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DAVID LEVIEN
Senza traccia
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Maurizio Nati
Prima edizione nella collana Gli Aceri: agosto 2010
Prima edizione nella presente collana: luglio 2013
Titolo originale: City of the Sun
© 2008 by Levien Works, Inc.
© 2010 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
DAVID LEVIEN
Senza traccia
Per gli scomparsi e per coloro che li attendono.
1
Jamie Gabriel si sveglia alle cinque e quarantaquattro, quando il suono della radiosveglia rompe il silenzio. Rotola su un
fianco e preme il tasto Sleep, passando bruscamente dalle parole a un irritante motivetto popolare cantato da un ragazzotto appena uscito dal liceo che indossa gli stessi vestiti e fa
le stesse mosse del gruppo di ballerine che lo accompagna.
La cosa peggiore. I ragazzi a scuola dicono che a loro piace.
A qualcuno piace per davvero, e gli altri ne seguono la scia.
Jamie ascolta i Green Day e i Linkin Park. Fuori è ancora quasi del tutto buio. Jamie spegne la radiosveglia e mette i piedi
a terra. Svegliarsi è facile.
Nella camera più grande dormono mamma e papà. Carol e
Paul. Il tappeto va da parete a parete, color azzurro chiaro. Nuovo. Quello straccio color giallo epatico che si trovava già in casa
quando la comprarono non c’è più. L’azzurro s’intona meglio
con il mobilio in quercia della camera da letto, dice mamma.
Un cambiamento niente male per i Gabriel, andare ad abitare in quella palazzina stile rustico su Richards Avenue, sobborgo di Wayne. Qui ci sono file di alberi in quasi tutti gli isolati, e ogni casa ha un cortile.
Jamie oltrepassa la fotografia scattata a scuola, appesa nel
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corridoio prima di arrivare al bagno. È una foto che detesta.
Quel giorno aveva i capelli color grano pettinati tutti storti. Fa
un goccio d’acqua, tutto qui. Si laverà i denti al ritorno, dopo
aver fatto colazione, prima di andare a scuola.
Ciondola per la cucina – Pop-Tart? Naaa – e poi dalla porta
di servizio passa in garage. Mamma e papà adorano l’idea di
avere il garage attaccato a casa, il banco da lavoro, lo spazio
per il minivan bianco e per la Buick azzurra.
Solleva a metà la saracinesca del garage, che scivola sulle
guide. Una macchia di pelo nero schizza dentro e lo mordicchia sulle caviglie.
«Dove sei stato, Tater?»
La coda del labrador dai baffi grigi continua ad agitarsi per
un po’sulla gamba del ragazzo. Dopo una notte passata a gironzolare, a Tater piace il modo il cui il ragazzo gli scarmiglia
il pelo. Poi il ragazzo lo spinge di lato e si accuccia per uscire
carponi da sotto la saracinesca.
Fuori lo aspetta la pila dell’edizione mattutina dello Star,
ancora odorosa di inchiostro acido, ancora calda di stampa.
Jamie trascina dentro i giornali e si mette al lavoro, ripiegandoli tre volte così da poterli lanciare.
Riempie gli zaini di tela bianca e se li infila uno per spalla,
poi inforca la bicicletta. La Mongoose è sua, pagata con i soldi raggranellati in sei mesi di consegna dei giornali dopo il
trasloco in Richards Avenue. Jamie si piega e sospinge la bici
fuori dal garage, quando Tater riprende a strofinarsi contro la
sua gamba. Il vecchio cane comincia a uggiolare. Ancheggia
e piagnucola come non gli capita mai di fare.
«Che ti prende?»
Jamie spinge sui pedali e si mette in movimento. Tater
guaisce e mugola. I cani sanno.
«Era meglio andare da McDonald’s, stronzo di un ciccione»
disse Garth ‘Rooster’ Mintz a Tad Ford mentre allungava la
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mano per arraffare una fetta di pane fritto. La faccia di Tad sembrò spremersi per il risentimento, poi si rilassò. L’odore di benzina, della colazione presa a un fast food e del dopobarba di
Tad riempivano la Lincoln dell’81 color grigio nave da guerra.
«Tu mangi quanto me» replicò Tad. «Sei solo fortunato
che a te non fa ingrassare.»
Rooster non disse nulla, limitandosi a masticare la fetta di
pane.
Tad era scontento della sua mancanza di reazione, ma
quello fu tutto ciò che disse. Rooster pesava buoni trentacinque chili meno di lui, ma era duro come l’acciaio. Uno tosto,
insomma. Tad gli poteva contare i tendini. Una volta lo aveva
visto, ubriaco fradicio, strappare la narice di un tizio durante
una rissa in un bar. Tutta la parte sinistra del naso era stata
aperta e la narice sbatacchiava sulla faccia a ogni respiro dopo che la rissa era stata sedata e Rooster trascinato via a forza.
A Tad non mancavano le opportunità per rintuzzare le
battute di Rooster... quell’ometto puzzava quasi sempre come una capra. Raramente si concedeva una doccia. Faceva
flessioni e sollevamenti e lasciava che il sudore rimanesse lì,
preoccupandosi solo di ripulire i tatuaggi. I capelli biondorossicci gli ricadevano unti e flosci. E poi c’erano le cicatrici.
Segnacci rossi in rilievo lungo gli avambracci, come se qualcuno ci si fosse accanito con un coltello da macellaio. Quando Tad aveva finalmente trovato il coraggio di chiedergli dove se le fosse procurate, Rooster si era limitato a rispondere:
«In giro.» Tad aveva lasciato perdere.
«Sei solo fortunato che a te non fa ingrassare» ripeté Tad,
mentre masticava la fetta di pane.
«Già, sono fortunato» disse Rooster, e guardò la strada ancora buia sotto quei fottuti alberi. «Era meglio andare da
McDonald’s.»
Jamie Gabriel, in sella alla sua bici, pedala. Passa davanti a
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case ancora silenziose, ancora buie all’interno. Lancia i giornali nei cortili e sotto i portici. Di ogni lancio misura accuratamente la traiettoria e la velocità. Un irrigatore automatico innaffia silenziosamente un prato ancora blu sotto la luce livida
del mattino. Jamie mira verso la porta della casa, in modo che
il giornale non si bagni. Continua a pedalare. Una fila di lampioni si spegne con un sibilo mentre il mattino avanza. Per papà è una gran cosa essersi trasferiti in un quartiere in cui si rispetta ancora la tradizione: il giro dei giornali. Mamma non ne
è così sicura... Il suo ragazzo ha diritto al riposo. Pochi conoscono le strade come Jamie. Buie e vuote, sono le sue strade.
All’inizio non ne era sicuro nemmeno Jamie, quando doveva
ancora abituarsi a quel lavoro ed era costretto a trascinarsi in
giro sulla sua vecchia Huffy. Poi si era guadagnato la nuova bici. Aveva letto la vecchia storia di un postino che era diventato
un ciclista e aveva partecipato a un’olimpiade. Perché non anch’io? Aveva una fotografia. Le cosce dell’uomo di colore si
gonfiano e si increspano. Sembra quasi che debba spaccare la
sua bicicletta, invece di montarla. Jamie controlla l’orologio.
Sembra che sia in perfetto orario.
Rooster diede un’occhiata all’orologio dentro la Lincoln.
Adesso quella dannata Lincoln puzzava per una vecchia
perdita di benzina e per le scoregge di Tad che coprivano
l’odore dolciastro del suo dopobarba. Però la macchina era
pulita. Riggi l’aveva comprata pagandola in contanti, e aveva cambiato più volte la targa, sempre fasulla. Rooster detestava quei dannati camioncini. Fletté l’avambraccio, sentì il
muscolo rigonfio muoversi sotto la pelle ferita in via di guarigione e sotto la peluria rossiccia. Aveva un avambraccio
piuttosto grosso per la sua statura. Rooster era imbottito di
robaccia. Era disciplinato in fatto di organizzazione, ma era
anche un bastardo indolente, sospettava, quando si trattava
di affrontare certe parti del lavoro. Già, odiava quei sequestri
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del cazzo. Chiunque poteva farli. Non era come il lavoro nelle case. Quella sì che era roba da professionisti.
«Metti in moto» disse piano Rooster, sbirciando di nuovo
l’orologio con la coda dell’occhio. Controllò il parabrezza
della Lincoln. Quel dannato parabrezza era grosso come il
ponte di comando dell’astronave Enterprise.
«Oh merda» disse Tad, mentre l’ultimo boccone della sua
frittella gli si bloccava in gola. Il motore si avviò con un rumore rauco e gutturale.
Videro un movimento all’angolo.
Jamie abbassa la testa e pigia sui pedali. Ha dato un bel colpo al suo record. Ha dato un bel colpo al record mondiale.
Lancia ancora un giornale, poi affonda la spalla destra mentre
svolta all’angolo della Tibbs. Lo zaino sulla spalla sinistra è diventato più leggero e lo sbilancia. Raddrizza la Mongoose e
guarda su. Una macchina. Dannazione. Jamie sbuca dall’angolo proprio davanti al radiatore arrugginito e inchioda.
Le gomme mordono l’asfalto e stridono. Fumo e puzza di
gomma bruciata. I freni schiacciati a fondo tengono. I due
veicoli si bloccano, separati da pochi centimetri.
Jamie emette un sospiro di sollievo, scuote la testa e comincia a spingere verso il cordolo, piegandosi per raccogliere alcuni giornali che sono usciti dallo zaino.
Si aprono le portiere. I piedi picchiano sulla strada. Jamie
drizza la testa a quel rumore. Due uomini scendono dalla
macchina. Si muovono verso di lui. Mentre si avvicinano Jamie stringe forte i freni sul manubrio.
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2
Carol Gabriel si sistema dietro l’orecchio una ciocca di capelli biondi sporchi e sorseggia il suo caffè, chicchi a tostatura lenta macinati di fresco. Ai suoi amici piace il caffè di Starbucks,
ma lei lo trova amaro e sa che lo bevono solo per il nome.
Sta in piedi in cucina e guarda oltre il lavello attraverso la
piccola finestra quadrata. Dal giorno del trasloco si scopre
quasi sempre lì a sorridere. Soprattutto dopo l’arrivo improvviso dell’autunno, tre settimane prima, con un’esplosione di colore sugli alberi. Oggi non c’è sorriso, anche se la giornata è qualcosa di luminoso e splendente. La seconda tazza
di caffè ha cominciato a coagularsi nella pancia quando di solito Jamie sfreccia nel vialetto con la sua bicicletta prima ancora che lei abbia finito la prima.
Paul passeggia in cucina con la cravatta blu da agente di
assicurazioni non ancora annodata che gli penzola dal collo.
Ha il naso infilato in un opuscolo e così urta una sedia di cucina. La sedia stride sul pavimento in mattonelle di maiolica
e gli invia un messaggio doloroso su per il ginocchio e la coscia. Carol gira la testa al rumore.
Frazionamento delle rendite annuali. Maggiore liquidità dai
vantaggi fiscali e protezione del capitale. Paul non ha ancora ca14
pito bene come vendere il concetto, ma adesso deve dedicarsi ai nuovi prodotti. Siede, allunga la mano verso il toast
ormai freddo. Un’intera vita fatta di variabili. Contributi annui a una polizza che paga un’indennità in caso di morte,
ma che si trasforma in uno strumento pensionistico di tipo
previdenziale all’età di sessantacinque anni, ecco che cosa lo
ha portato in questo quartiere. Ha ampliato la sua base, ha
raggiunto un nuovo livello di clientela. Ha fatto una mossa
concreta, che non comporta rischi, e si è comprato una casa
di cui può pagare la rata mensile anche nei mesi in cui le cose vanno peggio, soltanto grazie alle commissioni su quelle
polizze. Adesso il suo progetto è quello di fare in modo che
non ci siano più mesi in cui le cose vanno peggio.
Paul mangiucchia il toast. Lo tiene con la destra, e con la sinistra si tocca la pancia. Sta cedendo. Colpa dei suoi trentacinque anni. Fino a trentuno era dura come la pietra, ma negli ultimi quattro l’ha trascurata. Per quasi tutta la vita è stato
magro, un atleta di oltre un metro e ottanta, poi gli è spuntato un callo osseo sul calcagno. I dottori gli avevano raccomandato di farselo rimuovere, ma l’intervento richiedeva
una lunga degenza, e così lui aveva deciso di ignorarlo. Gli
avevano detto che non avrebbe funzionato, che quel callo osseo avrebbe continuato ad aggravare la fascia plantare, e che
non sarebbe scomparso da solo, ma lui si era fatto l’idea che
invece potesse farlo. Aveva tenuto duro, chilometro dopo
chilometro, sopportando il dolore, finché qualcosa era cambiato e quell’affare si era ritirato da solo.
Aquel punto il lavoro aveva fatto ciò che il dolore non era
riuscito a fare e lo aveva bloccato di brutto. Aveva cominciato a tornare a casa aggravato da una stanchezza diversa da
quella provocata da qualsiasi lavoro manuale fatto in gioventù. Pochi scotch alla settimana erano diventati pochi
scotch a sera, in modo da poter dormire. Quello, sospettava
Paul, aveva aggiunto il primo giro di sottopancia. Poi era
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passato alla vodka, che lo aiutava, ma ormai era fuori forma
e lo sapeva.
«Paul, sono preoccupata.» Carol è in piedi accanto a lui.
Paul alza la testa e vede un’ombra sulla faccia di sua moglie.
«Hai visto Jamie fuori?»
«No. Perché?»
«Non è a casa e non l’ho sentito tornare dal suo solito giro.»
«Magari è uscito prima per andare a scuola...»
La faccia di lei gli restituisce una decina di domande, e la
più gradevole dice: ‘Perché mai un ragazzo dovrebbe andare a scuola prima?’
Come fa un uomo adulto a essere così dannatamente scemo? La domanda le spunta in mente e lei si sente subito in
colpa e la respinge. Però era lì.
«No, hai ragione» dice lui. Trangugia il caffè, afferra una
pila di polizze di assicurazione e si alza. «Forse gli si è rotta la
bicicletta.» Carol lo fissa dubbiosa, non speranzosa. «Sono già
in ritardo, ma seguirò il suo itinerario mentre vado in ufficio.
Chiamami se si fa vivo. Voglio sapere perché...»
«Tu chiamami appena lo vedi. Chiamami appena puoi.
Proverò dai Daugherty. Magari sta da loro.»
«Già. Probabilmente è così.» Paul le dà un bacio frettoloso
e punta verso la porta. Come se baciasse un manichino.
Le madri sanno.
La Buick LeSabre azzurra di Paul attraversa il quartiere. Le
strade, vuote e silenziose fino a un’ora prima, adesso sono affollate. I pulmini accompagnano i più piccoli a scuola. Quelli
più grandicelli ci vanno in bicicletta, a gruppi. Quelli ancora
più grandi raggiungono il liceo in macchina, quattro per ogni
auto. I marciapiedi sono punteggiati da gente che fa jogging
e che porta a spasso il cane.
Paul frena davanti a un cartello di STOP in miniatura brandito da una donna anziana con i capelli bianchi e una fascia
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arancione sul petto. Indica a un gruppo di ragazzini di otto
anni di attraversare la strada davanti alla Buick mentre Paul
abbassa il finestrino.
«Conosce Jamie Gabriel? L’ha visto?»
«Non di nome» dice lei, con anni di sigarette nella voce.
«Io conosco le facce.»
«Ha visto un ragazzo che consegna i giornali?» chiede
Paul, rimpiangendo di non avere una fotografia con sé. «Forse gli si è rotta la bicicletta.»
«Non l’ho visto, no, solo ragazzi che andavano a scuola.»
Insoddisfatto, Paul annuisce e riparte. Svolta a destra per
la Tibbs. Una strada macchiata di olio. Jamie non c’è, e tutto
sembra normale. Senza sapere bene che fare dopo, guida per
il resto dell’itinerario, poi prosegue verso l’ufficio.
Rooster se ne sta seduto a sorseggiare la sua birra del
mattino. Suoni di chitarre spompate gli rintronano nella testa. Ha suonato Mudvayne per tutta la mattina. Ha smesso
da qualche minuto, ma riesce ancora a sentirlo. Lui può farlo. È una delle tante cose che lui può fare e gli altri no. Lui è
speciale. Sa di esserlo. Ma non è felice. Avere dei doni non è
la stessa cosa che avere la felicità. La sua mente turbina di un
riverbero di chitarra simulata – non ha voglia di pensarci
più di tanto – finché sente all’esterno il furgone che arriva.
Tad scende pesantemente dal furgone stringendo una
confezione da sei bottiglie di birra e la ricarica, il secondo giro di cibo della giornata. Questa volta viene da McDonald’s,
come suggerito. Si avvicina alla casa, il ‘pugno nell’occhio’
del quartiere. La tinta sta cedendo in grossi riccioli e scaglie,
e solo le finestre sul lato e quelle del salone sono verniciate di
fresco. Nere. Ciò che loro chiameranno ‘studio per la musica’, se qualcuno glielo chiede. Ma nessuno lo fa. Questa è la
casa che i vicini vorrebbero veder crollare, in modo che il valore della proprietà aumenti.
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Tad entra, togliendosi gli occhiali da sole scuri e infilandoli nel taschino della camicia di flanella. Il soggiorno è squallido, con il tappeto sdrucito e scolorito e due divani di seconda
mano color verde e arancio che arredano la stanza senza che
da decenni qualcuno si sia mai preoccupato di cambiare la fodera.
Le scatole di sandwich del fast food e i vari contenitori imbrattano il tinello. Rooster siede su una sedia malferma, davanti a un televisore a colori spento di vent’anni con le antenne di stagnola a orecchie di coniglio appoggiate su uno
scatolone di cartoni del latte. Ha gli occhi fissi sullo schermo
buio e si muove appena al ritmo della musica che sembra
riempirgli la testa da una fonte sconosciuta. È senza camicia.
«Sei un pigrone bastardo.»
Gli occhi di Rooster non abbandonano il televisore mentre
punta l’indice verso Tad.
«Non sai nemmeno che cos’è l’etica del lavoro.»
«Hai parlato con Riggi?» chiede Rooster come se Tad fosse appena entrato nella stanza e i precedenti commenti non
ci fossero mai stati.
«Senza camicia. Ma guardati.»
«Da quando te ne sei andato sono stato lì dentro già due
volte» dice Rooster. Voce inespressiva. I suoi occhi, anch’essi
inespressivi, si voltano verso Tad, tagliando corto. «Hai parlato con Riggi?»
«Due volte? Stronzate, due volte...» Tad riprende fiato. «Sì,
gli ho parlato.»
«Che ha detto?»
Tad appoggia la birra sul tavolo del tinello, in mezzo a tutti
gli altri rifiuti. Ne apre una per sé e ne lancia un’altra a Rooster.
«Il signor Riggi dice che gli serve per giovedì.»
Rooster apre la birra e si concede un assaggio di prova.
«Giovedì. Merda.»
«Già» comincia Tad, godendo del fastidio del suo socio.
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«Ha organizzato tutto per giovedì, perciò sarà meglio che ti
dia da fare.»
«Ah, sì? Io dovrei darmi da fare? Perché non lo fai tu?»
Questo zittisce Tad per un momento.
«No grazie. Il professionista sei tu.»
Rooster annuisce appena, compiaciuto, poi si infila una
pillola in fondo alla gola, tracanna qualche sorsata della birra
e si alza stancamente. Vicodin. Quando hai qualche problema fisico si porta via tutto il dolore. Quando non ce l’hai si
porta via altre cose. Rooster si rimette in sesto e attraversa risoluto tutto il salone, diretto verso la porta posteriore.
Tad occupa la sedia di fronte al televisore, si china in avanti e lo accende, su un canale che trasmette cartoni animati.
Il rumore di una chiave che gira nella toppa dall’esterno e
la porta si apre, lasciando entrare un rettangolo di luce nella
brutta stanza in penombra. Le finestre sono chiuse con chiodi e nella parte interna hanno una griglia metallica. L’unico
arredo è un letto senza lenzuola. Rooster allunga la mano e
avvita una nuda lampadina nel suo alloggio, illuminando la
stanza. Raggomitolata fra il letto e la parete c’è una chiazza di
pelle rigata di lacrime, stravolta dalla violenza. Il volto dell’uomo è una maschera che non mostra né eccitazione né
pazzia. Il volto del ragazzo è una maschera di dolore, di paura, di incomprensione e, ma così sotto la superficie da essere
invisibile, di furia. Non dice nemmeno di no, ma tenta debolmente di sgattaiolare via dall’uomo.
«Ci siamo» dice Rooster. Punta verso il ragazzo e richiude
la porta con un calcio.
In soggiorno Tad alza il volume del televisore.
Maledizione. Dove diavolo ho messo il libretto d’istruzioni del mio BlackBerry? Paul rovista sul tavolo pieno di carte.
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I telefoni all’esterno sono occupati. Sono settimane che infila
numeri in quel coso, ma adesso non riesce a farlo funzionare. L’ufficio rivestito di pannelli ostenta diversi attestati incorniciati che contraddistinguono i suoi meriti come agente
assicurativo, ma in quel momento non lo aiutano.
Janine appare sulla porta. «Carol sulla tre.» E scompare di
nuovo. Lui ha chiamato Carol mentre andava al lavoro e le
ha detto di incominciare a cercare Jamie.
«Carol? Il mio BlackBerry è appena andato in tilt. Si è fatto
vivo? Perché quando lo farà dovrà darci qualche spiegazione.» La risposta di lei lo raggela fin nelle viscere. Sono le dieci
e un quarto.
«La polizia? Certo, ma non so. Mi sembra un po’drastico.»
Il suo sguardo si perde lontano. C’è un mondo pieno di possibilità là fuori. Ma lui non è pronto ad accettarle. I padri possono anche non voler sapere.
«Se non si fa vivo all’ora normale, dopo la scuola...» Si
blocca. Lo stomaco brontola. L’acido vi ribolle come se avesse bevuto sei tazze di caffè a digiuno.
«No, hai ragione... Vengo a casa e ne parliamo... D’accordo... Cerca solo di non agitarti.» Ma mentre riattacca è proprio quello che incomincia a fare lui.
Paul e Carol se ne stanno fermi in piedi nel burocratico
turbinio della stazione di polizia in piena attività. Le cose si
muovono lentamente per loro, in modo incoerente, come un
nastro danneggiato in un registratore.
Se ne stanno fermi in piedi e gesticolano con il corpulento sergente dietro il banco.
Più tardi siedono al tavolo di un poliziotto dall’aria preoccupata, riempiono moduli, gli forniscono delle fotografie.
Adesso, mentre attendono in silenzio su una panca di legno, Paul stringe in una mano una tazza di caffè freddo e nel20
l’altra il palmo gelido di Carol. I suoi lineamenti hanno cominciato a irrigidirsi; ancora non è possibile vederlo, ma lei
ha preso a inaridirsi e ad avvizzire come una foglia secca.
Finalmente. Finalmente il poliziotto dall’aria preoccupata
li conduce nel piccolo ufficio a vetri del capitano Pomeroy.
Quest’ultimo, un uomo morbido e carnoso con l’osso del naso
sporgente, è seduto dietro la sua scrivania. Ha un fermacravatte d’argento. Penna e matita, anch’esse d’argento, sbucano
dal taschino della camicia. I capelli sono pettinati all’indietro
col gel, la faccia cosparsa di dopobarba, la bocca piena di
gomma alla nicotina.
«Signore e signora Gabriel, ho esaminato tutte le carte e posso assicurarvi che questo ufficio farà tutto quello che può per
assistervi nel ritrovamento di vostro figlio... ehm, di James.»
«Jamie» esce fuori dalla mascella tirata di Carol.
«Jamie.» Pomeroy prende un appunto. «Anche se sarà un
diminutivo per...»
«No, si chiama proprio così. È sul certificato di nascita.»
«Ma prima di farlo, prima di dare il via alle ricerche, voglio solo accertarmi che non si tratti... Voglio dire, che il vostro ragazzo non sia semplicemente scappato per...»
«È scomparso. Ne sono sicura. Queste cose succedono.»
«Signora, quasi tutte le madri... Senta, voglio solo esserne
sicuro. Insomma, si sa come sono fatti i ragazzi.»
«Cosa?» Gli viene fuori un gracidio rauco, come se Paul
non usasse la voce da anni.
«Quello che sto cercando di dire è che, come capita spesso
in questo genere di situazioni, magari aveva un compito di
matematica e non se la sentiva di affrontarlo. Oppure ha ricevuto un brutto voto in scienze e non voleva che voi lo...»
«Non Jamie.»
«Signora Gabriel...» Pomeroy si piega all’indietro e si sposta sul fianco la pistola automatica infilata nella fondina.
Guarda Paul in una muta richiesta di collaborazione.
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«Tesoro, sono sicuro che tutti i genitori dicono...»
«Proprio così» si sfoga Pomeroy riconoscente, interrompendo Paul. «Insomma, probabilmente è solo...»
La speranza è un ramo sottile, e gli uomini fanno del loro
meglio per afferrarlo, ma per Carol è un po’sovraccarico. La
sua espressione blocca Pomeroy.
«Vi suggerisco di parlare con i suoi insegnanti.» Riesce a
riprendere in mano la situazione. «Vedete se a scuola è tutto
a posto. Chiedete ai suoi amici...»
«Va bene, lo faremo, ma...» azzarda Paul.
«Tutto ciò che farete seguendo le mie indicazioni ci risparmierà lavoro inutile.» Pomeroy picchietta la penna d’argento sul bordo della scrivania.
«Che cosa avete intenzione di fare? Non potete diramare
un allarme?»
«Lo abbiamo già fatto. Abbiamo diffuso l’informazione.
D’accordo, signora. Allargheremo le ricerche. Controlleremo
la vostra casa. E anche il suo luogo di lavoro, signor Gabriel.
Invierò agenti nel quartiere per una ricerca porta a porta. E
voglio che mi chiamiate nel momento stesso in cui vostro figlio si rifarà vivo.» Pomeroy li accompagna fuori dall’ufficio
a vetri. «Perché lo farà.» Pomeroy sorride in modo rassicurante. «Lo farà.» E richiude la porta dietro di loro.
«Quell’uomo non ci aiuterà.» Le parole di Carol escono risolute e sinistre. Paul non dice nulla.
Il fuso orario orientale ha subito il consueto aggiornamento di stagione e l’oscurità cade presto nell’Indiana. La Buick
si ferma. Dopo lunghe ore di ricerche, di avvisi affissi dappertutto, Paul scende dall’auto, come ha fatto tante volte quando andava a prendere Jamie dopo l’allenamento di calcio.
Paul rimane accanto allo sportello del guidatore. Carol, dopo un pomeriggio di attesa al telefono, appare sulla porta
principale. Scuote la testa. Sotto il sole al tramonto Paul è un
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bell’uomo, un padre ancora giovane. Osserva la sua casa così piena di comodità, la moglie ancora giovane. Accanto al
marciapiede è parcheggiata una macchina della polizia.
Paul si dirige verso la casa, mentre lei si avvia verso il marito. Si incontrano sul vialetto e si abbracciano forte, e nessuno
dei due sa bene a che cosa aggrapparsi. Il sole scompare dietro gli alberi.
Paul consuma una cena insipida a base di cereali freddi.
Collegato al telefono c’è un apparecchio per registrare e rintracciare le chiamate, controllato a distanza dai due poliziotti a bordo della macchina. Carol gli siede accanto, in una sorta di trance. Si sente grattare sulla porta della cucina. Carol si
alza e lascia entrare Tater. Dalla bocca gli sgocciola sangue.
Carol prende uno strofinaccio e lo ripulisce. Il cane non è ferito – il sangue appartiene a qualcun altro – e irrompe nel salotto tutto eccitato all’odore dei cani poliziotto che nel pomeriggio hanno fiutato l’intera casa. Paul rovescia altri cereali
dalla scatola e ne esce fuori un premio.
«Lo stava aspettando. Glielo terrò da parte.» Lo depone
sul lato del tavolo e scoppia a piangere, con le spalle scosse
dai singhiozzi.
Carol se ne sta dall’altra parte della cucina. Non va da lui.
Dopo un po’Paul smette di piangere.
«Andiamocene a letto.» Si alza in piedi. Forse ci sveglieremo domani mattina e scopriremo che è stato solo un brutto
sogno, vorrebbe dire, ma non lo dice.
Paul si dirige verso la scala interna. Carol va verso il muro
e accende le luci del salotto e del portico.
«Lasciamole accese, non si sa mai.» Lo segue su per le scale.
La porta si apre proiettando luce sul materasso che il ragazzo ha tolto dal letto e ha appoggiato ad angolo contro il
muro, per costruirsi un riparo che lo protegga. Rooster lancia
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frettolosamente nella stanza il cartone del fast food intriso di
olio e ridacchia fra sé e sé per quella difesa improvvisata. Mai
visto prima. Come se potesse funzionare. Sbatte la porta alle
sue spalle. La stanza piomba di nuovo nell’oscurità.
Paul giace a pancia in su nella stanza senza luce, senza nemmeno sentire il materasso sotto di sé. Galleggia in uno spazio
delimitato solo dal suo sconforto. Un dolore che non avrebbe
mai immaginato lo circonda e lo lacera da ogni direzione. Le
circostanze lo polverizzano, lo prosciugano, lasciandolo inerte nel buio. Dal bagno filtra un rumore soffocato e gorgogliante. Lì dentro, immersa nella vasca che si sta riempiendo, Carol
pensa a Jamie quando aveva tre anni e si trastullava con Giù
per lo scarico, un gioco di sua invenzione. ‘Meglio chiamare
l’idraulico, mamma, io sono sparito. Sono giù per lo scarico...’
La schiena pallida di Carol trema. L’acqua picchia e rumoreggia. Si rende conto che non è l’acqua, ma le sue urla.
Rooster e Tad siedono al tavolo del tinello, ingombro di
avanzi. Nell’aria risuona una musica pesante di ritorno e Tad
tamburella a tempo.
«Allora, sarà pronto?»
Rooster guarda il socio. Da un po’di tempo Tad ha cominciato a fumare metamfetamina, e adesso è sotto l’effetto.
Rooster lo capisce perché Tad ha come una patina di luridume. È una droga sporca che apre i pori e sembra risucchiare
all’interno la polvere e i detriti dell’aria. Deve averla fumata
l’ultima volta che Rooster è andato nella stanza in fondo al salone. Disgustoso. «Ma certo che sarà pronto, brutto schifoso.»
«Perché è la prima cosa, come la fottuta alba di giovedì, lo
capisci, testa di cazzo?»
Tad ha un’espressione inferocita, minacciosa, negli occhi.
Non ci sarebbe se non fosse per la metamfetamina, pensa
Rooster.
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«Già, lo so, pezzo di merda.» Rooster gli lancia un tappo di
bottiglia. Manca di poco quel bastardo di un ciccione.
«Stacci attento.» Tad si muove impacciato e comunque
troppo tardi. «Tanto per essere sicuro, cazzone.»
«Sono un professionista, faccia di culo.» L’insulto offende
Tad, che non sa come reagire, come aggiungere volgarità a
volgarità.
«Stammi a sentire, finocchio» comincia, poi si sente un clic
e la lama di un coltello punta alla sua gola. Rooster ha estratto lo Spyderco da dieci centimetri che porta sempre nella tasca posteriore e l’ha fatto scattare. Tutto qui. Tad sente la pressione della lama sul pomo d’Adamo, una linea sottile e
affilata.
«Non ti azzardare a dire un’altra parola. Non scusarti, non
sputare. Mi hai sentito?» La faccia di Rooster irradia sangue.
Tad Ford annuisce lentamente.
Le lezioni sono appena terminate alla scuola media JFK e i
ragazzi sciamano verso i pulmini e le macchine dei genitori.
Carol Gabriel cammina in senso contrario verso il basso edificio e si domanda perché abbia fatto questo a sé stessa e non
sia venuta invece nel pomeriggio. Sono passati quattro giorni. La polizia ha lasciato la sua casa. Ogni zaino che vede, ogni
giubbetto urla ‘Jamie’ per un momento, prima di dissolversi
in un ragazzo diverso. Alex Daugherty si dirige verso di lei e
si ferma.
«Salve, signora G.» dice.
Lei si china. «Alex. Ciao, Alex.» Il ragazzo sembra sapere
che è successo qualcosa, ma non esattamente cosa. «Lo sai che
Jamie manca da un paio di giorni?» continua. Non può impedirsi di toccarlo. Le mani si allungano e accarezzano le maniche del ragazzo, i suoi capelli. Le mani, disconnesse dalla sua
mente, hanno bisogno di sapere che almeno quel ragazzo è
reale.
25
«Certo.»
«Sai se era... turbato? A scuola andava tutto bene?»
«Certo. È scappato?» chiede il ragazzo.
«Noi non crediamo.» La conversazione già esige un pesante tributo da Carol. «Non aveva nessun problema di cui ti abbia parlato? Aveva conosciuto qualcuno? C’è forse qualche
segreto? Perché se è così devi dirmelo. È importante.»
Alex scuote la testa e comincia a disegnare ghirigori invisibili sul marciapiede con la punta della scarpa, quando poco
lontana sul marciapiede sua madre suona il clacson e scende
dalla station-wagon.
«C’è mia madre.»
Carol si raddrizza e scambia un’occhiata con Kiki Daugherty, che la saluta con la mano. Ne ha parlato con Kiki e Kiki le ha detto le cose giuste. Carol osserva gelosa la madre
che si riprende il figlio. Se mai c’è qualche accusa nello sguardo di Kiki, del tipo: ‘Che razza di madre permette che a suo
figlio capiti una cosa del genere?’, se la tiene per sé in modo
che Carol non possa vederla. Carol si affretta verso la scuola.
Nell’aula di coordinamento della scuola di Jamie la sua insegnante, Andrea Preston, una ventisettenne di colore, offre
a Carol una tazza di caffè.
«Teniamo delle assemblee nelle quali insegniamo ai ragazzi a non parlare con estranei e a non accettare passaggi in macchina. E ne abbiamo avuta una proprio ieri per rafforzare...»
«Sì. Sì.» Le parole di Carol echeggiano disincarnate contro
il linoleum. «Davvero, Jamie è grande abbastanza per saperlo. Io volevo solo controllare di nuovo e vedere se qui era tutto a posto. Se la cavava bene, no?» Adesso c’è panico nella
sua voce. Forse nulla era come lei pensava.
«Se la cavava bene. Proprio bene» dice lentamente l’insegnante, e mostra un sorriso sofferto, come a voler caricare
quelle parole vuote di un significato nascosto. «Qualche pro26
blema con le frazioni, ma niente di eccezionale. Vorrei che ci
fosse dell’altro.» La faccia di Preston perlustra la sua.
Carol si rende conto di quanto sia giovane quell’insegnante e che anche lei è a pezzi. Sente che dovrebbe confortarla, ma
come? «Posso prendere le cose dal suo armadietto?»
L’insegnante annuisce.
Quello che viene spacciato per prato davanti alla casa malandata è un grigio porpora ricoperto dalla brina del mattino
di giovedì. Tad siede al volante di un furgone, un vecchio
Econoline con i finestrini posteriori ricoperti, e ascolta alla radio una trasmissione senza capo né coda. Si tiene alla larga
da Rooster, che se ne sta sotto il portico a passeggiare avanti
e indietro, fumando una sigaretta.
Una immacolata Cutlass Supreme nera con i vetri oscurati e con il tettuccio apribile di serie si dirige verso la casa. Ne
scende un uomo robusto con un vestito da qualche centinaio di dollari, leggermente lucido. Porta molto oro addosso,
inforca occhiali da sole ed è calvo. È Oscar Riggi. È l’uomo.
Rooster smette di passeggiare.
Tad scende dal furgone e attraversa la strada in una nuvola di fumo di scarico dell’Econoline. «Signor Riggi, come
va?»
Tad ama fare il leccaculo, ma Rooster non si spinge a tanto. Sa che non è così facile trovare uno come lui.
«Rooster. Tad. Come vanno le cose? Come sta il nostro bagaglio?»
«Tutto a posto e caricato, signore» risponde Tad, guardando involontariamente il furgone e pensando d’istinto al nascondiglio sul pavimento ricoperto dal tappeto. Dà una pacca alla fiancata del furgone.
Riggi squadra Tad come se fosse lui una nuvola di fumo di
scarico. «Tutto a posto, eh, Rooster? Posso fidarmi?»
«Sì, può fidarsi, capitano.» Rooster scaglia il mozzicone di
27
sigaretta in direzione di Tad. Non addosso a lui, ma nella sua
direzione. Abbastanza lontano, però, perché Tad possa dire
qualcosa.
Riggi risale i pochi gradini fino al portico e lancia a Rooster un rotolo piuttosto consistente di banconote di piccolo e
medio taglio legate con un elastico. Rooster le sfoglia distrattamente col pollice e le mette via. Riggi gli mette la mano dietro la testa, non senza affetto.
«Ehi, posso contare su di te, vero?»
«Proprio così, Oscar.»
Tad sale i gradini per raggiungerli, molto più grosso dei
due uomini messi insieme, eppure fiacco e intimidito dalla
loro presenza. Senza distogliere lo sguardo da Rooster, Riggi infila una mano nella tasca della giacca e ne estrae una
manciata di carte che porge a Tad.
«Qui c’è l’indirizzo dell’altro furgone e le istruzioni sulla
strada da prendere. C’è anche la tua destinazione. Memorizzala, scrivila in codice, quello che ti pare, poi distruggila.
Dentro ci sono anche dei soldi per il viaggio.»
Tad sta al gioco, si sforza di sembrare un duro, uno che le
cose le conosce. «Okay, okay.»
«Chiamami ogni otto ore, dovunque tu sia. Chiaro? Voglio che il mio telefono squilli ogni otto ore.»
«Chiaro.»
«Da dove mi chiamerai?»
«Da dovunque sarò, fra otto ore.»
Riggi gli rivolge un sorriso stiracchiato, come se stesse assaggiando gelatina andata a male. «Avrai il resto dei soldi al
tuo ritorno.»
«Sissignore.»
Riggi annuisce e si volta verso di lui. «Sei ancora qui?»
Tad risale di corsa sul furgone e si dilegua. Riggi si volta
verso Rooster. «Hai già fatto colazione?»
28
3
Quattordici mesi dopo
Paul Gabriel rovescia una seconda scatola di cereali. Infila
la mano e prende il premio. È un astronauta di gomma che
immerso nell’acqua cresce di otto volte e mezza rispetto alla
sua grandezza originale. Lo aggiunge agli altri premi che ha
messo da parte per suo figlio. Adesso ce ne sono più di dodici. Paul si disegna un cerchio sulla tempia con la punta delle
dita. Lì sta ingrigendo. È pallido. E ha anche l’aria stanca.
Paul abbassa il cucchiaio. «Carol? Carol, sei pronta? È ora
di andare.» Poco dopo lei entra in cucina. Il vestito non l’aiuta molto. Niente trucco; borse nere sotto gli occhi. Attraversa
la cucina, visibilmente in disordine. Passa una spugna sul
piano di lavoro e la getta nell’acquaio pieno di piatti. Carol è
in piedi accanto a Paul quando lui cambia idea sui cereali e li
getta nel cestino della spazzatura. Ha la sensazione di vederli entrambi, come dall’alto. Appaiono luridi insieme, la cucina appare lurida, tutto appare lurido.
«D’accordo, andiamo.» Lui raccoglie le chiavi. Lei prende
un sottile contenitore con la foto di Jamie attaccata con le grappette: un pezzo sporge leggermente dal fondo. Se ne vanno.
29
***
La stazione è animata intorno a loro, mentre i Gabriel siedono impietriti sulla panca fuori dall’ufficio del capitano Pomeroy. Dalla parte opposta il poliziotto preoccupato che tanto tempo prima ha raccolto la loro denuncia li ispeziona. Si
cancella dalla faccia lo sguardo triste e si volta dall’altra parte, con l’aria colpevole. Paul e Carol siedono a qualche centimetro di distanza, ma potrebbero essere anni luce. Racchiusi nella propria capsula, ognuno solo, non riescono a
colmare la distanza che li separa. L’unica cosa che condividono in questo momento è un grande fallimento.
Possono vedere Pomeroy nel suo ufficio, i piedi sulla scrivania, intento a conversare con un collega. Il collega non è un
poliziotto, quantomeno non porta la pistola, e quando si accorge che è tardi si alza in piedi. Pomeroy lo accompagna alla porta, e mentre l’apre la sua fragorosa risata invade la sala
d’attesa. I Gabriel lo guardano con aria accusatrice; loro non
ridono così da un bel po’di tempo. Quando li vede, Pomeroy
chiude la conversazione.
«Okay, Jase, concluderemo più tardi. Signore e signora
Gabriel, come va? Accomodatevi, andiamo a vedere la situazione.»
Entrano nel suo ufficio. Paul e Carol prendono posto e Pomeroy si lascia cadere sulla poltrona dietro la scrivania, stavolta in modo pesante, sospirando appena. «Credetemi, qui non
c’è mai un attimo di tranquillità. Mai un attimo di pausa.»
Sfoglia diverse cartelle di documenti e ne estrae una con la
foto di Jamie grappettata sulla copertina. Pomeroy inforca
un paio di occhiali da lettura con la montatura in plastica e
scorre il fascicolo un po’ come un mercante che rivede i suoi
conti. Le labbra si muovono e borbottano all’unisono con gli
occhi, a basso volume. «Caso istruito il 24 ottobre... Quattordici mesi... Visto l’ultima volta la sera prima... Nessuna trac30
cia di lotta. Zona della scomparsa: quartiere di Auburn Manor, città di Wayne. Momento della scomparsa: sconosciuto.
Segnalato: Uff. Pers. Scomp., Centro naz. scomp. e manc...
Bambini della Notte... Prog. Scudo... Linea diretta fuggitivi...
Trova un Angelo... Controlli incrociati con polizia di Stato,
dipartimento dello sceriffo e FBI...»
«Ha qualche nuova informazione? Qualcosa?»
Pomeroy non dà segno di aver sentito la domanda e continua a controllare per un altro momento. Tira su gli occhiali
e si massaggia con il dito la gobba del naso. «Come potete vedere dalla vostra copia del rapporto ancora non siamo riusciti a individuare nessuna traccia da seguire.»
«Che stanno facendo i suoi uomini al momento?»
«Voglio assicurarvi che il caso è ancora aperto. In queste
situazioni, giovani scomparsi, fuggitivi...»
«Lui non è fuggito.» Le parole di Carol escono fiacche, quasi spossate. Solo una rabbia sottile le alimenta ancora. «Non
riesce a capirlo? Tutto quello che avete fatto è stato distribuire foto alle fermate dell’autobus. Se anche fosse fuggito conosce la strada di casa. Ma non può tornarci perché qualcuno lo
ha preso. È stato rapito.» L’ultima parola lacera Paul come il
trapano di un dentista che ha toccato un nervo.
«Non abbiamo trovato nessuna prova che conforti questa
ipotesi. E nemmeno l’FBI. Certo, è una possibilità. Una probabilità. Cose del genere succedono, ma spesso questi ragazzi
non vogliono farsi trovare.»
«Stronzate» dice Paul. Non riesce a credere di averlo detto a voce alta in faccia a un poliziotto.
Pomeroy lo fissa sorpreso. Dietro gli occhi di Carol, vitrei
per il dolore, c’è un movimento mentre lei guarda suo marito, una scintilla. Vede ciò che le è mancato troppo a lungo.
Ma si spegne troppo presto.
«Senta, capitano Pomeroy, mi dispiace... Lo so che ci avete
lavorato, è solo che...» Paul è a corto di parole per concludere.
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La bocca di Pomeroy si allarga in una mezzaluna malaticcia mentre il suo abituale controllo deborda oltre la scrivania,
sul fianco.
«Mi rendo conto di quello che state passando. Stiamo facendo del nostro meglio per...» Viene interrotto da un agente
donna che infila la testa nella stanza.
«Mi scusi, capitano. Un’unità operativa A2 richiede che lei
firmi il turno di sorveglianza in modo che possano tornarsene
a casa.»
Pomeroy balza su, grato per l’interruzione. «Scusatemi, ci
vorrà solo un minuto.» Segue l’agente verso la sala principale.
Mentre esce Carol lo segue con lo sguardo, poi si alza e va
dietro la scrivania. Questo innervosisce Paul.
«Cha stai facendo?»
Lei apre il fascicolo di Pomeroy su Jamie e comincia a esaminarlo.
«Carol, tesoro, e se ci vede?»
«Non m’importa. Voglio sapere quello che stanno facendo realmente.»
«Carol...»
Lei guarda su, punta sul vivo. «È nostro figlio. Te lo ricordi?»
Lui non risponde, e la rabbia gli raggela il viso.
Mentre Carol studia il fascicolo la testa le cade giù. Poi
guarda su di nuovo. «Oddio.»
«Che c’è?» chiede lui, guardando fuori per vedere se Pomeroy sta tornando.
Lei lo ignora, ma mentre legge la sua faccia si contorce, come se soffrisse di una grave emorragia interna.
«In questo fascicolo c’è una specie di registro del lavoro
svolto. Non lavorano al caso da settimane... settimane. Oddio...» Fa scorrere il dito sulla pagina. La porta si spalanca e
il capitano Pomeroy rientra in ufficio. Si affretta dietro la scrivania e strappa il fascicolo dalle mani di Carol.
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«Mi scusi, signora Gabriel, ma questo è proprietà del dipartimento. Ed è riservato.»
Lei gli mostra la versione in suo possesso del fascicolo di
Jamie. «E allora questo che è?» Lo sbatte sul tavolo. «Uno
scherzo, a quanto sembra...»
«Quella è una copia di certe informazioni che avete richiesto, una richiesta che noi abbiamo soddisfatto, anche se non
eravamo tenuti a farlo. Non è la nostra politica.»
Paul si muove sulla sedia. Avverte la debolezza della sua
posizione. Se quell’uomo dovesse nutrire del risentimento
nei loro confronti, allora non farebbe più nulla. Cerca di
sdrammatizzare.
«Car, lo sai che dobbiamo avere pazienza. Un’indagine
come questa è difficile.»
«Proprio così» dice Pomeroy, riprendendo il suo posto come
se fosse una lotta per il territorio. «Lo sapete anche voi, visti i
tentativi che avete fatto per conto vostro. E lo sappiamo noi
perché gli stessi federali non sono venuti a capo di nulla.»
«E il tempo? Il tempo?» urla Carol, cominciando a essere
più esplicita. «Aquesto caso avete lavorato per ventidue ore e
mezza, nemmeno due ore al mese da quando è scomparso.»
Questo raggela Paul. «Cosa?» dice in una specie di belato.
Pomeroy appare in imbarazzo.
A questo punto tutti i numeri cominciano a quadrare per
loro: l’età di Jamie quando è scomparso, quanti anni avrebbe
adesso, quanto poco tempo è stato impiegato per cercarlo.
«Leggi tu stesso» dice lei con voce gracchiante. Carol strappa il fascicolo dalle mani di Pomeroy e lo scaglia attraverso
l’ufficio verso suo marito.
La stanza si riempie di carte che svolazzano e poi ricadono
a terra.
Pomeroy si tira su. «Signora Gabriel, forse lei può non accettarlo, ma ci sono altri casi di cui si sta occupando questo dipartimento. Proprio in questo momento, per esempio, ho...»
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A questo Carol perde la compostezza ed esce come una
furia dall’ufficio, sbattendo rumorosamente la porta dietro
di sé e mettendosi a correre nella sala.
I due uomini si guardano. Pomeroy alza le spalle. Se quel
tipo non avesse una pistola dalla quale si deduce che è un poliziotto, non riuscirebbe a convincere nessuno che lo è, pensa Paul.
Paul prende la copia del fascicolo di Jamie ed esce dietro
sua moglie.
L’agente Carriero alzò lo sguardo nel vedere una donna
magra e ricurva che usciva di corsa dall’ufficio del capitano
Pomeroy. La riconobbe, ma non riuscì a ricordarne il nome.
Un attimo dopo venne fuori il marito. Un tipo alto. Con l’aria
preoccupata. Gabriel. Era stato lui a registrare la loro deposizione. Era passata una fottuta eternità. Un ragazzo scomparso. Era stato di turno a casa loro la prima notte e lo ricordava
come un non-evento, nessuna richiesta di riscatto, niente di
niente. Aveva sperato, come faceva sempre, che si trattasse di
un incidente. Che il ragazzo fosse caduto e avesse sbattuto la
testa, che fosse stato investito da un’auto, o che avesse avuto
un malore e si fosse perso da qualche parte. Poi magari lo
avrebbero trovato, tenuto in un ospedale per giorni, lo avrebbero identificato e restituito alla sua famiglia. Era il meglio
che ci si potesse augurare, come aveva imparato Carriero nei
suoi sette anni in divisa. All’inizio aveva svolto un’indagine
approfondita, seguita da rilievi e riscontri, ma non era venuto fuori nulla, e così lo avevano rimosso da quel caso e assegnato a una banda di scassinatori.
Carriero si sentiva lo stomaco in disordine per la vergogna. Dopo gli scassinatori si era occupato di altri casi e non
aveva più pensato a quel ragazzo. Nei primi anni di lavoro
non gli sarebbe mai successo. Adesso, lo sapeva, il suo fascicolo era congelato nell’archivio dei casi irrisolti, i cosiddetti
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‘casi freddi’, e veniva tirato fuori e riscaldato solo quando i
genitori chiedevano qualche informazione o venivano direttamente a parlare. La cosa migliore che potevano sperare era
un corpo che spuntasse e mettesse fine all’attesa. Si alzò senza nemmeno pensarci e attraversò la sala. Raggiunse l’uomo
proprio mentre era in prossimità della porta.
«Signor Gabriel, mi scusi.»
«Sì?» L’uomo si fermò e lo squadrò. Un esile barlume di riconoscimento gli ravvivò il viso. «Oh, certo, come va, agente?»
«Tempo fa ho raccolto la vostra denuncia. Parecchio tempo fa. Ho dato un’occhiata al fascicolo di suo figlio...»
«Sì?» Gli occhi di Paul tradirono la fame di sapere. «Ha
scoperto qualcosa?»
Carriero si rimproverò per essersi espresso in modo così
avventato. «No, io... Io non so nemmeno come dirlo senza apparire scorretto.» Si interruppe. Sapeva che non giovava all’immagine, che non era gioco di squadra, come si dice, ma
non poteva farci niente.
Il padre lo guardava quasi implorante.
«C’è un uomo. È un investigatore. Ho lavorato con lui. Potrà costarvi un po’, ma è... Non so quanto potrà esservi utile,
ma potrebbe valere il prezzo avere qualcuno che si occupa
personalmente di questo caso.» Gli porse un biglietto da visita spiegazzato. «Potrebbe anche non essere disponibile,»
continuò il giovane agente «ma non si sa mai.»
Paul si sentì sgonfiare. Sperava in qualche informazione
significativa, ma un biglietto da visita in quel momento non
gli era di nessun aiuto. Pensò di parlare all’agente dei due investigatori ai quali si erano già rivolti, al bel gruzzolo che
avevano pagato volentieri, ma che si era tradotto in incontri
mensili davanti a un caffè, nel corso dei quali gli investigatori avevano tentato di nascondere la mancanza di risultati dietro inappuntabili rapporti freschi di laser e pieni solo di tante
parole. Invece accettò il cartoncino.
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«Grazie. Sarà meglio che raggiunga mia moglie.» Paul si
infilò in tasca il biglietto da visita e le andò dietro.
Carol sedeva, in stato quasi catatonico, nel soggiorno in
penombra. La notte era calata senza che nemmeno se ne accorgesse. L’unica luce nella stanza era il bagliore emesso dal
televisore silenzioso. La sua fragilità era tale che ogni delusione aveva su di lei facile presa e un peso devastante.
La porta si aprì ed entrò Paul con Tater al guinzaglio. Liberò il cane, poi avanzò e spense il televisore.
«Carol, andiamo a letto.»
Anche se lei sembrava non averlo sentito si alzò e si avviò
verso le scale, con Paul subito dietro di lei.
In fondo ai gradini Paul premette l’interruttore che accendeva la luce all’esterno della casa, per Jamie, come facevano
ogni sera.
Carol lo guardò, poi spense le luci prima di salire.
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