SAMIZDAT
COLOGNOM
foglio semiclandestino per l’esodo
Numero 6
settembre 2003
Indice
LUOGHI / NON LUOGHI
Pag. RIORDINADIARIO:
Pag. CONTATTI:
IZDAT/CONTATTI FRA SCRIVENTI : Leonardo Conti
Pag. La Repubblica della Cartalettera
Giallo è il sindacato
Mio fratello sampdoriano
Fucecchio: un non luogo?
11 Settembre 1973
Franco, Vittorio e il postino
ER L’ESODO
Pag. MEMORIE: L’immaginazione proletaria di Danilo Montaldi
Da questo numero Samizdat Colognom esce in edizione cartacea come supplemento a L’OSPITE INGRATO del Centro Studi
Franco Fortini. È presente anche su Internet al sito web http: //digilander.libero.it /samizdatcolognom . È curato da Ennio
Abate, ma in collaborazione con Leonardo Conti. Per contatti: Ennio Abate, Via Pirandello, 6 – 20093 Cologno Monzese Tel. 02.26700095 E-mail: [email protected]
SAMIZDAT? È termine russo. Indicava gli opuscoli della comunicazione dissidente nei paesi dell’Est e
della ex Urss. Letteralmente significa autoedizione. Qui è assunto in entrambi i significati : foglio di pensiero
critico e forma di pubblicazione non cortigiana.
COLOGNOM? Abbreviazione straniante di Cologno Monzese. Allude al luogo/non luogo nel quale il foglio
viene scritto, alla sua problematica perifericità, ai mutamenti decostruttivi e costruttivi possibili in questo
spazio ibrido.
ESODO? La parola rimanda alle migrazioni passate e presenti, al rifiuto di chiudersi o lasciarsi chiudere
nell’intrasformabile mondo esistente dei padroni.
PER L’ESODO: RIORDINADIARIOeadiario
Progetto Patchwork sulla poesia delle
donne
5 ottobre 2003
Cara Loredana [Magazzeni],
che tu fossi stata una femminista anni '70 l'ho
capito. Ma siamo nel 2003. Il femminismo,
estratto dalla costola dell'Adamo comunista
(ma senti un po' questo!), un po' -credo - sia
rimasto vedovo (essendo un movimento va il
neutro?) del contestato e infine tramortito
sposo, assalito come padre-padrone, ma
l'unico che -malgrado il suo maschilismo
patriarcale - un po' della mela offertagli aveva
assaggiato e preso sul serio. Gli altri maschi
patriarcali doc sono rimasti inalterati. Dico
qui, nell' Occidente che passa per
democratico. Che se guardiamo altrove, c'è
da
rabbrividire.
Il cambiamento in peggio della società (sotto
molti aspetti) significa come minimo
cancellazione del comunismo dal piano
simbolico (chi ne parla più? Al massimo Toni
Negri...), ma anche edulcorazione e
accademizzazione
del
femminismo.
Tu stessa sei costretta ad "abbassare il tiro"
affermando che non siete un gruppo
prettamente femminista ma di donne.
Che è un modo per dire, secondo me, che
non c'è più continuità fra gli anni d'oro del
femminismo (anni '70 all'incirca) e l'oggi delle
donne
(io
direi:
della
moltitudine).
O che la continuità è tutta ideale. Non voglio
fare il gufo, auguro una riuscita e delle
scoperte sorprendenti alla vostra inchiesta
che vuole accertare il pensiero delle donne
sulla propria poesia. Ma facciamo una piccola
scommessa: io prevedo che in poesia la
differenza
biologica
o
la
differente
autobiografia o la percezione della vita fra
poeti e poetesse sarà in molti casi poco
rilevante. Non ho tempo, ma mi piacerebbe
fare un'antologia di poesie celando il nome
dei poeti o delle poetesse che le hanno
scirtte e sottoporle al giudizio di lettori e
lettrici che dovranno indovinare il sesso di chi
l'ha
scritte.
Non pensare che voglia irridere la vostra
ricerca. Voglio solo riportare la tua attenzione
agli aspetti meno consumati del rapporto
uomini-donne. E almeno in poesia a me pare
- come ti scrivevo - che le cose non stanno
come ad un certo femminismo separatista
piace
pensare.
La mia posizione verso femminismo,
femministe e post-femminismo è davvero
insolita. No, non auspico affatto che la poesia
si maschilizzi, diventi aggressiva o conquisti
un qualunque potere.( Semmai diverse
femministe o donne che passano per
femministe hanno introiettato lo stile
maschilista rimproverato agli uomini di
potere). Ma non credo che sia la mancanza di
potere a muovere la poesia e la letteratura in
genere (come tu scrivi), né che la poesia si
muova sempre e automaticamente contro il
potere e verso il suo ridimensionamento. In
poesia e in letteratura si svolge un conflitto
per far emergere o frenare bisogni legati ai
corpi e e alle esperienze di vita di uominidonne , cioè di esseri in trasformazione alle
prese col linguaggio storico. Il quale
linguaggio storico (costruito da dotti e
ignoranti, da uomini e donne) li agevola in
parte e li condiziona pure nella loro
trasformazione. Il grado di democraticità o un
nuovo equilibrio fra maschile e femminile (che
non sia quello patriarcale, ma neppure quello
matriarcale) non è affatto garantito dal fatto di
muoversi sul piano poetico e letterario. Ci
sono fior di reazionari in poesia e letteratura.
Guai a pensare che sempre i poeti siano
democratici
o
d'animo
gentile,
ecc.
25 OTTOBRE 2003 Luciano Della Mea,
INOLTRE e l’intellettuale massa
Ho fra le mani le poche lettere che io
e Luciano Della Mea ci siamo scritti. Vanno
dal ‘96 al ‘99. Portano le tracce del nostro
tardivo rapporto: guardingo e presto
conflittuale da parte di entrambi sulle
questioni legate alla rivista Inoltre (la ragione
per cui ci siamo conosciuti); di solidarietà
affettuosa, quando ci siamo confidati
qualcosa sulle nostre famiglie, le fatiche
quotidiane, le mie e sue poesie.
La vicenda della rivista è stata per me
fonte di pena, per lui di irritazione, credo. In
quel 16 dicembre ’95, alla Biblioteca Serantini
di Pisa, dove avviammo i lavori per farla
nascere, eravamo in tanti: gli editori della
Jaca Book, molti potenziali redattori e
collaboratori di Pisa, di Milano e uno,
Giuseppe Muraca, di Catanzaro. Luciano,
2
grazie alla sua amicizia con il presidente della
Jaca Book, Sante Bagnoli, aveva concordato
con lui e Giuseppe Muraca il progetto della
nuova rivista, dopo che un altro editore,
Pullano, aveva interrotto al terzo numero la
pubblicazione di Utopia concreta, diretta dallo
stesso Muraca e a cui alcuni di noi
collaboravano. C’era un certo entusiasmo in
quel primo incontro. Decidemmo che la
nuova rivista sarebbe stata semestrale, con
un tema centrale a numero, svolto non solo in
forma saggistica ma anche in testi di vario
genere (poesie, racconti, inchieste), un
inserto d’immagini in bianco e nero; e che
avrebbe avuto
una direzione collegiale
(Muraca per il Sud, io per il Nord, e per il
Centro Luciano Della Mea e Marco Cini,
quest’ultimo come coordinatore).
Il patatrac avvenne di lì a poco: alla
terza riunione, sempre alla Biblioteca
Serantini, il 27 luglio ’96. Luciano propose e
ribadì poi in una lettera “ai compagni della
nuova rivista innominata” “un nuovo e diverso
assetto direttivo della rivista” (direttore: Ivan,
suo fratello, più Marco Cini). Ribaltò, cioè,
senza preavviso, il percorso collegiale
appena iniziato. Di fronte alle giuste (lo penso
ancora oggi) rimostranze mie e di Muraca, si
mostrò insofferente, testardo, sferzante nei
giudizi personali e poco propenso a
giustificare quel repentino cambiamento
(poteva essere considerata “pletorica” una
direzione a quattro, come lui affermò?). Ne
venne una crisi, che bloccò a lungo l’uscita
del secondo numero e portò all’abbandono
mio e di Muraca. Con la mediazione di Sante
Bagnoli e di Marco Cini, io accettai poi di
continuare la collaborazione; ma Muraca, il
più amareggiato, si ritirò.
Inoltre ha continuato ad uscire, ma è
altra cosa da come l’avevamo immaginata
allora. Il progetto iniziale (si pensava di
creare varie redazioni locali in Italia e magari
anche fuori, guadagnare collaboratori e un
certo numero di lettori, farsi sentire nel
dibattito culturale, ecc.) ha marciato più lento
e zoppicante. E non solo a causa del clima
politico pesante del nostro paese, ma forse
anche perché quell’esperimento di un lavoro
collegiale che in pochi difendemmo contro
Luciano (magari un po’ mitizzandolo) andava
tentato e non affossato sul nascere, tasnto
più che se tutti concordavamo su una “visione
plurale del progetto-rivista” per coerenza la
direzione della rivista doveva essere
altrettanto plurale.
Non farò perciò nemmeno ora, in
ossequio alla retorica che sempre s’insinua in
ogni commemorazione, le lodi del Luciano
Della Mea organizzatore culturale aperto e
sensibile. L’esperienza di Inoltre contraddice
o offusca, magari di poco,
questa sua
immagine. In quel momento - per diffidenza
d’antica data verso gli “intellettuali”, per quel
suo pessimismo leopardiano-timpanariano,
per legami affettivi che lo accecavano – fu
miope e ostile
verso di noi, bistrattati
intellettuali massa, che volevamo cooperare
alla pari. È un obiettivo che, a partire dal ’68,
serpeggia in ogni movimento forse con più
insistenza che in passato e che non era certo
inconciliabile col “socialismo libertario” di
Luciano. Egli ci contrappose, invece, un
criterio
verticistico di professionalità, lo
stesso che vale nelle università e nelle
aziende e che vige in modi a volte caricaturali
e immiseriti anche nella tradizione partitica
del movimento operaio (comunista e
socialista).
Rileggo ancora quelle nostre lettere; e
sorrido ora di fronte alle scintille del nostro
dissenso. Luciano giudicò un’inchiesta che
proponevo ai redattori e collaboratori troppo
macchinosa
(meglio
un
curriculum!);
rabbrividì a sentirmi parlare di “esodo dalla
Sinistra”; contrappose alla mia ipotesi di una
“rivista di studio” per gli intellettuali di massa
la sua di una rivista “strumento di lotta”;
desiderava che Inoltre riprendesse e
ampliasse il lavoro che Il Grandevetro faceva
da 20 anni, mentre io pensavo che dovevamo
metterci “alle spalle” non solo la breve
esperienza di Utopia concreta (la rivista di
Muraca, la “preistoria” di Inoltre), ma anche il
toscanocentrismo de Il Grandevetro; e
dubitavo anche del “terzomondismo” della
prima felice tradizione sessantottina della
Jaca Book. Gli scrissi: “Vorrei un INOLTRE
che davvero sia in (dove ci troviamo e
spesso siamo costretti a stare), ma vada
decisamente e coraggiosamente oltre (in
senso non solo geografico-politico, ma
culturale) le tradizioni in cui siamo cresciuti
come
“italiani”:
cattolica,
socialista,
comunista, liberale).Dobbiamo tutti entrare in
un flusso di idee più ampio e sconvolgente, in
gran parte da decifrare”. E lui mi rispose,
pungente, che in queste ultime mie parole
leggeva “un verso di una a me
incomprensibile poesia ermetica”.
Mi chiedo oggi perché ho
continuato a cercare il dialogo con lui (e poi
3
con suo fratello Ivan), malgrado questi
dissensi di superficie e di profondità, e a
collaborare in Inoltre “normalizzata”. Mi
rispondo: - perché fare rivista oggi è impresa
da dannati, ma necessaria nel deserto
barbarico che ci assedia; - per riconoscenza
verso la Jaca Book (“Ma non sono quelli di
Comunione e Liberazione?”, mi chiedevano
sospettosi gli amici, appena raccontavo della
nuova rivista in cantiere. Non più di tanto, gli
rispondevo, e a sinistra oggi c’è di peggio…);
- perché, nel tempo dell’esodo (questo
d’oggi…), ho imparato a marciare come
singolo e non più intruppato, a non
considerare casuale ma a verificare a fondo
ogni incontro che mi capita. Inoltre è stato ed
è uno di questi incontri. E può ridursi - lo
scrissi nell’editoriale del primo numero (estate
1997) – ad un cenacolo rissoso e lamentoso
di epigoni o di pensionati della sinistra sotto
l’egida di una casa editrice cattolica “aperta”,
ma
non è escluso che possa ancora
costruire un gruppo di intellettuali massa
“altri da quello che incertamente siamo
adesso”.
Ma c’è un’altra ragione. Ho continuato
per una sorta di onesta “complicità proletaria”
con il Luciano dall’esistenza inquieta, quello
che ho sentito a me più vicino. Questo lato
della sua persona (mi scrisse: “La pratica è
stata prevalente nella mia vita e per lo più ha
reso la cultura, il sapere, funzionale alla
pratica”) non compensava i limiti del militante
di vecchio stampo (ma ogni militanza, anche
la mia, esodante, ha addosso altri limiti
storici!). Nel suo puntare all’utopia, non
coglieva spesso come inavvertitamente il
suo pensiero utopico diventava in lui una
corazza ideologica, un
surrogato della
precedente divisa militare di cui si era
spogliato. E, per strapparsi più tardi al
progressismo del movimento operaio che
ormai sentiva falso, scivolava facilmente in
un materialismo nichilista (“Ho combattuto
sodo pur ritenendo, dal 1945 in poi, che la
vita in qualsiasi forma non abbia senso”).
Tutto questo lo so. Tuttavia nelle lettere ci
sono squarci di tenerezza senile per certe
analogie delle situazioni quotidiane che
entrambi vivevamo o avevamo vissuto e
incoraggiamenti da padre-fratello maggiore a
non temere di abbandonarsi alla vita. Questi
aspetti, spesso velati, della sua persona
hanno sciolto il rancore che in qualche
momento ho avuto verso di lui. Nella scrittura
epistolare, Luciano correggeva lo sconcerto e
la rabbia in cui mi gettavano i suoi interventi
in direzione. Avevo insistito per questo
rapporto collaterale, anche se lo sentivo
scettico: “Scriverci di più non è facile, si fa
chiarezza
incontrandoci,
parlandoci,
disputando”, mi diceva. E forse per questa
sua convinzione, dopo le scintille iniziali, le
lettere si diradarono e interruppero. Lo
chiamavo di tanto in tanto a telefono per
sentire come stava.
Poi un ultimo sprazzo. Il 13 maggio
2002, mi giunse una sua inattesa telefonata.
Mi chiese dove poteva mandarmi un fax. E
m’inviò il giorno seguente una poesia (Il
tempo) e uno scritto su Joyce Lussu, che
aveva dedicato ad un suo amico da poco
morto, Giuseppe Carboni. La poesia aveva
versi disincantati e disperati : “ …come
se/nulla più potesse accadere/ da qui al
limitato orizzonte…/ Non stare a perder
tempo/ per migliorare la specie/che non può
diventare che peggiore./ Dalle nei suoi
esemplari direttamente conosciuti/ un buffetto
di affetto”. Nel leggerli, sentii di misurarmi con
uno che mi precedeva lesto verso la morte.
M’interrogherò ancora sulle ragioni del
mancato incontro politico e di quel troppo
tenue rapporto d’amicizia con Luciano Della
Mea. Ho sempre pensato che fosse una
conseguenza della sua esperienza militare,
che perciò egli somigliasse a mio padre e ad
altri di una generazione che ha trascinato in
mezzo a noi, avendola iscritta nella propria
carne e nella propria psiche, i segni atroci
della Seconda guerra mondiale. (Tratti di
durezza simile, anche se più “coltivata”, li
avevo scorti in Fortini). Forse insistendo a
contrastarlo, a controbattergli, a cercare un
dialogo su un nuovo terreno, come avevo
fatto all’inizio di Inoltre, si sarebbe smosso.
Ma forse lui non ne aveva voglia. Gli altri, mi
pare, lo accettavano “com’era”. Io mi rifiutai di
farlo. Ma com’era Luciano Della Mea?
23 nov. 2003
Sei appunti polemici sui giochetti di
prestigio di un amico filoamericano
1) Dopo l’”8 settembre irakeno” gli oppositori
sono tutti nazionalisti, paragonabili ai
repubblichini di Salò. Anche se le analogie
possono fuorviare: dopo l' 8 settembre non ci
furono solo i repubblichini di Salò, ma anche
tanti ufficiali e soldati dell'esercito italiano
lasciato allo sbando da Badoglio e casa
4
Savoia che formarono bande partigiane
demcoratiche contro i nazifascisti. Dopo l'“8
settembre irakeno", noi non sappiamo cosa
stia succedendo nel campo dell’opposizione
agli invasori (che in questo caso sono la
coalizione anglo-americana più aggiunte,
italiani compresi). Tutti i resistenti nazionalisti
e quindi paragonabili esclusivamente ai
"repubblichini" di Salò e non resistenti
"accettabili" (antifascisti)? Aspettiamo di
saperne di più. Perché precipitarsi a
proclamare che “la attuale resistenza irakena
appare molto più pilotata dall'esterno,
eterodiretta, organizzata dall'alto e senza un
vero programma politico”?
2) La bandiera della pace si concilia con la
bandiera nazionale (nel nostro caso il
tricolore). Impossibile: in questo caso la
bandiera nazionale (il tricolore) è issata da
invasori. Ai confusionari va ripetuto che
morire dietro Hitler e Mussolini non è la
stessa cosa che morire per liberarsi da tiranni
e invasori (e, quindi, che i morti della
Resistenza non riposano placidi accanto ai
morti della repubblica di Salò). Ci spiace ma
non possiamo considerare martiri o eroi i
carabinieri che sono andati assieme agli
anglo-americani ad invadere l'Irak. Precisare,
precisare
sempre:
oggi
gli
angloamericani sono
invasori;
quando
sbarcarono a Salerno o in Normandia non lo
erano.
3) Chi è contro la guerra in Irak è indifferente,
altrimenti non si chiederebbe “Che c'entriamo
noi con questa guerra?” (dal momento che
vogliamo la pace) e “Che c'entriamo noi con
l'identità nazionale e la bandiera?” (dal
momento che siamo cittadini potenziali di un
altro mondo possibile, senza confini). È bene
riconoscere la relativa impotenza della nostra
opposizione alla guerra in Irak ( o crediamo
davvero alla balla del pacifismo come
“seconda potenza mondiale”?), ma non
sostituirei mai questa relativa impotenza con
il tifo, gregario e ben più impotente, di chi
parla degli invasori come “amici angloamericani che sbagliano”.
4) In ogni caso, a questo punto, il terrorismo
c’è, e come…. Ma il terrorismo c'è (o meglio
s'espande o s'esaspera) perché l'invasione
non era (non è) la medicina giusta per
debellarlo. Tra l'altro, ci sarebbe da chiedersi
onestamente perché i palestinesi, che
notoriamente erano tra i popoli più laici della
zona, si scannano materialmente tra loro.
Sharon, Bush, la politica dell'Europa non
c'entrano per nulla? Come non c'entrarono
nella guerra civile in Bosnia i tedeschi,
etc.?. Le guerre civili, si sa, sono sempre
"questioni interne" di popoli sottosviluppati…
5) Bisogna andare oltre la denunzia delle
maschere che inchiodano ogni soggetto al
ruolo che assume (un padrone é un padrone,
un dirigente é un dirigente, un militare é un
militare, e poi anche un padre é un padre,
una madre é una madre, un maschio é un
maschio etc.). Beh, c’è un solo modo per
farlo: costringere chi ha ruoli oppressivi ad
abbandonarli. Davvero “un poliziotto é un
poliziotto, un carabiniere un carabiniere, etc.”,
malgrado siano persone in carne e ossa e
non dei mostri. Quei ruoli schiacciano tutte le
eventuali buone intenzioni personali, finché
non verranno combattuti e sostituiti da altri
modi di essere più liberi e rispettosi degli
altri. Il Perlasca fascista che salvò gli ebrei fu
possibile anche perché esisteva un grande
movimento antifascista. Allo stesso modo
oggi, i carabinieri che si accorgessero del
ruolo non certo umanitario che svolgono in
Irak potranno sottrarvisi solo se crescerà un
forte movimento contro la guerra. Chiedere
invece di piangere o commuoversi per i
carabinieri morti nell'attentato di Nassirya ? è
suggerire al movimento di cancellarsi e di
piegarsi alla retorica patriottarda. I nostri
morti sono prima di tutto i civili uccisi dai
militari invasori ( e quindi anche dai “nostri”
carabinieri). La pena per la morte dei militari
invasori segue, non precede.
6) Il terrorismo non colpisce solo Israele, non
vuole destabilizzare soltanto il governo turco
ma attacca anche il grande movimento per la
pace. Insomma siamo tutti sulla stessa barca.
Il movimento per la pace (cioè per forme
democratiche di conflitto) è fra l’incudine
e il martello: colpito sia dalla menzogna
della “guerra al terrorismo” (altri sono gli
scopi di questa strategia della “guerra
permanente”) sia dalla menzogna della
“guerra santa contro l’Occidente”. Non
deve uniformarsi né a Bush & Blair né a
Bin Laden. Troverà una sua via per
contrastare questi opposti estremismi ( o
fondamentalismi).
5
Guerra e riviste
8 novembre 2003
Caro Lelio [Scanavini],
"Quale resistenza effettiva e politica
potremmo costruire noialtri, qui ed ora, contro
la superpotenza americana?" chiedi nella
nota dedicata a "Qui. Appunti dal presente" di
Parizzi nel numero 66 de IL SEGNALE che
mi
hai
gentilmente
inviato.
Beh, potrei controbatttere chiedendo: come
fa a non essere sterile una "resistenza
simbolica" che non cura a fondo un
collegamento con una "resistenza effettiva e
politica"? Una resistenza solo simbolica
rischia di essere pura testimonianza etica. E
oggi credo che si corra proprio questo rischio,
anche da parte di chi fa movimento (contro la
guerra, ecc.). Il rischio è più alto da parte di
chi fa una rivista (e noi tutti ne facciamo o
tentiamo di farne); specie quando esse si
muovono sul piano letterario o lo tengono in
grande considerazione. Esso può funzionare
da filtro evasivo, pur occupandosi di politica o
di guerra. Ed è quanto ho rimproverato a
questo numero di QUI. La forma di
"resistenza simbolica" scelta (il diarismo degli
interventi, ecc) a me è parsa - malgrado la
varietà degli approcci che tu sottolinei particolarmente restia a porsi il problema
della "resistenza effettiva e politica". Bene,
poniamocelo e non diamo per scontato che
"noialtri" non possiamo far nulla, se non
quello che già facciamo (o che ci permettono
di
fare).
Temo il lavoro letterario acccartocciato sullo
specialismo. Ma anche le riviste letterarie
meno accademiche che vogliono sfuggirlo si
arrestano ad annusare troppo da lontano la
"realtà". Scorrendo la vostra "Rassegna"
colpisce questa disattenzione delle riviste nei
suoi confronti. Tutte parlano di poesie,
narrativa, ecc. (E qui non esito, pur
manteneod la mia critica, a togliermi il
cappello di fronte a QUI o al GABELLINO
che
il
tema
guerra
almeno
lo
affrontano).Scusa questa mia intrusione.
Disdicevole o fuoriviante
non sarà mai
occuparsi di poesia e narrativa,
ma non fare
di tanto in tanto
(meglio spesso che mai)
la verifica dei poteri
delle nostre riviste
e degli altrui Averi.
La mordacchia
all'arte e alla cultura
qui in Occidente
a Loro non serve a niente.
Ma è un po' anche
il dolce far niente
inconcludente
del Poeta che s'occupa
solo di poesia
del Narratore che narra
solo del suo narrare (ed errare)
della rivista con unica vista
sulla vicina rivista
a lasciare agli USA
il potere di cui abusa.
Esodo: "duello-duetto" con una poetessa
salernitana che vive in Inghilterra
17 novembre 2003
Cara Erminia,
Suoni è una bella poesia, ma mi è difficile
leggerla come una risposta al discorso che
vado facendo sull'esodo. E allora cerco di
risponderti con questa mia.
Ho messo
assieme una prima parte "scavata" dal tuo
testo e una seconda, già scritta da anni, sulla
figura dell'esodante.
Suoni
di Erminia Passannanti
Questi suoni, il vento, lo scroscio della
[pioggia,
crepitii nella paglia, fanno sognare
un esodo d’uccelli, storia
di sconfitte, ma, più funestamente,
una cornice di bieca intimità.
10 nov 2003
Con debole insistenza
Ahimè, Lelio
dicevo:
le riviste di poesia e narrativa
vanno riviste!
Natura d’un finale, esorcismo e punizione
ovvero convivio di morti
guidati dalla colpa e dall’ostilità,
dell’anima sollievo di un’annosa avversione.
Che fai? Piangi sempre?
6
Elementi forzati fuor dal nido
che annotano suicidi, questioni
che la taccola discute
lungo la curva azzurra del confine:
cinquanta tentativi entro
un’adolescenza desueta.
Serrato biasimo, protetta aggressione
d’uccelli in cui colpa e ostilità traboccano,
respiro
lento dell’ingabbiato spleen,
motivo dell’oggetto smarrito, ch’oggi è sicario,
brandello di se stesso,
la frazione essenziale commista
alla spinta sincronica
per rivincere il perduto, scongiuro
del nido invaso dalla presenza
domestica di fini intarsiati
nell’artiglio nell’ala nel becco
e consegnati al cielo
dell’immondo universo.
Prezioso accadimento che intesse
mutamenti attraverso inanimate cose,
gioielli nascosti sotto
la paglia tiepida del nido
ch’ardono e spiccano nei suoni,
specchi della miseria.
O l’elmo di visione e possesso che s’erge
sul covo trasognato oltre il margine
oscuro della taccola, picco
trattenuto dal becco
tenuto per prudenza al riparo,
migrazione che si leva verso l’orlo,
guardinga, portentosa;
Nido ed esodo
di Ennio Abate
I
Se nel mio povero nido
- la pioggia fuori scroscia e il vento si dibatte sogno un esodo di miei simili,
questa nostra funesta storia di sconfitte
perde ogni bieca intimità,
sorella taccola, che forse conobbi
schivando trappole nel gelo d'un dopoguerra.
Che fare dopo il pianto di sempre?
Con te discuto. Convoco i padri morti.
Non dei cinquanta tentativi di suicidi.
Non della Cosa smarrita.
Non un brandello di me stesso
nell'artiglio nell'ala nel becco.
Né gioielli, né suoni, né specchi di miseria
o l'elmo del possesso.
II
Dove andare? e correre ancora?
o ubriacarsi dondolando sulla soglia?
I troppo lucidati intelletti
hanno esaminato senza amore
solo i corpi più vicini;
e tramortiti ambiscono, in latino e in rancore,
solo a quelli gloriosi.
scuro centro del netto gheriglio,
l’immagine ch’attende in agguato
d’essere cantata senza tregua,
Ma alla femminetta, alla giovane animosa
guizza
la capriola dell’esodo,
quel dolce affanno che si brucia
nell’altro della contingenza;
e va, si consuma in sorriso,
già più non oscilla.
desiderio che al cuore torvamente
sotto la superficie rorida del mondo
sono merletto per sempre rinforzato
dal pianto che si mescola al gorgheggio.
Smesso l’assillo,
al chiarore di altra luna e altro sole,
è sbucato accanto a lei
il muso dell’antica, buona bestia.
17 NOV 2003
Nell’esodo, dunque.
La tana di sempre sfondata,
la gabbia approntata
aperta, finalmente deserta…
7
Contatti reali e contatti virtuali
16 dic. 2003: Su i tentativi di capire la
situazione in cui siamo del gruppo detto “I
Seminari di Lodi”
Caro Carlo [Tombola],
data per scontata la mia stima per l'attività
de I seminari di Lodi, mi limito qui alle
seguenti osservazioni (condite da qualche
provocazione) sul primo gruppo d'interventi:
1.
Non
di
sola
informazione
o
controinformazione (d'illuminismo!) dovrebbe
vivere, a Novecento concluso, un intellettuale
critico e militante (è lecito ancora il secondo
termine almeno nel nostro dibattito?), ma
anche (o soprattutto) di contatti reali e a
faccia a faccia e di quello che in essi sente e
si afferra di sé e degli altri. Purtroppo però
oggi, malgrado la retorica comunicativa, tali
contatti sono fugaci, sfilacciati e perlopiù
ridimensionati come in tempi bui alla cerchia
amicale, all'ambito di lavoro, al luogo-non
luogo in cui si abita. Anche se appaiono o
sono palle al piede, non mi paiono sostituibili;
e meno che mai da quelli - illimitati, ma solo
virtuali, o effettivi, ma sempre incorporei - resi
possibili dalla Rete. Le stesse conoscenzeinformazioni giuste o "rivoluzionarie" ricavabili
(in teoria) dal Web e che un gruppo potrebbe
riuscire a selezionare, ordinare, preordinare,
per funzionare positivamente nelle nostre
esistenze, dovrebbero trovarle almeno in
parte già predisposte ad accoglierle, essere
desiderate, mancarci, riempire dei vuoti. Non
bisognerebbe fare allora anche su queste
nostre esistenze (sui loro bisogni-desideri,
intendo)
la
medesima
operazione
(selezionare, ordinare, preordinare) che viene
proposta nel confronti del Web, affinché le
giuste informazioni possano incontrarsi con i
giusti bisogni-desideri? In passato quanti
semi "rivoluzionari" sono stati sparsi in
esistenze non predisposte ad accoglierli,
idealizzate dai "seminatori" o semplicemente
delirate? La questione che pongo rientra in
quella del cosiddetto soggetto di cui qui si
parla o può essere tranquillamente
accantonata?
2. Il soggetto. A chi dovrebbero servire le
giuste informazioni? Cosa vogliamo fare
insieme? Sono le domande fondamentali. Le
risposte finora date mi sembrano incerte,
difensive e tendenti a delineare un soggetto
tutto intellettuale e con una vocazione da
nuovi chierici alla clausura studiosa. Provoco:
ma cosa significa proporre come scelta di
fondo la conoscenza e la sua comunicazione,
magari con qualche concessione al rituale
debole (incontri faccia a faccia periodici coi
"meno allenati")? Oppure l'autoformazione di
un soggetto, il cui fine è l'autoformazione di
se stesso? I rischi di autoreferenzialità, a cui
per tradizione il ceto intellettuale è abbonato
da secoli, mi sembrano reali. Va bene
studiare la storia del '900 (o del comunismo
novecentesco) senza saltare il totalitarismo.
Ne verranno fuori sicuramente alcuni buoni e
utili seminari con un certo profitto soprattutto
per i più giovani. Ma se serviranno a ribadire
che il comunismo è morto, non mi pare che ci
sia più bisogno di farli. Se ce li proponiamo
per arginare il revisionismo storico, chiudiamo
la stalla quando i buoi sono scappati. Se si
spera (o si è convinti) che ci siano in quegli
anni di storia ancora delle buone rovine
(Fortini), qualche mattone da ricavare per una
nuova civiltà da costruire, lo si dica; ma si
indichino le zone da scavare e i temi siano
più precisi e circoscritti. Al di là di questo,
resta, a mio parere, che il soggetto non può
essere il gruppo di ricerca stesso, ma
dovrebbe travalicarlo, essere più esterno e
vasto e magari plurale. Quale o quali, allora?
Qui si apre un quasi baratro. Un accenno ad
un soggetto sociale (quelli di Scanzano), non
composto da intellettuali-ricercatori e che
potrebbe essere, se non il protagonista, il
destinatario della possibile conoscenza
confezionata dal gruppo che si autoforma,
affiora - mi pare - solo in uno degli interventi
che mi hai mandato. Non so se, dopo la
classe operaia, si possa parlare di nuovo
proletariato o di moltitudine senza ficcarci in
vecchi vicoli chiusi. Non so neppure se
bisogna andare a vedere empiricamente cosa
è questa società postmoderna o postfordista
(l'inchiesta è facile a dirsi, difficile a farsi; e
comunque un'ipotesi di soggetto deve
preesisterle). Sono però convinto che
l'autoformazione, pur intesa come aiuto
reciproco (ma il termine resta per me
equivoco e preferirei quello di cooperazione),
andrebbe mirata fin da subito al rapporto del
gruppo in formazione con un altro o con altri
soggetti esistenti all'esterno del gruppo
stesso. (Solo se non ce ne fossero più,
avrebbe
senso
la
clausura!...).
8
3. Il medium ‘partito’ sostituito dal Web? Solo
in parte. Il partito sotto la cappa ufficiale della
Linea costruiva legami sociali forti (addirittura
ferrei) o la sua stessa realtà permetteva che
se ne costruissero altri di "alternativi", di
"eretici" contrapponendovisi in concorrenza,
spesso mortale. Il medium Web ha qualcosa
di labile e imbarazzante, induce al
fantasmatico: è il medium ideale per una
comunicazione ininterrotta tra puri spiriti e
non contempla di per sé il passaggio al
patto, all'impegno pratico con gli altri e le altre
in carne ed ossa. Per arrivare a questo,
bisogna spegnere il computer e incontrarsi,
parlare, ecc.
provocatoria della cultura d’élite all’universo
della cultura di massa; un nuovo e più diretto
rapporto fra arte e vita, in termini di interventi
performativi e di installazioni ambientali; e
anche come processo di riflessione
autoreferenziale sulla specificità e i limiti dei
linguaggi artistici e sullo stesso sistema
dell’arte.. punti di riferimento essenziali per
questo cambiamento sono le esperienze
estetiche più avanzate avviate nell’ambito
delle avanguardie storiche da alcuni grandi
precursori, tra cui innanzitutto Marcel
Duchamp” (Francesco Poli, Arte cont., Electa
Mondadori 2003)
Lenin
E allora, l’avanguardia, eh, l’avanguardia! La
controcultura, gli eroi trasgressivi di Jean
Genet, i poeti della beat generation, le figure
picaresche e deculturate di Antonin Artaud e
di Samuel Beckett: lacerti di un mondo sentito
dire. Il desiderio di sapere e di avvicinarlo fu
frenato e deviato dall’esserti buttato nel
mondo opposto (piccolissimo borghese e
proletario, non borghese e sottoproletario
come quello dell’avanguardia), anche se
della grande città. Ha poi funzionato la
censura, forse motivata forse pregiudiziale,
della militanza marxista. Bene, andò così.
Abbiamo fatto altro, mentre loro facevano
questo. Adesso c’è uno spazio per controllare
quello che hanno fatto.
Colpisce questa immersione senza freni, anzi
carica di antielitarismo, nella cultura di
massa: “Queste pratiche, che hanno come
riferimento il movimento dada ma anche il
cubismo e il costruttivismo, prestano tutte la
stessa attenzione al reale nelle sue
componenti
più
ordinarie
e
anche
svalorizzate: l’interesse per la strada, i
rotocalchi, l’automobile, gli oggetti domestici, i
rifiuti, direttamente prelevati sul vivo della vita
quotidiana urbana” (15).
La “nuova arte popolare” sarebbe la
pubblicità? (15). Che tipo di antielitarismo è
questo che propone la “necessaria relazione
tra l’arte e la produzione di massa” (15)? [ la
parola capitalismo è assente…]
23 dic. ’03
Costruì il partito all’alba (del secolo)
Come Dante, quando immaginò il suo
poema.
E sempre la notte era stata
buia, tempestosa.
Né dentro ,come si dice, né fuori si presentiva
la luce.
Ė forse esatto un secolo da quel Che fare col
punto interrogativo
22 gennaio 04
Lenin Ottantesimo anniversario della morte
(21 gen. 1924). Com’è bello parlar male di
Lenin oggi strizzando l’occhiolino al
movimento per la pace e cancellando pezzi di
storia. Eh, Bertinotti?
Arte contemporanea
“Ma la vera svolta che ha cambiato le
coordinate di fondo della ricerca artistica
definibile
come
strettamente
contemporanea…inizia sia in Europa sia in
America più o meno nella seconda metà degli
anni cinquanta, sviluppandosi nel decennio
successivo. Tale svolta va in direzione di un
definitivo sfondamento dei confini tradizionali
della pittura e della scultura… a partire da
una
critica
radicale
all’eccesso
dell’espressività soggettiva ed esistenziale
dell’informale e dell’action painting, e più in
generale alla dimensione illusionistica
dell’opera. E si caratterizza attraverso un
coinvolgimento
concreto
della
realtà
oggettuale
quotidiana;
un’apertura
22 gennaio
Ai funerali di Massimo Gorla
La deformazione per invecchiamento dei
corpi dei miei ex-compagni. Alcuni quasi
stento a riconoscerli.
26 gennaio
Felice Gandolfo
9
Elena mi telefona. È morto d’infarto. Era
tirato. Situazione pesantissima per B: sola,
straniera qui, senz’auto, con tre figli (due
gemelle handicappate), senza lavoro.
3 febbraio 2004
Una nuova rivista Forme di vita ( Alias 31
gen. 2004)
Il progetto: sforzarsi di cogliere insieme
natura e condizione umana, che
nella
filosofia del ‘900 sono state tenute separate.
La giustificazione: oggi la produzione, la
tecnicizzazione investe il terreno primario
delle forme di vita. Da qui viene ricavata la
produzione di ricchezza. De Carolis parla di
“tecnicizzazione” e non di “biopolitica”, perché
i dispositivi in atto non rinviano ad un
controllo politico, ad un governo, ma regolano
la loro evoluzione in base a criteri interni,
definiti tecnicamente. La globalizzazione
tende a costruire un’unità sociale, non
un’unità politica e il rischio e quello di una
guerra civile planetaria (alla Schmitt).
Rossanda: Ma cosa resta della invariante
biologica? ( e fa gli esempi delle
trasformazioni subite soprattutto dalle donne:
controllo dell’attività riproduttiva ad es.).
Anche la natura umana è diventata una
costruzione variabile. Critica la premessa del
discorso: che oggi i rapporti di produzione
mettano al lavoro, tra le facoltà umane ,
soprattutto il linguaggio. Non è detto –
afferma – che allo scalpellino medioevale
impegnato nella costruzione delle cattedrali
fosse richiesto un uso minore della facoltà
intellettuale. E per l’oggi nei call center o
nell’informatica si nota in prevalenza un
abbassamento dell’umana intelligenza. Virno
sottolinea che non è affatto automatico che il
carattere comunicativo della produzione
contemporanea produca una maggiore
autonomia o autorealizzazione da parte di chi
lavora. Anzi: avviene il contrario.
Poesia civile e parodia del potere
Dopo la lettura di "Le maschere del caos"
10 febbraio 2004
Gentile Luca Baiada,
ho ricevuto e letto il suo libro. E sperando che
il contatto stabilito resista, le scrivo
spassionatamente le prime impressioni e
qualche considerazione più generale. Mi
hanno colpito positivamente il piglio
battagliero,
la
tensione
parodica,
l'ampiezza dei riferimenti culturali, il
linguaggio asciutto. Perplesso invece mi
rendono l'enfasi epica (ad es. "La
Perugia-Assisi del 2001") e certi cortocircuiti
antico-contemporaneo (es.pag. 37), irriverenti
e spiritosi ma facili. La riserva più consistente
è per me, se posso dirlo, di ordine poeticopolitico: la parodia del potere non solo a volte
si appiattisce sul lessico che esso adotta (e
gli concede troppo... non condivido perciò il
giudizio di Manacorda: "per denunciare la
miseria delle tante parole d'oggi è sufficiente
riprodurle", pag.6), ma abbandonandosi allo
sberleffo e al divertimento rischia di occultare
la tragicità pesante della nostra situazione.
Su “prof.Samizdat”
4 marzo 2004
Cara Marina Massenz,
“Prof Samizdat” è uno dei risultati più meditati
della mia ricerca riflessione sugli anni
Settanta, spostata però più sul dopo
(l'angoscia degli anni di piombo) che sul
periodo 68-76 che è stato quello della mia
militanza in AO. A differenza di bilanci fatti
da militanti di altri gruppi (lessi a suo tempo
una “Storia di Lotta continua” di Luigi Bobbio),
non mi pare che da qualcuno di Avanguardia
Operaia sia mai venuto un libro decente su
quello che pure era, se non si trattò di pura
automitologia, il gruppo extraparlamentare
più forte a Milano. Una volta ricordo di aver
letto una sorta di bilancio di quell’esperienza
da parte di Aurelio Campi: la svalutava,
prevalendovi la giustificazione delle sue
scelte, che l'avevano portato prima nel PdUP
e poi nel PCI. La parte di dirigenti milanesi,
che si è riciclata passando in Democrazia
Proletaria e poi in Rifondazione Comunista,
mi pare che abbia perpetuato soprattutto la
funzione burocratica (la più pesante fra
quelle che ebbe AO). Non è stata una bella
cosa quell'esperienza. A me, forse anche per
questa pochezza di riflessione collettiva, il
periodo di AO è rimasto un buco. E non non
fu un caso se per ripensare quegli anni e
quello che ne è venuto dopo, mi sono dovuto
10
trasferire sugli scritti di Fortini, della
Rossanda, di Bologna, di Negri, cioè di autori
che non parlavano dell'esperienza da me
fatta, in quel concreto gruppo e parlavano
con altre categorie. Un vuoto, dunque.
Se poi pensavo alla mia esperienza
individuale, vissuta in AO, le cose
peggioravano. Qualcosa d'ambiguo, di poco
chiaro, e per me di umiliante caratterizzò
quella militanza sul piano esistenziale. E qui
credo di comprendere e poter concordare
con quanto dici (A me allora era chiuso tutto
l'universo del leggere, della poesia, dei
sentimenti teneri, della mia famiglia d'origine
da cui mi ero brutalmente separata, delle mie
debolezze, della mia creatività). Questo è
accaduto anche a me e a molti uomini e
donne di allora. Eppure mi sono chiesto
spesso perché, malgrado questi aspetti
soffocanti e - ripeto - per me umilianti
(quando li ho rievocati, mi hanno fatto
pensare al periodo altrettanto frustrante di
Azione Cattolica della mia infanziaadolescenza a Salerno), non ho mai pensato
di ridurre quella militanza solo a questo, al
mio vissuto esistenziale , che pur ritengo
negativo. E perciò non mi convince la tua
contrapposizione fra militanza e corpo.
Ripeto: quella militanza avvenne in pessime
condizioni e, se vogliamo, in un gruppogabbia più rigido e burocratico di altri. Ma era
una delle poche forme possibili allora, in
quegli anni e a Milano, per "dar corpo" a certi
bisogni che sentivamo. Era "maschera", ho
detto. Ma qualsiasi militanza doveva essere
per forza (e sarà forse anche in futuro) un
po' “maschera”: doveva, dovrà mascherare
una parte del corpo. Mi fa un po' male a dirlo,
ma devo dirlo.Troppo facile o romantico
pensare che, la maschera, qualsiasi
maschera possa essere abolita e possa così
far emergere il corpo come verità, piacere,
felicità, bontà. Tu sai bene, e lo dici, che il
corpo é il luogo dell'ambivalenza, della
complessità, delle emozioni. Perché lo è?
Soloa causa della maschera? No. Togli la
maschera (operazione eroica, dolorosa) e
trovi ambivalenze, complessità, emozioni
(che non è detto siano di per sé positive o
negative né per l'individuo né per la
collettività, ma lo diventano positive o
negative, appena socializzate, appena
incontrano e quasi sempre si scontrano con
quelle di altri/e). Perché poi il corpo parli (e
non semplicemente agisca, aggredisca, ecc.)
ha bisogno non solo di qualcuno disposto ad
ascoltare, desideroso di capire, di voler bene,
ecc., ma di un linguaggio, di una grammatica
per articolare i suoi bisogni, i suoi desideri.E
qui torna, credo, ancora il mio discorso della
MASCHERA, che non è soltanto posa,
occultamento, dissimulazione, ma metafora
di convenzione, cultura, forma che sta
accanto ad altre forme, protesi artificiale, e
dunque linguaggio che altri intendono o
possono usare. In sintesi, anche a livello
individuale, se non ci fossero stati Freud e la
psicoanalisi (maschera, cultura, anche
questa), il corpo dell'isterica avrebbero
continuato a parlare (meglio ad essere
interpretato) alla vecchia maniera (secondo
le vecchie maschere positiviste). E a livello
politico, se non si fossero create le maschere
dei gruppi extraparlamentari, sarebbero
rimaste a disposizione solo quelle dei partiti
che noi chiamavamo "storici" o quelle del
privato o della professione. Ora il mio
ragionamento è questo: non c'è dubbio che la
maschera della militanza d'allora (la cultura
politica dei gruppi, di AO in particolare)
lasciava ben poco intravvedere certi bisogni,
disagi e ambiguità. Ma essa assolveva ad
un'altra funzione: spingeva noi individui-corpi
ad entrare in contatto (con tutte le nostre
paure, voglie, nevrosi, ecc.) con eventi e
realtà sociali. Ci avvicinava agli eventi, al
"sociale",
sbarrando
il
discorso
sul
"personale". Per quali motivi (in prevalenza
molto materiali e psicologici assieme) un
individuo si metteva quella maschera-ruolo
del militante, che poi diceva di aver scelto o
che si costringeva a sopportare? Qui è
difficile rispondere... Resta però il fatto che
per me una maschera (ma si potrebbe dire
anche un ruolo) è inevitabile: è il vivere in
società che l'impone. E ha delle conseguenze
positive e negative: permette di capire delle
cose, di agire in certe situazioni e chiude
tante altre vie e possibilità di esperienza. Con
quella maschera di "durezza" noi non
abbiamo potuto vedere (abbiamo rimosso,
abbiamo finito per rimuovere. .. le sfumature
sono tante) certe cose. Con le tue parole:
vedi violenza dei servizi d'ordine..su cui il
silenzio incombeva ed era impossibile avere
un'idea esatta di cosa "noi stessi" facessimo,
ad esempio. Abbiamo invece visto e
accettato altre cose con partecipazione o
coinvolgimento, anche se non erano
condivise da gente magari a noi cara. Tu
scrivi: Altre forme di "durezza" le ho trovate
giuste e sostenute "senza maschera", con i
11
vissuti veri e le contraddizioni del caso; alludo
ad esempio sia alle forme di lotta molto dure
nella scuola, (che però erano sempre di
massa, anche se non maggioritarie) che a
quelle pure molto forti a cui ho partecipato
quando lavoravo all'AEG-TEKEFUNKEN ed
ero sindacalista. Ma nel trovare giuste
queste cose a cui hai partecipato con
convinzione, non puoi dire che eri "senza
maschera": avevi forse trovato un equilibrio
fra corpo e maschera, fra tuoi bisogni
profondi e richieste del collettivo di compagni,
sopportabile o addirittura soddisfacente. A
questa maschera (quella della militante di AO
che accettava la durezza della lotta quando
era condivisa dalle "masse") aderivi,
respingendo altre maschere, che pur allora
erano possibili e sono state usate: da quella
del simpatizzante scettico a quella del
lottarmatista. Quanto agli errori: non era
possibile (non è possibile) evitare errori. Tutti,
da tutte le parti in lotta, ne hanno fatti. Solo
alcuni errori erano (in parte, forse) evitabili.
Ma bisognerebbe pensare a fondo e tenendo
conto del contesto d'allora (quello da noi
percepito, non quello che magari abbiamo
percepito dopo) per dire quali. Tu fai
l'esempio dei servizi d'ordine. Gli errori dei
servizi d'ordine era possibile evitarli solo in
parte. Per evitarli tutti bisognava non fare
servizi d'ordine; e, di conseguenza, non fare
un certo tipo di partito, di manifestazioni, ecc.
Il che, allora, equivaleva, a starsene a casa in
certe occasioni (ricordo un 11 febbraio 70 o
71 mi pare... c'era Almirante in P.zza Cairoli,
ecc). Certo che il silenzio incombeva sulla
questione. Certo che era impossibile avere
un'idea esatta di cosa "noi stessi" facessimo.
Ci sono problemi legati alla lotta degli
oppressi che richiedono silenzio e sacrificio
di parti di noi (come del resto, per lavoro,
carriera o altro sacrifichiamo parti di noi...).
Qui c'è un elemento "duro", a volte tragico
che o accetti o rifiuti. Ma, rifiutandolo, non lotti
più (o fai un altro tipo di lotta forse). Noi, per
diversi anni abbiamo accettato. Inutilmente?
Che non si siano raggiunti gli obiettivi
proclamati è certo. Che però solo grazie a
quelle lotte si siano svelate cose che mai
sarebbero emerse, anche è certo. Che molto
altro era impensabile ottenerlo lo si è potuto
sapere solo dopo (a seconda dei dati sulla
situazione reale che si è riusciti poi ad avere).
E resta, al di là dei dati reali, accertabile
storicamente, che c'erano dei desideri in
ballo, c'erano degli 'investimenti libidici'
individuali e collettivi che ci hanno fatto
procedere su quella scelta fatta per 3-4-5
anni o più. Perciò non capisco molto il senso
di colpa (retrospettivo?). Un certo stato di
cose (anche interno ad AO) non si muta
facilmente, specie da parte di chi (era il mio
caso, ma penso anche il tuo e certo di tanti
giovanissimi) aveva scarsa esperienza di
politica. Ma poi, studi un po' di storia, vieni a
sapere di Gramsci in carcere messo quasi in
quarantena dal Partito, di Bucharin al
processo...; e vedi che quella forma-partito
comporta questi rischi, che hanno procurato
sofferenza e degenerazioni, ma hanno anche
permesso conquiste politiche che nessuno ti
avrebbe regalato. Chi poteva dire con
sicurezza allora: alt, io in un partito che si
vuole rivoluzionario non ci metto neppure il
naso? Era forse sicuro già in partenza che
avremmo ripetuto gli errori dei partiti del
passato? Io, malgrado le umiliazioni, ho
accettato di stare in AO fino al ‘76. Anch'io,
come te mi pare, mi trovavo più a mio agio
nel fare lavoro di base a Cologno o nella
scuola, come tu alla AEG. Ma i due momenti
non erano allora così scindibili. Può darsi che
la spinta partecipativa era tanto forte che
potevi militare anche semplicemente e con
più soddisfazione in un gruppo di base o
semplicemente in un CdF. Ma, come ha
scritto Sandro Portelli a proposito della
Resistenza,
certe
azioni
antifasciste
spontanee (es. assalto ai forni) erano
possibili anche perché c'erano dei partigiani
armati. Anche nel nostro periodo certe azioni
forti e di massa nella scuola o altrove furono
possibili anche per la presenza di gruppi
organizzati (e dei servizi d'ordine!). Quindi la
"maschera Samizdat" non la giudico "un
nostro clamoroso errore". Non potevamo
essere "interi" . Semmai lottavamo con la
speranza di diventarlo assieme ad altri, quelli
della nostra parte (o classe) o quella dell’
"umanità". E accettavamo le amputazioni
come necessarie. Quando non c'è stata più
questa convinzione o sentimento ci siamo
ritirati; e abbiamo cercato altre forme di
resistenza (altri hanno scelto persino di
passare coi vincitori). Siamo stati sconfitti, ma
non perché i nostri corpi fossero stati
ammutoliti dalla militanza. Solo in parte. E del
resto erano ancora più ammutoliti prima; e sai
bene quante mistificazioni ci sono state
anche in quelle esperienze che mettevano in
primo piano il corpo: Re nudo, ecc. Siamo
stati soprattutto sconfitti, perché chi aveva più
12
potere e informazioni ha puntato a chiuderci
ogni sbocco: non solo rivoluzionario, ma
anche riformistico. E l'ha potuto fare
trascinando sui suoi obbiettivi la Sinistra. E
poi ci sono gli errori di lettura degli eventi: la
ristrutturazione mondiale non compresa o
afferrata in tempo, lo svuotamento della
funzione del lavoro, della classe operaia, ecc.
Siamo stati sconfitti, ma non era sicuro che
saremmo stati sconfitti, anche se la lotta con i
potenti è sempre impari. Quanto ai massacri:
sempre le rivoluzioni sconfitte portano
massacri (e forse anche quando vincono...
questo è un altro elemento tragico, che o
metti in conto o trascuri, lasciando fare i
massacri agli altri...). Quanto al salvare
qualcosa di quell'esperienza, io proprio
l'idealismo, che tu ci vedi, non salverei.
Sarebbe consolatorio. Semmai mi chiederei o
auspicherei che nei prossimi "assalti" ci sia
meno idealismo. E se nella "durezza" di
Samizdat ci fosse stato dell'idealismo e me
ne accorgessi, cercherei di non valorizzarlo.
La prima domanda che mi farei, per dare la
giusta importanza a quella "durezza", è:
quanto era arbitraria? quanto necessaria?
quanto corrispondeva al mio corpo e a quello
degli altri con i quali mi sono ritrovato? Le
"crepe" di quella durezza, non dipendevano,
secondo me, da quello che "era lasciato fuori"
da noi stessi più o meno volontariamente. Ma
in che senso? Lasciati fuori non significava
escludere o sottomettersi ad un diktat dei
capi: speravo di ottenere per via collettiva
quella bellezza o quel riconoscimento o quel
piacere che forse avrei potuto ottenere per
via individuale solo però "lasciando fuori" (è il
caso di dirlo) la mia condizione di vita (di
fatto proletarizzata...) e staccandomi da quei
proletari in mezzo ai quali mi ero venuto a
trovare. Cosa che forse non mi era facile fare,
anche se l'avessi desiderato. E ancora oggi,
negli ambiti terziarizzati e non più operai che
mi ritrovo a frequentare, c'è bisogno di una
certa "durezza" (non quella di allora, non per
nostalgia d'allora, non per abito acquisito e
automatico),
perché,
più
allentati
o
mascherati, i rapporti di forza vigono anche
oggi. E anche ora un'altra parte di noi, quella
più socievole, non corporativa, solidaristica e
diciamo pure erotica (intendo: al di fuori dei
canoni erotici suggeriti) è messa da parte, se
non "scotomizzata" come tu dici. Infine, per
rielaborare quegli anni, ci vogliono idee e
sentimenti giusti ( e forse contatti con gente
giusta...). E purtroppo, data la sconfitta,
dobbiamo rimediarvi quasi sempre da soli.
Perciò forse la poesia, la scrittura entrano in
gioco come strumenti possibili. Smetto qua.
Poesia: classicità e guerre d’oggi
5 aprile 2004
Caro Daniele [Santoro],
le tue poesie mi sembrano ancorate ad un
ideale di bellezza classica che nasconde
venature
d'angoscia
e
inqueitudine
moderna.L'impressione
che ne ho è
ambigua: da una parte un'adesione intima
(Ah, il mito della Grecia assorbito sui banchi
del liceo Tasso nella mia Salerno degli anni
Cinquanta!) come se ritrovassi cose preziose
e una volta care, dall'altra la preoccupazione
(del vecchio!) che vede il poeta più giovane
aggirare la dura realtà della storia e il grigiore
del presente (merci, guerra, follie quotidiane
e politiche). Mi sono sempre chiesto se
dall'alto della sensibilità che attribuiamo agli
eroi classici si può cogliere quello che accade
nelle guerre del Novecento e dei nostri giorni;
e se l'immagine della dea ci accosta alle
donne che amiamo o ci scorrono accanto.
29 aprile 2004
Caro Daniele [Santoro],
eccoti a tempo di record e come avevo
promesso
alcune
mie
impressioniosservazioni sulle tue "Nuove poesie".
Il lamento di Truganini
L'andamento è sempre classico. Mi pare che
ci sia sovrapposizione di questo tono
classicheggiante [solennità del verso lungo,
di alcuni attacchi (“perché amore...”, “felice te
che...”)
del
lessico
(prevalentemente
alto..stridono, mi pare, nel contesto termini
come “impiccata”, “disgraziata”, “puttana” e
“spettacolo da circo”] sulla crudezza della
vicenda richiamata in esergo, ma elusa e
troppo sublimata.
POESIE PER HIROSHIMA (I-VI)
Bella e concisa la Premessa e saldo il
riferimento alla tragedia di Hiroshima.
Nelle quattro strofe il tema della meditazione
sulla morte si fa però mano mano troppo
etereo, perde di vista la materialità dei
moderni genocidi. Prevale, forse con il
ricorso ad immagini sin troppo belle
(“frangersi a sera nel mare la luna”) e pacate
13
(“ad uno ad uno li depositiamo/sul palmo
delle acque i nostri cari”), la sublimazione
dell'orrendo dato storico, che diventa pretesto
e non è più contenuto da non eludere, ma da
sviluppare (e nella Premessa non c'era
elusione...). Qui forse entra in funzione suppongo - un certo idealismo, che
accentua, ad es., l'“inno all'esistenza che non
smette/ ancora di stordirci con il suo trionfo”
piuttosto che insistere sulla contraddizione (
fra “lieve sventagliare di fragranze” e il fatto
che “lì sbocciano cadaveri”). Su VI presto un
ago di luce crescono le mie riserve (o più
semplicemente la mia incomprensione).
“Errore... Indicibile... Grande” m'intimidiscono
e mi rendono diffidente...
e acini baciare
sensualità di immagini preziose (fortemente
letterari termini come “violacciocca” e
“madida”)
Lettera di Rubin Stacy...
Mi pare interessante questo lavorare su
spunti di eventi reali, storici. Anche
l'accentuazione paradossale della propria
umiltà da parte della vittima è una bella
trovata: il servo, insistendo nel suo
servilismo, smaschera la ferocia di quelli che
l'umiliano
e
l'ammazzano.
A
certe
espressioni più generiche (Mai mi sarei
permesso
-Glielo
giurovenirLa
a
importunare. mi perdoni.), preferirei particolari
più chiari che accentuino la crudeltà della
situazione.
sulle scale a frugarci la bocca a strapparci le
labbra
Qui il tono è concitato. L'armamentario
classicheggiante
è
abbandonato.
La
sensualità espressa con immediatezza,
malgrado qualche enfasi (“l'amalgamarsi
folle/ ardito andirivieni in sinfonia di corpi //poi
il fulminelacontrazioneilprecipizio”)
Il MONTE ANALOGO: UNA NUOVA
“RIVISTA DI POESIA E RICERCA”
Continuano ad uscire nuove riviste. Quelle
letterarie (e sono tante) oscillano fra culto
dello specifico (la poesia, la narrativa, la
critica) e spinta a cercare oltre, ma ancora a
tentoni fra le rovine di una grande tradizione
temuta/odiata/invidiata. Qui di seguito alcune
mie note sui problemi in dicussione fra i
redattori di una di esse.
22 apr 2004: osservazioni [da una lettera a
Lorenzo Gattoni]
Linea editoriale....a me una linea editoriale
sembra una buona cosa. Essa non esclude
la pluralità. (La mia attenzione alla moltitudine
poetante è un esempio di linea – personale,
non editoriale, non del gruppo attuale del
MonteAnalogo – aperta alla pluralità).
Ammetto che oggi non abbiamo una linea
editoriale, ma ritengo utile costruirla,
valutando i pro e i contro, sbarazzandosi se
possibile delle remore e pregiudizi esistenti.
Oggi a me pare dominare la diffidenza verso
chi auspica una linea editoriale per una
rivista, specie se di poesia. Gli si
contrappone facilmente l’appello ad una
generica apertura alla pluralità. Ma tu stesso
fai giustamente presente che “appellarsi alla
moltitudine [alias alla pluralità] rischia di
apparire un vanto ideologico”. Ed io pure
credo che la mia apertura alla pluralità (alla
moltitudine poetante), se non sorretta da una
linea editoriale chiara, rischierebbe una sorta
di
disarmo
critico.
Estremizzando:
pubblichiamo tutto e non se ne parli più.
Perciò, da subito, ho cercato di evitare questo
pericolo, muovendomi su due strade: 1)
un’inchiesta sia pur limitata per capire
davvero cosa sia la “moltitudine poetante”; 2)
una riflessione più approfondita su vari
aspetti della poesia contemporanea italiana
esaminati attraverso il filtro di alcune
riviste......
Pubblicabilità....A me pare che stabilire che
un testo sia pubblicabile sul Monte Analogo
in base al fatto che rispetta il “presupposto
della rivista che è il dare spazio alla ricerca,
al nuovo, al movimento”
sia “agire da
intellettuale”. Lasciando perdere la caricatura
che oggi si fa del lavoro intellettuale, è
abbastanza chiaro che, per “dar spazio alla
ricerca, al nuovo, al movimento”, dobbiamo
avere un’idea comunicabile e abbastanza
condivisa di cosa intendiamo per “ricerca”,
“nuovo”,
“movimento”.
Che
sia
poi
intellettuale o intuitiva (o una proporzione
variabile di dati colti con l’intelletto o con
quella che chiamiamo intuizione, fantasia,
immaginazione, ecc.) per me è secondario
rispetto al fatto che sia comunicabile e
abbastanza condivisa.
14
Poeti rinomati....I poeti conosciuti (o
rinomati) non devono diventare la peste da
cui fuggire. A volte la loro opera potrebbe
dare preziosi spunti al lavoro della rivista. E,
anche se decidessimo di non pubblicare mai i
loro testi (cosa ovvia perché hanno già
sufficiente circolazione e non perché siano di
“poeti conosciuti”), in qualche ambito
(seminariale, conversativo, ecc.) dovrebbero
essere oggetto di giudizio come per gli altri
che vogliamo “promuovere” (o meglio:
conoscere innanzitutto!). Non vorrei che ai
salotti scelti contrapponessimo i ghetti dei
poeti sconosciuti, con una sorta di snobismo
alla rovescia.
Giudizio amicale/ giudizio collettivamente
motivato...Sul bloccare ogni forma di
nepotismo, di cricca, di cordata concordo in
linea di principio. Ma temo che le regole che
impongano un’impersonalità astratta (La
lettura dei testi in forma anonima) possano
diventare solo di facciata ed essere aggirate
da mille trucchetti. (Vedi cosa succede per
“La legge è eguale per tutti”!). Io indagherei
più a fondo sui comportamenti reali della
gente (dei poeti, aspiranti poeti, ecc.)
permettendo che si manifestino anche nei
loro aspetti spiacevoli o meschini senza
censure preventive troppo rigide. E poi – mi
chiedo - l’essere amico di un poeta da
giudicare
comporta
automaticamente
complicità o cecità nel giudicarlo? A volte
(non sempre) l’amicizia può essere anche un
veicolo per entrare meglio in un testo e
portare elementi di valutazione aggiuntivi
preziosi. E il giudizio fazioso sul testo
dell’amico o dell’amica non può forse essere
corretto e rivisto dalle opinioni degli altri
(comitato di lettura, ecc.)? Sono per porre
obiettivi alti a tutti: il sentimento eccessivo di
amicizia o di complicità cederà il passo a
ragionamenti in grado di svelare verità più
alte e condivisibili. Perché dovrei difendere a
tutti i costi un testo di un mio amico se,
discutendone seriamente con altri, venissero
fuori vari difetti in modo conclamato? È vero
che tante volte anche di fronte alle verità più
solide si resiste e non si vuol vedere. Ma non
credo che si debba rinunciare a cercare cose
“più vere” (giudizi più solidi, più motivati), a
farle circolare, a farle pesare.
I rischi della poesia-mistero Il mistero
elemento essenziale della scrittura poetica?
Qui concordo ben poco. Non
sono un
illuminista
sfegatato,
ma
l’esperienza
personale e storica insegna che sotto la
coltre oscura del “mistero” trovi di tutto: santi
e assassini, truffatori e galantuomini. Che ci
siano cose misteriose, ignote, inconsce o
semiconsce non lo nego. Ma farle diventare
l’“elemento essenziale della scrittura poetica”
significa, secondo me, arruolare a priori i
poeti in sette iniziatiche. Li vedrai tutti presi
dalla gara a chi svela il mistero più
misterioso; e avrebbero un lasciapassare in
più per ignorare la realtà (tragica) del mondo
in cui vivono assieme agli altri. Questo
lasciapassare io non glielo do. Al massimo
suggerirei di impegnarsi prima a svelare i
“misteri” della nostra vita “civile”, quelli che
hanno portato e portano stragi, guerre,
dilapidazione del bene una volta “pubblico”,
ecc. Invitare i poeti a cercare il mistero
equivale ad una privatizzazione della poesia,
che per me è/dev’essere bene comune.
La moltitudine per sempre “senza
qualità”? La poesia è stata ed è
storicamente una delle tante forme di
espressione dei bisogni, delle idee, dei
desideri delle élite culturali. La moltitudine
(vivente, lavorante) è stata (è) al massimo
spunto d’ispirazione da parte dei poeti
“famosi”.
La
moltitudine
poetante
(volgarmente detta: sottobosco, scribacchini,
poeti della domenica, ecc.) è oggetto di
scherno, di reprimenda, di diffidenza da parte
delle élite di cui sopra. Oggi affiora nei nostri
discorsi come “quantità”. Al massimo ci sono
alcune interessanti riflessioni sociologiche
sul fenomeno, che scivolano però sugli
aspetti forse più interessanti del fenomeno
(estetici, psicologici, stilistici, ecc.). Che –
ripeto - andrebbe indagato per – lo dico
rozzamente - “spremere” dalla “quantità” la
“qualità”. Ma –qui sta il difficile – non si tratta
di “spremere” la solità “qualità da élite” (i
“grandi”, i “famosi”), ma la “qualità dei molti”.
Detto così è una pura enunciazione di
principio o, se vuoi, una pia intenzione. Ma
avvia verso un’altra direzione. Altrimenti,
guardando soltanto alla “realtà”
con gli
occhiali estetici a cui
siamo abituati,
continueremo a vedere solo sottobosco,
scribacchini, poetastri, ecc. Oppure a
rimanere all’interno delle questioni tecnicospecialistiche del lavoro poetico (quelle che
tu elenchi: metrica, tematiche, linguaggio,
poetiche, stile, ecc.). Non nego che ci sia
un’etica della professione anche per i poeti, i
15
critici o i critici-poeti. Ma nei casi migliori crea
ammirevoli monumenti per il piacere delle
élite che vi hanno l’accesso riservato. Alle
masse, che dovrebbero rimanere masse, cioè
passivizzate, vanno gli scampoli. Ci vogliono
invece altri occhiali (critici), riflessioni serie,
categorie estetiche rinnovate per intendere
cosa può nascere di buono dai testi prodotti
dai molti.
Crisi dei canoni e canone occulto... I
canoni, i mini-canoni, le linee editoriali, ecc.
imposti dall’alto o provenienti dal passato
infastidiscono. Si comincia sempre, come tu
dici, dall’ascolto, da una approssimativa
esplorazione, dalla discussione “parziale e
discutibile” di quelli che sono i nostri gusti,
canoni o mini-canoni personali, desideri di
linee editoriali, ecc. Si comincia oggi dal
“relativismo soggettivistico”. Non si scappa.
Ma attenti a non fissarlo in Canone occulto e
non dichiarato, che sfugge
a ogni
discussione “parziale e discutibile”, perché è
“naturale” pensare così, perché “così fan tutti”
o “così fanno i manager culturali che
contano”. Si sappia che
nello “spazio
soffocante e autoreferenziale, chiuso e
autoreplicante
della
cittadella
poetica
nostrana” questo è lo stile che domina.
Possiamo farlo nostro? Possiamo farci male
con le nostre mani?
Nuova serie di SAMIZDAT COLOGNOM
Data: giovedì 15 aprile 2004 17.21
Cari amici,
in questi mesi, dopo lo sganciamento da
INOLTRE, ho oscillato fra l'ipotesi di una
nuova rivista e l'ipotesi di rilanciare
SAMIZDAT COLOGNOM. Ho scelto di
rilanciare quest'ultima, anche perché il Centro
Studi Franco Fortini ha accettato la mia
richiesta
di
far
uscire
SAMIZDAT
COLOGNOM
come
supplemento
de
L'OSPITE INGRATO. E' una soluzione che è
in continuità con una parte della mia ricerca e
che non preclude l'esplorazione del "nuovo"
(la condizione postmoderna). Vi mando
pertanto in allegato una proposta precisa,
sulla quale chiedo che ciascuno dei
destinatari si pronunci (accettando l'ipotesi di
partenza,
correggendola,
allargandola,
restringendola, ecc., o rifiutandola). Se le
vostre risposte saranno sufficientemente
positive, penso di convocare una prima
riunione per perfezionare assieme l'ipotesi.(
Rimando ad una fase successiva la
discussione sull'organizzazione della rivista
stessa, l'ampliamento del numero dei
redattori, i costi, i destinatari, ecc.).
P.s.
In appendice vi mando anche lo scambio
intercorso fra dicembre e marzo fra me,
Piero Del Giudice e Maria Luisa Torti
sull'ipotesi di una nuova rivista. Il taglio
giornalistico dell'ipotesi di Del Giudice mi
pare poco praticabile (da me, da voi...). Ma
alcuni dei temi proposti e l'invito ad una presa
sul "reale" li accetto. Vedrò (o vedremo) in
seguito se è possibile mediare fra le due non
contrapposte esigenze.
Ipotesi di rivista apr 2004
Titolo: SAMIZDAT COLOGNOM
[con possibile sottotitolo: dai luoghi/non
luoghi dell’Italia in epoca postmoderna]
[in evidenza: supplemento a L’ospite
ingrato del Centro studi Franco Fortini]
[spiegazione del titolo: Il termine russo
Samizdat nel Novecento indicò gli
opuscoli della comunicazione dissidente
nei paesi una volta “sovietici” dell’Est e
dell’Urss.
Letteralmente
significa
autoedizione. La rivista lo eredita come
emblema di atteggiamento critico e lo
vuole rinnovare in senso moltitudinario ed
esodante1[1] nella attuale condizione
postmoderna. Il termine Colognom,
abbreviazione di Cologno Monzese, allude
ad uno dei tanti luoghi/non luoghi della
sconvolta e straniata esperienza urbanometropolitana d’oggi, che la rivista
intende indagare. ]
Rubriche:
Samizdat
Qui vanno tutti i pezzi di dissenso o di
critica della condizione postmoderna :
articoli individuali o redazionali o di
1[1]
Per il significato di questi termini controversi, non
da tutti condivisi, ma che orientano la ricerca evitando
che si collochi nell’ambito accademico e massmediale
dominante rimando alla nota 5 a pag. 145 del mio
articolo Poesia moltitidine esodo in Inoltre 7, inverno
2003-2004.
16
collaboratori. I pezzi tenderanno a precisare
cosa sia possibile intendere per esodo oggi.
Vi compariranno pezzi teorici (su autori,
articoli, saggi
di riferimento per la
redazione) o commenti di eventi (ad es. la
guerra in Irak). Saranno frutto della
discussione collettiva e faranno da editoriale,
da presa di posizione comune. (In caso di
vedute divergenti: se esse sono ritenute
ancora dialettiche, saranno
presentate
apertamente; se ritenute inconciliabili, si
sceglierà a maggioranza).
Luoghi Non luoghi
Qui vanno tutti i pezzi d’inchiesta, che
riguarderanno le esperienze dei singoli o dei
gruppi organizzati nelle “città” in cui
abitiamo, sempre più luoghi/non luoghi
[Augé] da osservare, studiare e raccontare
nella loro problematica centralità o
perifericità e nei mutamenti decostruttivi e
costruttivi possibili in questi spazi sempre più
ibridi.
Dizionarietto-archivio critico di scritture
semiclandestine
Accoglierà le scritture più varie (appunti,
scambi di lettere o e-mail, poesie, racconti,
stralci di ricerche più corpose, sintesi,
commenti a libri letti, diari e riodinadiari, ecc.)
composte dagli scrittori/scriventi esclusi o
ai margini della comunicazione accademica e
massmediale. Ma non si tratterà
solo
accogliere e pubblicare secondo una scelta
casuale o amicale. Accogleiremo e
pubblicheremo a turno esempi ragionati
dell’esperienza
della
scrittura
semiclandestina in epoca postmoderna. I
pezzi dovranno sempre essere accompagnati
da un commento critico, affidato a membri
della redazione o a collaboratori di fiducia,
che mostri lealmente i limiti o le potenzialità
dei testi al momento in cui sono proposti dal
punto di vista dell’orientamento critico della
rivista.
Sulla giostra delle riviste
Qui andranno pezzi (riflessioni di lettura
personale) di alcune delle riviste (o di singoli
numeri o articoli di esse) che i redattori
seguono o ritengono importante segnalare.
L’obiettivo e di costruire una mappa delle
zone di ricerca da conoscere o da evitare.
Appendice: scambi intercorsi con Piero
Del Giudice e Andrea Boeri sull’ipotesi di
una nuova rivista
1) da Del Giudice [DATA...]
Caro Ennio, ti mando alcuni appunti sui primi
interessi che suscita in me un lavoro comune
e la fondazione di una rivista. Niente voli alti,
ma molta attenzione, moti tentativi di capire.
Piero
D. Una rivista perché?
R. Perché non conosciamo il mondo in cui
viviamo
D. Una rivista per i propri testi?
R. La realtà come testo [da indagare]
Dunque una rivista perché non conosciamo e
non sappiamo muoverci, pensare, prendere
decisioni nella realtà che viviamo, perché
abbiamo paura la sera a camminare per le
strade.
Allora, almeno per cominciare:
Non conosciamo, vanno indagate:
a) le condizioni materiali di vita e di lavoro
della
gente
b) sono già attive le “cooperative” dei
sindacati (Cisl in particolare) che procurano
forza-lavoro per qualche mesec) come vive
un giovane con un lavoro che dura 4 mesi? A
800 euro al mese?
d) Ma più in generale come sta dentro la vita
complessiva: la sua camera, la sua cucina, la
sua idea di futuro, la sua idea di “incontro”, di
associazione, di “amicizia”?
e) Non sappiamo quanta gente lavora per
es. nella scuola. Quanti sono i contratti, le
condizioni concrete di lavoro nella scuola
f) Non conosciamo il mutamento del rapporto
del dipendente nella azienda. Nella scuola si
fa “impresa”, il giovane che ha un contratto di
quattro mesi fa “impresa”, è “imprenditore” di
cosa?
g) Trasformazione del lavoro dipendente in
una società di “imprenditori” di niente
Va affermato:
1) la fine del sindacato come è
2) altre esperienze oltre il sindacato come è.
Perché queste esperienze, cosa è mutato
3) la fine dei partiti. Altre esperienze oltre i
partiti
4) la destra, la sinistra
5) l¹alternativa e le parole d¹ordine semplici
(no alla guerra)
6) la fine della ragionevolezza
17
7) la riproposta della ragione
2) da Ennio ad Andrea Boeri: chiarimenti
sull’ipotesi di nuova rivista (6 maggio
2004)
Caro Andrea, sei il primo dei possibili
collaboratori della rivista ad avere un
atteggiamento di curiosità sul tema
dell'esodo. Altri hanno subito storto il naso; e
forse hanno alcune buone ragioni, anche se
temo che ci sia sotto un po' di pigrizia.
Un'ipotesi di ricerca: questo è per me una
rivista. E non credo possibile chiarire prima
di partire e in modi già del tutto convincenti
che cosa intendo per esodo-esodareesodante. Posso spiegare (come ho fatto per
cenni nei primi numeri di SAMIZDAT
COLOGNOM) come io sia arrivato ad usare
questa terminologia e da quali fonti l'ho tratta.
Posso accogliere le obiezioni sulla sua
"vaghezza" o "astrattezza" o "gergalità". Ad
usare come distintivo il termine e a volte
anche in modi scolastici questi termini è una
(eterogenea e internamente differenziata)
area
"disobbedienti-Negri-VirnoDeriveApprodi", verso la quale ho un
atteggiamento di attenzione e perplessità. Da
qui l'ho ricavato. A me è servito soprattutto
per fissare uno spartiacque dalla Sinistra
"continuista" in cui mi sono politicamente
formato. Quale? Quella che sembra credere
che con qualche correzione più o meno
drastica si possa ritornare a lavorare sulla
vecchia strada "progressista" (insomma
rioccupare lo spazio che fu del PCI o che
stava per aprirsi con la nuova sinistra attorno
al 68-69). Questa strada mi pare bloccata.
Qui concordo con Del Giudice, anche se lui
non parla di 'esodo'. L'esigenza di capire il
mondo "sconosciuto" in cui ci siamo ritrovati
è anche mia. Forse quello che mi distingue
da lui sono tre esigenze: 1) dichiarare il
punto di vista (l'intenzione) di chi si pone il
compito di esplorare; 2) rimuginare il passato
storico, al quale comunque dei fili ci
trattengono; 3) "etichettare" la società in cui
siamo (col termine di "postmoderna"). Dirmi
'esodante' segnala così anche la mia
insofferenza
per
questo
mondo
"sconosciuto", la volontà di fuggirlo e di
andare verso un "altro mondo" anche se non
nominabile (e qui mi aspetto obiezioni del
tipo : come si fa a conoscere il mondo se
vuoi fuggirlo; dire 'esodo' significa sempre
fissare un 'telos'; rimuginare la storia è una
trappola, ecc.). Anche l'uso del termine
'moltitudine' è un segnale da indagare:
equivale a frammentazione delle 'classi' o ad
una loro definitiva scomparsa? La "necessità
d'indagare le condizioni materiali di vita e di
lavoro della gente e le conseguenti analisi
sulla fine del sindacato e dei partiti come
organizzazioni di rappresentanza sociopolitica di massa" cozza però contro
l'enormità del lavoro che un'inchiesta
richiede. Già ho avuto qualche reazione
sgomenta di chi non se la sente di porsi
nella prospettiva dell'inchiesta, perché sa
realisticamente di essere esterno a i luoghi
dove questi problemi sono realtà vissuta e
pensa piuttosto di poter dare alla rivista solo
un contributo di scrittura più "introspettiva".
L'isolamento
delle
esperienze
è
enormemente cresciuto per molti e pone un
bel problema: escludere i più isolati o meno
propensi a indagare la realtà (i "poeti", ecc.)
dalla rivista? confinarli nello spazio delle
"scritture
clandestine"?
tenere
un
collegamento anche con questi "ghetti" in cui
si chiudono difensivamente tanti degli "io
atomizzati", che fanno parte della 'moltitudine'
(o della "gente"?) senza saperlo, senza
ammetterlo, senza volerne riconoscere il
significato?
FORTINI:Dieci anni dopo la morte al
“Punto Rosso” di Milano
1 maggio 2004
Caro Massimo [Parizzi]
spero che questo ciclo al Punto Rosso di
Milano di interventi sull'opera di Fortini possa
servire non a creare una piccola setta di
"fortiniani",
col
loro
corredo
di
citazioni e lumini votivi, ma a riprendere gli
interrogativi
sulla
sua
opera, tutta la sua opera, come giustamente
richiedeva
Ranchetti;
e
partendo
dall'"attualità", cioè dalle posizioni che
ciascuno di noi ha o crede di avere oggi e
che potranno essere più o meno
distanti dalle sue. Qui a Milano, dove Fortini
ha vissuto e operato dal '45 e fino alla sua
morte, intessendo una fittissima rete di
rapporti, a me è parso sempre un po'
indecente sul piano morale e negativo su
quello
politico
che
mai
finora
si sia trovata la spinta necessaria da parte di
quanti l'hanno conosciuto o frequentato molto
più di me per fare, non dico quanto ha fatto
Siena col Centro Studi F.F e il supporto dei
18
finanziamenti universitari (su un piano
accademico a volte lodevole, altre volte
imbalsamante), ma "qualcosa". Cosa? Beh,
un ciclo di riletture della sua opera come
questo che adesso siamo riusciti a far partire.
Oppure una serie di interviste più o meno a
ruota libera a quanti lo conobbero o hanno
sue
lettere,
registrazioni
di
suoi interventi, ecc. Meglio ancora un
confronto sulle trasformazioni subite almeno
da
alcuni
dei
temi
da
lui
più
trattati e che anche noi abbiamo continuato
in vari modi a trattare (intellettuali, scuola,
riviste, ecc). Mi si può obiettare: ma perché
insistere su una continuità, riferirsi alla
sua opera, se il "suo" mondo non è più il
"nostro"? Certo le ragioni del silenzio su di lui
o del distanziamento dalla sua opera
e dal suo modello d'intervento intellettuale e
politico per molti ci sono. Berardinelli è un
caso,
esplicito e per me infelice:
demolisce male l'antico e forse mal
sopportato
maestro prescindendo
da
considerazioni storiche e affidandosi ad uno
psicologismo debolista. Ma quei pochi che
accettano di partecipare a questo ciclo o
hanno seguito più omeno indirettamente
i lavori usciti su di lui nel frattempo
(Disobbedienze,
Interviste
1952-94,
Saggi ed epigrammi, L'ospite ingrato, ecc.)
non credo che se ne occupino per
dinamiche accademiche o solo perché hanno
avuto modo di conoscerlo in vita; ma perché
ancora interrogati o messi in discussione
dalle sue opere (e magari dal suo
fantasma).Chi non ne vuol più sentire parlare
(e saranno parecchi) neppure si fanno
vedere. Il "suo" mondo non è più il
"nostro", ma il "nostro" mondo non coincide –
credo - con la cancellazione della sua opera
e non s'identifica con il postmodernismo,
anche quando ne riconosce più o meno
criticamente la presenza (imponente) o
ne subisce la suggestione. Personalmente
credo di dare una relativa importanza al
"tradimento" o abbandono della via da lui
tracciata. Valuto semmai la "qualità", le
motivazioni,
le
argomentazioni
usate.
Se in questi anni siamo stati presi da altre
proposte
o
abbiamo
battuto
altre vie (Manocomete, Inoltre, l'analisi del
postfordismo da parte degli ex operaisti, per
quanto mi riguarda), delle ragioni serie ci
devono essere. Io, che pur ho cercato di non
perdere di vista la sua opera e di mantenere i
contatti con Siena e di curare finché
ho potuto il "fortinismo" dell'Associazione
IPSILON di Cologno o di fare i miei samizdat,
ho dovuto lo stesso riconoscere il mio
isolamento
diciamo
sia
dai
"fortiniani doc" sia dagli "antifortiniani".
Resta però il fatto, che in quest'occasione in
cui ho potuto riprendere in mano per una
decina di giorni i suoi scritti sul tema della
guerra, essi mi hanno parlato, coinvolto,
posto dei problemi.
Perciò mi ha fatto piacere il tuo arrivo in Via
Morigi
e
ho
aspettato
un
tuo
intervento via e-mail o via telefono sulla
serata. Passo ai tuoi appunti. Io penso che
interrogandoci su Fortini e la vera o presunta
svolta
di
Composita
solvantur,
ci interroghiamo sulle nostre vere o presunte
svolte. Anche noi, infatti, in vari modi
partecipi
del
clima
della
"sinistra
critica" (o nuova sinistra) negli anni
Sessanta/Settanta, non avevamo - mi pare con l'Urss e il PCI un legame di soggezione o
di identificazione. Per Fortini (mi pare abbia
scritto anche Rossanda) era venuto meno un
avversario
che
aveva
un
forte
seguito in Italia, con il quale si confrontava e
"litigava" (mentre il nemico principale
rimaneva
quello
americano,
il capitalismo americano...). Suppongo che la
ragione per la quale Fortini non abbia mai
scritto nulla, per quanto ne so, sugli
sconvolgimenti all’est di quegli anni, pur
tanto traumatici, esaltanti, spettacolari anche
abbia un valido motivo: lo sconvolgimento
vero
(per
lui,
per
noi)
era
già
avvenuto prima: con la fine della Cina di Mao
e lo stritolamento nel corso degli anni
Settanta
dell'ipotesi
di
nuova
sinistra nella tenaglia del compromesso
storico da una parte e del terrorismo (o
meglio lottarmatismo) dall'altra. Quelli furono i
veri traumi vissuti da Fortini (e penso anche
da molti di noi). Era stata la Cina il suo
"paese allegorico" ed era stata la nuova
sinistra (e "il manifesto") la sua "casa
politica".
Quando
crolla
l'Urss,
il
coinvolgimento
è
minore,
è
da
"sopravvissuto", che si vede raggiunto nella
sconfitta anche da quel PCI che egli aveva
vanamente e disperatamente criticato.
Non credo si possa dire che il crollo dell'Urss
abbia significato per lui la fine di una
dialettica che, nonostante tutto, l’esistenza
del blocco dell’est teneva aperta per il fatto di
essere, anche se soltanto di nome, un
secondo polo. Penso piuttosto che abbia
19
seguito solo con simpatia il tentativo di
Gorbaciov di riaprire una possibile dialettica
in una società come la sovietica che non
l'aveva più. E anche quando, dopo più di
vent'anni, si decide - a mio parere illudendosi
e aggrappandosi al puro simbolo - a votare
PCI, precisa appunto che il suo non sarà un
voto
alla
politica
del
Partito
comunista, ma un voto al comunismo o alla
falce
e
martello
che
sta
ancora
nel simbolo del Partito (Interviste 52-94,
p.541-2). Quando scrive la perestroica ha
come prima ricaduta quella di togliere una
antitesi su cui l’opinione occidentale è vissuta
per mezzo secolo” (Extrema ratio, p. 101),
parla appunto dell'opinione occidentale, non
delle minoranze che già dagli anni Trenta
avevano occhi disincantati sull'Urss. E
quando dice: Ciò che è stato demolito non è il
comunismo, caso mai il comunismo come
parte dell’eredità dell’Illuminismo” (pag.
688 delle
Interviste),
il comunismo
è quello che senso comune e oppositori del
comunismo
intendono;
e
cioè
le
esperienze del "socialismo reale", dell'Urss.
Non il comunismo come combattimento per il
comunismo [la definizione data su "Cuore"]
che scorre dentro il terreno della società del
capitale come fiume carsico, quindi non
sempre visibile (e con possibilità di
“inondarla”, mutandone il paesaggio). Questo
è uno dei punti "oscuri", ma non trascurabili,
sul
quale
discutere,
per
vedere quanto Fortini sia vicino o distante da
quelli che, sconfitto il socialismo reale,
accettano di ridurre il comunismo a idea, o a
ideale orientativo. Un altro punto: tu scrivi: La
Masi diceva che oltre un terzo degli europei
sarebbero “pronti” a una rappresentanza
politica di cui mancano però i “mediatori”.
Perché mancano? A me sembra che
“manchino” perché questo oltre un terzo non
è una classe, ma “gente”. E, in quanto tale, la
rappresentanza politica ce l’hanno: è questa
che c’è, in Italia da Bertinotti a Di
Pietro. Potrebbe essere “migliore”, e di molto,
ma potrebbe essere “diversa”?
Non
credo.
Bertinotti,
Di
Pietro,
ecc.
rappresentano
solo
fette
di
questa non-classe (la "gente", invece, è
quella
rappresentata
soprattutto
da
Berlusconi). Ma il termine di "moltitudine",
come
tu
sai,
a
me
pare
più
utile, perché - si può essere d'accordo o
meno con Negri, Virno e compagni - pone il
problema scomodo della irrapresentabilità in
epoca postmoderna di questa massa sociale
che ha preso il posto della classe operaia; e
ci costringe a uscire dalla logica che prima o
poi essa si rappresenterà o sarà
rappresentata o, come tu dici, già lo è. Qui
si entra in un campo scivoloso, sul quale
Fortini si è addentrato sempre malvolentieri
per un’ostilità verso l'operaismo e i suoi
sviluppi che egli motiva anche in modo
convincente
(l'ho
detto
a
proposito
della sua polemica con i "filoamericani di
sinistra").
Eppure
la
percezione
del salto avvenuto con l'implosione dell'Urss
e poi con la guerra del Golfo lo porta a
ritenere esaurita sia la tradizione socialista
che comunista e la stessa categoria di
imperialismo; e a parlare di impero. Sarebbe
azzardato un accostamento a Negri, che in
passato
pure
mi
ha
suggestionato.
Mancherebbero solidi elementi. Ma le
sottolineature fortiniane delle trasformazioni
della figura degli intellettuali, l'attenzione
all'ampliamento del terziario sono accostabili
(magari con cautela) al discorso sul lavoro
immateriale, anche se riconosco che c'è
attrito, c'è altro retroterra culturale. Se Negri
non si concilia con Fortini, mi pare
che interrogare Fortini, dopo aver conosciuto
le elaborazioni di Negri , sia un'operazione
interessante. (Ho già detto che a me pare
pienamente legittimo interrogare Fortini dalle
posizioni che ciascuno ha o crede di aver
raggiunto).
Non
da
discepoli
che
ascoltano solo il maestro ma anche altri,
magari avversari. Tutto sta a vedere che se
ne cava e se non si travisano le posizioni
che si mettono a confronto. Un ultimo punto:
credo anch'io che il tema “Fortini e la
guerra” sia collegabile a quello “Fortini e la
Storia”, con la S maiuscola. Ma parlando di
guerra, Fortini parla di Storia. E di
comunismo. O credi che, se spostassimo
l'attenzione sul tema della Storia, verrebbero
fuori cose diverse da quelle da lui dette sulla
guerra?
Caro Paolo [Giovannetti],
quando lessi per la prima volta "Composita
solvantur" anch'io ebbi l'impressione di una
"svolta" e pensai che si dovesse fare uno
sforzo per rileggere il Fortini precedente da
quello che scriveva
in "Composita".
Ma non parlerei, come dice anche Massimo,
di
nichilismo
né
di
tentazione
del nichilismo. Del resto tu stesso presenti il
dubbio (è nichilismo?) e poi lo allontani,
20
dicendo: "mi sembra che il nichilismo lui
l'abbia guardato in faccia". Allora, nella sua
ultima raccolta di poesie non s’infiltra il
nichilismo, ma il senso della morte imminente
e personale, che è preponderante in questa
raccolta, anche se il pensiero di morte è stato
costante in Fortini (lo scritto sulla morte
di De Martino...). La "svolta" sta forse in
questo:
prevale
il
sentire
la
morte più del pensarla. E ci vedo poco
presente
anche
l'idea
della
trasfigurazione o della rinascita. Vedo
l'allarme, la raccomadazione ai vivi data dal
moribondo in punto di morte. Il nuovo
ordine è più che mai solo possibilità. La
morte disperde le cose composte (dal poeta,
dagli uomini in lotta nel tempo storico) e
questa
dispersione
viene
accettata
(sopportata). Ma non annulla le verità emerse
dalla vita individuale (qui foscolianamente
vengono proseguite nella memoria dei
vivi, amici, ecc.), da quelle lotte collettive
fissate in progetti. L'appello "proteggete le
nostre verità" (su uno spunto di Marcuse)
consegna ai vivi quello che è da salvare,
quello che conta dell'individuo o della
storia umana. Siamo, mi pare, agli antipodi
del
nichilismo.
Il
comunismo
è
una verità presente nella storia umana come
possibilità. Quindi anche quando non è
visibile, quando non c'è più un soggetto che
ne fa un progetto politico o tenti di attuarlo
combattendo per realizzarlo, non viene meno.
Come verità s'intende, come possibilità. (Qui
si dovrebbe discutere quanto questa verità in
Fortini diventi o meno ideale, come
accennavo prima, quando vengono meno i
soggetti concreti che potrebbero portarla a
maturazione. Mi pare però che Fortini ha
sempre respinto il comunismo come ideale
astorico....). Che le "canzonette" siano
promosse a poesia-poesia dubito. O almeno
l'operazione dovrebbe fare i conti con la
svalutazione della poesia di fronte alla guerra
( che non è neppure più guanciale per i
morti....). Sulla questione del "mandato
sociale" ti smentirei: della fine del mandato
sociale, Fortini parlò fin da "Verifica dei
poteri" e criticò i sessantottini che
avevano cercato di rianimarlo. La verità (del
comunismo) va protetta perché possibile, non
perché una classe dia il mandato sociale (agli
intellettuali) e anche in una situazione in cui
, come dici, il "reale" e l'"artificiale" si sono
confusi
in un pastone informe. (Ma è il caso della
manifestazione di Roma per la liberazione
degli ostaggi italiani catturati in Irak? Che
Agnoletto stia con Tremaglia nello stesso
corteo
o
stia
col
papa
a me non pare scandaloso. L'elemento
discriminante
è il
no
alla
guerra.
Se si riuscisse a fermarla e ne traessero
vantaggio anche i mercenari neppure mi
scandalizzerei: quando uno sciopero ottiene
un buon risultato non ne traggono vantaggio
anche i crumiri?).
COLOGNOM: Piccoli ragionamenti
candidati a sindaco di Cologno
sui
5 maggio 2004
Se voti Capodici
gli speculatori di Cologno saranno felici.
Ma che-cazzo-dici?
Guarda chi sta dietro Capodici
e ai suoi amici.
Se voti il verdastro Diaco
Cologno verrà inquinata più di Chicago.
Ma che-cazzo-dici?
Quello è il verde finto che piace a Capodici
e ai suoi amici.
Se voti il ragionier Lo Verso
il bilancio comunale t'andrà di traverso.
Ma che-cazzo-dici?
Quello è la calcolatrice di Capodici
e dei suoi amici.
Vuoi votare l'ex assessore Losi?
Ti riempirà di fesserie a piccole dosi.
Ma che-cazzo-dici?
Quella è la musa ispiratrice di Capodici
e dei suoi amici.
E se votassi Soldano il diessino?
Chi l'espertino del compromessino?
Ma che-cazzo-dici?
Quello fa politica solo in segreto, come
Capodici
ed i suoi amici.
Giovanotti, anziani, sani, malati
lavoratori flessibili, precari, disoccupati
casalinghe, innamorati,
artisti, nonni, impiegati, pensionati
cittadini tutti, da Milan trombati e giustamente
incazzati,
mandiamo a casa i suoi gregari mosci e
riciclati.
21
Basta coi politici del ribaltone e del mortorio.
Votiamo sindaco Beretta Vittorio.
Sette slogan a rimette per fare sindaco
Vittorio Beretta.
1.
Io sono dell'oratorio e voto Beretta
Vittorio.
Io non sono dell'oratorio e voto lo stesso
Beretta Vittorio.
2. Gira a piedi o in bicicletta
e vai a votare Vittorio Beretta.
3. Vuoi pulizia a Villa Casati?
Vota Beretta e i suoi alleati.
4. Che ogni guerra sia maledetta,
a Cologno l'ha detto Beretta.
5.
Un sindaco che coi cittadini decide e
progetta?
Vota subito Vittorio Beretta.
6.
Se alla motoretta preferisci la bicicletta,
vota sindacoVittorio Beretta,
7. La politica dei partiti ti va stretta?
Allora vota Vittorio Beretta!
Contatti/ 5 racconti di Leonardo Conti
Ho conosciuto Leonardo Conti
ad un
convegno
di riviste organizzato dalla
Fondazione Bianciardi di Grosseto nel 2001.
Abbiamo
cominciato
a
mandarci
reciprocamente quello che scrivevamo,
concordando su un punto: la possibile
importanza di una “scrittura clandestina” o
“esodante” o “samizdat”, da entrambi
praticata da anni e da me anche “teorizzata”.
Dallo scambio epistolare a due è nata
l’esigenza di collaborare. Primo passo:
ospitare su Samizdat Colognom alcuni suoi
scritti (5 racconti e un racconto-recensione)
introdotti da un mio commento partecipe e a
volte perplesso.
Leonardo Conti crede ancora nel mestiere di
scrivere; e intende difenderlo dai tic, dalle le
furbizie, dai vizietti degli scrittori e degli
scriventi (quelli in vista, quelli in ombra). Il
primo suo racconto, La Repubblica della
Cartalettera (parodia forse della Repubblica
delle lettere o delle patrie lettere di nazionale
e nazionalistica memoria...) è un bozzetto di
vita di provincia: scava nel sottobosco degli
scriventi poco noti o dei “potenziali scrittori” e
della piccola editoria che parrebbe sostenere
i loro solitari sogni. Il personaggio che
raccoglie confidenze dei principianti è
comprensivo, leggermente più sgamato di
loro, un cordiale fratello maggiore che
vorrebbe evitare delusioni e raggiri ai suoi
simili: Arianna, Roberto, Furio, Danilo, le
“vittime” (consenzienti però). E, senza calcare
troppo la mano, bacchetta il furbetto di turno..
Giallo è il sindacato parrebbe un titolo
tutto ideologico e di denuncia politica. In
realtà
Conti non si occupa troppo di
ideologia: studia i comportamenti concreti
degli individui; e vede che portano
nell’istituzione – in questo caso nel sindacato
(Quale?
Non
importa...)
–
passioni
elementari, vitalistiche. I comportamenti, in
netto
attrito
con
l’ideologia
ufficiale
solidaristica ed emancipativa del sindacato, a
me fanno rabbrividire; ma ammetto che nel
sindacato
si annidano tipi
come il
“calunniatore professionista”, quello che “ci
va duro”, quello strumentalmente nostalgico
degli anni Settanta, quelli che fanno incetta di
permessi sindacali, ecc.). Come nei partiti,
come nei movimenti anche rivoluzionari.
Tollerati o ignorati fino a quando magari non
ne fanno una troppo grossa. Allora fiocca la
denuncia dell’abisso creatosi fra dichiarazioni
ufficiali e pratiche concrete; e scoppia, se la
situazione è favorevole (perché di solito è più
favorevole al silenzio: “il sindacato non vuole
vedere”), lo scandalo. Chi vede all’opera
questi tipi di sindacalisti trae la conclusione:
“il sindacato è morto. O meglio, è giallo”. È
così? Conti a questo punto si distrae con la
“grande pianura che accarezza il capoluogo
toscano” e i ricordi letterari.
In Mio fratello sampdoriano ritorna,
spostato su un piano onirico (ma cosa non è
almeno un po’ onirico in letteratura?) il tema
degli odierni, e più corrotti che in passato,
costumi di editori e scrittori. Bersaglio:
l’editore di “libri a pago”, un ex- scrittore col
suo momentino di gloria (pagato questo),
piccolo rais che spadroneggia sugli aspiranti.
Il tono è leggero.
Fucecchio: un non luogo? È ancora
un bozzetto, ma di degrado: il paese è
diventato “terra di nessuno”. Conti dà voce
alle umoralità viscerali e xenofobe: se la
22
prende con quanti lodano “l’incontro di
culture”, standosene però “in lussuose ville
nel verde”; e ti pone sotto il naso la
“microstoria” del “50enne, molto attivo nel
volontariato, colto a sufficienza”, che ora “si
trattiene a stento dal chiamare i carabinieri”.
Anche in questo racconto, come in Giallo è il
sindacato, Conti tira il sasso e nasconde... il
giudizio: insomma gli italiani (e non solo a
Fucecchio) sono razzisti?
11 settembre 1973 è, invece, una
riflessione sulla morte e sull’ipocrisia che
circonda la morte dei grandi personaggi
storici o semplicemente famosi. Il tocco
leggero è sempre lo stesso: frasi rapide,
battute che lasciano in sospeso un
ragionamento complicato, allusioni. Colpisce
l’affetto con cui disegna il Cile di Allende.
Franco, Vittorio e il postino prende
spunto dall’epistolario fra Fortini, Sereni e
Giudici raccolto in Scritture private. È una
recensione, ma la vena profonda di Conti è
quella del narratore. Il recensore, pur
riferendo puntualmente tutte le notizie
essenziali, di fatto afferra spunti e se ne va
per conto suo, divagando, immedesimandosi
o riconducendoli al suo immaginario
letterario, dominato dalle figure di Bianciardi e
Cassola. Oppure difende una piccola causa
che a lui sta a cuore: meglio scrivere lettere
che usare Internet o incontrarsi. Cosa l’ha
interessato di più di quello scambio di lettere
fra Franco(Fortini) e Vittorio (Sereni)?
L’abitudine consolidata di Sereni a richiedere
giudizi su quello che andava scrivendo, gli
accenni alle beghe editoriali, le lamentele per
il poco tempo libero di cui disponeva. In
genere sono gli eventi letterari ad occupare
l’attenzione di Conti. E Sereni con tutta in
evidenza primeggia nella sua attenzione, pur
riconoscendo a Fortini il merito di essere “il
maieuta giusto”.
La Repubblica della Cartalettera
Confesso che m’infastidisce, in
alcuni scrittori e poeti che ho incontrato più
di una volta, quando sottintendono
d’essersi fatti da soli, come fossero giunti
all’esordio – a suo tempo – e all’odierna
fama grazie a contingenze climatiche.
Invece, ognuno ha avuto qualche santo o
una circostanza avventurata, ovvio: io, ad
esempio, debbo il mio debutto editoriale
ad un convegno cui, fino a poche ore
prima, pensavo non sarei stato presente.
La modestia dovrebbe esserci
compagna, spingendoci a riconoscere il
ruolo ricoperto da terzi. Ma non sempre
accade. Per questo la nostra è la
Repubblica della Cartalettera.
Menzogna e finzione producono
effetti
nefasti,
su
persone
poco
consapevoli – fuor di metafora, fra molti
aspiranti. A tal proposito, ricordo bene
certe parole di Grazia Cherchi, che
assolveva parzialmente chi, circondato da
cattivi maestri e di fronte a miriadi di scelte
editoriali discutibili, pigia sull’acceleratore,
cerca un editore qualsiasi e, in buona
sostanza, cessa di lavorare su se stesso.
Coloro che abboccano alla necessità di
pubblicare prima possibile, diceva (più o
meno) la Cherchi, hanno visto sugli scaffali
molta roba indegna e udito montagne di
stramberie:
quei
potenziali
scrittori
sbagliano, non c’è dubbio; ma un po’
vanno anche capiti.
Per un fantomatico ruolo di potere
che, secondo alcuni, deterrei, ho avuto di
fronte – nel passato recente – quattro
persone il cui scopo dichiarato, prefitto o
già raggiunto, consisteva nell’uscire con
un libro. Storie personali diverse; dissimili i
caratteri e divergenti le strade scelte: ma
uguale l’obiettivo.
Eccole. Un giudizio sui loro operati
mi pare inopportuno. Dia il via alla
lapidazione chi, in tutta coscienza, pensa
si sarebbe comportato in modo opposto,
dentro le loro vite.
• Arianna, una decina d’anni fa, subì
una violenza. Pubblicando, intendeva farsi
la terapia, penso (e mi pare non abbia
funzionato).
Dopo
un
penoso
scaricabarile, qualcuno se ne liberò
indirizzandola a me; ma troppo tardi.
Arianna, dopo tre viaggi a Milano nascosti
a tutti, aveva già pubblicato il romanzo.
Forse, se presa sul serio, avrebbe
risparmiato i 4.200 euro che una sigla
delinquente le ha estorto per un’edizione
piena di refusi e senza alcun editing.
• Roberto l’ho ripreso in tempo,
invece. Si era fatto coraggio e m’aveva
chiesto di leggere i suoi scritti. Poi,
iniziai
a
sentirlo
parlare
pericolosamente di RADIORAI e
svariati siti internet (“Mandateci le
vostre poesie!”). Ignorava l’esistenza di
riviste letterarie. Era stato messo su da
qualche scriteriato, si vede, ma non fu
23
difficile posizionarlo dentro un binario di
massima; dovetti solo dedicargli alcune
pause-pranzo. Persona intelligente, ha
capito. Ora sembra diventato l’opposto.
• Furio, a monte, aveva un
tarlo: diventare scrittore quanto prima,
meglio se entro una settimana. Arduo,
rapportarsi
a
lui.
Contestava
sistematicamente ogni mio parere, che
peraltro era lui stesso a chiedermi.
Nonostante fossi l’interlocutore che
s’era scelto, non mi riteneva autorevole:
metteva tutto sulla competizione, e non
avendo io pubblicato ancora nulla, in
quegli anni, non dovevo sembrargli
prominente. Entrò in un ginepraio di
concorsi, spedizioni e letture in
pubblico. Poi, quando ebbe dato il
primo esame universitario, dovette
pensare d’avermi superato – sapeva
della mia rinuncia agli studi. Togliersi il
saluto fu semplice. Oggi auguro
all’uomo Furio (lo scrittore si accoderà)
un maggiore equilibrio, senza il quale i
capitoli di una vita, e solo in seguito di
un libro, sono fondamenta fatiscenti.
• Danilo ha perso il lavoro di
giornalista, presso una famosa testata
piemontese, circa dieci anni fa. Adesso
si occupa d’altro; non è felice, e non lo
nasconde. È un grande scrittore,
secondo me: la difficoltà di rientrare nel
suo naturale ambiente lavorativo, però,
gli ha teso un’imboscata. E ha finito con
l’andare in stampa con un editore serio,
sì, ma che non è il suo. Invano ho
cercato d’invitarlo ad una sana attesa,
ché il tempo avrebbe lavorato per lui.
Spero non sia tardi, per ricollocarsi sul
sentiero giusto: ma la quotidianità non
lo aiuta, ed io, da solo, posso ben poco.
Se stessi parlando di furbizia, dovrei
però incoronare il primogenito della
cartolaia di Massaruvida, rione di un
comune confinante col mio. Si è stampato
le poesie dal tipografo del villaggio: 300
copie – monocromia, pp. 64 – per 1.000
euro di spesa. Ha poi organizzato due
presentazioni (una nel suo regno, l’altra
nel capoluogo); duecento esemplari
venduti, a cinque euro l’uno, e immediata
partita di giro: chi non avrebbe acquistato
il libro del figliolo della Fedora? Infine, ha
regalato gran parte della rimanenza – e gli
è pure avanzato qualcosa da tenere in
soffitta, ché non si sa mai.
E la mamma? Ne ha beneficiato,
eccome: anche se gli zaini, quest’anno,
sono rincarati del 30%, vende da matti
pure lei.
Giallo è il sindacato
Danio m’aveva salutato; e io
pensavo già a che scrittura trarre dalle
sue parole. Un bel titolo? Eurostar
Piattaforma: fondere l’obiettivo dei suoi
vicini
di
carrozza
al
nome
dell’incastellatura che lancia il treno
veloce. Piattaforme: lui la stava
lasciando per recarsi a parlare con un
bravo regista; i tre sindacalisti erano
attesi dalla loro.
La meta di Danio era riagganciare
la vita di palcoscenico.
Fino a Lambrate, mi disse, il
vagone era stato ostaggio di quello con
più trattative alle spalle. Gli altri due? Di
complemento.
“Nooo! In qui’ ccaso lì ’un si
firma!”
O l’idea, a caldo, scrive noi,
oppure il tempo, forse, sarà galantuomo
con la penna. Quel racconto è rimasto
un’intenzione; per la poca voglia di
scherzare, tracciare meridiani e paralleli
narrativi mi è risultato impossibile.
Meglio fare il cronista.
Mio ex compagno di vicende
teatrali, Danio Tercolon, friulano
toscanizzato, lavora ai piedi del
versante di quei rilievi fiorentini che
permettono già di contare le antenne
dei monti pisani. Non lo vedevo da
anni, e il nostro incontro empolese pochi mesi fa - mi pare, oggi, davvero
destinato, mosso da una serie di
combinazioni. Fui invaso, come da un
fiume, per quasi un’ora.
Sapeva, certo, di un sindacato
succube (i veri amici non si limitano a
trovarti un posto…); ma gli avvertimenti
sono stati surclassati dalla realtà,
grottesca.
Il primo giorno una pertica
umana, dall’occhio grifagno, gli intimò
di scendere da un mezzo di
locomozione interna: era suo. Si
trattava di un delegato, calunniatore
professionista di chi non fa parte della
sua sigla: molti, in seguito, hanno
rivelato a Danio di essere stati messi in
24
guardia sul suo conto da quel
personaggio. Un ragazzo divenuto
operaio a più di trent’anni e con
interessi ignoti - per di più un non
iscritto -: deve trattarsi per forza di un
provocatore!
Sottovoce, qualcuno ammette
che, nelle Rappresentanze Sindacali
Unitarie, uno alto due metri sia d’uopo.
Pare inibisca le deviazioni.
E mi sciorinò tutta la fauna dei
rappresentanti. La “facia de can” del
coordinatore, anche presidente del
Milan Club aziendale: appare di rado;
quando si manifesta ci va duro,
offendendo senza remissione, anche in
pubblico. Il suo vice (juventino, e di
un’altra parrocchia pure nella delega di
rappresentanza) ha sempre in bocca i
nomi dei segretari nazionali del
passato. Per darsi credibilità, si vede: è
delegato dagli anni settanta.
Ancora? Avanti! Ode proteste
furiose per cambi mansione riservati a
iscritti di qualunque canto, ma silenzi
assordanti
quando
situazioni
d’emergenza
coinvolgono
dei
senzatessera; inteso che la quota di
iscrizione al sindacato deve essere
versata solo tramite defalco in busta
paga - non in soluzione unica, annuale,
presso la sede cittadina -: “Segno che
qualcuno ci mangia?”.
Danio non dona il sangue con
l’associazione interaziendale. Fa per
conto suo. È stato richiamato alla
consapevolezza anche di questo.
E poi - continuò - i permessi
smisurati di cui godono, senz’obbligo di
giustificazione? E il fatalismo con cui
hanno permesso la terziarizzazione ingresso di forza lavoro in appalto, fuor
di sindacalese -, coi medesimi incarichi,
stipendio inferiore e solo nella fascia
notturna?
Pensavo non si fermasse più.
Alle corte: non danno l’esempio.
“Ti fideresti, te?”
No, caro Danio Tercolon che
pestasti con me le tavole del Niccolini,
a Firenze, nel maggio del 1987. Non mi
fiderei.
L’ultima - la sentii in piena
tramontana -: perché la sua pensione
matura anche quando si assenta per i
mestieri del corpo, mentre quella del
collega terziario passa da Roma per
raggiungere Milano, con piattaforma o
no?
“Le due facce della stessa
moneta. Come mai il sindacato non
vuole vedere?”
“Perché non c’è più”
Secondo Danio Tercolon concittadino di Carlo Sgorlon, scrittore
e saggista -, il sindacato è morto. O
meglio, è giallo.
Ciao. Ci rivedremo?
Nella
grande
pianura
che
accarezza il capoluogo toscano a
maestro, si aggira ancora, nonostante
la decantata bonifica, qualche topo di
campagna: un paesaggio, insomma,
che sarebbe piaciuto molto al povero
Berto Bellintani, specie quando è quasi
ora di accendere lucerne. Se ci
passate, alzate gli occhi verso le basse
pendici ponentine, tra filari di viti e una
costruzione in restauro - lì, il coraggioso
dottor Carlo Pariani cercò di capire
qualcosa di Dino Campana -: il chiarore
flavo, a volte zafferano o paglierino, che
fa da campitura al brulichio sottostante
non annuncia, purtroppo, il sole
dell’avvenire (lo si veda omni tempore;
e poi è il punto dell’occaso), ma lo stato
delle relazioni sindacali che Danio vive
oltre la collina. Non calcherà più le
scene; ormai passa le sue giornate là,
dove i prati, come nella zona
pedecollinare opposta, si sono risposati
con spianate di cemento e di sassi
artificiali, accostando alcune decine di
vite - non importa con quale contratto.
Mio fratello sampdoriano
Esisterà di certo un termine tecnico per
designare la mia avventura onirica di
stanotte: diacronica, o forse sintagmatica.
Cronopiramidale? Fatto sta che abbracciava
un periodo molto lungo: mesi, anni. Come
prescrivono certe teorie, la storia notturna va
messa su carta appena svegli. Ed eccomi
qui, allora, sui tasti alle sette del mattino.
Situazione classica: ero proprietario e
direttore di una rivista letteraria con casa
editrice collegata. La prima a rimessa, tipico;
l’altra, con tutti i volumi passati e in ponte,
sosteneva il mio ottimo treno di vita e
foraggiava il foglio, che era utilizzato a regola
d’arte, accogliendo un po’ chiunque - con la
25
responsabilità di rubriche, al caso -, nella
speranza che, prima o poi, la mia sapiente
blandizie avrebbe indotto pubblicazioni di libri
a pago. Funzionava: qualcuno ne aveva fatti
anche sette - e pure a distanza, senza
nemmeno un incontro. Non c’era tempo da
perdere: se dopo un annetto il nuovo arrivato
non aveva dato segni d’avvicinamento a una
raccolta d’autore, lo mollavo con le prime
scuse passatemi per la testa, per non
cercarlo più. Amen.
Una trentina d’anni indietro (nel sogno
la mia vita non era così squadernata, ma il
fatto era noto a tutti) i miei versi erano stati
accolti da un foglio importantissimo, che
m’aveva regalato prestigio e, di passaggio,
sganciato 120.000 lire. Dato che il valore
nominale dei soldi è da moltiplicarsi per
diciotto, forchetta temporale alla mano,
calcolate quanto avevo intascato…
Col tempo avevo creato una nuova
accademia, diciamo un castellare, un areale
privato. Un’élite di fatto, autoproclamatasi
tale. Esaminavo e correggevo di persona i
testi destinati alla rivista, senza far controllare
le bozze agli autori - era già abbastanza
ricevere la proposta. Un ladro di idee.
Cadevo dalle nuvole, con chiara affettazione,
se mi confidavano di scrivere anche su altri
periodici: la mia ineffabile spocchia
dissimulava con grosse difficoltà. In
occasione di serate, mi ero autoproclamato
intenditore di dizione: pur essendo a digiuno
di esperienza specifica, esercitavo l’ascolto
preventivo degli attori, a casa mia.
Un’ulteriore parvenza d’autorità: non ci capivo
nulla, a dire il vero.
Per leggere in pubblico le mie poesie,
invece, esigevo in anticipo la lista degli altri
autori invitati. Declinavo le proposte alla vista
di nomi a me sgraditi, ma, in qualche caso,
potevo anche esercitare il diritto di veto,
manco fossi parte di quel famoso consiglio.
Non ho disposto di molti elementi,
stanotte, e anche facendo mente locale adesso - non saprei dirvi perché: ma nella
mia vicenda apparente ce l’avevo coi
bigongiariani. E n’ero convinto bene!
(Davvero strano, visto che mia moglie, quella
vera, nella vita, fa parte di quel novero).
Com’è ovvio, ciò non m’impediva di
mescolarmi a quella famiglia poetica, se di
convenienza. Con sorrisini.
Ai convegni intervenivo anche dalla
platea, interrompendo a mio piacimento:
potevo, o almeno qualcuno m’aveva fatto
credere che ne avessi facoltà. Facevo di tutto
per parere.
Il bello è che, in certi momenti della
storia, realizzavo (io, Leonardo) la mia deriva
immorale. “Ma come sono potuto diventare
un tipo simile?”, mi chiedevo, quasi
osservandomi da fuori, sdoppiato anche lì
dentro, terzo incomodo di coscienza negli
eventi ad occhi chiusi. Che, poi, non mi
chiamavo Leonardo Conti, lì. Né so come;
però noto ora una flebile traccia (unico
contatto col me reale o possibile), a
responsabilità della fede calcistica di mia
moglie - arieccola! -, così forte da essersi
insinuata anche in questa parabola da
guanciale appena trascorsa: mio fratello (mai
comparso neanche per un attimo) giocava
nella Sampdoria, terzino.
Nell’illusione della dormita si è
manifestato anche il Firenze Social Forum.
Aderivo, è chiaro, ma a modo mio (per affari):
banchetto in Piazza della Repubblica. Di
cortei e oriane a spasso per Firenze non
m’accorgevo neppure.
Ma il mio capolavoro era stato un altro,
davvero esemplare. Ci campavo di rendita da
un lustro. Pur predicando bene e
raccomandando a chiunque di non accettare
compromessi con l’industria editoriale, avevo
razzolato male per una volta - una sola, che
volete che fosse? -, cedendo ad un famoso
gruppo, proprietario anche di un gran
giornale d’opinione, i diritti dello straordinario
libro di poesie di un adolescente, mancato
per un male incurabile. Caso nazionale,
soprattutto di vendite. Quanto alla ratifica
culturale dell’operazione, per parare i colpi di
quanti s’erano subito spesi nel rilevare che
ogni ragazzino scrive delle liriche, avevo fatto
inserire l’autore, con la complicità di una
testata autorevole quanto quella che un
trentennio prima aveva fatto la mia iniziale
fortuna, in un’indagine sulla poesia del
Novecento. Il ragazzo, scherzi dell’ordine
alfabetico, s’era ritrovato tra Sereni e Solmi.
Un bel mafioso, eh?
Fucecchio: un non luogo?
Luoghi/Non luoghi? Fucecchio è
uno di essi: dentro e ai margini. Dentro,
perché in una zona ricca - il
comprensorio del cuoio -; ma, per
paradosso, ai margini: a portata di
quattro capoluoghi (Firenze, Pisa,
Lucca e Pistoia, equidistanti) ma
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distante da tutto, fuori dalle principali
vie di comunicazione. Per questo è
avvertita come cittadina isolata: scherzi
della viabilità, capita a tutti i posti
raggiungibili solo con un viaggio
apposito.
La caratteristica fisica del paese
(un su ed un giù) vede accentuate in
negativo le peculiarità descritte spesso,
in punta di penna, da Indro Montanelli che qui nacque. In questa propaggine
occidentale della provincia di Firenze, i
problemi non sono in periferia: la zona
oltre i confini della dignità è una parte
del centro storico, in alto.
Il suo degrado non ha specificità,
nulla lo distingue da centinaia di altri
agglomerati con guai consimili. È da
rilevare,
casomai,
come
già
trentacinque anni fa Piero Malvolti,
grande uomo di cultura e personaggio
di spicco di Italia Nostra, ne
denunciasse l’abbandono (indicando
anche i rischi che, per una discutibile
gestione, stava già correndo il vicino
padule). A chi scrive pare che i suoi
ammonimenti non siano stati seguiti, e
che sia in corso, ora che lui ci ha
lasciato, la classica riabilitazione.
Innanzitutto, bisogna cavarsela
con un bar e un piccolo negozio di
alimentari: non c’è altro.
E poi, l’immigrazione. Quella
interna data dai sessanta ed è già alla
quarta
generazione.
L’esterna,
massiccia, è partita all’inizio dei
novanta. Pochi, i fucecchiesizzati: sono
stati invece gli scarsi nativi rimasti nella
parte alta del borgo a doversi adattare
a ritmi e abitudini di connazionali e
stranieri sopraggiunti.
Spiace dirlo, ma sembra che
l’accoglienza non abiti a Fucecchio. A
meno che non la si voglia vedere nella
settimana
dell’interetnia,
allorché
selezionatissime famiglie di varia
origine preparano ed offrono ricette
tipiche; o riempiamo di senso il lavoro
dell’associazione Popoli Uniti, che ha
sede in piena trincea ma si guarda
bene dall’affrontare alcune questioni
spicce, quotidiane: giù il bandone abbastanza presto… - arrivederci
all’indomani, come le guardie forestali
di una riserva naturale chiusa al
pubblico nelle ore notturne.
La sarabanda ha inizio proprio
allora. Mai avevo visto cazzottate per
auto parcheggiate davanti ai passi
carrabili (a non brillare per educazione
si distinguono anche frotte di italiani…),
o un totale disinteresse per le
elementari regole di comportamento in
occasione, per esempio, di un trasloco.
La trappola della guerra tra poveri,
auspicata da maggiorenti e poteri vari,
è realtà, ha funzionato alla perfezione.
Prevaricare è la regola: credo che,
dopo un soggiorno di un mese nella
zona, l’incondizionato rispetto per il
diverso sarebbe messo a dura prova in
chiunque.
Il fatto è che (si può dire…?) tutto
si basa sulla volontaria abdicazione di
chi ha scelto per mestiere la sicurezza.
Certi atteggiamenti poggiano sulla
certezza di non veder mai passare una
divisa, quale essa sia.
“Occorre tolleranza”, mi disse una
signora coi gradi, un anno fa, durante
un nostro acceso scambio di opinioni moralmente sfalsato a mio sfavore,
perché il codice penale non prevede
l’oltraggio a pubblico cittadino.
Nel suo insieme, inoltre, il paese
sembra davvero terra di nessuno, in
alcune occasioni, vittima di una
singolare amnesia civile. Che le nuove
regole per iscriversi al collocamento
siano discutibili, è un conto: che però il
competente ufficio locale abbia chiuso
per ferie negli ultimi venti giorni validi
per l’iscrizione è grottesco. Altro è che
l’Italia tutta, il 28 settembre scorso, sia
rimasta al buio: altro che il Municipio di
Fucecchio sia rimasto tranquillamente
serrato per l’intera giornata!
Sento tanti bei discorsi, da
persone che dimorano in lussuose ville
nel verde. Il bello è che gran parte di
esse costituisce lo zoccolo duro della
rendita di posizione di cui gode chi
governa Fucecchio da decenni. Facile,
abitando in collina, lodare l’incontro di
culture.
C’è l’onda lunga di tanti successi
elettorali, nonché un margine di
sicurezza, molto esteso, che permette
qualunque apparente distrazione e
tante facili dichiarazioni.
Concludendo? Una microstoria.
C’è un mio conoscente, 50enne, molto
27
attivo nel volontariato, colto a
sufficienza, un impiego sicuro e nessun
bisogno di antagonismi rionali. Le forze
di pubblica sicurezza non gli sono mai
state simpatiche, anche se ha ben
presenti i motivi che spinsero Pasolini a
farci riflettere sulle famiglie d’origine di
poliziotti e dimostranti sessantottini.
Adesso,
in
qualche
occasione,
quest’uomo si trattiene a stento dal
chiamare i carabinieri. È cambiato lui? Il
sistema l’ha introiettato, in qualche
modo? O la coesistenza di usi e
tradizioni, in uno spicchio del centro
storico di Fucecchio, è davvero ardua?
11 Settembre 1973
Non mi abbonerò mai, a Internet. O forse
sì, se mi sarò accorto di essere rimasto fuori
da tutto. Per ora, guardo.
Due giorni fa, in casa di un amico.
“Vieni a vedere…”. Benvenuti nel sito
Mussolini. Un cielo stellato, poi un battito un pulsare. Il Duce è qui, il Duce vive.
Fanno paura anche da morti, si dice.
Quindi, se un tiranno cade, e un pericoloso
simbolo viene a mancare, occultarne la
spoglia è automatico. Non creiamo luoghi di
culto laico. Non facciamo riunire la gente
intorno a una lastra.
Nascondiamo lo Zar e la famiglia: fra
ottant’anni, vedremo.
Non restituiamo ancora il corpo di
Napoleone ai francesi, è presto.
Budapest, 1956. Imre Nagy, condannato
- e eliminato due anni dopo, pare in
Romania. E un funerale degno? Quando
nessuno potrà più uscire dal P.C.I. - il Muro
non ci sarà più.
E gli ex sovrani del Montenegro?
Restituiti fuori tempo massimo.
La statua di Sissi è tornata a Trieste.
Anche lei è innocua, ora.
Non amo le riabilitazioni, giungono
sempre quando uno è sottoterra da un bel
po’. Galileo o Sacco e Vanzetti, non cambia.
Non credo a certi monumenti. Qualcuno
voleva innalzarlo a Bresci. No, spiacente; la
statua, Bresci - che piaccia o no -, se l’è
fatta da solo.
Non mi piacciono i pantheon politici.
Aborrisco i cadaveri fondatori della patria,
gli imbalsamati.
Credo a Nicola Grosa, invece. Passò
anni, dopo la fine della guerra, a
disseppellire i propri compagni, sistemati in
fretta e furia mentre tedeschi e repubblichini
incalzavano.
Rifletto - o almeno ci provo. Meglio il
rituale vichingo inscenato da Hitler per
togliersi di mezzo o chiedere, come fece
Foscolo, di essere sepolto accanto ai grandi
che aveva celebrato coi suoi versi?
Assenza di memoria e ricordanza
pregnante: due facce di un’unica medaglia.
Perché si muore, altro che discorsi.
Finisce tragica per tutti, in terra, nel marmo o in aria, ma solo se si è stati importanti,
pare. Carlos Gardel e Jim Morrison sono
morti, anche se qualcuno ha continuato a
vederli. La famiglia Romanov è mancata,
anche se le figlie sono state rintracciate per
anni: potevano avere così poca mira, i
bolscevichi?
Ma fanno paura anche dopo.
A Milano, sotto falso nome, ha riposato
anche Evìta. Ma pensa. E dire che Peron ha
continuato a vederla anche da morta, ogni
tanto. In un documentario si rivelava come
la seconda moglie, Isabel - una perfetta
imbecille, a quanto sembra -, fosse stata
sottoposta a tentativi di trasfusione di
energia positiva dalla salma di Eva. Stavano
a Madrid, se non ricordo male, e il testo del
filmato informava che il vecchio dittatore,
all’ennesimo tentativo del genere, non
vedeva la prima moglie da qualche anno.
Cioè non la vedeva da morta, da qualche
anno. Inseparabili.
Ancora Milano, ma per me. Nei miei
ricordi c’è via Dante. Era settembre;
guardavo da una terrazza. Da quel paese
sudamericano
lungo,
lunghissimo,
incredibilmente oblungo, giungevano brutte
notizie. Mancavano due giorni alla fine di
tutto, e nessuno lo sapeva. Sotto, sfilava
gente per lui, i suoi, il rame - e per l’amico
poeta Pablo, che sarebbe morto di
crepacuore di lì a poco. Lui aveva rilasciato
a Roberto Rossellini una indimenticabile
intervista, pochi anni prima. Mi piaceva.
Manifestavano per lui - due giorni prima
della fine di tutto.
Poi, sarebbe venuta una finale di Coppa
Davis, facile facile. E si litigò, in Italia: non ci
si deve andare, laggiù; oppure sì, che
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c’entra il tennis, andiamo, e smettiamola di
fare confusione.
È rimasto qualcosa, però. C’è una
ragazza - una nipote - che è diventata
famosa con i libri. Ogni anno, lo stesso
giorno, ne inizia uno: di sicuro non è un
caso; uno scrittore, poi, che vive in Spagna,
nelle Asturie: spesso è in Italia, però, e io
spero di abbracciarlo, prima o poi, perché
mi sembrerebbe di stringere anche un po’
lui.
Troppo spesso, per i gusti miei, viene
qua anche un personaggio che non rivedo
volentieri, invece. Ha gli occhiali, e non
poteva diventare presidente perché non è
nato negli Stati Uniti - ma non ha fatto molta
differenza, questo, si è rivelato un perfetto
Segretario di Stato. Da noi arriva per vedere
il calcio, soprattutto, ma non ho dimenticato,
proprio no, e so chi è la persona ospitata in
quella tribuna coperta.
Sono cresciuto con la musica di un
gruppo che era scappato dal paese più
lungo che largo, trovando asilo qua. Ho
ridiscusso tante cose - tante! -, ma non loro.
Ironizzavo, mi ricordo, sul titolo di una
canzone, Fiesta de San Benito: non
c’entrava nulla, ma non mi tornava, quel
nome, perché non amo quel sito col cielo
stellato e il cuore che pulsa. Scherzavo per
non pensare a quello che gli era successo,
che era già finita.
C’era un segreto di Pulcinella, intanto,
nel paese oblungo. Una tomba. Proibito
anche non proibire, lì intorno, ma tutti
sapevano. Che chi stava sotto il marmo,
con quel nome falso, Eduardo Grove, era
lui.
Franco, Vittorio e il postino
Primo esempio. Caro Franco, poco c’è
mancato che stamattina, venendo meno ai
miei doveri d’insegnante, non ti rispondessi
addirittura da scuola.
Secondo. Caro Franco, ti avrei telefonato,
ma forse la carta serve meglio.
È un discorso vecchio, ma che assurge a
nuova attualità proprio oggi, mentre il
presunto lato epistolare di massa della
comunicazione
telematica
pare
aver
soppiantato la busta. Occorrerà tempo,
invece (del resto, la forma scritta allontanò
l’oralità, a suo tempo): all’alba del nuovo
millennio, carta e penna – ammettendo pure
la variabile della stampa al computer –
rappresentano ancora la forma regina di
prima veicolazione delle idee. Perché si dura
fatica; e dove c’è sforzo alberga la poesia.
Altrimenti, rimarremo ancora, o quasi sempre,
nella forma.
I due incipit di lettera sopracitati, destinati
a Franco Fortini e concepiti da Vittorio Sereni,
distano sei anni (maggio 1952-marzo 1958).
Nel centro dello stesso periodo, Carlo
Cassola – in misura maggiore – e Luciano
Bianciardi intrattengono un notevole scambio
di missive con Vito Laterza, e altri
corrispondenti legati all’editore barese, in
vista e all’indomani dell’uscita de I minatori
della Maremma. Nello splendido volume2 in
cui è stata ricostruita tutta la vicenda di quel
libro-inchiesta, Velio Abati si è chiesto se
quella consuetudine, e la conseguente vastità
del carteggio, sia da attribuire ad
un’efficienza postale “per noi strabiliante”,
dato che il telefono, “unica forma alternativa,
sembra essere assai parcamente impiegato”.
Scritture private, il bel libretto3 che le
Edizioni Capannina dedicarono nel 1995
all’epistolario che Sereni tenne con Fortini e
Giovanni Giudici, pare non contraddire la tesi
di partenza: non è dato sapere, a chi scrive,
quanto abbiano trillato i telefoni, tra quei
personaggi; certo è che Vittorio Sereni (ce ne
occuperemo limitandoci ai messaggi affidati
al francobollo con destinazione Fortini), non
si dette regolate. Le 31 lettere proposte dalla
raccolta abbracciano tre decenni esatti –
l’ultima è della primavera 1982 – e risultano
una scelta, ci informa una nota, delle 77
buste che il poeta di Luino fece partire. Tale
pratica, quando a due persone non mancano
le occasioni di incontro, appare oziosa solo
agli insensibili: se niente può fare le veci di un
incontro, sembra altrettanto evidente che il
sedersi faccia a faccia – e non solo tra
intellettuali, letterati e artisti – serva a
ratificare o puntualizzare ciò che può essere
avanzato e proposto solo per altri tramiti.
Dai contenuti degli invii sereniani all’amico
intellettuale è facile accorgersi che lo
scrivente si affida all’interlocutore in ambiti
2
La nascita dei “Minatori della Maremma”, a cura di
Velio Abati, Quaderni 5, Grosseto-Firenze, Fondazione
Luciano Bianciardi-Giunti, 1998, p. 58.
3
Vittorio Sereni, Scritture private con Fortini e con
Giudici, Bocca di Magra (SP), Edizioni Capannina, 1995.
29
ben più vasti del semplice scambio di pareri o
delle
reciproche
considerazioni
sulle
rispettive opere – o di terzi.
Scorriamoli.
Il 27 maggio 1952, Sereni, dopo aver
chiarito l’atteggiamento tenuto alcune sere
prima (ci si immagina una tavolata di grossi
nomi), passa a rimarcare le sottili differenze
tra “canto” – ovvero la poesia – e “libri”, che
in altri passi sono sostituiti dall’espressione
“cose serie”. Confermate stima e amicizia,
conclude con una felicissima immagine,
sposata ad una considerazione: “[…] bisogna
aggiungere solo che il cavallo Sereni strappa
ogni tanto verso il canto mentre il cavallo
Fortini strappa più volentieri verso i libri. […]
non è una questione d’anime ma, in rapporto
a certe occasioni, di caratteri”.
Sei anni esatti dopo, Sereni inaugura,
almeno per lettera, una pratica destinata a
farsi consuetudine: domandare consigli sul
suo materiale poetico, per alcune perplessità.
Oggetto della richiesta è, in particolare, la
chiusa della famosa poesia in cui s’immagina
la propria morte, Le sei del mattino. Poi,
prima di congedarsi, passa alle consorterie
che dominano il mercato della scrittura: gli
editori, dice all’amico, “si scannano tra loro
persino per un libro di versi, ormai. Senza
accorgersi che quelli che tirano i fili sono
invece d’accordo tra loro”. Pare di sentire, in
anticipo, le parole di Romano Bilenchi, che,
quattro anni dopo l’inizio dell’esperienza di
direzione, insieme a ... i rapporto con la
televisione...Mario
Luzi,
della
collana
“Narratori” presso l’editore Lerici di Milano,
definirà le grandi case editrici “fabbriche di
libri”4.
Un argomento tipico dell’uomo Vittorio,
ovvero il poco tempo libero, fa capolino il 9
marzo 1959. Il Sereni che ci è stato restituito
da decine di interviste, e che esce, quasi
fisicamente, da tanti componimenti – in
viaggio, o desideroso di far ritorno in località
già viste –, avverte che il mondo “[…] si
divide in chi ha tempo (o meglio ne dispone
abbastanza) e tra chi non ne ha (o meglio
non ne dispone). Io appartengo alla seconda
fetta […]”. Il poeta, per l’appunto, è stato
definito fedele “ai luoghi ancor più che alle
4
Dialogo con Bilenchi sul romanzo, in “Quaderni
Milanesi”, Milano, I, 3, 1962, pp. 8-17.
persone”5, uomo che voleva viaggiare,
ancora poco prima di morire, con in mente il
ritorno in molti posti (Ventisei, ad esempio, è
una prosa che nasce dal ritorno in Sicilia,
appunto ventisei anni dopo, per cercare
tracce della sua permanenza bellica in loco);
anche per darsi sofferenza, forse: ma c’è
bisogno di tempo libero anche per infliggersi
quella cosa lì.
Il 4 aprile 1960, Sereni invita Fortini a
svolgere un’inchiesta su televisione e cultura
per la rivista “Pirelli”: della partita è già
Giuliano Gramigna, che sul “Corriere della
Sera” tiene una rubrica di critica televisiva; a
Fortini verrebbe affidata la parte generale. Il
futuro principe dei mezzi di comunicazione
esiste da poco più di quattro anni, ma
qualcuno sta già cercando di guardare oltre
“Lascia o raddoppia?” e Bianca Maria
Piccinino – futura esperta di moda ma, per il
momento, confinata in spazi che la vedono
tenere in collo cuccioli di ghepardo all’interno
di improbabili trasmissioni sugli animali. Oggi
che l’epopea catodica ha celebrato il suo
giubileo e suggerisce per Ettore Bernabei la
canonizzazione in vita – poiché ad un futuro
incerto è preferibile, come in tutte le cose, il
vagheggiamento del pionierismo, e pazienza
per difetti e censure del caso… –, sarebbe
interessante rileggersi e mettere a confronto i
pareri sulla televisione che, quarant’anni fa,
erano espressi da personaggi come Franco
Fortini,
Luciano
Bianciardi,
Giuliano
Gramigna o Pier Paolo Pasolini. Quest’ultimo
insistette sovente sui rischi che l’immaginario
di ogni fruitore avrebbe corso; Fortini, invece,
parve non posizionarsi mai in un canto
moralistico o di difesa della letteratura in
quanto corporazione.
Le sorprese sono relative. Sereni non
conosceva il lavoro a tavolino6; e lo dichiara
anche nella lettera del 25 ottobre 1962. È
come se ufficializzasse ancora, di persona e
prima del tempo, quanto Grazia Cherchi,
5
Grazia Cherchi, Ricordo di Vittorio Sereni, in “Linea
d’ombra, I, 2, estate 1983, p. 187, poi in
Scompartimento per lettori e taciturni, a cura di
Roberto Rossi, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 247.
6
Lo ha appena scritto ne Il silenzio creativo e lo
ribadirà, sedici anni più tardi, in Autoritratto: la prima
prosa fa parte de Gli immediati dintorni (1962), l’altra
de Gli immediati dintorni primi e secondi, edizione
accresciuta del 1983 (entrambi i volumi escono a
Milano, per i tipi del Saggiatore).
30
molto dopo, dirà7 del suo modo di procedere,
informando che la chiusa di Intervista a un
suicida le era stata sottoposta dal poeta un
paio d’anni prima dell’uscita8 e definendo
questa caratteristica “lenti accumuli”. Come
capiterà ancora spesse volte, Sereni si duole
del proprio modo di portare avanti e a
compimento il lavoro (tempi compresi),
ponendosi anche dubbi sulla sua utilità.
Fortini, invece, è connotato come un tenace,
spinto “alla totalità o piuttosto all’organicità”:
persona che non avrà fallito anche senza più
scrivere alcunché.
Pochi giorni, 18 novembre 1962, ed ecco
una nuova lettera. L’attenzione di Fortini deve
stavolta incentrarsi sulle poesie che
comporranno Gli strumenti umani, volume
che uscirà quasi tre anni dopo9. Molte i
consigli chiesti, sia per singoli passi come
sull’opportunità di fare uscire o meno alcuni
testi. In particolare, è sollecitato un parere
sull’inserimento di Sopra un’immagine
sepolcrale; ovvero: Sereni, tra i massimi poeti
italiani del Novecento, apre alle critiche uno
dei suoi componimenti più celebri, quello
delle “lagrime e seme vanamente sparso”.
Una straordinaria lezione di umiltà, per tutti.
Il 20-21 aprile 1963, il poeta si impone di
rispondere, con una missiva lunghissima, alla
corposa corrispondenza fortiniana ancora
inevasa. Si intuisce che, tra i due, è in corso
un gran dibattito: l’oggetto, stavolta, è la
rivista trimestrale “Questo e altro”, cui Sereni
ha dato vita un anno prima con Geno
Pampaloni, Niccolò Gallo e Dante Isella10.
Pare che Fortini non gliene faccia passare
una; e il poeta, chiamato a dissipare le
perplessità dell’amico, si spinge ad affermare
come “Questo e altro” non sia un fenomeno
consolatorio o uno strumento delle ambizioni
redazionali. La lettera è lunghissima; c’è da
scommettere che le tre di Fortini siano state
zeppe di domande e richieste di chiarimenti.
7
Grazia Cherchi, Ricordo di Vittorio Sereni, cit., p.
187, poi in Scompartimento per lettori e taciturni, cit.,
p. 248.
8
Ovvero nel 1963, all’incirca, dato che Einaudi
pubblicherà Gli strumenti umani nel 1965.
9
Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Torino, Einaudi,
1965.
10
Ne usciranno otto numeri, fino al 1964. È giusto
ricordare anche la presenza di Giansiro Ferrata e di una
nutrita pattuglia di giovani: tra gli altri, Piergiorgio
Bellocchio, Emilio Tadini, Grazia Cherchi e Giovanni
Raboni.
È probabile che Franco, nel corso di
quell’anno, abbia chiesto a Vittorio di
formulare una sorta di dichiarazione di
poetica. Ce lo fa pensare quanto Sereni
spedisce l’8 dicembre, allorché sottolinea che
ciò può significare solo “[…] una tendenza o
una tensione del momento” (ma pure che, se
chiamato ad esprimere condizioni d’animo
diverse, lo farebbe senza esitazioni). Come
spesso gli accade, il poeta sembra un po’ in
difficoltà, vestito di panni altrui, quando viene
sollecitato a parlare di sé e delle poesie che
scrive.
Il 30 dicembre 1963, a sera, Sereni si
accorge che è tardi per andare al cinema o
invitare qualcuno. Dunque, si mette a
scrivere. A chi? A Fortini! Tra le righe, pare
leggersi la perplessità di fronte a quanto, da
qualche mese, ha preso corpo col Gruppo ’63
(che comunque non viene nominato):
secondo Sereni, la parola è insostituibile, così
come tono, giro di frase e piega sintattica.
Un salto di quattro anni (10 luglio 1967) e
scopriamo alcuni curiosi retroscena del
Premio Strega. Fortini è messo al corrente
dei tre motivi che, con ogni probabilità, hanno
determinato la mancata vittoria di Raffaello
Brignetti e del suo Gabbiano azzurro – che si
imporrà nel Viareggio, comunque –: Pietro
Citati ha imbucato in ritardo, “e nemmeno per
espresso”, la busta contenente la scheda; un
altro giurato, di cui non si fa il nome, ha
spedito il voto direttamente a casa Brignetti
(!); lo stesso Fortini, infine, non ha fatto
pervenire la preferenza – ma, per una serie di
sottintesi, non è chiaro se sua sponte o per
un disguido postale.
È curioso, poi, come Sereni faccia da
involontario intermediario tra Anna Banti e
Fortini. Accade in due occasioni agostane:
nel ’67, Vittorio informa Franco che la
scrittrice lo vorrebbe in “Paragone”. Due anni
più tardi, invece, lo sollecita a chiarire di
persona con la Banti una situazione che va
facendosi spinosa a causa di una mancata
risposta. Curiosamente (o forse no…),
l’amico ricorda in entrambi i casi a Fortini
l’indirizzo della scrittrice.
A ondate, torna il tema del forte disagio
che Sereni sta provando in Mondadori. Le
righe dell’8 settembre 1967 ne sono un
paradigma: il poeta soffre terribilmente la
propria incapacità di concentrarsi sulle amate
letture – o semplicemente su richieste amicali
– in presenza di periodi di annullamento e
angoscia determinati dalla concomitanza con
31
impegni lavorativi assillanti (e c’è un termine,
“maciullato”, che la dice lunga). Tenta di
darne la colpa ad un eventuale carenza di
interesse o, addirittura, di fanatismo, ma il
primo a non esserne convinto sembra lui
stesso.
Il 27 agosto 1972 (all’improvviso,
potremmo dire, almeno per quanto riguarda il
contesto del carteggio) è Sereni a dare
suggerimenti. Al centro della lettera è Questo
muro, raccolta poetica di Fortini che uscirà
l’anno seguente. Strofe e titoli delle sezioni a
parte, ciò che agita Sereni è un dubbio:
Fortini ha o no affidato al verso quanto
potrebbe essere meglio espresso in prosa?
Non si snatura la poesia, così? Ad ogni buon
conto, Franco può andare orgoglioso del libro
che sarà, secondo Vittorio.
Scritture private, nella parte finale (siamo
già negli Ottanta, al poeta da vivere resta
ormai poco), ospita parecchi dibattiti a due su
autori da rilanciare o far esordire, nonché
alcuni ringraziamenti reciproci. E Sereni, il 14
novembre 1981, definisce l’amico “il maieuta
giusto”; come certificando un ruolo. Se il
punto e virgola, come qualcuno ha detto, è la
sentinella della letterarietà, Fortini, per
decenni scolta (parola che Sereni ha spesso
usato) di lettere e dibattiti, personalità vigile,
attenta, concentrata sul quotidiano, può ben
essere inteso come quel segno ortografico:
una pausa necessaria – più del solito –, per
riflettere e non chiudere ancora. Un punto e
virgola, Franco Fortini: a beneficio di tutti.
PER L’ESODO / Memorie: Danilo Montaldi
Danilo Montaldi, Bisogna sognare. Scritti
1952-1975, Cooperativa Colibrì 1994
L’immaginazione
Montaldi
proletaria
di
Danilo
Sintesi - 1. Notizie sul libro; 2. Storia e
biografia; 3. Temi degli “Scritti”; 4. Sul titolo
degli “Scritti 1952-1975”; 5. I caratteri
dell’immaginazione proletaria di Montaldi; 6. Il
riferimento di Montaldi alla rivoluzione russa;
7. I suoi contatti con la Francia; 8.
L’immaginazione proletaria di Montaldi ha un
suo luogo: Cremona; 9. Montaldi e la cultura
di
sinistra;
10.
Su
alcune
ombre
dell’immaginazione proletaria di Montaldi; 11.
Conclusioni: La mia lettura degli “Scritti 19521975”.
1. Notizie sul libro
Fu pubblicato nel 1994, curato da un
collettivo redazionale composto da Cesare
Bermani, Gabriella Montaldi-Seelhorst e dal
Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano.
Accoglie, ordinati cronologicamente, 104
scritti, vari per lunghezza e genere recensioni,
presentazioni
di
mostre,
commenti di documentari, articoli -, che erano
stati composti da Montaldi fra 1952 e 1975,
anno della sua morte, e fino a quel momento
inediti. Il volume è completato da una
puntuale Cronologia della vita e delle opere
di Montaldi e da un’Appendice con 8
documenti del Gruppo di Unità Proletaria di
Cremona.
Esaminati per anno, gli scritti più
numerosi si concentrano nel triennio 19571959 (rispettivamente 11, 22 e 10). Dal 1962
si diradano e per diversi anni (1963,
1967,1968,1970, 1971, 1973) mancano. Si
tratta di vuoti dovuti ad altri impegni (Militanti
politici di base, ad esempio, è completato nel
1969 e pubblicato nel 1971, anno in cui viene
anche finito il Saggio sulla politica comunista
in Italia). Poco so dell’effettiva circolazione
del volume o della sua ricezione in ambienti
militanti o ufficiali.
2. Storia e biografia
Sarà bene ricordare schematicamente
lo sfondo del periodo storico in cui vive e
opera Montaldi. Si parte dal fascismo; a
seguire,
Seconda
guerra
mondiale,
Resistenza, fondazione della Repubblica, fine
della coalizione antifascista, conflitto di classe
nelle campagne tra 1949 e 1950 - e riforma
agraria -, egemonia della Democrazia
Cristiana, crisi del 1956 nella Sinistra,
miracolo economico (1958-63, con la fuga
dalle campagne e le profonde trasformazioni
sociali dovute all’industrializzazione del
paese), la crisi del luglio 1960 che avvia il
periodo del governo del centro sinistra (195868) e, infine, “biennio rosso” (1968-69) e
strategia della tensione.
Ebbene; se, per comodità d’analisi,
suddividiamo la vita di Montaldi in 4 periodi:
1) la formazione giovanile nel
cremonese (1929 – 1952), caratterizzata da
32
subito in senso proletario e di militanza
comunista;
2)
i
rapporti
extra-cremonesi,
soprattutto con Parigi e con le riviste italiane
(1953 – 1956);
3) quello in cui contatti e ricerche
personali confluiscono nella stesura delle sue
opere principali e nella militanza del Gruppo
di Unità Proletaria di Cremona (1957 – 1966);
4) quello, infine, che va dalla
costituzione del Gruppo Karl Marx alla morte
(1966 – 1975); vediamo dove biografia e
storia tendono ad incrociarsi e come si
delineano chiaramente alcuni punti chiave
della sua figura. A me paiono i seguenti:
- Montaldi è rimasto fedele ad un
nucleo della sua formazione giovanile,
proletaria e comunista. Importanti, in tal
senso, sono le origini della sua famiglia, la
precoce contrapposizione al regime fascista
(maturata anche per la persecuzione subita
dal padre), il rapporto con Giovanni Bottaioli,
suo vero maestro di politica proletaria (1946);
- egli maturò un suo principio etico e
politico di fondo: “stare vicino al proletariato”,
con coerenti scelte di vita e una selezione
accurata (al limite del settario) dei suoi
contatti politici e culturali (questi sì: il gruppo
olandese Spartacus e Socialisme ou
Barbarie, ad es.; questi no: Sartre, Camus, “il
manifesto”, ad es.);
- con il Gruppo di Unità Proletaria e
poi col Gruppo Karl Marx, ma anche
fondando la galleria d’arte Renzo Botti, riuscì
a fare di una certa Cremona dei suoi anni non
un “luogo esemplare” ma, sfuggendo ad ogni
localismo, un punto di transito per “una
concreta attività proletaria, con i suoi
momenti di passione e di crisi”[qui ed
altrove
caporali],
dovunque
essa
emergesse: nelle campagne, a Parigi, fra gli
immigrati della metropoli milanese o in mezzo
alla “nuova classe operaia” emersa dalle lotte
del ’68-’69.
1) Il periodo della formazione giovanile nel
cremonese
(1929
–
1952),
subito
caratterizzata in senso proletario e di
militanza comunista. Non solo sono proletarie
le origini della sua famiglia, ma precoce è la
sua contrapposizione al regime fascista,
vissuta
direttamente
attraverso
la
persecuzione del padre (1941) e la propria
autonomia, che lo spinge a studiare da
autodidatta
quello che gli interessa
(abbandona infatti la scuola dopo la prima
liceo, nel 1946) e ad impegnarsi presto in un
apprendistato politico nel clandestino Fronte
della Gioventù (1944), nella dissidenza del
PCI del dopoguerra e nel fondamentale
rapporto con Giovanni Bottaioli, vero suo
padre spirituale proletario (1946), mentre già
si fa strada la sua passione per la cultura
francese, letteraria e cinematografica (1950);
2) I rapporti extra-cremonesi, soprattutto con
Parigi e con le riviste italiane a cui comincia a
collaborare (1953 – 1956). Il primo viaggio a
Parigi di Montaldi è del 1953: poi,
s’intensificano la collaborazione militante a
Battaglia comunista, a Prometeo[per me va
bene.. nomi di riviste in corsivo], i contatti
con il gruppo
olandese Spartacus e
Socialisme ou Barbarie (1953), l’interesse per
la poesia operaia (1955) e le collaborazioni a
“Ragionamenti”, “Questioni”, “Opinione” e
“l’Avanti” (1956);
3) Quello in cui contatti e ricerche personali
confluiscono nella militanza nel Gruppo di
Unità Proletaria (1957 – 1966). Può essere
considerato il suo periodo della maturità.
L’azione svolta a Cremona con il Gruppo di
Unità Proletaria, in collaborazione (1957) con
il Partito Comunista Internazionalista - ma
anche con altre formazioni
a livello
internazionale -, è la prova della sua scelta
organica di “lavorare coi proletari” (ossia in
posizione autonoma rispetto al movimento
operaio ufficiale). Ma altrettanto organiche
sono altre scelte: una passione per la
bellezza, l’arte e la musica (non “perdere il
senso della musica di Mozart”, nel 1958; la
sua scoperta della pittura di Cosme Tura e
Francesco del Cossa (1962); il suo rapporto
col pittore Guerreschi); non piegarsi al mito
della carriera o della professionalità (il
rapporto di collaborazione, e poi di redattore,
alla Feltrinelli, iniziato nel 1960, si conclude
per sua volontà nel 1962, anche se pesanti
diventano le sue condizione economiche);
tenersi a debita distanza dai luoghi “dove si
elaborano le riviste politiche come opere
d’arte”, svelando tutta la sua insofferenza
all’ambiente intellettuale, e milanese in
particolare (1959, 1962); entrare, invece, in
contatto con gruppi che fanno agitazione
sociale in ambienti proletari (1960); il
consolidarsi del suo legame culturale e
storico con Cremona (“per noi la Lombardia è
quella”, 1963), dove fonderà, nel ’65, la
galleria d’arte intitolata a Renzo Botti;
4) Quello che va dalla costituzione del
Gruppo Karl Marx alla morte (1966 -1975). È
33
un periodo di nuove aperture al clima di lotta
di quegli anni anche sul piano internazionale:
comprende la
preparazione del lavoro
d’inchiesta sulla «nuova classe operaia»
(1974), ma anche il consolidamento culturale
e uno studio più appartato. S’intensifica il suo
lavoro di traduttore (1965), arrivano le
amarezze per i rifiuti della Feltrinelli di
pubblicare il Saggio sulla politica comunista
in Italia (1973).
3. Temi degli “Scritti”
Li suddividerei, anche se spesso
s’intrecciano fra loro, in quattro distinti
blocchi:
1) quelli che riguardano la rivoluzione
russa e lo stalinismo (che trattano la
questione dell’organizzazione di lotta del
proletariato);
2) quelli riferibili al suo rapporto con la
Francia e la cultura, ufficiale e dissidente,
della sinistra francese (si potrebbe parlare di
un “risciacquare i panni della sua
immaginazione proletaria nella Senna”, che
dà slancio al progetto di ricerca militante
perseguito nelle sue opere);
3) quelli legati a Cremona e al
significato culturale e politico, ma anche
intimo e personale, che la città e la sua storia
hanno per lui (e qui si dovrebbe parlare di
radici “mobili” dell’immaginazione proletaria di
Montaldi, attento alle trasformazioni dei
contadini che si fanno proletari, immigrati,
nuova classe operaia o operaio-massa);
4) quelli,
direi ossessivamente
numerosi soprattutto negli anni CinquantaSessanta, riferibili alla critica della cultura
della sinistra ufficiale, italiana e francese
(che è poi critica, per lui, della cultura
nazional-popolare, cioè nazional-borghese,
ovvero
stalinista,
nonché
ipotesi,
complementare e alternativa, di una cultura
proletaria).
4. Sul titolo degli “Scritti 1952-1975”
Trovo il titolo del volume, Bisogna
sognare, che sembra suggerire un Montaldi
dedito ad un costruttivismo assoluto da
“immaginazione
al
potere”,
troppo
sessantottino, unilaterale e equivoco (Già
Baczko, studioso dell’utopia, fece notare che
l’immaginazione era da sempre al potere11).
Nell’immaginazione
di
Montaldi
hanno, infatti, grande rilievo la memoria
storica del proletariato rivoluzionario, i
problemi complicati - e rimasti irrisolti - del
rapporto partito-classe operaia e l’inchiesta
sociale partecipe, profonda (la raccolta di
storie di vita non è un’intervista!), che mira ad
una trasformazione culturale dei soggetti
implicati. E la sua concezione proletaria della
cultura mi pare sia rimasta esterna e ostile
forse ai processi e alle teorie che già si
delineavano nell’industria culturale dei suoi
tempi - e che hanno poi prodotto l’attuale
inflazione di immaginario. Non so neppure
quanto avrebbe potuto condividere l’enfasi
sull’autonomia e la funzione unicamente
creativa dell’immaginario sociale di studiosi
come Castoriadis, Lefort e Morin, pure a lui
vicini e presenti alla sua riflessione.
Non per caso Montaldi riprende
quell’indicazione “Bisogna sognare” dal Che
fare? di Lenin, che mai e poi mai può essere
ridotto a cultore dell’immaginazione sciolta da
ogni vincolo materiale e sociale; e, d’altra
parte, in questi stessi scritti, Montaldi dichiara
apertamente il suo rifiuto di “giocare una
parte di sognatore… suo malgrado” (1956, p.
73)[forse si possono eliminare], distingue il
sogno della sua generazione da quello della
precedente (di un Lombardo Radice), per la
quale “dire la verità era diventato antistorico”.
Egli intende, cioè, che il pur necessario
sognare non si riduca a “un’altra esperienza
religiosa”, ma si accompagni ad un “lavoro
nuovo ad ogni livello”, a “una opportuna
rilevazione
di
dati,
condotta
spregiudicatamente, nella tal fabbrica”, a “una
seria elaborazione della cultura di sinistra su
basi scientifiche” (e siamo nel 1965).
Troppo forte è in lui, infine, il sospetto
per l’estetismo, per i modi letterari di
concepire la vita, la politica e la società,
anche se apprezza il surrealismo (teniamo
presente, però, che in quegli anni siamo
lontani dall’inflazione di quel “surrealismo di
massa” o “snobismo di massa” che Fortini
stigmatizzerà alla fine degli anni Settanta).
11
B. Baczko, Immaginazione sociale, Encicopedia
Einaudi, Einaudi, Torino, 1979, pag.55.
34
5. I caratteri dell’immaginazione proletaria di
Montaldi
L’immaginazione proletaria di Montaldi
(insisto sul proletaria) ha perciò caratteri
storici specifici di quell’epoca. Innanzitutto è
legata ad una realtà sociale dove le
contrapposizioni di classe erano più
verificabili (da chi voleva farlo, ovviamente); e
c’era
davvero
una
classe
operaia
numericamente in crescita e sindacalmente in
ripresa, che s’imponeva anche come
problema culturale all’attenzione pubblica.
Allora forse si poteva davvero sognare con
qualche speranza in più e qualche rischio di
delirio in meno, rispetto all’oggi in cui siamo
immersi in un’enigmatica moltitudine (termine
che so controverso, ma che assumo almeno
per intendere che non c’è più la classe
operaia come la si pensava allora), di cui non
sappiamo se e in cosa sia erede di quella
classe operaia o se sarà invece un suo
surrogato,
sintomo
del
declino
di
un’alternativa di liberazione in dimensione
mondiale.
L’immaginazione
proletaria,
che
emerge in questi scritti, ha dunque una base
reale per tutto il periodo che va dagli anni
Cinquanta al ’68-’69; e Montaldi può
polemizzare con ottime ragioni - da posizioni
quanto si vuole minoritarie ma non fragili con la sinistra e la sua (potremmo dire)
immaginazione
borghese
(patriottica,
stalinista, burocratica).
Essa ha due caratteristiche: non è
individualistica ed è giovanile, vigorosa,
aperta all’utopia. Non è, infatti, quasi mai
solitaria (tranne in uno degli scritti; ne parlerò
più avanti…). Scrive: “mi accorgo che in tutte
le cose che ho fatto ho sempre favorito
l’espressione degli altri, dei vicini, dei
compagni che sono andato a cercare” (cfr.
pag. XXV), e delle prove di questo primato
del contatto cooperativo con gli altri informa
le sue stesse opere, da Autobiografie della
leggera a Milano, Corea, è documentata dal
fittissimo epistolario ed ha segnato le vicende
del Gruppo di Unità Proletaria e del Gruppo
Karl Marx.
Se, come ha di recente scritto Sergio
Bologna, rifacendosi al sociologo tedesco
Hans Speier, “non si è automaticamente
proletari, si vuole esserlo, non si è ceto
medio, si vuole esserlo. Il problema
dell’identità è un problema di abitudini
mentali, che solo in parte hanno a che fare
con “condizioni oggettive”, quantificabili”12, la
volontà di Montaldi di essere proletario
assieme ad altri proletari (un proletario colto,
un proletario che si costruiva le sue basi
culturali nella memoria rivoluzionaria),
bisogna dire, senza cadere in vecchi
determinismi, che essa ha anche una base
materiale reale e specifica. Si potrebbe
affermare che, a partire dalle stesse
condizioni familiari e dai contatti che egli
intesseva sia a Cremona che altrove (e in
quelli che rifiutava…), a lui riesce “più facile”
essere proletario, a differenza di tanti
intellettuali della sinistra del tempo; e quindi
gli riesce “più facile” sfuggire alla lusinga del
nazional-popolare stalinista, scegliere per
maestro un Bottaioli, cioè un ex bracciante e
piastrellista, che un Lukács o un Adorno, non
cadere nell’identificazione partito-classe che
rimproverava ad un Lombardo Radice, ad
una Rossanda, ad un Sartre.
Montaldi, morto purtroppo abbastanza
giovane, pur avendo una memoria da
elefante e avendo digerito altre sconfitte,
innanzitutto quella della Resistenza, è stato
esentato però dal vedere la degenerazione di
tutta la cultura “dissidente” del ’68-69, ma
anche la marcescenza dell’URSS e il trionfo –
imperiale
o
imperialista
–
del
“turbocapitalismo”. Avrebbe ribadito, adesso,
quanto detto nel 1960, confermando quella
sua fiducia nella classe “che sa sempre
riprendere il filo e ricreare la propria
avanguardia, e sa trasformare alla fine ogni
sconfitta in una nuova ragione per
continuare”? Non possiamo dirlo, ma la sua
tenacia e il suo entusiasmo andrebbero
salvati in qualche modo dallo scetticismo
della nostra vecchiaia. Non è detto che
l’immaginazione
proletaria
non
possa
fermentare sicuramente, in altre forme e in
altre lingue, anche nella nuova dimensione
imperiale o neoimperialista.
6. Il riferimento di Montaldi alla rivoluzione
russa
Da questi scritti emerge quanto il mito
positivo della Rivoluzione russa si sia
conservato intatto in lui. Montaldi accoglie
persino nel linguaggio quella che possiamo
definire senza giri di parole una retorica
12
S. Bologna, Per un’antropologia del lavoro
autonomo, in Il lavoro autonomo di seconda
generazione, Feltrinelli, Milano, 1997, pag.99.
35
proletaria, quasi majakovskiana. Tre stralci a
mo’ di esempio: “Violentemente sgomberata
da mani proletarie, da quel macabro
parassitismo “versagliese” (130?); “L’operaio,
anche singolo, che è il prodotto di questa
trasformazione sente soprattutto se stesso
come massa che ha un mondo da
conquistare”(118); “la democrazia esiste ma
là dove le masse proletarie dai milioni di teste
prendono esse stesse nelle loro mani callose
il martello del potere per picchiarlo sulla nuca
della classe dominante” (1955, 54). La
rivoluzione russa sembra poter entrare di
peso nella misera storia italiana com’è
entrata nell’immaginazione e nella stessa
biografia di Montaldi. Egli manifesta più volte
entusiasmo nella possibilità di “ricominciare
tutto dalle fondamenta”, come gli pare stia
accadendo in Polonia o in Francia “presso
quei gruppi marxisti” di cui cerca di portare
conoscenza in Italia (145).
Certo
dà
sostanza
alla
sua
immaginazione con tanti riferimenti teorici e
storici (Lenin, il Partito Comunista d’Italia, la
critica al trotzkismo, il richiamo a Rosa
Luxemburg). La stessa sconfitta della
Resistenza, letta in coerenza col suo
pensiero come “fatto di classe” (1955, 56),
pesa su di lui, ma non gli impedisce di
pensare che la possibile rivoluzione proletaria
debba avvenire nel solco della rivoluzione
russa. Da qui il suo proposito tenace:
“Rimarremo vicini al proletariato, a continuare
nella resistenza quotidiana ad opporci a
coloro che hanno ingannato e tradito gli
operai i soldati i contadini” (1955, 58).
Oggi, in tempo di revisionismo
storiografico e memori dei toni caricaturali e
tragici che assunse quel mito negli anni
Settanta , è fin troppo facile sorridere di
questo insistere di Montaldi sui soviet, Lenin,
il partito.
Le pagine degli Scritti dedicate
all’argomento appaiono sicuramente datate.
Tuttavia sottolineerei la differenza fra le prese
di posizione di Montaldi sulle questioni della
Rivoluzione russa e quella dei gruppi
postsessantottini che pure vi si richiamarono
(differenza che smentisce, mi pare, il
tentativo compiuto a suo tempo da Stefano
Merli di fare di Montaldi, da una parte, il
continuatore del filone socialista e, dall’altra, il
padre spirituale della nuova sinistra italiana).
Il richiamo a Lenin di Montaldi, infatti,
non è mai diventato “leninismo” (cfr. pag.
168). Il Lenin che affiora negli Scritti è quasi
capovolto rispetto a quello che serviva al PCI
di allora e ai gruppi dirigenti delle formazioni
extraparlamentari per imporre “la linea”.
Parlando della questione della disciplina,
Montaldi ricava da Lenin l’insegnamento che
non si deve mai impedire e soffocare la
discussione (1958,168). Oppure sottolinea:
“dice Lenin che il socialismo dev’essere
introdotto nella classe operaia dall’esterno;
ma non dice dall’alto, dice dal basso” (1958,
191). Montaldi poi in questi Scritti lascia
capire che il rapporto partito/masse è
qualcosa di ambiguo, importante e non del
tutto importante. Il partito per lui è una “una
forma contingente necessaria finché esiste la
società borghese” (83), ma scrive anche che
“per gli operai [il partito] è molto di più, e
anche molto di meno”, poiché “oggi gli operai
possono occupare le fabbriche credendo di
farlo in nome del partito ma l’importante,
diceva Marx, è ciò che gli operai fanno, non
quello che credono di fare (83)”. Insomma,
pur datato nel linguaggio, resta il fatto che la
pratica di ricerca di Montaldi mal si concilia
con il pedagogismo da partito o partitino - e
che la sua riflessione si arrestava prudente
di fronte alla schematica riproposizione negli
anni Settanta del partito “rivoluzionario”. Ciò
vuol dire che quel mito non operava
necessariamente a senso unico e che,
dall’esperienza proletaria e sociale, Montaldi
sapeva trarre correttivi per la sua
immaginazione pur così fortemente proletkult.
7. I suoi contatti con la Francia
Il viaggio a Parigi che Montaldi,
ventiquattrenne, compie nel ’53 non è una
trasferta di formazione, ma di consolidamento
dal vivo di precedenti contatti. Poi, di
riconferma del suo
muoversi in una
dimensione internazionale, pur rimanendo
Cremona luogo centrale e vitale del suo
lavoro militante. A Parigi, Danilo legge,
s’informa, vede gente, è attento a certe riviste
francesi del dissenso che pongono l’esigenza
di tornare ai
principi fondamentali del
marxismo: sono posizioni degli anni ’60, forti,
vive e comuni a minoranze che stavano
uscendo dall’isolamento.
L’influsso di quella cultura è senz’altro
determinante in generale; ma da essa
Montaldi seleziona con cura i riferimenti e le
posizioni coerenti con la sua visione.
Apprezza Naville, che “riafferma la validità
della prospettiva marxista” (1957, 131), si
36
conferma nel pensiero dialettico contro ogni
metafisica che vede “da una parte tutto il
bene e dall’altra tutto il male”, estende la sua
critica alla cultura della “Gauche”, sorella
della Sinistra italiana con cui egli già era ai
ferri corti (1956,74), esaminando l’opera dei
“mandarini” (come Sartre, Camus, Jeanson,
Merlau-Ponty) e “prendendo “il partito delle
masse” (75).
Conferma dunque quel suo taglio
proletario d’intervenire nel mondo degli
intellettuali, che a volte è anche posa,
diciamocelo, ma in lui è pratica coerente di
vita, al limite del sacrificio che sempre
comporta ogni militanza.
In questo Montaldi è vicinissimo al
costume morale se non al pensiero religioso
della Weil, di cui riprende, come fossero sue,
le
parole
di
Riflessioni
sulla
guerra:“l’impotenza in cui ci si trova a un dato
momento non può mai essere considerata
come definitiva, non può dispensare dal
rimanere fedeli a se stessi, né scusare la
capitolazione davanti al nemico, di qualunque
maschera si vesta. E sotto tutti i nomi che
può assumere, fascismo, democrazia o
dittatura del proletariato, il nemico principale
resta l’apparato amministrativo, poliziesco e
militare; non quello dall’altra parte, che non è
nostro nemico se non in quanto è il nemico
dei nostri fratelli, ma quello di questa parte
che si dice nostro difensore mentre ci rende
schiavi. In ogni circostanza, il peggiore dei
tradimenti possibili consiste sempre nel
sottomettersi a questo apparato e nel
calpestare, in se stesso e negli altri, tutti i
valori umani per servirlo” (1957,120).
E un altro suo strumento per prendere
le distanze da Sartre è ancora una volta la
memoria: contro il Sartre (‘56?) che “nega
una memoria di classe del proletariato”,
Montaldi, che a quella è fin da ragazzo
legato, insiste sul valore della “memoria attiva
per la quale basta solo un vecchio operaio
per atelier, o la lettura di un vecchio articolo o
un racconto orale, e di cui si è perso il
senso”. Crede al ruolo delle “minoranze
rivoluzionarie” che “esistono dentro e fuori i
sindacati e i partiti, che consapevolmente o
inconsapevolmente cercano di superare”
(84). La memoria è per lui campo di battaglia
(come per noi oggi alle prese col revisionismo
storiografico): si tratta di riconquistarla,
poiché la si è persa. Scriveva nel 1958: “I fatti
storici del passato sono visti come
avvenimenti archeologici, che non ci
appartengono, che fanno parte di qualcosa
d’altro che non siamo noi: la Comune, la
Rivoluzione russa, la Rivoluzione spagnola
non vengono ricordati come fatti delle classi,
quindi continui, quindi impliciti nello sviluppo
della classe, quindi ripetibili in altre, adeguate
forme anche in un avvenire di cui si affronti la
prospettiva;
sono
considerati
come
”passato”, come passato remoto” (1958,190).
Sottolinea poi anche l’astrattezza di
quel pensiero di Gauche che “quasi mai
tende a diventare azione” (75), è una cultura
che “non si fa momento di una politica”, “se
mai la Gauche vuole influenzare solo coloro
che nell’azione già si trovano immersi”, “se
mai solidarizza con certe manifestazioni della
vita proletaria, ma altre più particolari, più
interne, le sfuggono e non le comprende”
(76).
Sarebbe opportuno oggi - fatte le
debite differenze di epoca e di problemi confrontare questo “risciacquare i panni nella
Senna” di Montaldi con altri risciacqui fatti
successivamente
da
quanti
hanno
partecipato ai movimenti del ’68-’69 e del ’77.
C’è da dire che l’ipotesi di abbandonare il
marxismo in Montaldi è del tutto assente,
mentre noi siamo stati posti di fronte a questo
problema. Si può supporre che sarebbe
rimasto estraneo a tutti gli sviluppi che vanno
da Foucault a Deleuze e Guattari, al Negri di
Marx oltre Marx? Non so. Il problema di
quanto abbia inciso il rapporto con la cultura
francese su Montaldi e quanto la sua
immaginazione proletaria si sia difesa dalle
posizioni
dominanti
d’allora
(Sartre
innanzitutto), o quanto
egli avrebbe
condiviso, se non fosse morto, gli sviluppi
“postmoderni” dei membri di Socialisme ou
Barbarie, è una questione interessante,
complessa, ma che non può essere qui
affrontata.
8. L’immaginazione proletaria di Montaldi ha
un suo luogo: Cremona
Ma dove in questi scritti davvero
l’immaginazione proletaria mostra tutto il suo
fondamento materiale e vissuto è nel lavoro
che il Montaldi maturo ha svolto a Cremona,
luogo - ribadisce ancora nel 1965 (in una
37
lettera a Monica Suter) - non felice, semmai
tragico come “quel paesaggio solitario di
lunghe spiagge tagliate dalla corrente del
fiume”, che però è “ un mondo nel quale mi
piace vivere”.
Negli Scritti troviamo importanti
testimonianze di questo legame personale,
politico e culturale: la ricerca su “La Pignone”
(36), Una inchiesta nel Cremonese (1956,90),
I contadini della Valle padana (1958,161),
Miglioli, Grieco e il contadino (1958, 226), il
blocco di documenti su “La matàna del Po”
(1959, 323), La cascina (1966, 433), Quelli
del Po (1966, 442). Sono esempi del
montaldiano e attivo “stare vicino al
proletariato”, in dialogo, attraversando
assieme la memoria, criticando con la
discussione il metodo adottato, sottoponendo
ad
analisi
la
“prefigurazione”,
cioè
l’immaginazione (91), esplorando i “luoghi
dove si fosse manifestata una concreta
attività proletaria, con i suoi momenti di
passione e di crisi”.
Il “gruppo esterno” (97) che a
Cremona nasce è l’eco intelligente (da “linea
lombarda”, politicamente parlando) per quegli
anni, non la scimmiottatura del partito di
Lenin. Così, nel cogliere dal vivo permanenze
e divenire delle forme di vita contadina,
anteriori e posteriori all’industrializzazione
delle campagne, Montaldi può polemizzare
da posizioni di forza con certa letteratura che,
in quegli anni, occupandosi di quel mondo e
dell’immigrazione, era ancora orientata dal
modello neorealistico, ma in modi sempre più
estetizzanti (si vedano le sue critiche a Carlo
Levi e a Zavattini e, per il cinema, la sua
polemica col Visconti di Rocco e i suoi fratelli
(382…). Egli è critico verso le “presunte
immutabili costanti del mondo agrario, il quale
invece come qualsiasi altra realtà storica si
sviluppa, si afferma, entra in crisi, si
trasforma” (201); e si potrebbe vedere nella
sua ricerca un percorso che “dalla saggezza
contadina” va all’“ideologia proletaria” o che
già vede quest’ultima in quello che altri
chiamano saggezza contadina, folklore (202).
La
sua
attenzione
è
alle
trasformazioni del lavoro, che stacca i giovani
dagli anziani e riduce l’importanza della
comunità familiare, per cui “saggezza
contadina”, “dono”, “racconto”, miti vengono
continuamente rielaborati. Tutte da studiare
(ma esula dal mio intervento) sono le due
presentazioni di Autobiografie della leggera
(196) e, quasi in contemporanea, di Militanti
politici di base (199), dove insiste sulla
contrapposizione fra mitologia e storia.
9. Montaldi e la cultura di sinistra
Negli Scritti, la fittissima serie di
considerazioni,
spesso
contingenti
e
frammentarie, sulla cultura di sinistra degli
anni Cinquanta e Sessanta (l’arte, il cinema,
la letteratura), è volontà di contrapporre una
cultura proletaria all’ottica prevalente del
nazional-popolare. Ancora ritroviamo l’empito
tutto giovanile “per una vita proletaria che
diventi pienamente umana” e per un’azione
d’avanguardia, alla quale “una falange di
scrittori-operai deve contribuire, purché sia
illuminata non nostalgica” (62).
Simpatie e rifiuti di Montaldi sono
coerenti con la sua visione e la sua pratica
politica e sociale.
Le preferenze vanno innanzitutto al
grande cinema di Ejzenštein, alla letteratura e
al cinema francesi, che sanno trattare i
personaggi-operai - mentre in Italia non c’è
spazio per “una originale creazione
proletaria” (61) -, alla poesia di protesta (61),
al lavoro delle riviste controcorrente come
“Discussioni” (175) e “Ragionamenti”, alla
raccolta di autobiografie (60), strada che
presto Montaldi imboccherà, non limitandosi
a raccogliere del mondo proletario solo i
documenti “corali”, quindi di sfondo, ma
anche i monumenti, spingendosi dunque
verso una “valutazione letteraria del
documento” (il suo riferimento era, allora, il
Rocco Scotellaro dei Contadini del Sud (61),
un libro di biografie scritte e orali di uomini del
Meridione), alla sociologia, che egli pensa di
usare come disciplina contro la burocrazia
(1958,290)
e
contro
la
letteratura
neorealistica diventata “fregio e ghirigoro”.
Contesta il cinema italiano, di cui parla
come “un mucchio di rovine” dalle quale
spicca la “miseria di piccoli borghesi
piagnucolosi” (51), l’uso regressivo del
dialetto in letteratura, gli “esami di coscienza”
degli intellettuali (bersaglio ancora Lucio
Lombardo Radice, come esemplare di un
“ampio settore della cultura di sinistra”), le
false commozioni “per le riabilitazioni del XX
Congresso”, il “togliattismo come stalinismo
puro” (179), le mitologie del proletariato come
“buon selvaggio”. Completamente ignorate o
snobbate
sono
il
formalismo
della
neoavanguardia
e i raffinati giochi
combinatori
e
fiabeschi
di
Calvino.
38
Impressiona la serie degli intellettuali di
sinistra ufficiale e critica bersagliati da
Montaldi in tutto l’arco che va dal dopoguerra
alla sua morte; e mi risparmio l’elenco o gli
esempi.
10. Su alcune ombre dell’immaginazione
proletaria di Montaldi
In genere, e non solo nella critiche
all’intellettualità di sinistra, Montaldi sembra
condividere in pieno l’idea marxiana che il
proletariato non ha bisogno di farsi delle
illusioni su se stesso, né logicamente di
nascondere o abbellire interessi ed obbiettivi,
e che la critica delle ideologie condotta a
fondo farà del proletariato una classe
perfettamente trasparente a sé stessa. Che
questo poi sia avvenuto nella storia fra Otto e
Novecento non possiamo certo affermarlo. Lo
scivolamento fra reale e immaginario, fra mito
e storia, è costante sia per i dominatori che
per i dominati.
Oggi, dunque, nella rilettura degli
Scritti, terrei più presente la zona d’ombra
che, suo malgrado, Montaldi mutua dalla
visione
marxiana,
ancora
fortemente
illuminista e a tratti positivista. Anche questo
è forse un condizionamento d’epoca per la
sua generazione. Freud (nomino lui per
indicare un simbolo di un atteggiamento più
avvertito di questi problemi) è nominato una
sola volta - e en passant - negli Scritti.
Faccio tre esempi dove, secondo me,
la sua immaginazione proletaria tocca queste
zone d’ombra senza avvertire che, invece di
penetrarvi a fondo, le aggira: contraddicendo,
in un caso, il suo stile profondamente
antiromantico.
Primo esempio: sulla rivoluzione russa
La preminenza che ha per lui il mito
della Rivoluzione russa comporta una
rimozione degli effetti profondi dello
stalinismo, in cui Montaldi coglie fede e
sacralizzazione del partito e del capo. Ma vi
contrappone solo - sottolineo questo solo - la
critica e il metodo scientifico. Non so se
Montaldi potesse condividere l’idea di molti
antropologi che un mito si combatte solo con
un altro mito, ma mi pare che non riuscisse
ad afferrare l’aspetto più oscuro di quella
“religione” stalinista (come invece ha potuto
fare di più un Moshe Lewin, che ha mostrato
quanto l’immaginazione proletaria degli
operai sovietici si fosse,
purtroppo,
“compromessa”
con
lo
stalinismo,
sottolineando come il “tradimento” della
rivoluzione non toccasse soltanto i dirigenti o
il partito).
Montaldi, nel caso dello stalinismo,
era frenato dalla diffusa mentalità dei militanti
del tempo e forse anche delle conoscenze
storiche di allora. Ma in effetti la sua critica si
attesta sul piano ideologico. È soprattutto
polemica contro l’ideologia del nazionalborghese.
L’unico di questi scritti esplicitamente
dedicato a Stalin tocca una questione
davvero secondaria, come quella delle
posizioni di Stalin sulla lingua.
Quando accenna alla“degenerazione”
(159-60) del partito o del sistema sovietico,
Montaldi si ferma a considerazioni generali,
generiche: “La degenerazione del partito, a
giusta ragione, porta oggi il nome di Stalin.
Ma questo non significa che un patrimonio
ideologico come quello bolscevico sia da
dimenticare. Non ci sono mai state garanzie
perché un partito non degenerasse; né ve ne
sono per qualsiasi altro organismo della
classe” (160); e anche i pochi riferimenti a
Victor Serge si fermano all’apologia del
rivoluzionario, non interrogano da vicino
l’esperienza
che
Serge
ebbe
della
involuzione staliniana.
Secondo esempio: “Su alcuni paesaggi”
(1957, 134)
Questo, fra gli scritti dedicati al
cremonese, mi ha impressionato proprio
perché scopre di più una sensibilità romantica
verso un passato perduto (non dissimile mi
pare da quella che rimproverava a Bosio ed
altri), una sensibilità meno “proletaria”, meno
“trasparente”, marxiana solo per uno scatto
finale tutto verbale.
In questo saggio, infatti (inviato per
lettera anche a Fortini, non so se nella
medesima stesura), Montaldi s’abbandona
allo sguardo del promeneur: Se ne va in giro
per la campagna, con un “un piccolo Goethe
rilegato e di traduzione ottocentesca, che
porto sempre con me”, aggiunge (135);
mostra d’essere un conoscitore minuzioso
della storia locale dei monumenti; costruisce
analogie sottili fra le sue letture e l’ambiente
circostante (“aspirazione gotica di certi
paesaggi locali”,137). Sembra, insomma,
affascinato dalla mentalità locale (“la
39
tetraggine
del
temperamento
bassolombardo”), dallo “sfondo pagano” che fa
persistere paure secolari “soprattutto nelle
donne anziane”, copie - dice - di “quelle che
dovettero essere le primitive abitatrici del
fiume” (137).
Qui una predilezione per il “popolare”
(“le preziose notizie trasmesse in tono
paesano ci guadagnano, non ci perdono”,
134) e un’attenzione acuta a “tutto un mondo
patriarcale, militarista, paternalistico e
cattolico che se n’è andato” (142) e ai suoi
residui ottocenteschi lo conducono a
un’esperienza puramente estetica, altre volte
respinta (“Staccatomi dagli amici, mi diressi
da solo verso quel romitorio, che sapevo […]
per poterne fare una privata verifica, e
godermela tutta da solo”, 140; “Né si può
dimenticare la bellezza degli stendardi
feudali” (142).
Siamo nel 1957 e Montaldi ha 28 anni,
si dirà. Ma il gusto per il diroccato e il funebre
(“Le chiese più vecchie, i torrioni, questi
cimiteri, sono le cose da vedere in queste
campagne”,135), rafforzato da commossi
“ricordi di letteratura inglese” (136), frammisto
di pensieri di morte (“e mi ricordava che più di
un anno fa io volevo scrivere qualcosa a
proposito del sentimento della morte che si
ha qui, nelle campagne”, 136), è quello
romantico.
L’attenzione
è
proprio
alle
permanenze dell’arcaico (“E pertanto io ci
passo attraverso a queste enormità di
campagna, come mi capitava di promanarmi
al museo dell’uomo del Palais de Chaillot tra i
monumenti della civiltà africana e oceanica.
Ché questa non è meno Africa e Preistoria di
quella” (138). E non manca l’accoppiata di
amore e morte: la storia della “nobile P.”, una
signora lesbica (141).
Solo a tratti o alla fine rispunta il
marxista, lo scatto materialistico e marxiano,
che dal riferimento alla ““gramezza”
(veramente cristiana) della vita che vi si
conduce (che genera appunto quel
sentimento) passa, come un pistolotto finale
e improvvisato, all’affermazione: “poiché
sappiamo ciò che i proletari sanno: che c’è un
mondo, cioè, che è ancora tutto da
guadagnare” (143).
Terzo esempio: Il rapporto Montaldi-Fortini
Vorrei accennare - anche per una
questione personale di stima e di affetto per
la memoria di entrambi - alla necessità di un
confronto Fortini-Montaldi.
Preciso subito: non è confronto fra un
periferico e uno “scrittore europeo” (come si è
detto di Fortini). Montaldi aveva i suoi circuiti
europei diversi da quelli di Fortini (non
casualmente sartriano).
Sono due figure che, pur sapendo in
contrasto (e gli Scritti mi hanno provato ancor
più la loro distanza), continuo a sentire
storicamente complementari, come se
entrambe contenessero elementi essenziali
della crisi che abbiamo vissuto lungo il
secondo Novecento.
Sono due volti di quella crisi - diciamo
pure -, uno proletario e l’altro piccoloborghese, uno proletkult e l’altro ammantatosi
della “sublime lingua borghese”, l’uno aperto
all’operaismo del ‘69 e l’altro alle controverse
dinamiche dell’intellettualità di massa del ’68.
Ci
sono
pochi
elementi
per
approfondire
questo
confronto.
L’avvicinamento dei due avviene negli anni
Cinquanta-Sessanta. Purtroppo il rapporto
s’interrompe bruscamente. Il carteggio fra i
due è limitato: iniziato attorno al ’55, per
iniziativa
di
Montaldi
che
vedeva
nell’esperienza de Il Politecnico un modello
per sé e i suoi giovani compagni, si conclude
già attorno al ’63, con una lettera in cui
Montaldi rivendica orgogliosamente il fatto di
non frequentare i luoghi “dove si elaborano le
riviste politiche come opere d’arte”,
rimproveramdo così Fortini - cui ha mandato
dei bollettini del Gruppo di Unità proletaria -:
“non ci hai mai rivolto una critica, non ci hai
mai detto che avevi qualcosa da dare, da
scrivere, nemmeno un’indicazione sugli
argomenti da trattare, da sviluppare, non un
indirizzo cui mandarlo…” (Lettera di Montaldi
del 9 marzo 1963 ).
Di fronte alla vastità del processo
d’industrializzazione e massificazione di
cultura e scuola di quegli anni, l’emissione di
polemica, sia da parte di Montaldi che dei
suoi avversari, appare oggi tanto più
esorbitante quanto più sterile. La critica alla
politica censoria del PCI, da una parte, e la
difesa attardata del nazional-popolare,
dall’altra, si lasciava passare sotto gli occhi
l’offensiva capitalista, abilmente condotta
attraverso scuola e mezzi di comunicazione
di massa.
A quei processi, nei Sessanta, si
reagiva con l’opera anarchicheggiante di
Bianciardi, con la difesa e il tentativo di
40
sviluppare la cultura proletaria di Montaldi o
con il tentativo di Fortini di salvare
l’insegnamento del Politecnico ponendosi in
senso
gramsciano
il
problema
dell’organizzazione della cultura dal suo
interno, proponendo una manualistica molto
ben fatta, tentando di elaborare una “scrittura
comunicativa media” (Fortini, 440), sperando
di influire “attraverso il linguaggio negli
strumenti di comunicazione di massa” tentativo dichiarato poi fallimentare dallo
stesso Fortini (“questa idea si rivelava buona
per il Manzoni, non per noi. L’immenso flusso
di
informazione-comunicazione
avrebbe
distrutto
completamente
una
simile
possibilità”, Fort., 440 …). Non si trattava più
questione di censura politica esercitata dal
PCI (tramite Antonio Giolitti) che colpiva
l’opera di Trockij o faceva uscire Serge nella
Nuova Italia, ma era – come dice ancora
Fortini – che le case editrici “diventavano
sempre più organi che veicolano mode” e si
andava formando, anche coi tascabili, un
‘intellettualità di massa, che Fortini chiama “di
secondo rango”.
Di fronte a quei processi tutte le varie
culture della sinistra, sono risultate perdenti o
hanno dovuto in qualche modo piegarsi. Ma
anche l’ipotesi montaldiana della cultura
proletaria non ha retto all’urto.
Anche in questo caso, perciò, penso
che l’immaginazione proletaria di Montaldi sia
rimasta prigioniera del mito, che ha fatto
ombra ad un’analisi più spregiudicata sulla
capillarità e intensità dei processi che
avvenivano nell’industria culturale. Ed è
strano non trovare contributi in proposito da
parte di Montaldi, che pure faceva il
traduttore per Einaudi, Feltrinelli e Mondadori,
ed era implicato in qualche modo in questi
processi dell’industria culturale, subendone
anzi conseguenze sul piano personale. (La
vicenda del rifiuto della Fentrinelli di
pubblicare il Saggio sulla politica del PCI non
è irrilevante andrebbe oggi indagata a fondo).
[lettera sull‘uso della scuola] Come se
egli non vedesse quanto si andasse
preparando e che a noi ci aveva già coinvolto
in pieno.
Perciò,
ritengo
particolarmente
esasperate e forse mal indirizzate le accuse
rivolte a Fortini, specie rispetto alla traiettoria
successiva da lui compiuta fino alla sua
morte del ’94, che è verificabile oggi se si
leggono le sue amare (e anche autocritiche
diagnosi sulla politica culturale tentata in
quegli anni):
“Una volta si pensava che le idee
determinassero delle conseguenze: oggi
il margine delle conseguenze è stato
eliminato nel pluralismo totale, e la
democrazia
delle
idee
è
spinta
all’estremo, come in quelle sette
protestanti dove nel coro ognuno canta
un salmo per conto suo, secondo che lo
spirito detta. Nonm importa la cacofonia,
tanto l’unico interlocutore è Dio. Così
ognuno di noi canta la sua nota, e tutto
finisce lì, nessuno mira alle conseguenze.
Allora quando mi domandano se esista
una cultura d’opposizione, io rispondo:
non esiste, ed è meglio così. Finora la
cultura
d’opposizione
è
stata
essenzialmente una cultura d’opposizione
interna.
Le
uniche
vere
culture
d’opposizione della prima metà del
secolo, paradossalmente, sono state da
un lato quella di origine leninista, dall’altro
quella nazista. Le quali, beninteso, non
hanno alcun rapporto tra di loro e
rappresentano cose diversissime, ma
entrambe sono d’opposizione sul serio, e
prevedono certe conseguenze. Oggi darsi
da fare per una cultura d’opposizione è
ridicolo, perché i temi di quelle che erano
le parti in conflitto sono oggi distribuiti nel
magma dell’informazione-comunicazione
attuale” (Fort,446). ( Fort, Interviste 1952-
94, 446),
Certo Montaldi non si è chiuso come
Fortini nella “sublime lingua borghese” e era
fuori dalla sua logica di tentare dall’interno
dell’editoria, del giornalismo, del mondo
universitario, di contrastare questi processi: il
suo tenersi legato - l’abbiamo visto più volte al mondo proletario in termini concreti ha
significato per lui anche non fare carriera.
L’antiaccademismo (non antintellettualismo,
egli è intellettuale raffinato ma proletario),
che lo distingue dagli altri intellettuali della
Sinistra
(il
convinto
rifiuto
di
professionalizzarsi di Montaldi è un sintomo),
a me risulta sicuramente più simpatico e
congeniale.
Questo restare vicino al proletariato
(ma memore della storia delle lotte proletarie)
41
gli permette di essere sicuramente più attento
di altri alle trasformazioni di quel mondo.
Rispetto ad un Pasolini, ad esempio, è
politicamente molto più agguerrito, evita
perciò il suo populismo; d’altro canto, non
ritengo neppure sbagliato essersi distanziato
anche dal lucaccianesimo o l’adornismo di
Fortini.
Ma - ripeto - questa fedeltà al mondo
proletario ha avuto anche i suoi risvolti
negativi. Certe trasformazioni, proprio sul lato
che oggi chiamiamo dell’”immateriale”, quel
proletariato le ha poi subite, come abbiamo
visto noi in questi oltre 25 anni trascorsi dalla
morte di Montaldi: per fronteggiarle, o
avvantaggiarsene almeno in parte, con quella
cultura proletaria non era più possibile
intervenire.
Questo dobbiamo dircelo, se non
vogliamo abbandonarci al culto amicale. La
“disattenzione”
di
Montaldi
sul
’68
studentesco mi pare sveli una sua difficoltà.
Questi fenomeni toglievano spazio alla sua
visione
proletaria:
l’emergere
di
un’intellettualità di massa era qualcosa di
abbastanza
estraneo
alla
sua
immaginazione, ma la storia successiva ci
dice quanto le nuove figure (movimento del
’77, ecc. ) avessero il vento in poppa,
ambiguo soffio capitalista e postcomunista
(come si è poi detto), e quanto oggi ne siamo
coinvolti. Nolenti o volenti.
La polemica con la Sinistra si è
svuotata, non perché si possa giustificare
quella politica, ma perché anche quella è
venuta meno, si è dissolta. Il tenace
riferimento proletkult di Montaldi è stato fertile
sul piano della sua ricerca, ma oggi
dobbiamo dirci che Autobiografia della
Leggera e Militanti politici di base, per non
ridursi a letteratura, dovranno aspettare che
si sia riaffacciato il bisogno di qualche nuova
forma di memoria, che si possa aver bisogno
delle verità che contengono.
11. Conclusioni: La mia lettura degli “Scritti
1952-1975)
Dopo aver trattato il tema che mi sono
proposto, voglio accennare al sentimento
contraddittorio che ha accompagnato questa
mia rilettura degli scritti di Montaldi. Avevo
conservato di lui in tutti questi anni un ricordo
congelato dalla sua morte e, subito dopo,
dagli strascichi amari e spesso tragici del
periodo di quella militanza politica - che era
stata occasione e ragione del nostro incontro.
L’avevo espresso in questa poesia a
lui dedicata. Mi permetto di leggerla:
Milano, Corea
a Danilo Montaldi
E qui ammutoliti stemmo:
i corpi sfibrati di fatica
le sopraccoperte a fiorami sulle brande
le collezioni di tiepide bamboline
nelle credenze vetrate.
La sterpaglia, i cantieri guardammo
come nuotatori
che all'improvviso restringersi del mondo
spengono sul vuoto d’aria attorno
occhi, cuori e volere
e sprofondano
con la muscolatura serrata
trattenendo in un unico spasimo
persino l'azzurro respirato dai loro padri.
Nel riprendere in mano ora questi
scritti, due fatti mi si sono imposti:
1) il ribaltamento dell’immagine
personale che avevo di Montaldi a causa del
tempo passato: se a me, giovane immigrato e
militante politico di base nell’hinterland
milanese, quando lo conobbi attraverso
alcuni incontri e lo scambio di poche lettere
tra 1973 e 1975, egli appariva un possibile
compagno-maestro-fratello maggiore, oggi mi
sono ritrovato nella posizione del vecchio,
che fa i conti con un giovane e sotto certi
aspetti con la propria giovinezza (la mia). E
mi si è posto il problema di non far pesare
oltremodo questo mio invecchiamento, di
difendere oggi attraverso quella di Montaldi
anche la mia giovinezza - e salvare
criticamente,
però,
quella
dimensione
proletaria presente nel suo/mio “tempo
perduto”;
2) la consapevolezza della fine di
quell’epoca e di una situazione attorno a noi
completamente mutata. Nel passaggio come si dice - “dal fordismo al postfordismo”,
tutto è diventato più “immateriale”, i soggetti
sociali e politici a cui facevamo riferimento
allora sono stati emarginati, altri più indistinti
o “mutanti” li vanno sostituendo; siamo tutti
meno “proletari”, più “intellettuali”, più “ceto
medio” o “moltitudine”. Siamo tutti di fatto più
distanti da Montaldi.
42
Questo profondo cambiamento nel
reale e nel nostro modo di pensarlo mi ha
suggerito di guardarmi da una lettura degli
Scritti solo simpatetica o basata su
un’ottimistica continuità.
Al di là della possibilità di ripresa di
aspetti decisivi del suo stile (un nuovo tipo di
memoria, l’inchiesta fra gli strati del lavoro
informatizzato o fra i nuovi immigrati), il
tentativo che dobbiamo fare è quello di
tradurre, per questo nuovo ceto medio o
neoproletario o moltitudine di oggi, il senso
alto e nobile che Danilo Montaldi ebbe della
condizione proletaria.
9 maggio 2003
43
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SAMIZDAT COLOGNOM