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LGOnCTFO
11 nuovo collaboratore £011.10 D&I.1/EHA.
sputato ai fÈOStri egregi lettori dal poeta
IDILIO DELL'ERA.
Fra gli scrìttoti giovani il cui nome
ricorre ormai spesso in giornali e riviste,
leKlio dell'Era si distingtie per il sapore lutto
toscano della sva lingua, e per UH $uo particolare accoramento cne tende ti consolarsi e a
placarsi in visioni di chiara bellezm.
La toscanità detta lìngua, dono prenoto,
ma non scevre di peritoti, dipende del fatto
che il dell'Era è nato nel 1906, nella campagna senese, ehis egli vi i cresciuto, contadino (rei i contadini fino ai quindici anni,
che, anche di poi, ha per ài più abitato da
quelle patti. Di questa sua origine cam*
pugnatila e toscana egli si ricorda sempre
nette sue scritture diffuse qua e là sulla
pttbbtica stampa, o raccolte in alluni esili
ìtolumetti: L'AIUOLA DI LUCE che
contiene, fra altro, odorosi sonetti alla
mamma; CON VN POETA ALLA MACGHIA, devoto omaggio al stia grande conterranea Federigo Tozzi; FIAMME DI
PADULE, interessante romanzetto in evi
il contrasto fra campagna e città è mostrato
in modo non intentissimo, ma onesto ,e
persuasivo, così da far pensare che questa
potrebbe forse essere, per lo strittore, una
strada aperta.
Il sintero t profondo accoramento onde
le poesie e te prose del giovane scrittori si
improntano, da bene a sperare di lui. Chi
sente la vita sotto la specie del dolore, la
sente in estensione e in profondità, si abìttue
a dirne con form gli aspetti tetri, e, mirabile
a- dirsi, anche gli aspetti gai : doppio dono non
certo consentito alt ottimista: tanto che davvero non saprei se a un artista debba augurarsi mai di essere un corcontento. Quello
che invece auguriamo al Dell'Era è di perseverare, di approfondirsi sempre più in
tutti i modi possibili, di mirare, nel racconto
o nella lirica, at taglio netto e chiara, alla
costruzione serrata, che è quanto dire ai veri
tormenti e alle vere gioie dell'arte.
O. ZOPPI
rr>
11 nostro era. un podere giallo, color di
febbre. Si chiamava Ginestreta perché
sur un poggetto dove una volta le ginestre
facevatt tutto un calvario d'oro,
I maggesi franavano verso un fiume,
il Bagnaccio, con ondate come di cenere
pietrificata,
Sul fiume le mlberelle pulite e lisce
tremavano sempre con un luccichio d'argento. Mi piacevano perché la sera, mi
restavano tutte diritte nell'anima con un
tremore bianco e lontano. Di là tra i pioppi si allungava una lama di padule pieno
dì un giallo sgomento.
II babbo diceva che il nostro era un
buon podere anche se il padrone vecchio
era morto e adesso lo aveva in fitto il
sor Favolo. Ma Dorè, il garzone che ci
aveva visto nascere, raccontava che una
volta le cose andavano meglio e sosteneva
che la signora Giovanna, ossia la moglie
del vecchio padrone, aveva fatto male
a ritirarsi in città, affittando la. tenuta,
che iti verità era piccola, di cinque
casupole, in quella conca lunare e della
fattoria la « Serra ». Le case si vedevano
tutte in cerchio come cappelle mortuarie.
I padroni nuovi comparivano di rado
e il sor Favolo era un grasso industriale
che non stava mai in casa: la signora
Celestina ovvero la sua seconda moglie
aveva il mal di cuore e leggeva i romanzi
e i libri di poesia sulla grande seggiola
a sdraio che si faceva portare sui piazzale della « Serra ». Anche il canto di
un fringuello la commoveva: restava con
gli occhi chiusi pensando che quell'uccellino fosse cieco.
Era la matrigna dì Clarice: ma anche
Clarice non si vedeva mai e i bovari non
facevan altro che dire delle grandi bellezze di lei,
*
*
In casa, siccome ero il più piccolo ci
avevan dei riguardi, e Dorè mi aveva
messo il nome Girasole e perché » tu fai
— mi aveva detto — come quella sciocca
pianta che allarga la testa ogni volta
comparisce il sole, eppoi gli va sempre
dietro fino che non è tramontato, ma
non è buona a niente, sai, che si lascia
beccare i semi in capo dai piccioni. Ero
segaligno e malinconico: aveva finito
le scuole da un pezzo, e a Cerreta non
capitavo che qualche domenica sera per
rinnovare i pantaloni che mi aveva cucito
la Leonetta, o una giacca agghindata col
taschino a sguincio sul petto dal quale
esciva spampanato il fazzoletto odoroso.
Se Daverio che era il più grande di
noi tre, lavorava col perticale dalla mattina alla sera, * se la Leonetta menava
ai prati le pecore — quelle sue pecore
bianche come la panna del latte appena
munto — anch'io avevo imparato a rinvestir le seggiole, i canestri, i fiaschi.
Mi aveva insegnato Dorè.
E quelle sere d'inverno che i ciocchi
eran tutti un rosso tepore nella cucina a
pian terreno, con le gambe affogate nei
fastelli di scarza, Dorè m'insegnava a
cantar di poesia. Diceva: — Ora ti do
l'ottava I —-e mi buttava la sfida con due
versi prolungati fino allo spasimo. Allora
i suoi occhi diventavano due acini di
brace, lo tentavo la risposta, La mamma
che agucchiava nel canto del foco scoppiava in una risata schietta e casareggia :
anche la Leonetta mi guardava con un
filo di sorriso sulle labbra.
Pigliavo gusto a quegli strambotti che
mi escivan dal cuore come una bolla <Si
fuoco da uri terreno .coperto Hi cenere.
Ma poi diventavo malinconico. Sentivo
in fondo all'anima il peso di «n giorno
morto come una pietra nel buio dì un
pozzo. La mattina mi svegliavo, e mi
pareva di avere in bocca un verso lucido
di sole.•
Ma la dolcezza delle mattine che mi
levavo presto col babbo, infilavo i tronchetti e andavo a ricavar la stalla, non
li potrò mai ridire,
11 tepore dei giovenchi che mi guardavano con gli occhi buoni e laqjhì, le
manse bianche, tutte per lungo nello
stranie, la prima bracciata di fieno, il
mastichio agro delle vacche dai fianchi
troppo cicciuti, gli spari dei chicchirichì
dai pollai, mentre il sole luccicava in
vetta ai pagliai a strisce rosse.
Si aggiustava il concio a piattonate
di forcone sulk carretta, e via di corsa
tra una fumata d'argento.
(Quando il sole era tutto un incendio
nell'aia, mi pareva di incominciare a vivere soltanto allora. Non mi rammentavo
neppure della sera avanti. Anche i cavoli
rotondi tutti in fila nell'orto odoravano
di poesia.
Ma il giorno che scrissi il primo verso
fu un tramonto di sementa.
Sentivo il buon vino trasparente chìac-
per mettere a nuovo la vecchia pariglia
della fattoria.
Ma poi era venuto l'ebreo: — Che,
queste son cose da medioevo! Le automobìli ci vogliono!
E tra la polvere sì era sentita la romba :
poh, poh, poh! Pensavo una grande automobile con.un mazzo di garofani Manchi
legati all'invetriata davanti.
E la signorina Oaricc?
Ali dentro, tutta bianca anche lei come
una bambola di cera.
— Andranno alla chiesa ? •— domandava la Idoneità.
— Gli ebrei non vanno alla chiesa, ma
vanno dal sindaco a sposare.
— Io piuttosto che pigliare un ebreo
mi affogherei dentro un fosso — diceva
la Lconetta.
E la mamma aggiungeva: —- I signori
non sposan mica le ragazze, ma la dote
delle ragazze, E scrollava il capo.
Se là Clarìce davanti al sindaco avesse
detto di no?
Avevo visto una pecora legata per le
gambe dentro una cesta. Una bella pecora
bianca ancora agnella che si era tante volte
specchiata alla gora, voltolata nella pastura guazzosa, dì già satolla, aveva belato
con voce tenera di bimba, si era fermata
ritta tra i fiori dì ginestra a mirare i montoni impettiti che si cozzavàn tra loro
con tutte le corna asserpentate intorno
agli orecchi. Anche avevo visto tanti
agnelli destinati al macello chiusi nelle
ceste dietro il calessi?, allontanarli sulle
vie maestre tra la polvere e il vento, eppoi
laggiù penzoloni dai ganci di bottega coi
capo irrigidito e il sangue 'sul capo, gli
occhi fissi, i fiocchi rossi eri azzurri.
Anche l'agnelta andava al macello; per
la strada aveva sempre detto di no tentennando la testa qua e là; ma sul bancaccio duro appena vide lo scannatoio
chiuse gli occhi e disse di sì.
Se Clarice avesse fatto come quella.
pecora ?
Ma la sera alla fattoria c'erano i fuochi
pirotecnici, i mortalettì che pareva pigliasse foco anche l'aria.
Eran venuti i musicanti di città coi
lunghi violini diritti e intirizziti, le viole
a coda di balena. Si eran postati sul piazzale, e i contadini erano andati tutti in
delirio,
#
— I grandi lussi dei signori — diceva
Bista accosto alla Leone! ta, in cima alla
tavola apparecchiata — noi si fa cosi,
sema fiori, con un bicchiere dì viti bono,
•come i poveri che credono in Dio.
La Leonetta per essere il giorno del
suo sposalizio aveva una veste di canovaccio ruvida, è Bistri si era fatto lustrare
un pò* meglio i gambali dalla sua sorella,
aggiustare la ciarpa torno al collo, eppoi
eran saliti al paese davanti al sor curato
•e davanti al Signore avevan detto un bel
sì per uno, ed eran tornati a casa marito
e moglie che il pranzo fumava sulla tovaglia di bucato, contenti come pasque.
La sera sarebbero andati a stare insieme in casa dì Bista. nel podere delle
Capanne. E il giorno dopo a\rei visto la
Lconetta a falciare l'erba^ sulla proda del
pasturalo.
224
Quando Achille mi consegnò la risposta
caddi dalle nuvole.
Dì certo che eran passati due anni perlomeno che io avevo consegnato i miei
versi alla signorina Clarìce.
E ora eran ritornati 11 dentro quel plico
imfajne legati con un nastrino azzurro.
Li scaraventai contro la mangiatoia de!
morello.
Perché me li avevan rimandai. ?
Ma poi mi rabbonii leggendo la letterina di risposta: una calligrafia che pa»
reva avesse fame, tracciata coi fili di seta.
Ah! una signorina di città! — quante
cose mi diceva?
Che era rimasta ammirata del mìo ingegno, che continuassi a scriver le dolci
meraviglie dei campi, infine che andassi
a trovarla al più presto in città. E in calce,
un poco a sghimbescio il suo indirizzo
vìa numero e piano.
Sussultai dì gioia. Andare in città ?
Forse qualche bamcciaio mi ci avrebbe
anche portato.
Lo diasi ad Achille.
C'è Baracca — mi rispose — che
tutti i sabati va laggiù a vender le pelli
di agnello.
Cercai del pellaio e il sabato dopo ero
in viaggio.
Dìo, come mi tremava il cuore!
*
La via. il numero, il piatto erano quelli.
Tirai il campanello della palazzina', una
palazzina di stile cinese, con le persiane
cremisi, la tettoia a pagoda, le banane che
toccavan le finestre.
Nessuno rispose-.
Dopo un quarto d'ora mi parve che
qualcuno sì affacciasse, dall'altra parte.
Sì, sì, una donna come una fattoressa
grassa e scontrosa si affacciò, ma si ritirò
quasi subito per non darmi il buon giorno.
Invece da un'inferriata verde »m gatto cacciò fuori la testa tonda e mi fece un bell'inchino pacioso come sanno fare i mici.
Rìsuonaì il campanello due volte di
seguito. Finalmente venne una servetta
col grembiule bianco e. squadrandomi da
capo ai piedi, mi chiese se cercassi l'elemosina. Rimasi come sé mi avessero picchiato un mattone sul capo.
Confusi domandai della padroncìna.
La serva rispose alla svelta che la signorina era fuori per le bagnature, e non
sarebbe ritornata che agli ultimi di autunno, e richiuse subito il cancello,
Girai per i marciapiedi tanto per far
notte. 1-a città mi entrava nell'anima
come un acido aere e caldo.
Quando ritornai allo stallaggio per domandare dì Baracca, un vecchio che rasentava il quintale seduto sur una pressa
di fieno mi disse che era partito da un'ora.
Per fortuna potei trovare un altro barrocciaio che andava fino al paese.
Dal paese al podere ci sarei andato a
piedi,
Era un pecoraio dal volto di una biondezza color di rame, amichevole e rude,
Mi fece accuccìare nella cesta degli agnelli,
e la cavalla brada dal trotto strascicone
non sì fermò che a mezza salita.
Allora M videro le prime case e le strade
sassìcate e brutte come serponi buttati lì
dì traverso nel piano.
L'aria che era stata troppo calda, aveva
preso tutta una trasparenza cenerosa.
Sopra la Serra sì addensava la burrasca,
e sullo schermo nero un bianckhio di case
contro il sole, il tizzo di una torre lontana»
mettevano nell'anima uno sgomento
ghiaccio.
Si sentì una campana suonare a morto :
poi due, lente a rintocchi.
— Che suonano?
— f. morta la signorina C latice — mi
rispose il pecoraio — ed ha voluto che la
seppellissero quassù.
Non fini di parlare che ci passe rasente
il corteo funebre. Con un salto «montai
dal calesse, e senza nemmeno ringraziare,
il pastore, scesì verso iì camposanto anch'io.
Riconobbi le ragazze della Serra, tutte
col velo nero, la candela in mano e il prete
davanti alla cassa di noce dagli smanigli
d'oro.
—" Ah, poverina! — diccvan le vecchine rimaste addietro -— ha fatto prima
a morire che a sposare: si vede che gli
ebrei portano sfortuna,
Ma un contadino fermo alla cantonata
diceva a un altro contadino: •— Caro mìo,
quello fu nn matrimonio forcato: il sor
Favolo ci aveva di molti debiti, e si attaccò all'ebreo perché glieli pagasse: ora
lèi poverina li ha papati per tutti. Ì-. morta
pare di un male che consuma.
Rimasi anch'io fermo alla svoltata guardando un poco la strada di traverso dove
il mortorio si allontanava: quelle donne
scure, quelle pietre nere che sì sente
freddo nell'anima prima dì toccarle,
Poi le torci si spensero.
Nel camposanto ci rimase soltanto il
becchino e mìa vecchia appoggiata al muro
che diceva il rosario. Di certo che i morti
stesi sotto l'erba sentivano scorrere le sue
preghiere sulle palpebre chiuse.
Allora volli vedere attraverso il cancèllo dove l'avevano sotterrata,
Nella cappella stretta che a fatica ci
sarebbe entrato un orno per ritto era accesa una lampada: una dì quelle lampade
-dal vetro verdone e trasparente che appena accese chiappano tutta l'anima dì
sgomento.
Pensai alla povera Clarìce. Ali! una
bianca bambola di cera dentro un automobile con tanti fiori bianchì che andava
al camposanto.
Mi riscossi quando sentii i primi goccioloni rimbalzare sulla polvere. Un
lampo mi cascò tra i piedi come un giallo
nastro di seta. Mi mfcssi a correre. Giù
per i viottoli, fra i sassi tondi come occhi
dì Ime, l'acqua faceva bianche capriole
come un monello scappato di scuola e
preso a gambe»
Ormai sentivo le* vesti gocciolose attaccarmisi alla pelle e il fiato mi stringeva
la gola,
Sull'aie dei poderi si sentiva un pigolio
di pulcini, uno starnazzio allegro dì anatre
che mi faceva bene.
Voltandomi non vedevo più la lampada
verde. Una ventata mi sbatacchiava
negli occhi le goccie ghiaccie sicché mi
ebìerar nelle botti e un agrore dentro
l'anima. Quel sole che appassiva come
una pampana sui pioppi era per me come
un'ampolla che versasse un olio dolce
e lontano in una ferita non ancora avvertita.
Quando lessi i primi versi a Dorè, mi
guardò arrotondando la bocca; —Portali alla signorina Clarice — mi disse,
La Clarice era troppo preziosa, almeno
cosi la giudicavo, e non l'avrei veduta
mai passar dinanzi alla nostra casa.
Decisi di andare alla Serra,
Sapevo anche cavalcare, e il morello
era un cavallo fido, dai fianchi un poco
rotondi, di nna indoratura floscia, piuttosto basso, anche la Leonetta gli avrebbe
messo la cavezza e il morso senza che
scalciasse. Lo impippiai di biada, lo pulii
sotto le coscie e gli messi, invece della
sella, una balla attraverso la groppa.
In quell'ora passavano i vaccari alti GENITORI, ASSICrRATE I VOSTRI BAMBINI. E come? Scrivete ogg! steso alt'Ammìnisrrarione
stille selle bestiale gobbe e pelose.
vine Ticinese. Doe' pketììì assicurali, Sergio e Gianal^aa, eli 4 e 3 amtt.
Detti un fischio ad Achille clic si fetmò
dirimpetto al cancello guardandomi con
un punto interrogativo negli occhi.
Ma quando Achille disse in faccia a
— Vengo anch'io; aspettatemi. Achille;
Tutte le sere veniva Bista a far t'aitane tutti che la Clarice avrebbe sposato, la
vo alla fattoria per sentir del seme.
con la Leonetta.
stizza mi si accese dentro il cere.
Saltai in groppa e fui sulla strada.
Si metteva sul murello della pìccola
— Allora andrà via dalla Serra ? —11 guardia mi parlava della semente loggia. In fondo al padule ci restava chiesi.
che era in ritardo...
sempre un pezzo di tramonto che conti— Sì, si, dì certo — rispondeva il
nuava a brillare anche a dispetto delle guardia bilicandosi su i gambali.
Per San Martino
— E voi l'avete visto il suo sposo?
sta meglio ti grano al campo thè al miMno, stelle. E dall'orto saliva odore dì uve
stramezze. Nell'ombra le grandi pigne
— Un ebreo — rispose Achille — che
Ma nell'aria c'era un fiato di prima- ciondoloni dai tralci come lampade troppe ha dì molti quattrini e cinque negozi in
vera; anche le lodoìe tra le zolle franose pese sorseggiavano la prima frescura in- città, negozi dalle vetriate lucide piene
non facevano che uno svolazzlo allegro, dolcendosi sempre di più.
zeppe di. pannina.
d'argento,
Bista era un bel moro, dai cigli folti
— O com'è?
— E sapete che ho visto i peri fio- rassodati sotto la fronte ossuta, portava
— Come si fa a dire com'è uno? Alto,
riti ?
i gambali e la cacciatora a due sbrani, magro, col naso a falco, sempre rasato,
— Brutto segno, ragazzo mio — mi dì mezzulano; ima lepre ci sarebbe en- lentigginoso e il eappello da ebreo,
rispose — triste quell'anno che ha due trata di corsa.
Stetti a pensare come fossero fatti i
primavere. —
La Leonetta non gli sapeva nemmeno cappelli da ebreo: larghi, schiacciati come
Andando i cavalli scalciavano, allun- dir * buona sera », ma gli si metteva ac- un tagliere. Perché tutti ci abbiamo
gavano le belle criniere come pannocchie canto e prìcipiavano a discorrere sotto addosso tin distintivo. Anzi basta guarappena indorate dal sole.
voce come se riattaccassero un ragiona- dare nel viso una persona per capire a
Sul piazzale della palazzina i leoni' mento lasciato a mezzo la sera avanti. che razza appartenga.
di terra cotta, con la lingua di fuori, gli
Non sapevo che all'amore si facesse
— Le nozze non andranno tanto per
occhi smisurati mi guardarono fissi,
a quel modo. Ma di certo che parlavano le lunghe: quando i signori dicono di
Le persiane azzurre erano semichiuse, del gran caldo della giornata, della gio- sposare è certo che hanno bell'e comSi udiva un pigolio d'uccello lontano, e venca che era scapicollata sfitto il timone binato tutto. — E Achille rìdeva.
il singhiozzo di una vasca come se ca- del carro. Anche un muglio si perdeva
Ci doveva esser sotto qualchecosa: lo
scasse dentro una lampada di vetro. Quan- lontano bolso nell'aria bolsa, un birracchio guardai con gli occhi incuriositi,
do Achille annunzio la mia visita, venne si grattava alla paratinta della serrata.
— Eh, eh, ieri sera lei ebbe le convulgiù con un patassio fragoroso la signorina Nell'aia tutta pulita si era buttata una sioni; il sor Favolo corse con un po' di
Clarice. Mi carezzò con le sue manine stella a capofitto spegnendosi dentro il cognac a farla ripigliare; e la Celestina
di cera pigliandomi pel ganascino. M'in- tentone, e una raganella gridava che gridava; — Non è niente, non è niente,
trodusse in una grande sala a pian ter- pareva spiritata.
la commozione, la gran commozione! —'
reno.
Dal leccio un gufo crocchiava a inter- di quelle scene!
Un ritratto pendeva dalla parete e sotto valli e le lucciole a manciate sciamavano
L'ebreo era rimasto nel piazzale e
ci aveva sempre un mazzo di garofani da un prato all'altro. Anche loro erano diceva; — Quanti ettari saranno tutta
rossi. Poi la tavola mtondac ol tappeto innamorate e affondavano in un acceso la tenuta?
*
ricamato nel mezzo e alcuni vasi tutti di palpitio d'oro. Cacciando gli stinchi nel
un color d'alabastro.
mio grande letto di foglie di granturco,
Le massaie dovevano andare alla fatLa poltrona coi guanciali per la signora sentivo che il saccone cricchiava, ed il toria ciascuna con un par di capponi.
Celestina, in un canto.
mozzicone di candela che la mamma mi
Si vedevano a mucchierelli per la strada
E tutto un silenzio odoroso di mo- accendeva sempre sulla medesima seg- coi grandi canestri in capo come quando
nastero.
giola sfondata e sgocciolata al capezzale andavano al paese per la sagra.
La signorina ("latice lesse i miei versi, del letto, singhiozzava giallo come un
Le code dei capponi, belle, a punto
poi appuntò sur un bel foglio bianco il occhio gonfio dì febbre.
interrogativo, spagliavano dai panieri:
mio nome, disse che avrebbe scritto lonIo pensavo alla risposta dejla signorina le aie eran piene dì sole e di chicchirichì.
tano forse ad un'amica; dopo, mi avrebbe Clarice, e m'indispettivo.
—- I grandi lussi dei signori* — dicefatto chiamare da Achille,
Soltanto la mattina, appena i pas- van le cornari — tutti questi eapponi che
Quando tornai a casa Dorè mi can- serotti svegliavano l'alba e facevano ci, ne faranno ?
zonava.
d, ci, ricominciavo ad esser contento.
Achille aveva tribolato una settimana
•m
questi locali costruiti per servire da aule
scolastiche non avevano i requisiti indispensabili per servire da biblioteca, e
di CORINNA CHIESA-GALLI.
sopratutto la sala di lettura ebbe sempre
un'ubicazione infelicissima, che sgomenta
i lettori, non sempre disposti a salire cinque lunghe scale. Inoltre essa deve servire anche da sala d'aspetto e di distribuzione, e da passaggio, per andare nei magazzini, È però ugualmente un ambiente
simpatico per le grandi vetrate che danno
sul Parco Ciani ed offrono la vista incantevole delle montagne e del lago, conciliando la mente alla serenità degli studi.
Prima di questa sede signorile, nella
quale potè incominciare ad organizzarsi
ed a svilupparsi, la Biblioteca Cantonale
si trovava in un locale del vecchio Liceo,
sull'area dell'attuale cortile del Palazzo
postale. Quel locale era stato anticamente l'oratorio dei Padri SomaseM, prima che il loro convento diventasse il Liceo
Cantonale nell'anno 1853.
Annessa alla Biblioteca Cantonale, v'è
una sezione specialmente interessante nella
quale si raccoglie tutto ciò che riguarda
il Ticino e i ticinesi: libri, opuscoli, fogli
volanti, fotografie, stampe, tutti i periodici e tutti i libri pubblicati nel Cantone
attualmente e nei tempi andati. Questa
raccolta che i bibliotecari chiamano «Ticinensia » e noi chiamiamo più modestamente Libreria Patria, -deve essere soLA BIBLIOTECA CANTONALE DI LUGANO diretta dalla sonora C. CHIESA-GALLI. Pataaa degli
pratutto cara alla nostra popolazione,
studi in Lugano: la facciata verso levante. La BtHtoteca Cantonate si trova all'ultimo piano.
e ognuno deve fare ìl possibile per arricchirla, mandandole materiale o segnalandole dove se ne può trovare,
pareva di sentire le piccole mani scar|
A
Biblioteca
come
è
attualmente,
ebbe
Essa fu iniziata dai nostri migliori stunite dì Qarice.
diosi: Stefano Franscini, Luigi Laviziali,
^Andando a tastoni, ini trovai sull'aia •*-' inizio soltanto nell'anno 1905, quando
di Rista. Anche i pagliai mi guardarono fu collocata nel Palazzo degli Studi, ap- Emilie Motta, Giovanni Nizzola, sotto
pena costrutto. Per ottime ragioni dì previ- gli auspici della Società Dernopedeutica.
con un'aria risacchiona.
La Biblioteca Cantonale e la Libreria
Quando la Leonetta si affacciò sul- denza, questo edificio aveva assunto proporzioni
grandiose,
superiori
alla
necesPatria
insieme posseggono circa 60,000
l'uscio, mi dette subito del matto e volle
che mi mettessi intorno al fuoco ad asciut- sità del momento, cosicché, essendoci pa- volumi, compresi gli opuscoli ed i periodici.
tarmi, che c'era da buscarsi un malanno. recchie aule in soprannumero, esse ven- Una parte proviene dagli antichi conventi
Due bei ceppi buttati di traverso su i nero arredate debitamente e destinate ticinesi : sopra tutto da quello dei Francelari facevano un bagliore rosso e tepido. alta Biblioteca Cantonale. Naturalmente scani e dei Somasehi in Lugano e da quello
Tutta la larga cucina mi entrava nell'anima cordiale e rimpaciata,
Sotto il tavolino ravvolto in una coperta di lana, stinta, un bambino pacchieruto, con le gote di una soda bruttezza,
scalciava allegro fra due cani : uno toppato
di bianco, dalle ganasce di lupatto, l'altro
nero come un calabrone — accucciati li
con gli occhi insonnoliti.
— Il tuo bambino? — Ah bello! bello!
Bista che era tornato dalla stalla mi
lasciò fare,
Strinsi il bel marrnocchìetto fra le braccia.
— O che nome gli hai messo?
— Leone — rispose la Leonetta.
— O perché non gli hai messo il nome
di un poeta?
Il bambino mi sgranò sul muso gli occhi
lucidi e neri come le pasture, eppoì schioccò una bella risata.
IDII.IO DELL'ERA
La Biblioteca Cantonale dì Lugano
II sapere, se poco, corrompe l'atnore, tna
se molto, lo mblùna e lo infiamma,
TOMMASEO
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