1 Francesco Faà di Bruno 2 Una vita nella storia 3 La Famiglia 4 L’infanzia 5 Il Collegio di N. Ligure L’Accademia Militare 6 Il Soldato Esperienza francese 12 Il matematico Un esempio profetico 13 Il Prete… Il Padre 8 Un laico cristiano 14 La Biblioteca 9 Un Fondatore 15 Il Museo La Chiesa 16 7 10 11 Il Campanile Opere e Pubblicazioni, Bibliografia Ringraziamento, Indice, Piantina luoghi Faà di Bruno 7. ESPERIENZA FRANCESE gli incontri, lo studio, l’esempio Il Faà di Bruno visse a Parigi in due periodi successivi e distinti, come in precedenza si è accennato, intervallati da due anni, in cui fu a Torino. Diamo una cronologia di quegli anni, permettendo così al lettore di seguire meglio la trama di questa esperienza, che ha mutato la vita del brillante Capitano del R. Corpo di Stato Maggiore. All’inizio di ottobre del 1849 il Ministro della Guerra e Marina dispensava Francesco dal servizio al Corpo. Il 26 dello stesso mese egli parti per Parigi, alloggiò in un piccolo appartamento di rue de Petit Bourbon, nella parrocchia di S. Sulpizio. Durante il 1850 si dedicò agli studi: acquistò libri per la scuola e pubblicò due articoli scientifici. Il 10 marzo 1851 conseguì alla Sorbona la licenza in Scienze Matematiche e l’8 maggio successivo gli fu rilasciato il diploma. Nei mesi successivi restò a Parigi: si occupò della stampa della sua carta topografica del Mincio e di Peschiera e si interessò della tecnica fotografica allora agli inizi, la «dagherrotipia». Nell’autunno si recò a Londra insieme ai quattro fratelli per visitare l’Esposizione Internazionale. Alla fine di dicembre ritornò a Torino, stabilendo la sua residenza in Via del Belvedere 3, presso la chiesa delle «Sacramentine», sotto la parrocchia di S. Massimo. Riprese quindi il servizio militare. Nel 1852 – ’53 pubblicò articoli scientifici. Ad Alessandria fondò una Conferenza di S. Vincenzo. Nel maggio 1854 ripartì per Parigi, dove prese dimora al 6, Impasse des Feuillantines. Ritornò alla Sorbona per ottenere il dottorato in Scienze. Negli anni 1854 – ’56 pubblicò numerosi articoli scientifici e il 20 ottobre 1856 presentò alla Sorbona le due tesi firmate da Cauchy. Negli ultimi giorni di quell’anno ritornò a Torino e riprese il suo alloggio di Via del Belvedere. 39 La Parrocchia di S. Sulpizio Abitando nei pressi, il Faà di Bruno, cominciò a Parigi – Chiesa Parrocchiale di S. Sulpizio «Dans ma paroisse de S. Sulpice je me suis trouvè au milieu du plus grand bien» [lett. Alla sorella Maria Luisa, Paris 8.10.1850] frequentare la Chiesa parrocchiale di S. Sulpizio, e il contatto con l’intensa vita religiosa che in essa si svolgeva destò in lui una profonda ammirazione. Con queste parole confidava alla sorella le sue impressioni: «… Per la gloria di Dio invece di trovarmi in mezzo al male, come tanti altri, io mi sono trovato al centro di un gran bene [inizio vocazione?]. Io sono vergognato davanti a tanta pietà. I buoni cristiani non sono tanti, ma sono eccellenti. Per farti un’idea ti dico che nella mia parrocchia S. Sulpizio vi sono 40.000 anime, ci sono più di 100 comunioni tutti i giorni. Spero che, grazie a Dio, tu mi troverai molto cambiato al mio ritorno…». Quella parrocchia era distinta tra le parrocchie di Parigi per il livello culturale dei sacerdoti responsabili e per il fervore delle fiorenti iniziative pastorali: essa viveva sotto la suggestione dell’annesso seminario. I maestri spirituali erano i classici della scuola francese del XVII secolo. A S. Sulpizio quella spiritualità – centralità della presenza divina, della sua volontà e gloria ma soprattutto il richiamo all’imitazione di Cristo, adoratore del Padre – era insegnata e vissuta secondo il metodo dell’Olier, che del seminario era il fondatore. Il parroco era l’abate Andrè Jean Marie Hamon, creatore di opere, direttore spirituale e scrittore ascetico. Aveva fondato in parrocchia delle scuole, l’Oeuvre de N.D. des Etudiants, e vari istituti caritativi, tra cui ospizi per anziani. 40 S. Sulpizio era anche un «rendez-vous» di uomini d’azione caritativa e sociale, che si erano raccolti attorno al parroco Hamon, quello che il Faà chiamò «il prete dei poveri» [in «Il Cuor di Maria», 25 febbraio 1875]. Faà di Bruno conobbe anche le organizzazioni cattoliche legate alla parrocchia, come: - l’Oeuvre des familles, nata per assicurare alle famiglie istruzione religiosa, nel ’48-’49 si trasformò in istituzione a carattere assistenziale. - Una sezione della Società di S. Francesco Saverio, fin dal 1840 vigorosa organizzazione di carattere mutualistico e di educazione popolare che cercava di prevenire la scristianizzazione degli operai. - La Conferenza di S. Vincenzo, nel 1848 aveva dato vita a S. Sulpizio ai «fornelli economici» per i poveri, e nel 1849 nella parrocchia erano state distribuite 120.000 minestre. Un altro fatto poteva colpire il giovane studente piemontese, era la rilevanza che si dava alla liturgia, alla musica e al canto sacro nella chiesa parrocchiale. L’esempio di vita dei cattolici di S. Sulpizio esercitò su di lui un forte richiamo alle responsabilità personali; quello che colpì soprattutto la sua attenzione fu la presenza di laici impegnati nelle istituzioni cattoliche della parrocchia. Chiesa Parrocchiale di S. Sulpizio (oggi) 41 Il Barone Agostino Cauchy Francesco era giunto a Parigi per approfondire gli studi di matematica frequentando i corsi alla Sorbona. Qui incontrò come maestro il barone Agostino Cauchy. Questi gli assegnò le tesi, una di matematica, l’altra di astronomia; lo fece entrare in rapporto con i maggiori matematici del tempo e gli avrebbe anche ottenuto l’ingresso all’Osservatorio astronomico di Parigi diretto da Le Verrier. [dal Condio p. 53, «Il Le Verrier, quegli che con la precisione del calcolo, prima che gli altri colla potenza del telescopio, scoprì l’esistenza del pianeta Nettuno; astronomo profondo che segnò il passo a quelli che vennero dopo di lui…] Del Cauchy il Faà seguì i corsi, apprezzò l’ingegno e se ne fece una sorta di modello ideale di matematico. Non solo: per lui il professore della Sorbona non fu soltanto il dotto che con le sue 789 pubblicazioni aveva rivoluzionato la scienza dei numeri, fu anche l’uomo di condotta onesta e di pietà operosa. E quando, il 22 maggio 1857, morì a Sceax, presso Parigi, l’allievo gli dedicò una serie di articoli, apparsi su «L’Armonia», il giornale cattolico conservatore di Torino. Il matematico Agostino Cauchy «… un uomo, di cui solo forse la posterità comprenderà la sublime grandezza; poiché fu SANTO insieme e SAPIENTE» Ma ciò che lo studente piemontese ancor più apprezzò del Cauchy era «l’uomo di religione». Per lui, questo aspetto della vita del matematico francese presentava dei particolari caratteri cattolico-sociali: «… benché oberato d’ogni sorta d’occupazioni, trovava nondimeno il tempo ed un cuore per andare a visitare i poveri nei loro tuguri; che anzi ogni domenica usava lasciare Parigi per assistere ad una Conferenza di S. Vincenzo, situata ad otto miglia di distanza, da lui iniziata. 42 Molto si adoperò per la diffusione della società di S. Francesco Regis; caldamente promosse quella per la santificazione delle feste, ed egli solo, cosa veramente prodigiosa, riuscì a far chiudere nei dì festivi circa 60 magazzini nella via Richelieu». L’attività cattolico-sociale di Cauchy si esplicò fino dal 1820 nella Société des Bonnes Oeuvres. Egli fece poi parte della Société de Sant François-Xavier, visitando con gli amici, tra cui il Moigno, le parrocchie di Parigi e parlando agli apprendisti e agli operai, nella prospettiva dei «patronage» che la Società promuoveva. Gli articoli del Faà di Bruno ricordano giustamente l’attività del Cauchy a favore del riposo festivo dei lavoratori. Fu certo attraverso il Cauchy, che Faà di Bruno incontrò Baudon e poté entrare nell’ambiente della «Conferenza di S. Vincenzo» di Parigi. L’abate Moigno Tra i personaggi di un certo rilievo che ruotano intorno alla figura di Cauchy, da molti anni vi era l’abate F. Moigno. Il Faà di Bruno lo conobbe probabilmente alla Sorbona; tra i due nacque allora una profonda amicizia che durò fino alla fine dei loro giorni. Nato a Guemémené nel 1804, il Moigno era entrato nella Compagnia di Gesù nel 1822, ne uscì nel 1843. Cultore di scienze matematiche, fisiche ed astronomiche, lasciò numerose pubblicazioni. Fondò e diresse ben due riviste, prima «Cosmos», e poi «Les Monde». Di fronte alle pretese antireligiose del positivismo, operò il massimo sforzo di conciliazione tra scienza e fede con 4 volumi di Les Splendeur de la Foi. Abbiamo ragione di ritenere che l’influsso dell’ex-gesuita sul nostro Francesco si sia esercitato almeno su tre piani: cattolico-sociale, politico-religioso, religiososcientifico. Il Moigno si era a lungo dedicato alle opere cattolico-sociali di Parigi; era stato uno dei fondatori della Société de Sant François-Xavier e in essa aveva collaborato spesso con Cauchy. 43 Sul piano politico-religioso, l’incontro tra Francesco e l’abate francese fu oltremodo semplice e senza divergenze. Negli anni successivi al ’48 soprattutto nei primi del II Impero, che Moigno, come il folto gruppo di francesi che ai tempi della Monarchia di Luglio si erano battuti per la libertà dei cattolici, seguì l’esempio di Montalembert e, dimenticando le grandi idealità democratiche del 1830, si adagiò nel solco della reazione. Quella del Moigno, insomma, è una delle voci dei cattolici che si impegnano, insieme ai laici riuniti intorno a «L’Univers» e sotto la guida di Montalebert, lottano con asprezza sempre crescente contro il monopolio universitario, detenuto dai partiti al potere. Rappresentati dell’alta borghesia volterriana, questi non vogliono concedere ai cattolici neppure la libertà dell’insegnamento secondario. Sul piano religiososcientifico si postula un’influenza sul Faà. Il Moigno è un uomo religioso, e come tale non può non credere ad una scienza che neghi la sua fede: lo scienziato faccia il suo mestiere senza preoccuparsi direttamente se le conclusioni della sua ricerca siano in armonia con i dogmi della Rivelazione. In realtà, egli pensa: se lo scienziato è mosso da un disinteressato desiderio di verità, e non già da pregiudizi filosofici, la sua «verità scientifica» non sarà mai in contrasto con la «verità religiosa». Una sola è la Verità: è il punto di partenza di tanti polemisti e apologisti cattolici del secondo Ottocento. Il Moigno, tuttavia è lontano dagli eccessi polemici e razionali di altri scrittori, soprattutto perché egli non è un filosofo ma un cultore di scienze. L’abateL’abate-scienziato F. Moigno «… la vastissima sua mente [realizzò] una sintesi di tutte le armi di difesa, che le scienze possono prestare alla religione colla sua opera immortale Les Splendeurs de la Foi, che noi per primi facemmo conoscere all’Italia. (Il Cuor di Maria, 1.8.1884) 44 Il Padre Armand de Ponlevoy Nel primo anno di permanenza a Parigi del Faà di Bruno i contatti con ambienti di ispirazione cattolica furono molteplici. Non ci stupiamo quindi che egli sia entrato in famigliarità con le associazioni mariane, con i Gesuiti predicatori di ritiri spirituali, con il movimento devozionale; e neppure che abbia rivolto la sua attenzione ai libri di apologetica del tempo, alle letture spirituali ed ascetiche. Non è improbabile che sia stato lo stesso Cauchy, legato come fu alla Compagnia di Gesù, ad introdurre lo studente piemontese nell’ambiente dei Gesuiti di Parigi di rue de Sèvres. Il nostro Francesco intavolò degli stretti legami con il Padre de Ponlevoy. Il rapporto tra i due aveva trovato origine probabilmente nella pratica degli «Esercizi spirituali» ai quali Faà di Bruno partecipò. Il Ponlevoy, infatti, oltre che autore di biografie spirituali, era anche un celebre predicatore degli «Esercizi» ignaziani, come risulta dal suo Commentaire postumo. Questo Gesuita era arrivato a Parigi verso la metà del secolo, ed era diventato uno dei confessori più ricercati. In quel periodo era direttore spirituale di circa trecento giovani. In questo quadro di ministero pastorale egli divenne l’amico e il confessore di Francesco. La partecipazione agli «Esercizi» e la familiarità con i Gesuiti di Parigi di quegli anni ha certamente lasciato una traccia nella vita del Faà. Si osserva così che il tema della «gloria di Dio» o meglio della «maggior gloria di Dio», diventa il punto di riferimento centrale dei suoi pensieri spirituali di quel tempo. Scriverà nel quaderno «Considerazioni»: «Quanto vi adoro, Dio incarnato! […] Da tutta l’eternità voi avete visto che gli uomini innocenti o peccatori erano incapaci di darvi la gloria che vi era dovuta, e voi avete altresì determinato da tutta l’eternità d’assumere la loro natura al fine di deificarla e renderla capace d’offrire i suoi omaggi o di pagare i suoi debiti a Dio Padre…». 45 Da «Notes», in una lettera che lo studente piemontese trascrisse tra le sue cose spirituali più importanti, ci è illustrata la linea in cui si poneva l’azione del P. de Ponlevoy: «Mio buon e caro amico, siete di Gesù Cristo e vivete per Gesù Cristo, sempre dappertutto, domani come oggi, a Torino come a Parigi. 1° Guardate a Gesù Cristo per una pietà solida e pratica, basata sulla fede, sorretta dalla preghiera, i sacramenti, la devozione alla Santa Vergine, prouvée par la fidélité. Senza essere del mondo quanto a spirito, restate nel mondo quanto aux bienséances. Alla pietà unite il lavoro Cristiano prima di tutto, Cristiano in tutto. 2° Vivete per Gesù Cristo non vi accontentate d’essere buono senza far del bene. Bisogna che vi votiate alla santità… Portate ovunque la croisade nouvelle. Io vi dò l’appuntamento in cielo. Labora sicut bonus miles Christi Jesu, certa bonum certamen et apprehende vitam aeternam». Questa lettera, confermandoci la consuetudine del Faà di Bruno con il gesuita francese, rivela la tematica dei rapporti tra direttore spirituale e il giovane figlio. Il Ponlevoy richiama lo studente della Sorbona, da un lato alla vita interiore basata sulla solida pietà e sorretta dai sacramenti, dalla preghiera e dalla devozione alla Vergine, dall’altro insiste sulle responsabilità inerenti allo stato di vita e alla testimonianza sociale. In questo contesto l’accenno alla «croisade nouvelle», come la scelta della citazione, con la presenza del «miles Christi», rivelano temi caratteristici della tradizione, della Compagnia e richiamano, con termini significativi, un programma di riconquista religiosa, alla quale il soldato Faà di Bruno dimostrerà di non essere insensibile 46 Non ultima la Società di S. Vincenzo, certamente ispiratrice delle sue varie opere nella capitale del piccolo Regno di Sardegna. Francesco Faà di Bruno era in contatto con la Società di S. Vincenzo ancor prima di arrivare nella capitale francese: secondo l’uso della Società un confratello gli aveva dato la lista degli alberghi più raccomandabili della città e lettere di presentazione per il Consiglio Generale. Non sappiamo se il Faà ne facesse già parte ne chi sia stato il tramite di unione: alla sua partenza da Torino nel ’49 la Società non aveva ancora messo piede nella città, pur essendo già presente negli Stati Sardi. Certo conobbe i favori della S. Vincenzo e dei suoi dirigenti, se è vero che gli fu trovato alloggio nella stessa casa dove la Società era stata fondata. Conobbe anche il suo fondatore: F.A. Ozanam. Il contatto con la Società ebbe per lo studente piemontese una importanza fondamentale. Gli fece scoprire il problema della povertà e della miseria, e, insieme gli additò delle soluzioni che erano accolte con favore dalla sua mentalità in quanto implicavano un grande impegno religioso, con esclusione delle diatribe politiche. Egli dovette anche ammirare l’organizzazione di questa associazione di azione cattolica, la sua frenetica attività sociale – ostelli per gli apprendisti, pensioni per operai, opera miglioramento alloggi, cassa fitti, opera di collocamento, cassa di mutuo soccorso, opere di patronato, corsi serali – e le opere caritative-religiose: sale asilo, orfanotrofi, catechismo, visita ai poveri, ai prigionieri, ai condannati a morte, agli ammalati, distribuzione dei «buoni» alimentari… Dopo questa esperienza si sentì in dovere, al primo ritorno a Torino, di farsi promotore della Società fondando una «Conferenza» nella città natale, Alessandria. F.A. Ozanam (1813 – 1853) Ozanam «le type du laïque chrétien», principale iniziatore delle Conferenze di S. Vincenzo e vicepresidente generale della Società, aveva scelto come sua la conferenza di Saint-Germain des Prés. Faà di Bruno si aggregò a questa conferenza divenendone uno dei membri attivi. 47 Un esempio profetico “Fu veramente un profeta in mezzo al popolo di Dio, a cui appartenne come laico per buona parte della sua vita… un gigante della fede e della carità”. Giovanni Paolo II Roma, 25 settembre 1988 In quel settembre romano del 1988, Giovanni Paolo II collocò il nostro Francesco nel numero di quei laici profetici che la Provvidenza invia in mezzo al popolo di Dio per indicare la via, per dare un indirizzo alla vita e con nel cuore una fede incrollabile. Giovanni Paolo II proclama Beato “Francesco Faà di Bruno” Ecco, la Chiesa ci offre un suo figlio come modello, per noi oggi, qui negli stessi luoghi dove Lui ha operato, gioito, sofferto, ma dove ha soprattutto amato con quell’Amore evangelico che si chiama Carità. 48 Abbiamo in queste pagine guardato le radici di una scelta, singolare per quei tempi, ma pur sempre sostenuta da un discernimento d’intelletto e di una fiducia nella Provvidenza non comuni, ma certamente carica d’insegnamento per camminare sulla strada del Vangelo. Francesco è lì, come una testata d’angolo, ad indicare ai laici cristiani come si può arrivare dove è arrivato Lui. Si può realizzare nel silenzio ed anche nelle contrarietà il progetto che il Dio di Gesù Cristo ha su ognuno di noi. Oggi Francesco Faà di Bruno sembra dirci che non conta avere tanti o pochi talenti, ma quello che conta è adoperarli per essere “utile agli altri”, alla società in cui si vive, cioè vivere la nostra quotidianità con quello “stile” che aveva Lui; i piedi su questa terra, ma la mente ed il cuore in cielo, che fuori di metafora significa guardare a Gesù Cristo: Unico Salvatore. Da questo punto in avanti il nostro guardare a Faà di Bruno sarà come riferirsi ad un modello di realizzazioni che hanno come obiettivo il raggiungimento di quel Regno che già da adesso è in atto come ci dice la Scrittura, prendendo come esempio Francesco, guardando a Lui, come Lui guardò “all’esperienza ed alla testimonianza” di tante persone incontrate negli anni della sua maturazione culturale e religiosa. È con questo modo di procedere che vogliamo camminare sulle “orme” di Francesco Faà di Bruno. Faà di Bruno in preghiera Olio su tela (P.G.Crida – 1942 - ) 49 8. UN LAICO CRISTIANO impegnato nel sociale Siamo alla fine dell’anno ’56 quando Francesco Faà di Bruno ritornò definitivamente nella Capitale del Regno prendendo alloggio in Via del Belvedere 3, presso la chiesa delle «Sacramentine» sotto la parrocchia di S. Massimo. A quasi 32 anni egli è a Torino, laureato in una Università prestigiosa, con una cultura socialecaritativa e religiosa di prim’ordine, vista, praticata e vissuta in quella parrocchia Parigina di S. Sulpizio, distinta tra le altre di quella città per il livello culturale e il fervore delle sue iniziative pastorali. A Torino la sua azione inizia come apostolato laicale a difesa e riconquista della società al messaggio cristiano, anche per andare incontro alla novità della situazione politico-religiosa del Piemonte rispetto al passato, novità uscita dalla riunione dei Vescovi della provincia ecclesiastica torinese tenuta a Villanovetta per affrontare le cause e prevedere gli opportuni rimedi alla crisi religiosa che aveva diviso il clero e filtrava ormai sempre più dalla borghesia e dalla stampa libera tra il popolo. Partendo dalle Scuole di Applicazione D’Arma, Via dell’Arcivescovado angolo Via Arsenale, si percorra la via dell’Arcivescovado e oltre Via Roma, Via Cavour fino a P.zza Cavour. In fondo alla piazza a destra percorrere la Via Fratelli Calandra, incrociando Via dei Mille, sull’angolo sinistro si trova la Chiesa di S. Francesco di Sales (ex Sacramentine) e proseguendo fino a Via Mazzini svoltando a destra all’incrocio con Via S. Massimo si trova la Chiesa di S. Massimo. Su questa linea il laico Faà di Bruno, dopo la straordinaria esperienza francese, si fa strumento di apostolato, cominciando un’intensa operazione di animazione nel campo della buona stampa, interessandosi ai problemi dell’educazione religiosa della gioventù ed alle necessità morali e materiali dei poveri. 50 Fu nell’impatto con il cattolicesimo parigino, molto fervente, e con le conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, attivissime, che comprese la necessità di essere cristiano non solo per se stesso, bensì al servizio degli altri divenendo operatore della carità cristiana tanto spirituale che materiale. L’amicizia di personaggi eminenti del cattolicesimo caritativo-sociale gli fu da stimolo a mantenersi nella via intrapresa. Il mondo cattolico-sociale parigino degli anni ’50 gli fornì inoltre criteri e schemi d’azione ed entra perciò nell’elemento costitutivo dell’originalità del Faà di Bruno laico operante in un mondo religioso fortemente clericale, com’era quello torinese a mezzo Ottocento, diffidente verso istituti ed opere non controllate completamente dal clero. L’esperienza Parigina ed in particolare la generosità di tanti confratelli della metropoli che soccorrevano le innumerevoli miserie dei poveri, da quelle più elementari come – cibo, vesti, mobili indispensabili – a quelle più complesse come trovare o dare lavoro ai disoccupati, «patronare» i ragazzi nelle scuole, nelle fabbriche e nei laboratori, raccogliere gli orfani, curare gli ammalati, pagare il fitto dell’alloggio, ecc. – faceva intravedere al giovane capitano la possibilità di applicare queste iniziative nelle conferenze del Piemonte. Ma anche in patria le difficoltà e le incomprensioni non mancavano. Alla fondazione della conferenza di Alessandria, avvenuta per iniziativa di Faà di Bruno il 10 gennaio 1853, furono necessari quasi venti giorni per riuscire a convincere dell’utilità dell’opera uno sparuto gruppo di laici cattolici alessandrini, sette in tutto, tra i quali non figurava neppure uno dei numerosi parenti che Faà di Bruno aveva in città. Nella relazione sulla fondazione inviata dal Faà di Bruno al presidente del Consiglio generale della Società, Adolfo Baudon, appare evidente che, nonostante l’appoggio del clero locale, era stato necessario affrontare un terreno irto di difficoltà. L’impegno del Faà però continuava, era uno dei confratelli più in vista nella conferenza dei Santi Martiri di Torino, unica nella città a marzo 1853, e divenne presto uno dei più influenti. Una persona zelante come lui non poteva non fare opera di proselitismo, così l’aumento degli effettivi fu così grande che, a fine anno, i dirigenti di Parigi consigliarono lo smembramento in altre conferenze: di S. Massimo, della SS. Annunziata, del Corpus Domini. 51 Faà Faà di Bruno fu eletto presidente della conferenza di S. Massimo, alla quale furono assegnate quattro parrocchie con molti poveri e molti problemi religiosi: N.S. degli Angeli, San Carlo, San Massimo, San Salvario. Un territorio comprendente alcune zone bene della città e per il resto un’ampia distesa periferica percorsa da bande di giovani abbandonati a se stessi ed abitata da una popolazione così indigente e bisognosa di tutto. Chiesa di S. Massimo Via del Belvedere, n. 3 Abitazione del Qui, Faà di Bruno con il suo coro le «figlie di S. Massimo», provvide ad un centro d’incontro per il tempo libero domenicale e occasione di istruzione religiosa e di educazione umana e civile. Faà di Bruno Nel 1856 Ma l’impegno del laico Faà di Bruno non era volto solo alla carità praticata nelle conferenze di S. Vincenzo, ma si sviluppo anche nel campo dell’apostolato attraverso la stampa. Nel ’49 lo troviamo accanto a don Bosco ed a Mons. Luigi Moreno ad iniziare le «Letture Cattoliche»: opuscoli agili, facili, di minimo costo, quindicinali, che corsero a migliaia e migliaia per le mani della gente più semplice contribuendo non poco a mantenere una mentalità cristiana di base. 52 Lanciò anche l’almanacco titolato “Il Galantuomo”, poi ripreso da don Bosco nel ’55. Sempre nell’ambito dell’apostolato per mezzo stampa tradusse e diffuse il Manuel du Soldat Chrètien, che la «San Vincenzo» in Francia distribuiva alle truppe. Stampandolo «grazie ad una sottoscrizione del Re, della Regina, dell’Ordine di S. Maurizio», poté «dare questo libretto di 272 pagine, legato, per 6 soldi!». Il manuale fu inserito negli elenchi dei libri raccomandati dal Consiglio superiore di Genova alle conferenze vincenziane d’Italia. Dopo il 1860, ad imitazione di don Bosco e di confratelli francesi della «San Vincenzo», Faà di Bruno cominciò a dare alle stampe numerosi opuscoli, libri religiosi e morali, più o meno popolari, e nel ’69 diede vita ad una piccola editrice sotto il nome di Emporio Cattolico. Nel 1874 acquistò proprietà e direzione del quindicinale «Il Cuor di Maria» per impedire che, scomparendo, cessasse il bene che faceva; identica ragione lo spinse alla fine del 1883 a rilevare il «Museo delle Missioni Cattoliche», validissimo settimanale missionario italiano della seconda metà dell’Ottocento. Infine, nel 1881, per stampare a basso costo giornali e libri da diffondere tra il popolo, Faà di Bruno ebbe il coraggio d’impiantare una tipografia all’interno degli istituti da lui fondati, dove lavoravano le giovani accolte nel suo istituto. Ringraziamento al Santo Padre Leone XIII per la Benedizione Apostolica alla Tipografia per allieve compositrici e la diffusione della buona Stampa. 53 9. UN FONDATORE in Borgo S. Donato Durante i primi mesi del ’58 Faà di Bruno cercò una casa adatta, senza riuscirvi, non distante dalla sua abitazione, nel Borgo S. Salvario, dove già erano avviati parecchi istituti assistenziali e caritativi. Trovatola rispondente ai suoi desideri all’opposta periferia di Torino, nel Borgo S. Donato, il 31 agosto di quell’anno la comperava, effettuando subito dopo altri acquisti di fabbricati e di terreni, con cui garantire il prevedibile sviluppo della nascente Opera iniziata ufficialmente il 2 febbraio 1859. (Tra acquisti e costruzioni Faà di Bruno spese in pochi anni 175.000 £, cifra rilevantissima ricavata dal suo patrimonio, dal reddito del suo lavoro e dalle offerte chieste un po’ a tutti e dal lavoro organizzato nell’Istituto.) Il Borgo S. Donato era malfamato e abitato da gente molto povera, operai inurbati ed ortolani, confinante con Valdocco del Cottolengo e di don Bosco, ed era tutto compreso nella parrocchia dell’Immacolata Concezione, istituita solo quattro anni avanti. Il teol. G. Saccarelli, fin dal 1850 aveva piantato nei vasti prati a frammezzo agli orti di S. Donato l’Istituto della Sacra Famiglia, prima fra le opere che avrebbero formato una nuova concentrazione caritativa originale: infatti anche il Ritiro di S. Pietro di don Merla, fondato nel ’54, e l’Opera di S. Zita del ’59, nonché la Casa di Misericordia del 1885, si volsero esclusivamente all’esistenza e all’educazione delle diverse categorie femminili povere. Il Conservatorio nel 1886 (da un quadro dell’epoca) 54 Dall’incontro, nell’Oratorio festivo della parrocchia di S. Massimo, con i problemi delle giovani lavoratrici ebbe origine l’idea della Pia Opera di S. Zita. Fu nel ’53 che il Cav. Faà di Bruno ebbe l’ispirazione, essa infatti fu suggerita dalla volontà di introdurre in Torino una usanza, qui pressoché sconosciuta e diffusissima invece in Francia, Germania ed Inghilterra, quella cioè del canto di sacre lodi, cantate in chiesa, al di fuori delle funzioni, o nelle riunioni degli apprendisti, degli operai e nelle adunanze dove veniva insegnato il catechismo. Egli, constata a Parigi l’efficacia del canto di lodi morali e religiose in portentose conversioni, volle utilizzare pure lui la musica con finalità pedagogico-religiosa. Coadiuvato da signore dell’aristocrazia, si diede ad organizzare un coro femminile, cosa decisamente nuova in Torino specie in una chiesa parrocchiale, anche perché a dirigere il coro c’era il Cav. Faà di Bruno, mentre a Parigi erano delle signore a suonare e dirigere il coro. Ma con l’appoggio del parroco, teol. Girola, spianò le difficoltà. I risultati artistici furono poca cosa, a giudicare quanto il Faà scriveva al fratello Alessandro: “Se vieni di Domenica, sentirai cantare le figlie di S. Massimo, che tutte le feste cantano dopo la benedizione le lodi ch’io loro insegno. La mia famiglia è numerosa… e sfortunatamente poco canora.” Le «figlie di S. Massimo» erano povere giovani, incolte di musica e di estrazione sociale non elevata: operaie, domestiche, ragazze di famiglie, che la domenica non avevano dove andare, Faà di Bruno con il suo coro, provvide ad un centro d’incontro per il tempo libero domenicale e occasione di istruzione religiosa e di educazione umana e civile. … Faà di Bruno constata a Parigi l’efficacia del canto di lodi morali e religiose in portentose conversioni…; … è interessante notare che anche don Bosco, nel 1874, volle pubblicare una Scelta di laudi sacre, in un Nota Bene avverte che: «… Le laudi sacre furono estratte dalla Lira cattolica…». Dall’esperienza qui sopra descritta ebbe origine l’Opera di S. Zita. 55 Essa agli inizi s’ispirò come organizzazione al sistema del patronage, attuato allora su vasta scala dagli operatori del cattolicesimo sociale francese, e come tutte le opere di patronato, si trovavano in essa inscindibilmente uniti motivi e aspetti ad un tempo religiosi e sociali, assistenziali ed educativi. Già dall’inizio del ’58 il Faà di Bruno si rese conto di penosissime situazioni materiali e morali cui dovevano far fronte, rimanendone spesso vittima, le frequentatrici della scuola di canto. L’Opera in S. Donato permetteva finalmente di realizzare ciò che spesso era praticato nelle grandi città europee: una casa, sempre aperta ed ospitale, per donne che si fossero trovate nell’immediata necessità di rifugio e nel bisogno d’essere aiutate a trovare lavoro. Aveva constatato che necessità e disperazione spingevano numerose donne di servizio a passi falsi, pagati poi amaramente con una degradazione umana e morale – prostituzione, malattia, delitti – dannosa non soltanto alle interessate ma altresì alle famiglie ed alla società tutta. Il Cav. Faà di Bruno nel suo opuscolo “Sulla moralizzazione delle domestiche”, praticamente il programma dell’Istituto, individuava i punti essenziali per raggiungere un miglioramento morale e sociale della categoria. (Era un’impresa non da poco vista la consistenza delle serve in Torino a quel tempo: 10.000 serve, circa 7000 provenienti dalla campagna con gravi problemi, perché l’inurbata, a differenza della lavoratrice nativa di Torino, manca d’appoggio materiale e morale.) 56 Per raggiungere il miglioramento della categoria occorreva: 1°) Maggiore senso di responsabilità dei padroni nei confronti dei loro doveri verso le dipendenti sia per quel che riguarda l’aspetto economico e materiale come anche per la cura morale; 2°) «offrire un asilo alle figlie che sarebbero altrimenti in pericolo», cioè «una casa, ove a qualunque ora del giorno una figlia priva di mezzi e di relazioni possa trovare un sicuro rifugio, un valido aiuto e procurarsi un pane onorato»; 3°) offrire alle lavoratrici della casa la possibilità concreta di trascorrere un’onorata e pacifica vecchiaia. […] Di qui una proposta d’un assicurazione mutualistica tra le persone di servizio, aiutate magari dai padroni, per creare un pensionato dove la donna di servizio abbia diritto di ritirarsi a vivere con dignità. Per offrire gratuitamente ospitalità alle ricoverate bisognava pensare a una qualunque attività che potesse essere esercitata da esse stesse. Anche in questo appare evidente l’oculatezza del Faà nella scelta del luogo: la proprietà infatti, confinava con il canale del Valentino, il che avrebbe permesso lo sviluppo di qualche attività industriale. Egli pensava al lavoro delle lavanderie e di fatto con il suo spirito di osservazione e la sua genialità, impiantò all’interno dell’Opera una «lavanderia modello», costruita secondo esperienze e studi fatti in Francia e in Inghilterra. Oltre a tenere così occupate le ospiti, Francesco provvedeva al loro sostentamento: gli furono affidati lavori di bucato e stirerie dal Municipio, dall’Accademia Militare e dalle FF.SS. Gli toccò assumersi personalmente la direzione della casa, perché non ottenne, come era suo desiderio, alcune suore dell’Oeuvre des Servantes di Parigi, per dirigere l’istituto però, associandosi prudenzialmente al can. Borselli di Riffredo ed a una certa signorina Merletti, l’uno e l’altra garanzia agli occhi del mondo ecclesiastico e di quello civile di un’onesta conduzione dell’opera. 57 Dopo di loro, durante gli anni ’60, fu un quasi continuo avvicendarsi di sacerdoti e di signorine che, gratuitamente o per un tenue compenso, curavano l’assistenza spirituale e quella materiale delle ricoverate. Nella mente del fondatore il passaggio delle ospiti nel suo istituto doveva segnare una ripresa del loro impegno cristiano, per cui l’Opera fu organizzata fin dall’inizio su base d’intensa vita spirituale che possiamo riassumere nel motto adottato quasi contemporaneamente all’apertura della casa: Pregare – Agire – Soffrire. (Afferma il primo biografo il can. Berteu, che «il suo Istituto pareva un Monastero», ovunque silenzio, laboriosità, preghiera.) Per rimarcare il carattere religioso e morale dell’iniziativa volle che la sua fosse un’Opera pia, che nascesse sotto il patrocinio della protettrice e modello delle serve, S. Zita, cui fu intitolata, e che venisse ufficialmente inaugurata nella festa della Purificazione della Vergine. Targa ricordo dell’acquisto della casa Partendo da Piazza Statuto vicinissima alla Stazione ferroviaria di Porta Susa, percorrere la Via S. Donato e dopo la Parrocchia dell’Immacolata Concezione e S. Donato, oltre la Via Saccarelli, al n° civico 31 si trova l’Istituto delle Suore Minime comprendente: La Chiesa di N.S. del Suffragio, il Campanile, il Museo, la Biblioteca. 58 10. LA CHIESA di Nostra Signora del Suffragio È alla metà del sec. XIX che sorse in Torino la Chiesa di N. S. del Suffragio, della quale prendiamo a parlare. Il Cav. Faà di Bruno, nel suo pensiero d’artista e con il cuore pieno di fede aveva già da tempo fermato il proposito che, sotto gli auspici di Maria, fosse sorta la chiesa del Suffragio luogo speciale di preghiera per le anime del Purgatorio. Scriveva il Berteu: «Messo mano al Ritiro o Istituto di S. Zita, veniva di necessità che il Cav. Faà di Bruno pensasse ad una Cappella per le funzioni religiose e le istruzioni delle figlie ricoverate» La cappella il Faà la volle dedicare a S. Zita, avendo già alla povera ragazza Lucchese fatto omaggio di tutta l’Opera sua, perché la proteggesse dal cielo. Però a mano a mano che la casa si veniva allargando, il Faà incominciò a pensare che una nuova chiesa sarebbe stata necessaria, sia per le sue varie famiglie, sia per gli abitanti della zona. Facciata esterna della Chiesa di N. S. del Suffragio 59 Il Borgo S. Donato nel 1536 fu distrutto dai Francesi e con esso anche le quattro chiese esistenti che non furono più edificate, e quando il Faà iniziò la sua Opera, in S. Donato non vi era che una piccola cappella aperta al culto dal Teol. Saccarelli il 6 aprile 1850, dedicata alla Sacra Famiglia. Decisa la costruzione della chiesa, bisognava decidere sotto quale titolo sarebbe stata dedicata. Faà di Bruno devoto dell’Eucaristia, della Vergine, e sentiva in cuore una profonda pietà per le anime del Purgatorio, perciò il titolo della chiesa s’erse spontaneo e sarà: Nostra Signora del Suffragio. Nel 1867 se ne incominciò la costruzione con la fabbricazione del coro che servì a Cappella privata dell’Istituto. Nel 1869 iniziarono le fondamenta della Chiesa verso via S. Donato portando i muri perimetrali e le colonne a circa quattro metri fuori terra e gettando le volte che dovevano coprire i sotterranei. Furono poi sospesi i lavori per tre anni per mancanza di fondi. Per quanto da ogni parte gli pervenissero offerte per la sua Chiesa, le spese erano tali che l’entrata era ben lungi nell’avvicinarsi all’uscita, perciò i suoi appelli si andavano moltiplicando. In uno di questi fogli che lanciava per il mondo per ottenere aiuto, scriveva: «Le anime del Purgatorio in questi tempi sono assai abbandonate. L’egoismo si concentra su di noi, e dimentichiamo chi soffre nell’altro mondo». Nel 1875 lanciava un appello ai cari commilitoni dell’Accademia Militare. Il soldato che aveva veduto a centinaia cadere i prodi nelle guerre del 1848 e 1849, pensava che molti di questi eroi, che generosamente avevano dato la vita per la grandezza della patria, erano dimenticati. Scriveva: «Vogliate permettere ad un antico vostro condiscepolo e commilitone, d’indirizzare una preghiera… Mi farò animo pertanto a parteciparvi che, commosso dell’abbandono in cui giacciono tanti poveri defunti, soprattutto tante vittime mietute dalle ultime guerre, divisai sin dal 1863 di aprir loro un Santuario di preghiere e di espiazione». 60 […] «Qui, mentre l’oblio del mondo ben presto copre di sua indifferenza anche i più splendenti allori, la prece del credente intercederà per secoli pietà e misericordia ai nostri fratelli d’arme». Il 31 ottobre 1876, benedetta dall’Arcivescovo di Torino Mons. Lorenzo Gastaldi, la Chiesa di Nostra Signora del Suffragio veniva aperta al pubblico. Torino ne rimase ammirata! Una delle grandi concezioni artistiche del Vercellese conte Arborio Mella, reputato tra i più intelligenti cultori dello stile antico gotico-romano, passava alla storia. La Chiesa, in stile romano-bizantino, a tre navate, con il suo ampio e elegante matroneo, dove poteva intervenire l’Istituto nelle sacre funzioni senza accomunarsi col popolo, ha in una nicchia al di sopra dell’Altare maggiore, il simbolico e magnifico gruppo di marmo di Carrara rappresentante la Vergine, poggiata sulle nubi, le sue mani distese verso il Purgatorio, e gli occhi fissi al Cielo in atto di domandare pietà. Ai suoi piedi sono inginocchiati due angeli: uno presenta a Maria la Croce che redense, l’altro sembra versare da un calice il Sangue Divino sulle Anime che per quel Sangue dovevano essere salvate. Vista interna, verso organo, della Chiesa di N. S. del Suffragio A destra ed a sinistra dell’Altare maggiore due scene del Vecchio e del Nuovo Testamento dimostranti la verità del dogma del Purgatorio. 61 Le particolari devozioni del Faà sono manifestate nei due altari laterali dal Transito di S. Giuseppe e dalla Transverberazione di S. Teresa d’Avila. Tutto intorno alla Chiesa sono otto dipinti del geniale Cav. Luigi Balbo, suggeriti dal Faà di Bruno, tratti dalla Storia sacra ecclesiastica. La splendida Via Crucis, opera del Cav. Gauthier, reputata tra le più belle della nostra città. I STAZIONE Pulpito in marmo XII STAZIONE Quando la chiesa fu aperta al pubblico due cose mancavano ancora: l’organo e il pulpito di marmo: pulpito da lui stesso progettato, degno compimento dell’architettura del Tempio. Questo non potè essere collocato che dopo la sua morte, nel 1890. Ma l’organo venne inaugurato nel 1883. 62 La chiesa si allinea nella parte della facciata al filo strada sulla quale si affacceranno le case del borgo. Come voleva il Faà, divenne così la chiesa di tutti, senza barriere verso il traffico stradale, aperta a tutta la comunità che vi può confluire ad ammirare le testimonianze della fede all’interno. La facciata esterna si presenta con una rigorosa purezza, nell’ascetismo teso e terso di una composizione castigata e pura che contrariamente all’interno, poco concede al richiamo ed alla compiacenza decorativa. La luce costante del settentrione ne accentua l’austerità, contrapposta alla vivacità e alla diversa altezza delle case componenti la via che curva verso piazza Statuto. Il piano frontale da cui partono le tre navate interne si presenta come una superficie tripartita da pilastrature, mentre nelle parti laterali, degli archetti sottostanti a un marcapiano denunciano lievemente l’esistenza dei matronei all’interno. La parte centrale che evoca la navata più alta è illuminata da un portale di ingresso in pietra chiara, poco rilevato dalla superficie in cotto. Al piano terreno, nelle due ali (ed a mezza altezza) si apre una finestra alta e terminante con un arco a tutto sesto. Nella parte centrale due altre interrompono il fitto tessuto della facciata. Nella parte superiore tre occhioni che riprendono il numero trinitario, sovrastati da una croce formata da un occhio centrale contornato da altri quattro più piccoli, terminano di forare la superficie. Unico momento pittorico è la lunetta dove è rappresentata l’Addolorata. La facciata si lega alla cupola con la navata centrale e il tetto, diverso però il materiale non più cotto, ma intonaco ocra. L’Addolorata (sull’entrata della Chiesa di N.S. del Suffragio) 63 Una statua in rame dorato della Vergine del Broggi domina dalla cupola tutto l’edificio. IL VOLTO DELLA VERGINE 64 11. IL CAMPANILE Sarebbe opportuno considerare più profondamente la decisione del Faà di farsi ingegnere, progettista, calcolatore e costruttore, cosa che avvenne per l’ideazione e la realizzazione del campanile. Nulla forse, meglio di questa opera, di cui restano solo pochi appunti grafici di mano del Faà, testimonia la sua «rottura» con la cultura architettonica e «manieristica» dell’epoca ed il tentare un nuovo modo di costruire, svincolato da dettami di scuole, tutto appoggiato alla «scienza» ed alla tecnica tecnologica del suo tempo. Doveva averne avuto abbastanza dei burrascosi rapporti con progettisti, (aveva avuto divergenze d’idee con il Mella sulla costruzione della Chiesa, scriveva quest’ultimo: «… le idee che Ella mi dà per compiacere i divoti saranno buone pel Paradiso, ma per l’arte ordinariamente no! Il Ciel ci scampi dal gusto di sagrestia…».) e pensò a una sua stretta collaborazione con piccoli impresari, capimastri, muratori e fornitori da lui direttamente guidati ad indirizzati. …lo progettò, lo realizzò, ne progettò il concerto campanario e il meccanismo dell’orologio… Impegnato in moltissime attività e conduzioni, doveva essere non poco gravoso impegno per il Faà, intraprendere una avventura come l’elevare un altissimo campanile di 75 metri. 65 Inoltre voleva essere, come sempre per lui l’opera architettonica, anche uno strumento astronomico. Era un vero elemento cosmico che esulava dal senso della misura neo-romanica, pensato in relazione alle altezze dei monti che idealmente si possono traguardare da quell’ altezza, come dimostra un appunto di sua mano riportante l’altezza di alcuni punti geodetici sul livello del mare, come il monte Civrari, il campanile dell’antica parrocchia di Rivoli, il Frejdour, il Rocciamelone e il Monviso. Il campanile era posto al centro di questo sistema, e da due piastre di marmo con tacche indicanti il Nord ed il Sud, e da uno studiolo tutto intonacato ed attrezzato con un tavolino, pare di poter indurre che anche qui si svolgeva una osservazione degli astri. Strumento quindi anche geodetico ed astronomico. Ma non solo. Occorre rifarsi a quella che era la cultura e la sensibilità del tempo per uno strumento sonoro come il campanile e quale era il senso delle campane nella Torino di quel tempo. La cultura della restaurazione ha con l’opera di Chateaubriand rilanciato il valore delle campane il cui uso era stato interdetto per dieci anni. Il brano sulle campane, nel “Gènie du Christianisme”, ha ampiamente influenzato questo settore dell’arte delle chiese. L’intenzione di porsi come antipolo della Mole Antonelliana, pensata originariamente come sinagoga, salta agli occhi anche nelle diversità, sia di concezione, che di volumetrica e di finalità. Il campanile a quel tempo nell’ambito urbanistico cittadino si presentava come il più alto della città. Risulta anche che il Faà fosse in contatto con il Cav. Benazzo e con l’Antonelli, infatti in una lettera al Sindaco di Torino datata 14 luglio 1884 relativa alla solidità del campanile, il Faà scriveva: «… verso il 1877-78 vennero ingegneri municipali coll’incarico di verificare la solidità delle costruzioni, e nulla avendo trovato da ridire, non se ne parlò più. Né poteva essere altrimenti, poiché io aveva consultati assai per tempo nell’inizio dei lavori gli esimi Ingegneri Cav. Benazzo e Cav. Antonelli, le cui parole lusinghiere furono per me di grato incoraggiamento». 66 La caratteristica fondamentale del campanile è costituita dalla cella campanaria, che non è posta alla sommità, ma a metà altezza dalla cima del campanile. Oltre a questo, presenta una caratteristica, cioè quella della discontinuità del materiale di cui è costruito. Infatti, giungendo alla cella campanaria, il Faà per ottenere il massimo di volume libero per le onde sonore, annulla i pilastri angolari portanti e tutte le zone di tamponamento e li sostituisce con 32 colonnine in ghisa, fissate a piastre metalliche a loro volta connesse alla muratura con effetto d’incastro. Riesce così ad accumunare alcuni risultati che pare gli siano stati molto a cuore: a) In primo luogo sfruttare al massimo la propagazione per le onde sferiche concentriche del suono verso tutte le direzioni; b) Applicare il concetto, rivoluzionario per i tempi, di una manutenzione per sostituzione di elementi portanti metallici direttamente esposti alle intemperie della pioggia, dei venti, e di tutti gli agenti atmosferici; c) Rendere totalmente interpenetrata la struttura metallica con lo spazio occupato, immergendo come poi farà G. Eiffel totalmente nell’atmosfera, togliendo qualsiasi involucro per quanto leggero e trasparente. Dettaglio della cella campanaria con alcune delle 32 colonnine in ghisa La pressione del vento infatti, che trova resistenza nella parte bassa incastrata nel terreno ed in quella superiore alla cella campanaria, qui può defluire senza provocare sollecitazioni. 67 Sopra queste colonnine in ghisa, riprende la struttura in muratura, mantenendo ancora per un tratto la forma stereometrica della parte sottostante. Poi, con raccordo a pennacchi interni, passa dalla pianta quadrata a quella ottagonale, riprendendo il motivo conduttore della cupola della chiesa, ottagonale anch’essa e riproponendo per le aperture e per le nicchie ove sono collocate le statue dei santi, la stessa forma ed un analogo rapporto delle finestre della cupola. Si previene così ad un secondo terrazzino da cui si erge la guglia ottagonale con quattro aperture di uscita e sorreggente un globo sul quale l’arcangelo Michele con la tromba annuncia la resurrezione dai morti, coronando così l’edificio con la tematica programmatica che ha originato la chiesa. Il campanile è un protagonista del Borgo e poteva essere visto sin dalla Dora e dai terreni ad essa degradanti. Ancor oggi, dopo che attorno sono venuti a costruirsi i diversi quartieri, appare tagliato dai tetti sui quali emerge con il vuoto della cella campanaria. Cupola Chiesa con Campanile 68 Esso è simbolo e la summa della volontà e della scienza del Faà, che lo progettò, lo realizzò, ne progettò il concerto campanario, e il meccanismo dell’orologio che doveva essere visibile anche la notte, a misurare il fluire del tempo. L’Arcangelo Michele Il Campanone Campana, del concerto campanario con incisi i nomi della Famiglia dei Faà di Bruno (riproduce la nota FA) 69 70