1
Francesco Faà
di Bruno
2
Una vita
nella storia
3
La Famiglia
4
L’infanzia
5
Il Collegio di N. Ligure
L’Accademia Militare
6
Il Soldato
Esperienza
francese
12
Il matematico
Un esempio
profetico
13
Il Prete…
Il Padre
8
Un laico
cristiano
14
La Biblioteca
9
Un Fondatore
15
Il Museo
La Chiesa
16
7
10
11
Il Campanile
Opere e
Pubblicazioni,
Bibliografia
Ringraziamento,
Indice, Piantina luoghi Faà di
Bruno
7. ESPERIENZA FRANCESE
gli incontri, lo studio, l’esempio
Il Faà di Bruno visse a Parigi in due periodi successivi e distinti, come in precedenza si è
accennato, intervallati da due anni, in cui fu a Torino. Diamo una cronologia di quegli anni,
permettendo così al lettore di seguire meglio la trama di questa esperienza, che ha mutato
la vita del brillante Capitano del R. Corpo di Stato Maggiore.
All’inizio di ottobre del 1849 il Ministro della Guerra e Marina dispensava Francesco dal servizio al Corpo.
Il 26 dello stesso mese egli parti per Parigi, alloggiò in un piccolo appartamento di rue de Petit Bourbon,
nella parrocchia di S. Sulpizio.
Durante il 1850 si dedicò agli studi: acquistò libri per la scuola e pubblicò due articoli scientifici. Il 10
marzo 1851 conseguì alla Sorbona la licenza in Scienze Matematiche e l’8 maggio successivo gli fu
rilasciato il diploma. Nei mesi successivi restò a Parigi: si occupò della stampa della sua carta
topografica del Mincio e di Peschiera e si interessò della tecnica fotografica allora agli inizi, la
«dagherrotipia».
Nell’autunno si recò a Londra insieme ai quattro fratelli per visitare l’Esposizione Internazionale.
Alla fine di dicembre ritornò a Torino, stabilendo la sua residenza in Via del Belvedere 3, presso la chiesa
delle «Sacramentine», sotto la parrocchia di S. Massimo.
Riprese quindi il servizio militare.
Nel 1852 – ’53 pubblicò articoli scientifici.
Ad Alessandria fondò una Conferenza di S. Vincenzo. Nel maggio 1854 ripartì per Parigi, dove prese
dimora al 6, Impasse des Feuillantines. Ritornò alla Sorbona per ottenere il dottorato in Scienze.
Negli anni 1854 – ’56 pubblicò numerosi articoli scientifici e il 20 ottobre 1856 presentò alla Sorbona le
due tesi firmate da Cauchy.
Negli ultimi giorni di quell’anno ritornò a Torino e riprese il suo alloggio di Via del Belvedere.
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La Parrocchia di S. Sulpizio
Abitando nei pressi, il Faà di Bruno, cominciò a
Parigi – Chiesa Parrocchiale di S. Sulpizio
«Dans ma paroisse de S. Sulpice je me suis trouvè
au milieu du plus grand bien»
[lett. Alla sorella Maria Luisa, Paris 8.10.1850]
frequentare la Chiesa parrocchiale di S. Sulpizio, e il
contatto con l’intensa vita religiosa che in essa si
svolgeva destò in lui una profonda ammirazione.
Con queste parole confidava alla sorella le sue
impressioni: «… Per la gloria di Dio invece di
trovarmi in mezzo al male, come tanti altri, io mi
sono trovato al centro di un gran bene [inizio
vocazione?]. Io sono vergognato davanti a tanta
pietà. I buoni cristiani non sono tanti, ma sono
eccellenti. Per farti un’idea ti dico che nella mia
parrocchia S. Sulpizio vi sono 40.000 anime, ci sono
più di 100 comunioni tutti i giorni.
Spero che, grazie a Dio, tu mi troverai molto
cambiato al mio ritorno…».
Quella parrocchia era distinta tra le parrocchie di
Parigi per il livello culturale dei sacerdoti
responsabili e per il fervore delle fiorenti iniziative
pastorali: essa viveva sotto la suggestione
dell’annesso seminario.
I maestri spirituali erano i classici della scuola francese del XVII secolo. A S. Sulpizio quella
spiritualità – centralità della presenza divina, della sua volontà e gloria ma soprattutto il richiamo
all’imitazione di Cristo, adoratore del Padre – era insegnata e vissuta secondo il metodo dell’Olier,
che del seminario era il fondatore. Il parroco era l’abate Andrè Jean Marie Hamon, creatore di
opere, direttore spirituale e scrittore ascetico. Aveva fondato in parrocchia delle scuole, l’Oeuvre
de N.D. des Etudiants, e vari istituti caritativi, tra cui ospizi per anziani.
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S. Sulpizio era anche un «rendez-vous» di uomini d’azione caritativa e sociale, che si erano raccolti
attorno al parroco Hamon, quello che il Faà chiamò «il prete dei poveri»
[in «Il Cuor di Maria», 25 febbraio 1875].
Faà di Bruno conobbe anche le organizzazioni cattoliche legate alla parrocchia, come:
- l’Oeuvre des familles, nata per assicurare alle famiglie istruzione religiosa, nel ’48-’49 si trasformò
in istituzione a carattere assistenziale.
- Una sezione della Società di S. Francesco Saverio, fin dal 1840 vigorosa organizzazione di
carattere mutualistico e di educazione popolare che cercava di prevenire la scristianizzazione degli
operai.
- La Conferenza di S. Vincenzo, nel 1848 aveva dato vita a S. Sulpizio ai «fornelli economici» per
i poveri, e nel 1849 nella parrocchia erano state distribuite 120.000 minestre.
Un altro fatto poteva colpire il giovane
studente piemontese, era la rilevanza che si dava
alla liturgia, alla musica e al canto sacro nella
chiesa parrocchiale.
L’esempio di vita dei cattolici di S. Sulpizio
esercitò su di lui un forte richiamo alle
responsabilità personali; quello che colpì
soprattutto la sua attenzione fu la presenza di
laici impegnati nelle istituzioni cattoliche della
parrocchia.
Chiesa
Parrocchiale
di S. Sulpizio
(oggi)
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Il Barone Agostino Cauchy
Francesco era
giunto a Parigi per approfondire gli studi di
matematica frequentando i corsi alla Sorbona. Qui incontrò come
maestro il barone Agostino Cauchy. Questi gli assegnò le tesi, una di
matematica, l’altra di astronomia; lo fece entrare in rapporto con i
maggiori matematici del tempo e gli avrebbe anche ottenuto l’ingresso
all’Osservatorio astronomico di Parigi diretto da Le Verrier.
[dal Condio p. 53, «Il Le Verrier, quegli che con la precisione del calcolo, prima
che gli altri colla potenza del telescopio, scoprì l’esistenza del pianeta Nettuno;
astronomo profondo che segnò il passo a quelli che vennero dopo di lui…]
Del Cauchy il Faà seguì i corsi, apprezzò l’ingegno e se ne fece
una sorta di modello ideale di matematico. Non solo: per lui il
professore della Sorbona non fu soltanto il dotto che con le sue
789 pubblicazioni aveva rivoluzionato la scienza dei numeri, fu
anche l’uomo di condotta onesta e di pietà operosa. E quando, il
22 maggio 1857, morì a Sceax, presso Parigi, l’allievo gli dedicò
una serie di articoli, apparsi su «L’Armonia», il giornale cattolico
conservatore di Torino.
Il matematico Agostino Cauchy
«… un uomo, di cui solo forse la
posterità comprenderà la sublime
grandezza; poiché fu SANTO insieme
e SAPIENTE»
Ma ciò che lo studente piemontese ancor più apprezzò del Cauchy era «l’uomo di religione». Per lui,
questo aspetto della vita del matematico francese presentava dei particolari caratteri cattolico-sociali:
«… benché oberato d’ogni sorta d’occupazioni, trovava nondimeno il tempo ed un cuore per andare a
visitare i poveri nei loro tuguri; che anzi ogni domenica usava lasciare Parigi per assistere ad una
Conferenza di S. Vincenzo, situata ad otto miglia di distanza, da lui iniziata.
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Molto si adoperò per la diffusione della società di S. Francesco Regis; caldamente promosse quella per la
santificazione delle feste, ed egli solo, cosa veramente prodigiosa, riuscì a far chiudere nei dì festivi circa
60 magazzini nella via Richelieu».
L’attività cattolico-sociale di Cauchy si esplicò fino dal 1820 nella Société des Bonnes Oeuvres.
Egli fece poi parte della Société de Sant François-Xavier, visitando con gli amici, tra cui il Moigno, le
parrocchie di Parigi e parlando agli apprendisti e agli operai, nella prospettiva dei «patronage» che la
Società promuoveva.
Gli articoli del Faà di Bruno ricordano giustamente l’attività del Cauchy a favore del riposo festivo dei
lavoratori. Fu certo attraverso il Cauchy, che Faà di Bruno incontrò Baudon e poté entrare nell’ambiente
della «Conferenza di S. Vincenzo» di Parigi.
L’abate Moigno
Tra i personaggi di un certo rilievo che ruotano intorno alla figura di Cauchy, da molti anni vi era
l’abate F. Moigno. Il Faà di Bruno lo conobbe probabilmente alla Sorbona; tra i due nacque allora una
profonda amicizia che durò fino alla fine dei loro giorni.
Nato a Guemémené nel 1804, il Moigno era entrato nella Compagnia di Gesù nel 1822, ne uscì nel
1843. Cultore di scienze matematiche, fisiche ed astronomiche, lasciò numerose pubblicazioni.
Fondò e diresse ben due riviste, prima «Cosmos», e poi «Les Monde». Di fronte alle pretese
antireligiose del positivismo, operò il massimo sforzo di conciliazione tra scienza e fede con 4 volumi
di Les Splendeur de la Foi. Abbiamo ragione di ritenere che l’influsso dell’ex-gesuita sul nostro
Francesco si sia esercitato almeno su tre piani: cattolico-sociale, politico-religioso, religiososcientifico. Il Moigno si era a lungo dedicato alle opere cattolico-sociali di Parigi; era stato uno dei
fondatori della Société de Sant François-Xavier e in essa aveva collaborato spesso con Cauchy.
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Sul piano politico-religioso, l’incontro tra Francesco e l’abate francese fu oltremodo semplice e senza
divergenze. Negli anni successivi al ’48 soprattutto nei primi del II Impero, che Moigno, come il folto gruppo
di francesi che ai tempi della Monarchia di Luglio si erano battuti per la libertà dei cattolici, seguì l’esempio
di Montalembert e, dimenticando le grandi idealità democratiche del 1830, si adagiò nel solco della
reazione.
Quella del Moigno, insomma, è una delle voci dei cattolici che si impegnano, insieme ai laici riuniti intorno a
«L’Univers» e sotto la guida di Montalebert, lottano con asprezza sempre crescente contro il monopolio
universitario, detenuto dai partiti al potere. Rappresentati dell’alta borghesia volterriana, questi non
vogliono concedere ai cattolici neppure la libertà dell’insegnamento secondario. Sul piano religiososcientifico si postula un’influenza sul Faà.
Il Moigno è un uomo religioso, e come tale non può
non credere ad una scienza che neghi la sua fede: lo
scienziato faccia il suo mestiere senza preoccuparsi
direttamente se le conclusioni della sua ricerca siano
in armonia con i dogmi della Rivelazione.
In realtà, egli pensa: se lo scienziato è mosso da un
disinteressato desiderio di verità, e non già da
pregiudizi filosofici, la sua «verità scientifica» non
sarà mai in contrasto con la «verità religiosa».
Una sola è la Verità: è il punto di partenza di tanti
polemisti e apologisti cattolici del secondo
Ottocento. Il Moigno, tuttavia è lontano dagli eccessi
polemici e razionali di altri scrittori, soprattutto
perché egli non è un filosofo ma un cultore di
scienze.
L’abateL’abate-scienziato F. Moigno
«… la vastissima sua mente [realizzò] una
sintesi di tutte le armi di difesa, che le scienze
possono prestare alla religione colla sua opera
immortale Les Splendeurs de la Foi, che noi per
primi facemmo conoscere all’Italia.
(Il Cuor di Maria, 1.8.1884)
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Il Padre Armand de Ponlevoy
Nel primo anno di permanenza a Parigi del Faà di Bruno i contatti con ambienti di ispirazione cattolica
furono molteplici. Non ci stupiamo quindi che egli sia entrato in famigliarità con le associazioni mariane, con
i Gesuiti predicatori di ritiri spirituali, con il movimento devozionale; e neppure che abbia rivolto la sua
attenzione ai libri di apologetica del tempo, alle letture spirituali ed ascetiche.
Non è improbabile che sia stato lo stesso Cauchy, legato come fu alla Compagnia di Gesù, ad introdurre lo
studente piemontese nell’ambiente dei Gesuiti di Parigi di rue de Sèvres. Il nostro Francesco intavolò degli
stretti legami con il Padre de Ponlevoy. Il rapporto tra i due aveva trovato origine probabilmente nella
pratica degli «Esercizi spirituali» ai quali Faà di Bruno partecipò. Il Ponlevoy, infatti, oltre che autore di
biografie spirituali, era anche un celebre predicatore degli «Esercizi» ignaziani, come risulta dal suo
Commentaire postumo.
Questo Gesuita era arrivato a Parigi verso la metà del secolo, ed era diventato uno dei confessori più
ricercati. In quel periodo era direttore spirituale di circa trecento giovani. In questo quadro di ministero
pastorale egli divenne l’amico e il confessore di Francesco.
La partecipazione agli «Esercizi» e la familiarità con i Gesuiti di Parigi di quegli anni ha
certamente lasciato una traccia nella vita del Faà. Si osserva così che il tema della «gloria di
Dio» o meglio della «maggior gloria di Dio», diventa il punto di riferimento centrale dei suoi
pensieri spirituali di quel tempo.
Scriverà nel quaderno «Considerazioni»: «Quanto vi adoro, Dio incarnato! […] Da tutta l’eternità
voi avete visto che gli uomini innocenti o peccatori erano incapaci di darvi la gloria che vi era
dovuta, e voi avete altresì determinato da tutta l’eternità d’assumere la loro natura al fine di
deificarla e renderla capace d’offrire i suoi omaggi o di pagare i suoi debiti a Dio Padre…».
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Da «Notes», in una lettera che lo studente piemontese trascrisse tra le sue cose spirituali più
importanti, ci è illustrata la linea in cui si poneva l’azione del P. de Ponlevoy: «Mio buon e caro amico,
siete di Gesù Cristo e vivete per Gesù Cristo, sempre dappertutto, domani come oggi, a Torino come a
Parigi.
1° Guardate a Gesù Cristo per una pietà solida e pratica, basata sulla fede, sorretta dalla preghiera, i
sacramenti, la devozione alla Santa Vergine, prouvée par la fidélité. Senza essere del mondo quanto a
spirito, restate nel mondo quanto aux bienséances. Alla pietà unite il lavoro Cristiano prima di tutto,
Cristiano in tutto.
2° Vivete per Gesù Cristo non vi accontentate d’essere buono senza far del bene. Bisogna che vi votiate
alla santità… Portate ovunque la croisade nouvelle. Io vi dò l’appuntamento in cielo. Labora sicut bonus
miles Christi Jesu, certa bonum certamen et apprehende vitam aeternam».
Questa lettera, confermandoci la consuetudine del Faà di Bruno con il gesuita francese, rivela la
tematica dei rapporti tra direttore spirituale e il giovane figlio.
Il Ponlevoy richiama lo studente della Sorbona, da un lato alla vita interiore basata sulla solida pietà e
sorretta dai sacramenti, dalla preghiera e dalla devozione alla Vergine, dall’altro insiste sulle
responsabilità inerenti allo stato di vita e alla testimonianza sociale.
In questo contesto l’accenno alla «croisade nouvelle», come la scelta della citazione, con la presenza
del «miles Christi», rivelano temi caratteristici della tradizione, della Compagnia e richiamano, con
termini significativi, un programma di riconquista religiosa, alla quale il soldato Faà di Bruno dimostrerà
di non essere insensibile
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Non ultima la Società di S. Vincenzo, certamente ispiratrice delle sue varie opere nella capitale del piccolo
Regno di Sardegna. Francesco Faà di Bruno era in contatto con la Società di S. Vincenzo ancor prima di
arrivare nella capitale francese: secondo l’uso della Società un confratello gli aveva dato la lista degli
alberghi più raccomandabili della città e lettere di presentazione per il Consiglio Generale.
Non sappiamo se il Faà ne facesse già parte ne chi sia stato il tramite
di unione: alla sua partenza da Torino nel ’49 la Società non aveva
ancora messo piede nella città, pur essendo già presente negli Stati
Sardi. Certo conobbe i favori della S. Vincenzo e dei suoi dirigenti, se è
vero che gli fu trovato alloggio nella stessa casa dove la Società era
stata fondata. Conobbe anche il suo fondatore: F.A. Ozanam. Il
contatto con la Società ebbe per lo studente piemontese una
importanza fondamentale. Gli fece scoprire il problema della povertà e
della miseria, e, insieme gli additò delle soluzioni che erano accolte con
favore dalla sua mentalità in quanto implicavano un grande impegno
religioso, con esclusione delle diatribe politiche.
Egli dovette anche ammirare l’organizzazione di questa associazione
di azione cattolica, la sua frenetica attività sociale – ostelli per gli
apprendisti, pensioni per operai, opera miglioramento alloggi, cassa
fitti, opera di collocamento, cassa di mutuo soccorso, opere di
patronato, corsi serali – e le opere caritative-religiose: sale asilo,
orfanotrofi, catechismo, visita ai poveri, ai prigionieri, ai condannati a
morte, agli ammalati, distribuzione dei «buoni» alimentari…
Dopo questa esperienza si sentì in dovere, al primo ritorno a Torino,
di farsi promotore della Società fondando una «Conferenza» nella
città natale, Alessandria.
F.A. Ozanam (1813 – 1853)
Ozanam «le type du laïque chrétien»,
principale iniziatore delle Conferenze di
S. Vincenzo e vicepresidente generale
della Società, aveva scelto come sua la
conferenza di Saint-Germain des Prés.
Faà di Bruno si aggregò a questa
conferenza divenendone uno dei membri
attivi.
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Un esempio profetico
“Fu veramente un profeta
in mezzo al popolo di Dio,
a cui appartenne come laico
per buona parte della sua vita…
un gigante della fede e della
carità”.
Giovanni Paolo II
Roma, 25 settembre 1988
In quel settembre romano del 1988, Giovanni Paolo II
collocò il nostro Francesco nel numero di quei laici
profetici che la Provvidenza invia in mezzo al popolo di
Dio per indicare la via, per dare un indirizzo alla vita e
con nel cuore una fede incrollabile.
Giovanni Paolo II
proclama Beato “Francesco Faà di Bruno”
Ecco, la Chiesa ci offre un suo figlio come
modello, per noi oggi, qui negli stessi luoghi
dove Lui ha operato, gioito, sofferto, ma dove
ha soprattutto amato con quell’Amore
evangelico che si chiama Carità.
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Abbiamo in queste pagine guardato le radici di
una scelta, singolare per quei tempi, ma pur
sempre sostenuta da un discernimento d’intelletto
e di una fiducia nella Provvidenza non comuni, ma
certamente carica d’insegnamento per camminare
sulla strada del Vangelo.
Francesco è lì, come una testata d’angolo, ad
indicare ai laici cristiani come si può arrivare
dove è arrivato Lui. Si può realizzare nel silenzio
ed anche nelle contrarietà il progetto che il Dio
di Gesù Cristo ha su ognuno di noi.
Oggi Francesco Faà di Bruno sembra dirci che non conta avere tanti
o pochi talenti, ma quello che conta è adoperarli per essere “utile
agli altri”, alla società in cui si vive, cioè vivere la nostra quotidianità
con quello “stile” che aveva Lui; i piedi su questa terra, ma la mente
ed il cuore in cielo, che fuori di metafora significa guardare a Gesù
Cristo: Unico Salvatore.
Da questo punto in avanti il nostro guardare a Faà di Bruno sarà
come riferirsi ad un modello di realizzazioni che hanno come
obiettivo il raggiungimento di quel Regno che già da adesso è in
atto come ci dice la Scrittura, prendendo come esempio Francesco,
guardando a Lui, come Lui guardò “all’esperienza ed alla
testimonianza” di tante persone incontrate negli anni della sua
maturazione culturale e religiosa.
È con questo modo di procedere
che vogliamo camminare
sulle “orme” di Francesco Faà di Bruno.
Faà di Bruno
in preghiera
Olio su tela
(P.G.Crida – 1942 - )
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8. UN LAICO CRISTIANO
impegnato nel sociale
Siamo alla fine dell’anno ’56 quando Francesco
Faà di Bruno ritornò definitivamente nella Capitale
del Regno prendendo alloggio in Via del Belvedere
3, presso la chiesa delle «Sacramentine» sotto la
parrocchia di S. Massimo. A quasi 32 anni egli è a Torino,
laureato in una Università prestigiosa, con una cultura socialecaritativa e religiosa di prim’ordine, vista, praticata e vissuta in
quella parrocchia Parigina di S. Sulpizio, distinta tra le altre di
quella città per il livello culturale e il fervore delle sue iniziative
pastorali.
A Torino la sua azione inizia come apostolato laicale
a difesa e riconquista della società al messaggio
cristiano, anche per andare incontro alla novità della
situazione politico-religiosa del Piemonte rispetto al
passato, novità uscita dalla riunione dei Vescovi
della provincia ecclesiastica torinese tenuta a
Villanovetta per affrontare le cause e prevedere gli
opportuni rimedi alla crisi religiosa che aveva diviso
il clero e filtrava ormai sempre più dalla borghesia e
dalla stampa libera tra il popolo.
Partendo dalle Scuole di Applicazione D’Arma, Via
dell’Arcivescovado angolo Via Arsenale, si
percorra la via dell’Arcivescovado e oltre Via
Roma, Via Cavour fino a P.zza Cavour. In fondo alla piazza a
destra percorrere la Via Fratelli Calandra, incrociando Via dei
Mille, sull’angolo sinistro si trova la Chiesa di S. Francesco di
Sales (ex Sacramentine) e proseguendo fino a Via Mazzini
svoltando a destra all’incrocio con Via S. Massimo si trova la
Chiesa di S. Massimo.
Su questa linea il laico Faà di Bruno, dopo la straordinaria esperienza francese, si fa strumento
di apostolato, cominciando un’intensa operazione di animazione nel campo della buona stampa,
interessandosi ai problemi dell’educazione religiosa della gioventù ed alle necessità morali e
materiali dei poveri.
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Fu nell’impatto con il cattolicesimo parigino, molto fervente, e con le conferenze di San Vincenzo de’ Paoli,
attivissime, che comprese la necessità di essere cristiano non solo per se stesso, bensì al servizio degli altri
divenendo operatore della carità cristiana tanto spirituale che materiale. L’amicizia di personaggi eminenti
del cattolicesimo caritativo-sociale gli fu da stimolo a mantenersi nella via intrapresa.
Il mondo cattolico-sociale parigino degli anni ’50 gli fornì inoltre criteri e schemi d’azione ed entra perciò
nell’elemento costitutivo dell’originalità del Faà di Bruno laico operante in un mondo religioso fortemente
clericale, com’era quello torinese a mezzo Ottocento, diffidente verso istituti ed opere non controllate
completamente dal clero.
L’esperienza Parigina ed in particolare la generosità di tanti confratelli della metropoli che soccorrevano le
innumerevoli miserie dei poveri, da quelle più elementari come – cibo, vesti, mobili indispensabili – a quelle
più complesse come trovare o dare lavoro ai disoccupati, «patronare» i ragazzi nelle scuole, nelle fabbriche
e nei laboratori, raccogliere gli orfani, curare gli ammalati, pagare il fitto dell’alloggio, ecc. – faceva
intravedere al giovane capitano la possibilità di applicare queste iniziative nelle conferenze del Piemonte.
Ma anche in patria le difficoltà e le incomprensioni non mancavano. Alla fondazione della conferenza di
Alessandria, avvenuta per iniziativa di Faà di Bruno il 10 gennaio 1853, furono necessari quasi venti giorni
per riuscire a convincere dell’utilità dell’opera uno sparuto gruppo di laici cattolici alessandrini, sette in tutto,
tra i quali non figurava neppure uno dei numerosi parenti che Faà di Bruno aveva in città.
Nella relazione sulla fondazione inviata dal Faà di Bruno al presidente del Consiglio generale della Società,
Adolfo Baudon, appare evidente che, nonostante l’appoggio del clero locale, era stato necessario affrontare
un terreno irto di difficoltà. L’impegno del Faà però continuava, era uno dei confratelli più in vista nella
conferenza dei Santi Martiri di Torino, unica nella città a marzo 1853, e divenne presto uno dei più influenti.
Una persona zelante come lui non poteva non fare opera di proselitismo, così l’aumento degli
effettivi fu così grande che, a fine anno, i dirigenti di Parigi consigliarono lo smembramento in
altre conferenze: di S. Massimo, della SS. Annunziata, del Corpus Domini.
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Faà
Faà di Bruno fu eletto presidente della conferenza di S.
Massimo, alla quale furono assegnate quattro parrocchie con
molti poveri e molti problemi religiosi: N.S. degli Angeli, San
Carlo, San Massimo, San Salvario.
Un territorio comprendente alcune zone bene della città e per
il resto un’ampia distesa periferica percorsa da bande di
giovani abbandonati a se stessi ed abitata da una popolazione
così indigente e bisognosa di tutto.
Chiesa di S. Massimo
Via
del
Belvedere,
n. 3
Abitazione
del
Qui, Faà di Bruno con il suo coro le «figlie di S.
Massimo», provvide ad un centro d’incontro per il
tempo libero domenicale e occasione di
istruzione religiosa e di educazione umana e
civile.
Faà di Bruno
Nel 1856
Ma l’impegno del laico Faà di Bruno non era volto solo alla carità praticata nelle conferenze di S.
Vincenzo, ma si sviluppo anche nel campo dell’apostolato attraverso la stampa. Nel ’49 lo
troviamo accanto a don Bosco ed a Mons. Luigi Moreno ad iniziare le «Letture Cattoliche»:
opuscoli agili, facili, di minimo costo, quindicinali, che corsero a migliaia e migliaia per le mani
della gente più semplice contribuendo non poco a mantenere una mentalità cristiana di base.
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Lanciò anche l’almanacco titolato “Il Galantuomo”, poi ripreso da don Bosco nel ’55. Sempre nell’ambito
dell’apostolato per mezzo stampa tradusse e diffuse il Manuel du Soldat Chrètien, che la «San Vincenzo»
in Francia distribuiva alle truppe. Stampandolo «grazie ad una sottoscrizione del Re, della Regina,
dell’Ordine di S. Maurizio», poté «dare questo libretto di 272 pagine, legato, per 6 soldi!».
Il manuale fu inserito negli elenchi dei libri raccomandati dal Consiglio superiore di Genova alle conferenze
vincenziane d’Italia.
Dopo il 1860, ad imitazione di don Bosco e di confratelli francesi della «San Vincenzo», Faà di
Bruno cominciò a dare alle stampe numerosi opuscoli, libri religiosi e morali, più o meno popolari,
e nel ’69 diede vita ad una piccola editrice sotto il nome di Emporio Cattolico.
Nel 1874 acquistò proprietà e direzione del
quindicinale «Il Cuor di Maria» per impedire
che, scomparendo, cessasse il bene che
faceva; identica ragione lo spinse alla fine
del 1883 a rilevare il «Museo delle Missioni
Cattoliche»,
validissimo
settimanale
missionario italiano della seconda metà
dell’Ottocento.
Infine, nel 1881, per stampare a basso
costo giornali e libri da diffondere tra il
popolo, Faà di Bruno ebbe il coraggio
d’impiantare una tipografia all’interno degli
istituti da lui fondati, dove lavoravano le
giovani accolte nel suo istituto.
Ringraziamento al Santo Padre Leone XIII per la
Benedizione Apostolica alla Tipografia per allieve
compositrici e la diffusione della buona Stampa.
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9. UN FONDATORE
in Borgo S. Donato
Durante i primi mesi del ’58 Faà di Bruno cercò una casa adatta, senza riuscirvi, non distante
dalla sua abitazione, nel Borgo S. Salvario, dove già erano avviati parecchi istituti assistenziali e
caritativi.
Trovatola rispondente ai suoi desideri all’opposta periferia di Torino, nel Borgo S. Donato, il 31 agosto di
quell’anno la comperava, effettuando subito dopo altri acquisti di fabbricati e di terreni, con cui garantire il
prevedibile sviluppo della nascente Opera iniziata ufficialmente il 2 febbraio 1859.
(Tra acquisti e costruzioni Faà di Bruno spese in pochi anni 175.000 £,
cifra rilevantissima ricavata dal suo patrimonio, dal reddito del suo lavoro
e dalle offerte chieste un po’ a tutti e dal lavoro organizzato nell’Istituto.)
Il Borgo S. Donato era malfamato e abitato da gente molto
povera, operai inurbati ed ortolani, confinante con Valdocco del
Cottolengo e di don Bosco, ed era tutto compreso nella parrocchia
dell’Immacolata Concezione, istituita solo quattro anni avanti.
Il teol. G. Saccarelli, fin dal 1850 aveva piantato nei vasti prati a
frammezzo agli orti di S. Donato l’Istituto della Sacra Famiglia,
prima fra le opere che avrebbero formato una nuova
concentrazione caritativa originale: infatti anche il Ritiro di S.
Pietro di don Merla, fondato nel ’54, e l’Opera di S. Zita del ’59,
nonché la Casa di Misericordia del 1885, si volsero
esclusivamente all’esistenza e all’educazione delle diverse
categorie femminili povere.
Il Conservatorio nel 1886
(da un quadro dell’epoca)
54
Dall’incontro, nell’Oratorio festivo della parrocchia di S. Massimo, con i problemi delle giovani lavoratrici ebbe
origine l’idea della Pia Opera di S. Zita. Fu nel ’53 che il Cav. Faà di Bruno ebbe l’ispirazione, essa infatti fu
suggerita dalla volontà di introdurre in Torino una usanza, qui pressoché sconosciuta e diffusissima invece in
Francia, Germania ed Inghilterra, quella cioè del canto di sacre lodi, cantate in chiesa, al di fuori delle
funzioni, o nelle riunioni degli apprendisti, degli operai e nelle adunanze dove veniva insegnato il catechismo.
Egli, constata a Parigi l’efficacia del canto di lodi morali e
religiose in portentose conversioni, volle utilizzare pure lui
la musica con finalità pedagogico-religiosa. Coadiuvato
da signore dell’aristocrazia, si diede ad organizzare un
coro femminile, cosa decisamente nuova in Torino specie
in una chiesa parrocchiale, anche perché a dirigere il coro
c’era il Cav. Faà di Bruno, mentre a Parigi erano delle
signore a suonare e dirigere il coro. Ma con l’appoggio
del parroco, teol. Girola, spianò le difficoltà. I risultati
artistici furono poca cosa, a giudicare quanto il Faà
scriveva al fratello Alessandro:
“Se vieni di Domenica, sentirai cantare le figlie di S.
Massimo, che tutte le feste cantano dopo la benedizione le
lodi ch’io loro insegno. La mia famiglia è numerosa… e
sfortunatamente poco canora.”
Le «figlie di S. Massimo» erano povere giovani, incolte di
musica e di estrazione sociale non elevata: operaie,
domestiche, ragazze di famiglie, che la domenica non
avevano dove andare, Faà di Bruno con il suo coro,
provvide ad un centro d’incontro per il tempo libero
domenicale e occasione di istruzione religiosa e di
educazione umana e civile.
… Faà di Bruno constata a Parigi l’efficacia del canto di
lodi morali e religiose in portentose conversioni…; … è
interessante notare che anche don Bosco, nel 1874, volle
pubblicare una Scelta di laudi sacre, in un Nota Bene
avverte che: «… Le laudi sacre furono estratte dalla Lira
cattolica…».
Dall’esperienza qui sopra descritta
ebbe origine l’Opera di S. Zita.
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Essa agli inizi s’ispirò come organizzazione al sistema del patronage, attuato allora su vasta scala
dagli operatori del cattolicesimo sociale francese, e come tutte le opere di patronato, si trovavano in
essa inscindibilmente uniti motivi e aspetti ad un tempo religiosi e sociali, assistenziali ed educativi.
Già dall’inizio del ’58 il Faà di Bruno si rese conto di penosissime situazioni materiali e morali cui
dovevano far fronte, rimanendone spesso vittima, le frequentatrici della scuola di canto.
L’Opera in S. Donato permetteva finalmente di realizzare ciò che spesso era praticato nelle grandi
città europee: una casa, sempre aperta ed ospitale, per donne che si fossero trovate nell’immediata
necessità di rifugio e nel bisogno d’essere aiutate a trovare lavoro.
Aveva constatato che necessità e disperazione spingevano numerose donne di servizio a passi falsi,
pagati poi amaramente con una degradazione umana e morale – prostituzione, malattia, delitti –
dannosa non soltanto alle interessate ma altresì alle famiglie ed alla società tutta.
Il Cav. Faà di Bruno nel suo opuscolo “Sulla
moralizzazione delle domestiche”, praticamente il
programma dell’Istituto, individuava i punti
essenziali per raggiungere un miglioramento morale
e sociale della categoria.
(Era un’impresa non da poco vista la consistenza
delle serve in Torino a quel tempo: 10.000 serve,
circa 7000 provenienti dalla campagna con gravi
problemi, perché l’inurbata, a differenza della
lavoratrice nativa di Torino, manca d’appoggio
materiale e morale.)
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Per raggiungere il miglioramento della categoria occorreva:
1°) Maggiore senso di responsabilità dei padroni nei confronti dei loro doveri verso le dipendenti sia per quel
che riguarda l’aspetto economico e materiale come anche per la cura morale;
2°) «offrire un asilo alle figlie che sarebbero altrimenti in pericolo», cioè «una casa, ove a qualunque ora del
giorno una figlia priva di mezzi e di relazioni possa trovare un sicuro rifugio, un valido aiuto e procurarsi un
pane onorato»;
3°) offrire alle lavoratrici della casa la possibilità concreta di trascorrere un’onorata e pacifica vecchiaia. […]
Di qui una proposta d’un assicurazione mutualistica tra le persone di servizio, aiutate magari dai padroni, per
creare un pensionato dove la donna di servizio abbia diritto di ritirarsi a vivere con dignità.
Per offrire gratuitamente ospitalità alle ricoverate bisognava pensare a una qualunque attività che potesse
essere esercitata da esse stesse. Anche in questo appare evidente l’oculatezza del Faà nella scelta del luogo:
la proprietà infatti, confinava con il canale del Valentino, il che avrebbe permesso lo sviluppo di qualche
attività industriale. Egli pensava al lavoro delle lavanderie e di fatto con il suo spirito di osservazione e la sua
genialità, impiantò all’interno dell’Opera una «lavanderia modello», costruita secondo esperienze e studi fatti
in Francia e in Inghilterra.
Oltre a tenere così occupate le ospiti, Francesco provvedeva al loro sostentamento: gli furono affidati lavori
di bucato e stirerie dal Municipio, dall’Accademia Militare e dalle FF.SS.
Gli toccò assumersi personalmente la direzione della casa, perché non ottenne, come era suo
desiderio, alcune suore dell’Oeuvre des Servantes di Parigi, per dirigere l’istituto però,
associandosi prudenzialmente al can. Borselli di Riffredo ed a una certa signorina Merletti, l’uno e
l’altra garanzia agli occhi del mondo ecclesiastico e di quello civile di un’onesta conduzione
dell’opera.
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Dopo di loro, durante gli anni ’60, fu un quasi
continuo avvicendarsi di sacerdoti e di signorine che,
gratuitamente o per un tenue compenso, curavano
l’assistenza spirituale e quella materiale delle
ricoverate.
Nella mente del fondatore il passaggio delle ospiti
nel suo istituto doveva segnare una ripresa del loro
impegno cristiano, per cui l’Opera fu organizzata fin
dall’inizio su base d’intensa vita spirituale che
possiamo riassumere nel motto adottato quasi
contemporaneamente all’apertura della casa:
Pregare – Agire – Soffrire.
(Afferma il primo biografo il can. Berteu, che «il
suo Istituto pareva un Monastero», ovunque
silenzio, laboriosità, preghiera.)
Per rimarcare il carattere religioso e morale
dell’iniziativa volle che la sua fosse un’Opera pia,
che nascesse sotto il patrocinio della protettrice e
modello delle serve, S. Zita, cui fu intitolata, e che
venisse ufficialmente inaugurata nella festa della
Purificazione della Vergine.
Targa ricordo dell’acquisto della casa
Partendo da Piazza Statuto vicinissima alla
Stazione ferroviaria di Porta Susa, percorrere
la Via S. Donato e dopo la Parrocchia
dell’Immacolata Concezione e S. Donato, oltre la Via
Saccarelli, al n° civico 31 si trova l’Istituto delle Suore
Minime comprendente: La Chiesa di N.S. del Suffragio, il
Campanile, il Museo, la Biblioteca.
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10. LA CHIESA
di Nostra Signora del Suffragio
È alla metà del sec. XIX che sorse in Torino la
Chiesa di N. S. del Suffragio, della quale
prendiamo a parlare. Il Cav. Faà di Bruno, nel
suo pensiero d’artista e con il cuore pieno di
fede aveva già da tempo fermato il proposito
che, sotto gli auspici di Maria, fosse sorta la chiesa
del Suffragio luogo speciale di preghiera per le anime
del Purgatorio.
Scriveva il Berteu: «Messo mano al Ritiro o Istituto
di S. Zita, veniva di necessità che il Cav. Faà di
Bruno pensasse ad una Cappella per le funzioni
religiose e le istruzioni delle figlie ricoverate»
La cappella il Faà la volle dedicare a S. Zita, avendo
già alla povera ragazza Lucchese fatto omaggio di
tutta l’Opera sua, perché la proteggesse dal cielo.
Però a mano a mano che la casa si veniva
allargando, il Faà incominciò a pensare che una
nuova chiesa sarebbe stata necessaria, sia per le
sue varie famiglie, sia per gli abitanti della zona.
Facciata esterna della Chiesa
di N. S. del Suffragio
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Il Borgo S. Donato nel 1536 fu distrutto dai Francesi e con esso anche le quattro chiese esistenti che non
furono più edificate, e quando il Faà iniziò la sua Opera, in S. Donato non vi era che una piccola cappella
aperta al culto dal Teol. Saccarelli il 6 aprile 1850, dedicata alla Sacra Famiglia.
Decisa la costruzione della chiesa, bisognava decidere sotto quale titolo sarebbe stata dedicata. Faà di
Bruno devoto dell’Eucaristia, della Vergine, e sentiva in cuore una profonda pietà per le anime del
Purgatorio, perciò il titolo della chiesa s’erse spontaneo e sarà: Nostra Signora del Suffragio.
Nel 1867 se ne incominciò la costruzione con la fabbricazione del coro che servì a Cappella privata
dell’Istituto. Nel 1869 iniziarono le fondamenta della Chiesa verso via S. Donato portando i muri perimetrali
e le colonne a circa quattro metri fuori terra e gettando le volte che dovevano coprire i sotterranei.
Furono poi sospesi i lavori per tre anni per mancanza di fondi. Per quanto da ogni parte gli pervenissero
offerte per la sua Chiesa, le spese erano tali che l’entrata era ben lungi nell’avvicinarsi all’uscita, perciò i
suoi appelli si andavano moltiplicando. In uno di questi fogli che lanciava per il mondo per ottenere aiuto,
scriveva:
«Le anime del Purgatorio in questi tempi sono assai abbandonate. L’egoismo si concentra su di noi, e
dimentichiamo chi soffre nell’altro mondo».
Nel 1875 lanciava un appello ai cari commilitoni dell’Accademia Militare. Il soldato che aveva veduto a
centinaia cadere i prodi nelle guerre del 1848 e 1849, pensava che molti di questi eroi, che generosamente
avevano dato la vita per la grandezza della patria, erano dimenticati. Scriveva:
«Vogliate permettere ad un antico vostro condiscepolo e commilitone, d’indirizzare una
preghiera… Mi farò animo pertanto a parteciparvi che, commosso dell’abbandono in cui giacciono
tanti poveri defunti, soprattutto tante vittime mietute dalle ultime guerre, divisai sin dal 1863 di
aprir loro un Santuario di preghiere e di espiazione».
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[…] «Qui, mentre l’oblio del mondo ben presto copre di sua indifferenza anche i più splendenti allori, la
prece del credente intercederà per secoli pietà e misericordia ai nostri fratelli d’arme».
Il 31 ottobre 1876, benedetta dall’Arcivescovo di Torino Mons. Lorenzo Gastaldi, la Chiesa di Nostra Signora
del Suffragio veniva aperta al pubblico. Torino ne rimase ammirata!
Una delle grandi concezioni artistiche del Vercellese conte Arborio Mella, reputato tra i più intelligenti cultori
dello stile antico gotico-romano, passava alla storia.
La Chiesa, in stile romano-bizantino, a tre navate,
con il suo ampio e elegante matroneo, dove poteva
intervenire l’Istituto nelle sacre funzioni senza
accomunarsi col popolo, ha in una nicchia al di sopra
dell’Altare maggiore, il simbolico e magnifico gruppo
di marmo di Carrara rappresentante la Vergine,
poggiata sulle nubi, le sue mani distese verso il
Purgatorio, e gli occhi fissi al Cielo in atto di
domandare pietà.
Ai suoi piedi sono inginocchiati due angeli:
uno presenta a Maria la Croce che
redense, l’altro sembra versare da un
calice il Sangue Divino sulle Anime che per
quel Sangue dovevano essere salvate.
Vista interna, verso organo,
della Chiesa di N. S. del Suffragio
A destra ed a sinistra dell’Altare maggiore
due scene del Vecchio e del Nuovo
Testamento dimostranti la verità del
dogma del Purgatorio.
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Le particolari devozioni del Faà sono manifestate nei due altari laterali dal Transito di S. Giuseppe e dalla
Transverberazione di S. Teresa d’Avila. Tutto intorno alla Chiesa sono otto dipinti del geniale Cav. Luigi
Balbo, suggeriti dal Faà di Bruno, tratti dalla Storia sacra ecclesiastica.
La splendida Via Crucis, opera
del Cav. Gauthier, reputata tra
le più belle della nostra città.
I STAZIONE
Pulpito in marmo
XII STAZIONE
Quando la chiesa fu aperta al pubblico due cose mancavano ancora: l’organo e il pulpito di
marmo: pulpito da lui stesso progettato, degno compimento dell’architettura del Tempio. Questo
non potè essere collocato che dopo la sua morte, nel 1890. Ma l’organo venne inaugurato nel
1883.
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La chiesa si allinea nella parte della facciata al filo strada sulla quale si affacceranno le case del borgo.
Come voleva il Faà, divenne così la chiesa di tutti, senza barriere verso il traffico stradale, aperta a tutta
la comunità che vi può confluire ad ammirare le testimonianze della fede all’interno.
La facciata esterna si presenta con una rigorosa purezza, nell’ascetismo teso e terso di una composizione
castigata e pura che contrariamente all’interno, poco concede al richiamo ed alla compiacenza decorativa.
La luce costante del settentrione ne accentua l’austerità, contrapposta alla vivacità e alla diversa altezza
delle case componenti la via che curva verso piazza Statuto.
Il piano frontale da cui partono le tre navate interne si
presenta come una superficie tripartita da pilastrature,
mentre nelle parti laterali, degli archetti sottostanti a un
marcapiano denunciano lievemente l’esistenza dei
matronei all’interno. La parte centrale che evoca la navata
più alta è illuminata da un portale di ingresso in pietra
chiara, poco rilevato dalla superficie in cotto. Al piano
terreno, nelle due ali (ed a mezza altezza) si apre una
finestra alta e terminante con un arco a tutto sesto.
Nella parte centrale due altre interrompono il fitto
tessuto della facciata. Nella parte superiore tre occhioni
che riprendono il numero trinitario, sovrastati da una
croce formata da un occhio centrale contornato da altri
quattro più piccoli, terminano di forare la superficie.
Unico momento pittorico è la lunetta dove è
rappresentata l’Addolorata. La facciata si lega alla
cupola con la navata centrale e il tetto, diverso però il
materiale non più cotto, ma intonaco ocra.
L’Addolorata
(sull’entrata della Chiesa di N.S. del Suffragio)
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Una statua in rame dorato della Vergine del Broggi
domina dalla cupola tutto l’edificio.
IL VOLTO
DELLA VERGINE
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11. IL CAMPANILE
Sarebbe
opportuno considerare più
profondamente la decisione del Faà di
farsi ingegnere, progettista, calcolatore e
costruttore, cosa che avvenne per
l’ideazione e la realizzazione del
campanile. Nulla forse, meglio di questa opera, di cui
restano solo pochi appunti grafici di mano del Faà,
testimonia la sua «rottura» con la cultura
architettonica e «manieristica» dell’epoca ed il
tentare un nuovo modo di costruire, svincolato da
dettami di scuole, tutto appoggiato alla «scienza» ed
alla tecnica tecnologica del suo tempo.
Doveva averne avuto abbastanza dei burrascosi
rapporti con progettisti, (aveva avuto divergenze
d’idee con il Mella sulla costruzione della Chiesa,
scriveva quest’ultimo: «… le idee che Ella mi dà per
compiacere i divoti saranno buone pel Paradiso, ma
per l’arte ordinariamente no! Il Ciel ci scampi dal
gusto di sagrestia…».) e pensò a una sua stretta
collaborazione con piccoli impresari, capimastri,
muratori e fornitori da lui direttamente guidati ad
indirizzati.
…lo progettò, lo realizzò, ne progettò il concerto
campanario e il meccanismo dell’orologio…
Impegnato in moltissime attività e conduzioni, doveva essere non poco gravoso impegno per il
Faà, intraprendere una avventura come l’elevare un altissimo campanile di 75 metri.
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Inoltre voleva essere, come sempre per lui l’opera architettonica, anche uno strumento astronomico. Era un
vero elemento cosmico che esulava dal senso della misura neo-romanica, pensato in relazione alle altezze
dei monti che idealmente si possono traguardare da quell’ altezza, come dimostra un appunto di sua mano
riportante l’altezza di alcuni punti geodetici sul livello del mare, come il monte Civrari, il campanile dell’antica
parrocchia di Rivoli, il Frejdour, il Rocciamelone e il Monviso.
Il campanile era posto al centro di questo sistema, e da due piastre di marmo con tacche indicanti il Nord
ed il Sud, e da uno studiolo tutto intonacato ed attrezzato con un tavolino, pare di poter indurre che anche
qui si svolgeva una osservazione degli astri. Strumento quindi anche geodetico ed astronomico.
Ma non solo. Occorre rifarsi a quella che era la cultura e la sensibilità del tempo per uno strumento sonoro
come il campanile e quale era il senso delle campane nella Torino di quel tempo. La cultura della
restaurazione ha con l’opera di Chateaubriand rilanciato il valore delle campane il cui uso era stato
interdetto per dieci anni.
Il brano sulle campane, nel “Gènie du Christianisme”, ha ampiamente influenzato questo settore dell’arte
delle chiese. L’intenzione di porsi come antipolo della Mole Antonelliana, pensata originariamente come
sinagoga, salta agli occhi anche nelle diversità, sia di concezione, che di volumetrica e di finalità.
Il campanile a quel tempo nell’ambito urbanistico cittadino si presentava come il più alto della città. Risulta
anche che il Faà fosse in contatto con il Cav. Benazzo e con l’Antonelli, infatti in una lettera al Sindaco di
Torino datata 14 luglio 1884 relativa alla solidità del campanile, il Faà scriveva:
«… verso il 1877-78 vennero ingegneri municipali coll’incarico di verificare la solidità delle costruzioni, e
nulla avendo trovato da ridire, non se ne parlò più. Né poteva essere altrimenti, poiché io aveva consultati
assai per tempo nell’inizio dei lavori gli esimi Ingegneri Cav. Benazzo e Cav. Antonelli, le cui parole
lusinghiere furono per me di grato incoraggiamento».
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La caratteristica fondamentale del campanile è costituita dalla cella campanaria, che non è posta alla
sommità, ma a metà altezza dalla cima del campanile. Oltre a questo, presenta una caratteristica, cioè quella
della discontinuità del materiale di cui è costruito. Infatti, giungendo alla cella campanaria, il Faà per
ottenere il massimo di volume libero per le onde sonore, annulla i pilastri angolari portanti e tutte le zone di
tamponamento e li sostituisce con 32 colonnine in ghisa, fissate a piastre metalliche a loro volta connesse
alla muratura con effetto d’incastro.
Riesce così ad accumunare alcuni risultati che pare gli siano stati molto a cuore:
a) In primo luogo sfruttare al massimo la propagazione per le onde sferiche concentriche del suono verso
tutte le direzioni;
b) Applicare il concetto, rivoluzionario per i
tempi, di una manutenzione per sostituzione
di elementi portanti metallici direttamente
esposti alle intemperie della pioggia, dei
venti, e di tutti gli agenti atmosferici;
c) Rendere totalmente interpenetrata la
struttura metallica con lo spazio occupato,
immergendo come poi farà G. Eiffel
totalmente nell’atmosfera, togliendo qualsiasi
involucro per quanto leggero e trasparente.
Dettaglio della cella campanaria
con alcune delle 32 colonnine in ghisa
La pressione del vento infatti, che
trova resistenza nella parte bassa
incastrata nel terreno ed in quella
superiore alla cella campanaria, qui
può defluire senza provocare
sollecitazioni.
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Sopra queste colonnine in ghisa, riprende la struttura
in muratura, mantenendo ancora per un tratto la
forma stereometrica della parte sottostante. Poi, con
raccordo a pennacchi interni, passa dalla pianta
quadrata a quella ottagonale, riprendendo il motivo
conduttore della cupola della chiesa, ottagonale
anch’essa e riproponendo per le aperture e per le
nicchie ove sono collocate le statue dei santi, la
stessa forma ed un analogo rapporto delle finestre
della cupola.
Si previene così ad un secondo terrazzino da cui si
erge la guglia ottagonale con quattro aperture di
uscita e sorreggente un globo sul quale l’arcangelo
Michele con la tromba annuncia la resurrezione dai
morti, coronando così l’edificio con la tematica
programmatica che ha originato la chiesa.
Il campanile è un protagonista del Borgo e poteva
essere visto sin dalla Dora e dai terreni ad essa
degradanti. Ancor oggi, dopo che attorno sono
venuti a costruirsi i diversi quartieri, appare
tagliato dai tetti sui quali emerge con il vuoto della
cella campanaria.
Cupola Chiesa con Campanile
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Esso è simbolo e la summa della volontà e della scienza del Faà, che lo progettò, lo realizzò, ne progettò il
concerto campanario, e il meccanismo dell’orologio che doveva essere visibile anche la notte, a misurare il
fluire del tempo.
L’Arcangelo
Michele
Il
Campanone
Campana, del concerto campanario con incisi i
nomi della Famiglia dei Faà di Bruno
(riproduce la nota FA)
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Presentazione di PowerPoint