I GRANDI LIBRI
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ISBN 978-88-11-13179-3
© Garzanti Editore s.p.a., 1982, 1984
© 2000, 2010, Garzanti Libri S.r.l., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Prima edizione digitale 2011
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INTRODUZIONE
La vita e l’opera
La famiglia
Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798, a Recanati, piccolo centro dello Stato
Pontificio, dal conte Monaldo Leopardi e dalla marchesa Adelaide Antici. La
famiglia Leopardi è una delle prime e più importanti del contado: possiede
proprietà terriere nella Marca meridionale e un grande palazzo avito in Recanati. Il
patrimonio, tuttavia, male amministrato dal conte Monaldo, cattivo economo e
facile alle spese, rende poco; anche perché Monaldo preferisce occuparsi di studi e
si diletta nello scrivere, preso dietro a velleitarie ambizioni letterarie. Reazionario e
codino, compone opere in cui si allineano, alle posizioni più retrive, religiosità
bigotta, fedeltà allo Stato Pontificio, ossessione d’ordine e di conservazione, al
passo con l’erudizione e la pompa formale del secolo passato. In poco tempo mette
assieme, più per esteriore prestigio che per genuine esigenze, una ricca e
costosissima biblioteca, che finirà con l’aprire, nel 1812, all’uso degli amici e dei
concittadini influenti. Sua moglie, la marchesa Antici, preoccupata di
salvaguardare il patrimonio, ne ha assunto direttamente l’amministrazione, già
prima della nascita di Giacomo. Viene descritta come donna capace, decisa, severa,
poco incline alle manifestazioni di affetto, rigidamente attestata sulle medesime
posizioni ideali del marito e, in particolare, di una religiosità bigotta e
superstiziosa. Adelaide impone in casa, per ragioni di economia e di risparmio, una
disciplina severissima; con un’austerità che deve servire a mantenere le apparenze
del censo e della classe sociale cui la famiglia appartiene da generazioni.
Il paese
Recanati, come l’intera Marca, è zona depressa e vi sopravvivono addirittura
situazioni gerarchiche di specie feudale. Nel generalmente arretrato Stato
Pontificio, Recanati è un’isola di arretratezza; e non solo dal punto di vista
dell’economia e del lavoro. Le nuove idee, che circolano in Europa già dal secolo
precedente, tardano ad arrivare nella Marca; il clero e l’aristocrazia terriera fanno
buona guardia, opponendo sorda resistenza a tutto ciò che porta con sé anche solo
l’idea di rinnovamento, figuriamoci poi di ridistribuzione e di trasformazione dei
rapporti sociali.
Sul piano culturale, le cose non vanno meglio; dove non arriva la persuasione
occulta interviene la censura, che il clero sa mettere ottimamente a profitto. Contro
la scienza per principio, nella Marca, trionfano l’erudizione, la vuota eloquenza, le
Accademie, di cui il conte Monaldo, appunto, fornisce un buon esempio.
I fratelli
Giacomo e i suoi fratelli (nati, di lì a poco, nell’ordine: Carlo, nel 1799; Paolina,
nel 1800; Luigi, nel 1804) stabiliscono precocemente tra di loro rapporti
preferenziali, in una casa in cui regna un’atmosfera fredda e cerimoniosa e in cui i
genitori sono quasi sempre assenti, uno, chiuso nel suo studio a scrivere, e l’altra,
sigillata nella sua stanza a pregare o a far conti. Soprattutto Giacomo,
sensibilissimo e bisognoso d’affetto, risente di questa assenza. Si lega ai fratelli e,
in particolare, a Carlo e a Paolina; fin dall’età di sei o sette anni, è l’animatore di
giochi e di storie raccontate e sceneggiate, in casa o nel giardino, per interminabili
giornate. Intanto, spinto dalla madre sulla strada di una religiosità morbosa, è
ossessionato da paure e incubi dell’aldilà e dell’inferno.
L’inizio degli studi
A partire dal 1807, insieme a Carlo e a Paolina, Giacomo viene affidato a don
Sebastiano Sanchini, scelto come precettore di casa; ma, già dopo un anno, si rende
autonomo e si getta in uno «studio matto e disperatissimo», come scriverà più
tardi. Rimane ore e ore chiuso nella biblioteca paterna a leggere e a meditare. A
spingerlo nell’impresa, all’inizio, è un’ansia vivissima di acquistarsi l’affetto e
l’approvazione del padre; il quale, naturalmente, è lusingato: approva, nell’ombra,
e non interviene a salvare Giacomo, che si va rovinando irreparabilmente la salute
sui libri.
L’identificazione con il padre
In una identificazione assoluta con la figura del padre, fino al 1815, Giacomo
compie studi eruditi, disordinati e vari, che spaziano in settori diversi del sapere,
secondo un gusto enciclopedico di moda. Affronta letture di vario genere; studia il
latino, il greco, l’ebraico, il francese e altre lingue moderne; coltiva interessi
filologici, con traduzioni e commenti ai classici più famosi; intraprende studi di
geografia e di astronomia, di scienze naturali. Alcuni di questi studi si
concretizzano in operette riassuntive: nel 1813, scrive la Storia dell’astronomia;
nel 1815, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi; nel 1816, le Notizie
istoriche e geografiche sulla città e chiesa arcivescovile di Damiata.
I primi componimenti poetici
Intanto, ha cominciato a scrivere in versi; ha una facilità notevole a mettere in versi
qualsiasi cosa, favorita dall’abitudine precocissima a tradurre molto e di poesia. Si
esercita sui classici, ma dà anche fondo al suo senso del ritmo e al suo spirito
ironico in componimenti domestici: scherzi, filastrocche, dedicatorie ai fratelli, in
cui usa tutto l’armamentario della poesia ufficiale e accademica a fini comici. Nel
1809, a undici anni, dopo aver letto Omero, compone il sonetto La morte di Ettore;
nel 1810, compone il poemetto I Re Magi; del 1811, è la tragedia La virtù indiana;
del 1812, sono la tragedia Pompeo in Egitto e gliEpigrammi, accompagnati da
una Introduzione in prosa. E, nel frattempo, coltiva anche la prosa: in sermoni su
argomenti religiosi da pronunciare in chiesa, dissertazioni di argomento filosofico,
orazioni fittizie. Nel 1811, scrive leDissertazioni filosofiche; nel 1815,
l’orazione Agli Italiani, per la liberazione del Piceno. Quanto poi alle traduzioni, è
del 1811, a tredici anni, l’Arte poetica di Orazio travestita in ottava rima; nel
1815, traduce il poeta greco Mosco e laBatracomiomachia.
Sono gli anni in cui completa è la coincidenza di idee e di modi tra Giacomo e
Monaldo: erudizione, accademismo, fedeltà ai dogmi della chiesa, conservatorismo
retrivo, atteggiamento politico antiunitario e antirisorgimentale. È l’identificazione
che dà a Giacomo l’illusione di mantenere vivo il rapporto con suo padre; così
come, per altra via, la religiosità, vissuta in maniera sofferta, si è rivelata per lui
l’unico legame diretto con sua madre.
La conversione letteraria
Ma la crisi è nell’aria e, tra il 1815 e il 1816, matura in quella che lo stesso
Leopardi ha chiamato la sua «conversione letteraria»; concretamente cioè
verificabile nel passaggio dagli studi eruditi agli studi letterari, dalle nozioni al
bello. E questa «conversione» è favorita dalla lettura dei classici, che gli rivelano il
salto di qualità e di sostanza tra una poesia interiormente vissuta e un gusto poetico
della tradizione retorica, vuoto e insulso. Il 1816 è l’anno delle molte traduzioni
importanti: il primo libro dell’Odissea, il secondo dell’Eneide,
ilMoretum pseudovirgiliano. Intanto, ha inviato allo «Spettatore italiano e
straniero» il Saggio di traduzione dell’Odissea, che esce in due puntate e suscita
l’interesse dell’editore Stella, che di lì a poco fa visita a Giacomo in Recanati,
ponendo le basi di future collaborazioni. E, sempre nel 1816, Leopardi compone,
in doppia redazione greca e latina, i calchi alessandrini dell’Inno a Nettuno e
delle Odae adespotae. La frequentazione dei classici fa scattare in Giacomo
un’adesione assoluta alla poesia come pura rappresentazione; interviene addirittura
nella polemica intorno al romanticismo, che arriva a Recanati attraverso rare
riviste, e indirizza alla «Biblioteca Italiana» una Lettera in risposta all’intervento
della de Stäel, che esortava gli scrittori italiani ad abbandonare la tradizione e a
leggere e a tradurre gli stranieri. Lettera non pubblicata dalla rivista e in cui
Leopardi rifiuta la proposta della de Stäel delle traduzioni, insistendo sul fatto che
la poesia non nasce dalla cultura e dallo studio degli autori ma da «un impulso
sovrumano».
Al 1816 risalgono due importanti prove poetiche: nella primavera, l’idillio Le
rimembranze, rimpianto per una vita che si va spegnendo al suo primo apparire, e,
nel novembre, Appressamento della morte, cantica in terza rima, una «visione»
della propria morte ispiratagli dalle precarie condizioni di salute.
La malattia
Leopardi è malato seriamente: una grave forma di scoliosi, febbri ricorrenti che
insidiano il già debole stato del suo fisico, la vista che si sta spegnendo. La
solitudine di Giacomo è assoluta: non ha amici né conoscenti, nel paese;
l’isolamento è grande anche dentro casa. I già formali rapporti con il padre si fanno
più precari e tormentati, per il suo progressivo distacco dai modelli che
implicitamente Monaldo imponeva. L’unico conforto è l’avvio, a partire dal 1817,
di una corrispondenza con Pietro Giordani, che diviene suo interlocutore
preferenziale. Al Giordani, Leopardi espone progetti e chiede consigli; a lui invia
note e versi in visione. Gli manda, per esempio, il secondo libro dell’Eneideappena
finito di tradurre. Col Giordani, si lamenta dell’isolamento della Marca, della
mancanza di libri e di riviste, della grettezza e dell’ignoranza della gente di
Recanati. E, intanto, anche su indicazione o per l’invio di Giordani, Giacomo è
venuto leggendo molti moderni: l’Alfieri, il Monti, il Parini, il Foscolo,
Chateaubriand, Byron, il Werther di Goethe, M.me de Stäel, gli scritti del Di
Breme, del Berchet e della cerchia del «Conciliatore». Letta con emozione
l’autobiografia dell’Alfieri, compone il sonetto Letta la vita dell’Alfieri.
L’amore per la cugina
A turbare Giacomo interviene il brevissimo passaggio da Recanati della cugina
Gertrude Cassi, per la quale egli scrive in breve spazio di tempo il
componimento Il primo amore e il Diario d’amore (o Memorie del primo amore),
annotazioni in prosa dei sentimenti di una passione «non nutrita d’altro che di
ricordanza e d’immagini».
Entro l’anno, scrive gli eleganti Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino
beccaio e traduce la Titanomachia di Esiodo, che pubblica sullo «Spettatore
italiano e straniero» dell’editore Stella.
La conversione politica e le canzoni «politiche»
Il 1818 è un anno particolarmente inquieto e tormentato, per le malandate
condizioni di salute, per l’insofferenza crescente nei confronti di Recanati e della
sua stessa famiglia, per le aspirazioni al rinnovamento che ormai si sono
impossessate del giovane ventenne. È l’anno della cosiddetta «conversione
politica»; con la presa di distanze dalle tesi reazionarie paterne espresse
nell’orazione Agli Italiani, con il riconoscimento incondizionato all’azione
intrapresa dalla borghesia per il processo di unificazione dell’Italia. Nell’autunno,
nascono le prime canzoni: All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Intanto,
progetta di fuggire da Recanati, credendo di trovare altrove, e soprattutto a Roma,
quel che a Recanati gli manca. Lo viene a trovare il Giordani e la visita rafforza in
lui il proposito di lasciare Recanati, viste anche le promesse di aiuto dell’amico. Va
registrando, già a partire dal 1817, tutte le riflessioni e i progetti nelle pagine
dello Zibaldone.
Il «Discorso» sulla poesia romantica
Scrive, nell’inverno, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, quasi
in risposta all’opuscolo del Di Breme sul Giaurro del Byron, e ribadisce la sua
posizione polemica nei confronti dei romantici. I romantici, secondo il Leopardi,
tendono a spiritualizzare ciò che dovrebbe essere oggetto sensibile nella poesia e,
pensando di fondare tutto sul sentimento, riducono invece tutto al patetico;
l’ufficio della poesia è l’imitazione della natura, che è oggetto sensibile e
immutabile, e il suo fine è il diletto, attraverso le illusioni che essa crea, e non per
mezzo della verisimiglianza sostenuta dai romantici. L’imitazione degli antichi non
è una ripetizione di modelli, ma la reinvenzione di un rapporto incontaminato e
fanciullesco con la natura, ispirato all’ingenuità e lontano dalla ragione che riempie
la poesia moderna.
La conversione filosofica
È venuta maturando nel tempo, attraverso il distacco dalla religione e l’adesione
alle tesi materialistiche del meccanicismo, quella «conversione filosofica» del
Leopardi che culmina, nel 1819, nel passaggio dal bello al vero: la scoperta del
«solido nulla» che la ragione consegna all’uomo, cancellando qualsiasi possibilità
per lui di essere felice. È una conversione che ha conseguenze enormi anche
relativamente allo stesso concetto di poesia che il Leopardi aveva, fino a
correggere alcune tesi espresse nel Discorso: che la «poesia d’immaginazione» non
può che essere degli antichi e la poesia moderna è «poesia sentimentale», in cui
non si può fare a meno del ragionamento e della filosofia.
L’idillio «L’infinito»
Nel 1819, Leopardi compone i due idilli: L’infinito, raro momento di serenità nella
sua produzione poetica, e Alla luna; e le canzoni mai pubblicate: Per una donna
inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col
suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, l’abbozzo
della Telesilla e Odi, Melisso, ispirato alla poesia pastorale e agli idilli di Mosco.
Il tentativo di fuga da Recanati
Nel luglio, il tentativo di fuga da casa con meta Roma viene scoperto e sventato; i
rapporti con il padre si irrigidiscono ancora di più. Giacomo si sente ormai in una
prigione da cui non potrà mai evadere; la famiglia non intende fornirgli i mezzi per
allontanarsi da Recanati. I dolori fisici sono riacutizzati, in questo periodo, da una
malattia agli occhi che si rivela sempre più inguaribile. Il suo pessimismo si
accentua; la «sepoltura di vivi» a cui si sente condannato, tuttavia, è a tratti
illuminata dall’illusione di una «terra piena di meraviglie» che lo aspetta, fuori di
Recanati, e dal sogno crescente di una gloria che riscatti sofferenze e privazioni
che ora patisce.
Canzoni e idilli: «Ad Angelo Mai», «La sera del dì di festa», «Il sogno»
Il 1820 è un anno di meditazioni e di messe a punto. Leopardi, in atteggiamento
sempre più critico nei confronti del mondo contemporaneo, sviluppa l’idea di una
contrapposizione tra gli antichi, capaci di eroismo, e i contemporanei, morti a
qualsiasi virtù. Il percorso di questo progressivo spegnersi di ogni voce alta e netta,
fino al contemporaneo «secol morto», è svolto nella canzone Ad Angelo Mai,
scritta nel gennaio. E di tale periodo è anche, quasi sicuramente, l’idillio La sera
del dì di festa, con la sua nostalgia del mondo antico immessa in uno di quei quadri
notturni «sentimentali» del poeta, dominato dalla considerazione di come tutto
passi rapidamente senza lasciare traccia. E, nell’anno, lavora già all’idillioIl sogno,
che testimonia di quell’alternarsi di disperazione e speranza in cui vive Giacomo,
nell’intermittente e dolorosissimo dubbio di stare consumando invano la sua
giovinezza; tema che diventerà dominante di lì a qualche anno.
I primi progetti delle «Operette morali»
Del 1820 sono anche i primi progetti e i primi appunti di quelle che in seguito, con
altre scelte di personaggi, saranno le Operette morali; scrive la Novella. Senofonte
e Niccolò Machiavello, il Dialogo... Filosofo greco, Murco senatore
romano, Popolo romano, Congiurati. Tra il 1820 e il 1821, compone il Dialogo tra
due bestie, p. e. un cavallo e un toro e il Dialogo di un cavallo e un bue. Forse, è
del 1820 anche il Frammento sul suicidio.
Le canzoni «filosofiche»
Nel 1821, Leopardi compone alcuni dei suoi «discorsi filosofici» in versi, le
canzoni: Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone e, in
dicembre, il Bruto Minore, nelle quali ritornano il richiamo alla vitalità eroica del
passato e il monito a farla rivivere nel presente, ma in cui si pronuncia anche la
prima battuta d’arresto per le illusioni, quella della disperazione, in Bruto che deve
riconoscere vana perfino la virtù. Nell’anno, finisce Il sogno e scrive,
probabilmente, un altro idillio: La vita solitaria, giocato tra riferimenti letterari e
motivi autobiografici. Del 1821, probabilmente, è anche il Dialogo Galantuomo e
Mondo.
«Alla primavera», «Inno ai patriarchi», «Ultimo canto di Saffo»
Del 1822, sono Alla Primavera o delle favole antiche (gennaio) e l’Inno ai
Patriarchi (luglio), in cui vivono il rimpianto per la natura primitiva e il
riecheggiamento accorato di quella capacità immaginativa che era propria degli
antichi, all’ epoca della giovinezza del genere umano; e l’Ultimo canto di
Saffo(maggio), ancora sulla disperazione, di chi si sente escluso ingiustamente
dalla bellezza e dalla felicità della natura. Leopardi compone anche la
prosa:Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte e
traduce, intanto, dal latino l’opera del Combefis Il martirio de’ Santi Padri del
monte Sinai e dell’eremo di Raitu ecc.
Il soggiorno romano
Nel frattempo, il padre ha deciso di lasciar partire Giacomo per Roma, dove sarà
ospite in casa dello zio, marchese Carlo Antici. Pieno di speranze e di progetti, il
poeta parte per Roma il 17 novembre e vi resterà fino al 3 maggio dell’anno
successivo.
L’esperienza romana è per Leopardi una delusione clamorosa: lo infastidisce la
città, grande e rumorosa, sporca e poco sicura; lo scandalizzano la corruzione e
l’ipocrisia della curia; lo indignano l’ignoranza e l’abulia della società
aristocratica; lo amareggia l’insulsaggine dei letterati, fermi ancora all’Arcadia.
Uniche consolazioni, sono la visita ai luoghi cari al Tasso (e sulla quercia al
Gianicolo si commuove come raramente gli era capitato) e la frequentazione, e in
qualche caso l’amicizia, di Angelo Mai, del Niebuhr, del Bunsen, dello Jacopssen.
Un altro aspetto di Roma colpisce Leopardi, fino a traumatizzarlo addirittura: il
grande numero di donne che pratica la prostituzione, per di più nella capitale del
Cristianesimo. È una scoperta che mette in crisi la sua figurazione idealizzata della
donna e accentua quel suo misoginismo che nasceva dal sentirsi o immaginarsi
fisicamente rifiutato. Tornato a Recanati, traduce la Satira di Simonide sopra le
donne e scrive, per contro, la canzone Alla sua donna, consegnandosi
definitivamente all’idealizzazione di quella «donna che non si trova», secondo le
sue stesse parole.
L’accentuarsi del pessimismo: le «Operette morali»
Il soggiorno romano accentua il pessimismo del Leopardi, infrangendo la speranza
di trovare fuori quella felicità che gli era sembrata irrealizzabile a Recanati. Il
ritorno a casa coincide con un periodo di riflessione e di letture filosofiche,
dall’atomismo all’illuminismo materialistico di un d’Holbach. Varia, via via,
l’atteggiamento di Giacomo nei confronti della natura: dal riconoscimento
rousseauiano della felicità di natura che l’uomo perde allontanandosi
progressivamente dalla condizione originale, alla dichiarazione di responsabilità
della natura nell’infelicità dell’uomo, al superamento del rapporto-contrasto tra i
termini «felicità» e «natura» in una visione meccanicistica dell’universo in cui
l’uomo, al pari di tutti gli altri esseri animati e inanimati, subisce le conseguenze di
causa-effetto di una materia che sordamente si muove e opera alla propria
conservazione. La storia di questo diverso atteggiamento è fedelmente registrata,
nei suoi sviluppi e nelle sue contraddizioni, sulle pagine dello Zibaldone e,
partendo di lì, riproposta con intendimenti artistici nelleOperette morali, alla
composizione delle quali Leopardi attende durante il 1824.
Nello stesso anno, scrive il Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’Italiani, sulla decadenza intellettuale e morale dell’Italia dopo la breve luce
del Rinascimento, e pubblica, a Bologna, un opuscolo con le prime
dieciCanzoni accompagnate dalle Annotazioni. Dalla fine del 1824 e per tutto
l’anno successivo, Giacomo si dedica alla traduzione di scritti greci, dalle operette
di Isocrate al Manuale di Epitteto.
A Bologna e Milano
Nel luglio del 1825, Leopardi riparte da Recanati; è invitato a Milano dall’editore
Stella, che gli offre di sopraintendere a una nuova edizione delle opere di Cicerone.
Fa tappa a Bologna, dal 17 al 27 luglio, e qui rivede il Giordani e conosce il
Brighenti, direttore della rivista «Il caffè di Petronio», sulla quale è invitato a
pubblicare la poesia Il sogno. A Milano, attraverso l’editore Stella ed altri nuovi
amici, conosce Vincenzo Monti e l’abate Cesari, esponente del più rigido purismo
nella questione della lingua letteraria. È un periodo di qualche euforia, di fronte
soprattutto al progetto di potersi mantenere da solo fuori di Recanati; ma la salute è
incerta e il poeta si stanca per un nonnulla.
Il «Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco»
Dell’ autunno è il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, pensato come
«operetta», ma poi escluso dalle edizioni curate direttamente dal Leopardi.
Ancora a Bologna
Il piacevole soggiorno bolognese convince il Leopardi a fermarsi di nuovo a
Bologna, al ritorno da Milano il 29 settembre, e il poeta rimane nella città emiliana
fino al novembre dell’anno successivo. Qui, frequenta il Brighenti, diventa amico
del conte Carlo Pepoli, è ricevuto in casa del medico Giacomo Tommasini, dove si
fa due ferventi ammiratrici nelle persone della signora Antonietta Tommasini e di
sua figlia Adelaide. Si invaghisce della gentildonna Teresa Carniani Malvezzi, che
si diletta a scriver versi, e si crede dapprincipio ricambiato da lei. Intanto, lavora
all’edizione delle opere ciceroniane per l’editore Stella e, per lo stesso, cura un
commento alle Rime del Petrarca. Scrive, nel marzo, l’Epistola al conte Carlo
Pepoli in versi, per l’Accademia dei Felsinei, e, nell’estate, pubblica un’ edizione
dei suoi Versi. Ritorna a Recanati l’11 novembre.
Le «Crestomazie», la conoscenza di Antonio Ranieri e la pubblicazione delle
«Operette»
A Recanati, lavora alle due Crestomazie della prosa e della poesia italiana che si è
impegnato a fare per l’editore Stella già l’anno prima. Ma si stanca presto del suo
«borgo selvaggio», dove si sente isolato e per nulla apprezzato, e decide di tornare
a Bologna, il 26 aprile del 1827, dagli amici che lo stimano e lo esortano a
lavorare. A Bologna, conosce l’esule napoletano Antonio Ranieri; frequenta i
letterati Pepoli e Papadopoli; riprende a visitare casa Tommasini. Nel giugno del
1827, contemporaneamente ai Promessi sposi del Manzoni, esce a Milano
l’edizione delle Operette morali che il Leopardi aveva consegnato allo Stella.
A Firenze
Il 21 giugno il poeta si trasferisce a Firenze, dove viene a contatto con il gruppo
della rivista «Antologia»; conosce e frequenta il Vieusseux, il Capponi, il Montani,
e altri esuli napoletani gli presenta il Ranieri: il Colletta, Poerio, Troya. Conosce
Niccolò Tommaseo, che gli sarà sempre ostile e che, partendo dalle sue
convinzioni cattoliche, opponeva il più netto rifiuto ai contenuti negativi
delleOperette morali, pur definendole «il libro meglio scritto del secolo nostro».
Attraverso il Vieusseux, Leopardi incontra il Manzoni, che resterà sempre sordo al
mondo e alla voce del poeta di Recanati; e conosce Stendhal.
Altre due operette
Nel 1827, Leopardi compone altre due operette, che entreranno nell’edizione
postuma del 1845, il Dialogo di Plotino e di Porfirio e Il Copernico, e compila
l’Indice del mio Zibaldone.
Il primo novembre, il poeta si trasferisce a Pisa, per superare l’inverno a un clima
più mite di quello di Firenze e più adatto alle sue malconce condizioni di salute.
A Pisa: l’idillio «A Silvia»
Il soggiorno di Pisa, nella dolce misura di questa città compostamente classica e
insieme incantata e magica, appare agli occhi del Leopardi come il periodo più
sereno e felice della sua esistenza. Giacomo sente rinascere in sé quel sentimento
poetico che si traduce immediatamente nella esemplare canzonetta Il risorgimento,
scritta a distanza di ben due anni dall’epistola in versi al Pepoli, tra il 7 e il 13
aprile del 1828, e, di lì a poco, nell’intenso idillio A Silvia, rievocazione della
propria giovinezza perduta nella figurazione di un fantasma femminile. Del
febbraio, è un epigramma giocoso, Scherzo, sulla mancanza di stile nella poesia
moderna. A Pisa, lo raggiunge la notizia della morte precoce del fratello Luigi,
appena ventiquattrenne.
A Firenze
In giugno, Leopardi torna a Firenze e vi resta fino a novembre. Conosce Vincenzo
Gioberti e stringe amicizia con lui; e con Gioberti il poeta rientra a Recanati,
costretto a tornare dalle sue aggravate condizioni di salute e dal fatto che, non
potendo lavorare e non ricevendo più l’assegno dall’editore Stella, non ha i soldi
per mantenersi fuori.
Il ritorno a Recanati
Il ritorno a Recanati, dove Leopardi si fermerà un anno e mezzo, ha effetti
contrapposti: sofferenza e rassegnazione, disperazione e dolce malinconia. «Sedici
mesi di notte orribile» definisce il poeta il suo soggiorno recanatese; un periodo di
estraneità rispetto alla famiglia e al paese e di ripiegamento su se stesso e sui
fantasmi di un passato rievocato con la disperazione di chi sente ogni cosa come
irrimediabilmente perduta. È un circolo chiuso dal quale il Leopardi desidera
uscire e, per questo, scrive agli amici chiedendo di trovargli un lavoro che possa
portarlo fuori di Recanati e salvarlo dalla desolazione. E gli amici si danno da fare:
il Tommasini gli procura una cattedra di mineralogia e zoologia all’università di
Parma, ma la materia è troppo distante dagli interessi del poeta e, per di più, il
compenso è misero; Bunsen, ministro prussiano fondatore a Roma dell’Istituto
Archeologico, gli fa balenare la possibilità di una cattedra a Bonn o a Berlino, ma
il clima tedesco è assolutamente inadatto alla salute del Leopardi; il Capponi cerca
di fare attribuire alle Operette morali un premio di mille scudi istituito
dall’Accademia della Crusca per un’opera di grande valore letterario pubblicata
nell’ultimo quinquennio, ma la giuria dà la sua preferenza alla Storia d’Italia di
Carlo Botta; il Colletta gli offre, a nome degli amici di Toscana (a titolo di dono
anonimo o, se preferisce, come prestito da restituire magari con i proventi di
un’edizione dei Canti), un assegno che gli avrebbe permesso di vivere un anno
fuori Recanati senza problemi, ma Giacomo rifiuta, chiedendo piuttosto che gli si
trovi il lavoro anche più umile per mantenersi.
I grandi idilli
In questo stato d’animo sofferto e combattuto, tra l’agosto e il settembre del 1829,
nascono alcuni dei maggiori idilli: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il
sabato del villaggio, in cui si pronunciano la consapevolezza della giovinezza
perduta, la certezza della vanità del tutto, la denuncia dell’inesistenza del piacere,
«figlio d’affanno» o di speranza. E, nell’ottobre, viene iniziato ilCanto notturno di
un pastore errante dell’Asia, contemplazione disperata di un mondo senza ragioni
e senza fine, proiettato nel vuoto; canto che il poeta finirà nell’aprile del 1830.
Di nuovo a Firenze: l’amore per Fanny Targioni Tozzetti
Deciso a partire comunque da Recanati e non trovando nient’altro di meglio, alla
fine Leopardi accetta la proposta del Colletta, fatta a nome degli «amici di
Toscana». Fa tappa a Bologna, dal 3 al 9 maggio del 1830; poi, raggiunge Firenze.
Qui, conosce Fanny Targioni Tozzetti e si innamora di lei, non ricambiato. In
settembre rivede Antonio Ranieri e stabilisce con lui una più stretta amicizia; tra
l’altro, il Ranieri, in intimità con la Targioni Tozzetti, fa da buon intermediario tra i
due, contribuendo non poco a contenere la cocente delusione di Giacomo. In
ottobre, conosce il filologo svizzero Luigi de Sinner, con il quale mantiene
frequenti contatti epistolari.
«Il passero solitario»
Probabilmente, nel 1830, il Leopardi compone l’idillio Il passero solitario, su
appunti preesistenti, e comincia a scrivere i Paralipomeni della
Batracomiomachia, ripresa della polemica contro il «secol morto» e la corrotta e
decaduta società italiana, in forma di satira sugli effetti barbari della Restaurazione
e sull’inconsistenza e dannosità dei movimenti liberal-moderati.
A seguito dei moti rivoluzionari che da Modena si sono propagati al resto
dell’Emilia e nei territori marchigiani dello Stato Pontificio, a Bologna viene
creato un governo provvisorio e Leopardi viene nominato deputato all’assemblea
nazionale dal Pubblico Consiglio di Recanati. Non fa neppure in tempo ad
accettare la nomina: l’intervento degli austriaci ristabilisce il vecchio ordine.
La prima edizione dei «Canti»
A Firenze, nell’aprile del 1831, esce la prima edizione dei Canti, portata a
compimento dal Leopardi con l’intenzione di ripagare con i proventi il debito nei
confronti degli «amici di Toscana».
Con Ranieri a Roma
Nell’ottobre, Leopardi e Ranieri, che ormai hanno stretto un sodalizio, si recano a
Roma, per passare l’inverno a un clima più mite e per cercare, eventualmente,
qualche incarico o lavoro. Leopardi, infatti, è ridotto alla miseria e gli pesa dover
accettare aiuti e prestiti dagli amici. Studia modi per raccogliere un po’ di denaro;
ma la speranza di ricavare qualcosa dai suoi vecchi lavori filologici, consegnati al
de Sinner, va delusa e l’idea di fare, quasi interamente da solo, un giornale, «Lo
spettatore fiorentino», sul quale vivere, si arresta di fronte al sospetto della
burocrazia del Granducato.
Con Ranieri a Firenze
Nel marzo del 1832, Leopardi e Ranieri tornano a Firenze. Nel luglio, Giacomo,
dopo alcune richieste, ottiene dal padre la concessione di un mensile, a dire il vero
assai modesto, ma che lo solleva almeno dai bisogni più urgenti e immediati. La
soluzione di questo sussidio, tuttavia, umilia il poeta, che decide in cuor suo di non
rimettere mai più piede nell’avito palazzo dei conti Leopardi e nell’odiata
Recanati, «sepolcro di vivi», come la chiamava. E, ciò nonostante, Giacomo
continuerà a scrivere a suo padre, non soltanto con deferenza, ma con sincero
affetto; a dimostrazione della complessità del rapporto che lo legava al padre. Un
rapporto di odio-amore, identificazione-rifiuto, abbandono-cancellazione, che
attraversa l’intera vicenda del Leopardi e che si risolve, alla fine, nell’adesione
sentimentale, nella scelta del legame di sangue; mentre il conte Monaldo persiste,
fino in fondo, nella sua freddezza, nel suo sostanziale disinteresse, vinto per di più
da gelosie e travolto dalla più assoluta disapprovazione nei confronti del figlio.
Disapprovazione che può essere riassunta nel gesto, esemplarmente indicativo, di
chiudere le Operette morali nel settore dei «libri proibiti» della sua biblioteca di
casa.
Le due ultime operette
Nel 1832, Leopardi compone il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, le due ultime operette; nel
dicembre, dopo aver ormai cessato di annotare sullo Zibaldone, si dedica alla
stesura dei centoundici Pensieri, che sono la summa della sua riflessione filosofica,
decantata in una cristallina gnomica della negazione e del nulla. Leopardi è, a
questo punto, nella posizione lucidamente illuministica e quasi distaccata in cui
rappresenta il suo Tristano, mentre guarda «intrepidamente il deserto del mondo»
e, «maturo alla morte», continua a denunciare gli inganni dell’intelletto, così come
a spendere qualche parola in difesa di quegli «errori dell’immaginazione» alla cui
eroica inutilità sente, in fondo, di votarsi.
Mancano poco più di quattro anni alla morte, ma Leopardi, tormentato dai suoi
«patimenti fisici giornalieri e incurabili», se la augura di giorno in giorno. Anche il
clima di Firenze è divenuto insopportabile per lui e, per evitare di passare con
conseguenze peggiori un altro inverno nella città, insieme a Ranieri parte per
Roma.
Con Ranieri a Napoli
Di lì, dopo breve sosta, Leopardi e Ranieri raggiungono Napoli, per stabilirvisi
definitivamente nell’ottobre del 1833.
Antonio e sua sorella Paolina assistono amorevolmente Giacomo, che dapprincipio
risente favorevolmente dell’ottimo clima partenopeo. L’atmosfera di Napoli non
gli dispiace, anche se, culturalmente parlando, lo infastidiscono le tendenze
idealistiche e cattoliche che dominano la città. Frequenta amici vecchi e nuovi:
Poerio e Troya, conosciuti a Firenze; il purista Basilio Puoti, maniaco dei sinonimi
anche nel parlare comune e quotidiano al punto di ripetere tutto sempre in due o tre
modi; il poeta tedesco von Platen, vicino al Leopardi per la comune ostilità nei
confronti delle componenti mistiche e spiritualistiche del romanticismo;
l’archeologo Schulz; quel Bunsen che, conosciuto a Roma, gli aveva procurato
l’offerta di una cattedra in Germania.
Il ciclo di Aspasia
Tra il 1833 e il 1835, Leopardi attende alla composizione del cosiddetto ciclo di
Aspasia; i canti cioè ispirati al poeta dall’amore per Fanny Targioni
Tozzetti.Consalvo, probabilmente, è della primavera del 1833 e apre il ciclo delle
poesie per Aspasia, sia pure in chiave più romantica rispetto agli altri
componimenti, che sono in parte o del tutto successivi: Il pensiero
dominante (1831-1835),Amore e morte (1831-1835), Aspasia (1833-1835), A se
stesso (1835), caratterizzati da una lucida e desolata considerazione, attraverso
l’infelice passione per Aspasia-Fanny, dell’«infinita vanità del tutto», del potente
inganno di quell’amore che rilancia l’uomo verso una vita che si rivela però,
inequivocabilmente, «amaro e noia».
La seconda edizione delle «Operette morali»
Nel 1834, a Firenze, esce la seconda edizione delle Operette morali, presso
l’editore Piatti; oltre alle venti operette della raccolta pubblicata da Stella, questa
nuova edizione contiene il Dialogo d’un venditore d’almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, ed è corredata delle Note.
L’edizione napoletana dei «Canti»
Nel 1835, appare l’edizione napoletana dei Canti, presso l’editore Starita, e per la
prima volta vi compaiono, oltre ai componimenti del ciclo di Aspasia, Il passero
solitario, le canzoni Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di
una bella donna (composte tra il 1831, data dell’edizione fiorentina dei Canti, e il
1835) e la Palinodia. Al marchese Gino Capponi (anch’essa composta tra il 1831 e
il 1835).
La censura borbonica sulle «Operette»
Nel gennaio 1836, il primo volume della nuova edizione napoletana delleOperette
morali viene sequestrato dalla censura borbonica, e viene così a cadere il progetto
di pubblicazione dell’intera opera leopardiana presso l’editore Starita. Leopardi,
rattristato e risentito, compone probabilmente in questa occasione il capitolo I
nuovi credenti, satira irridente contro gli spiritualisti napoletani; frutto di quella
stessa polemica che ispirava al poeta, quasi contemporaneamente, la caricatura del
mondo contemporaneo e dei suoi sogni di progresso, nellaPalinodia, e che gli
aveva ispirato, in passato, l’attacco contro le barbarie della Restaurazione,
nei Paralipomeni, terminati proprio in questo periodo e pubblicati postumi dal
Ranieri nel 1842 a Parigi.
La casa alle falde del Vesuvio e «La ginestra»
Nell’aprile del 1836, Leopardi e Ranieri si stabiliscono, tra Torre del Greco e Torre
Annunziata, in una villetta ai piedi del Vesuvio. Leopardi, la cui salute è sempre
più incerta, ha bisogno di un’aria più asciutta e quella delle falde del Vesuvio,
impregnata delle esalazioni vulcaniche, è per di più curativa di quell’asma che lo
opprime insieme a ricorrenti bronchiti e a dolori reumatici. Nella villetta alle
pendici del Vesuvio, Leopardi compone entro l’anno La ginestra, suo testamento
poetico, e Il tramonto della luna, che saranno pubblicate soltanto postume,
nell’edizione fiorentina del 1845 delle Opere curata dal Ranieri presso Le
Monnier.
La morte
Nel 1837, a Napoli scoppia un’epidemia di colera. Leopardi non se ne dà cura;
preso tra continui malesseri, i suoi ricorrenti fastidi, non rispetta le prescrizioni
mediche e si abbandona a eccessi e abusi di gelati e di dolci. Improvvisamente, il
giorno 14 giugno del 1837, dà segni di aggravamento repentino e muore nel giro di
poche ore, assistito dal Ranieri, da sua sorella Paolina e dal medico inutilmente
accorso al capezzale. Viene sepolto nella chiesetta di S. Vitale a Fuorigrotta; nel
1838 le ossa vengono traslate a Mergellina (anche se, a una successiva ricerca, non
sono state ritrovate, avvalorando l’ipotesi che fossero state fin dall’inizio inumate
in una fossa comune, a causa del colera).
Le «Operette morali»
Libro capitale, insieme con I Promessi Sposi, le Operette morali occupano il
versante laico della nostra prosa, filosofico e materialista, mentre il romanzo del
Manzoni occupa quello religioso, pedagogico e morale. «Libro dei sogni poetici,
d’invenzione e di capricci malinconici», le aveva definite scherzosamente il
Leopardi, consegnando invece a queste pagine la dialettica drammatica del suo
pensiero e della sua stessa vita.
Le «Operette» come «vera filosofia»
Contro ogni tentato ridimensionamento, le Operette morali sono il nostro maggiore
libro filosofico, dal tempo della Scienza Nuova del Vico. Ma la pretesa del
Leopardi di essere a un tempo filosofo e poeta è stata ritenuta eccessiva e il suo
pensiero è stato sistematicamente screditato, con argomentazioni non pertinenti. E,
invece, «la concezione leopardiana è vera filosofia», come afferma Giorgio Colli:
«le Operette sono dei miti filosofici, nel senso greco».
Il punto è, una volta di più, la miopia dei critici, la loro sordità (per non parlare
della loro malafede); perché «l’altezza di questa espressione umana è misurata
dalla sua rarità». Cosa di cui, per altro, lo stesso Leopardi era del tutto
consapevole, senza illusioni; come si legge, per esempio, nel Parini ovvero della
gloria.
Dentro la veste del mito, il Leopardi voleva dare forma alla crudezza della verità. E
il progetto è riuscito; in una chiave perfino eroica. Come ha scritto Colli: «Mentre
precluse a sé l’amabilità, con la sua parola sprezzante e cristallina, agli altri offrì
l’occasione di conoscere la vita, gettandoli nel bagno gelato di una ragione sana,
perché si scuotessero dal torpore dei narcotici moderni.»
Fin dall’inizio apprezzate per il loro valore stilistico, sia pure nell’imbarazzo dei
contemporanei di fronte alle idee che vi erano espresse, le Operette moralifurono
riconosciute come il più alto modello di prosa italiana dagli scrittori della
«Ronda». Ma solo molto recentemente individuate come libro mirabile della
conoscenza, che ha spiegato, prima di Kierkegaard e degli esistenzialisti,
l’angoscia dell’uomo per la nullità di fronte all’infinito e, prima di Nietzsche, la
forza trasfiguratrice dell’immaginazione.
Solo cinquant’anni più tardi, Nietzsche, che conosceva e apprezzava il Leopardi,
avrebbe sottolineato il profondo significato del non-senso della vita e come questo
non-senso potesse essere recuperato dall’arte. E avrebbe ripercorso le stesse tappe
del Leopardi; parlando del vuoto, dell’assenza totale intorno a noi, oltre il tempo
storico, e del recupero in una realtà mentale di oggetti, momenti, figure che si
fanno sensazioni e illusioni, in qualche modo, di eternità.
Opera filosofica, libro di poetica, autentica passione laica, le Operette
moralirappresentano il testo limite della nostra letteratura non soltanto
ottocentesca; luogo di coincidenza di poesia e di prosa, di ragionamento e di
fantasia, di invenzione e di analisi del reale.
Prototipo della «nuova» letteratura
Anticipando da buon profeta i tempi, nelle Operette, il Leopardi realizza il
prototipo della «nuova» letteratura, che non può fondarsi ormai che sull’antifrasi e
regolarsi che sull’inversamente proporzionale. Ma proprio su questo versante, delle
intenzioni ironiche per esprimere il dramma, si dichiara l’altro rifiuto della nostra
critica, che, succuba di una tradizione drammatica, continua a sventolare la
bandierina della presunta impoeticità.
La filosofia come unica forma di conoscenza
C’è un momento, nell’esperienza del Leopardi, in cui la filosofia appare
improvvisamente l’unica, o comunque la maggiore, forma di conoscenza possibile.
La fase culminante è il periodo che va dal 1823 al 1825: segue alla clamorosa
delusione romana e coincide con le fitte letture filosofiche e con la volontà di dare
fondamenti razionali al crescente pessimismo.
Il viaggio fuori Recanati non serve al Leopardi soltanto per scoprire che la vita è
«amaro e noia» ovunque; gli fa toccare con mano come l’età dei lumi sia passata
invano, e la ragione sia costantemente latitante dalla società e dalle cose degli
uomini. Uomini che si abbandonano, per esempio a Roma, all’uso corrotto del
potere, perfino dentro la curia, o all’ozio e ai piaceri mondani, secondo i costumi
delle classi dominanti, o al bamboleggiamento dei finti buoni sentimenti, tra i
letterati, o all’abbrutimento della miseria, in mezzo al popolo. Niente più del
soggiorno romano ha rafforzato in Leopardi la convinzione di doversi dedicare
intensivamente all’esercizio della ragione, cioè alla filosofia; in ottemperamento a
un’interiore esigenza etica, che corrisponde a quell’imperativo categorico che si
impone, al di là di ogni interesse personale o di classe o di casta, come aspirazione
al vero e al giusto.
L’abbandono della poesia e la scelta della prosa
Del resto, era già avviato su questa strada. Dopo le posizioni radicali
dell’antiromanticismo del Discorso del 1818, sulla poesia come pura imitazione
della natura secondo i canoni classici, il Leopardi della «conversione filosofica»
aveva gradualmente allargato il suo orizzonte: dalla «poesia d’immaginazione»
degli antichi a quella che egli chiamò «poesia sentimentale», ormai l’unica davvero
possibile per i moderni. Una poesia in cui non si può fare a meno del ragionamento
e che è «piuttosto una filosofia», perché «il sentimento è fondato e sgorga dalla
filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, in somma dal
vero». Ma, dopo il soggiorno romano, si impone nettamente al Leopardi la priorità
della filosofia come ricerca e conoscenza dei supremi principi della realtà, con
mezzi che la poesia non può e non riesce ad avere; ed è un passaggio che coincide,
nell’esperienza dello scrittore, con l’abbandono della scrittura poetica e con la
scelta della prosa, che gli appare l’unico strumento espressivo in grado di
rappresentare l’indagine filosofica.
L’analisi della ragione e dei suoi principi
Dell’adesione alla filosofia, le Operette morali sono lo specchio riflesso e, insieme,
il percorso risolutivo; nel senso che, recuperata dalle pagine delloZibaldone (che è
il terreno preparatorio), la filosofia viene sceneggiata, nel progetto dunque di una
trascrizione artistica, e nello stesso tempo, in questa sceneggiatura, trova
approfondimento. Al momento di disporsi alla composizione delle Operette, il
Leopardi ha già conquistato quella consapevolezza del «solido nulla» che va
assestandosi sulle posizioni di una concezione meccanicistica dell’universo di
matrice illuministica. E questa visione negativa il Leopardi va traducendo, con
scarti e aggiustamenti, nelle pagine delle Operette. Ma a imporsi sempre più, nel
corso del libro, è una sfiducia nei confronti della ragione che, altrimenti usata, dà
luogo a quegli «errori dell’intelletto» che alimentano la follia dei moderni e a
quella nuova forma di superstizione che è il progresso. La meditazione filosofica
del Leopardi si sposta insomma, nel corso delle Operette morali, dall’analisi della
realtà all’analisi dei principi della ragione stessa.
Posto a definitiva premessa delle Operette, nella Storia del genere umano, il fatto
che irreversibilmente l’immaginazione fu nel corso del tempo sostituita dalla
ragione, nella pratica comune degli uomini, il Leopardi circoscrive molto
coerentemente la sua indagine alla ragione. E si accorge che la ragione, mezzo per
altro che, se correttamente usato, porta alla scoperta del vero (cioè del nulla che «è
il principio delle cose»), sottratta arbitrariamente a quelle che sono le sue fonti,
cioè le sensazioni, diventa creatrice di inganni mostruosi. Ma, quel che più
importa, si rende conto che anche la ragione è, alla fine, inattendibile, e incapace di
spiegare le cose.
Scrive il Leopardi nello Zibaldone del 2 giugno del 1824: «Non si può meglio
spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (vedi il
mioDialogo della Natura e di un Islandese, massime alla fine) che dicendo essere
insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i
principi stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio,
estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra
proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel
principio non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso
quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura.» E si riferisce
a quel principio-di-non-contraddizione, negato dal fatto che l’uomo vive, proprio al
contrario, costantemente nella contraddizione, in primo luogo, tra essere solo
perché tendente alla felicità e non essere mai neppure per breve tratto felice.
La scoperta dell’inadeguatezza della ragione
Al di là dell’indagine filosofica sui termini qui un po’ parmenidea, è la scoperta
dell’inadeguatezza della ragione a dar conto della «contraddizione evidente e
innegabile nell’ordine delle cose e nel modo dell’esistenza, contraddizione
spaventevole, ma non perciò men vera» e che si segna esemplarmente in una
natura la quale, mentre ci rivela con l’uso della ragione tutta la verità del nostro
infelice destino, continua a suscitare in noi speranze, illusioni, slanci d’affetto, per
spingerci non solo a vivere ma, addirittura, ad amare e desiderare la vita.
L’inadeguatezza della ragione, il Leopardi la verifica prima di tutto a spiegare la
sua personale contraddizione tra la consapevolezza del nulla che è la vita e il
piacere di «quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio
alla vita». E la ragione, naturalmente, non può negare quello che esiste e si
dichiara: un anelito oscuro a vivere, pur nella consapevolezza della vanità della
vita stessa («non solo l’intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono
pieni di questa vanità»). Si attesta insomma, nel corso delle Operette e nel costante
adeguamento della teoria alla pratica della personale esperienza, un disagio
crescente nei confronti della ragione, che, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio,
viene indicata come uno dei pericoli maggiori per l’uomo, se non addirittura il più
grande.
Il ritorno alla poesia come romanzo autobiografico, unica filosofia fedele al vero
Le Operette morali sono il testo in cui il Leopardi percorre la ragione per scoprire,
alla fine, che essa è quella che tradisce più crudelmente l’uomo, che gli impedisce
di conoscersi fino in fondo e di accettarsi. In una sorta di viaggio di Candide, ma
non tanto tra gli orrori della realtà, che è comunque a monte, quanto attraverso le
teorie, le interpretazioni (l’idealismo platonico, il cristianesimo, il razionalismo,
quello che di lì a poco sarà detto positivismo), considerate la causa dell’infelicità
umana; per significare, in fondo, che la realtà resta quella che è ed è il modo di
disporsi nei suoi confronti, cioè di conoscerla, che conta davvero per l’uomo. E,
nelle Operette, il Leopardi ha la prova che la filosofia è il punto morto, in questo
tentativo di conoscenza, e che non offre neppure le scappatoie, per esempio, della
poesia; alla quale egli ritorna negli anni 1828-1830, perseguendo un tipo di
romanzo autobiografico in versi che gli appare ormai come l’unica filosofia fedele
al vero e, insieme, come la nuova poesia che non ha più per oggetto il «bello».
Quale sia l’importanza delle Operette nell’evoluzione della poesia leopardiana si
può verificare in quel progressivo smarrimento delle distinzioni pregiudiziali tra
scrittura poetica e prosa, nei cosiddetti «grandi idilli» e, di lì a crescere, nell’ultima
produzione; senza contare il fatto, a cui accennavamo sopra, di una poesia che si fa
espressione di una riflessione filosofica nel suo fluire, cioè di una visione delle
cose e del mondo incarnata nel soggetto cogitante.
Le Operette, insomma, costituiscono la premessa e addirittura la giustificazione
motivata dello spazio angusto in cui la poesia del Leopardi si attesta; nel luogo
della contraddizione inevitabile, di chi si ritrova consapevole del nulla che è la vita,
ma si dispone all’abbandono, perché oltre la negazione vive comunque un’ombra,
un riflesso, che è quello dell’immaginazione, in cui consiste «tutto il bello di
questo mondo», e che porta naturalmente l’uomo, per brevi intervalli, a quella
stessa illusione che contraddistingueva la mitica felicità degli antichi. Infatti,
accade che «per cagioni menomissime e appena possibili a notare, rifassi il gusto
alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano
quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente
all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo», cioè a quella facoltà di
sentire, insieme come pensiero, ragione, memoria, immaginazione, anche
indipendentemente dalla realtà in sé, che resta quella che è; in un flusso di
atemporalità e di ubiquità che è il puro desiderio di esistere. («Esiste nell’uomo
una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose come non sono, e in un
modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al
piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali
occupazioni della immaginazione del piacere. Ella può figurarsi dei piaceri che non
esistono, e figurarseli infiniti, in numero, in durata, in estensione. Il piacere infinito
che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale
derivano la speranza, le illusioni...»,Zib. 183). E il puro desiderio di esistere, che
coincide con una vaga aspettativa di felicità, in Leopardi si è delineato sempre più
consapevolmente, nelle Operette, come salto in un futuro solo mentale, inesistente
se non come fantasma dell’immaginazione, tipico tanto dell’uomo comune che
dell’uomo di cultura (come appare, esemplarmente, nel Dialogo di un venditore
d’almanacchi e di un passeggere). Questo salto nel futuro caratterizza e determina
la stessa poesia della memoria, che è poesia dell’attesa; magari, dell’attesa andata
delusa. Perché il ricordo, in Leopardi, è un modo di tornare a figurarsi le cose e a
vagheggiarle come un bambino; e tali piacevoli fantasie, paradossalmente, sono
tenute vive dalla stessa carica che le sorreggeva al tempo dell’infanzia e della
giovinezza: l’illusione che si realizzasse il meglio, che poi si è rivelata fallace, ma
che tuttavia resiste come potenzialità di allora.
Le letture filosofiche
Il percorso delle Operette morali, verificabile come abbiamo detto sulle pagine
dello Zibaldone, rispecchia non solo lo svolgimento autonomo del pensiero del
Leopardi, ma anche il quadro complesso delle sue letture; da quelle euforiche e
disordinate degli anni della «conversione filosofica» (1819-1821): i filosofi antichi,
Platone, l’atomismo; a quelle più meditate degli anni 1822-1824: i sofisti, i retori,
Isocrate, Cicerone, Frontone, e la letteratura e la pubblicistica illuministiche, con
particolare attenzione a Voltaire e a d’Alembert, ma anche a Thomas e a Federico
II di Prussia; fino a quelle decisive del 1825: ancora Platone e Cicerone, Epitteto,
Eratostene e il Système de la Nature dell’illuminista d’Holbach.
La concezione meccanicistica dell’universo
La concezione del mondo che il Leopardi disegna nelle Operette è quella
meccanicistica degli illuministi, riconsiderata direttamente sui testi degli antichi
atomisti. L’universo è un perpetuo circuito di produzione e di distruzione; e
produzione e distruzione sono collegate tra loro in maniera che ciascuna serve
strettamente all’ altra e alla conservazione del mondo (Dialogo della Natura e di
un Islandese). Non ci sono finalità nell’universo, che funziona secondo leggi
necessarie, per cui tutti i fenomeni sono connessi ciecamente in una catena di cause
ed effetti; e l’uomo è uno dei tanti fenomeni dell’universo. Tutte le cose hanno un
principio e una fine, ma la materia è eterna: come mai è nata, così mai si dissolve;
non cresce di quantità e nemmeno diminuisce, solo si modifica; mossa da una
intrinseca forza di autoconservazione, crea «infiniti mondi nello spazio infinito
della eternità» e questi mondi, venendo meno col tempo, si trasformano in qualche
altra cosa; anche il nostro mondo rientra in questa legge immutabile e già, quasi
sotto i nostri occhi, evolve trasformandosi: con i millenni, nel suo processo di
modificazione, giungerà anch’esso alla sua distruzione con tutti gli esseri che lo
popolano, e le sue particelle di materia andranno ad amalgamarsi in altre forme di
mondi (Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco).
Il tormentato rapporto con la natura
Ma più che questa concezione dell’universo, sostanzialmente mutuata dalle fonti
che abbiamo citato, o più in generale il tentativo di un sistema filosofico, tutt’altro
che riuscito, interessano nelle Operette la mobilità ideologica del Leopardi e il suo
sforzo di correggere le proposizioni di principio di fronte al vero sperimentato sulla
propria persona. Emblematico, da questo punto di vista, è il tormentato rapporto
dello scrittore con la natura, che attraversa l’intero libro. L’atteggiamento del
Leopardi nei confronti della natura si è assestato col tempo ed è stato sempre
guidato da un sentimento di amore-odio, più tipico dell’innamorato deluso che non
del distaccato osservatore (e, del resto, è anche merito del Leopardi l’aver smesso
di credere presto alla possibilità in assoluto di una osservazione distaccata). La
posizione iniziale, sia pure ambiguamente, è sulla linea del Rousseau: la natura ha
creato il mondo meraviglioso ed esseri ingenui disposti alla felicità, ma la ragione
ha prodotto contaminazione, rovinando l’uomo, e la sua infelicità deriva dal
progressivo distacco dal cuore della natura; ad essere felici sono solo le «età
fanciulle» (Storia del genere umano). La posizione poi cambia, decisamente contro
le teorie rousseauiane: la ragione stessa è prodotto della natura, matrigna per gli
uomini, indifferente e spietato strumento della macchina cosmica che lavora
esclusivamente alla propria conservazione (Dialogo della Natura e di un
Islandese). E alla fine, tuttavia, il contrasto tra i termini «natura» e «felicità»
appare attenuato, perché va cancellandosi quasi ogni addebito di responsabilità alla
natura, che anzi istintivamente opera per rendere la vita il meno infelice possibile,
cercando di addormentare quella ragione di cui pure fornisce l’uomo; e, d’altra
parte, il concetto di «materia», più impersonale, si impone gradualmente su quello
di «natura» (Dialogo di Plotino e di Porfirio, Dialogo di Tristano e di un amico).
Un materialismo assolutamente negativo
Allo stesso modo, interessante da valutare, oltre che poeticamente significativa, è
l’energia intellettuale che il Leopardi spende nelle pagine delle Operette, per
attestare su principi di conoscenza il suo pessimismo, come materialismo organico,
al di là di qualsiasi riferimento o addebito biografico e sociologico. E all’accusa
che qualcuno gli aveva mosso, all’indomani della prima edizione delleOperette, di
aver accentuato le conseguenze negative della sua interpretazione del mondo a
causa delle condizioni e delle vicende della sua vita, il Leopardi risponde con una
lucida dichiarazione, nel Dialogo di Tristano e di un amico del 1832: «So che
malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e
ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza,
mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte
dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa,
ma vera.»
Contro lo spiritualismo corrente, il Leopardi afferma, per bocca di Tristano, che «il
corpo è l’uomo» e, in molti luoghi delle Operette, contro il razionalismo
progressista, dichiara la convinzione che la vita sia soltanto infelicità e dolore,
senza possibilità di evoluzione: un appassire inarrestabile e inevitabile verso la
morte. Il materialismo del Leopardi è metafisico, sulla linea che da Democrito
arriva fino agli illuministi; non è dialettico. È assolutamente negativo («Tutto è
male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male») e le sue
conclusioni sono che la morte è meglio della vita e che il non essere è meglio
dell’essere («Non c’è altro bene che il non essere»). Ma è una negazione che non
approda tuttavia alla disperazione e che, alla fine, rifiuta consapevolmente il
suicidio, che sembrerebbe invece la conseguenza più logica; per una naturale
contraddizione che la lucida correttezza del Leopardi non può non rilevare sulla
sua stessa persona: il fatto innegabile che, anche di fronte alla consapevolezza della
realtà, resiste un sia pur tenue allettamento a vivere, magari come sentimento
negativo, come «piacere di non essere» («Non siamo dunque nati fuorché per
sentire, qual felicità sarebbe stata se non fossimo nati?» Zib. 676). È lo spiraglio,
del resto, attraverso cui passa, per bocca di Tristano, l’adesione del Leopardi, mai
negata fino all’ultimo, a quegli «inganni dell’immaginazione» in cui continua a
dichiararsi l’istinto naturale a vivere secondo felicità; a conferma e a
puntualizzazione di quanto il Leopardi stesso aveva scritto, anni prima, nel
lucidissimo Frammento sul suicidio: «Insomma il continuare in questa vita della
quale abbiamo conosciuto l’infelicità e il nulla, senza distrazioni vive, e senza
quelle illusioni su cui la natura ha stabilita la nostra vita, non è possibile.»
La filosofia del «non essere» e della crisi
La filosofia del non essere del Leopardi, nel corso della sua esperienza, coincide
prima con il rimpianto e poi con la sorda protesta (proprio in questo ordine) dinon
essere più, o magari di non essere mai stato, «fanciullo», cioè felice. È la verifica,
sul piano teoretico, della corrispondenza tra l’identificazione istintiva del poetico
con l’indefinito e vago (cioè l’aspirazione al nulla) e la coincidenza razionalmente
scoperta di piacere e inesistente o non più esistente (il futuro, il passato). È una
filosofia della contraddizione sulla viva carne dell’io; una forma di esistenzialismo
radicale: la conoscenza della realtà e la scoperta dell’inutilità di tale conoscenza,
anzi della condanna all’infelicità che essa segna, senza possibilità di altre scelte se
non l’evasione dell’«immaginazione». Una filosofia della crisi, quale si
evidenzierà solo sul finire del secolo, in cui l’individuo emerge come esistenza,
inquieta e dolorante, che vorrebbe non esistere, per lo meno così come è.
Una filosofia che rimedia a se stessa, sapendo di non sapere rimediare ai mali che
conosce. «L’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei
propria inutilità... E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e
disinganna dalla filosofia» (Zib. 304-305). L’interesse del Leopardi per la filosofia
coincide progressivamente, a conferma della sua primaria vocazione di scrittore,
con il progetto di una nuova scrittura filosofica, capace di eguagliare i risultati
artisticamente superlativi di quella antica. Infatti, dal confronto tra testi del
presente e del passato, nelle sue varie e sparse letture, Leopardi riporta
l’impressione, divenuta sempre più convinzione, che la filosofia moderna si sia
fatta da specialistica settaria e abbia adottato procedimenti meccanici e un lessico
arido e freddo, allontanandosi da quel linguaggio immaginoso e concretissimo dei
filosofi antichi, che riusciva, e ancora riesce, a colpire la fantasia dei lettori e a farsi
intendere immediatamente. «L’odierna filosofia che riduce la metafisica, la morale
ecc. a forma e condizione quasi matematica, - scrive il Leopardi
nello Zibaldone (p. 1360) - non è più compatibile con la letteratura e la poesia,
com’era compatibile quella de’ tempi ne’ quali fu formata la lingua nostra, la
latina, la greca.» E, invece, le differenze tra grandi filosofi e poeti sono più
apparenti che reali e tutti debbono possedere, parimenti, capacità di ragionamento e
forza immaginativa.
Il progetto di una filosofia «poetica»
L’idea del Leopardi, nel momento in cui gli appare sempre meno fattibile la poesia
tradizionalmente intesa, è quella di una nuova prosa, insieme filosofica e poetica,
capace appunto di combinare, nella lettura della realtà, filosofia e poesia, che egli
definisce «le facoltà più affini tra loro» (nello Zibaldone dell’8 settembre 1823). E,
certo, non gli sfuggono né il rischio di ambiguità che si corre nel tentare una pista
ibrida, né le difficoltà evidenti di una coniugazione da lui stesso riconosciuta fallita
tra i moderni. Ma scrive ancora il Leopardi, nelloZibaldone del 24 luglio 1821:
«Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità della odierna filosofia colla poesia, gli
spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti e delle
osservazioni... e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque
ostacolo ed essere sommi filosofi moderni poetando e scrivendo perfettamente.»
Ecco il progetto formale da cui nascono le Operette; nel segno di una prosa cui si
affidano, insieme, il compito di spiegare la realtà e quello di rappresentarla. Una
prosa che, per le funzioni stesse di cui si carica, mira a porsi come tentativo di
superamento e come innovazione; secondo il precetto più volte dal Leopardi
richiamato, a proposito del suo lavoro di scrittore, che «una lingua non è bella se
non è ardita».
La prosa delle «Operette»: una scrittura «di cose» e di immagini per la filosofia
La prosa delle Operette ha sempre raccolto larghi consensi presso la critica ed è
piaciuta spesso anche a quelli che, contemporaneamente, rifiutavano o
ridicolizzavano i contenuti del libro. È una prosa che, affondando le proprie radici
nella tradizione italiana migliore, realizza un esempio tutto originale di linguaggio
filosofico della reificazione e dell’immaginazione. Una prosa che oscilla, secondo
le esigenze, dal preziosismo arcaizzante e «peregrino» del racconto-saggio (Storia
del genere umano); all’eleganza brillante dei ritratti «morali» (Il Parini, Detti
memorabili di Filippo Ottonieri); al sapiente pastiche, fitto di richiami eruditi, nei
finti manoscritti ritrovati (Cantico del gallo silvestre,Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco) o nei giochi sulle sorti degli uomini (Proposta di premi
fatta dall’Accademia dei Sillografi, La scommessa di Prometeo); alla minuta e
fluida oggettivazione, che qualcuno ha definito realistica, alla maniera degli
illuministi, nei dialoghi.
Le fonti
Le fonti italiane appartengono al Trecento, al Cinquecento e al Seicento. Con una
preferenza nettissima per la prosa cinquecentesca: il Gelli, in particolare, e
Castiglione, Della Casa, Firenzuola, e gli scrittori politici come Machiavelli e
Guicciardini; e per la concretezza degli scritti scientifici secenteschi, del Galilei e
del Redi. Le predilezioni del Leopardi sono verificabili, del resto, nella
stessaCrestomazia della prosa e si concentrano, guarda caso, sugli scritti raccolti
nelle sezioni «Filosofia speculativa» e «Filosofia pratica».
Fine dell'estratto Kindle.
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INTRODUZIONE La vita e l`opera