-i2 orice LGOnCTFO 11 nuovo collaboratore £011.10 D&I.1/EHA. sputato ai fÈOStri egregi lettori dal poeta IDILIO DELL'ERA. Fra gli scrìttoti giovani il cui nome ricorre ormai spesso in giornali e riviste, leKlio dell'Era si distingtie per il sapore lutto toscano della sva lingua, e per UH $uo particolare accoramento cne tende ti consolarsi e a placarsi in visioni di chiara bellezm. La toscanità detta lìngua, dono prenoto, ma non scevre di peritoti, dipende del fatto che il dell'Era è nato nel 1906, nella campagna senese, ehis egli vi i cresciuto, contadino (rei i contadini fino ai quindici anni, che, anche di poi, ha per ài più abitato da quelle patti. Di questa sua origine cam* pugnatila e toscana egli si ricorda sempre nette sue scritture diffuse qua e là sulla pttbbtica stampa, o raccolte in alluni esili ìtolumetti: L'AIUOLA DI LUCE che contiene, fra altro, odorosi sonetti alla mamma; CON VN POETA ALLA MACGHIA, devoto omaggio al stia grande conterranea Federigo Tozzi; FIAMME DI PADULE, interessante romanzetto in evi il contrasto fra campagna e città è mostrato in modo non intentissimo, ma onesto ,e persuasivo, così da far pensare che questa potrebbe forse essere, per lo strittore, una strada aperta. Il sintero t profondo accoramento onde le poesie e te prose del giovane scrittori si improntano, da bene a sperare di lui. Chi sente la vita sotto la specie del dolore, la sente in estensione e in profondità, si abìttue a dirne con form gli aspetti tetri, e, mirabile a- dirsi, anche gli aspetti gai : doppio dono non certo consentito alt ottimista: tanto che davvero non saprei se a un artista debba augurarsi mai di essere un corcontento. Quello che invece auguriamo al Dell'Era è di perseverare, di approfondirsi sempre più in tutti i modi possibili, di mirare, nel racconto o nella lirica, at taglio netto e chiara, alla costruzione serrata, che è quanto dire ai veri tormenti e alle vere gioie dell'arte. O. ZOPPI rr> 11 nostro era. un podere giallo, color di febbre. Si chiamava Ginestreta perché sur un poggetto dove una volta le ginestre facevatt tutto un calvario d'oro, I maggesi franavano verso un fiume, il Bagnaccio, con ondate come di cenere pietrificata, Sul fiume le mlberelle pulite e lisce tremavano sempre con un luccichio d'argento. Mi piacevano perché la sera, mi restavano tutte diritte nell'anima con un tremore bianco e lontano. Di là tra i pioppi si allungava una lama di padule pieno dì un giallo sgomento. II babbo diceva che il nostro era un buon podere anche se il padrone vecchio era morto e adesso lo aveva in fitto il sor Favolo. Ma Dorè, il garzone che ci aveva visto nascere, raccontava che una volta le cose andavano meglio e sosteneva che la signora Giovanna, ossia la moglie del vecchio padrone, aveva fatto male a ritirarsi in città, affittando la. tenuta, che iti verità era piccola, di cinque casupole, in quella conca lunare e della fattoria la « Serra ». Le case si vedevano tutte in cerchio come cappelle mortuarie. I padroni nuovi comparivano di rado e il sor Favolo era un grasso industriale che non stava mai in casa: la signora Celestina ovvero la sua seconda moglie aveva il mal di cuore e leggeva i romanzi e i libri di poesia sulla grande seggiola a sdraio che si faceva portare sui piazzale della « Serra ». Anche il canto di un fringuello la commoveva: restava con gli occhi chiusi pensando che quell'uccellino fosse cieco. Era la matrigna dì Clarice: ma anche Clarice non si vedeva mai e i bovari non facevan altro che dire delle grandi bellezze di lei, * * In casa, siccome ero il più piccolo ci avevan dei riguardi, e Dorè mi aveva messo il nome Girasole e perché » tu fai — mi aveva detto — come quella sciocca pianta che allarga la testa ogni volta comparisce il sole, eppoi gli va sempre dietro fino che non è tramontato, ma non è buona a niente, sai, che si lascia beccare i semi in capo dai piccioni. Ero segaligno e malinconico: aveva finito le scuole da un pezzo, e a Cerreta non capitavo che qualche domenica sera per rinnovare i pantaloni che mi aveva cucito la Leonetta, o una giacca agghindata col taschino a sguincio sul petto dal quale esciva spampanato il fazzoletto odoroso. Se Daverio che era il più grande di noi tre, lavorava col perticale dalla mattina alla sera, * se la Leonetta menava ai prati le pecore — quelle sue pecore bianche come la panna del latte appena munto — anch'io avevo imparato a rinvestir le seggiole, i canestri, i fiaschi. Mi aveva insegnato Dorè. E quelle sere d'inverno che i ciocchi eran tutti un rosso tepore nella cucina a pian terreno, con le gambe affogate nei fastelli di scarza, Dorè m'insegnava a cantar di poesia. Diceva: — Ora ti do l'ottava I —-e mi buttava la sfida con due versi prolungati fino allo spasimo. Allora i suoi occhi diventavano due acini di brace, lo tentavo la risposta, La mamma che agucchiava nel canto del foco scoppiava in una risata schietta e casareggia : anche la Leonetta mi guardava con un filo di sorriso sulle labbra. Pigliavo gusto a quegli strambotti che mi escivan dal cuore come una bolla <Si fuoco da uri terreno .coperto Hi cenere. Ma poi diventavo malinconico. Sentivo in fondo all'anima il peso di «n giorno morto come una pietra nel buio dì un pozzo. La mattina mi svegliavo, e mi pareva di avere in bocca un verso lucido di sole.• Ma la dolcezza delle mattine che mi levavo presto col babbo, infilavo i tronchetti e andavo a ricavar la stalla, non li potrò mai ridire, 11 tepore dei giovenchi che mi guardavano con gli occhi buoni e laqjhì, le manse bianche, tutte per lungo nello stranie, la prima bracciata di fieno, il mastichio agro delle vacche dai fianchi troppo cicciuti, gli spari dei chicchirichì dai pollai, mentre il sole luccicava in vetta ai pagliai a strisce rosse. Si aggiustava il concio a piattonate di forcone sulk carretta, e via di corsa tra una fumata d'argento. (Quando il sole era tutto un incendio nell'aia, mi pareva di incominciare a vivere soltanto allora. Non mi rammentavo neppure della sera avanti. Anche i cavoli rotondi tutti in fila nell'orto odoravano di poesia. Ma il giorno che scrissi il primo verso fu un tramonto di sementa. Sentivo il buon vino trasparente chìac- per mettere a nuovo la vecchia pariglia della fattoria. Ma poi era venuto l'ebreo: — Che, queste son cose da medioevo! Le automobìli ci vogliono! E tra la polvere sì era sentita la romba : poh, poh, poh! Pensavo una grande automobile con.un mazzo di garofani Manchi legati all'invetriata davanti. E la signorina Oaricc? Ali dentro, tutta bianca anche lei come una bambola di cera. — Andranno alla chiesa ? •— domandava la Idoneità. — Gli ebrei non vanno alla chiesa, ma vanno dal sindaco a sposare. — Io piuttosto che pigliare un ebreo mi affogherei dentro un fosso — diceva la Lconetta. E la mamma aggiungeva: —- I signori non sposan mica le ragazze, ma la dote delle ragazze, E scrollava il capo. Se là Clarìce davanti al sindaco avesse detto di no? Avevo visto una pecora legata per le gambe dentro una cesta. Una bella pecora bianca ancora agnella che si era tante volte specchiata alla gora, voltolata nella pastura guazzosa, dì già satolla, aveva belato con voce tenera di bimba, si era fermata ritta tra i fiori dì ginestra a mirare i montoni impettiti che si cozzavàn tra loro con tutte le corna asserpentate intorno agli orecchi. Anche avevo visto tanti agnelli destinati al macello chiusi nelle ceste dietro il calessi?, allontanarli sulle vie maestre tra la polvere e il vento, eppoi laggiù penzoloni dai ganci di bottega coi capo irrigidito e il sangue 'sul capo, gli occhi fissi, i fiocchi rossi eri azzurri. Anche l'agnelta andava al macello; per la strada aveva sempre detto di no tentennando la testa qua e là; ma sul bancaccio duro appena vide lo scannatoio chiuse gli occhi e disse di sì. Se Clarice avesse fatto come quella. pecora ? Ma la sera alla fattoria c'erano i fuochi pirotecnici, i mortalettì che pareva pigliasse foco anche l'aria. Eran venuti i musicanti di città coi lunghi violini diritti e intirizziti, le viole a coda di balena. Si eran postati sul piazzale, e i contadini erano andati tutti in delirio, # — I grandi lussi dei signori — diceva Bista accosto alla Leone! ta, in cima alla tavola apparecchiata — noi si fa cosi, sema fiori, con un bicchiere dì viti bono, •come i poveri che credono in Dio. La Leonetta per essere il giorno del suo sposalizio aveva una veste di canovaccio ruvida, è Bistri si era fatto lustrare un pò* meglio i gambali dalla sua sorella, aggiustare la ciarpa torno al collo, eppoi eran saliti al paese davanti al sor curato •e davanti al Signore avevan detto un bel sì per uno, ed eran tornati a casa marito e moglie che il pranzo fumava sulla tovaglia di bucato, contenti come pasque. La sera sarebbero andati a stare insieme in casa dì Bista. nel podere delle Capanne. E il giorno dopo a\rei visto la Lconetta a falciare l'erba^ sulla proda del pasturalo. 224 Quando Achille mi consegnò la risposta caddi dalle nuvole. Dì certo che eran passati due anni perlomeno che io avevo consegnato i miei versi alla signorina Clarìce. E ora eran ritornati 11 dentro quel plico imfajne legati con un nastrino azzurro. Li scaraventai contro la mangiatoia de! morello. Perché me li avevan rimandai. ? Ma poi mi rabbonii leggendo la letterina di risposta: una calligrafia che pa» reva avesse fame, tracciata coi fili di seta. Ah! una signorina di città! — quante cose mi diceva? Che era rimasta ammirata del mìo ingegno, che continuassi a scriver le dolci meraviglie dei campi, infine che andassi a trovarla al più presto in città. E in calce, un poco a sghimbescio il suo indirizzo vìa numero e piano. Sussultai dì gioia. Andare in città ? Forse qualche bamcciaio mi ci avrebbe anche portato. Lo diasi ad Achille. C'è Baracca — mi rispose — che tutti i sabati va laggiù a vender le pelli di agnello. Cercai del pellaio e il sabato dopo ero in viaggio. Dìo, come mi tremava il cuore! * La via. il numero, il piatto erano quelli. Tirai il campanello della palazzina', una palazzina di stile cinese, con le persiane cremisi, la tettoia a pagoda, le banane che toccavan le finestre. Nessuno rispose-. Dopo un quarto d'ora mi parve che qualcuno sì affacciasse, dall'altra parte. Sì, sì, una donna come una fattoressa grassa e scontrosa si affacciò, ma si ritirò quasi subito per non darmi il buon giorno. Invece da un'inferriata verde »m gatto cacciò fuori la testa tonda e mi fece un bell'inchino pacioso come sanno fare i mici. Rìsuonaì il campanello due volte di seguito. Finalmente venne una servetta col grembiule bianco e. squadrandomi da capo ai piedi, mi chiese se cercassi l'elemosina. Rimasi come sé mi avessero picchiato un mattone sul capo. Confusi domandai della padroncìna. La serva rispose alla svelta che la signorina era fuori per le bagnature, e non sarebbe ritornata che agli ultimi di autunno, e richiuse subito il cancello, Girai per i marciapiedi tanto per far notte. 1-a città mi entrava nell'anima come un acido aere e caldo. Quando ritornai allo stallaggio per domandare dì Baracca, un vecchio che rasentava il quintale seduto sur una pressa di fieno mi disse che era partito da un'ora. Per fortuna potei trovare un altro barrocciaio che andava fino al paese. Dal paese al podere ci sarei andato a piedi, Era un pecoraio dal volto di una biondezza color di rame, amichevole e rude, Mi fece accuccìare nella cesta degli agnelli, e la cavalla brada dal trotto strascicone non sì fermò che a mezza salita. Allora M videro le prime case e le strade sassìcate e brutte come serponi buttati lì dì traverso nel piano. L'aria che era stata troppo calda, aveva preso tutta una trasparenza cenerosa. Sopra la Serra sì addensava la burrasca, e sullo schermo nero un bianckhio di case contro il sole, il tizzo di una torre lontana» mettevano nell'anima uno sgomento ghiaccio. Si sentì una campana suonare a morto : poi due, lente a rintocchi. — Che suonano? — f. morta la signorina C latice — mi rispose il pecoraio — ed ha voluto che la seppellissero quassù. Non fini di parlare che ci passe rasente il corteo funebre. Con un salto «montai dal calesse, e senza nemmeno ringraziare, il pastore, scesì verso iì camposanto anch'io. Riconobbi le ragazze della Serra, tutte col velo nero, la candela in mano e il prete davanti alla cassa di noce dagli smanigli d'oro. —" Ah, poverina! — diccvan le vecchine rimaste addietro -— ha fatto prima a morire che a sposare: si vede che gli ebrei portano sfortuna, Ma un contadino fermo alla cantonata diceva a un altro contadino: •— Caro mìo, quello fu nn matrimonio forcato: il sor Favolo ci aveva di molti debiti, e si attaccò all'ebreo perché glieli pagasse: ora lèi poverina li ha papati per tutti. Ì-. morta pare di un male che consuma. Rimasi anch'io fermo alla svoltata guardando un poco la strada di traverso dove il mortorio si allontanava: quelle donne scure, quelle pietre nere che sì sente freddo nell'anima prima dì toccarle, Poi le torci si spensero. Nel camposanto ci rimase soltanto il becchino e mìa vecchia appoggiata al muro che diceva il rosario. Di certo che i morti stesi sotto l'erba sentivano scorrere le sue preghiere sulle palpebre chiuse. Allora volli vedere attraverso il cancèllo dove l'avevano sotterrata, Nella cappella stretta che a fatica ci sarebbe entrato un orno per ritto era accesa una lampada: una dì quelle lampade -dal vetro verdone e trasparente che appena accese chiappano tutta l'anima dì sgomento. Pensai alla povera Clarìce. Ali! una bianca bambola di cera dentro un automobile con tanti fiori bianchì che andava al camposanto. Mi riscossi quando sentii i primi goccioloni rimbalzare sulla polvere. Un lampo mi cascò tra i piedi come un giallo nastro di seta. Mi mfcssi a correre. Giù per i viottoli, fra i sassi tondi come occhi dì Ime, l'acqua faceva bianche capriole come un monello scappato di scuola e preso a gambe» Ormai sentivo le* vesti gocciolose attaccarmisi alla pelle e il fiato mi stringeva la gola, Sull'aie dei poderi si sentiva un pigolio di pulcini, uno starnazzio allegro dì anatre che mi faceva bene. Voltandomi non vedevo più la lampada verde. Una ventata mi sbatacchiava negli occhi le goccie ghiaccie sicché mi ebìerar nelle botti e un agrore dentro l'anima. Quel sole che appassiva come una pampana sui pioppi era per me come un'ampolla che versasse un olio dolce e lontano in una ferita non ancora avvertita. Quando lessi i primi versi a Dorè, mi guardò arrotondando la bocca; —Portali alla signorina Clarice — mi disse, La Clarice era troppo preziosa, almeno cosi la giudicavo, e non l'avrei veduta mai passar dinanzi alla nostra casa. Decisi di andare alla Serra, Sapevo anche cavalcare, e il morello era un cavallo fido, dai fianchi un poco rotondi, di nna indoratura floscia, piuttosto basso, anche la Leonetta gli avrebbe messo la cavezza e il morso senza che scalciasse. Lo impippiai di biada, lo pulii sotto le coscie e gli messi, invece della sella, una balla attraverso la groppa. In quell'ora passavano i vaccari alti GENITORI, ASSICrRATE I VOSTRI BAMBINI. E come? Scrivete ogg! steso alt'Ammìnisrrarione stille selle bestiale gobbe e pelose. vine Ticinese. Doe' pketììì assicurali, Sergio e Gianal^aa, eli 4 e 3 amtt. Detti un fischio ad Achille clic si fetmò dirimpetto al cancello guardandomi con un punto interrogativo negli occhi. Ma quando Achille disse in faccia a — Vengo anch'io; aspettatemi. Achille; Tutte le sere veniva Bista a far t'aitane tutti che la Clarice avrebbe sposato, la vo alla fattoria per sentir del seme. con la Leonetta. stizza mi si accese dentro il cere. Saltai in groppa e fui sulla strada. Si metteva sul murello della pìccola — Allora andrà via dalla Serra ? —11 guardia mi parlava della semente loggia. In fondo al padule ci restava chiesi. che era in ritardo... sempre un pezzo di tramonto che conti— Sì, si, dì certo — rispondeva il nuava a brillare anche a dispetto delle guardia bilicandosi su i gambali. Per San Martino — E voi l'avete visto il suo sposo? sta meglio ti grano al campo thè al miMno, stelle. E dall'orto saliva odore dì uve stramezze. Nell'ombra le grandi pigne — Un ebreo — rispose Achille — che Ma nell'aria c'era un fiato di prima- ciondoloni dai tralci come lampade troppe ha dì molti quattrini e cinque negozi in vera; anche le lodoìe tra le zolle franose pese sorseggiavano la prima frescura in- città, negozi dalle vetriate lucide piene non facevano che uno svolazzlo allegro, dolcendosi sempre di più. zeppe di. pannina. d'argento, Bista era un bel moro, dai cigli folti — O com'è? — E sapete che ho visto i peri fio- rassodati sotto la fronte ossuta, portava — Come si fa a dire com'è uno? Alto, riti ? i gambali e la cacciatora a due sbrani, magro, col naso a falco, sempre rasato, — Brutto segno, ragazzo mio — mi dì mezzulano; ima lepre ci sarebbe en- lentigginoso e il eappello da ebreo, rispose — triste quell'anno che ha due trata di corsa. Stetti a pensare come fossero fatti i primavere. — La Leonetta non gli sapeva nemmeno cappelli da ebreo: larghi, schiacciati come Andando i cavalli scalciavano, allun- dir * buona sera », ma gli si metteva ac- un tagliere. Perché tutti ci abbiamo gavano le belle criniere come pannocchie canto e prìcipiavano a discorrere sotto addosso tin distintivo. Anzi basta guarappena indorate dal sole. voce come se riattaccassero un ragiona- dare nel viso una persona per capire a Sul piazzale della palazzina i leoni' mento lasciato a mezzo la sera avanti. che razza appartenga. di terra cotta, con la lingua di fuori, gli Non sapevo che all'amore si facesse — Le nozze non andranno tanto per occhi smisurati mi guardarono fissi, a quel modo. Ma di certo che parlavano le lunghe: quando i signori dicono di Le persiane azzurre erano semichiuse, del gran caldo della giornata, della gio- sposare è certo che hanno bell'e comSi udiva un pigolio d'uccello lontano, e venca che era scapicollata sfitto il timone binato tutto. — E Achille rìdeva. il singhiozzo di una vasca come se ca- del carro. Anche un muglio si perdeva Ci doveva esser sotto qualchecosa: lo scasse dentro una lampada di vetro. Quan- lontano bolso nell'aria bolsa, un birracchio guardai con gli occhi incuriositi, do Achille annunzio la mia visita, venne si grattava alla paratinta della serrata. — Eh, eh, ieri sera lei ebbe le convulgiù con un patassio fragoroso la signorina Nell'aia tutta pulita si era buttata una sioni; il sor Favolo corse con un po' di Clarice. Mi carezzò con le sue manine stella a capofitto spegnendosi dentro il cognac a farla ripigliare; e la Celestina di cera pigliandomi pel ganascino. M'in- tentone, e una raganella gridava che gridava; — Non è niente, non è niente, trodusse in una grande sala a pian ter- pareva spiritata. la commozione, la gran commozione! —' reno. Dal leccio un gufo crocchiava a inter- di quelle scene! Un ritratto pendeva dalla parete e sotto valli e le lucciole a manciate sciamavano L'ebreo era rimasto nel piazzale e ci aveva sempre un mazzo di garofani da un prato all'altro. Anche loro erano diceva; — Quanti ettari saranno tutta rossi. Poi la tavola mtondac ol tappeto innamorate e affondavano in un acceso la tenuta? * ricamato nel mezzo e alcuni vasi tutti di palpitio d'oro. Cacciando gli stinchi nel un color d'alabastro. mio grande letto di foglie di granturco, Le massaie dovevano andare alla fatLa poltrona coi guanciali per la signora sentivo che il saccone cricchiava, ed il toria ciascuna con un par di capponi. Celestina, in un canto. mozzicone di candela che la mamma mi Si vedevano a mucchierelli per la strada E tutto un silenzio odoroso di mo- accendeva sempre sulla medesima seg- coi grandi canestri in capo come quando nastero. giola sfondata e sgocciolata al capezzale andavano al paese per la sagra. La signorina ("latice lesse i miei versi, del letto, singhiozzava giallo come un Le code dei capponi, belle, a punto poi appuntò sur un bel foglio bianco il occhio gonfio dì febbre. interrogativo, spagliavano dai panieri: mio nome, disse che avrebbe scritto lonIo pensavo alla risposta dejla signorina le aie eran piene dì sole e di chicchirichì. tano forse ad un'amica; dopo, mi avrebbe Clarice, e m'indispettivo. —- I grandi lussi dei signori* — dicefatto chiamare da Achille, Soltanto la mattina, appena i pas- van le cornari — tutti questi eapponi che Quando tornai a casa Dorè mi can- serotti svegliavano l'alba e facevano ci, ne faranno ? zonava. d, ci, ricominciavo ad esser contento. Achille aveva tribolato una settimana •m questi locali costruiti per servire da aule scolastiche non avevano i requisiti indispensabili per servire da biblioteca, e di CORINNA CHIESA-GALLI. sopratutto la sala di lettura ebbe sempre un'ubicazione infelicissima, che sgomenta i lettori, non sempre disposti a salire cinque lunghe scale. Inoltre essa deve servire anche da sala d'aspetto e di distribuzione, e da passaggio, per andare nei magazzini, È però ugualmente un ambiente simpatico per le grandi vetrate che danno sul Parco Ciani ed offrono la vista incantevole delle montagne e del lago, conciliando la mente alla serenità degli studi. Prima di questa sede signorile, nella quale potè incominciare ad organizzarsi ed a svilupparsi, la Biblioteca Cantonale si trovava in un locale del vecchio Liceo, sull'area dell'attuale cortile del Palazzo postale. Quel locale era stato anticamente l'oratorio dei Padri SomaseM, prima che il loro convento diventasse il Liceo Cantonale nell'anno 1853. Annessa alla Biblioteca Cantonale, v'è una sezione specialmente interessante nella quale si raccoglie tutto ciò che riguarda il Ticino e i ticinesi: libri, opuscoli, fogli volanti, fotografie, stampe, tutti i periodici e tutti i libri pubblicati nel Cantone attualmente e nei tempi andati. Questa raccolta che i bibliotecari chiamano «Ticinensia » e noi chiamiamo più modestamente Libreria Patria, -deve essere soLA BIBLIOTECA CANTONALE DI LUGANO diretta dalla sonora C. CHIESA-GALLI. Pataaa degli pratutto cara alla nostra popolazione, studi in Lugano: la facciata verso levante. La BtHtoteca Cantonate si trova all'ultimo piano. e ognuno deve fare ìl possibile per arricchirla, mandandole materiale o segnalandole dove se ne può trovare, pareva di sentire le piccole mani scar| A Biblioteca come è attualmente, ebbe Essa fu iniziata dai nostri migliori stunite dì Qarice. diosi: Stefano Franscini, Luigi Laviziali, ^Andando a tastoni, ini trovai sull'aia •*-' inizio soltanto nell'anno 1905, quando di Rista. Anche i pagliai mi guardarono fu collocata nel Palazzo degli Studi, ap- Emilie Motta, Giovanni Nizzola, sotto pena costrutto. Per ottime ragioni dì previ- gli auspici della Società Dernopedeutica. con un'aria risacchiona. La Biblioteca Cantonale e la Libreria Quando la Leonetta si affacciò sul- denza, questo edificio aveva assunto proporzioni grandiose, superiori alla necesPatria insieme posseggono circa 60,000 l'uscio, mi dette subito del matto e volle che mi mettessi intorno al fuoco ad asciut- sità del momento, cosicché, essendoci pa- volumi, compresi gli opuscoli ed i periodici. tarmi, che c'era da buscarsi un malanno. recchie aule in soprannumero, esse ven- Una parte proviene dagli antichi conventi Due bei ceppi buttati di traverso su i nero arredate debitamente e destinate ticinesi : sopra tutto da quello dei Francelari facevano un bagliore rosso e tepido. alta Biblioteca Cantonale. Naturalmente scani e dei Somasehi in Lugano e da quello Tutta la larga cucina mi entrava nell'anima cordiale e rimpaciata, Sotto il tavolino ravvolto in una coperta di lana, stinta, un bambino pacchieruto, con le gote di una soda bruttezza, scalciava allegro fra due cani : uno toppato di bianco, dalle ganasce di lupatto, l'altro nero come un calabrone — accucciati li con gli occhi insonnoliti. — Il tuo bambino? — Ah bello! bello! Bista che era tornato dalla stalla mi lasciò fare, Strinsi il bel marrnocchìetto fra le braccia. — O che nome gli hai messo? — Leone — rispose la Leonetta. — O perché non gli hai messo il nome di un poeta? Il bambino mi sgranò sul muso gli occhi lucidi e neri come le pasture, eppoì schioccò una bella risata. IDII.IO DELL'ERA La Biblioteca Cantonale dì Lugano II sapere, se poco, corrompe l'atnore, tna se molto, lo mblùna e lo infiamma, TOMMASEO 226