ROSSANO ASTREMO La carne muore (d’improvviso la frenesia delle natiche si dissolve nell’etere) ROMANZO Note dell’autore La storia è stata concepita e scritta nell’estate del 2003. La vicenda di Edoardo Vittore è interamente inventata, pur avendo delle somiglianze evidenti con l’esistenza di alcune grandi figure dimenticate della cultura contemporanea del nostro sud (il pittore Edoardo De Candia e gli scrittori Antonio Verri, Salvatore Toma, Claudia Ruggeri). La scelta di pubblicarlo su una rivista on line, dopo un anno che il testo ha girato per un numero esiguo, ma selezionato di case editrici, è un’azione volta a dimostrare che una storia può viaggiare anche senza scendere a sporchi compromessi con quegli editori che si sono dimostrati interessati a questo testo. Con la scrittura non voglio e non posso arricchirmi, ma non voglio che altri si arricchiscano speculando su giovani autori pronti a vendere il culo pur di trovare soldi da donare a falsi mecenati senza scrupoli. Preferisco tenere ben chiuso il mio culo. Mi sono stati chiesti circa tremila euro per la pubblicazione di La carne muore. Ma questo è il caso limite. Vorrei ringraziare un po’ di persone, a partire dalla mia famiglia, tutta, per proseguire con Maila, alla quale dedico questo romanzo, Margherita, Paola, poi Luciano Pagano e Stefano Donno, geniali curatori di Musicaos, Mauro Marino del Fondo Verri, e Mario Desiati, Gianluca Gigliozzi, Gianmario Lucini, scrittori ai quali rinnovo la mia stima. R.A. 2 La vicenda. Anno 2003 DIO LO PRENDE NEL DIDIETRO Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo 1. INCIPIT DEL DATTILOSCRITTO DI EDOARDO VITTORE ‘LA CARNE MUORE’ Io sono solo respiro. Come il Cristo morto in iconografie consunte, sono cumulo di ossa scontornate in pelle cadente. Io, senza tregua, cerco la luce, rendendomi sfiato corporeo esile. Nessuna prospettiva, nessuna illusione, solo il fardello di errori issati sui miei tendini smarginati, solo gocce di sangue che sezionano le mie carni, solo muscoli squamati senza fibre in grado di reggermi. Io sono in croce, confitto da aculei sfrangiati che non mi donano salvezza, con il capo reclinato per il peso di dolori che mi martellano senza sosta, con le costole uscite dalla loro solita posizione per infrangere lo spazio e per tagliarlo in difesa. Io, senza respiro, cerco la luce, scolorendo in uno sfondo buio fatto di nubi grigie e cielo oscuro, mi scaglio per captare gli esili raggi di sole che spaccano l’aria. Io, tra sibili e vocii, raggelo in solitudine. 2. LA SCOPERTA INATTESA Ero nella biblioteca di Tricase, nell’estate del 2003, per effettuare delle ricerche sulla storia di questo paese salentino. Ero immerso tra infinite pagine sgualcite e deteriorate, ma avevo a portata di mano tutto il materiale necessario per scrivere un buon articolo sulla rivista mensile ‘CULTURA DEL SUD’, con sede a Lecce, della quale ero uno dei redattori. Misi i libri e i fascicoli raccolti su di un tavolo posto nella parte opposta di un alto scaffale pieno di vecchi testi impolverati. Il tavolo, a causa del peso imponente dei libri poggiati, iniziò a traballare e solo il mio pronto intervento evitò la caduta di tutti quei fogli. Mi piegai per cogliere un piccolo opuscolo e non potei fare a meno di notare che un piede del tavolo era spezzato e a mantenerlo in equilibrio c’era solo un grosso volume 3 dalla copertina rossa. Ero curioso di vedere quale libro fosse tanto inutile da reggere un tavolo marcio di una biblioteca altrettanto mal tenuta. Scelsi nello scaffale di fronte a me un testo della stessa mole di quello posato per terra, poi mi piegai e li sostituii. Quel grosso volume dalla copertina rossa era pieno di polvere; quindi passai la mia mano sopra per poterlo pulire e scorgere il titolo. C’era scritto: Romanzo di Edoardo Vittore –LA CARNE MUORE. La copertina rossa era di un cartone morbido e flessibile. Aprii la prima pagina e vidi un susseguirsi di lettere fitte e ben ordinate, battute con molta certezza con una ‘Olivetti Lettera 32’. Si trattava quindi di un dattiloscritto dello scrittore di Melpignano, morto suicida dieci anni prima. Non mi sembrava comunque che tra le opere pubblicate vi fosse un testo con quel titolo. Sfogliai le prime pagine del testo e mi soffermai su un punto: Nelle bacheche profumate di mura color latte sento il profumo del tuo corpo, della tua lucida essenza di donna saracena che mangia sangue a colazione e vomita rospi senza coscienza. Dolce donna vienimi a possedere, ho voglia del tuo calore, non lasciarmi con l’ossessivo peso delle parole che mi divorano, mi ardono e mi feriscono. Ho paura del peso delle parole, le sento mulinare attorno la mia testa che non ha più la forza di respirare, le sento vorticare attorno le sensazioni invisibili della mia barba nera e pesante, le sento vibrare tra i miei piedi che a stento si sostengono. Dopo la lettura di quelle parole, la mia curiosità aumentò nei confronti di quel testo contenente più di 700 pagine. Mi guardai attorno e, non vedendo nessuno alle mie spalle, lo infilai nella mia borsa, poi presi i libri poggiati sul tavolo e mi recai dal bibliotecario. Firmai delle carte per poter avere in prestito i miei libri e uscii a gran velocità dalla biblioteca con la forte curiosità di tornare a casa per immergermi nella lettura di LA.CARNE MUORE. La mia Fiat 500 del 1968, ridotta in pessime condizioni, ci impiegò più di un’ora a percorrere il tragitto Tricase – Lecce, ma per fortuna nello stereo viaggiava Camera a Sud di Capossela ad allietare i chilometri macinati lenti. Durante il tragitto ero particolarmente eccitato dalla scoperta di quel dattiloscritto, ma nel contempo capii bene che era inutile farsi prendere da facili entusiasmi e per prima cosa era necessario arricchire le mie informazione su questo scrittore di cui avevo letto romanzi quali Il pesante colore sfinito della vita, Il sudore delle donne di strada, Un solo minuto prima del tuo saluto. Ricordavo ancora l’articolo comparso sul Quotidiano di Lecce nel Luglio ’93: Edoardo Vittore, scrittore maledetto di Melpignano, morto suicida all’età di 34 anni. In seguito, vinto dalla curiosità, iniziai a ricercare i suoi testi, difficilmente in distribuzione perché sempre usciti con piccole case editrice, con stampe che non superavano le cinquecento copie. Ero sicuro di aver scoperto l’ultimo romanzo composto in vita dallo scrittore, ma quello che non riuscivo a spiegarmi era il motivo per cui era sbattuto in quell’angolo polveroso della biblioteca comunale di Tricase. Potevo, quindi, abbandonare l’idea di fare quella noiosa ricerca sulla storia di Tricase e magari lavorare alla stesura di un articolo bomba per la ‘CULTURA DEL SUD’, riguardante la scoperta di questo testo. Questi pensieri mi passavano per la testa, mentre le ballate di Capossela scivolavano lisce sulla tortuosa strada provinciale che metteva alla dura prova la precaria consistenza delle sospensioni della mia Fiat 500 grigio metallizzata. Giunsi nella mia casetta in affitto situata nel centro storico di Lecce e, dopo una sacrosanta doccia, mi stesi sul letto e aprii il voluminoso testo di Vittore. Continuai a leggere dal punto in cui avevo precedentemente interrotto: Senza il sapore delle tue labbra ho paura di non farcela, ho paura di 4 cadere stancamente su questa terra nuda di grafemi e fonemi, su questa luccicante marea di frasi scomposte, di liste scorbutiche, violente e sanguigne. Senza il sapore delle tue labbra ho paura di non farcela, mi sfibro e sfrullo ogni giorno di più, fra frottolii e strambottii non più sperimentati, tra poesie di Pasolini e vomiti di Burroughs, tra bombolii e morie di treni e palle che passano e sfrecciano tra i capelli bombacchiati della mia follia. Ciò che notai dalla lettura di quelle prime pagine era la particolare musicalità della sua prosa, creata attraverso giochi retorici, come per esempio l’uso sistematico dell’allitterazione. All’inizio del testo era presente l’immagine di una donna, Dolce donna vienimi a possedere, poi svanita, lasciando spazio ad un vorticoso mulinare instancabile di parole che sotterravano l’affettività iniziale, esasperata dal narratore. Un altro aspetto che colsi dalla lettura di quelle pagine era l’attenzione di Vittore per l’uso metagrammaticale della scrittura, che molto spesso lo portava ad abbandonare i canoni ortodossi della grammatica per una ricerca del neologismo volto a sostenere la leggerezza musicale della prosa: frottolii, bombolii, strambottii. Mi resi conto che, rispetto ai tre romanzi pubblicati da Vittore, era presente nel dattiloscritto un abbandono di ogni ipotesi di intreccio narrativo, mentre emergeva con chiarezza l’intento fortemente lirico della sua prosa: Nelle bacheche profumate di mura color latte sento il profumo del tuo corpo. Quale obiettivo stilistico si era prefisso Vittore con la scrittura di questo romanzo? Per risolvere questi miei quesiti era necessario da una parte leggere con meticolosa attenzione il corposo volume ( 700 pagine, scritte fittissime), dall’altra cercare di ricostruire l’ultimo periodo della sua esistenza. Ciò accertato decisi che l’indomani sarei andato a Melpignano, per prima cosa presso la tipografia Il Cantiere, che aveva stampato l’ultimo romanzo di Vittore, Un solo minuto prima del tuo saluto, successivamente avrei parlato con qualcuno dei suoi familiari, facendomi anche aiutare in questa ricerca dalla gente del paese. Quella sera avevo un appuntamento con Roberta, una ragazza di Cursi, che avevo conosciuto nella redazione di ‘CULTURA DEL SUD’, una laureata in Archeologia, che proponeva al direttore interessanti articoli sulla situazione degli scavi nella nostra terra. Era troppo presto per uscire, quindi decisi di sfogliare un’altra pagina del testo di Vittore, sorseggiando un goccio di whisky, per svegliarmi dalla mia incontenibile stanchezza: Ora sei fuggita per sempre, non ti sento, non ti vedo, non ti tocco, mi sembra di essere impazzito, ho un dolore tremendo alla testa, le ossa si stanno schiudendo, i muscoli si stanno slabbrando, non mi reggo più in piedi, ho le caviglie delle gambe che si sbriciolano come frullati di frutta candita, non ti sento, non ti vedo, non ti tocco, mi sembra di essere impazzito, ho i peli delle braccia che si bagnano come pavimenti di strade da poco asfaltate, ho le palpebre degli occhi che farfugliano sordidi calori gementi, ho la colonna vertebrale che non sembra sostenersi nel labile gioco della malattia. Ero impressionato da quel testo sfasato che non sembrava abbracciare alcuna logica narrativa, ma la mia lettura fu interrotta dall’incessante suonare del citofono. “Chi è?” “Ciao Leo, sono Roberta.” “Ciao Roberta, ma non dovevamo vederci alle dieci all’Irish Pub?” “Sì, ma sono le dieci e mezzo.” “Oh, merda! Mi devi scusare. Dai, sali un attimo. Non ci metto niente a prepararmi.” Aprii la porta e corsi nella mia stanza da letto ad infilarmi una camicia e un jeans. “Posso entrare?” “Certo, entra pure. Un attimo solo di pazienza.” 5 “No, fai con comodo. Non ho fretta.” Entrai nel mio piccolo salotto e sul mio divano era seduta Roberta, con una microscopica minigonna rossa e una piccola maglietta aderente nera. Per un attimo dimenticai l’importante scoperta della mattina e per quella sera decisi di pensare ad altro. “Niente male la nostra dottoressa in archeologia!” “Anche tu sei carino con la camicia abbottonata in quel modo.” Abbassai lo sguardo e capii a cosa Roberta si stesse riferendo. Mi abbottonai nuovamente la camicia, evitando asimmetrie tra bottoni e occhielli e poi le offrii qualcosa da bere. “Un whisky in ghiaccio sarebbe perfetto.” “Allora due whisky in ghiaccio in arrivo.” Andai in cucina a preparare i due whisky e mi vennero pensieri strani per la testa tipo ‘questa sera non puoi farti scappare un’occasione del genere, ma hai visto che gambe mozzafiato e che seno da far perdere la testa a chiunque!’. Ritornai in salotto. Lei aveva tra le mani il testo di Vittore. “Cos’è questo mattone?” “Un romanzo.” “Sì, ma chi l’ha scritto? Qualche tuo amico ti ha chiesto di dare un giudizio sul suo testo prima di pubblicarlo?” Non mi andava di mentirle. Quel suo sguardo malizioso e quella sua minigonna splendente mi ponevano a sua completa disposizione. Mi resi conto che in quel momento stavo ragionando col cazzo, ma non potevo porre un freno allo sguinzagliarsi dei miei ormoni. “Si tratta di un testo scritto a macchina da Edoardo Vittore, trovato casualmente stamattina nella biblioteca di Tricase.” “Edoardo Vittore? “ Alla pronuncia del nome dello scrittore Roberta ebbe un sussulto sul mio divano, tanto da far cadere il bicchiere di whisky che reggeva con le due mani. Il ghiaccio si infilò nello spazio aperto tra il divano e il pavimento, con il profumo di whisky per terra che incominciò a diffondersi nell’aria che ovattava le quattro pareti della stanza. Il silenzio improvvisamente si incuneò tra le molecole che riempivano il piccolo ambiente dove si agitavano i nostri corpi. Roberta si inchinò a raccogliere i cubetti di ghiaccio, le dissi di lasciare perdere, avrei pulito io più tardi. “Vado a prendere un altro po’ di whisky per te. Ma, spiegami, hai conosciuto Vittore quando era vivo?”, le chiesi. “No. C’era un mio compagno di corso di Poggiardo che lo conosceva bene. Mi diceva che ogni settimana andava a trovarlo nella sua piccola casa a Melpignano per portargli qualcosa da mangiare. Negli ultimi anni non se la passava tanto bene. Si è suicidato, vero?” “Sì, si è ammazzato con veleno per topi.” “Ma questo testo non è stato pubblicato, vero?” “No, ne sono sicuro. In vita ha pubblicato tre romanzi, più alcuni scritti comparse in riviste provinciali e regionali.” “Cavolo! Hai fatto un grande colpo stamattina, vero?” “Non lo so. Penso di sì. Ho iniziato a leggere questo testo ed è per alcuni versi incomprensibile.” “Ti va di leggere alcune parti assieme?”, mi chiese. “Sì. Prima, però, vado a prendere la bottiglia di whisky.” “Ti va di leggere alcune parti assieme”, bene, la serata si stava evolvendo nel modo 6 che più speravo, serata culturalmente degna, con la lettura di pagine di un inedito Vittore, condita da aspro whisky e da desiderio peccaminoso che partiva dalla parte più nascosta e pulsante delle mie mutande per poi battere nella testa in maniera ossessiva. La scorta di preservativi non era terminata, il che mi faceva stare sereno, per evitare spiacevoli situazioni tipo ‘oh, scusa, ho appena scoperto di aver terminato i preservativi, corro subito a comprarli!’, con seguente eccitazione che sfuma via e con scopata andata irreversibilmente a puttane. Presi whisky e ghiaccio, con un bicchiere pulito per Roberta, visto che il precedente era caduto sul mio pavimento. Non si era rotto, ma aveva accumulato polvere nociva, visto che non ero un amante delle pulizie. Tornai in salotto con Roberta immersa nella lettura. “Senti, senti questa parte”, mi disse. E Roberta cominciò a leggere: Oggi poso la mia testa su questo cuscino di paglia e di nidi in plastica, bevo il mio rosso vino per non pensare allo schifo che mi circonda, per non odiare la gente che mi alita addosso, per non ricordare l’alito profumato che la tua bocca emetteva nel ritmo delle sillabe esplose, nel ritmo delle parole masticate, nel ritmo delle manie sognate, desiderate, ma mai realizzate. Oggi poso la mia testa su questi centimetri di materasso che ho a disposizione, rinchiudendo il mio dolore nei decilitri del fiume di Bacco, rinchiudendo la mia disperazione nella polvere che avvolge il mio cranio, per non emettere ruggiti di leone in gabbia di matti, per non perdere lacrime di orsi in preda a visioni, per non pensarti, solamente per non pensarti. Alla fine della lettura di queste pagine Roberta fissò il bicchiere di whisky posato sul tavolo che costeggiava il divano. Il suo volto meravigliato e estasiato donava perle di bellezza aggiunta alla sua figura già splendente, dal tenue sapore new wave e decadente. “Fantastico, non trovi?” “A dir poco.” Alzò il bicchiere e fece un lungo sorso, soffermandosi sul quadro di De Candia, con una grossa anguria aperta che troneggiava sul mio televisore. “Hai visto, qui, a fine pagina, c’è una data: 21 giugno 1993”, mi fece notare Roberta. “Precisamente un mese prima del suo suicidio. Quindi, come avevo pensato, rappresenta l’ultimo scritto in vita di Vittore.” “Le ultime pagine prima di quel folle gesto.” Queste parole uscirono dalla bocca di Roberta con tono sommesso, diversamente dalla voce che mi avevano catturato la prima volta incontrata nella redazione della ‘CULTURA DEL SUD’, voce sicura e conturbante che, insieme al suo corpo splendente e sinuoso, mi avevano mandato in estasi e mi avevano portato a invitarla quella sera a casa mia. “Roberta, a cosa stai pensando?” “Pensavo alla pagina che ho letto. Non sembra essere una storia, sembra un diario, sì, un diario, uno sfogo di un Vittore innamorato, profondamente innamorato.” “Sì, questo non è da escludere.” L’interessamento di Roberta a quel testo non poteva che farmi piacere, avrei, quindi, potuto coinvolgerla nel lavoro che avevo intenzione di compiere per la rivista, con la conseguente e allettante possibilità di essere a contatto con lei per molte ore al giorno. Per quella sera, comunque, basta parlare di Vittore. “Che ne dici di andare all’Irish Pub a bere una bella pinta di rossa doppio malto?”, le dissi. “Hai sentito che strazio nelle sue parole, che lirismo sofferto, un sentore di morte che aleggia… Oggi poso la mia testa su questo cuscino di paglia e di nidi in plastica, bevo il mio rosso vino per non pensare allo schifo che mi circonda.” 7 “Ma tu non hai avuto occasione di conoscerlo, vero?” “No, no, però conoscevo e conosco gente che me ne parlava… poi, essendo di Cursi, vivendo a pochi chilometri da Melpignano, la voce di gente così ‘atipica’ come lo scrittore Vittore si espande come macchia d’olio.” 3. IRISH PUB Facemmo una passeggiata per le vie del centro storico. Il tragitto che separava la mia casa dal pub venne compiuto in silenzio, con Roberta pensierosa che percorreva la strada con le sue gambe scure, ben abbronzate, con gli occhi nascosti dietro le lenti dei miei occhiali dalla montatura nera. Nella mente scorreva un motivo di Paolo Conte che si intrecciava ai miei interrogativi su Edoardo Vittore e sul suo dattiloscritto, su Roberta Pacoda e sulla sua reazione fortemente emotiva alla lettura del testo dello scrittore. All’Irish Pub incontrammo altri due giovani giornalisti redattori della ‘CULTURA DEL SUD’, Carlo Mantovani, che si occupava di cinema, fissato con i nuovi maestri delle sale italiane Muccino, Salvatores, Ozpetek e anche il salentino Winspeare. Il sottoscritto, Leo Monsanto, pensando al cinema volava alle partiture poetiche di Amarcord e Otto e mezzo di Fellini, per esempio, o, pensando ai giorni nostri, alla genialità drammatica di Le onde del destino e Dancer in the dark di Lars Von Trier. Io, comunque, non mi occupavo di cinema, ma di letteratura, il mio occhio era quello di uno spettatore comune e non di un critico di professione, questo mi veniva rimproverato da Carlo Mantovani, che, mentre aspirava un sigaro puzzolente, mi riempiva la sua testa sull’ultimo di Muccino, con una sensuale Bellucci nei panni di una amante turbata e provocante. Poi c’era Angela Imbriani, che si occupava di teatro, una grande bevitrice di vodka, pur non essendo russa, ma di Nardò, che faceva il filo a Carlo Mantovani, il quale, sempre preso a visionare le sue videocassette e i suoi DVD, sembrava poco propenso a perdere tempo posando le sue labbra tra le cosce della sensuale giornalista neretina. “Roberta, mi raccomando, non fare menzione del ritrovamento del manoscritto a questi due. Riceveranno la notizia direttamente Lunedì in redazione.” Bisbigliai queste parole tra le sue orecchie, mentre Carlo e Angela erano andati a ballare un pezzo dei Modena City Ramblers, al centro della sala. “Stai tranquillo, sarò muta come un pesce!” Tornarono i due provetti ballerini, mentre il locale si riempiva di gente che fumava sigarette e beveva birra, ascoltava musica e parlava, urlando nelle orecchie degli amici seduti affianco. “Quindi, Leo, tu consideri gli spettacoli della compagnia Koreja tutti identici a se stessi? Spiegami bene il tuo punto di vista al riguardo.” Angela smise di parlare con la sua voce altezzosa e saccente, emettendo una risata isterica e velenosa. “Cara Angela, quello che penso è che uno spettacolo dei Koreja lo identifichi subito dal carattere enfatico dei suoi attori, dalle voci che recitano il testo urlando, dalle movenze del corpo che nella sua ampollosità diviene parodia. Un’eccezione è Brecht’s Dance, spettacolo con un ritmo e una forza degna di nota.” Espressi la mia opinione continuando a sorseggiare la mia pinta di birra, con Roberta pensierosa seduta tra me e Angela e con Carlo che continuava a fumare la sua pipa, scuotendo la testa e mordendosi il labbro sinistro con i denti, tic ossessivo che lo coglieva quando non concordava con le opinioni della gente che aveva di fronte. “Ok, ok, questo è il tuo punto di vista, ma allora spiegami il successo di questa compagnia in tutta Italia”, continuò Angela. 8 Iniziai a stizzirmi, perché con tipi come Angela e Carlo ogni discussione non poteva terminare se non dando ragione alle loro idee svettanti e geniali. “Senti Angela, questo è solo il mio punto di vista che, a quanto pare, si scontra con il tuo punto di vista, ma, ti ripeto, non me ne fotte un cazzo della compagnia Koreja, anzi potrebbe anche scomparire, incendiarsi e incenerirsi, senza che ne venissi sconvolto minimamente.” Il tono della mia voce improvvisamente si alzò, superando il timbro medio delle altre che nell’aria aleggiavano. Mentre esponevo la mia difesa contro l’acidità perversa di Angela mi resi conto che attorno a me si fece il silenzio, che il selecter di dischi della serata smise di suonare Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano e che tutti i presenti avevano i loro occhi fissi sulle mie labbra frizzanti e sulla mia bocca spalancata. Roberta mi guardò divertita e ordinò un altro giro di birre, io feci l’espressione da duro e mi sciolsi dalla mia forzata compostezza solamente quando iniziò a suonare nella sala un pezzo dei 24 Grana. Presi Roberta e la scagliai nel centro del locale, dove altri sette o otto alcolizzati saltavano al ritmo forzato della band napoletana. “Come ti sembra la serata? “, le chiesi. “Ci si diverte con te e Angela, ma sono un po’ stanca. Ti piacciono i 24 Grana?” “A dir poco. Mi piace ballare le loro canzoni. Mi scaricano molto.” Ci scambiavamo queste battute, mentre la musica si diffondeva tra le pareti del locale e mentre Angela, nel tavolo da noi occupato, alitava pensieri perversi nelle orecchie di Carlo, il quale alternava le sue tirate alla pipa a bevute di birra, con gli occhi che scomparivano sempre più dietro le lenti spesse della sua miopia. Alla fine della canzone tornammo a sederci al nostro tavolo, con le birre ordinate da Roberta invitanti sul vassoio pieno di arachidi e olive. Mentre mi gettavo affamato sulla ciotola ricolma di arachidi sentii colpirmi dietro le spalle da Paolo Carella, in compagnia del suo inseparabile amico Francesco Giannelli. “Ciao Leo, che cazzo combini in questo locale da froci?” Per Paolo Carella tutti i locali che lui non frequentava erano per froci e dal momento che posava il suo culo soltanto nell’osteria di Michele, dove si sbronzava a botte di quintini di vino, il popolo notturno di Lecce era un marasma collettivo di froci. “E la stessa cosa che chiedo a te, Paolo. Cosa ci fai in questo locale di froci? Io sono in compagnia di questa gente a bere un po’ di birra.” “No, noi siamo qui perché abbiamo promesso al tipo che mette dischi di venirlo a salutare. È un nostro amico.” Francesco era silenzioso e sembrava guardare con insistenza le gambe di Roberta. Sempre più pensierosa e ubriaca. I due nuovi arrivati presero due sgabelli e ci fecero compagnia ordinando un altro giro di birre per tutti, con Il ballo di San Vito di Vinicio Capossela a dare uno scossone ritmico alla serata. “Beh, Francesco, come va la diffusione del vostro foglio di poesia?”, gli chiesi. Francesco e Paolo curavano da un po’ di tempo un foglio di poesia, Otello 69, che raccoglieva testi di giovani poeti locali, dalla tiratura limitata poiché era autoprodotto. “Il progetto continua ad andare avanti, sai, ci sono molti giovani poeti che hanno bisogno della nostra presenza per avere una voce che altrimenti, in altri contesti, non potrebbero avere.” Amavo tantissimo sentire parlare Francesco dell’Otello 69 perché assumeva quell’espressione seria e quella postura da intellettuale sapiente e onnisciente, tipo Carmelo Bene ospite da Maurizio Costanzo. Paolo seduto al suo fianco muoveva la testa in su e in giù, approvando tutto ciò usciva dalla bocca dell’amico. “Stiamo preparando il numero di luglio e ci sta arrivando del materiale fantastico. Dai, 9 Francesco, recita quei versi di quella diciassettenne che hai imparato a memoria”, Paolo rideva a crepapelle chiudendosi a stento con l’aiuto delle mani le mandibole rimaste spalancate Francesco non si fece ripetere l’invito una seconda volta e dopo essere salito sullo sgabello iniziò a declamare: Non sono la piccola vergine Che tu, padre, ami coccolare con innocenza. Non sono la bambina che gioca A fare castelli di sabbia Nelle nostre giornate di mare. Padre, ho il mio sesso tra le cosce Che è in fiamme al solo pensiero Di poter prendere in bocca il tuo sesso. Padre, donati a me e mandami in estasi. Francesco smise di recitare questi versi con la sua voce in falsetto, parodia di questa giovane poetessa in calore, con tutta la sala dell’Irish Pub che si lasciò andare in un dirompente applauso. “Hai sentito che forte?”, mi disse Paolo. “Devo ammettere che è forte”, gli risposi. Roberta sorrideva divertita, mentre Carlo continuava a mordere le sue labbra, con sempre più insistenza, e Angela era intenta a fissarlo con ossessione, per poter catturare per un attimo la sua attenzione. La serata continuò per un po’ con i due giovani poeti a raccontarci le loro storie di sesso con piccole scrittrici che bussavano alla loro porta per chiedere una lettura dei loro testi. Naturalmente Francesco accentuava il tutto, dipingendo se stesso come un grande scopatore e le sue piccole ‘vittime’ come angeli dalla bellezza inverosimile. Venni colto improvvisamente da un senso di stanchezza e, ripensando alla giornata, mi ricordai delle mille cose fatte sin dal mattino, dalle ore passate alla biblioteca a Tricase alla grande scoperta del testo di Vittore, dalla tensione per l’incontro con Roberta alla grandi bevute durante quella serata che mi avevano tremendamente appesantito la testa. “Bene, ragazzi, per me è giunta l’ora di andare a riposare”, dissi. “Ecco, il solito vecchio del cazzo che al momento più bello della serata se ne esce con queste frasi idiote”, questa fu la risposta di Paolo. Classico comportamento di Paolo ubriaco che iniziava ad innervosirsi per niente e ad essere aggressivo e arrogante con tutti. Non diedi peso alle sue parole, guardai Roberta che mi fece capire che anche lei sarebbe venuta con me. Salutammo i presenti e uscimmo dall’Irish Pub a notte fonda, con il locale pieno di ubriachi che ballavano al ritmo di Quello che non c’è degli Afterhours. “Mi devi scusare per il caratteraccio di Paolo e Francesco, ma si atteggiano a poeti scapigliati e decadenti in una maniera indecorosa.” “No, Leo, non preoccuparti, anzi, mi sono sembrati simpatici. Poi il vertice della serata è stata la declamazione della poesia da parte di Francesco!” Mentre parlava cominciò a sorridere e il vento della sera, che le muoveva dolcemente i lunghi capelli neri, sembrava donare nuova freschezza al suo corpo stanco. “Sì, devo dire che il momento della poesia declamata sullo sgabello è stato forte. Un’adolescente innamorata persa del padre. Padre, ho il mio sesso tra le cosce /Che è in fiamme al solo pensiero /Di poter prendere in bocca il tuo sesso. Versi degni di Bataille.” Roberta continuava a sorridere e nel frattempo giungemmo a casa mia. “Bene. Leo, ti ringrazio per la serata.” 10 “Ringraziarmi di cosa? Piuttosto, hai già dimenticato il testo di Vittore.” “No, non l’ho dimenticato per nulla. Ci penso da tutta la sera.” “Roberta, domani è domenica, quindi io non vado in redazione a lavorare. Potremmo recarci a Melpignano a raccogliere delle informazioni.” “Di quali informazioni parli?”, la sua voce si stagliò nell’aria con un accento di curiosità. “Io pensavo tu volessi leggerlo soltanto e magari presentarlo a qualche casa editrice per la pubblicazione.” “No, Roberta, non condivido questa opinione. Io sono un giornalista, ho bisogno di capire, capire perché Vittore ha compiuto il suo folle gesto e il testo che abbiamo tra le mani ce lo può rivelare. Comunque domani mi reco a Melpignano per prendere maggiori informazioni sull’ultimo periodo della sua vita.” “Ok, ok. Passami a prendere da casa.” “Ok, alle dieci passo da casa. L’indirizzo è quello che mi hai dato l’altro giorno in redazione?” “Certo, certo, non ho cambiato casa nell’arco di tre giorni.” “Bene, allora buona notte”, dissi. “Buona notte”, mi rispose con un sorriso trascinato a causa della stanchezza. “Fai attenzione.” “Va bene papà, farò attenzione.” Cessò di parlare, si avvicinò al mio volto e mi diede un bacio sulla guancia. Si allontanò con passo lento e io ebbi tutto il tempo per ammirare il suo culo alto e sodo che mi fece sudare freddo. “Se solo potessi possederla. Anche solo per una notte”, pensai. Nella mia piccola casa si soffocava. Nonostante la frescura della serata, sembrava che in casa mia i raggi solari e l’umidità puttana si fossero nascosti per dannarmi e non farmi chiudere occhio. Pensavo a Roberta, alla sua sensualità, alla sua bellezza, pensavo al fatto di averla coinvolta in questa storia su Vittore, pensavo alla sua reazione alla lettura del testo, al suo spaesamento, alla sua assenza durante tutta la serata trascorsa all’Irish Pub. “Tutta da scoprire”, pensai e per cercare di addormentarmi in qualche modo presi il testo di Vittore e cominciai a leggerlo. Quello che mi colpiva e mi turbava, nelle prime cento pagine da me lette, era che il testo sembrava ruotare su un’ossessione, quella di questa dolce ragazza bruna entrata nella vita dello scrittore e poi improvvisamente scomparsa, elemento questo generatore della disperazione dello scrittore e della sua seguente scrittura criptica, volutamente barocca e arzigogolata, ampollosa e fluente. Sembrava che attraverso questo esercizio prettamente stilistico Vittore potesse tenere lontano i demoni della passione per questa ragazza. Ecco una parte del testo che mi affascinò in quella notte insonne: Sono due ore che piango su questa mia scrivania. Cerco di battere i tasti sulla mia macchina da scrivere con decisione, ma la mano si sbriciola per il tremore. Non ho più energie nel corpo, non ho più energie tra le mani, i miei capelli volano leggeri, trasportati dalla brezza marina di questo giugno senza tempo. Desidero solo il tuo corpo, ho solo voglia di rivedere il tuo corpo, di riscaldarmi tra le tue braccia, di abbracciare le tue cosce, per risollevarmi da questa mia assenza di voglie e forze. Sì, aveva ragione Roberta quando affermava che si trattava di un diario, di una minuziosa e logorroica descrizione delle sue sensazioni prima della morte. Allora perché all’interno del testo era riportata la dicitura Romanzo di Edoardo Vittore –LA CARNE MUORE? Del genere romanzo veniva a mancare un inizio uno svolgimento e una fine, una 11 storia compiuta da narrare. Qui eravamo in presenza di un testo aperto, non si trattava di una storia chiusa e completa, ma di uno sfogo di un uomo in preda ad un raptus esistenziale generato da una delusione d’amore. Un raptus lungo 700 pagine. Ero stanco. Chiusi il testo dopo aver letto 148 pagine. Mi addormentai ascoltando Trasparente di Marco Parente, con la calura notturna che sembrava risucchiarmi nel suo vortice asfissiante. 4. RICERCHE A MELPIGNANO La mattina seguente la sveglia suonò alle 8:30. Avevo la testa pesante per il whisky e la birra bevuti la sera precedente. Accesi la tv mentre preparavo il caffè. Mi apparve il volto del Presidente del Consiglio in tutta la sua invidiabile telegenia. A quanto sembrava era nuovamente indagato per presunti illeciti nell’acquisizione dei diritti cinematografici per Mediaset nel biennio 1994-1996, proprio gli anni della scesa in campo del Cavaliere. “Sì, ma adesso si prepara la legge su misura, approvata da quel gregge incolto della sua maggioranza, così la scampa anche questa volta, la carogna”, pensai, mentre il caffè fuoriusciva dalla moka sporcando la già lurida cucina. Mi lavai con la solita lentezza, indossai il mio solito jeans nero abbinato a una maglietta Melting Pot nera, inserii un CD di De Andrè nel lettore e tornai in bagno a spruzzarmi un po’ di profumo, perché l’incontro con Roberta non poteva consentirmi di avere le ascelle puzzolenti. Alle 9:25 uscii di casa, presi la mia 500, pronto per la statale Lecce-Maglie, per recarmi a casa di Roberta a Cursi, Via Petrarca 34. Quella mattina avevo la testa colma di pensieri contrastanti che cercavano di inserirsi con forza nello spazio limitato del mio cranio marcio. Pensavo al fatto che avrei potuto preparare per la ‘CULTURA DEL SUD’ una sorta di inchiesta su Edoardo Vittore, sia sull’uomo che sull’artista, interpellando, attraverso una ricostruzione del periodo nel quale era vissuto, tutta la gente che direttamente aveva avuto modo di conoscerlo. Era necessario a mio parere riscoprire la scrittura di Vittore, scrittura certamente difficile, come dimostravano i tre romanzi pubblicati in vita, e come, a maggior ragione, dimostrava l’inedito LA CARNE MUORE, che potevano considerarsi accostabili alla grande tradizione sperimentale del ‘900, quella che ha come padri spirituali Joyce e Proust. Si era fatto un silenzio inspiegabile attorno la figura di Vittore dopo la sua morte, non c’era nessun critico che si fosse preso la briga di leggere l’intera sua produzione, perché considerata ostica, non comprensibile, non sense, frutto della mente malata di un povero folle alcolizzato. La scoperta che avevo fatto nella biblioteca di Tricase poteva dare lustro ad una rinascita dell’autore e questa mia voglia e speranza mi rendeva quella mattina pimpante e ottimista, con Vinicio Capossella che cantava a tutto volume la struggente Non è l’amore che va via tra le mie orecchie. Poi c’era anche da dire che il mio entusiasmo era alle stelle per la possibilità di vivere questa mia esperienza lavorativa al fianco di Roberta, la quale avevo intenzione di proporla al direttore per un suo possibile passaggio da collaboratrice a redattrice, cacciando la petulante rompipalle di Angela Imbriani, sia perché consideravo Roberta tanto intelligente e preparata da poter dar lustro al nostro giornale e sia perché in tal maniera potevo stare tutto il giorno a contatto con lei. Al solo pensiero rabbrividivo. Preso da queste mie fantasticherie, non mi resi conto che la strada per Cursi era stata macinata velocemente dalla mia auto. Mi trovai improvvisamente in questo piccolo 12 paesino. “Via Petrarca è la strada sulla quale è situato il Comune”, mi disse la prima volta che ci incontrammo, quando ci scambiammo indirizzi e numeri telefonici. Dopo aver chiesto ad un vigile urbano baffuto la strada per il comune mi fermai di fronte ad esso e mandai un messaggio con il mio cellulare sul suo con su scritto: IO MI TROVO VICINO AL COMUNE. TI ASPETTO QUI. FAI PRESTO. LEO. Dopo due minuti comparve Roberta in jeans stretti blu e piccola canottiera bianca da lasciare poco spazio all’immaginazione e il sottoscritto ripeteva nella sua testa che quella sarebbe stata una grande e bella giornata. “Ciao Leo, hai visto che caldo stamattina?”, mi disse, con la voce frantumata dal fiatone per la corsa che aveva fatto da casa sua alla macchina. “Aspetta un attimo, vediamo se si sta meglio così.” Con un semplice gesto alzai una leva e tolsi il tettuccio dalla mia macchina che rimase scoperta come le migliori cabriolet. Ora eravamo nel breve tratto Cursi – Melpignano con il vento caldo che ci colpiva dall’alto, da destra e da sinistra e con Capossela che cantava con voce sommessa e rauca Che cossé l’amor?. Anche Roberta sembrava serena quella mattina e l’idea che avevo avuto di togliere il tettuccio di pelle dalla macchina era stata fantastica perché il vento le si poggiava sul viso e sui capelli, dandole una lucentezza che non avevo mai percepito nel guardarla. “Cosa ha in programma il nostro giornalista d’assalto questa mattina?”, mi chiese con ironia Roberta. “Andremo ad intervistare il tipografo che ha stampato l’ultimo romanzo uscito di Vittore, Un solo minuto prima del tuo saluto.” “Bellissimo, non trovi?” “Hai avuto modo di leggerlo?”, le chiesi con aria stupita. “Certo, ho letto tutti e tre i suoi romanzi.” “Interessante. Pensavo conoscessi Vittore solo per averne sentito parlare dai tuoi compaesani.” “No, Leo, ho letto tutto quello che per le mani mi capitava di Vittore e se penso alla storia di Un solo minuto prima del tuo saluto mi viene da piangere.” Quello che non riuscivo, la sera precedente, a spiegarmi era la sua reazioni emotiva alla lettura del dattiloscritto di Vittore, che ora, comprendendo il suo legame con i testi dello scrittore, diveniva più comprensibile. Arrivammo in tipografia dopo aver chiesto indicazioni ad un barista di Melpignano, che ci disse di stare attenti al vecchio Aldo poiché ormai aveva perso i sensi. Quindi il tipografo si chiamava Aldo. Erano quasi le undici del mattino e il caldo cominciava a divenire pungente, la mia maglietta nera accoglieva tutti i raggi solari che dall’alto cadevano, Roberta era sempre sorridente e i suoi seni strizzati nella piccola e attillata canottiere bianca seducevano instancabilmente i miei occhi. Entrai nella tipografia che aveva pareti grigie ed era piena di macchinari tanti grandi da occupare la quasi totalità dello spazio del locale. “C’è qualcuno?”, provai ad interrompere il silenzio che si respirava in quel posto. “Chi è?”, si sentì una voce provenire da dietro una porta verde. “Signor Aldo è lei? Sono un giornalista della ‘CULTURA DEL SUD’, posso farle qualche domanda su Edoardo Vittore?” Improvvisamente la porta verde si aprì e comparve il signor Aldo, un simpatico uomo anziano, sulla settantina, con capelli bianchi lunghi sino alle spalle, una barba alla Giuseppe Verdi e degli occhi azzurri con filamenti rossi che accerchiavano le pupille, frutto, forse, di qualche sambuca di troppo con gli amici al bar. “Salve, cos’è che volete sapere su Edoardo?”, rispose Aldo con voce fioca ma sospettosa. “Non si allarmi, solo qualche piccola domanda, perché vorremmo fare un articolo su di lui per la nostra rivista”. 13 Le parole di Roberta furono provvidenziali perché il signor Aldo prese una piccola sedia bianca e si adagiò comodamente. “Bene, risponderò alle vostre domande, ma non ho molto tempo da perdere. Ho dei lavori urgenti da sbrigare.” Fui io il primo a prendere la parola. “Grazie, signor Aldo. Allora, noi vorremo ricostruire, anche grazie al suo aiuto, l’ultimo periodo della vita di Edoardo, per comprendere le ragioni del suo estremo gesto in quel ormai lontano luglio del 1993. Cosa ci può dire in proposito?” Cercai di assumere un’aria quanto mai professionale per assicurare il tipografo della nostra buona fede e del fatto che non eravamo dei ciarlatani, ma gente che stava svolgendo seriamente la propria professione. Aldo abbassò lo sguardo, fissando i suoi sandali di cuoio marroni. “Le ragioni del suo estremo gesto…”, fece un sospiro che rese visibili i suoi denti neri per le tante sigarette aspirate. “A dieci anni di distanza, non riesco a trovare nessuna ragione di tale significato da indurlo a compiere quell’atto tanto atroce, pur essendo un suo fraterno amico, anzi come era solito chiamarmi lui, ero il suo ‘Ziu Uccio’.” Alla pronuncia di quelle parole il suo tono passò da sospettoso a tristemente meditativo, sembrava distante dai due giovani giornalisti che erano di fronte a lui a fargli cavare quelle dolorose parole e quei malinconici ricordi, sembrava perso nel suo passato, come se le immagini di Vittore vivo venissero proiettate in uno schermo ideale che separava lui da noi. “Quello che ricordo è la sua voglia di vivere. Edoardo amava la vita, amava mangiare e bere bene, amava la propria famiglia. Ma principalmente ricordo il suo amore per le donne. Tra l’altro i suoi tre romanzi sono stati scritti come conseguenza delle tre donne che lui ha amato e dalle quali è stato amato. Edoardo viveva e scriveva per le sue donne. La donna era il centro fondamentale della sua poetica. Infatti quando si innamorava lo perdevamo di vista per lunghi periodi, impegnato come era ad amare intensamente e a scrivere con altrettanta voracità.” Il signor Aldo trascinava le sue parole con una lentezza che rendeva difficile captarne alcune più complesse, ma con una commozione che traspariva con evidenza dal rossore sempre più corposo dei suoi occhi Riprese nuovamente il suo racconto dopo un nuovo sospiro che sembrava quasi necessario per richiamare alla memoria quei momenti che ormai si stagliavano remoti nella mente. “Per la stessa ragione che ho appena detto, penso che la morte di Edoardo sia legata ad una donna. Ricordo che negli ultimi due mesi della sua vita Edoardo sparì dalla nostra vista, e quando dico nostra intendo del gruppo che frequentava l’Eden Bar, dove con Edoardo ci si vedeva a consumare birre fresche almeno tre volte al giorno, quando non era impegnato con le sue donne e i suoi libri. Sì, penso proprio che si sia ammazzato per una donna.” Io e Roberta ci guardammo negli occhi. Chiesi al signor Aldo di ricordare l’ultima volta che aveva visto Edoardo prima della morte. “Ecco…era un giorno di luglio. Era un pomeriggio afoso che toglieva il respiro, con il cantare delle cicale a ritmare il mio lavoro incessante. Dovevo fare una consegna per il giorno dopo, quindi avevo da lavorare sino a sera inoltrata. All’improvviso comparve Edoardo, con pantaloncini marroni e sandali di cuoio sdruciti, con la sua pancia nuda, gonfia di birra, e con la barba sempre più lunga e nera. Non mi salutò neanche, si avvicinò e mi disse che stava lavorando incessantemente ad una nuova storia, giorno e notte, e aveva appena inserito nuovo inchiostro nella sua macchina da scrivere.” Qui all’improvviso il signor Aldo interruppe la narrazione, quasi vinto dalla 14 commozione che salì improvvisamente sul suo viso per poi condensarsi in lacrime sgorganti dai suoi occhi. “Signor Aldo, corro a prendere un po’ di acqua fresca dal bar di fronte”, disse Roberta. “Ti ringrazio”, rispose il tipografo, asciugandosi gli occhi con lo straccio con il quale ripuliva le sue macchine per la stampa. Ci fermammo cinque minuti a bere un bicchiere d’acqua fresca perché il caldo cominciava a divenire asfissiante in quella piccola tipografia di Melpignano. Il signor Aldo all’improvviso riprese il suo racconto. “Sembrava entusiasta come sempre quel giorno, ma d’improvviso abbandonò quel tono esaltante, dovuto alla gioia per il lavoro che stava portando avanti. Si avvicinò a me e mi guardò negli occhi dicendomi che quel nuovo libro dovevo stamparlo io, solamente io, anche quando non ci sarebbe stato più. Quelle parole finali non le presi sul serio…” Ci fu una nuova interruzione seguita da una soffiata di naso perché la commozione cominciò nuovamente a prendere il sopravvento. “Non presi sul serio quelle parole e gli chiesi cosa avesse intenzione di fare. ‘Hai intenzione di farti un bel viaggio di piacere nella tua tanto amata Cuba?’, gli dissi con voce ironica. Lui mi accennò un sorriso, si voltò e uscì dalla mia porta, uscì dalla mia porta per sempre… quell’incontro è avvenuto tre o quattro giorni prima del suo suicidio… se solo avessi saputo… avrei cercato in ogni modo di farlo ragionare.” Ci furono secondi di silenzio, con il solo rumore della macchine della tipografia a ritmare il vuoto che attorno si respirava. “Grazie, signor Aldo, la sua testimonianza c’è stata molto d’aiuto”, intervenni per rompere quel muro di incomunicabilità che si era alzato. Mi voltai verso Roberta per cercare assenso alle mie parole, ma aveva la testa in su, con gli occhi che fissavano il soffitto grigio. L’atmosfera cominciava a divenire irrespirabile, quello strato di emotività stava divenendo per me una cappa asfissiante e irrespirabile. “Signor Aldo, un’ultima domanda prima di togliere il disturbo. Dopo la morte di Vittore, quel romanzo sul quale stava lavorando negli ultimi giorni che fine ha fatto?” “Èquello che mi chiedo. Il fatto è che Edoardo non ha lasciato nessun testamento nel quale ci fosse una esplicita dichiarazione sul lascito dei suoi inediti. I genitori sono scomparsi quattro o cinque anni prima della sua morte, a poca distanza l’uno dall’altro, l’unica può essere la sorella. Sì, penso che la sorella possa saperne qualcosa. Lei è laureata in Lettere Classiche e, ricordo, era l’unica che leggeva con attenzione i romanzi del fratello e ne approvava o meno i contenuti prima della loro uscita. Si rintanava nello studio di Edoardo, che si trovava alle spalle di Piazza San Giorgio, e leggeva i fogli battuti a macchina per ore e ore. Edoardo si fidava ciecamente del suo giudizio.” “Ecco un’altra persona con la quale parlare per poterne ricavare maggiori informazioni”, pensai. “Signor Aldo, è possibile sapere dove vive la sorella di Vittore?” “Bella domanda… Laura Vittore… so che ha lavorato nella biblioteca di Tricase, dopo la morte del fratello, ma poi è stata allontanata, perché, a quanto si dice nel paese, è andata via di testa, è impazzita. Le hanno tolto il figlio, che aveva avuto con un amico di Edoardo, il pittore Maurizio Diso, morto di overdose nell’89. Ho saputo l’altro giorno da una sua amica d’infanzia che vive in un piccola casetta vicino Presicce dove dipinge tele astratte e vive grazie all’aiuto di alcuni amici rimasti.” Allo scorrere di quelle parole io fremevo per la gioia e l’eccitazione, perché molte cose si stavano delineando nella nostra ricerca. Laura Vittore, quindi, avendo lavorato alla biblioteca di Tricase, era stata la persona che aveva portato il dattiloscritto di LA CARNE MUORE nel posto in cui io l’avevo scoperto. Non potevano esserci altre spiegazioni. “Grazie mille signor Aldo, le sue informazioni sono state preziosissime per la nostra ricerca, vero Roberta?” 15 Mi voltai per cercare conferma nelle mie parole, ma Roberta sembrava pensare a tutt’altro, e quell’espressione dolorosamente spaesata che aveva la rendeva ancora più affascinante. “Sì, certo”, rispose Roberta continuando a guardare il soffitto. “Signor Aldo, noi togliamo il disturbo. Le abbiamo già fatto perdere molto del suo prezioso tempo.” “Non ti preoccupare… Mi ha fatto piacere potere aiutare due giovani come voi. Cercate almeno voi di tenere desta la memoria di Vittore. Era un grande uomo, ma soprattutto un grande scrittore… E fatemi avere una copia della vostra rivista, quando fate uscire l’articolo su Edoardo.” “Ok, signor Aldo, ancora grazie.” Mi avvicinai a lui, gli strinsi la mano e gli diedi una pacca sulla spalla, poi Roberta lo abbracciò teneramente e lo ringraziò per la sua disponibilità. Ci lasciammo alle spalle Melpignano verso mezzogiorno, con il sole che, con la proiezione di raggi perpendicolari, ci soffocava con il suo peso imponente. Chiesi a Roberta cosa volesse fare, se andare a trovare Laura Vittore immediatamente per scoprire qualcosa in più in giornata sugli ultimi giorni di vita di Vittore oppure tornare a casa e contattare la pittrice in un altro momento. Lei mi rispose che era affamata e esausta, quindi decidemmo di riposarci un po’. Prendemmo la strada per Otranto, l’idea era quella di passare un paio di ore in assoluta tranquillità, magari facendo un bel tuffo nelle acque dell’Adriatico. “Ma io non ho il costume”, mi disse Roberta. “Neanche io, ma se ci fermiamo dove ci sono solo scogli magari possiamo fare un tuffo in mutande senza essere presi per pazzi.” Roberta finalmente era sorridente e forse pensava dentro si sé che mi mancava davvero qualche rotella. Dopo esserci fermati in un piccolo bar all’entrata di Otranto e aver preso un paio di panini e due birre da 66 cl, ci spostammo sulla zona costiera e ci fermammo in un posto isolato, ma protetto da una grossa quercia che faceva ombra, per poter passare un po’ di tempo in relax. “Guarda, dietro questa quercia c’è il mare! Senti il rumore delle onde? E il profumo dell’acqua marina?”, si rivolse a me con l’aria meravigliata che si scorge molto spesso nei volti dei bambini. Poggiò poi il suo corpo per terra e improvvisamente io abbandonai l’aria professionale che avevo assunto con il tipografo di Melpignano per concentrarmi sui capezzoli dei suoi seni che trasparivano con evidenza dalla sua maglietta chiara. Mi sdraiai accanto a lei, protetti dall’ombra, e stappai la prima birra per poi farne un lungo sorso dissetante. “Quindi?” “Quindi cosa?”, mi rispose. “Cosa ne pensi dell’incontro con il signor Aldo?” “Beh, hai ottenuto quello che volevi.” “Ottenuto cosa?”, rimasi stupito da quella sua uscita. “Volevi creare un gran pezzo per la ‘CULTURA DEL SUD’. Ora sei riuscito a costruire il passaggio del dattiloscritto di LA CARNE MUORE dalle mani di Vittore alla biblioteca di Tricase.” “Ma Roberta, qui non si parla più del pezzo da scrivere per la rivista, qui entra il gioco l’esistenza di un artista che si è tolto la vita per una donna. Il nostro compito potrebbe essere quello di fare chiarezza su questa storia messa subito nel dimenticatoio. Non ti interessa scoprire chi è questa donna? Scoprire quale potere fascinoso ha avuto sullo scrittore tanto da indurlo all’uccisione per un suo rifiuto? “No, Leo, qui la storia sta diventando più grande di me. Non voglio più saperne niente 16 di Vittore, voglio solo avere un ricordo dei suoi romanzi. Leo, ti accompagno nel pomeriggio dalla sorella e poi con questa storia ho chiuso. Ritorno alle mie ricerche archeologiche. Con questa storia ho chiuso.” Dopo aver detto queste parole prese dalle tasche del suo jeans un fazzoletto di carta e lo passò sul viso e sugli occhi che avevano uno splendore che le parole non possono descrivere. “Ok, non parliamone più.” Presi una nuova sorsata di birra dalla bottiglia e gliela passai. Con lo sguardo rivolto verso la scogliera che su di noi si imponeva, mi accorsi che Roberta si era addormentata con la birra versata sull’erba alla base della quercia e con la testa poggiata su una spessa radice dell’albero. Io non avevo un briciolo di sonno e decisi di andare in macchina a prendere il dattiloscritto di Vittore per continuare a leggerlo, per cercare di capire se c’erano altri interessanti dettagli in quelle pagine. Avevo solamente letto un terzo del testo, ma quello che già risaltava con evidenza era che Vittore, in vista della pubblicazione dell’opera presso la tipografia Il Cantiere, aveva con meticolosa attenzione evitato di inserire il nome della donna che gli aveva fatto perdere la testa e quello che notavo era anche l’assenza su dettagli fisici di una certa rilevanza tali per poter risalire a lei. Vittore, come risultava dalle parole del signor Aldo, scompariva ogni qualvolta si dedicava completamente a una donna, viveva la sua storia d’amore totalmente, così come totalmente si dedicava alla resa letteraria della stessa storia d’amore. Quindi le sue donne erano oggetti privati, da non mostrare all’attenzione altrui. Gli amici di Vittore non avevano mai visto le donne di Edoardo, ma ne avevano solamente sentito parlare da lui con ardore e ne avevano lette le vicende descritte nei romanzi. E se Vittore si fosse inventato ogni singola cosa? Se queste donne non fossero mai esistite? Se la dolce saracena dalla pelle scura fosse soltanto una proiezione immaginaria di Vittore ormai consumato dall’alcol e dalla follia? Ecco, era anche per questi interrogativi irrisolti che avevo voglia di andare a trovare la sorella dello scrittore ed era per queste ragioni che cercavo maggiori risposte dal dattiloscritto: Ho la radio accesa, bevo vino e ascolto un po’ di musica. Questa sera l’aria è irrespirabile, ho degli strani dolori allo stomaco, bevo vino per anestetizzare il dolore, ascolto la ‘Patetica’ di Cajkovskij su Radio Tre, distendo il mio corpo nudo su queste lenzuola di bianco lino e bevo il mio vino, perché è una settimana che non mi viene a trovare nessuno, neanche l’eterno angelo di mia sorella, perché tu sei andata via da due settimana, due settimane che non posso più sentire il tenero odore delle tue labbra di muschio e sete, perché non posso più guardare la voglia di fragola sul tuo collo dal sapore di miele, nascosta dalla chioma fluente dei tuoi capelli neri. ‘La Patetica’, che capolavoro! Il primo movimento, già a partire dall’introduzione Adagio, è immerso in un clima di lugubre cupezza; si infervora poi fra drammatici contrasti nell’Allegro ma non troppo. Di sottile, sorridente malinconia è l’Allegro con grazia successivo, un elegante valzer nell’insolito tempo di 5/4. Energico e movimentato, fin quasi alla frenesia, è il terzo movimento Allegro molto vivace’. La ‘Patetica’ si conclude imprevedibilmente con un tempo lento: il funereo Adagio lamentoso che sembra oscillare fra disperazione e calma rassegnata. Ascolto la musica che mi scivola addosso, scivola sul mio corpo unto di sudore, ché il caldo oggi ammazza e io sto per essere ammazzato dal caldo che mi spacca lo stomaco e tu non sei qui e non so come continuare a vivere, tu non sei qui e non so spiegarmi il perché della tua fuga, tu non sei qui in questa sera dove Cajkovskij fa compagnia al mio corpo smembrato, al mio corpo senza più energia. 17 Mi fermai a leggere sotto quella grande quercia per due ore, approfittando del riposino che Roberta stava facendo al mio fianco, interrompendo la mia lettura soltanto per guardare il morbido culo che risaltava splendente dallo stretto jeans indossato. Quando lei aprì gli occhi erano le due e mezza, io fermai la mia lettura a pagina 368 e, a ormai più di metà libro, aggiunsi un elemento alla mia ricerca: la donna che aveva sconvolto la vita di Vittore aveva una voglia di fragola sul collo, nascosta dai lunghi capelli. Era vero o anche questo elemento era frutto della finzione narrativa del testo? “Dormito bene?” “A meraviglia. Tu cosa hai fatto mentre dormivo?” “Ho continuato a leggere il testo di Vittore.” “Sta diventando un’ossessione per te, non è vero?” “Può darsi che stia divenendo un’ossessione, ma ho bisogno di giungere ad una conclusione della questione. Purtroppo sono un giornalista. Fa parte del mio dna questa necessità di spasmodica di ricerca che va avanti fino a quando non senti di aver raccolto tutte le informazioni per costruire una buona notizia. “E cosa hai scoperto nella lettura di queste pagine?” “Che Vittore amava la ‘Patetica’ di Cajkovskij. Lo sapevi?” “No, non lo sapevo”, rispose mentre alzava le braccia in aria facendo un grosso sbadiglio. Naturalmente non facemmo il bagno perché Roberta si vergognava di mostrarsi dal sottoscritto in mutande e reggiseno, mentre io avrei firmato carte false pur di vedere scoperta una parte del suo corpo, ma ero fiducioso ed ero convinto che il fatto che lei mi seguisse in questa mia avventura voleva significare che suscitavo in lei un pizzico d’interesse. Ci lasciammo alle spalle Otranto alle tre di pomeriggio e prendemmo la strada diretta a Santa Maria di Leuca, per poi imboccare l’uscita per Presicce e raggiungere la casa in campagna della sorella di Vittore. Il caldo continuava a battere con tutta la sua forza dirompente, Roberta si alzò dal sedile sporgendosi con metà busto fuori dal tetto aperto della mia auto, mentre nello stereo suonava Fantasma del Linea 77. Vedere lei sorridente accanto a me che saltava sul sedile della macchina a ritmo di musica mi rendeva sereno. Avrei voluto fermare il tempo e rimanere immobile a guardarla saltare, con il vento che le faceva ammorbidire la pelle e aprire le labbra, mostrando il suo sorriso carnale e dirompente. Arrivammo a Presicce in un quarto d’ora, ci fermammo al primo bar a chiedere informazione sulla pittrice Laura Vittore. Il barista ci guardò con aria sospetta, dall’alto in basso e dopo dieci secondi infiniti di silenzio ci spiegò come arrivare nella sua casetta, appena fuori il paese. Solo quando gli spiegai che mi recavo lì per conto del mio giornale si lasciò andare ad un commento. Si rivolse a noi farfugliando spiegazzate parole in uno stentato italiano. “State attenti che quella non è normale. È pazza. Si dice che pure il fratello fosse pazzo e il marito si drogava. Una famiglia di malati.” Lo ringraziammo per il consiglio, comprai una birra gelata e cercammo di seguire le indicazioni dateci. “Ha detto che questa casa si trova appena usciti dal paese, affianco ad una pompa di benzina dalle insegne gialle.” “Ecco, ecco, Cristo… ho appena superato sta cazzo di pompa di benzina!” Fui costretto a fare manovra, ma la strada a quell’ora era talmente deserta che non ci misi molto a girare la mia macchina e inserirmi nella stradina che costeggiava la pompa di benzina, nella quale, in lontananza, si intravedeva una piccola casa che spiccava per il colore rosso acceso delle sue pareti. Io e Roberta ci guardammo negli occhi e capimmo che la casa in questione era quella di Laura Vittore. Laura stava dipingendo fuori dalla sua abitazione, sotto un albero di ulivo. Era seduta per terra, con la tela sotto il suo corpo. 18 Quando noi ci avvicinammo con la macchina lei non diede nessun segnale, come se non si fosse accorta del nostro arrivo. Rimase di spalle a giostrare con i suoi colori sulla tela. “Pensi che dovremmo aver paura di lei?”, mi chiese Roberta con timore. “Dobbiamo solo cercare di essere cauti e di non farla arrabbiare”, le risposi, togliendo dalla sua guancia con la mia mano un piccolo vermiciattolo che si era posato casualmente. Mi sorrise e mi strinse per un attimo la mano. Dopo essere scesi dall’auto, ci avvicinammo a lei con passi felpati per non disturbarla. La tela su cui stava lavorando aveva uno sfondo nero, sul quale ora stava intervenendo con una forchetta a graffiare e togliere il colore fresco, lasciando delle striature asimmetriche per l’intero spazio dell’opera. “Scusi, signora Laura…”, dissi con un tono della voce lieve “Sì, cosa volete da me?”, queste parole uscirono soffocate e nervose dalla sua gola. Come se la nostra presenza in quel luogo fosse l’ultima cosa di cui avesse bisogno in quel momento. “Siete interessati a qualche mia opera? Chi vi ha mandato qui? Mario o Michelangelo?” “No, signora, siamo qui per un’altra ragione…”, intervenne timidamente Roberta. “Quelle due teste di cazzo la devono smettere di dare il mio indirizzo a tutti gli amichetti intellettualoidi di merda. Cosa fate nella vita? Studiate all’Accademia delle Belle Arti? Dipingete anche voi? Cosa ve ne pare di quest’opera?” “Signora, siamo qui per parlare di suo fratello Edoardo”, presi l’iniziativa, cercando di portare il discorso sui binari che a noi interessavano. “Edoardo? Non ricordo di conoscere qualcuno con questo nome.” Solo in questo momento si voltò verso di noi e ci guardò con i suoi occhi sgranati verdi. Doveva avere non più di 35 anni, ma si vedeva che ci teneva poco al suo aspetto fisico, con capelli lunghi neri luridi e il corpo curvo nella sua magrezza. “Suo fratello Edoardo…lo scrittore”, ripeté Roberta. “Per me Edoardo è solo un nome… non collego nessuno di mia conoscenza con questo nome”, poi si assentò per alcuni secondi, continuando ad osservare la tela nera . “Ah, ho conosciuto un Edoardo… ma ora non c’è più. Il pittore De Candia. Voi conoscete il pittore De Candia? Ho un suo quadro raffigurante una pineta. Me lo regalò nell’89. Naturalmente ci provò con me, ma non era il mio tipo. Lui sì che era un artista. Ci provava con tutte e tutti, entrava ed usciva dal manicomio, ma, cazzo, De Candia non era un folle…Era un artista di quelli con le palle sotto.” “Signora, anche suo fratello è morto. Si è avvelenato, non si ricorda?” Cercai di essere quanto più diretto possibile, per aizzarla. Ero convinto che lei ricordasse. Come poteva aver rimosso tutto? Si trattava di suo fratello, del fratello che lei tanto aveva amato. Mentre io pronunciai quelle parole lei continuava a graffiare la sua tela con la forchetta, aumentando solamente la forza di incisione ad ogni mia frase. “Tra mezz’ora la finisco. Posso farla ad un buon prezzo. Spero che Mario e Michelangelo vi abbiano detto che io faccio prezzi buoni. Si dice che le mie tele stiano popolando le case delle famiglie borghesi di Lecce, ma a me non me ne fotte un cazzo. Io voglio solo mangiare e comprare il mio gin. Volete un po’ di gin? Andate a prenderlo. Si trova nel frigo. Andate, andate, non fatevi problemi, ne ho qualche altra bottiglia nella dispensa.” Sembrava totalmente ignorare le nostre domande e parlare a ruota libera. Andai a prendere il gin perché sembrava non cortese rifiutare il suo invito. Entrai nella sua casa, un’unica stanza con letto, cucina, frigo, un armadio e solo tele e colori a riempire lo spazio rimanente. Tutte le tele che vidi in quella stanza non si discostavano molto dal lavoro che stava completando in quel momento, con quell’esplosione ‘informale’ da cui molto spesso si allontanava tramite un lavoro di sottrazione del colore impresso. Uscii 19 fuori con la bottiglia di gin e ne diedi una gran sorsata. Roberta, che era intenta a guardare la pittrice al lavoro, non volle bere. Passai, quindi, la bottiglia a Laura. La pittrice bevve per tre volte alla bottiglia, svuotandola quasi completamente. “Entrando in casa tua non ho potuto non notare il resto delle tele. C’è un lavoro che stai portando avanti su un bisogno inconscio di far esplodere sulla tela i colori? Quanto sei stata influenzata dall’Espressionismo Astratto di Pollock e compagni? Anche se in te l’accumulo di colori sovrapposti lascia spazio ad un lavoro di graffiatura ed eliminazione degli stessi, vero?” Mi accorsi che ancora una volta ero entrato nella mia parte di giornalista scassapalle, ma capii che, forse, con Laura, questo discorso non poteva attecchire. Infatti si girò per la seconda volta verso di me, fissandomi con i suoi occhioni verdi. “Ma sei uno dei soliti critici d’arte che spara minchiate a volontà o cos’altro? Scusa, mi hai visto bene come sono ridotta? Che cazzo vuoi che mi importi di Pollock? Io ho un mio amico pittore che lavora al casello della stazione di Tricase che dipinge quadri identici a quelli di Pollock. Puccetto. Ma penso che neanche lui sia stato influenzato da Pollock. Lo fa per vivere. E anche io lo faccio per vivere e perché non saprei cos’altro fare. Abbassò di nuovo la testa e uscì dai pantaloni una sigaretta. “Chi vuole fumare un po’ di eroina con me? È roba pesante, ragazzi, quindi se non avete mai provate non sarà questa la prima volta perché non voglio vedere gente sballarsi da star male a casa mia.” Accese la sigaretta e iniziò a fumare. Nel frattempo io e Roberta ci sedemmo di fronte a lei per vedere completare l’opera. “Vi esprimerò una mia teoria sull’arte dell’ultimo secolo”, continuava a parlare a ruota libera, alternando il suo lavoro sulla tela con tirate dalla sigaretta di eroina e bevute dalla bottiglia di gin. “Per me sono solo quattro i pittori da salvare, che hanno stravolto il modo di fare arte nel corso del Novecento: Pablo Picasso, nella sua grande capacità di deformare la realtà, Marcel Duchamp, grazie alla sua capacità di trasformare l’oggetto comune in concetto, Wassily Kandinsky, per la forte spiritualità che il suo lavoro sull’astrazione riesce a comunicare e Giorgio De Chirico, con le sue tele che ci trasportano dal sogno al mito e alla metamorfosi. Tutti gli altri per me sono solo dei figli illegittimi. Ripeto, io in tutto questo non centro un cazzo. Dipingo solo per vivere e per comprare un po’ di eroina che mi fa stare meglio, allevia tutti i miei fottutti acciacchi. In questo suo discorso Laura dimostrò tutta la sua intelligenza, come mi aspettavo dopo aver sentito parlare di lei dal tipografo di Melpignano, ma quello che non riuscivo a capire era se eclissasse il discorso su suo fratello per uno shock fortissimo ricevuto dopo la sua morte o perché aveva deciso di gettarsi coscientemente alle spalle quella vicenda. La situazione non cambiava. Quel pomeriggio non ricevetti nessuna notizia su Edoardo Vittore, però acquistai la tela che aveva finito in nostra presenza, una 70 per 100 cm a 100 euro. Avrei potuto metterla vicino al quadro che raffigurava l’anguria aperta di Edoardo De Candia, pittore che lei aveva conosciuto e stimato e che anche io amavo da impazzire. Lasciammo la casa di Laura Vittore alle sei del pomeriggio, con i raggi del sole che avevano cessato di battere rigidi e pungenti sui nostri corpi e sui nostri indumenti pieni di sudore. La tela occupava la parte posteriore dell’auto. Roberta cercava alla radio una stazione decente che potesse accompagnare il nostro viaggio. “Hai visto che merdate trasmettono le radio in quest’ultimo periodo?”, disse lei, con il corpo incurvato sull’autoradio e la mano destra impegnata alla ricerca spasmodica di buona musica. Si fermò su Radio Rock, dove stavano trasmettendo uno speciale sui Diaframma. Stavano intervistando Federico Fiumani, il quale spiegava l’importanza dei testi nella sua musica, la dimensione poetica che cercava di dare alle sue canzoni. 20 “Fiumani, grande poeta”, dissi io, mentre ero concentrato a superare un camion dalle grandi dimensioni che trasportava carne surgelata. “Io ho visto i Diaframma dal vivo un paio di anni fa”, replicò Roberta, molto più distesa rispetto a quanto fosse stata nel corso della giornata. “Hanno suonato all’Arci di Novoli. Dal vivo rendono molto di più, hanno un sound molto più rock e acido…Stai attento…non fare sorpassi azzardati”, esclamò scazzata per la mia manovra non proprio da manuale del codice della strada. “Scusami, ma ho voglia di arrivare a casa e stendermi un po’. Sono esausto”, ed era vero. “Allora vorrà dire che ti fermerai da me a cenare. Così tornerai a Lecce ben riposato.” Come poter rifiutare un invito di Roberta! Arrivammo in una ventina di minuti a casa sua, parcheggiai la mia macchina sotto il suo portone e salimmo su. Ero curioso di vedere la sua casa. Si dice che molte cose di una persona si intuiscono dagli oggetti e dagli odori presenti nella propria abitazione. Forse sono solo cazzate da spicciola psicologia da riviste patinate. Entrammo nel corridoio. Ai lati c’erano dei tavolini di legno pieghevoli e un materasso disposto verticalmente, a fasce bianche e verdi. “Questo lo uso quando viene qualche ospite”, mi disse. “Qualche tuo spasimante?”, le chiesi tra l’ironico e lo stupidamente geloso. “Non fare il cazzone!” Poi mi mostrò la sala da pranzo. Era molto accogliente. Era di forma tonda, con un tavolo circolare al centro, costeggiato ai lati da una cucina, da una poltrona soffice e accogliente, da un frigorifero azzurro anni ’60 e da una porta dalla quale si accedeva al giardino. C’era in quella cucina una forte attenzione per la proporzione e l’armonia. Poi mi mostrò la sua stanza, un soppalco che si raggiungeva salendo un’ostica e piccola scala a chiocciola. La sua stanza era piena di falsi dipinti del Picasso del periodo blu, disposte per tutte e quattro le pareti. C’era una libreria bassa, che si sviluppava in orizzontale, formante un semicerchio. Mi piegai subito per scorgere i testi che la riempivano. Disposti in rigoroso ordine alfabetico risaltavano i nomi di Italo Calvino e di Alberto Moravia, tra i classici della narrativa del novecento, e Tommaso Pincio e Antonio Moresco, tra gli autori appartenenti alla nuova leva di scrittori. “Io adoro i Canti del Caos di Moresco”, le dissi. “Penso che sia un capolavoro. Moresco è un autore da seguire con grande attenzione. Ha scritto un testo in cui dipinge con forza angosciante l’inferno che scorre sottilmente nella nostra quotidianità.” “Sicuramente sta alimentanto il dibattito critico attorno all’attuale narrativa italiana. Sì, un autore da tenere sott’occhio. E cosa dire di due personaggi come Ditalina e Pompina?” “Lo sapevo che andavi a finire a Ditalina e Pompina!” Dopo queste parole mi diede una spinta che mi fece urtare la schiena contro un falso Picasso. “E questi quadri?” “Un mio amico, artista di strada, vive facendo questi falsi di Picasso e vendendoli a cinquanta euro. Io amo il periodo blu di Picasso. Mi colpisce profondamente la disperazione dei volti raffigurati che riflettono la difficile vita dello scrittore in quella prima parte della sua vita.” Quella di Roberta era una bella casa, piccola ma accogliente. Dopo aver usufruito del bagno per una decina di minuti, scesi dalla scala a chiocciola e andai in cucina dove Roberta, intenta a preparare la cena, aveva stappato un buon prosecco veneto. Brindammo alla nostra amicizia. Nei suoi occhi erano evidenti i segni della stanchezza per quella giornata in cui avevamo macinato un po’ di chilometri e in cui avevamo incontrato personaggi a dir poco strani. Quella sera, durante la cena, ci conoscemmo meglio, tra un antipasto a base di formaggio e un bel piatto di spaghetti al pesto, con un 21 rosato di Leverano ad allietare la nostra conversazione. Lei mi parlò della sua vita, della scomparsa prematura dei genitori, morti a causa di un incidente stradale, quando lei aveva sedici anni, del periodo universitario, della sua laurea in Beni Archeologici, del suo lavoro all’interno del museo di Tricase, poi della sua collaborazione alla ‘CULTURA DEL SUD’, della sua passione per la letteratura, dei suoi quasi trenta anni vissuti tra alti e bassi, con amori sempre intensi e sofferti, con amicizie sfumate al vento, con la sua suprema insoddisfazione e la sua voglia di avere sempre di più rispetto a ciò che possedeva. Alla seconda bottiglia di vino cominciai a parlare di me, della morte per tumore dei miei genitori, a distanza di un anno entrambi stroncati dalla stessa malattia, dei miei trenta anni suonati, della mia sconvolgente vita universitaria, passata tra alcol, droga, poesia e sesso, dei miei anni alla scuola ‘De Martino’ di Milano per divenire giornalista, del mio ritorno a Lecce e del mio incontro con il direttore della ‘CULTURA DEL SUD’, Franco Sobrero, al quale dovevo molto dal punto di vista professionale. Cessammo di raccontarci le nostre vite, con la stanchezza che cominciava a prendere il sopravvento e una leggera sbronza dipinta sui nostri volti bevuti. Roberta, però, quella sera non riusciva a prendere sonno, aveva voglia di parlare, di dirsi, si allontanò per pochi istanti, salì la scala a chiocciola, inserì il CD dei Tetes de Bois, e tornò giù con in mano una bottiglia di whisky totalmente intatta. “Poiché sei un buon bevitore di whisky, ho pensato di celebrare la giornata passata insieme aprendo questa bottiglia.” “Naturalmente non posso contraddire gli ordini che provengono dalla proprietaria della casa.” Bevemmo whisky con ghiaccio, mentre la musica dei Tetes de Bois riempiva la nostra voglia di silenzio. Solo alle quattro del mattino decidemmo di andare a riposare. I miei occhi erano tenuti a stento aperti dalla voglia di ascoltare le parole farfugliate e frammentate di Roberta, che si trascinava ubriaca lungo le pareti della casa raccontando barzellette erotiche apprese dallo zio, la persona che, più di tutti, l’ha aiutata nei momenti di difficoltà. Fu naturale quella sera addormentarci nello stesso letto e altrettanto normale fu restare per tutta la notte abbracciati, quasi a colmare con i nostri corpo il vuoto che divorava le nostre vite. 5. RIVELAZIONE Fui svegliato da un raggio di sole che entrava dalla finestra, inchiodandosi sui miei occhi. Erano già le dieci e io avrei dovuto essere in redazione da mezz’ora. Mi vestii in due minuti, diedi un bacio sulla fronte a Roberta e mi catapultai nella mia 500 a tutta birra con destinazione Lecce, Via Toma 12. Nel tragitto mi accorsi che ero mezzo rincoglionito e la macchina sembrava condursi quasi per inerzia lungo la strada che mi separava dal lavoro. Misi nello stereo Nido di Cristina Donà e la giornata cominciò ad aprirsi. Quella mattina c’era la riunione della redazione a mezzogiorno per decidere la scelta del materiale da inserire per il numero di agosto. Mancavano dieci giorni alla fine di luglio, gli articoli dovevano essere consegnati entro l’ultimo giorno del mese, per poi andare in stampa ed essere distribuito nelle edicole e in libreria a metà mese. Quella mattina avrei parlato alla redazione della mia scoperta e della mia volontà di lavorare sodo per dare vita ad un approfondimento sulla ‘questione Vittore’. Parcheggiai la mia auto al solito posto, vicino al bidone rosso della spazzatura, spensi lo stereo e via ad affrontare l’acidità di Franco Sobrero per il mio ritardo. 22 Entrai nella grande stanza, dove erano disposti i sei computer sui quali lavoravamo, c’erano Carlo e Angela intenti a battere sui tasti, Franco Sobrero che prendeva un caffè, Claudia Longhetti, che si occupava di mode e tendenze, e Gianluca Meneghini, grande esperto di arte contemporanea. All’appello mancava solo il sottoscritto. “Dove sei stato ieri sera? Spero che tu abbia una scusa plausibile per il tuo ritardo, Leo”, le parole uscirono dalla bocca di Sobrero con un cinismo tagliente, maggiormente acuito dal fatto che attorno a lui c’erano tutti i redattori, quindi stroncando il mio atteggiamento non corretto dava indirettamente una lezione anche a loro. “Da nessuna parte, Franco. Ho solo avuto un problema con la sveglia.” “Leo, sai benissimo come la penso. La tua vita fuori da qui non mi interessa minimamente. Ciò che mi interessa è la tua puntualità. Alle 9,30 il tuo culo deve essere seduto su quella sedia pronto a lavorare o sono costretto a prendere provvedimenti. E con queste parole chiudo.” Mi diede le spalle e si recò nella stanza riservata alle riunioni. “Inizia bene la settimana”, dissi ad alta voce. Gli altri quattro che erano con me in quella stanza sembravano ignorarmi, quasi avessero coalizzato le loro forze contro il sottoscritto e non riuscivo a capirne le ragioni. “Sei stato fortunato, Leo. L’ultima volta che ho fatto ritardo mi ha urlato nelle orecchie standomi tanto vicino che ho avuto modo di entrare in contatto con il suo alito e di intuire cosa avesse mangiato la mattina a colazione”, queste le parole di Angela. “Certo, sei stato fortunato anche perché non ha pronunciato la fatidica parola ‘licenziamento’”, aggiunse Claudia. I quattro si guardarono negli occhi e cominciarono a emettere una strana risata collettiva, ma la loro ironia potevano filarsela nel buco più sacro dei loro corpi putrefatti. Per me la giornata era iniziata male. Mi misi a lavorare al computer, appuntandomi qualcosa da dire alla redazione nella riunione di mezzogiorno, sulla mia scoperta e sul mio intento di condurre questo studio su Edoardo Vittore. Speravo vivamente che Sobrero accettasse il mio piano di lavoro o avrei dovuto nuovamente recuperare le mie cartacce sulla storia di Tricase, il che mi faceva rabbrividire, considerando anche il mio totale coinvolgimento degli ultimi giorni per la vita dello scrittore di Melpignano. Tra un caffè e l’altro, tra momenti di lavoro e momenti di cazzeggio con gli altri della redazione, arrivò mezzogiorno e il capo ci chiamò in sala riunione. Il primo ad intervenire fu Sobrero, con il solito tono professionale irreprensibile che assumeva durante ogni nostra riunione. “Allora ragazzi, stamattina cerchiamo di stabilire la struttura del prossimo numero. Come ho già detto nel precedente incontro, ‘CULTURA DEL SUD’ avrà come tema, in questo numero di agosto, ‘IL SALENTO E IL SUO FERMENTO CULTURALE’, perché, come è evidente, mai come questa estate assistiamo ad un concentrarsi di avvenimenti musicali, artistici e letterari nel nostro territorio. Allora, chi vuole intervenire? Su cosa avete lavorato in questa settimana?” La prima ad intervenire fu Angela. “Franco, io mi sto occupando del lavoro della compagnia Koreja nella loro permanenza estiva a Cerrate. Faranno sei spettacoli, inclusi all’interno della rassegna ‘NEGROAMARO’. Cercherò di seguirli tutti per poi fare resoconto complessivo. “Ottimo, ottimo, ricordati soltanto che il 31 luglio tutto il materiale deve trovarsi su questo tavolo”, disse Franco. “Ok, capo.” Fu, poi, la volta di Carlo. “Se posso ora fare il mio intervento, vorrei dire che dopo la notizia di mercoledì scorso, riguardo la partecipazione di Edoardo Winspeare in concorso al festival di Venezia con ‘IL MIRACOLO’, mi sembra naturale che il mio lavoro per questo numero sarà sul cinema del regista di Depressa.” 23 “Va bene…va bene…”, mugugnava Sobrero, mentre prendeva appunti con la sua penna stilografico ad inchiostro blu. Claudia interruppe i pochi attimi di silenzio nei quali tutti noi appuntavamo chissà cosa sui nostri bloc-notes. “Per quanto mi riguarda farò due interventi, uno riguardante il gioco che, nelle spiagge, è croce e delizia dei bagnanti, ossia il gioco dei racchettoni, del quale ci sarà il primo ‘Torneo Itinerante di Levante’, dal 28 luglio al 3 agosto, poi, invece farò una riflessione sulle regole alimentari da seguire, in quest’estate, per non prendere troppi chili, presi dalla serenità e il relax tipicamente vacanziero “Sì, naturalmente. Claudia, ricordati che il tuo scopo deve essere quello di alleggerire il tono complessivamente sostenuto e serio della rivista e, penso, che con questi tuoi due interventi, possiamo ritenerci soddisfatti”, Sobrero, dalle parole buttate in aria, con un ampio gesticolare di mani, sembrava esageratamente eccitato. C’era, oramai, solo da aspettare l’intervento mio e di Gianluca. Io speravo di poter intervenire per ultimo, visto che la situazione era più complessa e richiedeva una spiegazione più dettagliata. Guardai Gianluca negli occhi e gli feci segno con l’indice di intervenire Impostò la sua voce trascinata e lievemente rauca. “Io mi occuperò di due mostre che si svolgono all’interno della rassegna ‘NEGROAMARO’. La prima è quella della fotografa Annabella Rossi, con la sua ricerca visiva nel Salento e in Campania, a vent’anni della sua morte. La seconda mostra è quella di Giovanni Albanese, il quale ha esposto in innumerevoli mostre collettive e personali ed è presente nei maggiori musei italiani ed europei.” “Sempre attento a ciò che ti circonda. Bravo Gianluca. E tu, Leo? Di cosa ti occuperai?” Ecco, era giunto il mio turno, feci un respiro profondo e cominciai il mio intervento. “Bene, devo dire che per questo numero di agosto ho stravolto i miei piani. Volevo allontanarmi dai miei interessi letterari per dedicarmi alla storia cittadina, con uno studio delle vicende politiche e culturali di Tricase, nel corso del Novecento. Poi mi è capitata una cosa che ritengo a dir poco provvidenziale. Mentre ero impegnato a fare le mie ricerche nella biblioteca comunale del paese in questione, ho trovato un dattiloscritto di uno scrittore certamente sottovalutato dalla critica salentina. Lo scrittore in questione è Edoardo Vittore.” Alla pronuncia di quel nome la sala riunioni fu riempita da uno strano ronzio, gli sguardi dei presenti si incrociarono perplessi e incuriositi. Angela fu la prima ad intervenire. “Edoardo Vittore? Lo scrittore alcolizzato di Melpignano? Beh, se è stato trascurato dalla critica c’è una ragione precisa. La sua non può considerarsi letteratura, ma pornografia a tutti gli effetti pornografia proveniente da una mente malata e ossessionata dal sesso.” “Ma che cazzo dici!”, con un guizzo Gianluca si svegliò dal torpore nel quale era entrato dopo il suo intervento e continuò. “Come si fa a dimenticare l’incipit di Il sudore delle donne di strada: Puttane, puttane che succhiate cazzi sui vostri marcipiedi di vita, venite a proteggervi tra le mie ali di sangue, venite ad assaporare il dolce sapore dei miei piedi che al sole si sbriciolano.” “Non sapevo ti piacesse Vittore. Sono piacevolmente sorpreso!”, le mie parole strisciarono sui volti degli astanti vive e vittoriose. “Il problema di Vittore è stato nascere in questo sud che non gli ha dato la possibilità di fare conoscere i suoi testi da un vasto pubblico. I suoi romanzi non superavano la tiratura di 500 copie e le grandi case editrici della nostra terra l’hanno sempre preso a pesci in faccia, ritenendo i suoi testi invendibili e quindi non pubblicabili”, sì, Gianluca aveva centrato appieno il problema. 24 “Ecco, la questione è proprio questa. Ci troviamo di fronte ad uno scrittore dimenticato, del quale, tra le altre cose, domani ricorre il decimo anno dalla sua scomparsa, ad uno scrittore che, negli ultimi mesi della sua vita si è dedicato ad un’opera sofferta, meditata e dolente che non ha pubblicato, perché interrotta dalla sua morte.” “E quest’opera, Leo, è tra le tue mani?”, mi chiese tra il sospettoso e l’incredulo Sobrero. “Sì, è tra le mie mani”, uscii il dattiloscritto dalla mia borsa e lo mostrai a tutti. Ci fu un nuovo brusio nella sala e Sobrero riprese la parola. “Allora, Leo, all’interno di questo numero tu avrai uno spazio maggiore rispetto agli altri. Ti occuperai di una ricostruzione biografica di Vittore e poi farai riferimento alla tua scoperta di questo dattiloscritto che rappresenta l’ultima opera in vita dell’autore, se non ho capito male. Io non ho mai letto nulla di Vittore, lo conosco, come un po’ tutti coloro i quali si occupano di cultura nel nostro territorio, per sentito dire, per la sua passione per il vino e per le donne, per aneddoti della sua vita, ma visto che due miei redattori credono nella sua scrittura, mai totalmente apprezzata, a quanto pare, bene, questo potrebbe rappresentare un viatico per rilanciare questa figura di intellettuale ‘atipico’. Questa è la mia opinione. La riunione può considerarsi conclusa. Ricordatevi di portare i vostri lavori entro il 31 luglio, per alcuni articoli mancanti contatterò direttamente io i collaboratori e se qualcuno ha qualcosa da dire parli adesso.” Potevo ritenermi soddisfatto per l’andamento della riunione, per l’appoggio ottenuto da Gianluca e per la fiducia concessami da Sobrero. Alla fine del suo discorso nessuno intervenne, anche se Carlo e Angela avevano un’espressione un po’ stizzita e Claudia mi fece un sorriso tra il malizioso e il perfido. Ma nessuno avrebbe potuto rovinare la mia giornata. Salutai tutti e mi recai a casa a mangiare. Nel pomeriggio avrei dovuto fare necessariamente due cose: 1) chiamare Roberta, per raccontare il mio successo in riunione, e 2) continuare al leggere FRENESIA DELLE NATICHE, per cercare di avere una visione più completa del testo in questione. Appena arrivato a casa stappai una bella 66 cl ghiacciata, per festeggiare, anche se avrei voluto avere al mio fianco in quel momento Roberta, alla quale pensavo continuamente, soffermandomi, con un senso quasi di commozione, sul nostro abbraccio durato per tutta la notte precedente. Mentre sorseggiavo la mia birra, mi preparai un piatto di spaghetti al pomodoro, ascoltando l’album di Morgan a tutto volume, e avvertivo il piacevole presentimento che quel numero della ‘CULTURA DEL SUD’ avrebbe potuto essere un buon trampolino di lancio per la mia carriera di giornalista che, da un paio di anni, si era arenata, dopo i miei iniziali successi, seguendo il percorso tortuoso e discendente delle mie vicende esistenziali. Ricevetti una telefonata, proprio nel momento in cui avvicinavo la prima forchettata di spaghetti alla mia bocca. Speravo almeno fosse Roberta, ma, sentii, dall’altra parte, la voce alta e stridula di Francesco dell’Otello 69. “Caro Leo, come va la vita? Stai scopando? Guarda che l’altra sera, all’Irish Pub, ti ho visto in compagnia di un bel pezzo di fica. Non dirmi che non te la sei portata a letto! Un giornalista famoso come te! Con quell’aria da intellettuale che piace molto alle donne, che le fa aggrappare ai tuoi pantaloni, chiedendoti con implorazione di potertelo succhiare, vero?” “Francesco, smettila di sparare minchiate, porca puttana, e dimmi cosa cazzo vuoi, perché vorrei continuare a pranzare.” “Sì, sì, scusami, non volevo interrompere il tuo pranzo. Sarò breve. Questa sera presentiamo il nuovo numero di Otello 69. Facciamo una festa sul terrazzo di Paolo, invitiamo l’elite culturale salentina e un po’ di fiche da titillare. Sai dov’è casa di Paolo, vero?” “Certo, certo… Grazie per l’invito. Se non avrò altro da fare, farò un salto.” 25 “Ok, ok. Dimenticavo di dirti che puoi portare chi vuoi, anche la bella mora dell’altra sera. La festa inizia alle undici. Ci vediamo.” “Ok, ci vediamo e ancora grazie per il pensiero.” L’unica cosa che apprezzavo delle feste organizzate dagli amici dell’Otello 69 era il grande quantitativo di alcol che potevi tranquillamente consumare senza cacciare denaro, con dj che animavano la serata e belle donne che ti sbattevano il culo in faccia, ma Francesco e Paolo erano proprio due teste di cazzo, due fuori di testa, sballati, che, continuando di questo passo, non ce l’avrebbero fatta a sopravvivere a lungo. Continuai il mio pranzo, condendo i miei spaghetti con un’altra bella birra fresca, pensando al fatto che quella sera avrei potuto portare alla festa Roberta, accettando il consiglio di Francesco, sperando che almeno con lei non ci provasse. Mi versai un po’ del mio whisky nel bicchiere, poi mi appoggiai sul divano per leggere alcune pagine del testo di Vittore. Ero arrivato a più di metà libro, avevo scoperto che la donna vagheggiata dallo scrittore possedeva una voglia di fragola sul collo. Erano le due, quindi avevo tutto il pomeriggio a disposizione da dedicare a LA CARNE MUORE. Mi soffermai a pagina 422, quando notai un leggero cambiamento nei contenuti, una sorta di virata verso il male: L’insonnia mi attanaglia, vi giuro, mi attanaglia senza sosta, scorda ogni petalo della mia armonia schiacciata. Non chiudo occhi da giorni, non ho più controllo dei miei movimenti, non ho più misura della mia sofferenza, non quest’oggi, dove ho anche terminato il mio vino e il sudore freddo ricopre la mia fronte di rughe, il sudore di ghiaccio si insinua nei peli ricci del mio petto in fiamme. Ho voglia di dimenticare il tuo volto, anche solo per un secondo, ho voglia di cancellare e graffiare con le mie unghie di sangue ogni tuo minimo respiro che alita dietro la mia nuca infima e infetta. Ho voglia di scrostare l’immagine indelebile dei tuoi seni che mi ossessionano, delle tue gambe che mi strattonano, del tuo culo che mi agita, nelle sue movenze tossiche mi agita. Vai via da me, ti prego, ti prego, te lo chiedo con umiltà, vai via da me, non mi sopporto più, non esisto più, sono uno scheletro sbilenco senza più nervi e muscoli, sono il tuo servo della mente che non ha più forza di leccarti. Vai via da me o ti farò del male, ti farò del male e non avrò pietà di te, non mi commuoverò quando sarai per terra a subire le mie percosse, a subire il peso irritato delle mie ultime energie sepolte, delle mie ultime energie raccolte. Vai via da me o ti ammazzerò con queste mie sporche mani. La virata verso il male consisteva in questa logica distruttiva che sembrava essersi impossessata di Vittore, in questa sua esasperazione per un pensiero che ruotava maniacalmente nella sua mente, che non l’abbandonava neanche per un attimo, che, anzi, lo condusse alla totale insonnia, alla totale perdita di senno, al raggiungimento lento e inesorabile della sfinita follia. Continuando nella lettura, questa convinzione prese corpo. Ecco cosa c’era scritto a pagina 467: Per quale ragione rinchiudermi ? Per quale ragione vivere le ultime briciole della mia vita di lattice in questa stanza dal fetore che sgocciola, in questa stanza dalle pareti che intossicano, in questa stanza della nostalgia che urla, della nostalgia che si esalta, della nostalgia che implode, nel mio corpo implode, per quale ragione ? Datemi un milligrammo di forza per potere ancora vomitare, sul mio letto vomitare, perché sto male, aiuto, sto male, e tu sei la causa, tu, puttana, sei la causa di tutto e non la passerai liscia, no, non la scamperai, non ce la farai, grande puttana, non ce la farai, io ti avrò tra le mie mani e ti farò del male, ti farò sanguinare. 26 “Semplicemente da brividi”, pensai mentre leggevo quelle parte del testo. L’amore estremo per quella donna si era limpidamente trasformato in un odio corrosivo, in un odio estremo, che non lasciava adito ad altre possibilità. Notai, anche, che la prosa era molto cambiata rispetto le prime pagine, poiché un’ansia sperimentale, una concentrazione sugli aspetti formali del testo era stata sostituita da una possente concretezza del dire, una tagliente sostanza delle parole, una voglia estrema di significare. Queste mie riflessioni vennero interrotte da una telefonata, alla quale prontamente risposi. “Sì, chi parla?” “Ciao Leo, sono Roberta”, la sua voce, anche se filtrata dalla cornetta del telefono era di una sensualità estrema, alla quale semplicemente non potevo resistere. “Ciao, bella. Stavo per chiamarti.” “Sì, certo, si dice sempre così.” “No, ma non ti sto prendendo in giro. Avrei dovuto chiamarti dopo pranzo, ma ho continuato a leggere LA CARNE MUORE e ho perso un po’ la dimensione del tempo.” “Certo, certo, piuttosto, com’è andata la riunione? “A meraviglia, Roberta, Sobrero è stato entusiasta della mia scoperta e della mia proposta di lavoro per il numero di agosto, quindi tutto procede per il meglio.” “Lo sospettavo.” “Che significa lo sospettavo?” “No, perché mezz’ora fa ho ricevuto la chiamata di Sobrero e mi ha detto che per il prossimo numero serve assolutamente un articolo sui grandi scrittori dimenticati della nostra terra. Quindi ho pensato che potesse essere un completamento del tuo lavoro.” “Fantastico, non trovi?” “Sì, è interessante poter abbandonare i miei interessi archeologici per occuparmi di letteratura, mia grande passione, ma temo che ci sia troppo poco tempo per fare un lavoro di ricerca che sia da sostegno al tuo articolo.” “Bene, vuol dire che ti darò una mano, no?” “Infatti ti avevo chiamato anche per questo.” “Sì, però, adesso basta parlare di lavoro. Stasera siamo stati invitati ad una festa.” “Di quale festa parli?” “Una festa per la nuova presentazione del foglio letterario Otello 69. Ti va di venire?” “Certo, così abbiamo anche un po’ di tempo per parlare di lavoro.” “Ok. Allora ti aspetto alle dieci, qui a casa.” “Alle dieci, allora.” “Ah, dimenticavo di dirti che ieri sera sono stato benissimo con te.” “…Ci vediamo alle dieci…un bacio…” La sua voce da decisa e sicura si era fatta tentennante. Con quell’ultimo mio intervento avevo dovuto crearle imbarazzo. Probabilmente non si aspettava quella mia uscita in riferimento alla serata precedente. Ma io ero stanco di aspettare, avevo voglia di lei e sapevo benissimo che lei provava la stessa attrazione nei miei confronti. Bevvi un paio di whisky con ghiaccio, mi infilai sotto la doccia per allontanare quella patina di calura che mi asfissiava, poi misi nello stereo La voce del padrone di Battiato e proseguii nella mia lettura. Pensavo che in quei dieci giorni che mi separavano dalla fine del mese avrei dovuto lavorare sodo per costruire un profilo interessante di Vittore, sia attraverso una ricostruzione della sua poetica, in riferimento ai suoi tre romanzi pubblicati in vita, sia considerando questo testo inedito, questo diario scritto con il sangue tra le unghie e con il veleno nel cervello. Il testo, oramai trasformatosi in una suadente sublimazione della violenza come gesto catartico, scorreva veloce nella lettura e la mia attenzione si soffermava su alcuni passaggi che rasentavano l’assurdo esploso in una mente in delirio. A pagina 559 Vittore 27 è alle prese con la masturbazione. Il sudore mi consuma, lentamente mi scuoia, in questa stanza saturata dai miei sospiri, saturata dai miei martiri implosi, inevasi, rinchiusi nel lambiccare sfregato della mia mente in emorragia. L’eccitazione questa mattina non va via, si lega alle pareti bruciate del mio cazzo che si consuma, che nel buio sfuma, sfronda, nel tempo che stringe gronda sudore nel ritmico movimento della mia mano in calore, amore, amore, ti odio e mi masturbo pensando al tuo corpo in brandelli, pensando alle tue cosce tagliate con lame pungenti, alle tue cosce morse dal veleno che i miei denti sprigionano, che i miei denti sezionano, mi masturbo pensando al tuo culo aperto che sparge fiori di goduria tra le croste sfibrate di questo cielo che mi dona vuoto, mi masturbo pensando alla tua fica slabbrata che cerca protezione di cazzi gonfi e duri nell’esaltazione, mi masturbo e sento vicino l’esplodere del liquido che dipinge, nello spazio sfinisce, nello spazio si arriccia trasformandosi in figure rococò bagnate, ecco l’esplosione di sperma tanto desiderata, getto caldo che salta e rotola come ruscello in piena, si ammorbidisce sulle lenzuola sporche del tempo che accumula, del tempo che subdolo ti incula, nella totale serenità di questa mattina venuta. Ero entrato nel ritmo vertiginoso della prosa di Vittore, nella sua musicalità dominante, nella sua ricerca spasmodica di allitterazioni e rime interne, velate, preziose, rime baciate, dirette, corrose, arricchite dal tema, divenuto preponderante, dell’odio profondo e carnale per la donna che gli aveva donato una simile disperazione. La lettura scorreva veloce, le pagine erano divorate con facilità, la voglia di leggere la parte finale era forte, ma nessuna parola, di quel voluminoso volume, doveva e poteva sfuggirmi, perché utile per un corretto lavoro di ricostruzione da presentare alla ‘CULTURA DEL SUD’. Quando Roberta suonò al mio citofono erano le nove e mezza, interruppi la mia lettura a pagina 647, sperando di poter giungere alla fine entro il giorno seguente. Roberta quella sera era uno schianto. Indossava una gonna nera che avvolgeva le sue gambe affusolate sin sopra le ginocchia, scarpe con il tacco alto, anch’esse nere, e una camicetta senza maniche di seta bianca che mostrava con evidenza i suoi seni dai ritti capezzoli neri. Sarà forse stato il whisky, o forse la lettura delle pagine di Vittore, ma aver visto Roberta in tutto il suo splendore mise in subbuglio i miei ormoni, l’eccitazione s’impossessò di me, senza nessuna possibilità di uscire fuori da quel tunnel sensoriale. “Allora vuoi proprio farmi impazzire tu!”, le dissi, con tono sarcastico. “A cosa ti riferisci?”, rispose lei con un sorriso malizioso che aumentò la mia voglia di saltarle addosso e farla mia. “Sai bene a cosa mi riferisco. Sei uno schianto stasera!” “Tu, invece, con quella maglietta dei CCCP, sei un po’ anacronistico.” “Non preoccuparti, non esco con questa maglietta. Vado ad indossare una camicia e torno. Tu, intanto, versati del whisky. Dovrebbe esserci del ghiaccio in freezer.” Quando uscii dalla mia stanza vidi Roberta intenta a giostrare con il mio hi-fi. Aveva tolto il CD di Battiato, che suonava in loop da qualche ora, per inserire l’album di Sergio Cammariere, autore colto e raffinato, che nell’ultimo periodo accompagnava le mie serate di solitudine, passate a scrivere a bere. Mentre lei trafficava con la mia musica, non potei fare a meno di notare il suo culo sodo e raccapricciante, sostenuto dalla gonna attillata nera. Decisi di farmi un doppio whisky per stordirmi e spegnere ogni pulsione carnale che batteva tra i miei vecchi jeans. Ci sedemmo sul mio divano a parlare del lavoro che ci aspettava per quel numero della rivista, sull’importanza rappresentata dalla scoperta di quel dattiloscritto. Immaginavo i grandi critici del Salento e i grandi professori universitari ad implorare per poter leggere 28 il testo, per poi, prontamente stroncarlo, ponendo innanzi la motivazione che non ci si trovava di fronte alla liricità estrema di un Girolamo Comi o di un Vittorio Bodini. Quella di Vittore era solo spazzatura pornografica di un malato di mente alcolizzato. Non c’era spazio per lui nel novecento letterario salentino, senza poi parlare del panorama culturale italiano, così come non c’era spazio per la prosa funambolica e difficile di Antonio Leonardo Verri e per il nichilismo lirico di Salvatore Toma. Questo era quello che, certamente, avrebbero detto. Consigliai a Roberta di incentrare il suo lavoro, sugli scrittori dimenticati della nostra terra, attorno ai nomi di Edoardo Vittore, Antonio Leonardo Verri e Salvatore Toma, soffermandosi su questa trilogia di autori morti in giovane età, il le cui opere erano totalmente emarginate dagli addetti ai lavori. Lei mi ringraziò per questi consigli, poi mi prese per mano e mi disse di andare, altrimenti saremmo arrivati tardi alla festa. Quando arrivammo a casa di Paolo Carella era giunta, già, molta gente. Il terrazzo era ampio e quindi poteva contenere molte persone e, considerando il ritmo con il quale si stava riempiendo lo spazio, in poco tempo non ci sarebbe stata aria neanche per fiatare. C’era un tavolo sul quale era disposto il foglio numero 32 dell’Otello 69, graficamente impreziosito dai disegni della pittrice di Ugento Maria Luisa Ferradino. Misi un euro nella ciotola disposta sul tavolo e presi una copia del foglio, lo stesso fece Roberta. Poi c’era un piccolo palco sul quale si sarebbero esibiti, nel corso della serata, i One Love Hi Powa, considerato il sound system italiano più famoso del mondo. Francesco e Paolo avevano organizzato una gran bella serata, senza lasciare nulla al caso. Le sonorità reggae saturavano lo spazio aperto del terrazzo, grazie alla presenza di giovani dj, mentre iniziarono a vedersi personaggi noti dell’ambiente culturale salentino. Il primo che intravidi fu l’attore della compagnia teatrale Postriboli Marco Collodi, in compagnia della sua nuova amante, circa vent’anni più giovane di lui, almeno così sembrava, poi il cantante e il percussionista del gruppo folk – rock degli Infingardi, alle prese con i loro tentativi di rimorchiare. Mi davano sempre l’impressione che loro usassero la musica con l’unico intento di scopare quante più ragazze possibili. Fu la volta della triade letteraria delle nostra zona, Flavio Serrano, che aveva pubblicato con Einaudi un paio di anni prima e oramai sembrava vivesse di rendita, Mario Di Bari, scrittore tutto posa, alla ricerca disperata di un contratto con Fazi per un romanzo scandalo che aveva nel cassetto da un po’ di anni, e Sergio Marini, poeta e grande organizzatore di eventi culturali. Naturalmente io elargii saluti e strette di mani a tutti, con il lavoro che facevo era sempre propizio tenerli legati a sé, e lo stesso fece Roberta, la quale aveva un volto splendente, quella sera, con occhi lucidi, illuminati dal whisky che aveva bevuto prima di recarci alla festa. Ci fu poi la comparsa degli organizzatori, Paolo Carella e Francesco Giannelli, già belli e strafatti, con il primo che a malapena si reggeva in piedi, con il suo bicchiere di rhum pieno tra le mani, e con il secondo che faceva girare uno spinello di erba tra gli invitati, baciando e toccando donne a destra e sinistra, affascinate dai suoi lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri. Verso le undici, quando gran parte degli ospiti erano giunti, la serata prese a decollare, con i One Love Hi Powa, sul palco a dettare il ritmo, con la gente che ci dava dentro con le bevute di birra e cocktail, con Roberta che ballava muovendosi sensualmente al mio fianco, al quarto Invisibile della serata, che aveva gli occhi sempre più lucidi e meno casti. Dopo quasi un’ora di danza, ci prendemmo una pausa, ci avvicinammo al tavolo degli alcolici, Roberta esausta si sedette per terra, continuando a bere, io, invece, venni bloccato in una conversazione strampalata da Paolo, con gli occhi semichiusi, oramai ridotto in una forma molto vicina all’essere vegetale, che non perdeva, però, la sua voglia di parlare di lavoro. 29 “Guarda, Leo, hai visto che bella serata? Quanta bella gente?” “Certo, certo…avete messo in piedi una bella festa…bello il nuovo numero di Otello 69!” “Lo pensi davvero? Sai, per noi è importante avere l’approvazione di gente preparata e colta come te…” Ogni qualvolta Paolo mi faceva questi complimenti era, solo, per chiedermi uno spazio, all’interno della ‘CULTURA DEL SUD’, da dedicare al suo foglio letterario. “Paolo, cosa vuoi questa volta?” “Niente, niente…vorrei chiederti se è rimasto un po’ di spazio nel numero di agosto della tua rivista per un’intervista a me e Francesco. Sai, se continueremo a non vendere, se gli sponsor continueranno a ignorarci, non potremo stampare il prossimo numero. Magari un’intervista nella ‘CULTURA DEL SUD’ potrebbe rilanciarci, visto che avete una tiratura di 3000 copie.” Cercai di essere sincero, ma nel contempo di non rinunciare alla mia proverbiale diplomazia. “Guarda, proprio oggi c’è stato la riunione di redazione, in cui abbiamo discusso l’impostazione del prossimo numero e, almeno per agosto, penso non ci sia la possibilità.” Paolo non mi diede neanche la possibilità di terminare il discorso, si voltò di spalle e corse dentro casa, preso da conati di vomito. “L’importante è che non mi abbia vomitato addosso”, pensai. Roberta, intanto, era sempre lì, per terra, a dondolare la sua testa a ritmo di musica, con il bicchiere vuoto tra le mani, mi piegai, le chiesi se voleva che andassimo a casa per riposare un po’. Fece cenno di sì con la testa, poi l’aiutai ad alzarsi e, quando fummo in piedi l’uno di fronte all’altro, Roberta mi diede un bacio sulle labbra. Io risposi al suo gesto con un bacio sulla fronte, le presi la mano e ce la svignammo dal delirio alcolico che si stava impossessando della festa. Quello che avvenne, una volta giunti a casa, fu semplicemente naturale, fu la conclusione splendida e inevitabile di quei giorni passati insieme, di quei momenti trascorsi gomito a gomito, guardandosi negli occhi e sfiorando reciprocamente i nostri corpi. L’alcol aiutò a disinibirci. Una volta entrati nella mia stanza ci spogliammo, gettando i nostri abiti per terra. Fu la prima volta che vidi Roberta nuda, con le sue gambe lunghe e lucide, con i suoi seni sodi e i suoi capezzoli neri e turgidi che aspettavano solamente di essere divorati dalla mia bocca vogliosa. Lei si sdraiò sul letto, io spensi la luce e le andai sopra. Cominciammo a baciarci, lei aveva la bocca spalancata nella mia, sospirava contorcendosi, gemeva e ansimava, la sentivo totalmente in mio possesso e questo mi eccitava tanto da farmi impazzire. Lei afferrò il mio pene e lo guidò decisa nel suo corpo. Io mi mossi dentro di lei con forza e desiderio. Sentivo vibrare le sue viscere sotto i miei colpi. Pose le sue gambe sui miei fianchi e io mi immersi dentro di lei, con tutta la forza, continuavo a muovermi, con velocità sempre crescente, mordendole e leccandole i seni, finché non fummo quell’unico movimento straziante ed estremo che ci condusse ad un orgasmo lancinante ed esplosivo. Tutto, poi, si calmò. I nostri corpi sudati e bagnati si allontanarono. Accesi la piccola luce, posta affianco al mio letto. Eravamo distesi l’uno affianco all’altro, guardando entrambi il soffitto. Strinsi la mano di Roberta, tanto forte da farla girare, con le poche energie rimaste, al mio fianco. Unimmo i nostri corpi in un abbraccio intenso, che sembrò durare un’eternità. Poi lei si voltò e io le cinsi i fianchi, poggiando il mio pene moscio sul suo culo splendido. Con una mano le accarezzai i capelli e fu in quel momento che la mia vista cadde su una macchia scura che aveva dietro al collo. Le alzai i capelli con una certa curiosità, con 30 un’ansia che si fece sempre più intensa quando i miei dubbi su quella macchia vennero meno. “Che cazzo significa questo?”, urlai senza controllarmi nelle sue orecchie. “Cosa ti prende?”, rispose impaurita Roberta. “Porca puttana…questa è una voglia di fragola…hai una voglia di fragola nello stesso punto della donna che ha fatto disperare Vittore”, mi alzai dal letto, mi misi seduto, sperando che Roberta avesse potuto risolvere quell’atroce interrogativo che invase la mia testa. “Avrei dovuto dirtelo prima…” “Dirmi prima cosa?” “Calmati, Leo, non è nulla di grave…devi calmarti…mi fai paura…” “Ok, ok…mi calmo, stai tranquilla, mi calmo…ma voglio che tu mi dia una spiegazione…” “Hai presente quella sera che ti parlai del mio amico di Poggiardo che andava a portare da mangiare a Vittore, nell’ultimo periodo della sua vita?” “Sì…” “Bene…quell’amico non è mai esistito.” Vidi che anche Roberta si mise seduta sul letto, prese un grosso sospiro e cominciò a raccontare. “Sono stata io che ho portato da mangiare a Vittore per tre mesi. Frequentavo l’ultimo anno di liceo. Avevo la maturità quell’anno. Da marzo a giugno 1993, il pomeriggio alle tre, prima di studiare, percorrevo con la mia auto, la Y10 regalatami da mio zio, dopo aver preso la patente, il tragitto Cursi – Melpignano. Avevo conosciuto Vittore, durante il Natale precedente, in un reading che aveva tenuto nella biblioteca del mio comune, insieme ad altri poeti. Rimasi incantata dal modo in cui leggeva le sue poesie, con la sua voce possente, forte, declamatoria, a volte, poi, suadente, intima, che sembrava quasi uscire fuori dalla parte più profonda e nascosta custodita dal suo corpo gonfio e enorme. Così, alla fine di quella serata, mi avvicinai a lui e gli chiesi come poter leggere altri suoi testi. Dove potevano essere acquistati. Lui mi disse che nella sua casa aveva un po’ di roba da farmi leggere. Mi diede l’indirizzo e mi disse di passare quando volevo, perché in quel periodo non usciva spesso da casa. Mi recai a casa sua dopo tre giorni. Pensai molto al fatto che Vittore in apparenza non sembrava totalmente ‘regolare’, quindi avevo un po’ di paura, ma mi feci coraggio e dopo il primo giorno capii che era un uomo dalla sensibilità estrema, dalla profonda solitudine, dall’intelligenza raffinata che, però, veniva lentamente mangiato dall’alcol. Nella sua piccola casa, una stanza unica, con un piccolo bagno indipendente, parlammo di letteratura, di storia, di attualità, di tutto, e quello che mi sorprendeva era che lui su tutto riusciva ad imbastire una conversazione, quasi sempre un suo monologo, perché io ascoltavo estasiata. Quello era un periodo difficile per lui. Viveva solo con un piccolo sussidio che riceveva dallo Stato per la sua invalidità. Alla mano sinistra gli mancavano due dita, perse lavorando, quando era ragazzo, da un suo zio falegname. Cominciai a portargli da mangiare, perché non aveva soldi a sufficienza per fare la spesa, visto che spendeva tutto in vino e sigarette. Lui in cambio mi dava lezioni di Letteratura Italiana e Storia, materie che avrei portato agli esami orali della mia maturità. Poi, verso le quattro del pomeriggio, ogni sacrosanto giorno, veniva un tipo magrolino, sulla sessantina, che gli portava due litri di primitivo e due pacchi di MS rosse. Edoardo gli dava seimila lire e cominciava a sorseggiare il vino sino alla sera, alternando le bevute con le sigarette fumate. Faceva un piccolo sorso ogni cinque minuti, regolarmente. La sua pancia ogni giorno si gonfiava sempre più e, visto i due pacchetti di MS che fumava da vent’anni, oramai, anche i suoi polmoni erano conciati male. Il suo atteggiamento nei miei confronti mutò dopo il secondo mese, quando le nostre conversazioni erano arricchite da suoi espliciti complimenti sul mio modo di vestirmi, sulla mia bellezza, sulla mia carnagione mediterranea e i miei occhi penetranti. Tutto sino al 19 giugno 1993, il giorno prima del mio scritto di italiano, prima prova della 31 maturità, dove lui, in preda ad una evidente sbronza da vino, cercò di approfittare di me. Si alzò dal letto, sul quale era disteso per grande parte della giornata, si avvicinò alla mia sedia, si piegò e cercò di infilare la sua testa sotto la mia gonna. Io me ne scappai impaurita. Dopo di allora non mi feci più vedere. Dopo un mese venni a conoscenza della sua morte per avvelenamento. Roberta terminò il suo racconto con gli occhi gonfi di lacrime. Io l’abbracciai e la baciai dolcemente. “Perché non mi hai raccontato la storia appena ti ho accennato del dattiloscritto ritrovato?” “Perché è una storia che io, con grosse difficoltà, ho cercato di dimenticare. Capisci… io sono stata, inconsapevolmente, la causa del suo suicidio.” “Sai che non è così…sai benissimo che lui si stava uccidendo da solo…tu non hai nessuna colpa…” Roberta cominciò a lasciarsi andare in un pianto liberatorio. “No, Leo, io mi sento colpevole della sua morte e ora ancor di più, dopo la lettura di quelle pagine di LA CARNE MUORE, e ogni volta che ci penso sto male, ti giuro sto male. Volevo solo aiutarlo, portandogli del cibo e dandogli la possibilità di parlare con qualcuno e invece l’ho ammazzato…” 6. ULTIME PAROLE DEL DATTILOSCRITTO DI EDOARDO VITTORE ‘LA CARNE MUORE’ Il sipario sta calando su questa commedia dalle tragiche tinte sbiadite. Ho ingurgitato veleno per topi in grande quantità, raddolcito da buon vino primitivo. Ora sono su di giri, non riesco a fermare i miei piedi che scalpitano, non riesco a rilassare il mio corpo che si spappola, e continuo a pensare a te e il tuo ricorda mi irrita, il tuo ricordo mi eccita, mi satura con ossessione, mi satura nell’eccesso della perversione. Vorrei averti sotto di me, vorrei strappare i tuoi striminziti abiti da puttana e succhiare il liquido che esce dalle tue cosce, aprire le tue gambe lucide e nere e infilarti la mia lingua non più limpida e leccarti le labbra della fica con dolcezza, entrare con i denti nella tua fessura bavosa e morderti, morderti con violenza, per poi rallentare il ritmo e nuovamente accelerare e farti uscire tiepido sangue carnale da bere, bere per poi vomitare, sul tuo corpo vomitare, sino a star male, a godere del mio star male, a godere delle tue lacerazioni vaginali, a godere della tua sofferenza meritata, ragionevole e sacrosanta. Sì, questo veleno per topi sta svolgendo al meglio il suo lavoro, ho lo stomaco che si sbriciola, ho gli occhi che mi pungono, mi agitano, si ustionano e il pensiero di te continua a svenarmi. Vorrei infilare il mio pene bollente tra le tue cosce da grande troia di bordelli dal basso profilo, scoparti da sopra, da sotto, da dietro e incularti per farti soffrire, per farti sanguinare, anche dal culo sanguinare, e no, non avrò pietà delle tue lacrime stridule, non avrò pietà del tuo culo minimo, non avrò pietà dello strisciare gastrico dei tuoi luridi capelli sul mio pavimento, perché te lo farò leccare, con la lingua leccare, senza esitazione leccare e pulire, mentre continuerò a incularti con foia, a incularti con cattiveria, per tutto il male che mi hai fatto con cattiveria, per tutti i brividi che mi hai donato con cattiveria e non avrò pietà perché tu di me non ne hai avuta. La frenesia delle natiche, che mi martella il cervello, troverà soluzione tra le pareti limpide del tuo culo immacolato. Il sipario sta calando su questa 32 commedia dalle tragiche tinte sbiadite. Perdo lentamente le forze, il peso del mio busto diviene insopportabile, intollerante, devo sedermi per non svenire, devo sedermi per non sentirmi più morire, devo poggiare la mia testa su questo cuscino di piume d’oca, su questo materasso soffice che mi ospita, lo stesso materasso sul quale vorrei violentarti, vorrei fotterti sino ad arrossare la punta del mio pezzo di carne rovente, sino a fare sanguinare le pareti sottili del mio pezzo di carne, scaduto, spossato, nel delirio smembrato. Vorrei strappare i tuoi lunghi capelli neri e infilarti il mio pene in bocca, in tutta la sua durezza in bocca e slabbrarne ogni angolo perfetto e pompare in su e giù, sentendo il digrignare caustico dei tuoi denti indifesi, in su e giù per farti assaporare il pulsare dello sperma che arriva, per farti assaporare la gioia corrotta dello sperma che esplode, nella tua bocca esplode, nella tua bocca gioisce, e ora inghiotti, inghiotti, puttana, inghiotti nella sofferenza, inghiotti tutto il mio strazio chiamato solitudine, inghiotti senza parlare perché ora il tuo compito è solo quello di ingoiare. Il veleno per topi è andato ad intaccare ogni centimetro infetto del mio corpo di squame e ora non ho più controllo di me, non ho più peso di me, sono steso su questo letto e non potrò più rialzarmi, sono steso su questo letto sorseggiando le ultime gocce di primitivo, battendo queste mie ultime parole, arrampicandomi sugli ultimi aliti di vita, sugli ultimi respiri che nell’affanno svaniscono, trasparenti mi uccidono, nel vuoto mi crocifiggono. 21 Luglio 1993 Edoardo Vittore 33 Appendice Anni 1993 - 2003 I nomi sono nomi di morti. I miei, e quelli di Coloro che hanno percorso i tortuosi sentieri. Gli anni che abbiamo vissuto hanno seppellito Per sempre l’innocenza del mondo. Vi ho promesso di non dimenticare. Vi ho portati in salvo nella memoria. LUTHER BLISSETT, Q 1. 22 LUGLIO 1993 QUOTIDIANO DI LECCE Evento tragico Edoardo Vittore, scrittore maledetto di Melpignano, morto suicida all’età di 34 anni di Leo Sepe Un nuovo lutto ha colpito la scena letteraria salentina. Dopo la morte a maggio di quest’anno del poeta di Caprarica Antonio Leonardo Verri, ieri i carabinieri di Maglie hanno trovato il corpo senza vita dello scrittore Edoardo Vittore, nella sua casa di Melpignano. Dalla ricostruzione degli stessi carabinieri, la morte di Vittore, che aveva da poco compiuto 34 anni, è stata causata dall’uso di veleno per topi, come dimostra il flacone della sostanza in questione trovato rovesciato vicino al suo letto. Vittore era conosciuto negli ambienti letterari del territorio per la sua scrittura ostica ed estrema, difficile, per alcuni versi sperimentale, che molto spesso amava arricchirsi di contenuti osceni, da molti considerati pornografici. Vittore ha pubblicato in vita tre romanzi, Il pesante colore sfinito della vita (1984), Il sudore delle donne di strada (1987) e Un solo minuto prima del tuo saluto (1989). A questa produzione in prosa è da aggiungere la pubblicazione di sillogi poetiche all’interno delle riviste letterarie più importante della zona, come L’Immagine Velata e Il Laboratorio Nascosto. Vittore non era sposato, non aveva figli e aveva perso i genitori. Lascia una sorella, Laura, che è stata la prima ad avvertire i carabinieri, dopo una visita fatta a casa del fratello. Le motivazioni del suo folle gesto sono da legarsi alla profonda solitudine vissuta dallo scrittore negli ultimi anni della sua vita, unita all’uso e abuso di alcol e calmanti. 34 2. 22 LUGLIO 1993 GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO Folle gesto La morte prematura di Edoardo Vittore, scrittore della nostra terra di Emanuele Migro Si prova sempre un dolore profondo a parlare di artisti della nostra terra morti così prematuramente. Il dolore si fa ancora più straziante quando si viene a conoscenza, come nel caso di Edoardo Vittore, che la morte è legata al gesto estremo, difficile e sofferto del suicidio. Edoardo Vittore, che aveva compiuto il 6 maggio 34 anni, si è tolto la vita nella sua casa di Melpignano, nella più completa solitudine. A lanciare l’allarme, ieri, nel primo pomeriggio, è stata la sorella dello scrittore, preoccupata perché Edoardo, che nell’ultimo periodo mai si allontanava dalla sua casa, non rispondeva al suo citofono, come al solito. Laura, in allerta per le condizioni psicologiche del fratello, ma impossibilitata a seguirlo da vicino a causa del lavoro e del figlio da accudire, si è presto allarmata, chiamando i carabinieri di Maglie, i quali, una volta giunti sul luogo hanno sfondato la porta e hanno trovato il corpo finito dello scrittore sul letto e per terra il veleno per topi che lo ha stroncato. La ragione scatenante di questa sua folle fine è da ricercarsi nella vita solitaria che lo aveva condotto a profonde crisi depressive, curate con psicofarmaci, le cui dosi aumentavano con l’aumentare dei suoi stati d’animo critici, condite da bevute assidue e continue di vino rosso (del quale si dice che Vittore ne fosse dipendente). La solitudine è stata il filo conduttore della poetica di Vittore, che in vita ha pubblicato tre romanzi, Il pesante colore sfinito della vita (1984), Il sudore delle donne di strada (1987), Un solo minuto prima del tuo saluto (1989), testi facenti parte della trilogia della ‘ricerca dell’amore’. I protagonisti dei tre romanzi, tutti alter ego dello stesso Vittore, vivono la vita al continuo inseguimento dell’amore, in tutti i suoi aspetti, dall’amore carnale di Marcello Canali, in Il sudore delle donne di strada, e di Sandro Andrisani, in Un solo minuto prima del tuo saluto, all’amore ideale di Fausto Rossi, in Il pesante colore sfinito della vita. L’amore è sempre una meta, mai una conquista, e questa certezza conduce i personaggi di Vittore ad abbracciare la vita solitaria, sfociante in Fausto Rossi nella scelta dell’eremitaggio, in Sandro Andrisani nell’estrema scelta del suicidio, quasi preannuncio profetico della sua stessa fine. Sandro Andrisani può essere considerato il personaggio più riuscito dello stesso Vittore, eroico nella sua tragicità, che supera di gran lunga la raccapricciante inettitudine di Marcello Canali, incapace persino ad ammazzarsi. I suoi testi sono stati profondamente sottovalutati dalla critica. Vittore è stato uno scrittore che ha deciso di compiere la difficile scelta di una scrittura autentica, pronta a sviscerare la sua condizione esistenziale, pronta a mettere a nuda i pregi e i difetti di un uomo dalla vita non facile, metterli a nudo con una scrittura cruda, tagliente, diretta, priva di fronzoli e orpelli retorici. Questa sua scelta di verità sacrosanta, sia nella forma che nei contenuti, è stata la sua stessa condanna letteraria, con la critica che ha visto in Vittore un autore scomodo, da relegare ai margini, con la sua depressione e il suo alcolismo che peggioravano dopo 35 ogni stroncatura ottenuta. Oggi Vittore non c’è più. Ha deciso di farla finita, ha scelto, perché era un uomo libero, come il suo Sandro Andrisani, di avvelenarsi perché non aveva più niente da dire, niente che non avesse già urlato, senza essere ascoltato. Chi ha veramente creduto ed amato Vittore, come scrittore, non può non lottare per un suo riconoscimento letterario, che non può essere messo in discussione. Questo è l’unico modo con il quale farci perdonare da Vittore, per non averlo mai pienamente compreso. 3. MAGGIO 1994 TRATTO DALLA RIVISTA ‘L’IMMAGINE VELATA’ POESIE INEDITE DI EDOARDO VITTORE 1. Cosa è rimasto da raccogliere? Cosa è rimasto da respirare? Quest’oggi sto male, mi guardo riflesso nello specchio grigio che mi toglie ogni sapore, che mi impedisce di ansimare, non posso far altro che nascondere la mia testa sotto il materasso di paglia e seta. Cosa è rimasto da raccogliere? Forse solo i limpidi battiti del proprio cuore da aprire e impollinare, per poi nuovamente germogliare, nel lontano amore da ricercare. 2. Con questo sole faccio fatica ad alzare le mie mani posate sul mio pene eretto della nostalgia. Ho la testa che in cerchio mi uccide, ho la testa che perde sapori mai prima colti, ho la testa sbilenca per il troppo vino bevuto, ho la testa che morde per la masturbazione continua, per la masturbazione iterata, 36 pensando a te, al tuo culo acido, ai tuoi seni santi, alla tua fica beata che vorrei tanto venerare, mentre il sole consuma ogni mio briciolo di sanità, ogni mio briciolo di equilibrio mentale. 3. Striscio per strada con il ritmo dei cani randagi ad accompagnare i miei passi consumati nel febbrile movimento dei muscoli contratti. Striscio per strada e non ho nulla da dire, vi giuro, nulla da aggiungere a quanto masticato quest’oggi, con terribili incubi mattutini che mi ammazzano e mi colpiscono feroci dietro la nuca, con il pensiero della morte che mi ossessiona, con il pensiero della morte che sguscia via e s’impossessa del mio corpo di vetro, del mio corpo di scheletro dal fegato rigonfio. 4. Sei entrata nella mia vita di soppiatto, con i tuoi neri capelli il tuo corpo di cristallo e la tua verginità prorompente, la tua verginità provocante, la tua verginità, a tratti, disarmante. Ora non posso fare più a meno di te e soffro per questo vincolo che mi hai imposto, per queste catene con le quali mi hai cinto, e piango mentre sono nel piccolo bagno di questa casa che mi soffoca, pensando continuamente alla mia morte, senza niente da mangiare, aspettando con straziante ansia la tua venuta, per guardarti un’altra volta, forse l’ultima volta. 37 5. Raccogliere vermi del mio giardino mi fa sentire meno solo, in questa mattina dove il tempo stenta a passare, dove Melpignano è desolata, senza nessuno che passa dalla mia casa per un saluto, per una parola, anche smozzicata, anche farfugliata, da scambiare. Raccogliere vermi del mio giardino, è rimasto da fare questo, aspettando la tua venuta, aspettando che il tuo corpo posi leggero sulla mia sedia, aspettando di poter leccare il punto preciso sul quale hai poggiato il tuo culo, per assaporare anche solo un attimo del tuo sapore. Ho il ventre che mi scoppia dal dolore, ma prima di divenire cenere donami per un briciolo di eternità lo splendore pulsante che si cela tra le tue cosce, anche solo per un briciolo di eternità. 6. Solo pochi istanti, solo altri pochi istanti e oggi sarei saltato addosso a te, con il mio sesso ti avrei cosparsa di sperma, perché ti desidero sino a star male, ti desidero senza freno, ti desidero e non posso farci nulla e ciò che mi fa andare avanti è sapere che prima o poi accadrà, prima o poi sarai mia, aprirai le tue gambe alla mia ossessione e questo mi fa andare avanti e questa è divenuta la mia unica ragione di vita. 7. Sei andata via, è successo pochi attimi fa. Volevo solo leccarti tra le cosce, ma tu non hai voluto, 38 tu, spaventata, sei fuggita e ora perché trascinarmi, perché continuare a trascinarmi in questo mondo che non mi appartiene, in questo mondo al quale non appartengo? Ora che sei andata via il profumo della cenere, di questa cenere che mi donerà solo morte, diviene asfissiante, penetra con ritmo tra le mie tempie di latta e plastica. Sei andata via e ora poggio il mio capo unto di disperazione sugli spigoli della mia pazzia. CENNI BIOGRAFICI: Edoardo Vittore, nato a Maglie il 6 maggio 1959, è scomparso prematuramente il 21 luglio dello scorso anno, dopo aver ingerito, nella sua casa di Melpignano, una quantità eccessiva di veleno per topi. Vittore, per molti anni, è stato l’autore salentino più estremo, unendo la sua scrittura tagliente e diretta ad una personalità sregolata, scandita dall’uso e abuso di droghe e alcol. In vita ha pubblicato Il pesante colore sfinito della vita ( 1984, Errebi, Maglie), Il sudore delle donne di strada ( 1987, Il Vibrante Cantore dei Saraceni, Caprarica) e Un solo minuto prima del tuo saluto (1989, Il Cantiere, Parabita). Oltre a questa produzione in prosa, Vittore ha pubblicato le sue poesie sulle più rinomate riviste letterarie della regione. La piccola silloge ( di 7 testi), che noi di L’immagine Velata vi presentiamo, è inedita ed è giunta a noi grazie all’interessamento della sorella dello scrittore, Laura Vittore. Sono da considerarsi le ultime poesie pubblicate in vita dallo scrittore, prima del suo suicidio. NOTA CRITICA ) di Diodato Valle ( Docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università degli Studi di Lecce Queste poesie inedite di Edoardo Vittore sono spiazzanti, come spiazzante è la scelta dello scrittore di dire presto addio a questo mondo. Naturalmente non spenderò parole sul mio profondo dissenso etico per il gesto compiuto da Vittore, derivante certamente dalla mia formazione cattolica, ma farò delle riflessioni sui suoi versi. Dal punto di vista tematico si può sicuramente affermare che Edoardo Vittore prosegue sulla scia dei suoi romanzi: il tema della solitudine, sempre più lancinante dopo ogni delusione d’amore, si lega inevitabilmente all’ossessiva e iterativa voglia di morire: <<… e piango mentre sono nel piccolo/bagno di questa casa che mi soffoca, /pensando continuamente alla mia morte, /senza niente da mangiare…>>. Sì, perché se volessimo trovare in Vittore un elemento che lo caratterizza, per tutta la sua breve vita artistica, ci si potrebbe soffermare sul suo amore assoluto per le donne e 39 sulle estreme conseguenze che questi amori, spesso non corrisposti, producono nello scrittore. Ciò che certamente distingue la sua produzione in prosa rispetto alla più sporadica scrittura in versi è la preponderanza del verosimile, tipica della costruzione di mondi possibili insita nella narrativa, in contrasto con la tendenza al vero, alla vita vissuta in toto, dominante nell’azione poetica. Marcello Canali, Sandro Andrisani e Fausto Rossi, protagonisti maschili dei tre romanzi di Edoardo Vittore, pur essendo maschere dietro le quali si cela la personalità scomposta, sofferta e sanguigna dell’autore, conservano dei tipici tratti distintivi individuali che li rendono unici e come tali irripetibili. Leggendo i versi che Laura Vittore ha donato a L’immagine velata, invece, ci si rende conto che a parlare è lo stesso Vittore, in carne ed ossa, rompendo, quindi, il patto di finzione narrativa che ha stabilito con i suoi lettori, nei romanzi. Vittore, quindi, se, come sarà da accertarsi, ha scritto questi versi negli ultimi mesi della sua vita, era travolto da un profondo irrazionale innamoramento per una donna, la cui dipartita, il cui allontanamento ha turbato in maniera esasperata l’animo già fragile dello scrittore, determinandone, e qui si tratta solo di supposizioni, con molta probabilità la scelta irreversibile del suicidio: << Ora che sei andata via / il profumo della cenere,/ di questa cenere che mi donerà solo morte, /diviene asfissiante, /penetra con ritmo tra le mie tempie/di latta e plastica./ Sei andata via e /ora poggio il mio capo unto di disperazione /sugli spigoli della mia pazzia>>. Sembra quasi che il nostro Sud poetico si cibi di scrittori che hanno questo rapporto intimo, direi quasi emotivo, con la morte, penso per esempio a Salvatore Toma (19511987), penso ad Antonio Leonardo Verri(1949-1993), stupendi poeti pianti troppo presto dalla loro terra che tanto li ha amati, che nelle loro opere si son fatti profeti dello loro stesso infausto destino. Concluderei questo mio intervento con dei versi di Claudia Ruggeri, giovane poetessa dalle grandi doti performative, scritta e recitata il giorno del funerale di Edoardo Vittore. La vita estranea a quella forma Cresciuta senza gradi o atti o Noi alla vita – perché l’edera Sfrenata al tirso errante muta di Luce violenta di suoni in corsa Come dio squassava le foreste Ed era primavera ( ? ) Non solo un getto di memoria Così orgogliosamente ebbri da far Pensare ad una riva e ad un bosco Perfetti di acque e poi si fanno Protezione e poi fuga di forze Probabilmente strappo e comunque Più in là religiosamente uguali Le ipotesi all’ombra inanellate Allora che vi chiedo. Chiedetemi di sollevare il calice E di portarlo complice alle labbra E poi dirvelo piano e con sottile Ironia che vi amo. Il sussurro di amore sul quale Claudia Ruggeri si sofferma negli ultimi versi del suo componimento è abbraccio totale a tutti i poeti che hanno lasciato questa vita troppo presto, dopo aver dedicato totalmente la loro esistenza alla pratica sempre più carnale, 40 difficile e totalizzante della scrittura. 4. 21 luglio 1994 GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO Un anno è passato La scrittura di Vittore in preda alla dimenticanza di Emanuele Migro Un anno è passato dalla scomparsa di Edoardo Vittore, ma nulla si smuove nelle torbide acque del mondo della critica e dell’editoria. Nessun editore nostrano si è fatto avanti, e non parlo delle piccole case editrici per le quali lo stesso Vittore ha già pubblicato, ma mi riferisco ai grandi editori che dicono di sostenere la cultura della nostra regione, pubblicando il meglio che c’è in circolazione. Nessun critico si è preso la briga di alzare il culo (scusate il termine improprio) dalla sua poltrona impolverata, prendendo posizione sullo scrittore di Melpignano. Un caso a parte è rappresentato dalla nota critica di Diodato Valle, all’interno del numero di maggio della L’immagine velata, dove l’esimio docente di Letteratura Italiana Contemporanea dell’Università di Lecce, nonché critico tra i più apprezzati in Puglia, ha commentato 7 poesie uscite postume di Vittore, consegnate dalla sorella Laura, alla redazione della rivista. Valle ha insistito sui legami tra Vittore ed altri esponenti della letteratura meridionale, Salvatore Toma e Antonio Leonardo Verri, uniti dalla tematica esasperata della solitudine. Questa solitudine, cifra tematica della sua scrittura, può condurre lo stesso scrittore di Melpignano alla totale dimenticanza. In preda a questa paura, come un anno fa, grazie allo spazio concessomi da questo giornale, rinnovo l’invito agli addetti ai lavori di rivalutare tutta la riproduzione di Edoardo Vittore, patrimonio inestimabile, ma per nulla conosciuto della nostra terra e non solo. 41 5. DICEMBRE 2001 OTELLO 69 PORNOGRAFICO RACCONTO INEDITO DI EDOARDO VITTORE Introduzione di Paolo Carella La presenza, sul nostro foglio di dicembre, di Edoardo Vittore, scrittore maledetto di Melpignano, scomparso prematuramente, non può che riempirci di orgoglio. Il racconto inedito ci è stato consegnato da Enrico Colomba, caporedattore della rivista letteraria Il Laboratorio Nascosto, il quale spulciando tra i suoi materiali d’archivio, ha trovato questo testo e, dopo la lettura, lo ha ritenuto degno dell’Otello 69 e della nostra idea di letteratura che lo stesso Colomba definisce ‘immorale’. Noi lo ringraziamo sia per averci donato questa perla di Vittore, sia per definirci immorali. PORNOGRAFICO racconta semplicemente una fellatio. Per i non addetti ai lavori si tratta di un pompino, di un sacrosanto pompino che diviene protagonista assoluto della storia. Mai titolo più appropriato di PORNOGRAFICO, perché l’atto pornografico consiste nello stabilire dei particolari, nell’incentrare tutto sui particolari. La pornografia, quella vera, agisce non sull’intero ma sui dettagli, taglia e seziona l’intero (il corpo è intero). La pornografia, quindi è dettaglio, questo eccita, questo fa volare il desiderio. Il dettaglio, nel racconto di Vittore, è rappresentato dalla bocca di Enrica e dal pene di Carlo, sul quale si costruisce l’intero percorso narrativo della storia, il resto dei corpi dei ragazzi è totalmente ignorato dallo scrittore, lasciando spazio a questo immagine ossessiva che disturba i nostri quieti sogni borghesi. Buona lettura. Ho sognato di prenderglielo in bocca sin dal primo momento che i miei occhi hanno incrociato i suoi. Il concerto non entrava nel vivo, il gruppo punk suonava i suoi due accordi stancamente, quando all’improvviso comparve tra la folla di punkettoni lui, con il suo sguardo ammaliante, con i suoi capelli lunghi e scompigliati, con i suoi jeans attillati, i suoi anfibi neri e la sua maglietta dei Joy Division. Lui si avvicinò a me, io continuavo a guardarlo, mi offrì una birra, io accettai, ci presentammo, io sono Carlo, e io Enrica, un’altra birra, ci allontanammo dalla festa, il gruppo punk strafatto si trascinava nella sala con i propri strumenti pendenti, mi portò nella sua auto, mise seconds dei Cure, non avevamo molto da dirci, i nostri sguardi si facevano sempre più ammiccanti, cominciammo a spogliarci, io fui la prima a essere completamente nuda e iniziai a sfilargli i jeans, lui non oppose resistenza, anzi, mi accarezzava i capelli, accennando un lieve sorriso. Dopo i jeans gli tolsi le mutande, il suo pene era già eretto, lungo e gonfio, con due testicoli duri e pieni da accarezzare, con il glande rosso e fremente. Cominciai a passare la mia lingua sull’estremità del suo pene, la mia lingua si muoveva in su giù su tutta la lunghezza del suo pezzo di carne, lui cercò 42 di rilassarsi, stendendo completamente il sedile della sua auto, io mi sistemai, per essere più comoda mentre glielo succhiavo. Sentivo il suo pene pulsare, battere ritmicamente ad ogni mia leccata, poi lo presi nella mia bocca, cominciai a mordicchiarlo e sentivo le sue gambe irrigidirsi e sussultare, sempre più dentro, il suo pezzo di carne toccò l’estremità della mia gola profonda e lo sentivo sempre più gonfiarsi. Muovevo la mia bocca con frenesia per procurargli il massimo piacere, e la mia eccitazione era nel vederlo godere, con il suo pene nella mia gola pronto a esplodere, a riempirmi del suo lucido e glassato sperma. L’eruzione si avvicinava, potevo percepirne l’immediato arrivo, improvvisamente lui si lasciò andare ad un urlo seguito da fluire di un gettito bianco che mi riempì la bocca e che io ingoiai con voracità, con fame accattivante, con voglia perversa, poi con la lingua ripulii tutto il suo pene e ci stendemmo sui nostri sedili a guardare il tetto grigio della sua auto. Non ho più rivisto Carlo, non l’ho più incontrato in altri concerti punk, non l’ho nemmeno incontrato per le strade della città, la sua è stata una presenza fugace che ha riempito una serata schifosa della mia tarda adolescenza da sfigata, ma ciò che non potrò dimenticare di lui è il forte odore acido del suo sperma ingoiato, che mi porto sulla pelle, dentro la mia pelle e che non riesco ad eliminare, non riesco a cancellare. Scritto nel settembre del 1986 6. AGOSTO 2003 CULTURA DEL SUD GRANDE SCOPERTA NELLA BIBLIOTECA DI TRICASE RITROVATO IL ROMANZO SCRITTO PRIMA DELLA MORTE DA EDOARDO VITTORE di Leo Monsanto In questo caldo agosto asfissiante, una buona notizia arriva dal mondo delle lettere. Noi della CULTURA DEL SUD, mentre effettuavamo delle ricerche presso la biblioteca comunale di Tricase, abbiamo ritrovato un dattiloscritto di Edoardo Vittore, un testo composto da 700 pagine, dal titolo LA CARNE MUORE, che, grazie anche alle date presenti nel testo, possiamo con certezza affermare che rappresenti l’ultimo romanzo scritto in vita dall’autore. Come il dattiloscritto sia giunto nella biblioteca di Tricase è facile a dirsi, considerando che l’unica familiare di Vittore, sua sorella Laura, nonché unica erede del limitato patrimonio (soprattutto fatto di fogli e libri), ha lavorato, prima di cadere in preda a una depressione acuta, nella suddetta biblioteca. LA CARNE MUORE è un monologo interiore infinito, nel quale l’autore, sospendendo qualsivoglia logica di finzione narrativa, si lascia andare ad un libero sfogo, soffermandosi sulla sofferenza patita per una donna che è stato presente e vicina a lui nell’ultimo periodo della sua esistenza. Il nucleo dominante di questo testo nasce dall’impossibilità da parte dello scrittore di possedere questa donna, improvvisamente andata via, e lasciatolo in preda alla sua alcolica follia, generata dall’uso e abuso continuo di vino rosso: << Ora sei fuggita per sempre, non ti sento, non ti vedo, non ti tocco, mi sembra di essere impazzito, ho un dolore tremendo alla testa, le ossa si stanno schiudendo, i muscoli si stanno slabbrando, non mi reggo più in piedi, ho le caviglie delle gambe che si sbriciolano come frullati di 43 frutta candita, non ti sento, non ti vedo, non ti tocco, mi sembra di essere impazzito, ho i peli delle braccia che bagnano pavimenti di strade non asfaltate, ho le palpebre degli occhi che farfugliano sordidi calori gementi, ho la colonna vertebrale che non sembra sostenersi nel labile gioco della malattia>>. Improvvisamente il pensiero continuo, la nostalgia asfissiante, l’amore oserei dire quasi assoluto per questa donna dall’identità nascosta, si trasforma in odio profondo, in astio velenoso, in voglia di farle del male, di farle subire la stessa sofferenza da lui assorbita: << Vai via da me o ti farò del male, ti farò del male e non avrò pietà di te, non mi commuoverò quando sarai per terra a subire le mie percosse, a subire il peso irritato delle mie ultime energie sepolte, delle mie ultime energie raccolte. Vai via da me o ti ammazzerò con queste mie sporche mani>>. La scena che conclude il romanzo è raccapricciante. Vittore scrive le ultime pagine, dopo aver assunto il veleno per topi che lo ha ucciso, scrive in preda ai primi dolori generati dalla sostanza letale, immagina, prima di morire, di violentare la sua donna, di farla sanguinare, per vendetta, stuprarla e scoparla in tutti i modi, lasciarla senza vita, stremata per terra, poi la sua immaginazione lascia spazio ad una più assurda e realtà, quella della sua stessa morte: << Il veleno per topi è andato ad intaccare ogni centimetro infetto del mio corpo di squame e ora non ho più controllo di me, non ho più peso di me, sono steso su questo letto e non potrò più rialzarmi, sono steso su questo letto sorseggiando le ultime gocce di primitivo, battendo queste mie ultime parole, arrampicandomi agli ultimi aliti di vita, agli ultimi respiri che nell’affanno svaniscono, nell’affanno mi consumano, trasparenti mi uccidono, trasparenti mi ingoiano, alla fine mi conducono, nell’assenza mi scagliano, nel vuoto mi crocifiggono >>. Questo testo di Vittore sfiora il capolavoro, nella sua totale autenticità, nel suo essere suo testamento artistico, nella sua scrittura proveniente dall’inconscio, nella sua scrittura viscerale, carnale, diretta, non levigata, non corretta e limata, ma istintiva, da definirsi certamente informale. Sono passati dieci anni dalla sua morte e nulla è stato fatto per lavorare seriamente ad una ripubblicazione delle opere scritte in vita da Vittore. L’interessamento del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Emanuele Migro, e del professore Diodato Valle non sono bastai a porre la questione Vittore nel giusto modo. Noi della CULTURA DEL SUD lavoreremo affinché lo scrittore di Melpignano possa ottenere ciò che gli spetta, ora con molta più forza di prima, dopo il ritrovamento di questo testo che, visto la sua potenzialità emotiva, merita di essere letto. 44 Epilogo Anni 2003 – 2013 Non so fra quanto tempo, non so in che modo, non so con che cazzo di titolo, ma vi arriverà prima o poi in libreria, con le solite schede della nostra casa editrice, il preannuncio di un libro che non avete mai visto. Antonio Moresco, Canti del Caos Sono passati dieci anni dalla mia scoperta del dattiloscritto di Edoardo Vittore nella vecchia biblioteca comunale di Tricase. In questo lasso di tempo la mia vita è totalmente cambiata. Tutta la serenità che avevo cercato di costruire con profonda difficoltà alle soglie dei miei trent’anni, culminata, poi, nell’incontro con Roberta, unico grande amore della mia vita, è svanita senza che riuscissi a rendermene conto. Ma andiamo per ordine. Subito dopo la pubblicazione del numero di agosto 2003 della ‘CULTURA DEL SUD’ ci furono due conseguenze immediate, prima di tutto la mia storia d’amore con Roberta, con la quale non ci perdemmo di vista per un attimo per i mesi successivi, poi la ‘questione Vittore’, sollevata grazie alla pubblicazione del mio articolo, nel quale dichiaravo di aver scoperto l’ultimo testo scritto in vita dallo scrittore. Come conseguenza di quella scoperta riuscimmo a creare, nel dicembre 2003, un comitato di esperti, volto alla diffusione della scrittura di Edoardo Vittore, nel quale, oltre a me e Roberta, c’erano Diodato Valle, docente universitario e critico illustre, Emanuele Migro, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, e Paolo Carella dell’Otello 69. Dopo numerosi incontri, dove ognuno di noi mise in campo le proprie ragioni sulla necessità di diffondere la scrittura di Vittore, si arrivò alla conclusione, nell’aprile 2004, che punto fondamentale era riuscire a far pubblicare LA CARNE MUORE da una casa editrice pronta ad assicurare una diffusione del romanzo sul territorio nazionale, perché il testo era da tutti considerato il punto più alto della produzione dello scrittore. Il sottoscritto, in quanto direttore responsabile del comitato in questione, provvide a fotocopiare personalmente 30 copie del dattiloscritto. Impacchettai ciascuna delle trenta copie, spedendole, con una lettera di presentazione alle 30 case editrici più importanti d’Italia. Ora, mentre continuavamo il nostro lavoro nella ‘CULTURA DEL SUD’, con Roberta entrata, grazie al suo ottimo lavoro di collaborazione, tra i redattori, non dovevamo far altro che aspettare, aspettare che qualche editor si pronunciasse con un suo giudizio sul testo di Vittore. Eravamo in questo periodo di attesa quando, nel settembre 2004, Roberta perse la vita, in un incidente stradale, sulla Lecce-Maglie, mentre, come ogni sera, finito il lavoro, tornava nella sua casa a Cursi. Avrei dovuto raggiungerla verso le dieci di sera, perché avevamo deciso di fare una cenetta insieme per festeggiare l’uscita del numero di settembre 2004 della ‘CULTURA DEL SUD’, ma alle nove venni chiamato per il riconoscimento del corpo. Non so se la ferita per la sua scomparsa si sia rimarginata, non so se questo tipo di ferite possano rimarginarsi, quello che penso è che quella fottuta auto che si è scagliata 45 contro la mia Roberta ha ucciso una donna splendida, una donna dall’intelligenza raffinata, al culmine della sua bellezza, e nel contempo ha ucciso un uomo, il sottoscritto, Leo Monsanto che, da quel maledetto 6 settembre, non fa altro che sentirsi morire ogni giorno di più. Il periodo successivo per me fu straziante, non facevo altro che piangere come uno stupido bambino al quale si nega il più insignificante tra i giochi, ogni oggetto toccato, ogni luogo visitato, ogni respiro fatto mi riportava a lei, al suo sorriso, al suo sguardo. Cominciai a bere whisky per tutto il giorno, ne consumavo una bottiglia nell’arco di mezza giornata, soprattutto quando ero libero dal lavoro in redazione. Mi faceva stare bene, mi stordiva e in quel momento avevo bisogno di stordirmi. Vi confesso che il whisky, nei momenti più tremendi della mia solitudine e della mia nostalgia per l’assenza di Roberta, mi ha condotto al limite del suicidio. Ma non ho avuto neanche le palle per farla finita. A dare una scossa elettrica alla mia vita è stata una lettera ricevuta dalla Mondadori, nel febbraio 2005, a quasi sei mesi dalla morte di Roberta. La lettera conteneva la lettura dell’editor per la narrativa italiana nella Mondadori, Franco Antonini, che, oltre al giudizio, poneva alcune righe di introduzione. Caro Monsanto, ho letto con molta attenzione LA CARNE MUORE di Edoardo Vittore, anche per l’accorata lettera che lei e gli altri membri della commissione, tra i quali noto la presenza del professore Diodato Valle, avete mandato alla nostra casa editrice. Il caso di Vittore è simile, certamente, a quello di molti altri artisti dalla vita sfortunata, ma a questa condizione si aggiunge, ed è questa, mi pare, la novità, il legame di un gruppo di intellettuali pronti a rischiare sulla scrittore di un uomo morto suicida a 34 anni. Entrerò ora nelle mie considerazioni inerenti a LA CARNE MUORE. La prima considerazione che mi sembra opportuno fare, accostandosi alla prosa di Vittore, è la dimensione fortemente lirica presente nell’evolversi delle pagine, direi quasi che si possa parlare di una tensione fortemente simbolica, dove la struttura sintagmatica del testo, con la sua significazione lineare, lascia spazio alla forza paradigmatica del dire, dietro la frase più semplice, quindi, si nascondono i significati più oscuri. Questa struttura simbolica mi sembra possa ritenersi cifra stilistica dominante e, che a buon ragione, nega al testo di Vittore la definizione di romanzo. Come ben sa, Monsanto, le questioni e le discussioni inerenti alla definizione dei generi hanno riempito milioni di pagine, nel corso della storia della letteratura, ma, mantenendo il discorso su toni non complicati, posso con convinzione affermare che LA CARNE MUORE ha del romanzo solo l’infinita mole; le 700 pagine del testo mi fanno pensare a romanzi fiume quali l’Ulisse di Joyce, L’Uomo senza qualità di Musil e la Ricerca di Proust. Manca una storia, mancano dei personaggi, cioè semplicemente è assente l’intreccio, tutto ruota attorno un’ossessione costante (quella di Vittore per questa misteriosa donna), un’ossessione che corrode l’animo e il fisico di Vittore, corrode la sua stessa mente, conducendolo alla fine descritta nelle ultime drammatiche pagine. LA CARNE MUORE può accostarsi, ritengo, al genere del diario autobiografico, e, per quanto riguardo il legame della sua prosa con altri autori, il ricordo cade inevitabilmente a due grandi geni sregolati della letteratura, Arthr Rimbaud e Dino Campana. Ma, al di là di queste attribuzioni, è giusto che lei sappia, Monsanto, che LA CARNE MUORE è stato un testo che ho divorato, che ho letto giorno e notte e poi riletto, un testo isolato, estremo, testamento letterario di un artista mangiato dalla solitudine, ma gli stessi motivi della sua bellezza sono le ragioni che rendono difficile la sua pubblicazione per la MONDADORI. Pubblicare LA CARNE MUORE è un rischio, in termini economici, per una casa editrice, 46 è un rischio perché il testo, pur contenendo momenti di soave lirismo, indiscutibili, in altri si fa difficile, prolisso, pesante e pretenzioso. Noi della Mondadori, in un periodo in cui l’intrattenimento dell’era tecnologica sta lentamente mangiando fette importanti di lettori, non possiamo rischiare pubblicando un testo ‘particolare’ come questo. Sono convinto, Monsanto, che lei, insieme agli altri membri della sua commissione, al quale rinnovo la mia stima per questa scelta di coalizzare le vostre forze al fine di dare giusto lustro ad uno scrittore emarginato, troverete la casa editrice che fa per voi. Le rinnovo i miei cordiali saluti. Franco Antonini Lessi e rilessi quella lettera, sino a consumarla, la amai e la odiai, la volli stracciare, ma poi lasciai perdere, così come amai e odiai Antonini. Ad un certo punto, durante la prima lettura della lettera, mi vennero in mente pensieri del tipo vedere LA CARNE MUORE in libreria, tra le novità pubblicate dalla Mondadori, con il sottoscritto in giro per l’Italia a parlare della vita di Vittore e della sua scrittura. Poi, proseguendo, la delusione mi trafisse, LA CARNE MUORE, quindi, non interessava alla Mondadori perché non ‘commerciale’, questo in termini spiccioli, perché a tratti era difficile, prolisso, nonostante momenti di indiscutibile lirismo. Quella sera bevvi una bottiglia intera di whisky. Pensavo al fatto che il testo di Vittore mi stesse ossessionando e la ragione era che quel maledetto dattiloscritto mi aveva consentito di conoscere Roberta, facendo nascere il nostro folle amore, quel testo ci apparteneva e, ancor di più, apparteneva a Roberta, la quale era l’inconsapevole protagonista, colei che aveva alimentato la folle ‘scrittura dell’orgasmo’, come amavo definirla, di Edoardo Vittore. Pubblicare LA CARNE MUORE voleva significare ricongiungermi con Roberta, voleva significare, forse, liberarmi da quel tormento che mi stava divorando e lentamente consumando. Nei mesi seguenti seguirono solo alcune lettere di rifiuto, senza nessun giudizio critico, da parte della Marsilio, della peQuod, della minimum fax, dell’Einaudi, che da molti anni preferiva pubblicare testi di comici affermati, perché vendibili, venendo meno al ruolo storico e politico che ha avuto nell’editoria italiana. Tutto questo sino ad un giorno del settembre 2005, ad un anno dalla scomparsa di Roberta. Trovai nella mia cassetta della posta una lettera proveniente dalla Feltrinelli. Aprii la busta e, seduto sul divano, con la bottiglia di whisky sul tavolo, cominciai a leggere. COMITATO DI LETTURA Data : 3 settembre 2005 Autore: Edoardo Vittore Titolo : Frenesia delle natiche Lettore: Mafalda Muzzecca La premessa è d’obbligo: questo testo di Edoardo Vittore, autore meridionale morto suicida, con una storia alle spalle raccapricciante ma non insolita nel grigio esistere dei letterati, non credo possa interessare a qualche collana della Feltrinelli, non ora, almeno penso. Ma lo terremo in rispettosa considerazione per il discorso espressionistico, eruttivo, magmatico che è dominante. Il centro attorno a cui il discorso ruota è un esistere tradito e schiacciato di una povera anima in preda alla follia, generata dall’alcol. Ciò che si ricava non è tanto l’impressione di una storia, di uno svolgimento, quanto di un ossessivo ritorno su di sé, di una scavante iterazione. Sembra quasi che la condizione animale (come dimostra in particolar modo la parte finale, nella quale immagina di violentare la donna causa della sua disperazione) sia continuamente evocata come la più 47 evidente metafora dell’umano. Di questa furia affannosa la figura retorica dominante è l’iterazione, accoppiata all’asindeto e modulata per sequenze sinonimiche o anche per semplici elenchi. Qualche volta i risultati sono assai robusti, ma altrettanto spesso inconsistenti. Questa inconsistenza, presente in alcune parti, diviene, quindi, il suo limite maggiore e, dal momento che si trascina per periodi lunghi delle 700 pagine, ne inficia anche le sezioni migliori, quelle di profonda strutturazione lirica ed emotiva. Ripeto, signor Monsanto, che la terremo informati sul manoscritto di Edoardo Vittore e nel contempo le auguro buon lavoro. Mafalda Muzzecca Quindi nemmeno a Mafalda Muzzecca, vincitrice del Premio Strega un paio di anni prima, con un romanzo che raccontava la storia della sua famiglia di emigrati, LA CARNE MUORE convinceva a tal punto da determinarne un interessamento da parte della casa editrice per la quale lavorava come lettrice. Anche in quell’occasione la mia reazione fu la peggiore possibile, ancora una volta l’unica mia ragione di vita, portare a compimento questo progetto iniziato con la mia Roberta, aveva ricevuto un colpo lancinante alle costole. Anche in quest’occasione presi a bere per tutta la serata e per tutta la notte, ascoltando la voce jazz di Paolo Conte e piangendo come un idiota sul mio letto. Poi cominciai a sentirmi male, a vomitare tutto quello che era possibile vomitare, a vomitare anche le budella, a vomitare anche il buco del culo, fino a quando in preda ad una incoscienza che nell’ultimo periodo non era inusuale, feci il numero di cellulare di Franco Sobrero, il mio capo, nell’ultimo periodo presenza importante per la mia vita in bilico. Franco, dopo pochi minuti era a casa mia, mi raccolse come si raccolgono i rifiuti sparsi per terra, con le punte delle mani per non sporcarsi, e mi condusse al pronto soccorso. Io, nella sua macchina, continuai a vomitare il nulla, perché oramai non c’era più niente da vomitare, ma avevo questo conati che mi travolgevano e non mi davano un attimo di tregua. Poi arrivai al pronto soccorso, mi attaccarono una flebo al braccio, il dottore mi fece qualche domanda riguardo le mie abitudini di bevitore e poi persi coscienza. Passai un periodo, che non so quantificare, in ospedale. Sempre attaccato a queste flebo che servivano a purificare il mio sangue marcio, almeno così diceva Franco, l’unico che veniva a trovarmi con regolarità. Poi la decisione più difficile della mia vita, che era inevitabile per consentirmi di riprendere una vita normale, quella di passare un periodo della mia vita in una comunità di recupero per alcolisti. I medici mi consigliarono la migliore, che si trovava in Toscana, vicino Prato. Ci andai nel gennaio 2006, dopo un Natale passato a casa di Franco, oramai per me divenuto amico fraterno, punto di riferimento, senza il quale probabilmente ora sarei cibo per insetti, sotterrato in qualche cimitero del cazzo. Il periodo passato nelle comunità, guardandolo a distanza di alcuni anni, sembra quasi essere avvolto da una coltre di nebbia che lo rende sospeso, fluttuante, inconsistente, quasi una sorta di sogno che, certamente, mi ha aiutato ad uscire dall’incubo generato dalla mia dipendenza da whisky. Ho conosciuto molta gente nelle mie stesse condizioni, con un due di loro sono ancora in contatto, con Osvaldo e Caterina, marito e moglie di Catania, caduti insieme nella morsa dell’alcol, con due figli lasciati in Sicilia dalla madre di lei, persone splendide dalla grande umanità. I momenti migliori non erano tanto le riunioni in cui i dottori ci mettevano in cerchio, facendoci parlare delle nostre sensazioni, dei nostri stati d’animo, come spesso si vede 48 in televisione, dimostrazione del fatto che queste situazioni quasi da catechismo esistono per davvero, ma quando ci tenevano occupati nella pulizia dell’immenso giardino che circondava la sede della comunità, quando ci dicevano di cucinare per tutta la compagnia, comprendente più di trenta persone, ossia quando tenevano la nostra mente in continuo movimento, evitando che il pensiero corresse alla nostra disperazione e alla bottiglia, causa di ogni male. Uscii dalla comunità, dopo quasi tre anni, nel dicembre 2008, sgonfio, pulito e dimagrito e Franco, in questo continuerò a ringraziarlo fino all’ultimo giorno che mi sarà concesso vivere, mi riprese con sé, nelle fila dei redattori della ‘CULTURA DEL SUD’, oramai divenuta una rivista di grande importanza, con una vendita mensile di più di 3000 copie in tutta Italia, con una tiratura aumentata a 5000 copie, quindi il lavoro si faceva sempre più intenso, con ritmi più sostenuti e questo per me era una manna dal cielo, perché mi consentiva di non pensare al mio passato, agli ultimi anni della mia vita e alla confusione mentale che mi aveva trasformato in un vegetale informe, al limite della sopravvivenza. Passai degli anni in estrema tranquillità, dove il dopo lavoro passava regolare, con uscite, in pub e pizzerie, con gli altri redattori del giornale, tra cui Angela, Carlo e Gianluca, fedeli storici della ‘CULTURA DEL SUD’, mentre Claudia da un po’ di anni aveva avuto la svolta, lavorando a Roma per Il Messaggero. Poi una sera, aprile o maggio di un annetto fa, 2012, Franco mi invitò a cena a casa sua e mi disse che la ‘CULTURA DEL SUD’ aveva le possibilità di pubblicare a proprie spese LA CARNE MUORE di Edoardo Vittore, mi avanzò l’ipotesi di stamparne mille copie per il mese di luglio 2013, facendo un numero speciale della rivista, in concomitanza con la caduta del ventennale dalla scomparsa dello scrittore. Io avrei dovuto curare il testo, avrei dovuto scrivere l’introduzione e, dopo l’uscita dello stesso, avrei dovuto portarlo in giro per tutta l’Italia, con presentazioni organizzate lungo il territorio intero. Io naturalmente abbracciai Franco, gli dissi che mi sarei gettato a capofitto in questa avventura, anche perché per me avrebbe rappresentato una sorta di chiusura con il mio passato, con quell’esasperazione e quell’ossessione che mi aveva portato a divenire alcolista. Nel corso dell’anno che ci separava dalla prevista pubblicazione, oltre al consueto lavoro per l’uscita mensile della rivista, mi diedi da fare per la ricerca di sponsor che avrebbero ammortizzato il costo di stampa, riuscii ad ottenere un ottimo preventivo dalla tipografia Condotti, a Lecce, la stessa alla quale da anni ci affidavamo per la ‘CULTURA DEL SUD’. Riuscimmo a trovare i 4000 euro necessari alla stampa del testo e il 21 luglio 2013, il giorno in cui vent’anni prima Edoardo Vittore si tolse la vita, presso il Castello Carlo V di Lecce, ci fu la presentazione ufficiale di LA CARNE MUORE, alla presenza di tutta l’establishment culturale pugliese. Fu il giorno più esaltante della mia vita, dopo anni di dolori e frustrazioni. Fu anche il giorno in cui ritornai a bere, una volta giunto a casa, dopo tutti i complimenti ricevuti per i nostri sforzi, in perfetta solitudine, aprii una bottiglia di vino che avevo comprato in mattinata, primitivo del Salento, e cominciai a sorseggiarlo lentamente, tornando a pensare al mio passato e ai mesi trascorsi con Roberta. Il giorno dopo partii per il mio mese di tour, in giro per i più importanti centri d’Italia, a presentare il testo di Vittore, con le raccomandazioni di Franco che continuava a ricordarmi la grande occasione che per la ‘CULTURA DEL SUD’ rappresentava quella possibilità di portare il proprio nome in tutta Italia. Quel mese di tour, con permanenza a Napoli, Roma, Firenze, Siena, Milano, Torino Venezia, Bologna, Modena, Ancona, Bari, fu uno dei periodi più bui della mia vita, la serenità di quei anni, dopo la disintossicazione da whisky, divennero un lontano ricordo e la mia solitudine aumentava ogni giorno di più, allietata da grosse bevute di vino rosso, 49 negli alberghi più squallidi d’Italia, dove il ricordo di Roberta si faceva sempre più straziante. Poi la fredda accoglienza ricevuta dal testo di Vittore nei luoghi dove curavo le presentazioni fece aumentare la mia disillusione verso tutto ciò che mi circondava. Pensavo che con la pubblicazione di LA CARNE MUORE il mio dolore per quel terribile passato che mi aveva sconvolto l’esistenza sarebbe stato accantonato, invece l’uscita del testo, con l’immortalità che la figura di Roberta aveva acquisito nelle pagine di Vittore, donna ammaliante dalla bellezza assoluta, fu la causa del riacutizzarsi capillare di quei ricordi che mi laceravano il cuore. Poco tempo è passato da quel periodo, qualche mese per la precisione. Oggi è il giorno di Natale e sono solo nel mio monolocale, dopo aver rifiutato il solito invito di Franco, insospettitosi per il mio comportamento nell’ultimo periodo, e sto concludendo questa storia, incominciata un paio di mesi fa, con la terza bottiglia di vino vuota posata sotto il mio letto e con il pensiero continuo rivolto a te, Roberta. Oggi poso la mia testa su questo cuscino di paglia e di nidi in plastica, bevo il mio rosso vino per non pensare allo schifo che mi circonda, per non odiare la gente che mi alita addosso, per non ricordare l’alito profumato che la tua bocca emetteva nel ritmo delle sillabe esplose, nel ritmo delle parole masticate, nel ritmo delle manie sognate, desiderate, ma mai realizzate. Oggi poso la mia testa su questi centimetri di materasso che ho a disposizione, rinchiudendo il mio dolore nei decilitri del fiume di Bacco, rinchiudendo la mia disperazione nella polvere che si avvolge attorno il mio cranio, per non emettere ruggiti di leone in gabbia di matti, per non perdere lacrime di orsi in preda a visioni, per non pensarti, solamente per non pensarti. 50 Biografia dell’autore Rossano Astremo è nato nel 1979. Cura il periodico di scrittura e critica letteraria Vertigine (vertigine.clarence.com). È redattore della rivista di letteratura invisibile Tabula Rasa. Collabora con il Nuovo Quotidiano di Puglia e col settimanale d’informazione Città Magazine. È stato autore e curatore di diverse operazioni editoriali autoprodotte. Suoi testi sono comparsi su numerose riviste letterarie on line e cartacee. Molti suoi testi possono leggersi su Poiein (www.poiein.it) e Musicaos (www.musicaos.it). Ha pubblicato Corpo Poetico Irrisolto, con la Besa Editrice ed è presente nelll’antologia Poesia del dissenso, edita dalla casa editrice Transference, con testi dello stesso Astremo, Fabio Ciofi, Gianmario Lucini, Erminia Passannanti. La carne muore è il primo romanzo che ha portato a termine. per contatti [email protected] 3475206564 51