Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Direttore: Francesco Gui (dir. resp.). Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy. Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Enrico Mariutti, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo. Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma. Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma tel. 0649913407 – e - mail: [email protected] Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006 Codice rivista: E195977 Codice ISSN 1973-9443 Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Indice della rivista ottobre - dicembre 2015, n. 37 MONOGRAFIE “Amor supera tutto”. Il valore politico dei sentimenti nel teatro di Antonio Simone Sografi di Pietro Themelly p. 3 Nostalgia per l'URSS. Politica e mass media di Emiliano Liutina Marroni p. 108 *** RECENSIONI Antonio Padoa Schioppa, Verso la federazione europea? Tappe e svolte di un lungo cammino, il Mulino, Bologna, 2014 (parte seconda) di F. G. p. 137 2 Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 “Amor supera tutto”. Il valore politico dei sentimenti nel teatro di Antonio Simone Sografi di Pietro Themelly Nel luglio 1797, A.S. Sografi (1759-1818), un commediografo veneto dell’ultimo Settecento allora assai celebre in tutta la penisola e autore a conclusione dell’opera sua di un centinaio di pièces, molte delle quali ormai disperse, presentava, al Teatro Civico di Venezia, nel corso della breve stagione della Municipalità provvisoria, Il matrimonio democratico, la sua prima commedia rivoluzionaria. Negli anni Novanta i suoi testi erano stati ispirati dal pensiero europeo contemporaneo e Simone si era fatto interprete di un illuminismo solidale, ottimistico e moderato. Pertanto se le nuove tendenze gli avevano fatto scoprire “le grandi filosofie individualistiche” aveva rifiutato ogni forma esasperata di soggettivismo che poteva scadere nelle “identità monologiche” o nell’anomia. In altri termini aveva rifiutato il nichilismo wertheriano di Goethe e l’Illuminismo radicale e libertino dell’Antiseneca di La Mettrie. Ne era scaturito un progetto che, pur lontano dall’estremismo culturale e politico, si assestava sul programma riformatore dei Lumi nutrendolo di elementi dinamici. Sografi in quegli anni, pur non prendendo mai esplicita posizione in favore della Rivoluzione francese, si mostrava sensibile ad ogni forma di rinnovamento tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata e familiare. Ebbene, in quell'anno 1797, con la Municipalità provvisoria di Venezia da poco instaurata, oltre che prossima al suo epilogo, il letterato padovano poteva finalmente esplicitare il suo pensiero divenendo, con la stesura di cinque testi redatti febbrilmente nel giro di pochi mesi, uno dei più noti rappresentanti del teatro patriottico italiano. 3 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 In questa sede, l’attenzione verrà focalizzata, in particolare, sul Matrimonio democratico, una pièce redatta nel 1797 e, come accennato, presentata per prima al pubblico della Municipalità. Nella sua suggestiva mescolanza di tematiche amorose e pubbliche, quest’opera riusciva a convogliare i temi privilegiati del disegno politico sografiano: l’adesione agli ideali dell’89, pur nel rifiuto del radicalismo politico e nella condanna del 1793 giacobino, i diritti dell’individuo, la lotta contro ogni forma di autoritarismo, ivi comprese, e valorizzate con passione, le libere scelte matrimoniali, non meno dell’esigenza del rinnovamento sociale fondato sul criterio del merito. Per contestualizzare la figura di Sografi si è sentita l’esigenza di ricostruire l’attività del locale Teatro Civico, frutto dell’atmosfera intensamente partecipe, seppure effimera, della Municipalità. Una associazione che si muoveva tra ufficialità e semiufficialità e che nonostante tutto esprimeva il grande sogno illuministico e rivoluzionario di teatro dell’utopia. Un organismo che intendeva ricostruirsi dal basso, fondato sull’idea dell’autodeterminazione della società civile: una struttura paritetica, egualitaria, all’interno della quale tutti gli associati avrebbero dovuto divenire organizzatori, autori e attori teatrali. Le istanze della libertà si intrecciavano con quelle dell’autorità sino a far incombere sulle rappresentazioni, come da taluno recentemente insinuato, il rischio dell’arte di stato. Per quanto concerne la produzione, si è proposta una scelta tematica volta ad evidenziare le ambivalenze del moderatismo: le tensioni dinamiche dell’opera di A.S. Sografi e G. Pindemonte si scontravano con quelle orientate al conformismo politico. Al tempo stesso, si è ritenuto opportuno collocare Il matrimonio democratico nell’ambito di un soggetto teatrale di lungo periodo: il tema dell’amore contrastato. Un motivo letterario remoto che si era si era aperto a due soluzioni antitetiche sin dai tempi della letteratura classica. All’ipotesi tragica che chiudeva la rappresentazione con il suicidio o la morte dei due innamorati ribelli alla volontà familiare, si contrapponeva la via d’uscita risolutiva e ottimistica culminante nelle felici nozze dei due amanti. Per schematizzare, il primo filone, riconducibile a Ovidio, trovava il suo culmine in Romeo e Giulietta di Shakespeare; l’altro da Terenzio giungeva sino al Settecento di Metastasio, Goldoni, Voltaire e Diderot. La rottura formale di questo secondo schema narrativo, che equivaleva, come si comprenderà oltre, ad una trasformazione sostanziale, avveniva in Italia soltanto con il Matrimonio democratico di Sografi nel clima della Rivoluzione francese. Pertanto, si sono ricostruite, a partire dal grande teatro di Marivaux, le motivazioni politiche e culturali che progressivamente portarono al naufragio di una simile concezione del mondo, fondata sull’esperienza emotive e destinata a passare immancabilmente attraverso la rivisitazione letteraria. In proposito si è sentita l’esigenza di 4 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 proseguire il sondaggio considerando tre opere di Voltaire e Goldoni, per passare successivamente ad una rapida incursione nella Venezia degli anni Ottanta (Albergati, Sografi, Pepoli), scoperta come un cuore pulsante del pensiero dei Lumi. Alcune deludenti commedie patriottiche italiane preluderanno alle considerazioni su Sografi. In altri termini, per comprendere Il matrimonio democratico è necessario collocare la commedia nel grande processo di trasformazione della sensibilità collettiva che coinvolge, com’è ormai noto, soprattutto le élites europee nella seconda metà del secolo. Un fenomeno indagato negli studi ormai classici di P. Hazard, D. Mornet, R. Mauzi, J. Deprun, L. Stone, M. Barbagli, C. Taylor e naturalmente molti altri. Tramite i testi letterari d’allora si percepisce un diverso modo di pensare, di sentire e di vivere, avanzano nuovi sentimenti, trionfano nuovi valori individuali e affettivi. Si definisce una nuova idea di famiglia costruita su rapporti intimi tra marito e moglie, padri e figli. In questo processo di affermazione della sensibilità individuale s’inserisce dunque l’opera di Sografi. Significativo è il modo con il quale il nostro raffigura la sua eroina Giulietta, la giovane aristocratica innamorata del caffettiere Tonino. La protagonista pensava di poter superare le differenze di ceto “a forza d’amore”. Soltanto riflettendo autonomamente sulla sua esistenza poteva comprendere il valore della scelta affettiva che aveva compiuto insieme a Tonino e che le consentiva di raggiungere la “felicità”. Quella scelta d’amore trovava la propria giustificazione solo in se stessa non nella obbedienza alla norma sociale. Pertanto le regole comunitarie potevano essere trasformate. Ogni individuo capace di essere virtuoso, cioè in grado di trovare se stesso, aveva una dignità pari a quella degli altri. Si trattava di trovare scelte condivise, capaci, attraverso il calcolo numerico dei singoli, di costruire una società democratica. Giulietta, in tal modo, scopriva che i sentimenti avevano un valore politico: la mésalliance era consumata. L’imminente arrivo dei francesi avrebbe consentito, nella Venezia degli ottimati e della fraterna, di sperimentare un modello di stato, capace di garantire i diritti dell’individuo. Il Teatro Civico di Venezia. Il matrimonio democratico di Sografi, una farsa, come accennato, ovvero un componimento breve risolto in un solo atto, debuttava a Venezia sulla scena del San Giovanni Grisostomo il 18 luglio 1797 nel “tripudio” del pubblico 1. Da circa Sul successo della farsa vedi «Monitore veneto» 22 luglio. Per il commento al testo, in particolare S. Romagnoli, La parabola teatrale del patriota Antonio Simone Sografi, in «Teatro in Europa», 1989, 5, pp. 58-65. Su A.S. Sografi vedi: Giuseppe Vedova, Biografia degli scrittori padovani, Minerva, Padova, 1836, v. II, pp. 292-98; Giacomo Bonfio, Cenni biografici di Antonio 1 5 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 due mesi si era insediata la Municipalità provvisoria e da poco meno di dieci giorni quello stesso teatro, il più grande dell’antica repubblica e “il più famoso d’Europa”, utilizzato tradizionalmente nel primo Settecento per il genere operistico, aveva assunto il nome e il progetto culturale del ricordato Teatro Civico2. Anche la città lagunare aveva ormai il suo palcoscenico rivoluzionario. Quella consueta manifestazione culturale, divenuta a fine secolo ormai di massa, poteva quindi svolgere una funzione di educazione permanente a forte penetrazione sociale, giungere anche là dove non arrivavano il libro, la scuola. Oltretutto il pensiero di quegli anni (o almeno una parte d’esso) aveva avanzato il primato del sentio sul cogito. Sul piano letterario, Diderot e poi in Italia Goldoni avevano attribuito a quel genere il compito di risvegliare le passioni e i sentimenti, di esplicitare i moti del cuore per suscitare la virtù 3. Qualche tempo prima, Voltaire aveva definito una parte della sua produzione scenica attendrissante, intendendola come una fusione armonica di due generi a quei Sografi, Bianchi, Padova, 1854; Lamberto Bigoni, Quattro commedie inedite di S.A. Sografi, Gallina, Padova, 1891; Id., Simone Antonio Sografi, Un commediografo padovano del secolo XVIII, in «Nuovo archivio veneto», 1894, VII, pp. 107-47; Bruno Brunelli, Un commediografo dimenticato: S.A. Sografi, in «Rivista Italiana del Dramma», 1937, I, pp. 171-88; Carlo Goldoni, Opere con appendice del teatro comico nel Settecento, a cura di Filippo Zampieri, Ricciardi, Milano-Napoli, 1954, pp. 1119 e ss.; Nicola Mangini, voce Sografi, in «Enciclopedia dello Spettacolo» Le Maschere, Roma, 1962, pp. 99 e ss.; Cesare De Michelis, Il teatro patriottico, Marsilio, Venezia, 1966, pp. 19-29; Id., Antonio Simone Sografi e la tradizione goldoniana in Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Olschki, Firenze, 1979, pp. 203-24; Id., Teatro e spettacolo durante la Municipalità provvisoria di Venezia, maggio-novenbre 1797, in Il teatro e la Rivoluzione francese, atti del Convegno di Studi, Vicenza 14-16 settembre 1989, a cura di Mario Richter, Accademia Olimpica, Vicenza, 1991, pp. 263-88; Milena Montanile, I giacobini a teatro, Società Editrice Napoletana, 1984, pp. 17 e ss., ivi il testo de La Rivoluzione di Venezia; Roberta Turchi, La commedia italiana del Settecento, Sansoni, Firenze, 1986, in particolare pp. 320 e ss; Sergio Romagnoli, La parabola teatrale del patriota Antonio Simone Sografi,cit.; Nicola Mangini, La parabola di un commediografo”giacobino”: Antonio Simone Sografi (con il testo inedito de La giornata di san Michele), in «Risorgimento veneto», 1990, 6, pp. 21-93; Paola Trivero, Commedie giacobine italiane, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1992, pp. 8 e ss. 2 Sul teatro di San Giovanni Grisostomo “il maggiore e il più splendido dei teatri veneziani del Seicento”, costruito nel 1677 nella zona di Rialto, ormai in decadenza e relegato in un ruolo secondario a partire dalla metà del secolo successivo, vedi N. Mangini, I teatri di Venezia, Mursia, Milano 1974, pp. 77-83; 140-50. Sulla breve esperienza della Municipalità provvisoria si indicano qui soltanto: G. Pillinini, 1797: Venezia “giacobina”, Editoria Universitaria, Venezia, 1997; G, Scarabello, La Municipalità democratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. Del Negro, P. Preto, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1988, pp. 263-356. 3 Per la questione in Diderot vedi, A. Ménil, Diderot et le drame. Théâtre et politique, PUF, Paris 1995 pp., 64-73. Su Goldoni vedi, L’Autore a chi legge in C. Goldoni, Pamela fanciulla orai n Id., Pamela fanciulla. Pamela maritata, a cura di I. Crotti, Marsilio, Venezia, 2002, p. 79. 6 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 tempi irriducibili: il tragico e il comico4. A Milano Cisalpina proprio in quei giorni vi era stato chi esortava a “eccitare” più che a “istruire” o, comunque, a istruire sempre eccitando5. Cosa vi era dunque di meglio del teatro per realizzare tale impresa? L’iniziativa marciana era dovuta a un gruppo di otto cittadini firmatari del Manifesto per l’istituzione del Teatro Civico di Venezia, il cui programma - volto alla formazione d’un club letterario d’istruzione popolare - era stato redatto intorno alla metà di giugno probabilmente al Caffè Florian, denominato per l’occasione “Caffè della Fratellanza patriottica”. Tra i sottoscrittori, che appaiono oggi soltanto come delle figure dal profilo “completamente sconosciuto e misterioso”6, spiccava, per primo, il nome del diciannovenne U. Foscolo7. Oltre a quel grande, solo due altri estensori, A. e F. Psalidi, erano contemporaneamente membri della locale Società di pubblica istruzione, l’associazione cittadina costituitasi già a fine maggio “per diffondere rapidamente i lumi, mostrare al popolo i suoi veri interessi, dargli i mezzi sicuri per conoscere i suoi veri amici e smascherare quelli che cercano di ingannarlo”. La compresenza nei due circoli degli stessi soci testimonia l’osmosi e il carattere federato tra le due nuove strutture marciane di politicizzazione. Anche a Venezia si era pertanto stabilito il classico legame di affiliazione tra circoli: tra la Vedi la Préface di Voltaire in Théâtre du XVIII siècle. Textes choisis, établis, présentés et annotés par J. Truchet, Gallimard, Paris, 1972, v. I, p. 874. 5 Vedi M. Gioia, in P. Magistretti, Memoria postuma di Mechiorre Gioia sull’organizzazione dei teatri nazionali, Pirola, Milano, 1878, pp. 46-48. 6 C. De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Olschki, Firenze, 1979, p. 225. 7 Il Manifesto per l’istituzione del Teatro Civico di Venezia è stato segnalato da G. Dumas in La premiere occupation française et le théâtre à Venise (1797), in «Bollettino storico livornese», 1954, p. 157. Le originarie considerazioni sono state svolte in Id., La fin de la République de Venise, aspects et reflet littéraires, PUF, Paris, 1964, pp., 353 e ss. Il testo è in Scritti sortiti nella Rivoluzione di Venezia seguita li 12 Maggio 1797, t. I, , pp. 337-41(Biblioteca Marciana, Venezia, 183,C, 188). Poi ripubblicato da C. De Michelis, Il Teatro Patriottico, Marsilio, Venezia, 1966, p. 55 e, successivamente, nell’edizione nazionale delle opere di U. Foscolo, v., VI, Scritti letterari e politici, 1796-1808, a cura di G. Gambarin, Olschki, Firenze, 1972, p. 719. Sulla questione vedi C. De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, cit., pp. 225-55 . Per una certa consonanza di motivi con le tesi dei firmatari vedi «Gazzetta urbana veneta», 21 giugno 1797 e «Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri, corredata di Notizie storico-critiche e del giornale dei teatri di Venezia», v. XII, pp. 3-4; v. XIII, p. 51. Sulle scelte di “sostegno” e insieme di “autonomia” della testata nei confronti degli associati del Teatro Civico vedi A. Abiuso, Sui tomi del “Teatro moderno applaudito” pubblicati durante la Municipalità provvisoria veneziana, in Il Teatro e la Rivoluzione, (Atti del Convegno di studi, Vicenza 14-16 settembre 1989), a cura di M. Richter, Accademia Olimpica, Vicenza, 1991, pp. 251-61. 4 7 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 società teatrale e la cellula madre. Un legame che non implicava necessariamente un vero e proprio rapporto di subordinazione 8. A Venezia i fondatori del Teatro Civico si erano sentiti promotori di un progetto ispirato alla nuova “sociabilità” politica, diffusasi in Francia con la Rivoluzione tramite il modello delle società popolari e dei circoli d’istruzione pubblica. Queste strutture per lo più inedite si erano costituite a volte, com’è peraltro noto, sulle ceneri delle antiche associazioni settecentesche o si erano sviluppate in seguito alla trasformazione di quegli stessi organismi. I club e i circoli, sorti spontaneamente nell’Ottantanove e poi disciplinati, strutturati in una rete federativa a partire dal 1792, sfuggenti al controllo governativo sia pur a seconda dei tempi e delle circostanze, sempre in continuo sviluppo, avrebbero compiuto la loro “esplosione spettacolare” nel 1793. Era tuttavia il decreto del 23 agosto 1795 a determinare la scomparsa di cinquemilacinquecento associazioni, una ogni ottomila abitanti è stato osservato, nel quadro di un più generale taglio dal basso della politica che mutatis mutandi si sarebbe esteso dalla Nazione guida alle Repubbliche sorelle9. Non è un caso che in Italia, nell’estate del 1797, M. Galdi e P. Custodi lamentassero, anche a Milano, l’ostilità governativa al riguardo, nonostante il carattere più flessibile della La Società di pubblica istruzione istituita il 27 maggio in seguito alla mozione di V. Dandolo in Assemblea e sciolta dall’autorità il 10 novembre, riuscì a raccogliere nel corso dell’estate 1797 circa 800 associati. Subordinato al controllo governativo, ma sempre oscillante tra ufficialità e semiufficialità, il club raccoglieva al suo interno un corpo di affiliati composito per orientamenti politico-culturali e per ragioni sociali. Accanto ad alcuni esponenti di rilievo del movimento patriottico italiano, assistettero alle riunioni anche alcuni barcaioli. Nel quadro di un dibattito dissonante, contraddittorio, variegato ed eterogeneo “la ricchezza delle discussioni” di tale “consesso operoso” restituiva la dimensione del “pluralismo delle opinioni”. Sull’attività dell’associazione vedi M. Simonetto, Opinione pubblica e rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, in Accademie e scuole. Istituzioni, luoghi, personaggi, immagini della cultura e del potere, a cura di D. Novarese, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 305-49. 9 Si indica qui soltanto J. Boutier, P. Boutry, Les sociétés politiques. Atlas de Révolution française, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Paris, 1992; D. Pingué, Les mouvements jacobins en Normandie orientale. Les societés politiques dans l’Eure et la Seine-Inférieure (1790-1795); Éd. du CTHS, Paris, 2001; M.L. Kennedy, The Jacobin Clubs in the French Revolution: The First Years, Princeton University Press, Princeton, 1982; A.M. Duport, M. Dorigny, J. Guilhaumon, F. Wartelle, Les congrès des societiés populaires et la question du pouvoir exécutif révolutionnaire, in «A.H.R.F.», 1986, 266, pp. 518-44; M. Vovelle, La scoperta della politica. Geopolitica della Rivoluzione francese, Prefazione di A.M. Rao, Edipuglia, Bari, 1995, pp. 146-172; P. Guennifey, R. Halévi, Club e società popolari, in F. Furet, M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese,Bompiani, Milano, 1989, pp. 432-445. Per la situazione italiana vedi, M. Simonetto, Opinione pubblica e rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, cit., ivi indicazioni bibliografiche sull’ associazionismo italiano del tempo. 8 8 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Costituzione cisalpina, che pur si richiamava a quella francese dell’anno III10. Poco dopo, sempre in città, questa volta a novembre, V. Dandalo in un discorso appassionato reclamava in Assemblea la riapertura dei circoli costituzionali. Si appellava alla Carta mettendo a nudo il gesto d’imperio dell’autorità11. Già si profilava la svolta autoritaria della primavera-autunno 1798: una vicenda per la quale la Cisalpina sarebbe passata da un sistema democratico-liberale ad un regime liberale-conservatore12. In questo contesto difficile dovevano dunque esordire le sperimentazioni marciane della “sociabilità” politica. Gli orientamenti teatrali dei governi tuttavia lasciavano aperto qualche spiraglio alla libertà di manovra, alla costituzione di una società scenica pluralista capace di riaggregarsi autonomamente dal basso, anche se le intenzioni originarie dei legislatori erano state diverse. Un Concorso bandito a Milano tra 1797 e 1799 voleva affrontare il problema della riforma nazionale del teatro rivolgendosi “a tutti i cittadini” della penisola13. I nodi irrisolti della discussione settecentesca sulla questione degli attori, della scena, dei repertori, tornavano nel pettine. Erano destinati tuttavia a sciogliersi secondo la prassi della ragion politica. Il palcoscenico da “pulpito” per la formazione civile e morale dell’individuo, com’era stato auspicato dalla cultura dei Lumi, assurgeva ora a scuola di sentimenti e di costume repubblicano. La propaganda politica correva il rischio di spegnere la memoria di un’auspicata coscienza civile. Nonostante il Concorso e un vasto dibattito capillarmente e variamente articolato nelle Repubbliche italiane del Triennio, non si riuscì a realizzare il progetto desiderato. Naufragò nei fatti l’idea del teatro nazionale ovvero l’organizzazione di un sistema scenico controllato, diretto e sovvenzionato dallo Stato. Ovunque si ricorse a un sistema misto privilegiando ancora il vecchio indirizzo impresariale 14. B. Maschietto, Cultura e politica nell’Italia giacobina. Spunti dall’esperienza cisalpina, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome», 108, 1996, 2, pp., 730 e ss. L’articolo 299 della Costituzione cisalpina del luglio 1797 recita: “i cittadini hanno diritto di formare stabilimenti particolari di educazione e di istruzione, come ancora società libere per concorrere al progresso delle scienze, delle lettere e delle arti”. Formula ripresa sostanzialmente invariata nella seconda Carta cisalpina del 1798 (art. 295) e nel marzo dello stesso anno anche dalla Costituzione della Repubblica romana (art. 293). Vedi Le Costituzioni italiane, a cura di A. Aquarone, M. d’Addio, G. Negri, Edizioni di Comunità, Milano, 1958, (Titolo X Istruzione pubblica), pp. 113, 147, 251. 11 Assemblee della Repubblica cisalpina, per cura di C. Montalcini ed A. Alberti, Zanichelli, Bologna, 1917, v. I, parte I, p. 119 (seduta del 5 frimale VI). 12 C. Zaghi, Il Direttorio francese e la Repubblica cisalpina, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1992, v. I, pp. 413-72, II, 539-691. 13 P. Bosisio, Tra ribellione e utopia. L’esperienza teatrale in Italia nelle repubbliche napoleoniche (17961805), Bulzoni, Roma, 1990; P. Themelly, Il teatro patriottico tra Rivoluzione e Impero, Bulzoni, Roma 1991. 14 R. Turchi, Il teatro civico, in «Rivista di Letteratura italiana» 1989, VII, 2-3, pp., 289-310. 10 9 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Lo slancio riformatore ripiegava pertanto sul mantenimento e sulla possibile modernizzazione dell’ esistente: si contraeva sino a perdersi in rigorose norme di vigilanza e di censura. Solo qualcosa della originaria lezione francese era dunque giunta in Italia15. Al di là delle Alpi, tra 1789 e 1791 la liberalizzazione delle rappresentazioni e la rottura del monopolio dei teatri ufficiali aveva prodotto un’esplosione creatrice che aveva comportato una proliferazione di piccoli teatri autonomi e autogestiti: i teatri di via di quartiere, di Boulevard. Con il Terrore e con Termidoro si era compiuta una restaurazione censoria. Tuttavia, se il Comitato di salute pubblica aveva avanzato un progetto centralistico di nazionalizzazione e politicizzazione integrale del teatro, il Direttorio aveva riaffermato la libertà e il carattere privato delle imprese teatrali pur ripiegando su una prassi di limitati controlli delle rappresentazioni affidati alle autorità centrali e periferiche16. Il quadro sopra tracciato e in particolare le considerazioni relative alla nostra penisola hanno rivelato un contesto segnato dalla coesistenza tra la direzione statale e l’iniziativa privata nella gestione del sistema scenico. Era il sistema misto allora vigente nel nostro paese che consentiva la possibile nascita di un teatro politico parallelo e autonomo rispetto a quello gestito dallo stato. È dall’impulso di improvvisate società di dilettanti, dalla partecipazione di cittadini privati civilmente impegnati che scaturisce l’esperienza del Teatro Civico, non solo a Venezia ma anche a Roma, Milano, Cremona, Brescia e verosimilmente in altre città, sia pure spesso con denominazioni e caratteri differenti. In questa prospettiva acquista pieno significato l’idea di “teatro dell’utopia” suggerita da R. Turchi per la vicenda qui presa in esame. L’idea cioè di una sperimentazione scenica impegnata nel presente e foriera di sviluppi futuri17. Il Teatro Civico si qualificava, o voleva qualificarsi, come una esperienza radicalmente innovativa e indipendente, lontana dai rischi di un progetto militante piegato alla celebrazione monocratica dell’arte di Stato. Anche i firmatari del Manifesto foscoliano intendevano costituire un organismo informale e autogestito, capace di raccogliere un numero adeguato di sottoscrizioni funzionali alla libera gestione d’un proprio teatro. I principi costitutivi della Dichiarazione del 26 agosto 1789: libertà e proprietà, imponevano non l’esproprio del San Giovanni Grisostomo ma la sola concessione temporanea, probabilmente l’affitto (i documenti sono reticenti) con i proprietari della struttura, i conti Grimani di S. Maria Formosa, secondo P. Themelly, Il teatro patriottico, cit., pp. 45 e ss. M. Carlson, Le théâtre de la Révolution Française, Gallimard, Paris, 1970, pp. 69, 96-106, 122, 203, 320. G. Trisolini, Il Teatro della Rivoluzione. Considerazioni e testi, Longo, Ravenna, 1984, pp. 22 e ss., M. Albert, Les Théâtres de Boulevards (1789-1848), Slatkine, Genève, 1978, pp. 98 e ss., e passim. 17 R. Turchi, Il teatro civico, cit. 15 16 10 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 un’abitudine allora invalsa18. L’accordo tuttavia sarebbe stato valido soltanto “sino a tutto settembre prossimo venturo”, quando il teatro sarebbe tornato sotto la gestione della Compagnia Battaglia, com’era stato sin dal 177519. L’ambizione dei patrioti era quella di promuovere un repertorio inedito e originale e di formare un corpo di attori completamente rinnovato. Per far ciò l’associazione voleva aprirsi senza riserve a tutti, agli uomini e alle donne, stimolare nella misura del possibile il dibattito nella società. La redazione dei testi e la pratica scenica avrebbero dovuto coinvolgere, gratuitamente, l’insieme dei partecipanti. Il semplice cittadino poteva dunque divenire autore e attore teatrale, o forse addirittura “doveva” diventarlo in quanto patriota: “Non viviamo nella incertezza. Per non essere sempre un nulla, scuotiamoci!”, concludeva perentoriamente il documento firmato da Foscolo20. L’iniziativa dei soci sembrava peraltro avere in quei giorni anche l’appoggio della stampa e a fine luglio poteva contare su più di trecento adesioni21. Era stata la Municipalità, tramite il Comitato di pubblica istruzione, in un “foglio volante” non datato e redatto verosimilmente intorno al 20 giugno, ad accogliere la proposta dei firmatari del Manifesto e a fissare le norme che regolamentavano l’attività della nuova associazione 22. Foscolo, proprio in quei giorni, nei suoi interventi presso la Società di pubblica istruzione aveva avanzato la tesi giacobina della dittatura rivoluzionaria. Per il poeta anche la censura poteva essere giustificata da un imperativo morale: “la democrazia non Dagli anni Quaranta il teatro, forse anche per la gestione gravosa e deficitaria, era passato a una conduzione di tipo misto: al controllo diretto della famiglia Grimani seguivano fasi di gestione impresariale. Vedi N. Mangini, I teatri di Venezia, cit., pp. 140-150. I Grimani di S. Formosa, una delle famiglie più antiche e influenti della città, da sempre interessata alla attività scenica, era proprietaria anche dei teatri Ss. Giovanni e Paolo e S. Samuele. A metà Settecento la Casa era inserita nella seconda classe della suddivisione del corpo aristocratico operata da G. Nani ovvero tra coloro “che hanno più del loro bisogno”. Vedi V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, Jouvence, Roma 1997. 19 Archivio di Stato, Venezia, Democrazia, b. 88. Sulla gestione del San Giovanni Grisostomo da parte della Compagnia Battaglia, N. Mangini, I teatri di Venezia, cit., pp. 149-50. 20 Manifesto per l’istituzione del Teatro Civico di Venezia, cit. 21 Vedi «Monitore veneto» 27 maggio, 3 e 21 giugno; «Gazzetta urbana veneta», 28 giugno. Ma anche «Il teatro moderno applaudito» cit., t., XII e XIII (giugno e luglio, 1797). Per le iscrizioni all’associazione vedi «Monitore veneto», 22 luglio. 22 Il Comitato di Pubblica Istruzione agli autori di teatrali rappresentazioni, ai capi comici ed impresari di opere. Il documento è in Archivio di Stato, Venezia Democrazia, b. 167. Il testo ora anche in C. De Michelis, Il Teatro patriottico, cit., p. 56. Per la datazione del documento, a conferma, vedi «Il Monitore veneto», 21 giugno: “Il Teatro Civico si va preparando […] Vari soci s’affrettano a produrre i loro parti d’ingegno, altri si addestrano alla più esatta rappresentazione che si dovrà eseguire nel teatro di San Giovanni Grisostomo”. 18 11 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 può stabilirsi che con la forza e […] da questa dipende l’esercizio della sovranità d’un popolo libero”23. La classe dirigente veneziana, ormai chiusa l’esperienza del Terrore, si richiamava invece ai diritti dell’individuo per tracciare le nuove regole di disciplinamento dell’attività teatrale. Il governo si impegnava a “togliere ogni revisione perché opposta ai principi liberi della democrazia”. Per compiere l’impresa tuttavia il Comitato si appellava all’idea illuministica dell’autonoma assunzione di responsabilità di tutti coloro che, a vario titolo, erano impegnati nell’attività teatrale: “nel teatro il piacere medesimo tenga luogo di legge e supplisca agli ordini del legislatore”. Non senza ambiguità comunque il testo si concludeva nella risoluzione del governo a perseguire tutto ciò che fosse stato contrario “alla religione”, “al costume”, “alla personalità”24. La Municipalità tuttavia nello stesso tempo si dichiarava interessata ad appoggiare l’impresa. In una lettera “aperta” pubblicata a inizio luglio sul Monitore poteva leggersi: “è ferma intenzione del Comitato nostro il prestare tutta la sua autorità per proteggere la vostra saggia e utile istituzione”25. Gli studi hanno messo in evidenza le incertezze e le contraddizioni del programma formulato da Foscolo e dal gruppo di patrioti che si raccoglieva intorno al Teatro Civico e presso la Società di pubblica istruzione. Si è insistito sul carattere retorico e paternalistico del Manifesto, sulla sua dimensione sovrastrutturale, sino a cogliere pericolose tendenze totalitarie, non solo nelle più scontate direttive della Municipalità, ma anche nelle scelte personali dei patrioti in merito al valore politico della comunicazione scenica. In tal modo l’idea e il messaggio del teatro patriottico non avrebbero contribuito alla liberazione interiore dell’individuo ma l’avrebbero proiettato nella condizione spersonalizzata d’una astratta servitù volontaria. Per C. De Michelis in particolare, la Rivoluzione, anche quella marciana, avrebbe tradito e soffocato, pur riproponendoli, gli ideali che avevano dato impulso al rinnovamento teatrale settecentesco. Una società fondata sulla “dittatura della virtù”, su una concezione etica dello stato, su istituzioni di controllo, di direzione e di censura non avrebbe potuto realizzare una riforma che si era ispirata agli ideali di una società civile autoregolantesi, libera nelle sue contrattazioni, nelle sue scelte, nel suo mercato. Una concezione ed una pratica dell’arte, sorte da un progetto politico, si dovevano rivelare inconciliabili con la libertà dell’autore e del pubblico. L’intellettuale, persa la sua autonomia, e il pubblico, divenuto soggetto passivo d’un processo pedagogico etero-diretto, decretavano la subalternità della letteratura e del U. Foscolo, Scritti letterari e politici, 1796-1808, cit., p. 17. Il Comitato di Pubblica Istruzione agli autori, cit. 25 «Monitore veneto» 12 luglio 1797. 23 24 12 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 teatro. Alla severità di questo giudizio si aggiunge la constatazione del fallimento politico e sociale dell’esperienza veneziana, che trova il suo simbolo nella figura storica di Ugo Foscolo, per il quale la scoperta della concreta dimensione dei problemi giunge “troppo tardi”, “quando ormai non c’è più tempo” e giunge “confusa”, “astratta”, “inevitabilmente sospesa nel vuoto”26. Al di là d’ogni giudizio di valore sul significato complessivo di quella articolata esperienza che prese il nome di Teatro Civico, per i soci il compito prioritario e più urgente era quello di allestire un repertorio da mandare subito in scena. Le testimonianze contemporanee e la lista cronologica delle rappresentazioni cittadine che correda i tomi del «Teatro moderno applaudito» sembrano confermare le difficoltà d’affermazione che ebbe la nascente letteratura democratica nel corso dell’estate-autunno 1797 a Venezia. Il vecchio teatro persisteva e certo non soccombevano, sempre intramontabili, gli scenari dell’Arte che continuavano a godere di uno straordinario favore del pubblico27. Il nuovo repertorio dunque non decollava o quanto meno conseguiva risultati parziali. Era comunque difficile rinnovare un genere in un semestre, e l’impresa si sarebbe rivelata ancora più ardua per i promotori della fugace “utopia”del Teatro Civico, un’esperienza che si sarebbe risolta nel tempo breve di poco più di due mesi. Alle resistenze tradizionali di gusto e di pubblico si univano i rifiuti e la diffidenza dei capocomici e delle compagnie teatrali, ostili per costume a ogni forma di innovazione. L’avversione di costoro verso il teatro politico è ben documentata in una farsa in musica semisconosciuta, redatta in quegli anni probabilmente in area lombarda. La monarchia distrutta può essere considerata il manifesto simbolico del teatro d’evasione. Emerge, nelle scene della commedia, una linea morbida di resistenza contro il teatro patriottico: bisogna dare all’opinione - esclama il Diavolo Guercio, maschera di un impresario che rischia il fallimento - quel che essa richiede, non grandi scosse, non pericolosi contenuti eversivi. Si teorizzava così la liquidazione della politica, si rifiutava ogni allusione ai problemi del presente. Quel che più interessava ai gestori d’un teatro che non intendeva allinearsi sulle posizioni del rinnovamento era contentare il pubblico, adattarsi all’indole del paese. L’impresario fortunato - C. De Michelis, Letterati e lettori, cit., pp. 225-54. Vedi i tomi XII-XVI, redatti da giugno a ottobre 1797, de «Il teatro moderno applaudito», cit. e a solo titolo d’esempio la «Gazzetta urbana veneta» del 28 giugno, 12 luglio, 4 ottobre 1797. Più in generale G. Dumas, La fin de la République de Venise, cit., pp. 354 e ss. Nella stessa Francia rivoluzionaria la situazione non era diversa. Il teatro popolare continuava ad essere legato alle maschere e, più in generale all’evasione, producendo “des farces sans moralité […] nì caractère politique”. M. Albert, Les Théâtres de Boulevards (1789-1848), cit., pp. 86 s ss. 26 27 13 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 concludeva il Diavolo Guercio- deve offrire all’opinione solo quel che essa realmente vuole28. Anche nella Venezia della sperimentazione e della riforma si rifletteva l’analogo processo che aveva investito, in quegli anni, la società italiana. Sulle scene marciane, come sui palcoscenici di Roma e di Milano del tempo, la rivoluzione ispirava esplicitamente solo qualche testo29. In definitiva, soltanto una quindicina di titoli costituivano il nuovo repertorio patriottico marciano. Non diversa sembrava configurarsi la stagione del Teatro Civico. Il 30 luglio, a venti giorni dal debutto, un contemporaneo si doleva del “troppo breve numero di componimenti democratici” rappresentati su quel palcoscenico. Invitava gli spettatori e i seguaci del nuovo ordine a sospendere il giudizio e ad attendere, considerata la difficoltà di realizzare, in poco tempo, una “sì vasta impresa”30. L’attento esame compiuto da C. De Michelis sull’attività del Teatro Civico - la scena che raccolse una buona parte dei nuovi contributi patriottici conferma la linea di tendenza che abbiamo indicato31. Il calendario offrì qualche novità, il recupero della migliore tradizione italiana e straniera, alcune concessioni al gusto del tempo. Per un essenziale ripensamento delle singole opere si rinvia al contributo qui sopra menzionato. In questa occasione si La monarchia distrutta. Dramma per musica da rappresentarsi all’Inferno con il Diavolo Guercio impresario fallito, s.d., s. l., Atto unico, scena ultima. Il testo in Archivio di Stato, Milano, Studi Parte Antica, b. 111. Una raccolta di lettere di capocomici che rifiutano di rappresentare le pièces patriottiche sono custodite nell’Archivio del teatro Verdi di Padova. L’indicazione è in A. Bohm, Notizie sulle rappresentazioni drammatiche a Padova dal 1787 al 1797, Visentini, Venezia, 1902, p. 72. 29 “Arlecchino, Brighella e Pantalone continuano a istruirci nelle loro lingue, delle loro maniere e delle loro virtù buffonesche. Il popolo […] beve queste pozioni arlecchinesche con molta avidità in mancanza di altre bevande che pure gli si dovrebbero giornalmente apprestare”. «Termometro politico della Lombardia», 4 brumaio a. VI. Così, sconsolatamente, si esprimeva il capocomico V. Broccoletto a Milano il 7 gennaio 1798 in una lettera ai rappresentanti del Direttorio Esecutivo: “Esposi una domenica l’Arlecchino: questo incontrò moltissimo al gusto de’ francesi […] all’improvviso mi venne proibito dal governo, mi feci pregio di obbedire a quel comandante e senza replicare un accento, quando la sera il generale Rey mi fece chiamare nella sua loggia […] Egli mi ordinò che assolutamente annunciassi per l’indomani l’Arlecchino che esso avrebbe pensato al resto, e se non l’avessi fatto gliene avrei reso conto. […] la mattina fui dal governo arrestato e messo in prigione […] la sera per mezzo dello stesso generale posto in libertà”. La lettera è in A. Paglicci Brozzi, Sul teatro giacobino e antigiacobino in Italia, 1796-1805, Tipografia Pirola, Milano, 1887, p. 64. La stampa allora lamentava con frequenza la persistenza del vecchio teatro: si consideri per la Repubblica romana a titolo esemplificativo il solo «Monitore di Roma» alle date 9 e 26 maggio 1798; 14, 21 e 25 pratile, 6 caldifero, 26 fruttifero a. VI; 29 piovoso, 29 messidoro, 2 fruttidoro, a. VII. 30 «Giornale dei teatri di Venezia», in«Il teatro moderno applaudito», cit., XIV, p. 2. 31 C. De Michelis, Teatro e spettacolo durante la Municipalità provvisoria di Venezia maggio-novembre 1797, in Il Teatro e la Rivoluzione, cit., pp.265-88. 28 14 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 traccerà il solo quadro d’insieme per poi proporre l’ipotesi di due soggetti tematici suscettibili di esami futuri. Negli ottantaquattro giorni di attività (10 luglio -1 ottobre) e nelle cinquantacinque recite tenutesi presso il Teatro Civico vennero rappresentati diciassette titoli, cinque dei quali stranieri, tratti dal repertorio classico o politicamente più impegnato degli ultimi sessant’anni32. Tra questi si segnalavano due tragedie di Voltaire: La morte di Cesare (1731) e il Maometto (1736). Si trattava di due opere, introdotte in Italia da M. Cesarotti nel 1762, testi che avevano costituito, a Padova e a Venezia, forse non solo per Sografi, il tramite letterario con il pensiero dei Lumi33. Si rese il consueto omaggio ad Tra questi un certo rilievo sembra assumere La vera bravura una farsa rappresentata il 18 luglio, in seguito alla messa in scena de Il matrimonio democratico di Sografi. Il testo venne pubblicato nel t. XII de «Il teatro moderno applaudito». La traduzione riproduceva fedelmente le 22 scene de La Vraie bravoure, comédie en un acte et en prose. Par les citoyens Duval et Picard, représentée, pour la première fois sur le Théâtre de la République, le 13 frimaire an 2e. A Paris chez Lepetite, libraire, quai des Augustins, N°. 32. L’opera ebbe, sino al luglio 1794, più di venti repliche a Parigi presso il Théâtre français de la rue de Richelieu. L.B. Picard (1769-1828), figlio di un avvocato parigino, si dedicò già a venti anni alla attività teatrale. Autore, direttore di teatro, membro dell’Académie française, pur rimanendo un minore scrisse, autonomamente o in collaborazione, quasi sessanta pièces rappresentate prevalentemente alla Comédie-Française o all’Opéra-Comique. A. Duval (1767-1842) originario di Rennes, partì giovanissimo volontario per la guerra d’America, fu successivamente marinaio, tabaccaio, ingegnere. Attore dal 1790, divenne solo successivamente autore teatrale. Scrittore prolifico, la sua opera è raccolta in nove volumi pubblicati tra il 1812 e il 1825. Nel 1812 era stato eletto anch’egli membro de l’Académie française. Per entrambi vedi J. Gourret, Ces hommes qui ont fait l’Opéra, Albatros, Paris, 1984. Per quel che qui più interessa il testo con le sue riserve critiche poneva in discussione le strutture portanti e la stessa mentalità dell’Antico regime. L’editore della traduzione italiana era consapevole dell’importanza dell’argomento “opportunissimo –scrisse nell’Introduzione- ci sembrò dare ai cittadini soldati ed offiziali nostri una delle più importanti lezioni sul preteso punto d’onore […] uno dei pregiudizi più nocivi all’umanità […] che avrebbe dovuto cadere con la feudalità che l’aveva prodotto”. Il duello, il punto d’onore -bersagli polemici della farsasono la manifestazione di una concezione del mondo che rischiava di sopravvivere ai rapporti di forza che l’avevano generata, esprimeva una concezione vacuamente individualistica della persona umana, un senso esasperato ed orgoglioso di sé ed insieme il rifiuto di ogni considerazione dell’importanza degli altri, dei rapporti sociali. Perciò il protagonista della commedia rifiuta di battersi contro colui che lo ha offeso, consapevole della priorità dei valori sociali e patriottici, per i quali soltanto mette conto rischiare la vita: “lasciamo questo pregiudizio che si chiama onore agli egoisti che si fanno un dovere di uccidersi per una parola […] il mio onore consiste nel servire e difendere la patria”. Atto unico, 22. Sulla questione,che sarà qui ripresa in seguito, vedi M. Cavina, Il sangue dell’onore. Storia del duello, Laterza, RomaBari, 2005, in particolare pp. 206-35. 33 Il Cesare e il Maometto tragedie del signor Voltaire trasportate in versi italiani con alcuni ragionamenti del traduttore, In Venezia presso Pasquali, 1762. L’edizione uscita anonima fu inviata dall’autore, tramite Goldoni, a Voltaire. Per qualche considerazione, P. Themelly,Il teatro di Antonio Simone 32 15 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Alfieri e a Goldoni mandando in scena il Bruto primo (1789), la Locandiera (1753) e L’avaro (1756). Si recuperarono inoltre gli autori italiani contemporanei la cui produzione era stata segnata dal nuovo pensiero: si scelsero due pièces di F. Albergati Capacelli e una di G. Greppi34. Si privilegiarono cioè gli autori “militanti”, i poeti che, seppur “veneti d’adozione”, avevano animato il dibattito della locale Società filodrammatica nel corso degli anni Ottanta, insieme a G. Pindemonte, a A.S. Sografi e a A. Pepoli. Grazie all’impulso di costoro, che tuttavia seguiva l’indirizzo intrapreso negli ultimi anni da E. Caminer Turra, la tradizione letteraria locale si era aperta alla cultura francese contemporanea, come oggi ormai è noto35. Su questo corpo “classico” ormai consolidato, che ai soci probabilmente appariva come la migliore tradizione patria e d’oltralpe, furono innestate sei novità. Tra queste figuravano due opere Sografi tra cultura dell’lluminismo e suggestioni della Rivoluzione, «Eurostudium3w», 2014, ottobredicembre, p. 5. 34 Il capriccioso farsa del cittadino Francesco Albergati Capacelli in Venezia 1797 Primo della libertà italiana, venne rappresentata il 2 agosto. Sempre in quel mese, la sera del 9, invece andava in scena Il matrimonio improvviso farsa del cittadino Francesco Albergati Capacelli, in Venezia 1797 Primo della libertà italiana. I testi vennero poi raccolti nei tomi XIII e XV de «Il teatro moderno applaudito», cit. Il dramma in cinque atti di G. Greppi L’amore irritato dalla difficoltà, tenutosi il 30 luglio, era una ripresa di Teresa e Claudio, un’opera del letterato emiliano che a parere dell’anonimo articolista aveva debuttato a Venezia al San Luca nel 1786 riportando poi “lo straordinario applauso ogni anno su quasi tutti i teatri d’Italia”. Vedi «Il teatro moderno applaudito», cit., XIV, p. 83 ivi anche il testo della pièce. 35 A. De Paolis, Una letterata veneta tra giornalismo e traduzioni: Elisabetta Caminer Turra, in Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto: dal Neoclassicismo al primo Romanticismo.(Atti del Convegno internazionale, Lecce-Castro, 15-18 giugno 2005), a cura di G. Coluccia e B. Stasi, Congedo, Lecce, 2006, v. II, pp. 137-148; M. Liuccio, Elisabetta Caminer Turra, La prima donna giornalista italiana, Il Poligrafo, Padova, 2010. Vedi la voce E. Caminer Turra redatta da C. De Michelis, in «Dizionario Biografico degli Italiani», Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, XVII, 1974, pp. 236-41. Su A. Pepoli vedi la voce di S. Minuzzi, «Dizionario Biografico degli Italiani», cit., LXXXII, 2015, pp. 258-60; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 196-201; Su G. Pindemonte, M. Petrucciani, Giovanni Pindemonte nella crisi della tragedia, Le Monnier Firenze, 1966; P. Themelly, Adesione e dissenso tra Rivoluzione e Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, letterato e politico veneto (1789-1804), in «Eurostudium3w», 2010, 17, pp. 7-47. Su G. Greppi. vedi la voce di L. Rodler, in «Dizionario Biografico degli Italiani», cit., LIX, 2002, pp. 326-28. Su F. Albergati Capacelli, vedi E. Masi, La vita i tempi e gli amici di Francesco Albergati commediografo del XVIII secolo, Zanichelli, Bologna, 1878; Id., Parrucche e sanculotti nel secolo XVIII, Treves, Milano, 1886, pp. 119-40; A. Asor Rosa voce Francesco Albergati Capacelli, in «Dizionario Biografico degli Italiani», cit., I, 1960, pp. 624-7; E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”. Francesco Albergati Capacelli commediografo, Il Mulino, Bologna, 1993. 16 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 di Sografi, Il matrimonio democratico e L’ex Marchese della Tomboletta a Parigi36. Per arricchire un repertorio locale ancora gracile ed in fieri, capace d’allestire al momento solo qualche farsa improvvisata, si ricorse alle nuovissime pièces della letteratura politica italiana, ai testi cioè redatti per la stagione teatrale 1796-97. Si favorirono le opere che avevano riscosso maggior successo sui palcoscenici dell’Italia settentrionale. Tra queste alcune saranno più avanti richiamate al fine di collocare in modo adeguato il contributo di Sografi nella produzione contemporanea37. La rivisitazione dell’Alfieri: adattamenti e contaminazioni. Ricostruita in estrema sintesi l’attività del Teatro Civico presenteremo, come accennato, i lineamenti di due nuclei tematici che ne caratterizzarono, con efficacia, la produzione. Un certo significato sembrano assumere gli adattamenti delle tragedie di Alfieri, delle rielaborazioni compiute sull’opera di quel grande a fine secolo in Italia, testi per lo più trascurati dagli studiosi nei loro esami. Si ricorderà il Bruto primo messo in scena a Venezia nel 1797 per poi compararlo o con analoghi interventi compiuti dai patrioti nel corso del Triennio. Altrettanto interessanti appaiono le poche opere teatrali che affrontano esplicitamente sui palcoscenici cittadini il tema della Rivoluzione a Venezia. Una comune ispirazione politica moderata anima e guida la redazione di questi testi. Alla natura statica e convenzionale propria della prima esemplificazione si contrappongono i fermenti dinamici che pervadono la L’ex marchese della Tomboletta a Parigi, del testo perduto resta il resoconto in «Il teatro moderno applaudito», cit., v. XV, ora anche in C. De Michelis, Teatro e spettacolo durante la Municipalità provvisoria di Venezia, cit., pp. 277-78. 37 Come si vedrà meglio in seguito saranno qui discusse La Rivoluzione. Commedia patriottica. Bologna 1797, anno I della libertà italiana. L’opera andava in scena dal 2 al 4 ottobre al San Giovanni Grisostomo, ormai ex Teatro Civico, per opera della compagnia “comico-patriottica” Battaglia che l’aveva già rappresentata “con successo” a Bologna nella primavera dello stesso anno. Una seconda edizione della stessa venne stampata in quei giorni a Venezia con dedica a Bonaparte. La figlia del fabbro di C. Federici, un classico del repertorio patriottico, aveva avuto la sua prima a Brescia, nel dicembre 1796: successivamente fu rappresentata a Venezia, al San Luca, dal 20 al 23 ottobre, per essere poi ripresa in molti palcoscenici italiani sino ad essere pubblicata a Torino, nel 1797, per i tipi di Pane e Barberis. Le altre due pièces che esamineremo in rapporto ai testi di Sografi invece non comparvero sui teatri marciani. Si tratta, nel primo caso, di un’opera andata in scena a Mantova, nel marzo 1797, in occasione della “liberazione” della città: L’aristocratico convertito. Commedia di cinque atti di prosa. Mantova, presso la società tipografica all’Apollo. Anno I della libertà italiana. Il secondo è quello di un’opera emiliana del 1798, una sorta di catechismo repubblicano sceneggiato, Il repubblicano si conosce alle azioni ossia la scuola de’ buoni costumi. Commedia patriottica di carattere di cinque atti del cittadino Giambattista Nasi juniore modanese, in Modena presso la Società Tipografica. Anno VI Repubblicano. 36 17 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 seconda. Entro quest’ultimo itinerario si colloca l’opera di Sografi che sarà qui rievocato con una breve considerazione utile per lo sviluppo del nostro discorso. La rappresentazione del Bruto primo d’Alfieri, che inaugurava il 10 luglio l’attività del Teatro Civico, si richiamava, come si è già ricordato, a un orientamento diffuso tra i patrioti italiani38. Nel corso del Triennio l’opera di Alfieri riscosse grande fortuna anche per quella “immediata fruibilità spettacolare” della quale gli studiosi hanno preso atto39. La Virginia, il Bruto primo, il Bruto secondo furono fra le tragedie del repertorio settecentesco più frequentemente rappresentate nelle Repubbliche patriottiche. Di esse si ebbero ristampe, adattamenti, versioni e interpretazioni musicali40. Da una parte l’accentuazione libertaria, dall’altra la sostanziale estraneità di Alfieri al movimento patriottico (tra il 1789 e 1798 l’astigiano scriveva il Misogallo41) suggerivano agli editori e agli organizzatori teatrali adattamenti e ritocchi ai testi. Questi interventi sono stati giudicati dagli studiosi come delle iniziative che tendevano a “giacobinizzare” le tragedie alfieriane42. In realtà si trattava di operazioni censorie che miravano a stemperare l’impianto radicale della rappresentazione come testimonia la nostra edizione veneziana del 1797. A corredo del Bruto primo veniva pubblicato un Prologo in cinquantadue versi, scritto, per esplicita richiesta della Società di pubblica istruzione, dall’avvocato M. Butturini un discepolo e collaboratore di A. Pepoli originario di Salò43. Il Prologo offre una chiave di lettura moderata della tragedia. Il commentatore celebrando il crollo dell’oligarchia attribuisce il “dono” della Bruto primo. Tragedia del conte Vittorio Alfieri, in Venezia l’anno 1797. Primo della libertà italiana, in «Il Teatro moderno applaudito» cit., t. XIII. 39 Vedi per tutti G. Santato, Il giacobinismo italiano. Utopie e realtà tra Rivoluzione e Restaurazione, Vallardi, Milano, 1990, p. 79. 40 Bruto primo tragedia del cittadino Vittorio Alfieri da rappresentarsi nella sala degli Accademici imperiti. Primo della Repubblica romana. In Roma presso il cittadino Gioacchino Puccinelli a S. Andrea della Valle; Virginia dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro Alibert nell’autunno nell’anno VII Repubblicano, in Roma presso il cittadino M. Puccinelli; Bruto [primo] dramma per musica in due atti di G. Marrè da rappresentarsi nel Teatro di S. Agostino il Carnevale dell’anno 1799. II della Repubblica Ligure. 41 Il Misogallo, steso tra 1789 e 1798, rielaborato a partire dal 1793 venne pubblicato anonimo a Londra nel 1799. Vedi V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di C. Mazzotta, v. III, Casa d’Alfieri, Asti, 1984. 42 Vedi per tutti V. Monaco, La repubblica del teatro (momenti italiani 1796-1860), Le Monnier, Firenze, 1968, pp. 27 e ss. 43 Vedi Bruto primo ed. veneziana 1797 cit., pp. 54-6. 38 18 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 libertà al “franco genio guerriero” che discende dalle Alpi44. Il concetto alfieriano della libertà intesa come lotta di liberazione veniva dunque meno. L’attenzione degli spettatori era così orientata verso gli “infami eccessi” della tirannide dei Tarquini e al “sublime esempio” della virtù di Bruto. È un’interpretazione che, se non travisa, smorza il significato della tragedia. Il senso politico del Bruto primo alfieriano consiste nella scoperta della “patria vera”, “creata dai cittadini”45; nella volontà di riappropriarsi della città con le armi: “libera or sorge da quel sangue Roma”46; nella considerazione della inevitabilità dello scontro con il tiranno, per cui s’innalza, già nell’87, il grido che sarà giacobino “libertà o morte”47. Il commento sorvola sul tema centrale della tragedia ispirata dalla connessione “morte-virtù” (propria dei tempi “eroici” della Rivoluzione) espressa dal tradimento dei figli e dalla inesorabile sentenza di Bruto. Si sorvola anche sull’altro nodo: il momento costituente. Nel Foro, dopo la cacciata dei Tarquini, patrizi e plebei si adunano per fondare la comunità dei cittadini liberi ed eguali: “qui dunque in breve -proclama Bruto- plebei e patrizi aduneremci: e data fia più stabil base a libertà per noi”. A queste parole “il popolo”, diventato nazione, risponde coralmente: “il primo dì che vivrem noi sia questo”48. In tale contesto i termini chiave erano appunto “plebei” e “patrizi”: la cittadinanza democratica superava, nella nuova carta dei diritti, i vecchi contrasti di classe. Eppure, proprio quel termine “plebe” cade sotto la censura dei patrioti veneziani, come rivelano le tavole delle correzioni della edizione del 1797, nella quale esso è sostituito per ben quattordici volte, da espressioni onnicomprensive e interclassiste come “popolo” o “figli” per la plebe; “padri”, e “figli illustri” per i patrizi e i senatori49. “Da queste sponde/ l’esecrato oligarchico sistema/ opra di cento lustri, alfin disparve/ e disparve per sempre […] Oh fausto dono/ che a noi portò/ scendendo giù dall’Alpe/ fra gli allori guerrieri e i miti ulivi,/ il Franco Genio”. Ivi, Prologo, p. 54. 45 Vedi V. Alfieri, Bruto primo, Atto I, 1, 2. 46 Ivi, Atto V, 2. 47 Ivi, Atto I, 2, II, 5, IV, 3. Anche nella Virginia redatta da Alfieri nel 1781 “il popolo” innalza il grido “o libertade o morte”, vedi Atto II, 3. 48 V. Alfieri, Bruto primo, Atto I, 2. 49 Vedi Bruto primo ed. veneziana 1797 cit., e Bruto primo tragedia del cittadino Vittorio Alfieri da rappresentarsi nella sala degli Accademici imperiti. Primo della Repubblica romana, cit. Dalle Tavole delle correzioni si ricordano qui i due interventi che sono sembrati più significativi: Alfieri, Atto I, 1: “qui dunque, in breve plebei e patrizi aduneremci” ed. Venezia 1797: “in breve padri e figli aduneremci”. Alfieri, Atto II, 5: “Patrizi illustri,/voi pochi ormai del fero brando illesi,/ dal re tiranno; e voi, tra loro il fiore,/Senatori, adunarvi infra la plebe/libera e giusta sdegnereste or forse?/”. Ed. Venezia 1797: “Voi vecchi padri/già pochi ormai dal ferro brando illesi/ del re tiranno; e voi, speme di Roma,/ figli illustri, d’unirvi ad un popol forte/ libero e giusto sdegnereste or forse/”. 44 19 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Anche negli adattamenti musicali delle tragedie alfieriane (destinate, comunque, a trasmettere suggestioni patriottiche negli strati più vari della società) i temi forti dell’opera di Alfieri si disperdono. Tanto può riscontrarsi nel Bruto primo, musicato e rappresentato a Genova nel carnevale 179950: un dramma nel quale gli elementi estranei alla stesura originale -gli amori di Tito, figlio di Bruto, per la figlia del tiranno (una concessione al repertorio tradizionale ed al gusto corrente)- complicano ed impoveriscono la trama. La tremenda semplicità del dilemma di Bruto si edulcora nella sovrapposizione dei conflitti paralleli, nelle rotture e nei ravvicinamenti tra i due innamorati. L’idea nuova di patria, che in Alfieri è sentimento onnipervadente, valore supremo, è orecchiato e oratoriamente declamato nella versione musicale51. Anche nella versione musicale della Virginia rappresentata a Roma repubblicana l’intreccio, che è lineare in Alfieri, è complicato da espedienti narrativi e scenografie che vorrebbero suggestionare emotivamente lo spettatore. Ma non è solo per l’artificiosità della trama che si attenua lo spessore drammatico di personaggi come il tiranno Appio e l’eroe Virginio. Predominano gli affetti individuali, vien meno la dinamica libertaria della tragedia, l’aspra contrapposizione delle parti nel Foro: manca il grido del popolo che, come nel Bruto primo, reclama “libertà o morte”52.In Virginio c’è più il dramma del padre che lo sdegno del cittadino offeso. La conclusione è tremenda in Alfieri: “agli infernali dei con questo sangue il capo tuo consacro” grida Virginio al tiranno dopo aver ucciso la figlia53. Invece nella versione musicale, dopo l’auspicio della morte del Decemviro, il coro intona una strofa di ottonari che celebra l’inizio d’una nuova era di calma e di felicità per tutti54. Il mito della Rivoluzione di Venezia Il rapido esame sin qui compiuto e gli esempi sull’adattamento dei testi di Alfieri, hanno messo in evidenza la reale difficoltà dei patrioti di organizzare in Bruto [primo] dramma per musica in due atti di G. Marrè, cit. Ivi, Atto I, 12. Vedi anche il Bruto milanese, ossia la congiura contro Galeazzo Maria Sforza Visconti, ballo tragico pantomimo composto da Urbano Garzia, s. d., s. l., ma Milano 1798. Anche questo ballo testimonia la tendenza a permeare di anticorpi repubblicani e latamente democratici le trame del vecchio teatro. L’autore, nell’Introduzione, dichiara di aver voluto rendere il “sublime e patriottico” tema del tirannicidio “più sentimentale e piacevole”, introducendo gli amori di Duca con Massimina. 52 V. Alfieri, Bruto primo, Atto I, 2, II, 5, IV, 2. 53 Ivi, Atto V, 4. 54 Virginia dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro Alibert nell’autunno nell’anno VII Repubblicano, cit., Atto II, 26: “Sciolta è Roma dai tiranni/ dopo tanti acerbi affanni/ siede alfin la libertà./ Solo in lei fra bella calma/ la cagion ritrovi ogn’alma/ della sua felicità”. 50 51 20 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 breve tempo il loro repertorio politico. In altri termini tanto al San Giovanni Grisostomo, quanto negli altri teatri cittadini e più in generale in tutti quelli d’Italia, si fece allora quel che si poté inevitabilmente condizionati dalla stretta dei tempi. Cercheremo di ricostruire tra poco il senso del contributo di Sografi nell’ambito di un filone letterario di lungo periodo. Si fermeranno ora, come già accennato, alcune considerazioni circostanziate sull’altro nucleo tematico contrapposto agli adattamenti d’Alfieri. Il ripensamento delle opere ispirate al tema della Rivoluzione a Venezia consente di esplicitare, sia pur tramite l’indeterminatezza del linguaggio letterario, quelle tensioni dinamiche che, con oscillazioni e ambivalenze, caratterizzano il moderatismo veneto di fine secolo. Solo tre rappresentazioni (non erano comunque poche) affrontavano a Venezia il tema allora sentito della riforma dello stato: ovvero il problema “autoctono” della rivoluzione antioligarchica. Una tragedia di G. Pindemonte, l’Orso Ipato, e due commedie di A.S. Sografi, La giornata di San Michele e La Rivoluzione a Venezia, testi scritti di “getto” dai due poeti, affrontavano esplicitamente l’argomento: i tempi sembravano propizi55. In questa sede è possibile fermare soltanto qualche considerazione. Un senso d’insoddisfazione e di crisi, insieme al presagio di una imminente catastrofe si erano diffuse in città, negli ultimi cinquant’anni prevalentemente tramite la memorialistica e i trattati politici56. L’inesorabile fine di un sistema millenario di governo, la caduta della “fabbrica”, era ormai imputabile non solo a “pressioni” esterne ma soprattutto a “cedimenti” interni57. L’inerzia della classe dirigente e il progressivo sfaldamento del regime oligarchico, insieme alla graduale disarticolazione del patriziato sembravano accentuare le tradizionali difficoltà nella gestione della Civitas e nelle consuetudinarie relazioni tra centro e periferia. A fine secolo, oltretutto, si era sempre più accentuata la distinzione tra due corpi aristocratici del tutto Orso Ipato. Tragedia del Cittadino Giovanni Pindemonte, in Venezia 1797, Anno I della Libertà Italiana, dalle Stampe del Cittadino Casali. Notizie sulla fortuna e sulle diverse edizioni dell’opera in M. Petrucciani, cit., pp. 74 e ss.; C. De Michelis, Il Teatro Patriottico, Marsilio, Padova, 1966, pp. 30-3; la tragedia può oggi leggersi nella edizione a cura di M. Montanile in Ead., I Giacobini a teatro. Segni e strutture della propaganda rivoluzionaria in Italia, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1984, pp. 27-93. L’opera riproduce anche Il ms de La Rivoluzione di Venezia, (pp. 95-121); il ms de La giornata di San Michele. Rappresentazione democratica del Cittadino Sografi, è pubblicato in N. Mangini, Parabola di un commediografo giacobino: Antonio Simone Sografi, in «Risorgimento veneto», 1990, 6, pp. 53-93. 56 P. Del Negro, La fine della Repubblica aristocratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. Del Negro e P. Preto, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, pp. 191 e ss. ; P. Del Negro, La memoria dei vinti. Il patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di R. Zorzi, Olschki, Firenze, 1992, pp. 351-70. 57 P. Del Negro, La fine della Repubblica aristocratica, cit. 55 21 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 disomogenei58. Tra i patrizi poveri, sempre più poveri e numerosi, che ormai reclamavano diritti e occupavano la maggioranza dei seggi del Maggior Consiglio, e i reali detentori del potere, una cerchia sempre più ristretta di ottimati59. Costoro governavano dall’alto del Collegio dei Savi concedendo pur qualcosa alle più defilate frange del patriziato “mezzano” che comunque controllavano, con spirito tradizionalista, il Consiglio dei Dieci e le cariche di Inquisitore di Stato60.Torneremo tuttavia più avanti sulla questione al fine di comprendere meglio il pensiero di Sografi. Se il quadro era dunque questo ben si comprendono le speranze di Pindemonte e Sografi verso un programma generale di rinnovamento. I due letterati provenienti dalla provincia veneta erano pronti, probabilmente ancor più Pindemonte, a rispolverare anche le vecchie tentazioni municipaliste. Il veronese tuttavia subordinava le tradizionali aspettative a richieste nuove, capaci di mutarne il senso. Per i due scrittori, che avevano già da tempo espresso le loro riserve critiche nei confronti dei programmi più radicali ed estremi d’oltralpe, l’arrivo dei francesi pareva poter rendere finalmente possibile l’iniziativa riformatrice61. Un indirizzo, quest’ultimo, che era stato ancor più osteggiato a fine secolo dal patriziato dominante divenuto sempre più restio ad accogliere qualsiasi istanza di rinnovamento dopo la “contraddittoria” stagione riformatrice del 1764-177362. La sconfitta del programma propugnato da A. Tron e delle rivendicazioni “corporative”63 della plebe nobiliare avevano difatti rafforzato sin dagli anni Ottanta l’orientamento conservatore dei maggiorenti e la cristallizzazione politica dell’apparato. Pindemonte e Sografi sin dalle prime scene dei loro nuovi componimenti patriottici celebravano, in teatro, il sistema democratico, una forma di governo che avrebbe dovuto sorgere sulle ceneri dell’antico regime oligarchico. Il nuovo sistema politico sembrava essere l’unica via possibile per garantire il rilancio V. Hunecke, Il patriziato veneziano, cit. Ivi, pp. 33-82.; Id., Il corpo aristocratico in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, v. VIII, cit., pp. 359-429. 60 P. Del Negro, La fine della Repubblica aristocratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, v. VIII, cit., pp. 199 e ss. 61 Per il distacco di entrambi i patrioti dal radicalismo e dal giacobinismo vedi, P. Themelly, Adesione e dissenso tra Rivoluzione e Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, cit.; Id., Il teatro di Antonio Simone Sografi tra cultura dell’lluminismo e suggestioni della Rivoluzione, cit. 62 Si indicano qui soltanto: F. Venturi, Settecento riformatore, v., V, t. II, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Einaudi, Torino, 1990; P. Preto, Le riforme, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. del Negro e P. Preto, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, pp. 83-142; G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Dal Bianco, Udine, 1980; S. Perini, Riforme veneziane tra economia e finanza nel secondo Settecento, in «Studi Veneziani», 46, 2003, pp., 185-229. 63 M. Berengo, La società veneta, cit., p. 9. 58 59 22 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 generale della vita comunitaria, sempre più imbrigliata nei lacci della vetusta organizzazione politico-amministrativa veneziana64. Nondimeno l’esigenza egualitaria finiva per stemperarsi con lo sviluppo della trama. Tra l’altro l’idea stessa di ripristinare libere assemblee e magistrature elettive e temporanee si prestava a esprimere insieme tanto le vecchie rivendicazioni di ceto, quanto i nuovi diritti universali della cittadinanza 65. Entrambi gli autori erano poi convinti che la Rivoluzione non dovesse guardare al futuro quanto piuttosto essere rivolta al passato66. In definitiva anche un grande novatore come Montesquieu, nella sua polemica contro lo stato di Luigi XIV si era richiamato alla “purezza” dell’antico “governo gotico” che lo sviluppo storico aveva degradato e corroso67. Per riportare in vita il vero “modello” bisognava dunque abolire la storia, cancellarne lo scorrere del tempo. Questo doveva essere anche il compito della Rivoluzione: essa più che tendere a realizzare nuove iniziative doveva impegnarsi a reiterare ciò che era stato già compiuto, ad adoperarsi fattivamente per riscoprire il “paradiso degli archetipi”. Anche i due patrioti veneti seguivano un atteggiamento tipico della mentalità rivoluzionaria: il loro teatro riattualizzava nell’idea di “nuova era” la repubblica dei primordi. L’alba felice del mondo si traduceva a Venezia nel ristabilire l’antico primato del Maggior Consiglio 68. In una discussione appassionata che conclude il primo atto della Rivoluzione di Venezia di Sografi, era addirittura una donna, Chiaretta, una patrizia “democratica e brillante”, a indicare la nuova rotta: “Basta che convegnimo in sto principio che una rivoluzion in Venezia xe necessaria, che chi la desidera xe zente dabben, che el popolo gha da tornar quel che el giera, e che quel conseggio che xe sta serrà co tanta scelleraggine xe ora che el sia averto con onor, con rason sotto i stendardi della virtù, dell’uguaglianza, della libertà”69. La primitiva assemblea assurgeva così a simbolo dell’autogoverno della società civile. Sembrava identificarsi In Pindemonte l’anticipazione di questi temi può cogliersi già nei Sonetti composti tra 1795 e 1797 vedi: “D’Unni e Sciti peggior Gallico stuolo”; “Osserva, o donna, o vincitrice o vinta”; “Popol soggetto del Leone alato”; “Il giorno 16 maggio 1797” ora in P. Themelly, Adesione e dissenso tra Rivoluzione e Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, cit. Vedi anche l’Argomento in Orso Ipato, ed. cit., 31. Cfr. La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2, 6. 65 G. Pindemonte, Orso Ipato, Atto II, 4, 8, V, 10. A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto II, 17. A.S. Sografi La giornata di San Michele, Atto III, 2. 66 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2. A.S. Sografi, La Giornata di San Michele, Atto I, 5, II, 1. G. PIndemonte, Orso Ipato, Atto V, 9. 67 C-L. de Secondat de Montesquieu, L’Esprit de lois, XI, 8. Vedi, in particolare l’Introduzione di R. Derathé all’ed. it., BUR, Milano, 1989, p. 43. 68 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2, II, 17. A.S. Sografi, La Giornata di San Michele, Atto II, 3. G. PIndemonte, Orso Ipato, Atto II, 4, 8. 69 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 7. 64 23 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 nell’idea di una associazione fondata sul principio dalla sovranità popolare70. Il modello tuttavia pareva poter anche scadere nella concezione di una riunione di corpo, nella rievocazione di un organismo primigenio capace di esprimere i soli interessi del ceto aristocratico riaggregato su principi egualitari 71. La pratica della Rivoluzione si traduceva nell’esigenza di accomodamento dell’esistente. L’idea di riforma si sovrapponeva a quella di trasformazione sino a negarne il significato. La rievocazione della Repubblica dei primordi era stata già preannunciata da Pindemonte qualche tempo prima, in una “patriottica fatica”, nel celebre Discorso sulle cause della decadenza della Repubblica veneta72. Il poeta aveva scorto, prima della catastrofe napoleonica, “il fatal discioglimento” di ”un’autorità moribonda”73. La crisi che gravava sulla città e si ripercuoteva sui Domini era da imputarsi alla degenerazione della aristocrazia in oligarchia: un processo che si era compiuto già nel basso Medioevo74. Il governo da “democratico” era divenuto sempre più “aristocratico”75. I Consigli ristretti (La Signoria, il Consiglio dei Dieci, il Collegio) controllavano l’attività del Maggior Consiglio, esautorandolo di fatto dalle sue funzioni e orientavano le scelte del Senato. I sei Savi Grandi, i veri detentori del potere, erano “maneggiatori” e “arbitri di tutti gli affari”76. Tali cariche, pur elettive e temporanee, erano tuttavia precluse ai membri delle famiglie nuove, povere e di “mediocri fortune” del patriziato cittadino77. Da questa crisi della politica bisognava dunque uscire. Era necessario rilanciare un programma, inaugurare una buona pratica di governo. Tuttavia Pindemonte, nel Discorso come nell’Orso Ipato, non invocava la riforma, non proponeva alcuna innovazione: auspicava il solo ritorno alla “purezza” originaria della Repubblica veneta78. L’operetta si configura come una biografia e un esame di coscienza dell’autore: funzionario e amministratore cittadino. Un A.S. Sografi, La Giornata di San Michele, Atto I, 3, II, 1, 3, III, 2. A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2, II, 11. G. Pindemonte, Orso Ipato, Atto V, 10. 71 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 4.La testimonianza più esplicita tuttavia è in Venzel. Commedia in quattro Atti del Cittadino Sografi scritta per il Teatro S. Angelo l’anno 1797. Il ms. in Biblioteca Civica, Padova C. M. 649/15. Vedi in particolare, Atto I, 2. 72 Il Discorso, redatto verosimilmente dopo l’aprile 1796, può ora leggersi in Poesie e lettere di Giovanni Pindemonte, raccolte e illustrate da G. Biadego, Zanichelli, Bologna, 1883, pp. 325-350, ivi, pp. LVII e ss. notizie sulla redazione del manoscritto. 73 Ivi, p. 326. 74 Ivi, p. 327. 75 Ivi, p. 338. 76 Ivi, p. 337. 77 Ivi, p. 338. 78 Ivi, p. 327. 70 24 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 esame che è insieme politico-intellettuale ed esistenziale. Tramite la “prova” del Discorso Pindemonte sembrerebbe riuscire a proiettare le tradizionali rivendicazioni di ceto in una dimensione non più corporativa ma generale. Il rimpianto del patrizio veronese verso la “primitiva costituzione” “ottima e ammirabile79” ormai sempre più degradata non riesumava il “mito”cinquecentesco della perfezione istituzionale del “governo misto”. Semmai l’orientava verso la protesta sei-settecentesca dell’ “antimito”: una protesta che individuava le ragioni della “precipitosa ruina” nella degenerazione oligarchica del sistema80. Ma forse, nello scritto del poeta, vi era di più. “L’ammirabile costituzione” era rivisitata da un uomo dell’ultimo Settecento che seppur impegnato nella difesa corporativa delle “famiglie nuove”, nelle rivendicazioni cioè dei gruppi minoritari del patriziato di provincia cooptati al governo ma frustrati nelle ambizioni politiche, era tuttavia aperto alle idee contemporanee della riforma istituzionale. Il Maggior Consiglio, “fonte della pubblica autorità che da lui si dirama negli altri consessi”, resta indubbiamente, nelle pagine dell’operetta, l’antica assemblea di ceto che riuniva con eguali diritti tutti i nobili veneziani 81. Ma quel che più colpisce è l’attenzione riservata da Pindemonte a un sistema fondato sull’ equilibrio dei privilegi. Una forma di governo cioè equilibrata e bilanciata, ispirata dal principio della rappresentanza, sorretta dall’idea della continua limitazione e trasferimento della sovranità82: principi e convincimenti che acquistavano allora, nella nuova congiuntura storica, un significato completamente inedito. Nel Discorso accanto al tema istituzionale acquista rilievo l’ipotesi di una riqualificazione dell’attività politica: il politico deve essere una persona autenticamente degna. Si profila l’ipotesi di una società fondata non più sull’ “odioso diritto di nascita” ma “sui meriti”, “sui talenti”, “sulle conoscenze”, “sulla esperienza governativa”83. Principi che larvatamente si richiamano Ibidem. Si indicano qui soltanto: G. Cozzi, Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Il Cardo, Venezia, 1995, pp. 325-409; P. Del Negro, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, in Storia della cultura veneta. Dalla Controriforma alla fine della Repubblica, a cura di G. Arnaldi, M. Pastore Stocchi, v. 4, II, Il Seicento, Neri Pozza, Vicenza, 1984, pp. 407-436; Id., Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in Storia della cultura veneta, cit., v. 5, II , Il Settecento, pp. 123-145; Id., Il corpo ottimatizio marciano nel Settecento, in «Studi Veneziani» XLV, 2003, pp. 107-117. 81 G. Pindemonte, Discorso sulle cause, cit., p. 328. 82 Ibidem. 83 Ivi, p. 352; 338 e ss. 79 80 25 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 all’articolo 6 della Dichiarazione dei Diritti del 26 agosto 178984. Anche G. Pindemonte patrizio di provincia, escluso dalla politica vera e aggregato al Maggior Consiglio solo nel 1782, con lo sguardo rivolto al passato si muoveva ora nella direzione del futuro85. I fermenti liberali sottesi all’Orso Ipato si arricchivano di spunti dinamici nella Giornata di San Michele e nella Rivoluzione di Venezia di Sografi. In entrambe le opere l’autore sviluppa l’istanza meritocratica che pur affiora nel pensiero di Pindemonte sino a farla divenire l’idea guida che sovraintende e regola la scrittura dei due testi. Le commedie del patavino delineano l’ipotesi di una società in incessante trasformazione, aperta, collaborativa e promozionale, proiettata oltre il “fissismo” d’Antico regime 86. Questi testi ispirati dal principio dell’eguaglianza giuridica, attribuivano alle nuove magistrature civili il compito di rendere possibile la piena realizzazione d’ogni individuo secondo le proprie capacità e inclinazioni. Pertanto anche sulla scena i protagonisti delle opere di Sografi si battono per garantire l’eguaglianza delle opportunità e per costruire una società di diseguali, nella quale la diseguaglianza è determinata dal solo criterio del merito87. Abbiamo già fatto cenno, in un altro contributo, a come quella concezione dinamica della diseguaglianza che costituiva il “cardine” teorico del progetto politico di Sografi poteva divenire l’elemento disgregante della gerarchia degli ordini, la premessa per la destrutturazione della società d’Antico regime88. In particolare a Venezia, l’antico ordinamento costituzionale che “sopravviveva intangibile e intatto a distanza di cinque secoli”89 attribuiva a quella iniziativa un carattere epocale. Lo spirito della Rivoluzione sembrava “La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi son ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici, secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti”. Il testo della Dichiarazione in A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, Einaudi, Torino, 1952, pp. 66-68. 85 “Nato in una città suddita governata sempre da uno de’ più doviziosi signori di Venezia […] nell’età d’anni trenta […] venni in pensiero di passare dal ceto de’ sudditi a quello de’ governanti”. Il 22 settembre 1782, non senza qualche espediente, Pindemonte diveniva membro del Maggior Consiglio, il 31 maggio 1788 era nominato podestà di Vicenza. Vedi Poesie e Lettere di Giovanni Pindemonte, cit., Prefazione, pp. XVIII; XXV; Appendice, pp. 328; 353. 86 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 3, 7; La giornata di San Michele, cit., Atto I, 5, II, 3, 9; Venzel. Commedia in quattro Atti, cit., Atto I, 7, III, 4. 87 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, cit., Atto II, 11; La giornata di San Michele, cit., Atto II, 1. 88 Sulla questione vedi L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane, cit., pp. 229-231. Vedi anche Id., “Mente, cuore, coraggio, virtù repubblicane”. Educare il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 127-129. 89 M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, cit., p. 5. 84 26 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 dunque poter orientare i tradizionali convincimenti del movimento riformatore veneziano del secondo Settecento. Comunque sia il nuovo assetto politico-istituzionale celebrato sul palcoscenico con le opere di Pindemonte e Sografi suggeriva non solo l’ipotesi della riforma delle istituzioni cittadine ma auspicava anche nuovi e più equilibrati rapporti tra centro e periferia. La stessa vicenda della Municipalità provvisoria è parsa a F. Venturi soprattutto come una“rivoluzione antiveneziana”, “lentamente preparat[a] nei decenni precedenti”, un’esperienza ormai capace di proiettare il “patriottismo dei piccoli centri” nella nuova dimensione “italiana”90. “I popoli liberi non conoscono capitale” si affermava provocatoriamente in città già nei primi giorni del giugno 1797 91. Era il “tentativo di abolire la supremazia, il dominio di Venezia sopra le altre città, sopra il suo impero”92. L’Orso Ipato, non a caso, si inaugurava con il dialogo tra Maurizio e Leone, due abitanti delle "adriatiche isolette", tradizionalmente rivali per motivi di confine, eppur "fratelli", pronti a riunirsi in una grande assemblea per superare le discordie fomentate dal Doge e a lottare insieme per un avvenire comune migliore93. Erano stati i principi della limitazione della sovranità e della libertà politica che avevano fatto scorgere, in particolare al patrizio Pindemonte, le nuove esigenze ormai generali della comunità. Da tale corpo di idee si prefigurava l’ipotesi di uno stato fondato sul principio della libertà nell’ambito di una unica legge: la legge della nazione, la norma nella quale tutti si devono riconoscere. Principi e regole generali verso le quali ogni potere, sia centrale che periferico, doveva richiamarsi ed obbedire. La compresenza di poteri distinti garantiva la limitazione e l’equilibrio delle istituzioni anche tra centro e periferia. Impediva la pericolosa concentrazione dell’autorità in un solo individuo, in un gruppo o in un ente. Sarebbe stato così possibile eliminare per sempre i rischi del dispotismo, dell’assolutismo, dell’arbitrio: gli incubi per il riformatore del secondo Settecento. In tal modo centro e periferia non sarebbero più apparsi più come delle strutture in perenne conflitto ma, invece, come degli enti coordinati, cooperanti e complementari94. Nella prefazione dell’Orso Ipato F. Venturi, Tavola rotonda sul volume di F. Venturi La Repubblica di Venezia (1761-1797) in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di R. Zorzi, Olschki, Firenze, 1992, pp. 448 e s. 91 F. Venturi, La Repubblica di Venezia (1761-1797), cit., pp. 454 e ss. 92 Id., Tavola rotonda, cit., p. 459. 93 G. Pindemonte, Orso Ipato, cit., Atto I, 1. 94 Avevamo già ipotizzato la “lettura” montesquieuana della “Repubblica dei primordi” nel Discorso sulle cause, cit., di G. Pindemonte in P. Themelly, Adesione e dissenso tra Rivoluzione e Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, cit. Cfr., a questo proposito, C-L. de Secondat de 90 27 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 l’autore dedicava la sua tragedia “all’Italia libera”, una nazione che auspicava ben presto riunita “in una sola Repubblica indivisibile”95. L’opera andava in scena al Teatro Civico l’11 settembre, un mese prima di Campoformio 96. A Venezia già dall’ultima decade di maggio il movimento d’opinione di ispirazione democratico, non certo i gruppi dirigenti, aveva avanzato soluzioni che auspicavano “l’eguaglianza” tra la città e le municipalità di terraferma al fine di giungere alla stesura di una Costituzione nata dall’unione “di tutti i popoli liberi d’Italia”97. L’eco di questi pensieri giungeva sino ai testi di Pindemonte e Sografi e ne arricchiva il contenuto. Era opportuno dunque porre fine all’antico rapporto di dipendenza che subordinava i territori dello “Stato da Terra” alla città dominante, una città che non sembrava più essere la capitale di un sistema statale organico e coerente. Di fatto tutte le più alte cariche periferiche erano riservate ai patrizi di Venezia su mandato del Maggior Consiglio, mentre la nobiltà di terraferma, solo teoricamente detentrice di prerogative politiche, versava in una condizione di subalternità anche economica. I distretti periferici costituivano, poi, un insieme frammentario ed eterogeneo: diversificato in ragione di leggi consuetudinarie e di privilegi amministrativi, fiscali, giudiziari98. Tale disarticolazione e dissesto, cresciuti progressivamente nel corso del Settecento, esplicitavano una crisi di sistema che poteva far apparire a fine secolo la Repubblica quasi come un aggregato di popoli divisi. L’idea del vecchio assetto federativo, ovvero di una felice e concorde interrelazione dinamica tra le città, era tramontata per sempre insieme a quella del “mito” cinquecentesco elaborato da G. Contarini. L’idea cioè, già ricordata, della perfezione istituzionale della Repubblica: un regime costruito sul mirabile equilibrio di un sistema misto perfettamente bilanciato nei rapporti tra le diverse parti del tutto. Le province ormai ribelli, prive di reale autonomia e governate in modo dispotico, innalzavano le loro proteste Montesquieu, L’Esprit de lois, XI, relativamente alla questione della monarchia temperata. Vedi anche l’Introduzione di R. Derathé all’ed. it., BUR, Milano, 1989, p. 43. 95 G. Pindemonte, Orso Ipato,vedi l’Introduzione dell’Autore All’Italia libera. 96 Il presentimento della fine non impedì il successo della rappresentazione e la replica della stessa per 11 sere. Sentito fu il sostegno della stampa, vedi «Monitore veneto» e «Gazzetta urbana veneta», 13 settembre 1797. 97 G. Scarabello, La municipalità democratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, cit., p. 294. La Società di Pubblica Istruzione fu particolarmente attiva a riguardo proponendosi come un nucleo d’avanguardia nel processo di rinnovamento politico della nuova repubblica. Per una ricostruzione del dibattito vedi, M. Simonetto, Opinione pubblica e rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, cit., pp. 319-332. 98 Venezia e lo stato di terraferma tra storia e mito, a cura di L. Rossetto, Provincia di Treviso, Treviso, 2008; W. Panciera, La Repubblica di Venezia nel Settecento, Viella, Roma, 2014. 28 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 contro la Dominante. Una protesta sempre crescente destinata a esplodere a fine secolo con le “nuove di Francia” e con gli sviluppi della guerra. Negli anni Trenta il nobile veronese S. Maffei aveva redatto il Suggerimento per la perpetua preservazione della Repubblica di Venezia, un opuscolo tuttavia destinato a divenir celebre solo nella temperie politico-culturale della Municipalità provvisoria. Il letterato pensava che per uscire dalla crisi e rilanciare lo sviluppo fosse necessario riformulare i rapporti tra centro e periferia. Era dunque opportuno coinvolgere nell’impegno pubblico e civile il maggior numero possibile di cittadini della repubblica. L’autorità sconsigliò la pubblicazione del Suggerimento che apparve a stampa, come si è accennato, solo grazie al nuovo clima di attese e di speranze, nel 1797 con il titolo di Consiglio politico99. Si crede verosimilmente che l’opuscolo, “quella grande utopia patrizia di Scipione Maffei” fosse aperto sul tavolo di lavoro di Pindemonte e Sografi, contribuendo in modo notevole alla stesura delle pièces appena descritte100. Per concludere queste considerazioni introduttive e inevitabilmente sommarie, tuttavia utili per comprendere il contesto nel quale si trovava a operare Sografi, è opportuno ritornare al nostro autore. Anche da quel poco che si è ricostruito appare evidente che Simone non compare nelle iniziative legate alla formazione della società teatrale rivoluzionaria. Peraltro non vi sono neanche tracce di una sua partecipazione al dibattito cittadino presso la Società di pubblica istruzione, associazione nella quale certamente non era tra i soci101. Tuttavia era proprio il commediografo patavino, sia pur su richiesta del Comitato di pubblica istruzione, ad avviare negli ultimi giorni di maggio la trattativa per la gestione del San Giovanni Grisostomo con la proprietaria Il Suggerimento per la perpetua preservazione della Repubblica di Venezia attraverso il presente stato d’Italia e dell’Europa, venne redatto tra la fine del 1736 e l’inizio del 1737. Solo sessant’anni dopo vi fu, come si è accennato, la prima edizione a stampa con il diverso titolo di Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell’anno 1736 dal marchese Scipione Maffei. Diviso in tre parti. In Venezia dalla Stamperia Palese, 1797. Sull’opuscolo si indicano qui soltanto: E. Pii, Il “Consiglio politico” di Scipione Maffei, in «Annali della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugia», XIX, 1982-1983, pp. 345-358; P. Ulvioni, La filosofia morale di Scipione Maffei in Scipione Maffei nell’Europa del Settecento, Atti del Convegno, Verona, 23-25 settembre 1996, a cura di G.P. Romagnani, Cierre Edizioni, Verona, 1998, pp. 399-425; Id., Note per una nuova edizione del “Consiglio politico” di Scipione Maffei, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, a cura di G. Benzoni, Il Cardo, Venezia, 1992, pp. 301-8; Riformare il mondo: il pensiero civile di Scipione Maffei. Con una nuova edizione del Consiglio politico, a cura di P. Ulvioni, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2008. 100 G. Ricuperati, in Tavola rotonda, cit., p. 466. 101 Vedi l’elenco dei soci (ancora oggi incompleto) pubblicato in M. Simonetto, Opinione pubblica e rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, cit., pp. 339-40. 99 29 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Virginia Chigi Grimani102. Ormai coinvolto nella vicenda, Sografi si apprestava a offrire il suo contributo. In una lettera di qualche giorno successiva proponeva all’autorità i suoi testi democratici ancora in gestazione. Era opportuno rappresentarli subito sul palcoscenico: “l’impresa è malagevole per la ristrettezza del tempo, ma la libertà ha i suoi miracoli. Assistetemi, decidetevi!”103. Il tema dell’amore contrastato a teatro Si è ricordato, all’inizio del nostro discorso, il successo che ebbe la prima del Matrimonio democratico di Sografi il 18 luglio al Teatro Civico: quella sera “les cinq rangs de palcs, […] trente et un [palcs] à chaque rang” erano gremiti in ogni ordine di posto. Le speranze dei fondatori del club teatrale marciano sembravano finalmente soddisfatte. A meno di due mesi dalla nascita del circolo la farsa era stata rappresentata “egregiamente da’ medesimi soci”del teatro, come rievocava con una certa enfasi il «Monitore veneto», compiacendosi tra l’altro del grande successo. L’“uditorio rapito”, che agitava “fuor de palchetti tre o quattro fazzoletti bianchi per uno” sino “a formar una candida nube”, impose “ a viva voce” la replica della stessa per tredici sere. Il 24 agosto la pièce andava in scena anche a Padova al Teatro Nuovo alla presenza di Napoleone e poi, il 15 settembre, ancora al Civico di Venezia, in onore di Giuseppina Bonaparte venuta, in quei giorni, a visitare la città104. Solo l’Orso Ipato di G. Pindemonte avrebbe conseguito, in quello stesso teatro, un risultato non dissimile. Tuttavia non era stata l’opera del nostro a inaugurare il nuovo corso. Già il 28 giugno al San Cassiano aveva debuttato una farsa anonima La fiera della libertà105, una “azione allegorica” che esprimeva “tra lampi e tuoni” la discesa “della libertà assisa su un maestoso carro”, una “figura” simbolica idonea a celebrare l’elogio del nuovo ”eroe” Bonaparte. Il tema della libertà donata trovava così, anche sulla scena, quella diffusione che ne celebrerà il mito, nella Archivio di Stato, Venezia, Democrazia, b. 167. La nobildonna romana V. Chigi, moglie di Zuan Carlo Grimani dal 1791, rimase responsabile del teatro alla scomparsa di quest’ultimo in qualità di tutrice del figlio Michele. 103 Petizione del cittadino Sografi, Padova 23 maggio 1797, Archivio di Stato, Venezia, Democrazia, b. 88. 104 Vedi N. Mangini, I teatri di Venezia, cit., p. 78; «Monitore veneto», 22 luglio 1797; «Gazzetta urbana veneta», 30 fruttidoro; G. Dumas, La fin de la République de Venise,cit., p. 370; L. Bigoni, Simone Antonio Sografi, Un commediografo padovano del secolo XVIII, in «Nuovo archivio veneto», 1894, VII, p. 125. 105 Della farsa ormai smarrita resta il resoconto in «Il teatro moderno applaudito», cit., t. XIII, pp. 5-6. 102 30 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 persona del giovane generale, già nel corso del Triennio106. In tal modo dunque, il teatro patriottico veneziano aveva avuto il suo esordio. Comunque sia il Matrimonio democratico era stata la prima pièce rivoluzionaria di Sografi ad essere rappresentata e verosimilmente l’unica a riscuotere grande successo almeno sui palcoscenici marciani. Peraltro dei cinque testi politici composti di getto da Simone nel corso dell’estate-autunno 1797 solo tre di questi sarebbero stati recitati sulle scene della città lagunare. Il già ricordato Ex Marchese della Tomboletta a Parigi, sempre al Teatro Civico il 26 settembre, e la commedia in quattro atti Venzel. Quest’ultima era stata interpretata il 17 ottobre al S. Angelo, lo stesso giorno della pace di Campoformio, dalla Compagnia comica di G. Pellandi, un’impresa alla quale Sografi era legato, in particolare con la prima donna A. Fiorilli, la più grande attrice del momento107. Quasi a monito l’opera celebrava, nei frangenti più difficili della Municipalità provvisoria, la libertà, l’indipendenza, i valori democratici108. Già Il 21 del mese la commedia fu ritirata dal cartellone e i giornali veneziani non fecero cenno al successo della rappresentazione 109. Le ultime due commedie, alle quali in parte si è già fatto cenno, La Rivoluzione di Venezia e La giornata di San Michele, scritte allora per prime, come è stato ricordato dagli studiosi, non vennero invece date alle stampe, né tantomeno furono mai rappresentate110. S. Romagnoli ha osservato che quelle opere dimenticate, prive in realtà di significativi accenti radicali, esprimevano nonostante tutto “una carica di sovvertimento ormai inopportuna” per i tempi. I testi avanzavano infatti delle richieste diverse rispetto al programma che la Nazione guida riservava allora Sull’argomento e sul tema della libertà donata, scesa “dal cielo”, che ispira alcune pièces rappresentate tra 1798 e 1799 anche a Milano e a Firenze, vedi P. Themelly, Il teatro patriottico, cit., pp. 97 e ss. 107 Su A. Fiorilli Pellandi (1772-1841) stimatissima da M. Cesarotti, felice interprete di Erope nella prima del foscoliano Tieste al S. Angelo di Venezia nel gennaio 1797 e in seguito fondatrice d’una propria compagnia, vedi A. Schiavo Lena, Anna Fiorilli Pellandi. Una grande attrice veneziana tra Sette e Ottocento, Il Cardo, Venezia, 1996; G. Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano, Mursia, Milano, 1978, pp. 23 e ss.; 108 Venzel. Commedia patriottica del Cittadino Sografi, cit., Atto I, 1, 3, 5, 9, II, 4, 7, III, 3, 4, IV, 2, 5, 9, 11, 13, 109 Vedi «Il teatro moderno applaudito», cit., t. XVI, p. 12. Sulla fortuna della pièce G. Dumas, La fin de la République de Venise, cit., p. 375 e s. 110 C. De Michelis, Letterati e lettori, cit. p. 219; S. Romagnoli, La parabola teatrale del patriota Antonio Simone Sografi, cit. p. 60. Secondo G. Dumas, invece, La Rivoluzione di Venezia venne rappresentata al S. Angelo cfr. Id., La fin de la République de Venise, cit., p. 371. L’esame degli elenchi cronologici raccolti nei tomi de «Il teatro moderno applaudito» smentisce l’affermazione dello studioso francese. Vedi anche F. Rossi, Venezia 1795-1802. La cronologia degli spettacoli e il «Giornale dei Teatri», Edizioni Fondazione Levi, Venezia, 2002. 106 31 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 per l’Italia e si rivelavano altrettanto lontani dai conseguenti orientamenti della classe dirigente locale. Era dunque preferibile porre in disparte quei testi così pericolosi e sostituirli con una letteratura più consona a interpretare le esigenze di una società che tendeva alla normalizzazione. Lo stesso Sografi superato “l’entusiasmo del neofita” era costretto, forse non del tutto volontariamente, a correggere la rotta. Ne scaturiva la scelta del Matrimonio democratico: una farsa politicamente ortodossa e prudentemente innovativa. Un testo rivolto al grande pubblico, idoneo ad interpretarne il gusto, cioè capace di mescolare insieme, con la tradizionale sapienza di Simone, amore e politica al fine di edulcorare il messaggio primitivo. In tal modo venivano meno i grandi temi della riforma dello stato e con essi anche le richieste, peraltro deboli, di carattere sociale. Abbandonate così le questioni d’interesse pubblico l’opera spostava la sua attenzione verso i problemi di natura interiore e privata. Preferiva interrogarsi sui diritti dell’individuo piuttosto che su quelli del cittadino111. La rivoluzione stava dunque per soccombere di fronte al primato depoliticizzato dei sentimenti? Il Matrimonio democratico affrontava il tema, solo a tutta prima stucchevole, dell’amore contrastato, un argomento ripreso dal vecchio repertorio, un tema dunque tradizionale e ricorrente che tuttavia era riuscito a trovare il suo spazio espressivo anche nell’ambito del nuovo teatro rivoluzionario. Il soggetto in realtà era destinato a caratterizzare in modo significativo la produzione di quegli anni, probabilmente più nell’area italiana che in quella francese, come si comprenderà meglio in seguito. Nella nostra penisola tra il 1796 e la primaveraestate del 1797, nelle regioni padane liberate dall’Armée d’Italie, venivano redatte o rappresentate, com’è risaputo, solo poche nuove pièces112. Nondimeno tra le più significative d’allora, almeno quattro, erano costruite sul motivo apparentemente standardizzato dell’impedimento d’amore. Esamineremo più avanti le relazioni e le dissonanze che corrono tra Il matrimonio democratico di Sografi e La figlia del fabbro del cuneese C. Federici, un esponente di spicco, come vedremo, del nostro teatro patriottico, per poi comparare tali testi con tre commedie anonime edite in quegli stessi mesi a Bologna, Modena e Mantova: La Rivoluzione, L’aristocratico convertito, Il repubblicano si conosce alle azioni. L’argomento di fatto continuava a suscitare un certo scalpore e ispirava la stesura, tra 1798 e 1799, di almeno altre dieci operette, sia pur di rilievo minore, le cui implicazioni politiche risultano tuttavia di un certo interesse 113. S. Romagnoli, La parabola teatrale del patriota Antonio Simone Sografi, cit. Vedi per tutti A. Paglicci Brozzi, Sul teatro giacobino e antigiacobino in Italia, cit. P. Bosisio, Tra ribellione e utopia, cit. 113 P. Themelly, Il crepuscolo degli eroi. Nuovi modelli di virtù nelle testimonianze letterarie di Roma repubblicana (1798-1799), in «Eurostudium3w», 2010, 17, pp. 48-169. 111 112 32 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Si trattava, come è probabilmente noto, di una materia che aveva dato origine a un filone letterario di lungo periodo. Era il tema, notevole e remoto, dell’amore tra due giovani innamorati socialmente diseguali, un sentimento istintivo e travolgente ma destinato ad essere ben presto soffocato dai divieti sociali e dai ferrei condizionamenti familiari che subordinavano il vincolo matrimoniale non alla libera scelta ma alle motivazioni economiche e gerarchiche dell’interesse. In altri termini nel discorso letterario riaffiorava l’immagine della società tradizionale e ancor più si riverberavano i tratti della famiglia autoritaria, gerarchica e collettivistica d’Antico regime. Un modello quest’ultimo destinato a incrinarsi soltanto a fine Settecento come testimoniano gli studi più attenti sull’argomento114. Nelle consuetudini della famiglia medioevale-moderna le ragioni della stessa prevalevano sempre su quelle dell’individuo, la cui scelta era subordinata ai vantaggi della parentela o addirittura era ritenuta necessaria per la sopravvivenza del casato. A decidere dunque era sempre l’accordo “amorevole” tra le famiglie non la volontà degli sposi che peraltro veniva vista come un elemento di disordine e di scandalo115. Nondimeno nel corso dell’Antico regime genitori e figli reputavano abitualmente i progetti matrimoniali come una occasione che trascendeva le esigenze dei singoli, e trovava conferma nelle norme sociali introiettate sin dall’infanzia da tutti116. Il matrimonio era quindi un mezzo più che un fine e diveniva l’opportunità per legare dei gruppi d’interesse intorno a questioni economiche e politiche. La famiglia ben lungi da essere una unità affettiva era piuttosto una aggregazione umana funzionale a svolgere altre attività117. Se il contesto del nostro soggetto teatrale era dunque questo tuttavia il motivo ispiratore, il tema dell’amore contrastato, si era aperto a due soluzioni antitetiche sin dai tempi della letteratura classica. All’ipotesi tragica che chiudeva la rappresentazione con il suicidio o la morte dei due figli ribelli si Si indicano qui soltanto alcune opere di riferimento: L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Einaudi, Torino, 1983; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia tra XV e XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2000; M. Anderson, Interpretazioni storiche della famiglia. L’Europa occidentale tra 1500-1914, Rosenberg & Sellier, Torino, 1982; M. Daumas, Le mariage amoureux, histoire du lien conjugal sous l’Ancien Régime, Colin, Paris, 2004; A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna, 2008; F. Lebrun, La vie conjugal sous l’Ancien Régime, Colin, Paris, 1975; E. Shorter, Famiglia e civiltà. L’evoluzione del matrimonio e il destino della famiglia nella società occidentale, Rizzoli, Milano 1978; R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria: lignaggio e famiglia nella aristocrazia del Settecento inglese, Il Mulino, Bologna, 1982. 115 G. Delille, Classi sociali e scambi matrimoniali nel Salernitano: 1500-1650, in «Quaderni storici», XI, 1976, 33, pp. 983-97. 116 D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 63. 117 Vedi in particolare L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio, cit., p. 9. 114 33 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 contrapponeva la via d’uscita risolutiva e ottimistica culminante nelle felici nozze dei due amanti. Per schematizzare in estrema sintesi, per un verso si delineava un itinerario che dal mito di Ero e Leandro e di Piramo e Tisbe di Ovidio, tramite il romanzo medioevale e la novellistica italiana quattro cinquecentesca (L. da Porto, M. Bandello), giungeva sino al teatro elisabettiano. Il soggetto s’innalzava, a fine Cinquecento, ai suoi significati più alti, con Shakespeare, nella “tragicità senza riscatto” della storia sventurata di Romeo e Giulietta118. Per l’altro verso, invece, la tremenda conclusione dell’amore nella morte veniva meno e si risolveva grazie ad una agnizione finale. Uno dei due protagonisti riscopriva nell’ultima scena, non senza stupore e per una fortuita occasione del “caso”, la sua vera identità: una identità sociale non più dissimile da quella del partner. Entrambi gli innamorati erano ormai consapevoli di appartenere allo stesso ceto: la mésalliance era così scongiurata, l’amore poteva alla fine trionfare trasformando la tragedia in commedia. In entrambi gli itinerari, dunque, l’ordine sociale e gerarchico non s’incrinava né tantomeno era mai posta in dubbio la rigida stabilità che caratterizzava il sistema d’Antico regime. Questo secondo filone aveva avuto le sue antichissime premesse nella palliata latina, in particolare, crediamo, nell’Andria di Terenzio. Il modello riaffiorava nelle agnizioni della Commedia dell’Arte, per precisarsi nella Dispettosa moglie di G. Briccio. Passava poi nel melodramma sei settecentesco, accomunando insieme opere minori ad altre più celebri come Il Potestà di Colognole di G. Moniglia e il Demetrio di P. Metastasio119. Un grande cataclisma a metà Settecento avrebbe modificato (o iniziato a modificare) anche i contenuti e le forme del nostro tema letterario. Una nuova cultura aveva scoperto sempre più l’individuo e i suoi diritti contribuendo a trasformare le concezioni tradizionali della morale e della politica. Nel 1764, C. Beccaria, per rimanere in una certa misura nell’ambito dell’argomento teatrale Ovidio, Eroidi, XVIII-XIX, Id., Metamorfosi, IV, 55-166. Ovidio, Storie d’amore, a cura di E. Pianezzola, Marsilio, Venezia, 2007; L. Da Porto, La Giulietta nelle due edizioni cinquecentesche, a cura di C. De Marchi, Giunti, Firenze, 1994; Da Porto, Shakespeare, Keller, Romeo e Giulietta, a cura di A.R. Azzone Zweifel, Marsilio, Venezia, 2008; M. Bandello, Giulietta e Romeo, a cura di D. Perocco, Marsilio, Venezia, 1993, Introduzione, pp. 9-35, bibliografia 117-22. Per la ricostruzione dell’itinerario medioevale e moderno sino al tardo Cinquecento vedi, W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, a cura di S. Bigliazzi, Einaudi, Torino, 2014, Introduzione pp. V-VII, XXIV-XXXI. 119 Terenzio, Andria. La ragazza di Andros, a cura di M. Rossi, Mursia, Milano , 1996; M. Apollonio, Storia della Commedia dell’Arte, Sansoni, Firenze, 1982, pp. 221, 237. La dispettosa moglie comedia di Giovanni Briccio Romano della Congrega de’ Taciturni, In Venetia, appresso Pietro Vasso 1629, ora in La Commedia dell’Arte. Storia e testo, a cura di V. Pandolfi, Le Lettere, Firenze, 1988, v. III, pp. 114 e ss. G. Moniglia, Il potestà di Colognole, in Firenze, per il Bonardi, 1657 ora in Drammi per musica dal Rinuccini allo Zeno, a cura di A. Della Corte, Utet, Torino, 1978, v. II, pp. 7 e ss. Demetrio (1731), ora in Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Mondadori, Milano, 1943, v. I, pp. 415 e ss. 118 34 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 che qui discutiamo, aveva manifestato la speranza, in un esempio celebre e forse fin troppo abusato, di non voler più considerare “la società come un’unione di famiglie [ma] come un‘unione di uomini” 120. Tale affermazione, che di fatto sintetizzava le linee guida della meditazione illuminista sull’argomento, scaturiva da motivazioni legate alle vicende umane ed esistenziali della biografia personale dell’autore. Beccaria, com’è noto, soltanto due anni prima, ventiquattrenne, era stato osteggiato, se non addirittura perseguitato dal padre e dalla cerchia familiare, per i suoi progetti nuziali. Costoro consideravano “come una mésalliance” l’unione di Cesare con la “giovanissima bellezza” di Teresa. “La nobiltà dei Blasco non poteva essere certo paragonata a quella dei Beccaria. I soldi della dote erano pochi”. Anche il giovane marchese sembrava dunque voler privilegiare la scelta d’amore rispetto a quella dell’interesse. “Il padre ricorse al governo che dichiarò Cesare prigioniero in casa propria”. In seguito il futuro riformatore “abbandonava la famiglia, si sposava. Si ritrovava povero, ma finalmente liberato dalle tante angustie che continuamente l’opprimevano. […] Contemporaneamente egli si aprì al mondo dell’Illuminismo francese […] furono gli anni della sua conversione alla filosofia”. Lesse rapidamente e avidamente Montesquieu, Helvetius, Buffon, D’Alembert, Locke, Hume, Condillac, Diderot. Secondo F. Venturi, nello stesso 1762, “ebbe presto tra le mani” La nouvelle Héloise e Le Contrat social. Rousseau fu il punto di partenza di tutta la sua meditazione politica121. Affiorava pertanto con forza nelle pagine di quel grande una concezione individualistica del consorzio umano, un’ipotesi teorica che tuttavia aveva avuto le sue anticipazioni nella temperie culturale dell’ultimo Seicento. Una concezione che tendeva sempre più a contrapporsi alla tradizionale visione organicistica che aveva segnato la mentalità e il pensiero politico dall’antichità sino all’età moderna122. Erano gli anni in cui venivano meno i modelli C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1994, cap. XXVI, Dello spirito di famiglia, pp. 56-59. “La famiglia è dunque, se si vuole, il primo modello delle società politiche: Il capo è l’immagine del padre, il popolo è l’immagine dei figli” J.J. Rousseau, Il Contratto sociale, Einaudi, Torino, 1980, p. 10. 121 F. Venturi, Settecento riformatore, v. I, Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1969, pp. 676 e ss. Sulle vicende del matrimonio con la Blasco vedi per tutti: M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., pp. 310 e ss.; M. Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, BariRoma, 2007, pp. 179-83. 122 “Se nel precedente periodo di autoconsapevolezza gli uomini vivevano e sentivano se stessi, in modo conforme alla loro educazione e alle loro forme di vita, come membri di formazioni, di gruppi familiari o magari di ceti, inseriti in un regno dello spirito governato da Dio, ora, pur senza perdere del tutto l’altra rappresentazione, videro e sentirono se stessi sempre più come individui singoli” N. Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 125. Sulla 120 35 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 comunitari e familiari consueti e si delineava ormai in modo netto un contrasto tra culture. La vecchia organizzazione sociale “olistica” e gerarchica stava per cedere il passo ai nuovi sistemi individualistici ed egualitari, la funzionalità verticale degli uomini e delle strutture tendeva progressivamente a livellarsi123. Da una parte si stagliava ancora la vecchia idea di un corpo collettivo che si sostanziava nelle forme dello stato e dello stesso istituto familiare. Un insieme coeso, le cui parti erano funzionali e subordinate a un interesse generale irrinunciabile. Una struttura che si replicava sempre identica a se stessa nei suoi diversi organismi pubblici e privati, statali e familiari. In tal modo, ogni persona, era di fatto privata di una reale autonomia e finiva per assumere ruoli predeterminati necessari a garantire l’ “armonia prestabilita” del sistema. Questo primato degli interessi generali rispetto ai particolari, del corpo rispetto al singolo, schiacciava l’individuo, ne inibiva le prerogative, impediva qualsiasi iniziativa di tipo negoziale e inevitabilmente accentuava il carattere disciplinante e autoritario dell’assetto. La potestas prescindeva dalla libertas, la lex del sovrano o del padre dal ius del suddito o del figlio124. Dall’altro verso iniziava a prefigurarsi l’ipotesi, prossima peraltro a realizzarsi, di un nuovo protagonismo individuale. Sarebbe stata l’inedita vocazione politica del singolo, conseguente ad una ormai matura coscienza di sé, che avrebbe determinato la riscrittura delle regole e delle norme comuni interpretandole come il solo risultato di accordi tra le libere e diverse volontà di ogni cittadino. Si trasformava così lo stesso principio di sovranità che sarebbe stato considerato soltanto come il risultato di operazioni aritmetiche: ovvero come la somma di tutti i cittadini singoli autonomamente deliberanti. Il primato dei diritti individuali schiudeva in tal modo alla democratizzazione delle relazioni familiari e dei rapporti politico-sociali. L’autorità del pater familias, di derivazione aristotelica e romana, iniziava a entrare in crisi nell’età dei Lumi preludendo al modello della famiglia questione resta fondamentale N. Bobbio, Nel secondo centenario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, cit., pp. 1-18. 123 “L’ideale di libertà e di eguaglianza si impone a partire dal concetto dell’uomo in quanto individuo. Se infatti si ritiene che l’umanità tutta intera sia presente in ogni uomo, allora ogni uomo deve essere libero e tutti gli uomini devono essere eguali. É di qui che questi due grandi ideali dell’età moderna attingono la loro razionalità. Non appena invece si riconosce che un fine collettivo si impone a parecchi uomini, la loro libertà viene limitata e la loro eguaglianza viene messa in discussione”. L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Adelphi, Milano, 1991, p. 85. Sul problema vedi anche Id., Homo aequalis. Genesi e trionfo della ideologia economica, Adelphi, Milano, 1984; Id., Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Adelphi, Milano, 1993; A. Laurent, Storia dell’individualismo, Il Mulino, Bologna, 1994. 124 N. Bobbio, Nel secondo centenario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo cit., p. 4. 36 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 egualitaria che si sarebbe affermata, almeno sul piano teorico e non senza contraddizioni, nel discrimine del secolo125. Si intuiva nondimeno, già nei decenni centrali del Settecento, la genesi di un nuovo aggregato umano, capace di autoregolamentarsi, fondato su criteri privati e affettivi del tutto inediti e sconosciuti. L’iconografia, la letteratura, il teatro diffondevano l’immagine della tenerezza e della sensibilità paterna, della madre amorevole nutrice, della cura e della educazione dei figli da parte di entrambi i genitori. Con tutte le sue contraddizioni si prefigurava il modello della virtù femminile e materna che poi sarà dell’Ottocento, mentre iniziava a venir meno la funzione della “tirannide paterna” che progressivamente si trasformava in “autorità tutelare”verso il minore126. Tuttavia anche lo stesso Beccaria, non immune da padre a “coartare la libertà matrimoniale della figlia Giulia”, si orientava verso l’ipotesi di una moderata patria potestas capace di disciplinare le passioni giovanili e di sottoporle al giudizio maturo dei genitori127. Gli studi nondimeno hanno messo in evidenza lo sviluppo non lineare di questo processo. È certamente indubbio che in quegli anni per costruire una relazione, tanto in Francia quanto in Inghilterra, le scelte affettive erano prioritarie. Tuttavia ancora coesistevano sentimenti e interessi, libere scelte e imposizioni paterne128. Comunque dopo qualche lustro la situazione sembrava in parte mutare. In Italia sarebbero stati soprattutto “i nobili nati nell’ultimo trentennio del secolo” ad abbandonare il vecchio modello di famiglia patriarcale per quello “radicalmente diverso” di “famiglia coniugale intima”, una famiglia “orientata verso le persone non più verso le posizioni”129. A ben vedere la trasformazione sarebbe stata irreversibile: la medesima concezione individualistica avrebbe fatto sorgere (per gli uomini più che per le donne), sul piano pubblico, di li a poco, la democrazia moderna. M. Cavina, Il padre spodestato, cit., p. 187. R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria, cit. M. Daumas, Le mariage amoureux: histoire du lien conjugal sous l’Ancien Régime, cit. A. Verjus, Il buon marito. Politica e famiglia negli anni della Rivoluzione francese, Dedalo, Bari, 2012, in particolare pp. 7-38. 126 M. Cavina, Il padre spodestato, cit., pp. 171-250. 127 Vedi L. Guerci, La sposa obbidiente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Tirrenia Stampatori, Torino, 1988, pp. 191 e ss. Sul matrimonio tra Giulia Beccaria e Pietro Manzoni vedi G. Di Renzo Villata, Il governo della famiglia: profili della patria potestà nella Lombardia dell’età delle riforme, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, a cura di A. De Maddalena, E. Rotelli, G, Barbarisi, v. III, Istituzioni e società, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 803 e ss. 128 J.M. Gouesse, Parenté, famille et mariage en Normandie aux XVIIe et XVIIIe siècles. Présentation d’une source et d’une enquête, in «Annales», XXVII, 1972, pp. 1139-1154; H.R. Darrow, Popular Concepts of Marital Choise in Eighteenth-Century France, in «Journal of Social History», XIX, 1985, pp. 261-272. R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria, cit., p. 166 e ss. 129 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 314. 125 37 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 La Rivoluzione francese avrebbe storicizzato di fatto principi e valori in germe nel corso del Settecento codificandoli nella Dichiarazione dei diritti dell’89130. Entro questo quadro assume maggior rilievo la protesta prometeica che coinvolse Goethe nell’estate 1773 e rese celebre, non solo poeticamente, la ferma ribellione dello scrittore verso il principio di autorità, osteggiato in tutte le sue forme e manifestazioni. Il tema dell’avversione al sovrano e al padre, che caratterizza così significativamente in quegli anni la cultura Stürmer in Germania, aveva avuto dunque una precedente gestazione e diffusione europea131. Gli echi di quel dibattito e di quel movimento d’idee pervadevano anche i testi teatrali del filone letterario che stiamo presentando. Come si è già accennato il genere si stava trasformando intorno alla metà del secolo in Europa. Contributi recenti hanno colto persino nei drammi giocosi di G. Bertati, redatti a Venezia tra 1777 e 1779, nello Sposo disperato e nelle Nozze in contrasto, già una sicura testimonianza della nuova sensibilità affettiva e familiare che si segnalava sulle scene132. In quelle inedite inclinazioni v’era tuttavia di più di un compiacimento o di un moto della sensiblerie. Quel conflitto generazionale che affiorava tra gli atti, quell’ “urto” tra padri e figli che travalicava il palcoscenico, documentava come le nuove generazioni cercassero “una nuova strada non perché videro la vecchia ostruita, ma perché si persuasero che era sbagliata e ingiusta”133. Il sentimento istintivo e travolgente dei due giovani innamorati che aveva sempre qualificato il nostro argomento scenico non poteva più dunque continuare a essere sovrastato dagli obblighi familiari e sociali. Per dare seguito alla reciproca promessa i due giovani erano finalmente pronti a compiere l’atto della disobbedienza. La ribellione faceva scoprire a entrambi, varcata la soglia del “dover essere”, la dimensione del “voler essere”, ovvero la possibilità di costruire una nuova definizione sociale dell’io. In altri termini i promessi sposi rifiutavano ormai di recepire passivamente principi e valori che non riuscivano più a condividere nonostante quelle regole avessero ancora un vasto riconoscimento sociale. I due giovani contrapponevano alle norme tradizionali ancora invalse la loro libera scelta, una iniziativa in grado di far scaturire un progetto rispondente ai reali bisogni e capace di soddisfare gli interessi più profondi di entrambi. Questa decisione volontaria che frantumava le N. Bobbio, Nel secondo centenario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, cit. G. Baioni, Classicismo e Rivoluzione. Goethe e la Rivoluzione francese, Guida, Napoli, 1988, pp. 19-54. 132 T. Plebani, Un secolo di sentimenti. Amori e conflitti generazionali nella Venezia del Settecento, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Venezia, 2012, pp. 108 e ss. Su G. Bertati (1735-1808) vedi la voce di V. Frajese in «Dizionario Biografico degli Italiani», cit., IX, 1967, pp. 480-82. 133 F. Venturi, Settecento riformatore, v. I, Da Muratori a Beccaria, cit., p. 647. 130 131 38 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 imposizioni e i divieti sociali non aveva un mero significato individuale o angustamente particolare. Non tendeva solo a rendere possibile l’unione tra due individui che altri volevano divisi. In fin dei conti riuscire ad amare la persona amata e impegnarsi a costruire una vita insieme era un programma valido per tutti, nel quale ogni persona poteva riconoscersi. I sentimenti individuali avevano pertanto un valore sociale e forse valeva la pena battersi per il loro pubblico riconoscimento. La conquista di questo itinerario morale destinato a sfociare nel politico, sarà compiuta in modo consapevole dalla letteratura teatrale italiana soltanto a fine Settecento negli anni della Rivoluzione francese. Il Matrimonio democratico di Sografi si muove in questa direzione, è una testimonianza significativa della conclusione di questo processo. L’operetta, come vedremo al termine di questo lavoro, attesta l’acquisizione di una concezione moderna dell’individualismo nella luce di una nuova cultura definita oggi “l’etica dell’autenticità” da cui crediamo scaturiscano gran parte delle implicazioni politiche che segnano l’opera di Sografi134. Si ritiene opportuno, al fine di una migliore comprensione del pensiero di Sografi, ripercorrere rapidamente, tramite la produzione scenica del tempo, le fasi progressive attraverso le quali si definisce con chiarezza una nuova mentalità culturale e politica. Le incertezze ormai risolte da Sografi nel 1797 veneziano sembravano non essere del tutto superate dagli altri autori italiani del teatro patriottico. Non senza sorpresa si noterà come anche il grande teatro riformato o illuminista di Goldoni, Voltaire, Diderot resti tutto sommato ancora incerto sulla frontiera tra due mondi e due culture. I due volti dei Lumi nel teatro di Marivaux J. Gaudemet ha rievocato l’atmosfera di libertà e di sregolatezza che pervadeva la società francese nei primi decenni del Settecento e che, dopo le ombre del Grand Siècle, sembrava nuovamente far riaffiorare quella “sete del vivere” che aveva caratterizzato l’età di F. Rabelais, P. de Ronsard e di Margherita di Navarra. L’individualismo, la voglia di autonomia e di emancipazione si affermava anche nel momento di concludere il matrimonio: la volontà paterna e le pratiche tradizionali tendevano ad essere contestate e messe in discussione, la libertà di scelta sembrava essere accettata almeno da alcuni genitori, e veniva presentata favorevolmente nei testi teatrali. La letteratura esprimeva, in tal modo, una trasformazione dei costumi e iniziava ad essere pervasa da sentimenti e passioni inedite. Tuttavia anche nelle più significative 134 C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari-Roma, 2011, pp. 31-36; 51-64. 39 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 testimonianze del tempo, ha osservato sempre Gaudemet, “il vocabolario del cuore e quello del matrimonio” difficilmente riuscivano ad incontrarsi. Un progetto matrimoniale non contemplava ancora “la compagnia e le condizioni dell’amore”135. Le cose sarebbero cambiate solo poco prima della Rivoluzione grazie alla spinta di una nuova sensibilità136. Nondimeno in Francia il potere civile stentava a recepire i fermenti e i nuovi bisogni. In sostanza continuava a rimanere interessato, secondo un’abitudine ormai consolidata, a sostenere le ragioni dei padri più che quelle dei figli. Poco invece sembrava potersi rimproverare all’autorità religiosa in questo caso. Il Concilio di Trento, com’è noto e come si accennerà in seguito, aveva affermato il principio della libertà di scelta tra gli sposi. Già ai tempi del Concilio i prelati francesi, a differenza di quelli italiani, avevano richiesto invece il consenso paterno come condizione necessaria per la celebrazione del matrimonio verosimilmente al fine di garantire al di là delle Alpi, la tenuta interna del sistema e gli interessi dei ceti nobiliari. La sconfitta della linea francese nel corso delle sedute avrebbe fatto riaffrontare la questione in patria. Già nel 1556, un’ordinanza di Enrico II imponeva la diseredazione ai figli maschi rei d’essersi sposati contro la volontà del padre. Nel 1579 un editto reale dichiarava nullo il matrimonio contratto secondo le medesime condizioni: seguivano altre disposizioni a riguardo sino al 1787, iniziative che di fatto non modificavano il quadro e non incrinavano l’autorità del pater familias all’interno delle mura domestiche. Il potere politico, in Francia, si opponeva dunque alla Chiesa di Roma mettendone in discussione le competenze in materia e avanzando il principio della sua funzione eminentemente spirituale137. In questo panorama variegato e contraddittorio si colloca a pieno titolo l’opera di P.C. de Marivaux, “l’ultimo e squattrinato rampollo di una famiglia di piccola nobiltà provinciale”, destinato tuttavia a divenire, nell’arco breve di alcuni decenni, “il maggior commediografo del secolo” o il Racine del teatro comico francese138. Le circa quaranta pièces redatte, per lo più sino agli anni J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, SEI, Torino, 1989, pp. 213, 257 e ss. J.L. Flandrin Le sexe et L’Occident. Evolution des attitudes et des comportaments, Suil, Paris, 1981, pp. 83-92. 137 Per una ricostruzione dettagliata vedi J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 206-87. D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., in particolare, pp. 44, 100, 114, 150. ivi bibliografia. 138 La civiltà letteraria francese del Settecento, a cura di G. Iotti, Laterza,Roma-Bari, 2009, p. 105; R. Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino, v. II, Il grande teatro borghese. Settecento e Ottocento, Einaudi, Torino, 2000, p. 250. Così D’Alembert ne L’éloge de Marivaux ricordava: “La famille de Marivaux était originaire de Normandie, et avait donné plusieurs magistrats au Parlement de cette province. Depuis, elle était descendue de la robe à la finance, et le père de Marivaux avait possédé quelque temps un emploi pécuniaire à Riom, en Auvergne”. La 135 136 40 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Cinquanta, da quell’erede di Molière riuscivano a interpretare lo spirito del tempo e ad esprimere i bisogni e le spinte sociali che abbiamo appena ricordato. Tuttavia il grande commediografo non voleva o forse non sapeva attribuire ai valori, ai pensieri e alle azioni che rappresentava sulle scene una carica eversiva capace di incrinare le certezze della società d’Antico regime. Il suo era un teatro che voleva avere soprattutto un valore di testimonianza, di consapevole coscienza e non intendeva trasformare il palcoscenico in una sorta di tribunale della società civile139. Sin da Le dénouement imprévu, un testo breve steso in un solo atto nel 1724, l’autore avanzava una misurata polemica contro gli orientamenti governativi e il costume tradizionale140. La pièce senza alcun indugio contestava l’autorità paterna ma preferiva porla in discussione ricorrendo alle meno pericolose rivendicazioni della figlia. Infatti nel corso del Seicento e del Settecento e non solo in Francia, l’autorità in concerto con le scelte delle famiglie tollerava l’unione delle figlie patrizie con uomini non appartenenti al loro ceto. Quel che contava per le questioni economiche e di rango era soltanto il rigoroso controllo dei matrimoni contratti da nobili di sesso maschile. In armonia con questi principi nelle dodici scene della commedia la ribellione di mademoiselle Argante alla tirannide del padre assumeva dunque un valore debole e un carattere convenzionale. Nondimeno contributi recenti hanno messo in evidenza la “forte personalità” delle eroine che animano le pièces di Marivaux. Queste “ragazze moderne” appaiono più “dinamiche, intraprendenti e determinate dei loro equivalenti maschili” tanto che si è “giustamente parlato” di una sorta di orientamento “femminista dell’autore”141. Comunque sia è citazione è in H. Duchêne, Marivaux: Les Fausses Confidences, Edition Bréal, Rosny Cedex, 1999, p. 10. 139 Su P.C. de Marivaux si indicano qui soltanto: Pierre de Marivaux, Théâtre complet, éd. par F. Deloffre, Garnier, Paris, 1980 (le opere raccolte sono introdotte, commentate e accompagnate da documenti di grande utilità), Id., Journaux et oeuvres diverses, éd. de F. Deloffre et M. Gilot, Garnier, Paris, 1969; Id., Oeuvres de jeunesse, éd. de F. Deloffre, Gallimard, Paris, 1972; V.P. Brady, Love in the theater of Marivaux, Droz, Genève, 1970; F. Deloffre, Marivaux et le marivaudage:une préciosité nouvelle, Slatkine, Genève, 1993; M. Deguy, La machine matrimoniale ou Marivaux, Gallimard, Paris, 1981; Marivaux et les Lumières, éd. de H. Coulet, G. Gubier, Publications de l’Univesité de Provence, Aix-en-Provence, 1996. F. Rubellin, Lectures de Marivaux, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2009. 140 [P.C. de Marivaux] Le Dénouement imprévu. Comédie d’un acte, avec approbation et privilège du Roi, 1727. À Paris chez N. Pissot, Quai de Conty, à la descente du Pont-Neuf, au coin de la rue de Nevers, à la Croix d’Or. 141 Vedi l’Introduzione in Marivaux, Il trionfo dell’amore, a cura di M.G. Porcelli, Marsilio, Venezia, 2013, p. 19. Sempre sulla concezione della donna in Marivaux “eroina” che tuttavia non trasgredisce l’ordine sociale percepito come naturale vedi Ead., Il potere teatrale delle donne. 41 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 indubbio che l’iniziazione alla vita d’adulta della giovane Argante veniva compiuta scoprendo la forza dei moti del cuore. I sentimenti acquistavano ormai un nuovo primato ed erano in grado essi stessi di determinare una risoluzione. Anche ne Le dénouement imprévu pertanto qualcosa del nuovo sentire riusciva a prevalere. Lo stesso tema aveva ispirato anche Les fausees confidences, una tra le opere più celebri di Marivaux redatta nella primavera del 1737, ed edita nell’ottobre dell’anno dopo142. A distanza di una quindicina di anni dallo scritto appena ricordato questa commedia prefigurava una inesorabile trasformazione dei rapporti familiari di cui l’autore non poteva non prendere atto. Nell’occasione era ancora una volta una donna, la ricca vedova Araminta, a decidere di sposare, contro la volontà della madre, il giovane avvocato Dorante, il nuovo amministratore dei beni familiari appena conosciuto. Il progetto maturato in un solo giorno spingeva la vecchia madre, Madame Argante, ad esclamare nella chiusa del terzo atto: “Ah! Che bella conclusione! Ah! Maledetto amministratore! Potrà essere vostro marito finché vuole, ma non sarà mai mio genero”143. La presa di coscienza delle contraddizioni del presente e la difficoltà a intravedere una possibile via d’uscita assumeva rilievo ne Le jeu de l’amour et du hasard una commedia in tre atti rappresentata con gran successo il 23 gennaio 1730 alla Comédie italienne e già andata in scena il 28 di quel mese a Versailles. La pièce veniva pubblicata nei mesi successivi: sarebbe diventata l’opera più celebre e più rappresentata di Marivaux, sino ai nostri giorni e non solo in Francia144. L’intreccio s’ispirava al tema del travestimento degli innamorati, un motivo che godeva allora di una certa fortuna, ed in particolare prendeva spunto da Les amants déguisés, una commedia di un autore oggi pressoché sconosciuto, l’abate D’Aunillon. Il testo di quel religioso pur suscitando a suo modo interesse nell’inverno del 1728 alla Comédie française, sarebbe andato in stampa soltanto intorno alla metà del secolo145. Vergini, avventuriere, principesse tra Molière e Marivaux, in Donne e teatro, Seminario di Studi (2324 aprile 2008), Università degli studi di Bari Aldo Moro, Bari, 2012, pp. 103-14. 142 P.C. de Marivaux, Les fausees confidences, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false confidenze, a cura di L. Sozzi, Garzanti, Milano, 2005. Sull’opera vedi, H. Duchêne, Marivaux: Les Fausses Confidences, cit. 143 P.C. de Marivaux, Les fausees confidences, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false confidenze, cit., Atto III, 13. 144 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso, cit. Sulla fortuna vedi Introduzione, p. XVII. 145 Vedi, Abrégé de l’histoire du théâtre François. Nouvelle édition, Paris, L. Jorry, J. G. Mérigot, 1780, p. 12. Cfr., anche, Lagrave, Le Théâtre et le public à Paris de 1715 à 1750, Klincksieck, Paris, 1972; M.de Rougemond, La vie théâtrale en France au XVIIIe siècle, Champion, Paris, 1988. 42 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 L’idea del déguisement e più in generale l’occasione dello scambio dei ruoli e delle parti che non escludeva anche l’eventualità del ribaltamento sociale, era un soggetto già utilizzato da Marivaux. Cinque anni prima, nell’Ile des enclaves146, una commedia in un atto, l’autore si era aperto a una critica sociale “non priva di agganci forti con le fondamentali istanze ideologiche del primo Illuminismo”. Ciò nonostante anche quest’opera testimoniava il sicuro radicamento del grande commediografo nella mentalità d’Antico 147. Nell’Ile des esclaves lo scrittore, forse ispirato dal tema classico dei Saturnali, aveva fatto approdare dopo un naufragio, sulle spiagge dell’utopia, il nobile ateniese Iphicrate e il suo domestico arlecchino. In quell’isola si erano rifugiati degli antichi schiavi ribelli. In quel luogo, come per incanto, i ruoli si erano ribaltati provocando un rovesciamento gerarchico: i padroni erano diventati servi e i servi padroni. Ben presto anche Arlecchino si mostrava insolente rifiutandosi di obbedire a Iphicrate148. Si trattava a ben vedere soltanto di una condizione illusoria e apparente, funzionale per l’autore a riflettere sulla natura umana e sulle generali inclinazioni dello spirito. In definitiva, e non solo in quest’opera, le motivazioni di Marivaux restavano più d’ordine morale che di carattere politico. In altri termini prevaleva anche in lui l’idea che svilupperà trent’anni dopo Goldoni di una “responsabile collaborazione” tra i gruppi nell’ambito degli invalicabili assetti tradizionali149. Si delineava quindi in entrambi gli autori un “giudizio equanime nei confronti degli uomini che vivono in società a prescindere dal ceto”, una sorta di “ottimismo fiducioso nei confronti dell’essere umano”150. Trionfava, dunque, nelle pagine del grande teatro prerivoluzionario, l’ipotesi depoliticizzata dello sviluppo equilibrato e armonico del corso storico. Nell’Ile des esclaves pertanto ogni tensione egualitaria si risolveva in un auspicio etico, in un appello alla ragione piuttosto [P.C. de Marivaux] L’Ile des esclaves. Comédie en un acte. Representée pour la première fois par les Comédiens Italiens du Roy, le Lundi 5 Mars 1725, À Paris chez N. Pissot, Quai de Conty, à la descente du Pont-Neuf, au coin de la rue de Nevers, à la Croix d’Or. Ora in Marivaux, Le Prince travesti, L’Ile des enclaves, Le Triomphe de l’amour, éd. de J. Goldzink, Garnier, Paris, 1989. Sull’opera vedi F. Schurmans, Le Tremblement des codes dans les Iles de Marivaux, in «Revue d’histoire du théâtre» 2004, 223, pp. 195-212. 147 R. Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, cit., p. 253. Vedi anche Introduction in Pierre de Marivaux, Théâtre complet, éd. par F. Deloffre, Garnier, Paris 1980. 148 P.C. de Marivaux L’Ile des enclave, ed. cit., Atto I, 1. 149 G. Padoan, Putte, zanni, Rusteghi. Scene e testo nella commedia goldoniana, a cura di I. Crotti, G. Pizzamiglio, P. Vescovo, Longo, Ravenna, 2001, p. 65. A conferma e a puro titolo d’esempio vedi l’Introduzione in Carlo Goldoni, Il padre di famiglia, a cura di A. Scannapieco, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 15 e ss. 150 P. Bosisio, Goldoni e il teatro comico, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino, v. II, Il grande teatro borghese. Settecento e Ottocento, Einaudi, Torino, 2000, p. 153. 146 43 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 che alla rivolta: “l’utopica inversione dei ruoli - è stato recentemente osservato ha piuttosto il compito esclusivo di accompagnare per mano gli uni e gli altri a sperimentare di persona la vanità di qualsiasi arroganza, e la necessità della più comprensiva moderazione”151. Il medesimo registro sovraintendeva anche il disegno di Le jeu de l’amour et du hasard. La commedia si svolgeva intorno alla vicenda umana di Silvia e Dorante, due giovani patrizi che pur non essendosi mai incontrati, per il “caso” dettato dal costume del tempo, avrebbero dovuto unirsi in un matrimonio combinato152. Nondimeno qualcosa sembrava scuotere un destino comune già segnato e percepito da entrambi come ineluttabile. A sorpresa i padri, sin dalle prime scene, si dichiaravano diversi: nei loro atteggiamenti non v’era traccia della consuetudine: la vecchia potestà stava assumendo i tratti di una autorevolezza tutoriale153. “Ho deciso queste nozze con suo padre che è un mio vecchio e intimo amico” -dichiarava con convinzione Orgon a sua figlia Silvia“ma a condizione che si stabilisca tra di voi una reciproca simpatia e che abbiate tutta la libertà di dire quel che pensate; ti proibisco assolutamente di essere compiacente con me: se Dorante non ti conviene non hai che da dirlo, lui se ne ritorna; se tu non convieni a lui, lui se ne ritorna allo stesso modo” 154. Ormai rassicurati i due giovani, l’uno all’insaputa dell’altra, riuscivano a convincere i genitori, sempre più affettuosi e comprensivi, di potersi presentare al partner, ancora sconosciuto, sotto le mentite spoglie dei rispettivi domestici Lisetta e Arlecchino155. Silvia assumendo il ruolo di Lisetta intendeva declassarsi a serva: solo così, apparendo al futuro sposo in un rango subordinato, pensava di poterne penetrare l’animo: capire i suoi veri sentimenti, interrogarsi sulle sue più autentiche reazioni, scorgerne l’eventuale “faccia cupa, brutale, feroce”156. Forse avrebbe potuto vedere Dorante senza la sua maschera sociale, spiarlo senza R. Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, cit., p. 254; ma vedi anche, Id., Tre isole di vera ragione. L’esperienza “metafisicomica” di Marivaux, in Id., Maschere di cera. Riforme, giochi, utopie: il teatro europeo del Settecento tra pensiero e scena, Costa e Nolan, Milano, 1997, pp. 39-49. Per il significato politico della commedia, P.C. de Marivaux, L’Ile des esclaves, ed. cit., Atto I, 9, 10, 11. 152 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false confidenze, cit., Atto I, 1, 2. 153 Sulla questione vedi, M.G. Porcelli, Le figure dell’autorità nel teatro di Marivaux, Unipress, Padova, 1997; Id., Un père moderne. Monsieur Orgon dans Le Jue de l’amour et du hasard, in Marivaux: jeu et surprises de l’amour, Sous la direction de P. Frantz, Presses Universitaires de la Sorbonne, Paris, 2009, pp. 95-106. 154 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false confidenze, cit., Atto I, 2. 155 Ivi, Atto I, 2, 3. 156 Ivi, Atto I, 1. 151 44 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 essere vista, senza rivelare se stessa. Diversa non era stata la considerazione di Dorante assumendo la fisionomia di Arlecchino: anche lui avrebbe compreso il carattere della sposa, la sua natura intima e vera, il suo essere, più che la rappresentazione esteriore. Per realizzare l’impresa era necessario che anche i due servitori prendessero le parti dei due padroni. Nel “gioco” del mascheramento dunque per puro “caso” i signori diventavano servi e i servi signori157. L’equilibrio sociale tuttavia, come vedremo, non sarebbe stato turbato. Infatti solo Orgon sin dall’inizio era a conoscenza di tutti gli scambi di persona ed era di fatto colui che avrebbe sovrainteso e regolato lo sviluppo della vicenda158. Il vecchio padre, in virtù del suo marcato decisionismo, pur mostrandosi un benevolo e sorridente tutore, capace di guidare da lontano e in modo discreto le scelte dei figli, sempre attento al loro “processo di maturazione psicologica”, non prefigurava, a nostro parere, i futuri orientamenti pedagogici dei Lumi159. L’educatore di Marivaux restava ancora una figura tutto sommato “ingombrante”, solo verbalmente propensa all’autoformazione dei giovani e poco incline a promuovere una procedura funzionale a guardarsi “dentro”. Si rivelava soprattutto poco sensibile a suggerire opportunità e a ostacolare i pericoli, come invece avrebbe auspicato, sia pur con le sue contraddizioni, la nuova educazione “negativa” di Rousseau nell’Emilio160. Al di là della velata regia paterna sarebbero stati i dati di partenza e le condizioni remote -ovvero le abitudini, i costumi, l’educazione e lo stile di vitache avrebbero reso impossibile qualsiasi forma di mésalliances. L’amore poteva scoccare solo nell’eguaglianza delle condizioni. Lisetta mascherata da signora continuava a usare gli strumenti plebei della seduzione, un linguaggio volgare dei sentimenti, che poteva esser compreso e far breccia solo nel cuore d’ Arlecchino. Le buone maniere e la rettitudine affettuosa di Dorante anche nelle spoglie del suo domestico colpivano soltanto Silvia, che detestava la rozzezza greve del servo travestito da padrone161. In sintesi ognuno dei quattro giovani era attratto e tendeva a legarsi solo con il partner del suo reale stato sociale. Questo era quel che comprendevano soprattutto gli spettatori che erano a Ivi, Atto I, 3. Ivi, Atto II, 1, 10, 11, III, 4. 159 Per una diversa valutazione vedi l’Introduzione in Marivaux, Il trionfo dell’amore, cit., p. 15 e Ead., Un père moderne. Monsieur Orgon, cit. 160 J.J. Rousseau, Emilio, a cura di G. Calò, Sansoni, Firenze, 1954, L. III, IV, in particolare pp. 12, 172 e ss., 187, 191 e ss. Sulla contraddizione in Rousseau tra “puerocentrismo” e “direttività” da parte dell’educatore, vedi per tutti A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Principato, Milano, 1988, pp. 303 e ss. 161 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso, cit., Atto I, 7, II, 1, 3, 5, 7, 8, 9, 11, III, 5, 6. 157 158 45 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 conoscenza del mascheramento sin dalle prime scene. I protagonisti confermavano, dunque, con le loro scelte, il valore e l’efficacia delle norme sociali mettendo in luce l’incoerenza del matrimonio “scombinato” , delle nozze tra diseguali. La commedia insegnava al pubblico che era impossibile mutare stato e si concludeva ricollocando ognuno al proprio posto, celebrando finalmente l’unione tra gli eguali162. La tenuta del vecchio sistema era garantita. Tuttavia l’opera non si risolveva nella sola celebrazione del buon tempo antico: nelle scelte dei due primi attori vi era qualche cosa di più che turbava quel disegno scontato e predefinito. La struttura, il sistema complessivo dell’Antico regime, teneva ancora nel suo insieme nella rappresentazione di Marivaux ma nondimeno iniziava ad essere minata e sottoposta a pressione dal suo interno. Le scene, in definitiva, rivelavano nella relazione tra Silvia e Dorante una nuova sensibilità che si precisava nella ricerca, in entrambi, della propria fisionomia individuale. Ognuno dei due protagonisti percepiva se stesso, la propria sensiblerie in modo distinto dando origine a due modelli umani e culturali diversi e contraddittori. Dinamico e produttivo in Dorante, capace di interagire con il mondo esterno sino a tentare di modificarlo, autoriflessivo ed esistenziale in Silvia che intendeva rimanere lontana da qualsiasi implicazione sociale dell’io163. In altri termini Marivaux percepiva l’ambivalenza dell’individualismo e creava le premesse, anche grazie a questa commedia, per scardinare il sistema culturale e sociale nel quale si riconosceva. Intuiva i due volti irriducibili dell’Illuminismo: il cuore e la ragione, i sentimenti e la volontà. Silvia e Dorante con il loro pensiero e con le loro azioni esprimevano singolarmente la difficile possibilità di ricomporre questo contrasto. Silvia interpreta bene lo sgomento dei tempi di fronte alla scoperta dell’irrazionale, esprime con la sua iniziativa la paura, sentita in quegli anni forse per la prima volta in modo così acuto, di non riuscire a conoscere se stessi. Insorgeva anche in lei il timore di non poter decifrare i propri sentimenti sino a divenirne soggiogata al punto di non riuscire più ad amare né la propria persona né le altre. In fin dei conti il travestimento nei panni di Lisetta, inteso dalla protagonista come un’esigenza di conoscenza, si risolveva nelle scene in un continuo desiderio di fuga, in una forma di protezione contro l’insicurezza, e più in generale in un bisogno costante di negarsi ad ogni effettivo confronto 164. Il più risoluto Dorante, non senza esitazioni, comunque si rivelava. Aveva già esplicitato il suo amore e dichiarava all’amata, alla fine del secondo atto, anche il suo rango: il matrimonio sarebbe stato ormai più semplice per Silvia se non Ivi, Atto III, scena ultima. Ivi, Atto I, 7, II, 9, 12, III, 4, 8. 164 Ivi, Atto II, 7, 9, 11, 12, III, 8. 162 163 46 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 del tutto scontato165. Silvia al contrario, sino alla conclusione della commedia e per tutto il corso del terzo atto, continuava a mascherarsi. Amava ma non faceva nulla per amare, continuava sino all’ultimo a fuggire. Si chiudeva nell’alibi di continue prove, nella ricerca di certezze per non dover poi patire 166. L’insoddisfazione degli altri si concludeva nell’insoddisfazione di se stessa, nella paralisi della volontà, in una sorta di annullamento nichilistico: “questa storia mi affligge, non c’è faccia di cui mi fidi, non una persona che mi piaccia, e io stessa non piaccio a me”167. Mezzo secolo prima del Werther l’individuo irrompeva nel vuoto del mondo moderno restando inesorabilmente solo, chiuso nella “prigione” di se stesso168. Il tema psicologico-esistenziale della paura e del pericolo d’amare, della volontà a non dichiararsi e a dissimulare anche per non soffrire ispira, com’è noto, la letteratura contemporanea e segna l’opera, nella Francia di quegli anni, di A.F. Prévost e di P.J. de Crébillon169. Il motivo percorre la produzione di Marivaux e struttura la fisionomia dei suoi eroi fragili. Si manifesta sin dalla Surprise de l’amour170 (1722) ne La double incostance171 (1723) per giungere al nostro testo del 1730172. Amato dai decadenti e dai simbolisti, rivisitato da Verlaine, il teatro marivaudiano sarebbe stato inevitabilmente ricusato nell’età della Rivoluzione. Tuttavia l’iniziativa di Dorante, l’eroe positivo, il campione della virtù e della volontà, avrebbe ispirato indirettamente la più impegnata e militante letteratura settecentesca. Il giovane, come sappiamo, sempre inconsapevole della identità dell’amata se n’era innamorato sin dal primo incontro pur Ivi, Atto II, 12. Ivi, Atto II, 11, III, 4, 8. 167 Atto II, 12. 168 Vedi l’Introduzione in W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di G. Baioni, Einaudi, Torino, 1998, pp. V-XXIV. 169 A. Singerman, L’Abbé Prévost: l’amour et la morale, Droz, Genève, 1987; J. Sgard, Crébillon fils, le libertin moraliste, Desjonquères, Paris, 2002; La civiltà letteraria francese del Settecento, cit., pp. 26 e ss., 71-81, 83-91, 126 e ss. 170 [P.C. de Marivaux] La surprise de l’amour, comédie representée par le Comédiens Italiens de S.A.R. Monseigneur le duc d’Orleans le 3 mai 1722 A Paris, Chez A. Gandouin, Quai des Augustins, au coin de la rue Pavée, à la Bible d’Or. 1723. Avec Approbation e privilege du Roi. 171 [P.C. de Marivaux] La double incostance. Comédie en trois Actes. Representée pour la premiere fois par le Comédiens Italiens du Roi le Mardi 6 Avril 1723. A Paris, Chez F. Flahault, Quai des Augustins au coin de la rue Pavé eau Roi de Portugal. 1724. Avec Approbation e Privilege du Roi. 172 Per la ricostruzione dell’itinerario vedi Introduzione in P.C. de Marivaux, Il gioco dell’amore e del caso, cit., p. XII e ss. 165 166 47 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 sapendola cameriera173. Il suo amore doveva infine prevalere. Doveva superare il male del vivere e il nullismo sentimentale di Silvia, gli ostacoli posti dal padre e dal fratello della donna amata, le insormontabili questioni di ceto174. Dopo essersi già dichiarato nell’amore e nel rango alla fine del terzo atto rivolgendosi a Silvia creduta ancora Lisetta concludeva: “Ah! Lisetta cara, che cosa sento: c’è nelle tue parole un fuoco che m’invade, ti adoro, ti rispetto; non esiste rango, né nascita né ricchezza, che non scompaiono di fronte a un’anima come la tua. Mi vergognerei, se il mio orgoglio dovesse ancora vincere contro di te; il mio cuore e la mia mano sono i tuoi. […] Mio padre mi perdonerà quando ti avrà vista, i miei beni bastano per entrambi, e il merito vale la nascita: non discutiamo più non muterò mai parere”175. I fermi propositi di Dorante e la certezza di un sentimento perenne riuscivano a convincere Silvia: l’unione ormai era possibile 176. Il discorso del protagonista se preludeva al lieto fine della commedia allo stesso tempo esplicitava, a nostro parere, una concezione morale sino a quei tempi inedita nella letteratura teatrale. In altri termini affioravano nelle parole di Dorante i principi del soggettivismo etico, una dottrina che, com’è noto, aveva già influenzato il pensiero europeo nel Seicento con Cartesio e Locke e che sarebbe giunta alla piena maturazione nell’età romantica177. Anche Dorante pertanto cominciava a considerarsi un individuo, più che una parte indistinta di un tutto, e non voleva più agire solo per perpetuare la continuità “olistica” e gerarchica dell’Antico regime. Il giovane patrizio aveva dunque acquisito coscienza di sé, spirito critico, capacità di giudicare l’esistente: pertanto era giunto a maturare la consapevolezza dei suoi diritti. Obbedendo al migliore “se stesso” e ascoltando “il sentimento dell’esistenza”, non diversamente da come avrebbe suggerito Rousseau quasi mezzo secolo dopo, recuperava la “sua salvezza morale”. Si trattava di una condizione difficile da raggiungere come ravvisava con una certa amarezza il grande ginevrino178. La P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso, cit., Atto I, 7. 174 Ivi, Atto II, 7, 9, 11, III, 2, 4, 8. 175 Ivi, Atto III, 8. 176 Ivi, Atto III, 8, scena ultima. 177 C. Taylor, Sources of the Self: the Making of the Modern Identity, Harvard University Press, Cambridge, 1989, cap. XV. 178 “le sentiment de l’existence dépouillé de toute autre affection est par lui-même un sentiment précieux de contentement et de paix qui suffiroit seul pour rendre cette existence chère et douce à qui sauroit écarter de soi toutes les impressions sensuelles et terrestres qui viennent sans cesse nous en distraire et en troubler ici bas la douceur. Mais la pluspart des hommes agités de passions continuelles connoissent peu cet état et ne l’ayant gouté qu’ imparfaitement durant peu d’istans n’en conservent qu’une idée obscure et confuse qui ne leur en fait pas sentir le 173 48 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 ribellione di Dorante, ovvero la scelta di sposare da nobile una cameriera, scardinava le consuetudini e creava un precedente. Tuttavia la sua individualità per essere reale non poteva scadere nel soggettivismo degenerato di Silvia chiuso in se stesso e incapace di stabilire rapporti con l’esterno. All’anomia e al solipsismo nichilista dell’amata Dorante contrapponeva il suo Illuminismo umanitario, solidale e ottimistico. In altri termini l’azione individuale per assumere significato aveva bisogno di essere condivisa. La verifica delle proprie intenzioni “negoziata” in un rapporto “dialogico” con l’altro costituiva secondo gli studiosi l’elemento fondamentale della nuova “etica dell’autenticità” che allora iniziava a manifestarsi179. Questa libera contrattazione tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica metteva in discussione l’idea predeterminata della famiglia e della società tradizionale. Da questi presupposti si sarebbe trasformata, a fine secolo la vita politica e l’esperienza morale. Già nel 1730 dunque con Le jeu de l’amour et du hasard balena l‘ipotesi di una civitas nella quale gli uomini e le donne, ormai infranti gli archetipi, potevano essere valutati per i loro autentici meriti e virtù, per la loro “dignità” umana e non più in ragione dei criteri precostituiti che strutturavano tramite “l’onore”, il sangue e la nascita le immutabili gerarchie dell’Antico regime180. Non si può non ricordare chiudendo il paragrafo dedicato a Le jeu de l’amour et du hasard che gli spunti innovativi e il carattere polemico dell’opera venivano volutamente relegati dall’autore nella dimensione del “gioco” e del “travestimento”, ovvero tendevano a dissolversi nell’evanescenza fantasiosa e irreale del sogno. Il tema della “malinconia dell’effimero” pervadeva a quei tempi non solo la letteratura ma anche l’arte, e caratterizzava, come hanno colto gli studi, l’opera di Marivaux come quella di Watteau testimoniando con le loro inquietudini le venature irrazionalistiche che percorrevano la cultura dei Lumi181. charme”. J.J. Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire, Ve Promenade, in Id., Oeuvres complètes, v. I, Gallimard, Paris, 1959, p. 1047. 179 C. Taylor, Sources of the Self, cit., cap. XIII; Id., Il disagio della modernità, cit., cap. V. 180 C. Taylor, Il disagio della modernità, cit., pp. 54-55; P. Berger, On the Obsolence of the Concept of Honour, in Changing Perspectives in Moral Philosophy, eds. S. Hauerwas, A. MacIntyre, Notre Dame University Press, Notre Dame (Indiana), 1983, pp. 172-81. Sul problema assai utile il quadro d’insieme in A. Mubi Bighenti, Tra onore e dignità. Per una Sociologia del rispetto, Quaderni dell’Università degli Studi di Trento, Facoltà di Sociologia, Trento, 2008, ivi bibliografia pp. 5765. Sulla concezione dell’”onore” tra i patrioti italiani del “Triennio”, un’idea egualitaria, non subordinata alla nascita e al censo, ma ispirata solo dalla “virtù” e dalla “civiltà de’ tratti”, vedi F. Rigotti, L’onore degli onesti, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 139 e ss. 181 R. Tomlinson, La fête: Watteau et Marivaux, Droz, Genève, 1981; G. Macchia, Il teatro come sorpresa; L’isola teatrale di Watteau, in Id., Le rovine di Parigi, Mondadori, Milano, 1988, pp. 59-73. 49 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Si era appena conclusa la prima fase di una nuova civiltà che aveva posto in crisi, con un avvio travolgente, la coscienza europea mettendo in discussione le certezze tradizionali religiose e politiche. Erano dunque sorte inedite convinzioni illuminate dal nuovo sole della ragione. Eppure già intorno alla metà degli anni Venti s’erano alzati i penosi interrogativi di J. Swift espressi tramite il suo Gulliver. Il viaggio avventuroso, tra realtà e immaginazione, di quel celebre medico di bordo, che avrebbe dovuto dimostrare il trionfo dell’universalismo settecentesco, la capacità della ragione di comunicare al di là d’ogni differenza, ne decretava invece la sconfitta, scoprendone la sua relatività e limitatezza. Non diversamente ancora alla fine degli anni Cinquanta, nella piena fioritura dei Lumi, ci si interrogava sull’incapacità della ragione e della scienza a svelare il mistero dell’uomo, della natura, della vita. L’ottimismo della volontà e della ratio veniva meno. Le procedure empiriche di d’Alembert non riuscivano a oltrepassare la piccola sfera del noto e lambivano solo “i vasti deserti” dell’incognito, una realtà oggettiva impenetrabile, per il grande enciclopedista, alle tecniche dello scienziato. Anche il terremoto di Lisbona aveva rivelato a Voltaire sempre allora “il brutto poter”, la soverchiante onnipotenza della natura: l’ordine delle cose mostrava il suo indubbio primato sulla volontà umana. Da queste considerazioni sarebbe scaturita la scrittura nel 1759 del Candide un’opera che tuttavia riusciva a trovare, com’è noto, una superstite via d’uscita riassegnando all’uomo almeno il primato nella dimensione morale, per fargli riscoprire la sua piccola sovranità nell’esercizio della vita pratica. Il patriarca dei Lumi riusciva in tal modo a porsi al riparo dai rischi di una crisi relativistica e scettica182. Entro questo quadro si possono comprendere meglio le incertezze e le contraddizioni dell’opera di Marivaux e persino la natura “métaphysicomique” della ribellione di Dorante183. Perché la larvata protesta della commedia del 1730 si potesse tradurre in una autentica contestazione dell’ordine esistente -sia pure tramite le speranze e i desideri del linguaggio letterario- bisognerà attendere almeno dieci anni e i primi segnali non sarebbero giunti dalla patria dell’Enciclopedie. P. Hazard, La crise de la coscience européenne (1680-1715), Fayard, Paris, 1961; P. Chaunu, La civiltà dell’Europa dei Lumi; Il Mulino, Bologna, 1987, P.Casini, Jean d’Alembert “epistemologo”, in «Rivista critica di storia della filosofia», XIX, 1964, pp. 28-53; Id., Il problema d’Alembert, in «Rivista di filosofia», 1, 1970, pp. 26-47; T.L. Hankins, Jean d’Alembert. Science and Enlightenment, Gordon and Beach, New York, 1985; P. Alatri, Introduzione a Voltaire, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 57-72. 183 Così Voltaire aveva definito lo stile del grande commediografo. Vedi, l’Introduzione in Marivaux, Il trionfo dell’amore, cit., pp. 15, 39. 182 50 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Autodeterminazione e principio di autorità: Voltaire e Goldoni. Le premesse: la Pamela di Richardson. Era stato nel 1740 un tipografo originario del Derby, S. Richardson, grazie al suo romanzo epistolare Pamela or The Virtue Rewarved a divenire uno dei più celebri scrittori, non solo inglesi, del tempo. L’opera, pubblicata a Londra nel novembre di quell’anno con la falsa data del 1741, riscosse subito un enorme successo tanto da venir ristampata cinque volte nel giro di pochi mesi per poi essere subito tradotta in francese. Nell’aprile 1744 il romanzo veniva condannato dal S. Uffizio per la sua immoralità e di conseguenza era inserito nell’Indice dei Libri proibiti, sia nella versione originale che in quella francese184. La trama indubbiamente suscitava scalpore. Poneva al suo centro, per la prima volta, la vicenda di una povera ragazza, figlia di un umile agricoltore, che nella fragilità della condizione e dell’adolescenza, era costretta a subire le attenzioni prepotenti di un nobile libertino del quale era al servizio. Pamela, severa nei costumi, virtuosa e bella, resisteva a tutte le insidie, alla segregazione, ai tentati stupri sino a redimere con la sua dirittura morale il brutale persecutore facendone emergere, grazie a una vera e propria conversione, il suo volto umano, affettuoso, innamorato. La quindicenne dopo essersi negata due volte alla fine cedeva: solo il matrimonio avrebbe legittimato la violazione della purezza femminile. Trionfavano i modelli puritani della virtù e della castità, l’ideale di una “rarefatta delicatezza” secondo l’espressione l’efficace di L. Stone185. Tuttavia era “l’enorme distanza sociale tra i due protagonisti” – la mésalliance felicemente celebrata tra la serva e il padrone - a sancire la fortuna di Pamela. Si trattava di una vittoria del sesso femminile e di un riconoscimento per la donna del ceto popolare. Nondimeno anche l’antico libertino trasformato in tenero marito era uscito bene dalla circostanza. Sposando Pamela aveva compiuto “un supremo atto di scelta individuale non tenendo conto delle tradizioni della sua famiglia e del suo ceto”186. Prorompeva l’ideale della virtù e non solo quella di Pamela. Entrambi i protagonisti riuscivano a ritrovare “seguendo i dettati del cuore” il rousseauiano “sentimento dell’esistenza” e con esso intuivano la possibilità di scoprire la propria “dignità” e quella dell’altro. Infatti i due sposi si erano dimostrati capaci di valutare ogni essere umano per l’effettivo merito e per le sue autentiche qualità. Rifiutavano di uniformarsi agli antichi codici comportamentali per i quali il giudizio morale prescindeva dalla vera natura F. Piva, Pamela in Francia, v. I, La ricostruzione storico critica, Schena, Brindisi, 2011, pp. 15-81. Il decreto di censura del S. Uffizio è in A. Cataldi, Pàmela-Paméla. Da Richardson a Goldoni passando per Voltaire, Pensa Multimedia, Lecce, 2007, pp. 258-263. 185 L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra, cit., p. 763. 186 I. Watt, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Bompiani, Milano, 2009, p. 138. 184 51 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 dell’individuo. Venivano quindi meno le valutazioni etiche non suscettibili di verifica nelle esperienze della vita quotidiana. Valutazioni che obbedivano pertanto solo a criteri predeterminati .Si trattava di criteri in ragione dei quali si assegnava aprioristicamente ad ogni individuo una collocazione nella gerarchia sociale. In altre parole per Richardson la nobiltà dell’animo non poteva acquisirsi ereditariamente, non era un dato biologico, una qualità genetica, ma il risultato di un impegno, un traguardo che tutti avrebbero potuto raggiungere. Un traguardo che sarebbe divenuto realmente tale nel momento del suo riconoscimento da parte degli altri. Questo atteggiamento etico che prefigurava una società sempre più progredita, promozionale e democratica poteva sorgere e manifestarsi in quegli anni, soprattutto in Inghilterra, un paese all’avanguardia, come ha ricordato anche I. Watt nella sua indagine sulla genesi del romanzo moderno. Non c’è dubbio che al di là della Manica si era compiuta, già nel Seicento, quella rivoluzione politica e sociale che avverrà in Francia soltanto alla fine del secolo successivo. Secondo l’autorevole studioso statunitense sarebbe stato soprattutto l’individualismo economico, il puritanesimo e la filosofia di J. Locke a celarsi dietro la grande affermazione di Pamela187. Con Richardson oltretutto il romanzo d’epoca “noioso e moralista” scopriva finalmente i sentimenti188. Era un’indubbia affermazione dell’amore, un successo che avrebbe contribuito a trasformare in senso affettivo ed egualitario l’idea stessa della famiglia secondo gli ideali puritani delle pari qualità morali dei coniugi189. La Nanine di Voltaire. Il 16 giugno 1749 debuttava alla Comédie Française Nanine ou le préjugé vaincu, una commedia in tre atti di Voltaire ispirata alla Pamela di Richardson. Nel 1770 l’opera veniva tradotta in italiano dall’editore milanese Montani e successivamente andava in ristampa ancora in Lombardia nel 1800, con la falsa indicazione tipografica di Parigi190. La pièce si inaugura con il serrato I. Watt, Le origini del romanzo borghese, cit., pp. 129-166. L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra, cit., pp. 255, 264. 189 E. Leites, Coscienza puritana e sessualità moderna, Il Saggiatore, Milano 1988, pp. 93 e ss.; A.M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuale e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla grande guerra, Einaudi, Torino, 2005, pp. 33-93. D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., pp. 188 e ss. 190 [Voltaire] Nanine ou le préjugé vaincu. Comédie. Représentée pour la première fois le 16 juin 1749 au Théâtre de la rue des Fossés Saint-Germain par la Comédie française. Per notizie relative alla rappresentazione e alla stesura dell’opera vedi l’Introduction in Théâtre du XVIIIe siècle, cit.; M.R. de Labriolle, C. Duckworth, Introduction a Nanine, in Les Oeuvres Complètes de Voltaire, edition critique, The Voltaire Foundation, Oxford, 1994, v. 31B. Per la prima traduzione italiana vedi Nanina, o sia il pregiudicio vinto. Commedia tratta dal sig. r. de Voltaire. In Milano nella stamperia di Giovanni Montani. 1770, l’unica copia in Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Bologna. Una edizione dell’anno IX repubblicano (1800-1801) con la falsa indicazione tipografica di Parigi è 187 188 52 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 colloquio tra il conte d’Olban e la baronessa de L’Orme. I due conversavano animatamente nel “ritiro” di famiglia in campagna: dovevano sposarsi. Un tempo si erano probabilmente piaciuti e forse anche amati, pur essendo parenti, ma ora la loro era un unione solo d’interesse. Il matrimonio era necessario per non disperdere il patrimonio del casato e per tentare di riunificarlo191. La baronessa sin dalle prime battute incalzava il futuro sposo, lo vedeva incerto, esitante: ne percepiva la distanza. Sapeva di avere una pericolosa concorrente in una cameriera, la giovane Nanine, della quale d’Olban si stava incomprensibilmente innamorando192. L’opera privilegiava il dialogo più che l’intreccio della vicenda, un plot in sostanza gracile, anche se ravvivato da alcuni colpi di scena che qui trascureremo. Le rapide battute e i lunghi soliloqui mettevano in evidenza la contrapposizione tra due diverse culture, tra due opposti modelli comportamentali. La nuova mentalità del conte, individualistica e critica, ispirata alla “ragione naturale”, si contrapponeva a quella della baronessa, una persona dalla forma mentis tradizionale e rispettosa della norma. La de L’Orme mirava al riconoscimento del suo ruolo di ceto e di donna, assumendo, anche per questo, passivamente principi e valori193. L’amore tra d’Olban e Nanine nasceva in realtà ben presto alimentato dalla spinta dei “moti del cuore” ma finiva per divenire travolgente in virtù della reciproca condivisione di valori e comportamenti. Il conte scorgeva in Nanine insieme alla bellezza giovanile il “carattere” che rendeva la sua “anima bella“. Scopriva tutte quelle virtù “spontanee e senza artificio” che insieme alla “dirittura” riuscivano ancor più a gratificare l’uomo “saggio” 194. La passione comunque non si spegneva. D’Olban nei momenti più difficili del rapporto, assorto e inquieto, sempre pensando all’amata, era incapace di leggere, studiare, dormire195. Nanine come Pamela obbediva a una legge autonoma che ne determinava la condotta. Amava ma sapeva di non poter costruire un rapporto con d’Olban perché l’infausto “destino”, nella crudeltà delle “consuetudini”, l’aveva posta nell’”ultimo rango” e una mésalliance avrebbe rovinato la vita al conte196. Il suo maestro, d’Olban, il reale protagonista della custodita in Biblioteca statale e libreria civica, Cremona. Il testo del 1770 è antologizzato in A. Cataldi, Pàmela-Paméla, cit. Sul teatro di Voltaire si indicano qui soltanto: G. Iotti, Virtù e identità nella tragedia di Voltaire, Champion, Paris, 1995; R. Goulborne, Voltaire comic dramatist, Voltaire Foundation, Oxford, 2006. 191 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto I, 1. 192 Ibidem. 193 Ivi, Atto I, 1, 7, 9, II, 6, 10, III, 6, 7. 194 Ivi, Atto I, 9. 195 Ivi, Atto II, 1. 196 Ivi, Atto II, 3. 53 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 commedia, le aveva insegnato e dimostrato, con il comportamento e i discorsi, che i “diritti” erano per lo più “distribuiti a caso” dalla sorte e corrispondevano raramente ai “meriti individuali”197. Perciò Nanine, che per “virtù” avrebbe dovuto essere “nel primo rango”, pensava lo stesso di rifugiarsi in convento. Voleva dimenticare l’amato e sperava di superare, nella quiete del chiostro, il suo turbamento198. Le idee della pièce si esprimevano soprattutto nelle riflessioni di d’Olban. Il patrizio-filosofo sorretto dal “cuore” e insieme guidato dalla “ragione” si interrogava sulle relazione sociali e sul significato dei comportamenti umani199. Ormai comprendeva che non erano “il sangue” e “la nascita” a decretate la “nobiltà di un cuore”. Solo la disposizione dell’animo poteva legittimare il valore di una persona e rendere un’azione onorevole. D’Olban contrapponeva alla precettistica formale, alla meccanica del credere e dell’agire l’etica dell’intenzione. Bisognava seguire l’ispirazione del “cuore” e non “imitare” i comportamenti al pari di una “scimmia”200. Pertanto le norme avrebbero dovuto essere il risultato di libere scelte e non la conseguenza delle abitudini. Solo nell’onestà e in una condotta virtuosa si specchiava la vera nobiltà. Il vero senso dell’onore consisteva dunque in una iniziativa virtuosa personale riconosciuta dall’altro e possibilmente utile alla società201. Non doveva essere una azione finalizzata a riconoscersi in uno status o necessaria per accedere ad una élite di privilegiati, come aveva suggerito Montesquieu tentando di spiegare la mentalità gerarchica dell’Antico regime202. Anche d’Olban dunque in forza della sua morale autonoma scardinava l’etica tradizionale che si risolveva, a suo parere, in una pratica di vita fondata su valori sociali predeterminati e quindi non individualizzati. L’eroe di Voltaire metteva così a nudo l’intrinseca correlazione tra l’onore e il potere che costituiva una delle idee forza del sistema degli ordini203. Il conte, invece, in virtù dei suoi convincimenti scopriva un inedito rapporto tra l’onore e i diritti individuali204. Sembrava possibile immaginare una società nella quale gli uomini grazie alla loro consapevole libertà riuscivano a scoprirsi uguali. Nondimeno il primo atto si chiudeva con un interrogativo doloroso che sembrava essere anche un atto d’accusa nei Ivi, Atto II, 9. Ivi, Atto II, 7. 199 Ivi, Atto I, 1. 200 Ibidem. 201 Ivi, Atto III, 6. 202 C-L. de Secondat de Montesquieu, L’Esprit de lois, cit., l. III, 7. 203 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto I, 9. 204 Ivi, Atto II, 7, III, 7. 197 198 54 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 confronti della stessa civiltà dei Lumi: “Le convenzioni? …Ebbene! Sono crudeli; e la natura ebbe i suoi diritti prima di esse”205. Cinque anni prima della stesura del rousseauiano Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes Voltaire affrontava dunque, sia pure di sfuggita e nell’ambito di uno scritto letterario, con un richiamo di un solo verso, sia pur di notevole efficacia, il grande quesito di quegli anni sulla naturale eguaglianza tra gli uomini e sulle origini sociali della diseguaglianza. Rousseau nel Discours del 1754 sembrava esprimersi in modo non dissimile: “Si comprenderà come la disuguaglianza tra uomo e uomo debba essere minore nello stato di natura che in quello di società, e quanto la diseguaglianza naturale debba aumentare nella specie umana per opera della diseguaglianza operata dalle istituzioni” 206. È noto a tutti il valore puramente metaforico dell’idea di stato di natura nel pensiero di Rousseau. Si trattava di un’astrazione concettuale, dichiarata esplicitamente dall’autore nel corso della sua riflessione, utile tuttavia per giudicare il presente e per promuovere la condanna politica della società d’Antico regime207. Lo scritto del 1754, il celebre secondo Discorso, aveva già in germe, lo confermano il testo e gli studi, le tesi del Contrat. La protesta di Voltaire in Nanine invece si risolveva, come si è osservato, in una condanna di tipo morale più che politica. Pertanto lo scritto di Voltaire sembrerebbe più consono al primo Discorso del ginevrino. In realtà anche nel Discours sur le sciences et les arts del 1750 Rousseau aveva voluto mettere in evidenza le “contraddizioni del sistema sociale” rivelando come “l’uomo è naturalmente buono e che soltanto le istituzioni rendono gli uomini malvagi”208.Tuttavia lo stato di natura era inteso per lo più come quel “remoto paradiso” nel quale l’uomo era “incontaminato dai vizi”. “La veemente denunzia dei costumi artificiosi, l’esaltazione della virtù, scienza sublime delle anime semplici i cui principi sono impressi in tutti i cuori”, erano in definitiva i temi forti del Discorso209. Queste istanze morali potevano avere, come si è appena osservato, un indubbio valore potenziale ma non si traducevano ancora in rivendicazioni di carattere politico. Si trattava di spunti e di motivi che avevano una loro circolazione nella letteratura polemica e Ivi, atto I, 9. J.J. Rousseau, Origine della diseguaglianza, a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 69. 207”[…] uno stato che non esiste più che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale tuttavia è necessario avere delle idée giuste per giudicare bene intorno al nostro stato presente “. Ivi, p. 29. 208 J.J. Rousseau, Oeuvres completes, t. I, Les Confessions. Autres texts autobiographiques, edition publiée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, Gallimard, Paris, 1959, p. 1135; Id., Oeuvres, ed. cit., t. III, Du Contrat social. Écrits politiques, p. 15. 209 P. Casini, Introduzione all’Illuminismo. Da Newton a Rousseau, Laterza, Roma-Bari, 1973 p., 418; Id., Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari, 1986, pp. 15 e ss. 205 206 55 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 clandestina di quegli anni e, a grandi linee, erano le stesse istanze che ispiravano la scrittura di Nanine. È opportuno ricordare comunque che Voltaire scrivendo a Rousseau nell’agosto 1755 da Ginevra, dove si era rifugiato da qualche mese in seguito alla rottura con Federico II, avvenuta nel marzo 1753, esplicitamente rimproverava l’autore del Contrat in merito al Discours sur le sciences et les arts. Contestava “le assurde preferenze per la rozza infanzia dell’umanità e rivendicava, con vigore, il valore delle lettere nello svolgersi della vita e della storia degli uomini”. Era stato Rousseau a inviare a Voltaire, proprio in quei mesi, entrambi i Discours come un necessario “hommage que nous vous devons tous comme à notre chef”. Tuttavia la critica della civiltà, la denuncia dell’ineguagliaza sociale e la condanna della proprietà incontravano l’incomprensione di Voltaire210. Per tornare ora nuovamente alla trama della commedia, una serie di colpi di scena riuscivano a rendere vani i progetti della baronessa: il conte rifiutava di sposare la de L’Orme. Rinunciava al patrimonio, agli interessi del casato, alle questioni di ceto per unirsi a Nanine211. Sarebbe spettato alla vecchia madre del conte, la marchesa d’Olban, porre termine alla commedia commentando nell’ultima strofa la mésalliance del figlio con una cameriera sia pur virtuosa: “Che questo giorno sia delle virtù la degna ricompensa, ma senza tirare mai a conseguenza”212. Certamente non può un solo verso su milletrecentotrentasei trasformare completamente il significato della commedia e suggerire un diverso giudizio sulla pièce. Tuttavia qualche dubbio resta. Tra le diverse ipotesi formulate sulla conclusione ci si limiterà a ricordarne solo due. J. Truchet ha messo in evidenza il carattere serio dell’opera tutta incentrata sulla virtù e sul dovere e non incline a indulgere al ridicolo nonostante la scelta di Voltaire per il genere attendrissante. Si trattava di una sperimentazione, come abbiamo già ricordato, che tendeva a armonizzare il tragico con il comico 213. Entro questo primato del “serio” verrebbe meno pertanto l’ipotesi di un finale “ironico” e “graffiante” deliberatamente scelto dall’autore per riequilibrare il testo e per rafforzare il senso della pièce. Altri studiosi invece hanno ventilato l’ipotesi di una prima versione manoscritta della commedia, forse trafugata e comunque ormai F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi, Torino, 1962, p. 109. Ivi la lettera del 30 agosto 1755. J. Pappas, Le rousseauisme de Voltaire, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 1967, 57, pp. 1169-181. 211 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto III, 6. 212 Ivi, Atto III, 7. 213 Vedi l’Introduction di J. Truchet in Théâtre du XVIII siècle, cit., p. XXXVII e ivi la Préface di Voltaire, p. 874. 210 56 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 perduta, che si concludeva con una agnizione finale: Nanine si sarebbe scoperta nell’ultima scena figlia di un patrizio secondo il gusto del tempo. In tal modo la mésalliance sarebbe stata scongiurata. Solo successivamente Voltaire, in seguito ad un ripensamento, avrebbe riscritto il terzo atto e variato la conclusione. Di questa suggestiva ipotesi, come si è detto, non possediamo nessuna prova certa ma soltanto testimonianze coeve indirette e di carattere secondario214. Inizialmente la commedia non riscosse un grande successo e fu ritirata dopo dodici rappresentazioni. Riapparve nuovamente nel 1754 per divenire, tra il 1760 e il 1780, almeno in Francia, una delle opere teatrali più popolari del patriarca dei Lumi215. In quegli anni la pièce venne persino protetta dall’autorità216. Si temevano probabilmente le versioni clandestine che potevano radicalizzare il tema della mésalliance. Nonostante l’ambiguità del testo Nanine andò in scena 284 volte negli anni della Rivoluzione: la profezia della marchesa d’Olban era stata dimenticata217. Il senso autentico di Nanine può essere compreso collocando l’opera nell’ambito della produzione coeva del suo autore. La stesura della commedia si compie quasi a ridosso della scrittura delle Pensées sur le gouvernement, un opuscolo politico di sole quindici pagine, nondimeno estremamente significativo, pubblicato nel 1752 ma steso verosimilmente qualche mese prima218. F. Diaz ha messo in evidenza l’evoluzione del pensiero politico di Voltaire anche nel corso dei primi anni Cinquanta. Il futuro autore del Candide deluso dall’incontro con Federico II già dal 1751, si rifugiava nella filosofia di Newton e riparava, come sappiamo, a Ginevra agli inizi del 1755. La sua era una scelta simbolica: la città era intesa come la patria del libero pensiero e degli ideali repubblicani. Anche d’Alembert in quegli stessi anni amareggiato dalle difficoltà dell’Enciclopedia si chiudeva sempre più nel privato e nella quiete degli studi. Tra 1752 e 1753 apparivano le Pensées sur le gouvernement e i Mélanges di d’Alembert219. Già in quelle opere i due philosophes, pur esponenti di un Illuminismo moderato e “classico”, iniziavano a porre in discussione, sia M.R. de Labriolle, C. Duckworth, Introduction a Nanine, in Les Oeuvres Complètes de Voltaire, cit., pp. 8 e ss. 215 Ivi, pp. 16 e ss. 216 Ivi, p. 13. 217 L.L. Sheu, Voltaire et Rousseau dans le théâtre de la Révolution française (1789-1799), Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxeelles, 2005, p. 20. 218 Pensées sur le gouvernement in Oeuvres completes de Voltaire, éd. L. Moland, Garnier frères libraries-éditeurs, Paris, 1879, v. XXIII, pp. 523-35. Per la datazione dell’opera vedi P. Alatri, Introduzione a Voltaire, cit., p. 122. 219 [J.B. Le Rond d’Alembert] Mélanges de littérature, d’histoire et de philosophie, Briasson, Paris 1753, 2 voll. 214 57 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 pure sotto il profilo teorico, il modello della monarchia amministrativa e del dispotismo illuminato. Rivolgevano lo sguardo alla monarchia temperata inglese e al costituzionalismo. Mostravano interesse anche nei confronti degli ideali repubblicani che trovavano il loro simbolo nella Repubblica svizzera. Veniva così meno la divaricazione che era durata cento anni tra la monarchia amministrativa francese e la monarchia temperata inglese: il costituzionalismo e il modello liberale iniziava ad essere considerato un sistema politico valido in tutta l’Europa220. P. Alatri invece ha corretto gli aspetti più ottimistici di questo giudizio mettendo in evidenza la compresenza di istanze diverse e contraddittorie nel pensiero di Voltaire di quegli anni. Per quel che qui interessa, le Pensées (il trattatello politico più vicino alla stesura di Nanine) sono ricche “di radicali spunti politici e sociali che fuoriescono dal dispotismo illuminato”. Tuttavia l’operetta resta lontana da tendenze utopistiche o democratiche di stampo rousseauiano . Ma soprattutto gli spunti e i fermenti nuovi non riescono a rompere del tutto un quadro predeterminato. In altri termini a parere di P. Alatri Voltaire non pensò mai di adottare “idee repubblicane, ma neppure progetti di costituzionalismo all’inglese, e si batté invece perché tra le forze operanti che si confrontavano in Francia - la monarchia, l’aristocrazia e i parlamenti -, fosse la prima a prevalere […] Quindi, non soltanto monarchia ma monarchia assoluta e al tempo stesso illuminata”221. Le contraddizioni messe in evidenza dai due grandi studiosi ormai scomparsi sono le stesse in definitiva che possono cogliersi in Nanine. La commedia esprime bene, con le sue ambivalenze, un processo indubbiamente in atto che tuttavia non può ancora considerarsi svolto, concluso. Come vedremo tra poco anche nella Pamela di Goldoni si manifesta qualcosa di analogo: le grandi spinte di rinnovamento, ancora in fieri, sono frenate dalle persistenze di una vecchia cultura. La Pamela di Goldoni. In un suo contributo del 1978 G. Cozzi, studiando le questioni della sopravvivenza dell’antico diritto veneto nel Settecento, aveva quasi casualmente scoperto l’Avvocato veneziano, la commedia redatta da Goldoni alla fine degli anni Quaranta222. Cozzi, verosimilmente per primo, aveva individuato l’autentico nucleo concettuale della trama e l’ eminente F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, cit., pp. 83-130; Id., Dal movimento dei Lumi al movimento dei popoli. L’Europa tra Illuminismo e Rivoluzione, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 239 e ss. 221 P. Alatri, Introduzione a Voltaire, cit., 49 e ss. 222 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto, ora in Id., La società veneta e il suo diritto, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 3-17. C. Goldoni, L’avvocato veneziano, in Tutte le Opere di C. Goldoni, a cura di G. Ortolani, Mondadori, Milano, 1936 v. II, , pp. 705-95. Ivi, p. 1235 informazioni sulla pièce. La commedia, stesa in tre atti, veniva rappresentata per la prima volta a Venezia “nell’anno comico 1749-‘50”. 220 58 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 significato storico-politico del testo. In sostanza coglieva nell’opera il riflesso di quel dibattito che, per tutto il secolo, poneva in conflitto due diverse concezioni giuridiche. La prima, localistica e peculiarmente veneta, si configurava come un orientamento pratico-empirico, fondato sulla “ponderazione delle circostanze”, una tendenza che imponeva la relativizzazione della norma adeguandola ai bisogni e alle necessità dell’ora. In altri termini si trattava di una procedura volta a premiare la volontà e l’intelligenza del legislatore nella costruzione (o nell’esecuzione) della legge giusta. L’altra, invece, subordinava l’azione giuridica alla pedissequa applicazione di modelli predeterminati, mutuati per lo più dal corpus romano, un insieme di disposizioni considerate come un canone universale. La commedia di Goldoni premiava, secondo le aspirazioni di buona parte della società veneta del tempo, l’iniziativa di Alberto Casaboni, un giovane giurista marciano seguace del “diritto naturale”: il suo volontarismo individualista lo guidava non solo nella pratica forense ma anche nelle iniziative della vita privata e matrimoniale. All’ossequio della norma e alle nozze di interesse il protagonista opponeva il diritto dei sentimenti, la sua libera scelta223. G. Cozzi scopriva così, nel teatro di Goldoni degli anni 1748-’52, rapidamente indagato nel saggio, un’“aria di modernità”, l’eco di una “sensibilità nuova: attenta alle esigenze dei sentimenti, consapevole dei diritti delle donne e dei giovani che difende il matrimonio nato dall’amore”224. Una sensibilità che aveva avuto la sua “incubazione nella crisi della coscienza europea”, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo 225. Tuttavia lo studioso si rendeva conto che quel teatro, così proiettato nelle esigenze del presente, rimaneva ancora prigioniero del passato non riuscendo a rompere del tutto con le antiche consuetudini e pratiche di vita. Anche Pamela, la commedia in tre atti ispirata al romanzo di Richardson e rappresentata a Venezia al S. Angelo il 28 novembre 1750, testimonia le medesime incertezze e contraddizioni. Nondimeno la pièce riscosse allora un successo straordinario: venne replicata diciotto volte, mentre d’abitudine non si G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit.,p. 17. C. Goldoni, L’avvocato veneziano, cit., Atto II, 18, III, 2, ultima. 224 A solo titolo d’esempio si riporta un monologo di Bettina ne La putta onorata: “Tanti si marida per quela poca de dota, i la magna in quatro zorni, e la mugier, in vece de pan, tonfi maledeti. E pura anca mi me voi maridar, e credo che il mio no l’abia da esser compagno dei altri. Basta, sia come esser se vogia, no me n’importa. Dise el proverbio: Chi se contenta, gode. Xe megio magnar pan e ceola con un mario che piase, che magnar galine e caponi con un omo de contragenio. Si ben, soto una scala, ma col mio caro Pasqualin”. La putta onorata, in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. II. Cfr. Atto I, 16. 225 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit.,p. 8. P. Hazard, La crise de la conscience européenne, cit., pp. 315 e ss. 223 59 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 andava mai oltre le due226. L’opera affrontava questioni spinose in anni difficili. Erano anni di crisi economica e di desolati “pronostici sulla durabilità della Repubblica”. Cresceva il malessere nello stesso patriziato e si diffondevano nuovi costumi. In città e nei Domini aumentavano i matrimoni non ufficiali e divenivano più numerose le pratiche di separazione e di annullamento: il modello tradizionale della famiglia entrava in crisi227. Più che Pamela era Il padre di famiglia, un’altra commedia di Goldoni andata in scena, sempre a Venezia, poco più di sei mesi prima, ad esprimere, con efficacia, le inquietudini di quegli anni228. La pièce, stroncata da G. Ortolani e rivalutata da G. Cozzi, è stata considerata recentemente da A. Scannapieco, nonostante alcuni richiami alla pedagogia di Locke, come “un manifesto politico-programmatico” funzionale al consolidamento degli assetti gerarchici della società d’Antico regime229. Per quel che qui interessa le due opere, pur così diverse tra loro, manifestavano in modo complementare l’atteggiamento di Goldoni nei confronti delle grandi trasformazioni della mentalità e del costume che percorrevano la società veneta negli anni Cinquanta. Il commediografo percepiva le spinte diverse e contrastanti di una nuova cultura centrata sull’individuo230. Intuiva tanto le dinamiche solidaristiche e democratiche che scaturivano dal soggettivismo etico quanto le regressioni asociali dell’utilitarismo individualistico. L’auspicio della naturale eguaglianza dei diritti individuali lo spingeva alla stesura di Pamela, eroina di virtù e autenticità. Si trattava tuttavia, come vedremo, solo di una tentazione momentanea smentita nello sviluppo degli atti. La trasformazione che sembrava potersi prefigurare sulla scena si era rivelata troppo radicale e violenta: era necessario Vedi Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. III, pp. 1181 e ss.; C. Goldoni, Pamela fanciulla, Pamela maritata, a cura di I. Crotti, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 379 e ss. 227 G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, in Id., La società veneta, cit., pp. 19-64. E. Plebani, Un secolo di sentimenti, cit., pp. 175-288. 228 Il testo de Il padre di famiglia, una commedia in tre atti rappresentata per la prima volta al teatro S. Angelo di Venezia nel carnevale 1750 è in Tutte le opere di Carlo Goldoni, cit., v. II, pp. 797-878. Per l’edizione critica vedi, C. Goldoni, Il padre di famiglia, a cura di A. Scannapieco, Marsilio, Venezia, 2002. Ivi le rielaborazioni del 1751, 1754, 1764, bibliografia e le notizie sulla tiepida accoglienza e la successiva fortuna. 229 Vedi la Nota di G. Ortolani in Tutte le opere di Carlo Goldoni, cit., v. II, pp. 1241 e ss.; G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit., pp. 9 e ss.; K. Hecker, La concezione dell’educazione in Carlo Goldoni, Quaderni del Centro Tedesco di Studi Veneziani, Venezia, 1980; A. Scannapieco, Introduzione in C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., p. 15. Ivi pp. 14, 41 e passim per l’individuazione dei brani goldoniani che risentono dei Pensieri sull’educazione di Locke. 230 E. Pulcini, La passione del moderno: l’amore di sé, in Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti Finzi, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 133-80; Ead., L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati e Boringhieri, Torino, 2001. 226 60 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 mutar rotta sulla scorta degli ideali di virtù e grandezza che erano stati propri dell’antica Repubblica marciana. Il Padre di famiglia invece testimoniava lo sgomento dei contemporanei di fronte a un mondo in rovina: “declina il mondo e peggiorando invecchia” osservava sconsolatamente Pantalone, il protagonista positivo della commedia, una figura nella quale Goldoni probabilmente almeno in parte si specchiava231. L’opera ricostruiva la crisi delle certezze tradizionali, il venir meno delle idee consuete di individuo e di famiglia. S’interrogava sul valore della cultura moderna, una civiltà che sembrava solo distruggere senza saper poi riedificare 232. Dietro la ribellione dei figli e l’insofferenza dei coniugi verso i loro reciproci doveri vi era qualcosa di più di una crisi che colpiva la famiglia. Il commediografo intuiva una profonda lacerazione sociale, un conflitto che sembrava contrapporre tutti contro tutti. Ogni individuo posto al di fuori delle antiche strutture associative, ridotto a pura frazione numerica, ormai atomizzato finiva per restare come soggiogato dal proprio egoistico vantaggio233. Erano soprattutto i figli e le mogli che manifestavano la loro insofferenza verso le consuetudini234. Rosaura ad esempio, educata fuori casa e tralignante non voleva più limitarsi a scrutare dalla finestra e desiderava con impazienza l’emancipazione. Intendeva sposarsi a tutti i costi, anche a danno di sua sorella Eleonora, una ragazza piena di buoni sentimenti, vissuta sempre in famiglia e ossequiosa delle norme235. Florindo più vizioso che libertino, litigioso e invidioso, sempre in astio con il fratello Lelio, il primogenito prediletto del padre, era disposto a unirsi con chiunque pur di acquistare la propria indipendenza236. La sua autonomia prescindeva dai sentimenti: “Sentite, signora madre, io per dirvela non ho poi una gran passione per la signora Eleonora. Io mi voglio ammogliare; datemi questa, datemi un’altra, purché abbia moglie, per me è tutt’uno. […] Prendo moglie per essere capo di famiglia, per uscire dalla soggezione del padre, per maneggiare la mia dote, per prender la mia porzione della casa paterna, per dividermi dal fratello, per fare a modo mio, e per vivere a modo mio”237. Vi era qualcosa di più forte e insieme di irrisolto nell’utilitarismo meramente individualistico di Florindo rispetto alla emancipazione, di li a poco successiva, del diderottiano Saint-Albin nei confronti del signor d’Orbesson: “Padre mio non avete che un figlio non lo C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., Atto III, 1. Ivi, Atto I, 12, 14, 15, II, 2, 3, 18, 20, III, 1, 4, 5, 7, 9. 233 C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., in particolare Atto III, 1. 234 Ivi, Atto I, 14, 15, II, 3, 4, 20, III, 1, 4, 5, 7, 9, 13. 235 Ivi, Atto I, 15, 16, II, 18, 20, III, 3, 4, 5, 7, 14, 16. 236 C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., Atto I, 9, 10, II, 1, 2, 5, 20, III, 1, 4, 5, 9, 11, 13, 16. 237 Ivi, Atto II, 20, III, 1. 231 232 61 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 sacrificate. […] Ho bisogno di una compagna onesta e sensibile che mi insegni a sopportare le pene della vita, e non di una donna ricca e titolata che le accresca. […] L’autorità! L’autorità non hanno che questa parola. […] Padri! Padri! Non ce ne sono affatto. Non ci sono che tiranni”238. Tuttavia anche la carica eversiva e il timbro sentimentale della commedia di maître Denis si sarebbero progressivamente spenti. La consueta mésalliance che caratterizza anche quest’opera si sarebbe risolta convenzionalmente con una agnizione finale. Sophie, “povera e bella” doveva scoprirsi nipote del commendatore D’Auvilé per poter, equiparata nel rango, sposare Saint-Albin scongiurando la rovina economica e sociale del giovane patrizio239. Nel Padre di famiglia Pantalone il simbolo della “salvaguardia del nucleo familiare” e il “baluardo di moralità contro la corruzione della società” tuttavia sarebbe ancora riuscito a prevalere240. Confidando nelle sue capacità, nel buon senso e anche grazie alla prudenza, un po’ orecchiando la pedagogia di Locke e recependo almeno in parte le richieste familiari, finiva per imporre le sue scelte241. “Mi vago all’antiga” affermava soddisfatto il protagonista fin dalle prime scene242. Rimaneva di fatto ben saldo “alla testa e al governo della famiglia”, assolvendo una funzione di regolamentazione della sfera domestica che “una secolare tradizione trattatistica presentava come necessaria premessa dell’organizzazione complessiva della società politica: un dato ineliminabile e insostituibile per la coesione e la tenuta dell’intero assetto sociale” 243. Entro questo quadro instabile che caratterizza la società veneziana a metà secolo anche la censura si faceva più rigida e il teatro era rigorosamente sottoposto alla vigilanza degli Esecutori della bestemmia, una magistratura attenta alla revisione dei testi244. Il pericolo di incorrere nei rilievi della censura D. Diderot, Il padre di famiglia, commedia in cinque atti e in prosa. Con un discorso sulla Poesia Drammatica, ora in D. Diderot, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, La Nuova Italia, Firenze, 1980, Atto II, 6. 239 Ivi, Atto, V, 12. Sulla nota accusa di plagio del diderotiano Padre di famiglia dall’omonomo testo goldoniano vedi per tutti M.D. Busnelli, Diderot et l’Italie. Reflets de vie et de culture italiennes dans la pensée de Diderot avec des docuents inédits et un essai bibliographique sur la fortune du grand encyclopédiste en Italie, Champion, Paris, 1925; H. Dieckmann, Il realismo di Diderot, cit., pp. 53-88; N. Jonard, Goldoni et le drame bourgeois, in «Revue de littérature comparée», LI, 1977, 536-52. 240 S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Marsilio, Venezia, 2014, p. 74. 241 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit., pp. 9-10; H. Dieckmann, Il realismo di Diderot, Laterza, Roma-Bari, 1977, p. 81. 242 C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., Atto I, 6. 243 D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’”economica” tra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma, 1985, p. 69. A. Scannapieco, Introduzione in C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., p. 13. 244 G. Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia: vicende della magistratura degli Esecutori contro la bestemmia, in Id., La società veneta, cit., pp. 65-149. 238 62 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 può aver condizionato la stesura di Pamela e, in una certa misura, potrebbe giustificare le incoerenze già ricordate. Tuttavia si crede che l’opera risenta in particolare della abituale prudenza di Goldoni, sempre poco propenso a porre in discussione i principi e i valori costitutivi della società tradizionale e, ancor più, quelli della sua comunità cittadina. Proprio in quegli anni, tra 1744 e ’45, era apparsa a Venezia la prima traduzione italiana del romanzo di Richardson compiuta dal libraio Bettinelli: un’opera realizzata in quattro tomi e andata in ristampa nel 1749, in seguito ad un vivace fervore di “lettura anche al femminile” del romanzo245. Il testo inglese aveva provocato una sorta di terremoto in città. Goldoni riprendendo nella sua Pamela il tema della mésalliance, la nota vicenda dell’amore contrastato tra una giovane cameriera e un nobile, correva il rischio di colpire anche lui, tramite le abitudini e le condotte di vita, i meccanismi di reclutamento della classe dirigente e della vita politica locale. Com’è noto a Venezia i diritti politici erano riservati esclusivamente al patriziato in virtù di un’eguaglianza giuridica di corpo, o come si soleva dire, “di dominio”, estesa a tutti i nobili maschi maggiorenni. Pertanto solo chi nasceva nobile poteva accedere alla grande assemblea di ceto, il Maggior Consiglio, eleggere ed essere eletto, concedere a titolo perpetuo il suo seggio ai discendenti purché nati da legittime nozze registrate presso L’Avogaria di Comun “con donna che non sia della plebe, ma di honesta conditione”246. Una disposizione del 1589 aveva precisato a suo tempo i requisiti di quella condizione onesta imponendo l’astensione dalle “arti meccaniche”, per almeno tre generazioni nella famiglia della futura sposa di un patrizio247. Emergevano, anche a Venezia, dunque, delle figure ibride e intermedie, dei “tipi misti” che premevano dal basso. Si trattava ad esempio dell’artigiano o del commerciante che da poco avevano dismesso il grembiule o che ancora con un certo orgoglio lo portavano e forse lavoravano mentre sovraintendevano e controllavano i conti. La norma del 1589 metteva in evidenza quindi l’apertura del ceto patrizio alle figlie dei nuovi ricchi tramite il matrimonio. Quella “porta di servizio” consentiva dunque, a suo modo, un certo rimescolamento sociale. È stato [S. Richardson] Pamela, ovvero la virtù premiata. Traduzione dall’inglese, Per Giuseppe Battinelli in Merceria al Secolo delle Lettere. Venezia, 1744-1745, 4 voll. Vedi A. Scannapieco, Per un catalogo dei libri di Giuseppe Bettinelli (131-1786), in Problemi di critica goldoniana, a cura di G. Padoan, Longo, Ravenna, 1994. Sulla fortuna dell’edizione, vedi C. Goldoni, Pamela fanciulla, Pamela maritata, cit., pp. 379 e ss. 246 P. Parura, Historia vinetiana, Vinetia 1645, p. 560 in V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, cit., p. 42. Vedi anche C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 325 ss. 247 A. Zannini, La presenza borghese, in Storia di Venezia, cit., v. VII La Venezia barocca, a cura di G. Benzoni e G. Cozzi, p. 232. 245 63 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 osservato che “l’articolazione primaria nella società d’Antico regime non era costituita dalla distinzione tra privilegiati e terzo stato ma piuttosto fra coloro che traevano sostentamento dal lavoro manuale e artigianale e coloro che potevano farne a meno”. Comunque sia è certo che tra i due gruppi si era creata, una frontiera estesa “su una terra di nessuno, occupata da categorie sociali di transizione”248. Abbiamo già fatto cenno alla distinzione tra due corpi aristocratici all’interno del Maggior Consiglio, tra loro più o meno numericamente equivalenti a metà secolo249. Sappiamo anche che le cariche più significative erano riservate agli strati medi e superiori del patriziato. Il reale esercizio del potere era concentrato in un gruppo ristretto d’ottimati e ”l’origine di ogni distinzione riposava ormai nel censo”250. L’opposizione tra i gruppi medio-alti del patriziato e la plebe nobiliare tuttavia non si risolveva soltanto in una disparità di carattere politico-economico ma pure in una diversità esistenziale, comportamentale che determinava atteggiamenti e stili di vita differenti. Emergeva una distinta concezione della famiglia, del matrimonio, dell’educazione dei figli251. Tra gli ottimati e il patriziato mezzano -i primi tre gruppi del ceto nobiliare nella celebre classificazione di G. Nani del 1750 seguita ancora oggi dagli studiosi252- l’idea di “servizio dello stato”, la dedizione assoluta al bene pubblico, si accompagnava con “lo spirito di famiglia” ovvero con l’esigenza di conservare l’unità di un antico nucleo e di accrescerne il prestigio253. Sul piano pratico anche per impedire la frantumazione del patrimonio era necessario limitare i matrimoni, sino al punto di consentirne soltanto uno per generazione. Quei pochi che venivano celebrati dovevano essere pertanto rigorosamente selezionati al fine di garantire la carriera politica di un proprio membro insieme al prestigio della casa. Le “ragioni di famiglia” impedivano, dunque, le libere scelte. Gli studi tuttavia hanno messo in evidenza un quadro mosso, variegato, contraddittorio. Se il modello tradizionale della famiglia sarebbe sopravvissuto a Venezia sino alla caduta della Repubblica, tuttavia nuove abitudini C. Lucas, Nobili, borghesi e le origini della Rivoluzione francese, in Il mito della Rivoluzione francese, a cura di M. Terni, Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 192. 249 V. Hunecke, Il corpo aristocratico, cit., pp. 366 e ss. 250 M. Berengo, la società veneta, cit., p. 6. 251 V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, cit. 252 Sul Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l’anno 1756 (in Biblioteca Universitaria, Padova, cod. 914), compiuto da G. Nani sull’esame del Libro d’oro pubblicato a stampa nel 1750, vedi P. Del Nego, Giacomo Nani. Appunti biografici, «Bollettino del Museo Civico di Padova» LX, 1971, 2, pp. 115-147; Id., Proposte illuminate, cit., pp. 138 e ss. 253 P. Del Negro, Il corpo ottimatizio marciano nel Settecento, cit., p. 113. W. Panciera, La Repubblica di Venezia nel Settecento, cit., p. 34. 248 64 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 pervadevano i costumi dei ceti più elevati trasformandone in parte la mentalità e gli atteggiamenti254. La plebe nobiliare, invece, -la quarta e la quinta classe nella ripartizione di Nani- priva di beni e di reali risorse economiche aveva poco da difendere e da conservare: la libertà dei singoli prevaleva quasi sempre nelle scelte matrimoniali. In tal modo gli antichi legami parentali e le rigide strutture delle vecchie case venivano meno: iniziava ad affermarsi il modello della famiglia nucleare pervaso dai nuovi sentimenti individuali e affettivi255. Entro questo quadro si comprendono meglio gli orientamenti di Goldoni nella stesura di Pamela. Il suo teatro, così attento al “mondo”, così pronto a recepire e a interpretare gli stimoli e i bisogni sociali, doveva nonostante tutto adeguarsi alle norme comunitarie, astenersi dal porre in discussione le regole che disciplinavano la vita cittadina. Da questi convincimenti scaturiva la scrittura di Pamela, e derivavano le innegabili contraddizioni del testo. Sono le tarde osservazioni sulla commedia annotate da Goldoni nei suoi Mémoires del 1787 che esplicitano le reali intenzioni dell’autore. In questa occasione l’ormai vecchio commediografo appariva distaccato dall’entusiasmo giovanile che ancora in parte accompagnava la spiegazione del testo nella introduzione all’edizione Paperini del 1753 della commedia. Allora Goldoni si era mostrato combattuto tra le ragioni della “natura” e della “virtù” e quelle tutte pratiche determinate dalla necessità storica. Nell’Autore a chi legge premesso al testo del ’53 l’insistita perorazione delle norme sociali, la difesa convenzionale dell’onore e del sangue era moralmente subordinata per l’autore agli inalienabili diritti dell’individuo. Tutti per natura erano in grado di esprimere nel modo più autentico e più alto i loro sentimenti e la loro virtù. La presa di coscienza della universale dignità umana sembrava poter superare le antiche barriere gerarchiche. Da questi presupposti fissati nella premessa scaturiva la stesura delle due scene più impegnate della commedia. All’inizio del terzo atto era la governante Jevre ad appellarsi alla legge di natura, “all’ardita tesi dell’eguaglianza naturale degli uomini al di là della distinzione sociale”256. Il passo sembrerebbe ispirato dall’invettiva del conte d’Olban sulla crudeltà delle convenzioni e sull’eguaglianza naturale dei diritti individuali che chiude, come sappiamo, il primo atto della volterriana Nanine257. Gli studi, invece, considerano “improbabile” la conoscenza diretta di Vedi T. Plebani, Un secolo di sentimenti, cit., pp. 114 e ss. Sul carattere europeo del fenomeno J. Dewald, La nobiltà europea in età moderna, Einaudi, Torino, 2001. 255 V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, cit. Sulla plebe nobiliare vedi L. Megna, Nobiltà e povertà. Il problema del patriziato povero nella Venezia del Settecento, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXL, 1981-’82, pp. 319-40. 256 S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, cit., p. 99. 257 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto I, 9. 254 65 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Goldoni del testo francese ancora nel 1753.258 Già nel 1937 G. Ortolani, seguito poi da altri, aveva colto nelle “massime ingenue” di “madama Jevre” un precorrimento di “Rousseau e della Rivoluzione francese” 259. Tanto desumeva il grande studioso di Goldoni dall’ammonimento della governate: “Io ho sentito dir tante volte che il mondo sarebbe più bello se non l’avessero guastato gli uomini, i quali per cagione della superbia, hanno sconcertato il bellissimo ordine della natura. Questa madre comune ci considera tutti eguali, e l’alterigia dei grandi non si degna dei piccoli. Ma verrà un giorno che dei piccoli e dei grandi si farà nuovamente tutta una pasta”260. Il suggerimento sembrava già essere stato recepito da Pamela sin nel primo atto. La giovane, offesa da Milord Bonfil che inutilmente tentava di sedurla, si costituiva come persona e pur da serva, superando ogni barriera sociale, affrontava il perplesso aristocratico di lei già innamorato. Pamela si appellava alle leggi della morale universale. Reclamava per tutti pari dignità, uomini o donne che fossero, indipendentemente dalle ragioni sociali. Pur consapevole del suo rango intendeva stabilire un rapporto tra pari fondato su una nuova concezione dell’onore corrispondente ai reali meriti e alle autentiche virtù individuali. In tal modo, pur senza accorgersene, riscriveva anche lei, secondo altri criteri, le norme delle nuove gerarchie sociali261. Nondimeno quei principi espressi nella pièce con tanta forza e precisione di giudizio erano intesi dal commediografo come un patrimonio ideale, un bagaglio di valori su cui fondare una filosofia dell’esistenza. Un corpo di idee che tuttavia non avrebbe mai potuto trovare attuazione nella “pratica comune” della vita quotidiana, nella “morale approvata” socialmente. Quei principi dunque si erano sempre rivelati, a ben vedere soltanto dei sogni, dei desideri irreali, smentiti in ogni occasione dai fatti, persino nella storia della libera Vedi il Commento di I. Crotti in C. Goldoni, Pamela fanciulla, cit., p. 300. Per il ridimensionamento delle influenze volterriane sul testo di Goldoni vedi P. Toldo, Attinenze tra il teatro comico di Voltaire e quello di Goldoni, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXI, 1898, pp. 343-60; A. Beniscelli, Forza e delicatezza delle passioni. Le metamorfosi di Pamela, in «Studi goldoniani», VIII, 1988, pp. 85-105; cfr. anche G. Padoan, L’impegno civile di Carlo Goldoni, in «Lettere italiane» XXXV, 1983, 4, pp. 421-456. 259 Vedi la Nota di G. Ortolani in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. III, p. 1182; G. Nuvoli, La metamorfosi di Pamela da Richardson a Goldoni, in Studi in onore di Mariangela Mazzocchi Doglio, a cura di P. Bosisio, Bulzoni, Roma, 2010, pp. 499-520. 260 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 3. Il medesimo motivo tornava due anni dopo: Celidoro così si rivolgeva a Cetronella “Che dote? La natura ci ha fatto tutti uguali, ciascuno abbiamo i nostri capitali”. Sempre Celidoro, questa volta a Calimone, aggiungeva: “La natura insegna che tutti siamo fatti d’una pasta”. Vedi [C. Goldoni] I portentosi effetti della madre natura, Dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel teatro nuovo di San Samuele l’autunno dell’anno 1752, In Venezia 1752, appresso Modesto Fenzo, con licenza de’ superiori, Atto III, 7, 9. 261 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto I, 6, II, 14. 258 66 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Inghilterra sino ai tempi dell’opera di Richardson262. In definitiva anche le “nozze vili” e la libertà di scelta accettate dal diritto naturale e da quello comune, nonché dall’autorità ecclesiastica, erano rifiutate dal buon senso dell’opinione263. Su quest’ultime considerazioni fissate nella premessa si sarebbe dovuta svolgere la commedia. Solo in questi termini poteva essere recepito il messaggio del romanzo epistolare. Anche Goldoni avrebbe ricostruito la storia d’amore tra diseguali, tra Pamela e Bonfil264. Ma nonostante la passione e la virtù, Milord restava come frenato: vedeva Pamela bella, amabile, virtuosa, onesta e illibata ma non si decideva a sposarla. Sapeva che era la virtù e non il sangue di una madre a operare sui figli: ma continuava a pensare che quel sangue vile li avrebbe nonostante tutto degradati e declassati265. Nelle esitazioni e nelle incertezze del protagonista si specchiavano verosimilmente quelle dell’autore. Molti anni dopo la stesura della pièce ripensando a Bonfil nei Mémoires il commediografo annotava:“sarebbe troppo felice se potesse farne la sua sposa, non è l’interesse che glielo impedisce: sono la sua condizione, la sua nascita”266. Pertanto la Pamela di Goldoni per potersi concludere doveva ricorrere al cliché dell’agnizione finale, il magistrale colpo di scena del vecchio teatro. La giovane da cameriera si riscopriva nobile. Suo padre in realtà non era un oscuro villano ma il conte d’Auspingh, un autorevole aristocratico, perseguitato nella Scozia in rivolta del primo Settecento. Temendo per la propria incolumità il patrizio aveva cercato riparo in campagna sotto le mentite spoglie di un povero contadino267. Pamela ormai ritrovata la vera identità poteva finalmente celebrare le nozze di rango con il suo Milord268. Più di trent’anni dopo, nei Mémoires, il ricordo delle “leggi di natura” e del diritto dei sentimenti si era del tutto spento. La “virtù” ormai veniva sacrificata, senza alcun rimpianto, sull’altare del “decoro” e degli interessi di “famiglia”. La rievocazione di Pamela si consumava nella celebrazione della ragion di stato, in un deferente ossequio agli ottimati: “a Venezia un patrizio che sposi una plebea Tutte le Opere di C. Goldoni, cit., v., III, pp. 331-32. C. Goldoni, Pamela, cit., Atto I, 13. 264 T. Crivelli, Pamela o la metamorfosi ricompensata, in «Quaderni di italianistica», XX, 1999, 1-2, pp. 33-49. 265 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto II, 2. 266 C. Goldoni, Mémoires, a cura di P. Bosisio, Mondadori, Milano, 1993, pp. 342-43. Bonfil: ”Quanto cambierei volentieri questo gran palazzo con una delle vostre capanne!” C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 6. 267 Com’è noto dal maggio 1707, in seguito all’annessione della Scozia all’Inghilterra, si susseguirono sino al 1746 moti indipendentistici. Vedi, W. Ferguson, Scotland’s Relations with England: A Survey to 1707, John Donald, Edinburgh 1977; Id., Scotland: 1689 to the Present, Mercat Press, Edinburgh, 1994. 268 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 6, 17. 262 263 67 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 priva i suoi figli della nobiltà patrizia ed essi perdono così ogni diritto di accedere alle cariche più importanti”269. Nella Venezia degli anni Ottanta: Abergati, Sografi e Pepoli Rodolfo e il diritto di punire. Il tema consueto del matrimonio d’interesse ispirava anche Rodolfo una commedia in cinque atti redatta da F. Albergati Capacelli tra l’aprile e il settembre 1784270. La vicenda era ambientata in un palazzo patrizio di Toledo in un tempo non determinato: don Fernando e don Alfonso, due vecchi amici, avevano già concordato le nozze tra i loro rispettivi figli Rodolfo e Flerida: conversavano impazienti nell’attesa del notaio che avrebbe dovuto, a momenti, registrare i preliminari dell’atto271. Se la mésalliance questa volta era esclusa, considerati i nobili natali d’entrambi, i due giovani comunque certo non si amavano. Rodolfo, appena tornato da un lungo soggiorno nelle Fiandre, era “pensieroso” e “mesto”, Flerida rifletteva sulla sua relazione segreta con il conte Flavio, un lontano parente, non ben visto dal padre per alcune “sventure” che avevano modificato almeno in parte la sua condizione economica 272. Nonostante le esitazioni e le incertezze i due futuri sposi finivano per firmare, sia pur con molta riluttanza, la scrittura notarile 273. Nondimeno, con una certa sorpresa, questa volta erano i padri a rompere le consuetudini e ad opporsi a una unione che si rivelava infelice274. Albergati tuttavia aveva già affrontato, nel suo repertorio, le questioni allora assai delicate del rapporto tra padri e figli. In particolare ne Il prigioniero, un’opera del 1773, lo scrittore bolognese, apertosi in quegli anni alla grande letteratura europea, anche grazie alla relazione con E. Caminer, aveva condannato la tirannide paterna 275. La pièce ripercorreva il processo difficile e faticoso attraverso il quale Roberto, il figlio del marchese Eugenio Andolfi, riusciva a emanciparsi dal padre e dalle consuetudini sociali276. Il giovane fuggiva da casa povero e incerto sul suo C. Goldoni, Mémoires, cit., pp. 342-43. Per la datazione vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 104. Il testo veniva inserito nello stesso anno nelle Opere di Francesco Albergati Capacelli, in Venezia 1784. Nella Stamperia di C. Palese, A spese dell’autore, con pubblica approvazione, t. VIII, pp. 3-113. 271 Rodolfo, cit., Atto I, 1. 272 Ivi, Atto I, 1, 4. 273 Ivi, Atto II, 6. 274 Ivi, Atto I, 4. 275 Il prigioniero, commedia di cinque atti in versi sciolti, in Opere, cit., t. II, pp. 3-107. Per la datazione e le prime rappresentazioni bolognesi vedi la Prefazione, p. 6. Per i rapporti con la Caminer, E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 55, 75, ivi bibliografia. Sulla corrispondenza, vedi R. Trovato, Cultura italiana e francese nella corrispondenza inedita Albergati-Caminer, in Critica testuale ed esegesi del testo, Patron, Bologna, 1983, pp. 251-64. 276 Il prigioniero, cit., Atto II, 3, III, 5, V, 3. 269 270 68 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 futuro, per sposare Doralice una giovane di diverso rango. Doveva subire sino alla fine le angherie e le macchinazioni del padre che, per “smorzar l’indegno foco”, l’aveva fatto arrestare, mentre nel frattempo sempre più s’adoperava a diffamare la “vile, sfacciata e infame donna”, costringendola a riparare in un convento277. Come sempre tuttavia la virtù dell’eroina veniva premiata con la riscoperta nobiltà: la mésalliance era evitata e le scene celebravano, per l’ennesima volta, un matrimonio tra pari278. Per Roberto nondimeno il distacco dalla famiglia, anche sotto il profilo affettivo, non era stato poi così indolore. Se il protagonista era giunto a considerare il padre “tiranno” continuava tuttavia a sentirsi in colpa, pensando d’essere probabilmente “il solo reo”279. Secondo E. Mattioda sarebbe stata la lezione di Rousseau, in particolare la lettura di alcuni passi del Contrat social, a determinare, con l’appello alla legge di natura, la nuova consapevolezza di Roberto: “il ciel m’accordò [con la vita] il più pregevol dono, che non soggiace a forza umana […] il libero voler280”. A ben vedere in quell’invocazione al “libero voler”, che riusciva a rendere Roberto adulto e autonomo, v’era di più. Albergati invocava Dio richiamandosi al diritto naturale: nel suo repertorio il nuovo pensiero dei Lumi era pervaso dai suoi antichi e perenni convincimenti. La coesistenza delle istanze spiritualistiche con i nuovi principi e valori del secolo avrebbe guidato la stesura di Rodolfo, un’opera che costituisce, si crede, un punto di svolta nella produzione del letterato emiliano. Albergati dunque con Rodolfo, undici anni dopo Il prigioniero, abbandonava la polemica nei confronti del padre tiranno. La figura del marchese Eugenio, la maschera deformata e quasi caricaturale del persecutore spietato, veniva sostituita con il modello del padre tenero e affettuoso che si sostanziava nel comportamento di don Alfonso e don Fernando. Per tornare nell’ambito della trama di questa commedia, i due genitori, resisi ben presto conto dell’insoddisfazione dei figli, come si è in parte accennato, e compresi i loro autentici sentimenti, li spingevano a realizzare i propri desideri. “Non vi basta la mia obbedienza?” affermava Rodolfo a don Fernando: “No Ivi, Atto III, 4. Ivi, Atto V, ultima. 279 Ivi, Atto III, 5. 280Ivi, Atto II, 3. Vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 78 e ss. Il riferimento è al II capitolo del I libro del Contrat che qui per comodità riportiamo: “La più antica di tutte le società, e la sola naturale, è la famiglia: sebbene i figli restino legati al padre solo per quel tempo in cui hanno bisogno di lui per la propria conservazione. Non appena questo bisogno cessa, il legame naturale si scioglie. Dispensati i figli dall’ubbidienza che dovevano al padre, dispensato il padre dalle cure che doveva ai figli, rientrano tutti ugualmente nell’indipendenza. Se essi continuano a restare uniti, ciò non avviene più naturalmente, ma volontariamente; e la stessa famiglia non si mantiene che per convenzione”. J.J. Rousseau, Il Contratto sociale, cit., p. 10. 277 278 69 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 rispondeva questi - offende la mia tenerezza di padre e la tua obbedienza cieca mi lascerebbe in un perpetuo rimorso per esserti stato non padre ma tiranno”281. Poco dopo era don Alfonso a ricordare a don Fermando: “Niuno dovere per noi più importante può darsi che la cura e la felicità dei nostri figli. I padri severi, barbari, tiranni, dispotici, quelli non debbono sperare, né esigere la tenerezza filiale, né la domestica pace”282. Da questi presupposti, nell’assenso generale, Flerida sposava l’amato Flavio e le scene celebravano l’amore coniugale, filiale e paterno283. Conquistata la dimensione di sé l’individuo riusciva a percepire l’esistenza dell’altro, a definirsi tramite una corrispondenza affettuosa. Nello sviluppo della pièce campeggiava la figura di Carluccio, un bimbo di sei anni, che richiamava con la sua tenerezza innocente l’attenzione di tutti: “ah! caro fanciullo mio, mi strappi il cuore” confidava con emozione don Fernando284. Sarebbe stato proprio Carluccio a rendere possibile l’unione tra il padre e la madre e a trasformare, in conclusione d’opera, la tragedia in commedia, come tra poco si accennerà285. La centralità della famiglia e la scoperta del sentimento dell’infanzia restava uno dei tratti caratterizzanti della pièce. Su un intreccio consueto che tuttavia era pervaso da motivi inediti e da una nuova sensibilità si innestava la vicenda umana di Rodolfo, un soggetto scenico che s’ispirava, come ricordava esplicitamente Albergati nella prefazione, a La fuerza de la sangre, una delle dodici Novelas ejemplares di M. de Cervantes, pubblicate com’è noto a Madrid nel 1613, solo tre anni prima della scomparsa del loro autore286. Nei due testi l’ambientazione e l’ordito comune consentiva lo sviluppo di profili individuali e di contesti problematici in realtà assai differenti. Tanto la novella quanto la commedia prendevano spunto dunque da un medesimo evento. Si trattava dell’orribile episodio descritto da Cervantes che aveva coinvolto, in una “ chiara” sera di fine estate, nei pressi di Toledo, su una costa tra la pianura e il fiume, due giovani, che verranno chiamati nella versione di Albergati, Rodolfo e Matilde. Matilde (Leocadia in Cervantes), poco più che adolescente, bella, nobile, ma di una nobiltà ormai Rodolfo, cit., Atto II, 7. Ivi, Atto V, 2. 283 Ivi, Atto IV, 2, V, 4, ultima. 284 Ivi, Atto II, 6. 285 Ivi, Atto V, 7. 286 Vedi la Prefazione in Rodolfo, cit., pp. 5-7. M. de Cervantes, Novelle esemplari, a cura di M. Joly, BUR, Milano, 1994. Sull’inclusione di un tredicesimo racconto La tía fingida vedi Introduzione p. 9 s. Ivi pp. 39-42 bibliografia. Pertanto sull’opera si indicano qui soltanto: R. El Safar, Novel to Romance. A study of Cervantes’s “Novelas ejemplares”, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1974; G. Hainsworth, Les “Novelas ejemplares” en France au XVIIe siècle, Champion, Paris, 1933; J. Canavaggio, Cervantes, Lucarini, Roma, 1988; F. Meregalli, Introduzione a Cervantes, Laterza, Roma-Bari, 1991. 281 282 70 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 decaduta e quasi povera, veniva rapita e violentata da Rodolfo gentiluomo di “sangue illustre”, la cui ricchezza, “l’inclinazione” e la “troppa libertà” non lo facevano nuovo a crimini e prepotenze287. In entrambi i testi per la sorte, in seguito a “meravillosos acontecimientos”, Matilde-Leocadia, ormai divenuta da qualche anno madre di un bimbo nato in seguito alla tragica vicenda, si ritrovava in casa di Rodolfo. Tutto le tornava alla memoria e riconobbe lì “la lapide del proprio sepolcro”288. A questo punto le due storie si dividevano (in realtà, come capiremo, si erano già da tempo diversificate). In Cervantes, come è stato recentemente osservato, Leocadia senza alcuna esitazione chiedeva ai genitori di Rodolfo, dopo averne dimostrato la colpevolezza, un matrimonio riparatore. Aveva lottato quella sera, si era difesa, impedendo un nuovo stupro. La sua moralità (“l’honor”) era salva. Divenuta tuttavia “donna nubile con un figlio” la rispettabilità sociale (“la honra”) era definitivamente compromessa: bisognava rimediare e risarcire 289. Con l’accordo di entrambe le famiglie si era subito pensato al matrimonio, una soluzione che avrebbe restituito a Locadia l’onorabilità sociale ormai perduta. Rodolfo nuovamente sedotto dalla bellezza della giovane, timoroso dell’eventualità d’un legame indesiderato, orchestrato ad arte dalla madre, donna Stefania, cedeva290. Anche per Cervantes in definitiva la virtù coincideva con il vero senso dell’onore e la sola rispettabilità svuotata della dignità umana si riduceva a un orpello inutile291. Nonostante tutto, è stato ricordato, il carattere edificante sotteso a La fuerza de la sangre non riusciva ad occultare “la torbida seduttività che emana dalle sue scene di violenza”292. Nella commedia di Albergati il profilo dei due giovani era stato notevolmente modificato. Rodolfo non aveva più nulla della insolenza, violenta e abitudinaria, del suo omonimo spagnolo. La sua brutalità diveniva “l’atto scellerato di un istante”, come confessava affranto, lo stesso protagonista, al padre accorato che lo incalzava293. Era il frutto degli eccessi “feroci e crudeli” suscitati dalle passioni, una condizione dell’essere sulla quale da tempo si interrogava don Fernando294. Al gentiluomo spagnolo anche il comportamento di Rodolfo appariva come il risultato di una violenza occasionale dettata da M. de Cervantes, La fuerza de la sangre, cit., p. 309. Ivi, p. 318. 289 Ivi, pp. 319-21. 290 Ivi, p. 327. 291 P.L. Gorla, Il conflitto “honor/honra” nelle “Novelas ejemplares” di Cervantes, in Scrittura e conflitto (Atti del XII convegno AISPI, Catania-Ragusa 16-18 maggio 2004), a cargo de A. Cancellier, C. Ruta y L. Silvestri, Istituto Cervantes-Aspi, Madrid, 2006, v. I, pp. 227-38. 292M. Joly, Introduzione in M. de Cervantes, Novelle esemplari, cit., p. 26. 293 Rodolfo, cit., Atto II, 7. 294 Rodolfo, cit., Atto V, 3. 287 288 71 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 impulsi vitali distruttivi. Inclinazioni e tendenze che dovevano necessariamente essere emendate e modificate in energia positiva volta verso fini socialmente utili295. Ogni azione, ogni giudizio doveva essere sottoposto al vaglio critico della ragione: non soltanto le colpe di Rodolfo ma anche le richieste altrettanto impulsive di Matilde. L’eroina virtuosa reclamava, in definitiva, il risarcimento della colpa subita, appellandosi all’antichissima legge del taglione, un’esigenza che sorgeva soltanto da un mero desiderio di vendetta personale296. Una richiesta che si trasformava dunque in un’altra forma di violenza e che poteva tradursi, se eletta a norma, nell’abuso di molti contro un solo individuo. La ferma polemica dello scrittore emiliano nei confronti della tradizionale concezione retributivistica della pena testimonia in che misura il letterato avesse potuto recepire l’insegnamento Dei delitti e delle pene di C. Beccaria297. Certo ne intese soprattutto l’orrore per la violenza e il rispetto per la dignità umana. A ben vedere non era comunque poco. Dalla contrapposizione tra Rodolfo e Matilde si precisava il pensiero di Albergati. La vicenda di Rodolfo riproponeva la grande esperienza, religiosa e laica, della conquista della dimensione morale. Un processo di emancipazione individuale, in questo caso di riscatto del reo che, per Albergati, poteva compiersi solo grazie a un disegno provvidenziale: “siano lodi a quella suprema mano che tutto a sì lieto fine ha condotto” affermava soddisfatto don Fernando in conclusione d’opera298. Questi aveva invitato altre volte Rodolfo, sempre più chiuso in sé stesso, a parlare della sua antica colpa. Don Fernando era certo che il pentimento potesse cancellarla: ”mi è noto il tuo pentimento – ribadiva a Rodolfo all’inizio del quarto atto - il tuo fallo è meno grave”299. Il gentiluomo spagnolo conoscendo il figlio sapeva che soffriva da sei anni. Compiuto il fatto il giovane aveva subito implorato il perdono di Matilde chiedendola in sposa ma la richiesta era stata rifiutata con sdegno 300. Rodolfo dunque non aveva nulla della boria del vecchio cavaliere di Cervantes. Con sofferenza, tramite l’introspezione e il senso di colpa si era riscattato, conquistando la dignità umana. In altri termini l’espiazione aveva cancellato il suo peccato sino a rigenerarlo301. Ivi, Atto IV, 1. Ivi, Atto, III, 5, IV, 4, V, 3, 6, 7. 297 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1994, cap. XII Fine delle pene, p. 31. 298 Rodolfo, cit., Atto V, 7. 299 Ivi, Atto IV, 1, II, 7. 300 Ivi, Atto, III, 2. 301 Ivi, Atto IV, 1. 295 296 72 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Anche Matilde a conclusione della sua via crucis, grazie alla ragione e alla scoperta dei sentimenti, riusciva ad uscire da una concezione meramente individualistica della condotta umana. Dimenticava, sia pure con fatica e non senza esitazioni, i suoi “trasporti” e i suoi “furori”. Solo nelle ultime scene abbandonava il pugnale e i desideri di vendetta302. Anche suo padre don Luigi si distaccava progressivamente dall’idea tradizionale dell’onore che trovava nella pratica del duello riparatore la sua consacrazione 303. In realtà sarebbe stato soprattutto Carluccio il “pacificatore” di Matilde. Le sue tenere richieste avrebbero persuaso la madre e reso possibile il rapporto tra i suoi genitori, sino a trasformare la memoria di un carnefice nella presenza di un padre amorevole304. Intorno a un’idea comune, la costruzione della famiglia, convergevano le scelte non soltanto di Rodolfo e Matilde ma di tutti i protagonisti della commedia305. L’opera si concludeva pertanto con l’integrazione del reo penitente in un progetto condiviso e utile. Alcuni dei grandi temi della letteratura più impegnata del tempo trionfavano sul palcoscenico. Albergati tramite Rodolfo condannava il meccanismo degli onori, la logica dei duelli e si batteva per una giustizia razionale. Senza esitazioni si schierava in favore di un nuovo diritto che rifiutava l’idea della vendetta e si mostrava attento alla difesa dei vantaggi sociali e al recupero dei colpevoli. La larvata tentazione abolizionista forse inconsapevolmente sottesa alla trama (il delitto di Rodolfo non veniva di fatto sanzionato) proiettava l’autore sin sulla “soglia” dell’utopismo radicale settecentesco. Una soglia, è stato detto, che neanche Beccaria osò oltrepassare. “L’’impeto egualitario e libertario, pur così forte in lui […] non doveva portare alla dissoluzione della società, alla negazione del diritto”. Tuttavia “l’esitazione di Beccaria di fronte al diritto di punire è profonda. Non solo egli prova orrore di fronte alla violenza, alla crudeltà, ma rifiuta dal più profondo dell’animo suo ogni teorizzazione, ogni giustificazione di esse, ripugnandogli sempre ogni utilizzazione loro da parte degli stati, delle società, del diritto. Le sue pagine sulla pena di morte e sulla tortura nascono da questa doppia ritrosia, sociale e Ivi, Atto V, 7. Ibidem. 304 Ibidem. 305 Il tema dell’autodeterminazione morale dell’individuo, di una nuova definizione dell’onore, insieme alla polemica sul “paradosso” del duello e alla scoperta del nuovo valore della famiglia ispirava anche I pregiudizi del falso onore, un’opera di Albergati edita a Venezia nel 1778 e poi raccolta, nel 1783, nel primo tomo delle Opere, cit., pp. 3-120. Sulla pièce vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 82-7; P. Themelly,Il teatro di Antonio Simone Sografi, cit. 302 303 73 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 personale ad accettare il diritto stesso di punire e le conseguenze che esso fatalmente comporta”306. Il cavalier Woender: l’agnizione come prova di virtù. Negli stessi anni della scrittura di Rodolfo Sografi rifletteva a Venezia sul significato della Pamela di Goldoni e si apprestava a riprendere il tema ancora scottante della mésalliance nel Cavalier Woender, un “dramma in cinque atti” incline al patetismo, come richiedeva il gusto del tempo307. La pièce, della quale si è smarrita la prima edizione, è sempre stata considerata, nell’assenza di riscontri oggettivi per la datazione, una delle commedie d’ispirazione filosofico-umanitaria redatte dal letterato padovano intorno alla metà degli anni Novanta, nel clima di attese che preludeva la discesa dell’Armée d’Italie nella nostra penisola308. Tuttavia i richiami all’assedio di Gibilterra (giugno 1779-febbraio 1783), che ricorrono puntualmente nelle scene, suggeriscono la probabile composizione del testo all’inizio degli anni Ottanta, verosimilmente prima delle grandiose vicende dell’89, peraltro mai rievocate nella trama309. La possibile genesi dell’opera nell’età della crisi dei Lumi attribuisce allo scritto un certo interesse che diversamente verrebbe meno. Infatti la commedia, gracile nel disegno d’insieme, sovraccarica di sviluppi secondari “confusi, sconnessi e poco verosimili”, come lamentavano gli stessi contemporanei, è senza dubbio uno dei lavori meno felici di Sografi310. Pertanto Il cavaliere Woender, sempre trascurato dagli studiosi, ha suscitato il solo interesse di L. Bigoni in un lontano e rapido esame del 1894311. Poche tracce restano quindi di questo componimento minore del quale sfugge, come si è ricordato, persino la data della prima rappresentazione. Nondimeno se la commedia non andò mai in scena a Venezia nel corso degli anni Novanta, l’opera riusciva a riscuotere ancora un notevole successo al S. Samuele nel 1802. Tutto ciò probabilmente era dovuto al richiamo esercitato della “rinomatissima” primadonna, A. Fiorilli-Pellandi, e alla sua interpretazione, sembra magistrale, nel ruolo della protagonista. La più grande attrice del tempo riusciva dunque ad assicurare la fortuna del “dramma” e le “reiterate repliche” F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1970, p. 126. Il corsivo è nostro. Sul problema e per gli eventuali sviluppi di Beccaria a riguardo, vedi, in particolare, D. Ippolito, Diritti e potere. Indagini sull’Illuminismo penale, Aracne, Roma, 2012, pp. 77-102. Per una significativa lettura politica dell’opera vedi l’Introduzione di A. Burgio in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 13-28. 307 Il cavalier Woender, dramma dell’avvocato Sografi, Torino 1816. Presso M.A. Morano Librajo vicino a S. Francesco. 308 Vedi per tutti C. De Michelis, Letterati e lettori, cit., p. 214. 309 Il cavalier Woender, cit., Atto II, 2, III, 4, V, 1, 7. 310 Osservazioni sul Cavalier Woender, in Il cavalier Woender, cit., pp. 85-6. 311 L. Bigoni, Antonio Simone Sografi, cit., p. 121. 306 74 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 ricordate entusiasticamente dai cronisti e poi dall’editore della prima edizione torinese del 1816312. I cinque atti tuttavia riuscivano ad esplicitare, come si è in parte accennato, lo spirito del tempo e a qualificare Il cavalier Woender come una testimonianza utile per comprendere il senso di un’età di transizione. Motivi diversi e contraddittori si fondevano senza apparente contrasto nel testo: l’opera perpetuava il tema tradizionale dell’amore ostacolato risolvendosi, come sempre con una agnizione finale. Nondimeno alcune variazioni contribuivano a modificare dall’interno la struttura di un modello letterario di lungo periodo prefigurandone il prossimo epilogo. La commedia riprendeva sin dall’esordio la tradizionale e ormai stanca polemica illuministica contro il padre tiranno. In questo caso era il cavaliere Woender ad impedire il matrimonio d’inclinazione tra il suo James e Harriod, una povera ragazza per nascita e condizione. Al pater familias d’Antico regime si contrapponeva tuttavia la figura della madre dell’ultimo Settecento: una donna tenera, affettuosa, volta all’amore filiale. Miledi Woender intendeva difendere, anche a “costo della vita”, le libere scelte individuali e insieme reclamava un peso sempre maggiore nel governo della casa313. In realtà ben altre erano le mire del cavaliere che intendeva, innanzitutto, far sposare James con la figlia di lord Hudson, “Mairie” (Mayor) e primo cittadino di Londra314. Pertanto il despota della casa, per raggiungere i suoi scopi, divideva forzatamente, secondo un cliché scenico consolidato, i due innamorati e si adoperava a far diffondere la falsa notizia della morte della giovane315. James, ormai rassegnato, per non turbare la pace domestica e rattristare inutilmente la madre, accettava il matrimonio di rango316. Una serie di circostanze avrebbero tuttavia consentito l’incontro dei due promessi sposi nella casa di lord Hudson317. Ma lì, con loro sorpresa, avrebbero trovato nel magistrato londinese un profilo umano sconosciuto, quasi del tutto inedito per i tempi. La figura del primo cittadino presentava dunque alcune novità e ben interpretava il modello di virtù che si andava definendo allora anche nell’Italia di fine secolo. La dedizione al bene pubblico propugnata dal lord si traduceva nella pratica di una militanza civile, in un concreto servizio disinteressato e super partes nell’esercizio delle proprie funzioni. Negli atteggiamenti e nei discorsi del magistrato si prefigurava l’ipotesi dell’autogoverno della società F. Rossi, Venezia 1795-1802, cit. Vedi l’ Introduzione in Il cavalier Woender, cit., pp. 3-4. Il cavalier Woender, cit., Atto I, 1, 3, III, 4, 6, 8, IV, 2, 3, 4, 5, V, 5, 6, 7. 314 Ivi, Atto I, 1. 315 Ivi, Atto I, 1, 3, II, 2, 3. 316 Ivi, Atto I, 3. 317 Ivi, Atto III, 8. 312 313 75 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 civile, l’auspicio di una comunità ridisegnata sui bisogni pratici e congiunturali dei cittadini, tutti tra loro eguali di fronte alla legge318. Nella sfera privata Hudson si batteva per la nuova concezione della famiglia costruita sulle libere scelte individuali, sul matrimonio d’inclinazione cementato dal valore dei sentimenti319. Le due diverse concezioni della vita pubblica e privata che si identificavano nelle figure di Hudson e di Woender si scontravano nel corso del quinto atto. Il lord equiparava, nella sua qualità di magistrato, i diritti del cavaliere a quelli di Harriod, rendendo giustizia alla ragazza. Sografi mostrava così, almeno sul palcoscenico, che la legge era veramente eguale per tutti già prima della Dichiarazione dell’agosto ‘89320. Nel versante privato il primo cittadino si opponeva al matrimonio d’interesse tra sua figlia e James e favoriva l’unione di quest’ultimo con Harriod, ostacolando la volontà di Woender321. Il conflitto tra James e il padre sembrava invece doversi risolvere “con la spada”. La ragione comunque prevaleva. James si mostrava consapevole di non poter difendere “i sentimenti con i delitti”: non voleva giungere a “uccidere il padre” per divenire un uomo libero. La “paterna severità” doveva essere vinta “dalla tolleranza e dall’affetto filiale”: era opportuno privilegiare la discussione sino a far comprendere a Woender che ogni “sentimento era degno di rispetto”322. Nella difficile contesa insorgeva ancora una volta un aiuto esterno. Sopraggiungeva, a sorpresa, il padre di Harriod, un veterano che aveva sino allora difeso Gibilterra. Il “suo petto era cosparso di cicatrici” che testimoniavano “l’eroismo del combattente”. Il vecchio presentava i tratti di un’antichissima nobiltà guerriera, di “razza”. Ma la “sua nobiltà” non era stata trasmessa per filiazione maschile diretta, non era dovuta al merito e al valore di un antenato. Era stata “conquistata in battaglia”, era scritta “nelle ferite” che ne rivelavano “il coraggio”. Tramite il “merito” e la “virtù”, il vecchio eroe, aveva ottenuto il titolo di cavaliere in qualità di “difensore della patria” 323. Grazie alla sua abnegazione James e Harriod si trovavano ad essere equiparati nel rango e potevano finalmente sposarsi. Anche nella commedia di Sografi pertanto la mésalliance tra i due giovani protagonisti poteva risolversi soltanto tramite l’espediente dell’agnizione finale, una risorsa che sembrava ancora necessaria per poter concludere la trama. Nondimeno, questa volta, quell’antico rimedio era stato svuotato del suo significato tradizionale sino a perdere di conseguenza la sua consueta funzione. Ivi, Atto V, 3, 7. Ivi, Atto V, 6, ultima. 320 Ivi, Atto II, 2, 3, IV, 7, V, 6, 321 Ivi, Atto V, 7, ultima. 322 Ivi, Atto IV, 5, 323 Ivi, Atto V, 4. 318 319 76 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Il riconoscimento finale indispensabile per chiudere gli atti ormai sopravviveva soltanto per esprimere i nuovi criteri che definivano il concetto di onore e di virtù. Resisteva per ritrovare nella autentica reciprocità la possibilità di superare ogni forma di diseguaglianza. Un modello letterario di lungo periodo dunque si andava modificando: si intravedeva dal palcoscenico l’orizzonte di un mondo nuovo. Se il processo era in atto tuttavia l’incertezza rimaneva. Lo stesso James esitava. Sino alla fine voleva convincere Woender, era necessario ottenere l’assenso paterno324. S’inaugurava il tema dell’aristocratico convertito: un motivo che avrà, come vedremo, una certa fortuna in Italia nel corso del Triennio rivoluzionario dell’ultimo Settecento. Annetta e il tradimento della nobiltà. L’erosione del tema convenzionale dell’amore contrastato risolto con l’agnizione finale veniva documentata in un’altra opera minore redatta a Venezia negli anni Ottanta da A. Pepoli, l’emulo e a suo dire l’antagonista d’Alfieri, ne La scommessa ossia la giardiniera di spirito, una commedia in tre atti che tendeva a armonizzare il tragico e il comico, secondo le tendenze europee del momento. Il testo sarebbe stato poi raccolto nella collezione dell’ opera pepoliana, apparsa a stampa in città, per i tipi di Palese, in sei tomi tra 1786 e 1787325. Il conte Pepoli “notissimo a Venezia per le sue ricchezze e per le stravaganze”, per “l’ingegno e i capricci”, in virtù del suo eclettismo avrebbe potuto eccellere nelle diverse discipline in cui quotidianamente si cimentava (scienze, musica, letteratura, declamazione, danza, equitazione, etc.). Tuttavia, come osservavano gli stessi contemporanei, il conte, occupandosi di tutto “ a slanci e salti”, rimase “tra’ confini della mediocrità”. Il singolare e avventuroso patrizio -che rifiutò (sembra) di sedere nel Maggior Consiglio e che fuggì a Milano nel 1796, pochi mesi prima di morire, per arruolarsi nell’esercito francese e per stringere contatti con gli ambienti filo rivoluzionari locali- aveva iniziato a dedicarsi al teatro nel 1780 traducendo, ventitreenne, “in soli cinque giorni”, la Zaira di Voltaire326. Seguirono per il patrizio anni di febbrile e incostante attività che consentirono la redazione di un corpus teatrale variegato e difforme, sino ad oggi quasi inesplorato, costituito da oltre venti titoli. Alcuni nuovi lavori vennero Ivi, Atto V, ultima. La scommessa ossia la giardiniera di spirito, commedia di tre atti in prosa, in Teatro del conte Alessandro Pepoli, in Venezia. Nella Stamperia di C. Palese, 1787, t. III, pp. 335-414. 326 M. Infelise, Gazzette e lettori nella Repubblica veneta dopo l’Ottantanove, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, cit., in particolare p. 310; Id., L’editoria veneziana del Settecento, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 379-84; S. Minuzzi, voce A. Pepoli, in «Dizionario Biografico degli Italiani», cit. Per la fisionomia politica è ancora fondamentale M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, cit., pp. 196-201. La recensione alla traduzione pepoliana della Zaira è in «Mercurio d’Italia storico-politico-letterario per l’anno 1780», pp. 297-98. 324 325 77 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 pubblicati o riediti dallo stesso autore per cura della “Tipografia Pepoliana”, una stamperia fondata dal nostro nel marzo 1794, in seguito alle compartecipazioni degli anni precedenti, con i noti editori cittadini Curti e Stella. La Tipografia, la più grande di Venezia e all’avanguardia allora in Europa, decretava “per la prima volta in oltre tre secoli di storia tipografica” l’ingresso diretto e “personale” di un patrizio veneto nella “corporazione dei librai e degli stampatori”. La “libreria” tra le più attive (e raffinate) di Venezia negli anni Novanta, raccoglieva e pubblicava contributi letterari e scientifici di varia natura, tra i quali si segnalavano, non di rado, opere innovative o controcorrente.327 Nell’ Avvertimento ai lettori, premesso alla Scommessa, l’autore dichiarava “l’illegittima somiglianza” con la “Nanina di Voltaire” pur ribadendo di “non essere un puro copista” tanto da aver variato, a suo dire, notevolmente il significato e la trama328. La commedia in realtà risentiva anche della lezione di Goldoni e in particolare, si crede, si ispirava, in una certa misura, a La vedova scaltra e a La locandiera329. In altri termini se nel drame di Voltaire il protagonista era d’Olban più che Nanine, nella Scommessa il ruolo di primo piano spettava ad Annetta, la “giardiniera”di casa Riccagnoli. In tal modo la figura del primo attore, il conte Alfonso, proprietario della villa, finiva per divenire una sorta di “spalla”, un profilo tutto sommato secondario, sbiadito e di contorno, per acquistare rilievo solo in conclusione d’opera. Le suggestioni esercitate dalla “femminilità trionfante”, che caratterizzava le commedie di Goldoni, rinvigorivano e strutturavano la trama330. Questa nuova sensibilità indirizzava anche Pepoli verso la causa femminile, in una società come quella veneta ancora legata alla concezione tradizionale della famiglia e alla funzione subalterna della donna nella vita coniugale e domestica. Ne La scommessa, sulla falsariga de La vedova scaltra, la giardiniera Annetta, come la goldoniana Rosaura, per puntare in alto, per realizzare con il matrimonio un traguardo sociale, fingeva di essersi invaghita, come nel testo di Goldoni, di quattro pretendenti331. Nella pièce di Pepoli i corteggiatori assumevano la fisionomia caricaturale di due Sull’attività editoriale di Pepoli, sulle relazioni con A. F. Stella e A. G. Curti , e sulle personalità di questi stessi editori vedi, M. Infelise, L’editoria veneziana del Settecento, cit. pp. 37984 e passim. 328 Avvertimento ai lettori in La scommessa ossia la giardiniera, cit., pp. 337-9. 329 La vedova scaltra, una commedia in tre atti, rappresentata per la prima volta a Modena nell’estate del 1748, è in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., t. II, pp. 325-414. La locandiera, commedia di tre atti in prosa venne rappresentata “per la prima volta a Venezia nel Carnevale 1753”. Il testo è ora in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. IV, pp. 773-858. 330 Per l’espressione vedi l’Introduzione in C. Goldoni, La donna di garbo, La vedova scaltra, La putta onorata, a cura di G. Geron, Mursia, Milano, 1984, p. 20. 331 C. Goldoni, La vedova scaltra, cit., in particolare Atto I. 327 78 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 avventurieri (un falso cavaliere e un finto ufficiale prussiano), di un contadino sciocco, Cecco e di un patrizio libertino, il conte Alfonso. La commedia tramite la scelta del “ridicolo” e l’uso del paradosso rappresentava con una certa forza l’idea della crisi irreversibile di un intero sistema, logorato nei valori e nei modelli comportamentali sino ad allora di riferimento332. Erano passati circa vent’anni dall’ultima stesura del Padre di famiglia di Goldoni pubblicato, senza variazioni sostanziali di contenuto, nel settimo tomo dell’edizione Pasquali nel 1764333. Inevitabilmente il presagio di una crisi imminente era percepito da Pepoli e dai suoi contemporanei con maggiore consapevolezza rispetto ai tempi di Goldoni. Tuttavia anche le risposte e le reazioni erano molto diverse. Nella commedia del nostro sembra innanzitutto venir meno il rimpianto delle originarie virtù “che erano state alla base dell’antica grandezza veneziana e alle quali ora si voltavano le spalle” che costituivano, come si è in parte accennato, l’orizzonte di riferimento di Goldoni334. A ben vedere Pepoli, almeno in questa commedia, voleva invece riflettere sulle questioni del presente, disinteressandosi della memoria dell’antica Repubblica. L’eclettico patrizio pertanto, almeno in questo testo, sembrerebbe rimanere lontano da quella sua perenne oscillazione evidenziata da M. Berengo, tra la scelta democratica e quella aristocratica, tra l’adesione al nuovo sistema francese e il rimpianto del modello veneto dei primordi 335. Tuttavia la sua Annetta si ispirava alla “locandiera”, alla goldoniana Mirandolina. Forse anche la “giardiniera” di Pepoli perseguiva lo stesso “mito del denaro” come è stato recentemente osservato per la protagonista del grande commediografo. Annetta aveva probabilmente il medesimo “desiderio di ascesa sociale”, era pure lei “sfrontata, cinica, quasi oscena, nell’uso strumentale che faceva della sua bellezza”. Mirandolina e Annetta si vendevano dunque entrambe, ma solo “psicologicamente” mai “fisicamente”336. La “giardiniera” aveva imparato dunque da tempo l’arte di non concedersi facilmente, con la malizia e l’istinto aveva compreso come agire per sedurre337. Se capiva di non essere “vivanda per il palato di Cecco” lo utilizzava, come poi non diversamente si serviva dei due avventurieri, facendoli persino sfidare in un duello farsesco, per ingelosire il conte Alfonso che, da provato La scommessa ossia la giardiniera, cit., Atto I, 7, 8, 9, II, 5, 7, III, 1, 2, 3, ultima. Per la datazione vedi la Nota ai testi in C. Goldoni, Il padre di famiglia, a cura di A. Scannapieco, cit., pp. 83, 112 e s. 334 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit., pp. 4-5; S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, cit., pp. 73 e ss. 335 M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, cit., pp. 196-201. 336 R. Alonge, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano, 2004, pp. 579; Id., Approcci goldoniani. Il sistema di Mirandolina, in «Il castello di Elsinore», 1991, 12, p. 13 e ss. 337 La scommessa ossia la giardiniera, cit., Atto I, 4, 5. 332 333 79 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 libertino, pur sedotto certo non intendeva sposarla338. La giovane tuttavia se amava la contea, amava anche il conte. Le sue scelte autentiche non conoscevano “altre leggi se non quelle del cuore”, non amava “il conte o il padrone ma solo l’amabilissimo Alfonso”339. La “giardiniera” di Pepoli, come le più celebri Pamela e Nanine, tramite i sentimenti scopriva se stessa, la sua dignità che la equiparava al conte, ponendo le premesse di un nuovo rapporto tra pari. Un percorso analogo era compiuto anche da Alfonso che scopriva con i sentimenti di Annetta, la “virtù” della ragazza340. Il conte Riccagnoli, forse tra i primi, nel teatro veneziano d’allora, riusciva a “tradire la nobiltà” e scopriva grazie all’autenticità dei “moti del cuore” “i pregiudizi del falso onore”341. Sposando Annetta Alfonso aveva scoperto tramite la dimensione della necessità il valore congiunturale della storia: s’era così reso conto che “l’uomo cangia e le circostanze comandano […]”. Il protagonista individuava nelle sue aspettative la manifestazione di un bisogno comune allora largamente condiviso. Una esigenza generale capace di innescare un processo di trasformazione vasto, profondo, probabilmente irreversibile. “Tutti”, pensava Alfonso, sarebbero ben presto “cangiati in bene342”. L’utopismo settecentesco intuiva il sentiero che l’avrebbe condotto sino alla rivoluzione. La scommessa prefigurava l’ipotesi di una società democratica e annunciava, tramite la finzione scenica, la fine dell’Antico regime sociale. La mésalliance questa volta era davvero consumata. A ben vedere, pure in questo caso, la commedia si concludeva con il solito riconoscimento finale. Nondimeno la conclusione farsesca dell’opera attribuiva un significato paradossale alla ritrovata nobiltà di Annetta. L’idea stessa di nobiltà veniva sottoposta a critica, messa in berlina, posta addirittura in dubbio. Grazie al ridicolo Pepoli demoliva il concetto stesso di agnizione nel suo consueto uso teatrale: le tradizionali virtù patrizie scadevano in vizi grotteschi che gettavano luce su una crisi morale e comportamentale di ceto che finiva per estendersi al dissesto generale di tutto un sistema. Per tornare rapidamente alla trama: di fronte allo sdegno della baronessa d’Aspravilla, “donna avanzata e ridicola”, zia e tutrice di Alfonso, riluttante sino alla fine nei confronti della mésalliance, il marchese Anselmo Filandri, amico dell’anziana aristocratica, suggeriva una possibile via d’uscita quantomeno singolare e non certo assolutoria per l’intero ceto nobiliare: “Io sono peritissimo nella scienza genealogica, che mio padre pieno de’ vostri Ivi, Atto I, 5, 6, 7, 8, 9, 10, II, 2, 5, 6. Ivi, Atto I, 5, II, 7. 340 Ivi, Atto II, 6, III, 3. 341 Ivi, Atto III, 3. 342 Ivi, Atto III, ultima. 338 339 80 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 pregiudizi mi ha fatto studiare. Vi do la mia parola di cavaliere, che vi fabbricherò per Annetta un albero più antico ancora del vostro, e tutto coi suoi soliti documenti. […] Bene, un po’ meno del vostro: rasserenatevi. Potrò far discendere Annetta, dal greco Sinone, che entrò nel gran cavallo di Troia.[…] Una tal genealogia non sarebbe la prima e conosco molti moderni cavalieri divenuti in tal modo antichissimi”343. Anche grazie a La scommessa è possibile cogliere pertanto la significativa trasformazione del tema letterario dell’amore contrastato nell’età del tramonto dei Lumi. Entrava dunque in crisi un motivo plurisecolare, se non millenario, di cui abbiamo rintracciato le prime manifestazioni nel II secolo a. C., nell’Andria di Terenzio, un testo, com’è noto, peraltro ispirato ai modelli greci della tarda età classica344. La commedia di Pepoli, un’opera di transizione e insieme di rottura, esprimeva con efficacia i fermenti di una comunità che si apprestava a vivere la sua vigilia rivoluzionaria. La pièce che decretava la fine simbolica della società degli ordini poco si adattava ad andare in scena a Venezia nel corso degli anni Ottanta. La censura e la vigilanza degli Inquisitori di stato si irrigidivano e divenivano sempre più opprimenti345. La commedia con la sua carica eversiva poteva suscitare l’interesse soltanto di pochi intellettuali controcorrente. Il teatro personale di Alessandro Ercole Pepoli, presso palazzo Cavalli a San Vitale, dove il giovane conte viveva, poteva prestarsi all’impresa346. L’irrompere della Rivoluzione. Qualche cenno sulla questione matrimoniale e sul teatro Prima di proseguire il nostro discorso sul tema dell’amore contrastato nella letteratura teatrale, tra 1796 e 1797, nell’Italia settentrionale in rivoluzione, si considera utile ripensare sinteticamente le grandi trasformazioni che allora coinvolsero l’istituto del matrimonio e di riflesso quello della famiglia. Com’è noto sino al Concilio di Trento il diritto canonico si era uniformato alla dottrina consensualista, una dottrina che poteva tradursi sul piano pratico anche nell’unione aformale degli sposi347. In altri termini l’antica radice pattizia Ivi, Atto III, ultima. P. Terenzio Afro, Andria. cit., Introduzione, p. 17. 345 Sulla censura veneta settecentesca vedi M. Berengo, La società veneta, cit., pp. 134-161; M. Infelise, L’editoria veneziana, cit., pp. 63-131, 275-329; R. Canosa, Alle origini delle polizie politiche. Gli Inquisitori di Stato a Venezia e a Genova, Sugarco, Milano, 1989. 346 G. Bustico, Un competitore di Vittorio Alfieri: Alessandro Pepoli, Tipografia Fratelli Carlini, Genova, 1906, p. 6. 347 P. Prodi, Il Concilio di Trento e i libri parrocchiali. La registrazione come strumento per un nuovo statuto dell’individuo e della famiglia nello Stato confessionale della prima età moderna, in La “conta delle anime”. Popolazioni e registri parrocchiali. Questioni di metodo ed esperienze, Atti del convegno 343 344 81 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 accentuava le prerogative dei contraenti che divenivano essi stessi ministri del vincolo. La Chiesa pertanto per secoli, adeguandosi a tale indirizzo, si era fatta portatrice del principio della libertà nel matrimonio optando per il primato delle scelte individuali348. La “nozione di mutuo consenso, in contrasto con quella dell’autorità dei genitori, era intrinseca al modello ecclesiastico del matrimonio medievale e sotto questo aspetto particolare si ergeva contro il modello secolare”349. Le ragioni degli stati nazionali, le spinte della Riforma, le incertezze suscitate dal consensualismo e non da ultime anche le rivendicazioni delle famiglie reclamavano nondimeno leggi e disciplinamento in materia matrimoniale. Il Concilio di Trento contrapponendosi al protestantesimo e interpretando i bisogni sociali più profondi, non rinnegando la tradizione, aveva proclamato il nesso inscindibile di contratto e sacramento nella natura indissolubile del matrimonio. Un rito che doveva essere celebrato dal sacerdote, la figura idonea a svolgere una funzione attiva in una azione ormai divenuta eminentemente sacra. La difficoltà a conciliare l’istanza pattizia con quella religiosa, a definire le prerogative degli sposi o l’officio del sacerdote, aveva dato origine a “ambiguità dottrinali” ricordate anche oggi dagli studiosi350. Comunque sia l’unione tra i due sposi da vicenda privata, non sempre conclusa con la benedizione o alla presenza di un notaio, veniva definita con chiarezza risolvendosi per tutti in una cerimonia pubblica, solenne e di carattere sacro. Una cerimonia svolta davanti a testimoni in seguito alla pubblicazione di bandi e poi registrata sui libri parrocchiali351. Come aveva osservato P. Sarpi si era giunti alla “somma esaltazione dell’ordine ecclesiastico”, e “quell’azione” “tanto principale nell’amministrazione politica et economica” veniva “tutta di studi (Trento 26-27 ottobre 1987), a cura di G. Coppola, C. Grandi, Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 16-7. 348 P. Rasi, La conclusione del matrimonio prima del Concilio di Trento, Jovene, Napoli 1958, pp. 156 e ss.; G. Zarri, Il matrimonio tridentino, in Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 437-83. 349 J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 177; Vedi anche G. Duby, Matrimonio medievale. Due modelli della Francia del dodicesimo secolo, Mondadori, Milano, 1994; D.O. Hughes, From Brideprice to Dowry in Mediterranean Europe, in «Journal of Family History», III, 1978, pp. 262-96. 350 “Il primo accenno di promozione degli sponsali a sacramento si era avuto nel Concilio di Firenze (1439); la promozione definitiva a Trento si deve alla teologia neo-scolastica spagnola, che definisce (aristotelicamente) come sostanza del matrimonio non il consenso né il contratto, ma la grazia, l’infusione mistico-magica del potere dello spirito, che solo il prete è in grado di trasmettere, essendone portatore grazie al sacramento dell’ordine”. E. Brambilla, Sociabilità e relazioni femminili nell’Europa moderna. Temi e saggi, a cura di L. Arcangeli, S. Levati, Franco Angeli, Milano, 2013, p. 98. 351 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 214 e ss. 82 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 sottoposta al clero non rimanendo via né modo per far matrimonio se coi preti, cioè il parroco e il vescovo”352. La gestione ecclesiastica del matrimonio prefigurava atteggiamenti e itinerari diversi nella stessa comunità religiosa: si intrecciavano e coesistevano insieme le scelte dell’autorità e quelle della libertà. Per un verso se le nozze si sacralizzavano la Chiesa tuttavia poneva ugualmente l’accento sul consenso come elemento essenziale e costitutivo del vincolo: l’antica tradizione contrattualistica e il principio del libero arbitrio facevano riscoprire l’autodeterminazione dell’individuo. Studi recenti hanno colto in quell’atteggiamento “moderno” del Concilio le premesse, “il solido punto di partenza”, di un “processo di individualizzazione” che si concluderà nell’auspicio qui già ricordato di Beccaria in favore di una società costituita da “uomini” e non da “famiglie”353. Da questo angolo visuale emergeva con forza l’immagine di un corpo ecclesiastico ispirato ai valori del cristianesimo perenne e impegnato attivamente sul territorio. Dall’altro invece si delineavano le funzioni di mediazione e di disciplinamento svolte anche tramite il proprius parochus tra le famiglie della comunità: delle iniziative orientate a costruire una cultura omogenea e uniforme in grado di controllare e di modificare i comportamenti collettivi. La famiglia diveniva “un ente soggetto a obblighi piuttosto che titolare di diritti”354. La coesistenza delle istanze della libertà e dell’autorità segna dunque gli orientamenti della Chiesa nel corso dell’età moderna. In Italia tuttavia, ha osservato D. Lombardi, la politica ecclesiastica in favore dei diritti individuali finiva per attenuarsi progressivamente nei primi decenni del Settecento. Di fronte alla diffusione dei Lumi, alle spinte di una mentalità e sensibilità nuove, all’irrompere di costumi più liberi e disinvolti si faceva strada, in alcuni ambienti curiali, come nei governi, l’esigenza di un rafforzamento dell’autorità paterna intesa come strumento di tutela delle gerarchie sociali che sembravano essere poste pericolosamente in discussione355. Abbiamo già fatto cenno al caso di Venezia nella seconda metà del secolo. Almeno in città e nei Domini la grande protesta contro la società tradizionale rimaneva ancora consegnata nel ribellismo individuale: nella opposizione dei figli contro i padri, nell’insofferenza verso l’idea tradizionale della famiglia. Il bisogno di vivere più liberamente si risolveva anche nell’esigenza di sperimentare nuove relazioni a prescindere dal ceto, nel porre in discussione principi e norme ormai La citazione tratta dalla Istoria è in G. Zarri, Il matrimonio tridentino, cit., p. 459. Ivi, p. 470. 354 A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna, in Storia d’Italia. Annali, v. IV, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino, 1981, p. 248. 355 D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., pp. 147-48, 154, 160 e ss. 352 353 83 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 cristallizzate. Come abbiamo ricordato crescevano nell’antica Repubblica le pratiche di separazione e di annullamento, aumentava la conflittualità e il malessere all’interno delle famiglie, si diffondevano i matrimoni interclassisti segreti e clandestini356. Contro queste spinte, verosimilmente non solo locali ma generali, si diffondevano in tutta la penisola opuscoli e trattati di religiosi e di laici che sostenevano le ragioni dei padri più che quelle dei figli. In questo clima il bersaglio privilegiato diveniva la mésalliance. Quell’indesiderato rovesciamento sociale poteva essere consentito, almeno così si auspicava, soltanto con l’assenso paterno e l’autorizzazione del vescovo357. In quegli anni divenne celebre la Dissertatio teologico-legalis de sponsalibus et matrimoniis del canonista campano F. M. Muscettola, un’opera che perorava la causa dell’antico diritto di famiglia. Il testo pubblicato a Napoli nel 1723 avrebbe avuto una certa fortuna nel corso del Settecento: veniva ristampato a Roma e a Bruxelles, sino ad essere poi edito anche a Venezia nel 1772 dai fratelli Pezzana358. In tale contesto le questioni di rango assumevano sempre maggiore rilevo tanto nella trattatistica come nelle pratiche dei tribunali ecclesiastici, ad esempio in quelle delle giurisdizioni fiorentine e toscane esaminate da D. Lombardi. Allo stato delle conoscenze sembra che non solo il patriziato ma anche il ceto medio invocasse il sostegno della Chiesa contro il disordine sociale causato dai matrimoni “scombinati” sin dagli anni Venti del Settecento359. G. Cozzi, Padri, figli, e matrimoni clandestini, in Id., La società veneta e il suo diritto, cit., pp. 19-64; Id., Note e documenti sulla questione del “divorzio” a Venezia (1782-1788), in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», VII, 1981, pp. 303-13; F. Meneghetti Casarin, “Diseducazione” patrizia e “diseducazione” plebea: un dibattito nella Venezia del Settecento, in «Studi veneziani», XVII, 1989, pp. 117-56; R. Derosas, La crisi del patriziato come crisi del sistema familiare: dai Foscarini ai Carmini nel secondo Settecento, in Studi offerti a Gaetano Cozzi, Il Cardo, Venezia, 1992; L. De Biase, Amore di Stato. Venezia. Settecento, Sellerio, Palermo, 1992; T. Plebani, Socialità e protagonismo femminile nel secondo Settecento, in Donne sulla scena pubblica. Socialità e politica in Veneto tra Sette e Ottocento, a cura di N. M. Filippini, Franco Angeli, Milano, 2006, pp. 25-80, Ead., Un secolo di sentimenti, cit. ; V. Hunecke, Il patriziato veneto, cit. 357 D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., pp. 148 e ss. 358 Francisci Mariae Muscettulae Archiepiscopi Rossanensis, Dissertatio de sponsalibus et matrimonio. Editio prima veneta, Venetiis, Apud Franciscum et Nicolao Pezzana, 1772. F.M. Muscettola (1660-1746) di nobile famiglia napoletana entrò nell’ordine teatino, poi a Roma divenne consultore della Congregazione dei sacri riti. Clemente XI lo nominò arcivescovo di Rossano Calabro nel 1717 dove rimase sino al 1738 quando si ritirò a Napoli sino alla scomparsa, dimorando presso i Teatini a S. Maria degli Angeli. Vedi Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, compilate da C. Minieri Riccio, Tipografia dell’Aquila, Napoli, 1844, p. 233. Per le diverse edizioni dell’opera cfr. D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., p. 148. 359 Ivi, cit., pp. 148 e ss. 356 84 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Agli orientamenti dell’autorità ecclesiastica e alle voci dell’opinione seguivano nello scorcio del secolo gli interventi del potere civile. In particolare, tra 1771 e 1784, a Modena, Napoli, Firenze, Torino e Milano, l’offensiva giurisdizionalistica imponeva il controllo statale sul matrimonio. Nondimeno l’autorità si adoperava a consolidare l’ordine esistente. Nelle questioni familiari e matrimoniali le scelte dei figli, in particolare dei minori, erano subordinate alla paterna potestas, pena la diseredazione o la perdita della dote. La soglia della maggiore età veniva fissata, per lo più, a trenta anni per i maschi e a ventiquattro per le femmine, un’età indubbiamente assai elevata. È stato osservato che il modello di riferimento tornava ad essere, a più di due secoli di distanza, l’editto del 1556 di Enrico II, qui peraltro già ricordato360. Le spinte del pensiero dei Lumi, il dibattito culturale e letterario degli ultimi decenni e gli orientamenti del movimento d’opinione sollecitavano, sin dalle prime vicende della Rivoluzione francese, persino nei cahiers de doléances, perorazioni e richieste in favore della libera scelta matrimoniale e per la limitazione dell’autorità paterna. La polemica nei confronti della patria potestas si alimentava nei primissimi opuscoli della nuova era che, sin dall’89, si moltiplicavano in Francia. Questi libelli reclamavano, sin dagli esordi, tra le altre pretese, anche interventi di struttura, in particolare auspicavano il rinnovamento del sistema successorio per garantire la parità e l’indipendenza dei figli in armonia con il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge361. Erano sempre i diritti individuali celebrati nella Dichiarazione del 26 agosto che invitavano i legislatori nei primi giorni dell’ottobre 1789 ad abolire le “pratiche odiose”, specialmente quella delle lettres de cachet. Costoro richiamandosi all’articolo 7 di quella celebre scrittura ponevano fine all’insopportabile potere dei padri contro i figli ribelli che poteva culminare, com’è noto, sin nell’arbitrio della reclusione362. Perseguendo i medesimi P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 53 e ss. C. Tosi, Giuseppinismo e legislazione matrimoniale in Lombardia. La Costituzione del 1784, in «Critica storica» XXVII, 1990, pp. 235-301; D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio, C. Klapisch Zuber, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 215-250. 361 J. Gaudemet, Traditions canoniques et philosophie des Lumières dans la législation révolutionnaire. Mariage et divorce dans les Projets de Code civil, in M. Vovelle, La Révolution et l’ordre juridique privé, PUF, Université d’Orléan, Orléan, 1988, v. I, pp. 301 e ss.; J.F. Traer, Marriage and the Family in Eighteenth-Century France, Cornell University Press, Ithaca and London, 1980, pp. 40 e ss., 78 e ss., 139 e ss. 362 A. Soboul ricordava il decreto dell’8 ottobre 1789 con il quale l’Assemblea costituente “riformava alcuni punti della giurisprudenza criminale “ abolendo le lettres de cachet, gli arresti arbitrari, la tortura preventiva, la procedura segreta, l’assenza di difensore. Lo studioso poneva in correlazione queste misure transitorie con la filosofia dei Lumi, il pensiero di Beccaria e gli articoli 7, 8, e 9 della Dichiarazione del 26 agosto. Vedi A. Soboul, Storia della Rivoluzione francese, 360 85 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 convincimenti, nell’agosto del 1790, venivano istituiti i tribunali di famiglia: degli organi deputati a riequilibrare i conflitti domestici. I costituenti intendevano temperare la puissance paternelle limitandola nei confronti dei maggiorenni e mantenendo, invece, un certo grado di severità verso i minori 363. Sarebbe stata tuttavia la Costituzione del 3 settembre 1791 ad affrontare il modo diretto il problema formulando la nuova concezione rivoluzionaria dell’istituto matrimoniale. Un celebre articolo del II titolo aveva dichiarato: “la legge considera il matrimonio solo come contratto civile”364. Tra il 28 agosto e il 20 settembre 1792 nuove disposizioni regolavano la prassi matrimoniale. L’atto civile sarebbe stato celebrato alla presenza di un pubblico ufficiale e di due o quattro testimoni, prima o dopo la benedizione religiosa. La cerimonia, svolta in una sala pubblica del municipio, sarebbe stata preceduta da pubblicazioni affisse all’albo comunale e poi registrata nei verbali dello stato civile e non più sui libri parrocchiali. Il consenso dei genitori permaneva ma solo per i minori di 21 anni che, in caso di disobbedienza, non sarebbero più stati diseredati. Si poneva così fine all’odiosa disposizione che aveva condizionato la vita dei giovani francesi per oltre duecentotrenta anni in seguito al celebre editto di Enrico II. Se i minorenni erano sottoposti ai genitori tuttavia la patria potestà era abolita. L’autorità paterna veniva trasformata in un tutorato moderato e temporaneo sino al raggiungimento della maggiore età dei figli, intesi ormai come individui titolari di diritti. Tramontava, lo si è già osservato, il modello millenario della tirannide paterna di derivazione aristotelica e romana365. Veniva soprattutto meno, con la legislazione rivoluzionaria, l’inscindibile coesistenza di sacramento e di contratto propria della concezione tradizionale del matrimonio. Il legame ridotto a solo contratto civile si trasformava in un libero negoziato tra eguali parti contraenti, revocabile e rescindibile, come ogni Rizzoli, Milano, 1988, p. 92. Della Dichiarazione si indica qui soltanto l’articolo 7: “Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole”. Il testo è ora in A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia moderna, Einaudi, Torino, 1952, p. 67. 363 J.F. Traer, Marriage and the Family, cit., pp. 41 e ss., 97 e ss., 137-150. 364 Costituzione del 3 settembre 1791, in A. Saitta, Costituenti e costituzioni, cit., titolo II, art. 7, p. 70. 365 Per la normativa vedi J.B. Duvergier, Collection complète des lois, décrets, ordonnances, règlement, avis du Conseil d’État, publiée sur les éditions officielles du Louvre, Guyot et Scribe, Paris, 1834, v. IV, p. 440.; J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 291 e ss. Sulla potestà paterna, P. Murat, La puissance paternelle et la Révolution française: essai de régéneration de l’autorité des pères, in La famille, la loi, l’ État de la Révolution au Code civil, éd. par I. Théry, C. Biet, Imprimerie nationaleCentre Georges Pompidou, Paris, 1989, pp. 390-411; M. Cavina, Il padre spodestato, cit., p. 187 e ss. 86 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 contrattazione ordinaria. “Una specie di associazione commerciale” –rilevavano allora i contemporanei- che sarebbe diventata nulla “quando le condizioni stipulate nell’atto d’unione non [fossero state] adempiute”366. Da queste premesse traeva origine un decreto redatto lo stesso 20 settembre 1792 che fissava le disposizioni in merito al divorzio367. Un istituto giuridico quest’ultimo inteso dai legislatori come “il baluardo” della libertà individuale: un “ritorno alla legge naturale”, una disposizione capace di ridisegnare tra i coniugi eguali diritti e ruoli paritetici, al fine di impedire qualsiasi abuso o esercizio di sovranità domestica. Poiché contrario al “principio della perennità del matrimonio” il divorzio sarebbe stato autorizzato solo per “evidente necessità”. Un “atteggiamento moderato- ha osservato J. Goudemet- che la legislazione e più ancora l’uso che di essa fu fatto, superarono ben presto”. Tra il 1792 e il Codice civile “una quindicina di leggi” accrebbero “ulteriormente le facilitazioni”368. Tra il 1792 e il 1803 vi furono in Francia oltre 30.000 cause di divorzio, più di 13.000 nella sola Parigi, obiettivamente non molte come ha notato J.P. Bertaud. Soppresso nel 1816 l’istituto sarebbe stato reintrodotto soltanto nel 1884369. Nella volontà dei giuristi il matrimonio civile rispondeva ai nuovi bisogni di una società che intendeva soprattutto garantire l’individuo e sui suoi diritti. Era dunque prioritario salvaguardare il principio di autodeterminazione: una prerogativa che trionfava nell’esercizio della scelta. Si trattava di una affermazione di sé che tuttavia trovava il suo limite nella eguale risoluzione del coniuge. Nondimeno era altrettanto necessario il riconoscimento della libertà individuale da parte dello stato, un ente considerato incompetente nelle questioni personali. Una organizzazione politica garante del pluralismo d’opinione e di coscienza, rispettosa delle differenze, e in quanto tale avversa ad ogni forma di omologazione sociale. Pertanto l’individuo non poteva essere considerato più per le sue appartenenze ma stimato solo come cittadino francese: per queste ragioni il matrimonio doveva essere innanzitutto civile. La piena autonomia e indipendenza dell’individuo all’interno del nucleo familiare poteva realizzarsi compiutamente solo con la revisione del sistema successorio, affrontando radicalmente le questioni sino ad allora insolute del diritto di famiglia. Già il 15 marzo 1790 l’Assemblea costituente aveva abolito il diritto di primogenitura e il privilegio di mascolinità orientandosi verso il La citazione è in J.P. Bertaud, La vita quotidiana in Francia al tempo della Rivoluzione (1789-1795), Rizzoli, Milano, 1988, p. 173. 367 L. Luzi, Riflessioni su matrimonio civile e divorzio all’epoca della Rivoluzione francese, in «Mediterranea. Ricerche storiche», VIII, 2011, pp. 273-312. 368 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 299 e ss. 369 J.P. Bertaud, La vita quotidiana, cit., p. 183. 366 87 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 principio della parità di tutti i figli nelle successioni370. Sarebbero state tuttavia le leggi del 7 marzo 1793 e del 6 gennaio 1794 ad affermare, sia pur temporaneamente, il criterio democratico dell’ eguaglianza reale di tutti gli eredi nell’ambito della famiglia371. Si aboliva “qualsiasi distinzione tra i figli: di nascita, di sesso, di età. Legittimi e illegittimi, maschi e femmine, primogeniti e cadetti, tutti godevano degli stessi diritti e nessuno poteva rivendicare privilegi speciali”372. Questa svolta epocale che contribuiva a liquidare l’Antico regime sociale era stata salutata, nel 1835, da A. de Toqueville come un momento costitutivo per l’affermazione della moderna democrazia, e non solo, in un celebre passo de La democrazia in America, più volte segnalato dagli studiosi, che qui volentieri riproponiamo: ”La suddivisione dei patrimoni, frutto della democrazia, contribuisce più d’ogni altra cosa a cambiare i rapporti tra padre e figli. […] Via via che i costumi e le leggi si fanno più democratici, i rapporti tra padre e figlio divengono più intimi e più distesi. La costrizione e l’autorità si fanno meno sentire, la fiducia e l’affetto sono spesso maggiori e il vincolo naturale sembra farsi più stretto, mentre il vincolo sociale si allenta. […] La democrazia non lega quindi i fratelli attraverso gli interessi, bensì attraverso la comunanza dei ricordi e il libero simpatizzare della mentalità e dei gusti. Essa divide la loro eredità, ma permette la fusione degli animi”373. Queste istanze che preludevano alla storia dell’Ottocento correvano il rischio tuttavia di rimanere in quegli anni soffocate. Anche nella concezione del matrimonio propugnata dalla Rivoluzione francese può cogliersi una coesistenza di motivi. Quell’intreccio di tendenze libertarie e autoritarie che abbiamo visto scaturire dal modello tridentino del matrimonio si ravvisa anche nella elaborazione rivoluzionaria dell’ultimo Settecento. I legislatori francesi pensavano che il matrimonio civile costituisse l’elemento di passaggio dalla condizione biologica a quella sociale, dalla dimensione privata e personale di un legame sentimentale e affettivo, a quella generale, nazionale. In altri termini il matrimonio non era inteso solo come “un debito che l’uomo integro ha con la natura, ma anche come dovere del cittadino verso al patria. […] un legame sociale che unisce il cittadino alla patria e la patria al cittadino” 374. Contributi recenti, ispirati ai grandi classici del pensiero revisionista degli anni Cinquanta- J.F. Traer, Marriage and the Family, cit., pp. 158 e ss. Vedi, J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 304-5 ; L. Luzi, Riflessioni su matrimonio, cit., pp. 311-12 e n. 372 D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., p. 197. 373 Vedi, Scritti politici di Alexis de Tocqueville, a cura di N. Matteucci, v. II, La democrazia in America, Utet, Torino, 1968, libro II, parte III, cap. VIII, Influssi della democrazia sulla famiglia, pp. 688, 690. 374 J.P. Bertaud, La vita quotidiana, cit., p. 172. 370 371 88 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Settanta del secolo scorso, hanno colto nella concezione rivoluzionaria del matrimonio un “modello coniugalista” destinato ad affermarsi in Francia tra il 1789 e il 1802. Un modello nel quale si fondevano insieme i valori della coppia e della cittadinanza, dando luogo ad un legame indissolubile tra il familiare e il politico, tra il microcosmo familiare e il macrocosmo sociale. Questa idea di famiglia, le cui origini teoriche risalirebbero al Contrat social di Rousseau si sarebbe tradotta, nella sperimentazione rivoluzionaria, in rapporti familiari orientati nella vana ricerca di un’eguaglianza astratta delle condizioni. I fittizi interessi comuni sarebbero stati peraltro funzionali a premiare la “volontà” del pater familias il detentore dei diritti politici e della potestà familiare. Mutatis mutandi si sarebbe assistito “all’incoronazione del figlio di famiglia”, una nuova figura egemone, capace di “detronizzare definitivamente quel vecchio patriarca di suo padre nell’estate del 1792”375. Comunque sia non si può escludere che la famiglia corresse il rischio di divenire il cuore palpitante di un tutto omogeneo e uniforme, la patria. La lotta di liberazione interiore, anche in questo caso, scorgeva l’abisso della servitù volontaria. La cerimonia del matrimonio si trasformava anche in un’occasione di educazione civica come documentano gli studi e le testimonianze teatrali alle quali a breve si farà cenno376. Il decreto del 3 brumaio a. IV (25 ottobre 1795) a puro titolo d’esempio, istituiva la fête des époux, una delle nuove “feste morali” o “fisse” del sistema termidoriano e direttoriale, secondo la definizione di M. Vovelle. Una festa, quella degli sposi, volta a “convincere e istruire”, secondo il costume ormai prevalente377. In particolare la ricorrenza celebrava, con le virtù coniugali, anche quelle pubbliche e civili: il matrimonio e la famiglia divenivano inevitabilmente strumenti per la costruzione del consenso. L’antologia teatrale proposta da H. Welschinger nel lontano 1880, una scelta attenta alle questioni matrimoniali e familiari emerse con la Rivoluzione, mette in evidenza una produzione non del tutto monocorde e suscettibile di analisi future sul tema che qui discutiamo378. Schematizzando si possono cogliere due orientamenti contrapposti tra le circa quindici pièces, redatte a Parigi tra il 1789 e il 1796, raccolte a suo tempo dallo studioso francese. Accanto ad alcuni testi meno lineari e di più difficile collocazione, almeno sei commedie, A Verjus, Il buon marito, cit., in particolare pp. 7-39. O. Martin, La crise du mariage dans la législation intermédiaire, 1789-1804, Libraire Nuovelle de Droit et de Jurisprudence, Paris, 1901, in particolare p. 179; J.P. Bertaud, La vita quotidiana, cit., pp. 177-80. 377 M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria. Società e mentalità durante la rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 170. Su la fête des époux, vedi Id. La metamorfosi della festa in Provenza (17501820), Il Mulino, Bologna, 1986, p. 156 e ss. 378 H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution 1789-1799. Avec documents inédits, Slatkine, Genève, 1968 (I ed., Paris, 1880), pp. 248 e ss. 375 376 89 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 pubblicate per lo più tra 1793 e ’94, si configurano come dei veri e propri catechismi rivoluzionari sceneggiati. Erano per lo più componimenti estemporanei, risolti in un solo atto di poche pagine, delle operette idonee ad essere rappresentate per il loro carattere disimpegnato, “sans intentions psychologiques ni morales”, presso il nuovissimo théâtre du Vaudeville. Uno spazio scenico ricavato da un‘antica sala da ballo nel primo arrondissement, in rue de Chartres Saint Honoré e inaugurato nel gennaio del 1792379. Su quel palcoscenico i protagonisti di queste farse, con le loro le conclamate certezze sembravano agire come esecutori meccanici di un credo. Le pièces a tutta prima sembravano fornire soltanto indicazioni programmatiche. Innanzitutto si ribadiva la sola validità del matrimonio civile. Emergevano le preoccupazioni dell’ora: la famiglia veniva raffigurata come un inesauribile serbatoio a supporto della nazione. Era necessaria la maggiore quantità possibile di matrimoni e di figli: urgevano braccia e coscienziosi patrioti per salvare, in quei frangenti difficili, la patria in pericolo e con essa la Rivoluzione, come peraltro pensavano allora i giacobini che credevano “nel valore del numero”. Le considerazioni demografiche e l’idea della “Nazione più popolosa” sostenevano la propaganda del matrimonio inteso anche dai rivoluzionari come fonte della vita380. Le preoccupazioni montagnarde e le future ambizioni del Consolato e dell’Impero convergevano, sotto questo aspetto, sul significato del matrimonio e della famiglia. “Pour savoir aimer son pays faut être époux et père […] ainsi que tout célibataire ne fut jamais bon citoyen”381. Di fronte alle note minacce interne ed esterne che correva allora la Repubblica alcuni dialoghi di queste farse risuonavano come una vera e propria chiamata alle armi: “nos enfants seront comme nous bons citoyens. Il faut en avoir beaucoup, mes amis. Beaucoup d’enfants, beaucoup de mariages! Le E.F. Lintilha, Histoire générale du théâtre en France. La comédie de la Révolution au Second Empire, Flammarion, Paris, 1973. 380 Sulla questione vedi, J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., p. 293. 381 Au Retour, fait historique et patriotique. En un Acte et en Vaudevilles, Des Citoyens Radet et Desfontaines. Représenté à Paris sur le Théâtre du Vaudeville le 4 e jour de la seconde Décade du mois Brumaire, l’an deuxième de la République, une et indivisible, A Paris, Chez le Libraire du Théâtre du Vaudeville, Atto I, 6. J.B Radet (1751-1830) autore fecondo stese numerosissime pièces in collaborazinìone con Desfontaines ed altri. Decano del Vaudeville, prima della Rivoluzione era stato pittore e bibliotecario. Arrestato nel 1793 liberato a Termidoro, ottenne una pensione nel 1801 e fu insignito della Legion d’Onore. G.F. Desfontaines (1732-1825), censore e provveditore della biblioteca del re. Persi gli incarichi con la Rivoluzione si dedicò al teatro rivelandosi un autore prolifico anche se stese molte opere in collaborazione. Celebrò con delle Chansons populaires, insieme ad altri, l’incoronazione di Napoleone ( 2 dicembre 1804). Su entrambi gli autori vedi le due note bio-bibliografiche in G. Trisolini, Rivoluzione e scena. La dura realtà (17891799), Bulzoni, Roma, 1988, pp. 586-92. 379 90 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 mariage est à l’ordre du jour. La République est pressée. Il n’y a pas un istant à perdre”382. Forse e non solo per queste ragioni, s’imponeva il modello della prole numerosa. La famiglia si configurava dunque come la cellula primaria dell’educazione politica: un nucleo guidato dal “buon padre” repubblicano che avrebbe dovuto provvedere, anche in virtù della sua dedizione al bene pubblico, all’educazione civile e morale dei figli. Tuttavia, tra le cadenze monotone della catechetica, affioravano i drammi individuali e personali dei francesi. Quella famiglia che la propaganda voleva unita e militante appariva nonostante tutto lacerata e divisa sul palcoscenico. Segnata sin nel suo interno dalle preoccupazioni del tradimento e della cospirazione. Emergeva con efficacia, anche per mezzo del teatro, il conflitto che era insieme politico e generazionale e schierava, all’interno del nucleo domestico, i figli contro i padri rievocando, con il vissuto della guerra civile, una crisi che era anche affettiva, esistenziale. Esemplare a riguardo sembra essere L’époux républicain un “drame patriotique”, di M. Pompigny, un’opera questa volta in due atti, rappresentata l’8 febbraio 1794 al teatro de la Cité-Variétés di Parigi, il cui testo è stato pubblicato integralmente da G. Trisolini nel 1988383. Dramma della guerra civile, la pièce venne accolta favorevolmente dai contemporanei, andando in scena per sette mesi consecutivi su quello stesso palcoscenico384. I due atti descrivevano il conflitto lancinante tra “l’amore e il dovere” vissuto dal fabbro Franklin che, pur marito e padre, finiva per denunciare come cospiratori la moglie Melissa e il figlio Floréal. Li consegnava ai gendarmi consapevole di decretarne, in tal modo, la morte385. Era stato Romarin, “homme de confiance” di Franklin, a svelare il tradimento, a informare il coscienzioso fabbro, tramite un secco dialogo di forte impatto drammatico, che nella sua casa abitavano dei “mostri”, Le canonnier convalescent, fait historique, en un Acte et en Vaudevilles. Par J.B. Radet. Représenté pour la première fois sur le Théâtre du Vaudeville le 11 Messidor de l’an second de la République, une et indivisibile. A Paris, Chez le Libraire du Théâtre du Vaudeville. Troisième année de la République, Atto I, ultima. 383 L’époux républicain, drame patriotique en deux actes et en prose, par Pompigny. Représenté pour la première fois à Paris, sur le Théâtre de la Cité Variétés, le 20 Pluviôse, second année de la République Française, une et indivisibile, ora in G. Trisolini, Rivoluzione e scena, cit., pp. 298-346. Sull’opera vedi, H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution, cit., 249-50; M. Albert, Les Théâtres de Boulevards (1789-1848), cit., pp. 146-47; M. Carlson, Le théâtre de la Revolution Française, cit., 23132; G. Trisolini, Rivoluzione e scena, cit., 64-70. Ivi, pp. 347-48 cenni bio-bibliografici su M. Pompigny, “rivoluzionario, giacobino e combattente” autore, tra 1783 e 1813, di una trentina di commedie in prosa prevalentemente in uno o due atti. 384 G. Trisolini, Rivoluzione e scena, cit., p. 64. 385 L’époux républicain, drame patriotique, cit., Atto II, 13. 382 91 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 dei “cospiratori”. “Des émigres? Non des cospirateurs. Qui sont-ils? Ta femme. Ciel! Et ton fils. Floréal? Lui-même386. Franklin non cedeva alla commozione vedendo Melissa che implorava pietà. Doveva trionfare, a conclusione di un processo interiore tormentato e sofferto, il “diritto della virtù” “sul delitto”387. Non si trattava di una banale rievocazione del Brutus di J. L. David, l’opera realizzata dal grande pittore nel 1789 in seguito alla presa della Bastiglia e oggi custodita al Louvre. Il tema rappresentato era indubbiamente lo stesso, ma la commedia di Pompigny nonostante il valore letterario modesto acquistava per gli spettatori d’allora, nel terribile 1793-’94, un significato diverso, sentito. J. Starobinski ha affermato che per comprendere “appieno il significato dell’opera” di David è necessario “leggere il titolo completo del quadro”, la didascalia nella sua la sua concreta spiegazione: “Junio Bruto, primo console, di ritorno alla sua casa, dopo aver condannato i due figli che si erano uniti ai Tarquini e avevano cospirato contro la libertà romana. I littori riportano i loro corpi perché egli dia loro sepoltura”388. Il dipinto era ispirato al Bruto primo di Alfieri redatto, come sappiamo, dall’astigiano nell’87, e pubblicato a Parigi, ci informa Starobinski, proprio mentre David ultimava il quadro. Verosimilmente l’invettiva conclusiva di Bruto: “Libera or sorge dal quel sangue Roma […]; Io sono l’uomo più infelice che sia nato mai” aveva colpito, per quel contrasto atroce di sentimenti il grande pittore389. Il Brutus, per l’autorevole studioso costitutiva la sintesi concettuale della produzione precedente di David e faceva “intravedere”, nel gesto disumano e impietoso del primo console, “una sublimità tragica” nel senso “kantiano” del “termine” che nelle altre opere (il Giuramento degli Orazi e il Giuramento del Jeu de Pome) probabilmente ancora mancava390. Il tremendo sacrificio di Bruto rievocava l’impossibile scelta di Abramo, e assurgeva a comportamento eroico in quanto manifestazione consapevole di una azione individuale di significato universale. Quell’atto virtuoso e sublime che “metteva in evidenza il limite estremo della devozione patriottica”391 accomunava le due figure del console e del fabbro, entrambi padri che avevano condannato a morte i propri figli per salvare la patria. Con la loro sofferta vicenda umana, comprensibile da tutti, la retorica di una facile propaganda era archiviata392. L’idea di operare secondo i principi Ivi, Atto II, 6. Ivi, Atto II, 10. 388 Il testo in J. Starobinski, 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Abscondita, Milano, 2010, p. 89. 389 V. Alfieri, Bruto primo, cit., Atto V,2. 390 J. Starobinski, 1789, cit., pp. 85-93. 391 Ivi, p. 89. 392 “L’homme de bien n’a pas besoin d’exemple pour faire son devoir; il ne consulte que son coeur”, L’époux républicain, drame patriotique, cit., Atto II, 20. Per David oltre a J. Starobinski, 1789, cit., pp. 83-103 vedi le altrettanto significative considerazioni di V.G. Plechanov, La 386 387 92 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 della legge morale che altrove abbiamo chiamato “l’etica dell’autenticità” trovava nella Francia di fine secolo, lacerata dalla rivoluzione e dalla guerra, una sua testimonianza estrema, forse addirittura paradossale, tanto nelle espressioni più alte e compiute dell’arte come nella produzione minore letteraria e teatrale destinata a scomparire o a restare trascurata. Prima di passare ai testi italiani è necessario un rapidissimo accenno a quello che, a nostro parere, si configura come l’altro nucleo tematico significativo che affiora nei documenti teatrali raccolti da Welschinger intorno al tema della famiglia e del matrimonio393. Alcune pièces redatte tra il 1791 e il 1796, lasciavano completamente sullo sfondo i motivi politici orientando l’introspezione psicologica nello scavo delle vicende private della vita quotidiana che riuscivano finalmente a prevalere nelle commedie. Tornava in auge il più pacato genere attendrissant così amato dagli spettatori della generazione precedente, sia pur adattato alle recentissime spinte della sensibilità. Anche in questo caso il peccato, il tradimento, il dolore e la sofferenza divenivano gli elementi per lo sviluppo di un percorso interiore. Un itinerario che portava i protagonisti a scoprire attraverso gli altri se stessi, esclusivamente su un piano affettivo e sentimentale. Questi testi, assai più delle contemporanee commedie italiane che stiamo per esaminare, si aprivano al nuovo modello di famiglia coniugale intima: affiorava sulle scene quella “fusione degli animi” che Tocqueville, come abbiamo ricordato, considererà l’elemento costitutivo della nascente democrazia. Il tema dell’amore contrastato nelle commedie italiane del 1796-’97 “[La natura] mi parla altamente al cuore, e mi dice, che i diritti da essa concessi ai genitori sui propri figli ad altro non tendono che a formare la loro felicità, non a farli vittime dei loro capricci, dei loro pregiudizi; che il tiranneggiarli, che l’opprimerli, è violare sacrilegamente tutte le sue leggi; mi dice che cotesti diritti non accordano ad essi la facoltà di violentare la libertà loro nella scelta di uno sposo, perché la felicità del matrimonio consiste nell’unione dolcissima che forma due cuori”. “[…] Si mi ha detto [Vittore], che qualunque possa essere la sorte che voi mi preparate, io devo ricordarmi sempre di essere vostra figlia, che le vostre violenze, la vostra oppressione non potrà mai autorizzare in me un letteratura drammatica francese e la pittura del XVIII secolo dal punto di vista della sociologia, in Id., Scritti di estetica, Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 166 e ss. 393 H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution, cit., pp. 248 e ss. 93 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 mancamento di rispetto, e di disobbedienza; che la mia rassegnazione e la mia virtù […] sarà però riguardata con occhio favorevole dal Cielo […]394”. Le due citazioni provengono entrambe dalla Rivoluzione, una fortunata pièce bolognese in tre atti, molto in voga nel Triennio, andata in scena e stampata anche a Venezia nell’ottobre 1797. Tale contestazione formale dell’ordine esistente che si traduce in una adesione puramente verbale ed estrinseca ai nuovi principi ricorre anche nelle altre opere patriottiche presentate in questa sezione. Solo Il matrimonio democratico di Sografi, che a breve discuteremo, sembra discostarsi da questa linea di tendenza. Il motivo della mésalliance e dell’impedimento d’amore ispirava La figlia del fabbro di C. Federici, un’opera, lo si è già accennato, rappresentata per la prima volta a Brescia nel dicembre del 1796 e poi andata in scena in molte città compresa Venezia. Il testo sarebbe stato stampato a Torino nel 1797395. Federici originario di Cuneo e veneto d’adozione, dopo essere stato magistrato a Moncaleri, abbandonava l’attività forense alla fine degli anni Settanta, poco meno che trentenne, per divenire autore e attore teatrale, seguendo un’antica passione manifestata sin dall’infanzia. Il nostro, seguace di Goldoni redigeva, in circa trent’anni d’attività, una settantina di pezzi, alcuni dei quali tradotti in francese, tedesco e spagnolo. Federici riscosse i maggiori successi grazie alle sue comédies larmoyantes, applauditissime allora dal pubblico, con le quali voleva “unire il diletto alla buona morale, ferire il vizio con que’ riguardi che vuole l’urbanità e la decenza”396. Il cuneese intendeva, in altri termini, tentare di conciliare quel che recepiva del pensiero dei Lumi con i valori costitutivi della società tradizionale. La sua larvata polemica verso il patriziato, non a caso, rimaneva di fatto consegnata, come per il suo maestro Goldoni, in una prospettiva esclusivamente morale, volta a riflettere sulla condizione generale dell’uomo a prescindere dal ceto. Prima della discesa dell’Armée d’Italie nella La Rivoluzione. Commedia patriottica. Bologna 1797, anno I della libertà italiana, cit., Atto, II, 10. G. Dumas, La fin de la République de Venise, cit., pp. 356-7. La figlia del fabbro commedia democratica in cinque atti del cittadino Camillo Federici, Torino dai cittadini Pane e Barberis, anno I della libertà piemontese. La pièce continuò ad essere rappresentata con successo nel primo Ottocento e venne acclusa nelle dodici edizioni delle Opere del nostro che si susseguirono sino a quella del 1832-33. Vedi Commedie scelte di Camillo Federici, v. VII, in Biblioteca teatrale economica ossia raccolta delle migliori tragedie, commedie e drammi tanto originali quanto tradotti, Tipografia Chirio e Mina, 1832, pp. 7-89. Sugli adattamenti volti a eliminare i passi connotati in senso “democratico” de La figlia del fabbro nelle edizioni post-rivoluzionarie vedi l’Introduzione in La commedia del Settecento, a cura di R. Turchi, Einaudi, Torino, 1988, v. II, p. XXX; P. Trivero, Commedie giacobine italiane, Edizioni dell’Orso, Torino, 1992, pp. 7 e ss. (indicazione di alcune varianti). 396 Collezione di tutte le opere teatrali del signor Camillo Federici coll’aggiunta di alcune non ancora pubblicate colle stampe, presso Gaetano Ducci, Firenze, 1826-’27, v. I, p. 5. 394 395 94 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 nostra penisola le pièces di Federici erano ancora poco sensibili al cambiamento. Il letterato, ad esempio, celebrava in Totila, una commedia in cinque atti pubblicata a Firenze nel 1794, ancora la magnificenza del “sovrano illuminato ed equanime”397. Le medesime incertezze e contraddizioni possono cogliersi ne La figlia dei fabbro un’opera, si crede, solo superficialmente aperta ai nuovi principi e valori. La commedia, ambientata nella Sicilia vicereale, ricostruiva la difficile storia d’amore tra Luigia e Carlo, figli rispettivamente del fabbro Giorgio e di Ruggero l’ex-duca di Colfiorito, presidente di una ipotetica Municipalità rivoluzionaria (nelle edizioni ottocentesche duca e Pretore di Palermo) 398. Carlo, come Saint-Albin nel Padre di famiglia di Diderot, per avvicinare l’amata, “bella e modesta”, si presentava sotto le mentire spoglie di Giuseppe, “un artigiano dei sobborghi”399. Il giovane tuttavia non riusciva a liberarsi dai condizionamenti sociali, dalle minacce e dagli ostacoli posti continuamente dalla madre che si opponeva con fermezza al matrimonio facendo tra l’altro rapire Luigia400. La duchessa (ex-duchessa nella edizione del 1797), simbolo della persistenza della tradizione sosteneva dunque le ragioni del matrimonio d’interesse e di rango. Chiedeva rispetto e ricordava ai familiari che nessun primogenito dei Colfiorito aveva mai potuto sposare una donna che non fosse nobile401. Alla figura del patriziato arroccato in difesa delle sue prerogative la commedia, con elementare efficacia didattica, contrapponeva i profili positivi dell’aristocratico “convertito” e del fabbro. Il contrasto tra il mondo del lavoro e quello della “signoria” è rappresentato non soltanto dalla descrizione della fucina nella quale fabbro e garzoni “battono i ferri, impugnano le loro mazze, accendono fuochi, si asciugano il sudore” ma anche nelle parole del fabbro che, capovolgendo i ruoli tradizionali, parla dei “signori” con esplicito disprezzo: “ma mi pagheranno poi le opere che mi hanno ordinato? Oimè! Io li conosco. Grandi e orgogliosi nel comandare sono piccoli e cavillosi nell’aggradire. Vogliono ciò che vogliono C. Federici, J, von Weissenthurn, Totila, a cura di P.M. Filippi, M. Marsigli. Bononia University Press, Bologna, 2009, p. 21. Per indicazioni bio-bibliografiche sull’autore vedi ivi, pp. 29-43. 398 La figlia del fabbro commedia, cit., Atto I, 6, 7, 8, II, 2, 5. 399 Ivi, Atto II, 2, 5, III, 2. D. Diderot, Il padre di famiglia, cit., Atto I, 7, II, 6, 9. 400 La figlia del fabbro commedia, cit., Atto IV, 5. 401 “Sono duecento e più anni che nella discendenza di Oddone di Colfiorito niun primogenito ha mai sposato alcuna che non fosse di più alto lignaggio. Osservate: Bernardo I si unì alla contessa del Faro, Oliviero […] Odoardo […]. E tirando innanzi troverete sempre titoli e nomi degli di noi sino a Ruggero qui presente […] vorreste voi che, per compimento di questa luminosa serie di eroi, si vedesse scritto Carlo di Colfiorito ha sposato la figlia di un fabbro?”, Ivi, Atto V, 3. 397 95 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 subito: pagano tardi e qualche volta non mai, e per soprappiù ci maledicono” 402. Ruggero era accomunato nell’amore del lavoro a Giorgio. La fisionomia del magistrato si ispirava a quella di lord Hudson, il protagonista che abbiamo incontrato nel Cavaliere Woender di Sografi403. Anch’egli come il “Maire” lavorava in modo indefesso, non amava se stesso ma il bene di tutti, non si curava dell’amicizia dei potenti, per rimanere un uomo indipendente e per poter amministrare la giustizia senza osservare riguardi per nessuno. A chi gli ricordava, in tono di rimprovero: “la tua casa è il pretorio, il tuo caro è il popolo, il tuo idolo la patria […] dove sono gli altri tuoi doveri?” Ruggero rispondeva: “l’amor della patria li abbraccia tutti. Chi ama la patria ama la sua famiglia e il suo lavoro”404. Anche la costruzione di questo personaggio conferma la tendenza allo smussamento dei contrasti, alla conciliazione degli opposti: un nobile divenuto amico del “popolo”, inconsapevolmente ma non retoricamente patriota, funzionario esemplare. Anche in questa commedia era il magistrato a guidare il processo di emancipazione morale e civile dell’incerto e riluttante Carlo, sino alla fine combattuto tra le ragioni sociali e quelle del cuore405. Di fronte alle continue richieste di aiuto di Carlo, il padre lo invitava a più riprese a trovare le risposte nella sua coscienza406. Nelle parole di Ruggero si precisava la nuova idea di virtù e di onore che allora si stava affermando in Italia. La correttezza, l’onestà e la dedizione al lavoro determinavano, per il magistrato, l’autentica scala per misurare i diversi livelli sociali407. L’onore veniva definito come costruzione autonoma di una scelta morale. Una scelta che Carlo avrebbe dovuto compiere da solo scrutando il proprio cuore408. Tuttavia le conclusioni della commedia indebolivano il significato di quella ipotesi di rigenerazione morale. Nelle ultime battute Carlo si era ormai finalmente persuaso. Luigia, invece, ancora esitava. Rifletteva sui pregiudizi e sui condizionamenti sociali. Per amore di Carlo si sottraeva, rinunciava a un matrimonio foriero di sventure per entrambi. Era lo stesso Ruggero di fronte alle difficoltà a rivelare, come sempre in questi casi, l’imprevedibile nobiltà di Luigia. L’equiparazione sociale consentiva anche all’ex-duchessa di accettare la nuora senza drammi409. In realtà Ruggero sin dal secondo atto sapeva. In un colloquio con Giorgio, nella fucina, era venuto a Ivi, Atto II, 1. A.S. Sografi, Il cavalier Woender, cit., Atto V, 3, 7. 404 La figlia del fabbro commedia, cit., Atto I, 1,4,5. 405 Ivi, Atto II, 2, III, 1, 4. 406 Ivi, Atto III, 1, 2, 5, IV, 7, V, 1. 407 Ivi, Atto I, 8, IV, 4. 408 Ivi, Atto III, 2, 5, IV, 7. 409 Ivi, Atto V, ultima. 402 403 96 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 conoscenza dei nobili natali della ragazza410. Il suo successivo impegno pedagogico nei confronti del figlio perdeva pertanto forza ed efficacia, smorzava il significato della prova, consentendola solo in una situazione protetta, priva di rischi. Il confronto di Carlo con se stesso sembrerebbe quasi rievocare l’evanescenza fantasiosa e irreale della finzione de Le jeu de l’amour et du hasard di Marivaux. Erano passati settant’anni e l’opera di Federici, redatta in un momento decisivo della storia italiana, testimoniava l’arretratezza di una certa nostra cultura. Una commedia stampata a Modena nel 1798, Il repubblicano si conosce alle azioni ossia la scuola de’ buoni costumi suggerisce un’altra variazione sul tema della mésalliance che si crede opportuno ricordare411. La pièce era stata redatta da Giambattista Nasi negli ultimi mesi del 1797, come si desume dalla prefazione al testo. Questi, poeta e commediografo emiliano, conosciuto tra gli arcadi come Aminta Lampeo, era l’autore di un trattatello sul decadimento del teatro comico italiano, a suo modo allora conosciuto. Si trattava tuttavia di un letterato di rilievo minore e di tiepidi sentimenti rivoluzionari, che coltivava buone amicizie ed era corrispondente di G. Pindemonte412. I cinque atti della commedia descrivevano le vicende di due famiglie “borghesi”: quella del ricco commerciante Ortensio e l’altra di Melchiorre ormai caduta in disgrazia. Melchiorre spinto dalle necessità si era trovato costretto a trasformare la pittura, un suo antico passatempo, in una attività, peraltro poco redditizia, per poter tirare avanti. Lo sviluppo delle scene e la vocazione didattica dell’autore trasformavano la commedia in una sorta di catechismo repubblicano sceneggiato, o, se si vuole ricorrere all’espressione di Nasi in “un quadro vivente dell’educazione democratica”413. La famiglia di Ortensio ed i personaggi che gravitavano intorno alla sua casa esprimevano i nuovi ideali di dedizione al lavoro, di competenza, di Ivi, Atto II, 4. Il repubblicano si conosce alle azioni ossia la scuola de’ buoni costumi. Commedia patriottica di carattere di cinque atti del cittadino Giambattista Nasi juniore modanese, in Modena presso la Società Tipografica. Anno VI Repubblicano. 412 Per la datazione vedi, Ai lettori e Al cittadino Giambattista Nasi il cittadino Giovanni Pindemonte in Il repubblicano si conosce dalle azioni, cit., pp. 7-10. Sull’autore vedi Notizie biografiche in continuazione della Biblioteca Modenese del cavalier abate G. Tiraboschi, Tipografia Torregiani, Reggio, 1837, v. V, p. 50. G. Azzaroni, La rivoluzione a teatro. Antinomie del teatro giacobino in Italia (1796-1805), Clueb, Bologna, 1985, p. 362. 413 Melchiorre ad Ortensio: “Ah, degno padre di famiglia! Voi potete aprire una scuola per fare degli allievi alla Democrazia” Il repubblicano si conosce alle azioni, cit., Atto V, 10. Un giudizio severo sulla commedia può cogliersi V. Monaco, La repubblica del teatro (momenti italiani 17961860), cit., pp. 35 e ss. Secondo l’A. “il carattere di esteriorità del nostro giacobinismo” si riflette in questa pièce caratterizzata “soltanto” da tono “predicatorio e noiosità cattedratica”. 410 411 97 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 correttezza che caratterizzavano quei nuovi ceti emergenti dei quali la repubblica allora cercava l’appoggio. Appare esemplare, a questo proposito, la figura del computista Claudio, un dipendente dell’impresa, per il quale la passione repubblicana s’intrecciava con la consapevolezza del nuovo ruolo sociale che egli aveva conquistato esercitando “l’utilissima professione del computista che s’aggira sulla ragione e sulla verità” 414. Nella commedia i rappresentanti dei ceti medi patriottici hanno ormai preso irrevocabilmente le distanze dalle esperienze radicali della Rivoluzione. “Vi siete così presto dimenticati la Rivoluzione di Francia?” protestava Odoardo, il falso repubblicano, il personaggio negativo della commedia. A questi Ortensio rispondeva che “i paragoni sono odiosi” ed era necessario distinguere. La pièce rifiutava in sostanza il radicalismo giacobino, un’esperienza congiunturale della storia francese ormai, anche al di là delle Alpi conclusa e superata, e del tutto incompatibile con la diversa situazione italiana415. I personaggi della commedia rappresentavano i problemi e i conflitti d’una società nuova, d’un mondo in trasformazione. Ortensio e Melchiorre, i protagonisti positivi, erano espressione di una democrazia che tendeva alla normalizzazione: temevano il disordine e l’anarchia, ponevano alla base della convivenza civile l’ordine e il rispetto della legge. Ortensio, “troppo rigoroso” credeva che “libertà ed eguaglianza esigano grandi doveri, obbedienza alla legge, severa istruzione”416. Per l’estremista Odoardo, invece, libertà significava “che un uomo può fare tutto ciò che gli pare e piace purché non lo vieti la legge”417. Una formula, questa, che definiva la sfera della legalità ben diversamente da quella della moralità le cui norme non potevano esprimersi in divieti, ma, come pensava Ortensio, in comandi: “fai il bene, compi azioni buone perché il repubblicano si conosce alle azioni”418. Anche Melchiorre vagheggiava una società libera, ordinata, interclassista. Le prime scene del secondo atto lo rappresentano intento dipingere un Tableau allegorico. Di fronte alle immagini il pittore teneva una vera e propria lezione sui vantaggi del nuovo ordinamento politico. Tramite il suo discorso la commedia proponeva l’idea della sovranità popolare, della giustizia fiscale, dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In modo netto si rifiutava il modello della eguaglianza sociale. “Ma dimmi cara Luigia – affermava Melchiorre rivolgendosi a sua figlia - penseresti forse che l’uguaglianza consistesse non già nei diritti e nei doveri ma in un riparto generale dei terreni e Ivi, Atto I, 1. Ivi, Atto I, 4. 416 Ivi, Atto I, 7. 417 Ivi, Atto II, 4. 418 Ibidem. 414 415 98 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 dei loro prodotti e che ne dovessero essere spogliati i legittimi possessori per darne ai miseri? Ma non sai tu che sempre vi sono stati dei ricchi e dei poveri, e vi saranno sempre queste due classi, finché esisteranno sempre gli uomini sulla terra”419. Stabilite in tal modo le coordinate politiche di riferimento, a partire dal secondo atto poteva svolgersi la trama che si sviluppava ricostruendo la tradizionale vicenda dell’amore contrastato. L’amore impossibile coinvolgeva Luigia la figlia del pittore povero e Cesare il primogenito del ricco Ortensio 420. La mésalliance, questa volta, non riguardava le diseguaglianze di rango ma quelle della ricchezza, della proprietà. I padri divenuti ormai cittadini non avevano alcuna esitazione: la virtù superava la disparità delle fortune, il repubblicano si riconosceva dalle azioni421. I figli, invece, pur amandosi mostravano qualche perplessità422. Ciò nonostante tutto sembrava ricomporsi, in armonia con i nuovi principi. Tuttavia anche in un testo dichiaratamente rivoluzionario era necessaria la tradizionale agnizione: riappariva, come per incanto, lo zio ricco e dimenticato di Luigia che dotava la ragazza di una inaspettata ricchezza e la nominava sua erede universale: le diseguaglianze economico-sociali erano così colmate rendendo possibile il matrimonio 423. La conclusione convenzionale svalutava la nuova idea di virtù intesa, lo si è già detto, come il riconoscimento sociale dell’autentico merito individuale, una qualità capace di riformulare la gerarchia sociale. Quell’idea di virtù proposta continuamente nel corso delle scene finiva per rimanere soltanto una esercitazione retorica. Pertanto la commedia tradiva, nel profondo lo spirito dell’89, ovvero vanificava la speranza di poter ricostruire la città futura secondo i criteri del talento e del merito, riassegnando la possibile dignità ad ogni individuo. In definitiva il testo si richiamava solo verbalmente al principio dell’eguaglianza giuridica, pur celebrandolo nel corso delle scene, senza riuscire a decifrarne il significato, peraltro facilmente comprensibile tramite la sola lettura dell’articolo 6 della Dichiarazione del 26 agosto. Nell’universo “democratico” di Nasi la società, ridotta a pura estensione cartesiana, riproponeva ruoli e livelli gerarchici cristallizzati. L’arcade si accontentava di garantire un ricambio di ceto dirigente all’interno del sistema e di suggerire, a suo parere, un messaggio vincente a chi fosse stato in grado di interpretarlo. L’Aristocratico convertito, una commedia in cinque atti stampata a Mantova nel 1797, rappresentava uno spaccato della società lombarda appena liberata Ivi, Atto II, 1. Ivi, Atto II, 2, 3. 421 Ivi, Atto IV, 4. 422 Ivi, Atto II, 2, 3, III, 4, V, 1. 423 Ivi, Atto V, 2, X, ultima. 419 420 99 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 dall’Armée d’Italie424. L’anonimo autore descriveva nei dialoghi le vicende di una guerra ancora combattuta. Ricordava il lungo assedio francese della sua città, Mantova, la discesa delle truppe austriache dal Trentino e dal Veneto anche per soccorrere la piazzaforte. I riferimenti del testo così dettagliati assumevano un rilievo personale, biografico, tanto da consentire la datazione dell’opera ragionevolmente tra la tarda estate 1796 e il gennaio 1797, comunque prima della occupazione francese della città (2 febbraio)425. La commedia, in senso più generale, presentava il quadro della provincia lombarda dopo l’arrivo dei francesi a Milano (15 maggio 1796). Sin dall’avvio la pièce rievocava la fuga del patriziato cittadino nelle campagne circostanti nelle quali -per l’autore- “la nobiltà” tentava di “fanatizzare i poveri villani” con la speranza di poter tornare alle tradizionali abitudini quotidiane. Non a caso veniva descritta e rappresentata una guerra che continuava a mostrarsi incerta: ai protagonisti giungevano le notizie dai campi di battaglia e dalle città appena liberate426. Nonostante tutto si era però certi che stava per inaugurarsi una nuova era, capace di capovolgere un antico sistema. La cameriera Lisetta così si rivolgeva alle patrizie Adelaide e a Elisabetta divenute all’improvviso “giacobine” dopo aver partecipato alle “avvelenate conversazioni” che si tenevano in quei giorni a Milano: “Cittadine vi ho a dire mille belle cose. Il servidore è venuto dalla città dice che quando i francesi sono stati nella piazza del Duomo, in mezzo agli applausi di tutto il popolo, il General Bonaparte ha fatto una bellissima parlata proclamando la libertà e dicendo che d’ora innanzi non vi sarà che il merito che distingue il cittadino e non la nascita o le ricchezze”427. Anche in questa commedia i temi politici e le vicende amorose e sentimentali erano fortemente intrecciati. La vicenda ruotava intorno alla questione del matrimonio di Adelaide, la figlia del marchese del Monte, che amava riamata, un giovane patriota, Luigi divenuto allora capitano della Legione lombarda428. Un corpo quest’ultimo costituitosi su richiesta di Bonaparte nella seconda metà dell’ottobre 1796, forte di circa 4000 uomini 429. L’altro pretendente di Adelaide era, invece, un rappresentante del patriziato, il barone del Verme, un galante e ricco libertino, ormai quasi sessantenne. L’aristocratico convertito. Commedia di cinque atti in prosa, Mantova, presso la società tipografica all’Apollo. Anno I della libertà italiana. 425 Per i riferimenti all’assedio della ”formidabile piazza” vedi Ivi, Atto I, 4. Per il contesto degli eventi G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, v. I Le origini del Risorgimento, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 206. 426 L’aristocratico convertito, cit., Atto II, 1. 427 Ivi, Atto I, 2. 428 Ibidem. 429 C. Zaghi, Potere, Chiesa e Società. Studi e ricerche sull’Italia giacobina e napoleonica, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1984, pp. 261 e ss. 424 100 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 L’autore lo rappresentava come una sorta di un povero Don Chisciotte d’Antico regime, una maschera ridicola e insieme tragica: “quando sarò ben vestito, quando avrò una parrucca nuova di zecca, un bel paio di scarpini, la mia spada, vi pare che potrò fare una trista figura […] ne ho cinquantotto in là: ma cosa serve questo? Quando si hanno ricchezze e robustezza, si può aspirare a una ragazza di diciotto anni”430. Il marchese del Monte tetragono nella difesa del suo diritto di pater familias e del privilegio nobiliare, nonché vitalmente interessato alle clausole economiche del contratto matrimoniale, accettava di buon grado la richiesta del barone: “tu sarai sposa del barone o ti chiuderò per sempre in un ritiro”431. Adelaide per amore si dichiarava disposta anche a morire 432. Le vicende della commedia, con i suoi successivi colpi di scena, mettevano a nudo la miseria morale, gli inganni, la conflittualità, la perfidia dei protagonisti dell’Antico regime: nobili indebitati prepotenti ed inetti, sacerdoti miscredenti e affaristi, dominati da fantasmi sessuali, presuntuosi, ipocriti e incolti433. A questa rappresentazione senza speranza della vecchia società faceva riscontro la storia umana del marchese del Monte, l’aristocratico che si converte, esprimendo, tramite la sua vicenda, la parabola della Rivoluzione che si faceva storia. La conversione non era tuttavia meditata, il risultato di un percorso intellettuale, fondato sulla ponderazione dei principi, quanto piuttosto scaturiva da una amara riflessione sul piccolo mondo che ruotava intorno alla propria famiglia. Le fasi della redenzione si scandivano tramite alcune autocritiche che costituivano la trama ideale della commedia. Le avances amorose dell’abate Giramondo verso Lisetta, la cameriera di casa, provocavano la prima reazione. Ma la protesta restava senza sbocco. L’aristocratico non riusciva a staccarsi dai modelli abituali. I principi e le alleanze che avevano retto per secoli il sistema resistevano agli urti che li minacciavano da ogni parte 434”. La fiducia nei “buoni vecchi tempi” tuttavia continuava a incrinarsi: il marchese era costretto ad accettare, per le sue condizioni economiche allora incerte e per l’antico vizio del gioco, un prestito ad usura dal sacerdote consigliere di famiglia435. Crollavano, in tal modo, i valori e i simboli consueti, mentre sorgeva l’esigenza di un cambiamento: “Pare che vada a cambiare la scena”. Si profilava la possibilità di aderire al nuovo corso: “rinuncerei ai pregiudizi del mio ordine per essere felice col resto degli uomini”436. Quando alla fine, il marchese, L’aristocratico convertito, cit., Atto III, 5. Ivi, Atto IV, 2. 432 Ivi, Atto IV, 4. 433 Ivi, Atto, I, 6, 9, 10, II, 2, 3,4, 5, 6, III, 1, 2, 3, 4, 6, 8, 10, 11, IV, 2, 3, 6, 7, 9, V, 2, 7, 10. 434 Ivi, Atto II, 6. 435 Ivi, Atto I, 6, II, 11. 436 Ivi, Atto III, 12. 430 431 101 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 scopriva che il prelato attentava addirittura alla virtù di sua moglie tutto precipitava e gli “cade[va] il velo dagli occhi”. L’aristocratico scorgeva, ovunque, “la frode e il delitto”: diveniva sempre più desideroso di “amicizia” e “fratellanza”, i valori grazie ai quali si sarebbe potuta costruire “una sola famiglia tra gli uomini”437. Il marchese ormai redento, diviso tra il desiderio di fuga con la sua Elisabetta, lontano “sull’erta di monte”, “per isfuggire gli orrori dell’iniquità e del delitto” e il ben operare, rifiutava il matrimonio tra la figlia e il barone438. Era ormai in grado di riconoscere il valore dei sentimenti. Era giusto che la figlia fosse felice se colui che la amava ne sarebbe stato degno 439. Nell’ultima scena la conversione del marchese era compiuta. Dichiarava di voler essere repubblicano, persuaso “dell’onestà dei patrioti”, “della malvagità dei nobili” e dell’ “impostura della maggior parte dei preti”440. L’anonimo autore, tramite le parole del suo aristocratico convertito, salvava dunque dal giudizio negativo il solo il clero “evangelico”, la “minor parte” dei sacerdoti, coloro che si richiamavano ai valori perenni del cristianesimo441. Anche a Mantova nel 1797, dunque, accanto ai temi forti della polemica (e della propaganda) antinobiliare e antiecclesiastica si delineano le tendenze alla mediazione e alla conciliazione. Con il crollo delle strutture cristallizzate della società degli ordini si intendevano recuperare tutte le energie disponibili, anche quelle potenzialmente avverse, per indirizzarle in un progetto orientato cautamente verso il futuro. L’Aristocratico convertito, un testo di propaganda, inevitabilmente povero nei contenuti, rivela nonostante tutto un certo interesse. Testimonia il grado di recezione, nei livelli medio-bassi dell’opinione italiana di fine secolo, delle grandi questioni dell’individuo e dei suoi diritti, espresse con le forme letterarie dell’amore contrastato. Le trasformazioni della sensibilità documentate nella letteratura alta a partire dalla metà del secolo venivano quasi “popolarizzate e ridotte in spiccioli” in questo tipo di testimonianze. Qualcosa inevitabilmente passava anche nella commedia: grazie alla spinta della rivoluzione la mésalliance veniva celebrata sul palcoscenico. Giungeva tuttavia depotenziata nel suo significato, affievolita come l’estrema propagazione di un‘onda, rischiando di divenire quasi effimera. Ivi, Atto IV, 10. Ivi, Atto V, 3. 439 Ivi, Atto V, 4. 440 Ivi, Atto V, 12. 441 Sul grande tema della conciliazione tra cristianesimo e rivoluzione, che in questa sede non è possibile affrontare, si rinvia soltanto ai seguenti testi: V.E. Giuntella, La Religione amica della Democrazia. I cattolici democratici nel Triennio rivoluzionario (1796-1799), Studium, Roma, 1990; La Chiesa italiana e la Rivoluzione francese, a cura di D. Menozzi, Bologna, 1990; G. Verucci, La Chiesa italiana e la Rivoluzione francese, in «Critica storica», XXVII, 1990, 3, pp. 493-510. 437 438 102 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Il matrimonio democratico di Sografi. “Amor supera tutto” Si è già ricordato il grande successo di pubblico che riscosse Il matrimonio democratico di Sografi non solo a Venezia e nei Domini ma anche sui palcoscenici italiani del Triennio442. La pièce avrebbe inaugurato, di lì a poco, la sera del 10 marzo 1798, al teatro Argentina il nuovo repertorio della Repubblica romana, andando in scena insieme alla più celebre Virginia di V. Alfieri, la tragedia della libertà conquistata con il tirannicidio 443. La farsa indubbiamente meritava quell’omaggio, al di là del modesto valore artistico ricordato spesso dagli studiosi. L’opera di Sografi con la sua carica etica, lo si è peraltro accennato, celebrando sul palcoscenico la mésalliance contribuiva a rompere, tra le prime in Italia, gli schemi formali di un remoto argomento teatrale. Di tale soggetto abbiamo voluto identificare l’origine simbolica e ipotetica nell’agnizione che certamente consentì, nell’Andria di Terenzio, a Glicerio, bella e sventurata, di convolare a nozze con l’amato Panfilo444. Dalla fine del Settecento in poi il conflitto d’amore sarebbe stato sempre più indagato dall’”interno”. In altri termini si sarebbe sempre più privilegiata l’indagine interiore e psicologica, una analisi seducente anche per il letterato, capace di esplicitare le richieste e i reali bisogni dei partner. Le ragioni familiari e sociali, che inevitabilmente condizionavano il rapporto, tendevano dunque a perdere d’interesse, ponendo fine ad un antico primato così a lungo confermato dalle scene. Il Matrimonio democratico si rivela dunque come un testo di rottura e insieme di transizione, differenziandosi in modo netto dalle tre spente commedie rivoluzionarie che abbiamo appena presentato. Per una migliore comprensione dell’opera è opportuno, anche in questo caso, il ripensamento della trama. La vicenda era ambientata a Venezia nell’imminenza dell’arrivo dei francesi. Il conte di Pietradura e sua figlia Giulietta soggiornavano da circa un mese in una locanda del centro, abitualmente frequentata dai patrizi. Il nobile veronese, lasciata anche Padova, si era rifugiato nella laguna preoccupato dai disordini del tempo. Con la boria e l’ambizione di chi ha appena comperato la contea trattava con una certa supponenza il locandiere Tonino, un padrone di bottega che ancora serviva a tavola col grembiule, mentre teneva i conti e controllava il lavoro dei garzoni445. Proprio in quei giorni il conte aveva definito il matrimonio della figlia con il marchese della Tomboletta, anche lui un Il matrimonio democratico ossia il flagello de’ feudatari, farsa scritta per il teatro Civico di Venezia la state dell’anno 1797, I della libertà italiana, ora in C. De Michelis, Il Teatro Patriottico, cit. 443 Vedi, «Monitore di Roma», 17 marzo 1798. 444 Terenzio, Andria, cit., Atto V, 970. 445 Il matrimonio democratico, cit. Atto, I, 1, 2. 442 103 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 patrizio di nuova nobiltà, un “aristocratico perseguitato”, appena emigrato da Ravenna446. Agli occhi di Tonino Giulietta, bella, onesta e sincera, si mostrava diversa nei comportamenti rispetto agli altri titolati che frequentavano il caffè. Tra i due nel frattempo era nato qualcosa, entrambi ormai “si volevano bene”, ma riuscivano a mantenere un giusto contegno447. Nondimeno erano consapevoli che la passione tra una “gentildonna” e un “caffettiere” non poteva essere riconosciuta dalle convenzioni sociali, specialmente in una città come Venezia. Tonino se ne lamentava con “il cittadino” Costanti un frequentatore della locanda, un patriota che aspettava con impazienza l’arrivo dei francesi448. Si trattava nel suo caso, così è stato detto, di “un protagonista socialmente più qualificato”, una figura ricorrente nelle commedie patriottiche, che consentiva, con la sua autorevole iniziativa, la presa di coscienza dei ceti subalterni rivelando, in tal modo, “la matrice borghese del movimento giacobino italiano”449. Probabilmente la commedia più che cercare interlocutori privilegiati preferiva affrontare le grandi questioni scottanti sentite da tutti e ancora irrisolte. Si trattava in particolare dei problemi di carattere privato che ormai reclamavano un riconoscimento pubblico e civile non potendo più essere relegati nella sola sfera interiore. Addirittura i sentimenti personali e gli affetti acquistavano un valore politico. Nella farsa Giulietta, scoprendo i suoi sentimenti percepiva la sua dignità, una dignità che era propria di ogni individuo450. Tonino parafrasando Goldoni rivolgendosi a Costanti affermava che “tutti sono fatti della medesima pasta”451. Era dunque compito della stato risolvere la contraddizione tra l’eguaglianza naturale dei diritti e la diseguaglianza sociale dei meriti, il grande interrogativo sentito con forza a metà secolo, sul quale Goldoni, come sappiamo, s’era arenato452. A questo proposito la farsa suggeriva quali dovessero essere i compiti della nuova Municipalità provvisoria. Un buon governo avrebbe dovuto garantire la valorizzazione integrale di chiunque e premiare la virtù secondo il reale merito453. Questo insieme di problemi trovava una significativa convergenza nella scelta matrimoniale. In particolare la mésalliance portava tutti i nodi al pettine e Ivi, Atto I, 2. Ibidem. 448 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 5. 449 P. Trivero, Commedie giacobine italiane, cit., p. 6. 450 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7. 451 Ivi, Atto, I, 6. Vedi, C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 3. [C. Goldoni] I portentosi effetti della madre natura, cit. Atto III, 7,9. 452 Tutte le Opere di C. Goldoni, cit., v., III, pp. 331-32. C. Goldoni, Pamela, cit., Atto I, 13. 453 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 2. 446 447 104 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 assumeva nella commedia di Sografi un valore programmatico. Tuttavia alcuni contributi recenti riflettendo sul matrimonio democratico tra Tonino e Giulietta hanno cercato di negare il senso stesso della mésalliance. Secondo tale lettura Sografi avrebbe consapevolmente attenuato le differenze sociali tra i due giovani per stemperare il significato politico del suo messaggio. “Da un lato il caffettiere, in quanto padrone di bottega, si è emancipato dalla classe dei proletari (e l’esordio della farsa lo coglie mentre impartisce ordini ai propri garzoni); dall’altro il padre aristocratico declassa la propria nobiltà nella rivelazione di un titolo acquistato col denaro”454. La coerenza dell’opera, come si accennerà, l’incisività dei dialoghi sembrano escludere un atteggiamento consapevole di Sografi in questa direzione. Tra l’altro le parole di Tonino precisavano un indubbio conflitto di condizioni. Il locandiere con rammarico dichiarava di svolgere “una professione meccanica” 455. Non aveva dunque ancora potuto varcare quella linea di divisione che costituiva, come abbiamo già ricordato, la reale frontiera nella società degli ordini. Tramite i discorsi di Costanti, Sografi delineava in estrema sintesi il suo programma politico. Un progetto ispirato da un celebre opuscolo di M. Cesarotti, il maestro della giovinezza di Simone, un pamphlet stampato proprio in quei mesi a Padova456. Si trattava di una ipotesi politica, come abbiamo avuto modo di ricordare in un'altra occasione, rispettosa dell’individuo, che “coglieva nell’idea del merito personale il nuovo criterio regolatore di una riscritta giustizia sociale funzionale a trasformare la fisionomia tradizionale della comunità. Si prefigurava un inedito dinamismo sociale capace di produrre un rimescolamento profondo tra gli antichi gruppi”457. Il matrimonio democratico preannunciava la ripresa di quel programma. A ben vedere la pièce si richiamava alla Dichiarazione dell’agosto 1789, in particolare facendo riferimento agli articoli 6, 10 e 11. Il rifiuto netto del radicalismo giacobino e della democrazia sociale si accompagnava con il riconoscimento dei diritti individuali458. Tutto ruotava intorno alle idee di libertà civile e di eguaglianza giuridica. Quest’ultima veniva intesa da Simone nelle sue implicazioni e conseguenze meritocratiche, prefigurando anche nella P. Trivero, Commedie giacobine, cit., p. 7. Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 2. 456 Istruzione d’un cittadino a’ suoi fratelli meno istrutti, In Padova, a spese di Pietro Brandolese, 1797. Il testo, uscito anonimo, può ora leggersi in U. Corsini, Pro e contro le idee di Francia. La pubblicistica minore del Triennio rivoluzionario nello Stato Veneto e limitrofi territori del Arciducato d’Austria. Con appendice di testi, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1990, pp. 261-80. 457 P. Themelly, Il teatro di Antonio Simone Sografi, cit. 458 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 5. 454 455 105 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 resa scenica, la fine della società degli ordini 459. In altri termini Sografi, a differenza di altri autori del tempo, come Federici e Nasi, riusciva a tradurre in modo coerente le dichiarazioni di principio in adeguate metafore teatrali. Si vuole in questa occasione mettere in evidenza soprattutto il momento costitutivo di autodeterminazione dell’individuo, un processo rappresentato nella farsa con la vicenda di Giulietta. Tramite i discorsi della giovane aristocratica gli spettatori del Teatro Civico scoprivano il valore politico dei sentimenti460. Questa nuova concezione dell’ individuo e della società non si sarebbe mai potuta realizzare secondo Sografi autonomamente, con le sole forze di pochi intellettuali veneti. Era necessario un intervento esterno, ora dei francesi, più avanti addirittura degli austriaci, entrambi necessari per decretare la fine dell’antica Repubblica oligarchica461. L’Armée d’Italie e anche il generale Bonaparte portavano in fin dei conti insieme alle loro baionette i principi e i valori compatibili all’impresa. Più che Costanti era dunque Giulietta la reale protagonista della farsa: non si trattava di una novità. Sografi tradizionalmente favoriva la caratterizzazione femminile. Nel Verter, una commedia del 1794 ispirata all’omonimo capolavoro di Goethe, lo scrittore padovano aveva trasformato la figura secondaria di Lotte, in Carlotta, una eroina innalzata a protagonista462. Nel Matrimonio democratico Giulietta pensava di poter superare le differenze di ceto “a forza d’amore”: l’“amore supera tutto”, affermava risoluta rivolgendosi a Costanti463. Il motto virgiliano “omnia vincit amor” era dunque ripreso da Sografi che probabilmente lo mutuava dalla commedia Natalia di Mercier (1775)464. Giulietta con quell’espressione non voleva certo identificare l’idea d’amore con quella di sacrificio: rinunciare ai privilegi di rango, giungere allo scontro familiare per sposare il suo amato. Riflettendo sulla relazione con Tonino, la giovane donna, come tanti protagonisti teatrali del Settecento che abbiamo incontrato, guardando se stessa trovava il roussioano “sentimento dell’esistenza”, comprendeva il valore di una scelta affettiva condivisa che poteva condurla alla “felicità”465. Quella scelta d’amore non doveva trovare alcun riconoscimento esterno, si giustificava in se stessa, nella libera e consapevole promessa dei due giovani. Giulietta scopriva, così, che non esistevano leggi immutabili a cui Ibidem. Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7. 461 P. Themelly, Il teatro di Antonio Simone Sografi, cit. 462 in Verter. Commedia inedita del signor Antonio Simon Sografi. In Venezia, 1800. Con Privilegio. 463Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7. 464 Virgilio, Bucoliche X, 69. Natalie, drame en quatre actes, par M. Mercier, Chez J. Mossy, Imprimeur du Roi, de la Marine e Libraire au Parc, 1777, Atto I, 1. 465 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7. 459 460 106 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 bisognava uniformarsi. I sentimenti, nei quali tutti potevano riconoscersi divenivano nella commedia i principi per scrivere nuove norme capaci di garantire finalmente l’individuo466. I privati “moti del cuore” acquistavano un significato politico, tutto sembrava essere in sommovimento, suscettibile di trasformazione. L’arrivo dei francesi, in conclusione della farsa, trasformava le speranze e i desideri in possibili diritti ormai riconosciuti dallo stato. Anche il “matrimonio scombinato” poteva realizzarsi. Nel nuovo clima persino il conte di Pietradura invitava i due giovani a “alzarsi, unirsi e maritarsi”. Pur tra gli evviva a Bonaparte e ai franchi eroi la mésalliance questa volta era finalmente consumata467. Ivi, Atto I, 12. Ibidem. A Venezia sino alla fine della antica Repubblica sopravviveva, in alcuni nuclei del patriziato la fraterna, un antico modello di organizzazione domestica che accoglieva nella stessa casa, e in comunione di beni, tutti i fratelli maschi tra i quali uno solo si sarebbe sposato per mantenere indiviso il patrimonio. Persisteva dunque un modello familiare costruito esclusivamente sugli interessi del gruppo. Un ménage che rifiutava ogni parvenza di autonomia individuale e di vita privata. Il matrimonio democratico con i suoi richiami all’affettività coniugale, ai diritti dell’individuo, all’ideale meritocratico, colpiva indirettamente anche quell’universo. Vedi V. Hunecke, Il patriziato veneziano, cit. 466 467 107 P. Themelly, Amor supera Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Nostalgia per l'URSS. Politica e mass media di Emiliano Liutina Marroni Dal 1991, data della fine dell’Unione Sovietica, la Russia sta vivendo una riscoperta del periodo tardosovietico dai tratti fortemente nostalgici che, per la sua complessità e profondità, sfugge alla normale concezione di nostalgia. Essa non è solo una risposta difensiva a una situazione di cambiamento radicale, ma presenta alla base dei presupposti culturali complessi che corrispondono al bisogno di creare un nuovo modello di autopercezione strettamente necessario a una società che non è più portatrice di q u e l messaggio economico, sociale e politico, c h e a v e v a a s s u n t o p o r t a t a u n i v e r s a l e , ma è post-ideologica e frammentata. L a no s tal gia, ch e ab br ac ci a tanto l’ultima generazione sovietica quanto la prima postsovietica, ha trovato il suo medium nella televisione che si è imposta come l’unica voce sul passato recente a discapito dei saperi ufficiali della memoria, in primis la storia. Essa ha avuto origine nell'abbattimento improvviso delle barriere fra Est e Ovest e nel conseguente confronto-scontro tra due culture e stili di vita totalmente diversi ed ha coinvolto tanto i cittadini quanto le istituzioni politiche s e p p u r e con esiti differenti e a volte opposti. F i n d a u n p r i m o e s a m e , l a n o s t a l g i a r i s u l t a composta da due entità separate, quella politica e quella dell’uomo della strada, figlie dello stesso processo, con simboli in comune, ma con racconti finali diversi. Quanto fin qui detto permette d i chiarire meglio tutti gli aspetti del “ rivolgersi al passato”, che nella realtà quotidiana non è facile individuare, considerando che le due nostalgie confluiscono, in un gioco senza fine, l'una dentro l'altra riplasmandosi continuamente. Pertanto per capire l'utilizzo che gli attori sociali hanno fatto dei simboli da loro presi in considerazione è necessario rifarsi alla distinzione 108 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 che fa Svetlana Boym sulle elaborazioni nostalgiche1, p e r p o i inquadrare n e l l a nostalgia restauratrice quella prodotta dall'alto, ossia dalle istituzioni politiche e nella nostalgia riflessiva l'elaborazione creata dal basso, ossia dal popolo. Russo. 1 . L a n ostalgia restauratrice La nostalgia restauratrice presenta due caratteristiche di base, ossia l'incapacità e la riabilitazione. Con il primo termine si v u o l e i n t e n d e r e l'impossibilità della classe dirigente di riconoscere il fallimento politico e morale del regime sovietico; con riabilitazione si indica l'ufficialità culturale che assume questa restaurazione, identificabile attraverso un insieme di pratiche rituali e simboliche che propongono una vita sociale caratterizzata da una struttura immobile, quindi immutabile. Si pone l'accento sul nostos (il ritorno) e pertanto s i cerca di ripristinare la dimora perduta, ma soprattutto v e n g o n o colmati, attraverso la sua ufficialità culturale, i vuoti di memoria tipici della nostalgia riflessiva. Si occupa sia della dimensione temporale, sia della dimensione spaziale. La prima viene compensata dalla fruibilità dell'oggetto in questione, la seconda mediante una proposta: il ritorno collettivo alla patria ideale. La politica di Putin incarna esattamente tutto ciò: nel tentativo di ricostruire l'equilibrio mondiale andato perduto con la dissoluzione dell'URSS, e g l i ha avvertito la necessità di instaurare un rigido potere presidenziale definendo come fisiologico il bisogno dei russi di un potere statale fortemente centralizzato. Non potendo fare affidamento sugli uomini di Eltsin, Putin ha reclutato il personale direttamente dal FSB2, dando luogo a un apparato amministrativo molto simile a quello sovietico: forte, ma lento e incapace di affrontare i cambiamenti. Di conseguenza il ceto burocratico, che sotto Eltsin si stava separando dal potere politico, ha ripreso il suo ruolo, riproponendo la formula tipica dei paesi che non sono Stati di diritto: lo stato si sottrae all'intervento dei partiti e si pone al di sopra dei cittadini, i quali vengono di fatto esclusi dall'esperienza politica attiva. Al vertice si trova il leader e immediatamente sotto la burocrazia che agisce in suo nome e lo sostiene. Il potere che si è instaurato con Putin offre pochi principi ideologici e questi non prevedono un orientamento politico diverso da quello già sperimentato e nemmeno uno sviluppo sociale di tipo occidentale. Paradossalmente il boom energetico degli anni Duemila ha impedito, anziché provocare, un processo riformistico: la maggioranza dei russi sembrerebbero essersi accontentati del relativo benessere materiale, Svetlana Boym, The future of nostalgia, New York, Basic Boocks, 2001. I Servizi Federali per la Sicurezza della Federazione russa, erede del ben più noto KGB. 1 2 109 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 demandando ad altri l'amministrazione della cosa pubblica. La Russia sta riaffrontando un vecchio esperimento: modernizzarsi senza libertà politiche, n é redistribuzione di potere e di ricchezze. Procedendo con ordine, la restaurazione putiniana si è focalizzata innanzitutto sul ripristino del potere centrale nello spazio della Federazione. Non poteva essere altrimenti: la politica di Eltsin aveva sulle prime garantito stabilità, ma al tempo stesso aveva creato i presupposti per la trasformazione dello stato russo in una unione confederativa3. Putin ha ribadito la superiorità della Costituzione sui trattati stipulati tra 1994 e 1996 tra centro e periferia, riducendone il ruolo prima a meri strumenti di integrazione e di attuazione del dettato costituzionale, poi svuotandoli di significato. Parallelamente i poteri del Consiglio della Federazione così come l'eleggibilità dei governatori sono stati inglobati nella figura presidenziale. Concentrato tutto il potere nelle mani del Presidente, sono di fatto scomparse le contraddizioni tra gli atti normativi emanati dalla Federazione e quelli delle regioni. Lo scenario politico è stato reso stabile dal grande attivismo di Putin ed è quindi scomparso anche il continuo scontro tra Presidente e Duma. Favorendo gli elementi di accentramento, il Presidente della Federazione di Russia è divenuto di fatto il garante dell'integrità e dell'unità del territorio dello stato russo, un simbolo intorno a cui è possibile riconoscersi. Accanto alla centralizzazione politica è avvenuta quella e c o n o m i c a e finanziaria con il ritorno delle attività economiche più importanti del paese nelle mani del potere favorito dalla presenza di un business privato già altamente centralizzato e guidato dall'alto. Un processo questo avvenuto in tempi non sospetti e in maniera piuttosto plateale: con l'ascesa di Putin al potere sono stati messi in discussione i grandi privilegi degli oligarchi, ossia il ristretto gruppo di industriali e bancari cresciuti sotto Eltsin, che controllavano ampi settori economici ed energetici del paese4. L'intento di Putin è stato L'ampio ricorso allo strumento dei trattati bilaterali da parte di Eltsin aveva indebolito il potere centrale e aumentato l'autonomia delle periferie, erodendo lo stato russo in quanto federazione costituzionale 4 Si ricorda brevemente che la prima fase della privatizzazione si era avviata in Russia già prima del crollo dell'URSS, a partire dal 1987 e a vantaggio della nomenklatura sovietica. Tra 1987 e 1991 una serie di leggi avevano abolito il monopolio statale del commercio estero e consentito la nascita di piccole imprese, quali cooperative e joint- venture con imprenditori esteri. Contemporaneamente si era avviato il processo di decentramento della gestione dell'economia, attraverso la creazione di società miste e spesso con partner stranieri, con la trasformazione dei ministeri settoriali in grandi gruppi industriali e delle banche di stato in banche commerciali. Fondamentalmente i problemi che ostacolavano una rapida privatizzazione erano due: il primo era che la popolazione non disponeva di denaro, l'altro, di natura tutta politica, era che vendere un grande numero di imprese agli stranieri 3 110 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 quello di rinazionalizzare il comparto industriale ed energetico e di limitare l'influenza politica dei nuovi capitalisti. Cavalcando il malcontento popolare generato dalla ostentazione di improvvise fortune è stato avviato un processo d i c o n t r o l l o che ha visto gli organi giudiziari i m p e g n a t i ad accertare le violazioni avvenute nel corso delle privatizzazioni degli anni Novanta. Laddove i p r o c e d i m e n t i non hanno p o r t a t o a r i s u l t a t i , è stata comunque richiesta obbedienza assoluta a l Presidente della Federazione. In tal senso il caso di Khodorkovskij appare esemplare: questo imprenditore che, nel 1995, approfittando del caos economico e politico russo, aveva acquistato per 309milioni di dollari la compagnia petrolifera statale Yukos attraverso i proventi della Menatep (una delle prime banche private russe da lui fondata nel 1990), nel 2003 si è trovato in seri problemi con lo stato dovuti al fallito tentativo di fusione tra la sua compagnia e la Sibneft, allora di proprietà di Boris Berezovskij e Roman Abramovich, che avrebbe dovuto dar vita alla quarta compagnia petrolifera del mondo. Da quel momento i buoni rapporti con Vladimir Putin andarono rapidamente raffreddandosi, per poi peggiorare definitivamente quando quest'ultimo scoprì che Khodorkovskij aveva elargito ingenti finanziamenti ai partiti d’opposizione. Putin mise in moto l'apparato giudiziario contro l'oligarca e la sua azienda, facendolo arrestare il 25 ottobre 2003 all'aeroporto di Novosibirsk (Siberia), con le accuse di evasione fiscale, frode e peculato. Condannato a nove anni di carcere duro da scontare in una non meglio precisata prigione siberiana, Khodorkovskij ha visto fallire la sua società: le sue attività sono state vendute a prezzi molto al di sotto di quelli di mercato alla compagnia petrolifera statale Rosneft, guidata da Igor Sechin, un fedele di Putin ed ex funzionario dei servizi segreti. Successivamente, a seguito di un’accusa di appropriazione indebita, la carcerazione è stata prolungata fino al 2014, salvo poi essere annullata per grazia il 20 dicembre 2013. Per la Russia postcomunista il caso Khodorkovskij è stato uno spartiacque era insostenibile. In questa fase la proprietà di stato venne trasformata in proprietà burocratico-corporativa, tutta appannaggio della nomenklatura come già detto, la quale è stata avvantaggiata da ulteriori benefici, come crediti straordinari, rapporti di cambio agevolati nelle transazioni valutarie con l'estero e così via. La maggior parte dei guadagni venivano depositati presso le banche occidentali e riutilizzati per acquistare prodotti occidentali da rivendere poi in Russia. Le riforme e la decisione di privatizzare la proprietà statale mediante vouchers senza nominativo, assieme all'inflazione galoppante e la poca chiarezza delle operazioni, hanno dato la possibilità a coloro che possedevano un capitale iniziale di prendere in mano la situazione. Gradualmente i primi proprietari furono sostituiti da giovani laureati, più preparati e per questo in grado di condurre le imprese al successo. Questi, sfruttando il rincaro del greggio e di altre risorse energetiche si arricchirono enormemente, da allora furono conosciuti in Russia e all'estero con il nome di oligarchi. 111 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 più che un semplice processo: ha fatto capire che la legge può essere “ manovrata” per assecondare gli interessi del potere. Tutte le attese riposte nel cambiamento, soprattutto la speranza che il rispetto dei diritti di proprietà e l'etica degli affari potessero mettere radici in Russia, sono sfumate n e l m o m e n t o i n c u i Putin ha autorizzato l'esproprio illegale della Yukos, consegnandola agli uomini del suo entourage. Dalla Yukos in poi tutte le principali aziende facenti parte del settore energetico sono tornate, direttamente o indirettamente, sotto il controllo dello stato realizzando una stretta unione tra l'interesse nazionale e quello aziendale, a l p u n t o che il mercato russo ha ormai una valenza geopolitica, specie nei confronti dell'”estero vicino”. Su questo spazio occupato dalle ex Repubbliche sovietiche la Russia è tornata a concentrare la propria attenzione dopo un momento di riflessione dovuto a due diversi fattori: il primo era legato alla preoccupazioni che questi Stati economicamente meno sviluppati della Federazione potessero costituire una potenziale zavorra che a v r e b b e continuato a parassitare sullo sviluppo russo ritardandolo. Il secondo partiva dalla constatazione che, fatta eccezione per il terzetto baltico, gli stati postsovietici in generale non a v e v a n o dimostrato entusiasmo per l'adozione di rapidi ritmi di conversione al mercato e alla proprietà privata. Il processo di democratizzazione aveva avuto piuttosto la tendenza a essere assai più lento e impacciato che in Russia, con una permanenza significativa di personalità di governo, mentalità, strutture e pratiche politiche ereditate dal vecchio regime. Un'associazione troppo stretta con queste Repubbliche ex consorelle, dai governi spesso autoritari e dalle istituzioni politicamente dubbie, avrebbe potuto comportare un danno di immagine per una Russia che stava lentamente ricostruendo la propria posizione geopolitica. Almeno inizialmente l'atteggiamento in politica estera si è rivelato indifferente alla cura degli interessi postimperiali nell'area ex sovietica, soprattutto nella convinzione che il trionfo della democrazia e del libero mercato avrebbe reso anacronistiche le tradizionali contrapposizioni di ordine geopolitico, favorendo la nascita di un nuovo ordine internazionale, basato sulla cooperazione e l'integrazione. Questo anche in virtù dei buoni rapporti che negli anni Novanta si erano creati con gli Stati Uniti, basati sui criteri dell'”atlantismo”. Tuttavia, all'inizio del nuovo secolo, l'impulsivo e genuino entusiasmo reciproco che aveva caratterizzato per circa un decennio le relazioni russo-americane si era esaurito. In Russia, ha lasciato il posto a un atteggiamento realistico e pragmatico: la politica estera russa ha cominciato a dirsi ispirata al criterio del “multivettorialismo”, ossia a rapporti pregiudizialmente preferenziali, o discriminatori, nei confronti di ogni paese; libertà di azione diplomatica su tutti gli scacchieri, tecnicamente 112 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 limitata solo dalle norme del diritto internazionale. Tali presupposti hanno portato a una rinnovata attenzione all'”estero più vicino”, divenuto la nuova priorità della politica internazionale russa. L'influenza russa nello spazio ex sovietico è stata resa possibile, nella maggior parte dei casi, dalla capacità di Mosca di trarre vantaggio dal separatismo e dai conflitti etnici che travagliano i nuovi stati. Forzati a pagare il debito contratto nei confronti della Russia, hanno ceduto alle industrie pubbliche e alle imprese private (spinte da Putin a investire nell'«estero vicino») beni in enorme quantità, diritti di transito, sfruttamento di aree ricchi di giacimenti e la cessione di ampie quote di proprietà riguardanti gasdotti e oleodotti. A partire dal 2008, la politica estera russa si è fatta apertamente aggressiva. Sono le vicende nel Caucaso e in Ucraina a fornire un'idea chiara del potere di Mosca nello spazio ex-sovietico. La Russia ormai amministra quasi direttamente le sorti di tutte gli Stati sorti dopo il crollo dell'URSS, compresa la loro politica estera. Le operazioni in Ucraina e Caucaso, che possono anche essere definite col nome di neocolonizzazione di un t e r r i t o r i o g i à s o v i e t i c o , perseguono il disegno di suddividere in maniera funzionale lo spazio occupato dalle ex Repubbliche d e l l ’ U n i o n e , renderlo malleabile e controllabile, col fine ultimo di creare un unico centro di potere, quello di Mosca. Persino l'organizzazione delle Olimpiadi invernali a Soči può considerarsi un segno di questa politica. Il regime della “burocrazia sovrana” come lo ha definito Vladislav Zubok5, al momento ha ripreso il suo posto. 2. I mass media, la legge sugli “agenti stranieri” e “Sputnik” Appena assunto l'incarico da Presidente della Federazione, Putin si è mosso subito contro i mezzi di informazione, utilizzando s t r u m e n t i legali ed economici per tenerli sotto controllo e per chiudere giornali e tv considerate ostili, o poco inclini alla collaborazione, sebbene l'art. 29 della Costituzione garantisca chiaramente la libertà di espressione: Ognuno ha il diritto di ricercare, ottenere, raccontare, produrre o divulgare informazioni utilizzando tutti i mezzi legali a sua disposizione. Le restrizioni alla libertà d’informazione sono determinate dalla legge federale6. Tuttavia alcune associazioni come Transparency International-Russia hanno denunciato la mancanza di un vero accesso pubblico alle informazioni, che di fatto non è garantito da alcun meccanismo effettivo, Vladislav Zubok, L’idea di Occidente in Russia da Stalin a Medvedev, in Da Lenin a Putin e oltre. La Russia tra passato e presente, a cura di Vittorio Strada, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 98-105. 6 Caterina Filippini, Dall'Impero russo alla Repubblica russa, elementi di continuità e di rottura nell'evoluzione dei rapporti centro-periferia, Milano, Giuffrè Editore, 2004. 5 113 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 rendendo di difficile applicazione quanto previsto dal dettato costituzionale. La politica governativa sembra non essere interessata a garantire il diritto accedere alle informazioni da parte dei cittadini; celebre in proposito è stata la risposta data da Putin a un giornalista che lo accusava di limitare la libertà di stampa: In Russia non abbiamo mai avuto la libertà di parola, quindi non capisco cosa si possa soffocare oggi. La libertà è la possibilità di esprimere le proprie opinioni, ma entro i limiti previsti dalla legge7. L'unico ambito in cui la legislazione russa viene rigorosamente “rispettata” è quello relativo all'elenco completo delle informazioni coperte dal segreto di stato e di quelle d i carattere confidenziale. Per quanto riguarda il primo ambito, la legge federale sul segreto di stato identifica quattro grandi ambiti: il settore militare, l’economia, la scienza e la tecnologia, la politica estera, con particolare riferimento a una intempestiva diffusione di informazioni che possano mettere a rischio la sicurezza d e l l o s tato, l'intelligence e le indagini sulle attività criminali8. Con il governo di Vladimir Putin è iniziato quello che appare un graduale aumento del controllo dei mezzi di comunicazione da parte del Cremlino: il governo ha inaugurato una nuova forma di controllo alternativo a quello diretto, ossia un controllo esercitato tramite società di proprietà dello stato. La prima battaglia è stata sferrata contro il canale televisivo NTV: nel 2001 l'emittente privata NTV, dopo un servizio i n c u i v e n i va n o espressi giudizi critici sulla guerra in Cecenia, è stata sottratta ai suoi legittimi proprietari e data in gestione a persone gravitanti attorno al Cremlino. In seguito anche i canali TV-6 e TVS sono passate sotto il controllo diretto di Gazprom. Stessa sorte è toccata alle radio: durante la guerra in Georgia, la radio Eco di Mosca, fondata nel 1990 da un gruppo indipendente di giornalisti (oggi al 66% di proprietà della Gazprom), ha trasmesso dei reportage equilibrati all'interno di un programma intitolato Con i loro occhi. Gli ospiti in studio appartenevano a ogni orientamento politico, ma nonostante la garanzia data dalla pluralità, le opinioni espresse non sono risultate benaccette al potere centrale, tant'è che il 29 agosto 2008 Putin ha deciso di convocare i trentanove dirigenti dei principali mezzi di informazione russi David Remnick, Una voce contro Putin, «Internazionale», n. 780, 2009, p. 29. Per quanto riguarda il secondo aspetto, è stato il presidente Boris Yeltsin a firmare il Decreto presidenziale sull’approvazione della lista delle informazioni di carattere confidenziale, elencando le informazioni relative ai procedimenti legali, quelle coperte da segreto ufficiale e commerciale secondo il Codice civile, le informazioni sulle invenzioni e il know-how (soprattutto per evitare una diffusione all’estero) e le informazioni coperte da segreto medico, notarile, postale, oltre che alle conversazioni telefoniche. 7 8 114 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 nella sua residenza estiva a Soči. Nel corso dell’incontro dopo aver mostrato le trascrizioni del programma radiofonico e criticato aspramente l'operato di Aleksej Venediktov, direttore di «Eco di Mosca», ha impostato la copertura giornalistica del conflitto, a f f e r m a n d o così, nel caso ce ne fosse stato ancora bisogno, di poter fare con i mezzi di informazione quel che vuole. È ormai regola che ogni settimana i direttori dei canali nazionali vengano convocati al Cremlino per stabilire la linea editoriale; che dibattiti e interviste in diretta non esistano più; che gli ospiti d e i talk show vengano accuratamente selezionati, eliminando quelli p o c o graditi. Nonostante ciò siti web, giornalistici indipendenti esistono ancora, ma hanno un raggio d’azione limitato tale da non “infastidire” Putin. La già difficile situazione della libertà di stampa in Russia è resa ben peggiore dai numerosi attacchi subiti dai giornalisti negli ultimi anni e r e s a a n c o r p i ù grave dall’impunità dei colpevoli, legata al fenomeno della corruzione sistemica negli apparati di potere, nella polizia e nel sistema giudiziario russo. In riferimento ai recenti attacchi contro i giornalisti russi, il direttore esecutivo di Freedom House, David J. Kramer, ha affermato che: tale metodo di violenza contro i giornalisti si perpetua ormai da lungo tempo, incoraggiato dalla totale mancanza di responsabilità di consegnare i colpevoli alla giustizia [...] nel contesto attuale il cambiamento è improbabile e la Russia continuerà ad essere uno dei paesi al mondo più pericoloso per i giornalisti. 9 Dal 1999 ad oggi, ossia durante le amministrazioni di Putin e Medvedev, ventiquattro giornalisti sono stati uccisi in Russia (di cui tre nel solo 2009), la maggior parte dei quali si occupava di questioni come la criminalità organizzata o la corruzione degli apparati statali. Emblematico è il caso della giornalista Anna Politkovskaja, conosciuta a livello internazionale per i suoi reportage sulla Cecenia nei quali denunciava la dilagante corruzione, gli abusi e non nascondeva la sua profonda avversione al presidente russo Putin e alla sua gestione del conflitto. Le indagini seguite alla sua uccisione confermano la connivenza del sistema investigativo e l’ “ assenza” di quello giudiziario russo10. Marcus Ackeret, Un test importante per la giustizia russa, «Internazionale», n. 803, 2009, p. 30. 10 Nell’autunno 2008 è iniziato il processo contro i due giovani ceceni indagati per l’omicidio, ma pochi mesi dopo sono stati assolti per insufficienza di prove. Il caso è stato poi riaperto della Corte Suprema russa nel 2009 e solo nel 2011 uno dei due è stato nuovamente arrestato. Contestualmente sono state notificate delle accuse al criminale ceceno Lom-Ali Gajtukaev e ad altre persone che sembrano essere coinvolte nell’omicidio della reporter. Purtroppo però, a sei anni di distanza dalla morte della giornalista dalla penna tagliente, il caso non è stato ancora chiuso. Il processo, che dovrebbe terminare con l’arresto degli assassini e degli ideatori dell’efferato crimine perpetrato contro la Politkovskaja, pare essere 9 115 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Stessa sorte è toccata alle ONG, tutte duramente osteggiate dal potere politico specie quelle che lavorano nel settore dei diritti civili. Queste, non potendo essere semplicemente acquisite, stanno subendo l'ultima fase della violenta campagna scatenata da Putin contro la società civile russa. Secondo la legge detta degli «agenti stranieri» approvata all'unanimità dalla Duma, su iniziativa del partito Russia unita, il partito del presidente, ed entrata in vigore nel novembre 2012, tutte le associazioni attive n e l campo dei diritti umani hanno l'obbligo di iscriversi in apposito registro. Una misura presa apparentemente in reazione all'ondata di proteste contro le frodi elettorali avvenute nella primavera dello stesso anno, ma che nei fatti sottopone a sorveglianza speciale il lavoro delle ONG, soprattutto quelle operanti nel Caucaso. Basta poco perché queste organizzazioni siano definite associazioni politiche: è sufficiente l ’ a c c u s a d i influenzare l'opinione pubblica. Messi a tacere sia il giornalismo, sia le ONG, Putin e i suoi oligarchi hanno lanciato nel novembre 2014 “Sputnik”, una piattaforma mediatica di portata mondiale, indicata come una voce alternativa a quella occidentale, con il compito di raccontare “quello che gli altri non dicono”. La scelta del nome non è casuale: “Sputnik” era il nome di una rivista dell'epoca sovietica che si rivolgeva al pubblico sovietico come a quello occidentale, sulle cui pagine trovavano spazio articoli riguardanti ogni aspetto della vita politica, sociale e culturale dell'URSS, correlati da foto e illustrazioni. Ampio spazio veniva r i s e r v a to alla pluralità etnica e alla diversità del territorio sovietico. Rifacendosi almeno nominalmente al suo predecessore, l'odierna “ Sputnik” sfrutta sia le potenzialità di internet che quelle radiofoniche, potendo contare su un budget annuale stimato in cinquecento milioni di dollari, una cifra considerevole, considerando anche il periodo di crisi economica legato alle sanzioni. Ufficialmente si propone di presentare un mondo multipolare, dove ogni parte del paese ha cultura e lingua proprie tanto che notiziari e reportage sono trasmessi ventiquattro ore su ventiquattro in una ventina di lingue differenti. In realtà gli scopi sono diversi: all’estero “Sputnik” serve a rilanciare intelligentemente l'immagine della Russia nel mondo scalfita dalla guerra in Ucraina. Intelligentemente perché la Russia, attraverso “Sputnik”, chiede semplicemente di essere ascoltata, non impone nulla con la forza. In secondo luogo essa bilancia lo strapotere dei mass media occidentali pubblicando servizi criticamente solidi, offrendo al mondo un’opinione diversa e potenzialmente valida. In politica interna “Sputnik” si è imposta come fonte senza fine. Sembra che non ci sia la volontà, da parte dei giudici così come della politica, di trovare i colpevoli e condannarli definitivamente. La lentezza dell’inchiesta e del processo sulla morte della Politkovskaja non rappresenta un caso isolato nel panorama russo, così come non lo è l’omicidio di altri reporter. 116 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 giornalistica unica, divenendo una forma di controllo sulle opinioni e decretando ufficialmente la fine del giornalismo indipendente. 3. Storia riabilitante e damnatio memoriae L'organizzazione del consenso, come è noto, non passa solo attraverso il controllo e l'orientamento dei mass media, ma anche attraverso varie forme di assoggettamento dei saperi al volere del potere centrale. Appare particolarmente opportuno analizzare, per la sua portata, il processo di mistificazione della storia, poiché è qui che la volontà restauratrice assume i suoi connotati più inquietanti. È questo infatti è il progetto più ambizioso perseguito da Putin in tutti i suoi anni di presidenza: fornire ai russi la stesura finale e definitiva della loro storia, mediante ottanta pagine di linee guida che, dopo un’approvazione al vertice, saranno affidate a un team di storici per diventare il manuale di storia unico per tutte le scuole russe, cancellando in un solo colpo il pluralismo dell'insegnamento storico. Va precisato che questo disegno di cristallizzazione della storia si inserisce in realtà all'interno di un processo interrotto: con il crollo dell'Unione Sovietica, i russi hanno finalmente avuto la possibilità di scoprire il loro passato, u n p a s s a t o a l u n g o nascosto; m a le difficoltà e c o n o m i c h e degli anni Novanta li hanno distolti da questo processo appena avviato, lasciandolo in sospeso. Ed è appunto qui che inizia il processo di statalizzazione della storia voluto da Putin, come ha sinteticamente spiegato lo storico Alexei Miller: Putin ha riconciliato l'eredità comune, adottando al tempo stesso la bandiera russa e un inno nazionale ripreso da quello sovietico. Poi ha costruito la storia sovietica, priva della retorica comunista ma anche di critiche sullo stalinismo e incentrata sulla Grande Guerra Patriottica e sulla vittoria sovietica sul nazismo. 11 Putin è stato q u i n d i abile a inserirsi in u n processo storico tipico di tutte le società disorientate quale la riscoperta del passato in momenti di crisi, m a l o h a piegato alle proprie esigenze, ponendo così fine alla storiografia indipendente russa, entrata di recente a far parte della storiografia mondiale. Progetto che paradossalmente sarà facilitato dal processo parallelo della mitizzazione del passato sovietico che avviene dal basso, il quale rigetta la ricerca storiografica non mitologizzata (e quindi quella indipendente). La Rivoluzione d'ottobre è stata ribattezzata Grande Rivoluzione russa del 1917, includendo quindi anche la precedente rivoluzione borghese che abbatté il regime dei Romanov e che venne repressa poi da Lenin, mentre sotto la voce di variante sovietica di modernizzazione verranno incluse, a quanto pare, 11 Sylvie Kauffman, Letargo russo, «Internazionale», n. 925, 2011, p. 60. 117 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 l'industrializzazione, la vittoria sul nazismo, le carestie e le repressioni, anche se non è difficile ipotizzare l'arbitrarietà con cui verranno affrontati questi argomenti, soprattutto gli ultimi due. Non è ancora chiaro di quanto e di come si parlerà del sistema penale dei campi di lavoro forzato, altrimenti noto come Gulag12. Il silenzio assoluto è ovviamente impossibile, ma è facile immaginarne una versione fuorviante nonostante l’impatto storico-culturale di un sistema penale durato quasi s e t t a n t a anni che ha coinvolto milioni di persone13. Questo è l'unico caso in cui la mistificazione della storia è stata voluta tanto dall'alto, quanto dal basso. Tragicamente Putin non è stato il solo a voler oscurare definitivamente uno dei capitoli più oscuri della storia russa: indirettamente anche il popolo lo ha aiutato non assumendosi la responsabilità di aver tollerato questa forma della violenza di stato, anzi osteggiando apertamente il processo di conservazione della memoria storica, minando alla base la formazione di una vera coscienza nazionale. Nel manuale ufficiale il primo conflitto russo-ceceno non troverà spazio alcuno, mentre verrà posta l'enfasi sul secondo. Ben altra sorte toccherà poi agli oligarchi o alle proteste di piazza seguite ai presunti brogli elettorali. Per loro Putin ha riservato un trattamento antico e terribile allo stesso tempo: la damnatio memoriae14, ossia la cancellazione dalla memoria collettiva. Di Berezovsky, Khodorkovsky, dei movimenti di piazza non ci sarà semplicemente traccia nel manuale unico. 4. Il Nostos. i simboli del ritorno Data la sua natura è chiaro che, ponendo l'accento sul nostos, sul ritorno, la nostalgia restauratrice cerchi di ripristinare la dimora perduta e soprattutto colmare i vuoti di memoria, tipici della nostalgia riflessiva. La politica di Putin ha riportato in auge vecchi simboli sovietici, primo fra tutti il culto della GULag, acronimo di Glavnoe upravlenie lagerej (Direzione centrale dei lager). 13 Anche qui Putin non ha fatto altro che sfruttare il suo enorme potere e mettere a tacere l'Associazione Memorial, l'unica che si occupava di quanti erano stati privati dei loro diritti specie per motivi politici e aiutava i familiare a rintracciare i parenti scomparsi. Il progetto Museo virtuale del Gulag, sorto con l'intento di riunire tutte le inchieste e i documenti sui campi di concentramento sovietici che giungevano da tutte le repubbliche dell'ex URSS, è stato duramente ostacolato e censurato dalle autorità pubbliche, fino al triste epilogo avvenuto a dicembre 2008, quando le forze di polizia, su ordine prefettizio, hanno perquisito la sede dell'associazione sita a San Pietroburgo, sequestrando un numero non precisato di documenti cartacei, diari, tutti i dischi rigidi, nonché oltre 10.000 foto. Infine nel novembre del 2012 anche Memorial è stata costretta a registrarsi come organizzazione non governativa straniera, nonostante l'evidente scopo di far chiarezza su una pagina dolorosa della storia nazionale. 14 Letteralmente “condanna della memoria”. 12 118 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 personalità, rivolto ovviamente a se stesso. La seconda guerra cecena è stata importante in questo senso: il conseguimento della vittoria ha permesso al Presidente il raggiungimento di due importanti obiettivi: ricompattare il popolo russo e ridare lustro alla figura del presidente della Federazione totalmente screditata dal suo predecessore Boris Eltsin. Con lo scopo di rinsaldare l'eredità comune tra popolo e istituzioni, ha abilmente recuperato due simboli legati alla cosmogonia sovietica: l'inno sovietico e la Grande guerra patriottica. Per quanto riguarda l'inno, poiché non si riusciva a trovare un nuovo testo adatto al Canto patriottico (Patriotičeskaja pesnja) adottato nel 1991, si decise di utilizzare quello scritto da Sergej Vladimirovič Michalkov adattandolo al nuovo contesto socio-politico. A pprovato l'8 dicembre del 2000 mostra tre sostanziali differenze rispetto al precedente: l 'unione indivisibile delle repubbliche è stata sostituita dall'unione eterna dei popoli; i riferimenti a Lenin e al comunismo sono stati eliminati per far posto a quelli a Dio e alla religione; il testo attuale riprende maggiormente il passato, là dove l’originale a p p a r i v a proiettato verso futuro. Per quanto riguarda la Grande guerra patriottica, la sua riscoperta è stata innanzitutto resa possibile dal mancato processo al Partito comunista, dovuto all'incapacità degli accusatori di porsi su un s u p e r i o r e piano intellettuale che permettesse loro di criticare lo stalinismo, e poi favorita dalla delusione dei cittadini russi nei confronti del nuovo corso politico. Ha osservato Leonid Gudkov: Più ci si rendeva conto che la democrazia non era la sperata bacchetta magica che avrebbe portato automaticamente al benessere, e si diffondeva la nostalgia per il passato, la stabilità e la tranquillità dei tempi d'oro dell'era brezhneviana, e più la coscienza popolare tornava alle immagini abituali inculcate per decenni dall'apparato sovietico d'indottrinamento e e di propaganda […] Cercando di rafforzare la legittimità dell'emergente regime totalitario, il gruppo dirigente posteltsiniano ha colto questa disponibilità popolare a tornare alle vecchie interpretazioni del passato e l'ha sfruttata pienamente […] Il regime di Putin non poteva ignorare la forza e l'importanza del sentimento nazionale come fonte di legittimazione […] La Grande guerra patriottica e la vittoria tornano ad essere, per la grande maggioranza dei russi , il più importante elemento di identificazione collettiva, la misura e il criterio che fornisce una prospettiva di valutazione del passato e in parte una comprensione del presente e del futuro, un'organizzazione del tempo storico nella coscienza collettiva. 15 Putin ha anche sfruttato la mancanza di volontà della società russa di indagare sul proprio passato, di mettere in discussione l'operato del Partito comunista: come già ribadito precedentemente, il caos politico ed economico ha rapidamente distolto i russi dallo studio della loro storia, così la vittoria è Leonid Gudkov, Victor Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 148-154. 15 119 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 tornata ad essere una sorta di proprietà privata nazionale, il simbolo cardine del nuovo nazionalismo russo e dell'incontestabile autorità statale. Con una precisazione, però: sono rimaste nella nuova storia solo la memoria della guerra e della vittoria, mentre sono stati condannati all'oblio gli aspetti più oscuri dello stalinismo, primo fra tutti il terrore di massa. Un’operazione che ha portato a rivalutazioni positive dell'operato di Stalin e quindi alla ricostituzione della sua autorità e d e l l a f i g u r a dell'uomo forte al comando. Paradossalmente Putin, che propugna questo ritorno, non si considera un nostalgico; anzi si dice pienamente convinto che il suo progetto sia possibile attraverso il recupero di simboli e di miti nazionali. Il regime autoritario da lui inst aur ato ha già favorito la rinascita di alcune istituzioni del vecchio sistema sovietico: la polizia segreta, un esercito guidato da un massiccio corpo di generali, un solido complesso militare-industriale. Quindi se la nostalgia è il dolore per la distanza temporale e l'allontanamento spaziale, la nostalgia restauratrice di Putin si occupa di colmare sia la distanza temporale, sia la distanza spaziale. La distanza temporale viene compensata dall'esperienza intima e dalla fruibilità dell'oggetto in questione, mentre la distanza spaziale viene compensata con un proposta: il ritorno collettivo nella patria ideale. Andando al di là delle incongruenze storiche, il portavoce di questa nostalgia presenta il periodo sovietico come la strada contorta verso la modernità, sfruttando abilmente la forza dell'eredità istituzionale, strutturale, psicologica e culturale del passato socialista. È a tutti gli effetti un processo di “presentificazione” del passato e dei suoi valori, ossia quel processo, in questo caso politico-culturale, per cui il passato perde la sua caratteristica fondamentale, quella di essere un’assenza e ri-diventa presente. 5. La nostalgia riflessiva Le caratteristiche di questa nostalgia vanno ricercate nella natura del termine che la qualifica, c h e a s s u m e un duplice significato: 1) indica qualcosa che concerne la riflessione, la ponderatezza. 2) indica un'azione prodotta da alcuni soggetti che si ripercuote sui soggetti stessi. Essa ha a che fare con la memoria popolare ed è figlia tanto della memoria individuale, quanto di quella collettiva. Sebbene siano due costruzioni distinte, esse si influenzano reciprocamente nell'atto di riflettere, nel senso che la memoria individuale, come ha p i ù v o l t e affermato Paul Ricoeur nei suoi scritti, è un punto di vista sulla seconda. Quindi, la memoria individuale è parte integrante della sociologia della memoria, poiché un gruppo sociale è costituito da una serie di individui che, indipendentemente 120 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 tra loro, ricordano qualcosa. A loro volta gli individui di un gruppo sono influenzati dalla comunità cui appartengono, poiché sono gli interessi e gli schemi sociali che danno luogo alla memoria collettiva. Non si ricorda tutto, ma solo una selezione di ricordi che, entrando a far parte della memoria di un gruppo, divengono extratemporali. A livello individuale il ricordo è prodotto da un processo di rimemorazione che ripresenta una porzione del passato generalmente separata dal presente da una discontinuità temporale. Non fa partire il ricordo dall'inizio, ma fornisce un'immagine generica di un evento significativo: questo processo di rimemorazione, a sua volta, dà luogo a un ricordo organizzato secondo una struttura pre-narrativa, poiché il tempo vissuto (e così l'esperienza) viene ri-costruito attraverso varie omissioni. Il ricordo primario, ossia quello basato sull'esperienza diretta, diviene secondario, cioè quello costruito. Il soggetto che ricorda non ha, ovviamente, accesso alla memoria storica, pertanto quello che ri-crea e ri-vive lo considera come verità assoluta. Tuttavia, c'è un ulteriore passaggio da affrontare: non è possibile saltare direttamente dalla memoria individuale a quella collettiva; c'è bisogno di quella connessione intermedia rappresentata dalla memoria generazionale. Infatti, quando si parla di gruppo sociale, vengono compresi al suo interno generazioni diverse, che concorrono alla ricreazione costante della memoria collettiva. Quando una serie di ricordi ed esperienze passano dall'essere individuali a generazionali, quando questi vengono trasmessi sotto forma di narrazione, dalla generazione precedente a quella successiva, ecco che si aggiunge nuova linfa alla memoria collettiva, che può essere finalmente definita come memoria nata nel gruppo e per il gruppo. Una generazione, secondo Edmunds e Turner16 è una coorte di età, che assume una significanza sociale quando si costituisce come identità culturale; è composta quindi da soggetti sociali legati tra loro da un ciclo di vita. In questa sede ha una enorme rilevanza l'esperienza dell'ultima generazione sovietica, poiché è stata quella del passaggio traumatico da un sistema socio-politico a un altro. Si può considerare come ultima generazione sovietica quella nata nei primi anni Sessanta, durante l'ultimo periodo del mandato chruščeviano (1953-1964), che va distribuita su un arco temporale lungo venticinque anni e si conclude ovviamente con la fine del mandato di Gorbačev (1991). I motivi che hanno determinato questa scelta vanno oltre il mero aspetto temporale: i fattori che definiscono formalmente tale generazione, sono da un lato la stagnazione politica, culturale e economica patita sotto Brežnev; dall'altro la produzione culturale realizzata June Edmunds, Bryan Turner, Generations, Culture and Society, Buckingham, Open University Press, 2002. 16 121 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 indipendentemente da tale generazione per se stessa, profonda dal punto di vista dei contenuti e dei significati. L'ideazione clandestina di una cultura indipendente, attraverso gli strumenti del “samizdat” e del “magnitizdat”, è più di un lascito per la generazione post-sovietica: è un grande contributo al rinnovo della memoria collettiva russa e un punto di incontro tra l'ultima generazione sovietica e la prima post-sovietica, che non ha fatto molto per distanziarsi negli atteggiamenti dal passato recente. Data la sua natura strettamente personale, la nostalgia riflessiva contempla la memoria individuale e culturale. Usa, a volte sovrapponendoli, i medesimi simboli di quella restauratrice; tuttavia essi non coincidono n é a livello narrativo n é a quello contenutistico: innescano quindi i medesimi ricordi, ma raccontano di essi storie diverse e, soprattutto, non colmano i vuoti di memoria. Se la nostalgia restauratrice gravita intorno a dei simboli collettivi selezionati con cura, quella riflessiva si orienta verso una storia individuale, che indugia sui ricordi e i segni evocativi, quindi si occupa della parte temporale, ma non di quella spaziale. La nostalgia riflessiva presenta, contemporaneamente, i meccanismi del lutto e della malinconia; del lutto riprende il processo di elaborazione della perdita, dove la realtà prende il sopravvento sul ricordo; della malinconia riprende il modello di presentazione dell'oggetto perduto. La perdita nella nostalgia riflessiva non è mai definitiva, non ha nemmeno dei contorni regolari poiché inconscia e slegata dalla realtà: i ricordi assumono sempre una forma onirica. Per questo il soggetto nostalgico-riflessivo sembra oscillare tra due decisioni, senza risolversi mai. I motivi che hanno consentito ai miti e alle consuetudini sovietiche di sopravvivere dopo il collasso dell'Unione Sovietica sono due e risalgono al comunismo stesso: il primo risiede nell'atto rivoluzionario in sé, che ha ovviamente un carattere antinostalgico; il secondo è d e t e r m i n a t o d a l f a t t o che la classe dirigente sovietica, riscrivendo la concezione di tempo, ha presentato la rivoluzione e la vittoria comunista come il culmine della storia mondiale. La nostalgia per il comunismo si spiega con un paradosso: c'è nostalgia per il periodo comunista, perché con la Rivoluzione d'ottobre scomparve dal lessico russo la parola nostalgia. Il passato, riscritto in termini legittimanti nei confronti della Rivoluzione, ha dato un carattere piuttosto pervasivo alla dottrina comunista; per questo la sua mancanza si è fatta sentire nel mondo postcomunista. Persino i riformatori liberali ne presentano i segni soprattutto quando dichiarano di ricongiungersi all'Occidente presentando il periodo sovietico come la strada per la modernità. Il punto di forza della nostalgia riflessiva e, insieme, il punto che la contraddistingue nettamente dalla restauratrice, risiede nel suo carattere evolutivo. Essa è nata, fondamentalmente, come reazione alle difficoltà materiali del primo decennio 122 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 postcomunista, durante il quale i russi subirono la disintegrazione dello stato sociale e una drastica riduzione degli standard di vita. Fu una nostalgia dovuta alla povertà, all'umiliazione in campo estero, sintetizzabile con l'espansione a Est della NATO: una nostalgia tout court. Poi, sotto Putin, questa nostalgia mutò di forma, diventando più complessa e immateriale. Quando l'economia riprese a girare, gli standard di vita crebbero, così come la vita materiale, divenendo complessivamente migliore rispetto al primo decennio post-sovietico. Ciononostante, il sentimento nostalgico non fu accantonato in un angolo della memoria, anzi si fece più intimo, più legato alla memoria dialogica, alla ri-creazione degli eventi vissuti. I motivi di questa evoluzione vanno ricercati nello scontro che si andava profilando in seno alla società, dove, al vecchio Homo Sovieticus, si stava contrapponendo l'Homo Oeconomicus, l'essere razionale che si è affermato anche in Russia, il quale ha, come unico scopo, l’interesse esclusivo per la cura dei suoi interessi individuali: la società, stimolata da una ricchezza senza precedenti, è divenuta consumistica, più cinica e spiritualmente vuota. Questa contrapposizione non solo spiega la nostalgia degli anziani, ma contribuisce a spiegare la nostalgia della generazione post-sovietica. Insomma, a favore di questa rivisitazione giocano non tanto la distanza temporale, ma i profondi mutamenti sociali. Questi ultimi hanno influenzato molto la nostalgia dei giovani che guardano al mondo scomparso dei loro genitori con rimpianto; g u a r d a n o con sincero affetto alla semplicità e all'innocenza delle loro vite, della loro società, nonostante fosse parte di sistema chiuso e basato sulla sorveglianza, a differenza di quella attuale, apparentemente aperta, ma basata sulla disuguaglianza. 6. Una nostalgia mercificata e una in evoluzione Dall'analisi della nostalgia restauratrice e riflessiva emergono due conclusioni: la prima è che il sentimento di nostalgia è stato rapidamente mercificato dalle istituzioni; la seconda che la nostalgia dal basso sta subendo un graduale processo di evoluzione. Per quanto riguarda la nostalgia mercificata, essa corrisponde senza dubbio alla nostalgia restauratrice. È una nostalgia confezionata, sovrapposta a quella riflessiva e cronologicamente posteriore a essa; ha estrapolato dal suo contesto storico i valori spirituali e culturali del comunismo trattandoli come un prodotto da vendere sugli scaffali. L'obiettivo non dichiarato di questa commercializzazione del passato è quello di ricavare del materiale politico per fare presa su un popolo che ha ancora ben presente i fatti del '91. Non è stato solo Putin ad adottare una tattica politica simile: anche se in scala ridotta, partiti come Russia g iusta o il Partito 123 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 comunista hanno fatto leva sul sentimento nostalgico dei russi specie in campagna elettorale, durante la quale il Partito comunista ha addirittura riproposto Stalin sui propri manifesti. Alla staticità della nostalgia dall'alto, si contrappone il dinamismo della nostalgia riflessiva che, come è ovvio, precede cronologicamente la prima. È una forma di nostalgia immateriale, strettamente personale; non ricorda tutto, ma nemmeno seleziona accuratamente gli eventi come fa la nostalgia restauratrice: crea i ricordi attraverso le esperienze personali e il processo di rimemorazione; si limita a riproporre il passato in maniera non storica, in maniera disinteressata, col cuore. Per questo motivo nessun nostalgico-riflessivo aspira realmente a restaurare l'URSS, ma solo a riviverne alcuni aspetti. Il collasso dell'URSS non ha comportato solo lo smantellamento del sistema di dominazione statale, ma anche di tutta l'impalcatura ideologica, di uno stile di vita. Amplificato dalla privatizzazione, dalla trasformazione massiva delle norme e convenzioni esistenti, questo collasso ha prodotto un impatto durevole sull'identità individuale e collettiva che ancora non è passato. L'abbandono delle vecchie istituzioni e l'eliminazione delle più ovvie tracce del comunismo, durante la transizione dall'economia comunista a quella capitalista, non hanno prodotto automaticamente un nuovo contesto unificante, culturale e politico, anzi la riorganizzazione della realtà sociale-morale ha trasportato i simboli sovietici nel contesto post-sovietico per sopperire all'olocausto morale, generando una riconfigurazione simbolica dell'esperienza sovietica. Questo olocausto è molto sentito, come un anonimo scrittore ha sintetizzato su Literaturnaja Gazeta»: Perché nasconderlo, la vita senza un'idea comune, senza uno sforzo comune, addirittura senza un mito comune, è squallida e a volte addirittura tormentosa. Proprio quest'assenza provoca la sensazione di essere come senza casa e orfani17. Questa riconfigurazione poggia sul fatto che la società sovietica era una comunità non interamente basata sullo scambio monetario, al contrario di quello che avviene oggi, dove il valore stesso della moneta si sostituisce a dei valori considerati veri e universali, come la creatività o le doti intellettuali. Mettere a confronto la storia politica e sociale della Russia e dei paesi dell'ex blocco sovietico contribuisce a spiegare perché in Russia c'è questa forte nostalgia per l'URSS, così come, indirettamente, a spiegarne la mancanza negli ex paesi satelliti. Con la fine del Patto di Varsavia, emerse uno spazio di intesa tra quasi tutti i paesi dell'ex blocco sovietico e l'Occidente, specie con l'Unione Europea. Tali paesi h a n n o siglato l'accordo di associazione con l'UE tra 1992 e 1995 (fatta eccezione per Bulgaria e Romania, che hanno firmato nel 17 «Literaturnaja Gazeta», n. 37 del 18/09/2001. 124 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 2007); da parte sua l'UE ha attivato una serie di meccanismi di controllo per facilitare il loro ingresso a Bruxelles. Questo processo è stato largamente favorito tanto dal rigetto del sistema sovietico, imposto dalle armi alla fine della Seconda guerra mondiale, quanto dalla presenza di élite filoccidentali, che hanno guidato i propri paesi durante la difficile transizione consolidandone le economie dopo la drastica caduta della produttività e dell'occupazione, soprattutto attraverso il dinamismo del settore privato. Tutto questo è semplicemente mancato alla Russia postcomunista, che innanzitutto non è stata in grado rigettare il pro pr io passato sovietico; questo per il semplice fatto che esso non le era stato imposto da nessuna forza di occupazione. Ha dovuto affrontare la difficile crisi economica da sola, nella totale indifferenza dell'Occidente; ha avviato e condotto le riforme economiche e burocratiche in maniera caotica e in funzione del volere di pochi oligarchi. Infine è stata guidata per lungo tempo da una classe politica ideologicamente divisa e incerta sul da farsi, la cui inerzia ha favorito il diffondersi della corruzione e il ritorno al potere dell'”uomo forte”, fatto che ha paralizzato le riforme sociali, risospingendo la Russia verso il suo passato recente. 7. “Va ora in onda... l'URSS” Negli anni Novanta, i russi provati dalla disastrosa politica eltsiniana, cominciarono a frugare nel loro passato in cerca di consolazione. Tuttavia, non consultarono libri di storia o studiosi autorevoli, né affrontarono collettivamente le istituzioni politiche in cerca di chiarezza, ma si chiusero in casa, al riparo dai disordini dell'era postcomunista, limitandosi a accendere semplicemente la televisione: se la versione politica dell'URSS era ormai morta, quella cinematografica sopravviveva. Nonostante i rapidi cambiamenti in campo economico e politico, la televisione, almeno inizialmente, non mutò i propri palinsesti, continuando a proporre i vecchi film sovietici, in una sorta quasi di resistenza. I russi, vedendoli e magari commentandoli in famiglia, cominciarono a convincersi che i contenuti dei film rispecchiassero il loro passato, trascurando un dato essenziale: essi erano già portatori di un'immagine fortemente idealizzata della società sovietica. Il passato assunse un aspetto invitante. I russi, distratti da queste immagini, smisero di guardare avanti, per tornare in parte indietro, con la testa e col cuore. È qui che si inseriscono nuovamente la nostalgia restauratrice e, teoricamente, quella riflessiva: la televisione si è rivelata lo strumento perfetto per veicolare l'idealizzazione dell'URSS, soprattutto perché l'uso di immagini e suoni ha una capacità di presa indubbiamente superiore ai libri o alla radio. Inoltre la televisione non richiede un grande impegno al 125 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 destinatario del messaggio, il quale non deve far altro che sedersi davanti al piccolo schermo e assorbire passivamente il messaggio televisivo. Altri fattori contribuiscono a spiegare il successo della televisione: il principale risiede nel fatto che internet, oramai, è completamente nella mani delle istituzioni politiche, pertanto è impossibile, o comunque difficile, accedere a informazioni realmente indipendenti. Si aggiunga a ciò che l'80% degli utenti è concentrato nelle grandi città, che non tutti hanno dimestichezza con i caratteri latini. A questo va aggiunto che, sebbene in aumento, n o n t u t t i i russi possiedono una connessione casalinga e pertanto usufruiscono delle reti disponibili nei luoghi di ritrovo, come caffè o ristoranti. La stessa letteratura russa sembra essersi avviata verso un lento, ma inesorabile, declino, sia perché è ignorata in patria e all'estero, sia perché non offre nemmeno un'opera critica del regime sovietico. Così nel giro di pochi anni la televisione, anziché limitarsi a riprodurre ciclicamente il materiale filmico dell'epoca sovietica, si è evoluta di pari passo con le esigenze degli spettatori, dando luogo a due produzioni distinte: la prima, «Nostalgjia», è un canale a pagamento, la seconda «Namedni» (Recentemente), è un programma televisivo diretto da Leonid Parfёnov, un noto giornalista russo. L'URSS torna in onda? Sì, ma con differenze notevoli, tali da supporre che non ci sia stata una sola Unione Sovietica, ma due. Lo scopo è quello di mettere in luce queste discordanze, partendo da due considerazioni. Innanzitutto, l'uso dei media da parte dello spettatore è intenzionale, fattore che non va sottovalutato, considerando che viviamo in un mondo in cui l'offerta televisiva, grazie al numero praticamente illimitato dei canali, è diventata personalizzabile. Pertanto è lo spettatore che, per soddisfare le proprie attese, si sintonizza consapevolmente su determinati canali. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che la televisione manipola l'immaginario collettivo, deformando le rappresentazioni sociali, organizzando il vissuto delle persone. G li individui si identificano con il passato che è loro offerto traendone soddisfazione, ma non si rendono conto che, in questo modo, la televisione sta organizzando la realtà sociale, equiparando la memoria individuale a quella collettiva, nel tentativo di renderle indistinguibili l'una dall'altra. L'individuo ridotto a un consumatore, sta assumendo comportamenti prescritti nei confronti del passato, limitando indirettamente la sua capacità di ripensare quest'ultimo in modo indipendente. Se il primo punto non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, il secondo è più complesso e va spiegato attraverso l'analisi della natura di «Nostalgjia» e «Namedni». 8. «Nostalgjia»: l'uso nuovo di una storia vecchia «Nostalgjia» nasce il quattro novembre 2004 per volere del produttore 126 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 televisivo Vladimir Ananich. È un canale tematico molto seguito sia in Russia, sia in molti dei paesi russofoni (paesi baltici compresi). All’insegna del motto “c'è molto da ricordare”, si rivolge principalmente a tutti coloro che hanno a cuore gli anni trascorsi, quindi a un pubblico che è nato e cresciuto in un paese che non esiste più. L'ideatore del canale ha fatto un uso intelligente delle fonti a disposizione. Anziché cercare casualmente nello sconfinato archivio televisivo sovietico, ha organizzato il palinsesto in maniera singolare: accanto ai programmi dell'era sovietica, ne ha ideati di nuovi, di stampo giornalistico, interattivo e musicale, in cui vengono ripercorsi sotto diversi punti di vista i lunghi anni dell'era socialista. Pertanto, dopo aver ascoltato le notizie del giorno di trent'anni prima e aver svolto i consueti esercizi ginnici per tenere in forma il popolo socialista, è possibile seguire appassionati dibattiti sull'URSS e sul suo lascito, tra vecchie e nuove generazioni. Nel complesso è difficile non pensare all'effetto manipolante di un simile canale. Sebbene non ci siano apparenti motivazioni politiche dietro ai programmi, un dubbio rimane sulla volontà degli ideatori di voler far solo rivivere il passato tanto più che non si può fare a meno di notare l'arbitrarietà con cui questo passato viene mostrato. Similmente a un film, il passato viene prima visionato, quindi subisce una fase di montaggio, infine viene ricomposto in base alle esigenze narrative. «Nostalgjia», come suggerisce il suo nome, fa rivivere del passato tutto ciò che è in grado di suscitare rimpianto: film, parate, le Olimpiadi di Mosca, vecchie notizie sulle conquiste del popolo socialista, il popolo del domani, fanno parte di questa versione del passato. Altre vicende, come gli aspetti più tenebrosi della società sovietica, per esempio la corruzione e l'alcolismo, o l'invasione dell'Afghanistan, sono finite nel dimenticatoio, poiché di esse non c'è il benché minimo desiderio di essere ricordate, come è ovvio. «Nostalgjia» è stato un catalizzatore dal momento che ha accelerato il processo di rimozione del sentimento di vergogna dei russi, nei confronti del proprio recente passato. Il turbamento e la sensazione di fallimento, dovuti al fatto di aver perso il confronto con l'Occidente, hanno ben presto lasciato spazio a un montante sentimento di fierezza: la vittoria sul nazismo, l'esplorazione spaziale, o la già citata Olimpiade di Mosca, sono diventati motivi di orgoglio per il proprio passato, o quantomeno di consolazione, soprattutto per coloro che non sono riusciti a salire sul treno per l'Occidente. Indirettamente, ha dato luogo a una vera e propria mania per l'URSS, tant'è che il passato è stato mercificato e ridotto a una moda. Infatti non è raro imbattersi, tra le strade delle grandi città, in negozi che vendono busti di Lenin e Stalin, vecchi manifesti con la propaganda del PCUS, o spillette e magneti che si rifanno al passato comunista. Questa mania ha prodotto anche locali a tema, come discoteche anni Settanta, ristoranti e pub, che consentono 127 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 di immergersi nel proprio passato (o in quello dei genitori). Tornando a parlare di «Nostalgjia», il proposito degli autori di far rivivere semplicemente il passato, f i n i s c e c o l suonare falso alle n o st r e orecchie. Q uesta versione edulcorata dell'Unione Sovietica corrisponde a un uso nuovo di una storia vecchia, un uso con scopi ben precisi, diversi per le due generazioni di cui si parla in questo studio, ossia l'ultima generazione sovietica e la prima postcomunista. Il successo di questo canale è dovuto non solo alla capacità dei suoi autori, ma anche al processo parallelo di mistificazione della storia che avviene sia dall'alto che dal basso. Ma è l'analisi dei programmi a contenuto musicale a dare i risultati più sorprendenti. Essa innanzitutto ha tratto giovamento da alcune considerazioni di uno dei più grandi pianisti e direttori d'orchestra dei nostri tempi, ossia Daniel Baremboim, che ha sottolineato l'importanza dell'orecchio come medium intermediario tra la musica e la memoria: L'importanza dell'orecchio non sarà mai troppo sottovalutata. Una delle sue funzioni è di aiutarci a ricordare e a rammentare; ciò significa non solo che l'orecchio ha un collegamento essenziale con la memoria, ma che ci costringe anche a usare il pensiero. Il ricordo, dopo tutto, è memoria accompagnata dal pensiero; il giovane rammenta, il vecchio ricorda. La memoria è qualcosa che ci viene subito in aiuto, mentre il ricordo arriva solo grazie alla riflessione e allo sforzo individuale. Il fatto che il sistema uditivo sia fisicamente vicino alle parti del cervello che regolano la vita spiega l'intelligenza dell'orecchio18. Questi programmi si basano appunto sulla attivazione della memoria uditiva da parte degli spettatori, privandoli però del processo razionale che permette loro di collocare al giusto posto musica e ricordi. Per questo motivo, molte canzoni hanno perso ormai il significato originario, acquisendone altri, come è successo a una famosa hit dell'era brežneviana, ossia “ Мой адрес Советский Союз”, ossia “Il mio indirizzo è l'Unione Sovietica”. Questa canzone degli anni Settanta, in origine dedicata a quei lavoratori costretti, per varie esigenze, a trasferirsi nelle regioni siberiane per cercare fortuna, oggi è diventata il simbolo dell'ultima generazione sovietica. Il suo significato è passato dallo struggimento per l'allontanamento dalla c a s a natia a qualcosa di più intimo, il rimpianto per la patria che non esiste più. Stesso destino è toccato a un'altra hit degli anni Ottanta, ossia “Born in the USSR”, del sessantenne Oleg Gazmanov, nominato da Putin “Artista del Popolo”. Nata in origine per celebrare il senso di appartenenza al paese, oggi ha assunto dei connotati più inquietanti, per non dire profetici, 18 Daniel Baremboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 30. 128 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 considerando le parole della prima e dell'ultima strofa. La prima recita “L'Ucraina, la Crimea, la Bielorussia e la Moldova sono il mio Paese”, l’altra “L'Europa sta cercando di formare un'unione, ma noi insieme abbiamo vinto la Seconda guerra mondiale, sciogliamo i confini, non c'è bisogno di passaporti. Senza di noi non siete niente, insieme siamo amici”. Il senso di appartenenza a un paese ha lentamente lasciato il posto a una pericolosa mistura di nostalgia e orgoglio, amplificata dai fatti avvenuti in Ucraina, dagli accordi tra Bielorussia e Russia, dalla posizione di quest'ultima nei confronti della Moldova. L'ultima riproposizione pubblica di questa canzone è avvenuta n e l c o r s o d e i f e s t e g g i a m e n t i p e r il ventesimo anniversario della n u o v a Costituzione russa, a p p e n a dopo il discorso t e n u t o dal p residente ed è stata molto applaudita dal pubblico presente costituito s o p r a t t u t t o da politici. Riproporre tale canzone in un contesto altamente significativo non è stato certo un caso, ma anch'esso un simbolo. Significa affermare la direzione politica intrapresa dalla Russia, che non è nuova, ma è un'amplificazione delle politiche precedenti, ossia ricostruire l'”impero” andato perduto. 9. «Namedni: nasha era», o l'archeologia dell'URSS Sette anni prima dell'avvento di «Nostalgjia», il giornalista Leonid Parfënov aveva ideato un progetto televisivo dedicato all'Unione Sovietica, destinato a durare vari anni, fino alla chiusura avvenuta a giugno 2004. Tale programma si discostava dal canale «Nostalgjia» sotto diversi aspetti: già il titolo in sé è evocativo di queste differenze. Infatti «Namedni», tradotto alla lettera, significa “non molto tempo fa”, oppure “recentemente”. La scelta di questo termine non è stata casuale, indica una distanza temporale vicina, che è ancora avvertibile nel presente. Il sottotitolo, “naša era”, “la nostra era”, lascia intendere bene di quale era trattasse il programma, ossia quella dell'ultima generazione sovietica. Parfënov, classe 1960, fa appunto parte di questa generazione e ha esplorato un arco temporale che va dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Partendo da questa considerazione, Parfënov ha creato un programma a metà strada tra il reportage televisivo e il documentario. Del primo ha ripreso la metodologia dell'analisi attenta e strutturale, del secondo il valore didattico e la chiarezza espositiva. Grazie all'ausilio della tecnica del chroma key, Parfenov ha raccontato l'URSS da Chruščëv a Gorbačev, apparendo accanto a molti personaggi della storia sovietica e nei momenti storici più diversi: è possibile ammirarlo, mentre fa la spesa, nel primo supermercato sovietico insieme a Chruščëv, oppure vederlo posare accanto a Brežnev, durante un discorso ufficiale. Non c'erano ospiti di rilievo, fatta eccezione per 129 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 qualche politologo, o una platea all'interno di «Namedni»: circondato da schedari verdi, Parfënov, si rivolgeva alla telecamera per sortire l'effetto di parlare direttamente con i telespettatori, spiegando di volta in volta gli argomenti; il suo unico compagno era un monitor dal quale partivano le immagini del periodo storico preso in questione. A quel punto Parfënov, attraverso la sua voce fuori campo, commentava il tutto, spiegando di volta in volta le circostanze storiche e politiche al telespettatore. Tutto sommato i filmati, sebbene fossero abbondanti, non avevano la stessa importanza che all'interno di «Nostalgjia». Qui contava maggiormente la personalità di Parfënov, che era distaccata e ironica allo stesso tempo. Il punto di forza di «Namedni» e la principale differenza con «Nostalgjia» risiede nel fatto che, Parfënov, non ha mai preteso di offrire al pubblico la versione definitiva dell'URSS, anzi l'ha trattata neutralmente dal punto di vista dei valori. Ne ha fornito una versione non nostalgica, imparziale; ne ha fatto una sorta di archeologia, documentando e analizzando il materiale a sua disposizione. Ha suddiviso la storia dell'Unione Sovietica per argomenti, senza fare selezione, senza dimenticarne gli aspetti sgradevoli, seppur nei limiti della programmazione televisiva. Il successo di «Namedni» è stato vasto, tant'è che ne è stata prodotta una versione cartacea, c h e , sebbene molto costosa, è ancora acquistata dai russi. Fondamentalmente, visto il putinismo che soffoca la società russa, un programma come «Namedni», non poteva durare a lungo. Era troppo indipendente dal potere centrale con cui è entrato progressivamente in rotta di collisione, così come la personalità di Parfënov è lontana dagli standard imposti da Putin. «Namedni» era diventato troppo scomodo, specie da quando, terminata l'esplorazione dell'URSS, Parfënov aveva iniziato a esplorare la Russia di Putin e le sue contraddizioni. È bastato un servizio sulla vedova di Zelimkhan Jandarbev (uno dei probabili ideatori dell'attentato al teatro Dubrovka), per altro mai andato in onda, per far sparire in un attimo la miglior produzione televisiva sull'Unione Sovietica: l'ordine non è stato solo quello di cancellare «Namedni: era Putina», ma anche «Namedni: nasha era». Ufficialmente, Parfënov è stato licenziato perché aveva infranto gli accordi lavorativi presi con il canale NTV al momento della stipula del contratto, accordi mai resi pubblici, o quantomeno mai chiariti. Brevemente i fatti. Il servizio non era andato in onda una prima volta p e r c h é t r o p p o a r i d o s s o d e ll'assassinio di Zelimkhan Jandarbev. Lo stesso Parfënov aveva approvato la decisione ritenendo che se fosse stato trasmesso avrebbe potuto influenzare l'esito del processo di due cittadini russi in Qatar, accusati di essere gli esecutori dell'omicidio. Poco tempo dopo, avendo giudicato i tempi o r ma i maturi per la messa in onda del servizio, lo a ve va inserito nella programmazione diurna del canale, ma 130 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 proprio mentre v e n i v a visionato per eventuali correzioni, era giunto il divieto definitivo: i servizi segreti avevano ordinato alla Direzione di sospendere lo speciale fin quando non sarebbe s t a t a chiarita la situazione dei due russi imputati. Due giorni dopo era seguito il licenziamento. Non è difficile immaginare che, dietro al licenziamento di Parfënov, ci sia stata la longa manus di Putin, desideroso di liberarsi di uno dei più brillanti giornalisti russi. Da quel momento in poi, la riscoperta dell'URSS è stata solo ad esclusivo appannaggio di «Nostalgjia». 10. Cinema e memoria Anche il cinema fa parte di quegli strumenti che, attraverso l'uso finalizzato del passato, concorrono alla formazione della memoria. La differenza con i programmi sopra ricordati sta nel fatto che i film non ricostruiscono il passato attraverso documenti audiovisivi, se non per brevi spezzoni, ma attraverso l'invenzione di una storia che si rifà a una porzione del passato. Fondamentalmente, nel film viene tradotto il pensiero individuale del regista che offre uno sguardo su delle vicende del passato, accuratamente selezionate, con la pretesa di essere una verità assoluta e socialmente condivisibile. Questa funzione modellizzante, è piuttosto evidente nel genere politico-storico, dove le vicende prese in considerazione sono di grande rilevanza identificativa, ossia sono talmente ampie e importanti che tutti i membri di una società vi si possono riconoscere. Il materiale storico viene rielaborato e tradotto in immagini che, corredate dalla colonna sonora, sono pensate per suscitare un forte impatto emozionale tale da imprimersi nei ricordi degli spettatori. Quando il pensiero individuale, attraverso le immagini e i suoni, viene trasmesso agli spettatori, ecco che il passato, così idealizzato, entra a far parte della memoria collettiva. Lo sfondo storico viene garantito e le vicende vengono ben ricostruite: è il punto di vista che cambia. Nel caso russo, film come Gagarin-Primo nello spazio, Stalingrad, o Attacco a Leningrado, esaltano le vittorie del comunismo, ma sono privi della retorica comunista: propongono una versione universalmente accettabile dell'Unione Sovietica, tanto in Russia, quanto all'estero. Film concepiti in questo modo svolgono, in Russia, una funzione di raccordo tra passato e presente, fornendo una spiegazione delle origini della società, quindi del fondamento dell'autorità stessa; il passato servito agli spettatori, attraverso un processo inverso a quello televisivo, poiché il punto di vista individuale diventa sociale e non viceversa, è deformato ma dotato di senso per tutti. Ha un significato solo e determinato a priori, di conseguenza può essere interpretato in un solo modo. 131 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 11. Le reazioni Gli effetti di «Nostalgjia» e «Namedni» sulla percezione del passato recente sono diversi per genitori e figli. I genitori, l'ultima generazione sovietica, davanti allo schermo ritrovano se stessi più giovani e, magari, più spensierati. Fondamentalmente ricordano e, ricordando, si trovano più a loro agio con «Nostalgjia»; se ricordare significa pensare qualcosa col cuore (re-cord cordis, cuore), secondo l'antica concezione del cuore, inteso come la sede della memoria, tale atto si accorda bene con il sentimento nostalgico che, si rammenta, è lo struggimento per qualcosa che non c'è più, cui si aspira a tornare. Per i giovani, la questione è diversa. Non possono ricordare, questo è ovvio, l'Unione Sovietica, ma ne avvertono ancora gli effetti, tanto nell'ambiente domestico, quanto nella società. «Nostalgjia» e «Namedni», sono stati l'occasione per autenticare i discorsi dei genitori. In questo caso, «Namedni» si è rivelato più utile alla generazione postcomunista, specie per il suo taglio documentaristico: i giovani memorizzano, ossia acquisiscono in memoria, il mondo dei genitori filtrato dalla televisione. La televisione ha favorito l'imporsi della verità narrativa, soggettiva e parziale, sulla verità storica, oggettiva e imparziale. Sulla base dei racconti televisivi, i telespettatori più vecchi ricostruiscono la loro memoria, ponendo, accanto alle loro esperienze personali, le scene di «Nostalgjia» e «Namedni», trasformandole in ricordi personali. Questo imporsi della verità narrativa non sta mantenendo divise le due verità: a lungo andare, è probabile che la verità narrativa soppianti totalmente quella storica, sostituendola definitivamente. Per l'ultima generazione sovietica guardare «Nostalgjia», significa guardare se stessi nel passato e tornare all'età della giovinezza e dell'innocenza, in un mondo in cui tutto mancava, ma era più facile vivere. Per la generazione postcomunista, «Namedni», significava non solo poter guardare con i propri occhi i ricordi dei genitori ed esplorare un mondo scomparso, ma anche poter mettere a paragone la loro società con la propria, con risultati sorprendenti. La parte più istruita e, socialmente, più mobile, guarda al mondo dei genitori con ammirazione, invidiandone la calma spirituale, nonché la presenza di veri valori morali, che tanto mancano alla Russia di oggi, avviluppata nella spirale del consumismo. 12. Un passato remoto e uno prossimo. Lo specchio del presente. 132 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 In Russia ripensare al passato recente ha dato luogo a una situazione paradossale, in cui i produttori televisivi hanno avuto la meglio su storici e antropologi. I motivi di questo ribaltamento clamoroso sono da ricercare nella fine della storiografia indipendente, voluta da Putin e di cui si è già detto in precedenza e, fattore non trascurabile, nel rifiuto dei russi della suddetta storiografia. A sua volta, la cancellazione di «Namedni» è frutto delle politiche statali di controllo giornalistico. In sintesi, storia e informazione sono tornate a essere quelle di una volta, ossia dipendenti dal potere statale. Ananich ha chiamato il suo canale «Nostalgjia», per evocare la distanza che separa i russi dal loro passato, il loro desiderio di tornare a una situazione ideale, che non esiste più nel presente. La cesura tra URSS e Russia è netta e irrecuperabile, pertanto l'URSS sembra appartenere a un passato remoto. Così entrambe le generazioni stanno assorbendo una versione acritica dell'Unione Sovietica, apertamente faziosa. Non è sbagliato affermare che «Nostalgjia» presenta i caratteri della nostalgia restauratrice. La storia che propone, si occupa sia della dimensione spaziale, sia di quella temporale. Si prefigge di colmare i vuoti di memoria individuale, basando la sua autorità sull'archivio della tv sovietica in suo possesso: è grazie ai suoni e alle immagini, che i presentatori e gli eventuali commentatori hanno una risonanza maggiore, rispetto agli studiosi ufficiali del passato. Viceversa, «Namedni» possedeva uno spirito diverso. Parfënov era (ed è) convinto di una cosa, che l'URSS è la matrice della società russa di oggi. Per questo motivo l'URSS non è lontana e inafferrabile come in «Nostalgjia», anzi, ci sono tantissimi punti in comune tra passato e presente, dettati dalla continuità. Appartiene al passato prossimo, perché gli effetti del passato sovietico sono avvertibili nel presente. La cancellazione di «Namedni» ha privato i russi di uno strumento di indagine per la riscoperta dell'URSS. Un programma effettivamente imparziale che h a trattato l'Unione Sovietica, sul piano dei valori, da un punto di vista neutrale. L'URSS non era né giusta, né sbagliata, al massimo incompiuta, specie per la sua fine improvvisa, secondo il pensiero dell'autore. Infine, anche il cinema sembra muoversi nella direzione di «Nostalgjia». Film dichiaratamente antinostalgici o di denuncia, come Cargo 200 o il Sole ingannatore, non hanno riscosso in patria lo stesso successo di quei film che, al contrario, assolvono l'URSS dai suoi peccati. Ciò accade per gli argomenti trattati, come la guerra in Afghanistan e le purghe staliniane. Vi è un rifiuto del popolo russo di guardare e riflettere su questo passato oscuro che sta così lentamente scomparendo dalla memoria collettiva. È chiaro, ormai, che televisione funziona come medium per la sola nostalgia restauratrice; stessa cosa si può dire a proposito del cinema. L'unica differenza sta nel fatto che, per quanto riguarda la televisione, conduttori e programmi sono controllati direttamente da Putin, mentre, per quanto 133 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 riguarda il cinema sono i registi che volontariamente creano film che trasmettono un messaggio restauratore. Tale messaggio risiede nel proporre due cose che tanto mancano nel presente: sicurezza e stabilità. Questo intento, oramai, vale tanto per i vecchi quanto per i giovani, dato che «Namedni», la versione neutrale dell'URSS, è scomparsa dai palinsesti. Le immagini non mentono, ma la televisione sì: il telespettatore perde la capacità di astrazione, diventando incapace di distinguere il vero dal falso. Praticamente, la storia ricostruita attraverso immagini e suoni decontestualizzati, privi della retorica comunista e delle sue critiche, è risultata vincente per entrambe le generazioni. Queste, l ’ una ricordando e l'altra ripensando, interpretano il passato recente russo, attribuendo alle immagini e ai discorsi televisivi il carattere di significato giusto o, quantomeno, il più veritiero possibile. Tutti questi fattori, concorrono nella creazione di un paradosso. Se «Nostalgjia» e il cinema appartengono al passato remoto, che è psicologicamente lontano e slegato dal presente, con la scomparsa di «Namedni: naša era», questi si sono appropriati dell'elemento caratterizzante del passato prossimo, ossia di essere qualcosa che è passato, ma ancora legato al presente. Dunque l'URSS appartiene a un passato lontano, compiuto, ma ancora avvertibile nel presente. 134 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Bibliografia Riviste «Limes» La Russia e noi, n. 1, 1994 Ombre russe, n. 2 1996. La Russia a pezzi, n. 4, 1998. La Russia in gioco, n. 6, 2004. Progetto Russia, n. 3, 2006. La Russia sovrana, n. 3 (Classici), 2008. Grandi giochi nel Caucaso, n. 2, , 2014. «The Economist» The long life of homo sovieticus, n. 8763, pp. 27 – 30. Voting, Russian – style, in The Economist, n. 8763, pp. 31 – 32. «Internazionale» Ackeret Markus, Un test importante per la giustizia russa, n. 803, 2009, p. 30. Gessen Keith, Nessun colpevole a Mosca, n. 803, 2009, pp. 31 – 36. Meier Andrew, Chi ha paura di Khodorkovskij, 823, 2009, pp. 14 – 16. Kauffmann Sylvie, Letargo russo, n. 925, 2011, pag. 58 – 60. Idov Michael, I giovani ribelli di Mosca, n. 936, 2012, pp. 36 – 44 Sacks Oliver, La fabbrica dei ricordi, n. 989, 2013, pp. 38 – 43. McKenzie Funl, I giochi sporchi di Putin, n. 1033, 2014, pp. 32 – 39. Kahlweit Cathrin, Kiev verso la dittatura, n. 1035, 2014, pp. 14 – 15. Lukjanov Fedor, Da sempre in bilico tra est e ovest, n. 1036, 2014, p. 16. Kordunsky Anna, Il peso dei debiti sul futuro del paese, n. 1036, 2014, p. 17. Malysko Ivan, In Ucraina la crisi è gravissima ma il paese non si dividerà, n. 1037, 2014, p. 16. Lukjanov Fedor, La battaglia di Kiev, n. 1039, 2014, p. 24. Gobert Sebastian, L'Ucraina tra pace e guerra, n. 1041, 2014, pp. 19 – 20. Aris Ben, Rischio Bancarotta, n. 1041, 2014, p. 20. Kolesnikov Andrei, È un suicidio politico, n. 1041, 2014, p. 21. Testi di riferimento Bagnasco Arnaldo, Barbagli Marzio, Cavalli Alessandro, Sociologia. I concetti base, Bologna, Il Mulino, 2009. 135 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Beneduce Roberto, Frontiere dell'identità e della memoria, Milano, Franco Angeli Editore, 2008. Benvenuti Francesco, Russia oggi: dalla caduta dell’Unione Sovietica ai nostri giorni, Roma Carocci, 2013 Cigliano Giovanna, La Russia contemporanea. Un profilo storico, Roma, Carocci, 2013 Edmunds June, Turner Bryan, Generations, Culture and Society, Buckingham, Open University Press, 2002. Feyles Martino, Studi per la fenomenologia della memoria, Milano, Franco Angeli Editore, 2012. Filippini Caterina, Dall'Impero russo alla Federazione di Russia. Elementi di continuità e di rottura nell'evoluzione dei rapporti centro-periferia, Milano, Giuffrè Editore, 2004. Ganino Mario, Di Gregorio Angela, Filippini Caterina (a cura di), La Costituzione della Russia a dieci anni dalla sua adozione, Milano, Giuffré Editore. 2006 Gattamorta Lorenza, Teorie del simbolo. Studio sulla sociologia fenomenologica, FrancoAngeli, Milano, 2005. Graziosi Andrea, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna, Il Mulino 2008 Guerra Adriano, Il crollo dell’Impero sovietico, Roma, Editori Riuniti, 1996 Gudkov Leonid – Zaslavsky Victor, La Russia da Gorbaciov a Putin, Bologna, Il Mulino, 2010. P o l i t k o v s k a j a Anna, Cecenia. Il disonore russo, Roma, Fandango, 2003 Todorov Tzvetan, Gli abusi della memoria, Napoli, Ipermedium, 1996. Werth Nicolas, Storia della Russia nel Novecento. Dall’Impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti 1900-1999, Bologna, Il Mulino, 2000 Zaslavky Victor, Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo, Roma, Carocci, 2001 136 E. Liutina Marroni, Nostalgia Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Antonio Padoa Schioppa, Verso la federazione europea? Tappe e svolte di un lungo cammino, il Mulino, Bologna, 2014 (parte seconda) di Francesco Gui Vale sicuramente la pena di riprendere l’analisi del volume in oggetto, garantendo peraltro in anticipo una maggiore laconicità rispetto alla prima parte della recensione, uscita sul numero n. 35 di questa rivista. In proposito, le pur rinnovate espressioni di stima per la preveggenza, e competenza, e originalità, dell’autore si ripropongono ancor più convintamente nel commentare il saggio che apre la terza parte della raccolta, intitolato “Alle soglie della Convenzione” e risalente al 2002. Per non dire della fitta serie dei contributi successivi. Questi ultimi risultano dedicati sia alla fase preparatoria della Convenzione incaricata di redigere lo sfortunato trattato costituzionale; sia al testo da essa prodotto (con i ritocchi della immancabile Conferenza intergovernativa che lo licenziò definitivamente); e sia infine all’esito riduzionistico sottoscritto dai governi con il trattato di Lisbona del dicembre 2007, per giungere poi, quarta e ultima parte (2009-‘14), ai convulsivi dilemmi del presente. C’è veramente molto da imparare e da riflettere immergendosi nelle pagine di chi davvero la conosce lunga la storia, oltretutto in punta di diritto, avendo dimestichezza tanto con i giuristi medievali che con la Corte costituzionale tedesca dei nostri giorni. Tornando alla fase preparatoria della Convenzione, definita “l’occasione storica per la messa a punto, attraverso un approfondito dibattito pubblico, di un modello costituzionale finalmente adeguato al futuro del nostro continente” (p. 266), di sicuro Padoa-Schioppa offre l’occasione al lettore per una meditata e sistematica ricognizione dell’intera problematica, concettuale e valoriale, connessa all’entità Unione europea. Al tempo stesso consente un confronto puntuale fra il quadro che potremmo dire “ottimale” da lui delineato (con qualche nostro rilievo) e quanto si sarebbe successivamente realizzato alla fine del tormentato percorso fra Convenzione, trattato-costituzionale di Roma del 2004 e trattato di Lisbona. Con in più, si è detto, gli sviluppi dell’oggigiorno. Da notare, qualora qualcuno non lo ricordasse, che la Convenzione era dotata di forte legittimazione politica e istituzionale, in quanto composta di rappresentanti dei parlamenti europeo e nazionali, dei governi e della Commissione. Pertanto essa risultava più incoraggiante in senso federalista (e 137 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 che dire della denominazione philadelphica?) rispetto alle mai dismesse conferenze intergovernative incaricate della redazione e delle successive riformulazioni dei trattati comunitari e dell’Unione (pag. 333). In sintesi, quanto ai principi del “modello costituzionale” poco più sopra evocato, essi si trovano così elencati: Unità istituzionale, da fondare sulla Carta dei diritti “azionabile” davanti alla Corte di Giustizia (pag. 266). Al qual proposito si può osservare, preveggenza dell’autore, che la Carta dei diritti, già approvata a Nizza, avrebbe definitivamente trovato posto, con Lisbona, all’interno dell’assetto istituzionale dell’Unione. Non solo, perché anche i tre “pilastri” separati ereditati da Maastricht (comunitario, politica estera e di sicurezza comune, affari interni e giudiziari) sarebbero stati unificati già alla Convenzione, sia pure mantenendo numerosi ambiti riservati al voto unanime degli Stati. Sul punto va notata però una maggiore cautela divinatoria del saggista. Sussidiarietà e proporzionalità: da leggere le pagine appassionate e piuttosto ricorrenti in tema di sussidiarietà, “verso l’alto e verso il basso” (dalla sovranità da affidare all’Onu, con norma costituzionale sostanzialmente analoga all’art. 11 della costituzione italiana, alle competenze riconosciute ai diversi poteri e livelli decisionali, fino a quelli più vicini al cittadino, anche al fine di tutelare locali diversità di consuetudini ed esperienze). Per l’autore, infatti, come si apprende più volte dalle sue pagine, l’identificazione esclusiva dello Stato con la nazione e l’attribuzione della sovranità superiorem non recognoscens (anche inferiorem) a questa sola entità è da rifiutarsi decisamente. Da meditare in proposito anche sul concetto di “federalismo competitivo” per quanto riguarda le competenze concorrenti fra Unione e Stati membri (pagg. 268-69), nonché sulla “peculiarità” dell’erigenda federazione. Prima nella storia a nascere per libera volontà di Stati nazionali preesistenti, essa va dotata di poche competenze esclusive e di molte concorrenti, fra cui la difesa stessa, in forza di una “capillare” sussidiarietà (pag. 325 e segg.). Legittimazione democratica: da basare sul “principio fondamentale per il quale il referente costituzionale di ultima istanza è il popolo, che si esprime attraverso il voto a suffragio universale diretto, nell’ambito delle diverse cerchie istituzionali”. Il che comporta, a livello dell’Unione, la centralità del Parlamento europeo e la messa in guardia nei confronti di tesi politologiche sostenitrici della 138 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 - - democrazia “competitiva”, piuttosto che “rappresentativa”, considerata da taluno ormai in crisi, specie a livello dell’Unione (p. 269). Ma vedi anche a p. 270 la proposta, in base alla sussidiarietà, di sottrarre all’europarlamento europeo la legislazione minuta per lasciare ad esso soprattutto le decisioni di fondo, la “decisione per principi”, in codecisione con il Consiglio, affidando invece al livello nazionale e subnazionale l’attività più operativa e minuta. APS mostra di credere infatti ad un’Unione con un bilancio o con apparati amministrativi adeguati sì, ma non da classica grande potenza. Stante il dato, come accennato, che “l’Unione europea è il primo esempio nella storia di un’integrazione fra Stati nazionali avvenuta per consenso”, senza guerre o ragioni dinastiche, ciò “impone di mantenere agli stati, nel governo dell’Unione, una serie di prerogative superiori - quantitativamente e qualitativamente – rispetto a quelle proprie di altri modelli federali” (pag. 279). Non solo, ma si vedano ancora, alla pagina successiva, i suggerimenti su come affidare intere “classi di decisioni” ad associazioni di categoria o a decisori indipendenti. Un punto che rimanda alle ricorrenti asserzioni del giurista medievista per le quali andrebbero rivalutate anche la dottrina e le consuetudini come fondamento del diritto, stante la “crisi” di un certo modello illuminista (pag. 327). Equilibrio dei poteri e delle funzioni: l’autore mostra di preferire la legittimazione del presidente e dei membri della Commissione l’organo “responsabile quanto meno di una quota importante delle funzioni esecutive dell’Unione” (pag. 272) - mediante il voto del Parlamento, a sua volta legittimato dall’elezione da parte dal “popolo” europeo. Sconsiglia invece, come già ricordato, le proposte di elezione universale diretta del presidente, a causa del rischio di “contrapposizioni nazionali”, oltre agli “ostacoli linguistici”. Principio maggioritario: nel contesto di un equilibrio di poteri fra Consiglio e Parlamento, la proposta risulta quella di generalizzare le decisioni a maggioranza nel Consiglio (europeo e dei ministri) “in tutte le materie e per tutte le questioni di competenza dell’Unione”, pur nella consapevolezza dei rischi di “tirannia delle maggioranze”, ma anche di “tirannia della minoranza”. Riaffermazione assai netta: “solo chi accetta di venire messo in minoranza accetta davvero l’Unione” (pag. 273). Allo stato, le varie misure di riforma disposte successivamente dai governi non avrebbero fornito una risposta soddisfacente, sia pure 139 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 acconsentendo, come prefigurato dall’autore, ad una concezione di maggioranza qualificata tanto per Stati che per popolazione, a conferma dell’importanza del principio rappresentativo (pag. 275). Peccato soltanto che in questo modo, come da noi già accennato nella prima parte della recensione, i Consigli avrebbero finito per recepire un più rigoroso principio di rappresentatività per popolazione rispetto al Parlamento europeo, benché espressione per eccellenza della sovranità popolare. Da annotare infine, per quanto a questo punto risulti cosa ovvia, il deciso rifiuto da parte di APS del riconoscimento del diritto di veto. La sua sequenza di scritti, evidentemente poco ascoltati dai governi della Ue, ne richiede instancabilmente la soppressione. Passando ora alle istituzioni: in tema di Consiglio europeo, colpisce un poco, o comunque è utile apprenderlo, che l’autore lo considerasse anche per il futuro come presidenza collegiale e organo di impulso politico “primario” dell’Unione. Personalmente spereremmo piuttosto in uno sprone dei partiti e delle loro rappresentanze parlamentari, con esecutivo connesso. Quanto alla presidenza del consesso, l’auspicio era che, quand’anche restasse a rotazione semestrale (ma sappiamo che è diventata stabile per 2,5 anni e rinnovabile una sola volta), i paesi più piccoli potessero accorpassero in gruppi regionali, in modo da rendere meno dilazionato nel tempo l’avvicendamento dei più grandi (p. 276). Un consiglio utile, pensando anche ad altre sedi e circostanze. per il Consiglio dei ministri, risultava indispensabile farne la rappresentanza permanente degli Stati - con ministri delegati ad hoc, se possibile vicepresidenti dei rispettivi Consigli dei ministri nazionali - quale organo di codecisione legislativa dell’Unione, e senza poteri esecutivi. Al Parlamento europeo doveva essere assicurato, con procedure semplificate, e il più possibile votando a maggioranza semplice, un vero potere di codecisione, anche sul bilancio e sulla fiscalità, secondo quanto in effetti almeno in parte ottenuto dalla vagheggiata “Costituzione” dell’Unione, nonché in merito alle modifiche di questa o dei trattati (pag. 277). La Commissione, notevole preveggenza, veniva prefigurata con un presidente eletto dal Parlamento e con preannuncio delle candidature (Spitzen…) in campagna elettorale. Quanto al numero dei membri della stessa, gli Stati non potevano pretendere di averne sempre uno ciascuno. Eppure, come si sa, anche oggi nulla è 140 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 cambiato in proposito, essendo stata aggiornata la rotazione paritetica (vedi altri dettagli). All’esecutivo dell’Unione dovevano restare i poteri di iniziativa legislativa e di controllo del rispetto dei Trattati (oggi messo in discussione), nonché competenze estese al secondo e terzo “pilastro” (poi, si è detto, soppressi) ove delle azioni comuni venissero affidate alla Commissione “dai Consigli europeo e dell’Unione” (tutto da riscontrare con una certa attenzione, pag. 278). In più, un vicepresidente della Commissione eletto dal Consiglio europeo e confermato dal Parlamento (non il contrario) diveniva il Mr./Mrs. Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) dell’Unione. Per la Curia, o Corte di giustizia della Ue, le venivano affidate anche funzioni di controllo di costituzionalità riguardanti l’Unione, insieme a competenze giurisdizionali per l’osservanza del principio di sussidiarietà, magari integrandola nell’occasione con membri nominati dalle corti costituzionali nazionali. Interessante annotare ancora che, negli auspici in spirito spinelliano dell’autore, l’approvazione della prossima “Costituzione” europea (o trattato costituzionale che si sarebbe poi detto), ovvero la sua entrata in vigore per tutti gli Stati membri doveva essere tale qualora una maggioranza superqualificata degli stessi l’avesse ratificata. Emancipandosi insomma dal principio di unanimità. In subordine, chi non intendesse ratificarla, e non accettasse nemmeno di restarle soggetto, non perdeva comunque l’acquis comunitario, mediante accordo specifico. L’ottimo sarebbe stato un referendum europeo di ratifica, con clausole accluse (da valutare nei dettagli, p. 279). La maggioranza superqualificata, con effetti validi su tutti i membri, doveva valere anche per le modifiche alla futura “Costituzione”. Per quelle minori sarebbero bastate procedure semplificate. Assai interessante, infine, lo strumento con cui modificare l’entità del bilancio dell’Unione: ovvero mediante “assise”, o Stati generali dell’Unione, composti da rappresentanti del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Un bilancio da tenere comunque “enormemente al di sotto del livello raggiunto dal bilancio degli stati federali oggi esistenti” (pag. 280; ovvero 3% del Pil, comprese le spese militari, pag. 350). Cui va accompagnata, non meno significativa, l’asserzione secondo la quale le amministrazioni nazionali restavano chiamate al ruolo di “terminali esecutivi delle decisioni della Commissione”, in analogia con quanto accade nella repubblica federale tedesca. In sostanza, ruoli e modi della sussidiarietà interna tutti affidati alla “libera potestà dei singoli stati” (ivi). 141 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Come procedere poi lungo il percorso, laddove alcuni Stati risultassero più renitenti di altri? Risposta: o con il solito opting out, già sperimentato, predisponendo le istituzioni a funzionare a “due velocità”; oppure con un nuovo trattato fra “chi ci sta”, rispettando comunque l’acquis anche degli altri. Dopodiché, nei due casi, quando si tratta di ambiti decisionali da tutti condivisi, le istituzioni operano con la partecipazione di tutti; negli altri, a decidere all’interno di Parlamento e Consiglio sono soltanto i rappresentanti dell’unione più “stretta”, mentre Commissione e Corte di giustizia “assumono anche i compiti derivanti dal nuovo assetto” (p. 282). Al riguardo viene comunque da osservare che non sarà facile seguire questo schema finché il principio “one state, one chair” sarà mantenuto anche in Commissione e Corte di giustizia, con in più la proporzionalità degressiva nel Parlamento europeo. Ma non che la prospettiva risulti più semplice ove tale principio venga superato... Parlamento europeo sul proscenio, ad ogni buon conto. Su questa istituzione APS puntava e punta immancabilmente la quasi totalità delle sue carte, in quanto espressione e fattore integrativo del “popolo” europeo, concepito quest’ultimo al di fuori delle concezioni assolutizzanti dello Stato nazione, ovvero come “una comunità che ha in comune taluni interessi e valori”, senza nulla togliere alle altre appartenenze, nazionali, regionali, locali, nonché universali (p. 283). Per queste ragioni l’autore si ergeva a difensore dell’assemblea strasburghese sia contro i tentativi del Consiglio dei ministri di trasformarsi in organo di governo, riducendo la Commissione ad un ruolo di segretariato esecutivo; sia contro l’idea di ibridare la Commissione mediante l’inserimento di ministri nazionali; sia ancora avverso l’ipotesi di conferire al Consiglio delle Regioni poteri decisionali a livello dell’Unione; o anche di procedere alla ricordata elezione della Commissione a suffragio universale diretto, esautorando così l’europarlamento; e via dicendo. Non solo, perché la decisa tutela del Parlamento – di certo non una novità, ma vale la pena di tornarci sopra – faceva schierare il giurista contro l’ipotesi di “un nuovo organo dell’Unione costituito da delegazioni di parlamentari nazionali in luogo del Consiglio dei ministri” (pag. 282). La questione della seconda Camera, insomma, ovvero il Senato degli Stati, come negli Usa, o dei Cantoni svizzeri. Eppure, appunto, negli Stati federali classici questa seconda assemblea esiste, secondo un principio di sovranità condivisa. Condivisa fra i due soggetti collettivi: le entità statuali aderenti alla federazione - che inviano al livello superiore esponenti delle proprie assemblee rappresentative, ovvero eleggono senatori in numero eguale per ogni stato - e il popolo federale, il quale sceglie i propri rappresentanti secondo il criterio “one man, one vote”. Al qual proposito va anche rammentato che, almeno negli Usa, ai rappresentanti degli Stati vengono riservate maggiori competenze in politica estera, in quanto 142 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 competenza propria della statualità, mentre agli eletti dai cittadini va pienamente riconosciuto il principio “no taxation without representation”. Per parte sua Padoa-Schioppa, come molti altri del resto, compreso il progetto Spinelli del 1984, risulta preferire il Consiglio dei ministri nel ruolo di camera degli Stati, rispetto all’altra opzione, quella del Senato, che parrebbe intaccare la centralità del Parlamento quale espressione trainante del popolo europeo e della sua sovranità. Un “nodo”, come già accennato, che si propone fra i più importanti e complessi della tematica in oggetto. In proposito sia consentito prendere atto, salvo errore, di una certa distanza, e solitudine, che l’assemblea strasburghese finisce attualmente per rivelare nei confronti dei cittadini elettori, specie in assenza di veri partiti europei e di una legge elettorale uniforme. Per non dire che in fondo, negli Usa, pur in presenza di una modesta partecipazione alle urne, le scadenze del mid-term rendono più assidua la sollecitazione dei cittadini al dibattito e alle dinamiche politiche. Tant’è che un maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali nei processi decisionali dell’Unione potrebbe rendere il quadro maggiormente partecipe ed animato rispetto ad oggi. Forse non a caso, la recente iniziativa della dichiarazione dei quattro presidenti delle Camere di Italia, Francia, Germania e Lussemburgo, promossa dalla presidente Laura Boldrini, si è rivelata come una delle iniziative più dinamiche di rilancio del processo che dovrebbe portare all’unione politica, se non all’Unione federale. Ma certamente la materia esige ulteriori approfondimenti, al di là dalle possibili evoluzioni autonome ed impreviste della realtà cosiddetta effettuale. Federazione. Stato. Sovranità. Alla pag. 283 si conferma che l’Unione potrà essere uno Stato vero e proprio il giorno in cui potrà adeguatamente governare moneta, spada e toga, cose verso le quali – APS pensiero - si trova già in cammino. E si trova anche abbastanza avanti la nostra federazione sui generis (sui generis in quanto gli Stati mantengono poteri essenziali non affidati in via esclusiva all’Unione e altri vengono condivisi nel segno della sussidiarietà). Ancora nel 2003, a conferma della sua tesi, il saggista lungimirante - magari non al punto di prevedere talune esuberanze renziane - poteva infatti annotare che “le decisioni essenziali in tema di politica della concorrenza ed anche quelle relative all’equilibrio di bilancio dei singoli Stati dell’Unione sono assunte a livello europeo” (p. 328). Del resto, ulteriore asserzione d’epoca, alla fine si vedrà che sono gli Stati nazionali a non potersi più qualificare come tali, dato che già ora la sovranità negli aspetti essenziali l’hanno persa e che gli europei potranno recuperarla soltanto, sia pure non più in modo monolitico, nell’ambito dello Stato federale europeo. Asserzione dalla quale, in effetti, risulta difficile dissentire, sia pure riservandosi qualche notazione più avanti in tema di sovranità federale europea. 143 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Bene, sintetizzate così, in maniera che speriamo minimamente soddisfacente, le premesse concettuali e progettuali offerte dall’autore, sarà possibile ora affidarsi alla potente corrente ascensionale della successione di saggi che conducono il lettore a districarsi attraverso, come già detto: le complicata vicende della Convenzione, candidata a far raggiungere alla Ue lo stato di irreversibilità (pag. 287); lo sfortunato trattato-costituzionale di Roma del 2004; il trattato di Lisbona, fino alle contingenze del presente. Su tutti i quali saggi, stante la mole e la qualità del materiale, ci si dovrà purtroppo limitare a fornire qua e là sporadiche notazioni, recependo al tempo stesso dati, suggerimenti e felici illuminazioni. En passant, ma non cosa da nulla, il punto 5, alla pag. 286, recita come segue: “L’alleanza con gli Stati Uniti non può bastare. Una civiltà che non è in grado di decidere autonomamente la propria linea d’azione e di assicurare con le sue forze la propria sicurezza è destinata al tramonto”. Con l’aggiunta che solo l’Europa potrà dare all’Onu e alle altre organizzazioni internazionali il sostegno e i mezzi per evitare la guerra, garantire la pace ed assicurare il benessere dell’umanità. Ecco, appunto: è opportuno che sia giunta l’aggiunta. Ora, un’Europa che si ponga l’obiettivo di decidere in autonomia la propria linea d’azione, quasi che, da Europe puissance, possa pensare di proporsi come potenza, per giochi di potenza, sulla scena internazionale delle potenze, ci farebbe sicuramente paura. Anche perché non riusciamo a vedere né dalle parti della Senna, né della Sprea una leadership talmente credibile, di natura hamiltoniana o lincolniana, la quale possa fare di quel soggetto puissant e dotato di potere di decisione autonoma un fattore non trascurabilmente kantiano, come tutto sommato gli Stati Uniti nella loro storia, pur con gravi limiti, pur con un globalismo egocentrico anzichenò, sono riusciti comunque a rappresentare. Altra cosa invece credere in un’Europa conscia delle proprie colpe e consapevole di una missione di pace da affermare, in linea di massima d’intesa e in alleanza con il grande fratello, e forse restando un gradino più in basso rispetto a lui, evitando però al tempo stesso, in forza della sua unità soggiogamenti e soggezioni (intercettazioni?). Un’Europa come pacifico e responsabile fattore di progresso, di cultura, di legalità democratica, di scienza, a beneficio proprio e altrui. Oltretutto sarà proprio grazie alla precisazione di quale debba essere il ruolo della federazione europea nel mondo che si potrà giungere a mettere a punto il modello istituzionale ottimale per un’Europa non autoritativamente decisionista (presidenzialista?), nemmeno passivamente neutralista (alla svizzera?), quanto stabilmente orientata alla concertazione costruttiva. Qualcosa, in breve, collocato a metà strada. Qualcosa di consapevole, oltretutto, delle mille diversità linguistiche, religiose, istituzionali, storico-esperienziali interne al Vecchio Mondo, e proprio per questo 144 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 necessitante di una particolarmente ponderata e creativa sapienza. Sapienza anche istituzionale, necessariamente, alla quale APS contribuisce magistralmente. Ritornando con i piedi a terra, all’epoca del saggio or ora ricordato l’autore mostrava realisticamente di temere che a porsi di traverso lungo l’auspicato percorso convenzional-costituente potesse essere soprattutto la Francia, il contraddittorio paese iniziatore del processo di integrazione europea e al tempo stesso la più “restia a compiere il passo decisivo” (p. 287). In effetti, anche in questo caso, P.-S. la vedeva lunga, così come non avrebbe esitato a rimproverare al presidente della Convenzione, l’ex presidente gaulois Valéry Giscard d’Estaing, parecchi scetticismi e renitenze (assai severa, tra le altre, la pag. 308). Eppure Valéry risultava fra i più europeisti... Peccato. E non meno peccato che anche l’Italia e la Germania, all’epoca apparentemente più attive e promettenti, fossero destinate a rivelare ben presto i propri mal di pancia. Tanto che ai nostri giorni, come già osservato, persino il medievalista preveggente mostra a tratti di paventare il peggio. Salvo però far affidamento, a ragione, su un’onda lunga che risente sì del freno degli ostacoli, ma con una spinta notoriamente tale da portarsi ogni volta un poco più avanti. Riprendendo le nostre “tappe e svolte”, a partire dal saggio n. 17, per chi voglia documentarsi dettagliatamente sulle innovazioni e sulle occasioni mancate della Convenzione, ovvero sugli aspetti essenziali del progetto di “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, approvato in luglio 2003, ebbene su tutto questo (pagg. 289-311), come sui documenti successivi, il volume risulterà davvero utilissimo. Impossibile peraltro seguire in questa sede i singoli nodi e snodi, ma indispensabile farlo per chi voglia documentarsi in argomento. Da non dimenticare mai, ad ogni buon conto, che dal lavoro della Convenzione era emerso il traguardo fatidico di “Costituzione” per l’Ue, sia pure “una” e non “la”, e per quanto introdotta con trattato, non mediante assemblea costituente. Nel 2004 la dizione sarebbe stata mantenuta, peraltro mutando il verbo “istituisce” in “adotta”. A sorvolo di pennuto, fa piacere che un discreto attestato di merito (pag. 309 e seguenti) si trovi conferito a Giuliano Amato, sostenitore già da vicepresidente della Convenzione della personalità giuridica dell’Unione, in un quadro istituzionale unico. Il fine, tra l’altro, era di consentire la rappresentanza unitaria europea nelle sedi internazionali, tipo il Fondo monetario internazionale, come recentemente proposto dalla presidenza Juncker. Per parte sua, la Convenzione veniva accusata dall’autore di aver prodotto un profilo istituzionale ancora imperfetto, “per quanto concerne sia la capacità di decidere, sia la capacità di agire, sia la legittimazione democratica delle decisioni, sia 145 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 l’evoluzione costituzionale futura”. Ciononostante, attenendosi sempre al testo, l’introduzione delle cooperazioni “rafforzate” (e di quelle “strutturate” per la difesa), non rinnegata neanche a Lisbona, apriva la strada ad ulteriori evoluzioni, compresa la messa in marcia di quel “nucleo duro”, di cui per la verità ancora oggi si attende la netta epifania, nella convinzione, propria di APS, che l’Europa delle “due cerchie” risulti a dir poco inevitabile. E in effetti, Cameron imperversante… Tecnicismo “costituzionalistico”comunque inguaribile, seppur lungimirante, quello del nostro mentore? Tutt’altro: in un succoso articolo del 2003, destinato ai lettori de «La Stampa», egli interveniva in merito al noto preambolo del trattato, a proposito del quale si dibatteva se vi dovesse comparire o meno il fattore identitario delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Il preambolo, come è noto, ed è vicenda non poco intrigante, si sarebbe alla fine ridotto al pressoché nulla, causa l’incapacità dei contraenti di trovare qualcosa di genetico-valoriale da esibire in comune al resto del mondo. Quale allora in proposito la posizione del saggista, esplicitamente affascinato dalla cultura cristiana, la cui matrice riconosce emergere in “larga parte dei valori enunciati nelle moderne costituzioni” (p. 313)? Per non dire del principio della separazione tra sfera temporale e spirituale, cosa che, a suo avviso, nessuna delle altre religioni, dall’ebraica alla bizantina, all’islamica avrebbero sviluppato in modo paragonabile. Con tutto ciò, sempre a parere di APS, un eventuale riferimento nella “Costituzione” della Ue al cristianesimo come “fondamento vitale” della civiltà europea, benché “ineccepibile” dal punto di vista storico, rischiava di trasformarsi in “affermazione di una identità culturale per così dire esclusiva o privilegiata”. Infatti la piena libertà di pensiero e di religione costituisce anch’essa aspetto essenziale della civiltà europea. Per cui, consiglio di APS, meglio non rischiare che nella Costituzione, o trattato costituzionale europeo, qualcuno finisse per non identificarsi, in quanto diversamente o per nulla credente. Giacché “la fede si propone e non si impone”. Sempre per tenersi ai livelli alti, il saggio successivo, ancora del 2003 e comparso nei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», si confrontava con la problematica dell’identità storica e attuale dell’Unione. Tema possente e controverso, su cui si registra una reticenza addirittura colpevole a livello ufficiale. Tanto per dire, come recentemente denunciato dai giovani federalisti ai parlamentari europei, persino l’autopresentazione ufficiale dell’Unione, nell’apposito sito offerto al mondo intero, si propone talmente timida e neghittosa da ricorrere alla definizione di “partnership”, foss’anche “unica nel suo genere”. 146 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 La Ue dunque come una delle tante organizzazioni internazionali fra stati eterogenei, fosse pure con qualche vezzo in più delle altre, come sembrerebbe dedursi dal sito internet brussellese? O invece come una vera federazione in formazione? La risposta, ricorrente nel volume e orientata alla prospettiva “costituzionalistica”, è già nota e scontata. Meno ovvie le considerazioni che portano l’autore a sostenere la sussistenza storica di una realtà europea con caratteri unitari fin dal Medioevo, laddove soltanto dopo la Rivoluzione francese si sarebbe affermata una sacrale identificazione fra Stato, patria e nazione, fino a giustificare la morte di milioni di combattenti e cittadini, pur di salvare ogni zolla del suolo nazional-statale. A ben vedere, la storia del diritto dei diversi ordinamenti territoriali europei - detto assai più esaurientemente di quanto qui riassunto - risulterebbe talmente interconnessa da costituire in realtà un’unica storia (pag. 318). Succose pagine davvero, ricche di seppur sintetici dati e notazioni, che spaziano dalle istituzioni comunali e cittadine alla disciplina del patriziato, al diritto comune, alle dottrine illuministiche e via a seguire, sino alla dettagliata esposizione di quanto ad oggi acquisito, nonché dell’ancora acquisibile (meglio: acquisendo) da parte dell’attuale federazione in fieri. Ma quante volte ricorre poi la notizia che sin dal conclave dell’a. D. 1179 fu la maggioranza qualificata a venir riconosciuta come strumento principe per consacrare il successore di Pietro? Davvero parecchie. Planando nuovamente a livello tecnico, il campanello d’allarme tintinna a pag. 324. Sempre in quel saggio del 2003, l’ipotesi di un presidente del Consiglio europeo “stabile”, cioè non a rotazione, oltre che istituzionalmente distinto dal presidente della Commissione, veniva considerata dall’autore come pericoloso fattore di potenziale diarchia, a tutto scapito dell’unità di indirizzo dell’Unione. Di fatto le cose sarebbe andate esattamente nel modo temuto, con qualche scapito, obiettivamente, della centralità del signore di palazzo Berlaymont. In verità, il trattato di Lisbona avrebbe per lo meno mantenuto la possibilità di attribuzione dei due ruoli alla stessa persona. Cosa che il saggio comunque perorava. Tuttavia anche questa soluzione, sia consentito annotarlo, potrebbe indebolire il profilo del signore suddetto: questi risulterebbe infatti come portavoce di un consesso intergovernativo pur trovandosi alla guida di un esecutivo a vocazione federale. Forse al Consiglio europeo andrebbe a suo tempo assegnato uno status di presidenza simbolica collettiva, con poteri non molto diversi da quelli di un sovrano d’Inghilterra. Da consultare peraltro con la dovuta riverenza anche le argomentazioni dedicate al concetto di “popolo”, per il quale APS esige l’abbandono della concezione “monistica” o totalitaria che lo avvincerebbe indissolubilmente, al pari della cittadinanza o della sovranità, allo Stato nazionale signore assoluto. 147 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Ancora la sussidiarietà, insomma. Peccato soltanto ritrovarsi alquanto impreparati in merito al populus di Bartolo da Sassoferrato o di Baldo degli Ubaldi, richiamati nel testo (pag. 329). Forse, a conoscerli, si sarebbe ancora meglio in grado di comprendere la fisionomia istituzionale del “popolo europeo”, fatta di sovranità popolare, equilibrio dei poteri, diritti dell’uomo, libertà religiosa, non meno di concorrenza, solidarietà, sussidiarietà, pace istituzionalmente garantita. Tutti presupposti e valori elencati uno per uno dal medievista eurounionista, ad avviso del quale, in tema di sovranità, ad esserne titolare in ultima istanza è il singolo individuo, il quale la eserciterebbe “liberamente e collegialmente nelle diverse formazioni e ai diversi livelli in cui si articolano le istituzioni politiche”, dal municipio all’Onu (pag. 330). Anche questo un passaggio che si raccomanda di leggere con viva attenzione. Forse un po’ ottimista, o futurista, tenendo a mente la consistenza identitaria non certo trascurabile dello stato nazionale, che lo stesso autore riconosce anche in futuro come sede di gran parte della convivenza e delle competenze politicoamministrative. Però anche questa un’assai istruttiva e solida provocazione. Provocazione perché tocca il tema forse centrale dei nostri tempi, ovvero la cittadinanza, nonché la legittimazione delle istituzioni tanto nazionali che dell’Unione. In effetti, proprio perché la cittadinanza comporta il possesso di una frazione della sovranità collettiva, legittimante gli assetti istituzionali, concederla o estenderla un po’ liberamente, specie a chi provenga da culture/religioni diverse, o da condizioni di inadeguatezza civile, o da situazioni di evidente sottosviluppo, non rischia di risultare una minaccia? Minacciare cosa? Precisamente: la stabilità, l’affidabilità, l’efficienza, la credibilità indispensabile di quella democrazia che costituisce la base eticofondante di tutte le nostre istituzioni. Un tema, di sicuro, che nell’attuale periodo di intense immigrazione risulta di bruciante attualità. E che meriterebbe nel dibattito pubblico più accurate, concrete e realistiche valutazioni, sia pure non rinunciando, almeno in linea di principio, alle convinzioni affermate dal nostro. Stimolante in ogni caso che fra le righe del testo si apprenda una concezione ancor più estensiva della sovranità, spettante in ultima istanza soltanto al cittadino. Quest’ultimo la esercita sicuramente attraverso la democrazia rappresentativa ai vari livelli, ma anche, si legge, “attraverso i mercati, la democrazia diretta, la libera espressione degli interessi e dei valori” (ivi). Un complesso di facoltà e valori ereditati medievisticamente? fin dal lontano passato che si farebbe portatore proprio oggi di una più ampia concezione e di un più ricco esercizio delle libertà. Fortuna che li chiamavano secoli bui… E fortuna che c’è ancora chi li collega col presente. 148 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Troppo lungo, ancora una volta, risulterebbe commentare a questo punto, con riferimenti ai singoli articoli, come fa sistematicamente APS, il contributo del volume dedicato al “trattato costituzionale” (formula ambigua, fuori di dubbio) che costituì il frutto del lavoro della Convenzione con i ritocchi finali, beninteso, della Conferenza intergovernativa. Vale a dire il documento destinato, dopo lunga elaborazione, al drammatico prendere o lasciare degli Stati membri e risultato vittima, come si sa, del tagliere franco-olandese (pagg. 333-68). Quanto tempo perso, in effetti! e quale contributo offerto, presumibilmente, ai successivi travagli economici e sociali dell’Unione! In estrema sintesi, in riferimento alla Carta dei diritti inserita nel trattato, vale la pena di segnalare le seguenti sottolineature, meno scontate di altre: amplificazione del raggio di discrezionalità interpretativa dei giudici della Corte e degli ambiti di sua competenza, sino alla “violenza domestica”; affermazione del principio di solidarietà e riconoscimento della “persona”, di radice cristiana; richiamo alla ragionevole durata del processo, assai importante soprattutto per il nostro paese. Mancata enunciazione, invece, del diritto alla pace, “come diritto pubblico soggettivo”, anche in funzione di una possibile riforma-rilancio dell’Onu, su cui alcune proposte meritevoli di attenzione (e con il seggio permanente unico europeo sullo sfondo, pag. 338). Ma quanto male aveva fatto la Cig, nel ritoccare il testo originale della Convenzione? Fra i rimbrotti più sentiti, il ritorno all’indistinzione tra funzioni legislative e amministrative del Consiglio dei ministri, sia pure prevedendo la pubblicità delle sedute legislative e l’esplicita enunciazione dei poteri esecutivi della Commissione. Sul tema delle presidenze si è già detto; peccato poi non aver mantenuto il numero dei commissari a 15 e basta, laddove la previsione delle rotazioni prometteva di creare tensioni fra i governi (difatti nemmeno oggi, sono state attuate); buono invece il ministro degli Esteri europeo con doppio cappello in Consiglio e in Commissione, con l’aggiunta di un servizio diplomatico alle sue dipendenze; lodevole l’introduzione del già ricordato principio della doppia maggioranza per stati (55%) e popolazione, non “popolo”, al 65% nelle votazioni del Consiglio (51% e 60% aveva previsto la Convenzione, ma Spagna o Polonia dissentivano) e profittevole anche la maggioranza superqualificata, ivi compresa la gestione della minoranza di blocco. Riprovevole invece l’ulteriore riduzione, incalzando i britannici, degli ambiti in cui era consentito decidere a maggioranza, con il risultato di sottoporre al pericolo del veto le materie più strategiche, dalle fiscali e finanziaria alla politica estera e di sicurezza (veramente soggiogata alla regola dell’unanimità), alle risorse proprie, all’armonizzazione legislativa. E in più politica sociale, commerciale, coesione e via dicendo (vedi elenco alle pagg. 341- 149 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 42). Con un modesto contentino: la possibilità di astenersi in Consiglio senza bloccare per questo una decisione a maggioranza. Altra concessione: le “passerelle”, ovvero le clausole che consentono, esclusa la difesa, di passare dall’unanimità alla maggioranza nelle decisioni sulle politiche dell’Unione, previo il consenso, naturale, doverosamente unanime del Consiglio europeo e il voto positivo dell’assemblea strasburghese. Strano però, annotava il giurista, che la presidenza italiana (il cavaliere? sempre lui?) avesse accettato all’ultimo momento la “irragionevole” facoltà concessa ad ogni singolo parlamento nazionale di smontare a suo libito la passerella, ove non la trovasse di suo gradimento. Sempre fra i passi in avanti venivano inoltre sottolineate le cooperazioni “rafforzate” ereditate dal trattato di Amsterdam del 1997: mettevano in condizione almeno un terzo dei governi, purché con il consenso della maggioranza dei medesimi, di avviare talune politiche in comune, addirittura decidendo di passare alla gestione di tipo comunitario delle medesime, coinvolgendo così anche il Parlamento. Ulteriore punto qualificante, oltre all’istituzione dell’Agenzia europea degli armamenti, o della difesa (l’EDA, deliberata nel 2004 stesso): la previsione della cooperazione “strutturata” permanente nel settore della difesa, seppur sottoposta in ogni passaggio, anche al proprio interno, smentendo così la Convenzione, alla regola dell’unanimità. Molto poco a che fare, ad ogni buon conto, con il ben più ambizioso progetto di difesa europea affossato dalla solita reticenza francese il 30 agosto 1954. All’Europa dei nostri giorni, in definitiva, sempre a detta del dominus del volume, restava di conseguenza inappagata la possibilità di un rapporto di alleanza “alla pari” con gli Usa e in collegamento “organico” con l’Onu. Affermazione forte, poco da fare, tanto da far pensare che taluni accenti alquanto speranzosi facciano ogni tanto capolino fra le molte pagine. Un’Europa pari agli Usa, dentro la Nato beninteso, tenendo conto tra l’altro delle differenze fra paesi nucleari e non nucleari al suo interno, non è facile immaginarla. Viceversa, un’Unione in grado di scongiurare esagerazioni, sconfinamenti ed errori evidenti del grande fratello, collaborando ad assicurare la stabilità del quadro mondiale, questo sì, questo sarebbe decisamente auspicabile. Se poi sia realistico mettere a disposizione dell’Onu dei corpi di pace europei è difficile dirlo, per quanto suggestivo. In ogni caso, ad avviso di chi recensisce, resta obiettivamente urgente creare una sicura solidarietà e integrazione occidentale (avvalendosi, perché no?, anche del Ttip), con il fine di allargare l’area delle democrazie e delle tutele dell’individuo ad aree sempre più vaste. Forse soltanto in questo modo si riuscirà, anche se il tema viene 150 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 sistematicamente trascurato, ad assicurare una certa stabilità dell’intero assetto globale. Che presumibilmente rappresenta la questione centrale del nostro evo. Quanto poi, tornando al giugno 2004 dalle parti del Colosseo, quanto poi alla quaestio procedurale delle possibili revisioni del trattato con aspirazioni costituzionali, la soddisfazione risultava evidente: si era mantenuta la possibilità anche per il Parlamento e per la Commissione di avanzare proposte di modifica dei patti sottoscritti, mentre al Consiglio europeo spettava a quel punto la facoltà di deliberare a maggioranza semplice la convocazione di una nuova Convenzione, seguita dal vaglio definitivo e unanime dell’immancabile Cig. Con la spada di Damocle tuttavia perennemente incombente, ovvio, della ratifica unanime del nuovo testo da parte degli Stati, salvo la generica facoltà conferita al Consiglio di occuparsi del caso qualora almeno quattro quinti avessero ratificato entro due anni, con gli altri rimasti invece in vario modo riluttanti. Tutti intralci sovranisti a cui l’autore contrapponeva la proposta dell’autonoma decisione degli stati favorevoli di andare avanti in ogni caso, decidendo di considerare il trattato-costituzione come un trattato del tutto nuovo e non una modifica di quelli precedenti. Coraggiosi suggerimenti, vale la pena sottolinearlo, che potranno risultare utili anche in futuro. Nel frattempo, pensando al nostro presente-futuro, meritava di essere evidenziata, sempre nel saggio, la possibilità di un’evoluzione delle competenze della Ue in merito alle politiche interne - ivi compresi affari di giustizia, polizia e immigrazione – con delibera unanime del Consiglio europeo, con il parere del Parlamento e della Commissione, ma senza riforma dei trattati. Peccato il solito potere dirimente dei parlamenti nazionali spuntato fuori all’ultimo, rispetto alla semplice consultazione di Commissione e Parlamento. Al qual proposito, anche non volendo darne colpa a una certa presidenza di area meneghina, di certo un regalo così a un Victor Orban o al recente governo polacco non avrebbe rappresentato cosa da poco. Tenendo conto che con i ripieghi, seppur non enormi, introdotti in fase Lisbona, rispetto allo stesso trattato costituzionale, la regola regressiva si sarebbe ovviamente conservata. Ma che giudizio dare sul testo approvato nel 2004? Nel complesso positivo, osservava APS, tenendo conto che l’elaborazione era avvenuta malgrado l’imponente allargamento ai paesi centro-orientali. Un aspetto che in noi, seppur detto fuggevolmente, stante il numero di Stati affluiti, di diritti di veto garantiti e via dicendo, provoca un qualche maggiore disdoro. Dopodiché aggiungeva però l’autore che il passo decisivo dell’irreversibilità dell’assetto costituzionale, sì, “costituzionale”, dell’Unione non era stato compiuto. Da cui la domanda fatidica e fatale, nonché tuttora librata priva di risposta sul capo di tutti i cittadini dell’Unione: chi governa l’Europa? In effetti… 151 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Preveggenti, senza dubbio, le esternazioni del conoscitore dei tempi bui del passato come dell’oggi. Non a caso temeva tra l’altro un esito sfavorevole delle ratifiche, in primis per colpa dell’Inghilterra, incline a ritirarsi dal continente, magari perché notoriamente determinata, reminiscenze storiche, a sabotare il formarsi di una potenza continentale fin dall’epoca di Carlo d’Asburgo e di Enrico Tudor. Sicché, parole del nostro: “Prima o poi l’Inghilterra dovrà decidere se proseguire sulla via dell’unione o se separarsene adottando la via meno impegnativa di una semplice associazione” (pag. 352). Anche se forse dalle parti di Londra - dove si aspettò il voto negativo francese e olandese, evitando così di prendersi responsabilità in proprio - una specie di “dentro e fuori” a discrezione è la soluzione più appetita. Naturalmente il nodo maggiore da sciogliersi, e anche questo al saggista appariva chiarissimo, restava nella capitale francese, sede del presidente Jacques Chirac, per quanto incoraggiante eppur sempre gollista, e di quel Giscard che alla Convenzione (da leggere anche pag. 359) aveva placato parecchio i bollori federalisti. Correttamente Padoa-Schioppa osservava che la cugina d’Oltralpe non aveva ancora deciso di compiere il passo decisivo, di mettere sul piatto persino la force de frappe, pur di tener fede al progetto che essa stessa aveva avviato con Schuman e Monnet. Tuttavia qualche indizio incoraggiante sembrava profilarsi, non solo in Francia, ma anche negli orientamenti dell’opinione pubblica continentale. Più severo il giudizio sull’intera leadership politica continentale, compreso quello sul cavaliere nostro, intuibile fra le righe. Peccato soltanto che, al di là dell’esito del referendum, ancora dovessero venire i tempi di madame Le Pen. Per non dire dei populismi dilaganti al di qua e al di là delle Alpi. Intuibile insomma la delusione del nostro all’indomani dell’increscioso pronunciamento popolare, avvenuto il 29 maggio 2005. E condivisibile anche il dito puntato contro il nuovo Mendès-France, alias Fabius, e soci, incaricatisi di distogliere parte della sinistra dal sostegno al trattato. Apprezzabile inoltre la perspicacia nel mettere in connessione il ripiegamento dello spirito europeo con la mancanza di quel dinamismo e di quella progettualità che caratterizza invece gli Stati Uniti, ma anche molti paesi emergenti. Eppure l’unità politica europea doveva e dovrebbe esercitare un ruolo d’avanguardia a livello mondiale, sia come modello di integrazione, sia come promotore di civiltà, di sviluppo e di progetti innovativi affidati soprattutto ai giovani. Affermazioni pienamente condivisibili e belle pagine da leggere in argomento, fra l’immagine di mollezza di Europa Venere e quella dell’Europa prefiguratrice di futuro, alla Jeremy Rifkin. Con in più il ricordo delle grandi personalità dei cosiddetti “padri dell’Europa” e forse con qualche sottovalutazione dell’apporto positivo degli Usa nella trasformazione postbellica del Vecchio Mondo da campo di macerie a 152 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 polo d’attrazione comunque irresistibile per le popolazioni e gli Stati circonvicini. Ma belle pagine davvero (tra 355 e 368). Altrettanto coinvolgenti e ancor più impegnative sul piano culturale sono da segnalare poi quelle che compaiono subito di seguito, dedicate al tema dell’unità nella diversità; diversità da risolvere, si auspica, grazie al principio, tratto dai padri della Chiesa, del “diversi sed non adversi”. Una riflessione, cioè, sul cosa significhi essere e rimanere “diversi” che spazia a grand’angolo nella storia: dal venir meno irrecuperabile dell’unità spirituale dell’epoca della Respublica cristiana all’emergere fra loro antagonistico di confessioni, ideologie, concezioni politiche, teorie socio-economiche e altro ancora. Tutte specificità che andavano ad aggiungersi alle mille differenziazioni interne (dalle etniche alle statuali, fino alle consuetudinarie, fra un villaggio e l’altro) producendo in definitiva una ricchezza di esperienze e di apporti da considerarsi patrimonio dell’Europa. Patrimonio sì, ma non meno fattore di tormento, alla luce dei tanti conflitti, sino alle tragiche esperienze novecentesche. Ciononostante, sarebbe improvvido negare, sempre a parere di APS, che l’Europa costituisca una civiltà comune fin dal Medioevo, e dunque possieda anche il carattere, e la tensione dell’unità. L’economia, la società, il diritto, la cultura intesa nel senso più ampio, con i fondamenti dei quattro lasciti antichi (il pensiero greco, il diritto romano, la tradizione biblica ebraica e il messaggio cristiano), lo dimostrano con “assoluta chiarezza”. Il compito della nostra epoca risulta pertanto riconoscere e valorizzare la diversità e la pluralità, facendole coesistere in un contesto istituzionale unitario garantista per tutti, ovviamente organizzato secondo il criterio della sussidiarietà. In proposito Padoa-Schioppa si sofferma acutamente su quante scelte, anche sul piano della legislazione, o su quello giuridico e giudiziario, siano frutto di bilanciamento fra valori diversi, ma non integralmente opposti. Un vero patrimonio, appunto, la cui garanzia e la cui tutela costituisce “uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione europea” (pag. 374). Resterebbe forse da valutare ancor più a fondo, sia consentito, quanto il fattore etnico-linguistico, sommato alla società di massa, abbia costituito motivo di differenziazione profonda, come per blocchi, all’interno del continente. Tanto da produrre quella carneficina novecentesca, da taluni considerata la fine dell’età moderna ed anche dell’Europa come portatore di progresso per il resto del mondo. Di certo, la tendenza ai groppi, malgrado tutto, resta tenace, minacciando nuovamente tensioni ed eccessi. Una curiosità ulteriore ci porta poi a chiederci se ci sia pur sempre la necessità di un fattore egemonico, trainante, in qualche modo cogente, non soltanto di una serena, responsabile e paritetica concertazione, per orientare di volta in volta le scelte, ovvero i compromessi, in una comune direzione. 153 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Qualcosa di cui anche oggi ci sarebbe bisogno, ma del quale il Vecchio Mondo, dall’età moderna in poi, non ha quasi mai goduto, cadendo piuttosto vittima degli appetiti imperial-nazionali puntualmente emergenti. Che poi oggi l’Europa abbia bisogno di scelte comuni sui grandi temi della difesa, dell’energia, degli investimenti collettivi nelle tecnologie di avanguardia per reggere almeno al confronto con l’alleato-protettore (APS richiama il concetto di equal partnership a suo tempo proposto dai presidenti Eisenhower e Kennedy), oltre che con le grandi sfide mondiali, ci pare asserzione del tutto condivisibile ed auspicabile. Salvo appunto non dimenticare che il concetto stesso di Europa non risulta pienamente disgiunto dall’esperienza di quella parte di Europa a suo tempo trasferitasi al di là dell’Atlantico, per poi tornare a mettere ordine, e per tenerci sopra il pugno di velluto, una volta esplosa la grande mattanza del ventesimo secolo . Molto suggestiva infine, anche se ormai vagamente datata, quella sorprendente segnalazione del modello Unione europea come esempio a cui guardare e da imitare per il futuro, da parte di “acuti osservatori” americani e inglesi. Alla quale attestazione di stima faceva peraltro riscontro il parere assai più contenuto di intellettuali europei, anche costituzionalisti, tra cui Dieter Grimm, convinti che l’Unione, anche in futuro, non diventerà mai una vera federazione di Stati. Una previsione pessimistica, a cui il nostro risponde appellandosi alla risorsa della sussidiarietà, di cui l’unificazione costituzionale europea costituirebbe un ulteriore valorizzazione. Riuscirebbe infatti sia a salvaguardare i processi decisionali ottimali ai livelli più vicini al cittadino, e sia, dove necessario e utile, spostandoli verso l’alto. Di passata andrebbe anche rimuginata l’asserzione per la quale la sussidiarietà non dovrebbe venire spinta fino a consentire la nascita di nuovi Stati nazionali, per distacco da quelli vecchi, tipo la Scozia (pag. 381). Tuttavia, su questo pur importante capitolo, avendo dedicato un intervento sempre in questa rivista alla diversa identità storica degli Stati nazionali europei, con conseguenti deduzioni, è preferibile al momento soprassedere. Meglio tornare dunque alle enunciazioni sul potenziale di promozione e di valorizzazione della diversità (meno usato il termine pluralismo) che sarebbe appannaggio specifico dell’Europa. Purché essa, beninteso, riesca a realizzare la sua unità, realmente federale e senza diritti veto, con il limite “invalicabile”, sia ben chiaro, oltre il quale non si ammette la diversità: quello cioè che si riassume nella Carta europea dei diritti (pag. 382). Solo così, solo sulla base di questi valori e diritti comuni, sarà addirittura consigliato insegnare nelle scuole, pubbliche o private, ai giovani europei non meno che ai figli degli immigrati, la tutela della diversità. “I valori comuni del rispetto dei diritti umani sono la base del moderno contratto sociale” (pag. 383). 154 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 Calando di nuovo a livelli più materiali, quelli dei grovigli del conflitto quotidiano, prima di seguire l’autore nella valutazione del trattato di Lisbona, è istruttivo accompagnarlo, anno 2008, nelle distrette dei giorni successivi al “no” irlandese - ennesimo tormento o apoteosi del diritto di veto – opposto alla ratifica del trattato medesimo. Senza entrare nei particolari, è lì che viene messa a punto la possibile strategia per superare l’ostacolo esiziale ogni volta che questo si profili nuovamente all’orizzonte. Tenendo conto dell’attualità della riflessione in materia, la soluzione prospettata - al di là dei possibili recessi, opting out e compromessi vari - comporta il varo di un nuovo trattato fra chi vuole comunque andare avanti, mirato alla creazione del “nucleo federale”. Parola grossa, indubbiamente, ma carica di potenziale. Tenendo conto, oltretutto, che all’epoca, qualora il trattato di Lisbona non fosse entrato in vigore, l’Unione si sarebbe trovata con il trattato di Nizza valido per tutti e, appunto, con l’angosciosa ipotesi di un nuovo trattato da sottoscrivere ad opera del “nucleo” dei più convinti. Come si sa, alla fine, a seguito del secondo referendum irlandese, lucidamente previsto da P.-S., oltre che per ragionevolezza collettiva, il trattato sarebbe entrato in vigore per tutti, evitando l’eccesso di complicazioni, salvo suscitare all’Inghilterra i noti turbamenti d’attualità. Tuttavia saper valutare attentamente come e con quali limiti affrontare l’ipotesi delle due velocità, ovvero dell’Europa dei duri e quella dei meno duri, è esercizio sicuramente utile, se non altro in vista di prossime, eventuali avversità. Certo, come sottolineava il saggio in questione, alias “L’Unione ad un quadrivio”, resterebbe sempre possibile la via delle cooperazioni rafforzate, dei trattati a latere per l’eurozona, come in effetti si sarebbe proceduto più tardi con il Patto di stabilità, ed altro ancora. Tuttavia, onde evitare le incertezze dei veti e di tutto l’apparato intergovernativo, lo strumento del nuovo trattato lascia indubbiamente intravedere una risorsa alternativa. In tal caso, però, dovrà essere valutato se sia meglio farlo sottoscrivere a tutti, prevedendo gli opting out per i meno determinati, o piuttosto soltanto dai “duri”, con le ricadute del caso. E come sistemare poi la questione del Parlamento, del Consiglio e così via? Crearne di nuovi? Poco realistico. Da valutare allora la quarta ipotesi, variante della terza, fondata sulla proposta ai cittadini europei di sostenere grandi obiettivi comuni, da raggiungere sulla base, appunto, di una doppia geometria costituzionale. Con in più l’impegno preventivo di chi fosse d’accordo nel rinunciare da subito all’esercizio del veto, in vista di un governo comune fondato, detto in sintesi, sui principi già illustrati agli esordi della terza parte del volume. Meglio fermarsi qui, trattandosi di valutazioni ipotetiche, ma da tener presenti, come già detto, per possibili occasioni di là da venire. Poco ma sicuro, 155 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 la paura dei veti e delle convulsioni susseguenti sta bloccando da tempo, anche ai nostri giorni, l’ipotesi di una riforma istituzionale peraltro considerata indispensabile. A conclusione del saggio, APS profetizzava nuovamente lo strumento delle candidature alla presidenza della Commissione ad opera dei partiti europei in occasione delle elezioni. In più si associava ad Jürgen Habermas nel sostegno alla richiesta di un referendum europeo, in occasione delle elezioni del Parlamento, per sentire le risposte dei cittadini sulle questioni di fondo dell’Unione. Ottimismo? A quanto pare, i sondaggi, almeno allora, continuavano a dare un’ampia adesione del demos all’idea di una difesa e di una prospettiva di sviluppo comuni. La terza parte del volume si conclude, sempre nel 2008, con un’ulteriore, rapida valutazione della sostanza istituzionale del trattato di Lisbona, il quale sarebbe andato ufficialmente in porto soltanto il primo dicembre 2009, per risultare a tutt’oggi, debitamente “consolidato”, la carta di base dell’Unione. Da condividere, in proposito, la critica severa del metodo tradizionale degli emendamenti ai trattati precedenti, cosa che ne rende incomprensibile la lettura alle persone comuni. Non a caso, compito della Convenzione per il trattato costituzionale era stato quello di dare forma ad una normativa chiara e leggibile. Ma evidentemente le esigenze dei cittadini non erano rimaste in primo piano. Meglio appunto “consolidarlo”, integrando aggiunta per aggiunta, sostituzione per sostituzione, i trattati preesistenti. In merito poi alla sostanza, a parte l’abolizione della bandiera a 12 stelle e dell’Inno alla gioia come simboli ufficiali, l’auspicio della “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti risultava assecondato, insieme al ricordato riconoscimento della personalità giuridica dell’Unione e, importante, all’esplicita menzione del principio di democrazia rappresentativa, “che sottintende l’impegno verso una coerente applicazione del principio della sovranità popolare”. Un impegno confermato anche dall’introduzione dell’Ice, ovvero del diritto di iniziativa dei cittadini europei, che obbliga la Commissione, una volta ricevuta l’istanza (purché valida, oltre che sottoscritta da almeno un milione di europei) a presentare una proposta di normativa secondo le modalità previste dai trattati UE (pag 400). Il Parlamento vedeva inoltre ampliati i propri poteri, mentre la codecisione diveniva la procedura legislativa ordinaria dell’Unione. I parlamenti nazionali acquisivano maggior controllo sul rispetto della sussidiarietà. La Commissione avrebbe dovuto ridurre i suoi componenti passando ad un criterio di rotazione (ma si sa com’è andata). Sul voto a maggioranza qualificata in Consiglio si è già detto. Al riguardo, l’autore aggiungeva – ma la Corte costituzionale tedesca non sarebbe d’accordo – che il riconoscimento della rappresentanza per popolazione (il termine “popolo” era 156 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 stato escluso) mostrava di presupporre un’entità comune dei cittadini europei. Felicemente mantenuta inoltre la pubblicità dell’attività legislativa del Consiglio. Non esclusa peraltro la già da noi commentata possibilità che il presidente della Commissione e quello del Consiglio europeo (divenuto stabile per due anni e mezzo, nonché rinnovabile per una volta) coincidessero nella stessa persona. Pregevole anche la fusione delle funzioni del commissario per la politica estera e del mandatario del Consiglio per la Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) nella carica di Alto rappresentante (non ministro, come previsto dalla Convenzione) per la Pesc, con le altre prerogative già citate, oltre all’obbligo di consultare regolarmente il Parlamento europeo. Per le cooperazioni “rafforzate” si è già detto e anche per la “strutturata”, che non prevede un numero fisso di paesi per porre in atto singole iniziative di coordinamento in materia di militare e di difesa. Il Parlamento poi manteneva, e mantiene, accanto alla Commissione e ai singoli governi, il potere di iniziativa per le future revisioni dei trattati: una facoltà assai importante che potrebbe prestarsi anche oggi a pressioni dell’opinione pubblica sui gruppi e sull’assemblea, oltre che sulla Commissione, perché avviino il processo di riforma, malgrado le resistenze dei governi. Fra i quali è sufficiente la maggioranza semplice per dare avvio ad una nuova Convenzione, peraltro incaricata di decidere “per consenso” (ma è prevista una procedura semplificata di revisione, in merito alle politiche interne). Il che nulla toglie comunque alla permanente, devastante facoltà per ogni singolo Stato membro di condannare al nulla sia il testo di un nuovo trattato che la ratifica del medesimo. Davvero incoraggiante insomma avviare un progetto di riforma per vederlo naufragare in tal modo dopo anni e anni di lavoro, come accaduto con il trattato costituzionale… In proposito restava e resta soltanto la modesta facoltà per il Consiglio europeo di valutare il da farsi nel caso che quattro quinti degli Stati ratifichino entro due anni, oltre alla seppur poco federalistica possibilità concessa ad uno Stato riluttante di uscire dall’Unione. Per quanto attiene alle competenze del Consiglio dei ministri, moltissime materie, neanche a dirlo, rimanevano sottoposte alla minaccia del veto da parte di uno qualunque, anche insignificante, dei suoi componenti. A parziale compenso, la clausola “passerella” si spingeva fino a concedere il passaggio alla procedura ordinaria, con codecisione quindi del Parlamento, non solo per le politiche interne ma anche, notevole, in politica estera e di sicurezza. Il Parlamento deve dirsi però preventivamente d’accordo e anche ogni stato membro deve fare altrettanto: ipotesi fantascientifica, stando al giuristasaggista, tanto più che basta un singolo parlamento nazionale per mandare 157 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 tutto a carte quarantotto, anche all’ultimo momento. Viceversa, forse all’interno di una cooperazione rafforzata potrebbe magari un giorno convenirsi di superare il diritto di veto. Incrociando le dita, insomma, così come APS le incrociava in attesa della ratifica del trattato, fortunatamente avvenuta ad un anno e oltre di distanza. Incrociando le dita, ancora, perché a questo punto, data la lunghezza della perlustrazione, sarà il caso di affidarsi eventualmente ad una successiva visitazione della quarta parte del volume, davvero denso e suggestivo, per portare a termine l’impresa fra “tappe e svolte” che si susseguono. A proposito del qual volume e del suo oggetto di riflessione, volendo azzardare qualche stimolo critico, forse potrebbe auspicarsi una più ampia attenzione al tema dei partiti, dei gruppi parlamentari e della legge elettorale europea, promessa fin dagli esordi per garantire una procedura uniforme della consultazione continentale e mai portata a compimento. Per parte nostra, non riuscendo a immaginare l’emergere di un Hamilton o Washington europeo, salvo forse dalla Germania, dove però non si possiede abbastanza prestigio per esercitare il ruolo, si ritiene urgente individuare quale potrebbe essere il fattore in grado di farci superare una dialettica politica che ormai si manifesta sempre di più, ogni giorno che passa, quale competizione fra attori e identità nazionali. In effetti, accanto agli impulsi provenienti da associazionismi e alle chiese, pur opportunamente evocati, la riproposizione di culture unificanti, di esperienze storiche spesso dimenticate, di lungimiranti progetti di evoluzione sociale ed economica non sarebbe da trascurare. L’emergere di partiti e relative personalità che si mostrassero consapevoli, tanto per dire, di che cosa siano stati e siano il liberalismo, il socialismo, il popolarismo cristiano, il federalismo?, potrebbe costituire un fattore unificante delle coscienze, al di sopra delle differenze etnico-nazionali, se non nazionalistiche. Sotto questo profilo, si auspica un avvicinamento, l’une alle altre, delle fisionomie ideali e organizzative dei partiti nazionali (anche delle leggi elettorali dei singoli paesi) in modo da facilitare il rafforzamento delle strutture sovranazionali. Inoltre, la costruzione di luoghi di formazione comuni, anche con il concorso di contributi accademici, al fine di sostenere orientamenti politici dalla chiara vocazione a perpetuare il disegno di rinascita maturato dopo la catastrofe della guerra mondiale, potrebbe contribuire a creare solidarietà ed identificazioni in grado di emanciparsi dal condizionamento nazionale. Per non dire, benché risulti ovvio, ma di fatto largamente disatteso, del dovere delle istituzioni formative pubbliche e private, tanto università che scuole, di dotare giovani e meno giovani delle conoscenze essenziali per la partecipazione ad una cittadinanza europea almeno elementare. A proposito delle quali conoscenze e partecipazione, sarà decisamente sconsigliato veicolare 158 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 in esse messaggi identitari nuovamente ispirati a valori etnico-territoriali trasferiti su scala continentale. Molto più opportuno sarà patrocinare una cultura idonea al superamento, con adeguato modello istituzionale, dello schema nazionalistico-sovranistico. Il che non esclude affatto, sia ben chiaro, fermezza di decisioni e forte senso di appartenenza. In tutto questo, un ruolo non trascurabile potrà essere svolto, si spera, da impulsi provenienti dal nucleo dei paesi fondatori delle Comunità originarie, presso i quali sussiste obiettivamente un maggiore attaccamento e senso di responsabilità verso la costruzione comune di cui si è stati così felicemente autori dopo il disastro bellico. Malgrado le mille contraddizione e reticenze, per non parlare delle pesanti diffidenze reciproche, si intravede tuttavia riproporsi ad intervalli regolari il riemergere di una tensione non mancare alla parola data, a rendere davvero concreto ciò che è stato promesso con convinzione, e ad opera dei propri esponenti migliori, nell’interesse di noi stessi e degli altri. Cui si affianca di volta in volta quello stimolo proveniente dall’altra parte dell’Atlantico che molto ha contato, specie all’epoca della guerra fredda, nel sospingere gli europei verso elementi di sovranazionalità, ma che si è visto riemergere anche recentemente, tanto per dire, in occasione dell’incresciosa minaccia della Grexit. Sperando naturalmente che recentissime espressioni di volontà popolare, sempre lì, in zona ovest, a pro di carismi davvero sconcertanti non ci contraddicano amaramente. Giunti ormai a conclusione, sia consentito tuttavia avanzare qualche ulteriore considerazione dubitativa in merito ad uno degli aspetti essenziali del modello di convivenza federale proposto dall’autore, peraltro in linea di massima condiviso dall’aspirante recensore. Il riferimento è alla possibilità di conciliare quel progetto di convivenza, sostanzialmente ispirato alla tutela dei diritti umani, con la libertà di religione. Una siffatta conciliazione è di fatto realizzabile soltanto a condizione che gli adepti alle diverse fedi e confessioni non riconducano a verità assolute, divine?, le prescrizioni dei propri libri e mentori sacri, variamente interpretati e interpretanti. Sempreché ovviamente non contengano anch’esse un indiscusso messaggio di conciliazione e convivenza. Ecco, laddove questo non accada, e purtroppo presso consistenti gruppi umani, almeno per ora, questo non avviene, allora il progetto di convivenza fondato sulla democrazia e sui diritti umani rischia davvero grosso. Presumibilmente il cristianesimo parrebbe il più incline a questa sostanziale universalizzazione, umanizzazione, laicizzazione?, del sentire religioso, fondato sul rispetto del prossimo, sulla sostanziale identificazione dell’altro con se stessi e sulla deassolutizzazione dell’appartenenza etnico-nazionale. Su altri versanti il discorso si fa invece assai più difficile. Tanto che la tutela dei diritti dovrà 159 F. Gui, Recensione Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015 essere condizionata alla salvaguardia, ovvero alla sicura accettazione da parte dei portatori della volontà generale, ovvero della sovranità legittimante l’intero sistema, delle precondizioni di tale tutela. Ebbene, il federalismo, al di là delle prospettive e soluzioni istituzionali additate ai cittadini del mondo, non potrà non farsi carico anche di queste problematiche, affrontandole con la sensibilità e l’ampiezza di fondamenti a cui possono essere ricondotte le sue stesse origini, ben più radicate nel tempo e nello spazio di quanto non sia, oggettivamente, il pur insostituibile messaggio di Ventotene. Il federalismo come una cultura autonoma e per certi aspetti alternativa? Necessariamente. Che è compito e consapevolezza sicuramente non da poco. 160 F. Gui, Recensione