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Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).
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Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.
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Mariutti, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo.
Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma.
Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea,
P. le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma
tel. 0649913407 – e - mail: [email protected]
Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006
del 17 ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973-9443
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Indice della rivista
ottobre - dicembre 2015, n. 37
MONOGRAFIE
“Amor supera tutto”. Il valore politico dei sentimenti nel teatro
di Antonio Simone Sografi
di Pietro Themelly
p. 3
Nostalgia per l'URSS. Politica e mass media
di Emiliano Liutina Marroni
p. 108
***
RECENSIONI
Antonio Padoa Schioppa, Verso la federazione europea? Tappe e svolte di
un lungo cammino, il Mulino, Bologna, 2014 (parte seconda)
di F. G.
p. 137
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“Amor supera tutto”. Il valore politico dei sentimenti nel teatro di
Antonio Simone Sografi
di Pietro Themelly
Nel luglio 1797, A.S. Sografi (1759-1818), un commediografo veneto dell’ultimo
Settecento allora assai celebre in tutta la penisola e autore a conclusione
dell’opera sua di un centinaio di pièces, molte delle quali ormai disperse,
presentava, al Teatro Civico di Venezia, nel corso della breve stagione della
Municipalità provvisoria, Il matrimonio democratico, la sua prima commedia
rivoluzionaria. Negli anni Novanta i suoi testi erano stati ispirati dal pensiero
europeo contemporaneo e Simone si era fatto interprete di un illuminismo
solidale, ottimistico e moderato. Pertanto se le nuove tendenze gli avevano fatto
scoprire “le grandi filosofie individualistiche” aveva rifiutato ogni forma
esasperata di soggettivismo che poteva scadere nelle “identità monologiche” o
nell’anomia. In altri termini aveva rifiutato il nichilismo wertheriano di Goethe
e l’Illuminismo radicale e libertino dell’Antiseneca di La Mettrie. Ne era scaturito
un progetto che, pur lontano dall’estremismo culturale e politico, si assestava
sul programma riformatore dei Lumi nutrendolo di elementi dinamici. Sografi
in quegli anni, pur non prendendo mai esplicita posizione in favore della
Rivoluzione francese, si mostrava sensibile ad ogni forma di rinnovamento
tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata e familiare.
Ebbene, in quell'anno 1797, con la Municipalità provvisoria di Venezia da
poco instaurata, oltre che prossima al suo epilogo, il letterato padovano poteva
finalmente esplicitare il suo pensiero divenendo, con la stesura di cinque testi
redatti febbrilmente nel giro di pochi mesi, uno dei più noti rappresentanti del
teatro patriottico italiano.
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P. Themelly, Amor supera
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In questa sede, l’attenzione verrà focalizzata, in particolare, sul Matrimonio
democratico, una pièce redatta nel 1797 e, come accennato, presentata per prima
al pubblico della Municipalità. Nella sua suggestiva mescolanza di tematiche
amorose e pubbliche, quest’opera riusciva a convogliare i temi privilegiati del
disegno politico sografiano: l’adesione agli ideali dell’89, pur nel rifiuto del
radicalismo politico e nella condanna del 1793 giacobino, i diritti dell’individuo,
la lotta contro ogni forma di autoritarismo, ivi comprese, e valorizzate con
passione, le libere scelte matrimoniali, non meno dell’esigenza del
rinnovamento sociale fondato sul criterio del merito.
Per contestualizzare la figura di Sografi si è sentita l’esigenza di ricostruire
l’attività del locale Teatro Civico, frutto dell’atmosfera intensamente partecipe,
seppure effimera, della Municipalità. Una associazione che si muoveva tra
ufficialità e semiufficialità e che nonostante tutto esprimeva il grande sogno
illuministico e rivoluzionario di teatro dell’utopia. Un organismo che intendeva
ricostruirsi dal basso, fondato sull’idea dell’autodeterminazione della società
civile: una struttura paritetica, egualitaria, all’interno della quale tutti gli
associati avrebbero dovuto divenire organizzatori, autori e attori teatrali. Le
istanze della libertà si intrecciavano con quelle dell’autorità sino a far
incombere sulle rappresentazioni, come da taluno recentemente insinuato, il
rischio dell’arte di stato. Per quanto concerne la produzione, si è proposta una
scelta tematica volta ad evidenziare le ambivalenze del moderatismo: le tensioni
dinamiche dell’opera di A.S. Sografi e G. Pindemonte si scontravano con quelle
orientate al conformismo politico.
Al tempo stesso, si è ritenuto opportuno collocare Il matrimonio democratico
nell’ambito di un soggetto teatrale di lungo periodo: il tema dell’amore
contrastato. Un motivo letterario remoto che si era si era aperto a due soluzioni
antitetiche sin dai tempi della letteratura classica. All’ipotesi tragica che
chiudeva la rappresentazione con il suicidio o la morte dei due innamorati
ribelli alla volontà familiare, si contrapponeva la via d’uscita risolutiva e
ottimistica culminante nelle felici nozze dei due amanti. Per schematizzare, il
primo filone, riconducibile a Ovidio, trovava il suo culmine in Romeo e Giulietta
di Shakespeare; l’altro da Terenzio giungeva sino al Settecento di Metastasio,
Goldoni, Voltaire e Diderot. La rottura formale di questo secondo schema
narrativo, che equivaleva, come si comprenderà oltre, ad una trasformazione
sostanziale, avveniva in Italia soltanto con il Matrimonio democratico di Sografi
nel clima della Rivoluzione francese. Pertanto, si sono ricostruite, a partire dal
grande teatro di Marivaux, le motivazioni politiche e culturali che
progressivamente portarono al naufragio di una simile concezione del mondo,
fondata sull’esperienza emotive e destinata a passare immancabilmente
attraverso la rivisitazione letteraria. In proposito si è sentita l’esigenza di
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P. Themelly, Amor supera
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proseguire il sondaggio considerando tre opere di Voltaire e Goldoni, per
passare successivamente ad una rapida incursione nella Venezia degli anni
Ottanta (Albergati, Sografi, Pepoli), scoperta come un cuore pulsante del
pensiero dei Lumi. Alcune deludenti commedie patriottiche italiane
preluderanno alle considerazioni su Sografi.
In altri termini, per comprendere Il matrimonio democratico è necessario
collocare la commedia nel grande processo di trasformazione della sensibilità
collettiva che coinvolge, com’è ormai noto, soprattutto le élites europee nella
seconda metà del secolo. Un fenomeno indagato negli studi ormai classici di P.
Hazard, D. Mornet, R. Mauzi, J. Deprun, L. Stone, M. Barbagli, C. Taylor e
naturalmente molti altri. Tramite i testi letterari d’allora si percepisce un
diverso modo di pensare, di sentire e di vivere, avanzano nuovi sentimenti,
trionfano nuovi valori individuali e affettivi. Si definisce una nuova idea di
famiglia costruita su rapporti intimi tra marito e moglie, padri e figli.
In questo processo di affermazione della sensibilità individuale s’inserisce
dunque l’opera di Sografi. Significativo è il modo con il quale il nostro raffigura
la sua eroina Giulietta, la giovane aristocratica innamorata del caffettiere
Tonino. La protagonista pensava di poter superare le differenze di ceto “a forza
d’amore”. Soltanto riflettendo autonomamente sulla sua esistenza poteva
comprendere il valore della scelta affettiva che aveva compiuto insieme a
Tonino e che le consentiva di raggiungere la “felicità”. Quella scelta d’amore
trovava la propria giustificazione solo in se stessa non nella obbedienza alla
norma sociale. Pertanto le regole comunitarie potevano essere trasformate. Ogni
individuo capace di essere virtuoso, cioè in grado di trovare se stesso, aveva
una dignità pari a quella degli altri. Si trattava di trovare scelte condivise,
capaci, attraverso il calcolo numerico dei singoli, di costruire una società
democratica. Giulietta, in tal modo, scopriva che i sentimenti avevano un valore
politico: la mésalliance era consumata. L’imminente arrivo dei francesi avrebbe
consentito, nella Venezia degli ottimati e della fraterna, di sperimentare un
modello di stato, capace di garantire i diritti dell’individuo.
Il Teatro Civico di Venezia.
Il matrimonio democratico di Sografi, una farsa, come accennato, ovvero un
componimento breve risolto in un solo atto, debuttava a Venezia sulla scena del
San Giovanni Grisostomo il 18 luglio 1797 nel “tripudio” del pubblico 1. Da circa
Sul successo della farsa vedi «Monitore veneto» 22 luglio. Per il commento al testo, in
particolare S. Romagnoli, La parabola teatrale del patriota Antonio Simone Sografi, in «Teatro in
Europa», 1989, 5, pp. 58-65. Su A.S. Sografi vedi: Giuseppe Vedova, Biografia degli scrittori
padovani, Minerva, Padova, 1836, v. II, pp. 292-98; Giacomo Bonfio, Cenni biografici di Antonio
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due mesi si era insediata la Municipalità provvisoria e da poco meno di dieci
giorni quello stesso teatro, il più grande dell’antica repubblica e “il più famoso
d’Europa”, utilizzato tradizionalmente nel primo Settecento per il genere
operistico, aveva assunto il nome e il progetto culturale del ricordato Teatro
Civico2. Anche la città lagunare aveva ormai il suo palcoscenico rivoluzionario.
Quella consueta manifestazione culturale, divenuta a fine secolo ormai di
massa, poteva quindi svolgere una funzione di educazione permanente a forte
penetrazione sociale, giungere anche là dove non arrivavano il libro, la scuola.
Oltretutto il pensiero di quegli anni (o almeno una parte d’esso) aveva avanzato
il primato del sentio sul cogito. Sul piano letterario, Diderot e poi in Italia
Goldoni avevano attribuito a quel genere il compito di risvegliare le passioni e i
sentimenti, di esplicitare i moti del cuore per suscitare la virtù 3. Qualche tempo
prima, Voltaire aveva definito una parte della sua produzione scenica
attendrissante, intendendola come una fusione armonica di due generi a quei
Sografi, Bianchi, Padova, 1854; Lamberto Bigoni, Quattro commedie inedite di S.A. Sografi, Gallina,
Padova, 1891; Id., Simone Antonio Sografi, Un commediografo padovano del secolo XVIII, in «Nuovo
archivio veneto», 1894, VII, pp. 107-47; Bruno Brunelli, Un commediografo dimenticato: S.A.
Sografi, in «Rivista Italiana del Dramma», 1937, I, pp. 171-88; Carlo Goldoni, Opere con appendice
del teatro comico nel Settecento, a cura di Filippo Zampieri, Ricciardi, Milano-Napoli, 1954, pp.
1119 e ss.; Nicola Mangini, voce Sografi, in «Enciclopedia dello Spettacolo» Le Maschere, Roma,
1962, pp. 99 e ss.; Cesare De Michelis, Il teatro patriottico, Marsilio, Venezia, 1966, pp. 19-29; Id.,
Antonio Simone Sografi e la tradizione goldoniana in Letterati e lettori nel Settecento veneziano,
Olschki, Firenze, 1979, pp. 203-24; Id., Teatro e spettacolo durante la Municipalità provvisoria di
Venezia, maggio-novenbre 1797, in Il teatro e la Rivoluzione francese, atti del Convegno di Studi,
Vicenza 14-16 settembre 1989, a cura di Mario Richter, Accademia Olimpica, Vicenza, 1991, pp.
263-88; Milena Montanile, I giacobini a teatro, Società Editrice Napoletana, 1984, pp. 17 e ss., ivi il
testo de La Rivoluzione di Venezia; Roberta Turchi, La commedia italiana del Settecento, Sansoni,
Firenze, 1986, in particolare pp. 320 e ss; Sergio Romagnoli, La parabola teatrale del patriota
Antonio Simone Sografi,cit.; Nicola Mangini, La parabola di un commediografo”giacobino”: Antonio
Simone Sografi (con il testo inedito de La giornata di san Michele), in «Risorgimento veneto», 1990, 6,
pp. 21-93; Paola Trivero, Commedie giacobine italiane, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1992, pp. 8
e ss.
2 Sul teatro di San Giovanni Grisostomo “il maggiore e il più splendido dei teatri veneziani del
Seicento”, costruito nel 1677 nella zona di Rialto, ormai in decadenza e relegato in un ruolo
secondario a partire dalla metà del secolo successivo, vedi N. Mangini, I teatri di Venezia,
Mursia, Milano 1974, pp. 77-83; 140-50. Sulla breve esperienza della Municipalità provvisoria si
indicano qui soltanto: G. Pillinini, 1797: Venezia “giacobina”, Editoria Universitaria, Venezia,
1997; G, Scarabello, La Municipalità democratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della
Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. Del Negro, P. Preto, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma, 1988, pp. 263-356.
3 Per la questione in Diderot vedi, A. Ménil, Diderot et le drame. Théâtre et politique, PUF, Paris
1995 pp., 64-73. Su Goldoni vedi, L’Autore a chi legge in C. Goldoni, Pamela fanciulla orai n Id.,
Pamela fanciulla. Pamela maritata, a cura di I. Crotti, Marsilio, Venezia, 2002, p. 79.
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tempi irriducibili: il tragico e il comico4. A Milano Cisalpina proprio in quei
giorni vi era stato chi esortava a “eccitare” più che a “istruire” o, comunque, a
istruire sempre eccitando5. Cosa vi era dunque di meglio del teatro per
realizzare tale impresa?
L’iniziativa marciana era dovuta a un gruppo di otto cittadini firmatari del
Manifesto per l’istituzione del Teatro Civico di Venezia, il cui programma - volto alla
formazione d’un club letterario d’istruzione popolare - era stato redatto intorno
alla metà di giugno probabilmente al Caffè Florian, denominato per l’occasione
“Caffè della Fratellanza patriottica”. Tra i sottoscrittori, che appaiono oggi
soltanto come delle figure dal profilo “completamente sconosciuto e
misterioso”6, spiccava, per primo, il nome del diciannovenne U. Foscolo7. Oltre
a quel grande, solo due altri estensori, A. e F. Psalidi, erano
contemporaneamente membri della locale Società di pubblica istruzione,
l’associazione cittadina costituitasi già a fine maggio “per diffondere
rapidamente i lumi, mostrare al popolo i suoi veri interessi, dargli i mezzi sicuri
per conoscere i suoi veri amici e smascherare quelli che cercano di ingannarlo”.
La compresenza nei due circoli degli stessi soci testimonia l’osmosi e il carattere
federato tra le due nuove strutture marciane di politicizzazione. Anche a
Venezia si era pertanto stabilito il classico legame di affiliazione tra circoli: tra la
Vedi la Préface di Voltaire in Théâtre du XVIII siècle. Textes choisis, établis, présentés et annotés par J.
Truchet, Gallimard, Paris, 1972, v. I, p. 874.
5 Vedi M. Gioia, in P. Magistretti, Memoria postuma di Mechiorre Gioia sull’organizzazione dei teatri
nazionali, Pirola, Milano, 1878, pp. 46-48.
6 C. De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Olschki, Firenze, 1979, p. 225.
7 Il Manifesto per l’istituzione del Teatro Civico di Venezia è stato segnalato da G. Dumas in La
premiere occupation française et le théâtre à Venise (1797), in «Bollettino storico livornese», 1954, p.
157. Le originarie considerazioni sono state svolte in Id., La fin de la République de Venise, aspects
et reflet littéraires, PUF, Paris, 1964, pp., 353 e ss. Il testo è in Scritti sortiti nella Rivoluzione di
Venezia seguita li 12 Maggio 1797, t. I, , pp. 337-41(Biblioteca Marciana, Venezia, 183,C, 188). Poi
ripubblicato da C. De Michelis, Il Teatro Patriottico, Marsilio, Venezia, 1966, p. 55 e,
successivamente, nell’edizione nazionale delle opere di U. Foscolo, v., VI, Scritti letterari e
politici, 1796-1808, a cura di G. Gambarin, Olschki, Firenze, 1972, p. 719. Sulla questione vedi C.
De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, cit., pp. 225-55 . Per una certa consonanza
di motivi con le tesi dei firmatari vedi «Gazzetta urbana veneta», 21 giugno 1797 e «Il teatro
moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono
presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri, corredata di
Notizie storico-critiche e del giornale dei teatri di Venezia», v. XII, pp. 3-4; v. XIII, p. 51. Sulle
scelte di “sostegno” e insieme di “autonomia” della testata nei confronti degli associati del
Teatro Civico vedi A. Abiuso, Sui tomi del “Teatro moderno applaudito” pubblicati durante la
Municipalità provvisoria veneziana, in Il Teatro e la Rivoluzione, (Atti del Convegno di studi,
Vicenza 14-16 settembre 1989), a cura di M. Richter, Accademia Olimpica, Vicenza, 1991, pp.
251-61.
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società teatrale e la cellula madre. Un legame che non implicava
necessariamente un vero e proprio rapporto di subordinazione 8.
A Venezia i fondatori del Teatro Civico si erano sentiti promotori di un
progetto ispirato alla nuova “sociabilità” politica, diffusasi in Francia con la
Rivoluzione tramite il modello delle società popolari e dei circoli d’istruzione
pubblica. Queste strutture per lo più inedite si erano costituite a volte, com’è
peraltro noto, sulle ceneri delle antiche associazioni settecentesche o si erano
sviluppate in seguito alla trasformazione di quegli stessi organismi. I club e i
circoli, sorti spontaneamente nell’Ottantanove e poi disciplinati, strutturati in
una rete federativa a partire dal 1792, sfuggenti al controllo governativo sia pur
a seconda dei tempi e delle circostanze, sempre in continuo sviluppo, avrebbero
compiuto la loro “esplosione spettacolare” nel 1793. Era tuttavia il decreto del
23 agosto 1795 a determinare la scomparsa di cinquemilacinquecento
associazioni, una ogni ottomila abitanti è stato osservato, nel quadro di un più
generale taglio dal basso della politica che mutatis mutandi si sarebbe esteso
dalla Nazione guida alle Repubbliche sorelle9. Non è un caso che in Italia,
nell’estate del 1797, M. Galdi e P. Custodi lamentassero, anche a Milano,
l’ostilità governativa al riguardo, nonostante il carattere più flessibile della
La Società di pubblica istruzione istituita il 27 maggio in seguito alla mozione di V. Dandolo in
Assemblea e sciolta dall’autorità il 10 novembre, riuscì a raccogliere nel corso dell’estate 1797
circa 800 associati. Subordinato al controllo governativo, ma sempre oscillante tra ufficialità e
semiufficialità, il club raccoglieva al suo interno un corpo di affiliati composito per orientamenti
politico-culturali e per ragioni sociali. Accanto ad alcuni esponenti di rilievo del movimento
patriottico italiano, assistettero alle riunioni anche alcuni barcaioli. Nel quadro di un dibattito
dissonante, contraddittorio, variegato ed eterogeneo “la ricchezza delle discussioni” di tale
“consesso operoso” restituiva la dimensione del “pluralismo delle opinioni”. Sull’attività
dell’associazione vedi M. Simonetto, Opinione pubblica e rivoluzione. La società di pubblica
istruzione di Venezia nel 1797, in Accademie e scuole. Istituzioni, luoghi, personaggi, immagini della
cultura e del potere, a cura di D. Novarese, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 305-49.
9 Si indica qui soltanto J. Boutier, P. Boutry, Les sociétés politiques. Atlas de Révolution française,
Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Paris, 1992; D. Pingué, Les mouvements
jacobins en Normandie orientale. Les societés politiques dans l’Eure et la Seine-Inférieure (1790-1795);
Éd. du CTHS, Paris, 2001; M.L. Kennedy, The Jacobin Clubs in the French Revolution: The First
Years, Princeton University Press, Princeton, 1982; A.M. Duport, M. Dorigny, J. Guilhaumon, F.
Wartelle, Les congrès des societiés populaires et la question du pouvoir exécutif révolutionnaire, in
«A.H.R.F.», 1986, 266, pp. 518-44; M. Vovelle, La scoperta della politica. Geopolitica della Rivoluzione
francese, Prefazione di A.M. Rao, Edipuglia, Bari, 1995, pp. 146-172; P. Guennifey, R. Halévi,
Club e società popolari, in F. Furet, M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese,Bompiani,
Milano, 1989, pp. 432-445. Per la situazione italiana vedi, M. Simonetto, Opinione pubblica e
rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, cit., ivi indicazioni bibliografiche
sull’ associazionismo italiano del tempo.
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Costituzione cisalpina, che pur si richiamava a quella francese dell’anno III10.
Poco dopo, sempre in città, questa volta a novembre, V. Dandalo in un discorso
appassionato reclamava in Assemblea la riapertura dei circoli costituzionali. Si
appellava alla Carta mettendo a nudo il gesto d’imperio dell’autorità11. Già si
profilava la svolta autoritaria della primavera-autunno 1798: una vicenda per la
quale la Cisalpina sarebbe passata da un sistema democratico-liberale ad un
regime liberale-conservatore12.
In questo contesto difficile dovevano dunque esordire le sperimentazioni
marciane della “sociabilità” politica. Gli orientamenti teatrali dei governi
tuttavia lasciavano aperto qualche spiraglio alla libertà di manovra, alla
costituzione di una società scenica pluralista capace di riaggregarsi
autonomamente dal basso, anche se le intenzioni originarie dei legislatori erano
state diverse. Un Concorso bandito a Milano tra 1797 e 1799 voleva affrontare il
problema della riforma nazionale del teatro rivolgendosi “a tutti i cittadini”
della penisola13. I nodi irrisolti della discussione settecentesca sulla questione
degli attori, della scena, dei repertori, tornavano nel pettine. Erano destinati
tuttavia a sciogliersi secondo la prassi della ragion politica. Il palcoscenico da
“pulpito” per la formazione civile e morale dell’individuo, com’era stato
auspicato dalla cultura dei Lumi, assurgeva ora a scuola di sentimenti e di
costume repubblicano. La propaganda politica correva il rischio di spegnere la
memoria di un’auspicata coscienza civile. Nonostante il Concorso e un vasto
dibattito capillarmente e variamente articolato nelle Repubbliche italiane del
Triennio, non si riuscì a realizzare il progetto desiderato. Naufragò nei fatti
l’idea del teatro nazionale ovvero l’organizzazione di un sistema scenico
controllato, diretto e sovvenzionato dallo Stato. Ovunque si ricorse a un sistema
misto privilegiando ancora il vecchio indirizzo impresariale 14.
B. Maschietto, Cultura e politica nell’Italia giacobina. Spunti dall’esperienza cisalpina, in «Mélanges
de l’Ecole française de Rome», 108, 1996, 2, pp., 730 e ss. L’articolo 299 della Costituzione
cisalpina del luglio 1797 recita: “i cittadini hanno diritto di formare stabilimenti particolari di
educazione e di istruzione, come ancora società libere per concorrere al progresso delle scienze,
delle lettere e delle arti”. Formula ripresa sostanzialmente invariata nella seconda Carta
cisalpina del 1798 (art. 295) e nel marzo dello stesso anno anche dalla Costituzione della
Repubblica romana (art. 293). Vedi Le Costituzioni italiane, a cura di A. Aquarone, M. d’Addio,
G. Negri, Edizioni di Comunità, Milano, 1958, (Titolo X Istruzione pubblica), pp. 113, 147, 251.
11 Assemblee della Repubblica cisalpina, per cura di C. Montalcini ed A. Alberti, Zanichelli,
Bologna, 1917, v. I, parte I, p. 119 (seduta del 5 frimale VI).
12 C. Zaghi, Il Direttorio francese e la Repubblica cisalpina, Istituto storico italiano per l’età moderna
e contemporanea, Roma, 1992, v. I, pp. 413-72, II, 539-691.
13 P. Bosisio, Tra ribellione e utopia. L’esperienza teatrale in Italia nelle repubbliche napoleoniche (17961805), Bulzoni, Roma, 1990; P. Themelly, Il teatro patriottico tra Rivoluzione e Impero, Bulzoni,
Roma 1991.
14 R. Turchi, Il teatro civico, in «Rivista di Letteratura italiana» 1989, VII, 2-3, pp., 289-310.
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Lo slancio riformatore ripiegava pertanto sul mantenimento e sulla
possibile modernizzazione dell’ esistente: si contraeva sino a perdersi in
rigorose norme di vigilanza e di censura. Solo qualcosa della originaria lezione
francese era dunque giunta in Italia15. Al di là delle Alpi, tra 1789 e 1791 la
liberalizzazione delle rappresentazioni e la rottura del monopolio dei teatri
ufficiali aveva prodotto un’esplosione creatrice che aveva comportato una
proliferazione di piccoli teatri autonomi e autogestiti: i teatri di via di quartiere,
di Boulevard. Con il Terrore e con Termidoro si era compiuta una restaurazione
censoria. Tuttavia, se il Comitato di salute pubblica aveva avanzato un progetto
centralistico di nazionalizzazione e politicizzazione integrale del teatro, il
Direttorio aveva riaffermato la libertà e il carattere privato delle imprese teatrali
pur ripiegando su una prassi di limitati controlli delle rappresentazioni affidati
alle autorità centrali e periferiche16.
Il quadro sopra tracciato e in particolare le considerazioni relative alla
nostra penisola hanno rivelato un contesto segnato dalla coesistenza tra la
direzione statale e l’iniziativa privata nella gestione del sistema scenico. Era il
sistema misto allora vigente nel nostro paese che consentiva la possibile nascita
di un teatro politico parallelo e autonomo rispetto a quello gestito dallo stato. È
dall’impulso di improvvisate società di dilettanti, dalla partecipazione di
cittadini privati civilmente impegnati che scaturisce l’esperienza del Teatro
Civico, non solo a Venezia ma anche a Roma, Milano, Cremona, Brescia e
verosimilmente in altre città, sia pure spesso con denominazioni e caratteri
differenti. In questa prospettiva acquista pieno significato l’idea di “teatro
dell’utopia” suggerita da R. Turchi per la vicenda qui presa in esame. L’idea
cioè di una sperimentazione scenica impegnata nel presente e foriera di
sviluppi futuri17. Il Teatro Civico si qualificava, o voleva qualificarsi, come una
esperienza radicalmente innovativa e indipendente, lontana dai rischi di un
progetto militante piegato alla celebrazione monocratica dell’arte di Stato.
Anche i firmatari del Manifesto foscoliano intendevano costituire un
organismo informale e autogestito, capace di raccogliere un numero adeguato
di sottoscrizioni funzionali alla libera gestione d’un proprio teatro. I principi
costitutivi della Dichiarazione del 26 agosto 1789: libertà e proprietà,
imponevano non l’esproprio del San Giovanni Grisostomo ma la sola
concessione temporanea, probabilmente l’affitto (i documenti sono reticenti)
con i proprietari della struttura, i conti Grimani di S. Maria Formosa, secondo
P. Themelly, Il teatro patriottico, cit., pp. 45 e ss.
M. Carlson, Le théâtre de la Révolution Française, Gallimard, Paris, 1970, pp. 69, 96-106, 122, 203,
320. G. Trisolini, Il Teatro della Rivoluzione. Considerazioni e testi, Longo, Ravenna, 1984, pp. 22 e
ss., M. Albert, Les Théâtres de Boulevards (1789-1848), Slatkine, Genève, 1978, pp. 98 e ss., e passim.
17 R. Turchi, Il teatro civico, cit.
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un’abitudine allora invalsa18. L’accordo tuttavia sarebbe stato valido soltanto
“sino a tutto settembre prossimo venturo”, quando il teatro sarebbe tornato
sotto la gestione della Compagnia Battaglia, com’era stato sin dal 177519.
L’ambizione dei patrioti era quella di promuovere un repertorio inedito e
originale e di formare un corpo di attori completamente rinnovato. Per far ciò
l’associazione voleva aprirsi senza riserve a tutti, agli uomini e alle donne,
stimolare nella misura del possibile il dibattito nella società. La redazione dei
testi e la pratica scenica avrebbero dovuto coinvolgere, gratuitamente, l’insieme
dei partecipanti. Il semplice cittadino poteva dunque divenire autore e attore
teatrale, o forse addirittura “doveva” diventarlo in quanto patriota: “Non
viviamo nella incertezza. Per non essere sempre un nulla, scuotiamoci!”,
concludeva perentoriamente il documento firmato da Foscolo20. L’iniziativa dei
soci sembrava peraltro avere in quei giorni anche l’appoggio della stampa e a
fine luglio poteva contare su più di trecento adesioni21.
Era stata la Municipalità, tramite il Comitato di pubblica istruzione, in un
“foglio volante” non datato e redatto verosimilmente intorno al 20 giugno, ad
accogliere la proposta dei firmatari del Manifesto e a fissare le norme che
regolamentavano l’attività della nuova associazione 22. Foscolo, proprio in quei
giorni, nei suoi interventi presso la Società di pubblica istruzione aveva
avanzato la tesi giacobina della dittatura rivoluzionaria. Per il poeta anche la
censura poteva essere giustificata da un imperativo morale: “la democrazia non
Dagli anni Quaranta il teatro, forse anche per la gestione gravosa e deficitaria, era passato a
una conduzione di tipo misto: al controllo diretto della famiglia Grimani seguivano fasi di
gestione impresariale. Vedi N. Mangini, I teatri di Venezia, cit., pp. 140-150. I Grimani di S.
Formosa, una delle famiglie più antiche e influenti della città, da sempre interessata alla attività
scenica, era proprietaria anche dei teatri Ss. Giovanni e Paolo e S. Samuele. A metà Settecento la
Casa era inserita nella seconda classe della suddivisione del corpo aristocratico operata da G.
Nani ovvero tra coloro “che hanno più del loro bisogno”. Vedi V. Hunecke, Il patriziato
veneziano alla fine della Repubblica, Jouvence, Roma 1997.
19 Archivio di Stato, Venezia, Democrazia, b. 88. Sulla gestione del San Giovanni Grisostomo da
parte della Compagnia Battaglia, N. Mangini, I teatri di Venezia, cit., pp. 149-50.
20 Manifesto per l’istituzione del Teatro Civico di Venezia, cit.
21 Vedi «Monitore veneto» 27 maggio, 3 e 21 giugno; «Gazzetta urbana veneta», 28 giugno. Ma
anche «Il teatro moderno applaudito» cit., t., XII e XIII (giugno e luglio, 1797). Per le iscrizioni
all’associazione vedi «Monitore veneto», 22 luglio.
22 Il Comitato di Pubblica Istruzione agli autori di teatrali rappresentazioni, ai capi comici ed impresari di
opere. Il documento è in Archivio di Stato, Venezia Democrazia, b. 167. Il testo ora anche in C. De
Michelis, Il Teatro patriottico, cit., p. 56. Per la datazione del documento, a conferma, vedi «Il
Monitore veneto», 21 giugno: “Il Teatro Civico si va preparando […] Vari soci s’affrettano a
produrre i loro parti d’ingegno, altri si addestrano alla più esatta rappresentazione che si dovrà
eseguire nel teatro di San Giovanni Grisostomo”.
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può stabilirsi che con la forza e […] da questa dipende l’esercizio della
sovranità d’un popolo libero”23.
La classe dirigente veneziana, ormai chiusa l’esperienza del Terrore, si
richiamava invece ai diritti dell’individuo per tracciare le nuove regole di
disciplinamento dell’attività teatrale. Il governo si impegnava a “togliere ogni
revisione perché opposta ai principi liberi della democrazia”. Per compiere
l’impresa tuttavia il Comitato si appellava all’idea illuministica dell’autonoma
assunzione di responsabilità di tutti coloro che, a vario titolo, erano impegnati
nell’attività teatrale: “nel teatro il piacere medesimo tenga luogo di legge e
supplisca agli ordini del legislatore”. Non senza ambiguità comunque il testo si
concludeva nella risoluzione del governo a perseguire tutto ciò che fosse stato
contrario “alla religione”, “al costume”, “alla personalità”24. La Municipalità
tuttavia nello stesso tempo si dichiarava interessata ad appoggiare l’impresa. In
una lettera “aperta” pubblicata a inizio luglio sul Monitore poteva leggersi: “è
ferma intenzione del Comitato nostro il prestare tutta la sua autorità per
proteggere la vostra saggia e utile istituzione”25.
Gli studi hanno messo in evidenza le incertezze e le contraddizioni del
programma formulato da Foscolo e dal gruppo di patrioti che si raccoglieva
intorno al Teatro Civico e presso la Società di pubblica istruzione. Si è insistito
sul carattere retorico e paternalistico del Manifesto, sulla sua dimensione
sovrastrutturale, sino a cogliere pericolose tendenze totalitarie, non solo nelle
più scontate direttive della Municipalità, ma anche nelle scelte personali dei
patrioti in merito al valore politico della comunicazione scenica. In tal modo
l’idea e il messaggio del teatro patriottico non avrebbero contribuito alla
liberazione interiore dell’individuo ma l’avrebbero proiettato nella condizione
spersonalizzata d’una astratta servitù volontaria.
Per C. De Michelis in particolare, la Rivoluzione, anche quella marciana,
avrebbe tradito e soffocato, pur riproponendoli, gli ideali che avevano dato
impulso al rinnovamento teatrale settecentesco. Una società fondata sulla
“dittatura della virtù”, su una concezione etica dello stato, su istituzioni di
controllo, di direzione e di censura non avrebbe potuto realizzare una riforma
che si era ispirata agli ideali di una società civile autoregolantesi, libera nelle
sue contrattazioni, nelle sue scelte, nel suo mercato. Una concezione ed una
pratica dell’arte, sorte da un progetto politico, si dovevano rivelare
inconciliabili con la libertà dell’autore e del pubblico. L’intellettuale, persa la
sua autonomia, e il pubblico, divenuto soggetto passivo d’un processo
pedagogico etero-diretto, decretavano la subalternità della letteratura e del
U. Foscolo, Scritti letterari e politici, 1796-1808, cit., p. 17.
Il Comitato di Pubblica Istruzione agli autori, cit.
25 «Monitore veneto» 12 luglio 1797.
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teatro. Alla severità di questo giudizio si aggiunge la constatazione del
fallimento politico e sociale dell’esperienza veneziana, che trova il suo simbolo
nella figura storica di Ugo Foscolo, per il quale la scoperta della concreta
dimensione dei problemi giunge “troppo tardi”, “quando ormai non c’è più
tempo” e giunge “confusa”, “astratta”, “inevitabilmente sospesa nel vuoto”26.
Al di là d’ogni giudizio di valore sul significato complessivo di quella
articolata esperienza che prese il nome di Teatro Civico, per i soci il compito
prioritario e più urgente era quello di allestire un repertorio da mandare subito
in scena. Le testimonianze contemporanee e la lista cronologica delle
rappresentazioni cittadine che correda i tomi del «Teatro moderno applaudito»
sembrano confermare le difficoltà d’affermazione che ebbe la nascente
letteratura democratica nel corso dell’estate-autunno 1797 a Venezia. Il vecchio
teatro persisteva e certo non soccombevano, sempre intramontabili, gli scenari
dell’Arte che continuavano a godere di uno straordinario favore del pubblico27.
Il nuovo repertorio dunque non decollava o quanto meno conseguiva risultati
parziali. Era comunque difficile rinnovare un genere in un semestre, e l’impresa
si sarebbe rivelata ancora più ardua per i promotori della fugace “utopia”del
Teatro Civico, un’esperienza che si sarebbe risolta nel tempo breve di poco più
di due mesi.
Alle resistenze tradizionali di gusto e di pubblico si univano i rifiuti e la
diffidenza dei capocomici e delle compagnie teatrali, ostili per costume a ogni
forma di innovazione. L’avversione di costoro verso il teatro politico è ben
documentata in una farsa in musica semisconosciuta, redatta in quegli anni
probabilmente in area lombarda. La monarchia distrutta può essere considerata il
manifesto simbolico del teatro d’evasione. Emerge, nelle scene della commedia,
una linea morbida di resistenza contro il teatro patriottico: bisogna dare
all’opinione - esclama il Diavolo Guercio, maschera di un impresario che rischia
il fallimento - quel che essa richiede, non grandi scosse, non pericolosi contenuti
eversivi. Si teorizzava così la liquidazione della politica, si rifiutava ogni
allusione ai problemi del presente. Quel che più interessava ai gestori d’un
teatro che non intendeva allinearsi sulle posizioni del rinnovamento era
contentare il pubblico, adattarsi all’indole del paese. L’impresario fortunato -
C. De Michelis, Letterati e lettori, cit., pp. 225-54.
Vedi i tomi XII-XVI, redatti da giugno a ottobre 1797, de «Il teatro moderno applaudito», cit. e
a solo titolo d’esempio la «Gazzetta urbana veneta» del 28 giugno, 12 luglio, 4 ottobre 1797. Più
in generale G. Dumas, La fin de la République de Venise, cit., pp. 354 e ss. Nella stessa Francia
rivoluzionaria la situazione non era diversa. Il teatro popolare continuava ad essere legato alle
maschere e, più in generale all’evasione, producendo “des farces sans moralité […] nì caractère
politique”. M. Albert, Les Théâtres de Boulevards (1789-1848), cit., pp. 86 s ss.
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concludeva il Diavolo Guercio- deve offrire all’opinione solo quel che essa
realmente vuole28.
Anche nella Venezia della sperimentazione e della riforma si rifletteva
l’analogo processo che aveva investito, in quegli anni, la società italiana. Sulle
scene marciane, come sui palcoscenici di Roma e di Milano del tempo, la
rivoluzione ispirava esplicitamente solo qualche testo29. In definitiva, soltanto
una quindicina di titoli costituivano il nuovo repertorio patriottico marciano.
Non diversa sembrava configurarsi la stagione del Teatro Civico. Il 30 luglio, a
venti giorni dal debutto, un contemporaneo si doleva del “troppo breve numero
di componimenti democratici” rappresentati su quel palcoscenico. Invitava gli
spettatori e i seguaci del nuovo ordine a sospendere il giudizio e ad attendere,
considerata la difficoltà di realizzare, in poco tempo, una “sì vasta impresa”30.
L’attento esame compiuto da C. De Michelis sull’attività del Teatro Civico
- la scena che raccolse una buona parte dei nuovi contributi patriottici conferma la linea di tendenza che abbiamo indicato31. Il calendario offrì qualche
novità, il recupero della migliore tradizione italiana e straniera, alcune
concessioni al gusto del tempo. Per un essenziale ripensamento delle singole
opere si rinvia al contributo qui sopra menzionato. In questa occasione si
La monarchia distrutta. Dramma per musica da rappresentarsi all’Inferno con il Diavolo Guercio
impresario fallito, s.d., s. l., Atto unico, scena ultima. Il testo in Archivio di Stato, Milano, Studi
Parte Antica, b. 111. Una raccolta di lettere di capocomici che rifiutano di rappresentare le pièces
patriottiche sono custodite nell’Archivio del teatro Verdi di Padova. L’indicazione è in A. Bohm,
Notizie sulle rappresentazioni drammatiche a Padova dal 1787 al 1797, Visentini, Venezia, 1902, p. 72.
29 “Arlecchino, Brighella e Pantalone continuano a istruirci nelle loro lingue, delle loro maniere e
delle loro virtù buffonesche. Il popolo […] beve queste pozioni arlecchinesche con molta avidità
in mancanza di altre bevande che pure gli si dovrebbero giornalmente apprestare”.
«Termometro politico della Lombardia», 4 brumaio a. VI. Così, sconsolatamente, si esprimeva il
capocomico V. Broccoletto a Milano il 7 gennaio 1798 in una lettera ai rappresentanti del
Direttorio Esecutivo: “Esposi una domenica l’Arlecchino: questo incontrò moltissimo al gusto
de’ francesi […] all’improvviso mi venne proibito dal governo, mi feci pregio di obbedire a quel
comandante e senza replicare un accento, quando la sera il generale Rey mi fece chiamare nella
sua loggia […] Egli mi ordinò che assolutamente annunciassi per l’indomani l’Arlecchino che
esso avrebbe pensato al resto, e se non l’avessi fatto gliene avrei reso conto. […] la mattina fui
dal governo arrestato e messo in prigione […] la sera per mezzo dello stesso generale posto in
libertà”. La lettera è in A. Paglicci Brozzi, Sul teatro giacobino e antigiacobino in Italia, 1796-1805,
Tipografia Pirola, Milano, 1887, p. 64. La stampa allora lamentava con frequenza la persistenza
del vecchio teatro: si consideri per la Repubblica romana a titolo esemplificativo il solo
«Monitore di Roma» alle date 9 e 26 maggio 1798; 14, 21 e 25 pratile, 6 caldifero, 26 fruttifero a.
VI; 29 piovoso, 29 messidoro, 2 fruttidoro, a. VII.
30 «Giornale dei teatri di Venezia», in«Il teatro moderno applaudito», cit., XIV, p. 2.
31 C. De Michelis, Teatro e spettacolo durante la Municipalità provvisoria di Venezia maggio-novembre
1797, in Il Teatro e la Rivoluzione, cit., pp.265-88.
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traccerà il solo quadro d’insieme per poi proporre l’ipotesi di due soggetti
tematici suscettibili di esami futuri.
Negli ottantaquattro giorni di attività (10 luglio -1 ottobre) e nelle
cinquantacinque recite tenutesi presso il Teatro Civico vennero rappresentati
diciassette titoli, cinque dei quali stranieri, tratti dal repertorio classico o
politicamente più impegnato degli ultimi sessant’anni32. Tra questi si
segnalavano due tragedie di Voltaire: La morte di Cesare (1731) e il Maometto
(1736). Si trattava di due opere, introdotte in Italia da M. Cesarotti nel 1762, testi
che avevano costituito, a Padova e a Venezia, forse non solo per Sografi, il
tramite letterario con il pensiero dei Lumi33. Si rese il consueto omaggio ad
Tra questi un certo rilievo sembra assumere La vera bravura una farsa rappresentata il 18
luglio, in seguito alla messa in scena de Il matrimonio democratico di Sografi. Il testo venne
pubblicato nel t. XII de «Il teatro moderno applaudito». La traduzione riproduceva fedelmente
le 22 scene de La Vraie bravoure, comédie en un acte et en prose. Par les citoyens Duval et Picard,
représentée, pour la première fois sur le Théâtre de la République, le 13 frimaire an 2e. A Paris chez
Lepetite, libraire, quai des Augustins, N°. 32. L’opera ebbe, sino al luglio 1794, più di venti
repliche a Parigi presso il Théâtre français de la rue de Richelieu. L.B. Picard (1769-1828), figlio
di un avvocato parigino, si dedicò già a venti anni alla attività teatrale. Autore, direttore di
teatro, membro dell’Académie française, pur rimanendo un minore scrisse, autonomamente o
in collaborazione, quasi sessanta pièces rappresentate prevalentemente alla Comédie-Française o
all’Opéra-Comique. A. Duval (1767-1842) originario di Rennes, partì giovanissimo volontario
per la guerra d’America, fu successivamente marinaio, tabaccaio, ingegnere. Attore dal 1790,
divenne solo successivamente autore teatrale. Scrittore prolifico, la sua opera è raccolta in nove
volumi pubblicati tra il 1812 e il 1825. Nel 1812 era stato eletto anch’egli membro de l’Académie
française. Per entrambi vedi J. Gourret, Ces hommes qui ont fait l’Opéra, Albatros, Paris, 1984. Per
quel che qui più interessa il testo con le sue riserve critiche poneva in discussione le strutture
portanti e la stessa mentalità dell’Antico regime. L’editore della traduzione italiana era
consapevole dell’importanza dell’argomento “opportunissimo –scrisse nell’Introduzione- ci
sembrò dare ai cittadini soldati ed offiziali nostri una delle più importanti lezioni sul preteso
punto d’onore […] uno dei pregiudizi più nocivi all’umanità […] che avrebbe dovuto cadere
con la feudalità che l’aveva prodotto”. Il duello, il punto d’onore -bersagli polemici della farsasono la manifestazione di una concezione del mondo che rischiava di sopravvivere ai rapporti
di forza che l’avevano generata, esprimeva una concezione vacuamente individualistica della
persona umana, un senso esasperato ed orgoglioso di sé ed insieme il rifiuto di ogni
considerazione dell’importanza degli altri, dei rapporti sociali. Perciò il protagonista della
commedia rifiuta di battersi contro colui che lo ha offeso, consapevole della priorità dei valori
sociali e patriottici, per i quali soltanto mette conto rischiare la vita: “lasciamo questo
pregiudizio che si chiama onore agli egoisti che si fanno un dovere di uccidersi per una parola
[…] il mio onore consiste nel servire e difendere la patria”. Atto unico, 22. Sulla questione,che
sarà qui ripresa in seguito, vedi M. Cavina, Il sangue dell’onore. Storia del duello, Laterza, RomaBari, 2005, in particolare pp. 206-35.
33 Il Cesare e il Maometto tragedie del signor Voltaire trasportate in versi italiani con alcuni ragionamenti
del traduttore, In Venezia presso Pasquali, 1762. L’edizione uscita anonima fu inviata dall’autore,
tramite Goldoni, a Voltaire. Per qualche considerazione, P. Themelly,Il teatro di Antonio Simone
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Alfieri e a Goldoni mandando in scena il Bruto primo (1789), la Locandiera (1753)
e L’avaro (1756). Si recuperarono inoltre gli autori italiani contemporanei la cui
produzione era stata segnata dal nuovo pensiero: si scelsero due pièces di F.
Albergati Capacelli e una di G. Greppi34. Si privilegiarono cioè gli autori
“militanti”, i poeti che, seppur “veneti d’adozione”, avevano animato il
dibattito della locale Società filodrammatica nel corso degli anni Ottanta,
insieme a G. Pindemonte, a A.S. Sografi e a A. Pepoli. Grazie all’impulso di
costoro, che tuttavia seguiva l’indirizzo intrapreso negli ultimi anni da E.
Caminer Turra, la tradizione letteraria locale si era aperta alla cultura francese
contemporanea, come oggi ormai è noto35. Su questo corpo “classico” ormai
consolidato, che ai soci probabilmente appariva come la migliore tradizione
patria e d’oltralpe, furono innestate sei novità. Tra queste figuravano due opere
Sografi tra cultura dell’lluminismo e suggestioni della Rivoluzione, «Eurostudium3w», 2014, ottobredicembre, p. 5.
34 Il capriccioso farsa del cittadino Francesco Albergati Capacelli in Venezia 1797 Primo della libertà
italiana, venne rappresentata il 2 agosto. Sempre in quel mese, la sera del 9, invece andava in
scena Il matrimonio improvviso farsa del cittadino Francesco Albergati Capacelli, in Venezia 1797
Primo della libertà italiana. I testi vennero poi raccolti nei tomi XIII e XV de «Il teatro moderno
applaudito», cit. Il dramma in cinque atti di G. Greppi L’amore irritato dalla difficoltà, tenutosi il
30 luglio, era una ripresa di Teresa e Claudio, un’opera del letterato emiliano che a parere
dell’anonimo articolista aveva debuttato a Venezia al San Luca nel 1786 riportando poi “lo
straordinario applauso ogni anno su quasi tutti i teatri d’Italia”. Vedi «Il teatro moderno
applaudito», cit., XIV, p. 83 ivi anche il testo della pièce.
35 A. De Paolis, Una letterata veneta tra giornalismo e traduzioni: Elisabetta Caminer Turra, in
Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto: dal Neoclassicismo al primo Romanticismo.(Atti del
Convegno internazionale, Lecce-Castro, 15-18 giugno 2005), a cura di G. Coluccia e B. Stasi,
Congedo, Lecce, 2006, v. II, pp. 137-148; M. Liuccio, Elisabetta Caminer Turra, La prima donna
giornalista italiana, Il Poligrafo, Padova, 2010. Vedi la voce E. Caminer Turra redatta da C. De
Michelis, in «Dizionario Biografico degli Italiani», Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma,
XVII, 1974, pp. 236-41. Su A. Pepoli vedi la voce di S. Minuzzi, «Dizionario Biografico degli
Italiani», cit., LXXXII, 2015, pp. 258-60; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento,
Sansoni, Firenze, 1956, pp. 196-201; Su G. Pindemonte, M. Petrucciani, Giovanni Pindemonte nella
crisi della tragedia, Le Monnier Firenze, 1966; P. Themelly, Adesione e dissenso tra Rivoluzione e
Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, letterato e politico veneto (1789-1804), in
«Eurostudium3w», 2010, 17, pp. 7-47. Su G. Greppi. vedi la voce di L. Rodler, in «Dizionario
Biografico degli Italiani», cit., LIX, 2002, pp. 326-28. Su F. Albergati Capacelli, vedi E. Masi, La
vita i tempi e gli amici di Francesco Albergati commediografo del XVIII secolo, Zanichelli, Bologna,
1878; Id., Parrucche e sanculotti nel secolo XVIII, Treves, Milano, 1886, pp. 119-40; A. Asor Rosa
voce Francesco Albergati Capacelli, in «Dizionario Biografico degli Italiani», cit., I, 1960, pp. 624-7;
E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”. Francesco Albergati Capacelli commediografo, Il Mulino,
Bologna, 1993.
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di Sografi, Il matrimonio democratico e L’ex Marchese della Tomboletta a Parigi36. Per
arricchire un repertorio locale ancora gracile ed in fieri, capace d’allestire al
momento solo qualche farsa improvvisata, si ricorse alle nuovissime pièces della
letteratura politica italiana, ai testi cioè redatti per la stagione teatrale 1796-97. Si
favorirono le opere che avevano riscosso maggior successo sui palcoscenici
dell’Italia settentrionale. Tra queste alcune saranno più avanti richiamate al fine
di collocare in modo adeguato il contributo di Sografi nella produzione
contemporanea37.
La rivisitazione dell’Alfieri: adattamenti e contaminazioni.
Ricostruita in estrema sintesi l’attività del Teatro Civico presenteremo, come
accennato, i lineamenti di due nuclei tematici che ne caratterizzarono, con
efficacia, la produzione. Un certo significato sembrano assumere gli
adattamenti delle tragedie di Alfieri, delle rielaborazioni compiute sull’opera di
quel grande a fine secolo in Italia, testi per lo più trascurati dagli studiosi nei
loro esami. Si ricorderà il Bruto primo messo in scena a Venezia nel 1797 per poi
compararlo o con analoghi interventi compiuti dai patrioti nel corso del
Triennio. Altrettanto interessanti appaiono le poche opere teatrali che
affrontano esplicitamente sui palcoscenici cittadini il tema della Rivoluzione a
Venezia. Una comune ispirazione politica moderata anima e guida la redazione
di questi testi. Alla natura statica e convenzionale propria della prima
esemplificazione si contrappongono i fermenti dinamici che pervadono la
L’ex marchese della Tomboletta a Parigi, del testo perduto resta il resoconto in «Il teatro moderno
applaudito», cit., v. XV, ora anche in C. De Michelis, Teatro e spettacolo durante la Municipalità
provvisoria di Venezia, cit., pp. 277-78.
37 Come si vedrà meglio in seguito saranno qui discusse La Rivoluzione. Commedia patriottica.
Bologna 1797, anno I della libertà italiana. L’opera andava in scena dal 2 al 4 ottobre al San
Giovanni Grisostomo, ormai ex Teatro Civico, per opera della compagnia “comico-patriottica”
Battaglia che l’aveva già rappresentata “con successo” a Bologna nella primavera dello stesso
anno. Una seconda edizione della stessa venne stampata in quei giorni a Venezia con dedica a
Bonaparte. La figlia del fabbro di C. Federici, un classico del repertorio patriottico, aveva avuto la
sua prima a Brescia, nel dicembre 1796: successivamente fu rappresentata a Venezia, al San
Luca, dal 20 al 23 ottobre, per essere poi ripresa in molti palcoscenici italiani sino ad essere
pubblicata a Torino, nel 1797, per i tipi di Pane e Barberis. Le altre due pièces che esamineremo
in rapporto ai testi di Sografi invece non comparvero sui teatri marciani. Si tratta, nel primo
caso, di un’opera andata in scena a Mantova, nel marzo 1797, in occasione della “liberazione”
della città: L’aristocratico convertito. Commedia di cinque atti di prosa. Mantova, presso la società
tipografica all’Apollo. Anno I della libertà italiana. Il secondo è quello di un’opera emiliana del
1798, una sorta di catechismo repubblicano sceneggiato, Il repubblicano si conosce alle azioni ossia
la scuola de’ buoni costumi. Commedia patriottica di carattere di cinque atti del cittadino Giambattista
Nasi juniore modanese, in Modena presso la Società Tipografica. Anno VI Repubblicano.
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seconda. Entro quest’ultimo itinerario si colloca l’opera di Sografi che sarà qui
rievocato con una breve considerazione utile per lo sviluppo del nostro
discorso.
La rappresentazione del Bruto primo d’Alfieri, che inaugurava il 10 luglio
l’attività del Teatro Civico, si richiamava, come si è già ricordato, a un
orientamento diffuso tra i patrioti italiani38. Nel corso del Triennio l’opera di
Alfieri riscosse grande fortuna anche per quella “immediata fruibilità
spettacolare” della quale gli studiosi hanno preso atto39. La Virginia, il Bruto
primo, il Bruto secondo furono fra le tragedie del repertorio settecentesco più
frequentemente rappresentate nelle Repubbliche patriottiche. Di esse si ebbero
ristampe, adattamenti, versioni e interpretazioni musicali40. Da una parte
l’accentuazione libertaria, dall’altra la sostanziale estraneità di Alfieri al
movimento patriottico (tra il 1789 e 1798 l’astigiano scriveva il Misogallo41)
suggerivano agli editori e agli organizzatori teatrali adattamenti e ritocchi ai
testi. Questi interventi sono stati giudicati dagli studiosi come delle iniziative
che tendevano a “giacobinizzare” le tragedie alfieriane42. In realtà si trattava di
operazioni censorie che miravano a stemperare l’impianto radicale della
rappresentazione come testimonia la nostra edizione veneziana del 1797.
A corredo del Bruto primo veniva pubblicato un Prologo in cinquantadue
versi, scritto, per esplicita richiesta della Società di pubblica istruzione,
dall’avvocato M. Butturini un discepolo e collaboratore di A. Pepoli originario
di Salò43. Il Prologo offre una chiave di lettura moderata della tragedia. Il
commentatore celebrando il crollo dell’oligarchia attribuisce il “dono” della
Bruto primo. Tragedia del conte Vittorio Alfieri, in Venezia l’anno 1797. Primo della libertà
italiana, in «Il Teatro moderno applaudito» cit., t. XIII.
39 Vedi per tutti G. Santato, Il giacobinismo italiano. Utopie e realtà tra Rivoluzione e Restaurazione,
Vallardi, Milano, 1990, p. 79.
40 Bruto primo tragedia del cittadino Vittorio Alfieri da rappresentarsi nella sala degli Accademici
imperiti. Primo della Repubblica romana. In Roma presso il cittadino Gioacchino Puccinelli a S.
Andrea della Valle; Virginia dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro Alibert nell’autunno
nell’anno VII Repubblicano, in Roma presso il cittadino M. Puccinelli; Bruto [primo] dramma per
musica in due atti di G. Marrè da rappresentarsi nel Teatro di S. Agostino il Carnevale dell’anno 1799. II
della Repubblica Ligure.
41 Il Misogallo, steso tra 1789 e 1798, rielaborato a partire dal 1793 venne pubblicato anonimo a
Londra nel 1799. Vedi V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di C. Mazzotta, v. III, Casa
d’Alfieri, Asti, 1984.
42 Vedi per tutti V. Monaco, La repubblica del teatro (momenti italiani 1796-1860), Le Monnier,
Firenze, 1968, pp. 27 e ss.
43 Vedi Bruto primo ed. veneziana 1797 cit., pp. 54-6.
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libertà al “franco genio guerriero” che discende dalle Alpi44. Il concetto
alfieriano della libertà intesa come lotta di liberazione veniva dunque meno.
L’attenzione degli spettatori era così orientata verso gli “infami eccessi” della
tirannide dei Tarquini e al “sublime esempio” della virtù di Bruto. È
un’interpretazione che, se non travisa, smorza il significato della tragedia. Il
senso politico del Bruto primo alfieriano consiste nella scoperta della “patria
vera”, “creata dai cittadini”45; nella volontà di riappropriarsi della città con le
armi: “libera or sorge da quel sangue Roma”46; nella considerazione della
inevitabilità dello scontro con il tiranno, per cui s’innalza, già nell’87, il grido
che sarà giacobino “libertà o morte”47.
Il commento sorvola sul tema centrale della tragedia ispirata dalla
connessione “morte-virtù” (propria dei tempi “eroici” della Rivoluzione)
espressa dal tradimento dei figli e dalla inesorabile sentenza di Bruto. Si sorvola
anche sull’altro nodo: il momento costituente. Nel Foro, dopo la cacciata dei
Tarquini, patrizi e plebei si adunano per fondare la comunità dei cittadini liberi
ed eguali: “qui dunque in breve -proclama Bruto- plebei e patrizi aduneremci: e
data fia più stabil base a libertà per noi”. A queste parole “il popolo”, diventato
nazione, risponde coralmente: “il primo dì che vivrem noi sia questo”48. In tale
contesto i termini chiave erano appunto “plebei” e “patrizi”: la cittadinanza
democratica superava, nella nuova carta dei diritti, i vecchi contrasti di classe.
Eppure, proprio quel termine “plebe” cade sotto la censura dei patrioti
veneziani, come rivelano le tavole delle correzioni della edizione del 1797, nella
quale esso è sostituito per ben quattordici volte, da espressioni
onnicomprensive e interclassiste come “popolo” o “figli” per la plebe; “padri”, e
“figli illustri” per i patrizi e i senatori49.
“Da queste sponde/ l’esecrato oligarchico sistema/ opra di cento lustri, alfin disparve/ e
disparve per sempre […] Oh fausto dono/ che a noi portò/ scendendo giù dall’Alpe/ fra gli allori
guerrieri e i miti ulivi,/ il Franco Genio”. Ivi, Prologo, p. 54.
45 Vedi V. Alfieri, Bruto primo, Atto I, 1, 2.
46 Ivi, Atto V, 2.
47 Ivi, Atto I, 2, II, 5, IV, 3. Anche nella Virginia redatta da Alfieri nel 1781 “il popolo” innalza il
grido “o libertade o morte”, vedi Atto II, 3.
48 V. Alfieri, Bruto primo, Atto I, 2.
49 Vedi Bruto primo ed. veneziana 1797 cit., e Bruto primo tragedia del cittadino Vittorio Alfieri da
rappresentarsi nella sala degli Accademici imperiti. Primo della Repubblica romana, cit. Dalle Tavole
delle correzioni si ricordano qui i due interventi che sono sembrati più significativi: Alfieri, Atto I,
1: “qui dunque, in breve plebei e patrizi aduneremci” ed. Venezia 1797: “in breve padri e figli
aduneremci”. Alfieri, Atto II, 5: “Patrizi illustri,/voi pochi ormai del fero brando illesi,/ dal re
tiranno; e voi, tra loro il fiore,/Senatori, adunarvi infra la plebe/libera e giusta sdegnereste or
forse?/”. Ed. Venezia 1797: “Voi vecchi padri/già pochi ormai dal ferro brando illesi/ del re
tiranno; e voi, speme di Roma,/ figli illustri, d’unirvi ad un popol forte/ libero e giusto
sdegnereste or forse/”.
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Anche negli adattamenti musicali delle tragedie alfieriane (destinate,
comunque, a trasmettere suggestioni patriottiche negli strati più vari della
società) i temi forti dell’opera di Alfieri si disperdono. Tanto può riscontrarsi
nel Bruto primo, musicato e rappresentato a Genova nel carnevale 179950: un
dramma nel quale gli elementi estranei alla stesura originale -gli amori di Tito,
figlio di Bruto, per la figlia del tiranno (una concessione al repertorio
tradizionale ed al gusto corrente)- complicano ed impoveriscono la trama. La
tremenda semplicità del dilemma di Bruto si edulcora nella sovrapposizione dei
conflitti paralleli, nelle rotture e nei ravvicinamenti tra i due innamorati. L’idea
nuova di patria, che in Alfieri è sentimento onnipervadente, valore supremo, è
orecchiato e oratoriamente declamato nella versione musicale51. Anche nella
versione musicale della Virginia rappresentata a Roma repubblicana l’intreccio,
che è lineare in Alfieri, è complicato da espedienti narrativi e scenografie che
vorrebbero suggestionare emotivamente lo spettatore. Ma non è solo per
l’artificiosità della trama che si attenua lo spessore drammatico di personaggi
come il tiranno Appio e l’eroe Virginio. Predominano gli affetti individuali, vien
meno la dinamica libertaria della tragedia, l’aspra contrapposizione delle parti
nel Foro: manca il grido del popolo che, come nel Bruto primo, reclama “libertà o
morte”52.In Virginio c’è più il dramma del padre che lo sdegno del cittadino
offeso. La conclusione è tremenda in Alfieri: “agli infernali dei con questo
sangue il capo tuo consacro” grida Virginio al tiranno dopo aver ucciso la
figlia53. Invece nella versione musicale, dopo l’auspicio della morte del
Decemviro, il coro intona una strofa di ottonari che celebra l’inizio d’una nuova
era di calma e di felicità per tutti54.
Il mito della Rivoluzione di Venezia
Il rapido esame sin qui compiuto e gli esempi sull’adattamento dei testi di
Alfieri, hanno messo in evidenza la reale difficoltà dei patrioti di organizzare in
Bruto [primo] dramma per musica in due atti di G. Marrè, cit.
Ivi, Atto I, 12. Vedi anche il Bruto milanese, ossia la congiura contro Galeazzo Maria Sforza
Visconti, ballo tragico pantomimo composto da Urbano Garzia, s. d., s. l., ma Milano 1798. Anche
questo ballo testimonia la tendenza a permeare di anticorpi repubblicani e latamente
democratici le trame del vecchio teatro. L’autore, nell’Introduzione, dichiara di aver voluto
rendere il “sublime e patriottico” tema del tirannicidio “più sentimentale e piacevole”,
introducendo gli amori di Duca con Massimina.
52 V. Alfieri, Bruto primo, Atto I, 2, II, 5, IV, 2.
53 Ivi, Atto V, 4.
54 Virginia dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro Alibert nell’autunno nell’anno VII
Repubblicano, cit., Atto II, 26: “Sciolta è Roma dai tiranni/ dopo tanti acerbi affanni/ siede alfin la
libertà./ Solo in lei fra bella calma/ la cagion ritrovi ogn’alma/ della sua felicità”.
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breve tempo il loro repertorio politico. In altri termini tanto al San Giovanni
Grisostomo, quanto negli altri teatri cittadini e più in generale in tutti quelli
d’Italia, si fece allora quel che si poté inevitabilmente condizionati dalla stretta
dei tempi. Cercheremo di ricostruire tra poco il senso del contributo di Sografi
nell’ambito di un filone letterario di lungo periodo. Si fermeranno ora, come già
accennato, alcune considerazioni circostanziate sull’altro nucleo tematico
contrapposto agli adattamenti d’Alfieri. Il ripensamento delle opere ispirate al
tema della Rivoluzione a Venezia consente di esplicitare, sia pur tramite
l’indeterminatezza del linguaggio letterario, quelle tensioni dinamiche che, con
oscillazioni e ambivalenze, caratterizzano il moderatismo veneto di fine secolo.
Solo tre rappresentazioni (non erano comunque poche) affrontavano a
Venezia il tema allora sentito della riforma dello stato: ovvero il problema
“autoctono” della rivoluzione antioligarchica. Una tragedia di G. Pindemonte,
l’Orso Ipato, e due commedie di A.S. Sografi, La giornata di San Michele e La
Rivoluzione a Venezia, testi scritti di “getto” dai due poeti, affrontavano
esplicitamente l’argomento: i tempi sembravano propizi55. In questa sede è
possibile fermare soltanto qualche considerazione.
Un senso d’insoddisfazione e di crisi, insieme al presagio di una
imminente catastrofe si erano diffuse in città, negli ultimi cinquant’anni
prevalentemente tramite la memorialistica e i trattati politici56. L’inesorabile fine
di un sistema millenario di governo, la caduta della “fabbrica”, era ormai
imputabile non solo a “pressioni” esterne ma soprattutto a “cedimenti”
interni57. L’inerzia della classe dirigente e il progressivo sfaldamento del regime
oligarchico, insieme alla graduale disarticolazione del patriziato sembravano
accentuare le tradizionali difficoltà nella gestione della Civitas e nelle
consuetudinarie relazioni tra centro e periferia. A fine secolo, oltretutto, si era
sempre più accentuata la distinzione tra due corpi aristocratici del tutto
Orso Ipato. Tragedia del Cittadino Giovanni Pindemonte, in Venezia 1797, Anno I della Libertà
Italiana, dalle Stampe del Cittadino Casali. Notizie sulla fortuna e sulle diverse edizioni
dell’opera in M. Petrucciani, cit., pp. 74 e ss.; C. De Michelis, Il Teatro Patriottico, Marsilio,
Padova, 1966, pp. 30-3; la tragedia può oggi leggersi nella edizione a cura di M. Montanile in
Ead., I Giacobini a teatro. Segni e strutture della propaganda rivoluzionaria in Italia, Società Editrice
Napoletana, Napoli, 1984, pp. 27-93. L’opera riproduce anche Il ms de La Rivoluzione di Venezia,
(pp. 95-121); il ms de La giornata di San Michele. Rappresentazione democratica del Cittadino Sografi,
è pubblicato in N. Mangini, Parabola di un commediografo giacobino: Antonio Simone Sografi, in
«Risorgimento veneto», 1990, 6, pp. 53-93.
56 P. Del Negro, La fine della Repubblica aristocratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta
della Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. Del Negro e P. Preto, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, pp. 191 e ss. ; P. Del Negro, La memoria dei vinti. Il
patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di R.
Zorzi, Olschki, Firenze, 1992, pp. 351-70.
57 P. Del Negro, La fine della Repubblica aristocratica, cit.
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disomogenei58. Tra i patrizi poveri, sempre più poveri e numerosi, che ormai
reclamavano diritti e occupavano la maggioranza dei seggi del Maggior
Consiglio, e i reali detentori del potere, una cerchia sempre più ristretta di
ottimati59. Costoro governavano dall’alto del Collegio dei Savi concedendo pur
qualcosa alle più defilate frange del patriziato “mezzano” che comunque
controllavano, con spirito tradizionalista, il Consiglio dei Dieci e le cariche di
Inquisitore di Stato60.Torneremo tuttavia più avanti sulla questione al fine di
comprendere meglio il pensiero di Sografi.
Se il quadro era dunque questo ben si comprendono le speranze di
Pindemonte e Sografi verso un programma generale di rinnovamento. I due
letterati provenienti dalla provincia veneta erano pronti, probabilmente ancor
più Pindemonte, a rispolverare anche le vecchie tentazioni municipaliste. Il
veronese tuttavia subordinava le tradizionali aspettative a richieste nuove,
capaci di mutarne il senso. Per i due scrittori, che avevano già da tempo
espresso le loro riserve critiche nei confronti dei programmi più radicali ed
estremi d’oltralpe, l’arrivo dei francesi pareva poter rendere finalmente
possibile l’iniziativa riformatrice61. Un indirizzo, quest’ultimo, che era stato
ancor più osteggiato a fine secolo dal patriziato dominante divenuto sempre più
restio ad accogliere qualsiasi istanza di rinnovamento dopo la “contraddittoria”
stagione riformatrice del 1764-177362. La sconfitta del programma propugnato
da A. Tron e delle rivendicazioni “corporative”63 della plebe nobiliare avevano
difatti rafforzato sin dagli anni Ottanta l’orientamento conservatore dei
maggiorenti e la cristallizzazione politica dell’apparato.
Pindemonte e Sografi sin dalle prime scene dei loro nuovi componimenti
patriottici celebravano, in teatro, il sistema democratico, una forma di governo
che avrebbe dovuto sorgere sulle ceneri dell’antico regime oligarchico. Il nuovo
sistema politico sembrava essere l’unica via possibile per garantire il rilancio
V. Hunecke, Il patriziato veneziano, cit.
Ivi, pp. 33-82.; Id., Il corpo aristocratico in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della
Serenissima, v. VIII, cit., pp. 359-429.
60 P. Del Negro, La fine della Repubblica aristocratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta
della Serenissima, v. VIII, cit., pp. 199 e ss.
61 Per il distacco di entrambi i patrioti dal radicalismo e dal giacobinismo vedi, P. Themelly,
Adesione e dissenso tra Rivoluzione e Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, cit.; Id., Il teatro di
Antonio Simone Sografi tra cultura dell’lluminismo e suggestioni della Rivoluzione, cit.
62 Si indicano qui soltanto: F. Venturi, Settecento riformatore, v., V, t. II, La Repubblica di Venezia
(1761-1797), Einaudi, Torino, 1990; P. Preto, Le riforme, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta
della Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. del Negro e P. Preto, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, pp. 83-142; G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi
dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Dal Bianco, Udine, 1980; S. Perini, Riforme veneziane tra
economia e finanza nel secondo Settecento, in «Studi Veneziani», 46, 2003, pp., 185-229.
63 M. Berengo, La società veneta, cit., p. 9.
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generale della vita comunitaria, sempre più imbrigliata nei lacci della vetusta
organizzazione politico-amministrativa veneziana64. Nondimeno l’esigenza
egualitaria finiva per stemperarsi con lo sviluppo della trama. Tra l’altro l’idea
stessa di ripristinare libere assemblee e magistrature elettive e temporanee si
prestava a esprimere insieme tanto le vecchie rivendicazioni di ceto, quanto i
nuovi diritti universali della cittadinanza 65. Entrambi gli autori erano poi
convinti che la Rivoluzione non dovesse guardare al futuro quanto piuttosto
essere rivolta al passato66. In definitiva anche un grande novatore come
Montesquieu, nella sua polemica contro lo stato di Luigi XIV si era richiamato
alla “purezza” dell’antico “governo gotico” che lo sviluppo storico aveva
degradato e corroso67. Per riportare in vita il vero “modello” bisognava dunque
abolire la storia, cancellarne lo scorrere del tempo. Questo doveva essere anche
il compito della Rivoluzione: essa più che tendere a realizzare nuove iniziative
doveva impegnarsi a reiterare ciò che era stato già compiuto, ad adoperarsi
fattivamente per riscoprire il “paradiso degli archetipi”.
Anche i due patrioti veneti seguivano un atteggiamento tipico della
mentalità rivoluzionaria: il loro teatro riattualizzava nell’idea di “nuova era” la
repubblica dei primordi. L’alba felice del mondo si traduceva a Venezia nel
ristabilire l’antico primato del Maggior Consiglio 68. In una discussione
appassionata che conclude il primo atto della Rivoluzione di Venezia di Sografi,
era addirittura una donna, Chiaretta, una patrizia “democratica e brillante”, a
indicare la nuova rotta: “Basta che convegnimo in sto principio che una
rivoluzion in Venezia xe necessaria, che chi la desidera xe zente dabben, che el
popolo gha da tornar quel che el giera, e che quel conseggio che xe sta serrà co
tanta scelleraggine xe ora che el sia averto con onor, con rason sotto i stendardi
della virtù, dell’uguaglianza, della libertà”69. La primitiva assemblea assurgeva
così a simbolo dell’autogoverno della società civile. Sembrava identificarsi
In Pindemonte l’anticipazione di questi temi può cogliersi già nei Sonetti composti tra 1795 e
1797 vedi: “D’Unni e Sciti peggior Gallico stuolo”; “Osserva, o donna, o vincitrice o vinta”;
“Popol soggetto del Leone alato”; “Il giorno 16 maggio 1797” ora in P. Themelly, Adesione e
dissenso tra Rivoluzione e Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, cit. Vedi anche l’Argomento in
Orso Ipato, ed. cit., 31. Cfr. La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2, 6.
65 G. Pindemonte, Orso Ipato, Atto II, 4, 8, V, 10. A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto II, 17.
A.S. Sografi La giornata di San Michele, Atto III, 2.
66 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2. A.S. Sografi, La Giornata di San Michele, Atto I,
5, II, 1. G. PIndemonte, Orso Ipato, Atto V, 9.
67 C-L. de Secondat de Montesquieu, L’Esprit de lois, XI, 8. Vedi, in particolare l’Introduzione di R.
Derathé all’ed. it., BUR, Milano, 1989, p. 43.
68 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 2, II, 17. A.S. Sografi, La Giornata di San Michele,
Atto II, 3. G. PIndemonte, Orso Ipato, Atto II, 4, 8.
69 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 7.
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nell’idea di una associazione fondata sul principio dalla sovranità popolare70. Il
modello tuttavia pareva poter anche scadere nella concezione di una riunione di
corpo, nella rievocazione di un organismo primigenio capace di esprimere i soli
interessi del ceto aristocratico riaggregato su principi egualitari 71. La pratica
della Rivoluzione si traduceva nell’esigenza di accomodamento dell’esistente.
L’idea di riforma si sovrapponeva a quella di trasformazione sino a negarne il
significato.
La rievocazione della Repubblica dei primordi era stata già preannunciata
da Pindemonte qualche tempo prima, in una “patriottica fatica”, nel celebre
Discorso sulle cause della decadenza della Repubblica veneta72. Il poeta aveva scorto,
prima della catastrofe napoleonica, “il fatal discioglimento” di ”un’autorità
moribonda”73. La crisi che gravava sulla città e si ripercuoteva sui Domini era
da imputarsi alla degenerazione della aristocrazia in oligarchia: un processo che
si era compiuto già nel basso Medioevo74. Il governo da “democratico” era
divenuto sempre più “aristocratico”75. I Consigli ristretti (La Signoria, il
Consiglio dei Dieci, il Collegio) controllavano l’attività del Maggior Consiglio,
esautorandolo di fatto dalle sue funzioni e orientavano le scelte del Senato. I sei
Savi Grandi, i veri detentori del potere, erano “maneggiatori” e “arbitri di tutti
gli affari”76. Tali cariche, pur elettive e temporanee, erano tuttavia precluse ai
membri delle famiglie nuove, povere e di “mediocri fortune” del patriziato
cittadino77.
Da questa crisi della politica bisognava dunque uscire. Era necessario
rilanciare un programma, inaugurare una buona pratica di governo. Tuttavia
Pindemonte, nel Discorso come nell’Orso Ipato, non invocava la riforma, non
proponeva alcuna innovazione: auspicava il solo ritorno alla “purezza”
originaria della Repubblica veneta78. L’operetta si configura come una biografia
e un esame di coscienza dell’autore: funzionario e amministratore cittadino. Un
A.S. Sografi, La Giornata di San Michele, Atto I, 3, II, 1, 3, III, 2. A.S. Sografi, La Rivoluzione di
Venezia, Atto I, 2, II, 11. G. Pindemonte, Orso Ipato, Atto V, 10.
71 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 4.La testimonianza più esplicita tuttavia è in
Venzel. Commedia in quattro Atti del Cittadino Sografi scritta per il Teatro S. Angelo l’anno 1797. Il
ms. in Biblioteca Civica, Padova C. M. 649/15. Vedi in particolare, Atto I, 2.
72 Il Discorso, redatto verosimilmente dopo l’aprile 1796, può ora leggersi in Poesie e lettere di
Giovanni Pindemonte, raccolte e illustrate da G. Biadego, Zanichelli, Bologna, 1883, pp. 325-350,
ivi, pp. LVII e ss. notizie sulla redazione del manoscritto.
73 Ivi, p. 326.
74 Ivi, p. 327.
75 Ivi, p. 338.
76 Ivi, p. 337.
77 Ivi, p. 338.
78 Ivi, p. 327.
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esame che è insieme politico-intellettuale ed esistenziale. Tramite la “prova” del
Discorso Pindemonte sembrerebbe riuscire a proiettare le tradizionali
rivendicazioni di ceto in una dimensione non più corporativa ma generale. Il
rimpianto del patrizio veronese verso la “primitiva costituzione” “ottima e
ammirabile79” ormai sempre
più degradata non riesumava
il
“mito”cinquecentesco della perfezione istituzionale del “governo misto”.
Semmai l’orientava verso la protesta sei-settecentesca dell’ “antimito”: una
protesta che individuava le ragioni della “precipitosa ruina” nella
degenerazione oligarchica del sistema80. Ma forse, nello scritto del poeta, vi era
di più. “L’ammirabile costituzione” era rivisitata da un uomo dell’ultimo
Settecento che seppur impegnato nella difesa corporativa delle “famiglie
nuove”, nelle rivendicazioni cioè dei gruppi minoritari del patriziato di
provincia cooptati al governo ma frustrati nelle ambizioni politiche, era tuttavia
aperto alle idee contemporanee della riforma istituzionale. Il Maggior
Consiglio, “fonte della pubblica autorità che da lui si dirama negli altri
consessi”, resta indubbiamente, nelle pagine dell’operetta, l’antica assemblea di
ceto che riuniva con eguali diritti tutti i nobili veneziani 81. Ma quel che più
colpisce è l’attenzione riservata da Pindemonte a un sistema fondato sull’
equilibrio dei privilegi. Una forma di governo cioè equilibrata e bilanciata,
ispirata dal principio della rappresentanza, sorretta dall’idea della continua
limitazione e trasferimento della sovranità82: principi e convincimenti che
acquistavano allora, nella nuova congiuntura storica, un significato
completamente inedito.
Nel Discorso accanto al tema istituzionale acquista rilievo l’ipotesi di una
riqualificazione dell’attività politica: il politico deve essere una persona
autenticamente degna. Si profila l’ipotesi di una società fondata non più sull’
“odioso diritto di nascita” ma “sui meriti”, “sui talenti”, “sulle conoscenze”,
“sulla esperienza governativa”83. Principi che larvatamente si richiamano
Ibidem.
Si indicano qui soltanto: G. Cozzi, Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento
veneziano, Il Cardo, Venezia, 1995, pp. 325-409; P. Del Negro, Forme e istituzioni del discorso
politico veneziano, in Storia della cultura veneta. Dalla Controriforma alla fine della Repubblica, a cura
di G. Arnaldi, M. Pastore Stocchi, v. 4, II, Il Seicento, Neri Pozza, Vicenza, 1984, pp. 407-436; Id.,
Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in Storia della cultura
veneta, cit., v. 5, II , Il Settecento, pp. 123-145; Id., Il corpo ottimatizio marciano nel Settecento, in
«Studi Veneziani» XLV, 2003, pp. 107-117.
81 G. Pindemonte, Discorso sulle cause, cit., p. 328.
82 Ibidem.
83 Ivi, p. 352; 338 e ss.
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all’articolo 6 della Dichiarazione dei Diritti del 26 agosto 178984. Anche G.
Pindemonte patrizio di provincia, escluso dalla politica vera e aggregato al
Maggior Consiglio solo nel 1782, con lo sguardo rivolto al passato si muoveva
ora nella direzione del futuro85.
I fermenti liberali sottesi all’Orso Ipato si arricchivano di spunti dinamici
nella Giornata di San Michele e nella Rivoluzione di Venezia di Sografi. In entrambe
le opere l’autore sviluppa l’istanza meritocratica che pur affiora nel pensiero di
Pindemonte sino a farla divenire l’idea guida che sovraintende e regola la
scrittura dei due testi. Le commedie del patavino delineano l’ipotesi di una
società in incessante trasformazione, aperta, collaborativa e promozionale,
proiettata oltre il “fissismo” d’Antico regime 86. Questi testi ispirati dal principio
dell’eguaglianza giuridica, attribuivano alle nuove magistrature civili il compito
di rendere possibile la piena realizzazione d’ogni individuo secondo le proprie
capacità e inclinazioni. Pertanto anche sulla scena i protagonisti delle opere di
Sografi si battono per garantire l’eguaglianza delle opportunità e per costruire
una società di diseguali, nella quale la diseguaglianza è determinata dal solo
criterio del merito87. Abbiamo già fatto cenno, in un altro contributo, a come
quella concezione dinamica della diseguaglianza che costituiva il “cardine”
teorico del progetto politico di Sografi poteva divenire l’elemento disgregante
della gerarchia degli ordini, la premessa per la destrutturazione della società
d’Antico regime88. In particolare a Venezia, l’antico ordinamento costituzionale
che “sopravviveva intangibile e intatto a distanza di cinque secoli”89 attribuiva a
quella iniziativa un carattere epocale. Lo spirito della Rivoluzione sembrava
“La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere,
personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale
per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi son
ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici, secondo la loro capacità, e
senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti”. Il testo della Dichiarazione in
A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, Einaudi, Torino, 1952, pp. 66-68.
85 “Nato in una città suddita governata sempre da uno de’ più doviziosi signori di Venezia […]
nell’età d’anni trenta […] venni in pensiero di passare dal ceto de’ sudditi a quello de’
governanti”. Il 22 settembre 1782, non senza qualche espediente, Pindemonte diveniva membro
del Maggior Consiglio, il 31 maggio 1788 era nominato podestà di Vicenza. Vedi Poesie e Lettere
di Giovanni Pindemonte, cit., Prefazione, pp. XVIII; XXV; Appendice, pp. 328; 353.
86 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, Atto I, 3, 7; La giornata di San Michele, cit., Atto I, 5, II, 3,
9; Venzel. Commedia in quattro Atti, cit., Atto I, 7, III, 4.
87 A.S. Sografi, La Rivoluzione di Venezia, cit., Atto II, 11; La giornata di San Michele, cit., Atto II, 1.
88 Sulla questione vedi L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane, cit., pp. 229-231. Vedi anche Id.,
“Mente, cuore, coraggio, virtù repubblicane”. Educare il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799),
Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 127-129.
89 M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, cit., p. 5.
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dunque poter orientare i tradizionali convincimenti del movimento riformatore
veneziano del secondo Settecento.
Comunque sia il nuovo assetto politico-istituzionale celebrato sul
palcoscenico con le opere di Pindemonte e Sografi suggeriva non solo l’ipotesi
della riforma delle istituzioni cittadine ma auspicava anche nuovi e più
equilibrati rapporti tra centro e periferia. La stessa vicenda della Municipalità
provvisoria è parsa a F. Venturi soprattutto come una“rivoluzione
antiveneziana”, “lentamente preparat[a] nei decenni precedenti”, un’esperienza
ormai capace di proiettare il “patriottismo dei piccoli centri” nella nuova
dimensione “italiana”90. “I popoli liberi non conoscono capitale” si affermava
provocatoriamente in città già nei primi giorni del giugno 1797 91. Era il
“tentativo di abolire la supremazia, il dominio di Venezia sopra le altre città,
sopra il suo impero”92.
L’Orso Ipato, non a caso, si inaugurava con il dialogo tra Maurizio e Leone,
due abitanti delle "adriatiche isolette", tradizionalmente rivali per motivi di
confine, eppur "fratelli", pronti a riunirsi in una grande assemblea per superare
le discordie fomentate dal Doge e a lottare insieme per un avvenire comune
migliore93.
Erano stati i principi della limitazione della sovranità e della libertà
politica che avevano fatto scorgere, in particolare al patrizio Pindemonte, le
nuove esigenze ormai generali della comunità. Da tale corpo di idee si
prefigurava l’ipotesi di uno stato fondato sul principio della libertà nell’ambito
di una unica legge: la legge della nazione, la norma nella quale tutti si devono
riconoscere. Principi e regole generali verso le quali ogni potere, sia centrale che
periferico, doveva richiamarsi ed obbedire. La compresenza di poteri distinti
garantiva la limitazione e l’equilibrio delle istituzioni anche tra centro e
periferia. Impediva la pericolosa concentrazione dell’autorità in un solo
individuo, in un gruppo o in un ente. Sarebbe stato così possibile eliminare per
sempre i rischi del dispotismo, dell’assolutismo, dell’arbitrio: gli incubi per il
riformatore del secondo Settecento. In tal modo centro e periferia non sarebbero
più apparsi più come delle strutture in perenne conflitto ma, invece, come degli
enti coordinati, cooperanti e complementari94. Nella prefazione dell’Orso Ipato
F. Venturi, Tavola rotonda sul volume di F. Venturi La Repubblica di Venezia (1761-1797) in
L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di R. Zorzi, Olschki, Firenze, 1992, pp. 448 e s.
91 F. Venturi, La Repubblica di Venezia (1761-1797), cit., pp. 454 e ss.
92 Id., Tavola rotonda, cit., p. 459.
93 G. Pindemonte, Orso Ipato, cit., Atto I, 1.
94 Avevamo già ipotizzato la “lettura” montesquieuana della “Repubblica dei primordi” nel
Discorso sulle cause, cit., di G. Pindemonte in P. Themelly, Adesione e dissenso tra Rivoluzione e
Impero nell’opera di Giovanni Pindemonte, cit. Cfr., a questo proposito, C-L. de Secondat de
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l’autore dedicava la sua tragedia “all’Italia libera”, una nazione che auspicava
ben presto riunita “in una sola Repubblica indivisibile”95. L’opera andava in
scena al Teatro Civico l’11 settembre, un mese prima di Campoformio 96. A
Venezia già dall’ultima decade di maggio il movimento d’opinione di
ispirazione democratico, non certo i gruppi dirigenti, aveva avanzato soluzioni
che auspicavano “l’eguaglianza” tra la città e le municipalità di terraferma al
fine di giungere alla stesura di una Costituzione nata dall’unione “di tutti i
popoli liberi d’Italia”97. L’eco di questi pensieri giungeva sino ai testi di
Pindemonte e Sografi e ne arricchiva il contenuto.
Era opportuno dunque porre fine all’antico rapporto di dipendenza che
subordinava i territori dello “Stato da Terra” alla città dominante, una città che
non sembrava più essere la capitale di un sistema statale organico e coerente. Di
fatto tutte le più alte cariche periferiche erano riservate ai patrizi di Venezia su
mandato del Maggior Consiglio, mentre la nobiltà di terraferma, solo
teoricamente detentrice di prerogative politiche, versava in una condizione di
subalternità anche economica. I distretti periferici costituivano, poi, un insieme
frammentario ed eterogeneo: diversificato in ragione di leggi consuetudinarie e
di privilegi amministrativi, fiscali, giudiziari98. Tale disarticolazione e dissesto,
cresciuti progressivamente nel corso del Settecento, esplicitavano una crisi di
sistema che poteva far apparire a fine secolo la Repubblica quasi come un
aggregato di popoli divisi. L’idea del vecchio assetto federativo, ovvero di una
felice e concorde interrelazione dinamica tra le città, era tramontata per sempre
insieme a quella del “mito” cinquecentesco elaborato da G. Contarini. L’idea
cioè, già ricordata, della perfezione istituzionale della Repubblica: un regime
costruito sul mirabile equilibrio di un sistema misto perfettamente bilanciato
nei rapporti tra le diverse parti del tutto. Le province ormai ribelli, prive di
reale autonomia e governate in modo dispotico, innalzavano le loro proteste
Montesquieu, L’Esprit de lois, XI, relativamente alla questione della monarchia temperata. Vedi
anche l’Introduzione di R. Derathé all’ed. it., BUR, Milano, 1989, p. 43.
95 G. Pindemonte, Orso Ipato,vedi l’Introduzione dell’Autore All’Italia libera.
96 Il presentimento della fine non impedì il successo della rappresentazione e la replica della
stessa per 11 sere. Sentito fu il sostegno della stampa, vedi «Monitore veneto» e «Gazzetta
urbana veneta», 13 settembre 1797.
97 G. Scarabello, La municipalità democratica, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della
Serenissima, v. VIII, L’ultima fase della Serenissima, cit., p. 294. La Società di Pubblica Istruzione fu
particolarmente attiva a riguardo proponendosi come un nucleo d’avanguardia nel processo di
rinnovamento politico della nuova repubblica. Per una ricostruzione del dibattito vedi, M.
Simonetto, Opinione pubblica e rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, cit.,
pp. 319-332.
98 Venezia e lo stato di terraferma tra storia e mito, a cura di L. Rossetto, Provincia di Treviso,
Treviso, 2008; W. Panciera, La Repubblica di Venezia nel Settecento, Viella, Roma, 2014.
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contro la Dominante. Una protesta sempre crescente destinata a esplodere a fine
secolo con le “nuove di Francia” e con gli sviluppi della guerra. Negli anni
Trenta il nobile veronese S. Maffei aveva redatto il Suggerimento per la perpetua
preservazione della Repubblica di Venezia, un opuscolo tuttavia destinato a divenir
celebre solo nella temperie politico-culturale della Municipalità provvisoria. Il
letterato pensava che per uscire dalla crisi e rilanciare lo sviluppo fosse
necessario riformulare i rapporti tra centro e periferia. Era dunque opportuno
coinvolgere nell’impegno pubblico e civile il maggior numero possibile di
cittadini della repubblica. L’autorità sconsigliò la pubblicazione del
Suggerimento che apparve a stampa, come si è accennato, solo grazie al nuovo
clima di attese e di speranze, nel 1797 con il titolo di Consiglio politico99. Si crede
verosimilmente che l’opuscolo, “quella grande utopia patrizia di Scipione
Maffei” fosse aperto sul tavolo di lavoro di Pindemonte e Sografi, contribuendo
in modo notevole alla stesura delle pièces appena descritte100.
Per concludere queste considerazioni introduttive e inevitabilmente
sommarie, tuttavia utili per comprendere il contesto nel quale si trovava a
operare Sografi, è opportuno ritornare al nostro autore. Anche da quel poco che
si è ricostruito appare evidente che Simone non compare nelle iniziative legate
alla formazione della società teatrale rivoluzionaria. Peraltro non vi sono
neanche tracce di una sua partecipazione al dibattito cittadino presso la Società
di pubblica istruzione, associazione nella quale certamente non era tra i soci101.
Tuttavia era proprio il commediografo patavino, sia pur su richiesta del
Comitato di pubblica istruzione, ad avviare negli ultimi giorni di maggio la
trattativa per la gestione del San Giovanni Grisostomo con la proprietaria
Il Suggerimento per la perpetua preservazione della Repubblica di Venezia attraverso il presente stato
d’Italia e dell’Europa, venne redatto tra la fine del 1736 e l’inizio del 1737. Solo sessant’anni dopo
vi fu, come si è accennato, la prima edizione a stampa con il diverso titolo di Consiglio politico
finora inedito presentato al governo veneto nell’anno 1736 dal marchese Scipione Maffei. Diviso in tre
parti. In Venezia dalla Stamperia Palese, 1797. Sull’opuscolo si indicano qui soltanto: E. Pii, Il
“Consiglio politico” di Scipione Maffei, in «Annali della Facoltà di Scienze politiche dell’Università
di Perugia», XIX, 1982-1983, pp. 345-358; P. Ulvioni, La filosofia morale di Scipione Maffei in
Scipione Maffei nell’Europa del Settecento, Atti del Convegno, Verona, 23-25 settembre 1996, a cura
di G.P. Romagnani, Cierre Edizioni, Verona, 1998, pp. 399-425; Id., Note per una nuova edizione
del “Consiglio politico” di Scipione Maffei, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, a cura di G.
Benzoni, Il Cardo, Venezia, 1992, pp. 301-8; Riformare il mondo: il pensiero civile di Scipione Maffei.
Con una nuova edizione del Consiglio politico, a cura di P. Ulvioni, Edizioni dell’Orso, Alessandria,
2008.
100 G. Ricuperati, in Tavola rotonda, cit., p. 466.
101 Vedi l’elenco dei soci (ancora oggi incompleto) pubblicato in M. Simonetto, Opinione pubblica
e rivoluzione. La società di pubblica istruzione di Venezia nel 1797, cit., pp. 339-40.
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Virginia Chigi Grimani102. Ormai coinvolto nella vicenda, Sografi si apprestava
a offrire il suo contributo. In una lettera di qualche giorno successiva proponeva
all’autorità i suoi testi democratici ancora in gestazione. Era opportuno
rappresentarli subito sul palcoscenico: “l’impresa è malagevole per la
ristrettezza del tempo, ma la libertà ha i suoi miracoli. Assistetemi,
decidetevi!”103.
Il tema dell’amore contrastato a teatro
Si è ricordato, all’inizio del nostro discorso, il successo che ebbe la prima del
Matrimonio democratico di Sografi il 18 luglio al Teatro Civico: quella sera “les
cinq rangs de palcs, […] trente et un [palcs] à chaque rang” erano gremiti in
ogni ordine di posto. Le speranze dei fondatori del club teatrale marciano
sembravano finalmente soddisfatte. A meno di due mesi dalla nascita del
circolo la farsa era stata rappresentata “egregiamente da’ medesimi soci”del
teatro, come rievocava con una certa enfasi il «Monitore veneto»,
compiacendosi tra l’altro del grande successo. L’“uditorio rapito”, che agitava
“fuor de palchetti tre o quattro fazzoletti bianchi per uno” sino “a formar una
candida nube”, impose “ a viva voce” la replica della stessa per tredici sere. Il
24 agosto la pièce andava in scena anche a Padova al Teatro Nuovo alla presenza
di Napoleone e poi, il 15 settembre, ancora al Civico di Venezia, in onore di
Giuseppina Bonaparte venuta, in quei giorni, a visitare la città104. Solo l’Orso
Ipato di G. Pindemonte avrebbe conseguito, in quello stesso teatro, un risultato
non dissimile.
Tuttavia non era stata l’opera del nostro a inaugurare il nuovo corso. Già il
28 giugno al San Cassiano aveva debuttato una farsa anonima La fiera della
libertà105, una “azione allegorica” che esprimeva “tra lampi e tuoni” la discesa
“della libertà assisa su un maestoso carro”, una “figura” simbolica idonea a
celebrare l’elogio del nuovo ”eroe” Bonaparte. Il tema della libertà donata
trovava così, anche sulla scena, quella diffusione che ne celebrerà il mito, nella
Archivio di Stato, Venezia, Democrazia, b. 167. La nobildonna romana V. Chigi, moglie di
Zuan Carlo Grimani dal 1791, rimase responsabile del teatro alla scomparsa di quest’ultimo in
qualità di tutrice del figlio Michele.
103 Petizione del cittadino Sografi, Padova 23 maggio 1797, Archivio di Stato, Venezia, Democrazia,
b. 88.
104 Vedi N. Mangini, I teatri di Venezia, cit., p. 78; «Monitore veneto», 22 luglio 1797; «Gazzetta
urbana veneta», 30 fruttidoro; G. Dumas, La fin de la République de Venise,cit., p. 370; L. Bigoni,
Simone Antonio Sografi, Un commediografo padovano del secolo XVIII, in «Nuovo archivio veneto»,
1894, VII, p. 125.
105 Della farsa ormai smarrita resta il resoconto in «Il teatro moderno applaudito», cit., t. XIII, pp.
5-6.
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persona del giovane generale, già nel corso del Triennio106. In tal modo dunque,
il teatro patriottico veneziano aveva avuto il suo esordio.
Comunque sia il Matrimonio democratico era stata la prima pièce
rivoluzionaria di Sografi ad essere rappresentata e verosimilmente l’unica a
riscuotere grande successo almeno sui palcoscenici marciani. Peraltro dei
cinque testi politici composti di getto da Simone nel corso dell’estate-autunno
1797 solo tre di questi sarebbero stati recitati sulle scene della città lagunare. Il
già ricordato Ex Marchese della Tomboletta a Parigi, sempre al Teatro Civico il 26
settembre, e la commedia in quattro atti Venzel. Quest’ultima era stata
interpretata il 17 ottobre al S. Angelo, lo stesso giorno della pace di
Campoformio, dalla Compagnia comica di G. Pellandi, un’impresa alla quale
Sografi era legato, in particolare con la prima donna A. Fiorilli, la più grande
attrice del momento107. Quasi a monito l’opera celebrava, nei frangenti più
difficili della Municipalità provvisoria, la libertà, l’indipendenza, i valori
democratici108. Già Il 21 del mese la commedia fu ritirata dal cartellone e i
giornali veneziani non fecero cenno al successo della rappresentazione 109. Le
ultime due commedie, alle quali in parte si è già fatto cenno, La Rivoluzione di
Venezia e La giornata di San Michele, scritte allora per prime, come è stato
ricordato dagli studiosi, non vennero invece date alle stampe, né tantomeno
furono mai rappresentate110.
S. Romagnoli ha osservato che quelle opere dimenticate, prive in realtà di
significativi accenti radicali, esprimevano nonostante tutto “una carica di
sovvertimento ormai inopportuna” per i tempi. I testi avanzavano infatti delle
richieste diverse rispetto al programma che la Nazione guida riservava allora
Sull’argomento e sul tema della libertà donata, scesa “dal cielo”, che ispira alcune pièces
rappresentate tra 1798 e 1799 anche a Milano e a Firenze, vedi P. Themelly, Il teatro patriottico,
cit., pp. 97 e ss.
107 Su A. Fiorilli Pellandi (1772-1841) stimatissima da M. Cesarotti, felice interprete di Erope
nella prima del foscoliano Tieste al S. Angelo di Venezia nel gennaio 1797 e in seguito fondatrice
d’una propria compagnia, vedi A. Schiavo Lena, Anna Fiorilli Pellandi. Una grande attrice
veneziana tra Sette e Ottocento, Il Cardo, Venezia, 1996; G. Ciotti Cavalletto, Attrici e società
nell’Ottocento italiano, Mursia, Milano, 1978, pp. 23 e ss.;
108 Venzel. Commedia patriottica del Cittadino Sografi, cit., Atto I, 1, 3, 5, 9, II, 4, 7, III, 3, 4, IV, 2, 5, 9,
11, 13,
109 Vedi «Il teatro moderno applaudito», cit., t. XVI, p. 12. Sulla fortuna della pièce G. Dumas, La
fin de la République de Venise, cit., p. 375 e s.
110 C. De Michelis, Letterati e lettori, cit. p. 219; S. Romagnoli, La parabola teatrale del patriota
Antonio Simone Sografi, cit. p. 60. Secondo G. Dumas, invece, La Rivoluzione di Venezia venne
rappresentata al S. Angelo cfr. Id., La fin de la République de Venise, cit., p. 371. L’esame degli
elenchi cronologici raccolti nei tomi de «Il teatro moderno applaudito» smentisce l’affermazione
dello studioso francese. Vedi anche F. Rossi, Venezia 1795-1802. La cronologia degli spettacoli e il
«Giornale dei Teatri», Edizioni Fondazione Levi, Venezia, 2002.
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per l’Italia e si rivelavano altrettanto lontani dai conseguenti orientamenti della
classe dirigente locale. Era dunque preferibile porre in disparte quei testi così
pericolosi e sostituirli con una letteratura più consona a interpretare le esigenze
di una società che tendeva alla normalizzazione. Lo stesso Sografi superato
“l’entusiasmo del neofita” era costretto, forse non del tutto volontariamente, a
correggere la rotta. Ne scaturiva la scelta del Matrimonio democratico: una farsa
politicamente ortodossa e prudentemente innovativa. Un testo rivolto al grande
pubblico, idoneo ad interpretarne il gusto, cioè capace di mescolare insieme,
con la tradizionale sapienza di Simone, amore e politica al fine di edulcorare il
messaggio primitivo. In tal modo venivano meno i grandi temi della riforma
dello stato e con essi anche le richieste, peraltro deboli, di carattere sociale.
Abbandonate così le questioni d’interesse pubblico l’opera spostava la sua
attenzione verso i problemi di natura interiore e privata. Preferiva interrogarsi
sui diritti dell’individuo piuttosto che su quelli del cittadino111. La rivoluzione
stava dunque per soccombere di fronte al primato depoliticizzato dei
sentimenti?
Il Matrimonio democratico affrontava il tema, solo a tutta prima stucchevole,
dell’amore contrastato, un argomento ripreso dal vecchio repertorio, un tema
dunque tradizionale e ricorrente che tuttavia era riuscito a trovare il suo spazio
espressivo anche nell’ambito del nuovo teatro rivoluzionario. Il soggetto in
realtà era destinato a caratterizzare in modo significativo la produzione di
quegli anni, probabilmente più nell’area italiana che in quella francese, come si
comprenderà meglio in seguito. Nella nostra penisola tra il 1796 e la primaveraestate del 1797, nelle regioni padane liberate dall’Armée d’Italie, venivano
redatte o rappresentate, com’è risaputo, solo poche nuove pièces112. Nondimeno
tra le più significative d’allora, almeno quattro, erano costruite sul motivo
apparentemente standardizzato dell’impedimento d’amore. Esamineremo più
avanti le relazioni e le dissonanze che corrono tra Il matrimonio democratico di
Sografi e La figlia del fabbro del cuneese C. Federici, un esponente di spicco, come
vedremo, del nostro teatro patriottico, per poi comparare tali testi con tre
commedie anonime edite in quegli stessi mesi a Bologna, Modena e Mantova:
La Rivoluzione, L’aristocratico convertito, Il repubblicano si conosce alle azioni.
L’argomento di fatto continuava a suscitare un certo scalpore e ispirava la
stesura, tra 1798 e 1799, di almeno altre dieci operette, sia pur di rilievo minore,
le cui implicazioni politiche risultano tuttavia di un certo interesse 113.
S. Romagnoli, La parabola teatrale del patriota Antonio Simone Sografi, cit.
Vedi per tutti A. Paglicci Brozzi, Sul teatro giacobino e antigiacobino in Italia, cit. P. Bosisio, Tra
ribellione e utopia, cit.
113 P. Themelly, Il crepuscolo degli eroi. Nuovi modelli di virtù nelle testimonianze letterarie di Roma
repubblicana (1798-1799), in «Eurostudium3w», 2010, 17, pp. 48-169.
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Si trattava, come è probabilmente noto, di una materia che aveva dato
origine a un filone letterario di lungo periodo. Era il tema, notevole e remoto,
dell’amore tra due giovani innamorati socialmente diseguali, un sentimento
istintivo e travolgente ma destinato ad essere ben presto soffocato dai divieti
sociali e dai ferrei condizionamenti familiari che subordinavano il vincolo
matrimoniale non alla libera scelta ma alle motivazioni economiche e
gerarchiche dell’interesse. In altri termini nel discorso letterario riaffiorava
l’immagine della società tradizionale e ancor più si riverberavano i tratti della
famiglia autoritaria, gerarchica e collettivistica d’Antico regime. Un modello
quest’ultimo destinato a incrinarsi soltanto a fine Settecento come testimoniano
gli studi più attenti sull’argomento114. Nelle consuetudini della famiglia
medioevale-moderna le ragioni della stessa prevalevano sempre su quelle
dell’individuo, la cui scelta era subordinata ai vantaggi della parentela o
addirittura era ritenuta necessaria per la sopravvivenza del casato. A decidere
dunque era sempre l’accordo “amorevole” tra le famiglie non la volontà degli
sposi che peraltro veniva vista come un elemento di disordine e di scandalo115.
Nondimeno nel corso dell’Antico regime genitori e figli reputavano
abitualmente i progetti matrimoniali come una occasione che trascendeva le
esigenze dei singoli, e trovava conferma nelle norme sociali introiettate sin
dall’infanzia da tutti116. Il matrimonio era quindi un mezzo più che un fine e
diveniva l’opportunità per legare dei gruppi d’interesse intorno a questioni
economiche e politiche. La famiglia ben lungi da essere una unità affettiva era
piuttosto una aggregazione umana funzionale a svolgere altre attività117.
Se il contesto del nostro soggetto teatrale era dunque questo tuttavia il
motivo ispiratore, il tema dell’amore contrastato, si era aperto a due soluzioni
antitetiche sin dai tempi della letteratura classica. All’ipotesi tragica che
chiudeva la rappresentazione con il suicidio o la morte dei due figli ribelli si
Si indicano qui soltanto alcune opere di riferimento: L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in
Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Einaudi, Torino, 1983; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto.
Mutamenti della famiglia in Italia tra XV e XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2000; M. Anderson,
Interpretazioni storiche della famiglia. L’Europa occidentale tra 1500-1914, Rosenberg & Sellier,
Torino, 1982; M. Daumas, Le mariage amoureux, histoire du lien conjugal sous l’Ancien Régime,
Colin, Paris, 2004; A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle
società moderne, Il Mulino, Bologna, 2008; F. Lebrun, La vie conjugal sous l’Ancien Régime, Colin,
Paris, 1975; E. Shorter, Famiglia e civiltà. L’evoluzione del matrimonio e il destino della famiglia nella
società occidentale, Rizzoli, Milano 1978; R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria: lignaggio
e famiglia nella aristocrazia del Settecento inglese, Il Mulino, Bologna, 1982.
115 G. Delille, Classi sociali e scambi matrimoniali nel Salernitano: 1500-1650, in «Quaderni storici»,
XI, 1976, 33, pp. 983-97.
116 D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 63.
117 Vedi in particolare L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio, cit., p. 9.
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contrapponeva la via d’uscita risolutiva e ottimistica culminante nelle felici
nozze dei due amanti. Per schematizzare in estrema sintesi, per un verso si
delineava un itinerario che dal mito di Ero e Leandro e di Piramo e Tisbe di
Ovidio, tramite il romanzo medioevale e la novellistica italiana quattro
cinquecentesca (L. da Porto, M. Bandello), giungeva sino al teatro elisabettiano.
Il soggetto s’innalzava, a fine Cinquecento, ai suoi significati più alti, con
Shakespeare, nella “tragicità senza riscatto” della storia sventurata di Romeo e
Giulietta118. Per l’altro verso, invece, la tremenda conclusione dell’amore nella
morte veniva meno e si risolveva grazie ad una agnizione finale. Uno dei due
protagonisti riscopriva nell’ultima scena, non senza stupore e per una fortuita
occasione del “caso”, la sua vera identità: una identità sociale non più dissimile
da quella del partner. Entrambi gli innamorati erano ormai consapevoli di
appartenere allo stesso ceto: la mésalliance era così scongiurata, l’amore poteva
alla fine trionfare trasformando la tragedia in commedia. In entrambi gli
itinerari, dunque, l’ordine sociale e gerarchico non s’incrinava né tantomeno era
mai posta in dubbio la rigida stabilità che caratterizzava il sistema d’Antico
regime. Questo secondo filone aveva avuto le sue antichissime premesse nella
palliata latina, in particolare, crediamo, nell’Andria di Terenzio. Il modello
riaffiorava nelle agnizioni della Commedia dell’Arte, per precisarsi nella
Dispettosa moglie di G. Briccio. Passava poi nel melodramma sei settecentesco,
accomunando insieme opere minori ad altre più celebri come Il Potestà di
Colognole di G. Moniglia e il Demetrio di P. Metastasio119.
Un grande cataclisma a metà Settecento avrebbe modificato (o iniziato a
modificare) anche i contenuti e le forme del nostro tema letterario. Una nuova
cultura aveva scoperto sempre più l’individuo e i suoi diritti contribuendo a
trasformare le concezioni tradizionali della morale e della politica. Nel 1764, C.
Beccaria, per rimanere in una certa misura nell’ambito dell’argomento teatrale
Ovidio, Eroidi, XVIII-XIX, Id., Metamorfosi, IV, 55-166. Ovidio, Storie d’amore, a cura di E.
Pianezzola, Marsilio, Venezia, 2007; L. Da Porto, La Giulietta nelle due edizioni cinquecentesche, a
cura di C. De Marchi, Giunti, Firenze, 1994; Da Porto, Shakespeare, Keller, Romeo e Giulietta, a
cura di A.R. Azzone Zweifel, Marsilio, Venezia, 2008; M. Bandello, Giulietta e Romeo, a cura di D.
Perocco, Marsilio, Venezia, 1993, Introduzione, pp. 9-35, bibliografia 117-22. Per la ricostruzione
dell’itinerario medioevale e moderno sino al tardo Cinquecento vedi, W. Shakespeare, Romeo e
Giulietta, a cura di S. Bigliazzi, Einaudi, Torino, 2014, Introduzione pp. V-VII, XXIV-XXXI.
119 Terenzio, Andria. La ragazza di Andros, a cura di M. Rossi, Mursia, Milano , 1996; M.
Apollonio, Storia della Commedia dell’Arte, Sansoni, Firenze, 1982, pp. 221, 237. La dispettosa moglie
comedia di Giovanni Briccio Romano della Congrega de’ Taciturni, In Venetia, appresso Pietro Vasso
1629, ora in La Commedia dell’Arte. Storia e testo, a cura di V. Pandolfi, Le Lettere, Firenze, 1988, v.
III, pp. 114 e ss. G. Moniglia, Il potestà di Colognole, in Firenze, per il Bonardi, 1657 ora in Drammi
per musica dal Rinuccini allo Zeno, a cura di A. Della Corte, Utet, Torino, 1978, v. II, pp. 7 e ss.
Demetrio (1731), ora in Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Mondadori,
Milano, 1943, v. I, pp. 415 e ss.
118
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che qui discutiamo, aveva manifestato la speranza, in un esempio celebre e
forse fin troppo abusato, di non voler più considerare “la società come
un’unione di famiglie [ma] come un‘unione di uomini” 120. Tale affermazione,
che di fatto sintetizzava le linee guida della meditazione illuminista
sull’argomento, scaturiva da motivazioni legate alle vicende umane ed
esistenziali della biografia personale dell’autore. Beccaria, com’è noto, soltanto
due anni prima, ventiquattrenne, era stato osteggiato, se non addirittura
perseguitato dal padre e dalla cerchia familiare, per i suoi progetti nuziali.
Costoro consideravano “come una mésalliance” l’unione di Cesare con la
“giovanissima bellezza” di Teresa. “La nobiltà dei Blasco non poteva essere
certo paragonata a quella dei Beccaria. I soldi della dote erano pochi”. Anche il
giovane marchese sembrava dunque voler privilegiare la scelta d’amore
rispetto a quella dell’interesse. “Il padre ricorse al governo che dichiarò Cesare
prigioniero in casa propria”. In seguito il futuro riformatore “abbandonava la
famiglia, si sposava. Si ritrovava povero, ma finalmente liberato dalle tante
angustie che continuamente l’opprimevano. […] Contemporaneamente egli si
aprì al mondo dell’Illuminismo francese […] furono gli anni della sua
conversione alla filosofia”. Lesse rapidamente e avidamente Montesquieu,
Helvetius, Buffon, D’Alembert, Locke, Hume, Condillac, Diderot. Secondo F.
Venturi, nello stesso 1762, “ebbe presto tra le mani” La nouvelle Héloise e Le
Contrat social. Rousseau fu il punto di partenza di tutta la sua meditazione
politica121.
Affiorava pertanto con forza nelle pagine di quel grande una concezione
individualistica del consorzio umano, un’ipotesi teorica che tuttavia aveva
avuto le sue anticipazioni nella temperie culturale dell’ultimo Seicento. Una
concezione che tendeva sempre più a contrapporsi alla tradizionale visione
organicistica che aveva segnato la mentalità e il pensiero politico dall’antichità
sino all’età moderna122. Erano gli anni in cui venivano meno i modelli
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1994, cap. XXVI, Dello
spirito di famiglia, pp. 56-59. “La famiglia è dunque, se si vuole, il primo modello delle società
politiche: Il capo è l’immagine del padre, il popolo è l’immagine dei figli” J.J. Rousseau, Il
Contratto sociale, Einaudi, Torino, 1980, p. 10.
121 F. Venturi, Settecento riformatore, v. I, Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1969, pp. 676 e
ss. Sulle vicende del matrimonio con la Blasco vedi per tutti: M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit.,
pp. 310 e ss.; M. Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, BariRoma, 2007, pp. 179-83.
122 “Se nel precedente periodo di autoconsapevolezza gli uomini vivevano e sentivano se stessi,
in modo conforme alla loro educazione e alle loro forme di vita, come membri di formazioni, di
gruppi familiari o magari di ceti, inseriti in un regno dello spirito governato da Dio, ora, pur
senza perdere del tutto l’altra rappresentazione, videro e sentirono se stessi sempre più come
individui singoli” N. Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 125. Sulla
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comunitari e familiari consueti e si delineava ormai in modo netto un contrasto
tra culture. La vecchia organizzazione sociale “olistica” e gerarchica stava per
cedere il passo ai nuovi sistemi individualistici ed egualitari, la funzionalità
verticale degli uomini e delle strutture tendeva progressivamente a livellarsi123.
Da una parte si stagliava ancora la vecchia idea di un corpo collettivo che
si sostanziava nelle forme dello stato e dello stesso istituto familiare. Un insieme
coeso, le cui parti erano funzionali e subordinate a un interesse generale
irrinunciabile. Una struttura che si replicava sempre identica a se stessa nei suoi
diversi organismi pubblici e privati, statali e familiari. In tal modo, ogni
persona, era di fatto privata di una reale autonomia e finiva per assumere ruoli
predeterminati necessari a garantire l’ “armonia prestabilita” del sistema.
Questo primato degli interessi generali rispetto ai particolari, del corpo rispetto
al singolo, schiacciava l’individuo, ne inibiva le prerogative, impediva qualsiasi
iniziativa di tipo negoziale e inevitabilmente accentuava il carattere
disciplinante e autoritario dell’assetto. La potestas prescindeva dalla libertas, la
lex del sovrano o del padre dal ius del suddito o del figlio124.
Dall’altro verso iniziava a prefigurarsi l’ipotesi, prossima peraltro a
realizzarsi, di un nuovo protagonismo individuale. Sarebbe stata l’inedita
vocazione politica del singolo, conseguente ad una ormai matura coscienza di
sé, che avrebbe determinato la riscrittura delle regole e delle norme comuni
interpretandole come il solo risultato di accordi tra le libere e diverse volontà di
ogni cittadino. Si trasformava così lo stesso principio di sovranità che sarebbe
stato considerato soltanto come il risultato di operazioni aritmetiche: ovvero
come la somma di tutti i cittadini singoli autonomamente deliberanti. Il primato
dei diritti individuali schiudeva in tal modo alla democratizzazione delle
relazioni familiari e dei rapporti politico-sociali.
L’autorità del pater familias, di derivazione aristotelica e romana, iniziava a
entrare in crisi nell’età dei Lumi preludendo al modello della famiglia
questione resta fondamentale N. Bobbio, Nel secondo centenario della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, cit., pp. 1-18.
123 “L’ideale di libertà e di eguaglianza si impone a partire dal concetto dell’uomo in quanto
individuo. Se infatti si ritiene che l’umanità tutta intera sia presente in ogni uomo, allora ogni
uomo deve essere libero e tutti gli uomini devono essere eguali. É di qui che questi due grandi
ideali dell’età moderna attingono la loro razionalità. Non appena invece si riconosce che un fine
collettivo si impone a parecchi uomini, la loro libertà viene limitata e la loro eguaglianza viene
messa in discussione”. L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni,
Adelphi, Milano, 1991, p. 85. Sul problema vedi anche Id., Homo aequalis. Genesi e trionfo della
ideologia economica, Adelphi, Milano, 1984; Id., Saggi sull’individualismo. Una prospettiva
antropologica sull’ideologia moderna, Adelphi, Milano, 1993; A. Laurent, Storia dell’individualismo, Il
Mulino, Bologna, 1994.
124 N. Bobbio, Nel secondo centenario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo cit., p. 4.
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egualitaria che si sarebbe affermata, almeno sul piano teorico e non senza
contraddizioni, nel discrimine del secolo125. Si intuiva nondimeno, già nei
decenni centrali del Settecento, la genesi di un nuovo aggregato umano, capace
di autoregolamentarsi, fondato su criteri privati e affettivi del tutto inediti e
sconosciuti. L’iconografia, la letteratura, il teatro diffondevano l’immagine della
tenerezza e della sensibilità paterna, della madre amorevole nutrice, della cura e
della educazione dei figli da parte di entrambi i genitori. Con tutte le sue
contraddizioni si prefigurava il modello della virtù femminile e materna che poi
sarà dell’Ottocento, mentre iniziava a venir meno la funzione della “tirannide
paterna” che progressivamente si trasformava in “autorità tutelare”verso il
minore126. Tuttavia anche lo stesso Beccaria, non immune da padre a “coartare
la libertà matrimoniale della figlia Giulia”, si orientava verso l’ipotesi di una
moderata patria potestas capace di disciplinare le passioni giovanili e di
sottoporle al giudizio maturo dei genitori127. Gli studi nondimeno hanno messo
in evidenza lo sviluppo non lineare di questo processo. È certamente indubbio
che in quegli anni per costruire una relazione, tanto in Francia quanto in
Inghilterra, le scelte affettive erano prioritarie. Tuttavia ancora coesistevano
sentimenti e interessi, libere scelte e imposizioni paterne128. Comunque dopo
qualche lustro la situazione sembrava in parte mutare. In Italia sarebbero stati
soprattutto “i nobili nati nell’ultimo trentennio del secolo” ad abbandonare il
vecchio modello di famiglia patriarcale per quello “radicalmente diverso” di
“famiglia coniugale intima”, una famiglia “orientata verso le persone non più
verso le posizioni”129. A ben vedere la trasformazione sarebbe stata irreversibile:
la medesima concezione individualistica avrebbe fatto sorgere (per gli uomini
più che per le donne), sul piano pubblico, di li a poco, la democrazia moderna.
M. Cavina, Il padre spodestato, cit., p. 187. R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria, cit.
M. Daumas, Le mariage amoureux: histoire du lien conjugal sous l’Ancien Régime, cit. A. Verjus, Il
buon marito. Politica e famiglia negli anni della Rivoluzione francese, Dedalo, Bari, 2012, in
particolare pp. 7-38.
126 M. Cavina, Il padre spodestato, cit., pp. 171-250.
127 Vedi L. Guerci, La sposa obbidiente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento,
Tirrenia Stampatori, Torino, 1988, pp. 191 e ss. Sul matrimonio tra Giulia Beccaria e Pietro
Manzoni vedi G. Di Renzo Villata, Il governo della famiglia: profili della patria potestà nella
Lombardia dell’età delle riforme, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa,
a cura di A. De Maddalena, E. Rotelli, G, Barbarisi, v. III, Istituzioni e società, Il Mulino, Bologna,
1982, pp. 803 e ss.
128 J.M. Gouesse, Parenté, famille et mariage en Normandie aux XVIIe et XVIIIe siècles. Présentation
d’une source et d’une enquête, in «Annales», XXVII, 1972, pp. 1139-1154; H.R. Darrow, Popular
Concepts of Marital Choise in Eighteenth-Century France, in «Journal of Social History», XIX, 1985,
pp. 261-272. R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria, cit., p. 166 e ss.
129 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 314.
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La Rivoluzione francese avrebbe storicizzato di fatto principi e valori in germe
nel corso del Settecento codificandoli nella Dichiarazione dei diritti dell’89130.
Entro questo quadro assume maggior rilievo la protesta prometeica che
coinvolse Goethe nell’estate 1773 e rese celebre, non solo poeticamente, la ferma
ribellione dello scrittore verso il principio di autorità, osteggiato in tutte le sue
forme e manifestazioni. Il tema dell’avversione al sovrano e al padre, che
caratterizza così significativamente in quegli anni la cultura Stürmer in
Germania, aveva avuto dunque una precedente gestazione e diffusione
europea131. Gli echi di quel dibattito e di quel movimento d’idee pervadevano
anche i testi teatrali del filone letterario che stiamo presentando. Come si è già
accennato il genere si stava trasformando intorno alla metà del secolo in
Europa. Contributi recenti hanno colto persino nei drammi giocosi di G. Bertati,
redatti a Venezia tra 1777 e 1779, nello Sposo disperato e nelle Nozze in contrasto,
già una sicura testimonianza della nuova sensibilità affettiva e familiare che si
segnalava sulle scene132. In quelle inedite inclinazioni v’era tuttavia di più di un
compiacimento o di un moto della sensiblerie. Quel conflitto generazionale che
affiorava tra gli atti, quell’ “urto” tra padri e figli che travalicava il palcoscenico,
documentava come le nuove generazioni cercassero “una nuova strada non
perché videro la vecchia ostruita, ma perché si persuasero che era sbagliata e
ingiusta”133.
Il sentimento istintivo e travolgente dei due giovani innamorati che aveva
sempre qualificato il nostro argomento scenico non poteva più dunque
continuare a essere sovrastato dagli obblighi familiari e sociali. Per dare seguito
alla reciproca promessa i due giovani erano finalmente pronti a compiere l’atto
della disobbedienza. La ribellione faceva scoprire a entrambi, varcata la soglia
del “dover essere”, la dimensione del “voler essere”, ovvero la possibilità di
costruire una nuova definizione sociale dell’io. In altri termini i promessi sposi
rifiutavano ormai di recepire passivamente principi e valori che non riuscivano
più a condividere nonostante quelle regole avessero ancora un vasto
riconoscimento sociale. I due giovani contrapponevano alle norme tradizionali
ancora invalse la loro libera scelta, una iniziativa in grado di far scaturire un
progetto rispondente ai reali bisogni e capace di soddisfare gli interessi più
profondi di entrambi. Questa decisione volontaria che frantumava le
N. Bobbio, Nel secondo centenario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, cit.
G. Baioni, Classicismo e Rivoluzione. Goethe e la Rivoluzione francese, Guida, Napoli, 1988, pp.
19-54.
132 T. Plebani, Un secolo di sentimenti. Amori e conflitti generazionali nella Venezia del Settecento,
Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Venezia, 2012, pp. 108 e ss. Su G. Bertati (1735-1808)
vedi la voce di V. Frajese in «Dizionario Biografico degli Italiani», cit., IX, 1967, pp. 480-82.
133 F. Venturi, Settecento riformatore, v. I, Da Muratori a Beccaria, cit., p. 647.
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imposizioni e i divieti sociali non aveva un mero significato individuale o
angustamente particolare. Non tendeva solo a rendere possibile l’unione tra
due individui che altri volevano divisi. In fin dei conti riuscire ad amare la
persona amata e impegnarsi a costruire una vita insieme era un programma
valido per tutti, nel quale ogni persona poteva riconoscersi. I sentimenti
individuali avevano pertanto un valore sociale e forse valeva la pena battersi
per il loro pubblico riconoscimento.
La conquista di questo itinerario morale destinato a sfociare nel politico,
sarà compiuta in modo consapevole dalla letteratura teatrale italiana soltanto a
fine Settecento negli anni della Rivoluzione francese. Il Matrimonio democratico
di Sografi si muove in questa direzione, è una testimonianza significativa della
conclusione di questo processo. L’operetta, come vedremo al termine di questo
lavoro, attesta l’acquisizione di una concezione moderna dell’individualismo
nella luce di una nuova cultura definita oggi “l’etica dell’autenticità” da cui
crediamo scaturiscano gran parte delle implicazioni politiche che segnano
l’opera di Sografi134.
Si ritiene opportuno, al fine di una migliore comprensione del pensiero di
Sografi, ripercorrere rapidamente, tramite la produzione scenica del tempo, le
fasi progressive attraverso le quali si definisce con chiarezza una nuova
mentalità culturale e politica. Le incertezze ormai risolte da Sografi nel 1797
veneziano sembravano non essere del tutto superate dagli altri autori italiani
del teatro patriottico. Non senza sorpresa si noterà come anche il grande teatro
riformato o illuminista di Goldoni, Voltaire, Diderot resti tutto sommato ancora
incerto sulla frontiera tra due mondi e due culture.
I due volti dei Lumi nel teatro di Marivaux
J. Gaudemet ha rievocato l’atmosfera di libertà e di sregolatezza che pervadeva
la società francese nei primi decenni del Settecento e che, dopo le ombre del
Grand Siècle, sembrava nuovamente far riaffiorare quella “sete del vivere” che
aveva caratterizzato l’età di F. Rabelais, P. de Ronsard e di Margherita di
Navarra. L’individualismo, la voglia di autonomia e di emancipazione si
affermava anche nel momento di concludere il matrimonio: la volontà paterna e
le pratiche tradizionali tendevano ad essere contestate e messe in discussione, la
libertà di scelta sembrava essere accettata almeno da alcuni genitori, e veniva
presentata favorevolmente nei testi teatrali. La letteratura esprimeva, in tal
modo, una trasformazione dei costumi e iniziava ad essere pervasa da
sentimenti e passioni inedite. Tuttavia anche nelle più significative
134
C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari-Roma, 2011, pp. 31-36; 51-64.
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testimonianze del tempo, ha osservato sempre Gaudemet, “il vocabolario del
cuore e quello del matrimonio” difficilmente riuscivano ad incontrarsi. Un
progetto matrimoniale non contemplava ancora “la compagnia e le condizioni
dell’amore”135. Le cose sarebbero cambiate solo poco prima della Rivoluzione
grazie alla spinta di una nuova sensibilità136.
Nondimeno in Francia il potere civile stentava a recepire i fermenti e i
nuovi bisogni. In sostanza continuava a rimanere interessato, secondo
un’abitudine ormai consolidata, a sostenere le ragioni dei padri più che quelle
dei figli. Poco invece sembrava potersi rimproverare all’autorità religiosa in
questo caso. Il Concilio di Trento, com’è noto e come si accennerà in seguito,
aveva affermato il principio della libertà di scelta tra gli sposi. Già ai tempi del
Concilio i prelati francesi, a differenza di quelli italiani, avevano richiesto invece
il consenso paterno come condizione necessaria per la celebrazione del
matrimonio verosimilmente al fine di garantire al di là delle Alpi, la tenuta
interna del sistema e gli interessi dei ceti nobiliari. La sconfitta della linea
francese nel corso delle sedute avrebbe fatto riaffrontare la questione in patria.
Già nel 1556, un’ordinanza di Enrico II imponeva la diseredazione ai figli
maschi rei d’essersi sposati contro la volontà del padre. Nel 1579 un editto reale
dichiarava nullo il matrimonio contratto secondo le medesime condizioni:
seguivano altre disposizioni a riguardo sino al 1787, iniziative che di fatto non
modificavano il quadro e non incrinavano l’autorità del pater familias all’interno
delle mura domestiche. Il potere politico, in Francia, si opponeva dunque alla
Chiesa di Roma mettendone in discussione le competenze in materia e
avanzando il principio della sua funzione eminentemente spirituale137.
In questo panorama variegato e contraddittorio si colloca a pieno titolo
l’opera di P.C. de Marivaux, “l’ultimo e squattrinato rampollo di una famiglia
di piccola nobiltà provinciale”, destinato tuttavia a divenire, nell’arco breve di
alcuni decenni, “il maggior commediografo del secolo” o il Racine del teatro
comico francese138. Le circa quaranta pièces redatte, per lo più sino agli anni
J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, SEI, Torino, 1989, pp. 213, 257 e ss.
J.L. Flandrin Le sexe et L’Occident. Evolution des attitudes et des comportaments, Suil, Paris, 1981,
pp. 83-92.
137 Per una ricostruzione dettagliata vedi J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 206-87.
D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., in particolare, pp. 44, 100, 114, 150. ivi bibliografia.
138 La civiltà letteraria francese del Settecento, a cura di G. Iotti, Laterza,Roma-Bari, 2009, p. 105; R.
Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, in Storia del teatro moderno e
contemporaneo, a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino, v. II, Il grande teatro borghese. Settecento e
Ottocento, Einaudi, Torino, 2000, p. 250. Così D’Alembert ne L’éloge de Marivaux ricordava: “La
famille de Marivaux était originaire de Normandie, et avait donné plusieurs magistrats au
Parlement de cette province. Depuis, elle était descendue de la robe à la finance, et le père de
Marivaux avait possédé quelque temps un emploi pécuniaire à Riom, en Auvergne”. La
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Cinquanta, da quell’erede di Molière riuscivano a interpretare lo spirito del
tempo e ad esprimere i bisogni e le spinte sociali che abbiamo appena ricordato.
Tuttavia il grande commediografo non voleva o forse non sapeva attribuire ai
valori, ai pensieri e alle azioni che rappresentava sulle scene una carica eversiva
capace di incrinare le certezze della società d’Antico regime. Il suo era un teatro
che voleva avere soprattutto un valore di testimonianza, di consapevole
coscienza e non intendeva trasformare il palcoscenico in una sorta di tribunale
della società civile139.
Sin da Le dénouement imprévu, un testo breve steso in un solo atto nel 1724,
l’autore avanzava una misurata polemica contro gli orientamenti governativi e
il costume tradizionale140. La pièce senza alcun indugio contestava l’autorità
paterna ma preferiva porla in discussione ricorrendo alle meno pericolose
rivendicazioni della figlia. Infatti nel corso del Seicento e del Settecento e non
solo in Francia, l’autorità in concerto con le scelte delle famiglie tollerava
l’unione delle figlie patrizie con uomini non appartenenti al loro ceto. Quel che
contava per le questioni economiche e di rango era soltanto il rigoroso controllo
dei matrimoni contratti da nobili di sesso maschile. In armonia con questi
principi nelle dodici scene della commedia la ribellione di mademoiselle
Argante alla tirannide del padre assumeva dunque un valore debole e un
carattere convenzionale. Nondimeno contributi recenti hanno messo in
evidenza la “forte personalità” delle eroine che animano le pièces di Marivaux.
Queste “ragazze moderne” appaiono più “dinamiche, intraprendenti e
determinate dei loro equivalenti maschili” tanto che si è “giustamente parlato”
di una sorta di orientamento “femminista dell’autore”141. Comunque sia è
citazione è in H. Duchêne, Marivaux: Les Fausses Confidences, Edition Bréal, Rosny Cedex, 1999,
p. 10.
139 Su P.C. de Marivaux si indicano qui soltanto: Pierre de Marivaux, Théâtre complet, éd. par F.
Deloffre, Garnier, Paris, 1980 (le opere raccolte sono introdotte, commentate e accompagnate da
documenti di grande utilità), Id., Journaux et oeuvres diverses, éd. de F. Deloffre et M. Gilot,
Garnier, Paris, 1969; Id., Oeuvres de jeunesse, éd. de F. Deloffre, Gallimard, Paris, 1972; V.P.
Brady, Love in the theater of Marivaux, Droz, Genève, 1970; F. Deloffre, Marivaux et le
marivaudage:une préciosité nouvelle, Slatkine, Genève, 1993; M. Deguy, La machine matrimoniale ou
Marivaux, Gallimard, Paris, 1981; Marivaux et les Lumières, éd. de H. Coulet, G. Gubier,
Publications de l’Univesité de Provence, Aix-en-Provence, 1996. F. Rubellin, Lectures de
Marivaux, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2009.
140 [P.C. de Marivaux] Le Dénouement imprévu. Comédie d’un acte, avec approbation et privilège
du Roi, 1727. À Paris chez N. Pissot, Quai de Conty, à la descente du Pont-Neuf, au coin de la
rue de Nevers, à la Croix d’Or.
141 Vedi l’Introduzione in Marivaux, Il trionfo dell’amore, a cura di M.G. Porcelli, Marsilio, Venezia,
2013, p. 19. Sempre sulla concezione della donna in Marivaux “eroina” che tuttavia non
trasgredisce l’ordine sociale percepito come naturale vedi Ead., Il potere teatrale delle donne.
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indubbio che l’iniziazione alla vita d’adulta della giovane Argante veniva
compiuta scoprendo la forza dei moti del cuore. I sentimenti acquistavano
ormai un nuovo primato ed erano in grado essi stessi di determinare una
risoluzione. Anche ne Le dénouement imprévu pertanto qualcosa del nuovo
sentire riusciva a prevalere.
Lo stesso tema aveva ispirato anche Les fausees confidences, una tra le opere
più celebri di Marivaux redatta nella primavera del 1737, ed edita nell’ottobre
dell’anno dopo142. A distanza di una quindicina di anni dallo scritto appena
ricordato questa commedia prefigurava una inesorabile trasformazione dei
rapporti familiari di cui l’autore non poteva non prendere atto. Nell’occasione
era ancora una volta una donna, la ricca vedova Araminta, a decidere di
sposare, contro la volontà della madre, il giovane avvocato Dorante, il nuovo
amministratore dei beni familiari appena conosciuto. Il progetto maturato in un
solo giorno spingeva la vecchia madre, Madame Argante, ad esclamare nella
chiusa del terzo atto: “Ah! Che bella conclusione! Ah! Maledetto
amministratore! Potrà essere vostro marito finché vuole, ma non sarà mai mio
genero”143.
La presa di coscienza delle contraddizioni del presente e la difficoltà a
intravedere una possibile via d’uscita assumeva rilievo ne Le jeu de l’amour et du
hasard una commedia in tre atti rappresentata con gran successo il 23 gennaio
1730 alla Comédie italienne e già andata in scena il 28 di quel mese a Versailles.
La pièce veniva pubblicata nei mesi successivi: sarebbe diventata l’opera più
celebre e più rappresentata di Marivaux, sino ai nostri giorni e non solo in
Francia144. L’intreccio s’ispirava al tema del travestimento degli innamorati, un
motivo che godeva allora di una certa fortuna, ed in particolare prendeva
spunto da Les amants déguisés, una commedia di un autore oggi pressoché
sconosciuto, l’abate D’Aunillon. Il testo di quel religioso pur suscitando a suo
modo interesse nell’inverno del 1728 alla Comédie française, sarebbe andato in
stampa soltanto intorno alla metà del secolo145.
Vergini, avventuriere, principesse tra Molière e Marivaux, in Donne e teatro, Seminario di Studi (2324 aprile 2008), Università degli studi di Bari Aldo Moro, Bari, 2012, pp. 103-14.
142 P.C. de Marivaux, Les fausees confidences, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false
confidenze, a cura di L. Sozzi, Garzanti, Milano, 2005. Sull’opera vedi, H. Duchêne, Marivaux: Les
Fausses Confidences, cit.
143 P.C. de Marivaux, Les fausees confidences, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false
confidenze, cit., Atto III, 13.
144 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso, cit. Sulla
fortuna vedi Introduzione, p. XVII.
145 Vedi, Abrégé de l’histoire du théâtre François. Nouvelle édition, Paris, L. Jorry, J. G. Mérigot, 1780,
p. 12. Cfr., anche, Lagrave, Le Théâtre et le public à Paris de 1715 à 1750, Klincksieck, Paris, 1972;
M.de Rougemond, La vie théâtrale en France au XVIIIe siècle, Champion, Paris, 1988.
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L’idea del déguisement e più in generale l’occasione dello scambio dei ruoli
e delle parti che non escludeva anche l’eventualità del ribaltamento sociale, era
un soggetto già utilizzato da Marivaux. Cinque anni prima, nell’Ile des
enclaves146, una commedia in un atto, l’autore si era aperto a una critica sociale
“non priva di agganci forti con le fondamentali istanze ideologiche del primo
Illuminismo”. Ciò nonostante anche quest’opera testimoniava il sicuro
radicamento del grande commediografo nella mentalità d’Antico 147. Nell’Ile des
esclaves lo scrittore, forse ispirato dal tema classico dei Saturnali, aveva fatto
approdare dopo un naufragio, sulle spiagge dell’utopia, il nobile ateniese
Iphicrate e il suo domestico arlecchino. In quell’isola si erano rifugiati degli
antichi schiavi ribelli. In quel luogo, come per incanto, i ruoli si erano ribaltati
provocando un rovesciamento gerarchico: i padroni erano diventati servi e i
servi padroni. Ben presto anche Arlecchino si mostrava insolente rifiutandosi di
obbedire a Iphicrate148. Si trattava a ben vedere soltanto di una condizione
illusoria e apparente, funzionale per l’autore a riflettere sulla natura umana e
sulle generali inclinazioni dello spirito. In definitiva, e non solo in quest’opera,
le motivazioni di Marivaux restavano più d’ordine morale che di carattere
politico. In altri termini prevaleva anche in lui l’idea che svilupperà trent’anni
dopo Goldoni di una “responsabile collaborazione” tra i gruppi nell’ambito
degli invalicabili assetti tradizionali149. Si delineava quindi in entrambi gli autori
un “giudizio equanime nei confronti degli uomini che vivono in società a
prescindere dal ceto”, una sorta di “ottimismo fiducioso nei confronti
dell’essere umano”150. Trionfava, dunque, nelle pagine del grande teatro
prerivoluzionario, l’ipotesi depoliticizzata dello sviluppo equilibrato e
armonico del corso storico. Nell’Ile des esclaves pertanto ogni tensione
egualitaria si risolveva in un auspicio etico, in un appello alla ragione piuttosto
[P.C. de Marivaux] L’Ile des esclaves. Comédie en un acte. Representée pour la première fois par les
Comédiens Italiens du Roy, le Lundi 5 Mars 1725, À Paris chez N. Pissot, Quai de Conty, à la
descente du Pont-Neuf, au coin de la rue de Nevers, à la Croix d’Or. Ora in Marivaux, Le Prince
travesti, L’Ile des enclaves, Le Triomphe de l’amour, éd. de J. Goldzink, Garnier, Paris, 1989.
Sull’opera vedi F. Schurmans, Le Tremblement des codes dans les Iles de Marivaux, in «Revue
d’histoire du théâtre» 2004, 223, pp. 195-212.
147 R. Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, cit., p. 253. Vedi anche
Introduction in Pierre de Marivaux, Théâtre complet, éd. par F. Deloffre, Garnier, Paris 1980.
148 P.C. de Marivaux L’Ile des enclave, ed. cit., Atto I, 1.
149 G. Padoan, Putte, zanni, Rusteghi. Scene e testo nella commedia goldoniana, a cura di I. Crotti, G.
Pizzamiglio, P. Vescovo, Longo, Ravenna, 2001, p. 65. A conferma e a puro titolo d’esempio
vedi l’Introduzione in Carlo Goldoni, Il padre di famiglia, a cura di A. Scannapieco, Marsilio,
Venezia, 2002, pp. 15 e ss.
150 P. Bosisio, Goldoni e il teatro comico, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di R.
Alonge e G. Davico Bonino, v. II, Il grande teatro borghese. Settecento e Ottocento, Einaudi, Torino,
2000, p. 153.
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che alla rivolta: “l’utopica inversione dei ruoli - è stato recentemente osservato ha piuttosto il compito esclusivo di accompagnare per mano gli uni e gli altri a
sperimentare di persona la vanità di qualsiasi arroganza, e la necessità della più
comprensiva moderazione”151.
Il medesimo registro sovraintendeva anche il disegno di Le jeu de l’amour et
du hasard. La commedia si svolgeva intorno alla vicenda umana di Silvia e
Dorante, due giovani patrizi che pur non essendosi mai incontrati, per il “caso”
dettato dal costume del tempo, avrebbero dovuto unirsi in un matrimonio
combinato152. Nondimeno qualcosa sembrava scuotere un destino comune già
segnato e percepito da entrambi come ineluttabile. A sorpresa i padri, sin dalle
prime scene, si dichiaravano diversi: nei loro atteggiamenti non v’era traccia
della consuetudine: la vecchia potestà stava assumendo i tratti di una
autorevolezza tutoriale153. “Ho deciso queste nozze con suo padre che è un mio
vecchio e intimo amico” -dichiarava con convinzione Orgon a sua figlia Silvia“ma a condizione che si stabilisca tra di voi una reciproca simpatia e che abbiate
tutta la libertà di dire quel che pensate; ti proibisco assolutamente di essere
compiacente con me: se Dorante non ti conviene non hai che da dirlo, lui se ne
ritorna; se tu non convieni a lui, lui se ne ritorna allo stesso modo” 154. Ormai
rassicurati i due giovani, l’uno all’insaputa dell’altra, riuscivano a convincere i
genitori, sempre più affettuosi e comprensivi, di potersi presentare al partner,
ancora sconosciuto, sotto le mentite spoglie dei rispettivi domestici Lisetta e
Arlecchino155.
Silvia assumendo il ruolo di Lisetta intendeva declassarsi a serva: solo
così, apparendo al futuro sposo in un rango subordinato, pensava di poterne
penetrare l’animo: capire i suoi veri sentimenti, interrogarsi sulle sue più
autentiche reazioni, scorgerne l’eventuale “faccia cupa, brutale, feroce”156. Forse
avrebbe potuto vedere Dorante senza la sua maschera sociale, spiarlo senza
R. Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, cit., p. 254; ma vedi anche,
Id., Tre isole di vera ragione. L’esperienza “metafisicomica” di Marivaux, in Id., Maschere di cera.
Riforme, giochi, utopie: il teatro europeo del Settecento tra pensiero e scena, Costa e Nolan, Milano,
1997, pp. 39-49. Per il significato politico della commedia, P.C. de Marivaux, L’Ile des esclaves, ed.
cit., Atto I, 9, 10, 11.
152 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false
confidenze, cit., Atto I, 1, 2.
153 Sulla questione vedi, M.G. Porcelli, Le figure dell’autorità nel teatro di Marivaux, Unipress,
Padova, 1997; Id., Un père moderne. Monsieur Orgon dans Le Jue de l’amour et du hasard, in
Marivaux: jeu et surprises de l’amour, Sous la direction de P. Frantz, Presses Universitaires de la
Sorbonne, Paris, 2009, pp. 95-106.
154 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso. Le false
confidenze, cit., Atto I, 2.
155 Ivi, Atto I, 2, 3.
156 Ivi, Atto I, 1.
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essere vista, senza rivelare se stessa. Diversa non era stata la considerazione di
Dorante assumendo la fisionomia di Arlecchino: anche lui avrebbe compreso il
carattere della sposa, la sua natura intima e vera, il suo essere, più che la
rappresentazione esteriore. Per realizzare l’impresa era necessario che anche i
due servitori prendessero le parti dei due padroni. Nel “gioco” del
mascheramento dunque per puro “caso” i signori diventavano servi e i servi
signori157. L’equilibrio sociale tuttavia, come vedremo, non sarebbe stato
turbato. Infatti solo Orgon sin dall’inizio era a conoscenza di tutti gli scambi di
persona ed era di fatto colui che avrebbe sovrainteso e regolato lo sviluppo
della vicenda158. Il vecchio padre, in virtù del suo marcato decisionismo, pur
mostrandosi un benevolo e sorridente tutore, capace di guidare da lontano e in
modo discreto le scelte dei figli, sempre attento al loro “processo di
maturazione psicologica”, non prefigurava, a nostro parere, i futuri
orientamenti pedagogici dei Lumi159. L’educatore di Marivaux restava ancora
una figura tutto sommato “ingombrante”, solo verbalmente propensa
all’autoformazione dei giovani e poco incline a promuovere una procedura
funzionale a guardarsi “dentro”. Si rivelava soprattutto poco sensibile a
suggerire opportunità e a ostacolare i pericoli, come invece avrebbe auspicato,
sia pur con le sue contraddizioni, la nuova educazione “negativa” di Rousseau
nell’Emilio160.
Al di là della velata regia paterna sarebbero stati i dati di partenza e le
condizioni remote -ovvero le abitudini, i costumi, l’educazione e lo stile di vitache avrebbero reso impossibile qualsiasi forma di mésalliances. L’amore poteva
scoccare solo nell’eguaglianza delle condizioni. Lisetta mascherata da signora
continuava a usare gli strumenti plebei della seduzione, un linguaggio volgare
dei sentimenti, che poteva esser compreso e far breccia solo nel cuore d’
Arlecchino. Le buone maniere e la rettitudine affettuosa di Dorante anche nelle
spoglie del suo domestico colpivano soltanto Silvia, che detestava la rozzezza
greve del servo travestito da padrone161. In sintesi ognuno dei quattro giovani
era attratto e tendeva a legarsi solo con il partner del suo reale stato sociale.
Questo era quel che comprendevano soprattutto gli spettatori che erano a
Ivi, Atto I, 3.
Ivi, Atto II, 1, 10, 11, III, 4.
159 Per una diversa valutazione vedi l’Introduzione in Marivaux, Il trionfo dell’amore, cit., p. 15 e
Ead., Un père moderne. Monsieur Orgon, cit.
160 J.J. Rousseau, Emilio, a cura di G. Calò, Sansoni, Firenze, 1954, L. III, IV, in particolare pp. 12,
172 e ss., 187, 191 e ss. Sulla contraddizione in Rousseau tra “puerocentrismo” e “direttività” da
parte dell’educatore, vedi per tutti A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Principato,
Milano, 1988, pp. 303 e ss.
161 P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso, cit., Atto
I, 7, II, 1, 3, 5, 7, 8, 9, 11, III, 5, 6.
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conoscenza del mascheramento sin dalle prime scene. I protagonisti
confermavano, dunque, con le loro scelte, il valore e l’efficacia delle norme
sociali mettendo in luce l’incoerenza del matrimonio “scombinato” , delle nozze
tra diseguali. La commedia insegnava al pubblico che era impossibile mutare
stato e si concludeva ricollocando ognuno al proprio posto, celebrando
finalmente l’unione tra gli eguali162. La tenuta del vecchio sistema era garantita.
Tuttavia l’opera non si risolveva nella sola celebrazione del buon tempo
antico: nelle scelte dei due primi attori vi era qualche cosa di più che turbava
quel disegno scontato e predefinito. La struttura, il sistema complessivo
dell’Antico regime, teneva ancora nel suo insieme nella rappresentazione di
Marivaux ma nondimeno iniziava ad essere minata e sottoposta a pressione dal
suo interno. Le scene, in definitiva, rivelavano nella relazione tra Silvia e
Dorante una nuova sensibilità che si precisava nella ricerca, in entrambi, della
propria fisionomia individuale. Ognuno dei due protagonisti percepiva se
stesso, la propria sensiblerie in modo distinto dando origine a due modelli
umani e culturali diversi e contraddittori. Dinamico e produttivo in Dorante,
capace di interagire con il mondo esterno sino a tentare di modificarlo,
autoriflessivo ed esistenziale in Silvia che intendeva rimanere lontana da
qualsiasi implicazione sociale dell’io163. In altri termini Marivaux percepiva
l’ambivalenza dell’individualismo e creava le premesse, anche grazie a questa
commedia, per scardinare il sistema culturale e sociale nel quale si riconosceva.
Intuiva i due volti irriducibili dell’Illuminismo: il cuore e la ragione, i
sentimenti e la volontà. Silvia e Dorante con il loro pensiero e con le loro azioni
esprimevano singolarmente la difficile possibilità di ricomporre questo
contrasto.
Silvia interpreta bene lo sgomento dei tempi di fronte alla scoperta
dell’irrazionale, esprime con la sua iniziativa la paura, sentita in quegli anni
forse per la prima volta in modo così acuto, di non riuscire a conoscere se stessi.
Insorgeva anche in lei il timore di non poter decifrare i propri sentimenti sino a
divenirne soggiogata al punto di non riuscire più ad amare né la propria
persona né le altre. In fin dei conti il travestimento nei panni di Lisetta, inteso
dalla protagonista come un’esigenza di conoscenza, si risolveva nelle scene in
un continuo desiderio di fuga, in una forma di protezione contro l’insicurezza, e
più in generale in un bisogno costante di negarsi ad ogni effettivo confronto 164.
Il più risoluto Dorante, non senza esitazioni, comunque si rivelava. Aveva già
esplicitato il suo amore e dichiarava all’amata, alla fine del secondo atto, anche
il suo rango: il matrimonio sarebbe stato ormai più semplice per Silvia se non
Ivi, Atto III, scena ultima.
Ivi, Atto I, 7, II, 9, 12, III, 4, 8.
164 Ivi, Atto II, 7, 9, 11, 12, III, 8.
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del tutto scontato165. Silvia al contrario, sino alla conclusione della commedia e
per tutto il corso del terzo atto, continuava a mascherarsi. Amava ma non
faceva nulla per amare, continuava sino all’ultimo a fuggire. Si chiudeva
nell’alibi di continue prove, nella ricerca di certezze per non dover poi patire 166.
L’insoddisfazione degli altri si concludeva nell’insoddisfazione di se stessa,
nella paralisi della volontà, in una sorta di annullamento nichilistico: “questa
storia mi affligge, non c’è faccia di cui mi fidi, non una persona che mi piaccia, e
io stessa non piaccio a me”167. Mezzo secolo prima del Werther l’individuo
irrompeva nel vuoto del mondo moderno restando inesorabilmente solo, chiuso
nella “prigione” di se stesso168.
Il tema psicologico-esistenziale della paura e del pericolo d’amare, della
volontà a non dichiararsi e a dissimulare anche per non soffrire ispira, com’è
noto, la letteratura contemporanea e segna l’opera, nella Francia di quegli anni,
di A.F. Prévost e di P.J. de Crébillon169. Il motivo percorre la produzione di
Marivaux e struttura la fisionomia dei suoi eroi fragili. Si manifesta sin dalla
Surprise de l’amour170 (1722) ne La double incostance171 (1723) per giungere al
nostro testo del 1730172. Amato dai decadenti e dai simbolisti, rivisitato da
Verlaine, il teatro marivaudiano sarebbe stato inevitabilmente ricusato nell’età
della Rivoluzione.
Tuttavia l’iniziativa di Dorante, l’eroe positivo, il campione della virtù e
della volontà, avrebbe ispirato indirettamente la più impegnata e militante
letteratura settecentesca. Il giovane, come sappiamo, sempre inconsapevole
della identità dell’amata se n’era innamorato sin dal primo incontro pur
Ivi, Atto II, 12.
Ivi, Atto II, 11, III, 4, 8.
167 Atto II, 12.
168 Vedi l’Introduzione in W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di G. Baioni, Einaudi,
Torino, 1998, pp. V-XXIV.
169 A. Singerman, L’Abbé Prévost: l’amour et la morale, Droz, Genève, 1987; J. Sgard, Crébillon fils, le
libertin moraliste, Desjonquères, Paris, 2002; La civiltà letteraria francese del Settecento, cit., pp. 26 e
ss., 71-81, 83-91, 126 e ss.
170 [P.C. de Marivaux] La surprise de l’amour, comédie representée par le Comédiens Italiens de S.A.R.
Monseigneur le duc d’Orleans le 3 mai 1722 A Paris, Chez A. Gandouin, Quai des Augustins, au
coin de la rue Pavée, à la Bible d’Or. 1723. Avec Approbation e privilege du Roi.
171 [P.C. de Marivaux] La double incostance. Comédie en trois Actes. Representée pour la premiere fois
par le Comédiens Italiens du Roi le Mardi 6 Avril 1723. A Paris, Chez F. Flahault, Quai des
Augustins au coin de la rue Pavé eau Roi de Portugal. 1724. Avec Approbation e Privilege du
Roi.
172 Per la ricostruzione dell’itinerario vedi Introduzione in P.C. de Marivaux, Il gioco dell’amore e
del caso, cit., p. XII e ss.
165
166
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sapendola cameriera173. Il suo amore doveva infine prevalere. Doveva superare
il male del vivere e il nullismo sentimentale di Silvia, gli ostacoli posti dal padre
e dal fratello della donna amata, le insormontabili questioni di ceto174. Dopo
essersi già dichiarato nell’amore e nel rango alla fine del terzo atto rivolgendosi
a Silvia creduta ancora Lisetta concludeva: “Ah! Lisetta cara, che cosa sento: c’è
nelle tue parole un fuoco che m’invade, ti adoro, ti rispetto; non esiste rango, né
nascita né ricchezza, che non scompaiono di fronte a un’anima come la tua. Mi
vergognerei, se il mio orgoglio dovesse ancora vincere contro di te; il mio cuore
e la mia mano sono i tuoi. […] Mio padre mi perdonerà quando ti avrà vista, i
miei beni bastano per entrambi, e il merito vale la nascita: non discutiamo più
non muterò mai parere”175.
I fermi propositi di Dorante e la certezza di un sentimento perenne
riuscivano a convincere Silvia: l’unione ormai era possibile 176. Il discorso del
protagonista se preludeva al lieto fine della commedia allo stesso tempo
esplicitava, a nostro parere, una concezione morale sino a quei tempi inedita
nella letteratura teatrale. In altri termini affioravano nelle parole di Dorante i
principi del soggettivismo etico, una dottrina che, com’è noto, aveva già
influenzato il pensiero europeo nel Seicento con Cartesio e Locke e che sarebbe
giunta alla piena maturazione nell’età romantica177.
Anche Dorante pertanto cominciava a considerarsi un individuo, più che
una parte indistinta di un tutto, e non voleva più agire solo per perpetuare la
continuità “olistica” e gerarchica dell’Antico regime. Il giovane patrizio aveva
dunque acquisito coscienza di sé, spirito critico, capacità di giudicare l’esistente:
pertanto era giunto a maturare la consapevolezza dei suoi diritti. Obbedendo al
migliore “se stesso” e ascoltando “il sentimento dell’esistenza”, non
diversamente da come avrebbe suggerito Rousseau quasi mezzo secolo dopo,
recuperava la “sua salvezza morale”. Si trattava di una condizione difficile da
raggiungere come ravvisava con una certa amarezza il grande ginevrino178. La
P.C. de Marivaux, Le jeu de l’amour et du hasard, ora in Id., Il gioco dell’amore e del caso, cit., Atto
I, 7.
174 Ivi, Atto II, 7, 9, 11, III, 2, 4, 8.
175 Ivi, Atto III, 8.
176 Ivi, Atto III, 8, scena ultima.
177 C. Taylor, Sources of the Self: the Making of the Modern Identity, Harvard University Press,
Cambridge, 1989, cap. XV.
178 “le sentiment de l’existence dépouillé de toute autre affection est par lui-même un sentiment
précieux de contentement et de paix qui suffiroit seul pour rendre cette existence chère et douce
à qui sauroit écarter de soi toutes les impressions sensuelles et terrestres qui viennent sans cesse
nous en distraire et en troubler ici bas la douceur. Mais la pluspart des hommes agités de
passions continuelles connoissent peu cet état et ne l’ayant gouté qu’ imparfaitement durant
peu d’istans n’en conservent qu’une idée obscure et confuse qui ne leur en fait pas sentir le
173
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ribellione di Dorante, ovvero la scelta di sposare da nobile una cameriera,
scardinava le consuetudini e creava un precedente. Tuttavia la sua individualità
per essere reale non poteva scadere nel soggettivismo degenerato di Silvia
chiuso in se stesso e incapace di stabilire rapporti con l’esterno. All’anomia e al
solipsismo nichilista dell’amata Dorante contrapponeva il suo Illuminismo
umanitario, solidale e ottimistico. In altri termini l’azione individuale per
assumere significato aveva bisogno di essere condivisa. La verifica delle proprie
intenzioni “negoziata” in un rapporto “dialogico” con l’altro costituiva secondo
gli studiosi l’elemento fondamentale della nuova “etica dell’autenticità” che
allora iniziava a manifestarsi179. Questa libera contrattazione tanto nella sfera
privata quanto in quella pubblica metteva in discussione l’idea predeterminata
della famiglia e della società tradizionale. Da questi presupposti si sarebbe
trasformata, a fine secolo la vita politica e l’esperienza morale. Già nel 1730
dunque con Le jeu de l’amour et du hasard balena l‘ipotesi di una civitas nella
quale gli uomini e le donne, ormai infranti gli archetipi, potevano essere
valutati per i loro autentici meriti e virtù, per la loro “dignità” umana e non più
in ragione dei criteri precostituiti che strutturavano tramite “l’onore”, il sangue
e la nascita le immutabili gerarchie dell’Antico regime180.
Non si può non ricordare chiudendo il paragrafo dedicato a Le jeu de
l’amour et du hasard che gli spunti innovativi e il carattere polemico dell’opera
venivano volutamente relegati dall’autore nella dimensione del “gioco” e del
“travestimento”, ovvero tendevano a dissolversi nell’evanescenza fantasiosa e
irreale del sogno. Il tema della “malinconia dell’effimero” pervadeva a quei
tempi non solo la letteratura ma anche l’arte, e caratterizzava, come hanno colto
gli studi, l’opera di Marivaux come quella di Watteau testimoniando con le loro
inquietudini le venature irrazionalistiche che percorrevano la cultura dei
Lumi181.
charme”. J.J. Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire, Ve Promenade, in Id., Oeuvres complètes,
v. I, Gallimard, Paris, 1959, p. 1047.
179 C. Taylor, Sources of the Self, cit., cap. XIII; Id., Il disagio della modernità, cit., cap. V.
180 C. Taylor, Il disagio della modernità, cit., pp. 54-55; P. Berger, On the Obsolence of the Concept of
Honour, in Changing Perspectives in Moral Philosophy, eds. S. Hauerwas, A. MacIntyre, Notre
Dame University Press, Notre Dame (Indiana), 1983, pp. 172-81. Sul problema assai utile il
quadro d’insieme in A. Mubi Bighenti, Tra onore e dignità. Per una Sociologia del rispetto, Quaderni
dell’Università degli Studi di Trento, Facoltà di Sociologia, Trento, 2008, ivi bibliografia pp. 5765. Sulla concezione dell’”onore” tra i patrioti italiani del “Triennio”, un’idea egualitaria, non
subordinata alla nascita e al censo, ma ispirata solo dalla “virtù” e dalla “civiltà de’ tratti”, vedi
F. Rigotti, L’onore degli onesti, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 139 e ss.
181 R. Tomlinson, La fête: Watteau et Marivaux, Droz, Genève, 1981; G. Macchia, Il teatro come
sorpresa; L’isola teatrale di Watteau, in Id., Le rovine di Parigi, Mondadori, Milano, 1988, pp. 59-73.
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Si era appena conclusa la prima fase di una nuova civiltà che aveva posto
in crisi, con un avvio travolgente, la coscienza europea mettendo in discussione
le certezze tradizionali religiose e politiche. Erano dunque sorte inedite
convinzioni illuminate dal nuovo sole della ragione. Eppure già intorno alla
metà degli anni Venti s’erano alzati i penosi interrogativi di J. Swift espressi
tramite il suo Gulliver. Il viaggio avventuroso, tra realtà e immaginazione, di
quel celebre medico di bordo, che avrebbe dovuto dimostrare il trionfo
dell’universalismo settecentesco, la capacità della ragione di comunicare al di là
d’ogni differenza, ne decretava invece la sconfitta, scoprendone la sua relatività
e limitatezza. Non diversamente ancora alla fine degli anni Cinquanta, nella
piena fioritura dei Lumi, ci si interrogava sull’incapacità della ragione e della
scienza a svelare il mistero dell’uomo, della natura, della vita. L’ottimismo della
volontà e della ratio veniva meno. Le procedure empiriche di d’Alembert non
riuscivano a oltrepassare la piccola sfera del noto e lambivano solo “i vasti
deserti” dell’incognito, una realtà oggettiva impenetrabile, per il grande
enciclopedista, alle tecniche dello scienziato. Anche il terremoto di Lisbona
aveva rivelato a Voltaire sempre allora “il brutto poter”, la soverchiante
onnipotenza della natura: l’ordine delle cose mostrava il suo indubbio primato
sulla volontà umana. Da queste considerazioni sarebbe scaturita la scrittura nel
1759 del Candide un’opera che tuttavia riusciva a trovare, com’è noto, una
superstite via d’uscita riassegnando all’uomo almeno il primato nella
dimensione morale, per fargli riscoprire la sua piccola sovranità nell’esercizio
della vita pratica. Il patriarca dei Lumi riusciva in tal modo a porsi al riparo dai
rischi di una crisi relativistica e scettica182.
Entro questo quadro si possono comprendere meglio le incertezze e le
contraddizioni dell’opera di Marivaux e persino la natura “métaphysicomique”
della ribellione di Dorante183. Perché la larvata protesta della commedia del 1730
si potesse tradurre in una autentica contestazione dell’ordine esistente -sia pure
tramite le speranze e i desideri del linguaggio letterario- bisognerà attendere
almeno dieci anni e i primi segnali non sarebbero giunti dalla patria
dell’Enciclopedie.
P. Hazard, La crise de la coscience européenne (1680-1715), Fayard, Paris, 1961; P. Chaunu, La
civiltà dell’Europa dei Lumi; Il Mulino, Bologna, 1987, P.Casini, Jean d’Alembert “epistemologo”, in
«Rivista critica di storia della filosofia», XIX, 1964, pp. 28-53; Id., Il problema d’Alembert, in
«Rivista di filosofia», 1, 1970, pp. 26-47; T.L. Hankins, Jean d’Alembert. Science and Enlightenment,
Gordon and Beach, New York, 1985; P. Alatri, Introduzione a Voltaire, Laterza, Roma-Bari, 1989,
pp. 57-72.
183 Così Voltaire aveva definito lo stile del grande commediografo. Vedi, l’Introduzione in
Marivaux, Il trionfo dell’amore, cit., pp. 15, 39.
182
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Autodeterminazione e principio di autorità: Voltaire e Goldoni.
Le premesse: la Pamela di Richardson. Era stato nel 1740 un tipografo originario del
Derby, S. Richardson, grazie al suo romanzo epistolare Pamela or The Virtue
Rewarved a divenire uno dei più celebri scrittori, non solo inglesi, del tempo.
L’opera, pubblicata a Londra nel novembre di quell’anno con la falsa data del
1741, riscosse subito un enorme successo tanto da venir ristampata cinque volte
nel giro di pochi mesi per poi essere subito tradotta in francese. Nell’aprile 1744
il romanzo veniva condannato dal S. Uffizio per la sua immoralità e di
conseguenza era inserito nell’Indice dei Libri proibiti, sia nella versione
originale che in quella francese184. La trama indubbiamente suscitava scalpore.
Poneva al suo centro, per la prima volta, la vicenda di una povera ragazza,
figlia di un umile agricoltore, che nella fragilità della condizione e
dell’adolescenza, era costretta a subire le attenzioni prepotenti di un nobile
libertino del quale era al servizio. Pamela, severa nei costumi, virtuosa e bella,
resisteva a tutte le insidie, alla segregazione, ai tentati stupri sino a redimere
con la sua dirittura morale il brutale persecutore facendone emergere, grazie a
una vera e propria conversione, il suo volto umano, affettuoso, innamorato. La
quindicenne dopo essersi negata due volte alla fine cedeva: solo il matrimonio
avrebbe legittimato la violazione della purezza femminile. Trionfavano i
modelli puritani della virtù e della castità, l’ideale di una “rarefatta delicatezza”
secondo l’espressione l’efficace di L. Stone185. Tuttavia era “l’enorme distanza
sociale tra i due protagonisti” – la mésalliance felicemente celebrata tra la serva e
il padrone - a sancire la fortuna di Pamela. Si trattava di una vittoria del sesso
femminile e di un riconoscimento per la donna del ceto popolare.
Nondimeno anche l’antico libertino trasformato in tenero marito era uscito
bene dalla circostanza. Sposando Pamela aveva compiuto “un supremo atto di
scelta individuale non tenendo conto delle tradizioni della sua famiglia e del
suo ceto”186. Prorompeva l’ideale della virtù e non solo quella di Pamela.
Entrambi i protagonisti riuscivano a ritrovare “seguendo i dettati del cuore” il
rousseauiano “sentimento dell’esistenza” e con esso intuivano la possibilità di
scoprire la propria “dignità” e quella dell’altro. Infatti i due sposi si erano
dimostrati capaci di valutare ogni essere umano per l’effettivo merito e per le
sue autentiche qualità. Rifiutavano di uniformarsi agli antichi codici
comportamentali per i quali il giudizio morale prescindeva dalla vera natura
F. Piva, Pamela in Francia, v. I, La ricostruzione storico critica, Schena, Brindisi, 2011, pp. 15-81. Il
decreto di censura del S. Uffizio è in A. Cataldi, Pàmela-Paméla. Da Richardson a Goldoni passando
per Voltaire, Pensa Multimedia, Lecce, 2007, pp. 258-263.
185 L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra, cit., p. 763.
186 I. Watt, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Bompiani, Milano,
2009, p. 138.
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dell’individuo. Venivano quindi meno le valutazioni etiche non suscettibili di
verifica nelle esperienze della vita quotidiana. Valutazioni che obbedivano
pertanto solo a criteri predeterminati .Si trattava di criteri in ragione dei quali si
assegnava aprioristicamente ad ogni individuo una collocazione nella gerarchia
sociale. In altre parole per Richardson la nobiltà dell’animo non poteva
acquisirsi ereditariamente, non era un dato biologico, una qualità genetica, ma il
risultato di un impegno, un traguardo che tutti avrebbero potuto raggiungere.
Un traguardo che sarebbe divenuto realmente tale nel momento del suo
riconoscimento da parte degli altri.
Questo atteggiamento etico che prefigurava una società sempre più
progredita, promozionale e democratica poteva sorgere e manifestarsi in quegli
anni, soprattutto in Inghilterra, un paese all’avanguardia, come ha ricordato
anche I. Watt nella sua indagine sulla genesi del romanzo moderno. Non c’è
dubbio che al di là della Manica si era compiuta, già nel Seicento, quella
rivoluzione politica e sociale che avverrà in Francia soltanto alla fine del secolo
successivo. Secondo l’autorevole studioso statunitense sarebbe stato soprattutto
l’individualismo economico, il puritanesimo e la filosofia di J. Locke a celarsi
dietro la grande affermazione di Pamela187. Con Richardson oltretutto il romanzo
d’epoca “noioso e moralista” scopriva finalmente i sentimenti188. Era
un’indubbia affermazione dell’amore, un successo che avrebbe contribuito a
trasformare in senso affettivo ed egualitario l’idea stessa della famiglia secondo
gli ideali puritani delle pari qualità morali dei coniugi189.
La Nanine di Voltaire. Il 16 giugno 1749 debuttava alla Comédie Française Nanine
ou le préjugé vaincu, una commedia in tre atti di Voltaire ispirata alla Pamela di
Richardson. Nel 1770 l’opera veniva tradotta in italiano dall’editore milanese
Montani e successivamente andava in ristampa ancora in Lombardia nel 1800,
con la falsa indicazione tipografica di Parigi190. La pièce si inaugura con il serrato
I. Watt, Le origini del romanzo borghese, cit., pp. 129-166.
L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra, cit., pp. 255, 264.
189 E. Leites, Coscienza puritana e sessualità moderna, Il Saggiatore, Milano 1988, pp. 93 e ss.; A.M.
Banti, L’onore della nazione. Identità sessuale e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla
grande guerra, Einaudi, Torino, 2005, pp. 33-93. D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., pp. 188 e
ss.
190 [Voltaire] Nanine ou le préjugé vaincu. Comédie. Représentée pour la première fois le 16 juin 1749 au
Théâtre de la rue des Fossés Saint-Germain par la Comédie française. Per notizie relative alla
rappresentazione e alla stesura dell’opera vedi l’Introduction in Théâtre du XVIIIe siècle, cit.; M.R.
de Labriolle, C. Duckworth, Introduction a Nanine, in Les Oeuvres Complètes de Voltaire, edition
critique, The Voltaire Foundation, Oxford, 1994, v. 31B. Per la prima traduzione italiana vedi
Nanina, o sia il pregiudicio vinto. Commedia tratta dal sig. r. de Voltaire. In Milano nella stamperia di
Giovanni Montani. 1770, l’unica copia in Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Bologna. Una
edizione dell’anno IX repubblicano (1800-1801) con la falsa indicazione tipografica di Parigi è
187
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colloquio tra il conte d’Olban e la baronessa de L’Orme. I due conversavano
animatamente nel “ritiro” di famiglia in campagna: dovevano sposarsi. Un
tempo si erano probabilmente piaciuti e forse anche amati, pur essendo parenti,
ma ora la loro era un unione solo d’interesse. Il matrimonio era necessario per
non disperdere il patrimonio del casato e per tentare di riunificarlo191. La
baronessa sin dalle prime battute incalzava il futuro sposo, lo vedeva incerto,
esitante: ne percepiva la distanza. Sapeva di avere una pericolosa concorrente in
una cameriera, la giovane Nanine, della quale d’Olban si stava
incomprensibilmente innamorando192.
L’opera privilegiava il dialogo più che l’intreccio della vicenda, un plot in
sostanza gracile, anche se ravvivato da alcuni colpi di scena che qui
trascureremo. Le rapide battute e i lunghi soliloqui mettevano in evidenza la
contrapposizione tra due diverse culture, tra due opposti modelli
comportamentali. La nuova mentalità del conte, individualistica e critica,
ispirata alla “ragione naturale”, si contrapponeva a quella della baronessa, una
persona dalla forma mentis tradizionale e rispettosa della norma. La de L’Orme
mirava al riconoscimento del suo ruolo di ceto e di donna, assumendo, anche
per questo, passivamente principi e valori193.
L’amore tra d’Olban e Nanine nasceva in realtà ben presto alimentato
dalla spinta dei “moti del cuore” ma finiva per divenire travolgente in virtù
della reciproca condivisione di valori e comportamenti. Il conte scorgeva in
Nanine insieme alla bellezza giovanile il “carattere” che rendeva la sua “anima
bella“. Scopriva tutte quelle virtù “spontanee e senza artificio” che insieme alla
“dirittura” riuscivano ancor più a gratificare l’uomo “saggio” 194. La passione
comunque non si spegneva. D’Olban nei momenti più difficili del rapporto,
assorto e inquieto, sempre pensando all’amata, era incapace di leggere,
studiare, dormire195. Nanine come Pamela obbediva a una legge autonoma che
ne determinava la condotta. Amava ma sapeva di non poter costruire un
rapporto con d’Olban perché l’infausto “destino”, nella crudeltà delle
“consuetudini”, l’aveva posta nell’”ultimo rango” e una mésalliance avrebbe
rovinato la vita al conte196. Il suo maestro, d’Olban, il reale protagonista della
custodita in Biblioteca statale e libreria civica, Cremona. Il testo del 1770 è antologizzato in A.
Cataldi, Pàmela-Paméla, cit. Sul teatro di Voltaire si indicano qui soltanto: G. Iotti, Virtù e identità
nella tragedia di Voltaire, Champion, Paris, 1995; R. Goulborne, Voltaire comic dramatist, Voltaire
Foundation, Oxford, 2006.
191 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto I, 1.
192 Ibidem.
193 Ivi, Atto I, 1, 7, 9, II, 6, 10, III, 6, 7.
194 Ivi, Atto I, 9.
195 Ivi, Atto II, 1.
196 Ivi, Atto II, 3.
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commedia, le aveva insegnato e dimostrato, con il comportamento e i discorsi,
che i “diritti” erano per lo più “distribuiti a caso” dalla sorte e corrispondevano
raramente ai “meriti individuali”197. Perciò Nanine, che per “virtù” avrebbe
dovuto essere “nel primo rango”, pensava lo stesso di rifugiarsi in convento.
Voleva dimenticare l’amato e sperava di superare, nella quiete del chiostro, il
suo turbamento198.
Le idee della pièce si esprimevano soprattutto nelle riflessioni di d’Olban. Il
patrizio-filosofo sorretto dal “cuore” e insieme guidato dalla “ragione” si
interrogava sulle relazione sociali e sul significato dei comportamenti umani199.
Ormai comprendeva che non erano “il sangue” e “la nascita” a decretate la
“nobiltà di un cuore”. Solo la disposizione dell’animo poteva legittimare il
valore di una persona e rendere un’azione onorevole. D’Olban contrapponeva
alla precettistica formale, alla meccanica del credere e dell’agire l’etica
dell’intenzione. Bisognava seguire l’ispirazione del “cuore” e non “imitare” i
comportamenti al pari di una “scimmia”200. Pertanto le norme avrebbero dovuto
essere il risultato di libere scelte e non la conseguenza delle abitudini. Solo
nell’onestà e in una condotta virtuosa si specchiava la vera nobiltà. Il vero senso
dell’onore consisteva dunque in una iniziativa virtuosa personale riconosciuta
dall’altro e possibilmente utile alla società201. Non doveva essere una azione
finalizzata a riconoscersi in uno status o necessaria per accedere ad una élite di
privilegiati, come aveva suggerito Montesquieu tentando di spiegare la
mentalità gerarchica dell’Antico regime202. Anche d’Olban dunque in forza della
sua morale autonoma scardinava l’etica tradizionale che si risolveva, a suo
parere, in una pratica di vita fondata su valori sociali predeterminati e quindi
non individualizzati. L’eroe di Voltaire metteva così a nudo l’intrinseca
correlazione tra l’onore e il potere che costituiva una delle idee forza del sistema
degli ordini203. Il conte, invece, in virtù dei suoi convincimenti scopriva un
inedito rapporto tra l’onore e i diritti individuali204. Sembrava possibile
immaginare una società nella quale gli uomini grazie alla loro consapevole
libertà riuscivano a scoprirsi uguali. Nondimeno il primo atto si chiudeva con
un interrogativo doloroso che sembrava essere anche un atto d’accusa nei
Ivi, Atto II, 9.
Ivi, Atto II, 7.
199 Ivi, Atto I, 1.
200 Ibidem.
201 Ivi, Atto III, 6.
202 C-L. de Secondat de Montesquieu, L’Esprit de lois, cit., l. III, 7.
203 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto I, 9.
204 Ivi, Atto II, 7, III, 7.
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confronti della stessa civiltà dei Lumi: “Le convenzioni? …Ebbene! Sono
crudeli; e la natura ebbe i suoi diritti prima di esse”205.
Cinque anni prima della stesura del rousseauiano Discours sur l’origine de
l’inégalité parmi les hommes Voltaire affrontava dunque, sia pure di sfuggita e
nell’ambito di uno scritto letterario, con un richiamo di un solo verso, sia pur di
notevole efficacia, il grande quesito di quegli anni sulla naturale eguaglianza tra
gli uomini e sulle origini sociali della diseguaglianza. Rousseau nel Discours del
1754 sembrava esprimersi in modo non dissimile: “Si comprenderà come la
disuguaglianza tra uomo e uomo debba essere minore nello stato di natura che
in quello di società, e quanto la diseguaglianza naturale debba aumentare nella
specie umana per opera della diseguaglianza operata dalle istituzioni” 206. È noto
a tutti il valore puramente metaforico dell’idea di stato di natura nel pensiero di
Rousseau. Si trattava di un’astrazione concettuale, dichiarata esplicitamente
dall’autore nel corso della sua riflessione, utile tuttavia per giudicare il presente
e per promuovere la condanna politica della società d’Antico regime207. Lo
scritto del 1754, il celebre secondo Discorso, aveva già in germe, lo confermano il
testo e gli studi, le tesi del Contrat. La protesta di Voltaire in Nanine invece si
risolveva, come si è osservato, in una condanna di tipo morale più che politica.
Pertanto lo scritto di Voltaire sembrerebbe più consono al primo Discorso del
ginevrino. In realtà anche nel Discours sur le sciences et les arts del 1750 Rousseau
aveva voluto mettere in evidenza le “contraddizioni del sistema sociale”
rivelando come “l’uomo è naturalmente buono e che soltanto le istituzioni
rendono gli uomini malvagi”208.Tuttavia lo stato di natura era inteso per lo più
come quel “remoto paradiso” nel quale l’uomo era “incontaminato dai vizi”.
“La veemente denunzia dei costumi artificiosi, l’esaltazione della virtù, scienza
sublime delle anime semplici i cui principi sono impressi in tutti i cuori”, erano
in definitiva i temi forti del Discorso209. Queste istanze morali potevano avere,
come si è appena osservato, un indubbio valore potenziale ma non si
traducevano ancora in rivendicazioni di carattere politico. Si trattava di spunti e
di motivi che avevano una loro circolazione nella letteratura polemica e
Ivi, atto I, 9.
J.J. Rousseau, Origine della diseguaglianza, a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 69.
207”[…] uno stato che non esiste più che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà
mai, e sul quale tuttavia è necessario avere delle idée giuste per giudicare bene intorno al nostro
stato presente “. Ivi, p. 29.
208 J.J. Rousseau, Oeuvres completes, t. I, Les Confessions. Autres texts autobiographiques, edition
publiée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, Gallimard, Paris, 1959, p. 1135; Id.,
Oeuvres, ed. cit., t. III, Du Contrat social. Écrits politiques, p. 15.
209 P. Casini, Introduzione all’Illuminismo. Da Newton a Rousseau, Laterza, Roma-Bari, 1973 p., 418;
Id., Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari, 1986, pp. 15 e ss.
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clandestina di quegli anni e, a grandi linee, erano le stesse istanze che
ispiravano la scrittura di Nanine.
È opportuno ricordare comunque che Voltaire scrivendo a Rousseau
nell’agosto 1755 da Ginevra, dove si era rifugiato da qualche mese in seguito
alla rottura con Federico II, avvenuta nel marzo 1753, esplicitamente
rimproverava l’autore del Contrat in merito al Discours sur le sciences et les arts.
Contestava “le assurde preferenze per la rozza infanzia dell’umanità e
rivendicava, con vigore, il valore delle lettere nello svolgersi della vita e della
storia degli uomini”. Era stato Rousseau a inviare a Voltaire, proprio in quei
mesi, entrambi i Discours come un necessario “hommage que nous vous devons
tous comme à notre chef”. Tuttavia la critica della civiltà, la denuncia
dell’ineguagliaza sociale e la condanna della proprietà incontravano
l’incomprensione di Voltaire210.
Per tornare ora nuovamente alla trama della commedia, una serie di colpi
di scena riuscivano a rendere vani i progetti della baronessa: il conte rifiutava di
sposare la de L’Orme. Rinunciava al patrimonio, agli interessi del casato, alle
questioni di ceto per unirsi a Nanine211. Sarebbe spettato alla vecchia madre del
conte, la marchesa d’Olban, porre termine alla commedia commentando
nell’ultima strofa la mésalliance del figlio con una cameriera sia pur virtuosa:
“Che questo giorno sia delle virtù la degna ricompensa, ma senza tirare mai a
conseguenza”212.
Certamente non può un solo verso su milletrecentotrentasei trasformare
completamente il significato della commedia e suggerire un diverso giudizio
sulla pièce. Tuttavia qualche dubbio resta. Tra le diverse ipotesi formulate sulla
conclusione ci si limiterà a ricordarne solo due. J. Truchet ha messo in evidenza
il carattere serio dell’opera tutta incentrata sulla virtù e sul dovere e non incline
a indulgere al ridicolo nonostante la scelta di Voltaire per il genere
attendrissante. Si trattava di una sperimentazione, come abbiamo già ricordato,
che tendeva a armonizzare il tragico con il comico 213. Entro questo primato del
“serio” verrebbe meno pertanto l’ipotesi di un finale “ironico” e “graffiante”
deliberatamente scelto dall’autore per riequilibrare il testo e per rafforzare il
senso della pièce. Altri studiosi invece hanno ventilato l’ipotesi di una prima
versione manoscritta della commedia, forse trafugata e comunque ormai
F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi, Torino, 1962, p. 109. Ivi la lettera del
30 agosto 1755. J. Pappas, Le rousseauisme de Voltaire, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth
Century», 1967, 57, pp. 1169-181.
211 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto III, 6.
212 Ivi, Atto III, 7.
213 Vedi l’Introduction di J. Truchet in Théâtre du XVIII siècle, cit., p. XXXVII e ivi la Préface di
Voltaire, p. 874.
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perduta, che si concludeva con una agnizione finale: Nanine si sarebbe scoperta
nell’ultima scena figlia di un patrizio secondo il gusto del tempo. In tal modo la
mésalliance sarebbe stata scongiurata. Solo successivamente Voltaire, in seguito
ad un ripensamento, avrebbe riscritto il terzo atto e variato la conclusione. Di
questa suggestiva ipotesi, come si è detto, non possediamo nessuna prova certa
ma soltanto testimonianze coeve indirette e di carattere secondario214.
Inizialmente la commedia non riscosse un grande successo e fu ritirata
dopo dodici rappresentazioni. Riapparve nuovamente nel 1754 per divenire, tra
il 1760 e il 1780, almeno in Francia, una delle opere teatrali più popolari del
patriarca dei Lumi215. In quegli anni la pièce venne persino protetta
dall’autorità216. Si temevano probabilmente le versioni clandestine che potevano
radicalizzare il tema della mésalliance. Nonostante l’ambiguità del testo Nanine
andò in scena 284 volte negli anni della Rivoluzione: la profezia della marchesa
d’Olban era stata dimenticata217.
Il senso autentico di Nanine può essere compreso collocando l’opera
nell’ambito della produzione coeva del suo autore. La stesura della commedia
si compie quasi a ridosso della scrittura delle Pensées sur le gouvernement, un
opuscolo politico di sole quindici pagine, nondimeno estremamente
significativo, pubblicato nel 1752 ma steso verosimilmente qualche mese
prima218.
F. Diaz ha messo in evidenza l’evoluzione del pensiero politico di Voltaire
anche nel corso dei primi anni Cinquanta. Il futuro autore del Candide deluso
dall’incontro con Federico II già dal 1751, si rifugiava nella filosofia di Newton e
riparava, come sappiamo, a Ginevra agli inizi del 1755. La sua era una scelta
simbolica: la città era intesa come la patria del libero pensiero e degli ideali
repubblicani. Anche d’Alembert in quegli stessi anni amareggiato dalle
difficoltà dell’Enciclopedia si chiudeva sempre più nel privato e nella quiete
degli studi. Tra 1752 e 1753 apparivano le Pensées sur le gouvernement e i
Mélanges di d’Alembert219. Già in quelle opere i due philosophes, pur esponenti di
un Illuminismo moderato e “classico”, iniziavano a porre in discussione, sia
M.R. de Labriolle, C. Duckworth, Introduction a Nanine, in Les Oeuvres Complètes de Voltaire,
cit., pp. 8 e ss.
215 Ivi, pp. 16 e ss.
216 Ivi, p. 13.
217 L.L. Sheu, Voltaire et Rousseau dans le théâtre de la Révolution française (1789-1799), Éditions de
l’Université de Bruxelles, Bruxeelles, 2005, p. 20.
218 Pensées sur le gouvernement in Oeuvres completes de Voltaire, éd. L. Moland, Garnier frères
libraries-éditeurs, Paris, 1879, v. XXIII, pp. 523-35. Per la datazione dell’opera vedi P. Alatri,
Introduzione a Voltaire, cit., p. 122.
219 [J.B. Le Rond d’Alembert] Mélanges de littérature, d’histoire et de philosophie, Briasson, Paris
1753, 2 voll.
214
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pure sotto il profilo teorico, il modello della monarchia amministrativa e del
dispotismo illuminato. Rivolgevano lo sguardo alla monarchia temperata
inglese e al costituzionalismo. Mostravano interesse anche nei confronti degli
ideali repubblicani che trovavano il loro simbolo nella Repubblica svizzera.
Veniva così meno la divaricazione che era durata cento anni tra la monarchia
amministrativa francese e la monarchia temperata inglese: il costituzionalismo e
il modello liberale iniziava ad essere considerato un sistema politico valido in
tutta l’Europa220.
P. Alatri invece ha corretto gli aspetti più ottimistici di questo giudizio
mettendo in evidenza la compresenza di istanze diverse e contraddittorie nel
pensiero di Voltaire di quegli anni. Per quel che qui interessa, le Pensées (il
trattatello politico più vicino alla stesura di Nanine) sono ricche “di radicali
spunti politici e sociali che fuoriescono dal dispotismo illuminato”. Tuttavia
l’operetta resta lontana da tendenze utopistiche o democratiche di stampo
rousseauiano . Ma soprattutto gli spunti e i fermenti nuovi non riescono a
rompere del tutto un quadro predeterminato. In altri termini a parere di P.
Alatri Voltaire non pensò mai di adottare “idee repubblicane, ma neppure
progetti di costituzionalismo all’inglese, e si batté invece perché tra le forze
operanti che si confrontavano in Francia - la monarchia, l’aristocrazia e i
parlamenti -, fosse la prima a prevalere […] Quindi, non soltanto monarchia ma
monarchia assoluta e al tempo stesso illuminata”221. Le contraddizioni messe in
evidenza dai due grandi studiosi ormai scomparsi sono le stesse in definitiva
che possono cogliersi in Nanine. La commedia esprime bene, con le sue
ambivalenze, un processo indubbiamente in atto che tuttavia non può ancora
considerarsi svolto, concluso. Come vedremo tra poco anche nella Pamela di
Goldoni si manifesta qualcosa di analogo: le grandi spinte di rinnovamento,
ancora in fieri, sono frenate dalle persistenze di una vecchia cultura.
La Pamela di Goldoni. In un suo contributo del 1978 G. Cozzi, studiando le
questioni della sopravvivenza dell’antico diritto veneto nel Settecento, aveva
quasi casualmente scoperto l’Avvocato veneziano, la commedia redatta da
Goldoni alla fine degli anni Quaranta222. Cozzi, verosimilmente per primo,
aveva individuato l’autentico nucleo concettuale della trama e l’ eminente
F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, cit., pp. 83-130; Id., Dal movimento dei Lumi al
movimento dei popoli. L’Europa tra Illuminismo e Rivoluzione, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 239 e ss.
221 P. Alatri, Introduzione a Voltaire, cit., 49 e ss.
222 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto, ora in Id., La società veneta e il
suo diritto, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 3-17. C. Goldoni, L’avvocato veneziano, in Tutte le Opere di
C. Goldoni, a cura di G. Ortolani, Mondadori, Milano, 1936 v. II, , pp. 705-95. Ivi, p. 1235
informazioni sulla pièce. La commedia, stesa in tre atti, veniva rappresentata per la prima volta a
Venezia “nell’anno comico 1749-‘50”.
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significato storico-politico del testo. In sostanza coglieva nell’opera il riflesso di
quel dibattito che, per tutto il secolo, poneva in conflitto due diverse concezioni
giuridiche. La prima, localistica e peculiarmente veneta, si configurava come un
orientamento pratico-empirico, fondato sulla “ponderazione delle circostanze”,
una tendenza che imponeva la relativizzazione della norma adeguandola ai
bisogni e alle necessità dell’ora. In altri termini si trattava di una procedura
volta a premiare la volontà e l’intelligenza del legislatore nella costruzione (o
nell’esecuzione) della legge giusta. L’altra, invece, subordinava l’azione
giuridica alla pedissequa applicazione di modelli predeterminati, mutuati per
lo più dal corpus romano, un insieme di disposizioni considerate come un
canone universale. La commedia di Goldoni premiava, secondo le aspirazioni
di buona parte della società veneta del tempo, l’iniziativa di Alberto Casaboni,
un giovane giurista marciano seguace del “diritto naturale”: il suo volontarismo
individualista lo guidava non solo nella pratica forense ma anche nelle
iniziative della vita privata e matrimoniale. All’ossequio della norma e alle
nozze di interesse il protagonista opponeva il diritto dei sentimenti, la sua
libera scelta223.
G. Cozzi scopriva così, nel teatro di Goldoni degli anni 1748-’52,
rapidamente indagato nel saggio, un’“aria di modernità”, l’eco di una
“sensibilità nuova: attenta alle esigenze dei sentimenti, consapevole dei diritti
delle donne e dei giovani che difende il matrimonio nato dall’amore”224. Una
sensibilità che aveva avuto la sua “incubazione nella crisi della coscienza
europea”, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo 225. Tuttavia lo studioso si
rendeva conto che quel teatro, così proiettato nelle esigenze del presente,
rimaneva ancora prigioniero del passato non riuscendo a rompere del tutto con
le antiche consuetudini e pratiche di vita.
Anche Pamela, la commedia in tre atti ispirata al romanzo di Richardson e
rappresentata a Venezia al S. Angelo il 28 novembre 1750, testimonia le
medesime incertezze e contraddizioni. Nondimeno la pièce riscosse allora un
successo straordinario: venne replicata diciotto volte, mentre d’abitudine non si
G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit.,p. 17. C. Goldoni, L’avvocato veneziano, cit., Atto II, 18, III,
2, ultima.
224 A solo titolo d’esempio si riporta un monologo di Bettina ne La putta onorata: “Tanti si marida
per quela poca de dota, i la magna in quatro zorni, e la mugier, in vece de pan, tonfi maledeti. E
pura anca mi me voi maridar, e credo che il mio no l’abia da esser compagno dei altri. Basta, sia
come esser se vogia, no me n’importa. Dise el proverbio: Chi se contenta, gode. Xe megio
magnar pan e ceola con un mario che piase, che magnar galine e caponi con un omo de
contragenio. Si ben, soto una scala, ma col mio caro Pasqualin”. La putta onorata, in Tutte le Opere
di Carlo Goldoni, cit., v. II. Cfr. Atto I, 16.
225 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit.,p. 8. P. Hazard, La crise de la conscience européenne, cit., pp.
315 e ss.
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andava mai oltre le due226. L’opera affrontava questioni spinose in anni difficili.
Erano anni di crisi economica e di desolati “pronostici sulla durabilità della
Repubblica”. Cresceva il malessere nello stesso patriziato e si diffondevano
nuovi costumi. In città e nei Domini aumentavano i matrimoni non ufficiali e
divenivano più numerose le pratiche di separazione e di annullamento: il
modello tradizionale della famiglia entrava in crisi227.
Più che Pamela era Il padre di famiglia, un’altra commedia di Goldoni
andata in scena, sempre a Venezia, poco più di sei mesi prima, ad esprimere,
con efficacia, le inquietudini di quegli anni228. La pièce, stroncata da G. Ortolani e
rivalutata da G. Cozzi, è stata considerata recentemente da A. Scannapieco,
nonostante alcuni richiami alla pedagogia di Locke, come “un manifesto
politico-programmatico” funzionale al consolidamento degli assetti gerarchici
della società d’Antico regime229. Per quel che qui interessa le due opere, pur così
diverse tra loro, manifestavano in modo complementare l’atteggiamento di
Goldoni nei confronti delle grandi trasformazioni della mentalità e del costume
che percorrevano la società veneta negli anni Cinquanta. Il commediografo
percepiva le spinte diverse e contrastanti di una nuova cultura centrata
sull’individuo230. Intuiva tanto le dinamiche solidaristiche e democratiche che
scaturivano dal soggettivismo etico quanto le regressioni asociali
dell’utilitarismo individualistico. L’auspicio della naturale eguaglianza dei
diritti individuali lo spingeva alla stesura di Pamela, eroina di virtù e autenticità.
Si trattava tuttavia, come vedremo, solo di una tentazione momentanea
smentita nello sviluppo degli atti. La trasformazione che sembrava potersi
prefigurare sulla scena si era rivelata troppo radicale e violenta: era necessario
Vedi Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. III, pp. 1181 e ss.; C. Goldoni, Pamela fanciulla,
Pamela maritata, a cura di I. Crotti, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 379 e ss.
227 G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, in Id., La società veneta, cit., pp. 19-64. E. Plebani,
Un secolo di sentimenti, cit., pp. 175-288.
228 Il testo de Il padre di famiglia, una commedia in tre atti rappresentata per la prima volta al
teatro S. Angelo di Venezia nel carnevale 1750 è in Tutte le opere di Carlo Goldoni, cit., v. II, pp.
797-878. Per l’edizione critica vedi, C. Goldoni, Il padre di famiglia, a cura di A. Scannapieco,
Marsilio, Venezia, 2002. Ivi le rielaborazioni del 1751, 1754, 1764, bibliografia e le notizie sulla
tiepida accoglienza e la successiva fortuna.
229 Vedi la Nota di G. Ortolani in Tutte le opere di Carlo Goldoni, cit., v. II, pp. 1241 e ss.; G. Cozzi,
Note su Carlo Goldoni, cit., pp. 9 e ss.; K. Hecker, La concezione dell’educazione in Carlo Goldoni,
Quaderni del Centro Tedesco di Studi Veneziani, Venezia, 1980; A. Scannapieco, Introduzione in
C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., p. 15. Ivi pp. 14, 41 e passim per l’individuazione dei brani
goldoniani che risentono dei Pensieri sull’educazione di Locke.
230 E. Pulcini, La passione del moderno: l’amore di sé, in Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti Finzi,
Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 133-80; Ead., L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e
perdita del legame sociale, Bollati e Boringhieri, Torino, 2001.
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mutar rotta sulla scorta degli ideali di virtù e grandezza che erano stati propri
dell’antica Repubblica marciana.
Il Padre di famiglia invece testimoniava lo sgomento dei contemporanei di fronte
a un mondo in rovina: “declina il mondo e peggiorando invecchia” osservava
sconsolatamente Pantalone, il protagonista positivo della commedia, una figura
nella quale Goldoni probabilmente almeno in parte si specchiava231. L’opera
ricostruiva la crisi delle certezze tradizionali, il venir meno delle idee consuete
di individuo e di famiglia. S’interrogava sul valore della cultura moderna, una
civiltà che sembrava solo distruggere senza saper poi riedificare 232. Dietro la
ribellione dei figli e l’insofferenza dei coniugi verso i loro reciproci doveri vi era
qualcosa di più di una crisi che colpiva la famiglia. Il commediografo intuiva
una profonda lacerazione sociale, un conflitto che sembrava contrapporre tutti
contro tutti. Ogni individuo posto al di fuori delle antiche strutture associative,
ridotto a pura frazione numerica, ormai atomizzato finiva per restare come
soggiogato dal proprio egoistico vantaggio233.
Erano soprattutto i figli e le mogli che manifestavano la loro insofferenza
verso le consuetudini234. Rosaura ad esempio, educata fuori casa e tralignante
non voleva più limitarsi a scrutare dalla finestra e desiderava con impazienza
l’emancipazione. Intendeva sposarsi a tutti i costi, anche a danno di sua sorella
Eleonora, una ragazza piena di buoni sentimenti, vissuta sempre in famiglia e
ossequiosa delle norme235. Florindo più vizioso che libertino, litigioso e
invidioso, sempre in astio con il fratello Lelio, il primogenito prediletto del
padre, era disposto a unirsi con chiunque pur di acquistare la propria
indipendenza236. La sua autonomia prescindeva dai sentimenti: “Sentite, signora
madre, io per dirvela non ho poi una gran passione per la signora Eleonora. Io
mi voglio ammogliare; datemi questa, datemi un’altra, purché abbia moglie, per
me è tutt’uno. […] Prendo moglie per essere capo di famiglia, per uscire dalla
soggezione del padre, per maneggiare la mia dote, per prender la mia porzione
della casa paterna, per dividermi dal fratello, per fare a modo mio, e per vivere
a modo mio”237. Vi era qualcosa di più forte e insieme di irrisolto
nell’utilitarismo meramente individualistico di Florindo rispetto alla
emancipazione, di li a poco successiva, del diderottiano Saint-Albin nei
confronti del signor d’Orbesson: “Padre mio non avete che un figlio non lo
C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., Atto III, 1.
Ivi, Atto I, 12, 14, 15, II, 2, 3, 18, 20, III, 1, 4, 5, 7, 9.
233 C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., in particolare Atto III, 1.
234 Ivi, Atto I, 14, 15, II, 3, 4, 20, III, 1, 4, 5, 7, 9, 13.
235 Ivi, Atto I, 15, 16, II, 18, 20, III, 3, 4, 5, 7, 14, 16.
236 C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., Atto I, 9, 10, II, 1, 2, 5, 20, III, 1, 4, 5, 9, 11, 13, 16.
237 Ivi, Atto II, 20, III, 1.
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sacrificate. […] Ho bisogno di una compagna onesta e sensibile che mi insegni a
sopportare le pene della vita, e non di una donna ricca e titolata che le accresca.
[…] L’autorità! L’autorità non hanno che questa parola. […] Padri! Padri! Non
ce ne sono affatto. Non ci sono che tiranni”238. Tuttavia anche la carica eversiva
e il timbro sentimentale della commedia di maître Denis si sarebbero
progressivamente spenti. La consueta mésalliance che caratterizza anche
quest’opera si sarebbe risolta convenzionalmente con una agnizione finale.
Sophie, “povera e bella” doveva scoprirsi nipote del commendatore D’Auvilé
per poter, equiparata nel rango, sposare Saint-Albin scongiurando la rovina
economica e sociale del giovane patrizio239.
Nel Padre di famiglia Pantalone il simbolo della “salvaguardia del nucleo
familiare” e il “baluardo di moralità contro la corruzione della società” tuttavia
sarebbe ancora riuscito a prevalere240. Confidando nelle sue capacità, nel buon
senso e anche grazie alla prudenza, un po’ orecchiando la pedagogia di Locke e
recependo almeno in parte le richieste familiari, finiva per imporre le sue
scelte241. “Mi vago all’antiga” affermava soddisfatto il protagonista fin dalle
prime scene242. Rimaneva di fatto ben saldo “alla testa e al governo della
famiglia”, assolvendo una funzione di regolamentazione della sfera domestica
che “una secolare tradizione trattatistica presentava come necessaria premessa
dell’organizzazione complessiva della società politica: un dato ineliminabile e
insostituibile per la coesione e la tenuta dell’intero assetto sociale” 243.
Entro questo quadro instabile che caratterizza la società veneziana a metà
secolo anche la censura si faceva più rigida e il teatro era rigorosamente
sottoposto alla vigilanza degli Esecutori della bestemmia, una magistratura
attenta alla revisione dei testi244. Il pericolo di incorrere nei rilievi della censura
D. Diderot, Il padre di famiglia, commedia in cinque atti e in prosa. Con un discorso sulla Poesia
Drammatica, ora in D. Diderot, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, La Nuova Italia,
Firenze, 1980, Atto II, 6.
239 Ivi, Atto, V, 12. Sulla nota accusa di plagio del diderotiano Padre di famiglia dall’omonomo
testo goldoniano vedi per tutti M.D. Busnelli, Diderot et l’Italie. Reflets de vie et de culture italiennes
dans la pensée de Diderot avec des docuents inédits et un essai bibliographique sur la fortune du grand
encyclopédiste en Italie, Champion, Paris, 1925; H. Dieckmann, Il realismo di Diderot, cit., pp. 53-88;
N. Jonard, Goldoni et le drame bourgeois, in «Revue de littérature comparée», LI, 1977, 536-52.
240 S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Marsilio, Venezia, 2014, p. 74.
241 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit., pp. 9-10; H. Dieckmann, Il realismo di Diderot, Laterza,
Roma-Bari, 1977, p. 81.
242 C. Goldoni, Il padre di famiglia, cit., Atto I, 6.
243 D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’”economica” tra
Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma, 1985, p. 69. A. Scannapieco, Introduzione in C. Goldoni, Il padre
di famiglia, cit., p. 13.
244 G. Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia: vicende della magistratura degli Esecutori contro
la bestemmia, in Id., La società veneta, cit., pp. 65-149.
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può aver condizionato la stesura di Pamela e, in una certa misura, potrebbe
giustificare le incoerenze già ricordate. Tuttavia si crede che l’opera risenta in
particolare della abituale prudenza di Goldoni, sempre poco propenso a porre
in discussione i principi e i valori costitutivi della società tradizionale e, ancor
più, quelli della sua comunità cittadina. Proprio in quegli anni, tra 1744 e ’45,
era apparsa a Venezia la prima traduzione italiana del romanzo di Richardson
compiuta dal libraio Bettinelli: un’opera realizzata in quattro tomi e andata in
ristampa nel 1749, in seguito ad un vivace fervore di “lettura anche al
femminile” del romanzo245. Il testo inglese aveva provocato una sorta di
terremoto in città. Goldoni riprendendo nella sua Pamela il tema della
mésalliance, la nota vicenda dell’amore contrastato tra una giovane cameriera e
un nobile, correva il rischio di colpire anche lui, tramite le abitudini e le
condotte di vita, i meccanismi di reclutamento della classe dirigente e della vita
politica locale.
Com’è noto a Venezia i diritti politici erano riservati esclusivamente al
patriziato in virtù di un’eguaglianza giuridica di corpo, o come si soleva dire,
“di dominio”, estesa a tutti i nobili maschi maggiorenni. Pertanto solo chi
nasceva nobile poteva accedere alla grande assemblea di ceto, il Maggior
Consiglio, eleggere ed essere eletto, concedere a titolo perpetuo il suo seggio ai
discendenti purché nati da legittime nozze registrate presso L’Avogaria di
Comun “con donna che non sia della plebe, ma di honesta conditione”246. Una
disposizione del 1589 aveva precisato a suo tempo i requisiti di quella
condizione onesta imponendo l’astensione dalle “arti meccaniche”, per almeno
tre generazioni nella famiglia della futura sposa di un patrizio247. Emergevano,
anche a Venezia, dunque, delle figure ibride e intermedie, dei “tipi misti” che
premevano dal basso. Si trattava ad esempio dell’artigiano o del commerciante
che da poco avevano dismesso il grembiule o che ancora con un certo orgoglio
lo portavano e forse lavoravano mentre sovraintendevano e controllavano i
conti. La norma del 1589 metteva in evidenza quindi l’apertura del ceto patrizio
alle figlie dei nuovi ricchi tramite il matrimonio. Quella “porta di servizio”
consentiva dunque, a suo modo, un certo rimescolamento sociale. È stato
[S. Richardson] Pamela, ovvero la virtù premiata. Traduzione dall’inglese, Per Giuseppe Battinelli
in Merceria al Secolo delle Lettere. Venezia, 1744-1745, 4 voll. Vedi A. Scannapieco, Per un
catalogo dei libri di Giuseppe Bettinelli (131-1786), in Problemi di critica goldoniana, a cura di G.
Padoan, Longo, Ravenna, 1994. Sulla fortuna dell’edizione, vedi C. Goldoni, Pamela fanciulla,
Pamela maritata, cit., pp. 379 e ss.
246 P. Parura, Historia vinetiana, Vinetia 1645, p. 560 in V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine
della Repubblica, cit., p. 42. Vedi anche C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII,
Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 325 ss.
247 A. Zannini, La presenza borghese, in Storia di Venezia, cit., v. VII La Venezia barocca, a cura di G.
Benzoni e G. Cozzi, p. 232.
245
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osservato che “l’articolazione primaria nella società d’Antico regime non era
costituita dalla distinzione tra privilegiati e terzo stato ma piuttosto fra coloro
che traevano sostentamento dal lavoro manuale e artigianale e coloro che
potevano farne a meno”. Comunque sia è certo che tra i due gruppi si era
creata, una frontiera estesa “su una terra di nessuno, occupata da categorie
sociali di transizione”248.
Abbiamo già fatto cenno alla distinzione tra due corpi aristocratici
all’interno del Maggior Consiglio, tra loro più o meno numericamente
equivalenti a metà secolo249. Sappiamo anche che le cariche più significative
erano riservate agli strati medi e superiori del patriziato. Il reale esercizio del
potere era concentrato in un gruppo ristretto d’ottimati e ”l’origine di ogni
distinzione riposava ormai nel censo”250. L’opposizione tra i gruppi medio-alti
del patriziato e la plebe nobiliare tuttavia non si risolveva soltanto in una
disparità di carattere politico-economico ma pure in una diversità esistenziale,
comportamentale che determinava atteggiamenti e stili di vita differenti.
Emergeva una distinta concezione della famiglia, del matrimonio,
dell’educazione dei figli251.
Tra gli ottimati e il patriziato mezzano -i primi tre gruppi del ceto
nobiliare nella celebre classificazione di G. Nani del 1750 seguita ancora oggi
dagli studiosi252- l’idea di “servizio dello stato”, la dedizione assoluta al bene
pubblico, si accompagnava con “lo spirito di famiglia” ovvero con l’esigenza di
conservare l’unità di un antico nucleo e di accrescerne il prestigio253. Sul piano
pratico anche per impedire la frantumazione del patrimonio era necessario
limitare i matrimoni, sino al punto di consentirne soltanto uno per generazione.
Quei pochi che venivano celebrati dovevano essere pertanto rigorosamente
selezionati al fine di garantire la carriera politica di un proprio membro insieme
al prestigio della casa. Le “ragioni di famiglia” impedivano, dunque, le libere
scelte. Gli studi tuttavia hanno messo in evidenza un quadro mosso, variegato,
contraddittorio. Se il modello tradizionale della famiglia sarebbe sopravvissuto
a Venezia sino alla caduta della Repubblica, tuttavia nuove abitudini
C. Lucas, Nobili, borghesi e le origini della Rivoluzione francese, in Il mito della Rivoluzione francese,
a cura di M. Terni, Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 192.
249 V. Hunecke, Il corpo aristocratico, cit., pp. 366 e ss.
250 M. Berengo, la società veneta, cit., p. 6.
251 V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, cit.
252 Sul Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l’anno 1756 (in Biblioteca
Universitaria, Padova, cod. 914), compiuto da G. Nani sull’esame del Libro d’oro pubblicato a
stampa nel 1750, vedi P. Del Nego, Giacomo Nani. Appunti biografici, «Bollettino del Museo
Civico di Padova» LX, 1971, 2, pp. 115-147; Id., Proposte illuminate, cit., pp. 138 e ss.
253 P. Del Negro, Il corpo ottimatizio marciano nel Settecento, cit., p. 113. W. Panciera, La Repubblica
di Venezia nel Settecento, cit., p. 34.
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pervadevano i costumi dei ceti più elevati trasformandone in parte la mentalità
e gli atteggiamenti254. La plebe nobiliare, invece, -la quarta e la quinta classe
nella ripartizione di Nani- priva di beni e di reali risorse economiche aveva
poco da difendere e da conservare: la libertà dei singoli prevaleva quasi sempre
nelle scelte matrimoniali. In tal modo gli antichi legami parentali e le rigide
strutture delle vecchie case venivano meno: iniziava ad affermarsi il modello
della famiglia nucleare pervaso dai nuovi sentimenti individuali e affettivi255.
Entro questo quadro si comprendono meglio gli orientamenti di Goldoni
nella stesura di Pamela. Il suo teatro, così attento al “mondo”, così pronto a
recepire e a interpretare gli stimoli e i bisogni sociali, doveva nonostante tutto
adeguarsi alle norme comunitarie, astenersi dal porre in discussione le regole
che disciplinavano la vita cittadina. Da questi convincimenti scaturiva la
scrittura di Pamela, e derivavano le innegabili contraddizioni del testo. Sono le
tarde osservazioni sulla commedia annotate da Goldoni nei suoi Mémoires del
1787 che esplicitano le reali intenzioni dell’autore. In questa occasione l’ormai
vecchio commediografo appariva distaccato dall’entusiasmo giovanile che
ancora in parte accompagnava la spiegazione del testo nella introduzione
all’edizione Paperini del 1753 della commedia. Allora Goldoni si era mostrato
combattuto tra le ragioni della “natura” e della “virtù” e quelle tutte pratiche
determinate dalla necessità storica.
Nell’Autore a chi legge premesso al testo del ’53 l’insistita perorazione delle
norme sociali, la difesa convenzionale dell’onore e del sangue era moralmente
subordinata per l’autore agli inalienabili diritti dell’individuo. Tutti per natura
erano in grado di esprimere nel modo più autentico e più alto i loro sentimenti
e la loro virtù. La presa di coscienza della universale dignità umana sembrava
poter superare le antiche barriere gerarchiche. Da questi presupposti fissati
nella premessa scaturiva la stesura delle due scene più impegnate della
commedia. All’inizio del terzo atto era la governante Jevre ad appellarsi alla
legge di natura, “all’ardita tesi dell’eguaglianza naturale degli uomini al di là
della distinzione sociale”256. Il passo sembrerebbe ispirato dall’invettiva del
conte d’Olban sulla crudeltà delle convenzioni e sull’eguaglianza naturale dei
diritti individuali che chiude, come sappiamo, il primo atto della volterriana
Nanine257. Gli studi, invece, considerano “improbabile” la conoscenza diretta di
Vedi T. Plebani, Un secolo di sentimenti, cit., pp. 114 e ss. Sul carattere europeo del fenomeno J.
Dewald, La nobiltà europea in età moderna, Einaudi, Torino, 2001.
255 V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, cit. Sulla plebe nobiliare vedi L.
Megna, Nobiltà e povertà. Il problema del patriziato povero nella Venezia del Settecento, in «Atti
dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXL, 1981-’82, pp. 319-40.
256 S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, cit., p. 99.
257 Voltaire, Nanine ou le préjugé vaincu, cit., Atto I, 9.
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Goldoni del testo francese ancora nel 1753.258 Già nel 1937 G. Ortolani, seguito
poi da altri, aveva colto nelle “massime ingenue” di “madama Jevre” un
precorrimento di “Rousseau e della Rivoluzione francese” 259. Tanto desumeva il
grande studioso di Goldoni dall’ammonimento della governate: “Io ho sentito
dir tante volte che il mondo sarebbe più bello se non l’avessero guastato gli
uomini, i quali per cagione della superbia, hanno sconcertato il bellissimo
ordine della natura. Questa madre comune ci considera tutti eguali, e l’alterigia
dei grandi non si degna dei piccoli. Ma verrà un giorno che dei piccoli e dei
grandi si farà nuovamente tutta una pasta”260.
Il suggerimento sembrava già essere stato recepito da Pamela sin nel
primo atto. La giovane, offesa da Milord Bonfil che inutilmente tentava di
sedurla, si costituiva come persona e pur da serva, superando ogni barriera
sociale, affrontava il perplesso aristocratico di lei già innamorato. Pamela si
appellava alle leggi della morale universale. Reclamava per tutti pari dignità,
uomini o donne che fossero, indipendentemente dalle ragioni sociali. Pur
consapevole del suo rango intendeva stabilire un rapporto tra pari fondato su
una nuova concezione dell’onore corrispondente ai reali meriti e alle autentiche
virtù individuali. In tal modo, pur senza accorgersene, riscriveva anche lei,
secondo altri criteri, le norme delle nuove gerarchie sociali261.
Nondimeno quei principi espressi nella pièce con tanta forza e precisione
di giudizio erano intesi dal commediografo come un patrimonio ideale, un
bagaglio di valori su cui fondare una filosofia dell’esistenza. Un corpo di idee
che tuttavia non avrebbe mai potuto trovare attuazione nella “pratica comune”
della vita quotidiana, nella “morale approvata” socialmente. Quei principi
dunque si erano sempre rivelati, a ben vedere soltanto dei sogni, dei desideri
irreali, smentiti in ogni occasione dai fatti, persino nella storia della libera
Vedi il Commento di I. Crotti in C. Goldoni, Pamela fanciulla, cit., p. 300. Per il
ridimensionamento delle influenze volterriane sul testo di Goldoni vedi P. Toldo, Attinenze tra il
teatro comico di Voltaire e quello di Goldoni, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXI,
1898, pp. 343-60; A. Beniscelli, Forza e delicatezza delle passioni. Le metamorfosi di Pamela, in «Studi
goldoniani», VIII, 1988, pp. 85-105; cfr. anche G. Padoan, L’impegno civile di Carlo Goldoni, in
«Lettere italiane» XXXV, 1983, 4, pp. 421-456.
259 Vedi la Nota di G. Ortolani in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. III, p. 1182; G. Nuvoli, La
metamorfosi di Pamela da Richardson a Goldoni, in Studi in onore di Mariangela Mazzocchi Doglio, a
cura di P. Bosisio, Bulzoni, Roma, 2010, pp. 499-520.
260 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 3. Il medesimo motivo tornava due anni dopo: Celidoro così
si rivolgeva a Cetronella “Che dote? La natura ci ha fatto tutti uguali, ciascuno abbiamo i nostri
capitali”. Sempre Celidoro, questa volta a Calimone, aggiungeva: “La natura insegna che tutti
siamo fatti d’una pasta”. Vedi [C. Goldoni] I portentosi effetti della madre natura, Dramma giocoso
per musica da rappresentarsi nel teatro nuovo di San Samuele l’autunno dell’anno 1752, In Venezia
1752, appresso Modesto Fenzo, con licenza de’ superiori, Atto III, 7, 9.
261 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto I, 6, II, 14.
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Inghilterra sino ai tempi dell’opera di Richardson262. In definitiva anche le
“nozze vili” e la libertà di scelta accettate dal diritto naturale e da quello
comune, nonché dall’autorità ecclesiastica, erano rifiutate dal buon senso
dell’opinione263. Su quest’ultime considerazioni fissate nella premessa si sarebbe
dovuta svolgere la commedia. Solo in questi termini poteva essere recepito il
messaggio del romanzo epistolare. Anche Goldoni avrebbe ricostruito la storia
d’amore tra diseguali, tra Pamela e Bonfil264. Ma nonostante la passione e la
virtù, Milord restava come frenato: vedeva Pamela bella, amabile, virtuosa,
onesta e illibata ma non si decideva a sposarla. Sapeva che era la virtù e non il
sangue di una madre a operare sui figli: ma continuava a pensare che quel
sangue vile li avrebbe nonostante tutto degradati e declassati265. Nelle esitazioni
e nelle incertezze del protagonista si specchiavano verosimilmente quelle
dell’autore. Molti anni dopo la stesura della pièce ripensando a Bonfil nei
Mémoires il commediografo annotava:“sarebbe troppo felice se potesse farne la
sua sposa, non è l’interesse che glielo impedisce: sono la sua condizione, la sua
nascita”266. Pertanto la Pamela di Goldoni per potersi concludere doveva
ricorrere al cliché dell’agnizione finale, il magistrale colpo di scena del vecchio
teatro. La giovane da cameriera si riscopriva nobile. Suo padre in realtà non era
un oscuro villano ma il conte d’Auspingh, un autorevole aristocratico,
perseguitato nella Scozia in rivolta del primo Settecento. Temendo per la
propria incolumità il patrizio aveva cercato riparo in campagna sotto le mentite
spoglie di un povero contadino267. Pamela ormai ritrovata la vera identità
poteva finalmente celebrare le nozze di rango con il suo Milord268.
Più di trent’anni dopo, nei Mémoires, il ricordo delle “leggi di natura” e del
diritto dei sentimenti si era del tutto spento. La “virtù” ormai veniva sacrificata,
senza alcun rimpianto, sull’altare del “decoro” e degli interessi di “famiglia”. La
rievocazione di Pamela si consumava nella celebrazione della ragion di stato, in
un deferente ossequio agli ottimati: “a Venezia un patrizio che sposi una plebea
Tutte le Opere di C. Goldoni, cit., v., III, pp. 331-32.
C. Goldoni, Pamela, cit., Atto I, 13.
264 T. Crivelli, Pamela o la metamorfosi ricompensata, in «Quaderni di italianistica», XX, 1999, 1-2,
pp. 33-49.
265 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto II, 2.
266 C. Goldoni, Mémoires, a cura di P. Bosisio, Mondadori, Milano, 1993, pp. 342-43. Bonfil:
”Quanto cambierei volentieri questo gran palazzo con una delle vostre capanne!” C. Goldoni,
Pamela, cit., Atto III, 6.
267 Com’è noto dal maggio 1707, in seguito all’annessione della Scozia all’Inghilterra, si
susseguirono sino al 1746 moti indipendentistici. Vedi, W. Ferguson, Scotland’s Relations with
England: A Survey to 1707, John Donald, Edinburgh 1977; Id., Scotland: 1689 to the Present, Mercat
Press, Edinburgh, 1994.
268 C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 6, 17.
262
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priva i suoi figli della nobiltà patrizia ed essi perdono così ogni diritto di
accedere alle cariche più importanti”269.
Nella Venezia degli anni Ottanta: Abergati, Sografi e Pepoli
Rodolfo e il diritto di punire. Il tema consueto del matrimonio d’interesse ispirava
anche Rodolfo una commedia in cinque atti redatta da F. Albergati Capacelli tra
l’aprile e il settembre 1784270. La vicenda era ambientata in un palazzo patrizio
di Toledo in un tempo non determinato: don Fernando e don Alfonso, due
vecchi amici, avevano già concordato le nozze tra i loro rispettivi figli Rodolfo e
Flerida: conversavano impazienti nell’attesa del notaio che avrebbe dovuto, a
momenti, registrare i preliminari dell’atto271. Se la mésalliance questa volta era
esclusa, considerati i nobili natali d’entrambi, i due giovani comunque certo
non si amavano. Rodolfo, appena tornato da un lungo soggiorno nelle Fiandre,
era “pensieroso” e “mesto”, Flerida rifletteva sulla sua relazione segreta con il
conte Flavio, un lontano parente, non ben visto dal padre per alcune “sventure”
che avevano modificato almeno in parte la sua condizione economica 272.
Nonostante le esitazioni e le incertezze i due futuri sposi finivano per firmare,
sia pur con molta riluttanza, la scrittura notarile 273. Nondimeno, con una certa
sorpresa, questa volta erano i padri a rompere le consuetudini e ad opporsi a
una unione che si rivelava infelice274. Albergati tuttavia aveva già affrontato, nel
suo repertorio, le questioni allora assai delicate del rapporto tra padri e figli.
In particolare ne Il prigioniero, un’opera del 1773, lo scrittore bolognese,
apertosi in quegli anni alla grande letteratura europea, anche grazie alla
relazione con E. Caminer, aveva condannato la tirannide paterna 275. La pièce
ripercorreva il processo difficile e faticoso attraverso il quale Roberto, il figlio
del marchese Eugenio Andolfi, riusciva a emanciparsi dal padre e dalle
consuetudini sociali276. Il giovane fuggiva da casa povero e incerto sul suo
C. Goldoni, Mémoires, cit., pp. 342-43.
Per la datazione vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 104. Il testo veniva inserito
nello stesso anno nelle Opere di Francesco Albergati Capacelli, in Venezia 1784. Nella Stamperia di
C. Palese, A spese dell’autore, con pubblica approvazione, t. VIII, pp. 3-113.
271 Rodolfo, cit., Atto I, 1.
272 Ivi, Atto I, 1, 4.
273 Ivi, Atto II, 6.
274 Ivi, Atto I, 4.
275 Il prigioniero, commedia di cinque atti in versi sciolti, in Opere, cit., t. II, pp. 3-107. Per la datazione
e le prime rappresentazioni bolognesi vedi la Prefazione, p. 6. Per i rapporti con la Caminer, E.
Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 55, 75, ivi bibliografia. Sulla corrispondenza, vedi R.
Trovato, Cultura italiana e francese nella corrispondenza inedita Albergati-Caminer, in Critica testuale
ed esegesi del testo, Patron, Bologna, 1983, pp. 251-64.
276 Il prigioniero, cit., Atto II, 3, III, 5, V, 3.
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futuro, per sposare Doralice una giovane di diverso rango. Doveva subire sino
alla fine le angherie e le macchinazioni del padre che, per “smorzar l’indegno
foco”, l’aveva fatto arrestare, mentre nel frattempo sempre più s’adoperava a
diffamare la “vile, sfacciata e infame donna”, costringendola a riparare in un
convento277. Come sempre tuttavia la virtù dell’eroina veniva premiata con la
riscoperta nobiltà: la mésalliance era evitata e le scene celebravano, per
l’ennesima volta, un matrimonio tra pari278. Per Roberto nondimeno il distacco
dalla famiglia, anche sotto il profilo affettivo, non era stato poi così indolore. Se
il protagonista era giunto a considerare il padre “tiranno” continuava tuttavia a
sentirsi in colpa, pensando d’essere probabilmente “il solo reo”279. Secondo E.
Mattioda sarebbe stata la lezione di Rousseau, in particolare la lettura di alcuni
passi del Contrat social, a determinare, con l’appello alla legge di natura, la
nuova consapevolezza di Roberto: “il ciel m’accordò [con la vita] il più pregevol
dono, che non soggiace a forza umana […] il libero voler280”. A ben vedere in
quell’invocazione al “libero voler”, che riusciva a rendere Roberto adulto e
autonomo, v’era di più. Albergati invocava Dio richiamandosi al diritto
naturale: nel suo repertorio il nuovo pensiero dei Lumi era pervaso dai suoi
antichi e perenni convincimenti. La coesistenza delle istanze spiritualistiche con
i nuovi principi e valori del secolo avrebbe guidato la stesura di Rodolfo,
un’opera che costituisce, si crede, un punto di svolta nella produzione del
letterato emiliano.
Albergati dunque con Rodolfo, undici anni dopo Il prigioniero,
abbandonava la polemica nei confronti del padre tiranno. La figura del
marchese Eugenio, la maschera deformata e quasi caricaturale del persecutore
spietato, veniva sostituita con il modello del padre tenero e affettuoso che si
sostanziava nel comportamento di don Alfonso e don Fernando. Per tornare
nell’ambito della trama di questa commedia, i due genitori, resisi ben presto
conto dell’insoddisfazione dei figli, come si è in parte accennato, e compresi i
loro autentici sentimenti, li spingevano a realizzare i propri desideri. “Non vi
basta la mia obbedienza?” affermava Rodolfo a don Fernando: “No Ivi, Atto III, 4.
Ivi, Atto V, ultima.
279 Ivi, Atto III, 5.
280Ivi, Atto II, 3. Vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 78 e ss. Il riferimento è al II
capitolo del I libro del Contrat che qui per comodità riportiamo: “La più antica di tutte le società,
e la sola naturale, è la famiglia: sebbene i figli restino legati al padre solo per quel tempo in cui
hanno bisogno di lui per la propria conservazione. Non appena questo bisogno cessa, il legame
naturale si scioglie. Dispensati i figli dall’ubbidienza che dovevano al padre, dispensato il padre
dalle cure che doveva ai figli, rientrano tutti ugualmente nell’indipendenza. Se essi continuano
a restare uniti, ciò non avviene più naturalmente, ma volontariamente; e la stessa famiglia non
si mantiene che per convenzione”. J.J. Rousseau, Il Contratto sociale, cit., p. 10.
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rispondeva questi - offende la mia tenerezza di padre e la tua obbedienza cieca
mi lascerebbe in un perpetuo rimorso per esserti stato non padre ma tiranno”281.
Poco dopo era don Alfonso a ricordare a don Fermando: “Niuno dovere per noi
più importante può darsi che la cura e la felicità dei nostri figli. I padri severi,
barbari, tiranni, dispotici, quelli non debbono sperare, né esigere la tenerezza
filiale, né la domestica pace”282. Da questi presupposti, nell’assenso generale,
Flerida sposava l’amato Flavio e le scene celebravano l’amore coniugale, filiale e
paterno283. Conquistata la dimensione di sé l’individuo riusciva a percepire
l’esistenza dell’altro, a definirsi tramite una corrispondenza affettuosa. Nello
sviluppo della pièce campeggiava la figura di Carluccio, un bimbo di sei anni,
che richiamava con la sua tenerezza innocente l’attenzione di tutti: “ah! caro
fanciullo mio, mi strappi il cuore” confidava con emozione don Fernando284.
Sarebbe stato proprio Carluccio a rendere possibile l’unione tra il padre e la
madre e a trasformare, in conclusione d’opera, la tragedia in commedia, come
tra poco si accennerà285. La centralità della famiglia e la scoperta del sentimento
dell’infanzia restava uno dei tratti caratterizzanti della pièce.
Su un intreccio consueto che tuttavia era pervaso da motivi inediti e da
una nuova sensibilità si innestava la vicenda umana di Rodolfo, un soggetto
scenico che s’ispirava, come ricordava esplicitamente Albergati nella
prefazione, a La fuerza de la sangre, una delle dodici Novelas ejemplares di M. de
Cervantes, pubblicate com’è noto a Madrid nel 1613, solo tre anni prima della
scomparsa del loro autore286. Nei due testi l’ambientazione e l’ordito comune
consentiva lo sviluppo di profili individuali e di contesti problematici in realtà
assai differenti. Tanto la novella quanto la commedia prendevano spunto
dunque da un medesimo evento. Si trattava dell’orribile episodio descritto da
Cervantes che aveva coinvolto, in una “ chiara” sera di fine estate, nei pressi di
Toledo, su una costa tra la pianura e il fiume, due giovani, che verranno
chiamati nella versione di Albergati, Rodolfo e Matilde. Matilde (Leocadia in
Cervantes), poco più che adolescente, bella, nobile, ma di una nobiltà ormai
Rodolfo, cit., Atto II, 7.
Ivi, Atto V, 2.
283 Ivi, Atto IV, 2, V, 4, ultima.
284 Ivi, Atto II, 6.
285 Ivi, Atto V, 7.
286 Vedi la Prefazione in Rodolfo, cit., pp. 5-7. M. de Cervantes, Novelle esemplari, a cura di M. Joly,
BUR, Milano, 1994. Sull’inclusione di un tredicesimo racconto La tía fingida vedi Introduzione p. 9
s. Ivi pp. 39-42 bibliografia. Pertanto sull’opera si indicano qui soltanto: R. El Safar, Novel to
Romance. A study of Cervantes’s “Novelas ejemplares”, The Johns Hopkins University Press,
Baltimore, 1974; G. Hainsworth, Les “Novelas ejemplares” en France au XVIIe siècle, Champion,
Paris, 1933; J. Canavaggio, Cervantes, Lucarini, Roma, 1988; F. Meregalli, Introduzione a Cervantes,
Laterza, Roma-Bari, 1991.
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decaduta e quasi povera, veniva rapita e violentata da Rodolfo gentiluomo di
“sangue illustre”, la cui ricchezza, “l’inclinazione” e la “troppa libertà” non lo
facevano nuovo a crimini e prepotenze287. In entrambi i testi per la sorte, in
seguito a “meravillosos acontecimientos”, Matilde-Leocadia, ormai divenuta da
qualche anno madre di un bimbo nato in seguito alla tragica vicenda, si
ritrovava in casa di Rodolfo. Tutto le tornava alla memoria e riconobbe lì “la
lapide del proprio sepolcro”288. A questo punto le due storie si dividevano (in
realtà, come capiremo, si erano già da tempo diversificate).
In Cervantes, come è stato recentemente osservato, Leocadia senza alcuna
esitazione chiedeva ai genitori di Rodolfo, dopo averne dimostrato la
colpevolezza, un matrimonio riparatore. Aveva lottato quella sera, si era difesa,
impedendo un nuovo stupro. La sua moralità (“l’honor”) era salva. Divenuta
tuttavia “donna nubile con un figlio” la rispettabilità sociale (“la honra”) era
definitivamente compromessa: bisognava rimediare e risarcire 289. Con l’accordo
di entrambe le famiglie si era subito pensato al matrimonio, una soluzione che
avrebbe restituito a Locadia l’onorabilità sociale ormai perduta. Rodolfo
nuovamente sedotto dalla bellezza della giovane, timoroso dell’eventualità
d’un legame indesiderato, orchestrato ad arte dalla madre, donna Stefania,
cedeva290. Anche per Cervantes in definitiva la virtù coincideva con il vero
senso dell’onore e la sola rispettabilità svuotata della dignità umana si riduceva
a un orpello inutile291. Nonostante tutto, è stato ricordato, il carattere edificante
sotteso a La fuerza de la sangre non riusciva ad occultare “la torbida seduttività
che emana dalle sue scene di violenza”292.
Nella commedia di Albergati il profilo dei due giovani era stato
notevolmente modificato. Rodolfo non aveva più nulla della insolenza, violenta
e abitudinaria, del suo omonimo spagnolo. La sua brutalità diveniva “l’atto
scellerato di un istante”, come confessava affranto, lo stesso protagonista, al
padre accorato che lo incalzava293. Era il frutto degli eccessi “feroci e crudeli”
suscitati dalle passioni, una condizione dell’essere sulla quale da tempo si
interrogava don Fernando294. Al gentiluomo spagnolo anche il comportamento
di Rodolfo appariva come il risultato di una violenza occasionale dettata da
M. de Cervantes, La fuerza de la sangre, cit., p. 309.
Ivi, p. 318.
289 Ivi, pp. 319-21.
290 Ivi, p. 327.
291 P.L. Gorla, Il conflitto “honor/honra” nelle “Novelas ejemplares” di Cervantes, in Scrittura e conflitto
(Atti del XII convegno AISPI, Catania-Ragusa 16-18 maggio 2004), a cargo de A. Cancellier, C.
Ruta y L. Silvestri, Istituto Cervantes-Aspi, Madrid, 2006, v. I, pp. 227-38.
292M. Joly, Introduzione in M. de Cervantes, Novelle esemplari, cit., p. 26.
293 Rodolfo, cit., Atto II, 7.
294 Rodolfo, cit., Atto V, 3.
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impulsi vitali distruttivi. Inclinazioni e tendenze che dovevano necessariamente
essere emendate e modificate in energia positiva volta verso fini socialmente
utili295. Ogni azione, ogni giudizio doveva essere sottoposto al vaglio critico
della ragione: non soltanto le colpe di Rodolfo ma anche le richieste altrettanto
impulsive di Matilde. L’eroina virtuosa reclamava, in definitiva, il risarcimento
della colpa subita, appellandosi all’antichissima legge del taglione, un’esigenza
che sorgeva soltanto da un mero desiderio di vendetta personale296. Una
richiesta che si trasformava dunque in un’altra forma di violenza e che poteva
tradursi, se eletta a norma, nell’abuso di molti contro un solo individuo. La
ferma polemica dello scrittore emiliano nei confronti della tradizionale
concezione retributivistica della pena testimonia in che misura il letterato
avesse potuto recepire l’insegnamento Dei delitti e delle pene di C. Beccaria297.
Certo ne intese soprattutto l’orrore per la violenza e il rispetto per la dignità
umana. A ben vedere non era comunque poco.
Dalla contrapposizione tra Rodolfo e Matilde si precisava il pensiero di
Albergati. La vicenda di Rodolfo riproponeva la grande esperienza, religiosa e
laica, della conquista della dimensione morale. Un processo di emancipazione
individuale, in questo caso di riscatto del reo che, per Albergati, poteva
compiersi solo grazie a un disegno provvidenziale: “siano lodi a quella
suprema mano che tutto a sì lieto fine ha condotto” affermava soddisfatto don
Fernando in conclusione d’opera298. Questi aveva invitato altre volte Rodolfo,
sempre più chiuso in sé stesso, a parlare della sua antica colpa. Don Fernando
era certo che il pentimento potesse cancellarla: ”mi è noto il tuo pentimento –
ribadiva a Rodolfo all’inizio del quarto atto - il tuo fallo è meno grave”299. Il
gentiluomo spagnolo conoscendo il figlio sapeva che soffriva da sei anni.
Compiuto il fatto il giovane aveva subito implorato il perdono di Matilde
chiedendola in sposa ma la richiesta era stata rifiutata con sdegno 300. Rodolfo
dunque non aveva nulla della boria del vecchio cavaliere di Cervantes. Con
sofferenza, tramite l’introspezione e il senso di colpa si era riscattato,
conquistando la dignità umana. In altri termini l’espiazione aveva cancellato il
suo peccato sino a rigenerarlo301.
Ivi, Atto IV, 1.
Ivi, Atto, III, 5, IV, 4, V, 3, 6, 7.
297 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1994, cap. XII Fine delle
pene, p. 31.
298 Rodolfo, cit., Atto V, 7.
299 Ivi, Atto IV, 1, II, 7.
300 Ivi, Atto, III, 2.
301 Ivi, Atto IV, 1.
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Anche Matilde a conclusione della sua via crucis, grazie alla ragione e alla
scoperta dei sentimenti, riusciva ad uscire da una concezione meramente
individualistica della condotta umana. Dimenticava, sia pure con fatica e non
senza esitazioni, i suoi “trasporti” e i suoi “furori”. Solo nelle ultime scene
abbandonava il pugnale e i desideri di vendetta302. Anche suo padre don Luigi
si distaccava progressivamente dall’idea tradizionale dell’onore che trovava
nella pratica del duello riparatore la sua consacrazione 303. In realtà sarebbe stato
soprattutto Carluccio il “pacificatore” di Matilde. Le sue tenere richieste
avrebbero persuaso la madre e reso possibile il rapporto tra i suoi genitori, sino
a trasformare la memoria di un carnefice nella presenza di un padre
amorevole304. Intorno a un’idea comune, la costruzione della famiglia,
convergevano le scelte non soltanto di Rodolfo e Matilde ma di tutti i
protagonisti della commedia305. L’opera si concludeva pertanto con
l’integrazione del reo penitente in un progetto condiviso e utile.
Alcuni dei grandi temi della letteratura più impegnata del tempo
trionfavano sul palcoscenico. Albergati tramite Rodolfo condannava il
meccanismo degli onori, la logica dei duelli e si batteva per una giustizia
razionale. Senza esitazioni si schierava in favore di un nuovo diritto che
rifiutava l’idea della vendetta e si mostrava attento alla difesa dei vantaggi
sociali e al recupero dei colpevoli. La larvata tentazione abolizionista forse
inconsapevolmente sottesa alla trama (il delitto di Rodolfo non veniva di fatto
sanzionato) proiettava l’autore sin sulla “soglia” dell’utopismo radicale
settecentesco. Una soglia, è stato detto, che neanche Beccaria osò oltrepassare.
“L’’impeto egualitario e libertario, pur così forte in lui […] non doveva portare
alla dissoluzione della società, alla negazione del diritto”. Tuttavia “l’esitazione
di Beccaria di fronte al diritto di punire è profonda. Non solo egli prova orrore
di fronte alla violenza, alla crudeltà, ma rifiuta dal più profondo dell’animo suo
ogni teorizzazione, ogni giustificazione di esse, ripugnandogli sempre ogni
utilizzazione loro da parte degli stati, delle società, del diritto. Le sue pagine
sulla pena di morte e sulla tortura nascono da questa doppia ritrosia, sociale e
Ivi, Atto V, 7.
Ibidem.
304 Ibidem.
305 Il tema dell’autodeterminazione morale dell’individuo, di una nuova definizione dell’onore,
insieme alla polemica sul “paradosso” del duello e alla scoperta del nuovo valore della famiglia
ispirava anche I pregiudizi del falso onore, un’opera di Albergati edita a Venezia nel 1778 e poi
raccolta, nel 1783, nel primo tomo delle Opere, cit., pp. 3-120. Sulla pièce vedi E. Mattioda, Il
dilettante “per mestiere”, cit., pp. 82-7; P. Themelly,Il teatro di Antonio Simone Sografi, cit.
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personale ad accettare il diritto stesso di punire e le conseguenze che esso fatalmente
comporta”306.
Il cavalier Woender: l’agnizione come prova di virtù. Negli stessi anni della scrittura
di Rodolfo Sografi rifletteva a Venezia sul significato della Pamela di Goldoni e si
apprestava a riprendere il tema ancora scottante della mésalliance nel Cavalier
Woender, un “dramma in cinque atti” incline al patetismo, come richiedeva il
gusto del tempo307. La pièce, della quale si è smarrita la prima edizione, è sempre
stata considerata, nell’assenza di riscontri oggettivi per la datazione, una delle
commedie d’ispirazione filosofico-umanitaria redatte dal letterato padovano
intorno alla metà degli anni Novanta, nel clima di attese che preludeva la
discesa dell’Armée d’Italie nella nostra penisola308. Tuttavia i richiami all’assedio
di Gibilterra (giugno 1779-febbraio 1783), che ricorrono puntualmente nelle
scene, suggeriscono la probabile composizione del testo all’inizio degli anni
Ottanta, verosimilmente prima delle grandiose vicende dell’89, peraltro mai
rievocate nella trama309. La possibile genesi dell’opera nell’età della crisi dei
Lumi attribuisce allo scritto un certo interesse che diversamente verrebbe meno.
Infatti la commedia, gracile nel disegno d’insieme, sovraccarica di sviluppi
secondari “confusi, sconnessi e poco verosimili”, come lamentavano gli stessi
contemporanei, è senza dubbio uno dei lavori meno felici di Sografi310. Pertanto
Il cavaliere Woender, sempre trascurato dagli studiosi, ha suscitato il solo
interesse di L. Bigoni in un lontano e rapido esame del 1894311. Poche tracce
restano quindi di questo componimento minore del quale sfugge, come si è
ricordato, persino la data della prima rappresentazione. Nondimeno se la
commedia non andò mai in scena a Venezia nel corso degli anni Novanta,
l’opera riusciva a riscuotere ancora un notevole successo al S. Samuele nel 1802.
Tutto ciò probabilmente era dovuto al richiamo esercitato della
“rinomatissima” primadonna, A. Fiorilli-Pellandi, e alla sua interpretazione,
sembra magistrale, nel ruolo della protagonista. La più grande attrice del tempo
riusciva dunque ad assicurare la fortuna del “dramma” e le “reiterate repliche”
F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1970, p. 126. Il corsivo è nostro.
Sul problema e per gli eventuali sviluppi di Beccaria a riguardo, vedi, in particolare, D. Ippolito,
Diritti e potere. Indagini sull’Illuminismo penale, Aracne, Roma, 2012, pp. 77-102. Per una
significativa lettura politica dell’opera vedi l’Introduzione di A. Burgio in C. Beccaria, Dei delitti e
delle pene, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 13-28.
307 Il cavalier Woender, dramma dell’avvocato Sografi, Torino 1816. Presso M.A. Morano Librajo
vicino a S. Francesco.
308 Vedi per tutti C. De Michelis, Letterati e lettori, cit., p. 214.
309 Il cavalier Woender, cit., Atto II, 2, III, 4, V, 1, 7.
310 Osservazioni sul Cavalier Woender, in Il cavalier Woender, cit., pp. 85-6.
311 L. Bigoni, Antonio Simone Sografi, cit., p. 121.
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ricordate entusiasticamente dai cronisti e poi dall’editore della prima edizione
torinese del 1816312.
I cinque atti tuttavia riuscivano ad esplicitare, come si è in parte
accennato, lo spirito del tempo e a qualificare Il cavalier Woender come una
testimonianza utile per comprendere il senso di un’età di transizione. Motivi
diversi e contraddittori si fondevano senza apparente contrasto nel testo:
l’opera perpetuava il tema tradizionale dell’amore ostacolato risolvendosi,
come sempre con una agnizione finale. Nondimeno alcune variazioni
contribuivano a modificare dall’interno la struttura di un modello letterario di
lungo periodo prefigurandone il prossimo epilogo. La commedia riprendeva
sin dall’esordio la tradizionale e ormai stanca polemica illuministica contro il
padre tiranno. In questo caso era il cavaliere Woender ad impedire il
matrimonio d’inclinazione tra il suo James e Harriod, una povera ragazza per
nascita e condizione. Al pater familias d’Antico regime si contrapponeva tuttavia
la figura della madre dell’ultimo Settecento: una donna tenera, affettuosa, volta
all’amore filiale. Miledi Woender intendeva difendere, anche a “costo della
vita”, le libere scelte individuali e insieme reclamava un peso sempre maggiore
nel governo della casa313. In realtà ben altre erano le mire del cavaliere che
intendeva, innanzitutto, far sposare James con la figlia di lord Hudson,
“Mairie” (Mayor) e primo cittadino di Londra314. Pertanto il despota della casa,
per raggiungere i suoi scopi, divideva forzatamente, secondo un cliché scenico
consolidato, i due innamorati e si adoperava a far diffondere la falsa notizia
della morte della giovane315. James, ormai rassegnato, per non turbare la pace
domestica e rattristare inutilmente la madre, accettava il matrimonio di rango316.
Una serie di circostanze avrebbero tuttavia consentito l’incontro dei due
promessi sposi nella casa di lord Hudson317. Ma lì, con loro sorpresa, avrebbero
trovato nel magistrato londinese un profilo umano sconosciuto, quasi del tutto
inedito per i tempi.
La figura del primo cittadino presentava dunque alcune novità e ben
interpretava il modello di virtù che si andava definendo allora anche nell’Italia
di fine secolo. La dedizione al bene pubblico propugnata dal lord si traduceva
nella pratica di una militanza civile, in un concreto servizio disinteressato e
super partes nell’esercizio delle proprie funzioni. Negli atteggiamenti e nei
discorsi del magistrato si prefigurava l’ipotesi dell’autogoverno della società
F. Rossi, Venezia 1795-1802, cit. Vedi l’ Introduzione in Il cavalier Woender, cit., pp. 3-4.
Il cavalier Woender, cit., Atto I, 1, 3, III, 4, 6, 8, IV, 2, 3, 4, 5, V, 5, 6, 7.
314 Ivi, Atto I, 1.
315 Ivi, Atto I, 1, 3, II, 2, 3.
316 Ivi, Atto I, 3.
317 Ivi, Atto III, 8.
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civile, l’auspicio di una comunità ridisegnata sui bisogni pratici e congiunturali
dei cittadini, tutti tra loro eguali di fronte alla legge318. Nella sfera privata
Hudson si batteva per la nuova concezione della famiglia costruita sulle libere
scelte individuali, sul matrimonio d’inclinazione cementato dal valore dei
sentimenti319. Le due diverse concezioni della vita pubblica e privata che si
identificavano nelle figure di Hudson e di Woender si scontravano nel corso del
quinto atto. Il lord equiparava, nella sua qualità di magistrato, i diritti del
cavaliere a quelli di Harriod, rendendo giustizia alla ragazza. Sografi mostrava
così, almeno sul palcoscenico, che la legge era veramente eguale per tutti già
prima della Dichiarazione dell’agosto ‘89320. Nel versante privato il primo
cittadino si opponeva al matrimonio d’interesse tra sua figlia e James e favoriva
l’unione di quest’ultimo con Harriod, ostacolando la volontà di Woender321.
Il conflitto tra James e il padre sembrava invece doversi risolvere “con la
spada”. La ragione comunque prevaleva. James si mostrava consapevole di non
poter difendere “i sentimenti con i delitti”: non voleva giungere a “uccidere il
padre” per divenire un uomo libero. La “paterna severità” doveva essere vinta
“dalla tolleranza e dall’affetto filiale”: era opportuno privilegiare la discussione
sino a far comprendere a Woender che ogni “sentimento era degno di
rispetto”322. Nella difficile contesa insorgeva ancora una volta un aiuto esterno.
Sopraggiungeva, a sorpresa, il padre di Harriod, un veterano che aveva sino
allora difeso Gibilterra. Il “suo petto era cosparso di cicatrici” che
testimoniavano “l’eroismo del combattente”. Il vecchio presentava i tratti di
un’antichissima nobiltà guerriera, di “razza”. Ma la “sua nobiltà” non era stata
trasmessa per filiazione maschile diretta, non era dovuta al merito e al valore di
un antenato. Era stata “conquistata in battaglia”, era scritta “nelle ferite” che ne
rivelavano “il coraggio”. Tramite il “merito” e la “virtù”, il vecchio eroe, aveva
ottenuto il titolo di cavaliere in qualità di “difensore della patria” 323. Grazie alla
sua abnegazione James e Harriod si trovavano ad essere equiparati nel rango e
potevano finalmente sposarsi.
Anche nella commedia di Sografi pertanto la mésalliance tra i due giovani
protagonisti poteva risolversi soltanto tramite l’espediente dell’agnizione finale,
una risorsa che sembrava ancora necessaria per poter concludere la trama.
Nondimeno, questa volta, quell’antico rimedio era stato svuotato del suo
significato tradizionale sino a perdere di conseguenza la sua consueta funzione.
Ivi, Atto V, 3, 7.
Ivi, Atto V, 6, ultima.
320 Ivi, Atto II, 2, 3, IV, 7, V, 6,
321 Ivi, Atto V, 7, ultima.
322 Ivi, Atto IV, 5,
323 Ivi, Atto V, 4.
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Il riconoscimento finale indispensabile per chiudere gli atti ormai sopravviveva
soltanto per esprimere i nuovi criteri che definivano il concetto di onore e di
virtù. Resisteva per ritrovare nella autentica reciprocità la possibilità di
superare ogni forma di diseguaglianza. Un modello letterario di lungo periodo
dunque si andava modificando: si intravedeva dal palcoscenico l’orizzonte di
un mondo nuovo. Se il processo era in atto tuttavia l’incertezza rimaneva. Lo
stesso James esitava. Sino alla fine voleva convincere Woender, era necessario
ottenere l’assenso paterno324. S’inaugurava il tema dell’aristocratico convertito:
un motivo che avrà, come vedremo, una certa fortuna in Italia nel corso del
Triennio rivoluzionario dell’ultimo Settecento.
Annetta e il tradimento della nobiltà. L’erosione del tema convenzionale
dell’amore contrastato risolto con l’agnizione finale veniva documentata in
un’altra opera minore redatta a Venezia negli anni Ottanta da A. Pepoli,
l’emulo e a suo dire l’antagonista d’Alfieri, ne La scommessa ossia la giardiniera di
spirito, una commedia in tre atti che tendeva a armonizzare il tragico e il comico,
secondo le tendenze europee del momento. Il testo sarebbe stato poi raccolto
nella collezione dell’ opera pepoliana, apparsa a stampa in città, per i tipi di
Palese, in sei tomi tra 1786 e 1787325. Il conte Pepoli “notissimo a Venezia per le
sue ricchezze e per le stravaganze”, per “l’ingegno e i capricci”, in virtù del suo
eclettismo avrebbe potuto eccellere nelle diverse discipline in cui
quotidianamente si cimentava (scienze, musica, letteratura, declamazione,
danza, equitazione, etc.). Tuttavia, come osservavano gli stessi contemporanei,
il conte, occupandosi di tutto “ a slanci e salti”, rimase “tra’ confini della
mediocrità”. Il singolare e avventuroso patrizio -che rifiutò (sembra) di sedere
nel Maggior Consiglio e che fuggì a Milano nel 1796, pochi mesi prima di
morire, per arruolarsi nell’esercito francese e per stringere contatti con gli
ambienti filo rivoluzionari locali- aveva iniziato a dedicarsi al teatro nel 1780
traducendo, ventitreenne, “in soli cinque giorni”, la Zaira di Voltaire326.
Seguirono per il patrizio anni di febbrile e incostante attività che consentirono la
redazione di un corpus teatrale variegato e difforme, sino ad oggi quasi
inesplorato, costituito da oltre venti titoli. Alcuni nuovi lavori vennero
Ivi, Atto V, ultima.
La scommessa ossia la giardiniera di spirito, commedia di tre atti in prosa, in Teatro del conte
Alessandro Pepoli, in Venezia. Nella Stamperia di C. Palese, 1787, t. III, pp. 335-414.
326 M. Infelise, Gazzette e lettori nella Repubblica veneta dopo l’Ottantanove, in L’eredità
dell’Ottantanove e l’Italia, cit., in particolare p. 310; Id., L’editoria veneziana del Settecento, Franco
Angeli, Milano 1989, pp. 379-84; S. Minuzzi, voce A. Pepoli, in «Dizionario Biografico degli
Italiani», cit. Per la fisionomia politica è ancora fondamentale M. Berengo, La società veneta alla
fine del Settecento, cit., pp. 196-201. La recensione alla traduzione pepoliana della Zaira è in
«Mercurio d’Italia storico-politico-letterario per l’anno 1780», pp. 297-98.
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pubblicati o riediti dallo stesso autore per cura della “Tipografia Pepoliana”,
una stamperia fondata dal nostro nel marzo 1794, in seguito alle
compartecipazioni degli anni precedenti, con i noti editori cittadini Curti e
Stella. La Tipografia, la più grande di Venezia e all’avanguardia allora in
Europa, decretava “per la prima volta in oltre tre secoli di storia tipografica”
l’ingresso diretto e “personale” di un patrizio veneto nella “corporazione dei
librai e degli stampatori”. La “libreria” tra le più attive (e raffinate) di Venezia
negli anni Novanta, raccoglieva e pubblicava contributi letterari e scientifici di
varia natura, tra i quali si segnalavano, non di rado, opere innovative o
controcorrente.327
Nell’ Avvertimento ai lettori, premesso alla Scommessa, l’autore dichiarava
“l’illegittima somiglianza” con la “Nanina di Voltaire” pur ribadendo di “non
essere un puro copista” tanto da aver variato, a suo dire, notevolmente il
significato e la trama328. La commedia in realtà risentiva anche della lezione di
Goldoni e in particolare, si crede, si ispirava, in una certa misura, a La vedova
scaltra e a La locandiera329. In altri termini se nel drame di Voltaire il protagonista
era d’Olban più che Nanine, nella Scommessa il ruolo di primo piano spettava ad
Annetta, la “giardiniera”di casa Riccagnoli. In tal modo la figura del primo
attore, il conte Alfonso, proprietario della villa, finiva per divenire una sorta di
“spalla”, un profilo tutto sommato secondario, sbiadito e di contorno, per
acquistare rilievo solo in conclusione d’opera. Le suggestioni esercitate dalla
“femminilità trionfante”, che caratterizzava le commedie di Goldoni,
rinvigorivano e strutturavano la trama330. Questa nuova sensibilità indirizzava
anche Pepoli verso la causa femminile, in una società come quella veneta ancora
legata alla concezione tradizionale della famiglia e alla funzione subalterna
della donna nella vita coniugale e domestica. Ne La scommessa, sulla falsariga de
La vedova scaltra, la giardiniera Annetta, come la goldoniana Rosaura, per
puntare in alto, per realizzare con il matrimonio un traguardo sociale, fingeva
di essersi invaghita, come nel testo di Goldoni, di quattro pretendenti331. Nella
pièce di Pepoli i corteggiatori assumevano la fisionomia caricaturale di due
Sull’attività editoriale di Pepoli, sulle relazioni con A. F. Stella e A. G. Curti , e sulle
personalità di questi stessi editori vedi, M. Infelise, L’editoria veneziana del Settecento, cit. pp. 37984 e passim.
328 Avvertimento ai lettori in La scommessa ossia la giardiniera, cit., pp. 337-9.
329 La vedova scaltra, una commedia in tre atti, rappresentata per la prima volta a Modena
nell’estate del 1748, è in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., t. II, pp. 325-414. La locandiera,
commedia di tre atti in prosa venne rappresentata “per la prima volta a Venezia nel Carnevale
1753”. Il testo è ora in Tutte le Opere di Carlo Goldoni, cit., v. IV, pp. 773-858.
330 Per l’espressione vedi l’Introduzione in C. Goldoni, La donna di garbo, La vedova scaltra, La putta
onorata, a cura di G. Geron, Mursia, Milano, 1984, p. 20.
331 C. Goldoni, La vedova scaltra, cit., in particolare Atto I.
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avventurieri (un falso cavaliere e un finto ufficiale prussiano), di un contadino
sciocco, Cecco e di un patrizio libertino, il conte Alfonso. La commedia tramite
la scelta del “ridicolo” e l’uso del paradosso rappresentava con una certa forza
l’idea della crisi irreversibile di un intero sistema, logorato nei valori e nei
modelli comportamentali sino ad allora di riferimento332.
Erano passati circa vent’anni dall’ultima stesura del Padre di famiglia di
Goldoni pubblicato, senza variazioni sostanziali di contenuto, nel settimo tomo
dell’edizione Pasquali nel 1764333. Inevitabilmente il presagio di una crisi
imminente era percepito da Pepoli e dai suoi contemporanei con maggiore
consapevolezza rispetto ai tempi di Goldoni. Tuttavia anche le risposte e le
reazioni erano molto diverse. Nella commedia del nostro sembra innanzitutto
venir meno il rimpianto delle originarie virtù “che erano state alla base
dell’antica grandezza veneziana e alle quali ora si voltavano le spalle” che
costituivano, come si è in parte accennato, l’orizzonte di riferimento di
Goldoni334. A ben vedere Pepoli, almeno in questa commedia, voleva invece
riflettere sulle questioni del presente, disinteressandosi della memoria
dell’antica Repubblica. L’eclettico patrizio pertanto, almeno in questo testo,
sembrerebbe rimanere lontano da quella sua perenne oscillazione evidenziata
da M. Berengo, tra la scelta democratica e quella aristocratica, tra l’adesione al
nuovo sistema francese e il rimpianto del modello veneto dei primordi 335.
Tuttavia la sua Annetta si ispirava alla “locandiera”, alla goldoniana
Mirandolina. Forse anche la “giardiniera” di Pepoli perseguiva lo stesso “mito
del denaro” come è stato recentemente osservato per la protagonista del grande
commediografo. Annetta aveva probabilmente il medesimo “desiderio di ascesa
sociale”, era pure lei “sfrontata, cinica, quasi oscena, nell’uso strumentale che
faceva della sua bellezza”. Mirandolina e Annetta si vendevano dunque
entrambe, ma solo “psicologicamente” mai “fisicamente”336.
La “giardiniera” aveva imparato dunque da tempo l’arte di non
concedersi facilmente, con la malizia e l’istinto aveva compreso come agire per
sedurre337. Se capiva di non essere “vivanda per il palato di Cecco” lo utilizzava,
come poi non diversamente si serviva dei due avventurieri, facendoli persino
sfidare in un duello farsesco, per ingelosire il conte Alfonso che, da provato
La scommessa ossia la giardiniera, cit., Atto I, 7, 8, 9, II, 5, 7, III, 1, 2, 3, ultima.
Per la datazione vedi la Nota ai testi in C. Goldoni, Il padre di famiglia, a cura di A.
Scannapieco, cit., pp. 83, 112 e s.
334 G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit., pp. 4-5; S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, cit.,
pp. 73 e ss.
335 M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, cit., pp. 196-201.
336 R. Alonge, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano, 2004, pp. 579; Id., Approcci goldoniani. Il sistema di Mirandolina, in «Il castello di Elsinore», 1991, 12, p. 13 e ss.
337 La scommessa ossia la giardiniera, cit., Atto I, 4, 5.
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libertino, pur sedotto certo non intendeva sposarla338. La giovane tuttavia se
amava la contea, amava anche il conte. Le sue scelte autentiche non
conoscevano “altre leggi se non quelle del cuore”, non amava “il conte o il
padrone ma solo l’amabilissimo Alfonso”339. La “giardiniera” di Pepoli, come le
più celebri Pamela e Nanine, tramite i sentimenti scopriva se stessa, la sua
dignità che la equiparava al conte, ponendo le premesse di un nuovo rapporto
tra pari. Un percorso analogo era compiuto anche da Alfonso che scopriva con i
sentimenti di Annetta, la “virtù” della ragazza340. Il conte Riccagnoli, forse tra i
primi, nel teatro veneziano d’allora, riusciva a “tradire la nobiltà” e scopriva
grazie all’autenticità dei “moti del cuore” “i pregiudizi del falso onore”341.
Sposando Annetta Alfonso aveva scoperto tramite la dimensione della
necessità il valore congiunturale della storia: s’era così reso conto che “l’uomo
cangia e le circostanze comandano […]”. Il protagonista individuava nelle sue
aspettative la manifestazione di un bisogno comune allora largamente
condiviso. Una esigenza generale capace di innescare un processo di
trasformazione vasto, profondo, probabilmente irreversibile. “Tutti”, pensava
Alfonso, sarebbero ben presto “cangiati in bene342”. L’utopismo settecentesco
intuiva il sentiero che l’avrebbe condotto sino alla rivoluzione. La scommessa
prefigurava l’ipotesi di una società democratica e annunciava, tramite la
finzione scenica, la fine dell’Antico regime sociale. La mésalliance questa volta
era davvero consumata. A ben vedere, pure in questo caso, la commedia si
concludeva con il solito riconoscimento finale. Nondimeno la conclusione
farsesca dell’opera attribuiva un significato paradossale alla ritrovata nobiltà di
Annetta. L’idea stessa di nobiltà veniva sottoposta a critica, messa in berlina,
posta addirittura in dubbio. Grazie al ridicolo Pepoli demoliva il concetto stesso
di agnizione nel suo consueto uso teatrale: le tradizionali virtù patrizie
scadevano in vizi grotteschi che gettavano luce su una crisi morale e
comportamentale di ceto che finiva per estendersi al dissesto generale di tutto
un sistema.
Per tornare rapidamente alla trama: di fronte allo sdegno della baronessa
d’Aspravilla, “donna avanzata e ridicola”, zia e tutrice di Alfonso, riluttante
sino alla fine nei confronti della mésalliance, il marchese Anselmo Filandri,
amico dell’anziana aristocratica, suggeriva una possibile via d’uscita
quantomeno singolare e non certo assolutoria per l’intero ceto nobiliare: “Io
sono peritissimo nella scienza genealogica, che mio padre pieno de’ vostri
Ivi, Atto I, 5, 6, 7, 8, 9, 10, II, 2, 5, 6.
Ivi, Atto I, 5, II, 7.
340 Ivi, Atto II, 6, III, 3.
341 Ivi, Atto III, 3.
342 Ivi, Atto III, ultima.
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pregiudizi mi ha fatto studiare. Vi do la mia parola di cavaliere, che vi
fabbricherò per Annetta un albero più antico ancora del vostro, e tutto coi suoi
soliti documenti. […] Bene, un po’ meno del vostro: rasserenatevi. Potrò far
discendere Annetta, dal greco Sinone, che entrò nel gran cavallo di Troia.[…]
Una tal genealogia non sarebbe la prima e conosco molti moderni cavalieri
divenuti in tal modo antichissimi”343.
Anche grazie a La scommessa è possibile cogliere pertanto la significativa
trasformazione del tema letterario dell’amore contrastato nell’età del tramonto
dei Lumi. Entrava dunque in crisi un motivo plurisecolare, se non millenario, di
cui abbiamo rintracciato le prime manifestazioni nel II secolo a. C., nell’Andria
di Terenzio, un testo, com’è noto, peraltro ispirato ai modelli greci della tarda
età classica344. La commedia di Pepoli, un’opera di transizione e insieme di
rottura, esprimeva con efficacia i fermenti di una comunità che si apprestava a
vivere la sua vigilia rivoluzionaria. La pièce che decretava la fine simbolica della
società degli ordini poco si adattava ad andare in scena a Venezia nel corso
degli anni Ottanta. La censura e la vigilanza degli Inquisitori di stato si
irrigidivano e divenivano sempre più opprimenti345. La commedia con la sua
carica eversiva poteva suscitare l’interesse soltanto di pochi intellettuali
controcorrente. Il teatro personale di Alessandro Ercole Pepoli, presso palazzo
Cavalli a San Vitale, dove il giovane conte viveva, poteva prestarsi
all’impresa346.
L’irrompere della Rivoluzione. Qualche cenno sulla questione matrimoniale e sul teatro
Prima di proseguire il nostro discorso sul tema dell’amore contrastato nella
letteratura teatrale, tra 1796 e 1797, nell’Italia settentrionale in rivoluzione, si
considera utile ripensare sinteticamente le grandi trasformazioni che allora
coinvolsero l’istituto del matrimonio e di riflesso quello della famiglia. Com’è
noto sino al Concilio di Trento il diritto canonico si era uniformato alla dottrina
consensualista, una dottrina che poteva tradursi sul piano pratico anche
nell’unione aformale degli sposi347. In altri termini l’antica radice pattizia
Ivi, Atto III, ultima.
P. Terenzio Afro, Andria. cit., Introduzione, p. 17.
345 Sulla censura veneta settecentesca vedi M. Berengo, La società veneta, cit., pp. 134-161; M.
Infelise, L’editoria veneziana, cit., pp. 63-131, 275-329; R. Canosa, Alle origini delle polizie politiche.
Gli Inquisitori di Stato a Venezia e a Genova, Sugarco, Milano, 1989.
346 G. Bustico, Un competitore di Vittorio Alfieri: Alessandro Pepoli, Tipografia Fratelli Carlini,
Genova, 1906, p. 6.
347 P. Prodi, Il Concilio di Trento e i libri parrocchiali. La registrazione come strumento per un nuovo
statuto dell’individuo e della famiglia nello Stato confessionale della prima età moderna, in La “conta
delle anime”. Popolazioni e registri parrocchiali. Questioni di metodo ed esperienze, Atti del convegno
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accentuava le prerogative dei contraenti che divenivano essi stessi ministri del
vincolo. La Chiesa pertanto per secoli, adeguandosi a tale indirizzo, si era fatta
portatrice del principio della libertà nel matrimonio optando per il primato
delle scelte individuali348. La “nozione di mutuo consenso, in contrasto con
quella dell’autorità dei genitori, era intrinseca al modello ecclesiastico del
matrimonio medievale e sotto questo aspetto particolare si ergeva contro il
modello secolare”349.
Le ragioni degli stati nazionali, le spinte della Riforma, le incertezze
suscitate dal consensualismo e non da ultime anche le rivendicazioni delle
famiglie reclamavano nondimeno leggi e disciplinamento in materia
matrimoniale. Il Concilio di Trento contrapponendosi al protestantesimo e
interpretando i bisogni sociali più profondi, non rinnegando la tradizione,
aveva proclamato il nesso inscindibile di contratto e sacramento nella natura
indissolubile del matrimonio. Un rito che doveva essere celebrato dal sacerdote,
la figura idonea a svolgere una funzione attiva in una azione ormai divenuta
eminentemente sacra. La difficoltà a conciliare l’istanza pattizia con quella
religiosa, a definire le prerogative degli sposi o l’officio del sacerdote, aveva
dato origine a “ambiguità dottrinali” ricordate anche oggi dagli studiosi350.
Comunque sia l’unione tra i due sposi da vicenda privata, non sempre
conclusa con la benedizione o alla presenza di un notaio, veniva definita con
chiarezza risolvendosi per tutti in una cerimonia pubblica, solenne e di carattere
sacro. Una cerimonia svolta davanti a testimoni in seguito alla pubblicazione di
bandi e poi registrata sui libri parrocchiali351. Come aveva osservato P. Sarpi si
era giunti alla “somma esaltazione dell’ordine ecclesiastico”, e “quell’azione”
“tanto principale nell’amministrazione politica et economica” veniva “tutta
di studi (Trento 26-27 ottobre 1987), a cura di G. Coppola, C. Grandi, Il Mulino, Bologna, 1989,
pp. 16-7.
348 P. Rasi, La conclusione del matrimonio prima del Concilio di Trento, Jovene, Napoli 1958, pp. 156 e
ss.; G. Zarri, Il matrimonio tridentino, in Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W.
Reinhard, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 437-83.
349 J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente,
Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 177; Vedi anche G. Duby, Matrimonio medievale. Due modelli della
Francia del dodicesimo secolo, Mondadori, Milano, 1994; D.O. Hughes, From Brideprice to Dowry in
Mediterranean Europe, in «Journal of Family History», III, 1978, pp. 262-96.
350 “Il primo accenno di promozione degli sponsali a sacramento si era avuto nel Concilio di
Firenze (1439); la promozione definitiva a Trento si deve alla teologia neo-scolastica spagnola,
che definisce (aristotelicamente) come sostanza del matrimonio non il consenso né il contratto,
ma la grazia, l’infusione mistico-magica del potere dello spirito, che solo il prete è in grado di
trasmettere, essendone portatore grazie al sacramento dell’ordine”. E. Brambilla, Sociabilità e
relazioni femminili nell’Europa moderna. Temi e saggi, a cura di L. Arcangeli, S. Levati, Franco
Angeli, Milano, 2013, p. 98.
351 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 214 e ss.
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sottoposta al clero non rimanendo via né modo per far matrimonio se coi preti,
cioè il parroco e il vescovo”352.
La gestione ecclesiastica del matrimonio prefigurava atteggiamenti e
itinerari diversi nella stessa comunità religiosa: si intrecciavano e coesistevano
insieme le scelte dell’autorità e quelle della libertà. Per un verso se le nozze si
sacralizzavano la Chiesa tuttavia poneva ugualmente l’accento sul consenso
come elemento essenziale e costitutivo del vincolo: l’antica tradizione
contrattualistica e il principio del libero arbitrio facevano riscoprire
l’autodeterminazione dell’individuo. Studi recenti hanno colto in
quell’atteggiamento “moderno” del Concilio le premesse, “il solido punto di
partenza”, di un “processo di individualizzazione” che si concluderà
nell’auspicio qui già ricordato di Beccaria in favore di una società costituita da
“uomini” e non da “famiglie”353. Da questo angolo visuale emergeva con forza
l’immagine di un corpo ecclesiastico ispirato ai valori del cristianesimo perenne
e impegnato attivamente sul territorio. Dall’altro invece si delineavano le
funzioni di mediazione e di disciplinamento svolte anche tramite il proprius
parochus tra le famiglie della comunità: delle iniziative orientate a costruire una
cultura omogenea e uniforme in grado di controllare e di modificare i
comportamenti collettivi. La famiglia diveniva “un ente soggetto a obblighi
piuttosto che titolare di diritti”354.
La coesistenza delle istanze della libertà e dell’autorità segna dunque gli
orientamenti della Chiesa nel corso dell’età moderna. In Italia tuttavia, ha
osservato D. Lombardi, la politica ecclesiastica in favore dei diritti individuali
finiva per attenuarsi progressivamente nei primi decenni del Settecento. Di
fronte alla diffusione dei Lumi, alle spinte di una mentalità e sensibilità nuove,
all’irrompere di costumi più liberi e disinvolti si faceva strada, in alcuni
ambienti curiali, come nei governi, l’esigenza di un rafforzamento dell’autorità
paterna intesa come strumento di tutela delle gerarchie sociali che sembravano
essere poste pericolosamente in discussione355. Abbiamo già fatto cenno al caso
di Venezia nella seconda metà del secolo. Almeno in città e nei Domini la
grande protesta contro la società tradizionale rimaneva ancora consegnata nel
ribellismo individuale: nella opposizione dei figli contro i padri,
nell’insofferenza verso l’idea tradizionale della famiglia. Il bisogno di vivere più
liberamente si risolveva anche nell’esigenza di sperimentare nuove relazioni a
prescindere dal ceto, nel porre in discussione principi e norme ormai
La citazione tratta dalla Istoria è in G. Zarri, Il matrimonio tridentino, cit., p. 459.
Ivi, p. 470.
354 A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna, in Storia d’Italia. Annali, v. IV,
Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino, 1981, p. 248.
355 D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., pp. 147-48, 154, 160 e ss.
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cristallizzate. Come abbiamo ricordato crescevano nell’antica Repubblica le
pratiche di separazione e di annullamento, aumentava la conflittualità e il
malessere all’interno delle famiglie, si diffondevano i matrimoni interclassisti
segreti e clandestini356.
Contro queste spinte, verosimilmente non solo locali ma generali, si
diffondevano in tutta la penisola opuscoli e trattati di religiosi e di laici che
sostenevano le ragioni dei padri più che quelle dei figli. In questo clima il
bersaglio privilegiato diveniva la mésalliance. Quell’indesiderato rovesciamento
sociale poteva essere consentito, almeno così si auspicava, soltanto con l’assenso
paterno e l’autorizzazione del vescovo357. In quegli anni divenne celebre la
Dissertatio teologico-legalis de sponsalibus et matrimoniis del canonista campano F.
M. Muscettola, un’opera che perorava la causa dell’antico diritto di famiglia. Il
testo pubblicato a Napoli nel 1723 avrebbe avuto una certa fortuna nel corso del
Settecento: veniva ristampato a Roma e a Bruxelles, sino ad essere poi edito
anche a Venezia nel 1772 dai fratelli Pezzana358. In tale contesto le questioni di
rango assumevano sempre maggiore rilevo tanto nella trattatistica come nelle
pratiche dei tribunali ecclesiastici, ad esempio in quelle delle giurisdizioni
fiorentine e toscane esaminate da D. Lombardi. Allo stato delle conoscenze
sembra che non solo il patriziato ma anche il ceto medio invocasse il sostegno
della Chiesa contro il disordine sociale causato dai matrimoni “scombinati” sin
dagli anni Venti del Settecento359.
G. Cozzi, Padri, figli, e matrimoni clandestini, in Id., La società veneta e il suo diritto, cit., pp. 19-64;
Id., Note e documenti sulla questione del “divorzio” a Venezia (1782-1788), in «Annali dell’Istituto
storico italo-germanico in Trento», VII, 1981, pp. 303-13; F. Meneghetti Casarin, “Diseducazione”
patrizia e “diseducazione” plebea: un dibattito nella Venezia del Settecento, in «Studi veneziani», XVII,
1989, pp. 117-56; R. Derosas, La crisi del patriziato come crisi del sistema familiare: dai Foscarini ai
Carmini nel secondo Settecento, in Studi offerti a Gaetano Cozzi, Il Cardo, Venezia, 1992; L. De Biase,
Amore di Stato. Venezia. Settecento, Sellerio, Palermo, 1992; T. Plebani, Socialità e protagonismo
femminile nel secondo Settecento, in Donne sulla scena pubblica. Socialità e politica in Veneto tra Sette e
Ottocento, a cura di N. M. Filippini, Franco Angeli, Milano, 2006, pp. 25-80, Ead., Un secolo di
sentimenti, cit. ; V. Hunecke, Il patriziato veneto, cit.
357 D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., pp. 148 e ss.
358 Francisci Mariae Muscettulae Archiepiscopi Rossanensis, Dissertatio de sponsalibus et
matrimonio. Editio prima veneta, Venetiis, Apud Franciscum et Nicolao Pezzana, 1772. F.M.
Muscettola (1660-1746) di nobile famiglia napoletana entrò nell’ordine teatino, poi a Roma
divenne consultore della Congregazione dei sacri riti. Clemente XI lo nominò arcivescovo di
Rossano Calabro nel 1717 dove rimase sino al 1738 quando si ritirò a Napoli sino alla
scomparsa, dimorando presso i Teatini a S. Maria degli Angeli. Vedi Memorie storiche degli
scrittori nati nel Regno di Napoli, compilate da C. Minieri Riccio, Tipografia dell’Aquila, Napoli,
1844, p. 233. Per le diverse edizioni dell’opera cfr. D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., p. 148.
359 Ivi, cit., pp. 148 e ss.
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Agli orientamenti dell’autorità ecclesiastica e alle voci dell’opinione
seguivano nello scorcio del secolo gli interventi del potere civile. In particolare,
tra 1771 e 1784, a Modena, Napoli, Firenze, Torino e Milano, l’offensiva
giurisdizionalistica imponeva il controllo statale sul matrimonio. Nondimeno
l’autorità si adoperava a consolidare l’ordine esistente. Nelle questioni familiari
e matrimoniali le scelte dei figli, in particolare dei minori, erano subordinate
alla paterna potestas, pena la diseredazione o la perdita della dote. La soglia
della maggiore età veniva fissata, per lo più, a trenta anni per i maschi e a
ventiquattro per le femmine, un’età indubbiamente assai elevata. È stato
osservato che il modello di riferimento tornava ad essere, a più di due secoli di
distanza, l’editto del 1556 di Enrico II, qui peraltro già ricordato360.
Le spinte del pensiero dei Lumi, il dibattito culturale e letterario degli
ultimi decenni e gli orientamenti del movimento d’opinione sollecitavano, sin
dalle prime vicende della Rivoluzione francese, persino nei cahiers de doléances,
perorazioni e richieste in favore della libera scelta matrimoniale e per la
limitazione dell’autorità paterna. La polemica nei confronti della patria potestas
si alimentava nei primissimi opuscoli della nuova era che, sin dall’89, si
moltiplicavano in Francia. Questi libelli reclamavano, sin dagli esordi, tra le
altre pretese, anche interventi di struttura, in particolare auspicavano il
rinnovamento del sistema successorio per garantire la parità e l’indipendenza
dei figli in armonia con il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte
alla legge361. Erano sempre i diritti individuali celebrati nella Dichiarazione del 26
agosto che invitavano i legislatori nei primi giorni dell’ottobre 1789 ad abolire le
“pratiche odiose”, specialmente quella delle lettres de cachet. Costoro
richiamandosi all’articolo 7 di quella celebre scrittura ponevano fine
all’insopportabile potere dei padri contro i figli ribelli che poteva culminare,
com’è noto, sin nell’arbitrio della reclusione362. Perseguendo i medesimi
P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 53 e ss.
C. Tosi, Giuseppinismo e legislazione matrimoniale in Lombardia. La Costituzione del 1784, in «Critica
storica» XXVII, 1990, pp. 235-301; D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento
alle riforme settecentesche, in Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio, C. Klapisch Zuber,
Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 215-250.
361 J. Gaudemet, Traditions canoniques et philosophie des Lumières dans la législation révolutionnaire.
Mariage et divorce dans les Projets de Code civil, in M. Vovelle, La Révolution et l’ordre juridique privé,
PUF, Université d’Orléan, Orléan, 1988, v. I, pp. 301 e ss.; J.F. Traer, Marriage and the Family in
Eighteenth-Century France, Cornell University Press, Ithaca and London, 1980, pp. 40 e ss., 78 e
ss., 139 e ss.
362 A. Soboul ricordava il decreto dell’8 ottobre 1789 con il quale l’Assemblea costituente
“riformava alcuni punti della giurisprudenza criminale “ abolendo le lettres de cachet, gli arresti
arbitrari, la tortura preventiva, la procedura segreta, l’assenza di difensore. Lo studioso poneva
in correlazione queste misure transitorie con la filosofia dei Lumi, il pensiero di Beccaria e gli
articoli 7, 8, e 9 della Dichiarazione del 26 agosto. Vedi A. Soboul, Storia della Rivoluzione francese,
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convincimenti, nell’agosto del 1790, venivano istituiti i tribunali di famiglia:
degli organi deputati a riequilibrare i conflitti domestici. I costituenti
intendevano temperare la puissance paternelle limitandola nei confronti dei
maggiorenni e mantenendo, invece, un certo grado di severità verso i minori 363.
Sarebbe stata tuttavia la Costituzione del 3 settembre 1791 ad affrontare il modo
diretto il problema formulando la nuova concezione rivoluzionaria dell’istituto
matrimoniale. Un celebre articolo del II titolo aveva dichiarato: “la legge
considera il matrimonio solo come contratto civile”364.
Tra il 28 agosto e il 20 settembre 1792 nuove disposizioni regolavano la
prassi matrimoniale. L’atto civile sarebbe stato celebrato alla presenza di un
pubblico ufficiale e di due o quattro testimoni, prima o dopo la benedizione
religiosa. La cerimonia, svolta in una sala pubblica del municipio, sarebbe stata
preceduta da pubblicazioni affisse all’albo comunale e poi registrata nei verbali
dello stato civile e non più sui libri parrocchiali. Il consenso dei genitori
permaneva ma solo per i minori di 21 anni che, in caso di disobbedienza, non
sarebbero più stati diseredati. Si poneva così fine all’odiosa disposizione che
aveva condizionato la vita dei giovani francesi per oltre duecentotrenta anni in
seguito al celebre editto di Enrico II. Se i minorenni erano sottoposti ai genitori
tuttavia la patria potestà era abolita. L’autorità paterna veniva trasformata in un
tutorato moderato e temporaneo sino al raggiungimento della maggiore età dei
figli, intesi ormai come individui titolari di diritti. Tramontava, lo si è già
osservato, il modello millenario della tirannide paterna di derivazione
aristotelica e romana365.
Veniva soprattutto meno, con la legislazione rivoluzionaria, l’inscindibile
coesistenza di sacramento e di contratto propria della concezione tradizionale
del matrimonio. Il legame ridotto a solo contratto civile si trasformava in un
libero negoziato tra eguali parti contraenti, revocabile e rescindibile, come ogni
Rizzoli, Milano, 1988, p. 92. Della Dichiarazione si indica qui soltanto l’articolo 7: “Nessun uomo
può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le
forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli
ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della
Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole”. Il testo è ora
in A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia moderna, Einaudi, Torino, 1952, p. 67.
363 J.F. Traer, Marriage and the Family, cit., pp. 41 e ss., 97 e ss., 137-150.
364 Costituzione del 3 settembre 1791, in A. Saitta, Costituenti e costituzioni, cit., titolo II, art. 7, p. 70.
365 Per la normativa vedi J.B. Duvergier, Collection complète des lois, décrets, ordonnances, règlement,
avis du Conseil d’État, publiée sur les éditions officielles du Louvre, Guyot et Scribe, Paris, 1834, v. IV,
p. 440.; J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 291 e ss. Sulla potestà paterna, P. Murat,
La puissance paternelle et la Révolution française: essai de régéneration de l’autorité des pères, in La
famille, la loi, l’ État de la Révolution au Code civil, éd. par I. Théry, C. Biet, Imprimerie nationaleCentre Georges Pompidou, Paris, 1989, pp. 390-411; M. Cavina, Il padre spodestato, cit., p. 187 e
ss.
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contrattazione ordinaria. “Una specie di associazione commerciale” –rilevavano
allora i contemporanei- che sarebbe diventata nulla “quando le condizioni
stipulate nell’atto d’unione non [fossero state] adempiute”366. Da queste
premesse traeva origine un decreto redatto lo stesso 20 settembre 1792 che
fissava le disposizioni in merito al divorzio367. Un istituto giuridico quest’ultimo
inteso dai legislatori come “il baluardo” della libertà individuale: un “ritorno
alla legge naturale”, una disposizione capace di ridisegnare tra i coniugi eguali
diritti e ruoli paritetici, al fine di impedire qualsiasi abuso o esercizio di
sovranità domestica. Poiché contrario al “principio della perennità del
matrimonio” il divorzio sarebbe stato autorizzato solo per “evidente necessità”.
Un “atteggiamento moderato- ha osservato J. Goudemet- che la legislazione e
più ancora l’uso che di essa fu fatto, superarono ben presto”. Tra il 1792 e il
Codice civile “una quindicina di leggi” accrebbero “ulteriormente le
facilitazioni”368. Tra il 1792 e il 1803 vi furono in Francia oltre 30.000 cause di
divorzio, più di 13.000 nella sola Parigi, obiettivamente non molte come ha
notato J.P. Bertaud. Soppresso nel 1816 l’istituto sarebbe stato reintrodotto
soltanto nel 1884369.
Nella volontà dei giuristi il matrimonio civile rispondeva ai nuovi bisogni
di una società che intendeva soprattutto garantire l’individuo e sui suoi diritti.
Era dunque prioritario salvaguardare il principio di autodeterminazione: una
prerogativa che trionfava nell’esercizio della scelta. Si trattava di una
affermazione di sé che tuttavia trovava il suo limite nella eguale risoluzione del
coniuge. Nondimeno era altrettanto necessario il riconoscimento della libertà
individuale da parte dello stato, un ente considerato incompetente nelle
questioni personali. Una organizzazione politica garante del pluralismo
d’opinione e di coscienza, rispettosa delle differenze, e in quanto tale avversa
ad ogni forma di omologazione sociale. Pertanto l’individuo non poteva essere
considerato più per le sue appartenenze ma stimato solo come cittadino
francese: per queste ragioni il matrimonio doveva essere innanzitutto civile.
La piena autonomia e indipendenza dell’individuo all’interno del nucleo
familiare poteva realizzarsi compiutamente solo con la revisione del sistema
successorio, affrontando radicalmente le questioni sino ad allora insolute del
diritto di famiglia. Già il 15 marzo 1790 l’Assemblea costituente aveva abolito il
diritto di primogenitura e il privilegio di mascolinità orientandosi verso il
La citazione è in J.P. Bertaud, La vita quotidiana in Francia al tempo della Rivoluzione (1789-1795),
Rizzoli, Milano, 1988, p. 173.
367 L. Luzi, Riflessioni su matrimonio civile e divorzio all’epoca della Rivoluzione francese, in
«Mediterranea. Ricerche storiche», VIII, 2011, pp. 273-312.
368 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 299 e ss.
369 J.P. Bertaud, La vita quotidiana, cit., p. 183.
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principio della parità di tutti i figli nelle successioni370. Sarebbero state tuttavia
le leggi del 7 marzo 1793 e del 6 gennaio 1794 ad affermare, sia pur
temporaneamente, il criterio democratico dell’ eguaglianza reale di tutti gli
eredi nell’ambito della famiglia371. Si aboliva “qualsiasi distinzione tra i figli: di
nascita, di sesso, di età. Legittimi e illegittimi, maschi e femmine, primogeniti e
cadetti, tutti godevano degli stessi diritti e nessuno poteva rivendicare privilegi
speciali”372. Questa svolta epocale che contribuiva a liquidare l’Antico regime
sociale era stata salutata, nel 1835, da A. de Toqueville come un momento
costitutivo per l’affermazione della moderna democrazia, e non solo, in un
celebre passo de La democrazia in America, più volte segnalato dagli studiosi, che
qui volentieri riproponiamo: ”La suddivisione dei patrimoni, frutto della
democrazia, contribuisce più d’ogni altra cosa a cambiare i rapporti tra padre e
figli. […] Via via che i costumi e le leggi si fanno più democratici, i rapporti tra
padre e figlio divengono più intimi e più distesi. La costrizione e l’autorità si
fanno meno sentire, la fiducia e l’affetto sono spesso maggiori e il vincolo
naturale sembra farsi più stretto, mentre il vincolo sociale si allenta. […] La
democrazia non lega quindi i fratelli attraverso gli interessi, bensì attraverso la
comunanza dei ricordi e il libero simpatizzare della mentalità e dei gusti. Essa
divide la loro eredità, ma permette la fusione degli animi”373.
Queste istanze che preludevano alla storia dell’Ottocento correvano il
rischio tuttavia di rimanere in quegli anni soffocate. Anche nella concezione del
matrimonio propugnata dalla Rivoluzione francese può cogliersi una
coesistenza di motivi. Quell’intreccio di tendenze libertarie e autoritarie che
abbiamo visto scaturire dal modello tridentino del matrimonio si ravvisa anche
nella elaborazione rivoluzionaria dell’ultimo Settecento. I legislatori francesi
pensavano che il matrimonio civile costituisse l’elemento di passaggio dalla
condizione biologica a quella sociale, dalla dimensione privata e personale di
un legame sentimentale e affettivo, a quella generale, nazionale. In altri termini
il matrimonio non era inteso solo come “un debito che l’uomo integro ha con la
natura, ma anche come dovere del cittadino verso al patria. […] un legame
sociale che unisce il cittadino alla patria e la patria al cittadino” 374. Contributi
recenti, ispirati ai grandi classici del pensiero revisionista degli anni Cinquanta-
J.F. Traer, Marriage and the Family, cit., pp. 158 e ss.
Vedi, J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 304-5 ; L. Luzi, Riflessioni su matrimonio,
cit., pp. 311-12 e n.
372 D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., p. 197.
373 Vedi, Scritti politici di Alexis de Tocqueville, a cura di N. Matteucci, v. II, La democrazia in
America, Utet, Torino, 1968, libro II, parte III, cap. VIII, Influssi della democrazia sulla famiglia, pp.
688, 690.
374 J.P. Bertaud, La vita quotidiana, cit., p. 172.
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Settanta del secolo scorso, hanno colto nella concezione rivoluzionaria del
matrimonio un “modello coniugalista” destinato ad affermarsi in Francia tra il
1789 e il 1802. Un modello nel quale si fondevano insieme i valori della coppia e
della cittadinanza, dando luogo ad un legame indissolubile tra il familiare e il
politico, tra il microcosmo familiare e il macrocosmo sociale. Questa idea di
famiglia, le cui origini teoriche risalirebbero al Contrat social di Rousseau si
sarebbe tradotta, nella sperimentazione rivoluzionaria, in rapporti familiari
orientati nella vana ricerca di un’eguaglianza astratta delle condizioni. I fittizi
interessi comuni sarebbero stati peraltro funzionali a premiare la “volontà” del
pater familias il detentore dei diritti politici e della potestà familiare. Mutatis
mutandi si sarebbe assistito “all’incoronazione del figlio di famiglia”, una nuova
figura egemone, capace di “detronizzare definitivamente quel vecchio patriarca
di suo padre nell’estate del 1792”375.
Comunque sia non si può escludere che la famiglia corresse il rischio di
divenire il cuore palpitante di un tutto omogeneo e uniforme, la patria. La lotta
di liberazione interiore, anche in questo caso, scorgeva l’abisso della servitù
volontaria. La cerimonia del matrimonio si trasformava anche in un’occasione
di educazione civica come documentano gli studi e le testimonianze teatrali alle
quali a breve si farà cenno376. Il decreto del 3 brumaio a. IV (25 ottobre 1795) a
puro titolo d’esempio, istituiva la fête des époux, una delle nuove “feste morali” o
“fisse” del sistema termidoriano e direttoriale, secondo la definizione di M.
Vovelle. Una festa, quella degli sposi, volta a “convincere e istruire”, secondo il
costume ormai prevalente377. In particolare la ricorrenza celebrava, con le virtù
coniugali, anche quelle pubbliche e civili: il matrimonio e la famiglia
divenivano inevitabilmente strumenti per la costruzione del consenso.
L’antologia teatrale proposta da H. Welschinger nel lontano 1880, una
scelta attenta alle questioni matrimoniali e familiari emerse con la Rivoluzione,
mette in evidenza una produzione non del tutto monocorde e suscettibile di
analisi future sul tema che qui discutiamo378. Schematizzando si possono
cogliere due orientamenti contrapposti tra le circa quindici pièces, redatte a
Parigi tra il 1789 e il 1796, raccolte a suo tempo dallo studioso francese. Accanto
ad alcuni testi meno lineari e di più difficile collocazione, almeno sei commedie,
A Verjus, Il buon marito, cit., in particolare pp. 7-39.
O. Martin, La crise du mariage dans la législation intermédiaire, 1789-1804, Libraire Nuovelle de
Droit et de Jurisprudence, Paris, 1901, in particolare p. 179; J.P. Bertaud, La vita quotidiana, cit.,
pp. 177-80.
377 M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria. Società e mentalità durante la rivoluzione francese, Laterza,
Roma-Bari, 1987, p. 170. Su la fête des époux, vedi Id. La metamorfosi della festa in Provenza (17501820), Il Mulino, Bologna, 1986, p. 156 e ss.
378 H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution 1789-1799. Avec documents inédits, Slatkine, Genève,
1968 (I ed., Paris, 1880), pp. 248 e ss.
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pubblicate per lo più tra 1793 e ’94, si configurano come dei veri e propri
catechismi rivoluzionari sceneggiati. Erano per lo più componimenti
estemporanei, risolti in un solo atto di poche pagine, delle operette idonee ad
essere rappresentate per il loro carattere disimpegnato, “sans intentions
psychologiques ni morales”, presso il nuovissimo théâtre du Vaudeville. Uno
spazio scenico ricavato da un‘antica sala da ballo nel primo arrondissement, in
rue de Chartres Saint Honoré e inaugurato nel gennaio del 1792379. Su quel
palcoscenico i protagonisti di queste farse, con le loro le conclamate certezze
sembravano agire come esecutori meccanici di un credo.
Le pièces a tutta prima sembravano fornire soltanto indicazioni
programmatiche. Innanzitutto si ribadiva la sola validità del matrimonio civile.
Emergevano le preoccupazioni dell’ora: la famiglia veniva raffigurata come un
inesauribile serbatoio a supporto della nazione. Era necessaria la maggiore
quantità possibile di matrimoni e di figli: urgevano braccia e coscienziosi
patrioti per salvare, in quei frangenti difficili, la patria in pericolo e con essa la
Rivoluzione, come peraltro pensavano allora i giacobini che credevano “nel
valore del numero”. Le considerazioni demografiche e l’idea della “Nazione più
popolosa” sostenevano la propaganda del matrimonio inteso anche dai
rivoluzionari come fonte della vita380. Le preoccupazioni montagnarde e le
future ambizioni del Consolato e dell’Impero convergevano, sotto questo
aspetto, sul significato del matrimonio e della famiglia. “Pour savoir aimer son
pays faut être époux et père […] ainsi que tout célibataire ne fut jamais bon
citoyen”381. Di fronte alle note minacce interne ed esterne che correva allora la
Repubblica alcuni dialoghi di queste farse risuonavano come una vera e propria
chiamata alle armi: “nos enfants seront comme nous bons citoyens. Il faut en
avoir beaucoup, mes amis. Beaucoup d’enfants, beaucoup de mariages! Le
E.F. Lintilha, Histoire générale du théâtre en France. La comédie de la Révolution au Second Empire,
Flammarion, Paris, 1973.
380 Sulla questione vedi, J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., p. 293.
381 Au Retour, fait historique et patriotique. En un Acte et en Vaudevilles, Des Citoyens Radet et
Desfontaines. Représenté à Paris sur le Théâtre du Vaudeville le 4 e jour de la seconde Décade du mois
Brumaire, l’an deuxième de la République, une et indivisible, A Paris, Chez le Libraire du Théâtre du
Vaudeville, Atto I, 6. J.B Radet (1751-1830) autore fecondo stese numerosissime pièces in
collaborazinìone con Desfontaines ed altri. Decano del Vaudeville, prima della Rivoluzione era
stato pittore e bibliotecario. Arrestato nel 1793 liberato a Termidoro, ottenne una pensione nel
1801 e fu insignito della Legion d’Onore. G.F. Desfontaines (1732-1825), censore e provveditore
della biblioteca del re. Persi gli incarichi con la Rivoluzione si dedicò al teatro rivelandosi un
autore prolifico anche se stese molte opere in collaborazione. Celebrò con delle Chansons
populaires, insieme ad altri, l’incoronazione di Napoleone ( 2 dicembre 1804). Su entrambi gli
autori vedi le due note bio-bibliografiche in G. Trisolini, Rivoluzione e scena. La dura realtà (17891799), Bulzoni, Roma, 1988, pp. 586-92.
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mariage est à l’ordre du jour. La République est pressée. Il n’y a pas un istant à
perdre”382.
Forse e non solo per queste ragioni, s’imponeva il modello della prole
numerosa. La famiglia si configurava dunque come la cellula primaria
dell’educazione politica: un nucleo guidato dal “buon padre” repubblicano che
avrebbe dovuto provvedere, anche in virtù della sua dedizione al bene
pubblico, all’educazione civile e morale dei figli. Tuttavia, tra le cadenze
monotone della catechetica, affioravano i drammi individuali e personali dei
francesi. Quella famiglia che la propaganda voleva unita e militante appariva
nonostante tutto lacerata e divisa sul palcoscenico. Segnata sin nel suo interno
dalle preoccupazioni del tradimento e della cospirazione. Emergeva con
efficacia, anche per mezzo del teatro, il conflitto che era insieme politico e
generazionale e schierava, all’interno del nucleo domestico, i figli contro i padri
rievocando, con il vissuto della guerra civile, una crisi che era anche affettiva,
esistenziale.
Esemplare a riguardo sembra essere L’époux républicain un “drame
patriotique”, di M. Pompigny, un’opera questa volta in due atti, rappresentata
l’8 febbraio 1794 al teatro de la Cité-Variétés di Parigi, il cui testo è stato
pubblicato integralmente da G. Trisolini nel 1988383. Dramma della guerra civile,
la pièce venne accolta favorevolmente dai contemporanei, andando in scena per
sette mesi consecutivi su quello stesso palcoscenico384. I due atti descrivevano il
conflitto lancinante tra “l’amore e il dovere” vissuto dal fabbro Franklin che,
pur marito e padre, finiva per denunciare come cospiratori la moglie Melissa e
il figlio Floréal. Li consegnava ai gendarmi consapevole di decretarne, in tal
modo, la morte385. Era stato Romarin, “homme de confiance” di Franklin, a
svelare il tradimento, a informare il coscienzioso fabbro, tramite un secco
dialogo di forte impatto drammatico, che nella sua casa abitavano dei “mostri”,
Le canonnier convalescent, fait historique, en un Acte et en Vaudevilles. Par J.B. Radet. Représenté
pour la première fois sur le Théâtre du Vaudeville le 11 Messidor de l’an second de la République, une et
indivisibile. A Paris, Chez le Libraire du Théâtre du Vaudeville. Troisième année de la
République, Atto I, ultima.
383 L’époux républicain, drame patriotique en deux actes et en prose, par Pompigny. Représenté pour la
première fois à Paris, sur le Théâtre de la Cité Variétés, le 20 Pluviôse, second année de la
République Française, une et indivisibile, ora in G. Trisolini, Rivoluzione e scena, cit., pp. 298-346.
Sull’opera vedi, H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution, cit., 249-50; M. Albert, Les Théâtres de
Boulevards (1789-1848), cit., pp. 146-47; M. Carlson, Le théâtre de la Revolution Française, cit., 23132; G. Trisolini, Rivoluzione e scena, cit., 64-70. Ivi, pp. 347-48 cenni bio-bibliografici su M.
Pompigny, “rivoluzionario, giacobino e combattente” autore, tra 1783 e 1813, di una trentina di
commedie in prosa prevalentemente in uno o due atti.
384 G. Trisolini, Rivoluzione e scena, cit., p. 64.
385 L’époux républicain, drame patriotique, cit., Atto II, 13.
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dei “cospiratori”. “Des émigres? Non des cospirateurs. Qui sont-ils? Ta femme.
Ciel! Et ton fils. Floréal? Lui-même386. Franklin non cedeva alla commozione
vedendo Melissa che implorava pietà. Doveva trionfare, a conclusione di un
processo interiore tormentato e sofferto, il “diritto della virtù” “sul delitto”387.
Non si trattava di una banale rievocazione del Brutus di J. L. David,
l’opera realizzata dal grande pittore nel 1789 in seguito alla presa della Bastiglia
e oggi custodita al Louvre. Il tema rappresentato era indubbiamente lo stesso,
ma la commedia di Pompigny nonostante il valore letterario modesto
acquistava per gli spettatori d’allora, nel terribile 1793-’94, un significato
diverso, sentito. J. Starobinski ha affermato che per comprendere “appieno il
significato dell’opera” di David è necessario “leggere il titolo completo del
quadro”, la didascalia nella sua la sua concreta spiegazione: “Junio Bruto,
primo console, di ritorno alla sua casa, dopo aver condannato i due figli che si
erano uniti ai Tarquini e avevano cospirato contro la libertà romana. I littori
riportano i loro corpi perché egli dia loro sepoltura”388. Il dipinto era ispirato al
Bruto primo di Alfieri redatto, come sappiamo, dall’astigiano nell’87, e
pubblicato a Parigi, ci informa Starobinski, proprio mentre David ultimava il
quadro. Verosimilmente l’invettiva conclusiva di Bruto: “Libera or sorge dal
quel sangue Roma […]; Io sono l’uomo più infelice che sia nato mai” aveva
colpito, per quel contrasto atroce di sentimenti il grande pittore389. Il Brutus, per
l’autorevole studioso costitutiva la sintesi concettuale della produzione
precedente di David e faceva “intravedere”, nel gesto disumano e impietoso del
primo console, “una sublimità tragica” nel senso “kantiano” del “termine” che
nelle altre opere (il Giuramento degli Orazi e il Giuramento del Jeu de Pome)
probabilmente ancora mancava390. Il tremendo sacrificio di Bruto rievocava
l’impossibile scelta di Abramo, e assurgeva a comportamento eroico in quanto
manifestazione consapevole di una azione individuale di significato universale.
Quell’atto virtuoso e sublime che “metteva in evidenza il limite estremo della
devozione patriottica”391 accomunava le due figure del console e del fabbro,
entrambi padri che avevano condannato a morte i propri figli per salvare la
patria. Con la loro sofferta vicenda umana, comprensibile da tutti, la retorica di
una facile propaganda era archiviata392. L’idea di operare secondo i principi
Ivi, Atto II, 6.
Ivi, Atto II, 10.
388 Il testo in J. Starobinski, 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Abscondita, Milano, 2010, p. 89.
389 V. Alfieri, Bruto primo, cit., Atto V,2.
390 J. Starobinski, 1789, cit., pp. 85-93.
391 Ivi, p. 89.
392 “L’homme de bien n’a pas besoin d’exemple pour faire son devoir; il ne consulte que son
coeur”, L’époux républicain, drame patriotique, cit., Atto II, 20. Per David oltre a J. Starobinski,
1789, cit., pp. 83-103 vedi le altrettanto significative considerazioni di V.G. Plechanov, La
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della legge morale che altrove abbiamo chiamato “l’etica dell’autenticità”
trovava nella Francia di fine secolo, lacerata dalla rivoluzione e dalla guerra,
una sua testimonianza estrema, forse addirittura paradossale, tanto nelle
espressioni più alte e compiute dell’arte come nella produzione minore
letteraria e teatrale destinata a scomparire o a restare trascurata.
Prima di passare ai testi italiani è necessario un rapidissimo accenno a
quello che, a nostro parere, si configura come l’altro nucleo tematico
significativo che affiora nei documenti teatrali raccolti da Welschinger intorno
al tema della famiglia e del matrimonio393. Alcune pièces redatte tra il 1791 e il
1796, lasciavano completamente sullo sfondo i motivi politici orientando
l’introspezione psicologica nello scavo delle vicende private della vita
quotidiana che riuscivano finalmente a prevalere nelle commedie. Tornava in
auge il più pacato genere attendrissant così amato dagli spettatori della
generazione precedente, sia pur adattato alle recentissime spinte della
sensibilità. Anche in questo caso il peccato, il tradimento, il dolore e la
sofferenza divenivano gli elementi per lo sviluppo di un percorso interiore. Un
itinerario che portava i protagonisti a scoprire attraverso gli altri se stessi,
esclusivamente su un piano affettivo e sentimentale. Questi testi, assai più delle
contemporanee commedie italiane che stiamo per esaminare, si aprivano al
nuovo modello di famiglia coniugale intima: affiorava sulle scene quella
“fusione degli animi” che Tocqueville, come abbiamo ricordato, considererà
l’elemento costitutivo della nascente democrazia.
Il tema dell’amore contrastato nelle commedie italiane del 1796-’97
“[La natura] mi parla altamente al cuore, e mi dice, che i diritti da essa concessi
ai genitori sui propri figli ad altro non tendono che a formare la loro felicità,
non a farli vittime dei loro capricci, dei loro pregiudizi; che il tiranneggiarli, che
l’opprimerli, è violare sacrilegamente tutte le sue leggi; mi dice che cotesti diritti
non accordano ad essi la facoltà di violentare la libertà loro nella scelta di uno
sposo, perché la felicità del matrimonio consiste nell’unione dolcissima che
forma due cuori”.
“[…] Si mi ha detto [Vittore], che qualunque possa essere la sorte che voi
mi preparate, io devo ricordarmi sempre di essere vostra figlia, che le vostre
violenze, la vostra oppressione non potrà mai autorizzare in me un
letteratura drammatica francese e la pittura del XVIII secolo dal punto di vista della sociologia, in Id.,
Scritti di estetica, Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 166 e ss.
393 H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution, cit., pp. 248 e ss.
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mancamento di rispetto, e di disobbedienza; che la mia rassegnazione e la mia
virtù […] sarà però riguardata con occhio favorevole dal Cielo […]394”.
Le due citazioni provengono entrambe dalla Rivoluzione, una fortunata
pièce bolognese in tre atti, molto in voga nel Triennio, andata in scena e
stampata anche a Venezia nell’ottobre 1797. Tale contestazione formale
dell’ordine esistente che si traduce in una adesione puramente verbale ed
estrinseca ai nuovi principi ricorre anche nelle altre opere patriottiche
presentate in questa sezione. Solo Il matrimonio democratico di Sografi, che a
breve discuteremo, sembra discostarsi da questa linea di tendenza.
Il motivo della mésalliance e dell’impedimento d’amore ispirava La figlia del
fabbro di C. Federici, un’opera, lo si è già accennato, rappresentata per la prima
volta a Brescia nel dicembre del 1796 e poi andata in scena in molte città
compresa Venezia. Il testo sarebbe stato stampato a Torino nel 1797395. Federici
originario di Cuneo e veneto d’adozione, dopo essere stato magistrato a
Moncaleri, abbandonava l’attività forense alla fine degli anni Settanta, poco
meno che trentenne, per divenire autore e attore teatrale, seguendo un’antica
passione manifestata sin dall’infanzia. Il nostro, seguace di Goldoni redigeva, in
circa trent’anni d’attività, una settantina di pezzi, alcuni dei quali tradotti in
francese, tedesco e spagnolo. Federici riscosse i maggiori successi grazie alle sue
comédies larmoyantes, applauditissime allora dal pubblico, con le quali voleva
“unire il diletto alla buona morale, ferire il vizio con que’ riguardi che vuole
l’urbanità e la decenza”396. Il cuneese intendeva, in altri termini, tentare di
conciliare quel che recepiva del pensiero dei Lumi con i valori costitutivi della
società tradizionale. La sua larvata polemica verso il patriziato, non a caso,
rimaneva di fatto consegnata, come per il suo maestro Goldoni, in una
prospettiva esclusivamente morale, volta a riflettere sulla condizione generale
dell’uomo a prescindere dal ceto. Prima della discesa dell’Armée d’Italie nella
La Rivoluzione. Commedia patriottica. Bologna 1797, anno I della libertà italiana, cit., Atto, II, 10.
G. Dumas, La fin de la République de Venise, cit., pp. 356-7. La figlia del fabbro commedia
democratica in cinque atti del cittadino Camillo Federici, Torino dai cittadini Pane e Barberis, anno I
della libertà piemontese. La pièce continuò ad essere rappresentata con successo nel primo
Ottocento e venne acclusa nelle dodici edizioni delle Opere del nostro che si susseguirono sino a
quella del 1832-33. Vedi Commedie scelte di Camillo Federici, v. VII, in Biblioteca teatrale economica
ossia raccolta delle migliori tragedie, commedie e drammi tanto originali quanto tradotti, Tipografia
Chirio e Mina, 1832, pp. 7-89. Sugli adattamenti volti a eliminare i passi connotati in senso
“democratico” de La figlia del fabbro nelle edizioni post-rivoluzionarie vedi l’Introduzione in La
commedia del Settecento, a cura di R. Turchi, Einaudi, Torino, 1988, v. II, p. XXX; P. Trivero,
Commedie giacobine italiane, Edizioni dell’Orso, Torino, 1992, pp. 7 e ss. (indicazione di alcune
varianti).
396 Collezione di tutte le opere teatrali del signor Camillo Federici coll’aggiunta di alcune non ancora
pubblicate colle stampe, presso Gaetano Ducci, Firenze, 1826-’27, v. I, p. 5.
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nostra penisola le pièces di Federici erano ancora poco sensibili al cambiamento.
Il letterato, ad esempio, celebrava in Totila, una commedia in cinque atti
pubblicata a Firenze nel 1794, ancora la magnificenza del “sovrano illuminato
ed equanime”397.
Le medesime incertezze e contraddizioni possono cogliersi ne La figlia dei
fabbro un’opera, si crede, solo superficialmente aperta ai nuovi principi e valori.
La commedia, ambientata nella Sicilia vicereale, ricostruiva la difficile storia
d’amore tra Luigia e Carlo, figli rispettivamente del fabbro Giorgio e di
Ruggero l’ex-duca di Colfiorito, presidente di una ipotetica Municipalità
rivoluzionaria (nelle edizioni ottocentesche duca e Pretore di Palermo) 398. Carlo,
come Saint-Albin nel Padre di famiglia di Diderot, per avvicinare l’amata, “bella e
modesta”, si presentava sotto le mentire spoglie di Giuseppe, “un artigiano dei
sobborghi”399. Il giovane tuttavia non riusciva a liberarsi dai condizionamenti
sociali, dalle minacce e dagli ostacoli posti continuamente dalla madre che si
opponeva con fermezza al matrimonio facendo tra l’altro rapire Luigia400. La
duchessa (ex-duchessa nella edizione del 1797), simbolo della persistenza della
tradizione sosteneva dunque le ragioni del matrimonio d’interesse e di rango.
Chiedeva rispetto e ricordava ai familiari che nessun primogenito dei Colfiorito
aveva mai potuto sposare una donna che non fosse nobile401. Alla figura del
patriziato arroccato in difesa delle sue prerogative la commedia, con elementare
efficacia didattica, contrapponeva i profili positivi dell’aristocratico “convertito”
e del fabbro.
Il contrasto tra il mondo del lavoro e quello della “signoria” è
rappresentato non soltanto dalla descrizione della fucina nella quale fabbro e
garzoni “battono i ferri, impugnano le loro mazze, accendono fuochi, si
asciugano il sudore” ma anche nelle parole del fabbro che, capovolgendo i ruoli
tradizionali, parla dei “signori” con esplicito disprezzo: “ma mi pagheranno poi
le opere che mi hanno ordinato? Oimè! Io li conosco. Grandi e orgogliosi nel
comandare sono piccoli e cavillosi nell’aggradire. Vogliono ciò che vogliono
C. Federici, J, von Weissenthurn, Totila, a cura di P.M. Filippi, M. Marsigli. Bononia
University Press, Bologna, 2009, p. 21. Per indicazioni bio-bibliografiche sull’autore vedi ivi, pp.
29-43.
398 La figlia del fabbro commedia, cit., Atto I, 6, 7, 8, II, 2, 5.
399 Ivi, Atto II, 2, 5, III, 2. D. Diderot, Il padre di famiglia, cit., Atto I, 7, II, 6, 9.
400 La figlia del fabbro commedia, cit., Atto IV, 5.
401 “Sono duecento e più anni che nella discendenza di Oddone di Colfiorito niun primogenito
ha mai sposato alcuna che non fosse di più alto lignaggio. Osservate: Bernardo I si unì alla
contessa del Faro, Oliviero […] Odoardo […]. E tirando innanzi troverete sempre titoli e nomi
degli di noi sino a Ruggero qui presente […] vorreste voi che, per compimento di questa
luminosa serie di eroi, si vedesse scritto Carlo di Colfiorito ha sposato la figlia di un fabbro?”,
Ivi, Atto V, 3.
397
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subito: pagano tardi e qualche volta non mai, e per soprappiù ci maledicono” 402.
Ruggero era accomunato nell’amore del lavoro a Giorgio. La fisionomia del
magistrato si ispirava a quella di lord Hudson, il protagonista che abbiamo
incontrato nel Cavaliere Woender di Sografi403. Anch’egli come il “Maire”
lavorava in modo indefesso, non amava se stesso ma il bene di tutti, non si
curava dell’amicizia dei potenti, per rimanere un uomo indipendente e per
poter amministrare la giustizia senza osservare riguardi per nessuno. A chi gli
ricordava, in tono di rimprovero: “la tua casa è il pretorio, il tuo caro è il
popolo, il tuo idolo la patria […] dove sono gli altri tuoi doveri?” Ruggero
rispondeva: “l’amor della patria li abbraccia tutti. Chi ama la patria ama la sua
famiglia e il suo lavoro”404. Anche la costruzione di questo personaggio
conferma la tendenza allo smussamento dei contrasti, alla conciliazione degli
opposti: un nobile divenuto amico del “popolo”, inconsapevolmente ma non
retoricamente patriota, funzionario esemplare.
Anche in questa commedia era il magistrato a guidare il processo di
emancipazione morale e civile dell’incerto e riluttante Carlo, sino alla fine
combattuto tra le ragioni sociali e quelle del cuore405. Di fronte alle continue
richieste di aiuto di Carlo, il padre lo invitava a più riprese a trovare le risposte
nella sua coscienza406. Nelle parole di Ruggero si precisava la nuova idea di
virtù e di onore che allora si stava affermando in Italia. La correttezza, l’onestà e
la dedizione al lavoro determinavano, per il magistrato, l’autentica scala per
misurare i diversi livelli sociali407. L’onore veniva definito come costruzione
autonoma di una scelta morale. Una scelta che Carlo avrebbe dovuto compiere
da solo scrutando il proprio cuore408. Tuttavia le conclusioni della commedia
indebolivano il significato di quella ipotesi di rigenerazione morale. Nelle
ultime battute Carlo si era ormai finalmente persuaso. Luigia, invece, ancora
esitava. Rifletteva sui pregiudizi e sui condizionamenti sociali. Per amore di
Carlo si sottraeva, rinunciava a un matrimonio foriero di sventure per entrambi.
Era lo stesso Ruggero di fronte alle difficoltà a rivelare, come sempre in questi
casi, l’imprevedibile nobiltà di Luigia. L’equiparazione sociale consentiva anche
all’ex-duchessa di accettare la nuora senza drammi409. In realtà Ruggero sin dal
secondo atto sapeva. In un colloquio con Giorgio, nella fucina, era venuto a
Ivi, Atto II, 1.
A.S. Sografi, Il cavalier Woender, cit., Atto V, 3, 7.
404 La figlia del fabbro commedia, cit., Atto I, 1,4,5.
405 Ivi, Atto II, 2, III, 1, 4.
406 Ivi, Atto III, 1, 2, 5, IV, 7, V, 1.
407 Ivi, Atto I, 8, IV, 4.
408 Ivi, Atto III, 2, 5, IV, 7.
409 Ivi, Atto V, ultima.
402
403
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conoscenza dei nobili natali della ragazza410. Il suo successivo impegno
pedagogico nei confronti del figlio perdeva pertanto forza ed efficacia,
smorzava il significato della prova, consentendola solo in una situazione
protetta, priva di rischi. Il confronto di Carlo con se stesso sembrerebbe quasi
rievocare l’evanescenza fantasiosa e irreale della finzione de Le jeu de l’amour et
du hasard di Marivaux. Erano passati settant’anni e l’opera di Federici, redatta in
un momento decisivo della storia italiana, testimoniava l’arretratezza di una
certa nostra cultura.
Una commedia stampata a Modena nel 1798, Il repubblicano si conosce alle
azioni ossia la scuola de’ buoni costumi suggerisce un’altra variazione sul tema
della mésalliance che si crede opportuno ricordare411. La pièce era stata redatta da
Giambattista Nasi negli ultimi mesi del 1797, come si desume dalla prefazione
al testo. Questi, poeta e commediografo emiliano, conosciuto tra gli arcadi come
Aminta Lampeo, era l’autore di un trattatello sul decadimento del teatro comico
italiano, a suo modo allora conosciuto. Si trattava tuttavia di un letterato di
rilievo minore e di tiepidi sentimenti rivoluzionari, che coltivava buone
amicizie ed era corrispondente di G. Pindemonte412. I cinque atti della
commedia descrivevano le vicende di due famiglie “borghesi”: quella del ricco
commerciante Ortensio e l’altra di Melchiorre ormai caduta in disgrazia.
Melchiorre spinto dalle necessità si era trovato costretto a trasformare la pittura,
un suo antico passatempo, in una attività, peraltro poco redditizia, per poter
tirare avanti. Lo sviluppo delle scene e la vocazione didattica dell’autore
trasformavano la commedia in una sorta di catechismo repubblicano
sceneggiato, o, se si vuole ricorrere all’espressione di Nasi in “un quadro
vivente dell’educazione democratica”413.
La famiglia di Ortensio ed i personaggi che gravitavano intorno alla sua
casa esprimevano i nuovi ideali di dedizione al lavoro, di competenza, di
Ivi, Atto II, 4.
Il repubblicano si conosce alle azioni ossia la scuola de’ buoni costumi. Commedia patriottica di
carattere di cinque atti del cittadino Giambattista Nasi juniore modanese, in Modena presso la Società
Tipografica. Anno VI Repubblicano.
412 Per la datazione vedi, Ai lettori e Al cittadino Giambattista Nasi il cittadino Giovanni Pindemonte
in Il repubblicano si conosce dalle azioni, cit., pp. 7-10. Sull’autore vedi Notizie biografiche in
continuazione della Biblioteca Modenese del cavalier abate G. Tiraboschi, Tipografia Torregiani,
Reggio, 1837, v. V, p. 50. G. Azzaroni, La rivoluzione a teatro. Antinomie del teatro giacobino in Italia
(1796-1805), Clueb, Bologna, 1985, p. 362.
413 Melchiorre ad Ortensio: “Ah, degno padre di famiglia! Voi potete aprire una scuola per fare
degli allievi alla Democrazia” Il repubblicano si conosce alle azioni, cit., Atto V, 10. Un giudizio
severo sulla commedia può cogliersi V. Monaco, La repubblica del teatro (momenti italiani 17961860), cit., pp. 35 e ss. Secondo l’A. “il carattere di esteriorità del nostro giacobinismo” si riflette
in questa pièce caratterizzata “soltanto” da tono “predicatorio e noiosità cattedratica”.
410
411
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correttezza che caratterizzavano quei nuovi ceti emergenti dei quali la
repubblica allora cercava l’appoggio. Appare esemplare, a questo proposito, la
figura del computista Claudio, un dipendente dell’impresa, per il quale la
passione repubblicana s’intrecciava con la consapevolezza del nuovo ruolo
sociale che egli aveva conquistato esercitando “l’utilissima professione del
computista che s’aggira sulla ragione e sulla verità” 414. Nella commedia i
rappresentanti dei ceti medi patriottici hanno ormai preso irrevocabilmente le
distanze dalle esperienze radicali della Rivoluzione. “Vi siete così presto
dimenticati la Rivoluzione di Francia?” protestava Odoardo, il falso
repubblicano, il personaggio negativo della commedia. A questi Ortensio
rispondeva che “i paragoni sono odiosi” ed era necessario distinguere. La pièce
rifiutava in sostanza il radicalismo giacobino, un’esperienza congiunturale della
storia francese ormai, anche al di là delle Alpi conclusa e superata, e del tutto
incompatibile con la diversa situazione italiana415.
I personaggi della commedia rappresentavano i problemi e i conflitti
d’una società nuova, d’un mondo in trasformazione. Ortensio e Melchiorre, i
protagonisti positivi, erano espressione di una democrazia che tendeva alla
normalizzazione: temevano il disordine e l’anarchia, ponevano alla base della
convivenza civile l’ordine e il rispetto della legge. Ortensio, “troppo rigoroso”
credeva che “libertà ed eguaglianza esigano grandi doveri, obbedienza alla
legge, severa istruzione”416. Per l’estremista Odoardo, invece, libertà significava
“che un uomo può fare tutto ciò che gli pare e piace purché non lo vieti la
legge”417. Una formula, questa, che definiva la sfera della legalità ben
diversamente da quella della moralità le cui norme non potevano esprimersi in
divieti, ma, come pensava Ortensio, in comandi: “fai il bene, compi azioni
buone perché il repubblicano si conosce alle azioni”418.
Anche Melchiorre vagheggiava una società libera, ordinata, interclassista.
Le prime scene del secondo atto lo rappresentano intento dipingere un Tableau
allegorico. Di fronte alle immagini il pittore teneva una vera e propria lezione
sui vantaggi del nuovo ordinamento politico. Tramite il suo discorso la
commedia proponeva l’idea della sovranità popolare, della giustizia fiscale,
dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In modo netto si rifiutava
il modello della eguaglianza sociale. “Ma dimmi cara Luigia – affermava
Melchiorre rivolgendosi a sua figlia - penseresti forse che l’uguaglianza
consistesse non già nei diritti e nei doveri ma in un riparto generale dei terreni e
Ivi, Atto I, 1.
Ivi, Atto I, 4.
416 Ivi, Atto I, 7.
417 Ivi, Atto II, 4.
418 Ibidem.
414
415
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dei loro prodotti e che ne dovessero essere spogliati i legittimi possessori per
darne ai miseri? Ma non sai tu che sempre vi sono stati dei ricchi e dei poveri, e
vi saranno sempre queste due classi, finché esisteranno sempre gli uomini sulla
terra”419.
Stabilite in tal modo le coordinate politiche di riferimento, a partire dal
secondo atto poteva svolgersi la trama che si sviluppava ricostruendo la
tradizionale vicenda dell’amore contrastato. L’amore impossibile coinvolgeva
Luigia la figlia del pittore povero e Cesare il primogenito del ricco Ortensio 420.
La mésalliance, questa volta, non riguardava le diseguaglianze di rango ma
quelle della ricchezza, della proprietà. I padri divenuti ormai cittadini non
avevano alcuna esitazione: la virtù superava la disparità delle fortune, il
repubblicano si riconosceva dalle azioni421. I figli, invece, pur amandosi
mostravano qualche perplessità422. Ciò nonostante tutto sembrava ricomporsi,
in armonia con i nuovi principi. Tuttavia anche in un testo dichiaratamente
rivoluzionario era necessaria la tradizionale agnizione: riappariva, come per
incanto, lo zio ricco e dimenticato di Luigia che dotava la ragazza di una
inaspettata ricchezza e la nominava sua erede universale: le diseguaglianze
economico-sociali erano così colmate rendendo possibile il matrimonio 423.
La conclusione convenzionale svalutava la nuova idea di virtù intesa, lo si
è già detto, come il riconoscimento sociale dell’autentico merito individuale,
una qualità capace di riformulare la gerarchia sociale. Quell’idea di virtù
proposta continuamente nel corso delle scene finiva per rimanere soltanto una
esercitazione retorica. Pertanto la commedia tradiva, nel profondo lo spirito
dell’89, ovvero vanificava la speranza di poter ricostruire la città futura secondo
i criteri del talento e del merito, riassegnando la possibile dignità ad ogni
individuo. In definitiva il testo si richiamava solo verbalmente al principio
dell’eguaglianza giuridica, pur celebrandolo nel corso delle scene, senza riuscire
a decifrarne il significato, peraltro facilmente comprensibile tramite la sola
lettura dell’articolo 6 della Dichiarazione del 26 agosto. Nell’universo
“democratico” di Nasi la società, ridotta a pura estensione cartesiana,
riproponeva ruoli e livelli gerarchici cristallizzati. L’arcade si accontentava di
garantire un ricambio di ceto dirigente all’interno del sistema e di suggerire, a
suo parere, un messaggio vincente a chi fosse stato in grado di interpretarlo.
L’Aristocratico convertito, una commedia in cinque atti stampata a Mantova
nel 1797, rappresentava uno spaccato della società lombarda appena liberata
Ivi, Atto II, 1.
Ivi, Atto II, 2, 3.
421 Ivi, Atto IV, 4.
422 Ivi, Atto II, 2, 3, III, 4, V, 1.
423 Ivi, Atto V, 2, X, ultima.
419
420
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dall’Armée d’Italie424. L’anonimo autore descriveva nei dialoghi le vicende di una
guerra ancora combattuta. Ricordava il lungo assedio francese della sua città,
Mantova, la discesa delle truppe austriache dal Trentino e dal Veneto anche per
soccorrere la piazzaforte. I riferimenti del testo così dettagliati assumevano un
rilievo personale, biografico, tanto da consentire la datazione dell’opera
ragionevolmente tra la tarda estate 1796 e il gennaio 1797, comunque prima
della occupazione francese della città (2 febbraio)425. La commedia, in senso più
generale, presentava il quadro della provincia lombarda dopo l’arrivo dei
francesi a Milano (15 maggio 1796). Sin dall’avvio la pièce rievocava la fuga del
patriziato cittadino nelle campagne circostanti nelle quali -per l’autore- “la
nobiltà” tentava di “fanatizzare i poveri villani” con la speranza di poter
tornare alle tradizionali abitudini quotidiane. Non a caso veniva descritta e
rappresentata una guerra che continuava a mostrarsi incerta: ai protagonisti
giungevano le notizie dai campi di battaglia e dalle città appena liberate426.
Nonostante tutto si era però certi che stava per inaugurarsi una nuova era,
capace di capovolgere un antico sistema. La cameriera Lisetta così si rivolgeva
alle patrizie Adelaide e a Elisabetta divenute all’improvviso “giacobine” dopo
aver partecipato alle “avvelenate conversazioni” che si tenevano in quei giorni a
Milano: “Cittadine vi ho a dire mille belle cose. Il servidore è venuto dalla città
dice che quando i francesi sono stati nella piazza del Duomo, in mezzo agli
applausi di tutto il popolo, il General Bonaparte ha fatto una bellissima parlata
proclamando la libertà e dicendo che d’ora innanzi non vi sarà che il merito che
distingue il cittadino e non la nascita o le ricchezze”427.
Anche in questa commedia i temi politici e le vicende amorose e
sentimentali erano fortemente intrecciati. La vicenda ruotava intorno alla
questione del matrimonio di Adelaide, la figlia del marchese del Monte, che
amava riamata, un giovane patriota, Luigi divenuto allora capitano della
Legione lombarda428. Un corpo quest’ultimo costituitosi su richiesta di
Bonaparte nella seconda metà dell’ottobre 1796, forte di circa 4000 uomini 429.
L’altro pretendente di Adelaide era, invece, un rappresentante del patriziato, il
barone del Verme, un galante e ricco libertino, ormai quasi sessantenne.
L’aristocratico convertito. Commedia di cinque atti in prosa, Mantova, presso la società tipografica
all’Apollo. Anno I della libertà italiana.
425 Per i riferimenti all’assedio della ”formidabile piazza” vedi Ivi, Atto I, 4. Per il contesto degli
eventi G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, v. I Le origini del Risorgimento, Feltrinelli, Milano,
1966, p. 206.
426 L’aristocratico convertito, cit., Atto II, 1.
427 Ivi, Atto I, 2.
428 Ibidem.
429 C. Zaghi, Potere, Chiesa e Società. Studi e ricerche sull’Italia giacobina e napoleonica, Istituto
Universitario Orientale, Napoli, 1984, pp. 261 e ss.
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L’autore lo rappresentava come una sorta di un povero Don Chisciotte d’Antico
regime, una maschera ridicola e insieme tragica: “quando sarò ben vestito,
quando avrò una parrucca nuova di zecca, un bel paio di scarpini, la mia spada,
vi pare che potrò fare una trista figura […] ne ho cinquantotto in là: ma cosa
serve questo? Quando si hanno ricchezze e robustezza, si può aspirare a una
ragazza di diciotto anni”430. Il marchese del Monte tetragono nella difesa del suo
diritto di pater familias e del privilegio nobiliare, nonché vitalmente interessato
alle clausole economiche del contratto matrimoniale, accettava di buon grado la
richiesta del barone: “tu sarai sposa del barone o ti chiuderò per sempre in un
ritiro”431. Adelaide per amore si dichiarava disposta anche a morire 432. Le
vicende della commedia, con i suoi successivi colpi di scena, mettevano a nudo
la miseria morale, gli inganni, la conflittualità, la perfidia dei protagonisti
dell’Antico regime: nobili indebitati prepotenti ed inetti, sacerdoti miscredenti e
affaristi, dominati da fantasmi sessuali, presuntuosi, ipocriti e incolti433.
A questa rappresentazione senza speranza della vecchia società faceva
riscontro la storia umana del marchese del Monte, l’aristocratico che si converte,
esprimendo, tramite la sua vicenda, la parabola della Rivoluzione che si faceva
storia. La conversione non era tuttavia meditata, il risultato di un percorso
intellettuale, fondato sulla ponderazione dei principi, quanto piuttosto
scaturiva da una amara riflessione sul piccolo mondo che ruotava intorno alla
propria famiglia. Le fasi della redenzione si scandivano tramite alcune
autocritiche che costituivano la trama ideale della commedia. Le avances
amorose dell’abate Giramondo verso Lisetta, la cameriera di casa, provocavano
la prima reazione. Ma la protesta restava senza sbocco. L’aristocratico non
riusciva a staccarsi dai modelli abituali. I principi e le alleanze che avevano retto
per secoli il sistema resistevano agli urti che li minacciavano da ogni parte 434”.
La fiducia nei “buoni vecchi tempi” tuttavia continuava a incrinarsi: il marchese
era costretto ad accettare, per le sue condizioni economiche allora incerte e per
l’antico vizio del gioco, un prestito ad usura dal sacerdote consigliere di
famiglia435. Crollavano, in tal modo, i valori e i simboli consueti, mentre sorgeva
l’esigenza di un cambiamento: “Pare che vada a cambiare la scena”. Si profilava
la possibilità di aderire al nuovo corso: “rinuncerei ai pregiudizi del mio ordine
per essere felice col resto degli uomini”436. Quando alla fine, il marchese,
L’aristocratico convertito, cit., Atto III, 5.
Ivi, Atto IV, 2.
432 Ivi, Atto IV, 4.
433 Ivi, Atto, I, 6, 9, 10, II, 2, 3,4, 5, 6, III, 1, 2, 3, 4, 6, 8, 10, 11, IV, 2, 3, 6, 7, 9, V, 2, 7, 10.
434 Ivi, Atto II, 6.
435 Ivi, Atto I, 6, II, 11.
436 Ivi, Atto III, 12.
430
431
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scopriva che il prelato attentava addirittura alla virtù di sua moglie tutto
precipitava e gli “cade[va] il velo dagli occhi”. L’aristocratico scorgeva,
ovunque, “la frode e il delitto”: diveniva sempre più desideroso di “amicizia” e
“fratellanza”, i valori grazie ai quali si sarebbe potuta costruire “una sola
famiglia tra gli uomini”437. Il marchese ormai redento, diviso tra il desiderio di
fuga con la sua Elisabetta, lontano “sull’erta di monte”, “per isfuggire gli orrori
dell’iniquità e del delitto” e il ben operare, rifiutava il matrimonio tra la figlia e
il barone438. Era ormai in grado di riconoscere il valore dei sentimenti. Era
giusto che la figlia fosse felice se colui che la amava ne sarebbe stato degno 439.
Nell’ultima scena la conversione del marchese era compiuta. Dichiarava di
voler essere repubblicano, persuaso “dell’onestà dei patrioti”, “della malvagità
dei nobili” e dell’ “impostura della maggior parte dei preti”440. L’anonimo
autore, tramite le parole del suo aristocratico convertito, salvava dunque dal
giudizio negativo il solo il clero “evangelico”, la “minor parte” dei sacerdoti,
coloro che si richiamavano ai valori perenni del cristianesimo441.
Anche a Mantova nel 1797, dunque, accanto ai temi forti della polemica (e
della propaganda) antinobiliare e antiecclesiastica si delineano le tendenze alla
mediazione e alla conciliazione. Con il crollo delle strutture cristallizzate della
società degli ordini si intendevano recuperare tutte le energie disponibili, anche
quelle potenzialmente avverse, per indirizzarle in un progetto orientato
cautamente verso il futuro. L’Aristocratico convertito, un testo di propaganda,
inevitabilmente povero nei contenuti, rivela nonostante tutto un certo interesse.
Testimonia il grado di recezione, nei livelli medio-bassi dell’opinione italiana di
fine secolo, delle grandi questioni dell’individuo e dei suoi diritti, espresse con
le forme letterarie dell’amore contrastato. Le trasformazioni della sensibilità
documentate nella letteratura alta a partire dalla metà del secolo venivano quasi
“popolarizzate e ridotte in spiccioli” in questo tipo di testimonianze. Qualcosa
inevitabilmente passava anche nella commedia: grazie alla spinta della
rivoluzione la mésalliance veniva celebrata sul palcoscenico. Giungeva tuttavia
depotenziata nel suo significato, affievolita come l’estrema propagazione di
un‘onda, rischiando di divenire quasi effimera.
Ivi, Atto IV, 10.
Ivi, Atto V, 3.
439 Ivi, Atto V, 4.
440 Ivi, Atto V, 12.
441 Sul grande tema della conciliazione tra cristianesimo e rivoluzione, che in questa sede non è
possibile affrontare, si rinvia soltanto ai seguenti testi: V.E. Giuntella, La Religione amica della
Democrazia. I cattolici democratici nel Triennio rivoluzionario (1796-1799), Studium, Roma, 1990; La
Chiesa italiana e la Rivoluzione francese, a cura di D. Menozzi, Bologna, 1990; G. Verucci, La Chiesa
italiana e la Rivoluzione francese, in «Critica storica», XXVII, 1990, 3, pp. 493-510.
437
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Il matrimonio democratico di Sografi. “Amor supera tutto”
Si è già ricordato il grande successo di pubblico che riscosse Il matrimonio
democratico di Sografi non solo a Venezia e nei Domini ma anche sui
palcoscenici italiani del Triennio442. La pièce avrebbe inaugurato, di lì a poco, la
sera del 10 marzo 1798, al teatro Argentina il nuovo repertorio della Repubblica
romana, andando in scena insieme alla più celebre Virginia di V. Alfieri, la
tragedia della libertà conquistata con il tirannicidio 443. La farsa indubbiamente
meritava quell’omaggio, al di là del modesto valore artistico ricordato spesso
dagli studiosi. L’opera di Sografi con la sua carica etica, lo si è peraltro
accennato, celebrando sul palcoscenico la mésalliance contribuiva a rompere, tra
le prime in Italia, gli schemi formali di un remoto argomento teatrale. Di tale
soggetto abbiamo voluto identificare l’origine simbolica e ipotetica
nell’agnizione che certamente consentì, nell’Andria di Terenzio, a Glicerio, bella
e sventurata, di convolare a nozze con l’amato Panfilo444. Dalla fine del
Settecento in poi il conflitto d’amore sarebbe stato sempre più indagato
dall’”interno”. In altri termini si sarebbe sempre più privilegiata l’indagine
interiore e psicologica, una analisi seducente anche per il letterato, capace di
esplicitare le richieste e i reali bisogni dei partner. Le ragioni familiari e sociali,
che inevitabilmente condizionavano il rapporto, tendevano dunque a perdere
d’interesse, ponendo fine ad un antico primato così a lungo confermato dalle
scene. Il Matrimonio democratico si rivela dunque come un testo di rottura e
insieme di transizione, differenziandosi in modo netto dalle tre spente
commedie rivoluzionarie che abbiamo appena presentato. Per una migliore
comprensione dell’opera è opportuno, anche in questo caso, il ripensamento
della trama.
La vicenda era ambientata a Venezia nell’imminenza dell’arrivo dei
francesi. Il conte di Pietradura e sua figlia Giulietta soggiornavano da circa un
mese in una locanda del centro, abitualmente frequentata dai patrizi. Il nobile
veronese, lasciata anche Padova, si era rifugiato nella laguna preoccupato dai
disordini del tempo. Con la boria e l’ambizione di chi ha appena comperato la
contea trattava con una certa supponenza il locandiere Tonino, un padrone di
bottega che ancora serviva a tavola col grembiule, mentre teneva i conti e
controllava il lavoro dei garzoni445. Proprio in quei giorni il conte aveva definito
il matrimonio della figlia con il marchese della Tomboletta, anche lui un
Il matrimonio democratico ossia il flagello de’ feudatari, farsa scritta per il teatro Civico di Venezia la
state dell’anno 1797, I della libertà italiana, ora in C. De Michelis, Il Teatro Patriottico, cit.
443 Vedi, «Monitore di Roma», 17 marzo 1798.
444 Terenzio, Andria, cit., Atto V, 970.
445 Il matrimonio democratico, cit. Atto, I, 1, 2.
442
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patrizio di nuova nobiltà, un “aristocratico perseguitato”, appena emigrato da
Ravenna446. Agli occhi di Tonino Giulietta, bella, onesta e sincera, si mostrava
diversa nei comportamenti rispetto agli altri titolati che frequentavano il caffè.
Tra i due nel frattempo era nato qualcosa, entrambi ormai “si volevano bene”,
ma riuscivano a mantenere un giusto contegno447. Nondimeno erano
consapevoli che la passione tra una “gentildonna” e un “caffettiere” non poteva
essere riconosciuta dalle convenzioni sociali, specialmente in una città come
Venezia. Tonino se ne lamentava con “il cittadino” Costanti un frequentatore
della locanda, un patriota che aspettava con impazienza l’arrivo dei francesi448.
Si trattava nel suo caso, così è stato detto, di “un protagonista socialmente più
qualificato”, una figura ricorrente nelle commedie patriottiche, che consentiva,
con la sua autorevole iniziativa, la presa di coscienza dei ceti subalterni
rivelando, in tal modo, “la matrice borghese del movimento giacobino
italiano”449.
Probabilmente la commedia più che cercare interlocutori privilegiati
preferiva affrontare le grandi questioni scottanti sentite da tutti e ancora
irrisolte. Si trattava in particolare dei problemi di carattere privato che ormai
reclamavano un riconoscimento pubblico e civile non potendo più essere
relegati nella sola sfera interiore. Addirittura i sentimenti personali e gli affetti
acquistavano un valore politico. Nella farsa Giulietta, scoprendo i suoi
sentimenti percepiva la sua dignità, una dignità che era propria di ogni
individuo450. Tonino parafrasando Goldoni rivolgendosi a Costanti affermava
che “tutti sono fatti della medesima pasta”451. Era dunque compito della stato
risolvere la contraddizione tra l’eguaglianza naturale dei diritti e la
diseguaglianza sociale dei meriti, il grande interrogativo sentito con forza a
metà secolo, sul quale Goldoni, come sappiamo, s’era arenato452. A questo
proposito la farsa suggeriva quali dovessero essere i compiti della nuova
Municipalità provvisoria. Un buon governo avrebbe dovuto garantire la
valorizzazione integrale di chiunque e premiare la virtù secondo il reale
merito453.
Questo insieme di problemi trovava una significativa convergenza nella
scelta matrimoniale. In particolare la mésalliance portava tutti i nodi al pettine e
Ivi, Atto I, 2.
Ibidem.
448 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 5.
449 P. Trivero, Commedie giacobine italiane, cit., p. 6.
450 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7.
451 Ivi, Atto, I, 6. Vedi, C. Goldoni, Pamela, cit., Atto III, 3. [C. Goldoni] I portentosi effetti della
madre natura, cit. Atto III, 7,9.
452 Tutte le Opere di C. Goldoni, cit., v., III, pp. 331-32. C. Goldoni, Pamela, cit., Atto I, 13.
453 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 2.
446
447
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assumeva nella commedia di Sografi un valore programmatico. Tuttavia alcuni
contributi recenti riflettendo sul matrimonio democratico tra Tonino e Giulietta
hanno cercato di negare il senso stesso della mésalliance. Secondo tale lettura
Sografi avrebbe consapevolmente attenuato le differenze sociali tra i due
giovani per stemperare il significato politico del suo messaggio. “Da un lato il
caffettiere, in quanto padrone di bottega, si è emancipato dalla classe dei
proletari (e l’esordio della farsa lo coglie mentre impartisce ordini ai propri
garzoni); dall’altro il padre aristocratico declassa la propria nobiltà nella
rivelazione di un titolo acquistato col denaro”454. La coerenza dell’opera, come
si accennerà, l’incisività dei dialoghi sembrano escludere un atteggiamento
consapevole di Sografi in questa direzione. Tra l’altro le parole di Tonino
precisavano un indubbio conflitto di condizioni. Il locandiere con rammarico
dichiarava di svolgere “una professione meccanica” 455. Non aveva dunque
ancora potuto varcare quella linea di divisione che costituiva, come abbiamo già
ricordato, la reale frontiera nella società degli ordini.
Tramite i discorsi di Costanti, Sografi delineava in estrema sintesi il suo
programma politico. Un progetto ispirato da un celebre opuscolo di M.
Cesarotti, il maestro della giovinezza di Simone, un pamphlet stampato proprio
in quei mesi a Padova456. Si trattava di una ipotesi politica, come abbiamo avuto
modo di ricordare in un'altra occasione, rispettosa dell’individuo, che “coglieva
nell’idea del merito personale il nuovo criterio regolatore di una riscritta
giustizia sociale funzionale a trasformare la fisionomia tradizionale della
comunità. Si prefigurava un inedito dinamismo sociale capace di produrre un
rimescolamento profondo tra gli antichi gruppi”457.
Il matrimonio democratico preannunciava la ripresa di quel programma. A
ben vedere la pièce si richiamava alla Dichiarazione dell’agosto 1789, in
particolare facendo riferimento agli articoli 6, 10 e 11. Il rifiuto netto del
radicalismo giacobino e della democrazia sociale si accompagnava con il
riconoscimento dei diritti individuali458. Tutto ruotava intorno alle idee di
libertà civile e di eguaglianza giuridica. Quest’ultima veniva intesa da Simone
nelle sue implicazioni e conseguenze meritocratiche, prefigurando anche nella
P. Trivero, Commedie giacobine, cit., p. 7.
Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 2.
456 Istruzione d’un cittadino a’ suoi fratelli meno istrutti, In Padova, a spese di Pietro Brandolese,
1797. Il testo, uscito anonimo, può ora leggersi in U. Corsini, Pro e contro le idee di Francia. La
pubblicistica minore del Triennio rivoluzionario nello Stato Veneto e limitrofi territori del Arciducato
d’Austria. Con appendice di testi, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1990, pp.
261-80.
457 P. Themelly, Il teatro di Antonio Simone Sografi, cit.
458 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 5.
454
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resa scenica, la fine della società degli ordini 459. In altri termini Sografi, a
differenza di altri autori del tempo, come Federici e Nasi, riusciva a tradurre in
modo coerente le dichiarazioni di principio in adeguate metafore teatrali.
Si vuole in questa occasione mettere in evidenza soprattutto il momento
costitutivo di autodeterminazione dell’individuo, un processo rappresentato
nella farsa con la vicenda di Giulietta. Tramite i discorsi della giovane
aristocratica gli spettatori del Teatro Civico scoprivano il valore politico dei
sentimenti460. Questa nuova concezione dell’ individuo e della società non si
sarebbe mai potuta realizzare secondo Sografi autonomamente, con le sole forze
di pochi intellettuali veneti. Era necessario un intervento esterno, ora dei
francesi, più avanti addirittura degli austriaci, entrambi necessari per decretare
la fine dell’antica Repubblica oligarchica461. L’Armée d’Italie e anche il generale
Bonaparte portavano in fin dei conti insieme alle loro baionette i principi e i
valori compatibili all’impresa.
Più che Costanti era dunque Giulietta la reale protagonista della farsa: non
si trattava di una novità. Sografi tradizionalmente favoriva la caratterizzazione
femminile. Nel Verter, una commedia del 1794 ispirata all’omonimo capolavoro
di Goethe, lo scrittore padovano aveva trasformato la figura secondaria di
Lotte, in Carlotta, una eroina innalzata a protagonista462. Nel Matrimonio
democratico Giulietta pensava di poter superare le differenze di ceto “a forza
d’amore”: l’“amore supera tutto”, affermava risoluta rivolgendosi a Costanti463.
Il motto virgiliano “omnia vincit amor” era dunque ripreso da Sografi che
probabilmente lo mutuava dalla commedia Natalia di Mercier (1775)464. Giulietta
con quell’espressione non voleva certo identificare l’idea d’amore con quella di
sacrificio: rinunciare ai privilegi di rango, giungere allo scontro familiare per
sposare il suo amato. Riflettendo sulla relazione con Tonino, la giovane donna,
come tanti protagonisti teatrali del Settecento che abbiamo incontrato,
guardando se stessa trovava il roussioano “sentimento dell’esistenza”,
comprendeva il valore di una scelta affettiva condivisa che poteva condurla alla
“felicità”465. Quella scelta d’amore non doveva trovare alcun riconoscimento
esterno, si giustificava in se stessa, nella libera e consapevole promessa dei due
giovani. Giulietta scopriva, così, che non esistevano leggi immutabili a cui
Ibidem.
Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7.
461 P. Themelly, Il teatro di Antonio Simone Sografi, cit.
462 in Verter. Commedia inedita del signor Antonio Simon Sografi. In Venezia, 1800. Con Privilegio.
463Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7.
464 Virgilio, Bucoliche X, 69. Natalie, drame en quatre actes, par M. Mercier, Chez J. Mossy,
Imprimeur du Roi, de la Marine e Libraire au Parc, 1777, Atto I, 1.
465 Il matrimonio democratico, cit. Atto I, 7.
459
460
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bisognava uniformarsi. I sentimenti, nei quali tutti potevano riconoscersi
divenivano nella commedia i principi per scrivere nuove norme capaci di
garantire finalmente l’individuo466. I privati “moti del cuore” acquistavano un
significato politico, tutto sembrava essere in sommovimento, suscettibile di
trasformazione. L’arrivo dei francesi, in conclusione della farsa, trasformava le
speranze e i desideri in possibili diritti ormai riconosciuti dallo stato. Anche il
“matrimonio scombinato” poteva realizzarsi. Nel nuovo clima persino il conte
di Pietradura invitava i due giovani a “alzarsi, unirsi e maritarsi”. Pur tra gli
evviva a Bonaparte e ai franchi eroi la mésalliance questa volta era finalmente
consumata467.
Ivi, Atto I, 12.
Ibidem. A Venezia sino alla fine della antica Repubblica sopravviveva, in alcuni nuclei del
patriziato la fraterna, un antico modello di organizzazione domestica che accoglieva nella stessa
casa, e in comunione di beni, tutti i fratelli maschi tra i quali uno solo si sarebbe sposato per
mantenere indiviso il patrimonio. Persisteva dunque un modello familiare costruito
esclusivamente sugli interessi del gruppo. Un ménage che rifiutava ogni parvenza di autonomia
individuale e di vita privata. Il matrimonio democratico con i suoi richiami all’affettività
coniugale, ai diritti dell’individuo, all’ideale meritocratico, colpiva indirettamente anche
quell’universo. Vedi V. Hunecke, Il patriziato veneziano, cit.
466
467
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Nostalgia per l'URSS. Politica e mass media
di Emiliano Liutina Marroni
Dal 1991, data della fine dell’Unione Sovietica, la Russia sta vivendo una
riscoperta del periodo tardosovietico dai tratti fortemente nostalgici che, per la
sua complessità e profondità, sfugge alla normale concezione di nostalgia. Essa
non è solo una risposta difensiva a una situazione di cambiamento radicale,
ma presenta alla base dei presupposti culturali complessi che corrispondono
al bisogno di creare un nuovo modello di autopercezione strettamente
necessario a una società che non è più portatrice di q u e l messaggio
economico, sociale e politico, c h e a v e v a a s s u n t o p o r t a t a
u n i v e r s a l e , ma è post-ideologica e frammentata.
L a
no s tal gia,
ch e
ab br ac ci a
tanto l’ultima
generazione sovietica quanto la prima postsovietica, ha trovato il suo medium
nella televisione che si è imposta come l’unica voce sul passato recente a
discapito dei saperi ufficiali della memoria, in primis la storia. Essa ha avuto
origine nell'abbattimento improvviso delle barriere fra Est e Ovest e nel
conseguente confronto-scontro tra due culture e stili di vita totalmente diversi
ed ha coinvolto tanto i cittadini quanto le istituzioni politiche s e p p u r e
con esiti differenti e a volte opposti. F i n d a u n p r i m o e s a m e , l a
n o s t a l g i a r i s u l t a composta da due entità separate, quella politica e
quella dell’uomo della strada, figlie dello stesso processo, con simboli in
comune, ma con racconti finali diversi. Quanto fin qui detto permette d i
chiarire meglio tutti gli aspetti del “ rivolgersi al passato”, che nella realtà
quotidiana non è facile individuare, considerando che le due nostalgie
confluiscono, in un gioco senza fine, l'una dentro l'altra riplasmandosi
continuamente. Pertanto per capire l'utilizzo che gli attori sociali hanno fatto
dei simboli da loro presi in considerazione è necessario rifarsi alla distinzione
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
che fa Svetlana Boym sulle elaborazioni nostalgiche1, p e r p o i inquadrare
n e l l a nostalgia restauratrice quella prodotta dall'alto, ossia dalle istituzioni
politiche e nella nostalgia riflessiva l'elaborazione creata dal basso, ossia dal
popolo. Russo.
1 . L a n ostalgia restauratrice
La nostalgia restauratrice presenta due caratteristiche di base, ossia l'incapacità
e la riabilitazione. Con il primo termine si v u o l e i n t e n d e r e
l'impossibilità della classe dirigente di riconoscere il fallimento politico e
morale del regime sovietico; con riabilitazione si indica l'ufficialità culturale
che assume questa restaurazione, identificabile attraverso un insieme di pratiche
rituali e simboliche che propongono una vita sociale caratterizzata da una
struttura immobile, quindi immutabile. Si pone l'accento sul nostos (il ritorno)
e pertanto s i cerca di ripristinare la dimora perduta, ma soprattutto
v e n g o n o colmati, attraverso la sua ufficialità culturale, i vuoti di
memoria tipici della nostalgia riflessiva. Si occupa sia della dimensione
temporale, sia della dimensione spaziale. La prima viene compensata dalla
fruibilità dell'oggetto in questione, la seconda mediante una proposta: il ritorno
collettivo alla patria ideale. La politica di Putin incarna esattamente tutto ciò:
nel tentativo di ricostruire l'equilibrio mondiale andato perduto con la
dissoluzione dell'URSS, e g l i ha avvertito la necessità di instaurare un
rigido potere presidenziale definendo come fisiologico il bisogno dei russi di
un potere statale fortemente centralizzato. Non potendo fare affidamento sugli
uomini di Eltsin, Putin ha reclutato il personale direttamente dal FSB2, dando
luogo a un apparato amministrativo molto simile a quello sovietico: forte, ma
lento e incapace di affrontare i cambiamenti. Di conseguenza il ceto
burocratico, che sotto Eltsin si stava separando dal potere politico, ha ripreso il
suo ruolo, riproponendo la formula tipica dei paesi che non sono Stati di
diritto: lo stato si sottrae all'intervento dei partiti e si pone al di sopra dei
cittadini, i quali vengono di fatto esclusi dall'esperienza politica attiva. Al
vertice si trova il leader e immediatamente sotto la burocrazia che agisce in
suo nome e lo sostiene. Il potere che si è instaurato con Putin offre pochi
principi ideologici e questi non prevedono un orientamento politico diverso
da quello già sperimentato e nemmeno uno sviluppo sociale di tipo
occidentale. Paradossalmente il boom energetico degli anni Duemila ha
impedito, anziché provocare, un processo riformistico: la maggioranza dei
russi sembrerebbero essersi accontentati del relativo benessere materiale,
Svetlana Boym, The future of nostalgia, New York, Basic Boocks, 2001.
I Servizi Federali per la Sicurezza della Federazione russa, erede del ben più noto KGB.
1
2
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
demandando ad altri l'amministrazione della cosa pubblica. La Russia sta
riaffrontando un vecchio esperimento: modernizzarsi senza libertà politiche,
n é redistribuzione di potere e di ricchezze.
Procedendo con ordine, la restaurazione putiniana si è focalizzata
innanzitutto sul ripristino del potere centrale nello spazio della Federazione.
Non poteva essere altrimenti: la politica di Eltsin aveva sulle prime garantito
stabilità, ma al tempo stesso aveva creato i presupposti per la trasformazione
dello stato russo in una unione confederativa3. Putin ha ribadito la superiorità
della Costituzione sui trattati stipulati tra 1994 e 1996 tra centro e periferia,
riducendone il ruolo prima a meri strumenti di integrazione e di attuazione
del dettato costituzionale, poi svuotandoli di significato. Parallelamente i
poteri del Consiglio della Federazione così come l'eleggibilità dei governatori
sono stati inglobati nella figura presidenziale. Concentrato tutto il potere nelle
mani del Presidente, sono di fatto scomparse le contraddizioni tra gli atti
normativi emanati dalla Federazione e quelli delle regioni. Lo scenario politico
è stato reso stabile dal grande attivismo di Putin ed è quindi scomparso anche
il continuo scontro tra Presidente e Duma. Favorendo gli elementi di
accentramento, il Presidente della Federazione di Russia è divenuto di fatto il
garante dell'integrità e dell'unità del territorio dello stato russo, un simbolo
intorno a cui è possibile riconoscersi.
Accanto alla centralizzazione politica è avvenuta quella e c o n o m i c a
e finanziaria con il ritorno delle attività economiche più importanti del paese
nelle mani del potere favorito dalla presenza di un business privato già
altamente centralizzato e guidato dall'alto. Un processo questo avvenuto in
tempi non sospetti e in maniera piuttosto plateale: con l'ascesa di Putin al
potere sono stati messi in discussione i grandi privilegi degli oligarchi, ossia il
ristretto gruppo di industriali e bancari cresciuti sotto Eltsin, che controllavano
ampi settori economici ed energetici del paese4. L'intento di Putin è stato
L'ampio ricorso allo strumento dei trattati bilaterali da parte di Eltsin aveva
indebolito il potere centrale e aumentato l'autonomia delle periferie, erodendo lo stato russo
in quanto federazione costituzionale
4 Si ricorda brevemente che la prima fase della privatizzazione si era avviata in
Russia già prima del crollo dell'URSS, a partire dal 1987 e a vantaggio della nomenklatura
sovietica. Tra 1987 e 1991 una serie di leggi avevano abolito il monopolio statale del
commercio estero e consentito la nascita di piccole imprese, quali cooperative e joint- venture
con imprenditori esteri. Contemporaneamente si era avviato il processo di decentramento
della gestione dell'economia, attraverso la creazione di società miste e spesso con partner
stranieri, con la trasformazione dei ministeri settoriali in grandi gruppi industriali e delle
banche di stato in banche commerciali. Fondamentalmente i problemi che ostacolavano una
rapida privatizzazione erano due: il primo era che la popolazione non disponeva di denaro,
l'altro, di natura tutta politica, era che vendere un grande numero di imprese agli stranieri
3
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
quello di rinazionalizzare il comparto industriale ed energetico e di limitare
l'influenza politica dei nuovi capitalisti. Cavalcando il malcontento popolare
generato dalla ostentazione di improvvise fortune è stato avviato un
processo d i c o n t r o l l o che ha visto gli organi giudiziari i m p e g n a t i ad
accertare le violazioni avvenute nel corso delle privatizzazioni degli anni
Novanta. Laddove i p r o c e d i m e n t i non hanno p o r t a t o a r i s u l t a t i ,
è stata comunque richiesta obbedienza assoluta a l Presidente della
Federazione. In tal senso il caso di Khodorkovskij appare esemplare: questo
imprenditore che, nel 1995, approfittando del caos economico e politico russo,
aveva acquistato per 309milioni di dollari la compagnia petrolifera statale
Yukos attraverso i proventi della Menatep (una delle prime banche private
russe da lui fondata nel 1990), nel 2003 si è trovato in seri problemi con lo
stato dovuti al fallito tentativo di fusione tra la sua compagnia e la Sibneft,
allora di proprietà di Boris Berezovskij e Roman Abramovich, che avrebbe
dovuto dar vita alla quarta compagnia petrolifera del mondo. Da quel momento
i buoni rapporti con Vladimir Putin andarono rapidamente raffreddandosi, per
poi peggiorare definitivamente quando quest'ultimo scoprì che Khodorkovskij
aveva elargito ingenti finanziamenti ai partiti d’opposizione. Putin mise in
moto l'apparato giudiziario contro l'oligarca e la sua azienda, facendolo
arrestare il 25 ottobre 2003 all'aeroporto di Novosibirsk (Siberia), con le
accuse di evasione fiscale, frode e peculato. Condannato a nove anni di carcere
duro da scontare in una non meglio precisata prigione siberiana,
Khodorkovskij ha visto fallire la sua società: le sue attività sono state
vendute a prezzi molto al di sotto di quelli di mercato alla compagnia
petrolifera statale Rosneft, guidata da Igor Sechin, un fedele di Putin ed ex
funzionario dei servizi segreti. Successivamente, a seguito di un’accusa di
appropriazione indebita, la carcerazione è stata prolungata fino al 2014, salvo
poi essere annullata per grazia il 20 dicembre 2013.
Per la Russia postcomunista il caso Khodorkovskij è stato uno spartiacque
era insostenibile. In questa fase la proprietà di stato venne trasformata in proprietà
burocratico-corporativa, tutta appannaggio della nomenklatura come già detto, la quale è stata
avvantaggiata da ulteriori benefici, come crediti straordinari, rapporti di cambio agevolati nelle
transazioni valutarie con l'estero e così via. La maggior parte dei guadagni venivano
depositati presso le banche occidentali e riutilizzati per acquistare prodotti occidentali da
rivendere poi in Russia. Le riforme e la decisione di privatizzare la proprietà statale
mediante vouchers senza nominativo, assieme all'inflazione galoppante e la poca chiarezza
delle operazioni, hanno dato la possibilità a coloro che possedevano un capitale iniziale di
prendere in mano la situazione. Gradualmente i primi proprietari furono sostituiti da giovani
laureati, più preparati e per questo in grado di condurre le imprese al successo. Questi,
sfruttando il rincaro del greggio e di altre risorse energetiche si arricchirono enormemente, da
allora furono conosciuti in Russia e all'estero con il nome di oligarchi.
111
E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
più che un semplice processo: ha fatto capire che la legge può essere
“ manovrata” per assecondare gli interessi del potere. Tutte le attese riposte
nel cambiamento, soprattutto la speranza che il rispetto dei diritti di
proprietà e l'etica degli affari potessero mettere radici in Russia, sono
sfumate n e l m o m e n t o i n c u i Putin ha autorizzato l'esproprio illegale
della Yukos, consegnandola agli uomini del suo entourage. Dalla Yukos in poi
tutte le principali aziende facenti parte del settore energetico sono tornate,
direttamente o indirettamente, sotto il controllo dello stato realizzando una
stretta unione tra l'interesse nazionale e quello aziendale, a l p u n t o che il
mercato russo ha ormai una valenza geopolitica, specie nei confronti
dell'”estero vicino”.
Su questo spazio occupato dalle ex Repubbliche sovietiche la Russia è
tornata a concentrare la propria attenzione dopo un momento di riflessione
dovuto a due diversi fattori: il primo era legato alla preoccupazioni che
questi Stati economicamente meno sviluppati della Federazione potessero
costituire una potenziale zavorra che a v r e b b e continuato a parassitare sullo
sviluppo russo ritardandolo. Il secondo partiva dalla constatazione che, fatta
eccezione per il terzetto baltico, gli stati postsovietici in generale non
a v e v a n o dimostrato entusiasmo per l'adozione di rapidi ritmi di
conversione al mercato e alla proprietà privata. Il processo di
democratizzazione aveva avuto piuttosto la tendenza a essere assai più lento e
impacciato che in Russia, con una permanenza significativa di personalità di
governo, mentalità, strutture e pratiche politiche ereditate dal vecchio regime.
Un'associazione troppo stretta con queste Repubbliche ex consorelle, dai
governi spesso autoritari e dalle istituzioni politicamente dubbie, avrebbe
potuto comportare un danno di immagine per una Russia che stava
lentamente ricostruendo la propria posizione geopolitica. Almeno inizialmente
l'atteggiamento in politica estera si è rivelato indifferente alla cura degli
interessi postimperiali nell'area ex sovietica, soprattutto nella convinzione che il
trionfo della democrazia e del libero mercato avrebbe reso anacronistiche le
tradizionali contrapposizioni di ordine geopolitico, favorendo la nascita di un
nuovo ordine internazionale, basato sulla cooperazione e l'integrazione. Questo
anche in virtù dei buoni rapporti che negli anni Novanta si erano creati con gli
Stati Uniti, basati sui criteri dell'”atlantismo”. Tuttavia, all'inizio del nuovo
secolo, l'impulsivo e genuino entusiasmo reciproco che aveva caratterizzato
per circa un decennio le relazioni russo-americane si era esaurito. In Russia, ha
lasciato il posto a un atteggiamento realistico e pragmatico: la politica estera
russa ha cominciato a dirsi ispirata al criterio del “multivettorialismo”, ossia a
rapporti pregiudizialmente preferenziali, o discriminatori, nei confronti di
ogni paese; libertà di azione diplomatica su tutti gli scacchieri, tecnicamente
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
limitata solo dalle norme del diritto internazionale. Tali presupposti hanno
portato a una rinnovata attenzione all'”estero più vicino”, divenuto la nuova
priorità della politica internazionale russa.
L'influenza russa nello spazio ex sovietico è stata resa possibile, nella
maggior parte dei casi, dalla capacità di Mosca di trarre vantaggio dal
separatismo e dai conflitti etnici che travagliano i nuovi stati. Forzati a pagare
il debito contratto nei confronti della Russia, hanno ceduto alle industrie
pubbliche e alle imprese private (spinte da Putin a investire nell'«estero
vicino») beni in enorme quantità, diritti di transito, sfruttamento di aree ricchi
di giacimenti e la cessione di ampie quote di proprietà riguardanti gasdotti e
oleodotti. A partire dal 2008, la politica estera russa si è fatta apertamente
aggressiva. Sono le vicende nel Caucaso e in Ucraina a fornire un'idea chiara
del potere di Mosca nello spazio ex-sovietico. La Russia ormai amministra quasi
direttamente le sorti di tutte gli Stati sorti dopo il crollo dell'URSS, compresa
la loro politica estera. Le operazioni in Ucraina e Caucaso, che possono anche
essere definite col nome di neocolonizzazione di un t e r r i t o r i o g i à
s o v i e t i c o , perseguono il disegno di suddividere in maniera funzionale
lo spazio occupato dalle ex Repubbliche d e l l ’ U n i o n e , renderlo malleabile
e controllabile, col fine ultimo di creare un unico centro di potere, quello di
Mosca. Persino l'organizzazione delle Olimpiadi invernali a Soči può
considerarsi un segno di questa politica. Il regime della “burocrazia sovrana”
come lo ha definito Vladislav Zubok5, al momento ha ripreso il suo posto.
2. I mass media, la legge sugli “agenti stranieri” e “Sputnik”
Appena assunto l'incarico da Presidente della Federazione, Putin si è mosso
subito contro i mezzi di informazione, utilizzando s t r u m e n t i legali ed
economici per tenerli sotto controllo e per chiudere giornali e tv considerate
ostili, o poco inclini alla collaborazione, sebbene l'art. 29 della Costituzione
garantisca chiaramente la libertà di espressione:
Ognuno ha il diritto di ricercare, ottenere, raccontare, produrre o
divulgare informazioni utilizzando tutti i mezzi legali a sua disposizione. Le
restrizioni alla libertà d’informazione sono determinate dalla legge federale6.
Tuttavia alcune associazioni come Transparency International-Russia
hanno denunciato la mancanza di un vero accesso pubblico alle
informazioni, che di fatto non è garantito da alcun meccanismo effettivo,
Vladislav Zubok, L’idea di Occidente in Russia da Stalin a Medvedev, in Da Lenin a Putin e
oltre. La Russia tra passato e presente, a cura di Vittorio Strada, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 98-105.
6 Caterina Filippini, Dall'Impero russo alla Repubblica russa, elementi di continuità e di rottura
nell'evoluzione dei rapporti centro-periferia, Milano, Giuffrè Editore, 2004.
5
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
rendendo di difficile applicazione quanto previsto dal dettato costituzionale.
La politica governativa sembra non essere interessata a garantire il diritto
accedere alle informazioni da parte dei cittadini; celebre in proposito è stata la
risposta data da Putin a un giornalista che lo accusava di limitare la libertà di
stampa:
In Russia non abbiamo mai avuto la libertà di parola, quindi non capisco
cosa si possa soffocare oggi. La libertà è la possibilità di esprimere le proprie
opinioni, ma entro i limiti previsti dalla legge7.
L'unico ambito in cui la legislazione russa viene rigorosamente “rispettata”
è quello relativo all'elenco completo delle informazioni coperte dal segreto di
stato e di quelle d i carattere confidenziale. Per quanto riguarda il primo
ambito, la legge federale sul segreto di stato identifica quattro grandi ambiti:
il settore militare, l’economia, la scienza e la tecnologia, la politica estera, con
particolare riferimento a una intempestiva diffusione di informazioni che
possano mettere a rischio la sicurezza d e l l o s tato, l'intelligence e le
indagini sulle attività criminali8.
Con il governo di Vladimir Putin è iniziato quello che appare un
graduale aumento del controllo dei mezzi di comunicazione da parte del
Cremlino: il governo ha inaugurato una nuova forma di controllo alternativo
a quello diretto, ossia un controllo esercitato tramite società di proprietà dello
stato. La prima battaglia è stata sferrata contro il canale televisivo NTV: nel
2001 l'emittente privata NTV, dopo un servizio i n c u i v e n i va n o espressi
giudizi critici sulla guerra in Cecenia, è stata sottratta ai suoi legittimi
proprietari e data in gestione a persone gravitanti attorno al Cremlino. In
seguito anche i canali TV-6 e TVS sono passate sotto il controllo diretto di
Gazprom. Stessa sorte è toccata alle radio: durante la guerra in Georgia, la
radio Eco di Mosca, fondata nel 1990 da un gruppo indipendente di
giornalisti (oggi al 66% di proprietà della Gazprom), ha trasmesso dei
reportage equilibrati all'interno di un programma intitolato Con i loro occhi. Gli
ospiti in studio appartenevano a ogni orientamento politico, ma nonostante
la garanzia data dalla pluralità, le opinioni espresse non sono risultate
benaccette al potere centrale, tant'è che il 29 agosto 2008 Putin ha deciso di
convocare i trentanove dirigenti dei principali mezzi di informazione russi
David Remnick, Una voce contro Putin, «Internazionale», n. 780, 2009, p. 29.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, è stato il presidente Boris Yeltsin a firmare
il Decreto presidenziale sull’approvazione della lista delle informazioni di carattere
confidenziale, elencando le informazioni relative ai procedimenti legali, quelle coperte da
segreto ufficiale e commerciale secondo il Codice civile, le informazioni sulle invenzioni e il
know-how (soprattutto per evitare una diffusione all’estero) e le informazioni coperte da segreto
medico, notarile, postale, oltre che alle conversazioni telefoniche.
7
8
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
nella sua residenza estiva a Soči. Nel corso dell’incontro dopo aver mostrato le
trascrizioni del programma radiofonico e criticato aspramente l'operato di
Aleksej Venediktov, direttore di «Eco di Mosca», ha impostato la copertura
giornalistica del conflitto, a f f e r m a n d o così, nel caso ce ne fosse stato ancora
bisogno, di poter fare con i mezzi di informazione quel che vuole. È ormai
regola che ogni settimana i direttori dei canali nazionali vengano convocati
al Cremlino per stabilire la linea editoriale; che dibattiti e interviste in diretta
non esistano più; che gli ospiti d e i talk show vengano accuratamente
selezionati, eliminando quelli p o c o graditi.
Nonostante ciò siti web, giornalistici indipendenti esistono ancora, ma
hanno un raggio d’azione limitato tale da non “infastidire” Putin. La già
difficile situazione della libertà di stampa in Russia è resa ben peggiore dai
numerosi attacchi subiti dai giornalisti negli ultimi anni e r e s a a n c o r
p i ù grave dall’impunità dei colpevoli, legata al fenomeno della corruzione
sistemica negli apparati di potere, nella polizia e nel sistema giudiziario russo.
In riferimento ai recenti attacchi contro i giornalisti russi, il direttore esecutivo
di Freedom House, David J. Kramer, ha affermato che:
tale metodo di violenza contro i giornalisti si perpetua ormai da lungo tempo, incoraggiato dalla
totale mancanza di responsabilità di consegnare i colpevoli alla giustizia [...] nel contesto attuale
il cambiamento è improbabile e la Russia continuerà ad essere uno dei paesi al mondo più
pericoloso per i giornalisti. 9
Dal 1999 ad oggi, ossia durante le amministrazioni di Putin e Medvedev,
ventiquattro giornalisti sono stati uccisi in Russia (di cui tre nel solo 2009),
la maggior parte dei quali si occupava di questioni come la criminalità
organizzata o la corruzione degli apparati statali. Emblematico è il caso della
giornalista Anna Politkovskaja, conosciuta a livello internazionale per i suoi
reportage sulla Cecenia nei quali denunciava la dilagante corruzione, gli abusi e
non nascondeva la sua profonda avversione al presidente russo Putin e alla sua
gestione del conflitto. Le indagini seguite alla sua uccisione confermano la
connivenza del sistema investigativo e l’ “ assenza” di quello giudiziario
russo10.
Marcus Ackeret, Un test importante per la giustizia russa, «Internazionale», n. 803, 2009, p. 30.
10 Nell’autunno 2008 è iniziato il processo contro i due giovani ceceni indagati per
l’omicidio, ma pochi mesi dopo sono stati assolti per insufficienza di prove. Il caso è stato poi
riaperto della Corte Suprema russa nel 2009 e solo nel 2011 uno dei due è stato nuovamente
arrestato. Contestualmente sono state notificate delle accuse al criminale ceceno Lom-Ali
Gajtukaev e ad altre persone che sembrano essere coinvolte nell’omicidio della reporter.
Purtroppo però, a sei anni di distanza dalla morte della giornalista dalla penna tagliente, il
caso non è stato ancora chiuso. Il processo, che dovrebbe terminare con l’arresto degli
assassini e degli ideatori dell’efferato crimine perpetrato contro la Politkovskaja, pare essere
9
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Stessa sorte è toccata alle ONG, tutte duramente osteggiate dal potere
politico specie quelle che lavorano nel settore dei diritti civili. Queste, non
potendo essere semplicemente acquisite, stanno subendo l'ultima fase della
violenta campagna scatenata da Putin contro la società civile russa. Secondo la
legge detta degli «agenti stranieri» approvata all'unanimità dalla Duma, su
iniziativa del partito Russia unita, il partito del presidente, ed entrata in vigore
nel novembre 2012, tutte le associazioni attive n e l campo dei diritti umani
hanno l'obbligo di iscriversi in apposito registro. Una misura presa
apparentemente in reazione all'ondata di proteste contro le frodi elettorali
avvenute nella primavera dello stesso anno, ma che nei fatti sottopone a
sorveglianza speciale il lavoro delle ONG, soprattutto quelle operanti nel
Caucaso. Basta poco perché queste organizzazioni siano definite associazioni
politiche: è sufficiente l ’ a c c u s a d i influenzare l'opinione pubblica.
Messi a tacere sia il giornalismo, sia le ONG, Putin e i suoi oligarchi
hanno lanciato nel novembre 2014 “Sputnik”, una piattaforma mediatica di
portata mondiale, indicata come una voce alternativa a quella occidentale, con
il compito di raccontare “quello che gli altri non dicono”. La scelta del nome
non è casuale: “Sputnik” era il nome di una rivista dell'epoca sovietica che si
rivolgeva al pubblico sovietico come a quello occidentale, sulle cui pagine
trovavano spazio articoli riguardanti ogni aspetto della vita politica,
sociale e culturale dell'URSS, correlati da foto e illustrazioni. Ampio spazio
veniva r i s e r v a to alla pluralità etnica e alla diversità del territorio sovietico.
Rifacendosi almeno nominalmente al suo predecessore, l'odierna “ Sputnik”
sfrutta sia le potenzialità di internet che quelle radiofoniche, potendo
contare su un budget annuale stimato in cinquecento milioni di dollari, una
cifra considerevole, considerando anche il periodo di crisi economica legato alle
sanzioni. Ufficialmente si propone di presentare un mondo multipolare, dove
ogni parte del paese ha cultura e lingua proprie tanto che notiziari e reportage
sono trasmessi ventiquattro ore su ventiquattro in una ventina di lingue
differenti. In realtà gli scopi sono diversi: all’estero “Sputnik” serve a rilanciare
intelligentemente l'immagine della Russia nel mondo scalfita dalla guerra in
Ucraina. Intelligentemente perché la Russia, attraverso “Sputnik”, chiede
semplicemente di essere ascoltata, non impone nulla con la forza. In secondo
luogo essa bilancia lo strapotere dei mass media occidentali pubblicando
servizi criticamente solidi, offrendo al mondo un’opinione diversa e
potenzialmente valida. In politica interna “Sputnik” si è imposta come fonte
senza fine. Sembra che non ci sia la volontà, da parte dei giudici così come della politica, di
trovare i colpevoli e condannarli definitivamente. La lentezza dell’inchiesta e del processo
sulla morte della Politkovskaja non rappresenta un caso isolato nel panorama russo, così come
non lo è l’omicidio di altri reporter.
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
giornalistica unica, divenendo una forma di controllo sulle opinioni e
decretando ufficialmente la fine del giornalismo indipendente.
3. Storia riabilitante e damnatio memoriae
L'organizzazione del consenso, come è noto, non passa solo attraverso il
controllo e l'orientamento dei mass media, ma anche attraverso varie forme di
assoggettamento dei saperi al volere del potere centrale. Appare
particolarmente opportuno analizzare, per la sua portata, il processo di
mistificazione della storia, poiché è qui che la volontà restauratrice assume i
suoi connotati più inquietanti. È questo infatti è il progetto più ambizioso
perseguito da Putin in tutti i suoi anni di presidenza: fornire ai russi la stesura
finale e definitiva della loro storia, mediante ottanta pagine di linee guida che,
dopo un’approvazione al vertice, saranno affidate a un team di storici per
diventare il manuale di storia unico per tutte le scuole russe, cancellando in
un solo colpo il pluralismo dell'insegnamento storico. Va precisato che questo
disegno di cristallizzazione della storia si inserisce in realtà all'interno di un
processo interrotto: con il crollo dell'Unione Sovietica, i russi hanno
finalmente avuto la possibilità di scoprire il loro passato, u n p a s s a t o a
l u n g o nascosto; m a le difficoltà e c o n o m i c h e degli anni Novanta li
hanno distolti da questo processo appena avviato, lasciandolo in sospeso. Ed
è appunto qui che inizia il processo di statalizzazione della storia voluto da
Putin, come ha sinteticamente spiegato lo storico Alexei Miller:
Putin ha riconciliato l'eredità comune, adottando al tempo stesso la bandiera russa e un
inno nazionale ripreso da quello sovietico. Poi ha costruito la storia sovietica, priva della
retorica comunista ma anche di critiche sullo stalinismo e incentrata sulla Grande Guerra
Patriottica e sulla vittoria sovietica sul nazismo. 11
Putin è stato q u i n d i abile a inserirsi in u n processo storico tipico di
tutte le società disorientate quale la riscoperta del passato in momenti di
crisi, m a l o h a piegato alle proprie esigenze, ponendo così fine alla
storiografia indipendente russa, entrata di recente a far parte della storiografia
mondiale. Progetto che paradossalmente sarà facilitato dal processo parallelo
della mitizzazione del passato sovietico che avviene dal basso, il quale rigetta la
ricerca storiografica non mitologizzata (e quindi quella indipendente). La
Rivoluzione d'ottobre è stata ribattezzata Grande Rivoluzione russa del 1917,
includendo quindi anche la precedente rivoluzione borghese che abbatté il
regime dei Romanov e che venne repressa poi da Lenin, mentre sotto la voce
di variante sovietica di modernizzazione verranno incluse, a quanto pare,
11
Sylvie Kauffman, Letargo russo, «Internazionale», n. 925, 2011, p. 60.
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l'industrializzazione, la vittoria sul nazismo, le carestie e le repressioni, anche
se non è difficile ipotizzare l'arbitrarietà con cui verranno affrontati questi
argomenti, soprattutto gli ultimi due. Non è ancora chiaro di quanto e di come
si parlerà del sistema penale dei campi di lavoro forzato, altrimenti noto
come Gulag12. Il silenzio assoluto è ovviamente impossibile, ma è facile
immaginarne una versione fuorviante nonostante l’impatto storico-culturale di
un sistema penale durato quasi s e t t a n t a anni che ha coinvolto milioni di
persone13. Questo è l'unico caso in cui la mistificazione della storia è stata
voluta tanto dall'alto, quanto dal basso. Tragicamente Putin non è stato il solo
a voler oscurare definitivamente uno dei capitoli più oscuri della storia russa:
indirettamente anche il popolo lo ha aiutato non assumendosi la responsabilità
di aver tollerato questa forma della violenza di stato, anzi osteggiando
apertamente il processo di conservazione della memoria storica, minando
alla base la formazione di una vera coscienza nazionale.
Nel manuale ufficiale il primo conflitto russo-ceceno non troverà spazio
alcuno, mentre verrà posta l'enfasi sul secondo. Ben altra sorte toccherà poi
agli oligarchi o alle proteste di piazza seguite ai presunti brogli elettorali. Per
loro Putin ha riservato un trattamento antico e terribile allo stesso tempo: la
damnatio memoriae14, ossia la cancellazione dalla memoria collettiva. Di
Berezovsky, Khodorkovsky, dei movimenti di piazza non ci sarà semplicemente
traccia nel manuale unico.
4. Il Nostos. i simboli del ritorno
Data la sua natura è chiaro che, ponendo l'accento sul nostos, sul ritorno, la
nostalgia restauratrice cerchi di ripristinare la dimora perduta e soprattutto
colmare i vuoti di memoria, tipici della nostalgia riflessiva. La politica di
Putin ha riportato in auge vecchi simboli sovietici, primo fra tutti il culto della
GULag, acronimo di Glavnoe upravlenie lagerej (Direzione centrale dei lager).
13 Anche qui Putin non ha fatto altro che sfruttare il suo enorme potere e mettere a
tacere l'Associazione Memorial, l'unica che si occupava di quanti erano stati privati dei loro
diritti specie per motivi politici e aiutava i familiare a rintracciare i parenti scomparsi. Il
progetto Museo virtuale del Gulag, sorto con l'intento di riunire tutte le inchieste e i documenti
sui campi di concentramento sovietici che giungevano da tutte le repubbliche dell'ex URSS, è
stato duramente ostacolato e censurato dalle autorità pubbliche, fino al triste epilogo avvenuto
a dicembre 2008, quando le forze di polizia, su ordine prefettizio, hanno perquisito la sede
dell'associazione sita a San Pietroburgo, sequestrando un numero non precisato di documenti
cartacei, diari, tutti i dischi rigidi, nonché oltre 10.000 foto. Infine nel novembre del 2012
anche Memorial è stata costretta a registrarsi come organizzazione non governativa straniera,
nonostante l'evidente scopo di far chiarezza su una pagina dolorosa della storia nazionale.
14 Letteralmente “condanna della memoria”.
12
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
personalità, rivolto ovviamente a se stesso. La seconda guerra cecena è stata
importante in questo senso: il conseguimento della vittoria ha permesso al
Presidente il raggiungimento di due importanti obiettivi: ricompattare il popolo
russo e ridare lustro alla figura del presidente della Federazione totalmente
screditata dal suo predecessore Boris Eltsin.
Con lo scopo di rinsaldare l'eredità comune tra popolo e istituzioni, ha
abilmente recuperato due simboli legati alla cosmogonia sovietica: l'inno
sovietico e la Grande guerra patriottica. Per quanto riguarda l'inno, poiché
non si riusciva a trovare un nuovo testo adatto al Canto patriottico
(Patriotičeskaja pesnja) adottato nel 1991, si decise di utilizzare quello scritto da
Sergej Vladimirovič Michalkov adattandolo al nuovo contesto socio-politico.
A pprovato l'8 dicembre del 2000 mostra tre sostanziali differenze rispetto al
precedente: l 'unione indivisibile delle repubbliche è stata sostituita dall'unione
eterna dei popoli; i riferimenti a Lenin e al comunismo sono stati eliminati per
far posto a quelli a Dio e alla religione; il testo attuale riprende maggiormente
il passato, là dove l’originale a p p a r i v a proiettato verso futuro.
Per quanto riguarda la Grande guerra patriottica, la sua riscoperta è stata
innanzitutto resa possibile dal mancato processo al Partito comunista, dovuto
all'incapacità degli accusatori di porsi su un s u p e r i o r e
piano
intellettuale che permettesse loro di criticare lo stalinismo, e poi favorita
dalla delusione dei cittadini russi nei confronti del nuovo corso politico. Ha
osservato Leonid Gudkov:
Più ci si rendeva conto che la democrazia non era la sperata bacchetta magica che avrebbe
portato automaticamente al benessere, e si diffondeva la nostalgia per il passato, la stabilità e
la tranquillità dei tempi d'oro dell'era brezhneviana, e più la coscienza popolare tornava alle
immagini abituali inculcate per decenni dall'apparato sovietico d'indottrinamento e e di
propaganda […] Cercando di rafforzare la legittimità dell'emergente regime totalitario, il
gruppo dirigente posteltsiniano ha colto questa disponibilità popolare a tornare alle vecchie
interpretazioni del passato e l'ha sfruttata pienamente […] Il regime di Putin non poteva
ignorare la forza e l'importanza del sentimento nazionale come fonte di legittimazione […]
La Grande guerra patriottica e la vittoria tornano ad essere, per la grande maggioranza dei
russi , il più importante elemento di identificazione collettiva, la misura e il criterio che fornisce
una prospettiva di valutazione del passato e in parte una comprensione del presente e del
futuro, un'organizzazione del tempo storico nella coscienza collettiva. 15
Putin ha anche sfruttato la mancanza di volontà della società russa di
indagare sul proprio passato, di mettere in discussione l'operato del Partito
comunista: come già ribadito precedentemente, il caos politico ed economico
ha rapidamente distolto i russi dallo studio della loro storia, così la vittoria è
Leonid Gudkov, Victor Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin, Bologna, Il Mulino,
2010, pp. 148-154.
15
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tornata ad essere una sorta di proprietà privata nazionale, il simbolo cardine
del nuovo nazionalismo russo e dell'incontestabile autorità statale. Con una
precisazione, però: sono rimaste nella nuova storia solo la memoria della guerra
e della vittoria, mentre sono stati condannati all'oblio gli aspetti più oscuri dello
stalinismo, primo fra tutti il terrore di massa. Un’operazione che ha portato a
rivalutazioni positive dell'operato di Stalin e quindi alla ricostituzione della sua
autorità e
d e l l a
f i g u r a
dell'uomo forte al comando.
Paradossalmente Putin, che propugna questo ritorno, non si considera un
nostalgico; anzi si dice pienamente convinto che il suo progetto sia possibile
attraverso il recupero di simboli e di miti nazionali. Il regime autoritario da
lui inst aur ato ha già favorito la rinascita di alcune istituzioni del vecchio
sistema sovietico: la polizia segreta, un esercito guidato da un massiccio corpo
di generali, un solido complesso militare-industriale. Quindi se la nostalgia
è il dolore per la distanza temporale e l'allontanamento spaziale, la
nostalgia restauratrice di Putin si occupa di colmare sia la distanza
temporale, sia la distanza spaziale. La distanza temporale viene compensata
dall'esperienza intima e dalla fruibilità dell'oggetto in questione, mentre la
distanza spaziale viene compensata con un proposta: il ritorno collettivo nella
patria ideale. Andando al di là delle incongruenze storiche, il portavoce di
questa nostalgia presenta il periodo sovietico come la strada contorta verso la
modernità, sfruttando abilmente la forza dell'eredità istituzionale,
strutturale, psicologica e culturale del passato socialista. È a tutti gli effetti un
processo di “presentificazione” del passato e dei suoi valori, ossia quel
processo, in questo caso politico-culturale, per cui il passato perde la sua
caratteristica fondamentale, quella di essere un’assenza e ri-diventa presente.
5. La nostalgia riflessiva
Le caratteristiche di questa nostalgia vanno ricercate nella natura del termine
che la qualifica, c h e a s s u m e un duplice significato:
1)
indica qualcosa che concerne la riflessione, la ponderatezza.
2)
indica un'azione prodotta da alcuni soggetti che si ripercuote sui
soggetti stessi.
Essa ha a che fare con la memoria popolare ed è figlia tanto della memoria
individuale, quanto di quella collettiva. Sebbene siano due costruzioni
distinte, esse si influenzano reciprocamente nell'atto di riflettere, nel senso
che la memoria individuale, come ha p i ù v o l t e affermato Paul Ricoeur nei
suoi scritti, è un punto di vista sulla seconda. Quindi, la memoria
individuale è parte integrante della sociologia della memoria, poiché un
gruppo sociale è costituito da una serie di individui che, indipendentemente
120
E. Liutina Marroni, Nostalgia
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tra loro, ricordano qualcosa. A loro volta gli individui di un gruppo sono
influenzati dalla comunità cui appartengono, poiché sono gli interessi e gli
schemi sociali che danno luogo alla memoria collettiva. Non si ricorda tutto,
ma solo una selezione di ricordi che, entrando a far parte della memoria di un
gruppo, divengono extratemporali. A livello individuale il ricordo è
prodotto da un processo di rimemorazione che ripresenta una porzione del
passato generalmente separata dal presente da una discontinuità temporale.
Non fa partire il ricordo dall'inizio, ma fornisce un'immagine generica di un
evento significativo: questo processo di rimemorazione, a sua volta, dà
luogo a un ricordo organizzato secondo una struttura pre-narrativa, poiché il
tempo vissuto (e così l'esperienza) viene ri-costruito attraverso varie omissioni.
Il ricordo primario, ossia quello basato sull'esperienza diretta, diviene
secondario, cioè quello costruito. Il soggetto che ricorda non ha,
ovviamente, accesso alla memoria storica, pertanto quello che ri-crea e ri-vive lo
considera come verità assoluta. Tuttavia, c'è un ulteriore passaggio da
affrontare: non è possibile saltare direttamente dalla memoria individuale a
quella collettiva; c'è bisogno di quella connessione intermedia rappresentata
dalla memoria generazionale. Infatti, quando si parla di gruppo sociale,
vengono compresi al suo interno generazioni diverse, che concorrono alla
ricreazione costante della memoria collettiva. Quando una serie di ricordi ed
esperienze passano dall'essere individuali a generazionali, quando questi
vengono trasmessi sotto forma di narrazione, dalla generazione precedente a
quella successiva, ecco che si aggiunge nuova linfa alla memoria collettiva,
che può essere finalmente definita come memoria nata nel gruppo e per il
gruppo. Una generazione, secondo Edmunds e Turner16 è una coorte di età,
che assume una significanza sociale quando si costituisce come identità
culturale; è composta quindi da soggetti sociali legati tra loro da un ciclo di
vita. In questa sede ha una enorme rilevanza l'esperienza dell'ultima
generazione sovietica, poiché è stata quella del passaggio traumatico da un
sistema socio-politico a un altro. Si può considerare come ultima generazione
sovietica quella nata nei primi anni Sessanta, durante l'ultimo periodo del
mandato chruščeviano (1953-1964), che va distribuita su un arco temporale
lungo venticinque anni e si conclude ovviamente con la fine del mandato di
Gorbačev (1991). I motivi che hanno determinato questa scelta vanno oltre il
mero aspetto temporale: i fattori che definiscono formalmente tale
generazione, sono da un lato la stagnazione politica, culturale e economica
patita sotto Brežnev; dall'altro la produzione culturale
realizzata
June Edmunds, Bryan Turner, Generations, Culture and Society, Buckingham, Open
University Press, 2002.
16
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indipendentemente da tale generazione per se stessa, profonda dal punto di
vista dei contenuti e dei significati. L'ideazione clandestina di una cultura
indipendente, attraverso gli strumenti del “samizdat” e del “magnitizdat”, è
più di un lascito per la generazione post-sovietica: è un grande contributo al
rinnovo della memoria collettiva russa e un punto di incontro tra l'ultima
generazione sovietica e la prima post-sovietica, che non ha fatto molto per
distanziarsi negli atteggiamenti dal passato recente. Data la sua natura
strettamente personale, la nostalgia riflessiva contempla la memoria
individuale e culturale. Usa, a volte sovrapponendoli, i medesimi simboli di
quella restauratrice; tuttavia essi non coincidono n é a livello narrativo n é a
quello contenutistico: innescano quindi i medesimi ricordi, ma raccontano di
essi storie diverse e, soprattutto, non colmano i vuoti di memoria. Se la
nostalgia restauratrice gravita intorno a dei simboli collettivi selezionati con
cura, quella riflessiva si orienta verso una storia individuale, che indugia sui
ricordi e i segni evocativi, quindi si occupa della parte temporale, ma non di
quella spaziale. La nostalgia riflessiva presenta, contemporaneamente, i
meccanismi del lutto e della malinconia; del lutto riprende il processo di
elaborazione della perdita, dove la realtà prende il sopravvento sul ricordo;
della malinconia riprende il modello di presentazione dell'oggetto perduto. La
perdita nella nostalgia riflessiva non è mai definitiva, non ha nemmeno dei
contorni regolari poiché inconscia e slegata dalla realtà: i ricordi assumono
sempre una forma onirica. Per questo il soggetto nostalgico-riflessivo sembra
oscillare tra due decisioni, senza risolversi mai. I motivi che hanno consentito
ai miti e alle consuetudini sovietiche di sopravvivere dopo il collasso
dell'Unione Sovietica sono due e risalgono al comunismo stesso: il primo
risiede nell'atto rivoluzionario in sé, che ha ovviamente un carattere
antinostalgico; il secondo è d e t e r m i n a t o d a l f a t t o che la classe
dirigente sovietica, riscrivendo la concezione di tempo, ha presentato la
rivoluzione e la vittoria comunista come il culmine della storia mondiale. La
nostalgia per il comunismo si spiega con un paradosso: c'è nostalgia per il
periodo comunista, perché con la Rivoluzione d'ottobre scomparve dal lessico
russo la parola nostalgia. Il passato, riscritto in termini legittimanti nei
confronti della Rivoluzione, ha dato un carattere piuttosto pervasivo alla
dottrina comunista; per questo la sua mancanza si è fatta sentire nel mondo
postcomunista. Persino i riformatori liberali ne presentano i segni soprattutto
quando dichiarano di ricongiungersi all'Occidente presentando il periodo
sovietico come la strada per la modernità. Il punto di forza della nostalgia
riflessiva e, insieme, il punto che la contraddistingue nettamente dalla
restauratrice, risiede nel suo carattere evolutivo. Essa è nata,
fondamentalmente, come reazione alle difficoltà materiali del primo decennio
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
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postcomunista, durante il quale i russi subirono la disintegrazione dello stato
sociale e una drastica riduzione degli standard di vita. Fu una nostalgia dovuta
alla povertà, all'umiliazione in campo estero, sintetizzabile con l'espansione a
Est della NATO: una nostalgia tout court. Poi, sotto Putin, questa nostalgia mutò
di forma, diventando più complessa e immateriale. Quando l'economia riprese a
girare, gli standard di vita crebbero, così come la vita materiale, divenendo
complessivamente migliore rispetto al primo decennio post-sovietico.
Ciononostante, il sentimento nostalgico non fu accantonato in un angolo
della memoria, anzi si fece più intimo, più legato alla memoria dialogica, alla
ri-creazione degli eventi vissuti. I motivi di questa evoluzione vanno ricercati
nello scontro che si andava profilando in seno alla società, dove, al vecchio
Homo Sovieticus, si stava contrapponendo l'Homo Oeconomicus, l'essere
razionale che si è affermato anche in Russia, il quale ha, come unico scopo,
l’interesse esclusivo per la cura dei suoi interessi individuali: la società,
stimolata da una ricchezza senza precedenti, è divenuta consumistica, più
cinica e spiritualmente vuota. Questa contrapposizione non solo spiega la
nostalgia degli anziani, ma contribuisce a spiegare la nostalgia della
generazione post-sovietica. Insomma, a favore di questa rivisitazione giocano
non tanto la distanza temporale, ma i profondi mutamenti sociali. Questi
ultimi hanno influenzato molto la nostalgia dei giovani che guardano al
mondo scomparso dei loro genitori con rimpianto; g u a r d a n o con
sincero affetto alla semplicità e all'innocenza delle loro vite, della loro società,
nonostante fosse parte di sistema chiuso e basato sulla sorveglianza, a
differenza di quella attuale, apparentemente aperta, ma basata sulla
disuguaglianza.
6. Una nostalgia mercificata e una in evoluzione
Dall'analisi della nostalgia restauratrice e riflessiva emergono due conclusioni:
la prima è che il sentimento di nostalgia è stato rapidamente mercificato
dalle istituzioni; la seconda che la nostalgia dal basso sta subendo un
graduale processo di evoluzione. Per quanto riguarda la nostalgia mercificata,
essa corrisponde senza dubbio alla nostalgia restauratrice. È una nostalgia
confezionata, sovrapposta a quella riflessiva e cronologicamente posteriore a
essa; ha estrapolato dal suo contesto storico i valori spirituali e culturali del
comunismo trattandoli come un prodotto da vendere sugli scaffali. L'obiettivo
non dichiarato di questa commercializzazione del passato è quello di
ricavare del materiale politico per fare presa su un popolo che ha ancora ben
presente i fatti del '91. Non è stato solo Putin ad adottare una tattica politica
simile: anche se in scala ridotta, partiti come Russia g iusta o il Partito
123
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comunista hanno fatto leva sul sentimento nostalgico dei russi specie in
campagna elettorale, durante la quale il Partito comunista ha addirittura
riproposto Stalin sui propri manifesti. Alla staticità della nostalgia dall'alto, si
contrappone il dinamismo della nostalgia riflessiva che, come è ovvio, precede
cronologicamente la prima. È una forma di nostalgia immateriale, strettamente
personale; non ricorda tutto, ma nemmeno seleziona accuratamente gli eventi
come fa la nostalgia restauratrice: crea i ricordi attraverso le esperienze
personali e il processo di rimemorazione; si limita a riproporre il passato in
maniera non storica, in maniera disinteressata, col cuore. Per questo motivo
nessun nostalgico-riflessivo aspira realmente a restaurare l'URSS, ma solo a
riviverne alcuni aspetti. Il collasso dell'URSS non ha comportato solo lo
smantellamento del sistema di dominazione statale, ma anche di tutta
l'impalcatura ideologica, di
uno stile di vita. Amplificato dalla
privatizzazione, dalla trasformazione massiva delle norme e convenzioni
esistenti, questo collasso ha prodotto un impatto durevole sull'identità
individuale e collettiva che ancora non è passato. L'abbandono delle vecchie
istituzioni e l'eliminazione delle più ovvie tracce del comunismo, durante la
transizione dall'economia comunista a quella capitalista, non hanno prodotto
automaticamente un nuovo contesto unificante, culturale e politico, anzi la
riorganizzazione della realtà sociale-morale ha trasportato i simboli sovietici
nel contesto post-sovietico per sopperire all'olocausto morale, generando una
riconfigurazione simbolica dell'esperienza sovietica. Questo olocausto è molto
sentito, come un anonimo scrittore ha sintetizzato su Literaturnaja Gazeta»:
Perché nasconderlo, la vita senza un'idea comune, senza uno sforzo
comune, addirittura senza un mito comune, è squallida e a volte addirittura
tormentosa. Proprio quest'assenza provoca la sensazione di essere come senza
casa e orfani17.
Questa riconfigurazione poggia sul fatto che la società sovietica era una
comunità non interamente basata sullo scambio monetario, al contrario di
quello che avviene oggi, dove il valore stesso della moneta si sostituisce a dei
valori considerati veri e universali, come la creatività o le doti intellettuali.
Mettere a confronto la storia politica e sociale della Russia e dei paesi dell'ex
blocco sovietico contribuisce a spiegare perché in Russia c'è questa forte
nostalgia per l'URSS, così come, indirettamente, a spiegarne la mancanza negli
ex paesi satelliti. Con la fine del Patto di Varsavia, emerse uno spazio di intesa
tra quasi tutti i paesi dell'ex blocco sovietico e l'Occidente, specie con l'Unione
Europea. Tali paesi h a n n o siglato l'accordo di associazione con l'UE tra
1992 e 1995 (fatta eccezione per Bulgaria e Romania, che hanno firmato nel
17
«Literaturnaja Gazeta», n. 37 del 18/09/2001.
124
E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
2007); da parte sua l'UE ha attivato una serie di meccanismi di controllo per
facilitare il loro ingresso a Bruxelles. Questo processo è stato largamente
favorito tanto dal rigetto del sistema sovietico, imposto dalle armi alla fine
della Seconda guerra mondiale, quanto dalla presenza di élite filoccidentali, che
hanno guidato i propri paesi durante la difficile transizione consolidandone le
economie dopo la drastica caduta della produttività e dell'occupazione,
soprattutto attraverso il dinamismo del settore privato. Tutto questo è
semplicemente mancato alla Russia postcomunista, che innanzitutto non è
stata in grado rigettare il pro pr io passato sovietico; questo per il semplice
fatto che esso non le era stato imposto da nessuna forza di occupazione. Ha
dovuto affrontare la difficile crisi economica da sola, nella totale indifferenza
dell'Occidente; ha avviato e condotto le riforme economiche e burocratiche in
maniera caotica e in funzione del volere di pochi oligarchi. Infine è stata guidata
per lungo tempo da una classe politica ideologicamente divisa e incerta sul
da farsi, la cui inerzia ha favorito il diffondersi della corruzione e il ritorno al
potere dell'”uomo forte”, fatto che ha paralizzato le riforme sociali,
risospingendo la Russia verso il suo passato recente.
7. “Va ora in onda... l'URSS”
Negli anni Novanta, i russi provati dalla disastrosa politica eltsiniana,
cominciarono a frugare nel loro passato in cerca di consolazione. Tuttavia, non
consultarono libri di storia o studiosi autorevoli, né affrontarono
collettivamente le istituzioni politiche in cerca di chiarezza, ma si chiusero
in casa, al riparo dai disordini dell'era postcomunista, limitandosi a
accendere semplicemente la televisione: se la versione politica dell'URSS
era ormai morta, quella cinematografica sopravviveva. Nonostante i rapidi
cambiamenti in campo economico e politico, la televisione, almeno
inizialmente, non mutò i propri palinsesti, continuando a proporre i vecchi film
sovietici, in una sorta quasi di resistenza. I russi, vedendoli e magari
commentandoli in famiglia, cominciarono a convincersi che i contenuti dei
film rispecchiassero il loro passato, trascurando un dato essenziale: essi
erano già portatori di un'immagine fortemente idealizzata della società
sovietica. Il passato assunse un aspetto invitante. I russi, distratti da queste
immagini, smisero di guardare avanti, per tornare in parte indietro, con la
testa e col cuore. È qui che si inseriscono nuovamente la nostalgia
restauratrice e, teoricamente, quella riflessiva: la televisione si è rivelata lo
strumento perfetto per veicolare l'idealizzazione dell'URSS, soprattutto perché
l'uso di immagini e suoni ha una capacità di presa indubbiamente superiore ai
libri o alla radio. Inoltre la televisione non richiede un grande impegno al
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destinatario del messaggio, il quale non deve far altro che sedersi davanti al
piccolo schermo e assorbire passivamente il messaggio televisivo. Altri fattori
contribuiscono a spiegare il successo della televisione: il principale risiede
nel fatto che internet, oramai, è completamente nella mani delle istituzioni
politiche, pertanto è impossibile, o comunque difficile, accedere a
informazioni realmente indipendenti. Si aggiunga a ciò che l'80% degli utenti
è concentrato nelle grandi città, che non tutti hanno dimestichezza con i
caratteri latini. A questo va aggiunto che, sebbene in aumento, n o n t u t t i i
russi possiedono una connessione casalinga e pertanto usufruiscono delle reti
disponibili nei luoghi di ritrovo, come caffè o ristoranti. La stessa letteratura
russa sembra essersi avviata verso un lento, ma inesorabile, declino, sia perché
è ignorata in patria e all'estero, sia perché non offre nemmeno un'opera critica
del regime sovietico. Così nel giro di pochi anni la televisione, anziché
limitarsi a riprodurre ciclicamente il materiale filmico dell'epoca sovietica, si è
evoluta di pari passo con le esigenze degli spettatori, dando luogo a due
produzioni distinte: la prima, «Nostalgjia», è un canale a pagamento, la seconda
«Namedni» (Recentemente), è un programma televisivo diretto da Leonid
Parfёnov, un noto giornalista russo. L'URSS torna in onda? Sì, ma con
differenze notevoli, tali da supporre che non ci sia stata una sola Unione
Sovietica, ma due. Lo scopo è quello di mettere in luce queste discordanze,
partendo da due considerazioni. Innanzitutto, l'uso dei media da parte dello
spettatore è intenzionale, fattore che non va sottovalutato, considerando che
viviamo in un mondo in cui l'offerta televisiva, grazie al numero praticamente
illimitato dei canali, è diventata personalizzabile. Pertanto è lo spettatore che,
per soddisfare le proprie attese, si sintonizza consapevolmente su determinati
canali. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che la televisione manipola
l'immaginario collettivo, deformando le rappresentazioni sociali, organizzando
il vissuto delle persone. G li individui si identificano con il passato che è loro
offerto traendone soddisfazione, ma non si rendono conto che, in questo modo,
la televisione sta organizzando la realtà sociale, equiparando la memoria
individuale a quella collettiva, nel tentativo di renderle indistinguibili l'una
dall'altra. L'individuo ridotto a un
consumatore, sta assumendo
comportamenti prescritti nei confronti del passato, limitando indirettamente
la sua capacità di ripensare quest'ultimo in modo indipendente. Se il primo
punto non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, il secondo è più complesso e va
spiegato attraverso l'analisi della natura di «Nostalgjia» e «Namedni».
8. «Nostalgjia»: l'uso nuovo di una storia vecchia
«Nostalgjia» nasce il quattro novembre 2004 per volere del produttore
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televisivo Vladimir Ananich. È un canale tematico molto seguito sia in Russia,
sia in molti dei paesi russofoni (paesi baltici compresi). All’insegna del motto
“c'è molto da ricordare”, si rivolge principalmente a tutti coloro che hanno a
cuore gli anni trascorsi, quindi a un pubblico che è nato e cresciuto in un paese
che non esiste più. L'ideatore del canale ha fatto un uso intelligente delle
fonti a disposizione. Anziché cercare casualmente nello sconfinato archivio
televisivo sovietico, ha organizzato il palinsesto in maniera singolare: accanto
ai programmi dell'era sovietica, ne ha ideati di nuovi, di stampo
giornalistico, interattivo e musicale, in cui vengono ripercorsi sotto diversi
punti di vista i lunghi anni dell'era socialista. Pertanto, dopo aver ascoltato le
notizie del giorno di trent'anni prima e aver svolto i consueti esercizi ginnici
per tenere in forma il popolo socialista, è possibile seguire appassionati
dibattiti sull'URSS e sul suo lascito, tra vecchie e nuove generazioni. Nel
complesso è difficile non pensare all'effetto manipolante di un simile canale.
Sebbene non ci siano apparenti motivazioni politiche dietro ai programmi,
un dubbio rimane sulla volontà degli ideatori di voler far solo rivivere il
passato tanto più che non si può fare a meno di notare l'arbitrarietà con cui
questo passato viene mostrato. Similmente a un film, il passato viene prima
visionato, quindi subisce una fase di montaggio, infine viene ricomposto in
base alle esigenze narrative. «Nostalgjia», come suggerisce il suo nome, fa
rivivere del passato tutto ciò che è in grado di suscitare rimpianto: film,
parate, le Olimpiadi di Mosca, vecchie notizie sulle conquiste del popolo
socialista, il popolo del domani, fanno parte di questa versione del passato.
Altre vicende, come gli aspetti più tenebrosi della società sovietica, per
esempio la corruzione e l'alcolismo, o l'invasione dell'Afghanistan, sono finite
nel dimenticatoio, poiché di esse non c'è il benché minimo desiderio di essere
ricordate, come è ovvio. «Nostalgjia» è stato un catalizzatore dal momento che
ha accelerato il processo di rimozione del sentimento di vergogna dei russi, nei
confronti del proprio recente passato. Il turbamento e la sensazione di
fallimento, dovuti al fatto di aver perso il confronto con l'Occidente, hanno
ben presto lasciato spazio a un montante sentimento di fierezza: la vittoria
sul nazismo, l'esplorazione spaziale, o la già citata Olimpiade di Mosca, sono
diventati motivi di orgoglio per il proprio passato, o quantomeno di
consolazione, soprattutto per coloro che non sono riusciti a salire sul treno per
l'Occidente. Indirettamente, ha dato luogo a una vera e propria mania per
l'URSS, tant'è che il passato è stato mercificato e ridotto a una moda. Infatti non
è raro imbattersi, tra le strade delle grandi città, in negozi che vendono busti
di Lenin e Stalin, vecchi manifesti con la propaganda del PCUS, o spillette e
magneti che si rifanno al passato comunista. Questa mania ha prodotto anche
locali a tema, come discoteche anni Settanta, ristoranti e pub, che consentono
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di immergersi nel proprio passato (o in quello dei genitori). Tornando a
parlare di «Nostalgjia», il proposito degli autori di far rivivere semplicemente il
passato, f i n i s c e c o l suonare falso alle n o st r e orecchie. Q uesta
versione edulcorata dell'Unione Sovietica corrisponde a un uso nuovo di una
storia vecchia, un uso con scopi ben precisi, diversi per le due generazioni di
cui si parla in questo studio, ossia l'ultima generazione sovietica e la prima
postcomunista. Il successo di questo canale è dovuto non solo alla capacità
dei suoi autori, ma anche al processo parallelo di mistificazione della storia
che avviene sia dall'alto che dal basso.
Ma è l'analisi dei programmi a contenuto musicale a dare i risultati più
sorprendenti. Essa innanzitutto ha tratto giovamento da alcune considerazioni
di uno dei più grandi pianisti e direttori d'orchestra dei nostri tempi, ossia
Daniel Baremboim, che ha sottolineato l'importanza dell'orecchio come medium
intermediario tra la musica e la memoria:
L'importanza dell'orecchio non sarà mai troppo sottovalutata. Una delle
sue funzioni è di aiutarci a ricordare e a rammentare; ciò significa non solo
che l'orecchio ha un collegamento essenziale con la memoria, ma che ci
costringe anche a usare il pensiero. Il ricordo, dopo tutto, è memoria
accompagnata dal pensiero; il giovane rammenta, il vecchio ricorda. La memoria
è qualcosa che ci viene subito in aiuto, mentre il ricordo arriva solo grazie alla
riflessione e allo sforzo individuale. Il fatto che il sistema uditivo sia
fisicamente vicino alle parti del cervello che regolano la vita spiega
l'intelligenza dell'orecchio18.
Questi programmi si basano appunto sulla attivazione della memoria
uditiva da parte degli spettatori, privandoli però del processo razionale che
permette loro di collocare al giusto posto musica e ricordi. Per questo
motivo, molte canzoni hanno perso ormai il significato originario,
acquisendone altri, come è successo a una famosa hit dell'era brežneviana,
ossia “ Мой адрес Советский Союз”, ossia “Il mio indirizzo è l'Unione
Sovietica”. Questa canzone degli anni Settanta, in origine dedicata a quei
lavoratori costretti, per varie esigenze, a trasferirsi nelle regioni siberiane per
cercare fortuna, oggi è diventata il simbolo dell'ultima generazione sovietica. Il
suo significato è passato dallo struggimento per l'allontanamento dalla
c a s a natia a qualcosa di più intimo, il rimpianto per la patria che non esiste
più. Stesso destino è toccato a un'altra hit degli anni Ottanta, ossia “Born in the
USSR”, del sessantenne Oleg Gazmanov, nominato da Putin “Artista del
Popolo”. Nata in origine per celebrare il senso di appartenenza al paese,
oggi ha assunto dei connotati più inquietanti, per non dire profetici,
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Daniel Baremboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 30.
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considerando le parole della prima e dell'ultima strofa. La prima recita
“L'Ucraina, la Crimea, la Bielorussia e la Moldova sono il mio Paese”, l’altra
“L'Europa sta cercando di formare un'unione, ma noi insieme abbiamo vinto
la Seconda guerra mondiale, sciogliamo i confini, non c'è bisogno di
passaporti. Senza di noi non siete niente, insieme siamo amici”.
Il senso di appartenenza a un paese ha lentamente lasciato il posto a
una pericolosa mistura di nostalgia e orgoglio, amplificata dai fatti avvenuti in
Ucraina, dagli accordi tra Bielorussia e Russia, dalla posizione di quest'ultima
nei confronti della Moldova. L'ultima riproposizione pubblica di questa
canzone è avvenuta n e l c o r s o d e i f e s t e g g i a m e n t i p e r il ventesimo
anniversario della n u o v a Costituzione russa, a p p e n a dopo il discorso
t e n u t o dal p residente ed è stata molto applaudita dal pubblico presente
costituito s o p r a t t u t t o da politici. Riproporre tale canzone in un contesto
altamente significativo non è stato certo un caso, ma anch'esso un simbolo.
Significa affermare la direzione politica intrapresa dalla Russia, che non è
nuova, ma è un'amplificazione delle politiche precedenti, ossia ricostruire
l'”impero” andato perduto.
9. «Namedni: nasha era», o l'archeologia dell'URSS
Sette anni prima dell'avvento di «Nostalgjia», il giornalista Leonid Parfënov
aveva ideato un progetto televisivo dedicato all'Unione Sovietica, destinato a
durare vari anni, fino alla chiusura avvenuta a giugno 2004. Tale programma si
discostava dal canale «Nostalgjia» sotto diversi aspetti: già il titolo in sé è
evocativo di queste differenze. Infatti «Namedni», tradotto alla lettera, significa
“non molto tempo fa”, oppure “recentemente”. La scelta di questo termine
non è stata casuale, indica una distanza temporale vicina, che è ancora
avvertibile nel presente. Il sottotitolo, “naša era”, “la nostra era”, lascia
intendere bene di quale era trattasse il programma, ossia quella dell'ultima
generazione sovietica. Parfënov, classe 1960, fa appunto parte di questa
generazione e ha esplorato un arco temporale che va dagli anni Sessanta agli
anni Novanta. Partendo da questa considerazione, Parfënov ha creato un
programma a metà strada tra il reportage televisivo e il documentario. Del
primo ha ripreso la metodologia dell'analisi attenta e strutturale, del secondo il
valore didattico e la chiarezza espositiva. Grazie all'ausilio della tecnica del
chroma key, Parfenov ha raccontato l'URSS da Chruščëv a Gorbačev, apparendo
accanto a molti personaggi della storia sovietica e nei momenti storici più
diversi: è possibile ammirarlo, mentre fa la spesa, nel primo supermercato
sovietico insieme a Chruščëv, oppure vederlo posare accanto a Brežnev,
durante un discorso ufficiale. Non c'erano ospiti di rilievo, fatta eccezione per
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qualche politologo, o una platea all'interno di «Namedni»: circondato da
schedari verdi, Parfënov, si rivolgeva alla telecamera per sortire l'effetto di
parlare direttamente con i telespettatori, spiegando di volta in volta gli
argomenti; il suo unico compagno era un monitor dal quale partivano le
immagini del periodo storico preso in questione. A quel punto Parfënov,
attraverso la sua voce fuori campo, commentava il tutto, spiegando di volta in
volta le circostanze storiche e politiche al telespettatore. Tutto sommato i
filmati, sebbene fossero abbondanti, non avevano la stessa importanza che
all'interno di «Nostalgjia». Qui contava maggiormente la personalità di
Parfënov, che era distaccata e ironica allo stesso tempo. Il punto di forza di
«Namedni» e la principale differenza con «Nostalgjia» risiede nel fatto che,
Parfënov, non ha mai preteso di offrire al pubblico la versione definitiva
dell'URSS, anzi l'ha trattata neutralmente dal punto di vista dei valori. Ne ha
fornito una versione non nostalgica, imparziale; ne ha fatto una sorta di
archeologia, documentando e analizzando il materiale a sua disposizione. Ha
suddiviso la storia dell'Unione Sovietica per argomenti, senza fare selezione,
senza
dimenticarne gli aspetti sgradevoli, seppur nei limiti della
programmazione televisiva. Il successo di «Namedni» è stato vasto, tant'è che
ne è stata prodotta una versione cartacea, c h e , sebbene molto costosa, è
ancora acquistata dai russi. Fondamentalmente, visto il putinismo che soffoca
la società russa, un programma come «Namedni», non poteva durare a lungo.
Era troppo indipendente
dal potere centrale con cui è entrato
progressivamente in rotta di collisione, così come la personalità di Parfënov è
lontana dagli standard imposti da Putin. «Namedni» era diventato troppo
scomodo, specie da quando, terminata l'esplorazione dell'URSS, Parfënov aveva
iniziato a esplorare la Russia di Putin e le sue contraddizioni. È bastato un
servizio sulla vedova di Zelimkhan Jandarbev (uno dei probabili ideatori
dell'attentato al teatro Dubrovka), per altro mai andato in onda, per far
sparire in un attimo la miglior produzione televisiva sull'Unione Sovietica:
l'ordine non è stato solo quello di cancellare «Namedni: era Putina», ma
anche «Namedni: nasha era». Ufficialmente, Parfënov è stato licenziato perché
aveva infranto gli accordi lavorativi presi con il canale NTV al momento della
stipula del contratto, accordi mai resi pubblici, o quantomeno mai chiariti.
Brevemente i fatti. Il servizio non era andato in onda una prima volta
p e r c h é t r o p p o a r i d o s s o d e ll'assassinio di Zelimkhan
Jandarbev. Lo stesso Parfënov aveva approvato la decisione ritenendo che se
fosse stato trasmesso avrebbe potuto influenzare l'esito del processo di due
cittadini russi in Qatar, accusati di essere gli esecutori dell'omicidio. Poco
tempo dopo, avendo giudicato i tempi o r ma i maturi per la messa in onda
del servizio, lo a ve va inserito nella programmazione diurna del canale, ma
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proprio mentre v e n i v a visionato per eventuali correzioni, era giunto il
divieto definitivo: i servizi segreti avevano ordinato alla Direzione di
sospendere lo speciale fin quando non sarebbe s t a t a chiarita la situazione
dei due russi imputati. Due giorni dopo era seguito il licenziamento. Non è
difficile immaginare che, dietro al licenziamento di Parfënov, ci sia stata la
longa manus di Putin, desideroso di liberarsi di uno dei più brillanti giornalisti
russi. Da quel momento in poi, la riscoperta dell'URSS è stata solo ad esclusivo
appannaggio di «Nostalgjia».
10. Cinema e memoria
Anche il cinema fa parte di quegli strumenti che, attraverso l'uso finalizzato del
passato, concorrono alla formazione della memoria. La differenza con i
programmi sopra ricordati sta nel fatto che i film non ricostruiscono il passato
attraverso documenti audiovisivi, se non per brevi spezzoni, ma attraverso
l'invenzione di una storia che si rifà a una porzione del passato.
Fondamentalmente, nel film viene tradotto il pensiero individuale del regista
che offre uno sguardo su delle vicende del passato, accuratamente
selezionate, con la pretesa di essere una verità assoluta e socialmente
condivisibile. Questa funzione modellizzante, è piuttosto evidente nel genere
politico-storico, dove le vicende prese in considerazione sono di grande
rilevanza identificativa, ossia sono talmente ampie e importanti che tutti i
membri di una società vi si possono riconoscere. Il materiale storico viene
rielaborato e tradotto in immagini che, corredate dalla colonna sonora, sono
pensate per suscitare un forte impatto emozionale tale da imprimersi nei
ricordi degli spettatori. Quando il pensiero individuale, attraverso le
immagini e i suoni, viene trasmesso agli spettatori, ecco che il passato, così
idealizzato, entra a far parte della memoria collettiva. Lo sfondo storico viene
garantito e le vicende vengono ben ricostruite: è il punto di vista che cambia.
Nel caso russo, film come Gagarin-Primo nello spazio, Stalingrad, o Attacco a
Leningrado, esaltano le vittorie del comunismo, ma sono privi della retorica
comunista: propongono una versione universalmente accettabile dell'Unione
Sovietica, tanto in Russia, quanto all'estero. Film concepiti in questo modo
svolgono, in Russia, una funzione di raccordo tra passato e presente, fornendo
una spiegazione delle origini della società, quindi del fondamento dell'autorità
stessa; il passato servito agli spettatori, attraverso un processo inverso a quello
televisivo, poiché il punto di vista individuale diventa sociale e non
viceversa, è deformato ma dotato di senso per tutti. Ha un significato solo e
determinato a priori, di conseguenza può essere interpretato in un solo modo.
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11. Le reazioni
Gli effetti di «Nostalgjia» e «Namedni» sulla percezione del passato recente
sono diversi per genitori e figli. I genitori, l'ultima generazione sovietica,
davanti allo schermo ritrovano se stessi più giovani e, magari, più spensierati.
Fondamentalmente ricordano e, ricordando, si trovano più a loro agio con
«Nostalgjia»; se ricordare significa pensare qualcosa col cuore (re-cord cordis,
cuore), secondo l'antica concezione del cuore, inteso come la sede della
memoria, tale atto si accorda bene con il sentimento nostalgico che, si
rammenta, è lo struggimento per qualcosa che non c'è più, cui si aspira a
tornare. Per i giovani, la questione è diversa. Non possono ricordare, questo
è ovvio, l'Unione Sovietica, ma ne avvertono ancora gli effetti, tanto
nell'ambiente domestico, quanto nella società. «Nostalgjia» e «Namedni», sono
stati l'occasione per autenticare i discorsi dei genitori. In questo caso,
«Namedni» si è rivelato più utile alla generazione postcomunista, specie per
il suo taglio documentaristico: i giovani memorizzano, ossia acquisiscono in
memoria, il mondo dei genitori filtrato dalla televisione. La televisione ha
favorito l'imporsi della verità narrativa, soggettiva e parziale, sulla verità
storica, oggettiva e imparziale. Sulla base dei racconti televisivi, i telespettatori
più vecchi ricostruiscono la loro memoria, ponendo, accanto alle loro
esperienze personali, le scene di «Nostalgjia» e «Namedni», trasformandole in
ricordi personali. Questo imporsi della verità narrativa non sta mantenendo
divise le due verità: a lungo andare, è probabile che la verità narrativa
soppianti totalmente quella storica, sostituendola definitivamente. Per l'ultima
generazione sovietica guardare «Nostalgjia», significa guardare se stessi nel
passato e tornare all'età della giovinezza e dell'innocenza, in un mondo in cui
tutto mancava, ma era più facile vivere. Per la generazione postcomunista,
«Namedni», significava non solo poter guardare con i propri occhi i ricordi
dei genitori ed esplorare un mondo scomparso, ma anche poter mettere a
paragone la loro società con la propria, con risultati sorprendenti. La parte
più istruita e, socialmente, più mobile, guarda al mondo dei genitori con
ammirazione, invidiandone la calma spirituale, nonché la presenza di veri
valori morali, che tanto mancano alla Russia di oggi, avviluppata nella spirale
del consumismo.
12. Un passato remoto e uno prossimo. Lo specchio del presente.
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In Russia ripensare al passato recente ha dato luogo a una situazione
paradossale, in cui i produttori televisivi hanno avuto la meglio su storici e
antropologi. I motivi di questo ribaltamento clamoroso sono da ricercare nella
fine della storiografia indipendente, voluta da Putin e di cui si è già detto in
precedenza e, fattore non trascurabile, nel rifiuto dei russi della suddetta
storiografia. A sua volta, la cancellazione di «Namedni» è frutto delle politiche
statali di controllo giornalistico. In sintesi, storia e informazione sono tornate a
essere quelle di una volta, ossia dipendenti dal potere statale. Ananich ha
chiamato il suo canale «Nostalgjia», per evocare la distanza che separa i russi
dal loro passato, il loro desiderio di tornare a una situazione ideale, che non
esiste più nel presente. La cesura tra URSS e Russia è netta e irrecuperabile,
pertanto l'URSS sembra appartenere a un passato remoto. Così entrambe le
generazioni stanno assorbendo una versione acritica dell'Unione Sovietica,
apertamente faziosa. Non è sbagliato affermare che «Nostalgjia» presenta i
caratteri della nostalgia restauratrice. La storia che propone, si occupa sia della
dimensione spaziale, sia di quella temporale. Si prefigge di colmare i vuoti di
memoria individuale, basando la sua autorità sull'archivio della tv sovietica in
suo possesso: è grazie ai suoni e alle immagini, che i presentatori e gli eventuali
commentatori hanno una risonanza maggiore, rispetto agli studiosi ufficiali del
passato. Viceversa, «Namedni» possedeva uno spirito diverso. Parfënov era (ed
è) convinto di una cosa, che l'URSS è la matrice della società russa di oggi. Per
questo motivo l'URSS non è lontana e inafferrabile come in «Nostalgjia», anzi,
ci sono tantissimi punti in comune tra passato e presente, dettati dalla
continuità. Appartiene al passato prossimo, perché gli effetti del passato
sovietico sono avvertibili nel presente. La cancellazione di «Namedni» ha
privato i russi di uno strumento di indagine per la riscoperta dell'URSS. Un
programma effettivamente imparziale che h a trattato l'Unione Sovietica, sul
piano dei valori, da un punto di vista neutrale. L'URSS non era né giusta, né
sbagliata, al massimo incompiuta, specie per la sua fine improvvisa, secondo il
pensiero dell'autore. Infine, anche il cinema sembra muoversi nella direzione
di «Nostalgjia». Film dichiaratamente antinostalgici o di denuncia, come
Cargo 200 o il Sole ingannatore, non hanno riscosso in patria lo stesso
successo di quei film che, al contrario, assolvono l'URSS dai suoi peccati.
Ciò accade per gli argomenti trattati, come la guerra in Afghanistan e le
purghe staliniane. Vi è un rifiuto del popolo russo di guardare e riflettere su
questo passato oscuro che sta così lentamente scomparendo dalla memoria
collettiva. È chiaro, ormai, che televisione funziona come medium per la sola
nostalgia restauratrice; stessa cosa si può dire a proposito del cinema. L'unica
differenza sta nel fatto che, per quanto riguarda la televisione, conduttori e
programmi sono controllati direttamente da Putin, mentre, per quanto
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riguarda il cinema sono i registi che volontariamente creano film che
trasmettono un messaggio restauratore. Tale messaggio risiede nel proporre
due cose che tanto mancano nel presente: sicurezza e stabilità. Questo intento,
oramai, vale tanto per i vecchi quanto per i giovani, dato che «Namedni», la
versione neutrale dell'URSS, è scomparsa dai palinsesti. Le immagini non
mentono, ma la televisione sì: il telespettatore perde la capacità di
astrazione, diventando incapace di distinguere il vero dal falso. Praticamente,
la storia ricostruita attraverso immagini e suoni decontestualizzati, privi della
retorica comunista e delle sue critiche, è risultata vincente per entrambe le
generazioni. Queste, l ’ una ricordando e l'altra ripensando, interpretano il
passato recente russo, attribuendo alle immagini e ai discorsi televisivi il
carattere di significato giusto o, quantomeno, il più veritiero possibile. Tutti
questi fattori, concorrono nella creazione di un paradosso. Se «Nostalgjia» e
il cinema appartengono al passato remoto, che è psicologicamente lontano e
slegato dal presente, con la scomparsa di «Namedni: naša era», questi si sono
appropriati dell'elemento caratterizzante del passato prossimo, ossia di essere
qualcosa che è passato, ma ancora legato al presente. Dunque l'URSS
appartiene a un passato lontano, compiuto, ma ancora avvertibile nel presente.
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E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
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Werth Nicolas, Storia della Russia nel Novecento. Dall’Impero russo alla
Comunità degli Stati Indipendenti 1900-1999, Bologna, Il Mulino, 2000
Zaslavky Victor, Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo,
Roma, Carocci, 2001
136
E. Liutina Marroni, Nostalgia
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Antonio Padoa Schioppa, Verso la federazione europea? Tappe e svolte
di un lungo cammino, il Mulino, Bologna, 2014 (parte seconda)
di Francesco Gui
Vale sicuramente la pena di riprendere l’analisi del volume in oggetto,
garantendo peraltro in anticipo una maggiore laconicità rispetto alla prima
parte della recensione, uscita sul numero n. 35 di questa rivista.
In proposito, le pur rinnovate espressioni di stima per la preveggenza, e
competenza, e originalità, dell’autore si ripropongono ancor più convintamente
nel commentare il saggio che apre la terza parte della raccolta, intitolato “Alle
soglie della Convenzione” e risalente al 2002. Per non dire della fitta serie dei
contributi successivi. Questi ultimi risultano dedicati sia alla fase preparatoria
della Convenzione incaricata di redigere lo sfortunato trattato costituzionale; sia
al testo da essa prodotto (con i ritocchi della immancabile Conferenza
intergovernativa che lo licenziò definitivamente); e sia infine all’esito
riduzionistico sottoscritto dai governi con il trattato di Lisbona del dicembre
2007, per giungere poi, quarta e ultima parte (2009-‘14), ai convulsivi dilemmi
del presente.
C’è veramente molto da imparare e da riflettere immergendosi nelle
pagine di chi davvero la conosce lunga la storia, oltretutto in punta di diritto,
avendo dimestichezza tanto con i giuristi medievali che con la Corte
costituzionale tedesca dei nostri giorni. Tornando alla fase preparatoria della
Convenzione, definita “l’occasione storica per la messa a punto, attraverso un
approfondito dibattito pubblico, di un modello costituzionale finalmente
adeguato al futuro del nostro continente” (p. 266), di sicuro Padoa-Schioppa
offre l’occasione al lettore per una meditata e sistematica ricognizione
dell’intera problematica, concettuale e valoriale, connessa all’entità Unione
europea. Al tempo stesso consente un confronto puntuale fra il quadro che
potremmo dire “ottimale” da lui delineato (con qualche nostro rilievo) e quanto
si sarebbe successivamente realizzato alla fine del tormentato percorso fra
Convenzione, trattato-costituzionale di Roma del 2004 e trattato di Lisbona.
Con in più, si è detto, gli sviluppi dell’oggigiorno.
Da notare, qualora qualcuno non lo ricordasse, che la Convenzione era
dotata di forte legittimazione politica e istituzionale, in quanto composta di
rappresentanti dei parlamenti europeo e nazionali, dei governi e della
Commissione. Pertanto essa risultava più incoraggiante in senso federalista (e
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
che dire della denominazione philadelphica?) rispetto alle mai dismesse
conferenze intergovernative incaricate della redazione e delle successive
riformulazioni dei trattati comunitari e dell’Unione (pag. 333).
In sintesi, quanto ai principi del “modello costituzionale” poco più sopra
evocato, essi si trovano così elencati:
Unità istituzionale, da fondare sulla Carta dei diritti “azionabile”
davanti alla Corte di Giustizia (pag. 266). Al qual proposito si può
osservare, preveggenza dell’autore, che la Carta dei diritti, già
approvata a Nizza, avrebbe definitivamente trovato posto, con
Lisbona, all’interno dell’assetto istituzionale dell’Unione. Non solo,
perché anche i tre “pilastri” separati ereditati da Maastricht
(comunitario, politica estera e di sicurezza comune, affari interni e
giudiziari) sarebbero stati unificati già alla Convenzione, sia pure
mantenendo numerosi ambiti riservati al voto unanime degli Stati.
Sul punto va notata però una maggiore cautela divinatoria del
saggista.
Sussidiarietà e proporzionalità: da leggere le pagine appassionate e
piuttosto ricorrenti in tema di sussidiarietà, “verso l’alto e verso il
basso” (dalla sovranità da affidare all’Onu, con norma
costituzionale sostanzialmente analoga all’art. 11 della costituzione
italiana, alle competenze riconosciute ai diversi poteri e livelli
decisionali, fino a quelli più vicini al cittadino, anche al fine di
tutelare locali diversità di consuetudini ed esperienze). Per l’autore,
infatti, come si apprende più volte dalle sue pagine,
l’identificazione esclusiva dello Stato con la nazione e l’attribuzione
della sovranità superiorem non recognoscens (anche inferiorem) a
questa sola entità è da rifiutarsi decisamente. Da meditare in
proposito anche sul concetto di “federalismo competitivo” per
quanto riguarda le competenze concorrenti fra Unione e Stati
membri (pagg. 268-69), nonché sulla “peculiarità” dell’erigenda
federazione. Prima nella storia a nascere per libera volontà di Stati
nazionali preesistenti, essa va dotata di poche competenze
esclusive e di molte concorrenti, fra cui la difesa stessa, in forza di
una “capillare” sussidiarietà (pag. 325 e segg.).
Legittimazione democratica: da basare sul “principio fondamentale
per il quale il referente costituzionale di ultima istanza è il popolo,
che si esprime attraverso il voto a suffragio universale diretto,
nell’ambito delle diverse cerchie istituzionali”. Il che comporta, a
livello dell’Unione, la centralità del Parlamento europeo e la messa
in guardia nei confronti di tesi politologiche sostenitrici della
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
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democrazia “competitiva”, piuttosto che “rappresentativa”,
considerata da taluno ormai in crisi, specie a livello dell’Unione (p.
269). Ma vedi anche a p. 270 la proposta, in base alla sussidiarietà,
di sottrarre all’europarlamento europeo la legislazione minuta per
lasciare ad esso soprattutto le decisioni di fondo, la “decisione per
principi”, in codecisione con il Consiglio, affidando invece al livello
nazionale e subnazionale l’attività più operativa e minuta. APS
mostra di credere infatti ad un’Unione con un bilancio o con
apparati amministrativi adeguati sì, ma non da classica grande
potenza. Stante il dato, come accennato, che “l’Unione europea è il
primo esempio nella storia di un’integrazione fra Stati nazionali
avvenuta per consenso”, senza guerre o ragioni dinastiche, ciò
“impone di mantenere agli stati, nel governo dell’Unione, una serie
di prerogative superiori - quantitativamente e qualitativamente –
rispetto a quelle proprie di altri modelli federali” (pag. 279). Non
solo, ma si vedano ancora, alla pagina successiva, i suggerimenti su
come affidare intere “classi di decisioni” ad associazioni di
categoria o a decisori indipendenti. Un punto che rimanda alle
ricorrenti asserzioni del giurista medievista per le quali andrebbero
rivalutate anche la dottrina e le consuetudini come fondamento del
diritto, stante la “crisi” di un certo modello illuminista (pag. 327).
Equilibrio dei poteri e delle funzioni: l’autore mostra di preferire la
legittimazione del presidente e dei membri della Commissione l’organo “responsabile quanto meno di una quota importante delle
funzioni esecutive dell’Unione” (pag. 272) - mediante il voto del
Parlamento, a sua volta legittimato dall’elezione da parte dal
“popolo” europeo. Sconsiglia invece, come già ricordato, le
proposte di elezione universale diretta del presidente, a causa del
rischio di “contrapposizioni nazionali”, oltre agli “ostacoli
linguistici”.
Principio maggioritario: nel contesto di un equilibrio di poteri fra
Consiglio e Parlamento, la proposta risulta quella di generalizzare
le decisioni a maggioranza nel Consiglio (europeo e dei ministri)
“in tutte le materie e per tutte le questioni di competenza
dell’Unione”, pur nella consapevolezza dei rischi di “tirannia delle
maggioranze”, ma anche di “tirannia della minoranza”.
Riaffermazione assai netta: “solo chi accetta di venire messo in
minoranza accetta davvero l’Unione” (pag. 273). Allo stato, le varie
misure di riforma disposte successivamente dai governi non
avrebbero fornito una risposta soddisfacente, sia pure
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
acconsentendo, come prefigurato dall’autore, ad una concezione di
maggioranza qualificata tanto per Stati che per popolazione, a
conferma dell’importanza del principio rappresentativo (pag. 275).
Peccato soltanto che in questo modo, come da noi già accennato
nella prima parte della recensione, i Consigli avrebbero finito per
recepire un più rigoroso principio di rappresentatività per
popolazione rispetto al Parlamento europeo, benché espressione
per eccellenza della sovranità popolare. Da annotare infine, per
quanto a questo punto risulti cosa ovvia, il deciso rifiuto da parte di
APS del riconoscimento del diritto di veto. La sua sequenza di
scritti, evidentemente poco ascoltati dai governi della Ue, ne
richiede instancabilmente la soppressione.
Passando ora alle istituzioni:
in tema di Consiglio europeo, colpisce un poco, o comunque è utile
apprenderlo, che l’autore lo considerasse anche per il futuro come
presidenza collegiale e organo di impulso politico “primario”
dell’Unione. Personalmente spereremmo piuttosto in uno sprone
dei partiti e delle loro rappresentanze parlamentari, con esecutivo
connesso. Quanto alla presidenza del consesso, l’auspicio era che,
quand’anche restasse a rotazione semestrale (ma sappiamo che è
diventata stabile per 2,5 anni e rinnovabile una sola volta), i paesi
più piccoli potessero accorpassero in gruppi regionali, in modo da
rendere meno dilazionato nel tempo l’avvicendamento dei più
grandi (p. 276). Un consiglio utile, pensando anche ad altre sedi e
circostanze.
per il Consiglio dei ministri, risultava indispensabile farne la
rappresentanza permanente degli Stati - con ministri delegati ad
hoc, se possibile vicepresidenti dei rispettivi Consigli dei ministri
nazionali - quale organo di codecisione legislativa dell’Unione, e
senza poteri esecutivi. Al Parlamento europeo doveva essere
assicurato, con procedure semplificate, e il più possibile votando a
maggioranza semplice, un vero potere di codecisione, anche sul
bilancio e sulla fiscalità, secondo quanto in effetti almeno in parte
ottenuto dalla vagheggiata “Costituzione” dell’Unione, nonché in
merito alle modifiche di questa o dei trattati (pag. 277).
La Commissione, notevole preveggenza, veniva prefigurata con un
presidente eletto dal Parlamento e con preannuncio delle
candidature (Spitzen…) in campagna elettorale. Quanto al numero
dei membri della stessa, gli Stati non potevano pretendere di
averne sempre uno ciascuno. Eppure, come si sa, anche oggi nulla è
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
cambiato in proposito, essendo stata aggiornata la rotazione
paritetica (vedi altri dettagli). All’esecutivo dell’Unione dovevano
restare i poteri di iniziativa legislativa e di controllo del rispetto dei
Trattati (oggi messo in discussione), nonché competenze estese al
secondo e terzo “pilastro” (poi, si è detto, soppressi) ove delle
azioni comuni venissero affidate alla Commissione “dai Consigli
europeo e dell’Unione” (tutto da riscontrare con una certa
attenzione, pag. 278). In più, un vicepresidente della Commissione
eletto dal Consiglio europeo e confermato dal Parlamento (non il
contrario) diveniva il Mr./Mrs. Pesc (Politica estera e di sicurezza
comune) dell’Unione.
Per la Curia, o Corte di giustizia della Ue, le venivano affidate
anche funzioni di controllo di costituzionalità riguardanti l’Unione,
insieme a competenze giurisdizionali per l’osservanza del principio
di sussidiarietà, magari integrandola nell’occasione con membri
nominati dalle corti costituzionali nazionali.
Interessante annotare ancora che, negli auspici in spirito spinelliano
dell’autore, l’approvazione della prossima “Costituzione” europea (o trattato
costituzionale che si sarebbe poi detto), ovvero la sua entrata in vigore per tutti
gli Stati membri doveva essere tale qualora una maggioranza superqualificata
degli stessi l’avesse ratificata. Emancipandosi insomma dal principio di
unanimità. In subordine, chi non intendesse ratificarla, e non accettasse
nemmeno di restarle soggetto, non perdeva comunque l’acquis comunitario,
mediante accordo specifico. L’ottimo sarebbe stato un referendum europeo di
ratifica, con clausole accluse (da valutare nei dettagli, p. 279). La maggioranza
superqualificata, con effetti validi su tutti i membri, doveva valere anche per le
modifiche alla futura “Costituzione”. Per quelle minori sarebbero bastate
procedure semplificate.
Assai interessante, infine, lo strumento con cui modificare l’entità del
bilancio dell’Unione: ovvero mediante “assise”, o Stati generali dell’Unione,
composti da rappresentanti del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali.
Un bilancio da tenere comunque “enormemente al di sotto del livello raggiunto
dal bilancio degli stati federali oggi esistenti” (pag. 280; ovvero 3% del Pil,
comprese le spese militari, pag. 350). Cui va accompagnata, non meno
significativa, l’asserzione secondo la quale le amministrazioni nazionali
restavano chiamate al ruolo di “terminali esecutivi delle decisioni della
Commissione”, in analogia con quanto accade nella repubblica federale tedesca.
In sostanza, ruoli e modi della sussidiarietà interna tutti affidati alla “libera
potestà dei singoli stati” (ivi).
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Come procedere poi lungo il percorso, laddove alcuni Stati risultassero
più renitenti di altri? Risposta: o con il solito opting out, già sperimentato,
predisponendo le istituzioni a funzionare a “due velocità”; oppure con un
nuovo trattato fra “chi ci sta”, rispettando comunque l’acquis anche degli altri.
Dopodiché, nei due casi, quando si tratta di ambiti decisionali da tutti condivisi,
le istituzioni operano con la partecipazione di tutti; negli altri, a decidere
all’interno di Parlamento e Consiglio sono soltanto i rappresentanti dell’unione
più “stretta”, mentre Commissione e Corte di giustizia “assumono anche i
compiti derivanti dal nuovo assetto” (p. 282). Al riguardo viene comunque da
osservare che non sarà facile seguire questo schema finché il principio “one
state, one chair” sarà mantenuto anche in Commissione e Corte di giustizia, con
in più la proporzionalità degressiva nel Parlamento europeo. Ma non che la
prospettiva risulti più semplice ove tale principio venga superato...
Parlamento europeo sul proscenio, ad ogni buon conto. Su questa
istituzione APS puntava e punta immancabilmente la quasi totalità delle sue
carte, in quanto espressione e fattore integrativo del “popolo” europeo,
concepito quest’ultimo al di fuori delle concezioni assolutizzanti dello Stato
nazione, ovvero come “una comunità che ha in comune taluni interessi e
valori”, senza nulla togliere alle altre appartenenze, nazionali, regionali, locali,
nonché universali (p. 283). Per queste ragioni l’autore si ergeva a difensore
dell’assemblea strasburghese sia contro i tentativi del Consiglio dei ministri di
trasformarsi in organo di governo, riducendo la Commissione ad un ruolo di
segretariato esecutivo; sia contro l’idea di ibridare la Commissione mediante
l’inserimento di ministri nazionali; sia ancora avverso l’ipotesi di conferire al
Consiglio delle Regioni poteri decisionali a livello dell’Unione; o anche di
procedere alla ricordata elezione della Commissione a suffragio universale
diretto, esautorando così l’europarlamento; e via dicendo.
Non solo, perché la decisa tutela del Parlamento – di certo non una novità,
ma vale la pena di tornarci sopra – faceva schierare il giurista contro l’ipotesi di
“un nuovo organo dell’Unione costituito da delegazioni di parlamentari
nazionali in luogo del Consiglio dei ministri” (pag. 282). La questione della
seconda Camera, insomma, ovvero il Senato degli Stati, come negli Usa, o dei
Cantoni svizzeri. Eppure, appunto, negli Stati federali classici questa seconda
assemblea esiste, secondo un principio di sovranità condivisa. Condivisa fra i
due soggetti collettivi: le entità statuali aderenti alla federazione - che inviano al
livello superiore esponenti delle proprie assemblee rappresentative, ovvero
eleggono senatori in numero eguale per ogni stato - e il popolo federale, il quale
sceglie i propri rappresentanti secondo il criterio “one man, one vote”. Al qual
proposito va anche rammentato che, almeno negli Usa, ai rappresentanti degli
Stati vengono riservate maggiori competenze in politica estera, in quanto
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
competenza propria della statualità, mentre agli eletti dai cittadini va
pienamente riconosciuto il principio “no taxation without representation”.
Per parte sua Padoa-Schioppa, come molti altri del resto, compreso il
progetto Spinelli del 1984, risulta preferire il Consiglio dei ministri nel ruolo di
camera degli Stati, rispetto all’altra opzione, quella del Senato, che parrebbe
intaccare la centralità del Parlamento quale espressione trainante del popolo
europeo e della sua sovranità. Un “nodo”, come già accennato, che si propone
fra i più importanti e complessi della tematica in oggetto. In proposito sia
consentito prendere atto, salvo errore, di una certa distanza, e solitudine, che
l’assemblea strasburghese finisce attualmente per rivelare nei confronti dei
cittadini elettori, specie in assenza di veri partiti europei e di una legge
elettorale uniforme. Per non dire che in fondo, negli Usa, pur in presenza di una
modesta partecipazione alle urne, le scadenze del mid-term rendono più assidua
la sollecitazione dei cittadini al dibattito e alle dinamiche politiche. Tant’è che
un maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali nei processi decisionali
dell’Unione potrebbe rendere il quadro maggiormente partecipe ed animato
rispetto ad oggi. Forse non a caso, la recente iniziativa della dichiarazione dei
quattro presidenti delle Camere di Italia, Francia, Germania e Lussemburgo,
promossa dalla presidente Laura Boldrini, si è rivelata come una delle iniziative
più dinamiche di rilancio del processo che dovrebbe portare all’unione politica,
se non all’Unione federale. Ma certamente la materia esige ulteriori
approfondimenti, al di là dalle possibili evoluzioni autonome ed impreviste
della realtà cosiddetta effettuale.
Federazione. Stato. Sovranità. Alla pag. 283 si conferma che l’Unione potrà
essere uno Stato vero e proprio il giorno in cui potrà adeguatamente governare
moneta, spada e toga, cose verso le quali – APS pensiero - si trova già in
cammino. E si trova anche abbastanza avanti la nostra federazione sui generis
(sui generis in quanto gli Stati mantengono poteri essenziali non affidati in via
esclusiva all’Unione e altri vengono condivisi nel segno della sussidiarietà).
Ancora nel 2003, a conferma della sua tesi, il saggista lungimirante - magari non
al punto di prevedere talune esuberanze renziane - poteva infatti annotare che
“le decisioni essenziali in tema di politica della concorrenza ed anche quelle
relative all’equilibrio di bilancio dei singoli Stati dell’Unione sono assunte a
livello europeo” (p. 328). Del resto, ulteriore asserzione d’epoca, alla fine si
vedrà che sono gli Stati nazionali a non potersi più qualificare come tali, dato
che già ora la sovranità negli aspetti essenziali l’hanno persa e che gli europei
potranno recuperarla soltanto, sia pure non più in modo monolitico, nell’ambito
dello Stato federale europeo. Asserzione dalla quale, in effetti, risulta difficile
dissentire, sia pure riservandosi qualche notazione più avanti in tema di
sovranità federale europea.
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Bene, sintetizzate così, in maniera che speriamo minimamente
soddisfacente, le premesse concettuali e progettuali offerte dall’autore, sarà
possibile ora affidarsi alla potente corrente ascensionale della successione di
saggi che conducono il lettore a districarsi attraverso, come già detto: le
complicata vicende della Convenzione, candidata a far raggiungere alla Ue lo
stato di irreversibilità (pag. 287); lo sfortunato trattato-costituzionale di Roma
del 2004; il trattato di Lisbona, fino alle contingenze del presente. Su tutti i quali
saggi, stante la mole e la qualità del materiale, ci si dovrà purtroppo limitare a
fornire qua e là sporadiche notazioni, recependo al tempo stesso dati,
suggerimenti e felici illuminazioni.
En passant, ma non cosa da nulla, il punto 5, alla pag. 286, recita come
segue: “L’alleanza con gli Stati Uniti non può bastare. Una civiltà che non è in
grado di decidere autonomamente la propria linea d’azione e di assicurare con
le sue forze la propria sicurezza è destinata al tramonto”. Con l’aggiunta che
solo l’Europa potrà dare all’Onu e alle altre organizzazioni internazionali il
sostegno e i mezzi per evitare la guerra, garantire la pace ed assicurare il
benessere dell’umanità. Ecco, appunto: è opportuno che sia giunta l’aggiunta.
Ora, un’Europa che si ponga l’obiettivo di decidere in autonomia la propria
linea d’azione, quasi che, da Europe puissance, possa pensare di proporsi come
potenza, per giochi di potenza, sulla scena internazionale delle potenze, ci
farebbe sicuramente paura. Anche perché non riusciamo a vedere né dalle parti
della Senna, né della Sprea una leadership talmente credibile, di natura
hamiltoniana o lincolniana, la quale possa fare di quel soggetto puissant e dotato
di potere di decisione autonoma un fattore non trascurabilmente kantiano,
come tutto sommato gli Stati Uniti nella loro storia, pur con gravi limiti, pur con
un globalismo egocentrico anzichenò, sono riusciti comunque a rappresentare.
Altra cosa invece credere in un’Europa conscia delle proprie colpe e
consapevole di una missione di pace da affermare, in linea di massima d’intesa
e in alleanza con il grande fratello, e forse restando un gradino più in basso
rispetto a lui, evitando però al tempo stesso, in forza della sua unità
soggiogamenti e soggezioni (intercettazioni?). Un’Europa come pacifico e
responsabile fattore di progresso, di cultura, di legalità democratica, di scienza,
a beneficio proprio e altrui. Oltretutto sarà proprio grazie alla precisazione di
quale debba essere il ruolo della federazione europea nel mondo che si potrà
giungere a mettere a punto il modello istituzionale ottimale per un’Europa non
autoritativamente decisionista (presidenzialista?), nemmeno passivamente
neutralista (alla svizzera?), quanto stabilmente orientata alla concertazione
costruttiva. Qualcosa, in breve, collocato a metà strada. Qualcosa di
consapevole, oltretutto, delle mille diversità linguistiche, religiose, istituzionali,
storico-esperienziali interne al Vecchio Mondo, e proprio per questo
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
necessitante di una particolarmente ponderata e creativa sapienza. Sapienza
anche istituzionale, necessariamente, alla quale APS contribuisce
magistralmente.
Ritornando con i piedi a terra, all’epoca del saggio or ora ricordato l’autore
mostrava realisticamente di temere che a porsi di traverso lungo l’auspicato
percorso convenzional-costituente potesse essere soprattutto la Francia, il
contraddittorio paese iniziatore del processo di integrazione europea e al tempo
stesso la più “restia a compiere il passo decisivo” (p. 287). In effetti, anche in
questo caso, P.-S. la vedeva lunga, così come non avrebbe esitato a
rimproverare al presidente della Convenzione, l’ex presidente gaulois Valéry
Giscard d’Estaing, parecchi scetticismi e renitenze (assai severa, tra le altre, la
pag. 308). Eppure Valéry risultava fra i più europeisti... Peccato. E non meno
peccato che anche l’Italia e la Germania, all’epoca apparentemente più attive e
promettenti, fossero destinate a rivelare ben presto i propri mal di pancia. Tanto
che ai nostri giorni, come già osservato, persino il medievalista preveggente
mostra a tratti di paventare il peggio. Salvo però far affidamento, a ragione, su
un’onda lunga che risente sì del freno degli ostacoli, ma con una spinta
notoriamente tale da portarsi ogni volta un poco più avanti.
Riprendendo le nostre “tappe e svolte”, a partire dal saggio n. 17, per chi
voglia documentarsi dettagliatamente sulle innovazioni e sulle occasioni
mancate della Convenzione, ovvero sugli aspetti essenziali del progetto di
“Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, approvato in luglio
2003, ebbene su tutto questo (pagg. 289-311), come sui documenti successivi, il
volume risulterà davvero utilissimo. Impossibile peraltro seguire in questa sede
i singoli nodi e snodi, ma indispensabile farlo per chi voglia documentarsi in
argomento.
Da non dimenticare mai, ad ogni buon conto, che dal lavoro della
Convenzione era emerso il traguardo fatidico di “Costituzione” per l’Ue, sia
pure “una” e non “la”, e per quanto introdotta con trattato, non mediante
assemblea costituente. Nel 2004 la dizione sarebbe stata mantenuta, peraltro
mutando il verbo “istituisce” in “adotta”.
A sorvolo di pennuto, fa piacere che un discreto attestato di merito (pag.
309 e seguenti) si trovi conferito a Giuliano Amato, sostenitore già da
vicepresidente della Convenzione della personalità giuridica dell’Unione, in un
quadro istituzionale unico. Il fine, tra l’altro, era di consentire la rappresentanza
unitaria europea nelle sedi internazionali, tipo il Fondo monetario
internazionale, come recentemente proposto dalla presidenza Juncker. Per parte
sua, la Convenzione veniva accusata dall’autore di aver prodotto un profilo
istituzionale ancora imperfetto, “per quanto concerne sia la capacità di decidere,
sia la capacità di agire, sia la legittimazione democratica delle decisioni, sia
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l’evoluzione costituzionale futura”. Ciononostante, attenendosi sempre al testo,
l’introduzione delle cooperazioni “rafforzate” (e di quelle “strutturate” per la
difesa), non rinnegata neanche a Lisbona, apriva la strada ad ulteriori
evoluzioni, compresa la messa in marcia di quel “nucleo duro”, di cui per la
verità ancora oggi si attende la netta epifania, nella convinzione, propria di
APS, che l’Europa delle “due cerchie” risulti a dir poco inevitabile. E in effetti,
Cameron imperversante…
Tecnicismo
“costituzionalistico”comunque
inguaribile,
seppur
lungimirante, quello del nostro mentore? Tutt’altro: in un succoso articolo del
2003, destinato ai lettori de «La Stampa», egli interveniva in merito al noto
preambolo del trattato, a proposito del quale si dibatteva se vi dovesse
comparire o meno il fattore identitario delle radici giudaico-cristiane
dell’Europa. Il preambolo, come è noto, ed è vicenda non poco intrigante, si
sarebbe alla fine ridotto al pressoché nulla, causa l’incapacità dei contraenti di
trovare qualcosa di genetico-valoriale da esibire in comune al resto del mondo.
Quale allora in proposito la posizione del saggista, esplicitamente
affascinato dalla cultura cristiana, la cui matrice riconosce emergere in “larga
parte dei valori enunciati nelle moderne costituzioni” (p. 313)? Per non dire del
principio della separazione tra sfera temporale e spirituale, cosa che, a suo
avviso, nessuna delle altre religioni, dall’ebraica alla bizantina, all’islamica
avrebbero sviluppato in modo paragonabile. Con tutto ciò, sempre a parere di
APS, un eventuale riferimento nella “Costituzione” della Ue al cristianesimo
come “fondamento vitale” della civiltà europea, benché “ineccepibile” dal
punto di vista storico, rischiava di trasformarsi in “affermazione di una identità
culturale per così dire esclusiva o privilegiata”. Infatti la piena libertà di
pensiero e di religione costituisce anch’essa aspetto essenziale della civiltà
europea. Per cui, consiglio di APS, meglio non rischiare che nella Costituzione,
o trattato costituzionale europeo, qualcuno finisse per non identificarsi, in
quanto diversamente o per nulla credente. Giacché “la fede si propone e non si
impone”.
Sempre per tenersi ai livelli alti, il saggio successivo, ancora del 2003 e
comparso nei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno», si confrontava con la problematica dell’identità storica e attuale
dell’Unione. Tema possente e controverso, su cui si registra una reticenza
addirittura colpevole a livello ufficiale. Tanto per dire, come recentemente
denunciato dai giovani federalisti ai parlamentari europei, persino
l’autopresentazione ufficiale dell’Unione, nell’apposito sito offerto al mondo
intero, si propone talmente timida e neghittosa da ricorrere alla definizione di
“partnership”, foss’anche “unica nel suo genere”.
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F. Gui, Recensione
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La Ue dunque come una delle tante organizzazioni internazionali fra stati
eterogenei, fosse pure con qualche vezzo in più delle altre, come sembrerebbe
dedursi dal sito internet brussellese? O invece come una vera federazione in
formazione? La risposta, ricorrente nel volume e orientata alla prospettiva
“costituzionalistica”, è già nota e scontata. Meno ovvie le considerazioni che
portano l’autore a sostenere la sussistenza storica di una realtà europea con
caratteri unitari fin dal Medioevo, laddove soltanto dopo la Rivoluzione
francese si sarebbe affermata una sacrale identificazione fra Stato, patria e
nazione, fino a giustificare la morte di milioni di combattenti e cittadini, pur di
salvare ogni zolla del suolo nazional-statale.
A ben vedere, la storia del diritto dei diversi ordinamenti territoriali
europei - detto assai più esaurientemente di quanto qui riassunto - risulterebbe
talmente interconnessa da costituire in realtà un’unica storia (pag. 318). Succose
pagine davvero, ricche di seppur sintetici dati e notazioni, che spaziano dalle
istituzioni comunali e cittadine alla disciplina del patriziato, al diritto comune,
alle dottrine illuministiche e via a seguire, sino alla dettagliata esposizione di
quanto ad oggi acquisito, nonché dell’ancora acquisibile (meglio: acquisendo)
da parte dell’attuale federazione in fieri. Ma quante volte ricorre poi la notizia
che sin dal conclave dell’a. D. 1179 fu la maggioranza qualificata a venir
riconosciuta come strumento principe per consacrare il successore di Pietro?
Davvero parecchie.
Planando nuovamente a livello tecnico, il campanello d’allarme tintinna a
pag. 324. Sempre in quel saggio del 2003, l’ipotesi di un presidente del
Consiglio europeo “stabile”, cioè non a rotazione, oltre che istituzionalmente
distinto dal presidente della Commissione, veniva considerata dall’autore come
pericoloso fattore di potenziale diarchia, a tutto scapito dell’unità di indirizzo
dell’Unione. Di fatto le cose sarebbe andate esattamente nel modo temuto, con
qualche scapito, obiettivamente, della centralità del signore di palazzo
Berlaymont. In verità, il trattato di Lisbona avrebbe per lo meno mantenuto la
possibilità di attribuzione dei due ruoli alla stessa persona. Cosa che il saggio
comunque perorava. Tuttavia anche questa soluzione, sia consentito annotarlo,
potrebbe indebolire il profilo del signore suddetto: questi risulterebbe infatti
come portavoce di un consesso intergovernativo pur trovandosi alla guida di
un esecutivo a vocazione federale. Forse al Consiglio europeo andrebbe a suo
tempo assegnato uno status di presidenza simbolica collettiva, con poteri non
molto diversi da quelli di un sovrano d’Inghilterra.
Da consultare peraltro con la dovuta riverenza anche le argomentazioni
dedicate al concetto di “popolo”, per il quale APS esige l’abbandono della
concezione “monistica” o totalitaria che lo avvincerebbe indissolubilmente, al
pari della cittadinanza o della sovranità, allo Stato nazionale signore assoluto.
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Ancora la sussidiarietà, insomma. Peccato soltanto ritrovarsi alquanto
impreparati in merito al populus di Bartolo da Sassoferrato o di Baldo degli
Ubaldi, richiamati nel testo (pag. 329). Forse, a conoscerli, si sarebbe ancora
meglio in grado di comprendere la fisionomia istituzionale del “popolo
europeo”, fatta di sovranità popolare, equilibrio dei poteri, diritti dell’uomo,
libertà religiosa, non meno di concorrenza, solidarietà, sussidiarietà, pace
istituzionalmente garantita.
Tutti presupposti e valori elencati uno per uno dal medievista eurounionista, ad avviso del quale, in tema di sovranità, ad esserne titolare in ultima
istanza è il singolo individuo, il quale la eserciterebbe “liberamente e
collegialmente nelle diverse formazioni e ai diversi livelli in cui si articolano le
istituzioni politiche”, dal municipio all’Onu (pag. 330). Anche questo un
passaggio che si raccomanda di leggere con viva attenzione. Forse un po’
ottimista, o futurista, tenendo a mente la consistenza identitaria non certo
trascurabile dello stato nazionale, che lo stesso autore riconosce anche in futuro
come sede di gran parte della convivenza e delle competenze politicoamministrative. Però anche questa un’assai istruttiva e solida provocazione.
Provocazione perché tocca il tema forse centrale dei nostri tempi, ovvero
la cittadinanza, nonché la legittimazione delle istituzioni tanto nazionali che
dell’Unione. In effetti, proprio perché la cittadinanza comporta il possesso di
una frazione della sovranità collettiva, legittimante gli assetti istituzionali,
concederla o estenderla un po’ liberamente, specie a chi provenga da
culture/religioni diverse, o da condizioni di inadeguatezza civile, o da
situazioni di evidente sottosviluppo, non rischia di risultare una minaccia?
Minacciare cosa? Precisamente: la stabilità, l’affidabilità, l’efficienza, la
credibilità indispensabile di quella democrazia che costituisce la base eticofondante di tutte le nostre istituzioni.
Un tema, di sicuro, che nell’attuale periodo di intense immigrazione
risulta di bruciante attualità. E che meriterebbe nel dibattito pubblico più
accurate, concrete e realistiche valutazioni, sia pure non rinunciando, almeno in
linea di principio, alle convinzioni affermate dal nostro. Stimolante in ogni caso
che fra le righe del testo si apprenda una concezione ancor più estensiva della
sovranità, spettante in ultima istanza soltanto al cittadino. Quest’ultimo la
esercita sicuramente attraverso la democrazia rappresentativa ai vari livelli, ma
anche, si legge, “attraverso i mercati, la democrazia diretta, la libera espressione
degli interessi e dei valori” (ivi). Un complesso di facoltà e valori ereditati
medievisticamente? fin dal lontano passato che si farebbe portatore proprio
oggi di una più ampia concezione e di un più ricco esercizio delle libertà.
Fortuna che li chiamavano secoli bui… E fortuna che c’è ancora chi li collega col
presente.
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Troppo lungo, ancora una volta, risulterebbe commentare a questo punto,
con riferimenti ai singoli articoli, come fa sistematicamente APS, il contributo
del volume dedicato al “trattato costituzionale” (formula ambigua, fuori di
dubbio) che costituì il frutto del lavoro della Convenzione con i ritocchi finali,
beninteso, della Conferenza intergovernativa. Vale a dire il documento
destinato, dopo lunga elaborazione, al drammatico prendere o lasciare degli
Stati membri e risultato vittima, come si sa, del tagliere franco-olandese (pagg.
333-68). Quanto tempo perso, in effetti! e quale contributo offerto,
presumibilmente, ai successivi travagli economici e sociali dell’Unione!
In estrema sintesi, in riferimento alla Carta dei diritti inserita nel trattato,
vale la pena di segnalare le seguenti sottolineature, meno scontate di altre:
amplificazione del raggio di discrezionalità interpretativa dei giudici della
Corte e degli ambiti di sua competenza, sino alla “violenza domestica”;
affermazione del principio di solidarietà e riconoscimento della “persona”, di
radice cristiana; richiamo alla ragionevole durata del processo, assai importante
soprattutto per il nostro paese. Mancata enunciazione, invece, del diritto alla
pace, “come diritto pubblico soggettivo”, anche in funzione di una possibile
riforma-rilancio dell’Onu, su cui alcune proposte meritevoli di attenzione (e con
il seggio permanente unico europeo sullo sfondo, pag. 338).
Ma quanto male aveva fatto la Cig, nel ritoccare il testo originale della
Convenzione? Fra i rimbrotti più sentiti, il ritorno all’indistinzione tra funzioni
legislative e amministrative del Consiglio dei ministri, sia pure prevedendo la
pubblicità delle sedute legislative e l’esplicita enunciazione dei poteri esecutivi
della Commissione. Sul tema delle presidenze si è già detto; peccato poi non
aver mantenuto il numero dei commissari a 15 e basta, laddove la previsione
delle rotazioni prometteva di creare tensioni fra i governi (difatti nemmeno
oggi, sono state attuate); buono invece il ministro degli Esteri europeo con
doppio cappello in Consiglio e in Commissione, con l’aggiunta di un servizio
diplomatico alle sue dipendenze; lodevole l’introduzione del già ricordato
principio della doppia maggioranza per stati (55%) e popolazione, non
“popolo”, al 65% nelle votazioni del Consiglio (51% e 60% aveva previsto la
Convenzione, ma Spagna o Polonia dissentivano) e profittevole anche la
maggioranza superqualificata, ivi compresa la gestione della minoranza di
blocco.
Riprovevole invece l’ulteriore riduzione, incalzando i britannici, degli
ambiti in cui era consentito decidere a maggioranza, con il risultato di
sottoporre al pericolo del veto le materie più strategiche, dalle fiscali e
finanziaria alla politica estera e di sicurezza (veramente soggiogata alla regola
dell’unanimità), alle risorse proprie, all’armonizzazione legislativa. E in più
politica sociale, commerciale, coesione e via dicendo (vedi elenco alle pagg. 341-
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
42). Con un modesto contentino: la possibilità di astenersi in Consiglio senza
bloccare per questo una decisione a maggioranza. Altra concessione: le
“passerelle”, ovvero le clausole che consentono, esclusa la difesa, di passare
dall’unanimità alla maggioranza nelle decisioni sulle politiche dell’Unione,
previo il consenso, naturale, doverosamente unanime del Consiglio europeo e il
voto positivo dell’assemblea strasburghese. Strano però, annotava il giurista,
che la presidenza italiana (il cavaliere? sempre lui?) avesse accettato all’ultimo
momento la “irragionevole” facoltà concessa ad ogni singolo parlamento
nazionale di smontare a suo libito la passerella, ove non la trovasse di suo
gradimento.
Sempre fra i passi in avanti venivano inoltre sottolineate le cooperazioni
“rafforzate” ereditate dal trattato di Amsterdam del 1997: mettevano in
condizione almeno un terzo dei governi, purché con il consenso della
maggioranza dei medesimi, di avviare talune politiche in comune, addirittura
decidendo di passare alla gestione di tipo comunitario delle medesime,
coinvolgendo così anche il Parlamento.
Ulteriore punto qualificante, oltre all’istituzione dell’Agenzia europea
degli armamenti, o della difesa (l’EDA, deliberata nel 2004 stesso): la previsione
della cooperazione “strutturata” permanente nel settore della difesa, seppur
sottoposta in ogni passaggio, anche al proprio interno, smentendo così la
Convenzione, alla regola dell’unanimità. Molto poco a che fare, ad ogni buon
conto, con il ben più ambizioso progetto di difesa europea affossato dalla solita
reticenza francese il 30 agosto 1954.
All’Europa dei nostri giorni, in definitiva, sempre a detta del dominus del
volume, restava di conseguenza inappagata la possibilità di un rapporto di
alleanza “alla pari” con gli Usa e in collegamento “organico” con l’Onu.
Affermazione forte, poco da fare, tanto da far pensare che taluni accenti
alquanto speranzosi facciano ogni tanto capolino fra le molte pagine.
Un’Europa pari agli Usa, dentro la Nato beninteso, tenendo conto tra l’altro
delle differenze fra paesi nucleari e non nucleari al suo interno, non è facile
immaginarla. Viceversa, un’Unione in grado di scongiurare esagerazioni,
sconfinamenti ed errori evidenti del grande fratello, collaborando ad assicurare
la stabilità del quadro mondiale, questo sì, questo sarebbe decisamente
auspicabile. Se poi sia realistico mettere a disposizione dell’Onu dei corpi di
pace europei è difficile dirlo, per quanto suggestivo. In ogni caso, ad avviso di
chi recensisce, resta obiettivamente urgente creare una sicura solidarietà e
integrazione occidentale (avvalendosi, perché no?, anche del Ttip), con il fine di
allargare l’area delle democrazie e delle tutele dell’individuo ad aree sempre
più vaste. Forse soltanto in questo modo si riuscirà, anche se il tema viene
150
F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
sistematicamente trascurato, ad assicurare una certa stabilità dell’intero assetto
globale. Che presumibilmente rappresenta la questione centrale del nostro evo.
Quanto poi, tornando al giugno 2004 dalle parti del Colosseo, quanto poi
alla quaestio procedurale delle possibili revisioni del trattato con aspirazioni
costituzionali, la soddisfazione risultava evidente: si era mantenuta la
possibilità anche per il Parlamento e per la Commissione di avanzare proposte
di modifica dei patti sottoscritti, mentre al Consiglio europeo spettava a quel
punto la facoltà di deliberare a maggioranza semplice la convocazione di una
nuova Convenzione, seguita dal vaglio definitivo e unanime dell’immancabile
Cig. Con la spada di Damocle tuttavia perennemente incombente, ovvio, della
ratifica unanime del nuovo testo da parte degli Stati, salvo la generica facoltà
conferita al Consiglio di occuparsi del caso qualora almeno quattro quinti
avessero ratificato entro due anni, con gli altri rimasti invece in vario modo
riluttanti.
Tutti intralci sovranisti a cui l’autore contrapponeva la proposta
dell’autonoma decisione degli stati favorevoli di andare avanti in ogni caso,
decidendo di considerare il trattato-costituzione come un trattato del tutto
nuovo e non una modifica di quelli precedenti. Coraggiosi suggerimenti, vale la
pena sottolinearlo, che potranno risultare utili anche in futuro.
Nel frattempo, pensando al nostro presente-futuro, meritava di essere
evidenziata, sempre nel saggio, la possibilità di un’evoluzione delle competenze
della Ue in merito alle politiche interne - ivi compresi affari di giustizia, polizia
e immigrazione – con delibera unanime del Consiglio europeo, con il parere del
Parlamento e della Commissione, ma senza riforma dei trattati. Peccato il solito
potere dirimente dei parlamenti nazionali spuntato fuori all’ultimo, rispetto alla
semplice consultazione di Commissione e Parlamento.
Al qual proposito, anche non volendo darne colpa a una certa presidenza
di area meneghina, di certo un regalo così a un Victor Orban o al recente
governo polacco non avrebbe rappresentato cosa da poco. Tenendo conto che
con i ripieghi, seppur non enormi, introdotti in fase Lisbona, rispetto allo stesso
trattato costituzionale, la regola regressiva si sarebbe ovviamente conservata.
Ma che giudizio dare sul testo approvato nel 2004? Nel complesso
positivo, osservava APS, tenendo conto che l’elaborazione era avvenuta
malgrado l’imponente allargamento ai paesi centro-orientali. Un aspetto che in
noi, seppur detto fuggevolmente, stante il numero di Stati affluiti, di diritti di
veto garantiti e via dicendo, provoca un qualche maggiore disdoro. Dopodiché
aggiungeva però l’autore che il passo decisivo dell’irreversibilità dell’assetto
costituzionale, sì, “costituzionale”, dell’Unione non era stato compiuto. Da cui
la domanda fatidica e fatale, nonché tuttora librata priva di risposta sul capo di
tutti i cittadini dell’Unione: chi governa l’Europa? In effetti…
151
F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Preveggenti, senza dubbio, le esternazioni del conoscitore dei tempi bui
del passato come dell’oggi. Non a caso temeva tra l’altro un esito sfavorevole
delle ratifiche, in primis per colpa dell’Inghilterra, incline a ritirarsi dal
continente, magari perché notoriamente determinata, reminiscenze storiche, a
sabotare il formarsi di una potenza continentale fin dall’epoca di Carlo
d’Asburgo e di Enrico Tudor. Sicché, parole del nostro: “Prima o poi
l’Inghilterra dovrà decidere se proseguire sulla via dell’unione o se separarsene
adottando la via meno impegnativa di una semplice associazione” (pag. 352).
Anche se forse dalle parti di Londra - dove si aspettò il voto negativo francese e
olandese, evitando così di prendersi responsabilità in proprio - una specie di
“dentro e fuori” a discrezione è la soluzione più appetita.
Naturalmente il nodo maggiore da sciogliersi, e anche questo al saggista
appariva chiarissimo, restava nella capitale francese, sede del presidente
Jacques Chirac, per quanto incoraggiante eppur sempre gollista, e di quel
Giscard che alla Convenzione (da leggere anche pag. 359) aveva placato
parecchio i bollori federalisti. Correttamente Padoa-Schioppa osservava che la
cugina d’Oltralpe non aveva ancora deciso di compiere il passo decisivo, di
mettere sul piatto persino la force de frappe, pur di tener fede al progetto che essa
stessa aveva avviato con Schuman e Monnet. Tuttavia qualche indizio
incoraggiante sembrava profilarsi, non solo in Francia, ma anche negli
orientamenti dell’opinione pubblica continentale. Più severo il giudizio
sull’intera leadership politica continentale, compreso quello sul cavaliere nostro,
intuibile fra le righe. Peccato soltanto che, al di là dell’esito del referendum,
ancora dovessero venire i tempi di madame Le Pen. Per non dire dei populismi
dilaganti al di qua e al di là delle Alpi.
Intuibile insomma la delusione del nostro all’indomani dell’increscioso
pronunciamento popolare, avvenuto il 29 maggio 2005. E condivisibile anche il
dito puntato contro il nuovo Mendès-France, alias Fabius, e soci, incaricatisi di
distogliere parte della sinistra dal sostegno al trattato. Apprezzabile inoltre la
perspicacia nel mettere in connessione il ripiegamento dello spirito europeo con
la mancanza di quel dinamismo e di quella progettualità che caratterizza invece
gli Stati Uniti, ma anche molti paesi emergenti. Eppure l’unità politica europea
doveva e dovrebbe esercitare un ruolo d’avanguardia a livello mondiale, sia
come modello di integrazione, sia come promotore di civiltà, di sviluppo e di
progetti innovativi affidati soprattutto ai giovani. Affermazioni pienamente
condivisibili e belle pagine da leggere in argomento, fra l’immagine di mollezza
di Europa Venere e quella dell’Europa prefiguratrice di futuro, alla Jeremy
Rifkin. Con in più il ricordo delle grandi personalità dei cosiddetti “padri
dell’Europa” e forse con qualche sottovalutazione dell’apporto positivo degli
Usa nella trasformazione postbellica del Vecchio Mondo da campo di macerie a
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
polo d’attrazione comunque irresistibile per le popolazioni e gli Stati
circonvicini. Ma belle pagine davvero (tra 355 e 368).
Altrettanto coinvolgenti e ancor più impegnative sul piano culturale sono
da segnalare poi quelle che compaiono subito di seguito, dedicate al tema
dell’unità nella diversità; diversità da risolvere, si auspica, grazie al principio,
tratto dai padri della Chiesa, del “diversi sed non adversi”. Una riflessione,
cioè, sul cosa significhi essere e rimanere “diversi” che spazia a grand’angolo
nella storia: dal venir meno irrecuperabile dell’unità spirituale dell’epoca della
Respublica cristiana all’emergere fra loro antagonistico di confessioni, ideologie,
concezioni politiche, teorie socio-economiche e altro ancora. Tutte specificità
che andavano ad aggiungersi alle mille differenziazioni interne (dalle etniche
alle statuali, fino alle consuetudinarie, fra un villaggio e l’altro) producendo in
definitiva una ricchezza di esperienze e di apporti da considerarsi patrimonio
dell’Europa. Patrimonio sì, ma non meno fattore di tormento, alla luce dei tanti
conflitti, sino alle tragiche esperienze novecentesche.
Ciononostante, sarebbe improvvido negare, sempre a parere di APS, che
l’Europa costituisca una civiltà comune fin dal Medioevo, e dunque possieda
anche il carattere, e la tensione dell’unità. L’economia, la società, il diritto, la
cultura intesa nel senso più ampio, con i fondamenti dei quattro lasciti antichi
(il pensiero greco, il diritto romano, la tradizione biblica ebraica e il messaggio
cristiano), lo dimostrano con “assoluta chiarezza”.
Il compito della nostra epoca risulta pertanto riconoscere e valorizzare la
diversità e la pluralità, facendole coesistere in un contesto istituzionale unitario
garantista per tutti, ovviamente organizzato secondo il criterio della
sussidiarietà. In proposito Padoa-Schioppa si sofferma acutamente su quante
scelte, anche sul piano della legislazione, o su quello giuridico e giudiziario,
siano frutto di bilanciamento fra valori diversi, ma non integralmente opposti.
Un vero patrimonio, appunto, la cui garanzia e la cui tutela costituisce “uno
degli obiettivi fondamentali dell’Unione europea” (pag. 374).
Resterebbe forse da valutare ancor più a fondo, sia consentito, quanto il
fattore etnico-linguistico, sommato alla società di massa, abbia costituito motivo
di differenziazione profonda, come per blocchi, all’interno del continente. Tanto
da produrre quella carneficina novecentesca, da taluni considerata la fine
dell’età moderna ed anche dell’Europa come portatore di progresso per il resto
del mondo. Di certo, la tendenza ai groppi, malgrado tutto, resta tenace,
minacciando nuovamente tensioni ed eccessi.
Una curiosità ulteriore ci porta poi a chiederci se ci sia pur sempre la
necessità di un fattore egemonico, trainante, in qualche modo cogente, non
soltanto di una serena, responsabile e paritetica concertazione, per orientare di
volta in volta le scelte, ovvero i compromessi, in una comune direzione.
153
F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Qualcosa di cui anche oggi ci sarebbe bisogno, ma del quale il Vecchio Mondo,
dall’età moderna in poi, non ha quasi mai goduto, cadendo piuttosto vittima
degli appetiti imperial-nazionali puntualmente emergenti.
Che poi oggi l’Europa abbia bisogno di scelte comuni sui grandi temi della
difesa, dell’energia, degli investimenti collettivi nelle tecnologie di avanguardia
per reggere almeno al confronto con l’alleato-protettore (APS richiama il
concetto di equal partnership a suo tempo proposto dai presidenti Eisenhower e
Kennedy), oltre che con le grandi sfide mondiali, ci pare asserzione del tutto
condivisibile ed auspicabile. Salvo appunto non dimenticare che il concetto
stesso di Europa non risulta pienamente disgiunto dall’esperienza di quella
parte di Europa a suo tempo trasferitasi al di là dell’Atlantico, per poi tornare a
mettere ordine, e per tenerci sopra il pugno di velluto, una volta esplosa la
grande mattanza del ventesimo secolo .
Molto suggestiva infine, anche se ormai vagamente datata, quella
sorprendente segnalazione del modello Unione europea come esempio a cui
guardare e da imitare per il futuro, da parte di “acuti osservatori” americani e
inglesi. Alla quale attestazione di stima faceva peraltro riscontro il parere assai
più contenuto di intellettuali europei, anche costituzionalisti, tra cui Dieter
Grimm, convinti che l’Unione, anche in futuro, non diventerà mai una vera
federazione di Stati. Una previsione pessimistica, a cui il nostro risponde
appellandosi alla risorsa della sussidiarietà, di cui l’unificazione costituzionale
europea costituirebbe un ulteriore valorizzazione. Riuscirebbe infatti sia a
salvaguardare i processi decisionali ottimali ai livelli più vicini al cittadino, e
sia, dove necessario e utile, spostandoli verso l’alto.
Di passata andrebbe anche rimuginata l’asserzione per la quale la
sussidiarietà non dovrebbe venire spinta fino a consentire la nascita di nuovi
Stati nazionali, per distacco da quelli vecchi, tipo la Scozia (pag. 381). Tuttavia,
su questo pur importante capitolo, avendo dedicato un intervento sempre in
questa rivista alla diversa identità storica degli Stati nazionali europei, con
conseguenti deduzioni, è preferibile al momento soprassedere.
Meglio tornare dunque alle enunciazioni sul potenziale di promozione e
di valorizzazione della diversità (meno usato il termine pluralismo) che sarebbe
appannaggio specifico dell’Europa. Purché essa, beninteso, riesca a realizzare la
sua unità, realmente federale e senza diritti veto, con il limite “invalicabile”, sia
ben chiaro, oltre il quale non si ammette la diversità: quello cioè che si riassume
nella Carta europea dei diritti (pag. 382). Solo così, solo sulla base di questi
valori e diritti comuni, sarà addirittura consigliato insegnare nelle scuole,
pubbliche o private, ai giovani europei non meno che ai figli degli immigrati, la
tutela della diversità. “I valori comuni del rispetto dei diritti umani sono la base
del moderno contratto sociale” (pag. 383).
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F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
Calando di nuovo a livelli più materiali, quelli dei grovigli del conflitto
quotidiano, prima di seguire l’autore nella valutazione del trattato di Lisbona, è
istruttivo accompagnarlo, anno 2008, nelle distrette dei giorni successivi al “no”
irlandese - ennesimo tormento o apoteosi del diritto di veto – opposto alla
ratifica del trattato medesimo. Senza entrare nei particolari, è lì che viene messa
a punto la possibile strategia per superare l’ostacolo esiziale ogni volta che
questo si profili nuovamente all’orizzonte. Tenendo conto dell’attualità della
riflessione in materia, la soluzione prospettata - al di là dei possibili recessi,
opting out e compromessi vari - comporta il varo di un nuovo trattato fra chi
vuole comunque andare avanti, mirato alla creazione del “nucleo federale”.
Parola grossa, indubbiamente, ma carica di potenziale. Tenendo conto,
oltretutto, che all’epoca, qualora il trattato di Lisbona non fosse entrato in
vigore, l’Unione si sarebbe trovata con il trattato di Nizza valido per tutti e,
appunto, con l’angosciosa ipotesi di un nuovo trattato da sottoscrivere ad opera
del “nucleo” dei più convinti.
Come si sa, alla fine, a seguito del secondo referendum irlandese,
lucidamente previsto da P.-S., oltre che per ragionevolezza collettiva, il trattato
sarebbe entrato in vigore per tutti, evitando l’eccesso di complicazioni, salvo
suscitare all’Inghilterra i noti turbamenti d’attualità. Tuttavia saper valutare
attentamente come e con quali limiti affrontare l’ipotesi delle due velocità,
ovvero dell’Europa dei duri e quella dei meno duri, è esercizio sicuramente
utile, se non altro in vista di prossime, eventuali avversità.
Certo, come sottolineava il saggio in questione, alias “L’Unione ad un
quadrivio”, resterebbe sempre possibile la via delle cooperazioni rafforzate, dei
trattati a latere per l’eurozona, come in effetti si sarebbe proceduto più tardi con
il Patto di stabilità, ed altro ancora. Tuttavia, onde evitare le incertezze dei veti e
di tutto l’apparato intergovernativo, lo strumento del nuovo trattato lascia
indubbiamente intravedere una risorsa alternativa. In tal caso, però, dovrà
essere valutato se sia meglio farlo sottoscrivere a tutti, prevedendo gli opting out
per i meno determinati, o piuttosto soltanto dai “duri”, con le ricadute del caso.
E come sistemare poi la questione del Parlamento, del Consiglio e così via?
Crearne di nuovi? Poco realistico. Da valutare allora la quarta ipotesi, variante
della terza, fondata sulla proposta ai cittadini europei di sostenere grandi
obiettivi comuni, da raggiungere sulla base, appunto, di una doppia geometria
costituzionale. Con in più l’impegno preventivo di chi fosse d’accordo nel
rinunciare da subito all’esercizio del veto, in vista di un governo comune
fondato, detto in sintesi, sui principi già illustrati agli esordi della terza parte
del volume.
Meglio fermarsi qui, trattandosi di valutazioni ipotetiche, ma da tener
presenti, come già detto, per possibili occasioni di là da venire. Poco ma sicuro,
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
la paura dei veti e delle convulsioni susseguenti sta bloccando da tempo, anche
ai nostri giorni, l’ipotesi di una riforma istituzionale peraltro considerata
indispensabile. A conclusione del saggio, APS profetizzava nuovamente lo
strumento delle candidature alla presidenza della Commissione ad opera dei
partiti europei in occasione delle elezioni. In più si associava ad Jürgen
Habermas nel sostegno alla richiesta di un referendum europeo, in occasione
delle elezioni del Parlamento, per sentire le risposte dei cittadini sulle questioni
di fondo dell’Unione. Ottimismo? A quanto pare, i sondaggi, almeno allora,
continuavano a dare un’ampia adesione del demos all’idea di una difesa e di una
prospettiva di sviluppo comuni.
La terza parte del volume si conclude, sempre nel 2008, con un’ulteriore,
rapida valutazione della sostanza istituzionale del trattato di Lisbona, il quale
sarebbe andato ufficialmente in porto soltanto il primo dicembre 2009, per
risultare a tutt’oggi, debitamente “consolidato”, la carta di base dell’Unione. Da
condividere, in proposito, la critica severa del metodo tradizionale degli
emendamenti ai trattati precedenti, cosa che ne rende incomprensibile la lettura
alle persone comuni. Non a caso, compito della Convenzione per il trattato
costituzionale era stato quello di dare forma ad una normativa chiara e
leggibile. Ma evidentemente le esigenze dei cittadini non erano rimaste in
primo piano. Meglio appunto “consolidarlo”, integrando aggiunta per
aggiunta, sostituzione per sostituzione, i trattati preesistenti.
In merito poi alla sostanza, a parte l’abolizione della bandiera a 12 stelle e
dell’Inno
alla
gioia
come
simboli
ufficiali,
l’auspicio
della
“costituzionalizzazione” della Carta dei diritti risultava assecondato, insieme al
ricordato riconoscimento della personalità giuridica dell’Unione e, importante,
all’esplicita menzione del principio di democrazia rappresentativa, “che
sottintende l’impegno verso una coerente applicazione del principio della
sovranità popolare”. Un impegno confermato anche dall’introduzione dell’Ice,
ovvero del diritto di iniziativa dei cittadini europei, che obbliga la
Commissione, una volta ricevuta l’istanza (purché valida, oltre che sottoscritta
da almeno un milione di europei) a presentare una proposta di normativa
secondo le modalità previste dai trattati UE (pag 400).
Il Parlamento vedeva inoltre ampliati i propri poteri, mentre la
codecisione diveniva la procedura legislativa ordinaria dell’Unione. I
parlamenti nazionali acquisivano maggior controllo sul rispetto della
sussidiarietà. La Commissione avrebbe dovuto ridurre i suoi componenti
passando ad un criterio di rotazione (ma si sa com’è andata). Sul voto a
maggioranza qualificata in Consiglio si è già detto. Al riguardo, l’autore
aggiungeva – ma la Corte costituzionale tedesca non sarebbe d’accordo – che il
riconoscimento della rappresentanza per popolazione (il termine “popolo” era
156
F. Gui, Recensione
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2015
stato escluso) mostrava di presupporre un’entità comune dei cittadini europei.
Felicemente mantenuta inoltre la pubblicità dell’attività legislativa del
Consiglio. Non esclusa peraltro la già da noi commentata possibilità che il
presidente della Commissione e quello del Consiglio europeo (divenuto stabile
per due anni e mezzo, nonché rinnovabile per una volta) coincidessero nella
stessa persona.
Pregevole anche la fusione delle funzioni del commissario per la politica
estera e del mandatario del Consiglio per la Pesc (Politica estera e di sicurezza
comune) nella carica di Alto rappresentante (non ministro, come previsto dalla
Convenzione) per la Pesc, con le altre prerogative già citate, oltre all’obbligo di
consultare regolarmente il Parlamento europeo. Per le cooperazioni “rafforzate”
si è già detto e anche per la “strutturata”, che non prevede un numero fisso di
paesi per porre in atto singole iniziative di coordinamento in materia di militare
e di difesa.
Il Parlamento poi manteneva, e mantiene, accanto alla Commissione e ai
singoli governi, il potere di iniziativa per le future revisioni dei trattati: una
facoltà assai importante che potrebbe prestarsi anche oggi a pressioni
dell’opinione pubblica sui gruppi e sull’assemblea, oltre che sulla Commissione,
perché avviino il processo di riforma, malgrado le resistenze dei governi. Fra i
quali è sufficiente la maggioranza semplice per dare avvio ad una nuova
Convenzione, peraltro incaricata di decidere “per consenso” (ma è prevista una
procedura semplificata di revisione, in merito alle politiche interne).
Il che nulla toglie comunque alla permanente, devastante facoltà per ogni
singolo Stato membro di condannare al nulla sia il testo di un nuovo trattato
che la ratifica del medesimo. Davvero incoraggiante insomma avviare un
progetto di riforma per vederlo naufragare in tal modo dopo anni e anni di
lavoro, come accaduto con il trattato costituzionale… In proposito restava e
resta soltanto la modesta facoltà per il Consiglio europeo di valutare il da farsi
nel caso che quattro quinti degli Stati ratifichino entro due anni, oltre alla
seppur poco federalistica possibilità concessa ad uno Stato riluttante di uscire
dall’Unione.
Per quanto attiene alle competenze del Consiglio dei ministri, moltissime
materie, neanche a dirlo, rimanevano sottoposte alla minaccia del veto da parte
di uno qualunque, anche insignificante, dei suoi componenti. A parziale
compenso, la clausola “passerella” si spingeva fino a concedere il passaggio alla
procedura ordinaria, con codecisione quindi del Parlamento, non solo per le
politiche interne ma anche, notevole, in politica estera e di sicurezza. Il
Parlamento deve dirsi però preventivamente d’accordo e anche ogni stato
membro deve fare altrettanto: ipotesi fantascientifica, stando al giuristasaggista, tanto più che basta un singolo parlamento nazionale per mandare
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tutto a carte quarantotto, anche all’ultimo momento. Viceversa, forse all’interno
di una cooperazione rafforzata potrebbe magari un giorno convenirsi di
superare il diritto di veto.
Incrociando le dita, insomma, così come APS le incrociava in attesa della
ratifica del trattato, fortunatamente avvenuta ad un anno e oltre di distanza.
Incrociando le dita, ancora, perché a questo punto, data la lunghezza della
perlustrazione, sarà il caso di affidarsi eventualmente ad una successiva
visitazione della quarta parte del volume, davvero denso e suggestivo, per
portare a termine l’impresa fra “tappe e svolte” che si susseguono.
A proposito del qual volume e del suo oggetto di riflessione, volendo
azzardare qualche stimolo critico, forse potrebbe auspicarsi una più ampia
attenzione al tema dei partiti, dei gruppi parlamentari e della legge elettorale
europea, promessa fin dagli esordi per garantire una procedura uniforme della
consultazione continentale e mai portata a compimento. Per parte nostra, non
riuscendo a immaginare l’emergere di un Hamilton o Washington europeo,
salvo forse dalla Germania, dove però non si possiede abbastanza prestigio per
esercitare il ruolo, si ritiene urgente individuare quale potrebbe essere il fattore
in grado di farci superare una dialettica politica che ormai si manifesta sempre
di più, ogni giorno che passa, quale competizione fra attori e identità nazionali.
In effetti, accanto agli impulsi provenienti da associazionismi e alle chiese,
pur opportunamente evocati, la riproposizione di culture unificanti, di
esperienze storiche spesso dimenticate, di lungimiranti progetti di evoluzione
sociale ed economica non sarebbe da trascurare. L’emergere di partiti e relative
personalità che si mostrassero consapevoli, tanto per dire, di che cosa siano stati
e siano il liberalismo, il socialismo, il popolarismo cristiano, il federalismo?,
potrebbe costituire un fattore unificante delle coscienze, al di sopra delle
differenze etnico-nazionali, se non nazionalistiche. Sotto questo profilo, si
auspica un avvicinamento, l’une alle altre, delle fisionomie ideali e
organizzative dei partiti nazionali (anche delle leggi elettorali dei singoli paesi)
in modo da facilitare il rafforzamento delle strutture sovranazionali. Inoltre, la
costruzione di luoghi di formazione comuni, anche con il concorso di contributi
accademici, al fine di sostenere orientamenti politici dalla chiara vocazione a
perpetuare il disegno di rinascita maturato dopo la catastrofe della guerra
mondiale, potrebbe contribuire a creare solidarietà ed identificazioni in grado
di emanciparsi dal condizionamento nazionale.
Per non dire, benché risulti ovvio, ma di fatto largamente disatteso, del
dovere delle istituzioni formative pubbliche e private, tanto università che
scuole, di dotare giovani e meno giovani delle conoscenze essenziali per la
partecipazione ad una cittadinanza europea almeno elementare. A proposito
delle quali conoscenze e partecipazione, sarà decisamente sconsigliato veicolare
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in esse messaggi identitari nuovamente ispirati a valori etnico-territoriali
trasferiti su scala continentale. Molto più opportuno sarà patrocinare una
cultura idonea al superamento, con adeguato modello istituzionale, dello
schema nazionalistico-sovranistico. Il che non esclude affatto, sia ben chiaro,
fermezza di decisioni e forte senso di appartenenza.
In tutto questo, un ruolo non trascurabile potrà essere svolto, si spera, da
impulsi provenienti dal nucleo dei paesi fondatori delle Comunità originarie,
presso i quali sussiste obiettivamente un maggiore attaccamento e senso di
responsabilità verso la costruzione comune di cui si è stati così felicemente
autori dopo il disastro bellico. Malgrado le mille contraddizione e reticenze, per
non parlare delle pesanti diffidenze reciproche, si intravede tuttavia riproporsi
ad intervalli regolari il riemergere di una tensione non mancare alla parola data,
a rendere davvero concreto ciò che è stato promesso con convinzione, e ad
opera dei propri esponenti migliori, nell’interesse di noi stessi e degli altri. Cui
si affianca di volta in volta quello stimolo proveniente dall’altra parte
dell’Atlantico che molto ha contato, specie all’epoca della guerra fredda, nel
sospingere gli europei verso elementi di sovranazionalità, ma che si è visto
riemergere anche recentemente, tanto per dire, in occasione dell’incresciosa
minaccia della Grexit. Sperando naturalmente che recentissime espressioni di
volontà popolare, sempre lì, in zona ovest, a pro di carismi davvero sconcertanti
non ci contraddicano amaramente.
Giunti ormai a conclusione, sia consentito tuttavia avanzare qualche
ulteriore considerazione dubitativa in merito ad uno degli aspetti essenziali del
modello di convivenza federale proposto dall’autore, peraltro in linea di
massima condiviso dall’aspirante recensore. Il riferimento è alla possibilità di
conciliare quel progetto di convivenza, sostanzialmente ispirato alla tutela dei
diritti umani, con la libertà di religione. Una siffatta conciliazione è di fatto
realizzabile soltanto a condizione che gli adepti alle diverse fedi e confessioni
non riconducano a verità assolute, divine?, le prescrizioni dei propri libri e
mentori sacri, variamente interpretati e interpretanti. Sempreché ovviamente
non contengano anch’esse un indiscusso messaggio di conciliazione e
convivenza.
Ecco, laddove questo non accada, e purtroppo presso consistenti gruppi
umani, almeno per ora, questo non avviene, allora il progetto di convivenza
fondato sulla democrazia e sui diritti umani rischia davvero grosso.
Presumibilmente il cristianesimo parrebbe il più incline a questa sostanziale
universalizzazione, umanizzazione, laicizzazione?, del sentire religioso, fondato
sul rispetto del prossimo, sulla sostanziale identificazione dell’altro con se stessi
e sulla deassolutizzazione dell’appartenenza etnico-nazionale. Su altri versanti
il discorso si fa invece assai più difficile. Tanto che la tutela dei diritti dovrà
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essere condizionata alla salvaguardia, ovvero alla sicura accettazione da parte
dei portatori della volontà generale, ovvero della sovranità legittimante l’intero
sistema, delle precondizioni di tale tutela.
Ebbene, il federalismo, al di là delle prospettive e soluzioni istituzionali
additate ai cittadini del mondo, non potrà non farsi carico anche di queste
problematiche, affrontandole con la sensibilità e l’ampiezza di fondamenti a cui
possono essere ricondotte le sue stesse origini, ben più radicate nel tempo e
nello spazio di quanto non sia, oggettivamente, il pur insostituibile messaggio
di Ventotene. Il federalismo come una cultura autonoma e per certi aspetti
alternativa? Necessariamente. Che è compito e consapevolezza sicuramente non
da poco.
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