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Incontri triestini di filologia classica 5 (2005-2006), 315-328
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Armis et legibus.
Un motto attribuito a Iamblichus nei Romana di Iordanes
Il De summa temporum, uel origine actibusque gentis Romanorum è la prima di una coppia di cronache latine, composte negli anni 550/551 da un alto dignitario di stirpe germanica. Giunto in Italia nel 538, convertitosi all’ortodossia cattolica e alla vita religiosa, Giordane
può identificarsi nel vescovo di Crotone che per sfuggire alla guerra era in quel periodo emigrato a Costantinopoli, in compagnia di una folta rappresentanza di senatori romani, laici ed
ecclesiastici; ma su questa individuazione dell’autore – come su quella del destinatario dell’opuscolo, apostrofato nobilissime frater Vigili, con il papa Vigilio (537-555) – molti sollevano dubbi tali da investire le ragioni e le stesse finalità dell’opera1.
Sono due le ipotesi esegetiche che da tempo si fronteggiano; per alcuni Giordane esprime solo atteggiamenti di distacco spirituale e ascetica indifferenza: il suo scopo, reso esplicito dalla dedica iniziale (Rom. 1-5), consiste nell’esortazione ad abbandonarsi senza lotta
alla volontà divina; altri gli attribuiscono invece un ruolo di portaparola per conto di potenti gruppi di pressione: in particolare di quella nobiltà laticlavia che mandava i propri uomini ad insediarsi ai vertici della Chiesa romana, tentando di perseguire fini di vantaggio economico e prestigio sociale, di spostare i termini entro le dispute culturali e religiose, di intervenire su scelte di politica estera e addirittura di condotta militare nei conflitti in corso. Ci
limiteremo qui a ribadire una sommessa preferenza per la seconda opinione, che ha ottenuto argomenti efficaci da Arnaldo Momigliano2: ma vorremmo anzitutto volgere lo sguardo
sopra un indizio di matrice letteraria, isolato e trascurato, e collocarlo entro un quadro interpretativo coerente.
1
Una prima conoscenza dello stato degli studi può ottenersi attraverso L.M.Buonomo,
Introduzione alla lettura delle opere di Giordane, in Silvestre-Squillante 1997, 115-69 (ivi un’ampia
bibliografia). Si citano i testi secondo la classica edizione di Theodor Mommsen (MGH Auct. Antiq.
V/1, Berolini 1882), per quanto le scelte ortografiche iperconservative non appaiano condivisibili.
2 Si trovano esposte in due celebri saggi dal titolo Cassiodorus and Italian Culture of His Time
(1955) e Gli Anicii e la storiografia latina del VI sec. d. C. (1956), riediti nel Secondo contributo alla
storia degli studi classici (Roma 1964). Tra i sostenitori più intelligenti delle idee di Momigliano (che
riscuotono tuttora consenso: Amici 2002 e 2005) si segnala Cameron 1981, mentre sulle posizioni contrarie spiccano per combattività e perseveranza i nomi di O’Donnell 1979, Barnish 1984, Croke 1987
e 2005, da ultimo Christensen 2002; offrono una buona sintesi le parole di O’Donnell 1982, 233: «the
message… is not political but theological: convert, and find, in the love of God and neighbor, the true
repose in the true patria common to all men, both Goths and Romans».
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Così come il trattato De origine actibusque Getarum (da Mommsen in poi, semplicemente Getica) esordisce nel nome dello storiografo cristiano Paolo Orosio (1, 4 Maiores nostri,
ut refert Orosius, totius terrae circulum Oceani limbo circumseptum triquadrum statuerunt
eiusque tres partes Asiam, Europam et Africam uocauerunt)3, la narrazione dei Romana si
schiude con un prezioso sigillo autoriale, però evocando una presenza che sorprende (6):
Romani, ut ait Iamblicus, a r m i s e t l e g i b u s exercentes4 orbem terrae suum
fecerunt: armis si quidem construxerunt, legibus autem conseruauerunt. Quod et ego,
sequens eruditissimum uirum, dum aliqua de cursu temporum scribere delibero, necessarium duxi opusculo meo uelut insigne quoddam ornamentum praeponere. Cupio
namque ad inquisitionibus amici fidelissimi, ex diuersis uoluminibus maiorum praelibans aliqua floscula pro captu ingenii mei in unum redigere et in modum storiunculae
tam annorum seriae quam etiam eorum uirorum, qui fortiter in re publica laborauerunt,
gesta strictim breuiterque collegere.
La simmetria di struttura, messa in luce dalla duplice posizione proemiale, offre garanzie sufficienti sulla attendibilità (o perlomeno la verisimiglianza) del rimando: i lettori di
Giordane disponevano a Costantinopoli delle migliori biblioteche greche e forse latine del
mondo tardoantico, dove erano facili i controlli; ma anche se ciò bastasse a fugare i dubbi
che corrono sulle attitudini falsificatorie dell’autore5, rimane l’insormontabile asperità di
trovare la fonte letteraria, non potendosi ascrivere la citazione ad alcuna delle opere del
discepolo di Porfirio a noi note; né spostiamo di molto il problema ricordando che ci furono
altri due Iamblichi, omonimi6 ed entrambi vicini (non solo nel tempo) a Giuliano imperatore, spesso confusi con lo scolarca.
Nella recente monografia ‘Platonopolis’. Platonic Political Philosophy in Late Antiquity
(Oxford 2003), Dominic J.O’Meara dimostra come la tensione spirituale che animava i maestri del neoplatonismo tardoantico non si risolvesse in puro slancio metafisico: il loro oriz-
3 Quasi letterale la ripresa da Oros. I 2,1 maiores nostri orbem totius terrae Oceani limbo circumsaeptum triquadrum statuere eiusque tres partes Asiam, Europam et Africam uocauerunt.
4 Il senso della frase è tanto solenne quanto chiaro, benché il participio exercentes esibisca un uso
inconsueto del verbo, dove il riflessivo (pur esso interessante, fuori da ambiti semantici della fatica corporea, perciò accuratamente registrato da O.Hey nel lemma del Thesaurus [V/2, 1370,49s.; 59s.]) sembra disporsi ad assumere sopra di sé la accezione più comune di ‘esercitare il potere’, ‘amministrare la
giustizia’ e simili [ibid. 1373, 77ss.]; tradurrei dunque: «Con il doppio esercizio delle leggi e delle armi
i Romani si appropriarono del mondo: se le une servirono a costruire l’impero, le altre lo conservarono» ecc.
5 I sospetti avanzati dal Mommsen (p. xxv) non hanno altra motivazione che il reimpiego (ovviamente inconfessato) e relativo adattamento di una pagina di Rufino all’incipit dei Getica.
6 ‘Iamblichus 2’ e ‘Iamblichus 3’, in PLRE I, 451s.
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zonte dottrinario abbracciava volentieri la dimensione terrena, la loro ricerca speculativa si
accordava con l’impegno civile. Ciò comporta più di uno stimolo alla rilettura delle testimonianze di interpreti che vissero in occidente e si espressero in latino, durante il secolo e
mezzo che separa Macrobio (o meglio, i suoi saggi al banchetto dei Saturnali) da Boezio e
Cassiodoro; ma poiché piacerebbe offrire un rincalzo imprevisto a tesi coraggiose, suggeriamo di ascoltare qui, custodita entro la scheggia di Giordane, una eco di discorso ufficiale:
magari un panegirico7 detto davanti ad un alto magistrato o allo stesso imperatore, quando
era costume ripetere concetti invalsi nell’oratoria d’apparato – forse altrimenti contestualizzati e diversamente formulati dalle tendenze politico-filosofiche della scuola plotiniana.
Il frammento, per effetto anche della brevità, ha scarse chances di rivelarci veri contributi elaborativi da parte di Giamblico: il cui ruolo si sarà limitato a trasmettere l’ennesima
variante di una Leitidee tipicamente romana. L’origine, per quel che sappiamo scorgere, sta
nel vocabolario di Cicerone – ovvero ottiene una prima formulazione entro il lessico ‘repubblicano’ dell’Arpinate8; il modello formale si presenta già in S. Rosc. 131, a proposito dell’artefice di un sovvertimento dell’ordine in senso monarchico:
… Sullam, cum solus rem publicam regeret orbemque terrarum gubernaret imperiique
maiestatem, quam a r m i s receperat, tum l e g i b u s confirmaret, aliqua animaduertere non potuisse?
Altro archetipo espressivo risulta uno dei testi oraziani che servono a definire il rapporto del poeta col potere (ancorché la lettera a Cesare Augusto tratti poi di letteratura e di teatro, in apparenza evitando temi politici, o comunque inerenti alla ‘ideologia del principato’);
eccone la apertura:
Cum tot sustineas et tanta negotia solus,
res Italas a r m i s tuteris, moribus ornes,
l e g i b u s emendes, in publica commoda peccem,
7 Bradley 1993 crede di poter riconoscere qualche luogo dei Getica dove “a source partaking of the
nature of panegyric was in use” (214 e nt. 29). Vale la pena rammentare che la recita di discorsi celebrativi in lingua latina era pratica ancora seguita, alla corte di Giustiniano e del suo successore: sappiamo di un encomio per l’imperatore composto nel 532 da Giovanni Lido, andato perduto, oltre a
quello poetico di Corippo per Giustino, databile all’inizio del 566.
8 I due termini sono talora contrapposti, come rappresentassero l’antinomia dei concetti di legalità
e violenza: molto chiaramente in Cic. Phil. 13, 27 [T. Plancus] scelere damnatus in eam urbem rediit
armis, unde excesserat legibus; si vedano poi i materiali selezionati in ThlL VII/2, 1252,71ss., oltre al
prezioso esempio di Lucan. II 281 [parla Bruto] toto iam liber in orbe / solus Caesar erit. quod si pro
legibus arma / ferre iuuat patriis libertatemque tueri, / nunc neque Pompei Brutum neque Caesaris
hostem, / post bellum uictoris habes.
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si longo sermone morer tua tempora, Caesar9
eqs.
La dittologia ARMIS ET LEGIBVS, che lungo i secoli del medioevo10 e in età moderna diverrà motto memorabile ed emblema11, attraversa varie fonti tarde d’ambito giuridico o storico,
percorse da sentimenti ‘patriottici’: segnaliamo un passo di Aurelio Vittore12, un decreto di
Onorio13, una novella di Maggioriano14; un rescritto stilato da Cassiodoro per re
Teodorico15:
Propositi nostri est, ut prouincias nobis deo auxiliante subiectas, sicut a r m i s defendimus, ita l e g i b u s ordinemus, quia semper auget principes obseruata iustitia et
quantum probabili institutione uiuitur, tantum summis adhuc prouectibus aggregatur.
9 Le ricerche sugli archivi elettronici permettono di individuare come epigoni di Orazio scrittori
assai lontani fra loro, quali Liutprando di Cremona (Historia Ottonis 4 [CCCM 156, 1998, 169-83]:
Imperator, quemadmodum re ipsa experti sumus, ea quae Dei sunt sapit, operatur, diligit, ecclesiastica et secularia negotia armis tutatur, moribus ornat, legibus emundat), o meno direttamente l’anonimo della Translatio Nigasii, Quirini et Scubiculi Vulcassinorum [AA. SS. Oct. 6, p. 550]: Carolus
imperator monarchiam regni uirtute consilio prudentiaque gubernabat et rempublicam non modo
armis tuebatur uerum etiam legibus emendabat moribus exornabat), o l’agiografo della Vita Agilolfi
Malmundariensis [ibid. Jul. 2, p. 721]: consilio sapienti sanctissimi archipraesulis utebatur Agilolfi
sapere ea quae sunt dei diligere, et operari ecclesiastica et secularia negotia armis tueri, moribus
ornare, legibus emendare [sic!]).
10 I Preconia Frederici attribuiti al notaio Quilichino da Spoleto (autore della Historia Alexandri,
ca. 1236) lodano così l’imperatore Federico II (vv. 13-14): Cuncta coartas armis et legibus: / mundus
stat totus sub tuis pedibus.
11 Anche adatto ad accompagnare immagini propagandistiche dell’idea imperiale: si veda la figura armata che sormonta il globo tenendo nelle due mani una spada e un libro aperto, presso il repertorio di Gabriel Rollenhagen, Selectorum emblematum centuria secunda (Ultraiecti, ex officina Crispiani
Passaei, 1613, 29).
12 Aur. Vict. Caes. 41,17 (a proposito del funerale di Costantino, relatum in urbem sui nominis):
quod sane populus Romanus aegerrime tulit, quippe cuius a r m i s l e g i b u s clementi imperio
quasi nouatam urbem Romam arbitraretur.
13 Const. Sirmond. 16 [10 dec. 408] Punitis auctoribus mali publici laesorum quidem dolori dedimus ultionem, sed prouincialibus nostris libertatis restituendae festinatione sentimus uno eodemque
tempore a r m i s e t l e g i b u s c o n s u l e n d u m.
14 La De sanctimonialibus uel uiduis et de successionibus earum fu emanata nell’ottobre del 458 da
Ravenna, ove Maggioriano si era stabilito appena eletto; è chiara sin dall’inizio la squisita destinazione
‘politica’ della legge (6, 6): susceptis regendi imperii gubernaculis cogitare debemus, quemadmodum
nostra res publica e t a r m i s e t l e g i b u s et integra religionis reuerentia conseruetur atque proficiat. Come per ogni affare riguardante la cosa pubblica, occorre guardare al passato glorioso di Roma:
hoc enim quamprimum nostri egere maiores, ut rem publicam armis et religione fundarent.
15 Cassiod. uar. IV 12,1; molto simile l’enfasi di uar. IV 32,1: … patimur enim superari salua
aequitate p e r l e g e s, ut i n t e r a r m a semper possimus esse uictores.
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Ma principalmente andrà riletto il periodo d’apertura – davvero maestoso – della costituzione De Institutionibus promulgandis apposta da Giustiniano alla quarta parte del Corpus
iuris civilis; ecco l’esordio del celebre statuto emanato nel novembre del 533 e indirizzato
cupidae legum iuuentuti:16
Imperatoriam maiestatem non solum a r m i s decoratam, sed etiam l e g i b u s oportet esse armatam, ut utrumque tempus et bellorum et pacis recte possit gubernari et
princeps Romanus uictor existat non solum in hostilibus proeliis, sed etiam per legitimos tramites calumniantium iniquitates expellens, et fiat tam iuris religiosissimus
quam uictis hostibus triumphator.
Materiali simili potrebbero suggerire una chiave interpretativa del problema; anziché ad
un filosofo ‘ellenico’ dell’età tetrarchica, Giordane aveva modo di attribuire ad altri autori la
paternità del dictum memorabile, meglio di tutti all’autocrate regnante: non sappiamo quanto ciò suonasse polemico, mentre era fresco il ricordo della chiusura della Scuola d’Atene,
ovvero prevalesse la nostalgia per tempi in cui i tradizionali ordinamenti e le antiche magistrature mantenevano una loro dignitosa presenza – se non l’influenza di un tempo. Si tratta
di temi largamente dibattuti negli ambienti colti della burocrazia di Costantinopoli, come si
ricava ad esempio dalle opere di Giovanni Lido17, ma soprattutto condivisi dall’aristocrazia
dell’antica capitale. Non era questione di generici sospetti verso il potere assoluto, come ai
tempi di Plinio o di Tacito, ma della stessa sopravvivenza del senato: inglorioso declino e
definitiva scomparsa, sarebbero state le conseguenze inevitabili delle scelte di Giustiniano
(abolizione del consolato ordinario, estinzione del comitatus occidentale e di ogni relativa
carica di grado illustre).18
Allorché nel proemio ai Romana Giordane afferma di impiegare le parole di Giamblico
uelut insigne quoddam ornamentum, quasi una gemma da incastonare in capo alla sua cronistoria, non dice dunque una sciocchezza. Crediamo anzi che una frase così densa di valori
ideali, mondani e civili, basti da sola a provare che gli scopi dell’autore (o meglio, dei circoli aristocratico-clericali cui egli guarda) non possono definirsi solo religiosi19; almeno, tali
16
Questa è l’intestazione per esteso: In nomine domini nostri Iesu Christi. Imperator Caesar
Flavius Iustinianus Alamannicus Gothicus Francicus Germanicus Anticus Alanicus Vandalicus
Africanus Pius Felix inclitus uictor ac triumphator semper Augustus cupidae legum iuuentuti.
17 Maas 1992, e per i rapporti di Lido con i letterati e la cultura di lingua latina, la recensione di
chi scrive in “Paideia” XLVIII 1993, 158-62.
18 Burgarella 2001, 166s., e passim per le vicende del senato romano durante l’ultimo secolo della
sua esistenza antica.
19 È già stato notato da Bradley 1993, 227: «there is no suggestion of pessimism in the words with
which the narrative of the Romana opens […] nor does the reference shortly after to those qui fortiter
in re publica laborauerunt carry any suggestion of the vanity of that endeavour». Possiamo notare
anche in questo caso un lontano sentore di lessico tecnico da tarda repubblica (Cic. Tusc. IV 23 nescio
ecquid ipsis nos fortiter in re publica fecerimus: si quid fecimus, certe irati non fecimus).
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non erano nella fase originaria e ideativa di un cammino redazionale intrapreso fra l’aprile del
550 e il marzo del 551 (Rom. 4; 363), compiuto in maniera desultoria, turbato dalle incessanti vicissitudini e dal mutevole ondeggiare dei fatti esterni. In quei mesi cruciali l’imperatore
alternava spirito di rassegnazione a furiosi impulsi di vendetta contro i Goti d’Italia, che per
terra e per mare non smettevano di umiliarne le forze; nel palazzo si susseguivano intanto consultazioni spasmodiche, correzioni di rotta e ripensamenti politici, trattative diplomatiche e
preparativi bellici, nuovi incarichi ed esoneri di comandanti con relative soste e ripartenze di
eserciti. Ancora quando Narsete mosse finalmente le truppe da Salona20 verso Ravenna (si era
ormai nel marzo del 552), nessuno poteva immaginare che in pochi mesi il cubiculario avrebbe chiuso la guerra con la disfatta di Totila e l’annientamento della gente germanica – non
prima che barbare rappresaglie provocassero la mattanza di centinaia di giovani ostaggi e altri
clarissimi rimasti in Italia. A prescindere dalle questioni di minuta cronologia21, solo l’accavallarsi degli avvenimenti riesce a spiegare come mai Giordane cominci il lavoro su toni pacati e ‘neutri’, sospenda la stesura dei Romana per redigere in fretta una Storia dei Goti improntata al lieto fine, tendente alla conciliazione e al rispetto reciproco fra i popoli; quindi torni sul
progetto iniziale ma licenzi il De summa temporum in preda al pessimismo, coi sensi e gli
istinti rivolti al cupo presagio di una nostri temporis tragydia (Rom. 388):
hi sunt casus Romanae rei publicae preter instantia cottidiana Bulgarum, Antium et
Sclauinorum, que si quis scire cupit, annales consulumque seriem reuoluat sine fastidio repperietque dignam nostri temporis rem publicam tragydiae. scietque unde orta,
quomodo aucta, qualiterue sibi cunctas terras subdiderit et quomodo iterum eas ab
ignaris rectoribus amiserit. quod et nos pro captu ingenii breuiter tetigimus, quatenus
diligens lector latius ista legendo cognoscat.
La sfiducia sembra travalicare l’attualità stretta dei casi bellici; lo stesso avviene in un
altro punto cardine dell’opera, la lettera dedicatoria, che ce ne fa cogliere anche l’ultima fase
di scrittura22:
20 Per via di terra: come racconta Procopio (bell. VIII 24), i Goti non solo compivano saccheggi e
incursioni in Grecia, ma avevano da poco espulso i Bizantini anche dalle isole tirreniche, mostrando
per la prima volta dall’inizio della guerra una discreta forza navale attorno alle coste italiane.
21 Le energie profuse da Croke 2005 per dimostrare che il lavoro di Giordane era già tutto finito
entro il marzo del 551 sono spoporzionate ai risultati. L’ancoraggio cronologico più sicuro resta la
nascita del bambino, figlio postumo di Germano e Matasunta (Get. 314), da porsi proprio a quell’altezza: ma l’evento non può costituire insieme il terminus ante e post quem anche per i Romana, la cui
ripresa e compimento avrà pure richiesto almeno delle settimane – se non dei mesi. Un limite invalicabile per la conclusione di entrambi gli opuscoli e per la dedica a Vigilio appare invece l’inizio effettivo della spedizione di Narsete in Italia: un dato compatibile con le risultanze di Heather 1991 (4749), ma non di Goffart 1998 (98 ss.).
22 Così giustamente Bradley 1993, 235.
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1 Vigilantiae uestrae, nobilissime frater Vigili, gratias refero, quod me longo per tempore dormientem uestris tandem interrogationibus excitastis. Deo magno gratias, qui
uos ita fecit sollicitos, ut non solum uobis tantum, quantum et aliis uigiletis. Mactae
uirtutis et meriti. 2 Vis enim praesentis mundi erumnas cognuscere aut quando coepit
uel quid ad nos usque perpessus est, edoceri. Addes praeterea, ut tibi, quomodo
Romana res publica coepit et tenuit totumque pene mundum subegit et hactenus uel
imaginariae teneat, ex dictis maiorum floscula carpens breuiter referam. (…) 4 Et quia
ante Augustum iam per septingentos annos consolum, dictatorum regumque suorum
sollertia Romana res publica nonnulla subegerat, ab ipso Romulo aedificatore eius originem sumens, in uicensimo quarto anno Iustiniani imperatoris, quamuis breuiter, uno
tamen in tuo nomine et hoc paruissimo libello confeci, iungens ei aliud uolumen de origine actusque Getice gentis, quam iam dudum communi amico Castalio ededissem,
quatinus diuersarum gentium calamitate conperta ab omni erumna liberum te fieri
cupias et ad deum conuertas, qui est uera libertas. 5 Legens ergo utrosque libellos, scito
quod diligenti mundo semper necessitas imminet. Tu uero ausculta Iohannem apostolum, qui ait [epist. 1, 2, 15-17]: ‘carissimi, nolite dilegere mundum neque ea que in
mundo sunt. Quia mundus transit et concupiscentia eius: qui autem fecerit uoluntatem
dei, manet in aeternum’. Estoque toto corde diligens deum et proximum, ut adimpleas
legem et ores pro me, nouilissime et magnifice frater.
Lo si diceva all’inizio: è orientamento oramai diffuso respingere l’identificazione di questo frater Vigilius con il vescovo di Roma23; per conseguenza, il Iordanes scrittore nulla
avrebbe a che fare col prelato dell’entourage papale, nonostante le fonti documentino la presenza a Costantinopoli di una compagnia di emigrati di cui fa parte pure Cassiodoro24, il
quale dietro sua richiesta (Get. 2) fa avere a Giordane una copia della propria Historia
Gothorum; un mucchio di combinazioni, che vanno lette in modo globale. Un solo argomento di peso vediamo addotto dai ‘negazionisti’ dell’identità del dedicatario, consiste nell’incuria linguistica del dedicatore, che si autodefinisce uir religiosus: e potrebbe essere un semplice monaco, ovvero un esponente della gerarchia ecclesiastica, fratello e coepiscopus, formalmente pari grado di ogni altro vescovo – compreso quello romano. Ebbene, alcune stranezze di tono, di stile, di lessico, certe palesi inosservanze del protocollo epistolare – a partire dalle licenze che Giordane si prende rispetto alle regolari titolature e formule di saluto –
sono innegabili: ma bisognerà pure avvertire che tali anomalie trovano scusanti nella eccezionalità delle circostanze in cui i personaggi operavano. Vediamo di tracciare in poche linee
uno sfondo utile a metterne in rilievo la dinamica.
La protratta, faticosa composizione – forse sarebbe meglio dire la continua rielaborazione – di Getica e Romana cade nel periodo più drammatico del pontificato di Vigilio: la cui
23 Ad
esempio Luiselli 1976, 113 nt. 46; Croke 1987, 129 nt. 36; il più inflessibile sulla posizione,
ma senza saper dare basi più stabili ai suoi argomenti, è Barnish 1984, 354s.
24 Amici 2002, 19-21; Amici 2005, 228-30.
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provenienza dalle file della nobiltà senatoria, nonché la disinvoltura estesa al terreno politico, ne accresceva pericolosamente l’autorevolezza dinanzi a un uomo (e alla sua sposa, finché Teodora rimase in vita) che nascondevano una origine ignobile – quando non vergognosa. Sebbene gli studiosi, quasi intimoriti dalle pietre che segnano i confini disciplinari, esitino ad intersecare il piano della macro-storia evenemenziale con lo specifico della dogmatica cristiana e della controversistica teologica, viene spontaneo il sospetto che certe difformità di vedute su entrambi i lati – atteggiamento verso i Goti e conduzione della guerra in Italia
da una parte, questione tricapitolina dall’altra – non corressero affatto indipendenti tra loro.
Proprio quando Giordane scriveva le sue storie, degenerarono i rapporti tra Giustiniano
e il papa; questi viveva chiuso nel palazzo di Placidia fin dal suo arrivo a Costantinopoli, nel
gennaio del 547: meno ospite che prigioniero, sottoposto ad ogni tipo di pressione morale e
fisica.25 Nell’aprile 548, mentre Teodora moriva di cancro, Vigilio venne spinto a pubblicare il Iudicatum, testo che fu generalmente inteso come un abbandono delle delibere di
Calcedonia; nel corso dei due anni successivi un gran numero di vescovi, in Illiria, in Gallia,
nell’Italia settentrionale, persino in oriente espressero dubbi sulla ortodossia del documento;
nel 550 una sinodo africana giunse al punto di scomunicare il capo della Chiesa romana, che
affidò la risposta a gesti uguali e contrari: nel marzo 551 dovette colpire con l’anatema la
disobbedienza dilagante ormai fin tra i suoi stretti collaboratori (due diaconi e sei clerici), in
esilio a Costantinopoli. Era ormai sotto fuoco incrociato.
In quel periodo il filo del dialogo con Giustiniano rimase sempre sul punto di spezzarsi,
ma Vigilio si avventurò sulla strada di un ulteriore compromesso, in cambio dell’impegno
alla celere indizione di un concilio da tenersi in occidente; ormai la sfiducia reciproca era
tuttavia acclarata, le divergenze di opinione tra le due autorità esplosero; ogni residuo equilibrio si ruppe in estate.
Era luglio del 551 quando Teodoro Askida, vescovo di Cesarea di Palestina, conferì al
papa un testo redatto di pugno dello stesso Giustiniano, dal titolo Confessio fidei aduersus
Tria Capitula; sentendosi oggetto di una provocazione, Vigilio inflisse la scomunica anche
all’uomo più ascoltato dall’imperatore teologo, poi cercò asilo nella chiesa di san Pietro in
Ormisda, attigua al palazzo degli apocrisari: mentre la sentenza di condanna veniva messa
per iscritto e controfirmata da tredici vescovi occidentali (tra cui appunto un Iordanes
Crotoniensis), fece irruzione anche lì un reparto di militari a spade sguainate, che colpirono
chiunque facesse resistenza e strapparono a forza il papa dall’altare cui si aggrappava26; trat-
25
Per seguire queste vicende, in cui erano in gioco i rapporti tra due forti personalità, ma si trovava anche nuovamente a rischio di scissione l’unità della Chiesa, conviene seguire la biografia di Vigilio
tracciata di recente da Sotinel 2000.
26 Scrive Sotinel 1992, 460: «À aucun moment Vigile n’a été plus près de laisser le souvenir d’un
confesseur de la foi de Chalcédoine».
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tato alla stregua di un criminale, il successore di Pietro patì come l’apostolo i vincoli della
prigionia, da cui si liberò l’antivigilia di Natale; scappato per una finestra e fattosi traghettare di là del Bosforo, decise di barricarsi nella chiesa di sant’Eufemia a Calcedonia: il luogo
e il tempo erano simbolici per quanti intendevano restar fedeli al concilio che si era celebrato lì, un secolo prima. Solo allora Giustiniano sembrò ammorbidire le posizioni.
Nel febbraio del 552, due mesi prima della partenza di Narsete per l’Italia, si presentava
al papa una delegazione significativamente composta da sole autorità civili, un vero e proprio collegio quinquevirale formato da senatori dell’antica e della nuova Roma (Belisario,
Cetego, Pietro Patrizio, Giustino iunior e Marcellino); non sappiamo cosa dissero, ma al termine delle trattative ottennero il ritorno a Costantinopoli di Vigilio; questi non avrebbe saputo più recuperare la propria influenza, accerchiato com’era da ogni lato: una parte del clero
lo giudicava intransigente e superbo, un’altra debole e accomodante, oppure infido e volubile; l’episcopato d’Africa lo privava di legittimità, critiche e minacce di scisma piovevano da
diocesi diverse; infine la contestazione entro il suo stesso entourage lo costringeva alla
rinuncia ai migliori collaboratori.
Il papa visse un dramma personale che giustificava e forse meritava davvero la consolatoria di Giordane27: la lingua disadorna, le titolature inadeguate, le tinte drammatiche e gli
accenti accorati dipendono dall’imbarazzo del dedicatore dinanzi alle umiliazioni che il
destinatario stava patendo; uomo avvezzo all’esercizio del potere più spregiudicato (ed esorbitante nella sfera civile, finché aveva risieduto nell’Urbe), altero per indole e aristocratico
per lignaggio, Vigilio affrontava con l’autorità imperiale una lotta impari e in campo sfavorevole. A cedere fu chi pretendeva forse di concentrare in sé il doppio patrimonio della sede
petrina e della curia di Roma, della cui aula nel foro (detta variamente atrium, penetralia,
gremium Libertatis) suo padre Giovanni aveva curato i restauri durante la propria prefettura.28 In altri tempi, quando si celebravano a San Pietro in Vincoli stipata di folla i trionfi di
chi aveva liberato il popolo dalle catene, imitando l’apostolo, per il papa s’era coniato anche
uno speciale epiteto: Publica libertas29, che sapeva di slogan monetario, di acclamazione
circense o anfiteatrale. La parola che il senato da sempre usava a scopo di propaganda, per
identificare la sua funzione con la libertà dei Romani, torna ora ribaltata nel senso, lasciando in bocca lo stesso amaro gusto del disinganno boeziano. Anziché alla sfera mondana e
27 Il tono dimesso, a fronte di una certa euforia che si avverte in altre parti delle cronache, corrispondono sia agli stati d’animo dell’illustre destinatario, sia alla oggettiva difficoltà di una situazione
generale che dovette peggiorare nel corso della redazione; lucidamente così già Charles C.Mierow (The
Gohic History of Jordanes, Princeton 1915, 7-10).
28 Fraschetti 1999, 189-90.
29 In una delle dediche del poema (Vigil. 3): si veda Aratore, Partenio, Vigilio, coetanei (ed amici?)
di Massimiano elegiaco, in Cristante-Tessier 2004, 335 e nt. 28 (ivi i necessari riscontri e bibliografia).
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civile, Giordane rinvia l’interlocutore all’universo della filosofia e della fede, sole garanti del
transito a quella uera libertas che coincide con un totale abbandono al volere divino:
… diuersarum gentium calamitate conperta ab omni erumna liberum te fieri cupias et
ad deum conuertas, qui est uera libertas.
Un’ultima osservazione. Nel descrivere a Vigilio le modalità del proprio lavoro,
Giordane allude a Castalio, communis amicus: una figura evanida, su cui sembra mancare
qualunque dato utile ad una individuazione30; ma se accettiamo che il primo s’identifichi con
il papa di estrazione senatoria, sarà logico supporre che il secondo provenga dal medesimo
ceto sociale: in tal caso, potremmo pensare a un discendente del Castalius Innocentius Audax
che ai tempi di Giulio Nepote era stato prefetto di Roma31; un aristocratico occidentale, dunque, e forse un vescovo, fratello e collega di entrambi. Il fatto poi che i Getica siano indirizzati a un uomo uicinus genti, cioè rimasto in Italia a stretto contatto coi Goti32, comporta al
racconto l’adozione di varie accortezze e delicatezze, quasi un morbido velo di ovatta a
ottundere le punte dolorose dell’ultimo decennio; ignorare del tutto gli eventi successivi alla
resa di Vitige nel 540 obbedisce certo ad una ipocrisia storiografica coerente alla versione
giustinianea33: ma era interesse comune dell’ordine senatorio (qualunque fosse il ruolo svolto da Cassiodoro o Cetego, Castalio o Vigilio) salvaguardare i resti della propria capacità
d’intervento e indipendenza politica, lasciando balenare spiragli di fiducia nel domani, sotto
una guida accettabile da tutti – compresa la classe dirigente gotica, la cui leale collaborazione aveva comportato decenni di pace e di prosperità.
Una volta presa e poi scartata la scelta del vecchio patrizio Liberio, l’imperatore optò per
il proprio cugino e probabile successore Germano: era imparentato con gli Amali, avendo
sposato la figlia di Amalasunta, e poteva presentarsi in Italia quale novello Teodorico, ma
30
È affermazione topica e ricorrente: p. es. in Baldwin 1979, 490
In quegli anni 474/475 (‘Audax 3’, in PLRE II, 184-85; Fraschetti 1999, 173) fu in rapporti epistolari con Apollinare Sidonio (epist. 8,7: tu uero inter haec macte, qui praefecturae titulis ampliatus,
licet hactenus e prosapia inlustri computarere, peculiariter nihilo segnius elaborasti, ut a te gloriosius
posteri tui numerarentur).
32 Con acutezza Mierow 1915 (p. 7) pensava a Crotone, cioè la sede abbandonata dal vescovo titolare, in quei mesi sotto assedio dall’esercito di Totila; è vero che intorno al 550/551 restavano poche le
piazzeforti (quasi tutte marittime) ancora in mano ai Bizantini, ma non saranno da escludere città più
importanti, e la stessa Ravenna in primo luogo; bene Barnish 1984, 359: «Castalius, if a westerner, probably lived in territory firmly controlled by Byzantium, since he could correspond so freely with the
east»: non capisco invece su quale base (poco più avanti, p. 361) egli azzardi che il personaggio «was
probably not a man of high rank».
33 Croke 1987, 126 e nt. 26.
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morì d’improvviso prima della partenza. Nella chiusa dei Getica (314), nonostante la costernazione, resta spazio per un certo ottimismo: si augura lunga vita al figlio postumo e omonimo Germanus, in quo coniuncta Aniciorum genus cum Amala stirpe spem adhuc utriusque
generi domino praestante promittit; si aspira alla civiltà nei rapporti tra i popoli; si disegnano quadri di ragionevole convivenza e non di guerra senza scampo. Uno solo, a quel punto,
era il capo militare eletto dai fuoriusciti occidentali, laici ed ecclesiastici; apprezzato dalla
componente filo-italica della burocrazia e dell’esercito di Bisanzio; persino rispettato dai
‘barbari’ nemici; se crediamo a Procopio, durante l’inverno 550/551 pareva ancora una volta
Belisario l’uomo giusto al posto giusto: l’imperatore «alla morte di Germano meditò di mandarlo di nuovo in Italia, poi invece lo nominò comandante delle sue guardie del corpo, e lo
trattenne a corte»34; le lodi superlative sparse in eccesso, lungo il testo e persino il paratesto
degli opuscoli di Giordane35, danno una vivida impressione di attualità, sicché la loro consonanza coi giudizi dello storico di Cesarea offre un indizio prezioso per la cronologia.
Quantunque presumibilmente conclusa a ridosso dei Getica, la cronaca dei Romana –
partita all’insegna del motto beneaugurante che dà titolo a queste pagine – nel finale si dilunga piuttosto a descrivere gli orrori della guerra, con fredda obiettività. A quel punto
34
Proc. bell. VIII 21,2; tutto il seguito è da leggere, per comprendere quale senso di rispetto provassero gli ambienti della amministrazione imperiale verso Belisario, a fronte dello stupore (che è
comunque sintomo di disistima) per la scelta caduta sull’eunuco Narsete.
35 Segnalo la subscriptio di buon augurio presente in quasi tutti i manoscritti, che è coeva all’apparenza: «Explicit de antiquitate Getarum actibusque eorum quos deuicit Iustinianus imperator per
fidelem rei publicae Belisarium consulem»; nel corpo narrativo si vedano poi le espressioni stracolme
di titoli ufficiali e aggettivi iperbolici, tra cui Get. 171 [Gelimero, re dei Vandali] Constantinopolim
delatus per uirum gloriosissimum Belesarium magistrum militum orientalem, exconsulem ordinarium
atque patricium; 307 Iustinianus imperator Orientalis… Vandalicum cum per fidelissimum suum patricium Belesarium reportasset triumphum; 313 et sic famosum regnum fortissimamque gentem diuque
regnantem tandem pene duomillensimo et tricesimo anno uictor gentium diuersarum lustinianus imperator per fidelissimum consulem uicit Belesarium; più sobri nel linguaggio, ma anche più interessanti
nel contenuto, alcuni passi del primo opuscolo: Rom. 366 (Giustiniano) elegit Belesarium, cui numerosos fortissimosque milites deputatis ad australem plagam contra Vandalos mittit. Quo fauente deo
qua uenerat facilitate, ea celeritate Vandalos superauit, Lybiamque ad corpus totius rei publicae iungens, Gelimer regem opesque Chartaginis in urbe regia principi spectante populo optulit. Cuius notu
remuneratus consulque ordinarius mox designatus, de manubiis Vandalicis Belesarius triumphauit;
370 emenso ergo Belesarius a Sicilia in Africa pelago solita felicitate, rebelles fugat, prouinciam liberat eqs.; di speciale interesse per l’affettività dell’autore (o dei committenti) la notizia della prima liberazione di Roma, 373: consul Belesarius Romanam urbem ingressus est exceptusque ab illo populo
quondam Romano et senatu iam pene ipso nomine cum uirtute sepulto confestim uicina occupat loca
urbium oppidorumque monimina. Si è accorto della stretta concordanza di vedute tra Giordane e
Procopio, ma giunge a diverse conclusioni Croke 1987, 128s.
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Giustiniano aveva già preso da solo l’irrevocabile decisione, nel distacco ieratico ormai a lui
consentaneo: non si sarebbe rivolto più agli aristocratici romani, né ai parenti di ramo orientale, e neppure a Belisario che di tutti loro godeva le aperte simpatie. Imprevisto pure ogni
simulato ritorno ad una autonomia italica: la totale subordinazione all’autocrate da parte dei
grandi poteri politico-religiosi (la curia senatoriale, la Chiesa di Roma) avrebbe tenuto dietro anche in occidente alla sanguinosa reconquista di Narsete.
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Armis et legibus. Un motto attribuito a Iamblichus nei