ANNO 116° SERIE IX
LE LETTERE / FIRENZE
N. 2
LUGLIO-DICEMBRE 2012
DIRETTORE: Enrico Ghidetti
COMITATO SCIENTIFICO: Novella Bellucci, Alberto Beniscelli, Giulio Ferroni, Quinto Marini,
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Periodico semestrale
Culto e mito di Dante dal Risorgimento all’Unità
Atti del Convegno di Studi, Firenze, Società Dantesca Italiana, 23-24 novembre 2011
SOMMARIO
ENRICO GHIDETTI, Mito e culto di Dante fra Settecento illuminista e Ottocento
romantico-risorgimentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
379
RUGGIERO STEFANELLI, Dante nell’epistolario foscoliano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
409
LEONARDO SEBASTIO, 1865, tra filologia e retorica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
421
ROSSANO DE LAURENTIIS, La ricezione di Dante tra Otto e Novecento: sondaggi tra bibliografia
e diplomatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
443
PASQUALE SABBATINO, «Noi volevamo una patria, e la patria fu per noi tutto». Dante e l’identità
della nuova Italia in Francesco De Sanctis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
495
CHIARA TOGNARELLI, Il mito di Dante nell’opera del Carducci giovane . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
513
AURÉLIE GENDRAT-CLAUDEL, «Per istrada ripeto a mente il Paradiso»: Dante talismano e
bandiera degli esuli italiani in Francia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
527
JOËL F. VAUCHER-DE-LA-CROIX, Filologia e culto di Dante in Svizzera nell’età del Risorgimento
539
ELISABETTA BENUCCI, Il Dante di Giuseppe Giusti: dagli «scherzi» al Commento alla
Divina Commedia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
565
EMANUELA BUFACCHI, Il Dante di Piero Gobetti e il Risorgimento dell’altra Italia . . . . . . . . . .
587
FRANÇOIS LIVI, Dal poeta vate al mistico esoterico. Letture e interpretazioni di Dante nella
Francia dell’Ottocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
599
Sommari-Abstracts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
617
«NOI VOLEVAMO UNA PATRIA, E LA PATRIA FU
PER NOI TUTTO». DANTE E L’IDENTITÀ DELLA
NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
1. Il dantista-patriota del Risorgimento
Nel recente e prezioso volume Italia. Vita e avventura di un’idea, Francesco Bruni
colloca Francesco De Sanctis (Morra Irpina, Avellino, 28 marzo 1817 – Napoli, 29
dicembre 1883) tra i «critici-patrioti del Risorgimento».1 La definizione di critico
militante delinea perfettamente il ritratto di De Sanctis e indica non solo una somma
di addendi (critico e patriota), ma soprattutto una scelta ideologica: il critico attraversa la letteratura italiana, da Dante all’Ottocento, per cogliere e raccontare genesi
e sviluppo dell’idea di patria, all’indomani della realizzazione della nazione italiana.
Le tessere biografiche di De Sanctis ci consegnano le linee essenziali del profilo di un intellettuale progressista che vuole la patria e agisce per costruire la nazione. Nell’insurrezione del 15 maggio 1848, a Napoli, insieme agli intellettuali progressisti, De Sanctis partecipò ai moti liberali e lottò sulle barricate insieme ai suoi
discepoli della prima scuola napoletana. Allora perse la vita il suo allievo ventiduenne Luigi La Vista, arrestato dagli Svizzeri e fucilato nel Largo della Carità. Dopo
qualche mese De Sanctis fu sospeso dall’insegnamento presso il Collegio militare
della Nunziatella.
Nell’ottobre 1849 De Sanctis si allontanò da Napoli e si rifugiò in Calabria,
presso il barone Francesco Guzolini, un patriota molto attivo, svolgendo la mansione di precettore del figlio. Accusato di operare come agente della setta ispirata
e diretta da Giuseppe Mazzini, fu arrestato nel dicembre del 1850 e trasferito nelle
carceri napoletane di Castel dell’Ovo, dove rimase circa tre anni. In quel periodo
studiò il tedesco, lesse in originale la Logica di Hegel, tradusse il manuale di storia
generale della poesia di Carlo Rosenkranz (apparso poi nel 1853), portò a termine
il dramma in prosa Torquato Tasso, identificandosi con il poeta perseguitato, e compose, sul modello poetico di Leopardi, il carme La prigione (255 endecasillabi sciolti,
con autocommento, pubblicato anonimo a Torino nel 1853), il canto e il grido
poetico della libertà nel tempo della tirannia.2
Bandito dal Regno nell’agosto 1853 e imbarcato per gli Stati Uniti, riuscì a sbarcare a Malta con l’aiuto del filosofo Angelo Camillo De Meis e del giurista Diomede Marvasi. Da Malta si spostò e rifugiò in Piemonte, dove frequentò alcuni esuli
meridionali, come Bertrando Spaventa, Ruggero Bonghi, Pasquale Stanislao Manci1
Bologna, Il Mulino, 2010. La citazione è a p. 246.
Cfr. F. De Sanctis, La crisi del Romanticismo. Scritti del carcere e primi saggi critici, Introduzione
di G. Nicastro, Nota di M. T. Lanza, Torino, Einaudi, 1972, pp. 5-16 (La prigione. Versi di un italiano),
17-59 (Torquato Tasso. Dramma).
2
495
PASQUALE SABBATINO
ni, Salvatore Tommasi, Mariano d’Ayala, Giovanni Nicotera, Paolo Emilio Imbriani.
Nel periodo torinese De Sanctis tenne lezioni pubbliche su Dante (nel 1854 e
1855), esercitò la critica militante, collaborò a diversi giornali («Il Cimento», «Lo
Spettatore», «Il Piemonte», «Il Diritto»), prese posizione contro «il progetto caldeggiato da Napoleone III e da alcuni italiani di restituire la corona del Regno delle
Due Sicilie alla dinastia del Murat nella persona di suo figlio, perché tale restituzione avrebbe consolidato l’autonomia dello Stato sotto un dominio straniero».3
Inoltre si avvicinò alla monarchia sabauda vista, allora e dopo, come soggetto politico lungimirante, capace di unificare la nazione e di superare la tentazione dominatrice di assoggettare le altre parti della penisola.
In questo contesto torinese e nella condizione di esule, De Sanctis avviò una
feconda ricerca sulla nascita e sullo sviluppo dell’idea di patria nella letteratura
italiana, in particolare in Dante e Alfieri come documenta il fondamentale saggio
Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo (apparso nel 1855 su «Il Cimento» e
raccolto nei Saggi critici del 1866).
I corsi, tenuti a Torino presso il Collegio di San Francesco di Paola (nel 1854 e
1855) e poi a Zurigo presso il Politecnico (nel 1856 e 1857), costituiscono la grande stagione della ricerca di De Sanctis su Dante, documentata dagli appunti degli
allievi 4 e dagli scritti di quegli anni, successivamente raccolti nei Saggi critici della
prima edizione (1866: La “Divina Commedia” – versione di F. Lamennais, con una
introduzione sulla vita, la dottrina e le opere di Dante, 1855; Dell’argomento della
“Divina Commedia”, 1857; Carattere di Dante e sua utopia, 1858) e della seconda
(1869: Pier delle Vigne, 1855). Da questi studi danteschi, databili tra il 1854 e il
1858, attingono gli interventi pubblicati all’indomani dell’Unità d’Italia, dai due
articoli nel quotidiano «L’Italia» di Napoli nel 1865, in occasione del centenario di
Dante celebrato a Firenze e in altre città, ai contributi del 1869 (Francesca da Rimini secondo i critici e secondo l’arte, Il Farinata di Dante, L’Ugolino di Dante),
raccolti nei Nuovi saggi critici del 1872, e ai capitoli sul Duecento e Trecento nella
Storia, composti tra il 1868 e il 1870.
Nei primi decenni dell’Italia unita De Sanctis intrecciò impegno politico e attività critica. Nel 1861 fu eletto deputato nel collegio di Sessa Aurunca e fu chiamato al dicastero della Pubblica istruzione dal 17 marzo al 6 giugno 1861 nel Gabinetto Cavour, dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862 nel Gabinetto Ricasoli. Passato
all’opposizione sotto il primo ministero Rattazzi, aderì all’Associazione unitaria
costituzionale (1863) fondata da Settembrini e ne diresse il quotidiano «L’Italia»
fino al 1866. Condusse una ferma opposizione sia al governo, sia all’estrema sinistra e lavorò politicamente per costruire la nuova Sinistra. Il discorso alla Camera
del 30 giugno e 1° luglio 1864 fu l’atto di nascita di questa nuova formazione laica
e democratica.5 Le alterne vicende parlamentari (mancata elezione nel 1865, rielezione nel 1866 e nel 1867, adesione al Manifesto dell’opposizione parlamentale il 14
febbraio 1867) non fiaccarono il suo impegno critico. Nel 1865 pubblicò il saggio
sulla Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù (nei «Rendiconti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli»), nel 1866 la prima edizione dei
3
F. Ferri, Introduzione a F. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, Torino,
Einaudi, 1972, p. XIV.
4
Cfr. F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, seconda edizione riveduta,
Torino, Einaudi, 1967. Nell’Introduzione Romagnoli ricostruisce dettagli e quadro d’insieme delle lezioni nel periodo torinese e in quello zurighese, tirando le somme: nel 1858 «si chiude il quadriennio
in cui il De Sanctis dette il meglio del suo ingegno critico intorno all’opera di Dante» (p. XVI).
5
Cfr. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, cit., pp. 183-219.
496
DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
Saggi critici, nel 1869 il Saggio critico sul Petrarca (scritto un decennio prima), la
seconda edizione dei Saggi critici e nella «Nuova Antologia» l’articolo Settembrini
e i suoi critici, nel 1870 il primo volume della Storia della letteratura italiana (il secondo reca la stessa data ma apparve due anni dopo), nel 1872 i Nuovi saggi critici,
con i contributi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini secondo i critici e secondo
l’arte, Il Farinata di Dante, L’Ugolino di Dante), nel 1873 la seconda edizione della
Storia, nel 1874 la terza edizione dei Saggi critici.
È vero, il critico-patriota «non ritornò più a Dante» dopo la Storia e dopo i Nuovi
saggi critici,6 nel senso che non produsse altri titoli danteschi, tuttavia il modello
Dante ritorna costantemente nella successiva produzione, che ha come campo privilegiato il XIX secolo. Infatti, nominato professore ordinario di letteratura comparata, il 29 gennaio 1872 tenne la sua prima lezione nell’Università di Napoli e
svolse corsi su Manzoni (1872), sulla scuola cattolico-liberale (1872-73, la prolusione del 16 novembre fu pubblicata con il titolo La scienza e la vita),7 sulla scuola
democratica (1873-74), su Leopardi (1875-76),8 che aveva incontrato a Napoli nell’ormai lontano 1836. In questi corsi, ritenuti «lo svolgimento del quadro abbozzato»9 nel finale della Storia della letteratura italiana, De Sanctis continuò a porre
gli autori di fronte al modello Dante. Negli anni della seconda scuola napoletana
ebbe come allievi Giustino Fortunato, Giorgio Arcoleo, Adolf Gaspary e Francesco Torraca.
Nel 1876 il quadro politico nazionale fu segnato da alcuni eventi: il 18 marzo
cadde in Parlamento il governo guidato da Marco Minghetti esponente della Destra storica e nelle elezioni di novembre la Sinistra, guidata da Agostino Depretis,
ebbe un buon successo elettorale, candidandosi a governare l’Italia. Per promuovere, senza risparmio di energie, una politica di rinnovamento De Sanctis lasciò
l’insegnamento universitario. I suoi articoli, ben ventisei, pubblicati tra l’11 giugno 1877 e il 17 febbraio 1878 sul quotidiano «Il Diritto» e raccolti «per la prima
volta in maniera unitaria» da Toni Iermano,10 denunciarono i mali della politica
(maggioranze inorganiche, moltiplicazione dei gruppi a Destra e a Sinistra, appetiti ministeriali, corruzione politica estesa a tutti i partiti e a tutti i livelli istituzionali, questione morale) e puntarono a far risalire la china e a far circolare e respirare aria nuova. Durante il primo e terzo Gabinetto Cairoli fu nominato ministro
6
p.
Romagnoli, Introduzione a F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, cit.
XVI .
7
Sull’elaborazione della prolusione e sulle vicende editoriali cfr. F. De Sanctis, L’arte, la scienza e la
vita. Nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a cura di M. T. Lanza, Torino, Einaudi, 1972, pp. 31640 e 509-531. Molto utile l’introduzione di Lanza, pp. XXXV-LXII.
8
Cfr. F. De Sanctis, La letteratura italiana del secolo decimonono, Torino, Einaudi: quattro volumi
delle Opere di De Sanctis, a cura di C. Muscetta: X. Manzoni, a cura di C. Muscetta e D. Puccini (1965);
XI. La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di C. Muscetta e G. Candeloro (1972);
XII. Mazzini e la scuola democratica, a cura di C. Muscetta e G. Candeloro (1961); XIII. Leopardi, a
cura di C. Muscetta e A. Perna (1969).
9
C. Muscetta, Nota introduttiva a F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo,
Introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi, 1971, p. XV. E a p. XX: «I quattro corsi, raccolti dal Torraca e solo in parte rielaborati dal De Sanctis, formano una trattazione sostanzialmente organica per
quanto riguarda la concezione, anche se per alcuni aspetti risulti incompiuta, lacunosa e solo accennata
la esecuzione, limitata al trentennio 1815-1848. Sicché non è apparso arbitrario agli editori intitolare
Letteratura italiana del secolo XIX questa integrazione e continuazione della Storia».
10
Cfr. F. De Sanctis, La democrazia in Italia, a cura di T. Iermano, Atripalda (AV), Mephite, 2006.
La citazione è nella Nota al testo, p. 43. Si veda anche F. De Sanctis, I partiti e l’educazione della nuova
Italia, a cura di N. Cortese, Torino, Einaudi, 1970, pp. 97-189 (viene riproposta solo una scelta di ventidue articoli).
497
PASQUALE SABBATINO
della Pubblica Istruzione (24 marzo - 19 dicembre 1878, 25 novembre 1879 - 2 gennaio 1881).11 Gli ultimi anni furono segnati dalla malattia agli occhi e dal suo ritiro a
Napoli, nella casa di vico San Severo.
Nonostante il grande impegno politico fino al 1880 e la malattia poi, De Sanctis revisionò le lezioni leopardiane (nel 1879 apparve Leopardi risorto sulla «Nuova Antologia», nel 1881 sulla stessa rivista Il nuovo Leopardi e postumo nel 1885 lo
Studio su Giacomo Leopardi, a cura di Raffaele Bonari) e approfondì il naturalismo
francese, come documentano lo Studio sopra Emilio Zola (sul «Roma» nel 1878) e
l’articolo Zola e l’Assomoir (prima sul «Roma» nel 1879 e poi nello stesso anno in
opuscolo a Milano, presso Treves). Nello stesso anno pubblicò la seconda edizione
ampliata dei Nuovi saggi critici e la terza edizione della Storia della letteratura italiana. Negli ultimi anni si dedicò alla raccolta dei ricordi, che Pasquale Villari pubblicò postuma col titolo La giovinezza, allo studio di Darwin (l’11 marzo 1883 tenne la conferenza sul Darwinismo nell’arte presso l’Associazione della stampa), e delle
degenerazioni di naturalismo e verismo, di cui scrisse nella Nota dell’Autore premessa alla seconda edizione del Saggio critico su Petrarca (1883).
Il critico-patriota, che non scrisse più interventi danteschi dopo la Storia e i
Nuovi saggi critici ma al modello Dante continuò a rapportare i suoi autori, nei tardi
anni del 1881-1882 dettò alla nipote Agnese il racconto della sua giovinezza e fermò nell’ultimo capitolo Il genere narrativo la sua formazione e soprattutto le sue
lezioni «novissime» su Dante, tra il 1842 e il 1843, durante la prima scuola napoletana (che va dal 1839 al 1847):
Feci l’architettura della Divina Commedia, mostrando quanta serietà di disegno era in
quel viaggio, base sulla quale si ergeva l’edificio della storia del mondo, e più particolarmente italiana e fiorentina. Notai nell’Inferno una legge di decadenza sino alla fine, e nel
cammino del poema una legge di progresso sino alla dissoluzione delle forme e alla conoscenza della immaginazione, superstite il sentimento. Mi preparai la via, combattendo i
metodi de’ più celebri commentatori, che andavano a caccia di frasi, di allegorie e di fini
personali. Notai che la grandezza di quella poesia è in ciò che si vede, non in ciò che sta
occulto. Lessi la Francesca, il Farinata, l’Ugolino, il Pier delle Vigne, il Sordello, l’apostrofe di San Pietro e altri brani interessanti, facendovi sopra osservazioni che non dimenticai
più, e furono la base sulla quale lavorai parecchi miei Saggi critici. Posso dire che la mia
Francesca da Rimini mi uscì tutta di un getto in due giorni, e fu l’eco geniale di queste reminiscenze scolastiche. È inutile aggiungere che queste lezioni novissime sulla Divina Commedia destarono vivo entusiasmo. I sunti, fatti da’ miei discepoli e rimastimi, ne rendono
una immagine pallidissima e, come dice Dante, ‘fioca al concetto’.12
Nel guardare gli anni giovanili, il maturo De Sanctis colse il lungo percorso della
sua critica dantesca, che aveva avuto il periodo più fervido tra il 1854 e il 1858 e
sviluppi successivi tra il 1868 e il 1870. Da allora, pur non avendo più prodotto
saggi danteschi, De Sanctis aveva assunto il modello Dante come punto di riferimento per valutare gli scrittori del XIX secolo. Ma di tutto questo mancava agli
11
Per ricostruire l’attività parlamentare e gli interventi ministeriali cfr. De Sanctis, I partiti e l’educazione della nuova Italia, a cura di N. Cortese, cit., pp. 5-94 (Scritti e discorsi parlamentari dal 1871 al
1878), 195-313 (Il secondo Ministero della Pubblica istruzione, 1878), 315-28 (Tra un Ministero e l’altro,
1879), 329-449 (Il terzo Ministero della Pubblica istruzione, 1879-1880), 501-18 (Scritti e discorsi degli
ultimi anni, 1881-83).
12
F. De Sanctis, La giovinezza, a cura di D. Della Terza, Atripalda (AV), Mephite, 2006, p. 263. Si
veda inoltre F. De Sanctis, La giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici
e discepoli, a cura di G. Savarese, Torino, Einaudi, 1972.
498
DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
storici il punto di partenza, che De Sanctis collocò nella sua prima scuola napoletana. «Mi preparai la via», scrive De Sanctis, additando l’inizio della sua via dantesca, che unisce letteratura e politica, critica e impegno civile, l’idea della nazione e
l’orizzonte della confederazione delle nazioni, l’Italia e l’Europa.
Il professore De Sanctis sentì il poeta Dante un vero compagno di strada prima
e dopo il Risorgimento.13
2. La patria «principio e fine d’ogni virtù»: il confronto tra Dante e Alfieri
L’Introduzione alla Storia del secolo XIX dello storico e politico Georg Gottfried Gervinus circolò in Italia nella traduzione dal tedesco di P. Peverelli (Torino,
Favale, 1854) e sollecitò l’attesa dell’opera. Quando apparve il primo volume della
Storia del secolo XIX, che ebbe in Germania un buon successo commerciale, De
Sanctis ritenne opportuno tradurre il capitolo sulla letteratura italiana, pubblicato
con la seguente nota introduttiva:
È uscito il primo volume di una storia, di cui l’introduzione pubblicata già da un pezzo
aveva messa grande aspettazione. Accolta in Germania con favore straordinario, a giudicarne dalle tante migliaia di copie spacciate in poco più di un mese, importa che gl’Italiani ne abbiano conoscenza, trattandovisi delle cose loro. Vi è tra l’altro un capitolo, dove l’egregio storico ragiona della nostra letteratura, ed io vo’ tradurlo per dare un saggio di questo lavoro.14
Nel saggio Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo, De Sanctis prende le
distanze dal peccato originale dello storico tedesco, il quale giudica il passato «col
criterio presente», per cui in modo anacronistico e prematuro vorrebbe da Alfieri
e Foscolo «una letteratura popolare cavata dall’intimo della nazione, e l’arte e la
scienza in una compiuta incidenza».15 Ma questa concezione della letteratura popolare che nasce dalla vita interiore della nazione, pienamente condivisa ai tempi
di De Sanctis, appartiene all’Ottocento e non al Settecento, è «il progresso del secolo»,16 che trova nel Manzoni «il poeta della nuova situazione, l’iniziatore della
letteratura popolare in Italia».17 Pertanto, conclude De Sanctis, il Settecento va
studiato e giudicato «secondo la sua propria natura e non secondo un concetto [...]
estraneo» a quell’epoca.18
Partendo dall’errore prospettico di pretendere, già nel Settecento, una letteratura popolare che nasce dalla vita interiore della nazione, Gervinus finisce con il
disapprovare in linea generale sia la «letteratura classica», perché ritiene che il classicismo ci ponga «innanzi una società morta», sia la letteratura artistica con «tendenza politica», perché crede che nell’ambito della letteratura politica l’ideale artistico non possa «dominare nella sua purezza».19
13
Cfr. il fondamentale studio di A. Vallone, Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, to. 2,
Padova, Vallardi, 1981, part. pp. 782-92. La monumentale opera di Vallone è una pietra miliare nella
storiografia dantesca, una preziosa analisi e una sintesi molto utile.
14
Si cita da F. De Sanctis, Saggi critici, terza edizione riveduta, Napoli, Morano, 1874, p. 310. La traduzione è nelle pp. 310-23. Si veda inoltre l’edizione a cura di di L. Russo, Bari, Laterza, 1965, voll. 3.
15
Ivi, p. 326.
16
Ibidem.
17
Ivi, p. 337.
18
Ivi, p. 326.
19
Ibidem.
499
PASQUALE SABBATINO
In particolare, poi, Gervinus «biasima» Alfieri e Foscolo per l’«indirizzo classico-politico» dato alla letteratura, i quali ebbero una duplice influenza dannosa sulle
nuove generazioni, in ambito letterario e in ambito politico:
Col loro classicismo essi scelsero ad ideale un esagerato amor di gloria e l’antico patriottismo. E valendosi delle lettere a propaganda politica, sacrificarono a fini estranei le
ragioni dell’arte. E perciò dannosa fu l’influenza che essi ebbero in Italia sotto l’aspetto
letterario o politico; poiché da una parte scostarono i giovani dal puro amore dell’arte; e
dall’altra li avvezzarono a preporre imprese romorose al vero utile della nazione, a rinchiudere la morale nel concetto della patria, a non misurare la propria forza, a voler correre di
salto alla meta senza la lenta preparazione, che solo rende possibile il buon successo.20
In sostanza, commenta De Sanctis, Gervinus giudica negativamente Alfieri e
Foscolo alla luce del suo errore prospettico, convinto che la letteratura dovesse
mirare ad alcuni obiettivi fondamentali, come educare la plebe, «rammendare i
costumi e rintegrare la morale», e ancora «inculcare miglioramenti immediati e
possibili in luogo di guardare all’ultimo fine, all’ultima conseguenza».21
Per evitare giudizi parziali e sconsiderati, come quelli di Gervinus, sull’indirizzo classico-politico di Alfieri e Foscolo, lo storico deve esaminare e giudicare «i
fatti di mezzo al mondo in cui vivono», senza cadere nell’assoluto e nel generale, e
deve porsi alcuni quesiti:
1. Questo indirizzo classico-politico fu una singolarità di Alfieri e Foscolo, un effetto
del loro studio in Plutarco e negli altri antichi, o proprio della vita italiana di quel tempo?
e solo della vita italiana? 2. Il classicismo di Alfieri e Foscolo fu solo una vuota forma rettorica, una imitazione letteraria, o aveva sotto di sé qualche cosa di vivo e di moderno? 3.
La tendenza politica assorbì in sé l’arte, o fu una semplice materia che essi seppero lavorare ed idealizzare? 4. Quale influenza hanno gli scrittori sulla nuova generazione?22
Parte da queste domande l’indagine di De Sanctis, con l’obiettivo di correggere l’errore prospettico di Gervinus e di dare ad Alfieri e Foscolo quello che è di
Alfieri e Foscolo.
Da molti secoli, in Europa, la tradizione ed educazione era stata classica, osserva De Sanctis, e a maggior ragione in Italia «questa storia poteva chiamarsi domestica, cosa nostra, parte delle nostre tradizioni, viva ancora nelle nostre città e ne’
monumenti».23 Roma e Grecia costituivano «il nostro ideale», Bruto e Catone «i
nostri eroi», Livio, Tacito e Plutarco «i nostri libri».
L’arco cronologico della tradizione classica, che in Italia «non fu mai interrotta», parte da Dante e giunge al Machiavelli, da Machiavelli poi fino al Metastasio.
Certo, l’ideale classico non ebbe «alcun riscontro con la realtà» e per questo fu
«un ideale da scuola, accademico ed arcadico», come nel caso di Metastasio:
le austere sentenze dell’antichità, che il Metastasio aveva raccolte, quasi codice poetico, in molli ariette canticchiate, gorgheggiate dalle reggie fino alle officine, valevano quello stesso che le massime del Vangelo: si ammiravano e non si ubbidivano; era una perfezione astratta, tenuta superiore all’umanità e rimasa un ozioso concetto, un ente di ragione.24
20
21
22
23
24
500
Ivi, pp. 326-27.
Ivi, p. 327.
Ibidem.
Ivi, p. 328.
Ibidem.
DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
Ma nel Settecento, il secolo della «dissoluzione sociale», quando il vecchio scomparve, rimase l’ideale classico, che «dalle scuole passò nella vita, dominò le fantasie, infiammò le volontà». Allora quell’ideale classico sembrò vicino e realizzabile,
divenne lo scopo della vita, al punto tale che «si operò e si morì romanamente». A
questa altezza della Storia, De Sanctis allarga il panorama all’America, dove «le
nuove città presero nomi greci e romani», e all’Europa, in particolare in Francia,
dove «gli uomini si ribattezzavano Bruti, Fabrizii e Catoni», con l’inevitabile deriva della pedanteria e del grottesco. Tuttavia quel grottesco, poi spazzato via, nascondeva il serio, che invece ancora continua. Infatti nel Settecento «la rivoluzione, quantunque generale ne’ suoi principii, fu fatta dalle classi colte, da loro e per
loro», con la partecipazione di aristocratici, principi e popolani, ma senza il coinvolgimento dell’aristocrazia, del principato e della plebe. Si ebbe, dunque, un
movimento ad onde concentriche, che progressivamente si allargò fino all’Ottocento, quando la rivoluzione finalmente «si fa popolare».
Nel XVIII sec., allora, la letteratura «non poteva essere [...] e non fu popolare», anzi «fu ad immagine» delle classi colte che fecero la rivoluzione.25 La stessa
rivoluzione «parlò col linguaggio di quelle classi, col linguaggio delle scuole», facendo uso di una strumentazione ad ampio raggio dalle «pompose sentenze» alle
«citazioni» e ai «paragoni greci e romani», dalle «figure rettoriche» alle «orazioni
ciceroniane».26 Il ridicolo, secondo De Sanctis, consisteva proprio nel dare la «forma antica» alle «cose moderne», nell’usare «vocaboli tolti alle guerre civili» per
fare la «guerra al feudalesimo». Ma sotto quel ridicolo c’è il serio «che vi agghiaccia il riso», sotto quel linguaggio retorico c’è «per contenuto un mondo nuovo, che
con una immagine ancora confusa del suo avvenire riposavasi provvisoriamente in
un glorioso passato», sotto quella forma antica ci sono «due cose» che appartennero al «classicismo nel suo senso più elevato», furono insegnate per secoli nelle
scuole, dove rimasero parole senza tramutarsi in cose, e sono divenute finalmente
serie nell’età della rivoluzione fatta dalle classi colte: da una parte la patria divenuta «principio e fine d’ogni virtù», dall’altra «la dignità dell’uomo, l’agere ed il pati
fortia» di Muzio Scevola (in Livio, Ab urbe condita, II, XII, 9-10), il compiere e subire cose valorose.27
A questo punto del saggio di De Sanctis si trova il passaggio più interessante:
se nell’antichità la patria aveva «un contenuto suo proprio» e nelle scuole poi fu
25
Ivi, pp. 328-329.
Ivi, p. 329.
27
Ibidem. La massima liviana fu utilizzata, poi, anche nella Storia, XV, par. 5, p. 570, per delineare
il profilo di Machiavelli e la sua concezione della virtù in funzione della patria: «Stabilito il centro della
vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell’umiltà e della
pazienza, che hanno ‘disarmato il cielo e effeminato il mondo’ e che rendono l’uomo più atto a ‘sopportare le ingiurie che a vendicarle’. Agere et pati fortia romanum est. Il cattolicismo male interpretato rende
l’uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell’animo, che rende gl’italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare
la libertà e l’indipendenza della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa forza, energia, che renda gli uomini atti a’ grandi sacrifici e alle grandi imprese». E ancora nel par. 16, p. 606: «La
serietà della vita terrestre, col suo istrumento, il lavoro, col suo obbiettivo, la patria, col suo principio,
l’eguaglianza e la libertà, col suo vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale, col suo organismo, lo stato, autonomo e indipendente, con la disciplina delle forze, con l’equilibrio degl’interessi, ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l’approvazione del genere umano, ed è di base la
virtù o il carattere, agere et pati fortia».
26
501
PASQUALE SABBATINO
«nome senza soggetto»,28 per l’appunto come ha detto prima «un ideale da scuola,
accademico ed arcadico», privo di riscontri e ricadute nella realtà,29 invece nell’età
della rivoluzione le classi colte diedero a quel nome, la patria, un nuovo contenuto,
un nuovo soggetto. E qui, sul terreno della patria, De Sanctis si identifica personalmente e collettivamente con le classi colte, fino all’uso passionale e ideologico del
«noi». Così «il punto di vista parziale del critico – scrive Romano Luperini – coincide con quello generale di una comunità nazionale in formazione»:30
Noi prendemmo il nome [patria] e vi aggiungemmo un nuovo soggetto. Si può disputare se la patria sia veramente la virtù madre, se vi sta qualche cosa al di sopra di lei. Ma gli
uomini sono così fatti. Quando vogliono uno scopo, comprendono in quello tutti gli altri,
quello scopo diviene l’universo. Noi volevamo una patria, e la patria fu per noi tutto. Il
classicismo non fu dunque per noi una società morta: fu la nuova società sotto nomi antichi. Prendemmo il nome di patria circondata dall’aureola di tutta l’antichità, e ci ponemmo a fondare la patria moderna. Gli eroi di Plutarco generarono gli eroi del ’99. E quando,
dopo sì lunga morte di ogni vita pubblica, l’uomo poté chiamarsi cittadino, si sentì nel petto
l’orgoglio di Muzio. Fu l’età di grandi passioni, l’età epica della rivoluzione.31
Il classicismo di Alfieri e Foscolo, lontano e diverso da quello «vuoto» di Metastasio e da quello «pomposo e un [...] po’ rettorico» di Corneille, va congiunto «con
questo movimento». Infatti nelle tragedie di Alfieri c’è «un visibile legame con lo
stato sociale, con i timori, con le speranze» del suo tempo.
All’ironia di Gervinus, il quale afferma che Alfieri «non potendo fare niente di
grande volle almeno dire alcuna cosa di grande», De Sanctis replica che il dire di
Alfieri corrisponde al pensare e sentire, ha una serietà e un contenuto, nasce «dall’intimo della sua anima». Inoltre, poiché lo scrittore «pensa e sente quello che è
presto a fare», il suo dire diventa «azione». Nel riprodurre «sé stesso» e «il suo
secolo», Alfieri ottiene «intorno a sé un’eco», che né il vuoto classicismo di Metastasio né quello retorico di Corneille potevano raggiungere:
i suoi versi ripetuti nel segreto delle mura domestiche destavano fremiti e confuse speranze, rilevavano i caratteri, illuminavano l’orizzonte di lampi forieri di tempesta. Nessun’azione fu più feconda di questo dire di Alfieri. Nel suo dire vi è assai più di Alfieri e del
suo secolo, che di Roma e di Grecia.32
L’antica Grecia e l’antica Roma in Alfieri perdono le relative coordinate spaziali e temporali, con la caduta di tutti gli accidenti (dalle superstizioni alle feste, dai
costumi al colore locale), e diventano nella loro «eterna generalità» un «ideale»,
un’immagine vaga che gli uomini del tempo disegnavano e attualizzavano «aggiungendovi tutto ciò che era intorno a loro». Per questo Alfieri evita di innestare il
moderno nell’antico, ma rende moderno quell’ideale vago ed eterno:
L’immagine dell’antichità separata da tutto ciò che è perituro, da tutti i suoi accidenti,
rimane nella sua eterna generalità, che i contemporanei riempivano di sé stessi. Questo vago
28
De Sanctis, Saggi critici cit., p. 329.
Ivi, p. 328.
R. Luperini, Il “noi” di De Sanctis e il nostro, in La nuova scienza come rinascita dell’identità nazionale. La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870-2010), a cura di T. Iermano e
P. Sabbatino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, p. 396.
31
De Sanctis, Saggi critici, cit., pp. 329-30.
32
Ivi, pp. 330-31.
29
30
502
DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
ideale rispondeva mirabilmente al suo tempo. Si era allora risvegliata la coscienza dell’oppressione, l’amore della libertà, il sentimento della dignità umana, ciò che il Gervinus chiama vita antica, ed è vita di tutti i grandi e liberi popoli. Si voleva una patria e non si sapea
ancora quale; si presentiva un avvenire che non si sapeva determinare; libertà, patriottismo, dignità esprimevano piuttosto confuse aspirazioni che idee distinte. Alfieri fu forse
l’espressione più pura e più fedele di questi sentimenti.33
Per meglio evidenziare la patria di Alfieri, De Sanctis introduce il confronto
con la patria di Dante:
La patria di Dante è così determinata, che ciascun tempo dee spogliarla di qualche cosa
per potersela appropriare: egli è che Dante aveva una patria, e si trovava in mezzo ad interessi politici già circoscritti. La patria di Alfieri è la patria poetica che vagheggiavano i nostri
maggiori, meno la patria greca e romana, che la patria del genere umano. Era l’idea rigeneratrice de’ nostri tempi non ancora entrata nell’azione, non ancora incarnatasi nelle istituzioni, non modificata dagli interessi, l’idea vergine e dea, per la quale morivano Condorcet
e Mario Pagano. Vedete dunque, quanto di vero, quanto di contemporaneo è in questo
classicismo di Alfieri.34
È già qui in nuce quella che poi fu la metodologia desanctisiana nella Storia,
che ruota intorno a due criteri: a) Dante è il grande modello – convinzione che De
Sanctis consolidò nei corsi zurighesi su Dante dal 1856 al 1859 – e in rapporto al
modello vanno misurati tutti gli altri autori; b) il concetto dantesco di patria è la
stella polare che fa da guida al critico-patriota durante la navigazione nel mare
della letteratura italiana.
3. Dante «l’Eroe del nostro Risorgimento»: gli articoli su «L’Italia» (1865)
Sul quotidiano «L’Italia» De Sanctis pubblicò due articoli danteschi, a torto
liquidati da Romagnoli come «occasionali [...], dettati alla buona da contingenti
sollecitazioni e di nessun valore critico»:35 Onorate l’altissimo poeta (20 maggio 1865)
e Il pensiero di Dante (21 maggio 1865).36 Il primo articolo37 offre al lettore del giornale una rapida ed essenziale immagine di Dante, giocata sul contrasto tra il punto
di vista degli stranieri e il punto di vista degli italiani. Secondo gli italiani, Dante è
sempre stato «la nostra stella nell’avversità», «l’Eroe del nostro Risorgimento», per
cui «tutti gl’Italiani dicono: – Il pensiero di Dante è attuato». Secondo gli stranieri, che non «hanno mai capito Dante» e hanno irriso «alla nostra sventura», gli
Italiani sono «arcadi ed accademici», guardano al «passato, che non può tornare»,
anziché «all’avvenire». E Dante, per gli stranieri, rappresenta «il passato, non [...]
l’avvenire», e più avanti: «un pensiero morto, il pensiero del passato», un «pensiero, strana sintesi di ciò che è morto, non stella dell’avvenire». Inoltre gli stranieri,
pur avendo un’alta considerazione di Dante, celebrato nelle città europee come
33
Ivi, p. 331.
Ivi, pp. 331-32.
Romagnoli, Introduzione a F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, cit., p. XIII.
36
Gli articoli, «attribuiti al De Sanctis dal Ferrarelli e accolti dal Croce e dal Cortese», sono stati
riprodotti nel vol. di F. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, cit., «come
documento della partecipazione personale di De Sanctis ad una festa che ebbe grande importanza, più
che letteraria, politica» (Nota, p. XXXVIII).
37
Ivi, pp. 410-12.
34
35
503
PASQUALE SABBATINO
Berlino e Vienna, «l’onorano, come Omero, con ammirazione erudita e dotta; comprendono il Poeta cosmopolita, non comprendono il poeta italiano». Per questo
«si stringono nelle spalle» quando gli italiani, «compiuto il nostro meraviglioso moto
nazionale», affermano che finalmente si è «compiuto il pensiero di Dante» e quando dalle città d’Italia si leva forte la voce, che applica a Dante l’intero endecasillabo del c. IV dell’Inferno riferito a Virgilio: «Onorate l’altissimo poeta» (v. 80).
Contro il punto di vista degli stranieri, De Sanctis cita uno straniero, Victor
Hugo, che era stato invitato alla festa di Dante dal Gonfaloniere di Firenze e aveva
risposto all’invito con una lettera letta dall’attrice Adelaide Ristori.38 Victor Hugo,
il «poeta» che «ha indovinato il Poeta», ritiene che il pensiero di Dante è «presentimento», «gestazione dell’avvenire», non «reminiscenza» del passato.
Secondo De Sanctis, per comprendere «come l’Italia può avere scelto a suo duca
e maestro il visionario Ghibellino, e come, rivendicata la libertà, e costituita la sua
unità, possa dire: – Ho compiuto il pensiero di Dante», per comprendere perché
gli Italiani «con mirabile ostinazione hanno messo sempre a interprete delle loro
rivoluzioni e delle loro aspirazioni il pensiero di Dante; e non ristaranno finché quel
pensiero non sia recato in atto», occorre distinguere nel pensiero dantesco ciò che
è accidentale, destinato a perire, e ciò che è essenziale, destinato a rimanere. Da
qui le conclusioni e le distinzioni: «il pensiero di Dante fu il pensiero ghibellino, il
pensiero de’ suoi tempi», ma i ghibellini circoscrissero e rinchiusero il loro pensiero «nel piccolo giro delle mura delle loro città, nell’angustia delle passioni municipali e personali, nella sfera della loro esistenza mortale», Dante invece operò nella
direzione contraria, allargando e idealizzando il pensiero ghibellino, fino a farlo
diventare «il pensiero del mondo». Certo nel pensiero allargato e idealizzato di
Dante inevitabilmente si trova il passato, il temporaneo, l’accidentale, «quello che
è morto» visto dagli stranieri, tuttavia si coglie anche l’avvenire, l’immortale, il
sostanziale, quello che gli Italiani «hanno sentito sempre vivo intorno a sé, [...] hanno
mantenuto vivo per lunga tradizione e con lunga ostinazione, e [...] ora si veggono
brillare innanzi, e lo riconoscono, e dicono: – è desso, è il pensiero di Dante. Onorate l’altissimo poeta».
Nel secondo articolo Il pensiero di Dante 39 De Sanctis parte dal punto di vista
di un italiano che interpreta Dante alla maniera dei critici stranieri. È il caso dell’artista Ernesto Rossi, il quale «nell’Accademia letteraria tenuta in Firenze ad onore
di Dante» lesse un componimento di Giulio Carcano e recitò un suo sonetto, «in
cui su per giù è espresso questo concetto: – Tu volevi un Papa e un Imperatore;
l’Italia ha realizzato qualche cosa di meglio».
38
Cfr. Guida officiale per le feste del centenario di Dante Alighieri nei giorni 14, 15 e 16 maggio 1865
in Firenze, Firenze, coi tipi di M. Cellini e C., 1865, part. pp. 38-39; «Giornale del centenario di Dante
Alighieri», n. 47, 20 maggio 1865, p. 383 («Nel mattino del lunedì [15 maggio 1865], la sala della Società
Filarmonica si aprì alla grande Accademia letterario-musicale già annunziata. La brevità che ci è imposta ci toglie di far ragione speciale di tutti i lavori letterari ed esclusivamente poetici che furono prodotti. Il Maffei e il Regaldi ottennero, secondo era da aspettare la palma sugli altri: ma la festa prese sul
fine sembianza più grave e più maestosa di quel che si addica a consesso di dotti cultori delle Muse.
Imperocché quando la signora Ristori ebbe col magistero d’arte che le è proprio letta la lettera di Vittor
Hugo, gli animi degli uditori si commossero straordinariamente. E quando il sig. Foncher De Careil
parlò in nome della Francia e disse che presto l’Italia deve essere davvero libera ed una dalle Alpi all’Adriatico, allora la commozione universale non ebbe più freno, né misura, né limite: al grido di Viva
la Francia, rispose il grido di Vive l’Italie, e nel sentir ricordare le gesta di Magenta e di Solferino le due
nazioni degnamente rappresentate all’Accademia si scaldarono di fuoco fraterno e comparvero unite in
una libera idea, strette ad un patto civile»).
39
De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, cit., pp. 412-15.
504
DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
A fronte e a correzione di questa interpretazione «in un senso puramente letterale e superficiale» del pensiero dantesco, De Sanctis dichiara:
No, noi non abbiamo realizzato qualche cosa di meglio che non era nella mente di
Dante; siamo anzi ancora ben lontani dall’aver realizzato tutto l’ideale dantesco.40
Lungo l’articolo De Sanctis coglie due concetti che costituiscono la sostanza
del pensiero di Dante: il primo è l’«abolizione del potere temporale, indipendenza
piena del Papato nell’ordine spirituale», il secondo è l’«unificazione delle genti
italiane».
In gran parte dell’articolo De Sanctis analizza il primo concetto, cioè l’«affrancamento del laicato, mediante l’abolizione del potere temporale», affrancamento
che era sin dall’età di Dante «il punto di partenza e la meta di una rivoluzione»
italiana ed europea insieme. Infatti, commenta De Sanctis, «la storia d’Europa è
tutto un conato gigantesco verso questa meta». Poi, guardando alla storia d’Italia,
al percorso già fatto del Risorgimento e soprattutto a quanto rimaneva da fare,
aggiunge: «e siamo ancor lontani, soprattutto noi Italiani, dall’averla raggiunta»,
col pensiero rivolto allora all’auspicata conquista e annessione di Roma al Regno
d’Italia. Quando l’auspicio divenne storia, il 20 settembre 1870, De Sanctis non
riuscì a trattenere la sua esultanza, manifestata in presa diretta nel capitolo della
Storia sul Machiavelli, dove rilascia la sua testimonianza:
In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata
degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria
al Machiavelli.41
Il concetto dell’«affrancamento del laicato, mediante l’abolizione del potere
temporale», precisa De Sanctis, non «rimane un’astrazione filosofica, un incidente
nello sviluppo del pensiero dantesco; anzi ne è come il protagonista, la condizione
sine qua non, la base del suo edificio». Di fronte alla «filosofia guelfa» (ripresa nell’Ottocento dal periodico dei gesuiti «Civiltà Cattolica»), secondo la quale «lo spirito è superiore al corpo, comanda al corpo; e poiché il Papa rappresenta lo spirituale, viene immediatamente da Dio e comanda a tutte le Podestà della terra, che
hanno legittimità da lui», De Sanctis segnala «l’immenso progresso» della «dottrina civile della distinzione de’ due reggimenti», con «la separazione della Chiesa
dallo Stato, l’indipendenza e l’affrancamento del laicato, un Imperatore che è da
Dio così immediatamente come il Papa».
La dottrina civile di Dante «non era passato, né presente» bensì «l’avvenire» e
nel tempo prese diversi nomi: la Riforma in Germania prima, che «ha raggiunto lo
scopo con una rivoluzione radicale, con lo scisma, con la negazione del Papato», la
Chiesa gallicana in Francia poi, che «si è adoperata, opponendo privilegi a privilegi, privilegi suoi a’ privilegi di Roma». Infine nel presente e in Italia la dottrina civile
di Dante ha un solo nome, abolizione del potere temporale:
l’Italia accetta non pure il fine, ma i mezzi proposti da Dante, e vuol conservato il Papato nella pienezza della sua sovranità spirituale, ma risecandone ogni temporalità, come
ad esso estranea e dannosa.42
40
41
42
Ivi, p. 412.
Storia, XV, par. 16, p. 607.
De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, cit., p. 413.
505
PASQUALE SABBATINO
Con la dottrina civile di Dante, lungo i binari della storia e della letteratura, «si
legano presso noi per una non interrotta tradizione Machiavelli, Savonarola, Sarpi, Giannone, Mazzini, Gioberti, Cavour». Ecco, in questo elenco, il filo rosso della
storia e della letteratura, da Dante all’Ottocento.
Il pensiero civile di Dante, corrispondente alla «parte più viva e popolare» del
poema, è stato impresso dagli Italiani, «poco curanti di astruserie e allegorie», nella
loro «memoria, come un sacro mandato del loro gran Cittadino». E qualsiasi trattativa con la Roma dei Papi appare immediatamente agli italiani «l’abdicazione del
pensiero nazionale, la negazione di Dante».
Non richiede molto spazio a De Sanctis la parte dell’articolo dedicata all’«unificazione delle genti italiane». Se questo secondo concetto non ha molta importanza per la critica straniera, diventa «il Verbo», «la parola di vita» per la critica
italiana:
Municipi liberi ed autonomi significava per Dante: anarchia e debolezza; e mentre i
più de’ suoi contemporanei vedevano questo o quel municipio, egli abbracciò nel grande
animo tutta l’Italia, e flagellò con indignazione immortale le divisioni municipali, fino in
quelle differenze che pur sono naturali, le differenze dei dialetti.43
Dall’analisi fin qui condotta, derivano le conclusioni: le due idee di Dante furono e sono «le due idee più care agli italiani», l’obiettivo politico da raggiungere
e conservare. Così l’Unità d’Italia si fonda sia sull’«emancipazione dallo straniero», sia sull’«emancipazione dal clero».
Infine il pensiero dantesco, nella sua sostanza, «oltrepassa l’Italia» e diventa
europeo. Infatti il futuro edificio della «federazione europea, che è nell’animo de’
più nobili pensatori moderni», viene disegnato in modo propiziatorio da De Sanctis
sulle due colonne portanti del pensiero dantesco, da una parte l’affrancamento del
laicato e dall’altra la liberazione dei popoli dallo straniero e l’affratellamento e l’unificazione delle razze, un processo quest’ultimo analogo alla liberazione e all’unificazione dell’Italia.
In questa prospettiva, le due idee di Dante, oramai «parte della vita italiana»,
acquistano una dimensione europea, diventano «le basi del mondo moderno» e
offrono «la chiave del nostro avvenire».
4. L’utopia dantesca si incarna nella storia politica e nella storia letteraria
I due articoli del 1865 attingono dalle lezioni torinesi e zurighesi di De Sanctis
e prefigurano l’impianto ideologico della Storia della letteratura italiana, scritta tra
il 1869-1871, dopo i saggi sulla Storia della letteratura italiana (Firenze, Le Monnier, 1865) del clericale Cesare Cantù e sulle Lezioni di letteratura italiana (Napoli,
dal 1866 al 1872, prima presso Ghio e Morano, poi presso il solo Morano) di Luigi
Settembrini.
Nella Storia Dante e la Commedia, l’autore e l’opera, sono rispettivamente il solo
protagonista e l’unico modello, come ha scritto Aldo Vallone,44 e il concetto dante43
Ivi, p. 414.
A. Vallone, De Sanctis e Dante, in Profili e problemi del dantismo otto-novecentesco, Napoli, Liguori, 1985, pp. 118-19: «Dante è il protagonista in senso assoluto, senza alcun comprimario; e la Commedia, non un’opera, come altre (Decamerone, Canzoniere, ecc.), ma l’unico modello: autore ed opera,
44
506
DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
sco di patria e di coscienza civile diventano il punto più alto di riferimento rispetto
al quale misurare tutti gli autori della letteratura italiana, dal Trecento all’Ottocento,
da Petrarca e Boccaccio a Parini, Foscolo e Leopardi.
Il punto di snodo, secondo De Sanctis,45 è il trattato De Monarchia, nel quale
viene elevato a sistema «l’utopia dantesca o piuttosto ghibellina» dell’indipendenza dei due poteri, entrambi «‘organi di Dio’ sulla terra, di diritto divino, con gli
stessi privilegi, ‘due soli’, che indirizzano l’uomo, l’uno per la celeste, l’altro per la
terrena felicità». Dell’utopia ghibellina Dante diviene «il filosofo» e nell’utopia
dantesca De Sanctis vede affermata l’idea dell’affrancamento del laicato, che si
incarnerà nella storia.
Inoltre nel secondo libro della Monarchia, Dante manifesta l’utopia della nazione italiana e della confederazione europea delle nazioni. Infatti, dopo aver dimostrato che «la monarchia romana fu di tutte perfettissima»,46 che Roma deve
essere capitale del mondo «per diritto divino» e ancora che la giustizia e la pace si
possono realizzare in questo mondo solo con «la ristaurazione dell’impero romano, ‘la monarchia predestinata’ (Convivio, IV, V, 4)», Dante sposta l’obiettivo dall’insieme dell’impero a una sua parte, anzi la sua «più bella parte, il giardino, [...]
l’Italia».47 E su questa immagine De Sanctis commenta:
In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto l’avvenire: ci
era l’affrancamento del laicato, e l’avviamento a più larghe unità. I guelfi si tenevano chiusi
nel loro comune; ma qui al di là del comune vedi la nazione, e al di là della nazione l’umanità, la confederazione delle nazioni.
Poi conclude:
Era un’utopia che segnava la via della storia.48
E, possiamo aggiungere, era un’utopia che segnava la via della Storia della letteratura italiana di De Sanctis.
Sono queste passioni politiche che Dante porta nel «mondo vivente» della Commedia. Infatti il regno di Dio – come viene sviluppato nel cap. VII. La “Commeinsieme, formano un mondo complesso e inscindibile, ove tempo ed eternità, umano e divino, arti e
scienze, storia e fantasia divengono realmente poesia. Su questa base poggia l’edificio del futuro. ‘In
quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive [...];
quel mondo [...] si chiama letteratura moderna’. Può sembrare così che la dinamica del presente verso
il passato si traduca quasi in staticità del presente verso il futuro. Dante, allora, protagonista modello
ed esemplare, gli si pianta nella coscienza: diviene esso stesso una forza morale assoluta e intraducibile.
S’è così (ed è assurda la identificazione, perché, tutt’al più, è possibile accostarsi al modello, come accade a Parini e Alfieri) è bene; se così non è, allora si apre tutta una catena di dislivelli e limitazioni,
piuttosto degradanti verso l’equivoco e il fragile, che ascendenti verso la saldezza morale e l’impegno
civile. Nasce qui, in Dante e a fronte di Dante, il concetto di ‘coscienza’ e ‘serietà’ o ‘sincerità’, che nutre
le pagine della Storia della letteratura italiana: tutt’uno con quello di spirito nazionale e indigeno: e l’uno
e l’altro sono di forte sapore laico e civile e di netta presa di posizione non solo contro le mode letterarie e le invenzioni formalistiche, ma anche contro l’esterofilia e le piaggerie». Si veda inoltre C. Calenda, Dal De Sanctis dantista al “Dante di De Sanctis”, in La nuova scienza come rinascita dell’identità
nazionale: la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870-2010), a cura di T. Iermano
e P. Sabbatino, cit., pp. 149-61.
45
Storia, VI, par. 9, p. 157.
46
Ibidem.
47
Ivi, VI, par. 9, p. 158.
48
Ibidem.
507
PASQUALE SABBATINO
dia”, par. 3 – è sul piano allegorico «questo mondo stesso nel suo aspetto etico e
morale, è l’etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della
filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace».49 E la rappresentazione dell’altro mondo, con i suoi tre regni e tre stati, è «figura della morale» dell’individuo (dal male al bene, dal vizio alla virtù mediante pentimento e penitenza), «un’etica applicata, una storia morale dell’uomo, com’egli la trova nella sua
coscienza», vale a dire che «ciascuno ha dentro di sé il suo inferno e il suo paradiso».50 Inoltre la rappresentazione dell’altro mondo è figura della morale collettiva,
una storia morale della società umana, che è «corrotta e discorde», ma «può aver
pace» solo con l’instaurazione del «regno della giustizia o della legge» e con il passaggio «dall’arbitrio de’ molti sotto unico moderatore», secondo «la tradizione
virgiliana».51
Nella rappresentazione dell’altro mondo, allora, entra la politica di questo
mondo:
La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl’individui. La società
serva della materia è anarchia, discordia, sviata dall’ignoranza e dall’errore. E come l’uomo non può ire a pace, se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione, così la società non
può ridursi a concordia, se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l’imperatore) che faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell’appetito.52
Certo, la visione politica di Dante si muove nell’ambito della visione cristiana
del mondo, anzi ne è «parte sostanziale».53 Ci si trova, così, di fronte a un «mondo
cristiano-politico», di cui Dante è innanzitutto «l’apostolo e la vittima», in quanto
«uomo e cittadino», e nel contempo è anche «giudice». Per questo egli non può
essere Omero, «contemplante, sereno e impersonale», anzi è «centro vivente di tutto
quel mondo», nel quale vive e opera con fede e ragione, per cui «le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue».54
Per questa strada la visione cristiana non può più rimanere sul piano contemplativo, «nella sua generalità religiosa, com’è nei cantici, nelle prediche e ne’ misteri e leggende», anzi «cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale», per cui
santi e credenti, da Francesco d’Assisi a Caterina da Siena, protesi verso la «perfezione religiosa» consistente «nel dispregio de’ beni terreni», combattevano con
severità e indignazione contro «i costumi licenziosi de’ chierici e de’ frati», contro
«la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno», contro «il papa
divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co’ re».55
A una grande fede corrisponde una grande indignazione, nei santi e in Dante.
È il caso, ad esempio, della voce che Dante alza con fermezza nella Commedia contro
Bonifacio VIII, che consuma l’adulterio con Filippo il Bello contro l’imperatore e
invia a Firenze Carlo di Valois per «cacciarne i Bianchi» e «instaurarvi i guelfi».
Qui siamo giunti all’origine della tragedia italiana.
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DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
La vittoria dei guelfi segna per De Sanctis l’inizio della decadenza, la quale attraverserà la nostra storia e la nostra letteratura, e l’inizio della «deformazione del
carattere nazionale», che il critico (in sintonia con i democratici) fa risalire proprio
«all’‘ipocrisia abituale’ acquisita lungo il non breve ‘processo’ di quell’antica decadenza», come ha scritto Maria Teresa Lanza.56 L’intreccio tra la vittoria guelfa e
l’inizio della decadenza con l’indebolirsi e lo svuotamento della coscienza viene
ripreso e ribadito anche nel capitolo sul Boccaccio. Nel corpo della scrittura critica si sentono le pulsazioni del cuore:
la cultura, in luogo di calare in quel mondo e modificarlo, e trasformarlo, e riabilitarlo
nella coscienza, come fu più tardi in Germania, si collocò addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, impiegò la sua attività ne’ piaceri dell’erudizione e dell’arte. Così quel
mondo si trovò fuori della coscienza, senza lotta intellettuale, anzi rimanendo ozioso padrone dell’intelletto. Ci erano anche allora i liberi pensatori, soprattutto ne’ conventi, ma
erano sforzi isolati, scuciti; una lotta più seria era stata iniziata da’ ghibellini; ma la rotta di
Benevento e il trionfo durevole de’ guelfi avea posto fine alla discussione e all’esame. Gli
uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose di fede lasciar dire il
papa, e vivere a modo loro. Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Finirono le
lotte e le discussioni; successe l’indifferenza religiosa e politica, fra tanto fiorire di cultura,
di erudizione, di arte, di commerci e d’industrie. Ci erano tutti i segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza dell’antichità, un gusto più fine e un sentimento artistico
più sviluppato, una disposizione meno alla fede, che alla critica e all’investigazione, minor
violenza di passioni, maggiore eleganza di forme: l’idolo di questa società dovea essere il
Petrarca, nel quale riconosceva e incoronava sé stessa. Ma sotto a quel progresso v’era il
germe di una incurabile decadenza, l’infiacchimento della coscienza.57
Contro il guelfismo, – per Dante «la Chiesa, fatta meretrice del re di Francia,
che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte
le discordie civili», – De Sanctis lancia parole durissime, accusando la Chiesa di
essere, per il suo «potere e interesse temporale», sia «radice e causa della corruzione del secolo», sia ostacolo «alla costituzione stabile delle nazioni» e in particolare
della nazione italiana nell’unità civile dell’impero, la cui armonia è a immagine
«dell’unità del regno di Dio».58
La decadenza morale e civile ha una lunga parabola nella Storia di De Sanctis e
va dal Trecento all’inizio del Settecento, da Petrarca e Boccaccio fino all’Accademia dell’Arcadia.59 La mappa storica e geografica dell’Italia dei letterati, disegnata
dal critico, è caratterizzata dalla perdita del concetto dantesco di patria. Tuttavia,
secondo De Sanctis, nell’Italia dei letterati mette le radici il movimento del vero
rinnovamento, che pone nuovamente al centro la patria. In particolare con il Machiavelli: nella sua opera si pongono «le fondamenta del nuovo», si scopre «un
mondo nuovo in opposizione all’ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza», e si
avvia finalmente la «prima ricostruzione della coscienza» nazionale, la sola strada
che porta al risorgere della letteratura, alla «nuova letteratura».60
56
Cfr. Lanza, Introduzione a F. De Sanctis, L’arte, la scienza e la vita. Nuovi saggi critici, conferenze
e scritti vari, a cura di M. T. Lanza, cit., p. XXVI.
57
Storia, IX, parr. 2-3, p. 321.
58
Ivi, VII, par. 8, p. 185.
59
Cfr. P. Sabbatino, Letteratura e «risurrezione della coscienza nazionale». Le occorrenze di Risorgimento e Rinascimento nella Storia di Francesco De Sanctis e il Rinnovamento dei tempi moderni, in La
nuova scienza come rinascita dell’identità nazionale: la Storia della letteratura italiana di Francesco De
Sanctis (1870-2010), a cura di T. Iermano e P. Sabbatino, cit., pp. 53-88.
60
Storia, XIX, par. 1, p. 739.
509
PASQUALE SABBATINO
Se nell’utopia dantesca l’Italia è «il giardino dell’impero [Purg., VI, 105]», annota De Sanctis, nell’utopia del Machiavelli, che ha allargato il suo orizzonte dal
comune allo stato italiano «baluardo» contro le invasioni e il dominio degli stranieri, l’Italia intera diventa la patria, la nazione da fondare sui principi dell’autonomia e dell’indipendenza.61 Tutto, dunque, ruota attorno alla patria e la virtù per
Machiavelli è la vita attiva in servizio della patria, per cui il tipo morale non è più
il santo bensì il patriota.62
Da allora, alla scuola di Dante e alla scuola di Machiavelli, l’altra Italia, – quella
dei pensatori come Bruno e Campanella, degli storici come Sarpi, degli scienziati
come Galilei, dei filosofi come Vico, degli scrittori (non letterati) come Pietro
Giannone, Beccaria e Filangieri, in opposizione lenta prima e poi crescente all’Italia dei letterati –, declina nei diversi generi la patria.63 Nasce così la nuova letteratura, di cui Goldoni «riuscì il Galileo».64 Parini, che fu «l’uomo nuovo», ebbe la
patria come «sua legge», la nazione come «suo dio», la libertà come «sua virtù».65
Foscolo «si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della
patria di Dante e di Alfieri».66
Questa breve, anzi rapidissima rassegna (richiede da sola una relazione), accende
la spia luminosa della modernità di Dante, che è tale perché getta il seme che nei
secoli successivi sarà accolto e sviluppato. Infatti i tempi moderni hanno svolto nella
letteratura il valore della patria e hanno realizzato nella storia lo Stato italiano e gli
altri stati nazionali nell’unione europea, e Dante è il poeta della patria italiana e
della confederazione delle nazioni.
Stando così le cose nella Storia desanctisiana, il «mondo» dantesco appare, nel
finale del cap. VII. La “Commedia” , come «un volume non squadernato», cioè un
libro che lega al proprio interno in una unità quella molteplicità che si può osservare squadernata e dispersa nell’universo della letteratura moderna, alla stessa
maniera di Dio che in Par., XXXIII, 85-87 («Nel suo profondo vidi che s’interna,
/ legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna») appare a
Dante come un volume unico, una unità fatta d’amore del molteplice, che si può
osservare squadernato e disperso nell’universo:
Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato. È un mondo pensoso,
ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là
vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all’analisi,
umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.67
Il traguardo del cap.VII. La “Commedia” offre la chiave di lettura dei successivi tredici capitoli, che vanno da Trecento al primo Ottocento, attraversati dal critico per analizzare in che misura i secoli scavano nelle «profondità» della Divina
61
Ivi, XV, par. 5, p. 568.
Ivi, XV, par. 7, p. 575.
63
Cfr. P. Sabbatino, La “Storia” di Francesco De Sanctis e gli scrittori della “nuova Italia”, negli atti
del convegno Materiali per costruire il paese (Società napoletana di Storia Patria, aprile 2011), in corso
di stampa nell’«Archivio Storico per le Province Napoletane».
64
Storia, XX, par. 14, p. 896. Cfr. P. Sabbatino, Il ‘Galileo’ del nuovo teatro. Appunti sulla fortuna
di Goldoni a Napoli nell’Ottocento, «Rivista di letteratura teatrale», 2010, n. 3, pp. 55-62.
65
Storia, XX, par. 17, pp. 908-12.
66
Ivi, XX, par. 20, p. 932.
67
Ivi, VII, par. 46, p. 283.
62
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DANTE E L ’IDENTITÀ DELLA NUOVA ITALIA IN FRANCESCO DE SANCTIS
Commedia e per delineare le fasi e le modalità della crescita di quei semi della
modernità gettati da Dante nel poema.
Infine, nel finale della Storia, esaurito il processo risorgimentale e «sformato il
mondo intellettuale e politico»68 che lo ha animato, De Sanctis dal presente di
un’Italia ormai unita e nazione scruta il futuro, alla ricerca di «un nuovo orizzonte», quello dell’Italia dentro l’Europa, quello dell’identità nazionale dentro la civiltà europea, di cui la letteratura deve essere espressione. Per delineare e costruire il nuovo orizzonte, De Sanctis leopardianamente invita l’Italia a guardarsi dentro,
a «cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro», a
rifare «la sua cultura», a restaurare «il suo mondo morale», a ritrovare «nella sua
intimità» le vere fonti d’ispirazione. E tra queste fonti, ricongiungendosi idealmente
a Dante, il protagonista della Storia, De Sanctis addita la patria.
Nel futuro dell’Italia, dunque, c’è ancora la patria, una comunità territoriale e
soprattutto politica, la cui identità, per dirla con Ezio Raimondi, «non è infatti
conclusa», anzi, come ancora tocchiamo con mano dopo centocinquanta anni dall’Unità, «deve essere conquistata».69
Pasquale Sabbatino
68
69
Ivi, XX, par. 27, p. 974.
E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 27.
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FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI MARZO 2013
PER CONTO DELLA
CASA EDITRICE LE LETTERE
DALLA TIPOGRAFIA ABC
SESTO FIORENTINO - FIRENZE
issn 1724-6164
issn elettronico 1824-1948
STUDI
RINASCIMENTALI
Rivista internazionale di letteratura italiana
10 · 2012
estr atto
PISA · ROMA
FABRIZIO SERRA EDITORE
MMXII
Direttori scientifici / Editors
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editrice, alle norme specificate nel volume Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali,
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RISORGIMENTO, RINASCIMENTO E RINNOVAMENTO
NELLA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
DI FRANCESCO DE SANCTIS
Pasquale Sabbatino
Università degli Studi di Napoli «Federico II»
1. Il lessico critico di De Sanctis tra oscillazioni e incertezze
D
urante il secondo Ottocento si registrarono in Europa due eventi editoriali che contribuirono alla progressiva diffusione e poi alla piena affermazione della voce Rinascimento: Jules Michelet intitolò il volume vii della Histoire de France, dedicato al xvi secolo, Renaissance (Paris, Chamerot, 1855) e Jacob Burckhardt pubblicò Die Kultur der
Renaissance in Italien (Basilea, Schweighauser, 1860), di cui la seconda edizione (1869) fu
tradotta da Diego Valbusa con il titolo La civiltà del Rinascimento in Italia (2 voll., Firenze,
Sansoni, 1876).1 Dapprima la voce Rinascimento fu accolta parallelamente al termine
equivalente Risorgimento, fino allora largamente (se non esclusivamente) usato,2 e poi
ne prese il posto.3
Nel contesto del primo ventennio del secondo Ottocento, caratterizzato dall’oscillazione tra le voci Risorgimento e Rinascimento, va collocato e analizzato il caso, singolare ed emblematico, della Storia della letteratura italiana (Napoli, Morano, 1870-1872)4 di
Francesco De Sanctis,5 un protagonista dell’Unità d’Italia che, al termine del processo
storico e politico risorgimentale, attraversa i secoli della letteratura in lingua italiana alla
ricerca degli autori e dei testi che hanno rappresentato la genesi e lo sviluppo dell’idea di
patria e raccontato la fondazione e la crescita della coscienza nazionale.6 Il critico-patriota ritiene che in Italia la letteratura, come la filosofia, ha «la sua leva fuori di lei» e «intor-
1 Si veda l’edizione del 1968, con l’introduzione di E. Garin.
2 È opportuno segnalare la pubblicazione di G. Voigt, Die Wiederbelebung des Classischen Alterthums oder das erste Jahrhundert des Humanismus, Berlin, Reimer, 1859, che fu tradotta, dopo ca. tre decenni, da D. Valbusa con il titolo Il Risorgimento dell’antichità classica, ovvero Il primo secolo dell’umanismo, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1888-1890.
3 Sulla questione terminologica e relativa bibliografia cfr. P. Sabbatino, Rinascimento, Risorgimento e Alto Evo Moderno nella
storiografia letteraria tra Otto e Novecento, in Medioevo e Rinascimento nella storiografia letteraria italiana tra Otto e Novecento, Atti
del Convegno (Cassino, 27-28 aprile 2010), a cura di T. Iermano, P. Sabbatino, «Studi rinascimentali», 8, 2010, pp. 37-55 (si
riprende e aggiorna il saggio Risorgimento e Rinascimento. La questione terminologica tra Ottocento e Novecento, in La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo, ii, Il Novecento, Napoli, Liguori, 2002, pp. 1-34).
4 Sulla Casa editrice cfr. L. Mascilli Migliorini, Una famiglia di editori. I Morano e la cultura napoletana tra Otto e Novecento, Milano, FrancoAngeli, 1999.
5 Si cita da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, con una nota introduttiva di C. Muscetta, 2 voll., Torino, Einaudi, 1971 (per agilità si indicheranno solo i capitoli, che sono autoriali, e i relativi paragrafi, che sono stati aggiunti nelle edizioni moderne). I primi dieci capitoli vanno dai Siciliani all’«ultimo trecentista»,
Franco Sacchetti, che era «nella sua mediocrità la vera eco del tempo» (p. 385). Se il Duecento si chiude con Cino da Pistoia,
Guido Cavalcanti e Dante «già adulti e chiari», con «un’aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una nuova era» (p.
391), il Trecento termina «come un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco pensa: Chi sa se tornerà il sole». Ben
sette capitoli su venti sono dedicati al Rinascimento: xi, Le “Stanze”; xii, Il Cinquecento; xiii, L’“Orlando Furioso”; xi, La “Maccaronea”; xv, Machiavelli; xvi, Pietro Aretino; xv, Torquato Tasso. Intorno al Seicento gravita il cap. xviii, Marino e gli ultimi due
capitoli, il xix e il xx, svolgono rispettivamente le tematiche che De Sanctis pone al centro e al traguardo: La nuova scienza e La
nuova letteratura. Si segnala la ristampa anastatica della prima edizione, con una nota di F. Tessitore (Napoli, Morano, 1985).
6 Su questi temi mi sia concesso di rimandare agli altri due interventi (in corso di stampa) del mio trittico desanctisiano
e alla relativa bibliografia: «Noi volevamo una patria, e la patria fu per noi tutto». Dante e l’identità della nuova Italia nella “Storia”
di De Sanctis (convegno Culto e mito di Dante dal Risorgimento all’Unità, Firenze, 23-24 novembre 2011) e Materiali per costruire il
Paese. Storie letterarie e collane di classici italiani da Francesco De Sanctis a Benedetto Croce, Convegno Materiali per costruire il Paese
(Napoli, 4-5 aprile 2011).
«studi rinascimentali» · 10 · 2012
122
pasquale sabbatino
no a lei», cioè nella «sfera» politica «della libertà e della nazionalità»,1 per cui la storia della letteratura ha il compito di ricostruire la biografia e la biblioteca della nazione.
Nella Storia il vocabolario critico di De Sanctis ha un moto pendolare tra Rinascimento e Risorgimento, due voci che svolgono la stessa funzione periodizzante e circoscrivono la prima fase dell’età moderna (da Petrarca e Boccaccio al secolo xvi).2 Tuttavia, come
dimostra la dettagliata analisi delle singole occorrenze, non mancano incertezze e sovrapposizioni.
È il caso del cap. viii Il “Canzoniere”, par. 2, in cui De Sanctis sostituisce Rinascimento o Risorgimento con Rinnovamento, una voce che poi negli ultimi capitoli dell’opera
diviene categoria storica per denominare il movimento filosofico e letterario sviluppatosi tra Settecento e Ottocento, ma con radici nel Cinquecento e Seicento. L’«aurora del
Rinnovamento» (con l’iniziale maiuscola), scrive De Sanctis, appare all’orizzonte con la
ricerca umanistica avviata pioneristicamente da Petrarca, l’uomo della transizione, grazie al quale «l’Italia volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava sé
stessa, e si affermava popolo romano e latino».3 Nell’età del Rinnovamento – termine
che qui ha lo stesso valore di Risorgimento e Rinascimento – si ebbe la «risurrezione
dell’antica Italia», la lingua latina fu sentita «non solo lingua de’ dotti, ma lingua nazionale» e la storia di Roma fu identificata dagli italiani sempre più con «la loro propria storia». Così la «coscienza pubblica» sentì il poema Africa come «la vera Eneide, la grande
epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo
Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale». E Petrarca, il «nuovo Virgilio»
dell’epica nazionale, a Napoli fu esaminato da re Roberto D’Angiò nel febbraio del 1341
e a Roma, in Campidoglio, ebbe la corona di «principe de’ poeti», nell’aprile dello stesso
anno.4
In un altro caso, il cap. xviii Marino, par. 8, troviamo insieme le voci risorgimento e rinnovamento (con le iniziali minuscole), coordinate dalla congiunzione disgiuntiva o, che
in questo caso propone la pari opportunità tra i due termini nell’indicare il passaggio
socio-culturale, già pienamente realizzato nel Cinquecento, dall’«altro» mondo del
Medioevo, la prima età, al «nuovo» mondo della seconda età, dalla «barbarie» al «mondo
dell’arte e della natura».5
Invece, nel cap. xix La nuova scienza, par. 20, De Sanctis utilizza la voce risorgimento
(iniziale minuscola) per indicare l’autore e il testo con i quali la filosofia, partendo da Bruno e Campanella e sviluppandosi con Bacone e Cartesio, finalmente realizza «l’ideale del
suo risorgimento»:6 così Locke diviene il Galileo del nuovo movimento di idee e il suo
1 Storia, xx, par. 27, p. 974.
2 Cfr. G. Toffanin, De Sanctis e il Rinascimento, «La Rinascita», iv, 18 marzo 1941, pp. 169-205; D. Cantimori, De Sanctis e
il “Rinascimento” [1953], in Studi di storia, ii, Umanesimo, Rinascimento, Riforma [1959], Torino, Einaudi, 19762, pp. 321-339, e in
Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, pp. 578-596; M. Biscione, Rinascimento e Risorgimento: F. De Sanctis, in Neo-umanesimo e
Rinascimento. L’immagine del Rinascimento nella storia della cultura dell’Ottocento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962, pp.
139-181; C. Vasoli, Umanesimo e Rinascimento, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 162-168; Interpretazioni del Rinascimento, a cura di
A. Prandi, Bologna, il Mulino, 1971, in part. il saggio di P. O. Kristeller, Le interpretazioni della civiltà del Rinascimento dopo
Burckhardt, pp. 165 sgg.; G. Guglielmi, Da De Sanctis a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna, il Mulino, 1976, pp. 15-125; F.
Tateo, Gli studi rinascimentali, in De Sanctis e il realismo, Napoli, Giannini, 1978, i, pp. 399-427; G. Savarese, De Sanctis e i problemi dell’Umanesimo, in Francesco De Sanctis nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Roma-Bari, Laterza, 1984, i, pp. 279300; E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 8-15 (Le tre forme dello spirito nel Rinascimento); G. M. Barbuto, Ambivalenze del moderno. De Sanctis e le tradizioni politiche italiane, Napoli, Liguori, 2000, in part. pp.
46-53 (Rinascimento desanctisiano: un ossimoro storiografico); A. Palermo, Il ‘Rinascimento’ e l’invenzione della “Storia della letteratura italiana”, «Studi rinascimentali», 1, 2003, pp. 161-165; T. Iermano, Francesco De Sanctis, la “Storia della letteratura italiana” e
il Rinascimento, negli Atti del Convegno Medioevo e Rinascimento nella storiografia letteraria italiana tra Otto e Novecento (Cassino,
27-28 aprile 2010), a cura di T. Iermano, P. Sabbatino, «Studi rinascimentali», 8, 2010, pp. 15-35, poi in T. Iermano, “Era il popolo
meno serio del mondo e meno disciplinato”: Risorgimento e Rinascimento nella “Storia della letteratura italiana”, in La prudenza e
l’audacia. Letteratura e impegno politico in Francesco De Sanctis, Napoli-Roma, L’ancora del Mediterraneo, 2012, pp. 75-104.
3 Storia, viii, par. 2, p. 289.
4 Ivi, iii, par. 2, p. 290.
5 Ivi, xviii, par. 8, p. 712.
6 Ivi, xix, par. 20, p. 809.
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
123
rivoluzionario Saggio sull’intelletto umano (1690) la carta costituzionale degli uomini nuovi
cittadini del mondo moderno.
2. Le occorrenze di Risorgimento
Il termine tradizionale Risorgimento (con l’iniziale maiuscola o minuscola) ricorre 18 volte (1 nel cap. iv, La prosa, par. 2; 3 in xi, Le “Stanze”, par. 6; 1 in xii, Il Cinquecento, par. 13; 3
in xiii, L’“Orlando furioso”, di cui 2 nel par. 10 e 1 nel par. 11; 6 in xv, Machiavelli, di cui 3 nel
par. 4, 2 nel par. 7 e 1 nel par. 14; 1 in xvii, Torquato Tasso, par. 12; 1 in xviii, Marino, par. 8; 2
in xx, La nuova letteratura, parr. 17 e 25)1 per indicare sia il risorgere dei classici nella nuova
Italia che, voltando le spalle al Medioevo, ritrova se stessa e riprende le sue tradizioni, sia
il periodo storico di tale processo, che va dalla «nuova generazione»2 apparsa sulla scena
dopo la morte di Dante, con l’affermazione dei primi puristi e letterati capitanati da Petrarca e Boccaccio,3 fino al Cinquecento. In aggiunta, solo in xix, La nuova scienza, par. 20,
la voce risorgimento (con l’iniziale minuscola) – è la diciannovesima occorrenza – viene
utilizzata in un altro contesto, quello del movimento delle idee lungo il Seicento, un processo filosofico che parte da Giordano Bruno e Tommaso Campanella, trova il suo Galileo
in Locke e realizza «l’ideale del suo risorgimento» nel Saggio sull’intelletto umano (1690).4
La prima occorrenza di Risorgimento è nel cap. iv, La prosa, par. 2, dove, a proposito
della scarsa fortuna nella nostra Penisola della prosa cavalleresca che non fu «popolare» e
non assurse a «lavoro d’arte» perché si manifestò quando «lingua e arte erano ancora nell’infanzia» e fu nelle mani di «illetterati», come documenta la raccolta anonima Libro di
novelle et di bel parlar gientile composta nell’ultimo ventennio del Duecento e chiamata da
Giovanni Della Casa il Novellino, De Sanctis coglie l’occasione per annunciare che sarebbe «sopravvenuto in breve tempo» in Italia «il risorgimento de’ classici e il rifiorire delle
scienze», un processo sempre più montante, che «trasse a sé l’animo delle classi colte».5
Nel cap. xi, Le “Stanze”, par. 6, De Sanctis formula il concetto di risorgimento dell’arte e orgoglio della cultura al tempo del Poliziano. Nel «mondo della pura forma», argomenta De Sanctis, nella società «erudita, artistica, idillica, sensuale», che è stata «abbozzata» dal Boccaccio, Poliziano assurge a «modello ideale» e l’Orfeo («un mondo di pura
immaginazione») viene elevato a mito di una «generazione, caduta così in basso, fiacca di
tempra e vuota di coscienza», una generazione che trova «la sua idealità, il suo divino»
nell’«orgoglio della coltura», nel sentimento e nel mondo della bella forma. Così il personaggio Orfeo è il nunzio e l’emblema del Risorgimento, voce che ricorre ben tre volte nel
seguente stralcio:
Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è più lotta. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio
evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne’ misteri, è un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie. E non
ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova. Il sentimento della bella forma, già così grande
nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale correvano
faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da’ primi anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato là
dentro, e ne ha non solo la conoscenza ma il gusto. Questo era la coltura, l’umanità, il risorgimento, orgoglio di una società, erudita, artistica, idillica, sensuale […]. E che cosa è l’Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell’Ameto canta la fine della barbarie, e il regno della coltura
1 La voce Risorgimento è presente due volte nel sommario della materia premesso ai singoli capitoli dell’ed. Einaudi
curata da N. Gallo: cfr. xiii, L’“Orlando furioso” («11. […] L’Orlando Furioso sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze:
il passato ricomposto come arte e perseguitato dall’ironia, organismo estetico del mondo ariostesco»); xv, Machiavelli («4. […]
Contenuto politico della negazione del Machiavelli, che è insieme negazione del medioevo e del Risorgimento: la riabilitazione della vita terrena, della cosa effettuale, di contro al mondo dell’immaginazione, come religione e come arte»).
2 Ivi, viii, par. 1, p. 287.
3 Ivi, pp. 287-288.
4 Ivi, xix, par. 20, p. 809.
5 Ivi, iv, par. 3, p. 86.
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o dell’umanità. Il rozzo Ameto educato dalle arti e dalle muse apre l’animo alla bellezza e all’amore, e
di bruto si sente fatto uomo. Atalante trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe, e v’introduce costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto dall’antichità
giovine e glorioso ne’ carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore dell’umanità col suono della lira e
con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la morte, e incanta l’inferno. È il
trionfo dell’arte e della coltura su’ rozzi istinti della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando
le leggi naturali, è dato in balìa all’ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il regno dell’umanità, o per dir
meglio, dell’umanismo. Questo è il mistero del secolo, è l’ideale del risorgimento. Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
L’Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico,
fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno
che Orfeo, le driadi, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno sono creature dell’immaginazione. A
quel modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co’ loro costumi e abiti
le ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la
cetra in mano, scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale! Redeunt saturnia
regna. Sembravano ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo,
nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà. Nel medio evo si dicea “vivere in ispirito”, ed era il
ratto dell’anima alienata da’ sensi in un mondo superiore. Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell’arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione. I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l’arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest’Orfeo! dove sotto forme antiche vive e si move quella società idealizzata
nell’anima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo
sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un’elegia, l’inno è un idillio; e n’esce un mondo
idillico-elegiaco, penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino a
che questo bel mondo dell’arte ti si disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore e l’ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo
mondo incantato, la cui quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne un’adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l’entusiasmo e l’ebbrezza di una società che ci vedea una così viva immagine di sé stessa. Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra’ più delicati profumi, a cui se troppo
ti accosti, ti fuggirà come Euridice. È un mondo che non ha altra serietà, se non quella che gli dà l’immaginazione; le passioni sono emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la
vita danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un’orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario rammorbidisce l’endecasillabo; la ballata dà le ali all’ottava; le rime si annodano ne’
più voluttuosi intrecci; ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope rinacque; così divenne il nunzio del risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Historia e
favola d’Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in
ottava rima. Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e
vessillo del secolo.1
Nel cap. xii, Il Cinquecento, par. 13 De Sanctis delimita le coordinate temporali della «grand’epoca, detta il Risorgimento» (la prima volta con l’iniziale maiuscola), che va da Boccaccio alla seconda metà del Cinquecento, segnata dalla perdita di «tutti gl’ideali, religioso, politico, morale» e dall’«amore della coltura e dell’arte», dalla noncuranza di un
contenuto vivente privo oramai di «alcun valore», dal gioco della immaginazione che crea
la materia, «un gioco che ha la sua idealità nell’ironia ariostesca, e trova la sua dissoluzio1 Ivi, xi, par. 6, pp. 406-409.
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ne nella caricatura della Maccaronea».1 A chiusura del cap. xii, inoltre, De Sanctis coglie le
tensioni del Risorgimento, tra immaginazione e osservazione, tra perdita del contenuto
vivente e affermazione della pura forma da una parte e dall’altra formazione di un nuovo
contenuto, la scienza, creazione di una nuova forma, la prosa, simboleggiata dalla Mandragola, che indica «un nuovo indirizzo» dell’arte e della letteratura. Da queste tensioni
del Risorgimento la necessità di studiare Ariosto (cap. xiii) e Machiavelli (cap. xv), i due
volti o autori di una stessa medaglia o di una stessa epoca, la «sintesi» di un tempo.
Con Ariosto siamo al culmine della vigoria dell’immaginazione e il suo Orlando Furioso realizza in pieno «la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del Risorgimento» (cap. xiii L’“Orlando furioso”, par. 10).2 Nel suo poema, con la rappresentazione di un «mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una
freschezza eterna, tolto alle ombre e a’ vapori e a’ misteri del medio evo, e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave», Ariosto raggiunge l’alta vetta di un «limpido mondo omerico» italiano, nel quale finalmente «il Risorgimento realizzava il suo sogno» e «la nuova letteratura avea trovato il suo mondo».3 Di fronte a un mondo generato
dall’immaginazione, che crea continui «ammassi» multiformi di nuvole e mette in scena
«magnifici spettacoli», Ariosto si sente da una parte come un «fanciullo», bisognoso «di
esercitare» la sua «immaginazione» e di formare «soldati e castelli» attorno ai quali fantasticare, e dall’altra come un uomo che ironicamente se la ride, che sogghigna, perché pienamente consapevole di essere l’artefice di un mondo immaginario, fatto di «soldati e castelli d’aria». E in questo mondo c’è «la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze»,
tra immaginazione e ironia.4
La voce Risorgimento ritorna ben sei volte nel cap. xv Machiavelli, creando un effetto
contrastivo, utile per meglio evidenziare che, nella stagione del Risorgimento dei classici
e del dominio della pura forma, Machiavelli incarna sia la «negazione del medio evo», sia
la «negazione del Risorgimento»5 e che l’uomo concepito dal Machiavelli «non ha la faccia
estatica e contemplativa del medio evo», né «la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento».6 L’uomo del Machiavelli, invece, ha «la faccia moderna dell’uomo che opera e lavora
intorno ad uno scopo», cioè «riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l’uomo nella sua serietà e nella sua attività».7
Frequente e sostanziale nell’opera del Machiavelli è il motivo della necessità di «giudicar le cose come sono, e non come debbono essere». Se nel Medioevo è il contenuto a
tendere verso il dover essere – precisa De Sanctis – e se «nel Risorgimento» è la forma a
tendere verso il dover essere, per Machiavelli occorre sostituire il dover essere con l’essere, con la «verità ‘effettuale’».8
In un serrato confronto tra Dante e Machiavelli,9 che in età diverse si rifanno al «mondo pagano», alla Roma antica, al classicismo latino, De Sanctis rileva ed elenca le differenze, in un crescendo che rafforza la definizione di Machiavelli come un «borghese del
Risorgimento, con quel suo risolino equivoco» e con quel suo «spirito ironico del Risorgimento», dai tratti tipici della modernità, un borghese abbigliato con il pallio romano e
adornato di gravità.10 Infatti, secondo De Sanctis, sotto la corteccia del classicismo di Dante si trova il nocciolo medievale, cioè misticismo e ghibellinismo, invece sotto la corteccia del classicismo di Machiavelli si trova il nocciolo dello «spirito moderno che ivi cerca
e trova sé stesso». Dante guarda alla «Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesa1 Ivi, xii, par. 13, pp. 489-490.
2 Ivi, xiii, par. 10, p. 528.
3 Ivi, p. 529.
4 Ivi, par. 11, p. 531.
5 Ivi, xv, par. 4, p. 566.
6 Ivi, p. 565.
7 Ivi, pp. 565-566.
8 Ivi, p. 566.
9 Cfr. A. Vallone, De Sanctis e Dante [1983], in Profili e problemi del dantismo otto-novecentesco, Napoli, Liguori, 1985, pp.
107-128.
10 Storia, xv, par. 7, p. 573.
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re» e ritiene che «le gloriose imprese della repubblica» siano «miracoli della provvidenza,
come preparazione all’impero», invece Machiavelli guarda alla «Roma repubblicana», giudica con severità Cesare, non crede nei miracoli anzi ritiene che questi altro non sono che
«i buoni ordini», infine dà scarso peso alla fortuna a tutto vantaggio della virtù:
[Machiavelli] Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove “non è cosa alcuna che gli ricomperi di
ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura” [Discorsi, II, proemio]. Crede con gli ordini e i costumi
di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell’antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell’ispirazione e
una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità, ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una
reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de’ tempi moderni.1
La definizione di Machiavelli borghese del Risorgimento vestito con il pallio romano riporta il lettore della Storia al punto di vista romantico-risorgimentale di De Sanctis, il quale è saldamente convinto che il popolo italiano è oramai divenuto nazione con la guida
della borghesia, il ceto sociale che per l’appunto appare sulla scena politica e culturale, durante il Cinquecento, con Machiavelli. Da qui la passione dell’intellettuale De Sanctis nell’annunciare il sorgere della Nazione e della Patria proprio con Machiavelli, il quale non
si limita a prendere atto del crollo del Medioevo ma afferma la nascita del moderno, non
si limita a constatare che è definitivamente caduto il vecchio mondo ma annuncia che è
giunto il tempo per il «rinnovamento» del mondo. Il nuovo mondo si fonda sull’«autonomia» e sull’«indipendenza dello stato», sull’ente nascente della Nazione, la quale si configura con «i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini», a differenza del
mondo medievale che si fondava sulla «teocrazia», sulle «due unità politiche» dell’Impero
e della città. Nella sorgente e moderna Nazione, Machiavelli separa nettamente «dalla religione ogni temporalità» e combatte fermamente «la confusione» dei due poteri – in questo Machiavelli è sulla stessa lunghezza d’onda di Dante –, anzi va oltre e ritiene che la religione, operante solo sul piano spirituale, possa diventare «istrumento di grandezza
nazionale» e che la Chiesa «dipendente dallo stato» possa essere «accomodata a’ fini e
agl’interessi della nazione».2 Inoltre per Machiavelli, borghese del Risorgimento, la modernità trae ispirazione da Lia, la vita attiva, secondo l’esegesi biblica (Genesi, xxix-xxx)
ripresa da Dante (Inf., ii, 102; Purg., xxvii, 100-108; Par., xxxii, 8-9), la virtù al servizio della
patria, mentre il Medioevo si ispirava a Rachele, la vita contemplativa e ascetica. Il vero
protagonista ed eroe della società moderna, dunque, è il patriota, che prende il posto del
santo, protagonista del Medioevo.
Il confronto tra Dante e Machiavelli viene ripreso nel par. 14, ma questa volta per
evidenziarne la «parentela» nella ricerca della commedia. Tuttavia se Dante nato nel Medioevo cerca la commedia divina, Machiavelli, «un Dante nato dopo Lorenzo de’ Medici»
e «nutrito dello spirito del Boccaccio», di continuo «si beffa della Divina Commedia» ed è
alla ricerca della «commedia in questo mondo», tra l’utopia della liberazione dell’Italia dai
barbari, come grida Petrarca nella canzone Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (rvf 128,
93-96), e l’illusione di «un popolo virtuoso e disciplinato» come nell’antica Roma, di «un
mondo morale e civile»:
Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera, grida: – Fuori i barbari! – a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immagi-
1 Ibidem.
2 Ivi, p. 574.
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nazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l’ubbidienza? quale invidia se gli
opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l’ossequio? E finisce co’ versi del Petrarca:
Virtù contra furore
Prenderà l’armi, e fia il combatter corto:
Ché l’antico valore
Negl’italici cor non è ancor morto.1
Eppure, conclude De Sanctis, la vera musa di Machiavelli è l’ironia e non l’entusiasmo,
perché lo scrittore è e rimane «troppo simile per molte parti a’ suoi contemporanei» e
«troppo lontano» da quel mondo morale e civile. Così il borghese del Risorgimento, che
nutre l’utopia della nazione e l’illusione di un mondo morale e civile e di un popolo
virtuoso e disciplinato, è e rimane «l’uomo del Risorgimento» con l’«aria beffarda» e «la
sagacia dell’osservazione», da cui nacque la Mandragola, la commedia che raccoglie e
rappresenta «illusioni» e «disinganni».2
Nel cap. xvii Torquato Tasso, par. 12 De Sanctis porta l’attenzione su un altro aspetto del
Risorgimento, l’aborrito idillio, espressione della «decadenza italiana» e di una società
ormai senza «serietà di vita pubblica e privata». Il «sentimento idillico ed elegiaco», già
preannunziato da Petrarca nella stagione della transizione, continuato da Boccaccio e
sviluppato da Poliziano e Pontano sin dal «primo apparire del Risorgimento», viene riaffermato da Tasso infine nella seconda metà del Cinquecento:
L’idillio era il riposo di una società stanca, la quale, mancata ogni serietà di vita pubblica e privata, si
rifuggiva ne’ campi, come l’uomo stanco cercava pace ne’ conventi. Sopravvennero le agitazioni e i
disordini dell’invasione straniera; e quando fine della lotta fu un’Italia papale e spagnuola, perduta ogni
libertà di pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita, l’idillio ricomparve con più forza, e
divenne l’espressione più accentuata della decadenza italiana. Solo esso è forma vivente fra tante forme
puramente letterarie. L’idillio italiano non è imitazione, ma è creazione originale dello spirito. Già si annunzia nel Petrarca, quale si afferma nel Tasso, un dolce fantasticare tra’ mille suoni della natura. L’anima ritirata in sé è malinconica e disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza e il suo accento in quel
fantasticare. La natura diviene musicale, acquista una sensibilità, manda fuori con le sue immagini
mormorii e suoni, voci della vita interiore. Prevale nell’uomo la parte femminile, la grazia, la dolcezza,
la pietà, la tenerezza, la sensibilità, la voluttà e la lacrima, tutto quel complesso di amabili qualità che
dicesi il sentimentale. I popoli, come gl’individui, nel pendio della loro decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle cose, ciò che è proprio della sanità, ma è un
sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere la
realtà in sé stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere e dolci illusioni, nelle quali l’anima
effonde la sua sensibilità. Il sentimentale è perciò essenzialmente lirico e subiettivo. Come il lavoro è
tutto al di dentro, ci si sente l’opera dello spirito, non so che manifatturato, la cosa non colta nella naturalezza e semplicità della sua esistenza, ma divenuta un fantasma e un concetto dello spirito.3
Nel cap. xviii Marino, par. 8, troviamo insieme le voci risorgimento e rinnovamento (con
le iniziali minuscole), coordinate dalla congiunzione disgiuntiva o, che in questo caso
propone la pari opportunità tra i due termini nell’indicare il passaggio socio-culturale,
già pienamente realizzato nel Cinquecento, dall’«altro» mondo del Medioevo, la prima
età, al «nuovo» mondo della seconda età. L’argomento che De Sanctis affronta è il
confronto tra lo scrittore del Seicento e quello del Cinquecento, rilevando le profonde
differenze dei due profili e dei due mondi.
Nel Seicento, osserva De Sanctis, siamo ormai in «un mondo ipocrita e inquisitoriale,
dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in
forme fisse e inviolabili».4 In questo contesto l’arte «intisichisce, priva di un mondo libe-
1 Ivi, par. 14, pp. 593-594.
3 Ivi, xvii, par. 12, pp. 676-677.
2 Ivi, pp. 594-595.
4 Ivi, xviii, par. 10, p. 712.
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ro intorno a sé» e la letteratura è ormai esaurita «nelle sue forme e nel suo contenuto»,
come provano i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini e le Satire di Salvator Rosa:
Chi vuol comprendere la differenza de’ secoli, legga i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, l’ardito
comentatore di Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo. Il suo Parnaso, che succede al mondo ariostesco e al dantesco, è di nessunissima serietà, e rimane una semplice occasione, una cornice, dove inquadra pensieri, stizze, frizzi, allusioni e allegorie, senz’altra unità o centro che il suo ghiribizzo. È un
mondo sciolto in atomi, senza vita e coesione interna. La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa incorporare, si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche, declamazioni e generalità rettoriche, tanto più biliosa, quanto meno artistica. Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa, che pure sono salvate dall’obblio per la maschia energia di un’anima sincera e piena di vita, che incalora la sua
immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate.1
Lo scrittore, privo di una «chiara coscienza di una nuova società», esercita una critica
(comica e umoristica) negativa, che muove «da un semplice sentimento di resistenza e di
opposizione», mentre nel Cinquecento lo scrittore esercitava una critica negativa, ma non
era «il pensiero solitario dell’artista», bensì «negazione universale, col consenso e fra le risa
di tutti». Sul terreno della critica negativa universale mettono le radici le opere del Berni,
la Mandragola di Machiavelli, le satire di Ariosto, le commedie di Aretino e la fioritura
dei «poemi cavallereschi ironici e umoristici».
E ancora, insiste De Sanctis rafforzando il confronto, nel Seicento lo scrittore vive in
«un mondo sciolto in atomi, senza vita e senza coesione interna», per cui gli manca quel
«mondo serio» nel quale la sua critica negativa può prendere corpo fino a diventarne la
voce, invece nel Cinquecento lo scrittore viveva in un mondo nel quale la negazione era
largamente condivisa («libera, ammessa, desiderata, applaudita») da autori e lettori, legati da una «comunione simpatica», e la critica negativa universale traeva nutrimento dalla
«coscienza di un mondo nuovo» nell’ambito dell’arte e della natura succeduto all’«altro»
mondo del Medioevo, dalla consapevolezza «di un rinnovamento o risorgimento» socioculturale cioè dalla presa d’atto di un passaggio epocale dal vecchio al nuovo, dalla prima
alla seconda età, dalle «barbarie del medio evo» alla civiltà umanistico-rinascimentale.2
In xx, La nuova letteratura, par. 17 De Sanctis confronta l’ironia di Parini all’ironia dei
«nostri padri del Risorgimento»,3 come Boccaccio e Ariosto. Il Parini desanctisiano è «uomo più di meditazione che di azione», dall’alto senso morale, che si oppone «al fattizio e
al convenzionale» e fa proprio il «mondo nuovo […] fondato sulla natura e sulla ragione».4
In Parini «rinasce l’uomo» e «l’uomo educa l’artista», il quale non è più il letterato che vive nel culto della forma, bensì «l’uomo nella sua integrità, che esprime tutto sé stesso, il
patriota, il credente, il filosofo, l’amico».5 Con Parini la poesia diviene «voce del mondo
interiore», della «coscienza», della «fede in un mondo religioso, politico, morale».6 Il contenuto della poesia, allora, è «vivente nella coscienza» dell’uomo e ha come fondamento
la «morale» e la «politica», e ancora «la libertà, l’uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la
corrispondenza tra il pensiero e l’azione».7
Dalla condizione ossimorica di Parini, «uomo nuovo» che vive in una «vecchia società»
in dissoluzione ma senza averne la consapevolezza, dalle forme pompose ma vuote, deriva la caratteristica peculiare della sua poesia, che ha un contenuto «lirico e satirico» insieme, mostra un riso sgraziato e svela, dietro il riso, sdegno e biasimo per la società invecchiata ma imbellettata ostentatamente come un giovane:
La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come nel Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma nella forma sostanziale della sua vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza del
1 Ibidem.
4 Ivi, p. 909.
2 Ivi, par. 8, pp. 711-712.
5 Ivi, pp. 909-910.
3 Ivi, xx, par. 17, p. 912.
6 Ivi, p. 910.
7 Ibidem.
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129
contenuto. Quelle forme così magnifiche, alle quali si dà una importanza così capitale, sono un’ironia,
messe allato al contenuto […] L’ironia è la forma delle vecchie società, non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine con tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più
meschina è la sostanza. Questo è il concetto fondamentale del Giorno, fondato su di un’ironia che è nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perché sente in quelle mentite forme negato sé stesso, la sua semplicità, la sua serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne, e non gli esce dalla penna uno scherzo
o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto e il disprezzo.1
A questa altezza, De Sanctis confronta il riso di Parini con quello di Gian Carlo Passeroni
e Carlo Goldoni prima, dei «padri del Risorgimento» Boccaccio e Ariosto poi. Con Passeroni e Goldoni, «idillici e puri letterati» e «poeti della transizione» insieme a Metastasio,2
l’«Italia avea riso abbastanza»,3 sollecitata dal loro «giuoco di forma» priva di «altezza e serietà di motivi».4 Se in Passeroni e Goldoni «ci è il letterato, manca l’uomo»,5 in Parini, invece, c’è l’uomo che educa il letterato, per cui il suo riso, solo esteriore e superficiale, copre come un velo «l’indignazione dell’uomo offeso».6 Inoltre, durante il Risorgimento,
l’ironia di Boccaccio e Ariosto era «allegra e scettica» e il loro riso ironico svolgeva la funzione di «rivendicazione intellettuale», purtroppo «accompagnata con la dissoluzione morale», di fronte «alle assurdità teologiche e feudali» del Medioevo.7 Alla risorgimentale
«ironia della scienza a spese dell’ignoranza», la quale allora suscitava il riso, De Sanctis
contrappone l’ironia di Parini, la quale è «il risveglio della coscienza dirimpetto a una società destituita di ogni vita interiore», e all’«ironia del buon senso» contrappone «l’ironia
del senso morale». Con la rinascita della vita interiore, infine, risorge anche la parola, la
quale se prima era «cascante, leziosa, vuota sonorità, travolta e seppellita sotto la musica», a immagine e somiglianza dunque della vecchia e molle società, poi grazie all’ironia
di Parini si pone «in antitesi» e diviene «faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi».
Rientra nell’ambito della lettura del Risorgimento dal punto di vista del cattolico ed ortodosso primo Ottocento l’ultima occorrenza in xx, La nuova letteratura, par. 25. Siamo alle ultime pagine della Storia e De Sanctis delinea la situazione politica negli anni trenta e
quaranta. Il popolo italiano aveva acquisito un «sentimento più vivo del reale» e sentiva
più forte «il sentimento nazionale», acuito da alcuni eventi («il regno d’Italia, la spedizione di Murat, le promesse degli alleati, la lotta d’indipendenza della Spagna e della Germania, l’insorgere della Grecia e del Belgio»), per cui «l’unità d’Italia non era più un tema
rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà».8 In questa temperie mette le radici «il fatto nuovo», cioè la formazione della «coscienza politica» negli
strati colti, con l’acquisizione del «senso del limite e del possibile», con l’introduzione della parola «progresso», intesa come «naturale evoluzione della storia», al posto della parola «rivoluzione», che comporta «violente mutazioni».9 E il progresso pose le basi per la
conciliazione tra principi e popolo, tra politica e religione:
Il progresso raccomandava pazienza a’ popoli, dimostrava compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione.10
Nello scenario della «conciliazione provvisoria»,11 che portò in Italia a una maggiore libertà politica e culturale, apparve, a Bruxelles, l’opera di Vincenzo Gioberti Del prima-
1 Ivi, p. 911.
4 Ivi, par. 16, p. 907.
7 Ivi, xx, p. 912.
10 Ibidem.
2 Ivi, xx, par. 16, p. 907.
5 Ibidem.
8 Ivi, par. 25, p. 964.
3 Ivi, par. 17, p. 911.
6 Ivi, par. 17, p. 911.
9 Ivi, p. 965.
11 Ivi, p. 968.
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pasquale sabbatino
to morale e civile degli italiani (1843), che sostiene un progetto politico neoguelfo, mirante
all’unità e indipendenza dell’Italia da raggiungere con la confederazione degli Stati e la
presidenza del pontefice. Con il riaffiorare del neoguelfismo, si ha il ritorno alla religione, il ricongiungimento del presente al Medioevo cattolico ed ortodosso e il distacco dal
Risorgimento considerato «acattolico» ed «eterodosso»:
Si era trovata una specie di modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in
nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari erano detti “oscurantisti”. I principi facevano bocca da ridere; promettevano riforme; e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a’ ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studi. Che si voleva di più? I liberali con quel senso squisito dell’opportunità che ha
ciascuno nell’interesse proprio, inneggiavano a’ principi, stringevano la mano a’ preti, fino ridevano a’
gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un’opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul papato restitutore della religione nella sua purità, riconciliato con le idee moderne, e
tendente all’autocrazia dell’ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione sostituita al divenire egheliano
rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso
o “acattolico”, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la conciliazione politica, sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva
uscito dalla sua tomba. L’impressione fu immensa. Sembrò che ci fosse al fine una filosofia italiana. Vi si
vedevano conciliate tutte le opposizioni, il papa a braccetto co’ principi, i principi riamicati a’ popoli, il
misticismo internato nel socialismo. Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale.
Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già né
una riforma religiosa né un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede dall’equivoco, e crollato al primo urto de’ fatti. Questa era la faccia della società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi dell’avvenire: i liberali biascicavano paternostri, e i gesuiti biascicavano progresso e riforme. La situazione in fondo era comica, e il
poeta che seppe coglierne tutt’i segreti fu Giuseppe Giusti.1
L’immagine comica, dovuta alla penna di De Sanctis, dell’avvicinamento tra liberali e Gesuiti, i primi raffigurati nell’atto di biascicare le preghiere, i secondi nell’atto di biascicare
il progresso, offre la misura della posizione del critico nei confronti di quella conciliazione cattolico-liberale tra religione e politica e nei confronti del neoguelfismo di Gioberti.
Tutto questo mondo, afferma De Sanctis, si sbriciola e dissolve «innanzi al ghigno» del
poeta Giuseppe Giusti.2
Nel chiudere l’analisi delle occorrenze di risorgimento, va segnalato che solo nel cap.
xix, La nuova scienza, par. 20 De Sanctis ricorre alla suddetta voce per raccontare «quel colossale movimento di cose e d’idee»3 che attraversa l’Europa del Seicento. Mentre l’Italia
va verso l’Arcadia, fondata nel 1690 a Roma, e gli Italiani, consapevoli «della loro decadenza», scivolano sempre più lungo il crinale della «inferiorità intellettuale»,4 l’Europa ha
un risveglio filosofico, con Cartesio, Pascal e Locke. Nel prezioso e cardinale Saggio
sull’intelletto umano di Locke «la filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l’ideale del suo
risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini nuovi, acquistava la sua
base positiva, fondata sull’esperienza e sull’osservazione».5 Il risorgimento filosofico, che
diviene movimento nel Seicento, ha le radici lontane, nella «cosa effettuale» di Machiavelli, nel «lume naturale» di Bruno, nella «scorta dell’occhio del corpo e della mente» di
Galileo, nella lettura del «libro della natura» di Campanella.6
1 Ivi, pp. 968-969.
4 Ibidem.
2 Ivi, p. 970.
5 Ivi, p. 809.
3 Ivi, xix, par. 20, p. 811.
6 Ibidem.
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
131
3. Le occorrenze di Rinascimento
Il termine nuovo Rinascimento, affermatosi con le opere di Michelet prima e di Burckhardt poi, che De Sanctis conobbe a Zurigo nel 1856 «senza intendersi»,1 ricorre 14 volte e
sempre con la maiuscola nella Storia come equivalente della voce Risorgimento (1 nel xi,
Le “Stanze”, par. 1; 3 in xiii, L’“Orlando furioso”, di cui 2 nel par. 4 e 1 nel par. 5; 1 in xix, La
nuova scienza, par. 13; 9 in xx, La nuova letteratura, di cui 3 nel par. 10, 1 nel par. 21, 2 nel par.
22, 2 nel par. 23, 1 nel par. 24).2 Il confronto tra questo elenco delle occorrenze di Rinascimento e quello precedente delle occorrenze di Risorgimento fa emergere che De Sanctis
utilizza entrambe le voci nei capp. xi, xiii e xx.
La prima apparizione del termine Rinascimento nella Storia è nel cap. xi, Le “Stanze”,
par. 1. La «nuova era», dal Boccaccio al Cinquecento, «chiamata il ‘Rinascimento’»,3 riceve
forti impulsi dalla riscoperta del «mondo greco-latino», il quale «si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare».4 L’immagine
archeologica, utilizzata «con un leggero sorriso» che deforma l’impianto di Burckhardt, è
un segnale evidente della «diffidenza» di De Sanctis, evidenziata da Cantimori, «verso il
concetto storiografico di Rinascimento».5 L’Italia dei letterati va alla ricerca degli «antenati», si moltiplicano i Boccaccio e i Petrarca, si diffonde la «febbre» o «la corrente elettrica» della ricerca dei classici sull’intera penisola, si porta alla luce «il mondo civile rimasto
per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie» con quello stesso impulso dell’Europa nel mandare le crociate in Terrasanta e i grandi navigatori alla ricerca di nuove terre.
Gli Italiani ormai sentono di «essere rinati alla civiltà».6 Nello stesso capitolo, al par. 6, seguono tre occorrenze di Risorgimento: un segnale tangibile dell’oscillazione del lessico
critico.
Tre occorrenze sono nel cap. xiii, L’“Orlando furioso”, di cui 2 nel par. 4 e 1 nel par. 5.
L’«epopea del Rinascimento» è l’Orlando Furioso, il punto più alto del culto della bella
forma, «il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia, l’Arte».7 E nel cielo
del Rinascimento l’Ariosto è l’astro maggiore, come Dante nel cielo del Medioevo, e l’uno
e l’altro sono preannunciati e accompagnati da «astri minori». Dante e Ariosto giganteggiano quali «vessilliferi di opposte civiltà» e rappresentano, nel disegno storiografico di
De Sanctis, «le sintesi» di due età che giungono a compimento e a chiusura: nel primo
«finisce il medio evo» e nel secondo «finisce il Rinascimento».8
Nello stesso capitolo dedicato all’Ariosto, De Sanctis colloca la nascita in Italia del
poema cavalleresco e dell’idillio, «i due mondi poetici o ideali del Rinascimento», sullo
sfondo delle «rovine del medio evo».9 Il mondo cavalleresco e il mondo pastorale, così vivi
solo nella pura immaginazione, diventano i luoghi poetici dell’«ideale di bontà e di virtù»
in un tempo in cui nella storia «ogni idealità si corruppe» e bontà e virtù furono latitanti.
1 Cfr. F. Tessitore, Comprensione storica e cultura. Revisioni storicistiche, Napoli, Guida, 1979, p. 251, nota 3 (con bibliografia sui rapporti Burckhardt-De Sanctis). Si veda anche W. K. Ferguson, Il Rinascimento nella critica storica [1969], trad. it. di A.
Prandi, Bologna, il Mulino, 1976, pp. 338-342; Biscione, Rinascimento e Risorgimento: F. De Sanctis, cit., pp. 154-155; R. Martinoni, Gli anni zurighesi (1856-1860), in Francesco De Sanctis nella storia della cultura, a cura di Muscetta, cit., pp. 89-110: in part.
pp. 106 sgg.; T. Iermano, “Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato”: Risorgimento e Rinascimento nella “Storia della
letteratura italiana”, in La prudenza e l’audacia. Letteratura e impegno politico in Francesco De Sanctis, cit., pp. 96 sgg.
2 La voce Risorgimento è presente tre volte nel sommario della materia: cfr. xi, Le “Stanze” («1. Il Rinascimento della civiltà letteraria latina»); xiii, L’“Orlando furioso” («4. Il Furioso, epopea del Rinascimento: la serietà e la concezione, nel sentimento dell’arte e nel culto della bella forma»); xx, La nuova letteratura («10.[…] L’entusiasmo letterario del Rinascimento e
quello filosofico del secolo xviii: continuità dello stesso movimento strozzato in Italia e rivenutoci dal di fuori»).
3 Storia, xi, par. 1, p. 396.
4 Ivi, p. 395.
5 D. Cantimori, De Sanctis e il “Rinascimento” [1953], in Storici e storia, cit., p. 584.
6 Storia, xi, par. 1, pp. 395-396.
7 Ivi, xiii, par. 4, p. 510.
8 Ibidem.
9 Ivi, par. 5, p. 511.
132
pasquale sabbatino
In Italia, dunque, non ci fu «un serio sentimento cavalleresco» e il «sentimento vero e profondo dell’onore» non divenne «parte intima del carattere nazionale».1
Ritorna la voce Rinascimento in xix, La nuova scienza, par. 13,2 dove De Sanctis sottolinea che in Campanella, più che in Bruno, si rileva l’accentuazione della «sintesi inorganica e contraddittoria» del «nuovo mondo» e della «nuova filosofia» che si formavano tra fine Cinquecento e inizio Seicento. Infatti nel filosofo calabrese, più che in quello nolano,
si trovano «medio evo e Rinascimento», teologia e scienze naturali, divino e ingegno. A
Campanella e Bruno va il merito di aver posto in opera «tutto quel materiale che hanno
innanzi», tuttavia manca ancora quel prezioso «lavoro di eliminazione e di analisi», propedeutico alla «composizione» di un nuovo movimento o indirizzo.
Nel cap. xx, La nuova letteratura, l’ultimo della Storia, la voce Rinascimento ricorre ben
9 volte, di cui 3 nel par. 10. De Sanctis richiama alla memoria del lettore «l’entusiasmo letterario del Rinascimento»3 affinché possa meglio comprendere l’«entusiasmo filosofico»
del Settecento. E se nel Rinascimento «si chiamava barbarie il medio evo», nel Settecento sull’onda dell’entusiasmo filosofico «si chiama barbarie medio evo e Rinascimento».4
Inoltre, con l’avanzare del motto «Cose e non parole», la letteratura individua nel «contenuto» e nel pensiero la sua «sostanza». La bella e perfetta forma, che era stata «gloria
del Rinascimento» ed era ancora «visibile» nelle «opere della decadenza» tra fine Cinquecento e Settecento (il dramma Pastor fido di Guarini, l’Adone di Marino e il melodramma di Metastasio), perde terreno e lascia il passo alla forma che nasce direttamente dal pensiero ed è «‘naturale’, non convenzionale, non manifatturata, non tradizionale,
non classica».5
Nel par. 21 del cap. xx, a proposito del 1815, «una data memorabile, come quella del Concilio di Trento», per la «reazione» su tutti i piani, dalla politica ai vari ambiti della conoscenza, dalla filosofia alla letteratura, De Sanctis sostiene che ad inizio secolo si afferma
«un neoguelfismo», che fa largo uso di alcune voci («Religione, fede, cristianesimo, l’ideale, l’infinito, lo spirito, il trono e l’altare, la pace e l’ordine») ed è segnato dal ritorno del
medio evo, il quale, elevato a «modello», con forza «si drizzava minaccioso e vendicativo
contro tutto il Rinascimento».6 Nel 1815 vengono pubblicati, significativamente per lo storico della letteratura, gli Inni sacri del Manzoni, la raccolta di quattro componimenti (La
Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione), ai quali si aggiunse in seguito il quinto inno, La Pentecoste. Ma il tempo della reazione, in contrasto con le idee moderne che si
erano affermate e diffuse con la rivoluzione, non durò a lungo e tutti i «tentativi di ricomposizione radicale alla medio evo»7 crollarono uno ad uno. Quando sopraggiunsero
i moti in Europa e in Italia, la reazione fu definitivamente sconfitta e «il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale».8 In tal modo l’Ottocento riprese il
suo percorso, dopo il crollo della reazione, e sviluppò finalmente lo spirito nuovo del
Settecento, liberandolo dalle esagerazioni ed esasperazioni, dandogli «il senso della misura e della realtà», trasformandolo in «scienza della rivoluzione»:9
Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sé e prendeva il suo posto nella storia. Chateaubriand,
Lamartine, Victor Hugo, Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non meno di Voltaire e
Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch’essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il loro
programma è sempre la “carta” dell’Ottantanove, il “credo” è sempre “libertà, patria, uguaglianza, dritti
dell’uomo”. Il sentimento religioso, troppo offeso si vendica, offende a sua volta; pure non può sottrarsi alle strette della Rivoluzione. Risorge, ma impressionato dello spirito nuovo, col programma del secolo decimottavo. Ciò a cui mirano i neo-cattolici non è di negare quel programma, come fanno i puri
1 Ivi, p. 512.
4 Ibidem.
7 Ivi, p. 940.
2 Ivi, xix, par. 13, p. 780.
5 Ivi, p. 885.
8 Ivi, p. 941.
3 Ivi, xx, par. 10, p. 884.
6 Ivi, par. 21, pp. 938-940.
9 Ivi, p. 943.
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
133
reazionari, co’ gesuiti in testa, ma è di conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto il programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. È la vecchia tesi di Paolo
Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La Rivoluzione è costretta a
rispettare il sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza e la sua
missione nella storia; ma d’altra parte il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare di una “democrazia cristiana” e di un “Cristo democratico”, a quel modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole scritturali, come
l’“apostolato delle idee”, il “martirio patriottico”, la “missione sociale”, la “religione del dovere”. La rivoluzione, scettica e materialista, prende per sua bandiera: “Dio e popolo”, e la religione, dommatica e
ascetica, si fa valere come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale e s’impregna di
umanismo e di naturalismo, si avvicina alla scienza prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo raccoglie in sé gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a sè, e in quel lavoro trasforma anche se
stesso, si realizza ancora più. Questo è il senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia per la
grazia di Dio e per la volontà del popolo.
La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità, rappresentata non come un
assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell’intelligenza e
dello spirito. Onde nasceva l’identità dell’ideale e del reale, dello spirito e della natura, o, come disse Vico, la “conversione del vero col certo”. Il qual concetto da una parte ridonava ai fatti una importanza che
era contrastata da Cartesio in qua, li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un significato e uno scopo, creava la filosofia della storia; d’altra parte realizzava il divino, togliendolo alle strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale, e umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario, in opposizione ricisa col medio evo, e con lo scolasticismo, quantunque apparisca
una reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era nel secolo decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza reazionario dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.1
Nel par. 22, De Sanctis descrive il Romanticismo, che scelse un preciso contenuto, «il cristianesimo e il medio evo», considerati «come le vere fonti della vita moderna». Sulla scorta di questa scelta, durante il Romanticismo, si assiste a una presa di distanza dal «Rinascimento» che «fu chiamato paganesimo» e a un avvicinamento al Medioevo, «quell’età
che il Rinascimento chiamava barbarie» e che a inizio Ottocento «risorse cinta di nuova
aureola»:2
Parve agli uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro e
i tempi e le torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico, il vaporoso, l’indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini, riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il cui storico era Carlo Troya, e l’artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero ragione contro
Dante e Federico secondo. Cronisti e trovatori furono disseppelliti; l’Europa ricostruiva pietosamente le
sue memorie, e vi s’internava, vi s’immedesimava, ricreava quelle immagini e quei sentimenti. Ciascun
popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo,
la legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità greche e romane successero le antichità nazionali, penetrate e collegate da uno spirito superiore e unificatore, dallo spirito cattolico. Si svegliava l’immaginazione, animata dall’orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino al misticismo; e dal
lungo torpore usciva più vivace il senso metafisico e il senso poetico. Risorge l’alta filosofia e l’alta poesia. Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.3
Eppure sotto il Romanticismo di Manzoni e di Pellico si trova la loro modernità, come
prima sotto il velo del classicismo appaiono moderni Foscolo e Parini. Lo spirito moderno dell’uomo romantico dà «nuova ispirazione» alla «sacra»4 e «vecchia materia»,5 sulla
quale erano passati il Seicento e l’Arcadia e si era esercitato «il riso motteggiatore» del
Settecento, per cui a inizio del xix secolo «la poesia faceva anche lei il suo concordato»,6
1 Ivi, pp. 943-944.
4 Ivi, p. 946.
2 Ivi, par. 22, p. 944.
5 Ivi, p. 947.
3 Ivi, pp. 944-945.
6 Ivi, pp. 946-947.
134
pasquale sabbatino
come Bonaparte con la Chiesa nel 1801. Alla luce di questo concordato, la Divina Commedia di Dante viene «capovolta», non è più la terra che si eleva al cielo, ma il cielo che scende sulla terra, «non è l’umano che s’india», bensì «il divino che si umanizza»,1 non è Cristo che sale al cielo, ma Cristo «smarrito e ritrovato al di dentro di noi»,2 e quando «il
divino rinasce», avverte De Sanctis, «senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico».3 Così il «paradiso cristiano» di Manzoni si concilia «con lo spirito moderno», come
durante il classicismo il «paradiso delle Grazie» del Foscolo allegorizzava «cose moderne»
usando i «colori antichi».4 Se durante il Romanticismo si privilegia cristianesimo e Medioevo, si definisce pagano il Rinascimento e si rinnega il Settecento – il concetto viene ripreso nel par. 24 dello stesso capitolo («Tutto questo fu detto romanticismo, letteratura
de’ popoli moderni. La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del
medio evo e delle idee religiose, una condanna dell’aborrito Rinascimento, soprattutto
del più aborrito decimottavo») –,5 del Settecento «restano le […] idee»6 sotto la forma
romantica. A tale proposito De Sanctis cita il caso dell’ode civile del Manzoni Cinque
maggio, composta nel luglio 1821, a due mesi dalla morte di Napoleone Bonaparte a
Sant’Elena. Paragonando l’ode a una pittura, De Sanctis segnala che la «cornice» dell’ode
è «mutata», quindi è nuova e romantica, «una illuminazione artistica, una bell’opera
d’immaginazione», che pur nutrendosi di cristianesimo non dà «alcuna seria impressione
religiosa». Il «quadro», invece, che attira l’interesse del lettore, è «lo stesso» del Settecento, è «la storia di un genio rifatta dal genio», è la rappresentazione dello spirito moderno.7
Nel par. 23 del cap. xx, La nuova letteratura, ci sono due occorrenze di Rinascimento, la
prima per indicare la successione delle varie età (quella antica greco-romana, il Medioevo e il Rinascimento), la seconda per evidenziare sul piano storico-critico la particolare
lettura e condanna della letteratura del Rinascimento durante il Romanticismo.
Nel primo Ottocento si diffuse progressivamente l’idealismo hegeliano, di cui De Sanctis traccia una rapida e formidabile sintesi ruotante intorno alla concezione del continuo
trasformarsi in progresso assiduo:
Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia del mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare a priori. Religione, arte, filosofia, diritto, sono manifestazioni dello spirito, momenti della sua
esplicazione. Niente si ripete, niente muore; tutto si trasforma in un progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi dell’idea, una coscienza sempre più chiara di sé, una maggiore realtà.8
In questa mappa ideologica di Hegel,9 avverte De Sanctis rivolgendosi al lettore, «ricordi
Machiavelli, Bruno, Campanella, soprattutto Vico». E precisa che è «un Vico a priori», perché «quelle leggi, che egli traeva da’ fatti sociali, ora si cercano a priori nella natura stessa
dello spirito».
Con la nuova filosofia, che abbraccia i diversi ambiti (filosofia delle religioni, filosofia
dell’arte o estetica, filosofia del diritto, filosofia della storia e storia della filosofia), «tutto
il contenuto scientifico è rinnovato».10 Nell’ambito della letteratura, che partecipa a questo movimento, la filosofia dell’arte pose il bello insieme al vero e al buono, per cui il bello «acquistò una base scientifica nella Logica, divenne una manifestazione dell’idea, come
la religione, il dritto, la storia».11 Si formò, allora, la «nuova critica letteraria»,12 che si sen-
1 Ivi, p. 946.
2 Ivi, p. 949.
3 Ivi, p. 946.
4 Ivi, p. 950.
5 Ivi, par. 24, pp. 956-957.
6 Ivi, par. 22, p. 950.
7 Ibidem.
8 Ivi, par. 23, p. 950.
9 Cfr. V. Stella, De Sanctis e l’estetica di Hegel, in Francesco De Sanctis un secolo dopo, a cura di Marinari, cit., i, pp. 161-195;
A. Montano, I testimoni del tempo. Filosofia e vita civile a Napoli tra Settecento e Novecento, prefazione di B. de Giovanni, Napoli, Bibliopolis, 2010, pp. 207-234 (Il comico come deformazione del reale nella critica di Francesco De Sanctis), 235-274 (Benedetto Croce:
“…io, lettore amoroso di De Sanctis”. Della duplice radice del neoidealismo italiano).
10 Ivi, xx, par. 23, p. 951.
11 Ivi, pp. 952-953.
12 Ivi, p. 952.
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
135
tì impegnata a ricercare «l’idea in ogni lavoro dell’immaginazione» e ad analizzare nelle
singole opere «l’idea col suo contenuto», collocando su un piano secondario «le qualità
formali».1 Riemerge «il concetto cristiano-platonico dell’arte», che fu di Dante prima e poi
del Tasso, e la poesia diviene espressione del «Vero sotto il velo della favola ascoso» oppure del «Vero condito in versi», con l’evidente risvolto del recupero e rilancio delle forme mitiche e allegoriche.
Inoltre la nuova critica letteraria riconosce i suoi antecedenti non solo nella filosofia,
ma anche nella storia, poiché l’idea, da analizzare nel suo contenuto, va colta nelle sue
«apparizioni storiche» e sociali. La letteratura, un tempo considerata l’espressione individuale dell’uomo, ora viene letta come espressione collettiva della società. Furono prodotte, allora, in relazione alle opere d’arte, numerose e accurate «investigazioni […] sulle idee, sulle istituzioni, su’ costumi, sulle tendenze dei secoli […], sulla formazione
successiva della materia artistica», attraversando le diverse età (quella antica greco-romana, «il medio evo, il Rinascimento»)2 e abbracciando l’Occidente e l’Oriente:
L’ingegno è l’espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il cui complesso costituisce l’individualità di una società o di un secolo. L’idea gli è data con esso il contenuto; la trova intorno a sé, nella società dove è nato, dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita comune contemporanea, salvo che di quella è in lui più sviluppata l’intelligenza e il sentimento. La sua forza è di
unirvisi in ispirito e questa unione spirituale dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il
contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi, è ivi che dee cercare le sue ispirazioni e le sue
regole.3
Mutata la concezione dell’opera d’arte, si rilegge la storia della letteratura da questo
nuovo osservatorio. Tra le prime condanne si levò proprio quella della «letteratura del
Rinascimento», perché «classica e convenzionale», in aggiunta ricca di mitologia, il cui
uso «fu messo in ridicolo».4 Caddero dal piedistallo la retorica e la poetica, l’una «con le
sue vuote forme», l’altra «con le sue regole meccaniche e arbitrarie», e ritornò in auge
il settecentesco motto («Ritrarre dal vero, non guastar la natura») del Galileo della nuova letteratura, Goldoni,5 per cui «il più vivo sentimento dell’ideale si accompagnò con
la più paziente sollecitudine della verità storica».6 Con la condanna dell’imitazione classica, persero peso tutti i suoi «elementi fantastici e poetici», tutte le sue «pompe fattizie»,
e ancora «ogni dignità ed eleganza» e vennero in stima «la naturalezza, la semplicità, la
forza, la profondità, l’affetto» perché «intimamente connesse col contenuto». Il cielo del
Romanticismo si popola di nuovi «astri maggiori», quelli «reputati i più lontani dal classicismo» nell’ambito delle letterature d’Europa, come Dante, Ariosto, Shakespeare, Calderon, e il lettore romantico predilesse «Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei, teologici o nazionali» e guardò con attenzione preferenziale «il rozzo cronista» e «il
canto popolare», a discapito dell’«elegante storico» e della «poesia solenne». Nella letteratura, allora, la poesia fece uso di «linguaggio parlato» e di «forme popolari», fino ad
avvicinarsi alla prosa.7
1 Ivi, p. 953.
2 Ivi, p. 954.
3 Ivi, pp. 955-956.
4 Ivi, p. 956.
5 Cfr. P. Sabbatino, Il ‘Galileo’ del nuovo teatro. Appunti sulla fortuna di Goldoni a Napoli nell’Ottocento, «Rivista di Letteratura Teatrale», 3, 2010, pp. 55-62 (ripubblicato con aggiunte e integrazioni negli atti Oltre la Serenissima. Goldoni, Napoli e la
cultura meridionale, Giornata di Studio (Benevento, Città Spettacolo, 9 settembre 2008), a cura di A. Lezza, A. Scannapieco,
Napoli, Liguori, 2012, pp. 31-41).
6 Storia, xx, par. 23, p. 956.
7 Ibidem.
136
pasquale sabbatino
4. Le radici del Rinnovamento nel Rinascimento
e l ’ alba dei tempi moderni
È stato evidenziato, a sufficienza e a ragione, da Cantimori che De Sanctis non assume le
voci equivalenti di Risorgimento o Rinascimento come categoria storiografica perché è
sostanzialmente «diffidente» sulla loro funzione di «principio generale dell’epoca».1 Per
De Sanctis, che ha «istinto e senso storico» e il «giudizio morale di riformatore della coscienza italiana», il Risorgimento o il Rinascimento è un principio settoriale dell’epoca,
appartiene solo all’ambito culturale e artistico, è «puramente intellettuale» e per di più
«moralmente vuoto», infine appare parziale e persino «unilaterale, storicamente parlando», per cui non può «informare la storia della coscienza italiana di quei secoli». E con
forza Cantimori ribadisce:
Quel momento estetico e culturale (che costituiva il valore europeistico e cosmopolitico del Rinascimento italiano nel movimento generale) e che stava alla base del concetto di Rinascimento non poteva
essere considerato come momento fondamentale della storia della coscienza italiana, nazionale italiana.
Ad esso viene opposto il suo critico, il Machiavelli.2
De Sanctis, dunque, avendo nel suo orizzonte la «storia della coscienza intellettuale e morale italiana», a differenza di Burckhardt3 che preferisce la storia della cultura e dell’arte,4
non può accettare come categoria storiografica la concezione di un risorgimento delle lettere e delle arti, di un rinascimento della civiltà o della cultura antica,5 perché quel rinascimento o risorgimento coincide con la decadenza morale e la corruttela della società e
dei letterati,6 perché la bella forma della letteratura è vuota e non manifesta una coscienza nazionale italiana.
Da questa cultura umanistica, da questa Italia dei letterati che gravitano intorno alle
corti, sono al servizio del miglior offerente e moralmente decaduti si vendono «come i
capitani di ventura», da questo movimento che rimane «sulla superficie» e in aggiunta
«non viene dal popolo e non cala nel popolo», vale a dire che è del tutto esterno ed estraneo al popolo, De Sanctis prende le distanze,7 con passione sempre ma talvolta con ironia come nel caso della similitudine archeologica che accosta al disseppellimento di Pompei coperta dalle ceneri del Vesuvio il disseppellimento dell’antica civiltà coperta lungo il
Medioevo dalle «ceneri della barbarie»,8 mettendo il dito sulla piaga del tempo, quando
sono ormai cadute le repubbliche, la passione politica e la lotta degli intellettuali sono
mancate, il popolo è scomparso («O per dir meglio, popolo non ci è») e si trova a pren1 D. Cantimori, De Sanctis e il “Rinascimento” [1953], in Storici e storia, cit., p. 583.
2 Ibidem.
3 Cfr. P. Sabbatino, Rinascimento, Risorgimento e Alto Evo Moderno nella storiografia letteraria tra Otto e Novecento, negli Atti
del Convegno Medioevo e Rinascimento nella storiografia letteraria italiana tra Otto e Novecento (Cassino, 27-28 aprile 2010), a cura
di Iermano, Sabbatino, cit., in part. pp. 49-51.
4 Cfr. K. Löwith, Iacob Burckhardt, Roma, Laterza, 1991, p. 165 (Burckhardt fa «diventare la storia in generale ‘storia della
cultura’, ciò è dovuto al fatto che la cultura – nelle epoche di allontanamento dallo Stato e di impotenza della religione – diventa il supremo mondo dell’uomo, non condizionato religiosamente e apolitico»).
5 Storia, xv, par. 12, pp. 584 sgg.
6 De Sanctis nel saggio L’uomo del Guicciardini scrive: il «secolo chiamato del risorgimento […] fu pur quello della nostra
decadenza» (F. De Sanctis, L’arte, la scienza e la vita. Nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a cura di M. T. Lanza, Torino,
Einaudi, 1972, p. 94). Il rapporto Rinascimento-decadenza, che era «un dato ideologico solidamente acquisito nell’area del
pensiero democratico (dal Rousseau al Sismondi, dal Quinet al Ferrari, e, seppure su altre basi ideologiche, al Renan)», viene
riproposto e sviluppato da De Sanctis con l’obiettivo di superare l’«insufficienza delle precedenti indagini storiche», di cui
parla nel saggio su Guicciardini (cfr. l’Introduzione di M. T. Lanza, ivi, p. xxv).
7 Nel Novecento il giudizio negativo di De Sanctis è stato largamente rivisto, in particolare da Garin, il quale «ha
contribuito robustamente a porre nella giusta prospettiva storica non solo il valore nazionale […], ma anche la reale importanza della filosofia civile dell’umanesimo, specialmente fiorentino, proprio nel senso della coscienza politica e pratica e
‘sociale’. È quell’umanesimo col quale il Machiavelli fu bene in dialogo e discussione diretta» (D. Cantimori, De Sanctis e il
“Rinascimento”, in Storici e storia, cit., p. 585).
8 Ivi, p. 584: il riferimento alla riscoperta dell’antica Pompei è nella Storia, xi, par. 1, p. 395.
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
137
derne il posto una «plebe infinita, censiosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de’ letterati, esalata in versi latini».1
È un dato acquisito dalla critica, come testimonia il saggio di Cantimori, che De Sanctis, dopo la presa di distanza dall’Italia dei letterati, da una parte lasci «cadere l’esposizione e la interpretazione sulla linea del concetto di Rinascimento che aveva appena accennata» e dall’altra ritorni «all’impostazione classica per secoli»,2 con l’avvertenza che De
Sanctis nelle sue conferenze su Machiavelli, tenute nella Gran Sala del Capitolo dell’ex
Convento di San Domenico Maggiore a Napoli (23, 27, 30 maggio, 3 e 6 giugno 1869), chiama secolo le grandi tappe dell’umanità:
Chiamo secolo non lo spazio convenzionale e ristretto di cent’anni; ma una delle grandi età dell’umanità; apparisce il secolo quando apparisce un altro mondo. Quando entra a far parte dell’umanità una nuova natura, allora cominciano le grandi epoche, le quali non sono artificialmente create, ma sono prodotte da una lenta elaborazione dell’umanità, che si fonda sul passato. In un secolo, tutti gli uomini sono
operai che lavorano ai frammenti di una grande statua che dee comparire, aspettando l’ingegno del grande destinato a dare il nome a quel secolo; che in mezzo a tanti lavori di operai inconsapevoli di ciò che
fanno, si volgerà a raccogliere le linee di un grande edificio, a mettervi il suo nome, la sua impronta preparando così il lavoro alla posterità.3
E nella Storia De Sanctis puntualizza che il secolo è «un’età sviluppata e compiuta in sé in
tutte le sue gradazioni, come un individuo».4
Nell’arco della storia della letteratura italiana, dal Duecento all’Ottocento, De Sanctis
distingue due secoli, il secolo di Dante e il secolo di Boccaccio, o due grandi tappe dell’umanità, Medioevo e Evo Moderno, con l’unica cesura o svolta epocale durante il Trecento. Ciascuna età, inoltre, svela all’analisi dello storico le tensioni interne, le forti lacerazioni e le inevitabili contraddizioni tra le resistenze del vecchio e l’avanzare del nuovo,
proprio come avviene nella vita che la letteratura vuole rappresentare, con ombre e luci,
ritardi e fughe in avanti, contrazioni ed espansioni.5 Il primo secolo della letteratura
italiana – quello della società cavalleresca, della fede, dell’autorità, dell’ascetismo e del
simbolismo, della «barbarie scolastica»6 – abbraccia Duecento e inizio Trecento, che insieme compongono un solo ciclo biologico e temporale, sintetizzato dal «libro fonda-
1 Storia, xi, par. 1, p. 397.
2 D. Cantimori, De Sanctis e il “Rinascimento”, in Storici e storia, cit., p. 586.
3 F. De Sanctis, Conferenze su Niccolò Machiavelli, in L’arte, la scienza e la vita, a cura di Lanza, cit., p. 42.
4 Storia, xi, par. 17, p. 445.
5 Cfr. L. Russo, La “Storia” del De Sanctis [1950], in Problemi di metodo critico, Bari, Laterza, 19502 (il saggio appare in questa seconda edizione ‘radicalmente rinnovata’); N. Sapegno, Introduzione a F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a
cura di Sapegno, Gallo, cit., vol. 1, pp. xxv-xlii; M. Mirri, Francesco De Sanctis politico e storico della civiltà moderna, MessinaFirenze, D’Anna, 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano, Feltrinelli, 1964, in part. pp. 328 sgg.;
C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, in part. pp. 26-34; A. Piromalli, Vita morale
e stile nella “Storia” di Francesco De Sanctis, in Saggi critici di storia letteraria, Firenze, Olschki, 1967, pp. 43-66; M. Aurigemma,
La Storia della letteratura italiana, in Lingua e stile nella critica di Francesco De Sanctis, Ravenna, Longo, 1968, pp. 55-260; G. Contini, Introduzione all’ed. della Storia, Torino, utet, 1968 (rist. 1981), pp. 9-41; G. Getto, Storia delle storie letterarie [1942], nuova ed. riveduta, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 235-272; G. Bárberi Squarotti, L’idea di realismo nella “Storia” desanctisiana, in De
Sanctis e il realismo, cit., i, pp. 177-191; Teorie e realtà della storiografia letteraria. Guida storica e critica, a cura di G. Petronio, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. xxxv-xli; A. Asor Rosa, Il “diagramma De Sanctis” … e il nostro, in Letteratura italiana, dir. da A.
Asor Rosa, i, Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 22 sgg.; A. Marinari, Appunti sugli schemi di periodizzazione
nella “Storia”, in Francesco De Sanctis un secolo dopo, a cura di A. Marinari, ii, cit., pp. 479-496; D. Della Terza, Le Storie della
letteratura italiana: premesse erudite e verifiche ideologiche e Francesco De Sanctis: gli itinerari della “Storia”, in Letteratura italiana,
dir. da A. Asor Rosa, v, L’interpretazione, Torino, Einaudi, 1985, risp. pp. 311-329 e 331-349; R. Mordenti, “Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis, in Letteratura italiana. Le Opere, iii, Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, pp. 573665, con ampia bibliografia; G. Ficara, Introduzione a F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi-Gallimard, 1996, pp. ix-xxxii; R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2010, pp. 127-131;
Francesco De Sanctis (1817-1883). La storia della letteratura, ancora?, «Quaderns d’Italià», 16, 3-4, 2011, in part. i contributi di R. Antonelli, De Sanctis e la storiografia letteraria italiana, pp. 31-51, e M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Il diagramma storico-letterario di De Sanctis e la costruzione della identità italiana, pp. 53-66; T. Iermano, «Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato». Risorgimento e Rinascimento nella “Storia della letteratura italiana”, in La prudenza e l’audacia. Letteratura e impegno politico
in Francesco De Sanctis, cit., pp. 75-104.
6 Storia, xi, par. 18, p. 445.
138
pasquale sabbatino
mentale» della Commedia.1 Il secondo secolo della letteratura italiana – quello borghese,
della società civile, del libero esame, dello studio diretto della natura e dell’uomo, della
cultura classica – va dal Trecento all’Ottocento ed è articolato in quattro fasi.
Nella prima fase, Petrarca attua la transizione dal Medioevo e Boccaccio segna l’inizio
alla nuova età, che durante la «gestazione ed elaborazione» quattrocentesca sviluppa «un
mutamento profondo nelle idee e nelle forme»2 e giunge a «compimento» e a «sintesi» durante il Cinquecento, quando la forma matura la sua perfezione.3 Nella seconda fase, durante il Seicento, che «non è una premessa» del Settecento, bensì «una conseguenza» del
Cinquecento,4 domina senza rivali Marino, «il gran maestro della parola»,5 e la forma
giunge «all’ultima perfezione».6 Nella terza fase, tra fine Seicento e inizio Settecento, l’ultima perfezione della forma ha la sua estrema sopravvivenza nell’Accademia dell’Arcadia.
Fondata a Roma nel 1690 da Gian Vincenzo Gravina e da Giovanni Mario Crescimbeni,
l’Arcadia riesce a unificare gli intellettuali della Penisola, «per parecchie decine di anni»,
in una sorta di nuova ‘repubblica delle lettere’ e porta avanti sul piano della scrittura una
linea programmatica che rappresenta per De Sanctis «un’ultima forma della decadenza».7
Infine nella Storia di De Sanctis abbiamo la quarta fase della letteratura italiana, quella
del vero Rinnovamento, collocato fra Settecento e Ottocento, ma con germi nel Cinquecento e crescita nel Seicento – ciò determina la tensione tra vecchio e nuovo nella seconda e terza fase – e con proiezione, all’altezza del 1870-1872, verso il futuro, quando i «piccoli indizi» accompagnati da «vaste ombre»,8 che allora comparivano, avranno sviluppo
nell’Italia unita e nella letteratura nazionale moderna, tra secondo Ottocento e Novecento. Questa affermazione è una ulteriore spia della grande acutezza di De Sanctis, capace di leggere passato presente e futuro, di cogliere non solo il movimento della storia
ma anche la storia in movimento, non solo il divenire della storia ma anche la storia in divenire, non solo le trasformazioni della storia, ma anche la storia in trasformazione.
Le radici del Rinnovamento, allora, sono nel Cinquecento. È con Machiavelli, infatti,
che si scopre «un mondo nuovo in opposizione all’ascetismo», un mondo nuovo «trovato
e illustrato dalla scienza»; è con Machiavelli che si avvia finalmente la «prima ricostruzione della coscienza» nazionale, la sola strada che porta al risorgere della letteratura, alla
«nuova letteratura».9 E a sua volta la letteratura trova «il suo contenuto, il suo motivo, la
sua novità» in questo «nuovo mondo», nel quale «avere […] fede» e per la qual fede
«lottare, poetare, vivere, morire»:
La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale.10
Possiamo seguire, in questa sede, il percorso lineare ma talvolta carsico, patente e a tratti
latente, della crescita del seme del vero Rinnovamento nel Cinquecento e Seicento, rileggendo l’apertura del cap. xix, La Nuova Scienza, il cui titolo è «di ispirazione vichiana e
insieme galileiana».11 De Sanctis porta l’attenzione da una parte sul mondo nuovo di
1 Ivi, par. 17, p. 445. Cfr. P. Sabbatino, «Noi volevamo una patria, e la patria fu per noi tutto». Dante e l’identità della nuova Italia
nella “Storia” di De Sanctis, Convegno Culto e mito di Dante dal Risorgimento all’Unità (Firenze, 23-24 novembre 2011, in corso di
stampa).
2 Ivi, xi, par. 18, p. 445.
3 Ivi, par. 17, p. 445.
4 Ivi, xviii, par. 6, p. 709.
5 Ivi, par. 12, p. 721.
6 Ivi, par. 7, p. 709.
7 Ivi, par. 11, p. 721.
8 Ivi, xx, par. 27, p. 975.
9 Ivi, xix, par. 1, p. 739.
10 Ibidem. Con Machiavelli, osserva Cantimori, «siamo nel periodo dell’alba o dell’aurora dell’età moderna […]; nel periodo dell’elaborazione faticosa e incerta, dell’adolescenza e non della piena maturità dell’‘uomo nuovo’ o ‘uomo moderno’»,
che rappresenta per De Sanctis «soprattutto un ideale, un’idea da affermare dopo che è stata elaborata nella coscienza, un
‘dover essere’» (D. Cantimori, De Sanctis e il “Rinascimento”, in Storici e storia, cit., p. 590).
11 Cfr. G. Aquilecchia, Il capitolo desanctisiano sulla nuova scienza [1955], in Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976,
p. 285. Il saggio di Aquilecchia è utile per «determinare il metodo e la misura dal De Sanctis adottati nell’impiego di fonti
contemporanee» (p. 291).
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
139
Machiavelli, sulla nuova letteratura che di quel nuovo mondo si nutre, e dall’altra sul «movimento filosofico degli uomini nuovi», sull’«agitazione filosofica nelle università e nelle
accademie, indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione
mascherata alla teologia e all’aristotelismo dominante ancora nelle scuole», sui «liberi pensatori» chiamati «filosofi moderni o i ‘nuovi filosofi’», come Bernardino Telesio, Francesco
Patrizi, Mario Nizzoli da Modena, e ancora, dal respiro europeo, Giordano Bruno e Tommaso Campanella,1 i quali annunciavano «l’autonomia della ragione» e ne proclamavano
la totale «indipendenza» da ogni auctoritas, sia essa teologica o filosofica. La nuova filosofia,
allora, si fonda sul «metodo sperimentale» e sulla «riabilitazione della materia o della natura», dopo aver tagliato dall’indagine «tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede».2
In questa prospettiva desanctisiana di crescita del seme del vero Rinnovamento nel
Cinquecento e Seicento, «letteratura e filosofia vanno di pari passo», il nuovo mondo di
Machiavelli avanza «insieme» alla riabilitazione della materia o della natura da parte dei
filosofi moderni. Durante le prime fasi della seconda grande tappa dell’umanità, dunque,
si registra in Italia e in Europa un «grande movimento dello spirito che segna l’aurora de’
tempi moderni, e che si può ben chiamare il Rinnovamento». E questa volta il Rinnovamento trova la punta più avanzata e l’espressione più forte e autentica «nell’intelletto italiano»,3 che svolge un ruolo trainante nel continente europeo.
Il limite, lungo il Cinquecento, del movimento italiano di rinnovamento fu di esercitare in modo «troppo radicale» la «negazione» della fede e dell’autorità religiosa4 e di rimanere, come ha scritto Cantimori, «puramente intellettuale, negativo e astratto, senza conseguenza nella vita nazionale, senza conseguenze nazionali, […] nella vita politica del
paese»,5 a differenza della Riforma protestante, che invece ottenne un buon riscontro sociale in Germania e in altre aree dell’Europa, secondo De Sanctis, sia perché «fu limitata
nella sua negazione e nelle sue conclusioni», sia perché ebbe «a sua base lo spirito religioso
e morale delle classi colte» e fece propri gli interessi dei principi nella lotta contro l’imperatore e il papa.6
Nonostante intralci e ritardi, il movimento del Rinnovamento, che a Dio e alla fede aveva sostituito l’uomo e la ragione, all’altro mondo questo mondo, «continuò a vivere» – scrive Cantimori, intrecciando il suo saggio con la Storia – «perché ‘aveva la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana’» e lungo il Cinquecento e Seicento svolse in modo limitato
e poco avvertito nella società il ruolo oppositivo.7 Solo nel Settecento, infatti, con Vico il
movimento del Rinnovamento assunse la forza d’urto di una rivoluzione, che eliminò definitivamente qualsiasi retaggio del Medioevo e segnò il passaggio alla quarta fase della seconda grande tappa dell’umanità, quella della maturazione e pienezza dell’Evo Moderno:
La scienza si faceva pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s’investigava più, si applicava, e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica, e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli
ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere, racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore del
linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione, anche negli scrittori più solenni, come
1 Nella Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre-23 dicembre 1861, Napoli, Stab. tip.
di Federico Vitale, 1862 Bertrando Spaventa aveva già segnalato «una falange di eroi del pensiero», come Pomponazzi, Telesio, Bruno, Campanella, Cesalpino, che «preludono più o meno a tutti gli indirizzi posteriori», per cui Bacone e Locke «hanno i loro precursori in Telesio e Campanella, Cartesio nello stesso Campanella, Spinoza in Bruno, e nello stesso Bruno si trova un po’ del monadismo di Leibniz, dell’avversario di Spinoza». Infine Vico «scopre la nuova scienza; anticipa il problema
del conoscere, esigendo una nuova metafisica che proceda sulle umane idee; pone il vero concetto della parola e del mito, e
così fonda la filologia; intuisce l’idea dello spirito, e così crea la filosofia della storia». La Prolusione è stata ristampata da G.
Gentile con il titolo Filosofia italiana nelle sue relazioni colla filosofia europea, Bari, Laterza, 1908, la citazione è a p. 91.
2 Storia, xix, par. 1, pp. 739-740.
3 Ivi, 1, p. 741.
4 Ivi, p. 740.
5 D. Cantimori, De Sanctis e il “Rinascimento”, in Storici e storia, cit., p. 591.
6 Storia, xix, par. 1, p. 741.
7 D. Cantimori, De Sanctis e il “Rinascimento”, in Storici e storia, cit., p. 592.
140
pasquale sabbatino
Buffon e Montesquieu: conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico, la sapienza riposta diveniva sapienza volgare, e, scendendo nella vita, prendeva le passioni e gli abiti della vita, ora
amabile e spiritosa, come in Fontenelle, ora limpida, scorrevole, facile, come in Condillac e in Elvezio,
ora rettorica e sentimentale, come in Diderot. Il dritto naturale di Grozio generava il Contratto sociale, la
società era dannata in nome della natura, e l’erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scetticismo un po’ impacciato di Bayle, velato fra tante cautele oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L’erudizione e la dimostrazione gittavano le loro
armi pesanti e divenivano un amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura, e la letteratura a
sua volta non era più serena contemplazione, era un’arma puntata contro il passato. Tragedie, commedie, romanzi, storie, dialoghi, tutto era pensiero militante che dalle alte cime della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini, e si propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le sue forme,
filosofia, arte, critica, filologia, erano macchine di guerra, e la macchina più formidabile fu l’Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l’ideale. Elvezio proclamava la natura.
Rousseau proclamava i dritti dell’uomo. Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il dritto di resistenza. Smith glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava la Carta inglese. Franklin annunziava la nuova “carta” all’Europa. La società sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare l’ordine e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede. Riformare secondo
la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi, era l’ideale di tutti, era la missione della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza, che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore era la fede in
questo avvenire filosofico, e più viva era la passione contro il presente. Tutto era male, e il male era stato tutto opera maliziosa di preti e di re, nell’ignoranza de’ popoli. Superstizione, pregiudizio, oppressione erano le parole, che riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato. Libertà, uguaglianza, fraternità umana erano il verbo, che riassumeva l’avvenire. Tutto il moto scientifico dal secolo decimosesto
in qua aveva acquistata la semplicità di un catechismo. La rivoluzione era già nella mente.
Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di sé, si sentiva tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla
teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava ne’ fatti la sua base. Era l’uomo che
cercava nella sua natura i suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che sorgeva sulle
rovine del papato e dell’impero. Era una nuova classe, la borghesia, che cercava il suo posto nella società sulle rovine del clero e dell’aristocrazia. Era la nuova “carta”, non venuta da concessioni divine o umane, ma trovata dall’uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in quella immortale Dichiarazione
de’ dritti dell’uomo. Era la libertà del pensiero, della parola, della proprietà e del lavoro, l’eguaglianza
de’ dritti e de’ doveri. Era la fine de’ tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi di quella età umana, così
ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva; cominciava l’evo moderno.1
Di questo Rinnovamento, che è la risurrezione e la fondazione della coscienza nazionale
e la parallela risurrezione e fondazione della letteratura moderna, De Sanctis segue la parabola sette-ottocentesca nel finale della sua Storia, tra luci e ombre, avanzamenti e soste,
fughe in avanti e ritardi.2
Alla luce di questo finale, le generazioni di allora e quelle future possono cogliere il
messaggio del critico-patriota: la letteratura nazionale moderna è tale se partecipa al movimento fondativo e formativo del nuovo mondo intellettuale e politico della Nazione.
Per lanciare questo messaggio e nel contempo per realizzarlo nella Storia, De Sanctis si
propone un obiettivo dialettico, raggiunto pienamente: da una parte vuole contribuire a
fondare il nuovo mondo intellettuale e politico della nazione per insegnare a leggere e produrre la grande letteratura nazionale moderna, dall’altra vuole insegnare a leggere e produrre la grande letteratura nazionale moderna per contribuire a fondare il nuovo mondo
intellettuale e politico della nazione.
([email protected])
1 Storia, xix, par. 27, pp. 835-837.
2 Sulla parabola del Rinnovamento cfr. P. Sabbatino, Materiali per costruire il Paese. Storie letterarie e collane di classici da
Francesco De Sanctis a Benedetto Croce, relazione presentata al Convegno Materiali per costruire il Paese (Napoli, Castelnuovo, 45 aprile 2011, in corso di stampa).
risorgimento, rinascimento e rinnovamento in de sanctis
141
Sommario
Il saggio intende analizzare il lessico critico utilizzato da Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (2 voll., Napoli, Morano, 1870-1872), puntando in particolar modo l’attenzione sui termini
‘Risorgimento’, ‘Rinascimento’ e ‘Rinnovamento’. In realtà nel vocabolario desanctisiano non mancano, in merito a tali voci, incertezze e sovrapposizioni. È il caso, ad es., della parabola relativa al termine
‘Rinnovamento’, il quale è utilizzato non solo per la letteratura quattro-cinquecentesca, ma anche nella
sezione finale della Storia per la letteratura del Sette e dell’Ottocento. Rinnovamento diviene, in tale
ottica, sinonimo di risurrezione. È grazie a tale filone della nostra letteratura che è possibile, quindi,
fondare la coscienza nazionale e la parallela letteratura moderna della Nazione.
Abstract
The essay is intended to analyze the critical lexicon used by Francesco De Sanctis in his Storia della letteratura italiana (2 voll., Napoli, Morano, 1870-1872), paying attention to the words Risorgimento, Rinascimento and Rinnovamento. In the De Sanctis’ vocabulary indeed there are uncertainties and overlays about
this words. Such as the word Rinnovamento, which is used to refer to the 15th and 16th century literature,
but also to the 18th and 19th century literature in the end of the Storia. In this context renovation becomes
synonymous of resurrection. Thus, it’s possible to establish a national consciousness and the modern parallel literature of the country.
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issn elettronico 1824-1948
SOMMARIO
protagonisti
Giancarlo Vallone, Per due lettere galateane
11
Charles H. Carman, Vision in Ficino and the Basis of Artistic Self Conception and
Expression: Narcissus and anti-Narcissus
21
Franco Pierno, Facezie al servizio della Riforma: gli Apologi di Bernardino Ochino
(1554)
31
Vincenzo Caputo, Come si scrive una vita? Giovanni Antonio Viperano e la trattatistica
cinquecentesca sul genere biografico
51
Stefania Capuozzo, Lepanto tra Ariosto e Tasso: la scrittura epica secondo Costo
57
Adriana Mauriello, Un itinerario per gentildonne milanesi: il Ritratto delle grandezze delizie e maraviglie della nobilissima città di Napoli di Giovan Battista Del Tufo
79
Sergio Russo, Centri e periferie della novella italiana del Cinquecento: la ‘linea’ settentrionale
87
Francesco Divenuto, Vico Equense e la costiera sorrentina nelle immagini tra ’500 e ’600
93
Pasquale Guaragnella, Tra confutazioni e apologie. Benedetto Castelli e alcune scritture intorno alla laguna di Venezia
101
rinascimento e rinascimenti
Pasquale Sabbatino, Risorgimento, Rinascimento e Rinnovamento nella Storia della
letteratura italiana di Francesco De Sanctis
121
Matteo Palumbo, De Sanctis e le figure della «corruttela italiana»: Guicciardini e Ariosto 143
la ``storia'' di francesco de sanctis e gli scrittori della ``nuova italia''
DOCUMENTI
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la ``storia'' di francesco de sanctis e gli scrittori della ``nuova italia''
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LA ``STORIA'' DI FRANCESCO DE SANCTIS
E GLI SCRITTORI DELLA ``NUOVA ITALIA''
Nel 1970, Hans Robert Jauss dichiaroÁ che «ai nostri giorni la storia della
letteratura eÁ caduta sempre piuÁ in discredito» e le vicende «di questa venerabile disciplina» disegnano dal finire del secondo Ottocento «la traiettoria di
un incessante declino». Le «prestazioni migliori» sono tutte nell'Ottocento,
«ai tempi di Gervinus e Scherer, di De Sanctis e Lanson», considerati «i
patriarchi» del genere. Allora si riteneva che lo «scopo piuÁ elevato fosse di
rappresentare nella storia delle opere poetiche l'idea dell'individualitaÁ nazionale nell'atto del suo perfezionarsi». Purtroppo nel secondo Novecento rimane solo «un lontano ricordo» di «questo alto compito» della storia della
letteratura, la quale oramai eÁ nelle scuole e nelle universitaÁ «in via di estinzione»1.
A fronte di questa parabola in declino e del rischio di estinzione, di cui
occorre cercare le ragioni e osservare il futuro, puoÁ essere utile ricostruire il
passaggio cruciale, in Italia, della Storia della letteratura italiana (1870-1872)
di Francesco De Sanctis, un testo che contribuõÁ in modo determinante alla
costruzione del nostro Paese, alla fondazione dell'identitaÁ dello Stato italiano
nato nel 1861, all'indagine sulla tradizione culturale nazionale e sulle proiezioni verso l'Europa, alla formazione delle nuove classi dirigenti2.
1. Dai letterati agli scrittori
Il celebre incipit del XIX cap. La nuova scienza della Storia di De Sanctis3
consegna al lettore l'idea storiografica che sostanzia l'opera:
1
Il testo di H. R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation (Frankfurt, 1970) eÁ ora in
traduzione italiana (da cui si cita): Storia della letteratura come provocazione, a cura di P.
Cresto-Dina, Torino, Bollati Boringheri, 1999, p. 166.
2
Su questi temi mi sia concesso di rimandare agli altri due interventi del mio trittico
desanctisiano e alla relativa bibliografia: «Noi volevamo una patria, e la patria fu per noi tutto».
Dante e l'identitaÁ della nuova Italia nella Storia della letteratura italiana di Francesco De
Sanctis, negli atti del convegno Culto e mito di Dante dal Risorgimento all'UnitaÁ (Firenze,
23-24 novembre 2011), in corso di stampa nella rivista «La rassegna della letteratura italiana», 2012, n. 2; Risorgimento, Rinascimento e Rinnovamento nella Storia della letteratura
italiana di Francesco De Sanctis, in «Studi Rinascimentali», 10, 2012.
3
Si cita da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, con una nota introduttiva di C. Muscetta, Torino, Einaudi, 1971,
voll. 2.
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La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza
nazionale4.
All'indomani dell'UnitaÁ d'Italia, De Sanctis si interroga su tempi e modi
della risurrezione della coscienza nazionale, che ha dato vita al processo
risorgimentale con il passaggio dall'ideale di patria alla realizzazione dello
Stato italiano, e cerca le risposte nella parallela risurrezione della letteratura,
di cui ricostruisce la biblioteca, arricchendone il catalogo con autori e testi
fino allora esclusi dalla cultura classicistica5.
Il punto di vista di De Sanctis eÁ quello romantico-risorgimentale di un
popolo che, guidato dalla borghesia, eÁ giunto alle ultime battute del suo
divenire nazione. CosõÁ il punto di vista individuale diventa collettivo e si
identifica ora con una classe sociale, la borghesia, ora con il popolo.
Nel delineare il vero Rinnovamento6, collocato tra Settecento e Ottocento, De Sanctis addita i protagonisti sociali nella «nuova forza», il popolo, e
nella «nuova classe», la borghesia:
Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da ogni
involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di seÂ, si sentiva tempo
moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla teologia. Era la natura che
si ribellava alla forza occulta, e cercava ne' fatti la sua base. Era l'uomo che
cercava nella sua natura i suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il
popolo, che sorgeva sulle rovine del papato e dell'impero. Era una nuova
classe, la borghesia, che cercava il suo posto nella societaÁ sulle rovine del clero
e dell'aristocrazia. Era la nuova ``carta'', non venuta da concessioni divine o
umane, ma trovata dall'uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in
quella immortale Dichiarazione de' dritti dell'uomo. Era la libertaÁ del pensiero, della parola, della proprietaÁ e del lavoro, l'eguaglianza de' dritti e de'
doveri. Era la fine de' tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi di quella etaÁ
umana, cosõÁ ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva; cominciava l'evo moderno7.
E, piuÁ avanti, di questa nuova classe, il ceto medio, De Sanctis elenca le
categorie professionali («avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati, professori») e segnala la responsabilitaÁ di cui la borghesia si fece carico,
Ivi, XIX, par. 1, p. 739.
Lungo questa strada, a inizio Novecento, Croce crea quel laboratorio di idee, che eÁ
«La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia», apparsa il 28 gennaio 1903, e fonda nel
1910 la collana laterziana Scrittori d'Italia, la piuÁ grande e ambiziosa biblioteca della letteratura italiana, il cui catalogo celebra, sulle orme di De Sanctis, «la morte di un'Italia retorica»,
come ha osservato Garin, e consacra «la nascita di una nazione che ritrovava, nei suoi
scrittori [...], quell'anima che l'aveva fatta risorgere». Cfr. E. Garin, La casa editrice Laterza
e mezzo secolo di cultura italiana, in La cultura italiana tra '800 e '900, Bari, Laterza, 1962, pp.
165-166.
6
Cfr. P. Sabbatino, Letteratura e «risurrezione della coscienza nazionale». Le occorrenze
di Risorgimento e Rinascimento nella Storia di Francesco De Sanctis e il Rinnovamento dei tempi
moderni, in La nuova scienza come rinascita dell'identitaÁ nazionale: la Storia della letteratura
italiana di Francesco De Sanctis (1870-2010), a cura di T. Iermano e P. Sabbatino, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 53-88.
7
Storia, cit. in nt. 3, XIX, par. 27, pp. 836-837.
4
5
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quella di parlare in nome del popolo tutto nel rivendicare la libertaÁ e l'uguaglianza di diritti e doveri:
La borghesia [...] era il ``medio ceto'', avvocati, medici, architetti, letterati,
artisti, scienziati, professori, prevalenti giaÁ di cultura, che non si accontentavano piuÁ di rappresentanze nominali, e volevano il loro posto nella societaÁ.
Non eÁ giaÁ che si affermassero anch'essi come classe, e volessero privilegi.
Volevano libertaÁ per tutti, uguaglianza di diritti e di doveri, parlavano in
nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano essi la classe
predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano per seÂ8.
La borghesia creoÁ un movimento «popolare», vale a dire «comune a tutte
le classi» sul piano delle «idee» e delle «tendenze». Inoltre quel movimento
popolare, nel dar voce a «idee e speranze comuni» agli uomini di tutte le
latitudini e longitudini, fu anche «cosmopolitico», «internazionale», «universale», capace di unire in un abbraccio America ed Europa. Infatti il movimento da una parte si propose come «contenuto» sia una necessaria «riforma
religiosa, politica, morale e civile», sia una «riforma sociale» che mutasse in
modo radicale la condizione socio-economica, dall'altra si propose come
obiettivo di raggiungere «tutte le classi sociali e tutte le nazioni»9.
Nell'esprimere l'orizzonte della borghesia e del popolo italiano De Sanctis interpreta «un movimento di riscossa e di formazione dello spirito nazionale largamente condiviso dalla cultura europea ottocentesca», come osserva
Luperini10, e nel contempo «conduce un conflitto» sia contro le tendenze
politiche reazionarie che contrastavano in Italia prima il processo risorgimentale e poi l'affermazione piena della nazionalitaÁ italiana», sia «contro la vecchia cultura classicistica», allargando il canone degli autori, non piuÁ e non solo
letterati ma anche scrittori (politici, pensatori, storici, scienziati, filosofi).
Il movimento del vero Rinnovamento, che tra Settecento e Ottocento
risuscita la coscienza nazionale, ha le radici nelle prime fasi dell'etaÁ moderna,
dal Trecento all'inizio del Settecento, nell'Italia letteraria che va da Petrarca
fino all'accademia dell'Arcadia. In particolare le radici del vero Rinnovamento sono in Machiavelli, con il quale si pongono «le fondamenta» per una
lettura diversa e alternativa della realtaÁ e dell'uomo, si scopre «un mondo
nuovo in opposizione all'ascetismo», un mondo nuovo «trovato e illustrato
dalla scienza»; eÁ con Machiavelli che si avvia finalmente la «prima ricostruzione della coscienza» nazionale, la sola strada che porta al risorgere della
letteratura, alla «nuova letteratura»11. E a sua volta la letteratura trova «il suo
contenuto, il suo motivo, la sua novitaÁ» in questo «nuovo mondo, nel quale
«avere [...] fede» e per la qual fede «lottare, poetare, vivere, morire»12.
Tra secondo Cinquecento e primo Seicento, la costruzione della coscienza nazionale continua con il movimento intellettuale degli uomini nuovi, al
Ivi, XIX, par. 27, p. 838.
Ibidem.
R. Luperini, Il ``noi'' di De Sanctis e il nostro, in La nuova scienza, cit. in nt. 6, pp.
392-393.
11
Storia, cit. in nt. 3, XIX, par. 1, p. 739.
12
Ibidem.
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quale partecipano i liberi pensatori. I nuovi filosofi, come Bernardino Telesio, Francesco Patrizi, Mario Nizzoli da Modena, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, sostennero il principio dell'autonomia della ragione e
lottarono contro la cultura piramidale, rivendicando la totale indipendenza
della ragione dalle auctoritates teologiche e filosofiche.
Il movimento del Rinnovamento assunse la forza d'urto di una rivoluzione solo nel Settecento, quando in Europa «la scienza si faceva pratica, e
scendeva in mezzo al popolo», l'investigazione cedeva il posto alla divulgazione, «la sapienza riposta diveniva sapienza volgare, e, scendendo nella vita,
prendeva le passioni e gli abiti della vita», le forme «scolastiche» e «geometriche» della scienza (trattati, dissertazioni, ecc.) si trasformavano in forme
della letteratura (racconti, memorie, dialoghi, epistole, articoli), il linguaggio
tecnico-scientifico diveniva naturale e parlato, le lingue volgari dell'Europa
«cacciavano via gli ultimi avanzi del latino»13.
In questo contesto internazionale, la scienza filosofica divenne letteratura e il filosofo acquistoÁ quella centralitaÁ che nell'etaÁ precedente fu del
letterato. La letteratura, che nasce dalla scienza, abbandona l'abito della
«serena contemplazione», vuole essere «un'arma puntata contro il passato»,
fatto di «superstizione, pregiudizio, oppressione» e si propone di svolgere nel
presente una funzione militante, fino a coinvolgere l'intero popolo, tutte le
classi sociali, e a scendere «in piazza tra gli uomini», per diffondere il «verbo»
dell'avvenire, «LibertaÁ, uguaglianza, fraternitaÁ umana»14.
Nella Storia la ricostruzione desanctisiana della risurrezione della
coscienza nazionale e della parallela risurrezione della letteratura moderna
fa leva, nel quadro della lunga e persistente egemonia dell'Italia dei letterati,
sulla tensione oppositiva, prima lenta e poi crescente, dell'altra Italia, quella
dei politici come Machiavelli, dei pensatori come Bruno e Campanella, degli
storici come Sarpi, degli scienziati come Galilei, e cosõÁ via di seguito, fino alla
svolta cruciale con Vico, il quale costruisce la Scienza nuova non tanto sulla
«coscienza individuale», bensõÁ sulla «coscienza del genere umano», sulla
«ragione universale»15.
Lungo il Settecento, crescendo «la fede in questo avvenire filosofico», i
letterati furono considerati parolai e persero il primato goduto nel sec. XVI.
Il loro posto fu conquistato dai nuovi filosofi, i quali diedero vita al movimento riformatore e laico, e da scrittori (non letterati) come Pietro Giannone
(Istoria civile del regno di Napoli, 1721-1723; Il Triregno, 1731-1736), Cesare
Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764) e Gaetano Filangieri (La scienza della
legislazione, voll. 7, 1780-1785; vol. 8, 1788), i quali affrontarono i problemi
reali dell'uomo alla luce della nuova filosofia. Con loro la filosofia superoÁ
l'astrazione speculativa e divenne un patrimonio acquisito, «generalmente
ammesso», e l'obiettivo oramai fu «un `apostolato', propagare e illustrare la
filosofia»16. CosõÁ, col trascorrere del tempo, come si legge nel cap. La nuova
letteratura, «compariscono sulla scena filosofi e filantropi, giureconsulti,
13
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16
Storia, cit. in nt. 3, XIX, par. 27, p. 835.
Ivi, XIX, par. 27, p. 836.
Ivi, XIX, par. 23, p. 824.
Ivi, XIX, par. 30, p. 852.
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avvocati e scienziati, musici e cantanti», «il letterato diviene sinonimo di
parolaio», i «libri letterari» sono ormai discreditati e invece attirano l'interesse le opere di Beccaria e Galiani, di scrittori, dunque, non di letterati17.
2. La nuova Italia e la nuova letteratura
La «rigenerazione» della letteratura passoÁ attraverso la ricostituzione
della «serietaÁ di un contenuto», secondo il motto del «CaffeÁ» contro Crusca e
Arcadia: «Cose e non parole»18, e attraverso la lotta contro «la forma vuota»,
che perduroÁ fino al dramma del Metastasio. Nacque cosõÁ la «forma `naturale'», che ha «la sua ragion d'essere» nel pensiero e del pensiero eÁ «espressione
immediata»19, come affermoÁ Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia
delle lingue (1785), e si estrinseca in uno stile «vispo, rotto, ineguale, pieno
di movimenti, imitazione del linguaggio parlato», capace di «produrre
impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltaÁ intellettive»20.
Questa «rivoluzione» nella letteratura si registra sull'intero territorio della
Penisola, «nelle parti settentrionali e meridionali d'Italia» (Venezia, Padova,
Milano, Torino, Napoli), con qualche resistenza a Firenze e a Roma, l'una
«patria della Crusca» e l'altra «patria dell'Arcadia». Alla rivoluzione partecipano Giuseppe Baretti, Cesare Beccaria, Pietro Verri, Melchiorre Gioia,
Ferdinando Galiani, Giuseppe Maria Galanti, Gaetano Filangieri, Melchiorre Delfico, Mario Pagano.
Il dizionario storico della nuova letteratura viene costruito con meticolositaÁ critica da parte di De Sanctis, partendo dagli autori della transizione,
con Metastasio, Pietro Chiari, Gian Carlo Passeroni e Carlo Goldoni. Metastasio eÁ l'ultimo letterato, espressione della crisi del «periodo musicale della
vecchia letteratura, iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino»21.
Chiari rappresenta il tempo in cui la vecchia letteratura era in estinzione e «la
nuova fermentava appena in quella prima confusione delle menti», per cui egli
possiede e mostra «tutti i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo»22.
Passeroni nel poema satirico-morale Il Cicerone (1755-74) e nella raccolta di
Favole esopiane (1779-1788) canzonava il vecchio mondo e con la sua scrittura
«andante, alla buona, tutto buon senso e naturalezza» faceva opposizione
contro la poesia del tempo, contro la «vuota turgidezza» di Carlo Innocenzo
Frugoni, i «lambicchi» di Francesco Algarotti, i «lezi» di Saverio Bettinelli23.
Goldoni «riuscõÁ il Galileo della nuova letteratura», facendo uso del telescopio,
cioeÁ dell'«intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon senso». Prese le
distanze dalla «commedia dotta, regolata, letteraria, alla latina o alla toscana»,
il cui ultimo e fortunato epigono fu il fiorentino Giovanni Battista Fagiuoli, e
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8, p. 880.
8, p. 881.
10, p. 885.
10, p. 886.
7, p. 878.
12, p. 890.
16, p. 907.
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si propose di creare «la buona commedia», fondata sulla «natura», sull'osservazione del reale, sul «ritrarre dal vero», fino a liberare la scrittura dal «fantastico», dal «gigantesco», dal «declamatorio», dal «rettorico», alla stessa maniera di Galileo, che tra fine Cinquecento e inizio Seicento aveva liberato la
scienza dalle «forze occulte», dall'«ipotetico», dal «congetturale», dal «soprannaturale»24. Tuttavia un comune denominatore unisce i «poeti della transizione», Metastasio, Passeroni e Goldoni, i quali pur svolgendo un ruolo di
riformatori sono sostanzialmente legati al vecchio:
erano della stessa pasta, idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro giaÁ i segni di una nuova letteratura, una forma popolare,
disinvolta, rapida, liquida, chiara, disposta piuÁ alla negligenza che all'artificio.
Ma eÁ sempre un giuoco di forma, alla quale manca altezza e serietaÁ di motivi;
ci eÁ il letterato, manca l'uomo. Senti in questi riformatori il vecchio uomo
italiano, di cui era espressione letteraria l'arcade e l'accademico. Combattevano l'Arcadia, ed erano piuÁ o meno arcadi25.
Con Giuseppe Parini, «uomo piuÁ di meditazione che di azione»26, la
transizione eÁ giaÁ avvenuta e incomincia la stagione della nuova letteratura.
Egli fonda la sua visione del mondo sulla ragione e sulla osservazione della
natura e quel «mondo nuovo [...] giuntogli attraverso Plutarco e Dante piuÁ che
per influssi francesi» diviene in lui «una interna misura», morale e intellettuale
insieme, pur prevalendo la forza morale su quella intellettuale. CosõÁ con Parini
«rinasce l'uomo» e l'uomo rinato «educa» il letterato, il quale crede che il
contenuto sia la vera sostanza dell'arte e che l'artista debba essere espressione
della totalitaÁ dell'uomo, dunque del patriota, del credente, del filosofo, dell'amante e dell'amico. Finalmente la poesia recupera la sua originaria essenza e
funzione, e ritorna ad essere «voce del mondo interiore», della «coscienza»,
della «fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale»:
La poesia riacquista la serietaÁ di un contenuto vivente nella coscienza. E la
forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l'idea, armonia tra l'idea
e l'espressione. La base del contenuto eÁ morale e politica, eÁ la libertaÁ, l'uguaglianza, la patria, la dignitaÁ, cioeÁ la corrispondenza tra il pensiero e l'azione. EÁ
il vecchio programma di Machiavelli divenuto europeo e tornato in Italia. La
base della forma eÁ la veritaÁ dell'espressione, la sua comunione diretta col
contenuto, risecata ogni mediazione. EÁ la forma di Dante e di Machiavelli
riverginata con esso il contenuto. Il contenuto eÁ lirico e satirico27.
Se Parini eÁ «l'uomo nuovo in vecchia societaÁ», Alfieri eÁ «l'uomo
nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a' contemporanei, statua
gigantesca e solitaria col dito minaccioso»28. Se il contenuto di Parini eÁ
24
Ivi, XX, par. 14, p. 896. Cfr. P. Sabbatino, Il `Galileo' del nuovo teatro. Appunti
sulla fortuna di Goldoni a Napoli nell'Ottocento, in «Rivista di letteratura teatrale», 2010, n.
3, pp. 55-62.
25
Storia, XX, par. 16, pp. 907-908.
26
Ivi, XX, par. 17, p. 909.
27
Ivi, XX, par. 17, p. 910.
28
Ivi, XX, par. 18, p. 912.
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«lirico e satirico», il contenuto di Alfieri eÁ «l'ira, il disgusto, il disprezzo».
Inoltre Alfieri scelse di essere «scrittore tragico» per dare all'Italia il
genere che le mancava «per sentenza di tutti», la tragedia29. Vivendo nel
tempo in cui l'Italia era «tanto degenere», preferõÁ guardare al passato, alla
grandezza dell'antica Roma. E soprattutto scelse di guardare al futuro, alla
«nuova Italia», che egli immaginava «simile all'antica», e al «nuovo uomo»,
di cui bisognava rifare «la pianta». In questa prospettiva il genere della
tragedia, per statuto rappresentazione di eroi, si prestava a ritrarre il
nuovo eroe, cioeÁ il nuovo uomo, che eÁ nel testo e sulla scena l'alter ego
dell'Alfieri.
La sua visione del nuovo mondo e della nuova Italia si trasforma in
passione e obiettivo di vita da perseguire con determinazione, nonostante
le difficoltaÁ, che, se piuÁ grandi, piuÁ lo spronavano. Per queste ragioni De
Sanctis ritrae Alfieri come consapevole «redentore d'Italia», ma sul piano
poetico «non potendo con l'opera», come «il grande precursore di una nuova
eÁra»30, il quale svolse un ruolo fondamentale, infiammando «il sentimento
politico e patriottico» e accelerando «la formazione di una coscienza nazionale»31.
Foscolo, che si era formato alla scuola di Plutarco, Dante e Alfieri, fu
con i Sepolcri «la prima voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione
della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo»32. La poesia eÁ finalmente «pensiero
nudo, acceso nella immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le
sue consonanze e le sue armonie interne»33. Il verso, al sicuro da ogni artificio, eÁ «voce di dentro», «la musica delle cose, la grande maniera di Dante»34.
Il carme, che prende il posto delle altre forme metriche (come sonetto e
canzone), si presenta come «forma libera di ogni meccanismo» e diviene «il
poema lirico del mondo morale e religioso, l'elevazione dell'anima nelle alte
sfere dell'umanitaÁ e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell'uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee», la voce poetica dell'«uomo intero, nella esterioritaÁ della sua vita di patriota e di cittadino e nella
intimitaÁ de' suoi affetti privati», la rappresentazione dell'«aurora di un nuovo
secolo»35.
Ma per De Sanctis «il progresso umano» non avviene «in modo logico e
pacifico», bensõÁ «in modo tumultuario»36. Infatti Foscolo, pur rappresentando l'alba dell'Ottocento e pur battendo «alle porte» del nuovo secolo, rimane
«l'ultimo scrittore» del Settecento, senza conquistare il posto di «primo
scrittore del secolo decimonono», di «capo della nuova scuola». In sostanza,
continua De Sanctis, Foscolo non condivide dell'Ottocento «soprattutto la
guerra mossa alle forme mitologiche», anzi egli riteneva che «in quelle nega29
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pp. 936-937.
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p. 938.
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zioni» fosse «negato se stesso». E all'inizio dell'Ottocento lancioÁ «al nuovo
secolo, come una sfida, le sue Grazie, l'ultimo fiore del classicismo italiano»,
la celebrazione delle forme mitologiche.
Il «secolo del progresso» riconobbe i padri e le proprie origini innanzitutto in Vico «il genio» del secolo dei lumi e «accanto a lui» in Bruno e
Campanella i primi intellettuali del Rinnovamento risorti nell'Ottocento
«con fama europea»37. Nella Scienza nuova il secolo del progresso trovoÁ «la
sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale», la sintesi riconciliativa di
passato e presente, l'affermazione della critica contro dogmatismo e scetticismo:
Ivi trovavano condensate tutte le forze del secolo, la speculazione, l'immaginazione, l'erudizione. Di laÁ partiva quell'alta imparzialitaÁ di filosofo e di
storico, quella giustizia distributiva ne' giudizi, che fu la virtuÁ del secolo.
Passato e presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso
fatale della storia. E contro al fato non val collera, non giova dar di cozzo. Il
dommatismo con la sua infallibilitaÁ e lo scetticismo con la sua ironia cessero il
posto alla critica, quella vista superiore dello spirito consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non si adira contro se stesso38.
Sull'onda di questo movimento, nacque il Romanticismo, la «letteratura
de' popoli moderni»39, che ebbe a Milano, «dove erano piuÁ vicini e piuÁ potenti
gl'influssi francesi e germanici», il suo centro propulsore. E nella cittaÁ dove
aveva preso avvio il secolo dei lumi con il CaffeÁ, ora prende avvio il secolo del
progresso con il Conciliatore. Una nuova generazione appare sulla scena, ora
intrecciandosi con quella precedente ora sostituendola. La pagina di De Sanctis ferma, come in un affollato ritratto di gruppo, le dinamiche generazionali e
le tensioni culturali, rappresentando abilmente e paradossalmente lo scorrere
diacronico in una immagine sincronica:
Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet, e gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso
Grossi e Massimo d'Azeglio, divenuto sposo di Giulia Manzoni e anello fra la
Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello stesso giro d'idee Cesare
Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione s'intrecciava con la
nuova. Vivevano ancora, memorie del regno d'Italia, Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro Giordani. Dirimpetto a Melchiorre Gioia
vedevi Sismondi, italiano di mente e di cuore; e mentre il vecchio Romagnosi
scrivea la Scienza della costituzione, il giovane Antonio Rosmini pubblicava il
trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni, Felice Bellotti,
Andrea Maffei, il traduttore di Klopstok e di Schiller. Dirimpetto a' poeti
vedevi i critici, dilettanti pure di poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti,
Giovanni De Cristoforis, Samuele Biava. Nelle stesse file militavano Carlo
Porta, NiccoloÁ Tommaseo, i fratelli Cesare e Ignazio CantuÁ, e Maroncelli, e
Confalonieri, e altri minori40.
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Ivi, XX, par. 20, p. 955.
Ibidem.
Ivi, XX, par. 24, p. 956.
Ivi, XX, par. 24, pp. 957-958.
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La riforma letteraria del Romanticismo, che si presentoÁ e maturoÁ in
Italia in ritardo rispetto alla Germania, fu avvertita non tanto come un
inizio, bensõÁ come una continuazione, dal momento che da noi la nuova
letteratura aveva avuto inizio giaÁ nel Settecento con Goldoni e Parini. Aprendo la finestra al vento della cultura europea, l'Italia trovoÁ le ragioni per
reagire alla «sua solitudine» e alla «sua stagnazione intellettuale», inoltre
con piuÁ determinazione caccioÁ «via da se una parte di seÂ, il seicentismo,
l'Arcadia e l'accademia» e finalmente prese «il suo posto» nel panorama
internazionale della vita culturale41. Dunque, per De Sanctis, il Romanticismo in Italia eÁ «la nuova letteratura di Goldoni e di Parini», che nell'Ottocento «acquistava una coscienza piuÁ chiara delle sue tendenze, e, lasciando
gl'ideali rigidi e assoluti, prendeva terra, si accostava al reale»42.
3. La formazione della coscienza politica e il nuovo orizzonte dell'Europa
Il lettore eÁ giunto ormai al traguardo della Storia e De Sanctis non a caso
richiama l'attenzione sulla nuova forza sociale, il popolo italiano, nel quale
durante il secolo del progresso penetroÁ il «sentimento piuÁ vivo del reale», con
il graduale allontanamento dalla ormai decaduta e sgretolata immagine di
«popolo accademico» fruitore del vecchio teatro e della vecchia letteratura43.
Inoltre il popolo italiano «vide la libertaÁ sotto tutte le sue forme, nelle sue
illusioni, nelle sue promesse, ne' suoi disinganni, nelle sue esagerazioni» e
nutrõÁ «il sentimento nazionale» acuito dagli eventi storici:
l'unitaÁ d'Italia non era piuÁ un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si
drizzavano le menti e le volontaÁ.44
In questo quadro d'insieme, precisa De Sanctis, si registra «il fatto
nuovo», la formazione della coscienza politica nella fascia istruita del popolo
italiano, disincantato nei riguardi delle sirene della retorica e delle astrazioni,
forte di un umano «senso del limite e del possibile» e capace di valutare la
«misura dello scopo» e la «convenienza de' mezzi». Sul piano lessicale si
affermoÁ la voce progresso (il miglioramento culturale e sociale eÁ sempre compatibile con tutte le forme di governo, anche con quelli dispotici), che,
cacciando e sostituendo la voce rivoluzione intesa come mutazione violenta
e obiettivo immediato del popolo contro il potere, fu il credo del popolo
italiano lungo l'Ottocento:
Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare, perche cacciava quella maledetta parola che era la rivoluzione, e significava la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente mutazioni.
Il progresso raccomandava pazienza a' popoli, dimostrava compatibile ogni
41
42
43
44
Ivi, XX, par. 24, p. 960.
Ivi, XX, par. 24, p. 964.
Ivi, XX, par. 25, p. 964.
Ibidem.
172
pasquale sabbatino
miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la filosofia
cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione. Oltre a
cioÁ, libertaÁ, rivoluzione indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi, dove progresso nel suo senso vago abbracciava ogni miglioramento, e
dava agio a' principi di acquistarsi lode a buon mercato, promovendo, non
fosse altro, miglioramenti speciali, che parevano innocui, com'erano le strade
ferrate, l'illuminazione a gas, i telegrafi, la libertaÁ del commercio, gli asili
d'infanzia, i congressi scientifici, i comizi agrari. A poco a poco i liberali
tornarono laÁ ond'erano partiti, e non potendo vincere i governi, li lusingarono, sperarono riforme di principi, anche del papa; rifacevano i tempi di
Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un po' quell'arcadia.
Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e all'Idea, dovea
condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo facilmente
appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo in una nuova
arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva la Giovine
Italia. Pure, i moti repressi del '21 e del '31, i vari tentativi mazziniani mal
riusciti, la politica del non intervento delle nazioni liberali, la potenza riputata
insuperabile dell'Austria, la forza e la severitaÁ de' governi, le fila spesso
riannodate e spesso rotte disponevano gli animi ad uno studio piuÁ attento
de' mezzi, li piegavano a compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano impopolare la dottrina del ``tutto o niente''. Lo stesso Mazzini, ch'era
all'avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue formole quell'accento di
misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato nella filosofia e nelle
lettere e che lo chiariva uomo del secolo, e mostravasi anche lui disposto a
tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione, e a sacrificarvi una
parte del suo ideale45.
Nel secolo del progresso, quando avanza la fiducia nello sviluppo naturale della storia, cala l'azione politica e fioriscono scienze, lettere ed arti.
Nell'ambito delle lettere, il Romanticismo italiano produce una «letteratura
nazionale e moderna»46, nella quale vibrano «le corde piuÁ soavi dell'uomo e
del patriota»47. L'elenco di autori e opere eÁ fitto e arricchisce il catalogo degli
scrittori: si va da Manzoni (le tragedie storiche Il Conte di Carmagnola e
Adelchi, il romanzo I Promessi Sposi) a Bartolomeo Sestini (il poemetto La
Pia, che trae spunto da Purg., V, 130-136), da Tommaso Grossi (le novelle in
versi La fuggitiva, Ildegonda, il poema epico I Lombardi alla prima crociata, il
romanzo storico Marco Visconti) a Silvio Pellico (la tragedia Francesca da
Rimini, la narrazione autobiografica Le mie prigioni), da Cesare CantuÁ (il
romanzo storico Margherita Pusterla) a Massimo d'Azeglio (i romanzi storici
Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, NiccoloÁ de' Lapi, l'incompiuto La lega
lombarda) da Giovan Battista Niccolini (il dramma storico Arnaldo da Brescia)
a Francesco Domenico Guerrazzi (il romanzo storico L'assedio di Firenze).
De Sanctis coglie nella letteratura romantica il ritorno al medio evo,
assunto dagli scrittori come «involucro de' nostri ideali», come «espressione
abbastanza trasparente delle nostre speranze»48. EÁ il caso, ad esempio, della
45
46
47
48
Ivi,
Ivi,
Ivi,
Ivi,
XX,
XX,
XX,
XX,
par.
par.
par.
par.
25,
24,
25,
25,
pp. 964-965.
p. 958.
p. 966.
p. 967.
la ``storia'' di francesco de sanctis e gli scrittori della ``nuova italia''
173
scelta da parte di Massimo d'Azeglio di un argomento come la lega lombarda
(alleanza costituita nel 1167 contro le mire espansionistiche nell'Italia settentrionale dell'imperatore del Sacro Romano Impero, Federico I di Hohenstaufen detto il Barbarossa), la quale viene «trasformata in lotta italiana
contro la Germania», rappresentando cosõÁ «il pensiero e il sentimento pubblico». Il medio evo, dunque, viene trattato come un corpo narrativo che
avvolge un animo filosofico e politico estraneo a quell'involucro. Lo stesso
capita al misticismo medievale, che funge da elemento esterno e accessoriale
rispetto «all'intimo spirito» di un testo e da mero ornamento e macchina
poetica, con il risultato che la letteratura italiana del Romanticismo eÁ ricca
di figure e luoghi celesti (angeli, santi, madonne, paradisi), come un tempo la
letteratura classicista era abitata dagli dei.
Solo nel milanese Giovanni Berchet, esule a Parigi, Londra e nel Belgio,
dove aveva portato «i dolori e i furori della patria tradita e vinta» ± continua
De Sanctis ± la poesia riuscõÁ a liberarsi da «ogni involucro romantico e
classico» e assunse il possente e drammatico «accento della collera nazionale»49. Ma quando giunse in Italia, non trovoÁ ascolto e rimase «solitaria».
Lungo la nostra Penisola trionfavano la prudenza politica e la conciliazione
tra le opposizioni. E qui la scrittura di De Sanctis denuda la situazione
comica e paradossale dell'Italia:
Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni, il papa a braccetto co' principi, i
principi riamicati a' popoli, il misticismo internato nel socialismo, Dio e
progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale. Il movimento
era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E cioÁ che ne uscõÁ,
non fu giaÁ ne una riforma religiosa ne un movimento intellettuale, ma un moto
politico, tenuto in piede dall'equivoco, e crollato al primo urto de' fatti.
Questa era la faccia della societaÁ italiana. Era un ambiente, nel quale anche
i piuÁ fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell'avvenire; i liberali biascicavano paternostri, e i gesuiti biascicavano progresso e
riforme50.
Contro le ipocrisie delle parti sociali e contro il carnevale politico-culturale della conciliazione universale si levoÁ il «ghigno» del toscano Giuseppe
Giusti, il quale tolse la maschera ai personaggi della storia e si adoperoÁ con
una scrittura graffiante per dissolvere il laborioso sistema, costruito nell'Ottocento mettendo insieme il diavolo e l'acqua santa:
Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe
Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de' Medici che gittasse una
occhiata ironica sulla societaÁ quale l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle
finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale,
sotto la quale ammiccavano le idee liberali gli Arlecchini, i Girella, gli eroi
da poltrona, furono materia di un riso non privo di tristezza. Era Parini
tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava
l'ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema
49
50
Ivi, XX, par. 25, pp. 967-968.
Ivi, XX, par. 25, p. 969.
174
pasquale sabbatino
d'idee medie nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi va a finire
irreparabilmente nel comico. Tutto quell'equilibrio dottrinale cosõÁ laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di
metafisica, quella metafisica del divino e dell'assoluto declinante in teologia,
quel volterianismo inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi
al ghigno di Giuseppe Giusti51.
La fine di questo periodo della mascherata universale eÁ segnata, secondo
il disegno storiografico di De Sanctis, da Leopardi, il poeta dello scetticismo
che racconta la dissoluzione di quel mondo fondato sulla pretesa eclettica di
conciliare gli opposti e scopre «il regno dell'arido vero, del reale»52. Inoltre
Leopardi, varcando la linea di confine di un periodo, rappresenta soprattutto
la «transizione laboriosa che si chiamava secolo decimonono», il passaggio
sofferto verso la modernitaÁ e la nuova formazione dell'Ottocento, e i suoi
Canti ne sono «le piuÁ profonde e occulte voci».
La transizione laboriosa eÁ descritta da De Sanctis con particolare attenzione alle tensioni che riemergono, dopo l'appiattimento e la distensione
durante gli anni della conciliazione e pacificazione, tra il vecchio che si sfalda
e il nuovo che avanza, tra la dissoluzione del mondo teologico-metafisicopolitico con la relativa caduta verticale di fede e filosofia e la ricomparsa del
mistero che mette sullo stesso piano il filosofo e il pastore («Il filosofo sapeva
quanto il pastore»), tra «la brillante esterioritaÁ di quel secolo del progresso» e
la scoperta del mondo interiore e morale rimasto inviolato nonostante la
distruzione del mondo intellettuale:
CioÁ che ha importanza eÁ l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno,
virtuÁ, libertaÁ, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza e della poesia,
ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e non
vogliono morire. Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un mondo interno, malgrado
la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, eÁ l'originalitaÁ di Leopardi, e daÁ
al suo scetticismo una impronta religiosa. Anzi eÁ lo scetticismo di un quarto
d'ora quello in cui vibra un cosõÁ energico sentimento del mondo morale.
Ciascuno sente lõÁ dentro una nuova formazione53.
Alla transizione laboriosa, rappresentata da Leopardi, segue la «rinnovazione», il cui strumento fondamentale eÁ la critica «covata e cresciuta nel
seno stesso dell'eclettismo» e rimasta «intatta» nella generale distruzione del
vecchio mondo intellettuale. Con la critica «ricomincia il lavoro paziente
dell'analisi» e ritornano «a splendere sull'orizzonte intellettuale» le grandi
figure degli scrittori italiani, Galileo e Vico. Oramai la storia riprende il
cammino, dopo aver segnato il passo durante il vecchio mondo teologicomistico-politico, e la svolta ottocentesca riparte dalla rivoluzione francese del
51
52
53
Ivi, XX, par. 25, p. 970.
Ivi, XX, par. 26, p. 971.
Ivi, XX, par. 26, p. 972.
la ``storia'' di francesco de sanctis e gli scrittori della ``nuova italia''
175
1789, che diede l'avvio al cambiamento epocale in Italia e in Europa, e
diffonde il socialismo sul piano politico e il positivismo sul piano culturale:
Il verbo non eÁ piuÁ solo LibertaÁ, ma Giustizia, la parte fatta a tutti gli elementi
reali dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva54.
Parallelamente alle trasformazioni sociali e alla maturazione della
coscienza si trasforma anche la letteratura, la quale «rigetta le classi, le
distinzioni, i privilegi», supera le contrapposizioni bello-brutto, ideale-reale,
infinito-finito, unisce in modo indissolubile idea e contenuto, forma e contenuto, racconta «il vivente», elimina definitivamente gli ultimi e residui
«elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici», si libera della scorza
classica e romantica e mostra una «vita interiore», segno, per De Sanctis,
della vita della nazione. EÁ la nascita in Italia della letteratura moderna, che
segue la strada del realismo, diffusosi anche negli ambiti di scienza, arte e
storia:
Dal seno dell'idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell'arte, nella
storia. [...]. La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita
interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come
critica, intenta a realizzare sempre piuÁ il suo contenuto, si chiama oggi ed eÁ la
letteratura moderna55.
Nel finale della Storia, esaurito ormai il processo risorgimentale e «sformato il mondo intellettuale e politico» che lo ha animato, De Sanctis dal
presente di un'Italia ormai unita e nazione scruta il futuro, alla ricerca di «un
nuovo orizzonte», quello dell'Italia dentro l'Europa:
Diresti che proprio appunto, quando s'eÁ formata l'Italia, si sia sformato il
mondo intellettuale e politico da cui eÁ nata. Parrebbe una dissoluzione, se non
si disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte. Una forza
instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le
altre56.
E ancora, nel secolo del progresso che volge al termine, De Sanctis
testimonia di assistere «ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di una
nuova formazione», quella della identitaÁ nazionale moderna, e vede «disegnarsi il nuovo secolo»57, il Novecento.
In questo finale, come ha osservato Ezio Raimondi58, «viene posto il
problema di un'identitaÁ nazionale moderna, allineata con il nuovo sviluppo della civiltaÁ europea, di cui la letteratura deve essere specchio». Per De
Sanctis, l'identitaÁ nazionale moderna non eÁ giaÁ acquisita e non eÁ giaÁ
54
55
56
57
58
Ivi, XX, par. 27, p. 972.
Ivi, XX, par. 27, p. 973.
Ivi, XX, par. 27, p. 974.
Ivi, XX, par. 27, p. 975.
E. Raimondi, Letteratura e identitaÁ nazionale, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 27.
176
pasquale sabbatino
chiusa, anzi «deve essere conquistata», non eÁ un cammino giaÁ fatto, anzi eÁ
un cammino che «bisogna ancora compiere». E il punto di partenza, secondo De Sanctis che cita Leopardi (Palinodia al marchese Gino Capponi, vv.
235-236: «il proprio petto esplorar che ti vale?», in Canti), eÁ «l'esplorazione del proprio petto», del proprio mondo interiore. Con questo «invito» leopardiano e desanctisiano «a conoscersi meglio, a guardarsi dentro
per esaminare la nostra societaÁ», conclude Raimondi, «siamo di fronte
all'introduzione a una letteratura nazionale e moderna che sta muovendo
i primi passi»59.
Nel citare il «motto testamentario» di Leopardi, De Sanctis ne fa il
motto testamentario della propria Storia: l'Italia libera e unita, che ha una
sua vita nazionale, «si dee guardare in seno, dee cercare se stessa», riconoscendo e superando errori e limiti. E qui la lista eÁ purtroppo lunga:
L'ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessitaÁ politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d'una servituÁ e abbiezione di parecchi
secoli, gl'impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una
coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn'intimitaÁ.
La sua vita eÁ ancora esteriore e superficiale60.
L'Italia, solo esplorando dentro e cercando se stessa «con vista chiara,
sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con
lo spirito di Galileo, di Machiavelli», potraÁ rifare la sua cultura, restaurare «il
suo mondo morale», rinfrescare «le sue impressioni», trovare «nella sua intimitaÁ nuove fonti d'ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l'amore, la
libertaÁ, la patria, la scienza, la virtuÁ, non come idee brillanti, viste nello
spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti
il suo contenuto», trasformati in vita interiore.
Il ritrovamento della coscienza nazionale moderna eÁ propedeutico alla
nascita della letteratura nazionale moderna, di cui De Sanctis segnala «presso
di noi», quando il secolo del progresso volge al tramonto, «piccoli indizi con
vaste ombre»:
Abbiamo il romanzo storico, ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il
dramma. Da Giuseppe Giusti non eÁ uscita ancora la commedia. E da Leopardi
non eÁ uscita ancora la lirica. Ci incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca
serietaÁ di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui.
Non ci eÁ vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti s'intravede la coscienza
della nostra inferioritaÁ61.
Nonostante le ombre e la loro vastitaÁ, gli indizi per quanto piccoli
appaiono a De Sanctis sufficienti per annunciare «il nuovo secolo» della
comunitaÁ nazionale che si allinea con la civiltaÁ e comunitaÁ europea:
59
60
61
Ibidem.
Storia, cit. in nt. 3, XX, par. 27, p. 974.
Ivi, XX, par. 27, p. 975.
la ``storia'' di francesco de sanctis e gli scrittori della ``nuova italia''
177
Il grande lavoro del secolo decimonono eÁ al suo termine. Assistiamo ad una
nuova fermentazione d'idee, nunzia di una nuova formazione. GiaÁ vediamo in
questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a' secondi posti62.
Ancora una volta De Sanctis individua in un determinato tempo le
tensioni tra cioÁ che si sta esaurendo e cioÁ che sta nascendo, tra il vecchio e
il nuovo, tra il buio della notte che avanza e le prime luci che annunciano
l'alba. Infine ai lettori De Sanctis rivolge l'esortazione a cogliere la nuova
fermentazione delle idee, a partecipare al processo della nuova formazione, a
collocarsi lungo il disegno del nuovo secolo e ad essere protagonisti e in prima
fila. Da questo punto di vista la Storia di De Sanctis offrõÁ allora e offre ancora
oggi preziosi materiali di riflessione e di dibattito per costruire il nostro
Paese63.
Pasquale Sabbatino
Ibidem.
Cfr. T. Iermano, La prudenza e l'audacia. Letteratura e impegno politico in Francesco
De Sanctis, Napoli-Roma, L'ancora del Mediterraneo, 2012.
62
63
178
pasquale sabbatino
Pasquale Sabbatino
ZOLA E DE SANCTIS
“Emilio Zola è il pittore inesorabile di quella vasta corruzione francese,
che, larvata sotto il regno di Luigi Filippo, si snudò il seno sfacciatamente
sotto l’Impero”. È l’inizio del lungo e fondamentale articolo su Emilio Zola e la
nuova scuola naturalistica, che De Sanctis pubblicò esclusivamente sul
“Roma” in undici puntate, nell’arco di ben sette mesi (da giugno a dicembre
1877), e raccolse poi nella seconda edizione ampliata dei Nuovi saggi critici
(1879) con il titolo Studio sopra Emilio Zola.
Zola guarda con l’occhio “chiaro e secco”, “acuto” come quello di uno
scienziato, la corruzione sociale francese e la espone non tanto con la
commozione del poeta, bensì con l’imparzialità e severità del giudice. Toglie i
veli alla putredine e sceglie di raccontare con “esattezza” e “indifferenza”,
senza pudori e senza decoro, la nuda e cruda realtà, in tutte le sue
gradazioni e degradazioni. Eppure, osserva De Sanctis, i “quadri di Zola crudi
e turpi riescono altamente morali, e più bestialmente laido è il quadro, più si
rivolta e reagisce la coscienza dell’uomo, l’ideale. Siamo in tempo in cui la
corruzione sociale è raffinata e ipocrita, e volentieri si nasconde sotto veli
artificiali. La turpitudine sente vergogna e si rannicchia sotto parole
lambiccate e di buon tuono. Zola straccia i panni alla meretrice e la mette alla
gogna. La gente schizzinosa grida: - Oibò! Zola è un immorale -, e chiude gli
occhi e raggrinza il naso. Tranquillatevi, buona gente, e non giochiamo più a
chi si nasconde; la parola dee esser marchio e non maschera. Quello è lo
stile di Zola, un vero stile che penetra nella carne e fa spicciare il sangue”.
Queste tematiche furono riprese da De Sanctis nella conferenza Zola e
L’Assommoir, tenuta al Circolo filologico di Napoli il 15 giugno 1879, il cui
resoconto stenografico fu pubblicato dal “Roma” (19-21 giugno). Lo Studio e
la conferenza compongono il “dittico zoliano”, che si può leggere nel volume
einaudiano di De Sanctis, L’arte, la scienza e la vita. Nuovi saggi critici,
conferenze e scritti vari, a cura di M. T. Lanza (1972). La curatrice informa
doverosamente di aver consultato il manoscritto delle undici puntate su Zola,
pubblicate dal “Roma” nel 1877, presso la “biblioteca privata di P. Togliatti”.
Durante la conferenza del 1879, il critico militante con una formidabile
sintesi passa in rassegna le opere di Zola, il “pittore della corruzione
parigina”, e addita i quartieri bassi di Napoli, che sono in attesa dei pittori
della corruzione e miseria della nostra città: “Nella Curée rappresenta l’alta
società affarista e licenziosa, mescolata con elementi ignobili; nel Ventre de
Paris dipinge la popolazione parigina ne’ mercati; nell’Assommoir la vita degli
operai alle barriere. Questo racconto non è solo la storia di Gervasia, ma una
storia sociale. E se volete averne un concetto, guardate Napoli. Napoli non
ha ancora i suoi quartieri bassi? Non vi è mai giunta la voce di certi covili,
dove stanno ammassati padri, figli, madri, senza aria, senza luce, tra lordure
perpetue, cenciosi, laceri, scrofolosi, anemici?”. De Sanctis fa perno sul
naturalismo dello scrittore francese per invitare gli scrittori italiani a guardare
coraggiosamente nel ventre delle città della nostra penisola, - dove si annida
la corruzione politica, sociale e naturale -, e, tra queste città, nel ventre di
Napoli, visitando i quartieri bassi, studiando la miseria, dipingendo la storia
sociale.
Al disgusto degli scrittori italiani, che si tengono lontani dai luoghi della
miseria, De Sanctis contrappone il coraggio di Zola nel recarsi dove c’è
l’inferno umano, tra puzzi e oscenità, vizi e mali, con l’obiettivo di
rappresentarlo nella sua nudità. Poi il passaggio centrale, a mio avviso, in cui
il critico militante usa volutamente il “noi”, quasi a creare una rete tra la critica
e la letteratura, tra i critici e gli scrittori, tutti ugualmente responsabili e
colpevoli: “Nessuno di noi – si legge sul “Roma” - ha avuto stomaco di andare
lì e studiare quella miseria: il disgusto ce ne allontana”. Da qui la necessità di
seguire gli sviluppi della letteratura in Francia, dove Zola e il meno noto
Gabriel de Cléron d’Haussonville (autore di Le vagabondage des enfants et
les écoles industrielles e L’enfance à Paris) hanno realizzato una svolta,
destinata ad estendersi nelle altre culture e letterature europee.
Contro la letteratura rinunciataria del disgusto De Sanctis propone la
letteratura esplorativa del coraggio. Lo scrittore, sulle orme di Zola,
attraverserà le città con l’animo di uno scienziato, con l’amore di san
Francesco di Sales per i poveri e l’amore di Alfonso Della Valle di Casanova
(fondatore dell’Opera di assistenza de’ fanciulli usciti dagli asili) per i bambini
disagiati e con la tempra dell’artista: “Ebbene – si legge sul “Roma” - questo
coraggio ha avuto Zola in Parigi, ed un altro, D’Haussonville, che ha fatto
studi interessanti sull’ Enfance de Paris; ed è andato a studiarla nelle ultime
taverne e nelle case più laide. Zola è stato anni in mezzo a questo mondo
infetto, ha veduto da vicino il vizio, ha sentito il puzzo e non si è turato il naso,
ha sentito le parole oscene e non si è turato le orecchie. Andava colà con
l’animo di un professore di anatomia che squarta cadaveri umani per cercarvi
la scienza; con l’amore di un san Francesco di Sales o del filantropo Alfonso
Della Valle di Casanova; che menavano la vita in mezzo ai monelli, pensando
che quelli pure erano loro fratelli. Zola è condotto dall’amore della scienza e
dell’arte, e l’amore è intrepido, come dice Federico Borromeo; l’amore vince il
disgusto. Andava colà col suo bravo taccuino alle mani e notava tutto,
raccoglieva un vasto materiale da cui sono usciti molti romanzi”.
L’ambizioso progetto desanctisiano di dar vita in Italia a un nuovo
modello di narrativa, fondato da una parte sull’osservazione scientifica dei
fatti e sullo studio della “genesi fisica de’ fenomeni morali”, dall’altra sulla
centralità dell’artista che fa passare il vero attraverso l’immaginazione e il
sentimento, trasformando il naturale in scena, il vero in dipinto, partì dalle
colonne del “Roma” – un segnale inconfutabile del protagonismo del giornale
nel panorama dei primi decenni postunitari - ed ebbe una larga diffusione
sull’intera penisola. Infatti, tra la fine degli anni Settanta e durante gli anni
Ottanta dell’Ottocento, la letteratura di esplorazione scientifica delle realtà
locali e dei mali sociali ebbe un nuovo impulso nelle varie regioni d’Italia. A
Napoli si aprì una nuova stagione letteraria, alla quale diedero il loro
contributo giornalisti, scrittori e poeti, come Federico Verdinois, Edoardo
Scarfoglio, Salvatore Di Giacomo (in seguito autore di alcuni articoli sulla
camorra scritti in margine al volume del demologo Abele De Blasio, Usi e
costumi dei camorristi, 1895), Vittorio Pica, Amilcare Lauria e Carlo del Balzo.
La giornalista e scrittrice Matilde Serao resta indubbiamente tra le figure
più interessanti. Parallelamente al filone narrativo psicologico-mondano, che
va dal romanzo Cuore infermo (1881) al punto più alto rappresentato da
Addio, amore! (1890), Serao coltivò il filone realistico, come ci ha insegnato
Antonio Palermo, leggendo le opere del verismo italiano (Verga) e del
realismo europeo (i francesi Balzac, Maupassant, Zola, gli inglesi Dickens,
Thackeray, George Eliot). Scrisse, tra l’altro, i testi raccolti in Dal vero (1879),
l’inchiesta sulla città colpita drammaticamente dal colera del 1884, Il ventre di
Napoli (1884; II edizione 1906) e il romanzo sulla malattia del lotto, Il paese di
cuccagna (1890), nel quale si trova il capitolo sul “dichiaramento” ovvero
sfida a duello per una “femmina” tra due gruppi di giovani malavitosi
napoletani, l’uno capeggiato da Raffaele ‘o Farfariello, e l’altro da Ferdinando
l’ammartenato (L’osteria di Babbasone. Il dichiaramento).
Salvatore Di Giacomo, che mostra più di un debito nei riguardi del
critico De Sanctis, spese la vita a guardare Napoli e si trovò ben presto ad
assistere allo spettacolo di amministratori municipali incapaci di affrontare sia
i problemi vecchi, quelli lasciati dai Borbone all’Italia unita, sia i problemi
nuovi, venuti al pettine con urgenza in seguito al colera del 1884. Nella
Pagina autobiografica (1886), il ventiseienne Di Giacomo esprime la sua
visione di Napoli con lucidità e fermezza: “La mia fissazione è questa, che
Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore
e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori.
Qualche giornale scorna pubblicamente gli amministratori e costoro, tacendo,
confessano”. Le parole di condanna contro gli amministratori municipali, che
tra destra e sinistra ressero nel tempo le sorti della città, restarono scolpite
nel cuore di Di Giacomo, che guardò la sua Napoli, anche nei decenni
successivi, come una città colpita dalla disgrazia di essere nelle mani di una
classe politica attenta solo al proprio interesse. È questo il punto di partenza,
ma anche il punto di arrivo, della produzione, in prosa e in versi, di Di
Giacomo, i cui personaggi rientrano tutti di diritto nell’anagrafe di una umanità
che la storia plurisecolare ha rinchiuso in una sorta di labirinto dl dolore.
Tuttavia, nella sua lunga indagine su Napoli, tra passato e presente, Di
Giacomo ricostruisce la mappa intrigata e intrigante di quel labirinto, alla
ricerca di possibili vie di uscita, per riprendere il cammino della civiltà e della
storia.
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Dispensa De Sanctis - LISA Laboratorio Informatico di Scrittura