SOLO TERRORISMO?
Per capirci un po’ di più
ISIS, Lo Stato Islamico di Francesco Tuccari
Il terrorismo jihadista in Occidente: dai lupi solitari alle cellule organizzate
La guerra in Siria da Ilpost.it
Chi combatte chi in Siria, e perché da Ilpost.it
Qualche riflessione
La strategia dietro gli attentati di Parigi di Gwynne Dyer
La storia ci insegna che la guerra non ferma il terrorismo di Vijay Prashad
Da Parigi a Beirut, il doppio standard della compassione di Pierre Haski,
Siamo dentro la guerra di Etienne Balibar
Charlie Hebdo. Il «comune» di Parigi di Luciana Castellina
PER CAPIRCI UN PO’ DI PIÙ
ISIS, LO STATO ISLAMICO
Francesco Tuccari (settembre 2014)
Con le sigle Isis (“Stato islamico dell’Iraq e della Siria”), Isil (“Stato islamico dell’Iraq e del
Levante”) o più recentemente Is (“Stato islamico”) si indica un vasto e articolato gruppo
jihadista di confessione sunnita che ormai da diverso tempo, sotto diverse denominazioni, opera
tra l’Iraq (dal 2004) e la Siria (dal 2011). Nei suoi Country Reports on Terrorism, il
Dipartimento di Stato degli USA classifica l’Isis – e le formazioni da cui esso è sorto – come
“Foreign Terrorist Organization”. Gli incredibili successi militari, politici e strategici che questa
frangia ultraradicale del jihadismo ha ottenuto soprattutto in Iraq nel corso del 2014, con un uso
sistematico e particolarmente efferato della violenza e del terrore, hanno tuttavia trasformato
l’Isis in qualcosa di più complicato e di assai più pericoloso di una “semplice” organizzazione
terroristica. Non è un caso che il recente vertice dei paesi della NATO riunitosi a Newport
(Galles) il 4-5 settembre 2014 abbia individuato nell’avanzata dell’Isis in Medio Oriente,
accanto alla crisi in Ucraina, una delle due grandi emergenze dell’attuale situazione politica
internazionale.
In questo aggiornamento proveremo a capire, per quanto è possibile sulla base di notizie ancora
molto frammentarie e in continua evoluzione, che cosa sia l’Isis (§ 1), quali siano state le sue
origini (§ 2) e le principali tappe del suo sviluppo (§ 3) e quali siano le minacce che esso pone ai
fragili equilibri del Medio Oriente e al mondo intero (§ 4).
1. CHE COS’E’ L’ISIS
L’Isis è un’organizzazione militare e terroristica che appartiene all’ampia e variegata galassia
del fondamentalismo islamico, magistralmente studiata – ormai diversi anni or sono – da Gilles
Kepel nel suo Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico. Al tempo stesso è
il prodotto della specifica situazione politica che si è venuta a creare in Iraq nel 2003-2004
all’indomani della «seconda guerra del Golfo». Vale a dire della guerra condotta principalmente
da Stati Uniti e Gran Bretagna contro l’Iraq nel 2003, la quale portò alla caduta e poi alla
condanna a morte del dittatore iracheno Saddam Hussein. È sulla base di queste due matrici che
1
si può schematicamente comprendere che cos’è l’Isis, il quale oggi si autodefinisce più
semplicemente Is: “Stato islamico”.
Come tutti i gruppi che si ispirano al fondamentalismo islamico dal Marocco all’Indonesia,
l’Isis si riconosce nel principio – adottato dai Fratelli Musulmani in Egitto nel 1928 e poi da
tutti i movimenti fondamentalisti sorti soprattutto nell’ultimo quarto del XX secolo – secondo il
quale “la nostra Costituzione è il Corano”. Esso, cioè, concepisce l’Islam come “un sistema
completo e totale” per il governo della umma, la comunità dei fedeli musulmani. Predica
il jihad, la guerra santa contro gli infedeli, al fine di instaurare uno “Stato islamico” che adotti e
applichi la shari’a, la legge dei sacri testi dell’Islam. E auspica la piena restaurazione del
“califfato”, indebolito tra Otto e Novecento dalla colonizzazione europea, di fatto distrutto dalla
prima guerra mondiale e poi definitivamente abolito nel 1924 da Atatürk, il fondatore della
Turchia moderna.
Da questa prospettiva l’Isis non presenta alcun elemento di particolare originalità. La sua
dottrina e il suo progetto sono essenzialmente gli stessi che ritroviamo, sia pure in contesti e con
intonazioni differenti, nelle dottrine integraliste originarie dell’egiziano Sayyid Qutb (19061966), del pakistano Abu al-A’la Mawdudi (1903-1979) e dell’iraniano Ruhollah Khomeini
(1900-1989) sino ai proclami “neocaliffali” di Osama Bin Laden e di Al Qaeda, di cui l’Isis –
come vedremo – ha fatto per lungo tempo parte in Iraq. La differenza, di non poco conto, è che
l’Isis il califfato – lo “Stato islamico” – lo ha effettivamente proclamato il 29 giugno 2014 nei
vasti territori che ha brutalmente occupato tra Iraq e Siria, prendendo le distanze dalla stessa Al
Qaeda.
Attualmente l’Isis – che proprio dopo la proclamazione del califfato si autodefinisce
semplicemente Is – conta sulla forza di svariate migliaia di miliziani jihadisti in Iraq e in Siria.
Ha enormi risorse finanziarie, che trae dal controllo ferreo dei territori occupati. Ed è guidato da
un leader fortemente carismatico, Abu Bakr al-Baghdadi, lo “sceicco invisibile”, che solo negli
ultimi mesi – dopo anni vissuti in quasi totale segretezza – si è mostrato pubblicamente ai suoi
seguaci e a tutto il mondo, annunciando l’inizio di un “nuovo jihad internazionale”. Non
soltanto in Medio Oriente, ma anche in Occidente.
Per comprendere questi sviluppi più recenti, e con essi la specifica natura dell’Isis, si deve
gettare uno sguardo alle origini del movimento e alla sua storia ormai decennale.
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2. LE ORIGINI DELL’ISIS: LA “SECONDA GUERRA DEL GOLFO”
Come si è già accennato, le radici della parabola dell’Isis vanno rintracciate nella complessa
situazione in cui l’Iraq precipitò tra il 2003 e il 2004, all’indomani della cosiddetta “seconda
guerra del Golfo”.
Combattuta a dodici anni di distanza dalla «prima guerra del Golfo» (1991), questo breve ma
assai destabilizzante conflitto fu fortemente voluto dal presidente degli Stati Uniti George W.
Bush jr. e dal suo entourage all’indomani degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001,
messi a punto da Al Qaeda contro il World Trade Center di New York e il Pentagono a
Washington. Oltre che per ristabilire il controllo degli USA su un paese di fondamentale
interesse strategico per gli equilibri geopolitici in Medio Oriente e per l’approvvigionamento
energetico mondiale, per Bush erano due gli scopi essenziali del conflitto. Il primo era quello di
estendere la “war on terror” dall’Afghanistan dei talebani (con cui gli USA erano in guerra già
dall’ottobre del 2001) allo “Stato canaglia” iracheno, il quale, in connessione con gruppi
estremistici di ogni tipo tra cui la stessa Al Qaeda – questa almeno la tesi dell’amministrazione
Bush – stava attrezzandosi per produrre pericolosissime armi di distruzioni di massa chimiche e
biologiche in grado di porre sotto ricatto il mondo intero. Il secondo scopo, di natura più
propriamente ideologica e di matrice tipicamente “neoconservatrice” era quello di “esportare la
democrazia” nell’universo tumultuoso dei regimi autoritari e dispotici, e soprattutto nel mondo
islamico.
La «seconda guerra del Golfo» sollevò aspre opposizioni nella comunità internazionale. Almeno
dal punto di vista delle operazioni militari, essa ebbe però uno sviluppo assai rapido. Iniziò
infatti il 20 marzo 2003 e terminò meno di un mese dopo con la caduta del regime di Saddam
Hussein, il quale fu successivamente arrestato (14 dicembre 2003) e poi processato e
condannato a morte da un tribunale iracheno (30 dicembre 2006). Fu lo stesso Bush a dichiarare
la fine ufficiale del conflitto il 1° maggio del 2003.
Più che la guerra in sé, tuttavia, fu soprattutto il lungo «dopoguerra» che seguì a costituire il
terreno di coltura dell’estremismo islamico e quindi dell’Isis. Esso fu reso particolarmente
fertile da due elementi. In primo luogo, dalla presenza del consistente contingente
d’occupazione statunitense, che dopo aver trasferito progressivamente tutti i poteri al governo di
Baghdad, rimase nel paese sino all’estate del 2010. E in secondo luogo, dagli aspri contrasti
politici ed etno-religiosi che opponevano la minoranza sunnita della popolazione (fino al 2003
almeno relativamente garantita dal regime di Saddam Hussein) alla maggioranza sciita (ora in
posizione preminente nel governo) e ai curdi, altra consistentissima minoranza stanziata in
territorio iracheno. Come si può ben comprendere in un contesto del genere doveva risultare
estremamente arduo realizzare un efficace e duraturo controllo del territorio, stabilire il dominio
della legge e qualsivoglia forma di “democrazia”, e tenere a bada la violenza dilagante dei clan
tribali, dei diversi gruppi etnici e religiosi e poi, appunto, del terrorismo di matrice islamista.
3. DA “AL QAEDA IN IRAQ” ALLO “STATO ISLAMICO”
È in questo quadro che si insediò e poi si radicò nel paese l’organizzazione terroristica da cui
doveva poi sorgere, attraverso continui rimescolamenti, alleanze e fusioni con altri gruppi
estremistici, l’Isis. All’origine di questo processo troviamo dapprima, operante già negli anni
Novanta in Medioriente, il network terroristico del giordano Abu Mussab al Zarqawi, che nel
2003, durante la guerra, pose le sue basi in Iraq, stringendo nel corso del 2004 rapporti organici
con Al Qaeda e Osama Bin Laden. Nacque così il più immediato precursore dell’Isis: “Al Qaeda
in Iraq” (Aqi).
Fin dal principio del “dopoguerra” iracheno, l’Aqi mise a punto una vasta serie di attentati
contro il personale militare americano, obiettivi civili (in particolare sciiti e curdi), infrastrutture
e luoghi di culto, ricorrendo anche ad attentatori suicidi. Il tutto allo scopo di creare le
condizioni di una vera e propria guerra civile e di scardinare al tempo stesso l’occupazione
americana del territorio e il governo a maggioranza sciita dell’Iraq post-Saddam. L’Aqi si sforzò
nel contempo di unificare in una struttura unitaria i diversi gruppi terroristici sunniti operanti in
Iraq.
3
Dopo la morte di al Zarqawi, ucciso in un raid aereo americano il 7 giugno 2006, il movimento
intensificò le proprie attività incrementando il numero dei propri miliziani. Nell’ottobre di
quello stesso anno, restando sempre associato ad Al Qaeda, esso assunse un nuovo nome: “Stato
islamico dell’Iraq” (Isi), sotto la guida di Abu Ayyub al-Masri a cui si affiancò in seguito Abu
Umar al-Baghdadi. È sotto questa nuova sigla che l’organizzazione iniziò allora a rivendicare un
numero crescente di attentati, diventando presto il più vasto e aggressivo gruppo terroristico
operante nel paese. Nonostante l’attività di controinsurrezione messa in atto tra il 2007 e il 2008
dal generale americano David Petraeus, l’Isi riuscì a trarre infatti un forte alimento dalla
dissennata politica anti-sunnita del governo iracheno dello sciita Nuri al-Maliki.
Tra il 2010 e il 2011 due sviluppi importanti impressero una svolta ulteriore alla storia del
movimento. Il primo fu l’uccisione, nell’aprile del 2010, di al-Baghdadi e di al-Masri nel corso
di un’operazione di controterrorismo effettuata da forze irachene e americane. Ad essi subentrò
alla guida dell’organizzazione l’attuale leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, un personaggio
dal forte richiamo carismatico. Il secondo sviluppo – messo in moto dalle cosiddette “primavere
arabe” – fu l’inizio della guerra civile in Siria tra il 2011 e il 2012, cui l’Isi prese parte in misura
sempre più significativa contro il presidente Bashr al Assad. Dapprima, stabilendo strette anche
se difficili relazioni con il Fronte al-Nusrah, anch’esso affiliato ad Al Qaeda e al suo nuovo
leader Ayman al-Zawahiri, subentrato alla guida del movimento dopo l’uccisione di Osama Bin
Laden il 1° maggio 2011. E poi, nell’aprile del 2013, adottando il nome di Isil (“Stato islamico
dell’Iraq e del Levante”) ovvero di Isis (“Stato islamico dell’Iraq e della Siria”). Era un segno
molto chiaro che il gruppo jihadista stava maturando una strategia più ampia di quella sino ad
allora di fatto circoscritta allo specifico contesto iracheno. La sua sfida si stava proiettando oltre
e contro la divisione del mondo arabo in stati-nazione, disegnati in modo artificioso dalle grandi
potenze vincitrici della prima guerra mondiale. Nella direzione, appunto, della restaurazione del
“califfato”.
Per il suo radicalismo estremo e per l’efferatezza delle sue operazioni militari e terroristiche nel
corso del 2014 l’Isis è entrato progressivamente in collisione con gli altri gruppi jihadisti
operanti in Iraq e in Siria, alienandosi nel contempo le iniziali simpatie dello stesso mondo
sunnita, che avevano conferito forza ed efficacia alle sue azioni. Nel febbraio del 2014 esso è
stato sconfessato addirittura dallo stesso al-Zawahiri, il leader di Al Qaeda. E tuttavia,
nonostante il suo isolamento, l’Isis ha continuato la sua marcia verso il “califfato”, ufficialmente
proclamato il 29 giugno 2014, scatenando nelle settimane successive una virulenta offensiva
militare e terroristica che ha impressionato il mondo intero.
4. SCENARI
L’Isis o Is controlla oggi (22 settembre 2014) un vasto territorio compreso tra le coste della Siria
e le regioni situate a sud di Baghdad. Occupa militarmente decine di città importanti in Iraq e in
Siria, in cui ha imposto la shari’a. Attraverso centinaia di devastanti attentati terroristici,
esecuzioni e rapimenti di massa (in particolare di donne e minori) che hanno fatto migliaia di
vittime, ha dimostrato di non esitare di fronte all’uso più estremo della violenza e di essere
capace di propagandarla in forme drammaticamente efficaci, come nel caso della decapitazione
dei due giornalisti americani James Foley (19 agosto) e Steven Sotloff (1° settembre) e
dell’operatore umanitario britannico David Haines (13 settembre), ripresa a video e postata su
internet. Attualmente l’Is tiene prigionieri diversi ostaggi americani ed europei e forse anche
italiani. Sebbene non sia del tutto chiaro in quale misura, esso ha dato avvio a un’opera di
reclutamento attivando cellule jihadiste in Europa e in America che in parte si sono precipitate a
sostenere la “guerra santa” nello “Stato islamico” e in parte minacciano, con una sapiente
strategia del terrore, di portare il jihad in Occidente. In questo modo, la sua sfida è diventata
globale.
È possibile che la forza dell’Isis venga in futuro ridimensionata, quanto meno nel medio
periodo. Accanto a un isolamento sempre più pronunciato, avranno quasi sicuramente un ruolo
importante i raid aerei che soprattutto gli USA hanno recentemente cominciato a effettuare,
sostenuti in questo da un’ampia coalizione internazionale che comprende anche diversi paesi
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arabi1. È con tale sostegno – questa almeno la convinzione del presidente USA Barak Obama –
che gli stessi iracheni potranno forse contenere e alla fine neutralizzare la sfida dello Stato
islamico. La situazione rimane, però, estremamente tesa e complessa, perché i bombardamenti
aerei rischiano a loro volta di rinsaldare le diverse forze jihadiste che operano non soltanto in
Iraq e in Siria, ma anche nel Nordafrica e nel Maghreb. Il pericolo, insomma, è che l’incendio si
sviluppi su vasta scala.
L’Isis rappresenta dunque una grave minaccia. In primo luogo, per i complicatissimi equilibri
del Medioriente, che potrebbero essere sconvolti dal diretto coinvolgimento di potenze regionali
quali soprattutto l’Iran e dalle imprevedibili conseguenze che un tale coinvolgimento potrebbe
produrre in un’area già da molto tempo resa instabile da altre irrisolte questioni, prima fra tutte
quella palestinese. In secondo luogo, per l’annosa e più generale questione dei rapporti tra Islam
e Occidente, che rischia nuovamente di infiammarsi – come è già successo al principio del XXI
secolo – in una spirale senza fine di violenza terroristica e di brutali risposte militari ispirate in
qualche modo al principio della “guerra preventiva”.
http://aulalettere.scuola.zanichelli.it/storia-di-oggi/argomenti/isis-lo-stato-islamico-settembre2014/?id_tipo=398
IL TERRORISMO JIHADISTA IN OCCIDENTE: DAI LUPI SOLITARI ALLE CELLULE
ORGANIZZATE
Era la sera del 29 giugno 2014 quando l’iracheno Abu Bakr al Baghdadi annunciò la nascita del
Califfato, dello Stato islamico. Il mondo occidentale non capì subito cosa questo avrebbe potuto
comportare, né che la sua nascita era stata favorita dalla scelta di alcuni paesi della comunità
internazionale di alimentare e finanziare una opposizione al regime siriano di Bashar Al Assad,
anche se radicale e integralista. Ma a differenza di Al Qaeda, il Daesh (nome arabo
dell’organizzazione) si è subito presentato con una capacità di irradiare dal basso il mondo
intero di azioni terroristiche. Ha saputo gestire a livello globale le iniziative dei lupi solitari.
Queste le principali azioni di lupi solitari nel mondo occidentale che in qualche modo sono state
riportate all’Isis.
Il primo episodio che sicuramente va ascritto a questa strategia risale al 23 settembre 2014,
quando due poliziotti australiani sono stati accoltellati a Melbourne, da un estremista islamico
noto alle forze di polizia locale.
Il 20 ottobre 2014, in Canada, alla periferia di Montreal, un giovane convertito all’islam, Martin
Rouleau, ha investito con la sua auto due militari canadesi, uccidendone uno e ferendo l’altro.
Inseguito, è stato poi ucciso dalle forze di polizia. Il ragazzo sulla copertina della pagina di
Twitter aveva messo il logo dello Stato Islamico.
In ottobre vi sono stati altri ferimenti e uccisione ancora in Canada e a New York. Dall’altra
parte del mondo, in Australia, il 16 dicembre 2014, a Sydney, un cittadino iraniano convertitosi
alla fede sunnita ha preso in ostaggi i clienti e i dipendenti del Lindt Chocolate Café
uccidendone due.
Nel dicembre del 2014 si registrano le prime azioni di lupi solitari in Francia, a Joué-les-Tours,
a Dijon, dove un uomo alla guida di un’auto ha puntato sulla folla, ferendo 11 persone. Un
analogo episodio a Nantes, con un morto e nove feriti gravi. Il guidatore si è ucciso con un
coltello.
Arriviamo al 2015. La mattina del 7 gennaio, i fratelli (ambedue nati a Parigi) Said e Cherif
Kouachi, di 34 e 32 anni, armati di mitra, irrompono nella sede del giornale satirico Charlie
Hebdo, uccidendo il direttore, un agente di polizia posto a sua tutela, e diversi redattori e
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Nel corso del 2015, a partire da settembre, sono intervenuti a bombardare in Siria con i loro aerei
anche la Russia e la Francia. Vedi anche “La guerra in Siria” e “Chi combatte chi in Siria, e perché”
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collaboratori della rivista. In tutto, 12 persone, tra cui due agenti di polizia. I feriti sono una
ventina. La rivista Charlie Hebdo era già stata minacciata perchè negli anni passati aveva
pubblicato vignette anti-islam e su Maometto.
Sempre nel gennaio si verificano altri due azioni nella periferia parigina che portano
all’uccisione di tre terroristi e 4 clienti di un supermercato presi in ostaggio.
Il 14 e 15 febbraio si registrano i due attentati compiuti a Copenaghen ad opera di un 22enne
danese di origine araba. Il giovane ha aperto il fuoco sulla platea di cittadini che partecipavano
alla commemorazione dei morti di Charlie Hebdo. Poi, ha sparato nei pressi di una sinagoga del
centro di Copenaghen. Bilancio 2 morti e cinque feriti. L’attentatore alla fine è stato ucciso.
A maggio, in Texas, due uomini armati di fucile d’assalto si presentano a una mostra di vignette
sul Profeta Maometto e aprono il fuoco. I due attentatori sono stati uccisi dalla polizia.
Nel corso dell’estate vi sono stati ancora altri episodi di terrorismo individuale in Francia, negli
Usa e in Germania.
Infine, il 13 novembre 2015 a Parigi una serie senza precedenti di attentati, frutto di una cellula
di terroristi, provoca almeno 129 morti e altri 350 feriti. I terroristi colpiscono sei diverse zone
venerdì sera, compreso lo Stade de France dove è in corso l'amichevole di calcio FranciaGermania e ristoranti e bar nel decimo e nell'undicesimo arrondissement di Parigi. La sala
concerti Bataclan, in cui era in corso il concerto di un
gruppo rock americano, è il bersaglio più colpito, con 89 morti. Il 14 novembre, l'Isis rivendica
l'attentato.
Il fatto che abbia agito un gruppo organizzato segna probabilmente l’affermarsi di un nuovo tipo
di terrorismo jihadista.
I dati sono stati ripresi da:
http://www.askanews.it/top-10/la-cronologia-e-i-luoghi-dei-principali-attentatiterroristici_711661468.htm
http://www.today.it/mondo/attentati-islam-europa.html
Video sulla Siria
http://quifinanza.it/bellastoria/video/why-syria-la-crisi-siriana-raccontata-in-10-minuti-e-15mappe/44546/
LA GUERRA IN SIRIA
La guerra in Siria dura da più di quattro anni. Milioni di persone, almeno 9, hanno lasciato le
loro case e più di 220 mila sono state uccise. Sui giornali internazionali si parla soprattutto delle
conseguenze della guerra (i profughi che stanno scappando e arrivando in Europa, la distruzione
di Palmira, sito Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO) o della crescita dell’ISIS. Ci si occupa
sempre meno, invece, della guerra stessa che nel tempo è diventata sempre più confusa e
complicata e la cui soluzione politica sembra essere ancora lontana. Breve riassunto e punto
della situazione.
LA SIRIA, IN BREVE
La Siria è uno stato che confina a nord con la Turchia, a est con l’Iraq, a sud con la Giordania e
a ovest con Israele e il Libano. Ha la costa ovest sul Mar Mediterraneo, ma non è molto estesa.
La sua capitale, Damasco, è nella parte meridionale del paese, vicina al confine col Libano. La
lingua ufficiale della Siria è l’arabo, ma sono parlati anche il curdo, l’armeno, l’aramaico e il
circasso. I curdi sono il 9 per cento della popolazione, gli armeni circa l’1 per cento, mentre
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oltre l’89 per cento della popolazione è costituita da arabi. Il 74 per cento degli abitanti sono
sunniti. L’Islam non è la religione ufficiale e la costituzione garantisce libertà di culto, ma il
presidente deve essere per forza musulmano.
Dal 1970 la Siria fu governata del regime di Hafiz al Assad, il padre dell’attuale presidente
siriano Bashar al Assad. Nel 1982 le forze siriane lanciarono un violento attacco contro la città
di Hama per reprimere un’insurrezione promossa dall’organizzazione dei Fratelli Musulmani: il
regime massacrò migliaia di persone dando un chiaro segnale ai propri oppositori islamisti. Il
regime di Assad sostiene il partito libanese Hezbollah e il movimento palestinese Hamas in una
posizione anti-israeliana. Anche grazie a questo, Assad è un leader popolare nel vicino oriente,
nonostante il suo regime abbia via via ridotto le libertà e i diritti fondamentali dei siriani.
L’INIZIO DELLA GUERRA
Il 15 marzo del 2011 migliaia di persone manifestarono ad Aleppo e Damasco, le due città più
grandi della Siria, per protestare contro il regime del presidente Bashar al-Assad. Nei giorni
successivi, il regime reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare
l’opposizione. In poche settimane le proteste si allargarono a tutta la Siria. A maggio Assad
mandò l’esercito nelle strade e la repressione divenne feroce.
Soprattutto nel nord del paese, i manifestanti cominciarono allora ad assaltare le caserme delle
forze di sicurezza e a impossessarsi delle loro armi. Costretti a sparare sulla folla, alcuni soldati
siriani disertarono per unirsi ai manifestanti. A quattro mesi dalle prime proteste, un gruppo di
ufficiali disertori proclamò la nascita dell’Esercito Libero Siriano (Free Syrian Army, FSA). Le
manifestazioni contro il regime si trasformarono in una guerra civile che dura ancora oggi, ma
che ha oltrepassato i confini del paese.
LA “GUERRA PER PROCURA”
Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 nello schieramento dei ribelli cominciarono ad arrivare
sempre più combattenti stranieri. Alcuni di loro si arruolarono nella FSA, mentre altri fondarono
brigate e bande autonome. Tra loro c’era un gruppo di combattenti che arrivava dall’Iraq e che
aveva combattuto insieme a Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq: loro, insieme ad
altri miliziani, formarono il 23 gennaio 2012 il Fronte al Nusra, un gruppo molto estremista,
unico “rappresentante” di al Qaida in Siria.
Inizialmente le forze più laiche della FSA accettarono di combattere accanto ad al Nusra e
protestarono contro la decisione degli Stati Uniti di inserire il gruppo nell’elenco delle
organizzazioni terroristiche. Col passare del tempo, al Nusra si dimostrò più abile dei ribelli
alleati a raccogliere fondi dall’estero e ad attrarre volontari, e i rapporti tra i due gruppi
cominciarono a peggiorare. Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 molti esperti cominciarono a
parlare della guerra siriana come di una “guerra per procura”: tramite gruppi di miliziani locali,
in Siria sono entrati in competizione i paesi arabi sunniti, alcuni dei quali direttamente
finanziatori dei ribelli, e i paesi (l’Iran) e i gruppi (Hezbollah) sciiti della regione, che
appoggiano Assad.
In un primo momento era stata al Nusra a prevalere sul fronte dei ribelli. Ma nel giro di pochi
mesi, nell’estate del 2014, una porzione rilevante del territorio siriano e iracheno venne
conquistato dall’ISIS, che rimane ancora oggi la fazione più forte. Poi ci sono i curdi nel nordest della Siria, che combattono prevalentemente contro l’ISIS e dal settembre del 2014 c’è una
coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti che ha cominciato a bombardare l’ISIS e a cui
partecipano diversi paesi: da oggi si è aggiunta anche la Francia. Il presidente Hollande ha
infatti dichiarato che il suo paese si sta preparando a dei voli di ricognizione in Siria.
Infine c’è quello che avviene fuori dalla Siria a complicare ancora di più la situazione: la Cina e
la Russia, ad esempio, sono membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con potere di
veto e l’hanno usato più volte a favore del regime di Assad. Insomma, il conflitto in Siria è
diventato assai più di una guerra tra quelli che sono a favore o contro il regime.
Lo scorso maggio sono ricominciati a Ginevra, in Svizzera, i colloqui sulla guerra in Siria. I
negoziati erano saltati all’inizio del 2014 per il rifiuto del governo siriano a discutere alcune
proposte dei ribelli. La probabilità di una soluzione politica alla guerra civile siriana sembra
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comunque essere molto bassa, ed è stata definita «praticamente nulla» dall’International Crisis
Group, un’organizzazione indipendente non governativa. «La diplomazia è ostacolata dalle
posizioni intransigenti delle parti in conflitto», ha fatto sapere l’organizzazione in un recente
rapporto: nessuno dei gruppi che sta combattendo vuole insomma arrivare a un accordo di pace.
Sul territorio siriano, il regime di Assad sembra essere sempre più in difficoltà a causa delle
offensive dell’ISIS – che secondo alcuni analisti statunitensi conta circa 31 mila combattenti –
che sono ormai arrivate al centro del paese. Ci sono poi gli attacchi degli altri gruppi ribelli
soprattutto nel sud e nel nord della Siria. Nelle ultime settimane, Turchia e Stati Uniti hanno
concordato un piano d’azione contro l’ISIS per la creazione di una “safe zone”, cioè una zona
sicura, lungo il confine turco-siriano. Questo dovrebbe permettere un aumento e
un’intensificazione dei raid aerei statunitensi e garantirebbe una zona per l’accoglienza dei
profughi siriani. Proprio all’interno dell’area protetta che si vorrebbe costruire ci sono stati negli
ultimi giorni degli attacchi dello Stato islamico che hanno causato la morte di almeno 47
combattenti siriani.
Questa è una mappa aggiornata al due settembre su chi controlla cosa in Siria. Dopo più di
quattro anni di guerra civile nessuna delle parti è anche solo lontanamente arrivata vicina alla
vittoria sulle altre.
http://www.ilpost.it/2015/09/07/guerra-in-siria/
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CHI COMBATTE CHI IN SIRIA, E PERCHÉ
Mercoledì (30- settembre 2015) la Russia ha compiuto i suoi primi bombardamenti in Siria. Il
presidente russo Vladimir Putin ha giustificato l’intervento dicendo che la Russia ha agito
«preventivamente, per combattere e distruggere i militanti e i terroristi nei territori che hanno
già occupato, e non aspettare che vengano a casa nostra». La Russia ha detto di aver colpito
alcune postazioni dello Stato Islamico (o ISIS), ma alcuni video pubblicati online sembrano
smentire questa versione: gli Stati Uniti hanno protestato molto e sostengono che gli attacchi
abbiano colpito alcuni ribelli appoggiati dall’amministrazione americana. I ribelli hanno
minacciato di far saltare qualsiasi tipo di negoziato sulla guerra in Siria e al momento la persona
che sembra avere più beneficiato da tutta questa situazione è il presidente siriano Bashar al
Assad, il cui regime è il principale responsabile della crisi dei profughi che sta coinvolgendo da
mesi molti paesi europei.
In pratica: se la situazione in Siria sembrava prima complicata e quasi irrisolvibile, dopo
l’intervento russo sembra lo sia ancora di più. Per capire qualcosa di quello che sta succedendo
vale la pena tenere a mente che in Siria stanno combattendo diversi gruppi e i fronti di guerra
sono molti: c’è il regime di Assad che combatte contro i ribelli moderati, contro i gruppi
jihadisti, tra cui al Qaida, e in misura minore contro l’ISIS. I ribelli moderati combattono contro
il regime di Assad e contro l’ISIS, e a seconda dell’opportunità combattono contro o si alleano
con i gruppi jihadisti. E soprattutto vale la pena ripartire da capo e capire quali stati esterni sono
intervenuti in Siria e contro chi combattono, e perché.
Stati Uniti
Appoggiano i ribelli anti-Assad più moderati, anche se non ne sono rimasti molti. Hanno
individuato come loro nemico principale l’ISIS, che bombardano – non con grande intensità, per
la verità – sia in Siria che in Iraq. Diversi mesi fa hanno avviato un piano per l’addestramento di
alcuni ribelli finalizzato a sconfiggere l’ISIS, spendendo diversi milioni di dollari: finora con
risultati più che deludenti. Gli Stati Uniti si oppongono anche al regime di Bashar al Assad, ma
non tanto quanto si oppongono all’ISIS. In passato, oltre all’ISIS, gli aerei da guerra americani
hanno colpito in Siria anche il cosiddetto “gruppo Khorasan”, una cellula di al Qaida incaricata
di pianificare obiettivi terroristici all’estero.
Francia
Appoggia i ribelli più moderati, tra cui i curdi nel nord-est della Siria. Si oppone all’ISIS, ad
altri gruppi jihadisti e ad Assad, ma come gli Stati Uniti bombarda solo il primo. Gli attacchi
aerei francesi in Siria sono cominciati solo pochi giorni fa: fino ad allora la Francia era stata
molto riluttante a intervenire in Siria – mentre in Iraq aveva già cominciato da tempo – anche
per paura di rafforzare indirettamente il regime di Assad. Diversi analisti dicono che le ragioni
dell’intervento francese sono due: una reazione ai recenti attacchi terroristici compiuti da alcuni
simpatizzanti dell’ISIS in territorio francese e il timore di essere messi da parte quando ci sarà
da negoziare il futuro della Siria. A differenza di altri paesi europei, la Francia ha continuato a
mantenere una certa autonomia dagli Stati Uniti in politica estera e l’interventismo non è una
cosa così strana per la politica francese.
Aleppo, Siria, 17 settembre 2015.
Russia
Appoggia il regime di Bashar al Assad, che è l’unico importante alleato del governo russo in
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Medio Oriente. Giustifica il suo intervento nella guerra in Siria come mossa preventiva contro
l’ISIS, ma i suoi primi bombardamenti hanno colpito tre province siriane – Homs, Hama e
Latakia – in cui l’ISIS non è presente. Diversi analisti credono che i veri obiettivi di Putin siano
gruppi ribelli che stanno contendendo ad Assad il controllo delle zone della Siria ancora sotto il
controllo governativo, soprattutto nell’ovest. Già nelle ultime settimane la Russia aveva
mandato diversi aerei da guerra e rafforzato la sua presenza in una base militare a Latakia, città
costiera siriana saldamente sotto il controllo di Assad.
Iran
È l’unico alleato del regime di Bashar al Assad in Medio Oriente, da alcuni decenni. Dall’inizio
della guerra, nel 2011, fornisce soldi, armi e invia consiglieri militari al governo siriano. Nella
primavera di quest’anno ha combattuto attivamente l’ISIS in Iraq a fianco dell’esercito iracheno
ma senza un reale coordinamento con la coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti (Iran e
Stati Uniti sono nemici): lo ha fatto con alcuni uomini ma soprattutto con diverse milizie sciite
irachene sotto il suo controllo. In Siria ha agito soprattutto tramite Hezbollah, gruppo sciita
libanese che si oppone tradizionalmente a Israele. I militanti di Hezbollah hanno aiutato Assad a
riconquistare alcuni territori vicino al confine libanese, cioè nella Siria occidentale, considerata
una roccaforte del regime di Assad.
Turchia
I suoi nemici principali sono due: il regime di Bashar al Assad e i curdi alleati con il PKK, il
Partito dei Lavoratori del Kurdistan che per anni ha agito contro il governo soprattutto nella
Turchia meridionale. Le posizioni della Turchia nella guerra contro l’ISIS sono state molto
discusse: per diverso tempo la Turchia – che è membro della NATO – ha appoggiato
formalmente l’azione della coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti, ma poco altro. Non ha
concesso le sue basi agli aerei da guerra americani e non ha fatto quasi nulla per rendere il suo
confine con la Siria meno “poroso”, permettendo per esempio a molti “foreign fighters” di
unirsi all’ISIS e ad altri gruppi jihadisti che combattono contro Assad. Dopo l’attacco
terroristico nella città turca di Suruc rivendicato dall’ISIS, lo scorso luglio, la Turchia ha
cambiato atteggiamento: ha compiuto qualche attacco contro l’ISIS al confine siriano e ha
concesso l’uso delle sue basi agli americani. Ma i suoi obiettivi non sono cambiati: la priorità
rimane la caduta di Assad e non la sconfitta dell’ISIS.
Arabia Saudita
Appoggia i ribelli che combattono contro Assad – non fa tanta differenza tra ribelli più e meno
moderati – e da circa un anno ha cominciato a bombardare l’ISIS in Siria all’interno della
coalizione guidata dagli Stati Uniti. A differenza di quello che si dice ogni tanto, non appoggia
né finanzia l’ISIS. La sua priorità, comunque, è la caduta del regime di Assad: Assad è il
principale alleato dell’Iran in Medio Oriente, e l’Iran è il principale nemico dell’Arabia Saudita.
Il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ha detto martedì che il suo paese non accetterà
alcuna soluzione alla guerra in Siria che preveda Assad ancora al potere, come invece propone
la Russia. I sauditi sono anche disposti ad aumentare i finanziamenti e la fornitura di armi ai
ribelli che combattono Assad.
Israele
Formalmente Israele non è coinvolto nella guerra in Siria, nonostante condivida con la Siria una
parte di confine sulle contese Alture del Golan e quindi sia interessato alla generale instabilità
causata dalla guerra. Di fatto da diverso tempo Israele compie bombardamenti occasionali
contro alcune postazioni dell’esercito siriano. La situazione è piuttosto complicata: in un recente
incontro con Putin, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele non è
né a favore né contro Assad. Il problema principale degli israeliani riguarda le attività del
gruppo libanese Hezbollah, che oltre a combattere a fianco ad Assad nella guerra in Siria da
molti anni lancia dei razzi dal sud del Libano per colpire obiettivi nel nord di Israele. Israele
sembra interessato alle attività del governo di Assad nella misura in cui queste stesse attività
possano rafforzare Hezbollah in Siria. L’Economist scrive che Netanyahu e Putin hanno trovato
una specie di accordo: nonostante il loro intervento in Siria, i russi non metteranno in pericolo
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gli interessi strategici israeliani in Siria; in cambio gli israeliani hanno assicurato che non
interverranno per rimuovere Assad dal potere.
Qatar
Sostiene soprattutto finanziariamente i ribelli che combattono contro Assad, senza farsi troppi
problemi di quanto siano moderati. Il New York Times ha scritto che nel 2013 ha fornito ai
ribelli dei missili terra-aria, ignorando le preoccupazioni americane che di quelle armi potessero
impadronirsi i gruppi jihadisti o terroristi. Anche gli altri paesi del Golfo Persico hanno assunto
una posizione simile a quella del Qatar. L’obiettivo principale per tutti loro, come per l’Arabia
Saudita, è la caduta del regime di Assad.
Regno Unito
Si oppone all’ISIS, ad altri gruppi jihadisti e ad Assad e sostiene i ribelli più moderati. Finora
però i bombardamenti britannici si sono limitati a colpire l’ISIS in Iraq, anche se di recente il
Regno Unito ha condotto un’operazione militare in Siria con dei droni uccidendo due cittadini
britannici che si erano uniti all’ISIS.
http://www.ilpost.it/2015/10/01/chi-combatte-chi-siria/
QUALCHE RIFLESSIONE
Fuori dalla sala da concerto del Bataclan, a Parigi, il 14 novembre 2015.
LA STRATEGIA DIETRO GLI ATTENTATI DI PARIGI
Gwynne Dyer
Come sempre, dopo un attacco terroristico contro l’occidente, la giusta domanda da porsi anche
nel caso di Parigi è: quali erano gli obiettivi strategici degli attentati? Per farlo occorre dapprima
accettare che i terroristi abbiano delle strategie, poi diventa facile immaginare le ragioni che
stanno dietro agli attentati. Risulta inoltre chiaro che tali ragioni sono mutate.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti seguivano una strategia terroristica
classica: cercare di spingere il governo preso di mira a reagire in una maniera spropositata che
alla fine avrebbe fatto gli interessi dei terroristi. L’obiettivo di Al Qaeda era fregare gli Stati
Uniti, spingendoli a invadere dei paesi musulmani.
DA OSAMA BIN LADEN AD ABU BAKR AL BAGHDADI
Al Qaeda era un’organizzazione rivoluzionaria che aveva l’obiettivo di rovesciare i governi
arabi e a prendere il potere nei loro paesi per poi trasformarli in base alla sua ideologia
estremista. Il problema era che i movimenti islamisti faticavano ad avere un sostegno popolare
nel mondo arabo, e senza un sostegno di massa è difficile fare una rivoluzione.
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L’innovazione introdotta da Osama bin Laden è stata quella di spostare la mira dai governi arabi
a quelli occidentali, nella speranza di spingere questi a lanciare delle invasioni che avrebbero
radicalizzato molti arabi, gettandoli tra le braccia degli islamisti. Le sue speranze si sono
concretizzare con l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Dopo che le truppe occidentali sono entrate in Iraq, c’è stato un netto calo degli attentati
terroristici nei paesi occidentali. Al Qaeda voleva che le truppe occidentali rimanessero in
Medio Oriente e che le popolazioni locali si radicalizzassero. Quindi non aveva senso lanciare
una campagna terroristica che poteva causare il ritiro delle truppe occidentali.
La resistenza irachena è cresciuta rapidamente, attirando combattenti islamisti da tanti stati
arabi. Il gruppo originariamente noto come “Al Qaeda in Iraq” ha cambiato nome varie volte,
diventando “Stato islamico in Iraq” nel 2006, quindi “Stato islamico in Iraq e Siria” (o più
semplicemente Isis) nel 2013, e infine semplicemente “Stato islamico” nel 2014. Ma i
componenti principali e gli obiettivi a lungo termine sono rimasti gli stessi nel corso degli anni.
L’uomo che oggi si definisce “califfo” dello Stato Islamico, Abu Bakr al Baghdadi, ha
inizialmente aderito ad “Al Qaeda in Iraq” e ha cominciato a combattere le forze d’occupazione
statunitensi in Iraq nel 2004. Nel corso del tempo, tuttavia, la strategia è cambiata e il gruppo
Stato islamico è diventato così forte da conquistare ampi territori di Iraq e Siria che oggi
formano il cosiddetto Stato islamico. Non servivano più delle rivoluzioni popolari. La strategia
fondamentale oggi è semplicemente la conquista.
Stando così le cose, perché il gruppo Stato islamico e Al Qaeda continuano ad attaccare obiettivi
occidentali? Uno dei motivi è che oggi il mondo jihadista è diviso tra due gruppi rivali che si
contendono i sostenitori.
La rottura si è consumata nel 2013, quando lo Stato islamico in Iraq e Siria (Isis), dopo aver
lanciato una sua succursale di grande successo in Siria, nota come Fronte al nusra, ha provato a
riportare quest’ultimo sotto il controllo dell’organizzazione madre.
La filiale siriana si è opposta, cercando il sostegno di Al Qaeda, la casa madre di entrambi i
gruppi jihadisti. Al Qaeda ha sostenuto i siriani, e l’Isis ha interrotto i rapporti con Al Qaeda,
diventando un suo concorrente diretto.
Lo Stato islamico in Iraq e Siria e il Fronte al nusra si sono dati battaglia per tre mesi all’inizio
del 2014, combattendo una guerra che ha ucciso migliaia di militanti. Il primo ha finito per
controllare buona parte della Siria orientale. Poco dopo, l’Isis ha invaso gran parte dell’Iraq
occidentale, cambiando il nome del gruppo in Stato islamico (Is).
Lo Stato islamico e la filiale locale di Al Qaeda, il Fronte al nusra, stanno attualmente
osservando una tregua in Siria, ma i due gruppi sono ancora impegnati in un’aspra lotta per
conquistare la fedeltà dei gruppi jihadisti del resto del mondo musulmano.
IL CASO FRANCESE
Le spettacolari azioni terroristiche contro obiettivi occidentali piacciono a entrambi i gruppi,
perché sono potenti strumenti di reclutamento nei circoli jihadisti. Ma lo Stato islamico ha
anche un altro motivo per organizzarli: porre fine agli attacchi che sta subendo da parte degli
occidentali.
Oggi il gruppo controlla un territorio che ha dei confini, un esercito e un’economia più o meno
funzionante. Non vuole che le forze occidentali interferiscano con i suoi tentativi di consolidare
ed espandere questo stato, e spera che gli attacchi terroristici contro l’occidente possano
spingerle a ritirarsi.
La Francia è un obiettivo primario, perché fa parte della coalizione occidentale che sta
bombardando lo Stato islamico e perché è relativamente facile reclutare dei terroristi all’interno
di una comunità musulmana numerosa, povera ed emarginata come quella francese.
Anche la Russia è diventata un bersaglio prioritario da quando i suoi aerei hanno cominciato a
bombardare i jihadisti in Siria, e il recente abbattimento di un aereo di linea russo nel Sinai
potrebbe essere dovuto a una bomba piazzata dai terroristi dello Stato islamico.
In futuro ci aspettano quindi attentati terroristici dove lo Stato islamico (e, in misura minore, Al
Qaeda) riuscirà a trovare dei volontari disposti a compierli. I paesi occidentali che hanno
comunità musulmane più piccole e meglio integrate sono meno vulnerabili della Francia, ma
rappresentano comunque dei bersagli.
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Mandare delle truppe di terra straniere in Siria servirebbe solo a peggiorare le cose. Il male
minore, per tutti i paesi coinvolti, è aspettare che la campagna terroristica passi. Per quanto
orrendi siano gli attentati, rappresentano un rischio molto ridotto per il cittadino medio.
Statisticamente parlando, è ancora molto più pericoloso attraversare la strada, per non parlare di
salire su una scala.
http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/11/16/strategia-attentati-parigi
LA STORIA CI INSEGNA CHE LA GUERRA NON FERMA IL TERRORISMO
Vijay Prashad
È stata una settimana di massacri orribili: bombe a Beirut e a Baghdad, e poi le sparatorie a
sangue freddo a Parigi. Ognuno di questi atti di terrore ha lasciato morti e feriti. Non ne viene
niente di buono – solo il dolore delle vittime e poi altro dolore, dato che i potenti si rifugiano in
politiche ormai standardizzate, che ancora una volta alimentano la spirale di violenza.
Come reagiamo a questi episodi? Dapprima con orrore e indignazione. È istintivo. Piangiamo i
morti: i giovani genitori di Haidar Mustafa (di tre anni), che gli hanno fatto scudo salvandogli la
vita, quando l’esplosione di Beirut li ha fatti a pezzi. In un bar di Parigi i terroristi hanno ucciso
Djamila Houd (di 41 anni), che lavorava per Isabel Marant. Ogni vittima ha un volto. Ogni volto
apparirà sui mezzi d’informazione e sui social network. Ci sorrideranno, dicendoci dei loro
giorni migliori e delle loro speranze. Nessuno di loro ha avuto un ruolo attivo in alcun conflitto.
Il loro assassinio non aveva nulla a che vedere con loro.
Rimarremo sconcertati dall’incomprensibilità di queste morti – lo spreco di vita di fronte alla
morte. Andremo in cerca di spiegazioni. È già diventato chiaro che il responsabile di tutti questi
attentati – a Baghdad, a Beirut, a Parigi – è il gruppo Stato islamico (Is), che controlla ampie
zone dell’Iraq e della Siria, oltre ad alcune aree della Libia e dell’Afghanistan (con gruppi
affiliati in Nigeria e in Somalia). L’Is, come Al Qaeda, è tentacolare – non ha una testa, ma solo
braccia e gambe spinte ad agire con violenza. Allora, se si tratta dello Stato islamico, perché
colpiscono in questi luoghi?
Agli occidentali, gli attentati di Baghdad e Beirut non porteranno via troppo tempo – dopo tutto
i loro mezzi d’informazione sembrano suggerire che da quelle parti attentati del genere siano
una routine, un fatto quasi naturale. In ottobre, 714 iracheni sono morti in atti terroristici. Le
cifre di questi mesi sono le stesse che troviamo se risaliamo indietro fino al 2003, quando gli
Stati Uniti invasero l’Iraq. Per undici anni, dunque, in Iraq c’è stato questo enorme numero di
vittime, mentre la popolazione era traumatizzata e paralizzata. In questo caso, c’è scarsa
considerazione per le persone, per la loro morte e per la loro esistenza in mezzo alla morte –
causata dalle guerre occidentali – diventata una nota a piè di pagina nell’attenzione globale.
IL MACHISMO E LE EMOZIONI
Il presidente francese François Hollande ha reagito agli attentati di Parigi con parole dure:
“Condurremo una guerra senza pietà”. Ma l’occidente – inclusa la Francia – era già in guerra
con i jihadisti dello Stato islamico e gruppi simili. Chi altri sarà attaccato? La strategia
cambierà? I leader occidentali saranno capaci di non limitarsi alla pura reazione emotiva?
Saranno in grado di guardare al di là del riverbero di altre guerre? L’intellighenzia occidentale e
i suoi leader sapranno riconoscere che alcune scelte strategiche operate dall’occidente hanno
esacerbato gli animi e hanno fatto emergere tante minacce? È improbabile.
Il linguaggio machista su una “guerra senza pietà” ci fornisce il profilo della leadership attuale.
In offerta non c’è molto altro. Una manna per le nostre emozioni.
Da dove vengono questi terroristi dello Stato islamico? La tentazione è di dare la colpa alla
religione o alla razza, di distogliere lo sguardo da aree di indagine più sostanziali. L’amnesia è
all’ordine del giorno. Ogni attacco terroristico contro l’occidente riporta a zero le lancette.
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E dunque.
Nessuno deve prestare attenzione alla Lega musulmana mondiale, sostenuta dall’occidente e
dall’Arabia Saudita, che distrusse le forze del nazionalismo laico e del comunismo nel mondo
arabo degli anni sessanta e settanta. Tutti coloro che erano dalla parte giusta della storia
perirono sotto la spada, in quanto antislamici, per proteggere gli emirati del golfo Persico e il
regno saudita, così come gli interessi occidentali legati al petrolio e al potere.
Non dobbiamo menzionare l’attacco occidentale e saudita all’Afghanistan negli anni settanta,
prima dell’intervento sovietico, con l’obiettivo di abbatterne la repubblica comunista.
Nessuno dovrebbe parlare della creazione dei “mujahidin”, il cui nucleo conteneva un seme
brutale che poi esplose con Al Qaeda.
Perché dare tanta importanza alle guerre contro l’Iraq e più tardi in Libia e in Siria, guerre che
hanno distrutto degli stati trasformandoli – come l’Afghanistan – in parchi giochi per i jihadisti,
figli della guerra fredda?
L’incredulità accoglierà chi ci ricorda la violenza occidentale, ad esempio i bombardamenti
sulla Libia nel 2011 – un numero incalcolabile di morti. “Non è stata una guerra”, scrisse nel un
giornalista, “è stata una carneficina”. In pochi tireranno giù dalla libreria La Seine était rouge di
Leila Sebbar, un romanzo bruciante sull’assassinio a opera del governo francese di centinaia di
dimostranti filoalgerini, a Parigi nell’ottobre del 1961.
Leggerete queste parole e chiederete: “Stai accusando le vittime di essere responsabili della loro
morte?”. Rivolgerete la vostra indignazione verso di me. Non vi indignerete per la storia di
questi paesi, per la morte che hanno causato, per la sofferenza che hanno creato e poi negato.
Non vi domanderete come mai negli ultimi anni migliaia di europei siano andati a combattere in
Siria o perché il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, si dimostri così reticente a
includere la filiale siriana di Al Qaeda tra le organizzazioni terroristiche.
Non vi domanderete chi ha influenzato questi giovani, benedetti dai loro governi perché
andassero a combattere una guerra altrove e poi incoraggiati da religiosi sovvenzionati
dall’Arabia Saudita, che gli hanno detto non solo di combattere in Siria, ma di tornare a casa e
creare il caos. Vi direte che è tutto inventato, che voglio solo giustificare i massacri.
Non sono giustificazioni. È la storia, senza mistificazioni, sepolta sotto stereotipate versioni
ufficiali.
Dopo l’11 settembre, l’amministrazione di George W. Bush decise di ignorare la sua stessa
storia. Era quasi un crimine suggerire che le guerre future avrebbero esacerbato il problema –
versato benzina sulle fiamme dell’odio. Pochi giorni dopo quell’atto di violenza scrissi: “Dal
terrore non viene niente di buono. Così è stato nel passato e così sarà nel futuro”. Non mi
riferivo solo al terrore di chi aveva attaccato gli Stati Uniti, ma anche al terrore che doveva
seguire. Le guerre di Bush non hanno messo fine alla violenza – missione compiuta, come disse
con arroganza l’ex presidente degli Stati Uniti – hanno prodotto guerre infinite.
APPELLI CADUTI NEL VUOTO
C’è un’altra strada? Dopo gli attentati di Mumbai nel 2008, che causarono 164 morti, il governo
indiano non è corso alla guerra. Ha aperto invece una lunga indagine sull’attentato, per fare luce
sugli attacchi e la loro realizzazione. Ci sono stati incontri diplomatici con il Pakistan, accusato
dall’India di ospitare gli attentatori. Il dossier rimane aperto. La pazienza è all’ordine del giorno.
Nessun attacco missilistico lanciato in modo precipitoso avrebbe potuto compensare l’attentato
di Mumbai. Avrebbe solo aggravato il conflitto e trascinato l’India e il Pakistan in una guerra
insostenibile. È infinitamente meglio farsi guidare dalla prudenza.
Tutte le parti in causa sono d’accordo che non esistono risposte facili alla questione dello Stato
islamico e di Al Qaeda. L’occidente ha scelto di non affrontare i suoi principali alleati nel vicino
oriente – il regno saudita e gli emirati del Golfo, che con i loro fondi continuano a oliare le reti
dell’estremismo mentre i loro sceicchi continuano ad agitare le giovani menti con idee
pericolose – e nemmeno il loro odioso settarismo.
Nessun paese occidentale ha esercitato una pressione sufficiente su questi paesi perché facessero
qualcosa. Nessun paese occidentale ha chiesto al partito al governo in Turchia di mettere da
parte le sue ambizioni di politica interna e permettere alle milizie curde di combattere
liberamente il gruppo Stato islamico. Nessuna potenza occidentale ha ammesso che il suo
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costante appoggio logistico alle forze sostenute dal Qatar, dall’Arabia Saudita e dalla Turchia ha
alimentato il ciclo dell’estremismo.
Nessuno ha preso sul serio l’appello di stati membri delle Nazioni Unite a rivedere gli accordi
commerciali e le politiche finanziarie in modo da sottrarre i loro paesi al caos, terreno di coltura
del terrore.
Nel 1992 Alpha Oumar Konaré, leader liberale del Mali, chiese all’occidente di condonare
l’odioso debito del suo paese. Non poteva portare il suo popolo fuori delle divisioni e della
povertà se ogni mese doveva pagare le banche, e se una politica commerciale sfavorevole non
smetteva di opprimere i suoi contadini.
Nessuno lo ascoltò. Gli Stati Uniti lo liquidarono, affermando che “la virtù è ricompensa a se
stessa” – intendendo, “paga”. Konaré non poteva cambiare programma. Lasciò la sua carica. Il
paese implose. Gli uomini di Al Qaeda conquistarono la seconda città del Mali, Timbuctù. La
Francia li ha bombardati nel 2013. Il paese oggi è in pezzi, risultato di una serie di politiche
sbagliate. Nessuno si preoccupa di loro. Ci si occupa solo di Al Qaeda nel Maghreb islamico e
dei suoi movimenti.
Gli uomini politici occidentali sono come bambini alle prese con i loro giocattoli. Non vedono
la sofferenza umana e i terribili risultati delle loro terribili politiche.
Viviamo in un’epoca spietata. La violenza è terribile. La tristezza atroce.
Questo testo è per Adel Termos di Beirut, che ha dato la vita perché altri potessero vivere.
http://www.internazionale.it/opinione/vijay-prashad/2015/11/16/attentati-parigi-terrorismostoria
Dopo l’attentato nel quartiere sciita di Borj el Barajneh a Beirut, in Libano, il 12 novembre 2015.
DA PARIGI A BEIRUT, IL DOPPIO STANDARD DELLA COMPASSIONE
Pierre Haski
Ventiquattr’ore prima di Parigi, il gruppo Stato islamico (Is) colpiva Beirut senza suscitare
altrettanta solidarietà internazionale con le vittime. C’è di che interrogarsi sui motivi di questa
differenza nella percezione dei due eventi.
Nei giornali c’è una nota legge secondo la quale due morti in un incidente nella metro a Parigi o
a Londra pesano più di cento morti in un incidente ferroviario all’altro capo del mondo, per
esempio in India o in Bolivia.
È una legge cinica, ma che il direttore del Tg delle otto conosce perfettamente: il telespettatore
europeo s’identificherà di più con l’europeo che ha il suo stesso stile di vita che con l’abitante di
Bombay, benché anche quest’ultimo prenda i mezzi per andare al lavoro.
Applicata al terrorismo, questa legge conosce qualche variante che dimostra come quelle che da
noi sono considerate “emozioni collettive a livello planetario” siano in realtà emozioni a
geometria variabile. Alla borsa delle emozioni non tutte le vittime del terrorismo si equivalgono,
e i terroristi l’avevano capito perfettamente quando hanno preso di mira Parigi e i suoi abitanti.
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A proposito di questa diversità di percezione, ecco due esempi che illustrano bene le linee di
frattura e i fossati che queste producono.
BEIRUT-PARIGI, LO STESSO DOLORE?
Il giorno prima di Parigi, l’Is colpiva a Beirut, e più precisamente il quartiere sciita di Borj el
Barajneh, facendo 43 morti e 239 feriti. Si è trattato dell’attentato più cruento, commesso nella
capitale libanese da oltre vent’anni. Eppure non ha suscitato la stessa emozione degli attentati
messi a segno dagli stessi autori a Parigi ventiquattr’ore ore più tardi. Niente monumenti
illuminati con l’effigie di un cedro, niente foto listate a lutto sui profili dei social network,
niente veglie a lume di candela ai quattro angoli della Terra. Anzi, l’attentato di Beirut è stato
rapidissimamente oscurato da quelli di Parigi, senza precedenti per portata e per modus
operandi, e terrificanti per la freddezza con cui sono stati condotti.
Tutti s’identificano con un giovane parigino che assiste a un concerto rock, ma non
s’identificano con l’abitante dei quartieri sciiti di Beirut
È stato necessario che qualcuno esprimesse commozione perché cominciasse a venire alla luce
il legame fra le due capitali in lutto (Parigi-Beirut, stesso dolore): inizialmente sono stati dei
libanesi, ma poi anche da altre parti del mondo sono apparsi appelli per non dimenticare il
Libano.
Perché questa differenza di trattamento? Perché si applica lo stesso principio d’identificazione
sociale che funziona negli incidenti ferroviari.
Tutti, da San Francisco a Sydney, passando per Varsavia, possono identificarsi con un giovane
parigino che assisteva a un concerto rock, ricordarsi che anche loro sono andati o sognano di
andare in vacanza a Parigi, mentre nessuno s’identificherà con l’abitante di un quartiere sciita
(quindi filo-Hezbollah) di Beirut, anche se si tratta di un giovane della stessa età e non molto
diverso dalla vittima parigina.
SIMMETRIE VERE E FALSE
Se la relativa assenza di compassione per le vittime dell’attentato di Beirut deriva dalle
rappresentazioni che si sono formate nel corso del tempo, c’è poi un altro dibattito, più
inquietante, ed è quello sulla differenza di trattamento delle vittime.
È il dibattito alimentato sui social network dai simpatizzanti dei jihadisti. Site (Search for
international terrorist entities), il sito che monitora le organizzazioni jihadiste online, ha raccolto
degli estratti delle discussioni sulla questione.
Un utente chiede a Israfil Yilmaz, un olandese che si definisce combattente dell’Is, se sia a
favore degli attentati di Parigi. Risposta: “Sono favorevole agli attentati di Parigi tanto quanto il
governo francese è favorevole a bombardare e terrorizzare musulmani innocenti in Siria, in Iraq
e altrove. A te sta bene? Ti sembra coerente che il sangue dei musulmani scorra da decenni
senza suscitare alcuna indignazione? Eppure, quando noi rispondiamo, e gli togliamo ciò che
loro tolgono a noi, servendoci dei loro stessi mezzi, la fanno tanto lunga”.
Il sito raccoglie molte altre opinioni dello stesso tenore, apparse sulle piattaforme e sui social
network jihadisti: tutte pongono sullo stesso piano le vittime di attentati come quelli appena
avvenuti a Parigi e le vittime delle guerre “imperialiste” nel mondo musulmano.
Questa simmetria sarà giudicata insopportabile da ogni lettore occidentale che rifiuti di porre
sullo stesso piano un atto di terrore assoluto come l’attentato in una sala da concerto o in un
ristorante, e operazioni militari condotte da un esercito regolare contro obiettivi teoricamente
mirati e legittimi.
Tuttavia è evidente che le avventure militari occidentali di quest’ultimo decennio – quella in
Afghanistan, dove, agli occhi di parte della popolazione, i “liberatori” del 2001 si sono
trasformati in “occupanti”, e soprattutto quelle del 2003 in Iraq e del 2011 in Libia, che hanno
provocato la dissoluzione di stati e un caos senza fine – hanno screditato i nobili discorsi delle
grandi democrazie.
La pur legittima compassione degli occidentali per le “loro” vittime del terrorismo non
dovrebbe indurli a dimenticare le altre vittime del terrorismo, né a rinunciare a farsi un esame di
coscienza sul modo in cui loro stessi si comportano, soprattutto nei paesi arabi o musulmani.
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Questo messaggio di compassione e di solidarietà non soltanto è “normale”, diciamo pure
umano, ma è anche il solo mezzo per decostruire il discorso degli estremisti, che denunciano le
nostre ipocrisie per meglio coprire i loro crimini.
http://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2015/11/16/parigi-beirut-attentati-reazioni
SIAMO DENTRO LA GUERRA
Etienne Balibar
Siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono. E in questa guerra nomade,
indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle «due sponde» del Mediterraneo
diventano ostaggi. Ma dopo Parigi, è necessario rimettere la pace, e non la vittoria, al centro
della nostra agenda politica
Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono.
Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto.
Ogni persona morta, certo, è insostituibile. Ma di quale guerra si tratta? Non è semplice
definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che paiono ormai inestricabili.
Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come «Daesh»). Guerre civili nazionali e
transnazionali.
Guerre fra «civiltà», o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele
imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali. È la grande stasis del XXI
secolo, che in futuro — ammesso che se ne esca vivi — sarà paragonata a modelli antichi, la
Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la «guerra civile europea» fra il
1914 e il 1945.
Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima e
dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali partecipano
ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Ma le sue radici affondano anche
nella feroce rivalità fra Stati che aspirano tutti all’egemonia regionale: Iran, Arabia saudita,
Turchia, Egitto, e in un certo senso Israele — finora l’unica potenza nucleare.
In una violenta reazione collettiva, la guerra precipita tutti i conti non saldati delle
colonizzazioni e degli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente, risorse
minerarie espropriate, zone di influenza oggetto di disputa, giganteschi contratti di fornitura di
armamenti. La guerra cerca e trova all’occorrenza appoggi fra le popolazioni avverse.
Il peggio, forse, è che essa riattiva «odi teologici» millenari: gli scismi dell’Islam, lo scontro fra
i monoteismi e i loro succedanei laici. Nessuna guerra di religione, diciamolo chiaramente, ha le
sue cause nella religione stessa: c’è sempre un «substrato» di oppressioni, conflitti di potere,
strategie economiche. E ricchezze troppo grandi, e troppo grandi miserie. Ma quando il
«codice» della religione (o della «controreligione») se ne appropria, la crudeltà può eccedere
ogni limite, perché il nemico diventa anatema. Sono nati mostri di barbarie, che si rafforzano
con la follia della loro stessa violenza – come Daesh con le decapitazioni, gli stupri delle donne
ridotte in schiavitù, le distruzioni di tesori culturali dell’umanità.
Ma proliferano ugualmente altre barbarie, apparentemente più «razionali», come la «guerra dei
droni» del presidente Obama (premio Nobel per la pace) la quale, ormai è assodato, uccide nove
civili per ogni terrorista eliminato.
In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle «due
sponde» del Mediterraneo diventano ostaggi. Le vittime degli attentati di Parigi, dopo Madrid,
Londra, Mosca, Tunisi, Ankara ecc., con i loro vicini, sono ostaggi.
I rifugiati che cercano asilo o trovano la morte a migliaia a poca distanza dalle coste dell’Europa
sono ostaggi. I kurdi presi di mira dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i cittadini dei paesi
arabi sono ostaggi, nella tenaglia di ferro forgiata con questi elementi: terrore di Stato,
jihadismo fanatico, bombardamenti di potenze straniere.
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Che fare, dunque? Prima di tutto, e assolutamente, riflettere, resistere alla paura, alle
generalizzazioni, alle pulsioni di vendetta. Naturalmente, prendere tutte le misure di protezione
civile e militare, di intelligence e di sicurezza, necessarie per prevenire le azioni terroristiche o
contrastarle, e se possibile anche giudicare e punire i loro autori e complici. Ma, ciò facendo,
esigere dagli Stati «democratici» la vigilanza massima contro gli atti di odio nei confronti dei
cittadini e dei residenti che, a causa della loro origine, religione o anche abitudini di vita, sono
indicati come il «nemico interno» dagli autoproclamatisi patrioti. E poi: esigere dagli stessi Stati
che, nel momento in cui rafforzano i propri dispositivi di sicurezza, rispettino i diritti individuali
e collettivi che fondano la loro legittimità. Gli esempi del «Patriot Act» e di Guantanamo
mostrano che non è scontato.
Ma soprattutto: rimettere la pace al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così
difficile. Dico la pace, non la «vittoria»: la pace duratura, giusta, fatta non di vigliaccheria e
compromessi, o di controterrore, ma di coraggio e intransigenza. La pace per tutti coloro i quali
vi hanno interesse, sulle due sponde di questo mare comune che ha visto nascere la nostra
civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e postcoloniali.
Non mi faccio illusioni circa le probabilità di realizzazione di quest’obiettivo. Ma non vedo in
quale altro modo, al di là dello slancio morale che può ispirare, le iniziative politiche di
resistenza alla catastrofe possano precisarsi e articolarsi. Farò tre esempi.
Da una parte, il ripristino dell’effettività del diritto internazionale, e dunque dell’autorità delle
Nazioni unite, ridotte al nulla dalle pretese di sovranità unilaterale, dalla confusione fra
umanitario e securitario, dall’assoggettamento alla «governance» del capitalismo globalizzato,
dalla politica delle clientele che si è sostituita a quella dei blocchi. Occorre dunque resuscitare le
idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, il che presuppone una rifondazione
dell’Organizzazione – certamente a partire dall’Assemblea generale e dalle «coalizioni
regionali» di Stati, invece della dittatura di alcune potenze che si neutralizzano reciprocamente o
si alleano solo per il peggio.
Dall’altra parte, l’iniziativa dei cittadini di attraversare le frontiere, superare le contrapposizioni
fra le fedi e quelle fra gli interessi delle comunità, il che presuppone in primo luogo poterle
esprimere pubblicamente. Niente deve essere tabù, niente deve essere imposto come punto di
vista unico, perché per definizione la verità non preesiste all’argomentazione e al conflitto.
Occorre dunque che gli europei di cultura laica e cristiana sappiano quel che i musulmani
pensano circa l’uso della jihad per legittimare avventure totalitarie e azioni terroristiche, e quali
mezzi hanno per resistervi dall’interno. Allo stesso modo, i musulmani (e i non musulmani) del
Sud del Mediterraneo devono sapere a che punto sono le nazioni del «Nord», un tempo
dominanti, rispetto al razzismo, all’islamofobia, al neocolonialismo. E soprattutto, occorre che
gli «occidentali» e gli «orientali» costruiscano insieme il linguaggio di un nuovo universalismo,
assumendosi il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura delle frontiere, la loro
imposizione a scapito del multiculturalismo delle società di tutta la regione, questa è già la
guerra civile.
Ma in questa prospettiva, l’Europa ha virtualmente una funzione insostituibile, che deve onorare
malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o piuttosto per porvi rimedio,
nell’urgenza. Ogni paese ha la capacità di trascinare tutti gli altri nell’impasse, ma tutti insieme i
paesi potrebbero costruire vie d’uscita e costruire argini.
Dopo la «crisi finanziaria» e la «crisi dei rifugiati», la guerra potrebbe uccidere l’Europa, a
meno che l’Europa non dia segno di esistere, di fronte alla guerra.
È questo continente che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, vegliare
affinché la sicurezza delle democrazie non sia pagata con la fine dello Stato di diritto, e cercare
nella diversità delle comunità presenti sul proprio territorio la materia per una nuova forma di
opinione pubblica.
Esigere dai cittadini, cioè tutti noi, di essere all’altezza dei loro compiti, è chiedere
l’impossibile? Forse; ma è anche affermare che abbiamo la responsabilità di far accadere quel
che è ancora possibile, o che può tornare a esserlo.
Articolo pubblicato da www.ilmanifesto.it
http://www.sbilanciamoci.info/Ultimi-articoli/Siamo-dentro-la-guerra-31834
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Due vignette di Charlie Hebdo
CHARLIE HEBDO. IL «COMUNE» DI PARIGI
Luciana Castellina
È stata bella la manifestazione di domenica a Parigi. Confesso che la prima, appena avvenuto
l`eccidio nella redazione di Charlie Hebdo, mi aveva lasciata un po` perplessa: comprensibile, e
positivo, il bisogno di ritrovarsi per rispondere collettivamente al tremendo omicidio. E però mi
era parsa una riaffermazione orgogliosa della superiore civiltà della Francia, senza che
affiorasse almeno qualche interrogativo sul perché di tanto odio verso il nostro Occidente, sulle
ragioni che hanno a tal punto indebolito l`egemonia del nostro modello di democrazia nel
mondo. Troppo facile dire che si è trattato di un manipolo di esaltati e criminali - quali
certamente gli assassini di Parigi sono - senza tener in conto che essi non nascono per caso e dal
nulla, ma sono il frutto di una crisi che sta destabilizzando sanguinosamente una larga parte del
continente africano ed asiatico, con sinistra eco anche nelle nostre stesse città europee.
Il grandissimo corteo di domenica, la partecipazione commossa e convinta di francesi e però fra
loro diversissimi per razza e religione, così come quella - sia pure retorica e falsamente
unanimista, ma non per questo simbolicamente meno importante - di tanti capi di stato, ha avuto
un segno diverso. Perché è stato - così almeno mi è sembrato - l`espressione di un bisogno
autentico di ritrovarsi in un comune sentire, di aspirare ad un universale sistema di valori.
E tuttavia interrogarsi ancora è necessario. Non sul terrorismo in sé, che è aberrante e senza
giustificazioni, ma su un problema più generale che ci deve preoccupare al di là dei gesti
disperati come quello di cui è stato vittima Charlie Hebdo. Parlo dell`«universale sistema di
valori»: siamo davvero sicuri che l`identificazione in quello che noi occidentali definiamo
universalismo coinvolga tutta l`umanità, o non dobbiamo prendere atto che i valori della
Rivoluzione Francese sono stati troppo logorati dalla storia reale per poter raccogliere
un`adesione unanime? Colonialismo, guerra, diseguaglianze, esclusioni pesano e non potrebbe
essere che così.
Non per questo, naturalmente, si tratta di rinunciare all`ipotesi di costruire un «comune» reale,
rifugiandosi in un pigro relativismo.
L`universalismo è stato l`aspirazione sia delle rivoluzioni borghesi che di quelle proletarie dei
secoli scorsi. E però ha finito per essere, come era inevitabile, la pretesa di codificare come
universale la cultura, l`etica, la visione del mondo, i comportamenti sociali dei vincitori. Nel
concreto: dell`occidente capitalista democratico. Che non è cosa - intendiamoci - da buttar via,
basti pensare alle dittature di ogni genere. Ma che non può certo pretendere di rappresentare il
solo modello di modernità possibile, il solo che possa definirsi civiltà. Non foss`altro perché a
determinare tale modello è stata solo una minoranza dell`umanità. Tuttora largamente esclusa,
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anche perché esclusa dal potere di informazione, visto che il 90 per cento delle notizie su quanto
accade sono in mano ai media occidentali.
Il problema di definire l`universalismo non era così importante fin quando ognuno viveva a casa
sua. Il colonialismo, certo, aveva già creato non pochi problemi, cercando di imporre con la
forza la cultura della metropoli, mal` usurpazione era delocalizzata. Oggi, per effetto della
globalizzazione, la diversità non è più dislocata geograficamente, l`incontriamo all`angolo della
strada, al supermarket, nella scuola dei nostri bambini, fra i vicini di casa. Per questo il tema è
diventato così scottante e gestito da tutti, non solo dalla Legione Straniera.
E` stato affrontato in modi diversi nello stesso Occidente. La Francia è stata più generosa di altri
paesi nell`accoglienza di coloro che erano portatori di diversità culturali e religiose, perché ha
aperto più degli altri le sue porte agli immigrati.
Ma a una condizione: che accettassero di diventare francesi fino in fondo, di essere integrati
sènza riserve nella Repubblica. La vicenda del chador dichiarato illegale non è che un esempio.
Diverso l`approccio della Gran Bretagna, che ha concesso grande autonomia nel privato a
chiunque arrivasse dall`Africa o dall`Asia, bastandogli la disciplina sul piano pubblico. Non per
liberalità, ma, come ebbe a dire con ironia il fondatore dei post colonial studies, Stuart Hull,
perché razzisticamente convinti che tanto quei neri e quei gialli non sarebbero mai stati capaci
di diventare inglesi.
In epoche più recenti i «buoni» hanno riconosciuto íl diritto alla diversità culturale, e in
proposito si è persino strappata, nel 2005, una Convenzione dell`Unesco. In nome della quale si
è proclamato il diritto per ogni comunità di preservare la propria cultura e di ottenerne il
rispetto. I nostri migliori sindaci si sono adoperati a costruire moschee e centri culturali in cui
ognuno potesse coltivare per il proprio autoconsumo i propri valori. (Mai però si sono impegnati
a far sì che noi apprendessimo almeno qualche rudimento delle culture di chi è venuto ad
abitarci vicino!). Meglio che la prevaricazione, o peggio l`oppressione e la persecuzione.
Ma un mondo arlecchino, con ognuno chiuso nel proprio ghetto, rappresenta la rinuncia
all`universalismo. Le culture non sono sementi che vanno conservate in nome della biodiversità,
se non cambiano, non si innestano reciprocamente, perdono il dinamismo indispensabile alla
loro funzione antropologica. Un relativismo estremo non è tolleranza, è sordità.
Io non credo si debba rinunciare all`obiettivo di costruire un comune sistema di valori, sia pure
conservando la ricchezza delle diversità. E allora non servono i ghetti, sia pure immaginati come
protezione, così come li vive il chiusissimo e rigidissimo comunitarismo americano. Edward
Said, il grande intellettuale palestinese, diceva: «Le culture dell`altro sono preziose per noi, per
dinamizzare le nostre società. Non si tratta di tollerarle, facendo del multiculturalismo un
feticcio, ma di assumerle come risorsa critica di noi stessi.»
Ecco, proprio questa frase di Said mi è venuta in mente in questa tragica occasione dell`eccidio
di Parigi. Non voglio certo mettere in discussione quanto in termini di libertà individuale
abbiamo conquistato con la rivoluzione francese, ma spingere a riflettere su aspetti della cultura
araba e islamica - non ovviamente dell`Isis - che dovremmo assumere come utile critica alla
nostra cultura occidentale. Penso alla critica all`individualismo esasperato, ai diritti intesi come
prerogativa assoluta dell`individuo, innanzitutto. E alla competitività anche brutale eletta a
rango di regola essenziale, tanto è vero che questo principio è iscritto negli articoli fondanti del
Trattato dell`Unione Europea, cui sempre più si sacrifica ogni forma di solidarismo, sì da aver
generato la più mostruosa disuguaglianza mai conosciuta nella storia.
Non c`è forse materia per riflettere anche autocriticamente sul «moderno» che abbiamo creato,
anziché riaffermare con fastidiosa baldanza la nostra superiorità, in nome di un canone
occidentale altamente fossilizzato? La costruzione di un universale comune, insomma, è
obiettivo storico da perseguire, ma nella consapevolezza che si tratta di un lungo e difficile
processo dialogico che potrà aver successo solo nella misura in cui tutti saranno stati posti in
grado di contribuire a definirlo, perché dotati dello stesso potere di informazione, di formazione,
di conoscenze.
Attrezzarsi a rendere questo processo possibile mi sembra il solo modo per evitare le ossessioni
prodotte dal contatto stretto fra culture diverse che la globalizzazione ha generato.
Non si tratta di un discorso teorico. Si tratta molto concretamente di ripensare alla cittadinanza
europea, che non può più esser fondata sulla comunità di sangue ma non può nemmeno più
esser fondata sul solo legame col suolo. Le culture sono infatti sempre più transnazionali e il
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loro rapporto col territorio è sempre più soggetto a temporalità. Dentro l`Europa stessa e per chi
viene da fuori. Il «noi» e il «voi», e i confini che lo definivano, sono ormai rimessi in
discussione. Prendendo atto delle proporzioni ormai assunte dai processi migratori, e di come
questi esigessero una ridefinizione del paradigma di cittadinanza, Jaques Attali, consigliere di
Mitterand, diceva: «È il nomade il cittadino del futuro, non lo zappatore sedentario». E tenendo
conto, per di più, che ogni cultura, in ogni parte del globo, è ormai attraversata da un immenso
processo di riesame, autodefinizione, autoanalisi, in relazione al presente e al passato. Blindare
l`immaginario dentro confini stabiliti appare sempre più esercizio degno di Salvini.
Non è facile, né ci si può accontentare del tentativo unificatore della potenza egemone, così
come del superficiale «democratico sguardo cosmopolita» mitizzato da Ulrich Sede La diversità
culturale non è un termine indolore, non ci parla di «varietà» ma di contraddizioni dure; e di
conflitti.
Per questo costruire un universalismo vero non è un pranzo di gala. Anche solo per raggiungere
la definizione che ne dava Francesco De Martino in «Fine del mondo»: «Quel fondo
universalmente umano in cui il proprio e l`alieno sono soppressi come due possibilità storiche di
essere uomo».
Un opuscolo che conteneva saggi e proposte su questo tema, redatto nel 2006 da Kevin Robins,
un funzionario del Consiglio d`Europa (sempre assai più coraggioso dell`Unione Europea,
anche perché l`organismo non ha poteri deliberanti), concludeva con scetticismo: «Tutto questo
non sarà facile da parte di governi che suonano la tromba per esaltare le virtù della
globalizzazione e della diversità, ma che poi blindano le frontiere dei loro paesi e rafforzano le
misure di vigilanza contro l`ingresso dei migranti».
Esattamente quanto si sono affrettati a decidere i ministri europei nel corso stesso della
manifestazione di Parigi (una volta tanto non da quelli italiani). La sicurezza contro il terrorismo
va bene, ma se si pensa che saremo sicuri grazie a droni, truppe d`assalto e migranti che
affogano nel Mediterraneo, anziché affidarci alla politica, non andremo lontano.
Articolo pubblicato da Il Manifesto, il 14/01/2015
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Il-comune-di-Parigi-27916
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