendo successivamente un trattamento clemente da parte delle autorità a causa
dell’influenza del Malpighi stesso, naturalmente con non troppa soddisfazione da parte dello
Sbaraglia stesso. A Roma Malpighi, oramai anziano, continuò a studiare e ad esercitare la
professione. Morì nel palazzo del Quirinale il 29 settembre 1694, di apoplessia. La Società
Reale di Londra curò la traduzione in latino degli scritti malpighiani.
A parte le pene subite dai propri nemici, poco c’è da dire della vita privata del Malpighi.
Aveva sposato la figlia del suo maestro, Francesca Massari, da cui non ebbe figli. Lasciò
tuttavia un figlio spirituale: Antonmaria Valsalva, a sua volta maestro del Morgagni.
Malpighi ricercatore: il metodo
L’nteresse per la filosofia, già manifestato dal Malpighi adolescente, lo caratterizza come
uomo dedito ad un metodo rigoroso. La filosofia, compendio della conoscenza e dell'attività
intellettuale umana è, per tutti i grandi scienziati del Seicento, il principio informatore per lo
studio della realtà, il quale si caratterizza subito in Malpighi come riscontro della morfologia,
in ambito umano ed animale, ma anche nella botanica diviene ben presto il centro del suo
interesse. Inizialmente, egli non si discosta dagli altri grandi morfologi, praticando una
rigorosa dissezione anatomica. Progressivamente però Malpighi, come altri contemporanei si
vuol spingere più a fondo, avvicinandosi infine alla microscopia. Il microscopio non è però
l'unico strumento che gli permette di osservare più in dettaglio la struttura degli organi.
Malpighi confessa infatti di avere arricchito grandemente le proprie cognizioni anche con
quello che lui chiama il “microscopio naturale”: l'anatomia comparata. La diversa grandezza
di uno stesso organo nelle diverse specie consente infatti di averne a volte un cospicuo
ingrandimento, o, certe volte, un modello più semplificato, senza ricorrere a strumenti. Questo
metodo è molto caratteristico del Malpighi, benché probabilmente non suo esclusivo. Anche i
microscopi erano già stati inventati. Come Galileo coi telescopi, però, Malpighi seppe dove
puntarli. Egli adoperava entrambi i tipi di microscopio disponibili: con una singola lente, e il
microscopio composto, dotato di più lenti e di illuminazione artificiale. Di esso egli fornisce
anche una dettagliata descrizione sul funzionamento (De pulmonibus epistola altera, 1661 - 7).
Malpighi riusciva a perfezionare le sue cognizioni col confronto fra le strutture in diversi
viventi. Quindi non si occupava soltanto della struttura e del funzionamento del corpo umano,
ma anche di quello di moltissime specie animali, e della struttura delle piante. Ciò non basta
però a spiegare la cura con cui tanti fenomeni erano da lui descritti. Si trattava infatti di un
uomo di estrema vivacità e curioso di ogni aspetto della vita.
Malpighi indubbiamente era un galileiano, se si pensa all'influenza su di lui del Borelli,
seguace di Galileo. Noi però pensiamo che lui sia un tipico prodotto di tutte le componenti più
moderne e dinamiche del pensiero scientifico e filosofico europeo, che agì su di lui sin dalla
giovinezza. Queste influenze precoci lo portarono poi a cercare sempre le persone in grado di
consentirgli quei fecondi scambi di idee e di esperienze che caratterizzarono la sua intera
esistenza scientifica. Questi suoi scambi di idee con altri studiosi ed il suo continuo trasferirsi
da una sede universitaria all'altra, anche se in parte forzati dalle persecuzioni cui era
sottoposto, dovrebbero essere accuratamente valutati da noi moderni, che pur vivendo in un
mondo così ricco di rapide ed efficienti comunicazioni, ci siamo abituati oramai a nascere,
crescere e morire, almeno per quel che concerne il lavoro, specialmente universitario, in una
stanza piccola e polverosa, magari soltanto ripiena delle nostre idee.
Malpighi medico.
Essere nominati medico del Papa, come capitò al Malpighi, dovrebbe già costituire una buona
credenziale delle capacità professionali. C’è qualcosa di ben più sostanzioso ad attestare le
qualità mediche del Malpighi: egli fu un grande ricercatore proprio perché era un grande
medico, e la sua intera attività scientifica era motivata dal desiderio di capire meglio la
medicina. La vita del Malpighi è caratterizzata da tentativi di comprendere problemi medici di
particolare difficoltà, ed i suoi scambi epistolari con grandi clinici contemporanei italiani ed
europei presentano in continuazione dibattiti su complessi problemi di diagnostica e terapia. Il
suo interesse per la clinica è tuttavia soprattutto evidenziato dalle numerose autopsie, eseguite
con estrema attenzione ai rilievi clinici ed alle correlazioni con la morfologia patologica, che
fanno di lui un finora insospettato precursore del Morgagni. Quest'aspetto di Malpighi
anatomopatologo è di solito trascurato a vantaggio dei suoi studi sul cadavere dei polipi del
cuore, intesi come una specie di studi protoematologici, anche se difficili da valutare nel loro
significato al giorno d'oggi. La cura e la modernità con cui Malpighi si pone dinanzi
all'autopsia dovrebbero invece farcelo considerare il vero padre dell'anatomia patologica
moderna, per lo meno italiana. Di questo si rese conto Rudolf Virchow, che fu ben più
impressionato dal Malpighi, come anatomopatologo, che non dal Morgagni.
Bibliografia
Belloni, L.: Opere scelte di Marcello Malpighi. UTET, Turin 1967.
Belloni, L.: Marcello Malpighi alla scoperta strutturistica della lingua e della cute. In: Belloni,
L.: Per la storia della medicina. Forni, Bologna 1985, pp. 53-60.
Belloni, L.: Dal "polipo del cuore" (Malpighi 1666) al ferro dei globuli rossi. In: Belloni, L.:
Per la storia della medicina. Forni, Bologna 1985, pp. 61-68.
Brighetti, A.: La casa natale di Marcello Malpighi in Crevalcore. Strenna storica bolognese,
20, 1970, 33-39.
Gelmetti, P.: Ricordi di Marcello Malpighi. Strenna storica bolognese, 29, 1979, 179-192.
Heilbron J. L., Bynum W. F.: Eighteen ninety-four and all that. Nature 367, 1994, 11-14
Malpighi, M.: De pulmonibus observationes anatomicae, seguìto dalla risposta apologetica
(commentary by S. Baglioni). Bardi, Rome 1944.
Minelli, G.: All'origine della biologia moderna. La vita di un testimone e protagonista:
Marcello Malpighi nell'Università di Bologna. Jaca book, Milan 1987.
Paolo Scarani
AD 1700: de morbis artificum diatriba Bernardini Ramazzini in
Patavino Archi-lyceo practicae medicinae ordinariae publici
professoris. Sono nate la medicina del lavoro e l’epidemiologia.
Pathologica 92, 569-571, 2000.
Ancor meno persone delle solite quattro, leggeranno questa rubrica, perché, penso, tutti
sapranno di Bernardino Ramazzini (Carpi 1633 – Padova 1714), il primo al mondo a
sistematizzare l’epidemiologia 4, ed a richiamare l’attenzione di tutti, ma soprattutto dei
governanti, sui gravi pericoli, spesso mortali, che possono derivare da un’infinità di lavori
umani. Particolarmente impressionante è in particolare la sua sollecitudine nel far notare che
molti mestieri pericolosi, per i materiali nocivi che disperdono nell’ambiente, specialmente
nell’aria, possono mettere a rischio la vita di tutti. Il suo non è un lavoro semplicemente
descrittivo, ma anche aggressivamente propositivo: egli non si stanca infatti di ripetere come
certi lavori debbano essere tenuti il più possibile lontani dai centri abitati 2.
Ramazzini è un tipico uomo di scienza del seicento. Studia a Parma, laureandosi in filosofia,
poi inizia medicina, completando tali studi a Roma. Si sposa e mette al mondo tre figli,
guastandosi presto la salute, in quanto, esercitando la professione nel viterbese, contrae la
malaria 2. Oltre ad essere un abile medico pratico, ama insegnare. Proprio per questo il duca di
Modena, Francesco II, lo chiama a riorganizzare l’Università locale, e gli assegna la cattedra
di medicina teorica (1678). Qui Ramazzini fonda ed insegna, per gli ultimi dieci anni del
seicento, una materia nuova, che intitola “De morbis artificum”. La pubblicazione dell’opera
derivata dai suoi studi e da tali lezioni sulle malattie professionali ed ambientali suscita subito
un grande interesse. La seconda edizione (1703) è pubblicata ad Utrecht, ed i Veneziani,
sempre alla ricerca di uomini di genio per il proprio Ateneo, lo chiamano a Padova subito
dopo la pubblicazione della prima edizione (il 12 dicembre 1700 Ramazzini tiene infatti la
prima lezione nella sua nuova sede 2).
Tre edizioni in tredici anni la dicon lunga sull’interesse suscitato da Ramazzini. È un uomo
molto noto, non c’è dubbio. La sua corrispondenza lo dimostra: Malpighi, Lancisi, Vallisneri,
lo storico Muratori, l’erudito Magliabechi, col quale è in contatto quasi quotidiano, e Leibniz
3
. I primi tre sono comprensibili, essendo medici. E gli altri? Ci spiegano perché Ramazzini
poté arrivare a concepire la sua opera maggiore. Egli infatti si interessa di tutti gli aspetti della
vita umana e naturale: storia, letteratura (il ‘de morbis artificum ...’ comincia con una poesia),
scienze naturali. Con Leibniz, oltre che di letteratura, discute di tecniche pittoriche, di metodi
per produrre sostanze chimiche e della loro pericolosità, di teratologia, e dei suoi tentativi di
misurare sistematicamente variazioni barometriche e termometriche 3.
Questa non è che una piccola parte degli interessi di Ramazzini. Soprattutto, però, egli è
colpito da quelle malattie nelle quali si può scorgere chiaramente una causa esterna in grado di
generarle e propagarle. Si interessa così di malattie infettive del bestiame ed anche delle
coltivazioni 1.
Proprio da queste osservazioni egli arriva a considerare con attenzione i diversi ambienti e
circostanze in cui si trovano ad operare le varie categorie di lavoratori. Tutto ciò potrebbe già
portarlo ad una classificazione sistematica delle malattie professionali. Egli individua infatti
già con chiarezza svariate sostanze tossiche (metalli pesanti, acidi, componenti del tabacco),
polveri minerali ed organiche (di cui riconosce i gravi effetti sul polmone), ambienti malsani,
posture sbagliate. Tuttavia, preferisce classificare le malattie per categorie di lavoratori,
perché ha compreso, come ripete in continuazione, che sono proprio le professioni a
sottoporre i lavoratori a quei gravi pericoli. Occorre quindi agire primariamente su quelle.
Insomma, la medicina preventiva ha già tre secoli.
Complessivamente, Ramazzini considera 54 categorie di lavoratori. Alcune possono sembrare
bizzarre. Tuttavia, a ben vedere, mostrano la saggezza del Nostro. Egli istituisce per esempio
anche le categorie degli studiosi e degli Ebrei. I primi, per la sedentarietà del loro lavoro, con
tutti i problemi dell’aumento di peso e della cattiva digestione. I secondi invece, per la
particolarità dell’ostracismo nei loro confronti da parte del mondo occidentale, sono costretti a
compiere lavori spesso umili, e, comunque, in aree insalubri, sporche e ristrette.
Ho detto che Ramazzini è un uomo molto attento alla realtà circostante ed ai fatti, più che ai
discorsi. Logico quindi aspettarsi che si interessi di anatomia patologica. Come non potrebbe?
È in contatto con Malpighi e Lancisi ... per di più, quando muore d’emorragia cerebrale poco
dopo aver tenuto l’ultima lezione, ha accanto a sé due grandi amici: Antonio Vallisneri (molti
lo scrivono Vallisnieri; io uso la grafia del frontespizio d’una sua opera che ho potuto vedere
di recente) e Giovan Battista Morgagni 2. Morgagni è ancora giovane (33 anni). Poi, abitare di
fianco a una chiesa non significa essere cattolici praticanti. Vari indizi nel ‘de morbis’
permettono tuttavia di dedurre una buona conoscenza delle lesioni degli organi da parte del
Nostro.
Quando Ramazzini tratta delle malattie degli scalpellini e dei gravi danni polmonari da
polveri, ci dà una notevole immagine d’una pneumoconiosi (non traduco il latino, perché
siamo latini anche noi, no?):
“.... hinc in horum artifìcum dissectis cadaveribus inventi sunt pulmones exiguis calculis
oppleti ....” 2
A metà degli anni ottanta dello scorso secolo, preso, nel tentativo di trovare agganci in
letteratura col museo Taruffi, da una sorta di raptus paragonabile a quelli delle volpi che,
quando penetrano in un pollaio particolarmente fornito, massacrano tutte le galline, leggevo
voracemente quanto mi capitava a portata d’occhi; così mi lessi anche tutto il “de morbis...”, e
m’imbattei, nel capitolo delle malattie delle balie (nutrici), in una serie di considerazioni sulla
funzione della mammella, sulle sue relazioni con l’attività uterina, con la sessualità, ed anche
sulla sua patologia .... e rimasi a bocca aperta davanti a questa frase:
“..... verum sine placenta, ut in virginibus, quibus interdum lac generatur in mammis,
consensum hunc inter mammas et uterum admittere necessum est, experientia satis attestante,
in mulierum mammis ob uteri exorbitantias generari persaepe cancrosos tumores, quales in
monialibus magis quam in ceteris miilieribus observantur, non ob menstruorum defectum, sed
potius, ut reor, ob coelibem vitam; mihi enim saepius observare contigit, Vestales virgines
bene coloratas, menstruis purgationibus rite fluentibus, sed salaci natura praeditas ex horrendis
mammarum cancris misere obiisse; quoniam in Italia quaelibet civitas complures habet
religiosos virginum coetus, perraro fit, ut monasterium aliquod exstet, quod tam diram pestem
intus non alat. Cur ergo propter uteri deliria plectuntur mammae, non sic neque tam
frequenter aliae partes? Certe ob consensum adhuc occultum et prosectorum indagini
impervium, quem forsan dies aliqua aperiet, cum nondum sit occupata veritas.”
Forse anche altri avevano percepito il maggior rischio di sviluppare il cancro mammario nelle
monache. Questo cancro è una vecchissima conoscenza dei medici. Tutti sanno che la
correlazione con le chele del granchio è derivata proprio dalla quasi avidità con cui queste
neoplasie in fase avanzata sembrano quasi attrarre al loro interno i tessuti circostanti.
Ciononostante, non mi è ancora capitato di trovare un rilievo epidemiologico così pregnante
su questa neoplasia, prima dei grandi studi sistematici del ventesimo secolo 1.
A questo punto mi voglio fermare. Questa è una rilettura, come sostiene il titolo della rubrica.
Mi auguro che qualcuno abbia voglia, dopo tre secoli, di rileggere Ramazzini. Possibilmente
senza ridere delle teorie umorali, che spesso compaiono. Anche Morgagni ragionava così, eh!
D’altra parte, l’anatomia patologica dell’ottocento non è ancora arrivata, nel 1700.
Anche l’atmosfera d’oggi, con tutto il caos che c’è per il mondo, somiglia a quella del 1700.
La gente infatti, stava, tra terribili carestie, riprendendo appena il fiato al termine della
megarissa europea scatenata dal Re Sole (trattato di Ryswick del 1697), mentre echeggiavano
le prime avvisaglie della guerra di successione Spagnola (1701-1714). Fra l’altro, nel 1701 vi
fu proprio una grossa battaglia a Carpi. Ramazzini stesso parla spesso, nelle sue lettere,
dell’ossessiva presenza di truppe straniere durante le sue peregrinazioni tra Modena e Padova
3
. Tanto per cambiare, anche i Balcani sono in grande agitazione. Nel 1697 Eugenio di Savoia
ha infatti ottenuto una mirabolante vittoria sugli Ottomani a Zenta, preludio a quella ancora
più spettacolare di Belgrado (1717).
Insomma, oggi le cannonate ed altro, l’atmosfera ideale per quest’opera, si sentono. I punti
interessanti sono molti. Ramazzini scrive poi in modo veramente piacevole, come tutti i grandi
studiosi di quell’epoca.
E non mancano mai spunti eccezionalmente attuali. Come quando egli parla del fumo.
Ramazzini ha infatti constatato la tossicità delle foglie di tabacco per chi è addetto alla
lavorazione, a causa delle sostanze sprigionate. I sintomi dell’avvelenamento acuto da
nicotina, ben noti a chi fuma per la prima volta, sono descritti con apprezzabile precisione.
Mancano invece ancora gli effetti a lunga scadenza del fumo, anche perché le sigarette non
esistono ancora, e non sono neppure ancora noti i tabacchi specifici per quel prodotto
dell’avvenire. Ramazzini sembra invece aver ben compreso l’assuefazione indotta dal fumo, e,
soprattutto, la difficoltà di convincere la gente a smettere:
“....adeo insanabile cacoethes tabaci folia masticandi ac fumum sugendi tot homines
infatuavit, quod vitium, ut reor, semper damnabitur, et semper retinebitur.” 2
E non c’erano ancora le sigarette!
1. Kiple K. F. et Al.: The Cambridge world history of human disease. Cambridge University
Press, New York 1993, pagg. 102-113
2. Ramazzini B.: Le malattie dei lavoratori. Testo latino delle edizioni modenese (1700) e di
Padova (1713), tradotto da O. Rossi. Minerva Medica, Torino 1933
3. Ramazzini B.: Epistolario, a cura di P. Di Pietro (a 250 anni dalla morte). Toschi, Modena
1964
4. Wilkinson L.: Epidemiology. In: Bynum W. F. e Porter R.: Companion encyclopedia of
the history of medicine. Routledge, Londra 1993, Vol. 2, pagg. 1266-1267
Paolo Scarani
A caccia di vampiri. Breve storia dei fenomeni postmortali.
Pathologica 92, 221-223, 2000
Era il 1987. In pieno riordino del museo Taruffi, trovai una tavola di forma strana:
contrariamente a tutte le altre, regolarmente piane, essa è convessa, come certi scudi romani, e
reca il cadavere essiccato di un neonato. Il capo di questo à in parte scarnificato. Altrove la
cute è invece presente. La parete addominale era stata aperta per mostrare i visceri, ancora in
sede. Gli organi parenchimatosi hanno forma conservata, ma sono cavi. Ne è rimasta infatti
soltanto la capsula. Una mummia? Sì: me lo confermò il testo di anatomia patologica di
Cesare Taruffi 6. Occupandosi dei fenomeni postmortali, Taruffi tratta a lungo della
mummificazione naturale. Fra l’altro parla anche delle mummie del convento di Venzone, in
provincia di Udine, in tempi recenti dimenticate e riscoperte in circostanze tragicomiche dopo
il terribile terremoto del 1976, che letteralmente polverizzò quella graziosa cittadina.
A proposito del bambino mummificato del museo, Taruffi sostiene che fu ritrovato nel 1809,
durante la rimozione delle tombe della chiesa dei Celestini di Bologna, pretesa dal regime
napoleonico. La tomba risaliva ad epoca rinascimentale, e conteneva diversi bambini, tutti
scheletrizzati, tranne quello del museo.
Sulle prime non fui particolarmente colpito da questo fatto. Fui costretto a ripensarvi l’anno
seguente, rileggendo lo splendido saggio di Paul Barber sul mito dei vampiri 1. In realtà,
Barber si occupa di varie questioni riguardanti i cadaveri, del modo in cui venivano trattati
nelle varie culture e dei tanti curiosi miti che ne sono derivati.
La parte più interessante del suo studio è però l’ampia relazione su documenti redatti nel
settecento da funzionari governativi dell’Impero Asburgico. Essi si riferiscono ad un’area ben
precisa: territori balcanici strappati ai Turchi dopo le vittoriose campagne di Eugenio di
Savoia. I funzionari sono chiamati a indagare su casi di sospetto vampirismo, e presentano il
tipico rigore e l’oggettività dei funzionari imperiali. Le storie sono tutte sovrapponibili. Una
serie di morti misteriose ha portato a supporre che vi sia un ‘non morto’ in azione. Il primo ad
essere sospettato è in genere il primo della serie dei decessi, tanto più se si tratta di una
persona solitaria, emarginata, quindi, sospettabile di essere dedita a pratiche esoteriche. Tutta
la storia ci appare ben diversa da quella della letteratura fantastica ottocentesca sui vampiri.
Nessuno ha mai visto veramente il vampiro. Quando i paesani terrorizzati vanno a riesumare il
cadavere, si trovano, sì, di fronte ad un corpo non scheletrizzato, ma non pallido, bensì rosso
scuro, enorme, talvolta in strane posture, come se si fosse mosso nel sepolcro. La bocca è
aperta, o, per lo meno, mostra chiaramente i denti. Per lo più, poi, ne cola liquido rossastro.
Altri documenti e testimonianze reperiti da Barber in territori di vampiri (Slesia, Polonia, isole
della Grecia, come Santorini), riportano situazioni sovrapponibili, e, soprattutto, questa tipica
descrizione del vampiro (dal Polacco upir = pennuto), o non morto, o vrykolakas, che è poi
sempre la stessa cosa. Veramente, non è la stessa cosa, perché il termine greco vrykolakas (di
origine certamente slava: si consideri per esempio il termine serbo-croato vukodlak – da vuk =
lupo) sembra, in certe accezioni, indicare il licantropo, quindi un uomo vivo che si trasforma
in mostro in condizioni opportune. Tuttavia, secondo questa tradizione greca, dopo la morte il
vrykolakas diventa un non morto assetato di sangue 5. Il mito del vampiro è molto complesso.
Un aspetto trascurato à la sua correlazione con la religione Cristiana Ortodossa. In particolare,
con quella Greco-Ortodossa. Secondo il Suo insegnamento, un uomo, oggetto di scomunica in
vita, sarà colpito da un permanente marchio d’infamia, che impedirà, dopo la morte, la
consunzione del suo cadavere. Questo si potrà ridurre a scheletro soltanto dopo che tale
provvedimento sarà stato revocato 5.
I morti sono sempre stati visti come mostri pericolosi ed avidi di vittime, e di sangue, in
particolare. Odisseo (Ulisse), nel suo viaggio tra i morti, deve, prima di essere accolto da essi
con favore, dissetarli col sangue di una vittima.
Nonostante l’instaurarsi di un rapporto di maggior socievolezza tra vivi e morti, per merito
soprattutto della Chiesa di Roma, l’Europa rimane a lungo pervasa da questo terrore dei morti.
Il vampiro arriva comunque dalla vasta area compresa fra mar Baltico e mar Nero. Non
deriva, probabilmente, dal Polacco upir, o dalle varianti ucraine e bielorusse di tale nome,
bensì dall’area macedonico-bulgara, dove suonava ‘opyri’. È segnalato per la prima volta in
un rapporto da Vienna del 1725, a proposito di aggressioni interumane e fra animali, nell’area
di Belgrado, con suzione di sangue 4. Ho già detto che upir significa pennuto, con penne, per
denotare la leggerezza e l’agilità di queste creature perverse. Parola slava, insomma: in SerboCroato, penna oggi suona pero (questa è la grafia croata), in Russo, ïåðœ, pronunziata più o
meno come ‘pierò’ (spero di non essere scorticato vivo, o trattato a guisa di vampiro da
qualche esperto in lingue slave). Come da noi coi Jeans, anche gli Slavi hanno dimenticato
l’antica etimologia, ed usano la parola vampir, così modificata inizialmente dai Tedeschi, e
poi adottata anche altrove. Vampir è però un termine correlato con la letteratura fantastica. Il
mostro delle paure ancestrali e della cultura popolari è oramai vukodlak e vrykòlakas per i
Greci moderni.
In Italia, popolazioni slave a parte, non abbiamo una mitologia del vampiro. Possediamo però
un personaggio che a tutto ci può far pensare fuorché a un morto vivente: Arlecchino. La
simpatica maschera che ci ha lasciato la tradizione carnevalesca del settecento è in realtà un
essere estremamente antico della tradizione popolare, già rintracciabile al confine tra il crollo
dell’impero romano occidentale ed il medio evo 2. Maschera: una parola oggi innocua, che una
volta si scriveva mascara (come il mascàra, reimportato dai nostri scimmioni esterofili
d’oggi), significa strega. Strega è una dizione più cristiana, correlata con Strix, il diavolo,
onde anche strigidi: i gufi, le civette e gli allocchi.
Insomma, Arlecchino comincia a presentarsi come un personaggio un po’ inquietante. In
effetti, il Carnevale è la festa dei morti che ritornano, prima dell’esplosione della vita con
l’arrivo della primavera, e della Redenzione, con la morte di Cristo in croce. E la maschera è
roba da morti, se ci si pensa bene.
Arlecchino, Alichino (diavolo dell’inferno di Dante), Hardequin, e via e via e via fino a ....
Herod, Erode 2! E che c’entra Erode? Semplice: è il compagno di Erodiade = Era-Diana, nel
paganesimo popolare dell’Italia settentrionale. Diana la cacciatrice notturna, Erode il suo
compagno di caccia. Insomma, il vecchio Arlecchino è l’uomo selvatico, vestito come un
pazzo, che partecipa alle folli scorribande notturne di Diana, con un folto gruppo di diavoli
scatenati: i morti che ritornano.
Arlecchino è il morto. La sua maschera nera enorme è il volto del cadavere in
decomposizione. E qui troviamo qualcosa in assonanza coi vampiri dei funzionari governativi
asburgici: oltre al volto scuro, tumido, Arlecchino talvolta presenta denti molto grossi
(“Dentone”).
Perché tanta preoccupazione per i morti?
I morti sono un problema in tutte le culture umane: gli accurati riti funerari sono certamente
un segno di rispetto per i defunti, ma anche di timore. I cadaveri puzzano, ingombrano,
richiamano gli animali che si nutrono di carogne. Inoltre, spesso, appaiono vendicativi, nei
confronti dei vivi. Anche dopo la morte sembrano ancora vagare attorno ai villaggi per portare
con sé altri vivi. Questi miti hanno tutta l’aria di spiegazioni date a possibili epidemie. Non è
facile interpretare i miti di un passato molto remoto, tuttavia, episodi come la caccia notturna
di Diana sono molto suggestivi. Poi, curiosamente, la durata della pericolosità di un morto e
delle cose sue personali, come il letto, è valutata, da molte popolazioni Slave 5, attorno ad una
settimana, dopodiché il pericolo si attenua, proprio come se l’effetto malefico fosse dovuto ad
agenti infettivi, che poi spariscono. E molte volte, i manierismi apotropaici sviluppatisi per
evitare i danni dovuti alla malignità dei morti alludono chiaramente a pratiche rivolte a
distruggere possibili fonti d’infezione, sovente col fuoco 5. La notte successiva alla morte di
mio padre, dormii nel suo letto, perché non ce n’erano altri disponibili. Bene, mia madre e la
mia fidanzata di allora protestarono molto vivacemente, perché consideravano ciò una cosa
estremamente di cattivo auspicio e pericolosa per me.
I vampiri mitteleuropei studiati da Paul Barber sono molto più vicini a noi della stramba
vampirologia fantastica ottocentesca e moderna, e le loro descrizioni ci fanno capire
chiaramente che cosa la gente ed i funzionari vedevano: i fenomeni postmortali, tanto familiari
ai patologi ed ai medici legali 1. Il denudamento del derma conferiva a quei cadaveri sospetti
un colorito ingannevolmente vitale. La tumefazione dovuta alla putrefazione li rendeva poi
imponenti, terribili. La bocca aperta, i denti messi in evidenza dalla precedente rigidità
cadaverica, i liquami putrefattivi defluenti dalla bocca facevano il resto. Per non parlare poi
dell’assunzione di particolari posture, sempre possibili durante la putrefazione. Tutto ciò, in
mancanza, ancora, di studi sistematici sui fenomeni postmortali, e, per di più, osservato in
concomitanza con misteriose epidemie, portò alla creazione del mito dei non morti. Sarebbe
molto stupido ridere di queste cose. All’inizio del settecento, c’erano probabilmente soltanto i
bisnonni di Pasteur e di Koch. Il concetto di infezione era quindi un privilegio di poche menti
veramente perspicaci. Gli altri pensavano a maghi, streghe, untori, congiunzioni astrali.
Pensate all’arrivo di un’epidemia di peste. Di solito la portavano i ratti. Qualche povero ratto
cominciava a morire, di solito nel tugurio di qualche poveraccio ai margini della comunità.
Poco tempo dopo questi moriva e veniva gettato in qualche tomba comune-discarica per gente
senza partito. Poi, ecco la morte più o meno rapida di quelli che lo avevano seppellito. Poi altri
ed altri ancora, magari tutti più o meno correlati col primo povero diavolo. Dunque, il
poveraccio era un seguace del Demonio ed era divenuto un non morto, che tornava per
uccidere gli altri paesani. Bisognava allora riesumarlo ed ucciderlo veramente. La visione dei
fenomeni postmortali avvalorava il sospetto, ed il poveraccio veniva decapitato, oppure
trafitto al cuore con un oggetto appuntito. In certi casi si procedeva all’asportazione del cuore
attraverso l’epigastrio. Col risultato, a volte, di contaminarsi ulteriormente coi germi della
malattia infettiva.
Fanno paura, queste pratiche irrazionali. L’irrazionalità monta come una marea ogni volta che
ci si sente minacciati dall’ignoto. Basti pensare alle tante follie compiute nel corso dell’attuale
epidemia di aids.
Con l’ottocento, l’interesse per le autopsie ed il problema del reperimento di segni sicuri di
morte consentirono il rapido sviluppo di una conoscenza sistematica dei fenomeni postmortali.
Le descrizioni della mummificazione naturale fatte dal Taruffi 6 rientrano proprio in questo
contesto.
Con la nascita dell’anatomia patologica moderna, all’inizio dell’ottocento, nasce la figura del
vampiro della letteratura fantastica. Pur essendo così diverso ed inverosimile rispetto a quello
“reale”, anche Dracula presenta tratti del vampiro classico: i dentoni, l’impalamento e, come
ricordo della peste, i ratti.
C’è anche un altro simbolo, nel vampiro fantastico moderno, correlato con la realtà dei
cadaveri: il lupo. Probabilmente questo predatore relativamente tranquillo deve infatti gran
parte della sua fama sinistra al fatto di essere un divoratore di carogne, anche umane. Non
mancava mai, dopo le grandi battaglie, come pure non mancava, al pari di altri carnivori
domestici, nei cimiteri, a scavare nelle tombe più recenti 3. Come i macrofagi nei tessuti! È
stata anche questa presenza, sgradita agli uomini, ma tanto utile ai cicli naturali, a rendere
sempre più accurata la tecnica cimiteriale.
1. Barber P.: Vampires, Burial and death. Yale University Press, New Haven 1988
2. Lazzerini L.: Preistoria degli Zanni: mito e spettacolo nella coscienza popolare. In:
Zambelli P: Scienze, credenze occulte, livelli di cultura. Olschki, Firenze 1982, pagg.
445-475
3. Lopez B. H.: Of wolves and men. Dent, Londra 1978
4. Seebold E: Kluge – Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache. De Gruyter,
Berlino 1995, pag. 852
5. Summers M.: The Vampire in Europe. Gramecy Books, New York 1996
6. Taruffi C.: Anatomia patologica generale. Regia tipografia, Bologna 1870
Paolo Scarani
Johann Wolfgang Goethe (1749-1832): il creatore del termine e del
concetto di morfologia.
Pathologica 92, 45-49, 2000.
In occasione dell’ultima eclissi di sole si è potuta costatare con mano, alla televisione,
l’impressionante condizione d’imbarbarimento culturale, cialtroneria ed approssimazione in
cui oramai gran parte del globo è precipitata: descrizioni stucchevoli per la banalità, riprese
difettose, schede scientifiche quasi offensive per l’approssimazione e la sciatteria. In un simile
sfacelo del mondo adulto, i bambini non possono essere da meno. Interrogati sul fenomeno
dell’eclissi, balbettano insulsaggini: ‘il sole incontra la luna …..’ Sono bambini!?
Sciocchezze! Nel 1961, io avevo 11 anni (ero andato a scuola tardi perché ero considerato,
giustamente, un ritardato). Tutti quanti c’eravamo affannati a capire, aiutati da maestro e
genitori, i vari tipi d’eclissi ed i fenomeni correlati, e sapevamo tutto quello che ci potevamo
aspettare, aiutati dagli splendidi lavori televisivi di Bruno Ghibaudi (chissà dov’è?) e d’altri. E
col piccolo Dollon di famiglia, comperato da un rigattiere tanti anni prima, vidi una cosa
indimenticabile: le protuberanze. Fu un vero colpo di fortuna, perché il sole non proietta in
continuazione grandi quantità di materia ionizzata negli spazi circostanti. Peccato non aver
avuto una macchina fotografica adatta….
Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Me ne ricordai qualche anno dopo leggendo
Mailied di Goethe. È una poesia da lui scritta quando era ancora poco più che un ragazzo. Un
lavoro semplice e d’estrema delicatezza, con parole che sembrano sbocciare dalla vita di tutti i
giorni, proprio come i fiori a primavera. Eppure, è spaventosamente difficile renderlo in
un’altra lingua, forse perché di Goethe ne nascono troppo pochi.
Quest’uomo straordinario fu per me di gran compagnia in anni difficili. Me ne separai per un
po’ quando passai, con la tesi di laurea, alla lingua inglese.
Ritornò tuttavia quando cominciai, a metà degli anni ottanta, ad occuparmi del museo Taruffi.
A causa della sua patofobia, che lo portava a disertare ospedali, funerali e cimiteri, Goethe,
durante il suo viaggio in Italia, si rese acutamente conto della grand’utilità dei modelli di cera
come succedanei dei cadaveri per l’insegnamento dell’anatomia e della medicina in genere. Le
pagine da lui dedicate alla ceroplastica nel Wilhelm Meister sono forse l’unica cosa veramente
pregevole scritta su quest’argomento, e servirono ad introdurre massivamente questa tecnica
in Germania 2. A tal punto che ancora oggi una delle poche scuole attive per modellatori di
cera si trova a Dresda, dove, cioè, l’influenza di Goethe come uomo politico ed organizzatore
della vita culturale germanica si fece maggiormente apprezzare.
Questo risveglio d’interesse mi accostò al settore scientifico della proteiforme attività di
Goethe. Questo settore non è certamente il più interessante. Anzi, la dottrina dei colori, di cui
egli andava così fiero, è una confutazione quasi del tutto infondata dei famosi studi di Newton
sulla composizione della luce bianca per mezzo dei prismi. In questo caso. Goethe, si è
avventurato in un campo in cui il suo formidabile intuito non può aiutarlo, anche perché gli
manca quasi completamente la necessaria preparazione matematica 9.
Le sue osservazioni in botanica e botanica comparata, zoologia, anatomia comparata,
fisiologia, chimica e geologia sono invece di gran qualità, proprio perché qui Goethe può
affidarsi alla propria eccezionale e educatissima fantasia, che gli permette di anticipare diverse
idee proprie delle dottrine evoluzionistiche.
Quest’anno ricorre il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Goethe (17491832). È bene che noi patologi ce ne ricordiamo, perché Goethe inventò, proprio nel corso
delle sue esperienze scientifiche, il termine ‘morfologia’ 3. Egli non si occupò che un paio di
volte d’anatomia patologica: la patologia lo infastidiva troppo. Si pose tuttavia una serie di
problemi che rivelano in lui un’acuta sensibilità per il ‘punto di vista’ del morfologo, classico
e moderno. Proprio per questo, dal 1807 Goethe dette sistematicamente alla luce una serie di
scritti, in cui manifestava la necessità di creare una nuova scienza, adatta a compiere una
sintesi di tutto quello che si andava scoprendo con le scienze naturali, l’anatomia e la chimica
3
. Tale sintesi era necessaria per verificare se i metodi di studio tradizionali permettano di
conoscere in modo efficace la conformazione dei viventi e le loro relazioni col mondo
circostante. La grande importanza di questa nuova scienza, denominata col neologismo
‘morfologia’, non risiede solo nella possibilità di verificare la correttezza dei metodi di studio
analitici, ma anche nel fatto di permettere un raccordo con la fisiologia e con tutte le altre
scienze che studiano il mondo naturale ed umano, fino a raggiungere una conoscenza
complessiva ed unitaria dell’universo di cui facciamo parte.
Le mie parole fanno forse pensare al lavoro di Goethe come ad una sorta d’esercitazione
accademica da dilettanti. In realtà, nel lavoro scientifico del Nostro, che si protrae dagli anni
del famoso viaggio in Italia (1786-1788) alla morte, ci imbattiamo in uno sforzo immane volto
a trasformare la lingua tedesca di tutti i giorni in uno strumento duttile e molto efficace
nell’oggettivare al meglio il pensiero degli studiosi della natura e dell’uomo. Goethe sta
aprendo una strada, nella quale già si incammina il giovane Hegel, suo grande ammiratore.
Questo filosofo, che ancora tanto pesantemente condiziona il mondo attuale, anche attraverso
Marx, è di circa vent’anni più giovane di Goethe, cresce quasi alla sua ombra, ed ha vivaci
scambi epistolari con lui 6. Pochi anni dopo la morte di Goethe, poi, Rudolf Virchow sosterrà
che l’unico strumento efficace di cui sia dotata la medicina del 19° secolo è la morfologia,
destinata a divenire la chiave d’accesso alla medicina d’oggi 8.
Goethe è uno straordinario uomo di genio. Poche persone al mondo hanno prodotto tanti
capolavori indimenticabili, esercitando contemporaneamente fascino ed influenza nella vita
d’ogni giorno e nella politica. Non è tuttavia un uomo di scienza adeguato, neppure per i suoi
tempi. Dati i presupposti, può sembrare strano che abbia potuto concepire la creazione di una
branca scientifica importante e feconda come la morfologia.
La risposta c’è, e a ben pensare è molto semplice. Come Virchow più tardi capirà che la
morfologia è l’unico strumento in grado di modernizzare la medicina, così Goethe percepisce
la morfologia come una sorta di porto sicuro per il suo incessante tormento esistenziale.
Messa in moto dal grande risveglio della scienza del Seicento, la storia ha subito
un’improvvisa e progressiva accelerazione. La rivoluzione industriale, il rapido sviluppo della
scienza e della tecnica, il potenziarsi degli eserciti, la nascita del giornalismo determinano
nelle classi elevate del Settecento occidentale una grande fiducia nelle forze dell’uomo,
accompagnata da una sconcertante incapacità di pensare.
È una costante dell’età moderna, l’incapacità di pensare. L’ottimismo dell’ultimo dopoguerra,
pur nel clima della guerra fredda, ci ha precipitati senza un minimo di preparazione in questo
spaventoso fine-secolo.
Probabilmente, non si riesce a pensare bene, quando le cose tecniche, le invenzioni, la frenesia
del commercio e del nuovo invadono ogni parte della vita quotidiana, come dal Settecento in
poi. La capacità di riflettere sembra atrofizzarsi, e le idee fluiscono libere, incontrastate ed
incoordinate: è lo spleen. I fumi dell’alcool, le droghe, gli allucinogeni sono i mezzi più
potenti per produrre simili effetti. Basta però perdere il senso della realtà e delle cose che
veramente interessano, basta fuggire dietro ad ogni sensazione che ci passi accanto, dietro a
qualunque messaggio che ci raggiunga, per precipitare in questo stato mentale. Uno stato
mentale aborrito da tutti i grandi pensatori del passato.
L’attività mentale può dare il meglio di sé soltanto se sa disciplinare se stessa. E il primo
passo lungo questa strada è il controllo della fantasia. La fantasia ha un ruolo immane nelle
grandi scoperte scientifiche e nei capolavori dell’arte; deve però essere controllata. Se non lo
è, predomina in modo follemente incontrastato, e diventa fantasticare. “Fantasticare” è
probabilmente il termine che meglio si avvicina a “spleen”.
Il Settecento è pervaso dal fantasticare. L’Illuminismo ne è un tipico esempio. Kant è forse
l’unico a cercare un po’ d’ordine, ma nella ‘Pace perpetua’ 7, secondo me, comincia a delirare
(sembra che il suo marasma finale sia stato prodotto dall’alcool). Gli illuministi sono invece in
gran parte uomini di cultura superficiale, ma brillantissimi scrittori, spesso convinti assertori
d’idee in se stesse banali. Tali idee sono presentate con tale eleganza e incisività, che il mondo
ne è stregato. Le capacità della scienza e della tecnica sono stravolte. L’uomo è ritenuto
capace di costruire qualunque cosa, anche se stesso. Ciò spiega la meravigliosa cura con cui
sono allestite le statue anatomiche d’Ercole Lelli a Bologna. Nasce, insomma, lo spirito di
Prometeo. L’antropocentrismo e l’onnipotenza umana sono estesi a tutti i campi, anche alla
sfera politica e metafisica. La società della scienza (la borghesia) arriva così per gradi a porsi
come alternativa ai governi antichi, anche illuminati, ed alla teologia tradizionale. Gli
illuministi non hanno però il coraggio di vivere fino in fondo la propria esperienza. L’unico a
farlo è Sade, il quale arriva alla distruzione dell’intero mondo umano. Nella folle vita di Sade
l’esperienza di Prometeo giunge rapidamente davanti all’ultima meta: il nulla, la morte, la
negazione della vita. Non rimane allora altro che la volontà di distruggere ogni traccia di
speranza, spirituale e materiale.
C’è un’altra faccia dell’illuminismo: quella della placida e laboriosa borghesia cristiana erede
di Martin Luther, trasmessasi al Settecento attraverso la dolcezza dei motivi e delle cantate di
Johann Sebastian Bach, fiori sbocciati da una vita serena, che ammette ancora un legame fra il
cielo e la terra. Questo mondo apparentemente placido rifiuta il titanismo e l’antropocentrismo
dei lumi, ma si lascia anch’esso pervadere dal falso concetto della bontà fondamentale del
mondo umano e della genuinità dei sentimenti e dell’amicizia.
L’intera vita di Goethe è straziata da queste tendenze intrinsecamente contraddittorie e
profondamente insoddisfacenti.
Un insensibile vivrebbe una mediocre vita normale, magari sfogandosi con la ricerca di
qualche ‘droga’: sesso, successo, ricchezze, fama, piaceri della tavola ….. Goethe non ce la fa.
E cerca, come un camaleonte, cui egli stesso si paragona, di cambiare continuamente
personaggio, per arrivare in fondo al problema esistenziale.
Per molti versi ci ricorda i grandi della Grecia classica, protesi a sperimentare tutti gli aspetti
del mondo che ci circonda. Non può quindi essere semplicemente scrittore e filosofo. La via
della verità passa infatti anche attraverso le scienze.
Il mondo della natura affascina Goethe in modo particolare. Egli comprende però rapidamente
quanto inadeguato sia il concetto di natura nei suoi contemporanei. I prometeici vedono la
natura e l’uomo come realtà contrapposte. L’uomo è il dio della terra; pertanto la natura gli sta
sottomessa ed egli è in grado di ridurla completamente a propria serva. È in questo spirito che
nasce anche il mito dell’uomo capace di rifare con le proprie mani qualunque cosa naturale,
anche gli animali più complessi e l’uomo.
Di solito si dice che Goethe, passata la fase prometeica giovanile, si ritiri pian piano in una
serena ed olimpica contemplazione della realtà, in cui acquista il senso delle dovute
proporzioni di se stesso e degli altri uomini.
In realtà questo non succede mai. Egli non riesce mai ad arrivare ad un porto. Non so perché
abbia urlato ‘Mehr Licht’ (più luce), prima di morire. Istintivamente, però, queste non mi
sembrano parole di un uomo arrivato al compimento della propria avventura spirituale.
Il mondo naturale è un tema costante nel pensiero di Goethe. Una distinzione fra uomo e
natura gli si presenta sempre come un arbitrio pericoloso. L’uomo ne fa parte a tutti gli effetti.
Proprio per questo i suoi studi sulla natura non ne trascurano alcun aspetto. Non riesce però a
vederla come entità benigna o maligna, ma come qualcosa d’indifferente, in perenne furiosa
lotta con se stesso. Nei ‘Dolori del giovane Werther’ compaiono pagine terribili su questo
tema. È già vivo tutto il pessimismo di Leopardi, di Schopenhauer. Ogni tema di bontà nella
natura è quindi assente in Goethe. Allora, perché gli interessa?
La risposta è lunga, ma semplice. È la stessa che ha spinto Virchow verso l’anatomia
patologica. Virchow cerca nella morfologia le risposte che il resto delle scienze mediche non
gli può dare. Goethe percepisce la natura come l’unica realtà accessibile. Le scienze della sua
epoca sono però solo in grado di fare a pezzi la natura. L’invenzione della morfologia
costituisce allora il suo tentativo di capirla nelle sue complesse trasformazioni ed
interconnessioni.
È opportuno fare queste precisazioni, perché Goethe ha motivazioni completamente diverse da
quelle di uno scienziato in senso tradizionale e degli studiosi della natura fra Settecento ed
Ottocento.
La bellezza straordinaria delle opere letterarie di Goethe va attribuita al realismo dei suoi
personaggi, che non sono mai stereotipi, ma sempre esseri umani con pregi e, soprattutto,
difetti, che non ci lasciano indifferenti. È l’incredibile capacità di penetrazione psicologica di
quest’uomo, che gli permettere di creare esseri così reali, e, addirittura, figure completamente
nuove, come Mefistofele 5. Pochi autori suscitano nel lettore così costantemente il senso della
realtà e della vita vissuta.
Lo stesso appassionato impegno è profuso da Goethe nel comprendere e nel definire il
problema della morfologia. Come ho già detto, con Goethe inizia la trasformazione del
tedesco di tutti i giorni nel linguaggio della scienza. Quasi nessuno prima di lui ha affrontato
così pazientemente il problema di un’accurata definizione terminologica in questo campo.
Eppure, tutto questo non gli serve per fare ricerca in senso tradizionale, ma semplicemente per
arrivare ad un punto fermo della sua esistenza.
È ora opportuno venire al centro del tormento di Goethe. Il suo problema è il fantasticare.
I deliri dei rivoluzionari, dei predicatori della fratellanza universale e del ritorno al primitivo
ed al buon selvaggio lo lasciano dapprima perplesso, poi decisamente oltraggiato. La critica ha
voluto trovare in Goethe innumerevoli atteggiamenti, spesso apparentemente contraddittori.
Per questo, più o meno tutti, con l’eccezione d’Engels, lo hanno scelto come compagno
d’ideologia 1.
In realtà, Goethe alla fine approda alla distruzione di tutte le ideologie. La sua tempra
culturale più solida ed il suo equilibrio interiore gli consentono di superare la totale
disperazione di Sade, ma occasionalmente troviamo pagine blasfeme che lo ricordano. Goethe
ha una fortissima dignità ed un culto straordinariamente radicato della ragione. Egli si sente
profondamente immerso nella natura, ma è in grado di reagire agli impulsi più prepotenti. Ciò
tuttavia non significa che egli abbia una visione soprannaturale dell’esistenza.
Insomma, in Goethe percorriamo tutta la tragica parabola umana dall’inizio del mondo
moderno alla frammentazione spirituale d’oggi. Forse il fascino che continua ad esercitare
ancora oggi (come Shakespeare, d’altra parte) sta proprio nell’aver interpretato (e vissuto) così
intensamente i tormenti di tutti noi.
Arrivati a questo punto, possiamo essere indotti a pensare che l’invenzione della morfologia
appaia quindi come qualcosa che ha poco a che fare con la scienza.
Non è vero. La morfologia di Goethe entra a far parte, con le sue definizioni, del linguaggio
scientifico e filosofico moderno. Tutte le scienze naturali e la medicina dell’ottocento sono
pervase dalla consapevolezza del fatto che la morfologia è la scienza del reale.
Se uno scienziato o un patologo può essere soddisfatto dei risultati dei propri studi morfologici
e dell’acquisita maggiore capacità di comprendere il mondo circostante, Goethe non lo è. Le
sue domande vanno molto oltre il problema della scienza. Sono domande di cui forse
vogliamo sempre meno occuparci.
Durante un’indimenticabile visita al CERN di Ginevra nella primavera di trent’anni fa, noi
ragazzi eravamo incantati da quella specie di paradiso tecnologico, che sembrava l’antica
Grecia ritrovata da Faust. Stavamo dimenticando l’orrore del mondo di fuori. Da nemmeno un
anno c’era stata la repressione della primavera di Praga. In Italia imperversava l’incertezza
della rivolta studentesca; per di più, ad un paio di mesi dagli esami di stato, nessuno ci aveva
ancora saputo dire come si sarebbe svolta la nuova maturità. Eppure, ci sembrava di
camminare fra le stelle. Ma c’era Mefistofele: il nostro professore d’educazione fisica ad un
certo punto sbottò a chiedere che senso avesse tutto quel carrozzone. Mefistofele è proprio
questo: colui che fa vedere senza pudori lo schifo della realtà, il re nudo, tutta la vanità
dell’agitarsi della gente. Nessuno gli rispose. Vi furono soltanto risolini ironici per nascondere
un insopportabile imbarazzo. Tremendo personaggio, Mefistofele: la sua crudezza non lascia
superstiti, né speranze. Eppure, proprio per questo è la più grandiosa creazione di Goethe ed il
personaggio più ambito dagli attori di teatro tedeschi.
In ogni creazione di Goethe c’è Goethe stesso. Secondo me, però, tutta la sua esperienza si
estrinseca nel pessimismo distruttivo di Mefistofele.
L’immane lavoro di Goethe non si compie, però, con Mefistofele. In tal caso, infatti, egli si
identificherebbe con Sade, da cui si distinguerebbe soltanto per la minor crudezza.
Pur nella sconvolgente sensazione di nullità, precorrente tutta la disperazione del nostro secolo
che finisce, Goethe vuole riservarci una via di fuga. È la via offerta dalla classicità tedesca,
espressa con impressionante intensità da uno dei suoi esponenti forse meno ascoltati:
Beethoven. Quasi tutte le sue opere hanno dei parossismi funebri che ci lasciano sconvolti.
Essi non costituiscono però, abitualmente, il finale. Quando ero più giovane, pensavo che
l’allegria finale fosse una specie d’allusione ad una vita oltre la vita. Oggi, però, ripensando
meglio alla nona sinfonia, non ne sono così sicuro.
Nel quarto movimento, la fase corale ad un certo punto s’interrompe bruscamente. Riprende
quindi un motivetto bandistico da paese, che introduce il tenore. “Froh” (felice), questi
attacca. E fa capire tutto: è difficile essere pieni di gioia nella condizione umana. Non tanto
per le afflizioni quotidiane, quanto per il fatto che inevitabilmente si muore, e non bene.
Allora, l’unica felicità che ci possiamo dare è quella di sentirci continuamente come i soldati
superstiti di una battaglia, che ancora una volta se ne tornano a casa (tutta questa non è farina
scaraniana, ovviamente, ma di Herbert von Karajan – trasmissione televisiva della seconda
metà degli anni sessanta).
La classicità tedesca è stata uno dei momenti più esaltanti della nostra storia. Questa
concezione sconsolata, ma anche profondamente affettuosa, della realtà umana è però
probabilmente il dono più bello che una pattuglia d’uomini di statura gigantesca ci ha lasciato.
Bisogna però, per concludere, tener conto di un profondo e terribile ammonimento lasciatoci
da Goethe.
Il suo immane lavoro morfologico ci ha lasciato poche speranze: una natura indifferente alla
sorte del singolo e votata alla morte, un mondo pieno di problemi difficili da risolvere e di
violenze, un mondo morale sempre più vuoto di metafisica e di certezze. E, soprattutto, una
mente umana sempre più sconvolta dai cataclismi sociali ed impossibilitata ad adattarvisi. La
grande scoperta di Goethe è però l’importanza del demoniaco. Non Mefistofele, badate bene.
Questi è un diavolo, distrugge senza pietà, ma non è demoniaco. Gli esseri demoniaci
seducono con una raffinatissima arte, piegando la gente alla propria volontà. Mefistofele dice
la verità, mentre l’essere demoniaco tende sempre a stravolgerla, sia per gli altri sia per se
stesso. Gli esseri demoniaci hanno un’ambizione divorante, ed una straordinaria capacità di
trovare le parole più adatte a sedurre la gente, portandola anche a compiere gesta infami.
Il senso del demoniaco è sempre stato presente nell’uomo. Di solito è però stato esorcizzato,
ponendolo in un mondo di spiriti potenti, estranei al mondo umano, che risente tuttavia della
loro influenza. Goethe è il primo ad umanizzare ed a definire crudamente il demoniaco.
La rappresentazione che, col demoniaco, Goethe dà di Hitler e di altri mostri dei nostri tempi,
è paurosamente eloquente, quasi una profezia. È bene anzi meditare su queste cose, visto che
ce le porteremo con estrema disinvoltura nel prossimo millennio.
Non dobbiamo però crearci un alibi. Il demoniaco è in tutti noi. Goethe lo percepisce perché
sa benissimo di essere lui stesso un pericoloso seduttore.
Lungi da me il promettere l’inferno ai demoniaci: ho troppi dubbi sull’aldilà. Gli esseri
demoniaci fanno però del male agli altri.
Per quello che ci riguarda più espressamente, come eredi della morfologia inventata da
Goethe, faremmo bene a collocarla nella sua sede appropriata ed a definirne meglio i fini.
Basta così, anche perché quest’ultimo tema specifico è già stato trattato fin troppo, in senso
teorico. Spero di essere stato abbastanza chiaro.
1. Engels F.: Zwei Aufsetze pber die “wahren” Sozialisten. In: Institut fpr Geschichte der
Arbeiterbewegung: Karl Marx – Friedrich Engels Werke Band 4. Dietz Verlag, Berlin
1990, pagg. 222-247
2. Goethe J. W.: Wilhelm Meisters Wanderjahre, S. 523. Digitale Bibliothek Band 4: Goethe,
S. 7466 (vgl. Goethe-HA Bd. 8, S. 326)]
3. Goethe J.W.: Naturwissenschaftliche Schriften. Morphologie. [Goethe: Digitale Bibliothek
Band 4: Goethe, S. 8668-9931]
4. Goethe J. W.: Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, S. 1234. Digitale Bibliothek
Band 4: Goethe, S. 11168 (vgl. Goethe-HA Bd. 10, S. 177)]
5. Goethe J. W.: Faust. Eine Tragődie. Herausgegeben und kommentiert von Erich Trunz.
Beck, Mpnchen 1991
6. Hoffmeister J.: Briefe von und an Hegel. II: 1813-1822. Meiner, Hamburg 1969.
7. Kant I.: Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf. Nicolovius, Klnigsberg 1795
8. Scarani P.: Un genio coraggioso (un eroe, potremmo dire): Rudolf Virchow (1821-1902).
Pathologica 90, 186-192, 1998
9. Sepper D. L.: Goethe contra Newton. Polemics and the project for a new science of color.
Cambridge University Press, Cambridge 1988
Paolo Scarani
Riflessi goethiani sui problemi della scienza contemporanea
Pathologica 93, 71-73, 2001.
Nel novecento, Heisenberg ha rivalutato Goethe come uomo di scienza 8. In genere,
soprattutto ad opera dei positivisti, si è avuta una tendenza a considerarlo un dilettante, alla
stregua di tanti nobili sfaccendati del settecento. In realtà, ho già detto che la scienza e la
morfologia, quest’ultima da lui stesso inventata, hanno rappresentato un aspetto fondamentale
della sua attività multiforme 7. Credo di aver già, in tale occasione, dimostrato il suo ruolo nel
formulare le basi linguistiche e sistematiche della scienza moderna.
Ciò che colpisce Heisenberg, e tutti coloro che si occuparono degli studi goethiani sulla teoria
dei colori, è il suo esame multifattoriale del rapporto fra studioso della natura e mondo
naturale stesso. Goethe si rende infatti conto della complessità del mondo naturale rispetto alla
dottrina newtoniana, accurata, senza dubbio, ma troppo ‘pura’, troppo astratta rispetto al
mondo dell’esperienza diretta. Il colore in Newton sembra esistere a prescindere dagli oggetti
colorati, e la luce la condizione ‘sine qua non’ per dare il colore agli oggetti. In realtà, gli
oggetti posseggono un proprio colore intrinseco, che non è alterato in modo significativo dalle
condizioni esterne. Anche la soggettività della visione non è presa in considerazione, e
neppure il meccanismo fisiologico che ne sta alla base. Quantunque lo studio goethiano sulla
teoria dei colori presenti notevoli difetti, specialmente dovuti alla scarsa preparazione
matematica dell’autore, esso crea le basi per tutta la ricerca sulla visione dell’ottocento, e, fra
l’altro, induce Jan Purkinje ad avventurarsi nei suoi memorabili studi istologici 1. Già questo
non è poco. L’istologia non gode infatti, alla fine del settecento, di grandissima stima.
Morgagni si fida poco del microscopio 4. Lo stesso Bichat fonda la sua dottrina sui tessuti su
basi puramente macroscopiche. Purkinje ci appare quindi come un autentico pioniere, per di
più, in stretto contatto con Goethe.
Il rapporto fra lo scienziato e la natura è visto da Goethe in modo estremamente coinvolgente.
Il fenomeno naturale è il dato più importante cui riferirsi, anche se è apparentemente così
effimero, transeunte. E il fenomeno non va mai dimenticato. La scienza parte dal fenomeno
naturale, e, se ha fatto un buon lavoro, deve ritornare ad esso. Questa è la chiave della
morfologia e, in genere, di tutte le manifestazioni del pensiero scientifico, che, se non si
conforma alla realtà della natura, manifesta subito, secondo Goethe, il proprio totale
fallimento 2.
Le motivazioni di Purkinje erano proprio queste. Lo stesso si può però dire di tanti altri,
Virchow compreso. I medici erano, infatti, alquanto sensibili alle idee di Goethe sulla natura, a
causa della profonda crisi della scienza medica, totalmente in balia di teorie ingarbugliate e
spesso strampalate, le quali avevano reso la professione quasi totalmente inetta.
Corollario di grande importanza del pensiero scientifico goethiano è la sua critica del
linguaggio e delle espressioni usate dagli scienziati. Qui si esprime nel modo migliore la
grande attualità di Goethe.
Egli sostiene che l’osservazione dei fenomeni naturali è soggettiva. Chi li osserva è infatti
condizionato dalla qualità dei propri organi di senso. Ma non solo. Anche le sue conoscenze
acquisite in precedenza sono fondamentali per l’interpretazione del mondo circostante. La
questione non è, però, semplicemente di maggiori o minori conoscenze, ma anche
dell’ambiente in cui lo studioso è vissuto e si è formato. Intervengono quindi anche
complicatissimi fattori culturali, antropologici e storici a condizionare il modo in cui si
osserva la natura.
Proprio la complessità del substrato della ricerca scientifica induce Goethe a sviscerare il
problema da tutti i punti di vista, in particolare da quello della storia della scienza.
Non è però finita qui.
La descrizione della natura è un fatto linguistico. La lingua non è tuttavia qualcosa di neutro
ed amorfo. Ognuno di noi parla una lingua solo apparentemente standard. I nostri genitori ed
insegnanti vi hanno infatti lasciato le proprie impronte. Noi stessi l’abbiamo lentamente
modificata con le nostre esperienze. Per ovviare a questo rischio di un’autentica babele in ogni
angolo della terra, si è cercato di ovviare alla naturale ‘deriva’ di tutte le lingue con
l’istituzione delle regole grammaticali e sintattiche. Tanto odiate e mal viste proprio perché
innaturali. Una lingua è infatti una specie di essere vivente, in continua trasformazione per
esigenze reali e profondamente sentite. Un ingabbiamento logico-grammaticale risulta quindi
antifisiologico. Le regole hanno tuttavia l’utilità di impedire equivoci in questioni
particolarmente delicate (diritto, economia, politica e scienza).
Una lingua assoluta, tuttavia, non esiste. Fra le lingue classiche, il latino presenta le
caratteristiche più tipiche, in questo senso. Nel suo insegnamento, si consideravano come
parametri classici, gli autori dell’epoca aurea (fine dell’età repubblicana e inizio dell’impero).
L’epoca della grande tradizione latina è però ben più ampia. Probabilmente non è giusto
bollare come minori autori d’epoche troppo vicini al mille, quando si sta oramai attuando la
lenta trasformazione del latino nelle lingue cosiddette volgari. Eppure, a lungo lo si è fatto.
Non c’è, però, niente di male, in questo. Si è fatta una scelta interpretativa, originatasi con la
decisione degli umanisti europei di ritornare alle fonti classiche, latine e greche. Solo più
recentemente l’ottica è cambiata, e gli studiosi hanno rivalutato i cosiddetti ‘latini minori’,
rivedendo tutte le epoche in un’accurata prospettiva ad ampio respiro, soprattutto storico.
L’atteggiamento di questi studiosi ricorda certamente la metodologia goethiana.
Senz’altro quest’ultima è molto proficua. Tuttavia, anch’essa non ha valore assoluto, in quanto
è conseguenza di una scelta operata da chi l’ha ideata o se ne serve.
Ciò è quanto sostiene Goethe. Le parole, il linguaggio, le classificazioni, tutto quanto,
insomma, uno scienziato usa per trasmettere agli altri la propria esperienza e le proprie
ricerche, non sono qualcosa di impersonale e amorfo, ma l’espressione, non solo
dell’ambiente socioculturale in cui ci siamo formati, ma anche del modo in cui abbiamo
deciso di vedere il mondo. Ciò, Goethe sostiene, è inevitabile. Non si può infatti decidere di
cancellare il mondo in cui siamo cresciuti. È tuttavia fondamentale capire questo profondo
contenuto della lingua da noi usata, e non prestarsi inconsciamente alle trappole che esso può
spesso tendere.
Il vero grande pericolo corso dagli scienziati nell’uso incosciente del linguaggio, è quello
dell’astrazione, con la creazione di nomi ed espressioni che sconfinano nella logica pura.
Esaurendo lo studio scientifico in pure dimostrazioni logico-matematiche, le scienze tendono a
modellarsi allora in entità assolute, che lentamente ed impercettibilmente si astraggono
completamente dalla realtà naturale, la quale, alla fine, può addirittura risultare ad esse
contrapposta.
È questo un evento di frequente riscontro nella storia della medicina. Quest’ultima, per lunghi
periodi ha deciso di lasciarsi dominare da idee antiquate e non più verificate oggettivamente.
La dottrina umorale è un esempio particolarmente calzante ad avvalorare i pericoli sostenuti
da Goethe. Ancora oggi si usano comunemente termini derivati dalla vecchia teoria umorale:
umor nero, carattere bilioso.
Ciò non sarebbe gran ché: è estremamente comune trovare antichissime parole ed espressioni
nel linguaggio di tutti i giorni, delle quali, per di più, chi le usa, ha quasi sempre perduto
completamente il significato originario.
Molto peggiore è stata l’incapacità a superare la dottrina umorale, ancora duramente criticata
da Virchow in Rokitansky 5. Di solito, gli storici della medicina sottolineano la dura battaglia
compiuta dai medici del cinquecento e del seicento contro il galenismo e la medicina
medievale araba.
In realtà, però, l’azione violenta di uomini come Paracelso e quella più discreta, ma molto più
costruttiva di veri medici scienziati, come Malpighi, rimase a lungo isolata fra pochi uomini
con mente aperta 4, e cominciò ad essere percepita su larga scala nel mondo medico soltanto
nell’ottocento. Lo stesso Malpighi, in terapia, era condizionato dalla dottrina umorale.
Ciò, per le ragioni enunciate da Goethe: il pensiero di Galeno e degli Arabi erano penetrati nel
pensiero e nella lingua occidentali. Per questo, la maggior parte dei medici ragionava senza
osservare la realtà, oppure, anche quando la osservava, la percepiva in modo distorto
attraverso le categorie precedentemente fissate. Un esempio impressionante della pericolosità
di questo modo di procedere è dato dallo sviluppo della dottrina dell’infiammazione,
sviluppatasi nel settecento ad opera dello scozzese Brown. Non bisogna pensare al termine
‘infiammazione’ come lo concepiamo oggi, e neppure a come esso fu sviluppato da parte dei
patologi tedeschi dell’ottocento. Si trattava invece di una trasposizione teorica degli studi di
fisica del settecento al corpo umano, che si pensava reagisse alle aggressioni esterne con una
reazione ad esse uguale e contraria. Si attuò così una sorta di connubio fra la vecchia dottrina
umorale e la fisica, con un’impressionante rivitalizzazione del salasso, interpretato come
autentica panacea. Tale stramba novità ebbe un grande successo nell’Italia napoleonica e postrestaurazione, ad opera soprattutto del Rasori e del Tommasini. Pur criticata, essa incontrò un
largo seguito, perché specialmente il Tommasini la presentò come una sorta di ‘prodotto’ della
cultura nazionale italiana, con le ovvie conseguenze sullo spirito nazionalistico e
campanilistico, specialmente dell’Italia padana 6.
Il superamento di queste gravose eredità fu particolarmente difficile per la medicina. Virchow
si distinse particolarmente 5 per questa dura campagna, volta soprattutto a fornire basi sicure
per lo sviluppo di una terapia adeguata, del tutto assente all’inizio della sua carriera a Berlino.
Il suo grande sforzo per la valutazione della morfologia come base di sviluppo per la clinica
moderna e per una prassi terapeutica finalmente razionale e dotata di mezzi efficienti. Di
solito non si parla molto di questo, quando si tratta di Virchow. La sua azione è stata
indubbiamente guidata da un grande intuito. Negli anni quaranta Virchow non poteva senza
dubbio immaginare che cosa in tempi brevi avrebbe fatto la chimica. Egli aveva però bisogno
di farmaci attendibili ed in quantità standardizzate, ma che soprattutto agissero sulle malattie.
E lanciò il suo messaggio: la morfologia ci fa toccare con mano i danni prodotti dalle malattie
sugli organi, sui tessuti e sulle cellule; con la patologia sperimentale, oltre a spiegarci i
fenomeni, riepilogando, secondo i criteri goethiani, quanto abbiamo appreso, dobbiamo
cercare di comprendere dove possiamo agire con le cure.
Spesso si dice che Virchow non ha fatto grandi scoperte, e che, al contrario, ha combinato
grandi pasticci. Sarà. Tuttavia, questo suo lavoro di sistematizzazione ha curiosamente avuto
come seguito il grande lavoro di Cohnheim e lo sviluppo della dottrina della chemioterapia di
Paul Ehrlich. Per essere più espliciti, il lavoro di Virchow è stato una premessa fondamentale
alla nascita della medicina moderna. Oggi si tenta in ogni modo di far credere che i medici
antichi fossero pari per conoscenza a quelli attuali. Ci vuole molta fantasia per sostenere ciò.
Dalla fine dell’ottocento in poi, il passo delle grandi scoperte in medicina è veramente
terrificante. Nel passato, di tanto in tanto, compariva qualche Malpighi, e ‘fioccavano’ le
scoperte. Malpighi, ed altri come lui, aveva la mentalità di Goethe e di Virchow. Dopo Goethe
e Virchow, gli studiosi non si potevano più esimere dall’adottare i nuovi metodi, proposti da
questi ultimi.
Ho presentato questa breve storia della nascita della medicina moderna come se si trattasse di
una sequenza logica, quasi determinata dall’azione di Goethe e di Virchow. In realtà, la
progressione delle scoperte è stata estremamente irregolare, legata in questo, forse, non tanto
al caso, quanto, per citare Goethe, alla estrema complessità e ‘creatività’ del mondo naturale e
umano. Si tratta di quell’affascinante casualità di cui parla Sir Alan Hodgkin (1914-1998) 3,
grande esperto di radar, grazie alle sue capacità di elettrofisiologo, e benemerito per la
battaglia d’Inghilterra, straordinario neurofisiologo (scoperta del potenziale d’azione e della
pompa sodio/potassio nella conduzione dell’impulso nervoso) e Nobel per la fisiologia (1963),
nonché pronipote di Thomas (prozio - 1798-1866) scopritore del morbo di Hodgkin (così dice
lui 3, ma non mi sembra poi una grande aggiunta ai suoi pregi!).
La casualità tanto spesso fa sembrare che le scoperte nascano dal nulla, o dall’imprevisto
aggrovigliarsi di eventi del tutto fortuiti.
In realtà, il caso non gioca mai un ruolo totale nelle attività umane. Occorre sempre aiutarlo in
modo efficiente. Qui ci consiglia ancora Goethe.
La comunità scientifica deve collaborare apertamente. Soprattutto, però, questa collaborazione
si deve fondare su di un linguaggio chiaro, conforme con la natura (che, non dimentichiamolo,
è l’oggetto del nostro studio) e, soprattutto, sulla disponibilità dei dati che siano oggetto di
serie controversie. La chiarezza del linguaggio scientifico e la messa in evidenza dei maggiori
problemi dibattuti dalle scienze dovrebbero così permettere a tutte le persone più dotate di
dare un proprio contributo allo sviluppo delle conoscenze.
Molte volte, infatti, piccoli contributi da parte di persone al di fuori del grande circuito
scientifico e degli ambienti accademici hanno prodotto radicali cambiamenti nelle conoscenze.
Ne sappiamo qualcosa in anatomia patologica, dove, fra l’altro, i case reports sono stati talora
più determinanti di imponenti revisioni casistiche, le quali, invece, per lo più, confermano
quanto già si sapeva. Mi sembra, ma posso sbagliare, che anche qualche lettore di Pathologica
la pensi ‘alla Goethe’, a proposito dei case reports.
1. Goethe J. W.: Tag- und Jahreshefte, S. 464. Digitale Bibliothek Band 4: Goethe, S.
12934
2. Goethe J.W.: Naturwissenschaftliche Schriften. Morphologie. [Goethe: Digitale
Bibliothek Band 4: Goethe, S. 8668-9931]
3. Hodgkin A.: Chance and design. Reminiscences of science in peace and war.
Cambridge University Press, Cambridge 1992, pagg. 1-60
4. Scarani P., G. P. Salvioli, V. Eusebi: Marcello Malpighi (1628-1694). A founding
father of modern anatomic pathology. The American Journal of Surgical Pathology 18:
741-746, 1994
5. Scarani P.: Un genio coraggioso (un eroe, potremmo dire): Rudolf Virchow (18211902). Pathologica 90, 186-192, 1998
6. Scarani P.: Maltrattamenti postumi. 1804: Napoleone fonda il museo di patologia di
Bologna ...... Pathologica 90, 476-479, 1998
7. Scarani P.: Johann Wolfgang Goethe (1749-1832): il creatore del termine e del
concetto di morfologia. Pathologica 92, 45-49, 2000.
8. Sepper D. L.: Goethe contra Newton. Polemics and the project for a new science of
color. Cambridge University Press, Cambridge 1988
Paolo Scarani
Il Dio di Einstein: la rivoluzione tardiva del microscopio … ed altro.
Pathologica 93, 696-699, 2001.
Fine autunno del 2001. prologo postumo.
Ho ideato il titolo di questa rilettura all’inizio della scorsa estate, a Rimini. Dopo, uragani,
piccoli e grandi. E non è finita. Ho così pensato di datare i paragrafi di questo scritto, perché
ogni data rappresenta una specie di colpo di vento che ha investito i miei pensieri, un vento
spirante non so bene da dove, come diceva Gesù a Nicodemo.
22 giugno 2001. Un libro ritorna dal passato
Un nitidissimo ricordo della mia infanzia è costituito dalla riproduzione, sulla copertina di un
libro di mio padre, dell’affresco michelangiolesco di Adamo ed Eva tentati dal serpente.
Inizialmente, non ne capivo il titolo. Tuttavia, l’immagine mi attraeva, tanto, che me lo
nascosero. Poi, però, lo ritrovai, ed imparai a capire, coi primi rudimenti di lettura, le parole
del titolo: ‘Come io vedo il mondo’. Riuscii anche a capire il nome dell’autore (Einstein) [1].
A metà degli anni cinquanta, questo nome ricorreva quasi ogni giorno, a causa delle bombe
nucleari. Lo rilessi sui diciott’anni, soltanto in parte, con poca convinzione, quasi con spregio.
Ero, infatti, violentemente feuerbachiano, e, pur ammirando l’abilità con cui Einstein
descriveva in modo semplice le proprie scoperte, provavo un autentico disprezzo per
l’immagine di Dio che egli, da scienziato, era poco a poco venuto delineando.
Non ho mai avuto il coraggio di liberarmi dei libri di mio padre, ed ho fatto bene, perché,
invecchiando, ho imparato ad apprezzarli meglio.
Einstein, in fondo, non è meno feuerbachiano di Feuerbach. Crede nella scienza, nella natura e
nelle sue leggi. Non crede in Dio, in definitiva, che gli appare un’inutile creazione della mente
umana spaventata dalla morte. Una tipica mentalità ottocentesca, insomma. Mi viene subito in
mente Golgi, il quale, subito dopo i suoi faticosi ed incerti ‘voletti’ fra i neuroni, pretendeva
già di dettare le leggi sul funzionamento del sistema nervoso centrale. Una bella arroganza,
viste le difficoltà in cui ancor oggi siamo costretti a dibatterci, su questo tema.
A parte ciò, la pericolosità degli scienziati che la pensano così, ci appare evidente dalle
conseguenze che ne sono derivate. La violenza degl’imperialismi e delle dittature d’ogni
colore ha trovato nell’arroganza pseudoteologica della scienza giustificazioni a compiere
molteplici infamie. Anche le religioni positive sono state però modificate profondamente
dall’aggressività della scienza, che pensava di ridurle a cadaveri. Scacciate dall’ambito
razionale, le religioni, specialmente le tre monoteistiche dell’occidente (islamica, ebraica e
cristiana), si sono rifugiate nel mondo dei sentimenti dell’uomo, della fede totale, del ‘credo
quia absurdum’. Si è in tal modo formata la base per l’integralismo. Una nascita inevitabile:
quando ci si accorge d’essere minacciati di morte, ci si difende, restituendo quanto si riceve.
Agosto 2001. Il microscopio ed il ritorno della sfida galileiana.
Annaspando nel bicchier d’acqua dei miei piccoli guai, ho per caso riscoperto Robert Koch ed
il suo ruolo fondamentale nello sviluppo del microscopio ottico moderno e della
microfotografia. Da questo è nata un’altra rilettura [7]. Il microscopio esisteva già nel
Seicento, e Marcello Malpighi se ne servì in modo mirabile. [4] Come mai, soltanto nel
diciannovesimo secolo, ci si rese conto dell’importanza di questo strumento ottico per studiare
la struttura dei viventi, favorendone, di conseguenza, il rapidissimo sviluppo tecnologico, che
era rimasto del tutto fermo per due secoli?
Nel Seicento, i telescopi erano già straordinariamente sofisticati. Ciò era dovuto alle esigenze
degli astronomi e dei navigatori. Lo stesso sarebbe certamente avvenuto per il microscopio, se
le scoperte di Malpighi e d’altri studiosi non fossero state accolte come semplici curiosità. Nel
Settecento, Morgagni considerava il microscopio inattendibile: simili atteggiamenti sono una
sorta di condanna a morte per un prodotto della tecnica.
In effetti, i medici non fecero nulla per meritarsi il microscopio: furono i cultori delle scienze
naturali a lanciarsi nell’avventura della scoperta del meccanismo della riproduzione e
dell’intima struttura dei viventi. In questo, come già scrissi, un ruolo fondamentale fu giocato
da Goethe. Ho già parlato di lui come inventore della morfologia [5-6]. Non ho però
sottolineato abbastanza la sua attività di microscopista.
Notte di San Lorenzo del 2001.
Goethe: uno scienziato misconosciuto.
Nature ha recentemente tributato un grande onore a Goethe, accettando una pubblicazione in
cui la biologia molecolare dimostra la giustezza del suo concetto circa l’origine delle varie
componenti del fiore da strutture fogliari modificate [9]. Quest’uomo era un osservatore
straordinario, dotato d’una finissima capacità di sintesi. Fra le altre cose, capì la grande
importanza del microscopio per la penetrazione dell’intimità della vita. Come si usava prima
della microfotografia di Robert Koch, Goethe pazientemente riproduceva con schizzi quanto
osservava al microscopio. La sua tenacia in questo settore mette chiaramente in luce il motivo
per cui la tecnica microscopica applicata alle scienze naturali nacque e fiorì in Germania, e
non altrove.
Purtroppo, di Goethe si parla molto e si legge poco. Se non lo si va a leggere, si cade nella
trappola di quegli sciocchi i quali continuano a considerarlo padre della Naturphilosophie,
quell’immane stupidaggine dei filosofi e letterati protoromantici che andavano blaterando su
quell’ “in più” caratteristico dei viventi, quell’afflato vitale di cui purtroppo ancora oggi si
riempiono la bocca certi cultori senza idee delle scienze biologiche.
Chi segue Goethe, non ha certamente fantasticherie per la testa. Cito soltanto due nomi, che
dovrebbero convincere: Purkinje e Schwann. Ne potrei dire tanti altri: sono i nomi degli
uomini che hanno fatto l’istologia.
Attorno agli anni quaranta dell’ottocento, i medici si sono impossessati di questa straordinaria
branca dell’anatomia, per pensare in grande. Ciò, in particolare, si manifestò nella persona di
un eroe dimenticato: Robert Remak.
Unsung heroes: i delitti della storia.
Remak era un ebreo polacco, che decise di fare la propria carriera di medico scienziato nel
luogo più antisemita ed antipolacco possibile: l’Università di Berlino. Nel 2002 ricorre il
centenario della morte di Rudolf Virchow. Non voglio quindi parlare del modo sleale con cui
egli ostacolò la carriera di Remak, che, probabilmente, ne morì prima del tempo. Ciò è già
stato fatto con grande perizia da studiosi Tedeschi ed Inglesi, ai quali rimando [2, 8].
Voglio però sostenere con decisione la paternità di Remak per quanto riguarda il concetto di
“omnis cellula e cellula”, quello di “patologia cellulare” (entrambi tradizionalmente attribuiti a
Virchow) e quello sull’origine delle cellule neoplastiche.
Theodor Schwann ed altri ritenevano che le cellule originassero da una sorta di brodo
intercellulare acellulato, denominato “blastema”. Remak era convinto che questa teoria fosse
un assurdo ritorno alla da tempo confutata generazione spontanea dei viventi. Fra il 1840 ed il
1850, egli pertanto compì accuratissimi studi embriologici, per mezzo dei quali stabilì che un
vivente trae origine dalla progressiva moltiplicazione di cellule derivate dallo zigote, e che
tutte le cellule derivano dalla divisione di cellule preesistenti. Non fu in grado di dimostrare la
mitosi, ma per primo evidenziò l’importanza della divisione cellulare.
Tutto questo introdusse Remak all’elaborazione del concetto circa la centralità della cellula
nella patologia. Di solito si trascura un fatto importante: che a ciò Remak pervenne tramite
l’oncologia.
I tumori erano allora un’entità molto vaga, e comprevano anche le cisti ed i processi
infiammatori. Il microscopio permise di identificare per la prima volta ciò che oggi
consideriamo neoplasie. Neoplasia è un concetto tipicamente remakiano. Remak infatti stabilì
che i tumori sono costituiti dalla proliferazione di cellule “nuove”, le quali però appaiono
inequivocabilmente come elementi derivati da altre cellule dei tessuti.
Quest’ultimo concetto non fu chiaramente percepito, dopo il 1850, perché Virchow non lo
capì. Egli infatti, dopo una fase iniziale di profondo scetticismo, pubblicò un editoriale in cui
sosteneva l’importanza rivoluzionaria della patologia cellulare. Non citò, tuttavia, Remak, che,
in tal modo, entrò rapidamente nell’oblio. Virchow invece fraintese, e rigettò completamente,
la teoria remakiana sull’origine delle neoplasie. Elaborò una bizzarra teoria, secondo la quale
le cellule tumorali nascono spontaneamente nel connettivo, al pari (secondo lui) delle cellule
dell’infiammazione. I concetti oncologici di Virchow sono, in effetti, molto arretrati. Fra
l’altro non comprende la natura delle metastasi e non riesce a differenziare neoplasie e
tubercolosi.
Forse sbaglio. Ho la sensazione, però, che sarebbe opportuno considerare Robert Remak il
padre dell’oncologia.
Ferragosto 2001.
Il figlio dell’anatomopatologo ed i meriti di Rudolf Virchow
Il padre di Giuseppe Mazzini era un illustre clinico ed anatomopatologo di Genova. Il figlio
non amava le autopsie, e si dedicò alla giurisprudenza. Non voglio parlare del padre di questo
grande Italiano, di cui continuiamo a dimenticarci. Ne tratterà presto Ezio Fulcheri.
Anche Giuseppe Mazzini è un unsung hero. Su di lui Metternich e Cavour propalarono una
quantità enorme di calunnie, puntualmente smentite dagl’Inglesi, suoi grandi ammiratori.
Purtroppo, queste calunnie si sono affollate a creare quell’immagine di nevrotico cospiratore
fallito dei nostri libri di storia. Mazzini era invece un uomo bellissimo, simpatico. Non era un
donnaiolo, ma era certamente un lady-killer: la qualità delle sue amicizie femminili è
certamente superiore a quelle di Casanova. Durante la Repubblica Romana, fu ottimo
amministratore, tollerante … andava anche a Messa. Forse fu l’unico politico sinceramente
amato dai Romani. Consiglierei la sua biografia scritta da Denis Mack Smith [3]. Questo
Londinese è stato fatto Commendatore per le sue grandi qualità di studioso della nostra storia.
I patologi come il padre di Mazzini erano clinici che facevano anche autopsie. Virchow mise
una pietra sopra questo modo di operare.
La valorizzazione della patologia cellulare permetteva infatti di formulare diagnosi al
microscopio in vita, non più dopo la morte, fornendo in tal modo un aiuto straordinario al
clinico. I chirurghi compresero subito la lezione, sollecitando pesantemente la collaborazione
dei patologi.
Virchow comprese allora quanto fosse importante per il patologo affermare il proprio ruolo
esclusivo in questo settore: nacque così una nuova professione, in grado di detenere il
monopolio delle diagnosi istopatologiche ed autoptiche.
La figura del ‘clinico che fa autopsie’ non sparì subito. A Bologna ciò avvenne soltanto negli
anni venti del novecento. Non so se questo sia stato giusto. Il fatto è che l’autopsia non è mai
stata un’incombenza troppo gradita per i patologi nati dalla rivoluzione di Virchow.
Settembre 2001. La torre di Babele. Scienza e religione a confronto.
Da decenni sto cercando di capire gli astrologi. In agosto sono arrivato alle popolazioni
mesopotamiche. I loro Dei sono spesso antipatici, e somigliano troppo alla classe dominante.
Nel complesso, queste genti non mi sembrano però la società perversa condannata dalla
Bibbia ad essere distrutta dal buon Ciro il Grande. Forse, questi si comportò bene con gli
Ebrei. Con altri fu un autentico mostro.
Per un sadico gioco del destino, pochi giorni dopo che m’era capitato di leggere della natura
blasfema attribuita dai Semiti alle gigantesche costruzioni mesopotamiche, l’11 settembre
capitò quello che oramai tutti sanno.
Questo mondo è talmente pieno di morti crudeli e assurde, che questa strage, in sé, non m’ha
sconvolto. M’ha invece straziato la follia, purtroppo non nuova, della religione che uccide.
E intanto, tutti questi pensieri su Galileo, sul microscopio, sulle sfide dei positivisti, sul Dio di
Einstein, ed su dove soffia il vento hanno continuato a volteggiarmi attorno.
La storia del mondo non è conclusa, e forse non lo è stata mai come in questi giorni.
Eppure, noi dobbiamo concludere qualcosa, perché le rubriche sono un evento con un inizio
ed una fine, come le tragedie.
Ma che cosa concludo?
Tutti quelli che sarebbero preposti a dirci qualcosa parlano un linguaggio muto, insulso.
L’unica cosa certa che ci hanno potuto dare è un’altra guerra. Come dire: trasformiamo la terra
in una luna e finalmente tutto sarà tranquillo. È sempre una soluzione, no? Tanto, prima o poi,
nella tomba, ci si va.
7 novembre 2001 (Italia in guerra).
Morale
Giuseppe Mazzini colpì tutte le persone che l’ammiravano sinceramente per la sua profonda,
sentita, integrità. Era capace di ridursi alla fame per prestare soldi agli amici bisognosi, esuli
come lui. Ricevette tanto male dagli altri (da Cavour in quantità ancora non del tutto
immaginabile), ma non lo ricambiava, perché voleva essere superiore alla malvagità altrui.
Anche per questo rimandò liberi i prigionieri francesi catturati dai patrioti della Repubblica
Romana. Vedeva le religioni positive come il fumo negli occhi, ma, quando avrebbe potuto
farlo, nei giorni della Repubblica romana, non impedì alla gente di andare a Messa. Diffidava
dei movimenti socialisti e comunistici perché non credeva nella costruttività della lotta di
classe.
Remak visse una vita d’inferno per non prostituire il proprio ebraismo.
Galileo crollò, alla fine, davanti alla violenza dell’autorità ecclesiastica.
Einstein fu a lungo considerato un imbecille, per le strane teorie da lui sviluppate.
Insomma, la vita degli scienziati e degli studiosi non è facile, indipendentemente dalle
difficoltà della ricerca, soprattutto perché viviamo in un mondo che odia la verità.
Dobbiamo proprio dirlo: odia.
Da quando il direttore di questa rivista m’ha affidato la rubrica storica, non faccio altro che
scoprire storie tristi, la cui causa essenziale, alla fin fine, è sempre un odio cieco nei confronti
di poveri diavoli che hanno avuto il torto di fare cose buone.
Fare cose buone, equivale spesso a costruire qualcosa.
Come diceva Mazzini, non si deve semplicemente costruire uno stato. Se si fa solo questo, si
creano soltanto le premesse per nuove guerre. Bisogna invece edificarlo ponendogli attorno le
premesse per una buona accettazione della sua esistenza da parte degli altri. Da ciò si
svilupparono in lui le idee che lo fanno considerare il padre dell’Europa unitaria.
Queste idee d’armonia erano presenti anche in Goethe e in Einstein: idee, potremmo dire,
animali, indipendenti dal fatto di credere o no in Dio.
Costruire, armonizzare, è molto difficile, ma promuove la vita. Lo vediamo tutti i giorni anche
nel corpo umano: la disarmonia prepara alla morte.
Stiamo cominciando le celebrazioni della nascita dell’anatomia patologica moderna. Questa
rubrica vorrebbe essere un invito ad iniziarle, sperando anche di aver dimostrato che,
nell’ottocento, l’anatomia patologica uscì dal mondo delle autopsie per riportare un po’ di
armonia all’interno di chi è ancora vivo: un bel mestiere, no? Vale la pena di viverlo, quindi.
Le difficoltà ci sono dappertutto. Basta accendere la televisione … e poi, non si sa mai dove
soffia il vento: il buon esempio nel proprio lavoro quotidiano …. potrebbe far cessare le
guerre.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Einstein A.: Come io vedo il mondo (traduzione di R. Valori). De Simone, Milano 1949
Harris H.: The birth of the cell. Yale University Press, New Haven 1999
Mack Smith D.: Mazzini. BUR, Milano 2000
Scarani P., Salvioli G. P., Eusebi V.: Marcello Malpighi (1628-1694). A founding father of modern
anatomic pathology. The American Journal of Surgical Pathology 18: 741-746, 1994
Scarani P.: Johann Wolfgang Goethe (1749-1832): il creatore del termine e del concetto di morfologia.
Pathologica 92, 45-49, 2000.
Scarani P.: Riflessi goethiani sui problemi della scienza contemporanea. Pathologica 93, 71-73, 2001.
Scarani P.: Robert Koch. Pathologica, in stampa
Schmiedebach H.: Robert Remak (1815-1865) Ein Juedischer Arzt im Spannungsfeld von Wissenschaft
und Politik. Fischer, Stoccarda 1995
Theissen G. & Saedler H.: Floral Quartets: Goethe was right when he proposed that flowers are
modified leaves. Nature 409, 2001, 469-471
Paolo Scarani
Appunti su Camillo Golgi, il patologo che trovò la chiave d’accesso
al neurone.
Pathologica 89, 351-357, 1997
Camillo Golgi nell’editorial board della prima annata di Pathologica .... quello
dell’apparato di Golgi .... un nome che è nella mente di tutti quelli che si
occupano di istologia, di biologia o di anatomia, un po’ come quello di Malpighi.
L’apparato di Golgi, da lui scoperto alla fine del secolo scorso, e così
genialmente interpretato in un articolo apparso su questa rivista, recentemente
rivisitato, costituisce indubbiamente un apporto di grande importanza alla
conoscenza della cellula. Pochi, tuttavia, forse sanno quale sia stato il vero
grande contributo di Golgi alle scienze mediche, che gli valse il premio Nobel
per la medicina nel 1906, in associazione a Santiago Ramòn Cajal: l’apertura
della strada alla comprensione dell’intima morfologia del sistema nervoso
centrale.
Da millenni il sistema nervoso teneva in iscacco gli studiosi circa il significato
della sua strana e complessa struttura. Anche il microscopio, inizialmente, non
aveva apportato granché: probabilmente è l’unico settore in cui le ricerche di
Marcello Malpighi approdarono ad un franco insuccesso (20).
Nel secolo scorso, nonostante lo sviluppo del microscopio moderno, del
microtomo e delle prime tecniche di fissazione, d’inclusione e di colorazione con
prodotti di sintesi, si fecero tante scoperte interessanti, ma limitate. Gabriel
Valentin (1810-1883), Jan Purkinje (1787-1869), Robert Remak (1815-1865),
Theodor Schwann (1810-1882), Hermann von Helmoltz (1821-1894), Albert
Kölliker (1817-1905) nella fase precoce della sua lunga attività di morfologo,
Otto Deiters (1834-1863), Franz Leydig (1821-1908), Joseph von Gerlach
(1820-1896), Sigmund Freud (1856-1939) prima di ‘prostituirsi’ alla psicanalisi,
fecero interessanti osservazioni, ma non riuscirono a capire se le cellule nervose
fossero o no unite alle fibre nervose (7). Trovandosi dispersi nella
complicatissima struttura del sistema nervoso centrale, a causa
dell’inadeguatezza delle colorazioni allora disponibili, essi non capivano dove
esattamente le fibre cominciassero e finissero. In particolare, poi, si trovavano
nel grave imbarazzo di dover ammettere che il sistema nervoso era l’unico
organo a non presentare le cellule come la propria unità anatomofunzionale
fondamentale: infatti, le fibre nervose, che pure si presentano come così
esclusive del sistema nervoso centrale, e così tipicamente connesse coi nervi,
sembravano qualcosa di non cellulare (senza nucleo), seppure, funzionalmente,
critico.
Camillo Golgi trovò la via giusta. Sviluppando una colorazione che in molte
lingue è nota col termine italiano, ‘colorazione nera’ (8-20), egli fu in grado di
stabilire la connessione fra neurone e fibra nervosa (neurite o cilindrasse) e di
evidenziare splendidamente le connessioni fra i neuroni, nonché l’architettura
della sostanza grigia e della sostanza bianca.
Sfortunatamente la scoperta, a causa della difficile riproducibilità, fu
inizialmente poco apprezzata proprio da coloro, come Kölliker, che sarebbero
poi stati i maggiori ammiratori di Golgi (2). Tuttavia, un altro uomo geniale di
un paese pieno di problemi come l’Italia, lo spagnolo Santiago Ramòn Cajal, fu
in grado di capire la portata della scoperta, e la modificò lievemente (3).
Contrariamente a Golgi, egli capì l’importanza di pubblicizzarla personalmente
in terra tedesca (1889). Trattandosi di persona molto giusta e generosa, Cajal
seppe attribuire il giusto merito a Golgi, riconoscendone sempre la paternità. Da
ciò si sviluppò il binomio Golgi-Cajal, giustamente celebrato col premio Nobel
per l’enorme progresso nelle neuroscienze suscitato nel giro di pochissimi anni.
Golgi è visto dagli studiosi stranieri come una sorta di meteora nelle tenebre
della cultura scientifica italiana dell’Ottocento. Ciò è frutto dei pregiudizi di tanti
benpensanti europei, che, a cominciare da Metternich, vedevano l’Italia, ma non
solo quella, come una specie di giardino zoologico di subumani. In realtà,
l’Ottocento italiano corrispose culturalmente e scientificamente al ‘grande
momento’ di un gruppo dominante che aveva portato con successo a
compimento l’unità nazionale. Un paese in grande espansione ha sempre una
vita culturale e scientifica molto vivace. Fu così per Roma fino ad Augusto, per
Bologna all’epoca dei comuni, per la Francia dei grandi re e dell’epoca
napoleonica, per l’Inghilterra elisabettiana e vittoriana, per le comunità
germaniche dalla guerra dei sette anni alla prima guerra mondiale, per gli Stati
Uniti dalla guerra di secessione ad oggi.
Il periodo risorgimentale e l’epoca successiva, fino alla prima guerra mondiale,
furono estremamente tempestosi per l’Italia. Lo stato complessivo d’arretratezza
del paese non era certamente fittizio. Tuttavia, come sempre nei momenti di
grande turbolenza, trovarono espressione in tutti i campi personaggi di grande
levatura internazionale. Basta considerare coloro cui furono assegnati i primi
premi Nobel all’inizio di questo secolo: Giosue Carducci (1835-1907 - 1906,
letteratura), Guglielmo Marconi (1874-1937 - 1909, fisica) , Camillo Golgi
(1844-1926 - 1906, medicina) ed Ernesto Teodoro Moneta (1833-1918 - 1907,
pace).
Dal 1901 al 1909 furono insigniti del premio Nobel 9 Tedeschi, 9 Francesi, 7
Britannici, 4 Svizzeri, 3 Olandesi, 3 Svedesi, 2 Belgi, 2 Statunitensi, 2 Danesi, 2
Russi, 2 Spagnoli, 1 Norvegese, 1 Polacco, 1 Austriaco, oltre ai 4 Italiani. Il
Nobel per la pace, allora come oggi, era cosa discutibile. Moneta stesso fu in
seguito fautore attivo dell’interventismo italiano.
Molti paesi ebbero parecchi premi per la pace (ne furono assegnati 14 in 9 anni,
forse come aperitivo alla prima guerra mondiale). I Belgi ebbero soltanto di
quelli (forse i Tedeschi invasero poi il Belgio prevedendo di incontrare persone
molto pacifiche). Gli Statunitensi ne videro uno assegnato al presidente
Theodore Roosevelt (1906). Quest’ultimo premio fu giudicato con molta
malignità, un po’ come quello toccato a Kissinger molti anni dopo. Pareto
malignamente sostenne che il premio fu assegnato a Roosevelt nella speranza,
poi risultata infondata, che fosse rieletto per il secondo mandato; quindi, per
cinica ragion di stato.
L’istituzione del premio Nobel è sempre stata oggetto di violente polemiche,
probabilmente per il prestigio che il premio stesso conferisce e per la somma di
danaro non indifferente che consente di percepire. Oggetto di discussione son
stati comunque per lo più i premi per la letteratura e quelli per la pace, a causa
del fine intreccio con la politica insito in queste due particolari categorie. Gli
altri premi sono stati meno problematici, a parte l’attuale polemica sulla
discriminazione di fisici Ebrei di Germania per la scoperta della fissione
nucleare (4).
Dal 1901 al 1909, i premi Nobel si associano a nomi indimenticabili: Röntgen,
Marie Curie, Marconi, Arrhenius, Behring, Pavlov, Koch, Golgi, Cajal, Laveran,
Ehrlich, Mommsen, Carducci, Kipling, tralasciando tanti altri. Non vi è dubbio
che il premio Nobel ha acquisito prestigio perché ha esordito celebrando i più
grandi scienziati e studiosi della seconda metà dell’Ottocento. Questa fu
un’epoca straordinaria per la scienza, soprattutto nell’Europa centrale. I tanti
premi Nobel assegnati ai Tedeschi esprimono efficacemente la grandiosità dello
sviluppo della scienza e della tecnica in questo paese. Massima espressione di
ciò erano le università germaniche, esempio unico al mondo di organizzazione,
modernità, dinamismo ed apertura al mondo, come dimostrato dal grande
numero di studiosi stranieri che le frequentavano.
Dalla distruzione dell’egemonia austriaca (1866) e della Francia di Napoleone
III (1870) fino al 1918, la Germania fu per il mondo quello che oggi sono gli
Stati Uniti, ed ospitò studiosi stranieri nei propri centri di cultura e nelle proprie
innumerevoli prestigiose riviste scientifiche.
L’Italia era tagliata fuori fisicamente dall’Europa centrale, a causa delle ancora
modeste vie di comunicazione attraverso le Alpi. La lingua tedesca era poco
praticata, e le Università italiane risentivano di tutti i problemi economici del
giovane stato e mancavano di adeguati provvedimenti organizzativi, anche per le
gravi difficoltà incontrate dal varo di una legislazione specifica.
L’Università di Pavia ebbe però la capacità e la fortuna di esprimere alcuni
studiosi di grande talento, adeguati alle illustri tradizioni di quell’antico centro
culturale, che, sin dal Seicento, seppe mantenere livelli tali da assurgere a
modello per altri centri europei (Impero asburgico).
A Pavia si formò Camillo Golgi. Egli nacque a Còrteno, piccolo centro della
valle omonima, collaterale della Val Camonica (prealpi a Nord di Brescia). Dal
1956, Còrteno si chiama Còrteno Golgi.
Il padre era medico. Quando Golgi era bambino, la famiglia si trasferì nei pressi
di Pavia. In quella città egli studiò medicina, laureandosi a 22 anni.
Essendo figlio di un medico pratico, era anch’egli inizialmente orientato in tal
senso. Ciò, come accadde a tutti i grandi medici scienziati, produsse in lui la
necessità di derivare sempre l’impulso alla ricerca dalle esigenze della pratica
clinica d’ogni giorno. L’influenza dell’ambiente pavese sul rapido manifestarsi
dell’interesse di Golgi per l’anatomia microscopica non è difficile a riconoscersi.
Alla scuola di anatomia del Panizza, allievo di Antonio Scarpa, si formò infatti
il Corti, poco più anziano di Golgi, che dette il nome alla struttura
neurosensoriale dell’orecchio interno. A Pavia fu pure inventato l’obiettivo ad
immersione dall’Amici. Sia quest’ultimo che Panizza, seppure già anziani, erano
ancora attivi durante la formazione di Golgi. Tutti i suoi docenti erano a
conoscenza delle idee dominanti in Germania; chi tuttavia lo convinse del ruolo
centrale dell’istologia e della fisiologia sperimentale fu il fisiologo Eusebio
Hoel. Anche i clinici si adeguavano a questa mentalità, sostenendo l’importanza
di costruire le conoscenze mediche su robuste basi anatomiche.
Uno studente dotato, insomma, poteva, in Pavia, trovare i giusti stimoli per
iniziare una brillante carriera di studioso.
Nella tesi di laurea del 1865, Golgi suggerì una classificazione delle malattie
mentali su basi eziologiche e morfologiche. Sembra che questi suoi studi precoci
lo avessero messo in contatto, durante il primo periodo di frequenza all’ospedale
S. Matteo (1865-1872), col giovane direttore della clinica psichiatrica, Cesare
Lombroso. Quest’uomo oggi è visto in una luce sinistra, in parte per la furiosa
persecuzione scatenatagli contro dagli idealisti e dai fascisti. Tuttavia,
nonostante gli indubbi limiti ed errori e le follie spiritistiche della vecchiaia,
Lombroso, oltre a far comprendere che la giustizia non può prescindere dalla
personalità di chi è giudicato, fu una formidabile guida per tutti i giovani
scienziati dell’Italia postunitaria col suo deciso abbandono del teorizzare per
dedicarsi all’osservazione accurata dei fatti.
Golgi, proprio perché interessato a problemi pratici, ebbe un inizio da
anatomopatologo, ed i suoi primi studi di rilievo, che dimostrarono l’assenza di
spazi linfatici perivascolari nel cervelletto (1870), derivavano dai problemi posti
da studi su casi di pellagra (l’incubo di Lombroso) e da osservazioni su neoplasie
encefaliche riscontrate in autopsia. Nei due anni successivi fece altre
osservazioni interessanti sulla glia, documentandone le espansioni perivascolari.
La buona tempra di un ricercatore prima o poi viene messa a dura prova dal
destino. A Golgi questo capitò attorno al 1872, quando, oltre a doversi separare
da Lombroso e dal giovane amico Giulio Bizzozero, già direttore a 20 anni
dell’istituto di Patologia generale, si trovò in tali ristrettezze economiche da
dover accettare un lavoro presso l’ospedale dei cronici di Abbiategrasso.
Contrariamente a Freud, che, dovendo abbandonare il mondo universitario per
questioni economiche, si dette alla psicanalisi, Golgi, pur tagliato fuori dal
mondo scientifico, continuò a lavorare, nei ritagli di tempo, nella cucina della
propria casa ..... e, alla salute di chi bestemmia contro lo ‘Stato porco che se ne
frega della ricerca scientifica’, sviluppò la colorazione al cromato d’argento: la
reazione nera.
La scoperta derivò dalla constatazione dell’insufficienza dei metodi allora
disponibili per studiare il sistema nervoso: paziente dissezione o macerazione,
tentativi di fissazione che miravano soprattutto ad indurire il tessuto,
colorazione. La prima constatazione di Golgi fu che le migliori colorazioni dei
neuroni e delle cellule gliali si ottenevano previo indurimento del tessuto in
soluzioni di bicromato di potassio o di acido osmico (8). Per le scarse risorse
disponibili, egli dovette rinunciare al secondo per il primo, o addirittura optare
per il bicromato d’ammonio.
Usò poi vari prodotti per la colorazione. L’argento era fra questi di gran moda a
quei tempi, grazie al grande interesse suscitato dalla tecnica dello sviluppo
fotografico. I risultati ottenuti dagli istologi, utilizzando tale tecnica per le loro
colorazioni, erano stati scarsi. Come Golgi sia arrivato a servirsene non è chiaro.
I risultati li conseguì, probabilmente per caso, applicando la colorazione a
campioni di tessuto nervoso fissati per lunghi periodi in bicromato di potassio,
pubblicando le relative osservazioni in una comunicazione del 1873 (8).
Tale lavoro, seppure breve, è molto complesso, in quanto, oltre al metodo della
‘colorazione nera’, contiene una grande quantità di informazioni, che
confermano e precisano precedenti scoperte, ma già costituiscono il fondamento
per la grande rivoluzione attuata da Golgi.
Innanzitutto è provata l’ipotesi di Deiters che il cilindrasse è diverso da tutti gli
altri prolungamenti della cellula nervosa e che esso si continua a costituire le
fibre midollate (mieliniche). La novità esclusiva del Golgi sta qui nella scoperta
che il cilindrasse non si mantiene unitario, ma si ramifica ad angolo retto, ha un
decorso estremamente tortuoso, somigliando in tutto questo ai nervi periferici;
inoltre, molte delle diramazioni ripiegano verso la sede d’origine (decorso
ricorrente). Ci troviamo insomma di fronte a qualcosa di veramente eccezionale,
rispetto al caos dei precedenti studi neuroanatomici: abbiamo la prima
rappresentazione del decorso di un cilindrasse dalla cellula d’origine fino alla
sua entrata nella sostanza bianca. Tale accurato riscontro permette a Golgi di
riconoscere due tipi di cellule nervose (I e II tipo di Golgi): quelle con
cilindrasse che, pur ramificandosi, ha un lungo decorso, e quelle con cilindrasse
che termina a breve distanza dall’origine, dopo aver dato luogo a
complicatissime ramificazioni. Il secondo tipo di cellule nervose è oggi
conosciuto come ‘cellule ad assone breve’ (11).
Successivamente, Golgi tratta dei prolungamenti protoplasmatici di Deiters, i
dendriti. Anche in questo caso, la reazione nera consente di apprezzare la
complessa struttura in più ordini di ramificazioni, e permette a Golgi di
riconoscere per primo quelli che oggi sono chiamati neuriti basali ed apicali (1120). Ciononostante, il nostro non è ancora in grado di caratterizzare i diversi tipi
di cellule nervose in base al modo in cui i dendriti si ramificano.
Il grande pregio di queste osservazioni è inficiato dalla successiva
interpretazione dei dati. Golgi vede che le diramazioni terminali dei collaterali
dei cilindrassi formano una rete diffusa nella sostanza grigia, ed è indotto a
sostenere, senza prove, che essi formino una rete anastomotica diffusa,
fondamento, per lui, della funzione nervosa. Prende così forma quello che
potremmo chiamare il mito di Golgi e della Scuola pavese: la rete nervosa
diffusa. E’ un concetto destinato a dimostrarsi come l’antitesi della dottrina del
neurone e delle sinapsi, la quale pure, senza Golgi, chissà quanta fatica avrebbe
fatto ad affermarsi.
Sebbene si sia cercato di giustificare Golgi col fatto che le metodiche di allora
non permettevano di capire l’esistenza della separazione fra le cellule nervose,
stabilita morfologicamente soltanto con lo studio delle sinapsi al microscopio
elettronico, sorprende come un osservatore tanto fine, capace di capire con la
microscopia ottica la funzione dell’apparato del Golgi (19), si sia poi accanito a
negare l’evidenza, difendendo un’idea che gli era nata applicando un metodo
ancora bisognoso di perfezionamenti. Esattamente l’opposto successe con
l’apparato di Golgi, da lui interpretato con straordinario acume, ed invece
addirittura negato da numerosi autori, fino all’incontestabile dimostrazione col
microscopio elettronico. L’apparato del Golgi era, con le metodiche dell’inizio
di questo secolo, molto meno intuibile della presenza delle sinapsi, che, invece,
già prima del premio Nobel a Golgi, erano state evidenziate dai neurofisiologi
con la dimostrazione del ritardo, appunto sinaptico, della conduzione
dell’impulso nervoso (6).
Quando si parla di grandi personaggi, dispiace dover trattare dei loro limiti.
Quello dimostrato da Golgi nell’ostinarsi a credere nella rete diffusa ha avuto
molta risonanza (produsse quasi una rissa a Stoccolma). Eppure, molti uomini
geniali hanno presentato peculiarità inquietanti: basti pensare alle propensioni
per l’astrologia di Newton o alla sua rissa da pescivendoli con Leibnitz (17).
A parte questo limite interpretativo, la prima grande pubblicazione di Golgi
presenta due carenze che ne limitarono ‘l’impatto’: lo scarso rilievo dato alla
descrizione del metodo della ‘reazione nera’ e la curiosa assenza di illustrazioni.
Quest’ultimo fatto è davvero stupefacente, se si considera la bellezza delle
immagini di neuroanatomia ottenibili col metodo golgiano.
Nei 10 anni successivi, Golgi pubblicò studi sulla struttura di varie regioni del
sistema nervoso centrale, fornendo, in quello sul bulbo olfattorio del 1875, le
prime illustrazioni ed una descrizione più accurata del metodo. In quel periodo
relativamente breve, dopo l’esordio con la struttura dell cervelletto ed il bulbo
olfattorio, Golgi compì uno scrupoloso esame dell’ippocampo, dell’area
sensitivo-motrice della corteccia, del midollo spinale, del corpo calloso e della
glia.
Tutto questo basterebbe per un più che brillante curriculum scientifico.
Golgi era curioso, però, ed i suoi interessi in campo medico ci ricordano un po’
l’abito mentale di Marcello Malpighi. Patologo in fondo all’animo, fu
probabilmente uno dei pionieri della neuropatologia, avendo evidenziato lesioni
neuronali in un caso di corea. A ciò possiamo aggiungere i successivi studi sui
tumori encefalici (1874).
I propiocettori muscolotendinei che portano il suo nome furono descritti alla fine
degli anni Settanta.
Più o meno nello stesso periodo, Golgi si occupò dell’assillante problema delle
emotrasfusioni ed anche di patologia renale.
Fortunatamente, si accorsero di lui almeno gli Italiani: nel 1881 fu richiamato a
Pavia come titolare della cattedra d’istologia e di patologia generale.
Il rientro nell’ambito universitario coincise anche con lo svilupparsi del suo
interesse per farsi conoscere all’estero. Il primo passo avvenne con la
presentazione della sua ricerca in neuroanatomia per mezzo di una serie di
articoli in Francese sugli Archives Italiennes de Biologie (1883-1885). Parte di
essi fu tradotta anche in Inglese. Appartiene a questo periodo l’opera più bella e
riccamente illustrata del Nostro: Sulla fina anatomia degli organi centrali del
sistema nervoso (1886). Anche oggi la si può leggere senza fatica.
Quest’ultima e le altre opere appena nominate fanno di Camillo Golgi uno
scienziato universale. Fondamentale in questi lavori è il concetto della rete
costituita dai collaterali dei cilindrassi delle cellule nervose, presentato come
legge, per la quale non è necessario cercare ulteriori verifiche. L’importanza
attribuita da Golgi a tale rete è dovuta alla possibilità di spiegare, con essa, il
funzionamento del sistema nervoso come macchina estremamente complessa,
ma perfettamente integrata. In particolare, egli considerava i cilindrassi ed i loro
collaterali come responsabili della funzione nervosa, mentre attribuiva ai dendriti
(denominati prolungamenti protoplasmatici - il termine ‘dendrite’ è di Wilhelm
His), un ruolo puramente nutritivo. Una simile concezione appare molto curiosa,
in quanto Golgi, come si è detto, fu il primo a comprendere la validità della
dottrina cellulare anche per il sistema nervoso. Con la ‘legge’ della rete, egli
svuotava le singole cellule nervose di ogni rilevanza funzionale.
Tutte queste contraddizioni, unite alle difficoltà del metodo della ‘reazione nera’, furono la
causa dello scetticismo dei grandi neuroanatomici, in primis Kölliker. Chi capì invece Golgi
ed il suo metodo fu Santiago Ramòn Cajal, che, applicando la metodica modificata su animali
giovani, e, quindi, col problema dell’impedimento da parte delle guaine mieliniche ridotto ai
minimi termini, percepì, dapprima nella corteccia cerebellare () e poi in altre strutture, ciò che
Golgi non aveva capito, e non avrebbe mai più capito: le delicate connessioni stabilite dalle
ultime terminazioni dei cilindrassi con le cellule nervose e coi dendriti.
Cajal tenne così a battesimo quella che sarebbe divenuta la ‘dottrina del neurone’. Egli era un
profondo ammiratore di Golgi, e per questo, quando nel 1889 illustrò a Berlino le proprie
scoperte, seppe farne apprezzare il valore e l’importanza a Kölliker ed agli altri, determinando
il loro progressivo avvicinamento a Golgi, da parte di Kölliker in particolare (2-18). Dopo
Berlino, anzi, Cajal si recò a Pavia, col preciso scopo di rendere omaggio ‘al proprio maestro’,
come egli chiamava Golgi. Questi, a suo dire, era però a Roma, per i propri doveri di Senatore
del Regno (20). Tale affermazione di Cajal è strana: Golgi fu infatti nominato senatore il 14
giugno 1900 (XXI legislatura). Una bugia mal raccontata? In ogni caso, Cajal, anche in questa
memoria, continuò a dimostrarsi un signore nei confronti di Golgi. Il fatto riportato tratta di
ricordi pubblicati nel 1937. E’ quindi possibile che Cajal non ricordasse bene fatti remoti.
Golgi ebbe incarichi pubblici (Rettore dell’Università di Pavia) prima della nomina a Senatore
del Regno, comunque, non parlamentari.
L’epoca del Premio Nobel non era lontana, ma l’attività scientifica di Golgi non
si era ancora arrestata.
Fra il 1884 ed il 1893 egli si dedicò a studi sulla malaria, ed ebbe interessanti
scambi di idee e di materiali di studio con Marchiafava (9-12). I suoi rilievi
clinicomorfologici sono molto interessanti, in quanto forniscono ulteriori validi
contributi alla dottrina dell’eziologia parassitaria di questa malattia. Di rilievo
appaiono però soprattutto le osservazioni sulla quartana, che evidenziano:
l’esistenza di una carica minima di parassiti perché la malattia si renda manifesta
clinicamente; una proporzionalità diretta fra numero di parassiti e gravità della
sintomatologia; un rapporto tra fase maturativa del parassita ed accesso febbrile
In particolare, Golgi constatò che è l’inizio della fase della scissione dei parassiti
a preannunciare l’accesso febbrile, mentre l’apiressia corrisponde al loro
accrescimento all’interno dei globuli rossi. Da ciò deriva l’utilità di individuare
l’inizio di questa fase per la somministrazione del chinino.
Nel 1898 Golgi scoprì l’apparato che porta il suo nome, di cui abbiamo
recentemente discusso a proposito dello splendido lavoro del 1909, apparso su
Pathologica. Non ci soffermiamo ulteriormente su questo tema (13-15).
Il premio Nobel per la fisiologia e la medicina era nell’aria da tempo. La
comunicazione raggiunse Golgi e Cajal nell’ottobre del 1906. Il premio fu per
essi la prima occasione d’incontrarsi, a Stoccolma. Purtroppo, fu un incontro non
proprio bello, in quanto la lezione pubblica di Golgi fu tutt’altro che l’usuale
pacata rivisitazione di un lungo e fecondo periodo di ricerca. In ogni caso, nella
motivazione del premio assegnato a Golgi così si scrisse: ‘il pioniere della
ricerca moderna sul sistema nervoso’ (10 dicembre 1906).
La relazione di Golgi, estremamente dura, ammetteva la singolarità delle cellule
nervose, ma continuava a negare l’evidenza della dottrina del neurone. In
particolare, oltre a negare la validità degli studi di Cajal e del concetto di sinapsi
già elaborato da Sherrington nel 1897, essa risultò estremamente ingiusta nei
confronti degli studi embriologici di Wilhelm His, probabilmente uno dei
maggiori studiosi di tutti i tempi in questo campo. Per una buffa fatalità del
destino, proprio mentre Golgi criticava His, Ross Harrison, con la sua
rivoluzionaria tecnica dei trapianti embrionari, stava dimostrando quanto Golgi
si sbagliasse (16).
Golgi a Stoccolma continuò tenacemente a difendere quanto aveva acquisito ad
Abbiategrasso. I disegni che presentò a Stoccolma non tenevano in alcuna
considerazione tutto quello che Cajal aveva acquisito sulle connessioni fra
terminazione dei cilindrassi e neuroni. Per lui tutto questo era apparenza: in
realtà le diramazioni nervose andavano oltre le cellule, per formare la rete
diffusa.
Perché questo? Probabilmente, oramai l’idea che il sistema nervoso potesse
essere pensato esclusivamente come un’immane unità integrata, funzionante
come un tutto, si era in lui talmente radicata che la dottrina del neurone gli
doveva apparire come un’assurdità. Idea senza dubbio ammirevole, che forse si
avvicina ai concetti attuali della teoria della complessità (20). Noi però pensiamo
che un simile paragone sia inappropriato. Dal punto di vista pratico,
quest’atteggiamento di Golgi fu improduttivo, come si può fra l’altro
agevolmente constatare dalla fertilità della dottrina del neurone.
I brillanti studi sull’apparato di Golgi del 1909, sono gli ultimi successi a noi
conosciuti di questo grande scienziato. Ci è del tutto ignoto il lungo periodo che
va da quell’epoca alla morte, avvenuta a Pavia nel 1926. In quell’anno,
Pathologica pubblicò un elenco delle opere golgiane posteriori al 1903, anno in
cui la casa editrice Hoepli dette alla luce l’opera omnia del Nostro (1). Tale
elenco non include, curiosamente, l’articolo del 1909, da noi rivisitato (14),
mentre ne riporta uno equivalente in francese pubblicato nello stesso anno (13),
ed uno precedente sulla dimostrazione di quello ceh sarà poi chiamato l’apparato
di Golgi. Dopo il 1909, accanto ad alcuni articoli su tematiche non propriamente
di ricerca, ne compaiono invece tre tipicamente morfologici, a dimostrare una
notevole vitalità di Golgi fino a poco prima della morte (5).
Non essendo certi che l’elenco di Pathologica sia completo, e non avendo precise
informazioni sull’ultimo Golgi, preferiamo concludere a questo punto la nostra
breve biografia, sperando che altri meglio di noi sappiano trattare con
completezza questo tema, veramente degno, data la grandezza del personaggio.
1. Anonimo: Pubblicazioni di Golgi dopo il 1903. Pathologica 18, 1926, 226
2. Belloni L.: L’epistolario di Albert Kölliker e Camillo Golgi. (1975)
Istituto Lombardo di Scienze e Lettere: Milano
3. Cajal S. R.: Pequeñas contribuciones al conocimiento del sistema
nervioso. (1891) Imprenta de la Casa Provincial de Caridad: Barcelona,
pp. 3, 15-16
4. Crawford et al.: A Nobel tale of wartime injustice. Nature 382, 1996, 393395
5. Da Fano C.: Camillo Golgi. 1843-1926. J. Path. Bact. 29, 1926, 500-514.
6. Foster M.: A textbook of physiology III. Macmillan, Londra 1897
7. Freud S.: Über den Bau der Nervenfasern und Nervenzellen beim
Flusskrebs. Sitz. Math. Naturwiss. Cl. K. Akad. Wiss. 1882, 85, 9-46
8. Golgi C.: Sulla struttura della grigia del cervello. Gazzetta medica italiana
Lombardia 1873, 6: 244-246
9. Golgi C.: Sulla infezione malarica. (Lettera ai Sig. Prof. E. Marchiafava e
A. Celli. Archivio per le scienze mediche. 1886, 10 (4), 109-135
10. Golgi C: Ancora sulla infezione malarica. Gazzetta degli ospitali 1886, 53,
1-9
11. Golgi C.: Sulla fina anatomia degli organi centrali del sistema nervoso.
Hoepli, Milano 1886, p. 59 e Tavola 1 (fig. 7)
12. Golgi C.: Il fagocitismo nell’infezione malarica. La riforma medica. 1888,
4, 3-17
13. Golgi C.: Une méthode pour la prompte et facile démonstration de
l’appareil réticulaire interne des cellules nerveuses. Archives italiennes de
biologie. 1908, 49, 269-274
14. Golgi C.: Di una minuta particolarità di struttura dell’epitelio della
mucosa gastrica ed intestinale di alcuni vertebrati. Pathologica 1909, 1:
229-233
15. Golgi C: Sur une fine particularité de structure de l’épithélium de la
muqueuse gastrique et intestinale de quelques vertébrés. Archives
italiennes de biologie. 1909, 51, 213-245
16. Harrison R. G.: Embryonic transplantation and the development of the
nervous system. Anat. rec. 1908, 2, 385-410.
17. Johnson-Laird P. N.: Human and machine thinking. Lawrence Erlbaum
Associates, Hillsdale (NJ - USA) 1993
18. Kölliker A.: Handbuch der Gewebelehre des Menschen. Zweiter Band:
Nervensystem des Menschen und der Thiere. (1896)
Sechste
umgearbeitete Auflage. Engelmann: Leipzig, pp. 653-655
19. Scarani P.: Uno scritto di Camillo Golgi sull’apparato che porta il suo
nome. Pathologica, 88, 248, 1996
20. Shepherd G. M.: Foundations of the neuron doctrine. (1991) Oxford
University Press: New York, pp. 79-102, 177-193, 259-270, 289-292
Paolo Scarani
SULLE ORME DI MALPIGHI - CAMILLO GOLGI E LA TRADUZIONE
DELL’ISTOLOGIA DI SCHENK.
Pathologica 91, 295-296, 1999
Il riordino della biblioteca antica dell’anatomia patologica di Bologna ha portato alla luce
un’edizione, purtroppo non datata, degli “Elementi di istologia normale dell’uomo per medici
e studenti” di S. L. Schenk, dell’università di Vienna (5).
L’opera, di per se stessa, è piuttosto bella, e con tavole accurate, anche se non sempre alquanto
nitide. Il suo interesse risiede però nel fatto di essere stata tradotta da un discepolo del Golgi,
Achille Monti, e, soprattutto, di essere stata annotata da Golgi stesso. Come essi stessi
affermano nella prefazione, l’opera dello Schenk merita di essere conosciuta in Italia per il
notevole grado di erudizione. Tuttavia, in parecchie parti contiene tali imprecisioni da dover
essere corredata di note, che, per la verità, risultano essere autentici rifacimenti.
La maggior parte delle note riguarda il sistema nervoso. Alcune consentono anzi di inquadrare
l’epoca della traduzione dello Schenk. A pagina 105 troviamo un’amplissima nota in cui sono
descritte con grande cura le terminazioni nervose nei tendini, ed in particolare l’organo
muscolo-tendineo del Golgi. Questo apparato fu descritto nel 1880.
Altre puntualizzazioni sulla conformazione delle cellule gliali, della struttura a strati della
corteccia cerebrale, sulla natura sensitiva o motrice delle cellule del midollo spinale, sulla
struttura dell’ippocampo sono molto più difficili da riferire, in quanto appartengono a studi
golgiani anteriori agli anni settanta (2). Se la datazione della traduzione appare al momento
incerta, sicuro è invece il disappunto di Golgi per la scarsa conoscenza dei suoi apporti e per la
sciatteria dell’autore viennese.
Maggiore chiarezza deriva dalla descrizione delle cellule del Martinotti (neuroni corticali con
cilindrasse ascendente). Tali elementi furono descritti nel 1888 (3).
Le note di Golgi non si limitano a riportare soltanto le proprie scoperte nell’ambito della
neuroanatomia, ma tutte le maggiori scoperte nel campo, opera sia di studiosi italiani che
stranieri, compreso Ramon Cajal. Inoltre, si presentano come qualcosa di ben più ampio di
semplici annotazioni del traduttore.
Oltre ad occupare, spesso, diverse pagine, le note golgiane manifestano spesso un
atteggiamento di compiacimento e di simpatia verso gli autori citati. Così è per Giuseppina
Cattani e Ferruccio Tartuferi.
La Cattani (1859-1914) è una brillante e sfortunata ricercatrice della nostra università, la
prima donna medico di fama internazionale del nostro paese. Golgi la ricorda per gli accurati
studi sulle terminazioni nervose nei corpuscoli di Pacini-Herbst degli uccelli (pag. 101).
Tartuferi, oculista (morto nel 1925), direttore della nostra clinica universitaria, creò lo
splendido edificio della clinica del S. Orsola, oggi gravemente deturpata. Egli è segnalato per
aver applicato il metodo della colorazione nera di Golgi allo studio della struttura della retina.
Sono riportati dati già di notevole modernità (pagg. 323-326).
Colpisce però una stranezza. Anche Ramon Cajal aveva studiato la retina con molta cura, con
risultati sovrapponibili a quelli di Tartuferi (pag. 320). La segnalazione di Golgi è però
nettamente sbilanciata a favore di Tartuferi. Non sono purtroppo riuscito a recuperare i lavori
tartuferiani originali.
Anche temi non neuroanatomici sono oggetto di note golgiane.
Lo Schenk riporta soltanto eritrociti e leucociti come elementi corpuscolati del sangue. Golgi
segnala anche le piastrine (pagg. 30-32), ed il loro scopritore, Giulio Bizzozero (1846-1901).
Il tema delle piastrine e del loro ruolo nella coagulazione del sangue, chiaramente evidenziato
da Bizzozero con studi di straordinaria qualità (1), non godeva evidentemente di grandi
simpatie fra gli studiosi dell’epoca. Golgi cita infatti i numerosi errori interpretativi sulla loro
natura, fra cui anche quelli di Mosso e Foà. Mosso viene ancora ricordato per aver considerato
i leucociti come globuli rossi morenti. A questo proposito, Golgi cita la dimostrazione di
attività mitotica in essi dimostrata dal Bizzozero nel 1863. Secondo Golgi, Bizzozero avrebbe
anche osservato intensa attività mitotica nelle cellule leucemiche (pag. 30). Tale affermazione
non è per me sufficiente a far comprendere se Bizzozero e Golgi considerassero le leucemie
come neoplasie. In tal caso, sarebbero stati antesignani di Guido Banti (4).
Le scoperte di Bizzozero riportate da Golgi sono numerose. Fra esse riporto l’evoluzione delle
cellule delle ghiandole gastriche ed intestinali, determinata per mezzo dell’osservazione
dell’attività mitotica nelle cripte stesse.
Golgi è un uomo eccezionale, e non finisce mai di sorprendere, almeno me.
Questa volta, la sorpresa è arrivata dalla struttura del nefrone. In una nota di quasi sei pagine
(pagg. 176-181), corredata da schemi, Golgi contesta le ancora grossolane interpretazioni
dell’autore viennese e di altri contemporanei. Golgi dichiara di aver saputo sviluppare una
tecnica particolarmente sofisticata per isolare singoli nefroni interi, nei quali sono ancora
conservati i corretti rapporti reciproci fra le diverse parti. Ha così dimostrato il fatto ancora
ignoto del rapporto intimo fra la parte finale della porzione spessa del tratto ascendente
dell’ansa di Henle ed il polo vascolare del glomerulo. Golgi ha dunque visto per primo quella
che oggi chiamiamo la “macula densa”. Non percepisce il rapporto della macula densa con
l’arteriola efferente. Tuttavia, l’anatomia del nefrone da lui presentata, con particolare
ricchezza di dettagli sulle caratteristiche degli epiteli di rivestimento dei vari tratti, è
sovrapponibile alle descrizioni a noi contemporanee. Lo schema del nefrone proposto da
Golgi è quello dei nostri giorni. Egli stesso afferma di aver capito come il nefrone si struttura
per mezzo dell’embriologia, facilitato in ciò dal fatto che nuovi nefroni si formano
continuamente anche poco tempo dopo la nascita (noi tutti abbiamo osservato il fenomeno nei
reni di neonati, o di feti). Da queste osservazioni Golgi ha potuto cogliere il precoce
instaurarsi dei rapporti fra la zona di quella che oggi chiamiamo macula densa e l’ilo
glomerulare. Attorno a questa sorta di perno si sviluppa anzi quella complessa rotazione da cui
deriverà il complesso assetto del nefrone e, in particolare, l’ansa di Henle. Alla fine, insomma,
Golgi riesce a spiegare con semplicità ed eleganza l’origine e la struttura del nefrone,
problemi sui quali ancora i morfologi si arrabattavano con spiegazioni inconcludenti.
Le considerazioni di Golgi sulla struttura del nefrone non possono fare a meno di riportarci a
Marcello Malpighi. In entrambi troviamo la ricerca di metodi semplici ed efficaci per risolvere
problemi apparentemente molto complessi. In entrambi troviamo soluzioni che non
invecchiano col trascorrere degli anni. Per di più, in un apparato che porta ancora il nome di
Malpighi.
In questa traduzione, insomma, si manifesta tutto Golgi: il paziente e scrupoloso ricercatore ed
il polemico assertore dei principi in cui crede. Troviamo anche numerosi interessanti rilievi su
studi condotti da ricercatori italiani. Su tutti, direi, campeggia però Giulio Bizzozero, l’uomo
che Golgi considera, sebbene più giovane, il proprio maestro. Poche persone conoscono
questo scienziato, morto troppo presto. Forse pochi sanno che ‘cellule di Bizzozero’ è ancora
oggi un sinonimo di piastrine. Penso proprio che dovremo dedicargli due righe su questa
rivista.
1. Bizzozero G.: Di un nuovo elemento del sangue e della sua importanza nella trombosi e
nella coagulazione. Vallardi, Milano 1883
2. Scarani P.: Appunti su Camillo Golgi, il patologo che trovò la chiave d’accesso al neurone.
Pathologica 89, 351-357, 1997
3. Scarani P., Neroni S., Giangaspero F., Fraternali Orcioni G., Eusebi V.: Carlo Martinotti:
l’autentico scopritore delle cellule del Martinotti. Pathologica 88, 506-510, 1996
4. Scarani P.: Patologia enigmatica, vita con qualche mistero: Guido Banti. Pathologica 90,
86-89, 1998
5. Schenk S. L.: Elementi di istologia normale dell’uomo ad uso di medici e studenti.
Traduzione a cura del dott. Achille Monti, assistente di Patologia generale in Pavia, con
note originali di Camillo Golgi, Professore di Patologia generale e di Istologia nella Regia
Università di Pavia, con 178 incisioni. Biblioteca medica contemporanea dell’antica casa
editrice del dott. Francesco Vallardi, Milano
Paolo Scarani
Fortuna e genialità nella ricerca: ripensando a Camillo Golgi 100
anni dopo la scoperta del suo apparato.
Pathologica 91, 478-481, 1999
Noi Italiani non amiamo i nostri connazionali famosi. Lo sapevo già, e me ne sono convinto
per le manifestazioni di sorpresa e scetticismo con cui molti colleghi hanno accolto il mio
interesse per Camillo Golgi. Eppure, le scoperte da lui fatte, non solo il suo apparato, ma
anche quelle sulla struttura dell’encefalo, sul ciclo dei plasmodi della malaria, sugli organi
muscolotendinei, sull’apparato iuxtaglomerulare del nefrone, sono sotto il naso di tutti.
Io non prenderò mai un premio Nobel. Oddio!, le vie della Provvidenza, per chi ci crede, sono
infinite .... ma non credo proprio che si tratti del caso mio .... neanche per la letteratura! Pur
invidiando Golgi dal più profondo dell’animo, provo però una viscerale simpatia per questo
personaggio scorbutico, forse villano, ma tanto determinato nel perseguimento dei propri
studi.
Sarà anche stato fortunato. Ma quando la fortuna si ripete tante volte, viene il dubbio che
anche Golgi abbia messo molto del proprio impegno per aiutarla. Altri non sono stati così
fortunati.
Io sono molto fortunato, ma molto pigro. E non ho mai scoperto niente. E, contrariamente a
Golgi, non ho nemmeno potuto interpretare in modo sbagliato una mia ricerca. Mi riferisco,
naturalmente, al suo rifiuto della dottrina del neurone 9-11.
Anche quando si tratta di celebrare in modo altisonante le benemerenze del nostro Paese ed i
nostri esponenti più illustri, in genere il settore delle scienze è pesantemente bistrattato, o col
più completo silenzio, o con scelte di personaggi di modesto valore a scapito di chi
meriterebbe veramente di essere citato.
Non fa eccezione l’opera monumentale ‘Il Parlamento italiano 1866-1992’, lavoro
estremamente ambizioso, arrestatosi temporaneamente a Tangentopoli, probabilmente per far
decantare gli eventi12. Il coordinatore, Giovanni Spadolini, finché visse, si proponeva un
gigantesco affresco della nostra vita nazionale, con intercalati alla politica lavori monografici
su grandi eventi della nostra vita nazionale e studi biografici degli uomini illustri. La scelta
degli scienziati lascia interdetti. Manca Enrico Fermi, si trovano poche righe su Guglielmo
Marconi (c’è invece la biografia di Pacinotti), di Camillo Golgi compare soltanto il nome
nell’elenco dei senatori nominati nel 1900. Niente viene detto del suo Nobel, mentre a
Carducci è riservata un’ampia biografia, così come a Pietro Albertoni, che noi a Bologna più
che altro ricordiamo per via Albertoni, e ad Angelo Mosso, quello dello sfigmomanometro.
Golgi non esiste: gli è preferito Angelo Celli, quello della legge sul chinino di stato, ispiratagli
da Golgi e Grassi. Sembra, anzi, leggendo quest’opera, che Celli abbia scoperto tutto lui sulla
malaria.
Speriamo che Pathologica cominci ad essere distribuita anche nelle edicole!
Gli stranieri hanno in genere una profonda stima per Golgi. Da varie parti se ne è parlato e se
ne parla con stima.
A me sembra però più di tutti degno di memoria Gordon Shepherd, professore di neuroscienze
della Yale University, il quale, in un trattato sulla dottrina del neurone, rivede l'intera
impalcatura storica e dottrinale di questa fondamentale teoria 11. In quest’opera, per allestire la
quale Shepherd ha letto in lingua originale tutti i maggiori studiosi che si occuparono di
neuroscienze: in Francese, Inglese, Tedesco, Italiano, Spagnolo, Norvegese, le citazioni delle
fonti golgiane sono tradotte con estrema fedeltà agli originali a me disponibili. A parte questo,
Golgi, insieme con Cajal, costituisce l’asse portante dell’opera.
Shepherd dimostra di conoscere bene tutta la produzione scientifica golgiana, non solo sul
sistema nervoso, e di giudicarla di grande pregio.
In un certo senso, Shepherd giustifica anche l’errore della rete nervosa diffusa, ritenendo che
alla base di ciò si trovi la volontà di Golgi di interpretare il sistema nervoso come una
gigantesca unità, specchio della complessità della nostra mente. Come lo storico milanese
Bruno Zanobio (comunicazione personale, 1986), Shepherd ritiene che le neuroscienze
contemporanee si stiano avvicinando più a Golgi che alla dottrina del neurone. Interpretando
infatti le cellule nervose come reti complesse funzionalmente interconnesse, sembra
riemergere la rete nervosa diffusa, seppure in modo certamente diverso dal concetto,
tipicamente strutturale, del Golgi.
Nonostante la splendida opera di Paolo Mazzarello 7, del 1996, l’attenzione di molti sembra
ancorata alle ‘isterie’ di Golgi in occasione della prolusione per il premio Nobel, nel 1906.
Non metto in dubbio che il Nostro dovesse avere un ‘caratteraccio’. Ciò traspare
dall’aggressività con cui egli critica gli errori dello Schenk nelle note alla traduzione 10 ed
anche, larvatamente, dalle memorie di Cajal 9. Nessuno ha mai messo questi apprezzamenti
per iscritto. Tuttavia, sembra essersi creata una specie di leggenda orale negativa, la quale
emerge sempre a screditare i dati oggettivi.
Vari personaggi della scienza e della medicina, posti senz’altro svariati metri più in basso di
Golgi, sono oggetto di lodi sperticate e, nonostante possano esserne più che degni, non
soggiacciono alla caccia al difetto ed al demerito cui quel poveretto è ancora sottoposto.
Si potrebbe pensare al tempo relativamente scarso trascorso dalla morte di Golgi (1926) ed
alle ferite forse ancora aperte dalla rivalità fra la scuola Golgiana e quella Leviana ....
A parte l’irrilevanza storica di quest’ultimo fatto, ritengo invece che il problema dei detrattori
di Camillo Golgi ci mostri un aspetto peculiare, non esclusivamente italiano, di questo secolo:
la mania per le indiscrezioni o, per trattare come merita la gente che lo fa, la coprologia
storica. L’uomo è senza dubbio un animale pettegolo: se non lo fosse, non ci si darebbe tanto
daffare per la privacy (per carità, la difesa della privacy si occupa anche di cose più serie, i cui
guasti, però, in fondo in fondo, probabilmente derivano sempre da questo spettegolare
gallinaceo). Lo spettegolare, chissà da quanto tempo, è un mezzo efficace per farsi apprezzare
ed accettare nella buona società, per lo meno nei circoli in cui essa estrinseca le proprie
manifestazioni più frivole.
Anche la letteratura pettegola è sempre esistita. Il nuovo di questo secolo consiste però nel
coinvolgimento degli storici in questo clima protervo. Con la scusa di capire meglio i
personaggi oggetto di studio, si va a frugare negli angoli più reconditi della psiche e delle
abitudini meno note delle persone. Hanno così inizio viaggi in mondi sovente improbabili, in
cui molte informazioni sono di terza o quarta mano, magari malevole. E allora quello che esce
è un lavoro arbitrario, tuttavia appetitoso, piccante, per la morbosità dei particolari che
fornisce. Tuttavia, i risultati sono catastrofici, in quanto al pubblico dei più il personaggio
oggetto dello studio non viene mostrato per i propri meriti, ma per le proprie eccentricità, o
peggio.
Celebrando Linus Pauling, l’uomo cui fra l’altro dobbiamo l’idea di rappresentare
tridimensionalmente le grandi molecole, Barbara Marinacci 6 sostiene che gli storici arruffoni
di oggi hanno presentato questo gigante del nostro secolo come un fanatico della vitamina C e
delle arance come elisir di lunga vita o come quello che andò ad una protesta contro l’atomica
davanti alla Casa Bianca in smoking, perché dopo la manifestazione era invitato a cena dal
Presidente.
Fino a questo punto, poco male. Più di Pauling, simile a Golgi, invece, secondo me, è
Guglielmo Marconi (1874-1937).
Inventore e premio Nobel nel 1909, Marconi ebbe forse la sfortuna di nascere a Bologna. Se
fosse nato negli Stati Uniti, nessuno avrebbe avuto da eccepire su di un giovanotto che,
leggendo gli articoli di Hertz, a tutti disponibili, ebbe, come altri, l’idea di creare la radio, e,
come lui diceva, una fede incrollabile nella possibilità di realizzarla 4. Il resto della storia è
ben noto. Con un costante lavoro sul campo, sviluppò attrezzature per comunicazioni radio
sempre più sofisticate, cautelandosi costantemente col brevettare quanto produceva,
evidentemente convinto anche dell’intrinseco valore economico delle sue invenzioni. Tutto
ciò, nonostante lo scetticismo ed il dissenso degli ambienti scientifici, e, soprattutto,
accademici italiani, specialmente di Bologna. Nella sua città, Marconi non poté mai riuscire a
laurearsi. Da giovane, mio padre visse l’atmosfera che circondava Marconi, specialmente a
Bologna, ed ebbe, come dirò, anche modo di conoscerlo personalmente.
In città, c’era una sorta di dicotomia. Nella popolazione si assisteva ad una autentica
venerazione per il grande scienziato. I ragazzi venivano invitati a prenderlo a modello, anche
se come studente poteva più risultare uno scapestrato di buona famiglia, che un ‘bravo
ragazzo’. Senz’altro, il fatto di aver conseguito senza laurea il premio Nobel faceva un certo
effetto alla gente normale. Ma più di tutti impressionava il fatto, un po’ come il laboratorio
della cucina di Abbiategrasso di Golgi 9, di aver proiettato il nostro mondo in una dimensione
nuova ed inaspettata, grazie alle comunicazioni ‘senza fili’, come si diceva allora con
stupore.... per di più salvando anche vite umane, come vollero testimoniare con gratitudine
allo stesso Marconi i non pochi superstiti del Titanic, grazie all’SOS.
Nel mondo accademico predominava invece il disprezzo per i metodi empirici ed eterodossi
utilizzati da Marconi. Più che di disprezzo, si dovrebbe addirittura parlare di odio, se si
contribuì addirittura a creare una specie di mito secondo il quale le invenzioni marconiane
fossero un volgare plagio di Augusto Righi. Un simile paragone denota una profonda
ignoranza. Righi era infatti un tipico fisico puro. Marconi era invece un uomo alla Edison 3,
sempre interessato a risolvere problemi eminentemente pratici, senza curarsi di arrivare a
formulazioni matematiche. Il suo lavoro somiglia molto a quello di Galileo, che sperimentò
continuamente sul campo. L’elaborazione teorica fu poi compito di Newton e di Einstein e
successori (astrofisici specialmente), rispettivamente.
L’accusa fatta a Marconi è veramente oscena, e merita di essere presa in considerazione,
perché ci permette di capire quanto siano insensate pure le accuse fatte a Golgi (anche in
questo caso c’è una sorta di leggenda orale, che tende a screditare come stupidi gli autori di
studi storici su Marconi). Si rimprovera sostanzialmente a Marconi di essersi servito dei lavori
di Righi per arrivare alle sue scoperte, come se, occupandosi di una certa ricerca, non si
potesse verificare in letteratura ciò che è già stato pubblicato da altri, ma si dovesse ogni volta
ripartire per conto proprio dalla scoperta del fuoco. È d’altra parte ben chiaro che Marconi
partì dagli esperimenti e dagli strumenti inventati da Heinrich Hertz fra il 1884 ed il 1893 4.
Sicuramente, Marconi, come Golgi, non procedeva con la rigorosità dello scienziato puro. A
prooposito di Golgi ho già detto delle frequenti accuse che gli furono rivolte per non aver
documentato con sufficiente cura sia la metodica della colorazione nera che svariate grandi
scoperte, come quella dello stesso apparato del Golgi 1-8-10. Rimane però il fatto che le sue
scoperte, rete nervosa diffusa a parte, rimangono dimostrate ancora ai nostri giorni.
Per la non rigorosità di Marconi, sono costretto a tornare a mio padre. Potrei anche fare
riferimento ad un bel film documentario su Marconi della RAI, in cui il problema era trattato.
Non riesco però a localizzare esattamente l’epoca in cui fu rappresentato. La testimonianza
che reco si basa quindi solo su quanto mi raccontò mio padre. Spero mi si voglia dar credito.
Mio padre era ragioniere, ma era anche un astronomo dilettante. Verso la metà degli anni venti
(si era da poco diplomato), lo aveva colpito il fatto che le comunicazioni radio erano possibili
anche al di là dell’orizzonte, nonostante le onde elettromagnetiche procedano in linea retta.
Chiese un appuntamento a Marconi e lo andò a visitare nella sua villa di Pontecchio. Marconi
era un uomo molto gentile, specialmente con le persone giovani e curiose, ben diverso da quel
monumento di genialità con cui tradizionalmente lo presentava il regime fascista. Egli rispose
di non sapere che cosa rispondergli. Prima che attuasse con successo i collegamenti radio con
l’America e l’Australia, la gente gli rideva in faccia quando li prospettava, proprio per il fatto
che le onde si propagano in linea retta. Marconi sostenne però di non aver minimamente
badato allo scherno degli scettici, perché sapeva di avere ragione. La sua convinzione era
maturata per puro caso nel porto di La Spezia. Stava provando una nuova radio, installata su
alcune navi da guerra, quando improvvisamente si accorse di ricevere ancora le trasmissioni di
una nave situata già oltre la linea dell’orizzonte. La fece allora ulteriormente allontanare, la
richiamò, ed ottenne nuovamente risposta. Chiaro, no? Le onde seguivano la curvatura della
superficie terrestre. A Marconi interessavano però i risultati, non la spiegazione, che arrivò
molto più tardi, con la nascita della ricerca spaziale, quando James Van Allen (1959)
identificò le cinture circumterrestri di particelle ionizzate che portano il suo nome 4. Tali fasce
riflettono le onde verso la terra, permettendoci di superare così la curvatura terrestre con le
nostre trasmissioni radio. Fu appunto allora che mio padre, contento della tanto sospirata
spiegazione, mi raccontò di Marconi.
È insomma evidente che Golgi e Marconi hanno fatto grandi scoperte molte volte per puro
caso. Non mi sembra si possa dire che siano stati esclusivamente fortunati. La fortuna è una
realtà imponderabile, la quale però non guasta. In guerra, i generali veramente geniali la
benedicono. Non si tratta tuttavia di un dono a disposizione di ogni imbecille. Bisogna saperne
trarre vantaggio. Marconi e Golgi lo seppero fare sicuramente. Bisogna però anche dire che
lavorarono tanto, e, secondo me, dannatamente bene.
Talvolta anche scienziati di grande valore possono sbagliare, e non rendersi conto di
un’eccezionale fortuna capitata sotto il loro naso. Enrico Fermi, Nobel nel 1938 per le ricerche
sui neutroni, avrebbe potuto scoprire anche la fissione nucleare, se non fosse stato accecato
dallo scetticismo. Bombardando l’uranio con neutroni, si accorse che non si formavano
elementi compresi fra il piombo e l’uranio. La spiegazione (fissione del nucleo dell’uranio)
era semplice ed alla portata di Fermi; eppure egli la rifiutò, ed il Nobel per la scoperta della
fissione andò ad Otto Hahn 8.
L’emissione di grandi quantità di radiazioni da parte del processo di fissione in atto, costrinse
Fermi ed i suoi collaboratori a schermare l’area in cui l’uranio era bombardato dai neutroni. In
tal modo essi si preclusero completamente la possibilità di rilevare la fissione stessa.
In anatomia patologica, la conduzione incorretta di un esperimento sulle proprietà contrattili
del tessuto di connettivo, da parte di un collaboratore grossolano, consentì a Guido Majno di
scoprire i miofibroblasti 5. La corretta conduzione dell’esperimento in condizioni di sterilità
era infatti improduttiva. La grossolanità e la sporcizia del collaboratore grossolano inducevano
invece una violenta reazione infiammatoria con tessuto di granulazione, associata alla oggi
ben nota attivazione dei fibrociti in miofibroblasti.
I miofibroblasti di Majno ripropongono il tema della fortuna nelle scoperte scientifiche. La
fortuna certamente esiste. Probabilmente, però, a parità di mezzi, molte altre persone, oltre
agli scopritori, osservano lo stesso fenomeno. Tuttavia, non tutti reagiscono allo stesso modo.
Nel caso di Majno, probabilmente molti avrebbero mandato al diavolo il collaboratore
pasticcione, chiudendo la sperimentazione. Majno cercò invece di spiegarsi la stranezza ed
arrivò alla scoperta.
Anche Golgi avrebbe potuto considerare la scoperta del suo apparato come un errore tecnico.
Invece vi si applicò per più di un anno, ed alla fine la comunicò 1. Fra le conferme, ricevette
un mare di accuse di essere un visionario. Procedendo con la patologia sperimentale, arrivò
invece alla constatazione delle migrazioni dell’apparato nelle cellule secernenti dello stomaco
e del duodeno, una volta avviata l’attività secretoria 2.
Camillo Golgi morì nel 1926, molto tempo prima che la microscopia elettronica del
dopoguerra dimostrasse definitivamente il suo apparato. Ancora oggi, però, i suoi detrattori
non si sentono ancora soddisfatti neppure di questo.
Il risentimento dei mediocri è veramente micidiale. Forse proprio qui si trova la spiegazione
della comparsa di persone tanto geniali nel nostro paese: il mare della mediocrità è talmente
profondo, che possono emergerne soltanto persone straordinarie.
1. Dröscher A: From the “apparato reticolare interno” to “the Golgi”; 100 years of Golgi
apparatus research. Virchows Arch. 1999, 434: 104-107
2. Golgi C.: Di una minuta particolarità di struttura dell’epitelio della mucosa gastrica ed
intestinale di alcuni vertebrati. Pathologica 1909, 1: 229-233
3. Israel P.: Edison. A life of invention. Wiley, New York 1998
4. Krige J. e Pestre D.: Science in the twentieth century. Harwood, Amsterdam 1997, pagg.
254-255 e 405
5. Majno G.: The story of the myofibroblasts. Am. J. Surg. Pathol. 1979, 6, 535-542
6. Marinacci B.: Linus Pauling in his own words. Simon & Schuster, New York 1995
7. Mazzarello P.: La struttura nascosta. La vita di Camillo Golgi. Cisalpino, Bologna 1996
8. Pontecorvo B.: Enrico Fermi. Studio Tesi, Pordenone 1993, pagg. 69-89
9. Scarani P.: Appunti su Camillo Golgi, il patologo che trovò la chiave d’accesso al neurone.
Pathologica 89, 351-357, 1997
10.Scarani P.: Sulle orme di Malpighi - Camillo Golgi e la traduzione dell’Istologia di
Schenk. Pathologica, in stampa.
11.Shepherd G. M.: Foundations of the neuron doctrine. Oxford University Press, New York
1991.
12.Spadolini G. et Al.: Il Parlamento italiano 1861-1992. Nuova CEI, Milano 1990-1993, voll.
6-13)
Paolo Scarani
Robert Koch (1843-1910): una vita in trincea (contro i microbi,
contro Virchow, e contro tanti altri) … ed un inaspettato “parallelo”
con Golgi.
Pathologica 94, 44-57, 2002.
L’antefatto: una rubrica di Nature [8]
Nel numero di Nature del 26 luglio (sto scrivendo nel 2001) è riportato uno scritto di Robert Koch, pubblicato un
secolo prima dalla stessa rivista.
Si tratta di un editoriale appassionato, in cui l’autore cerca di mobilitare gli scienziati sul fatto che la tubercolosi
non è una semplice malattia sociale, legata alla povertà ed alle cattive condizioni igieniche. Si tratta invece di una
malattia dovuta ad un agente eziologico ben definito, anzi, ad un nemico subdolo e diabolico, contro il quale
bisogna mobilitarsi per ottenerne una completa eradicazione. Lo scritto di Koch ricorda straordinariamente
quanto Jenner proclamò circa cent’anni prima a proposito del vaiolo. Sarebbe interessante sapere se Koch avesse
intenzione di imitare quel precedente. Anche Jenner, infatti, aveva in mente l’eradicazione del vaiolo. Fu in un
certo senso miglior profeta di Koch, in quanto previde, per mezzo della vaccinazione applicata su larga scala, la
scomparsa del vaiolo entro due secoli. E così fu. Certo, il virus del vaiolo non è astuto come il micobatterio: è
troppo virulento. In tal modo, la sua circoscrizione è stata più semplice. Non bisogna comunque illudersi troppo:
il virus del vaiolo delle scimmie e dei cammelli è in agguato…. E se qualche paleopatologo in cerca di gloria,
scavando antichi sepolcri in un remoto permafrost, trovasse, in una salma insospettabile, qualche virus del vaiolo
umano congelato?....
Che pensare, poi, dei laboratori segreti per la guerra biologica [10]?
Ai tempi dello scritto di Koch su Nature, sia il vaiolo che la tubercolosi si presentavano ancora come ombre
minacciose. La vaccinazione contro il vaiolo era tuttavia una pratica già diffusa. Contro i micobatteri, invece, nel
1901, non si faceva quasi nulla.
Ma torniamo a Koch. Thomas Brock, la mia maggior fonte di ispirazione, sostiene che la vita di quest’uomo,
nonostante i suoi meriti eccezionali, sia conosciuta molto male, soprattutto perché le sue biografie sono già
datate, ed esclusivamente in lingua tedesca [1].
La ‘rilettura’ di Nature mi ha spronato a sfiorare questo tema. Come si vedrà, ritorneranno anche svariati motivi,
già trattati in precedenti articoli di Pathologica.
Infanzia felice
Heinrich Herrmann Robert Koch (i primi due nomi non li userà mai) nasce l’11 dicembre 1843 a Clausthal
(Bassa Sassonia). Si tratta di un paesino minerario tra i monti dell’Harz. Qui una volta erano ambientate cose
infernali, come i sabba della notte fra il 30 aprile ed il primo di maggio (notte di Valpurga). I Koch non erano qui
per motivi stregoneschi, ma per le miniere. Il padre era infatti un amministratore minerario particolarmente
dotato, tanto da divenire direttore d’una miniera. Ben fece, perché il danaro gli occorreva, avendo reso gravida la
moglie ben 13 volte. 11 figli arrivarono all’età adulta. Robert era il terzo. Due migrarono negli Stati Uniti. Ho già
parlato di quanto fosse dura la vita in Germania dopo le guerre napoleoniche [13-14]. Fu questo il periodo della
“germanizzazione” degli Stati Uniti.
Come tante mamme con molti figli, la signora Koch aveva il figlio prediletto: Robert [1]. Era bello, prestante,
estremamente intelligente. Poi, lo si vede da alcune foto di famiglia, egli aveva nei riguardi della madre quelle
finezze affettive, che contribuiscono a creare un particolare rapporto madre-figlio. Un rapporto tenero, ma
pericoloso, che forse può spiegare la vita sentimentale tempestosa di Robert.
Una volta tanto, ho qualcosa in comune con uno dei personaggi di cui parlo (purtroppo, soltanto una cosa). Come
io ebbi zio Gigi, Robert ebbe zio Eduard (fratello della madre) ad ispirargli un profondo amore ed interesse per la
natura e la fotografia [1]. Io, ho dato il meglio di me con le foto aeree della Scozia, della Groenlandia e di
Chicago (che conosce soltanto il direttore di questa rivista). Robert, invece, ha inventato la microfotografia.
Ricordatevene, quindi: le vostre foto al microscopio sono dovute agli sforzi memorabili attuati a proprie spese, in
casa propria, fra un paziente e l’altro, da parte di un medico di campagna. Tale era Robert Koch quando acquisì
fama internazionale col bacillo del carbonchio.
Un medico di periferia
Robert è uno studente brillante. Al ginnasio non può tuttavia soffrire gli studi classici. Gli piacciono invece la
matematica e le lingue moderne, specialmente l’Inglese [1], che, fra l’altro, gli sarà di grande aiuto per gli studi
sul colera in Egitto ed a Calcutta.
Arrivato alla scelta per la professione (deve iscriversi a Goettingen), opta inizialmente per le scienze naturali
(quindi per una carriera d’insegnante). Rapidamente, tuttavia, è “stregato” dalla medicina. Rimarrà tuttavia
sempre legato alla natura.
Goettingen è un paradiso, per uno studente brillante: ci sono Friedrich Woehler, lo scopritore dell’urea, il grande
matematico Friedrich Gauss, e, soprattutto, Jakob Henle. Quest’ultimo è l’iniziatore di Robert alla teoria
dell’esistenza di germi patogeni.
Sotto la guida dell’anatomopatologo Wilhelm Krause, Robert dà primariamente prova di sé, svolgendo
un’accurata ricerca sulla presenza di cellule gangliari lungo i nervi dell’utero. Il lavoro ha tale successo, che gli è
assegnato un premio, utilizzato per seguire le conferenze di Virchow, al 49° congresso della Società dei
naturalisti e medici tedeschi [1]. Poco dopo (1865) dà prova della propria dedizione alla ricerca svolgendo su se
stesso una ricerca sulla produzione dell’acido succinico nell’uomo: sarà la sua tesi di laurea (gennaio 1866).
Tutto ciò sembrerebbe l’inizio di una brillante carriera accademica. No. Robert si sposa nel 1867, ed inizia una
grigia e dura carriera, con notevoli problemi economici (la figlia Gertrud -Trudi - nasce nel 1868). È costretto a
cambiare ripetutamente sede: Amburgo; Langenhagen, presso Hannover; Niemegk, presso Berlino; Rakwitz,
presso l’attuale Poznan [1]. È un medico capace e laborioso. La giovinezza gli impedisce tuttavia di “sfondare”,
in un mondo già saldamente in mano ad altri. Robert non è tuttavia tipo da lasciare appassire i propri interessi tra
le difficoltà, e continua a coltivare la passione per le scienze naturali, riempiendosi la casa di animali d’ogni
possibile specie. A Rakwitz ha un notevole successo coi pazienti, che gli forniscono attestati di stima ed affetto
[1]. Egli stesso, però, butta l’occasione alle ortiche. È scoppiata la guerra francoprussiana (1870), e Robert,
esentato per la miopia, va volontario come medico, lavorando negli ospedali militari di Neufchateau e Orleans.
Questi duri anni sono comunque profondamente formativi per Robert, perché lo mettono a contatto con malattie
di cui si dovrà occupare: colera, tifo, ferite infette.
Il notevole talento e la coscienziosità di Robert danno i loro frutti nel 1872. Egli aveva sostenuto gli esami di
medico di distretto (un posto sicuro, con incarichi di sanità pubblica e possibilità di esercitare
contemporaneamente la libera professione), ma senza ricevere assegnazioni. Un nobile, particolarmente
soddisfatto delle prestazioni professionali di Robert, lo fa assegnare come medico di distretto alla cittadina di
Wollstein, oggi Wolstzyn, a mezza strada tra Poznan e la vecchia Breslavia (Wroclaw) [1].
A Wollstein trascorrerà anni felici, con solido successo professionale, attestato dal fatto che la strada in cui abitò
si chiama tuttora via Robert Koch. La gente è contenta di questo medico brillante e dedicato appassionatamente
al lavoro.
In questa cittadina, Robert continua a dedicarsi con sempre maggiore intensità alle scienze naturali, puntando su
obiettivi destinati a proiettarlo in un mondo che nemmeno lui immagina.
Carbonchio: la sesta piaga d’Egitto
presero dunque fuliggine di fornace e si posero alla presenza del faraone. Mosè la gettò in aria, ed essa
produsse ulcere pustolose con eruzioni su uomini e bestie. Esodo 9, 10
Il carbonchio è il rubino, ed anche il granato rosso. Deriva dal latino carbunculus, piccolo carbone. Si chiama
anche antrace, etimo latino d’origine greca, il quale pure significa carbone. Questa parola esiste ancora in alcuni
dialetti del meridione (antraci, ndrascia, ndracie – spero che nessuno si offenda per la mala scrittura). Chi è
vissuto ai tempi del riscaldamento a carbone, ricorderà l’antracite, il carbone più pregiato e costoso.
Il bacillo del carbonchio oggi è più noto come anthrax, il nome da incubo oramai intimamente legato all’uso di
quest’agente nella guerra biologica, ed ai guai connessi.
Le spore penetrano nel corpo della vittima attraverso ferite, per inalazione, o dal tubo digerente [2]. L’eventuale
lesione cutanea d’esordio può avere il colore del rubino. L’evoluzione è tuttavia rapida verso la necrosi: si passa
allora al colore dell’antracite. Poi si sviluppa la setticemia e la morte.
La morte della vittima è un requisito fondamentale per la propagazione della malattia. Tuttavia, la morte non
basta, perché, se i bacilli rimangono intrappolati nel cadavere, sono facilmente distrutti dai germi della
putrefazione. Se invece sono emessi all’esterno tramite i liquidi che essudano dalle pustole o che fuoriescono dal
naso o dalla bocca durante l’agonia, si trasformano in spore resistentissime. Lo stesso succede se l’animale è
rapidamente seppellito senza trattamento sporicida, o se la pelle è asportata senza precauzioni ed essiccata
nell’ambiente.
Quando le spore si sono formate, possono persistere per decine d’anni nell’ambiente. Le ripetute epidemie
dell’Europa centrale e della Russia sembrano essersi spesso manifestate dopo il dissodamento di terreni in cui
erano stati seppelliti animali morti di carbonchio vari anni prima [2].
Specialmente trattando pelli (per esempio, quelle molto rinomate degli agnellini d’Astracan), o lana di pecore
malate, le spore possono essere inalate. Si ha allora la forma più severa di carbonchio: quello polmonare, che
trapassa fulmineamente nella sepsi. È questa la forma di carbonchio che si prefiggono i fautori della guerra
biologica. I primi a mettere in pratica quest’idea furono i Giapponesi, che le sperimentarono su prigionieri di
guerra e le impiegarono contro i Cinesi [9]. In tempi più recenti, sono stati imitati dai Sudafricani (prima di
Mandela) [10].
Le armi biologiche sono esecrabili ed imprevedibili. La dimostrazione di ciò è fornita dal terrificante episodio di
Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg, il nome di questa città prima che il bolscevico Sverdlov vi comandasse
l’esecuzione dello Zar e della sua famiglia), del 1979 [2]. A causa della guerra fredda, e della necessità di
‘proteggere’ il prestigio delle forze armate sovietiche anche dopo la caduta di quel regime (ma anche i laboratori
segreti [10]), fino a tempi molto recenti l’emissione accidentale nell’atmosfera di una quantità, per fortuna
modesta, di spore d’un ceppo molto virulento del bacillus anthracis, è stata tenuta malamente nascosta.
Il brillante lavoro di Jeanne Guillemin [2], la quale già si distinse per aver dimostrato l’inconsistenza delle accuse
americane a proposito dell’uso di micotossine nel Laos (yellow rain), coadiuvata da un gruppo di altri studiosi
americani e siberiani, ha dimostrato inequivocabilmente il percorso delle spore da un laboratorio segreto ai
luoghi in cui si trovavano le quasi 100 vittime umane ed anche i numerosi animali contagiati. Si tratta di un
magnifico esempio di lavoro multidisciplinare “alla Koch”. Fu infatti eseguita una serie di rilevazioni
anatomopatologiche, microbiologiche e cliniche, verificate poi con controlli crociati sui ricordi dei superstiti e
dei familiari, i quali permisero di stabilire con precisione dove si trovassero le vittime nei giorni precedenti
l’esordio della malattia. Cruciale fu comunque il fatto di stabilire che, proprio nel giorno supposto come quello
del contagio, il vento spirava dal laboratorio alle zone in cui si trovavano le vittime, caratteristicamente disposte
in quartieri e villaggi tutti su di una linea retta
Mi è sembrato opportuno riportare questo studio per due motivi. Innanzitutto esso dimostra un assunto di Robert
Koch. Egli sosteneva di non aver mai fatto gran ché per scoprire quel che scoprì, ma di essersi semplicemente
limitato a “guardarsi attorno attentamente”: i tesori della verità sono lì che aspettano.
L’altro motivo riguarda la ferocia del bacillo del carbonchio. Oggi conosciamo molto della sua potentissima
esotossina, con frazioni multiple dotate d’azioni molto sofisticate. Conosciamo invece poco della sua abilità nel
servirsi dei macrofagi come mezzo di trasporto. L’orrore delle storie cliniche recuperate dalla Guillemin
evidenzia le sofferenze inaudite cui sono sottoposte le vittime. Fu proprio questo che indusse Robert a dare la
caccia ai bacilli del carbonchio.
Nell’ottocento il carbonchio produceva danni gravissimi agli allevamenti tedeschi, ed anche all’industria tessile
ed alimentare. In proporzione, la trasmissione all’uomo era un problema minore. Koch inizia tuttavia ad
occuparsene a causa degli effetti devastanti sull’uomo. I Russi hanno sempre considerato il carbonchio come una
delle tante note caratteristiche della loro terra. È fra l’altro loro merito l’aver descritto la forma intestinale, dovuta
all’ingestione di carne contaminata, spesso come conseguenza dell’immissione sul mercato di resti animali
destinati alla distruzione.
Il lavoro di Robert sui bacilli del carbonchio non è il primo sui germi patogeni. Il suo maestro Jacob Henle parla
di ‘agenti del contagio’. Anche Pasteur e Lister sono già al lavoro sull’antisepsi. Edwin Klebs ha già elaborato i
famosi ‘postulati di Koch’ (dimostrazione e isolamento del germe, e successiva riproduzione della malattia in
animali sani). Casimir Joseph Davaine, sotto l’influenza degli studi di Pasteur sulla fermentazione (1857) ha
trasmesso il carbonchio per mezzo di sangue infetto, nel quale sono ben visibili i probabili agenti, conformati a
bastoncino (bacilli) [1].
Nel complesso, allo studio dei microrganismi patogeni, manca la precisione di Robert Koch. Nella fattispecie (il
carbonchio), esiste un grossissimo problema. Il carbonchio non è in genere una malattia da contagio diretto fra
vittima e vittima, ma qualcosa di ambientale, che dà purtroppo credito agli ambientalisti, futuri grandi nemici di
Robert: Rudolf Virchow e Max von Pettenkofer. Servendosi delle proprie funzioni d’ufficiale sanitario, Robert
riesce ad entrare in possesso delle carcasse degli animali morti di carbonchio, perché ha oramai percepito che da
quelle partono le epidemie, non dal terreno in sé. In tal modo documenta la formazione delle endospore nei
bacilli, e la straordinaria resistenza agli agenti ambientali da esse posseduta. Koch giunge a questa prima scoperta
a Wollstein, ‘fra un paziente e l’altro’. Pur nel fervore della ricerca, Robert lavora in condizioni veramente
difficili. Gli strumenti disponibili sono modesti. Soprattutto, è però il lavorare nei ritagli di tempo, a rendere tesa
anche la sua vita familiare. In quest’epoca si percepisce già un certo grado di tensione nei rapporti con la moglie.
La tensione, ovviamente, cresce con l’evidenziazione delle endospore. Adesso, infatti, Koch deve coltivare i
bacilli in un terreno appropriato, per averne in quantità sufficiente, e, soprattutto, deve riprodurre la malattia negli
animali da esperimento con l’uso delle spore.
Il miracolo avviene per Natale. Un coniglio del suo stabulario casalingo, inoculato l’antivigilia, muore il 24
dicembre. Il giorno di Natale (1875), Robert gli fa l’autopsia, e lo trova pieno di bacilli [1]. Non s’accontenta, e
continua ad inoculare i suoi poveri conigli, alla ricerca di una via particolarmente efficace. Passa così anche
Capodanno, ma alla fine si accorge di una cosa fantastica: scarificando la cornea, non ottiene soltanto una
spettacolare setticemia carbonchiosa, ma anche ottime colture di bacilli nell’umor acqueo. Due piccioni con una
fava.
E allora, via con la caccia a grandi quantità d’umor acqueo nelle macellerie. Rapidamente Robert capisce anche
l’importanza della temperatura (30-35 gradi), e della presenza d’ossigeno, per avere buone crescite [1]. Alla fine,
non solo ha le crescite dei bacilli nelle colture, ma anche la formazione delle spore!
Quello che impressiona in Koch è la straordinaria capacità d’intuire ciò che sta accadendo sotto i suoi occhi,
utilizzandolo poi al meglio in tempi incredibilmente rapidi.
Robert ha davanti a sé il ciclo vitale del bacillo del carbonchio, ed anche, di conseguenza, la spiegazione
dell’apparente origine ambientale di questa malattia. È passato appena un anno dall’inizio dei suoi studi (da
dilettante, in casa, si noti bene). Intanto, tutta l’Europa scientifica brancola nel buio. “Ciclo vitale” è proprio il
termine con cui egli presenta il bacillo del carbonchio come causa di tale malattia [1]. Forse è proprio il suo
atteggiamento da morfologo “alla Goethe”, a favorirlo [15]: Koch è medico e naturalista nello stesso tempo.
Come tale, non lavora a compartimenti stagni.
Verso la fama: Ferdinand Cohn
Pensate se al posto di Bismarck ci fosse stato Hitler, nel 1876: niente Ebrei, niente Cohn all’università di
Breslavia (oggi città polacca). Virchow e Pettenkofer avrebbero mandato Koch al manicomio, impedendo così lo
sviluppo ulteriore della storia che sto raccontando, e, soprattutto, lo sviluppo dell’infettivologia e della
microbiologia.
Ferdinand Cohn (1828-1898) è un grande botanico, un’autorità nello studio dei microrganismi, e si trova a due
passi da Wollstein. Robert gli scrive per dimostrargli le proprie scoperte, perché oramai intuisce di aver fatto
qualcosa d’importante: degno, quindi, d’essere pubblicato.
Cohn è molto intelligente, e rimane colpito dalla garbata lettera di Koch sul ciclo vitale del bacillo del
carbonchio. Evidentemente capisce che non si tratta di un esaltato in cerca di gloria, e lo invita a Breslavia. È un
trionfo, di cui dà atto anche l’anatomopatologo, Julius Cohnheim (1839-1884), il famoso discepolo eretico di
Virchow [1].
Questi uomini non hanno il minimo dubbio di trovarsi di fronte ad un lavoro straordinario, per di più compiuto
con mezzi modestissimi. Cohnheim, prevede addirittura altre sorprese, da parte di Robert: un buon profeta!
Il lavoro sul bacillo del carbonchio è pubblicato sulla rivista di Cohn [4]
Invenzione della microscopia moderna
Robert Koch è un ricercatore a tutto campo. Per di più, parte dalla medicina, dall’uomo che soffre. Possiede
quindi potenti motivazioni morali a compiere i suoi studi.
Uno degli aspetti più caratteristici della sua attività è però certamente quello del morfologo. Come ho già
accennato, Robert è un tipico erede di Goethe [15]. Il suo modo di porsi nei confronti della realtà è proprio quello
di Goethe scienziato. Più mi guardo attorno nel mondo tedesco del diciannovesimo secolo, meno capisco
l’indifferenza con cui si continua a considerare Goethe in questo settore.
Koch vuole vedere nitidamente i microrganismi: in coltura e con gli occhi. Inventa così il metodo rivoluzionario
della coltura su piastra, anziché in brodo, prima con la gelatina, poi, venuto a conoscenza di questa scoperta, con
l’agar. Petri, un suo allievo, inventerà in un secondo tempo le comode capsule omonime.
Sulle piastre si possono vedere e contare le colonie.
Ma non basta: bisogna vederli, i microrganismi. E Robert dà l’assalto al microscopio.
Seibert e Krafft, di Wetzlar [1], producono già buoni microscopi, ma troppo scadenti per le esigenze del
ricercatore privato Robert Koch. L’esperienza della pubblicazione sul bacillo del carbonchio gli insegna poi che i
disegni non sono l’ideale per i preparati al microscopio, e Robert sa dove andare a parare: nella microfotografia. I
suoi fornitori di microscopi, oltre ad essere lenti nell’evasione degli ordini, forniscono un apparecchio fotografico
verticale che non gli va bene, per la difficoltà con cui si effettua la messa a fuoco … e la facilità con cui la si
perde. Le esposizioni sono infatti lunghissime. Il fotografo dell’ottocento deve preparare egli stesso le lastre
all’istante. Con proteste ed obiezioni reiterate, Robert ottiene una macchina orizzontale [1]. I primi risultati
ottenuti sbalordiscono i maggiori esperti dell’epoca. Questi successi iniziali fan seguito al lavoro sul carbonchio,
e sono tutti legati alla sua idea di essiccare il materiale contenente i batteri. Robert ha infatti notato che i batteri
non sono modificati apprezzabilmente da questa procedura, la quale consente di raccoglierli in uno strato sottile
[1]. Ma è solo l’inizio. I bacilli del carbonchio sono grossi, ed il violento contrasto fornito dall’assenza del
condensatore, gli consente di evidenziare i microrganismi senza colorazioni specifiche. Nonostante stia movendo
i primi passi su questo terreno, Koch produce un nuovo splendido lavoro, che molti considerano una pietra
miliare in microscopia [5].
A Breslavia, Robert affascina tutti gli anatomopatologi della scuola di Cohnheim, ma in particolare Carl Weigert,
ed anche il cugino di questi, Paul Ehrlich, ancora studente. Essi lo iniziano ai coloranti d’anilina [1]. Proprio le
prove di Robert sul colorante più idoneo per le microfotografie dei batteri costituiscono il pezzo forte della
pubblicazione del 1877, le cui illustrazioni lasciano ancora ammirati gli esperti di oggi.
Lo sviluppo di colorazioni più efficaci, rende Koch sempre più esigente nei riguardi delle prestazioni del
microscopio. Le otterrà valorizzando le scoperte di Ernst Abbe (1840-1905), l’uomo che dovremmo giustamente
chiamare ‘il microscopio’. Fisico e matematico d’estrazione, egli crea la teoria del microscopio, rendendone in tal
modo possibile la fabbricazione standardizzata (è il vero padre della Zeiss), e, fra l’altro, inventa il condensatore
e l’olio per l’obiettivo ad immersione [1]. Purtroppo, mancano le persone interessate. Fortunatamente, Robert se
ne accorge nel 1878, e lo visita a Jena: un momento fondamentale per la storia della morfologia.
Con l’obiettivo ad immersione, Koch può fotografare anche i batteri più piccoli del bacillo del carbonchio. Si
accorge poi che il condensatore, oltre ad intensificare l’illuminazione, gli consente una verifica crociata dei
microrganismi che osserva. Senza condensatore, grazie ai violenti contrasti che si producono, può osservare i
microrganismi essiccati e non colorati. Col condensatore, il contrasto fra microrganismo e sfondo è affidato
esclusivamente ai coloranti.
Assistiamo insomma ad un felice matrimonio fra le tecniche d’allestimento dei preparati ideate da Koch e la
genialità matematica di Abbe.
Questa è la vera rivoluzione della microscopia. Malpighi aveva mostrato mondi nuovi, col microscopio. Galileo,
mostrò mondi nuovi e diversi dalle aspettative comuni, col telescopio. Il secondo scatenò un autentico uragano. Il
primo, no. Ci volle Robert Koch, per scatenarlo. Perché? Semplice: col microscopio, Robert punta il cannone
contro un mondo d’assassini, causa di un’elevatissima mortalità, soprattutto infantile e giovanile.
Il problema delle ferite infette
Koch è soddisfatto e frustrato nello stesso tempo, a causa della celebrità improvvisamente raggiunta. Di colpo si
trova ad essere un ricercatore di fama internazionale. Deve subito lottare contro incomprensioni di basso livello,
quantunque irrilevanti per la qualità del suo lavoro. Non sorprende la superficialità del chirurgo Billroth, il quale,
ricevuto il lavoro sul carbonchio da Cohn, sostenne che un suo allievo aveva fatto la stessa cosa. Si trattava di un
lavoro improponibile, in realtà [1].
Se Billroth può non fare testo, Virchow lo fa! E lo farà fino alla tomba, per il povero Koch!
Memore della cortese visita che una volta il “professore dei professori” gli aveva fatto, per una campagna di
scavi archeologici attorno a Wollstein (l’archeologia è una passione comune ai due studiosi), Robert si reca a
fargli visita a Berlino.
Koch ha avuto la grande fortuna di conoscere due galantuomini (Cohn e Cohnheim). Poi, ha conosciuto i
chirurghi (Billroth). Adesso, impara a conoscere i mostri sacri.
In occasione degli scavi archeologici, Robert era un povero medico di campagna. Adesso è ancora un medico di
campagna, ma si è dimostrato più dotato dei titolati ricercatori delle università germaniche. Per di più, coi suoi
germi, sconvolge il dogma virchowiano della patologia cellulare.
La freddezza e l’ostentato disinteresse di Virchow feriscono profondamente Robert. Fra l’altro, egli lo ammira fin
dalla giovinezza, tanto da esserne considerato anche, impropriamente, un allievo.
Per il momento, tuttavia, dominano gli aspetti positivi delle grandi conquiste di Koch. In Gran Bretagna i
riscontri favorevoli sono enormi. Lo stesso si può dire in Francia, nonostante la nascente e persistente
incomprensione fra Pasteur e Koch, legata anche alla recente invasione tedesca.
È proprio questa celebrità che spinge Robert a “cercar casa”. Wollstein è un luogo meraviglioso, in cui egli si
trova a vivere un rapporto veramente idilliaco coi pazienti. Tuttavia, come scrive a Cohn [1], la lontananza dalle
riviste scientifiche e dai colleghi interessati alle ricerche di cui si occupa, cominciano a pesargli. Cohn ci prova
subito, e fa chiamare Robert a Breslavia, come professore straordinario d’igiene (1879). Purtroppo, si tratta di
un’istituzione soltanto sulla carta. Inoltre, non c’è possibilità di lavoro come medico distrettuale.
Per questo, Robert torna a Wollstein, dove è accolto trionfalmente.
Questi problemi sono marginali all’attività scientifica di Robert, che nel 1878 rende pubbliche le sue scoperte
sulle ferite infette.
Le infezioni delle ferite, e la conseguente, praticamente costante, setticemia, erano l’incubo dei medici militari, e
non solo. Anche una ferita chirurgica presentava sempre questa minaccia, nonostante la profilassi antisettica di
Joseph Lister, uno dei primi ammiratori di Koch nel Regno Unito.
L’eziologia batterica di queste infezioni e setticemie è già accettata; tuttavia, la scarsa qualità dei metodi di studio
dei microrganismi prima di Koch, fa sì che persista una grande confusione. Ci si trova in una specie di notte, in
cui tutte le vacche sembrano nere e i gatti grigi. Il gatto grigio, in questo caso, è il fantomatico Microsporum
septicum, il quale, secondo Klebs, sarebbe la causa di tutte le sepsi [1].
A Wollstein, Robert si rende conto che ogni sepsi si presenta come una storia a sé, dovuta ogni volta ad un
diverso microrganismo. Bisogna individuarli con accurati studi morfologici.
A questa premessa segue una scoperta fondamentale, oggi ovvia: nel sangue di un individuo sano non ci sono
batteri. Se ci sono, sono loro, gli assassini.
È questa l’occasione in cui Robert sfrutta a fondo le scoperte di Abbe (olio per l’immersione e condensatore) ed i
coloranti all’anilina di Weigert. I batteri in azione nelle sepsi sono infatti troppo piccoli. Fra l’altro, per
fotografarli, Koch e Abbe sviluppano un filtro che lasci passare la zona blu dello spettro. Le emulsioni
fotografiche dell’epoca hanno infatti la massima sensibilità in questa regione [1]. L’isolamento di questi
microrganismi è molto difficile, in quanto Robert non è ancora dotato delle sofisticate attrezzature necessarie a
sviluppare le colture su piastra. Attua così inoculi successivi in animali di laboratorio. I sintomi ricompaiono
costantemente, e le caratteristiche morfologiche dei microrganismi si mantengono costanti nel tempo (per ciascun
caso, naturalmente, poiché si tratta, volta per volta, d’agenti diversi). Una cosa cambia, tuttavia: nei successivi
inoculi, il decorso della malattia si fa sempre più rapido e violento. È la legge della progressiva crescita della
virulenza.
È bene notare che Robert illustra le sue scoperte con grande rigore e chiarezza, ma non in modo dogmatico. Il
dogmatismo è sovente opera dei suoi allievi o degli autori di libri di testo. La scoperta dell’aumento della
virulenza è, in ogni caso, accolta con incredibile entusiasmo negli ambienti scientifici, in quanto sembra
un’ulteriore conferma della selezione naturale [1].
Il nuovo studio di Koch ha enorme risonanza. Non piace a Virchow, ma è seguito da numerose conferme, le quali
porteranno ai risultati che Robert non ha raggiunto: l’individuazione degli stafilococchi e degli streptococchi
(1880-1883) da parte del chirurgo scozzese Alexander Ogston (1844-1929), il quale dichiara di aver seguito alla
lettera il procedimento di Koch.
Lo studio sulle ferite infette fu presentato in convegni a Lipsia e Kassel. Non è facile trovarne i resoconti scritti.
Aggiungo, a questo proposito, una nota di colore. L’iscrizione ai congressi è molto costosa, e Robert, essendo un
medico di campagna, se la paga di tasca propria, come, d’altra parte, ha fatto per tutti gli strumenti utilizzati nelle
ricerche sinora effettuate.
Siamo alla vigilia del trasferimento di Koch a Berlino. La partenza da Wollstein è un giorno di gioia e di
tristezza. La popolazione è sinceramente dispiaciuta. Brock sostiene che la gente trovava in lui tratti d’umanità
veramente eccezionali, oltre all’indiscussa capacità professionale [1].
L’approdo a Berlino avviene per Robert piuttosto tardi. Ha avuto, è vero, un esordio ed un successo fulminei.
Tuttavia, proprio questo potrebbe indurre a pensare che tutto finisca a Berlino. Invece, siamo appena all’alba.
All’Ufficio Imperiale per la Salute di Berlino: “piccole” invenzioni
Ferdinand Cohn procura il posto per Robert al Kaiserliche Gesundheitsamt di Berlino. Come consigliere
scientifico di tale ufficio, infatti, Cohn riesce a promuovere l’ammissione di Koch nel consiglio stesso.
L’impiego vero e proprio gli è conferito il 7 luglio 1880. Robert, contento come una Pasqua, prende servizio il 10
luglio: dichiara egli stesso che oramai non può più permettersi di fare ricerca senza sfamare la propria famiglia
[1].
Ha 37 anni, e la sua carriera scientifica ufficiale sta appena cominciando.
La genialità non sempre è sufficiente per avere il riconoscimento dei propri meriti. Se poi essa si manifesta avanti
negli anni, tale riconoscimento diviene quasi impossibile, in quanto proprio l’età è addotta a giustificazione per
escludere una persona da una possibile carriera brillante. Robert ha avuto la fortuna d’incontrare Cohn. Pensate
se, dopo averne riconosciuto i meriti scientifici, Cohn avesse detto: “Bravo, dottor Koch, Lei ha fatto cose
eccezionali. Oramai, però, non è più un bambino! Che cosa vuol fare adesso? Il ricercatore?! Ma andiamo! Largo
ai giovani! Poi, sa, più di tanto non si può scoprire!” …. Senza Cohn, probabilmente l’articolo finirebbe qui. Altri
avrebbero fatto le scoperte di Koch. Vista, però, la sua velocità e perspicacia, non so quanto tempo sarebbe
passato.
Con un laboratorio moderno finalmente disponibile, Robert comincia subito a produrre quello che prima non
poteva: le colture su piastra. Questo contributo è tuttora talmente utilizzato nei laboratori, che la gente lo
considera quasi una banalità. Eppure, prima di Koch, c’erano soltanto terreni di coltura liquidi, con enormi
problemi per verificarne la purezza, come lo stesso Pasteur deve ammettere [1].
Robert deriva l’idea da esperienze d’un allievo di Cohn, Joseph Schroeter [1], il quale aveva notato che Serratia
marcescens si riproduce con maggior efficienza se coltivata alla superficie d’un terreno nutritivo (patate, carne,
ecc.), e, nel 1881, pubblica, nell’organo ufficiale dell’istituzione in cui lavora, i principi per ottenere colture pure:
la Bibbia del batteriologo, come si cominciò a dire quasi subito [1]. Qui non voglio tanto evidenziare la lucida
descrizione del metodo rigoroso con cui deve per gradi procedere la purificazione, quanto l’importanza attribuita
alle colture solide. Le piastre nascono dalla necessità di bloccare i batteri. Robert ha compreso che i batteri
patogeni sono esigenti, e non s’accontentano di patate. E qui sta il colpo di genio: trovato il terreno liquido
idoneo, lo trasforma in gelatina.
Per il momento, Robert ha un po’ di problemi, dovendo usare piastre di vetro piane o provette. Richard J. Petri
(1852-1921), presenterà le sue famose capsule nel 1887.
Altro problema della gelatina, è la sua liquefazione ad alte temperature. Manca ancora l’agar (o agar-agar) usato
ai tropici come gelificante da tempi immemorabili. Fu introdotto in Europa nell’ottocento, per le gelatine di
frutta. Fra gli altri, l’usava Fannie, la moglie di Walther Hesse (1846-1911), un collaboratore di Koch [1]. Hesse
la provò in provetta, parlandone poi, evidentemente con Robert, che ne parla nel suo lavoro sulla tubercolosi, nel
1882. Il metodo della solidificazione con agar dei terreni di coltura non è mai stato pubblicato [1].
Un’immediata, e poco nota, applicazione dei terreni solidi è la verifica dell’efficacia delle tecniche di
sterilizzazione, tuttora in uso. In questo campo, fra l’altro, Robert s’accorge della scarsa efficacia dei disinfettanti
carbolici di Lister, stabilendo, fra l’altro, la differenza fra inibizione della crescita dei microrganismi ed uccisione
degli stessi.
Lo studio dello sterilizzatore ideale è molto articolato e complesso, a causa dei tanti parametri da considerare,
compreso l’eventuale danno al materiale da sterilizzare.
Questi studi berlinesi sulla sterilizzazione sono un po’ ad ombre e luci. Koch non comprende, per esempio
l’importanza dell’autoclave, preferendo il vapore a 100°C a pressione ordinaria. Si dimostra invece un attento
osservatore nel comprendere che quella che conta è la temperatura raggiunta dall’oggetto da sterilizzare, non
dall’ambiente [1].
Insomma, l’inizio di Robert a Berlino è buono. Ma sta per arrivare il bacillo di Koch.
Tubercolosi
Una malattia mostruosa, la tubercolosi, che, quando Koch inizia la sua attività a Berlino, è la causa d’un settimo
delle morti umane.
Le scoperte dei batteriologi e degl’infettivologi in altri campi hanno oramai convinto molti medici che si tratti
d’una malattia contagiosa.
Esistono tuttavia molti oppositori. Virchow, per esempio, ritiene che si tratti d’una malattia ambientale, come il
tifo che aveva studiato da giovane per conto del governo prussiano [13]. Non si cura tuttavia minimamente, in
entrambi i casi, d’una possibile eziologia batterica. Anzi, il solo parlarne lo rende molto nervoso, al pari delle
splendide ricerche del suo allievo Cohnheim sulla diapedesi.
Come Virchow, l’igienista Max von Pettenkofer (1812-1901), pensa che le malattie contagiose siano dovute alla
composizione chimica del terreno, dell’aria e dell’acqua. Non voglio con questo negare che simili idee abbiano
dato significativi contributi allo sviluppo della tossicologia, dell’igiene pubblica e del lavoro. L’ostinazione, sua e
di Virchow, a considerare con scetticismo, o, addirittura, con franca ostilità, gli studi di Pasteur e di Koch, appare
tuttavia molto pericolosa. Quest’ideologia (d’altro non si tratta, poiché essa è quasi integralmente fondata su
speculazioni), è molto vecchia, e, purtroppo, ricorrente.
Pettenkofer, per esempio, mi fa pensare al don Ferrante dei Promessi sposi. Ricorderete senz’altro la sua ostinata
convinzione sulla natura astrale della peste, sino alla morte. C’è un’unica differenza: Pettenkofer, come vedremo,
non muore per le sue erronee convinzioni.
Le idee sulla tubercolosi sono tanto confuse, che la miliare e le forme acute sono ancora tenute distinte dalla tisi
cronica. Virchow stesso è estremamente ambiguo nella caratterizzazione di questa malattia, tanto da non riuscire
a distinguerla chiaramente, nelle forme pluridistrettuali, dalle neoplasie maligne.
Decisamente, senza la microbiologia, l’anatomia patologica è in serie difficoltà.
Robert inizia i suoi studi sull’agente della tubercolosi il 18 marzo 1881 [1]. Il 24 marzo 1882 presenta la scoperta
del bacillo tubercolare alla Società fisiologica di Berlino: è stato fulmineo, come sempre, ed è spaventatissimo,
come sostiene il suo collaboratore Loeffler (avrete già capito che è lo scopritore dei corinebatteri della difterite:
Koch sa scegliere …..). Chi gli crederà? E invece, succede qualcosa d’incredibile. La comunità scientifica
mondiale, come la gente comune, non solo è convinta: ne è profondamente commossa, ed appena tre mesi dopo,
l’imperatore Guglielmo I nomina Robert Consigliere privato dell’Impero. Anche Virchow si convince. Cosa
incredibile, se si considera che Koch era stato costretto a tenere presso i fisiologi la conferenza sulla propria
sensazionale scoperta, in quanto tutte le altre società mediche temevano una reazione del “professore dei
professori”.
Ma che cos’ha combinato, Robert? Niente d’eccezionale: ha fede. È convinto che la tubercolosi sia una malattia
parassitaria, e vuol trovare il parassita ad ogni costo.
Poi, a Breslavia, ha trovato un grande amico: Paul Ehrlich (1854-1915). Questi, in cambio d’una sincera stima
quasi immediata, ha iniziato Koch alle colorazioni. Proprio usando il blu di metilene di Ehrlich su materiale
estratto da tubercoli, Robert s’accorge di sottili bastoncelli visibili a stento, ma sempre presenti. Si colorano
male, però. Usa allora un colorante di contrasto marrone, il bruno di Bismarck [1]. Questo assorbe la luce blu, e
fa apparire i bastoncelli azzurri brillanti su di uno sfondo intensamente scuro. Già questa modifica li fa apparire
molto più numerosi.
A un certo punto, capita un guaio: Robert usa del blu di metilene fresco, e non vede più niente. Una persona
normale lascerebbe perdere. Lui, invece, pensa: “Qualcosa, presente in abbondanza nell’aria del laboratorio, è
andato a finire nel mio blu di metilene”. Annusa l’aria ed esclama “ammoniaca!” (non so se sia andata proprio
così, perché non c’ero). Aggiunge l’ammoniaca, e riecco i bastoncini! Poiché l’ammoniaca è una sostanza
alcalina molto forte, in seguito preferirà gl’idrossidi di sodio o di potassio, parimenti efficaci. Questa tecnica
improvvisata sarà migliorata da altri molto rapidamente.
In ogni caso, Robert trae le giuste conclusioni: questi bacilli sembrano dotati d’una parete con caratteristiche
insolite, che può essere superata dai coloranti soltanto in presenza di sostanze fortemente alcaline.
Koch è anche colpito dalla forma di questi bacilli sottilissimi, e si accorge che somigliano molto ai bacilli della
lebbra. Ha poi dimostrato la loro presenza in tutte le lesioni tubercolari. Adesso deve coltivarli, e dopo vari
tentativi, si serve del siero di sangue coagulato, incubato a 37-38 gradi. E aspetta con fede, anche quando altri
butterebbero tutto nell’immondizia. Fa proprio bene, perché, alla terza settimana, compaiono piccolissime
colonie a superficie rugosa. Fra l’altro, in successivi isolamenti di bacilli tubercolari, Koch userà, per la prima
volta, l’agar.
Ottimo lavoro, finora. Nelle colture pure, crescono sempre gli stessi bacilli. Ma sono virulenti?
Eh, sì! Robert inietta le cavie, che muoiono rapidamente. Ma basta, questo? La tubercolosi umana, infatti, non è
una malattia naturale delle cavie. Robert allora dimostra che le sue colture pure producono nelle cavie gli stessi
sintomi e le stesse lesioni anatomopatologiche indotte da materiale tubercolare umano.
Queste mie povere parole non sono sicuramente in grado di suscitare in voi quel silenzio reverenziale, di stupore,
che suscitò la splendida presentazione berlinese di Koch, e l’osservazione dei preparati microscopici e colturali.
Ehrlich, al microscopio, sembra in estasi: in realtà, sta producendo. Capisce infatti subito l’opportunità di
sostituire le sostanze alcaline minerali con l’anilina, e, di lì a poco, descrive l’acido-resistenza (1 maggio 1882).
Come noto, poi, Franz Ziehl (1857-1926) sostituisce l’anilina con l’acido carbolico, e, infine, Friedrich Neelsen,
di Rostock (1854-1894), introduce la fuxina contrastata col blu di metilene. Insomma, a meno di un anno
dall’uscita del lavoro di Koch sulla tubercolosi [6], è pronto anche lo Ziehl-Neelsen. Bravi i Tedeschi, no?
A proposito. Gli studi di Ehrlich sui coloranti di anilina, furono punto di partenza per lo sviluppo del metodo di
Gram, che Hans Christian Gram (1853-1938) pubblicò nel 1884 [1].
Qualche palato fine ora potrebbe dire: e Paul von Baumgarten? Bravo! Questo medico (1848-1928) era di
Koenigsberg, dove insegnava Kant. Non cercatela sull’atlante, perché oggi, miserabilmente, si chiama
Kaliningrad. A parte questo, von Baumgarten comunicò di aver visto bacilli tubercolari in preparati non colorati
ottenuti da tessuti infetti il 18 marzo 1882. Prima di Koch, quindi. Non fu però in grado di coltivarli, né di
inocularli in animali da esperimento [1]. Direi proprio che non ci siamo.
Accontentati i palati fini, passiamo agli antipodi. Dobbiamo infatti occuparci del colera, la peste dell’età
moderna. Questa volta, Robert è invitato a viva forza dall’opinione pubblica ad intervenire, e a vincere.
La peste dell’ottocento
Il turismo globale è roba del novecento. I vibrioni del colera, invece, l’hanno inventato nell’ottocento. Si sono
infatti accontentati, per secoli, di produrre endemie nel subcontinente indiano, compiendo sporadici pellegrinaggi
alla Mecca. Forse, questi pellegrinaggi consentirono ai vibrioni d’aver notizie dell’Europa, all’inizio del
diciannovesimo secolo. Così, attraverso la Russia, i vibrioni si trasferirono in Polonia, in Germania, nell’Impero
austriaco, in Svezia ed in Inghilterra. Prima delle scoperte di Koch, si ebbero quattro episodi pandemici,
nell’ottocento. Il più terrificante fu quello del 1832-33, perché si collocò a ridosso della spaventosa crisi
economica dell’Irlanda, e gli emigranti irlandesi portarono i vibrioni nell’America settentrionale. Di là, il colera
raggiunse il Messico e Cuba.
Il colera fece molte vittime illustri. Hegel, per esempio, ne morì il 14 novembre 1831. Si era ritirato nelle
campagne attorno a Berlino, dove insegnava (l’epidemia era da poco entrata in Prussia). Inutilmente: la malattia
durò un giorno soltanto.
Nel 1883, i vibrioni indiani si misero in viaggio per il Mediterraneo orientale e l’Egitto, in particolare. Fra l’altro,
proprio come i turisti d’oggi, i vibrioni apprezzavano molto i piccoli porti del Sinai (El Tor non è molto lontana
da Sharm el Sheihk). In quell’anno, comunque i vibrioni visitavano un po’ tutte le località egiziane: porti del Mar
Rosso, del Mediterraneo, valle del Nilo.
Robert ha scoperto da poco i bacilli tubercolari. Louis Pasteur (1822-1895) è da tempo all’apice della fama. Gli
Egiziani chiedono quindi urgentemente soccorso ai loro rispettivi governi.
I Francesi partono per primi. Pasteur non interviene personalmente, e manda i suoi collaboratori più giovani.
Forse ha presentimenti sinistri. Si tratta, comunque, d’un buon gruppo: Émile Roux, Louis Thuillier, Isidore
Straus, Edmond Nocard [1]. Thuillier è uno degli allievi prediletti di Pasteur. Ha appena 27 anni, ma è stato
fondamentale per lo sviluppo del vaccino contro il bacillo del carbonchio. Proprio su questo tema, lui e Pasteur
hanno avuto una dura polemica con Koch, prodromica ad ulteriori persistenti dissapori e divergenze fra le due
scuole.
I Francesi sbagliano tutto: hanno portato animali da esperimento per gl’inoculi, e non c’è niente da inoculare.
Hanno portato terreni di coltura liquidi, e nel sangue non c’è niente. A dire il vero, essi sostengono di vedervi
piccoli microrganismi. Koch pensa che siano stati ingannati dalle piastrine, già descritte da Bizzozero.
L’epidemia si sta oramai esaurendo. I Francesi sono piuttosto scoraggiati. Poi, la tragedia: Thuillier ha un
malessere, un po’ di diarrea. Infine, ecco i sintomi del colera: e muore. Robert, anche lui già in missione, chiede
ed ottiene di portare a spalla la bara. Un bel gesto. Pasteur, profondamente impressionato, fa ritirare la missione
(fine di settembre 1883).
La missione tedesca ha una quantità immane di materiali. Robert non lascia nulla al caso, e si fa accompagnare
da Georg Gaffky (1850-1918), uno dei collaboratori più fidati. Purtroppo, il colera è oramai in fase di stanca, e
Koch deve “rincorrerlo”. Si concentra in particolare sui pellegrini provenienti dalla Mecca, dove la malattia è
endemica. Vede anche i vibrioni, ma è perplesso. Sono nelle feci, nell’intestino … e basta. Nel sangue non si
vedono, anche all’acme della malattia. Li inocula negli animali da esperimento, e non succede niente. Va tutto
bene, purtroppo, perché il vibrione fa tutto nell’intestino. Il vibrione, poi, crescerebbe benissimo in terreni di
coltura estremamente poveri. Purtroppo, la gelatina si scioglie per il caldo eccessivo. Robert rimane in Egitto da
agosto a ottobre, pur avendo sospeso le ricerche. Il colera, infatti, è oramai svanito. Sta invece riesplodendo in
India. La missione chiede allora il permesso di trasferirsi a Calcutta, la “madre” dei vibrioni. Nel frattempo, Koch
si gode l’Egitto, che l’entusiasma, come traspare dalle lettere che scrive a Trudi [1]. Spende anche un patrimonio
in regali. Non ha problemi, comunque, perché Robert è oramai conscio del proprio lavoro, e pretende adeguati
compensi e finanziamenti, per sé e per i collaboratori. A Calcutta arriva, per mare, a metà dicembre, proprio
quando compie 40 anni.
La cosa importante, come sostiene Gaffky, è che fa fresco, e le piastre e le provette con la gelatina funzionano.
I casi di colera cominciano a scarseggiare anche in India. Robert, però, ha le idee chiare, e cerca subito di
ottenere colture pure da prelievi effettuati direttamente dall’intestino delle vittime. Un lavoro duro, a causa della
quantità di microrganismi dell’intestino. Il vibrione, fortunatamente, predilige un pH alcalino [1].
Il 2 febbraio, Robert è già sicuro: in tutti i malati esaminati, vivi o morti, ha sempre trovato lo stesso bacillo a
virgola, facilmente distinguibile in coltura per la sua particolarissima capacità, dopo aver formato una colonia
compatta, di diffondere massivamente all’atto della liquefazione della gelatina. Purtroppo, come sappiamo, il
vibrione predilige soltanto l’uomo, e, dopo l’isolamento, non produce malattia negli animali, neppure quando è
immesso direttamente nell’intestino.
Koch ricorre allora all’epidemiologia, dimostrando i vibrioni nei contenitori d’acqua da cui hanno bevuto
gl’Indiani contagiati dall’epidemia. È, questa, la ripetizione del magnifico studio di John Snow sui casi di colera
degli utenti della Broad Street Pump di Londra, durante la pandemia del (1846-1862). Questa storia è raccontata
in un bellissimo libro [3]. Vi consiglio di leggerlo. Riguarda la storia della politica per l’acqua potabile
nell’ottocento in Gran Bretagna: una serie di risse tra amministrazione pubblica, privati, medici, chimici,
farmacisti, ingegneri, ciarlatani … come oggi.
Per la mancanza della riproduzione negli animali, Pasteur è poco convinto della comunicazione ufficiale di Koch.
Gli scettici, tuttavia, costituiscono una minoranza effimera. Fra questi, come al solito, Pettenkofer.
Ben contento d’aver finito prima che faccia troppo caldo (per se stesso e per la gelatina), Robert inizia il viaggio
di ritorno in aprile. Clima a parte, è contento anche dell’India. Rimane, anzi, senza danaro, e se ne fa mandare
ancora parecchio dalla moglie, perché, sostiene, le cose belle da comprare sono veramente tante. È poi incantato
dalle pendici dell’Himalaya.
Il 2 maggio, il “padre del bacillo” è ricevuto dal Kaiser, che gli regala il proprio busto di bronzo (agli altri della
missione, dona una foto). Bismarck l’onora d’un’udienza privata (forse progettano la sperimentazione dei
vibrioni su Virchow).
Ho inserito questa sciocchezza perché voglio far risaltare il contrario di questa mostruosità. Robert non ha portato
vibrioni con sé, perché, egli sostiene, il colera non c’è in Europa, e non vuole introdurlo per un gesto di vanità
irresponsabile. Brock parla di ciò (altrimenti, non lo saprei) [1]. Non mette tuttavia a confronto questo gesto
profondamente responsabile con l’ottusa, aberrante, criminale irresponsabilità di quei tanti (molti, purtroppo,
medici) che per odio, per ambizione, per conformismo, si sono prostituiti alle esigenze della guerra biologica,
sfruttando e rischiando di compromettere gli sforzi immani di uomini come Koch. Se non l’avete già fatto, potete
leggere i libri che ho citato in calce [2, 9, 10]. Quello sull’anthrax può essere abbastanza interessante anche per
un patologo. Tutti, comunque, sono molto più avvincenti di un giallo o di un romanzo dell’orrore. D’altra parte,
sono veri.
Il buon Dio, comunque, premia gli onesti: essendosi affezionati a Robert, i vibrioni sbarcano a Marsiglia e
Tolone nell’estate del 1884, ed i Francesi lo chiamano a studiare i casi e le vittime (Pasteur non è molto
soddisfatto del proprio governo: d’altra parte, lui, ai vibrioni, non ci crede …).
Vista l’insistenza dei vibrioni, Robert li porta a Berlino. I soliti casi strani della vita: vibrioni naturalizzati
Francesi, spettanti quindi, di diritto, a Pasteur, vanno a costituire, nonostante la guerra del 1870, il primo nucleo
per le ricerche sul colera dei laboratori di Berlino. Non solo il turismo di massa: i vibrioni del colera hanno
inventato anche la globalizzazione!
Voglio adesso raccontarvi un fatto personale. Anche l’asfalto delle strade sa che circa dieci anni fa inventariai i
libri e gli estratti antichi dell’anatomia patologica di Bologna. Presi questa decisione trovando un fascicolo molto
danneggiato della Berliner Klinische Wochenschrift. Sulle prime mi accorsi soltanto del nome di Virchow,
proprio nella prima colonna della prima pagina. Mi accorsi poi che Virchow faceva da presidente ed introduceva
…. La conferenza sul colera! Quest’articolo, recuperato probabilmente da Giovanni Martinotti, grande
appassionato di batteriologia, è la trascrizione stenografica del resoconto di Koch nel 1885, sui progressi a un
anno dalla prima grande conferenza sui vibrioni [7]. Forse per il modo avventuroso e casuale in cui l’ho
incontrato, leggendo quest’articolo ho avuto quasi la sensazione d’incontrare Koch, e di parlargli.
Decisamente, sono matto. Ma è proprio un bell’articolo.
Al culmine del successo. Primi segni di crisi
Robert è oramai un uomo ammirato e riverito in tutto il mondo. Il suo laboratorio produce. Fra l’altro, alla fine
del 1883, è pubblicato il lavoro di Loeffler sui corinebatteri. In esso sono enunciati i famosi “postulati di Koch”
(dimostrazione dell’agente infettivo, isolamento, riproduzione della malattia negli animali da esperimento).
Effettivamente, non esistono pubblicazioni specifiche di Koch su quest’argomento [1]. Come allievo, e come
positivista, Loeffler cerca di stabilire criteri saldi, dogmatici, in un certo senso. Sinceramente, però, Koch non
sembra proprio un dogmatico, per lo meno nel senso più ristretto del termine. Sicuramente, è un uomo preciso.
Egli stesso dimostra ripetutamente, nel corso delle polemiche successive alle sue maggiori scoperte, che i risultati
da lui ottenuti non sono riproducibili quando si lavora in modo sciatto. Abitualmente, tuttavia, non è un polemista
violento. Con la maturità, si fa molto compassato, ed acquisisce i tratti caratteristici dell’austero scienziato
tedesco. Tuttavia, molti allievi e visitatori occasionali lo ricordano spesso come un burbero benefico. Un giovane
studioso americano, per esempio, al primo incontro gli si rivolge, stentatamente in Tedesco; “capisco abbastanza
la sua lingua, parli pure Inglese!”, si sente rispondere in Inglese, naturalmente, con un pesantissimo accento
tedesco [1]. Nel clima germanocentrico di fine ottocento, non è poco. Inoltre, la lingua straniera più
comunemente utilizzata è il Francese. Bismarck è una cospicua eccezione: ha imparato l’Inglese nel corso d’una
selvaggia relazione giovanile con una nobildonna britannica. Ciò non vi deve sorprendere. Nonostante la faccia
torva, Bismarck è un gaudente completo.
Malauguratamente, Koch conosce male il Francese parlato. Ciò gli costa una pessima figura con Pasteur, in un
congresso internazionale a Ginevra (1882). Come ho detto, i rapporti fra le due scuole sono difficili. La polemica
è, però, in genere, civile. In quest’occasione, invece, Koch fraintende alcune parole del discorso di Pasteur, e
risponde con un attacco personale bruciante, e, in tutta sincerità, poco intelligente [1]. Per di più, pubblica
l’attacco nel bollettino dell’istituto in cui lavora. Ciò spiega l’ostinata diffidenza con cui Pasteur accoglierà la
scoperta dei vibrioni. Koch, di rimando, si opporrà all’uso del vaccino antirabbico, ma si troverà contro
l’opinione pubblica, e sarà costretto a far marcia indietro.
Koch e Pasteur hanno due mentalità molto diverse: il primo vuole combattere le malattie infettive agendo sulla
comunità umana, Pasteur, agisce invece sui singoli (vaccinazione).
Curiosamente, Pasteur si congratula con Koch per la scoperta della tubercolina (1890), la quale preluderà al più
terrificante disastro della vita di Robert.
Koch non è ancora un professore universitario, nonostante tutto. Gli propongono la cattedra d’anatomia
patologica a Lipsia, alla morte di Cohnheim (1884). Robert rifiuta: per gratitudine ai Prussiani, rimane a Berlino.
È una buona decisione: l’anno dopo gli è offerta la direzione del neonato istituto d’igiene, secondo in Germania
dopo quello di Pettenkofer.
Virchow si oppone, ma non prevale. Robert mantiene la direzione del suo laboratorio, ed inizia una brillante
attività didattica [1]. Ha una visione estremamente moderna, a tutto campo, dell’igiene. D’altra parte, un
ricercatore veramente motivato è anche un buon insegnante. Non possiede un’oratoria appassionante. Tuttavia, la
sua estrema razionalità e l’eleganza delle dimostrazioni pratiche polarizzano su di lui e sulle istituzioni da lui
dirette l’attenzione degli studenti di tutto il mondo.
Nel 1885, anche Goettingen crea il proprio istituto d’igiene, diretto da Carl von Fluegge (1847-1923), quello che
ha dato il nome alle goccioline emesse con la tosse e con gli starnuti. Koch decide di fondare con Fluegge la
Zeitschrift fuer Hygiene. Robert avverte infatti la necessità di creare istituzioni che si conformino alle proprie
idee.
In questo gran daffare, Trudi, diciannovenne, si fidanza con Eduard Pfuhl, allievo del padre, ed anche abbastanza
vecchiotto (35 anni). Robert, come tutti i genitori di figlie, specialmente uniche, è un po’ gelosetto, e lo confida
all’amico Fluegge [1]. Thomas Brock, sostiene giustamente che, in queste confidenze, Robert appare più vecchio
che geloso. I rapporti con la moglie si stanno raffreddando. Inoltre, la direzione dell’Istituto universitario e del
laboratorio presenta una gran quantità d’oneri ufficiali e burocratici, che lo distraggono dalla ricerca. Per di più,
Gaffky se ne va a Giessen, Loeffler va a Greifswald. Koch trasferisce pertanto Petri al laboratorio dell’Istituto
imperiale. Non rimane, comunque senza allievi (è bravo!): arrivano Carl Fraenkel (1861-1915) e Richard Pfeiffer
(1858-1945).
In tutta questa confusione, Robert è nervosissimo. Fa ancora ricerca? Sì, e consuma un’enorme quantità di cavie
….
Tubercolina
Alla fine del 1889, Robert lavora praticamente in segreto, nel laboratorio. Nessuno sa che cosa stia combinando.
Poi, l’annuncio. Al decimo congresso internazionale di medicina, tenutosi a Berlino nell’agosto del 1890,
sostiene di aver scoperto delle sostanze in grado di prevenire la crescita dei bacilli tubercolari in provetta e nel
corpo dei viventi. Sostiene di non aver raggiunto ancora risultati definitivi, e di poter soltanto dire che le cavie
trattate non possono in seguito essere inoculate coi bacilli. Quelle già infette, guariscono, anche se la malattia è in
fase avanzata [1].
Uno studio sfortunato, quello di Koch. Si è infatti imbattuto nell’immunità cellulomediata, la parte più difficile e
complicata della risposta immunitaria. Behring e Kitasato, invece (Behring è la pecora nera tra gli allievi di
Koch), s’imbattono nell’immunità umorale, e, sempre nel 1890 pubblicano i loro studi sulle antitossine, difterica
e tetanica [1]. Avranno anche il Nobel prima di Koch.
Robert sta abbastanza abbottonato, nel corso della sua relazione berlinese. Crea anzi una cortina impenetrabile di
segretezza attorno a ciò che ha scoperto, non tanto per motivi commerciali, quanto per il giustificatissimo timore
dei ciarlatani, i quali infatti si metteranno subito in moto, specialmente negli Stati Uniti.
Koch non capisce, tuttavia, d’aver parlato troppo. Egli è probabilmente il primo medico della storia a trovare le
proprie clamorose scoperte amplificate da una cassa di risonanza mondiale. Oggi sappiamo bene quanto sia
pericoloso parlare di medicina in modo sconsiderato alla televisione; per l’esperienza maturata, i nostri errori
d’esternazione sono molto meno giustificati di quelli di Koch. Tuttavia, Koch sbaglia. È in errore nel credere che
la tubercolina agisca contro i bacilli tubercolari. Il problema non è questo, tuttavia. Egli si cautela, abbiamo visto:
sostiene di avere ancora bisogno di verifiche. L’errore è proprio questo: se non è ancora sicuro, non deve parlare.
Le manifestazioni di tripudio che hanno accompagnato le sue precedenti scoperte dovrebbero fargli capire che,
oramai, da lui ci si aspetta soltanto imprese straordinarie. La tubercolosi è una malattia terrificante. L’annuncio
della possibilità di curarla, specialmente da parte di Robert Koch, è inevitabilmente colto in maniera distorta. Né
i medici, né il pubblico danno peso alle cautele del discorso di Koch: se Koch parla di cura, significa che la cura
c’è.
Un eroe, un idolo, un grande leader, prima o poi corre questo pericolo: cercare il consenso a tutti i costi. Il
consenso, tuttavia, comporta l’impossibilità di commettere errori: al primo errore, c’è la croce.
Varie circostanze spingono Robert a comportarsi in modo dissennato. La corte imperiale preme affinché lui
presenti qualcosa di clamoroso, a Berlino. Egli stesso vuole scoprire un metodo efficace per combattere in modo
specifico gli agenti infettivi da lui scoperti. Sicuramente, non alligna in lui il desiderio di guadagni. In questo è
difeso anche da Virchow, allorché si diffondono critiche maliziose per il ritardo nella pubblicazione sulla
tubercolina [1]. Penso di non sbagliare nel sostenere che tutti questi stimoli impropri tolgano a Robert la capacità
critica, spingendolo, alla fine, a vedere quello che non accade: la guarigione dalla tubercolosi.
Si crea così un circolo vizioso da cui non riesce più ad uscire. È anzi costretto ad iniziare la sperimentazione
umana, col risultato che Berlino diviene la “città della speranza”, e si riempie di malati gravissimi di tubercolosi,
con ovvi, agghiaccianti problemi di contagio.
Comunque, l’applicazione clinica della terapia di Koch (inverno 1890-91), fornisce risultati decisamente
insoddisfacenti: sono riportati anche alcuni casi di miglioramento dei sintomi, interpretabili come l’abituale
distribuzione del quadro evolutivo della tubercolosi non trattata, purché in una popolazione sufficientemente
ampia.
All’inizio del 1891, Robert pubblica finalmente il metodo di preparazione della tubercolina. Evidentemente, nel
proprio intimo è convinto del fiasco, e dell’inutilità di mantenere il segreto. Tuttavia, per tutta la vita non
ammetterà l’errore. Ciò, a mio avviso, ricorda molto l’aggressiva perseveranza di Camillo Golgi nel sostenere ad
oltranza la propria idea sulla rete nervosa diffusa contro la vincente dottrina del neurone [12].
C’è tuttavia una profonda differenza, fra Koch e Golgi. La scuola di neuronanatomia di Golgi si esaurisce con lui.
I suoi epigoni continuarono a sostenere la rete nervosa diffusa (se ne parlava ancora negli “anni di piombo”,
quando io studiavo anatomia), ma senza produrre significativi contributi. Gli allievi di Koch, invece non si
limitano a quest’idea astrusa, e molti loro nomi saranno associati a quelli dei microrganismi scoperti.
Dal disastro della tubercolina oltre ad un prolungato offuscamento della figura di Robert, nascono il nome
“tubercolina”, coniato nei primi mesi del 1891, e l’Institut fuer Infektionskrankheioten, annesso alla Charité. La
sua istituzione è richiesta da Koch specificamente per verificare gli effetti terapeutici della tubercolina. Il motivo
di fondo è però, probabilmente, la volontà di Robert d’allontanarsi dall’igiene e di riaccostarsi alla ricerca
applicata alla medicina [1]. Si scatenano, però, i corvi (parole di Robert nella corrispondenza con Trudi [1]).
Virchow si oppone al bilancio preventivo della nuova istituzione ed allo stipendio di Koch. Quest’ultimo,
evidentemente seccato, decide di rinunziare all’insegnamento universitario dell’igiene, suggerendo, in propria
vece, Carl Fluegge. Invece, le trame di Virchow portano alla cattedra Max Rubner (1854-1932), un tipo che
faceva strani esperimenti per dimostrare la conservazione dell’energia nei fenomeni biologici, a mio avviso,
giustamente dimenticato. Cose che capitano, no?
Andiamo invece a vedere che cosa succede tra i discepoli di Robert.
Nuove scoperte e … amore
Emil Behring, Shibasaburo Kitasato (1852-1931), Paul Ehrlich, Richard Pfeiffer, Bernhard Proskauer (18661925), August von Wassermann (1866-1925). Adesso, forse, li prendereste a lavorare nel vostro laboratorio.
Dovete considerare, però, che, quando Koch li scelse, i loro nomi non erano ancora scritti nei libri.
Qui voglio parlare dell’antitossina difterica. Ho già detto che Behring è la “pecora nera” di Koch. Di famiglia
povera, ha un virulento desiderio d’affermazione, anche economica, e comprende quanto possa essere redditizio
sviluppare una terapia efficace contro qualche grave malattia infettiva. Inizia così la collaborazione con Kitasato,
già al lavoro sui clostridi del tetano (da lui scoperti nel 1889) e sulla tossina tetanica. Da tali ricerche nei
laboratori di Koch, alla fine del 1890 escono due pubblicazioni fondamentali: prima quella sull’antitossina
tetanica (Behring-Kitasato), poi quella del solo Behring sull’antitossina difterica [1].
Dopo il ritorno di Kitasato in Giappone, Behring comincia ad occuparsi dell’uso pratico dei sieri, ed a questo
punto entra in attrito con Koch. Forse, quest’ultimo è insoddisfatto nel vedere che Behring si serve di ricerche il
cui merito va prevalentemente allo studioso giapponese. Ciò che irrita Koch è però soprattutto la
commercializzazione dei sieri, e l’uso di finanziamenti dell’industria per le pubblicazioni.
Lo sviluppo industriale della produzione dei sieri richiede poi studi matematici e statistici, che Behring riesce a
carpire al molto più dotato Paul Ehrlich [1]. Fra l’altro, Behring non riesce neppure ad utilizzare l’animale giusto
per produrre il siero (usa i bovini) ed è clamorosamente battuto da Émile Roux, in Francia, grazie all’uso del
cavallo.
Comunque, per il siero antidifterico, Behring sarà il primo al mondo a ricevere il premio Nobel per la medicina
(1901). Alla faccia di Koch!
Paul Ehrlich, il genio buono di Robert Koch, è un esperto titolatore di antisieri, grazie ai suoi studi sulle
fitotossine. Tale metodo gli consentirà di standardizzare la corretta titolazione della tossina difterica. Questa sua,
potremmo dire, innata precisione, gli consente di gettare le basi per lo studio dell’immunologia, della tossicologia
e dell’azione dei farmaci, secondo criteri moderni e riproducibili. Proprio per questo, anch’egli avrà il Nobel nel
1908.
Ma torniamo indietro.
Nel 1892, i vibrioni del colera pensano di consolare Robert per il disastro della tubercolina, e non sbagliano
indirizzo: arrivano ad Amburgo.
Il geniale Pettenkofer continua a credere nell’origine ambientale, non batterica, del colera. Sottrae una coltura di
vibrioni e se la beve, insieme con un assistente, che quasi se ne va al Creatore. Pettenkofer, invece, non ha troppi
problemi: forse, i vibrioni gli crescono nel liquor.
Grazie agli amici vibrioni, Robert dimostra che Pettenkofer non è un bravo epidemiologo. Mentre ad Amburgo il
colera fa molte vittime, ad Altona, immediatamente a valle, praticamente non c’è.
Ora, ad Amburgo usano acqua dell’Elba raccolta a monte di Amburgo (pettenkoferianamente buona), ma non
filtrata. Ad Altona consumano invece l’acqua dell’Elba defluente da Amburgo, quindi, ricca di vibrioni
amburghesi. Prima di berla, però, la filtrano con la sabbia. Qui è il punto, Robert sostiene, altroché i tellurismi
pettenkoferiani!
Koch è già da tempo convinto dell’importanza della filtrazione, quantunque non percepisca ancora la criticità
della clorazione associata alla filtrazione. L’epidemia di Amburgo gli permette anche d’introdurre la
standardizzazione dell’esame batteriologico dell’acqua, accettato anche dai paesi di lingua inglese [3].
Behring continua a far la pecora nera, tentando di sviluppare un’immunità umorale nella tubercolosi, senza
successo, e senza parlarne a Koch. Fortunatamente, il povero Robert è consolato dagli studi più accurati di
Pfeiffer, il quale dimostra che nel colera e nel tifo la risposta immune è rivolta contro i batteri, non contro tossine.
L’attività intensa, ed i rapporti difficili con la moglie, spingono Robert a distrarsi col teatro. Nel 1889 conosce
un’attrice di 17 anni, Hedwig Freiberg. Se ne innamora. E ne è corrisposto. Possibile, a quasi cinquant’anni? Sì.
È certamente facile spiegare la violenta infatuazione d’una ragazzina, al cospetto d’un mito vivente, quale è
Robert in questi anni. Qui, però, abbiamo il matrimonio dopo un divorzio (1893), fatto estremamente scandaloso,
alla fine dell’ottocento. Poi, Hedchen gli sarà (come si diceva allora) perfetta compagna, anche nei faticosissimi
viaggi attorno al mondo degli ultimi anni. Contrarrà anche la malaria. Gli rimarrà fedele anche dopo la morte,
dedicandosi a studi sulle religioni dell’estremo oriente (Hedchen muore nel 1945).
Un matrimonio felice? Sì e no. Robert non contraccambia. Lo vediamo dal primo matrimonio. Ama Emmy (la
prima moglie) all’inizio, poi la sfrutta come una schiava nel periodo delle ricerche casalinghe. Infine, se ne
dimentica. E alla fine, la getta come un paio di scarpe vecchie, dopo aver trovato Hedchen. Negli ultimi anni,
penso, si raffredda anche con Hedchen.
Un immorale? No. Penso che, quando si svolgono certe attività, sia meglio lasciare in pace le donne
(naturalmente, questo vale anche per le donne-Koch).
Prima dell’addio: Koch viaggiatore, Koch Nobel, Koch umiliato
La vista dell’Africa, durante i primi studi sul colera, ha irrimediabilmente conquistato la fantasia di Robert.
Andare in Africa alla fine dell’ottocento (per chi ha disponibilità finanziarie, naturalmente), è un piacere. Gli
Africani sono trattati dagli Europei peggio delle bestie. È quindi possibile circondarsi d’un esercito di servitori
remissivi senza troppe spese, e senza correre troppi rischi di trovarsi con la gola tagliata. Se a questo
aggiungiamo che gli Europei cercano d’allevare il proprio bestiame nelle splendide praterie africane, possiamo
subito capire come Robert riesca a procurarsi vacanze africane pagate profumatamente. Gli animali
d’allevamento europei incontrano infatti una vasta e variopinta popolazione di microrganismi nei cui confronti
sono completamente indifesi.
Tra il 1896 ed il 1898, Robert è invitato in Sudafrica dall’amministrazione britannica, perché la peste bovina,
un’endemia relativamente ben tollerata dell’Africa orientale, ha organizzato una gita turistica in Sudafrica, ed ha
attraversato lo Zambesi. È una strage.
Robert è accolto trionfalmente a Città del Capo (tra l’altro, il compenso previsto è lauto). Si trasferisce poi a
lavorare a Kimberley. Non riesce ad isolare alcun agente infettivo. Si tratta infatti d’un virus (se ne avrà la
dimostrazione nel 1902 [1]). In ogni caso, tenta di vaccinare il bestiame, ma senza risultati buoni. È, tuttavia,
ugualmente apprezzato dal governo locale. Gli agiografi di Koch sostennero il successo della vaccinazione.
Avrebbero fatto meglio a non esagerare [1].
La vacanza lavorativa africana di Robert è interrotta dalla peste vera, che scoppia in India, nella primavera del
1897. La Germania nomina una propria commissione di studio, nella quale è inserito anche Koch, che parte per
l’India direttamente dall’Africa. Il francese Alexandre Yersin (1863-1943) ha già scoperto il bacillo da qualche
anno: non c’è quindi molto da fare. Poi, in India fa già molto caldo. Robert, quindi, riparte a luglio per Dar es
Salaam (allora Africa orientale germanica: fino al 1918): la peste lo aspetta là. Prima, però, spedisce la moglie,
stremata dalle oramai lunghe peregrinazioni, in Egitto.
In Africa, oltre alla peste, incontra anche le malattie protozoarie: malaria, surra e febbre del Texas. Il suo
interesse si orienta soprattutto sulla malaria. Altri hanno già studiato il ciclo del parassita e le zanzare. Ross avrà
il Nobel nel 1902 [11]. Robert vuole soprattutto occuparsi dell’eradicazione. Per questo, recuperata la moglie in
Egitto, si reca con lei nella zona endemica di Grosseto (agosto-ottobre 1898), cercando di cogliere la malattia
nella sua fase esplosiva [1].
Dopo, torna a Berlino.
Grosseto e la Maremma sono un’area di grande interesse per gli studi epidemiologici, e Robert vi ritorna nella
primavera del 1899, sempre accompagnato da Hedchen e da alcuni collaboratori. Nemmeno la Maremma gli
basta, e, in agosto, sempre con la moglie, parte per Napoli. Gita romantica? Macché! S’imbarcano per Batavia
(oggi Giacarta). Vanno a Bali? No: la Germania aveva splendide colonie nel Pacifico. Ancora oggi c’è
l’arcipelago delle Bismarck, presso la Nuova Guinea, la cui porzione nordorientale era tedesca. Quest’ultima è la
meta di Koch, perché c’è la malaria. Vi rimane fino all’estate del 1900.
Il risultato di questi studi è molto importante: Robert si convince infatti del ruolo fondamentale della
somministrazione del chinino a scopo profilattico [1]. Prima dell’introduzione dei pesticidi, questo rimarrà
l’unico metodo veramente efficace per il contenimento della malaria. Camillo Golgi lo propaganderà in Italia
dopo la nomina a Senatore del Regno.
Koch festeggia il nuovo secolo con una follia. Ha scoperto che l’agente della tubercolosi bovina è diverso da
quello umano. Quando lo annuncia, nel luglio del 1901, aggiunge una notizia che lascia la gente col fiato
sospeso: la tubercolosi bovina non si trasmette all’uomo: sarebbe quindi inutile trattare il latte infetto [1]. A causa
del pulpito dal quale viene la predica, la confusione è paurosa, e si propaga come una reazione a catena. Dovremo
rioccuparcene verso la fine di questa storia.
Fortunatamente, l’epoca dei buoni frutti non è ancora finita: Robert si occupa infatti delle salmonella del tifo, alla
ricerca della ragione per cui questa malattia è endemica in Europa. Eberth scoprì questi batteri, ma il primo a
coltivarli è Georg Gaffky, nei laboratori di Koch (1884) [1]. Nel 1902, i collaboratori di Robert producono terreni
di coltura idonei all’isolamento di questi batteri, e, a Treviri (città natale di Marx: curiosamente, gli abitanti non
ne vogliono parlare, e preferiscono ricordare che lì vicino c’è un circuito per la formula 1), dimostrano le
salmonelle nell’acqua potabile e nelle fogne. Ma questo non è niente! In un paesino vicino a Treviri Robert
scopre infatti persone perfettamente sane che eliminano salmonelle: ha scoperto i portatori!
Robert ha quasi 60 anni. Evidentemente, però, il cervello gli funziona molto bene. Sostiene infatti di aver colto il
problema dei portatori, grazie alle esperienze sulla malaria in Nuova Guinea. Quest’ultima malattia è infatti
trasmessa dalle zanzare, ma fondamentali rimangono i serbatoi umani di parassiti, che dovrebbero appunto essere
bonificati col chinino [1].
Ma non è finita. A Natale del 1902 deve andare in Rhodesia per una nuova epidemia del bestiame: “Rhodesian
red water”. Gl’Inglesi, evidentemente non sono rimasti insoddisfatti dello scarso successo precedente, e stanziano
senza batter ciglio i pesanti contributi richiesti da Robert, per sé e per i collaboratori. Anche questa volta le cose
non vanno bene. Rimane in Africa fino al 1904. Scopre anche un protozoo, diverso da quello della febbre del
Texas; e stabilisce che il vettore è una zecca. Non riesce però a raggiungere lo scopo della missione: il
contenimento della malattia. I contributi sono comunque interessanti, e saranno pubblicati in Inglese [1].
La permanenza in Africa impedisce a Koch di partecipare alle grandi celebrazioni in Germania per il suo
sessantesimo compleanno. È ugualmente contento, però. Ha modo infatti di godere a suo piacimento delle
meraviglie naturali attorno al lago Vittoria. Da appassionato archeologo dilettante, si appassiona anche ai resti
delle antiche civiltà africane [1].
A ottobre del 1904, Koch va in pensione, e subito dopo torna in Africa, a studiare spirochete e tripanosomi.
Forse, l’Europa l’infastidisce: hanno già assegnato 4 premi Nobel per la medicina (Behring, Ross, Niels Ryberg
Finsen (fototerapia), Pavlov) e a Koch niente! Non sono state belle premiazioni: a Behring non è stato associato
Ehrlich, a Ross non è stato associato Battista Grassi [11], e non parliamo di fototerapia!
Il 1905 potrebbe essere l’anno buono, e invece, a primavera, Fritz Schaudinn (1868-1959), che non ha fatto altro
di significativo nella sua vita, annuncia la scoperta dell’agente della sifilide. E vogliono subito dare il Nobel a
lui!
Robert è pieno di nemici, anche dopo la morte di Virchow (1902). Poi, lo scandalo della tubercolina lo tiene
ancora appeso alla croce. La motivazione periodicamente addotta per la mancata assegnazione è che le sue
scoperte non hanno risvolti pratici [1].
La sifilide scatena però l’ira di Elie Metchnikoff, (1845-1916) scopritore della fagocitosi, il quale, seppure
ripetutamente maltrattato da Koch, lo ha ripetutamente proposto per il premio Nobel. A questo punto, il
simpatico Russo francesizzato esplode, e sostiene che Schaudinn può aspettare.
Così, il 12 dicembre 1905, Robert ha il Nobel, e adesso tutti dicono che nessuno è più degno di lui d’un simile
riconoscimento.
Nell’aprile del 1906 Robert ritorna sul lago Vittoria, per organizzare una campagna di studi sulla malattia del
sonno, fino al novembre del 1907. Non partecipa così ai festeggiamenti del 25° anniversario della scoperta del
bacillo tubercolare, occasione per creare una fondazione in suo onore, destinata a raccogliere fondi per la ricerca
sulla malattia. In questo contesto spiccano i cinquecentomila marchi donati da Andrew Carnegie, preludio al
viaggio in America di Robert [1], che arriva a New York con la moglie l’8 aprile 1908. Riceve accoglienze
trionfali, poi va a visitare i suoi fratelli nel Middle West. In treno, raggiunge poi San Francisco, e, con la nave,
arriva a Honolulu a maggio. È stanco morto, e si ferma fino al 1° giugno: è tanto contento, che fa anche il bagno
in mare [1]. Riparte quindi per il Giappone, dove l’aspetta Kitasato.
Presa visione della ricerca in Giappone, inizia a fare il turista. Dopo, dovrebbe proseguire il viaggio alla volta
dell’India, attraverso la Cina, e invece, gli giunge una richiesta formale, praticamente un ordine, del governo
tedesco, di partecipare al convegno internazionale sulla tubercolosi, programmato a Washington per l’autunno
[1].
Profondamente a disagio, Robert torna indietro, e va a ricevere l’ultimo affronto. Vogliono infatti costringerlo a
ritrattare sulla questione della tubercolosi bovina. L’affermazione della necessità del controllo dei bovini e della
pasteurizzazione del latte si scontra infatti con l’affermazione di Koch sull’innocuità per l’uomo dei micobatteri
bovini. Il problema è eminentemente politico-economico: la prima guerra mondiale è oramai in atto a livello
economico, e tutti sono già contro la Germania. In questo caso, però, l’attacco grava interamente su Robert Koch,
che è isolato e messo in condizione di non nuocere da buona parte degli scienziati di tutto il mondo. Certamente,
Koch ha torto. Tuttavia, l’azione intrapresa può quasi essere confrontata col processo a Galileo [1].
Già allora si pensava che, nonostante la sua indubbia influenza sulla comunità scientifica internazionale, non
fosse necessario seppellirlo vivo, come invece avvenne.
Dopo il congresso, Robert torna a Berlino, e riprende subito a studiare la tubercolosi. Ma è finita. I
microrganismi che ha studiato per tanto tempo, l’hanno risparmiato. Non così i microbi umani. Oramai è
un’ombra, e muore d’infarto a Baden Baden il 27 maggio 1910.
Bibliografia
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13. Scarani P. (1998): Un genio coraggioso (un eroe, potremmo dire): Rudolf Virchow
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14. Scarani P. (1999): 1848-1849: grandi eventi ignorati, dieci anni prima della nascita
della scuola bolognese. 91, 209-213
15. Scarani P. (2001): Riflessi goethiani sui problemi della scienza contemporanea.
Pathologica 93, 71-73
1
Anatomia patologica
UN AFFASCINANTE LEGAME TRA IL MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA E L'ANTICO OSPEDALE DEI
PAZZI DEL S. ORSOLA ................................................................................................................................................2
DIE PATHOLOGISCHEN MOULAGEN VON GIUSEPPE ASTORRI (vor 1840)...................................................13
THE USEFULNESS OF OLD DOCUMENTS IN RECLASSIFYING THE MUSEUMS OF ANATOMIC
PATHOLOGY OF THE 19TH CENTURY. A CASE-REPORT .................................................................................15
Il Museo di Anatomia Patologica ‘Cesare Taruffi’........................................................................................................16
Malpighi anatomopatologo. Una testimonianza dal Museo Taruffi di Bologna............................................................19
Luigi Sacco e la storia del vaiolo in Italia .....................................................................................................................22
Maltrattamenti postumi..................................................................................................................................................25
1804: Napoleone fonda il museo di patologia di Bologna ............................................................................................25
Come dovrebbero essere gli Universitari: Giovanni Capellini geologo, paleontologo e paleoantropologo (1833-1922)
.......................................................................................................................................................................................30
L’autopsia clinica dell’ottocento a Bologna. Nuove prospettive...................................................................................37
1848-1849: grandi eventi ignorati, dieci anni prima della nascita della scuola bolognese............................................39
The contemporaneous anatomic collections and scientific papers from the 19th century school of anatomy of
Bologna. ........................................................................................................................................................................45
Sovrani illuminati, Napoleone, Pavia, morfologia: i musei anatomici di Bologna........................................................52
2
PAOLO SCARANI
UN AFFASCINANTE LEGAME TRA IL MUSEO DI ANATOMIA
PATOLOGICA E L'ANTICO OSPEDALE DEI PAZZI DEL S. ORSOLA
Il Friuli Medico 46, 1991, 197-212
RIASSUNTO
Il rinvenimento d'una serie di teschi di dementi nel museo di anatomia patologica di Bologna ed il loro
raffronto con pubblicazioni ad essi dedicate, hanno consentito di ricostruire la vita presso l'antico
manicomio dell'Ospedale di S. Orsola nel primo Ottocento. Da ciò è emersa la vivace attività pratica e
scientifica di Domenico Gualandi, direttore del manicomio sino al 1860, rivolta ad un accurato studio
statistico dei ricoverati e ad un'interpretazione delle malattie mentali per mezzo dei criteri frenologici
di Franz Gall. E' anche emersa una sua discretamente buona capacità nella descrizione delle lesioni
anatomopatologiche riscontrate all'autopsia dei malati di mente deceduti durante il ricovero. Ciò in
contrasto con la scadente qualità di una rivisitazione, compiuta nella seconda metà dell'Ottocento, dei
casi autoptici del manicomio, accompagnata da studi antropometrici effettuati su teschi già studiati da
Gualandi. Quest'ultimo studio dimostra poi la presenza anche fra gli studiosi bolognesi della seconda
metà dell'Ottocento di una diffusa tendenza ad incasellare gl'individui, sani o malati di mente, con
criteri rigidi ed incapaci di ammettere cambiamenti futuri, conformemente all'ideologia positivista.
SUMMARY
The collections of the Museum of Pathology 'Cesare Taruffi' of Bologna are presently being compared
with the scientific literature and manuscripts from the epoch of its apogee (1804-1902) with the scope
of creating a reliable catalog of the museum itself.
In such a way it was possible to identify a series of skulls as belonging to mad people who died in the
old madhouse of the Hospital of S. Orsola during the first half of the 19th century. The recovery of a
series of scientific papers of the chairman of the madhouse (Domenico Gualandi, 1788-1861)
concerning the skulls, the revisitation of some statistic studies of the patients admitted at the madhouse
and the rediscovery of the project of a new madhouse for Bologna, permitted to revisit the diagnostic
and therapeutic approaches to the mentally ill people during the first half of the 19th century in
Bologna.
Moreover, the accurate descriptions of the autopsies permitted to appreciate the excellent and reliable
level in diagnostic macropathology achieved in Bologna in spite of the still early phase of the
development of modern morbid anatomy.
The accurate measurements of the skulls through a technique developed by Gualandi himself are of
prominent interest, because they illustrate the tendency to interpret madness in a phrenological way,
using the criteria suggested by Gall for non-mentally ill people. Of course, such criteria are obsolete.
On the other hand, Gualandi appears to be an excellent and reliable morphologist, in spite of the
incorrect interpretation of some data. Such an accuracy is more evident if one compares the studies of
Gualandi with the very inaccurate description of the autopsy cases and the clumsy morphometric
revisitation of the skulls performed by Giuseppe Peli (a disciple of Taruffi) in 1882. In fact, the study
of Peli does especially appear to be profoundly influenced by prejudice, as it was customary among
anthropologists of the second half of the 19th century.
3
INTRODUZIONE
Gli studi sul manicomio dell'Ospedale di S. Orsola di Bologna non sono molti, e fanno per lo più
riferimento a testimonianze scritte di varie epoche, soprattutto ottocentesche. Forse l'opera più
completa è quella di Cesare Ambrosetto (1), pubblicata nel 1984, quando cominciarono a manifestarsi
in Bologna interessi duraturi per la storia della psichiatria locale. L'attenzione degli studiosi è poi
sempre stata più concentrata sulla seconda metà
dell'Ottocento e sulle connessioni tra psichiatria
ed antropologia. Il lungo periodo che va dalla
fondazione dell'ospedale di S. Orsola come
ospedale degl'incurabili (1592) sino alla
chiusura del manicomio nel 1867, in seguito ad
una paurosa epidemia di colera che decimò i
ricoverati, è sempre stato avvolto in una specie
di nebbia, occasionalmente costellata di
agiografie, come quella di Antonmaria
Valsalva, che, durante la sua pratica presso il S.
Orsola, si sarebbe presentato come un
antesignano dell'atteggiamento umanitario nei
Figura 1 strumento craniometrico ideato da Gualandi (9)
confronti dei malati di mente.
Si è invece scritto abbastanza di Domenico Gualandi (1788-1861), responsabile del manicomio del S.
Orsola fino al 1860, e considerato uno dei più autorevoli psichiatri della sua epoca (7).
Buona parte degli scritti del Gualandi è già nota. Figura 2 il teschio di Luigi
Ambrosetto stesso accenna allo strumento (fig. 1) Donini
da lui ideato per effettuare rilievi craniometrici e
riprodotto nella più interessante tra le sue
pubblicazioni (9).
Non risulta invece che sia mai stata fatta una
revisione della sua attività 'sul campo', che
certamente non è lo scopo di questa pubblicazione,
la quale si propone soltanto di presentare del
materiale sino a poco tempo fa dimenticato, e di
probabile interesse per studiosi della storia della
psichiatria italiana.
MATERIALI E METODI
Nel corso del riordino del Museo di anatomia
patologica, fu rinvenuta una serie di 38 teschi con
su scritto a china il termine 'demente', oltre al
nome del paziente e ad un numero. Uno in
particolare, sezionato per il lungo con estrema
cura, porta scritto 'Luigi Donini detto il Papa' (fig.
2)
Grazie al ritrovamento di uno studio antropometrico su una serie di sessantasei teschi di dementi del
museo, compiuto nella seconda metà dell'Ottocento da Giuseppe Peli, un allievo di Cesare Taruffi (18),
4
sono stati identificati quasi tutti i teschi, grazie alla descrizione del Peli stesso, a partire da uno
caratterizzato da un rilievo osseo regolare, ma molto accentuato, nella regione temporoparietale di
destra. Si tratta di una struttura liscia in superficie, costituita da osso uniformemente compatto
all'esame radiologico (osteoma?). Il Peli fornisce anche una classificazione dei teschi in base al modo
di vedere le malattie mentali nella prima metà dell'Ottocento ed una succinta descrizione dell'autopsia.
A detta del Peli, tutti i pazienti erano stati seguiti dal Gualandi. Dopo la loro morte, l'autopsia era stata
eseguita da Antonio Alessandrini (1786-1861), il fondatore dell'anatomia patologica comparata a
Bologna e del gigantesco museo di anatomia patologica comparata, i cui resti oggi si trovano nel
Museo di anatomia patologica veterinaria ed in diversi altri Musei dell'Università. Il quadro è stato
completato dal ritrovamento di un lavoro, già citato, del Gualandi (9), in cui egli riporta la storia
clinica con relativa terapia, il riscontro autoptico eseguito da Antonio Alessandrini ed i rilievi compiuti
sull'encefalo e, soprattutto, sul cranio, di sei dementi deceduti nel manicomio del S. Orsola.
Quattro di questi appartengono anche alla casistica del Peli. Sono però descritti con maggior ricchezza
di particolari, la quale tra l'altro ha permesso di capire il perché del modo peculiare in cui alcuni crani
dei dementi erano stati sezionati.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Di Domenico Gualandi si è già scritto in alcune occasioni, tuttavia in modo abbastanza generico,
dimodoché non si riesce a farsene un'idea precisa. Si attribuisce molta importanza al suo ruolo di
riformatore della psichiatria italiana, anche se, come esempio di ciò, non vengono citate che
marginalmente le statistiche del manicomio del S. Orsola per gli anni dal 1819 al 1838 (10-11).
Celebrato è anche l'interesse del Gualandi per una più intensa circolazione delle idee fra gli psichiatri
italiani, tendenza per altro comune a molti medici dell'Italia preunitaria. Tale idea è in effetti espressa
in un articolo del 1848, con molta preoccupazione per l'arretratezza dei manicomi degli stati italiani
rispetto ad altre nazioni europee (12).
Non ci si fa tuttavia di lui l'impressione di un energico riformatore. I suoi scritti riflettono infatti idee
condivise da molti altri in Italia ed in Europa. E all'atto pratico, non è poi che abbia prodotto molto, per
la trasformazione dell'oramai fatiscente manicomio del S. Orsola. Nel 1849 in effetti Gualandi presentò
un grandioso progetto del nuovo manicomio per Bologna, concepito con amplissime aree verdi,
pubblicato nel 1850 (13), ma rimasto senza seguito. Leggendo questo scritto, non si ha neppure
l'impressione che Gualandi fosse veramente convinto di quanto richiedeva all'Autorità Pontificia,
sembrando quasi che volesse solo genericamente lamentarsi dell'incuria governativa, senza giungere al
centro del problema.
Gualandi si presenta talora come un tipo veramente peculiare. Illustrando i suoi lavori statistici sul
manicomio, per scusarsi di alcune lacune nella raccolta dei dati, lancia una serie di acri accuse contro
un non meglio precisato collaboratore, secondo lui particolarmente ignorante e negligente.
L'ideazione dei modelli per la raccolta dei dati statistici è però interessante. Varrebbe forse la pena di
confrontare quanto pubblicato dal Gualandi con analoghi studi eventualmente compiuti nella prima
metà dell'Ottocento. Purtroppo, i due decenni pubblicati mancano del riscontro autoptico per i
ricoverati deceduti, disponibile, scrive Gualandi, soltanto a partire dall'epoca della presentazione delle
statistiche stesse.
Le qualità di Gualandi come studioso traspaiono meglio, però, dal confronto del suo studio di 6 casi di
malati di mente (9) con quello molto posteriore del Peli (18).
Il lavoro del Peli non è gran ché: i dati sulle autopsie sono riportati in modo acritico; inoltre, le
descrizioni e le terminologie usate sono spesso schematiche, vaghe e di difficile interpretazione.
5
Bisogna dire tuttavia che Peli aveva tratto le informazioni da un 'catalogo del Museo', oggi non
disponibile. E' possibile che esso non fosse stato redatto personalmente da un medico, e che quindi le
informazioni non fossero del tutto attendibili. In ogni caso, Peli non sembra molto preoccupato di farsi
una ragione dei dati disponibili, che sono riassunti nelle tabelle 1 e 2. I dati autoptici sono abbastanza
disomogenei. In quattro casi mancano del tutto, ed in diciotto è fornita la sola descrizione del sistema
nervoso centrale. E' probabile che in quest'ultimo caso si tratti di autopsie incomplete. Nella
pubblicazione del Gualandi su sei dementi (9) è infatti riportato un caso in cui, non essendo stato
possibile eseguire l'autopsia completa, il cadavere a distanza di tempo fu decapitato, probabilmente di
nascosto, per poterne studiare almeno il cranio e l'encefalo.
Si può osservare l'alta frequenza dell'iperemia delle meningi e del tessuto nervoso. Questo è anzi il dato
cui Peli attribuisce maggior importanza, teorizzando che esso possa anche essere la causa della malattia
mentale e che sia dovuto ad una stasi ematica conseguente alla supposta minor ampiezza del forame
giugulare, presente, secondo quell'autore, in quasi tutti i teschi dei dementi. Come vedremo, vi son
buone ragioni per ritenere che questa supposta modificazione patologica sia nella maggior parte dei
casi non significativa.
Dubbia d'altra parte rimane anche l'interpretazione della maggiore o minor (rammollimento)
consistenza del tessuto nervoso e dell'abnorme quantità di liquor negli spazi subaracnoidei o nei
ventricoli. Nel caso dell'aumentata consistenza, si potrebbe pensare alla descrizione di un edema della
sostanza nervosa del tipo citotossico. Non è tuttavia precisato se i solchi siano assottigliati e le
circonvoluzioni inspessite.
L'aumentata quantità di liquor negli spazi subaracnoidei e nei ventricoli, talvolta descritte
contemporaneamente in un singolo caso, potrebbero suggerire un idrocefalo ex vacuo, secondario ad
atrofia del tessuto nervoso. Quest'interpretazione non è tuttavia sicura, in quanto, nei 5 casi riportati
come 'atrofia', Peli parla chiaramente di abnorme profondità dei solchi tra le circonvoluzioni o di
un'eccessiva ampiezza delle cavità ventricolari. Sembra quindi si debba trattare di fenomeni distinti.
Non è chiaro tuttavia se si possa inquadrare quest'aumento del liquor in patologie ben precise
(ostruzione al deflusso del liquor). Manca infatti la segnalazione d'un'espansione degli spazi liquorali.
Non sembra che si possa neppure pensare a leptomeningiti. La diagnosi di leptomeningite acuta in
cinque casi è stata infatti posta con sicurezza, senza far riferimento alla quantità di liquor rilevata.
Il rammollimento della sostanza nervosa è anch'esso un termine apparentemente non usato
nell'accezione attuale. Peli sembra infatti per lo più riferirsi ad aree di diminuita consistenza
estremamente vaste oppure con distribuzione troppo irregolare, per poterle riferire alla regolare
topografia del rammollimento bianco o rosso. Tanto più che in un altro caso della serie viene usato il
termine odierno appropriato (infarto rosso). Sembra quindi trattarsi di modificazioni non correlate col
rammollimento bianco o rosso nella mente di chi eseguì le autopsie.
La pachimeningite iperplastica è oggi messa in rapporto con patologia traumatica locale e con la
propagazione della tubercolosi leptomeningea od ossea alla dura madre. I due casi di sicura tubercolosi
della serie del Peli non corrispondono ad alcuno dei sei con la pachimeningite. Le altre patologie,
encefaliche ed extraencefaliche, associate, sono estremamente eterogenee, per poter far pensare a tratti
comuni fra i sei casi. L'unico dato di un certo interesse è che due di questi casi si associano al rilievo di
un'aumentata quantità del liquor intraventricolare e subaracnoideo. Si potrebbe pensare ad
un'ostruzione del deflusso del liquor da parte del processo pachimeningitico, pur con le riserve
enunciate più sopra.
Il fatto che nelle descrizioni autoptiche del Peli vengano segnalate anche le concrezioni epifisarie, porta
a supporre che, in mancanza di modificazioni patologiche importanti e ben definite dell'encefalo, si
cercasse di segnalare tutto ciò che appariva anomalo, o per lo meno insolito, e quindi, anche la
6
consistenza del tessuto nervoso, la quantità del liquor, eccetera. Lo scopo maggiore di queste autopsie
era infatti quello di trovare una spiegazione materiale della demenza. Al tempo del Gualandi e
dell'Alessandrini (prima metà dell'Ottocento), quando furono eseguite queste autopsie, la dottrina
anatomopatologica macroscopica era ancora in fase di consolidamento. Molto di quello che 'è da
sapersi in anatomia patologica', con poche eccezioni, era già noto, come si può constatare dalla
splendida opera del Rokitansky (20). Alla ricerca, come si è detto, di qualcosa di anomalo
nell'encefalo, per poter spiegare il quadro demenziale riscontrato, i patologi dell'Ottocento spesso non
trovavano modificazioni significative. Questo quindi giustifica la tendenza del Peli a valorizzare tutte
le peculiarità, anche minime, riportate nei resoconti sull'esame dell'encefalo.
Quello che però occorreva a Peli era un tratto comune a tutti gli encefali dei dementi, tale da dare una
spiegazione generale della loro affezione. Egli credette di trovarlo nell'iperemia meningoencefalica.
Dato il presupposto che l'iperemia fosse l'espressione morfologica della malattia mentale, Peli passò
alla ricerca della causa dell'iperemia, misurando i sessantasei crani allora disponibili, coi criteri di Paul
Broca e di Luigi Calori (3-4). In tal modo, confrontando le proprie misurazioni con quelle ottenute in
precedenza da Calori in maschi e femmine adulti normali del territorio bolognese, giunse alla
conclusione che i dementi si differenziano dagli individui normali per avere una capacità cranica
significativamente superiore ed un insufficiente sviluppo del forame giugulare, tale, secondo lui, da
giustificare nei dementi un rallentamento del deflusso del sangue dalla cavità cranica, e, di
conseguenza, la spesso rilevata iperemia meningoencefalica. Sulla discutibilità del dato dell'iperemia si
tornerà successivamente, dopo aver accennato al valore degli studi craniometrici del Peli. In un lavoro
recente sui teschi oggi ancora disponibili (21) sono stati infatti dimostrati, nella pur enorme quantità di
dati raccolti, vari errori di misurazione e di confronto con serie normali, tali da inficiare completamente
le conclusioni di Peli su di una pretesa differenza fra i crani dei malati di mente e quelli della
popolazione bolognese considerata normale. La capacità cranica, considerando le misure stesse
riportate da Peli e confrontandole con quelle del Calori (4), dimostra una differenza appena dell'1,2%
fra le due serie. Inoltre, Peli aveva usato per il confronto, nelle tabelle del Calori, una serie consecutiva
di misure craniche i cui valori erano decisamente bassi, rispetto a quelli successivamente riportati nelle
stesse tabelle. Confrontando invece la serie del Peli con l'intera serie delle misure di crani normali del
Calori, le differenze volumetriche tendono a sparire completamente. Anche la correlazione capacità
cranica-forame giugulare-iperemia meningoencefalica presenta non pochi aspetti discutibili. In ogni
caso, i dati che Peli ha ottenuto dal confronto con una serie di teschi del museo appartenenti ad
individui non dementi non fanno apparire significativa la differenza d'ampiezza del forame giugulare
riscontrata da Peli. Sfortunatamente, Peli non specifica di quali crani si sia servito, e non è stato
possibile ripetere il confronto.
Dati antropometrici a parte, è il tema dell'iperemia che si dimostra del tutto inconsistente.
Il lavoro del Peli pone non poche perplessità, fra le quali anche alcune sulle sue reali capacità di
discernimento come anatomopatologo. All'epoca della pubblicazione del suo studio antropometrico,
aveva già frequentato per due anni l'Istituto del Taruffi, ed aveva a disposizione una ricca biblioteca, in
grado di permettergli di presentare in modo più circostanziato i dati autoptici raccolti dal catalogo del
museo. Anche la sola consultazione del testo del Taruffi 'Anatomia patologica generale', del 1870 (22),
gli avrebbe dovuto consentire di comprendere che le numerose iperemie meningoencefaliche della
casistica, da lui considerate il quadro anatomopatologico più frequente, erano in realtà espressione
d'ipostasi postmortali. Sulle prime mancavano le prove per questi sospetti. Tali prove furono fornite dal
lavoro già citato di Domenico Gualandi (9), dove l'iperemia meningoencefalica dei casi corrispondenti
a quelli del Peli non è presentata come patologica, ma come ipostasi postmortale, in quanto più
abbondante nelle parti declivi dell'encefalo.
7
Complessivamente, la descrizione delle autopsie nel lavoro del Gualandi è alquanto accurata, e, pur
mostrando le difficoltà di un'epoca in cui l'anatomia patologica macroscopica moderna era ancora in
corso di sviluppo, consente di riconoscere vari quadri patologici, come il morbo di Pott con ascesso
freddo e sviluppo di gibbo dorsolombare, che colpì il cosiddetto 'Papa' due mesi prima della morte, ed
una stenosi dell'acquedotto del Silvio in un altro paziente con una lunga storia di epilessia. Non sempre
le descrizioni di Gualandi sono felici. Per esempio, in un terzo caso egli è convinto di rilevare
un'anomalia di conformazione del fornice, fra l'altro rappresentata in modo incomprensibile in una
tavola illustrativa del suo lavoro (9). A parte questo,
Gualandi dimostra di avere una conoscenza del tutto
erronea dell'anatomia normale di questa struttura
encefalica. Non si è per ora rinvenuto materiale dell'epoca
del Gualandi atto a permettere di capire con precisione le
conoscenze neuroanatomiche di allora. E' invece sicuro che,
già nel 1876, nelle opere di anatomia dell'Henle (14) la
struttura macroscopica del fornice era rappresentata e
descritta come lo è oggi. Ciononostante, Peli riporta le
considerazioni erronee del Gualandi senza modificarle.
Figura 3 cranio sezionato longitudinalmente,
per le rilevazioni frenologiche
La descrizione accurata delle autopsie dei dementi è
soltanto uno dei pregi del lavoro del Gualandi.
Essa ha infatti permesso di capire il perché dell'accurata sezione longitudinale di alcuni crani, come
quello del 'Papa' (fig. 3). Con tale sezione Gualandi
poteva riprodurre su di un foglio il contorno del cranio
(fig. 4) per le successive valutazioni antropometriche e
poteva meglio servirsi dello strumento da lui ideato per
le misurazioni. L'esatto funzionamento di questo
strumento è però ignoto, in quanto il Gualandi non lo
descrive, e lo strumento stesso non è stato finora
ritrovato, neppure presso il Museo di Antropologia di
Bologna (5).
Scopo delle misurazioni dei crani era di stabilire la
presenza di differenze qualitative o quantitative rispetto a
quelli d'individui normali. Questa fu la tendenza di tutta Figura 4 rappresentazione grafica delle
la psichiatria dell'Ottocento. All'epoca del Gualandi (sino valutazioni craniologiche del Gualandi
alla metà del secolo) si tentava di applicare alle malattie
mentali i criteri stabiliti da Franz Gall e da altri frenologi, secondo i quali, a determinate zone della
convessità del cranio corrispondono determinate funzioni psichiche, qualità morali ed attitudini
comportamentali dell'individuo.
8
Da ciò scaturiva la necessità di misurare con cura tutti i rilievi e le bozze
della calotta cranica, in quanto alla presenza in eccesso o in difetto di
determinate qualità individuali doveva, secondo i frenologi,
corrispondere una maggiore o minor procidenza delle zone
corrispondenti del cranio. Nei malati di mente si pensava di dover
riscontrare un maggiore o minor sviluppo di quelle zone (denominate
tecnicamente 'organi' e numerate) la cui funzione era da supporsi alterata
in un determinato demente.
Questo è in effetti il criterio cui si attiene il Gualandi per definire il
cosiddetto 'Papa', nel quale egli sostiene di riscontrare particolarmente
sviluppati gli 'organi' galliani n. 8 e 9, corrispondenti ad un eccesso di
superbia ed ambizione. Certamente a Bologna si seguivano i criteri della
frenologia, se nel museo di anatomia patologica si trova ancora oggi un
modello di cera in cui sono riportati gli 'organi frenologici'. Tale modello
Figura 5 organi frenologici
è firmato da Giuseppe Astorri (fig. 5), il più noto preparatore e ceroplasta secondo Combe (cera di
anatomico dell'Università di Bologna nella prima metà dell'Ottocento. Giuseppe Astorri)
L'ultimo modello di cera attribuito ad Astorri è del 1840 (17); è pertanto
non inverosimile pensare che il modello sia stato eseguito su commissione del Gualandi.
C'è però un particolare misterioso: i numeri degli organi frenologici del modello corrispondono in
effetti a quelli che Gualandi considera abnormemente sviluppati nel teschio del Papa. Gualandi li
denomina 'organa Galliana', ma non corrispondono a quelli delle pubblicazioni del Gall, bensì a quelli
di una pubblicazione di George Combe del 1833 (15).
La dottrina galliana era in effetti tutt'altro che precisa ed univoca; incontrava fra l'altro molto
scetticismo in diversi ambienti. Furono anzi probabilmente le molte difficoltà da essa incontrate che
portarono alle indagini ed alle grandi scoperte di Paul Broca, che fra l'altro diede un contributo
fondamentale allo sviluppo in senso scientifico dell'antropometria (3).
Nella biblioteca antica dell'Istituto di anatomia patologica, in corso di riordino, è stata di recente
recuperata un'opera di George Combe (6), del 1844, in cui gli 'organa Galliana' sono disposti come nel
modello di Astorri, con l'eccezione dell'aggiunta di un nuovo 'organo' nella regione zigomatica. La data
dell'opera fa però pensare che, per quanto detto più sopra, essa sia posteriore al modello astorriano.
Esso dovrebbe dunque più probabilmente derivare dall'altra opera di Combe (15).
Il lavoro di Gualandi di cui ci stiamo occupando è interessante perché ce lo presenta a tutto campo nel
corso della sua attività pratica presso il manicomio del S. Orsola.
Le storie cliniche descritte, sono illustrate con ricchezza di particolari. Le interpretazioni sono forse
discutibili, tuttavia, come per le autopsie, uno psichiatra può riuscire agevolmente a riconoscere le
sindromi. Forse questi sei casi non sono indicativi, in quanto probabilmente si tratta di situazioni
eccezionali, cui Gualandi aveva dedicato maggior attenzione che non ad altre più routinarie. Alcuni
brani della pubblicazione farebbero tuttavia pensare che Gualandi fosse in qualunque caso
particolarmente preciso e scrupoloso. Questi sei casi sarebbero infatti stati da lui presentati soprattutto
per i buoni risultati ottenuti, almeno in alcuni, con la terapia. Ciò lascia un po' perplessi, in quanto,
mentre tre pazienti vissero per molti anni, altri tre non arrivarono a due anni ed uno addirittura visse
soltanto per pochi mesi dopo il ricovero.
Va tuttavia considerato il fatto che i decessi presso il manicomio del S. Orsola erano piuttosto numerosi
(30% dei ricoveri), come si può dedurre dai due lavori statistici già citati (10-11), anche se questi valori
appaiono male interpretabili, in quanto non sono per ora disponibili dati sul numero dei decessi presso
altri ospedali bolognesi nella stessa epoca.
9
Figura 6 ritratto di Luigi Donini
Nel corso della descrizione della storia clinica,
Gualandi fornisce anche molte informazioni sul suo
orientamento terapeutico in funzione dei diversi
problemi, di tipo psichiatrico o di pertinenza della
medicina generale, che i suoi sei pazienti di volta in
volta gli hanno posto. Le terapie non farmacologiche
sono essenzialmente di due tipi: salassi e bagni tiepidi o
freddi. I salassi non vengono fortunatamente utilizzati
molto spesso da Gualandi, che altrettanto raramente si
serve dei bagni freddi.
L'uso di farmaci appare per lo più empirico.
Abbastanza frequente è l'uso di purganti, anche
energici (calomelano o gialappa). Per il resto, Gualandi
utilizza prodotti estrememente vari, praticamente tutti
naturali (scilla, belladonna, giusquiamo, ecc.). In certi
casi l'uso di farmaci risulta poco comprensibile. Tale è
il caso della digitale, che anche da altri veniva
utilizzata per le malattie mentali e solo sporadicamente
per l'azione cardiocinetica. La farmacologia moderna
doveva ancora nascere, proprio a causa dell'uso,
ancora, di prodotti naturali, dotati fra l'altro
dell'inconveniente di una concentrazione estrememente
variabile del prodotto attivo.
La storia clinica è interessante anche per un altro motivo. Gualandi fornisce particolari anche molto
dettagliati della vita dei sei pazienti e del decorso clinico della malattia mentale.
In due casi si tratta di personaggi a quei tempi piuttosto famosi a Bologna: un giurista ed un frate
predicatore, che per qualche tempo aveva abbandonato il saio, per seguire Napoleone. Le storie sono
talora grottesche, come quella del cosiddetto 'Papa' (fig. 6). Questi, convinto di essere il legittimo
Pontefice, ne combinò veramente di tutti i colori durante il lunghissimo ricovero. Fra l'altro promise la
morte all'Imperatore d'Austria Francesco I, qualora non lo avesse restituito al Soglio Pontificio ... e così
fu dopo poche settimane. Era poi un onanista compulsivo, e si abbandonava ai suoi eccessi durante i
bagni tiepidi, nonostante Gualandi avesse per lui ideato speciali manopoloni con cui impedirgli
l'attività.
Per sedici dei teschi di dementi attualmente disponibili, nella pubblicazione del Peli (18) sono riportati
reperti anatomopatologici extraencefalici.
Anche questi dati si possono suddividere in due gruppi, come quelli riguardanti il sistema nervoso. Un
gruppo consta cioè di diagnosi presumibilmente corrette (polmonite, quadro compatibile con
tubercolosi, pleurite adesiva, emotorace, pleurite acuta, idrotorace, idropericardio, ascite). I casi,
invece, come l'iperemia intestinale, fanno più pensare a modificazioni postmortali considerate
erroneamente patologiche.
Il caso in cui sono descritte strozzature multiple del colon, fa parte anche della pubblicazione del
Gualandi. Si tratta di quello in cui è riportata l'erronea descrizione d'un'anomalia del fornice.
10
Quest'uomo, di 28 anni, morì sei mesi dopo il ricovero in manicomio, e proveniva dal carcere di
Bologna, dove, Gualandi sostiene, era stato sottoposto a brutalità varie dai guardiani. La storia clinica
lo fa ritenere più un disadattato sociale che un demente. Poco tempo prima della morte, quest'uomo
manifestò una sintomatologia dolorosa addominale (quadranti superiori) insopportabile che lo portò
alla morte. Il referto autoptico del Gualandi riporta, oltre alle strozzature del colon, una polmonite,
associata a pleurite ed idropericardio. Questa descrizione indubbiamente non è esauriente. Lascia
infatti aperte troppe spiegazioni: attribuire tutto il quadro alla polmonite, pensare a qualche patologia
miocardica non riconosciuta, supporre un'ostruzione del colon da parte di qualche processo patologico
non identificato o mal descritto.
L'ipotesi di un'affezione del colon lascia perplessi, in quanto la patologia macroscopica del tubo
digerente era rilevata con sufficiente accuratezza nella prima metà dell'Ottocento a Bologna. Ciò è
dimostrato dai vari preparati essiccati di porzioni del tubo digerente ancora oggi reperibili nel Museo
Taruffi. Di molti di essi sono anche state recuperate precise descrizioni in manoscritti o pubblicazioni
dell'epoca. In diverse di queste sono ben riconoscibili neoplasie maligne, anche se la natura di tale
processo patologico non era ancora adeguatamente conosciuta.
I due casi della serie del Peli in cui è segnalata una retrazione dello stomaco, rammentano altre
descrizioni di casi del Museo Taruffi, molto più dettagliate, corrispondenti con notevole
verosimiglianza a neoplasie gastriche maligne. L'età d'uno dei due pazienti di questa casistica è in un
caso forse troppo bassa (27 anni). In esso, una donna, è anche riportato un aumento di volume dei
linfonodi mesenterici, sede un po' atipica per le metastasi del cancro gastrico.
Non è opportuno esagerare con le interpretazioni. Sarebbe infatti molto più serio cercare di recuperare
materiali essiccati o in alcol ottenuti da queste autopsie ed eventualmente ancora conservati nel museo
Taruffi.
Vale la pena di aggiungere che è sorprendente, in questa serie d'autopsie, non trovare praticamente
alcun riferimento a patologia cardiaca, nemmeno tra quelli dei sessantasei casi di Peli, il cui teschio
non è ancora stato recuperato.
La patologia del cuore non era ignota, nella prima metà dell'Ottocento, e se ne rinvengono diversi
esempi nel museo: malattie pericardiche, valvolari e dell'aorta. Manca invece quasi del tutto la
patologia del miocardio e delle coronarie. La prima descrizione in assoluto di un infarto con cognizione
di causa sembra risalire all'inizio degli anni cinquanta dell'Ottocento. Ciononostante, l'infarto
miocardico come tale è accettato ufficialmente soltanto all'epoca della prima guerra mondiale
(Giuseppina Bock Berti, comunicazione personale).
A Bologna, senza dubbio, l'infarto miocardico era ancora poco noto all'inizio di questo secolo. Infatti
Giovanni Martinotti, allora titolare della cattedra d'anatomia patologica, nel corso di una perizia
medicolegale arroventata da furibonde polemiche, non seppe riconoscere un infarto miocardico, pur
avendolo descritto discretamente bene (16).
CONCLUSIONI
I materiali museali e bibliografici rinvenuti presso il Museo di Anatomia patologica 'Cesare Taruffi' e
presso la sezione antica della biblioteca dell'Istituto di Anatomia patologica di Bologna, non presentano
l'ambiente della psichiatria della città come particolarmente diverso da altri, italiani ed europei.
Spiccano infatti, come sempre, i tentativi di 'umanizzare' la psichiatria con un'istituzionalizzazione
ragionata. E' vivo anche il problema di trovare una terapia adeguata.
Soprattutto domina però l'interesse a fornire una spiegazione della malattia mentale, che, allora come
oggi, appariva come un'entità troppo impalpabile ed evanescente, e facilmente passibile di abusi (19).
11
Indubbiamente, l'approccio frenologico del Gualandi è sbagliato. Sembra tuttavia di percepire ancora in
quello psichiatra un volto umano: quello del medico dei pazzi, realmente interessato ad un
miglioramento della loro condizione.
Diversa è invece l'impressione che suscita Peli. A parte gli errori nella misurazione e la scelta di un
campione di teschi normali che si prestano a dimostrare la sua tesi secondo la quale i crani dei dementi
sono più voluminosi che negl'individui normali (21), sembra di percepire qualcosa di ben peggiore, e
comune a tanti altri studiosi di antropometria e psicologi del secolo scorso e del nostro attuale (8).
Peli risulta infatti una specie di applicatore di etichette, per giunta molto grossolano, probabilmente
non interessato a modificare la situazione degl'individui che sta studiando, ma a creare soltanto delle
categorie, per altro false, date le premesse sbagliate, che purtroppo, pur con termini diversi, persistono
tuttora nella mente di personaggi anche autorevoli e con la responsabilità di prendere decisioni
importanti per la collettività (2).
BIBLIOGRAFIA
1) Ambrosetto, C.: La neuropsichiatria in Bologna dalle origini dell'Università sino alla prima metà del
XX secolo. ATTI DELLA ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA CLASSE DI SCIENZE FISICHE. Serie V N. 3: 5-165, 1984.
2) BOUZA A. V.: The Police mystique. An insider's look at cops, crime, and criminal justice system,
pagg. 16-22, Plenum, New York 1990.
3) BROCA, M. P.: Instructions craniologiques et craniométriques. Mémoires de la Société
d'Anthropologie de Paris, II Série, Tome II, 1-204, 1875.
4) CALORI, L.: Del tipo brachicefalico negli Italiani odierni. MEMORIE DELLA ACCADEMIA
DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA, Serie II, Tomo VIII, 205-287, 1868
5) CALANCHI, E.: La collezione degli strumenti del Museo di Antropologia. CLUEB, Bologna 1991.
6) COMBE, G.: Outlines of phrenology. Maclachlan, Stewart & Co, Edinburgh 1844.
7) De Peri, F.: Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto
e Novecento. In: Della peruta, F. et Al: Storia d'Italia, Annali 7, Malattia e medicina, pagg. 1059-1140.
Einaudi, torino 1984.
8) GOULD, S. J.: The mismeasure of man. pagg. 30-112. W. W. Norton & Co., New York-London
1981.
9) Gualandi, D.: De stultitia considerationes generales doctoris decurialis Dominici Gualandii quibus
accedunt peculiares casus ab eodem descripti ac in omnem partem expansi si quod fundamentum et
normam rationi et usui in ea dignoscenda et curanda infirmitate suppeditent. MEMORIE DELLA
ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA, Serie I, Tomo II, 489-560, 1850,
(presentato nel 1838).
10) Gualandi, D.: Specimen statisticae medicae manicomii divae Ursulae Bononiae. NOVI
COMMENTARII ACADEMIAE SCIENTIARUM INSTITUTI BONONIENSIS N. 6, 19-29, 1844.
11) Gualandi, D.: Specimen statisticae medicae manicomii sanctae Ursulae alterum decennium. NOVI
COMMENTARII ACADEMIAE SCIENTIARUM INSTITUTI BONONIENSIS N. 7, 165-174, 1844.
12) Gualandi, D.: Di un'associazione fra i medici alienisti italiani. Memorie dell'Accademia delle
Scienze dell'Istituto di Bologna. Serie I, Tomo II, 15-23, 1848.
13) Gualandi, D.: Della costruzione di un manicomio pubblico. Memorie dell'Accademia delle scienze
dell'istituto di Bologna. Serie I, Tomo I, 247-258, 1850.
14) HENLE, J.: Anatomischer Hand-Atlas zum Gebrauch im Secirsaal. Fuenftes Heft: Nerven.
Vieweg, Braunschweig 1876
12
15) KRAUSS, W.: Franz Galls Shaedellehre. In: CLAIR, J. et Al: Wunderblock. Eine Geschichte der
modernen Seele, pagg. 199-204. Wiener Festwochen Verlag, Vienna 1989.
16) MARTINOTTI, G.: Intorno ad una perizia giudiziaria. Premiato stabilimento tipografico
Successori Monti, Bologna 1906
17) MONDINI, F.: Vitiata partium genitalium conformatio in puella infante, et considerationes circa
organicam hanc formam abnormem. NOVI COMMENTARII ACADEMIAE SCIENTIARUM
INSTITUTI BONONIENSIS N. 8, 183-197, 1846.
18) Peli, G.: Intorno alla craniologia degli alienati. Studio in sessantasei teschi. MEMORIE DELLA
ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA, Serie IV, Tomo III, 305-362,
1881.
19) PORTER, R.: A social history of madness, pagg. 8-38. Weidenfeld e Nicolson, London 1987.
20) ROKITANSKY, C.: Lehrbuch der pathologischen Anatomie. Wilhelm Braumueller, Wien 1856
21) Rubini, M.; Scarani, P.: Studio antropologico e patologico su 38 crani di individui deceduti durante
la prima metà del XIX secolo presso il manicomio dell'ospedale di S. Orsola a Bologna. Patologie
associate e variabilità dei caratteri metrici e discontinui. RIVISTA DI ANTROPOLOGIA 67, 273-286,
1989.
22) TARUFFI, C.: Anatomia patologica generale, pagg. 11-32. Regia Tipografia, Bologna 1870.
13
Paolo Scarani
DIE PATHOLOGISCHEN MOULAGEN VON GIUSEPPE ASTORRI (vor
1840)
Wissenschaft im Deutschen Hygiene-Museum, Band 1, Verlag des Deutschen Hygiene-Museums,
Dresda 1993
Die anatomischen Moulagen von Bologna, welche im achtzehnten Jahrhundert von Ercole Lelli,
Anna Morandi und Giovanni Manzolini gemodelt wurden, sind auf der ganzen Welt berühmt.
Scheinbar, ist diese sehr bekannte Schule am Ende jenes Jahrhunderts plötzlich verschwunden. Die
Historiker sind manchmal zu träge und versuchen nicht, zu forschen, ob etwas allmählich aufgehört
hat oder einfach in Vergessenheit geraten ist. Das war das Schicksal der Moulagen vom
Pathologischen Museum von Bologna, die im neunzehnten Jahrhundert gemodelt wurden und erst
1984 wiederentdeckt worden sind.
Zwei Arten von Moulagen (beziehungsweise, ganz allgemein gesagt, pathologische Präparate)
lassen sich unterscheiden: sie stehen sich in zwei verschiedenen historischen Perioden gegenüber:
vor- und nach dem Anschluss von Bologna zum Königreich von Sardinien. Die erste Periode ist
von den Arbeiten von Giuseppe Astorri gekennzeichnet.
Von Astorri, kenne Ich nichts mehr als dessen Präparate und einige Handschriften, die mir sehr
nützlich waren, die gemodelten Krankheiten zu erkennen, und die Werke zu datieren. Das jüngste
Präparat von Astorri vom Pathologischen Museum in Bologna ist die Moulage einer zystischen
Geschwulst am Unterkiefer, welche mit dem Jahr 1838 datiert ist.
Die sorgfältige Darstellung der Krankheiten und der Missbildungen ist an einem Präparat, in
welchem Astorri zwei siamesische Zwillinge dargestellt hat, besonders ersichtlich. Aus einer
Veröffentlichung und Abbildung beziehungsweise einer Zeichnung der damaligen Zeit, kann man
erkennen wie das natürliche Vorbild und das Präparat genauestens übereinstimmen.
11 Moulagen von Astorri wurden von Restauratoren sorgfältig gesäubert. Die Restauratore wurden
mir vom Verantwortlichen des Denkmalamtes von Bologna empfohlen.
Über die von Astorri angewandte Technik existieren keine schriftlichen Unterlagen.
Im Keller des pathologischen Institutes von Bologna konnte ich jedoch zu meiner Überraschung
einige schriftliche Aufträge aus der Zeit von 1816 bis 1886 finden. Anhand dieser Bestellungen,
war es mir möglich, die zur Moulagenherstellung benutzten Materialien irgendwie
zu
identifizieren. Aus manchen Bestellungen geht sogar die Anwendung der verschiedenen
Materialien hervor.
Während der Restaurierungsarbeiten wurde mir klar, daß die Herstellungsweise beziehungsweise
die Materialien der Wachspräparate von Astorri im Gegensatz zu den anderen Präparatoren der
damaligen Zeit verschiedentlich waren.
Bei der Restaurierung bemerkte ich auch, welchen Schwierigkeiten Astorri gegenüberstand und
zwar Geschwülste welche von der Festigkeit her unterschiedlich sind einen Scagliolaabguß vom
pathologischen Muster zu realisieren.
Vor 1859 waren der Hintergrund und die Steher der Moulagen jeweils farbenmäßig dem Präparat
angepaßt. Später wurden selbst die goldenen Rahmen des Hintergrundes mit schwarzer Farbe
übermalen. Bei der Restaurierung im Jahre 1991 wurden die originalen Farben wieder freigelegt.
14
Astorri war der größte Präparator von Bologna im neunzehnten Jahrhundert: seine Nachfolger, wie
Cesare Bettini und Enrico Contoli, sind von weniger Bedeutung.
Leider hat im Herbst 1992 ein Wandregal nachgegeben, beziehungsweise ist auf dem Boden
gefallen, wobei zwei Moulagen beschädigt wurden. Das Mädchen mit Pellagra ging dabei in
Brüche. Durch den Unfall bekam ich Einsicht in das innere der Moulage, welche aus einem in
Wachs getauchtem Leinenstoff und einer Füllung aus Pflanzenfasern besteht. Bin mir aber nicht
sicher ob die Füllung von Astorri stammt, da die Moulage des öfteren und zum Teil schlecht
restauriert worden ist. An den Bruchstellen kann man die verschiedenen Wachsschichten erkennen.
Die innere Schicht ist farblos, während die äußere so gefärbt ist, daß sie dem Original entspricht.
15
Paolo Scarani, Giuseppe Volta
THE USEFULNESS OF OLD DOCUMENTS IN RECLASSIFYING THE
MUSEUMS OF ANATOMIC PATHOLOGY OF THE 19TH CENTURY. A
CASE-REPORT
Ascoli Piceno, giugno 1993 Adriatic society of pathology:
The museums of anatomic pathology of the 19th century are an
invaluable source for reliable information and comparison in
palaeopathology. However, the original documents or papers
describing the relevant clinical cases are often missing. The
usefulness of a recovery of such documents is stressed by the
case reported here.
A natural skeleton of the
museum
of
anatomic
pathology "Cesare Taruffi"
of Bologna was recently
restored. Some peculiarities
of the wormian bones and
of the teeth permitted to
identify it in a figure
illustrating a paper issued
by Cesare Taruffi in 1883.
The case described a 23years-old dwarf whose
Figura 7 scheletro con caratteristiche thyroid gland was reported
to be absent.
infantili (denti decidui e cartilagini
d'accrescimento)
In the later inventories, the
skeleton
had
been
erroneously attributed to a boy. Moreover, the prominent
deformity of the cervical spine had been interpreted as a
technical artifact.
In fact, the man, Taruffi explained, had such an anomalous
Figura 8 ritratto dell'uomo di 22 anni,
posture, as demonstrated by a previous paper of the same author con atrofia della tiroide, cui
where the naked living man is portrayed.
apparteneva lo scheletro della fig. 7
16
Paolo Scarani, Vincenzo Eusebi
Il Museo di Anatomia Patologica ‘Cesare Taruffi’
Gli Ospedali Della Vita 23 (2), 1996, 101-104
Il Museo Taruffi, situato presso l'attuale Istituto di Anatomia e Istologia Patologica del Policlinico
S. Orsola, è un’idea francese. Si sviluppa infatti a partire dal 1804, durante la dominazione
Napoleonica, contemporaneamente ad altri musei europei, come quello di Pavia. In essi vengono
raccolti preparati patologici corredati dalla storia clinica, in forma sia di schede che di
pubblicazioni. Musei di questo tipo erano dedicati agli studiosi, piuttosto che ai visitatori generici.
Per tale ragione i curatori bolognesi tenevano dettagliati inventari, e periodicamente riaggiornavano
l’archivio con molto scrupolo. Uno di essi, Luigi Rodati, un professore di medicina che si occupò
del museo fino al 1832, pubblicava periodicamente, in lingua latina, gli elenchi dei nuovi materiali
raccolti, allegando ai casi più interessanti le notizie cliniche. Queste sono risultate di estrema utilità
nella recente riclassificazione dei preparati.
Sino al 1907, quando fu trasferito presso l’edificio degli Istituti Anatomici di via Irnerio, il Museo
di Patologia, dal 1859 di Anatomia Patologica, fece parte del gruppo dei grandi musei del Rettorato,
ed era dotato di un laboratorio presso cui operavano tecnici di grande valore. I preparati anatomici,
in alcol od essiccati, richiedevano infatti notevole abilità, innanzitutto nella dissezione anatomica,
poi nell’essiccamento, nell’insufflazione degli organi cavi, nell’iniezione dei vasi con liquidi
colorati, e nell’allestimento di copie di cera o d’altri materiali. Era importante avere anche a
disposizione abili disegnatori ed incisori per allestire le tavole delle pubblicazioni.
Un simile apparato era molto costoso. La preparazione di alcuni modelli di cera, le cui note spesa
per l’acquisto dei materiali e per il pagamento dei modellatori si trovano ancora negli archivi,
equivalevano talora a 20-30 milioni attuali. Era quindi necessaria la disponibilità alla copertura
delle spese da parte della classe dirigente di allora.
Con la caduta dell'Impero napoleonico, l'impegno verso il museo da parte del restaurato governo
Pontificio non venne meno, grazie a Carlo Oppizzoni, Cardinale Legato della prima fase dell’epoca
della Restaurazione. Questi promosse il riordino della facoltà medica, sottolineando l'importanza
delle autopsie col regolamento per la sala anatomica didattica, nonché con l'istituzione di un premio
per il dissettore che fornisse ciascun anno il maggior numero di preparati al museo di patologia. Il
Cardinale Oppizzoni favorì anche la creazione di un rapporto stabile fra la Società medica
chirurgica di Bologna ed il Museo. Tale rapporto consisteva nell'obbligo assunto dalla Società ad
inviare le relazioni cliniche svolte dai propri membri nel corso delle riunioni periodiche, corredate
da preparati anatomopatologici o da loro copie, al curatore del museo di patologia. In tal modo il
museo divenne il custode permanente di una grande quantità di preparati, accompagnati da una
cospicua documentazione archivistica e da parecchie pubblicazioni.
Cesare Taruffi (1821-1902) fu l'ultimo curatore del museo ed il primo professore di Anatomia e
Istologia Patologica della nostra Università, a partire dall'annessione di Bologna al Regno di
Sardegna (1859). Pur trattandosi di un convinto assertore dell'uso del microscopio e delle
tecnologie moderne negli studi morfologici, contrariamente all'orientamento di molti altri studiosi
bolognesi dell'epoca, Taruffi era molto sensibile all'importanza del museo di Anatomia Patologica.
Riordinò le già cospicue collezioni da lui ereditate (circa 2000 nel 1859), cercando di ottenere da
altri musei i preparati riguardanti la patologia umana. Al suo ritiro, nel 1893, le collezioni
raggiunsero il numero di oltre 4000.
17
All'inizio di questo secolo il museo iniziò il proprio declino, dovuto senz'altro al mutamento degli
interessi dei patologi (biopsie, studio del pezzo chirurgico), ma anche alla mancanza di un
laboratorio per l'allestimento di preparati anatomici o di loro copie, e soprattutto alla scomparsa
della tradizione dei preparatori. La necessità dei musei di Anatomia Patologica, specialmente per
motivi didattici, è ancora sentita in altri paesi, come la Germania, l'Inghilterra e la Francia. In
questi, non vengono solo conservate vecchie preparazioni, ma se ne aggiungono sempre di nuove.
A tale scopo sono mantenuti attivi laboratori e scuole di preparatori.
L'utilità di un museo di Anatomia Patologica è dimostrata dal ruolo di memoria storica esercitato
dal Museo Taruffi.
I preparati in esso contenuti permettono infatti di comprendere verso quali temi erano diretti gli
interessi degli anatomopatologi ed anche di farsi un'idea delle modificazioni subite dalla patologia
nel tempo.
Un museo di Anatomia Patologica, come un archivio autoptico, non rappresenta oggettivamente la
realtà, in quanto entrambi sono frutto delle scelte di chi richiede l'autopsia per un caso piuttosto che
per un altro, o di chi raccoglie nel museo certi tipi di patologia piuttosto che altri.
I casi del museo Taruffi comprendono molte malformazioni congenite, a dimostrare il grande sforzo
Figura 9 acardia
compiuto da molti studiosi, Taruffi compreso, per interpretare in maniera razionale la genesi di tali
malformazioni. Esiste una notevole somiglianza tra i tipi di malformazione più spesso riscontrati
nell'Ottocento e quelli di oggi. In alcuni casi le preparazioni ed i materiali d'archivio sono stati di
utilità decisiva per riconoscere malformazioni rare d'oggi. Un tipico esempio sono gli acardici da
gravidanza gemellare monocoriale con trasfusione feto - fetale).
Il confronto fra i due preparati in cera ed essiccato e le tavole che illustrano la relativa
pubblicazione del Calori (1), hanno infatti permesso di riscoprire questa malattia, spesso
interpretata erroneamente nel corso di autopsie fetali eseguite prima del recupero di questo antico
caso (fig. 9).
Una revisione storica accurata dei preparati ha permesso pure di 'vedere' malattie oggi rarissime,
come la pellagra (fig. 10).
18
Proprio la rarità della pellagra aveva recentemente indotto a considerare questo modello dell'Astorri
come ittiosi. In realtà, la cute scabra e scura nelle aree esposte al sole e lo sguardo allucinato per gli
effetti psichiatrici dovuti alla carenza vitaminica sono tipici di questa affezione. L’errore
interpretativo dei moderni è dovuto alla scarsa esperienza, e
dimostra che per una corretta riclassificazione di un museo è
fondamentale l’acquisizione di documenti dell’epoca in cui esso fu
creato.
L'uso dell'archivio antico per interpretare i preparati ha permesso di
riscoprire la lebbra di Comacchio,
un'entità dimenticata, ma forse
presente in alcuni nuclei familiari
comacchiesi sino all'inizio del
Novecento (fig. 11).
La presenza della lebbra a poca
distanza da Bologna fu inizialmente
accettata con molto scetticismo
dagli studiosi. Tuttavia, il realismo
dei modelli in cera dell'Astorri, le
tavole delle pubblicazioni sui casi
Figura 10 pellagra
riscontrati ed alcune testimonianze
di Comacchiesi contemporanei hanno dissipato i dubbi. Non è detto
che qualche caso di lebbra non sia presente ancora oggi nel
Comacchiese, dato l'andamento spesso subdolo e non maligno della
lebbra.
Oggi si è provveduto al ripristino di una parte soltanto del Museo Figura 11 lebbra di Comacchio
Taruffi, a causa delle difficoltà incontrate nella riclassificazione, a
causa della dispersione dei documenti dell’archivio. I dati acquisiti sono stati di notevole interesse.
Basti citare quelli riguardanti l’antico manicomio del Sant’Orsola e gli studi frenologici in esso
condotti nella prima metà dell’Ottocento, oppure le descrizioni di complessi interventi chirurgici
eseguiti con successo in epoca anteriore all’uso dell’anestesia e dell’asepsi.
In un Policlinico moderno vale quindi la pena di conservare un museo come il museo Taruffi, in
quanto si tratta di un’entità molto stimolante per chi consideri la medicina ed il mondo umano dal
loro punto di vista più dinamico e mutevole.
Bibliografia:
Luigi Calori: Sul sistema vascolare d un mostro umano acardio e anadenolinfemico. MEMORIE
DELL’ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL’ISTITUTO DI BOLOGNA SERIE II TOMO IX
PP. 267-298, 1869.
19
Nunzio Salfi, Carmine Gallo, Gennaro Azzarito, Paolo Scarani
Malpighi anatomopatologo. Una testimonianza dal Museo Taruffi di Bologna
Pathologica 88, 324-326, 1996
Marcello Malpighi (1628-1694) è di solito considerato un anatomico puro. In realtà fu un ottimo
clinico ed un abile patologo (8), precursore, fra l’altro, dell’applicazione del microscopio in
patologia. Sono però soprattutto di eccellente interesse le sue descrizioni di reperti
anatomopatologici, che, come nel caso qui presentato, permettono di riconoscere di quale tipo di
malattia si tratti.
A metà del secolo scorso, Paolo Gaddi, un anatomico modenese descrisse un cranio da lui
personalmente rinvenuto ed un altro del museo ducale di Modena, già scoperto ed illustrato con
grande cura da Marcello Malpighi nelle sue Opera posthuma (1). Entrambi i crani sono molto
famosi, specialmente quello del Gaddi, e nell'Ottocento sono stati spesso rappresentati in
illustrazioni, suscitando varie ipotesi sulla natura della malattia che aveva prodotto l'affezione. Per
essi Rudolf Virchow coniò il termine 'leontiasi ossea', spettacolare, ma puramente descrittivo.
Successivamente sono state tentate ipotesi più specifiche, ma poco soddisfacenti. I crani originali
sarebbero andati perduti (2). Attualmente, i paleopatologi sono propensi ad interpretare entrambi i
casi come esempi di displasia fibrosa dell’osso, conformemente all’opinione del Belloni (2).
Recentemente abbiamo recuperato i calchi dei due teschi presso il museo di anatomia patologica
'Cesare Taruffi' di Bologna. I reperti forniti dai calchi e la descrizione originaria del Malpighi, ci
hanno indotti a supporre che si tratti di malattia di Paget dell’osso.
Il Museo Taruffi di Anatomia Patologica dell’Università di Bologna possiede due copie in gesso del
teschio descritto da Gaddi. Una di queste mostra in sezione la cavità cranica. Questo pezzo era
agevolmente riconoscibile, anche perché accompagnato da copie delle famose illustrazioni
ottocentesche riportate in
numerosi trattati. La
copia singola del teschio
malpighiano non era
invece esposta, benché
accompagnata
da
illustrazioni. E' stato
possibile
riconoscerla
grazie
alla
precisa
descrizione fatta dallo
stesso Malpighi (1). E'
stato
infatti
agevole
identificare
tutte
le
peculiarità riportate dal
Malpighi (mancanza di
metà
del
mascellare
superiore,
ampia
discontinuità
del
tavolato
Figura 12 le copie dei teschi di Modena e le relative tavole illustrative. il teschio
cranico nella regione
descritto da Malpighi appare nelle quattro immagini superiori
occipitoparietale sinistra).
Di particolare utilità è risultata la copia del Malpighi nel dimostrare quanto lui stesso scrisse a
proposito dell'osso neoformato:
“In un cranio umano, conservato nel tesoro del Serenissimo Duca di Modena, osservai quanto
segue. Innanzitutto esso pesava più di 10 libbre bolognesi (3,6 kg.). Era intero, salvo la perdita della
mandibola e del mascellare destro. Assenza totale di suture, che erano state obliterate dal deporvisi
della sostanza marmorea. ..... La sostanza del cranio, resa marmorea, si componeva come di
20
altrettante laminette orizzontalmente sovrapposte: e percosse fortemente, apparivano sottostanti
croste di ugual natura, sottili e candide. Nell’osso sincipitale, presso la sutura lambdoidea, sul lato
sinistro, si notava un foro oblungo, dell’ampiezza di quasi due once. Ignoro se ciò derivasse da
malattia o da malconformazione. In questa breccia, l’osso aveva uno spessore minimo di mm. 19,
mentre raggiungeva, nell’occipitale, lo spessore di mm. 28. Le labbra del suddetto forame non
presentavano seni, né pori, quali si osservano in altre ossa; ma era un tutto continuo, saldato da
succo marmoreo, e non esistevano distinzioni di lamine. ..... la lamina interna del cranio, che si
prolungava un poco sporgendo verso il centro del forame, faceva sospettare che il restante osso
fosse stato gradualmente sovrapposto .... “.
Si nota infatti che l'osso neoformato si è deposto in nuovi strati a struttura apparentemente più
irregolare, all'esterno del tavolato cranico o dell'osso preesistente. Analoghe modificazioni si
osservano a carico del cranio del Gaddi. Il preparato in sezione evidenzia infatti l'interno della
cavità cranica, che strutturalmente appare solo modicamente ristretto e con aspetti di platibasia (5),
sostanzialmente come se l'osso neoformato anche qui si fosse sovrapposto all'esterno della struttura
preesistente.
Le descrizioni classiche della malattia di Paget dell’osso (5) e l’attuale visione clinica (6),
paleopatologica (4) ed anatomopatologica (7) di questa malattia, sono in accordo con quanto
osservato nelle copie dei crani del museo Taruffi.
Nella malattia di Paget dell'osso si osserva una prima fase in cui prevalgono i fenomeni di
riassorbimento osseo definita come "fase osteoporotica, osteolitica o distruttiva", seguita da una
fase definita come "fase mista della malattia" nella quale al riassorbimento osseo segue la
deposizione di nuovo tessuto osseo pagetico (6). La terza fase della malattia è detta "osteoplastica o
sclerotica" ed è caratterizzata da una progressiva riduzione dei fenomeni di riassorbimento osseo e
dalla deposizione di tessuto osseo duro, denso, poco vascolarizzato (Harrison) con struttura
grossolana, con grosse trabecole che presentano scarsa continuità reciproca.
La diagnosi istologica sarebbe agevole, a causa dell'irregolare indentatura con cui si presentano le
linee cementanti dell'osso (7).
Le alterazioni delle ossa facciali sono estremamente caratteristiche, e si pongono alla base di quello
che è definito l'aspetto ‘leonino’ di questi pazienti, la C.D., "leontiasi ossea", termine coniato da
Virchow proprio in seguito, come si è detto, all’esame dei due crani in oggetto.
Il raffronto fra i calchi del museo Taruffi e la letteratura che li riguarda con la letteratura sul morbo
di Paget, ci suggerisce quindi che l’ipotesi secondo la quale questi due antichi crani di Modena
siano affetti dal morbo di Paget sia molto più plausibile di quella della displasia fibrosa dell’osso,
anche per la rarità del coinvolgimento, in quest’ultima, del cranio.
La mancanza degli originali, e la conseguente impossibilità di una verifica istologica è senza dubbio
un impedimento grave. Appare tuttavia di notevole conforto la descrizione malpighiana della
struttura del cranio più antico. In essa si realizza ancora una volta la straordinaria capacità
descrittiva di Malpighi, già da noi sottolineata (8) e si percepisce chiaramente il giustapporsi di
nuovo osso anomalo all’esterno del tavolato cranico originario. Lo stesso Belloni (3), in un’altra
pubblicazione sul morbo di Paget dell’osso, fornisce involontariamente una connessione fra la
descrizione malpighiana ed il caso originario di Paget. Nelle riproduzioni e nelle radiografie
moderne del teschio conservato al St. Bartholomew’s Hospital Belloni mostra infatti che l’osso
neoformato si sovrappone all’esterno della teca cranica originaria.
1) Belloni, L.: Opere scelte di Marcello Malpighi. UTET, Torino 1967.
2) Belloni, L.: Protostoria dell’acromegalia. In: L. Belloni: per la storia della medicina, Forni, Sala
Bolognese, 1985, pag. 105
3) Belloni, L.: Osteitis deformans 1876. Radiogrammi del primo caso di James Paget. In: L.
Belloni: per la storia della medicina, Forni, Sala Bolognese, 1985, pagg. 90-91
21
4) Byock J. L.: Le ossa di Egill. Le Scienze 319, 1995, 74-79
5) Haslhofer L.: Die Pagetsche Knochenkrankheit. In: Lubarsch O., Henke F., Rössle R.: Handbuch
der speziellen pathologischen Anatomie und Histologie. Knochen und Gelenke. Vol. 12 Springer,
Berlin 1937, pagg. 551-616
6) Krane, S. M.: Paget’s disease of bone. In HARRISON’S CD-ROM: Harrison’s principles of
internal medicine. 13th Edition, McGraw Hill, New York 1995
7) Rosai, J.: Ackerman’s surgical pathology. Seventh Edition, pag.1469-1470
8) P. Scarani, G. P. Salvioli, V. Eusebi: Marcello Malpighi (1628-1694). A founding father of
modern anatomic pathology. The American Journal of Surgical Pathology 18: 741-746, 1994
22
Paolo Scarani , Manuela Nebuloni
Luigi Sacco e la storia del vaiolo in Italia
Pathologica 89, 211-214, 1997
L'Ospedale Luigi Sacco di Milano, già clinica per tubercolotici, ora
clinica universitaria dotata del più grande centro italiano per lo
studio delle malattie infettive, porta il nome di un personaggio oggi
poco noto, ma di rilevanza internazionale all'epoca in cui visse.
La concomitanza, in questo scorcio di secolo, delle celebrazioni
Jenneriane (1798), della conquista napoleonica del Nord Italia
(1796) e di fondamentali acquisizioni sulla biologia molecolare del
virus del vaiolo umano (4), ci ha suggerito di presentare ai patologi
Luigi Sacco (1769-1836).
Il 'motivo scatenante' deriva dal ritrovamento, nel museo di
anatomia patologica 'Cesare Taruffi' di Bologna, di alcuni preparati
Figura 13 vaiolo (Giuseppe
concernenti il vaiolo e la vaccinazione.
Astorri)
Uno di essi, una cera di Giuseppe Astorri, modellata negli anni venti
dell’Ottocento (fig. 13), presenta una ragazza di 13 anni al momento dell'acme dell'eruzione
pustolosa del vaiolo (vajolo arabo, secondo la denominazione dell’epoca). La preparazione è di
impressionante realismo: ci si può facilmente rendere conto di ciò confrontandola con le
illustrazioni classiche o con quelle degli ultimi casi di vaiolo riscontrate nel mondo (3).
Più significativi per la nostra storia sono però due preparati, sempre di cera, contenuti in urne di
legno (figg. 14 e 15). Si tratta di preparati allestiti con minor cura di quello dell'Astorri. La scrittura
che li illustra su di un lato delle urne ci porta però agevolmente a Luigi Sacco ed alla sua epoca. La
mammella bovina con le tipiche grandi pustole del vaiolo vaccino, raffrontate a quelle più piccole
dello pseudovaiolo (fig. 14) e le braccia di
bambini con l'evoluzione, normale e con
complicazioni, della vaccinazione, erano state
realizzate per conto di un grande ammiratore e
sostenitore di Luigi Sacco: Pietro Moscati,
responsabile della sanità per la Repubblica
Cisalpina e, successivamente, per il Regno
d'Italia, (1-5). Fra l'altro, la mammella è quasi
identica alla tavola illustrativa di un lavoro del
Sacco, riprodotta recentemente dal Belloni (1).
Luigi Sacco è una figura emblematica
dell'illuminismo lombardo: grande apertura al Figura 14 vaiolo vaccino
mondo ed alle sue novità, ai problemi sociali,
solida struttura scientifica della mente e capacità di osservazione. Di Varese, si formò all'università
di Pavia (a Milano l'università fu introdotta quando la città non era più capitale di uno stato, e gli
studenti non ponevano quindi più problemi per l'ordine pubblico - per inciso, si pensi a Parigi e
Praga nel 1968, e, più recentemente a Pechino) e prese contatto con l'ambiente medico, di cui Pietro
Moscati divenne l'esponente più rappresentativo, sensibile alla soluzione del problema del vaiolo. A
Milano c'era grande aspettativa per la cura di questa malattia, come dimostrato dall’ode del Parini
sull'innesto del vaiolo. Questa pratica molto pericolosa aveva in effetti preso piede in Lombardia, e
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spiega la rapidità con cui alla fine del Settecento vi furono accolte le comunicazioni di Jenner sulla
vaccinazione, tradotte in Italiano proprio a Pavia nel 1800 (5). Le prime vaccinazioni in Italia, con
linfa importata dall'Inghilterra, furono effettuate a Genova.
Il problema era proprio quello dell'importazione.
Il vaiolo vaccino si presentava come una malattia
piuttosto rara, tanto da indurre a pensare che si
trattasse di una malattia esclusiva dei bovini
inglesi. I lunghi viaggi cui era sottoposta la linfa
prelevata facevano supporre che la qualità del
prodotto dovesse risentirne, donde la necessità
avvertita da Luigi Sacco di trovare bovini
lombardi, o dei dintorni.
Fu così che Sacco si mise a controllare i bovini in
transito nei pressi di Pavia, provenienti dalle fiere
e dai mercati della vicina Svizzera. Finalmente, in
due giovenche provenienti da Lugano (autunno
del 1800 - 1) riconobbe quelli che potevano essere
i segni premonitori del vaiolo vaccino. Ottenne
allora dal proprietario di seguire gli animali fino
all'eventuale comparsa delle pustole, che difatti
non tardarono a manifestarsi. Raccolta la linfa,
Figura 15 decorso della vaccinazione
dopo essere riuscito a trovare alcuni bambini
disposti a sottoporsi alla vaccinazione, praticò su
di loro e su se stesso, dopo la vaccinazione, il test di Jenner: l'innesto del vaiolo tramite essudato
ottenuto da malati di vaiolo umano. I risultati lusinghieri ottenuti ebbero presto larga diffusione,
suscitando entusiasmo sia fra i medici che nella popolazione. L'ambiente italiano era infatti portato
a vedere in senso positivo la nuova pratica contro il vaiolo, e, a causa del blocco continentale
dell'Inghilterra indetto da Napoleone (5), non fu influenzato dalle violente critiche di alcuni
ambienti Inglesi nei confronti del Jenner fino alla restaurazione. Sacco si dedicò sistematicamente
all'ottenimento di quantità sempre maggiori di vaccino. Praticò la vaccinazione personalmente a più
di mezzo milione sino al 1809 (1). Questo dato riportato dal Belloni, e, a sua volta, comunicato dal
Sacco stesso, è di difficile verifica; nostre stime approssimative (i censimenti cominciarono dopo
l’Unità d’Italia) fanno supporre chela popolazione italiana fosse di circa 18 milioni d’abitanti nel
1800, con le più elevate densità nel Nord, in Toscana ed in Campania (oltre 40 abitanti per
chilometro quadrato. A Bologna, gli abitanti erano circa 60000 - 2).
Sacco curò intensamente la propaganda sul nuovo metodo fra i colleghi, giovandosi, come detto,
del sostegno di Pietro Moscati. I due preparati del museo Taruffi si collocano proprio in questo
contesto di propaganda, volta alla conoscenza del decorso della reazione all'innesto della linfa ed al
riconoscimento di bovini affetti dal vaiolo vaccino.
I risultati ottenuti furono notevoli, se si deve dar credito ai rapporti dell'epoca. Bologna vide fra
l'altro l'arresto di un'epidemia proveniente dal Veneto, attribuito ad una vaccinazione di massa dei
Bolognesi attuata personalmente da Sacco (5). Fu proprio questo scampato pericolo ad indurre la
città a coniare una medaglia d'oro in suo onore. I successi di Sacco continuarono fino alla caduta di
Napoleone. Dopo, il filtrare delle notizie provenienti dall'Inghilterra, creò un atteggiamento molto
più prevenuto nei confronti del metodo di Jenner, e la pratica della vaccinazione si poté mantenere
soltanto grazie alla paura indotta dalle periodiche epidemie di vaiolo ed al buon senso dei politici,
fra cui, curiosamente vanno soprattutto annoverati il Papa Pio VII e numerosi Cardinali suoi
collaboratori, tra i quali maggiormente si prodigò il Cardinale legato di Bologna Carlo Oppizzoni
(2-5). Milanese, ammiratore di Napoleone (era a Bologna sino dal 1803), fu molto sensibile ai
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problemi della facoltà di medicina (era un convinto sostenitore della pratica autoptica e delle
raccolte del museo di patologia, l’attuale museo Taruffi), contribuì alla creazione della Società
Medica Chirurgica (5) e, per propagandare la vaccinazione, promosse un premio in danaro per i
bambini disposti a sottoporvisi (5).
Gli anni d'oro dell’epoca napoleonica stavano tramontando, anche se, specialmente negli anni prima
della morte, Luigi Sacco ebbe modo di illustrare anche all’estero i risultati conseguiti e gli studi
personali sulla vaccinazione (1). All’inizio dell’ottocento si esportava la linfa prodotta in Italia (1),
e a Napoli, già nel 1805, un certo Troia era riuscito a ottenere stabilmente la linfa dai vitelli,
evitando, così la temuta contaminazione da parte dell’agente della sifilide, per altro sempre
possibile, dato l’uso della cosiddetta vaccinazione da braccio a braccio (3).
Nell'insieme, quindi, otteniamo un'immagine medicoscientifica alquanto positiva dell'Italia
napoleonica, con aspetti di grande vivacità culturale e pratica. Indubbiamente, la linfa prodotta non
era standardizzata, ed il suo comportamento come vaccino doveva dare risultati imprevedibili (3).
L'entusiasmo per i risultati era forse eccessivo; tuttavia non pensiamo che gli studiosi di allora
debbano essere necessariamente tacciati di superficialità. Pur non sapendo alcunché sulla natura
dell'agente del vaiolo, Sacco si rese conto della deteriorabilità della linfa, e proprio per questo si
dette alla ricerca di bovini affetti dalla malattia. Ben presto, poi, molti si accorsero della necessità di
rinverdire la vaccinazione con una seconda applicazione di linfa. Tale concetto, come tutti
sappiamo, è rimasto tipico della vaccinazione antivaiolosa fino alla sua recente abrogazione.
Bibliografia
1. Belloni L.: Luigi Sacco e la diffusione del vaccino in Italia. In: Belloni L.: Per la storia della
medicina. Forni, Bologna 1985, pagg. 79-86
2. Cavazza G.: Bologna dall’età napoleonica al primo novecento. In: Ferri A. e Roversi G.: Storia
di Bologna. ALFA, Bologna 1978, pp. 285-391
3. Fenner F., Henderson D. A., Arita L., Jezek Z., Ladnyi I. D.: Smallpox and its eradication.
WHO, Ginevra 1988, pp. 14-16 e 245-276
4. Massung R. F. et Al.: Potential virulence determinants in terminal regions of variola smallpox
virus genome. Nature, 366, 1993, 748-751
5. Ravà G.: La vaccinazione Jenneriana a Bologna. In: Primo centenario della Società Medica
Chirurgica di Bologna (1823-1923), Società medica chirurgica, Bologna, 1923, pp. 893-920
25
Paolo Scarani
Maltrattamenti postumi.
1804: Napoleone fonda il museo di patologia di Bologna ....
Pathologica 90, 476-479, 1998
..... Ma non aveva altro cui pensare? Domanda più che legittima, la quale però dimostra una scarsa
conoscenza di Napoleone e dei suoi disegni. Una passione giovanile di quest’uomo era la
matematica (era dell’entourage di Laplace, poi suo collaboratore - 8-9): è detto tutto. Un
matematico è un uomo d’ordine, accurato, puntiglioso ed autoritario, con parossismi disumani, teso
alla soluzione dei problemi che si è posto. La vita di Napoleone è tutta un progetto matematico
diabolicamente concepito, ma con una fatale lacuna che l’ha rovinato: la totale ignoranza della
realtà politica e la totale estraneità a veri contatti coi propri interlocutori ed avversari (1).
Il grande disegno di conquista ideato da Napoleone vuole fondarsi, per durare, su di un’accurata e
capillare organizzazione dei territori conquistati, in modo da poterli amministrare con la maggiore
efficienza possibile. Oltre a fornire un poderoso corpus legislativo ed a valorizzare uomini giudicati
degni di fiducia e disposti ad assoggettarsi alla sua volontà, egli sa di dover sviluppare, negli stati
satelliti della Francia, la cultura e l’educazione, in modo da poter plasmare nuovi quadri dirigenti
conformi alla propria immagine ed alle proprie aspettative, e tali quindi da costituire il fondamento
di un impero, lui spera, duraturo (9).
Proprio per questo, appena arriva a Bologna, ancora generale, nel 1796, Napoleone si butta subito
con furia impaziente e con prepotenza, che lasciano esterrefatti i nostri antenati, a pretendere
emanazioni di leggi, di costituzioni, di drastici provvedimenti che sconvolgono la fisionomia del
nostro povero paese (9). Egli non amò mai l’Italia e fece ben poco per attirarsi le simpatie degli
Italiani. Di solito si ricordano le sue ruberie e le sue imposizioni fiscali pesantissime. Si parla
invece poco del contributo di morti dato dai militari italiani al suo servizio. Dall’inizio del dominio
di Napoleone alla battaglia di Lipsia (1813) furono reclutati più di trecentomila Italiani (9), che,
nonostante il suo disprezzo, si comportarono infinitamente meglio di altri alleati, i quali al momento
buono, proprio a Lipsia, passarono all’avversario (1). Il calcolo degli Italiani morti non è facile a
farsi. L’unica cifra certa è quella della campagna di Russia: ne partirono 27397 e ne tornò un
migliaio (9). Anche la terribile guerra di Spagna, preludio alla fine di Napoleone, ebbe un largo
contributo di morti italiani.
Accanto a questo non dobbiamo dimenticare le repressioni, manifestatesi a varie riprese. La più
violenta, quasi ignorata dai libri di storia, fu quella della ribellione, manifestatasi in tutta Italia, in
concomitanza con tre eventi critici: la guerra di Spagna del 1808, il risveglio austriaco e l’eroica
ribellione di Andreas Hofer e delle indimenticabili donne del Tirolo (1-4-9). Era la disperata rivolta
dei poveri, della gente distrutta dalle tasse e dalle leve militari: di tutti coloro i quali dalla presenza
francese non conseguivano che svantaggi, e, naturalmente dei preti, che poi, a Bologna, per
esempio, l’avrebbero pagata con la ghigliottina.
2000 morti costò agli Italiani la ribellione all’illustre compatriota. “Faites comme j’ai fait à
Binasco. Qu’un gros village soit brûlé; faites fusiller une douzaine d’insurgés et formez des
colonnes mobiles afin de saisir partout les brigands et de donner un example au peuple de ces pays”
(9). Questo è un esempio delle raccomandazioni ai generali incaricati della repressione del 1809.
Forse, però, Napoleone non è stato abbastanza convincente, in quanto rincara di lì a poco la dose:
“Vous ne sauriez être clément qu’en étant sévère, sans quoi ce malheureux pays et le Piémont sont
perdus, et il faudra des flottes de sang pour assurer la tranquillité de l’Italie .... croyez à ma vieille
expérience des Italiens: n’épargnez personne.” (9)
Non si dovrebbero ignorare certe cose nei libri di storia. Anch’io, su quei libri, non mi ero fatto una
cattiva opinione del Bonaparte, anche se avevo visto i dipinti paurosi di Goya. La storia dei nostri
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rapporti con Napoleone ha inquietanti analogie coi rapporti tra noi ed i nazisti, sempre a causa
dell’inettitudine di chi ci ha governati. Chissà che anche la nostra storia più recente non finisca
annacquata da storici distratti.
Torniamo a cose meno drammatiche.
Il ciclone napoleonico investe anche l’università di Bologna e la facoltà medica, ma relativamente
tardi. Ci vuole prima la vittoria di Marengo (1800), e la successiva creazione, dalla restaurata
Repubblica cisalpina, della Repubblica italiana (26 gennaio 1802), di cui Napoleone si proclama
Presidente (4). Il nostro primo Presidente della Repubblica, non è dunque Enrico De Nicola, ma
Napoleone Bonaparte. La cosa dura poco, però, in quanto, nel 1805, egli, imperatore dei Francesi
dal 1804, si proclama re d’Italia (4). Il museo di patologia rimane però un’istituzione repubblicana.
In Emilia Romagna, allora suddivisa in vari dipartimenti con nomi di fiumi (noi eravamo in quello
del Reno), quattro università sono troppe, e Napoleone decide, per motivi strategici di più efficace
controllo, di tenere solo Bologna ... anche se, dal punto di vista dell’efficienza, questa università è
modesta, almeno per lui ed i francofili, piuttosto pochi, ma rumorosi, e supini al piccolo Cesare.
Una battaglia disperata riesce però a salvare l’università di Parma, per merito anche
dell’imperatrice Giuseppina (1805 - 9)
Il buono, a Bologna, anche se non molto abbondante, ci sarebbe, a dir la verità. Come tutti i despoti,
però, Napoleone cerca piuttosto il conforme a se stesso. Si può così assistere alla cacciata brutale
del povero Luigi Galvani dall’università e dall’insegnamento dell’anatomia (3). Ciò per aver
rifiutato il giuramento di fedeltà ai Francesi ed ai loro ideali repubblicani, evento indissolubilmente
legato alla violenta abiura della religione, imposta a tutti i docenti. Poco tempo dopo, Galvani
muore improvvisamente. Anche Mussolini fece espellere il chirurgo Bartolo Nigrisoli per il suo
rifiuto del giuramento al regime (6). Nigrisoli riuscì però a sopravvivere a Mussolini.
Quantunque abbastanza differenti per vari versi, pur presentando diversi aspetti tipici del despota
medio, i due dittatori hanno curiosi punti in comune, come la fuga con divise straniere. Mussolini
non sfuggì in tal modo alla morte. Napoleone, invece, travestito da Austriaco, riuscì ad arrivare
all’Elba, evitando quei Francesi inferociti che lo volevano impiccare (1).
Torniamo alle riforme Napoleoniche.
Il Bonaparte attua una riforma radicale dell’università bolognese, di ordinamento e di collocazione.
Crea gli istituti, e, per medicina, fa partorire un piano di studi che durerà, con occasionali ritocchi
importati dalla Germania, fino all’attuale tabella 18 (3). La trasferisce inoltre dall’Archiginnasio
all’attuale Rettorato, allora sede dei laboratori e del museo dell’ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DELL’ISTITUTO DI BOLOGNA. Dentro il grande museo si trova un po’ di tutto, e le sue sezioni
vengono integrate nei laboratori e nei gabinetti dei neonati istituti. I preparati patologici sono pochi.
Un responsabile esisterebbe già nel 1800. Tuttavia, l’origine ufficiale del museo è posta nel 1804
(3). Esso viene creato, perché l’anatomia patologica da alcuni medici è già vista come un settore
molto promettente per la medicina. Non sono certo, queste, le idee dei clinici. La clinica è in crisi
dappertutto. Strane dottrine di stimoli e controstimoli e di diatesi, oggi vagamente presentate (2)
come precorritrici della terapia moderna (col senno di poi si fa presto a far quadrare i conti di tutti,
Nostradamus compreso), gabbate da un docente del nostro ateneo (Giacomo Tommasini -17691846 - 3) come ‘nuova dottrina medica italiana’, suscitano, in alcuni, facili entusiasmi
campanilistici, dopo l’effimera parvenza di unità nazionale derivata dal dominio napoleonico, ed in
altri una violenta avversione (2). Il tutto fa perdere alla medicina tempo prezioso.
Ma è così dappertutto. Il secolo dei lumi ha portato una gran quantità di chiacchieroni molto bravi a
scrivere, sinceri ammiratori del metodo di Newton, ma soprattutto capaci di liberare una delle forze
più pericolose della mente umana: il fantasticare. Goethe fu una delle poche persone capaci di
rendersi conto della liberazione di questo mostro. Possiamo dire che tutta la sua opera ne è pervasa.
Ne abbiamo però un impressionante esempio dalla sua decisione di contrastare la propria passione
di uomo maturo per un’adolescente. Da questo dramma intimo nasce l’opera Die
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Wahlverwandtschaften (Le affinità elettive - cito a memoria - un’edizione originale economica è
quella di Philipp Reclam di Stoccarda). Goethe è un uomo della Klassik, quell’imponente, genuina
rinascita del mondo antico che rappresenta una delle più belle pagine della nostra storia ... basta
pensare a Beethoven. L’uomo della Klassik sa qual è la differenza fra la fantasia ed il fantasticare.
Basta leggere Kant. La fantasia è senz’altro un momento estremamente creativo dell’uomo, ricco di
libertà, ed impulsivo, ma accuratamente controllato dalla ragione: coi piedi per terra, in altre parole.
Si tratta di qualcosa di talmente potente da poter consentire l’intuizione, in pochi attimi, di realtà
terribilmente complesse, la cui comprensione avrebbe altrimenti richiesto mesi o anni di studio
faticoso. Ciò è possibile se la mente è ben disciplinata. In tal modo la fantasia, che è un cavallo
selvaggio, accetta le nostre redini. La fantasia fa compiere agli uomini il salto che fa giungere
all’essenza delle cose ... al Divino, per chi ci crede. Kant dice queste cose senz’altro infinitamente
meglio di me. Goethe ancora di più. Forse è meglio che il lettore se li vada a leggere.
Gli illuministi hanno continuato a battere una strada francese nata, possiamo dire, con Francesco I e
Fontainbleau: lo chic. Chic è ciò che colpisce esteriormente, ciò che piace perché è di moda, la
superficie cava, la prodigiosa bambola meccanica, la scienza come curiosità da salotto, la poesia
come esercizio ginnico, l’amore come ginnastica erotica. Tutto questo è il mondo del fantasticare.
La fantasticheria è un vagabondare ozioso del pensiero fra mille cose, senza curarsi del motivo per
cui si vagabonda. Sconosciuta la partenza, sconosciuto l’arrivo. Impossibile anche l’interpretazione
dei risultati, perché senza premesse e senza obiettivi non si sa quali frutti si è andati a cogliere.
L’illuminismo francese ha scatenato, senza capirlo, tanti appetiti e tante curiosità. Si è trattato però
di un semplice scatenamento. Non per nulla l’illuminismo è stato il padre del giornalismo: il
giornalista non è in genere capace di andare oltre la notizia. Chi legge si trova allora spesso in mano
cose sconosciute. Un esempio di queste cose sconosciute è la libertà: concetto troppo pieno e troppo
vuoto nello stesso tempo. Il largo abuso fattone durante la rivoluzione francese, insieme con
fratellanza e uguaglianza, senza capire dove si andava a parare, ha portato morti, caos e, alla fine,
un tipo come Napoleone. Non voglio con questo dire che l’illuminismo sia un atteggiamento
negativo e improduttivo. Tutt’altro: le sue capacità di critica, già presenti prima degl’illuministi
francesi, hanno costituito l’asse portante del pensiero moderno, specialmente scientifico. Molti
illuministi francesi non hanno invece portato alle estreme conseguenze lo sviluppo del proprio
pensiero, contentandosi di un rivoluzionarismo di maniera, ma, nel contempo, eccitando la gente
con proclami incendiari. Una volta scatenatasi la rivoluzione, gli stessi incendiari furono poi rapidi
a mandare in malora i più radicali (Robespierre) e a servirsi dei killer di vocazione (Bonaparte) per
la repressione (v. cannonate di Tolone e Parigi - 1).
Pochi tra i filosofi illuministi seppero trarre le paurose conseguenze della loro critica radicale, e,
soprattutto, immedesimarvisi. L’unico fu forse Sade, che, arrivato alla bestemmia totale, alla
distruzione di Dio, impazzì, comprendendo di aver distrutto se stesso. Pochi, penso, hanno avuto il
coraggio di quest’uomo.
Il fantasticare ha prodotto poco, a parte la confusione. Nella scienza dell’epoca a cavallo fra
settecento e ottocento, abbiamo due tipici suoi effetti nell’ambito medico: la frenologia e il
brownismo. La prima tentava di spiegare la psiche umana, e la pazzia, individuando miriadi di aree
funzionali alla superficie dell’encefalo, mentre il secondo voleva unificare fisiologia e patologia in
un unico grande principio (stimolo-controstimolo) fisiologico, patologico e terapeutico. Entrambi
pretendevano di fondarsi sulla realtà oggettiva e su di un saldo metodo scientifico newtoniano. In
realtà erano pure fantasticherie. Purtroppo, se si riesce a nascondere le basi fantastiche di una teoria,
si può, con apparente rigore logico, costruire un sistema in apparenza coerente e, per giunta,
creativo. Così fu puntualmente fatto dai loro cultori (Gall, Combe e tanti altri per la frenologia;
Brown e gli epigoni italiani Rasori e Tommasini, per il brownismo, poi chiamato ‘nuova dottrina
medica italiana’ - 3). L’aggressiva presentazione delle due dottrine come moderne, rivoluzionarie e
antioscurantistiche fecero il resto. In tal modo, la medicina ufficiale fu scossa dal caos delle
polemiche, e rimase quasi paralizzata fino alla metà dell’ottocento, quando la violenta critica
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costruttiva di Rudolf Virchow e le scoperte di Paul Broca, genuini newtoniani-illuministipositivisti, osservando la realtà con fantasia pulita e curiosa, aprirono le porte della medicina e della
neurologia moderna.
Napoleone fu però anche promotore di istituzioni positive per l’Italia, benché finalizzate ai suoi
propri interessi. Tale fu per esempio l’istituzione del nostro esercito nazionale e delle relative
scuole militari, alcune esistenti ancora oggi, come l’accademia di Modena (9). Soprattutto, però,
l’esercito nazionale fu importante come ambiente propizio allo sviluppo dello spirito risorgimentale
nei giovani, e per formare il nucleo dei futuri comandanti militari delle guerre d’indipendenza (9).
Positivamente va vista anche la scelta di Pietro Moscati quale responsabile per la sanità (2-9). Egli
fu infatti in grado di capire l’importanza dell’attività del Sacco per sviluppare la vaccinazione
contro il vaiolo; inoltre, essendo legato ai concetti tradizionali della medicina, cercò, come Antonio
Scarpa ed altri, di resistere alla ‘rivoluzione’ di Rasori e dei suoi seguaci (2).
Meno facile è l’apprezzamento del ruolo positivo della creazione del museo. Indubbiamente, in
questo Napoleone ha un ruolo marginale e indiretto, in quanto già esisteva un interesse per la
morfologia patologica, in Francia come in Italia. I Francesi istituirono fra l’altro la prima cattedra al
mondo di anatomia patologica nel 1819 (a Strasburgo), mentre in Italia persisteva la tradizione del
Malpighi e del Morgagni. Non è facile capire quanti realmente fossero i medici interessati alle
autopsie ed a raccogliere preparati originali o copie di materiale patologico. La scena è infatti
dominata dalle polemiche fra i rasoriani e gli antirasoriani, prima, e fra i tommasiniani e gli
antitommasiniani poi (3). Se il museo nacque e crebbe di dimensioni, tanto che nel 1818 Rodati
scrisse che il museo di Bologna era il maggiore d’Europa (7), significa che le persone interessate
esistevano e fornivano i preparati e le storie cliniche. Ancora più significativo è il fatto che Carlo
Oppizzoni, il cardinale legato della restaurazione pontificia a Bologna, non solo non soppresse il
museo, ma cercò in ogni modo di potenziarne lo sviluppo, pur comprendendo i rischi di una tale
istituzione, luogo estremamente propizio per lo scambio di idee non solo professionali, ma anche
politiche (3). La cosa importante da capire del museo di patologia dei primordi è però un’altra: non
sono tanto i clinici, quanto i chirurghi, ad avere rapporti col museo di patologia, che si riempie di
preparati e di storie cliniche interessanti proprio grazie a loro. Forse è il retaggio napoleonico ad
avere la responsabilità di questo. Napoleone ha infatti bisogno di medici soprattutto svelti di mano
per risolvere le emergenze delle battaglie. Lo stesso Cesare Taruffi (1821-1902) è un chirurgo,
attivo per giunta su vari fronti patriottici durante la prima guerra d’indipendenza, poi trasformatosi
in anatomopatologo su ispirazione del coetaneo Virchow (1821-1902 - non è un errore di stampa: è
andata proprio così!). Sono infatti i chirurghi a guardare a Virchow e a Malpighi ed a volere il
microscopio, per le loro urgenti esigenze di chiarezza. Non lo sono certamente i clinici ed i
morgagnani, che relegano ancora l’autopsia a sterili disquisizioni macroscopiche, come con molta
durezza sostenne Giovanni Martinotti nella sua commemorazione dell’anatomico Luigi Calori (5).
In conclusione, il 1804 fu una data poco appariscente, ma importante per la medicina moderna, in
quanto il museo rappresentò un importante centro di irraggiamento di cultura e fu al centro di una
grande attività scientifica, capace di lasciare un grande numero di pregevoli pubblicazioni.
Inoltre, a quasi duecento anni dalla nascita, è ancora lì a sfidare il tempo e la barbarie
contemporanea.
1. Chateaubriand R. F. De: Memorie d’oltretomba. Traduzione di F. Martellucci, I. Rosi e F.
Vasarri. Einaudi-Gallimard. Torino 1995. Vol. 1.
2. Cosmacini G.: Teorie e prassi mediche tra rivoluzione e restaurazione: dall’ideologia giacobina
all’ideologia del primato. In: Della Peruta F.: Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina.
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3. Dagnini G. et Al.: Primo centenario (1823-1923) della Società medica chirurgica di Bologna.
Società medica chirurgica, Bologna 1923, pp. 5-329, 789-794.
4. Gamna P. et al: Napoleone Bonaparte. In: I fatti e i luoghi della storia. UTET editoria
multimediale. Torino 1996.
29
5. Martinotti G.: Luigi Calori. Monti, Bologna 1898.
6. Nigrisoli B.: Parva. Perché e come fui nominato clinico e dopo 12 anni deposto. Giuffré. Milano.
1948.
7. Rodati L., 1818 - In praeparationes osseas musei pathologici bononiensis animadversiones.
Opuscoli scientifici, II: 362-383.
8. Sulloway F. J.: Born to rebel. Birth order, family dynamics, and creative lives. Pantheon, New
York 1996, p. 103.
9. Zaghi C.: L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno. In: Storia d’Italia, a cura di Giuseppe
Galasso. Vol. 18-1. UTET, Torino 1986, passim.
30
Paolo Scarani
Come dovrebbero essere gli Universitari: Giovanni Capellini geologo,
paleontologo e paleoantropologo (1833-1922)
Pathologica 91, 54-60, 1999
La strada principale del borgo storico di Portovenere, l’antico “Carugio”, si chiama oggi via
Giovanni Capellini: dedica più che opportuna. La famiglia di Capellini era infatti probabilmente
originaria di Portovenere, pur essendo lui nato a La Spezia nel 1833. Se poi si considera l’immane
lavoro di paleontologo e di geologo compiuto dal Nostro, osservando le imponenti coste di
Portovenere e del golfo di La Spezia, viene subito in mente di pensare che un ragazzo sveglio, come
lui era, non potesse fare a meno di sentirsi attratto dalla geologia, tra questi monti già alpini, ma
vicini al mare, ed alla vista di strani fossili in posti ‘sbagliati’. In effetti è proprio andata così (42).
Già da ragazzo scriveva lettere su osservazioni personali, effettuate nel golfo di La Spezia e nella
zona di Pontremoli, a studiosi ed appassionati locali di geologia e di mineralogia. Meta frequente
delle sue escursioni erano già allora la punta di San Pietro di Portovenere con la grotta Arpaia
(oggi, per i turisti, grotta Byron - Byron, sembra non abbia mai messo piede a Portovenere) e
l’adiacente Monte Castellana.
L’intensità della passione del giovane Capellini è dimostrata dal fatto che non si trattava di un
passatempo da oziosi, ma di qualcosa cui si dedicava con grande determinazione nei ritagli di
tempo di una giovinezza difficile. Proveniva infatti da una famiglia non proprio povera, ma sempre
‘ad alto rischio’ di diventarlo (42). Il padre, un insegnante di violino, riconosceva le doti del figlio,
ma non poteva permettersi di mantenerlo agli studi. Lo fece allora accogliere presso il seminario
della vicina Pontremoli, dove cercarono di favorire il giovane seminarista forzato, assegnandogli un
incarico di prefetto. Capellini non era però tagliato per la vita ecclesiastica, e rimase là soltanto per
rispetto verso il padre. In ogni caso, il periodo di Pontremoli gli consentì, come ho detto, l’esordio
nella sua futura professione, ed i primi studi geologici e paleontologici in quell’area così ricca di
materiale paleontologico di grande interesse, fra cui resti di mastodonti, mammiferi imparentati coi
precursori degli attuali elefanti, i quali rappresentano uno dei capisaldi della ricerca capelliniana .
Alla morte del padre, nel 1854, il Nostro abbandonò subito il Seminario, e, per mantenersi,
cominciò a fare il rilegatore di libri, mestiere che presentava il vantaggio di permettergli letture
gratuite (42).
Riuscì comunque ad ottenere una borsa di studio, per meriti, dal comune di La Spezia, la quale gli
permise di iscriversi all’università di Pisa. In quell’università Capellini era già noto, perché da
tempo in contatto col Meneghini, presidente della Società geologica toscana e dell’Istituto
geologico pisano. Gli aveva infatti già più volte presentato diversi campioni di fossili da lui raccolti.
La laurea in geologia arrivò nel 1858. Capellini fece un po’ come Enrico Fermi quando studiò alla
normale di Pisa diversi anni dopo: una grande quantità di ricerca. Tale ricerca costituì una sorta di
programma per il futuro: esplorazioni geologiche del Monte Pisano, del Senese, di Castellina
Marittima, delle Apuane e del golfo di La Spezia. In seguito, vedremo, i suoi studi geologicopaleontologici si sarebbero estesi all’intera Italia, poi ad aree dell’Europa. Tuttavia, le zone studiate
nel periodo pisano avrebbero sempre costituito il fulcro, anche ispiratore, di tutta la sua attività di
geologo e paleontologo. Si tratta di ricerche estremamente importanti, anche perché proiettarono
Capellini verso una scelta critica: quella dell’accettazione del darwinismo nascente e del rifiuto
della teoria delle catastrofi e dei diluvi. Fu invece da lui stabilmente accettata la dottrina
dell’attualismo di Charles Lyell (1797-1875), da lui conosciuto personalmente a Pisa.
Scelte a parte, la produzione scientifica di questi anni è già poderosa, e dimostra quanto si possa
fare quando si è giovani, intelligenti e determinati. I lavori su Portovenere ed isole e sul Golfo di La
Spezia, presentati da Capellini, dopo la sua venuta a Bologna, all’Accademia delle Scienze
31
dell’Istituto Bolognese, sono frutto di questi studi. È stato proprio il rinvenimento delle
pubblicazioni sulle successioni stratigrafiche dell’Infralias (periodo geologico oggi denominato
Retico - 40) a Portovenere, sul monte Castellana, alle isole Palmaria, del Tino e del Tinetto,
accompagnate dalla descrizione accurata di numerose specie di invertebrati, spesso ancora
sconosciute, a farmi riscoprire i rapporti fra Capellini e Portovenere (1-4-5). Le descrizioni
morfologiche sono di un’accuratezza veramente ammirevole, anche per un profano. A ciò si unisce
il già ben noto pregio editoriale delle bellissime tavole illustrative, una costante dei lavori
capelliniani da me ritrovati. Indubbiamente, una buona tavola illustrativa è merito dell’Autore, ma
anche dell’Editore. E l’Accademia e l’Università bolognese seppero utilizzare illustratori di gran
classe, come Cesare Bettini e Onofrio Nannini. Io stesso debbo molto a questi illustratori. Grazie ad
essi ho potuto infatti ricostruire la storia ed il significato di tanti preparati del Museo Taruffi,
oramai dimenticati. Le pubblicazioni delle Memorie in cui sono descritti non basterebbero, di per se
stesse, a far riconoscere tali preparati, se non fossero corredate da splendide tavole illustrative della
dissezione autoptica, sempre ‘fatalmente’ coincidenti coi materiali del museo corrispondenti, quasi
come una chiave con la serratura.
Questi illustratori sapevano affrontare temi estremamente diversi: anatomia, anatomia patologica,
meccanica e varie tecnologie, zoologia, botanica, mineralogia, paleontologia, fisica, chimica,
geografia. Si tratta di illustrazioni sobrie, ma sempre estremamente efficaci. Essi si erano formati
presso le ultime scuole bolognesi di pittura, che risalgono alla grande scuola artistica del Seicento ,
e, soprattutto a quella scuola tecnologica settecentesca, pensata da Ercole Lelli, purtroppo estinta
all’inizio del Novecento.
Appena laureato, Capellini manifestò subito un atteggiamento abbastanza dissimile dai suoi
contemporanei. Trattandosi di un giovane brillante ed apprezzato nell’ambiente in cui si era
formato, avrebbe potuto iniziare una tranquilla vita accademica a Pisa. Invece, preferì affrontare un
lungo viaggio formativo, che durò fino al 1861, per seguire corsi di mineralogia e geologia presso le
maggiori istituzioni europee, in Francia ed in Inghilterra. Non essendo, fra l’altro, più sostenuto
dalle precedenti borse di studio, si ridusse quasi alla fame, specialmente nel periodo inglese. Al
ritorno in Italia, a Italia oramai unita, fu subito nominato professore di storia naturale a Genova. La
grande reputazione raggiunta aveva però fatto cadere Capellini sotto occhi molto attenti e sensibili:
quelli di un filosofo divenuto ministro della pubblica istruzione del nuovo Regno d’Italia, Terenzio
Mamiani (1799-1885 - 40-42).
Tutti abbiamo incontrato nei libri di storia il nome di questo politico della Destra Storica. A
Bologna, purtroppo, lo conosciamo male. Si tratta infatti di un uomo non bolognese, ma molto
sensibile al fascino ed al prestigio della nostra città ed Università.
Mamiani capì che Bologna aveva subito un duro colpo dalla caduta del governo Pontificio, il quale,
pur nella durezza repressiva del periodo posteriore al congresso di Vienna, e, soprattutto, dopo i
fatti del ‘48, era riuscito a mantenere l’ateneo a livelli culturali più che decorosi. Dopo l’annessione
al Piemonte (1859), ed ancor più dopo la conquista di Roma (1870), Bologna rischiava di
declassarsi a sede universitaria decisamente periferica. Mamiani cercò allora di ovviare a questo
pericolo inviandovi alcuni studiosi giovani, ma, a suo avviso, dotati. Fra questi ne nomino solo due:
Capellini e Carducci.
Carducci (1835-1907) ebbe poi il Nobel per la letteratura, pur ricevendo, a suo tempo le stesse
pesanti critiche tributate a Dario Fo (forse perché li Nobel piacerebbe a molti). Capellini non lo
ebbe: in effetti, nella sua carriera scientifica non troviamo quell’originalità e quei colpi di genio
propri di Golgi, di Fermi e di altri grandi scienziati italiani. Tuttavia, i suoi meriti furono
ugualmente di non comune grandezza.
Gli studi in varie località condotti durante la permanenza a Pisa, avevano indubbiamente incuriosito
Capellini a esplorare le somiglianze e diversità geologiche a livello mondiale. In tal senso sono da
vedere i nuovi viaggi intrapresi subito dopo il conseguimento della cattedra bolognese: si recò
32
infatti in America, nel Nebraska e lungo il S. Lorenzo, e, successivamente, in Europa Orientale
(42).
Le poche pubblicazioni da me recuperate presso la biblioteca di anatomia patologica, quelle sulle
Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese, denotano il dispiegarsi di un’attività
multiforme ed intensissima, che, dal nucleo iniziale ligure-toscano (1-4-5-12-18-31-32-39), si
estese per gradi al Bolognese (2-3-14-19-20-23) ed a tutta l’Italia settentrionale (21-36), alle
Marche (9), all’Italia centromeridionale (7-17-29) ed alla Sardegna (25-26-34).
Il suo prestigio di ricercatore puro non gli evitò incarichi di maggior praticità, come prestigiose
consulenze in campo minerario. Fra l’altro, gli Inglesi gli affidarono lo studio degli immensi
giacimenti petroliferi della Valacchia (Balcani orientali), per i quali meritò grande stima ed
incarichi esclusivi da parte britannica. In tale circostanza Capellini seppe però trarre anche vantaggi
per le sue ricerche, riscontrando somiglianze fra la geologia dei Balcani e quella del golfo di La
Spezia (6).
Capellini ebbe diversi meriti scientifici che risultano duraturi nel tempo. L’occasione di organizzare
a Bologna il secondo congresso geologico internazionale (1881) gli consentì di promuovere e di
ottenere l’adozione di un linguaggio tecnico universale, comune a tutti i geologi, il quale da allora
ha subito soltanto aggiustamenti relativamente modesti.
In quell’occasione presentò anche una serie di carte geologiche dei territori italiani da lui studiati.
Furono i primi esempi di quella che sarebbe stata la carta geologica d’Italia, in fogli al 100.000, da
lui proposta come progetto nel 1861. Fu una grande iniziativa, che portò l’Italia, almeno da questo
punto di vista, al livello dei paesi europei più avanzati.
Di molto interesse è però soprattutto il fatto che sue pubblicazioni, oramai ultracentenarie, vengano
ancora citate in revisioni critiche da studiosi stranieri (41). Si tratta in particolare dei lavori
paleontologici, per i quali a Capellini è sempre stata tributata una meritata ammirazione. Le sue
conoscenze morfologiche erano tali da consentirgli accurate ricostruzioni di animali e piante del
passato, partendo spesso da pochissimi resti (28). Oltre ai rilievi ad occhio nudo, Capellini si
serviva anche delle nuove tecnologie, in particolare del microscopio (33).
Da quest’ultimo punto di vista, Capellini presenta peculiarità in comune con Cesare Taruffi (18211902), il fondatore della scuola di anatomia patologica di Bologna. Questi è tuttora apprezzato
come studioso e classificatore delle malformazioni (43).
Rilievi morfologici estremamente accurati e riproducibili sono sempre stati caratteristici degli
scienziati di grande levatura. Furono però tipici soprattutto degli studiosi legati al positivismo, di
cui Capellini e Taruffi sono rappresentanti paradigmatici. Il positivismo, che pure ha avuto gravi
limiti, è stato troppo bistrattato dalla nostra cultura novecentesca. Anche questo probabilmente è
uno dei motivi per cui, proprio in Italia, ci si ricorda così poco di questi scienziati. La revisione
della figura di Capellini mi ha ulteriormente convinto dell’opportunità di rivedere gli studi
antropometrici italiani dell’Ottocento, forse, per i motivi cui ho appena accennato, trattati, sinora,
con troppa sufficienza.
Capellini fu anche un eccellente antropologo: sono noti soprattutto i suoi rapporti sugli uomini
preistorici della grotta dei colombi dell’Isola Palmaria (31).
Non si possono però dimenticare le grandi raccolte di materiali preistorici (resti umani e strumenti oltre 5000 campioni) del Bolognese e di altre parti d’Italia (8-9). Capellini non ebbe però una
visione spregiudicata di questi suoi magnifici reperti: ciò gli impedì di apprezzare il grande
rinnovamento che si stava verificando nell’antropologia, ma anche nella geologia e nella
paleontologia nella fase di transizione fra il XIX ed il XX secolo.
Gli studiosi competenti trovano, insomma, in Capellini antropologo e studioso della preistoria,
quell’eccesso di conservatorismo comune a Rudolf Virchow, il quale pure ebbe tante difficoltà a
capire l’uomo di Neanderthal. Bisogna però dire che Capellini morì proprio quando cominciarono a
33
diffondersi le opere di Alfred Lothar Wegener (1880-1930) il patriarca della dottrina della deriva
dei continenti, l’autore della grande svolta nella geologia attuale.
Finora ho parlato di Capellini come uomo di scienza, anche se, di tanto in tanto, sono comparsi
lampi della sua attività pubblica.
La paleontologia ci fornisce il primo elemento sulle sue relazioni pubbliche, perché inevitabilmente
ci pone dinanzi al museo geologico e paleontologico di Bologna: il ‘suo’ museo. Egli era arrivato in
una città dove i naturalisti erano poco più che dei raccoglitori dilettanti.
Capellini era invece un sistematico, incredibilmente abile nella diagnostica paleontologica e nella
classificazione. Arricchì in tal modo il museo di una quantità sterminata di materiali, comprendenti
forme animali e vegetali piccolissime, ma anche animali estinti di grandi dimensioni. Oltre ai
molluschi (1-4-5-18-19-23-31-32), alle piante estinte (12-28), ai mastodonti (27-30), cetacei (2-311-13-15-16-21-22-24-26-29-34-35-37-38), sirenidi (come quello ancora citato recentemente - 1025) da lui personalmente scoperti e studiati, acquistò o ricevette in dono numerosissime
preparazioni da altre città italiane o dall’estero, fra cui fin troppo famoso è lo scheletro del
diplodoco (grande dinosauro erbivoro). Alla fine il museo comprendeva oltre cinquecentomila
preparati, da lui ordinati e disposti con grande abilità. Ancora oggi i materiali esposti sono ordinati
secondo i suoi principi.
Ho detto della grande quantità di materiale antropologico, archeologico e preistorico raccolto da
Capellini. Il materiale fu da lui donato alla città di Bologna. Questa donazione permise, dietro suo
personale suggerimento, di istituire un nuovo museo cittadino: l’attuale museo civico
archeologico, tuttora di fama internazionale.
Il Nostro era anche ammiratore di Ulisse Aldrovandi (1522-1605) come geologo. Seppe recuperare
le sue collezioni e le incorporò nel suo museo, restituendo a Bologna una parte dimenticata della
storia scientifica cittadina, in occasione della celebrazione, nel 1907, dell’anniversario della morte
del grande bolognese, voluta dal Capellini stesso.
Aldrovandi fu un tipico esempio di scienziato tardorinascimentale, dedito a tutto campo alle scienze
naturali, oltre alla medicina. Egli aveva lasciato, oltre all’orto botanico di Bologna, pregevoli
collezioni, comprendenti tutto l’ambito delle scienze naturali, teratologia compresa. Esse avevano
ispirato Luigi Ferdinando Marsigli (1658-1730) a creare quel grande museo laboratorio che fu
l’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, il nucleo della nostra nuova Università. Eppure,
nell’Ottocento, ci si era già dimenticati di questo straordinario studioso. Capellini, col suo recupero
museale e commemorativo dell’Aldrovandi, segnò una vigorosa ripresa degli studi aldrovandiani.
Lasciare ad una città che l’ha apprezzato uno dei più grandi musei geologici del mondo, sarebbe già
qualcosa di grande.
Eppure, Capellini, dette a Bologna un’idea che fu critica per la sua dignità e sopravvivenza come
luogo di cultura: il senso della propria dignità storica.
Ho già detto che l’Università di Bologna, dopo l’Unità d’Italia, vide il proprio primato, quasi
assoluto all’epoca dei Pontefici, pesantemente conteso da altre Università italiane, soprattutto da
quella di Roma, dopo il 1870, della quale il Governo cercava in tutti i modi di gonfiare artatamente
la preminenza, fra l’altro depauperando di docenti le altre sedi.
Il dinamismo impresso dalla presenza di Capellini alla vita culturale cittadina fu già notevole di per
se stesso. Basta pensare alla poderosa sprovincializzazione che la città subì nel 1871, quando
Capellini vi organizzò il quinto congresso internazionale di archeologia ed antropologia preistorica.
Al congresso, fra gli altri, partecipò Rudolf Virchow, uno fra i più eminenti paleoantropologi
dell’epoca.
Già ho parlato del secondo congresso internazionale di geologia, organizzato dal Capellini a
Bologna nel 1881. Tale congresso evidenziò le grandi doti di abile politico e mediatore possedute
dal Nostro, che, oltre ad istituire una nomenclatura comune per tutti i Paesi, dotò l’Italia di una serie
34
di organizzazioni, come la Società Geologica Italiana, paragonabili a quelle delle nazioni più
progredite in questo settore.
Dal 1871 al 1895, Capellini fu per quattro volte Rettore dell’Università di Bologna. Profittò di tali
occasioni per avviare e portare a compimento la sua più geniale idea concernente l’Ateneo. Si fece
infatti promotore dell’idea che a Bologna fosse nata per la prima volta al mondo l’idea di Università
e che la causa contingente di questa nascita fosse la conservazione della cultura dei Romani, in una
sorta di sacrario sopravvissuto al loro definitivo tramonto. Capellini creò in tal modo
un’aggregazione di studiosi, dei quali il più rappresentativo fu certamente Giosue Carducci,
profondamente convinti della necessità di stabilire questo primato assoluto dell’Università di
Bologna. Profondamente impregnati della cultura romantica dell’Ottocento, volta ad esaltare le
glorie della nostra epoca dei Comuni, quegli uomini crearono il mito della riaggregazione della
cultura romana a Bologna, e della nascita coincidente dell’Ateneo, in un anno preciso, il 1088.
Dopo l’iniziale promozione, avuta la teoria del primato bolognese, Capellini s’industriò a farla
accettare dai politici e dagli stranieri. Ottenne in tal modo di poter celebrare l’ottavo centenario
della nascita dell’Università di Bologna nel 1888, alla presenza dei Sovrani. L’idea ed il gesto di
Capellini non ebbero valore puramente teatrale. La fama dell’ateneo bolognese s’accrebbe in modo
veramente impressionante: ne è testimone il numero straordinario di scienziati prestigiosi d’ogni
parte del mondo che da allora furono ammessi come soci dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto,
di cui fra l’altro Capellini fu a lungo apprezzato presidente.
Non voglio tediare con la quantità immane di riconoscimenti accademici, politici (senatore del
Regno) ed internazionali che furono tributati al Nostro (sono riportati in gran parte nelle Memorie
dell’Accademia delle Scienze del 1894-95). Spendo soltanto due parole di critica per chi ha
insinuato, con poca convinzione, a dire il vero, che Capellini fosse un vanitoso cacciatore di onori
(40). Può anche essere che gli onori gli facessero piacere. Forse la fanfara della gloria fa più effetto
ad una persona di umili origini che a un “figlio di papà”. Mi sembra però che il suo colossale lavoro
stia a testimoniare che certamente non demeritò gli onori tributatigli. Oggi, anzi, di Capellini
vengono soprattutto ricordati i lavori di paleontologia, non i titoli accademici.
Inoltre, alla sua morte, Capellini lasciò una scuola geologica italiana in grado di reggersi
saldamente sulle proprie gambe, e tuttora in piedi, e ben orgogliosa di esistere. Tutto questo per me
basta a dire che Capellini dovrebbe essere per tutti noi il modello dell’Universitario autentico.
Bibliografia
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Spezia. Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 2-1, 1862, 247-318
2. Capellini G.: Sui delfini fossili del Bolognese. Memorie dell’Accademia delle Scienze
dell’Istituto bolognese 2-3, 1863, 245-272
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dell’Istituto bolognese 2-4, 1864, 315-336
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Scienze dell’Istituto bolognese 2-5, 1866, 4I3-486
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Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 2-7, 1867, 3-27
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10.Capellini G.: Sul felsinoterio, sirenoide halicoreiforme dei depositi littorali pliocenici dell'antico
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dell’Istituto bolognese 3-1, 1871, 605-646
11.Capellini G.: Sulla balena etrusca. Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto
bolognese 3-3, 1873, 313-331
12.Capellini G.: La formazione gessosa di Castellina Marittima e i suoi fossili. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 3-4, 1874, 525-603
13.Capellini G.: Sui cetoterii bolognesi. Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto
bolognese 3-5, 1875, 595-626
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Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 3-6, 1876, 587-624
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dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 3-7, 1876, 413-448
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19.Capellini G.: Il macigno di Porretta e le rocce a globigerine dell'Appennino bolognese. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 4-2, 1880, 175-194
20.Capellini G.: Avanzi di squalodonte nella mollassa marnosa Miocenica del Bolognese. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 4-2, 1881, 413-419
21.Capellini G.: Del tursiops cortesii e del delfino fossile di Mombercelli nell'astigiano. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 4-3, 1882, 569-578
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particolare nel Bolognese e loro rapporti col gres de Celles in parte e con gli strati a clavulina
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Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 4-10, 1890, 431-450
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dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 5-1, 1890, 371-382
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Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 5-3, 1893, 363-370
31.Capellini G.: Rubble-drift e breccia ossifera nell'isola Palmaria e nei dintorni del golfo di La
Spezia. Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 5-5, 1895, 245-256
36
32.Capellini G.: Caverne e brecce ossifere dei dintorni del golfo di La Spezia. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 5-6, 1897, 199-215
33.Capellini G.: Sulla data precisa della scoperta dei minuti foraminiferi e sulla prima applicazione
del microscopio all'analisi meccanica delle rocce. Memorie dell’Accademia delle Scienze
dell’Istituto bolognese 5-6, 1897, 631-648
34.Capellini G.: Balenottere mioceniche di San Michele presso Cagliari. Memorie dell’Accademia
delle Scienze dell’Istituto bolognese 5-7, 1899, 660-679
35.Capellini G.: Balene fossili toscane. Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto
bolognese 5-6, 1897, 759-778
36.Capellini G.: Avanzi di squalodonte nell'arenaria di Grumi dei Frati presso Schio. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 5-10, 1903, 437-446
37.Capellini G.: Balene fossili toscane - II balaena Montalionis. Memorie dell’Accademia delle
Scienze dell’Istituto bolognese 6-1, 1904, 47-57
38.Capellini G.: Balene fossili toscane III idiocetus Guicciardinii. Memorie dell’Accademia delle
Scienze dell’Istituto bolognese 6-2, 1905, 71-80
39.Capellini G.: Resti di mammiferi nelle argille terziarie di Ponzano Magra. Memorie
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto bolognese 6-10, 1913, 123-128
40.Castellarin A.: Giovanni Capellini (1833-1922). In: Figure di Maestri che hanno operato nel
corso dell’VIII centenario dell’Università di Bologna. Accadelmia delle Scienze dell’Istituto di
Bologna, 1990, pp. 165-172.
41.Domning D. P. e Thomas H.: Metaxitherium serresi (Mammalia: Sirenia) from the early
Pliocene of Libya and France: a reevaluation of its morphology, phyletic position, and
biostratigraphic and paleoecologic significance. In: Boaz N. T. et Al.: Neogene Paleontology and
geology of Sahabi. Liss, New York 1987, 205-232
42.Simonelli V.: Commemorazione di Giovanni Capellini. Annuario della R. Università di Bologna
1921-22. Neri, Bologna, 1922, pp. 51-55
43.Taruffi C: Storia della teratologia. Voll. 1-8 Regia tipografia, Bologna 1881 guardare anno di 8°,
non con inventario
37
Paolo Scarani, Giacomo Lacchini
L’autopsia clinica dell’ottocento a Bologna. Nuove prospettive.
Pathologica 91, 128, 1999
Riassunto: recenti recuperi di materiale museale e bibliografico evidenziano il ruolo centrale dei
clinici nell’esecuzione delle autopsie ottocentesche a Bologna. Gli autori suggeriscono il possibile
ruolo di quest’abitudine sul persistente estraniarsi dei patologi moderni dall’autopsia clinica.
Parole chiave: autopsia clinica, storia, musei
Summary: a recent recovery of pathological specimens and relevant scientific papers from the
second half of the 19th century demonstrates the central role then played by clinicians in autopsy.
The authors suggest a role of that persisting habit in the negative attitude of contemporary
pathologists to autopsy practice.
Key words: clinical autopsy, history, museums.
È stato recentemente recuperato uno scritto del clinico Luigi Concato (1) nel quale sono descritti
alcuni casi di addome acuto. Uno di questi è il corrispettivo di due preparati di cartapesta e
scagliola del museo Taruffi (figg. 1 e 2). La tavola illustrativa della pubblicazione (fig. 3)
corrisponde come sempre con grande fedeltà ai preparati, che riguardano il caso di una donna
gravida deceduta per occlusione intestinale dopo parto cesareo, a causa di un voluminoso tumore
pelvico che contraeva intime aderenze col pube. È difficile comprendere la natura della neoplasia,
che non mostra sicuri rapporti con l’utero ed è descritta come costituita da cellule fusate.
Macroscopicamente, è raffigurata, ed anche descritta nel testo, come di colore giallastro. Il
materiale in fissativo non è per il momento disponibile.
Si tratta indubbiamente di un caso interessante. Inoltre, la riscoperta della rivista in cui è pubblicato
lo scritto, la RIVISTA CLINICA DI BOLOGNA, costituisce un’acquisizione di notevole interesse.
Questo giornale, diretto dal Concato, è al primo numero nel 1871, ma già si prospetta come molto
agguerrito, contando nella redazione Cesare Lombroso e Giulio Bizzozero. Accoglie poi, nei primi
numeri, alcuni splendidi articoli del giovane Camillo Golgi, su cui dovremo presto tornare.
Ciò che colpisce è però la narrativa del caso in oggetto. La donna deceduta fu sottoposta
all’autopsia dal Concato stesso, che aveva seguito tutto il decorso clinico ed anche consigliato il
cesareo. Per studiare il tumore pelvico, il clinico alla fine rimosse tutte le strutture del bacino, così
come sono presentate nella tavola e nei preparati del museo, inviandole per lo studio morfologico a
Cesare Taruffi.
È chiaro quindi che in questo caso l’autopsia non è gestita dal patologo, ma dal clinico stesso,
conformemente, d’altra parte, alla genuina tradizione Malpighiana e Morgagnana. Il patologo è
invece consultato in seconda battuta per risolvere problemi tecnici per la cui soluzione il clinico non
è attrezzato (laboratori, microscopio). Che questa prassi non fosse rara è dimostrato dal grande
numero di autopsie riportate in pubblicazioni cliniche della seconda metà dell’ottocento, ma non
raccolte nell’archivio di anatomia patologica. Fino al reperimento di questa pubblicazione, il fatto
che i clinici stessi eseguissero le autopsie era una semplice deduzione. Nei numeri successivi della
Rivista Clinica di Bologna sono riportati altri casi autoptici, seppure con quantità di dettagli molto
minore rispetto a quello presentemente trattato, in cui, dopo l’autopsia, è richiesta la consulenza del
patologo per l’esame specialistico di campioni prelevati. Tale esame può consistere semplicemente
dei rilievi macroscopici. Per lo più è però anche riportata la diagnosi istologica.
In definitiva, il ruolo del patologo nell’autopsia appare più simile a quello esercitato nei confronti
del chirurgo durante e dopo l’intervento, che non quello, anche oggi rivendicato, di detentore
assoluto dell’esecuzione dell’autopsia e della successiva elaborazione definitiva della diagnosi
anatomopatologica con relativa epicrisi.
38
Quanto detto spiegherebbe la relativa scarsità delle autopsie sino al 1920. Prima di allora le
autopsie erano prevalentemente didattiche: ciò spiega la quasi totale assenza di verbali autoptici
durante le vacanze estive. Gli anni venti segnarono invece il massivo coinvolgimento professionale
dell’anatomopatologo, e la conseguente acquisizione, in qualità di specialista, dell’intera prassi
autoptica.
Se ora consideriamo che l’autopsia eseguita dai clinici è persistita dal Medio Evo fino al 1920,
possiamo comprendere come lo scarso interesse manifestato da molti patologi per l’autopsia clinica
si fondi su radici molto più profonde, almeno a Bologna, di quanto si fosse sinora ritenuto.
Sarebbe interessante verificare se Bologna è, in questo senso, un’eccezione o la regola.
Nel caso che sia vera per tutti la nostra ipotesi, pensiamo che gli auspici del ritorno alle origini
dell’autopsia, prospettati da tanti patologi, siano fondati su basi inesistenti, o di poco fondamento.
Andrebbe allora eventualmente valutata l’ipotesi di riaffidare le autopsie ai clinici, inserendovi i
patologi come consulenti specialistici, come già avviene per la ‘surgical pathology’.
Concato L.: Alcuni fatti di oppilazione intestinale improvvisa. Rivista Clinica di Bologna 1, 1871,
1-21.
39
Paolo Scarani
1848-1849: grandi eventi ignorati, dieci anni prima della nascita della scuola
bolognese.
Pathologica 91, 209-213, 1999
Ho trovato qualche tempo fa nella cantina di casa alcuni giornali di mio padre del periodo della
seconda guerra mondiale e degli anni precedenti. Mi hanno colpito i temi banali, da vita di
provincia, che caratterizzavano quelle pagine. Pensando alla spaventosa catastrofe che incombeva
sul mondo, sembra strano che la gente potesse essere così distratta, al cospetto dell’inarrestabile
dinamismo di Hitler e del colpo di mano mussoliniano in Albania. Eppure, le cose vanno spesso
così. Anche in pieno 1943, con le città italiane attaccate dai bombardieri, col blitz di Patton in
Sicilia, la rivista ufficiale del Touring “Le vie d’Italia” presentava splendidi articoli storicoarcheologici e stucchevoli consigli e pubblicità per gli escursionisti (2-5). Ironia della sorte, nel
numero di giugno era presentata la guida al “Gran Sasso d’Italia” (1). Forse, Otto Skorzeny era
abbonato alle Vie d’Italia ....
Speriamo, oggi, di non essere sull’orlo di una guerra mondiale. A parte questo, i problemi, come
alla fine degli anni trenta, non mancano certo. Nonostante ciò, si pensa a mille cose di poco peso, a
eventi culturali ed a ricorrenze di dubbio interesse.
Stranamente, però, nel 1998, pur avendo sentito commemorare il centenario della morte di
Bismarck, non ho notato alcun accenno al centocinquantenario del Manifesto dei comunisti di Marx
ed Engels, pubblicato proprio nel 1848, nel clima incendiario della probabilmente più incredibile e
terrificante rivolta sociale e ideale che mai abbia percorso il nostro Continente, e, soprattutto,
l’Italia.
Mi piacerebbe parlare anche di Marx (non sono un suo seguace!), perché mi fece molto soffrire
quando me lo studiai a scuola. In ogni caso mi sembrò molto meglio di come ce l’han fatto apparire
tanti suoi epigoni successivi.
Col 1848, però, Marx c’entra poco. È senz’altro un figlio del ’48, in quanto di là partono le sue più
profonde considerazioni critiche, ma non ha ancora raggiunto una grande notorietà (7). Il Manifesto
appare insomma un po’ come i ‘Discorsi alla Nazione tedesca’ di Fichte durante la grande
insorgenza germanica contro Napoleone dopo la campagna di Russia: ben pochi, subito, se ne
accorsero.
I 150 anni del ’48 hanno invece un senso profondo per noi Italiani (e per noi medici e patologi), in
quanto in Italia il quarantotto fu il vero Risorgimento.
Meraviglia che non si sia voluto celebrare il ’48 proprio nel momento in cui si vuole rifondare il
nostro stato. Le forze politiche attualmente maggioritarie sono molto simili a quegli aggregati che
scatenarono l’insorgenza centocinquant’anni fa: sinistra in senso lato, cattolici e liberali.
La sinistra era eterogenea come oggi: c’era Mazzini, che poi aderì anche all’Internazionale, ma non
piaceva per niente a Marx, in quanto agitatore quasi puro, e senza piani precisi; c’era Garibaldi, il
miglior generale della nostra storia, populista, ma troppo candido politicamente.
Il cattolico più emblematico era Gioberti, incapace di capire che, con la sua concezione idealizzata
del Papa, rischiava, come poi avvenne, di forzare il Papa stesso in un vicolo cieco (4).
A parte si stagliava Carlo Pisacane, comunista, uno dei migliori pensatori dell’ottocento italiano,
esperto di cose militari (10), ma profeta disarmato (infatti, morì ammazzato da coloro che voleva
spronare alla rivoluzione).
Infine, c’erano i moderati, per gradi sempre più favorevoli alla promozione dei re Sabaudi alla
guida degli Italiani verso il Risorgimento e l’unità nazionale. I loro nomi sono fin troppo noti,
anche perché le vie e le piazze delle nostre città ne sono piene. Per questo voglio citare soltanto un
40
nome: Luigi Carlo Farini (1812-1866), medico romagnolo (di Russi) anticlericale e molto attivo
politicamente fin dalla giovinezza, perseguitato a lungo dal governo Pontificio, pur avendo svolto
missioni di grande valore per lo stesso, prima dell’episodio della Repubblica Romana. Convertitosi
definitivamente al liberalismo ed all’idea moderata (1846), secondo la quale l’Italia poteva essere
fatta solo dai Savoia, divenne l’uomo di fiducia di Vittorio Emanuele II e grande amico di Cavour.
Fu fra l’altro lui l’autore del memorabile discorso del ‘grido di dolore’, col quale il nostro primo
grasso e buffo Re entrò definitivamente in campo contro l’Austria (15). Fu poi ancora il Farini,
come dittatore, che guidò con mirabile determinazione tutti gli staterelli dell’attuale Emilia e
Romagna verso l’annessione al Piemonte, pur nella tempesta che fece seguito all’armistizio di
Villafranca.
L’interesse per questi eventi e personaggi deriva dal fatto che tutti i protagonisti erano animati da
un forte senso morale, e da un reale desiderio di redenzione degli Italiani. Il Risorgimento rimane in
effetti uno dei momenti più belli della nostra storia, non solo per le imprese ardimentose che ne
caratterizzarono tanta parte, ma soprattutto per quel desiderio di rinascita morale e di ricerca di
valori e tradizioni popolari genuine, comuni, sì, a tutto il movimento romantico, ma sentite con
molta forza dai nostri intellettuali, consapevoli della necessità di fondare su solide radici umane la
nascita del nuovo stato, che, fino a Napoleone, era apparso un sogno irrealizzabile.
Abbiamo già visto l’importanza della temporanea unità nazionale attuata dal Bonaparte e della
diffusione delle idee e dello stile francese nel votare molti intellettuali italiani al rinnovamento ed
alla creazione di uno stato autonomo (14). Gli ambienti medici si trovarono spesso coinvolti, a
causa della creazione di associazioni e di strutture, come il museo di patologia di Bologna, le quali
naturalmente promuovevano i contatti e gli scambi di idee fra le persone (12).
Probabilmente, non è vero che queste strutture fossero centri atti a favorire la sovversione contro la
restaurazione. L’immagine che abbiamo del nostro Risorgimento è molto oleografica e da
monumento celebrativo. Quarantotto a parte, i nostri cospiratori non erano poi dei gran cuor di
leone! Tipica è la cospirazione del gruppo del Conciliatore, di cui poi Silvio Pellico rimase
l’esponente più significativo. I congiurati sapevano che anche la semplice espressione di idee
sovversive era considerata dal governo austriaco alto tradimento: non sorprende, quindi, la loro
condanna a morte, poi commutata in carcere duro. Colpisce però la loro morbidezza durante gli
interrogatori, non particolarmente severi e compiuti da funzionari imperiali italiani molto civili, con
totale spontanea confessione dei nomi degli affiliati al gruppo (9).
In effetti, gl’Italiani scontenti della Restaurazione del 1815 non erano poi tanti. Probabilmente, il
maggior contributo alla nascita del movimento dell’unità nazionale venne proprio dai governi
restaurati. A Bologna, per esempio, fu un errore lasciare il museo di patologia.
Sapendo che in questa città l’influenza del Bonaparte era stata troppo forte, sembrò opportuno
lasciare come cardinale legato Carlo Oppizzoni, un milanese noto per le simpatie napoleoniche e
per lo spirito moderato (3-5). In effetti, quest’uomo, che resse Bologna dal 1803 al 1831, fu un
paziente ed abile amministratore, che dedicò particolari cure all’Università, e, particolarmente, alla
scuola di medicina. Mantenne il museo di patologia, fondato dal Bonaparte, favorendone lo
sviluppo per mezzo di una sorta di contratto con la neonata società medica chirurgica. Il contratto
stabiliva una vera e propria forma di educazione permanente per i medici del nord dello Stato
pontificio. Essi erano infatti tenuti a presentare in conferenze i propri casi interessanti, a pubblicarli,
ed a consegnare alla Società i preparati anatomopatologici, i quali erano quindi affidati in custodia
permanente al museo di patologia. Molto di questo materiale è ancor oggi disponibile (12).
Oppizzoni era probabilmente interessato in particolare all’autopsia. Creò infatti un accurato
regolamento per la frequenza degli studenti in sala anatomica, nel quale era specificato tutto il
materiale (camici, strumenti) che i docenti dovevano rendere disponibile ai discepoli (13).
L’autopsia era, nella prima metà dell’ottocento, la pratica medica più ricca di risultati, data
l’arretratezza delle altre branche mediche, terapia in particolare. Tutti i medici ne erano attratti
(l’anatomopatologo come specialista non c’era ancora), ed Oppizzoni colse l’occasione per indire
41
un premio annuale per chi avesse compiuto più dissezioni e consegnato più preparati al museo di
patologia. Il trionfatore di queste gare fu regolarmente Antonio Alessandrini, fondatore dei grandi
musei di anatomia comparata e di anatomia patologica veterinaria, e padre fondatore della scuola
veterinaria bolognese (13).
Apparentemente, non esistevano quindi motivi di crisi con l’autorità politica, nel mondo medico
bolognese. Eppure Antonio Alessandrini divenne uno dei più risoluti avversari dello Stato
Pontificio, e Cesare Taruffi (1821-1902), nostro padre fondatore, partecipò con grande
determinazione a tutta la campagna del ’48-’49, contro gli Austriaci e poi contro i Francesi.
La risposta è semplice: i governi della restaurazione non erano in grado di mettersi al passo coi
tempi, e le loro risposte erano liberali soltanto in apparenza. Le concessioni culturali fatte ai medici
si accompagnavano infatti ad un apparato di controllo imponente, nel timore che ogni riunione
medica potesse nascondere una cospirazione (4). I cospiratori, in effetti, c’erano, ma si trattava
inizialmente di quattro gatti: nostalgici di Napoleone e carbonari, completamente isolati dal resto
della popolazione: tragico esempio di questa scarsezza di peso fu il fallimento dei moti del 1821.
La paura del regime ed i controlli polizieschi conseguenti culminarono nella proibizione ai medici
ed agli altri studiosi dello stato pontificio di partecipare ai ‘Congressi degli scienziati italiani’. Tale
proibizione fu tolta soltanto nel 1846 da Pio IX, quando cominciò il suo pontificato pieno di
speranze (15).
Il disappunto dei medici dello stato pontificio è tangibilmente documentato da una lettera indignata
dell’Alessandrini, per non aver mai ricevuto alcuno dei compensi stabiliti, in quanto ripetuto
vincitore delle già nominate gare autoptiche.
Nel suo piccolo ciò rende l’idea dei motivi per cui gradualmente insorgevano sentimenti di
insofferenza nei borghesi e benestanti nei confronti dei governi restaurati: essi avevano la
sensazione di venire continuamente gabbati con promesse fumose e retoriche mai mantenute,
condite invece da una realtà di regime poliziesco, infido e sempre pronto a rivolgersi al grande
fratello cattivo: l’esercito dell’Impero austriaco.
La classe borghese dello stato pontificio e degli altri stati peninsulari era relativamente sonnolenta,
con pochi individui veramente insofferenti.
Diversa era invece la situazione del Lombardo Veneto, sotto il dominio Austriaco diretto.
Quest’area d’Italia era una delle più ricche, civili ed industriose d’Europa: gli Austriaci avevano
quindi tutto l’interesse a tenersela cara: e nel ‘48-’49 non esitarono un attimo a farlo. I Milanesi che
viaggiavano non potevano non trattare i dominatori con disprezzo, confrontando lo scandalo dello
splendore della corte di Vienna circondata da un mare di tuguri, caserme e bordelli (nell’Ottocento,
la sifilide e la tubercolosi si chiamavano ‘morbo di Vienna’ - Erna Lesky , comunicazione
personale), con la bellezza pulita e ordinata di Milano, circondata dalla sua deliziosa campagna (9).
Naturalmente, in simili atteggiamenti c’è dell’esagerazione: Vienna, come tutte le metropoli ha
sempre avuto aspetti positivi e negativi. Più di altre grandi città, essa ha saputo suscitare sentimenti
ambivalenti in numerosi uomini famosi nel bene e nel male: basti citare le idiosincrasie di Mozart,
di Freud e di Hitler, i quali, a dire il vero, ebbero a sperimentarne soprattutto gli aspetti negativi.
Poi, tasse a non finire, limitazioni nelle esportazioni, servizio di leva perentorio, e servizi segreti
superefficienti.
In generale, comunque, in Italia, anche senza le rapine a mano armata degli Austriaci, gli uomini
più industriosi ed aperti alle idee che fecero fiorire l’industria moderna, soprattutto nel Regno
Unito, si trovano profondamente avviliti: non solo dai governanti, ma anche dai propri pari. Il
movimento risorgimentale è infatti un movimento di élite. Per questo motivo i tentativi
insurrezionali di Giuseppe Mazzini (8) e la rivoluzione di Carlo Pisacane (10) sono falliti: ben
poche persone avevano la capacità di capirli.
42
Molta della classe borghese italiana era perfettamente soddisfatta dei regimi reazionari: subito dopo
il 1815, per la fine del feroce regime napoleonico, più tardi, sia per quieto vivere che per essersi
felicemente adattata ai dominatori (14).
Paul Ginsborg è fra i pochi a sostenere le caratteristiche quasi di guerra civile d’alcuni eventi delle
guerre del 1848-49 in Italia (7). I funzionari governativi e di polizia di molti governi reazionari
erano italiani. Lo stesso dicasi per molte delle truppe che attuarono repressioni nel Regno delle Due
Sicilie. Moltissimi erano poi anche gli Italiani che militavano nell’esercito e nella polizia austriaca,
e, tra loro, i disertori non furono molti. Secondo me, però, il fatto più clamoroso è che la marina
militare austriaca era costituita soltanto da Italiani, i quali, dopo l’insurrezione di Venezia non
furono in grado, pur nel caos generato dalle rivoluzioni Viennese e Ungherese, di attaccare Trieste e
Pola ... Invece, alla fine, Venezia cadde per fame e colera, grazie al blocco navale austriaco attuato
da marinai italiani (9).
Proprio negli eserciti è posta la causa della distruzione dell’insurrezione quarantottesca italiana: le
forze armate avevano ancora una struttura eminentemente dinastica, esclusivamente, quindi,
condizionata dal giuramento di fedeltà al sovrano. Ciò fu fondamentale per l’Impero austriaco: pur
nella bufera delle rivoluzioni l’esercito non vacillò, puntellando il trono. I ribelli, invece, erano
troppo divisi fra loro; per di più, l’unica forza organizzata da contrapporre agli Austriaci era
l’armata piemontese, che però, come noto, fu decisamente mal guidata (3-9-10).
Finora abbiamo incontrato medici insoddisfatti e perseguitati, borghesi vogliosi di libertà e di
modernità, moralisti agitatori.
Messi assieme, essi non ci spiegano l’entusiasmo popolare con cui nel 1846 furono accolte le timide
riforme di Pio IX, né le furiose rivolte del 1848, a Palermo, Milano e a Venezia, in cui si ebbe una
grandiosa partecipazione popolare.
Tutte le città dell’Europa continentale conobbero rivolte popolari impressionanti. Nulla però
eguagliò le cinque giornate di Milano, durante le quali fu messo in fuga, non dobbiamo
dimenticarlo, il più potente esercito del mondo, per di più comandato da un autentico genio militare.
La fame e la crisi economica avevano scatenato la gente alla rivolta dappertutto. Nel bolognese
c’era già stata una grossa carestia nel 1816-17. Poi le cose erano andate avanti decentemente fino
alla crisi mondiale del 1847. Fu una crisi non solo dovuta al cattivo raccolto, ma anche
all’incapacità dei governi di regolare le importazioni e le esportazioni (11).
Alla fame si univano le ripetute crisi economiche dovute alla spietata concorrenza esercitata dalla
nuova industria inglese. Contemporaneamente, nelle città, si andavano formando i primi aggregati
di proletariato (7-9).
Mentre le campagne rimanevano relativamente tranquille, le città si stavano progressivamente
trasformando in pericolose polveriere, in cui la rabbia popolare poteva esplodere da un momento
all’altro.
L’esplosione del 1848 ebbe quindi le sue origini in ragioni economico sociali, le quali poi, in varie
sedi assunsero connotati particolari: conflitti etnici, guerre di liberazione, e, da noi, peculiarissime
caratteristiche di risorgimento nazionale.
In Italia, insomma, alla furia della rivolta popolare per fame e grave malessere sociale si
sommarono motivi intellettuali e di orgoglio nazionale, fino a sfociare in una serie di vere e proprie
guerre contro lo straniero oppressore, purtroppo finite male per vari motivi (10).
Prime fra tutti l’eccezionale bravura e determinazione dei generali austriaci e la fedeltà delle loro
truppe. Radetzky, già ottantaduenne, agì sempre, anche nei momenti per lui peggiori, con
un’energia, una tempestività ed un coraggio che lasciano sconvolti. Tutto l’opposto furono i
Piemontesi, purtroppo, e qui non aggiungo altro, perché il povero Carlo Alberto è stato fin troppo
martirizzato. Un uomo di grande dignità, comunque.
Il vero disastro furono invece gli insorti ed i volontari. Quando poté, Garibaldi, il migliore, come
sempre, cercò di mettere ordine, fra questa gente, valorosa ed entusiasta, ma incapace di andare
d’accordo, un po’ come le nostre coalizioni governative attuali (3-4-9-10).
43
E col caos si perdono le guerre. Eppure, gli Italiani, che, sempre si dice, sono gente imbelle,
combatterono come leoni: chi non ricorda, a parte le cinque giornate, Curtatone e Montanara,
Vicenza, Bologna (8 agosto 1848 e 8-16 maggio 1849), Roma (contro i Francesi, si arrese il 3 luglio
1849), Brescia, Venezia (l’ultima a cadere per fame il 22 agosto del 1849), Catania e Messina, che
subirono un autentico martirio.
Ma tante altre città e paesi resistettero furiosamente al ritorno delle truppe straniere, e dovettero
subire brutalità inaudite, che non ebbero alcunché da invidiare agli attuali orrori balcanici. C’erano,
nella gente che si ribellava e resisteva sino all’inverosimile, il dispetto e la rabbia per essere stati
ingannati, dall’indecisione del Papa (4), da parole vuote, ma molto eccitanti, cui le classi dirigenti
non avevano voluto dare alcun riscontro oggettivo, ma in cui la gente, aveva entusiasticamente
creduto (9). Pio IX fu veramente una grande delusione. Probabilmente era troppo giovane, e si
lasciò inizialmente deviare dall’entusiasmo della gente, e alla fine si spaventò. Io penso che fece
male a ritirarsi, alla fine, in una posizione neutra. Gli Italiani amano il Papa. Con maggiore
acoortezza, avrebbe raccolto attorno a sé tutta l’Italia, come fece Pio XII dal 1943 in poi, facendosi
discretamente preferire ai comunisti ed ai repubblichini ... e il guadagno ci fu: il grande successo
della Democrazia Cristiana.
Il 1848 fu animato da una fede illusa, ma una grande fede. Non saprei spiegare altrimenti
comportamenti strani come quello di Taruffi, un uomo meticoloso, serio, austero, che partì
volontario come chirurgo con la guardia civica Bolognese e partecipò alla sfortunata battaglia di
Vicenza. Rimase poi a Venezia a costruire ospedali d’emergenza fino alla nascita della Repubblica
Romana, all’inizio del 1849. Da Roma venne alla fine espulso dai Francesi il 7 luglio 1849, qualche
giorno dopo la fine della repubblica. Tornò a Bologna, perse il posto all’università, che gli venne
restituito, come cattedra di anatomia patologica, da Farini, nel 1859.
Il quarantotto è purtroppo una storia finita male. I migliori però non si arrendono: di Taruffi
sappiamo poco. È però sicuro che mantiene rapporti con Farini.
Farini inizia a scrivere un saggio strorico sullo stato romano che avrà un successo internazionale ed
un’ammirazione quasi fanatica da parte di Palmerston (15). Fatto fondamentale, quest’ultimo, nel
polarizzare la simpatia degli Inglesi verso il Piemonte e l’Italia, visti sempre più come un possibile,
valido antagonista alle potenze europee continentali in vista della gigantesca espansione
economicomilitare del Regno Unito.
L’enorme impressione suscitata su Farini dal tragico insuccesso del moto italiano, lo spinge sempre
più nell’orbita dei Piemontesi. Dopo Vignale (1849), decide anzi di darsi interamente al nuovo re di
Torino, che lo ha subito affascinato per la gran decisione con cui è riuscito a contenere l’arroganza
del vittorioso Radetzky.
E, mentre Radetzky se ne torna fra le braccia della sua bella fidanzata milanese ed al gioco
d’azzardo (governerà Milano fino al 1857, un anno prima della morte, a 91 anni), a Torino si da
inizio alla preparazione di quell’evento che ci permise di festeggiare, quest’anno, i 140 anni
dell’anatomia patologica a Bologna.
Bibliografia
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luglio 1943, 425-426
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Memorialisti dell'Ottocento I. Ricciardi, Milano 1953, 541-594
5. Ferri A., Roversi G.: Storia di Bologna. Alfa, Bologna 1978.
44
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La storia - L’età contemporanea - 8-3 Dalla restaurazione alla prima guerra mondiale. UTET,
Torino 1986
8. Mazzini G.: Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa. In Della Peruta F.: Scrittori politici
dell’Ottocento. I: Mazzini e i democratici. Ricciardi, Milano 1969, pagg. 446-465.
9. Meriggi M.: Il Regno Lombardo-Veneto. In: G. Galasso: Storia d’Italia. Vol. XVIII-2. UTET
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10.Pisacane C: Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49. In Della Peruta F.: Scrittori politici
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45
Paolo Scarani, Raffaele De Caro, Vittoria Ottani, Mario Raspanti, Franco Ruggeri, Alessandro Ruggeri
The contemporaneous anatomic collections and scientific papers from the
19th century school of anatomy of Bologna.
Clinical Anatomy 14:19–24 (2001)
© 2001 Wiley-Liss, Inc.
Introduction
The anatomic museum of the medical school of Bologna consists of the very famous 18th-century
preparations by Ercole Lelli (1702-1766), Anna Morandi (1714-1774) and Giovanni Manzolini
(1700 – 1755). A less known collection of 100 wax preparations, 120 natural dried specimens with
injected blood vessel and 50 engravings belongs to the 19th-century section of this museum. While
the 18th-century preparations of that very famous museum have been described (Ruggeri 1988,
Ruggeri & Bertoli Barsotti 1997), the 19th-century models have not yet been studied in detail.
Giuseppe Astorri (1785-1852) and Cesare Bettini (1801-1885), two wax modelers of the 19th
century, created a number of natural specimens and copies in wax for the museum of anatomy and
the museum of pathology. Moreover, Cesare Bettini was a famous illustrator of scientific papers
from Bologna in the 19th century. Such a characteristic was fundamental in the re-classification of
the museum of pathology because the similarities between scientific illustrations and pathological
specimens was practically absolute (Scarani 1990, 1994, Scarani & Lacchini 1999).
Systematic comparisons of the 19th-century scientific papers, unpublished documents, illustrations
and the pathologic specimens permitted a classification of the 300 preparations from the museum of
pathology. Such a successful experience suggested adopting the same approach for the 19th-century
section of the anatomy museum in Bologna.
Materials and methods
The modern inventory of the anatomy museum does not mention any relationship to the
contemporaneous scientific literature. Such a feature is common to all recent inventories of the
museums of the University of Bologna. Therefore, the comparison between specimen and scientific
illustration requires a systematic review of the papers issued in the 19th century. The review was
facilitated by the fact that most papers based on the museums of Bologna were published in the
official journals of the Accademia delle scienze dell’istituto di Bologna and of the Società medica
chirurgica di Bologna. Extremely precious advice and unique reports were also found in the Rivista
clinica di Bologna.
The detailed correspondence between the illustrations and the specimens was revealing (Scarani &
Lacchini 1999). Therefore, the illustrations allowed us to distinguish anatomical specimens and wax
models from those in the pathology museum.
46
Results
Case 1 - A wax model considered to be an example of hermaphroditic adult external genitals had
been previously attributed to the renowned wax modeler Giuseppe
Astorri.
Such
a
model
corresponds to the illustration of
a paper by Francesco Mondini,
written in 1834 (Mondini 1844).
The author attributed the
illustrations to Cesare Bettini and
confirmed that the wax modeler
had been Astorri. Mondini (who
died in 1844) was a professor of
anatomy and described two
malformations currently in the
museum of pathology (Mondini
1834, 1839). The genitals belonged to a 64-years-old male
considered to be a female and admitted as such to the guard of
Professor Francesco Rizzoli because of a brain hemorrhage. That
famous surgeon (the founder of the orthopedic Institute of Bologna) perceived the abnormal nature
of the genitals during bladder catheterization. The patient died and the organs of the pelvis were
removed and dissected. The illustrations
attached to the paper show the accurate work by
Mondini demonstrating a typical hypospadia.
47
Case 2 - A wax model showing the external genitals of a 40-days-old neonate corresponds to the
illustration of a second paper by Francesco Mondini, written in 1840 (Mondini 1846, posthumous).
The case illustrates an extremely small vaginal
orifice simulating hypospadia.
The anatomic dissection
revealed a normal female genital tract.
Giuseppe Astorri was the wax modeler. To date,
an inappropriate diagnosis of sex at birth still
appears to be a problem in medical practice. In
1998, 106 autopsies of aborted or stillborn fetuses
were performed. 28 reported an incorrect diagnosis
of male sex at external inspection, despite the
presence of a normal orifice of the vulva. Finally,
autopsy revealed a normal female genital tract.
(Mondini 1846, posthumous).
48
Case 3 - A model in colored chalk (scagliola) represents the head of a black man with opened skull
showing the structure of the brain. It carries the signature
of the modeler Leonida Berti (1850). Calori described the
anatomy of the brain of a black man from Guinea in
a paper with illustrations by Bettini (Calori 1865).
The purpose of the paper was to demonstrate no
differences with respect to the average European
brain. The model was not mentioned. One of the
illustrations (Figure 24) corresponds to the section
of the right
cerebral
hemisphere of
the model.
A
series
of
anatomic
drawings with no signature, recently discovered in the files of
the museum, correspond to the illustrations by Bettini for the
paper mentioned above (Calori 1865). Such a finding is similar
to practices recently described in the archive of the pathology
museum (Scarani 1994).
49
Discussion
The school of anatomic wax modeling of Bologna was probably the most ancient in the world, with
the only exception of the unique example of Gaetano Zumbo (1656-1702 - Azzaroli Puccetti L. et
al. 1995), active in Florence, Genoa and Paris. Usually, the temporal sequence Zumbo – Lelli
(1702-1766) - School of Florence (Lanza B. et Al. 1979) is interpreted as consistent with a
progressive evolution from Zumbo to the school of Florence via the School of Bologna. However,
no documental confirmations exist. In Bologna and Florence, different techniques in wax modeling
were used. Typical is the life-size model of Bologna, often enclosing natural bones, respect to the
scale model of Florence. In Bologna, the cast was directly obtained from the natural specimen. In
Florence, a preliminary copy in wax or chalk (life-size, smaller or magnified) was often
preliminarily molded and the cast was obtained from it (Lanza B. et Al. 1979). Such an approach is
probably in accord with the massive serial production and trade of wax models characterizing the
school of Florence. The climax of Florence corresponds to a profound crisis of the school of
anatomy and wax modeling of Bologna (1797-1815). Between 1797 and 1803, the school was
destroyed by Napoleon Bonaparte with the expulsion of Luigi Galvani (1737-1798) from the
University (Scarani 1998). Galvani was replaced by anatomy professors more compliant with the
French rule. The school of wax modeling of Bologna was considered scientifically inconsistent by
the new establishment and wax models from Florence were bought.
The anatomy professor Francesco Mondini and the wax modeler Giuseppe Astorri, whose work is
discussed in this paper, represent a sort of resurrection of the school of Bologna after Napoleon’s
fall.
The cases reported in this paper are not surprising because of the original unity in the scopes of the
university museums of Bologna. Moreover, the modelers and the illustrators were the same for all
university institutes and laboratories (Scarani 1994, 1998) and similar features have been recently
described in the geology museum (Scarani 1999).
The cases by Francesco Mondini witness the fruitful collaboration between that anatomist and the
famous wax modeler Giuseppe Astorri. Such a collaboration is a major reason for the resurrection
of the school of anatomy after its demise during the rule of the French. The study by Calori of an
old case from the anatomic collection is in accord with his classic anthropologic studies (Calori
1866, 1870, 1872). A number of teratological studies by this author concerning the specimens of the
museum of pathology are known (Scarani 1990). We are presently looking for an association
between the late anatomic specimens and the numerous late papers by Calori concerning anatomic
variations. A preliminary restoration of the timeworn specimens is in progress.
A consistent collaboration of anatomy, pathology and veterinary medicine in teaching and scientific
research can be found in our 19th-century University. A number of specimens from the pathology
museum are by Luigi Calori (anatomist), Giovanbattista Ercolani (veterinarian) and by Francesco
Rizzoli (surgeon and orthopedist). Such an extensive contribution to the pathology museum is
explained by its own history. The museum was founded by Napoleon in 1804 in order to preserve
specimens with their relevant clinical history attached (Scarani 1998). The main purpose of such an
institution was to produce effective tools for continuing postgraduate medical education and
systematic scientific exchanges. The museum was preserved by the government of the Popes after
the Congress of Vienna (Scarani 1998) and a fundamental duty of the Società medica chirurgica di
Bologna (implemented in 1827) was to produce new cases for the museum. Therefore, it is not
surprising for us to find anatomic preparations accompanied by specific scientific papers.
The profound similarity between tables and wax models is due to the contemporary preparation of
both. The authors of the tables and of the casts and wax models are usually reported in the papers.
Nevertheless, the papers and the models appear to be independent entities. As usually, the paper is
conceived as an independent scientific tool rather than a document explaining the specimens of the
museum. All specimens were accurately described in a detailed manuscript archive with rich
50
clinical histories. The importance of the scientific papers appears to be increased today because the
old archives were almost completely lost.
When the first studies on the pathology museum were issued (Scarani 1990, 1994) a number of
people considered such features to be exclusive to that museum. On the contrary, we are convinced
that such uniqueness is only apparent because of our inadequate understanding of the 19th century
museums of Bologna. We suspect that the organizational features of the museums of Bologna were
characteristic of all museums in the 19th century. Indeed, morphology was the most powerful
innovational tool available in the life sciences at that time. In such a context, any museums
organized with the criteria described above represented an incredibly powerful research tool for
understanding the history of our discipline.
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Mondini F. (1844) Virilium conformationis abnormis, quae hypospadia dicitur, anatomica
descriptio cui nonnullae conjecturae sunt adjectae, quae ad dignoscendam huisce anomaliae
formationis rationem concurrunt. Novi commentarii Academiae Scientiarum Instituti Bononiensis
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Pathologica 93, 168-171, 2001
Trovare qualcosa comporta spesso aperture di scenari dimenticati o inaspettati. Chi segue questa
rubrica l’avrà oramai capito. Questa è un’ulteriore dimostrazione. Non si tratta di riscoperte
spettacolari, ma di conferme di fatti già ipotizzati, i quali tuttavia necessitavano di una conferma.
Erano già stati oggetto di precedenti considerazioni, alle quali rimandiamo 13-16.
Assolutismo illuminato
Il fatto che il museo di patologia fosse stato fondato all’apogeo del dominio napoleonico, quando a
Bologna si trovavano diversi docenti e funzionari graditi al Bonaparte, provenienti sovente da
Milano o da Pavia (come l’anatomico Alessandro Moreschi, milanese, morto nel 1815), faceva
sospettare che il concetto di museo patologico, caratterizzato da una stretta associazione fra
preparati e notizie cliniche accuratamente archiviate, derivasse dal modello settecentesco elaborato
a Pavia, dove ancora sono raccolti interessanti esempi di preparati patologici corredati da ‘cartelle
cliniche’ (Giuseppina Bock Berti, c. p.). Lo stesso Luigi Rodati, responsabile del museo di
patologia dopo la restaurazione, propone come uniche entità paragonabili al ‘suo’ museo quelli di
Pavia e di Padova 13. Quello che più gli sta a cuore è però il museo di Pavia. È d’altra parte logico
aspettarsi che questa città universitaria fosse indicata a Bologna come modello.
I motivi politici avevano senza dubbio il loro peso: Milano e la Lombardia si presentavano come la
parte d’Italia sentimentalmente più vicina ai Francesi. Tuttavia, il Milanese era anche l’area più
evoluta dello Stivale, da ogni punto di vista. E Pavia già dal seicento si era decisamente affermata
come una delle più moderne e vivaci università europee 2. Su questo fertile terreno avevano poi
lavorato con straordinaria abilità gli esponenti forse più dotati dell’intera dinastia Asburgica: Maria
Teresa (1717-1780), grassa quanto intelligente (una studiosa di Innsbruck sostiene che passasse il
quintale), ed i suoi due figli Giuseppe (1741-1790) e Pietro Leopoldo (1747-1792), subentrato a
Giuseppe al soglio imperiale dopo la sua morte prematura per tubercolosi. Come tutti gli Asburgo,
essi concepivano il territorio milanese e veneto come il cuore pulsante del loro Impero. Avevano
già l’ex ducato di Milano. Per il Veneto sarebbe stato necessario Napoleone con Campoformio (o
Campoformido: mettetevi d’accordo coi Friulani).
I figli di Maria Teresa nutrivano un particolare interesse per la medicina 7. Erano in particolare
attratti dalla chirurgia, e per ragioni semplici e lineari. Accerchiato da nemici mortali, per di più
scatenati dalla difficile successione di Maria Teresa (ricordate la ‘prammatica sanzione’?), il Sacro
Romano Impero dovette lottare con le unghie e coi denti per sopravvivere e consolidarsi. Le guerre
del Settecento furono d’una ferocia inaudita, con caratteri addirittura mondiali. A scuola, di solito,
questa roba era studiata in fretta e furia. Eppure, molte situazioni sarebbero degne di accurata
valutazione, per la profonda influenza esercitata sulla nascita del mondo attuale. La guerra dei sette
anni, per esempio (1756-1763), cominciata come rissa fra Prussia e Impero per la Slesia, terra che
sarà probabilmente il primo movente anche della terza guerra mondiale, divenne conflitto massivo
(Francia-Sassonia-Impero-Svezia-Russia contro Prussia-Inghilterra-Hannover), associato a
selvagge guerre coloniali anglofrancesi (nel Nordamerica e in India). Come nella prima guerra
mondiale, furono ampiamente utilizzate truppe native, specialmente nel Nordamerica, dove si fece
ampiamente leva sugli odi tribali. Ciò produsse fra l’altro quei miti sdolcinati della letteratura alla
James Fenimore Cooper (L’ultimo dei Mohicani, no?), acutamente commentati da Elémire Zolla 21.
Quantunque non ancora condotte con l’aggressività del Bonaparte, le guerre erano già molto
distruttive, almeno sul campo di battaglia. Se la velocità dei generali e degli eserciti non era ancora
notevole, senz’altro, era impressionante la tenacia nella lotta, ad opera, soprattutto, di alcuni
contendenti (primo fra tutti Federico II il Grande di Prussia), costringendo le truppe a sforzi quasi
impensabili. Giuseppe II percepì pertanto la necessità di medici competenti al seguito delle truppe,
53
capaci di risolvere tempestivamente ed in modo efficiente le gravi emergenze dei feriti 2. Tali
medici erano ovviamente i chirurghi, una categoria ancora ghettizzata dalla medicina ufficiale. Il
merito di Giuseppe e della scuola medica di Vienna fu di fare scelte opportune in tal senso, già
favorite dal fondatore della scuola, il van Swieten (1700-1772), della grande scuola olandese. Ciò
produsse infatti quella profonda concretezza che mai più sparì negli anni d’oro della capitale
imperiale. La scelta fondamentale per lo sviluppo della medicina militare e pratica nell’Impero fu la
decisione di affidarsi all’abilissimo chirurgo pavese (di San Zenone al Po) Giovanni Alessandro
Brambilla (1728-1800), il quale si guadagnò la fiducia della corte per le brillanti cure d’urgenza
prestate a vari personaggi illustri 2. Oltre che abile di mano e capace di scegliere gli strumenti
giusti, Brambilla era anche uno stratega. Seppe infatti far valorizzare i chirurghi come medici a tutti
gli effetti. Promosse l’insegnamento della medicina e, soprattutto, della chirurgia militare, per la
quale fu creata la famosa accademia viennese, cui fu dato il nome dell’imperatore (Josephinum).
Capì, naturalmente, l’importanza della conoscenza dell’anatomia, e promosse il famoso acquisto
delle cere anatomiche fiorentine, provenienti dalla scuola fondata in Firenze dal fratello di
Giuseppe II, allora granduca di Toscana 7.
Brambilla non dimenticò Pavia, particolarmente cara ai grandi progetti di modernizzazione
dell’istruzione voluti dagli Asburgo: vi mandò infatti, come insegnante di anatomia e di chirurgia,
Antonio Scarpa (1752-1832) 2. Scarpa è senz’altro da considerare il fondatore della grande
tradizione medica moderna di Pavia. Senza Scarpa, probabilmente neanche Camillo Golgi 14
avrebbe trovato il terreno favorevole in cui affermarsi. Sembra che anche Scarpa avesse un
caratteraccio (alla Golgi, quantunque non fosse un Lombardo di montagna: veniva da Motta di
Livenza). Era molto criticato per voler tenere unificate la chirurgia e l’anatomia: una diceria
sostiene che, in tutta Italia, aspettassero la sua morte per effettuare la scissione. Chissà chi aveva
torto ....
Fu il senso pratico ad ispirare a Scarpa l’attuazione di un grande museo di patologia. L’anatomia
patologica moderna è stata, fra le altre cose, un grande atto di fede dei chirurghi 13. Molti patologi
provenivano dalla chirurgia. Perché? Goethe ci dà la risposta 19: la morfologia è l’unico terreno
solido su cui la scienza può progredire. Questo era il senso della costituzione dei musei di patologia
dell’università Ticinense (Ticinum = nome latino di Pavia) e, successivamente, di quella bolognese.
La logica sembra dunque far pensare che il museo di patologia bolognese si fosse modellato su
quello di Pavia.
Primi indizi
La ricostruzione del museo Taruffi, con le caratteristiche correlazioni tra preparati, archivio e
pubblicazioni d’epoca 10-11-12-18, evidenziò chiaramente un piano preciso per la creazione di un
museo solidamente fondato sulla correlazione fra morfologia e notizie cliniche. Si potevano però
anche intravedere stretti rapporti fra l’anatomia normale e la patologia nel gran numero di preparati
patologici allestiti e studiati dall’anatomico Luigi Calori (1807-1896). Ciò non sembrò, tuttavia di
grande rilevanza, almeno per dimostrare l’influenza pavese su Bologna, in quanto la correlazione
archivio-pubblicazioni-museo si configurava come carattere comune a tutti i musei universitari
bolognesi 17.
Tali caratteristiche apparivano invece meno accentuate per il museo di anatomia normale, dove
sono raccolti preparati patologici ottocenteschi studiati e descritti in pubblicazioni scientifiche da
professori di anatomia, in accordo coi canoni già documentati per il museo Taruffi 20.
Lombroso e gli studi antropologici di Calori: una nuova strada
Un’impressionante sfilata di teschi accoglie i visitatori dell’Istituto anatomico di Bologna. Si tratta
di una parte della grande raccolta di crani, progressivamente accumulata da Luigi Calori nei suoi
accurati studi morfometrici 3-4-5-6. La morfologia macroscopica fu l’asse portante della ricerca del
Calori. Tutte le sue pubblicazioni si caratterizzano per una quasi esasperante ricerca anche di
minime variazioni nella struttura delle ossa, dei muscoli, del decorso dei nervi, della forma e delle
54
dimensioni degli organi, dell’uomo e degli animali. Proprio questa ricerca delle variazioni giustifica
l’interesse di Calori per le malformazioni, ed il gran numero di preparati teratologici, accompagnati
da accurate pubblicazioni scientifiche, che furono poi collocati nel museo Taruffi, quando, nel
1863, fu reso operante il gabinetto di anatomia patologica. Le malformazioni interessavano Calori
proprio come estreme variazioni nello sviluppo e nella finale strutturazione degli organi. Prima del
definitivo affermarsi dell’anatomia patologica era comunque il professore d’anatomia il medico
utilizzato come consulente per la valutazione delle malformazioni, ed anche del sesso di un
individuo, ovviamente, nei casi dubbi 20.
La raccolta sistematica di crani aveva per Calori anche fini antropologici: egli voleva infatti
verificare se si potesse stabilire una sorta di mappa della conformazione del cranio degli Italiani,
grossolanamente basata sulla divisione in regioni. Produsse in tal modo una serie di tabelle
craniometriche molto accurate, utilizzate in seguito molto spesso come campione di riferimento 11.
Come Virchow ed altri studiosi dell’ottocento 15, Calori aveva un profondo senso della storicità
delle attività umane. Volle pertanto valutare la morfologia dei crani Italici delle epoche passate,
particolarmente del territorio padano.
Come abbiamo detto, tutti questi teschi sono ancora accuratamente raggruppati, per epoca e per
regione, presso l’istituto anatomico, quantunque senza dati d’archivio sistematici, a parte alcune
pubblicazioni 3-4-5-6. In quelle finora recuperate, Calori non ha mai trattato di crani di delinquenti, se
si eccettua il caso dell’encefalo di africano 3, da noi recentemente ristudiato 20. In esso, per
dimostrare la tesi che non vi sono sostanziali differenze fra l’encefalo dei bianchi e dei negri, Calori
si serve, per il confronto, dell’encefalo d’un giovane, decapitato a Bologna nel 1865, senza per altro
fare riferimento al cranio.
Uno studio sistematico di Cesare Lombroso su crani di assassini originari di varie parti d’Italia
riporta anche una serie di 11 bolognesi della raccolta Calori 8. In effetti, nella collezione dei crani
esiste un gruppo di 100 etichettato come ‘delinquenti’. Su ciascun cranio, oltre a un numero
progressivo che li identifica come gruppo, sono scritti, con caratteri spesso a stento percettibili, il
tipo di reato commesso, talora il nome e l’età. Undici sono qualificati come assassini o come
decapitati, in accordo con Lombroso, e comprendono il giustiziato del 1865, del cui encefalo si era
servito, come detto, anche il Calori. Mancano invece momentaneamente altri riscontri su questo
particolare gruppo di crani e sui motivi dello specifico interesse da parte del Calori.
Luigi Calori rimane in effetti un personaggio ancora misterioso, nella storia della facoltà medica
bolognese. Era un dissettore macroscopico di straordinaria perizia, e si occupò anche di anatomia
comparata. Siamo attualmente alla ricerca dei preparati di rettili ed anfibi esotici, dettagliatamente
pubblicati. Tutta quest’attività andò tuttavia a scapito dell’anatomia microscopica e dell’istologia:
ciò gli fu rimproverato abbastanza aspramente dal patologo Giovanni Martinotti, persino nel
necrologio 9 (certo che, se ci si rivede dopo morti ….).
Salvo scoperte inaspettate, il periodo postunitario della storia dell’anatomia bolognese appare molto
povero e frammentario. Il riesame del periodo pontificio di poco anteriore alla direzione di Luigi
Calori (1815-1844), ha invece permesso il recupero di materiale quasi inesplorato presso l’archivio
di stato, riguardante il periodo napoleonico e della restaurazione.
Tale materiale presenta la figura di Alessandro Moreschi a tinte molto meno fosche rispetto alla
tradizione dei ‘bolognesi’, senza dubbio feriti dal duro trattamento subito da Luigi Galvani 16 e
dalla perdita della collezione Valsalva. In realtà Moreschi appare estremamente attivo nel
ricostruire la tradizione di preparatori e ceroplasti, oramai morta dopo la gloria del settecento.
Probabilmente perché non soddisfatto dei propri preparatori, Moreschi inizia ad acquistare altrove
vari materiali. Risulta infatti acquisita, ma sparita nel 1811, una preparazione del pancreas del
Wirsung. Più interessante è però l’acquisto di cere eseguite da Clemente Susini, della grande scuola
fiorentina. Un preparato molto bello, tuttora in ottime condizioni (rete linfatica sottofasciale
dell’arto inferiore) costò mille lire del Regno d’Italia. Non siamo riusciti a stabilire il valore attuale.
Le Istituzioni valutarie italiane consentono infatti un ricalcolo mediante tabelle soltanto dal 1861 in
55
poi. Ciò è stato di grande utilità per il museo Taruffi, per il quale sono ancora disponibili le
valutazioni inventariali del 1865. Dall’istituzione del Regno d’Italia napoleonico, i nominali
bolognesi e pontifici furono sostituiti dal nuovo sistema metrico (uniformato su quello della
Francia) 1. Ricalcali dei valori non sono purtroppo, momentaneamente disponibili. Le monete
napoleoniche sono molto belle, e sono state riprodotte, anche quelle del 1811, sul volume catalogo
di Lisa Bellocchi 1.
Valore a parte, il documento ritrovato vale a sfatare la leggenda che le opere di Susini presenti a
Bologna fossero frutto di una sorta di apprendistato bolognese dello stesso, abbastanza
improponibile, a rigor di logica.
Molto più interessante è però la documentazione che dimostra la quasi unitarietà dei musei di
anatomia e di patologia, e il fattivo contributo dato dal Moreschi allo sviluppo dello stesso museo
patologico, nonostante esistesse un ostensore di patologia specifico. Pur affermando l’esistenza di
quest’ultimo, infatti, una circolare governativa del 1812 sostiene che il gabinetto di anatomia e di
patologia è unico.
Pavia e Bologna
Insomma, il cerchio si chiude. Il milanese Moreschi così attivo nel promuovere lo sviluppo del
museo patologico e l’unitarietà dei musei anatomico e patologico: la radice di tutto ciò è Pavia, col
suo museo in cui i materiali sono accompagnati dalla storia clinica, e con la dottrina unitaria della
morfologia, normale e patologica, prescritta da Antonio Scarpa.
I lettori di questa rubrica potranno immaginare quale impressione possa produrre il vedere sulla
carta, con scarne frasi burocratiche, l’affermazione di principi dedotti da come sono poi andate le
cose, più che dalla loro enunciazione.
Tutto ciò fa percepire con ancora maggior chiarezza quanto importante sia stata la fondazione del
museo patologico bolognese ed anche di altri musei europei concernenti la morfologia. Essi infatti
furono veramente un punto di clamorosa rottura per la nascita della medicina moderna. Questo fu
veramente il momento d’oro dell’autopsia. Tanto che l’Autorità pontificia si guardò bene
dall’abolire il museo patologico dopo il 1815. Anzi, cercò in tutti i modi di arricchirlo e di
promuovere l’interesse dei medici 13.
Concludiamo con un’osservazione-richiesta, che speriamo giunga ai timpani di qualcuno. Quando
Napoleone incontrò Goethe ad Erfurt nel 1808, gli disse la famosa frase "vous êtes un homme!".
Successivamente, conversò a lungo sugli scritti goethiani, che dimostrò di aver letto con molta
attenzione (dormiva poco, quindi, poteva permetterselo .... certo, però .... battaglie, politica, codice
Napoleone, donne, Goethe ....). Sarebbe interessante sapere se avesse letto anche i lavori sulla
morfologia: il museo di patologia di Bologna lo farebbe proprio pensare.
1. Bellocchi L.: Le monete di Bologna. Cassa di Risparmio in Bologna, 1987
2. Brambilla G. A.: Storia delle scoperte fisico-medico-anatomico-chirurgiche fatte dagli uomini
illustri italiani, a cura di Ugo Stefanutti, Forni, Bologna 1977
3. Calori L.: Cervello di un negro della Guinea illustrato con otto tavole litografiche. Memorie
dell’accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna. Serie 2 Tomo 5, 1865, 177-212
4. Calori L.: Intorno alle suture soprannumerarie del cranio umano, ed a quelle specialmente delle
ossa parietali Memorie dell’accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna. Serie 2 Tomo 6, 1866,
327-343
5. Calori L. Del cervello nei due tipi brachicefalo e dolicocefalo italiani. Memorie dell’accademia
delle scienze dell’Istituto di Bologna. Serie 2 Tomo 10, 1870, 35-156
6. Calori L.: Della stirpe che ha popolato l'antica necropoli della Certosa di Bologna e delle genti
affini. Discorso storico-antropologico. Memorie dell’accademia delle scienze dell’Istituto di
Bologna. Serie 3 Tomo 2, 1872, 463-629
7. Lesky E.: Meilensteine der wiener Medizin. Maudrich, Vienna 1981
56
8. Lombroso C.: Esame di sessantasei cranj di delinquenti. Archivio dell’Istituto lombardo di
scienze e lettere 6. 1873. 833-844
9. Martinotti G.: Luigi Calori. Monti, Bologna 1898
10.Salfi N., Gallo C., Azzarito G., Scarani P.: Malpighi anatomopatologo. Una testimonianza del
museo Taruffi di Bologna. Pathologica 88, 324-326, 1996
11.Scarani P.: Un affascinante legame tra il museo di anatomia patologica e l’antico ospedale dei
pazzi del S. Orsola. Il Friuli Medico 46, 1991, 197-212
12.Scarani P.: Die pathologischen Moulagen von Giuseppe Astorri (vor 1840). In: Wissenschaft im
Deutschen Hygiene-Museum, Band 1, Verlag des Deutschen Hygiene-Museums, Dresda 1994
13.Scarani P., Gallo C., Eusebi V.: Tra ideale e realtà: le autopsie nell’Italia postunitaria.
L’esperienza bolognese. Pathologica 89, 138-145, 1997
14.Scarani P.: Appunti su Camillo Golgi, il patologo che trovò la chiave d’accesso al neurone.
Pathologica 89, 351-357, 1997
15.Scarani P.: Un genio coraggioso (un eroe, potremmo dire): Rudolf Virchow (1821-1902).
Pathologica 90, 186-192, 1998
16.Scarani P.: Maltrattamenti postumi. 1804: Napoleone fonda il museo di patologia di Bologna
...... Pathologica 90, 476-479, 1998
17.Scarani P.: Come dovrebbero essere gli Universitari: Giovanni Capellini geologo, paleontologo e
paleoantropologo. Pathologica 91, 54-60, 1999
18.Scarani P., Lacchini G.: L’autopsia clinica dell’ottocento a Bologna. Nuove prospettive.
Pathologica 91, 128, 1999
19.Scarani P.: Johann Wolfgang Goethe (1749-1832): il creatore del termine e del concetto di
morfologia. Pathologica 92, 45-49, 2000.
20.Scarani P. et Al.: Contemporaneous anatomic collections and scientific papers from the 19th
Century school of anatomy of Bologna: preliminary report. Clin. An. 13, 2000 in press
21.Zolla E.: I letterati e lo sciamano: il pellerossa come cattiva coscienza del bianco. Bompiani,
Milano-Torino 1978
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