SAMIZDAT
COLOGNOM
foglio semiclandestino per l’esodo
Numero 5
settembre 2002 - settembre 2003
da NARRATORIO GRAFICO DI TABEA NINEO: In guerra
Indice
SAMIZDAT
Pag. 1 La guerra senza gli amici
COLOGNOM
Pag. 3 CONTATTI:Tanja Semenyuk
Pag. 4 COLOGNOSITÀ:Politica e movimenti
PER L’ESODO
Pag. 4 DIARIO
Pag. 12 RIORDINADIARIO: Reliquario di gioventù
Pag. 22 MEMORIE: Su Luciano Amodio
Samizdat Colognom esce in edizione cartacea come supplemento a INOLTRE, rivista edita dalla Jaca Book. È presente anche su
Internet al sito web http: //digilander.libero.it /samizdatcolognom ed curato da Ennio Abate Via Pirandello, 6 – 20093 Cologno
Monzese - Tel. 02.26700095 E-mail: [email protected]
SAMIZDAT La guerra senza gli amici
Prima guerra del Golfo, Kosovo, Afghanistan, Seconda
guerra del Golfo. A scadenze variabili un nuvolone
permanente scatena tempeste. Noi, che li abbiamo, apriamo
i nostri ombrelli (manifestazioni, dibattiti, letture di poesia, email con appelli, bandiere di pace ai balconi). Mai così tanti,
è vero. E capaci d’impensierire qualche governante, di
consigliare qualche tono più alto a La marsigliese di Chirac o
al Deutche über alles di Schroeder, di conquistare una
nomina (tutta simbolica purtroppo!) a «seconda potenza
mondiale». Ma ancora una volta i nostri ombrelli non hanno
riparato le vittime “collaterali” designate e altrettanto inefficaci
sono stati i pochi, anche se più nobili, scudi umani. Nessuno
oggi è infatti in grado di fermare la potenza aggressiva degli
Usa.
La situazione, per chi non voglia illudersi, è scoraggiante.
Trovo in un libro che sto leggendo:«Dopo il 1939 questa lotta
impari sarebbe diventata ancora più disperata, con un
contendente (i tedeschi) armato di tutto punto e l’altro (gli
ebrei) sostanzialmente indifeso. Questa ingente differenza di
forze, semmai, accrebbe il sadismo dei nazisti, che
sostenevano di combattere contro un nemico onnipotente il
quale invece chiaramente non era in grado di proteggersi»1.
Il demone dell’analogia mi suggerisce un paragone in
apparenza arrischiato con l’oggi. Ma riflettiamo: uno
strapotere militare, quello della “democrazia imperiale”, c’è.
Ed è paragonabile a quella di allora anche l’impotenza degli
“ebrei del nostro tempo”, che non sono gli israeliani ma le
popolazioni ora di questo ora di quel paese prese comunque
di mira e quanti (mi va bene il termine in uso di moltitudine)
possono porgere loro per difenderle soltanto un ombrello
simbolico. Che le guerre permanenti d’oggi siano definite
“umanitarie” e vengano condotte in nome della democrazia
(occidentale) e contro “tiranni” (alcuni) e non in nome di una
razza superiore che intendeva eliminare ‘sottouomini’ è una
bella differenza, ma soltanto sul piano ambiguo
dell’ideologia. Restano guerre e non rivoluzioni. Differenza
non di poco. Che siano promosse da élites più o meno
sostenute dalla maggioranza del popolo (anche Hitler lo fu)
svela ancor più il limite e l’ambivalenza della democrazia
«reale», che è governo di élites al posto (= in nome) del
popolo (che le subisce e sempre in minor numero le elegge).
Fossero state d’accordo con le loro élites tutte le
maggioranze popolari degli Stati proclamatisi favorevoli alla
guerra contro Saddam, esse sarebbero comunque
minoranze di fronte alle moltitudini viventi nei vari continenti.
Se queste ultime non fossero impedite anche dalle
democrazie «reali» contro le tirannidi o le ingiustizie del
mondo farebbero delle rivoluzioni, mai delle guerre. Sono le
rivoluzioni, infatti, che pur fallendo hanno preparato il terreno
alle stesse democrazie «reali» di cui oggi sembriamo ancora
contenti. Ma anche molte rivoluzioni – si obietterà – sono
state promosse da élites. Sì, ricordiamo pure la Rivoluzione
Russa e il partito-élite di Lenin. Ma era forse al momento
della rivoluzione un’élites statuale al potere? Quella di Bush
invece lo è. E solo i fascismi hanno fatto le loro “rivoluzioni”
(meglio: controrivoluzioni) spalleggiati da poteri statuali forti.
1
Robert. S. Wistrich, Hitler e l’olocausto, Rizzoli, Milano,
2003, pag.49.
Quindi nessun cedimento alla menzogna in circolazione delle
“guerre democratiche”.
Anche contro queste guerre possiamo pensare ed agire solo
in termini di resistenza. E qui il discorso dev’essere spietato.
Nell’esodo disponiamo per ora di forme quasi primitive per
cominciare a pensarla. Contare sulla Sinistra, e, malgrado le
apparenze, sulla stessa cultura della pace delle Chiese,
compresa quella cattolica, significa condannarsi ad una
resistenza puramente simbolica e pochissimo efficace.
Sinistra e Chiese ci sono. Contano oggi più del singolo e
della moltitudine. Ma, come vediamo, si fermano all’unisono
dove si ferma il Papa, cioè ad una resistenza simbolica e
morale. Già si sapeva – si sussurra ora - che le nostre
manifestazioni potevano ottenere al massimo di apparire in
qualche TV e disturbare per attimi l’ipocrisia dei leader
politici. Già si sapeva che non avremmo salvato né i corpi
degli irakeni, degli afghani, dei kosovari né salvaguardato il
buono della civiltà europea-occidentale. Già si sapeva che,
per non passare per antiamericani, avremmo taciuto con
crescente imbarazzo su dove sta andando tutta l’America
(non solo quella bushiana) e su cosa diventeremo noi
restando di fatto suoi complici. E allora? Che resistenza è
questa?
Il disagio di doversi ridurre ad una denuncia etica (la
bandiera della pace al balcone, la veglia, ecc.) contro una
politica guerrafondaia pratica e simbolica assieme credo sia
diffuso. Esso mi ha fatto rifiutare per la prima volta di
collaborare al numero 8 di ‘QUI. appunti dal presente’, che
Massimo Parizzi e gli altri collaboratori della rivista hanno
approntato nell’imminenza dell’attacco Usa all’Irak. (Vedi
Diario 11 marzo e sgg.). E il mio disagio e il mio dissenso
sento di renderli pubblici anche adesso, dopo la lettura del
numero, estendendolo a quasi tutti i contributi raccolti.
So che nel dibattito pubblico sulla guerra ‘QUI. appunti dal
presente’ conta poco. E ancor meno ‘SAMIZDAT
COLOGNOM’. Eppure non per il gusto della polemica col
vicino, mi sembra necessaria la critica di questo numero di
‘Qui’. La rete amicale che le nostre rivistine raggiunge,
registrando
desideri, paure, idee e orientandone
l’elaborazione può diventare uno dei rari luoghi di
organizzazione di una resistenza adeguata al mondo reale
in cui siamo stati ingabbiati o di autoconsolazione o di
divagazione. Ecco perciò le mie osservazioni.
Il materiale selezionato da ‘Qui’ N.8 è la prova che il
quotidiano non ci darà mai gli strumenti necessari per capire
e reagire con tutte le nostre forze ad un evento come la
guerra. Il quotidiano ha una sua ricchezza espansiva, ha le
sue normalità e eccezionalità. Ma la guerra lo sovrasta,
assoggetta le sue costruzioni (sentimenti, rapporti di lavoro,
esperienze, memorie): ne svela la subordinazione implicita
alle scelte del potere. Ricorrere all’esperienza quotidiana per
avere strumenti validi per pensare e fronteggiare la guerra
rischia di far diventare il quotidiano oppio, ovatta, paraocchi.
Il quotidiano (almeno quello dinamico, espansivo, non
arroccato e autocompiaciuto) va difeso, ma guardando bene
in faccia il potere che lo minaccia. E solo uno sguardo
politico può far questo.
La descrizione partecipe, costante o episodica, degli effetti
che l’evento guerra in Irak produceva nel quotidiano di chi ha
scritto o ha tenuto il diario proposto dalla lettera iniziale di
Parizzi ha rivelato tic, impressioni, umori, pensieri immediati
o letterariamente elaborati, ma quasi nulla della realtà della
1
guerra voluta da Bush contro l’Irak e contro il resto del
mondo. Così non ci si affaccia sull’orrore che gli altri
preparano a mente fredda. Né questi scritti mostrano
qualcosa di più ‘autentico’ di quanto ci hanno nel frattempo
propinato i mass media. La chiacchiera al mercato del
gruppo di signore in procinto di partire in vacanza per l’Egitto
e timorose che lo scoppio della guerra la disturbi (p.11) non è
più autentica di una cronaca dall’ospedale di Zeinb Haeed
tratta da un giornale (p.70).
L’intenzione iniziale della rivista di «escludere quello che
della guerra viene già detto ‘in pubblico’ non solo dai giornali
e telegiornali» non è stata poi neppure rispettata. Da pag. 39
a pag. 83 (e cioè da 21 marzo al 14 aprile 2003, nei giorni
“caldi” della guerra in Irak) una colonnina di notizie tratte da
“la Repubblica” e “il manifesto” (giornali meno infidi, ma
giornali) fa da contrappunto ai commenti diaristici dei
collaboratori. Ed è un po’ comico venire a sapere che accesi
contestatori della Tv siano finiti essi pure inchiodati davanti
alla malefica macchina. I collaboratori di ‘QUI’ non hanno
potuto fare a meno di star dietro alle notizie “inautentiche” di
giornali e TV. Inevitabilmente del resto, perché – e questo è
un vuoto drammatico - non abbiamo più fonti nostre a cui
attingere informazione pulita, nessuno può pensare sul serio
di diventare eremita e il nostro quotidiano, anche a
spremerlo, non ci dà il quotidiano di guerra delle vittime e
degli aggressori. Dobbiamo per forza passare attraverso la
materia prima e infida dei mass media (strumenti del potere)
e rielaborarla a fondo e criticamente (unica via per non
farsene complici). Invece essa, è da ‘QUI’ selezionata col
gusto del ‘frammento’. Poco svelano però microeventi (o
frammenti), se non ci si ragiona sopra, se semplicemente ci
si limita a montarli, sia pur con buon gusto letterario. Così
viene agevolata la lettura curiosa, ma non la riflessione. Il
frammentismo di voci incomunicanti, che domina oggi nella
Babele non-comunicativa riecheggia purtroppo anche in
‘QUI’ (e fin dai suoi inizi). Siamo di fronte certamente ad
«appunti dal presente», ma uno può appuntare anche cose
insignificanti (o si spera che comunque il tempo le
trasformerà automaticamente in perle preziose e cariche di
saggezza?). La conseguenza di questo stile (di questa
scelta) è che anche interventi più meditati, non essendo
interrogati a fondo (se non forse dal direttore di ‘Qui’ e a
volte), si sperdono in mezzo a quelli più impressionistici e –
diciamolo pure - banali.
Una seconda osservazione. L’oscillazione fra guardarsi il
proprio ombelico quotidiano mentre sussulta sotto la
pressione del clima guerrafondaio e lanciare ogni tanto
un’occhiata nervosa o speranzosa all’esterno, afferrando
quel che si può afferrare, è penosa e inconcludente ed è
segno della nostra attuale impotenza. Da qui dovrebbe
partire una riflessione, che invece, in ossequio al
frammentismo, fa sempre e soltanto capolino o è impacciata
dallo stile compiaciutamente “letterario” che caratterizza vari
pezzi di ‘QUI’. Questo stile evita le rigidità della vituperata
“ideologia”, del “politichese” e la lunghezza esasperante di
certi documenti o saggi d’antan, ma non dimostra una
maggiore vicinanza alla realtà (e credo neppure alla bellezza
o alla verità) smarrita dal politichese e dal filosofese. Anche
la letteratura può diventare, infatti, come la farina in cui
vengono messe a spurgare le lumache: queste si liberano
delle loro scorie, ma non lasciano il meglio di sé in quella
farina. E nella “farina letteraria” di QUI trovi parecchio di
umorale, confessionale, deamicisiano, cervellotico.
Concludendo. Se vogliamo che le reti amicali che le riviste
riescono ancora a raccogliere non ricamino sulla guerra
permanente che ci viene imposta, dobbiamo dirci che è
tornato il tempo di una verifica dei poteri (o almeno dei
micropoteri) anche da parte degli intellettuali che fanno
queste riviste. Su un tema come la guerra non si può partire
da “sé”, dalle “sensazioni” che uno prova durante la guerra in
Irak. ( e alla prossima cosa faremo?). Uno legge, legge, e si
chiede: ma quando arriva al sodo? E al sodo ci arrivano in
molti in questo n.8 di ‘QUI’ Ma esso è il nostro “sodo
quotidiano” e neppure quello più dinamico e aperto, ma
proprio quello più grigio e rinserrato in sé.
Propongo qui un elenco di frasi scelte dal numero 8 di ‘QUI’
che a mio avviso lo esemplificano. Ciascuna richiederebbe
una analisi filologico-politica per decidere se con questo
bagaglio di pensieri riusciremo a fare di più contro le
prossime guerre:
«astenersi, sulla guerra, da analisi politiche, economiche,
ideologiche, ecc.» (p.7); «non ho il tempo concesso dalle
antiche guerre posso solo raccontare che mia figlia ha detto
mamma voglio fare anch’io un cartellone per la PACE»
(p.14); «non mi riesce di fare altro se non elaborare
‘letterariamente’ il fatto guerra» (p.17); «tra i più sensibili
interpreti del presente troviamo non un politico in senso
proprio ma un vecchio pontefice ammalato» (p.23); «noi
dobbiamo manifestare, come i fiori e il cielo» (p.25); «La
Comunicazione ci parla le parole in bocca» (p.26); «la mia
casa si è fatta sempre più confortevole. Ed è cresciuta la
paura di perderla» (p.31); «Era bello vedere contrapporre alla
guerra, non qualcos’altro di truce, ma bandiere arcobaleno
p.47); «Non è vero che i popoli si liberano da soli o non si
liberano; la storia insegna che in tantissime circostanze sono
stati decisivi gli appoggi, gli aiuti, l’arrivo dei ‘democratici’»
(p.67); «dobbiamo essere più antiamericani, di più… sul
piano simbolico, sul piano della nostra vita americana
interiore» (p.68); «Saddam è finalmente caduto» (p.70);
«Milano è esplosa di colpo grazie alle bandiere, con una
fioritura… che corrispondeva evidentemente a un bisogno
segreto e profondo di bellezza e luminosità, o meglio di
bellezza tramite luminosità» (p.93)
È il modo di pensare della moltitudine su cui mi vado
arrovellando? Non credo. Si tratta di popolo, di ‘popolo di
sinistra’, di discendenti dei Fratelli amorevoli (a cui
aggiungerei anche molte Sorelle Amorevoli) di cui parlò
Fortini2. E mi dispiace ammetterlo. Mi dispiace riconoscere
che una rete amicale come questa raccolta attorno a ‘QUI’,
consapevolmente o inconsapevolmente impolitica, non possa
pensare a costruire una resistenza politica. Eppure è ad essa
che, anche restassimo isolati, dobbiamo attrezzarci. L’esodo
o sarà politico o non sarà.3
2
F. Fortini, I Fratelli Amorevoli, in Insistenze, Garzanti, Milano,
1985, p.270
3 Spunti vicini a questa mia esigenza ho colto in due soli degli
interventi di ‘QUI’ n.8: nella e-mail di Chiara Maffioletti, Milano, 14
aprile (p.78); nel pezzo di Andrea Inglese, Parigi, mercoledì 23
aprile (p.103) e in questo passaggio di una e-mail di Lidia
Campagnano, Roma, mercoledì 16 aprile: «Quando dal
bombardamento si passa all’occupazione…., allora soltanto la
politica in senso proprio, cioè uno sguardo che definisce il
2
COLOGNOM CONTATTI : Tanya Semenyuk
L’appuntamento è al parco (un piccolo campo sportivo,
scivoli e altalene per bambini) stretto fra Via Dall’Acqua e
Via Neruda. Mi avvicino alla panchina dove lei è seduta
accanto alla vecchia in carrozzella, la novantacinquenne Ines
Temi, di cui Tanja è da circa un anno la badante. Altre due
giovani donne, bionde come lei, si accomiatano al mio
arrivo. Sono amiche di Tanja, vengono anch’esse dalla città
di Zaliscike (regione di Ternopol, in Ucraina) e fanno lo
stesso suo lavoro, una a Cologno, l’altra a Milano.
Zaliscike, mi informa Tanja parlando con una cadenza lenta,
è una grande città industriale: di circa 2 milioni di abitanti e si
trova su una montagna: «c’è tutto: fabbriche, scuole,
università». Lei non ha conosciuto la vita in campagna, è
nata proprio in città e vi ha studiato diplomandosi come
infermiera. Né ha viaggiato molto: è stata a Mosca da
bambina, ai tempi dell’Urss, in gita scolastica a vedere, come
d’obbligo allora, la Piazza Rossa e il mausoleo di Lenin. Ha
lavorato per dieci anni nell’ospedale di Zaliscike e poi è
venuta in Italia, perché lo stipendio era troppo «piccolo»,
equivalente a 50 euro d’oggi; ma, quando ha deciso di venire
in Italia due anni e mezzo fa valeva la metà: 25 euro.
Qui, a Milano, erano già arrivati prima un suo zio e una
cugina, che l’hanno chiamata. Non aveva nessuna notizia
dell’Italia. Per lei era come se non esistesse. È giunta in
pullman, rivolgendosi ad un’agenzia di Zaliscike, che le ha
preparato documenti e visto (e che provvede ora anche a
recapitare i soldi che lei manda a casa). Il viaggio è durato
ventiquattro ore e le è costato 80 euro. (Suppongo che sia
partita clandestina, senza documenti e avrà dovuto pagare
molto di più). Attraversata l’Austria, il pullman ha fatto sosta a
Venezia e poi a Milano. Tanja mi nomina subito un
riferimento importante per lei a Milano: «la nostra chiesa
ucraina», cattolica e non ortodossa come io credevo. È
infatti cattolica dalla nascita e mi dice con decisione: «In mio
paese tutti cattolichi… Il Papa è nascito vicino a mia città, a
Kracov…». Nei primi giorni a Milano è rimasta impressionata
dagli abiti della gente più eleganti di quelli a cui era abituata.
Ha girato per Piazza Duomo, per il parco dietro al Castello
Sforzesco e in altri posti, dove torna adesso la domenica con
le sue amiche: «Andiamo all’Idroscalo a riposare…Andiamo
a mangiare ai Mc Donald’s». Dove si spende di meno,
aggiungo. E lei ride. È affascinata da Milano 2, che ha
potuto visitare perché ci lavora suo zio. Ha fatto anche
conoscenza con altri immigrati, ma tutti provenienti dall’Est:
della Moldavia, della Romania, della Polonia. Non ha mai
avuto problemi con la polizia: l’unica volta che è stata
fermata, aveva già il permesso di soggiorno regolare.
L’italiano lo sta imparando a forza di parlare con la gente che
incontra e guardando la televisione. Si segna le parole
sconosciute e poi le controlla sul dizionario italiano-russo.
Alla Tv guarda tutto, poche volte i telegiornali. Gli piacciono i
film e le trasmissioni di giochi. Non le trovi un po’ sceme?, la
provoco. No, mi risponde decisa. La infastidiscono solo le
interruzioni della pubblicità. Frequenta la chiesa che sta nei
momento, e i compiti, e le parole d’ordine, astraendo dalla
quotidianità [sottolineatura mia] può dare forza» (p.85).
pressi della fermata Zara del metrò, dove i preti parlano
«nella nostra lingua».
Il lavoro l’ha trovato dopo una quindicina di giorni dal suo
arrivo e finora non l’ha mai cambiato. Dalla gente si sente
trattata come «straniera». Insisto a farmi raccontare qualche
episodio, ma mi risponde «non lo so». Con nonna Ines, che
ha quasi 95 anni e non riconosce quasi più neppure le
proprie figlie e i nipoti dice di trovarsi bene: «Lei tutti i giorni
dorme così…». In casa Tanja la deve trascinare e sostenere
sotto le braccia per portarla a fare i suoi bisogni. E nel
frattempo stira, fa pulizie, prepara da mangiare e cuce. Poi,
ora che è estate, tutti i giorni porta nonna Ines in carrozzella
in questo parco, dopo essere passata per il cimitero qui
vicino. Dice di non annoiarsi. Le piace leggere e scrivere
lettere ai suoi. Sua madre le fa arrivare i giornali ucraini. Lei
legge anche romanzi «d’amore». Qualche nome di scrittori?
Non ricorda. Poi, dopo un attimo, mi nomina Gorkij, Puškin,
Tostoj, Dostoevskij: sono i libri che sua madre le fa arrivare.
Si dichiara religiosa, si è sposata in chiesa e mi dice di non
mangiare carne il martedì e il venerdì e che il suo bambino –
ha un figlio di otto anni, Roman - si sta preparando per la
prima comunione («questo prendere il vino e il pane»).
Ha una grande nostalgia del suo paese. Il marito era andato
in Portogallo, dove ha lavorato come saldatore per tre anni.
Poi si è ammalato ed è tornato a casa, a Zaliscike, dove
continua a lavorare come saldatore in un auto service. Ad
agosto andrà a vederli «per una mezza vacanza». Li sente
per telefono tutti i giorni. Il bambino aspetta regali («Mamma,
quando portare borsa, caramelle, biscotti…»), ma ieri le ha
detto anche: «Mamma, quando torni a casa, voglio
vederti…». Sono due anni e mezzo, cioè da quanto è venuta
in Italia che non lo vede. Solo ora che ha un regolare
permesso di soggiorno, può tornare in Ucraina senza
rischiare di non poter più espatriare. Pensa di lavorare in
Italia ancora un anno o due e di tornare poi a Zaliscike per
riprendere a lavorare in ospedale. Coi risparmi di questi anni
inviati a sua madre, ha potuto comprare una nuova casa.
Adesso deve sistemarla, cambiare mobili: «bisogna ancora
lavorare», dice con voce pacata e bassa.
Della situazione in Ucraina mi dice (ne ha parlato di recente
con sua madre) che è migliorata rispetto a tre anni fa,
quando le fabbriche erano state chiuse e i lavoratori erano
rimasti senza stipendio. La gente è sopravvissuta ritornando
a coltivare ortaggi in piccoli giardini. Tanja ha deciso di
emigrare, quando ha visto che per otto mesi di seguito il suo
ospedale non le aveva potuto pagare lo stipendio. L’ospedale
era rimasto anche senza medicinali. Vi erano ricoverati
reduci della guerra in Afghanistan e dell’incidente della
centrale nucleare di Chernobyl (1986). Oggi la situazione a
lei pare meno pesante: l’ospedale riceve rifornimenti
periodici di medicinali dal Canada, dall’Austria e da altri
paesi. Le chiedo perché ha voluto fare l’infermiera e non la
maestra, come voleva sua madre. «Mi piace questo»,
risponde. Mi racconta anche che, proprio nel suo primo
giorno di servizio come infermiera nel reparto di oncologia, la
ragazza che le era stata affidata per la chemioterapia è
morta. Aveva appena ventitre anni ed era malata di un
tumore al cervello.
Sua madre è stata operaia di fabbrica. Suo padre ha fatto
l’autista di pullman. Quando è rimasto senza stipendio, ha
trovato da lavorare come operaio in una stazione ferroviaria.
Prima, mi dice, suo papà era comunista, come tutti in
3
Ucraina («per lavorare, vuoi o non vuoi, padrone ha detto:
tutti comunisti»). Adesso tutto è cambiato. Dove c’era la
statua di Lenin, hanno posto quella di Shevscenko, un poeta
ucraino dell’Ottocento Nelle scuole non è più obbligatorio lo
studio del russo e viene insegnato l’inglese. Tanja pensa
che prima si stava meglio: «Adesso tutto costa tanto». È
sempre sua madre a tenerla aggiornata sull’aumento dei
prezzi: «pane, zucchero, pasta, riso, olio costano di più».
Prima con gli stipendi dei suoi genitori potevano comprare
gli alimenti necessari e anche i vestiti. Adesso no: gli stipendi
di sua madre e di suo marito e la pensione di suo padre non
bastano e lei deve aggiungere 100 euro.
COLOGNOM COLOGNOSITÁ
POLITICA E MOVIMENTI
Caro Michele e cari compagni del CSF (Cologno Social
Forum), anche se non appartengo più né ad un partito né ad
un’associazione, posso intervenire sulla questione delle
commissioni di studio che dovrebbero curare il programma
del centro sinistra alle elezioni del 2004 e sulla vostra presa
di posizione? Credo di sì ed ecco, ridotta all’osso la mia
opinione: la cosiddetta dialettica fra partiti e movimenti
andrebbe spogliata dall’eccessiva retorica che la ricopre.
Troppo spesso è stata ridotta a bassa concorrenza fra le
locali élites intellettuali (il termine non è dispregiativo…):
alcune favorevoli all’intervento nelle istituzioni (a vincere in
sostanza le elezioni per poter amministrare la città) e
dispostissime a “sporcarsi le mani” nei meccanismi di solito
perversi della vita di partito e del Consiglio comunale; le altre,
minoritarie, intente ad insistere sui bisogni sociali,
sull’autorganizzazione dei lavoratori e dei cittadini. Ciascuna
di esse (compresa la vostra) ha la sua brava ideologia (una
riforma attraverso il «confronto democratico», un
cambiamento dello «stato di cose presente» attraverso la
«presa di coscienza» delle masse), i suoi riferimenti nazionali
o internazionali (maestri, leaders), un certo radicamento fra
la gente in carne ed ossa che vive su questo territorio, i suoi
rituali associativi. Partitisti e movimentisti di sinistra hanno un
limite comune: sono talmente fiacchi sul piano di una vera
cultura politica e sulla conoscenza di come stanno realmente
i rapporti tra i vari gruppi sociali operanti direttamente o
indirettamente su questo territorio (perché non è necessario
abitarvi per indirizzarne e condizionarne lo sviluppo o il
degrado) da non riuscire a produrre alcuna vera egemonia
né sugli elettori né su quei cittadini e quelle masse (spesso
soggetti fantomatici e identificati con quei minimi segmenti
della popolazione con cui si viene in contatto in qualche
circostanza in una scuola o in un quartiere). Questo deficit di
egemonia (non solo locale) produce frustrazioni e
aggressività. Di conseguenza, si innalza la polemica nei
confronti di quelli ritenuti “più a destra” o “troppo a sinistra”, si
autoglorifica il proprio operato, si svilisce quello altrui. Se il
risultato, come voi scrivete, è «uno scollamento tra ceto
politico bolognese e cittadinanza», dovreste riconoscere
onestamente che esso non riguarda soltanto i partitisti, ma
anche voi, i movimentasti. Voi dite che la diffidenza verso i
partiti «è sana e va coltivata». Ma basta? Un movimento vero
e potente non può accontentarsene. A me pare che voi
riconosciate ai partiti ( a questi partiti) il “vecchio” compito di
governare o di gestire quella cosa “sporca” che è il potere ),
alla quale essi «ambiscono» e i movimenti no (come voi
dite), e ritagliate per questi ultimi un semplice posticino di
controllori di «chi è stato eletto». Ma, scusate, allora i
movimenti che ambizioni hanno? Quella di controllare in
eterno i partiti «portatori di una visione d’insieme», pur
sapendo che, anche quando è espressa in programmi
elettorali, non è mai davvero rispettata? A me questa visione
pare subordinata e masochista. E può coprire, inoltre, una
sfiducia profonda, come se i movimenti mai potessero
produrre davvero «un salto di qualità», essere cioè in grado
di far loro politica a tutto tondo e dovessero limitarsi – quasi
fosse un destino - ad essere i controllori della brutta politica
dei partiti. Questo destino voi pure lo negate, affermando che
può essere contrastato «solo se i movimenti e la società
civile si rafforzano strutturalmente». Bene. Ma non ci si
rafforza «strutturalmente» mantenendo «nei confronti della
politica [io dico dei partiti] un potere stimolante e
condizionante permanente». Per me i movimenti o saranno
in grado di superare da soli quel deficit di egemonia di cui
sopra (insuperabile da questi attuali partiti della sinistra)
producendo una loro politica e senza più chiedere a questi
partiti di «favorire la crescita dei movimenti e della società
civile» o si afflosceranno su se stessi. Insistendo a chiedere
a questi partiti della sinistra quello che i movimenti
dovrebbero fare da soli e per proprio conto, ricadete
nell’atteggiamento schizofrenico di chi alza la voce contro
questi partiti e subito dopo chiede aiuto proprio a loro. E in
più nel timore di farsi cooptare. Mi permetto di dire che
questo rischio vedo nel vostro atteggiamento, quando
sembrate temere di farvi «integrare in istanze come quella
delle commissioni per la stesura del programma
amministrativo» e ribadite che «il terreno è quello dell’azione
e della lotta congiunta».
Post scriptum.
Se poi si ammettesse che i movimenti (o il movimento a
Cologno) è debole (debole quanto i partiti di sinistra), allora
un leale confronto fra “debolezze” potrebbe servire molto di
più. Accantonati i sospetti, le autoglorificazioni, i proclami
ideologici che vogliono le «riforme» o le «lotte», si potrebbe
forse ragionare sulla realtà sociale di questo territorio
puntando a conoscerla davvero con un’ INCHIESTA seria,
raccogliendo dati che saranno utili sia alle «lotte» che a
qualche commissione di partito che non voglia vivere sulla
carta o nell’aria rarefatta del Consiglio comunale.
Cologno Monzese 1 febbraio 2003
PER L’ESODO DIARIO
20 dic. ’02
Roberto Voller, grammi, gazebo verde, 2001
Caro Voller,
rispondo personalmente, sia pur con esagerato ritardo,
all’invio di grammi.
Rispondo, dicendole innanzitutto che sono “vecchio” anch’io
(del 1941), conoscevo Abiti lavoro, Garancini e Sardella, e ho
apprezzato Di Ruscio, conosciuto su spinta di Giancarlo
Majorino, a cui ogni tanto vado a far visita. Questo per dirle
4
che siamo “vicini” forse anche nelle esperienze politiche che
intravedo nei suoi versi.
In essi colgo l’amarezza di una sconfitta (uccisero e uccisero
/ finch’ebbero mani… Ahi, noi!) che è stata anche mia (nostra
non si può nemmeno più dire, non essendoci più un noi) e un
sarcasmo fra il rabbioso e l’autoironico. La forma qui
preferita dell’epigramma mi pare in genere felice, ma a volte
è come se lei fosse reticente e si fermasse ad una battuta
amara e troppo circoscritta al dato realistico.
Le mando a mia volta una rivistina samizdat che faccio
praticamente da solo. Si renderà conto forse un po’ di più di
quello che passa per la mente anche a me. E forse ci
risentiremo…
Loredana Magazzeni, La miracolosa ferita, Archivi del
‘900, 2002
Cara Loredana,
ti scrivo, come promesso, brevemente le mie
impressioni dopo la lettura de La miracolosa ferita. A me la
tua pare una poesia di grande concentrazione, una "poesia
del grembo", ma in senso molto religioso. Da qui la felicità
del dialogo (la"sorellanza" forse...) coi versi quasi "gemelli" di
Antonia Pozzi. Per cui non ci trovo quella tensione erotica
fortissima... che cerca una pienezza e un calore di vita da
altri sottolineata. Chi parla si è spogliata dei deliri e accetta
l'angustia del quotidiano, ma con pacatezza, perché ancora
può avere occhi... per il cielo (Ma non è forse un altro tipo di
"delirio" questo?).
Il linguaggio ha l'asciuttezza di una grande tradizione (quella
ermetica, mi pare...). Anche quando accenna al quotidiano, il
dato concreto (quel cielo di settembre delle sette e trenta)
viene immerso in un'atmosfera rarefatta, sapienziale. Mi sono
arrestato quasi subito nel tentativo in me quasi automatico di
risalire a esperienze concrete, perché qui sono
completamente sedimentate (sublimate...).
E poi c'è una decisione forte, premessa o radice di questa
tua poesia: una reticenza morale (che è tutta dichiarata in
quella poesia a pag. 23: farò come mio padre - non ne parlo),
che sento come una sfida al mondo della chiacchiera (anche
poetica!): chi tace (specie se è una donna muta) e tacendo
dice, insegue una lingua senza nome, insegue il premio della
luce (che mi pare è quello mandato da dio e viene sempre e
solo dal cielo). Ho pensato - ma sulla base di una lettura
molto lontana - alla Dickinson, soprattutto per una volontà di
assaporare visioni in un geloso isolamento (e agosto arriva
sfolgorando). Di esse poi si offre la spoglia poetica (e niente
più di questo voglio dire). Non so valutare – ripeto - quanto
eros ci sia in questo sentire: a me pare, comunque, eros
escludente ed esclusivo e non genericamente di comunione
con l'altro da sé (semmai con l'Altro...); e dolorante (la
miracolosa ferita, la mia crepa).
Altro non so aggiungere, al momento. Anche perché non
dimentico che questa raccolta è un dialogo fra
donne (meglio: fra anime) e l'adattamento alla parola
dell'altra (Chi è Antonia? Chi è Loredana?) è intensissimo e ripeto - escludente. La nostalgia del cielo di entrambe,
anche. E tutto ciò m'intimidisce.
3 gennaio 2003
Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino
1989
Lo leggo solo oggi in vista del lavoro sul manuale di storia. È
un grande studio sull’ambivalenza dell’intellettualità grande e
piccolo borghese di fronte alla Prima guerra mondiale.
Esamina autori che ho appena sfiorato nel periodo delle mie
solitarie letture giovanili a Salerno: Papini (credo di aver letto
un libro che parlava di grandi uomini), Malaparte (credo di
aver letto La pelle e Maledetti toscani), Mariani (un libro sulla
guerra, di cui non ricordo il titolo, era nel comodino da letto di
mio padre ex carabiniere e forse lo leggiucchiai). Mi viene da
stabilire un’analogia fra queste reazioni della piccola
borghesia dell’inizio del ‘900 e quelle che ho vissuto prima da
solitario [attivismo era anche quello che mi portò
all’interruzione degli studi e allo spostamento a Milano] e poi
assieme a studenti e operai negli anni ’70. L’inquietudine è
dato che torna. Al posto del PSI d’allora, il PCI. La varia
gamma dei comportamenti fra interventisti e neutralisti
potrebbe avere un corrispettivo nelle posizioni della sinistra
extraparlamentare. (Ma sono analogie vaghe, che possono
essere solo degli spunti per uno studio…).
Sul piano personale potrei dire che al posto della guerra
l’esperienza per me generatrice di miti è stata la metropoli.
Una maggiore vicinanza ( più di collocazione sociale che di
pensiero forse…) sento sicuramente con le esperienze di
uno Stuparich [Cfr. la mia militanza in AO], un Malaparte, un
Mariani piuttosto che per quelle di un Marinetti o un
D’Annunzio o un Papini o un Gadda. (Anche se la vicinanza
è embrionale, perché credo di aver sempre corretto o
represso il niccianesimo, variamente presente invece in
questi scrittori). Mentre la documentazione di Isnenghi mi ha
permesso uno sguardo più critico nei confronti di Jaiher (la
cui immagine, mediata da Fortini, mi pareva più positiva).
Interessante mi è parsa l’ottica storiografica di Isnenghi,
sicuramente legata alla stagione straordinaria del ’68-69 (la
prima edizione del libro è del ’69), ai riferimenti culturali
d’allora (cita Lukács della Distruzione della ragione, Basaglia,
Simmel, Fornari) e portavoce di un storia politico-sociale
antistituzionale e classista, che privilegia ad es. le
testimonianze del dissenso e la critica alle ideologie.
12 gennaio 2003
Yann Moulier Boutang: recensione suo libro su ‘il
manifesto’
Il capitale non utilizza principalmente solo il lavoro salariato,
ma questo e, in modo complementare, il «lavoro non libero».
Di conseguenza il lavoro non libero non rappresenta un
arcaismo, un forma di lavoro “arretrato” destinato ad essere
spazzato via dalla modernizzazione (in nome della quale il
riformismo novecentesco appoggiò vari regimi coloniali e
neocoloniali).
E questo vale ancora oggi nell’Occidente industrializzato, che
continua a combinare i diritti di cittadinanza goduti dai
lavoratori autoctoni con politiche di controllo burocratico dei
flussi migratori e limitazioni di status giuridico.
In una società capitalistica non dovrebbe essere la cosa più
facile del mondo, almeno formalmente, rinunciare ad un
5
posto di lavoro per cercarne un altro? Invece non è così per
tutti.
La conseguenza teorica e politica del libro di Boutang è
questa: al posto di un proletariato unitario, soggetto secondo
la vulgata marxista di un processo di liberazione (che ha un
fine…), esistono molteplici soggettività (ricordo analisi
operaiste tendenti a sottolineare nelle lotte degli operai Usa
le diverse stratificazioni e contrapposizioni…), che esercitano
un «diritto di resistenza alla disciplina del lavoro».
La condizione di proletario non appare qui come «la base di
futuri progressi sociali» e assumono invece importanza la
fuga, la diserzione, la rottura del contratto di lavoro,
l’immigrazione come movimento collettivo, e quindi
l’opposizione a diventare proletariato [bravi i luddisti!...] .
La mobilità del lavoro, le migrazioni appaiono così in tutta la
loro importanza.
I migranti non sono
soltanto «vittime inerti della
‘mobilitazione globale’», ma soggetti sociali a tutto tondo,
protagonisti di una vicenda secolare : migranti e rifugiati
stanno facendo saltare in tutto il mondo le barriere territoriali
e sociali» (Die Globalisierung des Migrationsregimes. Zur
neuen Einwanderungpolitik in Europa, Assoziation A,
www.scwarzerisse.de.
Il tema dell’«autonomia delle migrazioni» si va imponendo,
ma – osserva Sandro Mezzadra - questa formula non intende
porre in secondo piano le cause ‘oggettive’ delle migrazioni
né offrire un’immagine estetizzante dei migranti. Guerre,
miserie, carestie, dispotismi sociali e politici non possono
essere dimenticati fra le cause delle migrazioni
contemporanee né la soggettività dei migranti può essere
ricostruita prescindendo dalla sofferenza, dalla paura e dagli
stigmi che li segnano.
2 marzo 2003
Il bidello scrittore
Caro P,
ieri sono andato a far visita ad Armando Tagliavento.
E' un vecchio bidello-scrittore autodidatta. A suo tempo ('6870 circa), quando ci fu un fervore populista-neo-neorealista
(ricordo Guerrazzi ma anche "Abiti-lavoro"...) ebbe un
effimero risalto la pubblicazione nella collana dei Franchi
narratori (patron Goffredo Fofi, che firmò la prefazione) di un
suo romanzo Tra fascisti e germanesi, che magari ti sarà
passato anche fra le mani. Vi narrava con brio e
spudoratezza le sue avventure da picaro durante gli scontri
che insanguinarono l'Italia fra il '43 e la liberazione. Poi
l'affondamento nel mondo dei vinti metropolitani. Io l'ho
conosciuto al Molinari,4 dove appunto faceva il bidello: un
mito per gli studenti, imboscato su un tavolo in qualche
corridoio a leggere e a scrivere, malvisto o coccolato da
bidelli e ITP, l'occhio marpione su studentesse e insegnanti
bellocce. Poi cominciò a bere di brutto, ad andare fuori di
matto,straparlando e creando allarme. Pare che in una delle
sue crisi abbia "sculacciato" un’autorità che lo denunciò e
voleva farlo licenziare. Feci un cartello, mobilitai un po' di
compagni e un'amica dottoressa, che lo spalleggiò nella
visita medica all'ospedale militare di Baggio a cui la preside
l'aveva costretto. Rimase in servizio, grazie a questa
4
Istituto tecnico industriale di Milano
mobilitazione, ma forse anche ad un sussulto di tolleranza di
presidenza, vicepreside etc., non senza prima essere
passato per Villa Turro dove a suon di psichiatria -non credo
basagliana - lo tirarono fuori dal suo alcoolismo cronicizzato
e lo convinsero a bere solo acqua.
Diventato suo confidente, mi sono sorbito in vari anni la
lettura della sua abbondante produzione scritta: 4 o 5
romanzi, poesie, più due ponderosi volumi di Vocadizionario,
ricerche da filologo selvaggio su due dialetti: uno di Fondi,
suo paese di origine, ed un altro di una zona delle Marche
che non ricordo; e ancora una ricerca da guida Touring sulla
città di Amburgo, dove era stato da giovane, aveva imparato
a parlare e a scrivere il tedesco e aveva poi ambientato le
sue fantasticherie porno-erotiche. Su queste vorrei
soffermarmi. Ha una scrittura fluviale, una tematica
ossessiva e vitalistica (un immaginario porno-sessuale
strabordante), un gusto letterario che tradisce
soprattutto influenze di Gadda e Pisolini, mescolate ad altre
che direi grottesco-populiste, succhiate forse dalle sue
esperienze di muratore, sbandato, disoccupato,
autodidatta, ecc.
Ha tentato altre volte, dopo il primo insperato successo, di
pubblicare. Ma, trovate chiuse le porte dell'editoria che conta
anche per il clima culturale mutato, si è affidato al sottobosco
dei pirati editoriali. Ha pubblicato a sue spese e venduto
(«come uno straccivendolo», dice sua moglie, una proletaria
casalinga che gli ha badato per l’intera vita lavorando da
sarta) al Molinari o fra amici questi suoi romanzi. Così come
lui li ha messi giù, avrebbero bisogno di un’indispensabile
potatura.
Ora a me due cose sembrano notevoli: 1.ha scritto per una
vita e continua a scrivere e ha un gusto per la parola e per
l'invenzione bizzarra non disprezzabili, anche se il buono è
affossato da ripetitività e monotonia della tematica; 2. è un
esempio vivente (logorato certo, ma legato a condizioni di
vita marginalizzata tuttora di milioni di persone: l'exproletariato...) di quel moto sociale sconfitto, da cui siamo
venuti fuori anche noi e che varrebbe la pena di riproporre
all'attenzione dei "colti di oggi" (e magari confrontare con
qualche esempio analogo di scrittura "selvaggia" di nuovi
immigrati).
Richiesta finale a te (a….): non potresti farci sopra
un'intervista? Se la cosa non è del tutto campata in aria,
fammi sapere.
P.s.
Aggiungo qui sotto una mia vecchia presentazione del 1999
per uno dei romanzi di Tagliavento:
IL GRANDELUSO
Il grandeluso è un romanzo onirico, visionario, composito,
polpettone.
Si
potrebbe
definire
"ingenuamente
postmoderno". In esso il narratore attinge a memorie
arcaiche ed elementari, che poi macina con vigore assieme a
cascami della tradizione colta.
Non ci si lasci ingannare da alcuni squarci realistici e da
certe allusioni fantapolitiche più o meno allegoriche riferite
ad un recente passato (lo scontro fra democristiani e
“comunistacci”).
Il protagonista, Ermanno, appartiene al genere picaresco: è
un pezzente, un escluso, un perseguitato, un “cristo
6
comunista”, un eroe solitario, che va contro tutti ed è
sottoposto a continue prove per ottenere l’agognato
riconoscimento del suo valore (che rifiuta subito dopo quando gli capita d’ottenerlo - per ricominciare il suo
vagabondaggio fino all’annullamento finale).
L’elenco dei suoi nemici è innumerevole.
Ma essi sono delle maschere, delle controfigure o
emanazioni diaboliche e grottesche di un solo Nemico: il
Destino.
Per contrasto ha un suo angelo protettore fisso: Antonio,
capace - deus ex machina che si ripresenta anch’egli in vesti
sempre cangianti - di tirarlo miracolosamente fuori dai guai e
rimetterlo in pista per nuove avventure e disavventure.
Il protagonista è immerso in un mondo di sogni, da una parte
derivato dalla tradizione popolare delle fiabe, dall’altra dalla
tradizione colta di varie epoche.
Vi trovi l’elemento plebeo, grottesco, orrorifico, stregonesco,
con tanto di cavalieri litigiosi e spacconi, di animali parlanti e
protettivi, di terribili mostri e draghi, principesse bellissime e
sfuggenti, proprio come nelle antiche fiabe; e poi le battaglie
ripetute fino all’esaurimento, che rimandano al romanzo
ariostesco, o i paesi utopici, calcati sull’Eldorado alla Voltaire
o su un erotismo decadentistico e porno-fumettistico rubato
alla letteratura colta.
Ma Ermanno, a differenza degli eroi delle fiabe, che sono
unitari, si presenta ora come inerme vittima, immersa nel
quotidiano più banale e materiale (da sottoproletariato), ora
come eroe spaccatutto, vincitore, conquistatore, giustiziere.
Questa contraddizione, che sta non solo nei temi ma nella
stessa struttura linguistica del romanzo, rivela la storicità del
narratore e la sua scissione. È la spia dell’appartenenza ai
modi della letteratura alta del Novecento e nel contempo del
fascino che egli prova per la tradizione popolare e fiabesca
del C’era una volta.
Complicato è seguire il sistema dei personaggi, le loro
parentele, i rimandi, le agnizioni, le uccisioni e le resurrezioni,
i complotti e le soluzioni iperboliche o assurde.
Meglio abbandonarsi al fluire di vicende che si intrecciano,
tornano su se stesse in una circolarità fuori del tempo o
bruscamente si interrompono. Un filo che le metta in ordine
non c’è. Andrebbe cercato, ma forse se ne può fare anche a
meno.
Si intravedono comunque due livelli narrativi: quello di
Ermanno sognatore, “scrittore pazzo”, recluso alle prese con
infermiera e psichiatra cerberi, affamato di una mitica
pubblicazione delle sue scritture, cioè di visibilità e di un
riconoscimento che dovrebbe “guarirlo”; e quello del suo
doppio, l’eroe Ermanno, vagabondo in “un altro mondo”, ma
anch’egli alle prese con lo stesso problema del
riconoscimento e quindi di una “guarigione” dalla sua
sottomissione al Destino.
Il narratore non si preoccupa della successione logicotemporale delle vicende.
Ci sono passaggi bruschi e poco motivati o
convenzionalmente giustificati. Una sequenza viene
disinvoltamente chiusa per passare ad un’altra.
Può parere un difetto. Ma egli è ansioso di arrivare a dire e a
ripetere – ossessivamente e con goloso godimento - alcune
scene madri – erotiche o sadiche – in cui esplode tutta la sua
sensualità immaginifica e linguistica, che oscilla (ecco
l’elemento novecentesco) fra dannunzianesimo e
pasolinismo, ma che poi sbocca e si risolve prevalentemente
nel fiabesco (ecco l’elemento arcaico, popolare).
C’è il ritmo narrativo della fiaba (e non poche delle imprese di
Ermanno rimandano ad eroi famosi e noti delle fiabe popolari
e a tratti, per i colpi di scena, fanno pensare ad un Orlando
plebeo).
Ma il linguaggio non è (o è solo in parte) quello tipico,
semplice e scorrevole delle fiabe.
Il narratore infatti ha inserito nel tessuto fiabesco più
tradizionale, in apparenza ingenuo e sotto sotto orrido –
stravolgendolo dunque, perché si tratta di una stramba
galoppata nel delicato genere fiabesco - tremori e angosce
esistenziali novecentesche (dannunziane, pasoliniane, come
ho detto) e – linguisticamente - gaddiane.
Lo si vede soprattutto nel trattamento espressionistico del
lessico, dove è – senza offesa – un imitatore plebeo e
autodidatta di Gadda.
Il lessico è sbilenco, spesso strapazzato nel singolo termine
o nella frase. Abbondano neologismi, arcaismi, chicche che
pretendono di essere dotte e fanno invece la parodia al
linguaggio letterario aulico. Abbondano anche forme
linguistiche ortograficamente “scorrette”. Ma ho esitato e poi
rinunciato a suggerire all’autore in carne ed ossa del
romanzo una loro drastica correzione. Ne sarebbe stata
alleggerita forse la fruizione al lettore colto (e
scolasticamente perbenista), ma andrebbe persa la foga
espressionistica, barocca, persino kitsch del suo stile
narrativo, fluviale e torbido. Quelli che un lettore colto vede
come errori d’ortografia sono più probabilmente il sintomo
che la vena narrativa dell’autore ha attraversato – proprio
come un torrente in piena – zone sporche, bassifondi
linguistici, ma anche le limpide acque dei classici.
Accomodare il suo linguaggio sarebbe un oltraggio alle sue
peripezie umane e fantastiche e ai lettori intelligenti che pur
oggi, malgrado la Televisione, esistono.
7- 19 marzo 2003
Da Massimo Parizzi
Oggi è il 7 marzo e forse, quando riceverete questa lettera,
o ancora prima, quando avrò finito di scriverla, sarà già
scoppiata. Le guerre, infatti, scoppiano: uccidono,
distruggono da un momento all’altro. Centomila persone che
ora sono vive - prevede chi è addetto a prevedere - fra un
po’, se la guerra all’Iraq scoppierà, non lo saranno più.
Ma, prima di scoppiare, e dopo, e anche durante
l’esplosione, la guerra - la sua idea, la sua minaccia, la sua
previsione, la sua realtà - si fa posto e strada, molto più
lentamente, nei pensieri e nelle parole, nel senso di sé e
degli altri. Nel senso dello spazio, il mondo, e del tempo, il
futuro. Nel senso della sicurezza, quindi della propria vita
privata e del proprio modo di vivere, della propria casa, dei
propri cari. Quindi dell’egoismo e dell’altruismo. Si fa posto
e strada anche fra le abitudini, fra le presenze
consuetudinarie. Diventa una nostra compagna.
Stiamo attenti al suo muoversi fra di noi e in noi: questo è
l’invito che vi e mi rivolgo. Ed è anche - veramente, si parva
licet... - la mia proposta per il prossimo e ottavo numero di
7
"Qui".
Perché? Perché, oltre a che cosa sta succedendo, bisogna
che cerchiamo di capire che cosa ci sta succedendo.
Perché, per giungere subito all’estremo, a un esempio
estremo, da un certo momento in poi diventa impossibile
capire - l’ha insegnato la Iugoslavia - come persone prima
pacifiche, con il lavoro, i soldi, la famiglia, o le donne, o gli
uomini, il divertirsi, in testa ai loro pensieri, diventino, poi,
non solo disposte, ma spesso ansiose di farsi ‘attori della
Storia’, o burattini degli Stati. Da un certo momento in poi,
sembra un mistero. Bisogna capirlo prima.
Cominciamo allora - questa è la proposta - registrando.
Registrando giorno per giorno parole che udiamo o
leggiamo, atteggiamenti, comportamenti che notiamo,
episodi cui assistiamo, pensieri, sensazioni che ci
attraversano, riconducibili alla guerra: il ‘clima di guerra’, si
potrebbe dire.
Ma a questa condizione: di escludere quello che della
guerra viene già detto ‘in pubblico’, non solo da giornali e
telegiornali, ma anche da organizzazioni pacifiste e
movimenti, da politici, partiti politici ecc., e ogni parola, sia
pure ‘privata’, che ne sembri una ripetizione, un’eco. E di
astenersi, sulla guerra, da analisi politiche, economiche,
ideologiche ecc. Questo, è vero, renderà probabilmente il
compito più difficile, ma più utile. A che cosa servirebbe
ripetere quanto è detto abbondantemente altrove? A che
cosa, presentare su "Qui" analisi cui si dedicano, con
maggiori e migliori strumenti, tante altre pubblicazioni?
Andiamo, invece, a cercare e riconoscere la guerra dove è
più nascosta, nelle pieghe dei discorsi, delle attività, dei
pensieri quotidiani. Facciamolo per due mesi, fino al 15
maggio 2003, qualunque cosa in questi due mesi avvenga.
E facciamolo giorno per giorno, datando tutte le nostre
osservazioni: che il risultato sia una sorta di diario collettivo,
un’occasione, per chi lo leggerà, di ritornare e riflettere su
quel che sarà avvenuto. Per chi lo scriverà potrà essere, tra
l’altro, un esercizio di attenzione. Aspetto quindi, man mano
o entro la metà di maggio, i vostri testi. Se, intanto, vorrete
forwardare questa lettera, grazie.
Massimo Parizzi, per "Qui - appunti dal presente",
via Bastia 11, 20139 Milano
12 marzo 2003: a Parizzi
No, Massimo, non ci sto e te lo dico a caldo.
Perché mettersi i paraocchi e guardarsi diaristicamente
"nell'intimo" mentre gli Stati Uniti staranno facendo la
guerra? Quello che si muove fra di noi e in noi non è (non
sarà) la guerra, che invece si muoverà (=ucciderà,
distruggerà) ancora una volta altri: Lontano lontano si fanno
la guerra. / Il sangue degli altri si sparge per terra. (Ricordi
Fortini?).
Fra noi e in noi si muoveranno (almeno fin quando qualche
alquedista vero o inventato non colpirà...) i fantasmi di
guerra gestiti abilmente dai ceti dirigenti che ci dominano.
C'è una differenza che non si può tacere fra la guerra reale
e la guerra nostra compagna.
E allora perché cercare di capire solo che cosa ci sta
succedendo mentre si deve capire cosa sta succedendo agli
altri (irakeni, americani, ceti dominatori irakeni, americani,
francesi, russi, cinesi, ecc)?
La nazionalizzazione delle masse non avviene mai senza
grandi investimenti (materiali ed emotivi) degli Stati, dei ceti
dirigenti.
I volenterosi carnefici , i normali assassini ( persone prima
pacifiche, con il lavoro, i soldi, la famiglia ) non spuntano
come funghi solo dalle nebbie dell'inconscio. Nessun pazzo
di paese o di metropoli diventa Hitler o Stalin o Bush o Bin
Laden senza avere alle sue spalle uno Stato (o un potere
non dico equivalente ma in grado di sfidare altri Stati sul
piano economico e militare) capace appunto di procurargli
masse nazionalizzate o fanatizzate.
Quello che accadde in Jugoslavia si spiega con questo
amplesso perverso fra Stati e masse o cittadini "normali". E'
falso dire che da un certo momento in poi diventa
impossibile capire : L' ansia di farsi ‘attori della Storia’, o
burattini degli Stati non è mistero. Sembra un mistero se ci
tiriamo fuori dalla storia.
E la proposta di QUI (Cominciamo allora - questa è la
proposta - registrando. Registrando giorno per giorno parole
che udiamo o leggiamo, atteggiamenti, comportamenti che
notiamo, episodi cui assistiamo, pensieri, sensazioni che ci
attraversano, riconducibili alla guerra: il ‘clima di guerra’, si
potrebbe dire), questo tuo invito al diario non di guerra
(testimonianza terribile e rispettabile) ma da esterni alla
guerra che gli Usa faranno anche per noi (se la
condividiamo o sotto sotto come vassalli accettiamo che
essi ci difendano da un pericolo maggiore) o anche contro di
noi (se non la condividiamo e respingiamo anche solo
esponendo una bandiera della pace al balcone o
partecipando ad una manifestazione solo simbolica contro
di essa) a me pare una resa psicologica alla guerra se si
stacca dal discorso comune contro la guerra che si va
facendo. Mai: a loro la Storia (o la storia), a noi (impotenti?)
la quotidiana registrazione del clima di guerra. Questa
separazione mi pare affacciarsi proprio con la condizione
che poni (escludere quello che della guerra viene già detto
‘in pubblico’, non solo da giornali e telegiornali, ma anche da
organizzazioni pacifiste e movimenti, da politici, partiti
politici ecc., e ogni parola, sia pure ‘privata’, che ne sembri
una ripetizione, un’eco. E di astenersi, sulla guerra, da
analisi politiche, economiche, ideologiche ecc.).
Ma come? Proprio una volta tanto che è possibile essere
maggioranza , essere con i molti e condizionare con il
nostro semplice NO giornali, telegiornali, politici, dovremmo
escludere quello che della guerra viene già detto ‘in
pubblico’ e che perlopiù è questo NO?
Ma è proprio questo NO ragionato che anche QUI dovrebbe
rendere ancora più ragionato e convincente e ricco di
pensieri e di esperienza anche storica e pronunciare con un
linguaggio comune ai molti più terso e vivo di quello magari
un po' stereotipato di certi leader pacifisti,ecc. È questo
NO ad impedire che la guerra si nasconda - come tu dici nelle pieghe dei discorsi, delle attività, dei pensieri quotidiani
.
Sì certo, anche un diario collettivo che registri non il NO ma
8
la zona grigia (come QUI fece ai tempi del Kosovo...) potrà
interessare futuri storici o produrre esercizi letterari. Ma
sarebbe una perdita secca: Io questa mattina mi sono ferito
/ a un gambo di rosa, pungendomi un dito. // Succhiando
quel dito, pensavo alla guerra. / Oh povera gente, che triste
è la terra!
Meglio non succhiarci il nostro dito e non spingere altri a
farlo.
Col dissenso fraterno di sempre (ma stavolta più intenso)
Ennio
13 marzo 03: da Massimo Parizzi
Caro Ennio, il dissenso è reciproco (non meno della stima e
dell’affetto). Vorrei innanzi tutto farti notare che non c’è una
parola, nella proposta che critichi, da cui si possa pensare
che la metto in contrapposizione o in alternativa al "discorso
comune contro la guerra che si va facendo". Dove avrei
invitato a mettere dei paraocchi, dove a, come scrivi,
"cercare di capire solo..."? (Quanto alla differenza fra guerra
reale e guerra nostra compagna, scusami, mi affido
all’intelligenza del lettore: non credo che chi mette le
bandiere chiedendo pace tema che le bombe cadranno
sulla sua casa.) Ho mai detto che i "normali assassini"
spuntano solo dalle nebbie dell’inconscio? (Se poi, per te, la
Storia basta a rendere luminosamente chiaro perché un
certo giorno il droghiere Rossi decide di salire sul tetto con
un fucile... beato te; io credo che ci vogliano la storia,
l’economia, l’antropologia, la psicologia e non bastano
ancora).
Insomma, io considero la pratica che propongo, e considero
tutto "Qui", una microscopica voce accanto e insieme a
tante altre (lo scrissi, ricordo, già nei "propositi" sul numero
1). Sei tu che metti in contrapposizione e in alternativa la
mia proposta con il diffuso "no": ma, ti domando, non è
evidente che questo no fa da presupposto, implicito ed
esplicito, alla mia proposta, che anche la mia proposta è un
no ed è dentro a quel no diffuso?; secondo: sai benissimo
che il no di cui parli è variegatissimo, è fatto di centomila no
diversi: come fai a rimproverarmi di aggiungerne un
centomilaeunesimo, o a pensare che questo
centomilaeunesimo si ponga contro gli altri centomila (quali,
poi, degli altri centomila?). Ma queste, devo dirti, mi
sembrano minuzie.
Più importante mi sembra notare quello che la tua critica a
mio parere presuppone: una visione "monistica" (scusami,
m’è venuto in mente all’improvviso il titolo di un libro, mi
pare di Plechanov, che introdusse il marxismo in Russia, di
cui ci parlò al liceo l’insegnante di filosofia: la concezione
monistica della storia). Per vedere nella proposta di battere
per due mesi anche (io la bandiera della pace non la tolgo
dal balcone) la strada di cui parlo nel mio invito, per vedere
in questa proposta qualcosa che mina altre strade, occorre
mi sembra pensare che esista una sola e unica strada. Io,
come sai, non lo penso. Ma su questo non voglio
dilungarmi: ne abbiamo parlato tante volte. Voglio solo
ricordarti che l’idea dell’unica strada è inscindibile, oltre che
da una filosofia della storia, dall’idea di unico partito ecc.
ecc. sulla quale il 900 qualcosa ci ha insegnato.
Ma, è vero, tu dici anche che la mia proposta è sbagliata in
sé, indipendentemente dall’essere o non essere in
contrapposizione con quel no: non è funzionale al
raggiungimento dell’obiettivo, è intimista ecc. Altro bel
dissenso di fondo. Mi sembri volere che ci trasformiamo tutti
in efficienti militanti e basta, mi sembri essere d’accordo con
Fortini che, in una delle sue ultime cose, scriveva che
l’uomo deve farsi strumento della causa (scusami i termini,
forse sembrano ironici, ma non lo sono: non ricordo le
parole esatte e sto scrivendo in fretta). Non ho un
atteggiamento sprezzante verso questa posizione, ma non
la condivido affatto (ne parlai con Fortini). Mi sembra
sbagliata in sé.
Io lavoro, microscopicamente, a favore dello sviluppo, del
rafforzamento ecc. di un tipo d’uomo che ritengo
incompatibile con il capitalismo. Mentre, ahimè, non si è
dimostrato molto incompatibile con il capitalismo il militante
educato, per esempio, dal partito comunista (che ha
riempito l’Emilia di belle fabbrichette ecc. ecc.). Non
sarebbe importante aprire un bel discorso sull’"educazione
sentimentale" dei militanti nei movimenti d’opposizione del
900 e attuali? Secondo me sì. Di questo si tratta: altro che di
intimismo, altro che di succhiarsi il dito! (Parole che tra
l’altro, perdonami, mi ricordano una concezione virilista, per
cui l’intimità è cosa da femminucce, che lascerei al fu
Pajetta!). Si tratta, ANCHE, di guardare se stessi come
prodotti del e dal capitalismo in funzione delle sue esigenze
e dei suoi scopi (per dirla alla grossa). E il mio invito a
escludere i "discorsi pubblici" non è altro che circoscrivere
un campo (SOLO su "Qui" per due mesi) per trarne il
massimo. Ma, forse ancora di più, è un ostacolo posto alla
pigrizia del pensiero. Ti sembra che non ne soffra, di questa
pigrizia, la nostra sinistra? Ti abbraccio, Massimo
19 marzo 2003: a Parizzi
Caro Massimo, io monista e tu pluralista? Non c'è invito a
mettersi i paraocchi nella proposta di QUI? Non c'è stacco
o contrapposizione al «discorso comune contro la guerra
che si va facendo»? C'è giusta considerazione della
situazione differente che vivono quelli che subiranno la
guerra di Bush e quelli che vi assisteranno o ne sentiranno
parlare? La Storia non basta a spiegare perché il droghiere
Rossi un certo giorno si armi contro chi sembra minacciare
la sua drogheria? Farei appelli virilisti?
Non so. Può anche darsi. Può anche darsi che il mio
allarme sia esagerato e che, assaggiato il brivido di guerra,
tutto per noi continuerà all'incirca come prima e il nostro
benessere cancellerà presto qualcuna delle fastidiose
immagini del lutto altrui che riusciranno ad arrivarci. Ma se
la guerra non dovesse essere "breve" e "risolutiva" come
dicono gli assassini professionisti Usa e ci fossero
sconvolgimenti reali anche da noi, ti dovrai anche tu
chiedere perché la "microscopica voce" di QUI ha scelto la
forma diario con la quotidiana registrazione del clima di
guerra da parte di individui isolati (e più o meno ben
informati e desiderosi di informarsi su quanto succede) e
l'astensione «da analisi politiche,economiche, ideologiche,
ecc.» e non invece la riflessione, la critica, il ragionamento
9
che tenga conto di tutto quello che è possibile sapere e
capire (e lo sottopone a discussione collettiva)
Il no alla guerra diffuso fa «da presupposto, implicito ed
esplicito» alla proposta di QUI. E non lo nego. Ma tu
sospetterai che questo no diffuso non basta (e infatti Bush
può tirar dritto). E proprio perché «variegatissimo» e «fatto
di centomila no diversi» non potrà durare contro la guerra
vera in questa forma variegata che è anche ambigua. Non è
un aspetto irrilevante. A questo punto si affacciano i
fantasmi del Novecento e tu mi sventoli sotto il naso - come
ha fatto Revelli in Oltre il Novecento - i danni dell'unica
strada, dell’unico partito, ecc. Ma la possibilità di sostituire
il «monismo» con il «pluralismo», il «militante» con il
«volontario» non nasce da dati caratteriali o soltanto
caratteriali. Simone Weil per carattere, cultura, tipo di
religiosità era portata al pacifismo, ma dovette pur
convincersi che contro il nazismo esso non bastava. Non
bastava - ecco il dramma - e non che non era «funzionale
all'obbiettivo» come se lei fosse una funzionalista arida. Un
obbiettivo non possiamo perseguirlo senza tener conto di
come si muovono gli altri. Negri ha parlato di Impero e
Revelli ha invitato ad andare Oltre il Novecento. Ma se Bush
smentisce con la guerra una politica imperiale e i volontari
si trovano di fronte i carri armati, che fare?
Il pluralismo (o una forma di vita e di azione più aperta e
disponibile alla varietà della vita) te lo strappa di mano
Bush, non Ennio-Plechanov. Ennio (non Plechanov) ti fa
solo notare che Bush te l'ha tolto di mano, che c'è
un mutamento forse tragico nella situazione storica. Non
ritorniamo troppo in fretta fortiniani «strumenti della causa».
E va bene. Continuiamo il nostro lavorio microscopico (il mio
non lo è meno del tuo). Non rispolveriamo l'«efficiente
militante». Ma chiediti se il tipo di uomo che vuoi rafforzare
o sviluppare sia davvero incompatibile con la guerra
(chiarendo cosa intendiamo per «incompatibile»). Certo,
«sarebbe importante aprire un bel discorso sull’"educazione
sentimentale" dei militanti nei movimenti d’opposizione del
900 e attuali». Ma, appunto, qual è la giusta educazione
sentimentale nel clima guerrafondaio che ci invade?
Non scivoleranno nell'intimismo gli scritti dei collaboratori di
QUI? Ne sei proprio sicuro? Non si succhieranno il dito? Ne
sei proprio sicuro?
Io ho grande rispetto dell'«intimità», ma penso che ci sia
intimità e intimità; e per distinguere quella del nazista, che
dopo aver eseguito il suo "dovere" (non il suo "lavoro"!)
cremando ebrei, tornava a casa e si commuoveva
ascoltando Beethoven, dalla giusta intimità, dovrai per forza
guardare quale divisa o abito uno indossa poi sopra
l'intimo. Vorremmo tutti abiti sportivi (ci siamo abituati), ma
quando incombe la guerra? Un caro saluto. Ennio
15 marzo
Funerali di Ruth Leiser all’obitorio dell’ospedale “Sacco”
di Milano
Bellavite, Raboni e Valduga, Bologna, Nava con Tullia,
Lenzini e la Nencini, la Mavì De Filippis, la Masi, Bellocchio,
Gozzini (mi pare), i Grandinetti, Giobbio, io e Salzarulo e poi
un’altra decina di persone che non conoscevo. Brevi parole
di Edoarda Masi (i nostri tempi difficili), di Raboni (l’allegria di
Ruth pur nel dolore), di Mavì De Filippis (un appello ad
indignarsi). Leggera sensazione d’imbarazzo. Non è
cresciuta la coesione fra gli amici di Franco [Fortini]. Non so
fra le amiche della Ruth. Siamo tutti vecchi. Qualche coppia
giovane con bambini.
5 apr. 03
Su Montaldi (alcune domande del 13.3.03 a Sergio
Bologna)
1. Chiedo cosa sa dell’atteggiamento che aveva Montaldi sul
partito. Bologna ricorda che Montaldi era andato a
rintracciare dei vecchi militanti degli anni ’20-’30 per
recuperare la loro esperienza politica. Era questa che gli
interessava e non certo la ricostruzione di un nuovo partito.
Perciò ritiene improbabili dei rapporti fra Montaldi e AO (a me
pareva di ricordare un incontro intorno al 68’-’69 a Milano in
casa di Silvana Barbieri fra Vinci e alcuni del gruppo di
Cremona). Bologna ricorda anche il commento scettico di
Montaldi quando si era interrotta l’esperienza di Quaderni
rossi: che cosa vi potevate aspettare da Panzieri? Egli
riteneva che l’intento di Panzieri di riformare il PSI o il PCI
non portava a nulla di buono; ed era anche diffidente verso
Classe operaia, a cui allora Bologna partecipava, proprio per
la presenza di militanti ancora legati ai partiti della Sinistra.
L’insegnamento che arrivava allora da Montaldi, secondo
Bologna, era quello di aprire gli occhi e di guardare
soprattutto al patrimonio di militanti che l’esperienza pur
stalinista del PCI d’allora aveva comunque sedimentato.
Pensa che Montaldi non si sia mai posto il problema di
ricostruire la forma partito. Quanto al riferimento a Lenin dice
di non sapere. Pensa comunque che Montaldi fosse attento
al Lenin del 1902- 1905, quello del Che fare? (che però si
pone proprio il problema del partito direi…), non al tema della
dittatura del proletariato, che ritiene una trappola in cui si è
caduti in tanti dopo il ’68 e che ha portato ad una deriva
leninista, massimamente nelle BR. Piuttosto Montaldi si
poneva il problema di come rimettere in piedi le lotte
operaie, di come riequilibrare il rapporto di forza tra le classi,
che negli anni Cinquanta in Italia era davvero sfavorevole per
la classe operaia. Quindi, almeno quando egli ha conosciuto
Montaldi e ha stretto amicizia con lui, agli inizi della vicenda
dell’operaismo italiano, si era in piena sconfitta operaia e il
problema del potere neppure si poneva.
2. Chiedo dell’atteggiamento di Montaldi verso gli intellettuali
e il ceto medio e se sa dei rapporti fra Montaldi e Fortini.
Bologna riconosce a Montaldi una cultura raffinatissima. Ma,
proprio per questo, Montaldi era in grado di capire che chi
ne sapeva di più in fatto di lotta di classe era il militante di
base e che da lui l’intellettuale aveva solo da imparare. La
vera cultura (quella per lottare contro il capitale) stava per
Montaldi fra gli operai che venivano da quella storia di lotte
e, se l’intellettuale non era scemo, vi doveva attingere.
Questa convinzione nasceva dal vissuto stesso di Montaldi.
Egli non aveva mai scelto di fare l’insegnante o di far
carriera. È vissuto sempre di lavoro autonomo e il suo stesso
lavoro di traduttore è basato spesso sull’empatia con gli
autori tradotti. Bologna ricorda la traduzione di Papillon di
Henri Charrière (Mondadori,1970), libro che allora aveva
letto:«Leggevo il libro e vedevo Danilo».
C’erano
osservazioni sulle donne caraibiche vive e «perfette».
10
Ricorda anche l’importanza della traduzione del libro di
Benno Sarel sulla rivolta degli operai di Berlino Est nel ’53
[La classe operaia nella Germania Est, Einaudi, Torino
1959]. E tutta l’attenzione di Montaldi alla cultura francese e
in particolare a Malraux (da lui letto nel 1950) nasceva dalla
sua attenzione verso esperienze allora considerate da molti
con diffidenza («erano tutti personaggi considerati traditori»).
Del rapporto di Montaldi con Fortini Bologna non sa nulla
(«posso solo immaginare che ci sia stato interesse e
distanza»). Mi conferma indirettamente l’impressione ricevuta
dalla lettura del carteggio fra i due al Centro studi Franco
Fortini. Né sa degli interessi più letterari o poetici o d’arte di
Montaldi.
3. Chiedo sull’atteggiamento di Montaldi verso i movimenti
del ’68-’69 Il rapporto fra Bologna e Montaldi c’è stato
soprattutto prima («L’ho sempre cercato io, non mi ha
cercato»). Fra 1967 e ‘71 si sono visti pochissimo o in modo
sporadico. Bologna era stato preso da altre storie e aveva
seguito altre strade (organizzazione rivoluzionaria, ecc.). Ma
Montaldi ritorna figura di riferimento («padre spirituale»)
quando Bologna ed altri fondano attorno al ‘73 la rivista
Primo maggio. L’attenzione alla storia del movimento operaio
della rivista richiama temi montaldiani o affini (storia orale,
novità dell’immigrazione e degli esclusi dalla grande fabbrica
, ecc.). Anche per il contributo di Cesare Bermani viene rotto
il cerchio dell’operaismo più ortodosso. La storia ridiventa
importante e le raccolte di testimonianze di Montaldi, che per
lui non furono mai soltanto ricerca sociologica ma anche
storica, ridiventano riferimento di primo piano. Bologna
ricorda l’impegno propriamente storico di Montaldi con il
Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970) uscito
postumo nel 1976, Ediz. “Quaderni Piacentini”. È un libro
non completato. Può piacere di meno di Militanti politici di
base. Ma è un tentativo di andare a vedere anche cos’era
stato il PCI e non fermarsi più solo al patrimonio di militanza
di base. Certo a Montaldi non importava la storia orale come
disciplina istituzionale (come non importava la sociologia
istituzionale). Il suo interesse era sempre fortemente politico:
voleva mettere in luce la vera condizione di vita dei proletari.
E fra quelli che più hanno portato avanti il suo discorso
Bologna ricorda soprattutto Romano Alquati e Cesare
Bermani.
4. Chiedo del legame di Montaldi col mondo contadino della
Bassa padana Per Bologna entra sicuramente in gioco in
tutto il lavoro di Montaldi, per il quale però non esisteva
differenza di sostanza tra mondo agricolo e mondo urbano.
Qui la diversità della sua posizione da quelle di Bosio e
Bermani, che esaltavano una specificità contadina,
rischiando di staccarla dal resto. E in Montaldi non c’è
neppure estetismo verso quel mondo, né ricerca di radici
arcaiche. La sua attenzione è ai rapporti fra contadini da una
parte e industria e modernizzazione dall’altra. Non c’è
neppure l’estetica della modernizzazione che si affacciava in
Potere Operaio.
5. Chiedo sulla delusione degli ultimi anni di Montaldi e sulla
sua attualità Come non essere delusi per la piega che
avevano prese le cose dopo il ’68-’69? - osserva Bologna,
richiamando le caricature del partito leninista prodotte dai
gruppi extraparlamentari d’allora. Tutti facevano comitati
centrali e smarrivano la ricchezza di quanto stava
avvenendo. Era una conferma per Montaldi dei suoi sospetti
verso il ’68. Bologna non ha dubbi sull’attualità dell’approccio
di Montaldi. Semmai oggi con quel suo metodo bisognerebbe
andare a vedere cosa sta accadendo nel ceto medio, non
certo andare a sentire gli ex militanti dei gruppi. Bologna
considera insufficiente il concetto di moltitudine, che a me
sembra definire quantomeno la situazione creatasi con la
sconfitta della classe operaia. Per lui non è un concettochiave, cioè non permette di delineare quali sono i passaggi
attraverso i quali attualmente si produce il plusvalore. La sua
tesi è che il lavoro dipendente si va modellando sul lavoro
autonomo, ma che da questa dimensione non affiora un
vero soggetto, anche perché la politica sindacale non solo
non è in grado di occuparsene ma si ritrova con tutti i suoi
strumenti rivendicativi tradizionali spuntati (lo sciopero per i
lavoratori autonomi non ha senso). Si tratta perciò
innanzitutto di capire e poi di fare teoria della nuova
condizione lavorativa. Bologna ritiene anche che elementi
fondamentali di questa trasformazione del lavoro possano
essere colti più da certi osservatorii (dalla collocazione in
certe professioni) che da altri.
Lavorando su Montaldi
Recuperare la sua funzione di maestro sia pur di una
condizione proletaria che oggi non è più mia e non è più
centrale. Non ridurlo a “giovane” di cui noi invecchiati
vediamo il lato ingenuo.
21 aprile 2003
Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 19521994, a cura di Velio Abati, Bornghieri, Torino, 2003
Caro Velio,
penso di dovere alla tua cortesia l'invio dalla Bollati
Boringhieri del volumone delle interviste di Franco Fortini. Te
ne ringrazio.
Malgrado impegni vari e festività incombenti, non ho resistito
alla tentazione di scorrere subito la tua introduzione e di
leggere, a salti, alcuni dei testi di Fortini, specie gli ultimi. È
una mia vecchia impressione, tutta da argomentare sui testi
fortiniani, che proprio gli ultimi diano una chiave,
indispensabile oggi, per ripensare la sua opera , per così
dire, "dalla coda", e cioè dal massimo di consapevolezza
dell'esaurimento di tutta una precisa storia (noi vecchi
abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi,
perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi
occhi, pag.709), che per me - lo sai - tende ad essere
interamente quella della sinistra. Altrimenti si rischia di
perpetuare una visione più tranquillizzante e
strumentalizzabile di un Fortini malgrado tutto e sempre in
collegamento e in opposizione interna... con le forze politiche
della sinistra (pag.XIX). Contro ogni (anche ottima) sua
"imbalsamazione accademica", in questa sua miniera a cielo
aperto di osservazioni (disparate, di diseguale valore, magari
"in pillole", ma mai
cieche di fronte alle concrete
trasformazioni dei singoli e della società), bisogna trovare il
filo o i punti dove egli più ha intuito quel passaggio che oggi
viene chiamato dal fordismo al postfordismo. O, in altri
termini, interrogarlo dall'esterno delle sue stesse posizioni. Il
suo sentimento... di inappartenenza lo ha portato - credo -
11
più vicino di quanto egli stesso credesse a quanti quelle
trasformazioni hanno interpretato fuori dalla matrice hegelomarxiana di Fortini (gli operaisti, intendo...). Spero di poter
discutere con te più in avanti questa e altre questioni, come
pure che il tuo lavoro riceva attenzione al di là delle
minoranze.
Non preoccuparti.
Smesse le segherie
ricominceranno i grilli.
CAPPELLA DI CASALBARONE
PER L’ESODO
Riordinadiario: Reliquario di gioventù
Nella cappella dei santi paffuti
i gatti si rincorrono la coda.
Il vento sfoglia in fretta il messale.
Le cugine ripongono il velo.
SEZIONE I: SALERNO
CAMPAGNA
Ma nella tana delle lucertole
nei rigagnoli
nei gusci di noci
sotto le foglie
in mezzo ai nidi abbandonati daIle passere
e dappertutto
nei luoghi dove luce e calore
neppure supponevano
un silenzio
c'era...
BOSCO
Sotto gli alberi
è rimasta
l'umidità
di antiche leggende.
A pisciarci da soli
di notte
non si fa che aumentarla.
SEPOLTURA
Non senti
il merlo incollerito?
Nell'erbe
lo si deve seppellire.
Ohimé, i vermi!
Solleva il sasso.
Soffia nella conchiglia!
MADRE SUDATA
LAMPO
Ieri la vacca ruminava
un tramonto rosso.
Oggi muggisce inquieta.
Mancano le stelle.
La nonna tra i rutti
affretta l'avemmaria
prima che scoppi il tuono.
DOPO LA PREDICA
Sugheri sballottati
vuoto di cuori e di borracce
il nespolo nero,
i pioppi o i dannati?
E intanto
dopo la predica
sul fatto che nasci
e svelti come l’incenso
o in pianto di candele
si muore
sgomentavo.
Non ero più nella cozza al sicuro
ma come la serpe che intrappolammo
dentro la tana in pendio.
SOGNO E CALMA
Bambine in fila
seminano noccioline.
Più indietro
altri le ammaccano.
Qualcuno le raccoglierà
domani.
Asciugavo
mia madre sudata.
Le galline
beccavano annoiate.
Le cicale
si grattavano il mistero.
LA DAMIGIANA
PAURA
LUTTO
Non salire sull'albero
lavare le prugne
lisciare i cani neri.
Menta ficcata nel naso
camminavo
assieme a zie senza profumi.
La damigiana
abbandonata sotto l'arancio
non ha più il sole
dentro la pancia.
12
Una era in lutto
e per un ramo di nocciolo rubato
mi rimproverava:
Se arriva il padrone!
A che ti serve
un bastone?
IL VALLONE
Erano già morte
tutte
la quaglia agonizzava
nuvolo il cielo
e la rana scappava nel torrente.
Ma il vallone?
Il vecchio s'accostò:
cercava soltanto
la sua falce. Mi sorrise.
MIO PADRE
SFIDE
Per rifarci di un pioppo non scalato
saltammo ad occhi chiusi
vasche di calce viva
e sfidammo il buio
sciupandoci i calzoni
sulle tegole del fienile.
Vi furono poi sere tristi
ginocchia sporche da lavare
e funi da arrotolare
attorno al palo
col corno di bue in cima.
MORTE DEL CONTADINO
O zie sta mmalate (sottovoce..).
È stanco
non dà ascolto ai serpenti
non accorda più lumi di lucciole
alle stelle
o il fumo della pipa
con le nuvole.
Lo zio vede una chiesa
sott'acqua
sente pesci uccisi
che si lamentano
e pesci incinti
che odorano le alghe
i garofani e sua moglie.
Dite alla morte che ritorni
un altro giorno.
Adesso ha freddo ai piedi
fuori c’è vento
e la pioggia cade
miezze e purtualle fracete5
gonfie bolle ammuffite
come di sapone.
Strade che puzzano
e poi sentieri
con tramonti assorbiti
dalle foglie.
Che nasconda passeri antichi
pietre d'inciampo
voci da seguire?
Dove i cavalli bai fantasticando
lo dondolavano lungo e pendente
un uomo antico con un frustino di nocciolo
fra le dita di caldarroste per il troppo fumare
sibilò a un'ultima serpe e a morte la colpì.
Poi s'arrampicò sul fico
e nascose pistola e serpe.
Tornando carezzò i cavalli
colse una spiga di grano
la strofinò fra le mani
e con voce di stivali militari
parlò ai suoi vecchi
di mandarini e garofani
da tempo senz'acqua.
Se toccava una quaglia ferita
i limoni agonizzanti sugli alberi
il mio ginocchio magro e insanguinato
era il soldato di una volta
che palpava una sua ferita
ormai rimarginata.
Ci amava tutti come ferita nota
mio padre
e quando un fulmine distrusse il fico
partì al buio
svegliando soltanto il cane
e tornò con la bocca più zitta
come da un cimitero.
BREVE RITORNO SUL LUNGOMARE DI SALERNO
Ma è chiuoppete
ncopp'e fiche d'indie?6
Le massaie hanno ancora
odore di prezzemolo sotto le ascelle.
Le vedove camminano
nei neri sai crepitanti degli scarafaggi.
Gli uccelli non t'indicano più.
Persino i gabbiani si sono arruolati
in altri eserciti.
Al tramonto
5
in mezzo alle arance in decomposizione . [e purtualle:
arance, forse del Portogallo, dal sapore – credo - di vaniglia]
6
Ma è piovuto sui fichidindia?
13
gli scogli tornano viscidi cessi notturni.
Vuoto di bara sotto la galleria di Vietri sul mare.
Amarognolo dolore di casa.
Non c'era cielo là sotto
e non arrossire o sbiancare.
Di fronte ho uno che al racconto
nella pausa fra albero e folla
sbigottisce.
Lascia stare il fazzoletto.
Non guardare dal finestrino
un'ultima volta la tua paura
che passerà correndo.
GIARDINO DEL TEATRO VERDI
PADRE E MADRE
Mio padre e mia madre vecchi
rispuntano
nella commozione di Maria Salvato
la fruttivendola
spia dei miei rossori d’amore
a cui li nomino pacato ora.
Erano nella chiesa di san Domenico
dove entrai per caso
quella sera.
Terminata la funzione
stavano là
silenziosi, vicini, immobili
nell'eco delle preghiere.
VICOLO DEI MERCANTI
Correvamo
metà nitriti e metà cavalli
falcando la folla.
Ci frenavano fuori città
i larghi prati
da brucare.
FOLLA
Stelle di silenzio e odio.
Ombre della paura e dell'invidia.
Pioppi ansiosi di venti stranieri.
Terre immobili della nostalgia.
Gatti d'istinto e d'equivoca fissità.
Alle sette del mattino
bigotte turisti e gabbiani.
Tardi poi nei vicoli
dei venditori di cozze
sulle pietre squadrate
e nelle isole d'ombra
annottano le puttane.
A quello venuto
col pullman dei gitanti
la più giovane
che spesso s’apposta
davanti alla farmacia
ha lasciato aperto
uno spiraglio di porta
per farlo uscire gentilmente
come si fa a casa nostra
con le mosche.
INVOCAZIONI
A quella sul balcone
dove i glicini cadono a terra sfioriti
allo studente
all’apprendista di ceramica:
il lampo interrompe i gatti
in amore?
Ma a chi:
il sangue che inghiottii assieme al pane
i seminaristi che incrociavano per bene
le convittrici
o il mistero della donna incinta?
PIOGGIA E VENTO
Trattieniti
nella pioggia
e fa’ un passo nel vento.
UN SUICIDA
a Mario Barletta
Di pomeriggio un granchio
arranca
sulla strada asfaltata a lungomare
vicino al cinema Diana.
I negozianti abbassano le saracinesche.
Quando viene spiaccicato
impercettibile è lo scricchiolio.
Ahi, papà
dov’è nascosta la pistola?
CHIERICHETTO
Aveva chiesto
al prete
se poteva servir messa.
Calzettoni rotti ai calcagni
mutandine logore
e a volte
(a sbravugnate!)7
la baionetta dentro i calzoni
eretta.
7
mascalzone
14
MARE E VICOLI
Allegri per tutto il lungomare
ci rattristiamo
ora nel vicolo allampionato.
Odore di cataplasma
uccisione di ragni
muri umidi.
Ma una volta al tramonto
mio padre decise: per i campi.
Negli intervalli dei passi
i cani abbaiavano
e ad ogni lume di lampione
cresceva
l’avventura
e il concerto dei grilli.
TRAGUARDO
ALLA FINESTRA
La luna alla finestra
è malata di cuore.
Ma vi sono, volendo
lune veloci, di festa paesana.
ESTRANEITÁ
Avevi tanto riflettuto
sui culi delle ragazze!
Ma adesso?
Al mattino
i gatti delle quattro e un quarto
non si scompongono più
al tuo passaggio.
Il vento fruga
sotto gli usci.
I fanali dei pullman
non si fidano.
Piccolo atleta affannato
sfuggito alle insidie della strada ormai buia
a mia madre
con le mani inguantate dalla schiuma
del sapone
traguardo odoroso di lisciva
un bacio rubai.
VITTORIO
Non venne a caccia di ricordi
mio cugino.
Capitò da noi per sbaglio.
Bevve un caffè
e guardò smarrito
i colombi delle sue albe infantili.
Era andato solo per il mondo
in Argentina.
Ora parlava a voce più alta
non più a lungo.
FESTA PAESANA AD ACQUAMELA
NEGOZI
Ce n'erano d’estate di freschi.
vicino alla chiesa del Carmine
alla fermata della filovia
quello di ferramenta
e l'altro:
ha ditte mamma
miezze chile e baccalà.8
LA FILOVIA
Non ci andavi più al paese
per rivedere zie e cugini
ma per salire sul gelso
nel mattino fresco
infilarti nella stalla
sedere sul cornicione della cisterna.
Al ritorno
i paesani salutavano
e se la filovia tardava
camminavamo dietro padre e zii:
si raggiungeva
a piedi
la fermata successiva.
8
Mia madre ha detto che vuole mezzo chilo di baccalà
I pomodori rossi tiepidi di sole
picchiettano
stretti e verdi viali
per gallinelle in fuga.
A sera poi
la gente inerme
sprovveduta nei piaceri
si muove
incanalata dalle luminarie.
Buio di cimitero
incombe attorno.
LICEO TORQUATO TASSO
Professore
sono senza ragazza.
Piscia nell'angolo
assieme agli altri.
Le vacche
del sabato sera
hanno ruminato
la filosofia
dell’intera settimana.
15
Ohi, che saggezza
dint’a mmerd’e vacche!9
LA GALLINELLA
Dopo una sorsata
la gallinella
dà un'occhiata
di scusa
al cielo cupo
e nel terreno
si prepara il fosso.
PIOGGIA
Pioggia di quella sera
non fai più rumore
dei passeri agitati
a primavera.
Tonde e sconosciute
le paesane
oscillavano
lungo la discesa
in silenzio.
IN BARCA
La ragazza
col fiato mozzo
respira
ultimi acidi insulti
e impara
con garbo
la timidezza
stesa a pancia in giù
sulla barca
le dita a fior dell'acqua.
e alla signora Teresina
che veniva ogni tanto a casa nostra
per fare il bucato a mia madre malata
per pochi soldi
sfogando una pena
di donna tradita.
A sera solo strade
con rari squarci di lume.
UNA RAGAZZA DELLA SCUOLA DI CERAMICA
[O vviente
scummugliave o cule
ae gallinelle]10
E lei veniva
bocca lessa
e luce di tramonto
sotto le scarpette.
FESTA PATRONALE DI S. MATTEO
Tanta gente estatica ascoltava
fitta grandine in pieno temporale.
O l’orchestra che rullava ai tamburi?
Poi malinconici e malvagi
scappammo sui viali
sciacquati dalla pioggia
dove per anni insinuammo
brevi nostalgie.
Qualche goccia ancora cadeva
dalle foglie tentennanti.
FUNERALE
Cielo, fiori gente zitta.
Madre, pianto. Che mancò?
IL PASSERO
Sul prato
un passero si libra
a mezz'aria
danzando, beccando
un po' qua, un po' là
gli insetti, affar suoi.
[Ncopp'a l'erbbe
nu passere
zumpanne nu poche cca`
nu poche lla`
s'acchiappe e muschille
pe fatte suoie.]
E lo sposo? Quando arriva?
S'è perduto per la via?
Ti ricordi? Eppur ballammo...
Sulle tombe?
Sulle tombe dei parenti
ammucchiati, rassegnati.
Ti ricordi, ti ricordi?
Delle bacche di cipresso.
Degli amori non permessi.
Delle facce di quei fessi.
DOMENICA DELLE PALME
RANCORE
Levammo in alto rametti d'ulivo.
Canti e incenso. All'uscita
baci alle cugine
Di un ragazzo
con filosofie di tabacco
le cicale cantarono.
9
10
dentro la merda di vacca
Il vento scopriva il culo delle galline
16
Cicale, cantate voi il mio rancore!
Le cicale crepitarono
tutto maggio.
Di notte continuarono i grilli.
Morii con lui:
in parte, come potevo
con le cicale di maggio
e senza grilli.
Al termine di vicoli bui
donne giovani
gocciolanti dolore
e varrechina
fin fra le cosce
spolveravano, ricucivano
ma cosa?
Scure le ciliegie
dei capezzoli.
.
ULTIMA INVOCAZIONE
SGUARDI
Cocci di vetro
e nella cantina
un graffio di sole.
Capocchie lucenti
di spilli nel catrame.
Legni della segheria
bagnati di pioggia.
Il corno di vacca
in cima al palo.
A PUCCHIACCA
Il prato era in salita
e al sole
Peppe la nominò per primo.
Ti prego
la polvere che ho
sotto la mia erba
aiutami a mutarla in fango!
Tu hai pioggia!
VENERE PAESANA
Dentro l’orcio del tempo sotterrato
si leccarono Venere
una volta.
Sudata
indossò pepli
dopo aver tessuto coi ragni maschi
nelle sue cosce serotine.
MANDARINI
Puzzamme
e adduramme
e mandarine
e di ragazze
di periferia.
Più giovane
peregrinò fra le pannocchie
e sopra il fieno
imparò a intonare peani
con le anche.
LADY CHATTERLY
LA CORTECCIA
Smesse le tempeste
i ragazzi
scoprono l'albero
e qualche ragazza
s'accorge
che la sua corteccia
ferisce.
PROPONIMENTI
Conserva cachi
sotto paglia e letame.
Pesca alici affumicate
d'ira e di sabbia.
Ficca sarcasmo
nelle castagne.
Conta le ghiande smarrite.
Non una goccia.
Rubò tutto.
Si rincorsero come vermi
sull’erbe viscide.
Verde culo
Piangeva la pioggia.
ROSARIA
Noce avvolta in verde mallo
cantava miserere
smaniava miserere.
Un tuffo nel vicolo.
E fra le sponde del suo stagno
affondarono papaveri.
Sulla pancia
passarono formiche.
VICOLI E DONNE
17
GABRIELLA
Hanno cupe ferite da celare
le donne.
Quelle che ancora sorridono
senza malizia
fan chinare il capo lo stesso
e muggire il desiderio
le labbra come foglie tremanti.
Bionda collega
signorina spirituale
e infreddolita, fragile come un sorriso
nei treni affollati di mattino
altri hanno assaggiato
la vainiglia delle tue labbra.
Non i giovani operai
che ti guardano le mutande bianche
come fossero tende davanti alle soglie
d’ignote case.
Non ruberemo noi il tuo grembo.
RICORDI
Da bambino palpavo
pagliai, ali di farfalle e l’erbe del giovedì santo.
Piangeresti, se io fossi notte!
Le rose sbocciate a capo chino
vanno bene sull’altare.
Non vedranno l’azzurro del finestrone
né quello del mare
dove d’estate per gioco
affondammo una barca.
Mai fummo di notte tanto impauriti
come nei ricordi.
LA RAGAZZA DEI PRETI
Pioggia. Sotto i portici
ci aggiravamo in attesa
monsignore era al caldo
dietro i vetri dell'arcivescovado
a lungomare uno scalpiccio
negozi illuminati
la tonaca violacea della quaresima.
La mia città
(nacqui dal suo ventre calcinato)
amavo come una carcassa.
Gioacchino leggeva quattro righe
sull'amore
Carlo già si scherniva
dolore senza sfogo
Filodemo sorvolava la materia
e to' dafne!
un codazzo di ragazzini
l'inseguiva per i vicoli.
Ore e ore in appostamenti
antri umidi buio
scalette sporche puzzolenti
rapacità senza respiro
merda piscio urla e lupanari
incollati ornamenti addosso
a palazzoni fraudolenti.
Due qualsiasi
che facevano baci
e pochi toccamenti
nella stradina
dietro san Domenico
a testa bassa e poi
cercavano davvero ciclamini
ansiosi d'annegare in un posto tranquillo.
Randagi indagano annusano
dalle grondaie i colombi bersagliano
segnalano gli scugnizzi
i nostri spostamenti
passanti già ci palpano ghignanti
e la pioggia non smorza
quel sole d'occhi cocenti
di gente miserabile che spia
se là per caso
sotto i loro sguardi d'astio
riesci ad arraffare
un po' di gioia.
Di ragazze una già sfatta
se ne sta muta nel portone
di fronte
al pianoterra della sua miseria
poi quella incinta
e la caramellaia:
Ugo naviga giulivo fino a lei
noi restiamo di qui a cincischiare.
La mia ragazza è malaticcia
seria perciò, sguardo patetico
strabico
deciso al dolore.
Si fida di me, crede ch'io sappia
decifrare il senso ostile
di questa ansiosa città.
L'attendo
ai lati d'una cappella.
Due scheletri marmorei minacciano
apocalittici sermoni.
Resisto nel mediocre vuoto
fingendomi in difesa.
Fischietto.
È passato il cantante stempiato
e il filosofo magro
foruncolotico.
La testa canuta che conteggia
i nostri segnali
è spuntata
alla finestra del terzo piano.
18
Non ho bestemmiato.
Le tue persiane erano socchiuse
c'era luce, tu aprivi sparivi
il lampione ha dondolato
col vento la strada s'è asciugata
solo negli incavi della pietra
l'acqua persisteva.
Musiche d'organo cori incensi
erbe del giovedì santo
m'inebriavo.
Tra lei e me un prete
due preti gli amici dei preti
la scuola (coi preti)
lei era più sola soltanto
un'amica e forse una zia.
Il prete disinvolto
mi tira l'ostia in bocca
anche lei sta al gioco
sale con le altre s'inginocchia
e dall'altare lui sudando
l'imbocca.
Ma a pasqua me la strappano
la stendono a terra
e a turno tutti la baciano
il prete assiste
disinfetta le parti
del suo corpo più sfiorate
io non voglio guardarla
ma già mi spingono da lei
sguardi ipocriti e saggi
suggeriscono la finzione
occhi severissimi l'impongono
mani callose e robuste mi premono
sulle scapole.
Nel pozzo colorato di luce
(ah le vetrate dei miei artigiani!)
ora la scorgo anelante
equivoca umiliata
la bacio per l'ultima volta
e so che senza lei andrò.
E non starò più
con nessuno di loro.
di luci
troppo lontane.
MILANO 1962
Non più cipria da barbiere
nelle orecchie
processioni a Pompei a piedi scalzi
ragnatele di languori.
Ora t'abbandoni
allo specchio della città ignota
e nudo nuoti.
BASTIONI DI PORTA VENEZIA
Aspetto assieme a ignoti
che tutta questa storia secchi
come in un erbario.
Il passero
precipitato
non riesce più a volare.
Sta per morire
il tuo secondo Papa.
VAGANTE
Ecco, vado a spasso
dando dispiaceri
a vie sconosciute.
Do retta
solo ai ragionamenti
dei cancelli spalancati.
Scambiato per ladro
mi stringo in tasca
talismano che mi calma
un coltellino.
Quando il passero mi ha interrotto
canticchiavo
amara come un rantolo
la canzone della gioventù
moribonda.
E le ragazze corrono lontane, ehilà!
Non sono serie!
NOSTALGIA
SEZIONE II: MILANO
PENSIONE DI CORSO BUENOS AIRES 56
Così tremante
nell’uccidere lo scarafaggio d’ansia
nella stanza della pensione
ad incollare
lo sperma della mia solitudine
sulle pagine del libro
che leggevo
a innamorarmi
sott'acqua come un palombaro
Urtarsi con la folla
e di straforo
appena svoltato l'angolo
cercarsi addosso le gocce
del mare
e asciugarsele
sul volto secco
di mia madre vecchia.
19
LATTERIA DI VIA SPONTINI
PENSIONE DI VIA PONTACCIO
La ragazza
dietro il vetro
spolvera sorrisi anche per me
ma ho la testa
nella pace dei grilli e tra le foglie secche
spostate dal vento.
Nella notte
tonache qua e là
di sbieco o a quinte
tremano nel vento.
I cocchieri
strigliano i cavalli
e i barbieri
imbrillantinano i bambini.
E tremano
le cose che sono cose
i tronchi
i colonnati
la gente
che traversa la via.
Nel tempo dell'infanzia
un amico labile
dal dialetto smarrito
spezza in bocca uno stuzzicadenti.
Al mattino
la luce tutto ridecide.
JUKE-BOX
Qui la zitella sconosciuta seduta al tavolino
si sconcerta
ad ogni pausa di boccone.
Fumiamo, fumiamo.
Le città del nord
sono già tutte fidanzate.
UFFICIO TRIBUTI DI VIA ROVELLO
Il novello impiegato
ammicca
all'indelicato concerto
della dattilografa.
In epoca senza languori
sui tram
a passeggio
per strade equivoche
in pensioni solitarie
con padri mal sotterrati
le componete
‘ste poesie, eh!
Stai male?
Sì, grazie, non datemi
una parolina d'antico!
MESSAGGIO POSTUMO
Amici
non ho più i vostri volti
sulla mia vela.
Siete immobili e il mare
è troppo calmo.
Lascio
in una comunissima canzone
spiccioli
di disperazione.
Quelli della latteria
la conoscono.
E le commesse
che non smettono di riderne.
PICCOLA APOCALISSE
Non ho cravatta
non letto.
Non è tempo
per diventare proprio amari.
Mi deve capitare.
Ho ricordi
che non sto qui
a spelare.
Osservo - fatemi esagerare la mia piccola apocalisse.
FANTASMI
Perché non discendi?
Fin dove sei vera e dove trampolo?
Fin dove mantello e dove tutto affanno?
Si spogliava e vedeva i suoi abiti
divenire acqua di fiume
dove nascondere lacrime.
Nelle orecchie
mi stampai le nenie
dei paesi vicini.
Aveva guardato stelle
mentre donne ignote si accasciavano
lavandosi le ali sciupate
e una perdeva le labbra
pregando.
Quando ripasserò nel vento
riavrò
intera voce.
I primi pesci già ti solleticano.
Il delfino si morde la coda
e traccia sulla tua gonna
20
una canzone.
Alghe chiudono gli occhi
alla tua seria sorellina
(un seno sì, l'altro no)
e ragazze coraggiose
sgusciano i loro senza sfiorarli.
RUGGINE
Se
il sole s’è arruginito
e le mele sono state morsicate
dalla disubbidienza
e i galli sulle galline
e l'indice in pugno
a misurar le prugne…
RIMORSO
Mi sfiorassero ancora
l'anatra colorata
con pastello d'infanzia
e le anguille nella pentola
tranquille
e in rimorso
la coda del gatto impiccato.
Sto inseguendo farfalle di sole
in bilico sulle rotaie.
"BEVITRICE D'ASSENZIO" DI TOULOUSE-LAUTREC
Pensatrice a gomiti stretti
arrotoli la benda d'alcool e veleni
per non scordare
quando t'accompagnavi
alla falena stanca e al vento in blu.
Adesso hai intrecciato le dita
e la pendola assennata
in dodici singhiozzi t'ha avvertita
di quanta ruggine è sul tuo tempo.
Da’ un ultimo morso di passione
alla tua albicocca e nascondila
in labirintici e mai svelati sorrisi.
Appunti-note del 1993
[una campagna esplorata da un bambino senza parole.. da
cui si fa facilmente incantare e non sa andare più avanti a
parlarne | il sole «arrugginito»: la ruggine è difficoltà di
rapporto, di contatto; «l’indice in pugno» è segno di tormento;
distinguere quelle evocanti la salernitudine da quelle nate
dall’impatto con Milano? | «pisciarci da soli» allusione ad un
bisogno del corpo non contenibile che viene collegato alla
paura; «l’umidità di antiche leggende» è un deposito di
credenze a cui quella paura mentre si urina si collega | la
percezione della morte attraverso il contatto con il mondo
minimo della natura indagata dallo sguardo infantile: soffiare
nella conchiglia è segno d’autoincoraggiamento o
d’esorcisma | madre, galline, cicale: tre immagini su cui si
proietta un erotismo innominabile | ansie e piccole angosce
infantili nell’assenza degli altri: piccole proIbizioni del mondo
degli adulti («non salire sull’albero!) riferimenti concreti
mascherati a piccoli esperimenti fatti in campagna nella terra
di una zia… la segheria era quella di uno zio | la cappella è
quella della piazzetta di Casalbarone | la contrapposizione
fra rutti e avemaria, fra bisogno corporeo e preghiera in un
clima di angoscia; la paura dei fulmini era forte da bambini |
ancora angoscia di morte derivata dal contatto coi vecchi e
dai discorsi degli adulti; il ritrarsi in uno stato animalesco per
paura | «menta nel naso»: era un’abitudine da bimbi: il
mondo in cui si viveva era ancora odoroso ; è una poesia
tratta da un sogno | pioppi, vasche di calce, fienile: luoghi
delle piccole esplorazioni nella casa di una zia | la morte di
uno zio di Antessano; era ammalato e capitai a casa sua;
forte la suggestione surrealista (forse avevo letto Lorca
allora…) | il vallone era quello vicino Casalbarone
ingigantito dalle proibizioni di mia madre e delle zie: è il
contenitore inesplorato di desideri e paure; è una
prefigurazione infantile-adolescenziale di quello che poi
imparerò a chiamare inconscio| piccola leggenda
arcaicizzante del padre; i dati reali: le dita unte dal marrone
della nicotina, il frustino di una foto da militare o quello che
egli ricavava da un ramo di nocciolo durante le passeggiate
nella terra di una zia ad Antessano, il fico è quello della terra
di zia Assunta a Casalbarone , dal tronco piegato, dove coi
cugini andavamo a cogliere o a mangiare direttamente sulla
pianta e fiche mulegnane; la pistola era quella che mio
padre, ex carabiniere, conservava in un cassetto
dell’armadio, ecc | la figura del padre di Disincanto è più
pavesiana; lo stacco fra figli e padre | registrazione di una
separazione dalla città | al mondo dell’aria e del microcosmo
campagnolo esplorato in campagna si contrappone
l’esperienza del chiuso, della stanza di pensione, della lettura
di un libro, di un innamoramento senza possibilità di
comunicare | ancora l’infantile animalizzarsi | la folla della
metropoli è resa attraverso immagini scorciate di paure
dell’infanzia | il suicida è Mario Barletta; l’analogia è con un
granchio schiacciato : episodio di Lungomare | la pistola è la
sessualità inaccessibile, la mancata trasmissione di una
conoscenza della corporeità | sono immagini paesane di un
mondo scomparso e di un’adolescenza d’altri tempi | [ il
critico: chi vede le cose vissute da un altro in altra
condizione di vita, di sapere, ecc] |reliquia di una morta
giovinezza, la maturazione è altrove]
Una lettera-commento di Michele Ranchetti
18 giugno 2003
Caro Ennio,
ho letto le tue poesie più volte: l’immagine che mi è venuta in
mente è quella di un grappolo d’uva nera su un tralcio
abbandonato. Gli acini sono dolci, amari, secchi, verdi,
maturi, rossi: il vino che ne risulterebbe sarebbe rosso scuro,
forte, mezzo buono e mezzo no, amaro, e che va subito alla
testa.
Alcune poesie sono belle da sole, altre diventano belle, o
almeno necessarie, nel rapporto con le altre. Alcune sono,
per me, troppo furbe; altre di una tragicità spezzata prima di
divenire retorica. Come tu scrivi molto bene sono ‘ritratti’ di
un’infanzia che diventa una ferita inguaribile e insieme
provvida, perché dà un senso, anche se doloroso, a ciò che
sembra disperdersi nel confronto con l’esterno, la città, la vita
21
adulta. Le poesie milanesi mi piacciono meno perché
corrispondono, mi sembra, ad una scelta di luoghi poveri e
per questo privilegiati come più veri e significativi, per te.
Dove era una vita in un paese ( e in un dialetto) c’è ora una
solitudine che non si confronta e che sceglie come a sé più
familiari periferie e latterie a poco prezzo. Ma la loro
‘evocazione’ poetica rimane fissa nell’ostilità, nell’acredine,
non diviene ricordo.
In ogni caso, anche queste sono poesie vere, non fatte…..
PER L’ESODO
Memorie Luciano Amodio
Un Giano bifronte, un incontro mancato
11
Ho conosciuto di persona Luciano Amodio
a metà anni Novanta, dopo la completa rasatura a
zero in questo paese di qualunque fermento
critico vagamente “rivoluzionario”. L’ho incontrato
nelle riunioni allargate di Manocomete, la rivista
che Giancarlo Majorino ha animato a Milano tra
1994 e 1995, generoso ma breve tentativo di
rimettere a pensare assieme, in uno spazio
spostato (memore di un precedente: Il corpo),
intellettuali di varie competenze e generazioni,
alcuni attivi già negli anni Sessanta, altri dopo il
1968.
È sullo sfondo pubblico di tale esperienza
che parlerò di lui, tenendo però anche conto di
un’immagine sua già presente nella mia mitologia
personale. Fra 1964 e 1975, infatti, lavorando,
riscrivendomi a Lettere alla Statale di Milano,
partecipando al movimento studentesco e poi ad
un gruppo extraparlamentare, avevo accettato un
nuovo periodo di “apprendistato”, storico-politico e
“di sinistra” stavolta. (A Salerno, da dove
provenivo, la mia educazione era stata cattolica e
crocianamente letteraria; al liceo, il professore di
filosofia aveva saltato il capitolo su Marx del
manuale di La Manna, assicurandoci che «non
era importante»). Mi ero orientato presto verso la
sinistra “eretica” e il nome di Luciano Amodio era
nella mia lista di autori “dissidenti” dal PCI-PSI,
che andavo leggendo con simpatia. Amodio era
uno studioso di Hegel, di Gramsci, di Lukács - mi
dicevano - il traduttore degli scritti di Rosa
12
Luxemburg , uno dei Quaderni Piacentini, rivista
11 Lo scritto è destinato ad una raccolta di testimonianze su
Luciano Amodio a cura di Giancarlo Majorino.
12
Trovo tra gli Scritti 1952-1975 di Danilo Montaldi
quest’annotazione
“d’epoca”:
«[Bosio]
aveva
intensificato i rapporti con più di uno, di
«Ragionamenti», per farne un curatore di libri per le
edizioni proprie. Ci riuscì con Amodio, e ne pubblicò
l’antologia degli scritti della Luxemburg, presentata,
anche questa, come un «bel» libro, e caro. Quali
restrizioni nei diritti fossero assegnati al curatore, lo sa
Amodio, e lo so io, purtoppo, per una serie di
«consulenze» che mi richiese dopo essere stato
fregato. A parte l’inerzia editoriale dimostrata, per cui
Amodio stese un fitto ciclostilato al fine di correggere
che cominciai a comprare su suggerimento di un
ignoto studente - autunno 1967 - durante
un’occupazione (serale) della Statale per il
Vietnam.
Se oggi metto a fuoco l’immagine di
Amodio nel breve periodo di Manocomete, quella
della mia mitologia sessantottina e altre poche,
più frammentarie (un contatto telefonico in cui gli
chiesi una testimonianza scritta su Fortini da poco
13
morto , il convegno su Elvio Fachinelli del
dicembre 1998, la presentazione della ristampa di
14
Discussioni nel 1999 alla libreria Tikkun), mi si
compone nella mente la figura emblematica di un
Giano bifronte: il volto socratico e fiducioso degli
anni Sessanta, quello scettico e sardonico della
fine del «secolo breve».
Evidente è lo scarto fra le giovanili prese
di posizione ai tempi di Discussioni e gli scritti su
Manocomete, che avevo letto prima degli altri
quasi con ansia e poi con disappunto.
Nei primi ritrovo: l’esigenza «d’una cultura
veramente di sinistra (e non riformista, come la
maggior parte della cosiddetta cultura di sinistra; e
non propagandistica, com’è quella che rimane)
[…]. Dirò di più: una cultura marxista…Poiché a
mio parere […] esiste una sola cultura di sinistra,
quella che non è fuori del marxismo», la
preoccupazione «di volgersi verso le cose e i fatti,
la noncuranza del poetico, del letterario, in genere
15
dell’estetico e del falso etico» , la convinzione
«che esiste un tutto, un movimento in cui il nostro
studio particolare diventa veramente utile e
16
s’universalizza»
e, perfino, una fiducia
baldanzosa, che lo spingeva a scrivere: «Il
progresso e la libertà non si misurano dalla
morale e dalle chiacchiere, ma dalle opere, dai
17
monumenti, dalla scienza» .
Nei saggi su Manocomete, invece, sotto
un linguaggio a tratti criptico e denso di allusioni
da capogiro (magari per me) all’ Olimpo filosofico
europeo, ero dinanzi a un bilancio filosofico del
refusi e svarioni» (in Danilo Montaldi, Bisogna sognare.
Scritti 1952-1975, pag. 484, Ed. cooperativa Colibri
società a r.l., Milano 1994)
13
La testimonianza-ricordo di Amodio è in Se tu vorrai
sapere…, un volumetto a cura dell’Associazione
culturale IPSILON di Cologno Monzese, pubblicato dal
Comune di Cologno Monzese nel dic. 1996.
Rievocando alcuni momenti di collaborazione nei primi
anni Cinquanta (fra Discussioni e Ragionamenti) e la
sua partecipazione (non senza attriti con Fortini a
proposito di Lukács e del maoismo) a Quaderni
piacentini, Amodio sottolineò soprattutto lo scarto fra
interessi «letterari, critici, politico-utopistici» di Fortini e
quelli più culturali prima e poi «strettamente filosoficostorici» suoi.
14
Discussioni 1949-1953, Quodlibet, Macerata, 1999
15
Discussioni 1949-1953, Quodlibet, Macerata, 1999,
pag.54.55.
16
Discussioni 1949-1953, Quodlibet, Macerata, 1999,
pag. 55.
17
Discussioni 1949-1953, Quodlibet, Macerata, 1999,
pag. 104.
22
Novecento
carico di delusione, di sberleffi
all’intellighenzia di sinistra e di sconcertante
accettazione dell’”esistente” (il quotidiano, la
18
democrazia). Era una liquidazione di quello che,
18
Ho letto e riletto più volte questi tre saggi
(rispettivamente in Manocomete, n.1, 2, 3), cercando di
tenere a freno l’ostilità che la prima lettura mi aveva
suscitato, isolando i punti dove “non capivo” e quelli
dove “mi pareva di capire”, distinguendo le righe dove
venivo colpito come intellettuale di massa e quelle dove
erano messi a terra alcuni dei miei “maestri di
dissidenza” (Fortini, ad es.).
Nel primo saggio il comunismo era ridotto a
radice psicologica, a senso di colpa, a «‘bisogno’
primariamente giovanile di giocare la propria vita su di
un senso» (pag.18). M’impressionava quell’uso,
scostante verso gli incolti e di autoriconoscimento
invece per i dotti, di citazioni e allusioni (Goethe,
Dostoevskij, Hebbel, ecc.). Coglievo anche la sua pena
dolorosa nel districarsi in vecchiaia da precedenti
maestri e fratelli di pensiero (Lukács, ancora Fortini) ora
ai suoi occhi «chierici traditori» e in quel dare addosso
all’«intellettuale dell’universalità (disarmata) della
ragione»
(pag.19)
che
mi
appariva
anche
un’autolesione. Tuttavia, quella critica all’intellettualità
borghese che aveva aderito al comunismo (soprattutto)
per spinta etica, il suo richiamarsi al Marx dei
Gründrisse («il lavoro come bisogno») potevano ancora
andarmi bene (pag. 20). Ma la presentazione del
comunismo come «la figura del puro quotidiano, di una
riduzione del vissuto a un tempo inerte, di sentimenti
senza peso, di erotismo svagato, di spazi senza
orientamento» (pag. 22), oppure la difesa del «principio
proprietario» mi apparivano inaccettabili.
Nel secondo saggio Amodio sosteneva che i
«piccolo borghesi» avevano vinto «contro eroi e asceti»
(pag.12) [eroismo e ascetismo: questo era stato
davvero il comunismo fra Ottocento e Novecento?], che
«l’ultracapitalismo previsto nel 1915 dal ‘rinnegato
Kautsky’ aveva toccato nel 1989, anche se solo
toccato, l’unificazione del genere umano» (pag.13),
un‘unificazione veramente caricaturale rispetto a quella
prevista dal comunismo marxiano, perché avvenuta
all’insegna di un «volgare edonismo economicistico». Il
tetto massimo raggiungibile dall’umanità era dunque la
«democrazia vincente», «quella di massa americantocquevilliana» (pag.13), piattezza, quotidiano perenne
e - come noi a lui sopavvissuti vediamo – imposta a
suon di guerra permanente. Il comunismo si era svelato
come semplice «capitale non concorrenziale»,
«pianificatore e quindi esteriore rispetto alla società incivile» (pag. 13). Ma che dire della «dissoluzione della
storia» («da Sarajevo a Sarajevo, il circolo storico del
secolo si chiude, e la storia sembra dissolversi nella
sua vanità») (pag.14)?
Il terzo saggio conteneva: una difesa, sempre
con richiami al liberale Tocqueville, della cultura contro
la demi-culture (pag. 29) e i suoi «valvassini»; una
sprezzante filippica contro la «forma partito-di-massa»
(pag. 30) ma anche contro i movimenti del ’68-’69 e
quella generazione [la mia!] che non potendo più
“godere” dei «Togliatti, gli Amendola, i Trentin, i
Rosselli; ma anche dei Nenni, i Longo, i Di Vittorio» si
era dovuta accontentare [?!] «di Capanna e dintorni»,
fatta di «discoli figli degli ex-partigiani in carriera
(privata) [che] colpevolizzarono i padri per la presunta
rivoluzione tradita» (pag. 30); ma anche l’irrisione
attorno al ’68-’69, a me era parso punto fermo,
realtà irreversibile, malgrado l’evanescenza della
sua superficie movimentista: l’affiorare, cioè, di
una dinamica sociale così ampia e vigorosa che,
pur in un lampo, aveva svelato la ristrettezza
corporativa delle nostre istituzioni sindacali,
culturali e politiche e messo in circolo stili di vita e
d’intelligenza che, se non accolti, potevano
soltanto
essere repressi o deformati (com’è
avvenuto), ma non annullati.
Malgrado mi colpisse in questi ultimi scritti
la tendenza a ridurre alla quotidianità i
“macroeventi” della storia e a fatalità la (imperiale
o imperialistica) mondializzazione in corso, non
negavo la qualità e l’efficacia dei suoi tagli
chirurgici o la legittimità del suo approccio.
Trovavo anzi giusto il suo insistere sulla cesura
avvenuta; ma inammissibile che la storia si
potesse dissolvere nella palude americanizzata e
ultracapitalista. Le critiche mosse al patrimonio
filosofico della Sinistra mi parevano serie e tanto
più convincenti perché provenivano da chi quella
intellighenzia l’aveva conosciuta da vicino. Ma
anche le più acute e condivisibili erano condotte in
nome di un’«aristocrazia dello spirito» e con un
19
«fastidio fisiologico per l’essere in troppi» che
avevo imparato a detestare.
Provai tuttavia ad andare al di là del mio
disappunto. Volevo discutere con lui, fargli
conoscere alcune mie obiezioni. Mi pareva, ad
esempio, che certe analisi puntuali delle nuove
trasformazioni del lavoro che venivano allora dalla
variegata tradizione “operaista”, a lui invisa ma
comunque legata al tronco marxiano, che Amodio
non sembrava rinnegare, dovessero essere
almeno confutate per rendere definitivo il suo
bilancio. In Manocomete c’era (o ero io, ultimo
arrivato, a immaginarmela…) una certa distanza
fra la cerchia dei partecipanti “storici” e quelli
aggiuntisi poi. Accennai la mia intenzione a
Giancarlo Majorino, col quale ero più in
confidenza. Amodio, per tutta risposta, in uno
degli incontri pomeridiani, mi consegnò da leggere
un suo vecchio articolo su Proudhon. Non era
quello che speravo o mi aspettavo.
Un mancato incontro, tardivo, forse ormai
reso impossibile dalle circostanze, dunque. È la
chiave di lettura del mio ricordo di Amodio. Non mi
è concesso leggere la sua vicenda anche
attraverso la lente affettuosa e importante
dell’amicizia. Tuttavia, mi sento tranquillo nel
“dantesca” per tangentopoli-mani pulite («la corruzione
generale era a tutti nota, una buona parte del paese ne
partecipava in qualche misura e sotto qualche aspetto
anche la magistratura»), per il «sociologismo volgare»
che aveva sostenuto una «’cultura del piagnisteo’»
(pag. 25) e per «il ridicolo abbandono, armi e bagagli, di
ogni interesse non dico per il marxismo-leninismo, ma
per Marx stesso, dopo decenni di acritica quanto
scientificamente infruttuosa genuflessione» (pag. 25).
19
Manocomete, n.3, dicembre 1995, pp. 28-29.
23
dichiarare la mia posizione, critica sì ma
20
rispettosa . L’immagine che mi resta di lui è,
dicevo, quella contraddittoria di un Giano bifronte.
Non penso, però , che i suoi scritti su
Manocomete appartengano ad una fase involutiva
del suo pensiero. Più semplicemente credo che
Amodio, nella inaspettata situazione che si è
creata a fine Novecento per quanti hanno vissuto
e pensato nell’alveo della Sinistra, cercava
risposte dove io non vado a cercare. La vitalità del
suo ultimo pensare è però ai miei occhi come un
annaspare a vuoto, in quel vuoto che la sua
dichiarata dissoluzione della storia mi pare
comporti. E mi chiedo se per lui fosse stato così
inevitabile non separare fallimento della Sinistra e
sorte del comunismo, tanto più che poteva
ancorare quest’ultimo al Marx dei Grundrisse, da
lui non rinnegato neppure in questi discutibili
saggi su Manocomete. Oppure cos’era o che
ripiegamento sopportava negli anni Novanta il suo
solido
materialismo,
vincolandosi
così
strettamente
all’individualismo
e
all’aristocraticismo dello spirito.
L’incontro con Amodio – mi dico ancora –
è stato forse impossibile, proprio per la diversa
ricezione della cesura storica avvenuta negli anni
Settanta. Allora la Sinistra ha ancora una volta
fallito; e gli anni Ottanta e Novanta hanno solo
approfondito la sconfitta. Ma perché, con essa, è
andato perso anche il patrimonio di idee che le
dissidenze
culturali
e
politiche
avevano
faticosamente costruito al di fuori della “Casa
madre”? Temo che, illudendosi della riformabilità
della Sinistra, anch’esse costruivano su un
terreno troppo prossimo al suo e che da lì poco si
poteva vedere delle nuove trasformazioni.
Scrivevo perciò a Solmi, amico carissimo di
Amodio, subito dopo la serata commemorativa
tenutasi in suo onore alla Casa della cultura l’8
aprile 2002:
«I fatti di Palestina dicono tragicamente
che con la cultura (di sinistra o di dissenzienti
della sinistra) non ce la facciamo a stare addosso
al mondo. Ma lo stesso è accaduto per la guerra
in Kosovo, a Genova e dopo l'assalto alle Twin
Towers. Questi pensieri (sbagliati?) non sono un
alibi. Non possiamo (lo dico in una battuta che
forse non ti piacerà), con il bagaglio di cultura
politica ereditato dal passato, imprimere una
piega diversa alle faccende di casa nostra perché
questa non è più casa nostra . Vedi la condizione
tragica, disperata della casa di Arafat e dei
palestinesi? Se noi non abbiamo i carri armati in
strada, è solo perché i veri tentativi di imprimere
una piega diversa alle faccende di casa
nostra (credo che negli anni '70, per quanto
confusi, ci sono stati veramente) furono sconfitti.
20
Del resto il giovane Amodio scriveva contro chi non
vedeva «la differenza qualitativa fra famiglia e Stato, fra
dieci persone e due miliardi di uomini, tra amicizia e
rapporto sociale» (Discussioni, pag.103).
Le generazioni successive (quelle che, ai tempi di
Craxi, hanno smantellato il vecchio Psi e, ai tempi
di Occhetto e D’Alema, il vecchio Pci di
Berlinguer, ma prima ancora quelle che avevano
addomesticato la Nuova Sinistra, azzerato
l'Autonomia e solo esorcizzato il lottarmatismo)
hanno deciso di non imprimere una piega diversa
alle faccende di casa nostra, ma di fingere che
era ancora nostra».
Bisognava allontanarsi dalla casa non
nostra. A Manocomete eravamo residui di una
precedente epoca, provati e un po’ invecchiati, ma
intenti a questo indipensabile spostamento. La
posizione filosofica di Amodio a me pareva
comunque la più chiara politicamente: comunismo
finito,
quotidianità
piccolo
borghese
(“democrazia”) imperante; il ceto medio aveva
sostituito la classe operaia, liquidando i valori
costruiti attorno a quella. La discontinuità forte col
passato lui l’aveva colta, ma come tragedia (forse
per lui da lungo tempo annunciata) e aveva
abbozzato il massimo di disincanto possibile ad
uno come lui, che aveva quel passato intellettuale
alle spalle e nel ’68-’69 aveva visto giungere
soltanto le déluge.
Si poteva discutere a fondo quel suo
bilancio, correggerlo, confrontarlo con altri,
depurarlo dei toni tragici o rassegnati,
intravvedere le nuove possibilità di comunicare e
di cooperare che oggi (embrionali quanto si vuole)
sono riaffiorate? Non era impossibile, anzi anche
in Manocomete già si tentava di riparlare del
lavoro, ora completamente sottoposto a nuove
forme di controllo dall’alto che hanno dissolto la
classe operaia “classica”, o delle vite quotidiane
spappolate e gerarchizzate sotto l’apparente
omogeneizzazione dei consumi, o delle rinnovate
barriere cresciute attorno e addosso ai desideri.
Ma non ci riuscì a proseguire. Nell’allontanarci – o
per spostamento come sostenne Giancarlo
Majorino su Manocomete o per esodo come sento
di dire io - dal “campo di battaglia” degli anni
Settanta, le nostre memorie, che sempre
subiscono il danno di una relativa fissazione ad un
evento-mito (il '56 di Amodio, il '68-‘69 per me, il
'77 per altri), non si sono incontrate o
combaciavano male e solo per lembi. Insistere a
lanciarsi segnali apparve troppo arduo o inutile.
Subito dopo Manocomete, Majorino si ritirava
ancora a scrivere e a lavorare in solitudine; e gli
altri, coetanei o più giovani, più disattenti mi pare
alla posta in gioco in quel tentativo, ne
accettarono la fine e ora provano, “al di là delle
ideologie” (sfinite), altri tipi di cooperazione, ma
più “specialistici” e con dosi via via più ridotte di
“zolfo marxiano”. È la quotidianità senza più storia
teorizzata dall’ultimo Amodio che ci divora? Aveva
ragione lui?
Ricomporre la storia da cui siamo venuti
in una dimensione non mono-generazionale, non
ridurla a mito personale o esistenziale, a me
pare ancora un dovere. Anche per degli isolati.
24
Anche se non si dovesse mai più ritrovare il filo fra
l’antifascismo resistenziale, il dramma del '56, il
“biennio rosso” del ’68-’69, il “postcomunismo” del
1977 e le Seattle, Genova, Porto Alegre della
moltitudine postmoderna. Il Giano della storia del
secondo Novecento, che Amodio mi ha
rappresentato, resta bifronte e non smetterò
d’interrogarlo da entrambi i volti.
29 aprile 2003
25
SAMIZDAT?
È termine russo. Indicava gli opuscoli della comunicazione dissidente nei paesi dell’Est e della ex Urss.
Letteralmente significa autoedizione.
Qui è assunto in entrambi i significati : foglio di pensiero critico e forma di pubblicazione non cortigiana.
COLOGNOM?
Abbreviazione straniante di Cologno Monzese. Allude al luogo/non luogo nel quale il foglio viene scritto, alla sua problematica
perifericità, ai mutamenti decostruttivi e costruttivi possibili in questo spazio ibrido.
ESODO?
La parola rimanda alle migrazioni passate e presenti, al rifiuto di chiudersi o lasciarsi chiudere nell’intrasformabile mondo esistente
dei padroni.
26
Scarica

SAMIZDAT COLOGNOM