DONATELLA RASI
«L’AMICO DEGLI ANNI MIEI PRIMI»:
NOTE SUL CARTEGGIO TOMMASEO-FILIPPI
La carta scritta è come un verbo incarnato.
N. Tommaseo, lettera a Niccolò Filippi
«L’amicizia è una seconda maternità, una tanto consumata annegazione di sé quanto alle forze umane è concesso» (1), scriveva Tommaseo
nelle Scintille, e fra coloro che gli avevano voluto bene e «ai cui colloqui» sentiva di dovere «la vita del pensiero», con affetto particolarissimo, diceva del trentino Niccolò Filippi:
Quel tratto tra di campagnolo e di vecchio, indizio d’anima schietta e
forte, fermò su te gli occhi miei. Alle prime parole noi due selvaggi fummo insieme domestici: la prima sera, tu al mio, ed io te accompagnai all’uscio tuo: e tu da capo, non sazi della nuova dolcezza. E a te non ben
noto, io scrissi come a fratello; te dal primo presentii amico immutabile.
Oh le serate non gaie ma liete d’intendente sorriso, e d’alti desiderii e di
lacrime, che passammo fratel mio insieme! Oh le cene protratte a ragionare delle glorie d’Italia e delle caste gioie dell’arte! Oh i notturni passeggi per infino all’aurora lungo il placido fiume. In te la potente semplicità
d’affetti. Ne’ tuoi colloqui trovai la parola che va rotata e diritta nel segno. Per lodare un concetto e’ diceva: grande! Per lodare un’anima, e’ la
chiamava fonda. Me non lodava in parole, ma col sorriso, mal represso,
delle labbra e degli occhi. E i difetti miei pativa, egli sdegnoso. Oh che
severa e candida tenerezza!
Visitai lui lontano, i suoi bei colli natii, là dove il Tirolo s’ingentilisce e
allegra nel baciare l’Italia, e Italia è già. Visitai la sua casa; conobbi sua
madre: egli, in sapendolo, pianse.
Mentre tu nel tuo villaggio ti pasci della Bibbia e di Dante, o scorri cacciatore ne’ monti, o contempli le patrie colline scendere adagio e salire nel
(1) N.TOMMASEO, Scintille, Lanciano, Carabba 1926, p. 172.
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
sereno orizzonte; e mentre io sfango per ascoltare con ribrezzo e con vergogna le parole serve di qualche professore venduto del Collegio di Francia;
mentre beo questo latte ch’è amido, e questo vino ch’è acquavite allungata,
e quest’acqua ch’è lavatura di cessi e di carogne; e mentre d’un raggio di
sole che tra scossa e scossa faccia capolino e dispaia, ringrazio Iddio come
di gioia miracolosa, le nostr’anime, spero, si rincontrano in vita, e, come
uccelli da diverso vegnenti, si parlano in loro linguaggio, e volano (2).
Letterati di confine con una solidissima quanto arretrata preparazione classica come identico retroterra culturale, Tommaseo e Filippi si conoscono in quel 1820, che per il Dalmata coincide col «vero aprirsi del
[suo] povero ingegno» (3), a Padova dove, con analoga insofferenza, studiano legge. Sarà l’umbratile e schivo Filippi, l’amico «della giovinezza,
l’amico di una vita», a fargli «provare civili affetti con forza» (4) e ad
insegnargli ad amare «la poesia, cioè la vita». Nel Diario intimo il nome
del Filippi compare in una sorta di personalissimo Pantheon di «uomini e donne» che molto avevano contato nella vita dello scrittore dalmata,
dai grandi come Lamennais, Manzoni, Vieusseux, Capponi, Pepe,
Lambruschini, Rosmini, a maestri come Melan, ad amici come Dudan,
Grassi, Marinovich, fino all’umile Giuseppa Catelli (5), mentre ha il
timbro di un primo bilancio il ritratto compreso negli Studi critici, come
«ingegno al quale le opportunità mancarono per mostrarsi nella nativa
potenza: amico, i cui colloqui ricorderò sempre come educatori dell’anima mia» (6).
(2) Ivi, p. 179-180. Su Niccolò Filippi di Civezzano (1798-1850) la cui pur esigua
produzione poetica fu apprezzata dai suoi conterranei (cfr. Scelta di poesie edite ed
inedite di di varij autori tirolesi, curata da A. Negri e A. Gazzoletti, Trento, Monauni
1830), si vedano le note biografiche in F. AMBROSI, Scrittori e artisti trentini, Trento,
Zippel 1894, p. 106. Sui rapporti tra l’ambiente culturale veneto e quello trentino cfr.
G.B. EMMERT, Da un carteggio inedito di F.A. Marsilli con letterati veneti dell’Ottocento, (1828-1863), «Archivio Veneto», 1952, L-LI, pp.3-29; M. GARBARI, Il Trentino e la
sua partecipazione alla cultura veneta, in AA.VV., Unità e diffusione della cultura veneta,
Venezia, Associazione degli scrittori veneti 1975, pp. 135-144; Rovereto, il Tirolo,
l’Italia; dall’invasione napoleonica alla Belle Époque., voll. I-II, a cura di M. Allegri,
Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati 2001.
(3) N. TOMMASEO, Memorie Poetiche, edizione critica a cura di M. Pecoraro, Bari,
Laterza 1964, p. 34.
(4) Ivi, p. 306.
(5) N. TOMMASEO, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino, Einaudi 1946,
p. 195.
(6) N. TOMMASEO, Studi critici, Venezia, Andruzzi 1843, p. 411. Un ultimo cenno
all’amicizia col Filippi è nella commemorazione del Rosmini apparsa nell’«Istitutore»,
del 9 luglio 1870, pp. 422-423, ora anche in Carteggio Tommaseo-PP. Rosminiani, a
cura di V. Missori, Milano, Marzorati 1969, pp.413-414.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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Nel mare magnum delle lettere del Tommaseo, il carteggio col Filippi
ha il timbro particolare che viene dal calore di un sodalizio «da pari a
pari», da un legame talmente profondo da escludere quelle umorali
barriere altrove ben avvertibili nella sua scrittura epistolare. Capponi
resterà sempre troppo «soprannaturalmente marchese», e altrettanto
dissimile da sé egli avvertirà il Vieusseux, dalla cui frequentazione, negli anni fiorentini, si terrà distante malgrado le affettuose insistenze del
ginevrino, mentre una sorta di mentore e di fratello maggiore si sentirà
nei confronti del greco veneziano Emilio De Tipaldo, con cui pure condividerà numerose iniziative culturali (7). Con quelli ad Antonio Rosmini e a Tommaso Gar, completa la sezione più nutrita dei carteggi
con il côté dei suoi corrispondenti trentini, dai quali, si legge in un inedito Studio sul trentino Alto Adige conservato alla Nazionale di Firenze, dichiarava di aver appreso «l’affetto d’Italia, di Dante, l’amore delle
toscane eleganze e delle arti belle» (8). Più esiguo sul piano meramente
quantitativo, il carteggio col Filippi che si apre con una lettera tommaseiana del 1820, è essenziale per ricostruire gli esordi del Dalmata, in
particolare quegli anni dal ’20 al ’25 che egli stesso indicava come determinanti nella sua formazione intellettuale.
IL CORPUS MANOSCRITTO E LE EDIZIONI DEL CARTEGGIO
Le lettere del Tommaseo al Filippi sono state edite solo parzialmente in anni e in sedi diverse, con criteri di edizione non sempre
(7) Cfr. N. TOMMASEO, Di Gianpietro Vieusseux e dell’andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, Firenze, Stamperie sulle Logge del Grano 1863; e in sede
critica: R. CIAMPINI, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni 1945, in particolare
pp. 141-150 dedicate all’inizio del rapporto Tommaseo-Vieusseux: ID., Gian Pietro
Vieusseux. I suoi viaggi, dei suoi giornali, i suoi amici, Torino, Einaudi 1953; U. CARPI,
Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento, Bari, De Donato 1974; M. CATAUDELLA, Introduzione a N. TOMMASEO, Prose narrative, Milano, Longanesi 1975;
G. SPADOLINI, La Firenze di Gino Capponi fra restaurazione e romanticismo. Gli anni
dell’«Antologia», Firenze, Le Monnier 1975; E. PASSERIN d’ENTREVES, Tommaseo e il
Risorgimento italiano, in Primo centenario della morte di Niccolò Tommaseo 1874-1974,
Firenze, Olschki 1977, pp. 161-179; G. PETROCCHI, Tommaseo, Firenze e l’Antologia,
ivi, pp. 13-27; A. Volpi, Alla ricerca del giornalista: la collaborazione di Niccolò Tommaseo con Gian Pietro Vieusseux, in AA.VV., Niccolò Tommaseo a Firenze, a cura di
R. Turchi e A. Volpi, Firenze, Olschki 2000, pp. 37-68.
(8) Le Carte Tommaseo (d’ora in poi indicate con la sigla CT) sono conservate
presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, (d’ora in poi indicata con la sigla BNCF). La
nota citata reca la segnatura 201, 40. Per i trentini e la cultura tedesca cfr. A. DESTRO P. FILIPPI (a cura di ), La cultura tedesca in Italia. 1750-1850, Bologna, Patron 1995.
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
condivisibili. La presenza di pagine ancora inedite impone il confronto
con i manoscritti e la sensazione di muoversi in una sorta di selva oscura, occorsa a chi è entrato in quel territorio infido che sono le Carte
Tommaseiane, è quanto mai calzante per questo carteggio, conservato
in due differenti fondi, il primo alla Biblioteca Nazionale di Firenze, il
secondo alla Biblioteca Comunale di Trento.
Gli autografi delle lettere del Tommaseo degli anni 1820-1848 (con
la sola eccezione di due lettere scritte dalla Francia che sono in copia),
sono conservati presso la Comunale di Trento alla quale erano stati
donati dagli eredi del Filippi (9). La loro decifrazione è complicata dal
cattivo stato di conservazione della carta in cui spesso l’inchiostro è
trasudato e la scrittura si sovrappone a quella del foglio successivo,
dalla fittissima e notoriamente ‘oscura’ grafia tommaseiana, da non
poche cassature e tagli.
Alla Nazionale di Firenze sono conservati gli apografi delle lettere
tommaseiane, e gli autografi di quelle del Filippi, per lo più completi
del timbro postale (10). La grafia nitida e dai caratteri grandi risulta di
facile decifrazione, poche e di scarso rilievo le parti cassate, ma non
mancano lacerazioni che costringono ad un lavoro di collage inevitabilmente rischioso, e diversi frammenti restano, purtroppo, irrelati. Con
una collocazione incongrua frammenti di lettere tommaseiane – e fra
questi due di una certa consistenza ma con segni vistosi di tagli – sono
collocati fra le lettere del Filippi (11). Gli apografi delle lettere del Tom(9) Le lettere conservate alla Biblioteca Comunale di Trento (d’ora in poi indicata
con la sigla BCT) hanno la segnatura Ms. 2446. Testimonianza eloquente dello stato
di conservazione del carteggio viene da Tommaso Gar che nel gennaio del ’58 le descriveva al Tommaseo: «stracciate, bucherellate come uno straccio, delise o sbiadite a
segno da parer scritte con l’inchiostro simpatico», ma che ne coglieva tutta l’importanza: «Sul pregio di queste vostre lettere giovanili io non posso essere del vostro
avviso; perché, sebbene scritte nel fervore degli anni primi, rivelano quell’acutezza di
mente e quella nobiltà di sentire che or tanto distinguono il provetto scrittore: ex
ungue leonem» in Carteggio Niccolò Tommaseo - Tommaso Gar (1840-1871), a cura di
M. Allegri, Trento, Temi 1987, p. 124.
(10) Per le lettere del Filippi cfr. BCNF, CT, 81, 1; 81,2; 81,3; 81,4.
(11) Gli apografi del Tommaseo hanno la seguente segnatura BNCF, CT, 81,5; 81,
6; 81,7; 81, 8; 81, 9; 81,10; 74,10. Con un terzo numero, posto tra parentesi tonde,
verrà segnalato l’ordine progressivo delle lettere all’interno di ciascun inserto. Alla
segnatura 201, 21 si conserva in forma autografa una lettera del Tommaseo datata
Padova 13 maggio 1823, sorta di bella copia di un lungo commento a un passo virgiliano
dell’ Eneide tradotto dal Filippi che reca in chiusa la seguente nota di mano diversa:
«Lavoro puerile 1839 Sebenico». Della lettera esiste anche un altro autografo in forma leggermente più ampia conservato presso la Biblioteca Comunale di Trento, Ms.
2446, (15) e un apografo, in tutto coincidente, BNCF, CT, 81, 7 (4). L’exergo in BNCF,
CT, 81, 7 (18).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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maseo sono invece frutto di tre diversi copisti, a uno dei quali si devono
le aggiunte in interlinea e un provvisorio apparato critico che esplicita
varianti e riscritture di due sole missive, così come accade ad esempio
in molte delle lettere ad Emilio De Tipaldo, e una sorta di incipitario,
costituito di brevi biglietti, ma limitato a sole 37 lettere, di cui riporta
anche la data e il luogo, raccolto in un unico inserto (12), e che pare una
sorta di regesto destinato al controllo della trascrizione degli autografi.
A tagli e lacerazioni si aggiungono non poche cassature che si presentano, curiosamente, di diversa intensità: ci sono passi in cui una leggera
riga trasversale consente di recuperare il testo, e si tratta sempre di
luoghi solo ‘benevolmente’ polemici, e passi coperti invece da tratti
decisi e corposi, che precludono totalmente la lettura, proprio in coincidenza con un libero esercizio della vis polemica tommaseiana. Un
confronto fra i due fondi manoscritti, a delimitare lo status delle cose,
naturalmente senza alcuna pretesa di esaustività ma, vista la sede, restando nei margini circoscritti di un primo approccio, consente di affermare che ciascuno integra, non esclude l’altro. Accade spesso che
passi cassati nella copia fiorentina (per altro sia pur di poco quantitativamente più cospicua), siano stati conservati negli autografi trentini e
viceversa, perché, evidentemente, sfuggiti alla revisione censoria dell’ultimo Tommaseo.
Due, ridotte ed occasionali, sono state le edizioni ottocentesche delle
sole pagine tommaseiane: la prima, di diciotto lettere, nel 1879 per nozze Tamanini-Del Rio, a Trento per l’editore Monauni, la seconda limitata ad una sola lettera datata 25 febbraio 1823, nel 1886 per nozze
Turrini-Sandri, (sempre a Trento presso Zippel). Ma la prima vera e
propria edizione si deve a Giovanni Gambarin che ha pubblicato nel
1940, 62 lettere del Tommaseo e due responsive e pochi frammenti del
Filippi, nell’«Archivio Storico per la Dalmazia», fermandosi cronologicamente al 1837 (13). Se gli va riconosciuto il merito di aver reso dispo-
(12) BNCF, CT, 81, 10.
(13) G. GAMBARIN, Il Tommaseo e l’amico della sua giovinezza, «Archivio storico
per la Dalmazia», a. XV, vol. XXVIII, 1940, fasc. 169, pp. 1-20; vol. XXIX, fasc. 170,
pp. 21-46; fasc. 171, pp. 47-70; fasc. 174, pp. 3-87; fasc. 175, pp. 88-108. Gambarin a
p. 11 in questi termini allude anche alla presenza di inediti del carteggio nel pacco 166
delle Carte Tommaseo della BNCF: «copioso materiale di ‘ricordi’, [...] ch’egli aveva
intenzione di raccogliere e riordinare in volume col titolo: Memorie d’affetto e di
riconoscenza. E c’è un elenco di amici e benevoli, di cui avrebbe voluto tessere il
ricordo. Fra essi figura anche il Filippi». Ricerche effettuate consentono di affermare
che effettivamente nell’inserto II del pacco 166, esiste un foglio che recita: «Amici e
benevoli. Ordine degli scritti - Rosmini - Melan - Marinovich - Tommaseo - Dausich -
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
nibile agli studiosi pagine, si è visto, di difficilissima lettura, e di indubbio interesse, va altresì detto che di molte lettere non ha dato che una
edizione parziale, talora gravemente lacunosa e viziata da non pochi
errori, e che altre sono state semplicemente riassunte. Né mancano interventi censori per aspetti che è ipotizzabile, vista la sede e gli anni
della pubblicazione, magari potevano essere apparsi allo studioso poco
consoni a quell’immagine di un Tommaseo austero padre della patria
allora imperante e non ancora scalfita dall’edizione del Diario intimo.
Una ratio che spieghi i suoi criteri di edizione non risulta del resto evidente ma resta il fatto che tali e così frequenti omissioni rischiano di
alterare, in misura tutt’altro che esigua, la comprensione delle lettere
tommaseiane (14). A testimonianza, minima ma eloquente, dei problemi
che il confronto tra i manoscritti e le pagine già edite comporta, valga il
rinvio all’incipit di una lettera datata Sebenico 3 ottobre che:
a nell’autografo (BCT, Ms. 2446), che riporta per intero l’ode al Dudan,
recita:
Non so se debba chiamarsi amicizia o dabbenaggine questa mia Epistolare
perseveranza che piegar non si lascia dal tuo silenzio. Veramente se a me
non paresse di conoscerti alquanto, codesto tuo silenzio vorrebbe assai
ben dire, che tu non curi le mie lettere. Ma creder mi giova il contrario.
Pur siccome, se tu non mi scrivi, io non posso saper se i miei fogli ti
pervengano o no, così credo che se tu non mi rispondi, deggia questa
esser l’ultima, che di me avrai.Una te ne scrissi in 7bre, un’altra in 8bre.
Non vorrei fosser ite pedute.
Ode sulla morte di quel Gregorio Dudan, che avea giurato ... Te la mando, per riempire il foglio.
Efficace silenzio
E sublime tristezza ...
[...]
L’ode, se non altro è calda; ed il metro, quantunque paja brodoso, pur
sembrami grave assai. Certo egli è stravagante. Via su, vendicati. Mandami qualche cosa del tuo. Possibile, che tu nulla, vorrai tentar mai; o se
pure il tenti, possibile, che tu nulla mi degni comunicare?Io ti balestro le
mie odi trecento miglia lontano. Nol vedi?... Rosmini mi scrive, e proponmi
in casa sua un ricetto, con 500 franchi annui [...]
Robecchi - Mattioli - Filippi (Memorie da scrivere con passi delle sue lettere e delle
mie, sono fra i miei fogli in busta a sé)», che raccoglie note e memorie dei personaggi
citati ma nulla né di Marinovich né di Filippi.
(14) Ma sui criteri editoriali del Gambarin cfr. il tagliente giudizio di R. CIAMPINI,
Vita di Niccolò Tommaseo, cit., p. 87 .
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b nell’apografo (BNCF, CT, 81, 5 (2) presenta cinque righe cassate da
un segno trasversale, da «Pur, siccome, se tu ...» a «fosser ite perdute», ma la parte restante coincide integralmente con l’autografo;
c che Gambarin, mutuando la lezione dell’edizione del 1879, trascrive a p. 55:
Non so se debba chiamarsi amicizia o dabbenaggine questa mia Epistolare
perseveranza che piegar non si lascia dal tuo silenzio. Veramente se a me
non paresse di conoscerti alquanto, codesto tuo silenzio vorrebbe assai
ben dire, che tu non curi le mie lettere. Ma creder mi giova il contrario.
Pur siccome, se tu non mi scrivi, io non posso saper se i miei fogli ti
pervengano o no, così credo che se tu non mi rispondi, deggia questa
esser l’ultima, che di me avrai. Una te ne scrissi in settembre, un’altra in
ottobre. Non vorrei fossero ite perdute. Rosmini mi scrive e proponmi in
casa sua ricetto, con 500 franchi annui [...]
omettendo alcune righe (da «L’ode, se non ...» a «Nol vedi?»), e la
trascrizione completa dell’ode, ponendo in chiusa la frase: «Ode sulla
morte di quel Gregorio Dudan, che avea giurato ... Te la mando, per
riempire il foglio», che trasforma nell’explicit della lettera.
Si deve a Bice Rizzi l’edizione nel 1943, in «Studi Trentini», di sette
lettere del Tommaseo degli anni ’40-’47 ancora sconosciute, suggeriva,
«perché non erano conservate col plico consultato qualche anno addietro dal Gambarin e riunite in esso solo più tardi» (15). Ma della corrispondenza di quegli anni, questa breve missiva datata «Sebenico 19
settembre 1840», forse perché presente solo in apografo fra le Carte
Tommaseo della Nazionale di Firenze, sembra essere sfuggita alla stessa Rizzi:
Mio caro Filippi
Son qui per dieci dì ancora: e quì mi giunge una tua e una del Gar. Mandagli tosto l’inchiusa: ma accertato del suo ricapito, la non vada smarrita;
e pregalo di pronta risposta. Dammi novella di te. Io della salute, non
male: dell’anima, sempre men quieto; ma rassegnato oramai. La memoria
de’ nostri giovanili colloqui non mi abbandona: e penso con gratitudine
quanto a te debbo; e con gioia. Addio (16).
(15) B. RIZZI, Sette lettere inedite di Niccolò Tommaseo a Niccolò Filippi, «Studi
trentini di scienze storiche», XXII, 1941, fasc. 18, pp. 227-239, la citazione a p. 230;
da integrarsi con altri due contributi della studiosa Lettera inedita di Niccolò Tommaseo, «Studi trentini di scienze storiche», XXXII, 1951, fasc.1/2, pp. 111-114; e, per un
breve quadro delle frequentazioni trentine del Dalmata, Incontri e amicizie trentine di
Niccolò Tommaseo, «Trentino», XIV, 1938, XVI, pp. 452-456.
(16) Lettera inedita, BNCF, CT, 81, 9 (10).
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così come quella che deve essere stata l’ultima lettera tommaseiana,
sulla quale si tornerà in seguito, conservata fra le carte tommaseiane
alla Biblioteca Nazionale di Firenze, ma in un inserto ed in un pacco
separato dagli altri con diversa segnatura (17).
Come ha scritto Gambarin e compiutamente ricostruito in anni recenti Mario Allegri (18), nel recupero di queste missive un ruolo determinante ha avuto Tommaso Gar, che, come direttore della Biblioteca
Comunale di Trento, ebbe in dono dagli eredi di Filippi i manoscritti.
Tra il 1857, anno in cui il carteggio fu donato alla Biblioteca Comunale
di Trento, ed il 1858 Gar faceva trascrivere le lettere pensando di farne
omaggio al Tommaseo. In due successive tranches gli inviava la copia
segnalando con un cerchietto rosso una missiva «erotica» di cui suggeriva la soppressione, ed il consiglio venne prontamente accolto come
attesta questa lettera del 30 marzo 1858 del Tommaseo:
C.G.
Non prima di ieri ho potuto leggere quella lettera che voi con probità
d’affetto, mi mandaste distinta d’un segno. Non ho letto le altre, se non
che il primo giorno che il primo involto mi giunse, la prima di tutte non
so se intera; e mi parve cosa meno che giovanile. Ma se intendete ad ogni
costo serbarle vi prego almeno di stracciare la segnata da voi; e acciocché
non sia per volere io parer migliore di quel che allora mi fossi inseriteci
pure una nota che dica essersi, a richiesta mia, tolta di mezzo una lettera
la qual conteneva parole licenziose, ma insieme essersi posto a richiesta
mia un avvertimento a confessione e memoria di ciò. Qual differenza tra
l’avvertimento e la lettera stessa? Questo non voi; ma altri, di più grosso
senso morale, potrebbe argomentare così. La differenza si è, che quelle
parole, così come stanno, lette da giovani, potrebbero fornirne un esempio da scusare le loro debolezze, da forse nobilitarle nella fantasia di chi
avesse qualche indulgenza a taluno de’ miei scritti o de’ miei sentimenti;
dove al contrario il semplice accenno non tende a farmi parere incolpevole
e ad abbellire la colpa, ma piuttosto a emendarla.
Quella lettera avrebbe a essere dal 1823 al ’24, cioè dell’età mia dai
ventuno ai ventidue anni. E dopo avervi detto che la sua sguajataggine
era di quasi collegiale, il quale affetta per disinvoltura più vizio in parole
che in opera non sappia o non osi; vi soggiungerò che questa volgarità di
linguaggio, se non degli scritti, nel parlare (come pur troppo accadeva in
que’ tempi nel Veneto), mi durò per circa dieci anni tra i venti e i trenta;
ma poi le memorie della prima vita domestica e degli esempi d’innocenza
e di dignità che la imbevvero, e studii più severi, e il bisogno sentito di
accordare la parola stampata con la famigliare e con gli intimi pensieri
dell’uomo, e sopra tutto una grazia che io non meritavo, mi venne via via
(17) BNCF, CT, 74, 10.
(18) Carteggio Niccolò Tommaseo - Tommaso Gar (1840-1871), cit., p. 119 ss.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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riavendo. A migliore aggio legggerà le altre lettere per averne soggetto di
salutare vergogna. Intanto vi ringrazio di cuore (19).
L’importanza che il Dalmata attribuiva ai suoi carteggi, è cosa nota,
ed una lettera come quella testè citata ne è l’ennesima conferma, ma ciò
che più conta in questa missiva è cogliere i criteri con cui un Tommaseo ormai austero e ‘barbato’ ri-vede le sue pagine: con l’acribia del
linguista scontento dell’incongruità di scelte che non condivide più,
con lo scrupolo del moralista preoccupato dell’incidenza pedagogica
della sua scrittura epistolare. Si rivolgerà al Gar, ancora una volta, a
distanza di molti anni, nel marzo del ’70, chiedendogli nuovamente gli
autografi che intendeva controllare per poi restituirli in veste purgata
alla Biblioteca trentina:
[...] trovato ora il tempo di farmi leggere le lettere che a Niccolò Filippi
scrissi circa cinquant’anni sono, e delle quali voi mi mandaste la copia,
non mi rammento se per indicazione vostra o per altro, una sola di quelle
lettere mi feci leggere, e pregai che l’originale ne fosse stracciato, e fui
dalla cortese probità vostra assicurato di ciò, ma mi pare insieme d’aver
dettato parole da collocarsi con que’ miei fogli, le quali confessavano sconvenienze in quelle lettere contenute, perché togliendola di mezzo, io non
intendevo già di voler riapparire migliore di quel ch’io mi fossi (20).
Di questo lavoro di revisione, che tanto gli premeva, reca traccia
anche questa Nota del 26 maggio del 1870, collocata fra gli apografi
della Biblioteca Nazionale di Firenze, nella quale ripete ancora, a futura memoria, le modalità con le quali era intervenuto, giustifica censure
e integrazioni (le incongruità espressive, le datazioni incomplete colmate con la consapevolezza dei margini di errore, le intemperanze giovanili che l’età non gli consente di concedersi oltre), sottolinea il valore
di questo carteggio come ‘documento’ di tempi diversi e di quella che
al Gar indicava come la sua giovanile «imperizia [...] dello scrivere e
del vivere»:
Gran parte di queste lettere furono scritte cinquant’anni fa. Loro scusa è
l’età giovanile dello scrivente, scusa del conservarle è l’affetto a Niccolò
Filippi di Civezzano, terricciuola vicina di Trento: l’amico degli anni miei
primi; ed è scusa il riguardo di riconoscenza dovuto alla probità di
Tommaso Gar, trentino amico al Filippi [...], che questi fogli raccolse e
custodì fedelmente, e me li lascia rileggere, giudicandoli, con indulgenza
(19) B. RIZZI, Lettera inedita di Nicccolò Tommaseo, cit., p. 113, poi in Carteggio
Niccolò Tommaseo - Tommaso Gar, cit. p. 130.
(20) Ivi p. 210, la lettera del Tommaseo al Gar è del 1 marzo del 1870.
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soverchia, e desiderando che io li serbi il più che si possa. E io ne tolgo
que’ tratti ne’ quali venivano, con acrimonia più puerile che maligna, giudicati uomini e paesi, i quali io imparai poi meglio a stimare o a compiangere. E ne tolgo parole, non perdonabili neanco all’età, nelle quali io
mostrai me e altri forse peggiori di quello che fossimo, il qual vezzo strano veniva dal ribbrezzo superbo di simulare virtù che non erano in me, e
dalla smania di parer disinvolto e faceto, e saper conformarmi alla licenza
de’ tempi. Lascio di ciò in queste lettere assai documenti, appunto come
testimonianza di tempi più miseri in certi rispetti che il presente non sia,
e come punizione meritata alla mia vanità, [...]. Mancano a parecchie le
date, che appongo così di memoria, ma non bene certo. Del tempo è
segno pur troppo certo lo stile, pedantescamente affettato nelle prime,
che vanno dal milleottocento venti al vensei, e che sono le più. Ringrazino i giovani di esser nati qualche anno più tardi, e d’aver potuta iniziare
la vita dell’ingegno come meno stupida fatica in prove migliori (21).
Ma gli «errori e le ignoranze» che queste lettere gli ricordavano,
dovevano apparirgli davvero imperdonabili, se una ulteriore brevissima avvertenza recita: «Giova rammentarsi che lettere giovanili anche
queste; né devesi giudicare da esse la mente dell’uomo il cui affetto e i
cui colloqui furono conforto alla mia giovinezza» (22). Questa, infine, la
ricostruzione dell’intera vicenda affidata al Diario intimo:
Le lettere giovanili da me scritte al Filippi contenevano uscite da ragazzo,
corrette ed espiate in parte almeno negli anni seguenti. Il Gar le ebbe e le
depose nella biblioteca di Trento; ma pregato di lasciarmele vedere, con
onesta fiducia me le inviò, e concedette che io ne togliessi le cose che
risicavano d’essere malamente interpretate. Io lasciai stare tutto quel che
concerne la storia letteraria e morale del tempo, e l’affezione mia sincera
al Filippi. Le ragazzate inutili ne levai; confessando però in genere che ve
n ’era, e ch’io al Gar debbo quest’atto di delicata indulgenza. Rimangono
tuttavia troppe frivolezze e affettazioni di stile; ma era mio debito corrispondere alla fiducia del Gar, non badando al mio orgoglio, e sperando
scusa dall’età giovanile (23).
Le lettere del Filippi sono circa cinquanta, cui vanno aggiunti alcuni ridottissimi frammenti, sono poco più di ottanta quelle del Tommaseo a cui si sommano alcuni biglietti e frammenti. L’indice di frequenza
(21) BNCF, CT, 81,10 (4), anche in G. GAMBARIN, Il Tommaseo e «l’amico della
sua giovinezza», cit., p. 11.
(22) La nota è inedita, BNCF, CT, 81,10 (4).
(23) N. TOMMASEO, Diario intimo, a cura di R. CIAMPINI, Torino, Einaudi 19463,
pp. 452-53 ma sui criteri di trascrizione del Ciampini cfr. V. BRANCA, Il Diario intimo
ma non «integrale» del Tommaseo, in AA.VV., Scritti in onore di Giovanni Macchia,
Milano, Mondadori 1983, pp. 162-179.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
39
è discontinuo ed il carteggio presenta lacune non colmabili. Non ci
sono lettere del Filippi nel 1820 (la prima lettera pervenuta è solo dell’agosto del ’21) e nel 1828, e negli anni dell’esilio francese la loro corrispondenza sembra limitata a sole sei missive e con momenti di piena
interruzione come nel ’36 e nel ’38. Ed ancora: del 1824 non resta che
una sola lettera tommaseiana del mese di dicembre che allude a divergenze non ipotizzabili:
Io non cesso di pensare a voi; rammentando la nostra amicizia, io non
posso credervi al tutto immeritevole del mio affetto. Il bisogno di amarvi
senza ritegno né dubbio, mi move a scrivervi, e a rannodare con voi quel
legame, che noi avevam promesso a noi stessi di non sciorre più mai. Io
sono a Milano, e ò trovato di ché occuparmi con lucro, non ispero gran
bene, e non temo alcun male. – Scrivetemi delle vostre risoluzioni rispetto all’avvenire: e credete di aver sempre in me
Un vero amico (24).
Da integrarsi con questa lettera del 17 gennaio 1825, nuovo e
inusuale tentativo di pacificazione di un Tommaseo solitamente poco
propenso a praticare perdono e dimenticanza:
Mio Filippi
Tu non rispondi. Avrei forse io perduto ogni luogo nel tuo cuore? Egli è
troppo tenace d’ogni nobile affetto; e la nostra amicizia, Dio solo sa, quanto
sia d’ogni umana passione e più sublime e più pura. Noi non abbiamo a
rimproverarci che qualche motto non puro sfuggitoci a vicenda dal labbro; e questo forse ci ha meritato in pena, i sospetti e le discordie che
perturbarono la nostra unione. Ma i sospetti non sono valevoli a sciorla,
io lo sento. Io mi ricorderò con amore di te, mentr’io vivo; e mi sarebbe
troppo acerbo il pensiero, che tu potessi o dimenticarmi, o sprezzarmi.
Se non vuoi ch’io ne dubiti, scrivimi, la tua lettera mi giungerà cara, come
la nuova d’un racquistato tesoro. No, Filippi, tu non puoi ritrovare un
amico più sincero e più fermo del tuo Tommaseo (25).
Ma bisogna attendere il mese di marzo per la responsiva del Filippi:
Carissimo Amico! Civezzano 8 marzo 1825
Il più tacermi sarebbe ingratitudine, ché troppo debbo al mio Tommaseo. Le vostre lettere mi commossero al pianto, né dubito omai del vostro
amore. Quanto mi sia stato amaro l’esservi, senza saperne la cagione,
(24) Per dovere di completezza e per consentirne un confronto, sia pur provvisorio, dei manoscritti, qualora la lettera citata sia presente sia in BCNF che in BCT, si
daranno entrambe le collocazioni. Lettera inedita, del 19 dicembre 1824, BCT, Ms.
2446, (31); BNCF, CT, 81, 8 (7).
(25) Lettera inedita, BCT, Ms. 2446, (32); BNCF, CT, 81, 8 (8).
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
incresciuto, nol sa che il mio cuore; ma se voi tornate ad amarmi vi giuro,
che il mio affetto non cesserà giammai, anzi ognora più forte, e più tenace
dentro me germoglierà: amiamoci dunque, o mio Tommaseo, e prima
pruova in voi d’amore sia il perdono, se indugiai a rispondervi. La cagione ven sarà nota in altre mie, che d’ora in poi avrete frequenti quanto
volete: mille cose m’impedirono lo scrivere, ma più d’ogni altra le perturbazioni della mente e del cuore per gli affari di famiglia...
Godo buona salute, e di presente posso studiare come e quanto a me
piace, rimarrò in Civezzano fino ai 20 del presente, indi recherommi
novellamente a Padova, onde profanarne il lauro, così si vuole. Spero,
che dipoi verrò pure costà, ma non prima dell’Ognissanti. Ditemi di Milano, dei vostri studij, e di quanto v’è accaduto. Attendo col cuore aperto
una lettera lunga, come solevate sul dolce principiare della nostra amicizia, e questa mi sarà sicuro pegno del vostro affetto. Amatemi siccome io
vi amo, e credetemi sempre
Il vostro Filippi (26).
Parole affettuose che dovevano essere attese con trepidazione da
un Tommaseo che, qualche giorno dopo, il 25 marzo, si affrettava a
scrivergli: «L’inaspettata tua lettera mi ha restituito a me stesso. Io sono
il più ricco degli uomini se mi resta un amico. Tale io ho bisogno di
crederti; e il posso» (27). Almeno fino agli anni Trenta le lettere tommaseiane sono molto più numerose di quelle del suo corrispondente, e
soprattutto molto lunghe. Per il 1821, per limitarci ad un solo esempio,
a fronte delle nove lettere del Tommaseo non ce ne sono che tre del
Filippi. La scrittura è una sorta di flusso coscienziale che rapidamente
alterna piani argomentativi diversi tra personali confessioni e annotazioni letterarie, progetti di lavoro e giudizi, solitamente taglienti, su fatti e persone. Tommaseo si racconta senza imbarazzi e senza remore
autocensorie, parla liberamente di sé ad un amico con cui sa di condividere le aspettative e le angustie di un incerto futuro tra sogni da realizzare ed obblighi familiari da disattendere. Così come accade nelle lettere al Tipaldo o in molti dei testi poetici poi compresi nelle Confessioni,
spesso le missive recano a margine l’indicazione dell’ora e del luogo
della loro stesura. Solo col Tipaldo si riscontra un analogo abbandono,
ma dopo il ’36, quando la morte della madre, nella desolazione dell’esilio francese e nella devastazione della malattia, gli impone un penosissimo bilancio interiore. Brevi e spesso limitate ad una sola facciata, saranno invece sempre le lettere del Filippi, il cui incipit, personalissima
variante nei topoi dell’esordio, è dato per lo più dalla giustificazione di
(26) Lettera inedita, BNCF, CT, 81, 1(16).
(27) BCT, Ms. 2446, (33); BNCF, CT, 81, 8 (1).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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cronici ritardi o di mancate riposte quando una inarrestabile inquietudine esistenziale sembra vincerlo:
Così va – pur troppo! Non puoi pensare qual colpo mortale abbia portato a questo mio povero cuore la tua ultima lettera. Io non so, né posso
difendere la mia negligenza; pure è mi pare, che chiacchierare in una
lettera con tante maledizioni, e che so io, non sia da te, da te che sei il mio
consolatore ... unico – di un cuore così capace di conoscere, subire, e
perdonare gli infortunj umani. Sarei corso a gettarmiti tra le braccia ad
implorare il perdono alla mia lunga mancanza, ma mel credi, caro amico,
non posso per ora staccarmi da Padova: la cagione l’avrai, spero, intesa
nell’altra mia, che avrai tu pure oggi ricevuta. Io maledire le tue lettere?
Te? ... che dici mai! Ti perdono il pensiero perché non sai forse, quanto
mi sieno grate, quanto capaci di aleggiare le miserie di uno sfortunato.
Scrivimi più frequente che puoi, ma bada di non adontartene, se non son
sì tosto a rispondere; poiché l’arte di comandare a me stesso non l’ho per
anco appresa, e sonvi dei momenti, in cui pare non possa scrivere, e poi
... trascorso quel punto, ne trascorrono mille, il tempo vola, il bue mugghia
perché non m’impegno ad udire le sue ciance, ed io giungo a tale di meritare tutti i rimbrotti. Ecco perché non ti scrivo, perché sono negligente
[...] (28).
«Ben potrei dir ‘Di me medesmo meco mi vergogno’», ripete di
missiva in missiva Filippi, e di fronte a tante giustificazioni al Tommaseo non restava che tentare di vincere con «epistolare perseveranza»
silenzi talmente frequenti da fargli pensare che l’amico, che doveva
appartenere alla «generazione de’ taciturni», avesse voluto tenergli «socchiuso il cuore», disposto talora a ironizzare sulle sue «non lettere» al
punto da scrivergli: «Io ti secco, t’abbrugio, t’incenero con mie lettere.
Tu maladirai le lettere, e chi le scrisse, e l’amicizia, che le ti detta!» (29).
Nel carteggio sono identificabili due distinti nuclei, caratterizzati
non solo dalla frequenza dello scambio epistolare ma anche dai contenuti e dal timbro della scrittura, il primo comprende le lettere che vanno dal ’20 al ’27, gli anni della conoscenza e della formazione, il più
fitto e interessante sia sul piano biografico che letterario, il secondo che
si chiude con la scomparsa del Filippi, coincide per Tommaseo con gli
anni dell’«Antologia», dell’esilio e dell’impegno politico.
(28) Lettera inedita, sul margine superiore sinistro, d’altra mano, la data «1821»,
BNCF, CT, 81, 1 (2).
(29) BCT, Ms. 2446, (5); BNCF, CT, 81, 5 (11).
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«L’UNICO
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
AMICO DEL CUORE»
La prima parte del carteggio è un ragguaglio minuto degli stentatissimi esordi del giovane, già intemperante Tommaseo, costretto a misurare le sue scelte con le aspettative della famiglia che ben altro da lui
si attendeva. Il desiderio di fermarsi in terra italiana, la vocazione letteraria, frutto di una formazione profondamente intrisa di classicità ma
anche di una attenta disponibilità al nuovo, sono gli elementi più significativi di questa prima sezione del carteggio, la più rilevante sul piano
quantitativo, che consente di seguire il progressivo arricchirsi del suo
orizzonte intellettuale. L’avvio spetta al Tommaseo, con una lettera da
Sebenico del 2 settembre 1820. È un diciottenne diviso tra «rabbia alfieriana» ed un foscoliano «furore di gloria», tra le sue non poche e non
piccole ambizioni e le concretissime aspettative dei familiari, capace di
vivere di «pane e poma, pane ed acqua», che pure definisce cibo da
«bestie», pur di non ritornare in Dalmazia, ove il padre lo voleva ad
occuparsi degli affari di famiglia e finalmente avvocato. È disposto a
tutto pur di non fermarsi nella «carcere illirica», sembra essere questa
la sua unica certezza, perché, quanto al resto del suo presente, si dichiara maldestro apprendista nell’arte «difficilissima di comandare a
[se]stesso», reso «incerto di sé» dalla sua «imbelle virtù» e dalla sua
«infernalmente gigantesca immaginazione». Anche se confessa che la
solitudine gli ha insegnato l’«amor delle filosofiche cose» e la conseguente convinzione che, senza «l’amore della virtù [...] non è felicità»,
e «non v’è vera filosofia fuor della religione», Sebenico, la sua patria e
«veneranda contrada», gli pare quanto mai «desolata». Condivide col
suo corrispondente un rapporto di amore e odio con la terra d’origine
tra ritorni forzati e ricorrenti progetti di abbandono, per altro realizzati
e da subito da lui soltanto. Per Filippi, che sembra piegato da un oscuro male di vivere, il Trentino è il luogo della solitudine e della sepatatezza,
un limbo in cui tutto sembra essere destinato a rimanere immoto, un
deserto circoscritto idealmente dalla repressione poliziesca e concretamente da «rocce» e «burroni», «che par chiudano fino il pensiero»,
perché, dirà al Tommaseo, «qui siamo quasi fuor dal mondo, né giunge
alcuna notizia». Un limbo nel quale tuttavia finirà per chiudersi, dopo
lunghi anni di «abboriti» studi legali, dai quali nulla si attende ma cui
imputa una sorta di inarrestabile, progressivo logorio intellettuale, che
concluderà, in ossequio ai voleri della famiglia, ma trascinandoli per
anni e laureandosi solo nel ’27, dopo il trasferimento dall’università di
Padova a quella di Pavia. Ma anche la città lombarda gli sembrerà «orrida città» e troverà come unico conforto l’amicizia di Defendente Sac-
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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chi di cui dirà al Tommaseo: «meriterebbe pure essere conosciuto da
te» (30). «Fra selve selvagge quasi in duro esilio», «seppellito fra le montagne del Tirolo» la sua è una vita «romita», «oscura», «malinconica»,
«fra orribili guai», e le lettere tommaseiane sono invocate, è questo
l’explicit di quasi tutte le sue missive, come l’unica consolazione. Il suo
bisogno di evasione, e nel ’48 il suo impegno politico, sono vissuti di
riflesso, attraverso gli spostamenti di un Tommaseo che, disposto a dividere con lui i suoi magri guadagni, lo vorrebbe accanto a sé e che più
volte lo invita a raggiungerlo promettendogli una qualche sistemazione: a Roma, fidando nell’aiuto dello zio Antonio (progetto poi abbandonato perché troppi sono i postulanti e mancano i molti appoggi necessari), a Milano dove potrebbe vivere di traduzioni, a Firenze, il luogo più ambito, perché consentirebbe di «vivere coll’Italia». Ma già nel
’23 il Filippi sembra aver rinunciato ad ogni speranza e dice al Tommaseo:
[...] tu mi vieni rimproverando che non t’apro il cuore? Ma se non lo
schiudo a te a cui mai? Del resto io ti diceva come io strascino il carco
della mia vita; avverso agli studi legali, i quali difficilmente mi cercheranno del lauro. L’ultimo rifugio sarà nel Tirolo, colà ho da vivere, né men
cale, degli onori, cui non puote essere scala che la viltà (31).
Tutto resta insomma pura aspettativa, e, nel 1848, i lutti familiari, e le
precarie condizioni di salute che gli impediranno anche di scrivere come
pure avrebbe voluto, gli faranno dire che la sua «dolente» esistenza non
aveva nulla a che invidiare alla «favolosa vita di Giobbe» (32). A niente
valgono i rimproveri di un iperattivo Tommaseo che gli ricorderà ripetutamente che la giovinezza non è stagione da trascorrere con le «mani
sulla cintura», che entrambi «sono nell’alba della vita» e negli «anni
più belli», che tenterà più volte di coinvolgerlo nei suoi molti progetti
di lavoro.
Ma anche Sebenico è per Tommaseo il luogo della privazione perché
là si sente «senz’amico, senza salute, senza prezzo del vivere, senz’amore
di lode». Vivrà con autentica sofferenza il momento dell’imbarco per la
Dalmazia quando si vede bloccare dalla polizia e comprende: «tutto l’orrore del nostro stato, i ceppi che annodano l’umanità». E sono, ovviamente, «ceppi» politici, familiari (le aspettative paterne), ed esistenziali
ai quali reagirà proponendosi, alfierianamente, di «vincere se stesso». Si
(30) Lettera inedita datata 9 luglio 1823, BNCF, CT, 81, 1 (10).
(31) Lettera inedita, spedita da Pavia il 2 luglio 1823, BNCF, CT, 81, 1 (9).
(32) Lettera inedita inviata da Civezzano l’8 maggio 1846, BNCF, CT, 81, 3 (16).
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
consola durante il tragitto in barca leggendo Dante ed Alfieri, e discutendo di libertà con i suoi compagni di viaggio, e matura fieri propositi di
ribellione che prontamente comunica all’amico:
Guardati dattorno. Non vedi tu, come gli uomini pensano, e parlano, e
vivono da rane, notando sopra l’onde di quest’atro mare, che chiamasi
società, e temendo non ogni venticello, che d’alto solvesi, in lor percota?
Altro non hanno d’umano che cuore, ben più che le bestie proclive a
bruttura, (sempre che possa), ed ingegno aguzzato a delitto. Ma non a
delitto eroico, e, quanto si può tra noi, grande. Ridicolo, sordido, vile
delitto. Perché gittati dal mare pervengono rotti a terra, e a loro scampo.
Mettonsi, come possono meglio, a strisciar sotto ‘l piè, che gli stritola.Ma tu ti sei ormai lontanato da questi pecoroni. Ed ecco l’una delle gran
ragioni, e la massima, per la quale, conosciutoti, t’amo. E sai la cagion
principale, perché t’amo, e stimo? Perché hai l’intelletto sano, e soluto da
pregiudizi. Appunto perché tale, tu dei con virtù, anzi imperio d’acre
animo, sprezzando forza di venti, e spessezza di nuvoli, levarti nel nitido
aere, e sostenerti, e reggerti, pertinacemente diritto. Non a picciola fatica, né in piccolo spazio, né spendendo né disumanandosi in tra i semiuomini, si merca celebrità. Ma lungi il rude ammasso di fetida erudizione. Queste son materiacce da riversarsi addosso a chi non ha che fermezza di memoria e di spalla. Cose voglion essere, cose; e radici di ragioni,
non foglie di parole [...] Guardati dal vegetare [...] (33).
Chi gli è vicino nei suoi soggiorni a Sebenico è Antonio Marinovich,
il solo con cui si senta di condividere l’ «uso della ragione e della loquela». Per trovare un diverso Tommaseo bisogna attendere le lettere scritte
nei prediletti soggiorni veneziani quando, in rotta col padre, è talmente
a corto di denaro da vendere i suoi libri e da doversi imporre rigorosissime economie e una buona dose di digiuno. Ma un regime fatto di
tante buone intenzioni e di oculata strategia delle esigue risorse pecuniarie non sono freni sufficienti a trattenerlo e, allora, confessa al Filippi:
«Io do le mani e in un lampo fondo il risparmio di due giorni o tre». È
un ragazzo che si abbandona a sogni ad occhi aperti, presto interrotti
da un brusco ritorno di consapevolezza, quando il padre gli scrive per
rammentargli i sacrifici che la famiglia fa per lui e quanto da lui si aspetta. E se la coscienza gli rimorde immagina un avvenire diverso, quello
che le insistenze dei genitori gli avevano più volte prospettato. Lette le
lettere dello zio Antonio, si convince di preparare all’amatissimo padre
«un calice di velenosa amarezza» e si impone di ritornare ad essere un
figlio modello:
(33) BCT, Ms. 2446, (1); BNCF, 81, 5 (1).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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Io non ci cadrò, trionferò di me stesso, gitterommi in braccio all’abborrito
studio delle Leggi; disperazione verrà in me l’amore, né risterommi, se prima io non posso presentare alla tua bocca tremante il pane del conforto, e
la bevanda della gratitudine. [...] Delibero di consacrarmi alle leggi. Detto,
fatto. Nello istante medesimo della deliberazione io son fuor degli esami, io
sono laureato, io sono ascoltante, io sono aggiunto, io sono pretore, io son
Consigliere. Indi in due minuti cessa il sogno e torno asino (34).
Indocile ad ogni disciplina, alla frequenza delle lezioni universitarie patavine, quelle che sarcasticamente liquida come «noie bovine»,
preferisce dunque Venezia dove ciò che lo attrae, e al quale non rinuncia, malgrado la cronica «aridità pecuniaria» è il Teatro, perché là il
«genio s’annida». Ama profondamente la musica, ed ha già elaborato
personalissimi parametri di giudizio per cui sostiene che:
Se nel principio, o nel fine, o di mezzo v’ha un tratto, che mi scuote, mi
sveglia, m’irrita, mi gonfia l’anima sì, ch’ella minaccia di scoppiare, la
Musica è bella. Se per lo spazio di quattro ore questa soave perturbazione
non mormora in me, per me non c’è bellezza, né genio per me (35).
E Rossini, perché parla «all’immaginazione», Morlacchi, perché si
rivolge al «cuore», Cimarosa (che gli piace più di Pergolesi) o il suono
di un’arpa di ortisiana memoria lo esaltano al punto che poche note
sono sufficienti perché, assecondando l’emozione, cominci a comporre
versi che gli vengono «dalle cavità più interne dell’anima». Le sue giornate sono scandite da «troppo sonno, troppo passeggio, poco studio»,
teme di sembrare un «pazzo solenne», già sente di essere destinato a
«cadere» perché la sua esistenza gli sembra equamente divisa tra la «noia,
il pentimento, il timore e la speranza» e tutto lo turba e lo «travia», lo
«impicciolisce», lo «annienta».
A Venezia ritrova Luigi Carrer, ed è questo, dopo le frequentazioni
padovane nelle aule universitarie, l’inizio di un rapporto che, tra attestazioni di amicizia e accuse violente, resterà poi conflittuale per l’intero arco della loro esistenza. A dire il vero il primo ad esprimere un
(34) BCT, Ms. 2446, (7); BNCF, CT, 81, 5 (6). Sui sogni del Tommaseo cfr. il
Diario intimo, a cura di R. Ciampini, cit., pp. 258-265, 277, 280 e, in sede critica,
V. BRANCA, Sogni del Tommaseo, in AA.VV., Ventitrè aneddoti, a cura di G. Auzzas e
M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza 1983, pp. 81-83; ID., «Questi sogni son troppo frequenti...» Memorie inedite del Tommaseo per il 1830 nel così detto «Diario intimo», in Miscellanea di studi in onore di M. Pecoraro, a cura di B.M. Da Rif e C. Griggio,
vol. II, Firenze, Olschki 1991, pp. 1-38.
(35) BCT, Ms. 2446, (6) ; BNCF, CT, 81, 5 (7).
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
giudizio negativo deve essere stato il Filippi, che lo definiva un «damerino», ed è un dato significativo, perché solo allo Zajotti riserverà
altrettanta diffidenza, se non ostilità. I primi incontri veneziani tra il ’20
ed il ’21 confermano al Tommaseo che le loro «anime non armonizzano» e la colpa prima di Carrer (che nel ’25 definirà «perfido e vile»
riconoscendo in lui «l’Amico del Vero» che aveva difeso Barbieri dalle
sue critiche) è la sua collaborazione a quell’«Osservatore Veneto»
riprovato come «foglio politico» (36). Che l’impegno del Carrer fosse in
qualche modo reso inevitabile dalle sue precarie condizioni economiche, non doveva essere ragione accettabile per un comportamento giudicato comunque ambiguo sul piano etico-ideologico. Eppure anche
per l’esordiente Tommaseo l’assillo primo è la ricerca di un «posticino»
in terra italiana, che spera possa garantirgli lo zio Antonio, che si ostina
invece ad esortarlo a «giacere con la giurisprudenza», e che accetterà,
obtorto collo perché «è un amico che ammaestra vicino, ma piace lontano», dal solito, generoso Rosmini nei momenti di maggiore difficoltà
certo che, comunque, sia meglio «Rovereto più tosto che la Dalmazia».
L’incerto presente non lo trattiene da progetti ambiziosi se pensa ad un
«giornaletto simile al corrier delle dame» e, prodigo di consigli, non
vede ostacoli ai suoi non modesti progetti di vita:
Ma checché sia di noi, stieno immobili i nostri cuori sulla pietra angolare
dell’onore e della virtù, dal dolore non domi, dal terrore non umili, dalla
viltà non deformi, e dai vani desideri e dalle perigliose speranze non trascinati. Nessuna lontananza può divellere gli animi dalla meta comune di
gloria, cui essi volano, disdegnando le leggi de’ luoghi, de’ tempi e degli
uomini. [...] Miriamo ad un fine degno dell’uomo, onoriamo chi ‘l merita, non detestiamo nessuno, la nostra anima sia in se medesima, i nostri
studi comincino dal conservare in faccia ad un mondo perverso la dignità
della nostra generazione (37).
La «carriera» cui tenacemente aspira è dunque quella letteraria già
avvertita, con evidente mediazione rosminiana, come una rigorosa scelta
militante che considera la religione «pascolo» dell’ingegno e del cuore e
(36) Sui rapporti tra Tommaseo e Carrer cfr: G. DAMERINI, Tommaseo amico e
nemico del Carrer. Con lettere e documenti inediti, Venezia, Fondazione Omero Soppelsa
1934; ID., Una ingiuriosa lettera del Tommaseo al Carrer, «Ateneo Veneto», CXXXI,
1940, pp. 277-282; G. GAMBARIN, De Infirma amicitia (Ancora del Tommaseo e del
Carrer), «Ateneo Veneto», CXXXIII, 1942, pp. 8-36; M. GIACHINO, Niccolò Tommaseo e Luigi Carrer, Atti del Convegno Internazionale di studi «Daniele Manin e Niccolò
Tommaseo. Cultura e società nella Venezia del 1848», Venezia 14-15-16 ottobre 1999,
«Quaderni Veneti», 31-32, 2000, pp. 273- 287.
(37) BCT, Ms. 2446, (62); BNCF, CT, 81, 6 (3).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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«campo immenso» in cui l’immaginazione possa spaziare. Ma a tratti, tra
dichiarazioni d’intenti e mille progetti annunciati in cui inutilmente tenta
di coinvolgere il suo corrispondente, quando viene meno una sin troppo
esibita sicurezza di sé, si abbandona ad una cupa inquietudine e, con
straordinaria lungimiranza, pare già presentire ciò che lo attende:
Non so poi, se li fatti risponderanno all’espettazione altrui, ed al mio
desiderio: espettazione, ch’è la nemica sovente de’ gloriosi successi; desiderio che in anima di fervente immaginazione animata non può non essere accompagnato dal periglioso ardimento dell’ingannatrice speranza.
Come che sia, basta a me poco pane, e molta libertà per tranquillo vivere
in seno a’ geniali, e non venduti o compri miei studi [...]. Ma ben presento che la via della nostra felicità, si è la via delle lacrime, e che il retaggio
de’ nostri studj non puol’ essere all’ultimo, che una libera ed onorata
mendicità.- E sia purché libera ed onorata (38).
La letteratura dunque è «gran meta comune», e di cose letterarie i
due amici parlano insistentemente. Del resto li unisce una identica predilezione per la poesia in cui ripetutamente si cimentano, facendosi di
volta in volta l’uno severo recensore dell’altro. Il culto dei classici, monito insistente almeno sino al 1822, viene nel Tommaseo dagli amatissimi
maestri patavini: Sebastiano Melan, Luigi Mabil, menzionato nelle
Memorie Poetiche come colui che per primo gli aveva fatto conoscere
ed apprezzare l’«Antologia» del Vieusseux (39), e soprattutto il grecista
Amedeo De Mori, il «maestro di stile» dal quale aveva appreso che «il
vero fuoco» viene dall’esprimere «con chiarezza e rapidità maggiore
possibile la propria idea», e dal quale mutua quel criterio della brevitas
in base al quale giudica Orazio più efficace del Parini:
I Sermoni specialmente L’Epistole di questo caro Epicureo son la cosa più
originale che Roma abbia dato. Né Giovenale, né Persio, né Dolci, né Menzini,
né Ariosto, né Rosà giungono mai a quella brevità naturale, a quella facilità
(38) Lettera da Padova, 15 marzo 1823, BCT, Ms. 2446, (66); BNCF, CT, 81, 7 (2).
(39) N. TOMMASEO, Memorie Poetiche, cit., p. 67. Sulla formazione del Tommaseo
cfr.: G. SOLITRO, Un insigne scolaro dell’Università di Padova, «Atti e Memorie della R.
Accademia di Scienze lettere ed arti in Padova», CCCXLII, 1940-41, XIX, vol. LVII,
pp.155-224; M. PECORARO, La formazione letteraria del Tommaseo a Padova, in AA.VV.,
Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, a cura di V. Branca e G. Petrocchi,
Firenze, Olschki 1977, pp. 307-330; G. BEZZOLA, Niccolò Tommaseo e la cultura veneta,
in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, vol. VI, Vicenza,
Neri Pozza 1986, pp. 143-163; P. TREVES, La critica. La filologia e la bibliografia, ivi,
pp. 365-96; V. ZACCARIA, Due nostri Accademici e il Tommaseo, «Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti», CCCC, 1998-1999, vol. CXI, III,
pp. 5-18 che affronta in particolare il rapporto Tommaseo-Melan.
48
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
non di verso, ma di pensiero, a quella leggiadria, a quella copia, che sono in
Orazio inarrivabili. Io vorrei che un moderno mettessesi a far una Satira sopra un soggetto trattato da Orazio, e scommetto, ch’e’ non direbbe in 300
versi quello che Orazio dice in cento, e bene. [...] se v’ha difetto nelle Odi di
Parini, è talvolta la mancanza di questa preziosa rapidità, che sorvola, e pur
lascia un solco nell’anima. Ond’è che le Odi moderne non estimansi belle, se
non han dodici strofe almeno? Ond’è che le Odi di Orazio son tutte lampi?
Ond’è che Anacreonte è un genio? Distempera in dieci versi un pensiero
d’Anacreonte e vedrai che ne riesca (40).
Ma l’attaccamento alla tradizione (sono gli anni in cui Filippi traduce
Virgilio e Tommaseo Omero) convive con l’aspirazione ad una letteratura impegnata, perché il letterato non deve contentarsi di essere un erudito, un «uccellatore di sillabe», un «facitore di versi», ma il cultore della
«Verace grandezza». Lo studio dei Latini è considerato il «segreto» dei
grandi della nostra letteratura, da Dante all’Alfieri, perché senza l’avallo
della tradizione «lo studiacchiare nei nostri fa balzar fuori il ridicolo, e
pistilenzioso bisticcio de’ Cruscanti» e per scrivere bene italiano gli pare
premessa necessaria imparare a scrivere bene in latino:
[...] i Latini studia che ’l puoi. [...] Tu puoi gustare que’ grandi e imitarli,
ed emularli. Quando ci sei penetrato un po’ addentro, sperimenta di scrivere italiano con le frasi Romane, e vedrai che maschia lingua e Poesia.
Ben altro che Monti! Così fecero Dante e Petrarca e i recenti imitando
gl’imitatori degl’imitatori s’inabissano in piccolezze e sudicerie (41).
Nelle lettere degli anni ’21- ’23, spunti di riflessione teorica affiorano insistentemente, segno della curiosità intellettuale di questo
precocissimo Tommaseo disposto a misurare e a rivedere i canoni della
sua formazione attraverso il contatto con la cultura militante. A ricomporre in una sintesi unitaria le membra disiecta di tante annotazioni, ciò
che affiora è una sorta di estemporanea «Summa» che, di lettera in
lettera, egli delinea per il Filippi, in cui il richiamo alla tradizione convive con una diversa sensibilità estetica, che considera la mitologia non
necessaria ai grandi, pur riconoscendo che essa abbraccia «misteriosa
filosofia», e che è attenta alle ragioni del genio, del cuore, della fantasia,
del sentimento, dell’immaginazione. Altrettanto ricorrente è una parola come «affetto» che tanto spazio avrà poi nelle sue successive pagine,
si pensi solo a Fede e Bellezza o alla sua produzione poetica. Sarà necessaria la scoperta dei Salmi di Isaia e di Davide perché la poesia di Ora(40) BCT, Ms. 2446, (61); BNCF, CT, 81, 5 (2).
(41) BCT, Ms. 2446, (6); BNCF, CT, 81, 5 (7) il passo è inedito.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
49
zio venga liquidata come «poetiche ciance» e Tommaseo si proponga
di cercare «In Dio [...] Cirra e Parnaso», ma già in una lettera del dicembre del ’20 si legge:
Le operazioni dell’ingegno senza le dolcezze del cuore non fanno che
stancare in luogo di divertire ed accendere. L’ingegno ed il cuore son due
oriuoli, strettamente uniti, che se non s’accordano nella misura del tempo, la macchina meravigliosa dell’uomo va raccostandosi al suo generale
dissolvimento. L’ingegno ed il cuore son due corde di delicatissimo strumento, le quali, se non armonizzassero insieme, guai! (42).
Ma al cuore non si può concedere di «essere sempre in fiera tempesta», va illuminato dalla «celeste fiaccola dell’ingegno» coniugando il
Buono col Vero, il Vero col Bello. E l’Armonia, intesa in sintonia con
un certo Rosmini come compenetrazione di elementi discordanti, è argomento di una lunga, interessantissima lettera del febbraio del’ 21,
scritta in momenti, luoghi e giorni diversi, puntualmente annotati sul
margine sinistro del foglio. Chi parla per assiomi col piglio deciso del
ricercatore sul campo è un Tommaseo che dopo aver letto ad una leggiadra fanciulla passi del Viaggio sentimentale di Yorik, del Werther e
dell’Ortis, si diverte poi a scrutarne le reazioni per servirsene come materiali per un Trattato sull’Armonia incentrato sull’«l’idea del Verace
Bello» perché dice:
[...] per me non è bello un corpo, in cui quasi per velo trasparente non ci
lasci vedere un’anima bella; ed anima bella si è per me un cuor tenero, e
caldo, non senza isplendore d’ingegno. [...] per me bello è ancora difforme,
posta l’armonia delle bellezze, armonia delle parti corporee vicine infra
loro, armonia più feconda d’effetti, benché meno avvertita delle parti lontane egualmente fra loro, armonia d’alcuna parte col tutto, di più parti
insieme al tutto; del mezzo col tutto; armonia di ciascuna parte corporea
con ciascuna parte intellettuale, [...] del tutto fisico col tutto morale (43).
Quando poi dalla codificazione teorica passa alla prassi, di queste
premesse si vale per una personalissima interpretazione del dantesco
«lazzo sorbo» come metafora delle difficoltà che attendono il letterato
per completare il suo iter di formazione e «maturare le frutta del proprio ingegno» secondo cadenze così definite:
Convien maturar prima il seme, ch’è ’l pensiero, nel tutto, e nelle parti, la
qual cosa, non è già cosa di lungo sudore pel genio vero, che giustamente
(42) BCT, Ms. 2446, (29); BNCF, CT, 81, 9 (15).
(43) BCT, Ms. 2446, (8); BNCF, CT 81, 5 (8).
50
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
afferra malgrado la sua naturale caldezza le idee [...].- Maturar poi conviene quel che sgorga dal pensiero, e qua levare una macchia, là appianare una diseguaglianza, dove indolcire acerbità, dove ammollare una durezza [...]. Io volea dir, come il mutar là un epiteto, là un trapasso, là un
verso, e poi cancellare la correzione, e tornare al primo, e non appagarsi
di quello, e riandare, e stemprarsi è cosa da martiri, ma necessaria, perché
di martirio e non altro è prezzo la palma poetica. [...] E il limare consiste
solamente nel correggere, e cancellare il giorno vegnente, ma il vegnente
mese, l ’anno appresso, e più, se la cosa sel merita (44).
E sono annotazioni talmente ricorrenti che forse non è illegittimo
leggerle come altrettante anticipazioni di quel frammentismo, di
quell’incontentabilità che vedrà il Tommaseo maturo tornare ripetutamente sulle sue pagine. La certezza che «ove il cuore non detta, non ci
ha dolce stile, né nuovo» e che tutto risulta «freddo, stentato, scipito,
volgare», viene correlata alla definizione dello stile come «ritratto dell’anima» e all’importanza decisiva di «locare» congruamente le parole
senza trascurarne gli aspetti fonici. Quasi anticipando quello sperimentalismo che in sede metrica il Tommaseo poeta si concederà abbondantemente, preoccupato solo di una eventuale prosaicità dei suoi versi,
già si cimenta in azzardate contaminazione e negli Inni ai quali lavora
nel ’21 crede opportuno «intrudere» «a forza» «gran popolaglia di parole» e «frasi prische». I segni del mutamento si fanno più consistenti
agli inizi del 1822 quando dichiara:
La poesia è il linguaggio del cuore, cioè della verità; ed ispesse fiate io
sono tentato di gettar da un lato taluno de’ più grandi fattori di versi,
appunto perché l’anima non vi parla: la passione alle fiate dall’immaginamento incesa, cresce della medesima davanti dagli occhi le cose (45).
Una pluralità di istanze viene ad incrinare o, meglio ad arricchire la
dimensione intellettuale di un Tommaseo già attento ai ‘mali’ che affliggono l’Italia (non per nulla una lettera del ’22 si apre con la frase:
«Sono a Sebenico: la polizia tien l’occhio su me») e si traduce nella
consapevolezza che un clima politico avverso e ostile ad ogni istanza di
libertà, preclude ogni margine di crescita culturale e di rinnovamento
morale e civile perché:
I genj nascono, ma per morire nella culla. L’Italia è ancor grande, ma non
è grande se non per esser più rea. La sua luce è quasi lampo di morte, che
giova solo ad allumare la sua miseria, e mostrarla al vicino, che ne sorride,
(44) Ibidem. Il passo è inedito.
(45) BCT, Ms. 2446, (10); BNCF, CT, 81, 6 (7), il passo è inedito.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
51
e mal s’argomenta di cambiar l’invidia in disprezzo. No l’Italia non potrà
mai esser sì vile da poter essere disprezzata. [...] Potran torci tutto: ma
questa terra madre di ricchezze; ma quest’aere, attore d’Eroi, ma questo
Sole ch’è tutto, tutto italiano, cel potran torre essi mai? (46).
In maniera più o meno esplicita si tratta di affermazioni non inusuali
e alle quali il Filippi si mostrerà particolarmente sensibile esortandolo
alla prudenza. Ma la cautela non doveva essere dote tommaseiana, come
attesta la chiusa di una lunga lettera di commento a un passo dell’Eneide
di Virgilio ove si legge:
Tersi scrittori, dotti filosofi, veri poeti non tornano, se non tornano miglior tempi e costumi [...]. Delle grandi infinite bellezze, che ne’ pochi
gran classici noi degeneri Nipoti ammiriamo, la maggior parte cred’io, è
come un lampo d’ispirazione. Se a Dante chiedesi, come venissegli in
capo di chiudere in que’ due soli versi: Quanti dolci pensier ec. Ec. Ec-,
tutto il nettare e tutto il velen dell’amore; risponderebbe: fu un lampo. La
Divinità molto più che nell’opera della natura, nell’opere de’ sommi ingegni puossi, amico, ammirare. Non è però che di sempre recondite gemme debbasi credere luccicante ogni lavoro de’ sommi. Gli uomini di mondo, dice Rousseau, non sentendo i veri pregi della sensibilità e dell’amore, e volendone pure far pompa, ci affibbiano delle qualità, che la vera
sensibilità, e ’l vero amore non hanno: così come i retori, ed i filologi
trovano bellezze in Omero ch’ei non ha, non veggendo quelle ch’egli ha
veramente. Da ciò conchiudiamo, che il solo classico può pienamente
gustar la lettura de’ classici, e che un pedante non che di imitargli o tradurgli non è pur degno di leggergli (47).
Oscillazioni tra il tenace attaccamento alla classicità e una sensibilità di matrice romantica persistono almeno sino al ’23 in un Tommaseo
che, facendo sue istanze largamente diffuse nella cultura coeva, dichiarava che soltanto la Bibbia, la Commedia ed il Werther sono i libri «degni d’essere apparati», ma lette poi le Lettere di Alcifrone osservava:
Le lettere Romanzesche di quel Greco, delle quali avevamo parlato, le
truovai, le comprai, le lessi, e mi piacquero. Non sono elleno però
concatenate tra loro; né tutte hanno un suggetto. Son divise in tre libri.
Nel primo v’ha lettere di pescatori tra loro, e poscia di puttane tra loro ed
ai loro drudi, e similmente di drudi a puttane. Nel secondo non ve n’ha
che quattro lunghette, anch’esse puttanescamente amatorie. Nel terzo ve
n’ha alcuna di pastorale, ve n’ha di meretricie, e ve n’ha molte di parassiti
(46) BCT, Ms. 2446, (68); BCNF, CT, 81, 7 (9). Lettera datata Padova, 11 giugno
1823.
(47) BCT, Ms. 2446, (16); BNCF, CT, 81, 7 (4). Il passo è inedito.
52
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
tra loro. Ma lo stile è sì semplice e le imagini sì naturali, che a me piacciono sommamente. [...] Gheth (sic) ha perfezionato l’idea. Ha reso uno il
soggetto, il fine, il personaggio, ma intanto non ha il merito dell’originalità. Eh! I tedeschi in poche cose deon essere originali» (48).
Ma l’attenzione al Werther giudicato «grandissimo anche nelle debolezze nazionali» è doppiamente significativa perché è nota la sua diffidenza verso la letteratura tedesca. Oscurità e pedanteria sono ritenute
limiti imperdonabili, e se poco ora gli piace il «mitologico cianciare» di
Orazio, altrettanto critico è verso Pindemonte e, almeno in parte, verso
Alfieri, colpevole di aver «inselvato» i suoi versi di «lungherie di libertà» che una maggior concisione avrebbe reso ben altrimenti efficaci. Al
di sopra di ogni critica resta il solo Dante, il «divino scultore del possibile», modello esemplare e metro di paragone sul quale misurare la
grandezza altrui, ammirato per «nerbo, evidenza, chiarezza», che consigliava al Filippi di leggere per sentire «nuova anima poetica in petto».
Anche se è singolare una lettera datata 21 luglio del 1821 in cui un
inedito Tommaseo confessa: «Leggendo Dante, m’addestrava a spiegarlo da me, ma son tante le allusioni storiche, mitologiche, filosofiche,
e talor le parole sconosciute ch’io nojato conclusi» (49). Sin dal 1822
suggerisce all’amico di acquistare il commento del Biagioli, considerandolo strumento essenziale per la comprensione della Commedia, del
quale apprezza particolarmente i rinvii all’Alfieri:
Acquista il Dante commentato dal Biagioli, ch’è cosa non pur utile ma
necessaria. Credi, che doppio è il gusto e il pro, ch’io da quel gigantesco
ingegno trasoglio dopo la lettura di quei travagliati commenti. Aggiugni,
che v’ha di più il cenno de’ versi dall’Alfieri notati nello estratto che fece
di Dante a Parigi (50).
Bisogna attendere due lettere successive, la prima del maggio, la
seconda del giugno del ’23, per una sorta di decalogo dei compiti del
Letterato che suggerisce di «impinguare la mente di filosofico alimento», di «animare l’immaginazione coi dolci sogni del cuore», di «accarnar
con parole l’interno inesprimibile dell’affetto», prima di chiudere con
un labor limae che impone di «vegliare, sudare, comporre, correggere,
(48) BCT, Ms. 2446, (3); ma il passo da «Nel primo canto ...» a «a me piacciono
sommamente» risulta ‘tagliato’ nell’apografo fiorentino, BNCF, CT, 81, 5 (5). Da parte sua Gambarin, che pure trascrive integralmente la lettera, censura i termini «puttane» e «puttanescamente» che sostituisce con la sola iniziale.
(49) BCT, Ms. 2446, (21); BNCF, CT, 81, 7 (21). il passo è inedito.
(50) BCT, Ms. 2446, (13); BNCF, CT, 81, 6 (2).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
53
cancellare, mutare, abbruciare con pietosa crudeltà i proprj parti». La
letteratura infatti non è evasione, ma impegno civile, l’obbiettivo di un
intellettuale che voglia essere un interprete del suo tempo, e non un
semplice «parolajo», è studiare «per vincere se stesso, per vincere
l’aspettazione, per vincere l’invidia, per vincere il reo costume del secolo, per vincere i nostri barbari vincitori» perché questo solo è «il fine
degnissimo del cristiano, del letterato, dell’uomo». Oltre a Dante (ma a
completare presenze ineludibili nel nostro primo Ottocento non manca neppure un rinvio a Shakespeare di cui traspone in «versi prosaici»
una «poetica prosa» tratta dall’Otello), figure esemplari sono Rousseau
e Foscolo. Particolarmente significativa l’ammirazione per il Rousseau
della Nouvelle Héloïse, al quale è disposto a perdonare, ed è per il
Dalmata una sorta di hapax, anche lo «spirito irreligioso», e che al Filippi,
che non la conosceva e per il quale ne traduce una parte, descrive in
questi termini:
Ella è il più caldo, e più naturale Romanzo che sia. Naturale, dissi, ma
solo alle anime grandi. Gli ometti della moderna società lo deridon per
contro siccome affettato, ed inverosimile. Ecco come, quando l’uom si
diparte da certi principij sovrani, che legano l’ingegno al cuore, l’idea di
Bellezza, di Verità, di Virtù, d’assoluta e immutabile ch’era, e fia sempre,
si fa mutevolissima, e relativa. Non già ch’io difenda gli errori religiosi di
quel Romanzo: tutt’altro. Or si parla del Bello, che sta nella conoscenza
del cuore (51).
A conferma di questa tenace predilezione gioverà ricordare almeno
che, con la sola eccezione di un rinvio manzoniano, citazioni da Rousseau
sono poste in apertura e del frontespizio e delle diverse Sezioni del
Perticari confutato da Dante e che tanta ammirazione sembrava eccessiva al Manzoni che, ricorda Tommaseo nei Colloqui, a mo’ di antidoto,
fece sparire dalla sua libreria le opere del ginevrino, con la sola eccezione del Dizionario di musica (52).
Ma questa, è noto, è soprattutto la stagione foscoliana del primo
Tommaseo, come attestano le Memorie Politiche, dove ascrive a Dante,
(51) BCT, Ms. 2446, (67); BNCF, CT, 81, 7 (3).
(52) N. TOMMASEO, Colloqui col Manzoni, a cura di T. Lodi, Firenze, Sansoni 1928,
p. 218 ove si legge: «Vedendomi troppo invaghito del Rousseau, del quale e’ mi lodava altamente lo stile (e sua madre mi chiamava Gian Jacopo), ne fece sparire dalla
libreria tutti i volumi salvo il Dizionario di musica: ma a me seppe buono anche quello.
E perché in certi versi io toccavo della bontà innata dell’uomo, me lo notò come
errore di Gian Jacopo: ma io lo dicevo in senso innocente. E un giorno mi scappò
detto non so che della gloria, con parole, piane e più con cenni e’ mi fece sentire la
vanità di quell’uomo e questo mi fu documento per tutta la vita».
54
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
Alfieri e Foscolo la sua iniziazione letteraria, le Memorie Poetiche dove
si dichiara «seguace della poesia idolatrica e voluttuosa» del poeta di
Zante, e il carteggio col Rosmini, che, eletto a giudice delle sue prime
prove poetiche, si era lamentato che suoi «versi [sapessero] odor d’Ugo
Foscolo» (53). Solo dopo il ’30 si incontra il più vulgato Foscolo tommaseiano, quello liquidato come «retore, bugiardo e vile» nelle lettere al
Cantù e ad Emilio De Tipaldo, e oggetto di moralistiche censure nel
Dizionario estetico (54). Aleggia invece nel carteggio col Filippi un diffuso clima ortisiano, non solo per espliciti rinvii al romanzo, ma per il
richiamo, insistente da parte del letterato trentino, al suicidio, segno di
un disagio interiore avvertito con tale intensità, che il Tommseo, rammentandogli che un simile tragico gesto era al «cristiano [...] divietato»,
gli scriverà nel ’21:
Tu vedi bene, che io, se dir lice, in te amo me stesso, e nella tua la mia
gloria, e nel tuo vivere il mio. Onde non darmi dell’importuno e dell’asino per lo capo, se io rifommi a grattarti nella pazienza, accomandandoti,
che tu viva; se non altro per ritenere in vita un amico, che vive in te. – Non
ha guari io leggea non so qual canto dell’Inferno, e avvenendomi a quel
passo, in cui il divino scultore del possibile fa parlare Ulisse a compagni e
gli fa dire:
A questa tanto picciola vigilia
De’ vostri sensi, m’è del rimanente ...
Non vogliate negar l’esperienza che (53) Cfr. N. TOMMASEO, Un Affetto. Memorie politiche, a cura di M. Cataudella,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1974, p. 5 e Memorie poetiche, a cura di M.
Pecoraro, Bari, Laterza 1964, pp. 37-38 e p. 75; al Rosmini, il 13 gennaio 1821 Tommaseo scriveva: «Dite che i miei versi sanno odor d’Ugo Foscolo; se io né ‘l lessi?
Collimeran solo i nostri ingegni? Ah no saria troppo!... Io sono dannato a strisciare, e
‘l vedrete. Se ‘l mio ingegno mi dona d’un qualche avere da render felice di qui a 20
anni me stesso ed altri men misero, basta. Non potete mai nomar Foscolo? E perché
mel nomate? Vi nausea il suo cuore? Eppure Foscolo ha bel cuore, per quanto appar
da sue lettere. Leggetele, e ne resterete rapito [...], ch’egli abbia travolta la mente ... io
non parlo, di lingua è sozzo e spoglio, pur piace. [...] se la sua poesia non è destinata
a vivere i secoli, prova almeno che per l’Italia questo secolo non è morto al tutto. [...]
le sue lettere m’hanno innamorato, e spirato del cuor suo bel altro che nausea». (N.
TOMMASEO e A. ROSMINI, Carteggio edito ed inedito, a cura di V. Missori, Milano,
Marzorati, vol. I, pp. 128-129).
(54) Il primo esilio di Nicolò Tommaseo 1834- 1839, Lettere di lui a Cesare Cantù,
edite ed illustrate da E.Verga, Milano, L.F. Cogliati, 1904. p. 120; Lettere inedite a
Emilio De Tipaldo, a cura di R. Ciampini, Brescia, Morcelliana 1953; N. TOMMASEO,
Dizionario estetico, Venezia, Il Gondoliere 1840, pp. 169-70 e Studi critici, cit. p. 136
ss. Ma cfr. R. CIAMPINI, Pagine inedite per una vita del Foscolo, in Studi e ricerche su
Niccolò Tommaseo, Roma, Edizioni di storia e letteratura 1994, pp. 226-253; e della
scrivente A proposito di Foscolo, Tommaseo e De Tipaldo, in Miscellanea di Studi in
onore di G. Da Pozzo, Roma-Padova, Antenore 2004, pp.537-577.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
55
Non potei non rammentarmi di te. Veramente è sì brieve la vigilia de’
nostri scorsi, che voler procacciarsi anzi tempo l’eternal sonno con le proprie mani, è tal crudeltà!... Più non dico (55).
Saggi consigli invero, ma presto dimenticati quando si trova, suo
malgrado, costretto a soggiornare nella «carcere illirica» («questa maledetta terra» dice ingenerosamente a Rosmini) ed allora si abbandona
ad analoghe suggestioni, e, lamentando una congenita incapacità di tollerare una vita che gli appare desolatamente vuota, «innamorato de’
sepolcri e sepolto vivo» conclude con questa citazione del carme foscoliano:
Io son qui nicchiato, come una statua antica. Inutile a me medesimo, e agli
altri, non so che mi fare di me.[...] Mio dolce amico! Noi non ci rivedremo
forse mai più, né le ceneri nostre saranno dal pianto dell’amiciza onorate;
ma la tomba non è che il confine della miseria, e di là siede il padre degli
uomini, il centro dell’amore, il Dio della Verità e della pace – (56).
Ma fitti sono anche i rinvii ad altre opere foscoliane a cominciare
dall’Ajace che nel ’20 Tommaseo trascrive per l’amico per passare, nel
’22, ai sonetti ed alle odi. E due delle responsive del Filippi, che condivideva questa predilezione foscoliana, mostrano che Tommaseo avrebbe addirittura pensato ad una sorta di continuazione dell’Ortis. Nella
prima si legge infatti:
Spero in breve di vedere la tua diffesa di Foscolo, essa mi giugnerà assai
cara, e te ne saprò molto grado, se ti dai la briga di stendere una tragicommedia su la morte immaginaria di Ortis, essa ti può fare molto onore, ed
a te solo mi pare che spetti di trattare un argomento, dove entrano tutti
quegli affetti, di cui l’anima sua è ripiena.
E in un frammento di lettera talmente ridotto che, purtroppo, non consente di ipotizzare alcuna datazione:
Negli scorsi giorni mi venne dato per un greco di leggere la Ricciarda di
Foscolo; tu me la dipingesti per modo, che non potevi meglio cogliere nel
segno, e perciò medesimo mi raffermai vieppiù nella mia opinione, che la
tua anima sia veramente tragica, non meno per la fantasia, che per fortemente sentirne gli affetti, questo adunque debbe essere il genere di poesia che ti cigne le tempie di quella fronda immortale [...] (57).
(55) BCT, Ms. 2446, (6); BNCF, CT, 81, 5 (7) .
(56) BCT, Ms. 2446, (62); BNCF, CT, 81, 6 (4).
(57) Da lettere inedite, BNCF, CT, 81, 1 (4) e 81, 4 (6).
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
Suggerimenti in sintonia con scelte precise del Tommaseo che proprio in quegli anni ha tra i suoi progetti letterari una tragedia su Caino
e nel ’25 lavora ad una tragedia «del genere buono» e con un intreccio
«oltremontano», sulla biblica figura di Giuseppe, lavoro, per altro, inizialmente pensato in forma di melodramma. Il nome del Foscolo scompare dal carteggio proprio sul finire del 1822 (era stato Lunelli a trascrivere per Filippi un’ode manzoniana e doveva essere una autentica
primizia perché «in Trento non era stata per anco intesa») quando entra in scena il Manzoni. L’eclisse foscoliana è graduale e affidata a due
lettere successive, nella prima Tommaseo chiede all’amico di inviargli
«lo sciolto d’Imbonati» e «l’Orazione del Foscolo» (58). Nella successiva acclude alla trascrizione dell’«ode del tuo Ugo» (leggi: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo) questo giudizio non privo di riserve:
Il nostro buon Foscolo mitologizza, come un sacerdote di Venere Cipria.
Se però ne levi lo stento, che quasi ad ogni verso fa sentire lo stridor della
lima, l’ode è bella, quantunque a me non piaccia poi tanto quella inutile
similitudine di Pallade, e quelle paci e quei baci che tralucono non so
come dagli occhi, e quella lunghetta e duretta pittura del cavallo, che
forse sotto il velame della metafora copre una colpa lata come dicono i
giureconsulti (59).
Nulla ancora si dice di quel Romanticismo che in area veneta dirà
Tommaseo al Vieusseux, non contava che «pochi [...] sparsi» cultori,
ma i riferimenti al Manzoni si fanno via via più numerosi anche se «romantico» è lemma ancora privo di ogni implicazione di poetica, presente solo due volte, come sinonimo di ‘romanzesco’, per definire le
«vicende romantiche» delle sue altalenanti fortune economiche e delle
sue speranze di impiego. Iniziato nel ’22, lo scambio di scritti manzoniani
proseguirà a ritmo serrato sino a tutto il ’23, prima col 5 Maggio, in coincidenza con un forte interesse verso Napoleone e la lettura dell’Ode A
Bonaparte liberatore del Foscolo, e il «Coro del Carmagnola». Poi, in una
lettera del giugno del ’23, Tommaseo parla all’amico delle Osservazioni
sulla morale cattolica, e del «Romanzo sacro» al quale il Manzoni stava
lavorando e sul quale già tante aspettative si erano andate concentrando,
chiudendo con questo giudizio sull’Adelchi e gli Inni Sacri:
Lessi una Tragedia di Manzoni l’Adelchi, e gl’inni suoi religiosi. Egli è il
primo poeta del secolo: e per ingegno e per cuore non cede nel suo genere a Dante. La tragedia in sé poco vale; ma ci ha due cori divini: la prima
(58) BCT, Ms. 2446, (13); BNCF, CT, 81, 6 (2).
(59) BCT, Ms. 2446 (62); BNCF, CT, 81, 6 (3), il passo è inedito.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
57
scena del quarto atto, quantunque lunghetta è inimitabile. Il verso è poi
sempre classico più di quello dell’Alfieri. [...] Gl’inni religiosi poi son
divini: specialmente quello per la Risurrezione, per Maria, e per la Pentecoste. Cercali, se non gli trovi, te li farò copiare, e te li manderò. Il mio
articolo da inserirsi nel «Giornal di Torino», sarà sopra lo spirito della
Poesia del Manzoni. Egli è ammogliato: ha dei figli; visse gran tempo a
Parigi; fu incredulo, or pio. Sta componendo un bellissimo Romanzo sacro; scrisse già un aureo Libro sui pregi della Religione cattolica (60).
E nel luglio
Tutti e due ci scrivemmo a vicenda di Manzoni, senza sapere un dell’altro. Or che te ne pare? Quell’ Oda della Pentecoste, non è quella un
pezzo degno d’Atene, di Roma, di Dante? – [...] egli è il poeta del secolo
e vivrà certo immortale (61).
Ma un ulteriore giudizio sul Manzoni degli Inni sacri si ritrova in
quello che Tommaseo definisce lo Scheletro d’un trattato sulla Poesia
lirica (62), in una lettera ancora inedita, datata Firenze 27 Giugno 1827,
che le lacerazioni della carta rendono solo parzialmente leggibile. Il
quadro è parziale, attento più alle lacune ed ai limiti che non ai pregi ed
alla completezza dell’insieme. Inizia col Trecento per poi passare direttamente all’età barocca e prosegue col Sette-Ottocento: così Dante «è
troppo speculativo», Petrarca è «troppo lambiccato, [...] quanto al tuono, ché il rendere generale questa critica a tutta la loro poesia sarebbe
sciocco ardimento» mentre a Chiabrera, Filicaia, Testi, Guidi, Frugoni
imputa un eccesso di «ampollosità nelle immagini» e di monotonia nel
«numero», di improprietà nella frase, di vacuità dei pensieri. Manzoni,
riconosce il Tommaseo, «tocca leggermente i lati più profondi del suo
soggetto, ma sovente vuole parer troppo profondo, epperò le imagini
gli svaniscono e resta solo il sentimento ed il pensiero», pecche queste,
presenti in tutti gli Inni sacri con la sola eccezione del Natale «che ha
una chiusa più lirica». Chi mostra un’ammirazione incondizionata per
Manzoni è il Filippi che avrà i Promessi Sposi da Rosmini perché a Trento
il romanzo era andato rapidamente esaurito, e nel ’33 chiederà a Tommaseo notizie sulla salute mentale del Manzoni, poiché si era sparsa la
notizia che egli fosse afflitto da una «aberrazione di mente com’ebbe il
povero Tasso». E per chiudere con una notazione sull’entourage di casa
(60) BCT. Ms. 2446, (69); BNCF, CT, 81, 7 (11).
(61) BCT, Ms. 2446, (71); BNCF, CT, 81, 7 (13).
(62) Lettera inedita, BCT, Ms. 2446, (50); BNCF, CT, 81, 9 (4).
58
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
Manzoni va detto che sarà il Filippi nel ’23 a suggerire al Tommaseo di
leggere l’Ildegonda del Grossi, che piacerà ad entrambi, ma non sarà
altrettanto entusiasta dei Lombardi alla prima Crociata dei quali, letta la
prima nota tommaseiana apparsa sul «Nuovo Ricoglitore», dirà: «Hai
mostrato, [...] che i canti del Grossi non sono da straziarsi, ma troppo
tardo, pare impossibile, che non abbia avuto un amico che lo distogliesse dallo stampare quel poema (63).
Ma torniamo a quel 1823 che nella vita del Tommaseo è uno snodo
decisivo perché vede il suo debutto, grazie ai buoni uffici di Rosmini,
come giornalista presso il «Giornale di Torino», e in seguito presso il
«Giornale di Treviso» come comunica al Filippi in una lettera del 26
luglio che chiude con un proposito che sembra rovesciare tutte le sue
precedenti scelte: «cominciare ad esercitarsi nella prosa, è necessario
oggimai. De’ poeti ce n’ha molti, pochissimi de’ prosatori» (64). Dal ’23
al ’25 sarà coinvolto in polemiche poco gradevoli, prima contro il Barbieri, poi contro il Monti, dettate, a suo dire, da una personale crociata
contro la «prostituzione del Bello alla brutalità di gente ingiusta, crudele, ignorante». Perché l’inesperto Tommaseo che entra nella reda(63) Lettera inedita del 19 luglio 1826, BNCF, CT, 81, 1 (22). Ma iI 9 luglio del ’23
Filippi aveva scritto al Tommaseo: «Leggi, se puoi avere, Ildegonda, novella di certo
Tommaso Grossi giovane milanese che farà pure onore al secol nostro» 81, 1 (10). La
recensione del Tommaseo apparve in due successive parti la prima nell’«Antologia»
vol. 22, aprile 1826, pp. 56-73, la seconda nel vol. 24, ottobre 1826, pp. 3-30. Entrambi gli articoli, uscirono non a firma K.X.Y, ma semplicemente T. Sui giudizi dei frequentatori di casa Manzoni, cfr. N. TOMMASEO - G. P. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a
cura di R. Ciampini e P. Ciureanu, (1825-1834), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1956, p. 74 ss. Sulla presenza del Tommaseo nel giornale fiorentino cfr. G. PETROCCHI,
Tommaseo, Firenze e l’«Antologia», AA.VV., Primo centenario della morte di Niccolò
Tommaseo 1874-1974, cit., pp. 13-27; A. FERRARIS, Aspetti della tematica romantica
negli interventi del Tommaseo sull’«Antologia» fiorentina del Vieusseux, in AA. VV.,
Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, cit., pp. 253-283; R. TURCHI, K.X.Y: una
sigla per recensire, in AA.VV., Teorie del romanzo, a cura di R. Bruscagli e R. Turchi,
Roma, Bulzoni 1991, pp. 19-40; EAD., Dalle recensioni alla «Storia civile nella letteraria». Gli articoli per l’«Antologia» di Niccolò Tommaseo, in AA.VV., Niccolò Tommaseo a Firenze, cit., pp. 133-153. Utile, anche se più settoriale, il rinvio a F. DANELON,
Un genere difficile. Tommaseo e il romanzo nelle recensioni sull’«Antologia», «G.S.L.I.»,
vol. CLXXVI, fasc. 553, 1994, pp. 60-89.
(64) BCT, Ms. 2446, (24); BNCF. CT, 81, 7 (14). Sul giornalismo veneto di primo
Ottocento cfr. G. GAMBARIN, I giornali letterari veneti nella prima metà dell’Ottocento,
«Nuovo Archivio Veneto», n..s., XXIV, 88, 1912, pp. 259-335; S. CELLA, Profilo storico del giornalismo nelle Venezie, Padova, Liviana 1974; I. DE LUCA, I. Nievo collaboratore della «Rivista veneta» di Venezia e della «Rivista Euganea» di Padova, «Memorie
dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti», 1964-1965, pp. 85-183; G. BERTI, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia, Deputazione editrice 1989, pp. 44-76.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
59
zione del «Giornale di Treviso», soddisfatto per quella che considera
innanzitutto la soluzione dei suoi pressanti problemi pecuniari, sembra
non avere alcun complesso di inferiorità, e si dichiara deciso a mutare
ogni cosa. Il «Giornale» gli pare «gretto» e «magro» ma annuncia al
Filippi, così come al Paravia, al Brunati, al Fontana, al Rosmini la sua
intenzione di dargli «moto» e «novella vita» o almeno «un po’ d’anima» così «che a Milano s’en oda lo scoppio» (65). Ovvio che neppure gli
altri collaboratori siano di suo gradimento, ma ciò non è che uno stimolo a meditare «alte operazioni e pellegrine». Ne uscirà invece malamente e in breve tempo per quegli attacchi al Barbieri, che provocarono
tanto sconcerto in area veneta e per i quali si meritò, tra gli altri, i
rimbrotti anche di amici come Melan e Paravia. La vicenda è nota, e
non bisogna di altri ragguagli. Meglio dunque fermarsi agli antefatti ed
in particolare su una lettera al Filippi dell’agosto del 1821, una pagina
ambiguamente generosa col Barbieri, perché l’apprezzamento generico e di maniera, maschera appena un taglio critico già «dogmatico e
tranchant», come Vieusseux gli rimprovererà negli anni fiorentini (66).
(65) «Dirovvi i patti con cui sono entrato magro collaboratore a quel magro «Giornale» dice Tommaseo al Rosmini il 25 luglio del ’23. (N. TOMMASEO e A. ROSMINI, Carteggio edito ed inedito, a cura di V. Missori, cit., p.239). Scontento della rivista veneta si
dirà anche Rosmini in una lettera del 13 ottobre del ’23, ove si legge: «Sono malcontento
del Giornale di Treviso. Io speravo che dalle vostre mani riuscisse il miglior giornale
d’Italia. Ma ci vuol altro a ciò! Non è da pigliarsela a fidanza, ma da porsi in quella cosa
che si prende a tutt’uomo. Bisogna fare articoli dotti, forti, lunghi e caldi, non due
parolucce e sempre sopra cose che non passano la mediocrità. Un giornale può essere
scuola alla nazione, non solo di letteratura, ma di religione» (ivi, p. 261). Affermazioni
alle quali qualche giorno dopo Tommaseo rispondeva: «Voi siete malcontento del Giornale. Chi più di me? Se in mia mano pur fosse, oserei confidare di renderlo fra non
molto il migliore d’Italia; ma non è né fisicamente, né moralmente, né ( ciò che più
conta) economicamente in mia mano. [...] Voi vedrete nel fascicolo di settembre un mio
articolo sulla poesia del Barbieri; e quantunque ci sia del puerile, son certo vi piacerà»
(ivi, p. 265). Per le lettere al Paravia cfr. G.B. CERVELLINI, Lettere inedite di N. Tommaseo a P. A. Paravia, «G.S.L.I.» a. XI, vol. CI, 1933, pp. 33-80 e pp. 201-258; la lettera al
Brunati in G. BUSTICO, Tommaseo giornalista, «Rivista d’Italia», X, 1907, p. 1000; quella
al roveretano abate Valerio Fontana, in G. FABRIS, Niccolò Tommaseo, collaboratore del
«Giornale di Treviso» (1823-24), con cinque lettere inedite di N. Tommaseo a Valerio
Giasone Fontana, «Schola. Bollettino del R. Provveditorato agli Studi della Venezia Tridentina», III, 8-9-10, agosto-settembre 1926.
(66) Cfr. la lettera di Vieusseux a Tommaseo del 10 novembre 1829 (N. TOMMASEO G.P. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu, cit., p. 132). In
questi termini Tommaseo ricorda il suo ingresso nel «Giornale di Treviso» in Dell’animo e dell’ingegno d’Antonio Marinovich: «In questo tempo, ch’era dell’età mia
l’anno ventesimo, entrai giornalista: immaturo dell’ingegno e dell’animo, e avente
dell’uffizio delle lettere piuttosto istinti animosi che rette idee; molti mi provocai
avversarii; a persone che mi amavano spiacqui» (in Studi critici, Venezia, Andruzzi
60
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
Nella lettera dopo aver chiesto all’amico di adoperarsi per ottenere in
Trentino associati all’edizione delle Opere barbieriane iniziata a Padova presso Crescini, in questi termini sembra alludere ad un’accoglienza
non del tutto positiva riservata all’iniziativa:
Fa d’acquistare a Trento associati al Barbieri, ed il solo mostramento de’
Sermoni dovria oramai far la cosa leggera. Chi per frivolezze li tiene, chi
per lungherie, tale altro per satire private e speciali, né da niuno l’ingegno
del Barbieri, è riputato per tanto quant’è, né più, né meno. Ma sermoni
scrivendo, non poteasi con parole innalzare cosa ella medesima di poco
affare; e le lungherie di lui, non già che meritino d’essere esaltate, ma
suonano certa ampiezza ciceroniana che non spiace, e molto sembrano e
sono dissomiglianti alla prolissità ampollosa del Monti. [...] Confesso anch’io che più desiderevol sarebbe che, in luogo di diciotto, due sermoni
stampati avesse Barbieri, che meglio provveduto avrebbe e alla sua fama
e, se non alla sua borsa, alla nostra. [...] Eppure non può niegarsi, che il
nostro Barbieri (dice De Mori) non sia sempre Barbieri, e di vero egli
esce talvolta de’ buoni cominciamenti, ed inciampa in quelle minute
improprietà, che dal vero genio ( il quale non può da criterio essere
scompagnato) scorrono nel genio, o passionato troppo, o troppo volatore,
od istudioso soperchiamente delle minuzie. Quel sempre avere in bocca
ed Apollo e le Muse, noja alcun poco, e pare voglia egli fare a quel povero
Nume Pimpleo condannato dalla nostra religione a perpetuo isbandimento, fargli dico prender per forza da capo la signoria de’ Poeti (67).
1843, p. 259). Per le polemiche col Barbieri cfr. Memorie Poetiche, a cura di M.
Pecoraro, cit. p. 106, il Dizionario estetico, cit., pp. 28-39 e, nell’Appendice (pp. 461462), questa sintesi conclusiva: «È qui luogo di correggere mezzo errore il qual corse,
e venne, non è molto, ripetuto con intenzione, spero, non inimica. Il Barbieri fu dato
a me per maestro, e parlato delle sue cure, ma il valentuomo fu a me professore di ius
naturale nell’università padovana. Or chi sa quali relazioni passino nelle università tra
studenti e professori, non farà l’una voce sinonimo di maestro né l’altra d’allievo.
Estimatore dell’ingegno e dell’animo di tal uomo, io lo visitai con affetto, e n’ebbi accoglienza pazientemente benigna. La prima volta (lo rammento con tenerezza) e’ stava seduto sul suo focolare; vendendomi gracile e timido, domandò l’età mia: quindici
anni, risposi: ed egli con paterna quasi pietà mi baciò. Veduti certi versi latini miei, m
‘invitò a visitare Torreglia ed a scriverne. E visitatala in do’ ore, ringraziando della
proffertami ospitalità, me n’andai, e scrissi que’ versi ch’egli poscia stampò. Né mai
insegnamento privato ebbi da lui. Quel che a me dettò alcuni articoli sconvenientemente acerbi contr’esso, fu non invidia certo, m’affetto prevalente a persona da lui
ferita. Nella ristampa (da gran tempo fatta, sebbene non data fuori) molte cose cancellai; parecchie altre, dovessi ristampare di nuovo, cancellerei. La vita mia è a me
continova educazione d’affetto. E fu de’ conforti di quella l’avere stretta al Barbieri la
mano, e avuto il suo bacio». Sull’intera vicenda cfr. M. PECORARO, La formazione letteraria del Tommaseo a Padova, cit.; V. ZACCARIA, L’accademico Giuseppe Barbieri e il
Tommaseo, «Atti e Memorie dell’Accademia galileiana di Scienze, Lettere ed Arti»
vol. CXIII (2000-2001) Parte III. Memorie della Classe di Scienze Morali, Lettere ed
Arti, pp. 21-50.
(67) BCT, Ms. 2446, (11); BNCF, CT, 81, 5 (10).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
61
Il sospetto che la richiesta non fosse estranea a ragioni personali
non è del tutto illegittimo, perché nel secondo tomo delle sue Opere, le
Veglie Tauriliane, Barbieri aveva accolto un carme latino tommaseiano,
Tauriliae descriptio che diverrà in seguito il pretesto, come è risaputo,
per una serie di violenti, reciproci attacchi. Le lodi tommaseiane hanno
in questa lettera un duplice significato: sono funzionali all’enumerazione puntigliosa, anche se per interposta persona perché rinvia ai giudizi
del De Mori, dei limiti della poesia del Barbieri, ma sono, al contempo,
un pretesto per condannare Monti.
Ancora del 1821 è un ulteriore accenno al Monti, foriero di un’ostilità che si verrà in seguito esasperando, in una lettera da Venezia ove il
racconto di una piacevole visita al vecchio poeta Vittorelli consente
una conclusiva boutade polemica:
Vittorelli è a Venezia. In casa del Poeta Giuseppe Bombardini. Col mezzo d’un mio amico volli visitarlo jer sera. Truovai un buonissimo uomo, e
buono due volte e mezzo. Tranquillo, sereno, gentile, ben parlante. Ha
fisionomia non comune; statura mezzena, faccia rossa, grossa anzi che nò,
e grassotta e rugosa, naso lungo, e grosso, parrucchino, vestito niente
affettato. Mi fu forza il recitargli una mia cosuccia, e gli piacque. Vedi
bontà! La signora di lui ospite m’affermava aver mille volte udito da lui
ch’egli scrisse le sue anacreontiche senza soggetto determinato; che piangea
in iscrivendole, ma non sapea, cui dirigerle. [...] Ma da altri mi si dice,
ch’egli acceso di bellissima donna, abbia stese quelle vezzose anacreontiche, che rimarranno più forte impresse nella memoria de’ posteri, che
non i versi di Monti (68).
Bisogna aspettare il soggiorno milanese del Tommaseo perché nel
carteggio si parli ancora del Monti tra il giugno del ’25, con l’accenno
ad un opuscolo «in favor de’ toscani» di «confutazione al Libro del
Perticari», e la tarda primavera del ’26 (69). Nell’ agosto del ’25, già in
(68) BCT, Ms. 2446, (2); BNCF, CT, 81, 9 (15).
(69) N. TOMMASEO, Il Perticari confutato da Dante, Milano, Sonzogno, 1825 e Appendice all’opuscolo «Il Perticari confutato da Dante» o sia risposta di N. Tommaseo ad
un articolo della «Biblioteca italiana», Milano, Sonzogno 1826. Sul soggiorno milanese
del Tommaseo e sui rapporti col Manzoni cfr. M. PECORARO, Il Tommaseo e la sua
amicizia col Manzoni, in Manzoni, Venezia e il Veneto, a cura di V. Branca, E. Caccia,
C. Galimberti, Firenze, Olschki 1976, pp. 217-250; V. MISSORI, Manzoni, Rosmini,
Tommaseo, in AA. VV., Primo centenario della morte di Niccolò Tommaseo, cit., pp.
69- 118; G. BEZZOLA, Tommaseo a Milano, Milano, Il Saggiatore 1978; M. BERENGO,
Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi 1980. Sul Tommaseo lessicografo cfr.: A. DURO, Linguistica e poetica del Tommaseo, Pisa-Roma,
Vallerini 1942, ID., N. Tommaseo lessicografo, in AA.VV., Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, cit., pp. 197-220; C. DI BIASE, Il Dizionario de’ sinonimi di N.
62
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
difficili rapporti con lo Stella, privo di risorse economiche e di «decorosa occupazione», Tommaseo confessa al Filippi di non avere ancora
trovato un editore disposto ad acquistare e a stampare il suo «Libretto». Solo a settembre la sua situazione è, almeno in parte, migliorata
grazie alla stampa di una raccolta di Massime morali e alla cessione ad
un libraio della prima parte del «Perticari confutato delle sue citazioni»
(questo dunque il titolo provvisorio dell’opera), ma ridimensionato, rispetto alla stesura iniziale, rivisto per amor di chiarezza perché i «sei
dialoghi» inizialmente scritti, gli erano poi parsi talmente «nojosi, che
trattine i più chiari argomenti», aveva accantonato il resto e ridotta «tutta
la prima parte» a sole «quaranta pagine». Aveva lavorato per ‘sottrazione’, scriveva al Filippi, e la concisione aveva dato alla scrittura quell’incisività che avrebbe consentito di fare «maggior colpo» a pagine,
vanterà in seguito, nutrite «di molte letture» (70). Tanto esasperato esercizio di sintesi, a polemiche già in corso, era tuttavia parso inefficace al
Marinovich, che gli aveva fatto conoscere ed inizialmente apprezzare il
Perticari, e che gli suggeriva di rimettere mano ad un lavoro del quale,
dichiarava apertis verbis, non condivideva le conclusioni. Fosse solo
desiderio di compiacere un amico o ammissione di colpa, Tommaseo a
lui, e a lui soltanto, confesserà di aver errato «nel metodo» promettendo un «ammenderemo» che pareva voler tenere conto dei suggerimenti altrui. Ma al di là di promesse poi non mantenute, rimane il fatto che
l’avviso Ai lettori che apre l’opuscolo, indica quale destinatario privilegiato delle contestazioni soprattutto Giulio Perticari, bersaglio, per le
sue «ciance» di improvvisato «pensatore», di un acredine fresca di conio, come indicano non solo le lettere al Marinovich, ma anche quelle
al Rosmini (71). Ammissioni di colpa, critiche e ripensamenti sono inveTommaseo, Napoli, Federico&Ardia 19902; G. DEVOTO, L’eredità linguistica del Tommaseo, «Nuova Antologia» CIX, giugno 1974, pp. 168-179, poi in Primo centenario
della morte di N. Tommaseo, cit., pp. 181-194; G. DA POZZO, Censura e cultura: le
resistenze alla penetrazione dei «Sinonimi» del Tommaseo nel Lombardo-Veneto, in
AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraro, cit., II, pp. 73-106; D.
MARTINELLI, La formazione del Tommaseo lessicografo, «Studi di filologia italiana, vol.
LV, 1987, pp. 173-348, e EAD, Il nuovo Dizionario de’ Sinonimi della lingua italiana, in
AA.VV., Niccolò Tommaseo e Firenze, cit., pp. 155-184; L. DANZI, Da Rosmini a
Manzoni: l’esordio linguistico del Tommaseo, in AA.VV., Manzoni e Rosmini, Milano
1999, pp. 59-87.
(70) Cfr. Dell’animo e dell’ingegno d’Antonio Marinovich, in Studi critici, cit., p. 174.
(71) Il 30 marzo del ’26 Tommaseo scriveva al Marinovich, «Duolmi che il mio
libercolo del Perticari non piacciavi. È oscuro, ma spiegherollo, e mi darete ragione.
– Di risposte non temo. – Che non dirà il mondo? È il mio scudo; sapete. – Errai nel
metodo: in Italia le cose si debbono dire più piane: oltreché la prevenzione è contra
me tutta. Ammenderemo» (Ibidem). Per il giudizio del Rosmini sul Perticari cfr. la
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
63
ce assenti nel carteggio col Filippi, al quale Tommaseo confida le sue
preoccupazioni per i contraccolpi personali di una polemica di cui si
dichiarava tutt’altro che pentito. Tanto più che Filippi, assecondando
propensioni ampiamente condivise negli ambienti culturali trentini,
coglieva soprattutto le implicazioni politiche ed ideologiche sottese alla
questione della lingua ed insisteva sull’opportunità di chiudere una
«misera lite [che] non ha fatto fino ad ora che impicciolire l’animo
degl’Italiani» e un «dramma che ha fatto ridere le barbaresche nazioni,
che si vantan d’un secolo più innanzi, quasi il nostro sapere sia limitato
alla sola lingua» (72). Le tesi tommaseiane del resto godevano di tutta la
sua approvazione e ne diceva al suo corrispondente:
Giunto in Verona mi venne veduto il Perticari confutato da Dante, lo
comperai all’istante, il lessi per via, il rilessi a Padova, e piacquemi assai!
Qui hai sbalorditi i nostri letterati ! All’ombra di Monti gridano contro di
te, come cani che escon di catena» (73).
L’opuscolo frutterà allo scrittore dalmata, oltre a sgradevoli polemiche, che andavano ad aggiungersi a quelle suscitate dalla recensione
all’Adelchi manzoniano, «quattro magri luigi», che gli erano assolutamente necessari dopo la rottura con lo Stella della quale diceva al Filippi:
Ché mai avrei potuto far io sempre schiavo d’un librajo, e costretto a
stampar, caldi ancora del getto, i miei giovanili lavori? Molto avrei scritto
e male. Così vivrò forse misero, ma signore del mio ingegno e della mia
fama [...] (74).
Le difficoltà non l’avevano dunque piegato, Tommaseo non temeva critiche, le aspettava anzi con quella certa supponenza che non gli
mancherà mai e lo confessava apertamente:
Io non temo né il Monti, né tutta in corpo la letteratura italiana. Scrivendo contro il Perticari, io credetti, di scrivere il vero; credetti dover dimostrare un errore, che disonora l’Italia; credetti dover finire una lite che ci
dimostra in faccia allo straniero imbecilli: né vile odio, né misera invidia
ha mai contaminato il mio cuore. Io dissi il Vero talvolta agramente, ma
Vero sempre. – (75).
lettera al Tommaseo del 15 settembre 1823 ove si legge: «Vi raccomando lo studio del
Perticari. È al tutto un uomo antico» (N. TOMMASEO e A. ROSMINI, Carteggio edito ed
inedito, a cura di V. Missori, cit. p. 256).
(72) BNCF, CT, 81, 4(11). La lettera è inedita.
(73) La lettera è del 26 ottobre del ’25, BNCF, CT, 81, 1 (19).
(74) BCT, Ms. 2446, (73); BNCF, CT, 81, 8 (5).
(75) Ibidem.
64
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
Inutilmente Filippi invitava alla cautela per evitare possibili interventi e della censura e della polizia, perché, più che il Monti, ne temeva
i sostenitori, vale a dire quel Paride Zajotti, che definirà «genio del
male», i cui meriti letterari pure non erano ignorati fra i suoi conterranei, ma le cui convinzioni politiche non potevano che spiacergli, e del
quale già in precedenza gli aveva detto:
Lessi e rilessi i tuoi articoli su l’Adelchi, e mi piacquero assai. Ben facesti
a farti parte per te stesso, ed a mostrare che la Biblioteca Italiana e la voce
di Zajotti non sono oracoli [...]. Perdona se mi prendo la libertà di avviarti un avvertimento amichevole ed è che ti guardi dal muover parola su
affari politici etc. etc.; poiché codesti tuoi terribili avversarij veggendosi
soperchiati in letteratura, non tentassero per avventura, una più vile vendetta (76).
Intanto, visti svanire in tante bufere i suoi «letterarii disegni», un
Tommaseo solo e preoccupatissimo del suo futuro nel dicembre del ’25
gli confessava:
Io non so se tu abbia veduto il mio Galateo; uscì verso la fin di settembre
e qui piacque. Il Perticari confutato da Dante, escì verso la metà dell’Ottobre; io mi vivo sì solitario che nulla ne intesi, fuorché il giudicio di que’
pochissimi ch’io conosco. La Biblioteca Italiana risponderà, mi si dice.
Non so del Monti. Ciò che mi duole si è di non aver tosto preso un partito
qualsiasi fermamente, e d’essermi atterrato a pregar questo e quello per
aver da Librai un misero tozzo di pane. I miei nemici gioiscono a vedermi
a tale, e credono che l’abbiezion mia penetri sino all’anima. Ma io sono
sempre lo stesso [...]. Proposi ad un altro Libraio una serie di aggiunte
alla Crusca; e so che il mio Saggio fu veduto dal Monti, e fu riprovato (77).
Decisamente diverso è il tono dell’ultima lettera in cui Monti viene
ricordato, il 20 aprile ’26, a proposito delle pagine sulla Mitologia, che,
ricordava al suo corrispondente, erano state apprezzate nell’«Antologia»,
la cui stampa aveva rinviato per non turbare il poeta gravemente malato, e dove, sia pure con quel procedere obliquo così ricorrente, e talora
francamente sgradevole nel Tommaseo, riferisce l’attenzione e la benevolenza con cui il suo antagonista si era tenuto informato di quanto egli
era andato pubblicando:
Sulla Mitologia ho scritto un discorso più lungo, e più vivo. Ma ora, a dir
vero, rifuggo dallo stamparlo, or che Monti, come saprai cadde d’un col(76) BNCF, CT, 81, 1 (20), la lettera è mutila ed è dell’agosto del ’25 come attesta
il timbro postale.
(77) BCT, Ms. 2446, (73); BNCF, CT, 81, 8 (5).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
65
po, e si teme per lui. Questo accidente m’afflisse sopra ogni credere. Io
non abborriva in lui, che le molte contraddizioni del suo carattere e la
ingiusta ammirazione datagli in tributo dal secolo. Ma quando penso che
le circostanze talvolta fanno gli uomini; e che con altri amici al fianco il
Monti sarebbe stato un fermissimo animo e liberissimo; quando riguardo
al suo ingegno incontrastabilmente eminente; al suo gusto quasi sempre
legittimo, benché non mai fino, ai suoi meriti verso la Letteratura per lo
risuscitato, od almeno infiammato più che non era, amore di Dante, e per
la pedanteria debellata; non posso non amarlo con l’anima, e non compiangere la sua sorte. Dicono si sia confessato. Dio voglia che bene. Ecco
dove finisce la gloria! – Egli fu da Rosmini ch’è qui: parlò del mio Perticari,
sen dolse, ma con riserbo, e con segni di stima. I miei articoli sopra il
Dante Bartoliniano, il mio Vannozzo, quest’ultime ottave, tutto ch’egli
vide di me, commendò. Non è ciò che a lui mi concilii: queste lodi non
fanno tant’onore a me, quanto a lui (78).
Se non una rettifica, certo qualcosa di ambiguamente contiguo, in
cui lodi e biasimi sono complementari, ma per il prevalere di ragioni
extraletterarie, le condizioni e il ritorno ai conforti religiosi di un Monti
ormai in fin di vita, parole in cui il dato più rilevante è che il Tommaseo
si vale di quegli stessi criteri di giudizio con i quali in seguito si accosterà al Foscolo. Gli esigui margini del consenso (in primis il ritorno a
Dante) vengono da ciò che il Monti ‘avrebbe potuto essere’, non dal
ruolo che egli aveva avuto nella nostra scena letteraria. Come accadrà
al Foscolo, il poeta è lodato per il suo ingegno, ma si precisa che è
ingegno mal speso, contaminato dai vizi del tempo e dalla fragilità interiore che rende l’uomo, almeno in parte, responsabile dei limiti del
letterato. Riserve analoghe, sia pure stemperate da un giudizio che tenta di farsi più benevolo, sono presenti anche nella Necrologia del Poeta
apparsa nel ’28 nell’«Antologia», ripresa poi nel Dizionario estetico,
quando post res, ma non pacificato, in pagine che dice dettate dal «sentimento» a consacrazione della memoria del Monti, Tommaseo lo definisce cultore del «bello più semplice, più universale, più forte», ma
anche intellettuale dai «civili portamenti» assai discutibili. La Proposta
di correzioni e d’aggiunte al vocabolario della Crusca, insiste ancora il
Tommaseo, è «opera penosa», cui va il solo merito di aver sottolineato
l’importanza «morale e politica» della questione della lingua perché
«letteratura efficace sulla pubblica opinione in Italia non s’avrà mai, se
la lingua degli scriventi non si rinnovelli a forme più determinante e più
schiette» (79). Per «l’indole del secolo nel quale son corsi i suoi più begli
(78) BCT, Ms. 2446, (74); BNCF. CT, 81, 8 (7).
(79) Cfr. Dizionario estetico, cit., p. 263, l’intera nota sul Monti alle pp. 246-271.
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
anni, [per] la natura dell’ingegno suo stesso, che nell’oggetto poetico
ricercava il più estrinseco e il più sensibile», a Monti era mancato il
desiderio di accostarsi a quel genere di «poesia morale ed eterna» che
invece aveva fatto sua un Manzoni, assurto al ruolo di modello intellettuale, capace di mantenere la sua penna «Vergin di servo encomio e di
codardo oltraggio». La «freschezza» della poesia montiana era risultata
inadeguata ai nuovi compiti riservati alla letteratura in un’epoca in cui
spettava al letterato essere «consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e degli uomini, re dell’opinione», «diffondere il sentimento
della giustizia civile e della morale verità». Era un giudizio oltre che
ingeneroso, incauto perché in anni di cronica precarietà economica,
anche per Tommaseo la letteratura non è stata solo vocazione ma professione non esente da compromessi se proprio nel ’26 arriverà chiedere all’Acerbi di accoglierlo fra i collaboratori in quella «Biblioteca Italiana», che a Firenze nel ’27 definirà «giornale degli sciocchi e dei vili»
guidato da spie del governo (80).
Certo in quegli anni raccontava al Paravia col piglio del martire di
essersi sacrificato inutilmente nel «goffo» «Giornale di Treviso» al quale
aveva concesso di fregiarsi del suo «nome», di aver combattuto a spada
tratta Monti, Trivulzio, Maffei e gli «altri semidei della letteratura», ma
l’isolamento in cui si vedeva costretto doveva pesargli al punto da spingerlo a decidere: «fattomi un nome, io lascio l’Italia e per sempre. Terra di viltà e di servaggio», atterrito di dover restare «schiavo» delle sue
necessità economiche (81). Ed erano giustificazioni che molto dovevano
costargli se, il 10 settembre del ’25, nel bel mezzo di polemiche affrontate con la solita irruenza ma, forse, non senza timori, scriverà all’amico
trentino: «questo prostituire l’ingegno, questo far molto e niente di
buono, questo dipendere dall’impero d’un librajo mi fiacca il cuore e la
mente» «sono stanco di questa vita, stanco di servire al pane ed ai librai» (82). I suoi interventi contro «il Monti ed i cani del Monti» non
erano stati privi di conseguenze e ben poco dovevano averlo consolato
gli apprezzamenti del Filippi che nel giugno del ’26 gli scriveva:
Il discorso sulla Mitologia non potea essere né più vibrato, né più persuasivo. E credo, che i seguaci del Monti, ed il Monti stesso, se potessero dir
tanto risponderebbero: non abbandoneranno per tutto ciò la Mitologia,
loro largo campo di messe, ed unica fonte di quelle feconde fantasie (83).
(80) BCT, Ms. 2446, (75); BNCF, CT, 81, 8 (8).
(81) Da una lettera del Tommaseo al Paravia del 18 settembre 1825, in G.B. CERVELLINI, Lettere inedite di N. Tommaseo e P. A. Paravia, cit. p. 63.
(82) BCT, Ms. 2446, (39); BNCF, CT, 81, 8 (4).
(83) BNCF, CT, 81, 2 (1).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
67
La verità era che a Milano aveva fatto attorno a sé il vuoto, e dovrà
confessare al Filippi che il suo Perticari a molti era parso «oscuro» e al
Rosmini che «la confutazione del Perticari è tropp’arida e stretta, né
può non che piacere essere intesa» (84).
«IL NOSTRO ESSERE INSIEME È RARO E CORTO»
Una sorta di cesura è rappresentata nel carteggio dal 1827, quando
Tommaseo è finalmente a Firenze, ove spera di vivere vita «angusta ma
libera», in un ambiente del quale tutto gli piace a partire da quella lingua che gusta come un «nettare», da quella pronuncia che gli pare «un
incanto», da quel giornale che considera il solo capace di «spirare nuova vita nella letteratura italiana». Anche Filippi è certo che l’«Antologia»
sia «il miglior giornale, che sievi in Italia», ma lamenta che, interventi
della Censura ne rallentino drasticamente la circolazione in Trentino.
Io sono in Civezzano funestato da varie cose, che tutte saprai: qui nessuna emulazione allo studio, chiusa ogni via alla fama, ed alla gloria: qui
solo al lucro è sacrato ogni pensiero di coloro, che mi circondano, e chi
ad altro intende è additato come cosa nuova. A tutto posso tuttavia far
fronte, ma amerei allontanarmi da questo paese non solo ma eziandio dal
Tirolo, ch’è veramente un limbo, ove non si sa nulla, se altri non ci apporta la novella, vedi perciò qual balsamo possano spargere le tue lettere sul
cuore del tuo nuovo amico. Qui mancano i libri, e la stessa antologia di
Firenze non ci capitava che per mille giri, giacché andava in prima ad
essere censurata in Germania!!... Indi dopo lunghissimo spazio di tempo
si vedeva in Trento, ed ora son passati 9 mesi, che non s’è veduta, né forse
si vedrà più mai (85).
È questo l’anno in cui per la prima volta i due sodali parlano esplicitamente di quel romanticismo verso il quale il Dalmata si mostrava
tutt’altro che benevolo, come attestano le lettere al Vieusseux al quale
confessava di non appartenere ad alcuno schieramento e di non sentire
alcun «prurito» di essere definito romantico, perché il solo «titolo di
Romantico [gli era] insopportabile» (86). Tanta diffidenza spiega per(84) La lettera del Tommaseo al Rosmini è della seconda metà del ’25, (N. TOMMASEO e A. ROSMINI, Carteggio edito ed inedito, a cura di V. Missori, cit., p. 315).
(85) La lettera del Filippi è datata 10 aprile 1832, BNCF, CT, 81, 2 (7).
(86) N. TOMMASEO- G. P. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P.
Ciureanu, cit., p. 77 ma cfr.anche la lettera tommaseiana del 27 marzo del ’26 ove si
legge: «Io conosco i partiti ambedue, e non son dell’un né dell’altro: perciò parmi
veder meglio il male di tutt’e due» (ivi, p. 29).
68
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
ché l’iniziativa venga dal Filippi che, nel maggio del ’27, gli chiedeva:
«Amerei sapere ciò che veramente tu intenda per romanticismo, e se
l’opinione tua s’accordi a quella di Scheghel o sia diversa» e, nel settembre: «Godo che a Firenze piaccia il romanticismo. Pregoti a scrivermi frequentemente e singolarmente su ciò, onde chiaramente accennarne il vero punto, e ribattere di forza, se sia possibile, l’accuse
tutte dei classicisti» (87). Affermazioni significative in un Filippi solitamente appartato e poco propenso alle polemiche, e che consentono di
misurare gli orientamenti del vivace milieu culturale trentino. La
responsiva tommaseiana, che in incipit liquida come «sciocco» lo stesso
termine Romanticismo, distinguendo quello tedesco dal francese, che
confonde «romantico» con «romanzesco», vede nei principi di Verità,
Popolarità e Moralità gli elementi costitutivi della poetica romantica e
parla di una letteratura che, accantonate le «fatuità mitologiche» sappia
«veramente giovare alla nazione», per chiudere con un perentorio: «unica legge seguire l’impulso del cuore» (88). Sono cose note agli studiosi e
dunque più interessante è cogliere attraverso questa sezione del carteggio giudizi ed impressioni: su Firenze che gli appare culturalmente più
agguerrita di Milano, ma dove pure vede molto «guasto», in cui il romanticismo «non spiace» e gli pare destinato a spiacere sempre meno, sul
gabinetto Vieusseux che vanta ben settantacinque giornali, e dove ogni
lunedì si radunano le persone più «alte» della città, e sull’entourage
dell’«Antologia», dal Giordani, che «non crede nulla, declama sempre»,
a Niccolini che gli pare «buon uomo» ma che «sarà sempre troppo
alfieriano», al «buonissimo» Montani che «non crede, ma forse crederà». Il ritmo epistolare, nel frattempo, si è drasticamente ridotto, le lettere si sono fatte più brevi e più ridotte le annotazioni personali, sono aumentate, per contro, le informazioni sulla vita culturale del tempo. Sono
gli anni del ritorno alla poesia che deve «ormai dagl’individuali e privati
affetti elevarsi alla dignità di morale e politica missione» e dei Sinonimi
quando al Filippi (che si prodigava per trovargli associati in Trentino)
dichiara che egli considera «la popolarità d’una lingua veramente comune, necessaria all’italiana concordia». Ed è, soprattutto, il momento di un
deciso impegno politico per un Tommaseo, che molto ha fatto, ma che
crede sia ormai tempo per un bilancio di sé che prelude a questa sorta di
liberatoria dichiarazione d’intenti che chiude l’unica lettera del ’32:
(87) La prima lettera è del 1 maggio del ’27, la seconda del 17 settembre rispettivamente in BNCF, 81, 2 (2) e 81, 2 (4).
(88) La lettera del Tommaseo è del 1 maggio ’27, BCT, Ms. 2446, (76); BNCF, CT,
81, 9 (1), pubblicata anche da Bezzola, Tommaseo a Milano, cit., pp. 246-249.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
69
Aspetto intanto i trent’anni, che vengono col prossimo ottobre. Allora
avrò finiti i sinonimi, allora mi darò a finire il Commento di Dante, e a
preparare qualche lavoro, che possa giovare a me stesso e ad altrui. Una
sola speranza mi sostiene; ed è questa di fare un po’ di bene con la parola,
poich’altrimenti non posso» (89).
Nel periodo dell’esilio, per ragioni facilmente intuibili, lo scambio
epistolare, sembra ulteriormente contrarsi e del Tommaseo non restano che due lettere, la prima del ’34, la seconda del ’37. Tra disagi, solitudine, indicibili sofferenze fisiche la Francia gli sembra quanto mai
inospitale. Proprio «non mi ci affà» esordisce, descrivendo al Filippi,
più succintamente ma in termini non dissimili da quanto appare nelle
lettere a Tipaldo, a Cantù, a Paravia, una nazione in cui la vita politica
e culturale gli pare ridotta a «ciance e vanti». Ma, cosa peggiore, «il
contagio de’ pregiudizi francese guasta gli esuli» sia i polacchi che gli
italiani, dei quali menziona con malgarbo il tipografo Bettoni ormai in
rovina, il Berchet che «traduce romanze spagnuole. Avverso a ogni religione, ed epicureo a quanto dicono». L’unico ad essere ricordato con
sincero affetto è Alessandro Poerio «giovine napoletano [...] il più forte
poeta lirico dopo Manzoni, ch’io veggo sovente, e mi legge le cose sue,
e c’imparo, ed egli ascolta le mie pedantesche censure, e obbedisce con
docilità di maestro». La seconda lettera, si diceva, è del settembre del
’37, pur nella sua brevità è un quadro completo della difficilissima condizione in cui il Tommaseo viveva (in ansia per la precarie condizioni di
salute della madre che temeva non gli sarebbe stato concesso rivedere)
e lavorava con l’annuncio della prossima edizione dei Nuovi scritti:
Quando scrivi (questo dico per te, ché io non sono a tiro degli artigli che
tu sai) scrivi prudente sì che la lettera, aperta da altri che da me, non ti
noccia. [...] Di tutto quel ch’i’ ho scritto e scrivo, non posso parlarti per
la ragione sopra toccata: ma a Venezia esciranno quattro volumi di mio,
se la Censura permette. Le cose stampate fuori vorrei che tu potessi leggere: ma non veggo modo. [...] A casa non posso tornare senza pericolo.
Il dolor di mia madre mi trafigge (90).
Informazioni interessanti vengono dalle lettere del Filippi sulla ricezione delle opere tommaseiane in Italia e in un Trentino in cui il
nome del Dalmata faceva ormai notizia perché «i nostri padroni
paventano la tua parola». Il «Libro sull’educazione» era stato «letto ed
approvato da tutti» mentre con trepidazione si attendeva la stampa della
(89) BCT, Ms. 2446 (77); BNCF, CT, 81, 9 (5). La lettera è del 26 aprile.
(90) BCT, Ms. 2446, (79); BNCF, CT, 81, 9 (10).
70
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
Commedia nel timore di tagli imposti dalla Censura, tanto che Filippi
preferirà acquistare la seconda edizione dichiarandosi certo che sarebbe stata migliore della prima, per la quale il Tommaseo esule aveva
dovuto affidarsi ad altri curatori. Nel ’40 sarà Tommaso Gar, che aveva
potuto leggerlo a Vienna, a parlargli in termini entusiastici del Duca di
Atene, mentre travagliate, e pour cause, saranno le vicende del volume
Dell’Italia, di cui, scriveva al Tommaseo, «si ordinava di rintracciarne
se ve ne fosse copia alcuna in questi dintorni [con ] una Circolare che
sarà andata per tutti gli uffizi del Tirolo» (91), e sorte analoga paventava
nel ‘42 anche per gli Scritti Filosofici sui quali correva notizia che fossero stati posti all’Indice a Roma. Avrà la sua piena approvazione il
«romanzetto» Fede e Bellezza, malgrado le polemiche che ne avevano
accompagnato la diffusione, del quale dirà all’amico:
Egli è un ricamo finissimo, e se a tutti in Italia non piace la colpa è dei
tempi, e del poco gusto, che domina [...] . Ottimo fu il pensiero di ristamparlo, perché così dai morta la critica e i critici, ma i tuoi critici sono cani,
cui altri scioglie il guinzaglio, e corrono, dove lor talento mal guida, o li
guida la voce d’un genio malefico. Il Puecher, che t’ama, dissemi avere in
Venezia conosciuti due geni: il genio del bene, ed il genio del male. Il
primo tu l’indovini, il secondo è lo Zajotti, già a tutti troppo noto! (92).
Non gli piaceranno invece le Preghiere cristiane edite nel ’42 che
considerava «povere di affetto».
Anche per lo schivo Filippi, chiusi finalmente gli studi universitari,
era nel frattempo giunto il momento di un più deciso impegno letterario che lo vedrà partecipe delle non poche iniziative culturali dei suoi
conterranei come, nel ’35, la raccoltina poetica a favore delle scuole
popolari, Soccorrasi al Povero, per cura di Ignazio Puecher Passavalli
(che nel ’41 con una sua lettera di presentazione era andato a Venezia a
conoscere il Dalmata), o nuove imprese giornalistiche come quell’ «Italia-Germania» che avrebbe dovuto pubblicarsi a Rovereto su iniziativa
di Francesco Antonio Marsilli, che doveva esserne il direttore, di Andrea Maffei e di Tommaso Gar, e che poi era stato accantonato per
evidenti ragioni di opportunità politica (93). Di quanto avviene nella
(91) BNCF, CT, 81, 3 (5). La lettera è inedita.
(92) Lettera inedita del 18 ottobre 1841, BNCF, CT, 81, 3 (9).
(93) Della raccolta Tommaseo dirà: «Soccorrasi al povero. Questo è il titolo d’un
opuscoletto trentino, consacrato a dar pane a’ poverelli raccolti nelle scuole infantili.
Accanto al nome di due preti che intendono la missione civile del sacerdozio, il
Pinamonti e il Lunelli, stanno i nomi del Prati, del Frapporti e del Gazzoletti, a’ quali
le difficoltà di vita saranno, io spero, perfezionamento continovo. Qualche suo verso
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
71
regione egli parla diffusamente ad un Tommaseo da sempre legato al
Trentino amato, scriveva nel ’42 a Ignazio Puecher Passavalli, «non
solo come parte d’Italia, ma come delle meno effeminate, e men guaste
parti d’Italia, come la patria di due uomini, che molto potettero sull’educazione dell’ingegno e dell’animo mio: il Filippi e il Rosmini» (94).
Qui sa che può contare su amici fidati, e proprio questi «valenti Trentini
e gli Agiati di Rovereto» vorrà accanto a sé, per le loro specifiche competenze nella grande impresa del Dizionario della Lingua Italiana, come
Giovanni a Prato, Bartolomeo Malfatti, Vittore Ricci, Francesco Antonio Marsilli. I nomi di Tommaso Gar, Francesco Lunelli, Simon Michele Tevini, Bartolomeo Stoffella, Innocenzo Turrini, Ignazio Puecher
Passavalli, oltre naturalmente ad Antonio Rosmini sono ricorrenti in
questo carteggio. Un cenno a Rosmini è doveroso, ma necessariamente
diede il Filippi [...]. Diedero versi il Puecher, animo innamorato della perfezionatrice
bellezza; ed il Gar, che nella terra straniera mantenne l’amor dell ‘Italia e l’onore»»
(Della letteratura veneta d’oggidì. D’alcuni Scritti recenti, in Studi critici, cit. p. 411).
Dell’adesione trentina alla poetica romantica una sorta di manifesto si possono considerare le pagine di Scipione Giuseppe Sighele, Sulla Scelta di poesie edite ed inedite di
varj autori tirolesi. Discorso, Rovereto, per Luigi Marchesani, 1835 (che riprende una
memoria presentata nel ’30 in una tornata dell’Accademia Roveretana degli Agiati), e
la Dedica premessa da Anton Francesco Marsilli all’edizione dei suoi Versi, per le
nozze Sighele-Balista, Rovereto, per Luigi Marchesani, 1835, pp. III.XVI, da integrarsi, per un giudizio d’insieme sulla produzione coeva, con A. PERINI, Uno sguardo
alla letteratura del Tirolo Italiano. Le donne letterate, «Rivista Viennese, t. IV, fasc. XI,
1838, pp. 143-150 e I. PUECHER PASSAVALLI, Della trentina letteratura del secolo decimonono, «Giornale Euganeo», fasc. XXII, 30 novembre 1844, pp. 843-854. Per una bibliografia critica sul romanticismo trentino cfr. C. ORADINI, Ambiti della cultura romantica in trentino, in AA.VV., L’Ottocento di Andrea Maffei, Trento, Temi 1987,
pp. 246-264; M. ALLEGRI, Il Trentino, in Letteratura Italiana, Storia e Geografia, III,
L’età moderna, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi 1989, pp. 863-884; M. GARBARI,
Aspetti dell’editoria trentina nell’800: una produzione in lingua italiana alla periferia
dell’Impero Austriaco, «Studi Trentini di Scienze Storiche, a. LXXVI, I-II, 1997, pp.
67-88; D. CURTI, R. TAIANI, G. TECILLA, Protagonisti. I personaggi che hanno fatto il
Trentino, Trento, Società Iniziative Editoriali 1997. Sul giornalismo trentino cfr.: A.
ZIEGER, Giornalismo trentino fino al 1866, Trento, Seiser 1960; M. ALLEGRI, La «Rivista Viennese (1838-40)»: un episodio della cultura tedesca in Italia nel primo Ottocento,
«Bollettino della società letteraria di Verona», 1982, 5/6, pp. 243-287; M. GARBARI,
Giornali e giornalisti nel trentino dal Settecento al 1948, Rovereto, Pancheri 1992;
Rovereto, il Tirolo, l’Italia; dall’invasione napoleonica alla Belle Époque., voll. I-II, a
cura di M. Allegri, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati 2001; ID., La produzione letteraria in un territorio di confine, in M. GARBARI- A. LEONARDI ( a cura di),
Storia del trentino. V. L’età contemporane 1803-1918, Bologna, il Mulino 2003, pp.335370, G. FAUSTINI, Il Giornalismo e la diffusione dell’informazione, ivi, pp. 413-438.
(94) Cfr. U. VALENTE, Niccolò Tommaseo all’Avv. Puecher Passavalli ( con lettere
inedite), «Archivio storico per la Dalmazia», a. XV, vol. XXVIII, fasc. 167, marzo
1940, p. 367.
72
Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
breve, visto che la bibliografia al riguardo è tutt’altro che lacunosa, e
solo per colmare, se possibile, eventuali zone d’ombra. Una lettera in
particolare va ricordata del 21 giugno ’23, da Rovereto, equamente divisa, in quanto al contenuto tra due soggetti: Rosmini e Manzoni, e in
cui del Saggio sulla felicità dice acidamente: «avvi qualcosa di buono
ma lo stile [...] pare infelice. Ha idee assai profonde: epperò conviene
leggerlo due volte per bene intenderlo, ma ciò che negli altri libri fora
un pregio, [...] pare piuttosto uni difetto» (95). Lo trovava pienamente
consenziente invece il progetto rosminiano di una Società di Letterati
per «farli tutti indirizzare al grande scopo della Religione», impresa
difficile ma nella quale si dichiarava disposto ad una piena collaborazione nella speranza di essere il «primo forse ad innalzare l’insegna
della Croce sul Parnaso». Fra gli altri trentini sorprende uno Stoffella
ritratto con minore simpatia di quanto non lascino intuire le Memorie
Poetiche, diviso «fra l’ambizione e la viltà, tra la furberia e la sincerità,
tra la sensibilità e la durezza, tra la passione e l’amore», ammirato solo
come esperto cultore dell’etimologia, dotato di «grande ingegno» ma
non di «gusto», sgradito sia al Tommaseo che al Filippi per la sua ostinata difesa della mitologia. Altra presenza trentina è Gar, apprezzato
dal Tommaseo come traduttore di Lamartine, che l’aveva recensito
nell’«Antologia», ma al quale consigliava di scrivere «di suo» e di argomenti capaci di «scuotere le anime intorpidite de’ nostri fratelli, scuoterle d’amore, non d’ira» in un momento in cui solo la concordia poteva «rigenerare l’Italia». Diffidente sarà il Filippi nel ’32 quando non gli
perdonerà di aver accettato un impiego alla corte di Vienna, perché,
dimenticando che le precarie condizioni economiche del Gar non gli
consentivano margini di scelta, lo considerava indizio di un labile impegno politico e ne diceva al Tommaseo: «Il Gar è andato a Vienna:
questo giovane ha facilità in poesia, ma del suo cuore non è tanto da
fidarsene, egli non sente profondo e tiene molto dell’impostura, non è
fatto per noi» (96). Ma nell’agosto del ’40, rivedendo le sue precedenti
posizioni, così gliene annunciava l’arrivo a Venezia: «egli ama conoscerti, e n’è degno; viene a Venezia per affari letterari: spero, che dalla
(95) BCT, Ms. 2446, (69); BNCF, CT, 81, 7 (11). Al Paravia, con uno di quei guizzi
di ingenerosa acredine ai quali non di rado si abbandonava, Tommaseo aveva scritto il
15 febbraio del ’36: «Il Rosmini è un’anima misera mal maritata ad un bello ingegno»
(G.B. CERVELLINI, Lettere inedite di N. Tommaseo a P. A. Paravia, cit., p. 205). Ma cfr.
G. BEZZOLA, Manzoni e Rosmini, in AA.VV., L’opera e il tempo di Antonio Rosmini, a
cura dell’Accademia Roveretana degli Agiati, Brescia, Morcelliana 1999, pp.161-174.
(96) BNCF, CT, 81, 2 (8). La lettera è del 7 novembre.
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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sua compagnia avrai piacere; perché venendo egli da Vienna, ti può dire
ciò che si pensa fra’ tedeschi lurchi» (97). Al Gar il Dalmata si rivolgerà
nel ’40 per avere informazioni bibliografiche per la raccolta dei Canti
popolari e lo avrà nel ’48-’49 prezioso collaboratore in decisivi momenti
per la sorte della Repubblica Veneta. Interlocutorio, ma in questo caso
per ragioni esclusivamente letterarie è il giudizio di entrambi su Giovanni Prati, allora astro nascente della nostra letteratura, che aveva «dono di
versificazione mirabile» ma che, consigliava il Tommaseo, doveva nutrire la sua anima di «nobili affetti e di solitudine dignitosa». Il primo a
parlarne è invero Filippi che in questi termini descriveva un loro fortuito
incontro alle Terme di Recoaro del maggio del ’48:
In Recoaro rinvenni il Prati, [...] esposi quanto pensava di lui, e se ne
mostrò grato, ma soggiungeva che tu credi che non senta nel cuore [...].
Io non fiatai su questo, perché così credo pure anch’io, anzi un suo amico
di molto senno, m’assicurò, ch’egli opera tutto di fantasia, e che in Padova, due anni prima, gli avea lette due composizioni alle quali non sapea
qual titolo porre [...] (98).
Ed ancora
Abbiamo in Trento il Prati poeta, che fa gran romore. E’ mi mandò in
dono due libri, che s’appellano Nuovi canti, fra cui se n’ha alcuno che
non spiace. Il Prati pare ispirato, ma tocco da poco affetto; e’ s’abbandona troppo all’impeto svariato de’ suoi pensieri. Dicono, che asserisce, che
in Francia, ed in Piemonte parlino molto di lui, e duolsi che nel Regno
Lombardo-Veneto non si faccia cenno delle sue poesie. Dimmi su d’esso
la tua opinione; e se ti pajon degne, essendo egli Trentino, farai cosa grata
alla mia patria a dirne qualche cosa anche pubblicamente (99).
Stimato da entrambi per il suo rigore, il suo impegno intellettuale, le
sue iniziative filantropiche è Ignazio Puecher Passavalli (100), «giovane
(97) BNCF, CT, 81, 3 (6).
(98) BNCF, CT, 81, 3 (16) lettera datata 8 maggio ’48. In quegli anni Tommaseo
diceva del Prati: «Il Prati, negli argomenti che prenderà d’ora innanzi a trattare par
voglia levarsi a sempre più degna altezza; il qual suo desiderio ci risparmia la spesso
sospetta, spesso inutile, opera de’ consigli. La fantasia troppo è vero che in molti tien
vece del cuore. Di lui non sarà speriamo così. Ma l’affetto nutrito di meditazione
(perché senza studi severi è fiacca la poesia), l’affetto, molti uomini e molte cose comprendendo ne’ suoi dolorosi abbracciamenti, renderà la cara facoltà dello stile di lui
interprete di soavi e forti cose. Lunga è la via». (Della letteratura veneta d’oggidì, in
Studi Critici, cit, p. 331).
(99) BCNF, CT, 81, 3 (18) s. d. La lettera è inedita.
(100) «Animo innamorato della perfezionatrice bellezza» lo definisce il Tommaseo
nelle pagine Della letteratura veneta d’oggidì. D’alcuni scritti recenti, cit., p 411.
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Atti Acc. Rov. Agiati, a. 254 (2004), ser. VIII, vol. IV, A, fasc. II
di senno e di cuore» al quale il Dalmata chiederà di raccogliere «proverbi e tradizioni popolari di favole, fiabe, storie, miracoli e consuetudini». Dolcissimo è il ricordo di Tevini, paziente intermediario nello
smistamento della loro corrispondenza, un «matto» che Tommaseo
considera capace di insegnargli molto, amato soprattutto per i suoi versi latini, al quale si rivolge già nel ’23, segno dell’emergere precoce di
interessi maturati in anni più tardi, chiedendogli l’invio di un «libercolo»
sulle feste popolari trentine. La raccolta dei Canti Popolari era del resto
iniziativa che, per le sue implicazioni politiche ed ideologiche, tanto
piaceva anche al Filippi che dal ’37 lo aggiornerà sulle informazioni che
andava raccogliendo:
[...] il tuo nome suona grande nel Trentino non meno, che in Italia. Ognuno amerebbe sapere, che cosa ora da te si scriva, ed io non dirò di quanto
ne godrei il poter venir almeno a cognizione dell’opere tue. I contadini
credono, che una volta esistessero le streghe, e la Zubiana moglie dell’Orco, la quale facevano umana, e che nascondesse le persone, che l’Orco
voleva divorare, ma e’ s’accorgevano, che v’erano state fiutando, e ne la
rimproverava per non averle appalesate. Ma dicono, che dopo il sacro
concilio di Trento fuggirono impaurite e si dispersero. Le canzoni se no,
come nell’Italia, cantano ariette teatrali e cose d’affetto, se sono dai contadini composte, cantate a coro, e con lunga cantilena sotto i balconi delle loro innamorate, come forse a un dipresso fanno i vostri Morlacchi.
E ancora nel ’41:
Ti manderò in avvenire qualche canzonetta tirolese, ma stampandole
amerei, che si dicessero trentine, perché, quando diciamo il Tirolo, intendiamo del Tirolo tedesco.
e nel ’42:
canzoni popolari che dieno immagine di questo anfibio paese non ne abbiamo, perché qui si cantano, o cose venuteci dall’Italia o qualche coro
delle opere, oppure qualche canzonaccia semibarbara, di cui non si potrebbe racapezzare il sentimento (101).
Assilli che tornano nel ’44, e che dovevano essere comuni tra gli
amici trentini del Tommaseo, se Filippi gli riferisce questa precisa richiesta del Lunelli: «Amerebb’egli, che tu toccando di questi paesi dicessi Trentino, e non Tirolo, perché noi dicendo Tirolo intendiamo
(101) La prima lettera è del 24 agosto del ’37, la seconda lettera è del 16 ottobre
’41, la terza dell’8 settembre ’42 sono inedite. Rispettivamente in BNCF, CT, 81, 2
(11) ; 81, 3 (9); 81, 3 (12).
D. RASI: «L’amico degli anni miei primi»: note sul carteggio Tommaseo-Filippi
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quel paese, ove il sermone trovi in urli cangiato, come ben disse il nostro Vannetti» (102).
L’ultima missiva del Filippi è del 9 agosto del ’48 e condensa in
poche parole l’angoscia, le attese di un momento storico delicatissimo:
Ti raccomando far conoscere [...] agl’italiani, che il Trentino è parte italiana, e guai se devessimo portare dopo la redenzione dell’Italia, il giogo
tedesco. Il pensiero solo mi fa inorridire. La notte passata furono arrestati e condotti via quattro giovani delle principali famiglie di Trento, in
somma siamo vessati per ogni maniera, ma senza un piccolo soccorso
d’Italia, non possono muoversi i cittadini di Trento, che temono il ritorno degli austriaci devastatori, ma fremono, e con questi soccorsi, si mostrerebbero certo veri Italiani (103).
Ma non erano che generose illusioni, la fine della Repubblica Veneta
aprì al Tommaseo un nuovo periodo di esilio, nuove durissime contingenze personali; la distanza nel frattempo doveva aver interrotto del
tutto i loro rapporti epistolari se la sua ultima lettera è ad un amico che
la morte, a sua insaputa, gli ha già sottratto:
Caro Filippi
Tu sai già che io mi ricordo di te: nondimeno son grato alla cortese persona che mi porge il destro di scriverti, cioè di dettarti queste poche parole,
dacché scrivere io più non posso da me. Poche perché siamo troppo lontani, e avrei troppo da dirti; ma tu le interpreterai col tuo cuore. Raccomandami a Dio me, e i miei figli. Addio dall’anima e con lacrime; a rivederci in un mondo migliore (104).
(102) BNCF, CT, 81, 3 (15).
(103) BNCF, CT, 81, 2 (12). Sul coinvolgimento degli ambienti trentini nei fatti del
’48 e sui legami con la Repubblica Veneta cfr. la puntuale ricostruzione di M. ALLEGRI, Carteggio Niccolò Tommaseo - Tommaso Gar, cit.
(104) Lettera inedita BNCF, CT, 74, 10.
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