ATTIVITÀ “LEGGERE”, PENSIERI “PESANTI”
Per provare ad essere presenti in carcere sui temi della
tossicodipendenza in modo innovativo
Il Servizio Riduzione del danno del Comune di Venezia al carcere di S. Maria Maggiore con
un laboratorio di tatuaggio con le henné.
Le premesse
Era da qualche anno che i nostri tentativi di iniziare in carcere le consuete attività
legate all’approccio di riduzione del danno alla tossicodipendenza non sortivano alcun
effetto.
La rete dei servizi della Provincia di Venezia che si occupano di
tossicodipendenze, nell’articolazione dei vari progetti, non prevedeva la presenza attiva in
carcere del servizio Riduzione del Danno, pur riconoscendo al Comune di Venezia un
ruolo strategicamente ed operativamente importante nelle politiche di intervento territoriale
in questo settore.
La nostra proposta di lavoro (risalente all’anno 1999) con gruppi di consumatori attivi
consisteva nel facilitare discussioni franche e aperte sui rischi derivanti dall’assunzione di
sostanze psicotrope e dalla pratica di comportamenti a rischio dentro il carcere, attraverso
delle vere e proprie simulazioni di situazioni realistiche di consumo, avvalendosi di alcuni
“work shop” sull’iniezione più sicura, sul sesso sicuro e sul soccorso in caso di over-dose,
chiamati “corsi di sopravvivenza”, allo scopo di ridurre il rischio di infezioni per via
parenterale e/o sessuale e ridurre il rischio di morte per overdose1.
A quel tempo per il Ser.T di Venezia questa formula dei corsi di sopravvivenza era
considerata troppo audace e poco opportuna per essere svolta nell’ambiente carcerario,
ciò in relazione al fatto che l’argomento relativo ai consumi di sostanze stupefacenti
all’interno delle carceri era argomento delicato, poco affrontabile con le modalità esplicite e
dirette che la nostra proposta prevedeva.
Per l’Amministrazione Penitenziaria, invece, un intervento come quello da noi previsto
poteva probabilmente essere inteso come sconveniente, poiché evidenziava le difficoltà
oggettive delle strutture carcerarie a filtrare in modo efficace tutto quello che passa
attraverso i controlli da esse attivati.
Anche all’interno del nostro servizio, a questo riguardo, erano presenti delle
perplessità: la modalità pensata, infatti, pareva più un modo per riprendere alla lettera una
formula (quella dei corsi di sopravvivenza sopra menzionati) già collaudata nel lavoro di
strada, che una vera ricerca di percorsi adeguati alla realtà del carcere ed alla condizione
dei carcerati tossicodipendenti e non.
Insomma tutti questi elementi ci indicavano che dovevamo ricercare una proposta che
strategicamente ci consentisse di non rinunciare ad affrontare a viso aperto le questioni
che costituiscono la peculiarità del nostro Servizio (lavoro sui comportamenti tossicomanici
a rischio, orientamento e informativa sui servizi, supporto alle situazioni personali,
promozione di discussioni e circolazione di informazioni tra pari, empowerment) ed al
tempo stesso di ricercare un punto di contatto con l’Amministrazione Penitenziaria ed il
Ser.T ed individuare contenuti, modalità di proposta e di gestione della stessa che si
avvicinassero alla realtà ed agli interessi delle persone recluse, uscendo un po’ dal nostro
consueto cliché, per avvicinarsi mentalmente al mondo della detenzione prima ancora che
a quello della tossicodipendenza.
L’idea del laboratorio di tatuaggio
Partendo da queste considerazioni, è nata l’intuizione di utilizzare il tatuaggio come
elemento di raccordo, per consentire percorsi condivisi di intervento tra servizi e con i
destinatari.
La formula che poi ha preso avvio all’inizio del 2002 al carcere di S. Maria Maggiore, casa
circondariale che ospita attualmente circa 180 persone detenute, ha voluto basarsi su
questi presupposti:
1. Su cosa intervenire Le tre più elevate forme di rischio di
propagazione di malattie trasmissibili all’interno del carcere sono le
seguenti: la pratica del tatuaggio; l’uso di sostanze stupefacenti per
via iniettiva; i rapporti sessuali.
Questi tre argomenti, non
presi in considerazione esclusivamente in ambito carcerario,
dovevano costituire l’ossatura del nostro intervento;
2. Con chi intervenire La popolazione tossicodipendente doveva
essere la prevalente ma non il target esclusivo, perché i tre
argomenti, oltre a non coinvolgere esclusivamente le persone t.d.,
potevano consentire approfondimenti, anche specifici sulla
tossicodipendenza, arricchiti da esperienze molteplici.
3. Come intervenire
Con modalità animative, a partire da
interessi personali dei partecipanti cercando di creare climi di
gruppo adatti ad affrontare argomenti delicati con rispetto, senza
pregiudizio, senza forzature, con autenticità, con spirito critico,
utilizzando i saperi interni ai gruppi. Il
tutto
sperimentando
modalità ludiche, grafico espressive, “implicazioni” metaforiche,
momenti di discussione collettiva, simulazioni, avvalendosi di
strumentazioni video, lettura di brani, tatuaggio con l’henné, libri e
riviste specialistiche. Passando
opportunamente
da
un
argomento all’altro ( il tatuaggio, la vita del carcere, le situazioni
rituali, le contaminazioni a diversi livelli, le malattie trasmissibili, i
rischi nel tatuaggio, nel consumo di sostanze e nei rapporti
sessuali, la tossicodipendenza, i servizi specialistici, il soccorso in
caso di overdose o coma etilico), specificando sin dall’inizio chi
siamo e la nostra intenzione di trattare soprattutto argomenti legati
all’ambito della tossicodipendenza.
Tali presupposti hanno trovato un naturale contenitore all’interno di uno spazio
laboratorio che prevede, per ogni gruppo, quattro incontri a tema così suddivisi: 1) la
cultura del tatuaggio; 2) i rischi del tatuaggio; 3) i comportamenti a rischio nell’assunzione
di sostanze psicotrope; 4) gli interventi di primo soccorso in caso di overdose, coma etilico
o effetti acuti dell’ecstasy.
Gli obiettivi del Servizio in questa circostanza sono: conoscere la realtà carceraria
che ha al suo interno una ragguardevole percentuale di presenza di persone
tossicodipendenti detenute (circa il 30%); farsi conoscere da una parte di queste per
essere di riferimento all’uscita dal carcere, nell’eventualità ce ne fosse bisogno; ridurre i
comportamenti a rischio derivanti dalla pratica scorretta del tatuaggio, dalle pratiche
iniettive e sessuali (sia all’interno che all’esterno del carcere); informare sui rischi di overdose nei primi giorni di uscita dal carcere.
Gli obiettivi degli incontri sono finora stati :
a) entrare nel merito del significato del tatuaggio, a livello personale e nelle varie culture;
b) far acquisire conoscenze utili ad effettuare tatuaggi riducendo i rischi attuali di malattie
contagiose;
c) favorire una discussione/acquisizione di conoscenze per evitare comportamenti a
rischio nella vita quotidiana ed in particolare nell’assunzione di sostanze;
d) far acquisire tecniche/conoscenze per sapersela cavare quando qualcuno sta male in
relazione alle sostanze assunte;
e) informare sul rischio di overdose al momento della dimissione dal carcere;
f) far esplicitare, elaborare e divulgare, da parte del gruppo di lavoro, le informazioni
tecniche acquisite.
I passaggi cruciali
Al momento della prima verifica intermedia di andamento dell’iniziativa sono stati
esaminati i passaggi cruciali specifici dell’esperienza che, metaforicamente, possono
essere paragonati a delle porte di passaggio, porte di accesso che consentono livelli di
approfondimento più elevati.
La prima porta attraverso cui passare è quella della chiarezza della
comunicazione, soprattutto nello sciogliere l’apparente contraddizione tra l’attrazione
specifica che può suscitare il tema presentato e la complessità degli argomenti
effettivamente trattati.
Per non correre il rischio di alimentare fraintendimenti,
abbiamo predisposto un opuscolo pubblicitario che evidenzia l’Ente promotore ed il
contenuto dell’attività proposta, che si sostanzia, come anticipato prima, in quattro incontri
per ogni singolo laboratorio a cui partecipa uno stesso gruppo composto da una decina di
elementi al massimo.
Al primo incontro ci si presenta come Servizio e si
introduce la scaletta degli argomenti che si intendono trattare, la modalità di
organizzazione e di gestione degli incontri stessi, lasciando gli interessati liberi di
proseguire o meno il percorso con noi.
Ora le persone cominciano a partecipare conoscendo già a grandi linee
l’organizzazione del corso perché informate dai compagni, Al
momento
della
presentazione del programma e dei partecipanti è dato il necessario spazio perché i dubbi
vengano dissipati e le persone abbiano sufficienti informazioni per decidere se continuare
o meno a frequentare il laboratorio.
La seconda porta è quella di passaggio da un argomento all’altro.
Questo è
un momento cruciale che permette di dare un significato di unitarietà ai diversi argomenti
affrontati e fornisce la possibilità di vivere come collegate situazioni spesso considerate
nella frammentarietà con le quali si presentano.
Per esemplificare, faccio riferimento
allo spostamento della discussione dal tatuaggio, inteso in alcuni suoi aspetti come atto
rituale, al significato ed alla pratica dei riti di passaggio in ambienti diversi, alla
contaminazione intesa in termini neutri (sia sanitaria, collegandoci per questo alle malattie
trasmissibili; sia sociale, entrando nel merito del bisogno di appartenenza e di
mescolanza), alla esplicitazione dei codici di comportamento di gruppi diversi, alla
tossicodipendenza intesa anche come fenomeno collettivo che risponde talvolta a precisi
rituali di gruppo.
Insomma, una bella scommessa, che per la verità si è dimostrata
finora meno difficilmente realizzabile di quanto pensassimo inizialmente.
La terza porta è quella della presenza eterogenea dei componenti nei gruppi,
trattando argomenti trasversali con riferimenti precisi alla tossicodipendenza. Ci è parsa
decisamente arricchente e qualificante l’intervento; non si è dimostrata un ostacolo alla
fluidità della discussione non inibendo chi vuol parlare in modo sincero ed aperto di sé e
della propria tossicodipendenza, come pure ha permesso a chi non ha avuto esperienze di
tossicodipendenza di intervenire ed esprimersi liberamente.
La quarta porta riguarda il tenore e l’intimità degli argomenti che emergono. Le
situazioni che si vengono a creare talvolta sono molto intense, sentite, coinvolgenti. Noi
facciamo molta attenzione a non renderle terapeutiche; facciamo attenzione ad offrire “vie
di fuga” a chi si dimostra in difficoltà, a non aprire “rubinetti” troppo delicati sapendo bene
di non essere nella condizione di applicare (tanto per restare nella metafora) le
“guarnizioni” necessarie. Non insistiamo troppo perciò nel toccare tasti che reputiamo
troppo insidiosi per i singoli e per il gruppo; lasciamo libero, in certi momenti, il movimento
dentro e fuori della stanza dove svolgiamo l’attività, per preservare sia chi ascolta e si
trova in difficoltà, sia chi parla e desidera essere ascoltato. Le misure adottate in questi
primi otto mesi non hanno permesso il verificarsi di situazioni a rischio in tal senso.
La quinta porta riguarda la cosiddetta “presa in carico”, termine che impaurisce un
po’ chi come noi si presenta in qualità di “operatore leggero”, specie in un ambito
“mastodontico” come quello carcerario.
E’ sostanziale non creare aspettative
irrealizzabili in chi si ritrova recluso e si affida a te; è comunque importante esserci e
sperimentarsi accertandosi che non sia “sulla pelle di nessuno”.
Noi
abbiamo
provato a farlo offrendo la nostra disponibilità a fungere da tramite con i servizi
specialistici, tenendo conto che tra il carcere e l’esterno le difficoltà di comunicazione non
sono solo legate ai consueti intoppi di comprensione e interpretazione, ma pure
condizionati imprescindibilmente da necessità di tempi e forme di relazione rassicuranti.
Un primo bilancio e alcuni dati
Nella nostra breve esperienza le occasioni di contatto con i Servizi su
richiesta delle persone detenute si sono verificate sempre per motivi legati al bisogno di
accorciare le “distanze mentali” tra “il dentro ed il fuori”, alla rassicurazione dell’essere
“tenuti da conto” e di non essere abbandonati dagli operatori di riferimento.
Così
i
nostri contatti con i soggetti appartenenti alla rete dei servizi che si occupano di
tossicodipendenza in carcere si sono concretizzati a partire dalle richieste specifiche,
congruenti alle nostre possibilità di azione, dei detenuti partecipanti ai laboratori.
Con i due Servizi principali della succitata rete, questa la situazione:
a) Il Ser.T di Venezia, nella fattispecie la Responsabile dell’Unità Penitenziaria, ha
appoggiato la nuova formula di intervento da noi proposta , facilitando il nostro ingresso in
carcere ed i contatti di circostanza.
b) La Direzione Carceraria non è mai entrata nel merito dei contenuti della nostra
proposta, ha autorizzato l’inizio dell’esperienza e la sua prosecuzione, garantendo
l’appoggio logistico-organizzativo.
Il personale carcerario ha accolto con curiosità l’inizio dell’esperienza, non è stato
però possibile avviare una informazione adeguata sulla globalità dei contenuti che si fanno
emergere nel laboratorio; così per la gran parte degli agenti di custodia il nostro è solo uno
spazio adibito allo svago ed alla decorazione del corpo.
Dal punto di vista formale, il Servizio Riduzione del Danno è ora parte integrante
della rete dei Servizi del Comune di Venezia che seguono attività di vario ordine e genere
nelle carceri della città.
Alcuni dati relativi a questo primo anno di attività vedono effettuati 9 laboratori per
un totale di 36 incontri della durata di circa tre ore l’uno.
In queste occasioni si
sono incontrate 78 persone di cui 49 t.d..
Si sono effettuate 8 esercitazioni di primo
soccorso in caso di over-dose, coma etilico, ipertermia e disidratazione a seguito di
assunzione di sostanze sintetiche, cui hanno partecipato 43 persone, 22 di queste
attivamente, sperimentando le attività con un manichino; 58 persone sono state tatuate e
9 hanno imparato a tatuare con l’henné.
Affrontare la complessità
E’ emerso recentemente che sono state requisite, all’interno delle celle, due
macchinette rudimentali per il tatuaggio tradizionale, che ricordiamo essere vietato in
carcere.
Questo fatto unito alla considerazione, espressa da un agente, di aver
osservato durante l’estate una più marcata tendenza dei detenuti a mettere in mostra,
senza timori, i propri tatuaggi “di sempre”, ha fatto inevitabilmente ritenere che il nostro
corso di tatuaggi abbia concorso ad attivare un più marcato desiderio di ricorrere alla
tecnica del tatuaggio per esprimere la propria trasgressione, il proprio modo di essere, la
propria appartenenza, le proprie sfide agli agenti ed agli altri detenuti.
Ebbene, ritenendo tale collegamento di pensiero adeguato (e ciò non è affatto
scontato, considerando che la rilevazione in parte si basa su percezioni ed in parte su dati
di fatto non confrontabili con situazioni trascorse), si presenta, in tal caso, la consueta
problematica insita negli interventi di riduzione del danno: cosa fare in situazioni che
evidenziano comportamenti a rischio diffusi, consolidati,che appartengono alla sfera delle
consuetudini quotidiane pur proibite , com’è in carcere, dal tempo che fu, per la pratica del
tatuaggio?
Tenere il coperchio sulla pentola, cercando così di evitare il proliferare di queste
pratiche, con il risultato di non riuscire ad evitare il perdurare della pratica, ma solo di
spostarla ad un livello più sommerso, di pratiche estreme, di fascino del pericolo, del
clandestino, del proibito; di passaggio di informazioni e conoscenze più frammentate,
incomplete, incontrollabili e a mio parere più pericolose, più pregne di significati legati
alla sfida, all’affronto e quindi, nell’ambiente carcerario, in grado di attecchire con più
facilità?
Alimentare riflessioni sugli agiti, a partire dalle esperienze personali; discussioni sulle
condizioni che provocano certe azioni; considerazioni sulle rappresentazioni e sui
significati dati a queste; fornire più informazioni riguardanti i rischi a cui ci si sottopone
in determinate condizioni, sulle minime precauzioni da prendere.
Tutto
ciò
accettando che accada che le persone, pur approfondendo argomenti e questioni
riguardanti implicazioni e rischi di alcune azioni (come in questo caso quella del
tatuaggio eseguito con strumenti e norme igieniche rudimentali), mantengano
comunque la consuetudine proibita o effettuino comunque, perché già era latente in loro
il desiderio, la sperimentazione su se stessi “dell’azione proibita”?
Solitamente, tra le critiche più ricorrenti rivolte all’approccio della riduzione del
danno vi sono: da un lato l’esternazione che la semplice informazione sia ben poca cosa
di fronte alla gravità delle problematiche discusse, dall’altro il timore che il gran parlare di
argomenti proibiti possa togliere inibizioni importanti e rappresentare un’evidente
tentazione per provare su di sé ciò che si presenta come proibito e pericoloso.
La prima considerazione probabilmente non tiene conto che le informazioni
possono essere tanto più significative quanto più emergono all’interno di relazioni
significative, di ambiti di comunicazione adatti a mettere il ricettore del messaggio nella
condizione di dare all’informazione significati tali da smuovere in lui qualcosa, da far sì che
il messaggio gli divenga davvero utile. E questo a diversi livelli di comunicazione ed in
ambiti differenti: dalla situazione di colloquio terapeutico in un cosiddetto “setting”
adeguato, a quella di colloquio motivazionale in strada, anche tra uno “sbattimento” e
l’altro.
L’ambito del carcere non è ancora completamente esplorato da un’ampia
gamma di possibilità di intervento nell’ambito della tossicodipendenza, per questo forse la
nostra proposta può trovare il suo spazio di utilità.
D’altra parte il timore che semplicemente parlare di un oggetto proibito possa
rappresentare una evidente tentazione di impossessarsene per provarlo su di sé, non
tiene nel debito conto che le condizioni che determinano l’iniziazione o il mantenimento di
abitudini “pericolose” e illegali (rimango su questi termini perché credo rispecchino quelli
utilizzati in ambito giudiziario) sono assai complesse e vedono intrecciarsi situazioni
sociali, familiari, personali a condizionare pensieri ed azioni, tanto da far ritenere l’atto
d’iniziazione legato a contingenze particolari in cui spirito di emulazione acritica, bisogno di
appartenenza o temporanea fragilità psichica, tra altre componenti, si avvicendano.
In questo scenario proporre i nostri argomenti di discussione diventa una piccola
possibilità di “allargare” i discorsi, di immaginare modi diversi di affrontare le cose, di far
esprimere chi è già riuscito ad immaginare e realizzare modi diversi di affrontare le cose.
Insomma una piccola cosa, da operatori leggeri, che in un ambito pesante come
quello carcerario rischierebbero di farsi schiacciare, se non cercassero di adoperarsi,
come dice Franca Olivetti Manoukian (in un articolo presentato su Animazione Sociale del
marzo 2000, dove si affronta la problematica dell’intervento sociale tra leggerezza e
carico), per ricercare “accordo e continuità tra le proprie capacità di agire e la competenza
nel cogliere i fenomeni e nell’individuare le possibilità di intervenire”.
Per questo, al supposto aumento di frequenza della pratica del tatuaggio all’interno
del carcere di Venezia, abbiamo deciso di far fronte con la ripresa, la raccolta,
l’approfondimento, la rielaborazione di racconti di forme consuete di tatuaggio praticate in
carcere, per predisporre insieme ai detenuti un opuscolo divulgativo che, a partire da un
tentativo di non banalizzazione del significato del tatuaggio, tenda a far presenti i vantaggi
di un tatuaggio eseguito da professionisti, sia dal punto di vista igienico, che artistico, che
di clima di affiatamento tra tatuato e tatuatore (fornendo tra l’altro un indirizzario di
laboratori di tatuaggio della zona) ed in ultima istanza, per gli irriducibili, indicando le
condizioni igienico-sanitarie irrinunciabili per sottoporsi ad un tatuaggio in cella. Uno
strumento, quello dell’opuscolo, che rientra a pieno nella buona tradizione dell’approccio
della riduzione del danno2, che in questo caso consente di dare e ricevere le informazioni
in tempi e luoghi i quali permettono anche il manifestarsi di spazi di riflessione appositi.
L’opuscolo potrà anche essere uno strumento di confronto con l’Amministrazione
Carceraria (attraverso il passaggio formale dell’autorizzazione) e, nel momento in cui
venisse autorizzato e circolasse all’interno del carcere di S. Maria Maggiore, potrebbe
diventare occasione di confronto con altri interventi simili in altre realtà penitenziarie
italiane.
Il gruppo di lavoro, composto, oltre che dallo scrivente, da Gabriele Soave, Monica
Follin e Silvia Citton, ritiene utile proseguire l’esperienza estendendola, con i necessari
aggiustamenti, anche al carcere femminile della Giudecca ed introducendo formule di
verifica di apprendimento di informazioni tramite pre e post questionario, oltre a rilevare
più precisamente la quantità e la qualità delle attività di ascolto, di discussione di gruppo e
di counselling effettuate.
Attraverso questo percorso, il lavoro in carcere è divenuto a pieno titolo parte
integrante del lavoro di strada, si tratterà ora di provare a dare forma più tangibile ai
possibili collegamenti tra le attività del laboratorio e le concrete possibilità di contatto e
supporto per le persone interessate, sin dal primo giorno di uscita dal carcere.
Loris Trevisiol
Servizio Riduzione del Danno
del Comune di Venezia
1
Work shop ripresi da: 1) Manuale per operatori di prevenzione edito nel 1998 su progetto del Ministero della
Sanità a cura di G. Serpelloni e A. Rossi ; 2) Linee guida della Regione Veneto per prevenzione e
trattamento dell’overdose da eroina e degli effetti acuti dell’ecstasy dell’anno 2000.
2 Può essere utile sapere che a livello europeo è stato preparato un manuale sulla riduzione dei rischi in carcere rivolto alle persone
tossicodipendenti ed agli operatori penitenziari. Il manuale è stato curato da Heino Stöver, sociologo dell’Università di Oldenburg,
con la collaborazione, in Italia, del Centro Studi e Ricerche del Gruppo Abele e di altri autorevoli soggetti. Attualmente il manuale è
disponibile, tramite Internet, in lingua inglese. In tempi non troppo lunghi dovrebbe essere tradotto anche in italiano.
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attività “leggere”, pensieri “pesanti”