Aggiornamento 2006
Imaging Cerebrale
Un rapporto sui recenti progressi
della scienza che studia il cervello
Un rapporto sui recenti progressi della scienza
che studia il cervello
Imaging Cerebrale
Aggiornamento 2006
THE EUROPEAN DANA ALLIANCE
FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE
William Safire, Chairman
Edward F. Rover, President
Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman
Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman
Carlos Belmonte, MD, PhD
Anders Björklund, MD, PhD
Joël Bockaert, PhD
Albert Gjedde, MD, FRSC
Sten Grillner, MD, PhD
Malgorzata Kossut, MSc, PhD
Richard Morris, Dphil, FRSE, FRS
Dominique Poulain, MD, DSc
Wolf Singer, MD, PhD
Piergiorgio Strata, MD, PhD
Eva Syková, MD, PhD, DSc
Executive Committee
Barbara E. Gill, Executive Director
La European Dana Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 166 tra i più
grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel,
che si sono dati come obbiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza
della ricerca sul cervello. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva
a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico.
Per ulteriori informazioni :
The European Dana Alliance for the Brain
Dr.essa Béatrice Roth, PhD
Centre de Neurosciences Psychiatriques
Site de Cery
1008 Prilly / Lausanne
e-mail : [email protected]
Copertina :
Marcus Raichle, MD
Visioni del cervello :
un rapporto sui recenti progressi
della scienza che studia il cervello
Aggiornamento 2006
Imaging Cerebrale
5
Introduzione
di Thomas R. Insel, MD
9
Neuroimaging
di Marcus Raichle, MD
15
Il cervello che invecchia
Marilyn Albert, PhD e Guy McKhann, MD
I progressi della ricerca sul cervello nel 2005
23
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
31
I disturbi del movimento
39
Le lesioni del sistema nervoso
47
Neuroetica
55
Le malattie neuroimmunologiche
63
Il dolore
71
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
81
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
89
Cellule staminali e neurogenesi
97
I disturbi del pensiero e della memoria
107
Referenze
119
Immaginate un mondo...
Introduzione
di Thomas R. Insel, MD
Director, National Institute of Mental Health, National Institutes of Health
A
Winston Churchill è solitamente attribuito l’aforisma che sostiene : « Si esiste di
quel che si riceve e si vive di quel che si dà. »
Qualsiasi sia la fonte, il concetto vale sia per
l’uomo sia per la scienza. Una bella illustrazione ci è data dalle neuroscienze, che non
hanno mai vissuto così tanto come in questi
anni e così tanto stanno dando all’umanità. In
questo aggiornamento troverete numerosi
progressi realizzati dalle neuroscienze nel
corso del 2005, ma sono solo alcuni esempi. Per una descrizione esaustiva
delle scoperte nell’ambito delle neuroscienze non sarebbero sufficienti
una decina di opuscoli come questo, anche solo per l’anno 2005.
Ogni dettaglio di questo aggiornamento dimostra che le neuroscienze forniscono le conoscenze sul cervello di cui la salute pubblica ha una necessità
urgente. Gli oltre 1000 disturbi del sistema nervoso richiedono un numero
di ospedalizzazioni più elevato rispetto a qualsiasi altro gruppo di patologie, incluse le malattie cardiovascolari e i tumori. Gli ictus sono una tra le
prime tre cause di mortalità, per gli adulti fino a 45 anni la depressione è la
malattia più invalidante e i suicidi continuano ad essere il doppio degli omicidi. L’invecchiamento della popolazione rende la malattia di Alzheimer e
le altre patologie neurodegenerative una priorità crescente per la salute
pubblica. All’altra estremità della vita la prevalenza dei disturbi di tipo autistici è stimata ora ad 1 nascita su 166, decuplicandosi in un decennio.
La buona notizia è che disponiamo di nuovi strumenti e tecnologie straordinariamente efficaci per fronteggiare questi problemi di salute pubblica.
I risultati che troverete leggendo questo rapporto, devono essere considerati come un contributo fondamentale del progresso.
Il progetto Genoma Umano, il cui compimento è stato annunciato con
una grande eco mediatica nel 2003 (all’occasione del 50o anniversario
5
dell’articolo di James Watson e Francis Crick che descriveva la doppia elica
del DNA) ha condotto alla sintesi di una mappa consensuale del DNA umano,
che però non ne comprende le variazioni genetiche. Le variazioni genetiche
sono la chiave per conoscere la vulnerabilità individuale, la resistenza alle
malattie e la diversità umana. Una mappa delle variazioni del DNA umano
fornirebbe più informazioni rispetto alla mappa originale consensuale.
Quest’anno è stato ultimato il progetto « HapMap », la prima mappa esauriente degli aplotipi umani, che contraddistinguono i milioni di singole
variazioni nel nostro genoma 1. Grazie alla HapMap e ai nuovi chips per la
mappatura delle variazioni, rispetto agli anni passati la genetica è diventata
uno strumento più economico e rapido. Ora è possibile stabilire un nesso
tra le variazioni individuali delle sequenze del DNA e la vulnerabilità alle
malattie anche per delle affezioni genetiche complesse e non solamente
per le malattie generate da un unico gene, come la corea di Huntington.
Nel 2005 gli scienziati hanno applicato questo metodo all’intero genoma,
così da identificare le variazioni che conferiscono un rischio per la degenerazione maculare senile e la malattia di Parkinson, modificando profondamente la concezione di queste patologie 2, 3. Nei prossimi mesi i ricercatori
potranno fare altrettanto per tutta una serie di altre malattie del sistema
nervoso, dall’autismo alla malattia di Alzheimer.
Una nuova prospettiva sul cervello ci è data anche dalle tecniche di neuroimaging, di cui Marcus Raichle elenca i progressi. Gli studi realizzati
nel 2005 includono notevoli sviluppi nella capacità di visualizzare le singole
cellule nel cervello vivente. Il miglioramento degli studi sia funzionali sia
strutturali sul cervello intatto permettono d’identificare le vie attraverso le
quali l’informazione circola nel cervello. Grazie all’imaging oggi possiamo
evidenziare la notevole plasticità della corteccia umana 4, i circuiti implicati
nel trattamento dei volti e del linguaggio 5 e persino le informazioni che
sono codificate senza che il soggetto ne sia consapevole 6.
6
Non avremmo probabilmente mai immaginato fino a che punto la nostra
anatomia cerebrale sia determinata dai geni. Le differenze nelle sequenze
geniche codificano per delle diversità individuali molto specifiche nella
struttura e nella funzione del cervello 7. Leggendo i molti capitoli di
quest’aggiornamento sulle conoscenze fornite dalle tecniche di neuroimaging, sorprende come l’organizzazione del cervello sia intricata. Più si
conoscono i circuiti che sottendono le emozioni e la coscienza, più questi
processi mentali ci sembrano misteriosi e complessi.
Introduzione
L’ambito che ha riservato più sorprese è probabilmente quello delle cellule
staminali. Ritenevamo che i neuroni fossero le cellule adulte più complesse
da ottenere a partire dalle cellule staminali, mentre in coltura si sono rivelati
tra i più facili da produrre. Ora si conoscono meglio le tappe da percorrere
per indurre un neurone a differenziarsi a partire da una cellula precursore.
L’importanza di questo tipo di ricerca per le patologie neurodegenerative è
ovvia : la biologia delle cellule staminali ha generato un nuovo ambito, la
medicina rigenerativa. La tecnologia delle cellule staminali costituisce
anche un potente strumento per i ricercatori che studiano l’influenza delle
variazioni genetiche o dei fattori ambientali sul destino dello sviluppo neuronale 8. Per la prima volta, possiamo studiare sia la natura sia la coltura a
livello cellulare.
La sfida in tutti questi ambiti – genetica, imaging, biologia delle cellule
staminali – è utilizzare i progressi per la salute ed il benessere di tutti.
Queste tecnologie, che sono dei potenziali strumenti potenti per migliorare la salute pubblica, potrebbero essere utilizzate impropriamente a
sostegno di ingiustizie. Una disciplina emergente, la neuroetica, s’interroga per esempio su come evitare che le tecniche di neuroimaging siano
utilizzate per interpretare il pensiero o che alcune compagnie assicurative
rifiutino le persone in base al loro profilo genetico. Se alcune questioni
sembrano fantascientifiche (attualmente con le tecniche di neuroimaging
non si legge il pensiero e la predizione del rischio di malattia è un dato
essenzialmente statistico) i neuroscienziati riflettono sempre di più su
come l’uso di questa scienza possa essere utile al pubblico, come è
descritto in questo aggiornamento.
Ho cominciato l’introduzione affermando che gli scienziati vivono di quel
che danno. Fin dall’inizio del 2005, per dare di più, gli specialisti delle
neuroscienze hanno cominciato ad unire le forze. Il Neuroscience Blueprint, un progetto dei National Institutes of Health (NIH), ne è un esempio
eccellente 9. Analogamente al NIH Roadmap, creato per oltrepassare gli
ostacoli al progresso medico, il Neuroscience Blueprint è un’iniziativa
multi-istituzionale il cui scopo è migliorare la conoscenza del sistema nervoso sano e malato. Al Blueprint si devono già dei programmi di formazione sulla neurobiologia delle malattie, l’espansione delle collaborazioni
negli ambiti della neurogenomica e del neuroimaging pediatrico, la creazione di un forum per gli istituti del NIH attivi nell’ambito delle neuroscienze. I progetti per il prossimo anno includono lo sviluppo di una linea
di topi transgenici per le neuroscienze, di programmi di formazione per le
7
tecniche di neuroimaging e la costituzione di un centro di risorse multiistituzionali destinato ai ricercatori che lavorano in ambiti universitari.
Se gli anni ’90 sono stati definiti il Decennio del cervello, la decade attuale
potrà essere definita retrospettivamente il Decennio della scoperta, grazie
all’identificazione della maggior parte dei geni, delle proteine e delle vie
che svolgono un importante ruolo nella funzione cerebrale. Questo aggiornamento di metà decennio, evidenzia il fremere di una ricerca che progredisce nella conoscenza dell’organo più complesso del corpo umano.
Le scoperte di base delle neuroscienze sempre più importanti, si stanno
trasformando in nuove opportunità per la salute pubblica, generando
nuovi approcci per curare patologie diverse come la malattia di Alzheimer,
l’autismo e la dipendenza dalle droghe.
Per le persone che soffrono di una malattia del sistema nervoso, la ricerca
è la speranza. E le ragioni di sperare non sono state mai così numerose.
8
Neuroimaging
di Marcus Raichle, MD
D
a molto tempo psicologi e neuroscienziati
sognano di correlare i comportamenti umani
agli eventi neuronali che li sottendono. In
The Principles of Psychology, un’opera
monumentale in due volumi scritta nel 1890,
William James identifica in modo chiaro il
problema : « Una scienza della mente deve
ridurre [...] la complessità (del comportamento) nei suoi elementi. Una scienza del
cervello deve designare le funzioni di questi
elementi. Una scienza delle relazioni tra la mente e il cervello deve
mostrare come gli ingredienti elementari del primo corrispondano alle
funzioni elementari del secondo. » 1
Grazie alla sperimentazione animale e agli studi realizzati su pazienti affetti
da patologie cerebrali sono stati fatti grandi progressi rispetto ai tempi di
William James, ma la possibilità di mettere in relazione i comportamenti
normali al funzionamento sano del cervello umano, è stata resa possibile
solo a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo.
L’introduzione delle moderne tecniche di imaging cerebrale negli anni ’70
ha permesso di monitorare minuziosamente e quantitativamente la
funzione cerebrale. I progressi hanno sconvolto la diagnostica medica e
catalizzato lo sviluppo di altre tecniche di imaging, in particolare la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la visualizzazione per risonanza
magnetica (MRI).
L’introduzione della PET e della MRI ha fornito uno strumento senza precedenti per studiare le basi neurobiologiche del comportamento umano,
dapprima con la PET in seguito con la MRI funzionale (MRIf) (per la storia,
vedi Raichle 2000) 2.
Questi progressi hanno consentito la nascita di nuove discipline scientifiche come le neuroscienze cognitive e più recentemente le neuroscienze
9
sociali, i cui ambiti combinati comprendono tutti gli aspetti del comportamento dell’individuo sano e malato 3.
Alla fine degli anni 1980, quando la James S. McDonnell Foundation e le
Pew Charitable Trusts lanciarono il loro programma di neuroscienze cognitive, nei dipartimenti di psicologia delle università non esistevano posti di
lavoro per gli specialisti in quest’ambito. Oggi invece sono diventati dei
settori normali nei quali troviamo giovani scienziati con qualifiche combinate nell’imaging e nello studio del comportamento.
In tutto il mondo, con sforzi considerevoli, sono nati dei centri di imaging
completamente dediti alla ricerca ed equipaggiati con costose apparecchiature (soprattutto la MRI). In questo modo il progresso ha interrotto la
tradizione secondo la quale per la ricerca erano utilizzate, sull’uomo e sull’animale di laboratorio, le apparecchiature cliniche degli ospedali messe a
disposizione solitamente la sera, quando tutti erano andati a casa. Non
conosco le cifre recenti sul budget di questi centri, ma devono essere sicuramente ragguardevoli.
Alcuni ricercatori tuttavia, dubitano che la tecnica di neuroimaging funzionale possa fornire delle analisi sufficientemente precise della funzione
cerebrale così da chiarire i rapporti tra il comportamento e la funzione cerebrale. A questo proposito non bisogna però dimenticare che l’imaging
cerebrale può avvalersi anche degli studi condotti in altri ambiti delle
neuroscienze. Una tra le questioni più importanti è come mettere in relazione i dati di neuroimaging e la neurofisiologia delle cellule del cervello e
dei vasi sanguigni che provvedono ai loro bisogni.
C’è stata una vera esplosione dell’interesse per la neurobiologia dei segnali
generati dalla PET e la MRIf. Gli argomenti includono la neurofisiologia dei
segnali dell’imaging 4, 5, la biologia cellulare 6, 7 e anche la genetica del
neuroimaging 8. Un aspetto importante di questo lavoro è stato l’emergere
dell’imaging cerebrale funzionale negli studi sui primati non umani. Tali
studi offrono l’opportunità non solo di comparare direttamente la neurofisiologia e le immagini cerebrali 9, ma anche di comprendere l’organizzazione cerebrale dell’uomo da una prospettiva evoluzionistica 10.
10
A discapito di questi progressi, viene spesso affermato che se non si presta
la dovuta attenzione, l’interpretazione dei dati ottenuti con l’imaging funzionale potrebbe essere considerata come una variante estremamente
Neuroimaging
costosa della frenologia del 19o secolo. La frenologia era una disciplina che
cercava di associare il carattere o certe facoltà mentali degli individui
alla forma del cranio 11. Occorre notare che i ricercatori stessi divulgano
quest’idea senza volerlo. Gli articoli pubblicati nelle riviste specializzate, ai
congressi o nella stampa per il grande pubblico si limitano a regioni particolari del cervello, senza presentare l’insieme dei dati. A partire da questi
dati, spesso incompleti, gli scienziati disquisiscono su funzioni mentali
complesse, esattamente come i frenologi.
Korbinian Brodmann, un pioniere dello studio microscopico e macroscopico dell’organizzazione del cervello umano, molto prima dell’avvento
delle moderne tecniche di imaging (nel 1909 per essere precisi) affermava : « Da qualche tempo si moltiplicano le teorie che, come la frenologia,
tentano di localizzare in zone ben delimitate della corteccia cerebrale delle
attività complesse come la memoria, la volontà, l’immaginazione, l’intelligenza o le competenze spaziali come la valutazione delle forme e delle
posizioni. » E aggiunge : « S’intende per facoltà mentali, un insieme di processi mentali straordinariamente complessi [...]. Che si possono concepire
come il risultato d’interazioni e cooperazioni infinitamente complesse e
intricate di numerose attività elementari [...]. In ogni caso particolare, i supposti loci funzionali elementari in gioco sono più o meno numerosi e agiscono a differenti gradi e con diverse combinazioni. » Queste attività sono
il risultato, afferma ancora Brodmann, «della funzione di un grande numero
di organi subordinati, più o meno ripartiti sulla superficie della corteccia ».12
Con questa esortazione lungimirante Brodmann chiarifica il compito dei
ricercatori che lavorano con l’imaging cerebrale. Occorre dapprima identificare le regioni del cervello e le relazioni esistenti tra queste diverse
regioni per l’esecuzione di compiti ben definiti. Tale analisi è in corso grazie ad una lunga serie di studi neuropsicologici sulla relazione tra le lesioni
cerebrali e il comportamento, così come gli studi neurofisiologici e neuroanatomici realizzati sugli animali di laboratorio, associati al neuroimaging. I
ricercatori saranno poi confrontati con una sfida molto impegnativa, essi
dovranno identificare le operazioni più elementari realizzate in seno a
queste vie e dovranno metterle in relazione con i compiti che essi studiano.
A questo proposito si registrano dei progressi già molto incoraggianti, che
alimentano un intenso dialogo tra scienziati a tutti i livelli.
Diverse questioni assumono una particolare importanza per la comprensione della funzione del cervello umano e sono oggetto da parte degli
11
specialisti di neuroimaging di un’attenzione crescente. Esse includono le
differenze tra gli individui, lo sviluppo (maturazione cerebrale) e l’attività
del « cervello a riposo ».
Le differenze individuali
Inizialmente si temeva che le differenze tra gli individui fossero troppo consistenti, si riteneva impossibile poter utilizzare i dati di persone differenti
per ottenere una media che rappresentasse la risposta cerebrale dell’uomo
ad un determinato compito. Questa preoccupazione è svanita rapidamente davanti alla concordanza dei risultati individuali raccolti grazie
all’imaging. I risultati sono stupefacenti 13 e le neuroscienze cognitive
utilizzano questo metodo con successo. Tuttavia, per coloro che hanno
esaminato questi dati nel dettaglio (in particolare i dati delle MRIf d’alta
qualità) l’esistenza delle differenze individuali sembra permettere una
comprensione più sottile del comportamento umano. Associato con l’interesse e le tecniche che la psicologia e la psichiatria possiedono per la caratterizzazione delle differenze di personalità, l’imaging potrà permettere
nuovi progressi.
Sviluppo
12
Le neuroscienze cognitive si sono interessate soprattutto al cervello umano
adulto, esaminando la funzione normale e i cambiamenti quando esso è
leso. Occorre considerare la funzione cerebrale anche dalla prospettiva
dello sviluppo. La letteratura della psicologia dello sviluppo abbonda di
dettagli sulle tappe che segnano la maturazione del cervello umano. Quel
che manca tuttavia, è una comprensione esauriente dei processi di maturazione dei differenti sistemi del cervello. La maturazione cerebrale considerata a livello dei sistemi cerebrali influisce, per citare solo alcuni esempi,
sullo sviluppo dell’attenzione, del linguaggio, della memoria, della personalità e della gestione dell’angoscia. A questo proposito delle informazioni
supplementari permetterebbero di comprendere meglio lo sviluppo in sé
stesso ma anche il suo obiettivo finale : l’organizzazione del cervello
adulto. L’attuale povertà d’informazioni in quest’ambito riflette non solo la
difficoltà di accedere senza pericoli e in modo preciso alle informazioni nell’uomo, ma evidenzia anche il fatto che che per anni le ricerche nel campo
della neurobiologia dello sviluppo si sono focalizzate a livello cellulare e
molecolare escludendo un approccio sistemico più integrato. I dati raccolti
da un piccolo gruppo di pionieri della ricerca sono un esempio appassionante di quello che ci riserverà il futuro con le tecniche di neuroimaging
applicate allo sviluppo 14-16. Incoraggianti sono pure gli studi paralleli sui
Il cervello a riposo
Nelle analisi dei segnali raccolti con l’imaging funzionale sarà estremamente importante mantenere il senso delle proporzioni. Il cervello umano
è, infatti, un organo che consuma grandi quantità d’energia, le variazioni
d’attività osservate nell’ambito degli studi di imaging funzionale ne assorbono solo una piccola parte. L’alto consumo energetico del cervello a
riposo è noto da molto tempo 17, tuttavia solo di recente ha ottenuto l’attenzione che merita. I ricercatori hanno compreso che le ingenti spese energetiche necessarie sono soprattutto da mettere in relazione con la funzione
primaria del cervello (percepire e analizzare le informazioni per generare
delle risposte adeguate) e in maniera più modesta per i compiti di mantenimento dell’ambiente cellulare 18.
Neuroimaging
primati non umani, che permettono di correlare i cambiamenti osservati a
livello cellulare del cervello con i dati forniti dall’analisi fine dei comportamenti sociali complessi.
Considerare la funzione cerebrale dell’uomo in un’ottica di costi, ci orienta
verso la via sostenuta da molto tempo da Linas ed altri : 19 il cervello investe
gran parte della sua attività nel creare e mantenere uno stato mentale (sia
cosciente, sia incosciente) che rappresenta il mondo nel quale viviamo e la
posizione che occupiamo. In altre parole, il cervello non è semplicemente
un organo il cui compito primario è di rispondere in modo riflesso al mondo
che ci circonda. Come faceva osservare William James moltissimo tempo
fa, « se una parte di ciò che percepiamo di un oggetto che abbiamo davanti
ci giunge attraverso i sensi, un’altra parte (che potrebbe essere la più
importante) proviene sempre [...] dalla nostra testa ».20
L’imaging funzionale è ancora in fase di sviluppo, ma offre la possibilità di
mettere in relazione le neuroscienze con il ventaglio di comportamenti che
definiscono l’essere umano, in buona salute oppure malato. La sfida è
quella di comprendere come integrare il potenziale dell’imaging cerebrale
e le sue basi di neurofisiologia, biologia cellulare e genetica con le questioni affascinanti e complesse del comportamento umano. Il successo di
quest’integrazione costituirà un beneficio per tutti.
13
Il cervello che invecchia
di Marilyn Albert, PhD e Guy McKhann, MD
A
lcune persone, al contrario di altre, invecchiando conservano intatte funzioni cognitive
come la memoria e il linguaggio. Studi realizzati sia sull’uomo che sull’animale rivelano
che il mantenimento delle funzioni cognitive
è associato a fattori molto specifici. Queste
conoscenze hanno permesso agli scienziati di
identificare alcuni interventi che riducono o
prevengono il declino cognitivo legato all’età.
Le misure efficaci, infatti, sono una combinazione d’esercizio fisico, stimoli mentali e attività psicosociali.
Come cambia la memoria con
il passare degli anni
In assenza di malattia, le facoltà cognitive
cambiano con l’età ? Alcuni ricercatori hanno
scelto di studiare alcune facoltà legate alla
memoria in tutte le età ma esclusivamente in
individui che godono di un’ottima salute. La
ragione di questa scelta è che le malattie del
cervello diventano più frequenti con l’avanzare dell’età e se non si eliminano dallo studio le persone che soffrono delle patologie comuni, non è
possibile distinguere gli effetti dell’invecchiamento del cervello (che non è
una malattia) con quelli invece legati alle patologie presenti in età avanzata.
I risultati di questi studi evidenziano che invecchiando si osservano cambiamenti nella maggior parte delle funzioni cognitive. Insisteremo in particolare sui cambiamenti legati alla memoria, anche perché essa può essere
studiata nell’animale da laboratorio. Uno dei metodi più utilizzati per studiare la memoria è quello di insegnare nuovi elementi da ricordare e osservare la capacità e la velocità d’apprendimento. Concretamente, per esaminare la « memoria episodica » si racconta ad una persona una storia e si
chiede di ricordarne i dettagli dopo un periodo di tempo determinato.
15
Realizzando questo test con individui sani di età diverse, si notano delle
differenze significative tra i cinquantenni e i sessantenni rispetto alle persone tra i trenta e i quarant’anni. Differenze che sono ancora più marcate
oltre i settant’anni. Un simile declino si osserva anche in altri ambiti delle
funzioni cognitive come ad esempio nel linguaggio, ma ad età differenti. I
cambiamenti connessi all’età sono facilmente evidenziabili anche in studi
realizzati sugli animali, in particolare su scimmie e roditori.
Non tutte le persone invecchiando subiscono tali alterazioni, i cambiamenti
variano molto da un individuo all’altro. Nelle persone giovani la gamma di
variazioni è relativamente ristretta, tenendo conto delle differenze di
natura culturale. Negli anziani le variazioni sono molto più marcate : alcuni
mantengono una memoria simile alle persone che hanno diverse decine di
anni meno, mentre altre persone accusano un declino significativo. Anche
in questo caso è possibile riprodurre nell’animale da laboratorio le differenze connesse all’età.
I meccanismi cerebrali associati ai cambiamenti
della memoria
Le osservazioni sui cambiamenti della memoria connessi all’età ci inducono
a chiederci per quale motivo la memoria si altera in alcuni individui e non in
altri. Gli scienziati hanno suggerito diverse ipotesi sull’origine del declino.
La prima, tuttora molto popolare, attribuisce il declino della memoria ad
una perdita « diffusa » di neuroni nell’insieme del cervello. Gli studi recenti
realizzati su scimmie, roditori ma anche esseri umani, indicano però che la
perdita di neuroni nel cervello collegata all’età è molto ridotta, anche nelle
aree che assicurano le funzioni mnemoniche, come l’ippocampo.
Un’altra ipotesi è che la perdita di cellule nervose sia « altamente selettiva »
per determinate regioni del cervello. Quest’ipotesi trova conferma nella
perdita di cellule osservata nei nuclei sottocorticali, delle popolazioni di
cellule nervose della parte più profonda del cervello. Tali nuclei, come i
nuclei della base, perdono fino al 50 per cento delle loro cellule nervose e
visto che esse inviano le loro proiezioni verso molte altre regioni cerebrali,
influiscono sulla produzione di sostanze chimiche essenziali per l’apprendimento e la memoria.
16
Un’ultima ipotesi che potrebbe spiegare il declino della capacità mnemonica, è che con il passare degli anni cambino i « meccanismi » che le cellule
nervose utilizzano per l’apprendimento e la memoria. Quest’ipotesi è stata
Con l’invecchiamento si possono inoltre osservare altri fenomeni : negli
organismi più anziani si è osservata l’attivazione di meccanismi di adattamento che potrebbero permettere di compensare i cambiamenti funzionali
legati all’età. Questi meccanismi di compensazione sono stati osservati sia
negli animali, sia nelle persone. L’imaging funzionale, che permette di
osservare le parti del cervello attivate durante lo svolgimento di compiti
mnemonici, rivelano che i soggetti giovani utilizzano alcune regioni cerebrali molto specifiche. I soggetti più anziani, con una funzione cerebrale
normale, attivano oltre alle regioni utilizzate dai più giovani anche numerose altre aree.
Il cervello che invecchia
dimostrata con un esperimento nel quale è stato possibile mettere in relazione la memoria con i cambiamenti della funzione cerebrale. Nei roditori
con una riduzione delle capacità mnemoniche associata all’età si osserva
una diminuzione del potenziamento a lungo termine, un meccanismo
neuronale indispensabile per la memoria.
È probabile che gli individui anziani con una funzione mnemonica preservata presentino due peculiarità : la prima è il mantenimento durante
l’invecchiamento delle strutture e delle funzioni cerebrali, la seconda è
l’uso di meccanismi di adattamento per i compiti mnemonici.
Genetica e influenze ambientali
Tutti conoscono delle famiglie nelle quali numerosi membri vivono molto a
lungo e possiedono buone capacità mnemoniche. Questa osservazione ci
invita a porci una domanda : la genetica può in qualche modo influenzare il
mantenimento della memoria ? Uno dei metodi per analizzare l’influenza
genetica consiste nel paragonare il comportamento di gemelli monozigoti
che hanno vissuto insieme, a quello dei gemelli separati fin da piccoli e
vissuti in realtà differenti. Tali studi suggeriscono che i geni influiscono
approssimativamente per il 50 per cento sulle variazioni delle funzioni
mnemoniche. L’importanza dei geni non è messa in dubbio, ma anche i
fattori ambientali determinano la conservazione della memoria.
Numerose indagini hanno esaminato lo stile di vita delle persone e lo
hanno confrontato con diverse funzioni cognitive, compresa la memoria.
Complessivamente questi studi hanno coinvolto oltre 15 000 individui che
vivono in diversi paesi. L’attività fisica, l’attività mentale, l’impegno sociale
e il rischio cardiovascolare sono emersi come fattori importanti, sembra
inoltre che ci sia un effetto additivo di questi fattori.
17
Meccanismi cerebrali
Gli studi epidemiologici permettono di descrivere il comportamento dei
soggetti con una memoria conservata, ma per comprendere i meccanismi
cerebrali che la sottendono occorre la sperimentazione animale.
Le persone che invecchiando mantengono delle eccellenti funzioni cognitive e una buona memoria, sono persone fisicamente attive. Preferiscono
le scale all’ascensore, compiono lunghe passeggiate e sollevano dei pesi.
I ricercatori hanno quindi stimolato i roditori ad imitare questi comportamenti facendoli correre nelle ruote sistemate nelle gabbie. Da questi studi
si è osservato che gli animali attivi imparano più rapidamente e meglio
rispetto ai loro congeneri meno dinamici.
Sono almeno tre i meccanismi cerebrali associati all’incremento dell’apprendimento e della memoria con l’esercizio fisico. Si è osservato che i
roditori fisicamente attivi producono molte più cellule nervose, in particolare nell’ippocampo, una delle regioni cerebrali molto importanti per la
memoria. Inoltre, questi roditori producono una quantità maggiore di
fattori trofici necessari al mantenimento delle cellule nervose, come ad
esempio il brain-derived neurotrophic factor (BDNF), che sembra essere
espresso in modo specifico nell’ippocampo. Infine, si nota una maggiore
efficacia dei meccanismi neurochimici che le cellule nervose dell’ippocampo utilizzano per comunicare tra loro. L’attività fisica quindi, oltre a
migliorare il sistema cardiovascolare, ha un effetto positivo sulle regioni
cerebrali che concorrono alla funzione mnemonica.
Studi epidemiologici evidenziano inoltre che le persone le cui funzioni
cognitive sono preservate, sono mentalmente attive e generalmente
hanno delle occupazioni stimolanti per la mente : parole crociate, giochi a
dama, lettura, conferenze ecc. I roditori esposti ad un ambiente stimolante,
con molti oggetti da esplorare, imparano meglio. Tali animali, così come
quelli fisicamente attivi, hanno nell’ippocampo un numero maggiore di
neuroni e un’espressione più elevata di fattori trofici come il BDNF. Nuovi
studi cercano ora di determinare se l’effetto dell’attività fisica e della stimolazione mentale sono cumulativi.
18
Anche uno stimolo a livello sociale sembra essere importante per il mantenimento delle facoltà cognitive. Definito impegno sociale, sentimento di
autostima oppure percezione dell’importanza di sé, esso sembra dipendere dal grado di attaccamento dell’individuo alla famiglia e alla comunità
Sembra infine che tutto ciò che è buono per il cuore lo sia anche per il cervello. Come dimostrano alcuni studi, le malattie vascolari del cuore e del
cervello sono più rare se si cura l’ipertensione, il diabete, se si riduce il
tasso di colesterolo, se si sorveglia il peso e se non si fuma. Quando non si
controllano i fattori di rischio vascolari, la funzione cognitiva ne risente.
Appropriate misure preventive possono tuttavia attenuare gli effetti negativi a livello del cervello.
Il cervello che invecchia
nella quale vive così come al controllo che egli pensa di potere esercitare
sulla sua vita. È stato difficile sviluppare un modello animale che permette
di studiare questi comportamenti. Certi ricercatori ritengono però che esiste un denominatore comune : la riduzione degli ormoni dello stress contenuti nel cervello. Alcuni studi realizzati su animali da laboratorio, hanno
dimostrato che uno stress eccessivo aumenta il tasso di ormoni dello stress
che inducono una perdita di neuroni nell’ippocampo.
Questi studi, effettuati nell’uomo e nell’animale da laboratorio, sono all’origine di numerose misure atte a ridurre o impedire il declino cognitivo nelle
persone anziane, che combinano l’approccio fisico, mentale e psicosociale. Le implicazioni di queste scoperte hanno rinforzato l’interesse del
pubblico e dato origine a dei programmi educativi diretti alle persone
anziane. Degli esempi sono le iniziative negli Stati Uniti, dell’AARP
« Staying Sharp », la campagna della Alzheimer’s Association « Maintain
Your Brain », o il « Cognitive and Emotional Health Project » dei National
Institutes of Health.
Questa relazione è tratta da una conferenza pubblica che Marilyn Albert ha
dato il 12 novembre 2005 per la Società delle neuroscienze.
19
I progressi
della ricerca
sul cervello
nel 2005
Le patologie che appaiono
nel corso dell’infanzia
Delle ipotesi come sfida sull’ADHD
24
Le basi cerebrali della dislessia
27
Alla ricerca dei primi segni di autismo
28
23
L
e patologie cerebrali che appaiono nel corso dell’infanzia sono spesso
materia controversa e vedono il pubblico dibattere con passione sulle diagnosi e i trattamenti più adeguati. Nel corso del 2005 i ricercatori hanno
ottenuto dei progressi nell’esplorazione delle basi neurologiche di tre di
queste malattie : i disturbi da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la
dislessia e l’autismo.
Delle ipotesi come sfida sull’ADHD
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), è la diagnosi psichiatrica più frequente nei bambini, colpisce dal 8 al 10 per cento dei bambini in età scolare 1 ed è una delle patologie più discusse. Alcune persone
dubitano, infatti, che l’ADHD sia una malattia e attribuiscono le manifestazioni che si osservano, come la distrazione e l’iperattività, ad una mancanza
di disciplina e di maturità. Altri ritengono invece che questo disturbo sia
concreto, ma temono che i bambini assumano troppi farmaci. Gli studi
pubblicati nel 2005 hanno contribuito a chiarire certe questioni, ma ne
hanno sollevate altre.
Due studi pubblicati nel 2005 rimettono in questione l’idea comunemente
accettata secondo la quale nell’ADHD esista una differenza tra ragazzi e
ragazze. Se è noto che questo disturbo colpisce più i ragazzi delle ragazze,
il tasso di prevalenza cambia se i ricercatori studiano i bambini curati in
ambiente ospedaliero o se analizzano dei campioni più generali di bimbi
che vivono nella comunità. Secondo una metanalisi (l’analisi dei dati che
provengono da studi simili, ma indipendenti) pubblicata nel Journal of the
American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, questo tasso varia
da sei a nove ragazzi per una ragazza in ambito ospedaliero, ma è di tre ad
uno nella vita comunitaria 2.
Da cosa deriva questa differenza ? Si ammetteva generalmente che
l’ADHD avesse manifestazioni e sintomi diversi nei ragazzi e nelle ragazze.
Si riteneva che i ragazzi fossero inclini più delle ragazze all’iperattività, di
conseguenza i problemi di comportamento inducevano genitori ed insegnanti ad interrogarsi sull’opportunità di un trattamento.
24
Uno studio pubblicato nel 2005 da Joseph Biederman e i suoi collaboratori
del Massachusetts General Hospital rimette in questione l’esistenza di
differenze significative tra ragazzi e ragazze. Come riportato nel numero di
giugno dell’American Journal of Psychiatry 3, Biederman e il suo gruppo
I ricercatori hanno costatato che questo disturbo era circa tre volte più
frequente nei ragazzi rispetto alle ragazze. Approfondendo le ricerche non
hanno riscontrato delle differenze significative tra ragazzi e ragazze sull’età
d’apparizione della malattia, sui sintomi, sull’effetto disabilitante della
malattia, sui sottotipi (soggetto disattento, iperattivo-impulsivo, o entrambi),
o sulla presenza di disturbi concomitanti.
Per quale motivo i ragazzi sono indirizzati ad un medico più spesso delle
ragazze ? Secondo l’esperienza di Joseph Biederman, una delle ragioni
potrebbe essere che i ragazzi che soffrono di ADHD hanno la tendenza a
dimostrarsi più apertamente perturbanti rispetto alle ragazze, soprattutto
quando sono più giovani. Questo significa inoltre, che le ragazze affette da
ADHD non sono sempre diagnosticate e curate. Se i risultati di questo studio fossero confermati, esso potrebbe avere delle conseguenze importanti
per la diagnosi e il trattamento dell’ADHD nelle ragazze.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
hanno studiato un campione di bambini che vivono nel loro ambiente.
Utilizzando dei metodi di diagnosi standard, i ricercatori hanno diagnosticato l’ADHD in un sottoinsieme di bambini mai curati per questo tipo
di disturbo.
L’idea che forse si sopravvaluta la differenza tra i ragazzi e le ragazze che
soffrono di ADHD è confermata da uno studio effettuato su dei gemelli e i
loro figli non gemelli realizzato all’University of New South Wales in
Australia, da Florence Levy 4 e pubblicato nel numero di aprile del Journal
of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry. Questo
studio ha evidenziato poche differenze tra ragazzi e ragazze sui disturbi
diagnosticati nell’ambito dell’ADHD : disturbo del comportamento, attitudine oppositiva e di sfida (caratterizzata dal rifiuto alla cooperazione e da
un’ostilità persistente) e ansia da separazione. Esiste tuttavia un’eccezione:
nelle ragazze affette da ADHD sono diagnosticati più frequentemente i
disturbi dell’ansia. Per il resto, l’esistenza o la gravità dei disturbi era determinata maggiormente dai sottotipi e dalla severità dei sintomi di ADHD più
che dalle differenze di genere.
Altri studi pubblicati nel 2005 hanno esplorato le basi neurologiche dell’impulsività e dei deficit in quelle che si definiscono le « funzioni esecutive »: la pianificazione, l’organizzazione o la presa di decisioni. Questi
disturbi possono interferire con il lavoro a scuola e con l’esercizio di una
professione così da compromettere lo sviluppo intellettuale di un soggetto
25
Valutazione dell’impulsività
I ricercatori del King’s College di Londra, hanno scoperto che i ragazzi affetti da disturbi
da deficit di attenzione e iperattività mostrano una diminuzione dell’attività neurale nella
parte inferiore della corteccia prefrontale destra quando eseguono con successo un
compito, come indicano queste immagini realizzate con la risonanza magnetica.
o la sua carriera professionale. Katya Rubia e i suoi colleghi del King’s
College, Londra, hanno studiato con la risonanza magnetica funzionale gli
schemi d’attivazione cerebrale di ragazzi di 16 anni che presentano un
ADHD e che non hanno mai assunto dei farmaci. I ricercatori durante
l’esame hanno richiesto ai ragazzi di adempiere un compito che misurava
il controllo dell’inibizione (una via per valutare l’impulsività).
26
Quando i ragazzi affetti da ADHD riuscivano ad eseguire ciò che era loro
richiesto, l’attività della parte inferiore destra della corteccia prefrontale era
più bassa rispetto al gruppo controllo. Invece, se non riuscivano a realizzare il compito, la riduzione d’attività coinvolgeva altre aree : il cingolo
posteriore e il precuneo. Questo modello d’attivazione differisce da quello
osservato nei soggetti di controllo, ma è pressoché identico a quello registrato nei ragazzi affetti da ADHD trattati con i farmaci. Tale osservazione
induce a ritenere che il fenomeno non è secondario all’assunzione di farmaci ma piuttosto all’ADHD stesso. I risultati sono stati pubblicati nel
numero di giugno dell’American Journal of Psychiatry 5.
Per trattare i sintomi di base, il rapporto propende chiaramente in favore
dei farmaci stimolanti, tutti giudicati egualmente efficaci. I triciclici e l’atomoxetina, farmaci antidepressivi, sono invece consigliati ai bambini che
non rispondono agli stimolanti. (Occorre evidenziare che la FDA ha richiesto alla fine del 2005 di aggiungere un avvertimento inquadrato in nero per
l’atomoxetina, poiché questo farmaco può rafforzare le idee suicidarie in
certi bambini.) Gli autori del rapporto sottoscrivono l’attuale consenso
terapeutico, anche se l’approccio più efficace consiste senza dubbio nel
combinare farmaci e terapia comportamentale.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
Anche se restano dei dubbi sulle basi cerebrali dell’ADHD, il consenso sul
trattamento non è cambiato. L’American Academy of Pediatrics nel giugno
del 2005 ha raccolto le informazioni sulle direttive terapeutiche esistenti
allo scopo di aiutare i pediatri a paragonare le diverse opzioni terapeutiche
e fare una scelta 6. Come riportato dalla rivista dell’accademia, Pediatrics,
i farmaci maggiormente studiati sono tre stimolanti : il metilfenidato (Ritalin), la destroanfetamina (Dexedrine) e la pemolina, seguiti da un antidepressivo triciclico, la desipramina (Norpramin) e un farmaco non stimolante, l’atomoxetina (Strattera).
Le basi cerebrali della dislessia
I bambini affetti da dislessia hanno generalmente un’intelligenza normale,
ma riscontrano delle difficoltà nell’apprendimento della lettura. Le cause
cerebrali della dislessia sono sempre molto dibattute, due studi pubblicati
nel 2005 aiutano a trovare delle risposte.
Numerosi bambini che soffrono di dislessia, oltre ad avere delle difficoltà
nell’apprendimento della lettura, faticano anche a denominare correttamente gli oggetti raffigurati da un’immagine. Le due difficoltà potrebbero
essere indotte dall’identica origine neurologica ? È la domanda che si è
posto un gruppo dell’Institute of Psychiatry di Londra, diretto da Eamon
J. McCrory, che ha pubblicato nel numero di febbraio della rivista Brain i
risultati di uno studio realizzato con la tomografia ad emissione di positroni
sull’attivazione cerebrale nei bambini dislessici.
I ricercatori hanno osservato nei bambini dislessici una ridotta attivazione
della corteccia occipitotemporale inferiore sinistra quando cercano di leggere delle parole o di denominare gli oggetti di un’immagine, questo dato
fa pensare ad un trattamento deficitario dei suoni 7. Se questo risultato
fosse confermato, lo studio avrebbe delle conseguenze pratiche : il fatto di
27
identificare i bambini in età prescolare che presentano dei disturbi della
denominazione permetterebbe di indirizzarli a degli ortofonisti o dei logopedisti per facilitare più tardi l’apprendimento della lettura.
Egualmente apparso nel 2005, nel numero di luglio di Nature Neuroscience, uno studio condotto da Anne J. Sperling, ricercatrice al Georgetown University Medical Center, aggiunge una nota sorprendente alla
teoria secondo la quale i soggetti dislessici hanno un problema nel vedere
le parole. Secondo la Sperling questi soggetti sarebbero in realtà incapaci
di fare la differenza tra le indicazioni visive e i segnali dello sfondo, o
« rumori » di fondo 8.
I ricercatori hanno domandato a dei bambini di guardare su uno schermo
di computer delle immagini, animate oppure statiche e di dire se esse
apparivano sulla parte destra oppure sinistra dello schermo. Quando le
immagini apparivano da sole sullo schermo, i bambini dislessici ottenevano
dei risultati simili a quelli degli altri bambini. Se i ricercatori nascondevano
parte delle immagini aggiungendo degli altri stimoli che le disturbavano,
come per esempio la « neve » che si vede alla televisione quando c’è un
guasto, i bambini dislessici le riconoscevano meno bene dagli altri. Da cui
l’ipotesi degli autori, che ci sarebbe tra le cause della dislessia un’incapacità
nel filtrare i rumori di fondo e concentrarsi sui segnali importanti.
Alla ricerca dei primi segni di autismo
L’anno 2005 ha convalidato la teoria secondo la quale le anomalie cerebrali
responsabili dell’autismo possono essere svelate nei primi mesi o nei primi
anni di vita del bambino, i disturbi dello sviluppo sono in generale diagnosticati non prima dei due o tre anni.
Nel numero di aprile/maggio 2005 dell’International Journal of Neuroscience, Lonnie Zwaigenbaum e i suoi colleghi della McMaster University
Ontario, affermano che certi segni di autismo si notano già all’età di
6 mesi 9. Lo studio pilota coinvolgeva 65 bambini, fratelli di bambini autistici,
seguiti dall’età di 6 mesi fino a 2 anni o più. (Con il tempo questo studio ha
assunto proporzioni considerevoli, realizzato in 14 luoghi tra il Canada e gli
Stati Uniti ; oggi è denominato High Risk Baby Autism Research Project.)
28
Gli autori dello studio hanno osservato i bambini da 6 a 12 mesi, alfine di
misurare le reazioni comportamentali ed emotive, che a causa dell’autismo
diventano talvolta anormali. Gli studiosi hanno ricercato le caratteristiche
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
Quando si manifesta l’autismo ?
Alla festa del primo compleanno, i bambini affetti da autismo precoce manifestano già
i sintomi della patologia, com’è il caso del bambino di destra. Nel corso dello studio
sono stati valutati anche i bambini colpiti dalla forma tardiva di autismo e i bambini con
sviluppo normale, come il bimbo a sinistra.
che, presenti dall’età di un anno, annunciano l’autismo. Tra queste, la
ridotta capacità di prestare attenzione visiva in presenza di più stimoli,
l’assenza di reazione visiva quando i bimbi sono chiamati per nome e la
reazione esagerata allo stress.
I bebè che in seguito si sono rivelati autistici, presentavano già a 6 mesi
certi comportamenti che lo lasciavano prevedere. I bambini erano passivi e
inattivi a 6 mesi, ad un anno erano molto irritabili e tendevano a fissarsi su
oggetti ben determinati. Gli autori evidenziano tuttavia che questi risultati
sono stati raccolti in un numero relativamente ristretto di soggetti e che
sono solo studi preliminari. Non è stato possibile correlare nessuno dei
comportamenti osservati nel corso dello studio con i dati dello sviluppo
cerebrale precoce. Gli scan cerebrali realizzati sui bambini pongono importanti problemi tecnici ed etici. Nonostante queste limitazioni, se i risultati
fossero confermati, questo studio potrebbe permettere di diagnosticare
con anticipo l’autismo.
Sempre nel 2005, Archives of General Psychiatry, ha pubblicato in agosto
un’analisi di film amatoriali di compleanni di bambini. Lo studio si è basato
su un’analisi del 1994, considerata oggi come punto di riferimento per
aver dimostrato per la prima volta l’esistenza di una regressione autistica.
29
Geraldine Dawson, ricercatrice all’Università di Washington (e autore
dello studio del 1994) e la sua collega Emily Werner hanno visionato dei
video amatoriali realizzati durante il primo e il secondo compleanno di
56 bambini, di cui 21 soffrivano di autismo precoce, 15 di autismo con
inizio tardivo e 20 avevano uno sviluppo normale 10.
Le ricercatrici hanno costatato che nei casi di autismo precoce i sintomi
erano già visibili alla prima festa di compleanno, mentre a quel momento
non si distinguevano i bambini che hanno sviluppato un autismo tardivo
dai bambini in buona salute. Alla seconda festa, i bebè apparentemente in
buona salute il primo anno e che avrebbero sviluppato la malattia più tardi,
avevano già nettamente regredito, come confermato dai genitori. I ricercatori si adoperano ora per comprendere meglio le cause e la prognosi a
lungo termine di questa regressione.
30
I disturbi
del movimento
L’attenzione alle mutazioni genetiche
32
Quando il meccanismo non funziona
33
Il GDNF continua ad interessare i ricercatori
34
Nuove applicazioni per la terapia genica
35
La stimolazione cerebrale profonda diventa più precisa
36
I topi danno delle indicazioni interessanti
sulla corea di Huntington
37
31
A
nche nel 2005 i risultati più importanti nel campo della ricerca sui
disturbi motori sono arrivati dalla genetica. Gli studi clinici e di laboratorio
hanno fornito nuovi trattamenti, hanno migliorato quelli preesistenti e
creato nuovi metodi per trasportare i farmaci all’interno del cervello. I ricercatori hanno egualmente studiato i cambiamenti cellulari e molecolari associati ai disturbi del movimento per comprenderne meglio le cause.
L’attenzione alle mutazioni genetiche
Negli ultimi dieci anni, le scoperte nell’ambito della genetica hanno aperto
nuove possibilità per comprendere le patologie umane. Numerosi risultati
sono stati ottenuti nella comprensione della malattia di Parkinson. Sono
stati identificati almeno cinque geni, responsabili delle forme familiari di
questa patologia. Nonostante la relativa rarità delle forme ereditarie della
malattia di Parkinson, lo studio di questi geni e delle proteine a loro associate ha permesso ai ricercatori di comprendere meglio come si sviluppa.
Grazie a questi studi, i ricercatori hanno scoperto il ruolo causale della proteina alfasinucleina e la funzione protettiva della proteina parkina nella
malattia di Parkinson. L’alfasinucleina è la maggiore costituente dei corpi di
Lewy, i depositi proteici presenti classicamente nei neuroni delle persone
affette da Parkinson. La proteina parkina sembra proteggere contro la
malattia annullando l’azione tossica dell’alfasinucleina e stimolando la
cellula a degradare ed eliminare i depositi.
Due studi apparsi alla fine del 2004 associano le mutazioni del gene LRRK2
(leucine-rich repeat kinase 2) alla malattia di Parkinson 1, 2. Nel 2005 diversi
lavori, di cui tre pubblicati nella rivista Lancet e altri tre in Neurology 3-8,
mettono in relazione le mutazioni del LRRK2 con numerosi casi di Parkinson familiare e alcuni casi sporadici, non familiari, di questa malattia.
32
La versione più frequente di questa mutazione, definita G2019S, è stata
riscontrata in circa 5 % dei casi familiari e 1 % di casi isolati. La G2019S sostituisce un aminoacido in una parte molto stabile del gene. I pazienti affetti
da Parkinson portatori delle mutazioni del LRRK2 presentano una forma
clinica della malattia simile alla malattia di Parkinson classica, l’età d’apparizione si situa tra 28 e 88 anni. La patologia può variare, in particolare per
quel che concerne la presenza dei corpi di Lewy. Come abbiamo avuto
modo di leggere nel numero di marzo degli Annals of Neurology, le immagini provenienti dalla PET effettuate nei pazienti portatori della mutazione
La proteina codificata dal gene LRRK2 è denominata dardarina, dal basco
dardara, « tremito ». La sua azione è sconosciuta, la mutazione del gene
potrebbe attivare o disattivare questa proteina, oppure modificarne la
modalità d’interazione con altre proteine. Le mutazioni della dardarina
potrebbero aumentare la suscettibilità alla malattia di Parkinson favorendo
la formazione di aggregati proteici o rendendo le cellule nervose più
vulnerabili ai processi degenerativi 10.
I disturbi del movimento
G2019S del LRRK2 presentano dei segni d’impoverimento in dopamina
simili a quelli che si osservano nei casi classici, non familiari della malattia
di Parkinson 9.
Sebbene siano migliaia i soggetti controllo privi di mutazioni, alcuni famigliari dei malati di Parkinson presentano le mutazioni del LRRK2 senza
manifestare i sintomi, e un buon numero di persone affette dalla malattia
con la mutazione LRRK2 non hanno degli antecedenti familiari. Questo
significa che probabilmente altri fattori, genetici oppure ambientali, sono
implicati nello sviluppo della malattia. Un elemento che può favorire
l’apparizione della malattia nelle persone portatrici della mutazione del
LRRK2 è l’età avanzata. La frequenza di questi casi associati alla mutazione
aumenta infatti con l’età. In uno studio pubblicato nell’American Journal of
Human Genetics, 17 % dei soggetti con la mutazione sviluppano la malattia
di Parkinson all’età di 50 anni, 85 % dei soggetti con la mutazione ha dei
sintomi all’età di 70 anni 11.
Le mutazioni del LRRK2 potrebbero essere quelle più frequentemente
associate con la malattia di Parkinson. Dato che esse possono esistere in
assenza di qualsiasi antecedente familiare della malattia, certi autori ritengono che sarebbe utile un test genetico per gli studi clinici. Altri invece, ne
contestano l’utilità poiché non esiste un trattamento preventivo della
malattia e i test genetici non hanno un beneficio diretto sul piano medico.
Quando il meccanismo non funziona
Un accumulo di alfasinucleina nei neuroni è caratteristico della malattia di
Parkinson, ma per ora non sappiamo nulla sulla funzione fisiologica di
questa proteina e sulla relazione tra gli aggregati che essa forma e la neurodegenerazione. Il 17 giugno Chang-Wei Liu e i suoi collaboratori, hanno
pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, come si formano gli aggregati di alfasinucleina nel contesto di un ciclo tossico per le cellule 12. Nel
modello sperimentale della malattia di Parkinson l’alfasinucleina normale si
33
distende ed è degradata in modo incompleto. Permangono quindi dei
frammenti di alfasinucleina che fungono da « semi », che attivano l’accumulo della proteina intera. Gli ammassi impediscono al sistema di degradazione delle proteine di funzionare normalmente, di conseguenza i
frammenti di proteine completamente dispiegati aumentano. Ed il ciclo si
autoalimenta fino ad uccidere la cellula.
Gli ammassi di alfasinucleina non sono tipici solo del Parkinson ma si ritrovano anche nel cervello di persone affette da atrofia sistemica multipla
(ASM), una malattia che può provocare dei sintomi di tipo parkinsoniano,
vertigini, disturbi di linguaggio e demenza. In questi casi, gli aggregati di alfasinucleina predominano non nei neuroni ma negli oligodendrociti, le cellule
che sintetizzano la mielina che funge da guaina protettrice per l’assone del
neurone. Ikuru Yazawa e i suoi collaboratori hanno descritto sulla rivista
Neuron del 24 marzo il primo modello di atrofia sistemica multipla nel topo.
I ricercatori lo hanno ottenuto stimolando gli oligodendrociti a produrre un
eccesso di alfasinucleina 13. Il modello dovrebbe permettere di comprendere
meglio gli effetti dell’aggregazione di alfasinucleina nell’atrofia sistemica
multipla e, nella stessa direzione, facilitare lo sviluppo di nuovi trattamenti.
Accumulo di proteina
Nella malattia di Parkinson, una
proteina denominata alfasinucleina si accumula all’interno
dei neuroni e costituisce un elemento della cascata di eventi che
possono condurre alla morte
Degradazione
cellulare.
incompleta
Morte della cellula
Aggregati
tossici
Inibizione della
Frammenti
di α-sinucleina degradazione
proteica
Circolo vizioso della citotossicità
Il GDNF continua ad interessare i ricercatori
34
Si continuano a cercare nuovi trattamenti per la malattia di Parkinson.
Attualmente la levodopa, un aminoacido precursore della dopamina, è il
trattamento più efficace, ma la sua azione diminuisce con il tempo e talvolta
provoca degli effetti secondari come le dischinesie (movimenti involontari).
La levodopa agisce unicamente sui sintomi della malattia e non influenza il
Contrariamente alla levodopa, il GDNF attraversa con difficoltà la fitta rete
di capillari nel cervello che costituisce la barriera ematoencefalica. I ricercatori hanno quindi tentato di trasportare questa molecola direttamente
nel cervello con dei minuscoli cateteri. A causa della mancanza di risultati
probatori, gli studi sono stati abbandonati, ma non per questo i ricercatori
hanno smesso di interessarsi al GDNF. Un articolo apparso in Nature Medicine indica la ricrescita delle cellule nervose evidenziata dall’autopsia di un
uomo che aveva partecipato ad uno studio con il GDNF, che è deceduto in
seguito a cause estranee al test 14. È la prima volta che si osserva un recupero cellulare nella malattia di Parkinson.
I disturbi del movimento
processo degenerativo. Test effettuati nell’animale da laboratorio dimostrano che il fattore trofico GDNF (glial cell line-derived neurotrophic factor)
protegge e può restaurare la funzione dei neuroni che sintetizzano la dopamina lesi nella malattia di Parkinson.
Un’altra tecnica consiste nel trapiantare nel cervello delle cellule che producono il GDNF. Situato alla biforcazione delle carotidi, il glomo carotideo
è un piccolo corpuscolo che con i suoi chemorecettori, attraverso la respirazione regola la concentrazione sanguigna dei gas. Il glomo contiene delle
cellule che producono dopamina e GDNF. Javier Villadiego e il suo gruppo
hanno trapiantato nello striato di ratti resi « parkinsoniani », delle cellule del
glomo carotideo e hanno costatato che esse continuano a sintetizzare per
parecchio tempo grandi quantità di GDNF 15. Gli autori ritengono che
queste cellule potrebbero essere utilizzate per arricchire in GDNF il cervello di persone affette dal Parkinson.
La terapia genica offre altre possibilità per il trattamento con il GDNF. Il
gene che codifica per il GDNF può essere incorporato in un virus reso inoffensivo e iniettato nel cervello, dove le cellule infettate dal virus portatore
del gene producono il GDNF. Andisheh Eslamboli e i suoi colleghi hanno
utilizzato questo metodo in un modello animale (primati con malattia di
Parkinson) ; i risultati sono stati pubblicati nel Journal of Neuroscience del
26 gennaio 16. Le cellule dopaminergiche sono state protette da questo
trattamento, nelle scimmie sono stati osservati dei comportamenti che suggeriscono il ristabilimento della funzione motoria.
Nuove applicazioni per la terapia genica
Gli effetti collaterali osservati con i trattamenti a base di levodopa potrebbero essere la conseguenza delle alternanze della sua concentrazione. Per
35
assicurare tassi costanti di dopamina nel cervello, è stato proposto un
approccio con terapia genica. La terapia genica può essere usata da sola o
in associazione con la levodopa. Thomas Carlsson e i suoi colleghi hanno
utilizzato la terapia genica in un modello di ratto della malattia di Parkinson,
impiantando i geni che codificano per due enzimi la cui azione congiunta
produce la dopamina 17. I ratti trattati in questo modo hanno dimostrato
una riduzione sia nei comportamenti di tipo parkinsoniano sia nei movimenti indotti dalla levodopa.
Gli studi realizzati con i geni suggeriscono nuove strategie per la terapia
genica, come hanno riportato Masanori Yamada e i suoi colleghi nel
numero di febbraio di Human Gene Therapy 18. Introducendo il gene che
codifica per l’alfasinucleina, i ricercatori hanno indotto nei ratti delle
disfunzioni motorie di tipo parkinsoniano. Quando i ricercatori hanno
trapiantato contemporaneamente il gene che codifica per la parkina, le
disfunzioni erano meno severe, perché probabilmente questa proteina
sopprime l’azione dell’alfasinucleina oppure ne distrugge i depositi.
La stimolazione cerebrale profonda diventa più precisa
La stimolazione cerebrale profonda (SCP) consiste nel trapiantare chirurgicamente degli elettrodi che stimolano con dei leggeri impulsi elettrici
delle aree del cervello specifiche per ridurre i sintomi parchinsoniani, il
tremito essenziale o i disturbi distonici (anomalie del tono muscolare).
In un articolo apparso nel 2005 in Archives of Neurology, i ricercatori
hanno comparato vari casi trattati con questa tecnica per cercare di aumentarne l’efficacia.
Uno di questi studi coinvolgeva 41 pazienti nei quali i risultati della SCP
non erano soddisfacenti 19. In oltre la metà dei casi è stato possibile migliorare gli effetti della SCP sostituendo gli elettrodi mal sistemati, riprogrammando il pacemaker o migliorando la terapia farmacologica. Dato che la
SCP viene utilizzata sempre più spesso, gli autori insistono sulla necessità
di controlli post-operatori e sulla scelta accurata dei pazienti che potrebbero trarne beneficio.
36
In un altro studio, apparso in Archives of Neurology, dei ricercatori si
sono interessati alla sistemazione degli elettrodi, valutando le due localizzazioni più spesso utilizzate nella malattia di Parkinson : il globo pallido
interno (GPi) e il nucleo subtalamico (NST) 20. Nell’insieme, le due possibilità offrono risultati simili, con un leggero vantaggio per il NST nel caso di
I disturbi del movimento
Elettrodi terapeutici
La stimolazione cerebrale profonda allevia i
sintomi dei disturbi del
movimento. I ricercatori
stanno perfezionando
questa tecnica che consiste nell’impiantare degli
elettrodi che stimolano
con leggere scariche
elettriche delle precise
regioni cerebrali.
movimenti molto lenti (bradicinesie). Le uniche complicazioni cognitive e
comportamentali rilevate dagli autori sono state registrate con la stimolazione del NST. Una nota editoriale accompagnatoria suggerisce che sebbene occorreranno successive ricerche, un giorno si riuscirà a determinare
la localizzazione ottimale degli elettrodi per ciascun individuo 21.
I topi danno delle indicazioni interessanti
sulla corea di Huntington
Non esiste un trattamento efficace per la corea di Huntington. Questa
malattia è generata da mutazioni che inducono la formazione di aminoacidi soprannumerari che si uniscono al segmento terminale della proteina denominata huntingtina. La proteina huntingtina forma degli aggregati rigidi nelle cellule nervose. Più la catena è lunga, più precocemente
appare la malattia. Nel modello del topo della malattia di Huntington
gli animali esprimono la mutazione della proteina huntingtina. Molti laboratori hanno utilizzato questo modello per studiare gli eventi cellulari e
molecolari che conducono alla corea di Huntington e per scoprire potenziali trattamenti.
La proteina mutante huntingtina attiva un importante gene regolatore
denominato p53, che a sua volta attiva molti altri geni ; il risultato finale è la
morte cellulare. Inattivando il gene p53 scompaiono i comportamenti anormali nei topi portatori della corea di Huntington sperimentale 22. È interessante notare che il p53 è inattivato in numerose forme di cancro e la bassa
incidenza di tumori nei pazienti affetti dalla corea di Huntington potrebbe
essere in relazione con i livelli elevati di p53.
37
I modelli sul topo hanno permesso di dimostrare anche che la proteina
huntingtina mutata indebolisce l’interazione tra le cellule cerebrali alterando le normali concentrazioni di calcio dei neuroni 23, 24. Molti farmaci
possono prevenire la morte cellulare nell’animale di laboratorio correggendo i tassi di calcio. Scott Q. Harper e i suoi colleghi sono riusciti a trattare con successo dei topi portatori della corea di Huntington sperimentale, come pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences
il 19 aprile 25. Essi hanno utilizzato la tecnica dell’interferenza dell’RNA per
inibire la sintesi della proteina mutata huntingtina, ottenendo una correzione quasi completa del comportamento degli animali. I risultati di questi
diversi studi rilanciano la speranza di trovare finalmente un trattamento per
la corea di Huntington nell’uomo.
38
Le lesioni
del sistema nervoso
Riparare il midollo spinale
40
Dare scacco agli inibitori
42
Le cellule staminali al servizio del midollo spinale
43
L’ictus
44
I tumori cerebrali
44
Traumi cranici e corticosteroidi
45
Delle protesi neuronali per il recupero post-traumatico
45
39
L
e lesioni del sistema nervoso comprendono i traumi del midollo spinale
(TMS) e i traumi cranici (TC), gli ictus e i tumori al cervello. A causa degli
incidenti stradali e degli atti di violenza, i giovani pagano pesantemente le
conseguenze dei traumi cranici e del midollo spinale. Gli ictus sono più
frequenti nella popolazione anziana, mentre i tumori cerebrali possono
colpire tutte le età, con un’incidenza maggiore nei bambini tra 3 e 12 anni
e negli adulti tra 55 e 65 anni.
La capacità di autoriparazione del sistema nervoso centrale è molto limitata, il denominatore comune delle lesioni consiste nell’invalidità spesso
severa e cronica che esse provocano. Le lesioni sono secondarie ai traumi
che colpiscono la colonna vertebrale o il cranio, alla privazione di ossigeno
come negli ictus, all’invasione di cellule maligne come nei tumori. Ne
consegue l’evidente interesse della ricerca fondamentale per i meccanismi
di rigenerazione del sistema nervoso. Lo scopo è comprendere e potenziare quei meccanismi innati del cervello o del midollo spinale al fine di
ottenere, dopo un trauma, un certo grado di recupero funzionale. Da
qualche anno le lesioni del midollo spinale polarizzano gran parte di questa
ricerca e il 2005 ha confermato questa priorità con numerose ricerche
svolte in diversi laboratori.
Riparare il midollo spinale
Per comprendere la dinamica della degenerazione e rigenerazione che
seguono un trauma del midollo spinale, Martin Kerschensteiner e i suoi
colleghi di Harvard hanno studiato per più giorni la morte e la ricrescita
degli assoni in un topo vivo che aveva subito un trauma. Per seguire
quanto succedeva hanno utilizzato dei coloranti fluorescenti e osservato le
lesioni a tempi diversi, con tecniche di imaging. Trenta minuti dopo la
lesione, gli assoni erano parzialmente avvizziti. Da 6 a 24 ore dopo, alcuni
dimostravano una rigenerazione spontanea, ma la ricrescita inizialmente
vigorosa non ha avuto un seguito, gli assoni erano apparentemente divenuti incapaci di dirigersi nella buona direzione 1.
40
La complessità dei meccanismi di ricrescita nelle lesioni spinali ha richiesto
strategie innovative. Come prima cosa occorre controllare l’azione delle
molecole di mielina (la guaina protettrice che avvolge le fibre nervose)
che alla presenza di una lesione inibiscono spontaneamente la ricrescita
degli assoni. In seguito, bisogna risolvere il problema del tessuto cicatriziale
che si forma nel luogo della lesione e che impedisce la riconnessione
Assone
Guaina di mielina
Dendriti
Le lesioni del sistema nervoso
Una guaina che protegge
In caso di lesioni del midollo
spinale, la mielina, che avvolge
le fibre nervose (assoni), è
coinvolta in complessi meccanismi. Da una parte deve essere
ricostituita negli assoni che
rimangono, dall’altra contiene
delle molecole che riducono la
rigenerazione assonale.
degli assoni. È necessario anche ricostituire la guaina di mielina lesa delle
fibre nervose superstiti e indurre queste fibre ad oltrepassare il luogo
della lesione per ristabilire le connessioni nervose. La rigenerazione del
tessuto nervoso richiede quindi numerosi trattamenti e continuando la
via intrapresa nel 2004, gli studiosi delle lesioni spinali confidano in un
approccio combinato.
Una combinazione promettente, riportata nel Journal of Neuroscience da
un gruppo internazionale di ricercatori diretto da Damien Pearse del Miami
Project to Cure Paralysis, associa un enzima che annulla i segnali inibitori a
due tipi di cellule nervose che forniscono alla ricrescita il supporto strutturale che le indirizza nella direzione corretta 2. Gli autori hanno constatato
un miglioramento significativo delle capacità e della coordinazione motorie
nei ratti che presentavano gravi lesioni del midollo spinale, in seguito al
trattamento con questo enzima. I ricercatori affermano che sebbene siano
ancora preliminari, questi risultati potrebbero fornire delle indicazioni
molto utili ai ricercatori che svilupperanno in futuro trattamenti combinati
dei traumi midollari destinati agli uomini.
In un altro studio, pubblicato nel Journal of Neuroscience, un gruppo di
ricercatori diretto da Scott Whittemore ha combinato le cellule staminali
con la terapia genica per rimielinizzare le fibre nervose di ratti colpiti da
lesioni del midollo spinale. Dopo il trattamento realizzato su animali con
lesioni del midollo spinale, la capacità di camminare è migliorata 3. La terapia in questione combina l’utilizzo di cellule staminali denominate « glialrestricted precursor cells », che sono indotte a differenziarsi in cellule di
supporto del sistema nervoso centrale, con una terapia genica il cui obiettivo è di riprodurre gli effetti dei due tipi di fattori di crescita nervosi.
41
Questa associazione ha indotto la rimielinizzazione delle fibre nervose e
migliorato la trasmissione del segnale nervoso sul tragitto rimielinizzato,
promuovendo globalmente la funzione motoria. Lo studio ha dimostrato
come la ricostituzione della mielina permette un recupero funzionale. È, in
questo senso, il risultato più convincente mai ottenuto, ha scritto il National
Institute of Neurological Disorders and Stroke che ha finanziato la ricerca.
Gli autori di uno studio condotto dalla società di biotecnologie Biogen Idec
hanno associato il metilprednisolone, un farmaco conosciuto per la sua
azione antinfiammatoria, con una sostanza sperimentale che inibisce la
proteina Nogo, capace di bloccare i segnali che limitano la crescita delle
fibre nervose (attraverso il recettore Nogo-66) 4. Testata nei ratti portatori
di lesioni midollari, la combinazione dei farmaci ha portato ad un recupero
della motilità, della coordinazione e della ricrescita più pronunciate rispetto
ai due trattamenti somministrati separatamente. Questi risultati confermano l’esistenza di differenti meccanismi di azione sui quali agire.
Dare scacco agli inibitori
L’identificazione e la manipolazione delle molecole che limitano o guidano
la rigenerazione assonale, continua ad essere uno dei temi centrali della
ricerca sui traumi midollari. Molti tra questi studi sono incentrati sui tre
principali inibitori mielinici della rigenerazione assonale conosciuti come
Nogo, Mag e OMG. Gli scienziati cercano di identificare i meccanismi
molecolari che stanno alla base dell’inibizione della crescita dei nervi.
Molte ricerche svolte da numerosi gruppi hanno illustrato la complessità di
questa macchina cellulare.
Differenti gruppi di ricercatori che studiano la proteina Nogo, hanno osservato nell’animale da laboratorio degli effetti contraddittori dopo il blocco o
la delezione del recettore Nogo. Il gruppo diretto da Marc Tessier-Lavigne,
ricercatore al Howard Hughes Medical Institute, che ora lavora alla Genentech, ha descritto in Proceedings of the National Academy of Sciences
che la delezione genetica del recettore Nogo, sia nell’animale sia nelle
colture di cellule, non è sufficiente per osservare una ricrescita nervosa 5.
Questi risultati sono in contraddizione con gli effetti inibitori conosciuti
della proteina Nogo. Secondo questo studio, il recettore in questione non
è un semplice meccanismo on/off, come suggerito dal suo nome.
42
Steven Strittmatter e il suo gruppo della Yale University hanno dimostrato
la complessità del recettore Nogo. Essi hanno pubblicato nel Journal of
Altre indicazioni nel puzzle molecolare della proteina Nogo giungono indipendentemente da due gruppi del Children’s Hospital di Boston e della
Biogen Idec. Gli articoli pubblicati nella rivista Neuron, mostrano che
una proteina denominata talvolta TAJ e altre volte TROY, costituisce un
ingranaggio importante del recettore Nogo 7, 8. In un altro articolo apparso
sempre in Neuron, Mary Filbin e i suoi colleghi dell’Hunter’s College affermano di avere identificato una via nel recettore Nogo che può essere il
punto di incontro dei tre inibitori noti della rigenerazione assonale contenuti nella mielina 9.
Le lesioni del sistema nervoso
Neuroscience che per questo recettore esistono differenti vie molecolari e
che in funzione della via attivata si possono ottenere effetti diversificati 6.
Recenti studi hanno evidenziato un possibile quarto attore dell’inibizione
della rigenerazione assonale (oltre alle proteine Nogo, MAG e OMG). I
ricercatori dell’University of Texas-Southwestern diretti da Luis Parada
hanno pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences che
una molecola, nota per il suo ruolo nella guida nello sviluppo assonale nel
feto, l’Efrina-B3, durante tutta la vita inibisce la ricrescita delle fibre nervose nella mielina e che la sua azione inibitrice è equivalente a quella delle
altre tre famiglie di inibitori combinate 10.
Le cellule staminali al servizio del midollo spinale
Lentamente ma con fermezza, gli scienziati progrediscono nell’arte di
mettere le cellule staminali, in tutte le loro forme, al servizio della riparazione del midollo spinale. Nel 2005, diversi ricercatori dell’Università
della California ad Irvine si sono avvicinati all’obiettivo lavorando in modo
indipendente.
Hans Keirstead e i suoi colleghi trapiantando degli oligodendrociti, le
cellule di sostegno sviluppate a partire dalle cellule staminali embrionali
umane prodotte in coltura, hanno ricostituito la mielina, migliorando le
capacità motorie di ratti portatori di una lesione midollare 11. I risultati
riportati nel Journal of Neuroscience, sono stati positivi per i trapianti praticati nei sette giorni dopo la lesione, ma non per quelli effettuati dopo
dieci mesi. Questo dato indica che il trattamento deve essere realizzato
abbastanza rapidamente.
In un altro studio, i cui risultati sono stati pubblicati in Proceedings of the
National Academy of Sciences, Brian Cummings e i suoi colleghi hanno
43
utilizzato delle cellule staminali neuronali adulte d’origine umana per rigenerare la mielina e migliorare la mobilità dei topi con lesioni al midollo 12.
Le cellule trapiantate nove giorni dopo la lesione, si sono differenziate in
oligodendrociti che hanno riparato la guaina di mielina che avvolge le fibre
nervose, migliorando in questo modo la funzione motoria dei topi.
L’ictus
Attesi con impazienza, i risultati del Women’s Health Study, uno studio di
grande ampiezza finanziato con soldi pubblici, dimostrano che la vitamina
E non protegge le donne dall’ictus (non più che contro le patologie cardiovascolari o i tumori). I risultati pubblicati nel Journal of the American Medical Association, aggiungono una nuova importante informazione al dibattito in corso sui benefici della vitamina E e non forniscono alcun indizio che
può giustificare la raccomandazione di un uso di questo antiossidante per
la prevenzione delle malattie cardiovascolari o tumorali 13.
Per quel che riguarda l’aspetto diagnostico, dei ricercatori dell’Università
Johann Wolfgang Goethe, a Francoforte (Germania) hanno pubblicato nella
rivista Lancet che l’ictus che colpisce la parte destra del cervello è diagnosticato meno frequentemente rispetto a quello che colpisce la parte sinistra 14. I ricercatori ipotizzano che la sintomatologia più sottile prodotta da
queste patologie le rende più difficilmente diagnosticabili. Di conseguenza
le persone che soffrono di ictus nella parte destra del cervello, sono anche
quelle che con più difficoltà ricevono un trattamento adeguato.
I tumori cerebrali
Il rapporto finale sul Glioma Outcomes Project, che studia il tipo di cure
apportate agli adulti con una diagnosi recente di glioma, dimostra che in
certi ambiti i medici non applicano le linee guida e non ricorrono sufficientemente alla chemioterapia 15. Un dato particolarmente preoccupante
emerso da questo studio è che l’80 % di questi pazienti per prevenire le
crisi epilettiche indotte dal tumore cerebrale, assume dei farmaci anticonvulsivi. Tali farmaci non sembrano essere utili nei pazienti che non hanno
mai sofferto di crisi epilettiche in precedenza e provocano effetti collaterali
considerevoli. Gli autori sostengono che lo studio, pubblicato nel Journal
of the American Medical Association fornirà ai clinici una linea guida utile
per una pianificazione e una valutazione più sicura dei trattamenti.
44
Dei ricercatori dell’Università dell’Alabama, a Birmingham, hanno riportato
nel Journal of Neuroscience che un farmaco utilizzato frequentemente per
Le lesioni del sistema nervoso
curare delle malattie infiammatorie può attenuare uno dei meccanismi
molecolari che i gliomi utilizzano per difendersi. In uno studio preliminare
sugli animali da laboratorio si è dimostrato che la sulfasalazina, un medicinale approvato dalla FDA per il trattamento delle malattie infiammatorie
dell’intestino e dell’artrite reumatoide, riduce in modo spettacolare la
dimensione dei tumori, se somministrato nella membrana che riveste la
parete addominale 16. In un altro studio Gail Clinton e i suoi colleghi dell’Oregon Health and Science University hanno dimostrato nel topo che la
herstatin, una proteina che inibisce gli enzimi implicati nella proliferazione
delle cellule tumorali, arresta la crescita del glioblastoma, una forma di
glioma particolarmente aggressiva e con una prognosi molto negativa. I
risultati, pubblicati su Clinical Cancer Research, suggeriscono la possibilità di un potenziale trattamento di un’altra forma di cancro che colpisce le
cellule gliali 17.
Traumi cranici e corticosteroidi
Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Lancet e realizzato su
10 000 adulti affetti da trauma cranico i corticosteroidi sarebbero inutili per
combattere gli effetti del trauma cranico 18. Queste sostanze antinfiammatorie si usano da oltre trent’anni in caso di trauma cranico. Secondo gli
autori, questi farmaci somministrati in seguito a un trauma acuto, aumentano il rischio di decesso nei quindici giorni successivi al trauma e aumentano la probabilità di un decesso o di un handicap grave nei sei mesi
seguenti. In una dichiarazione sulla rivista Lancet, Phil Edwards, ricercatore
presso la London School of Hygiene and Tropical Medicine e autore principale della ricerca, ha chiesto di rivalutare urgentemente l’uso di corticosteroidi nei pazienti che hanno subito un trauma cranico.
Delle protesi neuronali per il recupero post-traumatico
Centinaia di migliaia di americani sono paralizzati o soffrono di mobilità
ridotta in seguito ad un trauma oppure a una malattia del sistema nervoso.
Per molti di loro, le protesi neuronali rappresentano la sola speranza per
ritrovare una parte di autonomia. Nuove idee nate in alcuni laboratori specializzati stanno cercando di sviluppare delle « interfacce cervello-macchina » per ridare una certa mobilità alle persone che soffrono di paralisi. Il
principio è quello di captare, grazie a degli elettrodi impiantati nel cervello,
i segnali nervosi che vengono utilizzati per muovere un braccio protesico o
un mouse di computer. Questo permetterebbe alla persona di realizzare
dei movimenti semplici, come prendere degli alimenti o attivare un commutatore controllato da un computer, unicamente con il pensiero.
45
Prendere possesso
Il ricercatore Miguel Nicolelis
con in braccio una scimmia
che ha imparato a controllare
un braccio protesico utilizzando dei segnali cerebrali.
Nel cervello della scimmia,
dopo l’apprendimento sono
stati rivelati dei cambiamenti
strutturali.
46
Miguel Nicolelis e il suo gruppo della Duke
University hanno insegnato a delle scimmie
ad azionare un braccio robotico con l’aiuto
dei segnali elettrici emessi dal cervello. I ricercatori si sono accorti dell’esistenza di cambiamenti nelle strutture cerebrali che permettevano di controllare il braccio come se facesse
parte dell’animale. Pubblicati nel Journal of
Neuroscience, i risultati avranno delle implicazioni nel ristabilimento delle funzioni nelle
persone paraplegiche o affette da altri disturbi neurologici 19. Nel frattempo, Andrew
Schwartz e il suo gruppo dell’Università di
Pittsburgh, durante la riunione annuale dell’American Association for the Advancement
of Science, hanno annunciato che una scimmia ha imparato ad usare una protesi della
dimensione di un braccio di un bambino, così
da riuscire a portare alla bocca dei frammenti
di frutti e di legumi 20.
Neuroetica
Nuove pubblicazioni ampliano la prospettiva
48
I progressi tecnologici pongono delle scelte difficili
49
Un ponte tra scienza e religione
50
Le implicazioni neuroetiche del caso Schiavo
51
I problemi etici posti dal neuroimaging
52
47
L
a neuroetica è una nuova disciplina che comprende l’etica delle neuroscienze e le neuroscienze dell’etica. L’etica delle neuroscienze, davanti al
crescente sviluppo dei mezzi investigativi sul cervello, riflette su come
condurre la ricerca scientifica. Le neuroscienze dell’etica cercano invece di
capire i diversi aspetti legati alle nostre funzioni cerebrali e all’etica, come
per esempio se esiste nel cervello un « centro » dell’etica oppure se i legislatori devono tener conto delle scoperte sul cervello. I neuroscienziati
hanno cominciato ad interrogarsi sull’impatto etico, sociale e politico del
progresso delle neuroscienze dal 2002, quando sono apparse le prime
pubblicazioni su questi temi e la prima conferenza ufficiale sulla neuroetica, « Neuroethics : Mapping the Field ».1
Da allora la neuroetica ha avuto uno sviluppo prodigioso, gli articoli a
questo soggetto sono quasi quadruplicati e le conferenze sono sempre più
numerose. È un soggetto che per sua natura interessa anche altre discipline, dal diritto alla religione. Nel corso del 2005 le riflessioni, le conferenze e le pubblicazioni sono proseguite fornendo un ulteriore contributo
che chiarisce e precisa i mille risvolti della neuroetica.
Nuove pubblicazioni ampliano
la prospettiva
La prima opera scientifica e il primo libro divulgativo sulla neuroetica sono
stati pubblicati nel 2005 e permetteranno ai lettori di familiarizzarsi con le
questioni che presto o tardi solleciteranno la loro attenzione in modo
formale oppure informale.
48
In ottobre e in novembre, la Oxford University Press ha pubblicato un testo
che diverrà sicuramente il riferimento per le generazioni future dei ricercatori in neuroetica. Il libro è stato pubblicato in concomitanza con le conferenze annuali dell’American Society for Bioethics and Humanities e
della Society for Neuroscience, che è composta di 35 000 membri. Il libro
dal titolo Neuroethics : Defining the Issues in Theory, Practice, and Policy,
è stato scritto da Judy Illes, che lavora presso la Stanford University. Per
realizzare quest’opera, Judy Illes ha domandato a 21 pensatori di esprimersi sugli aspetti più attuali della neuroetica come ad esempio le decisioni
d’ordine morale, la creatività, il neuroimaging, i trattamenti delle malattie
neurodegenerative, le relazioni tra la genetica e le neuroscienze, gli aspetti
sociali e politici della ricerca sul cervello e la rappresentazione della mente
nella cultura popolare.
Neuroetica
Pubblicato in aprile, The Ethical Brain, di Michael S. Gazzaniga grande
specialista delle neuroscienze cognitive e ricercatore al Dartmouth College, è stato per il grande pubblico la prima vera occasione di confrontarsi
con gli aspetti etici delle neuroscienze. Nel suo libro che sarà ripubblicato
nel maggio del 2006 da HarperCollins, l’autore esplora le questioni etiche
che si pongono nel corso di tutta la vita, dallo sviluppo del feto fino alla
vecchiaia ; spiega come le neuroscienze ridefiniscono ciò che sappiamo
sulla memoria e come queste scoperte potrebbero rimettere in questione i
fondamenti del nostro sistema legale ; dimostra le implicazioni delle neuroscienze nella natura del ragionamento morale e in quale modo queste
implicazioni avranno un ruolo nella comprensione di ciò che ci rende umani.
I progressi tecnologici pongono delle scelte difficili
I campi della neuroetica si stanno ampliando sempre più e nuovi soggetti
sono presi in considerazione. A questo scopo, nel mese di maggio, una
conferenza ha cercato di catalogare le tipologie dei soggetti.
Sponsorizzata dalla Dana Foundation, il National Institute of Mental
Health, la Columbia University College of Physicians and Surgeons e la
biblioteca del Congresso, la conferenza « Hard Science, Hard Choices :
Facts, Ethics and Policies Guiding Brain Science Today » ha riunito presso la
biblioteca del Congresso a Washington, D.C. 2, circa 150 partecipanti per
dibattere sul neuroimaging, neurotecnologia, e psicofarmacologia.
I co-direttori della conferenza, Gerald Fischbach, decano della Columbia
Medical School e Ruth Fischbach, direttrice del Columbia Center for Bioethics, hanno selezionato questi temi poiché proprio in questi ambiti i
progressi sono particolarmente rapidi e le questioni etiche emergono più
velocemente che in altri settori della neurobiologia.
Durante la mezza giornata consacrata alle tecniche di neuroimaging, i partecipanti si sono interessati alle proprietà dei mezzi dell’imaging e a come
possano essere utilizzati per studiare comportamenti complessi e diversi
tra loro come la religiosità, il senso morale, il razzismo, la menzogna o l’uso
del denaro. Uno dei rischi maggiori, hanno affermato i partecipanti, è
quello di fraintendere il senso di queste ricerche. È, infatti, immaginabile
che i risultati ottenuti con le tecniche di neuroimaging siano soggetti a facili
manipolazioni e addirittura che questi risultati possano servire come base
per ridefinire i principi fondamentali sui quali si basa la nostra società e non
necessariamente in modo corretto o benefico.
49
Il secondo soggetto, la neurotecnologia, ha permesso di dibattere sui
dilemmi etici sollevati da certe tecniche utilizzate in clinica. Una delle
tecniche discusse è la stimolazione cerebrale profonda. Si tratta di una
tecnica utilizzata per il trattamento del Parkinson e che si estenderà anche
ad altri ambiti come il trattamento del dolore cronico, i disturbi dell’umore
e altre patologie. La stimolazione cerebrale profonda consiste nel trapiantare chirurgicamente degli elettrodi che stimolano delle aree del cervello
specifiche. Tuttavia si agisce in modo empirico in quanto le neuroscienze
sono ben lontane dal conoscere il funzionamento dei circuiti cerebrali coinvolti. Questa tecnica aggiunge alle questioni di bioetica « classiche » già
affrontate in altri campi – (l’accesso alle cure, il consenso informato, i problemi assicurativi) – i rischi neurologici o comportamentali dalle conseguenze incalcolabili.
Altrettanto preoccupante è il pericolo che la disperazione dei pazienti
associata ad un ottimismo esagerato dei ricercatori e dei media, porti ad
un utilizzo prematuro di queste tecniche. Questa tendenza non è tanto
da mettere in relazione con la stimolazione cerebrale profonda, ma
con altre neurotecnologie, come le protesi neurali. Il rischio è quello di
illudere il pubblico con messaggi semplicistici che sono seguiti da inevitabili delusioni.
L’ambito nel quale è stato più difficile trovare un consenso etico è quello
della psicofarmacologia. Nessuno contesta il fatto di curare con dei farmaci
le persone realmente malate, tuttavia le situazioni non sono mai bianche o
nere ed è proprio nella zona grigia che le indicazioni non trovano un consenso chiaro. Riferendosi agli studi di Martha Farah, Alan Leshner e altri
collaboratori 3, 4, i partecipanti hanno riconosciuto che il dibattito sull’uso di
farmaci per incrementare le capacità intellettive, non farà che intensificarsi
nei prossimi anni. Questa pratica solleva delle questioni metafisiche che
vanno dalla responsabilità dell’individuo alla definizione del « sé ».
Un ponte tra scienza e religione
50
Gli specialisti delle neuroscienze sanno che i progressi nella loro disciplina
sollevano delle questioni che appartengono tradizionalmente all’ambito
religioso. Per collegare questi due mondi l’American Academy for the
Advancement of Science, il Massachusetts Institute of Technology e il
Boston Theological Institute hanno promosso a Cambridge, Massachusetts, una conferenza che costituirà la pietra miliare della neuroetica.
Durante questa conferenza dei neuroetici e alcuni rappresentanti di più
I partecipanti si sono interrogati sulle implicazioni filosofiche dei progressi
medici e chirurgici che possono agire sul cervello e modificare il comportamento. Queste tecniche toccano, infatti, alcuni degli ambiti più intimi dell’uomo e sollevano questioni fondamentali sulla natura del libero arbitrio, la
scelta morale e il significato del sé. Durante la conferenza si sono affrontati
temi che vanno dall’ottimizzazione farmacologica e tecnologica delle
facoltà neuronali alle recenti ipotesi dell’esistenza di un substrato neuroanatomico che sta alla base del ragionamento morale.
Neuroetica
comunità religiose hanno dialogato sul cervello, sulla neuroetica e la
responsabilità del sé.
Questa conferenza, il cui scopo era incoraggiare la discussione tra persone
di tradizione culturale differente, ha permesso ai teologi di farsi un’idea più
precisa dei progressi neuroscientifici che pongono un problema etico e ai
ricercatori di approfondire la loro riflessione su certi aspetti del lavoro
svolto all’interno dei laboratori.
Le implicazioni neuroetiche del caso Schiavo
Il caso molto politicizzato e mediatizzato di Theresa Marie (Terri) Schiavo
ha dimostrato cosa accade quando delle persone che difendono dei punti
di vista opposti non riescono più a dialogare. Questo caso è stato al centro
dell’attenzione dell’opinione pubblica durante il 2005 e ha sollevato anche
da parte di esperti numerosi commenti in articoli scientifici. In stato vegetativo dal 1990 in seguito ad un traumatismo cerebrale grave, Theresa Schiavo
è stata al centro di una lunga battaglia politico-giuridica che è terminata con
il suo decesso il 31 marzo 2005, dopo che la giustizia su richiesta del marito
ha autorizzato la rimozione dei tubi che la mantenevano in vita. Questo
caso è stato un esempio emblematico dei problemi giuridici, medici ed etici
che possono essere creati dai progressi neuroscientifici. La tecnica e le
conoscenze permettono di prolungare l’esistenza, ma ci costringono a
ridefinire i criteri di vita e di morte. Pur avendo senza dubbio sensibilizzato
il pubblico, il caso Schiavo non ha risolto nessuna di queste questioni.
Joy Hirsch, della Columbia University, ha firmato nel Journal of Clinical
Investigation di maggio un editoriale nel quale fa osservare che molte altre
famiglie e pazienti americani si trovano in situazioni analoghe 5. Negli Stati
Uniti si contano 15 000 casi di stati vegetativi persistenti, in cui il paziente
non dà alcun segno di coscienza e 100 000 stati di coscienza minima 6,
interrotti da periodi di coscienza intermittente.
51
Hirsch e il suo gruppo con l’ausilio dell’imaging per risonanza magnetica
funzionale, hanno paragonato l’attività cerebrale dei pazienti con uno stato
di coscienza minima con quella dei soggetti in buona salute 7. I risultati pubblicati in Neurology, sembrano indicare che certi circuiti cerebrali dei
pazienti con coscienza minima sono capaci di un trattamento dell’informazione che non differisce da quello dei soggetti in buona salute. Non è la
stessa cosa per i pazienti in stato vegetativo persistente. Altre ricerche
dovranno determinare se l’esistenza di un’attività cerebrale può essere
assimilata ad una forma qualsiasi di coscienza e se esistono degli stati di
coscienza non evidenziabili con l’imaging.
Sebbene tra gli scienziati esista un consenso sulla definizione e sulla
diagnosi dello stato minimo di coscienza 8, essi non sono ancora riusciti a
precisare un modello standard, cioè delle linee direttive diagnostiche,
prognostiche e terapeutiche basate sui fatti.
Attirando l’attenzione sulle questioni ancora irrisolte, Joseph J. Fins, del Weill
Medical College, Cornell University, ha ricordato nel numero di marzoaprile del Hastings Center Report 9 il tragico caso di Terry Wallis, che nel 2003
ha ricominciato a parlare dopo un periodo di coma iniziato più di vent’anni
prima in seguito ad un grave trauma cranico. Secondo Fins, Terry Wallis nei
mesi successivi al trauma, è passato da uno stato vegetativo ad uno stato di
coscienza minima, senza che la diagnosi fosse stata modificata per anni.
In modo più generale, Fins afferma che un trauma cranico grave obbliga i
professionisti e i non professionisti a contrapporre alla questione della
coscienza un concetto non troppo semplicistico della nozione di ristabilimento. Dopo una grave lesione cerebrale, il recupero si svolge spesso sull’arco di anni o decine di anni, durante i quali la vita del paziente e della sua
famiglia può essere profondamente perturbata.
I problemi etici posti dal neuroimaging
Come indicato dalla selezione dei temi della conferenza della biblioteca del
Congresso, sapere come gestire i molti problemi etici emersi in seguito allo
sviluppo delle tecniche di neuroimaging, non è solamente un problema
teorico e richiede risposte rapide. Tali questioni sono state discusse nel
corso di parecchie riunioni scientifiche e affrontate in molte pubblicazioni.
52
Il 6 e il 7 gennaio, i National Institutes of Health e la Stanford University
hanno promosso una conferenza sulle scoperte fortuite fatte nell’ambito
Neuroetica
della ricerca in neuroimaging. Cinquanta professionisti, tra i quali etici,
radiologi e neurologi, hanno elaborato delle raccomandazioni su cosa fare
quando un’immagine ottenuta con l’imaging rivela delle differenze in rapporto all’architettura cerebrale attesa, dei tumori o altre patologie cerebrali.
Queste scoperte sono molto frequenti : differenze di forma e di struttura
del cervello si osservano in circa il 20 % delle persone che partecipano agli
studi e dal 2 all’8% dei soggetti mostra delle anomalie cliniche significative 10.
È stato possibile ottenere un consenso su numerose questioni, ma altre
rimangono senza risposta e il lavoro continua 11, 12. La discussione si è tenuta
anche nelle sessioni consacrate a questo soggetto dai National Institutes
of Health, i temi affrontati sono stati il finanziamento della ricerca sulle
scoperte fortuite legate all’imaging corporeo e alla genetica, e l’interesse
che questa questione suscita all’estero.
L’American Journal of Bioethics ha consacrato al neuroimaging gran
parte del suo numero di marzo-aprile del 2005. In un articolo Judy Illes ed
Eric Racine della Stanford University, fanno osservare che il neuroimaging
solleva alcune delle questioni etiche poste dalla genetica, in particolare in
relazione con la predizione delle malattie e i rischi d’intromissione nella
sfera privata 13. Più che un profilo genetico, essa evidenzia alcuni aspetti
privati della personalità come la moralità o gli atteggiamenti sociali, fino ad
ora ritenuti non quantificabili. Così come i genetisti temono l’uso discriminatorio dei test genetici, i neuroetici temono che i datori di lavoro, i giudici,
gli insegnanti utilizzino delle informazioni fornite dal neuroimaging per
scartare dei possibili lavoratori, per convincere di colpevolezza una persona indiziata o per ammettere uno studente ad un corso.
Simili pratiche sarebbero contestabili perché, affermano gli autori, non esistono (ma esisteranno mai ?) delle norme di base utilizzate come standard
per il cervello umano. Gli scan cerebrali pubblicati nei giornali non sono
« immagini » nel senso abituale del termine, ma delle composizioni informatiche costituite dalla media delle differenti attivazioni ottenute in un
grande numero di individui. Non si è nemmeno riusciti a trovare degli standard
per la produzione di queste immagini. In breve, Illes et Racine affermano
che è importante non lanciarsi fuori dei laboratori con pericolose speculazioni sul senso da attribuire alle immagini ottenute con le nuove tecniche.
Un’altra applicazione possibile e particolarmente controversa dell’imaging
cerebrale è la rivelazione di menzogne. Paul Root Wolpe, Kenneth Foster e
53
Daniel Langleben, ricercatori all’Università della Pennsylvania, affermano
nello stesso numero dell’American Journal of Bioethics, che è prematuro
vedere nell’imaging cerebrale una sorta di poligrafo della mente, nonostante i considerevoli investimenti consacrati allo sviluppo di questa tecnica nell’ambito della lotta contro la criminalità e il terrorismo 14.
A prescindere dai dubbi sull’affidabilità, gli autori mettono in guardia dal
rischio di una commercializzazione precipitosa di questo metodo.
Potrebbe arrecare danni alla ricerca che vuole migliorare queste tecniche
ed essere abusato in ambito della giustizia penale. Secondo gli autori
sarebbe preferibile che la ricerca prosegua e che i forum scientifici, giuridici e civili riflettano sui problemi etici emergenti, anticipando i tempi.
54
Le malattie
neuroimmunologiche
Nuovi trattamenti per la sclerosi multipla (SM)
56
L’immunoterapia per i disturbi neurologici
58
Implicazioni virali
60
55
A
nche nel 2005, la giovane disciplina della neuroimmunologia ha continuato la sua crescita, le pubblicazioni sono state numerose e il ventaglio di
malattie studiate è in costante aumento. Questi studi hanno arricchito le
conoscenze sul rapporto esistente tra il sistema nervoso e il sistema immunitario. Diversi nuovi approcci promettenti sono stati proposti per la cura
della sclerosi multipla, una malattia autoimmune. Le ricerche suggeriscono
inoltre che l’immunoterapia potrebbe avere un’implicazione nei trattamenti di patologie neurologiche non autoimmuni, come la malattia di
Alzheimer o quella di Parkinson. I neuroimmunologi hanno scoperto nuovi
indizi che indicano che certi virus possono essere implicati nello sviluppo
di determinate malattie neurologiche.
Nuovi trattamenti per la sclerosi multipla (SM)
La sclerosi multipla è una malattia cronica progressiva che si sviluppa
quando il sistema immunitario aggredisce parte del sistema nervoso
centrale (SNC), provocando una distruzione progressiva della mielina, la
sostanza lipidica che isola le cellule nervose. I trattamenti della SM sono
limitati dagli effetti collaterali delle terapie che, essendo dirette verso
l’insieme delle cellule immunitarie espongono l’organismo a potenziali
infezioni. Il gruppo di ricerca diretto da Peter Calabresi, del Johns Hopkins
Hospital di Baltimora, in Proceedings of the National Academy of Sciences
afferma di avere identificato un canale specifico per il potassio, il Kv1.3,
presente in grandi quantità sulle cellule T del sistema immunitario che
attaccano la guaina protettiva di mielina 1. Nuovi farmaci diretti contro questa molecola avrebbero senza dubbio degli effetti secondari più contenuti
rispetto alle terapie usate attualmente.
In studi precedenti, Calabresi e il suo gruppo hanno osservato che le
cellule T isolate nel sangue delle persone colpite dalla SM esprimono in
quantità più importante il Kv1.3. Nello studio del 2005, analizzando il tessuto cerebrale dei pazienti deceduti, i ricercatori hanno ritrovato queste
cellule e hanno ipotizzato che esse potrebbero contribuire allo sviluppo
della malattia. I farmaci che inibiscono il Kv1.3 sarebbero più specifici
rispetto a quelli che inibiscono l’insieme del sistema immunitario, mostrandosi più efficaci senza provocare troppi effetti collaterali.
56
In uno studio pubblicato nel numero di marzo di Nature Medicine, Burkhard
Becher e i suoi colleghi dell’Università di Zurigo, Svizzera, si sono interessati ad un altro tipo di cellula immunitaria situata nelle prossimità dei vasi
La maggior parte degli specialisti ritiene che questo segnale parte dalla
microglia. Le scoperte di Becher e del suo gruppo hanno dimostrato che le
cellule che presentano l’antigene sono le cellule dendritiche, un tipo di
cellula completamente differente. Occorre notare che persino la loro localizzazione all’interno del cervello è diversa da quella che s’immaginava. A
partire da queste nozioni, gli scienziati cercano nuovi farmaci per trattare la
sclerosi multipla.
Le malattie neuroimmunologiche
sanguigni del cervello, la cellula dendritica perivascolare 2. I ricercatori
sostengono che queste cellule possiedono un ruolo cruciale come « cellule
che presentano l’antigene », segnalando a certe componenti del sistema
immunitario di riconoscere e distruggere le cellule di mielina.
Un altro promettente approccio per la cura della SM implica l’uso delle
cellule staminali. Nel 2003, un gruppo di ricercatori diretti da Gianvito
Martino e il suo gruppo dell’Ospedale San Raffaele di Milano, Italia, aveva
dimostrato che le cellule staminali trapiantate in topi colpiti da sclerosi
multipla, migravano verso le regioni del cervello lese dall’ infiammazione e
si differenziavano in cellule cerebrali mature capaci di riparare attivamente
la mielina compromessa 3. In uno studio più recente, i ricercatori hanno
dimostrato che le cellule staminali proteggono il sistema nervoso centrale
dalle lesioni croniche provocate da malattie come la sclerosi multipla, i
tumori cerebrali e le lesioni del midollo spinale, agendo come un potente e
naturale farmaco antinfiammatorio 4.
Lo studio, realizzato nei topi portatori di una forma di sclerosi multipla che
alterna crisi a remissioni, dimostra che le cellule neuronali staminali adulte
possono sostituire le cellule infiammatorie che provengono dal sangue
senza nuocere alle cellule sane. Uno degli aspetti più inediti dello studio è
la prova che una percentuale significativa delle cellule staminali giunte al
SNC infiammato, non si differenzia in cellule del tessuto nervoso. Secondo
gli autori, le cellule staminali neuronali adulte trapiantate che non si
trasformano e non sono integrate nel tessuto ospite, sfuggono al processo infiammatorio e sopravvivono. Queste cellule indifferenziate possono ridurre il rischio di tumori, un problema associato al trapianto di
cellule staminali.
Un altro gruppo di ricercatori ha studiato l’uso nella SM delle cellule staminali ottenute dal midollo osseo dei pazienti stessi 5. In uno studio pubblicato nel Journal of Experimental Medicine, gli scienziati hanno constatato
57
che il trapianto di cellule emopoietiche staminali (HSCT) può essere
usato per bloccare la progressione della sclerosi multipla, riducendo il
numero di cellule T che attaccano la guaina di mielina che protegge le
cellule nervose.
Studiando i globuli bianchi dei pazienti e analizzando le proprietà molecolari delle loro cellule T prima e dopo il trapianto, gli autori hanno dimostrato
che le cellule staminali si erano differenziate e avevano ricostituito quasi
interamente il sistema immunitario. Questi dati dimostrano che l’HSCT
esercita un beneficio a lungo termine sulla sclerosi multipla, che non è
secondario ad una soppressione o modulazione temporanea del sistema
immunitario (come per i trattamenti convenzionali), ma al fatto che egli
« riinnesca » il sistema immunitario riducendo notevolmente il rischio di
nuovi attacchi autoimmuni.
L’immunoterapia per i disturbi neurologici
Modificare il sistema immunitario sembra essere un trattamento utile
anche per i disturbi neurologici. Richard Hartman e i suoi colleghi della
Loma Linda University hanno analizzato l’uso potenziale dell’immunoterapia per la malattia di Alzheimer e i risultati sono stati pubblicati nel Journal
of Neuroscience 6. Uno dei loro obiettivi era determinare se i topi PDAPP
– dei topi transgenici utilizzati nel modello sperimentale della malattia di
Alzheimer – presentavano un declino cognitivo legato all’età analogo a
quello osservato nell’essere umano colpito dalla malattia. Quando questi
topi invecchiano, nel loro cervello si formano delle placche composte
dalla proteina beta amiloide, simili a quelle che si trovano nel cervello
delle persone affette dalla malattia di Alzheimer. Gli scienziati hanno scoperto che con l’età questi topi sviluppano dei deficit nell’apprendimento
spaziale, un tipo di apprendimento profondamente leso dalla malattia
di Alzheimer.
I ricercatori hanno cercato di determinare se le placche e il deficit di comportamento potessero essere ridotti ad uno stadio avanzato della malattia.
I topi PDAPP anziani sono stati trattati con un anticorpo anti-beta amiloide
per diverse settimane. Gli scienziati hanno constatato una riduzione del
livello delle placche dell’ordine del 50 %, associato ad un miglioramento
significativo delle capacità di apprendimento spaziale.
58
Secondo i ricercatori, i dati confermano che le placche di beta amiloide nel
cervello sono responsabili dei disturbi dell’apprendimento e della memoria
associati alla malattia di Alzheimer. I risultati dello studio suggeriscono che
influenzare questa proteina utilizzando le tecniche di immunoterapia,
potrebbe essere un’opzione di trattamento efficace nell’uomo.
Le malattie neuroimmunologiche
Ricercare una proteina
Nei topi che presentano delle placche di
proteina beta-amiloide, come quella evidenziata nella fotografia, i ricercatori sono
riusciti a ridurre l’accumulo di proteina e
a migliorare l’apprendimento somministrando agli animali un anticorpo antibeta amiloide.
Studi antecedenti ipotizzavano come strumento terapeutico valido per la
malattia di Alzheimer l’uso di una vaccinazione. Analogamente, un gruppo
dell’Università della California a San Diego, diretto da Eliezer Masliah, ha
supposto che un vaccino potesse avere un effetto terapeutico anche nella
malattia di Parkinson. La malattia di Parkinson è caratterizzata dalla morte
dei neuroni dopaminergici di una determinata regione del cervello.
Secondo studi recenti, la degenerazione dei neuroni è imputabile almeno
in parte ad un accumulo anomalo di una proteina chiamata alfasinucleina.
I ricercatori hanno utilizzato l’alfasinucleina umana per vaccinare dei topi
portatori del modello umano della malattia di Parkinson. I risultati pubblicati
nella rivista Neuron, confermano la riduzione di alfasinucleina all’interno e
attorno ai neuroni colpiti e la diminuzione della neurodegenerazione. I dati
dello studio suggeriscono che la vaccinazione riduce effettivamente
l’accumulo di alfasinucleina nei neuroni e che quest’approccio potrebbe
essere un trattamento potenziale della malattia di Parkinson 7.
In un altro articolo, pubblicato nel numero di febbraio degli Annals of
Neurology, degli scienziati della Johns Hopkins University e del Kennedy
Krieger Institute di Baltimora, diretti da Carlos A. Pardo hanno analizzato
la potenziale implicazione dell’azione neuroimmunologica e il ruolo delle
cellule gliali (le cellule di supporto ai neuroni) nello sviluppo dell’autismo 8.
L’autismo è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato dalla grave
menomazione delle competenze sociali, del comportamento e della
comunicazione.
59
Paragonando il tessuto cerebrale ottenuto da autopsie di pazienti autistici
con quelli d’individui in buona salute, i ricercatori hanno dimostrato che
nel cervello dei pazienti si manifestano delle risposte immunitarie e gliali
più marcate, caratterizzate dall’attivazione della loro microglia e astroglia.
Secondo questi ricercatori, le risposte più intense fanno parte della reazione neuroinfiammatoria associata al sistema immunitario innato del
sistema nervoso centrale.
Occorre ora chiarire come e quando la microglia e l’astroglia sono attivate
nel cervello dei pazienti affetti da autismo. Le risposte gliali osservate nei
cervelli dei soggetti affetti da autismo, potrebbero essere delle reazioni
intrinseche, o primarie, dovute a delle perturbazioni della funzione gliale o
delle reazioni tra i neuroni e le cellule gliali sopraggiunte nel corso dello sviluppo del cervello. Ma potrebbero anche essere delle reazioni secondarie
ad eventi sconosciuti (come infezioni o l’azione di tossine) che colpiscono
il cervello nella fase prenatale o postnatale. Indipendentemente da ciò, i
dati di questo studio mostrano l’esistenza nell’autismo di processi neuroimmunologici e offrono alla ricerca un ambito per nuovi approcci diagnostici e di trattamento.
Autismo e sistema immunitario
I preparati istologici di pazienti affetti da autismo (immagini A e C), mostrano un
aumento di cellule gliali, le cellule di sostegno. Questo incremento è probabilmente
indice di una risposta neuroimmunologica diretta contro il disturbo.
Implicazioni virali
60
Uno studio diretto da Yoshihisa Yamano, del National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINDS), i cui risultati sono stati pubblicati nel
numero di maggio del Journal of Clinical Investigation, suggerisce per la
prima volta che una proteina codificata da un virus potrebbe indurre la
Sebbene sia stato dimostrato nei roditori che rimuovere o interferire con
la funzione delle cellule T regolatrici conduce allo sviluppo spontaneo di
malattie autoimmuni, s’ignora per quale ragione le cellule perdono la
facoltà di contenere gli attacchi del sistema immunitario in certe malattie
umane. Lo studio di Yamano e del suo gruppo ha rilevato nei pazienti che
soffrono di una rara malattia neurologica evolutiva associata ad un virus
(la mielopatia associata al HTLV-I o paraparesi spastica tropicale), una
disfunzione delle cellule T regolatrici che potrebbe contribuire allo sviluppo del processo infiammatorio in seno al SNC. Tali scoperte potrebbero
spiegare come mai alcune infezioni virali sono spesso associate alle
malattie autoimmuni.
Le malattie neuroimmunologiche
disfunzione di una componente essenziale del sistema immunitario
umano 9. Questa componente, denominata cellula T regolatrice svolge un
ruolo importante per il mantenimento della capacità del sistema immunitario di riconoscere i propri tessuti, contrastando le malattie autoimmuni.
La perdita della funzione delle cellule T regolatrici è stata evidenziata in
molte malattie autoimmuni, tra le quali il diabete di tipo 1, la poliartrite
reumatoide e la sclerosi multipla.
Peter G. Kennedy e Margaret L. Opsahl, dell’Università di Glasgow, Scozia,
hanno descritto in Brain, la possibile implicazione virale nello sviluppo della
sclerosi multipla 10. Combinando metodi nuovi e tradizionali, i ricercatori
hanno confermato quanto già segnalato in lavori realizzati precedentemente cioè l’abbondante presenza dell’herpes virus umano di tipo HHV-6
attorno alle lesioni della mielina nella sclerosi multipla.
61
Il dolore
Trattamenti combinati per il dolore neuropatico
64
Lenire il dolore senza passare dal cervello
65
Il trattamento del dolore intenso
66
Le basi genetiche della percezione del dolore
66
Una banca dati per rilevare gli ambiti
insufficientemente finanziati della ricerca sul dolore
68
63
L
a pressione arteriosa, il polso, la respirazione e la temperatura sono i
parametri vitali che permettono ai medici di valutare lo stato di salute di una
persona. Oggi, numerosi clinici ritengono che anche il dolore sia un parametro egualmente importante, anche se non oggettivamente misurabile.
La percezione individuale del dolore può, infatti, fornire delle indicazioni
preziose sullo stato di salute e di benessere di una persona. Nel corso del
2005, le ricerche sul dolore sono proseguite, sia nella comprensione dei
meccanismi del dolore, sia nella ricerca di strategie di cura.
Due studi hanno evidenziato l’efficacia di certe associazioni farmacologiche in caso di dolori secondari a delle lesioni dei nervi periferici e di dolori
intensi. Un’altra ricerca ha dimostrato che l’attivazione di determinate cellule porta alla liberazione di sostanze che sopprimono il dolore, modificando la modalità di reazione agli stimoli nocivi dei neuroni. Gli scienziati
hanno scoperto le basi genetiche della variazione della percezione del
dolore e di una sindrome algica frequente che colpisce il sistema muscoloschelettrico. Circa il 45 % degli americani, almeno una volta nella vita, consulta un medico per dei dolori ; tuttavia, un gruppo di ricercatori ha calcolato che questo sintomo rappresenta solamente 1 % dei fondi che i National
Institutes of Health accordano per la ricerca in questo ambito.
Trattamenti combinati per il dolore neuropatico
Il dolore neuropatico è una conseguenza di malattie nervose o traumi ed è
una complicazione frequente del diabete, dei tumori, delle infezioni da
HIV o da herpes zoster e delle patologie neurodegenerative. L’intensa sensazione di bruciore indotta dal dolore neuropatico può compromettere
profondamente la qualità della vita. I farmaci utilizzati per trattarlo non sono
totalmente efficaci e provocano effetti collaterali che ne limitano l’utilizzo.
64
Per cercare nuove opportunità di trattamento per il dolore neuropatico,
alcuni ricercatori della Queens University in Canada hanno scoperto che la
somministrazione contemporanea di due farmaci comunemente usati per
curare il dolore secondario alle neuropatie diabetiche e alle nevralgie erpetiche, riduce maggiormente il dolore rispetto alle singole somministrazioni.
Nel numero del 31 marzo del New England Journal of Medicine 1, Ian
Gilron e i suoi colleghi hanno descritto gli effetti dell’associazione della
gabapentina con la morfina. La combinazione porta ad una riduzione del
dolore neuropatico maggiore rispetto alla somministrazione dei singoli farmaci. La gabapentina, che allevia gli spasmi nella nevralgia, è il trattamento
Quarantuno dei 57 pazienti – 35 affetti da neuropatia diabetica e 22 da
nevralgia posterpetica – hanno portato a termine il test. Utilizzando una
scala del dolore da 0 a 10 (più alta la cifra indicata, più intenso è il dolore),
i pazienti hanno giudicato il proprio dolore prima del trattamento con una
media quotidiana di 5,72. Somministrando i diversi trattamenti, i ricercatori
hanno osservato i seguenti risultati con le dosi più alte tollerate dai
pazienti : 4,49 per il placebo, 4,15 per la gabapentina, 3,70 per la morfina e
3,06 per l’associazione gabapentina-morfina.
Il dolore
di prima linea per il dolore neuropatico. La morfina è un narcotico potente
che è utilizzato per curare un altro tipo di dolore, da moderato a severo.
Occorre notare che le dosi più forti tollerate sono state decisamente inferiori quando i farmaci erano combinati, rispetto a quando erano somministrati separatamente, indice del fatto che potrebbe esistere un’interazione
in cui gli effetti si sommano. I ricercatori hanno anche constatato che gli
effetti collaterali (costipazione, sonnolenza, secchezza della bocca) erano
meno numerosi con l’associazione rispetto alla somministrazione separata
dei due farmaci.
Gilron e il suo gruppo affermano che in considerazione dei potenziali
benefici offerti dalle associazioni di farmaci, come quello appena citato,
sono necessari nuovi studi per paragonare altre combinazioni di farmaci
analgesici nel trattamento del dolore neuropatico.
Lenire il dolore senza passare dal cervello
I farmaci che mimano il meccanismo che il corpo utilizza per contrastare il
dolore potrebbero essere dei candidati promettenti per il trattamento del
dolore acuto, infiammatorio e neuropatico. Dei ricercatori dell’Università
dell’Arizona hanno descritto nel numero del 22 febbraio di Proceedings of
the National Academy of Sciences 2, una sostanza capace di attivare il
recettore CB2, appartenente alla famiglia dei cannabinoidi. Questi recettori
sono molto studiati perché sono attivati dal principio attivo della marijuana,
o cannabis. I ricercatori hanno osservato che l’attivazione di questo recettore
stimola la liberazione di una sostanza capace di ridurre il dolore. L’azione
avverrebbe sui neuroni che inviano al sistema nervoso i segnali provenienti
dai recettori sensoriali : pelle, occhi, orecchie, naso e lingua.
I farmaci che interagiscono con i recettori cannabinoidi CB2 non svolgono
la loro azione sul sistema nervoso centrale dato che questo organo ne è
65
sprovvisto. Questa è senza dubbio una proprietà molto importante poiché
l’uso di numerosi analgesici è limitato dai molteplici effetti collaterali che
essi esercitano sul sistema nervoso centrale.
Il trattamento del dolore intenso
Dei ricercatori che lavorano presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer
Center hanno identificato delle terapie più efficaci per il dolore moderato e
severo, combinando degli antinfiammatori non steroidei (FANS) come ibuprofene e naproxene, con dei farmaci analgesici più potenti. Utilizzati singolarmente, i FANS hanno un effetto limitato per il controllo del dolore da
moderato a severo.
In uno studio pubblicato il 2 marzo da Brain Research 3, i ricercatori hanno
valutato l’efficacia della combinazione dei FANS con degli oppioidi su dei
topi affetti da dolore da moderato a severo. Applicando uno stimolo termico alla coda dei topi, i ricercatori hanno costatato che certi FANS potenziano considerevolmente l’effetto analgesico degli oppioidi prescritti frequentemente, come l’idrocodone e l’ossicodone. Altre associazioni si
rivelano poco utili per attenuare il dolore da moderato a severo. Per esempio, mentre l’ibuprofene rinforza l’azione analgesica dell’idrocodone e
dell’ossicodone altri FANS non hanno lo stesso effetto sull’idrocodone.
L’ibuprofene non accresce l’azione analgesica del fentanile e della morfina.
I FANS annullano l’attività di un enzima specifico, la cicloossigenasi. Due
forme di quest’enzima – la Cox-1 e la Cox-2 – promuovono il processo
infiammatorio. I ricercatori affermano che sono necessari altri studi per
determinare se diverse combinazioni di FANS e oppioidi inibiscono
l’infiammazione e la risposta al dolore interagendo con la Cox-1 e la Cox-2.
I ricercatori ritengono che testando clinicamente diverse combinazioni è
possibile trovare farmaci che migliorano l’analgesia.
Le basi genetiche della percezione del dolore
66
Un significativo numero di persone sviluppa il dolore cronico, una condizione caratterizzata da un’accresciuta sensibilità al dolore. Per cercare di
sapere per quale ragione certe persone sviluppano questo tipo d’ipersensibilità, degli scienziati dell’Università della Carolina del Nord hanno costatato che delle sottili variazioni genetiche potevano rendere una persona
meno sensibile agli stimoli dolorosi e proteggerla da una malattia frequente e invalidante : la sindrome cronica dell’articolazione temporomandibolare (SAT).
Numero dei soggetti
(totale N = 202)
50
40
Bassa sensibilità
al dolore
Alta sensibilità
al dolore
Il dolore
Variazione della sensibilità al dolore
nella popolazione
30
20
10
–20
–10
0
10
20
30
Differenze genetiche, effetti significativi
Le persone con dei bassi livelli di certi enzimi, sono più sensibili al dolore e possono sviluppare più facilmente un disturbo cronico del dolore.
I ricercatori diretti da Luda Diatchenko, del Comprehensive Center for
Inflammatory Disorders dell’Università della Carolina del Nord hanno
seguito per più di cinque anni 202 donne in buona salute da 18 a 34 anni,
per determinare il nesso tra la sensibilità al dolore e lo sviluppo della
SAT, una malattia caratterizzata da mal di testa, otalgie, dolori mascellari e
al volto.
Centrando l’attenzione sulla genetica di un enzima denominato catecoloO-metiltrasferasi (COMT), che controlla alcune molecole legate alla
risposta allo stress, i ricercatori hanno effettuato diverse esperienze che
spaziavano dalla biologia molecolare, alle colture di cellule fino al comportamento animale, allo scopo di evidenziare i rapporti esistenti tra il COMT
e la sensibilità al dolore. (Altri ricercatori hanno studiato il nesso tra il
COMT e la schizofrenia, vedi pag. 72.)
I risultati pubblicati nel numero di gennaio di Human Molecular Genetics 4,
mostrano che le persone con un tasso ridotto di COMT sono più sensibili al
dolore e hanno un rischio più elevato di sviluppare una SAT. Gli autori
hanno costatato che le piccole varianti del gene che produce il COMT
possono predire il rischio di sviluppo di questa sindrome, che colpisce
globalmente il 10 % degli americani. I ricercatori sostengono che queste
67
osservazioni potrebbero essere applicate anche ad altre sindromi algiche
come la fibromialgia, la sindrome del colon irritabile o certi disturbi sensoriali cronici.
Diatchenko e i suoi colleghi ritengono che il loro lavoro potrebbe condurre
allo sviluppo di indicatori genetici per gli stati dolorosi oltre ad avere delle
implicazioni terapeutiche. Il gruppo sta ora studiando nuovi trattamenti farmacologici per la sindrome dell’articolazione temporomandibolare e altri
disturbi analoghi.
Una banca dati per rilevare gli ambiti
insufficientemente finanziati della ricerca sul dolore
Circa 50 milioni di americani soffrono di dolori persistenti, 45 % degli abitanti degli Stati Uniti consultano un medico a causa del dolore almeno una
volta nella loro vita. Questi dati hanno condotto dei ricercatori dell’Università dello Utah ad analizzare il budget che i National Institutes of Health
(NIH) investono nella ricerca sul dolore. Pubblicati nel numero di maggio
del Journal of Pain 5, i risultati mostrano che nel 2003 i NIH hanno accordato
un sussidio a 518 progetti sul dolore, con un finanziamento complessivo
che si aggira attorno ai 170 milioni di dollari. Questa somma rappresenta
solo l’uno per cento del sussidio complessivo accordato dai NIH nel 2003.
I ricercatori hanno classificato i sussidi in due categorie, primari e secondari. I sussidi primari, sono diretti a dei progetti il cui scopo è fare progredire le conoscenze sul dolore, a combattere il dolore o a curarlo. I sussidi
secondari invece sono destinati a quei lavori che studiano il dolore poiché
sintomo di una malattia, ma che contribuiscono solo in maniera marginale
al progredire delle conoscenze teoriche.
Usando queste osservazioni, i ricercatori hanno creato una banca dati interattiva che fornisce delle informazioni oggettive e verificabili sui budget
che i NIH consacrano alla ricerca sul dolore e permettono di trovare gli
ambiti in cui il finanziamento è insufficiente.
I ricercatori affermano che i politici, le organizzazioni professionali, i ricercatori e i clinici così come le persone che dovranno in futuro orientare la
ricerca sul dolore, potranno trovare in quest’analisi uno strumento utile.
68
Una nota editoriale insiste sul fatto che questa banca dati (denominata
CRISP, Computer Retrieval of Information of Scientific Projects), oltre a
Il dolore
permettere di determinare gli stati clinici associati al dolore che non beneficiano di una sufficiente attenzione da parte degli scienziati e delle istanze
che mettono a disposizione i finanziamenti, dà la possibilità di classificare i
progetti di ricerca secondo criteri più dettagliati e con una specificità che
non è invece offerta da quella dei NIH.
69
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
La schizofrenia
72
La depressione
74
Le dipendenze
76
Piste per il futuro
78
71
U
n tema centrale della ricerca sulla salute mentale nel 2005 è stato il
ruolo dei geni e la loro interazione con i fattori ambientali, come ad esempio
le tossicomanie. La ricerca sulla schizofrenia si è interessata ai geni che
controllano il metabolismo del neurotrasmettitore dopamina ; mentre la
ricerca sulla depressione si è concentrata su quelli che controllano il metabolismo del neurotrasmettitore serotonina ; infine la ricerca sulle dipendenze ha analizzato i geni che controllano la sintesi dei recettori per i
neurotrasmettitori che interagiscono con le sostanze additive.
La schizofrenia
Nella ricerca sulla schizofrenia, da alcuni anni i ricercatori hanno focalizzato
i loro interessi sui differenti alleli o varianti genetiche, dei geni che codificano per la Catecol-O-Metiltrasferasi (COMT), l’enzima che degrada la
dopamina (i ricercatori studiano il COMT anche per la comprensione dei
meccanismi del dolore ; vedi pagina 67). Dalle ricerche è emersa una
piccola variante : in certi individui, una sequenza specifica del gene COMT
codifica per l’aminoacido denominato valina (Val) e in altre persone per
l’aminoacido chiamato metionina (Met).
Questa piccola differenza, anche se limitata ad un solo aminoacido, modifica l’attività dell’enzima COMT. L’attività enzimatica è meno pronunciata
negli individui che presentano due alleli per la forma Met e più intensa
negli individui con la forma Val nei due alleli. L’attività enzimatica occupa
invece una posizione intermediaria negli individui che hanno una copia di
ciascun allele.
Alcuni, ma non tutti gli studi, associano il fatto di possedere due alleli Val ad
un rischio più elevato di sviluppare la schizofrenia. Secondo questi studi,
l’intensa attività dell’enzima COMT osservata nei soggetti Val/Val aumenta
la degradazione di dopamina sintetizzata nei neuroni che proiettano i loro
assoni nella parte frontale del cervello, la corteccia prefrontale. Questo
provoca un deficit nelle funzioni della corteccia prefrontale e dei disturbi
della memoria e dell’attenzione, caratteristici della schizofrenia.
72
Nell’ambito di uno studio i cui risultati sono stati pubblicati in Biological
Psychiatry, Terrie Moffitt e il suo gruppo hanno costatato che i soggetti
Val/Val consumatori regolari di cannabis prima dei 15 anni, hanno un
rischio aumentato di sviluppare una volta adulti un disturbo temporaneo
simile alla schizofrenia ; questo rischio esiste, ma in forma minore anche
Nel corso di uno studio analogo, pubblicato in Nature Neuroscience,
Andreas Meyer-Lindenberg e i suoi collaboratori hanno utilizzato la tomografia ad emissione di positroni, una tecnica d’imaging cerebrale, per
dimostrare che quando una persona esegue un compito mentale l’attività
neuronale della sua corteccia prefrontale (CPF) è « regolata » dalla dopamina. L’intensità dell’attività neuronale osservata durante lo svolgimento
dei compiti di memorizzazione dipenderebbe, in altri termini, dalla quantità di dopamina liberata. Domandando a dei volontari di compiere degli
esercizi di memoria, i ricercatori hanno costatato nei portatori del COMT
Met, una correlazione positiva tra la sintesi della dopamina nel mesencefalo e il flusso di sangue osservato nella corteccia prefrontale, che valuta
indirettamente l’attività neuronale. I dati convalidano l’ipotesi secondo la
quale l’attività della CPF è regolata dalla dopamina.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
negli individui Val/Met. Non esiste un aumento del rischio nei soggetti
Met/Met e nelle persone che hanno cominciato a consumare cannabis in
età adulta, indipendentemente dalla composizione degli alleli COMT.
Secondo gli autori, l’interazione gene-cannabis è limitata ad un periodo
sensibile dello sviluppo cerebrale, l’adolescenza. I risultati convalidano gli
indici, sempre più numerosi, di un nesso tra l’allele Val e la psicosi, ma solo
nelle persone esposte ad influenze ambientali, come ad esempio il consumo di canapa 1.
Nelle persone portatrici del COMT Val, invece, si osserva una correlazione
inversa tra la sintesi di dopamina e il flusso sanguigno misurato nella CPF
durante l’esecuzione dello stesso compito. Entrambi i gruppi, cioè i portatori del gene con la variante Met e quelli portatori della variante Val, hanno
effettuato correttamente l’esercizio di memorizzazione, ma i risultati indicano che nella CPF dei portatori Val, i tassi di dopamina non raggiungono i
Regolazione neuronale
La tomografia ad emissione di positroni evidenzia le
aree in cui la dopamina, durante lo svolgimento di compiti mentali, « regola » l’attività neuronale nella corteccia
prefrontale. I livelli di dopamina legati a determinati
profili genetici possono indicare un ruolo di questi profili nel rischio di sviluppare la schizofrenia.
73
livelli adeguati per permettere un’efficacia ottimale. Questo potrebbe spiegare, affermano gli autori, il meccanismo attraverso il quale il COMT Val
accresce il rischio di schizofrenia nelle persone che possiedono questa
forma genetica 2.
La depressione
Numerosi studi familiari indicano che i parenti di primo grado delle persone
che soffrono di depressione hanno un rischio più importante di sviluppare
a loro volta dei disturbi depressivi maggiori, paragonati al gruppo controllo.
Gli studi evidenziano il ruolo dei geni nella trasmissione della depressione
maggiore. Myrna Weissman e i suoi collaboratori hanno pubblicato in
Archives of General Psychiatry i risultati di uno studio di lunga durata, su
ben tre generazioni, sulla depressione maggiore.
I risultati dimostrano che circa il 60 % dei bambini con dei nonni e dei genitori affetti da depressione presentano almeno un disturbo psichiatrico
di natura ansiosa o depressiva. Nei bambini di cui un genitore soffre di
depressione, ma nessun nonno, il rischio di essere affetto da malattie
psichiatriche non è maggiore se paragonato ai bambini che non hanno i
genitori depressi 3.
Uno dei geni che potrebbe essere implicato nella trasmissione della
depressione è il gene che codifica per la proteina che recupera la serotonina nei neuroni, una volta liberata. Una volta « catturata », la serotonina
può nuovamente essere rilasciata nel corso della stimolazione neuronale
seguente. Tempo fa, i ricercatori hanno scoperto che la neurotrasmissione
insufficiente della serotonina svolgeva un ruolo chiave nella depressione. Il
gene del trasportatore della serotonina presenta due alleli, denominati
« lungo » e « corto » in relazione alla lunghezza del gene che li costituisce.
L’allele corto (« c ») è associato ad una disponibilità ridotta del trasportatore
della serotonina.
74
Non si conosce ancora esattamente per quale ragione l’allele «c» predispone
alla depressione. René Hen e i suoi colleghi alla fine del 2004 hanno dimostrato che nei topi l’inibizione del trasportatore della serotonina nel corso
dei primi stadi di sviluppo conduceva a comportamenti ansiosi negli animali adulti. I dati suggeriscono che una disponibilità ridotta del trasportatore della serotonina e di conseguenza anche della serotonina, influenza lo
sviluppo dei circuiti emotivi del cervello 4, 5 e che l’allele « c » contribuisce a
questo fenomeno riducendo la disponibilità del trasportatore.
Corteccia del
cingolo anteriore
Corteccia
prefrontale
Corteccia
sottocallosa
posteriore
Amigdala
Nel 2005, Daniel Weinberger e i suoi collaboratori hanno corroborato questa
tesi, pubblicando in Nature Neuroscience dei risultati secondo i quali le
persone che possiedono l’allele « c » sono predisposte ad un controllo inadeguato delle loro emozioni negative 6. I ricercatori hanno constatato in
queste persone il funzionamento insufficiente di un circuito che partecipa
al controllo di queste emozioni. Essi hanno dapprima osservato che nei
soggetti in buona salute che possiedono l’allele « c » e che non hanno mai
presentato dei disturbi psichiatrici, è presente una risposta eccessiva dell’amigdala alla presenza di stimoli visivi aggressivi. L’iperattività dell’amigdala, una regione cerebrale situata bilateralmente all’altezza delle orecchie,
è associata ad un aumento dei tratti del carattere di tipo ansioso, a loro
volta associati ad un rischio elevato di depressione.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
Terapia dei processi cognitivi
e del comportamento
Gli studi realizzati nel 2005 hanno
fornito nuove informazioni sull’implicazione di certe aree cerebrali nella depressione. È stato il
caso dell’amigdala, la corteccia
del cingolo anteriore e la corteccia sottocallosa posteriore.
Analogamente è stato dimostrato un ruolo della corteccia
prefrontale nella schizofrenia e
nelle dipendenze.
Gli scienziati hanno determinato che la risposta eccessiva dell’amigdala è
apparentemente conseguente al fatto che una parte della regione denominata corteccia del cingolo anteriore (ACC), situata sull’asse mediano del
cervello, non esercita adeguatamente la sua funzione inibitrice. La parte
detta rostrale della corteccia del cingolo anteriore (rACC), riceve numerose afferenze di neuroni serotoninergici provenienti da una regione inferiore del cervello. Studi realizzati in precedenza avevano dimostrato una
riduzione dell’attività del rACC nella depressione e la tristezza.
Marc Caron e il suo gruppo, hanno pubblicato in Neuron che esiste un
altro allele che sembra predisporre alla depressione. Questo allele sembra
75
pilotare la produzione di una forma di enzima che differisce leggermente
dalla triptofano idrossilasi 2, implicata nella sintesi della serotonina.
Sebbene la forma mutante dell’enzima differisce di un solo amminoacido, in laboratorio si misura una produzione di serotonina inferiore
del 80 % a quella normale. Gli autori hanno scoperto questa mutazione
in 9 dei loro 87 pazienti affetti da depressione maggiore e in 3 dei
219 soggetti controllo. Queste tre persone presentavano certi segni clinici
d’ansia e di depressione leggera, ma non soffrivano di depressione maggiore. In vista di questi risultati, sembra che una produzione di serotonina
insufficiente accresca sensibilmente il rischio di sviluppare una depressione maggiore 7.
L’aumento del tasso di serotonina è uno degli obiettivi dei farmaci antidepressivi. Tuttavia, fino al 20 % delle persone affette da depressione,
non rispondono né agli antidepressivi, né alla psicoterapia, né alla terapia
elettroconvulsiva. Uno studio preliminare pubblicato sulla rivista Neuron,
da Helen Mayberg e il suo gruppo mostra che questi pazienti rispondono
talvolta alla stimolazione elettrica della corteccia subcallosa posteriore
(PSC), la regione situata in profondità nell’asse mediano del cervello. Contrariamente all’attività del rACC, che è ridotta nei pazienti depressi, quella
del PSC è esagerata durante la depressione e resta iperattiva nei pazienti
non sensibili ai trattamenti tradizionali.
I ricercatori hanno impiantato in entrambi gli emisferi cerebrali degli elettrodi nelle vie che provengono dal PSC in sei pazienti affetti da depressione resistente al trattamento. Inviando delle stimolazioni elettriche ad
alta frequenza in queste regioni, hanno ottenuto una riduzione dell’attività
del PSC. Nel corso della stimolazione, tutti i pazienti hanno dichiarato
spontaneamente di avere ottenuto un beneficio sull’umore, una sorta di
« calma improvvisa », la « scomparsa della sensazione di vuoto » e un rinnovato interesse per le cose. In quattro dei sei pazienti, la stimolazione è
proseguita per un periodo di sei mesi, portando ad un miglioramento
costante dell’umore fino alla fine del trattamento 8.
Le dipendenze
76
Come nella schizofrenia e nella depressione, i geni sono senza dubbio
implicati nelle dipendenze. I ricercatori si sono interessati in particolare al
gene che codifica per il recettore mu-oppioide (MOR). Nell’organismo
sono presenti delle sostanze simili agli oppiacei (morfina, eroina) che esercitano il loro effetto sedativo legandosi a questo recettore.
Il naltrexone, una molecola che blocca il recettore MOR, evidenzia il suo
ruolo nell’alcolismo. Questo farmaco ha un’efficacia comprovata per combattere l’alcolismo, ma l’obbligo di assumerne quotidianamente alcune
pastiglie fa spesso fallire il trattamento. Per ovviare a quest’inconveniente,
gli scienziati hanno sviluppato una composizione di naltrexone che si
assume nella forma di iniezione muscolare una volta al mese.
James Garbutt e il suo gruppo l’hanno testato nell’ambito di un grande studio clinico durante il quale due dosi differenti di farmaco sono state combinate con delle misure psicosociali di debole intensità. I risultati pubblicati
nella rivista Journal of the American Medical Association dimostrano che il
trattamento più efficace si verifica con la dose più importante delle due
posologie, e per delle ragioni ancora sconosciute, negli uomini è molto più
efficace che nelle donne 10.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
Un allele del gene MOR – denominato 118G – è particolarmente interessante, poiché il recettore che esso codifica fissa le endorfine tre volte più
intensamente del normale. Gavin Bart e i suoi collaboratori hanno scoperto
un nesso tra quest’allele e la dipendenza dall’alcol in una popolazione
svedese. Nel loro studio pubblicato in Neuropsychopharmacology, i ricercatori affermano di non sapere per quale ragione l’allele 118G contribuisce
al rischio di alcolismo, ma ritengono che potrebbe essere secondario ad un
cambiamento della risposta allo stress 9.
Anche il recettore cannabinoide CB1 sembra svolgere un ruolo importante
nella dipendenza alle droghe, all’alcol e in altri comportamenti additivi.
Questo neurorecettore normalmente lega una molecola prodotta nell’organismo simile al THC, la sostanza attiva del cannabis. In un articolo
apparso nel numero di agosto di Trends in Pharmacological Sciences, Taco
De Vries e Anton Schoffelmeer affermano che il recettore cannabinoide
CB1 è importante non tanto per i classici effetti gratificanti delle droghe,
ma piuttosto per il rinforzo dell’effetto di condizionamento classico (di tipo
pavloviano) che s’istalla durante il processo di dipendenza 11.
Questo meccanismo implica la formazione di ricordi associati all’assunzione di droga, la cui evocazione è sufficiente per suscitare il desiderio di
droghe, ad esempio il fatto di trovarsi in un quartiere dove si consumava
della cocaina rinforza il desiderio di assumerne. Dei farmaci come il rimonabant, bloccando il recettore cannabinoide CB1, inibiscono questo
desiderio. Tuttavia queste molecole non agiscono sul desiderio di droga
77
indotto dallo stress, come può accadere davanti ad un licenziamento dal
lavoro. Queste scoperte sembrano indicare che il problema delle dipendenze deve essere affrontato con dei farmaci che agiscono su più fronti.
Dei progressi sono stati fatti anche nella conoscenza dei circuiti neuronali
della dipendenza. Il circuito cerebrale che ha attirato maggiormente
l’attenzione è quello situato tra la corteccia prefrontale (CPF) e il nucleo
accumbens (NA), una regione del mesencefalo. Le fibre nervose che
vanno dalla CPF al NA liberano il glutammato, un neurotrasmettitore che
svolge un ruolo importante nell’apprendimento e nella memoria. Le fibre
che vanno dal NA alla CPF liberano la dopamina, che come abbiamo visto
precedentemente aiuta il CPF a focalizzare l’attenzione. Peter Kalivas, Nora
Volkow e James Seamans hanno pubblicato in Neuron una teoria completa
delle dipendenze che implica un disfunzionamento alle due estremità di
questo circuito 12.
Secondo questa teoria, nella CPF dei cambiamenti nelle sostanze chimiche
implicate nei segnali intracellulari fanno in modo che i segnali inviati dai
recettori dopaminergici D1 prevalgono su quelli degli altri recettori della
dopamina. La persona diviene così sensibile unicamente agli indicatori
connessi alla droga e insensibile a quelli modulati da altri recettori della
dopamina, come per esempio quelli legati al piacere sessuale. I cambiamenti che intervengono nel funzionamento dei neuroni e nelle cellule di
sostegno (cellule gliali) posti tra la CPF e il NA, si traducono con una liberazione più abbondante di glutammato che stimola la ricerca compulsiva di
droga. Gli autori propongono alcuni possibili interventi farmacologici,
attraverso i quali interrompere il circolo vizioso lungo il tragitto di questo
circuito e ristabilire delle condizioni normali.
Piste per il futuro
In gennaio 2005, la Josiah Macy Jr. Foundation ha invitato una trentina
di psichiatri, neurologi e neuroscienziati a riflettere su come aumentare
l’interdisciplinarietà nella formazione di futuri neurologi e psichiatri.
All’insegna della convergenza delle neuroscienze, delle scienze del comportamento, della neurologia e della psichiatria, la conferenza era presieduta da Joseph B. Martin, MD, PhD, decano della facoltà di medicina
di Harvard.
78
Le raccomandazioni seguenti sono state elaborate dai partecipanti: seguire
i laureati in questi ambiti per aiutarli ad orientarsi nella loro carriera ; creare
La discussione più importante sulla formazione medica è stata sulla necessità di un’interdisciplinarietà nella formazione ospedaliera di base.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
per la ricerca e le neuroscienze cliniche una biblioteca nazionale con materiale didattico ; sostenere con mezzi appropriati l’interesse per quest’ambito manifestato dagli studenti ; offrire ai candidati al PhD di neurobiologia
un’esperienza clinica nel loro futuro ambito di ricerca.
79
I disturbi sensoriali
e delle funzioni corporee
Sonno, appetito e obesità
82
Un ruolo più importante per l’orexina
83
I progressi nella ricerca
sulla degenerazione maculare senile
85
Alla scoperta della natura sensoriale dell’olfatto
87
81
M
olte funzioni corporee di base, come il sonno, l’appetito o l’olfatto,
sono rimaste per anni avvolte dal mistero. Questi enigmi biologici restati
per decenni inaccessibili ai ricercatori, sembrano improvvisamente rivelare
i loro segreti. Il merito è in buona parte dovuto alle nuove tecnologie che
offrono agli scienziati metodi investigativi senza precedenti e permettono
di evidenziarne i meccanismi più complessi.
Diversi studi pubblicati nel 2005 hanno delucidato alcuni elementi nei
misteri della percezione cerebrale degli odori o i nessi tra il sonno, l’appetito e il comportamento. Un passo avanti è stato realizzato anche nello
sviluppo di procedure e tecniche che permettono di aiutare le persone
che soffrono di degenerazione maculare, grazie alle idee provenienti da
ricerche svolte nell’ambito di altre patologie.
Sonno, appetito e obesità
Da molto tempo gli scienziati sospettavano l’esistenza di nessi tra le vie
biologiche che controllano il sonno e quelle che regolano l’appetito. Un
rapporto pubblicato nel numero di maggio 2005 della rivista Science, realizzato da ricercatori della Northwestern University, convalida quest’ipotesi. Joseph Bass, Fred Turek e collaboratori hanno studiato il comportamento, l’alimentazione e la regolazione del metabolismo di topi portatori di
una mutazione del gene dell’orologio circadiano che partecipa al controllo
del ritmo circadiano del sonno, della veglia e dell’appetito 1.
Quando questi topi sono sottomessi a delle diete normali o ricche in lipidi,
sviluppano molti più grassi corporei rispetto ai loro congeneri privi della
mutazione dell’orologio circadiano. La regolazione del loro orologio
interno interferisce con la quantità di sonno, con l’orario al quale si alimentano e con lo stoccaggio delle calorie in eccesso. Inoltre, i topi con la mutazione presentano dei tassi elevati di colesterolo, di trigliceridi e di glucosio
nel sangue oltre che un tasso ridotto d’insulina. Tutti questi fattori costituiscono un rischio di obesità, di sviluppo di malattie cardiache e di diabete,
sia per il topo sia per l’uomo.
82
Secondo questo studio, le irregolarità degli schemi di alimentazione rivelati
dai ricercatori potrebbero essere secondari a dei cambiamenti dei tassi di
leptina e di grelina, due messaggeri chimici che svolgono ruoli importanti e
opposti nella regolazione dell’appetito. Queste osservazioni sono convalidate dai risultati di altri studi effettuati sull’uomo e pubblicati alla fine
Emmanuel Mignot e i suoi colleghi della Stanford University e dell’Università del Wisconsin (Madison), hanno domandato a più di 1000 volontari di
trascorrere una notte in un laboratorio del sonno e di sottomettersi il giorno
seguente ad un’analisi del sangue. Come riportato nel numero di dicembre
del 2004 di Public Library of Science Medicine, i partecipanti che hanno
dormito meno di otto ore, avevano un indice di massa corporea più elevato
di quelli che avevano dormito otto ore o più. I soggetti che hanno dormito
meno, presentavano dei tassi elevati di grelina (che segnala la sensazione
di fame) e dei livelli ridotti di leptina (che contribuisce all’impressione di
sazietà) 2. In un lavoro pubblicato nel numero di dicembre 2004 di Annals
of Internal Medicine, Eve van Cauter e i suoi colleghi dell’Università di
Chicago, affermano di avere scoperto in giovani uomini in buona salute
privati di sonno per il test, un elevato tasso di grelina, una riduzione della
leptina e un’accresciuta sensazione di fame 3.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
del 2004, che dimostrano l’importanza di questi due ormoni nel ciclo
sonno-appetito.
Aggiungendo a questi risultati quelli degli studi effettuati nel 2005 nei topi
e le conclusioni di un lavoro pubblicato nel 2004, secondo il quale un’esperienza di deprivazione di sonno ha indotto in giovani uomini in buona
salute un’elevazione del tasso di una proteina la cui presenza costituisce un
fattore di rischio per gli attacchi cardiaci 4, si dispone di elementi sufficienti
per pensare che una perturbazione degli schemi alimentari e del sonno
favorisce l’obesità e i rischi per la salute ad essa associati. Una migliore
comprensione di questi meccanismi è utile per affrontare le crescenti problematiche legate all’obesità, soprattutto negli USA, dove le persone non
dormono a sufficienza, gli alimenti ipercalorici abbondano e i tassi di obesità e di diabete stanno aumentando rapidamente.
Un ruolo più importante per l’orexina
Nel corso degli ultimi anni sono state identificate differenti molecole chiave
che intervengono nel sonno. Tra queste l’orexina (ipocretina), un neurotrasmettitore prodotto nell’ipotalamo che stimola lo stato di veglia e la cui
carenza può indurre la narcolessia nell’uomo.
Nel 2005, diversi gruppi di ricercatori hanno identificato altri ruoli dell’orexina. Uno studio diretto da Glenda Harris e Gary Aston-Jones, due
ricercatori alla facoltà di medicina dell’Università della Pennsylvania, hanno
constatato che l’orexina influenza la modalità con cui il cervello percepisce
83
il piacere e quindi anche il comportamento di ricerca del piacere 5. Gli
scienziati sapevano che certe regioni dell’ipotalamo sono implicate nei
meccanismi di ricompensa e di motivazione, ma ignoravano quali fossero
esattamente i neurotrasmettitori implicati. Stimolando i neuroni che sintetizzano l’orexina nel ratto, il gruppo di Harris e Aston-Jones ha potuto stabilire l’esistenza di un nesso tra una forte attività dell’orexina e il comportamento di ricerca di droga e di cibo.
Il gruppo ha costatato anche che apparentemente l’orexina risveglia dei
comportamenti di ricerca di droga che sono sistematicamente sradicati
nei ratti. Quando i ricercatori iniettano a questi ratti una sostanza che antagonizza l’azione dell’orexina, tali comportamenti scompaiono. Il lavoro,
pubblicato nel numero di Nature di settembre 2005 e confermato da un altro
studio su Proceedings of the National Academy of Sciences in dicembre 6,
potrebbe fornire un contributo importante allo studio dei comportamenti
additivi, connessi alle droghe ma anche ai disturbi alimentari compulsivi.
Due gruppi, uno diretto da Barbara Jones, della McGill University di Montreal, l’altro da Jerry Siegel, dell’Università della California a Los Angeles,
Proiezioni verso i circuiti
della ricompensa del proencefalo
Proiezioni verso le
e del mesencefalo
aree del tronco cerebrale
collegate alla veglia
• ATV
• NAc
• LC
• Ami
• TMN
• PPT / LDT
Stimoli associati
alla ricompensa
• Morfina
• Cocaina
• Cibo
84
Stimoli associati
alla veglia
• Camminare
• Stress
La percezione del piacere
Alti livelli di orexina, un neurotrasmettitore presente nel cervello (figura ovale tratteggiata),
sono stati messi in relazione con dei precisi comportamenti, come la ricerca di alimenti o
di droghe. L’orexina nell’ipotalamo laterale (LH) è liberata dagli stimoli del circuito della
ricompensa, per esempio ottenendo del cibo o delle droghe. Una volta attivata, l’orexina
agisce su altre regioni del cervello: l’area tegmentale ventrale (ATV) il nucleo accumbens
(NAc) e l’amigdala (Ami). Gli stimoli che invece non sono collegati al circuito della ricompensa, come lo stress, attivano l’orexina in un’altra parte del cervello e gli effetti sono diversi.
I progressi nella ricerca
sulla degenerazione maculare senile
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
hanno pubblicato nel 2005 due studi che illustrano come i neuroni che
sintetizzano l’orexina si attivano appena prima che gli animali emergano
dal sonno REM 7, 8. Pubblicati nel Journal of Neuroscience e in Neuron,
questi studi sembrano indicare che i neuroni orexinergici sono attivi
soprattutto durante la veglia e che le scariche più rapide si osservano
quando si svolgono delle attività motorie, in particolare associate a dei
compiti d’esplorazione. L’attività dei neuroni orexinergici sarebbe dunque
più strettamente connessa ai movimenti, piuttosto che allo stato di veglia o
di sonno. I risultati si accordano bene con l’attività motoria molto ridotta
osservata nei topi affetti da una carenza di orexina. Infine, in uno studio
apparso sull’edizione online del Journal of Physiology, Yoshimasa Koyama
e i suoi colleghi dell’Asahikawa Medical College, Giappone, dimostrano
che i neuroni orexinergici inviano al mesencefalo dei messaggi che allo
stato di veglia come durante il sonno svolgono un ruolo importante nella
regolazione della funzione motoria e locomotoria 9.
Degli studi pubblicati nel 2005 potrebbero ridare una speranza alle persone che soffrono di degenerazione maculare senile (DMS). Questa malattia
colpisce la macula, la regione della retina che fornisce una visione centrale
nitida e quindi compromette i compiti visivi precisi come la lettura. La retina
converte la luce in segnali nervosi che trasmette poi al cervello. Con l’età,
le cellule della macula possono essere danneggiate, portando ad una perdita permanente della vista. Più di 15 milioni di americani soffrono di degenerazione maculare senile, la forma di cecità più comune negli Stati Uniti.
Aiuto per gli occhi
Cynthia Toth e il suo gruppo di ricerca presso la Duke
University hanno perfezionato una tecnica che
può ristabilire la visione, e
di conseguenza la qualità
di vita, nei pazienti affetti
da degenerazione maculare senile.
85
Per riparare i danni secondari alla DMS, agli inizi degli anni ’90 Robert
Machemer, ricercatore presso la Duke Univerity, ha messo a punto una
tecnica chirurgica denominata traslocazione maculare, che i suoi colleghi
della Duke, Cynthia Toth e Sharon Freedman hanno perfezionato nel corso
di una decina di anni. Questa tecnica è indicata per le persone che hanno
subito senza risultati gli altri trattamenti ed hanno perso quasi completamente la vista. Nel 2005, tale tecnica ha permesso alle due ricercatrici e ai
loro gruppi di ristabilire in alcuni pazienti un’acuità visiva apprezzabile 10, 11.
La traslocazione maculare è un intervento in due tempi nel corso del quale
i chirurghi realizzano un taglio della retina su 360 gradi e poi la sottopongono ad una rotazione, spostando la macula in una zona dell’occhio esente
da tessuto cicatriziale e da anomalie vascolari. La visione però appare inclinata, per questo motivo i chirurghi devono intervenire una seconda volta
per correggere il difetto facendo rotare l’occhio. Toth e Freedman spiegano nella rivista Ophthalmology che prima dell’intervento chirurgico i
pazienti con una visione molto ridotta lamentavano una pessima qualità di
vita. Un anno dopo l’intervento la loro visione e la loro qualità di vita sono
molto migliorate.
Tre gruppi di ricercatori, che hanno pubblicato separatamente i loro risultati in Science, hanno scoperto un gene implicato nella degenerazione
maculare. Questo gene codifica per una proteina del sistema immunitario
denominata « fattore complemento H ». A lungo, gli scienziati hanno pensato che il sistema immunitario fosse implicato nell’inizio della degenerazione maculare senile. Ora essi dispongono di un obiettivo molecolare per
lo sviluppo di nuovi farmaci per affrontare questa malattia.
86
Due gruppi del Vanderbilt University Medical Center, del Duke University
Medical Center, dell’University of Texas Southwestern Medical Center e
della Boston University School of Medicine hanno identificato il gene che
codifica per il fattore complemento H 12, 13. Nel frattempo, un gruppo della
facoltà di medicina della Yale University diretto da Josephine Hoh, ha scoperto che una variazione del gene che codifica per il fattore complemento
H provoca dei cambiamenti che impediscono la produzione corretta di
questa molecola di cui si suppone che regoli in modo anomalo la risposta
cellulare 14. Lavorando su dei campioni di sangue provenienti dall’AgeRelated Eye Disease Study del National Eye Institute, il gruppo di Josephine Hoh ha analizzato il DNA di 96 pazienti senza legami di parentela,
affetti da DMS in stato avanzato e di 50 persone che avevano una visione
Alla scoperta della natura sensoriale dell’olfatto
L’olfatto informa un animale sulla presenza di un predatore o dà ad una
persona l’idea di quel che troverà sul piatto a pranzo. Come fa il cervello a
distinguere gli odori ? Due studi apparsi nel 2005 forniscono una risposta a
tale quesito.
Lawrence Katz e un gruppo del Duke University Medical Center hanno
identificato nel cervello dei topi dei neuroni che reagiscono a certi odori 15.
Essi hanno scoperto che i topi distinguono i maschi dalle femmine grazie
ad una sostanza contenuta nell’urina. I neuroni isolati dai ricercatori si
situano nel sistema olfattivo principale del cervello e non come si riteneva
nei mammiferi non umani, nel sistema olfattivo accessorio, assente nell’uomo. Secondo questa ricerca pubblicata in Nature, l’analisi degli odori
potrebbe fare intervenire, nell’uomo come nell’animale, delle regioni cerebrali superiori.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
normale. La scoperta di questa variante potrebbe aiutare i ricercatori a
trovare una cura per questa malattia.
Altre ricerche svolte da un gruppo della Johns Hopkins School of Medicine
potrebbero permettere di comprendere meglio come il cervello distingue
il profumo delicato di una torta di mele appena sfornata dall’odore pungente della salsedine di una bassa marea 16. Jonathan Bradley e il suo
gruppo hanno descritto in Neuron una molecola trasportatrice di ioni che
partecipa alla percezione cerebrale degli odori. Questa molecola era già
nota ai ricercatori perché partecipa alla regolazione di numerosi altri meccanismi come la digestione, l’udito, l’equilibrio e la fertilità.
Per inviare al cervello delle informazioni sugli odori, le cellule olfattive si
servono di atomi di cloro dotati di carica. Gli scienziati hanno costatato che
un trasportatore denominato NKCC1, che regola la quantità di cloruro
delle altre cellule dell’organismo, partecipa all’entrata e all’uscita del cloruro nelle cellule olfattive, ciò che permette alle informazioni olfattive di
giungere fino alle cellule cerebrali. La tappa seguente consisterà nell’avere
un’idea più precisa del modo in cui il cloruro interviene nel trattamento
cerebrale degli odori.
87
Cellule staminali
e neurogenesi
I punti di riferimento per lo sviluppo
delle cellule staminali
90
Il carbonio 14 per datare le cellule staminali
90
Frammenti di DNA responsabili dell’unicità
del cervello
91
La dopamina boccia la neurogenesi
92
La neurogenesi aiuta a combattere i tumori
del cervello
93
Un gene che aiuta le cellule staminali a differenziarsi
93
Fonti alternative di cellule staminali embrionali
94
Neurogenesi e ictus
95
I nuovi neuroni indispensabili a certe forme
di memoria
96
89
L
a neurogenesi corrisponde alla nascita di nuove cellule nervose ; solamente verso la fine degli anni ’90 gli scienziati hanno dimostrato che questo
processo avviene nel cervello umano adulto. Da allora e in particolare nel
2005, gli scienziati hanno cercato di comprendere meglio come un neurone appena nato, o una cellula staminale neuronale cresce e si differenzia
in cellule che esercitano nel cervello dei compiti determinati. Durante
il 2005, gli scienziati hanno dimostrato che la neurogenesi è un’attività
continua del cervello in buona salute e che è possibile utilizzarla a scopo
terapeutico.
I punti di riferimento per lo sviluppo
delle cellule staminali
Il cervello adulto contiene molte cellule che sembrano giovani neuroni in
via di sviluppo : nei diversi stadi dello sviluppo essi producono differenti
proteine che possono essere evidenziate grazie a particolari colorazioni.
Per potere utilizzare le cellule staminali sul piano terapeutico per curare
delle patologie cerebrali, le cellule staminali devono funzionare da neuroni
e sostituire quelli che sono morti o lesi.
Nel numero di Brain del 15 giugno, Morton Moe e il suo gruppo del Karolinska Institute, in Svezia, hanno dimostrato che le cellule staminali neuronali per diventare dei neuroni maturi e funzionali, passano attraverso degli
stadi caratteristici. Lavorando su dei campioni di tessuto cerebrale prelevati nel corso di operazioni realizzate su pazienti epilettici, i ricercatori
hanno coltivato delle cellule staminali neuronali che hanno studiato con
l’ausilio di colorazioni particolari e di tecniche di elettrofisiologia.
Dopo quattro settimane, le cellule presentano delle proprietà elettrofisiologiche di membrana proprie dei neuroni ; in particolare, le cellule hanno
sviluppato differenti tipi di canali ionici (necessari per alimentare gli impulsi
elettrici) e delle sinapsi con due dei principali neurotrasmettitori cerebrali.
Questo studio è tra i primi ad evidenziare i cambiamenti di « comportamento », e non solamente nella morfologia, che accompagnano il processo
di differenziazione e di maturazione delle cellule staminali neuronali adulte 1.
Il carbonio 14 per datare le cellule staminali
90
Anche se la neurogenesi è un fenomeno che si produce in diverse regioni
del cervello, tra le quali l’ippocampo, la sua presenza nella corteccia cerebrale è ancora controversa. Bisognava, infatti, poter determinare l’età delle
Il carbonio 14, o C14, è utilizzato per datare gli oggetti antichi. Dato che
questo elemento ha un tempo di dimezzamento dell’ordine di grandezza
di migliaia di anni, è meno utile per gli oggetti recenti. L’esplosione dei
test nucleari negli anni ’50, ha introdotto il C14 nell’atmosfera terrestre ed
è penetrato nelle cellule vegetali, animali e anche umane, decadendo con
regolarità nel corso degli anni. Negli studi pubblicati in Cell, i ricercatori
hanno determinato che i livelli di C14 nel tessuto corticale ottenuto dall’autopsia degli individui nati prima del 1950 erano identici a quelli registrati prima delle esplosioni nucleari, quindi l’età delle cellule cerebrali
corrisponde a quella dell’individuo. Nelle nuove cellule sanguigne, la concentrazione di C14 è invece identica a quelle misurate attualmente nell’atmosfera. I risultati hanno quindi dimostrato che la neurogenesi non
avviene a livello corticale poiché in questa zona nessuno dei neuroni presente si era formato nel corso della vita adulta della persona 2.
Cellule staminali e neurogenesi
cellule con un metodo non ancora disponibile fin quando Jonas Frisen e i
suoi colleghi del Medical Nobel Institute, a Stoccolma, hanno pensato di
applicare una tecnica simile a quella utilizzata nell’ambito archeologico.
Frammenti di DNA responsabili dell’unicità del cervello
Una delle questioni più importanti che occorre porsi quando si vogliono
utilizzare le cellule staminali a scopo terapeutico è quella di sapere se
possono dare origine a tutti i tipi di cellule. Fred Gage e i suoi colleghi del
Salk Institute in California, hanno riportato nel numero di giugno di Nature
che i retrotrasposoni, ritenuti per molto tempo come gli scarti del DNA
pur rappresentando il 15 % circa del genoma umano, possono cambiare
il destino di una cellula staminale neuronale e contribuiscono all’unicità
del cervello.
I ricercatori hanno iniettato una linea di retrotrasposoni umani in cellule
staminali neuronali prodotte in coltura e in seguito trapiantate a dei ratti.
Questi frammenti di DNA si sono incorporati in diversi geni espressi dai
neuroni, dei quali hanno modificato l’espressione genetica. È stato possibile in questo modo riprogrammare lo schema di sviluppo della cellula
staminale e costituire un neurone piuttosto che una cellula di supporto, un
astrocita o un oligodendrocita, per esempio. Questa scoperta suggerisce
che i retrotrasposoni aiutano la cellula staminale non solo a differenziarsi in
cellula matura, ma aggiungono dei tratti distintivi, facendo in modo che
mai due cervelli, nemmeno nei gemelli omozigoti, si sviluppano in modo
rigorosamente identico 3.
91
Cambiamento di destino
Una cellula (al centro dell’immagine) è
diventata un neurone grazie a degli elementi genetici denominati retrotrasposoni.
Queste strutture possono influire sullo
sviluppo di una cellula staminale e conferiscono nuove caratteristiche al tessuto
cerebrale, garantendo l’unicità di ogni
cervello. Sullo sfondo si vedono nuclei di
altre cellule.
La dopamina boccia la neurogenesi
Molti studi dimostrano che gli antidepressivi intensificano il processo
di neurogenesi nel cervello, suggerendo che l’assenza di neurogenesi
potrebbe al contrario svolgere un ruolo in alcune patologie psichiatriche.
Studi simili realizzati con dei farmaci antipsicotici, hanno però fornito
risultati contraddittori.
Uno studio sull’aloperidolo, pubblicato sul Journal of Neuroscience del
15 giugno, illustra gli effetti del neurotrasmettitore dopamina sia sul cervello normale sia in caso di schizofrenia (i cui sintomi sono dovuti in parte
ad un’azione troppo pronunciata della dopamina). Tod Kippin ed il suo
gruppo dell’Università di Toronto hanno dimostrato che una delle funzioni
della dopamina potrebbe essere l’inibizione della neurogenesi quando
questa è necessaria. I ricercatori hanno scoperto che l’aloperidolo, che
blocca i recettori dopaminergici, aumenta il numero di cellule staminali
neuronali, e di conseguenza i neuroni, nei cervelli dei ratti adulti.
92
Lavorando in coltura, gli stessi ricercatori hanno dimostrato che la dopamina inibisce la proliferazione delle cellule staminali, che le cellule staminali
neuronali contengono recettori per la dopamina e che l’aloperidolo interferendo con la dopamina su questi recettori può esercitare il suo effetto inibitore. Sull’animale, i ricercatori hanno notato un incremento spettacolare
delle cellule staminali nello striato, dove esiste un’importante attività dopaminergica. Dato che il volume dello striato è ridotto nelle persone affette
da schizofrenia e riacquista un volume normale dopo assunzione di aloperidolo, questo nuovo studio offre una spiegazione sugli effetti degli antipsicotici. I risultati suggeriscono che un’inibizione della neurogenesi che
La neurogenesi aiuta a combattere i tumori del cervello
Secondo uno studio apparso nel Journal of Neuroscience del mese di
marzo, il cervello potrebbe impiegare la neurogenesi come arma contro
il cancro. Helmut Kettenmann e i suoi collaboratori del Max Delbrück
Center for Molecular Medicine a Berlino, hanno infettato le cellule del
glioblastoma dei topi le cui cellule staminali neuronali erano state marcate
con una proteina fluorescente verde. Quando il tumore si sviluppava, le
cellule staminali migravano dagli strati profondi del cervello dove si trovavano, raggruppandosi attorno al tumore. Le cellule seguivano le cellule
tumorali quando si propagavano ai tessuti vicini.
Cellule staminali e neurogenesi
sopraggiunge in tempo e luoghi opportuni, potrebbe essere parte integrante del buon funzionamento del cervello 4.
Degli studi realizzati in coltura hanno dimostrato che le cellule staminali
limitano la crescita delle cellule tumorali e inducono in queste ultime il
fenomeno di morte programmata che gli scienziati definiscono apoptosi. È
la dimostrazione che le staminali contrastano il tumore e non si limitano a
rimpiazzare le cellule lese nei topi. Questa difesa spontanea contro il cancro è meno pronunciata nei topi più vecchi, ma se in questi ultimi venivano
trapiantate delle cellule staminali neuronali, la speranza di vita diventava
simile a quella dei loro congeneri più giovani. Non a caso forse, il glioblastoma si osserva soprattutto dopo i 55 anni mentre è molto raro nei giovani.
È quindi possibile che per il cervello giovane la neurogenesi costituisca una
forte difesa contro questo tipo di tumore, una risorsa che potrebbe essere
utilizzata a fine terapeutico 5.
Un gene che aiuta le cellule staminali a differenziarsi
Per potere usare le cellule staminali a fine terapeutico, gli scienziati devono
comprendere come mai questi precursori danno origine non solamente a
dei neuroni ma anche ad altre determinate cellule con una funzione ben
precisa. Nel Journal of Neuroscience del 27 luglio, Arturo Alvarez-Buylla e i
suoi colleghi affermano di avere identificato un gene, il pax6, che potrebbe
svolgere un ruolo chiave nel processo che conduce a trasformare una
cellula staminale indifferenziata in una cellula che produce dopamina.
Lavorando con dei topi adulti normali, i ricercatori hanno trapiantato nel
bulbo olfattivo degli animali dove l’attività della dopamina è intensa, delle
cellule staminali prive di una copia funzionale del gene pax6. Le cellule staminali mutanti hanno colonizzato il bulbo olfattivo, ma senza differenziarsi
93
in cellule dopaminergiche o in cellule granulari superficiali (che sintetizzano un enzima cruciale per la produzione di dopamina).
I risultati indicano il pax6 come un gene che permette alle cellule staminali
di specializzarsi in cellule dopaminergiche. Questi risultati sono sicuramente interessanti per la lotta contro la malattia di Parkinson, nella quale si
osserva una degenerazione dei neuroni dopaminergici 6. Un altro studio
pubblicato in giugno in Nature Neuroscience, conferma l’importanza del
gene pax6 nella genesi delle cellule dopaminergiche e identifica una specifica « nicchia » neuronale, denominata via di migrazione rostrale, in cui
nascono queste cellule 7. Insieme, questi studi permettono di comprendere meglio i meccanismi estrinseci e intrinseci della neurogenesi adulta
che condiziona l’identità neuronale.
Fonti alternative di cellule staminali embrionali
Le cellule staminali embrionali sono apparentemente più versatili delle staminali che provengono dal cervello adulto, ma pongono problemi etici.
Sebbene in coltura sia possibile orientare lo sviluppo delle cellule staminali
embrionali così da indurle a sostituire delle cellule morte, non si comprende ancora esattamente il meccanismo attraverso il quale una volta
trapiantate esse s’incorporano al tessuto cerebrale.
Nel numero di maggio di Nature Biotechnology, Viviane Tabar e i suoi colleghi del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center hanno mostrato che le
cellule staminali embrionali umane trapiantate nel cervello di giovani ratti
adulti migravano e si differenziavano con le cellule endogene che già
popolavano il luogo del trapianto. Le nuove cellule trapiantate occupavano
gli stessi posti e contribuivano ulteriormente alla neurogenesi. Dato che
alcuni studi realizzati in precedenza avevano ipotizzato che le cellule
trapiantate non si differenziavano ma « fondessero » con le cellule già
presenti, gli autori hanno cercato, ma senza successo, degli indicatori di
fusione come cellule con nuclei doppi o dei cromosomi soprannumerari.
Gli autori hanno concluso che le cellule staminali embrionali trapiantate
sanno reagire in modo appropriato alle indicazioni dell’ambiente nel quale
sono introdotte, si differenziano e grazie alla loro discendenza riformano le
cellule che sono morte o lese 8.
94
Due studi propongono degli approcci interessanti per affrontare il problema etico posto dalle cellule embrionali. Per ottenere queste cellule, gli
embrioni devono essere distrutti allo stadio di blastocisti. Robert Lanza,
Nello stesso numero di Nature, Alexander Meissner e Rudolf Jaenisch,
basandosi su degli studi anteriori, mostrano che il gene Cdx2 svolge un
ruolo cruciale nella formazione dell’interfaccia attraverso la quale l’embrione s’impianta nell’utero. I ricercatori hanno sviluppato delle blastocisti
di topo con un’alterazione del Cdx2, rendendoli incapaci di impiantarsi.
Questo metodo ha prodotto un’entità incapace di trasformarsi da sola in
embrione vivente, ma che poteva dare origine a delle linee di cellule staminali
embrionali senza che si ponga il problema della distruzione di una vita 10.
Cellule staminali e neurogenesi
della società Advanced Cell Technology Inc., Worcester, Mass. e i suoi
colleghi hanno descritto nel numero online del 16 ottobre di Nature, la
variante di una tecnica già utilizzata per la procreazione medicalmente assistita che permette di ottenere una cellula embrionale senza distruggere
l’embrione. L’idea è estrarre allo stadio di sviluppo di otto cellule (lo stadio
che precede quello di blastocisti) un’unica cellula di cui si verifica l’integrità
genetica. Nella variante sperimentale nel topo, proposta da Robert Lanza,
quest’unica cellula è utilizzata per produrre una linea di cellule staminali
embrionali senza compromettere la sopravvivenza della blastocisti e la sua
trasformazione in embrione 9.
Neurogenesi e ictus
La stimolazione della neurogenesi potrebbe essere un approccio terapeutico non a beneficio esclusivo delle malattie neurodegenerative e della
depressione, ma anche per forme più dirette di lesioni cerebrali. Alcuni
studi dimostrano che gli ictus indotti sperimentalmente accrescono i tassi
di neurogenesi nel giovane ratto adulto. Nel numero di agosto della rivista
Stroke dei ricercatori dell’Ospedale Universitario di Lund, Svezia, sostengono che questo fenomeno di autoriparazione non si osserva solo nei
giovani animali, ma che è presente con la stessa intensità anche nei cervelli
più vecchi 11.
Secondo uno studio pubblicato nel numero di giugno della stessa rivista,
esiste un modo semplice per stimolare, nel ratto, la neurogenesi dopo un
ictus : basta esporre l’animale ad un ambiente ricco di stimoli. Dopo avere
indotto un ictus sperimentale, i ricercatori hanno iniettato una sostanza che
si fissa sulle cellule in divisione. Dopodiché una parte di questi ratti sono
stati sottoposti ad un ambiente « arricchito », con molti giochi, tunnel e
ruote. Il secondo gruppo di animali, è stato sistemato in gabbie normali
nelle quali gli animali disponevano di cibo e di acqua e potevano dormire.
Cinque settimane dopo l’ictus sperimentale, i ricercatori hanno constatato
95
nei ratti esposti ad un ambiente stimolante l’aumento del numero di cellule
staminali neuronali e una neurogenesi più marcata. Questa osservazione
potrebbe avere delle implicazioni teoriche e terapeutiche importanti per
quel che concerne le lesioni cerebrali 12.
I nuovi neuroni indispensabili a certe forme di memoria
Nell’ippocampo, uno dei centri più importanti per la memoria, la neurogenesi è presente ed è associata all’apprendimento e alla memoria, ma i
dettagli sono ancora sconosciuti. Le ricerche suggeriscono che la nuova
generazione di neuroni ha proprietà uniche nel fissare i nuovi ricordi e che
i neuroni che « nascono » durante lo svolgimento di un compito di memoria
siano in seguito specificatamente dediti a quest’attività.
Lavorando su dei ratti adulti, Martin Wojtowicz e i suoi colleghi dell’Università di Lethbridge, ad Alberta in Canada, hanno ridotto la neurogenesi
nell’ippocampo esponendo gli animali a delle deboli quantità di radiazioni.
Dopo quattro settimane, quando nessun neurone era ancora stato prodotto, i ratti sono stati messi in contatto con un labirinto acquatico. Gli animali sono stati rimessi nello stesso labirinto dopo una, due e quattro settimane per valutare le loro capacità di memoria. I ratti irradiati imparavano
ad orientarsi nel labirinto come i congeneri non trattati. Dopo una settimana, le capacità erano ancora simili, ma dopo due e quattro settimane le
prestazioni erano significativamente peggiori.
Pubblicati nel numero di gennaio di Neuroscience, i risultati dimostrano
che i neuroni di età compresa tra 4 e 28 giorni al momento della prova,
sono necessari alla memoria spaziale a lungo termine. I ratti trattati ricordavano facilmente il test del labirinto basato su dei riferimenti visivi e le radiazioni praticate appena prima o subito dopo la prova non hanno avuto
effetto. Queste constatazioni indicano abbastanza chiaramente che la
neurogenesi interviene nella formazione e nella consolidazione dei ricordi
spaziali a lungo termine che dipendono dall’ippocampo 13.
96
I disturbi del pensiero
e della memoria
Nuove localizzazioni per una vecchia conoscenza
98
Demenza e alimentazione
99
Nuovi approcci per curare la malattia di Alzheimer
100
Emozioni e memoria
102
Le regioni del cervello associate al richiamo dei ricordi
103
97
N
el corso del 2005, le conoscenze sulla formazione e il recupero dei
ricordi sono proseguite e i ricercatori clinici hanno iniziato a testare nuovi
approcci per il declino cognitivo. Lo studio più importante pubblicato nel
2005 nell’ambito della memoria proviene da un modello murino della
malattia di Alzheimer.
Nuove localizzazioni per una vecchia conoscenza
Una tra le questioni fondamentali per i ricercatori che si occupano della
malattia di Alzheimer è determinare se le placche e gli aggregati fibrillari
che si formano nel cervello dei pazienti affetti da questa malattia ne sono
l’origine oppure la conseguenza. A questo soggetto, Frank LaFerla e i suoi
colleghi dell’Università della California ad Irvine, hanno fatto una scoperta
che potrebbe rivelarsi importante.
Gli scienziati hanno sviluppato un modello murino della malattia di Alzheimer
nel quale gli animali sviluppano diffusamente nel cervello delle placche e
degli aggregati neurofibrillari e soffrono di disturbi della memoria e di difficoltà d’apprendimento simili a quelli che si osservano negli uomini. I ricercatori hanno dimostrato che i topi cominciavano a presentare dei problemi
di comportamento all’età di 4 mesi, prima dell’apparizione di placche e
aggregati. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Neuron 1.
Esaminando il cervello di questi topi all’età di 4 mesi, i ricercatori hanno costatato che la proteina beta amiloide che costituisce le placche, si accumula
98
Placche e grovigli neurofibrillari : causa o effetto ?
Gli studi sulle placche e sui grovigli che si formano nel cervello
dei malati di Alzheimer indicano
che la proteina beta-amiloide si
accumula dapprima all’interno
dei neuroni e solo in un secondo
tempo all’esterno delle cellule.
Una placca, in alto a sinistra,
appare come l’elemento più scuro
in questo tessuto di ippocampo,
mentre i grovigli sono visibili come
dei punti neri di dimensioni ridotte.
I risultati indicano che la malattia di Alzheimer sarebbe dovuta non alle
placche di proteina beta amiloide che si formano all’esterno dei neuroni
come ritenuto da tempo, ma ai depositi all’interno delle cellule. I ricercatori
ipotizzano che i depositi all’interno dei neuroni non permettono ai segnali
necessari all’apprendimento e alla memoria di passare normalmente attraverso la cellula. Le placche e gli aggregati di neurofilamenti appaiono più
tardi e aggravano i disturbi della memoria e dell’apprendimento già presenti.
Demenza e alimentazione
Non è raro trovare nella letteratura scientifica degli studi che dimostrano i
benefici di alcuni alimenti o vitamine per la memoria, alcuni sono citati
come delle sostanze capaci di proteggere il nostro cervello dalla demenza.
Nel 2005, i ricercatori ne hanno promossi certuni e bocciati altri.
I disturbi del pensiero e della memoria
« all’interno » dei neuroni. Quando i ricercatori hanno somministrato degli
anticorpi per dissolvere la sostanza amiloide, i depositi che si erano formati
nei neuroni sono spariti e le prestazioni di memoria e d’apprendimento
sono migliorate.
In uno studio pubblicato in Alzheimer’s & Dementia : The Journal of the
Alzheimer’s Association, Maria Corrada e i suoi colleghi dell’Università
della California ad Irvine, hanno costatato che l’acido folico ad alte dosi
riduce il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer 2. 579 volontari ultrasessantenni sani, con capacità cognitive normali che hanno partecipato a
questo studio (Baltimore Longitudinal Study of Aging) hanno conservato
dall’inizio dello studio un diario alimentare che i ricercatori hanno utilizzato
per calcolare il loro apporto alimentare in vitamina B (acido folico, vitamina
B6 e B12) e in antiossidanti (vitamine E, C e carotenoidi).
Dopo nove anni in media, 57 dei partecipanti hanno sviluppato la malattia
di Alzheimer. Paragonando il diario alimentare di questi individui, i ricercatori hanno constatato che il rischio di sviluppare la malattia era significativamente più basso per le persone che avevano consumato almeno la
razione quotidiana di acido folico raccomandata. Non è stato possibile
stabilire un nesso con altri elementi nutritivi.
Non si conoscono i meccanismi attraverso i quali l’acido folico protegge
la funzione neuronale. I ricercatori hanno rilevato che l’aggunzione di
integratori di questa molecola sembra costituire un mezzo efficace per
assicurare un apporto adeguato.
99
Dal canto loro, Thomas Rea e i suoi colleghi dell’Università di Washington,
a Seattle, si sono basati sui dati di un ampio studio sulla salute cardiovascolare per valutare l’influenza delle statine sul rischio di sviluppare la malattia
di Alzheimer 3. Le statine sono dei farmaci utilizzati per ridurre i tassi del
colesterolo dannoso. Degli studi epidemiologici avevano suggerito che
esse potessero ridurre i tassi di demenza, ma i risultati non erano probatori.
Pubblicando i risultati in Archives of Neurology, il gruppo di Rea non ha
constatato una riduzione del rischio di sviluppo di una demenza nelle 2798
persone ultrasessantacinquenni in buona salute che partecipavano allo
studio Cardiovascular Health Cognition e che assumevano delle statine.
L’età media dei partecipanti, più elevata in questo studio rispetto ai precedenti, può avere influenzato i risultati. Gli autori ipotizzano che le statine
potrebbero offrire un beneficio se assunte da persone più giovani.
Nuovi approcci per curare la malattia di Alzheimer
Nel corso del 2005, come negli anni appena trascorsi, gli scienziati hanno
testato più forme di vaccini per la malattia di Alzheimer. Due gruppi di
ricercatori hanno scoperto degli indizi preliminari secondo i quali le facoltà
cognitive delle persone affette dalla malattia di Alzheimer potrebbero
migliorare con l’iniezione di anticorpi isolati da doni di sangue.
Marc Weksler e Norm Relkin, del Weill Cornell Medical Center, New York,
avevano osservato che i tassi di anticorpi che si legano alla proteina beta
amiloide erano inferiori al normale nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Da cui l’idea che la somministrazione di anticorpi provenienti da
persone in buona salute possa eliminare parte di questa molecola e quindi
rallentare la progressione della malattia. Questi anticorpi purificati, denominati immunoglobuline intravenose (IgIV), sono già utilizzate per il trattamento di altre malattie.
100
Per testare quest’ipotesi e valutare l’innocuità del prodotto, gli autori
hanno reclutato otto pazienti in uno studio di fase I 4. Secondo la comunicazione presentata nel corso del congresso annuale dell’American Academy
of Neurology (aprile 2005), il trattamento si è rivelato sicuro e ben tollerato.
I test che si basano su un numero così ristretto di pazienti non possono
essere considerati per determinare l’efficacia di un farmaco, tuttavia lo studio fornisce delle osservazioni preliminari che potrebbero segnare nuove
soluzioni terapeutiche. I test standard hanno evidenziato un miglioramento
Questo studio corrobora i risultati di un altro lavoro, pubblicato nel 2004
nel Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry da Richard Dodel e i
suoi colleghi 5. Il gruppo ha costatato in cinque pazienti affetti da malattia
di Alzheimer che assumevano delle IgIV, un miglioramento delle capacità
cognitive ed una riduzione della concentrazione di sostanza beta amiloide
nel liquido cefalorachidiano. I pazienti di questi due studi non hanno dimostrato nessun effetto collaterale, mentre degli studi precedenti realizzati
con un vaccino che stimolava il sistema immunitario dei pazienti a produrre
degli anticorpi contro la sostanza beta amiloide, avevano provocato delle
complicazioni.
I disturbi del pensiero e della memoria
delle capacità cognitive in sei dei sette pazienti che hanno potuto essere
seguiti per un tempo sufficientemente lungo. Nel settimo paziente non si è
verificato nessun miglioramento e il suo stato di salute non ha cessato di
deteriorarsi. I ricercatori hanno notato la riduzione della sostanza beta amiloide nel liquido cefalorachidiano, dato che suggerisce che la quantità di
questa molecola è diminuita anche nel cervello.
I due gruppi di ricercatori prevedono di estendere i loro test a dei gruppi di
pazienti più numerosi. Relkin e i suoi colleghi hanno progettato un test
d’efficacia nel corso del quale una parte di pazienti assumerà delle IgIV e
l’altra un placebo.
La malattia di Alzheimer è una patologia complessa. Molti ricercatori
consacrano i loro sforzi sulla sostanza beta amiloide, altri s’interessano
alla perdita delle sinapsi e dei neuroni che si producono in certe regioni
del cervello. Ipotizzando che la perdita dei neuroni e delle sinapsi
può essere l’origine del declino cognitivo, Mark Tuszynski e i suoi colleghi
dell’Università della California a San Diego, hanno cercato di determinare se lo stimolo della ricrescita neurale può rallentare la progressione
della malattia 6.
Il gruppo, che ha pubblicato i risultati in Nature Medicine, ha isolato delle
cellule della cute di otto pazienti affetti da una forma moderata di malattia
di Alzheimer. Alle cellule poste in coltura è stato inoculato un gene che
codifica per il fattore di crescita nervoso (NGF). Le cellule dotate del gene
NGF iperattivo sono state iniettate nella base del telencefalo dei pazienti.
Lo scopo era osservare se esse inducono, come nel topo, una ricrescita
neuronale che compensa la perdita di neuroni secondaria alla malattia
di Alzheimer.
101
Due pazienti sono stati vittime di un trauma cerebrale perché hanno
inavvertitamente mosso la testa nel corso della perfusione. Per evitare il
ripetersi di quest’incidente, sei altri pazienti sono stati operati in anestesia
generale. La valutazione realizzata 22 mesi dopo l’intervento non ha rivelato alcun effetto secondario a lungo termine e i test neuropsicologici
sembrano indicare che il declino cognitivo progredisce meno rapidamente. La tomografia ad emissione di positroni evidenzia nella regione
trattata un’intensificazione della circolazione sanguigna, che denota una
maggiore attività neuronale.
Uno dei due pazienti che ha subito una lesione nel corso dell’intervento è
deceduto in seguito ad un arresto cardiaco cinque settimane più tardi.
L’esame autoptico del suo cervello ha dimostrato che il NGF è stato efficace e che i neuroni restanti hanno sviluppato nuove connessioni nella vicinanza del luogo d’intervento. La prova di una reale efficacia non è ancora
stata fornita né per questo metodo, né per le IgIV, ma i dati preliminari sono
sufficientemente incoraggianti per giustificare nuovi test.
Emozioni e memoria
I momenti carichi di emozioni lasciano dei ricordi più profondi degli istanti
emotivamente neutri. I ricercatori sanno che l’amigdala, che è il centro del
cervello che tratta le emozioni, rinforza i ricordi particolarmente intensi. Un
gruppo diretto da Philip Shaw, ha scoperto nel 2005 degli indizi che
lasciano intendere che le vie di rinforzo che collegano l’amigdala ad altre
regioni del cervello si stabiliscono ad uno stadio precoce dello sviluppo 7.
I ricercatori hanno costatato che le persone vittime di lesioni bilaterali all’amigdala prima dell’età adulta, conservano un ricordo più chiaro degli
eventi neutri rispetto a quelli densi di emozioni. La preferenza per gli
eventi intensi era conservata nelle persone nelle quali l’amigdala era lesa in
età adulta in seguito a un intervento chirurgico destinato a trattare la loro
epilessia. Secondo questi dati riportati in Neurology, esiste un periodo di
sviluppo cerebrale determinante per lo stabilimento delle vie da cui
dipende la capacità di distinguere per tutta la vita le emozioni forti dagli
eventi neutri.
102
Dal canto loro, Elizabeth Kensinger e Daniel Schacter della Harvard University, hanno pubblicato in Neuropsychologia che l’amigdala e la corteccia
orbitofrontale sinistra sono implicati anche nel recupero dei ricordi emotivamente intensi, non solamente nel loro stoccaggio 8. Per determinare le
Per quest’ultimo esercizio, le persone erano sdraiate in un apparecchio per
la risonanza magnetica e i ricercatori osservavano le regioni del cervello
implicate nella ricerca del ricordo. L’ippocampo anteriore sinistro partecipa
al richiamo accurato dei due tipi d’oggetto. L’amigdala destra e la corteccia
orbitofrontale sinistra intervengono solamente nel recupero degli oggetti
con una connotazione emotiva, mentre il ricordo degli oggetti emotivamente neutri attiva la corteccia prefrontale inferiore e laterale oltre che
l’ippocampo posteriore destro.
I disturbi del pensiero e della memoria
regioni implicate nel richiamo dei ricordi sia neutri sia carichi di emozioni,
gli autori hanno mostrato a dei volontari una lista con delle parole emotivamente neutre (p. es. « rana ») combinate con parole a forte connotazione
emotiva (p. es. « bara ») e hanno chiesto ai soggetti di immaginare una rappresentazione per ogni parola. Nella seconda parte del test, metà delle
parole erano presentate ai volontari con la rappresentazione dell’oggetto,
l’altra metà era mostrata su uno schermo bianco. Nella terza parte del test,
i volontari dovevano dire se le immagini che erano loro mostrate appartenevano al gruppo delle « parole sole », a quello delle « parole associate alle
immagini » oppure a nessuno dei due.
Il fatto che le regioni del cervello attivate dal ricordo dipendano dal tipo
di ricordo, implica non solo che questi ricordi sono codificati diversamente quando entrano nel cervello ma anche che ne escono attraverso
vie distinte.
Le regioni del cervello associate al richiamo dei ricordi
Degli studi del comportamento sembrano indicare che la semplice familiarità che è possibile avere con un oggetto e il fatto di sapere con precisione
se quell’oggetto si è già visto in passato e in quale momento, non dipendono dalle stesse vie neuronali. Per sapere quali sono le regioni del cervello che partecipano a questi compiti e fino a quale punto queste regioni
si sovrappongono, Andrew Yonelinas e un gruppo dell’Università della
California a Davis, hanno immaginato di stimolare queste attività e osservare i risultati con l’ausilio della risonanza magnetica funzionale 9.
Lo studio si è svolto in due fasi durante le quali i volontari dovevano rimanere sdraiati in uno scanner per registrare l’attività cerebrale. Nella prima
fase, i volontari hanno osservato delle parole di cui dovevano dire se evocavano dei concetti astratti o concreti. Nella seconda fase è stata presentata un’altra serie di parole che comprendeva termini della prima lista e
103
parole nuove. I volontari dovevano affermare se queste parole evocavano
qualcosa di particolare per loro, se ricordavano di averle già viste nella
prima parte del test o se rammentavano cosa avevano pensato mentre le
vedevano. Nel caso in cui non ricordavano nulla di preciso, dovevano indicare su una scala da 1 a 4, fino a quale punto si ricordavano di averle viste
nella prima fase del test.
I ricercatori sostengono nel Journal of Neuroscience che i diversi tipi di
ricordo implicano diverse regioni del cervello. Per il ricordo specifico, la
parte anteriore mediale della corteccia prefrontale, la corteccia parietale
laterale e il cingolo posteriore. Per la semplice familiarità, le regioni laterali
implicate sono la corteccia prefrontale, la corteccia parietale superiore e il
precuneo. L’ippocampo partecipa al ricordo specifico ma l’intervento è
meno attivo per gli oggetti familiari rispetto a quelli poco familiari.
In una ricerca dello stesso tipo, pubblicata in Human Brain Mapping,
Martina Piefke e i suoi colleghi del Medizininstitut di Jülich in Germania,
affermano di avere constatato che le regioni cerebrali coinvolte dal
richiamo dei ricordi autobiografici con una forte carica emotiva, che fanno
parte della memoria episodica, non sono gli stessi negli uomini e nelle
donne 10. Numerose differenze di trattamento neuronale erano già state
104
I luoghi della memoria
Sullo schermo del computer della ricercatrice Martina Piefke, appaiono le immagini
dell’attività di un cervello maschile e di uno femminile durante un esercizio mnemonico.
Il gruppo di Piefke ha scoperto che gli uomini e le donne utilizzano parti diverse del loro
cervello quando ricordano degli eventi emotivamente importanti.
Il gruppo di Piefke ha domandato a dieci uomini e dieci donne di ricordare
degli eventi emotivamente negativi o positivi che si sono svolti in un
periodo recente della loro vita e nel corso dell’infanzia. I ricercatori non
hanno evidenziato delle differenza nella capacità soggettiva di evocare dei
ricordi, tuttavia delle diversità dell’attività connessa al sesso sono state
osservate per certe regioni del cervello. Molte regioni sono utilizzate sia
dagli uomini che dalle donne, ma con un’attività più pronunciata negli
uomini nel giro paraippocampale sinistro per i due tipi di compiti (negativipositivi e recenti-vecchi). Nelle donne invece è stato osservato un contributo più netto della corteccia prefrontale dorsolaterale destra per tutti i tipi
di stimoli e della corteccia insulare destra per il richiamo dei ricordi negativi
o vecchi.
I disturbi del pensiero e della memoria
osservate tra i due sessi. È noto per esempio, che gli uomini sono più dotati
per i compiti spaziali, le donne per quelli verbali. Le donne sembrano conservare degli eventi della loro vita dei ricordi più dettagliati e più intensi,
nessuno però aveva esplorato le differenze di trattamento neuronale che
sottendono queste osservazioni. Le teorie ipotizzate per spiegare i ricordi
più dettagliati riportati dalle donne sono due : il vissuto degli eventi è più
intenso e di conseguenza la loro codifica è più forte ; le donne utilizzano
una strategia cognitiva diversa che influenza il modo in cui immagazzinano
e richiamano i ricordi.
Non avendo evidenziato delle differenze statisticamente significative tra gli
uomini e le donne per quel che concerne la capacità di ricordare, questo
studio sembra indicare che le donne utilizzano per codificare, narrare e
pensare i ricordi emotivamente importanti delle strategie cognitive diverse
da quelle degli uomini e che queste strategie sembrano essere più efficaci.
La conclusione degli autori è che non esiste una differenza nell’efficienza
di stoccaggio della memoria, anche se le regioni del cervello messe in
gioco per la realizzazione dei compiti sono in parte diverse.
105
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P. 26:
Photograph courtesy of Thomas Insel
Photograph courtesy of Marcus Raichle
Photographs courtesy of Marilyn Albert and Guy McKhann
Will & Deni McIntyre / Science Photo Library
Reprinted with permission from the American Journal of Psychiatry, (© 2005). American
Psychiatric Association.
P. 29: Screen captures courtesy of Dr. Geraldine Dawson
P. 31: © Royalty-Free / Corbis
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P. 39: John Bavosi / Science Photo Library
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P. 55: Brand X Pictures
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P. 63: Romilly Lockyer / Brand X Pictures
P. 67: Graph courtesy of Luda Diatchenko
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P. 73: Photograph courtesy of Dr. Andreas Meyer-Lindenberg, NIH/NIMH
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P. 84: Illustration courtesy of Gary Aston-Jones and Glenda-Harris
P. 85: Photograph by Les Todd
P. 89: Bill Longcore / Science Photo Library
P. 92: Photograph courtesy of Fred Gage, The Salk Institute
P. 97: Anthony Harvie / Getty Images
P. 98: Science Photo Library
P. 104: Photograph courtesy of Martina Piefke
118
Immaginate
un mondo . . .
…
in cui la malattia di Alzheimer, la malattia
di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica,
la retinite pigmentosa e le altre cause di
cecità, saranno facilmente diagnosticate ad
uno stadio precoce e immediatamente curate
con medicinali che ne impediscono il deterioramento prima che le lesioni divengano
troppo gravi.
… in cui saranno noti i fattori ambientali
e genetici che predispongono le persone
alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi test diagnostici e dei trattamenti mirati
– medicinali, sostegno psicologico, interventi
preventivi – disponibili e utilizzati su vasta
scala.
… in cui le nuove conoscenze sullo sviluppo
del cervello permetteranno sia di trarre un
maggior beneficio dai primi anni di apprendimento sia di combattere le patologie associate
all’età.
…
in cui le lesioni del midollo spinale non
saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché
sarà possibile programmare il sistema nervoso
così da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire
l’attività muscolare.
… in cui gli individui non saranno più
schiavi delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, perché esisteranno dei trattamenti
facilmente accessibili, che agendo a livello
delle vie nervose permetteranno d’interrompere i fenomeni responsabili delle crisi di astinenza e il bisogno impellente di consumare
delle sostanze generatrici di dipendenza.
…
in cui la vita delle persone non sarà
più in balia della depressione e dell’ansia
perché per curarle disporremo di efficaci
medicinali.
120
Anche se tale visione può sembrare irreale ed
utopica, stiamo vivendo un momento della
storia delle neuroscienze straordinariamente
promettente e fecondo. I progressi realizzati
dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio,
oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze sui meccanismi fondamentali del funzionamento cerebrale si sono ampliate e oggi
possiamo cominciare a trarre un beneficio
pratico dal loro potenziale.
Abbiamo già cominciato a concepire delle
strategie, delle nuove tecniche e delle terapie
per combattere differenti malattie e disturbi
neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici e applicando le conoscenze attuali, sarà
possibile sviluppare dei trattamenti efficaci
che, in alcuni casi, permetteranno di ottenere
la guarigione completa.
I grandi progressi delle neuroscienze ci permettono inoltre di valutare l’entità di ciò che
ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce senza dubbio uno stimolo che sprona
la ricerca fondamentale ad esplorare questioni più ampie sul funzionamento della
materia vivente, per formulare le domande di
ordine complesso che portano alle scoperte
scientifiche.
La ricerca clinica e fondamentale svolta in
modo coordinato da migliaia di scienziati, ha
generato un insieme di conoscenze nelle
diverse discipline, che variano dagli studi
delle strutture molecolari e dei medicinali, alla
visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive e alla ricerca clinica, che possono essere
messe al servizio della lotta contro le malattie
e i disturbi neurologici.
Come scienziati continueremo a progredire
sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti,
sia cooperando con i nostri colleghi di altri
campi scientifici, moltiplicando le occasioni di
collaborazioni interdisciplinari.
La Dana Alliance for Brain Initiatives e la European Dana Alliance for the Brain riuniscono
degli specialisti nelle neuroscienze pronti
ad intraprendere progetti ambiziosi, come
abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold
Spring Harbor, New York, dove fu stabilito un
vero e proprio calendario di ricerca per gli
Stati Uniti e una seconda volta nel 1997,
quando si è costituito il gruppo europeo con
i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora,
da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare nuovi scopi per orientare i progressi che
possono essere realizzati a corto e a medio
termine. Provando ad immaginare i futuri benefici, cerchiamo di accelerare l’andamento di
questa nuova era delle neuroscienze, per
riuscire a raggiungere più rapidamente gli
obiettivi prefissati.
Gli obiettivi
Combattere gli effetti devastanti della
malattia di Alzheimer. In questa patologia si
osserva il deposito cerebrale di una piccola
frazione proteica denominata proteina amiloide, estremamente tossica per le cellule
nervose. Grazie alla sperimentazione animale
oggi si conosce il meccanismo biochimico e
genetico di quest’accumulo. Utilizzando il
modello animale sono stati sviluppati nuovi
medicinali e un vaccino potenzialmente efficace, sia per prevenire il deposito della proteina amiloide sia per cercare di rimuoverlo.
Tali terapie che saranno prossimamente sperimentate nell’uomo, offrono la speranza
di combattere efficacemente questo meccanismo patologico.
Scoprire la miglior terapia per la malattia di
Parkinson. I medicinali che agiscono sulle vie
dopaminergiche del cervello, hanno dato
buoni risultati nel trattamento dei disturbi
motori nella malattia di Parkinson. Sfortunatamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni
questo effetto terapeutico tende a diminuire.
Attualmente sono in via di sviluppo nuove
molecole che cercano, da un lato di prolungare l’azione dei medicamenti dopaminergici,
dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale
che è all’origine della malattia. Per i pazienti
che non rispondono alla terapia medicamentosa, esiste la possibilità di trarre un beneficio
dall’approccio chirurgico denominato stimolazione cerebrale profonda. Nuove forme di
visualizzazione cerebrale permetteranno di
determinare se questi trattamenti riescono a
salvare i neuroni dalla distruzione e a ristabilire
il normale funzionamento dei circuiti neurali.
Immaginate un mondo ...
La fiducia del pubblico nella scienza è essenziale per adempiere la nostra missione. Il dialogo tra i ricercatori e la gente sarà basilare
soprattutto in considerazione delle conseguenze etiche e sociali del progresso della
ricerca sul cervello.
Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e
perfezionare il trattamento degli episodi
acuti. Smettere di fumare, mantenere il tasso
di colesterolo e il peso corporeo a livelli ragionevoli con un’alimentazione e un’attività fisica
appropriate, sono, associati al depistaggio e al
trattamento del diabete, i modi per ottenere
una diminuzione spettacolare del numero degli
incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardiache. Nel caso degli ictus, con una diagnosi
ed un intervento precoce, il paziente migliora
rapidamente e i postumi della malattia sono
minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti
volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti
cerebrovascolari sulle cellule del cervello. Le
nuove tecniche di riabilitazione, che traggono
profitto dalle conoscenze sulla capacità del
cervello di recuperare dopo un trauma, permetteranno di progredire in questa via.
Sviluppare trattamenti più efficaci per i disturbi dell’umore come la depressione, la
schizofrenia, i disturbi ossessivi e il disturbo bipolare. Grazie alla determinazione della 121
sequenza del genoma umano, saranno scoperti i geni che predispongono ad alcune di
queste malattie. Le recenti tecniche di visualizzazione cerebrale offriranno l’opportunità
di osservare l’azione esercitata da questi geni
nel cervello. Sarà quindi possibile esaminare
la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone colpite dalle patologie dell’umore. Disporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di
medicinali già esistenti sarà più efficace e la
ricerca porrà nuove basi teoriche per sviluppare agenti terapeutici innovativi.
Scoprire le cause genetiche e neurobiologiche dell’epilessia e migliorarne il trattamento. Comprendere l’origine genetica dell’epilessia e i meccanismi neurologici che
scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per
una diagnosi preventiva e per trattamenti
mirati. I progressi realizzati nel campo delle
terapie chirurgiche offriranno in futuro delle
alternative terapeutiche molto preziose.
Scoprire vie innovative per prevenire e
curare la sclerosi multipla. Per la prima volta
disponiamo di medicinali che modificano il de
corso di questa malattia. Queste nuove molecole alterano le risposte immunitarie dell’organismo, riducendo il numero e la gravità
delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di
arrestare la progressione a lungo termine
della sclerosi multipla, che è dovuta alla
distruzione delle fibre nervose.
Sviluppare dei trattamenti più efficaci per i
tumori del cervello. Molte forme di tumori
cerebrali sono difficili da curare, soprattutto
quelle maligne o secondarie a tumori di origine non cerebrale. Le tecniche di visualizzazione, la radioterapia mirata, i differenti
metodi che trasportano le sostanze medicamentose al tumore, così come l’identificazione di marker genetici, faciliteranno la diagnosi e permetteranno di sviluppare nuove
122 piste terapeutiche.
Migliorare il recupero dopo lesioni traumatiche al cervello o al midollo spinale. Attualmente sono allo studio dei trattamenti che
limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi
e si sperimentano sostanze che promuovono
il ristabilimento delle connessioni nervose.
Ben presto alcune tecniche di rigenerazione
cellulare che permettono la sostituzione dei
neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo
stadio della sperimentazione animale ai test
clinici sull’uomo. Da segnalare anche il trapianto di microchip miniaturizzati che controllano i circuiti nervosi e ridanno una certa
mobilità agli arti paralizzati.
Trovare soluzioni innovative per la gestione
del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato. La ricerca sulla sua origine e sui
meccanismi neurologici che lo mantengono,
fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli
strumenti di cui necessitano per sviluppare
dei trattamenti antalgici efficaci e mirati.
Combattere la tossicodipendenza all’origine, nel cervello. I ricercatori hanno identificato i circuiti nervosi implicati in ognuno dei
differenti tipi di dipendenza e hanno clonato
alcuni dei recettori più importanti di queste
sostanze. I progressi realizzati nella visualizzazione cerebrale, identificando i meccanismi
neurobiologici che trasformano un cervello
normale in un cervello sottomesso alla dipendenza, permetteranno di sviluppare dei trattamenti per annullare o compensare tali alterazioni.
Comprendere i meccanismi cerebrali implicati nella risposta allo stress, all’ansia e alla
depressione. La salute mentale è il requisito
indispensabile per una buona qualità di vita.
Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare la vita delle persone, possono avere
un effetto devastante sulla società. Se capiremo meglio i meccanismi della risposta allo
stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e
La strategia
Trarre vantaggio delle conoscenze fornite
dalla genomica. Disponiamo oggi della sequenza completa dei geni che costituiscono il
genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a
15 anni avremo la possibilità di stabilire quali
geni sono attivi in ogni regione del cervello, in
tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale a quella adulta, passando dall’infanzia e
dall’adolescenza. Sarà allora possibile identificare nelle diverse patologie neurologiche o
psichiatriche, i geni alterati e le proteine assenti
o anormali. Questo approccio ha già permesso agli scienziati di stabilire l’origine genetica di malattie come la corea di Huntington,
l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare e la sindrome del cromosoma X fragile.
Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue
applicazioni nella diagnosi clinica, promettono di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria e rappresentano una delle maggiori
sfide delle neuroscienze. La disponibilità di
un nuovo e potente strumento, i microchip di
DNA, accelererà notevolmente questo processo aprendo nuove vie per la diagnosi clinica e la concezione di nuovi trattamenti.
Applicare le nostre conoscenze sullo sviluppo del cervello. Dal concepimento alla
morte, il cervello passa attraverso differenti
stadi dello sviluppo con periodi di vulnerabilità e di crescita che possono essere favoriti
oppure ostacolati. Per migliorare il trattamento dei disturbi dello sviluppo come l’autismo, i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà dell’apprendimento, le neuroscienze
dovranno elaborare un quadro più dettagliato
dello sviluppo cerebrale. Siccome il cervello è
l’unico organo ad avere dei problemi specificamente collegati agli stadi dello sviluppo
come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le
trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà di sviluppare trattamenti efficaci.
Utilizzare l’enorme potenziale offerto dalla
plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla
neuroplasticità, cioè dalla capacità del cervello di adattarsi e di modellarsi, i neuroscienziati faranno progredire le terapie per le malattie neurodegenerative e offriranno metodi
per migliorare la funzione cerebrale sia nei
soggetti sani sia nelle persone malate. Nei
prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione
cellulare e di promozione della formazione di
nuove cellule neurali, daranno l’opportunità
di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus
cerebrali, i traumi del midollo spinale e la
malattia di Parkinson.
Immaginate un mondo ...
nella depressione, sapremo sviluppare delle
strategie preventive e dei trattamenti efficaci.
Comprendere l’essenza dell’essere umano.
Come funziona il cervello ? Oggi gli specialisti
nelle neuroscienze sono in grado di porre le
grandi domande sul funzionamento del cervello dell’uomo e di fornire le prime risposte.
Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi che permettono all’essere umano di formare dei ricordi, di prestare attenzione, di
percepire ed esprimere delle emozioni, di
prendere delle decisioni, di utilizzare il linguaggio, di essere creativo ? Lo sforzo per
sviluppare una teoria del funzionamento
cerebrale, offrirà importanti opportunità per
massimizzare il potenziale dell’essere umano.
Gli strumenti
La sostituzione cellulare. I neuroni adulti
non possiedono la facoltà di riprodursi per
sostituire le cellule perse in seguito a traumi o
a malattie. Le tecniche che utilizzano la capacità delle cellule staminali neurali (i progenitori dei neuroni) di differenziarsi in neuroni,
potrebbero rivoluzionare il trattamento delle
patologie neurologiche. Il trapianto delle cellule staminali neurali, correntemente usato 123
nella sperimentazione animale, sarà ben presto applicato all’uomo. Controllare lo sviluppo
di queste cellule, dirigerle verso le precise
regioni del cervello e indurle a stabilire le
connessioni appropriate, sono le mollèterie
questioni sulle quali la ricerca lavora senza
sosta.
I meccanismi di riparazione neurali. Utilizzando i meccanismi di riparazione propri del
sistema nervoso, che in alcuni casi rigenerano
i neuroni e in altri ristabiliscono i circuiti, il cervello ha la capacità di « riparare se stesso ».
Rinforzare questa capacità significa ridare una
speranza di guarigione alle persone vittime di
traumi cranici o di lesioni del midollo spinale.
Delle tecniche per arrestare o prevenire la
neurodegenerazione. Molte patologie come
la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la corea Huntington o la sclerosi laterale
amiotrofica, sono la conseguenza della degenerazione di una specifica popolazione di cellule in una determinata regione cerebrale. I
trattamenti attuali agiscono unicamente sul
sintomo, non alterano la perdita progressiva
dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi che sottendono la morte cellulare, offriranno metodi per prevenire la degenerazione
cellulare e quindi arrestare la progressione di
queste malattie.
Le tecniche che modificano l’espressione
genetica nel cervello. Nell’animale da laboratorio è possibile rinforzare oppure bloccare
l’azione che certi geni specifici esercitano sul
cervello. Attualmente le mutazioni genetiche
che provocano nell’uomo malattie neurologiche come la corea di Huntington e la sclerosi
laterale amiotrofica, sono sperimentate nei
modelli animali per scoprire dei trattamenti
capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione. Queste tecniche hanno fornito tra
l’altro dati interessanti sul normale funzio124 namento del cervello durante lo sviluppo,
l’apprendimento e la formazione dei ricordi.
La modulazione dell’espressione dei geni è
uno degli strumenti più efficaci per studiare i
fenomeni normali e patologici del cervello, in
futuro potrà essere utilizzata per curare
numerosi disturbi cerebrali.
I progressi delle tecniche di visualizzazione. Sono stati effettuati notevoli progressi
nella visualizzazione strutturale e funzionale
del cervello. Sviluppando delle tecniche in cui
l’immagine della funzione cerebrale è dettagliata e rapida quanto le funzioni stesse,
avremo a disposizione delle immagini in
tempo reale. Queste tecnologie permetteranno allora ai ricercatori di osservare le
regioni del cervello implicate nella riflessione,
nell’apprendimento e nelle emozioni.
Dispositivi elettronici capaci di sostituire le
vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo
futuro sarà certamente possibile aggirare le
vie cerebrali non funzionali utilizzando dei
microelettrodi capaci di registrare l’attività
cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire l’attività del cervello in segnali elettrici
che saranno inviati al midollo spinale, ai nervi
motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti
costituiti da batterie di questi elettrodi collegati a dispositivi informatizzati e miniaturizzati, ridaranno speranza alle persone che
hanno subito una lesione permettendo il
recupero dell’integrità funzionale.
I nuovi metodi della ricerca farmaceutica. I
progressi realizzati nel campo della biologia
strutturale, della genomica e della chimica
computerizzata, permettono ai ricercatori di
creare una quantità di molecole senza precedenti, molte delle quali possiedono un grande
interesse clinico. In determinati casi le nuove
tecniche di screening ad alto flusso, utilizzate
in particolare dalle « gene chips » e da altre
tecnologie, potranno diminuire il tempo che intercorre tra la scoperta di un nuovo principio
Immaginate un mondo ...
attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni
casi la riduzione di tempo passerà da diversi
anni a qualche mese.
125
Members of EDAB
AGID Yves* Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France
AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland
ANDERSEN Per* University of Oslo, Norway
ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal
AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France
AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain
CHERNISHEVA Marina University of St
Petersburg, Russia
CHVATAL Alexandr Institute of Experimental
Medicine ASCR, Prague, Czech Reuplic
CLARAC François CNRS, Marseille, France
CLEMENTI Francesco* University of Milan, Italy
COLLINGRIDGE Graham* University of Bristol, UK
BADDELEY Alan University of York, UK
BARDE Yves-Alain* University of Basel, Switzerland
BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias,
Alicante, Spain.
BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier
University of Grenoble, France
BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marseille,
France
BENFENATI Fabio University of Genova, Italy
BERGER Michael University of Vienna, Austria
BERLUCCHI Giovanni* Università degli Studi di
Verona, Italy
BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma,
Italy
BERTHOZ Alain* Collège de France, Paris, France
BEYREUTHER Konrad* University of Heidelberg,
Germany
CUÉNOD Michel* University of Lausanne,
Switzerland
CULIC Milka University of Belgrade, Yugoslavia
DAVIES Kay* University of Oxford, UK
DELGADO-GARCIA Jose Maria Universidad
Pablo de Olavide, Seville, Spain; President of the
Spanish Neuroscience Society
DICHGANS Johannes University of Tübingen,
Germany
DOLAN Ray University College, London, UK
DUDAI Yadin* Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences,
Tihany, Hungary; President of the Hungarian
Neuroscience Society
BJÖRKLUND Anders* Lund University, Sweden
ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir,
Turkey
BLAKEMORE Colin* Medical Research Council, UK
EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany
BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France
BORBÉLY Alexander University of Zurich,
Switzerland
FERRUS Alberto* Instituto Cajal, Madrid,
Spain
BRANDT Thomas University of Munich, Germany
FIESCHI Cesare University of Rome, Italy
BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden
FOSTER Russell University of Oxford, UK
BUDKA Herbert University of Vienna, Austria
FRACKOWIAK Richard* University College
London, UK; President of the British Neuroscience
Association
BUREŠ Jan* Academy of Sciences, Prague, Czech
Republic
BYSTRON Irina University of St Petersburg, Russia
FREUND Hans-Joachim* University of Düsseldorf,
Germany
CARLSSON Arvid University of Gothenburg,
Sweden
FREUND Tamás University of Budapest, Hungary;
CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris,
France
FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich,
Switzerland
President of FENS
GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid,
Spain
KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg,
Austria
GISPEN Willem* University of Utrecht, The
Netherlands
KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for
Molecular Medicine, Berlin, Germany
GJEDDE Albert* Aarhus University Hospital,
Denmark
KORTE Martin Technical University Braunschweig,
Germany
GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris,
France
KOSSUT Malgorzata* Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland.
GREENFIELD Lady Susan The Royal Institution of
Great Britain, London, UK
KOUVELAS Elias University of Patras, Greece
GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine,
St Petersburg, Russia
GRILLNER Sten* Karolinska Institute, Stockholm,
Sweden
HARI Riitta* Helsinki University of Technology,
Espoo, Finland
HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey;
President of the Turkish Neuroscience Society
HERMANN Anton University of Salzburg, Austria
HERSCHKOWITZ Norbert* University of Bern,
Switzerland
HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris,
France
KRISHTAL Oleg* Bogomoletz Institute of
Physiology, Kiev, Ukraine
LANDIS Theodor* University Hospital Geneva,
Switzerland
LANNFELT Lars University of Uppsala,Sweden
LAURITZEN Martin University of Copenhagen,
Denmark
LERMA Juan Instituto de Neurociencias, CSICUMH, Alicante, Spain
LEVELT Willem* Max-Planck-Institute for
Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands
LEVI-MONTALCINI Rita* EBRI, Rome, Italy
LIMA Deolinda University of Porto, Portugal
HOLSBOER Florian* Max-Planck-Institute of
Psychiatry, Munich, Germany
LOPEZ-BARNEO José* University of Seville, Spain
HOLZER Peter University of Graz, Austria
MAGISTRETTI Pierre J.* University of Lausanne,
Switzerland
HUXLEY Sir Andrew* University of Cambridge, UK
INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute,
Stockholm, Sweden
IVERSEN Leslie University of Oxford, UK
IVERSEN Susan* University of Oxford, UK
MALACH Rafael Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
MATTHEWS Paul University of Oxford, UK
McDONALD William* Royal College of Physicians,
London, UK
MEHLER Jacques* SISSA, Trieste, Italy.
JACK Julian* University of Oxford, UK
MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel
JEANNEROD Marc* Institut des Sciences
Cognitives, Bron, France
MONYER Hannah* University Hospital of
Neurology, Heidelberg, Germany
JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden
MORRIS Richard* University of Edinburgh,
Scotland; President-elect FENS
KACZMAREK Leszek Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland.
KASTE Markku University of Helsinki, Finland
NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical
Chemistry, Göttingen, Germany
KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva,
Switzerland
NIETO-SAMPEDRO Manuel* Instituto Cajal,
Madrid, Spain
KENNARD Christopher Imperial College School
of Medicine, London, UK
NOZDRACHEV Alexander State University of
St Petersburg, Russia
OERTEL Wolfgang* Philipps-University, Marburg,
Germany
SINGER Wolf* Max-Planck-Institute for Brain
Research, Frankfurt, Germany
OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen,
Denmark; Chairman European Brain Council
SMITH David University of Oxford, UK
ORBAN Guy* Catholic University of Leuven, Belgium
SPEKREIJSE Henk* University of Amsterdam,
The Netherlands
SPERK Günther University of Innsbruck, Austria
PARDUCZ Arpad Institute of Biophysics, Biological
Research Center of the Hungarian Academy of
Sciences, Szeged, Hungary
PEKER Gonul University of Ege Medical School,
Izmir, Turkey.
PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de
France, Paris, France
POCHET Roland Université Libre de Bruxelles,
Belgium
POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie,
Innsbruck, Austria
POULAIN Dominique Université Victor Segalen,
Bordeaux, France; President of the French
Neuroscience Society
PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale
Supérieure, Paris, France
PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow,
Poland
STEWART Michael The Open University, Milton
Keynes, UK
STOERIG Petra* Heinrich-Heine University,
Düsseldorf, Germany
STRATA Pierogiorgio* University of Turin, Italy
SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine
ASCR, Prague, Czech Republic
THOENEN Hans* Max-Planck-Institute for
Psychiatry, Martinsried, Germany
TOLDI József University of Szeged, Hungary
TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain
TSAGARELI Merab Beritashvili Institute of
Physiology, Tblisi, Republic of Georgia
VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology,
Krakow, Poland
VIZI Sylvester* Hungarian Academy of Sciences,
Budapest, Hungary
RAFF Martin* University College London, UK
RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology,
University College London, UK
WALTON Lord of Detchant* University of
Oxford, UK
RIBEIRO Joaquim Alexandre University of
Lisbon, Portugal
WINKLER Hans* Austrian Academy of Sciences,
Innsbruck, Austria
RIZZOLATTI Giacomo* University of Parma, Italy
WOLLBERG Zvi Hebrew University, School of
Medicine, Israel
ROSE Steven The Open University, Milton Keynes,
UK
ROTH Sir Martin* University of Cambridge, UK
ZEKI Semir* University College London, UK
ROTHWELL Dame Nancy University of
Manchester, UK
ZILLES Karl* Heinrich-Heine-University,
Düsseldorf, Germany
RUTTER Sir Michael King’s College London, UK
SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical
Research, Heidelberg, Germany
SCHWAB Martin* University of Zurich, Switzerland
SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel
SHALLICE Tim* University College London, UK
*original signatory to the EDAB Declaration
Federation of European Neuroscience Societies
Presidents / Term Members
WOLLBERG Zvi Israel Society for Neuroscience,
Tel Aviv University, Israel
ARTIGAS Francesc Spanish Society of
Neuroscience, University of Barcelona, Spain
ZAGREAN Leon National Neuroscience Society of
Romania, Carol Davila University of Medicine,
Bucharest, Romania
BARTH Friedrich G. Austrian Academy of
Sciences, Austria
BOER Gerard Dutch Neurofederation, Netherlands
Institute for Brain Research The Netherlands
BRESJANAC Marja Slovenian Neuroscience
Association (SINAPSA), Ljubljana, Slovenia
CASTRÉN Eero Brain Research Society of Finland,
University of Helsinki, Finland
DE SCHUTTER Erik Belgian Society for
Neuroscience, University of Antwerp, Belgium
DI CHIARA Gaetano University of Cagliari,
FRANDSEN Aase Danish Society for Neuroscience,
Copenhagen University Hospital, Denmark
HEISS Dieter European Federation of Neurological
Societies, University of Köln, Germany
HOFFMANN Klaus-Peter German Neuroscience
Society, Ruhr-Universität Bochum, Germany
HUCHO Ferdinand European Society for
Neurochemistry, Freie Universität Berlin, Germany
KHECHINASHVILI Simon Georgian Neuroscience
Association, Beritsashvili Institute of Physiology,
Tblisi, Republic of Georgia
KOSTOVIC Ivica Institute for Brain Research,
Zagreb, Croatia
MENDLEWICZ Julien European College of
Neuropsycopharmacology, ULB Erasme Hospital,
Brussels, Belgium
PRZEWLOCKI Ryszard Polish Neuroscience
Society, Polish Academy of Sciences, Krakow,Poland
ROUGON Geneviève Institut de Biologie
du développement de Marseille CNRS, France
ROUILLER Eric M. Swiss Society of Neuroscience,
University of Fribourg, Switzerland
SAGVOLDEN Terje Norwegian Neuroscience
Society, University of Oslo, Norway
SEBASTIÃO Ana Portuguese Society for
Neuroscience, University of Lisbon, Portugal
STYLIANOPOULOU Fotini Hellenic Society for
Neuroscience, University of Athens, Greece
SYKA Josef Czech Neuroscience Society, Academy
of Sciences, Prague, Czech Republic
May 2006
A Dana Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB,
the European subsidiary of DABI
Stampato in Svizzera 6.2006
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Imaging Cerebrale