Sae l ute Territorio Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Francesco Carnevale Bruno Cravedi Laura D’Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Marco Geddes Loredano Giorni Carlo Hanau Gavino Maciocco Mariella Orsi Marco Monari Paolo Sarti Luigi Tonelli Alberto Zanobini Collaboratori Marco Biocca, Centro Doucmentazione Regione Emilia-Romagna Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia Regionale di Sanità della Toscana Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino Nerina Dirindin, Dipartimento di Scienze Economiche Finanziarie - Università di Torino Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma Comitato Scientifico Giovanni Berlinguer, Professore Emerito Facoltà di Scienze - Roma Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospitaliera - Reggio Emilia Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano Donato Greco, Direttore Laboratorio Epidemiologia e Biostatistica - Istituto Superiore di Sanità Elio Guzzanti, Docente di Organizzazione Sanitaria Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” - Roma Segreteria di redazione Patrizia Sorghi Salvini Simonetta Piazzesi Segreteria informatica Marco Ramacciotti Direzione, Redazione Via Delle Belle Donne, 13 - 50133 Firenze Tel. - Fax 055/211875 [email protected] http://www.salute.toscana.it Edizioni ETS s.r.l. Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158 [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] Questo numero è stato chiuso in redazione il 15 maggio 2005 149 Rivista bimestrale di politica-socio-sanitaria fondata da L. Gambassini Giunta Regionale Toscana Anno XXVI - Marzo-Aprile 2005 Sommario 70 75 P. Morosini G. Negrini, S. Cavallin C. Hanau Spazio Toscana 81 F. Simonelli, A. Zanobini Monografia 88 90 94 97 102 107 110 111 114 L. Tonelli F. Paccaud, P. Bovet R. Schoenhuber L. Roti, E. Gori, S. Gostinicchi G. Maciocco L. Tonelli, C.F. Saccani G. Bagaggiolo 122 124 125 127 129 B. Pavolini M. De Berardinis C. Tomassini, M. Mechi M. Nerattini, F. Bellini, M.G. Monti, F. Muscas M. Matera G. Berni, A. Brancato C. Francois R. Lorenzoni, E. Favilla G. Sozio, A. Khader, A. Bianchi, S. Nepi, M. Ludovici, F. Benvenuti W. Boddi E.C. Campos R. Schoenhuber G. Dobrilla S. Martini 131 Recensioni 116 117 120 Abbonamenti 2005 Italia € 41,32 Estero € 46,48 La non eticità della non ricerca Il paziente consapevole Dal binomio Ospedale-malattia a quello di Ospedale-salute La programmazione sanitaria del futuro ventennio Presentazione Una transizione epocale Scenario “planning” Innovazione e qualità dell’assistenza La formazione del “paziente esperto” Assistenza infermieristica “long-term” Le malattie croniche degli anziani Osteoartropatie Psicogeriatria Demenza senile Ipertensione arteriosa Scompenso cardiaco Malattie vascolari Broncopneumopatia ostruttiva cronica Oftalmologia Neurologia Problemi gastroenterologici comuni Terapia fisica Fotocomposizione e stampa Edizione ETS - Pisa I versamenti devono essere effettuati sul c/c postale 14721567 intestato a Edizoni ETS s.r.l. specificando nella causale “abbonamento a Salute e Territorio”. l ute Sa e 70 Territorio Pierluigi Morosini Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, Istituto superiore di sanità, Roma e-mail: [email protected] M i sembra utile precisare che per etico non intendo auspicabile o corretto, ma proprio giusto, o meglio, per essere ancora più chiari, tale che fare il contrario dovrebbe suscitare in anime sensibili un senso di colpa, religioso o laico (ci sono sensi di colpa laici, legati non al rammarico di avere offeso Dio e al timore della sua punizione, ma al rincrescimento per essere venuti meno ad un impegno, ad una promessa, a una regola che ci si è dati o si è accettata e che si vorrebbe seguita anche dagli altri). Quasi tutte le riflessioni etiche sulla ricerca scientifica riguardano la necessità di proteggere gli oggetti della ricerca (in campo sanitario, i pazienti), l’umanità, l’ambiente dai rischi e dai danni che la ricerca può comportare. Ci sono certo anche molti inviti al potenziamento della ricerca, quasi mai però relativi a specifici progetti, ma per lo più mirati a grossi ambiti (la ricerca tecnologica) o a temi che stanno a cuore a particolari associazioni o gruppi di pressione; basta pensare alla raccolte di fondi per la ricerca sulle malattie neuromuscolari o sulla sclerosi multipla o sul cancro. In questi casi la questione viene posta in termini di convenienza economica (fi- Bioetica N. 149 - 2005 La non eticità della non ricerca nanziare la ricerca serve) o umanitari (è desiderabile promuovere la ricerca perché si possono alleviare le sofferenze), ma non in termini etici (è giusto promuovere la ricerca ed è quindi moralmente sbagliato non farlo). La mia tesi è che invece in molti casi non fare ricerca sia almeno altrettanto non etico che farla col rischio di danneggiare le persone indagate o l’ambiente. Sono un ricercatore, e quindi in questa tesi si può cogliere un conflitto di interessi. Sono convinto che anche se non fossi un ricercatore la penserei allo stesso modo, ma naturalmente posso sbagliarmi. Spero comunque che queste mie riflessioni servano a confermare i professionisti sanitari e sociali che cercano di valutare in modo rigoroso l’efficacia delle loro pratiche e a fare riflettere altri che non hanno ancora fatto questo scelta. La metodologia della ricerca sull’efficacia di specifici interventi Le 10 C Per una migliore comprensione dei non addetti ai lavori, è utile premettere qualche considerazione sulla metodologia di ricerca in campo socio-sanitario, in particolare Riflessioni e proposte sulle metodologie ed i necessari controlli nel campo degli interventi socio sanitari. Il ruolo del Comitato etico su quella diretta a valutare l’efficacia di specifici interventi o di specifici pacchetti di interventi. Questo tipo di ricerca scientifica ha elaborato alcuni principi che aiutano a difendersi dall’errore, a difendersi cioè dal fatto di arrivare a conclusioni sbagliate, dal concludere che un trattamento non serve quando è utile, o, molto più spesso, dal concludere che un trattamento serve quando di fatto non è utile o è addirittura dannoso. Questi principi possono essere sintetizzati con le cosiddette 10 C che sono riportate nella Tab. 1 (Morosini, 2004; in quel lavoro vi è anche una breve storia della lenta e faticosa conquista di questi principi). Si ricorda qui solo brevemente che: 1. Per poter valutare l’efficacia di un intervento occorre paragonare gli esiti ottenuti in persone trattate con quell’intervento con gli esiti osservati in persone trattate col miglior trattamento alternativo, per verificare se e quanto la proporzione di migliorati (o di sani, per gli interventi preventivi) è più elevata nei primi. 2. I gruppi dovrebbero avere la stessa distribuzione dei fattori prognostici, cioè di tutti i fattori che possono influenzare gli esiti (ad esempio età, sesso, gravità e durata della condizione studiata). Si è constatato che il metodo migliore per ottenere questo obiettivo è ricorrere alla assegnazione randomizzata o casuale dei soggetti ai gruppi a confronto; la recente esperienza dei risultati diversi osservati in studi osservazionali e in studi controllati randomizzati per quanto riguarda gli effetti della terapia ormonale sostitutiva in menopausa sugli eventi cardiovascolari (Lawlor, Bioetica N. 149 - 2005 3. 4. 5. 6. 7. 2004) ha rafforzato questa tesi. Le rilevazioni dei fattori prognostici e soprattutto degli esiti dovrebbero essere fatte in modo rigoroso e comunque nello stesso modo nei gruppi a confronto (riproducibilità e accuratezza delle osservazioni). Tra gli esiti dovrebbero essere prese in considerazione non solo variabili biologiche, ad esempio la riduzione della massa del tumore o della pressione arteriosa o l’aumento della velocità di conduzione dei nervi o l’attenuazione delle aritmie cardiache, ma anche gli esiti che veramente interessano al paziente, cioè, oltre che la sopravvivenza, anche il funzionamento fisico e mentale e insomma la cosiddetta qualità di vita. I “persi di vista”, cioè i soggetti inseriti nello studio di cui si ignorano gli esiti dovrebbero essere pochi. I trattamenti in esame dovrebbero essere ben descritti e replicabili; si dovrebbero evitare il cosiddetto cointervento, cioè il fatto che i soggetti dei gruppi a confronto ricevano altri interventi, diversi nei gruppi, e la cosiddetta contaminazione, ossia il fatto che l’intervento di interesse venga praticato in parte anche al gruppo di controllo. Ala fine di uno studio ci si dovrebbe chiedere se le eventuali differenze osservate non possano essere dovute al caso. 8. I soggetti seguiti negli studi di efficacia dovrebbero essere il più possibile simili a quelli in carico ai servizi. 9. Gli effetti collaterali rari dovrebbero essere indagati su campioni vasti anche dopo la conclusione degli studi di efficacia. 10. Dovrebbero esser indagati anche i costi, l’accettabilità da parte dei pazienti e le difficoltà organizzative legati all’introduzione dell’intervento nella pratica. Lo studio randomizzato controllato e i servizi sociosanitari Si è visto che il metodo dello studio controllato randomizzato, anche se non privo di difetti, è quello migliore per valutare l’efficacia di un intervento, almeno allo stato attuale delle conoscenze. Resta da chiedersi se lo si possa applicare anche nei servizi sociali. La mia risposta è che lo si può certamente fare. In effetti gli studi controllati randomizzati sono stati abbastanza numerosi nei servizi sociali, soprattutto negli Stati Uniti, negli anni 60. Sono poi declinati, ma vi è stata recentemente una ripresa soprattut- 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. to nel campo degli interventi di psicologia sociale. Recentemente è sorta la Campbell Collaboration, (sito internet: http://campbell.gse.upenn. edu/) che ha lo scopo di promuovere l’effettuazione di studi controllati randomizzati in campo sociale e di rassegne sistematiche degli studi fatti, come la più famosa Cochrane Collaboration in campo sanitario (siti di centri italiani: www.areas.it e www. gimbe.it). Motivi della carente effettuazione di studi controllati di efficacia Gli studi controllati in campo socio-sanitario, cioè quelli relativi ad interventi di psicoterapia, di riabilitazione psichiatrica, di educazione alla salute e di promozione della stessa, sono però relativamente pochi. Sono invece numerosi gli studi controllati sui farmaci, per due motivi principali: perché sono necessari per ottenere la registrazione e messa in commercio dei farmaci stessi e perché vi è una attiva e ricca sorgente di finanziamento privata, che è appunto l’industria farmaceutica. Anzi, è stato lamentato che in campo farmaceutico si fanno troppi studi controllati, spesso di piccole Confronto con altri trattamenti Confrontabilità dei gruppi a confronto Confrontabilità delle rilevazioni Completezza degli esiti Completezza del follow-up Coerenza dei trattamenti Casualità Congruenza dei pazienti studiati con quelli della pratica Continuità della sorveglianza Costi Sae l ute Territorio 71 dimensioni e di scarsa qualità, perché l’industria li utilizza anche come mezzo di coinvolgimento dei medici e quindi di marketing e perché così può selezionare quelli con i risultati più favorevoli, come un fotografo professionista che scatta numerose foto per pubblicare poi solo quelle che gli piacciono di più. Gli studi controllati sugli interventi psicosociali sono poco praticati perché, all’opposto di quando succede per i farmaci: • non c’è bisogno di nessuna dimostrazione di efficacia per poterli diffondere ed insegnare; si noti che la stessa cosa vale per le tecniche chirurgiche, per gli interventi di fisioterapia e per l’utilizzo di nuovi metodi diagnostici; • non ci sono finanziatori direttamente interessati a promuoverli; gli unici fondi possono venire dagli enti pubblici, che spesso non sembrano consapevoli di questa situazione, e da “benefattori” privati, che sono frastornati da richieste di tutti i tipi. Una difficoltà aggiuntiva è quella che, purtroppo, alcuni degli stessi professionisti del campo (sociologi, psichiatri, psicologi) non credono anco- Tab. 1 - Le 10 C per valutare l’efficacia degli interventi. l ute Sa e 72 Territorio ra che sia possibile valutare con studi controllati randomizzati interventi di questo tipo. Altre due difficoltà metodologiche sono simili a quelle che si incontrano in medicina per interventi apparentemente molto diversi, quelli chirurgici: • la grande importanza delle capacità e dello stile di lavoro dei singoli operatori e quindi la difficoltà a separare ciò che è dovuto allo specifico intervento studiato e ciò che è dovuto alla bravura dell’operatore; • la rapida evoluzione delle tecniche, per cui quando si conclude uno studio che ha dato un risultato negativo, il professionista che ha proposto l’intervento può ribattere che il risultato non è rilevante perché lui ormai fa una cosa diversa. In effetti l’applicazione della metodologia a questo campo è più difficile, ma non impossibile, come attestato dalle centinaia di studi di questo tipo pubblicati ormai da più di due decenni e che vengono presi in esame dalla Cochrane Collaboration e dalla Campbell Collaboration. Una rapida ricerca sulla banca data Medline ha messo in luce che nel primo semestre del 2004 sono stati pubblicati una cinquantina di studi controllati relativi a interventi psicoterapeutici e psicoeducativi e una decina di rassegne su questo tema. Si deve tenere conto che molte riviste di psicologia e la maggior parte di quelle di sociologia non sono censite da Medline. Per le conclusioni che si pos- Bioetica sono trarre dagli studi di efficacia nel campo delle psicoterapie, si possono consultare in italiano Roth e Fonagy (1998) e Morosini e Michielin (2001) oltre che Clinical Evidence (Autori vari, 2004). Michielin ha appena concluso una rassegna di tutti gli studi controllati pubblicati sull’efficacia dei diversi approcci all’inserimento lavorativo. Ne ha trovati 40, ma nessuno è stato fatto in Italia e nessuno riguarda le cooperative sociali di tipo B. I risultati di questi studi portano a concludere che i cosiddetti interventi di formazione seguiti da inserimento sono meno efficaci della formazione e del sostegno successivi all’inserimento in un lavoro reale. Alle stesse conclusioni portano Crowe et al (2000). Inconvenienti della mancata attuazione di studi controllati randomizzati Gli inconvenienti legati alla scarsa diffusione degli studi controllati in campo socio-sanitario e in genere degli studi controllati sugli interventi non farmacologici sono ovvi. Una conseguenza negativa è che chiunque può magnificare l’efficacia di un intervento già praticato solo sulla base di uno o più delle seguenti motivazioni: • intuizioni ed impressioni personali; • aneddoti (storie di singoli casi selezionati); • ragionamenti fisiologici magari fondati su premesse sbagliate (ad esempio, il trattamento con l’insulina della schizofrenia fu introdotto perché l’insulina a forti dose provoca convul- N. 149 - 2005 sioni come l’elettroshock); • approcci tradizionali mai validati. Ad esempio alcuni psichiatri e psicologi continuano a praticare la terapia psicodinamica della schizofrenia, senza sentire il bisogno di sottoporla alla rigorosa verifica di studi controllati, anche se alcuni studi non controllati di follow up di pazienti trattati in questo modo hanno fatto pensare che non solo sia inefficace, ma addirittura dannosa (Müser e Birenbaum, 1990). Una conseguenza negativa opposta è che non si diffondono rapidamente interventi utili. La psichiatria italiana ha perso una grossa occasione quando non si è impegnata nel dimostrare la validità del suo approccio territoriale; si sono dovuti aspettare studi condotti in altri paesi, con la conseguenza che il modello territoriale si è diffuso molto più lentamente all’estero ed anche di fatto in Italia, e che tuttora non si conosce quale siano le migliori modalità organizzative. Viviamo in una società globale in cui non si vendono solo beni di consumo e brevetti, ma anche idee, libri, formazione ed è quindi controproducente non valorizzare mediante studi controllati i propri contributi. Uno dei temi in cui i servizi italiani stanno ancora perdendo una altra grossa occasione è quello della riabilitazione e dell’inserimento sociale mediante le cosiddette cooperative di tipo B. Una cosa analoga è successa per la formazione dei pazienti nelle abilità sociali (social skill training). Non è stato pubblicato un solo studio controllato randomizzato italiano sulla efficacia di questo approccio. Va notato che, a differenza di quanto succede per un farmaco, in campo psicosociale ha senso ed è utile valutare anche nel proprio paese l’efficacia di un intervento anche se ne è già stata provata l’efficacia altrove, per la maggiore importanza dei fattori culturali e di contesto sociale nell’influenzare gli esiti. Quando è etico fare uno studio controllato non etico Si crede che non sia mai etico effettuare uno studio controllato quando alle persone di uno dei gruppi a confronto si attua un intervento sicuramente o molto probabilmente meno efficace dell’altro. Ma vi è una situazione in cui ciò può essere eticamente accettabile: quando non vi sono ancora risorse (di denaro, di personale, di competenze) per praticare questo intervento a tutti coloro che ne potrebbero trarre beneficio. In questo caso è meglio scegliere le persone del gruppo di controllo a caso, secondo i principi dello studio controllato randomizzato, anziché a casaccio, in base al momento della giornata o alle raccomandazioni. È questa la situazione che rese accettabile eticamente, nel primo studio controllato randomizzato, che ebbe luogo solo nel 1948 in Inghilterra, non dare ai pazienti del gruppo di controllo la streptomicina, di cui pure negli Stati Uniti erano già stati descritti in modo entusiastico i benefici. La quantità di streptomicina disponi- Bioetica N. 149 - 2005 bile, di fabbricazione americana, era esigua, e venne usata tutta per i pazienti assegnati in modo casuale al gruppo dei trattati. In questo modo si possono produrre rapidamente evidenze valide sul tipo e sull’entità dei benefici del nuovo intervento. Con quali vantaggi? Innanzitutto si potrebbe avere la sorpresa di trovare che il nuovo intervento non è poi così efficace o che ha molti più effetti indesiderati del previsto. Se invece lo studio depone per l’efficacia dell’intervento in questione, si hanno argomenti in più per convincere gli scettici tra i professionisti e gli amministratori e per accelerare quindi la sua diffusione. Ruolo dei Comitati etici e delle Associazioni di tutela dei pazienti I comitati etici sembrano avere come loro ruolo esclusivo quello di bloccare ricerche dannose per i pazienti. Non intervengono mai contro chi non fa ricerca pur continuando a praticare interventi di non provata efficacia o contro chi introduce interventi nuovi senza proporsi di collaborare alla verifica scientifica della loro efficacia. Forse i comitati etici dovrebbero proporsi anche di raccogliere segnalazioni su temi di ricerca in cui attivare ricerche opportune che non vengono però proposte o finanziate. Considerazioni analoghe valgono per la richiesta di consenso informato. I Comitati etici esigono generalmente che ai pazienti sia chiesto il consenso informato alla partecipazione ad uno studio controllato randomizzato. Non chiedono però ai medici di informare i pazienti se un trattamento proposto al di fuori di una ricerca non ha evidenze di efficacia. I pazienti e le Associazioni che li rappresentano e li tutelano quasi sempre non sanno che negli studi controllati randomizzati anche i pazienti del gruppo di controllo hanno esiti migliori di quello osservati nella routine. E in effetti uno dei problemi dei ricercatori è che talvolta non riescono a dimostrare la differenza tra il nuovo e il vecchio trattamento non perché il nuovo trattamento sia meno efficace di quello che si aspettavano, ma perché il vecchio trattamento lo è di più, nel senso che dà esiti migliori di quelli attesi. A cosa è dovuto questo fenomeno, a prima vista sorprendente ? Le spiegazioni più probabili sono due: • una è che i pazienti “reclutati” per gli studi controllati sono in media più giovani, con minor durata di malattie, con minori complicazioni; • l’altra è che, quando un paziente viene immesso in uno studio, quando per alcuni diventa una “cavia”, in realtà riceve comunque un trattamento migliore di quello consueto, perché il personale coinvolto nella ricerca è più attento, più puntuale, più interessato a fare sì che si trovi bene, aderisca al trattamento che gli è stato assegnato e non lasci lo studio. È sconsolante, ma è anche forse inevitabile che sia così. Consenso informato A chiusura di queste riflessioni, mi sembra utile sviluppare ancora il tema del consenso informato, la cui importanza secondo me è esagerata e non tiene conto degli argomenti portati sopra sulla non eticità della non ricerca. Le premesse da prendere in considerazione sono le seguenti: 1. Negli studi controllati randomizzati, i pazienti del gruppo di controllo, come già accennato, possono avere esiti migliori di quelli osservati con lo stesso trattamento al di fuori degli studi. 2. I singoli pazienti non sono in grado di capire veramente quali sono i vantaggi e gli svantaggi dei due o più trattamenti a confronto (cosa che peraltro riesce difficile spesso anche ai membri dei Comitati etici), anche perché si trovano appunto nella condizioni di pazienti, e quindi di incertezza, preoccupazione, suggestionabilità. 3. La richiesta di un consenso informato alla inclusione nella ricerca fa capire chiaramente al paziente che il medico non sa quale sia il trattamento più indicato e può quindi compromettere i miglioramenti legati alla fiducia e alla serenità psicologica dei pazienti. Si è visto ad esempio che i pazienti che sviluppano un atteggiamento meno ottimista nei confronti del trattamento a cui sono stati assegnati possono avere esiti peggiori (Lewis et al, 2001; Tobias e Souhami, 1993). 4. Ottenere o meno il consen- Sae l ute Territorio 73 so dipende più dall’abilità e dal prestigio del medico che lo chiede che dalle informazioni che dà. 5. In realtà, chi è che rifiuta il consenso? Non lo si sa con esattezza, ma mi sembra molto probabile che si tratti di persone profondamente diffidenti o incuranti del benessere altrui e quindi non disposte a correre il benché minimo rischio a favore di un aumento delle conoscenze di cui potrebbe beneficiare chi in futuro si ammalerà della stessa malattia. Se quindi lo studio controllato dovesse rappresentare davvero un rischio, il consenso informato farebbe sì che a non correrlo siano solo le persone con tendenze paranoidee e antisociali. 6. Come sostenuto precedentemente, si continua a parlare della non eticità degli studi controllati. Bisognerebbe cominciare anche a riflettere, come argomentato precedentemente, che potrebbe non essere etico non farli, soprattutto quando si introduce un nuovo trattamento e non si hanno comunque le risorse (di attrezzature, di personale, di competenze) per applicarlo a tutti e lo si fa a casaccio, vanificando la possibilità di capire meglio quanto e con chi funziona, o quando si continuano a fare senza valutazione interventi oramai diffusi ma sulla cui efficacia ci sono molti dubbi e poche evidenze scientifiche. l ute Sa e 74 Territorio Consenso informato, ricerche di valutazione e miglioramento di qualità Ci sembra interessante il contributo di Casarett et al (2000) che distinguono tra iniziative di miglioramento di qualità e progetti di ricerca, sostenendo che per le iniziative di miglioramento di qualità dovrebbero esserci procedure più facili per l’approvazione da parte dei Comitati etici, e in ogni caso non sarebbe necessario informare i pazienti che si tratta appunto di una iniziativa di miglioramento. Questa tesi è possibile perché nella maggior parte dei progetti di valutazione e miglioramento: a) ci si può aspettare che per lo più i pazienti coinvolti traggano benefici dalla loro partecipazione, durante il progetto stesso o in futuri episodi della stessa malattia; b) si può escludere che i pazienti coinvolti siano soggetti a rischi o anche a fastidi o ritardi aggiuntivi in conseguenza del loro coinvolgimento. Questa distinzione tra progetti di ricerca ed iniziative di miglioramento di qualità non mi sembra convincente, ma certo Casarett e collabo- Bioetica ratori hanno sollevato due problemi importanti: la inopportunità, in molte occasioni della richiesta di consenso informato, e l’opportunità di distinguere studi di valutazione e miglioramento a significato locale, dirette prevalentemente a migliorare l’assistenza fornita dalle organizzazioni partecipanti (non necessariamente ai pazienti coinvolti, ma anche solo a quelli che verranno trattati in futuro), e ricerche di valenza più generale, dirette prevalentemente ad ottenere risultati validi universalmente. Il consenso informato non dovrebbe essere ovviamente necessario neppure per ricerche condotte su dati di routine “osservazionali” (in opposizione a quelle “sperimentali” in cui si procede alla assegnazione dei trattamenti secondo un protocollo di ricerca, come negli studi controllati randomizzati), se viene assicurata la confidenzialità delle informazioni nominative. La tesi della inopportunità del consenso informato è sostenuta anche da Cassell e Young (2002) per tutte le ricerche sui servizi sanitari. N. 149 - 2005 Proposte sugli studi di efficacia Per tutte le considerazioni suddette sarebbe opportuno riflettere sulle seguenti proposte: a) la decisione sulla eticità o meno di uno studio controllato randomizzato potrebbe essere lasciata a un Comitato etico in cui siedano anche rappresentati di pazienti/utenti, preferibilmente di associazione di autoaiuto di pazienti/ utenti stessi e/o di loro familiari. Se il Comitato approva, ai pazienti dovrà solo essere chiesto il consenso al trattamento loro assegnato dalla randomizzazione; ai pazienti del gruppo trattato con il nuovo intervento può anche essere detto che si tratta appunto di un trattamento nuovo promettente, ma di cui ancora non si conosce bene l’efficacia (Zelen, 1979; Stott et al, 1997); un interessante compromesso è quello di chiedere al paziente il consenso a ricevere informazioni su un aspetto di ricerca del trattamento solo dopo un certo periodo dall’inizio del trattamento stesso (Boter et al, 2003); b) anche in questo campo bisognerebbe affiancare ai controlli a priori quelli a posteriori. Per questo occorrerebbe che ci fosse un meccanismo esterno di valutazione del vissuto dei pazienti inseriti nello studio controllato e dei risultati dello stesso. Nel caso in cui i pazienti risultino danneggiati o il nuovo trattamento si dimostri molto inferiore a quello di controllo, il responsabile della ricerca dovrebbe essere sospeso dalla possibilità di partecipare a ricerche, per un periodo più o meno lungo, anche se la ricerca era stata approvata dal Comitato etico; c) viceversa, ci dovrebbe essere anche un controllo di una eccessiva severità del Comitato etico, che dovrebbe andare incontro a qualche sanzione se risultasse che ricerche analoghe a quelle da lui respinte sono state eseguite altrove senza danno per i pazienti e con avanzamento delle conoscenze. Questo lavoro rappresenta la rielaborazione di una relazione tenuta al Convegno “Salute mentale: modelli di sviluppo dell’impresa sociale e sistemi di valutazione”, Milano, 26 ottobre 2001. (segue a pag. 80) Errore medico N. 149 - 2005 Gabriella Negrini* Sonia Cavallin** Carlo Hanau*** Sae l ute Territorio 75 Il paziente consapevole * Direttore medico Ospedale Maggiore - Bologna ** Responsabile URP Ospedale Maggiore - Bologna *** Docente di programmazione e organizzazione dei servizi sociali e sanitari, Università Modena-Reggio Emilia N egli anni recenti ha iniziato a diffondersi anche in Italia una maggiore attenzione ai rischi connessi ai trattamenti sanitari, sull’onda dei dati provenienti da altri Paesi1 (1,2), espressivi di una incidenza di eventi indesiderati preoccupante2. Nell’indisponibilità di raccolte sistemiche su grande scala, si sono attinti dati da fonti particolari (studi condotti su infezioni ospedaliere, cadute, lesioni da decubito, richieste risarcitorie per danni subiti) che, peraltro, confermano che il problema della sicurezza delle pratiche sanitarie esiste, è consistente e merita un impegno deciso da parte di tutti gli attori del sistema. Chi sono – o chi potrebbero 1 essere – tali attori? Se è scontata la parte assunta dagli operatori, occorre esaminare quale ruolo rivestano i pazienti, i loro familiari e le associazioni che ne tutelano gli interessi. Da una di queste associazioni3 è stata redatta la “Carta della sicurezza nell’esercizio della pratica medica” (3), pubblicata nel 2000, con seguito, un anno dopo, dell’iniziativa “Imparare dall’errore”, coinvolgente molti ospedali italiani, tra cui il nostro. In analogia ad altri settori operativi, anche in quello sanitario, per la maggior parte degli eventi indesiderati, il principale fattore causale è costituito dal “sistema”4. Seppure un evento possa di- Il ruolo degli utenti nella gestione dei servizi ambulatoriali ed ospedalieri pendere da errore di uno o più operatori, l’influenza esercitata dai fattori organizzativi non è quasi mai trascurabile. Non v’è dubbio che il maggior concentrato di criticità si rinvenga in ospedale dove, accanto alla pericolosità comune alle strutture alberghiere, si sommano i rischi delle peculiari prestazioni professionali, incidenti per di più su persone in condizioni di salute maggiormente compromesse. Le dimensioni e la complessità degli ospedali rendono non sempre agevole il pur doveroso esercizio di sistematici, estesi ed approfonditi controlli. Preziose quindi si rivelano le “piccole” attenzioni di tutti: contributi di vigilanza minuziosa, continua e diffusa. I pericoli non difettano, tuttavia, neppure al di fuori dell’ospedale, in primo luogo al domicilio dei pazienti, dove i trattamenti prescritti sono per lo più attuati in assenza di professionisti sanitari. Da questo convincimento deriva la valorizzazione che attribuiamo alle segnalazioni Negli USA, nel 1999 fu pubblicato il rapporto To err is human: building a safer health system, da parte dell’Institute of Medicine in cui venivano esposti i dati sui danni patiti annualmente dai pazienti in conseguenza di cure ricevute: oltre 1.000.000 di persone riportanti danni; 100.000 morti. Uno studio condotto da Brennan nello stesso Paese, nel 1991 su circa 30.000 ricoveri, portava a stimare nel 3,7% dei ricoveri ospedalieri il tasso di eventi sfavorevoli (di cui 69% ritenuti evitabili), con una proporzione dello 0,7% di disabilità permanenti o morti ed un tasso di mortalità del 13,6%. In Australia, uno studio del 1995, condotto su 14.000 ricoveri, aveva messo in luce un 16,6% di eventi indesiderati (di cui 50% giudicati evitabili), con 3% di eventi gravi ed un tasso di mortalità del 4,9%. Nel Regno Unito, uno studio del 2001, su circa 1000 ricoveri, forniva un tasso del 10,8% di eventi avversi (di cui 48% giudicati evitabili), con un 2,2% di gravi conseguenze ed un tasso di mortalità dell’8%. 2 Nell’espressione “eventi indesiderati” ricomprenderemo tutti gli accadimenti, produttivi o meno di danni agli assistiti, conseguenti ad errori, problemi organizzativi, accidentalità ecc… In letteratura non sempre si rinviene univocità di termini; le interpretazioni prevalenti sono: – hazard = situazione di pericolo da cui può conseguire un evento indesiderato; – incident = evento indesiderato non produttivo di danno; – accident = evento indesiderato produttivo di danno; – near miss = atto o fatto che non si è tradotto in evento per l’interposizione di un fattore di protezione. 3 Tribunale per i diritti del malato - Cittadinanza attiva. 4 In Canada, un rapporto del Ministero della sanità del marzo 2001 indica che nell’85% degli incidenti è imputabile casualmente al sistema (organizzazione, processi, risorse ecc…) e solo nel 15% a responsabilità strettamente individuale. l ute Sa e 76 Territorio degli utenti nel corso dei trattamenti o in epoca successiva agli stessi. Il ruolo dei pazienti La Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organisations (JCAHO) statunitense (4) ha da tempo enfatizzato il ruolo del paziente nell’ambito della sicurezza clinica. Note informative generali, distribuite agli utenti dei servizi sanitari, contengono suggerimenti per una assistenza più sicura: • porre domande se si hanno dubbi; • segnalare tutti i farmaci che si assumono; • portare con sé i risultati di precedenti accertamenti; • consultarsi con il proprio medico di fiducia riguardo alla struttura sanitaria più confacente per il trattamento di cui si ha bisogno; • essere certi di aver inteso quel che può accadere se si ha necessità di intervento chirurgico. Un opuscolo denominato SPEAK UP–Help Prevent Errors in Your Care-indirizzato agli utenti di servizi ambulatoriali, esordisce affermando che anche il paziente può riuscire decisivo nel rendere sicura l’assistenza assumendo un ruolo attivo – e quindi informato – all’interno dell’équipe assistenziale. I consigli forniti – da cui è tratto l’acronimo SPEAK UP – sono: • chiedere, senza alcun timore, se non si è sicuri di aver capito; Errore medico • prestare attenzione ai trattamenti che si ricevono (assicurarsi dell’identità degli operatori; informarsi se si sono lavati le mani; assicurare gli operatori riguardo alla propria identità..) • accrescere le conoscenze riguardo ai trattamenti sanitari (verificare titoli ed esperienza del professionista sanitario per la patologia di cui dovrebbe occuparsi; appuntarsi elementi riferiti dai medici per poterli poi approfondire; consultare il proprio medico ma altresì testi, gruppi di supporto, siti web qualificati; prendere dimestichezza con i dispositivi da utilizzare); • designare un familiare o amico quale proprio “patrocinatore”; • informarsi sui farmaci da assumere e sulla loro motivazione; • ricorrere a strutture sanitarie qualificate; • partecipare alle decisioni sui trattamenti (non esitare a chiedere un secondo parere; chiedere di parlare con altri pazienti che sono già stati sottoposti allo stesso trattamento proposto). Ulteriore opuscolo è stato predisposto per la prevenzione degli errori nei pazienti candidati ad intervento chirurgico. L’Agency for Healthcare Research and Quality (AHRQ) americana 5 ha a sua volta elencato in 20 punti le azioni da porre in campo per prevenire errori medici nel tratta- N. 149 - 2005 mento dei bambini(5). Gli esempi riportati indicano il rilievo accordato alla singola persona, considerata artefice diretta, o in concorso, della propria sicurezza. Per giungere a questo traguardo, è indispensabile che i pazienti abbiano consapevolezza delle proprie condizioni e dei prevedibili sviluppi. Un paziente, per essere realmente consapevole – nella misura in cui può esserlo chi non sia un “tecnico”, e sempre che lo stato di salute non lo impedisca – ha bisogno di disporre di adeguate conoscenze. Al di là del personale bagaglio di base – che si dovrebbe accrescere attraverso un’articolata educazione sanitaria – la conoscenza dipende soprattutto dall’informazione data dai professionisti sanitari. Alla lettera, l’informativa si concretizza nell’attività del ragguagliare, del procurare notizie intorno ad un determinato oggetto; ma l’informazione dovuta al paziente può limitarsi a questo e consistere in messaggi a senso unico? Crediamo fermamente che l’interazione con il sanitario debba incentrarsi su un flusso bidirezionale, tale da permettere al paziente di esternare dubbi, preoccupazioni ma anche di portare a conoscenza il professionista di elementi potenzialmente rilevanti per l’impostazione diagnostica o terapeutica. Informare un paziente sulle sue condizioni di salute e sui trattamenti stimati utili è impegnativo, soprattutto in un’epoca non più dominata dal paternalismo – ancorché non manchino di esso scampoli e nostalgie – né dal cieco affidamento del paziente al professionista. A prescindere da inclinazioni personali, si constata che non sempre i sanitari sono dotati di una confacente preparazione al rapporto con i pazienti. Nell’odierno contesto di una medicina ipertecnologica e frammentata in una molteplicità di discipline, è comune il rilievo di insufficienza di dialogo con il paziente. L’invocazione che da più parti si leva è di recuperare il rapporto con il malato, riguardandolo nella sua interezza e stabilendo con lui quella sintonia che alcuni bioeticisti chiamano “alleanza terapeutica”, altri negoziazione (6) – per trasformare la conflittualità nascosta nella relazione tra paziente e sanitario in un compromesso che soddisfi entrambi e permetta una aperta collaborazione-, altri ancora patient’s centered care (7). Di tale esigenza sono espressivi anche i risultati di studi condotti sulle ragioni sottese al crescente ricorso alle medicine non convenzionali. Una buona relazione può aiutare il paziente a capire e può diventare anche qualcosa di più: un vero e proprio strumento terapeutico, lenitivo di sofferenza, sedativo di ansia, ricostituente di fiducia e speranza. La limitazione temporale è sovente lamentata sia dai 5 L’AHRQ è un organismo dipendente dal Ministero della sanità, che finanzia una serie di progetti tendenti ad accrescere la qualità delle cure e la sicurezza dei pazienti nonché a ridurre i costi. Fornisce al pubblico informazioni per aiutare nella prevenzione degli eventi indesiderati. Un’emanazione di tale organismo è il CQuIPS: Center for Quality Improvement and Patient Safety. N. 149 - 2005 professionisti – vincolati dal management al conseguimento di obiettivi sfidanti – sia dai pazienti, insoddisfatti per la frettolosità e l’approssimazione derivante. L’asserita impossibilità di adempiere al debito informativo ha contribuito, insieme a motivi di autotutela dei professionisti da contestazioni per eventuali accadimenti indesiderati, ad associare – quando non a sostituire – al parlare gli scritti. Su questo solco si pone la pletorica serie di foglietti informativi – sempre più a vocazione enciclopedica – specifici per prestazione diagnostica o terapeutica (8). Per informative così congegnate, dubitiamo possa valere l’adagio melius abundare quam deficere. Un’informazione troppo dettagliata può sortire l’effetto paradossale di “non informare”, poiché la messe di dati è così copiosa – e, spesso, non differenziata quanto ad importanza – da non permettere al paziente di cogliere l’essenziale, disperso tra elementi di minore o pressoché insignificante rilievo. Si è inteso sottolineare l’importanza della relazione perché condizionante la consapevolezza del paziente; consapevolezza le cui ricadute sulla sicurezza clinica sono di tutta evidenza, consentendo al paziente di essere ben vigile su tutto quel che gli succede. Nei riguardi di un paziente provvisto di padronanza della situazione in cui versa – e quindi più esigente nel voler assumere o mantenere una decisionalità propria – non è tuttavia infrequente cogliere atteggiamenti contrastanti da parte dei professionisti: timore, insofferenza, contrarietà. Una nuova fonte di turbativa relazionale potrebbe derivare proprio dal fatto che l’operatore sanitario si trovi a doversi confrontare, a discutere su un seguito assistenziale non scontato ed a sentirsi controllato, con immaginabile sequenza di reazioni difensive ed innesco di un circolo vizioso. Un paziente consapevole può, per contro, divenire un prezioso aiuto del sanitario: chi più di lui può avere a cuore la propria condizione e volersi garantire le prestazioni più sicure? Il paziente ha una sensibilità accresciuta su tutto quello che concerne la propria condizione e dispone del tempo per osservare, riflettere, dedurre. La sua attenzione può permettergli di accorgersi di: • scostamenti dall’atteso; • anomali funzionamenti di apparecchiature o dispositivi; • sintomi, reazioni inconsueti; • modifiche di terapia eccetera… A testimonianza di ciò riferiremo di alcuni episodi, tratti dalla casistica del nostro ospedale. 1. Un paziente si accorgeva che la compressa di farmaco portagli dall’infermiere aveva colore diverso da quella che assumeva usualmente e chiedeva al professionista se fosse stata cambiata la terapia. Allertato dalla domanda, l’operatore accertava che la compressa somministranda faceva parte di blister di Errore medico Sae l ute Territorio 77 prodotto X – destinato ad altro paziente – erroneamente inserito nella confezione Y, recante denominazione del farmaco prescritto al paziente assistito. Non si riuscì a stabilire tempi e modalità dello scambio. 2. Un paziente, a cui l’operatore si accingeva a somministrare terapia infusionale, si stupiva del fatto, non avendo notizia di alcuna prescrizione e chiedeva chiarimenti. L’operatore, consultata la documentazione clinica, riconosceva essere intervenuto errore nell’identificazione del paziente destinatario del trattamento. 3. Ad un paziente, candidato ad intervento chirurgico all’occhio destro, nel corso della notte si avvicinava l’infermiere per somministrargli – nell’occhio sinistro – il collirio prescritto dal medico. Il paziente rappresentava immediatamente all’operatore che l’occhio operando era il destro e manifestava viva preoccupazione, temendo che, quando, per effetto dell’anestesia, non fosse stato più vigile, i sanitari avrebbero potuto sbagliare occhio. Dopo consulto della documentazione sanitaria e del medico specialista, si appurava che l’occhio su cui intervenire era il destro e, nonostante la prescrizione recasse l’indicazione controlaterale, si decideva di non darvi corso. Successivamente, il medico prescrittore precisava che non si era trattato di errore nell’individuazione del lato ma di volontà di dilatare l’altro occhio per un approfondimento diagnostico. 4. Una paziente allergica ad una pluralità di farmaci, nonostante avesse di ciò precedentemente e ripetutamente informato i sanitari, poco prima dell’esecuzione di un accertamento diagnostico reiterava l’avvertenza e si accorgeva che i sanitari del settore specialistico non erano al corrente del problema. Si accertava mancanza di comunicazione tra operatori: del problema allergico non era stata fatta menzione nella richiesta di prestazione diagnostica né era stato dato avviso verbale. Riguardata da altra angolazione, una mancata o inadeguata collaborazione del paziente può facilitare l’errore degli operatori. Anche a questo proposito, riporteremo alcuni esempi tratti dal nostro vissuto degli ultimi anni. 5. La figlia di una paziente, ricoverata per trauma, riferiva al medico che la madre assumeva a domicilio il farmaco Z, per il trattamento di grave patologia cronica, al dosaggio 500 mg., 2 volte a settimana (anziché al reale dosaggio di 5 x 2). Ritenuto affidabile quanto riportato dalla figlia, professionista sanitaria, il medico prescriva coerente prosieguo di terapia. La paziente decedeva a distanza di una decina di giorni per complicanze indotte dal farmaco Z. Veniva accertata proces- l ute Sa e 78 Territorio sualmente la responsabilità del prescrittore. In tema di sicurezza, ancorché sprovvista di ruolo causale, l’inesatta informazione iniziale aveva favorito il precipitare lungo uno scivoloso pendio. 6. Un paziente, in cura per patologia cronica, presentava sintomi che inducevano a ritenere necessario un adeguamento, al rialzo, del dosaggio del farmaco da tempo prescritto. Il medico chiamato a riesaminare il caso chiedeva al paziente se avesse assunto con regolarità il medicinale. Nonostante la risposta affermativa, il professionista – che ben conosceva il paziente – dubitava dell’effettiva assunzione e, tenuto conto delle gravi ripercussioni derivanti da un sovradosaggio, decideva di non modificare la prescrizione, mettendo in guardia l’assistito circa le conseguenze di un’astensione dalla terapia. Emergeva poi che la risposta del paziente non era stata veritiera. Il ruolo dei rappresentanti dei pazienti Se centrale è il rapporto con il paziente, considerazione deve riservarsi anche al rapporto con la cerchia di parenti ed amici dell’assistito – sempre che questi acconsenta a renderli partecipi delle proprie vicende – per i riflessi sul paziente stesso e perché anch’essi possono diventare coattori di sicurezza. Familiari o conoscenti premurosi possono supplire quando il paziente Errore medico non sia pienamente autosufficiente. L’aumento dell’età di vita trascina con sé i problemi dell’accudire persone attempate, per le quali maggiori sono i rischi derivanti da trattamenti sanitari: facilità di cadute; frequenti errori nella assunzione di farmaci; rischio di decubiti ecc… Le statistiche degli eventi indesiderati rilevati nel nostro ospedale mostrano una proporzione diretta tra frequenza di accadimento ed età dei pazienti coinvolti. Il problema assume dimensioni forse ancor più consistenti al di fuori dell’ospedale. Si pensi al gran numero di anziani, affetti da una pluralità di acciacchi o di malattie importanti, in terapia con più farmaci ed alla facilità con cui possono determinarsi: • scambi di medicinali; • mancato rispetto della sequenza o del tempo della assunzione; • mancato controllo di scadenza o di requisiti di conservazione; • errore di posologia; • interazioni con altri prodotti, con sintomi non valorizzati tempestivamente ecc… Per queste situazioni, l’intervento di terzi che si prendano cura dei pazienti può contribuire a rendere più sicuri i trattamenti. Le riflessioni precedentemente esposte riguardo alla consapevolezza del paziente devono essere qui riprese con riferimento alle persone dell’entourage che, solo se provviste di adeguate conoscenze – seppure di tenore diverso da quelle utili al paziente – possono cooperare per la sicurezza. N. 149 - 2005 Un posto distinto è occupato poi dalle associazioni di tutela dei diritti dei pazienti; esse possono concorrere alla sicurezza attraverso azioni meno dirette ed immediate ma non per questo meno efficaci. La raccolta di un gran numero di segnalazioni dagli utenti le rende osservatori speciali dei fenomeni. Quand’anche non attinenti alla sicurezza clinica in senso stretto, le segnalazioni possono essere utili indicatori delle relazioni instauratesi con i sanitari, del grado di conoscenza dei problemi di salute dei singoli, della percezione dei servizi da parte di chi ha dovuto farvi ricorso. Tali riscontri, trasferiti alle organizzazioni sanitarie, accrescono la conoscenza che esse devono possedere del loro stesso funzionamento. Se poi l’atteggiamento associativo non fosse limitato ad additare quel che non ha funzionato bene ma fosse di costruttivo confronto, potrebbero scaturirne suggerimenti, proposte operative da sottoporre poi al vaglio di fattibilità delle strutture sanitarie o dei singoli professionisti. Crediamo quindi sia fondamentale stabilire con le associazioni per la tutela dei pazienti un rapporto di collaborazione, pur con rispetto dei distinti ruoli, all’insegna del comune interesse a ridurre il livello di pericolosità per gli utenti. Incontri periodici, divulgazione dei dati del clinical risk management, confronto su temi di rilievo, valutazioni su aspettative e specifiche richieste, possono essere un primo campionario di attività da sviluppare. Diciamo no agli slogans sulla malpractice sanitaria, no alla blame culture – prassi che induce al nascondimento, al minimizzare o al negare i fatti-; sì al disvelamento dei problemi, in chiave costruttiva; sì alla ricerca di cause e fattori favorenti degli eventi indesiderati; sì al riconoscimento onesto anche di proprie manchevolezze. Gli impulsi che, nella specifica materia, già si sono avuti da parte delle associazioni inducono a fiducia in tal senso. Enunciati significativi della citata Carta della sicurezza nella pratica medica ed assistenziale sono: • Perché non accada ad altri: i cittadini, pur essendo sempre più attivi nel pretendere si faccia luce su presunti errori, denunciano gli episodi loro accaduti non solo per ottenere la giusta riparazione dei danni subiti, ma anche per concorrere, attraverso la loro segnalazione, a prevenire episodi analoghi. • No alla medicina difensiva: in alcuni Paesi, gli operatori sanitari, di fronte all’aumento del contenzioso, hanno cominciato ad adottare meccanismi di selezione avversa nei confronti dei pazienti, evitando le pratiche cliniche che, seppur necessarie al miglioramento della salute, possono comportare rischi dei quali i professionisti non intendono farsi carico. • Imparare dall’errore: non esiste la possibilità di ridurre gli errori senza che vi sia un comune riconoscimento della necessità di Errore medico N. 149 - 2005 parlarne in modo esplicito e chiaro. Si richiede un profondo cambiamento culturale, che deve portare al suo centro valori e principi fondamentali, come la ricerca della verità, la scelta per la trasparenza, la disponibilità a mettersi in discussione, la non colpevolizzazione di chi sbaglia, la collaborazione reciproca, il dialogo con il cittadino, l’impegno nella ricerca dei mezzi atti a garantire la qualità e la tensione morale verso l’eccellenza nel proprio lavoro. Le segnalazioni differite Le segnalazioni che giungono da utenti che abbiano fruito dei servizi sanitari sono ancora oggi, sovente, mal recepite dai sanitari. Dall’esame di tali segnalazioni – dalle singole o da insiemi – si può avere conoscenza di situazioni pericolose o comunque meritevoli di intervento migliorativo. Scrutato dalla parte di chi è stato utente, l’universo sanitario si mostra con sembiante ben diverso da quello che appare a chi vi opera. Fatti che sfuggono agli operatori – per maturata assuefazione o per ridotta sensibilità o per trascuratezza – possono essere captati come elementi di debolezza o di rischio dalla persona estranea all’ambiente ma direttamente interessata e ben vigile. Nella nostra realtà, dove la gestione del rischio clinico è attiva da circa tre anni, le segnalazioni degli utenti – e di 6 loro rappresentanti – afferiscono alla Direzione medica dell’ospedale, al contempo investita della funzione di coordinamento della sicurezza clinica6. Ad ogni segnalazione segue un’istruttoria, tesa a far luce su quanto riferito e ad acquisire l’opinione degli operatori eventualmente coinvolti; successivamente, oltre all’elaborazione di una risposta all’utente può aversi trattazione del caso nell’ambito del clinical risk management. Nell’anno 2003, su un totale di 561 segnalazioni differite riguardanti il nostro ospedale – di cui 2 suggerimenti; 17 rilievi, 256 reclami, 286 ringraziamenti – i casi direttamente interessanti il rischio clinico sono stati 4 ma molti altri contenevano elementi di utilità per migliorare la sicurezza degli assistiti. Il contenuto delle segnalazioni degli utenti è a tutt’oggi in netta prevalenza incentrato su disservizi di sistema ed ancora scarsamente su aspetti attinenti alla patient safety. Essendo la materia di giovane età anche per gli addetti ai lavori, è da attendersi che, con il progredire dell’esperienza e con un coinvolgimento crescente dei pazienti e dei loro rappresentanti, si incrementi anche la quota di segnalazioni inerenti alla sicurezza. Una piccola rassegna casistica esemplifica le problematiche riguardanti il rischio clinico, indicate dagli utenti. 1. Sedie a rotelle con ruote mal funzionanti. Si dispo- 2. 3. 4. 5. 6. neva revisione manutentiva straordinaria. Riscaldamento eccessivo di apparecchiatura, nel corso di esame diagnostico. Il servizio per le tecnologie sanitarie approntava correttivo. Modalità di gestione di documenti sanitari tali da mettere a repentaglio la tutela dei dati sensibili. Dopo immediata ricognizione si disponevano modifiche operative. Errori anagrafici o di contenuto sanitario in documenti acquisiti in copia. Accertata la fondatezza, si procedeva a rettifica di errori materiali. Referti di altra persona in dossier clinico di un paziente. Si rendeva necessario ricostituire le posizioni documentali, accertare i possibili disguidi e rivedere alcune procedure. Conclusioni In tema di sicurezza clinica, è importante il contributo di tutti: degli operatori, innanzitutto, ma altresì dei pazienti e di quanti si prendano cura di essi. La capacità di incidere in tal senso è condizionata dal grado di conoscenze possedute; al riguardo rileva grandemente la relazione stabilitasi con i sanitari. Un rapporto non armonioso rappresenta un fertile terreno per lo sviluppo di incomprensioni, ambiguità, maggior facilità di chiamata dei sanitari a rispondere di esiti non soddisfacenti, per quanto non in- Sae l ute Territorio 79 ficiati da vizi e per di più attesi ed illustrati al paziente (9). Per contro, esiti non ottimali – ancorché gravati da sospetto di un operato imperfetto – risultano meglio tollerati dal paziente se è stata buona la relazione con chi lo ha curato. Alla ricerca di una risposta al che fare per ridurre le azioni legali contro i sanitari, Notangelo (10) afferma: ”Una meta più ampia sarebbe di creare sistemi innovativi per reclutare pazienti e loro familiari al fine di moltiplicare gli sforzi necessari a migliorare la sicurezza dei pazienti, dopo che si è verificato un incidente”. Da qui l’esigenza di recuperare e rafforzare il rapporto con l’assistito, riservandogli ascolto, rispetto delle sue volontà e dei suoi valori, per creare un clima di fiducia, di serenità, di empatia. Numerose sono le occasioni in cui può estrinsecarsi la partecipazione del paziente o delle persone che lo accudiscono o lo tutelano alla sicurezza clinica, in ospedale e fuori. All’importanza delle segnalazioni che scaturiscono nel corso dei trattamenti, si affianca l’interesse per commenti e valutazioni che pervengono in un successivo momento oppure a seguito di contatto con l’organizzazione sanitaria. Accanto alle segnalazioni dei singoli, riguardo va rivolto anche a quanto trasmesso da Associazioni di rappresentanza degli utenti, portavoce di istanze ma anche di proposte concrete per migliorare la sicurezza degli assistiti. Molti esperti non utilizzano la locuzione risk management per designare la gestione dei rischi connessi alle pratiche sanitarie ma preferiscono parlare di patient safety. Il risk management ha un campo di interesse assai vasto e si occupa di rischi che non attengono alla sicurezza clinica. l ute Sa e 80 Territorio Errore medico N. 149 - 2005 Bibliografia 5. AHRQ Pub. N. 02-P034 September 2002 www.ahrq.gov. 1. Muzzi A., Profilo epidemiologico degli errori in sanità, Igiene e Sanità Pubblica 2003, vol. LIX, n. 1/2: 28-40. 7. Lamberto A., Levaggi R., La comunicazione fra medico e paziente: aspetti di costo efficacia, Politiche sanitarie 2004, 1: 52-59. 2. Brennan T.A. et al., Incidence of adverse events and negligence in hospitalized patients: results of the medical practice study, N Engl Med 1991; 324: 370-376 8. Negrini G., La Pietra L., Marchisio S., L’informazione al paziente, De Qualitate 2003, Lug-Ago: 49-54. 6. Bonito V., Negoziare oggi per agire domani, Janus 2004,14: 28-32. 3. 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N. 149 - 2005 Fabrizio Simonelli Alberto Zanobini* Responsabile Centro di coordinamento regionale HPH della Toscana * Dirigente Settore formazione, comunicazione e supporto al governo clinico regionale Direzione generale Diritto alla salute e politiche di solidarietà O ggi l’idea di Ospedale viene associata quasi automaticamente con quella di malattia: non vi è dubbio che la ragion d’essere di questa struttura sanitaria sia infatti la cura degli stati di malattia, nè si può ragionevolmente pensare che possa cambiare. Ma nel tempo a questo ruolo si sono aggiunte funzioni e componenti nuove che lo hanno arricchito e reso sempre più complesso, facendone un centro di attrazione e spinta per gli interessi della comunità. L’evoluzione culturale, scientifica, tecnologica, professionale ha via via incrementato i livelli di specializzazione e differenziazione dei sistemi ospedalieri, problematizzandone spesso l’organizzazione ed il rapporto con il contesto territoriale di riferimento1. La relazione con un contesto socio-ambientale a sua volta in perenne cambiamento culturale ed economico ha sempre indotto effetti di adattamento strutturale, organizzativo ed operativo dell’Ospedale. Ma è vero anche il contrario, e cioè che esso, il suo capitale sociale ed intellettuale, Spazio Toscana Sae l ute Territorio 81 Dal binomio Ospedale-malattia a quello di Ospedale-salute influiscono sui processi di crescita culturale ed economica dell’ambito sociale di appartenenza. Ora questa relazione sembra diventare particolarmente significativa, perché il movimento internazionale che si occupa della salute nel suo complesso, a partire dalle organizzazioni mondiali, ha messo a fuoco – a partire dalla Carta di Ottawa (1986) – un nuovo paradigma della salute, fondato sulla molteplicità dei determinanti (ecosocio-economici e non solo genetici)2 e soprattutto sulla connotazione della salute non come obiettivo ma in quanto risorsa per la crescita personale e sociale sul piano economico, emozionale, intellettuale, etico, spirituale. Questo nuovo scenario ha fornito chiari indirizzi programmatici anche per i legislatori ed i decisori politici, che sempre più frequentemente hanno importato negli strumenti di pianificazione sanitaria questo tipo di visione. D’altra parte, l’Ospedale dovrebbe essere un protagonista del cambiamento di un contesto che già si sta muo- vendo nel nuovo paradigma della salute, configurando diversi assetti istituzionali e operativi. Nella Regione Toscana questo processo sta assumendo contorni di forte innovazione e la partecipazione dell’Ospedale in questo senso si avvale delle acquisizioni che stanno maturando attraverso la Rete degli Health Promoting Hospitals 3 , nonché di specifiche esperienze. Insomma si sta facendo strada il binomio “Ospedale-salute”, attraverso la concretizzazione di esperienze e testimonianze che propongono l’ospedale in veste di risorsa per la crescita delle persone e della comunità in funzione della loro autorealizzazione4. L’Ospedale per la promozione della salute Questa denominazione deriva da un Progetto avviato dall’Ufficio europeo dell’OMS verso la fine degli anni ’80 che, dopo un periodo di sperimentazione, si è articolato in Reti regionali e nazioni di Health Promoting Hospitals5. In particolare, l’obiettivo generale del Progetto degli Ospedali per la promozione della salute è di integrare la qualità dell’assistenza ospedaliera con attività di promozione della salute, intese nel senso indicato dalla Carta di Ottawa (1986), cioè come processi che mettono in grado le persone e le comunità di aumentare il controllo sulla propria salute6. Secondo la definizione del Glossario dell’OMS7, un Ospedale che promuove la salute non solo deve fornire globalmente servizi medici e infermieristici di alta qualità, ma anche: a) sviluppare una identità aziendale che abbracci gli scopi della promozione della salute; b) sviluppare una cultura e una struttura organizzativa che promuova la salute (compreso un ruolo attivo e partecipativo dei pazienti e dello staff); c) trasformarsi in un ambiente fisico che promuove la salute; d) cooperare attivamente con la comunità servita. L’incorporare nella cultura e nella struttura dell’Ospedale i principi, le strategie e le me- l ute Sa e 82 Territorio todologie della promozione della salute, implica impegnative azioni di ripensamento e riorientamento dell’Ospedale in funzione di bisogni non pienamente considerati nell’Ospedale tradizionale: da qui le esigenze di acquisizione di conoscenze, consapevolezze, motivazioni e capacità dirette ad aumentare il controllo sulla propria salute da parte dei pazienti, dei loro familiari, della comunità in generale. La Rete Toscana degli Ospedali per la promozione della salute Elementi di contesto La Rete Toscana degli Ospedali per la promozione della salute è stata costituita: – in un contesto culturale connotato da una forte attenzione ai valori umani fra i quali il diritto alla salute come requisito per l’autodeterminazione personale e la crescita collettiva (e non poteva essere diversamente nella terra originaria del Rinascimento!)8; – in un ambito operativo sanitario che presentava una “dotazione” particolare, costituita dalle Unità operative di educazione alla salute delle Aziende sanitarie locali, già orientate a pratiche di promozione della salute sul territorio; – in un quadro istituzionaleprogrammatico caratterizzato da due importanti cardini: • il Programma regionale di sviluppo 2003/2005 della Toscana, che – nel trattare il tema del benessere sociale –, espri- Spazio Toscana me chiaramente l’orientamento delle politiche sociali al modello del welfare community, un modello sintonico con i principi della promozione della salute, dal momento che sostiene la sussidiarietà orizzontale; • il Piano sanitario regionale 2002-2004 che – nel proporre un modello di salute centrato sulla responsabilizzazione della comunità e sulla partecipazione sociale – esplicita l’orientamento a travalicare l’offerta di prestazioni e servizi sanitari di alta qualità per arrivare a costruire un sistema per la salute in grado di coinvolgere le risorse della comunità in un disegno di salute condiviso, allineandosi in ciò con gli indirizzi generali proposti dall’OMS. La Rete HPH Toscana nella programmazione sanitaria regionale Il Piano sanitario regionale 2005-2007 – attualmente approvato dalla Giunta regionale – conferma alcune scelte di fondo del Piano precedente, quali la partecipazione sociale, l’apertura del sistema sanitario alla sperimentazione di modelli organizzativi innovativi, la concertazione con altri settori produttivi rilevanti per la salute. Questi elementi favoriscono processi di cambiamento anche profondi, come la costruzione e la crescita di un sistema regionale per la salute nel quale esprimere anche il riorientamento degli ospedali verso la promozione della salute. In questo senso il Piano sanitario regionale esplicita l’evoluzione dal concetto di prevenzione a quello di promozione e delinea gli strumenti per la realizzazione delle politiche di promozione della salute: le Società della salute, i Piani integrati di salute, che si profilano in sintonia con la filosofia di fondo del progetto HPH. Le Società della salute rappresentano articolazioni innovative dell’organizzazione sociosanitaria territoriale, su base distrettuale, fortemente finalizzate al coinvolgimento delle comunità locali. Esse rappresentano una forma di sperimentazione organizzativa dell’assistenza territoriale tendente a definire un nuovo modello di governance della salute i cui contorni sono ancora in corso di definizione, ma che è guidato da principi comuni alla Rete HPH: universalismo, equità, empowerment9. La Società della salute è una “società mista”senza scopo di lucro, con rappresentanti degli Enti locali e dell’Azienda sanitaria locale, aperta alla partecipazione del volontariato, del terzo settore, del privato sociale, la cui “ragione sociale” è costituita dal miglioramento della salute e dal benessere sociale. Essa è orientata principalmente al settore delle cure primarie e delle attività socio-sanitarie e specialistiche di base prodotte dal Sistema sanitario regionale o acquistate da produttori esterni. Sono escluse da questo ambito le attività ospedaliere, ma l’assetto culturale ed operativo che si vie- N. 149 - 2005 ne a configurare risponde bene alle esigenze di un’intesa culturale e operativa fra servizi del territorio e Ospedale che promuove salute. I Piani integrati di salute costituiscono le modalità operative delle zone-distretto e, ove costituite, delle Società della salute, che possono avvalersi di risorse di promozione della salute, quali la Rete regionale Health Promoting Hospitals. In quanto progetti complessi riferiti a problematiche ad alta valenza sociale essi coinvolgono vari attori: le Conferenze dei sindaci di zona, le Aziende sanitarie locali, le Agenzie sanitarie regionali, il settore non-profit, le organizzazioni sindacali, le varie componenti della società civile, che condividono un progetto di lavoro comune con ricadute specifiche e valutabili sullo stato di salute della popolazione. Il processo di ri-orientamento dell’Ospedale verso la promozione della salute in Toscana può quindi contare su un quadro di riferimento culturale, normativo e organizzativo certamente favorevole. La configurazione della Rete HPH Toscana Alla Rete HPH Toscana aderiscono tutte le Aziende sanitarie locali (Massa e Carrara, Lucca, Pistoia, Prato, Pisa, Livorno, Siena, Arezzo, Grosseto, Firenze, Empoli, Viareggio) e tutte le Aziende ospedaliere (Careggi (Firenze), Meyer (Firenze), Azienda ospedaliera pisana, Azienda ospedaliera senese) per un totale di circa l’80% degli stabilimenti ospedalieri. N. 149 - 2005 Il Centro di coordinamento regionale della Rete toscana degli Ospedali per la promozione della salute, è stato individuato dall’Assessorato regionale al diritto alla salute presso l’Azienda ospedaliera “A. Meyer” di Firenze. La tipologia delle attività HPH in Toscana La gamma di attività sviluppate nella Rete HPH toscana rende bene l’idea del percorso di avvicinamento al binomio “Ospedale-salute”. In ordine di crescente complessità e progettualità, si tratta di: – azioni incrementali, costituite da limitate ma percettibili azioni di promozione della salute attivate autonomamente dai professionisti, anche senza una cornice progettuale definita, quali: “attenzioni” relazionali percepibili da parte dei pazienti, iniziative di tipo logistico-alberghiero o organizzativo o relazionale, singole azioni di empowerment delle persone, e così via (es.: l’attenzione prestata dai professionisti nel fornire al paziente informazioni o elementi utili al controllo della malattia o, ancora, il coinvolgimento delle Associazioni di volontariato in alcune attività assistenziali). Il quadro delle azioni incrementali è molto variegato e diffuso. – integrazioni processuali, costituite da codificazioni di ‘valore aggiunto’ in singole fasi dei processi diagnostico-terapeutici quali implementazioni di pratiche di umanizzazione dei servizi (ad es.: procedure di Spazio Toscana consenso informato, schede personalizzate di dimissione, interventi di continuità assistenziale in una logica di empowerment); – pacchetti specifici di servizi, rappresentati da percorsi progettuali ed operativi completi (dal marketing alla fase finale di feed-back) attivati da singole Unità operative e mirati a gruppi omogenei per patologia o problematica (ad es.: campus educativi per ragazzi diabetici, stages riabilitativi dei pazienti cardio-operati, scuola dell’asma). Tutti i suddetti livelli di attività sono spesso frutto della sensibilità e dell’impegno di singoli professionisti o Unità operative che condividono i principi della promozione della salute, senza disporre di un quadro di riferimento concettuale e operativo di progettazione quale è quello fornito dalla Rete HPH. Proprio perché alimentate dalla convinzione degli operatori queste iniziative costituiscono un patrimonio importante e meritano una sensibile valorizzazione nella cornice HPH. – progetti di promozione della salute, che sviluppano interventi metodologicamente improntati al project work, e quindi in grado di documentare i risultati prodotti. A questo livello si costituiscono team di progetto riconosciuti nel sistema aziendale e si definiscono ruoli, impegni, modalità di comunicazione e valutazione. Esempi di progetti sono la prevenzione delle cadute dell’anziano in Ospe- dale, l’allattamento al seno, la prevenzione di discriminazini, l’allergia al lattice, le allergie alimentari ed ambientali, la prevenzione della SIDS, e così via… – interventi di ri-orientamento del setting ospedaliero, considerato come contesto globale (ambientale, organizzativo, normativo, amministrativo, relazionale) capace di ridefinire in termini distintivi l’attività dell’intera struttura ospedaliera (ad es.: l’Ospedale senza dolore, l’Ospedale senza fumo, l’Ospedale interculturale, l’Ospedale sicuro, la Carta dei diritti del paziente, i processi di accreditamento integrati da aspetti di promozione della salute). La formazione nella Rete HPH Toscana La formazione costituisce ovviamente una leva particolarmente rilevante per il cambiamento della cultura ospedaliera nel senso della promozione della salute. Per questo motivo sono state programmate per il biennio 2003-2004 iniziative – attualmente in corso di espletamento – articolate in: – iniziative “trasversali”, indirizzate ai Coordinatori aziendali HPH ed ai Coordinatori dei Gruppi interaziendali e centrate su contenuti di carattere generale; – iniziative di sensibilizzazione, indirizzate a tutto il personale ospedaliero e mirate a presentare gli aspetti generali del progetto e le relazioni con le politiche regionali per la salute; Sae l ute Territorio 83 – iniziative di supporto allo sviluppo dei progetti, indirizzate agli operatori coinvolti nello sviluppo dei progetti. La fisionomia della Rete HPH Toscana Un progetto di respiro internazionale come quello degli Health Promoting Hospitals esige azioni generali di formalizzazione e orientamento che consentano agli aderenti di riconoscersi negli indirizzi comuni e di sviluppare senso di appartenenza. Ma necessita anche di azioni locali di connotazione che forniscano specifiche identità tenendo conto delle singole realtà culturali e operative e alimentino così la vitalità della Rete. Per questa ragione la Rete Toscana sta assumendo sempre più una fisionomia specifica, fondata su alcune connotazioni particolari: a) L’ottica di sistema Il ripensamento dell’Ospedale come setting per la promozione della salute e il lavoro implica una sfida forte, che va assunta in un’ottica sistemica capace di interpretare il cambiamento agendo non solo sulle componenti, ma anche sulle relazioni, interne ed esterne, del sistemaospedale. In questo senso assumono rilevanza i collegamenti fra il progetto HPH e le funzioni aziendali trasversali – quali la formazione, la comunicazione, il processo di budgeting, il sistema premiante, ecc. – ed i rapporti fra l’ospedale ed il sistema dei servizi territoriali, a partire dalle Unità l ute Sa e 84 Territorio operative di educazione alla salute e dai Dipartimenti di prevenzione. b) Il quadro di riferimento concettuale Un percorso sistemico come quello sopra delineato e capace di guardare al futuro esige un quadro di riferimento che possa proporre adeguatamente gli orizzonti generali, i passaggi fondamentali, la coerenza del cammino. L’elaborazione che ne è risultata vede tre livelli interagenti: – quello paradigmatico, costituito dai principi generali e assunti locali che guidano il progetto, fornendo senso e valore; – quello strategico, che riprende le strategie generali ed aziendali di riorientamento dell’ospedale, le metodologie ed i procedimenti che guidano e caratterizzano le attività comprese nel progetto; – quello progettuale, che mette a fuoco i criteri e le tecniche necessarie a conseguire i fini prefissati. Il livello paradigmatico L’idea di promozione della salute va esplicitata tenendo conto – oltreché dei principi generali della promozione della salute messi a fuoco dall’OMS e dallo specifico movimento internazionale – anche da ideali radicati nella cultura delle comunità locali, cioè “assunti” in un preciso ambito culturale e sociale. Per “assunti” intendiamo concetti di natura etica: – formulati attraverso la declinazione all’interno Spazio Toscana della cultura regionale di principi generalmente riconosciuti ed affermati (dalla Carta di Ottawa in poi); – esplicitati in termini localistici, nell’ambito della cornice locale di significati; – condivisi nella comunità professionale che opera nel progetto HPH e, per l’appunto, “assunti” nel contesto operativo quotidiano della promozione della salute. Questa operazione di declinazione e contestualiz- zazione di principi generali serve a connotare un quadro etico di prossimità per gli operatori, a fornire orientamenti più “stringenti” per valutare progetti ed interventi, a formulare nuove domande e riflessioni generate da dimensioni ed esperienze locali, a rafforzare elementi di confronto anche internazionale in un’ottica di reciproco arricchimento. Ad esempio, il principio di centralità della persona è stato esplicitato in termini di ruoli, aspettative e atti- N. 149 - 2005 vità come si può evincere dall’illustrazione (Fig. 1). Il livello strategico Alle strategie di tipo tradizionale – comunque determinanti per sviluppare il Progetto HPH, quali quelle partecipative, formative, comunicative, di connessione alle funzioni trasversali aziendali ed al contesto programmatorio locale, di valorizzazione del patrimonio esistente –, è stato messo a fuoco un modello che tende a dare organicità alle strategie attuabili in funzione della loro col- Fig. 1 - Declinazione del principio di centralità della persona. Fig. 2 - Il modello strategico. N. 149 - 2005 locazione a livello di setting (inteso come ambiente fisico, logistico, organizzativo, comunicativo), di processi (inteso come valore aggiunto ai diagnostico-terapeutici o innovazione “ad hoc”), di relazioni interpersonali (includendo tutte le relazioni intercorrenti fra pazienti, professionisti, management, fornitori, comunità di riferimento) (Fig. 2). Il livello progettuale L’evoluzione della progettazione lineare da quella “classica” – tipica dell’educazione alla salute e fondata su analisi dei bisogni, definizione degli obiettivi, individuazione della popolazione-target, ricognizione delle risorse e delle criticità, individuazione degli ‘attori’, messa in opera e valutazione finale – a quella orientata alla promozione della salute, porta a riconsiderare le “tappe” del percorso progettuale e la rispettiva valutazione. La successione delle fasi tradizionali risulta riordinata secondo una logica pragmatica di promozione della salute e lo scenario della complessità evidenzia i limiti dovuti alla linearità dello sviluppo temporale, le negative conseguenze in termini di ricorrenti interruzioni o deviazioni di rotta, le difficoltà di valutazione degli effetti prodotti. Pur con gli opportuni adattamenti della progettazione classica in funzione delle peculiarità della promozione della salute (Fig. 3) e quindi della co-progetta- Spazio Toscana zione con le Associazioni di rappresentanza dei cittadini e/o pazienti, il modello progettuale va rivisto. La progettazione di tipo reticolare derivata dal Mind Mapping10 sembra rispondere meglio alle esigenze di complessità della promozione della salute perché consente di mantenere una visione logica di insieme e di effettuare valutazioni globali che possono dimensionare meglio il progetto, pre-valutando relazioni e coerenze fra le varie componenti (Fig. 4). Conclusioni Il progetto Health Promoting Hospitals rappresenta una concreta testimonianza di riorientamento dell’Ospedale verso i principi della promozione della salute, come auspicato nella Carta di Ottawa e nella Dichiarazione di Budapest11. Applicare nella pratica quotidiana questo ‘assunto’ porta a confrontarsi con una dimensione estremamente responsabilizzante: lavorare – oltre che per ottenere benefici terapeutici o aspetti qualitativi della degenza – per favorire la massima realizzazio- Sae l ute Territorio 85 ne del potenziale intellettuale, emotivo, spirituale, economico, relazionale della persona e della comunità. Questo processo che non è solo organizzativo ma soprattutto culturale, si allinea – nel caso della Regione Toscana – con politiche locali espressamente orientate a costruire e consolidare un sistema locale per la salute basato sulla partecipazione attiva della comunità e su un assetto di nuovo tipo, costituito attorno ai Piani integrati di salute ed alle Società della salute. Fig. 3 - Progettazione lineare classica e HPH: confronto. Fig. 4 - Progettazione reticolare applicata al progetto HPH. l ute Sa e 86 Territorio La vera verifica della effettiva riuscita di questa operazione di cambiamento profondo del sistema ospe- Spazio Toscana daliero sarà costituito dalle future rappresentazioni sociali dell’Ospedale: se nella opinione pubblica e nella co- scienza collettiva si affermerà il binomio “Ospedalesalute”, allora vorrà dire che si è vinta una sfida ritenuta N. 149 - 2005 da molti impossibile al momento del suo lancio. Bibliografia 5. Garcia-Barbero, M., The Health Promoting Hospitals Movement, The Journal of European Private Hospitals, April 1994: 33-36. 1. Fiorino F., L’approccio sistemico alle organizzazioni sanitarie, Dedalo vol. I, n. 2/2003. 6. World Health Organization (WHO), Ottawa Charter for Health Promotion. WHO: Geneva, 1986. 2. Domenighetti G., I determinanti eco-socio-economici della salute – una prima analisi concernente il Cantone Ticino, Dipartimento delle Opere sociali - sezione sanitaria, Bellinzona, novembre 2000. 7. World Health Organization (WHO), Health Promotion Glossary: WHO, 1998. 3. Simonelli F., Majer K., Caldés Pinilla M.J., Teodori C. (a cura di), La Rete Toscana per la promozione della salute negli ospedali: fisionomia di un progetto regionale, Regione Toscana, Collana Formazione Qualità, Firenze, 2004. 4. Riboldi F., Simonelli F., Ragioni e percorsi del passaggio dal sistema dei servizi sanitari al sistema per la salute, Prospettive sociali e sanitarie, anno XXXIII, n. 18/2003. 8. De Angeli A., Simonelli F., Renaissance and Health Promotion, Fondazione Meyer Firenze, 2003. 9. Piccardo C., Empowerment - Strategie di sviluppo centrate sulla persona, R. Cortina Editore, Milano, 1995. 10. Buzan T., The mind mapping book, E P Dutton, 1994. 11. World Health Organization (WHO), The Budapest Declaration on Health Promoting Hospitals. WHO: Copenhagen, 1991. Gli aspetti demografici ed economici che influiranno sull’organizzazione dei servizi e sulla loro copertura finanziaria LA PROGRAMMAZIONE SANITARIA DEL FUTURO VENTENNIO L’aumento della longevità e la conseguente progressiva cronicizzazione delle patologie associate alla terza e quarta età La possibilità di prevenire o ritardare la comparsa delle malattie senili più diffuse Monografia a cura di Luigi Tonelli [email protected] l ute Sa e 88 Territorio Luigi Tonelli AUSL di Siena La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Presentazione Q uesta monografia è intesa a prendere in esame la trasformazione epidemiologica verso la prevalenza delle malattie croniche che si viene rapidamente e sempre più chiaramente manifestando. La variabile che maggiormente determina e condiziona la nuova situazione è la transizione demografica in corso, ovvero il cambiamento progressivo dei parametri demografici principali, natalità e mortalità. È verificabile che con l’aumentare del benessere delle popolazioni gli eventi demografici si susseguono come indicato nelle quattro fasi riportate nella figura sottostante: il progresso economico che si verifica in occorrenza della stabilità demografica della fase 1 produce una riduzione della mortalità (fase 2), cui segue un declino della natalità tale da poter determinare infine un saldo di popolazione negativo (fasi 3 e 4). Il tutto può avvenire in un arco di tempo molto variabile da situazione a situazione. Per quanto è ora evidente, la transizione è stata lenta a manifestarsi nel mondo occidentale, ma appare rapidissima nel suo svolgersi oggi nei grandi Paesi in via di sviluppo, come Cina e India, ed è atteso il suo verificarsi nell’ Est europeo occidentalizzato non appena le condizioni economiche saranno effettivamente migliorate. Fig. 1. Di fatto il numero di anziani nella popolazione generale già a decorre dall’ inizio del nuovo secolo manifesta un incremento annuo del 2,8% ed è funzione di una speranza di vita alla nascita della quale è oggi impossibile stimare attendibilmente l’estensione massima. Jim Oeppen e James Vaupel, demografi rispettivamente a Cambridge ed al Max Plank Institute, hanno riportato su Science nel 2002 dati che dimostrano che da oltre 160 anni la massima speranza di vita è regolarmente cresciuta di un quarto di anno per anno benché gli esperti di mortalità abbiano sempre continuato ad asserire che era giunta invece al tetto della sua possibilità. Secondo il Nobel 1993 per l’ Economia Robert Fogel (2004) l’impredicibilità della attesa di vita è spiegabile con il sinergismo di progresso tecnologico e miglioramento delle condizioni di vita, che ha prodotto una nuova forma biologica di evoluzione della specie umana, più rapida di quella genetica in quanto a trasmissione culturale, e per questo anche più instabile. Ha chiamato questa nuova forma evolutiva che si è manifestata negli ultimi tre secoli ma soprattutto nel secolo scorso “tecno-fisioevoluzione”. Associandosi l’invecchiamento ad un maggior carico di malattie e invalidità, è inevitabile che la spesa sanitaria pro capite come percentuale del PIL aumenti rapidamente dopo i 65 anni (Lubitz, J., 2001). Questo avviene so- prattutto in funzione della prevalenza delle malattie croniche con gli aspetti statistici descritti da Hoffman ed Altri (1996) e riassunti nelle tabelle qui sotto riportate Esistono studi (Sipkoff M, 2003) che rilevano che già ora l’ 80% della spesa sanitaria è a favore del 20% del totale della popolazione assistita e che gli affetti da malattie croniche consumano l’88% delle prescrizioni, il 72% delle visite mediche ed il 75% delle giornate di ospedalizzazione. Ricercando nel Web notizie sulla prevalenza in Italia delle malattie croniche più comuni Prevalenza delle malattie croniche per classi di età Costi pro-capite malattie acute (A) e 1 o 2 croniche (1 C, 2 C) (US$, 1990): < 18 anni 25% 18-44 anni 30% 45-64 anni 60% > 65 anni 75% <18 18-44 45-64 >65 A 608 877 995 1652 1C 1641 1422 1992 2970 2C 2828 3208 4239 6018 N. 149 - 2005 si trovano stime effettuate da diversi organismi e associazioni che riportano ad esempio che attualmente nel 30% delle famiglie vive un ammalato cronico e nell’ 11% un disabile. Oppure riunendo i dati si può effettuare la stima approssimativa della prevalenza delle forme più comuni nell’ intera popolazione riportata nella tabella a fianco, che assomma ad un totale di quasi trentacinque milioni di casi su cinquantasette milioni di abitanti. Sappiamo che la generazione del baby boom a partire dal 2010 progressivamente raggiungerà la soglia dei 65 anni e questo contemporaneamente a uno spostamento delle risorse economiche mondiali verso i Paesi in via di sviluppo che già ora, alla metà del primo decennio, suscita nell’ Occidente industrializzato gravi preoccupazioni per il mantenimento del welfare. Occorre allora prepararsi ad affrontare con risorse probabilmente decrescenti un elder boom dove saranno prevalenti gli individui della “quarta età”, l’età della dipendenza (Laslett P., 1996), con il loro carico di malattie croniche e di disagio sociale. La prima parte di questa mo- La programmazione sanitaria del futuro ventennio nografia è intesa a presentare e discutere gli scenari futuri, e le risposte ad oggi individuate, che il Chronic Care Model di Edward Wagner (1998), ampiamente descritto in un articolo della monografia, in larga misura riassume. La seconda intende illustrare agli amministratori delle cose sanitarie, affinché possano assumere decisioni informate, le cose che sanno gli specialisti e le risposte di assistenza e cura che allo stato attuale risultano più sostenute dall’evidenza scientifica. Le decisioni dei manager della sanità, tuttavia, difficilmente nel contesto economico mondiale che si viene delineando potranno ancora far riferimento ai criteri di ora, ovvero assecondare sempre le richieste degli utenti e dei produttori ed investire soprattutto nelle costosissime strutture di ricovero e nelle procedure per acuti, mentre la priorità è prevenire la progressione delle malattie croniche. Per superare le straordinarie difficoltà del prossimo futuro occorrono innovazioni importanti, tali da continuare ad assecondare la tendenza delle popolazioni a raggiungere età sempre più elevate. Il Bibliografia Fogel R.W. (2004), Technophysio Evolution and the Measurement of Economic Growth, Journal of Evolutionary Economics, 14(2), 217-21. Hoffman C., Rice D., and Sung H.I. (1996), Persons with chronic conditions. Their prevalence and costs, JAMA 276:1473-79. Laslett P. (1996), A fresh map of life: the emergency of the third age, Macmillan Press Lubitz J. (2001), The Effects of Longevity on Spending for Acute and Artrite reumatoide m.Parkinson Demenza senile Ipertrofia prostatica Tumori Insufficienza cardiaca cronica HCV positivo Diabete Asma Depressione Fibrosi polmonare Esiti di ictus Ipertensione Artrosi termine di riferimento più attuale è la strategia messa in opera dalla Health Care Organisation non for-profit americana Kaiser – Permanente, riassumibile nelle azioni qui di seguito riportate: 1. Identificazione degli affetti da malattie croniche. 2. Stratificazione degli affetti da cronicità per rischio di aggravamento. 3. Stretto riferimento a Linee Guida cliniche evidencebased aggiornate. 4. Informatizzazione diffusa per la condivisione dei dati clinici. 5. Cure intermedie nurse led. 6. Approccio multidisciplinare nel primary care. Sae l ute Territorio 89 300.000 300.000 600.000 1.200.000 1.300.000 1.500.000 1.800.000 2.000.000 2.000.000 2.500.000 3.000.000 3.000.000 5.000.000 10.000.000 7. Forte integrazione primary care – specialisti. 8. Promozione del self-care. Si tratta in larga parte di strategie intuibili e condivisibili, che per qualche ragione nei Sistemi sanitari sono state finora poco o male attuate; alcuni articoli della monografia sono dedicati a chiarire la natura di quelle più innovative La speranza di tutti gli Autori è quella di aver contribuito con gli scritti qui contenuti a promuovere una migliore comprensione degli eventi in corso e di conseguenza una spinta innovativa che, come professionisti che operano nella nostra sanità, non ritengono più a lungo rinviabile. Long-term Care, Documento Web della Health Care Financing Administration, disponibile al sito http://upload.mcgill.ca/management/ longevity.pdf Oeppen J. and Vaupel W. (2002), Demography: Enhanced: Broken Limits to Life Expectancy, Science 96, 1029-31. Sipkoff M. (2003), Health plans begin to address chronic care management, Managed Care 12, 29-31. Wagner E.H. (1998), Chronic disease management: what will it take to improve care for chronic illness?, Eff Clin Pract. 1 (1), 2-4. l ute Sa e 90 Territorio Fred Paccaud Pascal Bovet La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Una transizione epocale Istituto universitario di medicina sociale e preventiva Facoltà di biologia e medicina e Centro ospedaliero universitario valdese Losanna, Svizzera Transizione demografica La transizione demografica in senso stretto è un modello di evoluzione della popolazione umana caratterizzato da una riduzione della mortalità, seguita da una diminuzione della fecondità. Tale transizione cambia l’equilibrio demografico di una popolazione facendolo passare da un regime con mortalità e natalità alte, a un regime con mortalità e natalità basse. Il fatto notevole di questo cambiamento di equilibrio è lo sfalsamento temporale tra l’abbassamento della mortalità e quello della natalità. Se tali diminuzioni fossero strettamente contemporanee, il numero della popolazione sarebbe costante, ma lo sfalsamento nella diminuzione e la sequenza di tale sfalsamento (prima mortalità, poi natalità), implicano un aumento importante della popolazione tra i due regimi di equilibrio. Questo modello, descritto intorno al 1930 da Warren Thompson, è stato empiricamente verificato attraverso le osservazioni demografiche Le caratteristiche e le conseguenze dei mutamenti che influiranno sul bisogno di servizi sanitari effettuate in Europa e successivamente, dalla metà del XX secolo, nei Paesi in via di sviluppo. Tale modello di transizione epidemiologica spiega il calendario di crescita della popolazione mondiale. La transizione demografica europea, iniziata nel XVIII seco- lo, ha provocato una forte crescita della popolazione e, in secondo luogo, l’espansione economica e coloniale dell’Europa. Similmente, la transizione in corso nei Paesi in via di sviluppo spiega la crescita della popolazione mondiale; è sempre questo para- Fig. 1 - Transizioni demografiche: Svezia (1735-2000) e Isole Mauritius (1900-2000) (fonte: ref. (2)). N. 149 - 2005 digma che ne fa prevedere una stabilizzazione intorno ai 10 miliardi d’individui verso il 2050 e ai 9 miliardi verso il 2300 (1). Tra il modello storico di transizione europea e il modello attualmente in corso a livello mondiale, la principale differenza consiste nella rapidità del cambiamento: mentre nel Regno Unito la transizione epidemiologica è durata circa due secoli (dal 1720 al 1920), quelle in corso nei Paesi in via di sviluppo sono molto più brevi, dell’ordine di qualche decina di anni. La Figura 1 riassume e illustra alcuni aspetti della transizione epidemiologica in due Paesi: la Svezia e l’isola Mauritius. Il grafico mostra le similitudini del fenomeno, ovvero il passaggio tra i due stati di equilibrio della mortalità e della natalità, e lo “sganciamento” della mortalità seguito da quello della natalità. Questo grafico mostra anche le differenze, la principale delle quali è la rapidità della transizione nei Paesi in via di sviluppo, con una velocità straordinaria di caduta della mortalità nell’Isola Mauritius. Transizione epidemiologica La transizione epidemiologica descrive le trasformazioni Regione Anni La programmazione sanitaria del futuro ventennio della morbilità e della mortalità che sopraggiungono con la transizione demografica. Tale transizione fa passare una popolazione da un regime di mortalità precoce e irregolare a un regime di mortalità tardiva e regolare. La trasformazione della mortalità testimonia un cambiamento della morbilità, che passa da una situazione epidemiologica dominata da malattie infettive rapidamente letali, a una situazione dominata da malattie croniche e degenerative che sopraggiungono tardivamente ed evolvono in modo cronico. È a Omran (3) che dobbiamo il paradigma di questa transizione per i Paesi sviluppati. Tale transizione è spiegata da un doppio meccanismo: da una parte, l’invecchiamento della popolazione induce un aumento del numero di persone che hanno più di 40 o 50 anni e che, quindi, hanno raggiunto l’età a partire dalla quale si manifestano le malattie degenerative. Dall’altra, la comparsa e la crescita dei fattori di rischio legati all’industrializzazione, all’urbanizzazione o all’adozione di nuovi stili di vita quali la sedentarietà, il tabagismo, l’aumento del consumo di grassi saturi e di sale, ecc., favoriscono l’aumento delle malat- tie degenerative. La transizione epidemiologica predice anche la sequenza in cui compaiono le malattie degenerative: in un primo momento appaiono le malattie cerebrovascolari (nella forma emorragica e poi trombotica), in seguito le cardiopatie ischemiche e, infine, i cancri. L’ordine di questa sequenza è determinato dalla durata d’incubazione delle malattie la cui comparsa è almeno parzialmente sottoposta a un fattore di rischio: l’aumento del tabagismo, ad esempio, induce più rapidamente l’aumento dell’incidenza delle cardiopatie ischemiche che quello del cancro al polmone. Oltre alle malattie cardiovascolari e ai cancri, non dobbiamo dimenticare le altre malattie degenerative: prime fra tutte le malattie neuropsichiatriche e le malattie dell’apparato locomotore. In effetti, la depressione (per le malattie neuropsichiatriche) e l’artrosi (per le malattie dell’apparato locomotore) aumentano rapidamente con l’età e, tra l’altro, hanno importanti conseguenze sulla qualità della vita degli individui. Le previsioni riguardanti l’evoluzione del peso delle affezioni da qui al 2020, mostrano una crescita considerevole delle depressioni mag- Dimensione della popolazione (x 1000) Mortalità totale (x 1000) Mortalità cardiovascolare (x 1000) Proporzione MCV/totale Paesi industrializzati (economie di mercato) 1990 2020 798.000 905.000 7.121 8.651 3.175 3.663 44,6% 43,3% Paesi in via di sviluppo 1990 4.123.000 39.554 9.081 23,0% 2020 6.574.000 54.832 18.542 33,8% Sae l ute Territorio 91 giori. Il ritmo della transizione epidemiologica è ampiamente determinato da quello della transizione demografica, di conseguenza, il ritmo di comparsa delle malattie croniche nei Paesi in via di sviluppo è molto più rapido di quello osservato nei Paesi sviluppati: mentre questi ultimi hanno avuto il tempo di eliminare le malattie trasmissibili prima di affrontare le malattie degenerative, molti dei Paesi in via di sviluppo oggi devono confrontarsi con un double burden of diseases, nel quale la situazione epidemiologica assomma una forte prevalenza di malattie trasmissibili (malaria, tubercolosi, ecc.) a un rapido aumento di malattie cardiovascolari, in particolare di casi cerebrovascolari. Un’altra determinante del ritmo della transizione epidemiologica è la globalizzazione dei fattori di rischio. Tale globalizzazione è rapida e si accelera sulla scia della generalizzazione del libero scambio. La globalizzazione degli scambi riguarda infatti i prodotti (il tabacco, l’alcol, la carne), la diversificazione dei prodotti alimentari e anche degli stili di vita, come la sessualità o la sedentarietà. Tra gli altri, un elemento essenziale della globalizzazione è Tabella 1 - Mortalità totale e cardiovascolare nei paesi sviluppati e nei paesi in via di sviluppo, 1990 e 2020 (4). l ute Sa e 92 Territorio l’urbanizzazione del mondo che trasforma profondamente la circolazione degli individui, delle merci e dei servizi. La Tabella 1 presenta le stime globali della mortalità cardiovascolare nel 1990 e nel 2020: anche se in proporzione la mortalità causata da malattie cardiovascolari è inferiore nei Paesi in via di sviluppo rispetto ai Paesi sviluppati, il numero totale dei decessi dovuti alle malattie cardiovascolari è ampiamente superiore nei primi (9 milioni l’anno) rispetto ai secondi (3 milioni nel 1990). Nel quadro della transizione tra il 1990 e il 2020, si prevede che tale proporzione di decessi raddoppierà nei Paesi in via di sviluppo mentre diminuirà nei Paesi sviluppati. Transizione sanitaria Conviene riservare il termine transizione sanitaria alla risposta del sistema sanitario ai bisogni nati dalla transizione epidemiologica. Tale risposta riguarda principalmente la trasformazione delle attività che permettono di curare, diagnosticare e prevenire le affezioni croniche piuttosto che le malattie infettive. Si tratta, quindi, di modificare le attrezzature sanitarie e la formazione del personale sanitario, cosa che presume notevoli investimenti di capitale e di tempo. Questo presuppone anche dei grossi sforzi nella guida del sistema sanitario i cui elementi agiscono con una forte inerzia. Considerando la sequenza in cui compaiono le malattie degenerative, la sfida maggiore è preparare la risposta clinica e della sanità pubblica a que- La programmazione sanitaria del futuro ventennio sto gruppo specifico di malattie (5,6): ecco perché, nei Paesi con deboli risorse sanitarie, la riflessione sulle modalità di cura e di diagnosi deve accelerare per trovare soluzioni accettabili. È in questa stessa prospettiva che vengono fatti molti sforzi per identificare e mettere a punto delle strategie preventive efficaci. In Africa, ad esempio, è oggi appurato che vi sia un’elevata prevalenza di molti fattori di rischio cardiovascolare ( 7). È il caso in particolare dell’ipertensione, molto frequente in numerosi Paesi (8), compresi i Paesi ancora all’inizio della loro transizione epidemiologica, come i quartieri popolari di Dar es Salaam. Ecco perché la messa a punto di strategie di individuazione e di raccomandazioni cliniche di cura è fondamentale, compresa l’analisi critica del trattamento non farmacologico dell’ipertensione (9, 10). Quest’ultimo punto è importante nella prospettiva di raccomandazioni rivolte all’insieme della popolazione. Infatti, la cura farmacologia delle persone ipertese comporta delle difficoltà pratiche (11): gli obiettivi conformi alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità ( 12 ) vengono raggiunti solo da una piccola minoranza di pazienti, in parte a causa della complicanza alla cura (13, 14). Ecco perché è in corso un vivo dibattito tra coloro che propongono di generalizzare le cure anti-ipertensione (14, 15) e coloro che le ricusano a causa della loro debole efficacia e del loro cattivo rendimento economico (16). Le strategie preventive che si rivolgono all’insieme della popolazione (e non solo alle persone a rischio, ad esempio quelle che sono ipertese) sono inizialmente più vantaggiose perché più efficaci e più economiche. Modificazioni virtuose dell’ambiente (ad esempio, la diminuzione della dose alimentare di sale) e degli stili di vita (ad esempio, il mantenimento dell’esercizio fisico) potrebbero avere un impatto considerevole. L’applicazione di tali strategie nei bambini riesce a realizzare una prevenzione primordiale, ovvero a prevenire la comparsa degli stessi fattori di rischio. Inoltre, il rapporto costo-beneficio di queste misure (educazione, legislazione) è spesso favorevole, se paragonato con quello degli interventi basati sul rischio. Le strategie che riguardano intere popolazioni propongono a ogni individuo dei piccoli traguardi, ma portano dei benefici considerevoli a livello della popolazione. Ad esempio, una diminuzione di 5 mmHg della pressione sistolica nell’insieme della popolazione può portare a una riduzione del 9% della mortalità coronarica e del 14% della mortalità dovuta a malattie cerebrovascolari. Alcuni studi hanno dimostrato una diminuzione dell’incidenza dell’ipertensione in seguito a interventi sulla popolazione per migliorare gli stili di vita e le abitudini alimentari (9, 10). Questi interventi includono misure di educazione alla salute, di empowerment, legislative e fiscali per favorire un’alimentazione sana, una regolare attività fisi- N. 149 - 2005 ca e l’astensione dal tabagismo. Tali interventi sono generalmente multifattoriali per natura e hanno quindi il vantaggio di poter portare a una riduzione di diversi fattori di rischio alla volta. Le misure che favoriscono una limitazione del consumo di sale e incoraggiano la pratica regolare dell’attività fisica sono particolarmente adatte a ridurre la pressione arteriosa nella popolazione. Un altro aspetto della transizione sanitaria riguarda il cambiamento del sistema di finanziamento dei servizi sanitari. Come sappiamo, nei Paesi in via di sviluppo il budget pro capite è spesso drammaticamente basso (10 USD l’anno pro capite in Tanzania, rispetto ai 3000 USD in Svizzera); tali risorse sono quindi incapaci di coprire i costi per la cura delle malattie croniche. Ecco perché le nuove strategie di finanziamento dei sistemi sanitari sono uno degli aspetti cruciali della transizione sanitaria: queste strategie devono riuscire sia a aumentare l’apporto finanziario disponibile per le cure, sia ad organizzare il finanziamento in modo da favorire i problemi prioritari (17). Retrospettivamente, è quello che è successo nei Paesi più sviluppati: l’arrivo delle malattie croniche ha imposto una trasformazione dei sistemi assicurativi in modo da permettere loro di occuparsi delle cure a lunga durata. Attualmente, nei Paesi in via di sviluppo sono in corso numerose esperienze, una parte delle quali alimenta un necessario dibattito sull’organizzazione del sistema sanitario. N. 149 - 2005 La programmazione sanitaria del futuro ventennio Sae l ute Territorio 93 Fig. 2 - Evoluzione del numero di persone che hanno 100 anni e oltre. Svizzera, 1860-2000 (censimenti federali). In generale, questi due aspetti (riorganizzazione delle strategie di cura e riorganizzazione del finanziamento delle cure) meritano di essere l’oggetto di studi accurati e intensivi da parte dei Paesi in via di sviluppo (18). Cosa sappiamo della situazione post-transizionale? Uno degli aspetti ancora in corso di ricerca è il sapere in quale modo si comporteranno le popolazioni che avranno terminato il loro ciclo di trasformazione verso le malattie croniche. I principali elementi di cui disponiamo provengono dalle analisi di mortalità svolte nei Paesi che hanno una speranza di vita molto alta, o da indagini sanitarie riguardanti persone molto anziane, anche se quest’ultima tipologia di informazioni è raramente disponibile. In compenso, i dati di mortalità indicano la recente evoluzione: la Figura 2 mostra il forte aumento del numero di centenari in Svizzera durante gli ultimi 150 anni. I primi centenari dall’età certificabile appaiono intorno al 1950, questo fa supporre che in tali anni si sia verificato un avvenimento specifico in alcune schiere di nascite: durante la loro vita di bambini o di adulti (ad esempio, una migliore nutrizione) oppure durante la loro vecchiaia (ad esempio, assicurazione sociale) (19). È importante notare che l’aumento del numero dei centenari è attribuibile essenzialmente a una forte diminuzione della mortalità superata l’età di 80 anni. Questa situazione si ritrova in molti Paesi europei e in Giappone, ed in- dica almeno due prospettive per la situazione post-transizionale: quella dei nonagenari e quella dei centenari e oltre. Questa popolazione non è ben conosciuta, poiché fino ad oggi non aveva mai avuto una grandezza sufficiente per essere studiata in termini epidemiologici. D’altra parte, essa deriva da una diminuzione della mortalità tardiva (dopo gli 80 anni), cosa che fa pensare che tali superstiti beneficino di un elevato livello di salute. Una delle sfide della ricerca attuale è quella di sapere se esiste una durata massima della vita nella specie umana. In questo caso, il periodo post-transizionale sarà abbastanza naturalmente limitato verso l’alto. La durata massima osservata è di 122 anni e una stima recente, effettuata in Svizzera, fa pensare che la durata massima si situerebbe nelle donne tra i 111 e i 123 anni (20). Alcune osservazioni eseguite in Svizzera (20) e nei Paesi Bassi (21) sono compatibili con questa ipotesi detta di “rettangolarizzazione” della curva di sopravvivenza. Se, in compenso, tale ipotesi non dovesse essere confermata, si aprirebbe una prospettiva imprevedibile riguardante l’evoluzione futura della durata della vita e dello stato di salute delle persone molto anziane. Ad ogni modo, un nuovo campo di ricerca si è aperto nei Paesi caratterizzati da una debole mortalità, per conoscere gli aspetti demografici, epidemiologici e sanitari (22) di questa situazione post-transizionale interamente nuova nella storia umana. (segue a pag. 101) l ute Sa e 94 Territorio Rudolf Schoenhuber UO Neurologia, Bolzano L a medicina moderna, basata sulle scienze naturali e sullo sviluppo della tecnologia, ha contribuito enormemente al miglioramento della qualità e durata della vita media. A partire dalla fine del 1700, l’uso del microscopio ha permesso l’identificazione degli elementi costituenti il corpo umano, la chimica e la fisiologia di svelare i meccanismi del suo funzionamento e la farmacologia sperimentale ha aperto la strada per modificare il decorso di alcune malattie che colpiscono l’uomo. Più recentemente, l’imaging permette diagnosi sempre più precoci e la terapia intensiva aumenta la probabilità di sopravvivenza di pazienti con malattie e lesioni in passato mortali. La medicina si è finora organizzata per poter fornire queste prestazioni in linea col modello industriale dello sviluppo degli Ospedali, basato sulla divisione del lavoro e della specializzazione, e perciò strutturati in divisioni specialistiche, con personale, apparecchiature e ambiti di degenza riservati ai vari tipi di patologia. Oggi, per lo sviluppo tecnologico, la diagnosi viene posta spesso in ambulatorio, il ricovero viene considerato appropriato solo se l’intensità dell’assistenza ero- La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Scenario “planning” gata lo rende necessario e, per lo scarso comfort alberghiero dei nostri Ospedali, lo stesso paziente preferisce essere curato ambulatoriamente. Nonostante il maggiore orientamento al paziente, l’attenzione a criteri di efficacia e di efficienza e di qualità delle prestazioni è oggi esperienza comune la paradossale crescita del numero di persone preoccupate per la salute, ma non per questo malate, che sempre più si rivolgono alla medicina non convenzionale. Nel contempo, per curare sempre meno persone sempre più malate, aumentano in modo sproporzionato i costi ed i medici stentano sempre più a trovare soddisfazione nel loro lavoro (Le Fanu, 1999). Può la sanità italiana, prevalentemente ospedaliera, rispondere ai bisogni della popolazione assistita con tale modello organizzativo? Se si volesse pensare ad un cambiamento, in quale direzione si dovrebbe andare? Ci si può preparare alle sfide del futuro in modo adeguato? Basta prolungare le linee di tendenza della attuale realtà ospedaliera, prevedendo semplicemente più ictus, più dementi e più parkinsoniani perché la popolazione invecchia? O bisogna essere pronti ad affrontare situazioni completamente diverse? Una tecnica gestionale basata sulla previsione di eventi futuri La tecnica di pianificazione per scenari Da circa 200.000 anni l’“homo sapiens” usa strumenti, conosce il fuoco e decora gli oggetti. Per la sua capacità di risolvere problemi da allora l’uomo si è diffuso in tutto il mondo, spingendosi addirittura sulla luna. Ancora oggi quasi tutti i problemi vengono risolti inconsapevolmente, senza riflessione, con soluzioni fra loro diverse e delle quali solo l’eventuale successo ne decreta la sopravvivenza e il suo inserimento nel repertorio culturale. Relativamente recente è l’interesse per la sistematica della risoluzione di problemi, come ci indica la storia della scienza. Ci sono stati sì i filosofi della natura greci, ma solo nel Seicento con Galilei si è cominciato ad utilizzare un approccio formale esplicito, conosciuto come metodo scientifico, che ha portato all’esplosione delle conoscenze. Il metodo scientifico si basa sulla concezione di un modo regolare, prevedibile e perciò potenzialmente sotto controllo. Fra le tecniche di previsione abbondano quelle quantitative. Fornire un modello matematico della realtà e modificare le variabili in ingresso per poter vedere che cosa accadrebbe se … è l’esperienza che ognuno di noi ha praticamente ogni giorno davanti ad un foglio di calcolo tipo Excel. Fra le varie tecniche quantitative si possono ricordare i modelli di estrapolazione, le reti neurali, i modelli causali. In molti problemi più complessi soluzioni matematiche non sono utilizzabili, perché sono tuttora sconosciute le variabili o la loro interazione. In questi casi si utilizzano metodiche qualitative basate sul giudizio e sulle opinioni, come ad esempio la tecnica di Delfi, dei ruoli, la simulazione e, appunto, gli scenari. La tecnica dello scenario planning è stata sviluppata all’interno del gruppo petrolchimico Shell-Royal Dutch a partire degli anni 70 (Wack, 1985) ed è stata utilizzata per lo sviluppo di strategie adatte a rispondere ad evenienze future anche mutuamente incompatibili. Si tratta di un processo iterativo di analisi dei possibi- N. 149 - 2005 li trend di sviluppo economico, politico, tecnologico e sociale, identificandone i più probabili per la costruzione di possibili “futuri”, basati su elementi predeterminati facilmente prevedibili (invecchiamento della popolazione, proiezioni economiche e di mercato) e discontinuità maggiori, più difficili da concepire, ma con maggiore impatto, se dovessero accadere. Su queste ipotetiche situazioni, gli scenari, vengono poi elaborate le strategie, valutando quali strutture e quali processi si dovranno programmare per ottenere i diversi risultati prevedibili e, soprattutto, quali competenze saranno necessarie e come queste già da oggi si possano acquisire. Il metodo di pianificazione degli scenari è ormai diventata una tecnica gestionale riconosciuta, che permette l’analisi di situazioni complesse e l’elaborazione di possibili alternative strategiche in modo da garantire il massimo contributo e la massima partecipazione da parte di gruppi di dirigenti o persone comunque interessate al problema. La pianificazione di scenari in una delle sue forme più strutturate avviene in 8 passi: in sequenza si scopre e si ridefinisce il problema, si raccoglie il massimo di informazioni disponibili, si identificano le principali forze attive nello scenario e si scoprono le forze predeterminate (che cambieranno in modo prevedibile), si identificano le incertezze (le forze sui cui la previsione è più difficile) e su questi dati si compongono gli scenari (almeno 3-4 fra di loro incompa- La programmazione sanitaria del futuro ventennio tibili) per poter poi analizzare le implicazioni delle decisioni da prendere in ognuno degli scenari proposti. Infine, vengono definiti i principali indicatori per riconoscere man mano lo scenario più vicino alla realtà (Schwartz, 1996). “HealthCast 2010: un mondo più piccolo, aspettative più grandi” è il risultato di interviste a decine di esperti fatte da PriceWaterhouseCoopers 5 anni fa. Si tratta di un’analisi delle forze di cambiamento, delle tendenze future che influenzeranno la sanità nel mondo, e le conseguenti implicazioni per costruire scenari. Oggi, nel 2005, a metà del periodo coperto, possiamo verificare le previsioni e utilizzare tali dati nella discussione sulla ristrutturazione della neurologia italiana. Tre sono le forze di cambiamento identificate in HealthCast 2010: consumatori più edotti e più consapevoli che generano pazienti più impazienti; lo sviluppo ulteriore dell’informatica e la genomica che sposterà l’attenzione dalla cura alla prevenzione. Prevedibili tendenze future sono la convergenza dei sistemi di finanziamento della spesa sanitaria, la standardizzazione dei processi diagnostico-terapeutici, la necessita del personale sanitario di adattarsi alla tecnologia, al consumismo e alla difficoltà delle scelte etiche derivanti. Ciò implica che i pazienti pretenderanno di più, ma non saranno disposti a pagare di più. La concorrenza fra gli erogatori di prestazioni sanitarie sarà spietata, basata su criteri di efficacia, qualità e orientamento al paziente e dovrà tener conto dell’e-business. Saranno vincenti le organizzazioni più vicine ai pazienti, con elevata qualità di servizio e minimi tempi di attesa, e che si faranno meglio conoscere attraverso il branding. Forti investimenti saranno necessari per la riqualificazione del personale. Scenari per la sanità italiana Molte di tali previsioni si sono già avverate, la risposta dei professionisti e dei sistemi che erogano prestazioni sanitarie nel nostro Paese continua a non recepire i messaggi del mercato. La mancanza di infermieri e il calo complessivo degli studenti di medicina suggerisce un’assistenza diversa per i pazienti, meno legata alla degenza ospedaliera. Per programmare fin d’ora le risorse umane e strutturali bisogna identificare le competenze necessarie per fornire prestazioni adeguate, il numero di professionisti necessari ed il modello di formazione specialistica adatto a produrre i medici necessari nel prossimo futuro e che risponda agli scenari proposti. Tenendo conto delle possibili evoluzioni demografiche, politiche, economiche e sociali si deve fin d’ora prepararsi alle modalità di erogazione delle prestazioni adeguate al bisogno in strutture a varia tipologia e distribuzione sul territorio. Tenendo per buone le analisi precedentemente fatte sui fattori predeterminati (invecchiamento della popolazione, sviluppo tecnologico ecc.) e applicando la tecnica degli scenari, cerchiamo ora di figurarci 4 situazioni alternative nelle quali le due forze inde- Sae l ute Territorio 95 terminate principali, il potere dei consumatori e l’informatica, assumono valori diversi. Il consumatore potrebbe essere informato e organizzato scarsamente come oggi, in alternativa è facile prevedere un aumento delle conoscenze generali nella popolazione, la disponibilità di informazione di buona qualità utilizzabile individualmente al momento del bisogno attraverso la diffusione di Internet, dei palmari, di bluetooth, oppure attraverso broker di organizzazioni del volontariato o for profit che seguono i potenziali pazienti e ne curano gli interessi come case manager. Una maggiore informatizzazione della sanità ridurrà la variabilità del comportamento con una sempre maggiore standardizzazione dei comportamenti medici, attraverso l’uso di protocolli e linee guida scelte forse su criteri esclusivamente economici. Il maggiore controllo e la conseguente riduzione del ruolo professionale aumenta il potere del management, in controtendenza avremmo legislazioni sulla privacy che favoriscono l’autonomia professionale. In tali ambiti potrebbero avvenire cambiamenti dirompenti, con discontinuità maggiori, che obbligheranno ad adattamenti marcati. Più prevedibile è il maggiore bisogno di assistenza di pazienti più anziani con le tipiche patologie vascolari o degenerative di quel gruppo di età. Qual è il beneficio specifico che un sistema sanitario basato prevalentemente sugli specialisti e sul ricovero ospedaliero può offrire loro e quali potrebbero essere le alternative? l ute Sa e 96 Territorio La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Se incrociamo le due forze principali, informatizzazione e controllo da parte del consumatore, dobbiamo preparaci a quattro futuri fra di loro incompatibili: un futuro simile a quello attuale (poca informatizzazione e poco potere dei consumatori), un futuro con il massimo controllo su di noi da parte di consumatori e management, un futuro con consumatori sempre più forti, ma controlli modesti ed, infine, un futuro sotto il controllo dell’informazione, ma con utenti deboli. In ognuna di queste 4 realtà sono diversi ruolo, potere, possibilità di guadagno e di carriera, ma anche conoscenze, abilità ed attitudini necessarie per sopravvivere. Perfino le competenze necessarie per la continuità del modello assistenziale odierno non sono quelle degli attuali medici ospedalieri in crisi, né degli specialisti ambulatoriali. Strutture autonome con letti, reparti, infermieri e tecnici non sono previsti in nessuno dei futuri prospettati, eccetto nell’improbabile estensione del presente. Nello scenario di un maggiore potere informatico-amministrativo, l’attuale tendenza alla riduzione dei costi si farà sempre più sentire, ben oltre alla riduzione di sprechi ingiustificati. Sempre più verrà posta la domanda se stiamo proponendo le soluzioni giuste o se non esista un modo per risolvere i problemi della grande maggioranza della popolazione, che non necessita di interventi di grande complessità, in un modo più semplice, più economico, addirittura erogato da figure professionali non mediche. Il concetto di disruptive innovation, o innovazione dirompente (Christensen et al., 2000) è già stata applicata alla sanità. In tale scenario il numero dei posti letto per acuti scenderà, i medici si limiteranno ad essere utilizzati per quelle prestazioni per i quali è necessaria la formazione prescritta, altre figure professionali con una formazione meno costosa prenderanno il loro posto in gran parte delle attuali attività del medico. Nello scenario del massimo potere del consumatore il ruolo professionale, di agenzia per il paziente deve essere ridiscusso. In qualità di agente, il medico gode tuttora di un ruolo privilegiato nella società perché ha subìto un lungo periodo di formazione ed apprendistato per imparare ad agire in modo disinteressato nel miglior interesse dei suoi assistiti. Tale ruolo si è progressivamente eroso e la risposta dei consumatori ne è la prova. Non è certo il ritorno al paternalismo che potrà risolvere tale problema, semmai la riconquista della mente e del cuore dei pazienti, attraverso atti concreti di riorganizzazione della professione. Il quarto scenario, forse il più probabile, prevede non solo sati su previsioni poco corrette, proposte dai professionisti e accettate dai politici: l’acquisto e la dislocazione delle grandi apparecchiature, l’apertura di servizi ospedalieri la cui funzione non è in relazione ai dati epidemiologici e, in genere, l’ingiustificabile mantenimento dei piccoli Ospedali, la resistenza ad accettare la loro trasformazione in strutture residenziali per persone che hanno perso la loro indipendenza. Prepararsi e proporre soluzioni ragionevoli per il futuro non è ancora diffuso in sanità. I professionisti della sanità dovrebbero affrontare i problemi gestionali nei quali sono sempre più coinvolti con minore miopia. Aggrapparsi ad una sola soluzione, accettata acriticamente, ma con ostinazione, senza comprendere le ragioni del mercato e della competizione, può rendere rapidamente obsoleto, non solo una tecnica ma addirittura un’intera disciplina. L’utilizzazione di tecniche di previsione e programmazione da parte dei professionisti è indispensabile per la sopravvivenza dello stesso ruolo professionale: sono gli stessi medici che devono capire le forze che agiscono su di loro, i possibili trend e valutare le opportunità di sopravvivere nelle mutate condizioni, adattando tempestivamente la loro offerta per anticipare i bisogni emergenti della popolazione assistita. Bibliografia Christensen C.M., Bohmer R., Kenagy J., Will disruptive innovation cure health care?, Harv Bus Rev 78: 102-12, 2000. HealthCast 2010, http://www.pwchealth.com/healthcast2010.html un’iniziale maggiore proletarizzazione degli attuali professionisti della sanità, quantitativamente in eccesso per le richieste attuali, ma anche la contemporanea ascesa di figure professionali nuove, con una formazione professionale minore e diversa, e atta a dare risposte più dirette, più semplici e, soprattutto, meno costose ai bisogni della popolazione, e che si adattino ai sempre più stretti controlli o invece – anche per malattie serie – agiscano nel mal definito mercato del wellbeing. Dovremmo infine analizzare le implicazioni delle decisioni da prendere in ogni scenario e definire gli indicatori che ci permetteranno di capire gli scostamenti dai vari scenari e di adattarci più tempestivamente allo scenario più realistico. Conclusioni La modalità di erogazione di servizi sanitari dipende da molti fattori, tutti in continua evoluzione. Il sistema più adatto alla situazione attuale potrà essere poco efficiente domani e si dovrà adattare alle nuove condizioni. Sistemi inefficienti vengono progressivamente emarginati e scompaiono. Manovre politiche o la resistenza dei singoli professionisti direttamente interessati non possono fare altro che rallentare questo processo inesorabile. Nel recente passato abbiamo già avuto degli esempi poco felici di forti investimenti ba- Le Fanu J., The rise and fall of modern medicine, Little Brown, London, 1999. Schwartz P., The art of the long view: Planning for the future in an uncertain world, Currency Doubleday, New York, 1996. Wack P., Scenarios: unchartered waters ahead, Harv Bus Rev 73-89, 1985. N. 149 - 2005 Lorenzo Roti* Emanuele Gori** Sandra Gostinicchi** Gavino Maciocco*** * Agenzia regionale di sanità, Regione Toscana ** Azienda sanitaria di Firenze *** Dipartimento di sanità pubblica, Università di Firenze H a destato un grande interesse e una forte impressione (soprattutto in Gran Bretagna) la pubblicazione di una serie di articoli sul British Medical Journal (BMJ) dedicata al confronto tra Kaiser permanente e National Health Service (NHS). Il primo esce nel gennaio 20021 e porta la firma di Richard G A Feachem, un eminente personaggio della sanità pubblica inglese – già direttore della London School of Hygiene and Tropical Medicine – trasferitosi, dopo un passaggio all’OMS, all’Università della California a dirigere l’Institute for Global Health. Le conclusioni dell’articolo sono un pugno nello stomaco per i tanti estimatori del NHS: “La popolare idea che il NHS è efficiente e che la scarsa performance in certe aree è giustificata dai bassi investimenti non è supportata da questa ricerca. Kaiser ottiene prestazioni migliori a un costo approssimativamente simile a quello del NHS grazie a un forte integrazione all’interno del sistema, a un’efficiente gestione dell’u1 La programmazione sanitaria del futuro ventennio Sae l ute Territorio 97 Innovazione e qualità dell’assistenza so degli Ospedali, ai benefici della competizione e a maggiori investimenti nell’information technology”. L’operazione più complessa e ardita dell’articolo è la comparazione dei costi tra il NHS, un sistema universalistico che assiste l’intera popolazione del Regno Unito (59.5 milioni di abitanti), e Kaiser California, una HMO “non profit” che assiste attraverso un meccanismo assicurativo solo una piccola parte della popolazione americana (6.1 milioni di abitanti). Una comparazione resa possibile attraverso una serie di standardizzazioni: per età (la popolazione britannica è molto più anziana), per condizioni socio-economiche (il NHS assistendo tutta la popolazione si fa carico delle fasce più povere e dei gruppi più svantaggiati, mentre la quasi totalità della popolazione assistita da Kaiser è rappresentata da lavoratori dipendenti e dalle loro famiglie), per potere di acquisto (i servizi sanitari americani sono il 52% più cari di quelli britannici). La conclusione – after adjustments – è “Kaiser Permanente” e “Chronic Care Model”: due organizzazioni sanitarie a confronto che il costo pro-capite è per il NHS (2000/2001) di $1764, mentre per Kaiser California $1951, solo il 10% in più. Conclusioni fortemente contestate da un recente articolo comparso su British Journal of General Practice2, firmato tra gli altri da Allyson M Pollock, una combattiva esperta di politica sanitaria, che correggendo le standardizzazioni arriva alla conclusione che i costi pro-capite di Kaiser California sono del 40% più elevati di quelli del NHS ($1951 vs $1161). Meno esposto alle contestazioni è invece il confronto sulla struttura e sulla performance. In generale Kaiser registra risultati simili o migliori rispetto al NHS. Ciò che appare evidente è una struttura delle cure primarie molto più robusta, compatta e attrezzata da parte di Kaiser, con tempi di attesa più ridotti, più attenzione alle esigen- ze dei pazienti, una maggiore disponibilità di specialisti. Ma l’aspetto certamente più sorprendente è il minore utilizzo (di ben due terzi! – 327 vs 1000 giornate di degenza per 1000 abitanti) dei letti ospedalieri da parte degli assistiti di Kaiser. Il successo di Kaiser risiede soprattutto nella capacità di limitare il ricorso all’Ospedale (minori ammissioni) e l’uso dell’Ospedale (degenze più brevi). “Limitare il numero dei letti – sostengono Feachem & coll. – permette di liberare grandi somme di denaro per finanziare strutture di cure primarie comode e comprensive, Centri di chirurgia ambulatoriale, il miglioramento dell’information technology, e altre iniziative. Inoltre le scarse risorse cliniche (come i medici e gli infermieri) possono essere più efficacemente utilizzate per la prevenzione, per la gestione delle ma- R.G.A. Feachem, N.K. Sekhri, K.L. White, Getting more for their dollar: a comparison of the NHS with California’s Kaiser Permanente, BMJ 2002, 324: 135-43. 2 A. Talbot-Smith, S. Gnami, A.M. Pollock, D. Pereira Gray, Questioning the claims from Kaiser, British Journal of General Practice 2004, 54, 415-421. l ute Sa e 98 Territorio lattie croniche, per l’assistenza domiciliare, per servizi di supporto per mantenere sane le persone e renderle funzionalmente indipendenti”. Ed ecco la stoccata rivolta al NHS: “Se il NHS avesse lo stesso utilizzo degli Ospedali di Kaiser potrebbe risparmiare fino a 40 milioni di giornate di degenza, equivalenti a 10 miliardi di sterline (circa 15 miliardi di Euro). Risparmi che rappresentano più del 17% del budget del NHS e che potrebbero essere più utilmente spesi per migliorare gli stipendi del personale, per migliorare le strutture e le attrezzature, per migliorare l’information technology. Kaiser, come la maggior parte delle organizzazioni sanitarie americane, rivolge più attenzione e destina più risorse per monitorare i ricoveri ospedalieri, per ridurre la durata di degenza, per creare programmi di gestione delle malattie croniche, per tenere aperti gli studi medici la notte e i weekend, per ridurre il ricorso ai Dipartimenti di emergenza nelle situazioni che non lo richiedono”. Il secondo paper della serie esce nel novembre 20033, ed è opera di un gruppo di inglesi, guidati da Chris Ham, direttore dell’Unità strategica del Ministero della sanità. Li spinge evidentemente la curiosità di approfondire le dinamiche che rendono possibile a Kaiser di contenere a livelli così bassi l’utilizzo degli Ospedali. Lo studio riguarda La programmazione sanitaria del futuro ventennio oltre i ricoveri ospedalieri (per le 11 principali cause di ricovero) dei pazienti ultrasessantacinquenni di Kaiser, anche il complesso degli assistiti di Medicare (Programma federale di assistenza agli anziani) della California – confrontato con i dati del NHS, ed arriva alle seguenti conclusioni: “L’utilizzazione dei posti letto nel NHS per le 11 più importanti cause di ricovero è tre volte e mezzo superiore rispetto al tasso standardizzato di Kaiser e due volte superiore rispetto al tasso standardizzato di Medicare California, e più del 50% superiore rispetto al tasso standardizzato di Medicare in tutti gli Stati Uniti. Kaiser ottiene questi risultati attraverso una combinazione di bassi tassi di ricovero e una relativamente ridotta durata di degenza. Il NHS può imparare molto dall’approccio integrato di Kaiser, da una particolare attenzione alla gestione delle malattie croniche, dall’enfasi riposta nel self-care, dal ruolo delle cure intermedie, e dalla motivazione mostrata dai medici nello sviluppare questo modello di assistenza”. L’articolo si basa non solo sull’analisi dei dati ospedalieri, ma anche su visite alle strutture e interviste a manager e professionisti di Kaiser effettuate in loco. Due sono gli aspetti che Ham & coll. evidenziano per spiegare il successo di Kaiser: 1. Il modello integrato di assistenza. In primo luogo, una forte integrazione tra cure primarie e secondarie. Ciò consente ai pazienti di muoversi facilmente tra l’Ospedale e la comunità, o verso le skilled nursing facilities (equivalenti alle nostre RSA, ad alta intensività assistenziale infermieristica e riabilitativa). I medici specialisti vengono distaccati dall’Ospedale e lavorano fianco a fianco con i generalisti all’interno di gruppi medici multidisciplinari. Gli specialisti non ricevono alcun incentivo a ricoverare i pazienti o a tenerli in Ospedale più del tempo necessario, viceversa tutti i medici (specialisti e generalisti) ricevono incentivi se riescono a minimizzare l’uso dell’Ospedale. Ed inoltre forte integrazione tra prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Ciò è particolarmente evidente nella gestione delle malattie croniche, come nel caso dello scompenso cardiaco e dell’asma, dove l’assistenza a questo tipo di pazienti è erogata all’interno di una cornice di linee guida basate su prove di efficacia e attivamente gestita in tutti gli stadi della malattia. 2. La gestione dei processi assistenziali. L’uso di percorsi assistenziali (care pathways) è utilizzato per numerose patologie. Ad esempio nel caso degli interventi di protesi d’anca e di ginocchio nei protocolli è specificato ciò che deve N. 149 - 2005 avvenire ogni giorno di degenza ospedaliera; inoltre una equipe di operatori è dedicata all’organizzazione della dimissione per fare in modo che i pazienti non rimangano nella struttura oltre il necessario e contemporaneamente si impegna a facilitare il loro ritorno a casa, attraverso l’addestramento alla self-care, il supporto di personale a domicilio e la disponibilità di un contatto telefonico per ogni necessità o consiglio. Le skilled nursing facilities entrano in gioco quando non è possibile il rientro immediato a domicilio e giocano un ruolo fondamentale nella riduzione delle giornate di degenza. Una riflessione conclusiva4 (per ora) sui due paper BMJ la affida a due analisti indipendenti: un inglese, Michael Dixon, presidente di NHS Alliance (l’istituzione che rappresenta la maggioranza dei Primary Care Trust, le organizzazioni del NHS che gestiscono le cure primarie) e un americano, Donald Light, professore di sociologia all’università di Princeton, noto estimatore dei sistemi sanitari universalistici e generalmente critico verso la sanità USA. Il titolo dell’articolo “Rendere il NHS più simile a Kaiser Permanente” non lascia dubbi sulle conclusioni degli autori: il Servizio sanitario nazionale britannico ha diverse lezioni da apprendere 3 C. Ham, N. York, S. Such, R. Show, Hospital bed utilization in the NHS, Kaiser Permanente, and the US Medicare programme: analysis of routine data, BMJ 2003, 327: 1257-62. 4 D. Light, M. Dixon, Making the NHS more like Kaiser Permanente, BMJ 2004, 328: 763-5. N. 149 - 2005 dalla HMO americana. La prima e più importante lezione ha a che vedere con la cultura e col tipo di clinical governance che permeano l’organizzazione di Kaiser, fin dalle origini, da quando i medici erano reclutati sulla base delle loro motivazioni, della loro adesione all’idea del mantenimento della salute e dell’approccio integrato ai problemi dei pazienti. “La fondamentale lezione da Kaiser Permanente – affermano Light & Dixon – è che i clinici devono gestire i servizi – l’insieme di tutti i servizi – con una responsabilità bottom line condivisa. I medici di Kaiser, sia i generalisti che gli specialisti, hanno deciso che il modo più efficace per allocare il loro budget condiviso, in un’era di medicina specialistica sofisticata, è quello di poter trattare i pazienti in Centri sanitari multi-disciplinari e multi-specialistici dove il team delle cure primarie lavora, pranza, e socializza con gli infermieri e i medici specialisti, con i tecnici di laboratorio e di radiologia, e con il team dei farmacisti. I pazienti scelgono il loro medico di famiglia, ma in sede c’è la possibilità di una rapida valutazione da parte dei più comuni specialisti o di un tempestivo ricorso agli accertamenti diagnostici. Recentemente questo tipo di approccio è integrato e potenziato La programmazione sanitaria del futuro ventennio da un sistema informativo elettronico condiviso da tutti i professionisti.” La fedeltà, poi, all’organizzazione: uno non può servire due padroni, soprattutto se il secondo padrone è il proprio portafoglio (con una chiara allusione al diffondersi della pratica privata tra gli specialisti inglesi). “I medici di Kaiser lavorano solo per Kaiser, ma allora Kaiser compensa i suoi clinici con i prezzi di mercato”. Il NHS scarica le sue inefficienze e i suoi sprechi sui pazienti: pochi vengono trattati, i più aspettano; sull’altro versante le inefficienze e gli sprechi colpiscono il budget di tutti i medici di Kaiser, che condividono gli incentivi per trattare i pazienti precocemente e velocemente. La seconda lezione è la solida integrazione tra cure primarie e secondarie, con un unico budget che incoraggia i medici a tenere i pazienti lontani dall’Ospedale. Anche il NHS promuove – sulla carta – un tale tipo di integrazione affidando ai Primary Care Trust il ruolo di committente nei confronti degli Ospedali, anche attraverso l’elaborazione di percorsi assistenziali condivisi, ma le tendenze attuali vanno in una direzione molto diversa. La politica di trasformare gli Ospedali in fondazioni, privatizzandoli, porterà a separare sempre più le cure primarie da quelle se- condarie. “Celebrare l’eccellenza è buona cosa, ma ci può essere il pericolo nel rafforzare gli Ospedali prima che i Primary Care Trust siano in grado di sviluppare le loro capacità di committenza.” E, infine, una critica a C. Ham, stratega della politica sanitaria inglese e autore del secondo paper: “Di questi problemi neanche una menzione nei suoi rapporti”. Gestire le malattie croniche “Cosa possiamo imparare dall’esperienza americana?” L’attenzione a quanto di meglio può esprimere la sanità americana – sull’onda dei paper del BMJ – ha portato il King’s Fund (www.kingsfund. org.uk), la più prestigiosa istituzione di ricerca britannica, a esplorare un campo assolutamente centrale nell’organizzazione dei servizi sanitari, quello della gestione delle malattie croniche, anche in questo caso utilizzando il metodo del case study e del confronto con quanto avviene nel NHS (con relative raccomandazioni finali)5. La scelta del tema, le malattie croniche, non è affatto casuale: il modello di organizzazione sanitaria elaborato da Kaiser, basato sul potenziamento delle cure primarie, su una forte integrazione tra queste e le cure secondarie e sullo sviluppo delle cure intermedie, si è rivelato vin- Sae l ute Territorio 99 cente soprattutto nella gestione di quelle malattie – quali diabete, malattie cardio-circolatorie e cerebro-vascolari, asma e broncopatia cronica ostruttiva – che colpiscono milioni di persone, sono responsabili di oltre il 70% dei decessi, causano migliaia di morti premature ed evitabili, hanno effetti dirompenti sul tessuto sociale e familiare, e assorbono enormi risorse dei servizi sanitari. I ricercatori del King’s Fund, nella loro trasferta negli USA, hanno selezionato 5 MCOs – tra cui Kaiser Permanente (North California) – sulla base dei seguenti criteri: 1. Elevate prestazioni nella gestione delle malattie croniche, documentate dal sistema informativo del National Center for Quality Accreditation, Health Employer Data Information Set (HEDIS) che misura le performance delle MCOs americane6. 2. Servire una popolazione di almeno 100 mila abitanti. 3. Coprire una popolazione composita, rappresentativa delle diverse fasce di popolazione, comparabile con quella britannica. Tre i campi oggetto di osservazione ed analisi (corrispondenti – secondo il modello concettuale di Ferlie e Shortell – ai fattori più direttamente coinvolti nel successo dell’assistenza a pazienti con 5 J. Dixon, R. Lewis, R. Rosen, B. Finlayson, D. Gray, Managing chronic disease. What can we learn fron the US experience?, King’s Fund, January 2004. 6 Gli indicatori di HEDIS relativi alla gestione delle malattie croniche riguardano: a) Accesso ai servizi: accesso ai servizi preventivi, tempi di attesa, etc.; b) Assistenza sanitaria delle malattie mentali: follow up dopo un’ospedalizzazione; c) Assistenza ai bambini e agli adolescenti: coperture vaccinali; d) Convivere con le malattie: controllo della pressione arteriosa, trattamento con ß-bloccanti dopo un attacco cardiaco, controllo del colesterolo, controllo del diabete, uso appropriato dei farmaci antiasmatici, gestione dei farmaci antidepressivi; e) Mantenersi sani: copertura degli screening oncologici femminili, screening della clamidia nelle donne, assistenza prenatale e postnatale. l ute Sa e 100 Territorio malattie croniche): A. Il contesto ambientale (the wider environment): le forze esterne che influenzano le azioni delle organizzazioni sanitarie, i manager e i clinici, come i meccanismi di mercato, le normative, e lo sviluppo di certi trend, come il “consumerismo”. B. L’assetto organizzativo (the organizational domain): la struttura, il management, l’operatività delle istituzioni sanitarie; per es: la cultura del management, il coinvolgimento dei clinici nel management, gli incentivi finanziari. C. I processi assistenziali (the clinical process): l’erogazione dei servizi ai pazienti a livello del team clinico; per es. il numero e le qualifiche degli operatori disponibili, i percorsi assistenziali. The “Chronic Care Model” Tutte le 5 MCOs oggetto della ricerca utilizzano sistemi espliciti di gestione delle malattie croniche, avendo come riferimento il Chronic Care Model, elaborato dal Prof. Edward H. Wagner, direttore del MacColl Institute for Healthcare Innovation. Il modello è stato originalmente sperimentato presso una MCO di Seattle, la Group Health Cooperative, ed è frutto di una revisione della letteratura e delle evidenze scientifiche effettuata da un panel di esperti USA. La filosofia del modello è che il miglioramento della qualità dell’assistenza per i pazienti affetti da malattie croniche, 7 La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 in particolare coloro a maggiore rischio di disabilità e di morte prematura, si consegue attraverso un approccio proattivo (in grado cioè di prevedere e prevenire eventuali complicazioni e aggravamenti della malattia), il coinvolgimento dei pazienti, delle famiglie e della comunità, la forte integrazione tra cure primarie e secondarie, l’utilizzazione di percorsi assistenziali e di linee guida evidence-based, la motivazione dei professionisti anche attraverso adeguati incentivi. Intervenire pro-attivamente nelle malattie croniche significa attuare alcune fondamentali strategie, la prima delle quali è la stratificazione del rischio (risk stratification), ovvero l’identificazione di pazienti con differenti livelli di rischio, basata sul precedente uso dell’assistenza sanitaria (es: ricoveri ospedalieri), sulla co-morbilità, e sulla presenza di markers di gravità di malattia. La selezione dei pazienti ad alto rischio, che avviene necessariamente con l’utilizzo di software elettronici, porta a identificare un gruppo di malati (una percentuale variabile, a seconda delle MCOs, dall’1 al 5% della popolazione arruolata) per i quali vengono attivate forme personalizzate di gestione attiva del caso (case management). Il case manager è generalmente un infermiere specializzato, che lavora a fianco del medico di famiglia e degli specialisti; i suoi compiti sono quelli di coor- zienti (es: nel caso che abbiano saltato un controllo), educatori sanitari accreditati, analisti e programmatori informatici, infermieri specializzati, case managers, coordinatori dei programmi di disease management. (…) Ciascuna organizzazione ha istituito efficaci incentivi finanziari per promuovere il case e disease management, basati sul principio pay for performance; il coinvolgimento dei medici in queste strategie è stato facilitato dall’impegno dei medici leader”. dinare gli interventi, monitorare i markers di gravità della malattia, migliorare l’educazione del paziente e promuovere l’auto-cura, dare consigli sui farmaci e vigilare sulla compliance (gran parte di queste attività avviene per via telefonica). Per i pazienti affetti da malattie croniche con livelli minori di rischio tutte le MCOs esaminate attuano forme di disease management che prevedono: l’istituzione di registri elettronici di malattia che consentono il regolare monitoraggio dell’assistenza per ciascun paziente, l’uso di protocolli clinici e linee guida, regolari attività di clinical review tra diversi professionisti basate su informazioni molto accurate, produzione e diffusione di materiale educativo per i pazienti e promozione del self-management, organizzazione di sessioni educative per gruppi omogenei di pazienti. “Le attività sopradescritte – osservano i ricercatori del King’s Fund – riflettono il sistema di valori che è alla base delle MCOs che abbiamo visitato. Ciascuna MCO considera la buona assistenza ai pazienti con malattie croniche come l’elemento centrale per l’erogazione di un servizio efficace e ciascuna è fortemente risoluta – dato il favorevole ambiente di mercato – a investire nelle risorse necessarie (personale, sistemi informativi, programmi educativi, etc). Il personale coinvolto include: personale amministrativo impiegato per contattare i pa- C. Smith et al., Health spending growth slows in 2003, Health Affairs 2005, vol. 24, n. 1, 185-194. Conclusioni Il sistema sanitario americano è notoriamente complesso, oltre che molto discusso. Fanno discutere i suoi elevatissimi costi: nel 2003 la spesa sanitaria totale ha superato per la prima volta la soglia del 15% del PIL (15,3%), raggiungendo in termini assoluti la cifra di 1.679 miliardi di dollari, equivalenti a una spesa sanitaria procapite di $ 5.690 7. Fa discutere il ritmo di crescita di questa spesa che, dopo aver registrato un rallentamento durante la metà degli anni Novanta, ha quasi ripreso la forza degli anni ottanta: +8,0% nel 2001, +9,3% nel 2002, +7,7% nel 2003 (un calo rispetto all’anno precedente dovuto soprattutto alle limitazioni di crescita imposte al settore pubblico, in particolare al settore dell’assistenza ai poveri, Medicaid). La crescita della spesa – più che di un’espansione dei consumi – è espressione di una lievitazione generale dei prezzi delle N. 149 - 2005 prestazioni e dei premi assicurativi 8, che sta provocando una progressiva erosione dei livelli di copertura della popolazione americana: l’incremento delle spese out-ofpocket degli assistiti, l’impressionante crescita della popolazione non assicurata. Dal 2000 al 2003 la quota di popolazione non assicurata sul totale della popolazione è passata 8 9 La programmazione sanitaria del futuro ventennio dal 14,2 al 15,6%; nel 2003, secondo le stime del US Census Bureau 9, circa 45 milioni di cittadini americani erano privi di qualsiasi forma di assicurazione (5 milioni in più rispetto al 2000). Una situazione che colpisce le fasce più deboli della popolazione: i disoccupati (25.7% di non assicurati), i soggetti da 18 a 24 anni (29,6%), le famiglie con reddi- to inferiore ai 25.000 dollari (23,5%), la popolazione nera (20,2%) e di origine ispanica (32,4%). Ma il volto della sanità americana non è solo questo; nell’estrema complessità e variabilità del sistema sanitario Usa possiamo trovare tutto il male, ma anche tutto il bene possibile. Troviamo, ad esempio, che il settore pubblico finanzia investimenti in ri- Sae l ute Territorio 101 cerca medica per qualcosa come 40,2 miliardi di dollari (da questa cifra sono esclusi i contributi erogati alle industrie farmaceutiche); troviamo organizzazioni sanitarie che non solo erogano prestazioni di eccellente qualità, ma che sperimentano con successo modelli di cura innovativi e costruiti intorno ai bisogni dei pazienti. G.F. Anderson et Al., It’s the prices, stupid: why the United States is so different from the other countries, Health Affairs 2003, vol. 22, n. 3, 89-105. U.S. Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United States, 2003. (segue da pag. 93): Una transizione epocale Bibliografia 1. Department of Economic and Social Affairs PD, World population in 2003: Proceedings of the United Nations Expert meeting on World population in 2300, New York, United Nations, 2004. 2. Montgomery K., The demographic transition. 2005, 3-6-2005, Ref Type, Slide. 3. Omran A.R., The epidemiologic transition. A theory of the epidemiology of population change, Milbank Mem Fund Q 1971, Oct, 49(4): 509-38. 4. Murray C., Lopez A.D., The Global Burden of Disease: a comprehensive assessment of mortality and disability from diseases, injuries and risk factors in 1990 and projected to 2020, Cambridge, Harvard University Press, 1996. 5. Reddy K.S., Yusuf S., Emerging epidemic of cardiovascular disease in developing countries, REDDY1998, Circulation 1998, 97: 596-601. 6. Chockalingam A., Impending the global epidmic of cardiovascular disease, World Heart Federation, 1999. 12. 1999 World Health Organization - International Society of Hypertension guidelines for the management of hypertension, J Hypertension 1999, 17: 151. 13. 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Paccaud F., Rejuvenating health systems for aging communities, Aging Clin Exp Res 2002 Aug, 14(4): 314-8. l ute Sa e 102 Territorio Luigi Tonelli Carlo Felice Saccani* AUSL di Siena * Fondazione Salvatore Maugeri, Pavia C ome è noto, i progressi della medicina e la riduzione delle più comuni malattie infettive per mezzo degli antibiotici hanno portato in evidenza l’invecchiamento della popolazione e il prevalere di stati morbosi persistenti, nella forma di malattie croniche. Le malattie a lungo decorso possono essere fisicamente invalidanti (come il diabete, la degenerazione maculare senile, la sclerosi multipla, l’insufficienza cardiaca, l’artrosi), essere causa di dolore invalidante (come ancora l’artrosi, la colite ulcerativa o l’endometriosi), essere socialmente invalidanti (come la psoriasi o l’ incontinenza), essere causa di esclusione sociale (come le malattie mentali e l’epilessia). Naturalmente, i pazienti affetti da malattie croniche, di lungo o lunghissimo decorso, hanno necessità dell’opera specifica dei medici e degli altri specialisti che operano solitamente in “Centri specialistici”, o in “Centri di riferimento” nei casi di malattie meno diffuse. La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 La formazione del “paziente esperto” L’acquisizione delle conoscenze da parte dei “pazienti esperti” deriva principalmente dalla propria personale esperienza, da ripetuti contatti con i medici ed il personale del Centro specialistico presso il quale sono in trattamento, dalle conversazioni casuali con altri pazienti della stessa patologia, da letture di stampa di divulgazione o da ascolti occasionali di trasmissioni radiofoniche o televisive. Non di rado, tuttavia, le conoscenze sono acquisite in maniera frammentaria, mancano di corrette basi fisiopatologiche, o si avvalgono di analogie o interpretazioni non appropriate. In ogni caso, anche nelle migliori condizioni, le acquisizioni di conoscenze attraverso la personale esperienza o attraverso la raccolta frammentaria di informazioni più o meno approssimate richiede molto tempo prima che il paziente possa considerarsi “paziente esperto”, mentre per molte ragioni cliniche e pratiche sarebbe auspicabile che il paziente fosse posto in L’organizzazione di un corso per la condivisione delle scelte terapeutiche del curante grado di aiutarsi efficacemente fin dalle prime fasi della malattia. Il raggiungimento di questo patrimonio di conoscenze e di esperienze non può essere lasciato al caso o alla occasionalità, ma deve essere preparato e programmato in maniera appropriata. Per una migliore efficacia ed una buona rassicurazione dei pazienti e dei loro famigliari è molto utile che gli interventi di formazione possano avvalersi anche dell’ opera di pazienti e famigliari che hanno già vissuto la patologia fino a diventarne essi stessi “esperti”. Le rilevazioni epidemiologiche hanno infatti dimostrato con evidenza scientifica (epidemiologia basata sull’ evidenza delle prove) l’efficacia del self-management da parte dei “pazienti esperti” per migliorare il proprio stato di salute, per contenere il ricorso a prestazione ambulatoriale e per ridurre i ricoveri ospedalieri dovuti a riacutizzazione nel caso della cronicità. Nelle pagine che seguono viene presentata la strutturazione di un corso di formazione per “paziente esperto”, destinato a gruppi di 8-16 pazienti, della durata di 15 ore, nel quale accanto al docente di tutoraggio si ha l’apporto di un paziente già esperto per favorire il passaggio delle esperienze e delle informazioni, per trasferire ad altri quello che gli è stato insegnato e che ha sperimentato personalmente. La strutturazione dei corsi per “paziente esperto” è molto standardizzata nelle parti generali, lasciando un margine di variabilità solo all’insegnamento delle procedure specifiche per patologia. Il corso può essere finalizzato ad una specifica patologia (ad esempio l’artrosi e in partico- Il Corso di self-management descritto in questo articolo è interamente derivato dal modello originale ideato e diretto alla Stanford University School of Medicine dal Prof. Kate Lorig, Direttore del Patient Education Research Centre. Il programma formativo Stanford è attualmente sviluppato da organizzazioni sanitarie pressoché in tutto il mondo. In Europa viene svolto attualmente in sette Nazioni tra cui l’ Italia, dove dispongono della licenza d’uso l’ Azienda USL di Siena e la AISM. Per ulteriori informazioni e per avere una bibliografia aggiornata si rinvia al sito web della Stanford University all’indirizzo http://patienteducation.stanford.edu/. N. 149 - 2005 lare il dolore di origine artrosica) ma può essere anche di carattere generale, per dare una soluzione ai problemi comuni a tutte le cronicità. Per effetto della pressione sui Sistemi sanitari causata dall’incremento delle cronicità in conseguenza dell’invecchiamento delle popolazioni i programmi di formazione specifica per pazienti possono suscitare sempre più vasto interesse e numerose applicazioni in Sistemi sanitari in tutti i Paesi. Si ritiene che il termine “paziente esperto” risulti più efficace di “self-management” per esprimere il risultato atteso dal periodo di formazione, che è quello di trasformare individui passivi in soggetti responsabili in grado di condividere le decisioni con i curanti. Nelle pagine seguenti si riporta il piano di svolgimento di un corso di formazione per “paziente esperto”. Le parti più strettamente mediche – in particolare gli esercizi fisici, la nutrizione e l’assunzione di farmaci – possono essere tanto generiche quanto specifiche per patologia. È prevista la consegna ai partecipanti di documentazione informativa per facilitare l’apprendimento e la memorizzazione degli argomenti in trattazione. Nel prosieguo del testo e delle iniziative si utilizzerà prevalentemente la dizione “malattie croniche”, per brevità, per indicare le malattie croniche stesse, o gli stati morbosi persistenti, o le malattie di lungo decorso, che possono essere curate ma non guariscono. La programmazione sanitaria del futuro ventennio Corso “La partecipazione del paziente nel trattamento degli stati morbosi persistenti e delle malattie croniche” Risultati attesi • Il miglioramento, la stabilizzazione o un deterioramento rallentato per una maggiore proporzione di pazienti con malattie croniche • La acquisizione di buone capacità pratiche per trattare efficacemente specifici aspetti della malattia (dolore, complicanze, uso di farmaci e presidi) per un maggior numero di pazienti • Minore invalidità da stanchezza, disturbi del sonno, scarsa energia per i pazienti con malattia cronica che divengono esperti della propria malattia • La acquisizione della capacità pratica di affrontare le conseguenze emozionali della malattia per i pazienti esperti • Il mantenimento della capacità lavorativa per una maggiore proporzione di pazienti con malattie croniche • Uno stile di vita più salutare (corretta nutrizione, esercizio fisico, giusto peso corporeo) per maggior numero di pazienti con malattie croniche • Un rapporto più fattivo e corretto con i servizi assistenziali e sociali da parte di un maggior numero di pazienti con malattie croniche • Buone informazioni sulla malattia e sul suo decorso, maggiore consapevolezza nei contatti con i sanitari ed un livello più alto di autostima per un maggior numero di pazienti con malattie croniche • Riduzione del numero di giorni di degenza in Ospedale e meno prestazioni ambulatoriali per i pazienti con malattie croniche • I pazienti esperti possono più utilmente collaborare alla programmazione dei servizi sanitari • I pazienti esperti possono fornire utili consigli e indicazioni agli altri pazienti Regole per il formatore 1. All’inizio di ciascuna sessione deve essere indicato il programma della stessa. 2. I limiti di tempo di ciascuna sessione (2 ore e mezzo) non devono mai essere superati; deve essere prevista la disponibilità del formatore per 15 minuti dopo la conclusione per eventuali richieste individuali. 3. A metà di ciascuna sessione deve essere prevista una sosta di 10’ per il coffee-break e per gli scambi interpersonali tra i partecipanti. Sae l ute Territorio 103 4. Nel corso delle sessioni occorre stimolare la partecipazione, ma senza forzature e frenando gli interventi dei monopolizzatori. 5. È bene usare tecniche di rinforzo per stimolare i più timidi. 6. Il formatore può avvalersi della propria aneddotica personale o del proprio ambito di conoscenze come paziente. Tuttavia i racconti personali devono essere brevissimi (di regola non più lunghi di un minuto). 7. In tutta la sessione occorre controllare gli interventi per evitare di divergere dal programma. 8. Per le discussioni e per ricercare le soluzioni ai problemi utilizzare il “brainstorming” (v. box) per definire chiaramente il problema e stimolare l’individuazione delle soluzioni. Piano generale del corso Il Piano generale del Corso deve essere presentato all’inizio in forma sintetica, come nell’esempio in tabella, e, sessione per sessione, deve Brainstorming Svolgimento del brainstorming 1. Definire chiaramente il problema 2. I singoli componenti del gruppo formulano delle ipotesi di soluzione 3. Il gruppo sceglie le soluzioni apparentemente più adatte (ranghi) 4. Il gruppo valuta i risultati ottenibili con la soluzione più adatta 5. Se i risultati sono insoddisfacenti il gruppo valuta i risultati ottenibili con la seconda migliore soluzione (e così via) Regole per il formatore/conduttore in corso di brainstorming • Non ammettere discussioni e commenti fino al termine • Se il gruppo è silenzioso ASPETTARE • Non interpellare direttamente i singoli • Scrivere le proposte in maniera visibile a tutti l ute Sa e 104 Territorio essere ripresentato spuntando quanto già fatto. I Piani di azione Al termine di ciascuna sessione viene dato a ciascuno un impegno per il periodo che intercorre fino alla sessione successiva che concerne l’applicazione pratica di quanto insegnato. La tipologia dell’impegno non deve essere imposta ma deve essere scelta dal partecipante o comunque concordata con lui per verificarne l’effettiva accettazione. L’impegno viene descritto in un Piano di azione. Il Piano di azione è così composto: I. TITOLO - Il partecipante scrive cosa farà nella settimana (non cosa proverà a fare) II. PIANO - Il partecipante descrive cosa farà, come lo farà, quante volte lo farà e in quali orari (o momenti della giornata). Nella descrizione è meglio non sbilanciarsi in eccesso ma piuttosto stare sul minimo certo III. FATTIBILITÀ - Il partecipante attribuisce un valore da 0 a 10 alla probabilità di riuscire effettivamente a svolgere il Piano. Se la stima è inferiore a 7 significa che c’è scarsa convinzione di condurre a termine l’impegno. In questo caso è opportuno cercare un altro argomento che riceva una stima di almeno 7. La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Titoli / Argomenti Sessioni n. Malattie croniche. Concetti generali e raffronto con le forme acute 1 Realizzare un Piano d’azione 1, 2, 3, 4, 5 Rilassamento e gestione dei disturbi cognitivi 1, 3, 4, 5, 6 Restituzione dei Piani d’azione predisposti (homework) 2, 3, 4, 5, 6 Gestione di rabbia, paura, frustrazione 2 Esercizi fisici 2, 3 Respirazione 3 Fatica 3 Nutrizione 4 Comunicazione 4 Farmaci 5 Decisioni sulla terapia 5 Gestire la depressione 5 Collaborare con il personale sanitario 6 Formulare piani per il futuro 6 Introduzione alla Prima sessione Il formatore chiede a tutti di impegnarsi ad essere sereni, obiettivi ed espliciti all’ interno del corso, ma riservati all’esterno su quanto viene detto dai singoli partecipanti durante gli incontri. A tutti i partecipanti devono essere distribuiti dei cartellini identificativi su cui gli stessi scrivono il proprio nome di battesimo o, se preferiscono, un soprannome indicativo. Soprattutto nella prima sessione, ma anche nelle successive, è utile che il formatore sia assistito da un collaboratore. I partecipanti sono invitati a chiedere tutti i chiarimenti necessari. I partecipanti si devono inoltre impegnare ad essere presenti a tutti gli incontri, a svolgere i Piani di azione che decidono di intraprendere, ad utilizzare per almeno due settimane le tecniche apprese prima di decidere sulla loro eventuale inefficacia, a individuare fra gli altri partecipanti un interlocutore di fiducia o comunque un interlocutore preferenziale con il quale intrattenere contatti telefonici sul lavoro che viene svolto tra una sessione e l’altra. Il corso ha avvio con le presentazioni dei partecipanti. Innanzi tutto quella del formatore. La sua personale presentazione deve essere preparata in precedenza in quanto le presentazioni dei singoli partecipanti saranno formulate a imitazione di questa. Una corretta formula può essere:”mi chiamo …, soffro della malattia ….; questa malattia è un problema per la mia vita, in quanto … “. Ciascuno illustra i problemi principali che lo affliggono (non più di due o tre) e questi vengono scritti in modo da poter essere visti da tutti, e in seguito aggregati per affinità. Se alla sessione sono presenti anche persone non affette da malattie croniche (famigliari, accompagnatori ecc.), anche loro illustrano quali sono i problemi che derivano dalla malattia cronica della persona che assistono. N. 149 - 2005 La programmazione sanitaria del futuro ventennio Sae l ute Territorio 105 Settimana 1. Sessione 1 Argomenti: le malattie croniche. Autogestione delle cronicità. Il Piano di azione per risolvere i problemi. Rilassamento. Disturbi cognitivi. Assegnazione di un Piano d’Azione. 1. Cosa è una malattia cronica. Identificazione dei problemi comuni a tutti i partecipanti e possibilità e limiti dell’autogestione. 2. Descrizione del ciclo malattia – manifestazioni patologiche e introduzione alle tecniche per interromperlo. Il ciclo parte dalla malattia cronica, che determina stato di tensione e ansia, che comportano emozioni di rabbia e paura e quindi senso di frustrazione per l’incapacità a risolvere la situazione. Quindi subentra uno stato depressivo, cui segue una situazione di profonda stanchezza e infine peggioramento dei sintomi. 3. Introduzione alle tecniche per interrompere il ciclo malattia-sintomi. Respirazione e altre tecniche di rilassamento, con esercizi di respirazione. 4. I disturbi cognitivi. Un peggioramento delle funzioni cognitive accompagna molte malattie croniche. Può manifestarsi come riduzione della rapidità di ragionamento, scadimento della capacità di attenzione, affaticamento mentale, riduzione della memoria, aumentata difficoltà di apprendimento, difficoltà nell’espressione verbale ecc. Di solito i disturbi cognitivi connessi ad una malattia cronica sono scarsamente suscettibili di trattamento. Occorre allora affrontare il problema in modo diverso, e quindi: a) Prendere coscienza del problema e accettarlo. b) Cercare strategie utili a minimizzare le difficoltà (ad esempio per i problemi di memoria utilizzare pro-memoria e scadenzari di vario tipo e cercare abitudini di vita ripetitive, per l’affaticabilità ridurre il ritmo di attività a livelli sostenibili, per i disturbi dell’ attenzione non affrontare contemporaneamente più situazioni ecc.). c) Non avere timore di dichiarare le proprie difficoltà, riducendo con ciò la difficoltà di dover dissimulare, la frustrazione conseguente all’insuccesso e all’incomprensione altrui. 5. Affidamento di un Piano di azione sull’applicazione delle tecniche di rilassamento e di uno sulla risposta a deficit cognitivi. Settimana 2. Sessione 2 Argomenti: discussione dei Piani di Azione della Sessione 1. Affrontare rabbia, frustrazione e paura. Gli esercizi fisici. Assegnazione di un Piano d’azione 1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi. 2. Rabbia, paura e frustrazione (ciclo malattia-sintomi). Discussione di gruppo in merito a queste sensazioni, in particolare come e in che misura riguardano la vita dei partecipanti e come questi cercano si vincerle. 3. Esercizio fisico. Si esamina il ciclo malattia-sintomi e si illustra come l’esercizio fisico, a partire dalla semplice passeggiata, intervenga a bloccarne lo sviluppo. 4. Si illustrano gli esercizi fisici. 5. Si discute quale possa essere per ciascun partecipante l’esercizio più idoneo e quale sia per ciascuno il punto di partenza per iniziare un programma di esercizi. 6. Affidamento di un Piano di azione sugli esercizi fisici. Settimana 3. Sessione 3 Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 2. Esercizi di respirazione. Esercizi di rilassamento. Assegnazione di un Piano d’azione 1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi. 2. Esercizi di respirazione. Ginnastica aerobica. 3. Esercizi di rilassamento muscolare (ad es. pensare di essere altrove). 4. Esercizi per la gestione della fatica e per aumentare la resistenza fisica. 5. Affidamento di un Piano di azione sulle tecniche di rilassamento. Settimana 4. Sessione 4 Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 3. Alimentazione adatta. Comunicazione efficace. Assegnazione di un Piano d’azione 1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi. 2. Illustrazione dei principi di alimentazione e dei benefici che derivano da una dieta adatta sia per quanto riguarda la salute generale che per quanto riguarda la specifica malattia (ad es.per il raggiungimento del peso ottimale). 3. Comunicazione. Viene illustrato come comunicare efficacemente con gli altri, ad esempio dire “forse non mi sono spiegato bene” anziché “non mi capisci” evitando in tal modo toni aggressivi. 4. Presentazione e discussione dei diversi problemi comunicativi che capitano nella vita di tutti i giorni, ad esempio nelle situazioni famigliari. 5. Affidamento di un Piano di azione sulla nutrizione e di uno sulla comunicazione. l ute Sa e 106 Territorio La programmazione sanitaria del futuro ventennio Settimana 5. Sessione 5 Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 4. Uso dei farmaci e decisioni sulla terapia (efficacia, controindicazioni, effetti collaterali). Depressione (incidenza, rilevazione, interventi). Parlare con se stessi. Decisioni informate. Immaginazione guidata. Assegnazione di un Piano d’azione 1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi. 2. Uso dei farmaci. Vengono illustrati i principi farmacologici e l’utilità dei differenti farmaci. Viene spiegata l’utilità di tenere una lista aggiornata dei farmaci utilizzati incluse le modalità di assunzione seguite nel tempo. 3. Viene illustrata l’eventualità che occorrano sintomi depressivi. Vengono illustrati le modalità per riconoscerli ed i possibili strumenti per interrompere a questo punto il ciclo malattia-sintomi. 4. In particolare si illustra come “parlando a se stessi” si può agire sulla percezione depressiva della malattia; ad esempio non pensare “non posso più fare attività sportive” ma dire a se stessi “esistono attività sportive che non richiedono le capacità fisiche che ho perduto”. 5. Viene illustrata anche la tecnica della “Immaginazione guidata” come risposta personale ai momenti difficili. Si tratta, ad esempio, di imparare a immaginare di essere in quel momento in una situazione tranquilla e piacevole, come passeggiare in campagna. 6. Decisioni informate. Illustrazione degli strumenti di informazioni attendibili che oggi sono a disposizione dei pazienti (siti web e motori di ricerca Internet, associazioni, pubblicazioni). 7. Affidamento di un Piano di azione per superare i momenti di depressione. N. 149 - 2005 Settimana 6. Sessione 6 Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 5. Comunicazione efficace con famigliari, amici e con il Personale sanitario. Collaborazione con il Personale sanitario. Analisi dell’utilità di quanto appreso e predisposizione di un Piano per il futuro. 1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi. 2. Viene discusso come intrattenere una buona comunicazione con i curanti riportando chiaramente la sintomatologia, l’evoluzione della malattia e gli effetti delle azioni terapeutiche intraprese. Viene fatto a questo scopo presente che il tempo di ascolto dei sanitari prima che gli stessi intraprendano un dialogo secondo le proprie modalità consuete è di 18”. Ovvero il tempo di comunicazione a disposizione del paziente per spiegarsi utilizzando i propri strumenti logici e lessicali è di 18 secondi ed in questo tempo occorre sia contenuto tutto quanto preme riferire. 3. Viene illustrata la tecnica per comunicare con i sanitari: prepararsi al colloquio, chiedere specificamente quanto interessa, ripetersi mentalmente le risposte per essere certi di averle comprese, intraprendere quanto indicato (tecnica PART Prepare -Ask - Repete Take). 4. Valutazione di quanto appreso e sperimentato. 5. Proposta a quanti hanno seguito il corso di venire formati per divenire formatori a loro volta. N. 149 - 2005 Gioietta Bagaggiolo AUSL di Siena Una società che cambia A partire dagli anni 70 del secolo scorso si è osservato un progressivo aumento della popolazione anziana. Si stima che il 75% degli ultra sessantacinquenni soffre di una malattia cronica ed il 40% di almeno due. La patologia cronica, caratterizzata da un andamento progressivo, si associa frequentemente al disagio, al dolore, e spesso sono presenti decadimento psico-cognitivo e sociopatie. In un contesto del genere, i costi sanitari subiscono incrementi rilevanti e i criteri della medicina tradizionale basati sul percorso diagnosi – terapia – guarigione risultano inadeguati. Occorre rivedere il concetto di salute. Per l’anziano, salute non è solo assenza di malattia, ma il perdurare dell’autonomia. Oggi il parametro di valutazione dello stato di salute di una popolazione non è tanto quindi l’attesa di vita alla nascita, quanto l’attesa di vita attiva. Produrre salute, comprimendo al massimo la disabilità verso il termine della vita diventa imperativo per il sistema sanitario. L’anziano, le sue problematiche sociali e sanitarie, devono essere valutati in termini globali. Per questo è richiesto l’intervento e l’inte- La programmazione sanitaria del futuro ventennio Sae l ute Territorio 107 Assistenza infermieristica “long-term” grazione dei vari apporti, a diversi livelli: istituzionale, gestionale e professionale. Le esperienze in corso Sul piano organizzativo e assistenziale, esperienze e studi europei ed internazionali suggeriscono l’implementazione di approcci innovativi capaci di ridurre l’ospedalizzazione, caratterizzati dalla permanenza dell’anziano nel proprio ambito di vita, da strutture che attraverso contributi multidisciplinari seguono l’anziano e la cronicità nel suo progredire, da una assistenza infermieristica volta al mantenimento di una qualità di vita accettabile. Tra i modelli sperimentati volti a migliorare la qualità di vita, e, nei limiti del possibile, a mantenere lo stato di salute, sono da considerare: il selfmanagement, le nurse-led clinics, il case management. Self management Il self management è un metodo nato negli USA, dove le prime esperienze sono state condotte alla fine degli anni ’60 da una infermiera, Kate Lorig, ora docente alla Stanford University. Si tratta di una formazione rivolta all’anziano affetto da patologie croniche con l’intento di far comprendere in maniera sem- Il ruolo di “tutorship” per supportare i pazienti cronici plice la propria malattia e al contempo gli stili di vita migliori per frenare il progredire della stessa, limitare l’insorgenza dell’acuzie e conservare al massimo le proprie capacità. È un metodo educativo che richiede la partecipazione attiva del paziente. È una formazione strutturata che si articola nel tempo e ad ogni incontro si insegna come e quali interventi attuare per ridurre e migliorare i problemi associati alla propria cronicità. Si forniscono indicazioni sul come alimentarsi, sugli esercizi fisici utili da effettuare per ridurre i danni e i sintomi della patologia, come usare propriamente i farmaci, come gestire depressione, dolore e solitudine. Più che un’abitudine ad auto-cura e auto-prescrizione; si tratta di un sistema che tramite la tutorship da parte di chi possiede contenuti professionali come l’infermiere, facilita nell’anziano conoscenza e coscienza della propria malattia, controlla la corretta esecuzione delle azioni assegnate durante gli incontri formativi, valuta e implementa la capacità di applicazione. Le numerose esperienze effettuate riportano risultati positivi, in particolar modo in quegli anziani che si trovano ai primi stadi della malattia. Nurse-led clinics Le nurse-led clinics sono invece strutture dedicate agli anziani e/o pazienti affetti da patologie croniche, la cui conduzione è affidata ad infermieri che hanno sostenuto una educazione speciale e che hanno maturato una esperienza nel settore. Questi infermieri specializzati esercitano in larga misura in autonomia, e per alcune attività su delega di altri professionisti. Per ogni paziente viene redatto un Piano di azione individuale e l’infermiere provvede ad un costante follow-up per rilevare la comparsa di segni e sintomi di riacutizzazione, per la revisione continua delle terapie in raccordo con i medici, per il supporto sociale psicologico e umano necessario al paziente ed alla famiglia. Le nurse-led clinics in tale contesto seguo- l ute Sa e 108 Territorio no il paziente mediante appositi protocolli, effettuano visite (durata circa 1 ora) che includono l’anamnesi, la valutazione di alcuni parametri, i trattamenti in corso, e, nel caso in cui si rilevino alterazioni e/o instabilità provvedono a richiedere l’intervento dello specialista medico. Una delle attività che richiede maggiore impegno, è costituita dall’educazione al paziente per promuovere ed attivare il self-care. Si forniscono informazioni dettagliate sul corretto stile di vita da intraprendere per il controllo della propria patologia (es. come prevenire la malnutrizione, quante calorie/dì assumere, l’attività motoria da fare ecc..), considerando anche il livello cognitivo del singolo in modo da adeguare continuamente l’educazione. Si accompagna l’anziano nel suo percorso di malattia cercando di instaurare e sviluppare con esso una relazione di appoggio, svolgendo una attività costante di counseling e fornendo supporto telefonico per gli aggiornamenti clinici. Case management Il case management, metodologia del managed care, è un meccanismo attraverso il quale si possono ottenere miglioramenti dell’efficacia e dell’efficienza dell’assistenza sanitaria. Si basa essenzialmente sulla logica di coordinamento delle risorse da utilizzare per la specifica patologia di un paziente, attraverso le diverse strutture e organizzazioni del sistema sanitario. L’approccio permette di considerare il pa- La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 ziente come entità che sta vivendo un percorso di malattia e di allontanarsi dalla concezione diffusa che il paziente ha problemi riferibili ad una parte del proprio corpo ai quali si devono risposte singole, frammentarie ed episodiche. Più semplicemente con l’introduzione del case management si intende porre il paziente al centro del sistema, rispondere in ogni fase del processo con interventi basati sull’evidenza, superando le tradizionali separazioni di struttura e specialità. Il case management si estende ed integra interventi di promozione della salute, di prevenzione della malattia, di trattamenti diagnostici e terapeutici, di riabilitazione e di assistenza a lungo termine. È indicato negli attuali sistemi sanitari laddove si assiste sempre più ad un progressivo incremento di complessità delle cure e al continuo proliferare di frammentazioni dei molteplici apporti specialistici. È in questo contesto che si originano le necessità di assicurare la continuità delle cure e la loro appropriatezza e tempestività. Diventa così fondamentale l’attività di coordinamento delle cure per ogni singolo paziente rispetto ai suoi bisogni specifici e la definizione di profili di cura o percorsi clinico-assistenziali che possono guidare l’integrazione degli apporti provenienti dalle varie discipline. Anche in tal caso numerose esperienze individuano l’infermiere come l’operatore più idoneo per condurre il ruolo di case manager. Cohen e Cesta(1993) sostengono che gli infermieri Il case management infermieristico viene ritenuto una evoluzione dei modelli organizzativi dell’assistenza, in particolare come miglioramento ed estensione del concetto di primary nursing, impiegato sia in Ospedale che nell’assistenza infermieristica di sanità pubblica e nell’assistenza domiciliare. Nel primary nursing un infermiere si fa carico dell’assistenza a pazienti nominalmente assegnati e si fa garante della continuità nelle cure mediante una pianificazione delle attività sanitarie e della continua informazione sul decorso della malattia. Nel primary nursing il ruolo decisionale è rivolto al singolo; nel case management permane tale ruolo, ma contestualmente viene messo in atto un accentramento delle funzioni gestionali utili al buon funzionamento dell’organizzazione nel suo complesso e alla resa del sistema di cure; queste attività fanno sì che il ruolo tradizionale dell’infermiere si estenda sempre più verso questo nuovo programma di cure. Fermo restando il principio dell’approccio interdisciplinare delle cure, esperienze consolidate nei diversi Paesi del mondo mostrano la figura dell’infermiere come l’operatore più appropriato per rivestire ruoli primari nella gestione delle patologie croniche.Questi possono spaziare da interventi prettamente educativi come nel self management e/o self-care, ad attività di coordinamento come nel case management, fino ad attività di conduzione clinico-organizzativa di strutture sono appropriati a sostenere questo ruolo, perché possono fornire la maggior parte dei servizi che le altre professionalità offrono ai pazienti, mentre queste ultime non sono preparate e non sono in grado di provvedere alle attività di assistenza diretta. Anche Pergola(1922) raccomanda gli infermieri per sostenere il ruolo di case manager, sia par le loro abilità cliniche, sia per la capacità di migliorare il coordinamento dei servizi per far fronte alle necessità dei pazienti e delle loro famiglie oltreché alla prospettiva olistica che va oltre gli aspetti biofisiologici e patologici della cura. La formazione infermieristica di tipo generalista, caratterizzata dall’apporto delle discipline umanistiche permette di essere più attenti alle particolarità delle persone. Il fondamento dell’assistenza infermieristica si basa sul sopperire (far fronte a necessità e bisogni)e sul promuovere(far avanzare, progredire verso la qualità di vita e l’autonomia). Le principali attività sono rappresentate da: interventi tesi ad assicurare un piano coordinato di cure; interventi atti a ridurre la variabilità nell’utilizzo delle procedure clinico-assistenziali; programmi educativi rivolti sia ai pazienti che alle loro famiglie; interventi di valutazione degli esiti; mediazioni nell’ambiente di lavoro per incoraggiare la cooperazione e la comprensione del ruolo delle diverse figure sanitarie nel Piano di cura; una comunicazione capace di ridurre nei pazienti ansia, paure ed incertezze. N. 149 - 2005 come nel caso delle nurse-led clinics. L’ infermiere comunque può rappresentare il “continum” assistenziale a carattere sanitario fornito da Ospedale – territorio, da medici – altri professionisti e fornire una importante presenza nella valutazione e gestione delle aree problematiche connesse a tali patologie. Esso può contribuire a promuovere un sistema culturale ed operativo teso a creare vera attenzione alle aspettative dei pazienti e a favorire una reale qualità di vita. Per la determinazione di quest’ultima è necessario associare la componente oggettiva, che comprende la valutazione dello stato fisico, funzionale, sociale e del supporto informale, alla componente soggettiva che riguarda la sfera emozionale e quindi la percezione che l’individuo ha del proprio La programmazione sanitaria del futuro ventennio stato di salute e la soddisfazione delle cure prestate. Ruolo dell’infermiere L’assistenza infermieristica fornita ai pazienti cronici deve avere un approccio complessivo: prendere in considerazione tutti i domini della salute; provvedere alla cura; inserire tra gli outcomes prioritari il controllo dei sintomi attraverso il trattamento e la rimozione delle eventuali cause scatenanti reversibili; la soddisfazione dei bisogni. Per massimizzare i risultati l’infermiere potrà avvalersi nella pratica infermieristica del processo di nursing e delle teorie infermieristiche. Il processo di nursing indica come identificare e affrontare i bisogni di assistenza infermieristica del paziente in modo sistematico e pianificato, mentre le teorie permettono di individuare quali sono Bibliografia G. Crepaldi, Dir. Centro Studi Invecchiamento C.N.R., L’assistenza all’anziano, Bioetica seminario di studi, Vicenza 8 maggio 2004. L’infermieristica della grande età, Atti congresso infermieristico, Todi, gennaio 2005. La relazione di aiuto all’anziano, Incontro e dialogo di Rita Farneti, Geragogia.net. L’anziano nella rete dei servizi. Le risposte possibili, Seminario internazionale, Milano, 22 settembre 2003. Conclusioni della 2° Conferenza dei Ministri regionali europei della Sanità e degli Affari sociali, Milano, 8 novembre 2002. Venturiero V., Gambasssi G. et al., Linee guida “Cure palliative nel paziente anziano terminale”, Istituto di Medicina interna e geriatria, Centro di Medicina per l’invecchiamento,Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Jaarsma T., Halfens, Abu Saad H.H. et al., Effect of education and support on self-care and resource utilization, European Heart J, 1999, 20, 673-82. questi bisogni e quali contenuti professionali mettere a disposizione della persona. L’ infermiere è figura primaria di riferimento, prendendo in carico il paziente, provvedendo all’accertamento dei suoi problemi e della sua famiglia e sviluppando piani personalizzati in collaborazione con gli altri membri del team interdisciplinare per rispondere alle necessità rilevate. Nelle cronicità i sintomi, condivisi da molte patologie benché riconducibili a meccanismi fisiopatologici diversi, convergono spesso in sindromi cliniche comuni. A queste sindromi è possibile rispondere mediante protocolli di assistenza definiti, il cui contenuto dovrà prevedere: indicazioni per una corretta valutazione; misure di trattamento generali (es: corretta postura, alimentazione, stili di vita adeguati ecc…); tratta- Sae l ute Territorio 109 menti farmacologici. Le aree problematiche che più frequentemente richiedono interventi assistenziali sono rappresentate da situazioni che impediscono o limitano il normale svolgimento delle attività di vita, che sono caratterizzate da segni e sintomi ricorrenti quali: stipsi, diarrea, vomito problemi del cavo orale, disturbi respiratori, piaghe da decubito, ansia, depressione, dolore. Gli interventi assistenziali di carattere tecnico, relazionale ed educativo (sia nei confronti del paziente che dei famigliari e del caregiver primario) messi in atto saranno tesi a limitare la disautonomia, il progredire o l’insorgere dell’acuzie e in ultimo, ma non per questo trascurabile, al mantenimento della qualità di vita che il paziente ritiene per se stesso accettabile. Stromberg A., Martensson J. et al., Nurse-Led heart failure clinics improve survival and self-care behaviour in patients with heart failure, European Heart J, 2003, 24, 1014-23. Di Giulio P., Il processo di Nursing nei suoi aspetti più critici, L’Infermiere, 4, 1993. Dickerson S.S., Petres D. et al., Active learning Strategies to teach case management, Nurse Educator, 1999, 24(5), 52-7. Santullo A., L’infermiera e le innovazioni in Sanità, McGraw-Hill, Milano, 1999. Morin E., Introduzione al pensiero complesso, Sperling&Kupfer, Milano, 1993. Chiari P., Santullo A., L’infermiere Case manager, McGraw-Hill, 2001. Bassetti O., Lo specifico relazionale infermieristico Modelli concettuali e applicativi, Rosini, Firenze, 2001. Marriner A., I teorici dell’infermieristica e le loro teorie, Ambrosiana, Milano, 1989. Carpenito L.J., Diagnosi Infermieristiche Ambrosiana, Milano, 1999. Hamer S., Collinson G., Evidence Based practice, traduzione italiana P. Chiari, A. Santullo, McGraw-Hill, 2002. l ute Sa e 110 Territorio La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Le malattie croniche Come prevenire e curare le patologie la loro cronicizzazione. La formazione medici, infermieri, familiari Osteoartropatie Bernardo Pavolini Dir. UF Ortopedia e Traumatologia Osp. Nuovo della Valdelsa, Poggibonsi, Siena L’ ziana e dai costi quindi parallelamente in aumento. Le raccomandazioni per la prevenzione e la terapia di queste patologie elaborati dall’EFORT sono in gran parte coincidenti con il testo che segue. La patologia degenerativa artrosica, interpretata un tempo come semplice usura, consumo delle articolazioni, è più probabilmente una malattia vera, che interessa con alterazioni metaboliche le cellule che costituiscono la cartilagine, cioè i condrociti. Le prime manifestazione sono lesioni delle articolazioni, con progressiva riduzione di spessore della cartilagine che riveste i capi articolari, dovute a sovraccarico o più facilmente dall’attività di enzimi che attaccano i condrociti. Si differisce dalle artriti, di varia natura, perché è una malattia degenerativa, pur avendo fasi infiammatorie: queste son dovute al processo EFORT, l’Associazione europea che raggruppa in forma federativa tutte le Associazioni nazionali di ortopedia e traumatologia, ha sviluppato un progetto decennale in collaborazione con la Commissione europea, per codificare le strategie necessarie alla prevenzione delle malattie degenerative del sistema muscolo-scheletrico, con particolare riferimento all’artrosi perché ha incidenza maggiore. È questo il progetto che nell’ultimo decennio ha coinvolto più intensamente tutti gli ortopedici europei, ma di pari passo tale esigenza è sentita dalla comunità ortopedica mondiale, perché i problemi legati alle osteopatie degenerative sono presenti in modo rilevante in tutti i Paesi sviluppati ed in via di sviluppo. Questo dà la misura di quanto è importante il problema, sempre in crescita con l’aumentare della popolazione an- di riassorbimento delle cellule necrotiche, che comporta un accelerare del processo di distruzione cartilaginea. Viene successivamente interessato anche il tessuto osseo sottostante, dove si determinano lacune cistiche, addensamento e produzione di osteofitosi periarticolari, cioè escrescenze ossee. Alcune forme di artrosi possono esser curate in fase iniziale se correttamente seguite, ed il sintomo più importante insieme alla rigidità articolare, cioè il dolore, ha cause differenti che devono esser riconosciute e trattate. Il dolore è causato dalla distruzione della cartilagine, che è priva di terminazioni nervose, con carico che si distribuisce ora al tessuto osseo direttamente, innervato terminazioni del dolore, dove son anche possibili delle microfratture e da processi infiammatori della membrana sinoviale. Trattandosi di malattie degenerative articolari, la prevenzione deve essere indirizzata nel ridurre ed eliminare i fattori di rischio per ritardare l’evoluzione della malattia. Tra le cause infatti di insorgenza o di aggravamento di un processo degenerativo ar- trosico, ricordiamo cause meccaniche, dovute all’alterata geometria articolare e alla limitazione del movimento per il dolore, che determinano problemi al fisiologico metabolismo della cartilagine articolare per limitazione nella produzione del liquido sinoviale, dal quale questo tessuto non vascolarizzato trae nutrimento. Anche un sovra utilizzo dell’articolazione, per eccessivo carico, accelera l’usura articolare, come avviene in lavoratori pesanti e sportivi professionisti. Anche gli obesi, categoria in aumento anche in Europa, hanno un elevato rischio di artrosi specie alle ginocchia. Ricordiamo come le ultime statistiche in USA hanno evidenziato una netta correlazione tra aumento progressivo degli obesi e delle protesi di ginocchio eseguite nei Centri ortopedici del Nord America. La prevenzione quindi delle malattie degenerative ossee dell’anziano dovrà basarsi sia su norme igeniche che su interventi corretivi ortopedici delle deviazioni quando le alterazioni non siano ancora divenute irreversibili. N. 149 - 2005 La programmazione sanitaria del futuro ventennio Sae l ute Territorio 111 degli anziani più diffuse per evitare o ritardare all’assistenza della triade per evitare l’ospedalizzazione Questo argomento è stato discusso proprio all’ultimo Congresso nazionale della Società italiana di ortopedia e traumatologia, tenutosi a Napoli nel 2004, che grazie all’apporto di chi in Italia ed all’estero si occupa in modo specifico del problema, ha sottolineato la necessità di trattamenti chirurgici preventivi della patologia degenerativa nell’età matura. Oltre alla terapia farmacologica, basata per la maggior parte dei casi sulla categoria dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), ed alla terapia fisica, validi presidii nelle fasi iniziali della malattia, è risolutiva sia per il dolore che per il recupero della funzione la chirurgia ortopedica. Quando la patologia artrosica, seguendo il proprio decorso, non risponde più alla terapia farmacologica, fisica o chinesiterapica, facendo scadere la qualità della vita sia per il dolore invalidante che per la limitazione funzionale, è necessario avvalersi della chirurgia ortopedica, che ha molte soluzioni, motivate dall’evoluzione storica di questi trattamenti. Data l’importanza che riveste per le patologie degenerative dell’anziano la prevenzione, sia in termini di adeguati comportamenti nell’età adulta che nell’indicazione a trat- Psicogeriatria Massimo De Berardinis Azienda Sanitaria di Firenze N re i processi di cronicizzazione psichiatrica. Sebbene un dimensionamento comparato dell’entità del fenomeno risulti al momento non proponibile (considerata la parzialità dei dati concernenti il nostro Paese e la si- el trattare l’argomento, pur senza entrare nel merito della psicopatologia specifica, ho cercato di evidenziare soprattutto quei fattori dell’operare quotidiano che mi sono apparsi rilevanti nel favorire o contrasta- tamenti chirurgici ortopedici correttivi, è fondamentale che vengano trasmessi alla popolazione messaggi tali da determinare una presa di coscienza di queste problematiche. Deve esser anche formata una cultura protesica, ovvero la fiducia nei vantaggi per la qualità di vita dopo un intervento di questo tipo, perché i pazienti non arrivino a ritardare l’intervento fino a quando il dolore e la disabilità sono talmente elevati da riconoscerlo come ultima ed unica soluzione. Se infatti i pazienti sono anziani e con alterazioni ossee, retrazioni delle parti molli, atonia dei gruppi muscolari che interessano l’articolazione artrosica ormai gravi, i risultati dell’intervento non sono così buoni come potrebbero essere stati se eseguito qualche anno prima. È inoltre evidente come avere una buona motilità senza dolore di una articolazione necessaria per il cammino, sia più utile a 50 o 60 anni piuttosto che a 80 anni, anche perché le casistiche che riportano i risultati dopo 10 anni delle protesi attualmente utilizzate, danno una sopravvivenza con ottimi risultati anche del 100% dei casi, cioè dopo questi anni non vi è stata necessità di interventi sostitutivi dell’impianto. gnificativa diversità dei sistemi assistenziali psichiatrici degli altri Paesi – valga l’esempio della chiusura degli Ospedali psichiatrici), è comunque interessante segnalare come nella maggior parte degli studi epidemiologici condotti in Nord-America ed in Nord-Europa, durante gli anni settanta, non più del 6% degli ultra sessantacinquenni risultava affetto da disturbi psichici; nelle indagini attuali, condotte negli stessi Paesi, questi valori appaiono invece più che raddoppiati. Di fronte a questi dati si sarebbe portati a ritenere che l’entità di questa crescita, oltre che ad una migliore e più diffusa capacità diagnostica, sia da porre in relazione proprio con un aumento dei fenomeni di cronicizzazione sostenuti dal progressivo invecchiamento della popolazione; ma non possiamo evitare anche altri interrogativi: l ute Sa e 112 Territorio • come interpretare il fenomeno dell’ampliamento della categoria del patologico? Il fatto cioè che livelli di sofferenza un tempo considerati “normali” siano invece oggi divenuti malattie da curare? • quanto incide sul dato il fenomeno della psichiatrizzazione di problematiche non psichiatriche visto che ogni tipologia di sofferenza di natura somatica, relazionale o sociale che sia, da ultimo, in assenza di risposte adeguate, è sempre passibile di espressività a livello psichico? Tuttavia, nonostante che una rilettura critica dei dati possa anche condurre ad un ridimensionamento del fenomeno, resta il fatto che il progressivo invecchiamento della popolazione e la previsione di una contrazione delle risorse disponibili, in specie nei Paesi del cosiddetto “primo mondo”, ripropongono comunque la questione della sostenibilità dei costi dell’assistenza psichiatrica ed in specie dei costi della cronicità psichiatrica. Di qui lo stimolo alla ricerca di nuovi modelli di intervento che possano migliorare le procedure terapeutiche e riabilitative. Sotto un profilo eminentemente pratico i pazienti anziani con disturbi psichici possono essere riuniti in tre gruppi: • pazienti affetti da sindromi cerebrali croniche (composto nella quasi totalità da quadri involutivi di tipo demenziale); • pazienti che hanno presentato disturbi psichici La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 in età adulta e sono invecchiati senza aver superato quei disturbi o avendoli superati solo parzialmente; • pazienti che presentano la comparsa di disturbi psichici proprio in età senile. Mentre nel primo gruppo l’andamento evolutivo verso la cronicità appare decisamente scontato, nel secondo e terzo gruppo, che costituiscono insieme un’entità numericamente assai consistente, la possibilità di incidere sui processi di cronicizzazione può risultare significativamente elevata. Sinteticamente possiamo dire che le determinanti della cronicità psichiatrica risiedono: • nella natura del processo patologico; • nella correttezza dell’approccio terapeutico-riabilitativo; • nel livello di coinvolgimento del contesto (famigliare, istituzionale e comunitario). Invero si può incidere poco sulla natura del processo patologico che rinvia per un lato al livello biologico disposizionale e, per l’altro, alla dimensione della storia psicoaffettiva del soggetto (livelli di straordinaria importanza per l’azione preventiva, ma scarsamente aggredibili ai fini della riabilitazione); possiamo invece fare molto in relazione alla correttezza dell’approccio terapeutico-riabilitativo ed al coinvolgimento del contesto. La condizione minima efficiente, utile a contrastare i processi di cronicizzazione, è rappresentata dall’innesco di processi di cambiamento-te- • la discussione della proposta di cura (da effettuare con tutti gli interessati); • la definizione del contratto terapeutico che include la definizione dell’inquadramento e che impegna, allo stesso modo, in qualità di contraenti, curati e curanti. Il rispetto di questi passaggi costituisce una precondizione necessaria per un corretto avvio del processo terapeutico (e quindi dell’azione di contrasto della cronicità) dal momento che rappresentano la garanzia del riconoscimento dell’altro (paziente) come persona. Ogni deroga, negando all’altro la dimensione di persona, impedisce l’avvio del processo terapeutico e si configura come azione potenzialmente favorente la cronicità. Riportando questi principi sul piano della quotidianità non è difficile verificare che stiamo lavorando per la cronicità quando operiamo con pazienti senza una definizione del contratto terapeutico, quando non rispettiamo il setting, quando modifichiamo una prescrizione senza discuterne con gli interessati, quando disponiamo un ricovero senza averne chiarito le finalità, quando un terapeuta subentra ad un altro come se nulla cambi e così per tante delle condotte che vengono quotidianamente tenute in nome della cura e che con questa, purtroppo, spesso non hanno nulla a che vedere. Lavoriamo per la cronicità quando agiamo come se la malattia mentale fosse un fatto esclusivo e privato del rapia; questi si possono dare sia all’interno di un percorso di cura, ove sono mediati dalla relazione terapeutica, ovvero per effetto di trasformazioni del contesto. Nel caso del percorso di cura, per il suo corretto avvio e mantenimento si rende necessaria una definizione dell’inquadramento (setting), cioè la definizione dei limiti spaziali (il dove), temporali (quando e per quanto tempo), di ruolo (tra chi e chi) e di compito (per fare cosa), relativi al campo entro il quale si svolge l’azione terapeutica. Questi parametri, che non valgono solo nell’ambito di una relazione duale, servono per favorire nel paziente la ripresa dell’attività discriminatoria relativa al dentro ed al fuori, al prima ed al dopo, al sé ed all’altro, al senso ed alla finalità dell’agire. L’avvio di un percorso terapeutico prevede diverse fasi preliminari: • la richiesta di cura (più o meno esplicita) da parte del paziente; • la lettura della domanda (che va sempre restituita al paziente); • l’elaborazione di un progetto di cura (che dovrebbe sempre scaturire da un confronto maturato all’interno del gruppo multiprofessionale dei curanti) che può concernere il singolo paziente od essere allargato alla sua famiglia e ad altri contesti quali l’ambito lavorativo, domiciliare, ecc.; • l’esplicitazione della proposta di cura (rivolta a tutti gli interessati); N. 149 - 2005 soggetto, che nasce e si esaurisce con lui, ignorando come questo fenomeno interessi trasversalmente il suo gruppo famigliare, gli ambiti istituzionali cui appartiene e sin anche la comunità nella quale vive. Continuiamo a lavorare per la cronicità quando non ci adoperiamo per coinvolgere questi livelli di contesto in un processo di cambiamento che possa influenzare anche il cambiamento del paziente. Ancora lavoriamo per la cronicità quando i nostri interventi riabilitativi non favoriscono la trasformazione del ruolo e dello status di “paziente” assunto nel tempo dai nostri assistiti. L’insieme di tutti questi livelli d’intervento configura quella che potremmo definire come la dimensione “micro” dell’agire terapeutico;ad essa si affianca la dimensione “macro” dell’agire terapeutico, cioè la dimensione istituzionale. È evidente come la coerenza tra il piano dell’operatività individuale e dell’organizzazione istituzionale risulti di fondamentale importanza per una positiva riuscita delle finalità di cura. Sotto questo profilo mi sembra utile sottolineare l’importanza del ruolo giocato dall’istituzione sanitaria nel contrastare la cronicità La programmazione sanitaria del futuro ventennio • quando promuove un approccio alla problematica della persona malata che tenga conto della sua complessità bio-psico-sociale; • quando si oppone alla filosofia della delega delle responsabilità ed alla tendenza alla settorialità degli interventi, anche se camuffati da “percorsi di eccellenza”; • quando sostiene una cultura della prevenzione che accanto alla logica “dell’attesa” (dove l’azione sanitaria si configura come tentativo di riparazione a posteriori) sviluppi anche la logica “dell’azione” (dove l’intervento sanitario si configura come insieme di atti miranti a promuovere la salute e contrastare l’andamento di processi che possono produrre malattia e/o cronicità); • quando evita di colludere con la trasformazione dei servizi sanitari in un illusorio supermercato della salute ove la cronicità, di qualunque natura essa sia, finisce col divenire una merce altamente redditizia. Affinché questi indirizzi possano tradursi in pratica è necessario favorire la costruzione di “luoghi”(organizzazioni sanitarie) dove le professionalità, i saperi e le risorse possano integrarsi per pro- durre risposte più adeguate alla complessità dei bisogni assistenziali; questi luoghi, per la loro finalità, non possono essere cattedrali nel deserto ma luoghi della quotidianità. Un esempio di realizzazione possibile di questi luoghi ci è stato offerto dalla psichiatria del nostro Paese, la quale, attraverso un lungo e difficile cammino (dall’Ospedale psichiatrico al territorio) ha costruito un modello di operatività, definito dipartimentale, concepito per essere funzionalmente ancorato ad un territorio definito con un bacino di utenza di dimensione tendenzialmente non superiore ai 100.000 abitanti; esso riunifica ed integra al proprio interno, tramite lo strumento della direzione unitaria, competenze, risorse e presidi sia di tipo territoriale che ospedaliero; operativamente si caratterizza per la presa in carico delle situazioni di sofferenza e per la continuità terapeutica che viene assicurata per tutto il periodo della cura; a livello comunitario, promuove, in collaborazione con le altre Agenzie territoriali (Ospedale, altri Servizi sanitari territoriali, medici di medicina generale, Servizi sociali, Enti locali, Centri di socializzazione, Volontariato, ecc.) la realizzazione di interventi complessi specifici dei Sae l ute Territorio 113 progetti di assistenza alla persona. Che cosa manca allora affinché in campo psicogeriatrico la funzione riabilitativa possa esplicarsi in modo qualitativamente e quantitativamente adeguato? Manca una cultura dell’approccio alla complessità; manca l’abitudine al coordinamento tra servizi ed alla integrazione delle risorse; manca anche uno sviluppo territoriale dei servizi geriatrici e neurologici, entrambi tutt’ora prevalentemente ancorati alla sola realtà ospedaliera. Penso, in conclusione, che il superamento della dicotomia Ospedale-territorio da parte di discipline come la medicina generale, la geriatria, la neurologia e la psichiatria (ed il discorso varrebbe anche per altri ambiti disciplinari), con la loro riorganizzazione in forma dipartimentale, potrebbe rappresentare il primo significativo passo verso una più globale assunzione di responsabilità sanitaria a livello della comunità; il passo successivo potrebbe essere rappresentato dalla crescita della cultura del coordinamento e della integrazione delle risorse a livello locale, vera base per la costruzione di più adeguate, economiche ed efficaci risposte di prevenzione, cura e riabilitazione. l ute Sa e 114 Territorio La programmazione sanitaria del futuro ventennio Demenza senile Carlo Rinaldo Tomassini M. Teresa Mechi* Marco Nerattini* Francesca Bellini* M. Grazia Monti** Fabrizio Muscas*** Manlio Matera**** Direttore sanitario Azienda sanitaria di Firenze * SS VRQ Azienda sanitaria di Firenze ** UO Infermieristica territoriale Azienda Sanitaria di Firenze *** Medico Medicina generale **** AIMA - Associazione italiana malati di Alzheimer L • con una scarsa attitudine a fornire ai pazienti e ai loro familiari informazioni adeguate e competenze per poter contribuire attivamente alla gestione della propria condizione, • generalmente poco efficace nell’utilizzare al meglio il contributo della comunità. Sulla scorta di queste considerazioni gli organismi di ricerca che si occupano del miglioramento della qualità dell’assistenza hanno avviato una riflessione che ha portato alla costruzione di un modello teorico, applicabile a tutte le tipologie di patologie a lungo termine, che individua sei elementi chiave sui quali impostare la riorganizzazione dell’assistenza alle malattie croniche. Il Chronic Care Model (CCM) si fonda su evidenze scientifiche e descrive le aree di cambiamento da apportare all’interno delle organizzazioni sanitarie, in particolare nelle cure primarie, per migliorare gli outcomes nei pazienti con patologie croniche. Dal CCM discende una teorizzazione più recente (ICCM) centrata sull’idea che le aree di miglioramento danno risul- e maggiori difficoltà delle organizzazioni sanitarie nel dare risposte appropriate si verificano attualmente nell’assistenza alle malattie a lungo termine: il sistema non si è evoluto nel tempo, rispetto all’incremento della prevalenza di queste patologie, in modo da potersi rimodellare e adeguare rispetto alla crescente domanda e ha mantenuto logiche e modelli pensati per la cura degli eventi acuti. L’assistenza per le malattie a lungo termine risulta così: • frammentata, priva cioè di efficaci collegamenti tra i professionisti che intervengono in momenti diversi, • con “passaggi di mano” non adeguatamente coordinati con la conseguente entrata-uscita dai vari steps del percorso demandata al paziente e non guidata dal sistema, • poco orientata verso la pianificazione e quindi capace di fornire interventi generalmente solo quando arriva la richiesta, spesso in situazione di urgenza, • carente di informazioni sul paziente aggiornate nel tempo e fruibili dai diversi servizi, tati ottimali quando l’assistenza si struttura intorno ad una triade virtuosa data dalla partnership tra i pazienti e i loro familiari, il team dei professionisti e la comunità. Il sistema funziona quando ogni membro della triade è informato, motivato e preparato per gestire le condizioni croniche e comunica e collabora con gli altri membri della triade. La triade è sostenuta e supportata dall’organizzazione, dalla comunità più ampia e dall’ambiente politico. Tutto questo diventa ancora più importante nella condizione di scarsità di risorse dove il linkage con le organizzazioni della comunità risultare proficuo per colmare i gap dei servizi che non possono essere assicurati dalle organizzazioni. La malattia di Alzheimer e l’insieme complessivo delle patologie racchiuse nella definizione di “demenza” rappresentano una delle aree a maggiore complessità per l’organizzazione delle risposte assistenziali. Questo dipende da diversi fattori tra cui principalmente: la prevalenza della patologia, la durata della malattia, la forte ricaduta sociale. La demenza rappresenta quindi una sorta di paradigma della difficoltà organizzativa dell’assistenza alle patologie croniche che spesso determinano ritardi e inadeguatezza degli interventi alimentando così la sfiducia dei familiari nella rete dei servizi, elemento determinante nel ricorso alla istituzionalizzazione del malato. Il modello di assistenza realizzato per la demenza prevede: N. 149 - 2005 1. Un modello organizzativo innovativo a livello territoriale che alloca il case management a livello di microequipe composte da un medico di medicina generale, un infermiere territoriale e un assistente sociale che operano in team fino dal momento della diagnosi e che accompagnano il paziente e la sua famiglia per tutto il “viaggio” nella malattia. L’interazione tra i componenti la microequipe è guidata attraverso strumenti di supporto alle decisioni che comprendono algoritmi per l’individuazione della necessità di attivazione reciproca. 2. La costruzione del piano di assistenza attraverso strumenti di valutazione per ciascuna dimensione del bisogno (clinico, infermieristico, sociale, familiare) dove la scelta della risposta appropriata è supportata da algoritmi decisionali che registrano il gap tra risposta appropriata e risposta erogabile consentendo la pianificazione dell’offerta. 3. Un software gestionale che opera attraverso Internet e consente l’accesso, il data entry e la condivisione delle informazioni sui singoli casi da parte dei membri delle microequipes, facilitando così lo scambio e la condivisione delle informazioni. 4. Ai livelli medio (distretto) e macro (Direzione aziendale) l’accesso al software consente rispettivamente il monitoraggio della correttezza nell’utilizzo delle risorse e la pianificazione. N. 149 - 2005 Nella costruzione del percorso si è lavorato all’allineamento tra i diversi momenti e i diversi livelli e tipologie di apporto professionale in modo da escludere gap o sovrapposizioni e rendere complementari tutti gli interventi. Il medico di medicina generale è l’attivatore del percorso diagnostico terapeutico orientando il paziente verso lo specialista, sia al momento della diagnosi che del follow up, attraverso un filtro attivo in cui vengono escluse tutte le cause dei disturbi diverse dalla demenza. L’équipe racchiude le competenze professionali necessarie alla costruzione e validazione nel tempo del piano di assistenza individuale e all’erogazione in forma diretta, avvalendosi anche delle altre componenti professionali presenti a livello distrettuale, o indiretta delle prestazioni necessarie. Ogni équipe costruisce e aggiorna il piano di assistenza utilizzando i test e applicando i criteri indicati nelle varie schede di valutazione. Le schede sono modulari, cioè consentono il completamento della valutazione attraverso l’integrazione delle sole informazioni aggiuntive, evitando inutili duplicazioni, e vengono gestite in rete. Lo strumento di collegamento tra i tre professionisti è una scheda di contatto che viene aggiornata in occasione di ogni accesso da parte di uno dei componenti l’equipe e La programmazione sanitaria del futuro ventennio consente l’attivazione degli altri componenti nel momento in cui il compilatore ne evidenzia la necessità, utilizzando i criteri individuati dal protocollo di intervento. La messa in rete delle informazioni consente la loro condivisione in tempo reale e la discussione dei casi on line come utile alternativa alle riunioni. Per tutte le dimensioni professionali sono stati costruiti strumenti di supporto alle decisioni sotto forma di profili diagnostici e di assistenza basati sulle evidenze scientifiche e algoritmi decisionali che guidano anche l’interazione tra i componenti della microequipe che rappresenta l’unità fondamentale di assistenza primaria. Sulla base delle informazioni raccolte con la scheda di contatto e, quando necessario, con schede di apprendimento dimensionale, viene definito il piano di assistenza e la frequenza della rivalutazione che viene effettuata a cadenza programmata o attivata direttamente da uno dei professionisti che registra un cambiamento significativo delle condizioni o dagli stessi familiari ai quali viene fornito uno strumento di self management per la valutazione periodica di alcune funzioni “chiave”. Il piano comprende e compendia tutte le risposte, sia sociali che sanitarie, in modo da favorire un utilizzo più proficuo delle risorse. L’al- goritmo suggerisce la risposta predefinita come appropriata in relazione ai diversi profili di necessità assistenziali, i professionisti possono fare scelte diverse ma vengono sempre registrate le motivazioni che rappresentano un elemento di analisi successiva. Viene inoltre sempre registrato il piano teorico e quello effettivamente erogabile. Grande attenzione è stata posta alla complementarietà dei ruoli, che rappresenta in ultima analisi l’aspetto critico su cui lavorare per superare la frammentazione delle risposte. Questo elemento è particolarmente delicato a livello di interfaccia tra il medico di medicina generale e lo specialista e tra specialisti di branche con ampi margini di sovrapponibilità. Il lavoro congiunto dei professionisti ha consentito l’elaborazione di strumenti per la valutazione clinica dei disturbi cognitivi e comportamentali da parte del medico di medicina generale orientata alla esclusione delle cause diverse dalla demenza e di criteri che guidano l’invio allo specialista. Lo specialista si pone rispetto alla microequipe con un ruolo consulenziale, essendo il management del caso affidato alla microequipe. Il rapporto tra lo specialista e la microequipe è però stretto e lo staging clinico dello specialista è uno dei criteri che alimenta l’algoritmo di supporto alle decisioni. Sae l ute Territorio 115 Gli ambulatori specialistici sono organizzati in rete in modo da coprire tutto il bacino di riferimento, tutti gli specialisti che ne fanno parte (geriatri e neurologi) hanno contribuito all’individuazione di un setting comune di strumenti diagnostici e di un protocollo diagnostico terapeutico, inoltre mediante l’auditing periodico viene incrementata l’omogeneità dei comportamenti professionali. Il sistema è gestito attraverso un software che contiene record elettronici condivisi che vengono alimentati dai diversi professionisti, gestisce l’attivazione delle valutazioni specialistiche e il monitoraggio periodico (review) a cadenza programmata. Il software gestionale contiene una sessione specifica per la componente specialistica. Il contribuito della comunità è un elemento essenziale per la sostenibilità dei sistemi di assistenza. Per poter esercitare questa funzione è però indispensabile che i ruoli di tutti i soggetti siano definiti con chiarezza in modo da essere efficacemente complementari. I centri di ascolto dell’“Associazione malati di Alzheimer” operano in modo integrato e coordinato con i servizi e rappresentano una delle risposte della rete ai quali è demandato un ambito non coperto dai servizi ma di importanza fondamentale per l’assistenza alla demenza rappresentato dal supporto alla famiglia. Bibliografia for local implementation. North of England Evidence Based Guidelines Development Project, Evidence Based Clinical Practice Guideline -The primary care management of dementia. Quality standards Alzheimer’s Society UK, Home care services for people with dementia. Department of Health NHS, The single assessment process - Guidance The British Geriatric Society and Royal colleges of physiacians, Guidelines for the implementation of clinical governance in geriatric medicine. l ute Sa e 116 Territorio La programmazione sanitaria del futuro ventennio Ipertensione arteriosa Giancarlo Berni Antonio Brancato* Cesare Francois** Direttore dipartimentale AO Careggi - Firenze * Primario UO Medicina, PO S.Andrea – Az.USL9, GR ** Primario Pronto soccorso, PO dell’Alta Val d’Elsa. Az.USL7, SI L’ dente che oggi stabilire diagnosi di ipertensione (soprattutto essenziale) ponga una responsabilità pesante e doppia (etica ed economica) in quanto un atteggiamento prudenziale che allarghi i criteri diagnostici pensando di eccedere in tutela della salute del singolo, pone il rischio di marcare emotivamente i pazienti e sovraccaricare inutilmente la spesa farmaceutica mentre mantenere criteri restrittivi espone a sottostimare le forme di preipertensione o quelle lievi lasciando così incontrollato un importante fattore di rischio per le patologie cardiovascolari con pesanti conseguenze sulla salute dei pazienti e sui bilanci dei sistemi sanitari. Come sempre deve prevalere il buon senso evitando di “condannare o assolvere” per una diagnosi impropria basata su sporadiche misurazioni di pressione o affidata tout court alla automisurazione e ci si dovrà invece avvalere, in caso di sospetto diagnostico, di metodi più validi quali il monitoraggio della PA nelle 24 ore e i periodici controlli, consigliando da subito la correzione dello stile di vita soprattutto per quanto concer- ipertensione è una situazione estremamente diffusa interessando, in Italia, il 30 % della popolazione e potenzialmente pericolosa se si considera che, negli ipertesi, una riduzione di 5-6 mmHg della pressione diastolica e di 10-11 della sistolica riducono rispettivamente del 38 % il rischio di patologia cerebrovascolare e del 16 % quello di un evento coronarico (1). Un dato che ancora desta non poco allarme è la constatazione che su 100 ipertesi non più del 60 % è in trattamento e che solo il 36.5 % degli ipertesi trattati è risultato in buon controllo farmacologico e questi dati italiani sono risultati in linea con quanto emerso negli altri Paesi industrializzati (2). Essendo poi una condizione permanente e, se non adeguatamente corretta, aggravantesi nel tempo, è divenuta materia di grosso interesse per le multinazionali che attualmente detengono la maggioranza azionaria di tutte le Industrie farmaceutiche e che quindi incentivano gli studi e premono sulla diffusione dei loro prodotti antiipertensivi. Di fronte a questi dati è evi- ne l’alimentazione ed il moto. Spesso inoltre i pazienti stessi tendono a minimizzare valori pressori non particolarmente elevati anche se già da correggere e tengono quindi in scarsa considerazione i consigli del proprio medico. Tra le variazioni di stile di vita che dovrebbero essere messe comunque in pratica troviamo la restrizione nell’uso del sale nella preparazione dei cibi e soprattutto l’esclusione dei cibi conservati dove la salatura rappresenta il metodo di preservazione in modo da non superare i 6 g/die di cloruro di sodio; va limitata l’assunzione di alcool sotto i 1030 gr al giorno nell’uomo (1-3 bicchieri di vino) e sotto i 10 – 20 gr nella donna, va perseguita una riduzione ponderale nei soggetti sovrappeso, va incrementata l’attività fisica quotidiana e va eliminato il vizio del fumo. Già da sole queste prescrizioni possono ridurre i valori di PA riconducendo il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari ai tassi della popolazione standard come confermato dal recente studio PREMIER dove sia i pazienti che avevano seguito i sopraesposti consigli sia quelli che erano stati indirizzati ad una dieta particolare, siglata con l’acronimo DASH, hanno ridotto i valori di PA rispettivamente nel 30 e nel 35 % contro un 19 % del gruppo di controllo cui erano state date semplici norme generiche (3). La particolare dieta DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension) consta nell’incremento di frutta e vegetali favorendo l’uso di cibi poveri di grassi oltre che alla limita- N. 149 - 2005 zione nell’uso del sale (4). Prima di iniziare la correzione farmacologica dei valori pressori è comunque importante valutare la stratificazione del rischio di sviluppare le patologie vascolari a livello cerebrale, cardiaco o renale, indipendentemente dal mero valore della PA, a tale proposito è stata redatta dalla WHO e dalla ISH (Società internazionale dell’ipertensione) una tavola della stratificazione del rischio utile a determinare la necessità ed i tempi dell’induzione di terapia. Va ricordato che come accade per molte altre situazioni di rischio i gruppi di popolazione che per vari motivi vengono reclutati per studi dimostrano spesso, globalmente un vantaggio per gli eventi avversi, in virtù del solo controllo, rispetto a coorti con uguale fattore di rischio iniziale ma non sottoposti a periodici controlli; il controllo regolare, infatti, rappresenta di per sé una valida motivazione per il paziente alla adesione ad ogni tipo di terapia farmacologica ed al cambio dello stile di vita. Diviene perciò fondamentale la periodica rivalutazione programmata degli ipertesi presso il proprio medico di medicina generale piùttosto che una frettolosa assiduità ambulatoriale per il solo controllo ravvicinato dei valori numerici della PA. Nell’ambito organizzativo dove i sistemi sanitari pubblici dedichino risorse per la prevenzione, una quota parte delle risorse dovrebbe essere dedicata allo studio e controllo dei valori pressori della popolazione con campagne educazionali ben calibrate e N. 149 - 2005 con l’istituzione di centri di riferimento in collaborazione con le Società scientifiche mediche e gli Ordini professionali. Nel sesto Rapporto del Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure del 1999 compare, nel capitolo introduttivo, un paragrafo intitolato: Le sfide dell’ipertensione per la salute pubblica, dove sono enunciati dieci punti chiave per un programma di contenimento del rischio ipertensione che vale la pena di riportare (5): La programmazione sanitaria del futuro ventennio • prevenire l’aumento della pressione con l’età • diminuire l’attuale prevalenza dell’ipertensione • aumentare la sensibilizzazione dei pazienti e la possibilità di scoprire l’ipertensione • migliorare il controllo dell’ipertensione • ridurre i rischi cardiovascolari • aumentare la consapevolezza dell’importanza dell’ipertensione sistolica isolata • aumentare la consapevolezza dell’importanza di una pressione ai limiti su- periori della norma • ridurre le differenze etniche, socioeconomiche e regionali dell’ipertensione • migliorare le opportunità terapeutiche • aumentare l’applicazione dei programmi sul territorio È un programma ambizioso che però darebbe buoni frutti fin dalla sua prima applicazione senza dover attendere dei risultati finali consistenti e che quindi dovrebbe trovare il consenso di chi organizza i sistemi di prevenzione. Di quanto raccomandato in questo decalogo se ne atten- Sae l ute Territorio 117 deva un rapporto di risultato nella edizione successiva alla sesta invece la settima stesura del 2003 non ne fa menzione o riferimenti facendo supporre che i suggerimenti non abbiano trovato una consistente applicazione Concludiamo con la definizione quasi filosofica data da G. Rose nel 1971 ma che ancora oggi appare valida: “L’ipertensione potrebbe essere definita come quel valore di pressione arteriosa in corrispondenza del quale diagnosi e tarapia fanno più bene che male” (6) Bibliografia 3. Premier Collaborative Research Group, Jama, 2003, 289: 2083. 1. Leonetti G., Cuspidi C., La prevenzione dell’ictus nel paziente iperteso: i risultati dei grandi trial, Ipertensione e prevenzione cardiovascolare, 2001, vol. 8, n. 2: 60. 2. Mancia G. et al., Studio SILVIA: in Italia il controllo della pressione sanguigna è ancora ampiamente inadeguato, Hypertension, 2004; 22: 2387. 4. Dietary Approach to Stop Hypertension, N. Engl.J. Med. 2001, 344:3. Scompenso cardiaco Roberto Lorenzoni Eva Favilla UO Malattie Cardiovascolari, Ospedale “Campo di Marte”, Lucca L’ La mortalità per SC è molto elevata ed è mediamente superiore alla mortalità di molte forme di cancro come il cancro alla vescica, alla prostata, al seno, all’ovaia e all’intestino (2). Infatti, il 50% dei pazienti con SC muore entro 4 anni ma il 50% dei pazienti con forme gravi di SC muore entro 1 anno dalla diagnosi (3). Gli obbiettivi della terapia nello SC sono 3: aumento di incidenza dello scompenso cardiaco (SC) costituisce una vera e propria epidemia ed il costo ad esso connesso continua a crescere inesorabilmente. Si stima che in Europa, su una popolazione di circa 900 milioni di abitanti, 10 milioni soffrono di SC ed altrettanti hanno disfunzione ventricolare sinistra senza avere ancora sintomi (1). 5. 6th Report of Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure, 1999. 6. Rose G., Hypertension, Br.Med.Bull.1971, 27. 1. Prevenire l’insorgenza della disfunzione ventricolare sinistra e dello SC attraverso il controllo delle malattie che li determinano (prevenzione primaria). 2. Prevenire le riacutizzazioni della malattia quando questa è ormai presente (prevenzione secondaria). 3. Aumentare la sopravvivenza e migliorare la qualità di vita sino alla gestione delle fasi terminali della malattia. La prevenzione primaria Lo sviluppo della disfunzione ventricolare sinistra e dello SC può essere prevenuta o comunque ritardata attraverso la cura adeguata delle condizioni che portano allo SC, soprattutto l’ipertensione arte- riosa e la malattia coronarica. La terapia adeguata dell’ipertensione arteriosa e degli altri fattori di rischio vascolare deve essere perseguita con determinazione e secondo le linee guida, perché oltre a ridurre l’incidenza di eventi vascolari acuti, infarto miocardico ed ictus, riduce anche l’incidenza di SC. Quando la disfunzione ventricolare sinistra è già presente, il primo obbiettivo è quello di rimuovere le cause sottostanti, se possibile: correggere l’ischemia, curare in maniera aggressiva l’ipertensione arteriosa, eliminare l’abuso di alcool etc. La terapia della disfunzione ventricolare sinistra deve essere comunque iniziata quanto prima per rallentare la progres- l ute Sa e 118 Territorio sione, peraltro inevitabile, verso lo SC. La prevenzione secondaria La scelta di una terapia farmacologia ottimale dello SC previene le riacutizzazioni e migliora la qualità della vita. Purtroppo non è possibile evitare la morte per SC ma è possibile comunque ritardarla. La disponibilità dei defibrillatori impiantabili ha ridotto la morte improvvisa che era frequente in questi pazienti per cui l’esito fatale è sempre più spesso dovuto a scompenso refrattario. Il trattamento ambulatoriale dello SC Il decorso clinico dello SC è caratterizzato da riacutizzazioni che richiedono frequenti e costose ospedalizzazioni. In Europa, la diagnosi di SC è la più frequente diagnosi di dimissione nei pazienti ricoverati che hanno oltre 65 anni (4, 6). A domicilio lo SC è poi spesso curato in maniera inadeguata. I pazienti non sono visti regolarmente dallo specialista e non hanno la consapevolezza della gravità della propria malattia. Ne consegue che le terapie sono prescritte in maniera sub ottimale e l’aderenza dei pazienti alla terapia prescritta è scarsa (6). Ancora meno adeguati sono i consigli riguardanti la dieta e l’attività fisica. Da queste considerazioni emerge che molte riacutizzazioni e conseguenti ospedalizzazioni potrebbero essere evitate con un’assistenza sanitaria più mirata. I “disease management programs” rappresentano modelli di cura che prevedono un approccio multidisciplinare La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 alle malattie croniche con un’assistenza costante nel tempo ai malati e con uno sfruttamento trasversale di tutte le risorse del sistema sanitario (7). Il concetto di “disease management program” applicato allo SC ha portato alla formazione di centri dedicati alla terapia dello SC. I modelli assistenziali utilizzati sono fondamentalmente due (8): a. ambulatori dedicati allo SC (tipologia di assistenza “clinic-based”); b. assistenza domiciliare ai pazienti con SC (tipologia di assistenza “home-based”). Le due tipologie di assistenza, peraltro, possono essere fatte coesistere. 1. Gli ambulatori dedicati allo SC sono in genere ricavati all’interno dei servizi di cardiologia. La maggior parte di questi servizi prevede che la figura sanitaria di riferimento sia un medico, in genere un cardiologo (modello “physician-directed”). I pazienti che hanno sintomi possono presentarsi a questi ambulatori senza prenotazione e ricevere assistenza tempestiva. Questi centri in genere hanno disponibilità di un ecocardiografo ed una via preferenziale con il laboratorio di analisi dove poter dosare immediatamente i parametri ematochimici fondamentali per la gestione di questi pazienti. 2. L’assistenza domiciliare nei pazienti con SC prevede che i pazienti siano visitati regolarmente al proprio domicilio secondo sed”, l’efficacia non è statisticamente significativa per il secondo modello. L’inconveniente del modello “clinic-based” risiede nel fatto che è il paziente o il medico di medicina generale che, in genere per l’aggravarsi dei sintomi, richiede l’accesso all’ambulatorio dedicato allo SC. Purtroppo, l’accesso è spesso tardivo per prevenire la ricaduta e la conseguente ospedalizzazione. Inoltre questi pazienti sono frequentemente anziani e debilitati, talora con difficoltà anche logistiche di spostamento per cui si comprende facilmente come la terapia domiciliare condotta da infermieri specializzati sia più efficace. Infatti, tale approccio tende a prevenire la fase acuta attraverso visite periodiche e regolari che controllano lo stato clinico dei pazienti e monitorizzano i parametri ematochimici. Pertanto, anche se più difficile da implementare, è auspicabile che non si creino dei servizi dedicati allo SC senza la possibilità di fornire l’assistenza domiciliare. Apparentemente l’istituzione dei servizi di assistenza dedicati allo SC può sembrare costosa e difficile da implementare. Va ricordato però che il 70% di tutte le spese per lo SC è imputabile al costo dei ricoveri ospedalieri (11). Dato che l’istituzione di tali servizi si è dimostrata capace di ridurre le riospedalizzazioni si è conseguentemente dimostrata costi-efficace (12). programmi differenziati e personalizzati con la possibilità anche di essere sottoposti ad esami. La maggior parte di questi servizi prevede che la figura sanitaria di riferimento sia un infermiere (modello “nurse-led”). Questi infermieri hanno facoltà anche di modificare la terapia entro i limiti di protocolli predefiniti ed hanno comunque la disponibilità di consulenza da parte di un cardiologo referente. Il primo report di efficacia di tale approccio alla cura dello SC è del 1995 (9). Successivamente, molti paesi, soprattutto Gran Bretagna e Svezia, hanno implementato tali sevizi su scala nazionale. Anche in Italia si sta creando una rete di servizi dedicati allo SC promossa dall’Associazione dei cardiologi ospedalieri (ANMCO) che ha distribuito un software che rappresenta sia una guida di comportamento che uno strumento di raccolta dati. Il modello assistenziale attualmente più utilizzato è quello “clinic-based” dell’istituzione di ambulatori dedicati allo SC. In una metanalisi, l’approccio “disease management program” applicato allo SC si è dimostrato efficace nel ridurre gli “end-points” di: episodi di scompenso e ricoveri ospedalieri per problemi cardiovascolari, ricoveri per qualsiasi motivo, ricoveri e morte (10). Anche se l’efficacia di tale approccio sembra essere globale, quando si vanno ad analizzare i due modelli separatamente, servizi “nurse-led home-based” rispetto a servizi “physician-directed clinic-ba- La riabilitazione cardiologica nello SC La riabilitazione cardiologica nei pazienti con SC può rap- N. 149 - 2005 presentare un altro aspetto della gestione clinica di questi pazienti secondo il principio dei “disease management programs”. Una metanalisi di studi clinici randomizzati ha dimostrato che un programma di training fisico, adeguatamente supervisionato ed eseguito in ambienti sicuri, non solo non è pericoloso ma riduce in maniera significativa sia la mortalità che la riospedalizzazione dei pazienti con SC (13). Certamente i pazienti possono essere avviati alla riabilitazione cardiologia solo se stabili clinicamente e se non presentano controindicazioni all’attività fisica. Probabilmente solo una minoranza di pazienti in fase avanzata di malattia può essere inserita in questi programmi mentre un numero maggiore di pazienti dovrebbe essere tratta- La programmazione sanitaria del futuro ventennio to quando è ancora in fase iniziale con lo scopo di rallentare la progressione della malattia e di ridurre i ricoveri. Non è invece possibile tracciare linee guida sulla durata, sui carichi e sulle frequenze delle sedute né sulla durata e cadenza dei cicli riabilitativi. Il ciclo riabilitativo deve essere comunque personalizzato. Tutti i pazienti cardiopatici necessitano di trattamenti personalizzati, ma ancora di più i pazienti con SC a causa dei molteplici meccanismi che possono determinare il deterioramento della malattia. Al termine del ciclo riabilitativo il pazienti è inserito in un programma di mantenimento che durerà tutta la vita in maniera autonoma. Probabilmente, in analogia a quanto detto per l’assistenza generale di questi pazienti, visite domiciliari periodiche da parte dei fi- sioterapisti porterebbe ad una maggiore aderenza al trattamento di mantenimento e forse a risultati di efficacia a lungo termine migliori. La gestione della fase terminale Nonostante un incremento delle disponibilità di cure efficaci e della loro implementazione nella pratica clinica, la mortalità per SC rimane elevata ed inevitabile. L’unica terapia definitiva per lo SC è il trapianto cardiaco ma è come “fornire una sola scialuppa al Titanic che affonda” (14). La metà dei pazienti con SC muore di morte improvvisa ma l’uso sempre più diffuso dei defibrillatori automatici impiantabili eviterà la morte precoce a molti pazienti. Ne deriva che il destino ultimo della maggior parte dei pazienti con SC sarà quello di Sae l ute Territorio 119 una fase finale di vita di pessima qualità paragonabile solo a quella dei malati terminali di cancro. È evidente che la cardiologia deve prevedere una strategia di cure palliative per i pazienti in fase terminale di SC. Peraltro, la percezione di gravità della malattia nello SC è molto inferiore rispetto a quella nel cancro ed è difficile per i pazienti, per i familiari e per gli operatori sanitari raggiungere la consapevolezza di fase terminale e di raggiunta inutilità delle cure. Eppure, tale situazione sarà sempre più frequente e la razionalizzazione di tale evenienza non può che migliorare la qualità di vita del pazienti. Anche per questo aspetto, l’assistenza domiciliare da parte di infermieri specializzati potrà essere utile nella gestione della fase terminale (14). Bibliografia nagement: review of the evidence and call for quality assurance, Eur Heart J 2004, 25(18): 1596-604. 1. Cleland J.G., Khand A., Clark A., The heart failure epidemic: exactly how big is it?, Eur Heart J 2001, 22(8): 623-6. 9. 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Stewart S., McMurray J.J., Palliative care for heart failure, Bmj 2002, 325(7370): 915-6. l ute Sa e 120 Territorio La programmazione sanitaria del futuro ventennio Malattie vascolari Giampaolo Sozio Azzam Khader Alessandro Bianchi Stefano Nepi Mauro Ludovici Benvenuti Flaminio UF Chirurgia Ospedale Alta Val D’Elsa USL 7 Siena N l’infarto del miocardio, l’ictus e la morte per causa cardiovascolare: infatti è stato calcolato che gli individui affetti da AOAI hanno un incremento del rischio di eventi ischemici cardiovascolari di circa 7-10 volte e di mortalità a breve termine di circa 3 volte rispetto alla popolazione non affetta da AOAI (1). Il grado più severo della malattia e cioè il quadro di ischemia critica, ha una incidenza di circa 500 casi per milione ; tra il 10 ed il 30 % di questi pazienti ha una previsione di eventi cardiovascolari maggiori, fatali o non fatali, nei 6-12 mesi dopo la diagnosi e meno della metà dei pazienti con ischemia critica sopravvive senza una amputazione maggiore dopo 6 mesi dalla presentazione clinica. La elevata prevalenza, le conseguenze funzionali, il rischio ischemico cardiovascolare, il rischio di amputazione e la elevata mortalità associata alla AOAI determinano la necessità di una particolare attenzione alla profilassi ed al controllo della malattia. Le scarse risorse del Servizio sanitario nazionale, la prevalenza dei pazienti affetti da el paziente anziano la aterosclerosi comporta lo sviluppo di tre sindromi principali: la cardiopatia ischemica, l’ictus e le arteriopatie obliteranti degli arti inferiori. Tali sindromi prevalgono sulle altre condizioni per incidenza e peso sociale in termini di assorbimento di risorse, ma non bisogna dimenticare che, in considerazione del carattere sistemico della malattia aterosclerotica, numerose altre sindromi a patogenesi ischemica possono giovarsi di programmi di screening e trattamento delle tre patologie principali. Un discorso a parte merita poi la patologia aneurismatica, in particolare della aorta addominale, che implica dibattute scelte di indicazione al trattamento e di screening sulla popolazione ad età elevata in riferimento alla alta mortalità conseguente alla rottura. La patogenesi della arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori (AOAI) è associata ai comuni fattori di rischio come diabete, fumo, ipertensione ed ipercolesterolemia. La AOAI riveste particolare importanza poiché è considerata un potente indicatore di rischio per patologia aterosclerotica, il sovraccarico di lavoro dei laboratori di diagnostica vascolare ed i tempi di attesa, spesso eccessivi a causa di richieste di esami inutili o ripetitivi, impone alle comunità scientifiche di identificare dei percorsi diagnostici ottimali, al fine di ottimizzare le risorse esistenti. Ci si trova di fronte quindi un duplice problema: da una parte la necessità di indirizzare la popolazione, selezionata per categorie di rischio, verso una diagnostica di screening di ampia diffusione per la individuazione della malattia in stadi precoci o addirittura preclinici, dall’altra l’obbligo di incrementare la qualità dei laboratori di diagnostica vascolare che debbono offrire accertamenti più affidabili dal punto di vista della attendibilità, della specificità e della sensibilità e raggiungere standard di qualità accreditabili dalle Società scientifiche. Ai fini dello screening di massa è indicato favorire la larga diffusione e la presa di coscienza delle caratteristiche della malattia attraverso campagne informative di salute pubblica mentre uno screening strumentale sulla popolazione oltre un certo limite di età appare non proponibile per il nostro sistema sanitario. Senza un programma di educazione alla malattia aterosclerotica degli arti a carattere nazionale, i dati relativi ai progressi raggiunti su questa patologia rimangono in larga parte ignorati; di conseguenza non può essere ottenuto quel guadagno sperato sul piano della salute pubblica e N. 149 - 2005 le risorse spese per gli investimenti sulla ricerca in patologie vascolari non si traducono in un beneficio in termini di salute. Negli Stati Uniti è stata raggiunta una corposa evidenza dei benefici raggiunti attraverso campagne di sensibilizzazione e di educazione sulla patologia aterosclerotica degli arti inferiori. Da questi dati derivano interessanti considerazioni: la necessità per i messaggi relativi alle campagne di salute pubblica, di essere fondati su robusta evidenza scientifica; la indicazione alla creazione di gruppi di lavoro dedicati che prevedano la presenza di tutte le figure professionali coinvolte nella diagnosi e cura delle malattie vascolari, rappresentanti dell’utenza e membri di organizzazioni con esperienza nella comunicazione e nelle pubbliche relazioni con l’intento di creare un gruppo di lavoro permanente per la educazione e la prevenzione delle malattie vascolari che conduca a strategie condivise di politica sanitaria dedicata. In particolare i principali obbiettivi da raggiungere possono essere riassunti nei punti seguenti: • Creazione di un insieme di messaggi inerenti la AOAI su basi scientifiche basate sulla evidenza. • Programmazione di supporti alle società scientifiche ed alle associazioni dedicate allo studio delle malattie vascolari per lo sviluppo di campagne pubbliche di informazione. • Previsione di progetti di medio termine con la indi- N. 149 - 2005 viduazione di “end point” misurabili la cui monitorizzazione passi attraverso workshop di esperti. Le campagne informative rappresentano dunque uno strumento di grande importanza in un capitolo, quale quello delle arteriopatie obliteranti degli arti inferiori, per il quale è già impegnata una elevata quota di risorse in termini di assistenza routinaria: i messaggi da divulgare sono relativi ad alcuni concetti fondamentali posti alla base della patologia: • La alta prevalenza della AOAI e la sua stretta relazione con l’avanzare della età e con i comuni fattori di rischio per la aterosclerosi. • La natura sistemica della malattia aterosclerotica ed i suoi legami con i principali eventi ischemici cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus e morte). • Gli effetti della AOAI sulla qualità di vita, sul decadimento della funzionalità del proprio organismo e sul rischio della perdita degli arti. • La facilità della diagnosi di AOAI attraverso la visita clinica e l’uso dell’ ABI. La capacità di un corretto stile di vita, associato ai farmaci ed alle più moderne tecniche di chirurgia vascolare ed endovascolare quando necessarie, consentono di migliorare la qualità di vita, ridurre il rischio cardiovascolare e l’incidenza delle amputazioni maggiori. A seguito della diffusione e della presa di coscienza dei temi inerenti la AOAI è consigliabile per il paziente al di sopra dei 65 anni un control- La programmazione sanitaria del futuro ventennio lo clinico sistematico della propria salute attraverso una valutazione del MMG poiché una corretta anamnesi ed esame obiettivo completato dalla palpazione dei polsi e delle arterie lungo il loro decorso, alla ricerca di ectasie, e dalla ascoltazione dei soffi è generalmente sufficiente per eseguire una diagnosi di arteriopatia steno-ostruttiva degli arti inferiori. Tale valutazione, completata da un esame Doppler CW (I livello diagnostico), consente una corretta stratificazione della patologia nel paziente anziano, riservando alla diagnostica di II e III livello solo i casi patologici ; in questo modo è lecito auspicare la riduzione della presentazione della patologia cardiovascolare nei suoi quadri morbosi più gravi e, quindi, più onerosi per quanto attiene ai costi sociali attraverso un corretto utilizzo delle risorse sul territorio e risparmiando sugli esami specialistici strumentali non adatti alle funzioni di screening e follow up come indicato dalle principali linee guida nazionali (PNLG et al.) Per la patologia ischemica cerebrale, è importante, anche in questo caso, partire da alcune considerazioni di carattere epidemiologico che sottolineino le dimensioni del problema: il miglioramento generale delle condizioni di vita ed i progressi in campo medico hanno prodotto un allungamento della durata della vita con una spettanza che è di 7.2. anni per gli uomini e d ai 9.1 anni per le donne (2). In Italia le ultime rilevazioni censitarie rilevano che oltre un quinto della popolazione ha superato i 60 anni e che l’attuale trend porterà nel 2040 gli ultrasessantenni al 41% ; la percentuale di individui con età uguale o superiore ad 80 anni, oggi pari al 6% circa, crescerà di pari passo (3). In questa fascia di età l’ictus, principalmente su base aterosclerotica, rappresenta sempre la III causa di morte, ma con una incidenza che è maggiore di 5 volte (6 volte per i maggiori di 85 anni) rispetto alla popolazione compresa tra i 55 e i 65 anni (4). Secondo le linee guida italiane SPREAD sull’ictus cerebrale – aggiornamento 2001 – ogni anno vi sono in Italia oltre 186.000 nuovi casi e, considerando l’incidenza costante, questo numero è destinato ad aumentare fino a poter stimare nel 2008, a causa dell’incremento demografico, ad oltre 206.000 nuovi casi. Il ricorso allo screening per la stenosi carotidea appare giustificato quindi non solo dal fatto che le persone con stenosi asintomatica sono ad aumentato rischio per le malattie cardiovascolari (5, 6), ma anche dal fatto che la diagnosi precoce può ridurre la morbilità per tali malattie; la consapevolezza della diagnosi può motivare i pazienti a modificare stili di vita e fattori di rischio ovvero a sottoporsi a schemi terapeutici nelle fasi precoci di malattia. Non è ancora possibile stabilire con certezza se lo screening su vasta scala sia una un metodo efficace nella pratica clinica generale per ridurre la morbilità e la mortalità da ictus. Risultano invece raccomandabili programmi di screening per i fattori di rischio co- Sae l ute Territorio 121 me ad esempio l’ipertensione, associate a campagne di educazione sanitaria contro i rischi del fumo e della obesità, a seguito dei quali sia possibile selezionare sottopopolazioni di soggetti per cui lo screeening ecodoppler della stenosi carotidea sia raccomandabile. Una esperienza condotta nella regione Lombardia dalla Società Italiana per la Prevenzione dell’Ictus Cerebrale Ischemico (SIPIC) in collaborazione con la Croce Rossa Italiana (CRI) ha dimostrato l’efficacia di un modello di prevenzione cosiddetto di iniziativa, ovvero condotto su una coorte di pazienti selezionati sulla base di almeno un fattore di rischio da parte dei medici di medicina generale e di età superiore a 55 anni. Tale esperienza si è dimostrato efficace in modo statisticamente significativo e tale da poter essere considerato giustificabile e conveniente dal punto di vista socio-economico avendo permesso, infatti, di selezionare una sottopopolazione di soggetti asintomatici con un’alta prevalenza di SCA (26.8%) quindi meritevole, secondo la letteratura, di essere sottoposta a indagine mediante ecodoppler carotideo. Il modello di screening d’iniziativa utilizzato dalla SIPIC si ispira al concetto moderno di “gestione integrata” o shared care in ambito sociosanitario, cioè di collaborazione e integrazione tra diversi operatori sanitari che condividono un obiettivo comune: in questo caso MMG, specialisti ecografisti, neurologi, internisti, cardiologi, chirurghi vascolari, ricercatori epidemiologi, esperti informatici, ma- l ute Sa e 122 Territorio nagers sanitari, associazioni volontaristiche e organi d’informazione. Fondamentale per la sua attuazione si è dimostrato il ruolo del MMG nel selezionare la sottopopolazione con più alta prevalenza di SCA. Altrettanto importante si è dimostrato un Protocollo con procedure operative standard cu- La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 rato dalla SIPIC e dalla CRI e condiviso dalla medicina generale e specialistica del territorio, che hanno adottato linee guida multidisciplinari (SPREAD). È comunque da considerare che la attività diagnostica strumentale è stata condotta in forma gratuita da personale esperto aderente alla associazione e quindi l’e- ai fini della prevenzione dell’ictus solo su pazienti oltre i 65 anni ed appartenenti a sottogruppi considerati a rischio, adottando modelli di cooperazione tra diverse figure professionali e con il coinvolgimento di associazioni dedicate attraverso progetti finalizzati al fine di ridurre i costi troppo onerosi per il solo SSN. Bibliografia 1. Leng G.C., Lee A.J., Fowkes F.G., et al., Incidence, natural history and cardiovascular events in symptomatic and asymptomatics peripheral arterial disease in the general population, Int. J. Epidemiol 25: 1172-1181, 1996. 2. National Center for Health Statistics, Vital statistics of the United States 1991, II. Mortality, Part A, sec 6 life tables, Table 6-4, Washington, Public Health Service, 1996; 16. Broncopneumopatia ostruttiva cronica Walter Boddi Primario di Medicina generale AUSL di Siena L Adjiusted Life Year) (nel 1990 era dodicesima), dopo la cardiopatia ischemica, la depressione, gli incidenti stradali, le malattie cerebrovascolari. In Inghilterra, recentemente i ricoveri d’urgenza sono cresciuti tanto da rendere drammatica la situazione dei posti letto sia quelli di ricovero ordinario sia quelli delle terapie intensive.Nel 1998 (USA)la malattia è stata responsabile di 14,2 milioni di visite ambulatoriali (82 visite/1000 abitanti), di 1,4 milioni di visite a BPCO rappresenta la quarta causa di morte nel mondo con 2,74 milioni di morti nel 2000 (nel 1990 era la sesta) e l’OMS riferisce che questo indice crescerà rapidamente anche se la malattia è sottodiagnosticata.Negli USA si stima che solo il 14-46% dei casi è diagnosticato. Le proiezioni dell’OMS prevedono che nel 2020: • La BPCO sarà la terza causa di morte nei paesi occidentali. • La BPCO sarà la quinta causa di DALY (Disability- sperienza che ne consegue conferma che il buon rapporto costo-beneficio tiene conto dell’impegno di forme di volontariato che riducono i costi sostenuti dal SSN. In conclusione, sulla scorta delle esperienze citate, appare consigliabile lo screening con ecodoppler della patologia aterosclerotica carotidea 3. Federazione Nazionale Pensionati CISL, Anziani 98. Tra uguaglianza e diversità. Secondo rapporto sulla condizione della persona anziana, Roma, Lavoro, 1999, 452. 4. Robbins M., Baum H.M., National survey of stroke incidence, Stroke 1981, 121 (suppl. I), 45-7. 5. Warlow C., Endarterectomy for asymptomatic stenosis?, Lancet 1995, 345: 1254-1255. 6. Amarenco P., Cohen A., Tzourio C., et al., Atherosclerotic disease of the aortic arch and the risk of ischemic stroke, N Engl J Med 1994, 331: 1474-1479. in Dipartimenti di emergenza (83 visite su 10000 abitanti). Sempre nel 1998 è stata responsabile di circa 662.000 ospedalizzazioni (1,9% di tutte le ospedalizzazioni). In pazienti con età superiore a 55 anni; il tasso di ospedalizzazione è stato14,8%,in pazienti tra i 65 e i 75 anni il tasso è stato 19,9% (7,0% del totale di ospedalizzazioni),in pazienti con età superiore ai 75 anni: 18,2% La frequenza di ospedalizza- zione (BPCO come prima diagnosi) è stata nel 1998 di 38,3/10000 abitanti. Anche la mortalità per BPCO è aumentata negli USA negli ultimi anni.Per gli uomini è stato raggiunto un plateau dal 1995 al 1998 (53,1/100000) mentre è cresciuta la mortalità delle donne (29,3%-> 32,1%).Per quanto riguarda l’Italia, nel 2000: i dati sono stati raccolti in base alla codifica per DRG della diagnosi principale di dimissione: Diagnosi ospedaliere di BPCO in ricovero ordinario: 119.021 Percentuale rispetto ai ricoveri totali: 1,4% Giorni di degenza/anno per BPCO: 1.186.911 Durata media della degenza: 10,7 Costi di ospedalizzazione per BPCO/anno in euro: 360.919.800 Percentuale rispetto all’intera spesa per ricoveri in regime ordinario: 1,45% Per quanto riguarda la scomposizione dei dati per le diverse regioni la differenza che più colpisce è la durata della degenza media che va dai 17,35 giorni del Piemonte N. 149 - 2005 ai 7,28 della Basilicata.Queste differenze sono presenti anche nei report degli anni 2001 e 2002. La malattia colpisce in prevalenza la popolazione più povera.L’importanza di una diagnosi precoce è dovuta alla possibilità di far smettere di fumare prima che la malattia divenga irreversibile.Il fumo rappresenta il fattore di rischio anche per la progressione della malattia. Comunque le indagini sulla prevalenza rilevano risultati talvolta contrastanti.Un recente studio evidenzia che la prevalenza (nord America) varia dal 4% al 10% a seconda se la diagnosi viene posta con gli esami spirometri o con criteri clinici.Gli esami spirometrici,a loro volta sono influenzati dalle pratiche diagnostiche locali e dai parametri presi per la definizione di BPCO come detto nella definizione.Con i criteri ATS si stima che la prevalenza sia 2,9% dell’intera popolazione, per i criteri ERS e GOLD:circa il 14% dell’intera popolazione. Clinica e diagnostica: La malattia è molto eterogenea nella sua presentazione. I sintomi più frequenti sono il respi- La programmazione sanitaria del futuro ventennio ro sibilante e la dispnea da sforzo.Spesso si presenta come una malattia sistemica con effetti sullo stato nutrizionale con ipotrofia muscolare e depressione.Nella prima fase che può durare molto tempo, la malattia può essere asintomatica e i sintomi possono comparire quando la funzione polmonare è già compromessa,con un FEV1 al di sotto del 50% della norma.Ciò comporta la necessità di una diagnosi precoce nei pazienti a rischio che sono rappresentati prevalentemente da fumatori.La diagnosi precoce può essere determinata con le prove spirometriche.Come per la definizione anche per la stadiazione della malattia ci sono varie e autorevoli linee guida, che si diversificano soprattutto per i valori della FEV1. Prevenzione: per le malattie coronariche sono state fatte campagne preventive più numerose che per la malattia bronchiale cronico-ostruttiva probabilmente per i progressi in campo farmacologico e di terapia interventistica. Le evidenze dimostrano che per una prevenzione efficace Bibliografia Rand E., Sutherland M.D., et al., Management of Chronic Obstructive Pulmonary Disease, N Engl J Med 2004, 350: 2689-2697. Pamela A., Meyer PhD., et al. Characteristics of Adults Dying With COPD, Chest 2002, 122: 2003-2008. Editorial, Chronic obstructive pulmonary disease, BMJ 2003, 326: 1046-1047. Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari-Provincia di Trento, Profili e protocolli assistenziali, BPCO, 2002-. Ministero della Salute, Ricoveri per BPCO nel 2000-2002. Halbert R.J., M.D., M.P.H., et al., Interpreting COPD Prevalence Estimates, Chest 2003, 123: 1684-1692. David M., Mannino, M.D., FCCP COPD, Chest 2002, 121: 121S-126S. Sunghye K., M.D. et al., Prospective Multicenter Study of Relapse Following Emergency Department Treatment of COPD Exacerbation, Chest 2004, 125: 473-481. sono necessari: • L’istituzione di centri specializzati per la diagnosi precoce, per gli esami spirometrici, per la cessazione del fumo, per il trattamento e la riabilitazione. • L’incremento dei centri per la cessazione del fumo. • La dotazione di strumenti idonei come la spirometria per la diagnosi precoce (nei fumatori con sintomi respiratori negli asmatici con più di 40 anni). • La redazione di un registro dei pazienti. • L’istituzione di centri per la riabilitazione. • L’incremento dell’integrazione tra le cure somministrate in ospedale e presso il proprio domicilio. • L’istituzione di centri per le cure palliative per i malati terminali. • L’adeguamento a domicilio di servizi di supporto per i pazienti con malattia severa. Gli scopi primari della prevenzione sono soprattutto tre: 1. Far conoscere ai giovani quali sono i danni da fumo, in modo che diminuiscano i neo-fumatori. 2. Far cessare l’abitudine del Sae l ute Territorio 123 fumo ai fumatori, usando terapie psicologiche di gruppo, o farmacologiche: sostituzione con nicotina in varie forme, buprionone ecc. 3. Ridurre le riacutizzazioni, che possono essere di natura batterica o virale con le vaccinazioni antinfluenzali antipneumococciche. Gestione della malattia a domicilio come alternativa all’Ospedale: recentemente sono state prese in esame alternative al ricovero in Ospedale per i pazienti con BPCO riacutizzata. Un lavoro dimostra invece che l’hospital at home, determinato da visite infermieristiche periodiche, non diminuisce i ricoveri ripetuti anche se sembra che migliori la qualità della vita.Probabilmente bisogna pensare ad altri interventi oltre che una visita infermieristica periodica.Questi concetti sono stati ribaditi da un recente lavoro dove vengono presi in esami 7 trials randomizzati (754 pazienti).La mortalità e la frequenza dei ricoveri ripetuti non varia ma in due studi, l’hospital at home permetteva un risparmio di costi. Multidisciplinary rehabilitation improves COPD, BMJ 2004, 329 (20 November). Di Giulio P., L’ossigenoterapia a lungo termine migliora con i rischi minimi la qualità e l’attesa di vita, Nonsolofarmaci, novembre 1998. Stephen P.,Tarpy M.D., et al., Long-term Oxigen Therapy, N Engl J 1995, 333: 710-714. Truwit J.D., M.D., et al., Noninvasive Ventilation, N Engl J 2004, 350: 2512-2515. 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C’è da aggiungere che senza valutare l’appropriatezza delle indicazioni, si può rischiare un grave danno economico al SSN. olendo attuare una possibile proiezione delle esigenze che nel futuro saranno da considerare per la salute dei cittadini legata all’efficienza del loro apparato visivo, è opportuno prendere in considerazione una serie di fattori, che verranno discussi nel dettaglio. In premessa si deve altresì precisare l’assenza di linee guida nazionali per molte della patologie otfalmologiche ed è altresì carente una valutazione sull’appropriatezza e l’outcome delle prestazioni stesse. Questi aspetti debbono essere chiariti, prima di investire personale e mezzi, assai onerosi. Le patologie degenerative dell’apparato visivo causano danni funzionali tanto maggiori, quanto più si prolunga la vita media. Una tipica situazione è la degenerazione maculare legata all’età. Per essa non si conosce l’eziopatogenesi. Si sa solo che è più frequente in chi si è esposto molto alla luce nell’arco della vita. Sulla base dela fatto che sostanze anti-ossidanti ritardano l’invecchiamento della retina, vengono prescritti preparati a base di tali principi, il cui effetto potrà essere verificato solo dopo averne valutato l’assunzione cronica per periodi di almeno vent’anni. I costi di tali farmaci sono peraltro ingenti. È considerata oggi la prima cau- L’eziopatologenesi della maggior parte delle patologie oftalmiche è sconosciuta a tutt’oggi, per cui una prevenzione risulta ancora impossibile per la maggior parte di esse. I vari programmi di screening di malattie oftalmologiche debbono essere orientati più sulla diagnosi precoce che sulla prevenzione delle patologie, poiché l’eziopatogenesi della maggior parte di esse non è conosciuta. Per quanto riguarda l’infanzia è opportuno uno screening per l’ambliopia. È da precisare che il 4% della popolazione è ambliope e soggetti ambliopi sono statisticamente più spesso oggetto di patologie invalidanti che colpiscono l’occhio sano. Si aggiunga che l’aspettativa di vita di tali pazienti è di 80 anni, per cui un programma di screening appare un utile investimento. Lo screening andrebbe attuato valutando la situazione oculare nei se- guenti momenti: alla nascita, nel momento delle prime vaccinazioni (intorno agli 8-10 mesi), a 3 anni di età circa e all’inizio della scuola. Tale calendarizzazione tiene conto dei momenti nei quali i bambini possono essere facilmente valutati a basso costo. Si considera che uno screening per l’ambliopia abbia un costo complessivo di circa 15 euro, cifra minima in rapporto a costosi interventi di vitrectomia (circa 5700 euro) che si attuano con scarsi risultati funzionali in pazienti con aspettativa di vita ridotta (oltre 70 di età media). Per quanto riguarda altre patologie a insorgenza nell’età adulta, come il glaucoma e le degenerazioni maculari legate all’età, vanno attuati altrettanti percorsi informativi in coordinazione con i medici di base. Numerose patologie sistemiche presentano rilevanti complicanze oculari. Tali complicanze sono socialmente rilevanti in particolare per il diabete ed il distiroidismo. In particolare per il diabete, il mantenimento in vita di pazienti che in tempi passati non sarebbero sopravvissuti causa un aumento statisticamente rilevante di complicanze oculari. La recrudescenza di patologie infettive (come la TBC, la sifilide) e la permanenza di altre come l’AIDS sono fonte di gravi compromissioni oculari, assai spesso sottovalutate. Va rilevato ancora che l’immunodepressione indotta anche dalla moderna chirurgia dei trapianti, è responsabile di patologie (come l’infezione da N. 149 - 2005 citomegalovirus) che inducono gravi quadri di vasculite retinica che diventano statisticamente più frequenti con il mantenimento in vita di pazienti che in tempi passati non sarebbero sopravvissuti a lungo. Di tutti gli aspetti sopra ricordati è presente allo stato un’informazione assai scarsa, sia tra gli oftalmologi che tra i medici (reumatologi, ematologi, internisti, ecc.) che i chirurghi (operatori di trapianti viscerali di vario genere). L’oftalmologia attuale è sostanzialmente improntata alla terapia chirurgica, con notevole sofisticazione delle tecnologie diagnostiche ed operatorie; poco spazio è lasciato all’istruzione e alla conseguente gestione di patologie non chirurgiche. Di fatto, si può calcolare che almeno il 40% degli oculisti/oftalmologi non pratica attività chirurgica, ma non ha ottenuto una formazione culturalmente sufficiente in quegli aspetti della disciplina che sono eminentemente medici. È di fondamentale importanza che nel futuro questa tendenza si inverta. L’attività chirurgica poi è in molti casi attuata sporadicamente e quindi con risultati non certo prevedibili. Si è poi creata una forte dipendenza degli oculisti dalla tecnologia inerente l’atto chirurgico, per cui vengono non raramente attuati inteventi con costi elevati e con vantaggi funzionali dubbi. Verifiche sulla correttezza delle indicazioni e sull’outcome della chirurgia oftalmologica sono assolutamente indispensabili. N. 149 - 2005 Patologie croniche con alta prevalenza come il glaucoma richiedono terapie con farmaci costosi, che prevedono un’auto-somministrazione, fonte di difficoltà e sprechi in pazienti di età avanzata. Il glaucoma è oggi gestibile nella maggioranza dei casi con terapia medica. Essa si attua con somministrazione di colliri. È stato dimostrato che per molti di essi non esiste un effetto sommatorio. In altre parole, somministrare 34 colliri è inutile ed è solo costoso. Inoltre, molto spesso la compliance non è buona, sia in pazienti che svolgono attività lavorativa (dimenticano di instillare il collirio perché impegnati) che per pazienti della terza età che vivono soli. Qui si aggiunge il fatto che spesso l’autosomministrazione fa sì che il collirio non venga instillato all’interno dell’occhio. Infine, per la maggioranza di tali pazienti, la terapia è totalmente gratuita, essendo portatori di patologia cronica. Ciò induce in molti casi ad uno spreco, per cui viene acquistato un nuovo flacone quando quello già in possesso del paziente contiene ancora collirio. Va quindi valutato l’impatto economico sul SSN della terapia del galucoma, che va regolamentata opportunamente. L’ipovisione (cioè un visus inferiore a 2/10 in entrambi gli occhi) causa impossibilità alla lettura e alla visione distinta La programmazione sanitaria del futuro ventennio in generale, mentre consente un orientamento nello spazio. Ciò determina una condizione di handicap grave e quindi di mancanza di indipendenza del cittadino, con ricadute diverse sulla società a seconda dell’età dello stesso. È pertanto di fondamentale importanza attuare quei percorsi di screening per l’ambliopia sopra ricordati, allo scopo di far disporre al paziente di una “ruota di scorta”, nel momento nel quale una patologia invalidante possa colpire l’unico occhio veggente. È altresì di fondamentale importanza indurre i cittadini portatori di patologie croniche degenerative come la miopia, a sottoporsi ad esami periodici che possano mettere in evidenza lesioni retiniche precoci che, se lasciate a se stesse, possono causare deficit visivi permanenti (come il distacco di retina). Inoltre tutti i cittadini al di sopra dei 50 anni dovrebbero sottoporsi a controlli periodici della pressione intraoculare, allo scopo di poter diagnosticare precocemente l’insorgenza di un glaucoma. L’ipovisione della persona della terza età favorisce anche l’instaurarsi di patologie che richiedono costi elevati per la loro gestione. Si verifica molto spesso, in particolare per cittadini che vivono da soli, che alterazioni della funzione visiva siano responsabili di traumi di diverso genere. A tale proposito, una Neurologia Rudolf Schoenhuber UO Neurologia, Bolzano cataratta, se presente bilateralmente, va operata in tali pazienti appena essa comprometta le sue attività abituali. Eventuali diplopie dovute a deficit dei nervi oculomotori (spesso di origine vascolare) possono rendere difficoltosa la discesa di scale e causare cadute, con conseguenze anche gravi, che si riverberano poi sul SSN. In particolare, andrebbe verificata l’incidenza di fratture del femore da caduta, dovuta a ipovisione. L’unica area geografica ove esiste un sistema di visite oculistiche programmate, con rintracciabilità dei cittadini, è la Scandinavia. Andrebbe attuato un percorso, sia per l’infanzia, che per l’età adulta, nel quale coinvolgere pediatri e medici di base, che consenta una valutazione periodica dell’efficienza dell’apparato visivo lungo tutto l’arco della vita del cittadino. È l’unico sistema noto per ridurre se non annullare le conseguenze di patologie invalidanti. In Italia, tale percorso non è a tutt’oggi istituzionalizzato ed è auspicabile che le Regioni, che possiedono autonomia legislativa in tal senso, si adoperino per creare regole precise, utilizzando il personale medico che per esse lavora. È indispensabile però che venga preventivamente attuata un’opportuna formazione allo scopo di far padroneggiare le manovre diagno- L e molte malattie del sistema nervoso, ambito di azione della neurologia, vengono trattate da vari professionisti medici (neuro- Sae l ute Territorio 125 stiche necessarie e di far valutare criticamente i risultati. Organizzazione dell’attività oftalmologica. È possibile, nell’ambito della razionalizzazione dei Servizi sanitari attuati per esempio nelle Aree vaste, coordinare utilmente l’attività oftalmologica sia chirurgica che ambulatoriale. Allo scopo e per evitare sprechi andrebbero seguiti alcuni principi: – verifica della prevalenza delle patologie oftalmologiche nel territorio; – centralizzazione delle attività diagnostiche e terapeutiche sofisticate (III livello); – coordinazione tra ambulatori periferici e centri diagnostici per prenotazioni; – diagnosi di telemedicina (specialmente per esami diagnostici strumentali come la fluorangiografia); – valorizzazione dell’attività oftalmologica non chirurgica; – regolamentazione dell’attività di chirurgia ambulatoriale oftalmologica, fortemente incoraggiata dai libero-professionisti che vogliono ottenere legittimazione dell’attività dei loro ambulatori chirurgici: esiste il rischio di banalizzazione della chirurgia oftalmologica, che richiede invece l’uso di sale operatorie attrezzate e controllo attento delle regole di asepsi. logi, psichiatri, neurochirurghi e neuroriabilitatori), ma sempre più anche non medici (psicologi, psicoterapeuti, fisio-, ergo-, logoterapisti, in- l ute Sa e 126 Territorio fermieri, assistenti sociali ecc.). Ogni professionista cerca di dare il suo contributo per migliorare lo stato di salute e l’autonomia dei pazienti, ma le malattie neurologiche continuano ad essere quelle che causano fra tutte la maggiore quota di disabilità. Poche sono completamente guaribili, sebbene ultimamente siano stati introdotti trattamenti nuovi, molto costosi, ma per tutte esistono trattamenti almeno palliativi (Ringel, 1999). Come gran parte delle specialità mediche, anche in Italia, la neurologia ha seguito il modello dell’assistenza prevalentemente ospedaliera applicando man mano le più recenti ricerche alla pratica clinica. Dopo il distacco dalla medicina generale la neurologia ha avuto il suo massimo sviluppo negli anni ’70 e ‘80 (Ringel, 1999). L’introduzione delle tecniche di neuroimaging ha ridotto la necessità di ricoveri ospedalieri, nel frattempo sono aumentati i costi per le innovazioni diagnostiche e terapeutiche. In nessun Paese si è fatta una seria programmazione dei servizi: esiste un’enorme variabilità del numero di specialisti in neurologia in Europa: sono circa 300 nel Regno Unito, 2-3000 in Francia e in Germania e più di 5000 in Italia, il numero di reparti è di poche decine in Gran Bretagna e di qualche centinaio negli altri Paesi. Solo negli ultimi anni ci si è posti la domanda sull’appropriatezza dei ricoveri e della possibile riorganizzazione dei servizi in un setting assistenziale diverso da quello ospedaliero. La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 Le malattie di interesse neurologico hanno una prevalenza che varia per gruppi di età: le cefalee e le epilessie primarie esordiscono in giovane età e continuano; i traumi cranici hanno il loro picco le sintomatiche nell’età adulta e nell’anziano, la maggioranza delle malattie degenerative colpiscono gli anziani oltre i 65 anni, come pure le malattie vascolari. I dati di prevalenza dipendono dall’incidenza e dalla durata di malattia che può variare con il tasso di guarigione, il tasso di sopravvivenza e con la maggiore aspettativa di vita. Di maggiore interesse sono delle misure introdotte più recentemente in epidemiologia, quelle legate al burden of disease o carico di malattia. Si tratta del numero di anni di vita persi per una data malattia e, più per l’organizzazione dei servizi sanitari, il numero di anni vissuti in disabilità. Nella parte industrializzata dell’Europa già ora metà degli anni vissuti con disabilità sono dovuti a malattie neuropsichiatriche (Olesen e Leopardi, 2003): prevalgono ovviamente malattie psichiatriche dei giovani come la schizofrenia che colpisce i giovani e per i quali l’attesa di vita in disabilità è perciò particolarmente rilevante. Per le malattie più prettamente neurologiche la demenza da sola costituisce il 10%, l’ictus oltre i 2% ed il Parkinson oltre l’1%. La prevalenza di queste malattie degenerative raddoppia per ogni quinquennio considerato: il prevedibile ulteriore aumento dell’aspettativa di vita sarà accompagnato da un numero sempre più rilevante di pa- zienti parkinsoniani e la sopravvivenza dei pazienti con ictus, con un aumento complessivo di pazienti anziani disabili. Il prevedibile maggiore bisogno di assistenza di pazienti più anziani con le tipiche patologie vascolari o degenerative di quel gruppo di età non è oggi controbilanciato da un aumento delle risorse umane e materiali investite in questo settore. Si assiste invece ad un progressivo calo di infermieri e di personale con ruoli assistenziali, ma anche di medici e alla sostanziale indifferenza di chi deve programmare strutture assistenziali. Quali risposte sono necessarie per una più ragionevole gestione di tale patologia? Considerando il sempre maggiore peso che avranno i pazienti con disabilità motoria e cognitiva conseguente a ictus, malattie degenerative e traumi cranici bisogna ricordare che la maggioranza di tali pazienti appartiene alla terza età, in una fase di vita non più produttiva e nella quale già oggi molti necessitano di supporto, a differenza dai traumatizzati cranici che sono invece molto più giovani, all’inizio o nel mezzo della fase più produttiva della loro vita. La famiglia allargata ancora presente in alcune realtà agricole era in grado di sostenere al suo interno anche persone improduttive, la famiglia nucleare odierna costituita dai genitori ambedue occupati ed uno o al massimo due figli non lo è più sia per motivi logistici (appartamenti piccoli), sia economici (perdita del reddito di un zienti con patologia degenerativa neurologica, in particolare di pazienti disabili cognitivamente e di esiti di trauma cranico e di ictus, mentre poco cambierà per la rimanente patologia neurologica. Può la neurologia italiana, prevalentemente ospedaliera, che sembra aver puntato recentemente tutte le sue speranze di sopravvivenza sulla gestione acuta dell’ictus, rispondere ai bisogni della sua popolazione assistita con tale modello organizzativo? Ci si può preparare alle sfide del futuro in modo adeguato? Basta prolungare le linee di tendenza della attuale realtà ospedaliera, prevedendo semplicemente più ictus, più dementi e più parkinsoniani perché la popolazione invecchia? O bisogna essere pronti ad affrontare situazioni completamente diverse? Non verranno considerate in questo contesto tecniche di pianificazione a lungo termine, come lo scenario planning, difficili e finora pochissimo utilizzate in sanità, ci si limiterà ad un’analisi di mercato così come è ora e a fare semplici proiezioni per il futuro. Di fronte ad un prevedibile aumento della popolazione di anziani e alla maggiore sopravvivenza di pazienti dopo gravi traumi cranici ed altre patologie neurologiche (ictus, meningiti ed encefaliti) si può presupporre che l’armamentario medico rimanga più o meno costante nei prossimi 10-20 anni, e che i vantaggi dati dai trattamenti farmacologici continuino ad essere marginali per i pazienti dementi, ma che aumentino l’autonomia motoria dei pa- N. 149 - 2005 componente per poter assistere una persona disabile). Non è pensabile tenere ricoverato nell’Ospedale per acuti il disabile per un periodo eccedente la fase puramente diagnostica. All’interno della logica dell’innovazione dirompente per i pazienti affetti da malattie La programmazione sanitaria del futuro ventennio disabilitanti del sistema nervoso, soprattutto quelle degenerative dell’anziano, ma anche nelle situazioni tragiche del traumatizzato cranico dopo che le possibilità riabilitative si sono concluse si dovrà pensare a soluzioni nelle quali le prestazioni siano adeguate ai bisogni dell’uten- Bibliografia Christensen C.M., Bohmer R., Kenagy J., Will disruptive innovation cure health care?, Harv Bus Rev 78: 102-12, 2000. Langton Hewer R., The economic impact of neurological illness on the health and wealth of the nation and of individuals, J Neurol Neurosurg Psychiatry 1997, 63(Suppl 1): 19-23. Problemi gastroenterologici comuni Giorgio Dobrilla Primario Gastroenterologo Emerito, Ospedale regionale, Bolzano Professore aC, Facoltà di Medicina, Università di Parma N rativa che manteneva una minoranza di anziani occupati l’apice. Oggi la piramide si è rovesciata: gli anziani sono sempre più numerosi e giudicati (ingiustamente!) onerosi perché le pensioni gravano sul bilancio dello Stato. Ma gli anziani “costano” soprattutto perché, a causa di malattie spesso croniche e/o evolutive richiedono interventi sanitari in continuo aumento fatti di medicine, esami, protesi, ricoveri ospedalieri e lungo-lungodegenza. Non mancano progetti sanitari che in questa fascia di on è una novità che la vita media, almeno nel mondo occidentale, sia in continuo aumento. Stiamo sfiorando o abbiamo già raggiunto secondo alcune stime gli 80 anni. I maschi, che sembravano meno longevi, sembra che stiano andando in pari con le femmine. La sopravvivenza così significativamente aumentata non poteva non avere una serie di ripercussioni anche molto serie. Se pensiamo alla forma della piramide, in passato la sua base era costituita da gente in piena attività lavo- te. Per il paziente gravemente deteriorato si dovrà pensare a dare una risposta decente e dignitosa che tenga conto delle premesse finora esposte. Il numero sempre maggiore di pazienti senza famigliari che li possano assistere, la modesta efficacia dei trattamenti farmacologici e im- Sae l ute Territorio 127 possibilità di guarigione e la scarsità di personale infermieristico e di supporto. Improponibile è qualsiasi soluzione all’interno dell’Ospedale per acuti, si dovranno trovare soluzioni intermedie fra la struttura riabilitativa e della lungodegenza o addirittura l’hospice. Le Fanu J., The rise and fall of modern medicine, Little Brown, London, 1999. Olesen J., Leonardi M., The burden of brain diseases in Europe, Eur J Neurol 2003, 10: 471-77. Ringel S.P., Practicing neurology: a delicate balance, Neurology 1999, 52: 1526-32. età si occupano di patologie “maggiori”. Progetti, ad esempio, attenti soprattutto alla prevenzione e cura e dell’ictus, dell’infarto, del cancro del seno e della prostata e, in ambito gastrointestinale, del cancro colorettale. Inevitabilmente, cresce poi sempre di più il numero degli anziani non autosufficienti, ciò che costituisce un problema nel problema. Secondo stime della Società italiana di Geriatria e Gerontologia questi anziani parzialmente o totalmente non autosufficienti gestititi in qualche modo a domicilio o ricoverati in ambienti ospedalieri o in Case di cura, superano il mezzo milione, una cifra in assoluto apparentemente contenuta ma fatta di soggetti il cui trattamento ed il cui monitoraggio incontrano enormi difficoltà. Per cercare di risolverle, ha preso avvio il Progetto Guardian che vede la collaborazione di medici (i professori Trabucchi e Rozzini, rispettivamente Presidente della Società di Geriatria e Primario geriatra di Brescia), di un’industria specializzata in tecnologie d’avanguardia, la WSN, e di una industria farmaceutica (Astra Zeneca). Innovazione, scalpore, immediata curiosità dei media. In pratica sofisticati sensori e reti “senza fili” dovrebbero consentire di monitorare a distanza gli anziani non autosufficienti sia a domicilio che in Ospedale, senza pericolo di interferenza con le apparecchiature elettroniche eventualmente presenti. L’elettrocardiogramma, la concentrazione ematica dell’ossigeno, l’attività respiratoria e la temperatura del paziente possono così essere registrate grazie ad un trasmettitore grande come un orologio fissato al braccio del malato e collegato con i suddetti sensori. Un’attenzione decisamente più scarsa, invece, viene data a patologie dell’anziano croniche e solitamente ingravescenti ad alta prevalenza, ma considerate problemi “minori”, così comuni da farle considerare da medici e non si- l ute Sa e 128 Territorio tuazioni “quasi normali”: la stitichezza e la dispepsia funzionale o, meglio, non organica. Si tratta di affezioni ben note, non minacciose per la vita, che non fanno notizia, che lasciano grande spazio al “fai da te” e a suggerimenti “alternativi”. Situazioni che vengono solitamente sdrammatizzate dal medico curante, anche coscienzioso, se alla base non si individuano cause organiche. Ma questi disturbi così “banali” non di rado compromettono significativamente la qualità di vita dei pazienti che non sono pochi:. circa un terzo dei pazienti di terza età li lamenta, un numero significativamente più cospicuo di quello degli anziani non autosufficienti. Ciononostante, una volta esclusa una causa organica delle alte o basse vie digestive, questi anziani sono lasciati un po’ a se stessi. Molti di essi beneficerebbero anche solo di un rapporto ottimale con il proprio medico di famiglia o con lo specialista di riferimento, se solo spiegasse loro in modo piano ed esauriente la natura “non organica” dei disturbi. Ma questo rapporto ottimale non è molto comune. Un’anamnesi attenta, non frettolosa, sarebbe al contrario veramente essenziale per i consigli che si potrebbero dare agli anziani con stipsi o dispepsia non organica. Si potrebbe così aggiustare il modo di mangiare, la dieta, l’orario dei pasti, l’introito idrico, o raccomandare un adeguato movimento fisico, la postura da non assumere in fase immediatamente post-prandiale. E si potrebbero così correggere La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 idee strampalate, inutili o persino concorrenti al persistere dei disturbi. Quanti sono i pazienti che da anni soffrono “pur seguendo la dieta in bianco (sic!)” o che non vedono migliorare, anzi, la propria stipsi “pur mangiando tonnellate di fibre”. E continuano sorprendentemente a farlo nonostante l’inefficacia di queste misure solo perché qualcuno s’è frettolosamente dimenticato di dir loro che la pasta al burro e formaggio, bianchissima, peggiora la “digestione lenta” e che se in concomitanza con l’ingestione di fibre non si beve molto queste peggiorano significativamente la stitichezza e il gonfiore addominale. Ma un’anamnesi di questo tipo è time consuming, richiede un tempo che solitamente non viene riservato alla visita medica per una serie di motivi, in cui indubbie “colpe” del medico coesistono con indubbie attenuanti. Una prima, è la progressiva burocratizzazione dei medici che lavorano nelle istituzioni. La seconda è il sempre più frequente precariato dei giovani laureati, incertezza che non ha mai favorito grandi entusiasmi, ideali e correttezza professionali. Ciò concorre alla mancanza di una visione “solistica” o almeno alla percezione da parte del paziente che questa manchi nella condotta del medico. Principalmente a questa sensazione e al bombardamento promozionale operato dalle cosiddette medicine complementari/alternative si deve se più di dieci milioni di italiani ricorrono a queste terapie. E gli anziani con la patologia di gliorare la stipsi significa inoltre prevenire spesso la formazione di diverticoli, presenti nel 50% o più degli ultrasettantenni (ma fortunatamente asintomatici nella maggioranza dei casi), o prevenirne l’infiammazione. A prescindere dalla stitichezza, circa 15 anziani in un bacino di 100.000 abitanti vengono ricoverati ogni anno per sintomi correlati direttamente con i diverticoli (dolori addominali, episodi subocclusivi, febbre). Il 10-20% di questi ricoverati andranno poi incontro a complicazioni come emorragie intestinali, perforazioni e fistole che molte volte potranno comportare un intervento chirurgico. Un discorso sostanzialmente analogo si può fare la per la dispepsia funzionale, una volta che si sia escluso soprattutto il cancro gastrico. La prevalenza di questo tumore tende ad aumentare dopo i 55 anni, a fronte del vistoso calo complessivo di questa neoplasia negli ultimi decenni. Anche nei dispeptici anziani senza patologia organica, come negli stitici, i disturbi nascono spesso da incongruenze alimentari e da un’alterata motilità gastroduodenale legata all’invecchiamento della muscolatura liscia che avvolge la parete del “tubo” digerente. Di questa muscolatura ci si dimentica troppo spesso e si pensa solo all’invecchiamento della muscolatura striata. L’anziano trova “logico” essere meno agile e che i suoi muscoli siano meno tonici di una volta, ma non fa lo stesso discorso per quelli che gli fanno svuotare stomaco e intestino e dei quali ignora cui sopra sono una grande frangia di questi 10 milioni. La stitichezza non da causa organica, presente nel 30% degli over 65, può essere oggettivamente di vario grado, ma è vissuta in modo drammaticamente diverso dai pazienti. Una migliore informazione sicuramente comporta un più mirato intervento terapeutico. Queste indagini non dovrebbero essere sparpagliate a caso nei diversi reparti dei diversi ospedali, ma concentrati in servizi o dipartimenti ad hoc (ma a cosa servono le Direzioni sanitarie?). In caso contrario, le difficoltà che l’anziano o i suoi familiari incontreranno per arrivare ad una migliore definizione diagnostica e ad un più appropriato trattamento possono diventare di fatto insuperabili. Una policy corretta e redditizia sarebbe quella di prevedere dei Servizi/Dipartimenti in grado di attuare all’occorrenza tutti gli esami con personale medico e tecnico specificamente preparato. Il ricovero di qualche giorno (un day hospital “allungato”) potrebbe servire a completare in breve tempo gli accertamenti senza imporre all’anziano un va e vieni da casa problematico e anche costoso. Si eviterebbero oltretutto così, le frequentissime, inutili e immotivate ripetizioni sempre dello stesso esame, prescrizioni di farmaci inadeguati. Complessivamente si darebbe insomma ad una moltitudine di anziani la certezza tranquillizzante (e talora terapeutica) di essere stati considerati a dovere e non snobbati per la “banalità” della loro patologia. Mi- N. 149 - 2005 spesso persino l’esistenza. In futuro si dovrebbe garantire agli anziani che ne soffrono un più pronto, meno complicato ed organico check up in Servizi/Dipartimenti di cui ogni città di 100.000 abitanti dovrebbe disporre, gestiti da La programmazione sanitaria del futuro ventennio persone specificamente competenti capaci di completare gli esami necessari in tempi brevi e di fornire suggerimenti correttivi il più possibile mirati. La stessa correzione di una dieta o di atteggiamenti ed abitudini sbagliati, o la scelta Terapia fisica Stefano Martini Direttore UORRF della AUSL 7 di Siena L dolorosa, escludendo l’azione antinfiammatoria che pertanto non è necessaria. La Terapia fisica se correttamente prescritta ed effettuata ha una buona efficacia sia nella risoluzione delle contratture muscolari, pertanto, pur non essendo in grado di risolvere il DIM è capace di curarne le manifestazioni dolorose più efficacemente della terapia farmacologia. Purtroppo è comunque inutile ed è da considerare una spesa impropria, se utilizzata come attualmente viene fatto nelle nostre ASL, essendo eseguita in tempi troppo distanti dalla prescrizione. Per la sua efficacia è necessaria la tempestività della somministrazione durante la fase acuta del dolore reumatico e soprattutto la corretta e competente prescrizione specialistica. Il suo utilizzo come forma di prevenzione, i famosi due cicli l’anno, è assolutamente sconsigliata in quanto completamente inutile. La terapia fisica serve per curare una patologia non per prevenirla; la prevenzione si effettua con l’impostazione di un corretto a medicina attuale è abituata a fare diagnosi solo su ciò che gli esami (TC, RM e radiologici) mostrano; tutto ciò che non si vede non viene preso in considerazione, ma in realtà, molto spesso, questi reperti sono solo rilievi occasionali, spesso ininfluenti come causa di dolore. Il dolore “reumatico” è legato, nella maggior parte dei casi, alla contrattura muscolare e all’ ispessimento del sottocutaneo e non all’infiammazione articolare, ed è pertanto inefficace l’utilizzo di farmaci antinfiammatori (FANS) che nella maggior parte dei casi si comportano come semplici analgesici sintomatici. Se infatti andiamo a consultare le linee guida internazionali riguardo i dolori rachialgici, possiamo notare che il farmaco consigliato all’inizio del trattamento è il paracetamolo, cioè un analgesico puro e non un Fans. L’analgesico permette la riduzione degli effetti collaterali,soprattutto a livello gastrico, e generalmente è sufficiente a risolvere la patologia Sae l ute Territorio 129 di un lassativo adeguato non sono obiettivi facili neanche per il medico e comunque non possono essere lasciati al “fai da te” o al consiglio del vicino di casa. Non si dovrebbe dimenticare che l’anziano ha comunque una speranza di vita più ridotta: migliorare la qualità di quanto gli resta semplificando mediante un’organizzazione appropriata la soluzione di problemi sì minori ma così frequenti, è un obiettivo che in futuro non si dovrebbe sottovalutare. stile di vita, associato ad una corretta attività fisica (una passeggiata di km.3 al giorno, come prevede anche l’organizzazione mondiale della sanità) e a semplici esercizi quotidiani per il mantenimento della completa escursione articolare. L’erogazione della terapia fisica (TF) da parte del SSN nel prossimo futuro è destinata purtroppo ad esaurirsi in quanto considerata sconveniente e non funzionale, pertanto sarà quasi sicuramente esclusa dai LEA (livelli essenziali di assistenza) ma è importante ricordare che la sua efficacia è in stretto rapporto con la possibilità di una sua applicazione in tempi brevi se non immediati. Attualmente la terapia fisica può essere prescritta da tutti i medici e questo ha generato un ingorgo, dando luogo alla formazione di lunghe liste di attesa; in certi casi è necessario anche un anno prima di riuscire ad ottenere un trattamento. Questa situazione rende quasi sempre inutile la cura prescritta. A mio modo di vedere, se si volesse mantenere l’erogazione della TF, la lista d’attesa dovrebbe riguardare la visita specialistica che dovrebbe essere organizzata in base alla disponibilità dei posti di trattamento. In questo modo la prescrizione dovrebbe es- sere corretta, in quanto affidata allo specialista specifico, e la terapia fisica risulterebbe efficace perché somministrata immediatamente dopo la visita. Vi sono a mio modo di vedere molte incongruenze e molta approssimazione nella valutazione degli strumenti utilizzati per la terapia fisica, macchinari attualmente considerati obsoleti come la Radar terapia e la Marconi terapia funzionano perfettamente se chi li adopera e li prescrive ne conosce a fondo il funzionamento e il corretto utilizzo. Purtroppo, dai LEA sono già stati tolti questi due macchinari a mio avviso molto utili. Credo che la terapia fisica abbia in futuro una grande possibilità di diffusione a livello domiciliare. L’industria delle apparecchiature elettromedicali ha infatti intuito da tempo l’importanza dell’affare iniziando a produrre e immettendo nel mercato attrezzature a prezzi accessibili. L’utilizzo domiciliare nasconde comunque dei rischi in quanto l’uso prolungato e sconsiderato di alcuni macchinari potrebbe essere causa di effetti indesiderati. Negli USA, per esempio, sono già descritti in letteratura dei casi di dipendenza da TENS (elettroanalgesia), in quanto l ute Sa e 130 Territorio il suo funzionamento induce la formazione di endorfine, sostanze simile alla morfina che il nostro organismo produce normalmente per regolare la soglia individuabile del dolore. In conclusione reputo che la terapia fisica possa essere La programmazione sanitaria del futuro ventennio N. 149 - 2005 uno strumento importante per la cura delle malattie reumatiche e non solo di queste, ma che per esserlo non solo teoricamente ma soprattutto praticamente si debba riorganizzare strutturalmente il sistema delle prescrizioni e delle liste di attesa. In ottica potendo contare su finanziamenti notevoli. Tutte le ultime apparecchiature elettromedicali sono infatti state provate ed utilizzate in campo sportivo, dove le risorse a disposizione sono in grado di stimolare ed indirizzare la ricerca. futura analizzando i dati recenti si può prevedere un suo grande successo in ambito domiciliare e soprattutto sportivo, la medicina dello sport infatti sarà probabilmente pioniera nella ricerca in campo medico strumentale, come già stiamo vedendo, Bibliografia Maigne R., Medicina Manuale, UTET, 1996. Sebastiani C., Terapia fisica. Riabilitazione degli organi di movimento, Aulogaggi, 1981. http://www.ncbi.nlm.nih.gov/publimed http://www.neuroguide.com Farneti P., Terapia fisica e Riabilitazione, A. 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Non è questo il caso del bel volume, curato da Alessandro Liberati, che offre una ampia riflessione sui problemi fondamentali della Evidence based medicine, scandagliandone i diversi aspetti e i campi di applicazione. Il libro si apre con un ampio contributo, a firma del curatore, nel quale si propone un bilancio di 10 anni di applicazione – o più esattamente di impegno alla diffusione - di “uno strumento utile per la produzione e l’uso delle informazioni in medicina” quale correttamente viene definita la Evidence based medicine. Se nella epoca pre – EBM non esisteva una cornice concettuale e metodologica condivisa per usare le prove empiriche e sistematiche, nell’ultimo decennio si è sviluppata una “cornice” in cui collocare e interpretare le informazioni scientifiche derivanti dalla ricerca epidemiologica per trasferirle nella pratica clinica. Il curatore passa in rassegna gli elementi di forza (“l’EBM è stata utile?) e le criticità di tale metodologia nella pratica clinica, nelle ricerca clinico-epidemiologica e nelle politiche sanitarie, evidenziando anche, con qualche accenno autocritico, gli eccessi di entusiasmo e di semplificazione che hanno contribuito a suscitare sia diffidenze che irrealistiche attese da tale metodologia, attribuendo ad essa uno statuto epistemologico. Segue, a conclusione della prima parte del volume, un contributo di Marco Bobbio, Pietro Dri e Alessandro Liberati, sul conflitto di interesse e trucchi del mestiere, tema al quale Bobbio aveva dedicato un’ampia trattazione nel 2004 (Bobbio M.: Giuro di esercitare la medicina con libertà e indipendenza, Einaudi Editore). Il libro si articola in una seconda parte dedicata agli ambiti di applicazione clinica dell’EBM (Me- dicina generale, Ospedale, Editoria scientifica) ed una terza parte che affronta, con ulteriori sette contributi, il contesto e le criticità di applicazione. Non essendo possibile in questa sede una analisi dettagliata dei vari contributi, mi soffermerò su alcuni capitoli che mi sono parsi estremamente significativi. Luigi Pagliareo, con altri cinque autori, nel capitolo EBM e medicina in ospedale presenta una analisi della applicazione dell’EBM alla diagnosi – distinta in generazione e verifica dell’ipotesi - e alla terapia; interessanti, in tale scritto gli “scenari” presentati, che sono dei veri e propri case report nei quali viene descritto caso clinico (“…La signora Rosa di 80 anni, portatrice di protesi valcolare mitralica… consulta il medico curante per un intenso dolore all’alluce…”), vengono esaminati i quesiti che il sanitario si è posto e l’uso che ha fatto, nello specifico contesto, della metodologia EBM. Danilo di Diodoro, nel capitolo: Ebm ed editoria scientifica offre un aggiornato e documentato quadro delle impressionanti trasformazioni in atto in tale settore che è rappresentato da circa 15.000 riviste in cui vengono pubbli- cati oltre sei milioni di articoli l’anno. Un quadro impressionante che l’informatizzazione sta trasformando, con potenzialità positive in termini di partecipazione e gestione delle conoscenza, ma anche con molteplici rischi. D’altronde, fa presente l’autore, è la società contemporanea che è caratterizzata da una rivoluzione nei dati e nelle informazioni; nel solo triennio 1998-2001 si stima che siano state prodotte più informazioni che in tutta la storia dell’umanità. Domenighetti e Satolli nel capitolo su EBM e cittadini, hanno la capacità di offrire, sinteticamente ma in modo articolato e documentato, una analisi dell’attuale mercato sanitario ed esaminare le strategie in atto per l’allargamento del mercato: anticipazione della diagnosi, abbassamento della soglia, individuazione di “non-malattie”, uso dei mass media. Un libro ben scritto, di piacevole lettura anche se affronta concetti complessi, riccamente documentato e indubbiamente utile non solo alla discussione sull’Evidence based medicine, ma a quella più generale sul significato e le prospettive della sanità. Marco Geddes Norme redazionali Testo Si invitano gli autori a rimanere nell’ampiezza massima delle 10 cartelle (30 righe per 60 battute circa) o 18.000 battute spazi inclusi; nelle 10 cartelle vanno comprese figure, tabelle e bibliografia. Eccezionalmente e solo per contributi di carattere generale possono essere concordate lunghezze superiori. Software: Microsoft Word versione 6.0 o successive. Non utilizzare in nessun caso programmi di impaginazione grafica quali Publisher, Pagemaker, X-press o InDesign. Non formattare il testo in alcun modo. Testo e singole tabelle e/o grafici devono essere salvati in file separati. 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