Aggiornamento 2006 Imaging Cerebrale Un rapporto sui recenti progressi della scienza che studia il cervello Un rapporto sui recenti progressi della scienza che studia il cervello Imaging Cerebrale Aggiornamento 2006 THE EUROPEAN DANA ALLIANCE FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE William Safire, Chairman Edward F. Rover, President Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman Carlos Belmonte, MD, PhD Anders Björklund, MD, PhD Joël Bockaert, PhD Albert Gjedde, MD, FRSC Sten Grillner, MD, PhD Malgorzata Kossut, MSc, PhD Richard Morris, Dphil, FRSE, FRS Dominique Poulain, MD, DSc Wolf Singer, MD, PhD Piergiorgio Strata, MD, PhD Eva Syková, MD, PhD, DSc Executive Committee Barbara E. Gill, Executive Director La European Dana Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 166 tra i più grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel, che si sono dati come obbiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza della ricerca sul cervello. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico. Per ulteriori informazioni : The European Dana Alliance for the Brain Dr.essa Béatrice Roth, PhD Centre de Neurosciences Psychiatriques Site de Cery 1008 Prilly / Lausanne e-mail : [email protected] Copertina : Marcus Raichle, MD Visioni del cervello : un rapporto sui recenti progressi della scienza che studia il cervello Aggiornamento 2006 Imaging Cerebrale 5 Introduzione di Thomas R. Insel, MD 9 Neuroimaging di Marcus Raichle, MD 15 Il cervello che invecchia Marilyn Albert, PhD e Guy McKhann, MD I progressi della ricerca sul cervello nel 2005 23 Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia 31 I disturbi del movimento 39 Le lesioni del sistema nervoso 47 Neuroetica 55 Le malattie neuroimmunologiche 63 Il dolore 71 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze 81 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee 89 Cellule staminali e neurogenesi 97 I disturbi del pensiero e della memoria 107 Referenze 119 Immaginate un mondo... Introduzione di Thomas R. Insel, MD Director, National Institute of Mental Health, National Institutes of Health A Winston Churchill è solitamente attribuito l’aforisma che sostiene : « Si esiste di quel che si riceve e si vive di quel che si dà. » Qualsiasi sia la fonte, il concetto vale sia per l’uomo sia per la scienza. Una bella illustrazione ci è data dalle neuroscienze, che non hanno mai vissuto così tanto come in questi anni e così tanto stanno dando all’umanità. In questo aggiornamento troverete numerosi progressi realizzati dalle neuroscienze nel corso del 2005, ma sono solo alcuni esempi. Per una descrizione esaustiva delle scoperte nell’ambito delle neuroscienze non sarebbero sufficienti una decina di opuscoli come questo, anche solo per l’anno 2005. Ogni dettaglio di questo aggiornamento dimostra che le neuroscienze forniscono le conoscenze sul cervello di cui la salute pubblica ha una necessità urgente. Gli oltre 1000 disturbi del sistema nervoso richiedono un numero di ospedalizzazioni più elevato rispetto a qualsiasi altro gruppo di patologie, incluse le malattie cardiovascolari e i tumori. Gli ictus sono una tra le prime tre cause di mortalità, per gli adulti fino a 45 anni la depressione è la malattia più invalidante e i suicidi continuano ad essere il doppio degli omicidi. L’invecchiamento della popolazione rende la malattia di Alzheimer e le altre patologie neurodegenerative una priorità crescente per la salute pubblica. All’altra estremità della vita la prevalenza dei disturbi di tipo autistici è stimata ora ad 1 nascita su 166, decuplicandosi in un decennio. La buona notizia è che disponiamo di nuovi strumenti e tecnologie straordinariamente efficaci per fronteggiare questi problemi di salute pubblica. I risultati che troverete leggendo questo rapporto, devono essere considerati come un contributo fondamentale del progresso. Il progetto Genoma Umano, il cui compimento è stato annunciato con una grande eco mediatica nel 2003 (all’occasione del 50o anniversario 5 dell’articolo di James Watson e Francis Crick che descriveva la doppia elica del DNA) ha condotto alla sintesi di una mappa consensuale del DNA umano, che però non ne comprende le variazioni genetiche. Le variazioni genetiche sono la chiave per conoscere la vulnerabilità individuale, la resistenza alle malattie e la diversità umana. Una mappa delle variazioni del DNA umano fornirebbe più informazioni rispetto alla mappa originale consensuale. Quest’anno è stato ultimato il progetto « HapMap », la prima mappa esauriente degli aplotipi umani, che contraddistinguono i milioni di singole variazioni nel nostro genoma 1. Grazie alla HapMap e ai nuovi chips per la mappatura delle variazioni, rispetto agli anni passati la genetica è diventata uno strumento più economico e rapido. Ora è possibile stabilire un nesso tra le variazioni individuali delle sequenze del DNA e la vulnerabilità alle malattie anche per delle affezioni genetiche complesse e non solamente per le malattie generate da un unico gene, come la corea di Huntington. Nel 2005 gli scienziati hanno applicato questo metodo all’intero genoma, così da identificare le variazioni che conferiscono un rischio per la degenerazione maculare senile e la malattia di Parkinson, modificando profondamente la concezione di queste patologie 2, 3. Nei prossimi mesi i ricercatori potranno fare altrettanto per tutta una serie di altre malattie del sistema nervoso, dall’autismo alla malattia di Alzheimer. Una nuova prospettiva sul cervello ci è data anche dalle tecniche di neuroimaging, di cui Marcus Raichle elenca i progressi. Gli studi realizzati nel 2005 includono notevoli sviluppi nella capacità di visualizzare le singole cellule nel cervello vivente. Il miglioramento degli studi sia funzionali sia strutturali sul cervello intatto permettono d’identificare le vie attraverso le quali l’informazione circola nel cervello. Grazie all’imaging oggi possiamo evidenziare la notevole plasticità della corteccia umana 4, i circuiti implicati nel trattamento dei volti e del linguaggio 5 e persino le informazioni che sono codificate senza che il soggetto ne sia consapevole 6. 6 Non avremmo probabilmente mai immaginato fino a che punto la nostra anatomia cerebrale sia determinata dai geni. Le differenze nelle sequenze geniche codificano per delle diversità individuali molto specifiche nella struttura e nella funzione del cervello 7. Leggendo i molti capitoli di quest’aggiornamento sulle conoscenze fornite dalle tecniche di neuroimaging, sorprende come l’organizzazione del cervello sia intricata. Più si conoscono i circuiti che sottendono le emozioni e la coscienza, più questi processi mentali ci sembrano misteriosi e complessi. Introduzione L’ambito che ha riservato più sorprese è probabilmente quello delle cellule staminali. Ritenevamo che i neuroni fossero le cellule adulte più complesse da ottenere a partire dalle cellule staminali, mentre in coltura si sono rivelati tra i più facili da produrre. Ora si conoscono meglio le tappe da percorrere per indurre un neurone a differenziarsi a partire da una cellula precursore. L’importanza di questo tipo di ricerca per le patologie neurodegenerative è ovvia : la biologia delle cellule staminali ha generato un nuovo ambito, la medicina rigenerativa. La tecnologia delle cellule staminali costituisce anche un potente strumento per i ricercatori che studiano l’influenza delle variazioni genetiche o dei fattori ambientali sul destino dello sviluppo neuronale 8. Per la prima volta, possiamo studiare sia la natura sia la coltura a livello cellulare. La sfida in tutti questi ambiti – genetica, imaging, biologia delle cellule staminali – è utilizzare i progressi per la salute ed il benessere di tutti. Queste tecnologie, che sono dei potenziali strumenti potenti per migliorare la salute pubblica, potrebbero essere utilizzate impropriamente a sostegno di ingiustizie. Una disciplina emergente, la neuroetica, s’interroga per esempio su come evitare che le tecniche di neuroimaging siano utilizzate per interpretare il pensiero o che alcune compagnie assicurative rifiutino le persone in base al loro profilo genetico. Se alcune questioni sembrano fantascientifiche (attualmente con le tecniche di neuroimaging non si legge il pensiero e la predizione del rischio di malattia è un dato essenzialmente statistico) i neuroscienziati riflettono sempre di più su come l’uso di questa scienza possa essere utile al pubblico, come è descritto in questo aggiornamento. Ho cominciato l’introduzione affermando che gli scienziati vivono di quel che danno. Fin dall’inizio del 2005, per dare di più, gli specialisti delle neuroscienze hanno cominciato ad unire le forze. Il Neuroscience Blueprint, un progetto dei National Institutes of Health (NIH), ne è un esempio eccellente 9. Analogamente al NIH Roadmap, creato per oltrepassare gli ostacoli al progresso medico, il Neuroscience Blueprint è un’iniziativa multi-istituzionale il cui scopo è migliorare la conoscenza del sistema nervoso sano e malato. Al Blueprint si devono già dei programmi di formazione sulla neurobiologia delle malattie, l’espansione delle collaborazioni negli ambiti della neurogenomica e del neuroimaging pediatrico, la creazione di un forum per gli istituti del NIH attivi nell’ambito delle neuroscienze. I progetti per il prossimo anno includono lo sviluppo di una linea di topi transgenici per le neuroscienze, di programmi di formazione per le 7 tecniche di neuroimaging e la costituzione di un centro di risorse multiistituzionali destinato ai ricercatori che lavorano in ambiti universitari. Se gli anni ’90 sono stati definiti il Decennio del cervello, la decade attuale potrà essere definita retrospettivamente il Decennio della scoperta, grazie all’identificazione della maggior parte dei geni, delle proteine e delle vie che svolgono un importante ruolo nella funzione cerebrale. Questo aggiornamento di metà decennio, evidenzia il fremere di una ricerca che progredisce nella conoscenza dell’organo più complesso del corpo umano. Le scoperte di base delle neuroscienze sempre più importanti, si stanno trasformando in nuove opportunità per la salute pubblica, generando nuovi approcci per curare patologie diverse come la malattia di Alzheimer, l’autismo e la dipendenza dalle droghe. Per le persone che soffrono di una malattia del sistema nervoso, la ricerca è la speranza. E le ragioni di sperare non sono state mai così numerose. 8 Neuroimaging di Marcus Raichle, MD D a molto tempo psicologi e neuroscienziati sognano di correlare i comportamenti umani agli eventi neuronali che li sottendono. In The Principles of Psychology, un’opera monumentale in due volumi scritta nel 1890, William James identifica in modo chiaro il problema : « Una scienza della mente deve ridurre [...] la complessità (del comportamento) nei suoi elementi. Una scienza del cervello deve designare le funzioni di questi elementi. Una scienza delle relazioni tra la mente e il cervello deve mostrare come gli ingredienti elementari del primo corrispondano alle funzioni elementari del secondo. » 1 Grazie alla sperimentazione animale e agli studi realizzati su pazienti affetti da patologie cerebrali sono stati fatti grandi progressi rispetto ai tempi di William James, ma la possibilità di mettere in relazione i comportamenti normali al funzionamento sano del cervello umano, è stata resa possibile solo a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo. L’introduzione delle moderne tecniche di imaging cerebrale negli anni ’70 ha permesso di monitorare minuziosamente e quantitativamente la funzione cerebrale. I progressi hanno sconvolto la diagnostica medica e catalizzato lo sviluppo di altre tecniche di imaging, in particolare la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la visualizzazione per risonanza magnetica (MRI). L’introduzione della PET e della MRI ha fornito uno strumento senza precedenti per studiare le basi neurobiologiche del comportamento umano, dapprima con la PET in seguito con la MRI funzionale (MRIf) (per la storia, vedi Raichle 2000) 2. Questi progressi hanno consentito la nascita di nuove discipline scientifiche come le neuroscienze cognitive e più recentemente le neuroscienze 9 sociali, i cui ambiti combinati comprendono tutti gli aspetti del comportamento dell’individuo sano e malato 3. Alla fine degli anni 1980, quando la James S. McDonnell Foundation e le Pew Charitable Trusts lanciarono il loro programma di neuroscienze cognitive, nei dipartimenti di psicologia delle università non esistevano posti di lavoro per gli specialisti in quest’ambito. Oggi invece sono diventati dei settori normali nei quali troviamo giovani scienziati con qualifiche combinate nell’imaging e nello studio del comportamento. In tutto il mondo, con sforzi considerevoli, sono nati dei centri di imaging completamente dediti alla ricerca ed equipaggiati con costose apparecchiature (soprattutto la MRI). In questo modo il progresso ha interrotto la tradizione secondo la quale per la ricerca erano utilizzate, sull’uomo e sull’animale di laboratorio, le apparecchiature cliniche degli ospedali messe a disposizione solitamente la sera, quando tutti erano andati a casa. Non conosco le cifre recenti sul budget di questi centri, ma devono essere sicuramente ragguardevoli. Alcuni ricercatori tuttavia, dubitano che la tecnica di neuroimaging funzionale possa fornire delle analisi sufficientemente precise della funzione cerebrale così da chiarire i rapporti tra il comportamento e la funzione cerebrale. A questo proposito non bisogna però dimenticare che l’imaging cerebrale può avvalersi anche degli studi condotti in altri ambiti delle neuroscienze. Una tra le questioni più importanti è come mettere in relazione i dati di neuroimaging e la neurofisiologia delle cellule del cervello e dei vasi sanguigni che provvedono ai loro bisogni. C’è stata una vera esplosione dell’interesse per la neurobiologia dei segnali generati dalla PET e la MRIf. Gli argomenti includono la neurofisiologia dei segnali dell’imaging 4, 5, la biologia cellulare 6, 7 e anche la genetica del neuroimaging 8. Un aspetto importante di questo lavoro è stato l’emergere dell’imaging cerebrale funzionale negli studi sui primati non umani. Tali studi offrono l’opportunità non solo di comparare direttamente la neurofisiologia e le immagini cerebrali 9, ma anche di comprendere l’organizzazione cerebrale dell’uomo da una prospettiva evoluzionistica 10. 10 A discapito di questi progressi, viene spesso affermato che se non si presta la dovuta attenzione, l’interpretazione dei dati ottenuti con l’imaging funzionale potrebbe essere considerata come una variante estremamente Neuroimaging costosa della frenologia del 19o secolo. La frenologia era una disciplina che cercava di associare il carattere o certe facoltà mentali degli individui alla forma del cranio 11. Occorre notare che i ricercatori stessi divulgano quest’idea senza volerlo. Gli articoli pubblicati nelle riviste specializzate, ai congressi o nella stampa per il grande pubblico si limitano a regioni particolari del cervello, senza presentare l’insieme dei dati. A partire da questi dati, spesso incompleti, gli scienziati disquisiscono su funzioni mentali complesse, esattamente come i frenologi. Korbinian Brodmann, un pioniere dello studio microscopico e macroscopico dell’organizzazione del cervello umano, molto prima dell’avvento delle moderne tecniche di imaging (nel 1909 per essere precisi) affermava : « Da qualche tempo si moltiplicano le teorie che, come la frenologia, tentano di localizzare in zone ben delimitate della corteccia cerebrale delle attività complesse come la memoria, la volontà, l’immaginazione, l’intelligenza o le competenze spaziali come la valutazione delle forme e delle posizioni. » E aggiunge : « S’intende per facoltà mentali, un insieme di processi mentali straordinariamente complessi [...]. Che si possono concepire come il risultato d’interazioni e cooperazioni infinitamente complesse e intricate di numerose attività elementari [...]. In ogni caso particolare, i supposti loci funzionali elementari in gioco sono più o meno numerosi e agiscono a differenti gradi e con diverse combinazioni. » Queste attività sono il risultato, afferma ancora Brodmann, «della funzione di un grande numero di organi subordinati, più o meno ripartiti sulla superficie della corteccia ».12 Con questa esortazione lungimirante Brodmann chiarifica il compito dei ricercatori che lavorano con l’imaging cerebrale. Occorre dapprima identificare le regioni del cervello e le relazioni esistenti tra queste diverse regioni per l’esecuzione di compiti ben definiti. Tale analisi è in corso grazie ad una lunga serie di studi neuropsicologici sulla relazione tra le lesioni cerebrali e il comportamento, così come gli studi neurofisiologici e neuroanatomici realizzati sugli animali di laboratorio, associati al neuroimaging. I ricercatori saranno poi confrontati con una sfida molto impegnativa, essi dovranno identificare le operazioni più elementari realizzate in seno a queste vie e dovranno metterle in relazione con i compiti che essi studiano. A questo proposito si registrano dei progressi già molto incoraggianti, che alimentano un intenso dialogo tra scienziati a tutti i livelli. Diverse questioni assumono una particolare importanza per la comprensione della funzione del cervello umano e sono oggetto da parte degli 11 specialisti di neuroimaging di un’attenzione crescente. Esse includono le differenze tra gli individui, lo sviluppo (maturazione cerebrale) e l’attività del « cervello a riposo ». Le differenze individuali Inizialmente si temeva che le differenze tra gli individui fossero troppo consistenti, si riteneva impossibile poter utilizzare i dati di persone differenti per ottenere una media che rappresentasse la risposta cerebrale dell’uomo ad un determinato compito. Questa preoccupazione è svanita rapidamente davanti alla concordanza dei risultati individuali raccolti grazie all’imaging. I risultati sono stupefacenti 13 e le neuroscienze cognitive utilizzano questo metodo con successo. Tuttavia, per coloro che hanno esaminato questi dati nel dettaglio (in particolare i dati delle MRIf d’alta qualità) l’esistenza delle differenze individuali sembra permettere una comprensione più sottile del comportamento umano. Associato con l’interesse e le tecniche che la psicologia e la psichiatria possiedono per la caratterizzazione delle differenze di personalità, l’imaging potrà permettere nuovi progressi. Sviluppo 12 Le neuroscienze cognitive si sono interessate soprattutto al cervello umano adulto, esaminando la funzione normale e i cambiamenti quando esso è leso. Occorre considerare la funzione cerebrale anche dalla prospettiva dello sviluppo. La letteratura della psicologia dello sviluppo abbonda di dettagli sulle tappe che segnano la maturazione del cervello umano. Quel che manca tuttavia, è una comprensione esauriente dei processi di maturazione dei differenti sistemi del cervello. La maturazione cerebrale considerata a livello dei sistemi cerebrali influisce, per citare solo alcuni esempi, sullo sviluppo dell’attenzione, del linguaggio, della memoria, della personalità e della gestione dell’angoscia. A questo proposito delle informazioni supplementari permetterebbero di comprendere meglio lo sviluppo in sé stesso ma anche il suo obiettivo finale : l’organizzazione del cervello adulto. L’attuale povertà d’informazioni in quest’ambito riflette non solo la difficoltà di accedere senza pericoli e in modo preciso alle informazioni nell’uomo, ma evidenzia anche il fatto che che per anni le ricerche nel campo della neurobiologia dello sviluppo si sono focalizzate a livello cellulare e molecolare escludendo un approccio sistemico più integrato. I dati raccolti da un piccolo gruppo di pionieri della ricerca sono un esempio appassionante di quello che ci riserverà il futuro con le tecniche di neuroimaging applicate allo sviluppo 14-16. Incoraggianti sono pure gli studi paralleli sui Il cervello a riposo Nelle analisi dei segnali raccolti con l’imaging funzionale sarà estremamente importante mantenere il senso delle proporzioni. Il cervello umano è, infatti, un organo che consuma grandi quantità d’energia, le variazioni d’attività osservate nell’ambito degli studi di imaging funzionale ne assorbono solo una piccola parte. L’alto consumo energetico del cervello a riposo è noto da molto tempo 17, tuttavia solo di recente ha ottenuto l’attenzione che merita. I ricercatori hanno compreso che le ingenti spese energetiche necessarie sono soprattutto da mettere in relazione con la funzione primaria del cervello (percepire e analizzare le informazioni per generare delle risposte adeguate) e in maniera più modesta per i compiti di mantenimento dell’ambiente cellulare 18. Neuroimaging primati non umani, che permettono di correlare i cambiamenti osservati a livello cellulare del cervello con i dati forniti dall’analisi fine dei comportamenti sociali complessi. Considerare la funzione cerebrale dell’uomo in un’ottica di costi, ci orienta verso la via sostenuta da molto tempo da Linas ed altri : 19 il cervello investe gran parte della sua attività nel creare e mantenere uno stato mentale (sia cosciente, sia incosciente) che rappresenta il mondo nel quale viviamo e la posizione che occupiamo. In altre parole, il cervello non è semplicemente un organo il cui compito primario è di rispondere in modo riflesso al mondo che ci circonda. Come faceva osservare William James moltissimo tempo fa, « se una parte di ciò che percepiamo di un oggetto che abbiamo davanti ci giunge attraverso i sensi, un’altra parte (che potrebbe essere la più importante) proviene sempre [...] dalla nostra testa ».20 L’imaging funzionale è ancora in fase di sviluppo, ma offre la possibilità di mettere in relazione le neuroscienze con il ventaglio di comportamenti che definiscono l’essere umano, in buona salute oppure malato. La sfida è quella di comprendere come integrare il potenziale dell’imaging cerebrale e le sue basi di neurofisiologia, biologia cellulare e genetica con le questioni affascinanti e complesse del comportamento umano. Il successo di quest’integrazione costituirà un beneficio per tutti. 13 Il cervello che invecchia di Marilyn Albert, PhD e Guy McKhann, MD A lcune persone, al contrario di altre, invecchiando conservano intatte funzioni cognitive come la memoria e il linguaggio. Studi realizzati sia sull’uomo che sull’animale rivelano che il mantenimento delle funzioni cognitive è associato a fattori molto specifici. Queste conoscenze hanno permesso agli scienziati di identificare alcuni interventi che riducono o prevengono il declino cognitivo legato all’età. Le misure efficaci, infatti, sono una combinazione d’esercizio fisico, stimoli mentali e attività psicosociali. Come cambia la memoria con il passare degli anni In assenza di malattia, le facoltà cognitive cambiano con l’età ? Alcuni ricercatori hanno scelto di studiare alcune facoltà legate alla memoria in tutte le età ma esclusivamente in individui che godono di un’ottima salute. La ragione di questa scelta è che le malattie del cervello diventano più frequenti con l’avanzare dell’età e se non si eliminano dallo studio le persone che soffrono delle patologie comuni, non è possibile distinguere gli effetti dell’invecchiamento del cervello (che non è una malattia) con quelli invece legati alle patologie presenti in età avanzata. I risultati di questi studi evidenziano che invecchiando si osservano cambiamenti nella maggior parte delle funzioni cognitive. Insisteremo in particolare sui cambiamenti legati alla memoria, anche perché essa può essere studiata nell’animale da laboratorio. Uno dei metodi più utilizzati per studiare la memoria è quello di insegnare nuovi elementi da ricordare e osservare la capacità e la velocità d’apprendimento. Concretamente, per esaminare la « memoria episodica » si racconta ad una persona una storia e si chiede di ricordarne i dettagli dopo un periodo di tempo determinato. 15 Realizzando questo test con individui sani di età diverse, si notano delle differenze significative tra i cinquantenni e i sessantenni rispetto alle persone tra i trenta e i quarant’anni. Differenze che sono ancora più marcate oltre i settant’anni. Un simile declino si osserva anche in altri ambiti delle funzioni cognitive come ad esempio nel linguaggio, ma ad età differenti. I cambiamenti connessi all’età sono facilmente evidenziabili anche in studi realizzati sugli animali, in particolare su scimmie e roditori. Non tutte le persone invecchiando subiscono tali alterazioni, i cambiamenti variano molto da un individuo all’altro. Nelle persone giovani la gamma di variazioni è relativamente ristretta, tenendo conto delle differenze di natura culturale. Negli anziani le variazioni sono molto più marcate : alcuni mantengono una memoria simile alle persone che hanno diverse decine di anni meno, mentre altre persone accusano un declino significativo. Anche in questo caso è possibile riprodurre nell’animale da laboratorio le differenze connesse all’età. I meccanismi cerebrali associati ai cambiamenti della memoria Le osservazioni sui cambiamenti della memoria connessi all’età ci inducono a chiederci per quale motivo la memoria si altera in alcuni individui e non in altri. Gli scienziati hanno suggerito diverse ipotesi sull’origine del declino. La prima, tuttora molto popolare, attribuisce il declino della memoria ad una perdita « diffusa » di neuroni nell’insieme del cervello. Gli studi recenti realizzati su scimmie, roditori ma anche esseri umani, indicano però che la perdita di neuroni nel cervello collegata all’età è molto ridotta, anche nelle aree che assicurano le funzioni mnemoniche, come l’ippocampo. Un’altra ipotesi è che la perdita di cellule nervose sia « altamente selettiva » per determinate regioni del cervello. Quest’ipotesi trova conferma nella perdita di cellule osservata nei nuclei sottocorticali, delle popolazioni di cellule nervose della parte più profonda del cervello. Tali nuclei, come i nuclei della base, perdono fino al 50 per cento delle loro cellule nervose e visto che esse inviano le loro proiezioni verso molte altre regioni cerebrali, influiscono sulla produzione di sostanze chimiche essenziali per l’apprendimento e la memoria. 16 Un’ultima ipotesi che potrebbe spiegare il declino della capacità mnemonica, è che con il passare degli anni cambino i « meccanismi » che le cellule nervose utilizzano per l’apprendimento e la memoria. Quest’ipotesi è stata Con l’invecchiamento si possono inoltre osservare altri fenomeni : negli organismi più anziani si è osservata l’attivazione di meccanismi di adattamento che potrebbero permettere di compensare i cambiamenti funzionali legati all’età. Questi meccanismi di compensazione sono stati osservati sia negli animali, sia nelle persone. L’imaging funzionale, che permette di osservare le parti del cervello attivate durante lo svolgimento di compiti mnemonici, rivelano che i soggetti giovani utilizzano alcune regioni cerebrali molto specifiche. I soggetti più anziani, con una funzione cerebrale normale, attivano oltre alle regioni utilizzate dai più giovani anche numerose altre aree. Il cervello che invecchia dimostrata con un esperimento nel quale è stato possibile mettere in relazione la memoria con i cambiamenti della funzione cerebrale. Nei roditori con una riduzione delle capacità mnemoniche associata all’età si osserva una diminuzione del potenziamento a lungo termine, un meccanismo neuronale indispensabile per la memoria. È probabile che gli individui anziani con una funzione mnemonica preservata presentino due peculiarità : la prima è il mantenimento durante l’invecchiamento delle strutture e delle funzioni cerebrali, la seconda è l’uso di meccanismi di adattamento per i compiti mnemonici. Genetica e influenze ambientali Tutti conoscono delle famiglie nelle quali numerosi membri vivono molto a lungo e possiedono buone capacità mnemoniche. Questa osservazione ci invita a porci una domanda : la genetica può in qualche modo influenzare il mantenimento della memoria ? Uno dei metodi per analizzare l’influenza genetica consiste nel paragonare il comportamento di gemelli monozigoti che hanno vissuto insieme, a quello dei gemelli separati fin da piccoli e vissuti in realtà differenti. Tali studi suggeriscono che i geni influiscono approssimativamente per il 50 per cento sulle variazioni delle funzioni mnemoniche. L’importanza dei geni non è messa in dubbio, ma anche i fattori ambientali determinano la conservazione della memoria. Numerose indagini hanno esaminato lo stile di vita delle persone e lo hanno confrontato con diverse funzioni cognitive, compresa la memoria. Complessivamente questi studi hanno coinvolto oltre 15 000 individui che vivono in diversi paesi. L’attività fisica, l’attività mentale, l’impegno sociale e il rischio cardiovascolare sono emersi come fattori importanti, sembra inoltre che ci sia un effetto additivo di questi fattori. 17 Meccanismi cerebrali Gli studi epidemiologici permettono di descrivere il comportamento dei soggetti con una memoria conservata, ma per comprendere i meccanismi cerebrali che la sottendono occorre la sperimentazione animale. Le persone che invecchiando mantengono delle eccellenti funzioni cognitive e una buona memoria, sono persone fisicamente attive. Preferiscono le scale all’ascensore, compiono lunghe passeggiate e sollevano dei pesi. I ricercatori hanno quindi stimolato i roditori ad imitare questi comportamenti facendoli correre nelle ruote sistemate nelle gabbie. Da questi studi si è osservato che gli animali attivi imparano più rapidamente e meglio rispetto ai loro congeneri meno dinamici. Sono almeno tre i meccanismi cerebrali associati all’incremento dell’apprendimento e della memoria con l’esercizio fisico. Si è osservato che i roditori fisicamente attivi producono molte più cellule nervose, in particolare nell’ippocampo, una delle regioni cerebrali molto importanti per la memoria. Inoltre, questi roditori producono una quantità maggiore di fattori trofici necessari al mantenimento delle cellule nervose, come ad esempio il brain-derived neurotrophic factor (BDNF), che sembra essere espresso in modo specifico nell’ippocampo. Infine, si nota una maggiore efficacia dei meccanismi neurochimici che le cellule nervose dell’ippocampo utilizzano per comunicare tra loro. L’attività fisica quindi, oltre a migliorare il sistema cardiovascolare, ha un effetto positivo sulle regioni cerebrali che concorrono alla funzione mnemonica. Studi epidemiologici evidenziano inoltre che le persone le cui funzioni cognitive sono preservate, sono mentalmente attive e generalmente hanno delle occupazioni stimolanti per la mente : parole crociate, giochi a dama, lettura, conferenze ecc. I roditori esposti ad un ambiente stimolante, con molti oggetti da esplorare, imparano meglio. Tali animali, così come quelli fisicamente attivi, hanno nell’ippocampo un numero maggiore di neuroni e un’espressione più elevata di fattori trofici come il BDNF. Nuovi studi cercano ora di determinare se l’effetto dell’attività fisica e della stimolazione mentale sono cumulativi. 18 Anche uno stimolo a livello sociale sembra essere importante per il mantenimento delle facoltà cognitive. Definito impegno sociale, sentimento di autostima oppure percezione dell’importanza di sé, esso sembra dipendere dal grado di attaccamento dell’individuo alla famiglia e alla comunità Sembra infine che tutto ciò che è buono per il cuore lo sia anche per il cervello. Come dimostrano alcuni studi, le malattie vascolari del cuore e del cervello sono più rare se si cura l’ipertensione, il diabete, se si riduce il tasso di colesterolo, se si sorveglia il peso e se non si fuma. Quando non si controllano i fattori di rischio vascolari, la funzione cognitiva ne risente. Appropriate misure preventive possono tuttavia attenuare gli effetti negativi a livello del cervello. Il cervello che invecchia nella quale vive così come al controllo che egli pensa di potere esercitare sulla sua vita. È stato difficile sviluppare un modello animale che permette di studiare questi comportamenti. Certi ricercatori ritengono però che esiste un denominatore comune : la riduzione degli ormoni dello stress contenuti nel cervello. Alcuni studi realizzati su animali da laboratorio, hanno dimostrato che uno stress eccessivo aumenta il tasso di ormoni dello stress che inducono una perdita di neuroni nell’ippocampo. Questi studi, effettuati nell’uomo e nell’animale da laboratorio, sono all’origine di numerose misure atte a ridurre o impedire il declino cognitivo nelle persone anziane, che combinano l’approccio fisico, mentale e psicosociale. Le implicazioni di queste scoperte hanno rinforzato l’interesse del pubblico e dato origine a dei programmi educativi diretti alle persone anziane. Degli esempi sono le iniziative negli Stati Uniti, dell’AARP « Staying Sharp », la campagna della Alzheimer’s Association « Maintain Your Brain », o il « Cognitive and Emotional Health Project » dei National Institutes of Health. Questa relazione è tratta da una conferenza pubblica che Marilyn Albert ha dato il 12 novembre 2005 per la Società delle neuroscienze. 19 I progressi della ricerca sul cervello nel 2005 Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Delle ipotesi come sfida sull’ADHD 24 Le basi cerebrali della dislessia 27 Alla ricerca dei primi segni di autismo 28 23 L e patologie cerebrali che appaiono nel corso dell’infanzia sono spesso materia controversa e vedono il pubblico dibattere con passione sulle diagnosi e i trattamenti più adeguati. Nel corso del 2005 i ricercatori hanno ottenuto dei progressi nell’esplorazione delle basi neurologiche di tre di queste malattie : i disturbi da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la dislessia e l’autismo. Delle ipotesi come sfida sull’ADHD Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), è la diagnosi psichiatrica più frequente nei bambini, colpisce dal 8 al 10 per cento dei bambini in età scolare 1 ed è una delle patologie più discusse. Alcune persone dubitano, infatti, che l’ADHD sia una malattia e attribuiscono le manifestazioni che si osservano, come la distrazione e l’iperattività, ad una mancanza di disciplina e di maturità. Altri ritengono invece che questo disturbo sia concreto, ma temono che i bambini assumano troppi farmaci. Gli studi pubblicati nel 2005 hanno contribuito a chiarire certe questioni, ma ne hanno sollevate altre. Due studi pubblicati nel 2005 rimettono in questione l’idea comunemente accettata secondo la quale nell’ADHD esista una differenza tra ragazzi e ragazze. Se è noto che questo disturbo colpisce più i ragazzi delle ragazze, il tasso di prevalenza cambia se i ricercatori studiano i bambini curati in ambiente ospedaliero o se analizzano dei campioni più generali di bimbi che vivono nella comunità. Secondo una metanalisi (l’analisi dei dati che provengono da studi simili, ma indipendenti) pubblicata nel Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, questo tasso varia da sei a nove ragazzi per una ragazza in ambito ospedaliero, ma è di tre ad uno nella vita comunitaria 2. Da cosa deriva questa differenza ? Si ammetteva generalmente che l’ADHD avesse manifestazioni e sintomi diversi nei ragazzi e nelle ragazze. Si riteneva che i ragazzi fossero inclini più delle ragazze all’iperattività, di conseguenza i problemi di comportamento inducevano genitori ed insegnanti ad interrogarsi sull’opportunità di un trattamento. 24 Uno studio pubblicato nel 2005 da Joseph Biederman e i suoi collaboratori del Massachusetts General Hospital rimette in questione l’esistenza di differenze significative tra ragazzi e ragazze. Come riportato nel numero di giugno dell’American Journal of Psychiatry 3, Biederman e il suo gruppo I ricercatori hanno costatato che questo disturbo era circa tre volte più frequente nei ragazzi rispetto alle ragazze. Approfondendo le ricerche non hanno riscontrato delle differenze significative tra ragazzi e ragazze sull’età d’apparizione della malattia, sui sintomi, sull’effetto disabilitante della malattia, sui sottotipi (soggetto disattento, iperattivo-impulsivo, o entrambi), o sulla presenza di disturbi concomitanti. Per quale motivo i ragazzi sono indirizzati ad un medico più spesso delle ragazze ? Secondo l’esperienza di Joseph Biederman, una delle ragioni potrebbe essere che i ragazzi che soffrono di ADHD hanno la tendenza a dimostrarsi più apertamente perturbanti rispetto alle ragazze, soprattutto quando sono più giovani. Questo significa inoltre, che le ragazze affette da ADHD non sono sempre diagnosticate e curate. Se i risultati di questo studio fossero confermati, esso potrebbe avere delle conseguenze importanti per la diagnosi e il trattamento dell’ADHD nelle ragazze. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia hanno studiato un campione di bambini che vivono nel loro ambiente. Utilizzando dei metodi di diagnosi standard, i ricercatori hanno diagnosticato l’ADHD in un sottoinsieme di bambini mai curati per questo tipo di disturbo. L’idea che forse si sopravvaluta la differenza tra i ragazzi e le ragazze che soffrono di ADHD è confermata da uno studio effettuato su dei gemelli e i loro figli non gemelli realizzato all’University of New South Wales in Australia, da Florence Levy 4 e pubblicato nel numero di aprile del Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry. Questo studio ha evidenziato poche differenze tra ragazzi e ragazze sui disturbi diagnosticati nell’ambito dell’ADHD : disturbo del comportamento, attitudine oppositiva e di sfida (caratterizzata dal rifiuto alla cooperazione e da un’ostilità persistente) e ansia da separazione. Esiste tuttavia un’eccezione: nelle ragazze affette da ADHD sono diagnosticati più frequentemente i disturbi dell’ansia. Per il resto, l’esistenza o la gravità dei disturbi era determinata maggiormente dai sottotipi e dalla severità dei sintomi di ADHD più che dalle differenze di genere. Altri studi pubblicati nel 2005 hanno esplorato le basi neurologiche dell’impulsività e dei deficit in quelle che si definiscono le « funzioni esecutive »: la pianificazione, l’organizzazione o la presa di decisioni. Questi disturbi possono interferire con il lavoro a scuola e con l’esercizio di una professione così da compromettere lo sviluppo intellettuale di un soggetto 25 Valutazione dell’impulsività I ricercatori del King’s College di Londra, hanno scoperto che i ragazzi affetti da disturbi da deficit di attenzione e iperattività mostrano una diminuzione dell’attività neurale nella parte inferiore della corteccia prefrontale destra quando eseguono con successo un compito, come indicano queste immagini realizzate con la risonanza magnetica. o la sua carriera professionale. Katya Rubia e i suoi colleghi del King’s College, Londra, hanno studiato con la risonanza magnetica funzionale gli schemi d’attivazione cerebrale di ragazzi di 16 anni che presentano un ADHD e che non hanno mai assunto dei farmaci. I ricercatori durante l’esame hanno richiesto ai ragazzi di adempiere un compito che misurava il controllo dell’inibizione (una via per valutare l’impulsività). 26 Quando i ragazzi affetti da ADHD riuscivano ad eseguire ciò che era loro richiesto, l’attività della parte inferiore destra della corteccia prefrontale era più bassa rispetto al gruppo controllo. Invece, se non riuscivano a realizzare il compito, la riduzione d’attività coinvolgeva altre aree : il cingolo posteriore e il precuneo. Questo modello d’attivazione differisce da quello osservato nei soggetti di controllo, ma è pressoché identico a quello registrato nei ragazzi affetti da ADHD trattati con i farmaci. Tale osservazione induce a ritenere che il fenomeno non è secondario all’assunzione di farmaci ma piuttosto all’ADHD stesso. I risultati sono stati pubblicati nel numero di giugno dell’American Journal of Psychiatry 5. Per trattare i sintomi di base, il rapporto propende chiaramente in favore dei farmaci stimolanti, tutti giudicati egualmente efficaci. I triciclici e l’atomoxetina, farmaci antidepressivi, sono invece consigliati ai bambini che non rispondono agli stimolanti. (Occorre evidenziare che la FDA ha richiesto alla fine del 2005 di aggiungere un avvertimento inquadrato in nero per l’atomoxetina, poiché questo farmaco può rafforzare le idee suicidarie in certi bambini.) Gli autori del rapporto sottoscrivono l’attuale consenso terapeutico, anche se l’approccio più efficace consiste senza dubbio nel combinare farmaci e terapia comportamentale. Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Anche se restano dei dubbi sulle basi cerebrali dell’ADHD, il consenso sul trattamento non è cambiato. L’American Academy of Pediatrics nel giugno del 2005 ha raccolto le informazioni sulle direttive terapeutiche esistenti allo scopo di aiutare i pediatri a paragonare le diverse opzioni terapeutiche e fare una scelta 6. Come riportato dalla rivista dell’accademia, Pediatrics, i farmaci maggiormente studiati sono tre stimolanti : il metilfenidato (Ritalin), la destroanfetamina (Dexedrine) e la pemolina, seguiti da un antidepressivo triciclico, la desipramina (Norpramin) e un farmaco non stimolante, l’atomoxetina (Strattera). Le basi cerebrali della dislessia I bambini affetti da dislessia hanno generalmente un’intelligenza normale, ma riscontrano delle difficoltà nell’apprendimento della lettura. Le cause cerebrali della dislessia sono sempre molto dibattute, due studi pubblicati nel 2005 aiutano a trovare delle risposte. Numerosi bambini che soffrono di dislessia, oltre ad avere delle difficoltà nell’apprendimento della lettura, faticano anche a denominare correttamente gli oggetti raffigurati da un’immagine. Le due difficoltà potrebbero essere indotte dall’identica origine neurologica ? È la domanda che si è posto un gruppo dell’Institute of Psychiatry di Londra, diretto da Eamon J. McCrory, che ha pubblicato nel numero di febbraio della rivista Brain i risultati di uno studio realizzato con la tomografia ad emissione di positroni sull’attivazione cerebrale nei bambini dislessici. I ricercatori hanno osservato nei bambini dislessici una ridotta attivazione della corteccia occipitotemporale inferiore sinistra quando cercano di leggere delle parole o di denominare gli oggetti di un’immagine, questo dato fa pensare ad un trattamento deficitario dei suoni 7. Se questo risultato fosse confermato, lo studio avrebbe delle conseguenze pratiche : il fatto di 27 identificare i bambini in età prescolare che presentano dei disturbi della denominazione permetterebbe di indirizzarli a degli ortofonisti o dei logopedisti per facilitare più tardi l’apprendimento della lettura. Egualmente apparso nel 2005, nel numero di luglio di Nature Neuroscience, uno studio condotto da Anne J. Sperling, ricercatrice al Georgetown University Medical Center, aggiunge una nota sorprendente alla teoria secondo la quale i soggetti dislessici hanno un problema nel vedere le parole. Secondo la Sperling questi soggetti sarebbero in realtà incapaci di fare la differenza tra le indicazioni visive e i segnali dello sfondo, o « rumori » di fondo 8. I ricercatori hanno domandato a dei bambini di guardare su uno schermo di computer delle immagini, animate oppure statiche e di dire se esse apparivano sulla parte destra oppure sinistra dello schermo. Quando le immagini apparivano da sole sullo schermo, i bambini dislessici ottenevano dei risultati simili a quelli degli altri bambini. Se i ricercatori nascondevano parte delle immagini aggiungendo degli altri stimoli che le disturbavano, come per esempio la « neve » che si vede alla televisione quando c’è un guasto, i bambini dislessici le riconoscevano meno bene dagli altri. Da cui l’ipotesi degli autori, che ci sarebbe tra le cause della dislessia un’incapacità nel filtrare i rumori di fondo e concentrarsi sui segnali importanti. Alla ricerca dei primi segni di autismo L’anno 2005 ha convalidato la teoria secondo la quale le anomalie cerebrali responsabili dell’autismo possono essere svelate nei primi mesi o nei primi anni di vita del bambino, i disturbi dello sviluppo sono in generale diagnosticati non prima dei due o tre anni. Nel numero di aprile/maggio 2005 dell’International Journal of Neuroscience, Lonnie Zwaigenbaum e i suoi colleghi della McMaster University Ontario, affermano che certi segni di autismo si notano già all’età di 6 mesi 9. Lo studio pilota coinvolgeva 65 bambini, fratelli di bambini autistici, seguiti dall’età di 6 mesi fino a 2 anni o più. (Con il tempo questo studio ha assunto proporzioni considerevoli, realizzato in 14 luoghi tra il Canada e gli Stati Uniti ; oggi è denominato High Risk Baby Autism Research Project.) 28 Gli autori dello studio hanno osservato i bambini da 6 a 12 mesi, alfine di misurare le reazioni comportamentali ed emotive, che a causa dell’autismo diventano talvolta anormali. Gli studiosi hanno ricercato le caratteristiche Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia Quando si manifesta l’autismo ? Alla festa del primo compleanno, i bambini affetti da autismo precoce manifestano già i sintomi della patologia, com’è il caso del bambino di destra. Nel corso dello studio sono stati valutati anche i bambini colpiti dalla forma tardiva di autismo e i bambini con sviluppo normale, come il bimbo a sinistra. che, presenti dall’età di un anno, annunciano l’autismo. Tra queste, la ridotta capacità di prestare attenzione visiva in presenza di più stimoli, l’assenza di reazione visiva quando i bimbi sono chiamati per nome e la reazione esagerata allo stress. I bebè che in seguito si sono rivelati autistici, presentavano già a 6 mesi certi comportamenti che lo lasciavano prevedere. I bambini erano passivi e inattivi a 6 mesi, ad un anno erano molto irritabili e tendevano a fissarsi su oggetti ben determinati. Gli autori evidenziano tuttavia che questi risultati sono stati raccolti in un numero relativamente ristretto di soggetti e che sono solo studi preliminari. Non è stato possibile correlare nessuno dei comportamenti osservati nel corso dello studio con i dati dello sviluppo cerebrale precoce. Gli scan cerebrali realizzati sui bambini pongono importanti problemi tecnici ed etici. Nonostante queste limitazioni, se i risultati fossero confermati, questo studio potrebbe permettere di diagnosticare con anticipo l’autismo. Sempre nel 2005, Archives of General Psychiatry, ha pubblicato in agosto un’analisi di film amatoriali di compleanni di bambini. Lo studio si è basato su un’analisi del 1994, considerata oggi come punto di riferimento per aver dimostrato per la prima volta l’esistenza di una regressione autistica. 29 Geraldine Dawson, ricercatrice all’Università di Washington (e autore dello studio del 1994) e la sua collega Emily Werner hanno visionato dei video amatoriali realizzati durante il primo e il secondo compleanno di 56 bambini, di cui 21 soffrivano di autismo precoce, 15 di autismo con inizio tardivo e 20 avevano uno sviluppo normale 10. Le ricercatrici hanno costatato che nei casi di autismo precoce i sintomi erano già visibili alla prima festa di compleanno, mentre a quel momento non si distinguevano i bambini che hanno sviluppato un autismo tardivo dai bambini in buona salute. Alla seconda festa, i bebè apparentemente in buona salute il primo anno e che avrebbero sviluppato la malattia più tardi, avevano già nettamente regredito, come confermato dai genitori. I ricercatori si adoperano ora per comprendere meglio le cause e la prognosi a lungo termine di questa regressione. 30 I disturbi del movimento L’attenzione alle mutazioni genetiche 32 Quando il meccanismo non funziona 33 Il GDNF continua ad interessare i ricercatori 34 Nuove applicazioni per la terapia genica 35 La stimolazione cerebrale profonda diventa più precisa 36 I topi danno delle indicazioni interessanti sulla corea di Huntington 37 31 A nche nel 2005 i risultati più importanti nel campo della ricerca sui disturbi motori sono arrivati dalla genetica. Gli studi clinici e di laboratorio hanno fornito nuovi trattamenti, hanno migliorato quelli preesistenti e creato nuovi metodi per trasportare i farmaci all’interno del cervello. I ricercatori hanno egualmente studiato i cambiamenti cellulari e molecolari associati ai disturbi del movimento per comprenderne meglio le cause. L’attenzione alle mutazioni genetiche Negli ultimi dieci anni, le scoperte nell’ambito della genetica hanno aperto nuove possibilità per comprendere le patologie umane. Numerosi risultati sono stati ottenuti nella comprensione della malattia di Parkinson. Sono stati identificati almeno cinque geni, responsabili delle forme familiari di questa patologia. Nonostante la relativa rarità delle forme ereditarie della malattia di Parkinson, lo studio di questi geni e delle proteine a loro associate ha permesso ai ricercatori di comprendere meglio come si sviluppa. Grazie a questi studi, i ricercatori hanno scoperto il ruolo causale della proteina alfasinucleina e la funzione protettiva della proteina parkina nella malattia di Parkinson. L’alfasinucleina è la maggiore costituente dei corpi di Lewy, i depositi proteici presenti classicamente nei neuroni delle persone affette da Parkinson. La proteina parkina sembra proteggere contro la malattia annullando l’azione tossica dell’alfasinucleina e stimolando la cellula a degradare ed eliminare i depositi. Due studi apparsi alla fine del 2004 associano le mutazioni del gene LRRK2 (leucine-rich repeat kinase 2) alla malattia di Parkinson 1, 2. Nel 2005 diversi lavori, di cui tre pubblicati nella rivista Lancet e altri tre in Neurology 3-8, mettono in relazione le mutazioni del LRRK2 con numerosi casi di Parkinson familiare e alcuni casi sporadici, non familiari, di questa malattia. 32 La versione più frequente di questa mutazione, definita G2019S, è stata riscontrata in circa 5 % dei casi familiari e 1 % di casi isolati. La G2019S sostituisce un aminoacido in una parte molto stabile del gene. I pazienti affetti da Parkinson portatori delle mutazioni del LRRK2 presentano una forma clinica della malattia simile alla malattia di Parkinson classica, l’età d’apparizione si situa tra 28 e 88 anni. La patologia può variare, in particolare per quel che concerne la presenza dei corpi di Lewy. Come abbiamo avuto modo di leggere nel numero di marzo degli Annals of Neurology, le immagini provenienti dalla PET effettuate nei pazienti portatori della mutazione La proteina codificata dal gene LRRK2 è denominata dardarina, dal basco dardara, « tremito ». La sua azione è sconosciuta, la mutazione del gene potrebbe attivare o disattivare questa proteina, oppure modificarne la modalità d’interazione con altre proteine. Le mutazioni della dardarina potrebbero aumentare la suscettibilità alla malattia di Parkinson favorendo la formazione di aggregati proteici o rendendo le cellule nervose più vulnerabili ai processi degenerativi 10. I disturbi del movimento G2019S del LRRK2 presentano dei segni d’impoverimento in dopamina simili a quelli che si osservano nei casi classici, non familiari della malattia di Parkinson 9. Sebbene siano migliaia i soggetti controllo privi di mutazioni, alcuni famigliari dei malati di Parkinson presentano le mutazioni del LRRK2 senza manifestare i sintomi, e un buon numero di persone affette dalla malattia con la mutazione LRRK2 non hanno degli antecedenti familiari. Questo significa che probabilmente altri fattori, genetici oppure ambientali, sono implicati nello sviluppo della malattia. Un elemento che può favorire l’apparizione della malattia nelle persone portatrici della mutazione del LRRK2 è l’età avanzata. La frequenza di questi casi associati alla mutazione aumenta infatti con l’età. In uno studio pubblicato nell’American Journal of Human Genetics, 17 % dei soggetti con la mutazione sviluppano la malattia di Parkinson all’età di 50 anni, 85 % dei soggetti con la mutazione ha dei sintomi all’età di 70 anni 11. Le mutazioni del LRRK2 potrebbero essere quelle più frequentemente associate con la malattia di Parkinson. Dato che esse possono esistere in assenza di qualsiasi antecedente familiare della malattia, certi autori ritengono che sarebbe utile un test genetico per gli studi clinici. Altri invece, ne contestano l’utilità poiché non esiste un trattamento preventivo della malattia e i test genetici non hanno un beneficio diretto sul piano medico. Quando il meccanismo non funziona Un accumulo di alfasinucleina nei neuroni è caratteristico della malattia di Parkinson, ma per ora non sappiamo nulla sulla funzione fisiologica di questa proteina e sulla relazione tra gli aggregati che essa forma e la neurodegenerazione. Il 17 giugno Chang-Wei Liu e i suoi collaboratori, hanno pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, come si formano gli aggregati di alfasinucleina nel contesto di un ciclo tossico per le cellule 12. Nel modello sperimentale della malattia di Parkinson l’alfasinucleina normale si 33 distende ed è degradata in modo incompleto. Permangono quindi dei frammenti di alfasinucleina che fungono da « semi », che attivano l’accumulo della proteina intera. Gli ammassi impediscono al sistema di degradazione delle proteine di funzionare normalmente, di conseguenza i frammenti di proteine completamente dispiegati aumentano. Ed il ciclo si autoalimenta fino ad uccidere la cellula. Gli ammassi di alfasinucleina non sono tipici solo del Parkinson ma si ritrovano anche nel cervello di persone affette da atrofia sistemica multipla (ASM), una malattia che può provocare dei sintomi di tipo parkinsoniano, vertigini, disturbi di linguaggio e demenza. In questi casi, gli aggregati di alfasinucleina predominano non nei neuroni ma negli oligodendrociti, le cellule che sintetizzano la mielina che funge da guaina protettrice per l’assone del neurone. Ikuru Yazawa e i suoi collaboratori hanno descritto sulla rivista Neuron del 24 marzo il primo modello di atrofia sistemica multipla nel topo. I ricercatori lo hanno ottenuto stimolando gli oligodendrociti a produrre un eccesso di alfasinucleina 13. Il modello dovrebbe permettere di comprendere meglio gli effetti dell’aggregazione di alfasinucleina nell’atrofia sistemica multipla e, nella stessa direzione, facilitare lo sviluppo di nuovi trattamenti. Accumulo di proteina Nella malattia di Parkinson, una proteina denominata alfasinucleina si accumula all’interno dei neuroni e costituisce un elemento della cascata di eventi che possono condurre alla morte Degradazione cellulare. incompleta Morte della cellula Aggregati tossici Inibizione della Frammenti di α-sinucleina degradazione proteica Circolo vizioso della citotossicità Il GDNF continua ad interessare i ricercatori 34 Si continuano a cercare nuovi trattamenti per la malattia di Parkinson. Attualmente la levodopa, un aminoacido precursore della dopamina, è il trattamento più efficace, ma la sua azione diminuisce con il tempo e talvolta provoca degli effetti secondari come le dischinesie (movimenti involontari). La levodopa agisce unicamente sui sintomi della malattia e non influenza il Contrariamente alla levodopa, il GDNF attraversa con difficoltà la fitta rete di capillari nel cervello che costituisce la barriera ematoencefalica. I ricercatori hanno quindi tentato di trasportare questa molecola direttamente nel cervello con dei minuscoli cateteri. A causa della mancanza di risultati probatori, gli studi sono stati abbandonati, ma non per questo i ricercatori hanno smesso di interessarsi al GDNF. Un articolo apparso in Nature Medicine indica la ricrescita delle cellule nervose evidenziata dall’autopsia di un uomo che aveva partecipato ad uno studio con il GDNF, che è deceduto in seguito a cause estranee al test 14. È la prima volta che si osserva un recupero cellulare nella malattia di Parkinson. I disturbi del movimento processo degenerativo. Test effettuati nell’animale da laboratorio dimostrano che il fattore trofico GDNF (glial cell line-derived neurotrophic factor) protegge e può restaurare la funzione dei neuroni che sintetizzano la dopamina lesi nella malattia di Parkinson. Un’altra tecnica consiste nel trapiantare nel cervello delle cellule che producono il GDNF. Situato alla biforcazione delle carotidi, il glomo carotideo è un piccolo corpuscolo che con i suoi chemorecettori, attraverso la respirazione regola la concentrazione sanguigna dei gas. Il glomo contiene delle cellule che producono dopamina e GDNF. Javier Villadiego e il suo gruppo hanno trapiantato nello striato di ratti resi « parkinsoniani », delle cellule del glomo carotideo e hanno costatato che esse continuano a sintetizzare per parecchio tempo grandi quantità di GDNF 15. Gli autori ritengono che queste cellule potrebbero essere utilizzate per arricchire in GDNF il cervello di persone affette dal Parkinson. La terapia genica offre altre possibilità per il trattamento con il GDNF. Il gene che codifica per il GDNF può essere incorporato in un virus reso inoffensivo e iniettato nel cervello, dove le cellule infettate dal virus portatore del gene producono il GDNF. Andisheh Eslamboli e i suoi colleghi hanno utilizzato questo metodo in un modello animale (primati con malattia di Parkinson) ; i risultati sono stati pubblicati nel Journal of Neuroscience del 26 gennaio 16. Le cellule dopaminergiche sono state protette da questo trattamento, nelle scimmie sono stati osservati dei comportamenti che suggeriscono il ristabilimento della funzione motoria. Nuove applicazioni per la terapia genica Gli effetti collaterali osservati con i trattamenti a base di levodopa potrebbero essere la conseguenza delle alternanze della sua concentrazione. Per 35 assicurare tassi costanti di dopamina nel cervello, è stato proposto un approccio con terapia genica. La terapia genica può essere usata da sola o in associazione con la levodopa. Thomas Carlsson e i suoi colleghi hanno utilizzato la terapia genica in un modello di ratto della malattia di Parkinson, impiantando i geni che codificano per due enzimi la cui azione congiunta produce la dopamina 17. I ratti trattati in questo modo hanno dimostrato una riduzione sia nei comportamenti di tipo parkinsoniano sia nei movimenti indotti dalla levodopa. Gli studi realizzati con i geni suggeriscono nuove strategie per la terapia genica, come hanno riportato Masanori Yamada e i suoi colleghi nel numero di febbraio di Human Gene Therapy 18. Introducendo il gene che codifica per l’alfasinucleina, i ricercatori hanno indotto nei ratti delle disfunzioni motorie di tipo parkinsoniano. Quando i ricercatori hanno trapiantato contemporaneamente il gene che codifica per la parkina, le disfunzioni erano meno severe, perché probabilmente questa proteina sopprime l’azione dell’alfasinucleina oppure ne distrugge i depositi. La stimolazione cerebrale profonda diventa più precisa La stimolazione cerebrale profonda (SCP) consiste nel trapiantare chirurgicamente degli elettrodi che stimolano con dei leggeri impulsi elettrici delle aree del cervello specifiche per ridurre i sintomi parchinsoniani, il tremito essenziale o i disturbi distonici (anomalie del tono muscolare). In un articolo apparso nel 2005 in Archives of Neurology, i ricercatori hanno comparato vari casi trattati con questa tecnica per cercare di aumentarne l’efficacia. Uno di questi studi coinvolgeva 41 pazienti nei quali i risultati della SCP non erano soddisfacenti 19. In oltre la metà dei casi è stato possibile migliorare gli effetti della SCP sostituendo gli elettrodi mal sistemati, riprogrammando il pacemaker o migliorando la terapia farmacologica. Dato che la SCP viene utilizzata sempre più spesso, gli autori insistono sulla necessità di controlli post-operatori e sulla scelta accurata dei pazienti che potrebbero trarne beneficio. 36 In un altro studio, apparso in Archives of Neurology, dei ricercatori si sono interessati alla sistemazione degli elettrodi, valutando le due localizzazioni più spesso utilizzate nella malattia di Parkinson : il globo pallido interno (GPi) e il nucleo subtalamico (NST) 20. Nell’insieme, le due possibilità offrono risultati simili, con un leggero vantaggio per il NST nel caso di I disturbi del movimento Elettrodi terapeutici La stimolazione cerebrale profonda allevia i sintomi dei disturbi del movimento. I ricercatori stanno perfezionando questa tecnica che consiste nell’impiantare degli elettrodi che stimolano con leggere scariche elettriche delle precise regioni cerebrali. movimenti molto lenti (bradicinesie). Le uniche complicazioni cognitive e comportamentali rilevate dagli autori sono state registrate con la stimolazione del NST. Una nota editoriale accompagnatoria suggerisce che sebbene occorreranno successive ricerche, un giorno si riuscirà a determinare la localizzazione ottimale degli elettrodi per ciascun individuo 21. I topi danno delle indicazioni interessanti sulla corea di Huntington Non esiste un trattamento efficace per la corea di Huntington. Questa malattia è generata da mutazioni che inducono la formazione di aminoacidi soprannumerari che si uniscono al segmento terminale della proteina denominata huntingtina. La proteina huntingtina forma degli aggregati rigidi nelle cellule nervose. Più la catena è lunga, più precocemente appare la malattia. Nel modello del topo della malattia di Huntington gli animali esprimono la mutazione della proteina huntingtina. Molti laboratori hanno utilizzato questo modello per studiare gli eventi cellulari e molecolari che conducono alla corea di Huntington e per scoprire potenziali trattamenti. La proteina mutante huntingtina attiva un importante gene regolatore denominato p53, che a sua volta attiva molti altri geni ; il risultato finale è la morte cellulare. Inattivando il gene p53 scompaiono i comportamenti anormali nei topi portatori della corea di Huntington sperimentale 22. È interessante notare che il p53 è inattivato in numerose forme di cancro e la bassa incidenza di tumori nei pazienti affetti dalla corea di Huntington potrebbe essere in relazione con i livelli elevati di p53. 37 I modelli sul topo hanno permesso di dimostrare anche che la proteina huntingtina mutata indebolisce l’interazione tra le cellule cerebrali alterando le normali concentrazioni di calcio dei neuroni 23, 24. Molti farmaci possono prevenire la morte cellulare nell’animale di laboratorio correggendo i tassi di calcio. Scott Q. Harper e i suoi colleghi sono riusciti a trattare con successo dei topi portatori della corea di Huntington sperimentale, come pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences il 19 aprile 25. Essi hanno utilizzato la tecnica dell’interferenza dell’RNA per inibire la sintesi della proteina mutata huntingtina, ottenendo una correzione quasi completa del comportamento degli animali. I risultati di questi diversi studi rilanciano la speranza di trovare finalmente un trattamento per la corea di Huntington nell’uomo. 38 Le lesioni del sistema nervoso Riparare il midollo spinale 40 Dare scacco agli inibitori 42 Le cellule staminali al servizio del midollo spinale 43 L’ictus 44 I tumori cerebrali 44 Traumi cranici e corticosteroidi 45 Delle protesi neuronali per il recupero post-traumatico 45 39 L e lesioni del sistema nervoso comprendono i traumi del midollo spinale (TMS) e i traumi cranici (TC), gli ictus e i tumori al cervello. A causa degli incidenti stradali e degli atti di violenza, i giovani pagano pesantemente le conseguenze dei traumi cranici e del midollo spinale. Gli ictus sono più frequenti nella popolazione anziana, mentre i tumori cerebrali possono colpire tutte le età, con un’incidenza maggiore nei bambini tra 3 e 12 anni e negli adulti tra 55 e 65 anni. La capacità di autoriparazione del sistema nervoso centrale è molto limitata, il denominatore comune delle lesioni consiste nell’invalidità spesso severa e cronica che esse provocano. Le lesioni sono secondarie ai traumi che colpiscono la colonna vertebrale o il cranio, alla privazione di ossigeno come negli ictus, all’invasione di cellule maligne come nei tumori. Ne consegue l’evidente interesse della ricerca fondamentale per i meccanismi di rigenerazione del sistema nervoso. Lo scopo è comprendere e potenziare quei meccanismi innati del cervello o del midollo spinale al fine di ottenere, dopo un trauma, un certo grado di recupero funzionale. Da qualche anno le lesioni del midollo spinale polarizzano gran parte di questa ricerca e il 2005 ha confermato questa priorità con numerose ricerche svolte in diversi laboratori. Riparare il midollo spinale Per comprendere la dinamica della degenerazione e rigenerazione che seguono un trauma del midollo spinale, Martin Kerschensteiner e i suoi colleghi di Harvard hanno studiato per più giorni la morte e la ricrescita degli assoni in un topo vivo che aveva subito un trauma. Per seguire quanto succedeva hanno utilizzato dei coloranti fluorescenti e osservato le lesioni a tempi diversi, con tecniche di imaging. Trenta minuti dopo la lesione, gli assoni erano parzialmente avvizziti. Da 6 a 24 ore dopo, alcuni dimostravano una rigenerazione spontanea, ma la ricrescita inizialmente vigorosa non ha avuto un seguito, gli assoni erano apparentemente divenuti incapaci di dirigersi nella buona direzione 1. 40 La complessità dei meccanismi di ricrescita nelle lesioni spinali ha richiesto strategie innovative. Come prima cosa occorre controllare l’azione delle molecole di mielina (la guaina protettrice che avvolge le fibre nervose) che alla presenza di una lesione inibiscono spontaneamente la ricrescita degli assoni. In seguito, bisogna risolvere il problema del tessuto cicatriziale che si forma nel luogo della lesione e che impedisce la riconnessione Assone Guaina di mielina Dendriti Le lesioni del sistema nervoso Una guaina che protegge In caso di lesioni del midollo spinale, la mielina, che avvolge le fibre nervose (assoni), è coinvolta in complessi meccanismi. Da una parte deve essere ricostituita negli assoni che rimangono, dall’altra contiene delle molecole che riducono la rigenerazione assonale. degli assoni. È necessario anche ricostituire la guaina di mielina lesa delle fibre nervose superstiti e indurre queste fibre ad oltrepassare il luogo della lesione per ristabilire le connessioni nervose. La rigenerazione del tessuto nervoso richiede quindi numerosi trattamenti e continuando la via intrapresa nel 2004, gli studiosi delle lesioni spinali confidano in un approccio combinato. Una combinazione promettente, riportata nel Journal of Neuroscience da un gruppo internazionale di ricercatori diretto da Damien Pearse del Miami Project to Cure Paralysis, associa un enzima che annulla i segnali inibitori a due tipi di cellule nervose che forniscono alla ricrescita il supporto strutturale che le indirizza nella direzione corretta 2. Gli autori hanno constatato un miglioramento significativo delle capacità e della coordinazione motorie nei ratti che presentavano gravi lesioni del midollo spinale, in seguito al trattamento con questo enzima. I ricercatori affermano che sebbene siano ancora preliminari, questi risultati potrebbero fornire delle indicazioni molto utili ai ricercatori che svilupperanno in futuro trattamenti combinati dei traumi midollari destinati agli uomini. In un altro studio, pubblicato nel Journal of Neuroscience, un gruppo di ricercatori diretto da Scott Whittemore ha combinato le cellule staminali con la terapia genica per rimielinizzare le fibre nervose di ratti colpiti da lesioni del midollo spinale. Dopo il trattamento realizzato su animali con lesioni del midollo spinale, la capacità di camminare è migliorata 3. La terapia in questione combina l’utilizzo di cellule staminali denominate « glialrestricted precursor cells », che sono indotte a differenziarsi in cellule di supporto del sistema nervoso centrale, con una terapia genica il cui obiettivo è di riprodurre gli effetti dei due tipi di fattori di crescita nervosi. 41 Questa associazione ha indotto la rimielinizzazione delle fibre nervose e migliorato la trasmissione del segnale nervoso sul tragitto rimielinizzato, promuovendo globalmente la funzione motoria. Lo studio ha dimostrato come la ricostituzione della mielina permette un recupero funzionale. È, in questo senso, il risultato più convincente mai ottenuto, ha scritto il National Institute of Neurological Disorders and Stroke che ha finanziato la ricerca. Gli autori di uno studio condotto dalla società di biotecnologie Biogen Idec hanno associato il metilprednisolone, un farmaco conosciuto per la sua azione antinfiammatoria, con una sostanza sperimentale che inibisce la proteina Nogo, capace di bloccare i segnali che limitano la crescita delle fibre nervose (attraverso il recettore Nogo-66) 4. Testata nei ratti portatori di lesioni midollari, la combinazione dei farmaci ha portato ad un recupero della motilità, della coordinazione e della ricrescita più pronunciate rispetto ai due trattamenti somministrati separatamente. Questi risultati confermano l’esistenza di differenti meccanismi di azione sui quali agire. Dare scacco agli inibitori L’identificazione e la manipolazione delle molecole che limitano o guidano la rigenerazione assonale, continua ad essere uno dei temi centrali della ricerca sui traumi midollari. Molti tra questi studi sono incentrati sui tre principali inibitori mielinici della rigenerazione assonale conosciuti come Nogo, Mag e OMG. Gli scienziati cercano di identificare i meccanismi molecolari che stanno alla base dell’inibizione della crescita dei nervi. Molte ricerche svolte da numerosi gruppi hanno illustrato la complessità di questa macchina cellulare. Differenti gruppi di ricercatori che studiano la proteina Nogo, hanno osservato nell’animale da laboratorio degli effetti contraddittori dopo il blocco o la delezione del recettore Nogo. Il gruppo diretto da Marc Tessier-Lavigne, ricercatore al Howard Hughes Medical Institute, che ora lavora alla Genentech, ha descritto in Proceedings of the National Academy of Sciences che la delezione genetica del recettore Nogo, sia nell’animale sia nelle colture di cellule, non è sufficiente per osservare una ricrescita nervosa 5. Questi risultati sono in contraddizione con gli effetti inibitori conosciuti della proteina Nogo. Secondo questo studio, il recettore in questione non è un semplice meccanismo on/off, come suggerito dal suo nome. 42 Steven Strittmatter e il suo gruppo della Yale University hanno dimostrato la complessità del recettore Nogo. Essi hanno pubblicato nel Journal of Altre indicazioni nel puzzle molecolare della proteina Nogo giungono indipendentemente da due gruppi del Children’s Hospital di Boston e della Biogen Idec. Gli articoli pubblicati nella rivista Neuron, mostrano che una proteina denominata talvolta TAJ e altre volte TROY, costituisce un ingranaggio importante del recettore Nogo 7, 8. In un altro articolo apparso sempre in Neuron, Mary Filbin e i suoi colleghi dell’Hunter’s College affermano di avere identificato una via nel recettore Nogo che può essere il punto di incontro dei tre inibitori noti della rigenerazione assonale contenuti nella mielina 9. Le lesioni del sistema nervoso Neuroscience che per questo recettore esistono differenti vie molecolari e che in funzione della via attivata si possono ottenere effetti diversificati 6. Recenti studi hanno evidenziato un possibile quarto attore dell’inibizione della rigenerazione assonale (oltre alle proteine Nogo, MAG e OMG). I ricercatori dell’University of Texas-Southwestern diretti da Luis Parada hanno pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences che una molecola, nota per il suo ruolo nella guida nello sviluppo assonale nel feto, l’Efrina-B3, durante tutta la vita inibisce la ricrescita delle fibre nervose nella mielina e che la sua azione inibitrice è equivalente a quella delle altre tre famiglie di inibitori combinate 10. Le cellule staminali al servizio del midollo spinale Lentamente ma con fermezza, gli scienziati progrediscono nell’arte di mettere le cellule staminali, in tutte le loro forme, al servizio della riparazione del midollo spinale. Nel 2005, diversi ricercatori dell’Università della California ad Irvine si sono avvicinati all’obiettivo lavorando in modo indipendente. Hans Keirstead e i suoi colleghi trapiantando degli oligodendrociti, le cellule di sostegno sviluppate a partire dalle cellule staminali embrionali umane prodotte in coltura, hanno ricostituito la mielina, migliorando le capacità motorie di ratti portatori di una lesione midollare 11. I risultati riportati nel Journal of Neuroscience, sono stati positivi per i trapianti praticati nei sette giorni dopo la lesione, ma non per quelli effettuati dopo dieci mesi. Questo dato indica che il trattamento deve essere realizzato abbastanza rapidamente. In un altro studio, i cui risultati sono stati pubblicati in Proceedings of the National Academy of Sciences, Brian Cummings e i suoi colleghi hanno 43 utilizzato delle cellule staminali neuronali adulte d’origine umana per rigenerare la mielina e migliorare la mobilità dei topi con lesioni al midollo 12. Le cellule trapiantate nove giorni dopo la lesione, si sono differenziate in oligodendrociti che hanno riparato la guaina di mielina che avvolge le fibre nervose, migliorando in questo modo la funzione motoria dei topi. L’ictus Attesi con impazienza, i risultati del Women’s Health Study, uno studio di grande ampiezza finanziato con soldi pubblici, dimostrano che la vitamina E non protegge le donne dall’ictus (non più che contro le patologie cardiovascolari o i tumori). I risultati pubblicati nel Journal of the American Medical Association, aggiungono una nuova importante informazione al dibattito in corso sui benefici della vitamina E e non forniscono alcun indizio che può giustificare la raccomandazione di un uso di questo antiossidante per la prevenzione delle malattie cardiovascolari o tumorali 13. Per quel che riguarda l’aspetto diagnostico, dei ricercatori dell’Università Johann Wolfgang Goethe, a Francoforte (Germania) hanno pubblicato nella rivista Lancet che l’ictus che colpisce la parte destra del cervello è diagnosticato meno frequentemente rispetto a quello che colpisce la parte sinistra 14. I ricercatori ipotizzano che la sintomatologia più sottile prodotta da queste patologie le rende più difficilmente diagnosticabili. Di conseguenza le persone che soffrono di ictus nella parte destra del cervello, sono anche quelle che con più difficoltà ricevono un trattamento adeguato. I tumori cerebrali Il rapporto finale sul Glioma Outcomes Project, che studia il tipo di cure apportate agli adulti con una diagnosi recente di glioma, dimostra che in certi ambiti i medici non applicano le linee guida e non ricorrono sufficientemente alla chemioterapia 15. Un dato particolarmente preoccupante emerso da questo studio è che l’80 % di questi pazienti per prevenire le crisi epilettiche indotte dal tumore cerebrale, assume dei farmaci anticonvulsivi. Tali farmaci non sembrano essere utili nei pazienti che non hanno mai sofferto di crisi epilettiche in precedenza e provocano effetti collaterali considerevoli. Gli autori sostengono che lo studio, pubblicato nel Journal of the American Medical Association fornirà ai clinici una linea guida utile per una pianificazione e una valutazione più sicura dei trattamenti. 44 Dei ricercatori dell’Università dell’Alabama, a Birmingham, hanno riportato nel Journal of Neuroscience che un farmaco utilizzato frequentemente per Le lesioni del sistema nervoso curare delle malattie infiammatorie può attenuare uno dei meccanismi molecolari che i gliomi utilizzano per difendersi. In uno studio preliminare sugli animali da laboratorio si è dimostrato che la sulfasalazina, un medicinale approvato dalla FDA per il trattamento delle malattie infiammatorie dell’intestino e dell’artrite reumatoide, riduce in modo spettacolare la dimensione dei tumori, se somministrato nella membrana che riveste la parete addominale 16. In un altro studio Gail Clinton e i suoi colleghi dell’Oregon Health and Science University hanno dimostrato nel topo che la herstatin, una proteina che inibisce gli enzimi implicati nella proliferazione delle cellule tumorali, arresta la crescita del glioblastoma, una forma di glioma particolarmente aggressiva e con una prognosi molto negativa. I risultati, pubblicati su Clinical Cancer Research, suggeriscono la possibilità di un potenziale trattamento di un’altra forma di cancro che colpisce le cellule gliali 17. Traumi cranici e corticosteroidi Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Lancet e realizzato su 10 000 adulti affetti da trauma cranico i corticosteroidi sarebbero inutili per combattere gli effetti del trauma cranico 18. Queste sostanze antinfiammatorie si usano da oltre trent’anni in caso di trauma cranico. Secondo gli autori, questi farmaci somministrati in seguito a un trauma acuto, aumentano il rischio di decesso nei quindici giorni successivi al trauma e aumentano la probabilità di un decesso o di un handicap grave nei sei mesi seguenti. In una dichiarazione sulla rivista Lancet, Phil Edwards, ricercatore presso la London School of Hygiene and Tropical Medicine e autore principale della ricerca, ha chiesto di rivalutare urgentemente l’uso di corticosteroidi nei pazienti che hanno subito un trauma cranico. Delle protesi neuronali per il recupero post-traumatico Centinaia di migliaia di americani sono paralizzati o soffrono di mobilità ridotta in seguito ad un trauma oppure a una malattia del sistema nervoso. Per molti di loro, le protesi neuronali rappresentano la sola speranza per ritrovare una parte di autonomia. Nuove idee nate in alcuni laboratori specializzati stanno cercando di sviluppare delle « interfacce cervello-macchina » per ridare una certa mobilità alle persone che soffrono di paralisi. Il principio è quello di captare, grazie a degli elettrodi impiantati nel cervello, i segnali nervosi che vengono utilizzati per muovere un braccio protesico o un mouse di computer. Questo permetterebbe alla persona di realizzare dei movimenti semplici, come prendere degli alimenti o attivare un commutatore controllato da un computer, unicamente con il pensiero. 45 Prendere possesso Il ricercatore Miguel Nicolelis con in braccio una scimmia che ha imparato a controllare un braccio protesico utilizzando dei segnali cerebrali. Nel cervello della scimmia, dopo l’apprendimento sono stati rivelati dei cambiamenti strutturali. 46 Miguel Nicolelis e il suo gruppo della Duke University hanno insegnato a delle scimmie ad azionare un braccio robotico con l’aiuto dei segnali elettrici emessi dal cervello. I ricercatori si sono accorti dell’esistenza di cambiamenti nelle strutture cerebrali che permettevano di controllare il braccio come se facesse parte dell’animale. Pubblicati nel Journal of Neuroscience, i risultati avranno delle implicazioni nel ristabilimento delle funzioni nelle persone paraplegiche o affette da altri disturbi neurologici 19. Nel frattempo, Andrew Schwartz e il suo gruppo dell’Università di Pittsburgh, durante la riunione annuale dell’American Association for the Advancement of Science, hanno annunciato che una scimmia ha imparato ad usare una protesi della dimensione di un braccio di un bambino, così da riuscire a portare alla bocca dei frammenti di frutti e di legumi 20. Neuroetica Nuove pubblicazioni ampliano la prospettiva 48 I progressi tecnologici pongono delle scelte difficili 49 Un ponte tra scienza e religione 50 Le implicazioni neuroetiche del caso Schiavo 51 I problemi etici posti dal neuroimaging 52 47 L a neuroetica è una nuova disciplina che comprende l’etica delle neuroscienze e le neuroscienze dell’etica. L’etica delle neuroscienze, davanti al crescente sviluppo dei mezzi investigativi sul cervello, riflette su come condurre la ricerca scientifica. Le neuroscienze dell’etica cercano invece di capire i diversi aspetti legati alle nostre funzioni cerebrali e all’etica, come per esempio se esiste nel cervello un « centro » dell’etica oppure se i legislatori devono tener conto delle scoperte sul cervello. I neuroscienziati hanno cominciato ad interrogarsi sull’impatto etico, sociale e politico del progresso delle neuroscienze dal 2002, quando sono apparse le prime pubblicazioni su questi temi e la prima conferenza ufficiale sulla neuroetica, « Neuroethics : Mapping the Field ».1 Da allora la neuroetica ha avuto uno sviluppo prodigioso, gli articoli a questo soggetto sono quasi quadruplicati e le conferenze sono sempre più numerose. È un soggetto che per sua natura interessa anche altre discipline, dal diritto alla religione. Nel corso del 2005 le riflessioni, le conferenze e le pubblicazioni sono proseguite fornendo un ulteriore contributo che chiarisce e precisa i mille risvolti della neuroetica. Nuove pubblicazioni ampliano la prospettiva La prima opera scientifica e il primo libro divulgativo sulla neuroetica sono stati pubblicati nel 2005 e permetteranno ai lettori di familiarizzarsi con le questioni che presto o tardi solleciteranno la loro attenzione in modo formale oppure informale. 48 In ottobre e in novembre, la Oxford University Press ha pubblicato un testo che diverrà sicuramente il riferimento per le generazioni future dei ricercatori in neuroetica. Il libro è stato pubblicato in concomitanza con le conferenze annuali dell’American Society for Bioethics and Humanities e della Society for Neuroscience, che è composta di 35 000 membri. Il libro dal titolo Neuroethics : Defining the Issues in Theory, Practice, and Policy, è stato scritto da Judy Illes, che lavora presso la Stanford University. Per realizzare quest’opera, Judy Illes ha domandato a 21 pensatori di esprimersi sugli aspetti più attuali della neuroetica come ad esempio le decisioni d’ordine morale, la creatività, il neuroimaging, i trattamenti delle malattie neurodegenerative, le relazioni tra la genetica e le neuroscienze, gli aspetti sociali e politici della ricerca sul cervello e la rappresentazione della mente nella cultura popolare. Neuroetica Pubblicato in aprile, The Ethical Brain, di Michael S. Gazzaniga grande specialista delle neuroscienze cognitive e ricercatore al Dartmouth College, è stato per il grande pubblico la prima vera occasione di confrontarsi con gli aspetti etici delle neuroscienze. Nel suo libro che sarà ripubblicato nel maggio del 2006 da HarperCollins, l’autore esplora le questioni etiche che si pongono nel corso di tutta la vita, dallo sviluppo del feto fino alla vecchiaia ; spiega come le neuroscienze ridefiniscono ciò che sappiamo sulla memoria e come queste scoperte potrebbero rimettere in questione i fondamenti del nostro sistema legale ; dimostra le implicazioni delle neuroscienze nella natura del ragionamento morale e in quale modo queste implicazioni avranno un ruolo nella comprensione di ciò che ci rende umani. I progressi tecnologici pongono delle scelte difficili I campi della neuroetica si stanno ampliando sempre più e nuovi soggetti sono presi in considerazione. A questo scopo, nel mese di maggio, una conferenza ha cercato di catalogare le tipologie dei soggetti. Sponsorizzata dalla Dana Foundation, il National Institute of Mental Health, la Columbia University College of Physicians and Surgeons e la biblioteca del Congresso, la conferenza « Hard Science, Hard Choices : Facts, Ethics and Policies Guiding Brain Science Today » ha riunito presso la biblioteca del Congresso a Washington, D.C. 2, circa 150 partecipanti per dibattere sul neuroimaging, neurotecnologia, e psicofarmacologia. I co-direttori della conferenza, Gerald Fischbach, decano della Columbia Medical School e Ruth Fischbach, direttrice del Columbia Center for Bioethics, hanno selezionato questi temi poiché proprio in questi ambiti i progressi sono particolarmente rapidi e le questioni etiche emergono più velocemente che in altri settori della neurobiologia. Durante la mezza giornata consacrata alle tecniche di neuroimaging, i partecipanti si sono interessati alle proprietà dei mezzi dell’imaging e a come possano essere utilizzati per studiare comportamenti complessi e diversi tra loro come la religiosità, il senso morale, il razzismo, la menzogna o l’uso del denaro. Uno dei rischi maggiori, hanno affermato i partecipanti, è quello di fraintendere il senso di queste ricerche. È, infatti, immaginabile che i risultati ottenuti con le tecniche di neuroimaging siano soggetti a facili manipolazioni e addirittura che questi risultati possano servire come base per ridefinire i principi fondamentali sui quali si basa la nostra società e non necessariamente in modo corretto o benefico. 49 Il secondo soggetto, la neurotecnologia, ha permesso di dibattere sui dilemmi etici sollevati da certe tecniche utilizzate in clinica. Una delle tecniche discusse è la stimolazione cerebrale profonda. Si tratta di una tecnica utilizzata per il trattamento del Parkinson e che si estenderà anche ad altri ambiti come il trattamento del dolore cronico, i disturbi dell’umore e altre patologie. La stimolazione cerebrale profonda consiste nel trapiantare chirurgicamente degli elettrodi che stimolano delle aree del cervello specifiche. Tuttavia si agisce in modo empirico in quanto le neuroscienze sono ben lontane dal conoscere il funzionamento dei circuiti cerebrali coinvolti. Questa tecnica aggiunge alle questioni di bioetica « classiche » già affrontate in altri campi – (l’accesso alle cure, il consenso informato, i problemi assicurativi) – i rischi neurologici o comportamentali dalle conseguenze incalcolabili. Altrettanto preoccupante è il pericolo che la disperazione dei pazienti associata ad un ottimismo esagerato dei ricercatori e dei media, porti ad un utilizzo prematuro di queste tecniche. Questa tendenza non è tanto da mettere in relazione con la stimolazione cerebrale profonda, ma con altre neurotecnologie, come le protesi neurali. Il rischio è quello di illudere il pubblico con messaggi semplicistici che sono seguiti da inevitabili delusioni. L’ambito nel quale è stato più difficile trovare un consenso etico è quello della psicofarmacologia. Nessuno contesta il fatto di curare con dei farmaci le persone realmente malate, tuttavia le situazioni non sono mai bianche o nere ed è proprio nella zona grigia che le indicazioni non trovano un consenso chiaro. Riferendosi agli studi di Martha Farah, Alan Leshner e altri collaboratori 3, 4, i partecipanti hanno riconosciuto che il dibattito sull’uso di farmaci per incrementare le capacità intellettive, non farà che intensificarsi nei prossimi anni. Questa pratica solleva delle questioni metafisiche che vanno dalla responsabilità dell’individuo alla definizione del « sé ». Un ponte tra scienza e religione 50 Gli specialisti delle neuroscienze sanno che i progressi nella loro disciplina sollevano delle questioni che appartengono tradizionalmente all’ambito religioso. Per collegare questi due mondi l’American Academy for the Advancement of Science, il Massachusetts Institute of Technology e il Boston Theological Institute hanno promosso a Cambridge, Massachusetts, una conferenza che costituirà la pietra miliare della neuroetica. Durante questa conferenza dei neuroetici e alcuni rappresentanti di più I partecipanti si sono interrogati sulle implicazioni filosofiche dei progressi medici e chirurgici che possono agire sul cervello e modificare il comportamento. Queste tecniche toccano, infatti, alcuni degli ambiti più intimi dell’uomo e sollevano questioni fondamentali sulla natura del libero arbitrio, la scelta morale e il significato del sé. Durante la conferenza si sono affrontati temi che vanno dall’ottimizzazione farmacologica e tecnologica delle facoltà neuronali alle recenti ipotesi dell’esistenza di un substrato neuroanatomico che sta alla base del ragionamento morale. Neuroetica comunità religiose hanno dialogato sul cervello, sulla neuroetica e la responsabilità del sé. Questa conferenza, il cui scopo era incoraggiare la discussione tra persone di tradizione culturale differente, ha permesso ai teologi di farsi un’idea più precisa dei progressi neuroscientifici che pongono un problema etico e ai ricercatori di approfondire la loro riflessione su certi aspetti del lavoro svolto all’interno dei laboratori. Le implicazioni neuroetiche del caso Schiavo Il caso molto politicizzato e mediatizzato di Theresa Marie (Terri) Schiavo ha dimostrato cosa accade quando delle persone che difendono dei punti di vista opposti non riescono più a dialogare. Questo caso è stato al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica durante il 2005 e ha sollevato anche da parte di esperti numerosi commenti in articoli scientifici. In stato vegetativo dal 1990 in seguito ad un traumatismo cerebrale grave, Theresa Schiavo è stata al centro di una lunga battaglia politico-giuridica che è terminata con il suo decesso il 31 marzo 2005, dopo che la giustizia su richiesta del marito ha autorizzato la rimozione dei tubi che la mantenevano in vita. Questo caso è stato un esempio emblematico dei problemi giuridici, medici ed etici che possono essere creati dai progressi neuroscientifici. La tecnica e le conoscenze permettono di prolungare l’esistenza, ma ci costringono a ridefinire i criteri di vita e di morte. Pur avendo senza dubbio sensibilizzato il pubblico, il caso Schiavo non ha risolto nessuna di queste questioni. Joy Hirsch, della Columbia University, ha firmato nel Journal of Clinical Investigation di maggio un editoriale nel quale fa osservare che molte altre famiglie e pazienti americani si trovano in situazioni analoghe 5. Negli Stati Uniti si contano 15 000 casi di stati vegetativi persistenti, in cui il paziente non dà alcun segno di coscienza e 100 000 stati di coscienza minima 6, interrotti da periodi di coscienza intermittente. 51 Hirsch e il suo gruppo con l’ausilio dell’imaging per risonanza magnetica funzionale, hanno paragonato l’attività cerebrale dei pazienti con uno stato di coscienza minima con quella dei soggetti in buona salute 7. I risultati pubblicati in Neurology, sembrano indicare che certi circuiti cerebrali dei pazienti con coscienza minima sono capaci di un trattamento dell’informazione che non differisce da quello dei soggetti in buona salute. Non è la stessa cosa per i pazienti in stato vegetativo persistente. Altre ricerche dovranno determinare se l’esistenza di un’attività cerebrale può essere assimilata ad una forma qualsiasi di coscienza e se esistono degli stati di coscienza non evidenziabili con l’imaging. Sebbene tra gli scienziati esista un consenso sulla definizione e sulla diagnosi dello stato minimo di coscienza 8, essi non sono ancora riusciti a precisare un modello standard, cioè delle linee direttive diagnostiche, prognostiche e terapeutiche basate sui fatti. Attirando l’attenzione sulle questioni ancora irrisolte, Joseph J. Fins, del Weill Medical College, Cornell University, ha ricordato nel numero di marzoaprile del Hastings Center Report 9 il tragico caso di Terry Wallis, che nel 2003 ha ricominciato a parlare dopo un periodo di coma iniziato più di vent’anni prima in seguito ad un grave trauma cranico. Secondo Fins, Terry Wallis nei mesi successivi al trauma, è passato da uno stato vegetativo ad uno stato di coscienza minima, senza che la diagnosi fosse stata modificata per anni. In modo più generale, Fins afferma che un trauma cranico grave obbliga i professionisti e i non professionisti a contrapporre alla questione della coscienza un concetto non troppo semplicistico della nozione di ristabilimento. Dopo una grave lesione cerebrale, il recupero si svolge spesso sull’arco di anni o decine di anni, durante i quali la vita del paziente e della sua famiglia può essere profondamente perturbata. I problemi etici posti dal neuroimaging Come indicato dalla selezione dei temi della conferenza della biblioteca del Congresso, sapere come gestire i molti problemi etici emersi in seguito allo sviluppo delle tecniche di neuroimaging, non è solamente un problema teorico e richiede risposte rapide. Tali questioni sono state discusse nel corso di parecchie riunioni scientifiche e affrontate in molte pubblicazioni. 52 Il 6 e il 7 gennaio, i National Institutes of Health e la Stanford University hanno promosso una conferenza sulle scoperte fortuite fatte nell’ambito Neuroetica della ricerca in neuroimaging. Cinquanta professionisti, tra i quali etici, radiologi e neurologi, hanno elaborato delle raccomandazioni su cosa fare quando un’immagine ottenuta con l’imaging rivela delle differenze in rapporto all’architettura cerebrale attesa, dei tumori o altre patologie cerebrali. Queste scoperte sono molto frequenti : differenze di forma e di struttura del cervello si osservano in circa il 20 % delle persone che partecipano agli studi e dal 2 all’8% dei soggetti mostra delle anomalie cliniche significative 10. È stato possibile ottenere un consenso su numerose questioni, ma altre rimangono senza risposta e il lavoro continua 11, 12. La discussione si è tenuta anche nelle sessioni consacrate a questo soggetto dai National Institutes of Health, i temi affrontati sono stati il finanziamento della ricerca sulle scoperte fortuite legate all’imaging corporeo e alla genetica, e l’interesse che questa questione suscita all’estero. L’American Journal of Bioethics ha consacrato al neuroimaging gran parte del suo numero di marzo-aprile del 2005. In un articolo Judy Illes ed Eric Racine della Stanford University, fanno osservare che il neuroimaging solleva alcune delle questioni etiche poste dalla genetica, in particolare in relazione con la predizione delle malattie e i rischi d’intromissione nella sfera privata 13. Più che un profilo genetico, essa evidenzia alcuni aspetti privati della personalità come la moralità o gli atteggiamenti sociali, fino ad ora ritenuti non quantificabili. Così come i genetisti temono l’uso discriminatorio dei test genetici, i neuroetici temono che i datori di lavoro, i giudici, gli insegnanti utilizzino delle informazioni fornite dal neuroimaging per scartare dei possibili lavoratori, per convincere di colpevolezza una persona indiziata o per ammettere uno studente ad un corso. Simili pratiche sarebbero contestabili perché, affermano gli autori, non esistono (ma esisteranno mai ?) delle norme di base utilizzate come standard per il cervello umano. Gli scan cerebrali pubblicati nei giornali non sono « immagini » nel senso abituale del termine, ma delle composizioni informatiche costituite dalla media delle differenti attivazioni ottenute in un grande numero di individui. Non si è nemmeno riusciti a trovare degli standard per la produzione di queste immagini. In breve, Illes et Racine affermano che è importante non lanciarsi fuori dei laboratori con pericolose speculazioni sul senso da attribuire alle immagini ottenute con le nuove tecniche. Un’altra applicazione possibile e particolarmente controversa dell’imaging cerebrale è la rivelazione di menzogne. Paul Root Wolpe, Kenneth Foster e 53 Daniel Langleben, ricercatori all’Università della Pennsylvania, affermano nello stesso numero dell’American Journal of Bioethics, che è prematuro vedere nell’imaging cerebrale una sorta di poligrafo della mente, nonostante i considerevoli investimenti consacrati allo sviluppo di questa tecnica nell’ambito della lotta contro la criminalità e il terrorismo 14. A prescindere dai dubbi sull’affidabilità, gli autori mettono in guardia dal rischio di una commercializzazione precipitosa di questo metodo. Potrebbe arrecare danni alla ricerca che vuole migliorare queste tecniche ed essere abusato in ambito della giustizia penale. Secondo gli autori sarebbe preferibile che la ricerca prosegua e che i forum scientifici, giuridici e civili riflettano sui problemi etici emergenti, anticipando i tempi. 54 Le malattie neuroimmunologiche Nuovi trattamenti per la sclerosi multipla (SM) 56 L’immunoterapia per i disturbi neurologici 58 Implicazioni virali 60 55 A nche nel 2005, la giovane disciplina della neuroimmunologia ha continuato la sua crescita, le pubblicazioni sono state numerose e il ventaglio di malattie studiate è in costante aumento. Questi studi hanno arricchito le conoscenze sul rapporto esistente tra il sistema nervoso e il sistema immunitario. Diversi nuovi approcci promettenti sono stati proposti per la cura della sclerosi multipla, una malattia autoimmune. Le ricerche suggeriscono inoltre che l’immunoterapia potrebbe avere un’implicazione nei trattamenti di patologie neurologiche non autoimmuni, come la malattia di Alzheimer o quella di Parkinson. I neuroimmunologi hanno scoperto nuovi indizi che indicano che certi virus possono essere implicati nello sviluppo di determinate malattie neurologiche. Nuovi trattamenti per la sclerosi multipla (SM) La sclerosi multipla è una malattia cronica progressiva che si sviluppa quando il sistema immunitario aggredisce parte del sistema nervoso centrale (SNC), provocando una distruzione progressiva della mielina, la sostanza lipidica che isola le cellule nervose. I trattamenti della SM sono limitati dagli effetti collaterali delle terapie che, essendo dirette verso l’insieme delle cellule immunitarie espongono l’organismo a potenziali infezioni. Il gruppo di ricerca diretto da Peter Calabresi, del Johns Hopkins Hospital di Baltimora, in Proceedings of the National Academy of Sciences afferma di avere identificato un canale specifico per il potassio, il Kv1.3, presente in grandi quantità sulle cellule T del sistema immunitario che attaccano la guaina protettiva di mielina 1. Nuovi farmaci diretti contro questa molecola avrebbero senza dubbio degli effetti secondari più contenuti rispetto alle terapie usate attualmente. In studi precedenti, Calabresi e il suo gruppo hanno osservato che le cellule T isolate nel sangue delle persone colpite dalla SM esprimono in quantità più importante il Kv1.3. Nello studio del 2005, analizzando il tessuto cerebrale dei pazienti deceduti, i ricercatori hanno ritrovato queste cellule e hanno ipotizzato che esse potrebbero contribuire allo sviluppo della malattia. I farmaci che inibiscono il Kv1.3 sarebbero più specifici rispetto a quelli che inibiscono l’insieme del sistema immunitario, mostrandosi più efficaci senza provocare troppi effetti collaterali. 56 In uno studio pubblicato nel numero di marzo di Nature Medicine, Burkhard Becher e i suoi colleghi dell’Università di Zurigo, Svizzera, si sono interessati ad un altro tipo di cellula immunitaria situata nelle prossimità dei vasi La maggior parte degli specialisti ritiene che questo segnale parte dalla microglia. Le scoperte di Becher e del suo gruppo hanno dimostrato che le cellule che presentano l’antigene sono le cellule dendritiche, un tipo di cellula completamente differente. Occorre notare che persino la loro localizzazione all’interno del cervello è diversa da quella che s’immaginava. A partire da queste nozioni, gli scienziati cercano nuovi farmaci per trattare la sclerosi multipla. Le malattie neuroimmunologiche sanguigni del cervello, la cellula dendritica perivascolare 2. I ricercatori sostengono che queste cellule possiedono un ruolo cruciale come « cellule che presentano l’antigene », segnalando a certe componenti del sistema immunitario di riconoscere e distruggere le cellule di mielina. Un altro promettente approccio per la cura della SM implica l’uso delle cellule staminali. Nel 2003, un gruppo di ricercatori diretti da Gianvito Martino e il suo gruppo dell’Ospedale San Raffaele di Milano, Italia, aveva dimostrato che le cellule staminali trapiantate in topi colpiti da sclerosi multipla, migravano verso le regioni del cervello lese dall’ infiammazione e si differenziavano in cellule cerebrali mature capaci di riparare attivamente la mielina compromessa 3. In uno studio più recente, i ricercatori hanno dimostrato che le cellule staminali proteggono il sistema nervoso centrale dalle lesioni croniche provocate da malattie come la sclerosi multipla, i tumori cerebrali e le lesioni del midollo spinale, agendo come un potente e naturale farmaco antinfiammatorio 4. Lo studio, realizzato nei topi portatori di una forma di sclerosi multipla che alterna crisi a remissioni, dimostra che le cellule neuronali staminali adulte possono sostituire le cellule infiammatorie che provengono dal sangue senza nuocere alle cellule sane. Uno degli aspetti più inediti dello studio è la prova che una percentuale significativa delle cellule staminali giunte al SNC infiammato, non si differenzia in cellule del tessuto nervoso. Secondo gli autori, le cellule staminali neuronali adulte trapiantate che non si trasformano e non sono integrate nel tessuto ospite, sfuggono al processo infiammatorio e sopravvivono. Queste cellule indifferenziate possono ridurre il rischio di tumori, un problema associato al trapianto di cellule staminali. Un altro gruppo di ricercatori ha studiato l’uso nella SM delle cellule staminali ottenute dal midollo osseo dei pazienti stessi 5. In uno studio pubblicato nel Journal of Experimental Medicine, gli scienziati hanno constatato 57 che il trapianto di cellule emopoietiche staminali (HSCT) può essere usato per bloccare la progressione della sclerosi multipla, riducendo il numero di cellule T che attaccano la guaina di mielina che protegge le cellule nervose. Studiando i globuli bianchi dei pazienti e analizzando le proprietà molecolari delle loro cellule T prima e dopo il trapianto, gli autori hanno dimostrato che le cellule staminali si erano differenziate e avevano ricostituito quasi interamente il sistema immunitario. Questi dati dimostrano che l’HSCT esercita un beneficio a lungo termine sulla sclerosi multipla, che non è secondario ad una soppressione o modulazione temporanea del sistema immunitario (come per i trattamenti convenzionali), ma al fatto che egli « riinnesca » il sistema immunitario riducendo notevolmente il rischio di nuovi attacchi autoimmuni. L’immunoterapia per i disturbi neurologici Modificare il sistema immunitario sembra essere un trattamento utile anche per i disturbi neurologici. Richard Hartman e i suoi colleghi della Loma Linda University hanno analizzato l’uso potenziale dell’immunoterapia per la malattia di Alzheimer e i risultati sono stati pubblicati nel Journal of Neuroscience 6. Uno dei loro obiettivi era determinare se i topi PDAPP – dei topi transgenici utilizzati nel modello sperimentale della malattia di Alzheimer – presentavano un declino cognitivo legato all’età analogo a quello osservato nell’essere umano colpito dalla malattia. Quando questi topi invecchiano, nel loro cervello si formano delle placche composte dalla proteina beta amiloide, simili a quelle che si trovano nel cervello delle persone affette dalla malattia di Alzheimer. Gli scienziati hanno scoperto che con l’età questi topi sviluppano dei deficit nell’apprendimento spaziale, un tipo di apprendimento profondamente leso dalla malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno cercato di determinare se le placche e il deficit di comportamento potessero essere ridotti ad uno stadio avanzato della malattia. I topi PDAPP anziani sono stati trattati con un anticorpo anti-beta amiloide per diverse settimane. Gli scienziati hanno constatato una riduzione del livello delle placche dell’ordine del 50 %, associato ad un miglioramento significativo delle capacità di apprendimento spaziale. 58 Secondo i ricercatori, i dati confermano che le placche di beta amiloide nel cervello sono responsabili dei disturbi dell’apprendimento e della memoria associati alla malattia di Alzheimer. I risultati dello studio suggeriscono che influenzare questa proteina utilizzando le tecniche di immunoterapia, potrebbe essere un’opzione di trattamento efficace nell’uomo. Le malattie neuroimmunologiche Ricercare una proteina Nei topi che presentano delle placche di proteina beta-amiloide, come quella evidenziata nella fotografia, i ricercatori sono riusciti a ridurre l’accumulo di proteina e a migliorare l’apprendimento somministrando agli animali un anticorpo antibeta amiloide. Studi antecedenti ipotizzavano come strumento terapeutico valido per la malattia di Alzheimer l’uso di una vaccinazione. Analogamente, un gruppo dell’Università della California a San Diego, diretto da Eliezer Masliah, ha supposto che un vaccino potesse avere un effetto terapeutico anche nella malattia di Parkinson. La malattia di Parkinson è caratterizzata dalla morte dei neuroni dopaminergici di una determinata regione del cervello. Secondo studi recenti, la degenerazione dei neuroni è imputabile almeno in parte ad un accumulo anomalo di una proteina chiamata alfasinucleina. I ricercatori hanno utilizzato l’alfasinucleina umana per vaccinare dei topi portatori del modello umano della malattia di Parkinson. I risultati pubblicati nella rivista Neuron, confermano la riduzione di alfasinucleina all’interno e attorno ai neuroni colpiti e la diminuzione della neurodegenerazione. I dati dello studio suggeriscono che la vaccinazione riduce effettivamente l’accumulo di alfasinucleina nei neuroni e che quest’approccio potrebbe essere un trattamento potenziale della malattia di Parkinson 7. In un altro articolo, pubblicato nel numero di febbraio degli Annals of Neurology, degli scienziati della Johns Hopkins University e del Kennedy Krieger Institute di Baltimora, diretti da Carlos A. Pardo hanno analizzato la potenziale implicazione dell’azione neuroimmunologica e il ruolo delle cellule gliali (le cellule di supporto ai neuroni) nello sviluppo dell’autismo 8. L’autismo è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato dalla grave menomazione delle competenze sociali, del comportamento e della comunicazione. 59 Paragonando il tessuto cerebrale ottenuto da autopsie di pazienti autistici con quelli d’individui in buona salute, i ricercatori hanno dimostrato che nel cervello dei pazienti si manifestano delle risposte immunitarie e gliali più marcate, caratterizzate dall’attivazione della loro microglia e astroglia. Secondo questi ricercatori, le risposte più intense fanno parte della reazione neuroinfiammatoria associata al sistema immunitario innato del sistema nervoso centrale. Occorre ora chiarire come e quando la microglia e l’astroglia sono attivate nel cervello dei pazienti affetti da autismo. Le risposte gliali osservate nei cervelli dei soggetti affetti da autismo, potrebbero essere delle reazioni intrinseche, o primarie, dovute a delle perturbazioni della funzione gliale o delle reazioni tra i neuroni e le cellule gliali sopraggiunte nel corso dello sviluppo del cervello. Ma potrebbero anche essere delle reazioni secondarie ad eventi sconosciuti (come infezioni o l’azione di tossine) che colpiscono il cervello nella fase prenatale o postnatale. Indipendentemente da ciò, i dati di questo studio mostrano l’esistenza nell’autismo di processi neuroimmunologici e offrono alla ricerca un ambito per nuovi approcci diagnostici e di trattamento. Autismo e sistema immunitario I preparati istologici di pazienti affetti da autismo (immagini A e C), mostrano un aumento di cellule gliali, le cellule di sostegno. Questo incremento è probabilmente indice di una risposta neuroimmunologica diretta contro il disturbo. Implicazioni virali 60 Uno studio diretto da Yoshihisa Yamano, del National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINDS), i cui risultati sono stati pubblicati nel numero di maggio del Journal of Clinical Investigation, suggerisce per la prima volta che una proteina codificata da un virus potrebbe indurre la Sebbene sia stato dimostrato nei roditori che rimuovere o interferire con la funzione delle cellule T regolatrici conduce allo sviluppo spontaneo di malattie autoimmuni, s’ignora per quale ragione le cellule perdono la facoltà di contenere gli attacchi del sistema immunitario in certe malattie umane. Lo studio di Yamano e del suo gruppo ha rilevato nei pazienti che soffrono di una rara malattia neurologica evolutiva associata ad un virus (la mielopatia associata al HTLV-I o paraparesi spastica tropicale), una disfunzione delle cellule T regolatrici che potrebbe contribuire allo sviluppo del processo infiammatorio in seno al SNC. Tali scoperte potrebbero spiegare come mai alcune infezioni virali sono spesso associate alle malattie autoimmuni. Le malattie neuroimmunologiche disfunzione di una componente essenziale del sistema immunitario umano 9. Questa componente, denominata cellula T regolatrice svolge un ruolo importante per il mantenimento della capacità del sistema immunitario di riconoscere i propri tessuti, contrastando le malattie autoimmuni. La perdita della funzione delle cellule T regolatrici è stata evidenziata in molte malattie autoimmuni, tra le quali il diabete di tipo 1, la poliartrite reumatoide e la sclerosi multipla. Peter G. Kennedy e Margaret L. Opsahl, dell’Università di Glasgow, Scozia, hanno descritto in Brain, la possibile implicazione virale nello sviluppo della sclerosi multipla 10. Combinando metodi nuovi e tradizionali, i ricercatori hanno confermato quanto già segnalato in lavori realizzati precedentemente cioè l’abbondante presenza dell’herpes virus umano di tipo HHV-6 attorno alle lesioni della mielina nella sclerosi multipla. 61 Il dolore Trattamenti combinati per il dolore neuropatico 64 Lenire il dolore senza passare dal cervello 65 Il trattamento del dolore intenso 66 Le basi genetiche della percezione del dolore 66 Una banca dati per rilevare gli ambiti insufficientemente finanziati della ricerca sul dolore 68 63 L a pressione arteriosa, il polso, la respirazione e la temperatura sono i parametri vitali che permettono ai medici di valutare lo stato di salute di una persona. Oggi, numerosi clinici ritengono che anche il dolore sia un parametro egualmente importante, anche se non oggettivamente misurabile. La percezione individuale del dolore può, infatti, fornire delle indicazioni preziose sullo stato di salute e di benessere di una persona. Nel corso del 2005, le ricerche sul dolore sono proseguite, sia nella comprensione dei meccanismi del dolore, sia nella ricerca di strategie di cura. Due studi hanno evidenziato l’efficacia di certe associazioni farmacologiche in caso di dolori secondari a delle lesioni dei nervi periferici e di dolori intensi. Un’altra ricerca ha dimostrato che l’attivazione di determinate cellule porta alla liberazione di sostanze che sopprimono il dolore, modificando la modalità di reazione agli stimoli nocivi dei neuroni. Gli scienziati hanno scoperto le basi genetiche della variazione della percezione del dolore e di una sindrome algica frequente che colpisce il sistema muscoloschelettrico. Circa il 45 % degli americani, almeno una volta nella vita, consulta un medico per dei dolori ; tuttavia, un gruppo di ricercatori ha calcolato che questo sintomo rappresenta solamente 1 % dei fondi che i National Institutes of Health accordano per la ricerca in questo ambito. Trattamenti combinati per il dolore neuropatico Il dolore neuropatico è una conseguenza di malattie nervose o traumi ed è una complicazione frequente del diabete, dei tumori, delle infezioni da HIV o da herpes zoster e delle patologie neurodegenerative. L’intensa sensazione di bruciore indotta dal dolore neuropatico può compromettere profondamente la qualità della vita. I farmaci utilizzati per trattarlo non sono totalmente efficaci e provocano effetti collaterali che ne limitano l’utilizzo. 64 Per cercare nuove opportunità di trattamento per il dolore neuropatico, alcuni ricercatori della Queens University in Canada hanno scoperto che la somministrazione contemporanea di due farmaci comunemente usati per curare il dolore secondario alle neuropatie diabetiche e alle nevralgie erpetiche, riduce maggiormente il dolore rispetto alle singole somministrazioni. Nel numero del 31 marzo del New England Journal of Medicine 1, Ian Gilron e i suoi colleghi hanno descritto gli effetti dell’associazione della gabapentina con la morfina. La combinazione porta ad una riduzione del dolore neuropatico maggiore rispetto alla somministrazione dei singoli farmaci. La gabapentina, che allevia gli spasmi nella nevralgia, è il trattamento Quarantuno dei 57 pazienti – 35 affetti da neuropatia diabetica e 22 da nevralgia posterpetica – hanno portato a termine il test. Utilizzando una scala del dolore da 0 a 10 (più alta la cifra indicata, più intenso è il dolore), i pazienti hanno giudicato il proprio dolore prima del trattamento con una media quotidiana di 5,72. Somministrando i diversi trattamenti, i ricercatori hanno osservato i seguenti risultati con le dosi più alte tollerate dai pazienti : 4,49 per il placebo, 4,15 per la gabapentina, 3,70 per la morfina e 3,06 per l’associazione gabapentina-morfina. Il dolore di prima linea per il dolore neuropatico. La morfina è un narcotico potente che è utilizzato per curare un altro tipo di dolore, da moderato a severo. Occorre notare che le dosi più forti tollerate sono state decisamente inferiori quando i farmaci erano combinati, rispetto a quando erano somministrati separatamente, indice del fatto che potrebbe esistere un’interazione in cui gli effetti si sommano. I ricercatori hanno anche constatato che gli effetti collaterali (costipazione, sonnolenza, secchezza della bocca) erano meno numerosi con l’associazione rispetto alla somministrazione separata dei due farmaci. Gilron e il suo gruppo affermano che in considerazione dei potenziali benefici offerti dalle associazioni di farmaci, come quello appena citato, sono necessari nuovi studi per paragonare altre combinazioni di farmaci analgesici nel trattamento del dolore neuropatico. Lenire il dolore senza passare dal cervello I farmaci che mimano il meccanismo che il corpo utilizza per contrastare il dolore potrebbero essere dei candidati promettenti per il trattamento del dolore acuto, infiammatorio e neuropatico. Dei ricercatori dell’Università dell’Arizona hanno descritto nel numero del 22 febbraio di Proceedings of the National Academy of Sciences 2, una sostanza capace di attivare il recettore CB2, appartenente alla famiglia dei cannabinoidi. Questi recettori sono molto studiati perché sono attivati dal principio attivo della marijuana, o cannabis. I ricercatori hanno osservato che l’attivazione di questo recettore stimola la liberazione di una sostanza capace di ridurre il dolore. L’azione avverrebbe sui neuroni che inviano al sistema nervoso i segnali provenienti dai recettori sensoriali : pelle, occhi, orecchie, naso e lingua. I farmaci che interagiscono con i recettori cannabinoidi CB2 non svolgono la loro azione sul sistema nervoso centrale dato che questo organo ne è 65 sprovvisto. Questa è senza dubbio una proprietà molto importante poiché l’uso di numerosi analgesici è limitato dai molteplici effetti collaterali che essi esercitano sul sistema nervoso centrale. Il trattamento del dolore intenso Dei ricercatori che lavorano presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center hanno identificato delle terapie più efficaci per il dolore moderato e severo, combinando degli antinfiammatori non steroidei (FANS) come ibuprofene e naproxene, con dei farmaci analgesici più potenti. Utilizzati singolarmente, i FANS hanno un effetto limitato per il controllo del dolore da moderato a severo. In uno studio pubblicato il 2 marzo da Brain Research 3, i ricercatori hanno valutato l’efficacia della combinazione dei FANS con degli oppioidi su dei topi affetti da dolore da moderato a severo. Applicando uno stimolo termico alla coda dei topi, i ricercatori hanno costatato che certi FANS potenziano considerevolmente l’effetto analgesico degli oppioidi prescritti frequentemente, come l’idrocodone e l’ossicodone. Altre associazioni si rivelano poco utili per attenuare il dolore da moderato a severo. Per esempio, mentre l’ibuprofene rinforza l’azione analgesica dell’idrocodone e dell’ossicodone altri FANS non hanno lo stesso effetto sull’idrocodone. L’ibuprofene non accresce l’azione analgesica del fentanile e della morfina. I FANS annullano l’attività di un enzima specifico, la cicloossigenasi. Due forme di quest’enzima – la Cox-1 e la Cox-2 – promuovono il processo infiammatorio. I ricercatori affermano che sono necessari altri studi per determinare se diverse combinazioni di FANS e oppioidi inibiscono l’infiammazione e la risposta al dolore interagendo con la Cox-1 e la Cox-2. I ricercatori ritengono che testando clinicamente diverse combinazioni è possibile trovare farmaci che migliorano l’analgesia. Le basi genetiche della percezione del dolore 66 Un significativo numero di persone sviluppa il dolore cronico, una condizione caratterizzata da un’accresciuta sensibilità al dolore. Per cercare di sapere per quale ragione certe persone sviluppano questo tipo d’ipersensibilità, degli scienziati dell’Università della Carolina del Nord hanno costatato che delle sottili variazioni genetiche potevano rendere una persona meno sensibile agli stimoli dolorosi e proteggerla da una malattia frequente e invalidante : la sindrome cronica dell’articolazione temporomandibolare (SAT). Numero dei soggetti (totale N = 202) 50 40 Bassa sensibilità al dolore Alta sensibilità al dolore Il dolore Variazione della sensibilità al dolore nella popolazione 30 20 10 –20 –10 0 10 20 30 Differenze genetiche, effetti significativi Le persone con dei bassi livelli di certi enzimi, sono più sensibili al dolore e possono sviluppare più facilmente un disturbo cronico del dolore. I ricercatori diretti da Luda Diatchenko, del Comprehensive Center for Inflammatory Disorders dell’Università della Carolina del Nord hanno seguito per più di cinque anni 202 donne in buona salute da 18 a 34 anni, per determinare il nesso tra la sensibilità al dolore e lo sviluppo della SAT, una malattia caratterizzata da mal di testa, otalgie, dolori mascellari e al volto. Centrando l’attenzione sulla genetica di un enzima denominato catecoloO-metiltrasferasi (COMT), che controlla alcune molecole legate alla risposta allo stress, i ricercatori hanno effettuato diverse esperienze che spaziavano dalla biologia molecolare, alle colture di cellule fino al comportamento animale, allo scopo di evidenziare i rapporti esistenti tra il COMT e la sensibilità al dolore. (Altri ricercatori hanno studiato il nesso tra il COMT e la schizofrenia, vedi pag. 72.) I risultati pubblicati nel numero di gennaio di Human Molecular Genetics 4, mostrano che le persone con un tasso ridotto di COMT sono più sensibili al dolore e hanno un rischio più elevato di sviluppare una SAT. Gli autori hanno costatato che le piccole varianti del gene che produce il COMT possono predire il rischio di sviluppo di questa sindrome, che colpisce globalmente il 10 % degli americani. I ricercatori sostengono che queste 67 osservazioni potrebbero essere applicate anche ad altre sindromi algiche come la fibromialgia, la sindrome del colon irritabile o certi disturbi sensoriali cronici. Diatchenko e i suoi colleghi ritengono che il loro lavoro potrebbe condurre allo sviluppo di indicatori genetici per gli stati dolorosi oltre ad avere delle implicazioni terapeutiche. Il gruppo sta ora studiando nuovi trattamenti farmacologici per la sindrome dell’articolazione temporomandibolare e altri disturbi analoghi. Una banca dati per rilevare gli ambiti insufficientemente finanziati della ricerca sul dolore Circa 50 milioni di americani soffrono di dolori persistenti, 45 % degli abitanti degli Stati Uniti consultano un medico a causa del dolore almeno una volta nella loro vita. Questi dati hanno condotto dei ricercatori dell’Università dello Utah ad analizzare il budget che i National Institutes of Health (NIH) investono nella ricerca sul dolore. Pubblicati nel numero di maggio del Journal of Pain 5, i risultati mostrano che nel 2003 i NIH hanno accordato un sussidio a 518 progetti sul dolore, con un finanziamento complessivo che si aggira attorno ai 170 milioni di dollari. Questa somma rappresenta solo l’uno per cento del sussidio complessivo accordato dai NIH nel 2003. I ricercatori hanno classificato i sussidi in due categorie, primari e secondari. I sussidi primari, sono diretti a dei progetti il cui scopo è fare progredire le conoscenze sul dolore, a combattere il dolore o a curarlo. I sussidi secondari invece sono destinati a quei lavori che studiano il dolore poiché sintomo di una malattia, ma che contribuiscono solo in maniera marginale al progredire delle conoscenze teoriche. Usando queste osservazioni, i ricercatori hanno creato una banca dati interattiva che fornisce delle informazioni oggettive e verificabili sui budget che i NIH consacrano alla ricerca sul dolore e permettono di trovare gli ambiti in cui il finanziamento è insufficiente. I ricercatori affermano che i politici, le organizzazioni professionali, i ricercatori e i clinici così come le persone che dovranno in futuro orientare la ricerca sul dolore, potranno trovare in quest’analisi uno strumento utile. 68 Una nota editoriale insiste sul fatto che questa banca dati (denominata CRISP, Computer Retrieval of Information of Scientific Projects), oltre a Il dolore permettere di determinare gli stati clinici associati al dolore che non beneficiano di una sufficiente attenzione da parte degli scienziati e delle istanze che mettono a disposizione i finanziamenti, dà la possibilità di classificare i progetti di ricerca secondo criteri più dettagliati e con una specificità che non è invece offerta da quella dei NIH. 69 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze La schizofrenia 72 La depressione 74 Le dipendenze 76 Piste per il futuro 78 71 U n tema centrale della ricerca sulla salute mentale nel 2005 è stato il ruolo dei geni e la loro interazione con i fattori ambientali, come ad esempio le tossicomanie. La ricerca sulla schizofrenia si è interessata ai geni che controllano il metabolismo del neurotrasmettitore dopamina ; mentre la ricerca sulla depressione si è concentrata su quelli che controllano il metabolismo del neurotrasmettitore serotonina ; infine la ricerca sulle dipendenze ha analizzato i geni che controllano la sintesi dei recettori per i neurotrasmettitori che interagiscono con le sostanze additive. La schizofrenia Nella ricerca sulla schizofrenia, da alcuni anni i ricercatori hanno focalizzato i loro interessi sui differenti alleli o varianti genetiche, dei geni che codificano per la Catecol-O-Metiltrasferasi (COMT), l’enzima che degrada la dopamina (i ricercatori studiano il COMT anche per la comprensione dei meccanismi del dolore ; vedi pagina 67). Dalle ricerche è emersa una piccola variante : in certi individui, una sequenza specifica del gene COMT codifica per l’aminoacido denominato valina (Val) e in altre persone per l’aminoacido chiamato metionina (Met). Questa piccola differenza, anche se limitata ad un solo aminoacido, modifica l’attività dell’enzima COMT. L’attività enzimatica è meno pronunciata negli individui che presentano due alleli per la forma Met e più intensa negli individui con la forma Val nei due alleli. L’attività enzimatica occupa invece una posizione intermediaria negli individui che hanno una copia di ciascun allele. Alcuni, ma non tutti gli studi, associano il fatto di possedere due alleli Val ad un rischio più elevato di sviluppare la schizofrenia. Secondo questi studi, l’intensa attività dell’enzima COMT osservata nei soggetti Val/Val aumenta la degradazione di dopamina sintetizzata nei neuroni che proiettano i loro assoni nella parte frontale del cervello, la corteccia prefrontale. Questo provoca un deficit nelle funzioni della corteccia prefrontale e dei disturbi della memoria e dell’attenzione, caratteristici della schizofrenia. 72 Nell’ambito di uno studio i cui risultati sono stati pubblicati in Biological Psychiatry, Terrie Moffitt e il suo gruppo hanno costatato che i soggetti Val/Val consumatori regolari di cannabis prima dei 15 anni, hanno un rischio aumentato di sviluppare una volta adulti un disturbo temporaneo simile alla schizofrenia ; questo rischio esiste, ma in forma minore anche Nel corso di uno studio analogo, pubblicato in Nature Neuroscience, Andreas Meyer-Lindenberg e i suoi collaboratori hanno utilizzato la tomografia ad emissione di positroni, una tecnica d’imaging cerebrale, per dimostrare che quando una persona esegue un compito mentale l’attività neuronale della sua corteccia prefrontale (CPF) è « regolata » dalla dopamina. L’intensità dell’attività neuronale osservata durante lo svolgimento dei compiti di memorizzazione dipenderebbe, in altri termini, dalla quantità di dopamina liberata. Domandando a dei volontari di compiere degli esercizi di memoria, i ricercatori hanno costatato nei portatori del COMT Met, una correlazione positiva tra la sintesi della dopamina nel mesencefalo e il flusso di sangue osservato nella corteccia prefrontale, che valuta indirettamente l’attività neuronale. I dati convalidano l’ipotesi secondo la quale l’attività della CPF è regolata dalla dopamina. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze negli individui Val/Met. Non esiste un aumento del rischio nei soggetti Met/Met e nelle persone che hanno cominciato a consumare cannabis in età adulta, indipendentemente dalla composizione degli alleli COMT. Secondo gli autori, l’interazione gene-cannabis è limitata ad un periodo sensibile dello sviluppo cerebrale, l’adolescenza. I risultati convalidano gli indici, sempre più numerosi, di un nesso tra l’allele Val e la psicosi, ma solo nelle persone esposte ad influenze ambientali, come ad esempio il consumo di canapa 1. Nelle persone portatrici del COMT Val, invece, si osserva una correlazione inversa tra la sintesi di dopamina e il flusso sanguigno misurato nella CPF durante l’esecuzione dello stesso compito. Entrambi i gruppi, cioè i portatori del gene con la variante Met e quelli portatori della variante Val, hanno effettuato correttamente l’esercizio di memorizzazione, ma i risultati indicano che nella CPF dei portatori Val, i tassi di dopamina non raggiungono i Regolazione neuronale La tomografia ad emissione di positroni evidenzia le aree in cui la dopamina, durante lo svolgimento di compiti mentali, « regola » l’attività neuronale nella corteccia prefrontale. I livelli di dopamina legati a determinati profili genetici possono indicare un ruolo di questi profili nel rischio di sviluppare la schizofrenia. 73 livelli adeguati per permettere un’efficacia ottimale. Questo potrebbe spiegare, affermano gli autori, il meccanismo attraverso il quale il COMT Val accresce il rischio di schizofrenia nelle persone che possiedono questa forma genetica 2. La depressione Numerosi studi familiari indicano che i parenti di primo grado delle persone che soffrono di depressione hanno un rischio più importante di sviluppare a loro volta dei disturbi depressivi maggiori, paragonati al gruppo controllo. Gli studi evidenziano il ruolo dei geni nella trasmissione della depressione maggiore. Myrna Weissman e i suoi collaboratori hanno pubblicato in Archives of General Psychiatry i risultati di uno studio di lunga durata, su ben tre generazioni, sulla depressione maggiore. I risultati dimostrano che circa il 60 % dei bambini con dei nonni e dei genitori affetti da depressione presentano almeno un disturbo psichiatrico di natura ansiosa o depressiva. Nei bambini di cui un genitore soffre di depressione, ma nessun nonno, il rischio di essere affetto da malattie psichiatriche non è maggiore se paragonato ai bambini che non hanno i genitori depressi 3. Uno dei geni che potrebbe essere implicato nella trasmissione della depressione è il gene che codifica per la proteina che recupera la serotonina nei neuroni, una volta liberata. Una volta « catturata », la serotonina può nuovamente essere rilasciata nel corso della stimolazione neuronale seguente. Tempo fa, i ricercatori hanno scoperto che la neurotrasmissione insufficiente della serotonina svolgeva un ruolo chiave nella depressione. Il gene del trasportatore della serotonina presenta due alleli, denominati « lungo » e « corto » in relazione alla lunghezza del gene che li costituisce. L’allele corto (« c ») è associato ad una disponibilità ridotta del trasportatore della serotonina. 74 Non si conosce ancora esattamente per quale ragione l’allele «c» predispone alla depressione. René Hen e i suoi colleghi alla fine del 2004 hanno dimostrato che nei topi l’inibizione del trasportatore della serotonina nel corso dei primi stadi di sviluppo conduceva a comportamenti ansiosi negli animali adulti. I dati suggeriscono che una disponibilità ridotta del trasportatore della serotonina e di conseguenza anche della serotonina, influenza lo sviluppo dei circuiti emotivi del cervello 4, 5 e che l’allele « c » contribuisce a questo fenomeno riducendo la disponibilità del trasportatore. Corteccia del cingolo anteriore Corteccia prefrontale Corteccia sottocallosa posteriore Amigdala Nel 2005, Daniel Weinberger e i suoi collaboratori hanno corroborato questa tesi, pubblicando in Nature Neuroscience dei risultati secondo i quali le persone che possiedono l’allele « c » sono predisposte ad un controllo inadeguato delle loro emozioni negative 6. I ricercatori hanno constatato in queste persone il funzionamento insufficiente di un circuito che partecipa al controllo di queste emozioni. Essi hanno dapprima osservato che nei soggetti in buona salute che possiedono l’allele « c » e che non hanno mai presentato dei disturbi psichiatrici, è presente una risposta eccessiva dell’amigdala alla presenza di stimoli visivi aggressivi. L’iperattività dell’amigdala, una regione cerebrale situata bilateralmente all’altezza delle orecchie, è associata ad un aumento dei tratti del carattere di tipo ansioso, a loro volta associati ad un rischio elevato di depressione. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze Terapia dei processi cognitivi e del comportamento Gli studi realizzati nel 2005 hanno fornito nuove informazioni sull’implicazione di certe aree cerebrali nella depressione. È stato il caso dell’amigdala, la corteccia del cingolo anteriore e la corteccia sottocallosa posteriore. Analogamente è stato dimostrato un ruolo della corteccia prefrontale nella schizofrenia e nelle dipendenze. Gli scienziati hanno determinato che la risposta eccessiva dell’amigdala è apparentemente conseguente al fatto che una parte della regione denominata corteccia del cingolo anteriore (ACC), situata sull’asse mediano del cervello, non esercita adeguatamente la sua funzione inibitrice. La parte detta rostrale della corteccia del cingolo anteriore (rACC), riceve numerose afferenze di neuroni serotoninergici provenienti da una regione inferiore del cervello. Studi realizzati in precedenza avevano dimostrato una riduzione dell’attività del rACC nella depressione e la tristezza. Marc Caron e il suo gruppo, hanno pubblicato in Neuron che esiste un altro allele che sembra predisporre alla depressione. Questo allele sembra 75 pilotare la produzione di una forma di enzima che differisce leggermente dalla triptofano idrossilasi 2, implicata nella sintesi della serotonina. Sebbene la forma mutante dell’enzima differisce di un solo amminoacido, in laboratorio si misura una produzione di serotonina inferiore del 80 % a quella normale. Gli autori hanno scoperto questa mutazione in 9 dei loro 87 pazienti affetti da depressione maggiore e in 3 dei 219 soggetti controllo. Queste tre persone presentavano certi segni clinici d’ansia e di depressione leggera, ma non soffrivano di depressione maggiore. In vista di questi risultati, sembra che una produzione di serotonina insufficiente accresca sensibilmente il rischio di sviluppare una depressione maggiore 7. L’aumento del tasso di serotonina è uno degli obiettivi dei farmaci antidepressivi. Tuttavia, fino al 20 % delle persone affette da depressione, non rispondono né agli antidepressivi, né alla psicoterapia, né alla terapia elettroconvulsiva. Uno studio preliminare pubblicato sulla rivista Neuron, da Helen Mayberg e il suo gruppo mostra che questi pazienti rispondono talvolta alla stimolazione elettrica della corteccia subcallosa posteriore (PSC), la regione situata in profondità nell’asse mediano del cervello. Contrariamente all’attività del rACC, che è ridotta nei pazienti depressi, quella del PSC è esagerata durante la depressione e resta iperattiva nei pazienti non sensibili ai trattamenti tradizionali. I ricercatori hanno impiantato in entrambi gli emisferi cerebrali degli elettrodi nelle vie che provengono dal PSC in sei pazienti affetti da depressione resistente al trattamento. Inviando delle stimolazioni elettriche ad alta frequenza in queste regioni, hanno ottenuto una riduzione dell’attività del PSC. Nel corso della stimolazione, tutti i pazienti hanno dichiarato spontaneamente di avere ottenuto un beneficio sull’umore, una sorta di « calma improvvisa », la « scomparsa della sensazione di vuoto » e un rinnovato interesse per le cose. In quattro dei sei pazienti, la stimolazione è proseguita per un periodo di sei mesi, portando ad un miglioramento costante dell’umore fino alla fine del trattamento 8. Le dipendenze 76 Come nella schizofrenia e nella depressione, i geni sono senza dubbio implicati nelle dipendenze. I ricercatori si sono interessati in particolare al gene che codifica per il recettore mu-oppioide (MOR). Nell’organismo sono presenti delle sostanze simili agli oppiacei (morfina, eroina) che esercitano il loro effetto sedativo legandosi a questo recettore. Il naltrexone, una molecola che blocca il recettore MOR, evidenzia il suo ruolo nell’alcolismo. Questo farmaco ha un’efficacia comprovata per combattere l’alcolismo, ma l’obbligo di assumerne quotidianamente alcune pastiglie fa spesso fallire il trattamento. Per ovviare a quest’inconveniente, gli scienziati hanno sviluppato una composizione di naltrexone che si assume nella forma di iniezione muscolare una volta al mese. James Garbutt e il suo gruppo l’hanno testato nell’ambito di un grande studio clinico durante il quale due dosi differenti di farmaco sono state combinate con delle misure psicosociali di debole intensità. I risultati pubblicati nella rivista Journal of the American Medical Association dimostrano che il trattamento più efficace si verifica con la dose più importante delle due posologie, e per delle ragioni ancora sconosciute, negli uomini è molto più efficace che nelle donne 10. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze Un allele del gene MOR – denominato 118G – è particolarmente interessante, poiché il recettore che esso codifica fissa le endorfine tre volte più intensamente del normale. Gavin Bart e i suoi collaboratori hanno scoperto un nesso tra quest’allele e la dipendenza dall’alcol in una popolazione svedese. Nel loro studio pubblicato in Neuropsychopharmacology, i ricercatori affermano di non sapere per quale ragione l’allele 118G contribuisce al rischio di alcolismo, ma ritengono che potrebbe essere secondario ad un cambiamento della risposta allo stress 9. Anche il recettore cannabinoide CB1 sembra svolgere un ruolo importante nella dipendenza alle droghe, all’alcol e in altri comportamenti additivi. Questo neurorecettore normalmente lega una molecola prodotta nell’organismo simile al THC, la sostanza attiva del cannabis. In un articolo apparso nel numero di agosto di Trends in Pharmacological Sciences, Taco De Vries e Anton Schoffelmeer affermano che il recettore cannabinoide CB1 è importante non tanto per i classici effetti gratificanti delle droghe, ma piuttosto per il rinforzo dell’effetto di condizionamento classico (di tipo pavloviano) che s’istalla durante il processo di dipendenza 11. Questo meccanismo implica la formazione di ricordi associati all’assunzione di droga, la cui evocazione è sufficiente per suscitare il desiderio di droghe, ad esempio il fatto di trovarsi in un quartiere dove si consumava della cocaina rinforza il desiderio di assumerne. Dei farmaci come il rimonabant, bloccando il recettore cannabinoide CB1, inibiscono questo desiderio. Tuttavia queste molecole non agiscono sul desiderio di droga 77 indotto dallo stress, come può accadere davanti ad un licenziamento dal lavoro. Queste scoperte sembrano indicare che il problema delle dipendenze deve essere affrontato con dei farmaci che agiscono su più fronti. Dei progressi sono stati fatti anche nella conoscenza dei circuiti neuronali della dipendenza. Il circuito cerebrale che ha attirato maggiormente l’attenzione è quello situato tra la corteccia prefrontale (CPF) e il nucleo accumbens (NA), una regione del mesencefalo. Le fibre nervose che vanno dalla CPF al NA liberano il glutammato, un neurotrasmettitore che svolge un ruolo importante nell’apprendimento e nella memoria. Le fibre che vanno dal NA alla CPF liberano la dopamina, che come abbiamo visto precedentemente aiuta il CPF a focalizzare l’attenzione. Peter Kalivas, Nora Volkow e James Seamans hanno pubblicato in Neuron una teoria completa delle dipendenze che implica un disfunzionamento alle due estremità di questo circuito 12. Secondo questa teoria, nella CPF dei cambiamenti nelle sostanze chimiche implicate nei segnali intracellulari fanno in modo che i segnali inviati dai recettori dopaminergici D1 prevalgono su quelli degli altri recettori della dopamina. La persona diviene così sensibile unicamente agli indicatori connessi alla droga e insensibile a quelli modulati da altri recettori della dopamina, come per esempio quelli legati al piacere sessuale. I cambiamenti che intervengono nel funzionamento dei neuroni e nelle cellule di sostegno (cellule gliali) posti tra la CPF e il NA, si traducono con una liberazione più abbondante di glutammato che stimola la ricerca compulsiva di droga. Gli autori propongono alcuni possibili interventi farmacologici, attraverso i quali interrompere il circolo vizioso lungo il tragitto di questo circuito e ristabilire delle condizioni normali. Piste per il futuro In gennaio 2005, la Josiah Macy Jr. Foundation ha invitato una trentina di psichiatri, neurologi e neuroscienziati a riflettere su come aumentare l’interdisciplinarietà nella formazione di futuri neurologi e psichiatri. All’insegna della convergenza delle neuroscienze, delle scienze del comportamento, della neurologia e della psichiatria, la conferenza era presieduta da Joseph B. Martin, MD, PhD, decano della facoltà di medicina di Harvard. 78 Le raccomandazioni seguenti sono state elaborate dai partecipanti: seguire i laureati in questi ambiti per aiutarli ad orientarsi nella loro carriera ; creare La discussione più importante sulla formazione medica è stata sulla necessità di un’interdisciplinarietà nella formazione ospedaliera di base. I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze per la ricerca e le neuroscienze cliniche una biblioteca nazionale con materiale didattico ; sostenere con mezzi appropriati l’interesse per quest’ambito manifestato dagli studenti ; offrire ai candidati al PhD di neurobiologia un’esperienza clinica nel loro futuro ambito di ricerca. 79 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee Sonno, appetito e obesità 82 Un ruolo più importante per l’orexina 83 I progressi nella ricerca sulla degenerazione maculare senile 85 Alla scoperta della natura sensoriale dell’olfatto 87 81 M olte funzioni corporee di base, come il sonno, l’appetito o l’olfatto, sono rimaste per anni avvolte dal mistero. Questi enigmi biologici restati per decenni inaccessibili ai ricercatori, sembrano improvvisamente rivelare i loro segreti. Il merito è in buona parte dovuto alle nuove tecnologie che offrono agli scienziati metodi investigativi senza precedenti e permettono di evidenziarne i meccanismi più complessi. Diversi studi pubblicati nel 2005 hanno delucidato alcuni elementi nei misteri della percezione cerebrale degli odori o i nessi tra il sonno, l’appetito e il comportamento. Un passo avanti è stato realizzato anche nello sviluppo di procedure e tecniche che permettono di aiutare le persone che soffrono di degenerazione maculare, grazie alle idee provenienti da ricerche svolte nell’ambito di altre patologie. Sonno, appetito e obesità Da molto tempo gli scienziati sospettavano l’esistenza di nessi tra le vie biologiche che controllano il sonno e quelle che regolano l’appetito. Un rapporto pubblicato nel numero di maggio 2005 della rivista Science, realizzato da ricercatori della Northwestern University, convalida quest’ipotesi. Joseph Bass, Fred Turek e collaboratori hanno studiato il comportamento, l’alimentazione e la regolazione del metabolismo di topi portatori di una mutazione del gene dell’orologio circadiano che partecipa al controllo del ritmo circadiano del sonno, della veglia e dell’appetito 1. Quando questi topi sono sottomessi a delle diete normali o ricche in lipidi, sviluppano molti più grassi corporei rispetto ai loro congeneri privi della mutazione dell’orologio circadiano. La regolazione del loro orologio interno interferisce con la quantità di sonno, con l’orario al quale si alimentano e con lo stoccaggio delle calorie in eccesso. Inoltre, i topi con la mutazione presentano dei tassi elevati di colesterolo, di trigliceridi e di glucosio nel sangue oltre che un tasso ridotto d’insulina. Tutti questi fattori costituiscono un rischio di obesità, di sviluppo di malattie cardiache e di diabete, sia per il topo sia per l’uomo. 82 Secondo questo studio, le irregolarità degli schemi di alimentazione rivelati dai ricercatori potrebbero essere secondari a dei cambiamenti dei tassi di leptina e di grelina, due messaggeri chimici che svolgono ruoli importanti e opposti nella regolazione dell’appetito. Queste osservazioni sono convalidate dai risultati di altri studi effettuati sull’uomo e pubblicati alla fine Emmanuel Mignot e i suoi colleghi della Stanford University e dell’Università del Wisconsin (Madison), hanno domandato a più di 1000 volontari di trascorrere una notte in un laboratorio del sonno e di sottomettersi il giorno seguente ad un’analisi del sangue. Come riportato nel numero di dicembre del 2004 di Public Library of Science Medicine, i partecipanti che hanno dormito meno di otto ore, avevano un indice di massa corporea più elevato di quelli che avevano dormito otto ore o più. I soggetti che hanno dormito meno, presentavano dei tassi elevati di grelina (che segnala la sensazione di fame) e dei livelli ridotti di leptina (che contribuisce all’impressione di sazietà) 2. In un lavoro pubblicato nel numero di dicembre 2004 di Annals of Internal Medicine, Eve van Cauter e i suoi colleghi dell’Università di Chicago, affermano di avere scoperto in giovani uomini in buona salute privati di sonno per il test, un elevato tasso di grelina, una riduzione della leptina e un’accresciuta sensazione di fame 3. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee del 2004, che dimostrano l’importanza di questi due ormoni nel ciclo sonno-appetito. Aggiungendo a questi risultati quelli degli studi effettuati nel 2005 nei topi e le conclusioni di un lavoro pubblicato nel 2004, secondo il quale un’esperienza di deprivazione di sonno ha indotto in giovani uomini in buona salute un’elevazione del tasso di una proteina la cui presenza costituisce un fattore di rischio per gli attacchi cardiaci 4, si dispone di elementi sufficienti per pensare che una perturbazione degli schemi alimentari e del sonno favorisce l’obesità e i rischi per la salute ad essa associati. Una migliore comprensione di questi meccanismi è utile per affrontare le crescenti problematiche legate all’obesità, soprattutto negli USA, dove le persone non dormono a sufficienza, gli alimenti ipercalorici abbondano e i tassi di obesità e di diabete stanno aumentando rapidamente. Un ruolo più importante per l’orexina Nel corso degli ultimi anni sono state identificate differenti molecole chiave che intervengono nel sonno. Tra queste l’orexina (ipocretina), un neurotrasmettitore prodotto nell’ipotalamo che stimola lo stato di veglia e la cui carenza può indurre la narcolessia nell’uomo. Nel 2005, diversi gruppi di ricercatori hanno identificato altri ruoli dell’orexina. Uno studio diretto da Glenda Harris e Gary Aston-Jones, due ricercatori alla facoltà di medicina dell’Università della Pennsylvania, hanno constatato che l’orexina influenza la modalità con cui il cervello percepisce 83 il piacere e quindi anche il comportamento di ricerca del piacere 5. Gli scienziati sapevano che certe regioni dell’ipotalamo sono implicate nei meccanismi di ricompensa e di motivazione, ma ignoravano quali fossero esattamente i neurotrasmettitori implicati. Stimolando i neuroni che sintetizzano l’orexina nel ratto, il gruppo di Harris e Aston-Jones ha potuto stabilire l’esistenza di un nesso tra una forte attività dell’orexina e il comportamento di ricerca di droga e di cibo. Il gruppo ha costatato anche che apparentemente l’orexina risveglia dei comportamenti di ricerca di droga che sono sistematicamente sradicati nei ratti. Quando i ricercatori iniettano a questi ratti una sostanza che antagonizza l’azione dell’orexina, tali comportamenti scompaiono. Il lavoro, pubblicato nel numero di Nature di settembre 2005 e confermato da un altro studio su Proceedings of the National Academy of Sciences in dicembre 6, potrebbe fornire un contributo importante allo studio dei comportamenti additivi, connessi alle droghe ma anche ai disturbi alimentari compulsivi. Due gruppi, uno diretto da Barbara Jones, della McGill University di Montreal, l’altro da Jerry Siegel, dell’Università della California a Los Angeles, Proiezioni verso i circuiti della ricompensa del proencefalo Proiezioni verso le e del mesencefalo aree del tronco cerebrale collegate alla veglia • ATV • NAc • LC • Ami • TMN • PPT / LDT Stimoli associati alla ricompensa • Morfina • Cocaina • Cibo 84 Stimoli associati alla veglia • Camminare • Stress La percezione del piacere Alti livelli di orexina, un neurotrasmettitore presente nel cervello (figura ovale tratteggiata), sono stati messi in relazione con dei precisi comportamenti, come la ricerca di alimenti o di droghe. L’orexina nell’ipotalamo laterale (LH) è liberata dagli stimoli del circuito della ricompensa, per esempio ottenendo del cibo o delle droghe. Una volta attivata, l’orexina agisce su altre regioni del cervello: l’area tegmentale ventrale (ATV) il nucleo accumbens (NAc) e l’amigdala (Ami). Gli stimoli che invece non sono collegati al circuito della ricompensa, come lo stress, attivano l’orexina in un’altra parte del cervello e gli effetti sono diversi. I progressi nella ricerca sulla degenerazione maculare senile I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee hanno pubblicato nel 2005 due studi che illustrano come i neuroni che sintetizzano l’orexina si attivano appena prima che gli animali emergano dal sonno REM 7, 8. Pubblicati nel Journal of Neuroscience e in Neuron, questi studi sembrano indicare che i neuroni orexinergici sono attivi soprattutto durante la veglia e che le scariche più rapide si osservano quando si svolgono delle attività motorie, in particolare associate a dei compiti d’esplorazione. L’attività dei neuroni orexinergici sarebbe dunque più strettamente connessa ai movimenti, piuttosto che allo stato di veglia o di sonno. I risultati si accordano bene con l’attività motoria molto ridotta osservata nei topi affetti da una carenza di orexina. Infine, in uno studio apparso sull’edizione online del Journal of Physiology, Yoshimasa Koyama e i suoi colleghi dell’Asahikawa Medical College, Giappone, dimostrano che i neuroni orexinergici inviano al mesencefalo dei messaggi che allo stato di veglia come durante il sonno svolgono un ruolo importante nella regolazione della funzione motoria e locomotoria 9. Degli studi pubblicati nel 2005 potrebbero ridare una speranza alle persone che soffrono di degenerazione maculare senile (DMS). Questa malattia colpisce la macula, la regione della retina che fornisce una visione centrale nitida e quindi compromette i compiti visivi precisi come la lettura. La retina converte la luce in segnali nervosi che trasmette poi al cervello. Con l’età, le cellule della macula possono essere danneggiate, portando ad una perdita permanente della vista. Più di 15 milioni di americani soffrono di degenerazione maculare senile, la forma di cecità più comune negli Stati Uniti. Aiuto per gli occhi Cynthia Toth e il suo gruppo di ricerca presso la Duke University hanno perfezionato una tecnica che può ristabilire la visione, e di conseguenza la qualità di vita, nei pazienti affetti da degenerazione maculare senile. 85 Per riparare i danni secondari alla DMS, agli inizi degli anni ’90 Robert Machemer, ricercatore presso la Duke Univerity, ha messo a punto una tecnica chirurgica denominata traslocazione maculare, che i suoi colleghi della Duke, Cynthia Toth e Sharon Freedman hanno perfezionato nel corso di una decina di anni. Questa tecnica è indicata per le persone che hanno subito senza risultati gli altri trattamenti ed hanno perso quasi completamente la vista. Nel 2005, tale tecnica ha permesso alle due ricercatrici e ai loro gruppi di ristabilire in alcuni pazienti un’acuità visiva apprezzabile 10, 11. La traslocazione maculare è un intervento in due tempi nel corso del quale i chirurghi realizzano un taglio della retina su 360 gradi e poi la sottopongono ad una rotazione, spostando la macula in una zona dell’occhio esente da tessuto cicatriziale e da anomalie vascolari. La visione però appare inclinata, per questo motivo i chirurghi devono intervenire una seconda volta per correggere il difetto facendo rotare l’occhio. Toth e Freedman spiegano nella rivista Ophthalmology che prima dell’intervento chirurgico i pazienti con una visione molto ridotta lamentavano una pessima qualità di vita. Un anno dopo l’intervento la loro visione e la loro qualità di vita sono molto migliorate. Tre gruppi di ricercatori, che hanno pubblicato separatamente i loro risultati in Science, hanno scoperto un gene implicato nella degenerazione maculare. Questo gene codifica per una proteina del sistema immunitario denominata « fattore complemento H ». A lungo, gli scienziati hanno pensato che il sistema immunitario fosse implicato nell’inizio della degenerazione maculare senile. Ora essi dispongono di un obiettivo molecolare per lo sviluppo di nuovi farmaci per affrontare questa malattia. 86 Due gruppi del Vanderbilt University Medical Center, del Duke University Medical Center, dell’University of Texas Southwestern Medical Center e della Boston University School of Medicine hanno identificato il gene che codifica per il fattore complemento H 12, 13. Nel frattempo, un gruppo della facoltà di medicina della Yale University diretto da Josephine Hoh, ha scoperto che una variazione del gene che codifica per il fattore complemento H provoca dei cambiamenti che impediscono la produzione corretta di questa molecola di cui si suppone che regoli in modo anomalo la risposta cellulare 14. Lavorando su dei campioni di sangue provenienti dall’AgeRelated Eye Disease Study del National Eye Institute, il gruppo di Josephine Hoh ha analizzato il DNA di 96 pazienti senza legami di parentela, affetti da DMS in stato avanzato e di 50 persone che avevano una visione Alla scoperta della natura sensoriale dell’olfatto L’olfatto informa un animale sulla presenza di un predatore o dà ad una persona l’idea di quel che troverà sul piatto a pranzo. Come fa il cervello a distinguere gli odori ? Due studi apparsi nel 2005 forniscono una risposta a tale quesito. Lawrence Katz e un gruppo del Duke University Medical Center hanno identificato nel cervello dei topi dei neuroni che reagiscono a certi odori 15. Essi hanno scoperto che i topi distinguono i maschi dalle femmine grazie ad una sostanza contenuta nell’urina. I neuroni isolati dai ricercatori si situano nel sistema olfattivo principale del cervello e non come si riteneva nei mammiferi non umani, nel sistema olfattivo accessorio, assente nell’uomo. Secondo questa ricerca pubblicata in Nature, l’analisi degli odori potrebbe fare intervenire, nell’uomo come nell’animale, delle regioni cerebrali superiori. I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee normale. La scoperta di questa variante potrebbe aiutare i ricercatori a trovare una cura per questa malattia. Altre ricerche svolte da un gruppo della Johns Hopkins School of Medicine potrebbero permettere di comprendere meglio come il cervello distingue il profumo delicato di una torta di mele appena sfornata dall’odore pungente della salsedine di una bassa marea 16. Jonathan Bradley e il suo gruppo hanno descritto in Neuron una molecola trasportatrice di ioni che partecipa alla percezione cerebrale degli odori. Questa molecola era già nota ai ricercatori perché partecipa alla regolazione di numerosi altri meccanismi come la digestione, l’udito, l’equilibrio e la fertilità. Per inviare al cervello delle informazioni sugli odori, le cellule olfattive si servono di atomi di cloro dotati di carica. Gli scienziati hanno costatato che un trasportatore denominato NKCC1, che regola la quantità di cloruro delle altre cellule dell’organismo, partecipa all’entrata e all’uscita del cloruro nelle cellule olfattive, ciò che permette alle informazioni olfattive di giungere fino alle cellule cerebrali. La tappa seguente consisterà nell’avere un’idea più precisa del modo in cui il cloruro interviene nel trattamento cerebrale degli odori. 87 Cellule staminali e neurogenesi I punti di riferimento per lo sviluppo delle cellule staminali 90 Il carbonio 14 per datare le cellule staminali 90 Frammenti di DNA responsabili dell’unicità del cervello 91 La dopamina boccia la neurogenesi 92 La neurogenesi aiuta a combattere i tumori del cervello 93 Un gene che aiuta le cellule staminali a differenziarsi 93 Fonti alternative di cellule staminali embrionali 94 Neurogenesi e ictus 95 I nuovi neuroni indispensabili a certe forme di memoria 96 89 L a neurogenesi corrisponde alla nascita di nuove cellule nervose ; solamente verso la fine degli anni ’90 gli scienziati hanno dimostrato che questo processo avviene nel cervello umano adulto. Da allora e in particolare nel 2005, gli scienziati hanno cercato di comprendere meglio come un neurone appena nato, o una cellula staminale neuronale cresce e si differenzia in cellule che esercitano nel cervello dei compiti determinati. Durante il 2005, gli scienziati hanno dimostrato che la neurogenesi è un’attività continua del cervello in buona salute e che è possibile utilizzarla a scopo terapeutico. I punti di riferimento per lo sviluppo delle cellule staminali Il cervello adulto contiene molte cellule che sembrano giovani neuroni in via di sviluppo : nei diversi stadi dello sviluppo essi producono differenti proteine che possono essere evidenziate grazie a particolari colorazioni. Per potere utilizzare le cellule staminali sul piano terapeutico per curare delle patologie cerebrali, le cellule staminali devono funzionare da neuroni e sostituire quelli che sono morti o lesi. Nel numero di Brain del 15 giugno, Morton Moe e il suo gruppo del Karolinska Institute, in Svezia, hanno dimostrato che le cellule staminali neuronali per diventare dei neuroni maturi e funzionali, passano attraverso degli stadi caratteristici. Lavorando su dei campioni di tessuto cerebrale prelevati nel corso di operazioni realizzate su pazienti epilettici, i ricercatori hanno coltivato delle cellule staminali neuronali che hanno studiato con l’ausilio di colorazioni particolari e di tecniche di elettrofisiologia. Dopo quattro settimane, le cellule presentano delle proprietà elettrofisiologiche di membrana proprie dei neuroni ; in particolare, le cellule hanno sviluppato differenti tipi di canali ionici (necessari per alimentare gli impulsi elettrici) e delle sinapsi con due dei principali neurotrasmettitori cerebrali. Questo studio è tra i primi ad evidenziare i cambiamenti di « comportamento », e non solamente nella morfologia, che accompagnano il processo di differenziazione e di maturazione delle cellule staminali neuronali adulte 1. Il carbonio 14 per datare le cellule staminali 90 Anche se la neurogenesi è un fenomeno che si produce in diverse regioni del cervello, tra le quali l’ippocampo, la sua presenza nella corteccia cerebrale è ancora controversa. Bisognava, infatti, poter determinare l’età delle Il carbonio 14, o C14, è utilizzato per datare gli oggetti antichi. Dato che questo elemento ha un tempo di dimezzamento dell’ordine di grandezza di migliaia di anni, è meno utile per gli oggetti recenti. L’esplosione dei test nucleari negli anni ’50, ha introdotto il C14 nell’atmosfera terrestre ed è penetrato nelle cellule vegetali, animali e anche umane, decadendo con regolarità nel corso degli anni. Negli studi pubblicati in Cell, i ricercatori hanno determinato che i livelli di C14 nel tessuto corticale ottenuto dall’autopsia degli individui nati prima del 1950 erano identici a quelli registrati prima delle esplosioni nucleari, quindi l’età delle cellule cerebrali corrisponde a quella dell’individuo. Nelle nuove cellule sanguigne, la concentrazione di C14 è invece identica a quelle misurate attualmente nell’atmosfera. I risultati hanno quindi dimostrato che la neurogenesi non avviene a livello corticale poiché in questa zona nessuno dei neuroni presente si era formato nel corso della vita adulta della persona 2. Cellule staminali e neurogenesi cellule con un metodo non ancora disponibile fin quando Jonas Frisen e i suoi colleghi del Medical Nobel Institute, a Stoccolma, hanno pensato di applicare una tecnica simile a quella utilizzata nell’ambito archeologico. Frammenti di DNA responsabili dell’unicità del cervello Una delle questioni più importanti che occorre porsi quando si vogliono utilizzare le cellule staminali a scopo terapeutico è quella di sapere se possono dare origine a tutti i tipi di cellule. Fred Gage e i suoi colleghi del Salk Institute in California, hanno riportato nel numero di giugno di Nature che i retrotrasposoni, ritenuti per molto tempo come gli scarti del DNA pur rappresentando il 15 % circa del genoma umano, possono cambiare il destino di una cellula staminale neuronale e contribuiscono all’unicità del cervello. I ricercatori hanno iniettato una linea di retrotrasposoni umani in cellule staminali neuronali prodotte in coltura e in seguito trapiantate a dei ratti. Questi frammenti di DNA si sono incorporati in diversi geni espressi dai neuroni, dei quali hanno modificato l’espressione genetica. È stato possibile in questo modo riprogrammare lo schema di sviluppo della cellula staminale e costituire un neurone piuttosto che una cellula di supporto, un astrocita o un oligodendrocita, per esempio. Questa scoperta suggerisce che i retrotrasposoni aiutano la cellula staminale non solo a differenziarsi in cellula matura, ma aggiungono dei tratti distintivi, facendo in modo che mai due cervelli, nemmeno nei gemelli omozigoti, si sviluppano in modo rigorosamente identico 3. 91 Cambiamento di destino Una cellula (al centro dell’immagine) è diventata un neurone grazie a degli elementi genetici denominati retrotrasposoni. Queste strutture possono influire sullo sviluppo di una cellula staminale e conferiscono nuove caratteristiche al tessuto cerebrale, garantendo l’unicità di ogni cervello. Sullo sfondo si vedono nuclei di altre cellule. La dopamina boccia la neurogenesi Molti studi dimostrano che gli antidepressivi intensificano il processo di neurogenesi nel cervello, suggerendo che l’assenza di neurogenesi potrebbe al contrario svolgere un ruolo in alcune patologie psichiatriche. Studi simili realizzati con dei farmaci antipsicotici, hanno però fornito risultati contraddittori. Uno studio sull’aloperidolo, pubblicato sul Journal of Neuroscience del 15 giugno, illustra gli effetti del neurotrasmettitore dopamina sia sul cervello normale sia in caso di schizofrenia (i cui sintomi sono dovuti in parte ad un’azione troppo pronunciata della dopamina). Tod Kippin ed il suo gruppo dell’Università di Toronto hanno dimostrato che una delle funzioni della dopamina potrebbe essere l’inibizione della neurogenesi quando questa è necessaria. I ricercatori hanno scoperto che l’aloperidolo, che blocca i recettori dopaminergici, aumenta il numero di cellule staminali neuronali, e di conseguenza i neuroni, nei cervelli dei ratti adulti. 92 Lavorando in coltura, gli stessi ricercatori hanno dimostrato che la dopamina inibisce la proliferazione delle cellule staminali, che le cellule staminali neuronali contengono recettori per la dopamina e che l’aloperidolo interferendo con la dopamina su questi recettori può esercitare il suo effetto inibitore. Sull’animale, i ricercatori hanno notato un incremento spettacolare delle cellule staminali nello striato, dove esiste un’importante attività dopaminergica. Dato che il volume dello striato è ridotto nelle persone affette da schizofrenia e riacquista un volume normale dopo assunzione di aloperidolo, questo nuovo studio offre una spiegazione sugli effetti degli antipsicotici. I risultati suggeriscono che un’inibizione della neurogenesi che La neurogenesi aiuta a combattere i tumori del cervello Secondo uno studio apparso nel Journal of Neuroscience del mese di marzo, il cervello potrebbe impiegare la neurogenesi come arma contro il cancro. Helmut Kettenmann e i suoi collaboratori del Max Delbrück Center for Molecular Medicine a Berlino, hanno infettato le cellule del glioblastoma dei topi le cui cellule staminali neuronali erano state marcate con una proteina fluorescente verde. Quando il tumore si sviluppava, le cellule staminali migravano dagli strati profondi del cervello dove si trovavano, raggruppandosi attorno al tumore. Le cellule seguivano le cellule tumorali quando si propagavano ai tessuti vicini. Cellule staminali e neurogenesi sopraggiunge in tempo e luoghi opportuni, potrebbe essere parte integrante del buon funzionamento del cervello 4. Degli studi realizzati in coltura hanno dimostrato che le cellule staminali limitano la crescita delle cellule tumorali e inducono in queste ultime il fenomeno di morte programmata che gli scienziati definiscono apoptosi. È la dimostrazione che le staminali contrastano il tumore e non si limitano a rimpiazzare le cellule lese nei topi. Questa difesa spontanea contro il cancro è meno pronunciata nei topi più vecchi, ma se in questi ultimi venivano trapiantate delle cellule staminali neuronali, la speranza di vita diventava simile a quella dei loro congeneri più giovani. Non a caso forse, il glioblastoma si osserva soprattutto dopo i 55 anni mentre è molto raro nei giovani. È quindi possibile che per il cervello giovane la neurogenesi costituisca una forte difesa contro questo tipo di tumore, una risorsa che potrebbe essere utilizzata a fine terapeutico 5. Un gene che aiuta le cellule staminali a differenziarsi Per potere usare le cellule staminali a fine terapeutico, gli scienziati devono comprendere come mai questi precursori danno origine non solamente a dei neuroni ma anche ad altre determinate cellule con una funzione ben precisa. Nel Journal of Neuroscience del 27 luglio, Arturo Alvarez-Buylla e i suoi colleghi affermano di avere identificato un gene, il pax6, che potrebbe svolgere un ruolo chiave nel processo che conduce a trasformare una cellula staminale indifferenziata in una cellula che produce dopamina. Lavorando con dei topi adulti normali, i ricercatori hanno trapiantato nel bulbo olfattivo degli animali dove l’attività della dopamina è intensa, delle cellule staminali prive di una copia funzionale del gene pax6. Le cellule staminali mutanti hanno colonizzato il bulbo olfattivo, ma senza differenziarsi 93 in cellule dopaminergiche o in cellule granulari superficiali (che sintetizzano un enzima cruciale per la produzione di dopamina). I risultati indicano il pax6 come un gene che permette alle cellule staminali di specializzarsi in cellule dopaminergiche. Questi risultati sono sicuramente interessanti per la lotta contro la malattia di Parkinson, nella quale si osserva una degenerazione dei neuroni dopaminergici 6. Un altro studio pubblicato in giugno in Nature Neuroscience, conferma l’importanza del gene pax6 nella genesi delle cellule dopaminergiche e identifica una specifica « nicchia » neuronale, denominata via di migrazione rostrale, in cui nascono queste cellule 7. Insieme, questi studi permettono di comprendere meglio i meccanismi estrinseci e intrinseci della neurogenesi adulta che condiziona l’identità neuronale. Fonti alternative di cellule staminali embrionali Le cellule staminali embrionali sono apparentemente più versatili delle staminali che provengono dal cervello adulto, ma pongono problemi etici. Sebbene in coltura sia possibile orientare lo sviluppo delle cellule staminali embrionali così da indurle a sostituire delle cellule morte, non si comprende ancora esattamente il meccanismo attraverso il quale una volta trapiantate esse s’incorporano al tessuto cerebrale. Nel numero di maggio di Nature Biotechnology, Viviane Tabar e i suoi colleghi del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center hanno mostrato che le cellule staminali embrionali umane trapiantate nel cervello di giovani ratti adulti migravano e si differenziavano con le cellule endogene che già popolavano il luogo del trapianto. Le nuove cellule trapiantate occupavano gli stessi posti e contribuivano ulteriormente alla neurogenesi. Dato che alcuni studi realizzati in precedenza avevano ipotizzato che le cellule trapiantate non si differenziavano ma « fondessero » con le cellule già presenti, gli autori hanno cercato, ma senza successo, degli indicatori di fusione come cellule con nuclei doppi o dei cromosomi soprannumerari. Gli autori hanno concluso che le cellule staminali embrionali trapiantate sanno reagire in modo appropriato alle indicazioni dell’ambiente nel quale sono introdotte, si differenziano e grazie alla loro discendenza riformano le cellule che sono morte o lese 8. 94 Due studi propongono degli approcci interessanti per affrontare il problema etico posto dalle cellule embrionali. Per ottenere queste cellule, gli embrioni devono essere distrutti allo stadio di blastocisti. Robert Lanza, Nello stesso numero di Nature, Alexander Meissner e Rudolf Jaenisch, basandosi su degli studi anteriori, mostrano che il gene Cdx2 svolge un ruolo cruciale nella formazione dell’interfaccia attraverso la quale l’embrione s’impianta nell’utero. I ricercatori hanno sviluppato delle blastocisti di topo con un’alterazione del Cdx2, rendendoli incapaci di impiantarsi. Questo metodo ha prodotto un’entità incapace di trasformarsi da sola in embrione vivente, ma che poteva dare origine a delle linee di cellule staminali embrionali senza che si ponga il problema della distruzione di una vita 10. Cellule staminali e neurogenesi della società Advanced Cell Technology Inc., Worcester, Mass. e i suoi colleghi hanno descritto nel numero online del 16 ottobre di Nature, la variante di una tecnica già utilizzata per la procreazione medicalmente assistita che permette di ottenere una cellula embrionale senza distruggere l’embrione. L’idea è estrarre allo stadio di sviluppo di otto cellule (lo stadio che precede quello di blastocisti) un’unica cellula di cui si verifica l’integrità genetica. Nella variante sperimentale nel topo, proposta da Robert Lanza, quest’unica cellula è utilizzata per produrre una linea di cellule staminali embrionali senza compromettere la sopravvivenza della blastocisti e la sua trasformazione in embrione 9. Neurogenesi e ictus La stimolazione della neurogenesi potrebbe essere un approccio terapeutico non a beneficio esclusivo delle malattie neurodegenerative e della depressione, ma anche per forme più dirette di lesioni cerebrali. Alcuni studi dimostrano che gli ictus indotti sperimentalmente accrescono i tassi di neurogenesi nel giovane ratto adulto. Nel numero di agosto della rivista Stroke dei ricercatori dell’Ospedale Universitario di Lund, Svezia, sostengono che questo fenomeno di autoriparazione non si osserva solo nei giovani animali, ma che è presente con la stessa intensità anche nei cervelli più vecchi 11. Secondo uno studio pubblicato nel numero di giugno della stessa rivista, esiste un modo semplice per stimolare, nel ratto, la neurogenesi dopo un ictus : basta esporre l’animale ad un ambiente ricco di stimoli. Dopo avere indotto un ictus sperimentale, i ricercatori hanno iniettato una sostanza che si fissa sulle cellule in divisione. Dopodiché una parte di questi ratti sono stati sottoposti ad un ambiente « arricchito », con molti giochi, tunnel e ruote. Il secondo gruppo di animali, è stato sistemato in gabbie normali nelle quali gli animali disponevano di cibo e di acqua e potevano dormire. Cinque settimane dopo l’ictus sperimentale, i ricercatori hanno constatato 95 nei ratti esposti ad un ambiente stimolante l’aumento del numero di cellule staminali neuronali e una neurogenesi più marcata. Questa osservazione potrebbe avere delle implicazioni teoriche e terapeutiche importanti per quel che concerne le lesioni cerebrali 12. I nuovi neuroni indispensabili a certe forme di memoria Nell’ippocampo, uno dei centri più importanti per la memoria, la neurogenesi è presente ed è associata all’apprendimento e alla memoria, ma i dettagli sono ancora sconosciuti. Le ricerche suggeriscono che la nuova generazione di neuroni ha proprietà uniche nel fissare i nuovi ricordi e che i neuroni che « nascono » durante lo svolgimento di un compito di memoria siano in seguito specificatamente dediti a quest’attività. Lavorando su dei ratti adulti, Martin Wojtowicz e i suoi colleghi dell’Università di Lethbridge, ad Alberta in Canada, hanno ridotto la neurogenesi nell’ippocampo esponendo gli animali a delle deboli quantità di radiazioni. Dopo quattro settimane, quando nessun neurone era ancora stato prodotto, i ratti sono stati messi in contatto con un labirinto acquatico. Gli animali sono stati rimessi nello stesso labirinto dopo una, due e quattro settimane per valutare le loro capacità di memoria. I ratti irradiati imparavano ad orientarsi nel labirinto come i congeneri non trattati. Dopo una settimana, le capacità erano ancora simili, ma dopo due e quattro settimane le prestazioni erano significativamente peggiori. Pubblicati nel numero di gennaio di Neuroscience, i risultati dimostrano che i neuroni di età compresa tra 4 e 28 giorni al momento della prova, sono necessari alla memoria spaziale a lungo termine. I ratti trattati ricordavano facilmente il test del labirinto basato su dei riferimenti visivi e le radiazioni praticate appena prima o subito dopo la prova non hanno avuto effetto. Queste constatazioni indicano abbastanza chiaramente che la neurogenesi interviene nella formazione e nella consolidazione dei ricordi spaziali a lungo termine che dipendono dall’ippocampo 13. 96 I disturbi del pensiero e della memoria Nuove localizzazioni per una vecchia conoscenza 98 Demenza e alimentazione 99 Nuovi approcci per curare la malattia di Alzheimer 100 Emozioni e memoria 102 Le regioni del cervello associate al richiamo dei ricordi 103 97 N el corso del 2005, le conoscenze sulla formazione e il recupero dei ricordi sono proseguite e i ricercatori clinici hanno iniziato a testare nuovi approcci per il declino cognitivo. Lo studio più importante pubblicato nel 2005 nell’ambito della memoria proviene da un modello murino della malattia di Alzheimer. Nuove localizzazioni per una vecchia conoscenza Una tra le questioni fondamentali per i ricercatori che si occupano della malattia di Alzheimer è determinare se le placche e gli aggregati fibrillari che si formano nel cervello dei pazienti affetti da questa malattia ne sono l’origine oppure la conseguenza. A questo soggetto, Frank LaFerla e i suoi colleghi dell’Università della California ad Irvine, hanno fatto una scoperta che potrebbe rivelarsi importante. Gli scienziati hanno sviluppato un modello murino della malattia di Alzheimer nel quale gli animali sviluppano diffusamente nel cervello delle placche e degli aggregati neurofibrillari e soffrono di disturbi della memoria e di difficoltà d’apprendimento simili a quelli che si osservano negli uomini. I ricercatori hanno dimostrato che i topi cominciavano a presentare dei problemi di comportamento all’età di 4 mesi, prima dell’apparizione di placche e aggregati. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Neuron 1. Esaminando il cervello di questi topi all’età di 4 mesi, i ricercatori hanno costatato che la proteina beta amiloide che costituisce le placche, si accumula 98 Placche e grovigli neurofibrillari : causa o effetto ? Gli studi sulle placche e sui grovigli che si formano nel cervello dei malati di Alzheimer indicano che la proteina beta-amiloide si accumula dapprima all’interno dei neuroni e solo in un secondo tempo all’esterno delle cellule. Una placca, in alto a sinistra, appare come l’elemento più scuro in questo tessuto di ippocampo, mentre i grovigli sono visibili come dei punti neri di dimensioni ridotte. I risultati indicano che la malattia di Alzheimer sarebbe dovuta non alle placche di proteina beta amiloide che si formano all’esterno dei neuroni come ritenuto da tempo, ma ai depositi all’interno delle cellule. I ricercatori ipotizzano che i depositi all’interno dei neuroni non permettono ai segnali necessari all’apprendimento e alla memoria di passare normalmente attraverso la cellula. Le placche e gli aggregati di neurofilamenti appaiono più tardi e aggravano i disturbi della memoria e dell’apprendimento già presenti. Demenza e alimentazione Non è raro trovare nella letteratura scientifica degli studi che dimostrano i benefici di alcuni alimenti o vitamine per la memoria, alcuni sono citati come delle sostanze capaci di proteggere il nostro cervello dalla demenza. Nel 2005, i ricercatori ne hanno promossi certuni e bocciati altri. I disturbi del pensiero e della memoria « all’interno » dei neuroni. Quando i ricercatori hanno somministrato degli anticorpi per dissolvere la sostanza amiloide, i depositi che si erano formati nei neuroni sono spariti e le prestazioni di memoria e d’apprendimento sono migliorate. In uno studio pubblicato in Alzheimer’s & Dementia : The Journal of the Alzheimer’s Association, Maria Corrada e i suoi colleghi dell’Università della California ad Irvine, hanno costatato che l’acido folico ad alte dosi riduce il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer 2. 579 volontari ultrasessantenni sani, con capacità cognitive normali che hanno partecipato a questo studio (Baltimore Longitudinal Study of Aging) hanno conservato dall’inizio dello studio un diario alimentare che i ricercatori hanno utilizzato per calcolare il loro apporto alimentare in vitamina B (acido folico, vitamina B6 e B12) e in antiossidanti (vitamine E, C e carotenoidi). Dopo nove anni in media, 57 dei partecipanti hanno sviluppato la malattia di Alzheimer. Paragonando il diario alimentare di questi individui, i ricercatori hanno constatato che il rischio di sviluppare la malattia era significativamente più basso per le persone che avevano consumato almeno la razione quotidiana di acido folico raccomandata. Non è stato possibile stabilire un nesso con altri elementi nutritivi. Non si conoscono i meccanismi attraverso i quali l’acido folico protegge la funzione neuronale. I ricercatori hanno rilevato che l’aggunzione di integratori di questa molecola sembra costituire un mezzo efficace per assicurare un apporto adeguato. 99 Dal canto loro, Thomas Rea e i suoi colleghi dell’Università di Washington, a Seattle, si sono basati sui dati di un ampio studio sulla salute cardiovascolare per valutare l’influenza delle statine sul rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer 3. Le statine sono dei farmaci utilizzati per ridurre i tassi del colesterolo dannoso. Degli studi epidemiologici avevano suggerito che esse potessero ridurre i tassi di demenza, ma i risultati non erano probatori. Pubblicando i risultati in Archives of Neurology, il gruppo di Rea non ha constatato una riduzione del rischio di sviluppo di una demenza nelle 2798 persone ultrasessantacinquenni in buona salute che partecipavano allo studio Cardiovascular Health Cognition e che assumevano delle statine. L’età media dei partecipanti, più elevata in questo studio rispetto ai precedenti, può avere influenzato i risultati. Gli autori ipotizzano che le statine potrebbero offrire un beneficio se assunte da persone più giovani. Nuovi approcci per curare la malattia di Alzheimer Nel corso del 2005, come negli anni appena trascorsi, gli scienziati hanno testato più forme di vaccini per la malattia di Alzheimer. Due gruppi di ricercatori hanno scoperto degli indizi preliminari secondo i quali le facoltà cognitive delle persone affette dalla malattia di Alzheimer potrebbero migliorare con l’iniezione di anticorpi isolati da doni di sangue. Marc Weksler e Norm Relkin, del Weill Cornell Medical Center, New York, avevano osservato che i tassi di anticorpi che si legano alla proteina beta amiloide erano inferiori al normale nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Da cui l’idea che la somministrazione di anticorpi provenienti da persone in buona salute possa eliminare parte di questa molecola e quindi rallentare la progressione della malattia. Questi anticorpi purificati, denominati immunoglobuline intravenose (IgIV), sono già utilizzate per il trattamento di altre malattie. 100 Per testare quest’ipotesi e valutare l’innocuità del prodotto, gli autori hanno reclutato otto pazienti in uno studio di fase I 4. Secondo la comunicazione presentata nel corso del congresso annuale dell’American Academy of Neurology (aprile 2005), il trattamento si è rivelato sicuro e ben tollerato. I test che si basano su un numero così ristretto di pazienti non possono essere considerati per determinare l’efficacia di un farmaco, tuttavia lo studio fornisce delle osservazioni preliminari che potrebbero segnare nuove soluzioni terapeutiche. I test standard hanno evidenziato un miglioramento Questo studio corrobora i risultati di un altro lavoro, pubblicato nel 2004 nel Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry da Richard Dodel e i suoi colleghi 5. Il gruppo ha costatato in cinque pazienti affetti da malattia di Alzheimer che assumevano delle IgIV, un miglioramento delle capacità cognitive ed una riduzione della concentrazione di sostanza beta amiloide nel liquido cefalorachidiano. I pazienti di questi due studi non hanno dimostrato nessun effetto collaterale, mentre degli studi precedenti realizzati con un vaccino che stimolava il sistema immunitario dei pazienti a produrre degli anticorpi contro la sostanza beta amiloide, avevano provocato delle complicazioni. I disturbi del pensiero e della memoria delle capacità cognitive in sei dei sette pazienti che hanno potuto essere seguiti per un tempo sufficientemente lungo. Nel settimo paziente non si è verificato nessun miglioramento e il suo stato di salute non ha cessato di deteriorarsi. I ricercatori hanno notato la riduzione della sostanza beta amiloide nel liquido cefalorachidiano, dato che suggerisce che la quantità di questa molecola è diminuita anche nel cervello. I due gruppi di ricercatori prevedono di estendere i loro test a dei gruppi di pazienti più numerosi. Relkin e i suoi colleghi hanno progettato un test d’efficacia nel corso del quale una parte di pazienti assumerà delle IgIV e l’altra un placebo. La malattia di Alzheimer è una patologia complessa. Molti ricercatori consacrano i loro sforzi sulla sostanza beta amiloide, altri s’interessano alla perdita delle sinapsi e dei neuroni che si producono in certe regioni del cervello. Ipotizzando che la perdita dei neuroni e delle sinapsi può essere l’origine del declino cognitivo, Mark Tuszynski e i suoi colleghi dell’Università della California a San Diego, hanno cercato di determinare se lo stimolo della ricrescita neurale può rallentare la progressione della malattia 6. Il gruppo, che ha pubblicato i risultati in Nature Medicine, ha isolato delle cellule della cute di otto pazienti affetti da una forma moderata di malattia di Alzheimer. Alle cellule poste in coltura è stato inoculato un gene che codifica per il fattore di crescita nervoso (NGF). Le cellule dotate del gene NGF iperattivo sono state iniettate nella base del telencefalo dei pazienti. Lo scopo era osservare se esse inducono, come nel topo, una ricrescita neuronale che compensa la perdita di neuroni secondaria alla malattia di Alzheimer. 101 Due pazienti sono stati vittime di un trauma cerebrale perché hanno inavvertitamente mosso la testa nel corso della perfusione. Per evitare il ripetersi di quest’incidente, sei altri pazienti sono stati operati in anestesia generale. La valutazione realizzata 22 mesi dopo l’intervento non ha rivelato alcun effetto secondario a lungo termine e i test neuropsicologici sembrano indicare che il declino cognitivo progredisce meno rapidamente. La tomografia ad emissione di positroni evidenzia nella regione trattata un’intensificazione della circolazione sanguigna, che denota una maggiore attività neuronale. Uno dei due pazienti che ha subito una lesione nel corso dell’intervento è deceduto in seguito ad un arresto cardiaco cinque settimane più tardi. L’esame autoptico del suo cervello ha dimostrato che il NGF è stato efficace e che i neuroni restanti hanno sviluppato nuove connessioni nella vicinanza del luogo d’intervento. La prova di una reale efficacia non è ancora stata fornita né per questo metodo, né per le IgIV, ma i dati preliminari sono sufficientemente incoraggianti per giustificare nuovi test. Emozioni e memoria I momenti carichi di emozioni lasciano dei ricordi più profondi degli istanti emotivamente neutri. I ricercatori sanno che l’amigdala, che è il centro del cervello che tratta le emozioni, rinforza i ricordi particolarmente intensi. Un gruppo diretto da Philip Shaw, ha scoperto nel 2005 degli indizi che lasciano intendere che le vie di rinforzo che collegano l’amigdala ad altre regioni del cervello si stabiliscono ad uno stadio precoce dello sviluppo 7. I ricercatori hanno costatato che le persone vittime di lesioni bilaterali all’amigdala prima dell’età adulta, conservano un ricordo più chiaro degli eventi neutri rispetto a quelli densi di emozioni. La preferenza per gli eventi intensi era conservata nelle persone nelle quali l’amigdala era lesa in età adulta in seguito a un intervento chirurgico destinato a trattare la loro epilessia. Secondo questi dati riportati in Neurology, esiste un periodo di sviluppo cerebrale determinante per lo stabilimento delle vie da cui dipende la capacità di distinguere per tutta la vita le emozioni forti dagli eventi neutri. 102 Dal canto loro, Elizabeth Kensinger e Daniel Schacter della Harvard University, hanno pubblicato in Neuropsychologia che l’amigdala e la corteccia orbitofrontale sinistra sono implicati anche nel recupero dei ricordi emotivamente intensi, non solamente nel loro stoccaggio 8. Per determinare le Per quest’ultimo esercizio, le persone erano sdraiate in un apparecchio per la risonanza magnetica e i ricercatori osservavano le regioni del cervello implicate nella ricerca del ricordo. L’ippocampo anteriore sinistro partecipa al richiamo accurato dei due tipi d’oggetto. L’amigdala destra e la corteccia orbitofrontale sinistra intervengono solamente nel recupero degli oggetti con una connotazione emotiva, mentre il ricordo degli oggetti emotivamente neutri attiva la corteccia prefrontale inferiore e laterale oltre che l’ippocampo posteriore destro. I disturbi del pensiero e della memoria regioni implicate nel richiamo dei ricordi sia neutri sia carichi di emozioni, gli autori hanno mostrato a dei volontari una lista con delle parole emotivamente neutre (p. es. « rana ») combinate con parole a forte connotazione emotiva (p. es. « bara ») e hanno chiesto ai soggetti di immaginare una rappresentazione per ogni parola. Nella seconda parte del test, metà delle parole erano presentate ai volontari con la rappresentazione dell’oggetto, l’altra metà era mostrata su uno schermo bianco. Nella terza parte del test, i volontari dovevano dire se le immagini che erano loro mostrate appartenevano al gruppo delle « parole sole », a quello delle « parole associate alle immagini » oppure a nessuno dei due. Il fatto che le regioni del cervello attivate dal ricordo dipendano dal tipo di ricordo, implica non solo che questi ricordi sono codificati diversamente quando entrano nel cervello ma anche che ne escono attraverso vie distinte. Le regioni del cervello associate al richiamo dei ricordi Degli studi del comportamento sembrano indicare che la semplice familiarità che è possibile avere con un oggetto e il fatto di sapere con precisione se quell’oggetto si è già visto in passato e in quale momento, non dipendono dalle stesse vie neuronali. Per sapere quali sono le regioni del cervello che partecipano a questi compiti e fino a quale punto queste regioni si sovrappongono, Andrew Yonelinas e un gruppo dell’Università della California a Davis, hanno immaginato di stimolare queste attività e osservare i risultati con l’ausilio della risonanza magnetica funzionale 9. Lo studio si è svolto in due fasi durante le quali i volontari dovevano rimanere sdraiati in uno scanner per registrare l’attività cerebrale. Nella prima fase, i volontari hanno osservato delle parole di cui dovevano dire se evocavano dei concetti astratti o concreti. Nella seconda fase è stata presentata un’altra serie di parole che comprendeva termini della prima lista e 103 parole nuove. I volontari dovevano affermare se queste parole evocavano qualcosa di particolare per loro, se ricordavano di averle già viste nella prima parte del test o se rammentavano cosa avevano pensato mentre le vedevano. Nel caso in cui non ricordavano nulla di preciso, dovevano indicare su una scala da 1 a 4, fino a quale punto si ricordavano di averle viste nella prima fase del test. I ricercatori sostengono nel Journal of Neuroscience che i diversi tipi di ricordo implicano diverse regioni del cervello. Per il ricordo specifico, la parte anteriore mediale della corteccia prefrontale, la corteccia parietale laterale e il cingolo posteriore. Per la semplice familiarità, le regioni laterali implicate sono la corteccia prefrontale, la corteccia parietale superiore e il precuneo. L’ippocampo partecipa al ricordo specifico ma l’intervento è meno attivo per gli oggetti familiari rispetto a quelli poco familiari. In una ricerca dello stesso tipo, pubblicata in Human Brain Mapping, Martina Piefke e i suoi colleghi del Medizininstitut di Jülich in Germania, affermano di avere constatato che le regioni cerebrali coinvolte dal richiamo dei ricordi autobiografici con una forte carica emotiva, che fanno parte della memoria episodica, non sono gli stessi negli uomini e nelle donne 10. Numerose differenze di trattamento neuronale erano già state 104 I luoghi della memoria Sullo schermo del computer della ricercatrice Martina Piefke, appaiono le immagini dell’attività di un cervello maschile e di uno femminile durante un esercizio mnemonico. Il gruppo di Piefke ha scoperto che gli uomini e le donne utilizzano parti diverse del loro cervello quando ricordano degli eventi emotivamente importanti. Il gruppo di Piefke ha domandato a dieci uomini e dieci donne di ricordare degli eventi emotivamente negativi o positivi che si sono svolti in un periodo recente della loro vita e nel corso dell’infanzia. I ricercatori non hanno evidenziato delle differenza nella capacità soggettiva di evocare dei ricordi, tuttavia delle diversità dell’attività connessa al sesso sono state osservate per certe regioni del cervello. Molte regioni sono utilizzate sia dagli uomini che dalle donne, ma con un’attività più pronunciata negli uomini nel giro paraippocampale sinistro per i due tipi di compiti (negativipositivi e recenti-vecchi). Nelle donne invece è stato osservato un contributo più netto della corteccia prefrontale dorsolaterale destra per tutti i tipi di stimoli e della corteccia insulare destra per il richiamo dei ricordi negativi o vecchi. I disturbi del pensiero e della memoria osservate tra i due sessi. È noto per esempio, che gli uomini sono più dotati per i compiti spaziali, le donne per quelli verbali. Le donne sembrano conservare degli eventi della loro vita dei ricordi più dettagliati e più intensi, nessuno però aveva esplorato le differenze di trattamento neuronale che sottendono queste osservazioni. Le teorie ipotizzate per spiegare i ricordi più dettagliati riportati dalle donne sono due : il vissuto degli eventi è più intenso e di conseguenza la loro codifica è più forte ; le donne utilizzano una strategia cognitiva diversa che influenza il modo in cui immagazzinano e richiamano i ricordi. Non avendo evidenziato delle differenze statisticamente significative tra gli uomini e le donne per quel che concerne la capacità di ricordare, questo studio sembra indicare che le donne utilizzano per codificare, narrare e pensare i ricordi emotivamente importanti delle strategie cognitive diverse da quelle degli uomini e che queste strategie sembrano essere più efficaci. La conclusione degli autori è che non esiste una differenza nell’efficienza di stoccaggio della memoria, anche se le regioni del cervello messe in gioco per la realizzazione dei compiti sono in parte diverse. 105 Referenze Introduzione 1 The International HapMap Consortium. A haplotype map of the human genome. Nature. 2005 436(7047):1299-1320. 2 Maraganore DM, de Andrade M, Lesnick TG, Strain KJ, Farrer MJ, Rocca WA, Pant PVK, Frazer K, Cox D, and Ballenger D. High-resolution whole genome association study of Parkinson disease. American Journal of Human Genetics. 2005 77:685-693. 3 Edwards AO, Ritter R, Abel K, Manning A, Panhuysen C, Farrer L. Complement factor H polymorphism and age-related macular degeneration. Science. 2005 308(5720):421-424. 4 Pascual-Leone A, Amedi A, Fregni F, Merabet LB. The plastic human brain cortex. Annual Review of Neuroscience. 2005 28:377-401. 5 Yovel G, Kanwisher N. Face perception: domain specific, not process specific. 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I disturbi del pensiero e della memoria 1 116 Billings LM, Oddo S, Green KN, McGaugh JL, and LaFerla FM. Intraneuronal Abeta causes the onset of early Alzheimer’s disease-related cognitive deficits in transgenic mice. Neuron. 2005 45(5):675-688. Corrada MM, Kawas CH, Hallfrisch J, Muller D, and Brookmeyer R. Reduced risk of Alzheimer’s disease with high folate intake: The Baltimore longitudinal study of aging. Alzheimer’s and Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association. 2005 1(1):11-18. 3 Rea TD, Breitner JC, Psaty BM, Fitzpatrick AL, Lopez OL, Newman AB, Hazzard WR, Zandi PP, Burke GL, Lyketsos CG, Bernick C, and Kuller LH. Statin use and the risk of incident dementia: the Cardiovascular Health Study. Archives of Neurology. 2005 62(7):1047-1051. 4 Relkin N, Szabo P, Adamiak B, Monthe C, Burgut FT, Du Y, Wei X, Schiff R, and Weksler ME. Intravenous Immunoglobulin (IVIg) Treatment Causes Dose-Dependent Alterations in (-Amyloid (A() Levels and Anti-A( Antibody Titers in Plasma and Cerebrospinal Fluid (CSF) of Alzheimer’s Disease (AD) Patients. American Academy of Neurology. 2005 abstract S15.002. 5 Dodel RC, Du Y, Depboylu C, Hampel H, Frolich L, Haag A, Hemmeter U, Paulsen S, Teipel SJ, Brettschneider S, Spottke A, Nolker C, Moller HJ, Wei X, Farlow M, Sommer N, and Oertel WH. Intravenous immunoglobulins containing antibodies against beta-amyloid for the treatment of Alzheimer’s disease. Journal of Neurology Neurosurgery and Psychiatry. 2004 75(10): 1472-1474. 6 Tuszynski MH, Thal L, Pay M, Salmon DP, U HS, Bakay R, Patel P, Blesch A, Vahlsing HL, Ho G, Tong G, Potkin SG, Fallon J, Hansen L, Mufson EJ, Kordower JH, Gall C, and Conner J. A phase 1 clinical trial of nerve growth factor gene therapy for Alzheimer disease. Nature Medicine. 2005 11(5):551-555. 7 Shaw P, Brierley B, and David AS. 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Referenze 2 117 Illustrazioni / Fotografie P. 5: P. 9: P. 15: P. 23: P. 26: Photograph courtesy of Thomas Insel Photograph courtesy of Marcus Raichle Photographs courtesy of Marilyn Albert and Guy McKhann Will & Deni McIntyre / Science Photo Library Reprinted with permission from the American Journal of Psychiatry, (© 2005). American Psychiatric Association. P. 29: Screen captures courtesy of Dr. Geraldine Dawson P. 31: © Royalty-Free / Corbis P. 34: Diagram courtesy of Dr. Harry Baker P. 37: Photograph courtesy of the Cleveland Clinic P. 39: John Bavosi / Science Photo Library P. 41: Illustration by Benjamin Reece P. 46: Photograph by Les Todd P. 47: Photograph by Don Carstens / PictureQuest P. 55: Brand X Pictures P. 59: Martin M. Rotker / Science Photo Library P. 60: © 2005 Pardo et al. Reprinted with permission of John Wiley & Sons, Inc. P. 63: Romilly Lockyer / Brand X Pictures P. 67: Graph courtesy of Luda Diatchenko P. 71: BananaStock P. 73: Photograph courtesy of Dr. Andreas Meyer-Lindenberg, NIH/NIMH P. 75: © 2005, Kathryn Born P. 81: Bill Longcore / Science Photo Library P. 84: Illustration courtesy of Gary Aston-Jones and Glenda-Harris P. 85: Photograph by Les Todd P. 89: Bill Longcore / Science Photo Library P. 92: Photograph courtesy of Fred Gage, The Salk Institute P. 97: Anthony Harvie / Getty Images P. 98: Science Photo Library P. 104: Photograph courtesy of Martina Piefke 118 Immaginate un mondo . . . … in cui la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la retinite pigmentosa e le altre cause di cecità, saranno facilmente diagnosticate ad uno stadio precoce e immediatamente curate con medicinali che ne impediscono il deterioramento prima che le lesioni divengano troppo gravi. … in cui saranno noti i fattori ambientali e genetici che predispongono le persone alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi test diagnostici e dei trattamenti mirati – medicinali, sostegno psicologico, interventi preventivi – disponibili e utilizzati su vasta scala. … in cui le nuove conoscenze sullo sviluppo del cervello permetteranno sia di trarre un maggior beneficio dai primi anni di apprendimento sia di combattere le patologie associate all’età. … in cui le lesioni del midollo spinale non saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché sarà possibile programmare il sistema nervoso così da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire l’attività muscolare. … in cui gli individui non saranno più schiavi delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, perché esisteranno dei trattamenti facilmente accessibili, che agendo a livello delle vie nervose permetteranno d’interrompere i fenomeni responsabili delle crisi di astinenza e il bisogno impellente di consumare delle sostanze generatrici di dipendenza. … in cui la vita delle persone non sarà più in balia della depressione e dell’ansia perché per curarle disporremo di efficaci medicinali. 120 Anche se tale visione può sembrare irreale ed utopica, stiamo vivendo un momento della storia delle neuroscienze straordinariamente promettente e fecondo. I progressi realizzati dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio, oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze sui meccanismi fondamentali del funzionamento cerebrale si sono ampliate e oggi possiamo cominciare a trarre un beneficio pratico dal loro potenziale. Abbiamo già cominciato a concepire delle strategie, delle nuove tecniche e delle terapie per combattere differenti malattie e disturbi neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici e applicando le conoscenze attuali, sarà possibile sviluppare dei trattamenti efficaci che, in alcuni casi, permetteranno di ottenere la guarigione completa. I grandi progressi delle neuroscienze ci permettono inoltre di valutare l’entità di ciò che ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce senza dubbio uno stimolo che sprona la ricerca fondamentale ad esplorare questioni più ampie sul funzionamento della materia vivente, per formulare le domande di ordine complesso che portano alle scoperte scientifiche. La ricerca clinica e fondamentale svolta in modo coordinato da migliaia di scienziati, ha generato un insieme di conoscenze nelle diverse discipline, che variano dagli studi delle strutture molecolari e dei medicinali, alla visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive e alla ricerca clinica, che possono essere messe al servizio della lotta contro le malattie e i disturbi neurologici. Come scienziati continueremo a progredire sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti, sia cooperando con i nostri colleghi di altri campi scientifici, moltiplicando le occasioni di collaborazioni interdisciplinari. La Dana Alliance for Brain Initiatives e la European Dana Alliance for the Brain riuniscono degli specialisti nelle neuroscienze pronti ad intraprendere progetti ambiziosi, come abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold Spring Harbor, New York, dove fu stabilito un vero e proprio calendario di ricerca per gli Stati Uniti e una seconda volta nel 1997, quando si è costituito il gruppo europeo con i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare nuovi scopi per orientare i progressi che possono essere realizzati a corto e a medio termine. Provando ad immaginare i futuri benefici, cerchiamo di accelerare l’andamento di questa nuova era delle neuroscienze, per riuscire a raggiungere più rapidamente gli obiettivi prefissati. Gli obiettivi Combattere gli effetti devastanti della malattia di Alzheimer. In questa patologia si osserva il deposito cerebrale di una piccola frazione proteica denominata proteina amiloide, estremamente tossica per le cellule nervose. Grazie alla sperimentazione animale oggi si conosce il meccanismo biochimico e genetico di quest’accumulo. Utilizzando il modello animale sono stati sviluppati nuovi medicinali e un vaccino potenzialmente efficace, sia per prevenire il deposito della proteina amiloide sia per cercare di rimuoverlo. Tali terapie che saranno prossimamente sperimentate nell’uomo, offrono la speranza di combattere efficacemente questo meccanismo patologico. Scoprire la miglior terapia per la malattia di Parkinson. I medicinali che agiscono sulle vie dopaminergiche del cervello, hanno dato buoni risultati nel trattamento dei disturbi motori nella malattia di Parkinson. Sfortunatamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni questo effetto terapeutico tende a diminuire. Attualmente sono in via di sviluppo nuove molecole che cercano, da un lato di prolungare l’azione dei medicamenti dopaminergici, dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale che è all’origine della malattia. Per i pazienti che non rispondono alla terapia medicamentosa, esiste la possibilità di trarre un beneficio dall’approccio chirurgico denominato stimolazione cerebrale profonda. Nuove forme di visualizzazione cerebrale permetteranno di determinare se questi trattamenti riescono a salvare i neuroni dalla distruzione e a ristabilire il normale funzionamento dei circuiti neurali. Immaginate un mondo ... La fiducia del pubblico nella scienza è essenziale per adempiere la nostra missione. Il dialogo tra i ricercatori e la gente sarà basilare soprattutto in considerazione delle conseguenze etiche e sociali del progresso della ricerca sul cervello. Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e perfezionare il trattamento degli episodi acuti. Smettere di fumare, mantenere il tasso di colesterolo e il peso corporeo a livelli ragionevoli con un’alimentazione e un’attività fisica appropriate, sono, associati al depistaggio e al trattamento del diabete, i modi per ottenere una diminuzione spettacolare del numero degli incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardiache. Nel caso degli ictus, con una diagnosi ed un intervento precoce, il paziente migliora rapidamente e i postumi della malattia sono minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti cerebrovascolari sulle cellule del cervello. Le nuove tecniche di riabilitazione, che traggono profitto dalle conoscenze sulla capacità del cervello di recuperare dopo un trauma, permetteranno di progredire in questa via. Sviluppare trattamenti più efficaci per i disturbi dell’umore come la depressione, la schizofrenia, i disturbi ossessivi e il disturbo bipolare. Grazie alla determinazione della 121 sequenza del genoma umano, saranno scoperti i geni che predispongono ad alcune di queste malattie. Le recenti tecniche di visualizzazione cerebrale offriranno l’opportunità di osservare l’azione esercitata da questi geni nel cervello. Sarà quindi possibile esaminare la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone colpite dalle patologie dell’umore. Disporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di medicinali già esistenti sarà più efficace e la ricerca porrà nuove basi teoriche per sviluppare agenti terapeutici innovativi. Scoprire le cause genetiche e neurobiologiche dell’epilessia e migliorarne il trattamento. Comprendere l’origine genetica dell’epilessia e i meccanismi neurologici che scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per una diagnosi preventiva e per trattamenti mirati. I progressi realizzati nel campo delle terapie chirurgiche offriranno in futuro delle alternative terapeutiche molto preziose. Scoprire vie innovative per prevenire e curare la sclerosi multipla. Per la prima volta disponiamo di medicinali che modificano il de corso di questa malattia. Queste nuove molecole alterano le risposte immunitarie dell’organismo, riducendo il numero e la gravità delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di arrestare la progressione a lungo termine della sclerosi multipla, che è dovuta alla distruzione delle fibre nervose. Sviluppare dei trattamenti più efficaci per i tumori del cervello. Molte forme di tumori cerebrali sono difficili da curare, soprattutto quelle maligne o secondarie a tumori di origine non cerebrale. Le tecniche di visualizzazione, la radioterapia mirata, i differenti metodi che trasportano le sostanze medicamentose al tumore, così come l’identificazione di marker genetici, faciliteranno la diagnosi e permetteranno di sviluppare nuove 122 piste terapeutiche. Migliorare il recupero dopo lesioni traumatiche al cervello o al midollo spinale. Attualmente sono allo studio dei trattamenti che limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi e si sperimentano sostanze che promuovono il ristabilimento delle connessioni nervose. Ben presto alcune tecniche di rigenerazione cellulare che permettono la sostituzione dei neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo stadio della sperimentazione animale ai test clinici sull’uomo. Da segnalare anche il trapianto di microchip miniaturizzati che controllano i circuiti nervosi e ridanno una certa mobilità agli arti paralizzati. Trovare soluzioni innovative per la gestione del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato. La ricerca sulla sua origine e sui meccanismi neurologici che lo mantengono, fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli strumenti di cui necessitano per sviluppare dei trattamenti antalgici efficaci e mirati. Combattere la tossicodipendenza all’origine, nel cervello. I ricercatori hanno identificato i circuiti nervosi implicati in ognuno dei differenti tipi di dipendenza e hanno clonato alcuni dei recettori più importanti di queste sostanze. I progressi realizzati nella visualizzazione cerebrale, identificando i meccanismi neurobiologici che trasformano un cervello normale in un cervello sottomesso alla dipendenza, permetteranno di sviluppare dei trattamenti per annullare o compensare tali alterazioni. Comprendere i meccanismi cerebrali implicati nella risposta allo stress, all’ansia e alla depressione. La salute mentale è il requisito indispensabile per una buona qualità di vita. Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare la vita delle persone, possono avere un effetto devastante sulla società. Se capiremo meglio i meccanismi della risposta allo stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e La strategia Trarre vantaggio delle conoscenze fornite dalla genomica. Disponiamo oggi della sequenza completa dei geni che costituiscono il genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a 15 anni avremo la possibilità di stabilire quali geni sono attivi in ogni regione del cervello, in tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale a quella adulta, passando dall’infanzia e dall’adolescenza. Sarà allora possibile identificare nelle diverse patologie neurologiche o psichiatriche, i geni alterati e le proteine assenti o anormali. Questo approccio ha già permesso agli scienziati di stabilire l’origine genetica di malattie come la corea di Huntington, l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare e la sindrome del cromosoma X fragile. Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue applicazioni nella diagnosi clinica, promettono di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria e rappresentano una delle maggiori sfide delle neuroscienze. La disponibilità di un nuovo e potente strumento, i microchip di DNA, accelererà notevolmente questo processo aprendo nuove vie per la diagnosi clinica e la concezione di nuovi trattamenti. Applicare le nostre conoscenze sullo sviluppo del cervello. Dal concepimento alla morte, il cervello passa attraverso differenti stadi dello sviluppo con periodi di vulnerabilità e di crescita che possono essere favoriti oppure ostacolati. Per migliorare il trattamento dei disturbi dello sviluppo come l’autismo, i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà dell’apprendimento, le neuroscienze dovranno elaborare un quadro più dettagliato dello sviluppo cerebrale. Siccome il cervello è l’unico organo ad avere dei problemi specificamente collegati agli stadi dello sviluppo come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà di sviluppare trattamenti efficaci. Utilizzare l’enorme potenziale offerto dalla plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla neuroplasticità, cioè dalla capacità del cervello di adattarsi e di modellarsi, i neuroscienziati faranno progredire le terapie per le malattie neurodegenerative e offriranno metodi per migliorare la funzione cerebrale sia nei soggetti sani sia nelle persone malate. Nei prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione cellulare e di promozione della formazione di nuove cellule neurali, daranno l’opportunità di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus cerebrali, i traumi del midollo spinale e la malattia di Parkinson. Immaginate un mondo ... nella depressione, sapremo sviluppare delle strategie preventive e dei trattamenti efficaci. Comprendere l’essenza dell’essere umano. Come funziona il cervello ? Oggi gli specialisti nelle neuroscienze sono in grado di porre le grandi domande sul funzionamento del cervello dell’uomo e di fornire le prime risposte. Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi che permettono all’essere umano di formare dei ricordi, di prestare attenzione, di percepire ed esprimere delle emozioni, di prendere delle decisioni, di utilizzare il linguaggio, di essere creativo ? Lo sforzo per sviluppare una teoria del funzionamento cerebrale, offrirà importanti opportunità per massimizzare il potenziale dell’essere umano. Gli strumenti La sostituzione cellulare. I neuroni adulti non possiedono la facoltà di riprodursi per sostituire le cellule perse in seguito a traumi o a malattie. Le tecniche che utilizzano la capacità delle cellule staminali neurali (i progenitori dei neuroni) di differenziarsi in neuroni, potrebbero rivoluzionare il trattamento delle patologie neurologiche. Il trapianto delle cellule staminali neurali, correntemente usato 123 nella sperimentazione animale, sarà ben presto applicato all’uomo. Controllare lo sviluppo di queste cellule, dirigerle verso le precise regioni del cervello e indurle a stabilire le connessioni appropriate, sono le mollèterie questioni sulle quali la ricerca lavora senza sosta. I meccanismi di riparazione neurali. Utilizzando i meccanismi di riparazione propri del sistema nervoso, che in alcuni casi rigenerano i neuroni e in altri ristabiliscono i circuiti, il cervello ha la capacità di « riparare se stesso ». Rinforzare questa capacità significa ridare una speranza di guarigione alle persone vittime di traumi cranici o di lesioni del midollo spinale. Delle tecniche per arrestare o prevenire la neurodegenerazione. Molte patologie come la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la corea Huntington o la sclerosi laterale amiotrofica, sono la conseguenza della degenerazione di una specifica popolazione di cellule in una determinata regione cerebrale. I trattamenti attuali agiscono unicamente sul sintomo, non alterano la perdita progressiva dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi che sottendono la morte cellulare, offriranno metodi per prevenire la degenerazione cellulare e quindi arrestare la progressione di queste malattie. Le tecniche che modificano l’espressione genetica nel cervello. Nell’animale da laboratorio è possibile rinforzare oppure bloccare l’azione che certi geni specifici esercitano sul cervello. Attualmente le mutazioni genetiche che provocano nell’uomo malattie neurologiche come la corea di Huntington e la sclerosi laterale amiotrofica, sono sperimentate nei modelli animali per scoprire dei trattamenti capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione. Queste tecniche hanno fornito tra l’altro dati interessanti sul normale funzio124 namento del cervello durante lo sviluppo, l’apprendimento e la formazione dei ricordi. La modulazione dell’espressione dei geni è uno degli strumenti più efficaci per studiare i fenomeni normali e patologici del cervello, in futuro potrà essere utilizzata per curare numerosi disturbi cerebrali. I progressi delle tecniche di visualizzazione. Sono stati effettuati notevoli progressi nella visualizzazione strutturale e funzionale del cervello. Sviluppando delle tecniche in cui l’immagine della funzione cerebrale è dettagliata e rapida quanto le funzioni stesse, avremo a disposizione delle immagini in tempo reale. Queste tecnologie permetteranno allora ai ricercatori di osservare le regioni del cervello implicate nella riflessione, nell’apprendimento e nelle emozioni. Dispositivi elettronici capaci di sostituire le vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo futuro sarà certamente possibile aggirare le vie cerebrali non funzionali utilizzando dei microelettrodi capaci di registrare l’attività cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire l’attività del cervello in segnali elettrici che saranno inviati al midollo spinale, ai nervi motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti costituiti da batterie di questi elettrodi collegati a dispositivi informatizzati e miniaturizzati, ridaranno speranza alle persone che hanno subito una lesione permettendo il recupero dell’integrità funzionale. I nuovi metodi della ricerca farmaceutica. I progressi realizzati nel campo della biologia strutturale, della genomica e della chimica computerizzata, permettono ai ricercatori di creare una quantità di molecole senza precedenti, molte delle quali possiedono un grande interesse clinico. In determinati casi le nuove tecniche di screening ad alto flusso, utilizzate in particolare dalle « gene chips » e da altre tecnologie, potranno diminuire il tempo che intercorre tra la scoperta di un nuovo principio Immaginate un mondo ... attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni casi la riduzione di tempo passerà da diversi anni a qualche mese. 125 Members of EDAB AGID Yves* Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland ANDERSEN Per* University of Oslo, Norway ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain CHERNISHEVA Marina University of St Petersburg, Russia CHVATAL Alexandr Institute of Experimental Medicine ASCR, Prague, Czech Reuplic CLARAC François CNRS, Marseille, France CLEMENTI Francesco* University of Milan, Italy COLLINGRIDGE Graham* University of Bristol, UK BADDELEY Alan University of York, UK BARDE Yves-Alain* University of Basel, Switzerland BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias, Alicante, Spain. BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier University of Grenoble, France BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marseille, France BENFENATI Fabio University of Genova, Italy BERGER Michael University of Vienna, Austria BERLUCCHI Giovanni* Università degli Studi di Verona, Italy BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma, Italy BERTHOZ Alain* Collège de France, Paris, France BEYREUTHER Konrad* University of Heidelberg, Germany CUÉNOD Michel* University of Lausanne, Switzerland CULIC Milka University of Belgrade, Yugoslavia DAVIES Kay* University of Oxford, UK DELGADO-GARCIA Jose Maria Universidad Pablo de Olavide, Seville, Spain; President of the Spanish Neuroscience Society DICHGANS Johannes University of Tübingen, Germany DOLAN Ray University College, London, UK DUDAI Yadin* Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences, Tihany, Hungary; President of the Hungarian Neuroscience Society BJÖRKLUND Anders* Lund University, Sweden ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir, Turkey BLAKEMORE Colin* Medical Research Council, UK EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France BORBÉLY Alexander University of Zurich, Switzerland FERRUS Alberto* Instituto Cajal, Madrid, Spain BRANDT Thomas University of Munich, Germany FIESCHI Cesare University of Rome, Italy BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden FOSTER Russell University of Oxford, UK BUDKA Herbert University of Vienna, Austria FRACKOWIAK Richard* University College London, UK; President of the British Neuroscience Association BUREŠ Jan* Academy of Sciences, Prague, Czech Republic BYSTRON Irina University of St Petersburg, Russia FREUND Hans-Joachim* University of Düsseldorf, Germany CARLSSON Arvid University of Gothenburg, Sweden FREUND Tamás University of Budapest, Hungary; CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris, France FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich, Switzerland President of FENS GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid, Spain KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg, Austria GISPEN Willem* University of Utrecht, The Netherlands KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for Molecular Medicine, Berlin, Germany GJEDDE Albert* Aarhus University Hospital, Denmark KORTE Martin Technical University Braunschweig, Germany GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris, France KOSSUT Malgorzata* Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland. GREENFIELD Lady Susan The Royal Institution of Great Britain, London, UK KOUVELAS Elias University of Patras, Greece GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine, St Petersburg, Russia GRILLNER Sten* Karolinska Institute, Stockholm, Sweden HARI Riitta* Helsinki University of Technology, Espoo, Finland HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey; President of the Turkish Neuroscience Society HERMANN Anton University of Salzburg, Austria HERSCHKOWITZ Norbert* University of Bern, Switzerland HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France KRISHTAL Oleg* Bogomoletz Institute of Physiology, Kiev, Ukraine LANDIS Theodor* University Hospital Geneva, Switzerland LANNFELT Lars University of Uppsala,Sweden LAURITZEN Martin University of Copenhagen, Denmark LERMA Juan Instituto de Neurociencias, CSICUMH, Alicante, Spain LEVELT Willem* Max-Planck-Institute for Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands LEVI-MONTALCINI Rita* EBRI, Rome, Italy LIMA Deolinda University of Porto, Portugal HOLSBOER Florian* Max-Planck-Institute of Psychiatry, Munich, Germany LOPEZ-BARNEO José* University of Seville, Spain HOLZER Peter University of Graz, Austria MAGISTRETTI Pierre J.* University of Lausanne, Switzerland HUXLEY Sir Andrew* University of Cambridge, UK INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute, Stockholm, Sweden IVERSEN Leslie University of Oxford, UK IVERSEN Susan* University of Oxford, UK MALACH Rafael Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel MATTHEWS Paul University of Oxford, UK McDONALD William* Royal College of Physicians, London, UK MEHLER Jacques* SISSA, Trieste, Italy. JACK Julian* University of Oxford, UK MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel JEANNEROD Marc* Institut des Sciences Cognitives, Bron, France MONYER Hannah* University Hospital of Neurology, Heidelberg, Germany JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden MORRIS Richard* University of Edinburgh, Scotland; President-elect FENS KACZMAREK Leszek Nencki Institute of Experimental Biology, Warsaw, Poland. KASTE Markku University of Helsinki, Finland NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical Chemistry, Göttingen, Germany KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva, Switzerland NIETO-SAMPEDRO Manuel* Instituto Cajal, Madrid, Spain KENNARD Christopher Imperial College School of Medicine, London, UK NOZDRACHEV Alexander State University of St Petersburg, Russia OERTEL Wolfgang* Philipps-University, Marburg, Germany SINGER Wolf* Max-Planck-Institute for Brain Research, Frankfurt, Germany OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen, Denmark; Chairman European Brain Council SMITH David University of Oxford, UK ORBAN Guy* Catholic University of Leuven, Belgium SPEKREIJSE Henk* University of Amsterdam, The Netherlands SPERK Günther University of Innsbruck, Austria PARDUCZ Arpad Institute of Biophysics, Biological Research Center of the Hungarian Academy of Sciences, Szeged, Hungary PEKER Gonul University of Ege Medical School, Izmir, Turkey. PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de France, Paris, France POCHET Roland Université Libre de Bruxelles, Belgium POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie, Innsbruck, Austria POULAIN Dominique Université Victor Segalen, Bordeaux, France; President of the French Neuroscience Society PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale Supérieure, Paris, France PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow, Poland STEWART Michael The Open University, Milton Keynes, UK STOERIG Petra* Heinrich-Heine University, Düsseldorf, Germany STRATA Pierogiorgio* University of Turin, Italy SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine ASCR, Prague, Czech Republic THOENEN Hans* Max-Planck-Institute for Psychiatry, Martinsried, Germany TOLDI József University of Szeged, Hungary TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain TSAGARELI Merab Beritashvili Institute of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology, Krakow, Poland VIZI Sylvester* Hungarian Academy of Sciences, Budapest, Hungary RAFF Martin* University College London, UK RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology, University College London, UK WALTON Lord of Detchant* University of Oxford, UK RIBEIRO Joaquim Alexandre University of Lisbon, Portugal WINKLER Hans* Austrian Academy of Sciences, Innsbruck, Austria RIZZOLATTI Giacomo* University of Parma, Italy WOLLBERG Zvi Hebrew University, School of Medicine, Israel ROSE Steven The Open University, Milton Keynes, UK ROTH Sir Martin* University of Cambridge, UK ZEKI Semir* University College London, UK ROTHWELL Dame Nancy University of Manchester, UK ZILLES Karl* Heinrich-Heine-University, Düsseldorf, Germany RUTTER Sir Michael King’s College London, UK SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical Research, Heidelberg, Germany SCHWAB Martin* University of Zurich, Switzerland SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science, Rehovot, Israel SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel SHALLICE Tim* University College London, UK *original signatory to the EDAB Declaration Federation of European Neuroscience Societies Presidents / Term Members WOLLBERG Zvi Israel Society for Neuroscience, Tel Aviv University, Israel ARTIGAS Francesc Spanish Society of Neuroscience, University of Barcelona, Spain ZAGREAN Leon National Neuroscience Society of Romania, Carol Davila University of Medicine, Bucharest, Romania BARTH Friedrich G. Austrian Academy of Sciences, Austria BOER Gerard Dutch Neurofederation, Netherlands Institute for Brain Research The Netherlands BRESJANAC Marja Slovenian Neuroscience Association (SINAPSA), Ljubljana, Slovenia CASTRÉN Eero Brain Research Society of Finland, University of Helsinki, Finland DE SCHUTTER Erik Belgian Society for Neuroscience, University of Antwerp, Belgium DI CHIARA Gaetano University of Cagliari, FRANDSEN Aase Danish Society for Neuroscience, Copenhagen University Hospital, Denmark HEISS Dieter European Federation of Neurological Societies, University of Köln, Germany HOFFMANN Klaus-Peter German Neuroscience Society, Ruhr-Universität Bochum, Germany HUCHO Ferdinand European Society for Neurochemistry, Freie Universität Berlin, Germany KHECHINASHVILI Simon Georgian Neuroscience Association, Beritsashvili Institute of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia KOSTOVIC Ivica Institute for Brain Research, Zagreb, Croatia MENDLEWICZ Julien European College of Neuropsycopharmacology, ULB Erasme Hospital, Brussels, Belgium PRZEWLOCKI Ryszard Polish Neuroscience Society, Polish Academy of Sciences, Krakow,Poland ROUGON Geneviève Institut de Biologie du développement de Marseille CNRS, France ROUILLER Eric M. Swiss Society of Neuroscience, University of Fribourg, Switzerland SAGVOLDEN Terje Norwegian Neuroscience Society, University of Oslo, Norway SEBASTIÃO Ana Portuguese Society for Neuroscience, University of Lisbon, Portugal STYLIANOPOULOU Fotini Hellenic Society for Neuroscience, University of Athens, Greece SYKA Josef Czech Neuroscience Society, Academy of Sciences, Prague, Czech Republic May 2006 A Dana Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB, the European subsidiary of DABI Stampato in Svizzera 6.2006