GIANCARLO A. NICOLINI “Stagione calcistica '87-88” & “Campioni del Mondo!” Una superflua (ma “più che adeguata”) prefazione. Alcuni mesi or sono mi apparvero in sogno cinque grandi artisti: Nando Martellini, Nicolò Carosio, Gaetano Scirea, Ferenc Puskàs ed il mio defunto analista: discutevano di calcio, di vita, di morte e mi coinvolsero “sì ch'io fui sesto tra cotanto senno”. Al termine della visione onirica una voce mi ordinò: “Giancarlo, scrivi tutto: la gente deve capire che i sogni possono essere profetici”. Sono nati così questi due racconti che si integrano, e che hanno il sapore della vera profezia (solo nel momento in cui si realizza possiamo definire “vera” una profezia che ci riguarda...). Purtroppo non ho potuto fare a meno di includere, in queste cronache sportive, contenuti a sfondo psichiatrico, ma in fin dei conti dalla vita ho imparato che è decisamente meglio ch'io mi occupi di psichiatria, piuttosto che la psichiatria si occupi di me. Forse sbaglio, ma considero “scrittore” l'artista che si guadagna da vivere scrivendo e considero “lettore” chi ha la capacità di leggere l'anima ed il cuore di chi produce un testo. Posso perciò affermare con certezza di non essere uno scrittore. E' difficile incontrare dei lettori ma “le vie del Signore sono infinite” e non escludo a priori la possibilità di un incontro con qualcuno di voi, non so come ma non lo escludo, ed anzi farò del mio meglio perché ciò avvenga all'interno di un poligono di tiro. Desideravo tanto partecipare al “Bancarella Sport” con queste due storie calcistiche ed inviai il pdf ad editori cristiani: “sei superficiale e sposi poche tesi”; agli editori pagani: “sposi troppe tesi e sei superficiale”; agli editori islamici: “sposi tesi blasfeme e la tua superficialità ti preclude attentati terroristici”. Agli editori a pagamento bastavano dei soldi, ma io non ne avevo perché avevo dato tutto a poveri che rendono poveri (i poveri che rendono ricchi esistono). Niente Bancarella Sport, quindi. L'aspetto positivo della cosa è che non proverò rabbia o tristezza per non essere stato selezionato dalla giuria del premio: collezionare da giovani impegnative diagnosi psichiatriche rende, nel tempo, almeno un poco saggi (e nel mio caso addirittura meritevoli di non meno impegnative diagnosi neurologiche). L'introduzione alla lettura - onanistica e triste come tutte le prefazioni a cura dell'autore si chiude così: solo per scrupolo aggiungo che i fatti e i personaggi delle storie sono fiori inventati e solo successivamente trapiantati nel verde campo della cronaca nera, sportiva e rosa. Se Dante Bertoneri e Fabrizio Vignali passassero di qua, li saluto con affetto. Dedica: Giulia, amore mio, il sale del mare e delle lacrime ha qualcosa di sacro, ma non è un pensiero mio. Sono contento però perché riesco a farti ridere, e Khalil Gibran no. Giancarlo. Una specie di giustificazione. La stagione calcistica 87-88 pone in seria difficoltà un narratore poco meno che mediocre quale io realisticamente ritengo di essere. Mi domando, in prima battuta, se il titolo che ho scelto convenga alla serie di pagine che nel tempo ho affastellato; mi chiedo, successivamente, se davvero ho scritto un lungo racconto, o diversi racconti o semplicemente una elaborata mail maldestramente inoltrata a destinatari ignoti, i quali la filtreranno inevitabilmente nella spam. Insomma, nel breve volgere di un paio di riflessioni mi accorgo che l'agguerrita squadra avversaria (un vero e proprio Real Madrid composto di ragionamenti) mi ha già stretto a ridosso dell'area di rigore. Fortunatamente arriva, liberatorio, il soccorso di un esperto centrale il quale, come i liberi vecchio stampo tutta grinta e concretezza, spazza via senza remore il pallone in tribuna, e poi il triplice fischio del direttore di gara stabilisce che la partita è giunta al termine. Non saprei dire chi abbia vinto, perso o pareggiato l'incontro. Decida chi legge: ho solo fatto del mio meglio per non tediare nessuno, e per confondere qualcuno: se non vi sono riuscito, pazienza. Di fame e di guerra si muore, ma alla noia certamente è possibile sopravvivere. Fischio d'avvio. Nella stagione calcistica 87-88 i bambini non giocavano con la play station perché ancora nessuno si era assunto l'arduo incarico di rimbambirli mediante realtà virtuali confezionate appositamente per lasciare liberi i padri di andare a giocare a calcetto e le madri di uscire con le amiche; il subbuteo godeva sempre di una certa popolarità; il calcio balilla non aveva ancora la sua nazionale paralimpica e noi andicappati non ci chiamavamo “diversamente abili”; il “quarto uomo” era una figura non prevista dal regolamento sportivo; l'area tecnica per l'allenatore non era stata disegnata; i sensori sulla linea di porta non li fantasticava nemmeno Aldo Biscardi; il numero delle sostituzioni era limitato, rispetto ai giorni nostri; i punti in caso di vittoria erano due. L'elenco storicocomparativo potrebbe protrarsi se solo non mi procurasse cefalea ad irradiazione nucale od olocranica. Comunque le regole cambiano, e “calcio magister vitae” come sosteneva un vecchio e saggio latino vissuto prima di calciopoli. I giocatori, se la memoria non mi inganna, credo si tatuassero molto meno di oggi, mentre Roberto Pruzzo aveva già lanciato la moda di esultare sbandierando la maglietta: lo fece – giustamente – dopo un gol rifilato alla Juventus. Purtroppo la storia dell'esultanza post goal ha conosciuto negli anni eccessi e pagliacciate alle quali sarebbe pura utopia pensare oggi di porre un limite. I miei contorni di tifoso, nella stagione 87-88, erano già nerazzurri. La fede calcistica, come quella religiosa, si trasmette in famiglia, ed io crebbi in un ambiente altamente calcistizzato. Uno dei miei fratelli molto maggiori, od entrambi (loro sì che potevano guardare la televisione sino a tarda ora ed esultare giubilanti al punto di turbare i miei sonni di bambino, durante Italia Germania quattro a tre...) dovranno certamente avermi reso testimonianza a proposito dei lanci millimetrici di Luisito Suarez, delle serpentine di Sandrino Mazzola, delle punizioni a “foglia morta” di Mariolino Corso o delle fughe sulla fascia destra di Jair da Costa, perciò nella stagione calcistica 87-88 ero già un interista maturo e critico, come la stragrande maggioranza degli interisti. In quella stagione però mi appassionai anche al team della mia città ed alle vicende sportive “dei ragazzi di Franzon”: squadretta tosta, la Massese dell'ottantasette-ottantotto... Ma che c'entra Pablo? La stagione calcistica '87-'88 comincia nel '69-'70, forse prima. Scritto così può sembrare bizzarro, ma non ha importanza. Nel '69-70 a Pablo si stavano spalancando le porte di una luminosa carriera professionistica nel campionato maggiore in qualità di mediano dalle spiccate doti offensive in fase di ripartenza (allora “ripartenza” era un vocabolo ignoto nella sua accezione “pallonara”: Arrigo Sacchi giocava da difensore nei dilettanti, col Fusignano, e ancora non aveva seminato la sua parola, perché anche il calcio vive di parole che ne scandiscono il tempo e ne plasmano dall'interno, modificandola impercettibilmente ma inesorabilmente, la storia). Pablo, il ventenne ossuto, arcigno e dal collo taurino, al ritorno dagli allenamenti prima di rincasare, passava sempre, per abitudine e nostalgia, dal campetto dell'oratorio che lo aveva visto crescere. Era un mito per tutti quei bambini. Lo divertiva guardare piccoli giocatori nascere: appese le scarpette al chiodo un domani lontano, chissà, avrebbe lavorato come osservatore per qualche club. Ultimamente però si era messo in testa di insegnare i fondamentali a Tony, un bambino di nove anni secco e rigido come uno spaventapasseri, sempre lontano dal centro dell'azione durante le caotiche partitelle dei coetanei dell'oratorio. Di quel bambino poteva dirsi tutto tranne che fosse un talento in erba. Ma Pablo era dell'idea che “la testa” fosse più importante del talento, ed adocchiò Tony anche per questo: perché era il più imbranato di tutti e lo sentiva fratello. I bambini si affezionano a quegli adulti che, fratelli o meno, si impegnano a trasmettere loro “qualcosa di vivo”: gli istruttori e gli insegnanti di ogni ordine e grado dovrebbero essere consapevoli di questo e riconoscere l'importanza del loro ruolo di “via maestra” (o corsia preferenziale) che conduce i cuccioli d'uomo ad “imparare” l'impegno di vivere. Tony, le rare volte che il pallone capitava tra i suoi piedi, lo colpiva di punta (o “pizza”) con la forza e la destrezza di una piccola mummia: e questo era tutto il suo armamentario tecnico. Quando venivano composte le squadre, “il pizzaiolo” (così lo avevano soprannominato, con sua immensa vergogna), rimaneva inevitabilmente l'ultimo ad essere chiamato da uno dei due piccoli, crudeli capitani. “Tony, togli le scarpe”, decise quel giorno Pablo. “Devo rimanere scalzo!? Sei matto? Perché?”, domandò Tony, impaurito più che meravigliato, all'idolo dell'oratorio (e tra non molto degli stadi). “Perché il calcio si impara a piedi nudi, altrimenti si rimane pizzaioli”, rispose Pablo. “La mamma mi sgrida sempre, a casa, se rimango scalzo”, obiettò il bambino. “A casa è un altro discorso. Non si gioca a calcio, in casa”, spiegò Pablo, in modo abbastanza convincente. Il mediano dal glorioso futuro depose la borsa dell'allenamento ed anche lui tolse le scarpe, quindi condusse Tony davanti al muro (quello alle spalle di una delle due precarie porte del campetto a ridosso della chiesa) e, mani unite dietro la schiena, iniziò a colpire di piatto destro: due passetti avanti quando la palla rimbalzava, due passetti di nuovo, indietro, quando il pallone era stato toccato. “Hai osservato bene? Adesso prova tu.”, disse Pablo nella veste per lui inedita di fraterno allenatore. “Piatto destro”, la lezione del primo fondamentale, fu un poco avara di soddisfazioni per Tony, il quale rimediò un bel mal di gambe ed un discreto mal di schiena, perché tra lui e la sfera di cuoio si era instaurata una forte inimicizia, ed il pallone tendeva sempre ad allontanarsi dalla giusta traiettoria “muro-piatto destro” e ritorno. “Pablo, credo che non imparerò mai”, asserì sconsolato Tony, al termine dell'esercitazione di quel pomeriggio. “Ascolta little brother, devi sapere che io non sono un “naturale ambidestro” e faticavo parecchio col sinistro, alla tua età. E sempre alla tua età, mentre gli altri giocavano, qui all'oratorio, ho trascorso cinque mesi a colpire la palla solo di sinistro, e scalzo. Ore ed ore, solo di sinistro. Cinque mesi. Fu molto faticoso, faticoso e noioso, ma la testa è più importante del talento. L'impegno e la costanza danno buoni frutti, credimi. E ricorda: sei l'unico al mondo a sapere che non sono “un naturale ambidestro”, come scrivono i giornalisti. Non dirlo a nessuno, mi raccomando”. Tony fu prima lusingato dalle parole (era l'unico a sapere che “Pablo Collo” non era un naturale ambidestro!), poi affascinato dalla lezione ed in ultimo convinto della strada da percorrere. Ma la sera a casa, prima di andare a letto, la mamma di Tony osservò uno strano rossore sul piede destro del figlio, e pretese, allarmata, delle spiegazioni. “Sto imparando i fondamentali, mamma. Lo si fa da scalzi”, si giustificò il ragazzino. “Scalzo?! Non si sta scalzi! Non si sta scalzi in casa e a maggior ragione non si sta scalzi per le strade! Ci sono i vetri, i sassi, i chiodi! Si prendono le infezioni! Le infezioni!”. Le infezioni. L'ampio sguardo che la madre di Tony apriva sul mondo non era distante da quello più ristretto che un infettivologo gettava attento sulla superficie di un vetrino coprioggetti del suo microscopio ottico. La terra vista dalla mamma di Tony era un pianeta abitato da virus, da batteri, ma soprattutto da pericolosissime infezioni. Pareva che solo i “pizzaioli” avessero qualche chance di sopravvivere ai terribili contagi... Dante: un Ligure-Apuano? I momenti calcistici dipinti dalla forza del Mito e deposti nel sepolcro della mia memoria sono parecchi, e molti di questi formano una piattaforma di ricordi che appartiene ormai al patrimonio collettivo di tutti gli italiani (Cannavaro che alza la coppa a Berlino, ad esempio, o l'urlo di Tardelli che si squarcia i polmoni al Bernabeu, dopo il secondo gol nella finale di Madrid). Da questo magico cilindro pieno di immagini ed eventi a me piace però estrarre un episodio molto meno celebre di quelli che ho appena ricordato e che vissi appunto nella stagione calcistica 87-88, un piccolo fatto legato alla Massese Calcio, che come ho già avuto modo di dire, in quella lontana annata mi aveva appassionato. Lo stadio degli Oliveti (all'epoca agibile in tutti i settori) era stracolmo. I ragazzi di Franzon lottavano per promuovere in C1 ed affrontavano non ricordo con precisione quale altra squadra. L'incontro volgeva al termine e gli aquilotti, in vantaggio per uno a zero, stavano per portare a casa due punti fondamentali in quel momento della stagione. “Stavano per”... Questo facile imperfetto indicativo seguito da preposizione semplice non rappresenterà nulla per chi non ha mai provato cosa significhi attendere, col fiato sospeso ed il cuore fibrillante, che trascorrano più in fretta possibile la manciata di minuti che separano la squadra del cuore da una sofferta vittoria. La percezione del tempo in questo caso si dilata in modo straordinario, e “l'angoscia dell'esserci” che ne deriva può essere compresa intuitivamente, direttamente ed istantaneamente senza bisogno di leggere e studiare tutta quella roba che scrisse Heidegger nel millenovecentoventisette. Il tempo non passa mai, quando una vittoria è in bilico. Al tifoso non viene proprio in mente che il suo nervoso e parossistico contrarsi ed agitarsi nella speranza che l'orologio dell'arbitro acceleri, equivale a domandare alla Morte di affrettare i suoi passi. Uno di quei tifosi, quella lontana domenica della stagione calcistica 87-88, ero io. La squadra che non ricordo continuava a manovrare in attacco con una forza persistente, disperata, ed i nostri appena toccavano palla, sistematicamente la perdevano, e la perdevano purtroppo nella nostra metà campo. Dante Bertoneri, finalmente, entra col favore degli dèi in possesso del pallone sulla sinistra, addirittura in posizione di terzino! Dante avanza, avanza da solo sino a centrocampo. Avanza con quella sfera di cuoio che nasconde tra i piedi e che difende con una caparbietà ed una sapienza tecnica che nessun calciatore massese di alto livello ha mai posseduto. Il talentuoso centromediano è solo perché i compagni sono rimasti indietro, in pavido atteggiamento difensivo: è in questo preciso istante che Bertoneri, palla incollata sull'interno sinistro, dopo un dribbling alza la testa, guarda alle sue spalle ed urla ai suoi (accompagnando il grido con un eloquente, furioso gesto dell'avambraccio): “Avanti! Andiamo avanti!”. L'intero stadio, rabbrividendo, scattò in piedi vibrando di una voce sola che sapeva di riscossa e di liberazione: fu come se un tuono potente avesse rigenerato e ricompattato l'intera squadra. Il primitivo, selvaggio rito propiziatorio di quell'ovazione, successiva al ruggito dell'indomito Bertoneri, spinse gli undici aquilotti a concludere l'incontro in attacco. La partita finì: Dante, da solo, ci tenne in lotta per la promozione. La Massese guadagnò due punti, ma ad oggi l'unico massese che ha scritto qualche riga per trasmettere ai posteri il filmato di un gesto eroico di un vero discendente degli antichi guerrieri liguri apuani, è il sottoscritto. Tony: tecnica e tattica. “Riproviamo un po' con questo piatto destro, bimbo?”, chiese Pablo, già col pallone tra le mani, a Tony, dando per scontata una risposta affermativa. “Forse è meglio di no”, fu l'inattesa replica. Tony raccontò all'idolo dell'oratorio e di molti futuri stadi la storia della mamma, del piede rosso e, soprattutto, delle infezioni, le temibili e pericolosissime infezioni. Pablo rimase un tantino perplesso e la perplessità lo indusse a palleggiare: un palleggio di classe cristallina che si protrasse più di due minuti. Tony osservava in silenzio, ed un buon pittore che lo avesse voluto ritrarre in quei precisi istanti avrebbe portato a compimento il ritratto della Meraviglia. “Ooooh! Non ti cade mai, quel pallone! Ma come fai?”, ruppe infine il silenzio Tony Meraviglia. “Semplice: non temo le infezioni, brother”, ribadì in rete Pablo con la palla appiccicata e sospesa al collo del piede sinistro e le braccia larghe a mantenere l'equilibrio. In tal modo la seconda lezione del fondamentale numero uno (piatto destro), pur con qualche residua remora, poté prendere il via. Al termine dell'allenamento però, ritrovandosi con l'interno del piede destro di nuovo arrossato, Tony pose al futuro campione una domanda che sapeva tanto di “s.o.s” e che richiedeva esplicitamente una scialuppa di salvataggio: “Cosa dirò stasera alla mamma, quando vedrà il mio piede?”. “Seguimi – rispose Pablo, con la scialuppa, e prendendo per mano, come un fratello, il ragazzino – andiamo alla fontanella”. L'acqua della fontanella era fresca da bersi e fredda per lavarsi, ma Tony accettò egualmente che il mediano dalle spiccate doti offensive gli massaggiasse, sotto il pungente gettito della fonte pubblica, il piedino arrossato, che cessò di apparire tale. “La mamma non si accorgerà di niente, fifone...”, dichiarò Pablo mentre asciugava, con un lembo dell'accappatoio che aveva estratto dalla sua borsa degli allenamenti, i piedi dell'apprendista giocatore. “Non è bello imbrogliare la mamma. Non si dicono bugie alla mamma”, pensò però il bambino. Lo pensò e lo disse, gettando inconsapevolmente una perpetua maledizione su tutte le madri passate, presenti e future che impongono la menzogna ai frutti del loro grembo. “Tony, questa bugia è una piccola bugia. Ed inoltre non è nemmeno colpa tua”, rassicurò il giovane calciatore. “E' colpa tua?”, chiese ingenuamente il pizzaiolo. “No, non è nemmeno colpa mia. Diciamo che è colpa delle... infezioni”, sentenziò il mediano, spedendo il discorso in fallo laterale. Da quel giorno Tony annaspò, nel profondo della sua intimità, nei gorghi di uno strano tipo di caos, un caos i cui vortici confondevano e mischiavano infezioni pericolose ed infezioni non pericolose. E' superfluo sottolineare che il nucleo di quel caos, l'anima di quella confusione altro non era che la vera ed unica infezione. Quella sì, davvero letale... Io, Dante e Gesù. Già, Bertoneri...Dante Bertoneri da Massa. Dante per me rappresenta e sostanzia, più che un ostacolo narrativo, un amaro e irrisolvibile enigma esistenziale. Lui, il più grande talento calcistico espresso dalla mia città, racconta al mondo una odissea insopportabilmente grottesca che nessun moderno aedo con un po' di sale in zucca si sognerebbe di andare in giro a cantare. Ma lo sapete o no che Bertoneri Dante a diciannove anni giocava titolare in serie A col numero dieci sulle spalle, mentre Beppe Dossena faceva la mezza punta? Se vi interessate di calcio è impossibile che non ne siate a conoscenza, così come saprete che lo stesso Bertoneri Dante da Massa giocò la trentaquattresima finale di coppa Italia contro la Roma (lui nel Torino) e la perse ai rigori (il suo rigore però, non lo fallì). I tifosi granata avevano costruito uno striscione appositamente per lui (“magic Dante”, recitava), onore che era toccato solo a Pulici e Ciccio Graziani, non so se mi spiego. Dante arrivò sino all'under 21 di Azeglio Vicini. Poi una parabola discendente, veloce ed inspiegabile: un mistero agli occhi dello stesso giocatore, anche se qualche mal sopito rancore da questi nutrito nei confronti “dell'ambiente” potrebbe fornire degli indizi. Indizi, ma nessuna prova concreta. Dante Bertoneri è finito abbandonato da tutti e sostiene di trovare un po' di conforto solo nella Fede nel Signore. Un Signore che è anche il mio Signore: abbiamo pregato e preghiamo nello stesso santuario, io e Dante, alla Madonna dei Quercioli. E quando Ti interrogo sulla questione e taci, Signore, non nego di arrabbiarmi un pochettino. “Signore – Ti chiedo – Dante ha forse sprecato il talento che gli hai dato? Signore, lo vedi l'ex centrocampista alle cinque di mattina quando corre anche sotto la pioggia, la grandine, il vento, i tuoni ed i fulmini mentre nessuno sembra ricordarsi di lui, adesso che è un campione di fondo della sua categoria (i veterani)? Signore, Ti accorgi che quell'artista del pallone, da Te pensato da sempre, sta prendendo in considerazione l'ipotesi di intraprendere una nuova carriera come operatore socio-assistenziale? Gesù, io ho un grande rispetto per gli operatori socio-assistenziali e per le badanti, ma non potresti far sì che questo tipo di lavoro lo facesse, almeno qualche annetto, Mario Balotelli? (però Signore, se invecchiando dovessi necessitare di un badante, ti prego, se è possibile non mandarmi Balotelli: uno che si permette di gettare a terra - irritato per una sostituzione la maglia nerazzurra nella semifinale di champions con il Barcellona, non lo tollero nemmeno a darmi una mano per il trasloco). Insomma, Signore Gesù, io non so cosa mi leghi con precisione a Tuo figlio Dante. Sua madre si chiamava Maria Luisa, come la mia, e forse entrambe hanno messo al mondo due teste, diciamo così, un pochettino troppo “estrose”: ci aiuteresti a non buttare più via quel mezzo talento che ci hai donato?”. Una partita all'ippodromo. Se devo essere sincero sino in fondo, non posso nascondere che una giornata importante della stagione calcistica 87-88 si giocò all'ippodromo di San Rossore, a Pisa. In quegli anni non esistevano ancora le sale giochi con le slot machines, si sognava il tredici al totocalcio, non erano vietate le sigarette nei locali pubblici ed all'aperto era impensabile vietare di fumare a chicchefòsse (a Massa, ad esempio, seguitava a svapare ed a rilasciare nell'aria ectoplasmi altamente tossici la ciminiera della Farmoplant: sarebbe stato necessario il disastro del luglio '88 - quando l'esplosione di due serbatoi di Rogor insetticida gettò nel panico un'intera provincia – affinché quella fabbrica chiudesse). Nella stagione calcistica 87-88 molte persone soffrivano, senza saperlo, di compulsione e dipendenza da gioco d'azzardo, ma nessuna legge obbligava ad esporre all'esterno delle ricevitorie l'avviso “il gioco può creare dipendenza ed è vietato ai minori di anni 18”. Nessuna campagna preventiva comunque, per quanto ne sappia, impedisce ancor oggi a tanti disperati di perseverare nel rovinarsi economicamente attraverso l'azzardo, anzi: l'offerta nel campo delle scommesse è senza dubbio molto più vasta oggi rispetto ad una trentina di anni fa. Una domenica primaverile del 1988 non ritenni opportuno volare ad Olbia per sostenere l'undici di Franzon ed optai invece per un distensivo pomeriggio ludico-ricreativo all'ippodromo di San Rossore. Scrittori americani alcolizzati e paranoici hanno costruito una bella porzione del loro mito appoggiandosi sul piedistallo di pagine molto seduttive riguardanti il mondo dei cavalli e della boxe, contribuendo a diffondere il modello post nichilista dell'uomo auto distruttivo felice nel demolirsi e beato nel demolire. Lungi da me perciò competere con Chinasky e compagnia brutta nel raccontare l'ambiente delle scommesse ippiche (in fondo incubi mal sognati). Non c'è niente di eroico nel perdere cinquanta, centomila lire (lire!...Prodi era presidente dell'IRI e del Trattato di Maastricht non ne aveva ancora trattato nessuno), non c'è niente di magico nel buttare al vento del denaro in una serie di giocate sfortunate e non c'è niente di epico nel rifarsi nell'ultima corsa. L'epicità dell'ultima corsa in programma quella domenica, per me riguardava l'addio alle competizioni del miglior fantino europeo di tutti i tempi: Joe Wilson. Wilson aveva sempre centrato almeno un piazzamento in tutte le corse disputate nella sua lunghissima carriera: ce l'avrebbe fatta a concluderla vincendo? Il suo destriero, Sheraby, al tondino dava segni di inquietudine: chissà se Wilson lo percepiva, impegnato com'era a regalare i suoi ultimi sorrisi in sella ad un equino a noi, i sostenitori che facevano ressa appoggiati al recinto circolare di legno (il tondino). Decisi di non scommettere su nessuno. Soprattutto determinai di non scommettere su Joe Wilson perché mi ero reso conto che quel giorno era l'imbattuto cavaliere a scommettere su di me, e sugli altri, e sull'universo intero... “Paaartiti!”, annunciò infine, urlando dal megafono interno, lo starter... Sheraby, al primo giro, si ritrovava in coda, preceduto da altri sei purosangue. Una condotta di gara prudente. Wilson prese a risalire alla penultima curva del giro conclusivo e nei quattrocento metri della dirittura d'arrivo era preceduto da quattro cavalli. Ashanti, Behramy e Belsole Mas galoppavano all'esterno e sembravano facilmente attaccabili: dopo centocinquanta metri infatti, Wilson era già secondo. Paladini, il fantino in testa ed in groppa ad Algover, si stava palesemente drogando della sua propria adrenalina nell'immaginarsi primo davanti al grande Wilson, nel giorno in cui il famoso jockey dava l'addio alle corse. Wilson però incombeva da dietro e Paladini allora strinse leggermente verso l'interno dello steccato, a destra: una manovra un po' vigliacca per chiudere la rimonta di Sheraby. In quel momento a tutta la gente (tanta) che aveva scommesso su Wilson vincente si strozzò l'esultanza in gola a causa della evidente scorrettezza imposta da Paladini al suo Algover. A venti metri dal palo Wilson attaccò il legno: “Quello è impazzito! Si frantuma la gamba contro lo steccato! Si sfracella!”, gridavano gli appassionati. Ma Wilson non si frantumò nulla: appoggiato sul collo di Sheraby, sollevò la gamba destra al di sopra dello steccato e riuscì ad infilare Algover: vinse di mezza incollatura su Paladini, giungendo sospeso al traguardo, come un equilibrista circense, in bilico sulla staffa sinistra che pendeva sulla pancia di Sheraby. Applaudimmo per la durata del gioioso giro d'onore l'ultima corsa di quell'incosciente di Wilson, il quale si premurò di andare a stringere la mano a Paladini e lo volle con sé sotto la tribuna degli invitati speciali: in fondo la cattiveria di Paladini era necessaria al fine di dare il sapore del memorabile all'addio al galoppo del più grande fantino europeo di tutti i tempi. I fiori che volteggiavano dalla tribuna ad omaggiare l'inarrivabile Joe Wilson andavano a posarsi lievemente e senza saperlo, sopra il verde tappeto erboso calpestato con indifferenza sia dalla Gloria che dalla Rabbia... La Massese subiva invece una battuta d'arresto nella sua rincorsa alla promozione: i ragazzi di Franzon persero due ad uno in Sardegna, mentre Wilson scriveva la sua leggenda. Van Basten, Gullit e Maradona, nei medesimi momenti e in altri luoghi imprimevano sullo sport altre orme gloriose, altre leggende. Ma le leggende muoiono nascendo e nascono morendo. Tutto ciò mi rende ancora abbastanza triste: non sino alle lacrime, intendiamoci. Ma abbastanza triste, quello sì... Pablo è un osservatore? Pablo, dopo la seconda lezione sul primo fondamentale (“piatto destro”) aveva finto di non prestare troppa attenzione ai timori espressi dal piccolo fratello, quelli relativi all'imbroglio tessuto ai danni della madre infettiva. Aveva simulato di non dare importanza alle preoccupazioni del bambino, ma in realtà l'attento scrutatore dei movimenti dei centravanti avversari si era istintivamente abituato a fronteggiare anche le manovre di disturbo degli attaccanti all'interno della sua serenità e di quella delle persone alle quali voleva bene e che marcava discretamente “a zona”. Perciò quando si trovò a ripassare dalle parti dell'oratorio si mise a sedere, in disparte, su di una panca di legno del giardino prospiciente il cortile dove i ragazzetti disputavano le loro partitelle pomeridiane ed evitò di attirare l'attenzione dei piccoli giocatori. Stette ed osservò. Si rese conto che stava osservando quando smise di osservare, e cioè quando la sua fantasia fu assorbita da una associazione di pensieri, i seguenti: “Io guardo Tony ed i ragazzi. Il nostro Mister, durante la settimana, prima della partita ci fa visionare gli incontri della squadra che la domenica affronteremo. Chi o cosa dovrebbe osservare Tony?”. Se mi fosse concesso di entrare in questo racconto adesso, domanderei a Pablo che differenza passa, secondo lui, tra un osservatore del cielo ed un osservatore di calcio. Lui forse risponderebbe che ogni osservazione è determinata dalle intenzioni e dalle finalità di chi esamina ed io replicherei che quello non è osservare, ma riempirsi gli occhi alla ricerca di qualcosa di utile. Pablo si direbbe d'accordo, ma esclusivamente per chiudere un discorso per lui di nessuna rilevanza. Pablo infatti osservava la partitella con la fraterna intenzione di trovare un mezzo idoneo ad aiutare quel ragazzino un po' troppo impacciato... “Pablo, so bene che stai cercando il modo di dare una mano a quel bambino affinché cresca un po' più forte e sicuro – gli direi in questo istante – ma la tua osservazione calcistica non è sufficiente. Il tuo sguardo dovrebbe filtrare attraverso le mura della casa dove abita Tony (forse la conosci, Pablo, conosci quelle mura...). Dovresti per esempio vedere “il pizzaiolo” domenica prossima in occasione del grande pranzo del dì di festa. Ecco, lo vedi? Nella sala ampia chiacchierano e brindano i genitori (anche se sul volto del padre sembra, di tanto in tanto, calare un cupo, tetro ed immotivato sipario di silenzio...) i fratelli, la sorella ed il fidanzato di quest'ultima. Ogni due domeniche c'è un pranzo speciale, quando giunge il fidanzato della sorella più grande. Cosa dici, Pablo? Non vedi Tony nella grande sala? Non lo vedi perché lui sta mangiando al tavolo della cucina con la nonna analfabeta e non nella sala, forse perché i posti a tavola non sono sufficienti o forse perché la vecchia ed il bambino sono “diversamente festivi” ed a loro è destinato un pranzo parallelo, a parte (o in disparte). Qualcosa ti è un po' più chiaro ora, Pablo?”, direi al mediano dalle spiccate doti offensive in fase di ripartenza. Pablo però è ancora immobile sulla linea dell'osservazione calcistica (all'interno di quell'area tecnica che nella stagione calcistica 87-88 non era stata ancora concepita), e dopo aver notato di nuovo che Tony non è mai dentro la mischia, improvvisamente intuisce e realizza che a quel bambino gioverebbe parecchio segnare un bel goal. Ne sei certo, Pablo? Sei davvero un osservatore? Macchioline a Sarzana. Olbia era lontana ed ebbe la meglio l'ippodromo di San Rossore, ma allo stadio “Miro Luperi” di Sarzana invece volli andare, e mi sistemai nella gradinata (settore ospiti) in compagnia di un nutrito gruppo di miei concittadini. I ragazzi di Franzon dovevano strappare almeno un punticino per rimanere nelle zone alte della classifica. SarzaneseMassese aveva l'aria di una partita facile e leggera, ma tutto ciò che ha “un'aria facile e leggera” (se conoscessi la fisica cercherei di trasformare il principio in legge) quando meno ce lo aspettiamo è destinato a trasformarsi in qualcosa di “difficile e pesante”. Sull'uno a uno l'incontro si fece letargico ed anche il tifo si spense, quasi il pubblico fosse sovrappensiero. Io ad esempio stavo studiando che tipo di allenamento improvvisare il giorno dopo. Sì, perché nella stagione calcistica 87-88 mi dedicavo già alla corsa di resistenza. Per riuscire in uno sport di resistenza sono indispensabili alcuni requisiti (che sono poi quelli che costruiscono anche i “caratteri e le personalità resistenti”): ottimismo, autostima e tolleranza alle frustrazioni. Ho appena elencato le ragioni per le quali non solo non sono mai diventato un campione, ma non ho nemmeno preso parte ad una singola garetta amatoriale. Però continuo a correre, da solo. Perché correre è bello, sappiatelo voi che vi distruggete di cibo, alcol, fumo, droghe, libri e bricolage (le iniezioni di libri e bricolage fanno malissimo). Se solo conosceste, voi del bricolage, cosa significhi inebriarsi di ossigeno a pieni polmoni, passo dopo passo, falcata dopo falcata, e perdersi nel sentiero accanto ad un lago, o intorno ad un fiume o tra le segrete ombre dei “pini scagliosi ed irti”, restituireste immediatamente alla biblioteca quel micidiale saggio di Russi su D'Annunzio agonista e lo sport. Gesù, fa che quelle macchioline nella sostanza bianca dell'encefalo, quelle macchioline evidenziate dalla risonanza magnetica nel mio cervello quasi due anni fa, non comportino nulla di spiacevole! Fa ch'io possa dedicarmi almeno allo jogging per qualche altro anno ancora! Se invece, Signore Gesù, quelle macchioline significassero qualcosa di veramente serio, fa che riesca ad accettarle come una semplice brutta partita di un campionato ancora lungo! Se poi dovesse andare male male, ricorda almeno di non mandarmi Balotelli in qualità di badante... Ecco come procede il racconto di un narratore poco meno che mediocre, un narratore che intitola il suo lungo racconto “La stagione calcistica 87-88” e parte dall'incontro Sarzanese – Massese, salta di palo in frasca scrivendo prima di corsa di resistenza, poi di macchioline e infine (per la seconda volta) del povero Balotelli, colpevole di aver gettato a terra e con irritazione la maglia nerazzurra, dopo una meritatissima sostituzione nella semifinale di champions col Barcellona. Il fatto è che allo stadio “Miro Luperi”, sul risultato di uno a uno (pareggio “facile e leggero”) si abbatté improvvisa e raggelante una pallonata-siluro da trenta metri, imparabile, “difficile e pesante” del centrocampista Vignali: ho saputo recentemente che quel Vignali, che costò alla Massese una amarissima sconfitta, è parente del campione mondiale paralimpico di duathlon Fabrizio Vignali, uomo generoso e grande atleta resistente e resiliente. Campione paralimpico perché quelle macchioline significarono per lui, nel 2006, una brutta diagnosi: “Sclerosi Multipla”. Ma Fabrizio non si arrende, e Balotelli, Signore, mandalo pure da qualche altra parte a fare l'esperienza del badante. Il cerchio si è chiuso, o no? Tony conosce Facchetti (e viceversa). Nel '70 lo stadio degli Oliveti (aperto nel '60 ed ancora decoroso e ben tenuto: il tempo e l'incuria si sarebbero presi nei decenni a venire la loro rivincita...) fu teatro della storica impresa della promozione in serie B della Massese calcio. Non solo: la Nazionale di Valcareggi scelse l'impianto cittadino per un allenamento-esibizione che suscitò un gran clamore: in città non si parlava d'altro. “Vuoi provare col piatto sinistro oggi, little brother?”, suggeriva Pablo. “Io tolgo le scarpe se tu mi porti a vedere l'Italia di Facchetti”, rispose il piccolo, lanciando al mediano il guanto di sfida di un sottile ed infantile ricatto. “Non posso. Giovedì a quell'ora sarò in palestra per il potenziamento”, si giustificò Pablo, aggiungendo: “Papà non può accompagnarti?”. “Papà si è ammalato”, spiegò il bambino. “Influenza?”, si informò premurosamente il giocatore. “Non lo so. Sta sempre a letto e quando si alza non dice una parola. Mamma è convinta che abbia preso qualche infezione”, riferì Tony. Quella infezione i medici la chiamarono “sindrome ansioso-depressiva” (il termine “disturbo bipolare” doveva ancora essere coniato a beneficio dell'industria farmaceutica, “psicosi maniaco-depressiva” erano tre parole che incutevano spavento mentre gli artisti e le persone chic erano titolari del singolare privilegio di etichettarsi come “malati di vivere”, o “malati di oscurità”. I malati di oscurità di solito potevano permettersi il lusso di curarsi in cliniche molto costose, a differenza dei malati di infezioni). “I tuoi fratelli non ce la fanno a venire con te al campo? Nemmeno tua sorella?”, chiese ancora Pablo, quasi fosse un fratello... “A mia sorella non importa un bel niente di Facchetti. Poi sono tutti convinti che ci sarà troppa confusione e Facchetti lo vedranno solo di striscio pochi fortunati”, chiarì il bambino. A Pablo venne in mente che quella poteva essere l'occasione giusta per provare a “potenziare” l'indipendenza di Tony e gli suggerì di andare da solo ad assistere all'allenamento dei vice campioni del mondo: in fondo lo stadio si trovava a venti minuti di cammino da casa, l'ingresso era gratuito e qualche amichetto nei pressi dell'ingresso al campo sportivo l'avrebbe pur trovato... L'indicazione piacque a Tony, il quale si appropriò del saggio consiglio senza darlo a vedere, principalmente per fingere di non negarsi il ricatto delle scarpe... Il giovedì seguente, mentre il mediano potenziava i quadricipiti in palestra, Tony si avviò a piedi verso lo stadio, ignorando a quale tipo di “potenziamento” la realtà lo avrebbe sottoposto. La madre gli accordò il permesso di andare da solo perché si trovava in uno stato crepuscolare di coscienza: il marito la stava preoccupando moltissimo con quelle sconosciute infezioni che gli si annidavano nella testa e nel cuore e che lo rendevano pallido e muto... In effetti i fratelli di Tony previdero bene: uno stadio così gremito Massa non lo aveva mai veduto. Sopra gli alti scaloni che conducevano alle gradinate centrali, sotto alla tribuna, centinaia di corpi si ammassavano e si scontravano, lottando vanamente per disputarsi un angolino dal quale sperare di ammirare gli eroi dell'Azteca. I bambini rischiavano di finire calpestati, e molti conobbero la loro prima crisi di panico. Credo che l'allenamento (suddiviso in due tempi) lo videro per intero esclusivamente i giornalisti accreditati. Dall'altoparlante dell'impianto sportivo, tra le due fasi dell'allenamento, il folto pubblico, i cronisti, gli addetti alla sicurezza, Facchetti e la Nazionale al completo riunita negli spogliatoi udirono una voce asciutta e ferma scandire al microfono le seguenti parole: “Attenzione, attenzione: un bambino di nove anni di nome Tony si è perduto ed attende al servizio bar di essere condotto dai genitori. Ripeto: un bambino di nove anni di nome Tony si è perduto ed attende...” Apuane, felicità e metodo scientifico. Tra me e le Alpi Apuane non è mai corso buon sangue. Non trovo nulla di entusiasmante in quelle vette magnificate da fior di letterati, ecologisti, escursionisti ed alpinisti. Le giudico dure, ostili, testarde, retoriche ed irremovibili. Soprattutto irremovibili. Uno le osserva un giorno, ed il giorno dopo sono ancora lì: sin dalla più tenera età avrei desiderato che mi si aprisse, a nord, lo stesso orizzonte che i miei occhi abbracciavano quando volgevo lo sguardo verso il mare, con alle spalle quelle sopravvalutatissime montagne, ma esse non hanno mai assecondato la mia volizione e rimangono e rimarranno al loro posto per chissà quante decine di migliaia di anni ancora. Queste considerazioni depressive e poco ancorate alla realtà le andavo maneggiando nel corso di un'altra domenica della stagione calcistica 87-88, durante Massese-Pistoiese. Dalla tribuna dello stadio degli Oliveti le presuntuose vette della Tambura e della Pania (ha fatto bene il sommo poeta a collocarle nel suo Inferno) pareva bastasse allungare un braccio per toccarle. Mentre le mie opinioni a proposito della boriosa catena montana si rafforzavano, il derby toscano, molto sentito dalle due tifoserie, era inchiodato sull'uno a uno e si giocavano i minuti di recupero. Gli attacchi ripetuti ed infruttuosi dei ragazzi di Franzon parevano permeati dalla stessa sensazione di rabbia ed impotenza che la Tambura e le altre cime suscitavano nel mio animo. Una rassegnazione condivisa avvolgeva ormai la tribuna, le curve, la gradinata e andava evolvendo in un aperto sconforto punteggiato da numerosi fischi di disappunto. Un'altra legge non scritta, che se mi fosse concesso trasformerei in principio assiomatico, è la seguente (che mi sono “inventato”): “Cessa di sperare e sarà la Speranza a venirti a trovare”. In occasione di quella gara, la Speranza assunse i lineamenti di un calcio d'angolo che Rosati, spuntato dal nulla, incassò fulmineamente in rete col suo santo e marmoreo testone. L'arbitro convalidò il goal ed immediatamente dopo pose termine alle ostilità. In curva ed in gradinata sconosciuti agitati ed esultanti abbracciavano altri sconosciuti giubilanti come fossero le persone più care: immensa, non quantificabile, orgiastica ed affratellante virtù delle vittorie a tempo scaduto! I giocatori festeggiarono a lungo. Rosati, avesse sofferto di carenze affettive, quella domenica le colmò tutte, soffocato dagli amplessi di una decina di compagni. Paolino Frara, un cicciobello bassotto e tarchiato capace però di segnare indifferentemente di destro, sinistro e persino di nuca, correva verso la panchina da Mister Franzon, il quale agitava braccia e gambe quasi fosse stato morso da sette tarantole. Ho sempre creduto che in quei momenti il cervello umano si disconnettesse dalla realtà: “la felicità di una marcatura inattesa – così pensavo – funziona come una scossa elettro-convulsivante che azzera e resetta tutto il resto”. Questo fino a quando non vidi l'anno successivo, in quel di Siena, Michele Pisasale (il “bomber tascabile”, un altro punto di forza della Massese nella stagione calcistica 87-88) correre anche lui, dopo una rete, verso la propria panchina ebbro di contentezza e traboccante di gioia e gridare: “La cucina! La cucina! Ho pagato la cucina!”. Nel contratto che aveva firmato con la dirigenza della Robur c'era una clausola economica legata al suo rendimento in termini di reti: più ne faceva e più avrebbe guadagnato. Pisasale si era sposato, aveva messo su famiglia da poco, e la mia teoria sulla gioia del goal che disconnette dalla realtà subì una profonda revisione. Il metodo scientifico d'altronde ha le sue rigorose esigenze che vanno rispettate... Il ruolo e la squadra: un approfondimento. Pablo, la settimana successiva al famoso allenamento della Nazionale al campo degli Oliveti, volle incrementare la sua esperienza di futuro osservatore cercando di capire (ancora seduto, in disparte, sulla panchina di legno del giardino prospiciente il cortile dell'oratorio) quanto avesse funzionato la sua idea di “potenziamento del senso di indipendenza” nei riguardi del little brother. Come ho già precisato infatti, al calciatore era saltato all'occhio che Tony tendeva ad allontanarsi dalle mischie e ad evitare le lotte per la conquista del pallone. Quel giorno a Pablo fu ancora più chiaro che Tony, più che ad un giocatore in erba, assomigliava ad un girovago senza ruolo del piccolo rettangolo di gioco: guardava i coetanei disputarsi la palla, li vedeva sudare, impegnarsi e litigare ma seguiva i movimenti e le azioni con il disinteressato distacco di un cronista privo di posizione e perciò in outside. La campana della chiesa batté le cinque del pomeriggio, ora fatale: “le ferite bruciavano come soli, a las cinco de la tarde”... La campana suonò le cinque cantate da Garcìa Lorca e forse si trattò di un segno: in quel momento Tony stava transitando sulla linea mediana del campetto mentre un'azione confusa si dipanava ad una trentina di metri di distanza da lui, dinanzi alla porta di una delle due squadre (il bimbo aveva dimenticato quale dei due capitani lo avesse convocato, all'inizio della partitella). Scoccate “le cinque della sera” il pallone rotolò lentamente, molto, molto lentamente incontro a Tony: il ragazzino mosse due passi incontro alla sfera di cuoio e la colpì (di punta, ovviamente) provando a spedirla il più lontano possibile. Il pallone, assumendo una strana parabola, finì con l'insaccarsi al di sotto della traversa di una delle due piccole porte: goal! Tony “il pizzaiolo” aveva realizzato un goal, e fu la rete più enigmatica di tutta la storia calcistica dell'oratorio, poiché nessuno esultò: i giovani contendenti si volsero verso l'autore della rete con aria e sguardi interrogativi, dal momento che nemmeno loro ricordavano a quale squadra “il pizzaiolo” fosse stato assegnato. Il problema non era dei più semplici: quel goal, in altri termini, era un goal od un auto goal? Tony, cosciente della casualità di quanto occorsogli, si grattava la testa, pensieroso. I compagni, escogitando una pratica e frettolosa soluzione, si accordarono annullando il goal e ripresero il gioco là da dove si era imprevedibilmente interrotto. “Il pizzaiolo”, accortosi della presenza di Pablo sulla panchina del giardino, gli si approssimò per salutarlo. Pablo, sino alle cinque della sera, aveva mantenuto la convinzione che a Tony avrebbe giovato segnare una rete. Dopo le cinque della sera il futuro idolo degli stadi realizzò che il suo pupillo aveva bisogno di una squadra, più che di una rete o di un ruolo. “La testa è più importante del talento”... “Vuoi provare lo stop di petto?”, chiese Pablo al bambino, quando questi gli sedette accanto. “No, oggi sono stanco. Hai visto la mia rete?”, si informò Tony. “Certo che l'ho vista: un goal fortunato, alla pizzaiolo...ma sempre un goal. Non importa se non lo hanno convalidato. Le partite sono piene di ingiustizie...”, rispose affettuosamente il mediano dalle spiccate doti offensive. Tony si prese qualche attimo di riflessione poi domandò, in piena perplessità: “Ma secondo te ho segnato un goal od un auto goal?”. “La prossima volta, prima di calciare, forse è meglio che chiedi a qualcuno in quale squadra giochi”, sospirò Pablo stringendo a sé quel baby player apparentemente “svincolato ed in attesa di contratto”, come lo avrebbe definito il pragmatico linguaggio di un procuratore sportivo (a proposito: nella stagione calcistica 87-88 questa singolare figura di parassita non esisteva ancora). “Ci sei andato all'allenamento della Nazionale, giovedì scorso?”, chiese Pablo, cambiando opportunamente argomento. Tony, deglutendo in silenzio il recente ricordo del primo attacco di panico, annuì. “E sei riuscito a vedere qualcosa? Ti sei divertito?”, domandò Pablo, per saperne qualcosa di più. Riandando col pensiero a quel pomeriggio da incubo, il pizzaiolo chiuse gli occhi. Un sorriso dall'interno glieli riaprì e Tony rispose: “E' stata una giornata veramente indimenticabile: ho trovato un bel posto in gradinata e da lì ho ascoltato l'inno di Mameli che ho cantato col pubblico, e poi... poi ho riconosciuto tutti i giocatori. E Facchetti mi ha persino salutato”, disse il novenne convincendo prima se stesso e quindi il mediano. Quel sogno, quella storia dettata da un sorriso (i sorrisi non dettano bugie), lo riempì di una sconosciuta allegria. Era bello raccontare storie. Raccontare storie: che sia questo l'unico modo per saperne qualcosa di più? Maturare in gabbia. Nella stagione calcistica 87-88, il ventiquattro aprile la Carrarese di Corrado Orrico ci impartì una bella lezione di calcio: la verità qualche volta è amara, ma è sempre molto salutare berla. In quell'anno Arrigo Sacchi, al Milan, si era appropriato delle idee di Orrico, “il filosofo di Volpara”, al quale solo tre anni dopo un presidente della massima serie (Pellegrini dell'Inter) prestò le chiavi delle stanze del “calcio che conta”: il Destino però distribuisce ad ognuno carte diverse per uno stesso gioco, ed il tecnico-filosofo non tenne a lungo le redini della mia squadra del cuore... Il ventiquattro aprile dell'ottantotto (esiste, quando splende il sole, qualcosa di più luminoso del verde di un campo di calcio i cui bordi siano delimitati dal fragore di un tifo belligerante?) si capì sin dai primi minuti dell'incontro (che terminò due a zero per i padroni di casa) che la Carrarese aveva un motore più potente del nostro e soprattutto una capacità di corsa doppia rispetto ai ragazzi di Franzon. Ma come mai i gialloblu correvano così tanto? Come mai arrivavano prima sulla palla ed erano ovunque, sul rettangolo di gioco? Una ragione c'era: Corrado Orrico, precursore del calcio “a zona” in Italia, aveva inventato “la gabbia”. La gabbia è un piccolo campo coperto in altezza, lunghezza e larghezza da reti che impediscono al pallone di uscire dal gioco. La caratteristica principale di questa metodica di allenamento è la velocità, proprio perché la partita non conosce pause. Orrico, prendendo spunto dai ricordi di quando, ragazzo, giocava sui campetti delle spiagge livornesi, allestì per i suoi giocatori un esercizio estenuante che rendeva i riflessi più vigili, la tecnica più raffinata e soprattutto forniva quel “qualcosa in più” a livello organico in termini di “intensità”: giocare (e correre) senza sosta è un impegno che obbliga gli atleti a “reggere” ritmi cardiaci propri di aggressioni fisiche protratte nel tempo. La Carrarese infatti ci aggredì dall'inizio alla fine della partita: gli aquilotti, forse più tecnici, nella partita di ritorno subirono quei ritmi e furono meritatamente sconfitti. Le geometrie di gioco di Orrico, studiate, ripetute e memorizzate ossessivamente in allenamento, erano oltretutto esteticamente pregevoli perché semplici, schematiche e veloci. Orrico era noto per i suoi metodi rudi e per il suo caratteraccio, ma a me è sempre parso un uomo molto coerente e con le idee chiare. Per il tecnico-filosofo il talento era fatto di dinamismo, tecnica, fisicità e capacità agonistiche tenute assieme da una volontà d'acciaio. Detto altrimenti: il talento è “tante cose” e tutte quelle “tante cose” sono importanti quanto “la testa”. Un giocatore al quale manchi solo una di queste caratteristiche, anche se forte, è comunque condannato a rimanere “l'ipotesi di un fuoriclasse”. Chissà se Pablo si sarebbe fatto convincere... La Carrarese di Orrico (come in seguito la sua Lucchese) rappresentava lo specchio fedele della visione del calcio (e di conseguenza del mondo) del tecnico di Volpara. Ed a proposito di “visioni del mondo” mi piace ricordare una “esternazione” di Corrado: “In Olanda, un paese molto più piccolo del nostro, ci sono migliaia di campi dove i giovani dei vivai hanno la possibilità di crescere: loro investono in strutture che noi ci sogniamo. In Federazione dovrebbero studiare l'organizzazione dell'Ajax, invece di perdere tempo in tanti discorsi...”. Eppure, quando Corrado andò ad allenare a Milano, fu notata esclusivamente la sua “eccentricità” di filosofo e la scontrosità dei modi. Parlando di “gabbia” un giornalista molto spiritoso scrisse che “alla Pinetina c'è una gabbia sì, ma una gabbia di matti”. Che dire: aveva ragione il tragico greco nell'asserire che “il carattere è il destino dell'uomo?”. Orrico non aveva un buon carattere, credeva molto nel metodo, nella durezza e nell'intensità degli allenamenti ed un po' meno nell'elasticità dei comportamenti. Anni prima aveva preparato un ragazzino a suo dire “un po' troppo esile” costringendolo a correre in salita scatti ripetuti, con le tasche appesantite dai sassi: Desolati, credo si chiamasse il ragazzino. Un allenamento impietoso, ma la domenica, in campo, il ragazzino assomigliava ad un fulmine che Zeus scagliava dall'Olimpo. Mi rendo conto di averla tirata per le lunghe, ma nel nobilitare chi ci vince rendiamo più sopportabile il peso delle nostre sconfitte. L'undici di Franzon finì al tappeto sotto i colpi del calcio dai ritmi asfissianti di un tecnico-filosofo: cadde, ma si sarebbe rialzato. Sappiate comunque che la “gabbia” (tutte le gabbie), sono fatte per entrarvi, ed uscirvi più forti. La squadra di Tony. Ai tempi della stagione calcistica 87-88 avevo già letto molto e male. Molto perché amavo leggere e non ritenevo ancora quella attività una perdita di tempo; male perché il metodo di studio sul quale fondavo l'atto della lettura mi era stato insegnato e trasmesso in maniera molto approssimativa (per usare un eufemismo) dalle istituzioni all'epoca deputate a farlo. “Il sapere scolastico universitario e convenzionale” rese un pessimo servizio a me come a diverse altre generazioni di studenti. Nell'87-88 non conoscevo Vittoria Guerrini (Cristina Campo), perché la cultura dominante del decennio precedente ed il suo sistema di divieti proibiva persino di menzionarla, ad esempio: se mi fosse stata data l'opportunità di leggere qualcosa della scrittrice nata a Bologna, comunque non lo avrei capito, proprio a causa della mancanza di basi e di metodo che avevano condizionato il mio apprendimento. Quando infine mi capitò tra le mani “Sotto falso nome” (una raccolta di articoli della Campo) ne apprezzai sì la particolarità dello stile, ma compresi amaramente che la sua profondità mi sarebbe stata negata per sempre. Di quella serie di elzeviri riuniti in “Sotto falso nome” mi rimase però impresso un episodio della maturazione culturale di quella originalissima intellettuale, un episodio che lei stessa racconta nel libro. Guido, il padre della Campo, possedeva una vastissima biblioteca e la figlia (una bambina sveglia, sensibile ed intellettualmente precoce) domandò al genitore il permesso di accedervi. Il padre acconsentì, ma imponendole dei limiti le disse: “Puoi leggere da questo scaffale sino a quello là: i classici russi. Soffrirai, ma non ti faranno del male”. Acutezza di un educatore e premura di un padre! Sì, perché la mente di un bambino, si sa, è una spugna che si imbeve di immagini, di colori, di parole e si nutre dei suoni che ascolta e delle pagine che legge. Le letture di un bambino di nove, dieci anni possono condizionarne l'intera esistenza. Tutto ciò per giungere a scrivere che se le letture della Campo erano letture “sane”, cosa mai potremmo commentare a proposito di quelle che arrivavano tra le mani di Tony? L'amico di Pablo probabilmente non era intellettualmente dotato quanto la figlia di Guido Guerrini, ma questo non impediva alla spugna della mente del piccolo di assorbire immagini ed impressioni. Prima che il padre si ammalasse, la madre puniva duramente “il pizzaiolo” quando lo sorprendeva a curiosare tra i “fumetti proibiti” che i fratelli dimenticavano in giro per la casa: Kriminal, Messalina, Lando, Diabolik. Questi autori “formativi” andavano ad amalgamarsi a letture meno vietate ai minori: Salgari, Stevenson, Collodi. Dopo la malattia del padre, inoltre, uno dei fratelli di Tony si era invaghito prima della psichiatria ed in seguito della psicanalisi. Nella soffitta della casa del bambino si trovavano scatoloni e scatoloni pieni degli autori più indicati all'educazione sentimentale di un novenne: Freud, Groddeck, Reich, Szasz, Tausk, Ferenczi, Rank, Weiss, Abraham, Hartman. Questa in sintesi era la squadra di Tony, il quale poteva contare, in aggiunta, sulle sostituzioni (accomodate sulla“panchina letteraria”) del fior fiore della beat generation. Tony frugava dentro quegli scatoloni e la spugna della fantasia del piccolo imbranato si impregnò così di una particolare miscela composta da pornografia, pirati della Malesia, scrittori alcolizzati ed una serie impressionante di casi clinici crudamente illustrati (nei loro aspetti più intimi) da alcuni dei più celebri analisti del Novecento. Se il bambino ipotizzato dal portiere della squadra di Tony (il quale impiegava la definizione per fini descrittivi oggettivi, a-morali e non giudicanti) era un “perverso polimorfo”, le immagini e le letture mal digerite dell'amico di Pablo erano certamente le più adatte a lasciarlo in quello stato. A nove anni il futuro di un uomo è già deciso. Solo un miracolo od un caso spontaneo di telepatia avrebbero permesso al mediano dalle spiccate doti offensive in fase di ripartenza di riuscire a penetrare il nucleo profondo della perplessità di Tony “Il pizzaiolo”. Autostop e fiuto del goal. La stagione calcistica dell'87-88 è passata alla storia, per lo meno alla mia storia, anche per un'altra ragione: l'autostop. Sareste indiscreti se mi domandaste cosa mi spingesse ai caselli autostradali due volte al giorno (e talvolta anche di notte) per dirigermi verso Firenze Sud, in autostop. Fatti miei, o no? Posso dirvi però che quel poco o tanto che so intorno all'animo umano lo devo in gran parte alle retrospettive riflessioni che ho messo assieme meditando sui casi e le vicende delle centinaia di esseri umani che ho incrociato on the road, e che per uno o più motivi furono abbastanza generosi da aprirmi lo sportello della loro auto per offrirmi un passaggio. Una persona inizia con lo schiudere una portiera ad uno sconosciuto e finisce con lo spalancargli il cuore: il passo è più corto di quello, famoso, di Armstrong sulla luna, ed altrettanto leggero. Sono dell'opinione che le confessioni ricevute da un autostoppista di lungo corso possano essere ascoltate, al massimo, dal cappellano di un penitenziario o dall'infermiere di un reparto psichiatrico. Cosa c'incastri l'autostop con il calcio e con la stagione 87-88 è presto detto: un pomeriggio di maggio, al casello autostradale di Lucca Est, accettò di accompagnarmi sino allo svincolo di Prato un signore ben vestito, proprietario di una auto sportiva, comoda, pulita ed internamente profumata (dimmi come curi l'inside della tua auto e ti saprò dire se finirai sul lastrico). Ringraziai il distinto signore e, dopo avergli comunicato fin dove poteva portarmi, mi distesi sul sedile in pelle (nella stagione calcistica 87-88 l'obbligo delle cinture di sicurezza non era ancora entrato in vigore ed era permesso rilassarsi senza prima averle allacciate). “Ancora non hai una macchina, giovanotto?”, mi chiese il guidatore. “Ho una vecchia auto storica che uso in città. I tragitti più lunghi meglio evitarli”, risposi. “Pochi quattrini, giusto?”, azzardò. “Giusto”, confermai. “Studi?”, domandò ancora. “No. Ho finito di studiare. Centodieci e lode in lingue e letterature straniere”, gli dissi. “Lavori?”, proseguì. “No. Non ho ancora iniziato a lavorare”, risposi tranquillamente, come se l'indomani mi avesse atteso il direttore generale dell'IBM per un colloquio riguardante una futura assunzione. “Di cosa ti occuperai, in futuro?”, si interessò l'elegante signore. “In verità, non saprei”, replicai più sinceramente. “Stai cercando qualcosa?”, domandò ancora il mio autista, senza invadenza. “Diciamo che sto ponendo le basi per non combinare nulla di buono, nella vita”, dichiarai ancor più sinceramente. All'elegante signore la mia risposta piacque, gli parve una buona battuta e rise di gusto, battendomi una pacca sulla gamba. “Quadricipite da corsa resistente”, rilevò l'uomo con prontezza, dopo l'impatto del palmo della sua mano destra con la mia coscia di tacchino. “Esatto”, confermai. “Resistenza veloce o fondo?”, si informò il signore. “Corro e basta. Tre o quattro volte alla settimana”, replicai. “Ma come! Non gareggi? Non fai parte di una società di atletica?”, mi chiese un po' sorpreso. “No”, risposi semplicemente. “E perché?”, rimandò il mio autista di fortuna con altrettanta semplicità. “Perché competere mi procura ansia, pormi obiettivi mi angustia ed allenarmi con gli altri mi angoscia” gli spiegai come se parlassi con uno psicoterapeuta. “Terno! - rise di nuovo fortemente l'uomo al volante, ed aggiunse – Se i ragazzini della mia scuola di calcio ti assomigliassero, sarei rovinato!”. “Sei un allenatore?”, gli chiesi incuriosito. “Sono anche un allenatore. E sono stato un giocatore. Per quale squadra tieni?”, mi domandò. “Inter”, risposi d'istinto. “Terno numero due!”, gridò il signore accompagnando la frase con un altra fragorosa risata. “Cosa c'è da ridere? Cosa c'entra il gioco del lotto con l'Inter?”, gli chiesi lievemente indispettito. “Perché, caro giovanotto, esattamente undici anni fa, all'Inter segnai una indimenticabile tripletta. Indossavo la maglia della Fiorentina ed in quella partita feci impazzire il povero Bini e il grande Facchetti, troppo alti e troppo lenti per la mia forma e la mia velocità”. Seppi così che il mio generoso accompagnatore era il famoso Claudio Desolati, nato in Belgio da un emigrante italiano. Una bella carriera in serie A, dove esordì non ancora diciottenne. Tre gravi infortuni gli negarono la Nazionale maggiore. Quel pomeriggio, tra Lucca e Prato, discorremmo a lungo di pallone, di vita e di morte, ma il racconto si appesantirebbe se cominciassi a divagare a proposito delle confessioni che due desolati si scambiarono, un pomeriggio di maggio della stagione calcistica 8788... Desidero solo ricordare una piccola perla di saggezza che quell'ex famoso calciatore mi regalò, salutandomi: “Non so cosa tu sia portato a fare, giovanotto, ma tieni bene in mente quello che ti dico: qualsiasi posto ti assegni il Padreterno nel mondo, accettalo riconoscente e cerca di adattarti. Io nacqui rifinitore, rifinitore d'appoggio, ed ho dovuto adattarmi come attaccante laterale. Se non riuscirai in nulla, adattati a vivere da disadattato. Anzi, ora che ti ho conosciuto meglio, secondo me da disadattato vivresti benissimo...”. E ridendo ancora una volta sonoramente sopra quella specie di profezia, mi lasciò scendere a Prato, non prima di avermi stretto a lungo la mano con tutte e due le sue, che è sempre un bel modo di dimostrare vicinanza. Heisenberg e scorrettezze in area di rigore. La dozzina di amici, amiche e conoscenti ai quali sottopongo le pagine dei miei inediti tentativi narrativi prima che essi vengano cestinati dagli editors delle case editrici, sono concordi nell'attribuire un pregio ed un difetto ai miei scritti: il pregio riguarda un certo brio che riconoscono alla scorrevolezza della scrittura; il difetto si riferisce ad alcuni scivoloni autoreferenziali nei quali incorrerei nell'incedere delle narrazioni. Per rimediare a questa auto referenzialità, a detta dei miei cari lettori, dovrei semplicemente prendere le distanze dall'oggetto del raccontare. La funzione di questo breve paragrafo è quella di confermare la percezione dello sparuto gruppo di lettori non paganti, almeno per ciò che attiene agli scivoloni. Sono forse in possesso degli strumenti adeguati a far fronte alle benevole osservazioni di chi (più colto, meglio istruito e preparato di me) dedica gratuitamente parte del suo tempo e delle sue attenzioni ai miei mediocri prodotti che mi vergognerei di definire letterari? No, non lo sono (e questa negazione mi sembra di averla ben motivata quando ricordavo Cristina Campo, alcuni paragrafi or sono). Ma tornando alle vicende della famosa stagione calcistica 87-88, vorrei dire che “a prendere le distanze” tanti piccoli particolari, irrimediabilmente, vanno perduti. Ad esempio: un amico il cui fratellino era stato ammesso allo stadio in qualità di raccattapalle durante quel Massese Pistoiese di cui ho già scritto, mi raccontò, alcuni giorni dopo la partita, che Ivan (si chiamava così il fratellino) nel corso del memorabile calcio d'angolo che Rosati incornò in rete nel convulso finale del match, rimase fortemente impressionato dalla violenza verbale e fisica (molto nascosta) della quale fu spettatore in quell'ultimo, fatale minuto. Difensori ed attaccanti, incollati gli uni agli altri, si insultavano con cattiverie impensabili: provocazioni, pestoni proibiti, gomitate cortissime ficcate nella pancia da dietro, per far male, guardando in altre direzioni e simulando estraneità per non attirare l'attenzione del direttore di gara... Dalla tribuna percepivo una situazione ed una sensazione di fermento agonistico, ma le sottigliezze di quella serie di piccole-enormi-reiterate prevaricazioni che si susseguivano nell'area di rigore rimanevano occultate al mio sguardo. E nemmeno voi avreste saputo ciò che avete appena letto se un raccattapalle non lo avesse raccontato al fratello, il quale funse per me da “fonte” (la trasmissione orale ed i pettegolezzi seguitano ad integrare la trasmissione scritta. Anzi: se c'è qualcosa che viaggia ad una velocità superiore a quella della luce, quel qualcosa è proprio il pettegolezzo...). No, non esiste un “racconto oggettivo” perché il racconto è solo la voce in un coro, ed i cori sono così numerosi che nessuno ha mai ha potuto contarli. Narrare diventa in questo modo un “ascoltare la propria voce”: un fatto naturale come specchiarsi sopra le acque di un fiume, o di una fonte (vero Narciso, amico mio?). Se fosse stato possibile imporre un assoluto silenzio ai cori dei tifosi delle curve tra quel primo e secondo tempo di Massese Pistoiese della stagione calcistica 87-88, ad esempio, chissà quante altre storie avremmo da trasmettere ai posteri a proposito di ciò che si dicevano i giocatori, all'interno del breve tunnel che conduceva agli spogliatoi! Insomma, una visione d'insieme è impedita a chi dell'insieme fa parte, e giungendo ad una conclusione tanto ovvia, provo pena nei confronti di me stesso: rilevo, autodistruttivamente, che anche l'ultimo dei ginnasiali sa già che il principio di indeterminazione ha ricadute inevitabili persino su chi (per celia o distrazione) si incarica di intrattenere qualcuno raccontandogli qualcosa. In ogni caso, se i miei scivoloni avvicinassero l'autobiografia, essi rappresenterebbero addirittura uno strumento di benessere per il mio sistema nervoso (di questo almeno sono convinti diversi psicologi che reputo “le classiche braccia sottratte all'agricoltura”). Io credo solo che se si potesse davvero scrivere prendendo le distanze da se stessi, rimarrebbe viva la speranza di dimenticarsi (quella sì, una terapia definitiva) e come un sogno o nebbia al sole svanirebbero i ricordi della stagione calcistica 87-88... Scarpette al chiodo. “Io non mi alleno più”, disse Tony, in modo inaspettato ed asciutto, all'amico mediano dal radioso futuro, il quale ci rimase istantaneamente molto male, perché i suoi neuroni specchio tradussero per lui: “Tu Pablo, old brother, non mi allenerai mai più”. L'affermazione del bambino non era perentoria (nel dna di Tony era presente un tipo di variante genetica che impediva a lui ed ai suoi discendenti sino alla sesta generazione di asserire qualcosa di giusto battendo i pugni sul tavolo), non era perentoria ma era evidente che il piccolo, da quella negazione non sarebbe tornato indietro. “Posso sapere da quando hai preso questa importante risoluzione, e perché, my little brother?”, domandò Pablo che, una volta deposto il disappunto sorto dal precoce fallimento dei suoi progetti di preparatore, desiderava indagare sugli strani effetti che la sua influenza aveva esercitato nel processo di potenziamento delle facoltà decisionali del ragazzino. “Non sono portato per il calcio, sono una schiappa. Lo sai anche tu”, rispose Tony superficialmente. “Di questo si era già ragionato, e non credo tu abbia cambiato idea tanto in fretta sulla necessità di impegnarsi: tu sai che quella è la strada da percorrere, e soprattutto sei l'unico a sapere che non sono “un ambidestro naturale”, ribatté Pablo, provando ad instaurare un dialogo con quel nuovo essere che si trovava dinanzi. “Quella è la strada da percorrere per chi deve percorrere quella strada. Non è la mia strada”, si sentì rispondere Pablo. A nove anni il futuro di un uomo si è già deciso. “E chi ti ha detto che quella non è la tua strada?”, rimandò istintivamente Pablo. “Il mare”, rispose Tony. “Me lo ha detto il mare”. Con molta pazienza, la pazienza di chi è abituato, se serve, ad incollarsi ad un centravanti e ad inseguirlo per tutto il campo da gioco, Pablo si lasciò spiegare dal bambino l'esperienza che questi aveva vissuto la domenica precedente. La sorella di Tony e il di lei fidanzato erano usciti portandoselo appresso (negli anni settanta un fratellino funzionava ancora bene come scudo della verginità di una sorella maggiore). Tutti e tre arrivarono sino alla spiaggia dopo la pineta, poi i due colombi dissero al bambino: “Aspettaci dieci minuti qua: abbiamo dimenticato il plaid in macchina, torniamo subito. Non ti muovere, eh...”. La sorella di Tony sapeva che poteva fidarsi del buon fratellino, più obbediente di un soprammobile. Il ragazzino, seduto sulla sabbia a pochi passi dalla riva, raccontò di avere ad un tratto provato una sensazione particolare, il cui centro era costituito da una vaga intuizione verbalmente intraducibile, una intuizione che “gli aveva spiegato tutto”. “Tutto cosa?”, tentava di approfondire Pablo sempre più incuriosito. “Il mare era piatto, limpido. Vedevo alcune piccole rocce sul fondo, dei granchi e dei pesciolini. Non so perché ma ero tanto contento, e mentre non sapevo perché ero tanto contento il mare mi ha detto che va tutto bene, e che anche lui è contento, ed è anche contento di me e che per lui vado bene così. Mi ha anche detto che lui è ovunque, e quando ho paura mi ha detto di non aver paura perché la paura sono solo onde più alte che passano...” Pablo capiva sempre meno, ma capiva che c'era qualcosa da capire. “Non ti ha detto altro?”, chiese il mediano. “Mentre ero contento, l'ultima cosa che mi ha detto è stata: non aver paura di soffrire”, rispose il bambino. Pablo allora rilasciò a Tony una dichiarazione che nessun cronista avrebbe mai registrato in un dopo partita: “Quella del mare poteva essere la voce di Dio”. “Dio?!”, si stupì Tony. “Quello che bisogna imparare alla dottrina?”, aggiunse. “A certi bambini, Dio parla anche dopo il catechismo”, rispose nebulosamente Pablo. Il mediano, la domenica, era solito calpestare l'erba dei campi e non il pavimento delle chiese e non si faceva il segno della croce prima di entrare in campo, a differenza di tanti suoi compagni ed avversari, per i quali quel segno rappresentava solo un rapido, saettante e compulsivo gesto apotropaico, però si era sempre sentito bene al pensiero dell'esistenza di un Creatore. Il mediano osservatore ed il bambino apprendista giocatore avevano iniziato ad incontrarsi per realizzare un metodo di allenamento, ed avevano finito col parlare delle imperscrutabili tattiche di un Altro allenatore, l'Allenatore che ci fa tutti fratelli... “Ma se non era il mare ed era Dio, chi è questo Dio tanto famoso, secondo te?”, chiese Tony, ponendo una domanda con la profondità che gli adulti perdono nel crescere. Pablo, mediano corretto, non poteva evitare quel tackle scivolato e non voleva affermare qualcosa di finto (mentire ad un bambino è un fallo che merita la radiazione, non un cartellino rosso). Con poca enfasi rispose: “Per me Dio è Qualcuno che quando si fa sentire, ciò che è bello è bellissimo, e ciò che è brutto tollerabile; e quando invece non si fa sentire, ciò che è bello è molto meno bello, e ciò che è brutto è davvero orribile”. “Se le cose stanno come dici, allora ho capito perché è così famoso questo Dio che parla anche col mare...”. Con questa semplice constatazione l'ex aspirante calciatore in erba riassunse l'involontaria catechesi dell'allenatore che aveva appena licenziato. Le cose del Cielo trasmesse da un mediano sono decisamente più comprensibili di quelle scritte da un teologo... “Okey, allora. Fine degli allenamenti. Ma tornerò egualmente a vedere cosa combini, pizzaiolo.”, promise Pablo a Tony, già di spalle sulla via di casa. La stagione calcistica 87-88 volge al termine. Anche per la Massese, mentre a Napoli Gullit e Van Basten polverizzavano il mito dell'imbattibilità della squadra di Maradona (che non è mai stato meglio'e Pelè), la stagione calcistica 87-88 si trovava alle battute conclusive. Tra le insufficienze del mio approccio al raccontare, non ultima è la tendenza a lasciar seguire ai “fatti concreti” un loro corso sotterraneo, carsico, immaginando che chi legge non sia interessato ai fatti stessi, o li conosca già, oppure li dia per scontati. Forse mi trovo in errore, e proverò a rimediare. La corsa alla vittoria del campionato del Milan di Sacchi non fu affatto scontata, così come per la Massese non fu lineare il percorso che la condusse allo spareggio-promozione con il Montevarchi: ad un certo punto del campionato la lotta per salire di categoria pareva quasi perduta. Gli aquilotti si rimisero in carreggiata nelle ultime giornate, e la vittoria nella trasferta di Pistoia, alla quale mi recai in treno assieme a tre, quattrocento supporters, si rivelò decisiva. I ragazzi di Franzon soffrirono: quando la vittoria è l'unico risultato a disposizione, non è mai facile vincere. Quando giunse il goal (credo un rasoterra velenoso del solito Rosati), quella rete fu liberatoria dal punto di vista emozionale per alcuni, ma fu fatale per me, che a livello psichico (ma anche fisico) sperimentai (per la prima volta?) cosa significasse “angoscia pre-psicotica”: subito dopo la marcatura, tra i tifosi in festa, percepii il terrore “dell'assenza di me stesso”. Il cuore mi batteva come un tamburo percosso da un selvaggio, mi mancava il respiro e lo stadio e le persone e i giocatori e le bandiere e le mie scarpe e tutto quanto appartenevano ad una realtà a me estranea, una realtà che andava disfacendosi e nel disfarsi lasciava, al mio interno ed al mio esterno, solo un vuoto terrorizzante. Strinsi gli occhi, i denti ed i pugni nello sforzo disperato di rimanere lì, e lì grazie a Dio, rimasi: tutto ciò avrà occupato lo spazio di pochi minuti. Ricordo che il gioco riprese (mancavano dieci minuti alla fine dell'incontro) ed io, andando con la mente alla rete di Rosati, pregai affinché non mi succedesse più di provare quel che avevo provato... Il Milan vinse lo scudetto della stagione calcistica 87-88, aprendo un ciclo; la Massese finì in testa alla classifica a pari punti con la Carrarese ed il Montevarchi, ma a causa della differenza reti (o degli scontri diretti), gli aquilotti si sarebbero giocati la promozione in quel di Empoli, contro il Montevarchi... Diciotto anni prima, sul declinare di un altro campionato, Pablo non notò Tony tra gli altri ragazzini, ripassando come sempre, dopo gli allenamenti, dal campetto dell'oratorio. Non dette peso a quell'assenza, che considerò fortuita, sino a quando l'assenza non divenne continuata, protraendosi nelle giornate seguenti. I ragazzetti dell'oratorio tiravano calci al pallone come nulla fosse: il pizzaiolo d'altronde non aveva mai rappresentato un pezzo pregiato nella scacchiera delle loro partitelle. Persino i bambini, in modo del tutto automatico, “pesano” le assenze con bilance di comodo, esattamente come noi che ci consideriamo più maturi. Pablo era sicuro che Tony non aveva raccontato niente di ciò che gli aveva detto il mare, ai più talentuosi e vispi amichetti... Il mediano un pomeriggio decise allora di fermare la partitella, impossessandosi del pallone: “Ragazzi, sapete come mai non si fa più vedere Tony?”, domandò ai bambini accalcatisi attorno al loro idolo. I piccoli giocatori si scambiarono sguardi interrogativi e muti, sinché uno di loro, voce di tutti, esclamò: “Il pizzaiolo?! Boh!”. Quindi pretesero gioiosamente indietro la palla dal giovane calciatore, e quello che aveva detto “boh!” si rivolse a Pablo con spirito sottilmente adulatorio, comunicandogli sottovoce: “Si nasce fortunati se si nasce ambidestri naturali, vero?”. Pablo sorrise, e nel restituire il pallone pensò che il suo pupillo era un bambino che sapeva mantenere i segreti, deduzione che contribuì ad alimentare in lui una sciocca specie di nostalgia. Una sconfitta, una vittoria e la partita perfetta. Lo stadio di Empoli oltre tremila tifosi massesi riuniti assieme in curva ed in una porzione di gradinata non li aveva mai visti né contati: li vide e li contò domenica 12 giugno 1988. Fu forse in quella giornata che compresi per la prima ed ultima volta cosa volesse dire Antonello Venditti con i suoi inni sguaiati e nello stesso momento accettai di essere un massese: un fatto ed una condizione oggettivamente terrificanti. Se c'era una squadra che nell'arco dei tempi regolamentari meritava di vincere, quella squadra era l'undici allenato da Mister Franzon. Cicciobello Frara, in giornata di grazia, con i suoi dribblings stretti, rincitrullì il suo povero marcatore, il quale in una occasione lo atterrò platealmente in area. Gli inestricabili nodi che stringono il funzionamento della giustizia, anche sportiva, ed il mistero di tante decisioni prese dai collegi giudicanti e dalle terne arbitrali si materializzò, quella domenica pomeriggio, sulla schiena di Paolino Frara, falciato vistosamente in piena area di rigore e rimasto col volto tuffato sull'erba in attesa del fischio del direttore di gara: il fischio che doveva decretare il penalty non arrivò, ed oltre tremila persone stanno ancora chiedendosi perché, a distanza di quasi tre decenni. La palla è rotonda, rimbalza come e dove vuole, e le sue traiettorie sono bizzarre almeno quanto i nostri destini, dei quali (è sempre utile ribadirlo) non siamo gli arbitri... La partita finì ai calci di rigore: gli aquilotti ne sbagliarono tre, uno in più dei montevarchini. Dante Bertoneri, che otto anni prima aveva perduto una finale di coppa Italia proprio ai rigori (segnando il suo), perse lo spareggio promozione sbagliando il suo tiro dal dischetto. La delusione fu immensa: vidi tante persone con le lacrime agli occhi, ed anche se il mio dispiacere fu più asciutto non fu, per questo, meno sentito. Perdemmo dunque tre a due, lo stesso risultato col quale il Milan di Sacchi (che copiava Orrico) poco più di un mese prima aveva espugnato il San Paolo, completando una storica rimonta sul Napoli di Careca e Maradona (che non è mai stato meglio 'e Pelè) e aprendo un ciclo al quale ho accennato più volte. In una domenica compresa tra quelle due, Pablo (giocatore ormai da anni affermato sul palcoscenico del campionato maggiore) portava a termine la partita perfetta per un mediano dalle spiccate doti offensive in fase di ripartenza: la sua partita perfetta. I cori degli osannanti tifosi blucerchiati (o rossoblu?) proclamavano in delirio: “un Pablo Collo, c'è solo un Pablo Collo”. In fase di contenimento la prestazione di Collo sino a quel momento dell'incontro si poteva definire (con un luogo comune da 90°minuto) “senza sbavature”. Macinando chilometri e chilometri nel mezzo, Pablo in due occasioni era giunto anche a fondo campo con la forza di un tornado, riuscendo a servire al suo centravanti due palloni così “limpidi” che persino Tony avrebbe saputo trasformare in goals... Collo stava firmando da solo l'affermazione della squadra nella quale militava, i rossoblu (o i blucerchiati?). Ad un quarto d'ora dalla fine del match Pablo, staccando alto per intervenire di testa e rinviare un pallone destinato all'attaccante avversario, andò a sbattere con grande violenza contro la fronte di quest'ultimo: la tempia destra del mediano picchiò duramente sulla fronte di marmo del giocatore che intendeva ostacolare. L'impatto fu tremendo. Pochi attimi e Pablo Collo, immobile, vedeva scivolare il buio sulla sua coscienza, disteso come un cadavere sopra l'erba verde e morbida del Marassi. I compagni si mettono le mani tra i capelli, e poi gridano disperati, chiamando il massaggiatore, invocando l'intervento del medico sociale: “Presto! Pablo non respira, non respira più! Il cuore si è fermato!”... ...o forse no, Pablo è solo svenuto, o sta dormendo, e tra poco si riprenderà e racconterà ai compagni di squadra di aver sognato un bambino che si presentava con la voce del mare e che questa voce lo chiamava a sé e gli diceva di non temere, che andava tutto bene, e che quella capocciata era un dolore da nulla che passava in fretta, e che tutti i dolori passano in fretta e che non bisogna aver paura di soffrire, e che lui, Tony, gli voleva bene”. A questo bimbo Pablo dice: “Scemo di un pizzaiolo, dove diavolo sei stato tutto questo tempo? Hai trovato la tua strada? Mi sei mancato, lo sai?”. E lo stadio, lentamente si svuota. Scende la sera, ma si accendono egualmente le luci dei riflettori sull'erba attorno a Pablo: una luminosità mai vista in attesa di una partita: quella più bella, quella che non finirà mai. Rielaborazione di lutti? No, grazie. La realtà possiede una fantasia davvero povera, e conseguentemente un linguaggio altrettanto misero. Prendiamo ad esempio l'anamnesi della cartella clinica psichiatrica di Tony, che mi ritrovo adesso tra le mani per ragioni troppo brevi da spiegare: “Padre con disturbo bipolare dell'umore, deceduto. Fratello suicida a ventotto anni. Vengono riferiti dai familiari comportamenti ossessivi e paure generalizzate fin dall'infanzia, seguiti da preoccupazioni eccessive per la propria salute. Nonostante ciò i familiari asseriscono che è sempre stato “un bimbo buono e ubbidiente”, molto sensibile ed intelligente. Si è laureato in lingue e letterature straniere col massimo dei voti. Non vengono date notizie sul suo vissuto nei confronti del suicidio del fratello più grande, un ex calciatore, avvenuto quando il paziente aveva diciannove anni”. Questo è il linguaggio povero e scarno che i medici impiegano nel redarre la cartella clinica di Tony. Se questi medici avessero chiesto a Tony quale fosse stato “il suo vissuto” nei confronti del suicidio del fratello Pablo, Tony avrebbe risposto che lui, il giorno prima, il 5 luglio 1982, scoppiava di felicità assieme ad altri milioni di italiani, assistendo all'indimenticabile tripletta segnata da Paolo Rossi al Brasile di Zico e Falcao, ed in seguito avrebbe legato per sempre quei momenti di gioia all'immagine del viso stravolto dalla disperazione della madre, sul cui volto lesse la morte per impiccagione del fratello, avvenuto nella notte tra il 4 ed il 5 luglio 1982 e scoperto un giorno e mezzo dopo. Ma a Tony non chiesero nulla... Fu a causa di quei due sentimenti opposti e sovrapposti se le future felicità del “pizzaiolo”, ancora adolescente, furono poi sempre accompagnate dall'agro sapore di altre tristezze? Fu per questo se la mattina di quel sei luglio 1982, non riuscendo a piangere, l'ex bambino perverso-polimorfo promise a se stesso: “Pablo, io ti riscatterò”, ignorando di quale croce andava caricandosi e senza comprendere che lui, tutto quel dolore lo avrebbe vissuto sino in fondo, accogliendolo e continuando a vivere, malgrado tutto? Non lo sappiamo. Sappiamo però che “inventare” è una operazione intellettuale diversa dal “rielaborare”, “dall'idealizzare”, dal “ricostruire” e dal “trasfigurare”. Sappiamo che un filosofo ha preteso di “scrivere col proprio sangue” disprezzando chi desidera amare un Sangue infinitamente più prezioso e versato anche per darci la forza di non arrenderci all'angoscia, la forza di non chiudere gli occhi di fronte al Male, la forza – in sintesi - “di sperare contro ogni speranza”. Sappiamo che io sono quel Tony dalla soffocata evoluzione narrativa (e che non ho “inventato” un bel nulla) e sono Pablo e sono Dante e Paolino Frara e tutta quella gente che avete letto e qualche volta – ad esempio adesso – addirittura me stesso. Sappiamo infine che io, voi, la gente della stagione calcistica 87-88, di quelle precedenti e di quelle a venire possiamo uscire di casa proprio adesso, sospendere il tempo ed andare a sederci da soli in riva al mare, se coltiviamo il desiderio di ascoltarne la Voce. “CAMPIONI DEL MONDO” TRE STORIE INIZIANO (E FINISCONO) All'età di cinque anni ricordo con molta precisione che, dopo aver ascoltato i racconti del fratello sommozzatore di mio padre, per un intero pomeriggio fantasticai di diventare un palombaro: protetto da uno spettacolare scafandro e con pesanti bombole di ossigeno sulla schiena, immaginavo di immergermi nelle azzurre profondità oceaniche allo scopo di riparare imprecisati danni alla nave mercantile sulla quale mi ero imbarcato: mentre aggiustavo ciò che era da sistemare e tappavo falle, in un silenzio liquido, magico, irreale ed impossibile a descriversi, mi riempivo gli occhi di tutta quella misteriosa, sconosciuta vita subacquea ignota a “quelli che stavano sopra”. Il libero professionista dottor Gianni Pasinato, medico psichiatra ed analista junghiano sui generis, quando era un ragazzino mostrava invece un grande interesse per il pallone ed aveva già le idee chiare circa il suo futuro: sarebbe diventato l'erede di Ferenc Puskàs, seconda punta di quella “squadra d'oro” - l'Ungheria finalista al mondiale del 1954 considerato da Alfredo Di Stefano il miglior calciatore di tutti i tempi. L'adolescente futuro medico, quando militava negli allievi della squadra della sua città, era in effetti un talento naturale dotato di un ottimo controllo di palla e di un non comune senso della posizione: purtroppo una miopia evolutivo-ereditaria diagnosticatagli dall'unico zio paterno Giorgio (un validissimo medico generico che non si limitava, come la maggioranza dei medici odierni, a smistare la gente dagli specialisti) pose presto fine ai suoi sogni di gloria. A malincuore il futuro dottor Pasinato (che avrebbe amato tanto i suoi pazienti quanto fortemente detestato tutti i colleghi – che lo contraccambiavano, con la sola eccezione del giovane Massini, il quale aveva svolto la sua analisi personale proprio col Pasinato e con questi era ancora legato dalla corrente sotterranea e ambivalente tipica di questo genere di amicizie “odi et amo”) a malincuore il futuro dottor Pasinato, dicevo, ripiegò sull'atletica leggera e si rivelò un discreto saltatore in lungo (triplista): lo sport accompagnò tutta la sua carriera universitaria sinché non giunse l'ora di portare Puskàs negli interminabili colloqui dell'analisi personale e didattica, prima di ottenere il permesso di esercitare la libera professione. Nando Martellini, il celebre giornalista, radiocronista e telecronista destinato a raccogliere il testimone del leggendario Nicolò Carosio, era un bambino vivace, intelligentissimo ed avido di sapere che sognava di diventare un diplomatico. A me la prima cosa che viene in mente se dite “diplomatico” è l'omonimo prodotto dolciario, ma Martellini dopo la laurea in scienze politiche entrò nell'EIAR (la RAI dell'epoca) come redattore di politica estera, sinché la sorte non lo prese per mano e lo condusse ad un bivio: lasciare da parte la politica e la diplomazia e scegliere tra raccontare la cronaca od occuparsi di sport. Cosa decise di fare il vecchio Nando credo lo sappiano tutti... Qualche anno fa lessi un opuscolo che invitava la gente a leggere libri. L'opuscolo portava il seguente titolo: “carta dei diritti del lettore”. Mi piacque e trovai particolarmente bello uno degli articoli che recitava: “E' un diritto del lettore iniziare un libro senza finirlo”. “Vero - pensai – Sacrosanto diritto!”. Adesso che di tanto in tanto scrivo qualche pagina per uno sparuto gruppo di amici e conoscenti, ai quali va tutta la mia gratitudine per l'attenzione che mi dedicano e che non ritengo di meritare, mi sento in dovere di aggiungere alla “carta dei diritti del lettore” un “dovere del narratore” (o presunto tale): a mio avviso uno storyteller, almeno una volta nella vita, dovrebbe cominciare un racconto e scrivere immediatamente dopo come va a finire. Adempiendo all'obbligo che volontariamente mi impongo, e sollevando contestualmente chi legge dall'assillo di capire “cosa c'è nel mezzo”, dirò subito della sorte finale dei tre protagonisti di questa breve storia. Il cinque maggio 2004 Nando Martellini, dopo una lunga malattia affrontata con coraggio e confortato dall'affetto dei famigliari, muore poco più che ottantenne. Il sedici novembre 2009, in un hospice di una città d'arte toscana (uno di quegli hospice dove più o meno sottovoce si dà un “aiutino” alla corsa della nera donna con la falce in mano) dopo breve malattia muore pure il dottor Pasinato, analista sui generis. E quello che voleva diventare prima palombaro è forse vivo e vegeto? No: in questa storia sono tutti morti: il palombaro è morto addirittura più volte degli altri protagonisti del racconto, e seguita a morire, anche se non gli riesce tanto bene ed ogni tanto ne farebbe volentieri a meno, perché gli piacerebbe risorgere una volta per tutte... Ed ora, chi ha tempo e voglia, può andare a curiosare su “quel che c'è nel mezzo”. ALLEGRIA! Il funerale di Gianni Pasinato fu veramente spassoso. Tutti i funerali, in verità, sono divertenti per chi è in possesso del “minimo sindacale” di spirito di osservazione e non ha voglia di meditare sulla certezza che prima o poi toccherà a tutti divenire cinerea spassosità per altri, ma quelle esequie in particolare brillarono della incantevole luce che caratterizza la comicità quando è irrigata dal grottesco. Mentre il Sacerdote don Fulvio Argante affidava alla Misericordia divina l'anima del defunto, che “pur non essendo strettamente osservante ha praticato con costante abnegazione la vera carità nei confronti di tanti fratelli e tante sorelle sofferenti nella psiche”, Selenia Grossi, la neo moglie del deceduto analista – il Pasinato l'aveva sposata civilmente poco prima di morire per lasciarle in eredità i suoi non pochi beni mobili ed immobili – si godeva in silenzio lo spettacolo del pubblico svenimento di Alessia Pancheri, operatrice di call center (uno dei principali amori “di lungo corso” del professionista, un amore che si era lasciato illudere a proposito di un vago testamento olografo a suo favore e che seppe in quell'occasione come stavano realmente le cose, dal punto di vista economico). Dovette godere un po' meno nell'accorgersi che a piangere il neo marito morto si trovava la nota docente di storia dell'arte signora Franca Bedini (“allora non è vero che non la conosceva!”), la famosa scultrice tedesca Lena Mayer (“ecco perché una volta al mese volava a Berlino! Ma chi lo ha detto a questa zoccola che Gianni è morto?”) ed un bel corteo di ex pazienti che dovevano essere state guarite molto, ma molto bene dal terapeuta buonanima... Dulcis in fundo (grazie a frasi fatte come questa rammento che nessuno mi ha insegnato seriamente il latino), dulcis in fundo arrivò l'elogio funebre del giovane Massini. Massini era un analista specializzato nel trattare le disforie di genere ed in particolare le transizioni femmina verso maschio. I colleghi, atei praticanti, lo avevano eletto all'unanimità “oratore funebre ufficiale” della categoria perché li faceva troppo ridere l'idea di ascoltare al microfono, ritto sull'ambone al lato destro dell'altare, uno strenuo sostenitore della “teoria del genere”, e poi perché Massini era l'unico a non aver mai praticato pubblicamente la maldicenza ai danni del defunto. Quando arrivò il momento, Massini salì all'ambone con un foglietto scritto a penna, e nel silenzio più profondo iniziò a leggere: “Ricordiamo oggi, con affetto e stima, il valente psichiatra ma soprattutto l'uomo disposto a calarsi, senza pregiudizi, all'interno della visione del mondo di chiunque...”. L'oratore alzò lo sguardo verso i presenti e si accorse che i suoi colleghi, alle parole “Ricordiamo con affetto e stima il valente psichiatra”, avevano iniziato a sghignazzare coprendosi la bocca con dei fazzoletti o nascondendo il viso tra le mani. All'improvviso si rese conto che anche a lui iniziava a sgorgare da dentro una lava incandescente che reclamava di essere vomitata all'esterno sotto forma di una grassa, potente risata. In quel breve momento di interruzione del dettato funebre il Massini ebbe un flash della sua trascorsa analisi col defunto medico che intendeva omaggiare. In forza di quel flash Massini non volle reprimere quella grassa e potente risata e la camuffò da accesso di pianto convulsivo, scendendo dall'ambone e troncando l'orazione. Molte altre lacrime, quelle che zampillano copiose quando trattenere il riso diventa uno sforzo sovrumano, scendevano sul volto degli altri terapeuti. Al più intelligente di questi venne fortunatamente in mente di coprire quella vergogna lanciando un applauso al quale si unì automaticamente il resto dei fedeli che gremivano la chiesa, alcuni dei quali un po' stupiti da tanto lacrimante e generalizzato dolore dopo un discorso funebre nemmeno terminato. Don Fulvio riprese in mano le redini della funzione, e poi benedì la salma. Sulla prima panca, l'unico parente veramente triste era lo zio Giorgio, il buon medico di famiglia che sapeva porre diagnosi, perché anche la sorella di Gianni aveva un po' subito (se non proprio sgradito) la scelta del matrimonio in articulo mortis del fratello... BUONASERA! “Telespettatori italiani, buonasera: è con grande emozione che prendiamo la linea dai bordi del campo dello stadio Bernabeu di Madrid per la finale del campionato mondiale 1982”. La voce di Nando Martellini dava inizio così, domenica 11 luglio 1982 alle ore 20, alla telecronaca di Italia Germania. Sono solo, sdraiato sul divano davanti al televisore. Alla mia destra la finestra verde scuro, chiusa e sprangata dall'interno e dall'esterno, impedisce di vedere i lumini accesi davanti ai loculi, all'interno del cimitero che sta di fronte alla casa dei miei genitori. Tanti anni prima, quando volevo esplorare le profondità marine, quante volte ho visto mia madre singhiozzare davanti a quella finestra! Ad ogni funerale io, aspirante palombaro, mi domandavo perché la mamma venisse scossa da quei pianti e da quei singulti incontrollabili, soprattutto quando al corteo funebre si univa la banda musicale con le sue tetre, lente, lugubri marce... “Telespettatori italiani, buonasera.” Questo Nando Martellini scippato alla diplomazia però è bravo. Non capisco perché Vittorio Veltroni (capo dei servizi giornalistici alla Rai molti anni prima) abbia voluto imporgli di scegliere tra cronaca e sport. La motivazione che diede Nando fu: “Vittorio mi disse che se continuavo a raccontare lo sport ed a raccontare la benedizione del papa da San Pietro, la gente avrebbe immaginato il papa con il pallone sottobraccio che usciva dal sottopassaggio”. Se le cose stanno così, mi verrebbe da pensare che la fantasia di Veltroni senior fu fedelmente fotocopiata nel dna del figlio Veltroni junior, il Walter futuro politico-cinefilo-nientofilo. Un'altra associazione che germoglia tra quelle poche centinaia di neuroni ancora a mia disposizione è quel “buonasera” di Martellini in apertura di cronaca: trentuno anni dopo un pontefice fresco di conclave si sarebbe rivolto alla folla acclamante con lo stesso semplice e diretto saluto, e senza pallone sottobraccio. Qualcosa non mi torna e devo sciogliere un paio di nodi all'interno di questa logica... Ritorna Martellini: “L'Italia, dopo un inizio incerto, ha conquistato lo slancio per disputare questa finale. I nostri avversari sono i tedeschi dell'ovest. Ascoltiamo ora gli inni nazionali”. Già...gli inni nazionali. Per me i tedeschi erano più divisi dagli inni che dal muro: sette anni dopo, crollato questo, anche il pentagramma li avrebbe riappacificati. L'inno tedesco è più bello di quello di Mameli, ma entrambe le musichette, assieme al coro dei tifosi, servono almeno a coprire i lamenti ed il pianto di mia madre, in camera da letto con mio padre: un loro figlio, che in altre circostanze, per mezzo di altri incontri ed attraverso differenti alchimie si sarebbe trovato in quel momento al Bernabeu, si era tolto la vita pochi giorni prima. Martellini inizia a scandire: “La nostra formazione si schiera con: Zoff, Gentile, Cabrini, Bergomi, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani”. In effetti noto l'assenza di Pablo Collo sul rettangolo di gioco. Il mio tifo non è accesissimo, ha una specie di sordina addosso e sta ascoltando sotto traccia qualcos'altro: la mia anima ha già due inni. Forza azzurri, però. Forza Italia! “Dirige l'incontro l'arbitro Coelho, brasiliano. Calcio d'inizio degli italiani, che giocano alla destra dei nostri teleschermi”, sottolinea la voce elettrizzata di un uomo che avrebbe potuto trovarsi, in quell'istante, all'ambasciata italiana di Nuova Delhi... SORPRESA! Il giorno del funerale di Pasinato pioveva e allo zio Giorgio passò per la mente, come un lampo, il pensiero: “Funerale bagnato, funerale sfortunato”. Quell'idea bizzarra lo sorprese e lo turbò: forse i suoi suoi nervi erano scossi e non era razionale collegare una fugace stramberia ad un presagio di sventura. Di sventure ne aveva già vissute diverse, il dottor Giorgio, non ultima la scomparsa di Tilde, l'amata compagna di una vita, che se ne era andata nemmeno un anno prima. Non avevano figli e non ne sentirono mai la mancanza. Adesso però un figlio o una figlia gli avrebbero alleviato un poco il peso della solitudine, perché Giorgio (stanco di curare, stanco di guarire, stanco di non vivere) si sentiva un uomo solo. Sono pochi gli individui che amano la solitudine: anche gli eremiti vivono assieme. A me insegnarono che “se uno non sta bene da solo, starà anche peggio con gli altri”, ed ho sperimentato esistenzialmente la verità della lezione. Infatti “gli altri” li tollero con gran fatica e pena, ricambiato. Il dottor Giorgio Pasinato, uscito senza ombrello dalla chiesa e tornato fradicio dal camposanto, comprese di aver incontrato la sua solitudine e si accorse di essere incapace di toccarla, di parlarle, di divenirne amico. Perciò, varcata la soglia del suo appartamento, si mise a rincorrere la compagnia di Tilde frugando nell'angolo dei libri e delle agende che le erano appartenute. La sua attenzione fu presto catturata da un quadernino azzurro, che afferrò ed aprì: tutte pagine bianche, tranne la prima, sopra la quale si leggeva la vivace calligrafia della moglie che aveva messo per iscritto una sorta di titolo: “Le mie mille e una notte”. “Chissà perché un titolo di fiabe per un quaderno in bianco, e con diverse pagine strappate...”, si chiese il medico. Pasinato sfogliò un ultima volta il quaderno azzurro e bianco e muto, prima di frugare tra altri ricordi, e così si accorse che in mezzo alle pagine vergini si trovava una lettera di Tilde, con una data resa volutamente illeggibile da diversi tratti di pennarello scuro. Commosso, iniziò a leggere: “Gianni, adesso posso dire di amare Giorgio, e sono certa che il mio amore e la mia gratitudine nei suoi confronti non verrà mai meno”. Lo zio di Gianni si asciugò in fretta gli occhi, si impose di non piangere e riprese a leggere: “Grazie a lui quel fatidico martedì (sedici anni, proprio oggi) ci incontrammo nel tuo studio. “Forse ti gioverebbe far due chiacchiere con mio nipote, se non ti imbarazza affrontare con lui questa fase depressiva che inizia a preoccuparmi. Sa ascoltare, è bravo, ne dicono tutte un gran bene. I suoi colleghi ne sparlano in continuazione, ma è solo invidia. Tentar non nuoce”. Così fu lui a far sì che le nostre anime si avvinghiassero l'una all'altra per sempre: la mia anima alla tua, la tua anima alla mia. Ti sento accanto a me e ti scrivo come se ti sussurrassi le parole con le mie labbra sul tuo collo. Sono a letto, con questa pagina e la penna. Giorgio dorme già da un po' e la luce dell'abat-jour getta la tua ombra sul mio seno. Prima abbiamo fatto l'amore ed è stato bello. Da quando mi hai aperto il cuore, è sempre bello far l'amore con l'uomo che ho sposato. Farlo con te è sublime, sei unico, ma se chiudo gli occhi e ti penso quando Giorgio mi prende, è altrettanto bello. “Non temere di scinderti! Non hai idea di quanta gente è presente nel letto di una coppia che fa l'amore!”, mi hai insegnato. Ma dove, dove hai attinto tutto questo sapere sulle misteriose vie del piacere, tigre mia? Ti adoro, tigre selvaggia. Tua Tilde”. Zio Giorgio aveva cessato di piangere da un bel pezzo. Non disse nulla. Il suo cervello esclamò gelidamente, mentre strappava lettera e quaderno: “Mascalzone di un puttaniere! Bugiarda di una baldracca!”. Il primo faccia a faccia del dottor Giorgio Pasinato con la sua solitudine non poteva andar meglio, ed il trauma non fu un trauma da poco: avrebbe trovato la forza di reagire, zio Giorgio? RIGORI E ZANZARE Martellini prosegue la telecronaca di una finale mondiale che entrerà nella leggenda. Tengo volutamente basso il volume del televisore: la grande finestra della sala lato mare è spalancata sulla ferrovia, sulla notte che avanza senza fare rumore, sulla luna quasi piena e su nugoli di zanzare inquiete. Il mondo si è fermato, le strade e le piazze sono deserte e dall'esterno non giungono voci, né rumori e neppure suoni. Solo zanzare. Col cervello ovattato ascolto Martellini e di tanto in tanto mi do qualche sberla, spiaccicandomi una o due zanzare sulla guancia: riprendo così contatto con la realtà di qualche pensiero che era rimasto, paziente, ad aspettare. Davvero Paolo Rossi detto “Pablito” ed Alessandro Altobelli detto “spillo” hanno messo il mondo in pausa? Veramente tutta la storia e la storia di tutti è inchiodata sul verde rettangolo di gioco dello stadio Bernabeu? Sì: gli abitanti del pianeta terra stanno godendo di una specie di indulto esistenziale e per novanta minuti almeno sembra che nessuno abbia intenzione di uccidere, di rubare, di tradire e nemmeno di soffiarsi il naso. Lo spazio temporale di una partita di calcio ci sta magicamente rendendo tutti liberi, uguali e fratelli, fratelli d'Italia: è il miracolo delle pipe, quella dell'allenatore Bearzot e quella del presidente Pertini, presenti al Bernabeu a fianco del re Juan Carlos, che però è apipico. A basso volume Martellini commenta: “Cross di Altobelli, Conti...è rigore! Calcio di rigore! Briegel ha contrastato Conti in area, stendendolo a terra, al venticinquesimo del primo tempo: calcio di rigore a favore dell'Italia! Il rigorista è Cabrini. Cabrini contro Shumacher”. Ah, la terribile, imponente bellezza dei calci di rigore! Li adoro perché sono l'unica tragedia nella quale riesco ad immergermi, la sola ch'io sia capace di decifrare, dal momento che non sono mai stato in grado di sondare le profondità di quelle greche. Quando Pablo Collo intendeva fornire sarcasticamente l'idea dell'assenza di fascino in una donna, soleva dire: “E' più brutta di un calcio di rigore al novantesimo minuto”. Il rigore: questa singolare sospensione del tempo il cui inizio è sancito da un uomo vestito di nero e dal suo fischio breve e risoluto che può colpire il cuore alla stessa maniera di un secco colpo di rivoltella... Una canzone piuttosto nota, contenuta in un album uscito un mese prima del mundial spagnolo, cantava di un certo Nino: “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. No, caro Francesco De Gregori, non sono d'accordo: il calcio di rigore non è “un particolare” ma è l'essenziale visibile agli occhi, checché ne dica Saint Exupery, “l'essenziale” che fonda la tragedia di due uomini soli di fronte al destino i quali, affrontandosi, gli mostrano il petto. Se poi, caro De Gregori, vogliamo scendere in basso, chiedilo a Roberto Baggio, a Franco Baresi o a Trezeguet se è un “piccolo particolare” sbagliare un rigore, magari in una finale mondiale... Martellini continua: “”Venticinquesimo del primo tempo: Cabrini contro Schumacher...Cabrini. E' fuori! Fuori! Fuori! Cabrini ha calciato fuori il rigore che poteva portare in vantaggio l'Italia!”. In forza di quel “piccolo particolare”, Cabrini rimarrà sotto shock per l'ultimo quarto d'ora del primo tempo. Negli spogliatoi i compagni non glielo fanno pesare, anzi: lo consolano. Lo consolano e gli dicono: “Noi vinciamo, noi siamo i più forti”. Intanto io mi spiaccico un'altra zanzara sulla guancia: il volume è sempre basso e sento i singhiozzi di mia madre, dalla camera. Noi non siamo i più forti, no. E non ci consola nessuno. Alzo il volume alla voce di Martellini. LOVE, LOVE, LOVE Quando le ombre delle sere di novembre si allungano, protendendosi verso il santo Natale, le giornate sono sempre più corte. Il ciclo delle stagioni ci ricorda che anche le nostre volgono verso la fine, ed un cimitero è il luogo ideale per ospitare riflessioni del genere. “Neanche un fiore”, osserva Anna. “Neanche un fiore”, conferma l'amica Lina, che aggiunge: “Nemmeno un fiore finto”. “Nemmeno un fiore finto”, ribadisce Anna. Lina ed Anna sono due donne tra i trentacinque ed i quarant'anni: mora la prima, bassotta e lievemente in carne; alta, bruna e un po' troppo magra la seconda. Entrambe in jeans, sembrerebbero la versione femminile e contemporanea di don Chisciotte e Sancio Panza. Le due amiche sono antiche pazienti del dottor Gianni Pasinato: due di quelle che avevano sinceramente pianto al funerale del loro ex terapeuta. “Compriamo noi una sempreverde, due orchidee?”, suggerisce Anna. “Siamo davanti a quel che resta di lui, lo stiamo pensando: non noi dovremmo portare fiori, non noi, ma altri. Suo zio, ad esempio, o la sorella... perché io e te, Anna, io e te siamo i suoi fiori, ricordi? Non ci chiamava forse così?”, risponde Lina, con una piega di nostalgia che le immalinconisce il sorriso. “Hai ragione: “Voi siete i miei due fiori”. Tu fosti il primo”, ricorda Anna. “E' vero. Stavo concludendo l'analisi, la seduta era quasi finita quando, in seguito ad un flusso associativo, Gianni si illuminò comunicandomi: “Prima o poi ti farò incontrare un fiore, un fiore che ti assomiglia”. Non immaginavo che pensasse a te. Non credevo, soprattutto, di coglierti tanto presto”, ricostruì Lina, che proseguì: “Sì, io il percorso analitico lo chiusi un anno dopo, poco prima che ci si ritrovasse nella sua mansarda per quelle che volle definire “riprese veloci di felicità”. “Gianni era speciale. Lo hanno fatto a pezzi accusandolo di aver ridotto l'ortodossia psicoanalitica allo zerbino sopra cui nettarsi le scarpe prima di accedere alla sua mansarda. “Ragazze, chi si forza all'ortodossia si condanna ad una specie di fedeltà culturale, e per me la fedeltà (non solo quella culturale) è peggio di un ergastolo: è una condanna a morte, ed a me piace vivere. Vivere o morire: aut-aut.” ricordi?”, prosegue Anna. “Sì – replica Lina, inseguendo rapita il filo di un sogno vissuto, di una fantasia realizzata – Sì, ricordo quel discorso durante la seconda cena nella sua mansarda, e quelle parole tanto autentiche innaffiate dal vino fresco e leggermente frizzante dei colli di Luni che accompagnava la passata di mais e gamberi che preparasti tu.” “Ti sedussi con il gusto, quella sera?”, chiede maliziosa Anna. “Con il gusto, la vista, l'olfatto, l'udito, il tatto e... con Gianni”, risponde con dolcezza Lina. “Farlo in tre in quella grande vasca fu colmarsi di delizie, fu dissetarsi dai calici di ambrosia riempiti per noi dagli dèi: il calore del vapore... i brividi che percorrevano i dorsi... la schiuma a scherzare con le nostre nudità: imparammo ad appartenerci. E lui ci ebbe assieme, o meglio: lo avemmo assieme e poi... la sua delicatezza e la sua sensibilità lo spinsero a farsi da parte e rimanemmo sole ad amarci”, chiuse Anna sullo scorrere dei titoli di coda di quel che pareva un film... “E sinora ci siamo amate. Ma adesso? Adesso? Gianni va disfacendosi: si è spento il sole delle nostre tre estati, ed i suoi fiori stanno appassendo. Dobbiamo forse rimanere fedeli, in questo deserto, a tale desolazione? La fedeltà è peggio di un ergastolo: è una condanna a morte”, ripeteva Gianni”. “E' una condanna a morte, e a noi piace vivere...”, riecheggiò Anna, con una sinistra mestizia sul tono discendente della voce. “A noi piace vivere. Vivere o morire”, batté sul chiodo Lina. “Si avvertono i signori visitatori che tra quindici minuti il cimitero chiude”, sillabò una voce maschile dai megafoni posti all'interno del cimitero Monumentale”. Lina ed Anna, mano nella mano, si avviarono alla macchina, una antica Panda Fiat bianca con troppi chilometri nel motore che avevano parcheggiato nel piazzale antistante il cimitero e che le attendeva nel buio di un freddo pomeriggio di fine novembre... TEMPO DI BILANCI “...e termina la prima frazione di gioco con il primo piano dell'arbitro brasiliano Coelho. E' uno zero a zero al termine del primo tempo: quindici minuti nelle mani dei tedeschi, poi gioco alterno, con un attacco più chiaro, più convinto dei tedeschi ed il contropiede azzurro che sembrava prendere quota ma che poi si è inaridito. Lasciamo lo stadio Bernabeu con il saluto del presidente Pertini che risponde all'applauso dei nostri tifosi.”. Martellini conclude così la telecronaca della prima parte dell'incontro, mentre i giocatori si dirigono verso gli spogliatoi: è “l'intervallo” e dura un quarto d'ora. L'intervallo tra i due tempi di una partita di calcio è un momento strano e delicato, è un tempo di analisi e di bilanci: si cerca di guardare a ciò che sino ad allora è accaduto sul campo di gioco e si tenta, commentando, di esprimere un primo giudizio sull'incontro. A me tutto ciò fa venire in mente un uomo di mezza età che tira le somme della prima parte della propria vita e si chiede com'è andata, se ha ottenuto quel che sperava di ottenere, se poteva andare meglio o peggio, se e dove e quando ha commesso degli errori, cos'altro poteva o doveva fare... Dopo l'ultimo auto ceffone inflittomi per uccidere l'ennesima zanzara, l'attenzione mi cade sulla terza finestra della sala, quella che si apre sull'incrocio davanti al carcere. “In quale singolare posizione la sorte ha posto l'abitazione, la dimora, il focolare dei miei primi vent'anni di vita!”, rifletto. La casa della mia famiglia di origine si trova infatti davanti al cimitero, accanto al carcere e non lontana dall'ospedale: luoghi di breve, lunga o perenne degenza. Solo un superficiale, pavido, fobico e fintamente estroverso post adolescente del mio calibro è incapace di intravedere, nella combinazione dei segni di collocazione della casa che lo ha veduto crescere, i riflessi che un'altra persona “monetizzerebbe” spiritualmente per divenire un piccolo buddha. A me quella finestra invece fa venire in mente solo una lunga serie di incidenti stradali, una raffica di mitra di un agente di custodia che spara e buca la notte per impedire che un tentativo di evasione vada a buon fine, e l'esibizione di Pablo Collo nudo, in piedi sopra la finestra, che sfida il mondo armato di quella che ritiene essere una giusta provocazione volta a proclamare la sua libertà. Collo aveva fumato hashish sopra un ipnotico prescrittogli da un vecchio psichiatra reichiano psicopatico, ed in seguito sarebbe passato all'eroina per dimostrare che lui era più forte e che (come uno di quei demoni usciti dalla penna del geniale scrittore russo) “poteva perché voleva e voleva perché poteva”. Forse Pablo Collo si era già scelto la fine di Stavrogin, ma nessuno mi toglie dalla mente che su questa “scelta” fosse stato indirettamente dirottato da un indigesto cocktail composto da determinati catechismi rivoluzionari, da alcune docenti di filosofia divulgatrici della liberazione sessuale ed infine dal già menzionato vecchio psicoanalista e psichiatra rimbambito che spacciava aforismi ai suoi pazienti - incolpevolmente rimbambiti quanto lui - in cambio di parcelle carissime. Comunque all'epoca dell'esibizione di Pablo era già in vigore una legge che, in un caso del genere, al massimo permetteva un ricovero coatto di una settimana – rinnovabile - per le cure, dopo le quali una magica “territorialità” avrebbe restituito persino Kirillov (“L'imitatore di Cristo” che si uccide per dimostrare l'inesistenza di Dio del già citato romanzo di Dostoevskij) all'equilibrio, al benessere ed alla stabilità psichiche. Qualsiasi psichiatra amante della medicina – ma purtroppo “psichiatria” è sovente la specializzazione di comodo di “dottori” che non ce la farebbero ad applicarsi in altri campi – sapeva e sa delle conseguenze tragiche alle quali conduce l'ideologia quando si traveste da “terapia”, ma per superficialità, o peggio, per ragioni opportunistiche, i professionisti della salute mentale che pubblicamente si prendono la responsabilità di affermare quanto da me evidenziato e da loro conosciuto, si contano sulla punta delle dita di una mano monca. E così ritorno a quella sera dell'undici luglio 1982, mi schiaffeggio un'altra zanzara sulla faccia ed invoco la maledizione del profeta sull'intera categoria di questi farisei e dottori della legge: “Signore degli eserciti, giusto giudice, che provi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa”. Se nella “categoria” fossero capitati una decina di Noè, il Padreterno avrà fatto loro preparare una apposita arca... Ma l'intervallo è finito e mi sottrae ad un ingorgo di amarezze. Ritorna la voce sicura e cristallina di Nando Martinelli: “E con la palla ai giocatori germanici, inizia ora il secondo tempo”. Non sento più piangere: forse i miei genitori sono riusciti ad assopirsi. NEI SECOLI FEDELE “Questa sì che si chiama una mattinata coi fiocchi, maresciallo”, glossa (per quanto possa un appuntato “glossare”) il carabiniere Sgamelli, dirigendosi con l' Alfa Romeo blu del centododici nel luogo indicatogli dalla centrale assieme al maresciallo Musetti. “Perché dici questo, Sgamelli? Hai già avuto delle rogne alle undici di mattina?”, domanda Musetti, fingendo di non sapere. “Alle nove e quaranta, per la precisione, maresciallo. Alle nove e quaranta di giovedì trenta novembre, Sant'Andrea...”, risponde in obbedienza Sgamelli. “Auguri dunque, appuntato Andrea Sgamelli, auguri! Ma che è successo alle nove e quaranta?”, insiste il maresciallo seguitando a fare il finto tonto. “E' successo che ci hanno chiamato con urgenza dagli studi medici associati “Tancredi” perché un tizio con la bici da corsa si era messo a sprintare nel corridoio centrale dello stabile e poi scendeva a importunare tutti i condomini dichiarandosi disposto a firmare autografi, e quando hanno iniziato a mandarlo a quel paese ha dato in escandescenze ed ha scagliato la bicicletta contro la scrivania della giovane segretaria, mezza morta dallo spavento. “Sono Coppi! Sono Fausto Coppi e sono il campione del mondo, maledetti!”, urlava mentre cercavamo di bloccarlo. Ce n'è voluto di tempo e di forza per ammanettarlo e lasciarlo in consegna ai medici del pronto soccorso...”, narra appassionato Andrea Sgamelli, nei secoli fedele. “E la segretaria, la segretaria vi ha detto nulla, appuntato?”, insiste Musetti. “La segretaria ha farfugliato qualcosa, bianca come un cencio. Mi pare che accennasse al fatto che Coppi era un...un...boh, non ricordo maresciallo cosa fosse questo Coppi, anche perché una volta che siamo riusciti ad ammanettarlo a dir la verità mi sentivo fortemente calamitato dalle tette di quel gran pezzo di figliola bianca come un cencio. Quasi quasi domani ci ripasso in borghese dagli studi medici “Tancredi”....”. “Ed io ti taglio le palle, appuntato Sgamelli – replica secco ed improvvisamente incupito il Musetti, nei secoli fedele – ti taglio le palle per il tuo onomastico perché si dà il caso che quella segretaria sia mia figlia, Sgamelli. Una figlia già felicemente fidanzata ed in procinto di sposarsi, appuntato...”. Il carabiniere si fa paonazzo, tenta di scusarsi goffamente e viene a sapere che la ragazza aveva già chiamato il padre alcuni giorni prima, comunicandogli che il dottor Giorgio Pasinato ultimamente non gli sembrava più quello di prima, e che la trattava in malo modo, così come i pazienti, alcuni dei quali lo avevano visto barcollare la notte prima, ubriaco e con una bottiglia in mano, nel parco pubblico nei pressi della stazione. Musetti si rasserena e spiega: “Caro Sgamelli, già so come andrà a finire: il povero Pasinato finirà i suoi giorni in qualche istituto, visto che alla nipote non passa neanche per l'anticamera del cervello di mettersi in casa un dissociato in via di cronicizzazione. Avesse ereditato dal fratello psichiatra, chi lo sa... Il fatto è, Sgamelli, che Pasinato voleva troppo bene al nipote ed amava ancor di più la moglie. Le menti fragili possono non reggere a due lutti tanto gravi e così ravvicinati. Ma siamo arrivati al Monumentale. La telefonata anonima parlava di una Panda bianca con due donne distese sui sedili e apparentemente morte. Scendiamo e verifichiamo.” I due carabinieri scendono, forzano la serratura dell'auto e verificano che diverse camere d'aria, unite e collegate al tubo di scarico della vettura, terminano il loro percorso all'interno dell'abitacolo attraverso una fessura del finestrino alla destra del volante. Un medico legale certificherà che i due fiori di Gianni, Anna la mora e Lina la bruna, hanno ucciso assieme la loro storia d'amore, asfissiandosi con il gas di scarico della vecchia Panda Fiat bianca, un'auto con troppi chilometri nel motore... ANTICO EGITTO “E' iniziato il secondo tempo. Breitner...Dremmler...Rummenigge passa il pallone di nuovo a Breitner che lo dà a Kaltz, Kaltz con Cabrini sempre alle costole...”. Martellini ha ripreso forza e vigore durante l'intervallo. Chissà con che genere di bilanci si sarà confrontato. Certamente avrà considerato che se Nicolò Carosio non avesse commesso quella gaffe nei confronti del guardalinee etiope che aveva segnalato un fuorigioco dubbio in Italia Israele durante i mondiali del 1970 (Carosio aveva commentato: “Ma cosa vuole quell'etiope?”: apriti cielo! Povero Nicolò, vittima del politicamente corretto...) lui non avrebbe commentato “la partita del secolo”, il leggendario Italia Germania 4 a 3. O forse no: bisognerebbe trovarsi nella testa di Martellini per saperlo. Provo ad appassionarmi un po' di più a questa finale. “Riprende Oriali. Ancora Oriali a terra. Battuta la punizione, cross di Gentile... gol! Gol! Ha segnato Rossi! Rossi! Gol di Rossi al dodicesimo del secondo tempo!”. Esulto interiormente e con moderazione. In segno di mitezza e pace allontano con un cenno una zanzara, senza schiaffeggiarmela addosso. Sono molto felice per Paolo Rossi. Pablito è stato il mio ultimo vero mito calcistico, quello che mi ha traghettato dalla prima adolescenza alla seconda ed infine all'ultima, questa che vivo in compagnia della voce di Martellini. Avevo quindici anni quando Pablito debuttò in nazionale, nel 1978. Quella estate andò all'asta tra il Vicenza e la Juventus: Farina chiedeva due miliardi e seicento milioni di lire per metà del cartellino del giocatore. I giornali e la pubblica opinione gridarono allo scandalo. Il mio mito calcistico finì travolto da un altro scandalo, però: quello del calcio scommesse. Accusato di aver truccato Perugia Avellino fu squalificato per due anni. Ricorda con queste parole l'accaduto: “Non sapevo nulla delle scommesse: pensavo al classico pareggio accettato da due squadre che non vogliono farsi male. Seguii il processo come qualcosa di irreale, come se ci fosse qualcun altro al posto mio. Capii che era tutto vero quando tornai a casa e vidi le facce dei miei”. Povero Pablito! Anche lui ha dunque assaggiato i morsi della dissociazione... Due anni di inattività sono lunghi per un calciatore, possono ucciderlo e decretarne la fine, ma Paolo Rossi ha continuato ad allenarsi senza giocare ed Enzo Bearzot ha creduto in lui e lo ha convocato in vista del mondiale spagnolo. Nel girone eliminatorio sembra un fantasma, uno zombie che si aggira nel rettangolo di gioco, ma poi: tre gol al Brasile (dirà del primo: “E' stato il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come il senso di una liberazione. E' incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol tutto è arrivato con naturalezza”), due alla Polonia in semifinale ed infine questo primo gol che ci spiana la strada verso la conquista della coppa del mondo. Sei un grande, Pablito! Sarai il capo cannoniere del mondiale e vincerai il Pallone d'oro. Ti hanno abbattuto ma ti sei rialzato. Le persone colte hanno l'Araba Fenice e Yel e Feng e Garuda e Karura e Milchan ed un sacco di altre leggende, ma tu sei un uomo in carne ed ossa: io ti ho visto risorgere! E quando qualcuno risorge, occorre raccontarlo... AGENZIA IMMOBILIARE La mansarda di Gianni Pasinato era sfitta: la “moglie in extremis” del defunto terapeuta non aveva ancora trovato il tempo di metterla in vendita. Il dottor Massini era in possesso di una copia delle chiavi del piccolo, intimo ed accogliente locale tanto “vissuto” dal suo vecchio analista nonché esimio collega, il quale gli aveva donato libero accesso alla mansarda in segno di quella ambivalente e sotterranea amicizia “odi et amo” della quale mi sembra di aver già scritto. La settimana antecedente il Natale successivo alla dipartita di Pasinato da questa valle di lacrime, il dottor Sergio Massini volle andare a ricordare a suo modo l'amico analista sui generis nella di lui calda, piccola alcova. Si portò dietro una/un sua/suo paziente che stava completando il percorso di transizione. “Questo, Alberto, è lo spazio di libertà all'interno del quale, grazie al mio maestro, tante persone hanno conseguito la difficile meta della realizzazione della loro autenticità sessuale”, spiegava il dottor Massini nell'inedita veste di guida turistico-emozionale della trans che stava accompagnando. “In questo luogo dello spirito ho imparato ad accettare la confusione quando in essa non era possibile discernere, ed ho appreso concretamente come si uniscono gli opposti”, raccontava lo psicoterapeuta. “E come si uniscono, dottore?”, domandò Alberto. “Metti sul tavolo la neve, diamo un tiro e spogliamoci”, rispose Massini. “No, aspetta. Ho paura.”, rimandò Alberto con un alito che sapeva lievemente di inquietudine. “Paura!? Dopo tutto questo tempo hai addosso ancora quella sciocca paura che come ben sai è “l'ultima difesa, l'ultimo riparo tra te e l'irreparabile”? Forza! L'irreparabile ha da compiersi, lo sai...”. Alberto allora iniziò lentamente a denudarsi, ed un po' più calmo chiese: “Raccontami come si è compiuto in te, l'irreparabile”. Uscendo dalle mutande, il Massini narrò: “Fui io ad andar giù col piede sull'acceleratore, non solo perché avevo fretta di iniziare l'analisi con un didatta dell'associazione. Sino a quel momento si era trattato di semplici fantasie, puledre a briglia sciolta che veicolavano l'energia di pulsioni interne a polarità opposte. Ma quel sabato mi forzai (e lo forzai) ad andare sino in fondo ed a portare il suo “io maschio-femmina” col mio “io femmina-maschio” nella sua mansarda. Non era del tutto convinto: credo non mi sentisse ancora pronto per caricarmi di tutto quel gaudioso caos, ma infine cedette alle mie pressioni. “Come vuoi, dunque, futuro collega – mi disse – ricorda però, ricordalo bene: nel tempo mi ucciderai. Mi ucciderai “non con la spada, non con un bacio”, ma sotto forma di una grassa e potente risata. Ed io sarò già morto”. Avevo completamente rimosso quelle sue parole sino a quando, quattro settimane fa, mi si presentarono come un flash, durante l'elogio funebre che mi ero preparato e che avevo iniziato a leggere all'ambone sulla destra dell'altare: il vaticinio di Gianni si rivelò esatto, anche se camuffai da pianto la grassa e potente risata. Passo a te, Alberto, il testimone...”, finì Massini al termine del racconto. “Ma io non sono e non sarò uno psicoterapeuta”, protestò la/il giovane. “Sarai allora un prostituto sacro, un poeta maledetto, sarai... sarai quel che ti pare! Gianni mi ha insegnato che dobbiamo essere quel che ci pare, e se ci pare di non essere nulla, quel nulla realizziamolo! Ed ora forza con questa neve!”, incitò Massini. “E così sia! Ma prima sculacciami, crudele guerriera!”, rispose eccitato Alberto, la/il paziente transitivo. La/il paziente transitivo si era fidato troppo del suo spacciatore di fiducia: quella neve era stata tagliata male, molto male, troppo male, ed il dottor Sergio Massini ed Alberto Magnolfi furono trovati abbracciati e nudi, in avanzato stato di decomposizione, un paio di mesi dopo. Li scoprì il titolare di una agenzia immobiliare che era stato incaricato dalla vedova Pasinato, la signora Selenia, di valutare l'immobile al fine di metterlo sul mercato. Fu uno scandalo cittadino e nazionale, uno di quegli scandali sopra i quali campano decine di giornalisti o sedicenti tali al servizio della televisione pubblica (cioè pagati da tutti noi sotto forma di canone). SONO CAMPIONE DEL MONDO? Ascolto ancora Martellini: “Contracco di Scirea, Conti, subentra Rossi, Rossi, Scirea, Bergomi, Scirea, Tardelli... gol! gol! Tardelli! Raddoppio!”. E' stata davvero una bella azione, cinica, spietata. Credo che questo urlo di Tardelli rimarrà per sempre nella mente di chi lo ha visto e sentito, anche se in pochi sanno che Tardelli urlava allo stesso modo nel Pisa e a Como nei primi anni '70, così mi disse Pablo Collo. Quell'urlo è diventato più carico di significati ed emozioni del “grido” di Edvard Munch, forse perché la rabbia e la gioia sono meno indigeste degli attacchi di panico. In termini economici invece, il quadro dell'angosciato pittore norvegese varrà il denaro accumulato in carriera dal centrocampista della nazionale? Non so rispondere, forse perché non so guadagnare. Anche Marco Tardelli però esprimerà, parlando di quel gol, concetti interessanti intorno alla vita, alla morte ed al destino inscritto nel cuore di un uomo. Ascoltiamolo: “Dopo che segnai, tutta la mia vita mi passò davanti: la stessa sensazione che, si dice, si ha quando stai per morire. La gioia fu immensa: qualcosa che sognavo sin da bambino, e la mia esultanza fu una specie di liberazione per aver realizzato quel sogno. Sono nato con quel grido dentro di me, e quello fu l'esatto momento in cui venne fuori”. Capito? Ognuno nasce col suo urlo: non siamo liberi di urlare come Munch se siamo nati col grido di Tardelli. E viceversa. Ed io non so né dipingere e neanche dare una mano di bianco alle pareti di una stanza... Ma rimetto il cervello in pausa e ascolto ancora Martellini: “Conti, contropiede! Tre contro due: siamo in vantaggio! Va in avanti Conti... traversone... Altobelli... Altobelli...e sono tre! Sono tre! Terzo gol di Altobelli!”. Come si gioca bene quando le cose vanno tutte per il verso giusto! Adesso ci permettiamo il lusso di palleggiare in scioltezza e lasciamo ai tedeschi l'onore del gol della bandiera, siglato a sette minuti dalla fine dell'incontro da Breitner. Martellini non vede l'ora di concludere la telecronaca: “Quindici secondi oltre il tempo regolamentare. Rimessa in gioco per fallo laterale. Rossi guadagna tempo... Rossi... Bergomi... Scirea... è finito! Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”. E' il trionfo, la gloria, il terzo titolo mondiale: era scritto. I giocatori fanno volare in aria il loro allenatore con la pipa e si abbracciano, salutano i tifosi osannanti che si abbracciano, accolgono i giornalisti accreditati e li abbracciano: si abbracciano tutti anche all'incrocio sotto la finestra di sala, vicino al carcere e di fronte alla ferrovia. Io mi abbraccio da solo, assieme alle zanzare, che forse non si abbracciano. La terra ha ripreso a girare e migliaia di auto sventolano il tricolore mentre i clacson suonano all'impazzata. Siamo campioni del mondo. Ogni tanto qualcuno diventa campione del mondo. Coppi è stato campione del mondo e so di una persona che è impazzita ed è morta in una clinica privata per malattie mentali credendo di essere Coppi, il campione del mondo. Anch'io sono campione del mondo? Mamma, ti hanno mica svegliato questi deficienti che fanno casino per le strade? LIETI FINI E TEOLOGIA Dicono che anche i racconti più sciatti, disadorni e tirati via divengano parzialmente godibili se attrezzati di un lieto fine. Purtroppo avevo già messo le mani avanti informandovi, in apertura della storia, che i protagonisti della stessa erano tutti morti. Come rimediare? Vediamo. Gaetano Scirea, uno dei tre grandi liberi di tutta la storia del calcio (gli altri due sono Beckembauer e Franco Baresi) uomo mite e gentile, calciatore corretto e pilastro della difesa dell'Italia campione del mondo 1982, muore in un rogo successivo ad un incidente stradale a Babsk, in Polonia, il tre settembre 1989. Esattamente ventuno anni dopo un aereo della Lufthansa decollato alle ore 17.42 da Berlino per Pisa, a causa di una doppia avaria si schianta sulle Alpi svizzere: tra le vittime un nutrito gruppo di psichiatri toscani che tornavano da un convegno-vacanza sponsorizzato da una casa farmaceutica che stava lanciando un nuovo anti psicotico atipico; la professoressa Franca Bedini, nota docente di Storia dell'Arte e fedele (?) compagna di uno degli psichiatri che se l'era portata appresso a spese della stessa casa farmaceutica; Lena Mayer, scultrice tedesca di chiara fama, e Selenia Grossi vedova Pasinato (che si erano incontrate a Berlino e stavano tornando assieme a Pisa per “chiarire” una volta per tutte alcuni aspetti di una comune vicenda sentimentale legata ad un defunto analista); Alessia Pancheri, ex operatrice precaria di call center che aveva da poco aperto una pizzeria nelle vicinanze della Porta di Brandeburgo e stava rientrando in Italia per lo spazio di un fine settimana. Non sono finali abbastanza lieti? Facciamo allora che Andrea Sgamelli, appuntato dell'Arma dei Carabinieri, sabato 15 gennaio 2011 viene unito in Matrimonio da don Fulvio Argante alla segretaria Barbara Musetti, figlia del Maresciallo Musetti, il quale aveva bluffato sul fidanzamento e l'imminente matrimonio della figliola e sperava in cuor suo che quell'Andrea - che gli pareva un ragazzo onesto e con la testa sulle spalle – trovasse il coraggio di presentarsi in borghese presso gli studi medici “Tancredi”. Così va meglio? La miscela di realtà e fantasia è mal bilanciata? Mi spiace assai non essere in grado di dimostrare che nella fantasia che avete letto c'è più realtà di quanto possiate immaginare. Mi spiace perché se riuscissi a farlo, di questa fantasia potrei affermare quel che si racconta dicesse il grande teologo San Tommaso ai suoi allievi all'inizio delle lezioni: “Questa è una mela: chi non è d'accordo, se ne può andare”. Ma la fantasia non è una mela, anche se la mela è pure un simbolo: se Eva non avesse acceso “la fame di simbolo” nel povero Adamo (è lui la vittima), non ci sarebbe stato bisogno di tanti campioni del mondo... Ma questo problema mi sovrasta, e di brutte figure ne ho già fatte sin troppe. ATTO DI DOLORE In apertura di racconto accennai ad “una carta dei diritti del lettore”, alla quale affiancai un primo dovere del narratore, o presunto tale (scherzavo...). Non scherzo affatto adesso se, nel sigillare questa copia di storie di sport ma non di solo sport, affermo che al termine di un racconto più o meno ben fatto una persona che scrive dovrebbe ringraziare il Signore se è riuscito a “comunicare” qualcosa di vivo a qualcuno, e domandarGli perdono per un sacco di altre cose, che lui solo sa. Esponendomi così, ancora una volta, al pubblico ludibrio, prendo congedo da voi pregando “l'atto di dolore” del wannabewriter che sottomette la sua minima intelligenza, ma minima davvero, a quella della Chiesa alla quale appartiene: “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore se ciò che ho scritto non è tutta la verità, perché Tu solo la sei. Mi pento e mi dolgo con tutto il cuore per aver ingigantito il mio misero ego al fine di scriverci sopra, ma la Speranza mi spinge a credere che Tu mi abbia aiutato a “scrivermi sopra” senza farmi del male e senza farne ad altri. Propongo, con il Tuo santo aiuto e se sei d'accordo, di impegnarmi a raccontare storie con altrettanta leggerezza, per il bene mio, di chi mi ama e di chi, per ora, non mi ama ancora. Signore, Misericordia, perdona i miei errori. Pure quelli di sintassi, grammatica ed ortografia (quelli che la maggioranza delle persone che scrivono di solito giustificano con un: “ma no, è un refuso!”). Così sia.” P.S: Nella remotissima ipotesi tu fossi un editore cristiano, pagano od islamico fortemente pentito ed intendessi stamparmi, o rendermi i soldi che ho dato ai poveri sbagliati oppure incontrarmi all'interno di un poligono, puoi contattarmi al seguente indirizzo: [email protected]