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QRYHPEUH;;,9&RQYLYLR
edificio realizzato all’uopo ed inaugurato nel 1872, il
cui committente e proprietario fu lo stesso Comune di
Fra il 17 ed il 19 novembre si è svolto a Roma il XXIV
Convivio della S.I.S.A. che ha visto la numerosa
partecipazione di soci e simpatizzanti dell’Italia Centro-Meridionale. La riunione che aveva proprio lo scopo di coinvolgere in modo più pressante i nostri soci
dell’area sopra detta, tenuto conto del numero dei partecipanti, ha raggiunto il suo scopo. Accanto alle sessioni di lavoro si sono svolte alcune visite culturali una
della quali, quella a Palazzo Colonna di estremo interesse sia per la possibilità offerta di visitare l’appartamento privato della Principessa Isabelle sia la Galleria Colonna.
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6DODGHO9DQYLWHOOL
Di particolare interesse ai fini scientifici gli interventi
degli studiosi tra i quali mette conto ricordare in primo
luogo quelli di tre nuovi soci la Dott.sa Gloria Salazar
in Nunziante, il Dott. Becchetti ed il Dott. Offman.
In tutto sono intervenuti 14 studiosi, le loro relazioni
verranno ovviamente pubblicate negli atti del convivio,
per l’interesse suscitato si anticipa qui il contenuto di
alcune di esse.
Gloria Salazar ha parlato sul tema: 8QD PDUFKH
G¶DUPHVRWWRFHQWHVFDODVDODGHOSDWUL]LDWRGHO&DVLQR
6RFLDOH GL 6DOHUQR La società fondata nel 1851 col
nome di Casina dei nobili, trovò definitiva sede in un
Salerno che dispose anche per la decorazione degli
stemmi. Questi ultimi, raffigurati per celebrare il patriziato locale e la sua storia sono 41 dei quali 32 appartengono alle famiglie patrizie ascritte al Registro
delle Piazze Chiuse, mentre i rimanenti sono relativi a
famiglie salernitane di nobiltà fuori sedile ed ex-genere
a queste equiparate.
La Dott.sa Arcangeli proseguendo sul tema già affrontato in uno scorso Convivio ha fatto una brillante esposizione riguardante altre famiglie investite di stemmi di
cittadinanza. Fra queste una famiglia Garibaldi, che però nulla ha a che vedere col noto personaggio risorgimentale ed una Galletti omonima della siciliana dei
principi di Fiumesalato
Di grande interesse sia per la novità dell’argomento sia
per la competenza dell’espositore, l’intervento del
Dott. Becchetti sugli elementi araldici delle bolle blumbee pontificie in massima parte relative al periodo rinascimentale.
S.E. Franz von Lobestein con la sua comunicazione
sulle prove di Nobiltà del Sovrano Militare Ordine di
Malta ha illustrato l’evoluzione delle cosiddette “SUR
YDQ]H GL QRELOWj” per l’ammissione al S.M.O.M. dai
tempi più antichi ai nostri giorni, differenziando la
prova verticale dei quattro quarti in uso nei paesi mediterranei da quella orizzontale dei sedici quarti dei paesi
nordici, aggiungendo considerazioni storiche e sociali.
Filippo Orsini ricordando che ricorre quest’ anno il
settimo centenario della morte di Jacopone da Todi ha
voluto analizzare le genealogie prodotte dalla famiglia
Benedettoni per attribuirsi l’ appartenenza alla stessa
del cosiddetto Beato in un’ ottica di promozione sociale
ed incardinamento della famiglia nel sistema patrizio
tuderte. In realtà è solo dalla seconda metà del XVI
secolo grazie ai genealogisti Pirro Stefanucci prima e
Luca Alberto Petti poi che Jacopone trova allocazione
nell’ albero genealogico della famiglia dei Benedettoni,
i quali con un’ abile strategia di raffigurazione della
simbolica familiare sapranno utilizzare, per la glorificazione della loro famiglia, il Beato. Una serie di scelte
legate all’ iconografia ed alla devozione tramite reliquie
consolida QHOO¶RSLQLRFRPPXQLV la discendenza di Jacopone dai Benedettoni, ma non la certezza della documentazione storica.
I soci Amorosi e Casale hanno presentato uno splendido stemmario seicentesco napoletano in cui sono
riportate le armi delle famiglie della città e del Regno,
di grande interesse scientifico e storico in esso infatti
sono raffigurati oltre 900 stemmi.
Marco Corradi ha illustrato anch’ egli uno stemmario
inedito della città di Urbino. Seppure di epoca assai più
recente del precedente consente di affrontare il discorso
sulla nobiltà di Urbino e sui quatro ceti cui era affidato
il governo della città ed in particolare le diatribe tra
primo ceto, che esprimeva il Gonfaloniere, ed secondo
i cui esponenti non si sentivano in nulla inferiori a
quelli del primo.
Di eccezionale valore dal punto di vista scientifico
l’ intervento del Dott. Attilio Offman, araldista di
grande notorietà, sull’ araldica della casa di Borbone
Parma nel periodo in cui ebbe il ducato di Lucca
(1817-1847), nel quale ha saputo far risaltare le
differenze fra lo stemma dello stato lucchese che pur
recependo le armi dei Borbone Parma rimase lo stesso
nel corso di tutto il periodo in cui questi ne furono i
sovrani e lo stemma della famiglia che ebbe diverse
raffigurazioni.
Il Dott. Maurizio Bettoja, al quale è da rivolgere il più
caloroso ringraziamento per l’ accoglienza data dalle
sue strutture al convivio, per la splendida ospitalità e
per l’ organizzazione delle diverse attività, è intervenuto
in chiusura a parlare di Barbarano Romano, antico
centro del Viterbese, feudo, sin dal XIII secolo della
città di Roma. La rivelazione delle testimonianze
araldiche monumentali integrata da fonti archivistiche
ha portato l’ autore ad individuare l’ esistenza dello
stemma civico e di circa altri 25 stemmi, non tutti identificati o leggibili, relativi a famiglie locali sulle quali
ha poi aggiunto brevi notizie storiche databili dalla
prima metà del XVI al XX secolo.
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Vittorio Amedeo II divenuto, a conclusione della guerra
di successione di Spagna, re di Sicilia si recò a Palermo
con la consorte Anna d’ Orléans nell’ ottobre del 1713 e
rimase in Sicilia sino al settembre dell’ anno successivo.
2
Nel quadro della politica tesa ad unire i siciliani alla sua
persona ed alla sua Casa, dopo che per secoli questi eran
rimasti fedeli alla corona di Spagna, decise di concedere
un certo numero di onoreficenze ai principali esponenti
dell’ aristocrazia locale.
Il 2 aprile del 1714 ebbe luogo a Palermo, e fu la prima e
l’ ultima volta che ciò avvenne, il Capitolo dell’ Ordine
Supremo della Santissima Annunziata nel corso del quale
furono creati cavalieri:
'RQ 1LFROz 3ODFLGR %UDQFLIRUWH H GHO &DUUHWWR
SULQFLSHGL%XWHUD, ed ancora, fra gli altri titoli e feudi,
principe di Pietraperzia, duca di Santa Lucia, marchese di
Militello Val di Noto, conte di Mazzarino, primo titolo di
Sicilia ed insignito del Toson d’ oro. Già Deputato del
Parlamento di Sicilia per il braccio militare nel 1704,
1707, 1714.
'RQ *LRYDQQL 9HQWLPLJOLD H GL *LRYDQQL PDUFKHVH
GL *HUDFL H SULQFLSH GL &DVWHOEXRQR membro della
delegazione inviata dal Parlamento di Sicilia a Torino
per assistere alla proclamazione a sovrano dell’ isola di
Vittorio Amedeo II. Discendente del primo che in
Sicilia aveva ricevuto il titolo di marchese, godeva del
particolare privilegio, qualora il sovrano non fosse
presente, di potersi assentare dalle cerimonie ufficiali
nelle quali non potesse avere il primo posto Ottenne in
seguito la grandezza di Spagna dall’ Imperatore Carlo
VI che lo nominò anche principe del Sacro Romano
Impero.
'RQ *LXVHSSH GHO %RVFR H 6DQGRYDO SULQFLSH GHOOD
&DWWROLFDGXFDGL0LVLOPHULHFRQWHGL9LFDULultimo
della famiglia del Bosco a ricoprire questi titoli.
Appartenente ad una famiglia di antica nobiltà, ma
schivo dal ricoprire incarichi di rilievo
Sotto la stessa data furono nominati Gentiluomini di
Camera del sovrano D. Giuseppe Alliata principe di
Villafranca, D. Francesco Bonanni e del Bosco principe di Roccafiorita, D. Vincenzo la Grua e Talamanca
principe di Carini, D. Ferdinando Francesco Gravina e
Bonanni principe di Palagonia, D. Giuseppe Branciforte e Morra principe di Scordia, D. Giuseppe Filingeri e di Napoli conte di S. Marco e principe di Mirto,
D. Ottavio Montaperto e Lanza principe di Raffadali,
D. Girolamo Gioeni e Ventimiglia duca d’ Angiò.
Imposto a Vittorio Amedeo lo scambio Sicilia Sardegna da parte delle grandi potenze un certo numero di
Siciliani continuò a servire il re sabaudo distinguendosi, fra essi vennero investiti del supremo ordine della
dinastia di Savoia:
- il 19 marzo del 1737, )UDQFHVFR 6DYHULR
9DOJXDUQHUD SULQFLSH GL 9DOJXDUQHUD, comandante
del reggimento di fanteria che prendeva il suo nome,
quindi della 3^ compagnia delle Guardie del Corpo e
successivamente della Guardia svizzera e Generale
degli Svizzeri del regno di Sardegna
il 23 maggio 1750, ' (PDQXHO 9DOJXDUQHUD GHL
SULQFLSL GL 9DOJXDUQHUD, succeduto al fratello nel
comando della 3^ compagnia delle Guardie del Corpo,
3
ambasciatore in Spagna, generale di Cavalleria, Viceré
di Sardegna ed infine Gran Ciambellano;
- nell’ aprile 1763 '*LXVHSSH2VRULRHG$ODUoRQ, già
ambasciatore a Londra e Madrid, negoziatore del
Trattato di Worms nel 1748 e Primo Segretario di Stato
agli esteri dal 1750 al 1763, uno dei più grandi
diplomatici del regno di Sardegna;
- il 4 dicembre 1763, ' *LRYDQQL 5HTXHVHQV H GHO
&DUUHWWR GHL SULQFLSL GL 3DQWHOOHULD, paggio d’ onore
nel 1713, poi ufficiale nel reggimento Valguarnera e
quindi nelle Guardie del Corpo di cui assunse il comando nel 1750, brigadiere generale nel 1745, tenente
generale nel 1754 partecipò alla guerre di successione
di Polonia e d’ Austria nelle file dell’ esercito sardo,
promosso generale di cavalleria nel 1768.
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Il XIV secolo fu caratterizzato fra l’ altro dall’ esistenza
delle compagnie di ventura, molte delle quali operarono a lungo in Italia. Fra quelle più famose val la pena
di accennare a due di esse che iniziarono la loro avventura italiana in Piemonte, quella di Sir John
Hawkwood, più noto come Giovanni Acuto, e di Sir
Ugo Despenser, reduci dalle esperienze maturate
durante la guerra dei cento anni e quindi quanto mai
esperte nell’ arte della guerra.
Nel 1360 Amedeo VI, il Conte Verde, concluso il conflitto familiare con gli Acaia, vedeva ai confini delle
sue terre battersi Galeazzo Visconti ed il marchese di
4
1200 lance la forza della compagnia. Dove per lancia si
intende un complesso di tre uomini dei quali due guerrieri veri e propri montati a cavallo e un paggio che
cavalcava un ronzino. Gli uomini si battevano a piedi,
dell’ unità facevano parte anche un certo numero di arcieri armati con archi lunghi che si dimostravano assai
più efficaci delle balestre, ma che abbisognavano di
uomi assai esperti per manovrarli, e questa fu una novità per lo scacchiere italiano.
Nel frattempo la “Compagnia bianca” dell’ Acuto, composta essenzialmente da veterani della guerra dei 100
anni e così chiamata per la lucentezza dell’ armatura
degli uomini che la costituivano, era giunta a Murello e
minacciava Savigliano. A diretta difesa della città si
pose Amedeo VI, allora l’ Acuto, al quale si erano
aggiunte le compagnie di Alberto Sterz, Roberto Canolles e il de la Neuf, volendo evitare uno scontro frontale si recò a far danni altrove. Si spostò prima nel
Novarese dove per il marchese di Monferrato occupò
alcuni paesi dei Visconti, quindi in Piemonte dove con
azioni improvvise occupò Rivarolo, San Martino e
Pavone. Nel castello di quest’ ultima località imprigionò Pier de la Chambre, Vescovo d’ Ivrea, dal quale
pretese un cospicuo riscatto.
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Monferrato, il Pontefice lo spingeva ad allearsi al
secondo, la sua intuizione gli diceva di appoggiare il
primo. Mentre era incerto sul da farsi ricevette l’ angosciosa preghiera di Innocenzo VI che chiedeva il suo
aiuto per proteggere Avignone dalle scorrerie delle
compagnie di ventura, che finita la guerra dei Cento
Anni si autoalimentavano saccheggiando Champagne,
Burgundia e Provenza nell’ attesa di un qualche favorevole ingaggio. Non avendo intenzione di intervenire
direttamente Amedeo VI ebbe la felice idea di consigliare il Paleologo di ingaggiare una di queste compagnie, quella del Hawkwood per impiegarla nella guerra
contro il Visconti. Quest’ ultimo che aveva in effetto
bisogno di buona truppa accettò il consiglio, ma, essendogli note le intenzioni del Conte, di schierarsi nel momento che avesse ritenuto opportuno con Galeazzo
pensò di batterlo sul tempo attaccando le sue terre piemontesi. Nell’ attesa dell’ arrivo dell’ Acuto le milizie
del Paleologo, coordinate dal suo braccio destro, Bonifacio da Cocconato, operarono diverse scorribande
minacciando Lanzo, tanto da obbligare il Capitano
generale del Piemonte, Umberto di Corgeron ad ordinare ai primi di febbraio del 1362 la riunione di tutte le
sue forze a Ciriè con viveri per quindici giorni, e
chiamare in suo soccorso il balivo della Valle di Susa
perché gli desse man forte per impedire l’ ingresso nei
paesi sabaudi della grande compagnia di ventura
inglese. Lo stesso Conte, inoltre, preoccupato
dell’ evolversi della si-tuazione decideva di passare le
Alpi per opporsi di per-sona agli invasori, ed il 6
maggio del 1362 era a Moncalieri ed il 20 a Pinerolo.
Sull’ entita della compagnia dell’ Acuto molte sono le
voci e quasi tutte discordi, qualche cronista parla di un
totale di 8000 barbute, ma il dato sembra obiettivamente esagerato, una versione più attendibile stima in
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3LQWXULFFKLR
Ai primi di novembre, attaccò di sorpresa Lanzo ove si
trovava il Conte Verde con la sua Corte, prese prigionieri Edoardo di Savoia, che divenne in seguito Vescovo di Tarantasia, Aimone primogenito del conte di Ginevra, Gerardo Destrées cancelliere di Savoia e molti
altri baroni, che dovettero ricomprarsi a caro prezzo la
libertà. Vennero feriti in modo grave Guglielmo di
Grandson e Anselmo di Portenton, si salvò scappando
da una finestra, Giacomo d’ Acaia. La città di Lanzo fu
messa a sacco, la parte nuova del borgo data alle fiamme e quel che avevano risparmiato gli inglesi fu preda
dei lestofanti locali. Allo stesso Amedeo VI, chiuso nel
castello, non restò altro da fare che trattare, tramite il
Cavaliere della SS.ma Annunziata Sir William de
Grandson, con l’ Acuto ed i suoi accoliti.
180000 fiorini fu la somma pagata dal Conte per poter
lasciare la città indisturbato e far sì che Hawkwood abbandonasse, almeno una parte, dei territori dei Savoia.
Questo in effetto si spostò andando a porre a il suo
quartier generale a Sicciano, vicino Novara, da dove,
secondo le istruzioni del marchese di Monferrato doveva colpire le terre di Galeazzo Visconti. Quest’ ulti-
mo, a sua volta, per impedire che la compagnia dell’
Acuto potesse rifornirsi colle risorse locali, adottò la
tattica della terra bruciata facendo distruggere una ventina fra castelli e villaggi. Gli inglesi risposero col fuoco distruggendo oltre cinquanta insediamenti e saccheggiando tutto il territorio a cavaliere del Ticino.
Occuparono quindi Castelnuovo Scrivia e in quella occasione avvenne la morte del Conte Lando, altro famoso capitano di ventura del tempo, dopo si rivolsero verso Tortona e Pavia ma furono bloccati da Luchino dal
Verme che li obbligò a ripiegare su Romagnano.
Nei primi mesi del 1364 dopo che il Vescovo di Ivrea
ebbe versato loro i 8500 fiorini datigli dal Conte Verde
per il suo riscatto, Ottone di Braunsweig e l’ Acuto lasciarono definitivamente il Canavese cedendo il primo
Caluso ed il secondo Pavone. Non abbandonarono però
il Piemonte perché lasciato il marchese di Monferrato
passarono al servizio di Giacomo di Acaia che, nel
maggio di quello stesso anno era entrato in conflitto
con Federico di Saluzzo. L’ Acuto tentò di prendere di
sorpresa Dronero ma fu respinto, poi mentre il conflitto
fra i due principi subiva una fase di stanca si istallò a
Lagnasco, ma, poco dopo, ricevuta una consistente offerta dai Pisani nella loro guerra contro Firenze, lasciò
per sempre il Piemonte.
Altro personaggio che operò con la propria compagnia
in Piemonte fu Sir Ugo Despenser, il cui nome
italianizzato suonava il Dispensiere. Era stato agli
ordini di Edoardo III e del Principe Nero durante la
guerra dei Cento Anni ed era venuto in Italia con la sua
compagnia composta da Inglesi, Guasconi e Bretoni,
quale scorta del Duca di Clarence, figlio del re
d’ Inghilterra, che si recava a Milano per sposare
Violante la figlia di Galeazzo Visconti.
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Nel novembre del 1368, poco dopo il matrimonio il
giovane principe morì e di conseguenza il signore di
Milano volle rientrare in possesso della dote data alla
figlia che comprendeva le terre di Alba, Cherasco, Bra,
Mondovì, Roccasparvera e Demonte. Il Despenser,
raccolta quella parte dei suoi che era passata al servizio di Filippo di Acaia e del marchese di Saluzzo, su
istigazione del marchese di Monferrato si oppose alla
restituzione delle terre dotali adducendo la scusa che
esse dovevano passare in eredità al principe di Galles.
Nel settembre del 1369 batte i Viscontei a Castagneto,
sia pure in maniera rocambolesca, infatti dopo un
iniziale successo contro le milizie mercenarie del monaco d’ Hecz al servizio di Galeazzo, preso alle spalle
5
dai cavalieri di Luchino dal Verme stava ritirandosi
con gravi perdite. La sua fortuna fu che fra i vincitori
scoppiasse una violenta lite per questioni di bottino,
accortosi della quale piombò su di loro uccidendone
una trentina, prendendo numerosi prigionieri e costringendo l’ Hecz a rifugiarsi nel castello. Strinse poi
alleanza col Paleologo, prese Cherasco, e quindi operò
una transazione con il marchese di Monferrato per cedergli Alba e Mondovì per 18000 fiorini o come dicono
altri per 26000.
Rimase quindi in Piemonte sino alla morte avvenuta
nel 1375, partecipando ai conflitti che videro Monferrato, Visconti, Saluzzo, Savoia ed Angiò battersi gli uni
contro gli altri con il concorso dei più feroci
avventurieri dell’ epoca.
____________________________________________
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(dal 1355 al 1432)
Se il potere di Verucchio Malatesta come Signore di
Rimini datava solo dal 1295, anno in cui era stato
acclamato come tale dalla popolazione di quella città
dopo aver scacciato i Parcitade, in realtà la magistratura di potestà di Rimini era trasmessa da un all’ altro
dei membri della famiglia come un’ eredità.
L’ acclamazione a Signore di Verucchio e la sua denominazione come Dux Senior et Dominus era peraltro
un atto senza alcun valore dal punto di vista giuridico,
essendo quella terra considerata feudo della Santa Sede
dai Guelfi e dell’ Impero dai Ghibellini.
La cosa non sconvolse più di tanto Verucchio (12121312) né suo figlio Malatestino dell’ Occhio (+1317),
che gli subentrò nel 1312. Essi si contentarono di
mantenere il potere effettivo anche senza specifiche
investiture. Fu invece nel 1325 che Pandolfo I (126?1326), subentrato al fratello Malatestino nel 1317,
ottenne da Papa Giovanni XXII l’ investitura ufficiale
dei feudi conquistati dai Malatesta.
Ferrantino (1258-1353), figlio di Malatestino dell’
Occhio, raccolse la signoria di Rimini alla morte dello
zio Pandolfo e la tenne sino alla morte, dopo la quale
se ne impossessò suo cugino Galeotto (1302-1385),
fratello del Guastafamiglia.
E’ da quest’ ultimo che ebbe origine il ramo dei Malatesta che sin quasi alla metà del XVI secolo regnò su
Rimini, Fano e Cervia Egli era stato testimone del fallimento del tentativo di allargare a tutte le Marche lo
stato dei due Malatesta tentato dal Guastafamiglia e
contrastato dal pontefice per mano del Cardinale Albornoz. Al termine del conflitto ed alla successiva pace
che ne era seguita, come si è detto in altra occasione,
vi erano state sia una diminuzione dei feudi nelle mani
dei Malatesta, sia una divisione di quanto era rimasto
fra i due fratelli.
Era stato a seguito di questa pace che Galeotto aveva
ottenuto per un’ investitura fattagli ex-novo da papa
Innocenzo VI il solo feudo di Rimini.
Dopo questo egli fu un fedele sostenitore della Chiesa e
per i servizi che le rese, nel 1377, potè aggiungere a
Rimini, i feudi di Cesena, Cervia e Bertinoro. Nel
1378, Gregorio XI, rientrando a Roma da Avignone, lo
6
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nominò vicario generale della Chiesa in Romagna.
Sposato con Maria di Gentile da Varano ebbe numerosi
figli, alla sua morte, di questi: Carlo ebbe Rimini e gli
originari stati paterni; Pandolfo Fano; Andrea Cesena e
Bertinoro; Galeotto Cervia, Mendola, Borgo S. Sepolcro, Sestino e Sasso Montefiore.
Un cenno anche sulle figlie che coi loro matrimoni
determinarono un’ importante serie di alleanze:
Madonna Gentile andò sposa a Manfredi signore di
Faenza, Margherita a Ludovico Gonzaga, Rengarda a
Maso di Pietra Mala, Ricciarda a Guido Antonio duca
d’ Urbino.
Carlo Malatesta (1364-1427), figlio primogenito di
Galeotto, sino a quando non subentrò al padre si guadagnò da vivere facendo il capitano di ventura., offrendo il suo braccio a chi lo pagava meglio, tuttavia
rimase sempre fedele alla Santa Sede cercando di conciliare sempre il proprio interesse con i diritti di questa.
La sua prima moglie fu Elisabetta Gonzaga, la seconda
una nipote di papa Martino V, Vittoria, figlia di
Lorenzo Colonna.
più esperti sapienti e teologi del tempo e dissertare
degli argomenti più diversi. Quando prese il potere
governò la città con abilità e prudenza.
Rimini sotto la sua amministrazione giunse ad una
grande prosperità sia per le facilitazioni date alla setta
degli Umiliati che avevano introdotto l’ arte della lana,
sia per la cura posta nell’ agricoltura, sia per il
potenziamento del porto sul Marecchia .Amante delle
arti offrì la sua protezione ed offrì lavoro a numerosi
artisti e scrittori, egli stesso si esercitava nella riproduzione di manoscritti come il più abile dei calligrafi.
Alla morte del fratello Pandolfo, di cui si dirà subito
dopo, data la giovane età del figlio di questi, Galeotto,
subentrò ad esso nella signoria di Fano per poi, essendo
senza eredi diretti, alla sua morte lasciare tutti i suoi
feudi al nipote.
Merita a questo punto dir qualche parola anche su
Pandolfo (1377-1427), fratello più giovane di Carlo.
Anch’ egli condottiero di fama nell’ Italia dei primi del
Quattrocento. Generale nell’ esercito di Giovanni Maria
Visconti duca di Milano cui ad un certo momento si
ribellò occupando Brescia e Bergamo e dichiarandosi
signore anche di queste località accanto a quella di
Fano. Per diciassette anni fu padrone di parte della
Lombardia sino a quando Francesco Bussone, detto il
Carmagnola, capitano al servizio di Filippo Maria
Visconti, non lo scacciò dalle signorie che aveva
usurpate. Si ritirò allora a Fano dedicandosi ad attività
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Su di lui si hanno molti positivi giudizi. Leonardo
Bruni Aretino, importante storico fiorentino, segretario
della repubblica e di Gregorio XII, scrisse che mai un
uomo d’ arme aveva riunito in sé tante qualità. Benché
fosse un valente capitano era in grado di discutere con i
pacifiche. Non inferiore al fratello Carlo nel gusto delle
arti e delle lettere, scriveva elegantemente in latino e
parlava correttamente in francese e in provenzale.
Si era sposato tre volte, la prima con Paola Bianca
Malatesta, figlia di suo cugino del ramo di Pesaro, che
aggiungeva al suo cognome quello della madre Orsini,
la seconda con Antonia Varano, figlia di Rodolfo
signore di Camerino ed infine con Anna Margherita
figlia del conte di Poppi, ma da queste non aveva avuto
figli. In compenso ne aveva avuti tre naturali da
Antonia, figlia di Giacomino da Barignano: Galeotto
Roberto (1411-1432), Sigismondo (1417-1468) e
Malatesta Novello (1418-1465).
Mette conto anche far cenno alla tomba che Pandolfo
eresse alla sua prima moglie nel portico della chiesa di
S. Francesco a Fano e del sarcofago fatto costruire per
lui dal figlio Sigismondo la cui realizzazione è fatta
risalire alla mano di Giovan Battista Alberti.
7
di Rimini, anche perché sul soglio pontificio era salito
Eugenio IV, un veneziano che non era ben disposto
verso i Malatesta. Si cominciò così a discutere sulla
legittimità della successione di Galeotto e le forze della
Santa Sede cominciarono ad invadere le terre dei
Malatesta, cui non restava come alleato, che il suocero,
Nicolò d’ Este, signore di Ferrara.
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Come accennato, morto Carlo gli succedette il primogento fra i suoi nipote, Galeotto Roberto, ma era molto
giovane appena diciottenne e questo scatenò gli appetiti
della Santa Sede, di Urbino, dei Malatesta di Pesaro e
di Alessandro Sforza. La signoria di Rimini e Fano con
Cesena, Bertinoro, Sarsina, Cervia, Senigaglia, Fossombrone, Osimo e Pergola costituiva infatti una ghiotta ed ambita preda. La morte di papa Martino V, protettore di Carlo e dei suoi nipoti, diede ancora un’ altra
spinta agli appetiti dei potenti vicini del nuovo signore
Ma Galeotto, detto il Santo, contrariamente ai suoi
antenati non era uomo di guerra, era un asceta, vestiva
l’ abito dei frati minori francescani, si era sposato ma
per vivere con la moglie come se questa fosse sua
sorella. Così abbandonò Rimini, si ritirò nel convento
di Arcangelo dove morì nel 1432. La moglie
Margherita dalla quale aveva saputo farsi amare anche
se non aveva vissuto con lei come se fosse la sua sposa,
gli sopravvisse per circa quarantaquattro anni e restò
tanto fedele alla sua memoria che nel suo testamento
dispose di essere sepolta ai piedi del marito.
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A Galeotto successe il fratello Sigismondo, al
momento quindicenne, che fu riunì in sè tutte le virtù, i
vizi e le passioni della sua famiglia, della quale fu il
più illustre e che può essere ricordato come uno dei
maggiori condottieri del suo tempo. Di lui, tuttavia, si
parlerà in altra occasione.
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Nel 1815 Fedinando IV di Napoli (e III di Sicilia)
emanava un decreto col quale stabiliva che l’ esercito
del suo regno dovesse contare, sul piede di pace, di
60000 uomini che, fra gli altri, dovesse avere un corpo
di artiglieria a piedi, un corpo d’ artiglieria a cavallo,
delle compagnie di artiglieri littorali e un corpo del
treno d’ artiglieria. Della Guardia Reale dovevano far
parte uno squadrone di artiglieria a cavallo su due
compagnie e due compagnie del treno d’ artiglieria.
Il 24 agosto di quello stesso anno con apposito decreto
venivano costituiti due reggimenti d’ artiglieria di terra
il “Reggimento Re” e il “Reggimento Regina” del Real
Corpo d’ Artiglieria ciascuno su uno Stato Maggiore,
due battaglioni di dieci compagnie per reggimento.
L’ uniforme era di colore bleu, paramani e colletto
scarlatto, bottoni d’ oro nel centro dei quali era
raffigurata una piramide di dieci palle sormontata da un
corona reale.
Nel reggimento Re, gli ufficiali superiori e gli Aiutanti
maggiori portavano un pennacchio di penne bianche
allo VFLDNzpergli altri il pennacchio era pure bianco
ma colla cima rossa.
8
- una brigata di artiglieria a cavallo, composta da uno
Stato Maggiore e due squadroni ciascuno su due
compagnie.reggimentdi artiglieria di terra;
- era stabilita l’ organizzazione dei corpi destinati alla
custodia e servizio delle batterie sulle coste dei due
regni ed isole adiacenti.
Nel settembre del 1815 venne stabilita la formazione
di uno squadrone d’ artiglieria a cavallo della Guardia
Reale su due compagnie, che per uniforme ed
armamento non si differenziavano da quella della
brigata a cavallo.
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Nel reggimento Regina il pennacchio per ufficiali
superiori ed Aiutanti Maggiori era di penne rosse, gli
altri avevano anch’ essi le penne rosse ma la cima di
esse era bianca.
L’ armamento individuale consisteva in una corta
sciabola e in un moschettone.
Contestualmente venivano costituiti:
- due compagnie di artefici del Real Corpo
d’ Artiglieria, con la stessa uniforme ed armamento
individuale degli uomini dei reggimenti d’ artiglieria,
unica differenza nel pennacchio che era bleu e da
portare allo scakò;
- una compagnia d’ artefici pontieri, con uniforme ed
armamento eguali alle due precedenti;
Nel 1824 vi furono alcune modifiche riguardo
l’ armamento individuale, i soldati dell’ artiglieria a
piedi vennero armati con moschettone con baionetta e
fodero, e sciabola della fanteria, mentre quelli
dell’ artiglieria a cavallo vennero equipaggiati con
pistole e sciabole di cavalleria.
Consistenti modifiche all’ uniforme dettava un decreto
di Ferdinando I (non più IV di Napoli e III di Sicilia,
ma I delle Due Sicilie), con esso si prescriveva che gli
ufficiali generali dovessero aggiungere alla loro
uniforme due spalline, la cui parte piana (di misura
esattamente definita) doveva essere ricamata in oro per
i capitani e tenenti generali e per i marescialli di campo
e d’ argento per i brigadieri, verso l’ estremità inferiore
della parte piana doveva essere uno scudo riccamente
ricamato. Sul centro dello scudo i capitani generali
dovevano aver per distintivo tre gigli in forma
piramidale sormontati da corona reale, i tenenti
generali due gigli in linea orizzontale sormontati
anch’ essi dalla corona, marescialli di campo brigadieri
un solo giglio sottoposto anch’ esso alla corona.
I colonnelli, tenenti colonnelli e maggiori, per
l’ abolizione del paramani, portavano anch’ essi delle
spalline, anch’ esse ricamate, sia pure diversamente da
quelle degli ufficiali generali, e caratterizzate da una
parte convessa nella quale vi erano tre gigli sormontati
da corona reale per i colonnelli, due gigli in liena con
corona per i tenenti colonnelli ed un giglio con corona
per i maggiori.
Nel 1833 fu sciolta la mezza brigata a cavallo della
Guardia Reale e della divisione del treno di Casa Reale
e veniva costituitsa una nuova compagnia di artiglieria
a cavallo la quale andava a far parte del reggimento
Regina Artiglieria.
9
e nel 1860 altro tricolore con le stesse caratteristiche i
quello del Regno di Sardegna
XIILFLDOHG¶DUWLJOLHULDLQJUDQWHQXWD±XIILFLDOH
GHO7UHQRLQJUDQWHQXWD
Dai reggimenti Re e Regina dalla loro fondazione sino
al 1848 e dal maggio del 1849 al 25 giugno 1860 fu
adottata la bandiera bianca collo stemma reale al
centro, così come tutti gli altri reparti dell’ esercito del
regno (m.1 x m.1,15; lunghezza dell’ asta m. 2,50).
Alla vigilia della caduta del Regno l’ artiglieria delle
Due Sicilie era sempre ordinata su due reggimenti su
16 batterie da 8 cannoni ciascuna, una batteria a
cavallo oltre l’ artiglieria da fortezza.
La preparazione tecnica era buona ed i quadri scelti,
capaci, pieni di zelo, custodi delle tradizioni di sapere e
valore della loro arma costituivano il nucleo più solido,
anche se esiguo, dell’ esercito napoletano. E’ la prova
della capacità e dell’ addestramento dell’ artiglieria del
Regno il comportamento che tenne nella battaglia del
Volturno:
nell’ attacco condotto dai Borbonici a cavaliere della
direttrice Capua – Sant’ Angelo essa ebbe parte
determinante;
il successo dell’ attacco delle truppe garibaldine a Santa
Maria si sarebbe risolto in una vera e propria rotta delle
fanteria borbonica se l’ artiglieria non avesse
tempestivamente e vigorosamente protetto il
ripiegamento;
mancò poco che l’ azione di Von Mechel su Maddaloni,
validamente sostenuta dall’ artiglieria napoletana, non
avesse ragione di Garibaldi decidendo le sorti della
giornata.
Dal 3 aprile 1848 al maggio del 1849 fu adottato un
tricolore con al centro lo stemma dei Borbone
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Grandi meriti nel settore organizzativo e del
funzionamento degli arsenali napoletani ebbe il
generale Carlo Filangeri, principe di Satriano a duca di
Taormina, mentre fu merito del Ten Gen. D’ Escamard,
comandante dell’ artiglieria, se fu potenziato lo
stabilimento di Mongiana, grazie al quale si stava per
rendere indipendente dall’ estero l’ industria siderurgica
meridionale, presso il quale lavorarono i tenenti
colonnelli Latour, Pacifici e Melograni.
Per concludere fra i tanti non si può non ricordare il
capitano Don Vincenzo Afan de Rivera ideatore e
costruttore delle artiglierie rigate napoletane, passato
dopo la conquista del Regno a prestar servizio presso
l’ esercito pontificio dove raggiunse il grado di
colonnello
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Don Vittorio Pilo Boyl di Putifigari nacque a Sassari il
17 maggio 1778 dall’ unione di genitori appartenenti
l’ uno, D. Francesco, ad un’ antica famiglia sarda, l’ altra, Donna Felicita Richelmi, ad un’ illustre famiglia
piemontese, esempio di una integrazione fra isolani e
0DUFKHVH9LWWRULR3LOR%R\OGL3XWLILJDUL
continentali che si andava, almeno nei ceti più elevati,
consolidando.
Appena tredicenne, in conformità agli usi del tempo si
recò a Torino dove, nel 1791, entrò nell’ Accademia
Militare venendo nominato nel 1793 Allievo del Corpo
Reale d’ artiglieria e l’ anno dopo Sottotenente, grado
col quale raggiunse le truppe che contrastavano sulle
Alpi l’ invasione francese.
l 23 novembre del 1795 si coprì di gloria in uno scontro
con l’ avversario alle falde del Piccolo S. Bernardo,
sopra Garessio, dove i piemontesi avevano impiantato
una ridotta contro la quale si sviluppò l’ attacco da parte
francese. Prima fu sottoposta ad un violento bombardamento e quindi assalita dai fanti francesi che spinti
dal loro comandante il Serrurier minacciavano d’ impadronirsi dell’ opera di difesa. Il generale Colli accortosi
del pericolo vi mandò allora dei rinforzi nella speranza
di mantenere la posizione, fra essi D. Vittorio Boyl che
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assunto il comando della difesa respinse il nemico dopo due ore di duro combattimento.
Per tale fatto d’ armi, l’ 8 gennaio 1796, fu decorato
della croce dell’ Ordine Militare dei S.S. Maurizio e
Lazzaro e gli fu data una pensione di 400 lire antiche di
Piemonte. Nella memoria inviata dal marchese di
Cravanzana, ministro della guerra, al primo segretario
del Gran Magistero dell’ Ordine si trova scritto: “ ,O
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WROVHGDOILDQFRSUHVVRFKHWXWWLOLFDQQRQLHUL” .
Nel 1799, occupato il Piemonte dai francesi, rientrò in
Sardegna, nel 1801 fu promosso capitano d’ artiglieria,
nel 1802 fu incaricato delle funzioni di capitano del
genio militare e civile, direttore generale dei ponti e
strade dell’ Isola
Nel 1806 fu nominato Direttore delle scuole teoriche
d’ artiglieria cui affiancò l’ incarico di professore. Insegnò con capacità le scienze matematiche pubblicando
anche un eccellente opuscolo “ Teoremi e problemi di
matematica, artiglieria e fortificazioni” .
In quello stesso 1806 fu creato gentiluomo del Duca
del Genevese ed il 4 agosto del 1807 colonnello delle
torri del Regno.
La sua carriera procedette quindi con regolarità:
Maggiore del Corpo Reale d’ artiglieria, comandante il
battaglione stanziato in Sardegna il 15 luglio 1815;
decorato dell’ Ordine militare di Savoia nel 1816; Luogotenente Colonnello di fanteria il 16 luglio 1817;
Colonnello d’ artiglieria nominato Tenente Colonnello
Ispettore dell’ artiglieria nel Regno di Sardegna col comando dei materiali e del personale il 29 settembre
1820; Colonnello di Stato Maggiore Generale e Vice
Ispettore dell’ artiglieria in Sardegna col comando del
personale e dei materiali nello stesso Regno il 14 ottobre 1820; insignito della gran croce dell’ Ordine dei
S.S. Maurizio e Lazzaro nel 1821; colonnello comandante del Corpo Reale del Genio nel 1823, maggior
generale nel 1827.
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Nel 1828 Carlo Felice che era un suo profondo estimatore, gli conferì le cariche di corte di gran cacciatore, gran falconiere e governatore di Venaria Reale
e nel 1830 gli conferì il collare dell’ Ordine Supremo
della Santissima Annunziata.
L’ anno dopo, andando in pensione, fu promosso Luogotenente generale e re Carlo Alberto lo destinò a cavaliere d’ onore della regina sua consorte.
L’ Imperatore d’ Austria Francesco I gli conferì le insegne dell’ Ordine Imperiale di Leopoldo.
Morì a Sassari il 14 febbraio 1834
11
3*
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Vetralla, grazie alla sua posizione lungo le strade di
grande transito, è stata coinvolta per secoli in varie vicende storiche riguardanti la Chiesa. In ricordo di questi episodi rimangono alcuni stemmi papali ed epigrafi
che decorano le mura degli edifici della città.
Il più antico stemma papale ancora esistente a Vetralla
si trova compresso tra una brutta porta metallica di
garage ed un balconcino mezzo crollato. La piccola tiara con volanti, le chiavi incrociate tenute insieme da
una cinta sono state usate come simbolo del papato fin
dal periodo d’ Avignone. Questo di Vetralla dovrebbe
appartenere a 3DSD 1LFFROR 9 (Tomasso Parentucelli,
14471455) eseguito per ricordare la visita che fece a
Vetralla nell’ estate del 1454.
Sulla facciata della Madonna del Riscatto si trova una
formella con lo stemma di 3DSD 3DROR ,, %DUER
1464-1471) partito SHU EHQG ad una croce Templare
che ha bisogno di essere studiata. Con Breve di Paolo
II datato settembre 1465 furono riconfermate tutte le
concessioni ed privilegi accordati da Papa Eugenio IV
ed inoltre concedeva il diritto di tenere bombarde per la
difesa della città e la libertà di dimorare a Vetralla agli
ebrei.
Il grande monumento in marmo collocato sullo scalone
del Palazzo Comunale reca lo stemma di 3DSD*LXOLR
,, 'HOOD 5RYHUH 1503-13) insieme agli stemmi di Re
Enrico VIII Tudor e del Cardinale-Ambasciatore Christopher Bainbridge. Grazie ad alcune lettere di protesta
dei Conservatori custodite e scoperte negli archivi del
Castello di Windsor, sappiamo che questo monumento
fu spostato dall’ androne, destinato a divenire stalla ad
uso del Capitano del Popolo, alla nuova posizione.
Visto che il monumento ricordava gli antichi legami
della comunità vetrallese con la Corona Inglese, il Capitano del Popolo fu invitato perentoriamente a desistere dall’ offensivo gesto.
La formella di peperino scolpita con lo stemma di 3D
SD6LVWR93HUHWWL (1585-90), situata in Via Cassia sul
lato del Palazzo Comunale, è testimone di importanti
legami che Vetralla aveva con le grandi dinastie del
’ 500 e ‘600 come i Montalto-Peretti e i Farnese. Lo
stemma di un altro papa di famiglia romana, 3DROR 9
%RUJKHVH (1605-21), affrescato da allievi della scuola
dei Fratelli Zuccari, si può ammirare nel salone principale di Palazzo Vinci Brugiotti.
Un altro stemma scolpito in pietra con le armi di 6LVWR
9 si trova ingenerosamente collocato a terra dietro la
scuola elementare, accanto ad un recipiente per l’ immondizia. Fino a tre anni addietro era nascosto fra le
ortensie davanti allo stesso complesso, ma è stato
spostato quando è stato rimosso il gran cancello in
ferro battuto (finito dove?). Dalla sua mole sembrerebbe uno dei due stemmi che ornavano la torre campanaria di Piazza della Rocca, distrutto sotto i bombardamenti del 1944. Di difficile lettura, dato il cattivo
stato di conservazione, a malapena si riconosce ancora
il grappolo di pere (uno dei simboli della famiglia
Peretti presente anche a Villa Lante ) tenuto nella zampa del leone.
In un documento dell’ aprile 1783 viene riconosciuta
ufficialmente l’ importanza della cittadina posta “ VXOOD
VWUDGDUHJLDHPLOLWDUHGLQXRYRFRVWUXLWDODTXDOHGD
12
5RPD SRUWD LQ 7RVFDQD” . Sempre nello stesso Breve,
3DSD3LR9, %UDVFKL () conferisce a Vetralla il titolo di Città e in ricordo di quest’ onorifica concessione, venne murata un’ epigrafe lungo la scala del
Palazzo Comunale ed in seguito spostata nella Sala
Consigliare. Sicuramente questo cambiamento da
“ paese” in “ Città” avvenne anche per i suggerimenti
del Cardinale Enrico Stuart durante una visita ufficiale
a Vetralla nel 1776. In seguito il Cardinale fu
letteralmente tempestato di richieste da parte dei
Conservatori. Un busto di marmo bianco, regalato alla
Città dal Cardinale stesso in ricordo della sua visita,
troneggia nella Sala Consigliare dal 1802 ed è
frequentemente citato per l’ importanza storica ed
artistica poiché opera dello scultore Agostino Penna.
L’ ultimo “ segno del papato” in ordine di tempo si trova
nella bella chiesetta moderna della Madonna del
Carmelo: una lapide posta alla sinistra della navata in
ricordo della visita avvenuta nel luglio del 1962 da
3DSD *LRYDQQL ;;,,, 5RQFDOOL. Il “ Papa Buono” si
recò a Vetralla nel primo anniversario della morte del
suo Segretario di Stato, Cardinale Domenico Tardini,
per “ VDOXWDUH DQFRUD XQD YROWD LO VXR FDUR 6HJUHWDULR
GL6WDWR” , sepolto nella cappella del monastero.
Tutti questi monumenti ed epigrafi sono testimonianze
del ruolo che Vetralla ha avuto nella storia del
Patrimonio di San Pietro e vanno conosciuti e protetti
per le future generazioni.
Per saperne di più:
D. L . Galbreath, “ 3DSDO+HUDOGU\´, Londra, 1972
D. Francesco Paolocci, “ 1RWL]LH H 'RFXPHQWL UHODWLYL
DOOD6WRULDGL9HWUDOOD´, 1907
Crispino Grissini, “ 9HWUDOODQHOOD6WRULDGHL3DSL
´, s.d.
0DU\-DQH&U\DQ
/RVWHPPDGL*LXVHSSH0D]]LQL"
Un articolo di molti anni fa, sulla Rivista Araldica,
trattava dello stemma di Giuseppe Garibaldi, al quale,
se non ricordo male, era stata anche concessa la nobiltà
civica di Ancona o Macerata; qui intendiamo dare
notizia del possibile stemma di un altro dei maggiori
personaggi del Risorgimento, Giuseppe Mazzini. Lo
stemma compare sul sigillo di una lettera indirizzata da
Mazzini a Emilie Hawkes.
Emilie Ashurst sposò l’ avvocato Londinese Sydney
Hawkes da cui divorziò nel 1861, per sposare il patrio-
ta Veneziano Carlo Venturi; fu legatissima a Mazzini,
di cui fu segretaria in Inghilterra e di cui scrisse una
biografia. Attiva nei milieux liberali dell’ epoca, fu una
precoce sostenitrice dell’ emancipazione femminile.
In una collezione privata Romana, è conservata una
piccola busta sulla quale è l’ iscrizione autografa 0UV
+DZNHV 6WUDWWRQ; in altra mano, probabilmente quella
di Emilie Hawkes,-RVHSK0D]]LQL$XWRJUDSK.
Sul retro, a chiusura della busta, è un sigillo in ceralacca, la cui parte superiore è spezzato dall’ apertura
della busta e mancante.
L’ impressione è nitida e ben leggibile; il sigillo, di circa cm. 1,5-2 di diametro, è circolare, dal bordo interno
perlinato, e presenta uno scudo sannitico, presumibilmente privo di un timbro, poiché lo scudo appare
riempire tutto il campo circolare del sigillo, senza lasciare spazio sufficiente per un elmo o altro.
Lo stemma è così blasonabile: GL« DO IDVFLR GL VHWWH
VSLJKH OHJDWH SRVWR VXOOD WHUUD]]D. Altri elementi
potrebbero essere stati presenti sulla parte superiore
dello scudo, anche se non sembrerebbe esserci spazio
sufficiente.
Si tratta evidentemente di uno stemma parlante: l’ elemento principale è un piccolo mazzo, un mazzino di
spighe. Sarebbe interessante verificare se anche su altre
buste di lettere mazziniane compaia il sigillo con lo
stemma che qui abbiamo attribuito a Mazzini.
0DXUL]LR%HWWRMD
³6XOWXWWR´SHULRGLFRGHOOD6,6$ULVHUYDWRDLVRFL
'LUHWWRUH
Alberico Lo Faso di Serradifalco
&RPLWDWRUHGD]LRQDOH
Marco Di Bartolo
Andrew Martin Garvey
Vincenzo Pruiti
Angelo Scordo
7HVWDWDGHOSHULRGLFR
di Salvatorangelo Palmerio Spanu
,QGLUL]]L3RVWDOL
Direttore: Piazza Vittorio Veneto, 12 - 10123 Torino
Redattore: Marco Di Bartolo, via IV Novembre, 16
10092 Beinasco (Torino)
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3RVWDHOHWWURQLFD
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di vista della Società o della redazione. Gli scritti
saranno pubblicati compatibilmente colle esigenze redazionali ed eventualmente anche in due diversi numeri secondo la loro lunghezza La redazione si riserva la
possibilità di apportare qualche modifica ai testi per
renderli conformi allo stile del periodico.
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