numero 1 Luglio 2008 Editoriale Cari Soci, Vi presentiamo Sine Limite, il giornalino storico del MSOI Roma, nella sua veste completamente nuova sia nella grafica che nella struttura. Sine Limite rappresenta sicuramente il risultato di un Anno Sociale intenso ed impegnativo durante il quale il MSOI Roma ha realizzato progetti ed idee molto importanti e che ha visto non solo una sempre maggiore adesione al Movimento, ma soprattutto una costante partecipazione alle numerose attività che sono state pensate e organizzate. Come Consiglio Direttivo, possiamo ritenerci sicuramente soddisfatti del lavoro svolto in questo anno, durante il quale ci siamo ritrovati a voler diffondere maggiormente un interesse nei confronti di un movimento studentesco a vocazione internazionale. E ci siamo indubbiamente riusciti! Grazie alla SIOI ed al suo sostegno continuo, infatti, abbiamo potuto diffondere il senso del MSOI nelle varie Università di Roma (La Sapienza, Roma Tre, Luiss, Lumsa), suscitando un notevole interesse tra docenti e studenti; siamo stati inoltre accolti dalle principali Istituzioni politiche italiane, come il Quirinale, il Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati, ed internazionali, come il WTO; inoltre ci è stata concessa l’opportunità di partecipare agli eventi organizzati dalla SIOI e la stessa possibilità di realizzare in sede numerose conferenze su svariati temi concernenti problematiche internazionali. Tra queste la conferenza su “ I poteri noti e meno noti del Presidente della Repubblica”, con l’autorevole intervento del Prof. Tito Lucrezio Rizzo (Consigliere Capo Servizio della Presidenza della Repubblica), continua a pag.2 In questo numero: Tibet, la questione che scuote la Cina Piercarmine Pergamo “Il desiderio di libertà ancora brucia nel cuore di ogni tibetano, sia in Tibet che in esilio. È giunto il momento per gli esuli di dimostrare che, anche dopo 50 anni, desideriamo ancora tornare nella madre patria (…) nello spirito dell’insurrezione del 1959.” Queste sono le parole, l’obiettivo fissato nero su bianco nel proclama del Tibetan People’s Uprising Movement. continua … pag. 3 Il futuro dell'ONU in Somalia Mario Giuseppe Varrenti Le immagini dei “peacekeepers” americani trascinati nella polvere delle strade di Mogadiscio, così come rievocate nel cinema dal film Black Hawk Down (Ridley Scott, 2001) rappresentano ancora oggi un monito per la comunità internazionale. continua … pag. 5 Tibet, la questione che scuote la Cina – Piercarmine Pergamo – pag. 3 Il futuro dell'ONU in Somalia – Mario Giuseppe Varrenti – pag. 5 KOSOVO – Scenari post “indipendenza” – Edoardo Morgante – pag. 8 I Laogai: intervista a Toni Brandi – Eleonora Di Girolamo & Alessandra Pellino – pag. 10 Earth Day – Alessandra Pallottelli & Vanna Malatesta – pag. 11 World Food Program: un programma alimentare senza più cibo – Matteo Mirti – pag. 13 Camera dei Deputati: non solo affari interni – Alessandra Pallottelli & Deborah Hussain – pag. 15 Giornata al Senato: la politica estera nel Palazzo Madama – Silvia Giordano – pag. 16 Comparazione costituzione algerina e italiana: libertà religiosa – Antonio Nardelli – pag. 18 Un vertice “al di là delle aspettative” – Matteo Mirti – pag. 19 Seminari in collaborazione con l’Ambasciata USA – Valerio Romano – pag. 22 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 Editoriale …continua da pag.1 sulla libertà religiosa in chiave comparata ad un paese islamico come l’Algeria, con la partecipazione della Prof.ssa Maria Cristina Ivaldi e del Dott. Ahmed Temmar, e ancora sulle prospettive di uno sviluppo democratico nella Cina moderna, con l’intervento del Prof. Tito Lucrezio Rizzo, del Prof. Paolo Sellari e della Prof.ssa Valeria Patruno. Ma il nerbo delle attività del MSOI di quest’anno è stato sicuramente il ciclo di Seminari organizzati con l’Ambasciata Americana a Roma sul tema della politica interna USA e sui rapporti bilaterali Italia e USA. In questa occasione il Movimento è riuscito a stabilire una proficua collaborazione con l’Ambasciata Americana che oltre a decretare il successo di questa attività ci ha permesso di prevedere ulteriori ambiti nei quali realizzare progetti comuni. In tutte queste occasioni abbiamo avuto il privilegio di assistere ad interventi di Docenti o di Funzionari di altissimo livello, di visitare alcune delle principali sedi operanti nell’ambito internazionale ma soprattutto di acquisire una maggiore consapevolezza di quello che è il mondo delle relazioni Internazionali. Tutto questo è stato possibile certamente grazie alla rilevanza della SIOI ed al nostro esserne il suo ramo giovanile, alla passione che noi del Consiglio Direttivo abbiamo destinato nella realizzazione dei vari progetti, alla partecipazione costante di un soddisfacente numero di soci e all’impegno profuso in particolare da alcuni di Voi, che hanno reputato stimolante l’adesione ad un’attività alternativa e complementare agli studi universitari. È su questa direzione che abbiamo considerato l’idea di dar vita nuovamente al giornalino storico del MSOI, sulle basi proprio di questo Anno Sociale che ci ha reso manifesto il grande potenziale del Movimento. Sine Limite è il frutto del vivo interesse che la neo Redazione ha saputo suscitare in molti di Voi, rendendoli attivi protagonisti del Movimento. Scrivere un articolo in Sine Limite rappresenta un elemento importante non soltanto per il MSOI, in quanto vetrina sul Movimento e sulle sue attività, ma anche e soprattutto per gli autori che hanno così avuto l’opportunità da un lato di cimentarsi nell’attività giornalistica, dall’altro di approfondire gli argomenti di attualità di maggiore interesse. In seguito a questo primo nuovo numero auspichiamo certamente una partecipazione sempre più attiva sia ai prossimi numeri di Sine Limite sia alle attività del MSOI in generale. Ci teniamo dunque a ringraziare innanzitutto la SIOI, senza la quale il MSOI non esisterebbe e non avrebbe tale rilevanza, l’intera Redazione, in particolare Matteo, Pietro e Linda, per la loro dedizione nella realizzazione di tutto questo, e, perché no, tutto il Consiglio Direttivo del MSOI, sparso fisicamente nel mondo ma presente in ogni caso con il lavoro svolto e il sostegno ai “superstiti” romani. Il Consiglio Direttivo MSOI Roma Direzione Sine Limite: 00186 Roma P.zza S. Marco, 51 Sito Internet: www.msoi.org E-mail: [email protected] Redazione Sine Limite: Pietro Costanzo, Matteo Mirti, Eleonora Di Girolamo, Giada Dionisi, Silvia Giordano, Deborah Hussain , Vanna Malatesta, Edoardo Morgante, Antonio Nardelli, Alessandra Pallottelli, Alessandra Pellino, Piercarmine Pergamo, Mario Giuseppe Varrenti, Valerio Romano. Impaginazione Grafica: Linda Baranciuc Gli articoli pubblicati su questa rivista non rappresentano la posizione ufficiale del MSOI-SIOI ma sono libera espressione del pensiero degli autori. Questo giornale è stampato su carta certificata FSC, prodotta nel rispetto di rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. 2 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 Tibet, la questione che scuote la Cina Piercarmine Pergamo …continua da pag.1 D’altronde a distanza di tempo il Tibet rimane al centro di rivolte e proteste. Iniziati a marzo, i disordini di Lhasa vogliono riportare con fermezza e decisione la questione tibetana al centro del dibattito internazionale. La scelta di iniziare la campagna di proteste il 10 marzo, a 49 anni dalla prima insurrezione, è anch’esso un tassello della strategia scelta dagli organizzatori. Dimostrando oltretutto il fallimento del processo di sterilizzazione religiosa attuato dalla Cina. Questa volta, a differenza dei passati episodi di protesta, come quello storico del 1959 e quello del 1989, le manifestazioni che i tibetani cercano di mantenere sul piano della non-violenza sono accompagnate e canalizzate da una straordinaria copertura mediatica. Tanto da sorprendere sia le cinque organizzazioni non governative che affluiscono comunemente nel Tibetan People’s Uprising Movement, sia i cittadini e monaci per l’inaspettato e ampio interesse di stampa e televisioni. Così le olimpiadi 2008 si trasformano in spettacolare palcoscenico per il movimento indipendentista tibetano ed in una impensata insidia per il governo comunista cinese. I giochi dovevano anche, secondo l’establishment di regime riuscire a lavare via le macchie della protesta degli studenti a piazza Tienanmen dell’89, repressa sanguinosamente di fronte allo sguardo dell’intera comunità internazionale. Il regime, quando fu Pechino, nel 2001, a vincere la disputa per ospitare i giochi olimpici, aveva puntato moltissimo sulla modernizzazione di infrastrutture, sulla ristrutturazione dell’apparato statale e sul miglioramento della situazione dei diritti umani. Al suo interno ha promosso l’apertura, concedendo di viaggiare all’estero ai propri cittadini e lasciando ai reporter e giornalisti il libero movimento nel territorio nazionale,escludendo in un primo momento il Tibet e il vicino Sichuan, naturalmente. Pechino però, nelle passate settimane, per tentare di tener fede agli impegni olimpici sulla libera circolazione dei giornalisti, ha permesso una “visita orchestrata” dal governo, per un gruppo di giornalisti stranieri a Lhasa nel tempio jokhang, luogo simbolo delle proteste. Infatti la repressione cinese si è intensificata a cominciare dal 14 marzo, quando alcune centinaia di monaci di quel tempio si sono uniti in corteo e hanno cercato di sfondare il blocco di poliziotti in tenuta antisommossa. Quest’opportunità che doveva dare un’immagine di normalizzazione del Tibet è sfumata tristemente con la precipitosa incursione di trenta monaci, i quali hanno urlato frasi in mandarino, per farsi capire, come “Il Tibet non è libero! Il Tibet non è libero.” “Vogliono obbligarci a maledire il Dalai Lama.” “Il Dalai Lama non è responsabile della violenza.” Ed inoltre hanno rivelato che dentro il tempio jokhang le autorità sono riuscite ad infiltrare dei falsi monaci, gente iscritta al partito comunista, per usarli come interlocutori dei giornalisti. I religiosi sono riusciti a smascherare questa sceneggiata per la stampa estera. La scorta ufficiale, costretta ad intervenire, ha immediatamente allontanato il gruppo di reporter lasciando liberi i reparti della polizia popolare armata, in tenuta antisommossa, di circondare nuovamente il tempio e riportare il quartiere in isolamento totale. La gigantesca operazione d’immagine tentata da Hu Jintao per portare la Cina a potenza industriale e tecnologica, allo stesso livello, insomma, degli stati occidentali si è rivelata in una sterile ed infruttuosa apertura che ha costretto il regime all’usuale repressione del dissenso. Protesta di monaci 3 SINE LIMITE Tante sono le inadeguatezze delle politiche e gli errori del governo centrale, che invece di riprogettare azioni più attente nei confronti dell’originalità culturale della regione autonoma, ha messo in atto politiche di restrizione delle libertà religiose, indottrinamento politico forzato dei monaci, imposizione dell’abiura del Dalai Lama. Misure accompagnate da arresti e dure condanne per i dissidenti, con forte stimolo all’immigrazione han, etnia maggioritaria, in Tibet. Il contesto di restrizioni e nequizie cui i tibetani sono costretti non fa altro che rendere più rovente la situazione e meno remota l’alternativa del ricorso alla violenza, che come noto il movimento per l’indipendenza ha più volte tenuto a precisare di non comprendere tra gli strumenti di lotta. Il Tibetan People’s Uprising Movement rimane fedele ad una politica gandhiana di non violenza. Testimonianza ne è la”Marcia Verso il Tibet, progetto di enorme peso simbolico partito il 10 marzo da Dharamsala e diretta in Tibet attraverso Delhi. La marcia verso il Tibet Il Kashag, governo tibetano in esilio nell’India settentrionale dal 1959, ha in più momenti dimostrato incertezza sulla posizione da tenere rispetto alla marcia. Lo stesso Dalai Lama ha spezzato bruscamente la spinta ideologica chiedendo il 23 marzo ai 100 marciatori di fermarsi e non continuare verso il Tibet. L’indecisione delle posizioni assunte dai rappresentanti del governo in esilio, che non esitano a condannare azioni pacifiche come questa rischia solamente di confondere e dividere i giovani tibetani, e indurli su posizioni più radicali. Il ricorso a gesti estremi e alla violenza diverrebbe così di più concreta attuazione. Non vi è alcun dubbio che i media occidentali abbiano sfruttato la notevole popolarità di cui godono, negli ultimi decenni, il Dalai Lama e la causa tibetana. numero 1 - Luglio 2008 Se stampa e informazione avessero mantenuto toni meno enfatici e ostili verso Pechino, come si sarebbe orientata l’opinione pubblica? Quale sarebbe il punto di vista degli occidentali in materia? Nei nostri paesi la questione sarebbe rimasta, senza dubbio, carica di emotività a causa dell’enorme sensibilità con cui l’occidente, per i valori e i principi conquistati storicamente, si pone dinnanzi a questioni di indipendenza e autodeterminazione dei popoli. La convinzione, perciò è che anche il dibattito sul boicottaggio avrebbe mantenuto gli stessi toni. Per quanto riguarda le posizioni dei paesi occidentali sul boicottaggio, Usa e Inghilterra non diserterebbero i giochi rischiando di alterare gli equilibri diplomatici con un partner economico di primo rilievo come la Cina. Sia Washington che Londra hanno quindi confermato la presenza dei rispettivi capi di stato e di governo all’apertura dei giochi. Unica per ora ad aver preso in considerazione la possibilità del boicottaggio della cerimonia inaugurale, oltre che qualche paese dell’est Europa, è la Francia. Sarkozy ha infatti messo in forse la sua presenza l’8 agosto, data di inizio delle olimpiadi, mantenendo la linea in politica estera di non allineamento storico con cui la Francia da sempre intende discostarsi dalle posizioni unilaterali d’oltreoceano. Poiché a quell' epoca la Francia avrà la presidenza di turno dell' Unione europea, un'assenza di Sarkozy diventerebbe un gesto simbolo di distanza a nome di tutta l' Europa. Posizione un po’ azzardata. Tenendo presente che non ci sono governi disposti a sostenere in maniera convinta l’indipendenza del Tibet, sembrerebbe di si. L’auspicio è che trovandosi a discutere sulla possibilità di boicottaggio, i paesi membri valutino seriamente se e quanto gioverebbe tutto ciò a cinesi e tibetani essendo di rilevanza fondamentale per l’interruzione delle violenze l’apertura del dialogo e la comprensione tra le parti. Monaco arrestato 4 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 Il futuro dell'ONU in Somalia Mario Giuseppe Varrenti …continua da pag.1 Alle prime luci del 3 Ottobre 1993, il comando statunitense lanciò un raid segreto allo scopo di eliminare il generale Muhammad Farrah Aideed, uno dei signori della guerra tra i maggiori protagonisti della lotta fra bande in cui il paese era da due anni sprofondato. L’attacco fallì costando la vita a diciotto uomini; due elicotteri MH-60 Black Hawk vennero abbattuti, diventando il simbolo ed il nome con cui l’episodio verrà in seguito ricordato, in un libro nel 1999, come già accennato in un film nel 2001, persino in un videogame nel 2003, ma soprattutto nei circoli di politica internazionale. Uno spettro che a distanza di quindici anni ancora aleggia sull’eventuale ritorno di caschi blu in Somalia, ipotesi da qualche tempo al vaglio del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Somalia, uno stato fallito La Somalia è quello che viene comunemente definito uno “stato fallito”, una delle maggiori minacce alla sicurezza internazionale dei nostri giorni. La disintegrazione delle strutture statali fondamentali riporta la società ad uno stato che ricorda quello di natura hobbesiano, in cui nessuna autorità detiene più il legittimo monopolio della forza fisica sul territorio, in cui scompare ogni forma di implementazione della legge e la normale attività economica va al collasso, in una tale situazione il clan diventa l’unica struttura capace di provvedere a forme di sicurezza, e gli individui in esso cercano protezione. L’insicurezza è direttamente accompagnata da fenomeni di violenza e violazione dei diritti umani. Il collasso dello stato somalo si consumò nei primi anni ’90. Con la fine della guerra fredda e il venir meno delle logiche bipolari venne meno anche il sostegno esterno al governo di Said Barre, rimosso nel 1991. Il paese precipitò allora in una feroce lotta tra clan e bande rivali che fece impallidire la comunità internazionale. L’attività di aiuto umanitario condotta dall’operazione di peacekeeping UNOSOM I era resa impossibile dalla violenza della lotta civile. Spinto dagli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza, autorizzò allora una operazione di peace enforcement sotto il Capitolo VII della Carta (Operazione UNITAF). L’amministrazione Clinton, spinta da un’opinione pubblica indignata, decise il ritiro. Francia, Belgio e Svezia fecero lo stesso di lì a poco. Nel Maggio 1995, UNOSOM II veniva ufficialmente estinta. Le Nazioni Unite, e lo strumento del peacekeeping, che nei primi anni ’90 era stato rivitalizzato dall’attività del Segretario Generale Ghali, subirono uno smacco senza pari. Nella prima metà degli anni ’90, oltre al fallimento in Somalia, i massacri in Bosnia e il genocidio in Rwanda contribuirono a gettare ampio discredito sull’organizzazione mondiale. Il 5 Ottobre 1993, appena due giorni dopo Black Hawk Down, i rappresentanti del Consiglio di Sicurezza si sarebbero seduti al tavolo per discutere della situazione in Rwanda, dove allarmanti segnali di deterioramento facevano profilare la necessità di un dispiegamento di caschi blu. Durante le trattative, traumatizzata dei fatti in Somalia, la delegazione americana arrivò a proporre l’invio di un’iniqua forza di appena cento uomini, a fronte della richiesta del Segretariato di ben 8.000 unità. Un compromesso fu trovato in 2.500 peacekeepers che, come il volgere degli eventi dimostrò, non bastarono a prevenire uno dei più terribili massacri della nostra generazione. 5 SINE LIMITE L’intero istituto del peacekeeping si atrofizzò. Dal 1995 al 1998, il numero di caschi blu nel mondo sarebbe sceso da oltre 70.000 ad appena 10.000 unità. La riluttanza a porre i propri uomini sotto comando ONU sarebbe stata sentita negli anni a venire. Ancora oggi tutti questi ricordi pesano a sfavore di un ritorno dell’ONU a Mogadiscio. In seguito allo smantellamento di UNOSOM II, la Somalia fu lasciata a se stessa. Dal 1991 ci sono stati quattordici tentativi di creare un governo. Il governo federale di transizione, quello attualmente in carica e riconosciuto dalla comunità internazionale, fu costituito nel 2004 in Kenya. Nel 2005 il governo si insediò a Baidoa, nel sud della Somalia. Il suo esercizio del potere sul paese è stato blando. Il territorio compreso nello stato somalo del 1991 è ora diviso in quattro entità, il Somaliland, dichiaratosi indipendente nel 1991, il Puntland ed il Galmudug che hanno proclamato l’autonomia rispettivamente nel 1998 e nel 2007, e la regione del sud, comprendente la capitale Mogadiscio. Qui, nell’estate del 2006, imponendosi sui signori della guerra e sul governo di transizione di Yusuf (originario del Puntland), il partito Shabaab costituì il governo delle Corti Islamiche. Gli Stati Uniti lanciarono prontamente l’allarme e premettero per l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ad un intervento dell’alleato etiope. Nonostante le perplessità dell’UE e dello stesso Segretariato ONU, l’esercito di Addis Abeba entrò nella vicina Somalia e nel giro di qualche mese rovesciò il governo delle Corti Islamiche (Dicembre 2006). Dal Febbraio 2007 l’esercito etiope batte la bandiera dell’Unione Africana all’interno di una forza di peacekeeping che ancora oggi stenta ad assumere un carattere multinazionale. Sebbene anche Nigeria, Malawi e Ghana abbiano promesso supporto, per ora agli etiopi si sono aggiunti soltanto unità dal Burundi e dall’Uganda. Il parlamento somalo è al momento svuotato, il governo federale di transizione non può fare a meno del sostegno dell’esercito etiope. I signori della guerra, sui quali le Corti Islamiche avevano saputo imporsi, sono tornati a fare da padroni. La Somalia è frequentemente teatro di sequestri (tra cui anche il caso di due Italiani il 21 Maggio 2008), negli ultimi tempi si è anche assistito alla ricomparsa di fenomeni di pirateria (tra i più recenti il caso del peschereccio spagnolo Playa de Bakio, assalito il 22 Aprile 2008) e, nel contesto della recente crisi alimentare mondiale, di violente manifestazioni per la decisione da parte dei commercianti di accettare solo il dollaro e non più lo svalutato scellino somalo. La FAO ha osservato che la crisi alimentare potrebbe produrre un pericoloso deterioramento della situazione umanitaria nel paese. numero 1 - Luglio 2008 L’agenda americana Accanto all’Etiopia, sono gli Stati Uniti ad avere consistenti interessi in gioco in Somalia. Il radicalismo islamico è forte nel paese che secondo alcuni avrebbe ospitato persino Osama Bin Laden. La strategia americana poggia su due elementi: in primo luogo il supporto incondizionato all’Etiopia, in secondo luogo gli attacchi sporadici contro i quadri somali di Al Quaeda. L’ultimo il 1 Maggio 2008, quando un raid aereo ha portato all’uccisione di Aden Hashi Ayro, militante islamico addestrato in Afghanistan. Lo Shabaab, l’ala militare delle Corti Islamiche, radicato nella società somala e forte di un estesa rete di collegamenti, è stato in Marzo inserito nella lista nera USA delle organizzazioni terroristiche, causando per reazione una ondata di violenze e sequestri. L’atteggiamento americano verso il Corno d’Africa differisce oggi rispetto a quello dei primi anni ’90. Mentre l’operazione UNITAF, altrimenti conosciuta come Restore Hope, poteva rientrare nella dottrina dell’interventismo umanitario, la politica verso la Somalia oggi rientra decisamente nella logica della guerra al terrorismo, con tutte le limitazioni che questo approccio implica. L’intervento etiope e gli attacchi americani hanno certo portato a conseguire dei successi di breve termine, la caduta delle Corti e l’eliminazione di presunti vertici del terrorismo, ma non lasciano aperti spiragli di luce per il lungo periodo. Secondo Foreign Affairs, quello americano sarebbe un “approccio erratico e miope”, “la decisione di autorizzare l’intervento etiope senza una più larga strategia politica è stato un errore impressionante” che ha lasciato gli americani in una situazione spinosa. Non sono in pochi a comparare la presenza etiope in Somalia con quella americana in Iraq, in entrambe i casi non si intravede una strategia di uscita nel breve termine, in entrambe i casi i governi sembrano nella necessità di dover allargare il loro appoggio, quello di transizione in Somalia verso gli islamici moderati e il clan Hawiye. A ciò tuttavia si aggiunge un elemento di differenza che rende la situazione in Somalia ancora più allarmante, il timore di una escalation regionale. La Somalia ha già rappresentato teatro di scontro tra Asmara ed Addis Abeba, l’Eritrea ha rifornito militarmente sia le Corti Islamiche che l’ONFL (Fronte Nazionale di Liberazione dell’Ogaden) e l’OLF (Fronte di Liberazione Oromo), due gruppi che combattono per l’indipendenza dall’Etiopia. Si è trattato di uno scontro per procura che lancia allarmanti presagi sul futuro equilibrio della regione. Altra differenza è il ruolo importante giocato ora dall’Unione Africana, e probabilmente in futuro dall’ONU. 6 SINE LIMITE Il ritorno dell’ONU Il governo federale di transizione di Yusuf ha ripetutamente richiesto l’intervento delle Nazioni Unite. Nell’Agosto 2007 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto a Ban Ki-moon di preparare un rapporto sulla praticabilità di una operazione di pace. La richiesta ha incontrato le riserve del Segretario Generale, che si sarebbe tuttavia dichiarato pronto a raccomandare la presenza di 27.000 peacekeepers come uno dei possibili scenari per il rafforzamento della presenza ONU in Somalia. Una prospettiva che comunque appare di difficile attuabilità, si pensi che la più grande operazione di peacekeeping dell’ONU conta 17.000 uomini (MONUC nella Repubblica Democratica del Congo). Inoltre, per via del previsto dispiegamento in Ciad e Repubblica Centrale Africana, il peacekeeping in Africa è già a corto di 20.000 uomini. A Febbraio era stato richiesto al Consiglio di valutare la questione della Somalia, questo aveva però allora deciso di rimandare ogni decisione ed estendere di altri sei mesi il mandato della missione dell’Unione Africana. Un altro pronunciamento a favore di un ritorno dell’ONU in Somalia è venuto dall’Ambasciatore sudafricano presso le Nazioni Unite, Dumisani Kumalo. Egli ha dichiarato che la Carta parla di mantenere la pace e la sicurezza ovunque, senza dire “con eccezione della Somalia”. Ricordiamo che all’interno dell’Unione Africana, il Sudafrica ha una posizione tutt’altro che marginale. Pesa comunque sulle prospettive dell’ONU il fatto che la Somalia non è ancora un paese pacificato, gli scontri sono frequenti, e le intenzioni dei militanti verso le forze straniere per nulla rassicuranti. L’ultimo episodio risale a fine Maggio, quando un contingente di peacekeepers Ugandesi è stato attaccato a Mogadiscio. Le Corti Islamiche già nel 2006 avevano dichiarato di essere pronte a combattere ad ogni costo l’eventuale “invasione di peacekeepers ONU”. Nelle ultime settimane di Maggio la Gran Bretagna aveva fatto girare una bozza in cui si invitava il Consiglio ad accogliere il rapporto di Ban Ki Moon sulla preparazione di una forza per sostituire AMISOM con una missione ONU. La bozza raccomandava inoltre di spostare il comando della missione di monitoraggio ONU da Nairobi a Mogadiscio. Rimane tuttavia il diffuso scetticismo sulle possibilità di poter lanciare una operazione prima di avere assicurato un percorso di pacificazione al paese. Come già accennato, una soluzione in tal senso potrebbe essere quella di un accordo tra il governo federale di transizione e gli islamisti moderati, e dei segnali ci sono stati. numero 1 - Luglio 2008 Lo scorso anno, il presidente del governo federale provvisorio Yusuf, ottenne il passaggio di un emendamento che avrebbe permesso anche ai non esponenti del parlamento di poter entrare nel gabinetto di governo. Nel Novembre 2007, Nur Adde, ex poliziotto e capo della Mezzaluna Rossa Somala, è stato scelto per il posto di primo ministro. La sua disponibilità di apertura al dialogo ed il suo passato fuori dalla politica potrebbero costituire una valida carta per le sorti del governo federale di transizione. Lunedì 2 Giugno, i diplomatici del Consiglio di Sicurezza hanno organizzato un incontro tra il presidente somalo Yusuf e alcuni esponenti dei clan somali. Sebbene gli estremisti dello Shabaab abbiano rifiutato di partecipare all’incontro tenuto a Gibuti fintantoché l’esercito etiope non avrebbe lasciato la Somalia, il meeting può costituire un primo passo verso un accordo. Determinante in questo senso sarà anche la pressione su Yusuf dell’Etiopia, in un certo senso desiderosa di disimpegnarsi, e a sua volta l’influenza che su questa hanno gli Stati Uniti. Anche la Francia ha recentemente svolto un ruolo attivo nella questione somala. Il 2 Giugno il Consiglio di Sicurezza ha approvato una risoluzione, su iniziativa appunto franco-americana, che, in accordo col governo federale di transizione, permette alle navi da guerra di reprimere i fenomeni di pirateria fin dentro le acque territoriali somale. La proposta di risoluzione ha seguito la firma, all’inizio di Maggio durante una visita a Parigi, di un accordo tra il presidente Yusuf e Sacopex, una società militare privata francese, per la fornitura nell’arco di 36 mesi di assistenza in diversi settori, tra cui la creazione di una unità di guardia costiera, il rafforzamento del sistema di dogane marittime, il rafforzamento e la preparazione della guardia presidenziale. La crisi alimentare Da non dimenticare che al quadro generale della situazione in Somalia si aggiungono gli effetti deteriori della recente crisi alimentare mondiale. Una priorità cogente per la comunità internazionale è quella di approntare dei mezzi rapidi per sostenere l’emergenza. La FAO stima che con un aumento del 375% dei prezzi dei cereali, 2,6 milioni di somali, un terzo dell’intera popolazione ed il 40% in più rispetto a Gennaio, hanno ora bisogno di assistenza. Ed i primi ad essere colpiti sono sempre i più poveri. Non avendo risorse sufficienti per sfamarsi, i più indigenti sarebbero già stati costretti a vendere i beni più essenziali, aumentando in modo esponenziale le probabilità di una crisi umanitaria. Prospettiva questa che potrebbe vanificare ogni dialogo politico attualmente in corso. FOTO 7 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 Kosovo Scenari post “indipendenza” Edoardo Morgante Il 17 febbraio il Primo Ministro Hashim Thaçi dichiara unilateralmente, al centro dei Balcani, l’indipendenza di una regione poco più grande del Molise, in cui operano 16 mila militari della KFOR (di cui più di 2500 italiani) sotto mandato NATO, ciò che resta della UNMIK e le neo-costituite ICO ed EULEX, a guida UE. Dichiara, dunque, l’indipendenza di uno Stato che indipendente, di fatto, non è. E che, considerando il contesto alla luce delle ragioni che lo hanno reso tale, necessariamente non sarà, almeno entro breve termine. Alcune conseguenze rilevanti. senza considerare i mille contrasti sorti all’indomani dell’indipendenza degli stati africani dagli imperi coloniali a causa dell’assurdo metodo adottato per definirne i confini: a tavolino seguendo meridiani e paralleli… né le mille contraddizioni, di ancor più remota origine, insite nell’essenza stessa dell’idea di Nazione, e che interessano ancor oggi alcuni Stati europei, tra cui l’Italia. Nonostante questa reazione mostri, con estrema eloquenza, numerose possibilità di confronto, in molti si sono, più volte, riferiti all’indipendenza del Kosovo come ad un fatto sui generis. Pristina (Kosovo), 17 febbraio. Festeggiamenti in seguito all’annuncio pubblico dell’indipendenza Pristina (Kosovo), 17 febbraio. Fatmir Sejdiu (Presidente del Kosovo) firma la dichiarazione d’indipendenza sotto lo sguardo di Jakup Krasniqi (Presidente del Parlamento) e di Hashim Thaci (Primo Ministro) Il Kosovo “indipendente e democratico”, de iure, non esiste per tutti. Ad un mese dalla proclamazione della nascita dello Stato kosovaro, i Paesi che ne hanno riconosciuto l’esistenza sono 29, di cui 18 europei, con assenze significative: Russia, Spagna, Cipro, Israele, Cina, India, Giappone, gli stati confinanti eccetto l'Albania. Tra questi, alcuni sono spinti da “ragioni di ordine interno”, ossia dall’illusione di scongiurare, o almeno limitare, ripercussioni che la semi-legalizzazione internazionale dell’ auto proclamazione d’indipendenza potrebbe provocare all’interno dei loro confini, dal momento che comprendono minoranze etniche che non si identificano con l’entità statale sovrana. E’ il caso dei baschi in Spagna, dei turchi di Cipro, dei palestinesi in Israele, dei magiari in Romania, dei taiwanesi e dei tibetani in Cina, dei saharawi negli Stati settentrionali del continente africano, dei tamil in India… Il Kosovo, come il resto dei Balcani centrali, è una regione molto povera, sia di risorse che di infrastrutture, la cui unica speranza di sopravvivenza economica è legata al commercio internazionale. Tuttavia, risulta importantissimo per altre ragioni: è uno degli snodi principali delle rotte dei traffici dell’eroina, delle armi e degli esseri umani (donne e minori). Mitrovica (Kosovo settentrionale), 17 marzo. Attacchi contro forze ONU da parte di estremisti serbi ad un mese dalla proclamazione d’indipendenza 8 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 Molte delle paure che hanno alimentato il dibattito italiano sul Kosovo all’indomani dell’indipendenza sono legate ai vantaggi che le mafie trarranno dalla crisi di potere così innescata, che inevitabilmente interesserà sia gli ambiti istituzionali kosovari, con il riciclaggio di ex guerriglieri, terroristi e corrotti di ogni genere, sia il rapporto giurisdizionale tra questi e le missioni internazionali operanti sul territorio, pur avendo, il nuovo Stato, dichiarato di accettare il mantenimento della forza militare e della missione civile internazionale accordata a Kumanovo. La costituzione di un secondo Stato di etnia albanese, per giunta adiacente al primo, rappresenta un elemento non irrilevante nella prospettiva, piuttosto controversa, della sintesi di un unico grande Stato albanese che comprenda tutti i territori balcanici a maggioranza etnica albanese distribuiti, oltre che nella Valle di Presevo, ancora sotto il governo di Belgrado, in Montenegro (provincia di Podgorica), in Macedonia (provincia di Skopje) e in alcune zone della Grecia nordoccidentale. La “Grande Albania” sembra a molti tecnici della geopolitica una possibilità piuttosto remota, soprattutto data la debolezza dello Stato che dovrebbe guidare il processo. Una debolezza messa prevedibilmente a nudo dalle prese di posizione, nette, assunte dagli Usa e dalla Russia riguardo l’indipendenza di Pristina. Gli USA riconoscono il nuovo Stato. E’ stato scritto che gli USA hanno sfruttato con tempismo l’occasione d’oro per lavarsi le mani dalla polvere balcanica, o che da tempo si stessero muovendo per realizzare quella che ritengono essere la migliore soluzione possibile al problema Kosovo: nei fatti, si è verificata una coincidenza tra uno dei più naturali sviluppi possibili e il silenzioassenso della Superpotenza, per la quale una definitiva stabilizzazione geopolitica dell’area e una maggiore integrazione europea rappresentano più una minaccia che un improbabile passo verso un mondo migliore. La Russia, invece, si rivolge alla Serbia con profonda partecipazione emotiva. Non è un segreto che Mosca stia cercando di riavvicinare un’area da tempo perduta, a cui oggi anche l’UE guarda con crescente interesse, facendo leva, più che su simpatie ormai anacronistiche, sulle antipatie verso gli USA, radicate in anni di pressioni e guerre, e ancora diffuse, in primo luogo, tra i serbi. L’indipendenza del Kosovo costituisce, senz’altro, una ghiotta occasione per farsi un po’ di pubblicità e strappare qualche accordo da una posizione di vantaggio. Accordi fondamentali per la realizzazione di progetti, legati all’evoluzione dell’area, di interesse strategico primario per il Cremino. La posta in gioco è molto alta: bypassare definitivamente l’Ucraina con il gasdotto South Stream russo-bulgaro-serboungarico, realizzato da Gazprom e associati; controllare l’intero business downstream dei Balcani attraverso la messa a frutto delle opportunità di marketing e asset strategici offerte dallo sviluppo dell’oleodotto Costanza-Pancevo-Omisalj-TriesteGenova, di cui Gazpromneft controlla il tratto centrale serbo-bosniaco, e del bypass “ortodosso” russo-bulgaro-greco, risultato dell’opera di penetrazione a tutto campo condotta da Lukoil; contrastare l’adesione della Georgia alla NATO. Dall’autonomia all’intervento NATO Nel 1981, un anno dopo la morte di Tito, il Kosovo rivendica lo status di Repubblica autonoma sulla base della Costituzione della Federazione Jugoslava del 1974 che lo definiva provincia autonoma della Repubblica Serba. Nel 1989 Milosevic ne modifica il contenuto abolendo l’autonomia della regione. Nel marzo del 1990 divampa, coinvolgendo l’intera Federazione, una devastante guerra civile che termina solo nel novembre del 1995 con l’Accordo di Dayton, che tuttavia non affronta il problema kosovaro. Conseguenza di questa indifferenza da parte della Comunità Internazionale è la costituzione, nel 1996 dell’UCK: un’organizzazione di guerriglieri albanesi che si trasforma, in breve tempo, in movimento di liberazione nazionale. Nel 1997 si moltiplicano gli scontri tra UCK e nazionalisti serbi, che culminano nel gennaio 1999 col massacro di Racak. In seguito al fallimento del negoziato-ultimatum di Rambouillet, febbraio 1999, la NATO decide l’intervento militare, in via autonoma rispetto all’ONU, con lo scopo formale di porre fine alle gravi violazioni dei diritti umani commesse dal Governo Milosevic. Con l’accordo di Kumanovo, giugno 1999, Milosevic accetta l’introduzione di una forza militare e di una missione civile internazionale nel Kosovo. 9 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 I LAOGAI: INTERVISTA A TONI BRANDI Eleonora Di Girolamo & Alessandra Pellino Nel seguente articolo ci occuperemo della violazione dei diritti umani relativamente allo sfruttamento della forza lavoro, focalizzando l’attenzione sui Laogai cinesi. In proposito abbiamo intervistato il dottor Toni Brandi, Presidente della Laogai Research Foundation Onlus Italia, organizzazione impegnata nella diffusione dell’informazione sui Laogai. Quest’anno ha curato insieme con Maria Vittoria Cattanìa la pubblicazione del libro Cina. Traffici di morte, dell’edizione Guerini e Associati. In occasione di un suo breve soggiorno in Italia, lo abbiamo raggiunto nell’abitazione di Roma, il 15 maggio scorso. Nell’intervista si fa luce su un fenomeno sconosciuto alla maggior parte dell’opinione pubblica. D: Dottor Brandi, cosa sono i Laogai? R: la parola Laogai è una sigla ricavata da LAODONG GAIZAO DUI e significa riforma attraverso il lavoro, vennero inaugurati nel 1950 da Mao Zedong sul modello staliniano dei GU-LAG. Attualmente i Laogai sono più di mille, non se ne conosce il numero preciso perché coperto dal segreto di stato, così come il numero dei detenuti e delle esecuzioni. La funzione dei Laogai è duplice: fornire forza lavoro a costo zero, e ciò si spiega dalle terribili condizioni di vita nei campi e dall’orario estenuante di lavoro che arriva sino a 16 ore al giorno, ed inoltre c’è l’indottrinamento politico e l’autocritica. D: Di cosa si occupa la Laogai Research Foundation e chi è Harry Wu? R: La Laogai Reserach Foundation originale è stata fondata nel 1992 da Harry Wu a Washington e ricerca e diffonde notizie sulle violazioni dei diritti umani in Cina. Harry Wu è stato imprigionato per 19 anni in dieci diversi Laogai. Una volta rilasciato, nel febbraio del 1979, è riuscito, grazie all’aiuto della sorella e ad un Professore dell’Univesità di Barkeley in California, ad ottenere nel 1985 il visto per gli Stati Uniti, dove emigrò successivamente. All’inizio non ha voluto ricordare quanto successo, poi si è reso conto di dover denunciare in Occidente quello che accadeva in Cina. D: Quando ha conosciuto Harry Wu e ha deciso di impegnarsi in questa battaglia? R: Ho conosciuto Harry Wu nel 2005 e, insieme ad altri italiani, abbiamo deciso di fondare la Laogai Research Foundation Italia Onlus con lo scopo di denunciare la tragedia dei Laogai. curato da noi nell’edizione italiana. La Laogai Research Foundation ha pubblicato diversi libri in inglese sulla politica del figlio unico in Cina e un altro intitolato The Communist Charity, quest’ultimo D: Qual è la sede in Italia? R: La sede legale è la mia vecchia casa dei Parioli a Roma, attualmente siamo in tre o quattro, principalmente due, che giriamo l’Italia per fare conferenze, con circa 150 giornalisti che ci seguono e in totale 400 persone che collaborano con noi. D: Qual è il vostro strumento di diffusione dell’informazione? R: Ovviamente Internet. D: Come reperite le vostre risorse? R: Per il 95% provengono da me e per il restante 5% da donazioni di privati. D: I Laogai, elemento della macchina propagandistica cinese e funzionali all’economia nazionale: chi trae vantaggio da tutto ciò? R: Il regime comunista cinese e le grandi multinazionali occidentali che investono e producono in Cina. D: Secondo Lei, nel XXI secolo, in una Cina che si è aperta già da tempo al capitalismo e che si sta rapidamente modernizzando, è ancora necessario avere dei campi di rieducazione ideologica? R: L’obiettivo dei Laogai è cambiare le persone in persone socialiste. Nei Laogai sono rinchiusi oltre ai criminali comuni anche i dissidenti religiosi e politici. I detenuti devono, ogni giorno dopo l’orario di lavoro, frequentare delle lezioni di studio finalizzate a riformare la personalità. D: Nell’Handbook sui Laogai del 2003-2004, edito dalla Laogai Research Foundation di Washington, si parla di Jiuye, forced job placement, in cosa consiste? R: Al termine del periodo di detenzione, qualora l’impresa necessiti di forza lavoro, amministrativamente e senza dare alcuna giustificazione, la pena può essere prorogata di altri due o tre anni. 10 SINE LIMITE D: La stampa internazionale e le altre organizzazioni umanitarie quale posizione stanno assumendo? R: Amnesty International, Human Rights Watch e altre organizzazioni umanitarie internazionali hanno condannato il sistema dei Laogai, così come nel febbraio del 2005 è stato pubblicato un rapporto del gruppo di lavoro dell’Onu sull’imprigionamento illegale e il Comitato dei Diritti Sociali ed Economici delle Nazioni Unite ha chiesto l’abolizione del lavoro forzato. D: L’Unione Europea e l’Italia come si stanno comportando? R: Devo riconoscere che il Presidente del Parlamento Europeo, Pöttering, si sta mostrando molto sensibile al riguardo, ma il vero problema è che chi prende le decisioni è l’organo esecutivo, la Commissione europea. In Italia, invece, sono state presentate diverse interpellanze parlamentari, in una di queste, datata 27 novembre 2006, si chiedeva al governo italiano di intraprendere ogni sforzo affinché la legislazione sul lavoro in Cina si adegui rapidamente agli standards internazionali, considerando che la Cina è parte dell’ILO; il 30 ottobre 2007 sono passate in Parlamento tre mozioni contro i Laogai, presentate rispettivamente da Ulivo, Udc e An. numero 1 - Luglio 2008 D: Il boicottaggio, secondo Lei, è l’unica arma che abbiamo a disposizione? R: La Cina dipende da noi, i vertici dell’economia mondiale, se solo volessero, potrebbero fare qualcosa, semplicemente impedendo gli scambi con un paese che non rispetta le clausole sociali e ambientali contenute nei trattati che essa stessa ha firmato, ma non ha ratificato. D: Il singolo cittadino cosa può fare? R: Può fare poco e niente, oltre al problema di non riuscire a distinguere un prodotto realizzato nel rispetto di tutte le normative vigenti dagli altri, l’impossibilità è data dai costi: chi non ha grandi disponibilità si orienta sempre verso la scelta di un prodotto di basso costo. Ripeto è una questione essenzialmente politica. Oggi la politica è nelle mani della finanza, abbiamo bisogno di gente onesta e pulita. D: Per concludere, quali sono le sue aspettative e considerazioni future sulla tematica Laogai? R: Confido in voi giovani che potete cambiare la storia perché occorre mandare avanti una classe politica che mantenga le promesse fatte; spero che scriviate un bell’articolo, non arrendetevi! Earth Day: una giornata per non dimenticare il nostro pianeta Riflessioni sulle politiche ambientali USA e UE Alessandra Pallottelli & Vanna Malatesta D: E’ possibile distinguere un prodotto fabbricato nei Laogai da uno proveniente da una qualsiasi industria cinese? R: No, non è possibile perché ogni Laogai ha due nomi di modo che risulta impossibile identificare la provenienza del prodotto. Manca, inoltre, la volontà politica di fare qualcosa, di introdurre delle normative che impediscano fraintendimenti sull’etichettatura del prodotto ( ad esempio: il marchio CE corrispondente a Comunità Europea viene utilizzato in modo analogo per intendere China Export). D: E’ possibile parlare di un’etica nel commercio? R: Purtroppo è difficile parlare di un’etica nel commercio, posto che ogni decisione è subordinata alla ricerca del profitto. A livello internazionale, ad esempio, non si adottano norme che proibiscano la commercializzazione di prodotti realizzati con il lavoro forzato, al fine di evitare nuove forme di protezionismo. Il 22 aprile si e’ celebrato l’Earth Day, la giornata mondiale della Terra. E’ un appuntamento a cui gli ambientalisti di tutto il Mondo non rinunciano dal lontano 1970, quando, come reazione al disastro petrolifero che colpì la costa di Santa Barbara, il senatore Nelson organizzò una manifestazione a cui parteciparono 20 milioni di americani. Quale miglior modo di onorare questa ricorrenza se non discutendo di politica ambientale con due esperti del settore? Noi soci MSOI abbiamo avuto la fortuna di incontrare il professor William Andrew Blomquist (Dipartimento di Scienze Politiche dell’Indiana University-Purdue University) e il professor Raffaele Cadin (Scienze Politiche 11 SINE LIMITE dell’Università La Sapienza di Roma) presso l’Ambasciata USA in Italia. I temi affrontati dai due relatori sono stati l’evoluzione della politica ambientale statunitense, e le scelte adottate in materia dall’UE. Negli Stati Uniti, fino agli anni settanta, l’interesse verso la tutela del Pianeta e verso le problematiche legate all’inquinamento era pressoché inesistente, sia a livello di opinione pubblica che a livello di legislazione federale. E’ pur vero che il primo parco Nazionale della storia fu quello di Yellowstone (esteso in ben tre stati:Wyoming, Montana e Idaho) fondato nel 1872, numero 1 - Luglio 2008 e che l’attuale sistema di aree protette presente negli USA è il più grande del Mondo (390 unità)…ma ciò non derivava dalla consapevolezza di una connessione tra attività umana-ambientesalute. In realtà la natura era vista come un “paesaggio da cartolina”, lontano dall’uomo e dalla sua quotidianità. Non dimentichiamo che in quel tempo gli USA si stavano espandendo verso ovest, incontrando spazi sconfinati e incontaminati, che meritavano di rimanere tali (basti pensare alle cascate del Niagara e al deserto del Nevada). Solo alla fine degli anni sessanta, in seguito a vari disastri naturali che colpirono zone abitate, creando gravi rischi per la vita dell’uomo, maturò una sensibilità verso questi problemi, che sfociò nel già citato Earth Day. Sull’onda di questo neonato interesse “ecologista”, il Congresso varò una serie di provvedimenti volti a salvaguardare l’ambiente: NATIONAL ENVIRONMENTAL POLICY ACT (1970); FEDERAL PESTICIDE CONTROL ACT (1972); TOXIC SUBSTANCES CONTROL ACT (1974); DANGEROUS WILD ANIMALS ACT (1976). In soli cinque anni fu così creato un corpus normativo e delle agenzie governative(prima fra tutte l’EPA-Environmental Protection Agency) per una materia che riscuoteva sempre più attenzione da parte del popolo americano. A questa fase di proliferazione legislativa centrale ne seguì una di stallo in cui i vari Stati ebbero la possibilità di adattare i loro sistemi locali (caratteristica ciclica del sistema federale). Nel 1997 gli Stati Uniti firmarono sotto l’amministrazione Clinton il Protocollo di Kyoto, che imponeva una riduzione di emissioni di gas serra, ma non lo ratificarono. Al contrario l’Unione Europea ne è stata la principale sostenitrice, battendosi per la ratifica da parte degli stati 12 SINE LIMITE membri entro il 1 giugno 2002, cosa che poi si è verificata. Dal 16 febbraio 2005 il Protocollo è in vigore, ma già si parla di un Kyoto 2, come emerso dal vertice di Bali (dicembre 2007). Le due maggiori critiche avanzate dagli Stati Uniti sono servite come base negoziale per la discussione di un nuovo progetto. Sarebbe necessario allargarne i “confini spaziali”; come pensare, infatti, di salvare il pianeta senza l’impegno di paesi emergenti come Cina, India e Brasile che, con il loro sviluppo economico impetuoso, arriveranno a produrre nel 2025 la metà dei gas inquinanti del globo? Kyoto non prevede nessun obbligo se non per i paesi da lungo tempo industrializzati. In conclusione appare chiara la sostenibilità delle posizioni statunitensi, tuttavia è fondamentale seguire l’approccio multilaterale, sempre promosso dall’UE e troppo spesso ostacolato dagli USA. Sarà compito del nuovo inquilino della Casa Bianca rivedere le posizioni unilaterali del Paese, sempre più isolato dopo la ratifica del Protocollo di Kyoto da parte del governo laburista australiano. La promessa di un reinserimento degli Stati Uniti nel sistema internazionale di tutela ambientale, presente nei programmi elettorali del repubblicano John McCain, e del democratico Barack Obama, accende le speranze della comunità internazionale. IMPERATIVO 2008: RIDUZIONE DEL RISCALDAMENTO GLOBALE. Con la campagna “Call for climate” l’Earth Day network invita a telefonare ai propri politici per sensibilizzarli sull’argomento; la speranza negli Stati Uniti è arrivare ad un milione di contatti. Per l’Italia il numero da chiamare è: 06 67601(centralino della Camera). numero 1 - Luglio 2008 World Food Program: un programma alimentare senza più cibo Matteo Mirti Il palazzo messo a disposizione dall’Italia per ospitare la sede del World Food Program risale agli anni 80 e, seppur inserito in un contesto di uffici dall’aspetto “importante”, si ha la sensazione durante il tragitto dalla piccola Stazione delle linee locali, che si trovi in un contesto “distante” dalla “Città”. Così come l’edificio del WFP, anche l’argomento trattato durante l’incontro organizzato da MSOI Roma con la portavoce del PAM dott.ssa Vichi De Marchi, trattava di un problema sempre presente nei dibattiti internazionali, in particolare in tema di Cooperazione allo Sviluppo e di Aiuti ai Paesi in Via di Sviluppo, ma che spesso viene sentito anch’esso come “distante”. Tuttavia, le “difficoltà alimentari” suscitano negli ultimi mesi maggior interesse che in precedenza, a seguito dei vari rapporti rilasciati dalle varie Organizzazioni Internazionali interessate, dai quali emerge come il prezzo dei Prodotti Agricoli sia Aumentato di circa il doppio nel corso degli ultimi tre mesi. Rapporti che si sono concretizzati nella realtà delle agitazioni popolari che si susseguono in vari paesi quali la Somalia, dove la situazione alimentare continua a peggiorare mentre i cruenti scontri a Mogadiscio costringono mensilmente circa 20.000 persone ad “acquisir cittadinanza” nei campi profughi. In Kenya si è di fronte ad una crisi umanitaria che coinvolge più di 500.000 persone delle quali 207.000 residenti in campi profughi. 13 SINE LIMITE Situazioni ancor più gravi e per questo già note si hanno in Sudan, Darfur, Uganda e altri. In questi Stati i problemi alimentari se non sono ufficialmente “causati” da “Instabilità Politiche” sono da esse quantomeno enfatizzati. Il vulcano Oldogai, che con la sua eruzione ha provocato problemi all’agricoltura della Repubblica Unita della Tanzania sembra far presente, sottovoce, che tempi di “magri raccolti” sono naturali ma che lo stesso non debba dirsi di tempi di “magra lungimiranza”. Tra le cause rilevate e poste all’indice dalle varie OO.II. maggior incidenza sembrano avere, oltre al maggior costo del petrolio, altri fattori, per alcuni versi nuovi, quali: La competizione tra produzione per il consumo alimentare e produzione per le Bioenergie. L’espandersi delle produzioni OGM che, data la loro particolarità non vengono comunemente prodotte, commerciate, accettate come “aiuto”; trasformandosi in un elemento di disequilibrio del mercato cerealicolo Ulteriore causa addotta è la diversificazione della dieta in regioni asiatiche densamente popolate, ciò comporta uno squilibrio tra domanda e offerta. E’ stata poi rilevata l’influenza dei cambiamenti climatici verificatisi negli ultimi 20 anni, che hanno acutizzato, e spesso reso “catastrofici” i momenti di pioggia e di siccità, con ovvie ripercussioni su quelle agricolture strettamente legate ai Ritmi della Natura. Da ultimo, anche se sottovoce, viene posto sotto accusa il fenomeno della speculazione finanziaria. A fronte di tale situazione il WFP è intervenuto conformemente al suo ruolo all’interno del sistema delle OO.II. che si occupano di queste problematiche, legate alle N.U. , di cui fanno parte la FAO, e l’ IFAD. numero 1 - Luglio 2008 Come ci è stato illustrato nell’incontro con la dott.ssa Vichi de Marchi il WFP interviene in situazioni di crisi umanitarie, improvvise o durature che siano, portando un aiuto che concretamente tende ad affrontare ed ad attenuare l’impatto dei problemi alimentari sulle popolazione colpite. Da questo punto di vista, misura del problema in questione è data dall’aumento di richieste d’aiuto che il WFP riceve, nonché dalla necessità, per lo stesso di aumentare le proprie risorse economiche, risorse che si basano sui contributi dei vari paesi . Ma non è il solo WFP ad essere coinvolto da tale problematica. A vario titolo, con differenti motivazioni ed interessi nonché con differenti tempi di intervento, sono coinvolti Governi locali, OO.II., le Forze Sociali Prevalenti (ovvero i governi delle nazioni maggiormente) in grado di predisporre Strumenti idonei ad intervenire sulle cause del problema nel medio lungo periodo. Nell’immediato, al fine di attenuare l’impatto sulle Popolazioni, i locali Governi coinvolti, intervengono predisponendo le c.d. “Reti di Protezione Sociale“ consistenti in interventi economici a diretto favore delle popolazioni, nonché in riduzione della tassazione sull’import dei prodotti cerealicoli. Come detto il WFP è parte del sistema alimentare delle Nazioni Unite composto in oltre dalla FAO e dall’ IFAD. Queste due OO.II. si occupano rispettivamente di predisporre progetti a lungo termine miranti allo sviluppo dell’ agricoltura (FAO), e di offrire supporto economico alle varie OO.II. coinvolte nonché, tramite la forma del microcredito, ai piccoli agricoltori. Tuttavia come detto dal Comm. Europeo allo sviluppo, il belga Louis Michel, “questa non è una crisi alimentare classica ma di potere d’acquisto […] e nel medio e lungo termine è necessario aumentare l’offerta agricola”. Per tale ragione WFP, FAO, IFAD, poco possono fare senza un maggior interessamento dei governi. 14 SINE LIMITE Camera dei Deputati: non solo affari interni Una giornata al Servizio Affari Internazionali alla scoperta delle relazioni Internazionali del Parlamento Italiano. Alesandra Pallottelli & Deborah Hussain In occasione del Sessantesimo Anniversario dell’entrata in vigore della nostra Costituzione, il Movimento Studentesco per l’Organizzazione Internazionale ha promosso una serie di conferenze nel cuore delle Istituzioni repubblicane. Il 24 aprile scorso il MSOI con i suoi soci è approdato alla Camera dei Deputati, ricevuto dai funzionari del Servizio Affari Internazionali. Oggetto della discussione era quello di fornire un ampio quadro sull’attività del Parlamento nel settore delle Relazioni Internazionali e sulle modalità d’azione dei suoi organi e uffici. Il dott. Francesco Posteraro (Vice Segretario Generale della Camera) è intervenuto per primo evidenziando come negli ultimi quindici anni le attività di scambio di informazioni, assistenza e cooperazione della nostra Assemblea con quelle omologhe dei vari paesi del globo si sono intensificate, a livello tale da non poter più essere considerate trascurabili dai cultori della materia. Infatti, fino ai primi anni Novanta, la Camera era dotata di un semplice ufficio che si occupava dei rapporti con l’Unione Europea e delle delegazioni presso le organizzazioni internazionali più importanti; con un’evoluzione repentina quel settore non molto incisivo si è trasformato in una solida struttura amministrativa di supporto per il Presidente, per le varie Commissioni e per gli altri organi interni. Il Parlamento italiano in particolare negli ultimi anni ha acquisito un peso sempre maggiore forse comparabile a quello del Parlamento tedesco o del Congresso americano ed ha contribuito alla promozione e allo slancio della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti europei grazie anche al suo forte supporto amministrativo che ha permesso di inserire in modo coerente tutti gli organi della Camera nel settore delle Relazioni Internazionali. La dott.ssa Cassarino si è poi soffermata sulla composizione dell’ufficio Relazioni Internazionali. Vediamo dunque nel dettaglio come si esplica il sistema delle Relazioni Internazionali svolto dalla Camera, che non ha preferenze regionali ma riguarda tutte le aree geopolitiche. I rapporti bilaterali con le Assemblee legislative di paesi esteri sono rafforzati e resi stabili da protocolli di cooperazione bilaterali; quelli firmati finora sono 23. In attuazione di alcuni di questi protocolli si costituiscono delle apposite Commissioni formate da membri di entrambe le Assemblee, che si riuniscono annualmente per la discussione di temi internazionali e settoriali. numero 1 - Luglio 2008 Attualmente sono operative 13 commissioni, di cui 11 create nella XV legislatura. Sempre svolta bilateralmente è la cooperazione amministrativa sia con Parlamenti di esperienza datata, come l’Assemblea Nazionale francese o il Bundestag tedesco, sia con camere di paesi da poco affacciatisi alla democrazia,per rafforzare e rendere efficienti le loro istituzioni rappresentative (paesi balcanici, dell’Africa, del Medio Oriente, ecc). I rapporti multilaterali avvengono mediante delegazioni presso le assemblee parlamentari internazionali del Consiglio d’Europa (CdE), dell’Alleanza Atlantica (NATO), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Iniziativa Centro Europea (INCE) e dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea (APEM). Le delegazioni italiane sono composte da deputati e senatori designati dai gruppi parlamentari proporzionalmente ai gruppi stessi (mediante nomina o elezione) e sono organi delle relative assemblee internazionali. Le assemblee approvano risoluzioni, raccomandazioni e pareri, trasmessi ai parlamenti e ai governi degli stati membri, affinché adottino provvedimenti necessari alla loro attuazione. Va sottolineato che si tratta di un’attività distaccata e diversa da quella propria della politica estera,a cui infatti è preposto il suddetto Ministero e la Commissione Affari Esteri coordinata con il Governo, essendo il Parlamento un organo dello Stato indipendente. L’indirizzo da seguire e le autorizzazioni per tutti gli incontri sono forniti dal Presidente della Camera, che assicura così l’uniformità d’azione necessaria. Comunque nella prassi, le linee guida seguite nelle relazioni con i parlamenti esteri e con le organizzazioni internazionali non si discostano da quelle seguite dalla politica estera governativa. Gli organi della Camera nei primi due anni hanno effettuato una media di 600 incontri internazionali l’anno. Nell’ambito delle relazioni bilaterali si inseriscono i protocolli di collaborazione bilaterale che spesso prevedono l’istituzione di commissioni di gruppi di deputati che svolgono attività di collaborazione con i paesi stranieri su temi specifici attraverso il confronto tra le due legislazioni. I deputati partecipano anche a missioni di osservazioni elettorali per la promozione della democrazia e dei diritti umani,in questo ambito l’OSCE svolge in particolare attività di monitoraggio elettorale in tutti i paese aderenti fra i quali l’Italia. Un altro settore importante è quello della cooperazione euro mediterranea nonché l’ambito delle conferenze internazionali a cui la camera partecipa attraverso delegazioni di deputati. Le delegazioni parlamentari sono in tutto cinque: Consiglio d’Europa,UEO,NATO,OSCE,INCE. La loro attività si svolge prevalentemente nell’emanazione di risoluzioni, raccomandazioni o 15 SINE LIMITE numero 1 - Luglio 2008 Giornata al Senato: la politica estera nel Palazzo Madama direttive su temi specifici. Il Consiglio d’Europa è l’organo più importante insieme alla NATO. Le delegazioni sono organismi bilaterali formate da 18 deputati e 18 senatori e non esauriscono la loro attività con la legislatura ma solitamente hanno una proroga di 6 mesi per assicurare una continuità della rappresentanza italiana nel panorama internazionale. La dott.ssa Califano si è ulteriormente soffermata ad illustrare più dettagliatamente l’attività della NATO dell’OSCE e dell’INCE. Periodicamente si svolgono conferenze dei presidenti di assemblea per la ricerca di soluzioni condivise a problematiche comuni. Le prossime conferenze in previsione sono: dell’Unione Europea (Lisbona giugno 2008); delle Assemblee parlamentari europee (Strasburgo maggio 2008); delle Camere basse dei paesi del G8 (Hiroshima settembre 2008, Roma nel 2009); dei paesi euromediterranei; dei paesi aderenti all’iniziativa adriatico-ionica (edizione 2008 in Croazia, 2009 in Italia); Conferenza mondiale dei Presidenti dei Parlamenti UIP in ambito ONU, che si riunisce ogni 5 anni a New York (la prossima nel settembre 2010). Inoltre, si svolgono conferenze interparlamentari tematiche organizzate da parlamenti nazionali, a cui la Camera è invitata a partecipare. In tutti questi consessi l’Italia svolge un ruolo di primo piano, basti pensare che il Presidente dell’Unione Interparlamentare Mondiale per il triennio 2005-2008 è Pier Ferdinando Casini. Queste possono anche essere considerate ulteriori sedi di discussione per stati lontani ideologicamente e su importanti questioni di politica internazionale. Il contatto tra le classi politiche di più paesi non è però solo un aspetto delle relazioni internazionali, ma anche un’occasione di confronto culturale e di formazione professionale utili ai parlamentari di tutto il mondo, per farli uscire dal “provincialismo” di cui sono spesso accusati soprattutto quelli italiani. Ecco poi un modo per far partecipare le opposizioni al dibattito internazionale, restituendo democraticità per colmare il deficit imputato all’UE. IL SITO. Si possono reperire informazioni aggiornate sulle attività estere della Camera discusse finora navigando sul suo sito www.camera.it. Dalla home page cliccate sulla sezione “EUROPA-ESTERO” e date spazio alla vostra curiosità! Silvia Giordano In occasione del 60° Anniversario della Costituzione, il MSOI ha organizzato una serie di incontri presso le Istituzioni politiche italiane che hanno proiezione all’estero. In questa direzione, al Presidenza della Repubblica e le due Camere del Parlamento, risultano le più interessanti, al fine di scoprire le potenzialità di organi che, ufficialmente si occupano di politica interna, ma che hanno anche un ruolo fondamentale nella definizione della politica estera dello Stato italiano. L’8 febbraio il MSOI Roma ha partecipato alla Giornata del Senato che si è articolata in due momenti: la mattina si è svolta una conferenza, tenuta da alcuni responsabili del Servizio Affari Internazionali, presso una delle sale più grandi della Biblioteca del Senato in Piazza Minerva; nel pomeriggio è seguita la visita presso Palazzo Madama, uno dei palazzi più antichi e prestigiosi di Roma. Grazie alla compagnia di una guida del Palazzo, siamo riusciti a comprendere i veri meccanismi del cerimoniale: i segreti per riconoscere i parlamentari differenti in ogni legislatura, con un particolare opuscolo che indica nome, gruppo politico e soprattutto fotografia, il ruolo di ogni stanza del palazzo, anche quelle più nascoste e di solito non facenti parte di una visita guidata. E via via addentrandoci nelle parti più “calde” di Palazzo Madama, fino all’Aula, incredibilmente affascinante, nel quale i vari schieramenti trovano un proprio collocamento, e dove giorni prima il Governo era caduto. Il seggiolino del misfatto, dello champagne e della mortadella, si trovava proprio sotto i nostri occhi. In realtà, come abbiamo facilmente compreso, quello si trattava di un ennesimo episodio di disordine, quasi di routine nell’Aula del Senato, come della Camera, come illustratoci dalla nostra guida. Il Senato, come detto, non ha soltanto un potere pregnante nella politica interna ma anche in politica estera. Il Vice-Segretario Generale del Senato Avv. Giuseppe Castiglia, che ha accolto la delegazione di circa trenta studenti del MSOI Roma, ha spiegato come il motore del potere estero sia, per ragioni storiche e logistiche, di esigenze di rapidità d’azione, segretezza e unità, il Governo, che più incarna le caratteristiche idonee per esercitarlo. Nella nostra forma di governo, di tipo parlamentare, il Governo deve però rispondere al Parlamento, fin dal suo insediamento e, nel caso degli affari esterni, per la stipulazione di accordi internazionali o la partecipazione ad organizzazioni internazionali. 16 SINE LIMITE Fin dall’adesione al Patto Atlantico, il numero delle discussioni in sede parlamentare sono aumentate a dismisura, sino alle crisi di governo succedutesi proprio in materia di politica estera. Il Vice-Segretario Castiglia ha illustrato alla sua giovane audience una serie di esperienze significative, che hanno gradualmente portato a un cambiamento del ruolo del Parlamento, sempre più presente nella sfera internazionale. Uno tra gli esempi rilevanti di attività internazionale delle Camere è sicuramente l’Unione Interparlamentare, una vera e propria organizzazione internazionale che riunisce i rappresentanti dei Parlamenti di centocinquanta paesi e che ha trovato in Italia uno dei suoi padri fondatori, l’On. Giulio Andreotti. L’attuale Presidente, con un solo mandato per una durata di tre anni, è l’On. Pier Ferdinando Casini, a sottolineare ancora una volta il ruolo di primo piano del sistema italiano in questo campo. Nel prosieguo della conferenza, i tre funzionari del Senato hanno definito un quadro del ruolo della Seconda Camera del Parlamento italiano nella politica estera. La Dott.ssa Agostini, Responsabile Servizio Affari Internazionali del Senato, ha illustrato nel dettaglio le attività internazionali del Senato, cominciando da un excursus storico-giuridico degli articoli della Costituzione che disciplinano le competenze di politica estera. Da una parte la delimitazione delle competenze a livello nazionale, dall’altra anche un rafforzamento della dimensione parlamentare anche a livello europeo, seppur gradualmente, dal Trattato di Roma del 1957 al Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, e in fase di ratifica nei vari Stati membri dell’Unione Europea e nonostante il risultato negativo del referendum irlandese, che ha posto le basi per una nuova crisi in seno al processo costituente europeo. Del processo di adeguamento delle disposizioni dei Trattati e sul potenziamento dei Parlamenti ne ha parlato, in maniera chiara e allo stesso tempo dinamica, il Dott. Gianniti, Responsabile Ufficio Europeo del Senato, che ha da subito reso manifesta la mancanza nell’ordinamento nazionale di una disposizione costituzionale che renda effettiva l’integrazione europea, a differenza di molti paesi che hanno subito adeguato il loro sistema alla nuova organizzazione sopranazionale. numero 1 - Luglio 2008 Oltre alle disposizioni costituzionali e legislative, nella prassi si è sviluppata una forma alternativa di intervento parlamentare, più nota come diplomazia parlamentare, che rappresenta un canale privilegiato, seppur alternativo, della politica estera, i cui attori, i parlamentari, si trovano così a contatto direttamente con le situazioni e gli interlocutori dei paesi esteri con cui lo Stato italiano interagisce. Indagini conoscitive, incontri con personalità estere, interventi ad alcune conferenze intergovernative, partecipazione strutturata alle Assemblee Parlamentari internazionali, ecc.; tutte queste attività rientrano nella sfera internazionale del Parlamento, e in particolare del Senato, in un momento storico in cui il dialogo tra Stati supera la via ufficiale e istituzionale per favorire un legame più profondo con la base democratica, cioè la società civile. La Dott.ssa Lai, Responsabile della Delegazione del Senato presso la NATO, ha illustrato il sistema delle delegazioni parlamentari, generalmente bicamerali. L’Italia è membro di cinque Assemblee Parlamentari: Consiglio d’Europa, UEO (Unione dell’Europa Occidentale), OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), INCE (Iniziativa Centro Europa) e NATO (Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico), una delle sedi di dialogo parlamentare più attive. Riguardo al bacino mediterraneo, di grande interesse soprattutto per l’Italia, la dimensione parlamentare ha assunto un ruolo pregnante, non solo nella NATO, con il Gruppo Speciale Mediterraneo, ma soprattutto con l’Assemblea Parlamentare Euro-Mediterranea (APEM). Il Partenariato Euro-Mediterraneo, o Processo di Barcellona, è nato nel 1995 e a tutt’oggi riunisce trentanove membri, i ventisette Stati membri dell’UE e dodici paesi mediterranei (Albania, Algeria, Autorità Palestinese, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Mauritania, Tunisia, Siria e Turchia). La posizione di rilievo dell’APEM risulta chiara dal ruolo di “apri-pista” che questa ha assunto nel dialogo tra Stati come Israele, Palestina e Siria, che politicamente 17 SINE LIMITE risentono di equilibri precari, dovuti all’insanabile questione israelo-palestinese e all’aggravarsi della situazione con l’esponenziale sviluppo del terrorismo islamico. Grazie alla sede parlamentare del Processo di Barcellona infatti hanno trovato un pacifico confronto, seppur con difficoltà e ostacoli, entità politicamente opposte, per la definizione di una politica comune diretta alla salvaguardia del Mediterraneo, come area storicamente e culturalmente legata, ma politicamente attanagliata da difficoltà. Numerose critiche sono state avanzate nei confronti delle attività internazionali delle Camere, in relazione soprattutto al tema dei costi della politica, ma queste vengono meno nel momento in cui si stila un bilancio dei risultati che la cooperazione parlamentare è riuscita ad ottenere, e continua a farlo, anche in condizioni difficilmente gestibili, come nel caso del Partenariato EuroMediterraneo. È indubbio come il canale parlamentare sia risultato infatti privilegiato nella creazione di dialoghi tra Stati sovrani, come quelli del bacino mediterraneo, le cui vie ufficiali hanno spesso evidenziato forti mancanze. Per un quadro delle prospettive e degli effettivi spazi che la dimensione parlamentare può intraprendere in quest’area, bisogna attendere gli sviluppi del Vertice di Parigi del 13-14 luglio, in cui saranno definite le linee del nuovo progetto di cooperazione internazionale nel Mediterraneo, promosso dal Presidente francese Nicolas Sarkozy, e stabilito ormai nel raggio d’azione europeo. Comparazione costituzione algerina e italiana: liberta’ religiosa Antonio Nardelli In occasione della celebrazione dei sessant’anni della Costituzione Italiana, tra le attività svolte, il gruppo giovanile della SIOI ha organizzato una tavola rotonda che aveva come protagonisti Monsieur Ahmed Temmar -Dottore in Legge presso l’università di Blida (Algeria),esperto in diritto costituzionale e in diritto internazionale pubblico- la Prof.ssa Maria Cristina Ivaldi -docente docente Diritto ecclesiastico, Dottore di ricerca in materie ecclesiastiche alla facoltà di Scienze Politiche della Sapienza (Roma)- e naturalmente gli studenti del Movimento. L’obiettivo è stato quello di affrontare il tema della libertà religiosa, comparando la costituzione algerina a quella italiana. L’intervento del dott. Temmar si è focalizzato sulle varie tappe che hanno portato, dall’indipendenza del 1962 ad oggi, all’adozione di quattro diverse Carte Costituzionali. Premettendo che in tutte l’Islam è religione di Stato, numero 1 - Luglio 2008 in quella del 1963 ci si è soffermati sugli articoli 4 e 10: l’articolo 4 sottolinea la tolleranza di altre forme religiose, l’articolo 10 invece mira a combattere discriminazioni di razza, sesso e religione; e soprattutto afferma la libertà religiosa unicamente per la presenza di un nutrito drappello di ex colonizzatori europei, perlopiù francesi. Nella Costituzione del 1976 non ci sono indicazioni precise circa la libertà religiosa. Ambedue le Carte Costituzionali -continua Temmarsono programmatiche in quanto concretizzano un’ideologia, quella socialista. Il cammino democratico del giovane Stato compie un passo in avanti quando il partito socialista sancisce la separazione tra Stato e partito. L’articolo 28 della Costituzione del 1989 sottolinea il divieto di discriminazione per razza, sesso e opinioni. La libertà religiosa non è espressamente menzionata ma si considera compresa in quella di opinione. In più può essere eletto Presidente solo una persona nata in Algeria e di religione musulmana. In conclusione , la Costituzione del 1996, così come le Carte Costituzionali precedenti, decreta in sostanza l’Islam come religione di Stato, ed anche in questo caso la libertà religiosa è garantita in modo indiretto, inserita in quella di opinione. D’altra parte, in quest’ultima Carta Costituzionale, è evidente la contrapposizione tra gli articoli che indicano l’Islam come religione di Stato e quelli che assicurano, anche se indirettamente, la libertà confessionale. Concretamente in Algeria esistono molte chiese, ma in realtà nessuno è stato mai perseguitato per motivi religiosi; pertanto, anche se in maniera indiretta, la libertà religiosa è riconosciuta. Infine lo studioso mette in evidenza come la legislazione algerina sia pienamente ispirata a quella francese, fatta eccezione per il “codice della famiglia”, introdotto nel 1984, che invece si rifà alla sharia - termine che si usa per riferirsi alla Legge, per l'Islam è d'origine divina, contenuta nel Corano e nella Sunna del fondatore dell'Islam, Maometto- a seguito di varie pressioni dell’ala islamica. La professoressa Ivaldi interviene soffermandosi sul concetto di laicità, sottolineando la concezione italiana, racchiusa nella sentenza della Corte Costituzionale 203/1989, e quella francese. La prima evidenzia la neutralità dello Stato rispetto alle scelte religiose dei cittadini, ma esprime un favor religionis, cioè un favore verso per chi è religioso; la concezione francese invece relega la religione nella sfera privata del cittadino: ad esempio il solo tipo di matrimonio valido è quello civile, persino il codice penale punisce il sacerdote o altro ministro di culto che celebra prima il matrimonio religioso. Ciò è in contraddizione con il concordato del 1801, stipulato da Napoleone, che è tutt’ora in vigore in alcune regioni, tra cui l’Alsazia. Discutibili, inoltre, sono le leggi recenti che vietano simboli religiosi, come ad esempio il velo. 18 SINE LIMITE Un vertice “al di là delle aspettative” Matteo Mirti Nel momento in cui gli affamati si cibano di armi, si indicono “Vertici ad alto livello” che ormai altro non fanno se non ricordarsi che un vecchio dissenziente dell’ordine economico internazionale vi è sempre stato. Tuttavia oggi il suo dissenso viene ascoltato, per timore o consapevolezza che in fondo le ragioni di quel dissenso potrebbero divenire anche nostre. Vi è la infatti la consapevolezza che non si tratta di una crisi alimentare classica ma di potere d’acquisto, e di come ciò tocchi non solo paesi notoriamente o storicamente in difficoltà ma anche quei paesi ritenuti economicamente sicuri, poiché il problema consiste nella necessità di aumentare la quantità del “bene cibo” Tale consapevolezza ha portato Capi di Stato e di Governo ad incontrarsi nel vertice FAO tenutosi a Roma il 3/4/5 giugno 2008. Nei vari interventi che si sono susseguiti nel corso del vertice, è possibile notare, come d’altronde è naturale che sia, le diverse posizioni assunte dai vari soggetti interessati. Il vertice è stato aperto dal Presidente della Repubblica Italiana, il quale fa presente come sia necessario che lo Stato in quanto tale si assuma maggiori responsabilità, ricoprendo un ruolo maggiormente attivo, ritenendo che il solo sistema economico, le sole regole del mercato economico, pur se dotate di virtù equilibratrici, non siano in grado da sole di affrontare e risolvere una situazione di crisi generata da cause che non sembrano riconducibili alle sole dinamiche economiche. Anche se da un punto di vista prettamente economico, peraltro obbligato dalla situazione di emergenza e dal compito di fronteggiare tale emergenza, che è ad essi proprio, sia il segretario generale delle N.U. sia il direttore della FAO nei loro interventi hanno chiesto un maggiore impegno finanziario dei governi nello stanziamento dei fondi da destinare alla gestione della crisi. numero 1 - Luglio 2008 I due organismi internazionali si trovano nella poco piacevole posizione di essere gravati del compito, a loro demandato dalla comunità internazionale in quanto tale, di gestire tali problematiche al fine di cogliere gli obbiettivi del millennium goals; tuttavia le azioni che intraprendono a tal fine sono strettamente vincolate dalle decisioni che gli Stati assumono, in quanto enti sovrani e finanziatori. Non a caso, infatti, i loro interventi hanno sottolineato da una parte la drastica diminuzione di finanziamenti avutasi negli ultimi anni e dall’altra i comportamenti protezionistici assunti dai vari governi, in materia. A tale richiesta non potevano non rispondere positivamente i governi delle maggiori nazioni, soprattutto europee. Sia per una base culturale di queste ultime caratterizzata da una maggiore sensibilità ai diritti dell’uomo che, se interpretati estensivamente comprendono tali problematiche, sia per una situazione agraria dell’UE per alcuni versi incerta. Il Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana nel suo intervento ha proposto di non conteggiare nei bilanci UE gli aiuti umanitari stanziati dai singoli governi. Proposta che appare efficace al fine di affrontare l’emergenza, tanto che ha trovato appoggio da parte della Francia, (la quale a sua volta oltre a promettere nuovi fondi propone una commissione di esperti su tutti i campi per studiare il problema ) e il plauso da parte dell’ ONU e della FAO che vedono in essa una concreta possibilità di risposta alle loro richieste di finanziamenti. Un vertice ad alto livello avente ad oggetto il problema della fame nel mondo, non poteva non lasciare spazio agli interventi dei rappresentanti di quei popoli che vedono la propria personalità manifestarsi agli occhi del mondo con i caratteri propri della fame. Ma la fame è causa di debolezza. E tali sono stati molti dei loro interventi che si sono risolti nell’auspicare pace per quei popoli. Tuttavia alcuni hanno con forza rivendicato una più lusinghiera considerazione da parte delle OO.II.. ( vedi intervento del presidente del Senegal), mentre altri, come il Presidente Mugabe, non hanno esitato ad indicar nei comportamenti tenuti nei loro confronti da alcuni stati come la GB la causa delle loro difficoltà umanitarie. Sebbene molti di tali stati soffrano non solo di crisi umanitarie ma soprattutto di crisi democratiche (Mugabe è già da tempo considerato “persona non gradita” presso molti Stati ) le posizioni da loro assunte e testè ricordate pongono il dubbio circa la reale capacità di alcuni aspetti strutturali del sistema internazionale di governare in maniera equilibrata l’interazioni tra i vari soggetti che compongono la comunità internazionale. Dubbio che si può scorgere anche nelle parole, volutamente provocatorie, del presidente Iraniano. 19 SINE LIMITE Ulteriore indizio a conferma della fondatezza di tali dubbi è rappresentato dalle parole di Luca Alinovi , economista senior della FAO, che prendendo atto delle molte idee e iniziative emerse durante il vertice si pone il problema se queste servano a snellire e salvare la struttura alimentare dell’ONU (FAO, PAM, IFAD ) o a renderla inoperante, e ciò, anche se qui il problema viene visto da un particolare punto di vista, per aspetti strutturali del sistema che non sembrano in grado di funzionare correttamente. Il vertice non è stato appannaggio dei solo rappresentanti degli stati, non essendo questi ultimi i soli soggetti interessati da tali problematiche. Questi anzi sembrano sempre più ricoprire un ruolo secondario nel processo di crescita di un mondo globalizato come è quello attuale, che vede l’economia assumere un ruolo sempre più rilevante nei processi decisionali. L’economia presa in sé ha un che di astratto e poco definito, tuttavia nel corso del vertice sono emersi chiaramente alcuni aspetti di essa considerati come possibili artefici del problema in questione. L’influenza del settore energetico nelle economie dei vari paesi spinge, già da alcuni anni, la ricerca di fonti energetiche alternative principalmente al petrolio. Alternativa che è stata individuata nei biocarburanti. Questi vengono considerati tra le principali cause dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli registrati negli ultimi anni, tanto che hanno occupato un ruolo centrale nel dibattito. Tuttavia si registrano anche posizioni a difesa di questi. In questo senso è andato l’intervento del Presidente Brasiliano Lula che ha rivestito i panni dell’avvocato difensore dei biocarburanti . Difesa, nella sostanza di una delle principali voci economiche del Brasile, ovvero il bioetanolo ricavato però dalla canna da zucchero. Proprio su questa differenza si è basata la linea difensiva predisposta da Lula e tendente a dimostrare come le“capacità energetiche” proprie numero 1 - Luglio 2008 della canna da zucchero, maggiori di quelle proprie dei cereali, facciano si che siano necessari minori superfici agricole da destinare alla loro produzione, senza così influire sulla produzione di cereali per il consumo. Tutto ciò non è valso ad alleggerire la posizione dei biocarburanti a cui viene contestato, da una parte, la capacità di costituire una valida alternativa al petrolio, come afferma tra gli altri, Stefan Targemann, direttore OCSE per il commercio e l’ agricoltura. Da un diverso e più rilevante punto di vista, i biocarburanti vengono attaccati indirettamente. Nello specifico si contestano gli incentivi alla produzione dei biocarburanti promossi da molti paesi, tra i quali gli Stati Uniti, ove forte in tal senso è stata la spinta dei movimenti ambientalisti e dei così detti “falchi Nazionalisti”. Preoccupati i primi di trovare un’alternativa all’inquinante petrolio, i secondi di rendere energicamente indipendente la propria nazione con il risultato di rafforzarla economicamente. Secondo Jaques Diouf sono state proprio tali politiche attuate in passato a far si che circa 100 milioni di tonnellate di cereali passassero dal consumo umano alla produzione di biocarburanti. Tuttavia destinare del grano alla produzione di biocarburanti anziché al consumo umano da solo non può spiegare come e perché attualmente vi sia un problema di materiale carenza di cibo. I cambiamenti climatici, anch’essi indicati tra le cause della crisi, permettono di spiegare il perché di mancati raccolti e conseguenti diminuzioni di scorte alimentari, ma non permettono di capire a fondo il problema. Se il problema riguarda la sproporzione tra le persone da sfamare e le quantità di cibo a ciò destinate, aspetto di sicuro rilievo non può che essere rappresentato dall’aumento della popolazione in zone come l’India e la Cina.. L’innalzamento del tenore di vita in queste aree fa si che un numero sempre più consistente di persone che in passato potevano permettersi un pasto al giorno, abbiano ora la possibilità di due pasti al giorno. Ovviamente tale situazione crea, concorrendo con le altre cause, uno squilibrio tra domanda ed offerta. Secondo l’economista Paul Collier (in passato capoeconomista della Banca Mondiale) pretendere che tali popolazioni mangino di meno è insensato, ed indica, quale risposta al problema, gli OGM, i quali permetterebbero di aumentare la produzione riequilibrando il rapporto tra domanda e offerta. In questo senso egli ritiene necessario che l’UE adotti le colture OGM, il che ne favorirebbe lo sviluppo. Sempre al fine di aumentare la produzione adeguandola all’offerta, varie sono state le 20 SINE LIMITE proposte venute economico. numero 1 - Luglio 2008 da esponenti del mondo Steve Hank professore alla Johns Hpkins University, individua la soluzione, al fine di far abbassare i prezzi, nel libero mercato che presuppone che gli stati si astengano da comportamenti protezionistici, come già indicato in molti interventi politici nel corso del vertice. Lennart Bage, presidente IFAD, punta sullo sviluppo della microagricoltura in zone quali l’Africa, tramite lo strumento dei microcrediti e lo sviluppo di tecniche di coltivazione, le quali non escludono gli OGM. Nel corso del vertice molti sono stati gli interventi, soprattutto durante le varie conferenze di settore, che hanno trattato di un effetto particolare che deriva dallo squilibrio tra domanda ed offerta, ovvero la Speculazione finanziaria. Molti ritengono, come ad esempio Marianne Fischer Boel Commissario UE all’Agricoltura, che l’aumento dei prezzi sia legato ad una fortissima speculazione sulle commodities sui quali si sono spostati gli investimenti globali. Investimenti fatti attraverso lo strumento finanziario dei Futures, strumenti che permettono di acquistare un bene al prezzo di mercato corrente al momento di acquisto ma di perfezionare l’acquisto con la consegna del bene in un momento successivo, momento in cui è ben possibile che il valore di mercato di quel bene sia aumentato con ovvi guadagni per l’acquirente. Strumenti che se applicati alle commodities sembrano richiedere, per ottenere un buon margine di guadagno, che qualcuno abbia fame!. La conferenza ad alto livello, in definitiva, più che individuare delle cause specifiche della situazione di crisi, sembra mettere in luce, stando ai molti interventi ed ai vari argomenti trattati, come vi siano un coacervo di aspetti legati a vari settori che hanno portato a tale situazione. Difficile individuare quali tra essi abbiano maggiormente contribuito alla situazione di crisi. Tale varietà di aspetti legati al problema si riflette anche nel documento finale della conferenza nel quale vengono riaffermati quelli che sono i principi e gli obbiettivi già stabiliti durante la conferenza del 1996, ovvero di ridurre della metà, entro il 2015, il numero delle persone che vivono in uno stato di denutrizione e di non utilizzare il cibo come strumento di pressione politica ed economica. Si pone il compito di controllare i cambiamenti energetici e climatici nonché l’attuale aumento dei prezzi. A tal fine viene evidenziato come sia necessario un’azione coordinata tra tutti i soggetti internazionali coinvolti. Si individuano una serie di misure da adottare nell’immediato, ed altre da realizzare nel medio lungo periodo. Viene affermato come nell’immediato vi sia la necessità che le organizzazioni delle Nazioni Unite mettano a disposizione maggiori risorse al fine di migliorare i programmi di aiuto già attivi in materia. Vengono individuate misure di supporto economico ai paesi interessati al fine di facilitare la stabilizzazione dei prezzi, come ad esempio una semplificazione delle procedure necessarie per ottenere finanziamenti da parte delle organizzazioni internazionali operanti in tale settore. Una seconda linea di azione, mira allo sviluppo delle capacità agricole delle piccole media aziende, attraverso anche un aumento della ricerca sulle tecniche produttive. Nel lungo periodo viene evidenziata la necessità che i governi pongano maggiore attenzione ai problemi dell’agricoltura e della pesca, tenendo particolarmente presenti le piccole realtà e il loro accesso ai mercati, ciò tanto nei paesi attualmente colpiti in maniera diretta dal problema quanto negli altri. Si afferma la necessità che si giunga ad una conclusione dei negoziati WTO del Doha Round. Estremamente rilevante appare infine, l’affermazione della necessità di sviluppare le politiche future all’interno di una struttura, di una schema, che abbia come suo elemento centrale l’uomo. Concretamente però il documento finale del vertice FAO omette di indicare il modo in cui tali obbiettivi devono essere realizzati, e non potrebbe essere differentemente giacché ogni Stato Sovrano ha interessi propri, legati in maniera troppo stretta alle dinamiche economiche, che mal si conciliano con un interesse collettivo seppur rilevante e potenzialmente in grado di investire l’intera Comunità Internazionale. Il vertice tuttavia è andato al di là delle aspettative, almeno dal punto di vista del direttore della FAO, limitandosi a raccogliere la considerevole cifra di 8 miliardi di dollari di finanziamenti nella forma del “pagherò”. 21 SINE LIMITE Seminari in collaborazione con l’Ambasciata U.S.A. Valerio Romano La politica interna, le coinvolgenti battaglie elettorali, la foreign policy e i rapporti con l’Italia, gli impegni ambientali, le nuove frontiere scientifiche, sono solo alcuni dei molteplici temi affrontati nella serie di interessanti conferenze svoltesi nell’ambito di questa iniziativa. Ospitata nel sontuoso Palazzo Margherita in Via Veneto, sede dell’Ambasciata USA, e più di rado al “Centro Studi Americani” in via Caetani, la delegazione M.S.O.I. si è resa partecipe di un vivo e attento dibattito sui differenti aspetti trattati, cercando di sviluppare e stimolare, anche per questioni considerate maggiormente “spinose”, il punto di vista degli esperti relatori statunitensi che hanno presieduto agli incontri. E’ doveroso esplicare in via introduttiva il sincero e apprezzato interessamento che tali incontri hanno stimolato, soprattutto per ciò che riguarda l’analisi più approfondita della realtà politica americana e il modo in cui gli USA si pongono nel sistema delle relazioni internazionali. La straordinaria importanza degli argomenti trattati nei seminari ha aperto un vasto portale sulla scena internazionale e ha alimentato l’interesse per affrontare con maggiore informazione i problemi con cui dovremo misurarci nell’immediato futuro. Il primo incontro di questa iniziativa, che ha trattato la politica interna USA e soprattutto i rapporti bilaterali USA-Italia, è stato effettuato con una modalità di videoconferenza tra le varie delegazioni M.S.O.I. d’Italia ( Roma - Milano Napoli), e ciò ha dato un’impronta più dinamica alla conferenza. Il Dottor Morgan Hall, diplomatico della sezione politica dell’Ambasciata, ha concentrato il proprio intervento introduttivo sul modello di democrazia statunitense, sulla volontà di garantire o costruire la pace in quei paesi del Medio Oriente che si trovano in situazioni di conflitto o post-conflitto, con un chiaro riferimento all’Afghanistan e all’Iraq, e di ristabilirvi un regime politico democratico che permetta più facili e sicuri rapporti economici. Tali tematiche e il tono con cui esse sono state affrontate ha lasciato trasparire una fermezza di posizioni rispetto al ruolo ormai secolare, attribuito agli Stati Uniti, di “poliziotto internazionale”, di garante della pace e di modello ideale di democrazia occidentale. Lo svilupparsi dell’incontro e l’approccio estremamente diplomatico del relatore, ha dato la possibilità ai delegati M.S.O.I. di porre domande rispetto a due questioni maggiormente biasimate o censurate che riguardano i rapporti USA-Italia: la base militare numero 1 - Luglio 2008 di Vicenza, frutto di numerose polemiche da parte dei cittadini vicentini e non solo, e il comportamento che il governo degli Stati Uniti assume in relazione al tipo di governo che si ha in Italia. Riguardo al primo aspetto, la base NATO di Vicenza, amministrata dagli americani, che si pone come sentinella USA sia nell’area balcanica che mediorientale, sembra aver ricostruito nel nostro paese uno spartiacque tra filo e anti americani, uno scontro tra affidabilità e inaffidabilità nei confronti di un alleato storico. Pur contando i numerosi attacchi ricevuti soprattutto dal Partito Radicale, il provvedimento sulla presenza americana in Italia è stato approvato dal secondo governo Berlusconi e si parla oggi di un eventuale ampliamento di tale struttura nell’ottica di una maggiore sicurezza. Il dottor Hall ha spiegato che, i disagi , le preoccupazioni espresse dai cittadini di Vicenza, e i relativi sacrifici richiesti dovrebbero essere giustificati dall’interesse collettivo della NATO, di cui l’Italia è membro fondatore dal 1949, e quindi dalla necessità di garantire anche la difesa stessa del nostro paese. E’ stato infatti posto più volte l’accento sull’aspetto dell’”impegno”, del “Patto Atlantico” e quindi del dovere di rispettare le clausole militari in esso contenute (specialmente le previsioni dell’articolo 5) per rafforzare il sistema occidentale di difesa dalle minacce contemporanee del terrorismo, e di argine dal timore di un’Europa Orientale da troppo tempo rimasta nell’ombra. Alla domanda fatta al Dottor Hall, ossia se l’approccio degli USA fosse mutato nei confronti dell’Italia ove vi fosse stato un cambiamento di governo (oggi realmente attuato), ha prodotto anch’essa una risposta decisamente neutrale. Hall ha infatti affermato che obiettivo fondamentale delle nostre relazioni bilaterali è quello dell’alleanza e della collaborazione politica ed economica, e che di fatto il governo degli USA non muterebbe mai la propria posizione rispetto ad un governo di centrodestra o centrosinistra, come poi spiegato chiaramente anche dall’Ambasciatore Ronald Spogli nella presentazione del sito della Missione Diplomatica USA in Italia. La tematica delle primarie americane, oggetto di numerosi incontri si è sviluppata soprattutto intorno al tema della comunicazione politica, delle strategie elettorali e di come esse abbiano influenzato il comun sentire e lo spirito degli Americani, stimolando una forte partecipazione politica. La conferenza ha toccato quattro aspetti fondamentali : il processo delle primarie, i conteggi progressivi con il conseguente clima di attesa, l’attività propagandistica dei volontari e dei militanti di partito, le attività di lobbying sul gruppo dei grandi elettori per ottenere voti. 22 SINE LIMITE Il Prof. Teodori, moderatore del dibattito, ha spiegato come le primarie del 2008 abbiano avuto un ampio margine di apertura e quindi abbiano visto la presenza non solo di numerosi candidati indipendenti,ma anche di personalità provenienti dalla cosiddetta “seconda fila” di partito. Altro elemento fondamentale, forse per la prima volta nella storia degli USA, è dato dal fatto che il denaro non è risultato decisivo per gli esiti elettorali, ma sono certamente aumentati i minimi contributi offerti dalla popolazione per il proprio candidato preferito tramite versamenti. Terzo punto da prendere in considerazione è stato l’impatto delle nuove tecnologie sul processo elettorale. Il Prof. Cristian Vaccari dell’Università di Bologna ha invece posto un quesito di fondo sul senso delle primarie: sono uno strumento di selezione democratica oppure sono semplicemente un gioco costoso che priva quindi le elezioni di legittimità? La risposta può essere: entrambe le cose, anche se come già detto, il denaro sembra perdere la propria importanza rispetto al “carisma” e alla capacità di saper raccogliere intorno a se la folla. L’aspetto più interessante e divertente è stato però fornito da John Aravosis, esperto di “political blogs” e quindi delle nuove frontiere di comunicazione politica. E’ noto che all’interno dei blogs, ormai diffusi a macchia d’olio nel web, sia forte la critica verso i mezzi convenzionali d’informazione, ed in particolare i media televisivi e la stampa, critica che sembra essersi ormai diffusa anche in Italia attraverso siti di “disinformazione” e aditi politici di qualunquismo. Aravosis ha spiegato come la partecipazione democratica si esprima oggi attraverso la Rete e come proprio per le primarie (soprattutto per i Democratici) siano stati fondamentali i siti di “social network” quali Myspace e Facebook o siti come Youtube, dove poter vedere e commentare video musicali o satirici dedicati ai candidati alla Casa Bianca. numero 1 - Luglio 2008 La Dottoressa Colleen Graffy (sezione “Affari Europei” del Dipartimento di Stato) ha invece parlato quale funzionario diplomatico, di come gli USA siano attenti anche a ciò che avviene in Europa, attraverso il loro centro di studio a Bruxelles. È importante infatti, ai fini della formulazione di politiche internazionali di cooperazione, che gli USA abbiano un punto stabile di integrazione nella realtà europea. Nel secondo incontro svoltosi in Ambasciata,il Dottor Geoffrey Wiggin, Consigliere Ministeriale degli “Agricultural Affairs”, ha spiegato con grande dettaglio la politica americana sugli OGM. Il relatore ha concentrato il suo intervento su due aspetti fondamentali: la disinformazione della popolazione riguardo agli Organismi Geneticamente Modificati, i benefici e gli eventuali danni dell’utilizzo degli OGM come nuova fonte di fabbisogno alimentare. Le nuove frontiere della Biotecnologia, hanno permesso moltissime applicazioni in relazione alla tecnologia transgenica, che è il metodo più comune di produzione di OGM. Il Dottor Wiggin ha spiegato come il procedimento utilizzato nella biobalistica, chiamato “gene gun”, preveda il bombardamento all’interno delle cellule vegetali di microproiettili ricoperti di DNA. È questo il metodo di produzione del cereale OGM più diffuso negli USA, il “BT corn”. Altri metodi di immissione del nuovo embrione negli organismi vegetali, sono quelli definiti “naturali”, perchè derivanti dall’azione di un parassita esterno o attraverso l’esposizione dei vegetali a raggi Xgamma o ultravioletti. Si è subito posta all’attenzione la viva preoccupazione che questa nuova frontiera della scienza ha suscitato negli ambienti dell’Unione Europea, decisa ad intraprendere nuovi e personali metodi di lavorazione degli OGM. Il problema del timore che gli OGM hanno causato nella popolazione maggiormente disinformata è stato affrontato dal Dottor Wiggin, partendo da un esempio elementare e ricorrente nella storia scientifica: la differenza tra scoperta ed uso della scoperta. 23 SINE LIMITE Si è infatti dimostrata l’indubbia innovazione portata dall’energia elettrica e dalla fisica nucleare alla vita umana, pur considerando gli scetticismi iniziali; il problema da considerare è invece come giudicare l’utilizzo che l’uomo ha fatto delle nuove scoperte, e la indubbia incoerenza non può che portare all’esempio chiave della bomba atomica. Wiggin ha ribadito che si deve sempre operare un riscontro tra benefici e rischi nel momento in cui si è di fronte ad una nuova scoperta e ove fosse dimostrato che i secondi sono quasi del tutto inesistenti, è importante far conoscere al consumatore (e in questo caso si è sottolineato il problema dell’UE) se un prodotto è etichettato come OGM, e quindi esprime una maggiore garanzia. Negli USA, la fiducia negli OGM è solida perché esistono comunque Agenzie che ne garantiscono il corretto utilizzo ed effettuano i necessari controlli per evitare rischi alla salute umana: la “FDA”, Agenzia per la sicurezza degli alimenti, e la “EPA”, Agenzia per la protezione dell'ambiente. È da considerare anche l’”USDA”, che assicura che la biotecnologia non danneggi la produzione agricola e quindi provochi le proteste degli agricoltori o danni alla fauna. Gli USA, facendo quindi molta attenzione all’aspetto dei controlli e della precauzione, sono diventati fra i massimi produttori di mais (il massimo produttore rimane il Messico), soia (soy beans) e cotone attraverso la transgenesi, con notevoli benefici per l’economia americana. I problemi che gli Americani hanno dovuto affrontare sono stati causati dalla viva opposizione del Corpo Forestale Americano e dai piccoli agricoltori. Il procedimento di impollinazione degli organismi vegetali, ha prodotto infatti una crescita spropositata dell’erba circostante alla base delle foreste, inducendo il rischio di incendi; per minimizzare tali rischi la numero 1 - Luglio 2008 Forestale si è rifiutata di accettare questa biotecnologia produttiva. L’altro problema, di natura socio-economica, è determinato dal fatto che la produzione OGM ha spogliato l’agricoltore della maggior parte dei propri compiti nel processo di crescita vegetale, come avviene nell’agricoltura classica. Se per gli Stati Uniti il problema sembra semplicemente quello di uno spostamento di competenze (che si riduce alla preparazione del terreno di coltura) che porta comunque un lieve incremento della produzione e dei benefici per gli stessi agricoltori, il discorso è ben diverso per i paesi in via di sviluppo. La volontà di esportare questo innovativo modello di produzione soprattutto nel continente africano, mette in luce il costo oneroso della coltura OGM a carico delle zone più povere e gli effetti devastanti che essa avrebbe sui microagricoltori sparsi nel territorio, che non avrebbero la possibilità di usufruirne, e che quindi di fronte ad un nuovo sistema agricolo perderebbero anche la capacità di essere competitivi. Un altro grande problema posto dal Dr. Wiggin, è stato quello della resistenza climatica da innestare agli OGM, perché essi possano resistere alle specifiche condizioni dell’Africa. Egli ha concluso il proprio intervento auspicando la possibilità di introdurre comunque gli OGM nel continente per risolvere il problema della fame, (come è accaduto in Indonesia grazie alla produzione di riso) e sperando che l’UE acceleri il processo di introduzione degli OGM anche a fronte degli elevati costi economici ma in vista di futuri benefici. L’ultimo incontro cui ho partecipato,svoltosi nella settimana dell’ ”Earth Day” , ha visto il Prof. W.A.Blomquist e il Prof. Raffaele Cadin de La Sapienza di Roma, affrontare l’argomento della politica ambientale degli USA e dell’UE nelle nuove prospettive di riduzione dell’inquinamento e dei livelli di sviluppo sostenibile. 24