edit
Tempi duri
per la libertà di pensiero…
STEFANO VITALE
L
a morte di Papa Woityla ha scatenato, come si ricorderà, una tempesta mediatica
senza precedenti, provocando una genuflessione mondiale che ci ha obbligati, tra
l’altro, anche a prendere atto che ormai l’italico centrosinistra si è allineato deferente
a questa confisca dello spazio pubblico da parte della Chiesa cattolica. Occhi disincantati potrebbero dire che, in fondo, è sempre stato così. Ma oggi c’è qualcosa di
nuovo. In primo luogo il “nuovo” Papa ed il “vecchio” Cardinal Ruini hanno alzato il
tiro attaccando, in nome di una “visione evangelica di pace” e di “buona laicità”, la
libertà della ricerca scientifica, la liberta individuale sul piano sessuale, la legittimità
della piena giurisdizione civile delle famiglie di fatto, i diritti delle donne e persino
l’uguaglianza fiscale di tutti i cittadini richiedendo, come ovvio, leggi e denaro di
tutti solo per sé. La reazione del centrosinistra è sconcertante: Fassino ha finalmente
il “coraggio” di dichiararsi credente, Bertinotti proclama il suo distacco dall’ateismo
ed il suo percorso di ricerca di Dio; Amato consacra teoricamente e storicamente
l’ineluttabilità della presenza pubblica di una politica della Chiesa. Ma qui sta la
novità: perché ce lo vengono a raccontare? Perché sentono il bisogno di dirlo in
pubblico? Per banale calcolo politico, come rivelano Prodi e Rutelli ricordando in
contrapposizione a Boselli che «il Concordato non si tocca». Ma, come diceva qualcuno, «la stupidità non è necessaria» se non, in questo caso, ad avallare pericolosamente la natura teocratica della Chiesa cattolica che non si distingue da alcun altra Chiesa
islamica, o altro che sia, integralista. La Chiesa cattolica ringrazia ed alza la posta
esigendo sempre più spazio pubblico riconosciuto, senza mediazioni ed usa lo Stato
per i suoi fini “temporali”. Prima di tutto per rafforzarsi economicamente attraverso
“politiche per la famiglia” fumose nei contenuti quanto chiare nei
risultati di cassa, tanto è vero che Maroni si è affrettato a spiegare la
“manovra” a Ruini, vero ministro del welfare in Italia. E poi per alzare
altri muri contro la religione musulmana. I monoteismi, da sempre,
sono esclusivi e cercano il potere assoluto, monocratico, appunto. Ci
domandiamo come facciano la Caritas o il Gruppo Abele a riconoscersi
in tali politiche tanto autoritarie quanto ipocrite. La Chiesa cattolica,
tra l’altro, non esita a manipolare la stessa laicità per arginare “l’invasione dello straniero”. Patetici i discorsi di Letizia Moratti e dei cardinali sulla scuola Musulmana di Milano: è stata chiusa in nome della
laicità. Quando chiuderanno allora le scuole ebraiche come fece il
fascismo? E quando la sinistra avrà il coraggio di dire che nella Scuola
Pubblica di tutti non si deve insegnare alcuna religione? Il doppiogiochismo della Chiesa è cosa nota, ma quello della sinistra ci lascia
sconcertati e delusi. Come insegna Amato, d’accordo con Pera, la Chiesa
avrebbe il diritto «sancito dalla democrazia» (e ben presto dalla Costituzione?) di intervenire come le pare nel dibattito politico. In nome
del pluralismo si fa un gioco di prestigio per sottomettere non solo
l’etica alla religione ma anche il politico alla religione. Ovviamente
nessuno ha il coraggio di dire che se la Chiesa cattolica si arroga il
diritto di “legiferare” per tutti i cittadini, allora anche i cittadini e le
loro istituzioni, lo Stato per primo, ha diritto d’intervenire nel merito
delle “leggi” della Chiesa. La democrazia funziona per tutti o non
funziona. Tra l’altro, ci domandiamo che fine debbano fare gli atei, i
“miscredenti”, in ogni caso coloro che tentano di restare lucidi e
critici, liberi pensatori che s’oppongono all’occupazione dello spazio
pubblico da parte della religione e della sua autorità sempre più direttamente politica, che rifiutano ogni fideismo e totalitarismo. Ci domandiamo come si sentano i credenti e i non credenti che vogliono ancora
vivere assieme nel rispetto di ciascuno, pensando che essere cittadini
significa almeno garantire il rispetto della libertà di coscienza nello
spazio pubblico e la libertà di culto in quello privato. Certo occorre
rovesciare una tendenza: laicità non è solo riconoscere il fatto religioso
e il diritto di esercitare un culto, ma è essenzialmente il diritto di pensare liberamente, di possedere un’etica e di non credere. ●
PAGINA
1
pre
Occupiamoci di noi
ENZO SCANDURRA*
Cronaca di un’occupazione inaspettata
▼
PAGINA
2
Quando il ddl della Signora Moratti passò al Senato, blindato dal voto
di fiducia, molti di noi docenti pensarono che ormai la battaglia fosse persa. Perché un’opposizione forte dai docenti non sarebbe mai arrivata e gli
studenti da tempo ormai avevano smesso di considerarsi ancora i protagonisti
dell’università. Qualche capannello,
qualche stanco «Che fare?», ma già
molti ostentavano rassegnazione e sfiducia; qualche volta un ironico cinismo.
Altri pensavano poi che coinvolgere gli
studenti in quello sgangherato Disegno
di Legge sarebbe stato quasi disonesto, perché il ddl della Signora Moratti,
infatti, gli studenti quasi neppure li
menziona e si perde invece in quel labirinto di norme e regole dello stato
giuridico che solo i docenti in attesa
di promozione, o gli anziani smaliziati,
riescono a capire, tanto sono astruse,
corporative, criptiche al limite di un linguaggio tra compari.
Fanno sul serio
Qualche mormorio, qualche timido tentativo di protesta o di interrompere le
lezioni (cosa ancora considerata sacrilega), qualche slogan gridato a bassa
voce, pronunciato con quel gergo un
po’ ingenuo che fa sorridere chi il ’68
l’ha attraversato. Poi, un giorno, di
colpo l’aula 1 piena di studenti fin fuori la porta al grido: “Occupiamoci di
noi”. Uno studente prende il microfono
e spiega ai suoi colleghi cos’è il ddl
della Signora Moratti. Nessuna ideologia, nessuno slogan politico, solo una
esposizione fredda e dettagliata e, alla
fine, nessun commento. Rimango stupito tanto l’esposizione è stata chiara
pre
come se a farla fosse stato un navigato
docente che di riforme ne ha viste. E
dopo seguono interventi concitati e
precisi: «Sappiamo poco e male. Cosa
studiamo? E perché studiamo? Questo
titolo di studio non vale niente. Gli
esami, fatti in tre anni, uno dopo l’altro ci tolgono qualsiasi forza, ci tolgono perfino la curiosità di conoscere,
sterilizzano le nostre curiosità. Studiamo in modo parcellizzato, ingurgitiamo nozione dopo nozione senza capire
a cosa ci servirà mai questo arcipelago
di informazioni scollegate. E usciti di
qui ci diranno/ci dicono che non abbiamo imparato un bel niente».
Nessuno ha pronunciato il nome di Carlo
Marx, o di Lenin e neppure quello di
Prodi o Berlusconi. Nessuno accusa o
difende un partito rispetto a un altro.
Nessuna ideologia viene scomodata e
anche le parole di moda, come globalizzazione o neoliberismo vengono mai
pronunciate. Tuttavia, o anche per questo, gli studenti colpiscono il bersaglio:
il ruolo sempre più declassato delle
nostre università, il loro declino e la
loro deriva verso la perdita di ogni tradizione e memoria storica. Proprio quel
luogo – l’università – che aveva il compito di studiare il passato, trasmetterlo e rinnovarlo, appare ora sempre più
simile ad un’azienda che sforna “prodotti”, che valuta con i freddi indicatori dell’economia la sua produttività
ed efficienza, che ritiene che la conoscenza debba essere finalizzata a risultati immediati ed utilitaristici, quando
la storia della scienza ci ha insegnato
che è pressoché impossibile stabilire a
priori una corrispondenza precisa tra
una specifica innovazione e la ricerca
particolare che l’ha resa possibile. Hanno capito, gli studenti, che le risorse
pubbliche saranno sempre più convogliate altrove, verso le business schools, le scuole di management, i master
e le cosiddette “scuole di eccellenza”,
denominazione, questa, quanto mai ideologica e ingannatrice. Hanno capito,
gli studenti, che la didattica si è paurosamente spezzettata con uno sminuzzamento incontrollato dei corsi, con
una continua confusione tra corsi propedeutici, corsi di preparazione di base
e corsi di approfondimento e specializzazione. Trasformano la loro frustrazione per essere stati ingannati non in
rabbia, spaccando e rompendo suppellettili e banchi, e neppure in una opposizione dura nei confronti dei loro
“nemici” docenti. Chiedono anzi il loro
aiuto, si dichiarano dalla loro parte,
solidali nei confronti di una opposizione a un disegno di sfascio e liquidazio-
ne di un patrimonio pubblico che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di una
paese che si ritiene ancora civile.
Ma poi tenaci e per niente rassegnati
puntano il dito decisi: «Cosa ci state
facendo studiare e perché? Non vogliamo essere “prodotti”; voi siete dalla
nostra parte? Non dovrebbe essere l’università la comunità – docenti e studenti
– di coloro i quali portano avanti le
frontiere di una conoscenza critica, disinteressata e non subalterna? Voi docenti siete con noi? E perché ci avete
abbandonati a un 3+2 che nessuno di
voi condivide?».
Questi studenti fanno sul serio. Non
cascano, come nel ’68, nelle trappole
del leader di turno dalla parola convincente, non subiscono la dittatura del
microfono. Sono tolleranti e curiosi e
volentieri danno la parola a quelli che
vorrebbero riprendere a frequentare le
lezioni. Non li tacciano di essere “reazionari”, anzi li ascoltano e replicano
con civiltà e gentilezza. Il ’68 è lontano; questa è una “specie” nuova, pragmatica, ingenua quanto tenace, tolle-
rante quanto incorruttibile, sensibile,
mai cinica, mai furba o scaltra. Combatte a viso aperto la propria battaglia, pone domande imbarazzanti, scuote la rassegnazione e non sta al gioco
di chi è già pronto a trattare la resa.
«Questi non andranno lontano, sono
troppo ingenui e si cucineranno da
soli», mormora qualche cinico docente
che ha già fiutato la prospettiva di un
qualche vantaggio personale tra le pieghe di questo sgangherato disegno di
legge. La corporazione ha qualche sussulto. E quando alla sera gli studenti si
preparano ad affrontare la notte in aula,
nei corridoi il partito dei docenti cinici
sussurra: «Non ce la faranno mai» e poi
si scioglie di corsa verso le auto parcheggiate. All’indomani alcuni di loro,
curiosi, si affacceranno nell’aula occupata per vedere se ancora ci sono… Purtroppo sì. È una specie nuova, sono mutanti; attenti, questi fanno sul serio. ●
* Professore ordinario di Ingegneria del Territorio, Facoltà di Ingegneria di Roma, Università degli studi La Sapienza.
PAGINA
3
Farfalle Rosse
FEDERICO TOMASELLO *
La riapertura di scuole e università ci consegna, al tramontare
di questo pigro 2005, un quadro di mobilitazioni in grado di
disegnare i contorni di un movimento possibile.
Studenti medi e universitari per l’autoriforma
▼
Si può dire che tutto cominci
lo scorso 23 settembre a Siena, quando un gruppo di studentesse e studenti
contestano il cardinal Ruini. Si fanno
chiamare Farfalle Rosse. Ricordate la
teoria del caos? “Il battito d’ali di una
farfalla in Brasile può, a seguito di una
catena di eventi, provocare una tromba d’aria in Texas…” questa la teoria,
ed è esattamente ciò che accade.
I media comprendono la portata del
caso e si scatenano, la stragrande maggioranza dei politici si mostra invece
sorda alle istanze di un pezzo di gene-
razione deciso a mostrare tutta la propria riottosità verso i guardiani di ogni
tempio, di qualsiasi dogma, siano essi
la sacra morale immutabile nei secoli,
l’intoccabile ideologia del profitto o il
credo di prudenza della realpolitik.
Laicità e partecipazione
Gli studenti e le studentesse che mettono in campo la contestazione sanno
bene che la questione della laicità della scuola, così come quella dello stato,
pre
PAGINA
4
è decisiva e nessun governo metterà
definitivamente al riparo da indebite
ingerenze. Qualche giorno dopo, il 12
ottobre, alcune strutture di movimento studentesche (fra cui la Rete Sempre Ribelli) lanciano una giornata di
mobilitazione nazionale, la scadenza è
improvvisata e convocata in una settimana, ma quel giorno migliaia e migliaia di studenti e studentesse disertano la scuola e invadono le strade e le
piazze di moltissime città italiane per
gridare il loro punto di vista, la scuola
come la vogliono loro, laica, partecipata, aperta, autogestita, contro il pacchetto di riforme Moratti e per l’innalzamento dell’obbligo scolastico.
Poi le prime occupazioni autunnali di
scuole, ma soprattutto la proclamazione dello stato di agitazione di tutti gli
atenei italiani, con blocchi della didattica, lezioni in piazza o notturne, assemblee permanenti e varie occupazioni
(negli atenei di Roma, Bologna, e Torino in particolare). Studenti, ricercatori, docenti si mobilitano contro il ddl
Moratti teso a rendere precari i percorsi professionali nelle università. Quando il 29 settembre il ddl và in votazione al senato sotto palazzo Madama a
contestarlo c’è un presidio di circa 200
ricercatori, tempestivamente caricato e
allontanato dalla polizia. 26 giorni dopo
lo stesso provvedimento va n votazione alla Camera, la Sapienza di Roma,
in stato di occupazione, chiama alla
mobilitazione nazionale, è il corteo
dello scorso 25 ottobre e segna il vero
punto di svolta…
Il furto di tempo e di futuro
Era da 15 anni, dai tempi del movimento
della Pantera che non si vedeva una
manifestazione studentesca tanto grande, partecipata, determinata. Il corteo
assedia per 12 ore la città, mette in
gioco i propri corpi per arrivare ad urlare la propria sotto il parlamento e
sfida la brutalità dei manganelli con la
forza di migliaia e migliaia di mani alzate, con la potenza della vita vera dei
propri corpi.
La cronaca è nota, racconta di alcuni
deputati di AN che provocano e salutano il corteo con il dito medio alzato, di
altri che intimano alla celere di caricare a freddo alcuni studenti che si allontanano dal corteo (ordine prontamente assecondato), ma soprattutto
disvela tutta la sordità del palazzo che
approva il ddl nonostante in piazza
Montecitorio ci siano i volti del corpo
vivo della formazione, di chi l’università la vive quotidianamente ed urla tutte le ragioni del no a quel provvedimento.
Esistenze precarie
Se è vero che quel corteo deve e può
segnare un punto di svolta è qui che
urge una riflessione. Il disegno di legge Moratti si chiama “Riordino dello
stato giuridico della docenza universitaria” e riguarda la precarizzazione dei
percorsi professionali di ricercatori,
dottorandi e aspiranti tali; una questione che tocca la vita e i bisogni di una
sparuta minoranza del corpo studentesco. Eppure proprio quel provvedimento provoca un’ondata di occupazioni e
porta in piazza una manifestazione studentesca come non si vedeva da più di
15 anni. Di fronte a questo apparente
paradosso ci viene da osservare che
questo ddl in qualche modo allude e
racconta la precarizzazione dell’esistenza di un’intera generazione, un processo che ha inizio fin dalle scuole e dalle
università. Parla di una vita sempre più
segnata da incertezza, instabilità, insicurezza e ci pare allora che chi scende in piazza rivendichi una cosa innanzitutto: il proprio futuro. Non a caso lo
striscione d’apertura dell’enorme corteo recitava “Il nostro tempo è qui e
comincia adesso”… riprendersi il proprio tempo, rompere la precarietà come
furto del tuo futuro, della possibilità
di immaginare, progettare, costruire la
tua vita fuori dal ricatto e dal dominio
del mercato. È in questo senso che esigenze ed aspirazioni di queste mobilitazioni studentesche rompono le mura
delle scuole e delle università per nominare una condizione di vita nella sua
complessità. Non è semplicemente
l’università o la scuola che non vanno,
è la vita, si potrebbe dire.
Il movimento si è poi riconvocato nell’assemblea nazionale dello scorso 6
novembre ed ha prodotto il “Manifesto
per l’autoriforma dell’università”: «[…]
Fin da subito la protesta è esplosa a
partire dal nostro disagio, investendo
l’assetto complessivo dell’università e
della formazione. All’origine di tale disagio vi sono i processi di precarizzazione e di riforma, il cui centro focale
è rappresentato dal 3+2 e dal meccanismo dei crediti, introdotto dal centrosinistra e peggiorato dal centro-destra.
[…] Le occupazioni e le mobilitazioni
sono state, da subito, laboratori di sperimentazione di nuove e molteplici pratiche di conflitto e di scardinamento
dell’università attuale e nello stesso
tempo di immediata costruzione di
un’altra università. A partire da qui
abbiamo iniziato a scrivere con i nostri
conflitti l’autoriforma dell’università
[…]».
Dalla discussione sono emerse in particolare la decisione di rendere la data
del 17 novembre – scadenza di mobilitazione lanciata dal Forum sociale mondiale contro la privatizzazione della formazione e la mercificazione del sapere
– una giornata di insorgenza e insubordinazione di tutto il mondo della
scuola, dell’università, della ricerca in
ogni territorio, l’impegno a tentare una
“generalizzazione” dello sciopero generale del 25 novembre, e la volontà di
costruire un’altra scadenza studentesca
nazionale entro la pausa natalizia. ●
* Portavoce della Rete Sempre Ribelli.
pre
▼
È quello che è successo il 14
ottobre scorso, quando Moratti e Berlusconi, con la consueta sceneggiata
mediatica, hanno annunciato l’approvazione da parte del consiglio dei ministri dell’ultimo decreto applicativo
della legge 53/02, quello relativo alla
scuola secondaria superiore. Ma per
capire il tutto occorre fare un passo
indietro, esattamente a un mese prima, a quel 15 settembre in cui la Conferenza Unificata Stato-Regioni arrivò
alla conclusione che non c’erano le condizioni affinché la riforma delle superiori potesse partire nel 2006 e che bisognava rinviare il tutto almeno al
2007, comprese eventuali sperimentazioni della riforma stessa. Dire 2007
significava dire che tutte le procedure
per la nuova attivazione e quindi la riforma stessa potevano tranquillamente essere messe in discussione da una
nuova maggioranza e da un nuovo governo, esito eventuale e non improbabile delle elezioni di aprile 2006.
Le mani avanti
Ecco allora nei dovuti passaggi del testo alle commissioni parlamentari mettersi all’opera i guastatori dell’oltranzismo di destra, nel tentativo di sovvertire il verdetto delle Regioni. Una
manfrina che tra la fretta di chiudere
la partita entro la scadenza della delega e l’impossibilità di produrre una grave frattura istituzionale, non poteva che
partorire un topolino: se non si può
avviare la riforma nel 2006, si avvii almeno la sua sperimentazione, tanto per
mettere le mani avanti.
E la Moratti non si fa scappare l’occasione: alle 13 e 30 del 14 ottobre si
presenta ai giornalisti, senza produrre
uno straccio di testo scritto del decreto, ma dicendo, nell’ordine, che i ministri lo hanno approvato, che la sperimentazione partirà nel 2006, che la riforma vera e propria sarà avviata nel
2007 e che così la riforma è compiuta.
Nonostante neppure nelle quattro cartuccelle consegnate alla conferenza
stampa compaia la data del 2006, ma
solo quella del 2007, i giornalisti abboccano alle parole della Moratti e
agenzie e giornali riporteranno come
notizia la sperimentazione a partire dal
2006.
Tre ore dopo esce un comunicato della
Moratti che dice che per la sperimentazione il testo del decreto non conterrà nessuna data. Ed infatti il testo,
che esce cinque giorni dopo, non riporta nessuna data in merito, anzi rin-
L’incompiuta (con bluff)
della Moratti
PINO PATRONCINI
PAGINA
5
Era ormai chiaro da tempo che la Moratti aveva altri interessi,
in altre città, rispetto a quelli romani di Ministro
dell’istruzione, ma che non poteva certamente arrivarvi
facendo la figura della cioccolataia rispetto a una riforma della
scuola su cui aveva speso buona parte della sua immagine. Ma
allora che c’era di meglio che inscenare un bluff di fronte ai
giornalisti, facendo credere di aver portato a termine il lavoro,
anche se non è vero?
via il tutto al completamento di procedure che non stanno dentro ai due mesi
che separano il 14 ottobre dall’avvio
delle iscrizioni, e quindi anche dalle
iscrizioni a eventuali corsi sperimentali.
Ma ormai l’effetto notizia c’è stato, e
l’errata corrige trova uno spazio angusto e inefficace nei pochi giornali che
la riprendono.
Lo stato dell’arte è quindi assai diverso da quello a cui i giornali hanno dato
spazio, diffondendosi a descriverci ancora una volta la struttura, brutta, della riforma, come se fosse cosa fatta.
Brutta perché fondata su una separazione tra sapere e saper fare che inevitabilmente diventa una segregazione
sociale, dal momento che inizia alle
elementari con i maestri prevalenti,
spacciati come tutor, separati dai maestri “della plastilina” o delle attività
motorie e finisce col separare i ragazzi
dei licei da quelli del professionale.
Ma anche tuttora sospesa perché nelle
elementari è stata bloccata dal boicottaggio massiccio delle indicazioni da
parte dei docenti, che così hanno salvato per ora il tempo pieno e la scuola
dei moduli, e nelle superiori è ancora
di là da venire. E se verrà sarà dopo le
elezioni prossime venture: una responsabilità per chi si candida a governare in
alternativa a Moratti e Berlusconi. Una
responsabilità che non solo non ha l’alibi di un processo già avviato, ma neppure quello, assai minore, di una sperimentazione già avviata. Una responsabilità che non può avere altro esito che
la cancellazione della legge. ●
pre
PAGINA
6
Il peso della Finanziaria... e non solo
COSIMO SCARINZI *
Scuole di parte col denaro di tutti. Tagli alla scuola pubblica. Controllo dei fondi pensione.
Conflitti tra i sindacati. Fra il 21 ottobre e il 25 novembre. L’un dopo l’altro messi di sventura
▼
Torino, 20 ottobre – Ancora
mentre esco da casa per recarmi in stazione a prendere il treno per Roma, dove
si terrà il corteo per lo sciopero indetto dal sindacalismo di base per il 21,
mi telefona un delegato aziendale della CUB di un ospedale per informarmi
del fatto che due caposala diffondono
la voce che lo sciopero del 21 ottobre
è stato revocato.
L’ordinanza della Commissione di Garanzia per (in realtà contro) l’esercizio
del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, che ha vietato lo sciopero nel settore dei trasporti, ha colpito due volte, in primo luogo, ovviamente, i lavoratori dei trasporti e, in maniera più ampia, in tutte le categorie,
grazie al fatto che si è diffusa la voce
che lo sciopero generale è stato revocato.
Nei due giorni precedenti lo sciopero
siamo stati costretti ad un lavoro enorme di chiarimento, informazione, denuncia delle scorrettezze da parte delle aziende, dei sindacati istituzionali,
delle amministrazioni.
Lo sciopero del 21 ottobre ha dovuto,
come di norma, fare i conti: con il fragoroso silenzio dei media, compresi
quelli della sinistra d’opposizione; con
un pesantissimo intervento della Commissione di Garanzia; con il fatto che
CGIL-CISL-UIL hanno indetto uno sciopero – formalmente contro la legge finanziaria ma in realtà sulla partita dei
fondi pensione – per il 25 novembre;
con incredibili sabotaggi di Trenitalia,
che ha negato treni precedentemente
concordati, e pagati, per la manifestazione e, per quanto riguarda la scuola,
con il fatto che i Cobas Scuola hanno
scelto di scioperare il 25 novembre con
CGIL-CISL-UIL.
Uno sciopero difficile, dunque. Uno
sciopero, d’altro canto, che ha messo
al centro alcuni punti nodali: reddito,
pensioni, scippo del TFR, opposizione
alla precarizzazione, in una parola
l’aperta ed esplicita opposizione alla
concertazione.
Non solo l’opposizione alla legge finanziaria, ma l’individuazione di una piattaforma che ha un valore di medio periodo.
Familismo e senza famiglia
La Legge Finanziaria per la scuola, non
è leggera.
Con ogni evidenza, infatti, secondo il
governo italiano, gli studenti che frequentano la scuola pubblica sono dei
senza famiglia, come recita il titolo di
un lacrimevole libro ormai desueto.
pre
Infatti, nei fondi a sostegno della famiglia previsti dalla legge finanziaria, i
200 milioni di euro previsti per il sostegno allo studio andranno tutti a favore
delle scuole private. Il 10% delle famiglie, di norma a reddito medio alto,
avranno tutto; il 90%, quelle che hanno
il torto di scegliere una scuola pubblica,
non avranno nulla. Il governo, in questo
modo, paga un’altra cambiale alla scuola privata, in particolare alla scuola confessionale, che è, come è noto, in grave
crisi d’astinenza per l’abbandono da parte
di quote della tradizionale clientela. Le
scuole private, infatti, hanno perso, negli ultimi dieci anni, il 10% degli studenti, al punto che 300 scuole private
superiori su 1.000 hanno chiuso i battenti.
Che l’appetito venga mangiando lo dimostrano le dichiarazioni di Antonio Perrone, presidente della Fidae, l’associazione delle scuole confessionali, che dichiara: «Quello di cui abbiamo bisogno è che
la scuola privata sia a costo zero, come
quella statale, solo così si garantisce la
libera scelta delle famiglie già prevista
dalla legge 62/2000».
Questi signori hanno, con ogni evidenza, un’idea tutta loro di libertà: vogliono, infatti, scuole di parte col denaro di
tutti. Cosa intendano con la parola libertà, d’altronde, si capisce bene se si
valuta il mercato indecente delle maturità facili presso le scuole private.
In compenso, per quanto riguarda la
scuola pubblica, il governo prevede tagli massicci per le spese di funzionamento degli uffici (telefoniche, di cancelleria, di rappresentanza). Sappiamo bene
in che situazione si trovino a lavorare le
segreterie, come vi siano già state, i giornali ne hanno parlato a lungo, difficoltà
per le spese telefoniche necessarie a proporre le supplenze, per la normale produzione di materiale didattico ecc. Possiamo immaginare come lavoreremo se
passerà una simile legge finanziaria.
Altri tagli sono previsti per le supplenze
brevi e gli straordinari, con le conseguenti ricadute sulla retribuzione del personale e sulla qualità del servizio già deterioratasi a causa del taglio, avvenuto
negli ultimi anni, degli organici e delle
risorse e per l’aggiornamento e per il
miglioramento dell’offerta formativa, con
l’effetto di negare i diritti del personale
e degli studenti.
Salario, pensioni, precariato
La gran parte dei sindacati alternativi,
in quest’occasione, ha saputo praticare
l’unità e la capacità di muoversi autono-
mamente. CUB, CNL, SULT, Sin Cobas,
USI, Unicobas hanno trovato un accordo che ha dimostrato che, se si ragiona
sui contenuti, guardando al futuro e agli
interessi generali del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, si possono
metter da parte le divergenze passate.
Per quanto riguarda lo sciopero del 25
novembre, è perfettamente chiaro che,
per CGIL-CISL-UIL, la partita in corso riguarda il controllo dei fondi pensione.
Settori della maggioranza hanno, capita
ogni tanto, riscoperto una posizione ostile al sindacalismo istituzionale e proposto la possibilità di tagliargli parte dei
massicci finanziamenti che negli anni
passati non sono mai stati messi in discussione. Al contrario, i settori “sociali” della stessa maggioranza, democristiani interni ed esterni a Forza Italia,
fascisti e leghisti, continuano nella linea della concertazione.
Una partita da molti miliardi di euro,
fra fautori dei fondi chiusi a gestione
sindacale (come prezzo da pagare al
taglio concertato delle pensioni) e fautori della liberalizzazione radicale della previdenza ma, in ogni caso, uno
scontro che vede tutti questi signori
d’accordo sul fatto che le pensioni vanno tagliate e che il capitalismo dei fondi
pensione deve decollare.
Parlare di salario, di pensioni, di precariato oggi e parlarne senza ambiguità, legare la propaganda all’azione, è una
scelta non semplice che ha il pregio evidente di porre le premesse per iniziative
future di lotta, qualsiasi sia la prossima
maggioranza parlamentare.
L’opposizione sociale
Ovviamente, lo sciopero del 21 ottobre
ha coinvolto gruppi di lavoratori e di
lavoratrici, soprattutto nelle aree del
paese e nelle aziende ed amministrazioni dove il sindacalismo di base ha
un adeguato radicamento. Il corteo ha
visto una presenza robusta di lavoratori del settore privato e di quello pubblico, persone non venute perché convocate dalla televisione e dai giornali,
ma perché raggiunte, con una sorta di
passaparola, dai sindacati di base.
All’inizio, capita spesso così, sembrava
si fosse in pochi, treni e pullman arrivavano in ritardo, i romani, come di
norma, si sono alzati con calma. Appena, però, il corteo è partito è stato
chiaro che la mobilitazione, senza enfatizzare troppo, questa volta è riuscita. Erano decine e decine di spezzoni
cittadini, d’azienda, di categoria con i
loro striscioni ed i loro cartelli.
Laicità della scuola.
Azioni concrete e
comportamenti
coerenti
Il Comitato “Per la Scuola della Repubblica”
– con l’adesione del CGD - Coordinamento
dei Genitori Democratici e dell’Associazione
Idee per l’educazione – ha proposto al TAR
del Lazio un ulteriore ricorso per contestare
l’ennesimo decreto ministeriale con cui si
erogano risorse finanziarie alle scuole
private.
“Per la Scuola della Repubblica”,
tel. 06.3337437, fax 06.3723742,
[email protected], www.comune.bologna.it/
iperbole/coscost
I disoccupati napoletani si distinguevano per la vivacità spettacolare, non
è forse Napoli la città di Pulcinella,
maschera ben più seria di quanto credano i superficiali?
Lo spezzone di Vicenza ricordava il licenziamento da parte della Marzotto
di un delegato della CUB Tessili, contro il quale si fanno scioperi e mobilitazioni quotidiane mentre i vigili del
fuoco denunciavano la militarizzazione del corpo.
I lavoratori della scuola diffondevano
volantini che raffiguravano il Ministro
Moratti come un untore che infetta la
scuola con il virus aviario morattiano;
gli spezzoni di fabbrica davano visibilità ad un lavoro industriale che il potere vuole invisibile e “superato”.
Molti indossavano magliette con la
scritta “A fine stipendio avanza troppo
mese” o con altri slogan altrettanto
efficaci.
Gli stessi media istituzionali hanno dovuto rendere conto del corteo: questo
risultato è importante ma, a mio avviso,
secondario rispetto all’essenziale.
E ora?
L’unità realizzata il 21 ottobre può essere l’esperienza di un giorno ma, se si
saprà lavorare sulla base di questo primo passo, pone condizioni favorevoli
ad un percorso unitario di medio periodo. Già in diverse città si stanno definendo iniziative comuni sui temi che
hanno caratterizzato lo sciopero.
Il sindacalismo di base ha marcato la
sua autonomia dal quadro politico e dal
sindacato istituzionale. Quello che è
nella pratica dello sciopero deve essere, però, una consapevolezza generale
ed un’identità da rivendicare con orgoglio.
Gli scioperi generali del sindacalismo
di base sono, è bene averlo chiaro, una
forma d’azione comunicativa. Quello
che conta veramente è la lotta quotidiana sui temi che caratterizzano questi stessi scioperi. ●
* Coordinatore nazionale CUB Scuola.
PAGINA
7
LE LEGGI
I
PAGINA
8
l provvedimento affida la formazione
degli insegnanti alle istituzioni universitarie con un percorso abbastanza farraginoso che, si può così sintetizzare: conseguimento della laurea magistrale (3+2)
o diploma accademico di secondo livello;
conseguimento della specifica abilitazione all’insegnamento previo superamento
di un apposito esame di Stato; iscrizione
degli abilitati in Albi regionali specifici;
un anno di applicazione presso una scuola, con contratto di inserimento formativo al lavoro.
Il decreto disciplina anche, pur non essendo stata conferita una delega a tale
fine, le modalità di reclutamento del personale che ha effettuato il percorso.
Il decreto legislativo non è però immediatamente operativo; difatti all’articolo
2 è prevista l’emanazione di decreti regolamentari per definire tutti gli ulteriori aspetti oparativi (le classi dei corsi di
laurea magistrale e dei corsi accademici
di secondo livello; il profilo formativo e
professionale del docente; i relativi ambiti disciplinari; le attività didattiche attinenti l’integrazione scolastica degli
alunni in condizione di handicap; la possibilità di prevedere per la formazione
iniziale dei docenti stage all’estero; la ridefinizione delle classi di abilitazione per
l’insegnamento delle discipline impartite
nella scuola secondaria di primo grado e
nel secondo ciclo; ecc.
Le innovazioni più rilevanti sono: il numero chiuso per l’ammissione al conseguimento della laurea magistrale o diploma accademico e il contratto di inserimento formativo al lavoro (coloro che
conseguono l’abilitazione all’insegnamento sono ammessi a svolgere un anno di
applicazione attraverso un apposito contratto di inserimento formativo al lavoro
stipulato con il dirigente scolastico, previa assegnazione da parte dell’Ufficio scolastico regionale); il reclutamento riservato per il 50% dei posti disponibili per
Il decreto sulla formazione
per l’accesso all’insegnamento
CORRADO MAUCERI
Con il Decreto legislativo (n. 227 del 17/10/2005) che ha
concluso l’attuazione della Legge n. 53/03, sono state definite
«le norme generali in materia di formazione iniziale e
permanente dei docenti per il loro accesso all’insegnamento
nel sistema educativo di istruzione e formazione»
le assunzioni (l’articolo 1 del decreto prevede che per il reclutamento del personale docente rimangono ferme le disposizioni che riservano il 50% dei posti disponibili e vacanti agli aspiranti iscritti
nelle graduatorie permanenti; il restante
50% dei posti è utilizzato per i concorsi
ai quali potranno partecipare i docenti
che hanno seguito il nuovo percorso formativo dei concorsi per titoli ed esami.
Il decreto richiederebbe un ampio commento sotto i diversi profili; per il momento possiamo limitarci ad alcune brevi
e schematiche considerazioni.
In primo luogo, questo decreto rappresenta un ulteriore passo verso il ruolo
“professionalizzante” delle istituzioni universitarie sia per l’accesso che per i contenuti; i corsi universitari sono difatti finalizzati non solo ad una specifica attività professionale, ma ad uno specifico
insegnamento.
In secondo luogo, con buona pace dei
principi di autonomia e di pluralismo culturale, la formazione del personale docente nei suoi contenuti culturali è affidata agli indirizzi culturali del Ministro;
le Università hanno il compito di dare esecuzione; “il profilo formativo e professionale del docente”, gli “ambiti disciplinari” ecc. (in sostanza la formazione degli
insegnanti) sono affidati al Ministro, anziché ad un organismo pluralista ed indipendente.
Infine si deve ancora una volta segnalare
la disinvoltura con cui il Governo e per
esso il Ministro violano la Costituzione
per quanto concerne l’esercizio della delega.
L’articolo 5 della Legge n. 53/03 difatti
aveva delegato il Governo ad emanare un
decreto per quanto concerne la formazione degli insegnanti; nessuna delega era
stata conferita per quanto concerne il reclutamento; il Governo invece con il decreto detta anche una nuova normativa
sul reclutamento che penalizza peraltro
il personale precario; difatti mentre oggi
i precari possono utilizzare due canali di
accesso all’insegnamento; per effetto del
decreto avranno a disposizione soltanto
il 50% dei posti, con esclusione da ogni
possibilità di reclutamento per concorso
per titoli ed esami.
Infine, visto che il decreto non è immediatamente operativo e dovranno essere
emanati gli ulteriori decreti attuativi; diventa obbligatoria una domanda a coloro
che pensano che non sia necessario abrogare subito le leggi Moratti; il Ministro
del prossimo Governo, finché non ci sarà
una nuova legge, darà applicazione anche a questo decreto? ●
a
n
l
i
e
u
e
s
PAGINA
9
[
L’interno della scuola materna di
Lunel, nell’Herault, dopo l’incendio
appiccato durante la crisi delle
banlieues, 15 novembre 2005.
ARO 05
b
TEMA
PAGINA
10
LA CITTÀ PLURALE
A CURA DI STEFANO VITALE
Stranieri a scuola:
una questione di cittadinanza
STEFANO VITALE
I dati del Ministero sono eloquenti: 360.000 nel 2004, 50.000
dieci anni fa. Oggi 420.000. Poli di attrazione le grandi città,
ma anche le province industrializzate. A scuola, in classe, è
record di bambini stranieri: 7 su 100. La scuola italiana è una
“multinazionale” registrando prima di tutto la presenza di
ragazzi provenienti da Albania e Marocco, seguono Romania,
Cina, Serbia e Montenegro. Risulta che poco più del 90%
frequenta istituti statali, il resto quelle paritarie. E la
distribuzione per nazionalità non varia tra le due strade scelte.
Circa il 40% frequenta le classi delle elementari
È
il Nord l’area geografica dove c’è la
più alta concentrazione di studenti non
italiani, mentre è l’Emilia-Romagna la Regione nella quale si registra la più alta
concentrazione nelle classi: l’8,4 %. E ancora Milano il capoluogo di provincia a
vantare l’incidenza più alta, con l’11,6 %.
In questo quadro, dicono i ricercatori «si
conferma però un modello variegato, policentrico, “diffuso”, nel quale i poli di
attrazione non sono solo le grandi metropoli , ma anche le città e i piccoli paesi»
Una scuola che accoglie?
Ma a che punto sono le reali politiche di
accoglienza? La scuola è in grado di assorbire l’impatto ed accogliere culturalmente gli studenti non italiani, evitando
di cancellare la loro cultura? Quale “pedagogia della cittadinanza interculturale” siamo in grado di proporre oggi? Per
parte nostra abbiamo la sensazione che
per affrontare con un qualche successo
la questione occorra far interagire due
livelli: uno di natura più pedagogica che
metta a punto delle strategie didattiche
e culturali che investano più profondamente la scuola. Dall’altra parte crediamo sia urgente ripensare la presenza degli stranieri a scuola in termini di processi di cittadinanza. E qui il discorso
intreccia il culturale con il politico, inevitabilmente. I due aspetti non sono scindibili: o si considerano i bambini straneri
come autentici “cittadini” della scuola o
la scuola non sarà in grado di produrre
novità per favorire la loro accoglienza.
Allo stesso modo non basta riconoscere
formalmente il diritto di cittadinanza senza modificare, anche profondamente, alcune strutture della scuola stessa. La
scuola è un sistema e come tale non può
far posto ad una novità senza cambiare.
Prendiamo la questione del successo scolastico (d’altra parte si va a scuola per
riuscire non per fallire). Per ovviare ai
deficit, ad esempio linguistici di partenza, nel sistema scolastico finlandese i figli degli immigrati devono prima passare
per un anno di socializzazione linguistica, poi vengono inseriti a pieno titolo
nel sistema scolastico. In poco tempo il
loro profitto raggiunge un livello pari a
quello degli studenti finlandesi. Da noi,
invece, il rendimento dei ragazzi stranie-
ri è generalmente basso perché non c’è
attenzione per la loro specificità. L’insuccesso scolastico è una fonte di esclusione, purtroppo anche dall’acquisizione di
una cittadinanza.
Certo dire come fanno alcuni che «La vera
nuova sfida per l’intercultura, il tema ormai non aggirabile è il successo scolastico come punto chiave per una reale inclusione sociale che favorisca il sorgere
di nuove cittadinanze» ci sembra riduttivo. È il diritto all’istruzione che va salvaguardato come fondamentale.
Ed è alla luce di questo diritto di scolarità e cittadinanza che occorre leggere, ad
esempio certi fenomeni: in Trentino la
presenza degli studenti nella scuola superiore è molto bassa (2% del totale)
malgrado un aumento del 51% totale degli studenti stranieri; chi prosegue si
orienta verso la formazione professionale
(4 su 10, i licei coprono il 18%, fonte
MIUR, 2003); l’inserimento dello studente straniero non avviene nella classe corrispondente all’età anagrafica e questo
finisce per generare un ritardo man mano
che si cresce nel livelli scolastici; gli stranieri nella secondaria superiore vengono
bocciati molto di più e dal primo anno
all’ultimo c’è un divario pauroso: dal
3,24% al primo anno, allo 0,98% al quinto
anno, con una variazione percentuale in
negativo di oltre il 72%. La ricerca MIUR
sugli esiti degli alunni stranieri rivela che
il divario fra i tassi di promozione degli
allievi stranieri e di quelli italiani è:
– 3,36 nella scuola primaria;
– 7,06 nella secondaria di I grado;
– 12,56 nella secondaria di II grado, in
cui più di un alunno straniero su quattro
non consegue la promozione.
Quindi, l’insuccesso scolastico appare senza dubbio uno degli indicatori della mancata politica di cittadinanza per gli stranieri nella scuola. Che deve diventare però
il fulcro di un’azione più vasta nel quadro della promozione di una cittadinanza
davvero interculturale affinché agli stranieri non sia solo concessa la titolarità
formale di diritti di cittadinanza, ma vengano offerti strumenti concreti per il loro
esercizio (e questo riguarda direttamente proprio la scuola).
C’è un problema di inclusione che si configura come un problema di uguaglianza
per favorire una piena e completa inclusione sociale, garantita da pari opportunità anche con strumenti adeguati per una
didattica quotidiana interculturale di qualità. Troppo spesso, in tempi di paura del
meticciato, l’intercultura si limita al solidarismo e si finisce per abbassare le
aspettative didattiche pensando che questo sia intercultura o inclusione sociale.
Ma quale cittadinanza?
Leggiamo sul sito della Provincia di Torino che «La cittadinanza italiana si basa
sul principio dello “ius sanguinis” (diritto di sangue), in virtù del quale il figlio
nato da padre italiano o da madre italiana è italiano. La legge n. 91 del 5 feb-
braio1992 (che ha sostituito la vecchia
legge n. 555 del 13 giugno 1912) prevede diversi casi di acquisto della cittadinanza, alcuni automatici al verificarsi di
certe condizioni e/o subordinati alla semplice dichiarazione di volontà dell’interessato (per nascita, per riconoscimento
o dichiarazione giudiziale della filiazione, per adozione, per discendenza, per
acquisto o riacquisto da parte del genitore, per nascita e residenza in Italia),
altri subordinati al verificarsi di determinate condizioni, alla dichiarazione di volontà e ad una decisione dell’Autorità (per
matrimonio, per naturalizzazione, quest’ultimo legato al periodo di residenza
in Italia)».
Con l’attuale normativa la cittadinanza
italiana è difficilissima da ottenere per
uno straniero e comunque non risolverebbe il problema che la scuola e le istituzioni della formazione devono prendere in considerazione. I bambini ed i ragazzi stranieri sono “cittadini” della scuola a pari titolo e, attraverso questo status, cittadini della polis intesa come comunità diversificata che riunisce cittadini eguali tra loro in quanto tutti soggetti
di diritti. Allora la scuola, per la parte
che le compete, deve metterli in grado di
esercitarli, altrimenti si svuota ogni idea
di intercultura (che esiste in maniera costitutiva in quanto modalità di scambio
già connaturata al sistema scolastico stesso). L’inclusione senza assimilazione potrebbe trovare proprio il suo riferimento
nella nozione di cittadinanza.
Ma ci possono essere due tipi di cittadinanza: da una parte c’è la cittadinanza
«difensivista e sottrattiva» (Tarozzi,
2005) che è figlia di una visione ristretta
di cittadinanza, che si richiama all’idea
di un patrimonio culturale statico e presuppone sul piano educativo di insegnare le regole per la convivenza civile nella
convinzione che prima di avere diritti
occorre rispettare dei doveri. È una forma di cittadinanza che marca un confine
fra chi ha i diritti (solo gli italiani o gli
italianizzati) e chi non ha alcun diritto.
Così intesa la cittadinanza nasconde un
pregiudizio etnocentrico, ha una visione
normativa e prescrittivi figlia di una logica essenzialmente assimilazionista.
Ma c’è anche un’idea di cittadinanza interculturale che intende garantire “a prescindere” giustizia sociale per i bambini
stranieri in quanto tali, intesa come equità e pari opportunità senza discriminazioni comprendendo le differenze al proprio interno quali fattori di sviluppo della convivenza civile. È questa, come detto, una questione politica che trova nella
scuola un suo terreno di scontro e di applicazione al di là delle emergenze sociali che troppo spesso vengono strumentalizzate per chiudere la strada nella scuola
a processi innovativi reali. ●
PAGINA
11
TEMA
LA CITTÀ PLURALE
Volevano braccia,
sono arrivati
uomini e donne.
E bambini e
bambine.
MARIA FRIGO *
PAGINA
12
Migrazione degli adulti,
ricostruzione delle famiglie,
ricongiungimenti.
Nelle scuole italiane sempre
più i bimbi e i ragazzi nati
altrove. In dieci anni, dieci
volte tanto. Trentamila nel
‘92, quasi quattrocentomila lo
scorso anno. Soprattutto al
Nord, nelle grandi città, ma
anche nei piccoli centri.
Centonovantaquattro
le cittadinanze presenti. Non
una scuola che deve diventare
multiculturale, ma una scuola
che lo è già. Multiculturale di
fatto
G
raziella Favaro, pedagogista, guarda da tempo con cura e attenzione cosa
sta accadendo a questa generazione in
movimento, dentro e fuori le scuole italiane. E individua alcuni punti critici. In
primo luogo il rischio di ricevere dagli
adulti risposte fin troppo semplici: le
scuole separate che mantengono nel tempo la separazione e rendono permanente
la diffidenza reciproca. Scorciatoie a senso
unico, che non portano da nessuna parte. Via Quaranta insegna.
Poi, una realtà che provoca una sorta di
localizzazione dei diritti, dove può succedere di tutto e anche il suo contrario.
Una scuola accoglie e, nel quartiere vicino, l’altra rifiuta l’iscrizione dell’alunno
straniero. Contesti scolastici ricchi di
competenze consolidate e progettualità
accanto a zone di assoluta negligenza e
incuria didattica. Per i bambini e i ragazzi stranieri inseriti nella scuola italiana
non ci sono diritti certi, ma piuttosto
caso, probabilità, fortuna.
Infine, la percezione di un clima sociale
di conclamata assuefazione al fenomeno.
Una assuefazione, però, in negativo. Gli
stranieri non sono più la novità esotica
che suscita curiosità e interesse, non sono
più lontani, sono qui tra noi. Ma si vive
in mondi separati, senza conoscersi e
volerlo fare. Riserbo con antipatia, per
riprendere Georg Simmel. E questo clima
a volte raggela e fa inaridire quello che è
sempre stato un punto di forza tra le persone della scuola: una naturale e spontanea disponibilità ad accogliere.
Accoglienza, nonostante
Cosa è cambiato in questi dieci anni, come
è cambiato il modo di accogliere? Quali
riferimenti possono trovare gli insegnanti? Vediamo in primo luogo i riferimenti
legislativi.
A partire dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, è sancito il diritto universale all’istruzione. Un diritto
soggettivo del minore, da tutelarsi con
norme specifiche. E, in effetti, la legislazione italiana prevede che la scuola sia
per tutti, aperta ai bambini e ragazzi, italiani per nascita o comunque presenti sul
territorio italiano. Norme precise ordinano che l’inserimento avvenga, tenendo
conto dell’età anagrafica, nella scuola
dell’obbligo, indipendentemente da cittadinanze o permessi di soggiorno. Si tratta di decreti e circolari del 1998. E poi?
Sembra ieri e invece sono passati anni.
Gilberto Bettinelli, dirigente scolastico
attualmente in prestito all’Università,
denuncia con forza un vuoto normativo
in merito. Il vuoto normativo che ha lasciato nell’incertezza dirigenti, docenti,
famiglie e alunni. Non che il Ministero non
faccia niente. Il Ministero fa. Chiede alle
scuole dati, monitora progetti, distribuisce soldi. Soldi che per altro, ricorda Bettinelli, sono quelli del contratto. Già comunque destinati alla scuola e accantonati nel contratto a questo scopo.
Però, l’ultimo atto normativo vero risale
al 1999. Nel frattempo sono aumentati
(triplicati) gli alunni e sulla scuola è passato lo tsunami della riforma, la Legge
53. Diversi nodi formali riguardo iscrizione, presenze, percorsi e valutazione, sono
stati lasciati irrisolti. Un esempio per tutti: la necessità di certificazione della licenza di scuola media per iscriversi agli
ordini superiori di studi. Gli adolescenti, i quattordicenni/sedicenni ricongiunti
alle famiglie, quali risposte trovano nelle diverse realtà scolastiche? Si ignorano, come non esistessero, i percorsi scolastici nel paese d’origine, richiedendo
comunque di conseguire, prima di iscriversi, la licenza nella scuola media italiana. Oppure, si valutano le competenze in ingresso e si risolve, in regime di
sanatoria, il problema formale al momento del diploma finale di scuola superiore. Anche qui, non certezza soggettiva
del diritto. Caso, probabilità, fortuna.
Eppure le scuole si danno organizzazione e fanno accoglienza, orientamento,
interventi compensativi su lingua e contenuti, valorizzano le lingue materne,
adottano pratiche e attenzioni interculturali. Una galassia di esperienze e di
modelli possibili, se si vuole vederli e
riconoscerli. Un lievito per la scuola italiana che, per esempio, era ben visibile
nei giorni scorsi a Reggio Emilia, in occasione dell’affollato Convegno Nazionale
dei Centri Interculturali. Insieme a operatori dei servizi e degli enti locali, tanti insegnanti, per confrontare esperienze e parlare di questa generazione in movimento. La ricerca di percorsi possibili,
a partire da quel volano che negli anni
sono stati i Centri interculturali.
Luoghi di orientamento e formazione
Con Graziella Favaro, Marina Carta è da
sempre figura di riferimento di uno tra i
più conosciuti Centri interculturali: il Centro COME di Milano. Marina Carta rileva
un cambiamento nella richiesta di chi si
rivolge al Centro. Se prima si trattava
soprattutto di dare informazione alle famiglie sul diritto all’iscrizione nella scuola
TEMA
LA CITTÀ PLURALE
italiana, ora, sempre più spesso, la domanda è di orientamento e di ri-orientamento. In sostanza, dove il figlio può
giocarsi al meglio le sue possibilità. Accanto a questa domanda diretta delle famiglie, continua fortissima una richiesta
di formazione, da parte soprattutto delle
scuole, come del pubblico e del privato
sociale. Un aspetto che Marina Carta tiene a sottolineare è la notevole competenza oramai raggiunta dagli operatori del
Centro, che sono in grado di leggere i
bisogni, non sempre espliciti nella domanda, e restituire informazioni e consigli, ma anche di usare questo osservatorio sulla realtà per raccogliere dati, progettare sul territorio e costruire reti. Una
capacità di progettazione e di lavoro in
rete che è testimoniata dai documenti,
pubblicati autonomamente o con i partner istituzionali e privati, che descrivono
progetti, percorsi e risultati. Una esperienza che si vede in altri materiali pubblicati dal Centro, quelli che vanno letteralmente “a ruba” nelle scuole: gli strumenti per la prima accoglienza, per l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, per il lavoro didattico sulle discipline.
Anche il mondo editoriale comincia a offrire un ricco repertorio di strumenti specifici. Dieci anni fa c’erano solo pochi
testi, in prevalenza per apprendenti adulti. Adesso, testi bilingui e plurilingui, case
editrici e collane specializzate, librerie
con spazi dedicati. Da un paio d’anni,
anche i primi testi a carattere disciplinare pensati per bambini e ragazzi che nella scuola italiana apprendono la lingua
ma, contemporaneamente, devono imparare matematica, storia, geografia, come
tutte le altre materie scolastiche. E quindi la necessità di avere chiavi di accesso
alle discipline. Materiali che servono a costruire ponti, zone di comunicazione tra
i bambini ed i ragazzi appena arrivati e
gli altri che a scuola ci stanno già.
I diritti dei cittadini di domani
Analisi, norme, progetti e percorsi, materiali. Ecco modi concreti per attuare il
diritto a imparare dei bambini e ragazzi
che frequentano le scuole italiane, nati
qui o altrove. Un diritto che non può essere una pura enunciazione, che diventa
il compito quotidiano per gli insegnanti.
Come è l’urgenza quotidiana dei bambini
e ragazzi di oggi, dei cittadini che dovranno aver cura di questo paese domani. Una questione di cittadinanza e di
condizioni da costruire, perché il diritto
a imparare si realizzi. Non solo braccia,
ma persone. ●
* Insegnante e formatrice. Collabora con il
Centro Come di Milano.
Come in uno
specchio…
MARISA NOTARNICOLA
Mutazione delle forme
d’accoglienza nella scuola
media. Gli “stranieri” prima
erano i meridionali del
“nostro Sud”, oggi vengono
da un “altro Sud” ed il quadro
culturale e politico è
profondamente mutato.
Guardare al passato per capire
e per ritrovare valori,
guardare al presente come in
uno specchio per nuove lotte
di cittadinanza
A
rrivata nella scuola in cui lavoro
(scuola media della periferia Nord di Torino) a metà degli anni ’70, la presenza
di allievi nelle classi era in prevalenza di
meridionali, figli degli immigrati di seconda generazione. La struttura più rispondente ai bisogni culturali di quel tipo
di popolazione scolastica fu il Tempo Pieno che coesisteva, nello stesso edificio
con il Tempo Normale dal quale si differenziava profondamente sia rispetto a
contenuti e a metodologie, sia rispetto
ad approcci relazionali. Fu quella una stagione caratterizzata da un forte spirito
di rinnovamento che aveva investito la
scuola già da alcuni anni prima, in cui
convergevano la motivazione da parte dei
docenti al cambiamento e allo svecchiamento di un ambiente permeato dal formalismo burocratico delle circolari, la lezione di grandi pedagogisti (don Milani
prima e poi Tamagnini, Ciari, Rodari ed
altri ancora), il fermento culturale di
molte riviste pedagogiche (Riforma della
scuola, Paideia, per citarne solo alcune),
l’accoglimento di istanze democratiche da
parte delle istituzioni con i Decreti delegati (1974), i nuovi programmi (1979),
l’abolizione delle classi differenziali e l’individualizzazione dei percorsi formativi.
PAGINA
L’accoglienza ieri
L’accoglienza, nella nostra scuola, degli
allievi dell’ultimo anno di elementari, per
rendere più agevole il passaggio alle medie, prevedeva una collaborazione molto
stretta tra i due ordini di scuola. Nei colloqui che si organizzavano con le maestre passavano informazioni che non trovavano spazio nella pagella, utili però a
fornire un quadro complessivo di ognuno
di loro in rapporto a difficoltà scolastiche e relazionali e a livelli raggiunti. L’accoglienza passava anche attraverso un
rapporto più stretto con le famiglie e il
colloquio con loro, che avveniva poco prima dell’inizio dell’anno scolastico, andava ben al di là dell’atto burocratico delle
iscrizioni. C’era la volontà comune di sviluppare insieme un percorso collaborativo di educazione, non solo da parte di
quelle più sensibili ed acculturate che
credevano nella scuola pubblica come
palestra di democrazia e come uno dei
luoghi, il più importante, entro cui lavorare per l’integrazione sociale di tutti.
Anche i genitori che rappresentavano la
fascia più disagiata e debole intravedevano nella scuola la possibilità di riscatto e di promozione sociale. Accogliente,
per certi versi, poteva considerarsi perfino la struttura edilizia di quei brutti prefabbricati dell’epoca sorti alla veloce per
soddisfare la domanda di un’utenza numericamente cresciuta che prevedevano
spazi di laboratorio seppure non ampi. Il
tempo pieno era, con le numerose compresenze e una struttura per laboratori,
13
TEMA
LA CITTÀ PLURALE
un esempio di scuola attiva che, attraverso il “fare scuola” e la possibilità di
concrete esperienze, cercava di dare una
risposta ai bisogni degli allievi, specie
quelli più disperati che, sul quotidiano,
ponevano seri problemi di adattamento e
di accettazione di regole condivise. L’accoglienza ad inizio d’anno, nelle classi,
era affidata ai singoli docenti che si adoperavano con attività di vario tipo di favorire i rapporti di conoscenza, ma stava
soprattutto nello spirito con cui essi lavoravano con loro per integrarli nel gruppo e per accorciare le distanze tra livelli
culturalmente diversi, nonostante le difficoltà e soprattutto la persistente sordità dei governi, succedutisi nel tempo, per
supportare e consolidare il tempo pieno
onde evitare la deriva di una ghettizzazione già incombente.
L’accoglienza oggi
PAGINA
14
Si fa accoglienza oggi in un quadro politico, sociale, culturale completamente
mutato: c’è la scuola “riformata” dalla
destra al governo mirante a spingere più
avanti una cultura aziendalistica partita
negli anni ’80, con molte ambiguità, in
vari ambiti, anche sindacali, e ci sono
una mentalità individualistica più marcata ed una perdita di senso civico più
diffuso. Mutato è anche l’atteggiamento
dei docenti non solo per età e stanchezze personali, ma per la difficoltà di lavorare in una scuola che va avanti all’insegna dei tagli – agli organici, all’orario
degli allievi, alle ore delle materie di insegnamento, alle risorse del fondo di istituto –, a fronte di una realtà divenuta
più complessa anche per la presenza di
nomadi e stranieri che nel corso del tempo è numericamente cresciuta.
D’altra parte si è diventati più esperti in
fatto di accoglienza: i laboratori-ponte
rivolti dalla media alle elementari basati
sulla conoscenza dei luoghi della futura
scuola, su attività accattivanti rende i
passaggi meno dolorosi e più amichevoli; così come sono il segno di un’attenzione affettuosa verso chi inizia un nuovo precorso, l’incontro tra gli allievi in
uscita dalle medie e quelli in entrata,
quasi una sorta “di passaggio del testimone” in cui i più grandi tranquillizzano
i più piccoli raccontando loro storie ed
esperienze, mettendoli in guardia rispetto ai rischi o la semplice offerta di una
merenda, nell’intervallo, da parte di chi
è già nella scuola ai cosiddetti “primini”.
L’accoglienza si prepara anche nei colloqui con le maestre con le quali i rapporti
sono rimasti collaborativi e non solo per
i passaggi di informazione su ogni allievo, ma anche per un lavoro cooperativo
onde conoscere la situazione di partenza
di ciascuno di loro e lavorare ad una pro-
spettiva di aggregazione, in rete di scuole, per sostenere i minori stranieri arrivati nel corso dell’anno, ma non accolti per
ragioni di capienza della scuola, nel loro
precorso di iscrizione e di inserimento in
quella che invece può farsene carico.
Le famiglie
Più complesso è diventato il rapporto con
i genitori, meno disposti a capire le problematiche di una classe in cui devono
convivere con i loro figli compagni provenienti da diverse parti del mondo.
La richiesta è che il servizio scuola sia
efficiente e produttivo, al bando tempi
lenti di assimilazione o rallentamenti
nello sviluppo del piano di lavoro, quando occorre, dovendo salvare il salvabile,
come usano dire. Accanto a questo tipo
di famiglie si collocano quelle di nomadi
e stranieri che iscrivono i figli ad anno
inoltrato. Si tratta della fascia più debole: non è infrequente il caso che siano
affidati ad un solo genitore o a parenti o
a presunti tali.
Il problema della lingua è cruciale, a cominciare dall’atto di iscrizione per il quale si ricorre spesso agli allievi stranieri
della stessa etnia ormai inseriti nella
scuola che fanno da tramite, nella traduzione della lingua di origine a quelli appena arrivati. Ad iscrizione avvenuta,
entrano nel gruppo degli alfabetizzandi,
ma il cammino dell’apprendimento della
lingua del posto è lungo e, in assenza di
mediatori culturali che supportino il loro
inserimento, tutto è più complicato, a
partire da quella modulistica (solo in italiano) per usufruire dei servizi che la scuola offre (mensa, buoni-libro, visita medica agli ambulatori di medicina sportiva
ed altro ancora) o semplicemente per comunicazioni alla famiglia (uscite didattiche, offerte di attività extra-scolastiche,
ecc.).
I minori stranieri che arrivano privi di
documentazione anagrafica o semplicemente con documentazione incompleta,
vengono accettati con riserva, ma si cercano tutte le vie per aiutarli a procurarsela, onde evitare che, affidati dall’assistente sociale di zona al tribunale dei
minori e da questi spostati in comunitàalloggio dove il radicamento è difficile
per ragioni varie, perdano i contatti con
la scuola in cui si erano inseriti, vissuta
come luogo di riferimento e di costruzione di legami affettivi. ●
TEMA
LA CITTÀ PLURALE
Per voi, ragazzi,
chi è diverso?
LUISA RESTIVO *
Anno scolastico 2001-2002.
Settembre. Sono neoarrivata
nell’Istituto “Don Milani”
(comprende liceo, ITC, IPIA),
a Montichiari, Bassa
bresciana. Riunione del
dipartimento di discipline
umanistiche; la coordinatrice
delinea la programmazione e
le questioni aperte: «…E un
nuovo problema che sembra
emergere da quest’anno è
quello di alcuni alunni
neoiscritti di cittadinanza
non italiana che non parlano
la nostra lingua o che la
conoscono molto poco… un
attimo… mi dicono che da
quest’anno c’è un’esperta. Va
bene, allora deleghiamo a lei
la questione»
D
opo due giorni dall’ingresso nel
nuovo istituto, in quanto proveniente da
esperienze didattiche con alunni stranieri adulti di un CTP, sono stata inaspettatamente additata come colei che «ne sa
qualcosa». Risultato: sono responsabile
del Progetto Stranieri: 9 alunni, 4 diversi
livelli di competenza, 3 ore settimanali
di laboratorio italiano L2 in orario curricolare, aula soprannominata “Grande fratello”, poiché la parete divisoria dal corridoio è una vetrata.
Era una sistemazione non favorevole alla
concentrazione ma involontariamente
funzionale alla socializzazione: i compagni italiani che passavano nel corridoio
per la passeggiatina a metà lezione si
prodigavano in saluti e salamelecchi di
altro genere. In un contesto meno inusuale non si sarebbero accorti di loro.
Parte il laboratorio, a poco a poco ci si
conosce.
Alfabetizzazione e storie di vita
Dalla Liberia: sono due fratelli neoarrivati, Jemama e Jeffrey: attenti, partecipi,
interessati; come mai lui impara subito,
ha una buona pronuncia, in 4 mesi viene
inserito in classe e riesce ad accedere
velocemente ai nostri densi e complessi
testi di studio mentre lei ha tempi così
lunghi? Indaghiamo un po’: abitavano al
confine con la Costa d’Avorio (ex colonia
francese), genitori emigrati, fin da piccolo lui va dai nonni, oltre confine, a
scuola impara bene il francese, lei resta
con gli zii in Liberia, frequenta poco la
scuola. E così si impara che ricostruire la
storia, scolastica e non, di questi ragazzi
non è una variabile opzionale, ma un dovere inderogabile, perché aiuta noi, insegnanti italiani, spesso figli o nipoti di
emigrati italiani (in un’Italia che, forse,
fatica, perché non ricorda, a concepire
quali e quante implicazioni la scelta dell’esperienza migratoria possa avere su
tutti i componenti di una famiglia e sul
destino dei figli), a far rientrare in un
contesto di sensatezza e di coerenza atteggiamenti e comportamenti di questi
studenti che spesso non riusciamo a considerare sensati, o che comunque non
rientrano nella nostre logiche giustificative.
Rupinder, indiana,carattere dolce, pacata, da subito pronuncia italiana quasi
perfetta, sempre sorridente, curiosa, chiede, si informa, ma fa fatica; si parla di
religione, porta un opuscolo sulla sua, la
religione Sik, e racconta, in inglese, con
pochissimo italiano. È felice, io non so
niente, è lei che mi informa, insiste, vuole
che lo porti a casa, che lo legga con calma. Gli anni successivi sarà la nostra in-
terprete ufficiale ad ogni arrivo, ad anno
inoltrato, di studenti indiani.
E intanto emerge che a fianco della necessità prioritaria di conoscere e capire
la lingua esiste in loro il bisogno ineludibile di parlare di sé, del proprio mondo,
di essere ascoltati, di comunicare quel
poco che riescono, di raccontare quei
frammenti di vita frantumati, dispersi
dall’esperienza migratoria, brandelli da
ricucire alla stoffa appena iniziata: la
nuova vita in Italia.Ma gli spazi e i tempi
della classe non concedono questa possibilità, giustamente ci sono altre urgenze. Il laboratorio di italiano L2 diventa
così uno spazio un po’ più a misura di
ragazzo-immigrato, in cui comprendere
che la propria esperienza, a volte così
unica e sconvolgente, può essere capita
e condivisa da altri. Finisce l’anno.
Salif, 16 anni, ricongiunto al padre: «Ciao
profe, buone vacanze, grazie per quest’anno». «E tu Salif, vai in vacanza quest’estate?». «Sì, ma non in Costa d’Avorio; mia
mamma mi ha detto: non devi tornare per
vent’anni. È dura profe».
Si entra nella sofferta vita di questi ragazzi più di quanto si possa immaginare.
30 ore alla settimana in classe ad ascoltare 10-12 insegnanti che parlano («tanto, ininterrottamente, velocemente, difficile»), capendo ora l’1%, ora il 10, ora
il 30%, spesso e inevitabilmente senza
essere mai interpellati perché non in grado di capire nemmeno la domanda, rendono la figura del docente alfabetizzatore/
facilitatore punto di riferimento, rendono
le ore di laboratorio momenti di serenità,
perché durante questi i ragazzi percepiscono se stessi come esistenti e non anonimi,
non invisibili, in una giornata scolastica
facilmente votata alla delusione e alla demotivazione, a cui si aggiunge il quotidiano struggimento per l’assenza, in un momento in cui il conforto potrebbe alleviare
la fatica, dei propri cari.
PAGINA
15
TEMA
LA CITTÀ PLURALE
Cosa non ha funzionato? Cos’è
l’intercultura?
PAGINA
16
Anni scolastici 2002-2003, 2003-2004,
2004-2005: triplicato il numero di studenti neoiscritti non italofoni, il 50% già
in Italia da 4-5 anni. Almeno questi dovrebbero camminare con le proprie gambe. I mesi di settembre e ottobre sono
sempre ricchi di sorprese: «Guarda che ne
ho in classe tre che non dicono neanche
buongiorno e ne è arrivato un altro, non
vorrai metterlo nella mia classe?». «Ma
come faccio a far lezione se me li porti
via!». «Parlare con i compagni parla, ma
poi non studia niente». I problemi si accavallano, si fa fatica a far fronte all’emergenza e contemporaneamente organizzare in modo sistematico un piano di accoglienza, un protocollo completo, organico, provato, condiviso. Tutto viene costruito correndo e cercando di scavalcare
l’ondata degli arrivi, di prevenire: dunque vediamo l’orario, quando hanno l’ora
in cui gli altri fanno religione? Chi sa già
l’inglese potrebbe uscire nelle ore di lingua straniera. Tanti propositi ma non si
riesce a conciliare l’orario dei docenti alfabetizzatori con quello dei ragazzi, la
scuola si è ingrandita, sono nati tre nuovi indirizzi di liceo, si supera il migliaio
di alunni, con classi all’IPIA in cui gli
stranieri raggiungono 50%. Docenti, plurale, perché nel frattempo è nata una equipe disponibile a dedicare alcune ore settimanali alla prima alfabetizzazione e all’apprendimento del livello intermedio.
Siamo insegnanti di italiano, lingua, preziosissimi per le competenze glottodidattiche in lingua straniera, di diritto, matematica; si utilizzano ore di codocenza,
ore a disposizione, ore eccedenti grazie
al fondo d’Istituto, ci si divide il lavoro:
test d’ingresso, formazione di gruppi
omogenei per classe e per competenze,
due-tre ore settimanali per gruppo, se si
riesce anche quattro-sei per i neoarrivati.
Buone pratiche
Il coordinatore gestisce i nuovi arrivi, i
colloqui con genitori, mediatori culturali; si stende un progetto in convenzione
con i vicini CTP e CFP. Il dictat è: “sfruttare le risorse di rete”, arrivano i finanziamenti dalla Regione: bene, corso di
formazione sulle Buone pratiche per l’integrazione degli alunni stranieri, viene
coinvolto anche il personale ATA; attività di passerelle, primissima alfabetizzazione a cura dei docenti del vicino CTP,
nascita di una biblioteca interna all’Istituto: libri di formazione, manuali, vocabolari illustrati, bilingue, giochi linguistici, materiale multimediale. Forse si
comincia a ragionare. Ma a fine anno il
monitoraggio non risulta positivo: è vero,
imparano a comunicare, quello che si dice
l’italiano funzionale, ma il salto dall’italiano quotidiano ai linguaggi dello studio è enorme, molti vengono respinti.
Cosa non ha funzionato? Se ne discute,
si ragiona, si elabora, ci si confronta con
chi (in scuole del milanese), ha affrontato la questione con anni d’anticipo: è la
delega del problema all’alfabetizzatore
che non basta. È vero, l’équipe è indispensabile, risolve i problemi di prima
accoglienza e favorisce la competenza
comunicativa, ma poi occorre l’intervento dell’intero consiglio di classe, e lo sforzo collettivo di tutti i componenti della
scuola e ci vuole tempo perché questa
esigenza sia percepita, condivisa e diventi
parte del sistema scuola nel suo complesso. Ci rifacciamo alla normativa: DPR 394
agosto 1999, adattamento dei programmi: si approva in collegio docenti, ma poi
come gestire gli alunni stranieri durante
le lezioni in classe? Nasce la collaborazione tra docente facilitatore e disciplinare: si adatta il programma, si facilita il
testo, lo si semplifica: nasce il laboratorio di italiano L2 per studiare.
È una strada, faticosa, si diffonde lentamente, a macchia d’olio, con molte battute d’arresto; non è l’unica, forse nemmeno la più facile da percorrere, ma laddove più docenti, collaborando tra loro,
rimettono in discussione consolidate
modalità di impostazione del lavoro didattico, e con esse se stessi, i miglioramenti si notano. Il punto d’arrivo dovrebbe essere la convinzione da parte di tutti
che “Ogni insegnante è anche insegnante di lingua”. Questo tratto di percorso è
però appena iniziato. Ma a questo punto
la riflessione non può soffermarsi solo
sull’aspetto linguistico, perché sfiora
quello più generale del fare intercultura,
che non vuol dire parlare di diverse culture o favorire la convivenza tra esse,
quella è la multiculturalità, bensì portare
l’attenzione su comportamenti, atteggiamenti che privilegino la visione dei diversi punti di vista, favoriscano l’attenzione per il diverso e che mirino ad un
decentramento del proprio operato. Questo vale per tutti, docenti, non docenti,
alunni, italiani e stranieri. Perché, gli
alunni italiani, con in classe 10-12 compagni stranieri, non saranno avvantaggiati se imparano a decentrare se stessi,
a riflettere sul diverso, a percepire diversificati punti di vista?
«Ragazzi, ma per voi chi è il diverso?».
«Il diverso, profe, è lo sfigato del gruppo».
Bene, bisognerà partire col Progetto Intercultura, e si comincerà parlando non
del compagno di banco straniero, ma dello
sfigato italiano. ●
* Insegnante, Montichiari (Brescia).
TEMA
La formazione
civica degli
stranieri e degli
italiani
FRANCESCO CIAFALONI *
Non c’è bisogno di parlare la
stessa lingua, o di avere la
stessa tradizione giuridica o
la stessa religione
tradizionale per essere
universali. Basta accettare il
nucleo comune delle regole
della convivenza civile
C
hi abbia finito le secondarie più di
mezzo secolo fa, soprattutto se le aveva
frequentate in un liceo di provincia, non
ha ricevuto a scuola una formazione civica in senso proprio, fondata sulla Costituzione, in vigore da alcuni anni. Ha però
ricevuto una formazione, di eredità gentiliana e crociana, fondata sulla letteratura e la storia, certo implicitamente nazionalistica, certo coronata dall’ora di
religione, ma non necessariamente spregevole. L’ora di religione, del resto, non
significava molto e non aggiungeva nulla all’importanza dei preti nei paesi e
nelle piccole città.
Il libro di storia poteva essere buono,
come quello di Giorgio Spini, che è capitato a me, o poteva essere cattivo, ma il
peso maggiore era quello della letteratura: i testi di una lingua sconosciuta ai
più, da cui si apprendevano insieme le
parole indispensabili alla comunicazione esterna, l’unico elemento su cui prima della industrializzazione complessiva si fondasse l’unità del paese, e i versi, le idee, dei grandi che avevano illustrato la patria, come si diceva. I sepolcri, per citare un esempio davvero alto
di formazione civica e repubblicana. Ma
anche i classici latini e greci, il Trecento, il Rinascimento, il Risorgimento.
Col tempo, e con scelte personali, alla
tradizione trecentesca, rinascimentale e
risorgimentale, qualcuno aggiungeva l’Illuminismo, il movimento operaio e la
Resistenza, finita solo pochi anni prima, e perciò anche vissuta, ma sostan-
LA CITTÀ PLURALE
zialmente esterna a molte scuole, come
la Costituzione, fino agli anni Settanta.
Era come cambiare l’ultimo capitolo a un
percorso che fino a dieci anni prima era
utilizzato per approdare a ben altro.
La Resistenza, la Costituzione, lo sterminio degli ebrei sono entrati visibilmente e universalmente nelle scuole con gli
anni ’70. Allora è sembrato a molti di
noi che, sulla base di un comune terreno
di diritti e doveri condivisi, quelli dichiarati nella Carta dell’Onu e nella Costituzione della Repubblica, malgrado la
divisione del mondo in due blocchi e il
dominio militare delle due grandi potenze, ci si potesse aprire all’Europa ed al
mondo, accogliere, riscoprire le differenze, imparare il difficile cammino della
reciproca comprensione tra tradizioni
culturali diverse.
Viene da ridere a dirlo oggi, ma l’universalismo, come fine, non come risultato
già raggiunto, ci è sembrato scontato.
Non l’universalismo per fede, magari addirittura confessionale, ma l’universalismo come ricerca di una base condivisa
di diritti e doveri nella diversità delle
espressioni. Testi molto diversi, come
quelli di Habermas, o di Luigi Ferrajoli,
o come Il diritto mite di Zagrebelsky, o Il
materiale e l’immaginario di Ceserani e
De Federicis, ci sono sembrati far parte
di uno stesso cammino, universalistico
e multiculturale. Termini che a me continuano a sembrare necessari e complementari, per nulla contraddittori.
L’emergenza Costituzione
Non c’è bisogno di parlare la stessa lingua, o di avere la stessa tradizione giuridica o la stessa religione tradizionale
per essere universali. Basta accettare il
nucleo comune delle regole della convivenza civile e il fatto materiale che in
un mondo limitato chi è molto in alto
deve un po’ scendere e chi è stato tenuto o è rimasto in basso deve un po’ salire. Non sono il solo ad avere pensato
che la capacità tecnica delle due grandi
potenze di uccidere tutto il genere umano ponesse un limite invalicabile all’uso
della potenza militare e dello sterminio
per reggere il mondo. Non sono neppure
il solo ad aver pensato che il disfarsi dell’Unione sovietica fosse una vera liberazione e aprisse nuove possibilità alla
pace. Non è andata così.
Per limitarci all’Italia, che vediamo e conosciamo di più, ciò che avevamo dato
per scontato, cioè la Costituzione, i diritti e i doveri condivisi, in particolare i
diritti del lavoro e l’accettazione del lavoratore straniero, l’apertura al mondo,
si sono semplicemente disfatti. La Costituzione ha smesso di essere un patto
condiviso ed è diventato un luogo di con-
flitto, anche più di quanto le due successive bordate di emendamenti, della
riforma del Titolo V e della devoluzione,
non comportino. È che la maggioranza
che oggi ci governa è fuori dalle diverse
culture politiche che la Costituzione
l’hanno prodotta e che l’opposizione non
sembra davvero tutta convinta di dover
vincere in nome dei principi e non in
deroga ad essi.
Coi diritti del lavoro siamo tornati, con
molti più agi per i vecchi residenti, alla
situazione di un secolo fa. I nuovi residenti, i non cittadini italiani, non possono neppure sperare ragionevolmente
nel diritto di voto a breve. E non c’è una
nuova ondata di produttività crescente
alle porte che faccia galleggiare tutti. Il
movimento operaio è diventato una associazione di pensionati e di pubblici dipendenti, categorie rispettabilissime, di
cui però quelli che fanno i buchi per terra, costruiscono le case e badano i malati non fanno parte di fatto e per legge.
Costruire un confronto, un rapporto, una
ricerca dei punti condivisi nella accettazione della diversità, dei vecchi residenti e dei nuovi, è resa difficile non dalla
intollerabilità dei costumi dei nuovi, che,
quando c’è, sembra delimitabile e affrontabile, ma dalla caduta del patto di
convivenza tra i vecchi residenti e dalla
loro paura.
Conflitti sociali, divisioni culturali
Sono riemersi gli aspetti peggiori della
storia del paese che rischiano di rendere
legittima una tesi parentetica della democrazia. Risiamo all’eterno «Se il tempo brontola/ finiam di empire il sacco./
Poi venga anche il diluvio,/ sarà quel che
sarà.» (Carducci). O se si preferisce, all’ancora più antico «Io so io e voi nun
zete un cazzo,/ sori vassali buggiaroni,
e zitto./ Io fo dritto lo storto e storto er
dritto:/ pozzo vénneve a tutti un tant’er
mazzo:/ ché la vita e la robba Io ve l’affitto.» (Belli).
Se è difficile il rapporto culturale con
gli stranieri è anche perché è crollato il
consenso civile degli italiani. La scuola
si è disgregata, con qualche eccezione,
proprio nel momento in cui avrebbe dovuto rendere più esplicito un nucleo comune, non puramente tecnico e non
esclusivamente letterario perché molti
dei nuovi allievi non lo condividono. E
del resto la formazione tecnica e scientifica viene rifiutata dai più perché non
sembra, almeno nei sui settori più astratti, neppure un buon passaporto per il
lavoro.
La cosa più distruttiva mi sembra la esplosione di clericalismo, al governo, ma anche all’opposizione, che rischia di scardinare davvero la convivenza laica e civile.
PAGINA
17
TEMA
PAGINA
18
Non si tratta solo di atei clericali, o devoti, come si dice ironizzando, e di riscoperte di adolescenze cattoliche e di ricerche di dio, ma di cessioni al clero di
risorse e prerogative, che sbilanciano
ancora di più la gestione dell’assistenza
verso chi può usare l’otto per mille quando gli enti locali hanno rinunciato all’intervento diretto e non hanno fondi per
finanziare il terzo settore. Non è molto
sensato preoccuparsi del fondamentalismo
eventuale degli altri quando ministri e
presidenti del senato chiedono esplicitamente l’approvazione di vescovi e papi.
Stiamo rifacendo all’incontrario il cammino iniziato da Lamennais quasi due
secoli fa. Cosa si può fare?
Intanto non stare zitti, come se tutto
fosse normale. Poi continuare quando e
dove è possibile la ricerca del confronto
e la conoscenza reciproca. Il lungo periodo e l’economia politica, ora sostituita
da una sorta di oroscopo sull’andamento
del Pil, non sono state due mode ora finite. Sono la base di ogni comprensione
generale del mondo e di ogni formazione, insieme al rapporto tra diritti e doveri, tra produzione e consumo, tra importazioni ed esportazioni. Studiare anche
la storia e le lingue, naturalmente. Ma è
stato già detto. Alla convivenza però arriveremo, o arriveranno, con molti più
sconquassi e tragedie di quanto non avessimo messo in conto. A chi ha tutto non
piace scendere, neppure poco. E chi non
ha nulla vorrebbe rovesciare il tavolo. ●
* Presidente del Comitato “Oltre il razzismo”,
Torino.
LA CITTÀ PLURALE
Dossier Caritas 2005. Trentacinque
anni d’immigrazione in Italia: una
politica a metà del guado
Il 27 ottobre a Roma è stato presentato il dossier Statistico Immigrazione 2005
realizzato come ogni anno a cura della Caritas. Già il titolo è eloquente: al di là dei dati
che confermano l’allargamento del fenomeno, qui esprime la preoccupazione per una
politica che «non ha il coraggio di andare decisamente avanti». È vero che il rapporto
insiste sul significato economico della presenza degli stranieri in Italia, aspetto per
altro da non sottovalutare, ma è anche vero che il dossier sottolinea l’idea che «gli
immigrati sono anche i nuovi cittadini e per loro serve un progetto più deciso di
integrazione che, banditi definitivamente xenofobia e razzismo, rimedi alle vessazioni
di tipo burocratico, elimini le disparità, finanzi le attività di supporto all’integrazione,
riveda l’antiquata normativa sulla cittadinanza e faciliti la partecipazione degli
immigrati tramite il diritto di voto amministrativo». Fini, Bossi ed il Berlusca saranno
d’accordo?
Il dossier ricorda anche l’importanza di una politica comunitaria più coordinata non
tanto nelle soluzioni restrittive e preconfezionate quanto nella ricerca di domande
specifiche e concrete (facendo riferimento al Libro Verde sull’immigrazione uscito l’11
gennaio 2005), ma la cosa più interessante è proprio l’aspetto statistico che parte dal
1970 ad oggi e che fornisce un quadro veramente esaustivo delle diverse “ondate
d’immigrazione” e delle “politiche” adottate e dei contesti storici e culturali che
abbiamo attraversato. Alla fine del 1970 i cittadini stranieri erano 143.838 e solo nel
1979 vengono sperate le 200.000 unità. Nel 1980 abbiamo un’impennata passando a
298.749. Poi negli anni ’80 gli incrementi sono contenuti ad una percentuale del 10%
di media ogni anni sino ad arrivare ne 1987 a 572.103 soggiornanti. Ciò fu legato alla
prima regolarizzazione voluta dalla legislazione. Da qui in avanti la gestione amministrativa degli stranieri in Italia diviene più complessa e laboriosa ed i dati sono poco
attendibili: è un periodo di confusione. Solo nel 1998 il Ministero degli Interni riesce a
riorganizzarsi e dal 1991 la riflessione sui dai può essere proficua. Negli anni ’90 c’è il
raddoppiarsi dei soggiornanti: si passa dai 649.000 del 191 a 1.341.000 nel 2000. Le
guerre nei Balcani hanno un ruolo importante. Dal 2001 il ritmo diviene incalzante e
sostenuto sino ai 2.319.000 del 2004. Questi dati, avverte il dossier, riguardano gli
immigrati adulti e non considerano l’oltre mezzo milione di minori presenti sul
territorio. Davvero la questione della cittadinanza come strumento-obiettivo per la
convivenza non è più rinviabile.
[S.V.]
Per informazioni ci si può rivolgere a Redazione Dossier Statistico Immigrazione, tel./
fax 06.54192252; Caritas Italiana, tel. 06.54192226-7; Caritas di Roma, tel.
06.69886417; Fondazione Migrantes, tel. 06.66398452.
Il dossier può essere richiesto alla Caritas, viale F. Baldelli, 41 00146 Roma.
educazione
società
Srebrenica 10 anni dopo.
Impossibile dimenticare
CELESTE GROSSI
A Srebrenica – città con lo status di Area di Sicurezza sancito
dall’ONU – nel luglio 1995, oltre 8.000 uomini bosniaci
musulmani, ma anche bambine, bambini e donne, furono uccisi
dall’esercito della Repubblica Srpska, con il sostegno del
regime di Slobodan Milosevic. Insieme a loro morì una parte
della nostra umanità. Non lasciamo che l’anno scolastico
finisca senza ricordare uno dei genocidi del secolo breve
▼
«L’Europa nasce o muore a Sarajevo», diceva Alex Langer nel giugno
del 1995. Pochi giorni dopo il 3 luglio
Alex, l’instancabile costruttore di ponti, si tolse la vita sulle colline toscane,
impiccandosi a un albicocco, perché «i
pesi» gli erano «divenuti insostenibili»ı. Pochi giorni dopo, l’11 luglio, l’Europa, l’Onu e l’intera comunità internazionale morirono a Srebrenica.
L’11 luglio 1995 è il giorno in cui l’armata serbo bosniaca entrò in Srebrenica. Dall’11 al 20 luglio seguirono stupri, mutilazioni, esecuzioni di civili,
sepolture di vivi. Il massacro di oltre
8.000 civili di quella metà di luglio è
solo l’epilogo di una storia iniziata tre
anni prima, una storia di assedio. Nel
corso dei mesi che hanno preceduto la
caduta di Srebrenica, sperando di trovare lì salvezza, numerose persone dei
villaggi vicini arrivano nella cittadina,
che ha visto crescere i suoi abitanti da
quattromila a quarantamila, trasformandosi in un vero e proprio campo di concentramento.
Dopo il massacro di Srebrenica, all’inizio di agosto del 1995, l’esercito croato bombardò la Krajna; 250.000 serbi
fuggirono dalla Croazia.
Nei dieci anni trascorsi da allora il mondo intero si è balcanizzato. Le stragi e
le vittime delle stragi sono aumentate;
si sono moltiplicati gli attentati suicidi, le azioni terroristiche, le guerre, le
invasioni, le occupazioni. Guerre e ter-
PAGINA
rorismo parlano lo stesso linguaggio:
un linguaggio di morte sia che a parlarlo siano persone vestite di stracci,
in divisa, o in doppiopetto.
«Avremmo potuto fare qualcosa con il
nostro impegno civile nelle strade e
nelle piazze di quest’Europa assente o
tristemente presente, per cambiare il
corso degli avvenimenti?»2, si chiede e
ci chiede Melita Richter. È una domanda che resta senza risposta, ma certo
«quello che possiamo fare oggi è di non
permettere di rimuovere una guerra con
un’altra, non concedere che sempre una
guerra stenda il velo su quella precedente, annulli e sospinga all’oblio i lutti, le sofferenze, i soprusi»3. E non stendiamo veli nemmeno su chi dall’interno della Serbia ha resistito alla guerra
e resiste ancora.
L’altra Jugoslavia
Ci sono donne e uomini che hanno reagito in modo non violento ai veleni del
nazionalismo e del militarismo che si
insinuavano nei cuori e nelle menti
anche di persone insospettabili, di cittadine e cittadini che non hanno condiviso le scelte degli uomini al potere
(del regime, dell’esercito, della polizia,
della propaganda). Sono donne e uomini scesi in piazza, obiettori e disertori e chi li ha sostenuti, donne e uomini che hanno rifiutato di sentirsi ne-
mici di altre donne e di altri uomini di
un’altra nazionalità.
La loro esperienza e i loro saperi e le
loro pratiche di resistenza nonviolenta
assolutamente originali possono accompagnarci nella comprensione del presente dopo guerra che la comunità internazionale ha imposto come pace armata e farci guardare alle prospettive
future di liberazione della ex Jugoslavia dal nazionalismo e dall’odio.
Queste donne e questi uomini hanno
sperato che, in Serbia, dopo la caduta
del regime dittatoriale, nell’ottobre
2000, ci sarebbe stata una rottura con
la politica criminale del regime di Milosevic. Ma proprio allora iniziava la
negazione istituzionalizzata dei crimini. Negazione che continua ancora oggi,
anche se un video proiettato al Tribunale internazionale dell’Aja nella scorsa primavera mostri inequivocabilmente soldati serbi che umiliano, spintono, ingiuriano, sputano addosso, prendono a calci le vittime; trasferiscono
cadaveri (come se così potessero ingannare la storia, l’opinione pubblica
internazionale e le famiglie delle vittime).
A dieci anni dal genocidio il Parlamento serbo non riesce ad adottare una risoluzione sul massacro di Srebrenica e
continua a negare i crimini commessi e
non esprimere esplicite condanne per
gli organizzatori, i comandanti, gli esecutori del genocidio. Ma non c’è ricon-
19
PAGINA
20
ciliazione e pace senza verità e giustizia. E per vedere una striscia di futuro
è indispensabile svelare i crimini, condannarli e guardare in faccia le responsabilità. Da quelle di chi ha realmente
premuto il grilletto, a quelle di chi ha
dato l’ordine di farlo, a quelle di chi
ha sostenuto i responsabili, a quelle
di chi ha accettato un regime criminale come partner per concludere la pace,
come nel caso degli accordi di Dayton
sottoscritti solo qualche mese dopo
Srebrenica dalle tre parti in conflitto
(serbi, bosniaci musulmani e croati) e
firmati da Milosevic e Karadzic, salutati da Bill Clinton come «costruttori
di pace».
Cronaca di un massacro
L’11 luglio 1995, dopo anni di assedio, i militari della Repubblica Srpska, sotto il comando di
Ratko Mladic, occuparono la città di Srebrebnica, abbandonata la notte precedente dai soldati
dell’esercito della Bosnia Erzegovina, sotto il comando di Naser Oric. Garantendo loro la
sicurezza, Mladic ordinò ai residenti e ai rifugiati di lasciare la città e dirigersi verso il
territorio sotto il controllo della Federazione di Bosnia Erzegovina. All’uscita dalla città gli
uomini furono separati dalle donne e dai bambini. In quello stesso giorno e nei giorni
successivi, gli uomini furono giustiziati in varie località. Una parte dei cadaveri fu in seguito
spostata nelle cosiddette “fosse secondarie”, molti corpi furono successivamente smembrati e
dispersi in varie fosse per rendere impossibile l’identificazione. Altri uomini, donne e bambini
furono uccisi nei boschi attraverso i quali cercavano di raggiungere Tuzla.
Il Tribunale Criminale Internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja ha emesso una serie di
condanne per i crimini di Srebrenica. Alcuni (Erdemovic, Nikolic e Obradovic) hanno ammesso
la propria responsabilità. Radislav Krstic, al tempo comandante dei Corpi della Drina, che
insieme al generale Lazarevic eseguì direttamente gli ordini di Mladic, è stato condannato a
35 anni di prigione per genocidio. Ratko Maldic e Radovan Karadzic sono ancora latitanti. I
soldati olandesi, che avevano la responsabilità nell’enclave e che non hanno impedito che il
crimine avvenisse, hanno ricevuto la medaglia al valor militare dal proprio governo.
I Balcani siamo noi
E c’è un altro motivo per cui occuparsi
delle guerre Balcaniche. «Perché si rimane attaccati ai Balcani? Perché è una
parte di mondo che più corrisponde a
noi, alla nostra vita instabile e dolorosamente scissa. Se in Asia ci sentiamo bambini persi, per le contrade balcaniche a venire a galla è l’irrisolta questione della residua adolescenza che
non si decide ancora alla maturità e
scherza con il sangue e con il fuoco.
Dopo tanti e lunghi attraversamenti
Srebrenica, fine secolo
In occasione del decennale dell’eccidio di Srebrenica, l’Istituto per la storia della resistenza e
della società contemporanea di Asti, in collaborazione con l’Osservatorio sui Balcani e
l’Agenzia della democrazia Locale di Zavidovici) ha raccolto nel libro Srebrenica, fine secolo.
Nazionalismi, intervento internazionale, società civile (a cura di William Bonapace e Maria
Perino, Israt, Asti 2005, pp. 190, euro 15) «riflessioni nate e discusse all’interno di diverse
realtà che da anni a vario titolo lavorano nei e sui Balcani». Il libro presenta narrazioni di
testimonianze e di esperienze (“La fine dell’innocenza”, “Sette giorni d’estate”, “Partite di
calcio”); saggi di Rada Ivekovic˘ (“A proposito del paradigma bosniaco”), di Giudo Franzinetti
(“I conflitti balcanici e le nuove guerre”), di Andrea Rossini (“Il tribunale internazionale
dell’Aja per la Ex Jugoslavia”), di Michele Nardelli (“Oltre il conflitto. Forme e pratiche di
ricomposizione sociale”), di Camillo Boano (“Ritorni. Processi simbolici e materiali per una
ricostruzione sostenibile”).
A come Srebrenica
A come Srebrenica è uno spettacolo teatrale di Giovanna Giovannozzi, Roberta Biagiarelli,
Simona Gonella. Per non dimenticare. Il monologo recitato da Roberta Biagiarelli ha debuttato
al Festival del Teatro e del Sacro di Arezzo nel 1998: Da allora è stato replicato più di 200
volte. In occasione del decennale dell’eccidio di Srebrenica lo spettacolo è stato rappresentato
anche a Tuzla e a Sarajevo. «Chi è sopravvissuto a Srebrenica non può dire di avere sentimenti
in corpo, e chi non l’ha conosciuta, non può dire di aver visto la guerra in Bosnia». È per
questo che le autrici hanno voluto raccontare l’assedio e la caduta di Srebrenica. «Io sono
nata in un paese davanti al mare…», una donna torna bambina scrutando l’orizzonte. «Cosa
c’è dall’altra parte?», si chiede. Un’attrice sola sul palco per più di un’ora diventa narratrice e
protagonista di una storia dove la ragion di stato e gli interessi politici internazionali, hanno
giocato con la vita di decine di migliaia di persone. Uno “spettacolo” che ricorda le vittime e
punta il dito sui carnefici.
Dov’erano
i pacifisti?
Un editoriale pubblicato su L’Unità a giugno del 1992 “Ma dove sono i pacifisti” si interrogava
sul perché l’assedio di Sarajevo non avesse suscitato le stesse manifestazioni che c’erano state
contro la guerra in Vietnam.
A quella domanda don Tonino Bello aveva risposto: «[…] Voi lo sapete dove sono andati a
finire i pacifisti. Li troverete negli innumerevoli laboratori d’analisi in cui si maschera la
radice ultima di ogni guerra e quella ultimissima del suo archetipo di sangue: il potere del
denaro. Li troverete dove si formano le nuove generazioni a compitare le letture sovversive
della pace, facendo loro capire che i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano
sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell’oro. Li troverete là dove si coscientizza la
gente sulle strategie della nonviolenza attiva e la si educa a vivere in una comunità senza
frontiere e senza eserciti. Li troverete là dove, scoprendo tutta l’impostura dell’antico mito
della città che si fonda sul sangue, si mostra che invece è possibile fondarla sulla solidarietà».
E Alex Langer aggiungeva «I pacifisti anzi sono presenti più che mai nel conflitto jugoslavo.
Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinita
quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant’altro. Un pacifismo
(finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire più complicato,
perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno
unilaterale alle parti ritenute “buone” e neanche con l’idea che un massiccio intervento
armato esterno potrebbe pacificare la regione».
Insomma i pacifisti sostenevano le forze democratiche mentre i nostri governanti trattavano
con le leadership nazionaliste.
nelle guerre balcaniche, alla fine questa è la conclusione. I Balcani siamo
noi». Scrive Tommaso Di Francesco su
il manifesto del 17 luglio 2005. In Italia tante, tanti, individualmente e collettivamente, continuano ad occuparsi della ex Jugoslavia e della Bosnia in
particolare.
Tra le tante iniziative organizzate a
dieci anni da Srebrenica e dagli accordi di Dayton (Usa, novembre 1995)4,
“Pace da tutti i Balcani. Tra Europa e
instabilità: l’ex Jugoslavia e la Bosnia
a dieci anni da Srebrenica e dagli Accordi di Dayton”5, che si è tenuta recentemente a Como (4 - 6 novembre)
è stata particolarmente significativa
perché all’incontro hanno partecipato
con passione e competenza, donne e
uomini testimoni della guerra e di questo dopoguerra senza pace e perché il
convegno si è chiuso con le toccanti
testimonianze di Zumra Sehomerovic˘ e
di Kada Hotic˘ dell’associazione Madri
enclave di Srebrenica e Zepa. Le due
donne hanno raccontato di come l’arrivo della guerra nel giro di poco tempo ha annullato i rapporti tra le persone di culture e religioni differenti. Da
un giorno all’altro i vicini di casa sono
diventati i nemici da cui difendersi.
«Avevamo una fame tremenda, mangiavamo quello che gli animali rifiutavano, parti della piante e a volte anche le ortiche. Si potevano riconoscere i giovani dai vecchi soltanto guardandoli negli occhi perché eravamo una
massa indistinguibile di esseri ridotti
a pelle e ossa. Non avevamo acqua,
corrente e alcuna possibilità di comunicare col mondo, solo i nostri aguzzini sapevano quello che stavamo vivendo. […] Ho visto con i miei occhi le
bambine che venivano violentate ed i
corpi di bambini sgozzati e senza testa. […] Siamo stati vittime della pu-
lizia etnica e dopo dieci anni vivo ancora in un lager chiamato Bosnia Herzegovina. Ho vissuto la guerra con gli
occhi del popolo e non del politico e
con questi occhi posso dirvi che chi
era al potere voleva distruggere il nostro sistema sociale, per poi fare in
modo che Serbia e Croazia si potessero spartire nostri territori» ha detto
˘ E Zumra Sehomerovic˘ ha
Kada Hotic.
aggiunto che «Bisogna tessere il filo
di fiducia che si è spezzato: nessuno
crede più a nessuno e dopo dieci anni
le vedove di sera mettono gli armadi
davanti alle porte perché è ancora troppo vivo il ricordo di quei fatti». In Bosnia e nelle altre Terre balcaniche non
è stata fatta giustizia, infatti, sebbene
alcuni responsabili siano stati processati dal Tribunale per l’ex Jugoslavia e
negli ultimi mesi diversi indiziati si siano consegnati volontariamente, dieci
imputati – tra cui l’ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic e gli ex generali serbo-bosniaci Ratko Mladic e Zdravko Tolimir – sono ancora liberi e, come
dichiara la sezione italiana di Amnesty
International, «a dieci anni dalla fine
della guerra in Bosnia ed Erzegovina,
le donne di Srebrenica sono ancora in
attesa che gli uomini che assassinarono i loro figli e mariti siano consegnati
alla giustizia». ●
NOTE
1. A dieci anni dalla morte di Alex Langer Il
Movimento Nonviolento ha raccolto in un libro – Fare la pace (Cierre edizioni, giugno
2005, pp. 193, euro 11,50) – i suoi scritti
pubblicati su Azione nonviolenta dal 1984 al
1995.
2. In Melita Richter, Maria Bacchi, (a cura
di), Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo, Rubbettino, Catanzaro 2003, p. 34.
3. Ibidem, p. 34.
4. È dedicato alla ex Jugoslavia “I Balcani
non sono lontani”, quaderno speciale n.3/
2005 di Limes, la rivista italiana di geopolitica, in edicola e in libreria da novembre.
5. Il convegno è stato organizzato dal Coordinamento comasco per la Pace (un organismo costituito da 47 associazioni e 41 amministrazioni comunali), in collaborazione con
Acli, Arci, Donne in nero, ecoinformazioni,
Gruppo solidarietà e Pace, Gruppo 360° , Ipsia Como, Sprofondo, con il patrocinio dell’Università dell’Insubria.
Per approfondire
Sul sito di école (www.ecolenet.it) si
possono trovare una bibliografia, una
filmografia e una sitografia sulle Terre
balcaniche per approfondire in classe lo
studio di una regione vicinissima a noi, che
solo pochi anni fa si chiamava Jugoslavia e
che ora non esiste più.
PAGINA
21
LE SOCIETÀ DELL’AVVENIRE
▼
PAGINA
22
È passato un bel po’ di tempo
da quando Alvin Toffler batteva a sorpresa ogni record di vendita negli USA
con i suoi saggi di futurologia in cui
descriveva come sarebbe andata La terza ondata (The Third Wave, 1980) dello
sviluppo economico e culturale dell’umanità. Ne è passato ancor di più da
quando si è provato a prevedere come
avrebbe colpito Lo choc del futuro (Future Schock, 1970) e come avrebbe travolto la soggettività del presente per
produrne o realizzarne un’altra. Scarsamente considerati in Italia, tradotti
e vendutissimi in Francia e osannati in
America come la soluzione vincente per
i problemi dell’avvenire, i libri di Toffler hanno introdotto nel circuito degli
studi sociali (e anche nel senso comune) una nozione fondamentale per potersi avventurare nel labirinto delle
società attuali e del suo possibile destino: quella di post-industrial society.
In un tale aggregato ancora indistinto
e spesso francamente lacunoso, è presente una diversità sociale diffusa a
largo raggio sia nei cd – “stili di vita”
più o meno alternativi (e nelle subculture che da essi originano) –, sia nelle
adhocracies (in cui si afferma un’organizzazione fluida e senza particolari
gerarchie come accade in Wikipedia, la
comunità di ricerca svincolata da ogni
subordinazione accademica); inoltre, in
essa è facile adattarsi rapidamente ai
cambiamenti che intervengono continuamente nell’ambito sociale.
Le abitudini di massa
L’informazione sostituisce la maggior
parte delle risorse legate alla produzione materiale (da cui il pullulare dei
simulacri o ersatz) e può diventare il
principale materiale di lavoro per i lavoratori (che diventano così dei “cognitari” invece che rimanere dei “proletari” e che risultano per questo stretti
da legami sociali più labili). Le abitudini di massa (Mass Customization) offrono la possibilità di focalizzarsi su
forme di produzione meno costose e
finalizzate a consumi di “nicchia” come
Solitudini, moltitudini,
società “liquida”
ed “eccitata”
GIUSEPPE PANELLA
Inquietudini sul futuro della società a venire. Inizia
con queste riflessioni una nuova serie di indagini
sull’”antropologia dell’avvenire”: dall’avvento della
società postindustriale all’idea di una modernità
“liquida” o “eccitata” artificialmente dai media, il
futuro che ci aspetta si presenta con caratteri
molteplici e non sempre positivi (a differenza di
quello che accadeva agli esordi del “secolo breve”
novecentesco)
accade applicando il principio postfordista del just in time. Lo scarto tra produttore e consumatore viene colmato
dalla tecnologia e nascono così i prosumers che soddisfano da sé le proprie
necessità (come accade nel caso dell’open source in informatica, dell’assembly kit per quanto riguarda l’educazione o il lavoro da freelance anche in attività tradizionalmente legate al “posto fisso”).
Pur con tutte le sue approssimazioni e
i suoi ammiccamenti al trionfo dei valori della realtà americana, quei saggi
di Toffler individuavano nel rapporto tra
tecnologia e soggettività il nodo cruciale delle società a venire. In essa il
nesso tra moltitudine e solitudine si
annuncia subito come il problema da
risolvere.
La nozione di “modernità liquida” si
pone come il superamento di quell’antinomia ormai classica. In questo testo – che si può considerare l’anello di
congiunzione tra altre due opere di Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale e La società individualizzata – il sociologo polacco descrive la
società attuale sulla base dell’idea della “liquidità”: ogni dimensione del sociale risulta attraversata da una forte
instabilità, da una sorta di fluidità, di
una mancanza di punti fermi e di prospettive più adeguate che in passato
erano state rese possibili dall’adesione
alla tradizione culturale di appartenenza.
La dimensione della “modernità liquida” è caratterizzata inoltre da un particolare sfondo spazio-temporale. Innanzitutto, molti luoghi della società
presente tendono, nelle realtà urbane,
a scacciare e a esiliare l’Altro oppure
ad annullare le differenti specificità
culturali e societarie. Inoltre, alcuni di
essi si configurano come non-luoghi
(come direbbe Marc Augé): «è il caso
di alberghi o aeroporti, spazi privi di
espressioni simboliche di identità, relazioni e storia»).
Anche la sfera temporale muta freneticamente e obliquamente: attraverso
l’aumento della velocità delle comunicazione e degli spostamenti, la “modernità liquida” ha reso molte esperienze accessibili con immediatezza. Proprio questa centralità dell’immediato,
tuttavia, ha minato fortemente gli elementi della memoria del passato e della fiducia nel futuro che sono stati sinora i ponti culturali tra fugacità e
durabilità e tra assunzione di responsabilità (individuali e sociali) e l’edonismo spicciolo basato sul carpe diem.
Tale insistenza sull’“assolutezza dell’ef-
PAGINA
23
fimero” ha rimesso in discussione i legami con la tradizione e la cultura basata sulla “memoria del passato” e sulla sua qualità di collante socio-culturale. È quanto sostiene anche Cristoph
Türcke in un libro non ancora tradotto
in Italia1 (Erregte Gesellschaft: Philosophie der Sensation, München, Beck,
2002) che cerca di verificare l’impatto
della quantità “sensazionalistica” delle notizie fornite dai media sull’ormai
imperante atrofia della sensibilità di chi
è soggetto ad essa. Quella ricerca di
“sensazione” a tutti i costi nasconde,
invece, secondo il filosofo tedesco, un
riemergere delle paure più profonde e
nascoste dell’uomo moderno. La volontà
di segnare in profondità l’attenzione di
chi è la “vittima predestinata” dei messaggi imposti dai media scatena, invece, i timori profondi dell’uomo contemporaneo e comporta un arretramento
culturale che l’Illuminismo (cui la pra-
tica del “sensazionalismo”, secondo lo
stesso Türcke, risale) non riesce più a
ricacciare indietro. Nonostante l’emergenza di un nuovo modello di “uomo
flessibile” (per dirla con Richard Sennett), l’apparente fluidità e “liquidità”
dei soggetti rivela dei nuclei di permanenza che vengono dal passato più remoto e che inducono a pensare che tra
civiltà e barbarie non c’è che lo spessore di una dimensione comunitaria
sempre più fragile e più labile. Riflettere su queste potenzialità del futuro è
il compito che ci proponiamo nel ciclo
di interventi (Tomaso Cavallo, Vittorio
Catani, Rosi Braidotti, Giovanni Spena) che seguirà nei prossimi numeri. ●
NOTA
1. Della traduzione italiana di questo importante saggio di Türcke si sta occupando Tomaso Cavallo che proprio su questo libro interverrà su école, in uno dei prossimi numeri.
I codici della scuola.
Saper leggere
RAFFAELE MANTEGAZZA
Nel numero di ottobre 2005 di école abbiamo iniziato
a rideclinare al presente i codici della scuola –
leggere, scrivere, far di conto –. Continuiamo ancora
a riflettere su cosa vuol dire oggi saper leggere.
Significa soprattutto imparare a tradurre i linguaggi
“altri” nel linguaggio verbale, scritto e orale
▼
PAGINA
24
La logica del libro può servire
da filo conduttore per le esperienze che
si fanno a scuola e per l’esperienza scolastica nel suo complesso: pensiamo ad
esempio alla proposta di una pedagogia narrativa che ponga il tema della
narrazione al centro del suo lavoro e
del suo operato1.
Si tratta di insegnare ed imparare a raccontare e raccontarsi, anche contaminando le tradizionali forme di narrazione lineare con le possibilità simultanee offerte per esempio dagli ipertesti, cercando però sempre di conferire
un senso compiuto agli eventi della
propria biografia: lo strumento del diario può servire soprattutto ai giovanissimi per cogliere questa coerenza o
comunque per maneggiare la dimensione temporale cercando di individuare
linee identificabili di senso negli eventi
che caratterizzano la quotidianità. Il
diario di bordo di una esperienza formativa, lavorativa, di vacanza, oltre a
costituire una sfida alla logica puntuale del consumo esaustivo delle esperienze quotidiane, può essere utilizzata come un interessante strumento pedagogico. Un diario non è un romanzo
di formazione, ma comunque può diventare la base per narrare la propria
storia, e per autocomprendersi non
come una funzione o un meccanismo
di un uniforme decorso temporale, ma
come un soggetto che al contempo
agisce il tempo e ne è agito, e che deve
trovare il punto di equilibrio tra questi
due poli.
E proprio attorno a questa esperienza
specifica di narrazione di sé, di invenzione di un romanzo di sé e della pro-
pria vita (purché contenuta dentro gli
spazi e i tempi del dispositivo scolastico e non tracimante negli spazi scivolosi dell’autobiografia personale), è
possibile rideclinare al presente le tre
“R” del mandato istituzionale della
scuola, che presiedono ai vari codici che
nella scuola stessa si giocano e si alternano:
Narrazione
Tutti abbiamo provato l’entusiasmo vertiginoso dell’avere ancora libri da sfogliare, e la voglia di leggere un libro in
più per conoscere di più, per cercare il
significato del nostro esistere: chi ama
la lettura non può entrare in una biblioteca senza essere sopraffatto dal
fascino che promana dai libri, dalle loro
copertine, dal loro profumo; il tesoro
che ogni biblioteca nasconde fa dimenticare a chi vi entra lo scorrere del tempo, la materialità del reale. Ma sapere
leggere significa soprattutto imparare
a tradurre i linguaggi “altri” nel linguaggio verbale, scritto e orale; ascoltare
musica, osservare un quadro, comunicare attraverso linguaggi non verbali
sono esperienze che hanno senso a
scuola se poi si passa a una verbalizzazione dell’esperienza stessa. Uomini e
donne imparano a leggere da bambini
e bambine perché devono poi sapere
leggere il mondo che li circonda: imparano così ad ascoltare anche i suoni e i
rumori della natura; anzi, è proprio
nell’ascolto, inizialmente muto e rispettoso, dei suoni naturali che l’uomo e la
donna possono davvero farsi interpreti
della natura, articolando nel loro il suo
muto linguaggio: «È una verità metafisica che ogni natura prenderebbe a lamentarsi se le fosse data la parola (...)
essa piangerebbe sulla lingua stessa.
L’incapacità di parlare è il grande dolore della natura (e per redimerla è la vita
e la lingua dell’uomo nella natura)»2.
Ma essere capaci di cogliere il suono
della natura e articolarlo in lamento significa anzitutto affinare ed allenare il
proprio udito all’ascolto del lamento;
che esso si esprima con il grido lacerante o con l’impercettibile sussurro,
si tratta sempre di articolare in parole
comprensibili il rantolo del moribondo
o del sofferente. Si tratta insomma di
un saper leggere per saper scrivere, una
capacità di restituzione di quanto letto che fa del semplice lettore un “lettore attento”. Il prototipo di lettore che
abbiamo in mente come risultato finale dell’alfabetizzazione scolastica è
l’ascoltatore esperto tratteggiato da
Adorno a proposito dell’ascolto musicale: «colui che ascolta [legge] in modo
adeguato (…) l’ascoltatore [il lettore]
pienamente cosciente cui di norma non
sfugge nulla e che in pari tempo sa rendersi conto in ogni istante di ciò che ha
ascoltato [letto] (…) assomma nell’ascolto [nella lettura] il susseguirsi dei
vari momenti (passati, presenti, futuri)
in modo che gli si configura un senso
compiuto»3. Non è un caso che Adorno
sottolinei come «il luogo di tale logica
[sia] la tecnica»4, permettendoci di ricordare come sia compito dello scolaro
imparare una tecnica di lettura che comporta una ritmica, una prossemica, addirittura una respirazione adeguate. ●
NOTE
1. Cfr. Raffaele Mantegazza, Un tempo per narrare. Esperienze di narrazione a scuola e fuori,
Bologna, Emi, 1999
2. Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e
sulla lingua dell’uomo in Angelus Novus, Milano, Einaudi, 1962, p. 5.
3. Theodor W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971, p. 7.
4. Ibidem.
F
U
O
R
I
l regolamento per la gestione di un
condominio è generalmente un elenco di
proibizioni, ma può essere trasformato in
un patto di convivenza in cui ciascuno si
riconosce e del quale si sente responsabile, e nel quale trovino espressione anche desideri e aspettative che non possono essere garantite da “norme”; il patto come punto di arrivo di un percorso di
ascolto reciproco tra gli abitanti guidato
da operatori esterni. L’esperienza pilota
– che ha favorito il crearsi di un clima
fiducioso e sereno, solidarietà e complicità che potranno facilitare la gestione
di possibili conflitti futuri – è stata realizzata a Stadera, un quartiere popolare
milanese soggetto a forte degrado, sia
edilizio che sociale, dove è previsto venga realizzato un Programma di Recupero
Urbano. Due dei quattro edifici ristrutturati sono stati ceduti in comodato d’uso
dall’ALER (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale Milano) alle Cooperative d’abitazione DAR-Casa e La Famiglia, che assegnano alloggi a canone moderato a famiglie immigrate e italiane.
Un’équipe della cooperativa sociale ABCittà – nell’ambito del progetto “Abitare
c/o” finanziato dal Comune di Milano –
dal 2003 al 2005 ha accompagnato le famiglie che hanno occupato due delle quattro palazzine, nel momento dell’assegnazione, del trasloco, organizzando la presentazione del quartiere, la segnalazione
delle vie, dei servizi, dei luoghi di ritrovo, la festa di quartiere per la reciproca
conoscenza tra vecchi e nuovi abitanti,
le prime assemblee di condominio, fino
alla definizione di un patto di convivenza tra tutti gli inquilini, italiani e stranieri.
Convivere
Costruire la convivenza in un contesto
urbano può essere una modalità utile ad
affrontare positivamente questioni sociali
come il disagio abitativo e altre problematiche legate all’immigrazione? I risultati di questa esperienza sono sicuramente interessanti, e vale la pena leggere il
quaderno scientificoı che descrive nei
dettagli anche le metodologie e i contenuti emersi dal lavoro .
È proprio l’approccio metodologico utilizzato dal progetto – illustrato e motivato da Marianella Sclavi nella sua introduzione “Un’ottica interculturale per i
programmi di risanamento urbano” – a
suggerire un punto di vista nuovo: «…con
degli stranieri è più facile ammettere che
non li conosciamo, che per capirli dobbiamo dare loro voce […] chiedere quali
sono i requisiti di convivenza urbana che
ritengono desiderabili […] Nei riguardi
dei “nostri” scatta invece un principio di
auto-referenzialità per cui pensiamo di
I
S
C
Casa è…
«Solidarietà, stare tranquillo,
avere cura, stare insieme,
stare bene, dove c’è rispetto,
il mio regno». Sette
significati importanti e
condivisi dai quali si sono
fatte discendere le regole di
comportamento condominiale
alle Quattro Corti di Stadera
U
O
L
A
di relazioni. Un momento di transizione
come il trasloco in una nuova casa consente a ciascuno – ripercorrendo la propria storia – di affrontare il cambiamento come occasione e spazio di autoaffermazione, e non come minaccia.
Si è scoperto che la casa abitata da tanti
stranieri fa paura agli stranieri più che
agli italiani: paura degli odori, del disordine, della sporcizia, della mancanza di
rispetto. “…quello magari è un po’ da
preoccupare, lo so che tutti stranieri, ma
io ho fiducia che (la cooperativa) ha scelto
stranieri bravi come me […] straniero o
italiani, basta che gente tranquilli…».
(inquilino egiziano). È curioso il ricorrere frequente tra gli immigrati di Stadera
di un’espressione tipica italiana come «io
ho molto da fare, non sono mai in casa,
mi basta che non ci sia fastidio”».
La coesione sociale
sapere già cosa pensano e di cosa hanno
bisogno […] ci sembra sufficiente far
valere il regolamento di condominio. È
accogliendo il “loro” desiderio di rituali
di benvenuto, specialmente i loro modi
così intensi e generosi di porgere cibi,
canti e musiche, che ci rendiamo conto
di quanto banale, privo di spessore e di
interesse reciproco sia diventato il nostro abituale modo di procedere in occasioni simili. Ci rendiamo conto che una
quantità di piccole e grandi cose sarebbero importanti anche “fra di noi”, necessarie per qualsiasi programma di risanamento urbano che abbia fra i suoi obiettivi il miglioramento della qualità della
vita e che voglia essere duraturo…».
Come dice «[…] Michail Bachtin: “è solo
agli occhi di un’altra cultura che la nostra propria cultura si rivela più completamente e più profondamente”. […] Quando in un programma di inserimento abitativo che interessa 180 famiglie (136
italiane e 44 straniere) ad alto rischio di
esclusione sociale si applicano erga omnes quei criteri di ascolto attivo che a
prima vista ci sembrerebbero adatti solo
all’accoglienza e inserimento delle famiglie straniere, la ricetta che ne emerge
può sembrare paradossale: invece di cercare di trattare lo straniero “come uno di
noi” è molto meglio accoglierci anche fra
noi come si accoglie uno straniero che
sia il benvenuto. […]».
Anche il “colloquio biografico” quindi viene sperimentato erga omnes come strumento di gestione creativa dei conflitti
relazionali, sempre presenti là dove convivono diversità culturali, senza dimenticare che se il disagio abitativo per gli
stranieri è parte implicita del processo
migratorio per gli italiani è quasi sempre
sintomo di esclusione sociale e assenza
Dalle interviste e dalle storie di vita emerge un’idea di casa come luogo centrale
della persona, delle relazioni private e
dell’ospitalità, e le abitazioni delle Quattro Corti dove si garantisce la continuità
del contratto abitativo sono vissute come
una situazione di approdo definitivo o
comunque situazione stabile da cui ripartire; questo si rivela un sentire comune
degli stranieri e degli italiani, e favorisce l’atteggiamento di rispetto e di cura
verso uno spazio comune prezioso e simbolicamente significativo.
Il Progetto ha coinvolto nelle diverse tappe tre diversi livelli operativi: un Tavolo
territoriale con associazioni, scuole, parrocchia, servizi, un Tavolo di Progetto con
i referenti istituzionali – il Comune di
Milano, ALER, le cooperative abitative,
ABCittà –, e i soggetti dell’esperienza abitativa: i nuovi inquilini e gli abitanti del
quartiere. In assenza di questa interazione forse la stessa esperienza non sarebbe
stata possibile, o comunque avrebbe perso incisività. La sperimentazione di una
dimensione pubblica attribuita a forme di
agire normalmente relegate nel privato,
come la costruzione di una convivenza
abitativa, e gli esiti positivi di un’ottica
interculturale applicata a un programma
di riqualificazione urbana, dovrebbero essere assunti dalle istituzioni pubbliche
come modello da studiare e applicare in
molte situazioni territoriali analoghe, dove
ad esempio con i Contratti di Quartiere
stanno nascendo programmi di accompagnamento sociale. ●
NOTA
1. Progettare l’accoglienza. Incontro tra storie
di vita nel Quartiere Stadera, marzo 2005, testo a cura di ABCittà, via Pinamonte da Vimercate 9, 20121 Milano, tel. 02.29061816, www.
abcittà.org.
PAGINA
25
Paul Goodman. Un maestro
dell’utopia concreta, nel più
puro spirito libertario
FILIPPO TRASATTI
MAESTRE E MAESTRI
P
PAGINA
26
aul Goodman (1911-1972) è stato uno dei protagonisti principali della
controcultura americana degli anni Sessanta. Scrittore di pamphlet, apprezzato
oratore, sociologo, educatore, psicoterapeuta, attivista politico, anarchico di famiglia ebraica, per un breve periodo sull’onda lunga del movimento degli anni
Sessanta, è noto in Italia come autore
della Gioventù assurda (Growing up Absurd) del 1960, uno dei suoi libri più importanti, tradotto in italiano da Einaudi.
Inizialmente Goodman intraprese senza
successo la carriera letteraria; iniziò la
sua attività politica negli anni Quaranta,
durante la guerra, scrivendo articoli a favore della renitenza alla leva, il che in
un’epoca di acceso patriottismo, lo portò all’isolamento anche da parte della
cultura radicale di sinistra. In realtà nonostante il successo e la fama di cui per
anni godette, invitato a innumerevoli
conferenze pubbliche e a dibattiti televisivi, Goodman conservò sempre una certa marginalità, “negro” tra i neri, la sensazione di «non essere mai nel posto giusto», come disse lui stesso, anche a causa della sua bisessualità. La rivendicazione
pubblica e politica dell’omosessualità, che
gli fece perdere il lavoro in ben tre università americane progressiste, fece di lui
uno degli ispiratori del movimento gay
americano a cui rivolgeva l’invito a non
chiudersi nel ghetto: «alleatevi con tutti
gli altri gruppi libertari e gli altri movimenti di liberazione, perché la libertà è
indivisibile».
Maestro di libertà
In campo educativo ha anticipato proposte che sarebbero state riprese e sviluppate tra gli altri da Ivan Illich e John
Holt. Goodman si occupò in diversi libri
esplicitamente di educazione, tra tutti
Compulsory Mis-Education, (La dis-educazione obbligatoria, 1962) e il già citato
La gioventù assurda, ma quasi in ogni suo
saggio si trovano annotazioni e proposte
sull’educazione dei giovani.
Fedele alla logica anarchica del decentramento Paul Goodman
propone di liberare progressivamente l’educazione dagli edifici
scolastici e trasformare la città, il territorio in un luogo di
apprendimento in cui, sotto la guida di educatori, piccoli
gruppi di bambini e ragazzi si muovono imparando in modo
meno artificioso in contesti reali
La scuola progressista di Dewey cercava,
secondo Goodman, di rispondere a un
problema fondamentale: come conservare e sviluppare la libertà e la creatività
degli individui in contesti sociali massificati, lo stesso problema amplificato di
fronte al quale ci si trova negli anni Sessanta, quando Goodman scrive. La diagnosi della società affluente degli Usa,
dei meccanismi patogeni che generavano la “gioventù assurda”, portava Goodman a una profonda sfiducia nell’elefantiaco sistema scolastico americano, paragonato al complesso militar-industriale: centralizzato, burocratizzato, enormemente dispendioso (rappresentava
allora la voce principale della spesa pubblica Usa), e soprattutto dedito a un programma (neppure tanto) occulto di conservazione dell’esistente. Un tale sistema non poteva funzionare e sarebbe andato progressivamente in crisi per ragioni
politiche ed economiche. Fedele alla logica anarchica del decentramento, Goodman propone di sostituire ai grandi e
inefficienti complessi scolastici, mini
scuole urbane e di campagna, parchi didattici che consentano un rapporto più
diretto con l’ambiente e un’esperienza
più ricca e stimolante. Liberare progressivamente l’educazione dagli edifici scolastici e trasformare la città, il territorio
in un luogo di apprendimento in cui,
sotto la guida di educatori, piccoli gruppi
di bambini e ragazzi si muovono imparando in modo meno artificioso in contesti reali.
Anche per l’università, Goodman ripropose un’idea di decentramento un po’
particolare. Come era accaduto all’università di Oxford, originata da una secessione di studenti inglesi dall’università di Parigi, o quella di Cambridge fondata da borsisti che se ne andarono da
Oxford, si doveva seguire l’idea di uno
studium generale, attraverso una graduale
secessione di piccoli gruppi di docenti
che, simili a liberi maestri medievali,
dessero vita a libere società di studio e
di insegnamento, facendo del tutto a
meno di un’amministrazione e dei meccanismi burocratici, ma allo stesso tem-
po rinunciando al crisma dell’ufficialità,
per migliorare la competenza e la qualità dello studio e dei rapporti tra maestro e allievo.
Dopo la pubblicazione di un libro di critica sociale e di pianificazione urbana,
Communitas (1947), scritto con il fratello Percival, fu tra i fondatori dell’istituto di terapia gestaltica di New York e
scrisse insieme a Perls e Hefferline un
manuale fondamentale che presentava
questa nuova forma di psicoterapia, La
teoria della Gestalt.
Lo stile di pensiero di Goodman, più adatto alla forma dell’articolo militante che
a quella del trattato teorico, è vivace e
mobile, capace di suggerire vie innovative riflessione e proposte pratiche, con
riferimenti precisi ai fatti, al contesto
storico-sociale e non di rado con spunti
autobiografici.
Judith Malina, fondatrice insieme a Julian Beck del Living Theatre lo descrive
così: «Paul aveva un’eloquenza straordinaria ed era un grande pensatore, molto
interessato agli aspetti pragmatici dell’anarchismo, ai modi concreti di operare
all’interno della struttura esistente per crearne una nuova». In effetti c’è nel metodo
di Goodman da una parte l’esplicito riferimento al pragmatismo americano di James
e di Dewey, che gli consente di combattere apertamente ogni dogmatismo e cristallizzazione dottrinale, di non respingere il
senso comune, ma nello stesso tempo di
rendere aperte alla sperimentazione le proposte, anche all’apparenza più lontane dalle
abitudini consolidate. ●
LIBRI
In italiano i testi di Goodman sono ormai da
anni fuori catalogo, in attesa di qualche coraggioso editore che cominci a ripubblicarli. È
stata pubblicata un’antologia degli scritti politici di Goodman in italiano, curata da P. Adamo: intitolata Individuo e comunità, Elèuthera, Milano 1995, un saggio recente di Vittorio
Giacopini, La comunità che non c’è. Paul Goodman, idee per i movimenti, Nonluoghi Libere
edizioni, Collana I Libertari. Sul web esistono
moltissimi testi di Goodman, (si veda ad esempio http://www.preservenet.com/theory/
Goodman.html), ma alcuni sono sottoposti a
copyright e disponibili solo a pagamento.
@&©∑ß®¨å⁄©™ø√ƒΩʼn∆¿
_`eV Z_ T`_U`eeR
Don Lorenzo e le panchine
ANDREA BAGNI
Verso la fine dell’anno scorso mi è capitata la possibilità
di una lezione un po’ strana con una mia quinta: per un
caso dell’orario, mi ritrovo un’intera mattina a
disposizione – io ho tre ore consecutive e una collega mi
chiede se voglio anche le sue, tipo scambio. Alcuni della
classe portano il Sessantotto come argomento della
tesina all’esame (un classico) e allora dico, prendiamoci
tutta la mattina per leggere Lettera a una professoressa
– che poi non so quanto c’entra con il Sessantotto...
P
er un tempo scuola così strano mi
sembra giusto inaugurare il giardino davanti all’istituto. Spostiamo due panchine, le mettiamo di fronte, qualche ragazza – è il maggio odoroso – comincia a
spogliarsi e arrivano anche i pensionati
abituali della zona.
Si legge.
La prima parte mi sembra sempre potentissima. Una denuncia serrata in una lingua strepitosa, netta e tagliente come un
rasoio. Un’inchiesta di sociologia politica per una scuola ospedale alla rovescia,
che respinge i malati e cura quelli che
non hanno bisogno. I figli dei dottori.
Ma qualcuno comincia a chiedere, perché
non saltiamo le note, con tutte quelle
cifre, dobbiamo leggerle tutte? Il tono
però non è del tipo abituale, riduzione
della pena, saltiamo il saltabile. La sensazione è che quella roba si sappia. È una
specie di dato. Va così il mondo.
E uno dei ragazzi – quello più stile Barbiana, ripetente eccetera – dice: «a me
sembrano tutti invidiosi questi qui». «Invidiosi di che?». «Di quelli più ricchi che
sanno parlare e passano a scuola, mentre
loro invece bocciano».
Non avevo mai pensato alla banale invidia.
Com’è che chi subisce qualcosa che sente
un’ingiustizia (e la denuncia, certo, con
il tono aspro di Barbiana) appare invidioso? Forse è il segno di come si possa
accettare quell’esclusione se la si vive
come una sorta di normale destino. Ma
neanche destino. Condizione fra le altre.
O comunque se non interessa essere inclusi, diventare cittadini sovrani, acquisire la parola. Per dire che, che c’è da
dire di tanto urgente. È come se lo sdegno etico e l’etica dell’impegno della “lettera” suonassero per i miei ragazzi (tanto più ricchi, tanto più poveri) come la
richiesta di un prerequisito assente; come
se la risposta di lucida rabbia di Barbiana,
qui non trovasse nessuna domanda. Forse
è qualcosa che ha a che vedere con Pasolini, mi viene da pensare. Con quell’orrore
della media istruzione (e della media ricchezza) che fa perdere la grazia dell’ignoranza – e la rabbia della povertà.
Comunque la sorpresa per me arriva con
la seconda parte della Lettera.
Perché trovo cose che non ricordavo gran
che e mica mi piacciono tanto. Una scuola missione integrale che non dovrebbe
mai lasciare libera la mente e il cuore. 18
ore, lavoro ridicolo. Guai ai ritmi naturali, umani – c’è troppo da recuperare per
sprecare tempo. Niente da insegnare che
non abbia un uso concreto e immediato
– c’è tanto di utile da imparare, il sapere
disinteressato è un lusso per signorini.
Quali “opinioni personali” degli studenti
– in classe si viene per imparare da chi sa
e si deve pendere dalle labbra del maestro. Il fine è la liberazione dalla sudditanza e dall’egoismo, ma il mezzo non è
la libertà – che sarebbe presunzione. Il
mezzo è l’insegnamento del maestro e il
Vangelo. Conta il sapere che si riceve e si
usa per il bene del prossimo, guidati da
un orizzonte morale. Conta il fine.
Io leggo senza interrompermi, ma qualche problema lo sento che mi sale. Penso
anche al mio Sessantotto e mi chiedo
quanto c’entra con Barbiana: si parlava
di piacere, di antiautoritarismo, di immaginazione...
Invece qui sulle panchine i ragazzi e le
ragazze sono felicissimi, mi sembra. Quest’idea di una missione assoluta verso di
loro dei docenti tutti, di una guida forte
da non discutere, di un sapere senza foscoli e matematiche strane che non si sa
a che servono... Vado in crisi io e loro
festeggiano.
E tuttavia forse ragazze e ragazzi prendono di Barbiana e di don Milani il verso
giusto, a loro modo. Quello della passione. Del desiderio di liberazione – per quanto di massa e mai singolare. Invece paradossalmente a me sembra adesso la singolarità, l’aspetto esemplare ma non di
esempio ripetibile, il fascino di Barbiana. Una passione che lì diventa autorità
vera, condivisa.
Ripenso alle tante discussioni avute in
questi anni con i colleghi di sinistra che
fanno strage agli scrutini, in nome dell’essere esigenti e non offrire ricreazioni,
alla don Milani. Sono i miei amici e la
mia spina nel fianco. Perché a me sembra
che vada bene praticare il rigore quando
c’è l’immaginazione; l’impegno quando c’è
il desiderio o l’ordine nel casino. Ma quando non ci sono né immaginazione né desideri?, quando l’ordine è così zelantemente eseguito su se stessi da autoescludersi, e tu non hai niente da promettere
né da minacciare perché non ci sono né
attese né paure?...
In questa “infelicità senza desideri” che
spesso abita l’istituzione ufficiale, queste panchine al sole, una discussione intima di scuola in mezzo ai pensionati in
vacanza dai piccioni, mi sembra che per
oggi non sia male. ●
PAGINA
27
STUDIARE PER PACE
PAGINA
28
Errore di
sistema
NANNI SALIO
“Non festa, ma
lutto” è lo slogan
che da molti anni i
movimenti
antimilitaristi,
anarchici e
nonviolenti contrappongono
alle parate, alzabandiera e
discorsi retorici con cui le
istituzioni commemorano il 4
novembre “la madre di tutte
le guerre”. Ciò che è grave è
che non abbiamo imparato
nulla dagli errori, né allora,
né dopo
S
econdo l’opinione di molti politici
e intellettuali del tempo, la prima guerra
mondiale doveva essere «la guerra che
metteva fine a tutte le guerre », ma è
avvenuto esattamente l’opposto: è stata
“la madre di tutte le guerre”.
Questa è la tesi, ormai largamente accreditata da molti studi specifici1 sulle nefaste conseguenze della prima guerra
mondiale, costata oltre dieci milioni di
morti, difficile da trovare nei normali manuali scolastici di storia, spesso intrisi di
retorica.
Ma ciò che è grave è che non abbiamo
imparato nulla dagli errori, né allora, né
dopo. Passiamoli in rassegna, prima di
chiederci il perché di tanta cecità
Primo errore: demonizzare il nemico. Se
il nemico è un demonio, non ci sono possibilità di negoziato, dev’essere distrutto
totalmente. E la coazione a ripetere ha
portato a individuare altri demoni: Hitler
in primo luogo, ma poi l’«impero del
male», Milosevic, Saddam Hussein, sino
al più recente «asse del male» per giusti-
ficare le ultime guerre (Afghanistan,
Iraq).
Secondo errore: reprimere e schiacciare
il dissenso. Durante la prima guerra mondiale, gli obiettori di coscienza furono
trattati come i peggiori criminali, chiusi
in celle d’isolamento, ingiuriati, torturati.
Terzo errore: una politica fondata sulla
menzogna e le bugie. Purtroppo, è diventato addirittura un luogo comune dire
che «la verità è la prima vittima della
guerra». Oggi questo è più che mai vero,
ma valeva tanto per la prima guerra mondiale, quanto per la seconda (l’ambiguo
attacco a Pearl Harbour), per la guerra
del Vietnam e in maniera, se possibile,
ancora più clamorosa per l’Iraq, come
conferma il CIAgate, tuttora in corso.
Quarto errore: asservire i media. Oggi il
termine corrente, coniato appositamente per la guerra in Iraq, è quello di giornalisti embedded (letteralmente “a letto
con”, prostituiti). Ma questo vale anche
per il clero, che giustifica la guerra in
nome della religione, e per “il tradimento dei chierici” che dimenticano la loro
vera funzione di ricerca critica e libera.
Quinto errore: una pace punitiva. È avvenuto con la pace di Versailles, che ha
aperto la strada all’avvento di Hitler e si
è ripetuto in molti altri casi, da Dayton a
Oslo, alla pace imposta all’Iraq dopo la
prima guerra del Golfo.
Questi errori hanno prodotto una lunga
serie di conseguenze negative: collasso
dell’economia mondiale; nascita del nazifascismo e dei sistemi totalitari; avvio
del progetto inglese di colonizzazione del
Medio Oriente e di insediamento dello
stato israeliano in Palestina; corsa agli
armamenti: armi chimiche, guerra aerea,
uccisioni di massa, genocidi, bombardamento dei civili e infine militarizzazione
della politica.
Molti di questi errori li ritroviamo nel-
l’appassionata denuncia che Robert McNamara ha avuto il coraggio e l’onestà
intellettuale di fare nello splendido documentario di Errol Morris, The Fog of War
(si veda il testo trascritto in italiano nel
sito www.strategiaglobale.com/the_fog_
of_war.html). McNamara, già segretario
alla difesa durante le presidenze Kennedy e Johnson, analizza gli errori commessi
durante la guerra del Vietnam e la crisi
dei missili a Cuba e individua undici lezioni che avremmo dovuto apprendere
dalla guerra, ma che purtroppo non siamo ancora disposti ad apprendere.
La conclusione definitiva di queste amare riflessioni è che ci troviamo di fronte a
quello che, con linguaggio informatico,
dobbiamo chiamare “errore di sistema”.
Ma a differenza dei computer non possiamo semplicemente spegnere e riavviare. Non è così semplice. Abbiamo una
pesante eredità negativa con la quale
dobbiamo fare i conti e i movimenti per
la pace e per la nonviolenza hanno l’impegnativo compito di aiutare l’umanità a
risalire una china pericolosa prima che
sia troppo tardi. Ma per far ciò è necessario riconoscere gli errori e cambiare i
paradigmi dominanti nel campo della
politica, dell’economia, della difesa e delle
religioni. La nonviolenza ha il pregio, rispetto ad altre filosofie e culture, di permetterci di riconoscere e correggere per
tempo questi errori, prima che sia troppo
tardi e di ritornare sui nostri passi, se
necessario. È una grande lezione di saggezza e di umiltà in un mondo pervaso
dall’ansia di conquistare e consumare che
si traduce facilmente in distruzione. ●
NOTA
1. Si veda per esempio: Charley Reese, The War
to End All Wars That Starter Them All, http://
www.antiwar.com/reese/?articleid=7560, 8
ottobre 2005.
B
Se vuoi
la pace educa
alla pace
Nel 1997, a cento anni
dall’istituzione del Premio Nobel
per la Pace, Mairead Corrigan e
Adolfo Perez Esquivel, membri
autorevoli dell’IFOR.
(International Fellowship of
Reconciliation) coinvolsero tutti
gli altri Premi Nobel per la Pace
viventi in un Appello a tutti i
capi di stato e di governo
affinché il decennio dal 2001 al
2010 fosse dedicato allo
sviluppo di una cultura di pace
in grado di contrastare
efficacemente la violenza, nelle
sue diverse forme, fisica,
psicologica, socio-economica o
politica.
L’assemblea generale dell’ONU
con la Delibera n. 53/25 del 10
novembre 1998, ha proclamato
ufficialmente il “Decennio
internazionale per la promozione
di una cultura di pace e
nonviolenza a favore dei
bambini e delle bambine del
mondo” e con la delibera n. 53/
243 del 13 settembre 1999 ha
votato una “Dichiarazione e
programma di azione per una
cultura di pace”.
A metà del decennio, si è svolto
a Sanremo, dal 18 al 20
novembre, Se vuoi la pace educa
alla pace, convegno
internazionale sul decennio Onu
per l’educazione alla
Nonviolenza. L’iniziativa
promossa dall’Assessorato alla
Cultura e dall’Assessorato alle
Politiche Giovanili dal Comune
di Sanremo - è stata organizzata
dal Centro Studi Sereno Regis di
Torino, con la collaborazione di
Gruppo Assefa di Sanremo,
Comitato italiano per il
Decennio, Associazione per la
Pace, Banca Popolare Etica,
Beati i costruttori di pace,
Gruppo autonomo di
volontariato civile in Italia,
MIR-Movimento Internazionale
della Riconciliazione, MNMovimento Nonviolento.
Il convegno è stato
un’occasione di confronto,
approfondimento e scambio tra
quanti (singoli, centri,
associazioni, movimenti e
R
E
istituzioni) praticano
l’Educazione alla Pace e alla
Nonviolenza nelle scuole e in
altri contesti formativi,
convinti, come sostiene il
Manifesto di Siviglia diffuso
dall’UNESCO, che «la violenza
non è una condizione
ineluttabile e irreversibile, ma
piuttosto un processo che può
essere contrastato, bloccato,
trasformato».
Per informazioni: Centro Studi
Sereno Regis, via Garibaldi 13,
10122 Torino, tel. 011.532824,
e-mail [email protected].
Biblioteche
scolastiche
Il 24 ottobre è stata celebrata
nel mondo la Giornata
internazionale delle Biblioteche
scolastiche (istituita nel 1999
dall’International Association of
School Librarianship).
Ma il CONBS - Coordinamento
Nazionale Bibliotecari Scolastici
ha dichiarato «il 24 ottobre
giornata di compianto per le
biblioteche scolastiche italiane,
mai veramente nate e destinate
presto a scomparire. […] A
pochi esempi eccellenti si
affianca una miriade di
situazioni ben lontane dalle
direttive internazionali ? senza
computer, senza collegamento a
internet, con dotazioni
documentarie obsolete,
addirittura senza spazi propri.
[…] gli unici addetti che ne
assicurano il funzionamento per
36 ore settimanali sono i
docenti inidonei
all’insegnamento per motivi di
salute [circa 5.000], destinati
dalla Finanziaria 2003 alla
mobilità in altre
Amministrazioni o al
licenziamento [entro il
31.12.2007]».
Il CONBS ritiene imprescindibile,
il mantenimento in organico dei
docenti inidonei
all’insegnamento (anche
attraverso la costituzione della
figura giuridica di Bibliotecario
documentarista) e una seria
politica di investimenti per
dotare tutte le scuole di
V
biblioteche-centri di
documentazione efficienti ed
efficaci per la formazione delle
future generazioni.
Coordinamento Nazionale
Bibliotecari Scolastici, http://
conbs.altervista.org/,
[email protected].
Agire
nel sociale
Nell’ambito del percorso di
formazione permanente Agire nel
sociale, svolto in collaborazione
con il Centro Servizi “La Sfera” e
con il patrocinio della Città di
Torino, i Cemea del Piemonte
organizzano a Torino, il 2
febbraio 2006, “Lo sguardo
obliquo. Osservazione e
valutazione”.
Cemea del Piemonte, via Sacchi
26, 10128 Torino, tel.
011.541225, fax 011.541339,
[email protected],
www.piemonte.cemea.it.
Le sorgenti
del narrare
Dal 10 - 13 febbraio 2006 si
tiene alla Casa-laboratorio di
Cenci “Le sorgenti del narrare”.
Per informazioni: Casalaboratorio di Cenci, strada di
Luchiano 13, 05022 Amelia
(Terni), tel. 0744.9803300 744.980204, e-mail:
[email protected], sito
www.prospettive.it/cenci.
Memorie
di classe
Sono stati pubblicati gli atti del
convegno “Memorie di classe.
Lavorare a scuola con le fonti
orali per leggere il mondo
contemporaneo”, organizzato
dal CESP-Centro Studi sulla
Scuola Pubblica e dai COBASScuola, con la collaborazione del
Centro di Documentazione di
I
Pistoia, del Circolo Gianni Bosio
di Roma, dell’Istituto Ernesto de
Martino di Sesto Fiorentino e
della Società di Mutuo Soccorso
Ernesto de Martino di Mestre
(Roma, marzo 2003).
Copie del libro possono essere
richieste alla sede dei COBASScuola di Roma (viale Manzoni
55, tel. 06.70452452,
fax 06.77206060, e-mail
[email protected].
Tempo pieno
e prolungato
Sul sito del Cesp - Centro Studi
per la Scuola Pubblica di
Bologna (www.cespbo.it) si
possono trovare materiali
informativi sul convegno
nazionale Tempo Pieno: una
scuola per il futuro (Firenze 3
dicembre www.cespbo.it/
coordtempopieno.htm), sui
corsi di formazione del Cesp e
sulle campagne del
Coordinamento nazionale in
difesa del tempo pieno e
prolungato.
Coordinamento nazionale in
difesa del tempo pieno e
prolungato, c/o Cesp Bo, via
San Carlo, 42 Bologna, tel./ fax
051.241336,
[email protected].
Scrittura
creativa
Scrivere è un’esperienza
perfettibile all’infinito, ma
soprattutto è una forma di
comunicazione che riguarda da
vicino sia la personalità che la
vita professionale degli adulti.
Un percorso formativo a cavallo
tra biografia ed esigenze
educative. I CEMEA del
Piemonte organizzano a Torino
il 27– 28 gennaio 2006
un’iniziativa semiresidenziale di
formazione
CEMEA del Piemonte, via Sacchi
26, 10128 Torino, tel.
011.541225, fax 011.541339,
[email protected],
www.piemonte.cemea.it.
PAGINA
29
le culture
Educazione “difficile”
tra Africa ed Europa
CRISTINA MEIRELLES
Dalla formazione di insegnanti in Mozambico al lavoro con il
Tribunale dei Minori a Lisbona. Un’intervista alla psicopedagogista Ana Teresa Calado
▼
PAGINA
30
Ho conosciuto Ana Teresa alla
Facoltà dell’Educazione all’Università di
Maputo, in Mozambico dove tutt’e due
insegnavamo. Da subito nacque una
grande amicizia che ci lega tuttora. Eravamo, insegnanti e alunni, coscienti dei
limiti che una formazione accelerata
comportava, ma era enorme l’entusiasmo, l’impegno e la serietà di tutti.
I futuri docenti, molto giovani, avrebbero dovuto dopo poco tempo insegnare
in classi numerose, a volte localizzate
in regioni del paese che non conoscevano. Inoltre tutto l’insegnamento si
svolgeva in portoghese, lingua madre
soltanto per pochi di loro1. Perciò si
decise che nel curriculum di tutti i corsi di formazione – sia dell’area di lettere che di scienze – erano obbligatorie
le materie Psicopedagogia e Portoghese. Ana Teresa faceva parte del gruppo
che insegnava la prima, io del gruppo
della seconda.
Il lavoro attuale
Ho rivisto Ana Teresa Calado l’agosto
scorso, a Lisbona, dove vive e lavora.
Abbiamo ricordato quel periodo e fatto
un confronto con la sua attività attuale.
Mi ha raccontato che quando partì per
Maputo si era appena laureata (in Filosofia) e che, dopo il lavoro in Mozambico, al suo rientro in Portogallo, aveva
deciso di laurearsi anche in Psicologia.
Da allora si occupa dell’attività di diagnosi sociale e psicologica dei problemi
dei giovani legati alla delinquenza e del
loro reinserimento nella società.
Parlami un po’ di quello che fai.
Lavoro da qualche anno nell’Istituto di
Reinserimento Sociale, organismo che
dà appoggio tecnico ai tribunali. Sono
legata al Tribunale dei Minori di Lisbona e riconosco quanto preziosa e determinante per il mio lavoro è stata
l’esperienza nella Facoltà dell’Educazione. Ti ricordi che i nostri studenti venivano dalle diverse regioni e che erano
stati quasi “forzati” a seguire la formazione per diventare insegnanti? Ciò ha
richiesto un sacrificio personale, nel
nome di uno sforzo collettivo, per combattere l’elevato tasso di analfabetismo
che c’era in Mozambico all’epoca. Alcuni
erano insoddisfatti, non erano convinti
di diventare insegnanti, avevano “abbandonato” le rispettive famiglie per la prima volta, si sentivano a disagio per tanti motivi. Fu creato un gruppo di sostegno ai ragazzi (cui ho collaborato), la
“Comissão de Assuntos Estudantis” che,
tra altre iniziative culturali e pedagogiche, attuò dei corsi di educazione sessuale (nel centro vivevano maschi e femmine, ed era anche necessario parlare di
gravidanze, di malattie a trasmissione
sessuale, ecc). È stato un lavoro molto
importante per la mia crescita come pedagoga e come persona. Venire a contatto con l’altro ci insegna a rapportarci
con la differenza, a liberarla, rispettando nel contempo la fondamentale uguaglianza tra gli esseri umani.
Oggi la mia attività si accentra sulle
situazioni di giovani con problemi di
marginalizzazione sociale che praticano
reati. Non ci limitiamo a constatare fatti, non vogliamo fare investigazione criminale ma elaborare una diagnosi sociale e psicologica, cercando allo stesso
tempo delle modalità di intervento per
il reinserimento nella società.
Che tipo di situazioni trovi?
Gran parte di coloro che hanno proble-
mi con la giustizia sono figli di immigrati africani venuti dai PALOP (Paesi
Africani di Lingua Ufficiale Portoghese). Molti di questi ragazzi sono cresciuti in ambienti di violenza morale e
fisica, il che li porta a essere aggressivi. Hanno storie di vita difficili, alcoolismo dei genitori, insuccesso e abbandono della scuola, povertà. Vivono situazioni di esclusione sociale, e qui si
pone la questione del “diritto alla cittadinanza”. Sono nati in Portogallo ma,
secondo la legge attuale, mantengono
la nazionalità originale dei genitori. Anche se non è l’unico fattore che impedisce una loro vera integrazione, merita
un’attenzione speciale: se si continua a
considerarli “stranieri” sarà difficile che
abbiano opportunità di inserimento sociale. (Per es. hanno difficoltà d’accesso
alla formazione professionale e ad attività ludiche e formative come il calcio
in squadre di quartiere).
Lavorate anche nell’area della tossicodipendenza?
La tossicodipendenza non è frequente
nei “nostri” giovani, perché ci sono altri gruppi di lavoro dell’Istituto che se
ne occupano a fondo. Nei ragazzi che
seguiamo il fenomeno della droga si
lega soprattutto al traffico: sono coinvolti nel commercio della droga dai più
grandi, ovviamente perché le conseguenze legali sono meno pesanti per i
minorenni.
Vengono mantenuti i rapporti con le
famiglie?
Questo è un punto importante: a meno
che non siano famiglie maltrattanti, si
cerca di mantenere e rafforzare il più
possibile il legame con i parenti. La
maggior parte dei ragazzi ha una fami-
Il lavoro
pedagogico
e didattico
in Mozambico
glia, ma questa non li segue. Alcuni
hanno genitori assenti (emigrati per
ragioni di lavoro), o in carcere, o alcolizzati, o assenti da casa per lavoro che
per l’intera giornata. Ci sono giovani
abbandonati e altri che sono scappati
di casa. Una cosa importante: nei casi
in cui manca un padre o una madre,
cerchiamo di capire chi ha rappresentato per i ragazzi un punto di riferimento nella loro crescita. Riteniamo
fondamentale coinvolgerlo e valorizzarlo (può essere stato un fratello maggiore, un altro parente o anche qualcuno al di fuori della famiglia).
Che peso ha la scolarizzazione per
questi giovani?
È fondamentale incoraggiarli a studiare e a crearsi una professione. C’è un
programma di “recupero” nella comunità, che è seguito con l’aiuto della
comunità stessa (il ritorno a scuola,
l’uso di programmi alternativi a quelli
ufficiali, corsi di formazione professionale, ecc). Personalmente considero che
la scolarizzazione aiuti a “invertire i
percorsi” di esclusione sociale.
I ragazzi parlano apertamente dei
propri problemi?
Attraverso un rapporto di fiducia reciproca, si cerca di portarli a superare la
paura di parlare. All’inizio è difficile,
molti hanno una grande rabbia dentro,
si ribellano (a volte in modo violento).
È un lavoro paziente, graduale e attento. Bisogna riuscire a trasformare in
energia positiva la carica emotiva che
portano in sé.
Che età hanno?
Tra i 12 e i 16 anni. Ai ragazzi che pra-
In cosa consiste?
In questo programma, l’aggressore e la
vittima cercano insieme un modo di riparare il danno, e l’Istituto fa da mediatore tra i due. Penso che sia un’esperienza “umanizzante”, perché dà la
possibilità all’aggressore di riconoscere l’umanità della vittima e viceversa,
e di disfare stereotipi e luoghi comuni
sui “giovani delinquenti”.
A partire dal 1975, con l’indipendenza del
Mozambico, molti professori che
assicuravano l’insegnamento, fin dal
periodo coloniale, soprattutto nelle
scuole elementari e medie, lasciarono il
paese di ritorno in Portogallo. Inoltre, la
scolarità era diventata obbligatoria e
gratuita per tutti i bambini del paese che
nasceva, ma c’era il peso di un’eredità
difficile: il 90% della popolazione era
analfabeta. Siccome il ministero
dell’educazione disponeva di pochissimi
docenti, era urgente preparare insegnanti
che, in breve tempo, potessero assicurare
il funzionamento delle scuole. Fu creata
la Facoltà dell’Educazione all’Università di
Maputo, dove si aprirono numerosi corsi
di formazione nelle varie materie.
Simultaneamente, fu organizzata una
campagna di sensibilizzazione e
orientamento degli studenti, per
invogliarli a partecipare a questo enorme
progetto. Si sapeva che i giovani futuri
insegnanti avevano appena finito la
scuola e ora si chiedeva loro di insegnare
ai più piccoli, indubbiamente una scelta
coraggiosa ma non semplice.
Arrivarono alla Facoltà ragazzi e ragazze
della capitale e di molte altre città del
paese, indipendentemente dell’origine
sociale della famiglia, del suo gruppo
etnico o confessione religiosa. Erano
centinaia e centinaia di studenti che,
ospitati in un enorme centro, ricevevano
una formazione intensiva di due anni,
gratuita, con un calendario scolastico
pieno, ma dove c’era anche spazio per
sport, cinema, teatro e altre attività. In
un paese così grande (circa due volte e
mezzo la superficie dell’Italia), con una
diversità culturale enorme, la convivenza
quotidiana è stata preziosa per la loro
formazione.
Hai esperienze di programmi di educazione alternativa?
Alcuni anni fa, insieme a una collega
insegnante di filosofia alle superiori,
abbiamo realizzato un progetto di filosofia per ragazzi basato sul metodo del
prof. Matthew Lipman: la “comunità di
ricerca”. L’attività si sviluppò in due
classi, con un curriculum alternativo
quando gli studenti presentavano difficoltà d’integrazione scolastica. In
questa metodologia si riduce l’asimmetria tra lo statuto dell’insegnante e
quello dello studente, c’è libertà totale
di fare domande e di esprimere le proprie idee, il che aiuta a sviluppare
l’astrazione e il pensiero creativo, rafforzando l’autostima, la solidarietà e il
rispetto verso la diversità.
Quali sono i momenti più duri del tuo
lavoro?
Sai, per lavorare in quest’area devi crearti delle resistenze alle frustrazioni.
Il ciclo d’esclusione è molto difficile
da cambiare, ci sono fattori che ne determinano la persistenza. Perciò devi
lavorare giorno dopo giorno, con fiducia, pensando che vale sempre la pena
di “investire”. Noi siamo praticamente
l’ultima “fermata” prima del carcere per
alcuni di loro. Bisognerebbe che a monte s’incominciasse a intervenire di più,
in modo che un giorno la mia professione non abbia più ragione di esistere. Non sarebbe l’ideale? ●
ticano un atto illecito è applicata la
“Legge Tutelare Educativa”. Il Tribunale dei Minori stabilisce le “misure tutelari”, di carattere pedagogico: si cerca
di rieducare i giovani alla legalità, per
portarli a rispettare i beni giuridici (l’integrità fisica, la proprietà, l’uguaglianza
di diritti e doveri, la pace e la democrazia). Per questo motivo si chiamano “misure tutelari educative”. C’è anche un
programma speciale, chiamato “di mediazione e di riparazione alla vittima”.
PAGINA
31
NUOVIARRIVI
T come tempo
LIDIA GARGIULO
Sono cinque anni che ci penso e questa volta lascio davvero,
ho troppa voglia di fare altre cose. Ma l’ultimo anno sarà il più
ricco il più bello il più intenso della mia carriera (!) di
insegnante di italiano e latino nel triennio, perché questo
maledetto mestiere lo amo e mi piace. Le cose bisognerebbe
farle sempre così, come fosse l’ultima volta. E una mattina che
una manifestazione aveva sfoltito le aule, mi venne più facile
annunciare che me ne sarei andata. Trattiamoci bene negli
ultimi mesi, conclusi, così non sarà triste lasciarci,i saluti a
volte sono tristi anche perché vorremmo essere stati diversi
PAGINA
32
P
assammo insieme il pomeriggio
dell’ultimo giorno nella palestra rimbombante della loro musica, tra dolci, bibite
e chiacchiere, e intanto una scatola da
scarpe si riempiva del loro regalo. Regalatemi una foto a parole, avevo chiesto,
raccontate un momento della vostra vita
di scuola in cui ci sono anch’io. Non dovete pensare a un elogio, dev’essere un
ricordo, un fatto in cui ci siete voi e ci
sono io. Non lo leggerò subito, mi farà
compagnia quando sarò vecchia e penserò a voi.
Ma la sera a casa ero già vecchia, era davvero finita. Smontate le impalcature di
orari e scadenze, il tempo mi si era afflosciato come un sacco vuoto e, fuori del
sacco, nel mucchio informe di anni e giorni e secondi il prima e il poi sbiadivano
l’uno nell’altro. Chi mi impediva, allora,
di essere la me che sarei stata fra quindici-vent’anni, una nonna di altri tempi o
una vispa vecchietta in vena di memorie? Così la mano da sola aprì la scatola
dei “ricordi”, erano tanti, fogli che ancora stentavano a rimanere piegati, pensieri freschi, parole non stagionate. Aspetta, mi dissi, che fretta c’è. Uno solo, uno
solo, mi risposi, questo qui, a caso. Era
scritto su una bella carta da lettera crespa, bianco avorio, piegata in tre in una
busta lunga e stretta.
«Con Lei, prof., il rapporto è stato breve
ma intenso, proficuo per le sue grandi doti
di psicologa nel trattare con i suoi alunni. Grazie prof.ssa per quanto mi ha insegnato, mi sarà di aiuto nella vita, in particolare quel suo modo di leggere che è
insegnamento ma anche armonia. L’armonia e la felicità che le auguro per il futuro, quello che auguro a me stessa. Grazie. Marie Josephine Polito».
Intorno alle gambe tornite i pantaloni
celesti si flettono e si stendono sui gradini di marmo, il bruno crespo dei capelli
addomesticato dal gel, le spalle dritte
sotto lo zaino gonfio di libri e di altro.
Alla sua destra un signore di testa grigia
gesticola in completo grigio di buona fattura.
Mi tornò così Marie Josephine, di schiena, e quest’immagine si alternava alle sue
entrate ritardatarie, mentre passa senza
rumore fra due file di banchi scortata da
molti occhi e qualche sorriso. Ad anno
scolastico inoltrato il padre era venuto a
colloquio, preoccupato per “questa figlia”,
e io mi chiedevo quale “incidente” li avesse messi sullo stesso cammino, loro così
dissimili. Le aveva detto, in mia presenza, cose molto sagge, quelle cose che si
dicono nei luoghi seri dove si fanno cose
serie, e lei zitta, impermeabile; le parole
cadevano come frecce senza punta.
Martinica o Guadalupe? Mi chiedevo dietro di loro scendendo a lezioni finite,
quale delle due ex colonie francesi? Stanno andando in presidenza a contare le
assenze e i ritardi. La scuola ha avvertito
i genitori, l’anno scolastico è in pericolo.
Nel caso di Josephine, “genitori” vuol dire
“padre” perché la madre è rimasta in Guadalupe, o in Martinica, insomma lì.
L’armonia. Josephine ama la musica ma
non l’ha riconosciuta nelle lingue antiche «che sono altamente formative e pie-
ne di sapere», ha detto il padre. Ma l’armonia del greco è un segreto difficile, di
piedi fatti di sillabe, di sale di altri mari.
Avevo capito che era francofona quando
in un compito avevo letto «liberò un grido»; in italiano avremmo detto “lanciò”,
ma lei lo aveva pensato in francese: “livra”, cioè “liberò”. Le sue difficoltà erano quindi di lingua più che di intelligenza, ma le sue risposte erano sempre
troppo brevi per essere discorso. Mentre
infatti coi compagni il sorriso e poche
parole erano più che sufficienti per scambiare simpatia e amicizia, il rapporto
con gli adulti era ancora da costruire. E
non era questione di termini e coniugazioni, si trattava di prendere le distanze dalla lingua degli affetti per entrare
nella lingua dei concetti, parlare da dentro la lingua del padre, lei che era nata
nella lingua della madre. Per questo parlava poco, ma le parole non erano mai
chiacchiere.
Fu così anche in quel primo giorno di
scuola, quando dichiarai alla classe quello che mi aspettavo dagli studenti e invitai anche loro a dire che cosa chiedevano a un insegnante. Marie Josephine
aspettò il suo turno con la mano alzata
e disse: «Io chiedo ai professori di darci
tempo, a volte noi andiamo lenti ma vogliamo capire, però abbiamo bisogno di
tempo». Questa richiesta intelligente e
civile fu come un fascio di luce su un
angolo in ombra, per la prima volta pensai a quanto spesso liquidiamo il problema del tempo con le formule “molti compiti”, “pochi compiti”, “niente compiti”.
Quindici giorni dopo, gli scrutini. Bocciata, cioè respinta, come una boccia che
un’altra boccia manda in buca: ecco una
parola cui non serve filologia per dire
ciò che intende. Marie Josephine ragazza bruna dei Caraibi era venuta a studiare nel paese del padre in Europa dove la
Cultura è antica e grande. Musei e biblioteche ne sono pieni ma loro, gli europei,
corrono tra uffici e tribunali, banche, aeroporti e autostrade. Sono nervosi, poveri europei, e stanchi; ma non possono
fermarsi, devono stare nei tempi e non
hanno tempo per i tempi degli altri.
Chissà se domani faccio in tempo per una
parola fuori registro.
«Pronto». «Pronto». «Volevo parlare con
te di come è andata». «Me l’aspettavo».
«Pensi di ripetere?». «Non so. forse torno da mia madre». «Magari qui tornerai
da turista». «Fra una diecina d’anni».
«Quanti ne avrai fra dieci anni?». «Ventisette». «Sarai ancora molto giovane».
«Non proprio». «Vorrei che nei tuoi prossimi dieci anni entrassero cose buone.
te lo posso augurare?».
Dovunque andrai, Josephine, tu che sai
chiedere tempo, tu che hai capito che il
tempo può unire e dividere più dello spazio. ●
CqVcSR UV] gZTZ_`
MALTA
Così
vicini
così
lontani
PINO PATRONCINI
Immaginate una
lingua con
sostantivi e
aggettivi neolatini, come
quelli di un dialetto italiano,
tenuti insieme da
preposizioni e verbi arabi.
Non è un linguaggio new
global per l’area del
Mediterraneo. È una lingua
antica di un paese che fa
parte dell’Unione Europea,
anche se da non molto
tempo: la Repubblica di
Malta. È a due passi dalle
nostre coste meridionali ma
fatichiamo a considerarlo
confinante. Sarà per il mare
che ci separa, sarà per le
dimensioni ridotte
dell’arcipelago, sarà per il
lungo predominio inglese.
Eppure questa terra ha tante
differenze quante similitudini
con il nostro paese. E la
scuola?
L
a scuola maltese è sicuramente
molto diversa dalla nostra. Il sistema scolastico maltese è diviso in tre settori: statale, cattolico e indipendente. La scuola
statale copre il 70% dell’utenza, il resto
è coperto prevalentemente dalla scuola
cattolica. La tradizione cattolica è molto
forte se si pensa che lo Stato maltese fu
fondato da crociati in ritirata e che La
Valletta conta una densità di chiese da
far impallidire persino Roma. La scuola
indipendente è invece prevalentemente
di origine coloniale britannica ed è piuttosto aristocratica ed elitaria. Esiste anche una scuola islamica per la piccola
comunità mussulmana.
L’istruzione è obbligatoria dai 5 ai 16 anni
e 16 anni è l’età minima per accedere al
lavoro.
L’educazione prescolastica va dai 3 ai 5
anni, avviene nei kindergarten annessi
alle scuole elementari, è facoltativa, ma
frequentata dal 95% dei bimbi maltesi e
non si fonda su insegnamenti formali, ma
cerca di sviluppare le attitudini sociali e
le abilità linguistiche comunicative dei
bambini.
L’istruzione primaria va dai 5 ai 10 anni.
Ogni classe non supera i 30 alunni. Le
dimensioni delle scuole variano da meno
di 100 alunni a più di 800 (compresi bambini delle scuole dell’infanzia annesse).
Il curriculum consiste in lingua maltese,
matematica, scienze, studi sociali, religione, educazione fisica e arte. Da pochi
anni è stata introdotta l’educazione tecnologica. L’insegnamento, salvo poche
indicazioni, è affidato all’autonomia professionale dell’insegnante.
La scuola secondaria va dagli 11 ai 16
anni. Gli alunni sono divisi in classi maschili e femminili sia nelle scuole cattoliche che in quelle statali. La maggioranza delle scuole ha meno di 550 studenti.
Ma seleziona precocemente: a 11 anni lo
studente affronta un esame. Se lo supera
va a una scuola di eccellenza chiamata
Junior Lyceum, altrimenti va alle General
Secondary Schools. Qui il numero massi-
mo di alunni per classe è di 30 nei primi
due anni e di 25 negli ultimi tre. Ogni
classe è assegnata a un Form Theacher
che controlla i progressi degli studenti.
L’educazione post-secondaria va dai 16 ai
18 anni. Si svolge o nel Junior College
che dipende dall’Università (fondata nel
1562) o in un’altra scuola che esiste a
Naxxar. Il percorso può portare all’università o ad una professione. Da non molti
anni esiste il Malta College of Arts Science & Technology, nato raggruppando vari
istituti e che fornisce una buona istruzione professionale a tempo pieno.
I docenti hanno una carriera suddivisa in
junior,ordinari e senior, e alla quale si
accede previo tirocinio. Essi rispondono
ad un preciso codice deontologico approvato per legge nel 1988.
Il sindacato degli insegnanti è la Maltese
Union of Theachers – MUT, fondata nel
1919 all’indomani di una sommossa operaia. Allora contava appena 600 membri,
oggi ne conta 6.000, che, fatte le debite
proporzioni, equivarrebbe a circa un milione di associati da noi. Cioè praticamente la totalità dei docenti. La MUT fu il
primo sindacato ad essere riconosciuto e
registrato, ma la sua opera non fu facile,
dal momento che le condizioni degli insegnanti maltesi non erano all’epoca delle
migliori. Solo dopo la seconda guerra
mondiale si sviluppò un’azione costante
di contrattazione di aumenti salariali nel
’47, nel ’53, nel ’55, nel ’59, nel ’62. Nel
1988 con l’Education Act ottenne il riconoscimento dell’insegnamento come professione e dell’insegnante come professionista.
Fin dalle sue origini la MUT si diede anche compiti professionali sottolineando
l’inadeguatezza della preparazione alla
professione docente e invocando l’istituzione di una cattedra di Pedagogia all’Università. Ma solo nel dopoguerra vennero
istituiti due college per la preparazione
degli insegnanti, che poi negli anni Ottanta furono trasferiti alla facoltà di educazione dell’Università. ●
PAGINA
33
B
PAGINA
34
R
E
V
I
Il mondo
a scuola
Gerusalemme: diritto
all’istruzione
Portare il mondo a scuola è il
nome che si è dato il gruppo
scuola delle ONG lombarde che,
nato nel 1994, ha promosso
negli anni 95-98 con l’IRRSAE
Lombardia e i Provveditorati di
Milano e Como il progetto
“Portare il mondo a scuola”,
sfociato nel 1999 nella
pubblicazione omonima.
Il progetto, finalizzato alla
formazione di figure di
animazione e coordinamento sui
temi dell’educazione
interculturale e dell’educazione
allo sviluppo, e organizzato per
rispondere ai bisogni formativi
indotti dall’ingresso di alunni
migranti nelle scuole della
regione, ha coinvolto circa
duecento insegnanti dei diversi
livelli scolari.
Dopo un periodo di “latenza”
dovuto sia a difficoltà interne
alle ONG sia alla ristrutturazione
in atto nel sistema scolastico e
amministrativo (autonomia,
trasformazione dei
Provveditorati in CSA, ecc.), il
gruppo ha ripreso stabilmente le
sue attività a partire dal
Seminario, tenutosi in IRRE il 9
novembre 2004, “Una bella
impresa. La responsabilità
d’impresa come rispetto dei
diritti sociali e ambientali: quali
spazi nella didattica per le
scuole superiori?”, organizzato
nel quadro dell’iniziativa
“Cooperazione localeResponsabilità globale:
responsabilità sociale delle
imprese e cooperazione
decentrata”, promossa dalla
Regione Lombardia e dalle ONG
italiane
Del gruppo attualmente fanno
parte: Aspem, Celim, Cespi, Coe,
Cooperativa Chico Mendes, Cresmani-tese, Fratelli dell’uomo,
Icei, Save the children Italia,
ONG radicate nel territorio
regionale, in grado di offrire
interventi agli studenti e
formazione agli insegnanti sui
temi delle Educazioni, in
un’ottica di locale-globale,
ovvero di attenzione alle
specificità del Territorio e alla
complessità del quadro
internazionale.
La Fondazione Ir Amim, che da anni si occupa
di stabilire e migliorare le relazioni tra gli ebrei
e i palestinesi di Gerusalemme, ha reso noto un
rapporto in cui si afferma che 14.500 bambini
e bambine di Gerusalemme Est non sono
riconosciuti dalle autorità educative e in
questo momento è loro interdetto l’accesso
all’istruzione presso le scuole pubbliche per
mancanza di aule e spazi. Il rapporto precisa
che a Gerusalemme Est sono registrati 79.000
bambini e bambine in età scolastica, ma
soltanto 64.536 di questi sono registrati presso
la Municipalità di Gerusalemme e il Ministero
dell’Istruzione, perché frequentano le scuole,
pubbliche o private. Il rapporto rivela che
durante gli ultimi quattro anni la percentuale
di bambini e bambine che frequentevano le
scuole è calata drasticamente dal 65 al 55%. Il
rapporto conclude che questo calo è dovuto
alla mancanza di spazi e di aule, dal 1994 a
migliaia di bambini e di bambine è stato
interdetto l’accesso all’istruzione pubblica per
via della mancanza di aule e delle difficoltà nel
costruirne di nuove. Gli autori del rapporto
chiedono alla Municipalità di Gerusalemme e il
Ministero dell’Istruzione di costruire
immediatamente 1.000 nuove aule nelle scuole
pubbliche di Gerusalemme Est e di conferire
un’indennità ai genitori palestinesi dei bambini
tagliati fuori dall’istruzione pubblica, che si
sono visti obbligati a pagare una scuola privata
per permettere ai propri figli quello che viene
universalmente e indiscutibilmente
riconosciuto come un diritto fondamentale
dell’umanità.
Per informazioni: Fondazione Ir Amir, tel.
00972.54.6822876, www.ir-amim.org.il.
Per informazioni: Fratelli
dell’uomo, via Restelli 9, Milano,
tel. 02.69900210, fax
02.69900203, e-mail
[email protected],
www.fratellidelluomo.org.
de rerum
natura
Ambiente urbano. Come vogliamo vivere?
FRANCO SCANDURRA *
Le città contemporanee sono assoggettate a un duplice movimento: da una parte esse sono i
luoghi di concentrazione delle funzioni del nuovo capitalismo, i luoghi di attraversamento di
flussi finanziari che girano da un punto all’altro del pianeta, e, dall’altra, i luoghi dove si gioca
la sfida della competizione e della solidarietà tra simili di una stessa specie
▼
Il risultato di questo movimento
è la divisione in zone di guerra dove convivono, separati, mondi di vita inconciliabili: ricchi e poveri, integrati ed esclusi, cittadini e immigrati, cristiani, musulmani, indiani, giovani e anziani. La
città socialdemocratica – la comunità dei
simili, regolata dal welfare – che si era
affermata nel primo dopoguerra, la città
fordista, la città moderna, sembra appartenere ad un passato lontano quando ancora non si era affermata e non era
dilagata la disintegrazione della vita
comunitaria che oggi sopravvive qua e
là come una reliquia del passato, quando ancora la città poteva essere considerata il luogo privilegiato dell’abitare e
dell’incontro.
L’effetto di questo doppio movimento è
visibile ormai oggettivamente nella vita
quotidiana che si svolge nelle nostre città. Da una parte esse sono abitate da
cittadini del mondo legati ai processi di
globalizzazione e per i quali l’abitare in
una città non costituisce alcun significato di appartenenza. Essi, questi cittadini che Bauman chiama di prima fila,
sono oggettivamente indifferenti ai mondi quotidiani di vita della città, se non
per i benefici e i privilegi che ne derivano e di cui godono. Né, tanto meno,
questi cittadini sono interessati ad un
impegno per il miglioramento delle condizioni di vita in città. Dall’altra, ci sono
quei cittadini che non possono spostarsi, che rimangono ancorati ai luoghi, per
scelta o per costrizione, ma che sentono
che qualsiasi loro impegno politico o ci-
vile è sproporzionato rispetto ai guasti
prodotti dai poteri forti che si muovono
sulla scala internazionale e globale. La
minaccia di esclusione è quella che divide queste due nuove classi sociali. Da
una parte, per alcuni, la condizione è
quella di essere dei cittadini di ultima
fila, di essere i nuovo esclusi, coloro che,
per assenza di lavoro o perché non ce la
fanno, rimangono ai bordi della città
occupando spazi di risulta, aree abbandonate, periferie squallide.
Da città moderna a città
contemporanea
Anche i politici e gli amministratori vivono questa ansia di perenne instabilità
tra l’adesione alla dinamica non localizzata di flussi economici e finanziari (che
spesso li allettano con illusorie prospettive di sviluppo e progresso), e l’adesione a un modello statico del territorio e dei valori locali, bollata sovente
come regressione romantica o nostalgica o dolce utopia. La difficoltà è quella di tentare di far fronte ai guasti prodotti dall’invasione neo liberista e dall’invadenza dei poteri forti dell’economia, con mezzi, strumenti e soluzioni
locali, giacché questi solo sono i poteri di cui essi possono disporre. Sempre
più le opposizioni a localizzazioni di
grandi impianti distruttivi di risorse
ambientali: dalle discariche alle centrali nucleari, dalle dimore di materiali
radioattivi, alla protezione di coste, di
ambienti naturali incontaminati, sono
affidati, per così dire, alle proteste dei
locali che talvolta insorgono. Una sfida ardua poiché si fronteggiano poteri
fortemente squilibrati. Sempre più si
avverte però lo scarto esistente tra le
descrizioni che studiosi, amministratori, politici e urbanisti fanno della città
e questa invisibile quanto crescente
resistenza che viene offerta da una
moltitudine di individui sempre più insofferenti della direzione presa dal Progresso e dallo Sviluppo.
Si può sfuggire a questo destino binario? Credo che la domanda urgente sia
oggi quella di: come vogliamo vivere?.
Autonomia e dipendenza
È difficile cercare di parlare di cittadinanza attiva senza affrontare il dilemma moderno dell’individuo conteso tra
autonomia e dipendenza.La stagione liberista che si è aperta con il crollo dei
mondi comunisti ha squilibrato la tradizione occidentale tra libertà ed uguaglianza a favore della prima. Un tempo, non tantissimi anni addietro, i giovani hanno conosciuto un’epoca nella
quale il concetto di dipendenza (si trattasse di classe, partito, collettivo, ideologia, chiesa) era fondamentale e costitutivo per l’identità individuale. Quell’epoca, con la sua preminenza accordata al Collettivo, finì con il rimuovere
il valore di individuo come ben testimonia l’emarginazione del pensiero
PAGINA
35
PAGINA
36
arendtiano che tentò di mettere in guardia dai pericoli che si correvano soffocando l’individuo a favore dell’indistinto
comunitario. Pare però che anche l’epoca attuale di esaltazione dell’individuo,
finalmente (ci dicono) liberato dalla fitta rete dei vincoli sociali, spesso asfissianti (casa, famiglia, chiesa, paese natio, partito, ideologia), non goda di una
ottima prospettiva. Al valore della dipendenza si è sostituito quello seducente e progressivo dell’autonomia che è
spesso effimera in quanto mai raggiungibile veramente. I padri non avrebbero
più nulla da raccontare ai figli perché
ogni esperienza individuale verrebbe
sganciata dalla grande storia della specie. L’esaltazione dell’individuo e delle
sue effimere libertà basate sulla distruzione dei vincoli comunitari, produce
insicurezza, ansia e timore di non riuscire a sopravvivere socialmente in un
ambiente dominato dal mito del fai-date e dall’assenza di qualsiasi protezione
sociale che possa venirci in soccorso nei
momenti del bisogno. La fame di libertà, l’illusione di una libertà illimitata
senza più vincoli, ha accompagnato il
trionfo dell’economia sulla vita, dove
l’economia non è solo l’agricoltura, il
commercio, l’industria, ecc., ma una
mentalità diffusa, un modo di sentire il
mondo, un’interpretazione del mondo, un
imperativo categorico che ci spinge alla
crescita continua. La libertà illimitata
avrebbe garantito qualsiasi felicità e
appagamento individuale. A questo movimento ha corrisposto lo smantellamento dei vincoli sociali, del welfare, del sistema di protezione sociale. Alla tiran-
nia del “noi” è succeduta quella dell’”io”,
di un “io” insaziabile che tratta il mondo e gli altri come cose da buttar via.
Un mutamento che potrebbe essere definito antropologico dove la realizzazione dell’individuo non è più nel lavoro,
nell’incontro con l’Altro, nella cura (di sé
e degli altri), nel volontariato, nella convivialità, ma nel consumo sfrenato del
“tutto e subito”, rinnegando memoria,
tradizioni, appartenenza. La liberta,
questa “libertà”, è degenerata nella solitudine sociale, nella negazione della
società, nella distruzione dei Beni comuni: la società ha mangiato la mela
della libertà e l’uomo non riesce più a
trascendere il confine della sua sfera
individuale.
cittadinanza che il mondo diverso cerca
di realizzarlo con piccoli spostamenti e
piccole scelte ogni giorno, non cercando fughe, sapendo che siamo esseri-inrelazione e che la libertà, l’unica libertà
possibile, è dentro le relazioni. Queste
“isole di resistenza” sociale si stanno
moltiplicando ovunque come una sorta
di rigetto biologico ai processi di omogeneizzazione e sterilizzazione della convivenza civile e sociale. Ben si comprende come questo movimento invisibile
possa lasciar indifferente chi è abituato
alle grandi schematizzazioni sociali o chi
è vissuto nel clima di un cambiamento
che poteva venire solo da un conflitto
sociale violento.
Il mondo che è diverso
La crisi della democrazia
rappresentativa
La democrazia rappresentativa e la cittadinanza sono due grandi invenzioni
dell’Occidente. La cittadinanza inoltre
consente agli uomini di sottrarsi a due
opposte derive: quella del totalitarismo
che ne fa dei sudditi e quella del mercato che ne fa dei clienti. Ora io credo
che noi non possiamo rinunciare all’idea
della democrazia rappresentativa, non
possiamo eliminarla. Ma se questo è
vero, possiamo però affiancare a questa democrazia una maggiore partecipazione dei cittadini, affiancare ad essa
una democrazia diretta tentando di sperimentare un ibrido tra le due che garantisca un più ampio coinvolgimento
dei cittadini alle decisioni che li riguardano. Insomma non possiamo rinunciare alla politica, anche se questa è accompagnata da una cattiva fama, ma
possiamo mettere sale nella coda dei
partiti, non concedere più loro deleghe in bianco. Ma, come dice Cassano,
la cittadinanza attiva deve essere inquieta, deve costantemente mettersi in
discussione, deve, come Sisifo, sapere
che gli dei non sono dalla sua parte e
che la sua forza sta nella sfida orgogliosa che lancia ad essi.
C’è una sterminata umanità di individui diversi che talvolta neppure sanno
di condividere qualcosa insieme. È mia
opinione che oggi contro questa economia dello spreco, questa vulgata neoliberista e questa tendenza alla velocità e all’innovazione continua, cittadini non sempre organizzati né tantomeno militanti di partiti, oppongono una
resistenza spontanea attraverso le loro
pratiche quotidiane ai tentativi di smobilitazione sociale e al consumismo. Una
Walter Benjamin propose il tema in
questo modo: fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire che
dice: là tutto sarà proprio come è qui.
Come ora è la nostra stanza, così sarà
nel mondo a venire; dove ora dorme il
nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo
in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo
un po’ diverso. Questo pensiero non fa
parte della nostra cultura occidentale
secondo la quale il diverso implica un
rovesciamento delle cose: la rivoluzione, un cataclisma, un evento eccezionale come per esempio è stato detto
per il crollo delle Twin Towers: il mondo non sarà più lo stesso. Nella parabola del rabbino, invece, il diverso implica piccoli e piccolissimi spostamenti,
ma questi spostamenti non hanno mai
termine, essi sono infiniti poiché la
perfezione pur non implicando un mutamento reale, non corrisponde neppure
a uno stato di cose eterne , e cioè “così”.
Forse, a ben riflettere è più facile un
cambiamento di quelli cui siamo abituati: un rovesciamento brusco e immediato, un terremoto, una rivoluzione, un capovolgimento epocale: dov’era
il basso adesso è l’alto. I piccoli spostamenti, l’altrimenti nel mezzo di un
discorso o nel mezzo di un’azione, apparentemente facile e semplice, forse
in realtà è più difficile. ●
* Professore ordinario di Ingegneria del Territorio, Facoltà di Ingegneria di Roma, Università degli studi La Sapienza.
L’articolo sintetizza la relazione tenuta al Seminario Internazionale promosso dalla FICEMEA “Costruire una cittadinanza attiva per un
mondo sostenibile”, Amiens 22-25 agosto
2005. Il testo completo è reperibile sul sito
www.ecolenet.it.
L’educazione ambientale e il
futuro della terra: un diluvio
A CURA DI STEFANO VITALE
Dal 3 al 6 ottobre 2005 si è tenuto a Torino il terzo Congresso
Mondiale “L’educazione ambientale ed il futuro della terra”.
Davvero un tema urgente di fronte al quale «educazione,
formazione, comunicazione sono chiamate a riorientare valori,
saperi, atteggiamenti e comportamenti per costruire una
società più giusta e più attenta agi equilibri di un pianeta
bello e fragile», come si legge nella presentazione
▼
È stato un grande via vai di
gente (3.000 congressisti, provenienti da 115 paesi del mondo dichiarano
gli organizzatori – International Secretariat World Environmental Education
Congress - Istituto per l’Ambiente e
l’Educazione Scholé Futuro Onlus), un
diluvio di seminari, interventi (tra i
quali quello di Michail Gorbaciev e di
Giovanni Bollea, mostre, spettacoli. Riportare le principali tesi emerse dal congresso è praticamente impossibile: ci
vorrà molto tempo per rimettere le cose
a posto e tentare di tenere “tutto attaccato” (si può tentare visitando il
sito, www.3weec.org, dove sono disponibili anche i materiali dei congressi
precedenti). A caldo abbiamo raccolto
le impressioni di un educatore ambientale, Beppe De Alteriis, e di Carlo Bonzanino, funzionario della Regione Piemonte.
Visto dal campo di lavoro
Beppe De Alteriis lavora da quasi
vent’anni nel settore dell’educazione
ambientale, ha lavorato al Parco
d’Abruzzo, al Parco del Gran Paradiso,
del Po e della Mandria. «Per prima cosa
c’è un grosso problema logistico ed organizzativo: tutto è dispersivo, difficile orientarsi. Le hostess dell’accoglienza
erano in difficoltà con il francese e l’inglese: per molti ospiti stranieri un problema. Ma anche restare in coda quasi
un’ora per un pranzo al self-service non
è gradevole».
Sono cose che possono capitare quan-
do ci sono tanti partecipanti… «Certo,
ma il fatto è che i contenuti sono davvero vaghi e sicuramente troppi. Pensa
che nel mio gruppo di lavoro dalle 9.30
alle 13.33 erano in programma oltre
venti comunicazioni. Difficile fare un
dibattito, difficile seguire lo snodarsi
dei lavori. Mi è parsa una vetrina con
una grossa mole di input e poche soddisfazioni per la propria curiosità».
Mi vene in mente Bateson: troppe informazioni possono essere tossiche, c’è
una “sostenibilità” della conoscenza
che non va sottovalutata. «Forse non
era questo l’obiettivo. L’importante è
esserci. Il resto conta poco. I relatori
italiani si sono spesso limitati a descrivere quello che fanno senza alcuna
tematizzazione».
«Io che lavoro sul campo ho molto apprezzato gli stand delle Regioni, ottimi per prendere contatti, conoscere
iniziative, fare scambi informali, anche
se resta l’impressione di essere ad una
mercato dove ciascuno mostrava la sua
“merce”». «Mi sono piaciute alcune
delle testimonianze straniere: in particolare l’esperienza cubana che raccontava di come l’educazione ambientale
sia un affare istituzionale e non un fatto
privato».
L’Istituzione racconta…
Telefono a Carlo Bonzanino, Responsabile del settore Politiche di Prevenzione, Tutela e Risanamento Ambientale
dell’assessorato all’Ambiente della Regione Piemonte, uno dei massimi spon-
sor di questo Congresso Mondiale sulle
sorti del pianeta.
Bonzanino mi racconta del grande sforzo organizzativo profuso per reperire
relatori, sviluppare contatti, organizzare l’accoglienza, strutturare i lavori,
seguire i mille problemi che un congresso di queste dimensioni comporta.
Gli chiedo: quali sono, per lei, i principali risultati? Da uomo concreto e
onesto risponde: «Riuscire a far convergere in un momento comune diverse persone, diverse esperienze ed organizzazioni sparse nel mondo Riuscire a mettere assieme partecipanti, appartenenti a diversi livelli di interesse
e nazionalità, provocare e gestire l’Incontro. Questo il principale risultato».
«D’altra parte il tempo per il dibattito
era troppo limitato proprio per via della
grande dimensione dell’Evento». Sono
un po’ disorientato. Che occorra limitare il campo per cogliere qualcosa di
serio?
Bonzanino mi racconta che il Forum
delle Regioni è la cosa, a suo avviso,
più riuscita: il congresso ha «favorito
lo scambio di esperienze: si è trattato
di un incontro fisico sulla tematica specifica molto utile. Ma il fatto è che tutto il congresso ha avuto un impatto
mediatico poco visibile. Si è visto poco
specie a livello piemontese per non
parlare a livello nazionale. Il congresso ha avuto poco spazio e richiamo: i
media non hanno colto quest’opportunità».
Infine chiedo: «ma è emerso un livello
politico?». «La ricaduta non è ad oggi
verificabile. È presto per dire qualcosa, vedremo solo più in là se la presenza degli amministratori al Forum
delle regioni si tradurrà in un sostegno». Cosa vuol dire? Di soldi ne hanno già spesi tanti: vuoi vedere che i
congressi servono a produrre nuovi
congressi? Per di più di sensibilizzazione. Ed a rifinanziare questo o quel
settore pubblico? Già, per Bonzazino
il congresso ha avuto una funzione di
sensibilizzazione (anche se i media non
l’hanno capito). Cosa significa “sostegno”, chiedo: «Potenziare le strutture, potenziare le iniziative, potenziare
le offerte sul territorio, potenziare i
finanziamenti per l’educazione ambientale. Basterebbe l’uno per mille di altri fondi impegnati in altri segmenti
del settore ambiente per poter sviluppare iniziative di Educazione alla Sostenibilità». «Il problema – aggiunge
Bonzanino –, è l’educazione, la strategia di progettazione di nuove forme di
intervento educativo che questo evento di richiamo ha sottolineato». ●
PAGINA
37
ambiente
Mal di scuola
ANGELO CHIATTELLA
I
PAGINA
38
l riferimento questa volta assunto è
il Rapporto Ecosistema scuola 2005, edito annualmente da Legambiente e basato sulle risposte fornite ad un questionario sulla qualità delle strutture scolastiche da 89 comuni capoluoghi di provincia (su 103 interpellati) e da 33 province, rispettivamente per le scuole dell’obbligo e per le scuole superiori presenti
sul loro territorio. Latitanti nei confronti
di questa inchiesta sono risultate diverse grandi città che hanno dato o risposte
parziali (Roma, Milano, Genova) o nessuna risposta del tutto (Palermo, Napoli, Trieste). Rispetto all’anno scorso il
Rapporto rileva una situazione pressoché stagnante, dove a pochissimi sostanziali progressi si contrappongono diversi peggioramenti. Mentre, ad esempio, è
aumentato, dal 7% all’8,93%, il numero
delle azioni di bonifica in edifici scolastici in cui sono presenti componenti con
amianto ed è cresciuto il numero delle
scuole dotate di aree verdi, sono nel
complesso leggermente diminuiti gli interventi di manutenzione sia urgente che
straordinaria. E ciò a fronte di una situazione in cui oltre al permanere, sotto
il profilo della sicurezza, di antiche e
numerose carenze strutturali interne derivanti dal fatto che la metà delle strutture scolastiche ha più di quaranta anni,
che l’11% sono edifici nati con altre destinazioni d’uso e che l’8,3% sono edifici presi in affitto, si registra nel corso di
quest’anno una sensibile crescita dei rischi derivanti dall’ambiente esterno. La
ricerca di Legambiente denuncia infatti
l’aumento, dall’8,85% al 9,74%, dei casi
di scuole troppo vicine ad aree industriali; il quasi raddoppio, dal 6,91%
al13,39%, dei casi di scuole troppo vicine ad antenne e ripetitori per telecomunicazioni; ed infine la crescita anche qui
notevole, dal 2,37% al 4,29%, dei casi
di scuole prossime a fonti di elevato inquinamento acustico. E questi non sono
gli unici fattori di rischio esterni che
incombono sulle scuole. In quest’anno
di grandi catastrofi naturali quasi inevi-
La fine dell’anno è tradizionalmente tempo di bilanci, e quello
che, quasi doverosamente, tocca a questa rubrica riguarda,
ancora una volta, la verifica dello stato di salute degli edifici
scolastici pubblici, al cui interno affluiscono quotidianamente
circa dieci milioni di cittadini, i più giovani dei quali hanno
modo di apprendere in quale tipo di Stato e società stanno
crescendo – anche sulla base delle condizioni fisiche delle
aule, delle mense, delle palestre, dei servizi e dei corridoi in
cui trascorrono una parte significativa della loro giornata
tabile diviene il richiamo e l’evidenziazione di un ulteriore dato, segnalato anch’esso dal Rapporto, che rende particolarmente attenti ed ipersensibili: il
33,71% dei 14.328 edifici scolastici presenti sul territorio nazionale sono situati in zone a significativo rischio sismico
e solo il 57,54% possiede la certificazione completa di agibilità statica. Quindi quasi seimila edifici scolastici non
ancora a norma; ed anche se in molti
casi si tratta di inadempienze di carattere burocratico, questo numero appare
alquanto inquietante se si pensa non solo
agli eventi catastrofici di quest’anno, ma
alla tragedia meno recente ma a noi assai vicina della scuola elementare di San
Giuliano di Puglia.
Il “Decreto mille proroghe”
Per rimediare a questo stato di cose e
rendere più sicure le strutture scolastiche situate nelle zone a rischio sismico,
alla fine dello scorso anno il CIPE aveva
approvato un piano di spesa di 194 milioni di euro che avrebbe dovuto consentire il finanziamento e l’apertura dei
cantieri per 738 interventi strutturali indicati come prioritari dalle Regioni competenti. A malapena il 5% della spesa
complessiva, stimata intorno ai 4 miliardi
di euro, ritenuta necessaria per mettere
in sicurezza tutte le scuole sottoposte a
tale rischio. Ma comunque un piccolo
passo avanti anche se, ancora una volta,
alquanto in ritardo sia rispetto l’oggettiva urgenza di tali opere, sia rispetto
all’ennesima proroga (forse la quarta),
concessa dal governo con scadenza al 31
dicembre 2005, per l’adeguamento degli
edifici scolastici a tutte le norme di sicurezza, rischio sismico compreso. Quanti
di questi 738 interventi programmati siano stati conclusi, o almeno avviati, nel
corso di quest’anno è difficile saperlo.
Ciò che invece con sicurezza si sa è che
nella Legge 1 marzo 2005, N. 26, emanata come legge di conversione del cosiddetto “Decreto mille proroghe” del 30
dicembre 2004, N. 314, il termine ultimo
per gli adeguamenti degli edifici scolastici è stato nuovamente spostato e fissato al 30 giugno 2006. Fissato, naturalmente, si fa per dire. ●
media
Il mondo
raccontato
a fumetti
FRANCESCA CAPELLI
Un’intervista a Art
Spiegelman, l’autore di Maus,
in Italia per presentare
il suo ultimo lavoro
L’ombra delle Torri
PAGINA
39
▼
In Italia è diventato famoso
grazie al romanzo (quasi) autobiografico a fumetti Maus (Einaudi), dove racconta la storia del padre, un ebreo polacco sopravvissuto alla Shoah. Ora Art
Spiegelman è tornato, con una nuova
opera a fumetti, dedicata all’11 settembre, dal titolo L’ombra delle Torri (Einaudi). A settembre scorso era in Italia, ospite del Festival della Letteratura di Mantova (www.festivaletteratura.it), dove lo
abbiamo incontrato.
Come è nata l’idea del libro sull’attentato alle Torri Gemelle?
È una promessa che mi sono fatto l’11
settembre 2001: tornare ai fumetti. Era
l’unica cosa che si potesse fare dopo
aver visto ciò in cui il pianeta era precipitato. Nessuno legge fiction negli
Stati Uniti e la situazione è peggiorata
dopo l’11 settembre. Per questo mi è
sembrato normale fare un fumetto. Volevo credere ancora in un futuro, vole-
vo evitare che ci si imbarcasse nella
follia di una guerra dopo l’altra. Volevo
tenere alto il morale della sinistra e di
chi difendeva le cause liberal. Ma non
ci sono riuscito.
La sua decisione di dimettersi dal settimanale New Yorker sono legate anche a questo?
All’indomani dell’11 settembre uscimmo con una copertina completamente
nera. Un gesto minimalista, l’unica cosa
da fare in quella circostanza. Poi tutto
è tornato alla normalità e per me stava
diventando sempre più difficile continuare a lavorare lì, perché non sopportavo il disperato tentativo di tutti di
continuare a credere in un sistema che
invece ha fallito.
Che cosa pensa del progetto di ricostruzione delle Torri Gemelle?
Erano brutte e non mi aspetto di meglio dalla ricostruzione. È impossibile
realizzare un’opera “bella” quando si
devono accontentare e compiacere,
contemporaneamente, i familiari delle
vittime, l’amministrazione di New York,
i politici e i proprietari delle varie attività commerciali. La mia proposta era
di costruire, al posto di 2 torri da 110
piani, 110 torri da un piano ciascuna,
come simbolo di uno stile di vita più
sostenibile e piacevole.
Non pensa che anche la tragedia di
New Orleans travolta dall’uragano
Katrina meriti una graphic story?
No, merita un nuovo governo alla testa
degli Stati Uniti. Almeno, questo episodio è servito a far svegliare parte dei
media, che hanno raccontato le storie
di un’intera classe dimenticata. Katrina ha scoperchiato un verminaio: gli
Usa sono un paese con una feroce divisione in classi, che si è aggravata con
Bush ma che non è nata con lui. Forse
sarà l’occasione per un cambiamento.
Art Spiegelman
Come è iniziata la sua passione per i
fumetti?
Sono cresciuto in una famiglia poco
“esposta” alla grande letteratura. Così
sono stato accolto dal mondo dei fumetti. Ho iniziato a copiare quelli degli altri, poi a fare i miei. Tutto quello
che so l’ho imparato dai fumetti. Mettono insieme scrittura e immagini, rompendo il tabù secondo il quale pittura
e letteratura sono due campi separati.
I fumetti mimano il funzionamento del
nostro cervello, che lavora con “icone”
di immagini e parole. Certo, fare fumetti significa accettare il compromesso di utilizzare un linguaggio che non
possiede tutte le sfumature della letteratura.
PAGINA
40
Nato a Stoccolma, nel 1948, è
codirettore della rivista di fumetti
e grafica Raw, di cui è stato anche
un fondatore. Insegna alla School
of Visual Arts di New York.
La sua fama in Italia (dove i suoi
lavori sono stati pubblicati sulla
rivista Linus) è legata al romanzo
Maus, ambientato prima nel
ghetto di Varsavia, poi in un
campo di sterminio. Spiegelman
usa la metafora degli animali (i
nazisti sono gatti, gli ebrei topi, i
polacchi collaborazionisti maiali).
In questo modo la narrazione
viene spogliata di elementi di
identificazione e resta esclusivamente nella sua dimensione
tragica. Maus ha vinto il premio
Pulitzer nel 1992.
Come è nato Maus?
Le persone vogliono sentirsi raccontare storie. E mi sono chiesto quale storia avrei potuto raccontare io, se non
quella della mia famiglia, che si intreccia con quella della Shoah? A 20 anni
di distanza, sto lavorando a un libro
che si chiama Metamaus, nel quale racconto i retroscena di Maus, con interviste, documenti, foto di famiglia. Insomma, tutto il materiale rimasto fuori.
Perché i protagonisti (gli ebrei) sono
topi? C’è un riferimento al topo americano più famoso del mondo?
Più che Mickey Mouse, c’entra Mickey
Rodent, una parodia del primo, pubblicata dalla rivista Mad che faceva il verso a “Life”. Per esempio pubblicava foto
di donne orrende sotto la rubrica “La
miss del mese”. Un modo per dire ai
lettori: «State attenti al mondo e a chi
ve lo racconta». Tornando a Maus, avevo provato a raccontare la storia con
personaggi umani, ma non ci riuscivo.
Ho adottato una “maschera” per mettere una distanza con la storia, sia per
me, sia per il lettore.
Che cosa pensa della guerra in Iraq?
È stato un grande, tragico errore. E senza rimedio. Come si potrebbe rimediare? Il giuramento di Ippocrate recita:
«Primo, non nuocere». Perché quando
il danno è fatto, non si torna più indietro. Ecco, vale anche per questa
guerra.
E della questione palestinese?
Vale lo stesso principio. La mia impressione è che anche lì sia stato commesso un terribile errore. Anziché affermare che il nazionalismo era stato un disastro, hanno pensato bene di insiste-
re, dando una terra agli ebrei. Al limite
sarebbe stata una buona idea dargli la
Germania, anziché ripescare miti dell’antichità. Ormai, però, non si torna
indietro. Si può solo lavorare con lentezza per tentare di rimediare agli errori fatti, perché tutti si decidano a
vivere insieme. Ma temo che questo
non succederà nei prossimi 10 anni.
Prima o poi andrò in Palestina per un
reportage, solo che continuo a rimandare. Sono stato lì soltanto una settimana, quando ero bambino, e sono
molto felice che i miei genitori abbiano deciso di proseguire la diaspora
emigrando negli Usa. ●
cinema
Cinema e fiaba.
Tim Burton, affetto
o dolcetto?
GABRIELE BARRERA
Girovagando attorno a
La fabbrica di cioccolato
N
omen omen, il nomedel-film è un presagio. La fabbrica 1 dell’eccentrico Willy
Wonka – il personaggio inventato dal novelliere Roald Dahl,
anno di pubblicazione 1964,
13 milioni di copie vendute,
già interpretato per il grande
schermo nel 1971 da Gene
Wilder, assolutamente contrario all’idea di Tim Burton di
realizzare un remake del film,
assolutamente d’accordo con
Tim Burton dopo aver assaporato il film stesso: «Ho cambiato totalmente parere, non
si può?», ha candidamente
dichiarato – non è soltanto
una fabbrica “del” cioccolato
– fabbrica delle inimitabili
tavolette Wonka, diffuse in
tutto il mondo e adatte alle
lingue d’ogni lingua e nazionalità, proprio com’è il cinema – ma è letteralmente una
fabbrica “di” cioccolato, fatta cioè d’una materia commestibile, meglio, irresistibile.
«Guardatevi attorno», delizia
e si delizia Willy Wonka/ Johnny Depp nel presentare il suo
regno a 5 fortunati bambini
eccezionalmente ammessi a
visitare la cioccomeraviglia del
creato, «qui tutto è commestibile, me compreso». Alberi
al caramello, erba zuccherina,
cascate di cacao.
Ma soprattutto: «Me compreso». Com’è d’abitudine, in Tim
Burton (1958, Burbank, California: là dove sorgevano gli
studi Warner, Disney e Columbia, guarda un po’…), il corpo del protagonista, il consueto alter-ego Johnny Depp, si
fa etimologicamente “martire”
(dal greco: “testimone”) della propria realtà emotiva. Un
corpo-luogo-fabbrica in cui il
vissuto interiore è letteralmente somatizzato e ricostruito, attraverso un processo di
fantasioso rovesciamento dei
torti subiti, di diniego degli
stessi e solitaria autoriparazione. E non è una novità, a
ben pensare.
In “Edward mani di forbice”
(1990) il corpo di Edward/
Depp, privato d’un genitore
disposto a prendersi cura di lui
nella crescita – a “finire di
costruirlo”, “costruirgli le
mani” –, dunque di un valido
oggetto interiorizzato su cui
fare affidamento, per così dire
si ribalta e si ri-abilita attraverso la negazione e l’uso di
mani-utensili che hanno appunto la caratteristica (rovesciata) di esser d’aiuto-altrui,
colmando l’angoscia di non
aver nessuno, fuoridentro di
sé, che sia di self-help. (E su
“Edward”, si riveda soprattutto M. Monteleone, Luna-dark.
Il cinema di Tim Burton, Le
Mani, Recco 1996).
In “Ed Wood” (1994), la frammentata identità non solo sessuale del protagonista trova
un “luogo di tenuta” e di
“compresenza in accordo” sul
corpo stesso, e voilà un Johnny Depp con pantaloni con la
piega abbinati a golfino d’angora e intimi femminili, come
se il territorio-corporeo fosse
un’autentica fabbrica-dei-sogni, alla pari dell’industria cinematografica idealizzata da
Wood… la stessa cineindustria
che lo bollò e rifiutò come «il
più scombinato regista del
mondo». (E sulle risonanze
autobiografiche, cfr. K. Hanke,
“Tim Burton. An Unauthorized
Biography of the Filmmaker”,
St. Martin’s Press 1999).
In “Sleepy Hollow” (1999) l’investigatore Ichabod Crane –
nuovamente Depp, va da sé –
ribalta in una coraggiosa maschera-da-detective, inclusi
occhiali con bizzarro monocolo d’ingrandimento, l’angoscia
di non riuscire o non tollerare
di ricordare il senso di un’orrenda visione e scoperta infantile. «Molte delle cose che
vediamo da bambini rimangono con noi, e spendiamo più
tempo di quanto si creda nel
tentativo di ricatturare l’esperienza», parola di Burton (P.
Woods, a cura di, Tim Burton:
A Child’s Garden of Nightmares, Plexus, London 2002).
Il corpo
Ergo, «me compreso». Il sé
corporeo di Willy Wonka vorrebbe comprendere, per l’appunto, come la sua creazione
e proiezione più grande (meglio, grandiosa), ossia la Fabbrica, una qualità nutriente e
affettiva, ottimamente metaforizzata dal cioccolato, che
vediamo mancargli del tutto
da parte di un padre rappresentato o fantasmato come
dolorosamente anaffettivo,
scostante, sprezzante, terrorizzante. Cosa vi è di meglio –
per negare e riscattare un parente-cadavere, ossimoro vivente, proprio come la Corpse
Bride/ La sposa cadavere presentata a Venezia 2005 – di
auto-rappresentarsi, a partire
dal corpo, come fonte di ciò
che di più dolce, energetico,
euforizzante e sostanzialmente amabile – e questo è il nocciolo della questione – vi è
sulla Terra?
«There’s not a single no-sugar
product in his factory», commenta Roger Clark (Sight &
Sound, London, august 2005)
a proposito del nuovo regno
burtoniano. In una battuta:
Burton, sul vuoto d’affetto,
versa il dolcetto. Ma è possibile, davvero, che non sia rimasta una sola traccia delle
antiche amarezze?
Certo che no. L’intero plot di
“Charlie and the Chocolate
Factory” è quello di un sadico
revenge-film, mascherato da
zuccherosa fiaba per grandi e
piccini. Addio dolcezza. Siamo in presenza di un film-divendetta (non più sullo scaffale accanto al film del 1971,
ma dalle parti di Park Chan
Wook, da “Mr Vengeance” ad
“Old Boy” a “Lady Vengeance”, sempre a Venezia ‘05) in
cui Wonka/ Depp/ Burton infierisce con squisita eleganza
sui bambini che sono entrati
nella fabbrica, uno per uno.
E vi è nuovamente una forma
di ribaltamento o spostamento, poiché in realtà le colpe
per cui i bambini vengono
puniti sono quelle dei loro
genitori, il modo in cui la
PAGINA
41
vendetta si compie è di contrappasso al tipo di rapporto
(in genere mostruosamente
disfunzionale) fra singolo
bambino e genitore che lo ha
accompagnato.
Favola morale
PAGINA
42
La favola divene favola morale. Esempi? Il genitore che ha
saziato il suo ego coltivando
l’appetito di un figlio tanto
opulento quanto odioso, vede
punita precisamente l’abitudine all’ingordigia. Il genitore
che finge di chinare il capo di
fronte ai costosi capricci della figlia, per riflettersi segretamente in uno status che non
vuole limiti, troverà nell’atto
di valicare un limite precisamente la sua punizione. Ad libitum.
E Charlie Bucket, il piccolo
superstite? Il «ragazzo più
povero al mondo, che per sua
fortuna non sa di esserlo»,
come recita l’incipit del film?
Per sua fortuna è anche l’unico, evidentemente, ad avere
parenti che abbiano rapporti
non-narcisistici con lui. Già in
partenza è emotivamente sano
e salvo, perciò si salva. Ma non
è l’unica ragione.
Charlie (il trucco c’è, Burton
fa di tutto perché lo si veda,
o almeno intuisca) non è altro che una parte sana e fortemente idealizzata del bambino-Willy-Wonka (o del bambino-Burton, fa lo stesso). Ed
è per questo che è destinato
al “premio” su cui cresce l’attesa e fiorisce la fantasia per
tutta la durata del film, premio che altro non è che la favolosa proposta di «prendere
il mio posto alla guida della
fabbrica» (fuori di metafora:
prendere il sopravvento sulla
parte sofferente dello stesso
Willy Wonka).
Così avverrà. E senza che Burton abbia più voglia di nascondere i trucchi da grande
illusionista e affabulatore (da
“big fish” del racconto?), nella sequenza in cui il piccolo
Charlie porterà Willy Wonka a
riconfrontarsi con il suo dolore – con un padre genialmente raffigurato come isolato e
assoluto, in una casa squarciata da una strada e piovuta
su un colle: un padre che, sor-
presa!, ha segretamente collezionato articoli sui dolciumi del figlio e sulla sua bravura, forse è il caso di dire che
con gli anni s’è addolcito… –
non vi è più alcuna differenza
fra il punto di vista di Charlie
e il punto di vista di Wonka,
fra sguardo e sguardo, fra le
scoperte del bambino (che
adocchia l’archivio di articoli
gelosamente tenuto dal padre
di Willy Wonka) e gli occhi
sgranati dell’adulto (che riesce ad abbracciare e ad essere
abbracciato dal padre, quasi
avesse “visto” contemporaneamente con gli stessi occhi di
Charlie).
Nota bene. Su questa scena,
la rivista succitata “Sight &
Sound” è tornata esattamente un mese dopo (september
2005) capovolgendo il giudizio dato precedentemente. «Si
sa che i produttori amano gli
abbracci che risolvono tutto
e annunciano la fine di un
film, ma un regista come Burton non dovrebbe rimanere
perplesso di fronte ad un eroe
disfunzionale che risolve i suoi
problemi in un singolo gesto?», precisa il critico Ryan
Gilbey. Forse che sì forse che
no. Non che la cosa cambi di
molto la cinefavola, a dir il
vero. E mentre a Ryan Gilbey
consigliamo una buona tavoletta di cioccolato, continuiamo a ritenere che il colpo di
scena finale al glucosio – ma
non poteva essere altrimenti, in un cioccofilm del genere – non cambi d’una virgola,
anzi rafforzi, la duplice polarità che percorre l’intera “Fabbrica di cioccolato”: affetto
o dolcetto? ●
NOTA
1. Charlie and the Chocolate
Factory, Usa 2005, di Tim Burton,
con Johnny Depp, Freddie Highmore, David Kelly, Helena Bonham
Carter, Deep Roy, Christopher Lee;
Sceneggiatura di John August, basata sulla fiaba di Roald Dahl. Produzione: Warner Bros Pictures. Durata 115 min.
La storia: Inghilterra, oggi o chissà, un altropresente. Charlie Bucket vive con la sua famiglia in
condizioni di amara povertà. Dietro l’angolo la dolcezza della Fabbrica di Cioccolato del geniale e
autorecluso Wonka. D’un tratto, 5
biglietti d’oro nascosti in 5 barrette di cioccolato Wonka daranno la possibilità a 5 bambini di
entrare a scoprire i segreti della
fabbrica.
Dilemmi
FILIPPO NIBBI
Come si costruisce un “dizionario metaforico”?
Raccogliendo i dilemmi dalla bocca dei
bambini. Ovunque. I raccoglitori saranno
mamme, babbi, nonni, zii e parenti tutti,
maestre e maestri che frequentano la scuola
“mìgnola” insieme ai Bec, per imparare con
loro la nuova lingua. Alle nostre lettrici e ai
nostri lettori chiediamo di collaborare alla
costruzione inviandoci proposte
([email protected]) da inserire sul sito di école
(www.ecolenet.it)
▼
«Balconi affiorati, di
dove?, chi sono?» (Dal Canto dei Bec). I balconi “affiorati” dal Canto dei Bec, in
quella posizione di verso,
hanno il significato di “balconi venuti fuori, venuti a
galla, venuti su, di-venuti
fiori”: ecco!, affiorati, fuori
dalla lingua ufficiale, è una
pìcciola metafora, in virtù
della quale gli interrogativi
“di dove?”, “chi sono?”,
espongono l’uni-verso al rischio di altri significati, fuori
dall’usuale, e la parola a successivi dilemmi. Chi sono i
“Bec”, ascolta il loro canto
insieme a chi è Chi nel mondo.
«Chi sono i Bec in Toscana?».
«Sono i “bécci”, i “beccìni”,
figli delle capre».
«Chi sono i Bec a Soraga, in
Val di Fassa?».
«Sono i bambini. Tutti i bambini. “Bec” in ladino significa questo: “bambini”».
«Chi sono i Bec a Ljubljana?».
«Emoni, figli Emona, dal
nome latino della capitale
della Slovenia. E... nomi!,
come dice l’anagramma».
«E... i bambini di Prato?».
«Sono fiori».
«Sono utili i fiori? o sono
PAGINA
come i colori, utili solo per
la felicità? Nota per essere
trattata dal potere come la
meno necessaria delle necessità».
Sto scrivendo rincantucciato dentro la “Filozofske
Fakultete” di Ljubljana (6
oktobra 2005). Intendo godermi la città. Proponendo
la costruzione di un “dizionario metaforico” sarò brevissimo.
Come si fa?. Si raccolgono i
“dilemmi”, cioè le “pìcciole
metafore” direttamente dai
Bec. Dove?... Alla scuola materna, all’elementare, o alla
media?.
Alla mìgnola! Perché alla mìgnola? Perché è meno sotto
il potere... La mìgnola può
essere anche sotto un pergolato di rose, sotto una carezza, sotto un bacio. Ecco
alcuni esempi di “pìcciolemetafore”. Le ho raccolte
dalla Cecilia, alla scuola “mìgnola” di Monte San Savino:
1. Panciullo. La Cecilia osserva la pancia della mamma gonfiata da Giovanni, il
fratellino, e dice che vuole
fare “amiciccia” con lui, con
il “panciullo”, che è un dilemma straordinario.
2. Venturale. La Cecilia osserva il vento che solleva le
foglie dopo le doglie che ha
la mamma che mette alla
luce Giovanni, e dice “ventorale”. Che è un altro dilemma molto molto bello.
3. Cerchìottolo. Cos’è questo
dilemma detto ancora dalla
Cecilia? È un cerchio magico?
O lo strumento che lo fa?... È
il compasso?... Sì! Ma ho compassione di voi, se credete che
sia solo il “compasso”, così
utile ma così ripetitivo!... Il
cerchìottolo può essere il braccio di Giotto che genera il suo
O (l’O di Giotto...) Ohhh!...
Ora sì! Il compasso non è una
“pìcciola metafora”. Il cerchìottolo, sì!
Dopo un po’ che Giovanni, il
fratellino della Cecilia, era
venuto alla luce, chiese alla
mamma: «Mamma, perché io
no posso vedere i miei occhi?».
Cecilia disse alla mamma:
«La mia pisella è un diamante crudo, la tua una topa
pelosa». Pisella è un’altra
pìcciola metafora, un altro
dilemma da inserire nel “dizionario metaforico”.
Il “dizionario metaforico”
sarà utilissimo per la re-invenzione linguistica e la ri-
fondazione della realtà. Per
esempio, lo Spirito della tempesta di Paul Klee potrà essere chiamato, usando la pìcciola metafora emanata dalla Cecilia, Ventorale. Eccolo,
questo Spirito! [figura in
alto].
È un’immagine che esiste
solo nel mondo poetico del
pittore? No! È una forma fantastica che “torna a fagiolo”, come si dice in Toscana, per re-inventare una citta, ragazza di linee pulite,
nitide, incurvate e spezzate,
e una città che sembra fluttuare nello spazio creato dal
binomio fantastico citta e
città.
A questo punto, ho in chiaro la proposta di registrare
il dilemma ventorale nel “dizionario metaforico”. Uno
potrà anche scandalizzarsi se
propongo di sintonizzare il
dilemma di una bambina sulla stessa lunghezza d’onda di
Paul Klee, usando le sue stesse parole “spirito della tempesta”. Ma si ricrederà. Perché il Dizionario aprirà gli
occhi sulle metafore a chi lo
consulta, che dovrà convenire: «Io al suo posto, lo
avrei detto anche prima». ●
43
script
C
PAGINA
44
osa si intende per storie di formazione?
Si tratta di racconti, rivolti ad adolescenti
ed educatori, che contengono elementi
importanti, punti nodali del percorso di
crescita. Trovare i propri problemi narrati
in una storia fa capire ai giovani che non
sono i soli ad affrontare quelle difficoltà,
ciò può aiutare sia quando si vede che
altri e altre hanno vissuto e risolto i problemi, sia se invece si scopre che non
sono riusciti a superarli, in questo caso
la riflessione e la discussione portano a
indagare sui motivi dell’insuccesso e i
modi per aggirare gli errori.
Perché proporre storie piuttosto che saggi scientifici sull’argomento o discussioni con esperti?
Perché leggere un racconto fa scattare
l’immaginazione che è fondamentale per
affrontare una tematica in modo emotivamente intenso. Nel processo di apprendimento, ce lo dice Bruner tra i primi, la
narrazione ha un ruolo centrale. L’immedesimazione coi personaggi significa stare
dentro di loro, ma con un minimo di distanza per osservarli nelle loro dinamiche. Questo permette anche di esorcizzare le proprie paure, vivendole, nella lettura, in una situazione diversa dalla propria concreta quotidianità.
Quali storie racconti nel tuo libro?
Ho scelto di parlare di adolescenti perché l’adolescenza è un momento chiave
della vita in cui tutto è ancora possibile,
tutto è in divenire. Per questo la vedo
vicina al mondo della scrittura che è il
mondo della possibilità. Nell’adolescenza per la prima volta cominciamo ad essere individui autonomi, è una seconda
nascita. Sono storie di fughe, dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, spesso
da se stessi, la fuga è una chiave interpretativa importante. Io propongo un’altra fuga, costruttiva, quella nella lettura
e nella scrittura. In questo caso lo spiraglio per volare è l’immaginario, però, nei
miei racconti, è sempre legato a situazioni realistiche, possibili. Quindi leggere non per troncare il rapporto con la pro-
Storie per conoscersi
MARIA LETIZIA GROSSI
Raccontare storie, leggerle, ascoltarle è spesso più illuminante
di molti saggi articolati e documentati per riuscire a capire le
situazioni e le persone che abbiamo accanto e per far capire
qualcosa di noi. Una storia è uno spiraglio su qualcosa che sta
fuori ma in cui portiamo una parte della nostra esperienza e
del nostro desiderio. Per questo si stanno diffondendo nel
mondo dell’educazione, come supporto per chi si occupa
professionalmente di ragazze e ragazzi e in particolar modo
per gli insegnanti, le storie di formazione. Ne parliamo con
Marialuisa Bianchi, insegnante e autrice di Vie di fuga, un libro
di racconti di e per adolescenti
pria vita, ma per allargarne l’orizzonte,
aprirsi ad altre prospettive pur continuando a restare in contatto con il proprio sé.
Come si può utilizzare questo approccio, e questo libro, in classe?
Leggendo una storia e discutendone. Oppure proponendo solo l’incipit e invitando ragazze e ragazzi a continuare con altre possibili soluzioni del racconto. Chiedendo loro di mutare il proprio punto di
vista, ai maschi proponendo di immedesimarsi in un personaggio femminile e
viceversa.
Scrivere questi racconti ti è servito nel
tuo lavoro di insegnante?
Volendo scrivere di loro, ho osservato i
miei studenti, i loro gusti, il loro linguaggio. La scrittura mi ha consentito di ritrovare l’adolescente che sono stata. La
mediazione tra la mia adolescenza, pur
diversa per situazioni storico-sociali, e la
loro, mi ha fatto sentire con forza alcuni
elementi e passaggi costanti in questa
fase della vita. Questo sforzo di comprensione, inizialmente finalizzato alla scrittura, ha avuto una ricaduta positiva nelle relazioni in classe. ●
Marialuisa Bianchi
Vie di fuga. Storie di
e per adolescenti
Franco Angeli, 2005,
pp.142, euro 16
Undici racconti di adolescenti alle prese con le
difficoltà di inserimento nel gruppo dei pari, con le
richieste della suola e della famiglia, con amori
sognati o fuggiti, con i ricordi di un’infanzia troppo
vicina per non far male di nostalgia, da cui ci si
vuole staccare ma che è ancora invitante con la sua
promessa di protezione. Percorsi che si incrociano
con quelli di straniere e barboni, problemi che fanno
sentire diversi, la faticosa definizione della propria
identità sessuale. A incorniciare i racconti, a far da
filo conduttore, la seconda parte del libro offre una
chiave di lettura in classe, un’attenta riflessione sullo
scrivere e usare storie nella relazione educativa,
frutto di una ricerca di anni su lettura e scrittura. E
alla fine tre piccole cose scritte da studenti, tra cui
un racconto à la mode di Starnone, pubblicato per la
prima volta in questa rubrica di école.
il libro
«Mi illumini
professore»
FILIPPO TRASATTI
Antonio Scurati,
Il sopravvissuto,
Bompiani, Milano
2005, pp. 374,
euro 16
I
n una grigia cittadina della bassa padana, Casalegno,
«una pustola nel mezzo della
depressione geologica», il 18
giugno 2001, in un’estate afosa e infelice come tante altre,
avviene un agghiacciante e
incomprensibile massacro nella palestra del liceo scientifico “Paolo Sarpi”. L’autore, Vitaliano Caccia, maturando di
V B ripetente, si presenta in
ritardo davanti alla Commissione d’esame e con una pistola semiautomatica, uccide
uno a uno sette commissari
dell’esame di stato, con fredda determinazione, senza traccia alcuna di umana pietà.
Tutti, tranne uno: Andrea Marescalchi, il professore di filosofia e storia, è lui l’unico
sopravvissuto alla strage.
«Professor Marescalchi, cosa si
prova ad essere un sopravvissuto?», gli chiedono tutti,
colleghi genitori, giornalisti,
la Tv, senza che lui sappia cosa
rispondere. E, soprattutto,
perché proprio lui? Intorno a
questa domanda parte e si sviluppa l’intero romanzo, secondo uno schema narrativo che
parte in medias res con il fattaccio descritto con feroce
esattezza, procede come in un
romanzo a enigma, interrotto
dalle bellissime pagine di diario del professore che scava nel
suo passato per cercare una
risposta appunto a quella domanda e da inserti di altri protagonisti, il medico, il poliziotto, lo psicoterapeuta, il
giudice istruttore, i quali raccontano la loro verità sulla
storia. Ma nessuno riesce ad
arrivare a una risposta convincente, forse perché si ferma al
fatto in se stesso e non si
guarda né dentro né intorno.
Perché Vitaliano ha risparmiato Andrea? Per dare un segnale, un esempio, per farne un
nuovo messia che annuncia la
salvezza, che protegge dall’angelo sterminatore? L’assassino
è certamente un angelo sterminatore, bello e implacabile,
portatore come tutti gli angeli di un messaggio. «Lui era
quello che in altri tempi si
sarebbe detto un giovane caro
agli dei». Scurati riprende un
motivo che ritroviamo in Teorema di Pasolini per esempio,
o nel film Sei gradi di separazione, l’angelo bellissimo che
arriva a sconvolgere la vita
quotidiana dei buoni borghesi, ormai rassegnati alla loro
routine. L’angelo non salva,
uccide, stermina, ma soprattutto porta un messaggio incomprensibile e il professore
di filosofia durerà fatica per
cercare di avvicinarsi a comprendere il gesto dell’angelo.
Ma che professore è Marescalchi, il salvato?
Al collega Cesare che va a trovarlo in ospedale quando è
ancora sotto shock, chiede
subito: «Come stanno i ragazzi?» Nella casa in campagna,
dove vive solo, nel suo studio
ha appeso alla parete le foto
di classe di tutte le annate in
cui ha insegnato sin dal giorno delle sua prima supplenza.
Dice sempre «sono tra voi ma
non con voi».
Ma «poteva forse un diverso
sentimento della perduta giovinezza, una diversa declinazione del sentimento e del
rimpianto, che faceva di lui un
professore più complice con
gli studenti di quanto fossero
i suoi colleghi, più femmineo,
Un romanzo di straordinaria forza che ha come
basso continuo la domanda perché, sempre più
rara nella scuola in cui viviamo, nel mondo in
cui viviamo. L’autore non dà risposte facili,
ma neppure si attarda, come fanno tanti che
scrivono di scuola, nell’eterna inutile
lamentazione del tempo perduto di chi ha di
fronte tutti i giorni dei giovani che con
sguardo implacabile chiedono ragione del
mondo che gli abbiamo consegnato in eredità
PAGINA
più cedevole, dedito alla seduzione più che all’imposizione, al commercio più che al
disprezzo, all’afflato più che
al rifiuto, poteva la sola predilezione per una diversa posizione nel coito violento tra
le generazioni tracciare il discrimine tra perdizione e salvezza?» In fondo Andrea disprezza i suoi colleghi, arriva
a pensare in certi momenti che
meritavano di essere ammazzati per il modo in cui ogni
giorno ammazzavano gli studenti che avevano di fronte.
Le pagine più straordinarie
sono quelle del diario del professore, che non ci risparmiano nessuna delle miserie personali o scolastiche, ma aprono riflessioni e squarci talvolta apocalittici, non solo sulla
scuola, ma sul territorio e sulla
società italiana. La depressione, economica ed esistenziale, è come densa nebbia che
avvolge le storie personali, in
un mondo in cui i “giovani”,
in cui anzi i giovani sono gli
avversari di una lotta senza
quartiere. Lo chiarisce in modo
netto il pubblico ministero nel
suo discorso. «Vitaliano Caccia ha agito in esecuzione di
una sorta di mandato collettivo, proveniente dal gruppo
dei suoi pari. (…) Dobbiamo
prepararci a pensare e a com-
battere l’intera adolescenza
come un gruppo criminale,
l’intera giovinezza come un’associazione a delinquere».
Nessuna pietà dunque. La repressione si scatena. Si dà la
caccia senza tregua non solo
all’assassino, ma tutti i compagni e i giovani del paese
vengono sottoposti a una
pressione micidiale. Però a
preoccupare il professore è
soprattutto Vitaliano, il suo
prediletto, quello che gli chiedeva ragione del male del
mondo, brillante e sregolato,
l’unico forse vero ricercatore
tra gli zombie, che gli chiedeva con insistenza: «Mi illumini professore». Ma che ha davvero da dire un professore di
filosofia di mezza età a un giovane come Vitaliano?
Un romanzo di straordinaria
forza che ha come basso continuo la domanda perché, sempre più rara nella scuola in cui
viviamo, nel mondo in cui viviamo. Scurati ovviamente non
dà risposte facili, ma neppure
si attarda, come fanno tanti
che scrivono di scuola, nell’eterna inutile lamentazione
del tempo perduto di chi ha
di fronte tutti i giorni dei giovani che con sguardo implacabile chiedono ragione del
mondo che gli abbiamo consegnato in eredità. ●
45
libri sulla scuola
PAGINA
46
Giuseppe Bagni, Rosalba
Conserva,
Insegnare a chi non
vuole imparare. Lettere
dalla scuola, sulla scuola
e su Bateson,
Edizioni Gruppo Abele,
Torino 2005, pp. 265,
euro 14
portano a vedere aspetti di
complessità sempre maggiore:
quella dei fatti e quella delle
premesse, della quotidianità
scolastica e del domandarsi che
cosa significa quello che a
scuola tutti i giorni succede.
MAURO DOGLIO
Non si tratta solo di un testo
che mette in luce i punti critici
del sistema scuola o affronta le
difficoltà in cui versano docenti
e alunni, ma di un testo che
aiuta a “pensare” la scuola in un
modo diverso. Ciò che lo
caratterizza è che i due autori
guardano la scuola “attraverso”
il pensiero di Gregory Bateson.
Uno dei principali insegnamenti
di Bateson è che il modo in cui
si guarda determina quello che
si vede e che una visione che
utilizzi più punti di vista
permette di vedere di più e in
modo diverso. Questo principio
viene confermato dalla struttura
stessa del libro di cui ci stiamo
occupando: i due autori
osservano la scuola incrociando
e integrando i loro sguardi e già
solo questo confronto tra modi
diversi di osservare la scuola in
realtà geografiche diverse
risulterebbe piuttosto istruttivo.
Ma l’effetto della “doppia
visione” non si esaurisce qui, gli
autori osservano la scuola e si
osservano mentre agiscono nella
scuola. Non si tratta quindi solo
di uno sguardo che amplia la
visione quantitavamente, ma di
uno sguardo che amplia la
visione anche qualitativamente,
modificando il modo in cui gli
oggetti stessi vengono guardati.
Un altro degli insegnamenti di
Bateson infatti, è che quando
osserviamo qualcosa siamo
chiamati in causa anche noi
stessi. I due autori ne sono
consapevoli e il loro sguardo
sulla scuola e sull’insegnamento
diventa una riflessione sui
pensieri e le idee che guidano le
loro azioni di insegnanti e i
comportamenti degli alunni. Nel
raccontare episodi della vita
scolastica (inquietanti,
divertenti, banali e
straordinari), vengono indagate
le premesse che stanno alla base
dell’agire e che lo determinano,
in uno sforzo continuo di
interrogazione e di
approfondimento. Vengono
discussi i rischi connessi al
nostro modo di concepire la
scuola e l’apprendimento in
generale: «ci sono infatti dei
modi di trattare il sapere che
guastano “l’estetica del vivere”
e rendono “morta” ogni
conoscenza». E si procede per
domande “spiazzanti” che ci
A cura di Salvatore
Pagano, Claudia
Nosenghi,
Alunni del mondo,
strategie per
l’accoglienza,
Sinnos Editrice, Roma
2005, pp. 182, euro 10
L’orientamento pedagogico
all’accoglienza di chi arriva in
una situazione scolastica nuova,
si è andato affermando negli
ultimi tempi e dà luogo ad
esperienze e progetti specifici,
come quelli delle scuole del
genovese, riportati
nell’utilissimo Alunni del mondo,
strategie per l’accoglienza.
Questo libro si caratterizza per
la centralità della persona, dei
suoi bisogni e delle sue
modalità di apprendimento,
marcando una discontinuità
rispetto al fatto che si pensava
dovessero essere i minori
stranieri a doversi adattare ad
una realtà precostituita. Anche
parlare di accoglienza piuttosto
che di inserimento segnala un
cambiamento di prospettiva ed
in un certo senso di tonalità
affettiva. Si sostituisce infatti
ad una parola “fredda” come
inserimento (attinente gli
aspetti burocratici ed
amministrativi che regolano
ogni arrivo) éla parola “calda”
accoglienza che cessa di essere
affare personale, atteggiamento
di un individuo che riceve altri
individui in modo più o meno
accogliente, secondo proprie
inclinazioni e tratti emotivi per
diventare un orientamento, una
scelta della scuola collocata in
un contesto territoriale
specifico.
Il testo mette a disposizione
molto materiale sull’argomento e
testimonia un percorso di dieci
anni condotto in cooperazione
tra il CRAS (Centro Risorse
Alunni Stranieri) istituito dalla
Regione Liguria, gli Enti locali
ed una serie di scuole,
università compresa. Ricompone
le diverse esperienze e piste di
lavoro realizzate nel tempo e le
ripresenta in un progetto
unitario e coerente.
Il libro si articola in vari
percorsi: la tematica
dell’accoglienza collocata entro
il contesto sociale e culturale
dell’economia globalizzata; le
strutture di sostegno delle
istituzioni; l’accoglienza in
rapporto agli interventi
linguistici ed alla letteratura.
Alunni del mondo, strategie per
l’accoglienza richiama un testo
parallelo per la trattazione della
stessa tematica e per le affinità
di metodi di lavoro pubblicato
nel 2003 da Franco Angeli,
Nuovi compagni di banco, a cura
di Elisabetta Micciarelli.
MARISA NOTARNICOLA
Marco Lodoli,
I professori e altri
professori, Einaudi
Tascabili, Torino 2005,
pp. 130, euro 14
È un luogo comune duro a
morire che la scuola sia maestra
di vita e che sia proprio sui
banchi che passino quelle
nozioni indispensabili a vivere e
a orientarsi nelle diverse
situazioni esistenziali che
seguiranno. Questa raccolta di
nove racconti di Lodoli
(significativamente dedicati a
indagare «l’essenza della natura
umana» – come recita il
sottotitolo del libro) narra, con
lucidità e assorta tristezza non
priva di guizzi di ironica
vivacità, come avvenga, invece,
il contrario. E così nel libro
sfilano insegnanti che si fanno
turbare dalle osservazioni
malevole di una loro allieva (è
la professoressa Roberta in un
racconto, Il rinoceronte, che
deve molto alle assonanze con
l’omonimo testo teatrale di
Ionesco) mentre un altro
personaggio segue con
pervicacia il progetto di vita
lasciatogli da un suo professore
anche quando si accorge che
sta commettendo un errore
dopo l’altro (il titolo è,
ironicamente, Un maestro). Ma
è l’insegnare che costringe alla
meditazione sulle proprie scelte
passate, anche su quelle
d’amore: Sisto e Milena,
durante le lezioni di scuola
guida, pensano al loro rapporto
e si consolano per ciò che la
vita non gli ha dato. In un
altro racconto, gli insegnanti
non ci sono allo stesso modo in
cui non ci sono i voti sui quadri
della propria esistenza che il
protagonista cerca invano: forse
non ha mai frequentato…
Infine i “professori” sono gli
inquietanti e furtivi ometti che
si radunano in un giardinetto a
decidere il destino del mondo. Il
vecchio portiere di stabili che
ha ormai perso il proprio lavoro
li osserva perplesso: forse non
ha niente da imparare da loro.
GIUSEPPE PANELLA
La rivista bimestrale,
la lettera bimestrale,
il sito (www.ecolenet.it),
il cd rom annuale.
L’abbonamento
(5 numeri + 5 lettere di école + cd)
costa 35 euro.
Conto corrente postale
n. 25362252 intestato a
Associazione Idee per l’educazione,
via Anzani 9, 22100 Como
Attivazione immediata:
tel. 031.268425
libri per la scuola
A cura di Monica
Lanfranco e Maria G. Di
Rienzo,
Senza velo. Donne
nell’Islam contro
l’integralismo,
Edizioni Intra Moenia,
Napoli 2005, pp. 150,
euro 12
«Quando vedo per strada le
donne velate, anche se fa molto
caldo e noi siamo sbracciate e
comode, quando camminano con
i bambini e la spesa a tre passi
indietro ai mariti, (loro sì in
abiti occidentali) provo rabbia.
Perché non possiamo cominciare
a parlarne con le donne
immigrate, che spesso obbligano
anche le bambine allo stesso
comportamento?». Si chiede e ci
chiede Monica Lanfranco. È
difficile e urgente in un clima da
“scontro di civiltà” «discutere
serenamente sulla questione del
velo islamico e sul ruolo delle
donne nell’Islam», senza
rinunciare a esprimere critiche
nei confronti dei
fondamentalismi nella cultura
occidentale e in quella araboislamica. «C’è bisogno di laicità»
è la risposta che dà Stasa
Zajovic già nel titolo di uno dei
capitoli della sezione “Voci.
Interviste” di Senza velo. Donne
nell’Islam contro l’integralismo. È
difficile e urgente tenere aperta
la porta dell’interlocuzione, in un
momento in cui l’attenzione è
posta prevalentemente sulle
conseguenze dell’impatto tra le
tradizioni islamiche e il mondo
occidentale e gli occhi sono
puntanti sul terrorismo
fondamentalista. Questo rischia
di farci dimenticare i frutti
possibili della convivenza e di
farci perdere di vista che la realtà
è assai più complessa ed
articolata.
Ma cosa c’è sotto il velo
dell’Islam? Cosa sappiamo del
mondo femminile nei paesi di
religione musulmana? Quali
movimenti per la laicità e i diritti
esistono nel mondo arabo? La
presenza nelle nostre scuole di
bambine e bambini migranti
provenienti da paesi arabi e il
desiderio che proprio la scuola
possa diventare un luogo di
incontro di identità differenti,
ma capaci di convivere, dove
coniugare le nostre memorie
culturali con una nuova realtà
interculturale e mondialista, ci
stimola a saperne di più. Una
lettura utile ci viene proposta da
Maria G. Di Rienzo e Monica
Lanfranco che hanno raccolto
nella sezione
“Autodeterminazione. Saggi e
spunti critici” scritti di studiose
e interviste a coraggiose
esponenti e gruppi di donne
appassionate della libertà
femminile (tra loro, la premio
Nobel Shirin Ebadi, l’attivista
Farida Mohammed, la scrittrice
Nawal El Saadawi); tante
narrazioni di donne che, nel cono
d’ombra che avvolge quasi
sempre la storia delle donne,
lottano ogni giorno contro il
pregiudizio, la violenza e la
discriminazione (“Le storie.
Profili e narrazioni”), e
documenti importanti e
innovativi come la Dichiarazione
di Chang Mai (dove si è riunito
dal 29 febbraio al 3 marzo del
2004 il Consiglio internazionale e
interreligioso per la pace) e
l’Appello di gennaio 2005 contro
i fondamentalismi del Wluml Women living under muslim law
(Donne che vivono sotto le leggi
islamiche).
CELESTE GROSSI
Lazzaro Gigante,
Giuseppe Turi,
Prestami orecchio. L’uso
della canzone nel dialogo
tra le generazioni,
Edizioni La Meridiana,
Molfetta (Ba) 2005,
pp.180, euro 14
Diversi piani s’intrecciano in
questo libro per certi versi
anomalo. Da un lato un intento
culturale: le canzoni della musica
“leggera” non sono subcultura,
ma esprimono sentimenti, attese,
emozioni che accompagnano la
vita delle persone. Ed allora non
sono tutte da buttare via, anzi
c’è da imparare a distinguere
perché una canzone di De Andrè,
Fossati, Vasco Rossi o Lucio Dalla
sia meglio di altre. La canzone,
come insegna la pedagogia della
memoria, è come un grumo
poroso che raccoglie biografie e
punti di vista storici diversi: la
canzone più o meno d’autore è
uno strumento per dialogare, per
comunicare anche tra generazioni
diverse raccontandosi. Di stati
d’animo, di situazioni, idee,
speranze, lacrime e sorrisi. Gli
autori riprendono persino
Winnicott e la sua teoria
dell’oggetto transizionale e del
gioco come spazio potenziale per
la creazione di cultura.
Si tratta di un modo per entrare
in relazione, per dialogare con i
ragazzi tentando di non fare
della demagogia. Sul piano
pedagogico il messaggio mi pare
essere quello di stare in
continuità con le esigenze ed i
gusti culturali dei ragazzi, ma al
tempo stesso di provocare una
rottura per ascoltare la musica
come potenziale strumento
didattico. Le canzoni poi hanno
dei testi che, in un modo o in un
altro, sono in relazione con la
realtà. Allora possono essere un
medium per introdurre dibattiti,
discussioni, ricerche. E gli autori
ed interpreti hanno una loro
storia artistica, culturale che può
essere studiata come la
letteratura “normale” cogliendo
passaggi, inclinazioni, ma anche
innovazioni linguistiche,
stilistiche. Bob Dylan, Patti
Smith, Bob Marley, Guccini, De
Gregori, ma anche i Velvet
Undergroud, i Nirvana persino i
Lunapop possono essere degli
“autori” per discutere di
rivoluzione, emarginazione,
droga, minoranze, esclusi e
banalità quotidiane della società
del consumo.
Un libro che si rivolge sia agli
insegnanti, ma anche agli
educatori del territorio.
L’educatore come mediatore
culturale: questo il messaggio del
libro che è diviso in due parti.
Una prima in cui vengono
spiegati i presupposti teorici e le
esperienze didattiche che hanno
generato il libro stesso. Qui sono
evidenziati i passaggi
metodologici: anteporre il sentire
al dire, favorire la comunicazione
delle emozioni, valorizzare il
lavoro di gruppo, problematizzare
l’ascolto. A volte può apparire
semplice, ma forse qui sta
l’interesse del libro. Nella
seconda parte c’è un’ampia scelta
antologica di testi con schede su
autori e interpreti, sui temi delle
canzoni. Un nuovo canzoniere
senza gli accordi per proporre, a
ruota libera, nuove forme di
dialogo tra le generazioni. Da
maneggiare con cura.
STEFANO VITALE
Amnesty International,
Mai più! Fermiamo la
violenza sulle donne,
prefazione di Rita Levi
Montalcini, Edizioni EGA,
Torino 2004, pp. 190,
euro 12
Amnesty International,
I diritti delle donne,
diritti umani, Edizioni
Gruppo Abele (per la
scuola secondaria di
primo grado), Torino
2004, pp. 64, euro 4
Amnesty International,
I diritti delle donne,
Edizioni Gruppo Abele
(per la scuola secondaria
di secondo grado), Torino
2004, pp. 80, euro 5
«La violenza sulle donne è la più
vergognosa violazione dei diritti
umani dei nostri tempi. In ogni
parte del mondo, le donne
continuano a subire una
silenziosa discriminazione, da
parte dello Stato, della comunità
di appartenenza e anche della
propria famiglia, che nega loro di
essere uguali agli uomini in tutti
gli aspetti del vivere
quotidiano». Con questa
affermazione Amnesty
International ha lanciato, l’8
marzo del 2004, la campagna
biennale “Mai più violenza sulle
donne” (per aderire:
www.amnesty.it) e presentato il
rapporto Mai più! Fermiamo la
violenza sulle donne. Il libro
analizza, in particolare, la
relazione tra violenza e povertà,
e tra discriminazione e
militarizzazione (un capitolo è
dedicato a “La violenza sulle
donne nei conflitti”).
Ma perché parlare della
discriminazione di donne e
bambine qui, in Italia, nelle
nostre scuole? Alla domanda
risponde il Rapporto annuale che
il Population Fund dell’Onu, ha
appena pubblicato e nel quale si
afferma che il fenomeno del
“Gender Apartheid” riguarda da
vicino i paesi del primo mondo
dove la discriminazione tra sessi
è erroneamente considerata un
retaggio del passato, tanto che è
l’Australia ad avere il primato di
paese in cui la violenza
domestica è il rischio più grande
per la salute delle donne.
Insomma quando si tratta di
violenza contro le donne, tutto
mondo è paese.
Al rapporto Amnesty
International ha affiancato due
strumenti didattici destinati alla
scuola media e alla scuola
superiore, nella convinzione che
per cambiare le relazioni tra
donne e uomini sia necessario un
lavoro lungo e paziente di
conoscenza e presa di coscienza
che parte dal quotidiano, dalla
discriminazione sottile che già è
presente tra compagni e
compagne, dai ruoli che
inconsciamente ragazzi e ragazze
si trovano ad assumere tra i
banchi di scuola.
I due quaderni presentano
percorsi di lavoro, materiali di
approfondimento (Legislazione
internazionale; Responsabilità
degli Stati nelle violazioni che
colpiscono le donne;
Organizzazioni non governative e
associazioni; Bibliografia,
Filmografia, Sitografia).
Le pubblicazione si possono
ordinare presso gli Uffici della
Sezione Italiana di Amnesty
International, via G. B. De Rossi,
10, 00161 Roma, tel. 06.44901,
fax 06.4490222, e-mail
[email protected].
CELESTE GROSSI
PAGINA
47
8__Z gVcUZ
Rimario
e lame di rasoio
STEFANO VITALE
I bambini e la poesia. La cosa più importante
non è spiegare, la poesia, ma leggere, leggere
e poi ancora leggere. E provare a scriverla
«C
PAGINA
48
os’è la poesia?» si
domanda Ferlinghetti: «è fatta/ da sillabe di sogni», si risponde. «È ciò che sta tra le
righe», scrive ancora. Una parola nascosta il cui gusto non
è facile da cogliere neppure
per i bambini che pure fanno
parte, per me, degli esseri poetici per definizione. Non tanto per una qualche innocenza presunta, quanto per la serietà delle loro profonde domande: «I bambini/ sanno
giocare col destino:/ hanno
la serietà/ di chi ha sempre/
il sorriso sulle labbra». Difficile da cogliere, come una
mora tra i rovi spinosi o tra il
ghiaccio sanguinante dell’inverno. Non è facile, allo stesso modo scrivere poesie per i
bambini: è facile cadere nella retorica, nello stupidario
infantilizzante. Perché c’è chi
pensa che i bambini siano
esseri incompiuti e non persone con una loro specifica
pienezza, tutta intera, senza
sconti. Si cammina allora sulla lama di un rasoio e c’è chi
di quest’equilibrio incerto ne
ha fatto un’arte. Penso a Rodari che s’aggrappa alla filastrocca di tradizione rinnovandola sin nel profondo grazie alla sua capacità di collegare etica civile, fantasia e
psicologia. Mai banale ed ancorato al presente, sa giocare con le parole, come direbbe Giuseppe Pontremoli (Giocando parole, L’ancora del
mediterraneo, 2005) ma sa
anche dosare i suoi funambolismi con una misurata attenzione per la capacità ricettiva del bambino. Ed allora c’è
spazio per Rodari un po’ a
tutte le età, senza lode e sen-
za infamia oramai. Chi lo ha
seguito ha saputo far emergere un ingrediente essenziale: il pathos dell’emozione
sincera, come è accaduto a
Roberto Piumini in Poesie Piccole (Mondadori, 2001) ed ovviamente a Pontremoli con
Rabbia Birabbia (Nuove Edizioni Romane, 1991). Dieci
anni separano questi due libri, uniti dalla voglia di usare la poesia per raccontare
emozioni.
Il gusto di raccontare
Questo gusto del raccontare
pervade con spirito barocco
e floreale il Pinin Carpi, di cui
Piemme ci offre Oggi è un giorno tutto da giocare (2005). Il
libro raccoglie proprio delle
poesie-racconto inedite da
cui trabocca tutta la forza
narrativa di Carpi. La poesia
come capriola infinita: traboccante di immagini, suggestioni, agganci acrobatici in
continuo movimento: è come
stare al circo, è un darsi senza sosta, un gioco infinito.
Una lotta per la vita, direi,
contro la stasi della morte:
Pinin stava dalla parte dei
bambini per poter essere eterno. Ma l’eterno può essere
ghiaccio e morte senza scampo. È il caso di Vivian Lamarque (Poesie di ghiaccio, Einaudi, 2004) che si rinchiude in
una visione poetica in cui
domina l’ossessione per l’immobile, per la natura letteralmente morta. Non che i bambini non debbano fare i conti
con il mistero più grande, ma
c’è qualcosa di patologico in
questo canto notturno senza
speranza che è il suo poetare
“per i bambini”. In compenso
le illustrazioni sono splendide: Alessandro Sanna è bravissimo e col suo tocco “Art
Nouveaux” ci rende meno dura
la traversata della banchisa.
Si può essere seri senza salire in cattedra, per fortuna: è
quel che fa Francesca Lazzarato (disegni di Fabian Negrin) con Topissimamente tuo.
Storie di animali in città
(Orecchio Acerbo, 2004). Il
paradigma sembra quello dell’intreccio tra Borges e la fiaba di tradizione mediata dalla coscienza per un nuovo animalismo senza retorica. Sarò
retrò, ma a me piace la letteratura che, senza essere dottrinale, sa proporre una forma d’impegno civile. Francesca Lazzarato, chissà se mai
leggerà queste mie parole, è
una moralista alla Montagne,
per intenderci, che però sa
parlare ai bambini perché dice
cose serie e profonde con parole semplici e giuste: col
sorriso sulle labbra, appunto.
Così si capisce perché «non
s’incontrano mici a Milano:
non per strada almeno»; perché in giro ci sono tanti «bambini annoiati e mamme nervose»; che cosa sogna un «criceto inquieto» o un gabbiano
delle discariche, un cane chiuso nell’affetto della casa o una
formica che marcia «verso un
nuovo continente». Qui la poesia ancora racconta, nel mentre che scolpisce la parola. Il
tono è sempre un po’ compassato, trattenuto, ma efficace
nel suo scopo di “dire qualcosa d’importante”.
Ma non basta: si può coniugare questa voglia con la leg-
gerezza alata d’una rima. È il
miracolo che accade in Rimario. Un po’ al dritto un po’ al
contrario di Eduardo Polo (tradotto, guarda un po’, da Francesca Lazzarato, coi bei disegni di Arnal Ballestrel) sempre edito da Orecchio Acerbo
(2005). Qui la poesia è prima
di tutto musica, ritmo ed il
racconto passa in seconda fila:
tra lo swing ed il jazz s’improvvisa sul binario della rima,
arte rara e perigliosa (che la
traduttrice rende benissimo):
«Per la porta di casa mia/ passa un treno tren./ Se si ferma
salgo su/ e poi sali pure tu».
E allora si va col «rino che sarà
ceronte se varcando l’orizzonte
avrà il corno sul davanti»;
mentre la «colomba lomba
vola dritta dritta verso il mare;
velieri lieri la cercano per vederla pass passare» e «se poi
fossi un niente fatto d’ombra
e di fumo, tienimi sul cuscino
così te lo profumo». Un libro
che è anche un oggetto d’arte
editoriale che occorre assolutamente avere e leggere (con
furore e passione).
Quella stessa passione che ci
mette Elio Pecora quando in Le
strade delle parole (Mondadori,
2003, illustrazioni ancora, non
a caso, di Fabian Negrin) fa
un’operazione alta: seleziona
53 poesie di altrettanti autori
italiani da Pascoli a Zanzotto,
passando per Anna Maria Ortese, Fernanda Romagnoli, Bianca Tarozzi, Antonio Porta, Sandro Penna per offrire ai bambini la poesia così com’è, senza
se e senza ma, in presa diretta, con la fiducia propria di chi
sa che la poesia «è ciò che sta
tra le righe» e prima o poi salta fuori. ●
Scarica

48 - Xoom.it