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Il percorso di Newman
I
Newman nacque il 21 febbraio del 1801 e morì l’11 agosto del 1890. La sua vita fu lunga e intricata, profonda e
complessa. Nel mese di ottobre del 1963, papa Paolo VI, nel
discorso per la beatificazione del prete passionista Dominic
Barberi – colui che aveva accolto Newman nella Chiesa cattolica – si soffermò a parlare direttamente di Newman. Lo
descrisse come un uomo «pienamente cosciente della sua
missione – “ho un lavoro da fare” – guidato unicamente
dall’amore per la verità e dalla fedeltà a Cristo, il quale per
arrivare alla pienezza della saggezza e della pace tracciò un
percorso, il più penoso, ma anche il più grande, il più significativo, il più decisivo che il pensiero umano abbia mai
condotto nel [XIX] secolo, anzi si potrebbe dire nell’età moderna» 1. Sono parole molto forti. In seguito Stephen Dessain mi disse che sembrava che il Papa stesse beatificando
Newman più che Dominic. In ogni caso era chiaramente
consapevole del cammino intrapreso da Newman.
Seguire il percorso di una vita così ricca non è cosa facile, ma è necessario tracciarne un profilo che costituisca il
contesto in cui sorsero le questioni che prenderò in consi-
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JOHN HENRY NEWMAN
derazione nel corso del libro. Diversi sono gli approcci
possibili.
Ho già accennato a quanto in principio io sia stato affascinato dai contrasti della vita di Newman, che procedette
secondo uno schema di aspettativa e delusione: il brillante
studente universitario che riesce a malapena a laurearsi; il
docente dell’Oriel College i cui studenti si ritirano; il leader del Movimento di Oxford che diventa un cattolico romano; l’illustre convertito di cui non ci si fida appieno e il
cui talento viene sfruttato male; e poi alla fine, gli anni inaspettati in cui divenne cardinale, quando le persecuzioni
ebbero fine ed egli fu stimato e trattato con rispetto. Per
tutto quel tempo, Newman andò in cerca della Chiesa. La
domanda che lo guidava era: dove si poteva trovare il Corpo di Cristo in modo più completo? Era suo desiderio farne parte. E quando, nel 1845, capì di aver trovato la risposta a quella domanda e quindi agì in base a essa, diventando un cattolico, seguirono altri lunghi anni di maturazione, sofferenza e umiliazione.
Nella sua affascinante vita è forse possibile delineare tre
fasi principali. Fino al 1833, andò in cerca di se stesso; negli
anni dal 1833 al 1845 fu messo a dura prova; e successivamente si manifestarono le conseguenze della sua decisione
di diventare cattolico.
II
Quando si parla della conversione di Newman, solitamente si fa riferimento a quanto accadde l’8 e il 9 di ottobre
del 1845, a quella notte battuta dal vento in cui padre Dominic Barberi, zuppo di pioggia, tornò dal suo viaggio esposto
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alle intemperie e arrivò a Littlemore, il paesino in cui Newman era andato a vivere dopo essersi dimesso da vicario
della chiesa dell’Università e dove si era ritirato nella comunione dei laici come anglicano. Barberi cominciò a sentire la
confessione di Newman quella sera stessa e continuò il giorno successivo. Poi lo accolse nella Chiesa cattolica romana.
Quella conversione fu tuttavia preceduta da altre.
Newman era cresciuto da anglicano mediamente devoto, leggeva la Bibbia e la conosceva bene. Nel 1816, tuttavia, all’età di quindici anni, quando andava ancora a scuola, si ammalò; sarà la prima di tre malattie significative in
quella fase della sua vita. Nella convalescenza lesse diversi
libri calvinisti e lì ebbe una prima esperienza di conversione. Credette di essere «prescelto per l’eterna gloria». Era
l’epoca in cui si ancorava «al pensiero di due, e solo due,
esseri assoluti, di un’intrinseca e luminosa evidenza: me
stesso e il mio Creatore» (Apo., p. 22 [17-18]). Apparentemente non avvenne nulla di particolare; non accadde nulla
di incontrollato ed entusiasta che potesse esser paragonato
al battesimo nello Spirito o alla glossolalia; gli effetti immediati di quell’esperienza rimasero per un po’ per poi
scomparire nel corso di cinque anni. Resero Newman un
fervido evangelico. E fu quel giovane uomo a iscriversi,
l’anno seguente, al Trinity College.
Nel 1820, quando giunse il momento di laurearsi, le aspettative erano alte, ma fu un disastro. Aveva studiato troppo,
era spossato e teso. Come scrisse molto tempo dopo, «si era
fatto prendere dal panico, era completamente esaurito, e dopo vani tentativi per diversi giorni, dovette ritirarsi». Conseguì la laurea, ma con il minimo dei voti. Non aveva superato
l’esame di matematica, la materia in cui andava meglio, e in
lettere classiche se l’era cavata appena (A.W., p. 47).
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JOHN HENRY NEWMAN
Che cosa avrebbe fatto dopo? I voti della laurea gli rendevano impossibile tentare la carriera legale che aveva preso in considerazione, per cui decise di diventare sacerdote.
Rispettando i tempi nel 1824 divenne diacono anglicano e
l’anno successivo sacerdote. Nel frattempo però, nonostante i brutti voti di laurea, aveva deciso di concorrere per una
fellowship presso l’Oriel, che era allora il più prestigioso dal
punto di vista intellettuale tra i college di Oxford. Andò
bene e il 12 aprile del 1822 venne eletto fellow. Chi lo elesse
fu condizionato più dalla sua cultura che dalla qualità dei
suoi scritti. Più di vent’anni dopo Edward Copleston, che
all’epoca era stato preside dell’Oriel College, ricordò l’esperienza descrivendo Newman come: «Neanche un buono studioso classico, eppure decisamente superiore […]
nella mente e nel potere di composizione, e nel gusto e nella conoscenza» rispetto agli altri candidati che si erano laureati con voti migliori (si veda A.W., p. 64). Così Newman
si trovò a essere fellow di Oriel e intimo di alcune delle più
distinte personalità di Oxford dell’epoca.
Tra queste vi era Richard Whately, che sarebbe divenuto
arcivescovo di Dublino nella Chiesa d’Irlanda. Era un uomo che si vestiva con colori sgargianti, era brillante nella
conversazione e tagliente nelle discussioni. Era inoltre noto, nelle parole di Newman di molto tempo dopo, per essere «insolitamente affabile con studenti e giovani» (A.W., p.
66). Prese Newman sotto la sua ala; era la persona ideale
per aiutare quel giovane riservato a uscire dal suo guscio.
A Newman piaceva ascoltare e a Whately parlare. Per di
più, a Whately piacevano i ragionamenti logici e fu lui, forse più di chiunque altro, ad aiutare Newman a sviluppare
la sua formidabile abilità retorica. Samuel Taylor Coleridge, autore della Ballata del vecchio marinaio, una volta in una
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discussione osservò: «Ciascun uomo nasce aristotelico o platonico. Non penso che sia possibile che una persona nata
aristotelica possa diventare un platonico; come sono sicuro
che nessuno nato platonico possa trasformarsi in un aristotelico» 2. Lo storico David Newsome ha tuttavia suggerito
che se esiste un’eccezione alla sentenza di Coleridge, quella
è sicuramente Newman, che «nato come un platonico» nel
corso della sua educazione «divenne un aristotelico» 3. E se
Newsome ha ragione, allora fu Whately, più di chiunque altro, la persona responsabile di averlo aiutato a imparare come l’intera visione potesse essere divisa in parti.
Accadimenti successivi fecero allontanare Newman e
Whately, ma i due rimasero amici per circa dieci anni. Soprattutto nei primi anni, Newman apprezzò l’atmosfera
della Oriel Senior Common Room, che si diceva «puzzasse
di logica». È facile immaginarlo, ridestatosi dalla timidezza, diventare consapevole del suo talento intellettuale e
compiacersi nell’usarlo. Che cosa poteva esserci di più naturale? Fu il periodo in cui rimase stregato dall’eccellenza
intellettuale, che regnava sovrana. Ma quell’influenza non
durò. Furono tre i fattori che determinarono un cambiamento nel suo atteggiamento.
Prima di tutto si ammalò nuovamente. Nel novembre
del 1827, durante gli esami, ebbe un crollo causato dal
troppo lavoro, dalle preoccupazioni familiari, dalle occupazioni universitarie e dalle responsabilità negli esami.
Qualche settimana dopo, il 5 gennaio del 1828, morì improvvisamente la sorella minore, Mary, a cui era molto legato. La sua morte lo sconvolse. È facile capire il perché:
leggendo le sue lettere, piacevoli e acute, spiritose e affettuose, si comprende che persona adorabile dovesse essere
(si veda L.D. II, pp. 38-39). Furono quindi le sue cattive
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JOHN HENRY NEWMAN
condizioni di salute e la morte di Mary a costringerlo a fare
attente valutazioni. Che cosa veramente importava? Come
poteva l’eccellenza intellettuale essere paragonata alla perdita di una sorella amata, o persino guastare la propria salute? Proprio in quel periodo a Oriel stavano nascendo
nuove amicizie, che lo stavano allontanando da Whately.
In particolare stava iniziando a conoscere meglio l’erudito
Edward Pusey, il pio John Keble, e in modo più immediato
l’irrefrenabile Hurrell Froude, che nel 1836 sarebbe morto
prematuramente di tubercolosi. La loro influenza sarebbe
aumentata ed egli avrebbe condiviso sempre di più con loro la devozione alla tradizione cattolica entro la Chiesa
d’Inghilterra, che sarebbe stata fondamentale per il Movimento di Oxford. Ecco un’altra conversione. Non era più
affascinato dal solo intelletto. Se si può dire che egli abbia
flirtato con il razionalismo, fu allora che quel flirt cessò.
La faccenda che aveva preoccupato Newman in università quando nel 1827 si era ammalato era l’elezione del
nuovo preside dell’Oriel College. Quando arrivò il momento, Newman votò per Edward Hawkins, che poi fu
eletto. Era stato gentile con Newman quando questi era diventato fellow. E Hawkins fu in un certo senso cruciale in
questa fase della vita di Newman.
In primo luogo fu tramite Hawkins che Newman giunse
a comprendere il battesimo come nuova nascita, indipendente dall’esperienza personale, e a liberarsi così del suo
severo evangelicalismo; e fu ascoltando Hawkins da studente che aveva cominciato a imparare da lui il significato
di tradizione. In secondo luogo, poi, Hawkins dovette dimettersi da vicario di St Mary the Virgin, la chiesa dell’Università, quando fu eletto preside. Newman gli succedette, ottenendo così un ruolo importante. Dal pulpito della
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chiesa di St Mary avrebbe pronunciato alcuni tra i suoi sermoni più memorabili. E infine fu Hawkins a opporsi al
punto di vista di Newman sui doveri di un docente e, in
qualità di preside, lo fece con successo. Di conseguenza,
quando nacque il Movimento di Oxford, Newman ebbe
tempo e libertà a sua disposizione per impegnarsi alla causa senza riserve. In Apologia pro vita sua, pur riconoscendo
le reciproche differenze, Newman dichiarò anche il costante affetto personale per Hawkins. E Hawkins lo ringraziò
scrivendogli una lettera affettuosa (si veda Apo., pp. 27-30
[21-22; 485-486]).
Nel 1832, non avendo più studenti e quindi responsabilità d’insegnamento, Newman riuscì a prendersi una vacanza. Insieme a Hurrell Froude, che all’epoca stava già iniziando ad ammalarsi della tubercolosi che l’avrebbe ucciso, e
con l’arcidiacono Froude, padre di Hurrell, partì per una vacanza sul Mediterraneo. I tre girarono molto, andarono anche a Roma, che Newman visitava per la prima volta. Si fermarono presso il Collegio Inglese e incontrarono l’allora rettore Nicholas Wiseman, che in seguito sarebbe divenuto cardinale e primo arcivescovo di Westminster. Newman rimase
affascinato dall’intera esperienza, pur pieno di dubbi. Nel
corso della vacanza scrisse molte poesie. Una inizia così:
O il tuo credo fu saldo!
Perché plachi il cuore, Chiesa di Roma,
attraverso la tua instancabile guardia e varia serie
di funzioni, nella casa sacra del Tuo Salvatore. (V.V., p. 153)
La Sicilia fu tuttavia ciò che gli piacque di più. L’aveva
visitata con i Froude prima di recarsi a Roma e ne era rimasto incantato. Per questo, al momento di ritornare in In-
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JOHN HENRY NEWMAN
ghilterra, egli cambiò idea, li lasciò e tornò un’altra volta a
visitare l’isola. Lì si ammalò nuovamente – la terza malattia importante di questo periodo della sua vita. Si sentì colpevole. Considerò la malattia come una punizione per la
sua ostinazione, per aver egoisticamente abbandonato gli
amici e assecondato i propri desideri. In effetti, avrebbe
potuto morire. Nella malattia però fu pervaso da un’idea
di missione, «ho un lavoro da fare» disse, parole ricordate
da papa Paolo VI durante la beatificazione di Dominic Barberi. Si riprese e partì alla volta dell’Inghilterra. Il 16 giugno del 1833, trattenuto dalla bonaccia nelle Bocche di Bonifacio, compose la poesia The Pillar of the Cloud, meglio
nota come l’inno Guidami, luce gentile. Nel componimento
riconosce l’oscurità e il suo orgoglio, ma ha fiducia nel potere che lo ha benedetto e che gli farà superare «paludi e
brughiere, monti e torrenti, finché svanisca la notte» 4. Approdò in Inghilterra l’8 luglio.
Questi anni della gioventù, segnati da opinioni che stavano maturando, dall’evangelicalismo attraverso un certo
tipo di razionalismo fino a un più armonioso senso della
Chiesa d’Inghilterra vista anche come cattolica, e travagliati da crisi personali, malattie e morte, portarono Newman
a un punto di svolta. Lo aveva percepito quando si trovava
in Sicilia; aveva un lavoro da fare. Sei giorni dopo il suo ritorno, il 14 luglio del 1833, John Keble pronunciò a Oxford
il Sermone delle Assise.
III
Il sermone segnò per Newman l’iniziò del Movimento
di Oxford, anche se in realtà gli eventi furono meno netti.
IL PERCORSO DI NEWMAN
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Da tempo alcuni membri della Chiesa d’Inghilterra nutrivano il timore che un giorno la loro Chiesa sarebbe stata
sotto il controllo dello Stato. Come poteva essere libera di
proclamare il Vangelo, se fossero sorti conflitti? E sentivano che un contrasto ora era sorto. La questione scatenante,
presto dimenticata, fu la riorganizzazione della Chiesa
d’Irlanda a opera del Parlamento, che portò alla soppressione di alcune diocesi. Nella pratica si trattava di una
questione assolutamente ragionevole; in teoria però, fu vista come un indebolimento dell’indipendenza della Chiesa, perché lo Stato interferiva sui successori degli apostoli.
Il sermone di Keble, intitolato Apostasia nazionale fu la miccia che scatenò l’azione.
Alcune persone si riunirono nel Suffolk presso la canonica di Hadleigh e discussero della formazione per tutto il
paese di comitati che avrebbero contribuito a diffondere i
principi cattolici all’interno della Chiesa anglicana. Newman non prese parte all’incontro e l’esito non gli piacque.
«I movimenti vivi non nascono dai comitati» osservò nella
sua Apologia, e con altri decise invece di scrivere brevi articoli, chiamando la Chiesa d’Inghilterra a comprendere se
stessa basandosi su principi cattolici (si veda Apo., p. 68
[46]). Furono questi tracts, trattati, a dare al Movimento di
Oxford l’altro nome per cui è noto, il Movimento Trattariano. In un primo momento, dopo aver provveduto alla
stampa autonomamente, attraversava il paese, passando di
canonica in canonica a distribuire i testi, che inizialmente
erano degli opuscoli e che divennero successivamente più
lunghi.
Per il Movimento di Oxford era di fondamentale importanza l’attenzione per l’integrità della Chiesa. Fu questa la
causa portata avanti da Newman. Secondo lui era indub-
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JOHN HENRY NEWMAN
bio che la Chiesa d’Inghilterra fosse un ramo della grande
Chiesa cattolica, romana, orientale e anglicana, ma la vedeva minacciata dagli evangelici e dai liberali e dalle alte e
distaccate personalità della Chiesa che avevano perso il
senso del suo ricco patrimonio.
Per rimediare a quella perdita, fece un proprio resoconto della Chiesa anglicana. La presentò come una via media,
tra l’eccesso romano da una parte e l’errore protestante
dall’altra. Sviscerò il suo approccio in una serie di lezioni
tenute nella chiesa di St Mary, poi pubblicate nel 1837 con
il titolo di Lectures on the Prophetical Office of the Church. La
sua posizione si fondava su tre convinzioni fondamentali.
In primo luogo, la Chiesa era per lui indefettibile, ma
non infallibile. L’infallibilità, sosteneva Newman, era caratteristica della Chiesa unita, ma da quando erano state
operate delle divisioni, tale promessa d’infallibilità era andata perduta. La Chiesa tuttavia è guidata in modo divino
a insegnare la verità essenziale e salvifica in modo indefettibile (si veda V.M. I, pp. 201, 190 [228, 219]). In secondo
luogo, per individuare tale verità si appellò all’Antichità,
alle Scritture e alla Chiesa dei Padri, alla dottrina che è
sempre stata insegnata, ovunque e da tutti «quod semper,
quod ubique, quod ab omnibus», come il credo essenziale
e la regola d’insegnamento successivamente (si veda V.M.
I, p. 222 [245]). In terzo luogo espose il modo in cui questa
fondamentale dottrina evangelica fu tramandata nel credo
da vescovo a vescovo fino ad assumere il nome di tradizione episcopale, mentre esisteva anche un’altra ampia tradizione meno ufficiale «che pervadeva la Chiesa come un’atmosfera», che interpretava le verità rivelate e svelava i suoi
misteri e che egli definì profetica (si veda V.M. I, pp. 249251 [267-269]). Tale era, in breve, la base del concetto di
IL PERCORSO DI NEWMAN
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Chiesa perorato da Newman. Sin dall’inizio, però, egli era
consapevole che vi fosse un punto debole: mentre «il cattolicesimo romano e il protestantesimo sono religioni reali –
osservò – la via media, intesa come sistema integrale, non è
mai esistita se non sulla carta» (V.M. I, p. 16 [70-71]). Tuttavia per sei anni tutto andò bene, nonostante l’estenuante
controversia. Difese la sua causa sotto un cielo sgombro di
nuvole. Poi apparve una nuvola.
Newman prese in esame i precedenti. La presente integrità era al sicuro perché si rifletteva nel passato. Durante
le lunghe vacanze del 1839, che trascorse a leggere perché
libero da impegni e a studiare la storia del monofisismo,
un’eresia del V secolo, improvvisamente si allarmò. L’interpretazione monofisita di Cristo, ossia che in Cristo vi
era una sola natura, quella divina, era stata condannata.
Allo stesso tempo, gli stessi monofisiti si erano strenuamente opposti agli eutichiani, che portavano persino oltre
il concetto della sola natura divina di Cristo. Newman non
si mise in allarme per tale interpretazione di Cristo; non
nutriva simpatie per i monofisiti. Ciò che lo allarmò fu la
lezione che la controversia suggeriva a proposito della sua
visione della Chiesa. Immaginò che gli estremisti, gli eutichiani, fossero i protestanti. Roma, a difesa della fede, era
la stessa di oggi. E dove si trovavano i monofisiti? Nel
mezzo. Pur resistendo alla posizione estremista degli eutichiani, anche la loro compromettente via media era stata
condannata. «Vidi il mio volto [allo] specchio» spiega
Newman nella sua Apologia «era il volto di un monofisita»
(Apo., p. 144 [108]). La sua prospettiva sembrava fatalmente incrinata, il passato distruggeva il presente.
Allora qualcuno gli diede un articolo di Nicholas Wiseman sulla rivendicazione anglicana alla successione apo-
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JOHN HENRY NEWMAN
stolica. In un primo momento l’articolo non lo colpì molto,
ma in seguito un amico gli fece notare una frase di sant’Agostino sulla quale prima non si era soffermato: «Securus
judicat orbis terrarum». Le parole sono quasi intraducibili,
ma la versione di Newman fu: «La Chiesa universale, nei
suoi giudizi, è sicura della verità» (Ess. II, p. 101; Apo., p.
147n). L’idea lo sconvolse. Quelle parole non lo portarono
alla conclusione che la maggioranza era sempre nel giusto;
a volte una minoranza aveva dovuto opporsi ai più. Con
quelle parole però, come scrisse in seguito, parole che interpretavano e sintetizzavano il corso lungo e vario della
storia della Chiesa, «la teoria della via media era completamente polverizzata» (Apo., p. 148 [110-111]). Era come se
avesse visto un fantasma e nella sua mente balenò il pensiero che «“alla fine si scoprirà che la Chiesa di Roma ha
ragione”; ma era subito svanito» (Apo., p. 148 [111]).
In seguito accadde quanto succede di frequente quando
si è molto occupati. Newman tornò a lavorare e a poco a
poco l’effetto di quella lettura estiva svanì. La calma durò
per più di due anni. Poi però, il fantasma tornò.
Nel 1841, ripreso lo studio dell’arianesimo del IV secolo, lo schema tornò a presentarsi. Questa volta erano gli
ariani a essere i protestanti, Roma la stessa, e la via media
anglicana, supponendo che esistesse, era il percorso intrapreso dai semiariani. Che fosse giusto o sbagliato, era così
che vedeva le cose (Apo., pp. 169-170 [130]). E poi, in rapida successione, scoppiarono altre due questioni.
All’inizio di quell’anno si era dedicato a un nuovo tract,
il n. 90. In esso espose le sue riflessioni su alcuni dei Trentanove Articoli, mostrando come potessero essere interpretati in modo compatibile con gli insegnamenti del Concilio
di Trento. Naturalmente era una posizione controversa.
IL PERCORSO DI NEWMAN
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Per gli anglicani gli articoli erano la loro difesa contro il
cattolicesimo romano, il papismo e la superstizione. Newman voleva però dimostrare che, dal momento che gli articoli erano stati stilati come parte della Soluzione Elisabettiana «allo scopo di includere i cattolici» e di aiutarli a sentirsi a casa nella Chiesa d’Inghilterra, «i cattolici ora non
verranno esclusi» (si veda V.M. II, p. 348). Il motivo per cui
aveva scritto il tract era quello di frenare alcuni giovani e
ostinati trattariani, impazienti di abbandonare la Chiesa
d’Inghilterra e aderire al cattolicesimo romano. Previde
che vi sarebbero stati problemi, ma non molti. Il trattarianesimo stava cominciando ad annoiare la gente; non attirava più molta attenzione; avrebbero obiettato forse due o
tre vescovi. Si sbagliava. Nei tre anni successivi, uno dopo
l’altro, furono in tutto 24 i vescovi che condannarono il
tract. Era sbalordito, e non solo per la ferocia dell’attacco.
Al centro della visione trattariana della Chiesa vi era l’autorità episcopale, e l’obbedienza a essa era al centro dell’indole trattariana. Eppure quei vescovi stavano utilizzando
lo status che lui aveva difeso per loro, per condannare una
posizione che lui riteneva inevitabile. Dove rivolgersi? Era
perduto. Non poteva diventare un protestante. Restando
aggrappato alla Chiesa d’Inghilterra, riluttante nei confronti di Roma, voleva seguire la ragione, non essere vittima delle sue emozioni. Allora scoppiò anche la seconda
questione, a conferma della prima.
Fu presa la decisione di fondare un vescovado a Gerusalemme. L’idea partì in origine dai prussiani, ma in Inghilterra fu sostenuta dall’arcivescovo di Canterbury, tra
gli altri. L’intenzione era quella di dare ai protestanti un
centro in Terra Santa, il cui vescovo sarebbe stato a turno
anglicano, luterano o calvinista. Newman si tirò indietro.
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JOHN HENRY NEWMAN
Per lui la Chiesa d’Inghilterra era distinta dal protestantesimo, distinzione che i sostenitori anglicani del progetto
avevano perduto. Abbandonavano la via media per identificarsi come confessione protestante.
I suoi studi patristici da una parte e queste due crisi dall’altra abbatterono Newman. Nelle sue parole, si trovava
«sul letto di morte» come anglicano (Apo., p. 177 [137]), ma
non era ancora morto. Che cosa doveva fare? Dove doveva
andare? Dove trovare la vera Chiesa? Non aveva fede nel
protestantesimo e non riusciva più a vedere la Chiesa d’Inghilterra come una via tra l’errore protestante e l’eccesso
romano. Solo una possibilità sembrava rimanergli: poteva
essere che quanto aveva scartato come corruzione romana
fosse in realtà testimonianza di uno sviluppo autentico?
Tornò perciò a tuffarsi sempre di più nello studio della teoria dello sviluppo dottrinale, che considerava «un’ipotesi
atta a risolvere una difficoltà» (Dev., p. 66). Senza fretta, seguì la questione per altri quattro anni. Poi, a tempo debito,
raccolse le sue conclusioni nell’opera Sviluppo della dottrina
cristiana.
Il dibattito, particolare e molto preciso, che l’opera scatenò, è stato enorme e prosegue ancora. Non può essere risolto in questa sede. Si può tuttavia dare un’idea del corso
del pensiero di Newman attraverso un’immagine e la frase
che dell’opera si ricorda di più. L’immagine è quella di un
ruscello, del quale, fa notare, a volte si dice sia «più limpido presso la sorgente»: le cose sono più pure dove hanno
inizio. Poi però aggiunse: «Qualunque sia l’uso che si possa fare in modo proprio di tale immagine, è certo che non
la si può applicare alla storia di una concezione filosofica o
di una credenza. Queste sono, infatti, più uniformi, più
limpide e più forti quanto più il loro letto diviene profon-
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IL PERCORSO DI NEWMAN
do, largo e traboccante». La spiegazione continua poi concludendo con la frase che è stata spesso citata, anche se non
sempre in modo preciso: «In un mondo più alto le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni» (Dev., p. 75).
La stesura di Sviluppo della dottrina cristiana occupò molto del suo tempo, ma prima che l’opera fosse conclusa,
aveva deciso. Quella notte di ottobre del 1845, spazzata da
pioggia e vento, arrivò Dominic Barberi ed egli fu accolto
nella Chiesa cattolica.
IV
Newman concluse Sviluppo della dottrina cristiana chiamando la Chiesa cattolica la «Visione di Pace Benedetta»
(Dev., p. 419), e si può dire che per un certo verso la sua ricerca era giunta al termine. Non ci sarebbero più stati cambiamenti come quelli che abbiamo già menzionato, dalla
conversione evangelica all’apprezzamento dell’eccellenza
intellettuale fino all’anglo-cattolicesimo. Nei primi anni
visse persino una sorta di luna di miele, quando a volte
esibì l’entusiasmo tipico dei neofiti. Andò a Roma per prepararsi all’ordinazione sacerdotale e fu ordinato oratoriano, per poi tornare in Inghilterra e fondarvi l’Oratorio.
L’Ordine degli oratoriani, fondato a Roma da san Filippo
Neri nel XVI secolo, era formato da preti laici che vivevano
in comunità. All’epoca somigliavano in un certo modo ai
senior di un college di Oxford. Il contesto ideale per Newman. La luna di miele però non durò. Presto dovette cominciare a sopportare difficoltà che lo tormentarono per
anni, pubblica ignominia, ostacoli, frustrazioni, fraintendi-
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JOHN HENRY NEWMAN
menti e inganni. In un’annotazione di diario scritta molto
tempo dopo, nel mese di gennaio del 1863, avrebbe osservato: «Da protestante sentivo la mia religione monotona,
ma non la mia vita, da cattolico è la mia vita a essere monotona, non la mia religione» (A.W., p. 254).
La pubblica ignominia arrivò con il processo Achilli.
Nel 1851, nel corso di sue lezioni sul cattolicesimo in Inghilterra, Newman colse l’opportunità per denunciare Giacinto Achilli, un ex domenicano che si era trasferito in Inghilterra e che attaccava il cattolicesimo per conto dell’Alleanza Evangelica. Newman, accusando Achilli di essere
un mentitore e predatore sessuale, non faceva che riprendere quanto già documentato nell’articolo del cardinale
Wiseman, che quindi avrebbe dovuto fornire le prove a sostegno delle sue imputazioni. Achilli, però, sicuro del fatto
che le imputazioni non potessero essere provate, negò tutto e lo querelò per diffamazione. Wiseman, esitante e disorganizzato, non riuscì a trovare in tempo i documenti necessari a scagionare Newman, per cui la questione finì in
un’aula di tribunale. Una delle instancabili amiche di
Newman, Maria Giberne, partì alla volta dell’Italia per rintracciare le donne che Achilli aveva molestato anni prima,
e convincerle a recarsi in Inghilterra per testimoniare in favore di Newman. Molte di loro erano mogli e madri rispettabili e non avevano intenzione di rivivere episodi sordidi
e umilianti del loro passato, ma alcune si convinsero. Nonostante ciò, la giuria decise che Newman era colpevole e
che le sue accuse non erano dimostrate. Il giudice del processo, però, lord Campbell, Presidente della Corte, venne
accusato di nutrire dei pregiudizi e, quando giunse il momento di emettere la sentenza, il collegio di difesa di Newman chiese un secondo processo. Lo sconforto era grande.
IL PERCORSO DI NEWMAN
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Alla fine la richiesta venne negata, ma, invece del carcere,
come si aspettava, Newman ricevette un sermone sul suo
peggioramento morale da quando era diventato cattolico e
gli fu comminata una multa di 100 sterline. L’intero episodio incombette su di lui per diciotto mesi e sebbene avesse
ottenuto una vittoria morale, in generale era considerato
disonorato.
Mentre il dramma legato ad Achilli procedeva, nel 1851
Newman fu contattato dai vescovi irlandesi nella prospettiva che diventasse rettore di una nuova università cattolica in Irlanda. Alla fine Newman accettò e per i successivi
sette anni spese sul progetto molto del suo tempo e delle
sue energie. Fu in questo periodo che produsse l’opera ormai divenuta un classico: L’idea di università. Oltre a questo, però, l’avventura portò solo fatica e ansie. Dopo poco
tempo vi fu uno scontro di punti di vista. Newman aveva
in mente un’università che riflettesse l’ampiezza di approccio che aveva trovato a Oxford, mentre i vescovi volevano
qualcosa di più limitato, che fosse poco più di un collegio
cattolico. Vi furono inoltre tensioni tra gli stessi vescovi che
lo guardavano anche con sospetto; e l’arcivescovo Paul
Cullen di Dublino, colui che per primo aveva invitato Newman, lo irritò, ignorando le sue richieste urgenti e prendendo poi le decisioni senza informarlo. Richiesto all’Oratorio
di Birmingham ed estenuato dagli ostacoli che gli erano
stati frapposti lungo il percorso, nel 1858 si dimise.
Era già sorta un’altra difficoltà. Nel 1857 fu incaricato
dai vescovi inglesi di supervisionare una nuova traduzione della Bibbia. Si sentì onorato. Fece delle ricerche e preparò un progetto, includendo un elenco di collaboratori.
Gli fu anche detto che i vescovi americani erano già impegnati in un progetto simile. I contatti con gli americani fu-
52
JOHN HENRY NEWMAN
rono lasciati interamente a lui; aspettò poi di avere altre
istruzioni, ma dopo il dicembre del 1858 non sentì più nulla. Il progetto svanì. I suoi sforzi erano stati inutili.
Mesi dopo si trovò invece invischiato nella penosa faccenda di «The Rambler», una stimata rivista cattolica che
all’epoca era critica nei confronti dell’azione episcopale. Vi
erano vescovi che volevano censurarla e per evitare ciò nel
febbraio del 1859 il vescovo di Newman, William Ullathorne, gli chiese di convincere il direttore Richard Simpson a
dimettersi. Poco tempo dopo Ullathorne lo interpellò nuovamente, proponendogli di assumere la direzione della rivista. Per quanto all’inizio fosse titubante, alla fine accettò
perché condivideva lo scopo fondamentale di «The Rambler», vale a dire quello di essere una rivista per laici istruiti. I tempi, però, non erano maturi per l’idea che egli continuava a sostenere, ossia che i laici potessero in qualche
modo contribuire alla salute della Chiesa. A maggio, tornato a far visita a Newman, Ullathorne gli suggerì di dimettersi, anche se aveva iniziato da poco. Newman era tuttavia obbligato a produrre un ultimo numero, così decise di
sfruttare l’opportunità per parlare del ruolo dei laici. Scrisse l’articolo, diventato famoso, On Consulting the Faithful in
Matters of Doctrine. Ma a Roma fu attaccato da chi si opponeva al suo punto di vista. Quando venne a sapere degli
attacchi inviò una lettera, offrendosi di dimostrare che ciò
che aveva scritto era coerente con gli insegnamenti della
Chiesa, e a Roma fu stilata una serie di obiezioni alle quali
avrebbe dovuto rispondere. Per qualche ragione, quest’elenco, affidato al cardinale Wiseman, non arrivò mai a
Newman. Allora Newman pensò che la questione fosse
stata lasciata cadere, mentre Roma suppose che egli non
volesse rispondere. Il fraintendimento suscitò dei sospetti,
IL PERCORSO DI NEWMAN
53
per cui, nei successivi otto anni la sua figura rimase in disgrazia a Roma. La questione giunse finalmente a un chiarimento e a una risoluzione solo nel 1867, quando alcuni
amici si recarono in visita in Vaticano.
Continue avversità, una dopo l’altra, l’ignominia pubblica, l’ostruzione episcopale, le frustrazioni e i fraintendimenti lo ridussero al silenzio. Nel 1863 aveva il morale a
terra. Per tutta la vita aveva cercato di seguire la verità
ovunque essa lo conducesse, a qualunque costo, e aveva
sofferto per essa. In seguito tornò a essere attaccato. Poco
prima dell’inizio del nuovo anno gli fu inviata una copia
del numero di gennaio 1864 del «Macmillan’s Magazine».
Nella recensione di un libro Charles Kingsley, sacerdote
anglicano, professore di Storia moderna a Cambridge e romanziere, osservava di passaggio:
La verità per se stessa non è mai stata una virtù per il clero romano. Padre Newman ci informa che non è necessario che lo
sia e che in generale non deve esserlo; che l’astuzia è l’arma
che il Cielo ha dato ai santi per resistere alla maschia forza
bruta del mondo malvagio che si sposa e che è dato in matrimonio. Che la sua opinione sia corretta o no dal punto di vista
dottrinale, essa lo è perlomeno su quello storico. (Apo., p. 117)
Newman entrò in agitazione. Vi fu uno scambio di lettere con l’editore del «Macmillan’s» e con Kingsley, ma ne rimase insoddisfatto. Comprese che la risposta a tale accusa
non sarebbe mai giunta dalla sola controversia, da uno
scambio di argomentazioni. In fondo era la sua sincerità, il
suo modo di argomentare una discussione, a essere attaccati. Per cui decise di scrivere la storia delle sue opinioni
religiose, che poi divenne Apologia pro vita sua. L’intento
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JOHN HENRY NEWMAN
non era quello di fare in modo che la gente fosse d’accordo
con lui, né che si lasciasse convincere dalle sue idee, ma almeno si sarebbe visto che si era comportato con integrità e
che rimaneva coerente alle sue opinioni con onestà. Inoltre,
presentando la sua versione dei fatti, ebbe la possibilità di
rendere omaggio ai vecchi amici, di riconoscere che cosa
doveva loro, e di esprimere il costante affetto che nutriva
nei loro confronti. Ciò che scrisse gli procurò molto dolore,
perché dovette rivivere gli eventi travagliati e le separazioni del passato, ma l’opera venne accolta bene quasi senza
eccezioni. Dopo quasi vent’anni ristabilì molte amicizie, gli
fu riconosciuto talento e riguadagnò autorevolezza.
Rimanevano tuttavia dei sacrifici da affrontare. La difficoltà più ovvia ruotava intorno al suo progetto di fondare
una missione oratoriana a Oxford. Molti cattolici inglesi
appoggiarono l’idea. Volevano che i loro figli andassero all’università, nonostante la disapprovazione delle autorità
della Chiesa, e ritenevano che Newman fosse la persona
ideale per dar loro assistenza pastorale. Anche il vescovo
Ullathorne sostenne l’iniziativa. Newman obbedì al suo
vescovo e cominciò a pianificare, a cercare un luogo adatto
e a raccogliere fondi. I cattolici che erano contrari, però,
perché per loro Oxford era anticattolica, si opposero strenuamente alla presenza di Newman. Temevano che, una
volta lì, avrebbe attirato ancora più giovani verso quell’università. Gli oppositori erano personalità influenti, soprattutto a Roma; tra loro vi era Henry Manning, nuovo
arcivescovo di Westminster, un tempo suo amico. Alla fondazione dell’oratorio, all’insaputa di Newman, si pose così
una condizione: che Newman non potesse viverci. Quando
la notizia trapelò e divenne chiaro che cosa stesse succedendo, Newman rammaricato scrisse a Ullathorne e si ri-
55
IL PERCORSO DI NEWMAN
tirò dalla missione. Il progetto era tramontato. Accettando
la sua decisione, Ullathorne rispose con tristezza di esser
stato «vergognosamente travisato a Roma, per giunta da
nostri connazionali» (L.D. XXIII, p. 312, n. 2). Era vittima di
un inganno.
Seguirono altre controversie, soprattutto con Pusey e a
causa delle discussioni che sorsero sulla definizione di infallibilità papale. Tornò a scontrarsi con Manning, il quale
aveva adottato una linea estremamente vicina al Vaticano.
Tra le difficoltà, vi fu tuttavia anche un trionfo. Nel 1870
Newman riuscì alla fine a pubblicare la sua opera Grammatica dell’assenso.
V
Chi di Newman conosce solo una cosa, vale a dire che
egli operò una distinzione tra assenso reale e assenso nozionale, trova spiegata tale distinzione in quest’opera: in
generale, l’assenso nozionale è intellettuale e astratto e
non influenza la nostra condotta, mentre l’assenso reale si
occupa di ciò che è concreto e che ci spinge all’azione (si
veda G.A., pp. 54-55 [63-64]). Oltre a ciò, si tratta di un libro unico tra quelli di Newman, essendo il solo non d’occasione, nel senso che non nacque per un’occasione o esigenza particolare; scaturì piuttosto dal suo persistente desiderio di rispondere a una specifica preoccupazione pastorale, per dimostrare che la fede religiosa è razionale, e
che è ragionevole credere. In un saggio preliminare scritto
nel 1860 aveva già espresso in modo netto l’obiezione che
voleva confutare:
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JOHN HENRY NEWMAN
La grande maggioranza dei cattolici non sa nulla della questione; come fa allora a essere razionale la loro fede? Il contadino crede «a quanto gli vien detto» e se il suo prete gli dicesse che lo Spirito Santo è personificato, avrebbe fede in quell’eresia. Ai cattolici è proibito riconsiderare la verità della loro
fede. 5
Questo era il problema che voleva affrontare, ma la
Grammatica, in tutta la sua eleganza, non è immediatamente facile da comprendere. Fortunatamente per noi, tuttavia,
sette anni dopo, nel 1877, Newman ne parlò con l’amico e
collega oratoriano, Edward Caswall, il quale sul risguardo
della sua copia appuntò una nota su quanto gli era stato
spiegato. «Duplice oggetto del libro» scrisse Caswall. «Nella prima parte si dimostra che si può credere a ciò che non
si riesce a comprendere. Nella seconda parte che si può
credere a ciò che non si può assolutamente provare» 6. Anche questo appunto però necessita di una spiegazione.
Quando Newman affermò che si può credere a ciò che
non si può comprendere, non voleva sminuire la comprensione come qualcosa di superfluo; intendeva piuttosto dire
che l’atto di credere non dipende dalla comprensione. Vi è
una distinzione. Quanto potremmo arrivare a comprendere attraverso i freddi processi del ragionamento astratto
può anzi convincerci, ma senza portarci a credere. Il credere è uno stato d’animo diverso. È personale. Quando crediamo, affermava, «noi subiamo l’influenza delle persone,
delle voci, delle fisionomie, delle azioni umane». Per le
astrazioni non facciamo sacrifici: «Nessuno subirà il martirio per una conclusione»; ma molte persone danno la vita
per ciò in cui credono: sono «dispost[i] a morire per un
dogma» (G.A., p. 57 [66]).
IL PERCORSO DI NEWMAN
57
E come credere non dipende dalla comprensione, non
dipende neanche da una prova assoluta. Questa era la seconda posizione che Newman desiderava affermare. Voleva dimostrare che il tipo di prova che soggiace a una credenza non è assoluta secondo una dimostrazione severa e
formale, ma spesso si compone di un’accumulazione o
convergenza di probabilità. La sua immagine più chiara
non fu utilizzata nella Grammatica, ma apparve in una lettera inviata il 6 luglio del 1864 a uno dei suoi regolari corrispondenti, il canonico John Walker. Paragonò la certezza
fornita dalla prova assoluta a un’asta di ferro, e la certezza
che sostiene una credenza a «un cavo formato da un certo
numero di fili separati, ciascuno dei quali debole» che però
una volta intrecciati insieme, sono indistruttibili (L.D. XXI,
p. 146). Immagino che molti capiscano che cosa intendesse
e concordino. Un esempio che ovviamente posso offrire io,
in qualità di rettore di un seminario, è quanto si verifica
ogni volta che devo consigliare a qualcuno se prendere i
voti. Ho una prova assoluta che tale persona sia adatta?
Ovviamente no; potrei sbagliarmi. Ma quando, dopo un
periodo significativo di tempo, mi rendo conto che sta
emergendo un insieme di fedeltà alla preghiera, competenza intellettuale e impegno pastorale, tutto ben integrato in
una personalità matura, mi sento in grado e sicuro di poter
caldeggiare l’ordinazione. Nessuno di questi elementi –
quello spirituale, quello intellettuale, quello pastorale e
quello umano – preso da solo può assicurare l’attitudine
all’ordinazione, ma insieme si combinano in modo da creare una certezza. E scopriamo tale certezza utilizzando ciò
che Newman nella Grammatica definì il nostro senso illativo, che descrive come «una parola importante per una cosa comune» (L.D. XXIV, p. 375).
58
JOHN HENRY NEWMAN
L’illazione è il ragionamento. Il senso illativo quindi, si
riferisce alla capacità umana di ragionare, il nostro dono di
valutare le prove e, nelle parole di Newman, di farlo in
modo accurato. Naturalmente prove inadeguate ci fuorvieranno ma, data una prova, come Newman aveva dichiarato anni prima, in generale ragioniamo bene (si veda U.S.,
p. 395). Era per lui fondamentale questa confidenza nella
condizione umana. Quando utilizziamo il nostro senso illativo, soppesiamo le prove, individuiamo gli schemi nelle
probabilità convergenti, e arriviamo alla certezza. Per di
più, secondo lui il processo era sempre fortemente personale. Come abbiamo precisato prima, verso la fine di
Grammatica affermava: «Non intendo lasciarmi convertire
da un sillogismo elegante, se mi si chiede di servirmene
per convertire qualcun altro, rispondo che non tengo a
conquistare il suo raziocinio senza toccare il suo cuore»
(G.A., p. 263 [273]) 7.
Grammatica dell’assenso fu probabilmente il suo massimo
successo letterario. Nel 1879 arrivò poi una grande sorpresa.
VI
Papa Leone XIII, che l’anno prima era succeduto a Pio
IX, decise di creare nuovi cardinali e tra essi, sperava, che
ci fosse Newman. Era un gesto benevolo, ma anche quell’occasione fu drammatica. I cardinali che non erano vescovi di diocesi solitamente risiedevano a Roma. Quando
Newman fu interpellato e quando gli fu annunciato il desiderio del Papa, fu profondamente grato dell’onore che gli
avrebbe concesso e voleva accettare, ma sentiva che per lui
lasciare Birmingham alla sua età – aveva 78 anni – era im-
IL PERCORSO DI NEWMAN
59
possibile. Ciononostante, non voleva neanche dare l’impressione di voler contrattare, di voler mettere delle condizioni all’accettazione dell’offerta del Papa. Espose il suo
dilemma a Ullathorne, la persona che gli aveva annunciato
la notizia. Questi gli consigliò di scrivere una lettera al Papa, cosa che Newman fece, in cui gli esprimeva la sua gratitudine e anche il suo desiderio di rimanere nel suo «tanto
amato Oratorio» (L.D. XXIX, p. 19). Ullathorne aggiunse
poi a quella di Newman una sua lettera, in cui indicava in
modo chiaro che Newman desiderava accettare, ma era riluttante a lasciare Birmingham, cosa che, precisò, era sicuro non fosse mai stata «l’intenzione del Santo Padre» (L.D.
XXIX, p. 20). Inviò le due lettere al cardinale Manning che
doveva partire per Roma, perché le consegnasse. Manning,
però, inoltrò soltanto la lettera di Newman, senza la spiegazione di Ullathorne, cosicché l’espresso desiderio di rimanere a Birmingham sembrò un rifiuto dell’onore conferitogli. Fece inoltre girare la notizia che Newman avesse rifiutato. Quando la cosa fu nota, ci fu una protesta. Moltissimi protestarono. E a chi chiedeva spiegazioni sul motivo
del rifiuto, Newman rispose in modo chiaro che non avrebbe potuto rifiutare un’offerta che non aveva ancora ricevuto; non era stato ancora fatto alcun invito ufficiale. Manning, compreso l’errore che aveva commesso, si recò subito
dal Papa a chiarire la questione. A quel punto fu inviata a
Birmingham la notizia ufficiale dell’elevazione di Newman, il quale fu investito del cappello cardinalizio il 15
maggio del 1879, a Roma. Come disse, la nuvola che lo
aveva perseguitato era svanita per sempre. Visse altri undici anni e morì nel 1890, a 89 anni.
60
JOHN HENRY NEWMAN
VII
Naturalmente la lunga vita di Newman fu molto più
impegnata e complessa di quanto questo racconto riesca a
esprimere. La sua personalità, le sue idee e le loro interpretazioni hanno alimentato un intero complesso di studi e ricerche. Il suo genio è originale, lungimirante e innovativo.
Vi è chi nutre nei confronti di Newman un’ammirazione
incondizionata e pensa che egli non possa aver commesso
errori. Io ammiro Newman e sono consapevole del debito
che ho nei suoi confronti e, tuttavia, non credo che questo
sia l’atteggiamento che si debba adottare nel presente contesto. Ci possono sempre essere prospettive alternative.
Newman non convince tutti. Alcuni lo trovano personalmente troppo sensibile, o troppo implacabile nel dibattito,
o troppo determinato ad aver sempre ragione. E così sia.
Questo resoconto ha cercato soltanto di descrivere il
percorso che egli ha seguito nel corso della sua vita, mostrando come egli abbia cercato di farlo con coerenza e
onestà. Prima è stato condotto dall’evangelicalismo, attraverso il razionalismo, all’anglicanesimo, per poi passare al
cattolicesimo; dopodiché, una volta diventato cattolico, rimanendo sullo stesso percorso, ha sopportato processi e
umiliazioni, fino a quando inaspettatamente il Papa l’ha
onorato creandolo cardinale. Quando morì, come dichiarò
l’epitaffio che egli stesso aveva composto, abbandonò le
ombre e le immagini per abbracciare la verità: ex umbri et
imaginibus in veritatem. Tale era stata la destinazione che
aveva sempre desiderato.
IL PERCORSO DI NEWMAN
61
Si veda la Festa per la beatificazione di Dominic Barberi, National Calendar of England and Wales, The Divine Office III, p. 435.
2
Si veda H.J. Jackson (a cura di), Samuel Taylor Coleridge, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 594-595.
3
Si veda David Newsome, Two Classes of Men: Platonism and English Romantic Thought, J. Murray, London 1974, p. 72.
4
Per una traduzione in italiano di Guidami, luce gentile, si veda John
Henry Newman, Diario intimo e poesie, La Locusta, Vicenza 1990, p. 73.
[N.d.T.]
5
Hugo M. de Achaval, J. Derek Holmes (a cura di), The Theological Papers
of John Henry Newman on Faith and Certainty, Clarendon Press, Oxford
1976, p. 81.
6
Si veda C.S. Dessain, John Henry Newman, Nelson, London 1966 e
Oxford University Press, Oxford 1980, p. 148. Si veda anche G.A., pp.
312-313 [318-319].
7
Si veda sopra, p. 29.
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Cap. 2 Il percorso di Newman