Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ INTRODUZIONE La politica del XX secolo è determinata da una serie di fattori che l’hanno caratterizzata: - l’irrompere delle masse nella società; - l’espandersi dell’economia capitalistica; - l’affermazione dei partiti ideologici e dei totalitarismi che, successivamente, sono stati sconfitti; - le costrizioni della tecnica; - il dilagare del conflitto e l’affermarsi della democrazia. Inoltre, nel corso del novecento, la politica è uscita dalle istituzioni, le ha sfidate e le ha modificate con processi i cui esiti hanno messo in luce sia la potenza che i limiti e le contraddizioni del progetto politico moderno. Il novecento è stato riconosciuto sia come secolo breve che come secolo lungo. Hobsbawm ha affermato che esso è un secolo breve, il quale ha inizio nel 1914 e si conclude – in una prima tappa- nel 1945; in una seconda tappa nel 1989. Per Maier, invece, il 1900 è un secolo lungo in quanto è iniziato nel 1870 (anno in cui l’Europa si è avviata verso la modernizzazione) e si è concluso negli anni ‘70/’80 del 1900. Accanto a queste partizioni ci sono altre periodizzazioni: - quella che va dal 1870 al 1914, la quale coincide con il periodo in cui c’è stato il superamento intellettuale delle coordinate della modernità politica; - quella che va dal 1914 al 1922 che comprende una miscela tardo-moderna di tecnica, violenza, ideologia e nichilismo i quali si sono manifestati in guerre e rivoluzioni; - il primo dopoguerra, durante il quale si è affermato un potere tecnico, carismatico e invasivo sfociato nei totalitarismi e nelle risposte democratiche alla crisi economica mondiale del 1929; - il secondo dopoguerra, caratterizzato da una pace apparente perché – in quegli annidominava la guerra fredda, le guerre di liberazione coloniale e le ribellioni del 1968. Inoltre in questa fase del 1900 la società è stata regolata e governata da poteri che si sono legittimati solo per il loro successo economico; - gli anni ’80, durante i quali c’è stata una forte accelerazione delle dinamiche dell’economia di mercato; - e, infine, ci sono gli anni 1989-1991 in cui c’è stato il crollo del comunismo e la divulgazione del capitalismo che – da un lato- ha prodotto omogeneità, dall’altro contraddizioni e conflitti i quali da locali sono divenuti globali. Le masse sono il prodotto dei processi economici sviluppati dopo il 1870, i quali hanno potenziato la produzione industriale attraverso il coinvolgimento dell’intera società. da ciò si evince che nel 1900 la politica si è indirizzata verso l’allargamento della cittadinanza e l’organizzazione della comunità, cercando di realizzare la democrazia dentro o oltre lo Stato. Tale obiettivo si è realizzato al di fuori della politica liberale ed elitaria del 1800 ed è stato reso possibile dall’elaborazione di ideologie (come quella socialista e comunista, quella fascista e nazionalsocialista) le quali – anche se con intenti opposti- hanno cercato di dre identità e potenza alle masse. Inoltre le ideologie hanno costituito l’anima dei partiti di massi e hanno fornito a questi l’energia per rompere la rigidezza e le limitazioni dello Stato liberale e per attuare processi di riforma che sono andati verso i totalitarismo o verso lo stato sociale. La tecnica, ossia l’artificialità del mondo e della vita umana, durante il XX secolo è stata sottoposta al controllo della ragione e si è dimostrata come l’orizzonte nel quale si è svolta Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ la vita associata. Essa - infatti- ha condizionato e determinato gli sviluppi della politica grazie alle sue logiche, alla sua potenza e alle sue contraddizioni, tra le quali una molto importante è quella che mette in evidenza che la tecnica da elemento di emancipazione dell’umanità, si è affermata come elemento di dominio. Il conflitto politico del 1900 è stato generato dal fatto che tutti gli avvenimenti i quali hanno costruito la trama di questo secolo hanno generato fronti polemici, plurimi e mobili sui quali si sono confrontati e scontrati attori storici e pensatori della politica. Ad esempio, intorno all’industrializzazione prima, e all’inclusione delle masse poi, si è coaugulata una delle fratture più importanti della storia: quella tra il capitalismo e il comunismo; quella tra la democrazia liberale e democrazia socialista. Le ideologie hanno avuto la potenza di trasformare in conflitto politico le contraddizioni economiche -da un lato- e – dall’altro- hanno fatto della politica del Novecento in vero campo di battaglia la cui sfida principale è stata quella di individuare modelli di cittadinanza universale per far entrare le masse nella vita politica democratica. L’inclusione delle masse nella democrazia non è avvenuta in modo lineare, ma ha comportato una serie di contraddizioni ed esclusioni che si sono manifestate in conflitti e in una mobilitazione permanente. Le democrazie liberali hanno dato un’interpretazione pluralistica della democrazia, intendendola come un sistema politico che se ben governato consente il libero fiorire della singolarità e delle collettività. Nella prima fase del secolo la socializzazione della politica è avvenuta attraverso la costruzione politico-partitica della nazione e della classe, le quali sono riuscite ad affermarsi nel corso del primo conflitto mondiale intrecciando conflitti interni ed esterni. Infine ci sono stati i totalitarismi che hanno rappresentato la continuazione della guerra fin dentro la pace e hanno risposto alle sfide del secolo organizzando forme politiche democratiche capaci di realizzare la mobilitazione ideologica e polemica di tutto l’uomo e di tuta la società proponendosi non un obiettivo pluralistico ma fortemente monistico (ossia singolo). Nel corso del XX secolo i fronti di conflittualità ideologica e politica sono cambiati: dall’antifascismo (che ha dominato tutto il periodo della seconda guerra mondiale) si è passati all’anticomunismo; dopo la caduta del comunismo si è affermato l’antitotalitarismo e l’anti-terrorismo che ha posto le società democratiche dell’Occidente contro dei nemici nuovi e molto forti. Ulteriori fronti di conflittualità sono stati prodotti dall’espandersi globale delle forme occidentali di socializzazione e produzione, che ha risvegliato i popoli del Terzo mondo i quali hanno cominciato a ribellarsi. Il quadro della complessità e delle contraddizioni è stato ulteriormente complicato dalle insorgenze che si sono verificate nell’Occidente democratico (durante il ’68) e dalla globalizzazione che ha segnato la fine della guerra fredda. La tecnica ha, poi, generato fronti intellettuali di conflitto in quanto da un lato ci sono coloro i quali sostenevano che essa fosse un problema; dall’altro ci sono quelli che la ritenevano una soluzione dei diversi problemi esistenti. Altri ancora hanno sostenuto che non bisogna criticare la tecnica ma l’economia. Infine la democrazia, prima di realizzarsi come democrazia sociale, si è manifestata in diverse forme anche contrastanti con la sua natura, quali: la democrazia totalitaria, la democrazia popolare, etnica, ecc che nel loro insieme testimoniano che questa forma di governo è stata la protagonista di tutte le questioni del secolo. Le dinamiche della politica del 1900 spiegano perché il pensiero politico di questo secolo è stato esposto a tensioni molto gravi le quali non hanno permesso a nessuno dei concetti e delle forme politiche della tradizione di resistere alle sfide di questo tempo. Per questo motivo lo Stato ha assunto diverse forme giuridiche; la rappresentanza del popolo ha Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ cessato di avere il suo snodo centrale nel parlamento, passando nell’esecutivo; il soggetto individuale si è trasformato da Io trascendentale a Io diverso e – infine- in Io dominato e massificato dal conformismo; le soggettività politiche del 1900 – ossia la nazione e la classe- hanno perso la loro capacità propulsiva e la loro consistenza lasciando il posto a nuove soggettività completamente diverse: la donna, i giovani e i migranti. Alla centralità del soggetto si è sostituita quella del corpo e della vita. La società, che non può essere pensata né come separata dallo stato e dalla politica né come terreno d’azione delle istituzioni, è stata definita come origine di nuove questioni e conflitti la cui soluzione esigeva una nuova energia politica: i partiti, e una nuova legittimità: quella conferita alle grandi ideologie di massa. Tuttavia, nel corso degli anni ’80, la progettualità dei partiti è stata sfidata dalla pretesa che l’economia di mercato doveva essere l’orizzonte di legittimazione della politica, la quale doveva limitare la propria azione e renderne possibile l’autoregolazione. In questo modo i partiti sono stati impoveriti e la politica è stata riproposta come la dimensione in cui si rendono manifesti i poteri globali, le contraddizioni e le esigenze generate dall’insufficienza del mercato a determinare e regolare una libera vita umana. Da ciò si evince che il Novecento è stato dominato dalle crisi che hanno attraversato gli spazi tradizionali della politica, sia in senso geografico che istituzionale; crisi che nascevano dal manifestarsi di contraddizioni interne al progetto moderno il quale vuole che la politica sia il prodotto della ragione umana. Il primo obiettivo del pensiero politico del 1900 è quello di individuare il razionalismo moderno; a questo si è affiancato l’impresa di ricostruzione ideologica della politica “oltre lo Stato”, la ricostruzione democratica della statualità e- infine- le destrutturazioni, che si presentano come il superamento (anche intellettuale) di un quadro politico che è stato modificato dagli eventi del 1989 e del 2001. dall’analisi di quanto detto si deduce che il 1900 è un secolo ricco di contraddizioni. Una prima contraddizione coincide con il fatto che questo secolo è stato caratterizzato da una serie di richieste di emancipazione da un lato,e - dall’altro- da trend di accrescimento e approfondimento del dominio. In secondo luogo il XX secolo è stato un periodo di crisi e di estrema violenza, ma nello stesso tempo è stato un secolo in grado di associare questi eventi negativi all’elaborazione delle teorie dei diritti dell’uomo, civili, politici, sociali, culturali sia dei singoli che dei gruppi e di forme della pace. Da un punto di vista spaziale, l’Europa conosce – nel 1900- la più piena centralità nell’elaborazione teorica e nell’intensità dei fenomeni politici; ma – al tempo stesso- è attraversata da una serie di contraddizioni che la portano ad essere l’oggetto della politica altrui e a dover riconoscere la marginalità della propria esistenza. Da un punto di vista politico, le contraddizioni si manifestano anche nella democrazia, la quale è sfidata nella sua vocazione universalistica e nel suo autoleggittimarsi come estendibile all’intera umanità, dal rifiuto e dalle critiche di chi la vede come una manifestazione della cultura occidentale. In questo modo, le alternative che sono state elaborate nel corso del XX secolo rispetto la democrazia sono state sconfitte, ma la vigenza di categorie e delle istituzioni della modernità non implica che la loro efficacia non sia in bilico e che molti problemi (colti dalle critiche intellettuali) siano stati risolti. Essi – infatti- sono stati trasformati ma restano ancora insoluti. Come questi problemi, anche la lotta che intellettuale intorno alla modernità – che è divampata x tutta la durata del secolo- si ripresenta oggi sotto una forma mutata, diversa. Infatti, gli sforzi del pensiero politico stanno andando in diverse direzioni: da un lato protendono verso la riaffermazione delle logiche esplicite del Medioevo; da un altro si indirizzano verso una critica radicale della ragione moderna e – infine- si orientano a salvare dalla modernità alcune indicazioni e orientamenti umanistici, liberandoli dalle logiche di dominio che li pervadono e adattandoli Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ ad un nuovo mondo con nuove problematiche da affrontare. L’obiettivo di questa terza posizione è quello di pensare a delle soggettività né subalterne né totalizzanti; a delle istituzioni non dominanti; a delle identità non escludenti; a delle tecniche non manipolative; a dei conflitti non distruttivi; ad una politica che sia più lineare e priva di contraddizioni. Infine bisogna sottolineare che la contraddizione più grande del XX secolo è quella di aver ospitato una grande stagione di pensiero politico e politica pratica- da un lato-; e dall’altro di averproceduto con una destituzione di senso della politica e con una declassazione di essa a fenomeno di accompagnamento di altre logiche e linguaggi (come l’economia, la tecnica, ecc.). CAPITOLO I LA CRISI DELL’ORDINE POLITICO MODERNO Con la rivoluzione del 1848 la coscienza europea ha conosciuto una crisi che è stata colta non solo dai rivoluzionari e dai controrivoluzionari, ma anche da un grande filosofo : Kierkegaard, il quale sosteneva che l’ingresso delle masse nella politica segnava la fine dell’omogeneità della società borghese. Inoltre il filosofo danese ha affermato che con dopo gli avvenimenti del 1848 sarebbe stato impossibile promuovere l’uguaglianza tra uomo e uomo, in un contesto liberale, e che la borghesia non era stata all’altezza del compito storico-politico che si era assunta: ossia quello di civilizzare il genere umano. Tuttavia questa sfiducia nelle istituzioni politiche e nella cultura razionalistica è stata superata con il positivismo e la socialdemocrazia, i quali sono stati colpiti dalla crisi intellettuale e politica che ha colpito l’Europa dal 1880 al 1945. Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX la borghesia è andata incontro a gravi difficoltà dipendenti, soprattutto, dalle modifiche dell’assetto sociali: infatti la politica liberale viene sfidata dalla democrazia di massa – da un lato- e dalle profonde contraddizioni di classe – dall’altro. Da un punto di vista concettuale, la crisi della politica liberale si è riverberata su tutte le categorie politiche moderne, e in particolare su quella del soggetto, su quella di razionalità e su quella di progresso. Dopo la crisi del liberalismo si è dato inizio ad una serie di tentativi di rifondazione della politica: infatti vediamo che c’è stata – in politica- l’irruzione delle masse organizzate in partiti, la quale ha segnato la fine del nesso ottocentesco tra Stato e individuo; poi sono entrati in scena nuovi attori della politica i quali non sono più contenibili all’interno delle istituzioni e che agiscono in base alle ideologie proponendosi di dare sostanza alla’astrattezza della politica moderna. Le ideologie, anche se sono diverse tra loro, si propongono tutte di affrontare la crisi del rapporto tra il soggetto e lo Stato; in più esse sono importanti perché servono a motivare, mobilitare e orientare politicamente le masse, rendendole protagoniste della politica o vittime (come nel caso dei totalitarismi). I totalitarismi sono stati i protagonisti politici della prima metà del Novecento, i quali sono riusciti a diffondere solo distruzione e oppressione. Pertanto possiamo dire che l’inizio del XX secolo ha conosciuto la pianificazione e il dominio totalitario da un lato e – dall’altro- ossia in contesti meno violenti, il depotenziamento del conflitto ideologico (divenuto competizione elettorale tra elitè); l’estensione dei compiti amministrativi dello Stato e la fine dell’egemonia del legislativo e il prevalere dell’esecutivo. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo si è sviluppata una crisi che ha innervato diversi settori. In questo periodo, infatti, l’uomo non aveva più fiducia né nelle sue capacità di gestire il mondo, né nella capacità della storia di spiegare il corso degli eventi. L’idea di civiltà e di cultura non sembra più capace di dare un senso al mondo e all’agire dell’uomo. Le strutture sociali, politiche ed economiche che determinano la vita dell’individuo rivelano la loro artificialità, il loro essere maschere che nascondono la tragicità della vita. Questa crisi investe, poi, anche la filosofia politica la quale si è ritrovata a dover fronteggiare la crisi delle istituzioni borghesi e in particolare quella dello Stato e della sovranità rappresentativa realizzata nel parlamento, che è stata sottoposta a forti tensioni dai processi di democratizzazione che hanno portato sulla scena , prima sociale e poi politica, dei nuovi soggetti; le masse proletarie. Alla luce di ciò si deduce che il Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ progetto universalista dello Stato moderno più che fondarsi su valori universali di libertà e uguaglianza, si è basato sulla violenza e sulla forza. Per questo motivo, in questo secolo, è stato individuato il concetto di nichilismo da alcuni pensatori. NIETZSCHE Nietzsche è stato il primo pensatore a considerare il nichilismo come la chiave interpretativa del moderno. In Nietzsche il termine nichilismo assume il senso letterale di “volontà del nulla” in quanto esso indica quella condizione di mancanza di senso nata con la perdita della forza da parte delle risposte ai problemi della vita reale. Tale perdita dei valori, delle certezze può essere inquadrato in un processo storico che ha segnato tutta la storia del pensiero europeo e che ha spinto l’uomo a voler fuggire dalla realtà concreta. Nietzsche ha sempre interpretato lo spirito greco prendendo in considerazione due concetti opposti: lo spirito dionisiaco, ossia quello delle passioni; e lo spirito apollineo, e cioè quello della ragione; e – in riferimento a ciò- sosteneva che fin quando spirito apollineo e spirito dionisiaco hanno vissuto in perfetta armonia la civiltà greca fu vitale (anche se non serena). In seguito, con la nascita della filosofia di Euripide, di Socrate e di Platone lo spirito apollineo ha sopraffatto quello dionisiaco, nel senso che la filosofia ha imposto i propri valori razionali su quello che è la vera essenza della vita: le emozioni, la creatività, l’orrore. Quindi la filosofia è, per Nietzsche, un gesto difensivo che – mediante l’invenzione teorica di un mondo ideale e trascendente- ha opposto strutture e variabili stabili al caos della vita. Ma , nello stesso tempo, essa è ha dato inizio alla decadenza dei valori che il filosofo trova realizzata nella sua contemporaneità affermando che il nichilismo è quel processo il quale ha messo in luce che i valori assoluti sui quali si sono formate molte coscienze umane non sono altro che finzioni e invenzioni. Il nichilismo di Nietzsche attraversa anche 3 settori importanti: la metafisica (che coincide con la verità), Dio (che coincide con l’oggettività e la salvezza) e lo Stato, i quali sono tutti privi di valore. METAFISICA: per Nietzsche la metafisica non è altro che una costruzione dell’uomo che, essendo incapace di vivere in una realtà così caotica e dolorosa, si è costruito delle illusioni per poter andare avanti. Infatti il filosofo parlerà di un mondo vero che è finito per diventare una favola. RELIGIONE: anche la religione -per Nietzsche- non è altro che un’espressione di paura davanti alla tragica conflittualità dell’essere e della vita. E, in particolar modo, il cristianesimo si presenta come una “religione del risentimento” dei deboli nei confronti dei più forti in quanto i primi- essendo incapaci di affrontare i secondi- li hanno sottomessi moralmente e psicologicamente dando vita ad una tavola di valori esattamente opposti a quelli vitali. In questo modo vediamo che Nietzsche ha accettato la metafora hegeliana del servo-padrone, ma l’ha capovolta completamente opponendo all’idea del mondo alto che nasce dal mondo dei deboli, il concetto della “morte di Dio” ossia della perdita di tutti i valori. STATO: oltre alla metafisica e alla religione, anche la politica è nulla per Nietzsche. Infatti lo Stato, il suo ordine e i suoi valori nascono dalla violenza; una violenza ipocrita in quanto ha il bisogno di nascondersi dietro il diritto e valori alti. Il nichilismo di Nietzsche viene definito nichilismo incompleto in quanto esso è dominato da un “bisogno di verità” che si traduce nella nascita di nuove verità ideali capaci di sostituire i valori tradizionali. In ambito politico queste nuove verità sono : il nazionalismo, lo sciovinismo, il socialismo, l’anarchismo e la democrazia. La democrazia è, per il filosofo, sinonimo di mediocrità, di conformismo di massa e di spirito di risentimento. Questa forma di governo viene riconosciuta come la forma tipica di una civiltà “degli zeri sommati” in quanto ognuno è uno zero che ha uguali diritti; in più la democrazia è espressione del conformismo perché l’uomo non riconosce più la sua forza e si affida completamente allo Stato. Inoltre per Nietzsche la democrazia liberale borghese è uguale al socialismo perché entrambe si fanno portavoce dell’uguaglianza tra i cittadini; ma come queste due forme di governo, il filosofo è convinto che tutte quelle della sua epoca possono essere considerate simili in quanto tutte sono sottomesse alla forza conformistica della democrazia. Dall’analisi di ciò si deduce che il nichilismo incompleto rappresenta l’emergere della crisi finale della ragione occidentale, crisi che è stata vissuta in due modi: 1) come disperazione e decadenza da chi ha subito il fallimento delle logiche razionalistiche; 2) come potenza da chi ha detto si alla Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ vita. Quest’ultima forma di nichilismo viene definita “nichilismo estremo” perché non vengono distrutti solo i valori tradizionali, ma anche il luogo che questi occupavano, ossia il mondo della trascendenza. Il nichilismo si distingue – ulteriormente- in nichilismo passivo e nichilismo attivo. Il primo è sinonimo di declino e regresso dello spirito in quanto si limita a descrivere il declino dei valori. Il secondo rappresenta il segnale della crescita della potenza dello spirito la quale si manifesta nel fatto di velocizzare la distruzione dei valori tradizionali per poter preparare la strada a qualcosa di nuovo. In questa forma di nichilismo, che Nietzsche considera propria, comincia a farsi strada il concetto di “volontà di potenza” anche perché esso implica una parte distruttiva e una costruttiva. L’ETERNO RITORNO La forma più estrema del nichilismo è il nulla eterno (ossia la mancanza di senso perenne). Nietzsche parla di nulla eterno in quanto uno dei concetti fondamentali del suo pensiero filosofico è quello dell’eterno ritorno il quale cerca di fornire una sistemazione e una radicalizzazione del nichilismo attraverso il recupero di una concezione arcaica del tempo ciclico. L’idea dell’eterno ritorno mette in evidenza che nella vita tutto è destinato a ripetersi, ponendosi – in questo modocontro la tesi cristiana che prevede l’esistenza di un inizio: la creazione, e una fine: la redenzione. Inoltre, per Nietzsche, l’eterno ritorno segna il passaggio dall’uomo che dice di no alla vita all’uomo che dice di si e che riscatta la finitezza umana da ogni costruzione trascendente per vivere la realtà in modo affermativo. IL SUPERUOMO E LA VOLONTA’ DI POTENZA Colui che riesce a dire di si alla vita accettando la dimensione tragica di essa, colui che riesce a far propria la prospettiva dell’eterno ritorno, colui che riesce a reggere la morte di Dio e lo smarrimento delle certezze assolute non è l’uomo normale, ma il “superuomo” e – più esattamente- l’oltreuomo la cui immagine oscilla tra quella della bella individualità e quella dell’avventuriero. Il superuomo non è un uomo che ha potenziato le facoltà dell’uomo normale, ma è un nuovo uomo il quale ha superato gli atteggiamenti, le credenze e i valori dell’individuo tradizionale e ha rivendicato la natura terrestre e corporea della vita. Tuttavia questa liberazione dall’autorità umana e divina non riguarda tutti gli uomini , ma solo una ristretta elitè di soggetti che – in quanto razza dominatrice- ha bisogno della schiavitù. Questo atteggiamento antiegualitario e antidemocratico di Nietzsche vuole mettere in evidenza che il vero uomo è colui che è in grado di distinguersi dalla massa e con il concetto di superuomo il filosofo non vuole far altro che criticare gli ideali politici del suo tempo, tutti sottomesi ai diritti di uguaglianza e alla democrazia. Un altro grande tema del pensiero nietzschiano è quello della volontà di potenza, che egli definisce come l’intima essenza dell’essere. La volontà di potenza coincide con la volontà redentrice, capace di conciliarsi con il tempo e di liberarsi dal peso del passato. Inoltre essa è una forza espansiva e votata all’autoaffermazione e si identifica sia con il modo di essere del superuomo che con l’essenza dell’eterno ritorno. La figura di Nietzsche è stata associata , per molti anni, alla cultura nazifascista in quanto egli aveva parlato di una razza di nuovi dominatori che si sarebbe servita dell’Europa democratica per poter gestire le sorti della terra e per poter plasmare l’uomo stesso attraverso delle leggi abbastanza dure. In effetti questo atteggiamento antiegualitario e antidemocratico lo si può estrapolare anche dall’atto teorico e pratico di oltrepassare se stessi. Nietzsche ha cominciato ad affermarsi come un pensatore solo dopo la seconda guerra mondiale e ad esso sono state attribuite diverse interpretazioni: c’è chi lo ha riconosciuto come pensatore terminale in cui la modernità si dissolve; chi lo ha considerato l’emblema della volontà di potenza della cultura occidentale e chi come il profeta di un’umanità liberata. Tuttavia Nietzsche ha offerto un’analisi impolitica della politica, nel senso che egli rifiutava il valore stesso della politica e ha proposto una soluzione apolitica piuttosto che di destra alla crisi politica. Tuttavia Nietzsche è molto importante da un punto di vista del pensiero filosofico-politico novecentesco perché la sua filosofia contiene gran parte della filosofia politica del XX secolo. TONNIES Il nichilismo e il comunismo, temi fondamentali del pensiero politico della seconda metà dell’800, Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ sono presenti anche nella riflessione intellettuale di coloro che diedero vita alla stagione della sociologia classica, la quale prendeva come punti di riferimento proprio Marx e Nietzsche. Tonnies è un grande sociologo che si è formato – da un punto di vista intellettuale- sotto l’influenza di questi due autori. Egli, innanzitutto, criticò la borghesia colta guielmina in quanto incapace di fare i conti con le logiche dell’uguaglianza e con l’individuo. Fu proprio l’uguaglianza il terreno nel quale Tonnies incontrò Hobbes, un autore che in seguito ha studiato in modo più approfondito e con il quale si è confrontato. Tale confronto è stato molto importante perché è bene partire proprio da esso per comprendere la politica di fondo della sociologia di Tonnies. Secondo quest’autore all’interno della società moderna c’erano degli squilibri di dominio ed è per questo che bisognava porre le condizioni che favorissero l’espansione dellìhobbsiano “dominio della ragione” il cui esito ultimo è la democrazia. la fama di Tonnies è legata alla sua opera “Comunità e società” all’interno della quale egli mette in contrapposizione due forme di rapporto sociale: quello della comunità, in cui le volontà umane sono unite, e quello della società, dove i protagonisti sono separati. Da ciò si evince che la comunità è caratterizzata da un’unità reale e organica, mentre la società da una formazione ideale e meccanica. Inoltre molti hanno interpretato quest’opera di Tonnies come l’espressione della nostalgia per la comunità come forma di convivenza del passato. Invece l’obiettivo del sociologo, attraverso questa opera, era quello di dar vita a delle società fondate su una volontà generale, la quale non è altro che il frutto delle volontà individuali. Questa diretta coincidenza tra volontà individuale e collettiva mette in evidenza: da un lato, l’esistenza di una forma di relazione sociale le cui tracce sono individuabili in ambiti ristretti (la famiglia, il vicinato); dall’altro lato una riflessione critica sui limiti dell’individualismo moderno. Un concetto centrale nel pensiero di Tonnies è quello del diritto naturale, il quale rappresenta lo standard razionale a cui devono essere condotte le forme di relazione non azionali che sopravvivono come residui della tradizione ma che all’interno della società hanno riprodotto uno stato di natura che lo Stato avrebbe dovuto cancellare. La modernità, secondo il sociologo, si presenta come tensione al futuro che fa del progresso e della rivoluzione le sue più rilevanti determinazioni concettuali. Inoltre la modernità è l’epoca della razionalizzazione e la sociologia è la scienza che consente di comprendere il governo. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, Tonnies ha sviluppato la concezione progettuale della sociologia recuperando – dal pensiero di Hobbes- la categoria di rappresentanza attraverso la quale lo Stato diventa capace di rappresentare i movimenti della società e di gestire le tensioni generate dalla questione sociale. WEBER Max Weber ha maturato la sua personalità scientifica e politica a stretto contatto con i temi e i protagonisti del liberalismo nazionale tedesco. Dopo i suoi studi universitari egli ha puntato su un’analisi storico-sociale del diritto, soffermandosi su temi politici e culturali che ha esposto nelle sue prime due opere. Questi temi sono: il capitalismo, che rappresenterà il fulcro di tutto il suo pensiero; la questione agraria e il conflitto tra città e campagna. Weber viene riconosciuto – più comunemente- come un grande sociologo ed egli si è aperto verso la sociologia dopo un’esperienza concreta: un’inchiesta svolta sulle condizioni dei lavoratori agricoli nelle terre della Prussia. Da questa esperienza egli ha scoperto il capitalismo che, secondo il sociologo, si presentò come una potenza sovversiva e nichilistica in quanto ha segnato il tramonto di un intero universo di valori che sono stati sostituiti dalla mediazione oggettiva e astratta del salario monetario. Inoltre – per Weber- il capitalismo è una potenza oggettiva destinata a dominare sia il presente che il futuro con modalità ai cui condizionamenti non ci si può sottrarre. In più il sociologo tedesco si è interrogato anche sul soggetto, ossia sull’uomo che sta all’origine del capitalismo, in quanto è proprio partendo dallo studio e dalla comprensione degli orientamenti dei singoli, che si può interpretare il mondo sociale e , di conseguenza, giungere alla costruzione del tipo ideale. Nella sua opera di sociologia delle religioni Weber ha esposto che specifiche motivazioni ideali hanno ben definito la costellazione in cui si è formato il capitalismo. La dottrina della predestinazione, promulgata dal protestantesimo, ha spinto i credenti a trovare delle conferme della propria elezione; conferme alle quali sono giunti dirigendosi verso un disciplinamento dei Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ propri impulsi mediante il lavoro, ponendo- cos- le basi di una condotta di vita metodica e razionale, nonché funzionale all’affermarsi del tipo d’uomo capitalistico. Secondo Weber, alle origini del capitalismo c’era una forma specifica di soggettività: quella della moderna borghesia, la quale era capace di dare un senso – attraverso il proprio autodisciplinarsi- alla vita terrena in cui l’uomo non può trovare la salvezza mediante le opere. Infatti il grande passo avanti che è stato fatto dal protestantesimo (rispetto al cattolicesimo) è quello di aver spostato il baricentro dell’agire del credente dall’oggettività delle opere e dei sacramenti alla soggettività della coscienza. In seguito, questo schema interpretativo delle origini del capitalismo è stato inserito in un processo di razionalizzazione e disincanto del mondo che ha caratterizzato la storia dell’Occidente; disincanto del mondo che è stato inaugurato dal gesto con cui la religione giudaico-cristiana ha collocato la profezia della salvezza in una dimensione ultraterrena e oltremondana, liberando – in questo modola vita mondana dall’animismo magico e affidandola alla ragione. Tuttavia questo processo di razionalizzazione ha alla base una logica che lo ha spinto a ritorcersi contro quelle motivazioni le quali sono state la causa della sua genesi. Ciò significa che la borghesia presente all’origine del capitalismo viene nullificata da quest’ultimo il quale si è cristallizzato in una serie di rapporti sociali coattivi e imposto con la sua oggettività sui soggetti. In questo modo il soggetto moderno ha ceduto il posto ad una nuova oggettività, ossia al suo stesso lavoro che è diventato qualcosa di estraneo ad esso. Dall’analisi di ciò si deduce che il pensiero di Weber è dominato – in gran parte- dalla preoccupazione relativa al destino della borghesia (la quale rappresenta l’emblema dell’uomo della modernità) e dal timore che i valori classici dell’illuminismo e del liberalismo si mostrino inconsistenti di fronte alle tendenze tecniche dominanti nel presente, le quali stringono l’impresa capitalistica e lo Stato nella burocratizzazione universale. Due figure della soggettività moderna che sono state marginalizzate – secondo Weber- da questo numero crescente di strutture burocratiche che funzionano come delle macchine sono: l’imprenditore e l’uomo politico; ad essi si aggiunge anche l’intellettuale, il quale nella realtà moderna è stata messa alla prova la sua capacità di tenere sotto controllo il senso complessivo del suo sapere. IL PENSIERO POLITICO Il valore politico in cui Weber ha creduto sin dall’inizio della sua attività e per molto tempo è stato quello dello Stato nazionale; mentre i principali problemi sui quali si è soffermato nel 1895 sono stati: quello della composizione sociale della nazione tedesca e quello dell’unificazione della Germania. Per quanto riguarda il primo punto, decisiva è stata l’analisi della trasformazione degli junker avvenuta dopo l’avvento del capitalismo. Infatti questa nuova forma di economia ( e di conseguenza vita politico-sociale) ha messo in crisi il ruolo degli junker (proprietari terrieri)e ha aperto il problema di un rinnovamento della classe dirigente la quale doveva avere il compito di spingere la Germania verso il capitalismo in modo che il secondo Reich potesse ambire alla conquista di una potenza politica mondiale. Da ciò si deduce che c’era bisogno di un’educazione politica mediante la quale la borghesia sarebbe uscita dalla sua condizione di minorità e si sarebbe candidata per assumere la guida del paese. Per quanto riguarda il secondo punto è importante sottolineare che la lotta per il mantenimento e l’esaltazione della propria nazionalità spingeva sempre di più l’unificazione della Germania. Per realizzare ciò Webr, inizialmente, cercò appoggio nel proletariato e nei membri del partito della socialdemocrazia; ma – in seguito- si rese conto che per giungere all’unificazione del paese bisognava procedere con la democratizzazione interna del paese. Un momento decisivo per il pensiero politico di Weber è stata la prima guerra mondiale. Infatti, dopo questo conflitto la democratizzazione – così come la burocratizzazione- sono apparsi come due avvenimenti politici inevitabili ed è per questo che il problema sul quale si è concentrato Weber era quello di individuare le forme costituzionali in cui si sarebbe realizzato il governo. Weber si è proposto di superare lo Stato autoritario e il suo modo di gestire il potere proponendo l’attuazione di una riforma costituzionale che sancisse la dipendenza del governo dal Parlamento e che eliminasse l’impossibilità che il cancelliere sia il membro del Parlamento. Pertanto la centralità politica del Parlamento non sta nel fatto che esso produce a rappresentanza politica, piuttosto nel fatto che esso costituisce l’arena in cui i capi-partito si confrontano per ottenere la leadership e in cui imparano a gestire il governo burocratico. Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ L’analisi di Weber verte su una debolezza della Germania imperiale: ossia la sua incapacità di fare politica (intesa come azione rischiosa) e la tendenza a sostituirla conta razionalità tecnicoburocratica la quale ha solo capacità organizzative. Tuttavia Weber ha sottolineato che questo non è un problema della Germania, ma è il destino di tutta la modernità. Un’altra caratteristica della politica – per Weber- è quella di essere lotta, conflitto tra diverse posizioni ideali, il che è- da un lato- manifestazione del destino nichilistico della politica moderna; dall’altro l’unico elemento dal quale può derivare l’energia e la vitalità di una forma politica. In uno dei suoi saggi confluiti nell’opera “Economia e società” Weber ha affermato che esistono tre tipi di poteri legittimi: - il potere tradizionale, il quale poggia la propria legittimità sulla convinzione che chi lo esercita derivi questo potere dalle tradizioni classiche; - il potere razionale, la cui legittimità deriva dalla credenza nella legalità di ordinamenti e procedure; - il potere carismatico, la cui legittimità consiste nel riconoscimento del carattere straordinario di un capo. Il potere razionale è quello proprio dello Stato moderno che, a causa sei suoi caratteri impersonali, tende verso la tecnicizzazione e la burocratizzazione le quali aumentano le procedure. Per contrastare questa tendenza è necessario che l’insieme dei valori e il loro conflitto possano dispiegarsi mediante la tecnica e la burocrazia. Lo Stato moderno è – per Weber- strutturato da elementi razionali, ma nello stesso tempo la sua prima realizzazione storica risale al periodo medioevale in cui le città medioevali hanno usurpato il potere del principe e si sono imposte come un gruppo politico illegittimo e rivoluzionario. Il sociologo punta molto su quest’ultimo aspetto in quanto egli è convinto che la politica trae la sua forza e la sua energia proprio dalla rivoluzione. Tuttavia Weber traduce in senso carismatico l’elemento rivoluzionario della politica e per questo ha proposto una democrazia parlamentare in cui il presidente della repubblica realizzi una democrazia dei capi. Infine bisogna dire che il tipo di dirigente al quale si rivolge Weber negli ultimi anni della sua attività è quello capace di coniugare passione e sobrietà, etica della convinzione e etica della responsabilità. CAPITOLO 3 IL MARXISMO Una delle principali ideologie del XX secolo è quella del marxismo, anche se per questa corrente di pensiero con il termine “ideologia” si intende la falsa coscienza dell’oggettività economica e politica nonché le idee imposte dalla classe dirigente, la quale è incapace di intendere le reali connessioni e le contraddizioni del sistema sociale; elementi – questi – che vengono presi in considerazione dalla scienza del proletariato. All’inizio del XX secolo si è assistito ad una profonda trasformazione del quadro teorico del marxismo in quanto gli esponenti di questo pensiero non hanno più visto la rivoluzione come un avvenimento necessario per la collocazione al potere del proletariato, bensì come un’azione politica volontaria e non affidata ad automatismi storico-dialettici. LUXEMBURG Rosa Luxemburg ha opposto al riformismo e al revisionismo il primato della coscienza di classe del proletariato e della sua azione politica. Per la Luxemburg le contraddizioni del capitalismo sono inevitabili e solo il movimento operaio ha la possibilità di trasformarle in crisi che giungeranno ad una soluzione. Inoltre questa marxista – avvicinandosi al pensiero di Lenin - sostiene che la nuova fase dello sviluppo del capitalismo (ossia l’imperialismo) invece di attenuare il carattere contraddittorio di questa forma di governo, lo accentua richiedendo l’intervento attivo del proletariato. Nonostante tutto la Luxemburg non può essere comparata a Lenin in quanto se ne allontana in riferimento alla questione dell’organizzazione proletaria. Infine la Luxemburg concepisce la lotta politica secondo il punto di vista della totalità, il quale mette in evidenza che è importante mantenere uniti i momenti della tattica, della strategia, della lotta politica e dell’obiettivo finale; ed essa fa leva sulla capacità spontanea delle masse di essere protagoniste attive della rivoluzione. Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ SOREL George Sorel è un altro protagonista del marxismo, il quale si è proposto di combattere e superare la corruzione e la decadenza della società moderna facendo appello al sindacato (e non ai partiti) e puntando sull’azione diretta degli operai (e non sulla mediazione politica). Nell’ambito della condanna al sistema democratico e parlamentare Sorel fa rientrare anche: 1) la filosofia che ne è alla base; 2) i meccanismi e i procedimenti;3) la tattica impiegata dalle organizzazioni proletarie le quali cercano di avvalersi dello sciopero politico solo per trasferire il potere da un gruppo politico all’altro senza permettere allo Stato di perdere la sua forza. Per Sorel le contraddizioni presenti nella società borghese e rilevate dal marxismo possono essere superate solo spezzandole, e non attraverso la dialettica. Per questo motivo egli promuove la moralità della violenza – opposta alla brutalità dello Stato- la quale si esprime nel mito dello sciopero. Sorel parla di mito perché quest’ultimo è il prodotto di una volontà di credere che articola le energie inconsce degli uomini e risveglia i desideri di riscatto sociale. Inoltre egli è convinto che durante l’esperienza in fabbrica gli operai acquisiscono sentimenti di solidarietà e disciplina politica che – in seguito- si trasformano nella violenza dello sciopero generale , il quale rappresenta un atto rivoluzionario che mira a dar vita ad una società libera da forme istituzionali. Per Sorel il soggetto politico che deve agire mediante lo sciopero è il sindacato ( e non il partito) in quanto lo sciopero non deve mirare verso un’idea politica specifica e – in più- no deve adeguarsi alle leggi della società. Esso, infatti, è una catastrofe che concentra ed esaurisce in sé tutta l’energia del proletariato e che spinge la borghesia ad aprirsi allo scontro, promuovendo l’avvento di una società dei produttori che si amministrano da sé. Le idee di Sorel hanno avuto un grande consenso nel corso del XX secolo, tant’è vero che molti intellettuali sono stati influenzati proprio da queste. LENIN Nell’ottobre del 1917 scoppiò la rivoluzione marxista in Russia la quale era un paese ancora molto arretrato sotto diversi punti di vista (politicamente, economicamente, culturalmente). Pertanto tale avvenimento non è stato altro che una smentita del progressismo gradualista di impronta socialdemocratica. Il maggior rappresentante di questo progressismo era il partito menscevico, per il quale il socialismo si sarebbe dovuto affermare in un paese economicamente e socialmente maturo. La Russia, che era un paese ancora arretrato, doveva svilupparsi proprio in questo senso attraverso la rivoluzione che – però- per i bolscevichi non era altro che l’occasione per puntare ad una dittatura del proletariato e dei contadini attraverso l’immediata presa di potere da parte di queste classi. Lenin è stato il leader di questa rivoluzione e il suo pensiero politico – considerato da lui una versione ortodossa del marxismo- è, in realtà, una forzatura attivistica della politica sia per il modo di intendere il proletariato, sia per il modo di concepire la relazione tra rivoluzione democraticoborghese e rivoluzione socialista. Per Lenin la politica proletaria aveva il compito di sostituire quella istituzionalizzata e statalizzata mediante la diretta partecipazione delle masse all’organizzazione democratica dello Stato. Ciò è stato possibile attraverso l’istituzione dei soviet, ossia di consigli che non hanno una rappresentanza politica (come il Parlamento) ma che esprimono l’immediatezza del potere operaio. Tuttavia per valorizzare questa immediatezza è necessario passare per un momento di mediazione politica, e cioè attraverso la macchina del partito il quale rappresenta un’avanguardia centralizzata che orienta e dà forma al movimento della classe operaia. Partendo dal presupposto che la coscienza socialista è importata nella lotta di classe dal proletariato e non è un qualcosa che nasce spontaneamente, Lenin ha affermato che il compito della classe operaia è quello di elaborare una coscienza tradeunionistica , chiarendo che essi non hanno nessun ruolo nell’elaborazione della teoria rivoluzionaria socialista ma partecipano a questo sistema come teorici del socialismo. Quindi il compito fondamentale del partito è quello di lottare contro lo spontaneismo, ossia con le forme di rivendicazionismo sindacale. Nel “Manifesto” di Marx ed Engel i comunisti avevano una funzione complementare a quella del proletariato e non sostitutiva; con Lenin il partito assume il ruolo di motore essenziale della rivoluzione in quanto egli è convinto che le masse devono essere educate e politicamente guidate per affrontare una rivoluzione. Da ciò derivano due cose importanti: 1) l’insistenza della creazione Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ di un partito separato dalle masse; 2) in secondo luogo la sovrapposizione tra il partito e la classe operaia, concepita come materiale da plasmare e dirigere. La stessa concezione attivistica è possibile trovarla anche nella prospettiva di rivoluzione e democrazia di Lenin. In un suo opuscolo egli ha sottolineato che la borghesia russa non era in grado né di promuovere né di dirigere un processo rivoluzionario ed è per questo che le trasformazioni economiche e politiche del paese dovevano essere guidate e promosse da un’alleanza tra proletari e contadini. Da ciò si evince che – da un lato- la rivoluzione borghese doveva essere guidata dal proletariato e – dall’altro- che la repubblica democratica avrebbe dovuto assumere il profilo di una dittatura degli operai e dei contadini. Questo passaggio al marxismo sovietico (avvenuto con Lenin) non dipende solo dalle specificità della Russia, ma anche dall’idea diffusa da Marx che la repubblica democratica è l’ultima forma politica della società borghese. La libertà, aveva affermato il teorico del comunismo, si sarebbe realizzata in un governo che avrebbe superato la democrazia borghese ponendosi, non come organo sovrapposto alla società, piuttosto come organo ad essa sottoposto. Ritornando a Lenin, esso puntava molto sui soviet i quali divennero l’autentica espressione della democrazia rivoluzionaria e proletaria e – in più- in coincidenza con la loro nascita furono messi in diretto collegamento con l’esperienza comunarda in modo che essi non potessero essere considerati sono delle organizzazioni di lotta, ma un principio di forma politica da opporre alla democrazia di tipo parlamentare. La Comune di Parigi del 1870 è stata considerata come una anticipazione dell’esperienza di vita autonoma delle masse e di partecipazione all’organizzazione democratica che rappresenta la condizione necessaria per edificare lo Stato proletario. Con la nascita dello Stato sovietico (il quale è uno Stato transitorio) cominciarono a comparire i primi problemi che hanno spinto Lenin ad indicare con il termine “noi” non più i lavoratori nel loro insieme, ma il partito comunista e i suoi organi dirigenti i quali governano in nome del proletariato senza – però- offrirgli un’offerta alternativa. Partendo da questo punto Lenin nel 1920 si rese conto che era impossibile creare una dittatura democratica e una democrazia diretta,pertanto con l’abrogazione delle vecchie forme democratiche è stata eliminata anche la democrazia all’interno dei Soviet e dello stesso Partito comunista del governo, il quale era retto dal principio del centralismo democratico. Per quanto riguarda il centralismo democratico possiamo dire che il momento centralistico si esprimeva nell’attività direttiva del centro verso la base; il momento democratico scaturiva dalle discussioni della base e dalle deliberazioni da parte della maggioranza presente al congresso. Infine Lenin- in una sua opera- ha fatto un’analisi anche dell’imperialismo e a tal proposito ha affermato che esso può essere inteso come lo stadio monopolistico del capitalismo e che si caratterizza in base a 5 elementi: - la concentrazione della produzione e del capitale; - la fusione del capitale bancario con quello industriale; la formazione del capitale finanziario; - il ruolo svolto dall’esportazione dei capitali; - il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti; - la spartizione del mondo in zone di dominio coloniale da parte delle maggiori potenze capitalistiche. CAPITOLO IV I NAZIONALISMI EUROPEI L’ideologia che ha conteso al marxismo il primato politico è stato il nazionalismo, un’ideologia che mirava all’esaltazione del ruolo della nazione e che ha assunto diversi significati nel corso del tempo: - nel corso della rivoluzione francese questo concetto combaciava con l’ideale di libertà; - tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 ha assunto delle caratteristiche di reazione. Infatti la dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare ha generato, in quel periodo, una serie di reazioni irrazionalistiche, antiborghesi, antiparlamentari e antiliberali il cui contenuto principale era la nazione. Il nazionalismo si è diffuso in tutta Europa, ma si è avvertito particolarmente in Italia, Germania e Francia. Nei primi 2 paesi (Italia e Germania) esso è nato Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ come reazione alla debolezza della società civile, alla fragilità delle istituzioni e alle contraddizioni che percorrevano il corpo sociale. In Francia il nazionalismo è stato il veicolo dell’opposizione controrivoluzionaria agli ideali diffusi con la rivoluzione francese. Il nazionalismo è sorto come ideologia rivoluzionaria nel corso della rivoluzione francese, radicandosi in correnti di pensiero che collegavano il concetto di nazione con quello di umanità. In seguito (ossia verso la fine dell’800) questi due concetti sono stati dissociati e ciò ha comportato una trasformazione del concetto di nazionalismo che da teoria potenzialmente progressiva è diventata un’ideologia reazionaria la quale: 1) nega gli ideali egualitari e cosmopoliti; 2) nega l’idea di uguaglianza e la capacità dell’individuo di agire con razionalità e in termini universalistici; 3) esalta le disuguaglianze di origine storico-tradizionale; 4) considera l’uomo come un essere dominato dalle passioni e, quindi, bisognoso di autorità e gerarchia. L’autorità deve essere assegnata alle istituzioni che possono usare la forza per governare i soggetti. Inoltre ,per i nazionalisti, la verità, intesa come adeguazione alla realtà storica, non è altro che una finzione. La verità – infatti- è il prodotto dell’azione politica, che diventa mito, ossia un costrutto che non dipende da un atto astratto dell’intelletto ma da un’apprensione immediata e intuitiva degli interessi di una nazione o di un popolo, e che nel momento in cui trova la sua rappresentazione concreta in un comando politico è capace di promuovere gli effetti desiderati a prescindere dai formalismi delle norme giuridiche e dai compromessi della mediazione politica. Il nazionalismo ha acquistato un ruolo politico durante la seconda rivoluzione industriale e nel periodo in cui è stato posto il problema dell’integrazione delle masse, le quali precedentemente non potevano partecipare alla vita politica. In questo periodo- invece- è stato chiesto alle masse di contribuire alla realizzazione di un buon destino per la nazione in quanto solo in questo modo c’era la possibilità di neutralizzare sia i conflitti sociali che la dialettica democratica. Il nazionalismo, poi, è diventato una sorta di religione secolarizzata, ossia uno strumento per trasmettere l’idea di nazione e per realizzare l’integrazione e l’unità del popolo andando aldilà delle divisioni di classe. L’occasione storica per attuare questo progetto è stata la prima guerra mondiale, la quale ha portato alla realizzazione della nazionalizzazione delle masse ed è stata il primo grande passo verso la crisi della moderna forma-Stato. NAZIONALISMO TEDESCO Il nazionalismo tedesco esalta molto il concetto di popolo ( che sostituisce quello di nazione) in quanto attraverso di esso si cercava di realizzare un’identità tedesca più forte e stabile rispetto a quella offerta dalla forme politiche deboli e invecchiate e, in particolar modo, dalla repubblica parlamentare. Quest’identità doveva essere- per i tedeschi- naturale e storica, ed è per questo che essi l’hanno ricercata nelle origini germaniche e nella cultura greca classica, nonché nel mondo barbarico germanico e nel medioevo. Il nazionalismo tedesco esalta il concetto di popolo, il quale deve essere un tutt’uno con quello di nazione, in quanto nella nozione popolo-nazione si esprime sia un radicamento, sia un destino, sia un diritto di sangue e cultura (ossia il valore originario del popolo tedesco), sia un dovere ( e cioè quello di realizzare l’unità del popolo tedesco, decontaminandolo da tutte le commissioni alle quali è stato costretto nel corso della storia e liberandolo dalla cultura occidentale). Per “cultura occidentale” i tedeschi intendevano la cultura della Francia e dell’Inghilterra (molto potenti da tutti i punti di vista), che la Germania si propose di superare proprio attraverso il suo spirito nazionale e popolare, espressione della sua vitalità naturale e non di un artificio razionalistico. Nel corso del XX secolo il nazionalismo tedesco ha assunto – sempre di più- il carattere di un’ideologia antisocialista e antiborghese, oltre che irrazionalistica e decadentistica nei confronti delle contraddizioni che attraversavano la società e la politica moderne. Esso aveva una profonda avversione contro il socialismo in quanto quest’ultimo voleva porsi come una terza via alternativa al capitalismo e al comunismo, ma – in realtà- non sarà altro che un movimento il quale ha rafforzato le classi più alte della borghesia e spinto sempre più in basso quelle più umili. Inoltre il nazionalismo è finito per essere anche antimoderno, il che contrastava con la sua volontà di potenza; in realtà esso voleva trovare il modo di essere moderno nella pratica e antimoderno nello spirito. La soluzione migliore a tutto questo sembrò essere il razzismo, tra i quali quello anti-semità è statp il più forte perché è stato un razzismo generale, e cioè finalizzato ad eliminare tutti coloro Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ che potevano contaminare la nazione (quindi non solo gli ebrei, i quali avevano la colpa di aver contaminato la cultura occidentale con le ideologie moderne). Tuttavia è importante sottolineare che il nazionalismo ha avuto una così grande diffusione nelle coscienze tedesche in quanto esso non è stato appoggiato solo da autori minori, ma dalla maggior parte della cultura media universitaria e da grandi personaggi. SPENGLER In Spengler il nazionalismo è stato uno strumento di critica all’intera civiltà moderna. Il punto di partenza del pensiero di Spengler è che la civiltà può essere paragonata ad un organismo vivente, ed è per questo che egli – nella sua opera maggiore- parla della cultura come di un organismo fornito di un proprio ciclo vitale. Per Spengler la cultura è l’unità fondamentale dello sviluppo storico in quanto essa nasce, cresce e giunge alla morte seguendo sempre le medesime fasi. Ogni cultura nasce a partire dall’umanità primitiva: il presupposto e il segno di questo sorgere è la nascita della città, in cui si compie lo sviluppo dello spirito e in cui si costruiscono i popoli, ossia comunità di razza e di lingua che – acquisendo coscienza della propria unità- si organizzano in nazioni. Da ciò si evince che popoli e nazioni costituiscono il presupposto dell’organizzazione politica di ogni cultura, anche se il fondamento di questa si trova nella “razza” la quale può essere compresa solo per mezzo di un’intuizione immediata. Durante la fase di crescita della cultura viene realizzato un complesso di possibilità biologicamente dato in cui si esprime il ciclo vitale da cui essa è determinata e che stabilisce una volta e per sempre la sua fisionomia. Nel momento in cui tale eredità biologica si esaurisce la cultura è destinata a spegnersi. Per Spengler, il percorso conclusivo di una cultura può essere indicato con il termine civiltà, la quale indica degli Stati più estesi e più artificiali di cui sia capace una specie superiore di uomini. Il mondo della civiltà è il mondo della decadenza e della razionalità utilitaria, ossia di quell’irrigidimento intellettuale che corrisponde allo spirito dell’esattezza. In poche parole il mondo della civiltà è il mondo della scienza e delle forme consolidate della organizzazione tecnico-scientifica del mondo sociale. Nella sua opera più importante Spengler ha individuato otto culture, tra le quali c’è quella occidentale che egli ha analizzato. In riferimento alla cultura occidentale egli ha affermato che in età classica essa è stata caratterizzata dallo spirito apollineo; in età moderna dallo spirito faustiano, orientato alla forza e alla sottomissione della natura. La modernità è caratterizzata dal rovesciamento di tutti i valori e il socialismo-secondo Spengle- rappresenta l’espressione di questa crisi etico-religiosa la quale deriva dal rovesciamento del rapporto politica ed economia: infatti la politica non dirige più l’economia, ma è subordinata ad essa. Il regime che rifletteva tale situazione era la democrazia che rappresenta l’ultima fase del processo evolutivo della civiltà e che implica il ritorno allo stato primitivo dominato da masse informi e improduttive. Per quanto riguarda il pensiero politico di Spengler è importante sottolineare che esso va contro una serie di elementi, quali: il liberalismo, il regime parlamentare, il predominio dei partiti, l’organizzazione capitalistica del lavoro e la tecnica la quale viene intesa come lo sviluppo parallelo della burocratizzazione, industrializzazione e dell’imperialismo , il quale fa si che le funzioni della politica vendano assorbite da una potenza che diviene sempre più esterna all’uomo. In questo senso il progresso viene inteso come decadenza. Alla luce di tutto ciò Spengler afferma – da un lato- di restaurare l’autorità dello Stato e le strutture morali e politiche pre-moderne; dall’altro – guardando la situazione degli Stati in tutto il mondo- ha ritenuto di poter scorgere la decadenza in atto della civiltà occidentale. Il pensiero politico di Spengler non fu accolto completamente, ma nonostante tutto, egli fu un punto di riferimento nella “rivoluzione conservatrice”, ossia del pensiero di dx nella Germania della Repubblica di Weimar. Inoltre egli non aderì mai al nazismo. NAZIONALISMO FRANCESE Il nazionalismo francese è nato per ostacolare i valori diffusisi con la rivoluzione francese. Tuttavia esso non va contro quanto di “nazionale” si esprimeva nella rivoluzione, ma contro il suo universalismo. In più tale esasperazione della nazionalità deriva anche dall’ansia di rivincita che la Francia provava contro la Germania, che la sconfisse nella guerra del 1870. Come in Germania anche in questa seconda nazione europea il nazionalismo sfociò nel razzismo antisemitico. I Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ principali esponenti del nazionalismo francese sono stati: Maurice Barrès e Charles Murras. MAURICE BARRE’S Maurice Barrès prese atto della direzione politica verso la quale protendeva la Francia nel corso della seconda rivoluzione industriale e, per questo, ha teorizzato l’opportunità di una convergenza d’interessi tra capitale e lavoro: ciò significa che la lotta di classe e la competizione tra i partiti politici devono essere sostituiti dalla solidarietà nazionale, in modo da difendere gli interessi supremi del paese. La concretezza di Barrès la si trova anche nella sua idea di Francia, la quale viene concepita come una molteplicità di forme di vita e tradizioni autonome che confluiscono nell’ambito della nazione. Da un punto di vista politico, Barrès ha proposto il federalismo democratico e repubblicano contro lo statalismo in quanto – da un lato- voleva dare al popolo la possibilità di autogovernarsi direttamente, senza la mediazione di organi rappresentativi; dall’altro, voleva tutelare tutte le particolarità concrete che sono state ignorate dal razionalismo centralista. Sul piano economico-sociale Barrès ha proposto una sorta di socialismo corporativo, nazionale, protezionistico e basato sulla proprietà collettiva, la quale è stata molto importante perché ha riportato i lavoratori verso la solidarietà nazionale per effetto della loro trasformazione da salariati a soci dell’impresa produttiva. CHARLES MURRAS Un altro grande esponente del nazionalismo francese è stato Charles Murras, il quale è stato leader e teorico del movimento di estrema destra francese: “action francaise” mediante il quale si proponeva di andare contro la rivoluzione (intesa come evento che ha provocato uno scostamento dai valori della tradizione) e di ripristinare la monarchia nel popolo francese perché era convinto che la decadenza dell’uomo è stata determinata dalla caduta di questa forma di governo. La monarchia – per Murras- doveva essere tradizionale, antiparlamentare, ereditaria e decentralizzata; ed essa – secondo l’autore- svolgeva una funzione unitaria in quanto assicurava i valori della nazione intesa come continuità della tradizione, stabilità delle gerarchie naturali e mantenimento del corporativismo sociale. Il nazionalismo di Murras è stato definito nazionalismo positivista perché si basa sulla scienza e sulla storia che egli ha proposto come le ipotesi di una politica naturale fondata sulla nazione (intesa come continuità biologica e storica) e sulla monarchia (intesa come l’unica istituzione che garantisce il decentramento). Dal punto di vista intellettuale, Murras considerava Rousseau la “causa formale” della rivoluzione in quanto l’individualismo – di cui egli è stato promotore- implica l’incapacità di riconoscere l’oggettività nella politica. Infine Murras ha dato molta importanza anche al cattolicesimo perché era convinto che non esiste una politica ordinata se non ci sono la religione e la Chiesa con la loro autorità. Tuttavia egli si definiva “cattolico-ateo” in quanto si limitava a valorizzare, nel cattolicesimo, gli aspetti ordinativi e gerarchici. NAZIONALISMO ITALIANO Il nazionalismo, infine, si diffuse anche in Italia. In questo periodo il nostro paese era molto arretrato sia da un punto di vista economico che da un punto di vista sociale e gli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere attraverso il nazionalismo erano diversi: - completare il processo di unificazione; - dare avvio ad una politica di espansione coloniale, la quale era molto utile per l’espansione del paese e per risolvere i problemi dell’emigrazione e del Mezzogiorno. I principali interpreti del nazionalismo italiano sono stati: Alfredo Oriani, Alfredo Rocco, Enrico Corradini e Gabriele D’Annunzio, il quale è diventato il vate della nuova Italia. ALFREDO ORIANI Alfredo Oriani nella sua interpretazione relativa al nazionalismo è andato a ritroso in quanto ha studiato gli eventi del Risorgimento per denunciare la decadenza della vita politica italiana negli anni successivi all’unificazione e per suggerire una forma di rinascita morale affidata ad una aristocrazia spirituale. ERNESTO CORRADINI Ernesto Corradini è un teorico del nazionalismo italiano che ha elaborato una teoria molto Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ particolare in quanto improntata su una sorta di lotta darwiniana. Egli – infatti- ha affermato che esistono nazioni povere o proletarie e nazioni ricche le quali entrano in lotta, così come le classi sociali. Infatti il nazionalismo non è altro che il trasferimento della lotta di classe alla lotta tra le nazioni, la quale giustifica – anche- l’espansione coloniale di un paese. L’Italia – secondo Corradiniè una nazione proletaria, nel senso che le spetta il compito di guadagnarsi il proprio spazio vitale e di sviluppare quella missione di civiltà che è radicata nella sua storia. Pertanto il nazionalismo italiano deve partire proprio dalla concezione che il nostro paese è una nazione proletaria e questo concetto unito a quello di socialismo nazionale, costituiscono gli assi portanti della concezione politica di Corradini. Il socialismo nazionale è ciò che deve essere il nazionalismo, ed è per questo che è fondamentale assimilare le forme politiche della moderna lotta di massa per poi trapiantarle nel mondo produttivo della borghesia imprenditoriale, la quale costituisce l’elemento trainante della rinascita nazionale. In più – secondo Corradini- la missione di civiltà cui l’Italia è destinata, implica la formazione delle classi produttive contro quelle parassitarie e un’educazione degli italiani finalizzata alla formazione di una morale improntata sull’idealismo guerriero. Infine Corradini è stato fautore di uno Stato forte, capace di organizzare politicamente e moralmente i cittadini; uno Stato organico e imperialista guidato dalle aristocrazie, le quali rappresentavano quelle maggiormente consapevoli agli interessi del Paese. ALFREDO ROCCO Alfredo Rocco è stato un esponente del nazionalismo italiano che, in seguito, è diventato il più significativo legislatore del fascismo. Egli si ispirava alle concezioni del diritto tedesco in quanto metteva in luce l’importanza del ruolo fondante dell’autorità dello stato, andando contro qualsiasi forma di liberaldemocrazia e di parlamentarismo. Per Rocco la libertà del cittadino non deriva da una naturale propensione dell’individuo, ma spetta allo Stato il compito di decidere quale libertà concedere ai propri cittadini. Questo profondo statalismo di Rocco lo si può individuare anche nella relazione sul disegno di legge relativo alle attribuzioni del capo del governo, in cui sono state anticipare le linee guida delle leggi fascistissime. Per Rocco lo Stato doveva essere forte ed egli è stata una figura importante perché ha dato vita al corporativismo, ossia a varie organizzazioni formate da lavoratori e datori di lavoro appartenenti allo stesso rango produttivo, i quali hanno il compito di svolgere un’attività di collaborazione con lo Stato e di affermare una solidarietà nazionale. Il corporativismo proposto da Rocco era simile al corporativismo cattolico,ma presentava delle finalità diverse: esso – infatti- trasferiva l’idea della collaborazione delle classi in un prgetto di sviluppo industriale e di una politica di potenza e, oltre ad essere inquadrato, autoritario e disciplinato dallo Stato, era anche monistico. Infine bisogna dire che il corporativismo nazionalista è stato ereditato dal fascismo, il quale lo presentava come alternativo al capitalismo e al socialismo. GABRIELE D’ANNUNZIO D’annunzio divenne, ben presto, il leader della corrente nazionalista e approfittò della situazione difficile che si era creata in Italia dopo la prima guerra mondiale per raggiungere i suoi obiettivi. Tale situazione era dominata da un lato dall’occupazione dell’industria; dall’altro dall’idea diffusa nelle coscienze di una vittoria mutilata. In questo contesto D’annunzio fu considerato il vate della nuova Italia ed esso rappresentò una figura molto temuta da Mussolini in quanto poteva oscurarlo; per evitare ciò il duce portò il letterato dalla sua parte dandogli un titolo nobiliare. CAPITOLO 5 LIBERALISMO E PENSIERO DEMOCRATICO Il pensiero politico cattolico si presenta – da un lato- come una proposta ideologica, ossia come una dottrina d’azione e di intervento nell’ambito della politica; dall’altro come una critica alla modernità. Nel XIX secolo l’atteggiamento della Chiesa nell’ambito socio-politico ha impedito per lungo tempo ogni possibilità di creare un accordo con le correnti razionalistiche che dominavano la modernità. L’esempio più emblematico di tale atteggiamento è stata l’enciclica “ Quanta cura” nella quale è stata riassunta l’essenza del razionalismo moderno (dal punto di vista della Chiesa) ed è stata messa in evidenza la tendenza ad opporre alle ideologie e alle istituzioni moderne la visione di un Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ cattolicesimo autosufficiente, dotato di un proprio sistema dottrinale (fondato sui principi filosofici della scolastica) e basato su una struttura gerarchica che vedeva al vertice il papa e la sua infallibilità. Questo atteggiamento della Chiesa è stato definito “intransigente” e coincide con il pontificato di Leone XIII, il quale ha emanato un’altra enciclica molto importante: l’enciclica “Rerum novarum” che è dominata dal pensiero tomista, ossia da quel pensiero che prendeva le distanze dagli aspetti più ostili della cultura controrivoluzionaria della Restaurazione e che mirava a recuperare la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere, in modo da poter permettere alla Chiesa di distanziarsi dal legittimismo e accostarsi in maniera non più ostile nei confronti della democrazia, anche se essa ha continuato a mantenere una visione gerarchica della realtà, la quale viene intesa come un ordine creato e governato da Dio. Il nucleo centrale dell’enciclica “rerum novarum” è quello che si riferisce alla questione sociale in quanto all’interno di una prospettiva che sottolinea la necessaria cooperazione tra Chiesa, Stato, datori di lavoro e lavoratori, tale enciclica insiste sulla necessità di creare un connubio tra il diritto alla proprietà privata (riconosciuto alla Chiesa) e le ragioni della solidarietà sociale (che impongono un intervento a favore degli strati sociali più poveri). Alla luce di ciò la Rerum Novarum ha posto le basi per un aggiornamento della predilezione cattolica nei confronti delle comunità intermedie tra Stato e cittadino: infatti c’è stato – in questo periodo- il riconoscimento dell’associazionismo operaio e l’impegno della Chiesa a suo sostegno, i quali hanno segnato una svolta ricca di implicazioni nello sviluppo storico dei paesi dove la presenza cattolica è stata molto forte; e – da un punto di vista teorico- l’inizio della sussidiarietà secondo la quale lo Stato – solo in caso di necessità- può sostituire la propria iniziativa alla responsabilità personale e all’azione delle comunità intermedie. L’ITALIA Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo molti pensatori cattolici hanno preso spunto dall’insegnamento di Leone XIII, soffermandosi – principalmente- sulla questione relativa alla solidarietà sociale se pur restando ancorati alla visione di un ordine razionale e naturale di cui la Chiesa è sempre stata custode inflessibile. Un pensatore importante è stato Giuseppe Toniolo, il quale è stato influenzato da Rosmini, Minghetti, dalla scuola dell’economia tedesca e dal tomismo di Lovanio. Alla base del suo pensiero c’era l’idea che l’economia fosse sottomessa ad una serie di elementi di natura spirituale, religiosa e morale e la sua tendenza a sottolineare come la Chiesa e la religione abbiano avuto una grossa influenza sullo sviluppo della storia ha dimostrato come Toniolo si ispirava alla tradizione neoguelfa. Inoltre, il suo interesse per le società intermedie e per le corporazioni medioevali si è inserito in una prospettiva che affidava al cattolicesimo sociale il compito di ripristinare una visione organicistica e corporativa della società, il cui bene comune doveva portare ad un graduale progresso dei ceti inferiori. Tra i maggiori esponenti del cattolicesimo politico, che ha proposto un progetto di restaurazione di un nuovo ordine cattolico, ricordiamo Romolo Murri, il quale si ispirava al pensiero tradizionale della Chiesa, ossia che la realtà si basava su di un ordine gerarchico. Tuttavia il pensiero di Murri presentarono una serie di elementi innovativi: 1) la prospettiva di un’alleanza tra Chiesa e proletariato; 2) l’accettazione del metodo liberale della competizione tra i partiti; proponendosi come obiettivo quello di trasformare lo Stato liberale e realizzare un nuovo guelfismo sociale. Seguendo tale prospettiva Murri ha abbandonato l’orizzonte tomista entro il quale ha collocato il suo progetto di rinnovamento inizialmente e ha cominciato a riconoscere lo Stato come una forma di mediazione del conflitto sociale. In questo contesto, la democrazia- anche se continuava a presentarsi come la forma politica che garantisce la partecipazione del popolo nella vita socialecominciò ad apparire come il risultato di un incremento graduale della coscienza individuale verso nuove forme di responsabilità sociale. A tale concezione si ispirò la “lega democratica nazionale” , un gruppo di giovani democratici cristiani che – guidati da Murri- si opponevano all’orientamento clerico-moderato (proposto dalla Chiesa). Questa esperienza è stata importante perché ha permesso di creare un contatto tra la tradizione democratica cristiana e quella cattolico-liberale di cui Luigi Sturzo è stato il maggior esponente. Murri – invece- è stato considerato uno dei principali esponenti del modernismo, il che non può essere accettato per vero perché il pensiero di questo esponente del cattolicesimo politico e quello di tale corrente presentavano punti estremamente divergenti. Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ Il modernismo è stata una corrente di pensiero (nata agli inizi del 1900) che si proponeva si riavvicinare la cultura ecclesiastica ufficiale agli sviluppi del pensiero moderno, liberando la Chiesa dalle sue visioni sia della cultura che della politica ormai superate; rimpiazzando il tomismo con la filosofia moderna e sostituire l’apologetica (dottrina che si propone di dimostrare le verità di una religione) con il metodo dell’immanenza quale via per giungere alla conoscenza del trascendente. La manifestazione più significativa del modernismo la troviamo nelle opere di Ernesto Buonaiuti, il quale ha proposto un rinnovamento orientato in senso terreno e mondano. L’interpretazione escatologica (dove per escatologia si intende quella dottrina filosofica che si propone di studiare il destino ultimo dell’uomo) del messaggio cristiano ha portato Buonaiuti ad accostare l’annuncio evangelico della liberazione terrena alle speranze presentatesi con il socialismo moderno, riprendendo l’originario escatologismo cristiano in funzione di un socialismo cristiano il quale si proponeva di affermare l’identità tra sentimento religioso e speranze di rinnovamento sociale. Lo sforzo di conciliare la Chiesa con l’evoluzione della politica moderna è stato fatto anche dal liberalcattolicesimo di Luigi Sturzo, che era un sacerdote, un padre del popolarismo ed esponente di rilievo del pensiero liberale cattolico il quale mirava a sganciare il laicato dalla tutela della gerarchia sia sul piano politico che sul piano sociale. Sturzo rimase estraneo ai movimenti della Democrazia cristiana, ma riteneva che il movimento politico dei cattolici doveva avvenire negli istituti democratici per poter difendere l’autonomia della personalità individuale, la libertà dell’iniziativa privata, la priorità dell’individuo rispetto alle istituzioni e la sua libertà di coscienza. A partire dal 1920 il pensiero cattolico si è ritrovato a doversi confrontare con le ideologie nazionalistiche e un altro fattore che ha messo in luce una serie di problemi politico-sociali è stata la crisi del 1929 alla quale Pio IX ha fatto riferimento in una sua enciclica. LA FRANCIA La cultura cattolica francese era talmente ricca che invece di esprimere l’esigenza di trovare un compromesso con la modernità, ha espresso una critica radicale e progressiva nei suoi confronti. Per questo la cultura cattolica francese è stata quella più sensibile alla denuncia del capitalismo e della ricchezza e ai limiti della democrazia liberale. Inoltre la sua espressione più significativa è stata il personalismo sociale o comunitario, nel quale è emersa una tendenza polemica simile a quella di Leon Bloy che vedeva nel borghese, nella sua ipocrisia e nel suo egoismo, l’anticristo. Il personalismo è un movimento nato in Francia nel 1930 intorno alla rivista “Espirit” e sotto la guida di Mounier. Esso si proponeva di affermare il valore assoluto della persone contro l’oppressione delle strutture e di unire l’istanza individualistica con quella comunitaria, ossia di fondere il pensiero di Marx e di Kierkegaard. L’esigenza di superare lo spiritualismo e il materialismo si è tradotto – sul piano politico- in una concezione che mirava a superare sia i limiti dell’individualismo, sia quelli del collettivismo. Nell’articolo programmatico della rivista “Espirit”, Mounier ha messo in evidenza che il nuovo Rinascimento doveva avere al centro la persona e non l’individuo, in quanto il rapporto tra persona e persona non è un rapporto utilitaristico come quello tra individuo e individuo. Inoltre la persona non è un’astrazione biologica, psicologica ed economica (come l’individuo) bensì un’attività vissuta di auto creazione che coglie e conosce se stessa nel proprio atto. Da questo antiliberalismo di Mounier deriva anche il suo pensiero antimarxista e la sua concezione secondo la quale alla base del rinnovamento sociale ci doveva essere la valorizzazione della persona, intesa come apertura agli altri e a Dio. Nella prospettiva di Mounier la vita politica poteva essere riscattata mediante uno slancio profetico, il quale metteva in evidenza la forza della fede. Inoltre, per conservare l’interiorità è necessario uscire dalla propria dimensione egocentrica in quanto la persona è un “dentro” che ha bisogno del “fuori”, ossia ha bisogno dell’altro senza il quale non potrebbe definirsi effettivamente persona. Al capitalismo e al liberalismo Mounier ha – invece- opposto una serie di rivendicazioni di natura sociale e politica: sul piano sociale il personalismo propugnava il riconoscimento dei diritti dell’uomo e della donna, la socializzazione priva della statalizzazione di quei settori produttivi che si sono sempre alienati da un punto di vista economico- sociale; il primato del lavoro sul capitale; il primato del servizio sociale sul profitto e quello della responsabilità personale nei confronti delle strutture anonime e impersonali. Sul piano politico Mounier ha proposto una “teoria personalista del potere” la quale puntava sul diritto inteso come strumento di garanzia istituzionale contro il Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ totalitarismo del potere non limitato. A tal proposito è stata necessaria una limitazione del potere condizionante dello Stato; l’istituzione di un potere centrale equilibrato dal potere delle autonomie locali; l’indipendenza del potere giudiziario; la possibilità data ai cittadini di ricorrere alle vie legali per contrastare una decisione dello Stato e la limitazione dei poteri della polizia. Da ciò si evince che per il filosofo la vera sovranità non era quella popolare, ma la sovranità del diritto in quanto organizzazione razionale dell’ordine giuridico. Nel secondo dopoguerra Mounier modificò il suo orientamento perché pare che cominciò a sostenere l’idea dell’azione profetica come alternativa all’azione politica. Egli sosteneva che la cristianità borghese e feudale non solo era morta, ma – in più- non poteva essere considerata un principio dotato di valore normativo e, di conseguenza, ad essa non spettava nessun ruolo direttamente politico. Tuttavia ciò non ha impedito che la sua missione, rivolta ad un mondo ultraterreno, non potesse realizzarsi in modo indiretto anche sul piano mondano, dato che per Mourier non esistevano 2 storie separate (la storia sacra e la storia profana) , ma una sola storia: quella dell’umanità in marcia verso il regno di Dio. MARITAIN La volontà di istituire una nuova cristianità fondata sulla centralità della persona collocata in diverse strutture sociali e capace di superare la democrazia anarchica del liberalismo cattolico, rappresenta il perno fondamentale del pensiero di un altro esponente del cattolicesimo: Maritain. Egli ha opposto ai mali e alle deviazioni dell’epoca moderna la filosofia tomista in vista dell’umanesimo integrale, che è stato un altro nodo cruciale del suo pensiero. Per Maritain il problema dell’umanesimo è molto importante per un cristiano in quanto attraverso tale questione egli è capace di delineare il suo atteggiamento nei confronti del mondo, della cultura e dei propri valori. Inoltre tale esponente del cattolicesimo ha affrontato tale problema prendendo in considerazione la distinzione fatta tra individuo e persona: con il termine individuo si indica un principio materiale ed empirico; con il termine persona si fa riferimento alle dimensioni più alte e profonde dell’essere. In seguito, Maritai si è avvalso di questa distinzione anche per ricostruire la storia del mondo moderno, che egli ha inteso come una storia di progressiva spinta verso l’individualizzazione e l’alienazione della persona al quale ha opposto il suo umanesimo integrale, ossia un umanesimo che non mette al centro solo l’uomo, bensì il rapporto tra l’uomo e il divino. Solo seguendo questa direzione si sarebbe evitata la tragedia dell’umanesimo, che si è manifestata nel nazismo. Anche se il personalismo tomista presenta delle analogie con quello comunitario di Mounier, alla base di queste due concezioni ci sono delle differenze che ci permettono di distinguerle l’una dall’altra. La prima differenza sta nell’idea di individuo: per Maritain l’individuo ha un proprio statuto di legittimità anche se egli condanna l’attribuzione di dignità personale conferita all’individuo stesso in quanto essa implica il sacrificio e la subordinazione della persona; Per Mourier l’individuo non è altro che la dissoluzione della persona nella materia. Da ciò si evince che la dottrina tomista di Maritain riconosceva alla vita politica uno spazio di piena legittimità in quanto il rapporto tra ispirazione cristiana e regime democratico implicqa l’esigenza di distinguere il piano temporale da quello spirituale e – quindi- di riconoscere alla politica una dimensione di piena laicità. Un’altra differenza che c’è tra Maritain e Mourier è che per il primo l’azione profetica non è sostitutiva a quella politica, ma rappresenta una dimensione organica e strutturale di questa in quanto la politica può essere costituita da forme di razionalizzazione che mirano al successo immediato e prive di sentimento sacrale, ma – nello stesso tempo- anche da forme di razionalizzazione che sono compatibili con la razionalità trascendente della morale. LIBERALISMO E PLURALISMO Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo la questione relativa alla trasformazione del liberalismo in democrazia era meno centrale rispetto alla seconda metà del XX secolo. Tuttavia – in questo periodo- ci sono state diverse correnti ideali che hanno accettato le tesi di chi sosteneva la completa perdita della cultura liberale e l’estraneità di principio della nuova democrazia. IL PENSIERO INGLESE Sulla scena politica e intellettuale inglese il liberalismo è stato impegnato in un’opera di trasformazione fino alla fine del XIX secolo. E, in questo senso, molti hanno tentato di organizzare Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ una democrazia industriale, nonché di garantire la democrazia politica mediante il pluralismo. Il pluralismo è stata una dottrina che proponeva un modello di società costituito da piccoli gruppi o centri di potere non necessariamente in pieno accordo tra loro. La differenza che c’è stata tra il pluralismo e le altre correnti di pensiero antistataliste è che esso non ha opposto l’individuo allo Stato-tutto in quanto sosteneva che l’individualismo e lo statalismo fossero complementari perché entrambe consideravano irrilevanti tutte le aggregazioni sociali basate su legami volontari. Pertanto il pluralismo ha sostituito al dualismo Stato-individuo una relazione triadica, in cui all’individuo e allo Sato si sono affiancate le strutture che rappresentavano dei settori omogenei all’interno della società, sia da un punto di economico che da uno culturale. Le fonti storiche del pluralismo sono diverse; tra queste ricordiamo: 1) la teoria degli ordini intermedi di Montesquieu (utile per distinguere il governo monarchico da quello dispotico o repubblicano); 2) la dottrina dei “corpi sociali” di Grieke, dove per corpi sociali si intendevano quelle comunità intermedie tra lo Stato e l’individuo modellati su corporazioni medioevali; 3) le pagine di Tocqueville sulla vita associativa presente nella democrazia americana;4) gli scritti di Proudhon, che opponeva alla società organizzata dallo Stato una molteplicità di associazioni umane volontarie alle quali veniva affidato il compito di promuovere l’emancipazione umana. Come le fonti, anche e varianti moderne del pluralismo sono diverse; tra queste ricordiamo: 1) il pluralismo cristiano-sociale, per il quale le varie aggregazioni sociali erano disposte secondo un ordine gerarchico che attribuiva ad ognuna un ruolo e un’importanza in base alla funzione svolta; 2) il pluralismo democratico, che poneva tutti i centri di potere su uno stesso piano per contribuire a ridimensionare l’autorità dello Stato, ad assicurare il consenso e limitare i conflitti. L’esponente più importante del pluralismo socialista-democratico è stato Laski, il quale ha affrontato il tema della sovranità per criticare il principio monistico dello Stato moderno. Secondo questo autore, l’accentramento statalista e la disciplina delle funzioni amministrative e sociali verificatesi durante la 1° guerra mondiale non potevano essere considerati come l’avvio ad un processo che si proponeva di trovare delle risposte ai bisogni della vita associata, ma come il risultato di un’estrema esaltazione della sovranità, destinata a fallire nei confronti della sfida rappresentata dalle plurali appartenenze degli individui. A tal proposito è importante sottolineare che le appartenenze di gruppo possono risultare più radicate dell’appartenenza statale in quanto lo Stato non è altro che una delle diverse unità collettive in cui gli individui esprimono il loro impulso associativo. Di conseguenza lo Stato non deve avere la pretesa di assumere il profilo di una sfera politica in sé conclusa e – in più – il suo compito non doveva essere quello di imporre unità alla società, ma quello di articolare i diversi interessi che si manifestavano nei corpi collettivi a formazione volontaria. Ciò ha dimostrato che le appartenenze a dei gruppi potevano dimostrarsi più forti nei confronti dell’appartenenza allo stato. Secondo Laski alla destrutturazione della statualità e al pluralismo della realtà politica doveva accompagnarsi una costituzione federale la quale doveva superare il monismo giuridico dello stato e puntare sull’istituzione di una struttura coordinata e non più gerarchica. Questo decentramento, più che territoriale, doveva essere un decentramento funzionale in quanto il ruolo politico affidato allo Stato non poteva incorporare la funzione economica, la quale doveva essere affidata ad associazioni capaci di mettere in luce le esigenze dei lavoratori. La pluralità delle forme di rappresentanza ha rappresentato la necessaria adeguazione alle molteplici esigenze della convivenza (sia da un punto di vista politico, che da un punto di vista amministrativo). Questa prospettiva di Laski presentava delle analogie con quella del movimento inglese delle “industrial guildes” il quale rivendicava alle gilde (che erano nuclei di produttori) i compito di creare le condizioni per l’istituzione di un assemblea legislativa a rappresentanza funzionale che doveva affiancare il Parlamento. Mentre la Fabian Society vedeva nella gestione statale dell’economia una condizione necessaria per avviare un processo di riforma sociale, il Guild Movement opponeva l’autogestione industriale, capace di rendere i lavoratori partecipi della vita industriale. La prospettiva secondo la quale bisognava ridimensionare i margini di intervento dello Stato e assegnare al governo un ruolo complementare alle associazioni, è stato abbandonato da Laski nella seconda fase del suo pensiero durante la quale egli ha dato un ruolo importante al riformismo statale. A tal proposito, egli cominciò a sostenere che i gruppi volontari erano assoggettati al Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ controllo dello stato e che la conciliazione tra l’uno e i molti, tra l’interesse pubblico e quello privato, non discendeva da nessuna armonia prestabilita ma dall’impiego di tecniche specifiche di mediazione politica. Nella terza fase del suo pensiero Laski cominciò a pensare che lo Stato e l’individuo si configuravano come due poli oppositivi della dialettica politica: mentre lo Stato assumeva il profilo della necessità e della coercizione, l’individuo si radicava nel regno della libertà, ossia in quel regno che Laski considerava negativamente perché privo di freni e capace di spingere l’individuo a scegliere la propria via senza subire nessuna influenza. Nel momento in cui Laski si è reso conto che la trasformazione della comunità dipendeva da una serie di avvenimenti di natura economica piuttosto che politica, si avvicinò al marxismo in quanto solo l’esperienza del comunismo appariva in grado di rimpiazzare i “rapporti di cassa” tra gli uomini mediante dei rapporti di solidarietà e di integrazione. Un altro personaggio che – come Laski – ha avuto un orientamento politico liberale e, in seguito, si è avvicinato al marxismo è stato Callingwood, il quale ha subito l’influenza della filosofia di Croce. Dal filosofo napoletano egli ha appreso: 1) il principio secondo il quale lo sviluppo spirituale dell’individuo può essere paragonato ad un processo di progressiva emancipazione sia dalle passioni interne che dalle costrizioni esterne; 2) l’identificazione di libertà e coscienza. Quest’ultimo aspetto lo ha portato a concepire il liberalismo come un metodo politico basato sulla soluzione dialettica dei problemi, in linea con la libertà di coscienza verso la quale tende la coscienza umana. Infine, il confronto con l fascismo, ha portato Collingwood a difendere un ideale di civiltà intesa come un’associazione volontaria di individui, la quale nasce dalla libertà individuale e si propone come obiettivo la riduzione della forza nell’ambito delle relazioni sociali e politiche. IL PENSIERO STATUNITENSE Il pensiero liberale e democratico degli Stati Uniti ha conosciuto uno sviluppo diverso rispetto a quello dei paesi europei in quanto esso non si è ritrovato a doversi confrontare con la crisi politica che ha attraversato per lungo tempo il nostro continente. Tuttavia le istituzioni liberali e democratiche della politica statunitense vivevano uno sviluppo abbastanza tumultuoso, ma nonostante ciò hanno sempre conservato la loro efficienza e la loro capacità di affrontare le sfide. In questo contesto, in cui è nato il New Deal (e cioè un nuovo rapporto tra economia e politica) John Dewey ha fatto una lunga riflessione – orientata verso la democrazia - sul liberalismo. Dewey è stato accomunato al liberalismo inglese del secondo Ottocento perché come questo movimento si proponeva di superare il liberalismo tradizionale, ma ciò che lo distingue e lo rende unico è la critica che ha mosso nei confronti della società capitalistica, della quale ha denunciato le distorsioni causate dal controllo di una ristretta minoranza sui mezzi di produzione. Per Dewey le coercizioni (ossia le pressioni) alla libertà non provenivano dalla sfera pubblica, ma dal conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione e la richiesta di libertà individuale - promossa dai liberali – poteva realizzarsi solo mediante il riordinamento pianificato dell’economia. Inoltre, per Dewey, il liberalismo poteva superare la propria crisi rinunciando ai postulati liberisti e conferendo all’autorità pubblica il compito di regolare tutte le fasi del ciclo economico all’interno di un quadro di sviluppo pianificato a fini sociali. Di conseguenza, la dottrina che limitava le funzioni dello Stato a compiti di polizia, è stata superata con una politica di interventi pubblici il cui obiettivo era quello di correggere le condizioni di non libertà all’interno dei rapporti sociali. Pertanto la libertà individuale era destinata ad essere perduta in assenza di una socializzazione delle forze produttive. Su quest’ultimo aspetto il pensiero di Dewey è stato caratterizzato da una serie di oscillazioni in quanto – in un primo momento- sembrava che l’organizzazione pianificata dell’economia doveva essere affidata ad una pianificazione democratica che, però, è stata promossa mediante dei mezzi capitalistici i quali hanno mantenuto intatta la proprietà privata dai mezzi di produzione. In un secondo momento Dewey è sembrato orientato verso una politica che mirava a socializzare le forze di produzione disponibili, così come accadeva nella Russia sovietica. Dewey, tuttavia, riteneva che l’elemento propulsivo del progresso sociale doveva essere individuato nel metodo scientifico( ossia nella tecnica di osservazione dei fatti, costruzione delle ipotesi e verifiche delle conseguenze attraverso la sperimentazione attiva) il quale non era riuscito a realizzarsi sino a quel momento a causa del ritardo culturale che persisteva all’interno della Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ prassi politica. Infatti, solo in un ordine razionalmente organizzato i vantaggi resi possibili dalla comprensione scientifica della natura potevano essere considerati degli elementi positivi per l’uomo, anche se l’applicazione del metodo scientifico per la soluzione dei problemi sociali era ostacolata dalle differenze di opinione su ciò che fosse benefico o dannoso da un punto di vista sociale. Tuttavia esisteva, per Dewey, un fine indiscutibile: la crescita, concepita come la realizzazione graduale delle potenzialità umane per effetto dell’interazione tra impulso e abitudine. Da un punto di vista politico Dewey si è fatto promotore della concezione pluralistica della società, giudicata come quella ideale per raggiungere il fine dell’uomo: la crescita. Per Dewey il pluralismo si configurava come un antidoto contro ogni forma totalitaria di assorbimento delle associazioni primarie nelle associazioni secondarie, o – più precisamente- di assorbimento di tutti i valori sociali nell’ambito politico. Anche se il pluralismo si presentava come uno dei nuclei fondamentali del suo pensiero, Dewey affermava che il compito dello Stato era quello di fare l’arbitro o il “direttore d’orghestra” e di individuare cosa – di positivo- esso poteva dare per incrementare le condizioni favorevoli al processo di crescita. E poiché le condizioni di vita di gran parte della cittadinanza potevano ostacolare il processo di crescita, un altro compito dell’autorità politica era quello di intervenire anche negli affari di famiglia, del clan e del quartiere. Infine, per evitare che questa forma politca sfociasse nel totalitarismo, Dewey ha messo bene in chiaro che il criterio di legittimità con il quale bisognava valutare l’intervento dello stato doveva essere il “bene pubblico”, il quale doveva essere inteso come il principio direttivo e il criterio di riferimento dell’attività di governo. IL PENSIERO ITALIANO In questi anni, il pensiero liberalista italiano non ha degli esponenti di rilievo (mettendo da parte Croce) in quanto esso – e in particolar modo quella parte che non scivolo nel nazionalismo e nell’autoritarismo- fu condizionato dalla necessità di resistere e opporsi a Crispi prima, al nazionalismo in seguito e al fascismo infine. Guglielmo Ferrero è stato un liberaldemocratico che ha combattuto contro Crispi e contro Mussolini e che ha maturato un pensiero secondo il quale l’assenza di misura che ha caratterizzato l’uomo e la società ha proiettato sulla condizione umana l’ombra della paura: paura della natura; paura degli altri; paura del futuro. Sulla base di questa prospettiva Ferrero ha delineato una vita sociale come una condizione simile allo stato di natura proposto da Hobbes; ma – nello stesso tempo- ha sottolineato che è proprio dal disordine e dalla paura che è nata la civiltà, concepita come costruzione razionale di un ordine capace di ripristinare la pace e la sicurezza. Pertanto la civiltà e le sue forme sono state considerate – in base a tale prospettiva- come l’esito dello sforzo di annullare la paura o di ridurre al minimo l’incertezza che travagliava la vita degli uomini. Lo strumento di questo sforzo è stato il potere, che può essere concepito come una funzione obbligatoria finalizzata a promuovere strategie rivolte a ridurre la paura ai livelli più bassi e a controllare il timore reciproco che ciascuno prova nei confronti dei propri simili. Tuttavia il potere è caratterizzato da un paradosso: esso – per adempiere il proprio compito- è costretto ad avvalersi di mezzi coattivi (ossia costrittivi), affidandosi alla paura la cui rimozione è il fine della politica. La risposta a questo paradosso è stata individuata – da Ferreronella convergenza tra potere e società, la quale permetteva di ridurre la paura reciprova tra i governanti e i governati. Infatti, secondo Ferrero, la stabilità dell’ordine sociale non era stabilito solo dalla coercizione, ma era necessario il consenso il quale si realizza nel momento in cui una serie di credenze e valori condivisi sono in grado di operare come principi normativi. Ferrero, poi, ha affermato che solo la legittimità (la quale proviene dal basso e non dall’alto) è in grado di liberare il potere dalla paura: infatti laddove il potere era legittimo, la sovranità assumeva il carattere di un contratto tra le autorità e i soggetti il quale si configurava come l’esito di una convergenza tra l’unità politica nel potere sovrano e i valori, i costumi e gli interessi più diffusi. Per questo motivo Ferraro da molta importanza ai principi di legittimità, i quali si sono alterati da un’età all’altra perché – ad un certo punto- i principi vigenti non erano più in grado di rispondere alle esigenze sociali e, per questo, era necessario sostituirli con altri capaci di adempiere questo compito. Nel periodo di transizione, ossia nel momento in cui il vecchio principio non era stato ancora sostituito da quello nuovo, si generava una situazione di illegittimità nella quale ricompariva la paura del potere, e in particolare di quello rivoluzionario. Pertanto Ferrero ha distinto, nell’ambito della rivoluzione francese, due logiche: la logica della distruzione della legittimità invecchiata e la Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ logica dell’edificazione di una nuova legittimità. Per Ferrero la democrazia corrispondeva ai valori della rivoluzione culturale affermatasi con la modernità, ed essa poteva essere considerata legittima solo se il potere riconosceva alle minoranze sia il diritto ad opporsi, che il diritto a poter diventare maggioranza mediante l’osservazione delle libertà politiche sancite dalle carte costituzionali. Infine, Ferrero, nonostante fosse un antifascista è giunto a criticare anche il marxismo perché esso – con la sua concezione di democrazia- trasformava la società in uno spazio conflittuale entro il quale il partito della rivoluzione e quello della conservazione finiscono per affrontarsi in base alla logica distruttiva della paura reciproca. IL LIBERALISMO DEMOCRATICO E IL LIBERALSOCIALISMO In Italia una riflessione molto importante è stata quella di Gobetti (esponente del liberalismo democratico) e di Rosselli (esponente del liberalsocialismo) i quali sono stati segnati dalla preoccupazione di resistere al fascismo e dall’intenzione di rivedere la tradizione liberale a partire dai probemi generati dalla questione operaia e dal socialismo. Gobetti si proponeva di creare una classe politica consapevole della necessità della partecipazione dei ceti popolari nell’ambito politico; Rosselli ha cercato di attuare una nuova sintesi tra liberalismo, socialismo e democrazia intesa come condizione e presupposto per la costruzione di uno stato autenticamente democratico. Tuttavia, entrambe si proponevano di rilegittimare il liberalismo ed entrambe si sono trovati ad affrontare la risposta fascista che i ceti politici tradizionali hanno dato alla crisi politica e sociale del primo dopoguerra. Inoltre questi due esponenti del liberalismo italiano sono entrati in aperto conflitto con il fascismo perché in esso vedevano realizzata la conferma della debolezza civile della borghesia italiana. Gobetti è stato un personaggio di spicco perché ha elaborato il concetto di “rivoluzione liberale” il quale – da un lato- si ispirava al liberalismo di Salvemini; dall’altro assimilava criticamente l’approccio alla democrazia di massa teorizzato da Gramsci. In questo senso, per Gobetti,la rivoluzione liberali si sarebbe dovuta affidare alla capacità di iniziativa della classe operaia, la quale non doveva essere guidata da un partito socialista ma da un elitè intellettuale ispirata agli ideali del liberalismo. Come abbiamo detto Gobetti andò contro il fascismo anche perché vedeva in esso una serie di aspetti illiberali; in più, questa avversione nei confronti del nuovo regime lo ha portato ad approfondire una serie di studi sull’unità d’Italia; studi che lo hanno condotto a considerare il Risorgimento come una rivoluzione fallita perché caratterizzata dall’assenza delle classi popolari. Secondo Rosselli, la cui riflessione è stata influenzata dall’esperienza fascista, il socialismo si sarebbe ripreso dalla sconfitta subita da parte del fascismo solo se si liberava dall’eredità marxista per poi pori lungo una linea di continuità con la tradizione liberale. Inoltre, per Rosselli, il protagonista della rinascita della civiltà liberale doveva essere la classe operaia, la quale doveva essere il personaggio principale anche nella “rivoluzione della libertà” destinata a tradursi, dal punto di vista istituzionale, in uno stato democratico basato su una pluralità di organizzazioni; e – da un punto di vista economico- in uno stato a economia mista o a due settori, e cioè in cui imprese private coesistono con settori nazionalizzati. Un altro personaggio italiano importante, esponente del libersocialismo è stato Calogero il quale si è distinto da Rosselli perché egli procedette in direzione di una revisione del liberalismo, e in particolare della crociana “religione della libertà”. Egli considerava la libertà al singolare come presupposto per raggiungere le libertà al plurale, le quali si sostanziavano nei diritti civili e sociali che andavano garantiti a tutti i cittadini. Pertanto il liberalsocialismo comportava sia la democrazia politica, sia la democrazia economica; il che coincideva con il tentativo di conciliare giustizia e libertà andando contro la teoria di Croce il quale subordinava la giustizia alla libertà. POLITICA ED ECONOMIA Durante le due guerre mondiali il pensiero democratico ha offerto una serie di risposte sia teoriche che pratiche e le seconde sono state molto importanti perché riguardavano la modificazione del rapporto moderno tra politica ed economia Uno dei postulati principali della pratica politica dei paesi industrializzati dell’800 è stata la distinzione tra Stato liberale, società ed economia. Tuttavia questa situazione ha cominciato a Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ modificarsi ( a partire dagli anni ’80 del XIX secolo ) a causa di una serie di fattori di natura sia sociale che economica. Da un punto di vista politico-sociale, l’ampliamento del suffragio e la rinascita dei partiti di massa hanno trasformato i processi di decisione politica e promosso l’affermazione di una legislazione sociale. In questo contesto, poi, nacque lo Stato interventista il quale si assunse una serie di responsabilità dirette nel finanziamento e nell’amministrazione di programmi di assicurazione sociale. Da un punto di vista economico lo Stato ha assunto un ruolo diretto nell’economia, aggiungendo funzioni economiche al suo apparato politico-rappresentativo le quali erano orientate alla valorizzazione dei diversi settori di capitale. Durante la prima guerra mondiale questa tendenza è stata accentuata notevolmente perché tutto il mondo della produzione si mobilitò proponendosi degli scopi bellici; ma dopo questo grande conflitto la situazione non è tornata più come prima a causa della nascita del bolscevismo, del nazismo e del fascismo. Una svolta decisiva – da un punto di vista economico- si è avuto con la crisi economica del 1929 che si è abbattuta su tutti i paesi industrializzati. La dimensione gigantesca di questa ondata regressiva ha imposto un intervento più massiccio dello Stato, ed è per questo che si è cominciato a pensare alla pianificazione dello Stato sull’economia. Mentre nel fascismo e nel nazismo l’intervento dello Stato in materia economica assunse l’aspetto del corporativismo fascista e della debole pianificazione nazista, in Russia la situazione fu diversa. Infatti, nonostante fu istituita una nuova politica economica (la NEP), nel 1928 venne lanciata la politica dei “piani quinquennali”, dove per piano quinquennale si intendeva uno strumento di governo dell’economia destinato a dimostrare la superiorità del socialismo nei confronti del capitalismo. Tuttavia la funzione dei piani è stata – sin dall’inizio- di natura politica più che economica in quanto essi erano finalizzati ad una gestione di tipo militare della vita produttiva piuttosto che ad una distribuzione più equilibrata delle risorse. Mentre nel marxismo teorico della scuola di Francoforte ci si è soffermati a promuovere il dibattito sul capitalismo di Stato e sul suo rapporto con il capitalismo classico, nella socialdemocrazia eurpea si è affermata la tendenza ad immaginare un riassetto popolare della sfera politica nei suoi rapporti con la società, mediante un controllo pianificato dello Stato sulle nuove forme di un’economia capitalistica, ormai simili a quelle di un’economia socialista. Il planismo europeo – ossia l’insieme delle correnti socialdemocratiche favorevoli alla pianificazione- ha rinunciato a qualsiasi forma rivoluzionaria, alla quale ha sostituito sia una accentuazione della dimensione nazionale dei problemi sia una definizione delle tappe intermedie e della loro forma economica e istituzionale. I principali esponenti del planismo sono stati: Rathenau; Hilferding che ha analizzato il capitalismo organizzato come uno stadio preliminare del socialismo in virtù dei principi di pianificazione e organizzazione scientifica che lo informano; e – infine Hendrik de Man. Infine bisogna dire che il planismo socialdemocratico condivideva con il partito comunista l’orientamento che si proponeva di porre la questione della pianificazione economica come soluzione alla contraddizione strutturale tra forze produttive e rapporti di produzione; mentre aveva pochissimi punti in comune con le soluzioni corporative fasciste. IL NEW DEAL Agli inizi del 1900 sia le democrazie europee che gli Stati Uniti si ritrovarono a gestire la crisi dell’economia e ad inventare nuove forme di passaggio alla politica economica, ossia nuovi interventi dello Stato nell’ambito economico. In questo contesto di crisi molto importante è stato in New Deal, un programma di riforme sociali ed economiche proposte dal presidente Roosvelt, il quale si proponeva di trasformare il rapporto tra economia e politica. Il presupposto dal quale partiva il New Deal era quello che bisognava correggere il vecchio automatismo di mercato attribuendo allo Stato dei compiti inediti, ma nonostante la constatazione del fallimento del sistema del lassez faire (ossia di un sistema che proponeva la libertà di commercio) Roosvelt voleva apportare delle modifiche nell’ambito economico conservando il regime dell’impresa privata. L’idea che dominava il New Deal era quella che il rilancio dell’economia fosse stato possibile non tanto sostenendo i prezzi per incrementare i profitti, ma eliminando la disoccupazione all’interno della società e spingendo i cittadini a riacquistare le merci e i prodotti delle proprie industrie e dei propri campi. Per questo motivo fu attuato un piano di interventi sociali destinato a favorire la ripresa delle attività produttive (gestite Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ principalmente dallo Stato) e a dare inizio ad una sorta di circolo virtuoso. Il principale sostenitore del New Deal è stato un economista inglese: Keynes, il quale in firerimento al funzionamento del capitalismo ha formulato un’interpretazione alternativa e che ha superato quella classica, la quale – secondo questo economista- aveva avuto come conseguenza le politiche liberiste del laissez faire. CAPITOLO 6 I TOTALITARISMI Una delle più importanti manifestazioni del tentativo di riorganizzare il rapporto tra individuo e Stato, nonché tra economia e politica, è stata data dai totalitarismi i quali si sono serviti dell’ideologia per raggiungere i loro obiettivi. Nel periodo che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, in Europa sono stati fatti una serie di esperimenti politici che sono stati definiti “totalitari” in quanto proponevano la politica come una dimensione “totale”, e cioè capace: 1) di penetrare tutta la società annullando la sua separazione tradizionale in diversi ambiti; 2) di coinvolgere tutto l’individuo senza accettare le logiche della rappresentanza politica moderna fondate sulla distinzione tra uomo e cittadino, fra pubblico e privato. Il termine “totalitario” cominciò a circolare già a partire dagli anni ’20 tra gli oppositori del fascismo; e fu utilizzato per la prima volta da Giovanni Amendola in senso negativo. Dopo un po’ fu lo stesso Mussolini a far proprio questo termine, utilizzandolo in senso positivo, ossia per indicare la volontà del regime di portare tutta la società all’interno dello Stato. Tuttavia il fascismo, più che totalitario, si presentò come autoritario ed è per questo che oggi si tende a definire come totalitarismi veri e propri il nazismo e il comunismo che (a differenza del fascismo) non amavano usare questo termine perché il primo preferiva connotare la propria politica e il proprio regime in senso razziale e popolare; il secondo si proponeva come rivoluzionario, sovietico e socialista. A partire dagli anni ’50 è stata compiuta una riflessione teorica su che tipo di politica potesse essere definita totalitarismo o meno. Importante è stata l’interpretazione di Hannah Arendt la quale diede al termine “totalitarismo” una risonanza filosofica, una profondità storica e valenza polemica in quanto l’equiparazione di nazismo e comunismo è stata rifiutata a lungo dalla sinistra. Al giorno d’oggi sono state stabilite delle caratteristiche precise che permettono di definire una forma di governo totalitaria; esse sono: a) un’ideologia totalizzante che, rifiutandosi di riconoscere l’oggettività della realtà, ne proclama l’assoluta trasformabilità; b) la presenza di un partito unico che si sostituisce allo Stato e si proclama come centro del potere e detentore del monopolio della violenza; c) la presenza di un capo carismatico che stabilisce un rapporto diretto con le masse; d) l’uso non legale della politica e l’uso terroristico del potere dello Stato e del partito contro la società; e) il controllo pieno da parte del potere politico su comunicazione ed economia. Dall’interpretazione storico-politca è emerso che le questioni principali – per quanto riguarda le dinamiche totalitarie – sono tre: 1) la comparabilità tra loro di fascismo, comunismo e nazismo; 2) la continuità o la discontinuità dei totalitarismo rispetto allo Stato borghese-liberale; 3) l’interpretazione del loro conflitto in termini di guerra civile. Per quanto riguarda l’origine e il significato politico del totalitarismo è importante sottolineare che esso – in primis- può essere considerato una risposta alla crisi dello Stato e del soggetto, generata dalla incapacità dello Stato liberale ottocentesco di contenere nelle proprie forme e nelle proprie istituzioni immensi potenziali umani, tecnologici ed economici-industriali; di conseguenza, se l’ingresso di una società di massa all’interno della scena politica è stata la caratteristica del XX secolo, il totalitarismo ha fornito una risposta a questa novità sociologica mediante una strategia di annullamento dei limiti e dei confini tra Stato, società e individuo, nonché tra politica, etica ed economia proponendosi di realizzare la promessa di un modo radicalmente nuovo. Inoltre il totalitarismo è stato anche: - uno sforzo mobilitante e conflittuale per la realizzazione di un’ideologia specifica; - una forma di vendetta contro le passate oppressioni e sconfitte; - ol cambio delle classi dirigenti e – quindi- la fine della società borghese e l’inizio di dell’epoca della tecnica e dell’economia ipertrofica, rispetto alle quali la politica si presentava, attraverso i partiti Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ totalitari, come un’istanza ancora più forte perché capace di servirsi di tecnica ed economia distruttivi in vista di una rigenerazione futura. Tuttavia va sottolineato che l’ingresso delle masse sulla scena politica e il ruolo crescente della tecniche non sono stati di per sé totalitari ma, in realtà, le masse sono state le prime vittime dell’inganno e della violenza dei totalitarismi e la tecnica non ha espresso una diretta intenzionalità terroristica. Inoltre è importante distinguere i valori ultimi verso i quali protendevano i totalitarismi, ossia fare una distinzione tra l’emancipazione socialista (propria del comunismo) e il dominio germanico sul mondo (proprio del nazismo) in quanto queste due forme di totalitarismo si sono affrontate in una lotta mortale durante la seconda guerra mondiale. Nonostante tutto sono caratterizzati da una serie di tratti distintivi che li accomunano. Il regime totalitario poteva essere indicato come l’opposto dello Stato (ed è per questo che non è corretto parlare di Stato totalitario) in quanto la politica formale e istituzionalizzata era negata dalla tensione del totalitarismo verso il Bene o il Valore ultimo; la stabilità dello Stato era contraddetta dalla mobilitazione permanente che il totalitarismo portava con sé; lo spazio politico dello Stato – che conteneva diversi spazi- è stato ridotto ad un unico spazio totale. In più, i regimi totalitari hanno perso completamente il senso della differenza tra guerra e polizia; tra esterno ed interno: all’esterno essi hanno condotto delle campagne di polizia (e non guerre) contro dei criminali da sterminare. Esempio di ciò è stata l’azione nazista durante la seconda guerra mondiale. All’interno i regimi totalitari hanno condotto delle vere e proprie guerre contro i diversi nemici che albergavano nella società. questi nemici sono stati: il nemico reale, il quale coincideva con l’oppositore dichiarato al regime; il nemico potenziale, che rappresentava colui che sarebbe potuto diventare un oppositore del regime a causa della sua appartenenza ad un preciso gruppo sociale; il nemico “oggettivo” il quale veniva individuato di volta in volta a seconda delle esigenze del momento; e – infine- il nemico biologico, come sono stati gli ebrei per i nazisti. IL FASCISMO Il fascismo e il nazismo sono nati in Europa nel momento in cui la dissoluzione della politica dello Stato liberale e costituzionale ha dato origine ad una serie di tendenze ostili nei confronti della tradizione; ma – in realtà- la loro incubatrice è stata la prima guerra mondiale e le dinamiche estreme che essa ha comportato. Infatti sia il nazismo che il fascismo non derivarono le proprie motivazioni da organiche premesse dottrinali, ma entrarono in gioco proponendosi di evitare di vincolarsi all’interno di programmi ideologici circostanziati. Il fascismo nacque da un bisogno d’azione e fu azione in quanto esso si fondava sul principio che in politica l’azione è più creatrice del pensiero; in più esso si è sempre dimostrato come un’ideologia un po’ contraddittoria perché incorporava in sé diversi aspetti contrastanti. Tuttavia è stato il nazionalismo italiano a fornire al fascismo gran parte del suo corpus dottrinale (almeno in origine), ma la differenza tra nazionalismo e fascismo è stata che il primo fu un fenomeno esclusivamente borghese o aristocratico; i secondo è esistito grazie alla mobilitazione delle masse in quanto esso è entrato a far parte di quell’orizzonte politico che si proponeva di fare i conti con le masse. Per questo motivo il fascismo – oltre che un’opposizione- incontrò anche un largo consenso, almeno dal 1929 al 1938, o comunque sino alla fine della seconda guerra mondiale. Anche se il fascismo ha coltivato la retorica dei valori tradizionali della nazione, esso non è stato un movimento tradizionalista: infatti non si richiamava né alla Chiesa né alla monarchia (le quali erano le istituzioni principali dell’ordine conservatore) ma ha tentato di sostituirle basandosi su principi completamente innovativi. Tali principi sono stati: 1) una leadership fondata sul culto carismatico del capo, nel senso che tutti i cittadini dovevano identificarsi nel Duce; 2) il monopolio della rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa organizzato gerarchicamente; 3) il tentativo di incorporare l’insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali all’interno di strutture di controllo dello Stato o del partito. In un primo momento, il fascismo (così come il nazismo) si è presentato come un movimento rivoluzionario della controrivoluzione in quanto incorporava – all’interno dei Programmi dei fasci di combattimento del 1919 – una serie di richieste democratiche che interessavano diversi settori: dal punto di vista politico il Programma chiedeva il suffragio universale, la rappresentanza proporzionale, il diritto di voto e l’eleggibilità per la donna, ecc.; da un punto di vista sociale si puntò verso il miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai e verso la loro partecipazione nella vita dell’impresa; da un punto di vista finanziario ci fu Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ l’introduzione di un’imposta fortemente progressiva sul capitale, la revisione dei contratti di forniture di guerra, il sequestro della max parte dei profitti di guerra. La formulazione ideologica del fascismo presentava – dunque- delle tendenze rivoluzionarie; carattere questo che è rimasto vivo per tutti gli anni in cui è vissuto tale regime e che lo ha fatto presentare sempre come caratterizzato da un’ambivalenza ideologica generata dal fatto che all’interno di esso è sempre rimasta attiva quella parte che ha continuato a sognare la rivoluzione. Solo nel momento in cui il fascismo è salito al potere ha provveduto a dotarsi di un complesso dottrinale in grado di fondare la propria legittimazione politica e storica su di un compiuto sistema ideologico. La dottrina del fascismo presentava delle differenze rispetto a ciò che era stato messo in evidenza nei Programmi dei fasci di combattimento del 1919; una novità rilevante è stata l’esplicito abbandono del principio di uguaglianza e di maggioranza. Poi – ancora- all’individualismo e alla lotta di classe socialista sono stati opposti, più che la nazione, l’autorità dello Stato la cui forma istituzionale (democratica o monarchica) non era rilevante. Da ciò si evince che con il fascismo l’idea di nazione è stata subordinata da quella di Stato in quanto secondo l’ideologia di questo regime non è la nazione che genera lo Stato, ma è lo Stato – inteso come espressione di una volontà etica universale- che crea la nazione conferendo volontà e vita morale ad un popolo diventato consapevole della propria missione universale. In questo contesto è risultato importante sostituire la lotta di classe e la lotta tra i partiti con l’integrazione totalitaria delle masse nella vita politica e affidare allo Stato il compito di proiettare all’esterno la compattezza nazionale del Paese nel conflitto contro le potenze plutocratiche. Il fascismo si è avvalso del partito unico e della corporazione per realizzare la fusione tra il popolo e lo Stato e da un punto di vista economico è stato un organismo fondato sul solidarismo corporativo. LA corporazione serviva ad attuare – sotto il controllo dell’esecutivo- la disciplina integrale, organica e unitaria delle forze produttive in funzione della potenza politica e degli interessi dello Stato. Da un punto di vista politico, il modello corporativo intendeva porsi come un modello opposto a quello rappresentativo democratico, in quanto esso si prefigurava come una democrazia organica, anticonflittuale e interclassista in cui l’individuo contava come espressione di interessi precisi ed organizzati. Anche se il corporativismo fascista riprendeva alcuni punti del modello di Sorel e dei modelli corporativi elaborati dal pensiero cristiano-sociale del XIX secolo, esso si è differenziato da quello tradizionale perché non era societario e pluralista, ma monistico e statalista in quanto di proponeva di realizzare l’unità economica nei suoi diversi elementi e subordinarli all’autoritarismo dirigista. Tuttavia il corporativismo non fu interamente realizzato nella pratica. Nel fascismo un ruolo molto importante era quello del partito, anche se questo era subordinato allo Stato e basato sul culto del capo carismatico. Al partito venivano conferite due funzioni diverse: da un lato, quella di assicurare allo Stato il consenso volontario del popolo; dall’altro, quella di selezionare gli elementi migliori della “schiatta” italiana, alla quale spettava il compito di trasferire nel mondo la civiltà della romanità imperiale. Quest’idea di nazione dispensatrice di civiltà non poteva essere separata da quella della “superiorità” della razza, che ha assunto un ruolo importante più nel nazismo che nel fascismo. IL NAZISMO Il nazismo (così come il fascismo) non è nato da un pensiero specifico, ma da un insieme di idee e principi derivanti da forme diverse. Anche se l nazionalismo e il fascismo vengono presentati come due forme di nazionalismo, presentano delle differenze importanti: il nazionalismo era una forma totalitaria e non solo autoritaria; il nazionalismo ha fatto un maggior uso terroristico del potere politico ed è stato caratterizzato da un’ideologia mobilitante; il nazionalismo ha riversato il delirio di onnipotenza nella formazione di un uomo nuovo; il nazionalismo presentava un rapporto diverso – rispetto al fascismo- tra partito e Stato. Sino al 1929 il nazionalsocialismo rappresentava una forza minoritaria all’interno della società tedesca anche se esso riprendeva gli umori di coloro che desideravano una rivincita nei confronti della sconfitta contro la Francia e nei riguardi delle condizioni imposte alla Germania con la pace di Versailles. Tuttavia con l’avvento della crisi economica del 1929, che ebbe delle ripercussioni in tutti i settori, il partito nazionalsocialismo (di cui la parola nazismo è l’abbreviazione) è riuscito ad ottenere la maggioranza nelle elezioni Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ politiche. Molti storici hanno considerato il regime nazista come un sistema caotico, non omogeneo e caratterizzato dal conflitto tra diversi centri di potere, tenuti uniti solo dalla volontà di Hitler. Tuttavia, il nazismo presenta dei caratteri particolari come l’importanza data al partito. Infatti – a differenza del fascismo- in questo caso il partito sta al di sopra dello Stato e ad esso è stata attribuita una diretta responsabilità politica e una funzione “sovra legale” e onnipervasiva. Di conseguenza, il partito si presentava come l’unica istanza di legittimità - oltre a quella del popolo e del Capo- e come l’unico soggetto politico capace di realizzare l’organizzazione della società e la mobilitazione del popolo. Per questo motivo lo Stato nazista è stato uno Stato-partito. Il totalitarismo nazista si è configurato come un regime di perenne mobilitazione distruttiva della società da parte di un potere politico che operava secondo logiche di esclusione e mediante delle modalità di non tutela proponendosi come obiettivo la costruzione dell’uomo nuovo. In questo modo, il nazismo ha provocato una censura nei confronti sia dello Stato di diritto, che nei riguardi dello Stato inteso come comunità etica di destino e non solo come associazione di produttori. Dall’analisi di ciò si evince che per il nazismo lo Stato non era altro che uno strumento il cui fine era la conservazione della razza. A tal proposito molto particolare è la riflessione di un politologo e giurista tedesco: Ernest Fraenkel, il quale ha parlato di “doppio Stato”, ossia della compresenza di uno Stato normativo, necessari per garantire la presenza di un’economia capitalistica; e di uno Stato direzionale il quale doveva eliminare tutti i nemici del Reich. Il popolo veniva inteso – dal nazismo- come razza e come comunità popolare. Tuttavia è sul concetto di razza che il regime tedesco si è soffermato maggiormente in quanto il suo misticismo irrazionalistico della razza superiore è stato influenzato o – meglio- ha avuto origine da una serie di teorie razziste nate tra la l’800 e il ‘900 in Europa. Già verso la metà del 1800 un francese, Gobineau, sosteneva che la razza fosse il fondamento della civiltà, la quale era destinata a tramontare se la razza andava incontro alla degenerazione, ossia se la purezza del suo sangue si mescolava con il sangue di altre razze. La razza biana (che derivava dagli ariani) rappresentava l’unica matrice creativa fra tutte le civiltà, ma la sua decadenza impediva l’istituzione di un progetto politico capace di discriminare le razze inferiori. L’affermazione di un razzismo “attivo” è avvenuta nel momento in cui queste idee di Gobineau sono state prese in considerazione e diffuse dapprima da Wgner (un grande musicista tedesco) e – in secondo luogo- da Chamberlain il quale ha dato un contributo decisivo alla popolarizzazione del mito ariano mediante l’identificazione della razza superiore con quella tedesca. Il massimo testo espositivo del razzismo nazista è stata l’opera di Alfred Rosenberg: “il mito del XX secolo” nella quale ogni creazione dell’uomo e – addirittura- la verità è stata ricondotta alla razza. Il mito del XX secolo consisteva nella creazione di un nuovo uomo, ossia nel risveglio della razza nordica la quale aveva il compito di produrre il proprio eroe e organizzarsi come comunità di uomini superiori pronti a realizzare il proprio mito organico e gerarchico all’interno dello Stato del popolo-nazione. Il nemico più terribile da combattere era la razza ebraica, la quale mirava ad impadronirsi del mondo e di distruggere la razza superiore mediante la diffusione dell’egualitarismo democratico, sociale o cristiano. Le contraddizioni del partito nazionalsocialista sono state messe in evidenza nei 25 punti del programma del Partito dei lavoratori tedeschi, al quale aderì anche Hitler nel momento in cui si trasformò in Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi. I 25 punti erano una mescolanza di parole d’ordine nazionaliste, razziste, autoritarie e populiste che hanno spinto il popolo ad accettare e appoggiare i principi di questo nuovo regime. Nel momento in cui Hitler salì al potere scelse per il proprio movimento la denominazione “partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi”, adottò la bandiera rossa e istituì il primo maggio come festività per i lavoratori. Nel 1936, con l’annuncio del “piano quadriennale” , l’influenza dello Stato e del partito nazionalsocialista è aumentato radicalmente sull’economia, tant’è vero che essa è stata limitata da una serie di imposizioni e interventi della dirigneza politica, ma non al punto di poter definire il sistema economico tedesco come un’economia pianificata dallo stato, infatti, nella Germania nazista lo Stato controllava l’economia nel quadro di uno sviluppo concentrato tra lo Stato stesso e l’industria privata, aggregata in corporazioni. La fonte principale dell’ideologia nazista è stato il Main Kampf di Hitler, ossia il libro nel quale sono stati scritti tutti quei principi che – in seguito- sono stati attuati durante il regime nazista. Lo Stato – Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ per Hitler- doveva essere Stato di popolo in polemica contro lo Stato totale; e questa idea di stato – così come quella di popolo e di partito- si è collocata in una Weltashauung, ossia in una visione del mondo, basata sulla legge del più forte. In questo senso la storia veniva concepita caratterizzata da una lotta continua tra razze pure e razze inferiori. In aggiunta a ciò si è affermato che il compito del nazismo era quello di dar vita d una rinascita razziale della Germania in modo da assicurare al popolo tedesco lo spazio vitale in cui realizzare l’impero razziale germanico il quale prevedeva da un lato- l’eliminazione della razza ebrea; dall’altro la sottomissione dell’elemento non tedesco, e soprattutto slavo. Il principio di funzionamento di questo sistema politico è stato il Fuhrerprinzip il quale metteva in evidenza che ogni livello e ogni istanza doveva essere gestito da un uomo solo, sa un capo che non doveva prendere in considerazione i pareri e le volontà dei sottoposti, piuttosto prendersi tutte le responsabilità delle proprie azioni e tener conto di una capo di livello superiore (come – per esempio- Dio). Il Fuhrer concentrò in sé tutti i poteri e quando, il 2 agosto 1934, morì l’ultimo rappresentante del potere legale Hitler unì alla sua potenza anche le cariche di presidente e di cancelliere. Il Fuhrerprinzip è stato talmente potente da invadere la società e lo Stato tedeschi in tutte le loro articolazioni e da confermarsi come unica istanza unificante degli innumerevoli elementi che costituivano il pluralismo del potere nazista. Infine il Fuhrerprinzip – che andava contro la forma moderna dello Stato e la sua legalità- ha istituito una personalizzazione del comando che mancava da molti anni in Europa. Il tema dell’antisemitismo è bene analizzarlo a parte a causa del suo grande rilievo nell’ideologia e nella pratica della politica razzista. Esso – infatti- non è stato uno strumento del nazismo, ma la sua vera essenza in quanto Hitler ha utilizzato l’antisemitismo per accaparrarsi l’appoggio dei ceti superiori, del proletariato e della piccola borghesia, uscita molto provata dalla crisi del 1929. Inoltre, l’antisemitismo rappresentava una personale ossessione di Hitler che egli ha trasformato in un vero e proprio sterminio della razza ebraica, la quale veniva vista come l’unica vera minaccia per gli ariani perché essa mirava a dominare tutto il mondo diffondendo ideologie universalistiche che indebolivano la razza superiore. In linea con questi principi Hitler ha realizzato una politica antisemita molto dura e spietata che, infine, con i suoi risultati ha messo in evidenza cosa c’era di implicito nel razzismo: l’idea che l’umanità non sia unita; che non poteva esistere nessuna forma di comunicazione razionale capace di coinvolgere tutti gli uomini , nessuna storia e destinazione spirituali della presenza dell’uomo nel mondo; ma solo una distruzione cieca, automatica e naturale; espressione – tutto ciò- di un nichilismo completo. Infine, il punto d’arrivo di questa filosofia nazista è stato la distruzione. IL COMUNISMO SOVIETICO La Russia è stata la culla del comunismo, nonché degli sviluppi totalitari di esso. Il carattere totalitario di questa forma di governo è stato avviato dal pensiero e dall’opera di Lenin, ma – in seguito- si è consolidato con il governo di Stalin, il quale stravolse le istituzioni e gli strumenti creati da Lenin in quanto si proponeva di creare una politica dispotica all’interno e una politica estera di potenza. Il sistema staliniano non si è sviluppato con molta facilità in quanto ha trovato un aspra opposizione in due figure: Nicolaj Ivanovic Bucharin e Lev Davidovic Trockij. Bucharin era stato uno dei protagonisti della nascita e dei primi sviluppi dello stato sovietico, ma aveva maturato il suo pensiero andando oltre le contingenze politiche. Egli riteneva che il rapporto sempre più stretto tra politica ed economia (il che rappresentava un carattere del capitalismo) poteva rappresentare un fattore duraturo di stabilizzazione economica e – alla luce della nuova struttura del capitalismo di Stato- era convinto che era necessario revisionare il rapporto tra struttura e sovrastruttura in quanto gli apparati regolativi dello Stato divennero parte integrante della struttura. Accanto a questa critica nei confronti del capitalismo occidentale, Bucharin, fece un’analisi sull’esperienza sovietica e si propose di opporre alla logica autoritaria di industrializzazione forzata l’idea di un socialismo basato su un rapporto di interdipendenza tra razionalizzazione produttiva e crescita del mercato interno. Quest’ultima caratteristica del pensiero di Bucharin lo ha posto come uno dei principali ispiratori della Nep (ossia della nuova politica economica), la quale prevedeva la parziale liberalizzazione del mercato e lo sviluppo della piccola industria e del commercio privato. Un oppositore della Nep è stato – invece- Trockij, il quale sosteneva che il mondo agricolo non era Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ altro che un oggetto di sfruttamento ai fini dell’industria. Egli – dopo essere stato sconfitto da Stalin nel 1925- ha elaborato una critica nei confronti della politica di Stalin; critica che faceva leva su due punti: 1) in primo luogo Trockij riteneva che le trasformazioni strutturali ed economiche attuate dal potere sovietico durante il governo di Lenin rimasero intatte nel momento della ascesa di Stalin, il quale non aveva fatto altro che imporre una forte autorità sia sulle sovrastrutture che sul dominio politico andando contro – in questo modo- alle esigenze dell’ordine politico e istituzionale socialista. 2) In secondo luogo, egli si propose di contrastare questa forma di totalitarismo attuata da Stalin (il quale si proponeva di creare il “socialismo in un solo paese”) mediante una rivoluzione permanente, ossia una rivoluzione guidata dal proletariato. Esiliato dall’Urss, egli fondò a Parigi la IV Internazionale la quale entrava in contrasto con la III internazionale stalinista, e – infine- morì a città del Messico assassinato per ordine di Stalin. CAPITOLO 7 GRAMSCI In Italia, la rinascita del pensiero dialettico si manifestò anche nel marxismo e, in particolare, nel pensiero del suo maggior esponente: Antonio Gramsci, il quale fu influenzato sia dalla filosofia di Croce che da quella di Labriola. Gramsci intendeva il marxismo come una concezione dialettica della storia umana la quale sosteneva che c’era la possibilità di dar vita ad un ordine nuovo mediante la capacità di agire dell’uomo, attraverso cui egli trasforma le situazioni e i rapporti di forza. Se il rapporto tra libertà e necessità si spezzava,il socialismo correva il rischio di rimanere prigioniero di quella falsa alternativa di ribellismo e passività che indicava una situazione di immaturità storico-politica sia della classe operaia che delle sue espressioni organizzative. Per Gramsci (come anche per molti pensatori del suo tempo) la rivoluzione d’Ottobre ha segnato una svolta radicale in quanto essa ha messo in luce la capacità del proletariato di dirigere il processo produttivo anche senza il capitalismo. Per questo motivo egli assegnò ai “Consigli operai di fabbrica” (ossia ai soviet) la direzione della società, in quanto essi rappresentavano – da un latogli organi della classe operaia nella sua totalità; dall’altro modelli organizzativi in grado di rispondere alle esigenze produttive e di delineare un nuovo ordine politico. Tuttavia, con il fallimento dell’occupazione delle fabbriche e l’avvento del fascismo all’idea di dar vita ad un nuovo ordinamento è subentrata la consapevolezza che la rivoluzione doveva essere un processo lungo e duraturo. Un’opera molto importante di Gramsci è stata “Quaderni del carcere” in cui egli ha messo in evidenza la sua riflessione sulle differenze tra Occidente e Oriente; tra paesi dalla società civile debole e arretrata (come la Russia) e paesi (come l’Italia) con una società civile complessa e articolata. Inoltre egli ha sottolineato che la rivoluzione d’Ottobre doveva essere interpretata come l’ultimo episodio della guerra di movimento tra il comunismo e la società borghese, la quale si è riuscita ad affermare in Russia a causa del carattere troppo debole della società civile; che in Europa – invece- si è rafforzata, complicata e differenziata e – in più- ha circondato la cittadella dello Stato politico con un sistema di trincee, caserme e bastioni. Per questo motivo, in Europa la rivoluzione doveva essere più articolata e bisognava rinunciare all’illusione che sarebbe stato possibile abbattere il nemico mediante uno scontro frontale. Gramsci – inoltre- ha rimesso in luce l’importanza del Partito Comunista, all’interno del quale trovarono forma ed espressione l’autonomia di classe del proletariato e l’inconciliabilità teorica del pensiero proletario con qualsiasi altra visione del mondo. Come sul piano dell’azione politica Gramsci avanzò l’idea della necessità di un organismo collettivo, ossia del Partito Comunista in quanto era l’unico organo politico in grado di risolvere il problema relativo al passaggio dalla vecchia società a quella nuova; sul piano produttivo egli oppose al capitalismo una razionalizzazione del lavoro basata sull’organizzazione del “lavoratore collettivo” capace di gestire l’industria anche senza il capitalismo, nella prospettiva dell’autonomia morale e intellettuale del lavoratore. un’idea molto particolare di Gramsci è quella relativa al fascismo. Egli considerava questo regime come l’esito di una politica disegnata dai vertici della borghesia industriale, la quale si è avvalsa dei ceti medi (e in particolare di quelli rurali) per opporsi alla lotta di classe socialista – prima- e Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ comunista – dopo. Inoltre l’esistenza del fascismo ha reso improbabile – in Italia – l’evolversi di una guerra di movimento tra la borghesia e i proletari, ed è per questo che Gramsci preferì parlare di guerra di posizione. Tutto ciò portò l’esponente del marxismo italiano a rivedere il concetto di società civile: egli intendeva, per società civile, l’insieme complesso delle relazioni ideologicoculturali della vita spirituale e intellettuale che avevano un ruolo decisivo all’interno di uno Stato; mentre per il marxismo l’elemento fondamentale in uno Stato era la struttura, ossia l’insieme delle relazioni materiali nella produzione. A sostegno della propria tesi Gramsci affermava che il potere di una classe non si esercitava unicamente con la forza, ma anche mediante l’egemonia, ossia con la capacità di dirigere le altre classi verso la propria ideologia che – per il filosofo del marxismorappresentava uno strumento autonomi di influenza intellettuale. Alla luce di ciò bisognava sottolineare che sull’esercizio della propria egemonia su tutta la società civile doveva puntare il proletariato il quale era organizzato nel partito comunista che rappresentava la totalità degli interessi dei lavoratori e la guida delle decisioni collettive e individuali utili per tutta la società. Prendendo in considerazione quest’esigenza – espressa da Gramsci – di creare una visione del mondo valida per tutto, è possibile dedurre che egli dava molta importanza alla questione relativa agli “intellettuali organici” che aderivano intenzionalmente agli ideali di una classe in modo da favorire la loro diffusione in tutta la società civile. L’incapacità egemonica della borghesia italiana (ossia l’incapacità di diffondere la propria ideologia) oltre che generare il fascismo, secondo Gramsci si era già manifestata nella questione meridionale la quale aveva messo bene in evidenza che le classi dirigenti del nord non erano state capaci di condurre fino in fondo la lotta al feudalesimo e al latifondismo perché avevano lasciato da parte le terre del sud. E’ proprio per questo motivo che Gramsci si fece sostenitore del proletariato industriale comunista che egli riteneva come l’unica forza politica in grado di unificare il paese sotto tutti i punti di vista e di risolvere i problemi generatisi con la questione meridionale. Infine, in ragione dei questa capacità direttiva e unificatrice del Partito Comunista, Gramsci lo ha riconosciuto come il “moderno principe” capace di creare un nuovo Stato. LA FRANCIA In Francia la Hegel renaissance (ossia la riscoperta del pensiero ideale) è stata determinata da un gruppo di intellettuali che, a partire dagli annni ’30, introdussero in questo paese la filosofia di Hegel e – in particolare- la fenomenologia dello Spirito, fornendone una lettura in senso umanistico in quanto furono influenzati anche dall’esistenzialismo e dalla riscoperta dei testi umanistici del primo Marx. La Hegel renaissance non fu solo un fenomeno accademico in quanto gli intellettuali che hanno diffuso in Francia la filosofia Hegeliana furono anche coloro che rivalutarono Hegel come il portatore del problema relativo al soggetto- concreto il quale, con la sua finitezza, si poneva in rapporto con lo Stato moderno e con la storia universale. Uno di questi intellettuali è stato Alexandre Kojèeve che nelle sue lezioni ha interpretato la fenomenologia di Hegel come un’antropologia storica che ha descritto l’uomo nel suo divenire; ed è per questo che egli sosteneva che lo Spirito di Hegel coincideva con l’Uomo, concetto storico connotato da una finitezza radicale e mediante il quale è possibile spiegare anche gli altri concetti hegeliani. Koièeve si è –poi- soffermato su 2 figure dell’Autocoscienza della Fenomenologia: la lotta tra servo e padrone e la morte. Prendendo in considerazione la lotta servo-padrone K. ha affermato che prima e fuori dall’interazione sociale non c’è soggettività; di conseguenza l’uomo è sempre il prodotto della lotta e del lavoro e anche l’ordine politico nasce come spazio fondato – in origine- sulla lotta. Questo impianto categoriale servì a K. Per spiegare anche l’evoluzione del diritto il quale era costituito dal conflitto dialettico tra giustizia di eguaglianza (che reggeva le società aristocratiche) e la giustizia di equivalenza ( propria della società borghese). Oltre alla metafora servo-padrone, la dialettica hegeliana era costituita anche dal nesso morte (o guerra) e libertà, il quale metteva in evidenza che l’uomo può dirsi tale, ossia sostanza concreta, nel momento in cui rischia la propria vita nella lotta per il riconoscimento, poiché la morte dell’uomo è autonoma e volontaria e – per questo motivo- generatrice di libertà. Per K. il mondo sociale coincideva con il mondo della storia il cui movimento dialettico poteva essere concepito come un circolo destinato a ripetersi solo una volta: la storia – infatti- è soppressione della storia, e cioè cammino verso la fine della storia, verso la conformità tra realtà e discorso. La storia del mondo occidentale (per K.) si era conclusa nel Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ 1789 grazie alla rivoluzione, la quale aveva generato la trasformazione del mondo dei borghesi in un mondo cittadino, destinato ad essere superato dal pensiero hegeliano. Mentre per Hegel lo Spirito del mondo si era manifestato in Napoleone; per K. Si era manifestato in Stalin e nella prima fase del suo pensiero egli era convinto che proprio grazie alla rivoluzione russa che si era compiuta la storia e c’era stata la manifestazione dell’Assoluto, ossia il cittadino-saggio dello Stato Universale omogeneo in cui vigeva la giustizia dell’equità (sintesi della giustizia di eguaglianza e di equivalenza). LA GERMANIA In Germania la rinascita della dialettica ha avuto degli effetti importanti all’interno del pensiero marxista, il quale si è liberato dalle influenze positivistiche della II e III internazionale e si è aperto nei confronti delle istanze di concretezza storica. L’importanza che il pensiero dialettico ha avuto per il marxismo è stata rivendicata da Gyorgy Lukacs, che ha elaborato un pensiero i cui punti chiave erano i concetti di: totalità concreta, identità di soggetto-oggetto nella prassi sociale; coscienza di classe e di reificazione(ossia quel processo secondo cui nell’economia capitalistica l’uomo e il suo lavoro venivano ridotti al valore della merce che producevano). Secondo Lukacs, il metodo dialettico era quello più adeguato per comprendere la totalità sociale e solo dal punto di vista del proletariato la società diveniva visibile come un Intero, ossia come un sistema dialettico delle relazioni che nascevano dalla produzione economico. Al contrario, la borghesia – con la sua falsa coscienza- studiava la società come un’insieme di fenomeni isolati, ripresi in settori conoscitivi parziali privi di qualsiasi rapporto con il tutto di cui fanno parte. Invece è proprio il Tutto che rende comprensibile le parti ed è proprio per questo motivo che Lukacs sosteneva il proletariato in quanto esso rappresentava l’unica classe sociale in grado di effettuare una corretta analisi della storia e della società. inoltre la conoscenza non contraddittoria della realtà era accessibile solo al proletariato perché la coscienza borghese – essendo limitata e andando incontro alla sua scomparsa- non poteva essere altro che tragica e contraddittoria. Infatti il pensiero irrazionalistico della cultura europea dell’800 e del ‘900 è stato una reazione disperata del mondo borghese alle proprie contraddizioni e alla lotta di classe. Al contrario, il proletariato aveva la possibilità di conoscere la totalità sociale (ossia il mondo capitalistico nel suo vero funzionamento) perché esso era la sua manifestazione: pertanto riconoscendo se stesso come classe, il proletariato conosceva anche la totalità sociale e viceversa. In questo modo coscienza di classe e conoscenza oggettiva del processo storico giunsero ad identificarsi e ciò fu molto importante perché nel momento in cui il proletariato giungeva alla piena conoscenza del capitalismo, aveva la possibilità di superarlo attraverso il socialismo e di abolirlo nella libertà finale della società senza classe. In questa prospettiva di Lukacs, il marxismo rappresentava una teoria della totalità sociale. La quale trovava nel partito (inteso come coscienza di classe del proletariato) il soggetto rivoluzionario rappresentante gli interessi dell’intero proletariato e il futuro dell’umanità. Il pensiero di Lukacs trovò molti punti in comune con quello di Krosch, il quale difese il concetto di totalità concreta nell’ambito della polemica in cui si accusavano pensatori come lui e Lukacs di aver ridotto il marxismo ad un criterio epistemologico di un sapere specializzato, che spingeva le singole coscienze ad essere indipendenti e ad allontanarsi dalla prassi rivoluzionaria. LA SCUOLA DI FRANCOFORTE La scuola di Francoforte è nata nei primi anni di vita della Repubblica di Weimar. La prima generazione di questa scuola – di cui facevano parte sociologi, economisti, filosofi, storici e psicologi- si impegnò in una revisione del marxismo che si proponeva di interpretare la trasformazione del capitalismo (il quale passò dalla sua fase liberale alla sua fase democratica) e dello Stato (che da Stato borghese divenne Stato totalitario). Molto importante nella prospettiva teorica e pratica della scuola di Francoforte è stato il dibattito relativo al rapporto tra politica ed economia. Intorno a tale questione nacquero due filoni distinti: da un lato c’erano coloro come Max Pollock e Max Horkheimer i quali sostenevano che c’erano delle differenze tra il capitalismo di Stato e le classiche condizioni economiche del capitalismo liberale concorrenziale; dall’altro c’erano coloro come Franz Neumann ed Herbert Marcuse i quali sostenevano che tra capitalismo di Stato e capitalismo classico non c’era nessuna differenza particolare e che il fascismo non era stato altro che il sistema di comando borghese portato all’esasperazione. Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ Uno dei principali filosofi della scuola di Francoforte è stato Herbert Marcuse il quale aveva tentato di riattivare il marxismo da un punto di vista teorico, ripristinandone la specifica valenza rivoluzionaria. A tal proposito egli ha sottolineato l’importanza della filosofia nella ricerca della concretezza, in quanto la filosofia veniva concepita come scienza pratica capace di incidere direttamente sull’angustia dell’esistenza umana. Solo in questo modo- ossia riprendendo il pensiero di Hegel, interpretato come espressione di una lotta materiale contro l’irrazionalità del mondo, mediante la filosofia di Heidegger e la lettura del giovane Marx – il marxismo poteva riaffermarsi come teoria e prassi dell’azione rivoluzionaria. Contro tale razionalità concreta poteva porsi solo l’irrazionalismo terminale della borghesia dalla quale è nato il nuovo Stato autoritario. Infatti – secondo Marcuse- il liberalismo e l’autoritarismo non erano due movimenti alternativi, ma corrispondevano a due diverse fasi dello sviluppo capitalistico. Inoltre – secondo il filosofo- il mondo borghese non produceva più forme politiche nuove, ma solo decadenza di quelle vecchie e anche il passaggio da un’economia liberistica ad un’economia di piano autoritaria è stata interpretata come una omogeneità tra vecchi e nuovi capitalismo. In accordo a questo suo pensiero Marcuse sosteneva l’inesistenza dello Stato autoritario e riconosceva il carattere borghese del fascismo, ma – in seguito ad una profonda analisi del nazismo- si è allontanato da questa sua posizione iniziale ed ha cominciato a cogliere le novità del regime totalitario tedesco. anche un altro filosofo: Franz Neumann ha compiuto una riflessione sul regime nazista che ha descritto come uno Stato attraversato dal disordine e dal conflitto. Egli partiva dalla tesi che il totalitarismo non era una forma di governo nuovo, ma solo l’espressione di una serie di interessi economici borghesi i quali erano talmente contraddittori che potevano essere tenuti insieme solo mediante una politica violenta e il mito, e non più dal diritto e dalla ragione. Per Pollock e Horkeimer il capitalismo di stato esisteva ed esso coincideva proprio con lo Stato autoritario. A sostegno di questa sua tesi Horkeimer sostenne che la fine della libera concorrenza segnò l’affermazione di una totalità di dominio in cui non era possibile distinguere più degli ambiti di dominio. Per questo motivo il totalitarismo era – per lui – una forma politica nuova e la Germania nazista, nonché l’Urss non erano altro che due manifestazioni equivalenti della forma estrema di dominio nella quale ha preso corpo la tradizione occidentale dell’oppressione. In Horkeimer e in molti esponenti della scuola di Francoforte il concetto di dominio implicava che l’alienazione dell’uomo non era dovuta solo allo sfruttamento capitalistico, ma anche alla convergenza tra principio di organizzazione e principio di produzione. La politica, quindi, attraverso l’incorporazione autoritaria delle masse nelle strutture economiche e politiche ha assunto un carattere violento e autoritario in quanto solo mediante questo tipo di atteggiamento era possibile garantire la sopravvivenza di un sistema socioeconomico. L’esistenza di forme politiche diverse non ebbe come conseguenza la produzione di diverse qualità di dominio: il potere politico esercitato dal principio di organizzazione economica, infatti, faceva si che sia ad Est (dove vigeva il socialismo) che ad Ovest (dove c’era il capitalismo) si produceva la chiusura di qualsiasi spazio emancipatorio. Durante la seconda guerra mondiale gli esponenti della scuola di Francoforte cominciarono ad affiancare al nazismo e al capitalismo una nuova forma politica ed economica, nella quale il dominio non si manifestava attraverso forme violente e autoritarie ma mediante la mercificazione, ossia manipolazione psicologica e culturale di ogni ambito sia soggettivo che sociale. Nel 1944 Horkheimer e Adorno unificarono tutta la storia intellettuale, sociale , economica e politica dell’Occidente in una critica radicale all’illuminismo, nel quale H. (già fino alla sua opera giovanile) non ha visto un progresso della ragione verso il suo dispiegamento, ma la continua lotta tra il momento ideale della libertà con quello pragmatico dell’interesse, nonché l’inevitabile compromissione della ragione moderna con il potere di classe della nascente borghesia. Nella sua opera più matura H. radicalizzò il suo pensiero affermando che la ragione è potere ed essa – da un lato- poteva essere esaltata perché portava con sé una serie di promesse di liberazione; dall’altro poteva essere criticata per la sua origine e per la sua struttura che l’hanno portata a risultati opposti alla libertà, ossia alla schiavitù. Inoltre Horkheimer e Adorno si sono opposti alla narrazione che la ragione illuministica faceva di sé: lotta contro il mito alla cui conclusione si affermava il soggetto emancipato. Questa antitesi tra il mito e l’illuminismo rappresentava – secondo questi Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ autori- una forma di complicità segreta utile per dominare la natura e superare la paura che l’uomo aveva nei suoi confronti. Inoltre il mito era – per loro- una forma di superamento della magia,la quale era ancora troppo mimetica rispetto alla natura ed esso poteva essere definito illuministico perché si impegnava ad eliminare la paura dell’uomo nei confronti della natura; ed era teoria perché gli dei di cui si avvaleva per dare unità e forma astratta alla natura anticipavano gli universali del logos, della ragione. Da ciò è possibile dedurre che è stato col mito (trasformatosi in seguito in logos) che ha avuto inizio il processo di razionalizzazione del mondo per opera del Soggetto che, mediante la ragione, si proponeva di dominare l’oggetto, riducendolo – in questo modo- ad un concetto che poteva essere afferrato nella mente. L’illuminismo è stato – però- un momento storico contraddittorio perché mentre da un lato si proponeva di abbandonare il mito, dall’altro non si è liberato dalla mitologia, e cioè dalla paura nei confronti della natura, e – in più- ha riproposto le originarie potenze minacciose della costituzione naturale. Inoltre la alla razionalizzazione della natura senza imporre tale razionalizzazione alla propria natura, ai propri impulsi, desideri e passioni. La repressione delle passioni naturali e l’autodisciplina del soggetto è stata espressa in due figure: quella di Odisseo e quella di Sade. Odisseo era un borghese che ha fondato la propria identità facendosi legare all’albero della nave er non seguire il canto delle Sirene, il quale coincideva con le potenze irrazionali della natura che egli temeva e desiderava nello stesso tempo in quanto non voleva perdersi l’esperienza di congiunzione tra soggetto e natura. Sade ha messo in luce il lato oscuro dell’illuminismo perché egli vedeva la natura come una dimensione infernale in cui il male e la violenza si manifestavano come eventi naturali. Questo giustificava – in qualche modo- anche il loro sviluppo nella società e metteva in evidenza che l’illuminismo si fondava solo su pulsioni deviate che rappresentavano, ormai, il destino dell’individuo. Dall’analisi di ciò si è dedotto che il soggetto razionale non trova – nella propria ragione- la libertà, ma la propria soppressione. Il dominio si manifesta, quindi, in una totalità filosofica, psicologica, politica ed economica che di per sé rappresenta il falso in quanto non è altro che l’indice della violenza mediante la quale è stata costruita la storia, le istituzioni e le forme culturali. Pertanto, secondo i francofortesi, la filosofia e il potere politico non sono gli unici fattori strutturali che spiegano la nascita e lo sviluppo del dominio, ma in quest’ambito rientra anche la psicologia. Gli autori di questa scuola fanno riferimento – in particolar modo- alla psicoanalisi freudiana la quale metteva in evidenza che la nascita della società e della civiltà esige la repressione e la sublimazione degli istinti primari di piacere ai quali vengono sostituiti i totem dell’autorità, che vengono introiettati dall’individuo come principio di subordinazione e come principio di prestazione ( e cioè l’identificazione del soggetto con il proprio lavoro). Tuttavia i francofortesi non condividevano la tesi di Freud perché essi puntavano alla costituzione di una società libera dalla repressione individuale e collettiva. Infatti, in molte loro opere essi hanno analizzato spesso il concetto di autorità, indicandolo come quell’elemento utile per definire la persistenza del dominio anche in assenza di una coercizione fisica. In aggiunta a ciò hanno affermato che era attraverso la mediazione della famiglia che la società trasmetteva i tratti della personalità autoritaria che spingeva i cittadini ad obbedire al comando del Capo o ai pregiudizi che i tiranni utilizzavano per esercitare il potere. Questi autori della scuola di Francoforte sono stati riconosciuti come dei personaggi importanti perché essi hanno congiunto la ripresa di una parte della filosofia di Hegel con la psicoanalisi e il marxismo, al fine di dar vita ad una teoria critica capace di affrontare il dominio e di superarlo mediante la promozione della libertà. Tuttavia riuscire ad ottenere tale libertà era alquanto difficile perché non bastava criticare l’economia capitalistica o il totalitarismo, ma era necessario: 1) criticare la stessa ragione occidentale senza cadere nell’irrazionalismo o nel cattivo romanticismo sentimentale; 2) smascherare la volontà della ragione di affermare la propria potenza; 3) lasciarla esprimere le differenze e contrastare la sua tensione verso la produzione dell’unità. In quest’opera l’atteggiamento dei filosofi della Scuola di Francoforte fu diverso: Horkheimer prese una via mistica (simile a quella di Schopenhauer); Marcuse tentò – fino alla fine- di perseguire la libertà per l’uomo e per il proletariato; Adorno continuò a fare filosofia contro la filosofia, ossa continuò a pensare in senso dialettico senza mai conciliarsi con la realtà di cui si proponeva di mettere in luce le contraddizioni. Quest’ultimo proseguì per questa strada perché era convinto che fare filosofia era Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/ possibile soprattutto grazie all’arte, la quale manteneva viva l’immaginazione. BENJAMIN Un altro personaggio tedesco che ha appoggiato lo sviluppo del pensiero dialettico è stato Benjamin, il quale ha dei punti in comune con i francofortesi. Ciò che lo ha avvicinato a quest’ultimi è stato; il respingimento nei confronti del formalismo razionalistico e la rinuncia alla fiducia nel progresso storico. Ciò che lo ha differenziato dagli autori della scuola di Francoforte è stato il fatto che mentre essi erano fedeli alla filosofia come mediazione razionale, Benjamin insistette sulla immediatezza della redenzione. In uno dei suoi saggi più importanti: “Per la critica della violenza” Benjamin ha messo in evidenza che la violenza poteva essere equiparata al diritto dello Stato e ad essa poteva essere contrapposto la Giustizia. Egli vedeva nel diritto la culla della violenza strutturale, la quale era nascosta nelle istituzioni che non erano il frutto di una mediazione razionale perché esse hanno avuto origine proprio dalla violenza che – in più- hanno incorporato. Pertanto, la violenza – presentandosi come diritto- aveva il potere di attribuire dei ruoli ai vincitori e ai vinti, nonché di circoscrivere lo spazio politico secondo la propria logica di potere. Da ciò si evince che mentre per il liberalismo la violenza rappresentava un male necessario per l’affermazione del diritto, il quale poteva essere considerato il suo contrario; per Benjamin la violenza non era altro che il diritto stesso e – in linea con questo suo pensiero- egli era convinto che lo sciopero generale proletario (promosso da Sorel) non era altro che un mezzo attraverso il quale eliminare un èlite di dominatori e ripristinarne una nuova. di conseguenza, una vera critica alla violenza poteva essere soddisfatta solo attraverso la distruzione del diritto esistente e il rovescio di ogni struttura di dominio, in modo tale da provocare una rottura del continuum della storia, la quale si strutturava proprio dalla violenza. Benjamin sosteneva – poi- che la liberazione della società non passava attraverso la dialettica, ma assumeva i tratti messianici (ossia relativi ad un messia, mirati alla salvezza) della violenza rivoluzionaria, la quale rappresentava il firlesso della Giustizia divina nella sfera umana. Quando Benjamni si accostò al comunismo, continuò a conservare l’utopia di una rivoluzione anarchica in grado di distruggere il presente e istituzionalizzare una politica teologicamente fondata e capace di far saltare il continuum della storia e di opporsi al decisionismo che stava all’origine della politica stessa. A tal proposito, lo scritto più importante è stato “Tesi sul concetto di storia” in cui egli ha fornito una nuova visione del materialismo storico. Secondo tale visione esso si poneva come obiettivo quello di riscattare il passato piuttosto che il futuro e di destrutturare la tradizione dei vincitori per far emergere la tradizione dei vinti. In questo periodo Benjamin si allontanò da Hegel su di una questione relativa al Giudizio: infatti per il primo filosofo erano gli uomini a giudicare la storia; per il secondo era la storia a giudicare gli uomini. L’ultima filosofia di Benjamin è stata segnata da una particolare concezione del tempo, in quanto egli non metteva in luce la continuità, bensì la discontinuità in modo da rivoluzionare – oltre che il modo di produzione e quello di filosofare- l’intero corso della storia. Egli era convinto che la speranza messianica (ossia di un radicale rivolgimento politico e sociale) non doveva essere concepita come un’utopia destinata a realizzarsi alla fine dei tempi, bensì come il presente (tempoora) perché in esso si rende visibile il processo frammentario e non continuo della storia e – di conseguenza – tale utopia poteva coincidere con una di queste linee (improvvisa e inaspettata) di sutura della storia. Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net/