Sae l ute
Territorio
Direttore responsabile
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Redazione
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Claudio Galanti
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Marco Monari
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Luigi Tonelli
Alberto Zanobini
Collaboratori
Marco Biocca, Centro Doucmentazione Regione
Emilia-Romagna
Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia
Regionale di Sanità della Toscana
Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino
Nerina Dirindin, Dipartimento di Scienze Economiche
Finanziarie - Università di Torino
Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli
Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma
Comitato Scientifico
Giovanni Berlinguer, Professore Emerito
Facoltà di Scienze - Roma
Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria
e Ospitaliera - Reggio Emilia
Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano
Donato Greco, Direttore Laboratorio Epidemiologia e
Biostatistica - Istituto Superiore di Sanità
Elio Guzzanti, Docente di Organizzazione Sanitaria Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” - Roma
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Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 maggio 2005
149 Rivista bimestrale di politica-socio-sanitaria fondata da L. Gambassini
Giunta Regionale Toscana
Anno XXVI - Marzo-Aprile 2005
Sommario
70
75
P. Morosini
G. Negrini, S. Cavallin
C. Hanau
Spazio Toscana
81
F. Simonelli, A. Zanobini
Monografia
88
90
94
97
102
107
110
111
114
L. Tonelli
F. Paccaud, P. Bovet
R. Schoenhuber
L. Roti, E. Gori, S. Gostinicchi
G. Maciocco
L. Tonelli, C.F. Saccani
G. Bagaggiolo
122
124
125
127
129
B. Pavolini
M. De Berardinis
C. Tomassini, M. Mechi
M. Nerattini, F. Bellini,
M.G. Monti, F. Muscas
M. Matera
G. Berni, A. Brancato
C. Francois
R. Lorenzoni, E. Favilla
G. Sozio, A. Khader,
A. Bianchi, S. Nepi,
M. Ludovici, F. Benvenuti
W. Boddi
E.C. Campos
R. Schoenhuber
G. Dobrilla
S. Martini
131
Recensioni
116
117
120
Abbonamenti 2005
Italia
€ 41,32
Estero € 46,48
La non eticità della non ricerca
Il paziente consapevole
Dal binomio Ospedale-malattia a quello
di Ospedale-salute
La programmazione sanitaria
del futuro ventennio
Presentazione
Una transizione epocale
Scenario “planning”
Innovazione e qualità dell’assistenza
La formazione del “paziente esperto”
Assistenza infermieristica “long-term”
Le malattie croniche degli anziani
Osteoartropatie
Psicogeriatria
Demenza senile
Ipertensione arteriosa
Scompenso cardiaco
Malattie vascolari
Broncopneumopatia ostruttiva cronica
Oftalmologia
Neurologia
Problemi gastroenterologici comuni
Terapia fisica
Fotocomposizione e stampa
Edizione ETS - Pisa
I versamenti devono essere effettuati sul c/c postale 14721567 intestato a Edizoni ETS s.r.l. specificando nella
causale “abbonamento a Salute e Territorio”.
l ute
Sa
e
70 Territorio
Pierluigi Morosini
Centro nazionale
di epidemiologia, sorveglianza
e promozione della salute,
Istituto superiore di sanità,
Roma e-mail: [email protected]
M
i sembra utile precisare che per etico non
intendo auspicabile o
corretto, ma proprio giusto, o
meglio, per essere ancora più
chiari, tale che fare il contrario dovrebbe suscitare in anime sensibili un senso di colpa,
religioso o laico (ci sono sensi
di colpa laici, legati non al
rammarico di avere offeso Dio
e al timore della sua punizione, ma al rincrescimento per
essere venuti meno ad un impegno, ad una promessa, a
una regola che ci si è dati o si
è accettata e che si vorrebbe
seguita anche dagli altri).
Quasi tutte le riflessioni etiche sulla ricerca scientifica riguardano la necessità di proteggere gli oggetti della ricerca (in campo sanitario, i pazienti), l’umanità, l’ambiente
dai rischi e dai danni che la
ricerca può comportare.
Ci sono certo anche molti inviti al potenziamento della ricerca, quasi mai però relativi
a specifici progetti, ma per lo
più mirati a grossi ambiti (la
ricerca tecnologica) o a temi
che stanno a cuore a particolari associazioni o gruppi di
pressione; basta pensare alla
raccolte di fondi per la ricerca
sulle malattie neuromuscolari
o sulla sclerosi multipla o sul
cancro. In questi casi la questione viene posta in termini
di convenienza economica (fi-
Bioetica
N. 149 - 2005
La non eticità
della non ricerca
nanziare la ricerca serve) o
umanitari (è desiderabile promuovere la ricerca perché si
possono alleviare le sofferenze), ma non in termini etici (è
giusto promuovere la ricerca
ed è quindi moralmente sbagliato non farlo).
La mia tesi è che invece in
molti casi non fare ricerca sia
almeno altrettanto non etico
che farla col rischio di danneggiare le persone indagate
o l’ambiente. Sono un ricercatore, e quindi in questa tesi si
può cogliere un conflitto di interessi. Sono convinto che anche se non fossi un ricercatore
la penserei allo stesso modo,
ma naturalmente posso sbagliarmi.
Spero comunque che queste
mie riflessioni servano a confermare i professionisti sanitari e sociali che cercano di
valutare in modo rigoroso l’efficacia delle loro pratiche e a
fare riflettere altri che non
hanno ancora fatto questo
scelta.
La metodologia della ricerca sull’efficacia di specifici
interventi
Le 10 C
Per una migliore comprensione dei non addetti ai lavori, è
utile premettere qualche
considerazione sulla metodologia di ricerca in campo socio-sanitario, in particolare
Riflessioni e proposte sulle metodologie
ed i necessari controlli nel campo
degli interventi socio sanitari.
Il ruolo del Comitato etico
su quella diretta a valutare
l’efficacia di specifici interventi o di specifici pacchetti
di interventi.
Questo tipo di ricerca scientifica ha elaborato alcuni principi che aiutano a difendersi
dall’errore, a difendersi cioè
dal fatto di arrivare a conclusioni sbagliate, dal concludere che un trattamento non
serve quando è utile, o, molto
più spesso, dal concludere
che un trattamento serve
quando di fatto non è utile o
è addirittura dannoso. Questi
principi possono essere sintetizzati con le cosiddette 10 C
che sono riportate nella Tab.
1 (Morosini, 2004; in quel lavoro vi è anche una breve
storia della lenta e faticosa
conquista di questi principi).
Si ricorda qui solo brevemente che:
1. Per poter valutare l’efficacia di un intervento occorre paragonare gli esiti
ottenuti in persone trattate con quell’intervento
con gli esiti osservati in
persone trattate col miglior trattamento alternativo, per verificare se e
quanto la proporzione di
migliorati (o di sani, per
gli interventi preventivi)
è più elevata nei primi.
2. I gruppi dovrebbero avere
la stessa distribuzione
dei fattori prognostici,
cioè di tutti i fattori che
possono influenzare gli
esiti (ad esempio età,
sesso, gravità e durata
della condizione studiata). Si è constatato che il
metodo migliore per ottenere questo obiettivo è
ricorrere alla assegnazione randomizzata o casuale dei soggetti ai gruppi a
confronto; la recente
esperienza dei risultati
diversi osservati in studi
osservazionali e in studi
controllati randomizzati
per quanto riguarda gli
effetti della terapia ormonale sostitutiva in
menopausa sugli eventi
cardiovascolari (Lawlor,
Bioetica
N. 149 - 2005
3.
4.
5.
6.
7.
2004) ha rafforzato questa tesi.
Le rilevazioni dei fattori
prognostici e soprattutto
degli esiti dovrebbero essere fatte in modo rigoroso e comunque nello
stesso modo nei gruppi a
confronto (riproducibilità e accuratezza delle
osservazioni).
Tra gli esiti dovrebbero
essere prese in considerazione non solo variabili
biologiche, ad esempio la
riduzione della massa del
tumore o della pressione
arteriosa o l’aumento della velocità di conduzione
dei nervi o l’attenuazione
delle aritmie cardiache,
ma anche gli esiti che veramente interessano al
paziente, cioè, oltre che
la sopravvivenza, anche
il funzionamento fisico e
mentale e insomma la cosiddetta qualità di vita.
I “persi di vista”, cioè i
soggetti inseriti nello
studio di cui si ignorano
gli esiti dovrebbero essere pochi.
I trattamenti in esame
dovrebbero essere ben descritti e replicabili; si dovrebbero evitare il cosiddetto cointervento, cioè il
fatto che i soggetti dei
gruppi a confronto ricevano altri interventi, diversi nei gruppi, e la cosiddetta contaminazione,
ossia il fatto che l’intervento di interesse venga
praticato in parte anche
al gruppo di controllo.
Ala fine di uno studio ci
si dovrebbe chiedere se le
eventuali differenze osservate non possano essere dovute al caso.
8. I soggetti seguiti negli
studi di efficacia dovrebbero essere il più possibile simili a quelli in carico
ai servizi.
9. Gli effetti collaterali rari
dovrebbero essere indagati su campioni vasti anche dopo la conclusione
degli studi di efficacia.
10. Dovrebbero esser indagati anche i costi, l’accettabilità da parte dei pazienti e le difficoltà organizzative legati all’introduzione dell’intervento
nella pratica.
Lo studio randomizzato
controllato e i servizi sociosanitari
Si è visto che il metodo dello
studio controllato randomizzato, anche se non privo di
difetti, è quello migliore per
valutare l’efficacia di un intervento, almeno allo stato
attuale delle conoscenze. Resta da chiedersi se lo si possa
applicare anche nei servizi
sociali.
La mia risposta è che lo si
può certamente fare. In effetti gli studi controllati randomizzati sono stati abbastanza
numerosi nei servizi sociali,
soprattutto negli Stati Uniti,
negli anni 60. Sono poi declinati, ma vi è stata recentemente una ripresa soprattut-
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
to nel campo degli interventi
di psicologia sociale. Recentemente è sorta la Campbell
Collaboration, (sito internet:
http://campbell.gse.upenn.
edu/) che ha lo scopo di promuovere l’effettuazione di
studi controllati randomizzati in campo sociale e di rassegne sistematiche degli studi
fatti, come la più famosa Cochrane Collaboration in campo sanitario (siti di centri
italiani: www.areas.it e www.
gimbe.it).
Motivi della carente effettuazione di studi controllati
di efficacia
Gli studi controllati in campo
socio-sanitario, cioè quelli
relativi ad interventi di psicoterapia, di riabilitazione
psichiatrica, di educazione
alla salute e di promozione
della stessa, sono però relativamente pochi. Sono invece
numerosi gli studi controllati
sui farmaci, per due motivi
principali: perché sono necessari per ottenere la registrazione e messa in commercio dei farmaci stessi e perché
vi è una attiva e ricca sorgente di finanziamento privata,
che è appunto l’industria farmaceutica. Anzi, è stato lamentato che in campo farmaceutico si fanno troppi studi
controllati, spesso di piccole
Confronto con altri trattamenti
Confrontabilità dei gruppi a confronto
Confrontabilità delle rilevazioni
Completezza degli esiti
Completezza del follow-up
Coerenza dei trattamenti
Casualità
Congruenza dei pazienti studiati con quelli della pratica
Continuità della sorveglianza
Costi
Sae l ute
Territorio 71
dimensioni e di scarsa qualità, perché l’industria li utilizza anche come mezzo di
coinvolgimento dei medici e
quindi di marketing e perché
così può selezionare quelli
con i risultati più favorevoli,
come un fotografo professionista che scatta numerose foto per pubblicare poi solo
quelle che gli piacciono di
più. Gli studi controllati sugli
interventi psicosociali sono
poco praticati perché, all’opposto di quando succede per i
farmaci:
• non c’è bisogno di nessuna
dimostrazione di efficacia
per poterli diffondere ed
insegnare; si noti che la
stessa cosa vale per le tecniche chirurgiche, per gli
interventi di fisioterapia e
per l’utilizzo di nuovi metodi diagnostici;
• non ci sono finanziatori
direttamente interessati a
promuoverli; gli unici fondi possono venire dagli enti pubblici, che spesso non
sembrano consapevoli di
questa situazione, e da
“benefattori” privati, che
sono frastornati da richieste di tutti i tipi.
Una difficoltà aggiuntiva è
quella che, purtroppo, alcuni
degli stessi professionisti del
campo (sociologi, psichiatri,
psicologi) non credono anco-
Tab. 1 - Le 10 C per valutare
l’efficacia degli interventi.
l ute
Sa
e
72 Territorio
ra che sia possibile valutare
con studi controllati randomizzati interventi di questo
tipo.
Altre due difficoltà metodologiche sono simili a quelle
che si incontrano in medicina per interventi apparentemente molto diversi, quelli
chirurgici:
• la grande importanza delle
capacità e dello stile di lavoro dei singoli operatori e
quindi la difficoltà a separare ciò che è dovuto allo
specifico intervento studiato e ciò che è dovuto alla bravura dell’operatore;
• la rapida evoluzione delle
tecniche, per cui quando si
conclude uno studio che
ha dato un risultato negativo, il professionista che
ha proposto l’intervento
può ribattere che il risultato non è rilevante perché lui ormai fa una cosa
diversa.
In effetti l’applicazione della
metodologia a questo campo
è più difficile, ma non impossibile, come attestato dalle
centinaia di studi di questo
tipo pubblicati ormai da più
di due decenni e che vengono
presi in esame dalla Cochrane
Collaboration e dalla Campbell Collaboration. Una rapida
ricerca sulla banca data Medline ha messo in luce che nel
primo semestre del 2004 sono
stati pubblicati una cinquantina di studi controllati relativi a interventi psicoterapeutici e psicoeducativi e una
decina di rassegne su questo
tema. Si deve tenere conto
che molte riviste di psicologia e la maggior parte di
quelle di sociologia non sono
censite da Medline.
Per le conclusioni che si pos-
Bioetica
sono trarre dagli studi di efficacia nel campo delle psicoterapie, si possono consultare
in italiano Roth e Fonagy
(1998) e Morosini e Michielin
(2001) oltre che Clinical Evidence (Autori vari, 2004).
Michielin ha appena concluso
una rassegna di tutti gli studi
controllati pubblicati sull’efficacia dei diversi approcci all’inserimento lavorativo. Ne
ha trovati 40, ma nessuno è
stato fatto in Italia e nessuno
riguarda le cooperative sociali di tipo B. I risultati di questi studi portano a concludere
che i cosiddetti interventi di
formazione seguiti da inserimento sono meno efficaci
della formazione e del sostegno successivi all’inserimento
in un lavoro reale. Alle stesse
conclusioni portano Crowe et
al (2000).
Inconvenienti della mancata attuazione di studi controllati randomizzati
Gli inconvenienti legati alla
scarsa diffusione degli studi
controllati in campo socio-sanitario e in genere degli studi
controllati sugli interventi
non farmacologici sono ovvi.
Una conseguenza negativa è
che chiunque può magnificare l’efficacia di un intervento
già praticato solo sulla base
di uno o più delle seguenti
motivazioni:
• intuizioni ed impressioni
personali;
• aneddoti (storie di singoli
casi selezionati);
• ragionamenti fisiologici
magari fondati su premesse sbagliate (ad esempio, il
trattamento con l’insulina
della schizofrenia fu introdotto perché l’insulina a
forti dose provoca convul-
N. 149 - 2005
sioni come l’elettroshock);
• approcci tradizionali mai
validati.
Ad esempio alcuni psichiatri
e psicologi continuano a praticare la terapia psicodinamica della schizofrenia, senza
sentire il bisogno di sottoporla alla rigorosa verifica di studi controllati, anche se alcuni
studi non controllati di follow
up di pazienti trattati in questo modo hanno fatto pensare che non solo sia inefficace,
ma addirittura dannosa (Müser e Birenbaum, 1990).
Una conseguenza negativa
opposta è che non si diffondono rapidamente interventi
utili. La psichiatria italiana
ha perso una grossa occasione quando non si è impegnata nel dimostrare la validità
del suo approccio territoriale;
si sono dovuti aspettare studi
condotti in altri paesi, con la
conseguenza che il modello
territoriale si è diffuso molto
più lentamente all’estero ed
anche di fatto in Italia, e che
tuttora non si conosce quale
siano le migliori modalità organizzative.
Viviamo in una società globale in cui non si vendono
solo beni di consumo e brevetti, ma anche idee, libri,
formazione ed è quindi controproducente non valorizzare mediante studi controllati
i propri contributi. Uno dei
temi in cui i servizi italiani
stanno ancora perdendo una
altra grossa occasione è quello della riabilitazione e dell’inserimento sociale mediante le cosiddette cooperative
di tipo B.
Una cosa analoga è successa
per la formazione dei pazienti nelle abilità sociali (social
skill training). Non è stato
pubblicato un solo studio
controllato randomizzato italiano sulla efficacia di questo
approccio. Va notato che, a
differenza di quanto succede
per un farmaco, in campo psicosociale ha senso ed è utile
valutare anche nel proprio
paese l’efficacia di un intervento anche se ne è già stata
provata l’efficacia altrove, per
la maggiore importanza dei
fattori culturali e di contesto
sociale nell’influenzare gli
esiti.
Quando è etico fare uno
studio controllato non etico
Si crede che non sia mai etico
effettuare uno studio controllato quando alle persone
di uno dei gruppi a confronto
si attua un intervento sicuramente o molto probabilmente
meno efficace dell’altro. Ma
vi è una situazione in cui ciò
può essere eticamente accettabile: quando non vi sono
ancora risorse (di denaro, di
personale, di competenze)
per praticare questo intervento a tutti coloro che ne
potrebbero trarre beneficio.
In questo caso è meglio scegliere le persone del gruppo
di controllo a caso, secondo i
principi dello studio controllato randomizzato, anziché a
casaccio, in base al momento
della giornata o alle raccomandazioni. È questa la situazione che rese accettabile
eticamente, nel primo studio
controllato randomizzato,
che ebbe luogo solo nel 1948
in Inghilterra, non dare ai
pazienti del gruppo di controllo la streptomicina, di cui
pure negli Stati Uniti erano
già stati descritti in modo entusiastico i benefici. La quantità di streptomicina disponi-
Bioetica
N. 149 - 2005
bile, di fabbricazione americana, era esigua, e venne
usata tutta per i pazienti assegnati in modo casuale al
gruppo dei trattati.
In questo modo si possono
produrre rapidamente evidenze valide sul tipo e sull’entità dei benefici del nuovo
intervento. Con quali vantaggi? Innanzitutto si potrebbe
avere la sorpresa di trovare
che il nuovo intervento non è
poi così efficace o che ha
molti più effetti indesiderati
del previsto. Se invece lo studio depone per l’efficacia dell’intervento in questione, si
hanno argomenti in più per
convincere gli scettici tra i
professionisti e gli amministratori e per accelerare quindi la sua diffusione.
Ruolo dei Comitati etici e
delle Associazioni di tutela
dei pazienti
I comitati etici sembrano
avere come loro ruolo esclusivo quello di bloccare ricerche
dannose per i pazienti. Non
intervengono mai contro chi
non fa ricerca pur continuando a praticare interventi di
non provata efficacia o contro chi introduce interventi
nuovi senza proporsi di collaborare alla verifica scientifica
della loro efficacia. Forse i comitati etici dovrebbero proporsi anche di raccogliere segnalazioni su temi di ricerca
in cui attivare ricerche opportune che non vengono
però proposte o finanziate.
Considerazioni analoghe valgono per la richiesta di consenso informato. I Comitati
etici esigono generalmente
che ai pazienti sia chiesto il
consenso informato alla partecipazione ad uno studio
controllato randomizzato.
Non chiedono però ai medici
di informare i pazienti se un
trattamento proposto al di
fuori di una ricerca non ha
evidenze di efficacia.
I pazienti e le Associazioni
che li rappresentano e li tutelano quasi sempre non sanno
che negli studi controllati
randomizzati anche i pazienti
del gruppo di controllo hanno esiti migliori di quello osservati nella routine. E in effetti uno dei problemi dei ricercatori è che talvolta non
riescono a dimostrare la differenza tra il nuovo e il vecchio trattamento non perché
il nuovo trattamento sia meno efficace di quello che si
aspettavano, ma perché il
vecchio trattamento lo è di
più, nel senso che dà esiti migliori di quelli attesi. A cosa
è dovuto questo fenomeno, a
prima vista sorprendente ? Le
spiegazioni più probabili sono due:
• una è che i pazienti “reclutati” per gli studi controllati sono in media più giovani, con minor durata di
malattie, con minori complicazioni;
• l’altra è che, quando un
paziente viene immesso in
uno studio, quando per alcuni diventa una “cavia”,
in realtà riceve comunque
un trattamento migliore di
quello consueto, perché il
personale coinvolto nella
ricerca è più attento, più
puntuale, più interessato a
fare sì che si trovi bene,
aderisca al trattamento
che gli è stato assegnato e
non lasci lo studio. È sconsolante, ma è anche forse
inevitabile che sia così.
Consenso informato
A chiusura di queste riflessioni, mi sembra utile sviluppare
ancora il tema del consenso
informato, la cui importanza
secondo me è esagerata e non
tiene conto degli argomenti
portati sopra sulla non eticità
della non ricerca. Le premesse da prendere in considerazione sono le seguenti:
1. Negli studi controllati randomizzati, i pazienti del
gruppo di controllo, come
già accennato, possono
avere esiti migliori di quelli osservati con lo stesso
trattamento al di fuori degli studi.
2. I singoli pazienti non sono
in grado di capire veramente quali sono i vantaggi e gli svantaggi dei due o
più trattamenti a confronto (cosa che peraltro riesce
difficile spesso anche ai
membri dei Comitati etici),
anche perché si trovano
appunto nella condizioni
di pazienti, e quindi di incertezza, preoccupazione,
suggestionabilità.
3. La richiesta di un consenso informato alla inclusione nella ricerca fa capire
chiaramente al paziente
che il medico non sa quale
sia il trattamento più indicato e può quindi compromettere i miglioramenti legati alla fiducia e alla serenità psicologica dei pazienti. Si è visto ad esempio che i pazienti che sviluppano un atteggiamento
meno ottimista nei confronti del trattamento a
cui sono stati assegnati
possono avere esiti peggiori (Lewis et al, 2001;
Tobias e Souhami, 1993).
4. Ottenere o meno il consen-
Sae l ute
Territorio 73
so dipende più dall’abilità
e dal prestigio del medico
che lo chiede che dalle
informazioni che dà.
5. In realtà, chi è che rifiuta
il consenso? Non lo si sa
con esattezza, ma mi sembra molto probabile che si
tratti di persone profondamente diffidenti o incuranti del benessere altrui e
quindi non disposte a correre il benché minimo rischio a favore di un aumento delle conoscenze di
cui potrebbe beneficiare
chi in futuro si ammalerà
della stessa malattia. Se
quindi lo studio controllato dovesse rappresentare
davvero un rischio, il consenso informato farebbe sì
che a non correrlo siano
solo le persone con tendenze paranoidee e antisociali.
6. Come sostenuto precedentemente, si continua a
parlare della non eticità
degli studi controllati. Bisognerebbe cominciare anche a riflettere, come argomentato precedentemente,
che potrebbe non essere
etico non farli, soprattutto
quando si introduce un
nuovo trattamento e non
si hanno comunque le risorse (di attrezzature, di
personale, di competenze)
per applicarlo a tutti e lo
si fa a casaccio, vanificando la possibilità di capire
meglio quanto e con chi
funziona, o quando si continuano a fare senza valutazione interventi oramai
diffusi ma sulla cui efficacia ci sono molti dubbi e
poche evidenze scientifiche.
l ute
Sa
e
74 Territorio
Consenso informato, ricerche di valutazione e miglioramento di qualità
Ci sembra interessante il contributo di Casarett et al
(2000) che distinguono tra
iniziative di miglioramento
di qualità e progetti di ricerca, sostenendo che per le iniziative di miglioramento di
qualità dovrebbero esserci
procedure più facili per l’approvazione da parte dei Comitati etici, e in ogni caso
non sarebbe necessario informare i pazienti che si tratta
appunto di una iniziativa di
miglioramento.
Questa tesi è possibile perché
nella maggior parte dei progetti di valutazione e miglioramento:
a) ci si può aspettare che per
lo più i pazienti coinvolti
traggano benefici dalla loro partecipazione, durante
il progetto stesso o in futuri episodi della stessa
malattia;
b) si può escludere che i pazienti coinvolti siano soggetti a rischi o anche a fastidi o ritardi aggiuntivi in
conseguenza del loro coinvolgimento.
Questa distinzione tra progetti di ricerca ed iniziative
di miglioramento di qualità
non mi sembra convincente,
ma certo Casarett e collabo-
Bioetica
ratori hanno sollevato due
problemi importanti: la inopportunità, in molte occasioni
della richiesta di consenso
informato, e l’opportunità di
distinguere studi di valutazione e miglioramento a significato locale, dirette prevalentemente a migliorare
l’assistenza fornita dalle organizzazioni partecipanti
(non necessariamente ai pazienti coinvolti, ma anche
solo a quelli che verranno
trattati in futuro), e ricerche
di valenza più generale, dirette prevalentemente ad ottenere risultati validi universalmente.
Il consenso informato non
dovrebbe essere ovviamente
necessario neppure per ricerche condotte su dati di routine “osservazionali” (in opposizione a quelle “sperimentali” in cui si procede alla assegnazione dei trattamenti secondo un protocollo
di ricerca, come negli studi
controllati randomizzati), se
viene assicurata la confidenzialità delle informazioni nominative.
La tesi della inopportunità
del consenso informato è sostenuta anche da Cassell e
Young (2002) per tutte le ricerche sui servizi sanitari.
N. 149 - 2005
Proposte sugli studi di efficacia
Per tutte le considerazioni
suddette sarebbe opportuno
riflettere sulle seguenti proposte:
a) la decisione sulla eticità o
meno di uno studio controllato randomizzato potrebbe
essere lasciata a un Comitato etico in cui siedano anche rappresentati di pazienti/utenti, preferibilmente di associazione di
autoaiuto di pazienti/
utenti stessi e/o di loro familiari. Se il Comitato approva, ai pazienti dovrà solo essere chiesto il consenso
al trattamento loro assegnato dalla randomizzazione; ai pazienti del gruppo
trattato con il nuovo intervento può anche essere detto che si tratta appunto di
un trattamento nuovo promettente, ma di cui ancora
non si conosce bene l’efficacia (Zelen, 1979; Stott et
al, 1997); un interessante
compromesso è quello di
chiedere al paziente il consenso a ricevere informazioni su un aspetto di ricerca
del trattamento solo dopo
un certo periodo dall’inizio
del trattamento stesso (Boter et al, 2003);
b) anche in questo campo bisognerebbe affiancare ai
controlli a priori quelli a
posteriori. Per questo occorrerebbe che ci fosse un
meccanismo esterno di valutazione del vissuto dei
pazienti inseriti nello studio controllato e dei risultati dello stesso. Nel caso
in cui i pazienti risultino
danneggiati o il nuovo
trattamento si dimostri
molto inferiore a quello di
controllo, il responsabile
della ricerca dovrebbe essere sospeso dalla possibilità di partecipare a ricerche, per un periodo più o
meno lungo, anche se la ricerca era stata approvata
dal Comitato etico;
c) viceversa, ci dovrebbe essere anche un controllo di
una eccessiva severità del
Comitato etico, che dovrebbe andare incontro a
qualche sanzione se risultasse che ricerche analoghe a quelle da lui respinte
sono state eseguite altrove
senza danno per i pazienti
e con avanzamento delle
conoscenze.
Questo lavoro rappresenta la
rielaborazione di una relazione tenuta al Convegno “Salute
mentale: modelli di sviluppo
dell’impresa sociale e sistemi
di valutazione”, Milano, 26
ottobre 2001.
(segue a pag. 80)
Errore medico
N. 149 - 2005
Gabriella Negrini*
Sonia Cavallin**
Carlo Hanau***
Sae l ute
Territorio 75
Il paziente consapevole
* Direttore medico Ospedale
Maggiore - Bologna
** Responsabile URP Ospedale
Maggiore - Bologna
*** Docente di programmazione
e organizzazione dei servizi
sociali e sanitari, Università
Modena-Reggio Emilia
N
egli anni recenti ha iniziato a diffondersi anche in Italia una maggiore attenzione ai rischi connessi ai trattamenti sanitari,
sull’onda dei dati provenienti
da altri Paesi1 (1,2), espressivi di una incidenza di eventi
indesiderati preoccupante2.
Nell’indisponibilità di raccolte sistemiche su grande scala,
si sono attinti dati da fonti
particolari (studi condotti su
infezioni ospedaliere, cadute,
lesioni da decubito, richieste
risarcitorie per danni subiti)
che, peraltro, confermano
che il problema della sicurezza delle pratiche sanitarie
esiste, è consistente e merita
un impegno deciso da parte
di tutti gli attori del sistema.
Chi sono – o chi potrebbero
1
essere – tali attori?
Se è scontata la parte assunta
dagli operatori, occorre esaminare quale ruolo rivestano
i pazienti, i loro familiari e le
associazioni che ne tutelano
gli interessi.
Da una di queste associazioni3
è stata redatta la “Carta della
sicurezza nell’esercizio della
pratica medica” (3), pubblicata nel 2000, con seguito, un
anno dopo, dell’iniziativa
“Imparare dall’errore”, coinvolgente molti ospedali italiani, tra cui il nostro.
In analogia ad altri settori
operativi, anche in quello sanitario, per la maggior parte
degli eventi indesiderati, il
principale fattore causale è
costituito dal “sistema”4.
Seppure un evento possa di-
Il ruolo degli utenti nella gestione dei servizi
ambulatoriali ed ospedalieri
pendere da errore di uno o
più operatori, l’influenza
esercitata dai fattori organizzativi non è quasi mai trascurabile.
Non v’è dubbio che il maggior
concentrato di criticità si rinvenga in ospedale dove, accanto alla pericolosità comune
alle strutture alberghiere, si
sommano i rischi delle peculiari prestazioni professionali,
incidenti per di più su persone
in condizioni di salute maggiormente compromesse.
Le dimensioni e la complessità
degli ospedali rendono non
sempre agevole il pur doveroso
esercizio di sistematici, estesi
ed approfonditi controlli.
Preziose quindi si rivelano le
“piccole” attenzioni di tutti:
contributi di vigilanza minuziosa, continua e diffusa.
I pericoli non difettano, tuttavia, neppure al di fuori dell’ospedale, in primo luogo al
domicilio dei pazienti, dove i
trattamenti prescritti sono
per lo più attuati in assenza
di professionisti sanitari.
Da questo convincimento deriva la valorizzazione che attribuiamo alle segnalazioni
Negli USA, nel 1999 fu pubblicato il rapporto To err is human: building a safer health system, da parte dell’Institute of Medicine in cui venivano esposti i dati sui danni patiti annualmente dai pazienti in conseguenza di cure ricevute: oltre 1.000.000 di persone riportanti danni; 100.000 morti. Uno studio condotto da Brennan nello stesso Paese, nel 1991 su circa 30.000 ricoveri, portava a stimare nel 3,7% dei ricoveri ospedalieri il tasso
di eventi sfavorevoli (di cui 69% ritenuti evitabili), con una proporzione dello 0,7% di disabilità permanenti o morti ed un tasso di mortalità del
13,6%. In Australia, uno studio del 1995, condotto su 14.000 ricoveri, aveva messo in luce un 16,6% di eventi indesiderati (di cui 50% giudicati
evitabili), con 3% di eventi gravi ed un tasso di mortalità del 4,9%. Nel Regno Unito, uno studio del 2001, su circa 1000 ricoveri, forniva un tasso
del 10,8% di eventi avversi (di cui 48% giudicati evitabili), con un 2,2% di gravi conseguenze ed un tasso di mortalità dell’8%.
2 Nell’espressione “eventi indesiderati” ricomprenderemo tutti gli accadimenti, produttivi o meno di danni agli assistiti, conseguenti ad errori,
problemi organizzativi, accidentalità ecc…
In letteratura non sempre si rinviene univocità di termini; le interpretazioni prevalenti sono:
– hazard = situazione di pericolo da cui può conseguire un evento indesiderato;
– incident = evento indesiderato non produttivo di danno;
– accident = evento indesiderato produttivo di danno;
– near miss = atto o fatto che non si è tradotto in evento per l’interposizione di un fattore di protezione.
3 Tribunale per i diritti del malato - Cittadinanza attiva.
4 In Canada, un rapporto del Ministero della sanità del marzo 2001 indica che nell’85% degli incidenti è imputabile casualmente al sistema (organizzazione, processi, risorse ecc…) e solo nel 15% a responsabilità strettamente individuale.
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76 Territorio
degli utenti nel corso dei
trattamenti o in epoca successiva agli stessi.
Il ruolo dei pazienti
La Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organisations (JCAHO) statunitense
(4) ha da tempo enfatizzato
il ruolo del paziente nell’ambito della sicurezza clinica.
Note informative generali, distribuite agli utenti dei servizi sanitari, contengono suggerimenti per una assistenza
più sicura:
• porre domande se si hanno
dubbi;
• segnalare tutti i farmaci
che si assumono;
• portare con sé i risultati di
precedenti accertamenti;
• consultarsi con il proprio
medico di fiducia riguardo
alla struttura sanitaria più
confacente per il trattamento di cui si ha bisogno;
• essere certi di aver inteso
quel che può accadere se si
ha necessità di intervento
chirurgico.
Un opuscolo denominato
SPEAK UP–Help Prevent Errors
in Your Care-indirizzato agli
utenti di servizi ambulatoriali, esordisce affermando che
anche il paziente può riuscire
decisivo nel rendere sicura
l’assistenza assumendo un
ruolo attivo – e quindi informato – all’interno dell’équipe
assistenziale.
I consigli forniti – da cui è
tratto l’acronimo SPEAK UP –
sono:
• chiedere, senza alcun timore, se non si è sicuri di
aver capito;
Errore medico
• prestare attenzione ai trattamenti che si ricevono (assicurarsi dell’identità degli
operatori; informarsi se si
sono lavati le mani; assicurare gli operatori riguardo
alla propria identità..)
• accrescere le conoscenze
riguardo ai trattamenti sanitari (verificare titoli ed
esperienza del professionista sanitario per la patologia di cui dovrebbe occuparsi; appuntarsi elementi
riferiti dai medici per poterli poi approfondire;
consultare il proprio medico ma altresì testi, gruppi
di supporto, siti web qualificati; prendere dimestichezza con i dispositivi da
utilizzare);
• designare un familiare o
amico quale proprio “patrocinatore”;
• informarsi sui farmaci da
assumere e sulla loro motivazione;
• ricorrere a strutture sanitarie qualificate;
• partecipare alle decisioni
sui trattamenti (non esitare a chiedere un secondo parere; chiedere di parlare con altri pazienti che
sono già stati sottoposti
allo stesso trattamento
proposto).
Ulteriore opuscolo è stato predisposto per la prevenzione
degli errori nei pazienti candidati ad intervento chirurgico.
L’Agency for Healthcare Research and Quality (AHRQ)
americana 5 ha a sua volta
elencato in 20 punti le azioni
da porre in campo per prevenire errori medici nel tratta-
N. 149 - 2005
mento dei bambini(5).
Gli esempi riportati indicano
il rilievo accordato alla singola persona, considerata artefice diretta, o in concorso,
della propria sicurezza.
Per giungere a questo traguardo, è indispensabile che i
pazienti abbiano consapevolezza delle proprie condizioni
e dei prevedibili sviluppi.
Un paziente, per essere realmente consapevole – nella misura in cui può esserlo chi non
sia un “tecnico”, e sempre che
lo stato di salute non lo impedisca – ha bisogno di disporre
di adeguate conoscenze.
Al di là del personale bagaglio
di base – che si dovrebbe accrescere attraverso un’articolata educazione sanitaria – la
conoscenza dipende soprattutto dall’informazione data
dai professionisti sanitari.
Alla lettera, l’informativa si
concretizza nell’attività del
ragguagliare, del procurare
notizie intorno ad un determinato oggetto; ma l’informazione dovuta al paziente può
limitarsi a questo e consistere
in messaggi a senso unico?
Crediamo fermamente che
l’interazione con il sanitario
debba incentrarsi su un flusso
bidirezionale, tale da permettere al paziente di esternare
dubbi, preoccupazioni ma anche di portare a conoscenza il
professionista di elementi potenzialmente rilevanti per
l’impostazione diagnostica o
terapeutica.
Informare un paziente sulle
sue condizioni di salute e sui
trattamenti stimati utili è impegnativo, soprattutto in
un’epoca non più dominata
dal paternalismo – ancorché
non manchino di esso scampoli e nostalgie – né dal cieco
affidamento del paziente al
professionista.
A prescindere da inclinazioni
personali, si constata che
non sempre i sanitari sono
dotati di una confacente preparazione al rapporto con i
pazienti.
Nell’odierno contesto di una
medicina ipertecnologica e
frammentata in una molteplicità di discipline, è comune il
rilievo di insufficienza di dialogo con il paziente.
L’invocazione che da più parti
si leva è di recuperare il rapporto con il malato, riguardandolo nella sua interezza e
stabilendo con lui quella sintonia che alcuni bioeticisti
chiamano “alleanza terapeutica”, altri negoziazione (6) –
per trasformare la conflittualità nascosta nella relazione
tra paziente e sanitario in un
compromesso che soddisfi entrambi e permetta una aperta
collaborazione-, altri ancora
patient’s centered care (7).
Di tale esigenza sono espressivi anche i risultati di studi
condotti sulle ragioni sottese
al crescente ricorso alle medicine non convenzionali.
Una buona relazione può aiutare il paziente a capire e può
diventare anche qualcosa di
più: un vero e proprio strumento terapeutico, lenitivo
di sofferenza, sedativo di ansia, ricostituente di fiducia e
speranza.
La limitazione temporale è
sovente lamentata sia dai
5 L’AHRQ è un organismo dipendente dal Ministero della sanità, che finanzia una serie di progetti tendenti ad accrescere la qualità delle cure e la
sicurezza dei pazienti nonché a ridurre i costi. Fornisce al pubblico informazioni per aiutare nella prevenzione degli eventi indesiderati. Un’emanazione di tale organismo è il CQuIPS: Center for Quality Improvement and Patient Safety.
N. 149 - 2005
professionisti – vincolati dal
management al conseguimento di obiettivi sfidanti –
sia dai pazienti, insoddisfatti
per la frettolosità e l’approssimazione derivante.
L’asserita impossibilità di
adempiere al debito informativo ha contribuito, insieme a
motivi di autotutela dei professionisti da contestazioni
per eventuali accadimenti indesiderati, ad associare –
quando non a sostituire – al
parlare gli scritti.
Su questo solco si pone la
pletorica serie di foglietti
informativi – sempre più a
vocazione enciclopedica –
specifici per prestazione diagnostica o terapeutica (8).
Per informative così congegnate, dubitiamo possa valere l’adagio melius abundare
quam deficere.
Un’informazione troppo dettagliata può sortire l’effetto
paradossale di “non informare”, poiché la messe di dati è
così copiosa – e, spesso, non
differenziata quanto ad importanza – da non permettere al paziente di cogliere l’essenziale, disperso tra elementi di minore o pressoché insignificante rilievo.
Si è inteso sottolineare l’importanza della relazione perché condizionante la consapevolezza del paziente; consapevolezza le cui ricadute sulla
sicurezza clinica sono di tutta
evidenza, consentendo al paziente di essere ben vigile su
tutto quel che gli succede.
Nei riguardi di un paziente
provvisto di padronanza della
situazione in cui versa – e
quindi più esigente nel voler
assumere o mantenere una
decisionalità propria – non è
tuttavia infrequente cogliere
atteggiamenti contrastanti da
parte dei professionisti: timore, insofferenza, contrarietà.
Una nuova fonte di turbativa
relazionale potrebbe derivare
proprio dal fatto che l’operatore sanitario si trovi a doversi confrontare, a discutere
su un seguito assistenziale
non scontato ed a sentirsi
controllato, con immaginabile sequenza di reazioni difensive ed innesco di un circolo vizioso.
Un paziente consapevole
può, per contro, divenire un
prezioso aiuto del sanitario:
chi più di lui può avere a cuore la propria condizione e volersi garantire le prestazioni
più sicure?
Il paziente ha una sensibilità
accresciuta su tutto quello
che concerne la propria condizione e dispone del tempo per
osservare, riflettere, dedurre.
La sua attenzione può permettergli di accorgersi di:
• scostamenti dall’atteso;
• anomali funzionamenti di
apparecchiature o dispositivi;
• sintomi, reazioni inconsueti;
• modifiche di terapia eccetera…
A testimonianza di ciò riferiremo di alcuni episodi, tratti
dalla casistica del nostro
ospedale.
1. Un paziente si accorgeva
che la compressa di farmaco portagli dall’infermiere
aveva colore diverso da
quella che assumeva usualmente e chiedeva al professionista se fosse stata cambiata la terapia.
Allertato dalla domanda,
l’operatore accertava che la
compressa somministranda
faceva parte di blister di
Errore medico
Sae l ute
Territorio 77
prodotto X – destinato ad
altro paziente – erroneamente inserito nella confezione Y, recante denominazione del farmaco prescritto al paziente assistito.
Non si riuscì a stabilire
tempi e modalità dello
scambio.
2. Un paziente, a cui l’operatore si accingeva a somministrare terapia infusionale, si stupiva del fatto, non
avendo notizia di alcuna
prescrizione e chiedeva
chiarimenti.
L’operatore, consultata la
documentazione clinica,
riconosceva essere intervenuto errore nell’identificazione del paziente destinatario del trattamento.
3. Ad un paziente, candidato
ad intervento chirurgico
all’occhio destro, nel corso
della notte si avvicinava
l’infermiere per somministrargli – nell’occhio sinistro – il collirio prescritto
dal medico.
Il paziente rappresentava
immediatamente all’operatore che l’occhio operando
era il destro e manifestava
viva preoccupazione, temendo che, quando, per
effetto dell’anestesia, non
fosse stato più vigile, i sanitari avrebbero potuto
sbagliare occhio.
Dopo consulto della documentazione sanitaria e del
medico specialista, si appurava che l’occhio su cui
intervenire era il destro e,
nonostante la prescrizione
recasse l’indicazione controlaterale, si decideva di
non darvi corso.
Successivamente, il medico prescrittore precisava
che non si era trattato di
errore nell’individuazione
del lato ma di volontà di
dilatare l’altro occhio per
un approfondimento diagnostico.
4. Una paziente allergica ad
una pluralità di farmaci,
nonostante avesse di ciò
precedentemente e ripetutamente informato i sanitari, poco prima dell’esecuzione di un accertamento diagnostico reiterava
l’avvertenza e si accorgeva
che i sanitari del settore
specialistico non erano al
corrente del problema.
Si accertava mancanza di
comunicazione tra operatori: del problema allergico
non era stata fatta menzione nella richiesta di prestazione diagnostica né era
stato dato avviso verbale.
Riguardata da altra angolazione, una mancata o inadeguata collaborazione del paziente può facilitare l’errore
degli operatori.
Anche a questo proposito, riporteremo alcuni esempi
tratti dal nostro vissuto degli
ultimi anni.
5. La figlia di una paziente,
ricoverata per trauma, riferiva al medico che la madre
assumeva a domicilio il farmaco Z, per il trattamento
di grave patologia cronica,
al dosaggio 500 mg., 2 volte a settimana (anziché al
reale dosaggio di 5 x 2).
Ritenuto affidabile quanto
riportato dalla figlia, professionista sanitaria, il
medico prescriva coerente
prosieguo di terapia.
La paziente decedeva a distanza di una decina di
giorni per complicanze indotte dal farmaco Z.
Veniva accertata proces-
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Sa
e
78 Territorio
sualmente la responsabilità del prescrittore.
In tema di sicurezza, ancorché sprovvista di ruolo
causale, l’inesatta informazione iniziale aveva favorito il precipitare lungo
uno scivoloso pendio.
6. Un paziente, in cura per
patologia cronica, presentava sintomi che inducevano a ritenere necessario un
adeguamento, al rialzo,
del dosaggio del farmaco
da tempo prescritto.
Il medico chiamato a riesaminare il caso chiedeva
al paziente se avesse assunto con regolarità il medicinale.
Nonostante la risposta affermativa, il professionista
– che ben conosceva il paziente – dubitava dell’effettiva assunzione e, tenuto conto delle gravi ripercussioni derivanti da un
sovradosaggio, decideva di
non modificare la prescrizione, mettendo in guardia
l’assistito circa le conseguenze di un’astensione
dalla terapia.
Emergeva poi che la risposta del paziente non era
stata veritiera.
Il ruolo dei rappresentanti
dei pazienti
Se centrale è il rapporto con il
paziente, considerazione deve
riservarsi anche al rapporto
con la cerchia di parenti ed
amici dell’assistito – sempre
che questi acconsenta a renderli partecipi delle proprie vicende – per i riflessi sul paziente stesso e perché anch’essi possono diventare
coattori di sicurezza. Familiari
o conoscenti premurosi possono supplire quando il paziente
Errore medico
non sia pienamente autosufficiente. L’aumento dell’età di
vita trascina con sé i problemi
dell’accudire persone attempate, per le quali maggiori sono i rischi derivanti da trattamenti sanitari: facilità di cadute; frequenti errori nella assunzione di farmaci; rischio di
decubiti ecc…
Le statistiche degli eventi indesiderati rilevati nel nostro
ospedale mostrano una proporzione diretta tra frequenza di accadimento ed età dei
pazienti coinvolti.
Il problema assume dimensioni forse ancor più consistenti
al di fuori dell’ospedale.
Si pensi al gran numero di
anziani, affetti da una pluralità di acciacchi o di malattie
importanti, in terapia con più
farmaci ed alla facilità con
cui possono determinarsi:
• scambi di medicinali;
• mancato rispetto della sequenza o del tempo della
assunzione;
• mancato controllo di scadenza o di requisiti di conservazione;
• errore di posologia;
• interazioni con altri prodotti, con sintomi non valorizzati tempestivamente
ecc…
Per queste situazioni, l’intervento di terzi che si prendano
cura dei pazienti può contribuire a rendere più sicuri i
trattamenti.
Le riflessioni precedentemente esposte riguardo alla consapevolezza del paziente devono
essere qui riprese con riferimento alle persone dell’entourage che, solo se provviste di
adeguate conoscenze – seppure di tenore diverso da quelle
utili al paziente – possono
cooperare per la sicurezza.
N. 149 - 2005
Un posto distinto è occupato
poi dalle associazioni di tutela dei diritti dei pazienti; esse
possono concorrere alla sicurezza attraverso azioni meno
dirette ed immediate ma non
per questo meno efficaci.
La raccolta di un gran numero di segnalazioni dagli utenti le rende osservatori speciali
dei fenomeni.
Quand’anche non attinenti
alla sicurezza clinica in senso
stretto, le segnalazioni possono essere utili indicatori
delle relazioni instauratesi
con i sanitari, del grado di
conoscenza dei problemi di
salute dei singoli, della percezione dei servizi da parte di
chi ha dovuto farvi ricorso.
Tali riscontri, trasferiti alle
organizzazioni sanitarie, accrescono la conoscenza che
esse devono possedere del loro stesso funzionamento.
Se poi l’atteggiamento associativo non fosse limitato ad
additare quel che non ha funzionato bene ma fosse di costruttivo confronto, potrebbero scaturirne suggerimenti,
proposte operative da sottoporre poi al vaglio di fattibilità delle strutture sanitarie o
dei singoli professionisti.
Crediamo quindi sia fondamentale stabilire con le associazioni per la tutela dei pazienti un rapporto di collaborazione, pur con rispetto dei
distinti ruoli, all’insegna del
comune interesse a ridurre il
livello di pericolosità per gli
utenti.
Incontri periodici, divulgazione dei dati del clinical risk
management, confronto su
temi di rilievo, valutazioni su
aspettative e specifiche richieste, possono essere un
primo campionario di attività
da sviluppare.
Diciamo no agli slogans sulla
malpractice sanitaria, no alla
blame culture – prassi che induce al nascondimento, al
minimizzare o al negare i fatti-; sì al disvelamento dei
problemi, in chiave costruttiva; sì alla ricerca di cause e
fattori favorenti degli eventi
indesiderati; sì al riconoscimento onesto anche di proprie manchevolezze.
Gli impulsi che, nella specifica materia, già si sono avuti
da parte delle associazioni inducono a fiducia in tal senso.
Enunciati significativi della
citata Carta della sicurezza
nella pratica medica ed assistenziale sono:
• Perché non accada ad altri:
i cittadini, pur essendo
sempre più attivi nel pretendere si faccia luce su
presunti errori, denunciano gli episodi loro accaduti
non solo per ottenere la
giusta riparazione dei danni subiti, ma anche per
concorrere, attraverso la
loro segnalazione, a prevenire episodi analoghi.
• No alla medicina difensiva:
in alcuni Paesi, gli operatori sanitari, di fronte all’aumento del contenzioso,
hanno cominciato ad adottare meccanismi di selezione avversa nei confronti
dei pazienti, evitando le
pratiche cliniche che, seppur necessarie al miglioramento della salute, possono comportare rischi dei
quali i professionisti non
intendono farsi carico.
• Imparare dall’errore: non
esiste la possibilità di ridurre gli errori senza che
vi sia un comune riconoscimento della necessità di
Errore medico
N. 149 - 2005
parlarne in modo esplicito
e chiaro. Si richiede un
profondo cambiamento
culturale, che deve portare
al suo centro valori e principi fondamentali, come la
ricerca della verità, la scelta per la trasparenza, la disponibilità a mettersi in
discussione, la non colpevolizzazione di chi sbaglia,
la collaborazione reciproca, il dialogo con il cittadino, l’impegno nella ricerca
dei mezzi atti a garantire
la qualità e la tensione
morale verso l’eccellenza
nel proprio lavoro.
Le segnalazioni differite
Le segnalazioni che giungono
da utenti che abbiano fruito
dei servizi sanitari sono ancora oggi, sovente, mal recepite dai sanitari.
Dall’esame di tali segnalazioni – dalle singole o da insiemi
– si può avere conoscenza di
situazioni pericolose o comunque meritevoli di intervento migliorativo.
Scrutato dalla parte di chi è
stato utente, l’universo sanitario si mostra con sembiante
ben diverso da quello che appare a chi vi opera.
Fatti che sfuggono agli operatori – per maturata assuefazione o per ridotta sensibilità
o per trascuratezza – possono
essere captati come elementi
di debolezza o di rischio dalla
persona estranea all’ambiente ma direttamente interessata e ben vigile.
Nella nostra realtà, dove la
gestione del rischio clinico è
attiva da circa tre anni, le segnalazioni degli utenti – e di
6
loro rappresentanti – afferiscono alla Direzione medica
dell’ospedale, al contempo
investita della funzione di
coordinamento della sicurezza clinica6.
Ad ogni segnalazione segue
un’istruttoria, tesa a far luce
su quanto riferito e ad acquisire l’opinione degli operatori
eventualmente coinvolti;
successivamente, oltre all’elaborazione di una risposta
all’utente può aversi trattazione del caso nell’ambito del
clinical risk management.
Nell’anno 2003, su un totale
di 561 segnalazioni differite
riguardanti il nostro ospedale
– di cui 2 suggerimenti; 17 rilievi, 256 reclami, 286 ringraziamenti – i casi direttamente interessanti il rischio clinico sono stati 4 ma molti altri
contenevano elementi di utilità per migliorare la sicurezza degli assistiti.
Il contenuto delle segnalazioni degli utenti è a tutt’oggi in
netta prevalenza incentrato
su disservizi di sistema ed ancora scarsamente su aspetti
attinenti alla patient safety.
Essendo la materia di giovane
età anche per gli addetti ai
lavori, è da attendersi che,
con il progredire dell’esperienza e con un coinvolgimento crescente dei pazienti
e dei loro rappresentanti, si
incrementi anche la quota di
segnalazioni inerenti alla sicurezza.
Una piccola rassegna casistica esemplifica le problematiche riguardanti il rischio clinico, indicate dagli utenti.
1. Sedie a rotelle con ruote
mal funzionanti. Si dispo-
2.
3.
4.
5.
6.
neva revisione manutentiva straordinaria.
Riscaldamento eccessivo di
apparecchiatura, nel corso
di esame diagnostico. Il
servizio per le tecnologie
sanitarie approntava correttivo.
Modalità di gestione di documenti sanitari tali da
mettere a repentaglio la
tutela dei dati sensibili.
Dopo immediata ricognizione si disponevano modifiche operative.
Errori anagrafici o di contenuto sanitario in documenti acquisiti in copia.
Accertata la fondatezza, si
procedeva a rettifica di errori materiali.
Referti di altra persona in
dossier clinico di un paziente. Si rendeva necessario ricostituire le posizioni
documentali, accertare i
possibili disguidi e rivedere alcune procedure.
Conclusioni
In tema di sicurezza clinica, è
importante il contributo di
tutti: degli operatori, innanzitutto, ma altresì dei pazienti e di quanti si prendano cura di essi.
La capacità di incidere in tal
senso è condizionata dal grado di conoscenze possedute;
al riguardo rileva grandemente la relazione stabilitasi con
i sanitari.
Un rapporto non armonioso
rappresenta un fertile terreno
per lo sviluppo di incomprensioni, ambiguità, maggior facilità di chiamata dei sanitari
a rispondere di esiti non soddisfacenti, per quanto non in-
Sae l ute
Territorio 79
ficiati da vizi e per di più attesi ed illustrati al paziente (9).
Per contro, esiti non ottimali
– ancorché gravati da sospetto
di un operato imperfetto – risultano meglio tollerati dal
paziente se è stata buona la
relazione con chi lo ha curato.
Alla ricerca di una risposta al
che fare per ridurre le azioni
legali contro i sanitari, Notangelo (10) afferma: ”Una meta
più ampia sarebbe di creare sistemi innovativi per reclutare
pazienti e loro familiari al fine
di moltiplicare gli sforzi necessari a migliorare la sicurezza
dei pazienti, dopo che si è verificato un incidente”.
Da qui l’esigenza di recuperare
e rafforzare il rapporto con
l’assistito, riservandogli ascolto, rispetto delle sue volontà
e dei suoi valori, per creare un
clima di fiducia, di serenità,
di empatia.
Numerose sono le occasioni
in cui può estrinsecarsi la
partecipazione del paziente o
delle persone che lo accudiscono o lo tutelano alla sicurezza clinica, in ospedale e
fuori.
All’importanza delle segnalazioni che scaturiscono nel corso dei trattamenti, si affianca
l’interesse per commenti e valutazioni che pervengono in
un successivo momento oppure a seguito di contatto con
l’organizzazione sanitaria.
Accanto alle segnalazioni dei
singoli, riguardo va rivolto
anche a quanto trasmesso da
Associazioni di rappresentanza degli utenti, portavoce di
istanze ma anche di proposte
concrete per migliorare la sicurezza degli assistiti.
Molti esperti non utilizzano la locuzione risk management per designare la gestione dei rischi connessi alle pratiche sanitarie ma preferiscono
parlare di patient safety. Il risk management ha un campo di interesse assai vasto e si occupa di rischi che non attengono alla sicurezza clinica.
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80 Territorio
Errore medico
N. 149 - 2005
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(segue da pag. 74): La non eticità della non ricerca
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N. 149 - 2005
Fabrizio Simonelli
Alberto Zanobini*
Responsabile
Centro di coordinamento
regionale HPH della Toscana
* Dirigente Settore formazione,
comunicazione e supporto
al governo clinico regionale Direzione generale Diritto alla
salute e politiche di solidarietà
O
ggi l’idea di Ospedale
viene associata quasi
automaticamente con
quella di malattia: non vi è
dubbio che la ragion d’essere
di questa struttura sanitaria
sia infatti la cura degli stati
di malattia, nè si può ragionevolmente pensare che possa cambiare. Ma nel tempo a
questo ruolo si sono aggiunte
funzioni e componenti nuove
che lo hanno arricchito e reso
sempre più complesso, facendone un centro di attrazione
e spinta per gli interessi della
comunità.
L’evoluzione culturale, scientifica, tecnologica, professionale ha via via incrementato i
livelli di specializzazione e
differenziazione dei sistemi
ospedalieri, problematizzandone spesso l’organizzazione
ed il rapporto con il contesto
territoriale di riferimento1.
La relazione con un contesto
socio-ambientale a sua volta
in perenne cambiamento culturale ed economico ha sempre indotto effetti di adattamento strutturale, organizzativo ed operativo dell’Ospedale. Ma è vero anche il contrario, e cioè che esso, il suo capitale sociale ed intellettuale,
Spazio Toscana
Sae l ute
Territorio 81
Dal binomio
Ospedale-malattia
a quello di
Ospedale-salute
influiscono sui processi di
crescita culturale ed economica dell’ambito sociale di
appartenenza.
Ora questa relazione sembra
diventare particolarmente significativa, perché il movimento internazionale che si
occupa della salute nel suo
complesso, a partire dalle organizzazioni mondiali, ha
messo a fuoco – a partire dalla Carta di Ottawa (1986) –
un nuovo paradigma della salute, fondato sulla molteplicità dei determinanti (ecosocio-economici e non solo
genetici)2 e soprattutto sulla
connotazione della salute
non come obiettivo ma in
quanto risorsa per la crescita
personale e sociale sul piano
economico, emozionale, intellettuale, etico, spirituale.
Questo nuovo scenario ha fornito chiari indirizzi programmatici anche per i legislatori
ed i decisori politici, che
sempre più frequentemente
hanno importato negli strumenti di pianificazione sanitaria questo tipo di visione.
D’altra parte, l’Ospedale dovrebbe essere un protagonista del cambiamento di un
contesto che già si sta muo-
vendo nel nuovo paradigma
della salute, configurando diversi assetti istituzionali e
operativi.
Nella Regione Toscana questo
processo sta assumendo contorni di forte innovazione e
la partecipazione dell’Ospedale in questo senso si avvale
delle acquisizioni che stanno
maturando attraverso la Rete
degli Health Promoting Hospitals 3 , nonché di specifiche
esperienze.
Insomma si sta facendo strada il binomio “Ospedale-salute”, attraverso la concretizzazione di esperienze e testimonianze che propongono
l’ospedale in veste di risorsa
per la crescita delle persone e
della comunità in funzione
della loro autorealizzazione4.
L’Ospedale per la promozione della salute
Questa denominazione deriva
da un Progetto avviato dall’Ufficio europeo dell’OMS
verso la fine degli anni ’80
che, dopo un periodo di sperimentazione, si è articolato
in Reti regionali e nazioni di
Health Promoting Hospitals5.
In particolare, l’obiettivo generale del Progetto degli
Ospedali per la promozione
della salute è di integrare la
qualità dell’assistenza ospedaliera con attività di promozione della salute, intese nel
senso indicato dalla Carta di
Ottawa (1986), cioè come
processi che mettono in grado
le persone e le comunità di
aumentare il controllo sulla
propria salute6.
Secondo la definizione del
Glossario dell’OMS7, un Ospedale che promuove la salute
non solo deve fornire globalmente servizi medici e infermieristici di alta qualità, ma
anche:
a) sviluppare una identità
aziendale che abbracci gli
scopi della promozione
della salute;
b) sviluppare una cultura e
una struttura organizzativa che promuova la salute
(compreso un ruolo attivo
e partecipativo dei pazienti e dello staff);
c) trasformarsi in un ambiente fisico che promuove la
salute;
d) cooperare attivamente con
la comunità servita.
L’incorporare nella cultura e
nella struttura dell’Ospedale i
principi, le strategie e le me-
l ute
Sa
e
82 Territorio
todologie della promozione
della salute, implica impegnative azioni di ripensamento e riorientamento dell’Ospedale in funzione di bisogni non pienamente considerati nell’Ospedale tradizionale: da qui le esigenze di acquisizione di conoscenze,
consapevolezze, motivazioni
e capacità dirette ad aumentare il controllo sulla propria
salute da parte dei pazienti,
dei loro familiari, della comunità in generale.
La Rete Toscana degli Ospedali per la promozione della salute
Elementi di contesto
La Rete Toscana degli Ospedali per la promozione della
salute è stata costituita:
– in un contesto culturale
connotato da una forte attenzione ai valori umani fra
i quali il diritto alla salute
come requisito per l’autodeterminazione personale e
la crescita collettiva (e non
poteva essere diversamente
nella terra originaria del
Rinascimento!)8;
– in un ambito operativo sanitario che presentava una
“dotazione” particolare,
costituita dalle Unità operative di educazione alla
salute delle Aziende sanitarie locali, già orientate a
pratiche di promozione
della salute sul territorio;
– in un quadro istituzionaleprogrammatico caratterizzato da due importanti
cardini:
• il Programma regionale
di sviluppo 2003/2005
della Toscana, che – nel
trattare il tema del benessere sociale –, espri-
Spazio Toscana
me chiaramente l’orientamento delle politiche sociali al modello
del welfare community,
un modello sintonico
con i principi della promozione della salute,
dal momento che sostiene la sussidiarietà
orizzontale;
• il Piano sanitario regionale 2002-2004 che –
nel proporre un modello
di salute centrato sulla
responsabilizzazione
della comunità e sulla
partecipazione sociale –
esplicita l’orientamento
a travalicare l’offerta di
prestazioni e servizi sanitari di alta qualità per
arrivare a costruire un
sistema per la salute in
grado di coinvolgere le
risorse della comunità
in un disegno di salute
condiviso, allineandosi
in ciò con gli indirizzi
generali proposti dall’OMS.
La Rete HPH Toscana nella
programmazione sanitaria regionale
Il Piano sanitario regionale
2005-2007 – attualmente approvato dalla Giunta regionale – conferma alcune scelte di
fondo del Piano precedente,
quali la partecipazione sociale, l’apertura del sistema sanitario alla sperimentazione di
modelli organizzativi innovativi, la concertazione con altri settori produttivi rilevanti
per la salute. Questi elementi
favoriscono processi di cambiamento anche profondi, come la costruzione e la crescita
di un sistema regionale per la
salute nel quale esprimere anche il riorientamento degli
ospedali verso la promozione
della salute.
In questo senso il Piano sanitario regionale esplicita l’evoluzione dal concetto di prevenzione a quello di promozione e delinea gli strumenti
per la realizzazione delle politiche di promozione della
salute: le Società della salute,
i Piani integrati di salute, che
si profilano in sintonia con la
filosofia di fondo del progetto
HPH.
Le Società della salute rappresentano articolazioni innovative dell’organizzazione sociosanitaria territoriale, su base
distrettuale, fortemente finalizzate al coinvolgimento delle
comunità locali. Esse rappresentano una forma di sperimentazione organizzativa dell’assistenza territoriale tendente a definire un nuovo modello di governance della salute i cui contorni sono ancora
in corso di definizione, ma che
è guidato da principi comuni
alla Rete HPH: universalismo,
equità, empowerment9.
La Società della salute è una
“società mista”senza scopo di
lucro, con rappresentanti degli Enti locali e dell’Azienda
sanitaria locale, aperta alla
partecipazione del volontariato, del terzo settore, del
privato sociale, la cui “ragione sociale” è costituita dal
miglioramento della salute e
dal benessere sociale.
Essa è orientata principalmente al settore delle cure primarie e delle attività socio-sanitarie e specialistiche di base
prodotte dal Sistema sanitario
regionale o acquistate da produttori esterni. Sono escluse
da questo ambito le attività
ospedaliere, ma l’assetto culturale ed operativo che si vie-
N. 149 - 2005
ne a configurare risponde bene alle esigenze di un’intesa
culturale e operativa fra servizi del territorio e Ospedale che
promuove salute.
I Piani integrati di salute costituiscono le modalità operative delle zone-distretto e,
ove costituite, delle Società
della salute, che possono avvalersi di risorse di promozione della salute, quali la Rete
regionale Health Promoting
Hospitals.
In quanto progetti complessi
riferiti a problematiche ad alta valenza sociale essi coinvolgono vari attori: le Conferenze dei sindaci di zona, le
Aziende sanitarie locali, le
Agenzie sanitarie regionali, il
settore non-profit, le organizzazioni sindacali, le varie
componenti della società civile, che condividono un progetto di lavoro comune con
ricadute specifiche e valutabili sullo stato di salute della
popolazione.
Il processo di ri-orientamento
dell’Ospedale verso la promozione della salute in Toscana
può quindi contare su un
quadro di riferimento culturale, normativo e organizzativo certamente favorevole.
La configurazione della Rete
HPH Toscana
Alla Rete HPH Toscana aderiscono tutte le Aziende sanitarie locali (Massa e Carrara,
Lucca, Pistoia, Prato, Pisa, Livorno, Siena, Arezzo, Grosseto, Firenze, Empoli, Viareggio) e tutte le Aziende ospedaliere (Careggi (Firenze),
Meyer (Firenze), Azienda
ospedaliera pisana, Azienda
ospedaliera senese) per un
totale di circa l’80% degli stabilimenti ospedalieri.
N. 149 - 2005
Il Centro di coordinamento
regionale della Rete toscana
degli Ospedali per la promozione della salute, è stato individuato dall’Assessorato regionale al diritto alla salute
presso l’Azienda ospedaliera
“A. Meyer” di Firenze.
La tipologia delle attività HPH
in Toscana
La gamma di attività sviluppate nella Rete HPH toscana
rende bene l’idea del percorso
di avvicinamento al binomio
“Ospedale-salute”. In ordine
di crescente complessità e
progettualità, si tratta di:
– azioni incrementali, costituite da limitate ma percettibili azioni di promozione della salute attivate
autonomamente dai professionisti, anche senza
una cornice progettuale
definita, quali: “attenzioni” relazionali percepibili
da parte dei pazienti, iniziative di tipo logistico-alberghiero o organizzativo
o relazionale, singole azioni di empowerment delle
persone, e così via (es.:
l’attenzione prestata dai
professionisti nel fornire
al paziente informazioni o
elementi utili al controllo
della malattia o, ancora, il
coinvolgimento delle Associazioni di volontariato in
alcune attività assistenziali). Il quadro delle azioni
incrementali è molto variegato e diffuso.
– integrazioni processuali,
costituite da codificazioni
di ‘valore aggiunto’ in singole fasi dei processi diagnostico-terapeutici quali
implementazioni di pratiche di umanizzazione dei
servizi (ad es.: procedure di
Spazio Toscana
consenso informato, schede personalizzate di dimissione, interventi di continuità assistenziale in una
logica di empowerment);
– pacchetti specifici di servizi,
rappresentati da percorsi
progettuali ed operativi
completi (dal marketing alla fase finale di feed-back)
attivati da singole Unità
operative e mirati a gruppi
omogenei per patologia o
problematica (ad es.: campus educativi per ragazzi
diabetici, stages riabilitativi dei pazienti cardio-operati, scuola dell’asma).
Tutti i suddetti livelli di attività sono spesso frutto della
sensibilità e dell’impegno di
singoli professionisti o Unità
operative che condividono i
principi della promozione
della salute, senza disporre
di un quadro di riferimento
concettuale e operativo di
progettazione quale è quello
fornito dalla Rete HPH. Proprio perché alimentate dalla
convinzione degli operatori
queste iniziative costituiscono un patrimonio importante
e meritano una sensibile valorizzazione nella cornice
HPH.
– progetti di promozione della salute, che sviluppano
interventi metodologicamente improntati al
project work, e quindi in
grado di documentare i risultati prodotti. A questo
livello si costituiscono
team di progetto riconosciuti nel sistema aziendale e si definiscono ruoli,
impegni, modalità di comunicazione e valutazione. Esempi di progetti sono la prevenzione delle cadute dell’anziano in Ospe-
dale, l’allattamento al seno, la prevenzione di discriminazini, l’allergia al
lattice, le allergie alimentari ed ambientali, la prevenzione della SIDS, e così
via…
– interventi di ri-orientamento del setting ospedaliero,
considerato come contesto
globale (ambientale, organizzativo, normativo, amministrativo, relazionale)
capace di ridefinire in termini distintivi l’attività
dell’intera struttura ospedaliera (ad es.: l’Ospedale
senza dolore, l’Ospedale
senza fumo, l’Ospedale interculturale, l’Ospedale sicuro, la Carta dei diritti del
paziente, i processi di accreditamento integrati da
aspetti di promozione della salute).
La formazione nella Rete HPH
Toscana
La formazione costituisce ovviamente una leva particolarmente rilevante per il cambiamento della cultura ospedaliera nel senso della promozione della salute. Per
questo motivo sono state
programmate per il biennio
2003-2004 iniziative – attualmente in corso di espletamento – articolate in:
– iniziative “trasversali”,
indirizzate ai Coordinatori
aziendali HPH ed ai Coordinatori dei Gruppi interaziendali e centrate su
contenuti di carattere generale;
– iniziative di sensibilizzazione, indirizzate a tutto il
personale ospedaliero e mirate a presentare gli aspetti
generali del progetto e le
relazioni con le politiche
regionali per la salute;
Sae l ute
Territorio 83
– iniziative di supporto allo
sviluppo dei progetti, indirizzate agli operatori coinvolti nello sviluppo dei
progetti.
La fisionomia della Rete HPH
Toscana
Un progetto di respiro internazionale come quello degli
Health Promoting Hospitals
esige azioni generali di formalizzazione e orientamento
che consentano agli aderenti
di riconoscersi negli indirizzi
comuni e di sviluppare senso
di appartenenza. Ma necessita anche di azioni locali di
connotazione che forniscano
specifiche identità tenendo
conto delle singole realtà culturali e operative e alimentino così la vitalità della Rete.
Per questa ragione la Rete Toscana sta assumendo sempre
più una fisionomia specifica,
fondata su alcune connotazioni particolari:
a) L’ottica di sistema
Il ripensamento dell’Ospedale come setting per la
promozione della salute e
il lavoro implica una sfida
forte, che va assunta in
un’ottica sistemica capace
di interpretare il cambiamento agendo non solo
sulle componenti, ma anche sulle relazioni, interne
ed esterne, del sistemaospedale.
In questo senso assumono
rilevanza i collegamenti
fra il progetto HPH e le
funzioni aziendali trasversali – quali la formazione,
la comunicazione, il processo di budgeting, il sistema premiante, ecc. – ed i
rapporti fra l’ospedale ed il
sistema dei servizi territoriali, a partire dalle Unità
l ute
Sa
e
84 Territorio
operative di educazione alla salute e dai Dipartimenti di prevenzione.
b) Il quadro di riferimento
concettuale
Un percorso sistemico come quello sopra delineato e
capace di guardare al futuro esige un quadro di riferimento che possa proporre
adeguatamente gli orizzonti generali, i passaggi
fondamentali, la coerenza
del cammino. L’elaborazione che ne è risultata vede
tre livelli interagenti:
– quello paradigmatico,
costituito dai principi
generali e assunti locali
che guidano il progetto,
fornendo senso e valore;
– quello strategico, che riprende le strategie generali ed aziendali di riorientamento dell’ospedale, le metodologie ed
i procedimenti che guidano e caratterizzano le
attività comprese nel
progetto;
– quello progettuale, che
mette a fuoco i criteri e
le tecniche necessarie a
conseguire i fini prefissati.
Il livello paradigmatico
L’idea di promozione della
salute va esplicitata tenendo conto – oltreché dei
principi generali della promozione della salute messi
a fuoco dall’OMS e dallo
specifico movimento internazionale – anche da ideali radicati nella cultura
delle comunità locali, cioè
“assunti” in un preciso
ambito culturale e sociale.
Per “assunti” intendiamo
concetti di natura etica:
– formulati attraverso la
declinazione all’interno
Spazio Toscana
della cultura regionale
di principi generalmente riconosciuti ed affermati (dalla Carta di Ottawa in poi);
– esplicitati in termini localistici, nell’ambito
della cornice locale di
significati;
– condivisi nella comunità
professionale che opera
nel progetto HPH e, per
l’appunto, “assunti” nel
contesto operativo quotidiano della promozione della salute.
Questa operazione di declinazione e contestualiz-
zazione di principi generali serve a connotare un
quadro etico di prossimità
per gli operatori, a fornire
orientamenti più “stringenti” per valutare progetti ed interventi, a formulare nuove domande e riflessioni generate da dimensioni ed esperienze locali,
a rafforzare elementi di
confronto anche internazionale in un’ottica di reciproco arricchimento.
Ad esempio, il principio di
centralità della persona è
stato esplicitato in termini
di ruoli, aspettative e atti-
N. 149 - 2005
vità come si può evincere
dall’illustrazione (Fig. 1).
Il livello strategico
Alle strategie di tipo tradizionale – comunque determinanti per sviluppare il
Progetto HPH, quali quelle
partecipative, formative,
comunicative, di connessione alle funzioni trasversali aziendali ed al contesto programmatorio locale,
di valorizzazione del patrimonio esistente –, è stato
messo a fuoco un modello
che tende a dare organicità alle strategie attuabili
in funzione della loro col-
Fig. 1 - Declinazione del principio
di centralità della persona.
Fig. 2 - Il modello strategico.
N. 149 - 2005
locazione a livello di setting (inteso come ambiente fisico, logistico, organizzativo, comunicativo),
di processi (inteso come
valore aggiunto ai diagnostico-terapeutici o innovazione “ad hoc”), di relazioni interpersonali (includendo tutte le relazioni intercorrenti fra pazienti,
professionisti, management, fornitori, comunità
di riferimento) (Fig. 2).
Il livello progettuale
L’evoluzione della progettazione lineare da quella
“classica” – tipica dell’educazione alla salute e fondata su analisi dei bisogni,
definizione degli obiettivi,
individuazione della popolazione-target, ricognizione delle risorse e delle criticità, individuazione degli
‘attori’, messa in opera e
valutazione finale – a quella orientata alla promozione della salute, porta a riconsiderare le “tappe” del
percorso progettuale e la
rispettiva valutazione.
La successione delle fasi
tradizionali risulta riordinata secondo una logica
pragmatica di promozione
della salute e lo scenario
della complessità evidenzia i limiti dovuti alla linearità dello sviluppo
temporale, le negative
conseguenze in termini di
ricorrenti interruzioni o
deviazioni di rotta, le difficoltà di valutazione degli
effetti prodotti.
Pur con gli opportuni adattamenti della progettazione classica in funzione delle peculiarità della promozione della salute (Fig. 3) e
quindi della co-progetta-
Spazio Toscana
zione con le Associazioni di
rappresentanza dei cittadini e/o pazienti, il modello
progettuale va rivisto.
La progettazione di tipo
reticolare derivata dal
Mind Mapping10 sembra rispondere meglio alle esigenze di complessità della
promozione della salute
perché consente di mantenere una visione logica di
insieme e di effettuare valutazioni globali che possono dimensionare meglio
il progetto, pre-valutando
relazioni e coerenze fra le
varie componenti (Fig. 4).
Conclusioni
Il progetto Health Promoting
Hospitals rappresenta una
concreta testimonianza di riorientamento dell’Ospedale
verso i principi della promozione della salute, come auspicato nella Carta di Ottawa
e nella Dichiarazione di Budapest11. Applicare nella pratica
quotidiana questo ‘assunto’
porta a confrontarsi con una
dimensione estremamente responsabilizzante: lavorare –
oltre che per ottenere benefici terapeutici o aspetti qualitativi della degenza – per favorire la massima realizzazio-
Sae l ute
Territorio 85
ne del potenziale intellettuale,
emotivo, spirituale, economico, relazionale della persona e
della comunità.
Questo processo che non è
solo organizzativo ma soprattutto culturale, si allinea –
nel caso della Regione Toscana – con politiche locali espressamente orientate a costruire e consolidare un sistema locale per la salute basato
sulla partecipazione attiva
della comunità e su un assetto di nuovo tipo, costituito
attorno ai Piani integrati di
salute ed alle Società della
salute.
Fig. 3 - Progettazione lineare
classica e HPH: confronto.
Fig. 4 - Progettazione reticolare
applicata al progetto HPH.
l ute
Sa
e
86 Territorio
La vera verifica della effettiva riuscita di questa operazione di cambiamento
profondo del sistema ospe-
Spazio Toscana
daliero sarà costituito dalle
future rappresentazioni sociali dell’Ospedale: se nella
opinione pubblica e nella co-
scienza collettiva si affermerà il binomio “Ospedalesalute”, allora vorrà dire che
si è vinta una sfida ritenuta
N. 149 - 2005
da molti impossibile al momento del suo lancio.
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Gli aspetti demografici ed economici
che influiranno sull’organizzazione dei servizi
e sulla loro copertura finanziaria
LA PROGRAMMAZIONE SANITARIA
DEL FUTURO VENTENNIO
L’aumento della longevità
e la conseguente progressiva
cronicizzazione delle patologie
associate alla terza e quarta età
La possibilità di prevenire o ritardare
la comparsa delle malattie senili
più diffuse
Monografia a cura di Luigi Tonelli
[email protected]
l ute
Sa
e
88 Territorio
Luigi Tonelli
AUSL di Siena
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Presentazione
Q
uesta monografia è intesa a prendere in esame la trasformazione
epidemiologica verso la prevalenza delle malattie croniche che si viene rapidamente
e sempre più chiaramente
manifestando. La variabile
che maggiormente determina
e condiziona la nuova situazione è la transizione demografica in corso, ovvero il
cambiamento progressivo dei
parametri demografici principali, natalità e mortalità. È
verificabile che con l’aumentare del benessere delle popolazioni gli eventi demografici
si susseguono come indicato
nelle quattro fasi riportate
nella figura sottostante: il
progresso economico che si
verifica in occorrenza della
stabilità demografica della
fase 1 produce una riduzione
della mortalità (fase 2), cui
segue un declino della natalità tale da poter determinare
infine un saldo di popolazione negativo (fasi 3 e 4).
Il tutto può avvenire in un
arco di tempo molto variabile
da situazione a situazione.
Per quanto è ora evidente, la
transizione è stata lenta a
manifestarsi nel mondo occidentale, ma appare rapidissima nel suo svolgersi oggi nei
grandi Paesi in via di sviluppo, come Cina e India, ed è
atteso il suo verificarsi nell’
Est europeo occidentalizzato
non appena le condizioni
economiche saranno effettivamente migliorate.
Fig. 1.
Di fatto il numero di anziani
nella popolazione generale
già a decorre dall’ inizio del
nuovo secolo manifesta un
incremento annuo del 2,8%
ed è funzione di una speranza
di vita alla nascita della quale
è oggi impossibile stimare attendibilmente l’estensione
massima. Jim Oeppen e James
Vaupel, demografi rispettivamente a Cambridge ed al Max
Plank Institute, hanno riportato su Science nel 2002 dati
che dimostrano che da oltre
160 anni la massima speranza
di vita è regolarmente cresciuta di un quarto di anno
per anno benché gli esperti di
mortalità abbiano sempre
continuato ad asserire che era
giunta invece al tetto della
sua possibilità. Secondo il Nobel 1993 per l’ Economia Robert Fogel (2004) l’impredicibilità della attesa di vita è
spiegabile con il sinergismo
di progresso tecnologico e
miglioramento delle condizioni di vita, che ha prodotto
una nuova forma biologica di
evoluzione della specie umana, più rapida di quella genetica in quanto a trasmissione
culturale, e per questo anche
più instabile. Ha chiamato
questa nuova forma evolutiva
che si è manifestata negli ultimi tre secoli ma soprattutto
nel secolo scorso “tecno-fisioevoluzione”.
Associandosi l’invecchiamento ad un maggior carico di
malattie e invalidità, è inevitabile che la spesa sanitaria
pro capite come percentuale
del PIL aumenti rapidamente
dopo i 65 anni (Lubitz, J.,
2001). Questo avviene so-
prattutto in funzione della
prevalenza delle malattie croniche con gli aspetti statistici
descritti da Hoffman ed Altri
(1996) e riassunti nelle tabelle qui sotto riportate
Esistono studi (Sipkoff M,
2003) che rilevano che già ora
l’ 80% della spesa sanitaria è
a favore del 20% del totale
della popolazione assistita e
che gli affetti da malattie croniche consumano l’88% delle
prescrizioni, il 72% delle visite mediche ed il 75% delle
giornate di ospedalizzazione.
Ricercando nel Web notizie
sulla prevalenza in Italia delle
malattie croniche più comuni
Prevalenza delle malattie
croniche per classi di età
Costi pro-capite malattie
acute (A) e 1 o 2 croniche
(1 C, 2 C) (US$, 1990):
< 18 anni
25%
18-44 anni
30%
45-64 anni
60%
> 65 anni
75%
<18
18-44
45-64
>65
A
608
877
995
1652
1C
1641
1422
1992
2970
2C
2828
3208
4239
6018
N. 149 - 2005
si trovano stime effettuate da
diversi organismi e associazioni che riportano ad esempio
che attualmente nel 30% delle
famiglie vive un ammalato
cronico e nell’ 11% un disabile.
Oppure riunendo i dati si può
effettuare la stima approssimativa della prevalenza delle
forme più comuni nell’ intera
popolazione riportata nella tabella a fianco, che assomma ad
un totale di quasi trentacinque milioni di casi su cinquantasette milioni di abitanti.
Sappiamo che la generazione
del baby boom a partire dal
2010 progressivamente raggiungerà la soglia dei 65 anni
e questo contemporaneamente a uno spostamento delle
risorse economiche mondiali
verso i Paesi in via di sviluppo che già ora, alla metà del
primo decennio, suscita nell’
Occidente industrializzato
gravi preoccupazioni per il
mantenimento del welfare.
Occorre allora prepararsi ad
affrontare con risorse probabilmente decrescenti un elder
boom dove saranno prevalenti
gli individui della “quarta
età”, l’età della dipendenza
(Laslett P., 1996), con il loro
carico di malattie croniche e
di disagio sociale.
La prima parte di questa mo-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
nografia è intesa a presentare
e discutere gli scenari futuri,
e le risposte ad oggi individuate, che il Chronic Care Model di Edward Wagner (1998),
ampiamente descritto in un
articolo della monografia, in
larga misura riassume. La seconda intende illustrare agli
amministratori delle cose sanitarie, affinché possano assumere decisioni informate,
le cose che sanno gli specialisti e le risposte di assistenza
e cura che allo stato attuale
risultano più sostenute dall’evidenza scientifica.
Le decisioni dei manager della sanità, tuttavia, difficilmente nel contesto economico mondiale che si viene delineando potranno ancora far
riferimento ai criteri di ora,
ovvero assecondare sempre le
richieste degli utenti e dei
produttori ed investire soprattutto nelle costosissime
strutture di ricovero e nelle
procedure per acuti, mentre
la priorità è prevenire la progressione delle malattie croniche. Per superare le straordinarie difficoltà del prossimo
futuro occorrono innovazioni
importanti, tali da continuare
ad assecondare la tendenza
delle popolazioni a raggiungere età sempre più elevate. Il
Bibliografia
Fogel R.W. (2004), Technophysio Evolution and the Measurement of
Economic Growth, Journal of Evolutionary Economics, 14(2), 217-21.
Hoffman C., Rice D., and Sung H.I. (1996), Persons with chronic conditions. Their prevalence and costs, JAMA 276:1473-79.
Laslett P. (1996), A fresh map of life: the emergency of the third age,
Macmillan Press
Lubitz J. (2001), The Effects of Longevity on Spending for Acute and
Artrite reumatoide
m.Parkinson
Demenza senile
Ipertrofia prostatica
Tumori
Insufficienza cardiaca cronica
HCV positivo
Diabete
Asma
Depressione
Fibrosi polmonare
Esiti di ictus
Ipertensione
Artrosi
termine di riferimento più attuale è la strategia messa in
opera dalla Health Care Organisation non for-profit americana Kaiser – Permanente,
riassumibile nelle azioni qui
di seguito riportate:
1. Identificazione degli affetti da malattie croniche.
2. Stratificazione degli affetti da cronicità per rischio
di aggravamento.
3. Stretto riferimento a Linee
Guida cliniche evidencebased aggiornate.
4. Informatizzazione diffusa
per la condivisione dei dati clinici.
5. Cure intermedie nurse led.
6. Approccio multidisciplinare nel primary care.
Sae l ute
Territorio 89
300.000
300.000
600.000
1.200.000
1.300.000
1.500.000
1.800.000
2.000.000
2.000.000
2.500.000
3.000.000
3.000.000
5.000.000
10.000.000
7. Forte integrazione primary
care – specialisti.
8. Promozione del self-care.
Si tratta in larga parte di strategie intuibili e condivisibili,
che per qualche ragione nei
Sistemi sanitari sono state finora poco o male attuate; alcuni articoli della monografia
sono dedicati a chiarire la natura di quelle più innovative
La speranza di tutti gli Autori
è quella di aver contribuito
con gli scritti qui contenuti a
promuovere una migliore
comprensione degli eventi in
corso e di conseguenza una
spinta innovativa che, come
professionisti che operano
nella nostra sanità, non ritengono più a lungo rinviabile.
Long-term Care, Documento Web della Health Care Financing Administration, disponibile al sito http://upload.mcgill.ca/management/
longevity.pdf
Oeppen J. and Vaupel W. (2002), Demography: Enhanced: Broken Limits to Life Expectancy, Science 96, 1029-31.
Sipkoff M. (2003), Health plans begin to address chronic care management, Managed Care 12, 29-31.
Wagner E.H. (1998), Chronic disease management: what will it take to
improve care for chronic illness?, Eff Clin Pract. 1 (1), 2-4.
l ute
Sa
e
90 Territorio
Fred Paccaud
Pascal Bovet
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Una transizione epocale
Istituto universitario
di medicina sociale e preventiva
Facoltà di biologia e medicina
e Centro ospedaliero
universitario valdese
Losanna, Svizzera
Transizione demografica
La transizione demografica in
senso stretto è un modello di
evoluzione della popolazione
umana caratterizzato da una
riduzione della mortalità, seguita da una diminuzione
della fecondità. Tale transizione cambia l’equilibrio demografico di una popolazione
facendolo passare da un regime con mortalità e natalità
alte, a un regime con mortalità e natalità basse.
Il fatto notevole di questo
cambiamento di equilibrio è lo
sfalsamento temporale tra
l’abbassamento della mortalità
e quello della natalità. Se tali
diminuzioni fossero strettamente contemporanee, il numero della popolazione sarebbe costante, ma lo sfalsamento nella diminuzione e la sequenza di tale sfalsamento
(prima mortalità, poi natalità), implicano un aumento
importante della popolazione
tra i due regimi di equilibrio.
Questo modello, descritto intorno al 1930 da Warren
Thompson, è stato empiricamente verificato attraverso le
osservazioni demografiche
Le caratteristiche e le conseguenze
dei mutamenti che influiranno sul bisogno
di servizi sanitari
effettuate in Europa e successivamente, dalla metà del XX
secolo, nei Paesi in via di sviluppo. Tale modello di transizione epidemiologica spiega
il calendario di crescita della
popolazione mondiale. La
transizione demografica europea, iniziata nel XVIII seco-
lo, ha provocato una forte
crescita della popolazione e,
in secondo luogo, l’espansione economica e coloniale dell’Europa. Similmente, la transizione in corso nei Paesi in
via di sviluppo spiega la crescita della popolazione mondiale; è sempre questo para-
Fig. 1 - Transizioni
demografiche:
Svezia (1735-2000)
e Isole Mauritius (1900-2000)
(fonte: ref. (2)).
N. 149 - 2005
digma che ne fa prevedere
una stabilizzazione intorno ai
10 miliardi d’individui verso
il 2050 e ai 9 miliardi verso il
2300 (1).
Tra il modello storico di transizione europea e il modello
attualmente in corso a livello
mondiale, la principale differenza consiste nella rapidità
del cambiamento: mentre nel
Regno Unito la transizione
epidemiologica è durata circa
due secoli (dal 1720 al 1920),
quelle in corso nei Paesi in
via di sviluppo sono molto
più brevi, dell’ordine di qualche decina di anni.
La Figura 1 riassume e illustra
alcuni aspetti della transizione epidemiologica in due
Paesi: la Svezia e l’isola Mauritius. Il grafico mostra le similitudini del fenomeno, ovvero il passaggio tra i due
stati di equilibrio della mortalità e della natalità, e lo
“sganciamento” della mortalità seguito da quello della
natalità. Questo grafico mostra anche le differenze, la
principale delle quali è la rapidità della transizione nei
Paesi in via di sviluppo, con
una velocità straordinaria di
caduta della mortalità nell’Isola Mauritius.
Transizione epidemiologica
La transizione epidemiologica
descrive le trasformazioni
Regione
Anni
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
della morbilità e della mortalità che sopraggiungono con
la transizione demografica.
Tale transizione fa passare
una popolazione da un regime di mortalità precoce e irregolare a un regime di mortalità tardiva e regolare. La
trasformazione della mortalità testimonia un cambiamento della morbilità, che
passa da una situazione epidemiologica dominata da malattie infettive rapidamente
letali, a una situazione dominata da malattie croniche e
degenerative che sopraggiungono tardivamente ed evolvono in modo cronico.
È a Omran (3) che dobbiamo il
paradigma di questa transizione per i Paesi sviluppati.
Tale transizione è spiegata da
un doppio meccanismo: da
una parte, l’invecchiamento
della popolazione induce un
aumento del numero di persone che hanno più di 40 o
50 anni e che, quindi, hanno
raggiunto l’età a partire dalla
quale si manifestano le malattie degenerative. Dall’altra, la comparsa e la crescita
dei fattori di rischio legati all’industrializzazione, all’urbanizzazione o all’adozione di
nuovi stili di vita quali la sedentarietà, il tabagismo, l’aumento del consumo di grassi
saturi e di sale, ecc., favoriscono l’aumento delle malat-
tie degenerative.
La transizione epidemiologica
predice anche la sequenza in
cui compaiono le malattie degenerative: in un primo momento appaiono le malattie
cerebrovascolari (nella forma
emorragica e poi trombotica),
in seguito le cardiopatie
ischemiche e, infine, i cancri.
L’ordine di questa sequenza è
determinato dalla durata
d’incubazione delle malattie
la cui comparsa è almeno parzialmente sottoposta a un
fattore di rischio: l’aumento
del tabagismo, ad esempio,
induce più rapidamente l’aumento dell’incidenza delle
cardiopatie ischemiche che
quello del cancro al polmone.
Oltre alle malattie cardiovascolari e ai cancri, non dobbiamo dimenticare le altre
malattie degenerative: prime
fra tutte le malattie neuropsichiatriche e le malattie
dell’apparato locomotore. In
effetti, la depressione (per le
malattie neuropsichiatriche)
e l’artrosi (per le malattie
dell’apparato locomotore) aumentano rapidamente con
l’età e, tra l’altro, hanno importanti conseguenze sulla
qualità della vita degli individui. Le previsioni riguardanti
l’evoluzione del peso delle affezioni da qui al 2020, mostrano una crescita considerevole delle depressioni mag-
Dimensione
della popolazione
(x 1000)
Mortalità
totale
(x 1000)
Mortalità
cardiovascolare
(x 1000)
Proporzione
MCV/totale
Paesi industrializzati
(economie di mercato)
1990
2020
798.000
905.000
7.121
8.651
3.175
3.663
44,6%
43,3%
Paesi in via di sviluppo
1990
4.123.000
39.554
9.081
23,0%
2020
6.574.000
54.832
18.542
33,8%
Sae l ute
Territorio 91
giori.
Il ritmo della transizione epidemiologica è ampiamente
determinato da quello della
transizione demografica, di
conseguenza, il ritmo di comparsa delle malattie croniche
nei Paesi in via di sviluppo è
molto più rapido di quello osservato nei Paesi sviluppati:
mentre questi ultimi hanno
avuto il tempo di eliminare le
malattie trasmissibili prima di
affrontare le malattie degenerative, molti dei Paesi in via di
sviluppo oggi devono confrontarsi con un double burden of diseases, nel quale la
situazione epidemiologica assomma una forte prevalenza
di malattie trasmissibili (malaria, tubercolosi, ecc.) a un
rapido aumento di malattie
cardiovascolari, in particolare
di casi cerebrovascolari.
Un’altra determinante del ritmo della transizione epidemiologica è la globalizzazione dei fattori di rischio. Tale
globalizzazione è rapida e si
accelera sulla scia della generalizzazione del libero scambio. La globalizzazione degli
scambi riguarda infatti i prodotti (il tabacco, l’alcol, la
carne), la diversificazione dei
prodotti alimentari e anche
degli stili di vita, come la sessualità o la sedentarietà. Tra
gli altri, un elemento essenziale della globalizzazione è
Tabella 1 - Mortalità totale
e cardiovascolare nei paesi
sviluppati e nei paesi in via
di sviluppo, 1990 e 2020 (4).
l ute
Sa
e
92 Territorio
l’urbanizzazione del mondo
che trasforma profondamente
la circolazione degli individui, delle merci e dei servizi.
La Tabella 1 presenta le stime
globali della mortalità cardiovascolare nel 1990 e nel
2020: anche se in proporzione la mortalità causata da
malattie cardiovascolari è inferiore nei Paesi in via di sviluppo rispetto ai Paesi sviluppati, il numero totale dei decessi dovuti alle malattie cardiovascolari è ampiamente
superiore nei primi (9 milioni
l’anno) rispetto ai secondi (3
milioni nel 1990). Nel quadro
della transizione tra il 1990 e
il 2020, si prevede che tale
proporzione di decessi raddoppierà nei Paesi in via di
sviluppo mentre diminuirà
nei Paesi sviluppati.
Transizione sanitaria
Conviene riservare il termine
transizione sanitaria alla risposta del sistema sanitario ai
bisogni nati dalla transizione
epidemiologica. Tale risposta
riguarda principalmente la
trasformazione delle attività
che permettono di curare,
diagnosticare e prevenire le
affezioni croniche piuttosto
che le malattie infettive. Si
tratta, quindi, di modificare
le attrezzature sanitarie e la
formazione del personale sanitario, cosa che presume notevoli investimenti di capitale
e di tempo. Questo presuppone anche dei grossi sforzi nella guida del sistema sanitario
i cui elementi agiscono con
una forte inerzia.
Considerando la sequenza in
cui compaiono le malattie degenerative, la sfida maggiore
è preparare la risposta clinica
e della sanità pubblica a que-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
sto gruppo specifico di malattie (5,6): ecco perché, nei Paesi con deboli risorse sanitarie,
la riflessione sulle modalità
di cura e di diagnosi deve accelerare per trovare soluzioni
accettabili.
È in questa stessa prospettiva
che vengono fatti molti sforzi
per identificare e mettere a
punto delle strategie preventive efficaci. In Africa, ad
esempio, è oggi appurato che
vi sia un’elevata prevalenza
di molti fattori di rischio cardiovascolare ( 7). È il caso in
particolare dell’ipertensione,
molto frequente in numerosi
Paesi (8), compresi i Paesi ancora all’inizio della loro transizione epidemiologica, come
i quartieri popolari di Dar es
Salaam.
Ecco perché la messa a punto
di strategie di individuazione
e di raccomandazioni cliniche
di cura è fondamentale, compresa l’analisi critica del trattamento non farmacologico
dell’ipertensione (9, 10). Quest’ultimo punto è importante
nella prospettiva di raccomandazioni rivolte all’insieme della popolazione. Infatti,
la cura farmacologia delle
persone ipertese comporta
delle difficoltà pratiche (11):
gli obiettivi conformi alle
raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità ( 12 ) vengono raggiunti
solo da una piccola minoranza di pazienti, in parte a causa della complicanza alla cura
(13, 14). Ecco perché è in corso
un vivo dibattito tra coloro
che propongono di generalizzare le cure anti-ipertensione
(14, 15) e coloro che le ricusano a causa della loro debole
efficacia e del loro cattivo
rendimento economico (16).
Le strategie preventive che si
rivolgono all’insieme della
popolazione (e non solo alle
persone a rischio, ad esempio
quelle che sono ipertese) sono inizialmente più vantaggiose perché più efficaci e più
economiche. Modificazioni
virtuose dell’ambiente (ad
esempio, la diminuzione della
dose alimentare di sale) e degli stili di vita (ad esempio, il
mantenimento dell’esercizio
fisico) potrebbero avere un
impatto considerevole. L’applicazione di tali strategie nei
bambini riesce a realizzare
una prevenzione primordiale,
ovvero a prevenire la comparsa degli stessi fattori di rischio. Inoltre, il rapporto costo-beneficio di queste misure (educazione, legislazione)
è spesso favorevole, se paragonato con quello degli interventi basati sul rischio. Le
strategie che riguardano intere popolazioni propongono a
ogni individuo dei piccoli traguardi, ma portano dei benefici considerevoli a livello della popolazione. Ad esempio,
una diminuzione di 5 mmHg
della pressione sistolica nell’insieme della popolazione
può portare a una riduzione
del 9% della mortalità coronarica e del 14% della mortalità dovuta a malattie cerebrovascolari.
Alcuni studi hanno dimostrato una diminuzione dell’incidenza dell’ipertensione in seguito a interventi sulla popolazione per migliorare gli stili
di vita e le abitudini alimentari (9, 10). Questi interventi
includono misure di educazione alla salute, di empowerment, legislative e fiscali per
favorire un’alimentazione sana, una regolare attività fisi-
N. 149 - 2005
ca e l’astensione dal tabagismo. Tali interventi sono generalmente multifattoriali
per natura e hanno quindi il
vantaggio di poter portare a
una riduzione di diversi fattori di rischio alla volta. Le
misure che favoriscono una
limitazione del consumo di
sale e incoraggiano la pratica
regolare dell’attività fisica
sono particolarmente adatte
a ridurre la pressione arteriosa nella popolazione.
Un altro aspetto della transizione sanitaria riguarda il
cambiamento del sistema di
finanziamento dei servizi sanitari. Come sappiamo, nei
Paesi in via di sviluppo il budget pro capite è spesso drammaticamente basso (10 USD
l’anno pro capite in Tanzania,
rispetto ai 3000 USD in Svizzera); tali risorse sono quindi
incapaci di coprire i costi per
la cura delle malattie croniche. Ecco perché le nuove
strategie di finanziamento dei
sistemi sanitari sono uno degli aspetti cruciali della transizione sanitaria: queste strategie devono riuscire sia a aumentare l’apporto finanziario
disponibile per le cure, sia ad
organizzare il finanziamento
in modo da favorire i problemi
prioritari (17). Retrospettivamente, è quello che è successo nei Paesi più sviluppati:
l’arrivo delle malattie croniche ha imposto una trasformazione dei sistemi assicurativi in modo da permettere loro di occuparsi delle cure a
lunga durata. Attualmente,
nei Paesi in via di sviluppo sono in corso numerose esperienze, una parte delle quali
alimenta un necessario dibattito sull’organizzazione del sistema sanitario.
N. 149 - 2005
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Sae l ute
Territorio 93
Fig. 2 - Evoluzione del numero
di persone che hanno 100 anni
e oltre. Svizzera, 1860-2000
(censimenti federali).
In generale, questi due aspetti (riorganizzazione delle
strategie di cura e riorganizzazione del finanziamento
delle cure) meritano di essere
l’oggetto di studi accurati e
intensivi da parte dei Paesi in
via di sviluppo (18).
Cosa sappiamo della situazione post-transizionale?
Uno degli aspetti ancora in
corso di ricerca è il sapere in
quale modo si comporteranno
le popolazioni che avranno
terminato il loro ciclo di trasformazione verso le malattie
croniche. I principali elementi di cui disponiamo provengono dalle analisi di mortalità svolte nei Paesi che hanno una speranza di vita molto
alta, o da indagini sanitarie
riguardanti persone molto
anziane, anche se quest’ultima tipologia di informazioni
è raramente disponibile.
In compenso, i dati di mortalità indicano la recente evoluzione: la Figura 2 mostra il
forte aumento del numero di
centenari in Svizzera durante
gli ultimi 150 anni. I primi
centenari dall’età certificabile appaiono intorno al 1950,
questo fa supporre che in tali
anni si sia verificato un avvenimento specifico in alcune
schiere di nascite: durante la
loro vita di bambini o di adulti (ad esempio, una migliore
nutrizione) oppure durante
la loro vecchiaia (ad esempio,
assicurazione sociale) (19).
È importante notare che l’aumento del numero dei centenari è attribuibile essenzialmente a una forte diminuzione della mortalità superata
l’età di 80 anni. Questa situazione si ritrova in molti Paesi
europei e in Giappone, ed in-
dica almeno due prospettive
per la situazione post-transizionale: quella dei nonagenari e quella dei centenari e oltre. Questa popolazione non è
ben conosciuta, poiché fino
ad oggi non aveva mai avuto
una grandezza sufficiente per
essere studiata in termini
epidemiologici. D’altra parte,
essa deriva da una diminuzione della mortalità tardiva
(dopo gli 80 anni), cosa che
fa pensare che tali superstiti
beneficino di un elevato livello di salute.
Una delle sfide della ricerca
attuale è quella di sapere se
esiste una durata massima
della vita nella specie umana.
In questo caso, il periodo post-transizionale sarà abbastanza naturalmente limitato
verso l’alto. La durata massima osservata è di 122 anni e
una stima recente, effettuata
in Svizzera, fa pensare che la
durata massima si situerebbe
nelle donne tra i 111 e i 123
anni (20). Alcune osservazioni
eseguite in Svizzera (20) e nei
Paesi Bassi (21) sono compatibili con questa ipotesi detta
di “rettangolarizzazione” della curva di sopravvivenza.
Se, in compenso, tale ipotesi
non dovesse essere confermata, si aprirebbe una prospettiva imprevedibile riguardante
l’evoluzione futura della durata della vita e dello stato di
salute delle persone molto
anziane. Ad ogni modo, un
nuovo campo di ricerca si è
aperto nei Paesi caratterizzati
da una debole mortalità, per
conoscere gli aspetti demografici, epidemiologici e sanitari (22) di questa situazione
post-transizionale interamente nuova nella storia umana.
(segue a pag. 101)
l ute
Sa
e
94 Territorio
Rudolf Schoenhuber
UO Neurologia, Bolzano
L
a medicina moderna, basata sulle scienze naturali e sullo sviluppo della
tecnologia, ha contribuito
enormemente al miglioramento della qualità e durata della
vita media. A partire dalla fine del 1700, l’uso del microscopio ha permesso l’identificazione degli elementi costituenti il corpo umano, la chimica e la fisiologia di svelare i
meccanismi del suo funzionamento e la farmacologia sperimentale ha aperto la strada
per modificare il decorso di alcune malattie che colpiscono
l’uomo. Più recentemente, l’imaging permette diagnosi
sempre più precoci e la terapia
intensiva aumenta la probabilità di sopravvivenza di pazienti con malattie e lesioni in
passato mortali.
La medicina si è finora organizzata per poter fornire queste prestazioni in linea col
modello industriale dello sviluppo degli Ospedali, basato
sulla divisione del lavoro e
della specializzazione, e perciò strutturati in divisioni
specialistiche, con personale,
apparecchiature e ambiti di
degenza riservati ai vari tipi
di patologia. Oggi, per lo sviluppo tecnologico, la diagnosi
viene posta spesso in ambulatorio, il ricovero viene considerato appropriato solo se
l’intensità dell’assistenza ero-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Scenario “planning”
gata lo rende necessario e, per
lo scarso comfort alberghiero
dei nostri Ospedali, lo stesso
paziente preferisce essere curato ambulatoriamente.
Nonostante il maggiore orientamento al paziente, l’attenzione a criteri di efficacia e di
efficienza e di qualità delle
prestazioni è oggi esperienza
comune la paradossale crescita del numero di persone
preoccupate per la salute, ma
non per questo malate, che
sempre più si rivolgono alla
medicina non convenzionale.
Nel contempo, per curare sempre meno persone sempre più
malate, aumentano in modo
sproporzionato i costi ed i medici stentano sempre più a
trovare soddisfazione nel loro
lavoro (Le Fanu, 1999).
Può la sanità italiana, prevalentemente ospedaliera, rispondere ai bisogni della popolazione assistita con tale modello organizzativo? Se si volesse pensare ad un cambiamento, in quale direzione si
dovrebbe andare? Ci si può preparare alle sfide del futuro in
modo adeguato? Basta prolungare le linee di tendenza della
attuale realtà ospedaliera, prevedendo semplicemente più ictus, più dementi e più parkinsoniani perché la popolazione
invecchia? O bisogna essere
pronti ad affrontare situazioni
completamente diverse?
Una tecnica gestionale basata sulla previsione
di eventi futuri
La tecnica di pianificazione
per scenari
Da circa 200.000 anni l’“homo
sapiens” usa strumenti, conosce il fuoco e decora gli oggetti. Per la sua capacità di risolvere problemi da allora
l’uomo si è diffuso in tutto il
mondo, spingendosi addirittura sulla luna. Ancora oggi
quasi tutti i problemi vengono risolti inconsapevolmente,
senza riflessione, con soluzioni fra loro diverse e delle quali
solo l’eventuale successo ne
decreta la sopravvivenza e il
suo inserimento nel repertorio culturale. Relativamente
recente è l’interesse per la sistematica della risoluzione di
problemi, come ci indica la
storia della scienza. Ci sono
stati sì i filosofi della natura
greci, ma solo nel Seicento
con Galilei si è cominciato ad
utilizzare un approccio formale esplicito, conosciuto come metodo scientifico, che ha
portato all’esplosione delle
conoscenze. Il metodo scientifico si basa sulla concezione
di un modo regolare, prevedibile e perciò potenzialmente
sotto controllo. Fra le tecniche di previsione abbondano
quelle quantitative. Fornire
un modello matematico della
realtà e modificare le variabili
in ingresso per poter vedere
che cosa accadrebbe se … è
l’esperienza che ognuno di
noi ha praticamente ogni
giorno davanti ad un foglio di
calcolo tipo Excel. Fra le varie
tecniche quantitative si possono ricordare i modelli di
estrapolazione, le reti neurali,
i modelli causali.
In molti problemi più complessi soluzioni matematiche
non sono utilizzabili, perché
sono tuttora sconosciute le
variabili o la loro interazione.
In questi casi si utilizzano
metodiche qualitative basate
sul giudizio e sulle opinioni,
come ad esempio la tecnica di
Delfi, dei ruoli, la simulazione e, appunto, gli scenari.
La tecnica dello scenario planning è stata sviluppata all’interno del gruppo petrolchimico Shell-Royal Dutch a partire
degli anni 70 (Wack, 1985) ed
è stata utilizzata per lo sviluppo di strategie adatte a rispondere ad evenienze future
anche mutuamente incompatibili. Si tratta di un processo
iterativo di analisi dei possibi-
N. 149 - 2005
li trend di sviluppo economico, politico, tecnologico e sociale, identificandone i più
probabili per la costruzione di
possibili “futuri”, basati su
elementi predeterminati facilmente prevedibili (invecchiamento della popolazione,
proiezioni economiche e di
mercato) e discontinuità maggiori, più difficili da concepire, ma con maggiore impatto,
se dovessero accadere.
Su queste ipotetiche situazioni, gli scenari, vengono
poi elaborate le strategie, valutando quali strutture e
quali processi si dovranno
programmare per ottenere i
diversi risultati prevedibili e,
soprattutto, quali competenze saranno necessarie e come
queste già da oggi si possano
acquisire.
Il metodo di pianificazione
degli scenari è ormai diventata una tecnica gestionale riconosciuta, che permette l’analisi di situazioni complesse
e l’elaborazione di possibili
alternative strategiche in modo da garantire il massimo
contributo e la massima partecipazione da parte di gruppi
di dirigenti o persone comunque interessate al problema.
La pianificazione di scenari in
una delle sue forme più strutturate avviene in 8 passi: in
sequenza si scopre e si ridefinisce il problema, si raccoglie
il massimo di informazioni disponibili, si identificano le
principali forze attive nello
scenario e si scoprono le forze
predeterminate (che cambieranno in modo prevedibile), si
identificano le incertezze (le
forze sui cui la previsione è
più difficile) e su questi dati
si compongono gli scenari (almeno 3-4 fra di loro incompa-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
tibili) per poter poi analizzare
le implicazioni delle decisioni
da prendere in ognuno degli
scenari proposti. Infine, vengono definiti i principali indicatori per riconoscere man
mano lo scenario più vicino
alla realtà (Schwartz, 1996).
“HealthCast 2010: un mondo
più piccolo, aspettative più
grandi” è il risultato di interviste a decine di esperti fatte
da PriceWaterhouseCoopers 5
anni fa. Si tratta di un’analisi
delle forze di cambiamento,
delle tendenze future che influenzeranno la sanità nel
mondo, e le conseguenti implicazioni per costruire scenari. Oggi, nel 2005, a metà
del periodo coperto, possiamo
verificare le previsioni e utilizzare tali dati nella discussione sulla ristrutturazione
della neurologia italiana.
Tre sono le forze di cambiamento identificate in HealthCast 2010: consumatori più
edotti e più consapevoli che
generano pazienti più impazienti; lo sviluppo ulteriore
dell’informatica e la genomica che sposterà l’attenzione
dalla cura alla prevenzione.
Prevedibili tendenze future
sono la convergenza dei sistemi di finanziamento della
spesa sanitaria, la standardizzazione dei processi diagnostico-terapeutici, la necessita
del personale sanitario di
adattarsi alla tecnologia, al
consumismo e alla difficoltà
delle scelte etiche derivanti.
Ciò implica che i pazienti pretenderanno di più, ma non
saranno disposti a pagare di
più. La concorrenza fra gli
erogatori di prestazioni sanitarie sarà spietata, basata su
criteri di efficacia, qualità e
orientamento al paziente e
dovrà tener conto dell’e-business. Saranno vincenti le organizzazioni più vicine ai pazienti, con elevata qualità di
servizio e minimi tempi di attesa, e che si faranno meglio
conoscere attraverso il branding. Forti investimenti saranno necessari per la riqualificazione del personale.
Scenari per la sanità italiana
Molte di tali previsioni si sono
già avverate, la risposta dei
professionisti e dei sistemi
che erogano prestazioni sanitarie nel nostro Paese continua a non recepire i messaggi
del mercato. La mancanza di
infermieri e il calo complessivo degli studenti di medicina
suggerisce un’assistenza diversa per i pazienti, meno legata alla degenza ospedaliera.
Per programmare fin d’ora le
risorse umane e strutturali bisogna identificare le competenze necessarie per fornire
prestazioni adeguate, il numero di professionisti necessari
ed il modello di formazione
specialistica adatto a produrre
i medici necessari nel prossimo futuro e che risponda agli
scenari proposti. Tenendo
conto delle possibili evoluzioni demografiche, politiche,
economiche e sociali si deve
fin d’ora prepararsi alle modalità di erogazione delle prestazioni adeguate al bisogno in
strutture a varia tipologia e
distribuzione sul territorio.
Tenendo per buone le analisi
precedentemente fatte sui
fattori predeterminati (invecchiamento della popolazione,
sviluppo tecnologico ecc.) e
applicando la tecnica degli
scenari, cerchiamo ora di figurarci 4 situazioni alternative
nelle quali le due forze inde-
Sae l ute
Territorio 95
terminate principali, il potere
dei consumatori e l’informatica, assumono valori diversi. Il
consumatore potrebbe essere
informato e organizzato scarsamente come oggi, in alternativa è facile prevedere un
aumento delle conoscenze generali nella popolazione, la disponibilità di informazione di
buona qualità utilizzabile individualmente al momento del
bisogno attraverso la diffusione di Internet, dei palmari, di
bluetooth, oppure attraverso
broker di organizzazioni del
volontariato o for profit che
seguono i potenziali pazienti
e ne curano gli interessi come
case manager. Una maggiore
informatizzazione della sanità
ridurrà la variabilità del comportamento con una sempre
maggiore standardizzazione
dei comportamenti medici, attraverso l’uso di protocolli e linee guida scelte forse su criteri esclusivamente economici.
Il maggiore controllo e la conseguente riduzione del ruolo
professionale aumenta il potere del management, in controtendenza avremmo legislazioni sulla privacy che favoriscono l’autonomia professionale.
In tali ambiti potrebbero avvenire cambiamenti dirompenti, con discontinuità maggiori, che obbligheranno ad
adattamenti marcati.
Più prevedibile è il maggiore
bisogno di assistenza di pazienti più anziani con le tipiche patologie vascolari o degenerative di quel gruppo di
età. Qual è il beneficio specifico che un sistema sanitario
basato prevalentemente sugli
specialisti e sul ricovero
ospedaliero può offrire loro e
quali potrebbero essere le alternative?
l ute
Sa
e
96 Territorio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Se incrociamo le due forze
principali, informatizzazione
e controllo da parte del consumatore, dobbiamo preparaci a quattro futuri fra di loro
incompatibili: un futuro simile a quello attuale (poca
informatizzazione e poco potere dei consumatori), un futuro con il massimo controllo
su di noi da parte di consumatori e management, un futuro con consumatori sempre
più forti, ma controlli modesti ed, infine, un futuro sotto
il controllo dell’informazione,
ma con utenti deboli.
In ognuna di queste 4 realtà
sono diversi ruolo, potere,
possibilità di guadagno e di
carriera, ma anche conoscenze, abilità ed attitudini necessarie per sopravvivere. Perfino
le competenze necessarie per
la continuità del modello assistenziale odierno non sono
quelle degli attuali medici
ospedalieri in crisi, né degli
specialisti ambulatoriali.
Strutture autonome con letti,
reparti, infermieri e tecnici
non sono previsti in nessuno
dei futuri prospettati, eccetto nell’improbabile estensione del presente.
Nello scenario di un maggiore
potere informatico-amministrativo, l’attuale tendenza
alla riduzione dei costi si farà
sempre più sentire, ben oltre
alla riduzione di sprechi ingiustificati. Sempre più verrà
posta la domanda se stiamo
proponendo le soluzioni giuste o se non esista un modo
per risolvere i problemi della
grande maggioranza della popolazione, che non necessita
di interventi di grande complessità, in un modo più semplice, più economico, addirittura erogato da figure professionali non mediche. Il concetto di disruptive innovation,
o innovazione dirompente
(Christensen et al., 2000) è
già stata applicata alla sanità.
In tale scenario il numero dei
posti letto per acuti scenderà,
i medici si limiteranno ad essere utilizzati per quelle prestazioni per i quali è necessaria la formazione prescritta,
altre figure professionali con
una formazione meno costosa
prenderanno il loro posto in
gran parte delle attuali attività del medico.
Nello scenario del massimo
potere del consumatore il ruolo professionale, di agenzia
per il paziente deve essere ridiscusso. In qualità di agente,
il medico gode tuttora di un
ruolo privilegiato nella società
perché ha subìto un lungo periodo di formazione ed apprendistato per imparare ad
agire in modo disinteressato
nel miglior interesse dei suoi
assistiti. Tale ruolo si è progressivamente eroso e la risposta dei consumatori ne è la
prova. Non è certo il ritorno al
paternalismo che potrà risolvere tale problema, semmai la
riconquista della mente e del
cuore dei pazienti, attraverso
atti concreti di riorganizzazione della professione.
Il quarto scenario, forse il più
probabile, prevede non solo
sati su previsioni poco corrette, proposte dai professionisti e accettate dai politici:
l’acquisto e la dislocazione
delle grandi apparecchiature,
l’apertura di servizi ospedalieri la cui funzione non è in
relazione ai dati epidemiologici e, in genere, l’ingiustificabile mantenimento dei piccoli Ospedali, la resistenza ad
accettare la loro trasformazione in strutture residenziali per persone che hanno perso la loro indipendenza.
Prepararsi e proporre soluzioni ragionevoli per il futuro
non è ancora diffuso in sanità. I professionisti della sanità dovrebbero affrontare i
problemi gestionali nei quali
sono sempre più coinvolti
con minore miopia. Aggrapparsi ad una sola soluzione,
accettata acriticamente, ma
con ostinazione, senza comprendere le ragioni del mercato e della competizione, può
rendere rapidamente obsoleto, non solo una tecnica ma
addirittura un’intera disciplina. L’utilizzazione di tecniche di previsione e programmazione da parte dei professionisti è indispensabile per
la sopravvivenza dello stesso
ruolo professionale: sono gli
stessi medici che devono capire le forze che agiscono su
di loro, i possibili trend e valutare le opportunità di sopravvivere nelle mutate condizioni, adattando tempestivamente la loro offerta per
anticipare i bisogni emergenti della popolazione assistita.
Bibliografia
Christensen C.M., Bohmer R., Kenagy J., Will disruptive innovation cure health care?, Harv Bus Rev 78: 102-12, 2000.
HealthCast 2010, http://www.pwchealth.com/healthcast2010.html
un’iniziale maggiore proletarizzazione degli attuali professionisti della sanità, quantitativamente in eccesso per
le richieste attuali, ma anche
la contemporanea ascesa di
figure professionali nuove,
con una formazione professionale minore e diversa, e atta a dare risposte più dirette,
più semplici e, soprattutto,
meno costose ai bisogni della
popolazione, e che si adattino
ai sempre più stretti controlli
o invece – anche per malattie
serie – agiscano nel mal definito mercato del wellbeing.
Dovremmo infine analizzare le
implicazioni delle decisioni da
prendere in ogni scenario e definire gli indicatori che ci permetteranno di capire gli scostamenti dai vari scenari e di
adattarci più tempestivamente
allo scenario più realistico.
Conclusioni
La modalità di erogazione di
servizi sanitari dipende da
molti fattori, tutti in continua evoluzione. Il sistema più
adatto alla situazione attuale
potrà essere poco efficiente
domani e si dovrà adattare alle nuove condizioni. Sistemi
inefficienti vengono progressivamente emarginati e scompaiono. Manovre politiche o
la resistenza dei singoli professionisti direttamente interessati non possono fare altro
che rallentare questo processo inesorabile.
Nel recente passato abbiamo
già avuto degli esempi poco
felici di forti investimenti ba-
Le Fanu J., The rise and fall of modern medicine, Little Brown, London,
1999.
Schwartz P., The art of the long view: Planning for the future in an uncertain world, Currency Doubleday, New York, 1996.
Wack P., Scenarios: unchartered waters ahead, Harv Bus Rev 73-89,
1985.
N. 149 - 2005
Lorenzo Roti*
Emanuele Gori**
Sandra Gostinicchi**
Gavino Maciocco***
* Agenzia regionale di sanità,
Regione Toscana
** Azienda sanitaria di Firenze
*** Dipartimento di sanità
pubblica, Università di Firenze
H
a destato un grande
interesse e una forte
impressione (soprattutto in Gran Bretagna) la
pubblicazione di una serie di
articoli sul British Medical
Journal (BMJ) dedicata al
confronto tra Kaiser permanente e National Health Service (NHS). Il primo esce nel
gennaio 20021 e porta la firma di Richard G A Feachem,
un eminente personaggio
della sanità pubblica inglese
– già direttore della London
School of Hygiene and Tropical
Medicine – trasferitosi, dopo
un passaggio all’OMS, all’Università della California a dirigere l’Institute for Global
Health. Le conclusioni dell’articolo sono un pugno nello
stomaco per i tanti estimatori
del NHS: “La popolare idea
che il NHS è efficiente e che
la scarsa performance in certe
aree è giustificata dai bassi
investimenti non è supportata da questa ricerca. Kaiser
ottiene prestazioni migliori a
un costo approssimativamente simile a quello del NHS
grazie a un forte integrazione
all’interno del sistema, a
un’efficiente gestione dell’u1
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Sae l ute
Territorio 97
Innovazione e qualità
dell’assistenza
so degli Ospedali, ai benefici
della competizione e a maggiori investimenti nell’information technology”. L’operazione più complessa e ardita
dell’articolo è la comparazione dei costi tra il NHS, un sistema universalistico che assiste l’intera popolazione del
Regno Unito (59.5 milioni di
abitanti), e Kaiser California,
una HMO “non profit” che assiste attraverso un meccanismo assicurativo solo una
piccola parte della popolazione americana (6.1 milioni di
abitanti). Una comparazione
resa possibile attraverso una
serie di standardizzazioni:
per età (la popolazione britannica è molto più anziana),
per condizioni socio-economiche (il NHS assistendo tutta la popolazione si fa carico
delle fasce più povere e dei
gruppi più svantaggiati,
mentre la quasi totalità della
popolazione assistita da Kaiser è rappresentata da lavoratori dipendenti e dalle loro
famiglie), per potere di acquisto (i servizi sanitari americani sono il 52% più cari di
quelli britannici). La conclusione – after adjustments – è
“Kaiser Permanente” e “Chronic Care Model”:
due organizzazioni sanitarie a confronto
che il costo pro-capite è per il
NHS (2000/2001) di $1764,
mentre per Kaiser California
$1951, solo il 10% in più.
Conclusioni fortemente contestate da un recente articolo
comparso su British Journal
of General Practice2, firmato
tra gli altri da Allyson M Pollock, una combattiva esperta
di politica sanitaria, che correggendo le standardizzazioni arriva alla conclusione che
i costi pro-capite di Kaiser
California sono del 40% più
elevati di quelli del NHS
($1951 vs $1161).
Meno esposto alle contestazioni è invece il confronto
sulla struttura e sulla performance. In generale Kaiser
registra risultati simili o migliori rispetto al NHS. Ciò che
appare evidente è una struttura delle cure primarie molto
più robusta, compatta e attrezzata da parte di Kaiser,
con tempi di attesa più ridotti, più attenzione alle esigen-
ze dei pazienti, una maggiore
disponibilità di specialisti.
Ma l’aspetto certamente più
sorprendente è il minore utilizzo (di ben due terzi! – 327
vs 1000 giornate di degenza
per 1000 abitanti) dei letti
ospedalieri da parte degli assistiti di Kaiser. Il successo di
Kaiser risiede soprattutto
nella capacità di limitare il ricorso all’Ospedale (minori
ammissioni) e l’uso dell’Ospedale (degenze più brevi). “Limitare il numero dei letti –
sostengono Feachem & coll. –
permette di liberare grandi
somme di denaro per finanziare strutture di cure primarie comode e comprensive,
Centri di chirurgia ambulatoriale, il miglioramento dell’information technology, e
altre iniziative. Inoltre le
scarse risorse cliniche (come i
medici e gli infermieri) possono essere più efficacemente utilizzate per la prevenzione, per la gestione delle ma-
R.G.A. Feachem, N.K. Sekhri, K.L. White, Getting more for their dollar: a comparison of the NHS with California’s Kaiser Permanente, BMJ
2002, 324: 135-43.
2 A. Talbot-Smith, S. Gnami, A.M. Pollock, D. Pereira Gray, Questioning the claims from Kaiser, British Journal of General Practice 2004, 54,
415-421.
l ute
Sa
e
98 Territorio
lattie croniche, per l’assistenza domiciliare, per servizi di
supporto per mantenere sane
le persone e renderle funzionalmente indipendenti”. Ed
ecco la stoccata rivolta al
NHS: “Se il NHS avesse lo
stesso utilizzo degli Ospedali
di Kaiser potrebbe risparmiare fino a 40 milioni di giornate di degenza, equivalenti a
10 miliardi di sterline (circa
15 miliardi di Euro). Risparmi
che rappresentano più del
17% del budget del NHS e che
potrebbero essere più utilmente spesi per migliorare gli
stipendi del personale, per
migliorare le strutture e le attrezzature, per migliorare
l’information technology. Kaiser, come la maggior parte
delle organizzazioni sanitarie
americane, rivolge più attenzione e destina più risorse
per monitorare i ricoveri
ospedalieri, per ridurre la durata di degenza, per creare
programmi di gestione delle
malattie croniche, per tenere
aperti gli studi medici la notte e i weekend, per ridurre il
ricorso ai Dipartimenti di
emergenza nelle situazioni
che non lo richiedono”.
Il secondo paper della serie
esce nel novembre 20033, ed
è opera di un gruppo di inglesi, guidati da Chris Ham, direttore dell’Unità strategica
del Ministero della sanità. Li
spinge evidentemente la curiosità di approfondire le dinamiche che rendono possibile a Kaiser di contenere a livelli così bassi l’utilizzo degli
Ospedali. Lo studio riguarda
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
oltre i ricoveri ospedalieri
(per le 11 principali cause di
ricovero) dei pazienti ultrasessantacinquenni di Kaiser,
anche il complesso degli assistiti di Medicare (Programma
federale di assistenza agli anziani) della California – confrontato con i dati del NHS,
ed arriva alle seguenti conclusioni: “L’utilizzazione dei
posti letto nel NHS per le 11
più importanti cause di ricovero è tre volte e mezzo superiore rispetto al tasso standardizzato di Kaiser e due
volte superiore rispetto al
tasso standardizzato di Medicare California, e più del 50%
superiore rispetto al tasso
standardizzato di Medicare in
tutti gli Stati Uniti. Kaiser
ottiene questi risultati attraverso una combinazione di
bassi tassi di ricovero e una
relativamente ridotta durata
di degenza. Il NHS può imparare molto dall’approccio integrato di Kaiser, da una particolare attenzione alla gestione delle malattie croniche, dall’enfasi riposta nel
self-care, dal ruolo delle cure
intermedie, e dalla motivazione mostrata dai medici
nello sviluppare questo modello di assistenza”.
L’articolo si basa non solo sull’analisi dei dati ospedalieri,
ma anche su visite alle strutture e interviste a manager e
professionisti di Kaiser effettuate in loco.
Due sono gli aspetti che Ham
& coll. evidenziano per spiegare il successo di Kaiser:
1. Il modello integrato di assistenza. In primo luogo,
una forte integrazione tra
cure primarie e secondarie.
Ciò consente ai pazienti di
muoversi facilmente tra
l’Ospedale e la comunità, o
verso le skilled nursing facilities (equivalenti alle
nostre RSA, ad alta intensività assistenziale infermieristica e riabilitativa). I
medici specialisti vengono
distaccati dall’Ospedale e
lavorano fianco a fianco
con i generalisti all’interno
di gruppi medici multidisciplinari. Gli specialisti
non ricevono alcun incentivo a ricoverare i pazienti
o a tenerli in Ospedale più
del tempo necessario, viceversa tutti i medici (specialisti e generalisti) ricevono incentivi se riescono
a minimizzare l’uso dell’Ospedale. Ed inoltre forte
integrazione tra prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Ciò è particolarmente evidente nella
gestione delle malattie
croniche, come nel caso
dello scompenso cardiaco e
dell’asma, dove l’assistenza
a questo tipo di pazienti è
erogata all’interno di una
cornice di linee guida basate su prove di efficacia e
attivamente gestita in tutti gli stadi della malattia.
2. La gestione dei processi assistenziali. L’uso di percorsi assistenziali (care
pathways) è utilizzato per
numerose patologie. Ad
esempio nel caso degli interventi di protesi d’anca e
di ginocchio nei protocolli
è specificato ciò che deve
N. 149 - 2005
avvenire ogni giorno di degenza ospedaliera; inoltre
una equipe di operatori è
dedicata all’organizzazione della dimissione per fare in modo che i pazienti
non rimangano nella
struttura oltre il necessario e contemporaneamente
si impegna a facilitare il
loro ritorno a casa, attraverso l’addestramento alla
self-care, il supporto di
personale a domicilio e la
disponibilità di un contatto telefonico per ogni necessità o consiglio. Le skilled nursing facilities entrano in gioco quando non è
possibile il rientro immediato a domicilio e giocano
un ruolo fondamentale
nella riduzione delle giornate di degenza.
Una riflessione conclusiva4
(per ora) sui due paper BMJ
la affida a due analisti indipendenti: un inglese, Michael
Dixon, presidente di NHS Alliance (l’istituzione che rappresenta la maggioranza dei
Primary Care Trust, le organizzazioni del NHS che gestiscono le cure primarie) e un
americano, Donald Light,
professore di sociologia all’università di Princeton, noto
estimatore dei sistemi sanitari universalistici e generalmente critico verso la sanità
USA. Il titolo dell’articolo
“Rendere il NHS più simile a
Kaiser Permanente” non lascia dubbi sulle conclusioni
degli autori: il Servizio sanitario nazionale britannico ha
diverse lezioni da apprendere
3 C. Ham, N. York, S. Such, R. Show, Hospital bed utilization in the NHS, Kaiser Permanente, and the US Medicare programme: analysis of routine data, BMJ 2003, 327: 1257-62.
4 D. Light, M. Dixon, Making the NHS more like Kaiser Permanente, BMJ 2004, 328: 763-5.
N. 149 - 2005
dalla HMO americana.
La prima e più importante lezione ha a che vedere con la
cultura e col tipo di clinical
governance che permeano
l’organizzazione di Kaiser, fin
dalle origini, da quando i medici erano reclutati sulla base
delle loro motivazioni, della
loro adesione all’idea del
mantenimento della salute e
dell’approccio integrato ai
problemi dei pazienti. “La
fondamentale lezione da Kaiser Permanente – affermano
Light & Dixon – è che i clinici
devono gestire i servizi – l’insieme di tutti i servizi – con
una responsabilità bottom line condivisa. I medici di Kaiser, sia i generalisti che gli
specialisti, hanno deciso che
il modo più efficace per allocare il loro budget condiviso,
in un’era di medicina specialistica sofisticata, è quello di
poter trattare i pazienti in
Centri sanitari multi-disciplinari e multi-specialistici dove
il team delle cure primarie lavora, pranza, e socializza con
gli infermieri e i medici specialisti, con i tecnici di laboratorio e di radiologia, e con
il team dei farmacisti. I pazienti scelgono il loro medico
di famiglia, ma in sede c’è la
possibilità di una rapida valutazione da parte dei più comuni specialisti o di un tempestivo ricorso agli accertamenti diagnostici. Recentemente questo tipo di approccio è integrato e potenziato
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
da un sistema informativo
elettronico condiviso da tutti
i professionisti.” La fedeltà,
poi, all’organizzazione: uno
non può servire due padroni,
soprattutto se il secondo padrone è il proprio portafoglio
(con una chiara allusione al
diffondersi della pratica privata tra gli specialisti inglesi). “I medici di Kaiser lavorano solo per Kaiser, ma allora
Kaiser compensa i suoi clinici
con i prezzi di mercato”. Il
NHS scarica le sue inefficienze e i suoi sprechi sui pazienti: pochi vengono trattati, i
più aspettano; sull’altro versante le inefficienze e gli
sprechi colpiscono il budget
di tutti i medici di Kaiser, che
condividono gli incentivi per
trattare i pazienti precocemente e velocemente.
La seconda lezione è la solida
integrazione tra cure primarie
e secondarie, con un unico
budget che incoraggia i medici a tenere i pazienti lontani
dall’Ospedale. Anche il NHS
promuove – sulla carta – un
tale tipo di integrazione affidando ai Primary Care Trust il
ruolo di committente nei
confronti degli Ospedali, anche attraverso l’elaborazione
di percorsi assistenziali condivisi, ma le tendenze attuali
vanno in una direzione molto
diversa. La politica di trasformare gli Ospedali in fondazioni, privatizzandoli, porterà a separare sempre più le
cure primarie da quelle se-
condarie. “Celebrare l’eccellenza è buona cosa, ma ci può
essere il pericolo nel rafforzare gli Ospedali prima che i
Primary Care Trust siano in
grado di sviluppare le loro capacità di committenza.” E,
infine, una critica a C. Ham,
stratega della politica sanitaria inglese e autore del secondo paper: “Di questi problemi
neanche una menzione nei
suoi rapporti”.
Gestire le malattie croniche
“Cosa possiamo imparare dall’esperienza americana?”
L’attenzione a quanto di meglio può esprimere la sanità
americana – sull’onda dei paper del BMJ – ha portato il
King’s Fund (www.kingsfund.
org.uk), la più prestigiosa
istituzione di ricerca britannica, a esplorare un campo
assolutamente centrale nell’organizzazione dei servizi
sanitari, quello della gestione
delle malattie croniche, anche in questo caso utilizzando il metodo del case study e
del confronto con quanto avviene nel NHS (con relative
raccomandazioni finali)5.
La scelta del tema, le malattie croniche, non è affatto casuale: il modello di organizzazione sanitaria elaborato
da Kaiser, basato sul potenziamento delle cure primarie,
su una forte integrazione tra
queste e le cure secondarie e
sullo sviluppo delle cure intermedie, si è rivelato vin-
Sae l ute
Territorio 99
cente soprattutto nella gestione di quelle malattie –
quali diabete, malattie cardio-circolatorie e cerebro-vascolari, asma e broncopatia
cronica ostruttiva – che colpiscono milioni di persone,
sono responsabili di oltre il
70% dei decessi, causano migliaia di morti premature ed
evitabili, hanno effetti dirompenti sul tessuto sociale e
familiare, e assorbono enormi
risorse dei servizi sanitari.
I ricercatori del King’s Fund,
nella loro trasferta negli USA,
hanno selezionato 5 MCOs –
tra cui Kaiser Permanente
(North California) – sulla base dei seguenti criteri:
1. Elevate prestazioni nella
gestione delle malattie
croniche, documentate dal
sistema informativo del
National Center for Quality
Accreditation, Health Employer Data Information
Set (HEDIS) che misura le
performance delle MCOs
americane6.
2. Servire una popolazione di
almeno 100 mila abitanti.
3. Coprire una popolazione
composita, rappresentativa delle diverse fasce di
popolazione, comparabile
con quella britannica.
Tre i campi oggetto di osservazione ed analisi (corrispondenti – secondo il modello
concettuale di Ferlie e Shortell – ai fattori più direttamente coinvolti nel successo
dell’assistenza a pazienti con
5 J. Dixon, R. Lewis, R. Rosen, B. Finlayson, D. Gray, Managing chronic disease. What can we learn fron the US experience?, King’s Fund, January 2004.
6 Gli indicatori di HEDIS relativi alla gestione delle malattie croniche riguardano: a) Accesso ai servizi: accesso ai servizi preventivi, tempi di attesa, etc.; b) Assistenza sanitaria delle malattie mentali: follow up dopo un’ospedalizzazione; c) Assistenza ai bambini e agli adolescenti: coperture
vaccinali; d) Convivere con le malattie: controllo della pressione arteriosa, trattamento con ß-bloccanti dopo un attacco cardiaco, controllo del colesterolo, controllo del diabete, uso appropriato dei farmaci antiasmatici, gestione dei farmaci antidepressivi; e) Mantenersi sani: copertura degli
screening oncologici femminili, screening della clamidia nelle donne, assistenza prenatale e postnatale.
l ute
Sa
e
100 Territorio
malattie croniche):
A. Il contesto ambientale (the
wider environment): le forze esterne che influenzano
le azioni delle organizzazioni sanitarie, i manager e
i clinici, come i meccanismi
di mercato, le normative, e
lo sviluppo di certi trend,
come il “consumerismo”.
B. L’assetto organizzativo (the
organizational domain): la
struttura, il management,
l’operatività delle istituzioni sanitarie; per es: la cultura del management, il
coinvolgimento dei clinici
nel management, gli incentivi finanziari.
C. I processi assistenziali (the
clinical process): l’erogazione dei servizi ai pazienti a livello del team clinico; per es. il numero e le
qualifiche degli operatori
disponibili, i percorsi assistenziali.
The “Chronic Care Model”
Tutte le 5 MCOs oggetto della
ricerca utilizzano sistemi
espliciti di gestione delle malattie croniche, avendo come
riferimento il Chronic Care Model, elaborato dal Prof. Edward
H. Wagner, direttore del MacColl Institute for Healthcare
Innovation. Il modello è stato
originalmente sperimentato
presso una MCO di Seattle, la
Group Health Cooperative, ed è
frutto di una revisione della
letteratura e delle evidenze
scientifiche effettuata da un
panel di esperti USA.
La filosofia del modello è che
il miglioramento della qualità
dell’assistenza per i pazienti
affetti da malattie croniche,
7
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
in particolare coloro a maggiore rischio di disabilità e di
morte prematura, si consegue
attraverso un approccio proattivo (in grado cioè di prevedere e prevenire eventuali
complicazioni e aggravamenti
della malattia), il coinvolgimento dei pazienti, delle famiglie e della comunità, la
forte integrazione tra cure
primarie e secondarie, l’utilizzazione di percorsi assistenziali e di linee guida evidence-based, la motivazione
dei professionisti anche attraverso adeguati incentivi.
Intervenire pro-attivamente
nelle malattie croniche significa attuare alcune fondamentali strategie, la prima
delle quali è la stratificazione del rischio (risk stratification), ovvero l’identificazione di pazienti con differenti
livelli di rischio, basata sul
precedente uso dell’assistenza sanitaria (es: ricoveri
ospedalieri), sulla co-morbilità, e sulla presenza di
markers di gravità di malattia. La selezione dei pazienti
ad alto rischio, che avviene
necessariamente con l’utilizzo di software elettronici,
porta a identificare un gruppo di malati (una percentuale variabile, a seconda delle
MCOs, dall’1 al 5% della popolazione arruolata) per i
quali vengono attivate forme
personalizzate di gestione
attiva del caso (case management). Il case manager è generalmente un infermiere
specializzato, che lavora a
fianco del medico di famiglia
e degli specialisti; i suoi
compiti sono quelli di coor-
zienti (es: nel caso che abbiano saltato un controllo), educatori sanitari accreditati,
analisti e programmatori
informatici, infermieri specializzati, case managers, coordinatori dei programmi di disease management. (…) Ciascuna organizzazione ha istituito efficaci incentivi finanziari per promuovere il case e
disease management, basati
sul principio pay for performance; il coinvolgimento dei
medici in queste strategie è
stato facilitato dall’impegno
dei medici leader”.
dinare gli interventi, monitorare i markers di gravità
della malattia, migliorare l’educazione del paziente e
promuovere l’auto-cura, dare
consigli sui farmaci e vigilare
sulla compliance (gran parte
di queste attività avviene
per via telefonica). Per i pazienti affetti da malattie croniche con livelli minori di rischio tutte le MCOs esaminate attuano forme di disease
management che prevedono:
l’istituzione di registri elettronici di malattia che consentono il regolare monitoraggio dell’assistenza per
ciascun paziente, l’uso di
protocolli clinici e linee guida, regolari attività di clinical review tra diversi professionisti basate su informazioni molto accurate, produzione e diffusione di materiale educativo per i pazienti
e promozione del self-management, organizzazione di
sessioni educative per gruppi
omogenei di pazienti.
“Le attività sopradescritte –
osservano i ricercatori del
King’s Fund – riflettono il sistema di valori che è alla base
delle MCOs che abbiamo visitato. Ciascuna MCO considera
la buona assistenza ai pazienti con malattie croniche come
l’elemento centrale per l’erogazione di un servizio efficace e ciascuna è fortemente risoluta – dato il favorevole
ambiente di mercato – a investire nelle risorse necessarie
(personale, sistemi informativi, programmi educativi, etc).
Il personale coinvolto include: personale amministrativo
impiegato per contattare i pa-
C. Smith et al., Health spending growth slows in 2003, Health Affairs 2005, vol. 24, n. 1, 185-194.
Conclusioni
Il sistema sanitario americano
è notoriamente complesso, oltre che molto discusso. Fanno
discutere i suoi elevatissimi
costi: nel 2003 la spesa sanitaria totale ha superato per la
prima volta la soglia del 15%
del PIL (15,3%), raggiungendo
in termini assoluti la cifra di
1.679 miliardi di dollari, equivalenti a una spesa sanitaria
procapite di $ 5.690 7. Fa discutere il ritmo di crescita di
questa spesa che, dopo aver
registrato un rallentamento
durante la metà degli anni Novanta, ha quasi ripreso la forza degli anni ottanta: +8,0%
nel 2001, +9,3% nel 2002,
+7,7% nel 2003 (un calo rispetto all’anno precedente dovuto soprattutto alle limitazioni di crescita imposte al
settore pubblico, in particolare al settore dell’assistenza ai
poveri, Medicaid). La crescita
della spesa – più che di un’espansione dei consumi – è
espressione di una lievitazione generale dei prezzi delle
N. 149 - 2005
prestazioni e dei premi assicurativi 8, che sta provocando
una progressiva erosione dei
livelli di copertura della popolazione americana: l’incremento delle spese out-ofpocket degli assistiti, l’impressionante crescita della popolazione non assicurata. Dal 2000
al 2003 la quota di popolazione non assicurata sul totale
della popolazione è passata
8
9
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
dal 14,2 al 15,6%; nel 2003,
secondo le stime del US Census
Bureau 9, circa 45 milioni di
cittadini americani erano privi
di qualsiasi forma di assicurazione (5 milioni in più rispetto al 2000). Una situazione
che colpisce le fasce più deboli
della popolazione: i disoccupati (25.7% di non assicurati),
i soggetti da 18 a 24 anni
(29,6%), le famiglie con reddi-
to inferiore ai 25.000 dollari
(23,5%), la popolazione nera
(20,2%) e di origine ispanica
(32,4%). Ma il volto della sanità americana non è solo
questo; nell’estrema complessità e variabilità del sistema
sanitario Usa possiamo trovare
tutto il male, ma anche tutto
il bene possibile. Troviamo, ad
esempio, che il settore pubblico finanzia investimenti in ri-
Sae l ute
Territorio 101
cerca medica per qualcosa come 40,2 miliardi di dollari (da
questa cifra sono esclusi i contributi erogati alle industrie
farmaceutiche); troviamo organizzazioni sanitarie che
non solo erogano prestazioni
di eccellente qualità, ma che
sperimentano con successo
modelli di cura innovativi e
costruiti intorno ai bisogni dei
pazienti.
G.F. Anderson et Al., It’s the prices, stupid: why the United States is so different from the other countries, Health Affairs 2003, vol. 22, n. 3, 89-105.
U.S. Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United States, 2003.
(segue da pag. 93): Una transizione epocale
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l ute
Sa
e
102 Territorio
Luigi Tonelli
Carlo Felice Saccani*
AUSL di Siena
* Fondazione
Salvatore Maugeri, Pavia
C
ome è noto, i progressi
della medicina e la riduzione delle più comuni
malattie infettive per mezzo
degli antibiotici hanno portato in evidenza l’invecchiamento della popolazione e il
prevalere di stati morbosi
persistenti, nella forma di
malattie croniche.
Le malattie a lungo decorso
possono essere fisicamente
invalidanti (come il diabete,
la degenerazione maculare
senile, la sclerosi multipla,
l’insufficienza cardiaca, l’artrosi), essere causa di dolore
invalidante (come ancora
l’artrosi, la colite ulcerativa o
l’endometriosi), essere socialmente invalidanti (come la
psoriasi o l’ incontinenza),
essere causa di esclusione sociale (come le malattie mentali e l’epilessia).
Naturalmente, i pazienti affetti da malattie croniche, di
lungo o lunghissimo decorso,
hanno necessità dell’opera
specifica dei medici e degli
altri specialisti che operano
solitamente in “Centri specialistici”, o in “Centri di riferimento” nei casi di malattie
meno diffuse.
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
La formazione
del “paziente esperto”
L’acquisizione delle conoscenze da parte dei “pazienti
esperti” deriva principalmente dalla propria personale
esperienza, da ripetuti contatti con i medici ed il personale del Centro specialistico
presso il quale sono in trattamento, dalle conversazioni
casuali con altri pazienti della stessa patologia, da letture
di stampa di divulgazione o
da ascolti occasionali di trasmissioni radiofoniche o televisive.
Non di rado, tuttavia, le conoscenze sono acquisite in
maniera frammentaria, mancano di corrette basi fisiopatologiche, o si avvalgono di
analogie o interpretazioni
non appropriate.
In ogni caso, anche nelle migliori condizioni, le acquisizioni di conoscenze attraverso la personale esperienza o
attraverso la raccolta frammentaria di informazioni più
o meno approssimate richiede molto tempo prima che il
paziente possa considerarsi
“paziente esperto”, mentre
per molte ragioni cliniche e
pratiche sarebbe auspicabile
che il paziente fosse posto in
L’organizzazione di un corso per la condivisione
delle scelte terapeutiche del curante
grado di aiutarsi efficacemente fin dalle prime fasi della
malattia.
Il raggiungimento di questo
patrimonio di conoscenze e
di esperienze non può essere
lasciato al caso o alla occasionalità, ma deve essere preparato e programmato in maniera appropriata.
Per una migliore efficacia ed
una buona rassicurazione dei
pazienti e dei loro famigliari
è molto utile che gli interventi di formazione possano
avvalersi anche dell’ opera di
pazienti e famigliari che hanno già vissuto la patologia fino a diventarne essi stessi
“esperti”. Le rilevazioni epidemiologiche hanno infatti
dimostrato con evidenza
scientifica (epidemiologia basata sull’ evidenza delle prove) l’efficacia del self-management da parte dei “pazienti
esperti” per migliorare il proprio stato di salute, per contenere il ricorso a prestazione
ambulatoriale e per ridurre i
ricoveri ospedalieri dovuti a
riacutizzazione nel caso della
cronicità.
Nelle pagine che seguono viene presentata la strutturazione di un corso di formazione
per “paziente esperto”, destinato a gruppi di 8-16 pazienti, della durata di 15 ore, nel
quale accanto al docente di
tutoraggio si ha l’apporto di
un paziente già esperto per
favorire il passaggio delle
esperienze e delle informazioni, per trasferire ad altri
quello che gli è stato insegnato e che ha sperimentato
personalmente.
La strutturazione dei corsi
per “paziente esperto” è molto standardizzata nelle parti
generali, lasciando un margine di variabilità solo all’insegnamento delle procedure
specifiche per patologia.
Il corso può essere finalizzato
ad una specifica patologia (ad
esempio l’artrosi e in partico-
Il Corso di self-management descritto in questo articolo è interamente derivato dal modello originale ideato e diretto alla Stanford University
School of Medicine dal Prof. Kate Lorig, Direttore del Patient Education Research Centre. Il programma formativo Stanford è attualmente sviluppato da organizzazioni sanitarie pressoché in tutto il mondo. In Europa viene svolto attualmente in sette Nazioni tra cui l’ Italia, dove dispongono
della licenza d’uso l’ Azienda USL di Siena e la AISM. Per ulteriori informazioni e per avere una bibliografia aggiornata si rinvia al sito web della
Stanford University all’indirizzo http://patienteducation.stanford.edu/.
N. 149 - 2005
lare il dolore di origine artrosica) ma può essere anche di
carattere generale, per dare
una soluzione ai problemi comuni a tutte le cronicità.
Per effetto della pressione sui
Sistemi sanitari causata dall’incremento delle cronicità
in conseguenza dell’invecchiamento delle popolazioni i
programmi di formazione
specifica per pazienti possono suscitare sempre più vasto
interesse e numerose applicazioni in Sistemi sanitari in
tutti i Paesi.
Si ritiene che il termine “paziente esperto” risulti più efficace di “self-management”
per esprimere il risultato atteso dal periodo di formazione, che è quello di trasformare individui passivi in soggetti responsabili in grado di
condividere le decisioni con i
curanti. Nelle pagine seguenti si riporta il piano di svolgimento di un corso di formazione per “paziente esperto”.
Le parti più strettamente
mediche – in particolare gli
esercizi fisici, la nutrizione e
l’assunzione di farmaci – possono essere tanto generiche
quanto specifiche per patologia.
È prevista la consegna ai partecipanti di documentazione
informativa per facilitare
l’apprendimento e la memorizzazione degli argomenti in
trattazione.
Nel prosieguo del testo e delle iniziative si utilizzerà prevalentemente la dizione “malattie croniche”, per brevità,
per indicare le malattie croniche stesse, o gli stati morbosi
persistenti, o le malattie di
lungo decorso, che possono
essere curate ma non guariscono.
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Corso “La partecipazione
del paziente nel trattamento degli stati morbosi persistenti e delle malattie
croniche”
Risultati attesi
• Il miglioramento, la stabilizzazione o un deterioramento rallentato per una
maggiore proporzione di
pazienti con malattie croniche
• La acquisizione di buone
capacità pratiche per trattare efficacemente specifici
aspetti della malattia (dolore, complicanze, uso di
farmaci e presidi) per un
maggior numero di pazienti
• Minore invalidità da stanchezza, disturbi del sonno,
scarsa energia per i pazienti con malattia cronica
che divengono esperti della propria malattia
• La acquisizione della capacità pratica di affrontare le
conseguenze emozionali
della malattia per i pazienti esperti
• Il mantenimento della capacità lavorativa per una
maggiore proporzione di
pazienti con malattie croniche
• Uno stile di vita più salutare (corretta nutrizione,
esercizio fisico, giusto peso corporeo) per maggior
numero di pazienti con
malattie croniche
• Un rapporto più fattivo e
corretto con i servizi assistenziali e sociali da parte
di un maggior numero di
pazienti con malattie croniche
• Buone informazioni sulla
malattia e sul suo decorso,
maggiore consapevolezza
nei contatti con i sanitari
ed un livello più alto di
autostima per un maggior
numero di pazienti con
malattie croniche
• Riduzione del numero di
giorni di degenza in Ospedale e meno prestazioni
ambulatoriali per i pazienti con malattie croniche
• I pazienti esperti possono
più utilmente collaborare
alla programmazione dei
servizi sanitari
• I pazienti esperti possono
fornire utili consigli e indicazioni agli altri pazienti
Regole per il formatore
1. All’inizio di ciascuna sessione deve essere indicato
il programma della stessa.
2. I limiti di tempo di ciascuna sessione (2 ore e mezzo)
non devono mai essere superati; deve essere prevista
la disponibilità del formatore per 15 minuti dopo la
conclusione per eventuali
richieste individuali.
3. A metà di ciascuna sessione deve essere prevista
una sosta di 10’ per il coffee-break e per gli scambi
interpersonali tra i partecipanti.
Sae l ute
Territorio 103
4. Nel corso delle sessioni occorre stimolare la partecipazione, ma senza forzature e frenando gli interventi
dei monopolizzatori.
5. È bene usare tecniche di
rinforzo per stimolare i più
timidi.
6. Il formatore può avvalersi
della propria aneddotica
personale o del proprio
ambito di conoscenze come paziente. Tuttavia i
racconti personali devono
essere brevissimi (di regola
non più lunghi di un minuto).
7. In tutta la sessione occorre controllare gli interventi per evitare di divergere
dal programma.
8. Per le discussioni e per ricercare le soluzioni ai problemi utilizzare il “brainstorming” (v. box) per definire chiaramente il problema e stimolare l’individuazione delle soluzioni.
Piano generale del corso
Il Piano generale del Corso
deve essere presentato all’inizio in forma sintetica, come
nell’esempio in tabella, e,
sessione per sessione, deve
Brainstorming
Svolgimento del brainstorming
1. Definire chiaramente il problema
2. I singoli componenti del gruppo formulano delle ipotesi di soluzione
3. Il gruppo sceglie le soluzioni apparentemente più adatte (ranghi)
4. Il gruppo valuta i risultati ottenibili con la soluzione più adatta
5. Se i risultati sono insoddisfacenti il gruppo valuta i risultati ottenibili con la seconda migliore soluzione (e così via)
Regole per il formatore/conduttore in corso di brainstorming
• Non ammettere discussioni e commenti fino al termine
• Se il gruppo è silenzioso ASPETTARE
• Non interpellare direttamente i singoli
• Scrivere le proposte in maniera visibile a tutti
l ute
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104 Territorio
essere ripresentato spuntando quanto già fatto.
I Piani di azione
Al termine di ciascuna sessione viene dato a ciascuno un
impegno per il periodo che
intercorre fino alla sessione
successiva che concerne l’applicazione pratica di quanto
insegnato. La tipologia dell’impegno non deve essere
imposta ma deve essere scelta
dal partecipante o comunque
concordata con lui per verificarne l’effettiva accettazione.
L’impegno viene descritto in
un Piano di azione. Il Piano
di azione è così composto:
I. TITOLO - Il partecipante
scrive cosa farà nella settimana (non cosa proverà
a fare)
II. PIANO - Il partecipante
descrive cosa farà, come lo
farà, quante volte lo farà e
in quali orari (o momenti
della giornata). Nella descrizione è meglio non
sbilanciarsi in eccesso ma
piuttosto stare sul minimo certo
III. FATTIBILITÀ - Il partecipante attribuisce un valore da 0 a 10 alla probabilità di riuscire effettivamente a svolgere il Piano.
Se la stima è inferiore a 7
significa che c’è scarsa
convinzione di condurre a
termine l’impegno. In
questo caso è opportuno
cercare un altro argomento che riceva una stima di
almeno 7.
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Titoli / Argomenti
Sessioni n.
Malattie croniche. Concetti generali e raffronto con le forme acute
1
Realizzare un Piano d’azione
1, 2, 3, 4, 5
Rilassamento e gestione dei disturbi cognitivi
1,
3, 4, 5,
6
Restituzione dei Piani d’azione predisposti (homework)
2, 3, 4, 5,
6
Gestione di rabbia, paura, frustrazione
2
Esercizi fisici
2, 3
Respirazione
3
Fatica
3
Nutrizione
4
Comunicazione
4
Farmaci
5
Decisioni sulla terapia
5
Gestire la depressione
5
Collaborare con il personale sanitario
6
Formulare piani per il futuro
6
Introduzione alla Prima
sessione
Il formatore chiede a tutti di
impegnarsi ad essere sereni,
obiettivi ed espliciti all’ interno del corso, ma riservati
all’esterno su quanto viene
detto dai singoli partecipanti
durante gli incontri.
A tutti i partecipanti devono
essere distribuiti dei cartellini
identificativi su cui gli stessi
scrivono il proprio nome di
battesimo o, se preferiscono,
un soprannome indicativo.
Soprattutto nella prima sessione, ma anche nelle successive, è utile che il formatore
sia assistito da un collaboratore.
I partecipanti sono invitati a
chiedere tutti i chiarimenti
necessari.
I partecipanti si devono inoltre impegnare ad essere presenti a tutti gli incontri, a
svolgere i Piani di azione che
decidono di intraprendere, ad
utilizzare per almeno due
settimane le tecniche apprese
prima di decidere sulla loro
eventuale inefficacia, a individuare fra gli altri partecipanti un interlocutore di fiducia o comunque un interlocutore preferenziale con il
quale intrattenere contatti
telefonici sul lavoro che viene svolto tra una sessione e
l’altra.
Il corso ha avvio con le presentazioni dei partecipanti.
Innanzi tutto quella del formatore. La sua personale presentazione deve essere preparata in precedenza in quanto
le presentazioni dei singoli
partecipanti saranno formulate a imitazione di questa.
Una corretta formula può essere:”mi chiamo …, soffro
della malattia ….; questa
malattia è un problema per la
mia vita, in quanto … “.
Ciascuno illustra i problemi
principali che lo affliggono
(non più di due o tre) e questi vengono scritti in modo
da poter essere visti da tutti,
e in seguito aggregati per affinità.
Se alla sessione sono presenti
anche persone non affette da
malattie croniche (famigliari,
accompagnatori ecc.), anche
loro illustrano quali sono i
problemi che derivano dalla
malattia cronica della persona che assistono.
N. 149 - 2005
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Sae l ute
Territorio 105
Settimana 1. Sessione 1
Argomenti: le malattie croniche. Autogestione delle cronicità. Il Piano
di azione per risolvere i problemi. Rilassamento. Disturbi cognitivi. Assegnazione di un Piano d’Azione.
1. Cosa è una malattia cronica. Identificazione dei problemi comuni
a tutti i partecipanti e possibilità e limiti dell’autogestione.
2. Descrizione del ciclo malattia – manifestazioni patologiche e introduzione alle tecniche per interromperlo. Il ciclo parte dalla malattia cronica, che determina stato di tensione e ansia, che comportano emozioni di rabbia e paura e quindi senso di frustrazione
per l’incapacità a risolvere la situazione. Quindi subentra uno stato depressivo, cui segue una situazione di profonda stanchezza e
infine peggioramento dei sintomi.
3. Introduzione alle tecniche per interrompere il ciclo malattia-sintomi. Respirazione e altre tecniche di rilassamento, con esercizi di
respirazione.
4. I disturbi cognitivi. Un peggioramento delle funzioni cognitive
accompagna molte malattie croniche. Può manifestarsi come riduzione della rapidità di ragionamento, scadimento della capacità di
attenzione, affaticamento mentale, riduzione della memoria, aumentata difficoltà di apprendimento, difficoltà nell’espressione
verbale ecc. Di solito i disturbi cognitivi connessi ad una malattia
cronica sono scarsamente suscettibili di trattamento. Occorre allora affrontare il problema in modo diverso, e quindi:
a) Prendere coscienza del problema e accettarlo.
b) Cercare strategie utili a minimizzare le difficoltà (ad esempio
per i problemi di memoria utilizzare pro-memoria e scadenzari
di vario tipo e cercare abitudini di vita ripetitive, per l’affaticabilità ridurre il ritmo di attività a livelli sostenibili, per i disturbi dell’ attenzione non affrontare contemporaneamente
più situazioni ecc.).
c) Non avere timore di dichiarare le proprie difficoltà, riducendo
con ciò la difficoltà di dover dissimulare, la frustrazione conseguente all’insuccesso e all’incomprensione altrui.
5. Affidamento di un Piano di azione sull’applicazione delle tecniche
di rilassamento e di uno sulla risposta a deficit cognitivi.
Settimana 2. Sessione 2
Argomenti: discussione dei Piani di Azione della Sessione 1. Affrontare
rabbia, frustrazione e paura. Gli esercizi fisici. Assegnazione di un Piano d’azione
1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi.
2. Rabbia, paura e frustrazione (ciclo malattia-sintomi). Discussione
di gruppo in merito a queste sensazioni, in particolare come e in
che misura riguardano la vita dei partecipanti e come questi cercano si vincerle.
3. Esercizio fisico. Si esamina il ciclo malattia-sintomi e si illustra
come l’esercizio fisico, a partire dalla semplice passeggiata, intervenga a bloccarne lo sviluppo.
4. Si illustrano gli esercizi fisici.
5. Si discute quale possa essere per ciascun partecipante l’esercizio
più idoneo e quale sia per ciascuno il punto di partenza per iniziare un programma di esercizi.
6. Affidamento di un Piano di azione sugli esercizi fisici.
Settimana 3. Sessione 3
Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 2. Esercizi di
respirazione. Esercizi di rilassamento. Assegnazione di un Piano d’azione
1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi.
2. Esercizi di respirazione. Ginnastica aerobica.
3. Esercizi di rilassamento muscolare (ad es. pensare di essere altrove).
4. Esercizi per la gestione della fatica e per aumentare la resistenza
fisica.
5. Affidamento di un Piano di azione sulle tecniche di rilassamento.
Settimana 4. Sessione 4
Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 3. Alimentazione adatta. Comunicazione efficace. Assegnazione di un Piano d’azione
1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi.
2. Illustrazione dei principi di alimentazione e dei benefici che derivano da una dieta adatta sia per quanto riguarda la salute generale che per quanto riguarda la specifica malattia (ad es.per il raggiungimento del peso ottimale).
3. Comunicazione. Viene illustrato come comunicare efficacemente
con gli altri, ad esempio dire “forse non mi sono spiegato bene”
anziché “non mi capisci” evitando in tal modo toni aggressivi.
4. Presentazione e discussione dei diversi problemi comunicativi che
capitano nella vita di tutti i giorni, ad esempio nelle situazioni famigliari.
5. Affidamento di un Piano di azione sulla nutrizione e di uno sulla
comunicazione.
l ute
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e
106 Territorio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Settimana 5. Sessione 5
Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 4. Uso dei
farmaci e decisioni sulla terapia (efficacia, controindicazioni, effetti
collaterali). Depressione (incidenza, rilevazione, interventi). Parlare
con se stessi. Decisioni informate. Immaginazione guidata. Assegnazione di un Piano d’azione
1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi.
2. Uso dei farmaci. Vengono illustrati i principi farmacologici e l’utilità dei differenti farmaci. Viene spiegata l’utilità di tenere una lista aggiornata dei farmaci utilizzati incluse le modalità di assunzione seguite nel tempo.
3. Viene illustrata l’eventualità che occorrano sintomi depressivi.
Vengono illustrati le modalità per riconoscerli ed i possibili strumenti per interrompere a questo punto il ciclo malattia-sintomi.
4. In particolare si illustra come “parlando a se stessi” si può agire
sulla percezione depressiva della malattia; ad esempio non pensare “non posso più fare attività sportive” ma dire a se stessi “esistono attività sportive che non richiedono le capacità fisiche che
ho perduto”.
5. Viene illustrata anche la tecnica della “Immaginazione guidata”
come risposta personale ai momenti difficili. Si tratta, ad esempio, di imparare a immaginare di essere in quel momento in una
situazione tranquilla e piacevole, come passeggiare in campagna.
6. Decisioni informate. Illustrazione degli strumenti di informazioni
attendibili che oggi sono a disposizione dei pazienti (siti web e
motori di ricerca Internet, associazioni, pubblicazioni).
7. Affidamento di un Piano di azione per superare i momenti di depressione.
N. 149 - 2005
Settimana 6. Sessione 6
Argomenti: discussione dei Piani di azione della Sessione 5. Comunicazione efficace con famigliari, amici e con il Personale sanitario. Collaborazione con il Personale sanitario. Analisi dell’utilità di quanto appreso e predisposizione di un Piano per il futuro.
1. Viene discussa la riuscita dei Piani di azione affidati nella precedente sessione, in particolare vengono discusse le difficoltà incontrate e le ragioni degli insuccessi.
2. Viene discusso come intrattenere una buona comunicazione con i
curanti riportando chiaramente la sintomatologia, l’evoluzione
della malattia e gli effetti delle azioni terapeutiche intraprese.
Viene fatto a questo scopo presente che il tempo di ascolto dei sanitari prima che gli stessi intraprendano un dialogo secondo le
proprie modalità consuete è di 18”. Ovvero il tempo di comunicazione a disposizione del paziente per spiegarsi utilizzando i propri
strumenti logici e lessicali è di 18 secondi ed in questo tempo occorre sia contenuto tutto quanto preme riferire.
3. Viene illustrata la tecnica per comunicare con i sanitari: prepararsi al colloquio, chiedere specificamente quanto interessa, ripetersi
mentalmente le risposte per essere certi di averle comprese, intraprendere quanto indicato (tecnica PART Prepare -Ask - Repete Take).
4. Valutazione di quanto appreso e sperimentato.
5. Proposta a quanti hanno seguito il corso di venire formati per divenire formatori a loro volta.
N. 149 - 2005
Gioietta Bagaggiolo
AUSL di Siena
Una società che cambia
A partire dagli anni 70 del secolo scorso si è osservato un
progressivo aumento della
popolazione anziana.
Si stima che il 75% degli ultra
sessantacinquenni soffre di
una malattia cronica ed il
40% di almeno due. La patologia cronica, caratterizzata
da un andamento progressivo, si associa frequentemente
al disagio, al dolore, e spesso
sono presenti decadimento
psico-cognitivo e sociopatie.
In un contesto del genere, i
costi sanitari subiscono incrementi rilevanti e i criteri
della medicina tradizionale
basati sul percorso diagnosi –
terapia – guarigione risultano inadeguati.
Occorre rivedere il concetto
di salute. Per l’anziano, salute non è solo assenza di malattia, ma il perdurare dell’autonomia. Oggi il parametro di valutazione dello stato
di salute di una popolazione
non è tanto quindi l’attesa di
vita alla nascita, quanto l’attesa di vita attiva. Produrre
salute, comprimendo al massimo la disabilità verso il termine della vita diventa imperativo per il sistema sanitario. L’anziano, le sue problematiche sociali e sanitarie,
devono essere valutati in termini globali. Per questo è richiesto l’intervento e l’inte-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Sae l ute
Territorio 107
Assistenza
infermieristica
“long-term”
grazione dei vari apporti, a
diversi livelli: istituzionale,
gestionale e professionale.
Le esperienze in corso
Sul piano organizzativo e assistenziale, esperienze e studi europei ed internazionali
suggeriscono l’implementazione di approcci innovativi
capaci di ridurre l’ospedalizzazione, caratterizzati dalla
permanenza dell’anziano nel
proprio ambito di vita, da
strutture che attraverso contributi multidisciplinari seguono l’anziano e la cronicità
nel suo progredire, da una assistenza infermieristica volta
al mantenimento di una qualità di vita accettabile. Tra i
modelli sperimentati volti a
migliorare la qualità di vita,
e, nei limiti del possibile, a
mantenere lo stato di salute,
sono da considerare: il selfmanagement, le nurse-led clinics, il case management.
Self management
Il self management è un metodo nato negli USA, dove le
prime esperienze sono state
condotte alla fine degli anni
’60 da una infermiera, Kate
Lorig, ora docente alla
Stanford University. Si tratta
di una formazione rivolta all’anziano affetto da patologie
croniche con l’intento di far
comprendere in maniera sem-
Il ruolo di “tutorship” per supportare i pazienti
cronici
plice la propria malattia e al
contempo gli stili di vita migliori per frenare il progredire
della stessa, limitare l’insorgenza dell’acuzie e conservare al massimo le proprie capacità. È un metodo educativo
che richiede la partecipazione attiva del paziente. È una
formazione strutturata che si
articola nel tempo e ad ogni
incontro si insegna come e
quali interventi attuare per
ridurre e migliorare i problemi associati alla propria cronicità. Si forniscono indicazioni sul come alimentarsi,
sugli esercizi fisici utili da effettuare per ridurre i danni e
i sintomi della patologia, come usare propriamente i farmaci, come gestire depressione, dolore e solitudine. Più
che un’abitudine ad auto-cura e auto-prescrizione; si
tratta di un sistema che tramite la tutorship da parte di
chi possiede contenuti professionali come l’infermiere,
facilita nell’anziano conoscenza e coscienza della propria malattia, controlla la
corretta esecuzione delle
azioni assegnate durante gli
incontri formativi, valuta e
implementa la capacità di applicazione. Le numerose
esperienze effettuate riportano risultati positivi, in particolar modo in quegli anziani che si trovano ai primi stadi della malattia.
Nurse-led clinics
Le nurse-led clinics sono invece strutture dedicate agli anziani e/o pazienti affetti da
patologie croniche, la cui
conduzione è affidata ad infermieri che hanno sostenuto
una educazione speciale e
che hanno maturato una
esperienza nel settore. Questi
infermieri specializzati esercitano in larga misura in autonomia, e per alcune attività
su delega di altri professionisti. Per ogni paziente viene
redatto un Piano di azione
individuale e l’infermiere
provvede ad un costante follow-up per rilevare la comparsa di segni e sintomi di riacutizzazione, per la revisione
continua delle terapie in raccordo con i medici, per il supporto sociale psicologico e
umano necessario al paziente
ed alla famiglia. Le nurse-led
clinics in tale contesto seguo-
l ute
Sa
e
108 Territorio
no il paziente mediante appositi protocolli, effettuano
visite (durata circa 1 ora) che
includono l’anamnesi, la valutazione di alcuni parametri,
i trattamenti in corso, e, nel
caso in cui si rilevino alterazioni e/o instabilità provvedono a richiedere l’intervento
dello specialista medico. Una
delle attività che richiede
maggiore impegno, è costituita dall’educazione al paziente per promuovere ed attivare il self-care. Si forniscono informazioni dettagliate
sul corretto stile di vita da
intraprendere per il controllo
della propria patologia (es.
come prevenire la malnutrizione, quante calorie/dì assumere, l’attività motoria da
fare ecc..), considerando anche il livello cognitivo del
singolo in modo da adeguare
continuamente l’educazione.
Si accompagna l’anziano nel
suo percorso di malattia cercando di instaurare e sviluppare con esso una relazione
di appoggio, svolgendo una
attività costante di counseling e fornendo supporto telefonico per gli aggiornamenti clinici.
Case management
Il case management, metodologia del managed care, è un
meccanismo attraverso il
quale si possono ottenere miglioramenti dell’efficacia e
dell’efficienza dell’assistenza
sanitaria. Si basa essenzialmente sulla logica di coordinamento delle risorse da utilizzare per la specifica patologia di un paziente, attraverso le diverse strutture e
organizzazioni del sistema
sanitario. L’approccio permette di considerare il pa-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
ziente come entità che sta vivendo un percorso di malattia
e di allontanarsi dalla concezione diffusa che il paziente
ha problemi riferibili ad una
parte del proprio corpo ai
quali si devono risposte singole, frammentarie ed episodiche. Più semplicemente con
l’introduzione del case management si intende porre il paziente al centro del sistema,
rispondere in ogni fase del
processo con interventi basati sull’evidenza, superando le
tradizionali separazioni di
struttura e specialità. Il case
management si estende ed
integra interventi di promozione della salute, di prevenzione della malattia, di trattamenti diagnostici e terapeutici, di riabilitazione e di
assistenza a lungo termine. È
indicato negli attuali sistemi
sanitari laddove si assiste
sempre più ad un progressivo
incremento di complessità
delle cure e al continuo proliferare di frammentazioni dei
molteplici apporti specialistici. È in questo contesto che si
originano le necessità di assicurare la continuità delle cure e la loro appropriatezza e
tempestività.
Diventa così fondamentale
l’attività di coordinamento
delle cure per ogni singolo
paziente rispetto ai suoi bisogni specifici e la definizione
di profili di cura o percorsi
clinico-assistenziali che possono guidare l’integrazione
degli apporti provenienti dalle varie discipline. Anche in
tal caso numerose esperienze
individuano l’infermiere come l’operatore più idoneo per
condurre il ruolo di case manager. Cohen e Cesta(1993)
sostengono che gli infermieri
Il case management infermieristico viene ritenuto una
evoluzione dei modelli organizzativi dell’assistenza, in
particolare come miglioramento ed estensione del concetto di primary nursing, impiegato sia in Ospedale che
nell’assistenza infermieristica di sanità pubblica e nell’assistenza domiciliare. Nel
primary nursing un infermiere si fa carico dell’assistenza
a pazienti nominalmente assegnati e si fa garante della
continuità nelle cure mediante una pianificazione delle
attività sanitarie e della continua informazione sul decorso della malattia. Nel primary
nursing il ruolo decisionale è
rivolto al singolo; nel case
management permane tale
ruolo, ma contestualmente
viene messo in atto un accentramento delle funzioni gestionali utili al buon funzionamento dell’organizzazione
nel suo complesso e alla resa
del sistema di cure; queste
attività fanno sì che il ruolo
tradizionale dell’infermiere si
estenda sempre più verso
questo nuovo programma di
cure.
Fermo restando il principio
dell’approccio interdisciplinare delle cure, esperienze
consolidate nei diversi Paesi
del mondo mostrano la figura
dell’infermiere come l’operatore più appropriato per rivestire ruoli primari nella gestione delle patologie croniche.Questi possono spaziare
da interventi prettamente
educativi come nel self management e/o self-care, ad attività di coordinamento come
nel case management, fino ad
attività di conduzione clinico-organizzativa di strutture
sono appropriati a sostenere
questo ruolo, perché possono
fornire la maggior parte dei
servizi che le altre professionalità offrono ai pazienti,
mentre queste ultime non sono preparate e non sono in
grado di provvedere alle attività di assistenza diretta. Anche Pergola(1922) raccomanda gli infermieri per sostenere il ruolo di case manager,
sia par le loro abilità cliniche,
sia per la capacità di migliorare il coordinamento dei servizi per far fronte alle necessità dei pazienti e delle loro
famiglie oltreché alla prospettiva olistica che va oltre
gli aspetti biofisiologici e patologici della cura. La formazione infermieristica di tipo
generalista, caratterizzata
dall’apporto delle discipline
umanistiche permette di essere più attenti alle particolarità delle persone. Il fondamento dell’assistenza infermieristica si basa sul sopperire (far fronte a necessità e bisogni)e sul promuovere(far
avanzare, progredire verso la
qualità di vita e l’autonomia).
Le principali attività sono
rappresentate da: interventi
tesi ad assicurare un piano
coordinato di cure; interventi
atti a ridurre la variabilità
nell’utilizzo delle procedure
clinico-assistenziali; programmi educativi rivolti sia
ai pazienti che alle loro famiglie; interventi di valutazione degli esiti; mediazioni nell’ambiente di lavoro per incoraggiare la cooperazione e la
comprensione del ruolo delle
diverse figure sanitarie nel
Piano di cura; una comunicazione capace di ridurre nei
pazienti ansia, paure ed incertezze.
N. 149 - 2005
come nel caso delle nurse-led
clinics.
L’ infermiere comunque può
rappresentare il “continum”
assistenziale a carattere sanitario fornito da Ospedale –
territorio, da medici – altri
professionisti e fornire una
importante presenza nella
valutazione e gestione delle
aree problematiche connesse
a tali patologie. Esso può
contribuire a promuovere un
sistema culturale ed operativo teso a creare vera attenzione alle aspettative dei pazienti e a favorire una reale
qualità di vita. Per la determinazione di quest’ultima è
necessario associare la componente oggettiva, che comprende la valutazione dello
stato fisico, funzionale, sociale e del supporto informale, alla componente soggettiva che riguarda la sfera emozionale e quindi la percezione
che l’individuo ha del proprio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
stato di salute e la soddisfazione delle cure prestate.
Ruolo dell’infermiere
L’assistenza infermieristica
fornita ai pazienti cronici deve avere un approccio complessivo: prendere in considerazione tutti i domini della
salute; provvedere alla cura;
inserire tra gli outcomes prioritari il controllo dei sintomi
attraverso il trattamento e la
rimozione delle eventuali
cause scatenanti reversibili;
la soddisfazione dei bisogni.
Per massimizzare i risultati
l’infermiere potrà avvalersi
nella pratica infermieristica
del processo di nursing e delle teorie infermieristiche. Il
processo di nursing indica come identificare e affrontare i
bisogni di assistenza infermieristica del paziente in modo sistematico e pianificato,
mentre le teorie permettono
di individuare quali sono
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673-82.
questi bisogni e quali contenuti professionali mettere a
disposizione della persona. L’
infermiere è figura primaria
di riferimento, prendendo in
carico il paziente, provvedendo all’accertamento dei suoi
problemi e della sua famiglia
e sviluppando piani personalizzati in collaborazione con
gli altri membri del team interdisciplinare per rispondere
alle necessità rilevate.
Nelle cronicità i sintomi, condivisi da molte patologie benché riconducibili a meccanismi fisiopatologici diversi,
convergono spesso in sindromi cliniche comuni. A queste
sindromi è possibile rispondere mediante protocolli di
assistenza definiti, il cui contenuto dovrà prevedere: indicazioni per una corretta valutazione; misure di trattamento generali (es: corretta postura, alimentazione, stili di
vita adeguati ecc…); tratta-
Sae l ute
Territorio 109
menti farmacologici.
Le aree problematiche che
più frequentemente richiedono interventi assistenziali
sono rappresentate da situazioni che impediscono o limitano il normale svolgimento delle attività di vita,
che sono caratterizzate da
segni e sintomi ricorrenti
quali: stipsi, diarrea, vomito
problemi del cavo orale, disturbi respiratori, piaghe da
decubito, ansia, depressione,
dolore. Gli interventi assistenziali di carattere tecnico, relazionale ed educativo
(sia nei confronti del paziente che dei famigliari e del caregiver primario) messi in atto saranno tesi a limitare la
disautonomia, il progredire o
l’insorgere dell’acuzie e in ultimo, ma non per questo trascurabile, al mantenimento
della qualità di vita che il
paziente ritiene per se stesso
accettabile.
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l ute
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e
110 Territorio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Le malattie croniche
Come prevenire e curare le patologie
la loro cronicizzazione. La formazione
medici, infermieri, familiari
Osteoartropatie
Bernardo Pavolini
Dir. UF Ortopedia
e Traumatologia Osp. Nuovo
della Valdelsa, Poggibonsi, Siena
L’
ziana e dai costi quindi parallelamente in aumento.
Le raccomandazioni per la prevenzione e la terapia di queste
patologie elaborati dall’EFORT
sono in gran parte coincidenti
con il testo che segue.
La patologia degenerativa artrosica, interpretata un tempo come semplice usura, consumo delle articolazioni, è
più probabilmente una malattia vera, che interessa con
alterazioni metaboliche le
cellule che costituiscono la
cartilagine, cioè i condrociti.
Le prime manifestazione sono lesioni delle articolazioni,
con progressiva riduzione di
spessore della cartilagine che
riveste i capi articolari, dovute a sovraccarico o più facilmente dall’attività di enzimi
che attaccano i condrociti.
Si differisce dalle artriti, di
varia natura, perché è una
malattia degenerativa, pur
avendo fasi infiammatorie:
queste son dovute al processo
EFORT, l’Associazione
europea che raggruppa
in forma federativa tutte le Associazioni nazionali di
ortopedia e traumatologia, ha
sviluppato un progetto decennale in collaborazione con la
Commissione europea, per codificare le strategie necessarie
alla prevenzione delle malattie
degenerative del sistema muscolo-scheletrico, con particolare riferimento all’artrosi perché ha incidenza maggiore.
È questo il progetto che nell’ultimo decennio ha coinvolto
più intensamente tutti gli ortopedici europei, ma di pari
passo tale esigenza è sentita
dalla comunità ortopedica
mondiale, perché i problemi
legati alle osteopatie degenerative sono presenti in modo
rilevante in tutti i Paesi sviluppati ed in via di sviluppo.
Questo dà la misura di quanto
è importante il problema,
sempre in crescita con l’aumentare della popolazione an-
di riassorbimento delle cellule necrotiche, che comporta
un accelerare del processo di
distruzione cartilaginea.
Viene successivamente interessato anche il tessuto osseo
sottostante, dove si determinano lacune cistiche, addensamento e produzione di
osteofitosi periarticolari, cioè
escrescenze ossee.
Alcune forme di artrosi possono esser curate in fase iniziale
se correttamente seguite, ed
il sintomo più importante insieme alla rigidità articolare,
cioè il dolore, ha cause differenti che devono esser riconosciute e trattate. Il dolore è
causato dalla distruzione della cartilagine, che è priva di
terminazioni nervose, con carico che si distribuisce ora al
tessuto osseo direttamente,
innervato terminazioni del
dolore, dove son anche possibili delle microfratture e da
processi infiammatori della
membrana sinoviale.
Trattandosi di malattie degenerative articolari, la prevenzione deve essere indirizzata
nel ridurre ed eliminare i fattori di rischio per ritardare
l’evoluzione della malattia.
Tra le cause infatti di insorgenza o di aggravamento di
un processo degenerativo ar-
trosico, ricordiamo cause
meccaniche, dovute all’alterata geometria articolare e alla limitazione del movimento
per il dolore, che determinano problemi al fisiologico metabolismo della cartilagine
articolare per limitazione
nella produzione del liquido
sinoviale, dal quale questo
tessuto non vascolarizzato
trae nutrimento.
Anche un sovra utilizzo dell’articolazione, per eccessivo
carico, accelera l’usura articolare, come avviene in lavoratori pesanti e sportivi professionisti.
Anche gli obesi, categoria in
aumento anche in Europa,
hanno un elevato rischio di
artrosi specie alle ginocchia.
Ricordiamo come le ultime
statistiche in USA hanno evidenziato una netta correlazione tra aumento progressivo degli obesi e delle protesi
di ginocchio eseguite nei
Centri ortopedici del Nord
America.
La prevenzione quindi delle
malattie degenerative ossee
dell’anziano dovrà basarsi sia
su norme igeniche che su interventi corretivi ortopedici
delle deviazioni quando le alterazioni non siano ancora
divenute irreversibili.
N. 149 - 2005
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Sae l ute
Territorio 111
degli anziani
più diffuse per evitare o ritardare
all’assistenza della triade
per evitare l’ospedalizzazione
Questo argomento è stato discusso proprio all’ultimo Congresso nazionale della Società italiana di ortopedia e
traumatologia, tenutosi a Napoli nel 2004, che grazie all’apporto di chi in Italia ed
all’estero si occupa in modo
specifico del problema, ha
sottolineato la necessità di
trattamenti chirurgici preventivi della patologia degenerativa nell’età matura.
Oltre alla terapia farmacologica, basata per la maggior parte dei casi sulla categoria dei
farmaci antinfiammatori non
steroidei (FANS), ed alla terapia fisica, validi presidii nelle
fasi iniziali della malattia, è
risolutiva sia per il dolore che
per il recupero della funzione
la chirurgia ortopedica.
Quando la patologia artrosica, seguendo il proprio decorso, non risponde più alla terapia farmacologica, fisica o
chinesiterapica, facendo scadere la qualità della vita sia
per il dolore invalidante che
per la limitazione funzionale,
è necessario avvalersi della
chirurgia ortopedica, che ha
molte soluzioni, motivate
dall’evoluzione storica di
questi trattamenti.
Data l’importanza che riveste
per le patologie degenerative
dell’anziano la prevenzione,
sia in termini di adeguati
comportamenti nell’età adulta che nell’indicazione a trat-
Psicogeriatria
Massimo De Berardinis
Azienda Sanitaria di Firenze
N
re i processi di cronicizzazione psichiatrica.
Sebbene un dimensionamento comparato dell’entità del
fenomeno risulti al momento
non proponibile (considerata
la parzialità dei dati concernenti il nostro Paese e la si-
el trattare l’argomento,
pur senza entrare nel
merito della psicopatologia specifica, ho cercato di
evidenziare soprattutto quei
fattori dell’operare quotidiano che mi sono apparsi rilevanti nel favorire o contrasta-
tamenti chirurgici ortopedici
correttivi, è fondamentale
che vengano trasmessi alla
popolazione messaggi tali da
determinare una presa di coscienza di queste problematiche.
Deve esser anche formata una
cultura protesica, ovvero la fiducia nei vantaggi per la qualità di vita dopo un intervento di questo tipo, perché i pazienti non arrivino a ritardare
l’intervento fino a quando il
dolore e la disabilità sono talmente elevati da riconoscerlo
come ultima ed unica soluzione. Se infatti i pazienti sono
anziani e con alterazioni ossee, retrazioni delle parti molli, atonia dei gruppi muscolari
che interessano l’articolazione artrosica ormai gravi, i risultati dell’intervento non sono così buoni come potrebbero essere stati se eseguito
qualche anno prima.
È inoltre evidente come avere
una buona motilità senza dolore di una articolazione necessaria per il cammino, sia
più utile a 50 o 60 anni piuttosto che a 80 anni, anche
perché le casistiche che riportano i risultati dopo 10
anni delle protesi attualmente utilizzate, danno una sopravvivenza con ottimi risultati anche del 100% dei casi,
cioè dopo questi anni non vi
è stata necessità di interventi
sostitutivi dell’impianto.
gnificativa diversità dei sistemi assistenziali psichiatrici degli altri Paesi – valga l’esempio della chiusura degli
Ospedali psichiatrici), è comunque interessante segnalare come nella maggior parte degli studi epidemiologici
condotti in Nord-America ed
in Nord-Europa, durante gli
anni settanta, non più del
6% degli ultra sessantacinquenni risultava affetto da
disturbi psichici; nelle indagini attuali, condotte negli
stessi Paesi, questi valori appaiono invece più che raddoppiati.
Di fronte a questi dati si sarebbe portati a ritenere che
l’entità di questa crescita, oltre che ad una migliore e più
diffusa capacità diagnostica,
sia da porre in relazione proprio con un aumento dei fenomeni di cronicizzazione sostenuti dal progressivo invecchiamento della popolazione;
ma non possiamo evitare anche altri interrogativi:
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112 Territorio
• come interpretare il fenomeno dell’ampliamento
della categoria del patologico? Il fatto cioè che livelli di sofferenza un tempo considerati “normali”
siano invece oggi divenuti
malattie da curare?
• quanto incide sul dato il
fenomeno della psichiatrizzazione di problematiche non psichiatriche visto
che ogni tipologia di sofferenza di natura somatica,
relazionale o sociale che
sia, da ultimo, in assenza
di risposte adeguate, è
sempre passibile di espressività a livello psichico?
Tuttavia, nonostante che una
rilettura critica dei dati possa
anche condurre ad un ridimensionamento del fenomeno, resta il fatto che il progressivo invecchiamento della popolazione e la previsione
di una contrazione delle risorse disponibili, in specie
nei Paesi del cosiddetto “primo mondo”, ripropongono
comunque la questione della
sostenibilità dei costi dell’assistenza psichiatrica ed in
specie dei costi della cronicità psichiatrica.
Di qui lo stimolo alla ricerca
di nuovi modelli di intervento
che possano migliorare le
procedure terapeutiche e riabilitative.
Sotto un profilo eminentemente pratico i pazienti anziani con disturbi psichici
possono essere riuniti in tre
gruppi:
• pazienti affetti da sindromi cerebrali croniche
(composto nella quasi totalità da quadri involutivi
di tipo demenziale);
• pazienti che hanno presentato disturbi psichici
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
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in età adulta e sono invecchiati senza aver superato quei disturbi o avendoli superati solo parzialmente;
• pazienti che presentano la
comparsa di disturbi psichici proprio in età senile.
Mentre nel primo gruppo
l’andamento evolutivo verso
la cronicità appare decisamente scontato, nel secondo
e terzo gruppo, che costituiscono insieme un’entità numericamente assai consistente, la possibilità di incidere
sui processi di cronicizzazione può risultare significativamente elevata.
Sinteticamente possiamo dire
che le determinanti della cronicità psichiatrica risiedono:
• nella natura del processo
patologico;
• nella correttezza dell’approccio terapeutico-riabilitativo;
• nel livello di coinvolgimento del contesto (famigliare, istituzionale e comunitario).
Invero si può incidere poco
sulla natura del processo patologico che rinvia per un lato al livello biologico disposizionale e, per l’altro, alla dimensione della storia psicoaffettiva del soggetto (livelli
di straordinaria importanza
per l’azione preventiva, ma
scarsamente aggredibili ai fini della riabilitazione); possiamo invece fare molto in relazione alla correttezza dell’approccio terapeutico-riabilitativo ed al coinvolgimento
del contesto.
La condizione minima efficiente, utile a contrastare i
processi di cronicizzazione, è
rappresentata dall’innesco di
processi di cambiamento-te-
• la discussione della proposta di cura (da effettuare
con tutti gli interessati);
• la definizione del contratto terapeutico che include
la definizione dell’inquadramento e che impegna,
allo stesso modo, in qualità di contraenti, curati e
curanti.
Il rispetto di questi passaggi
costituisce una precondizione necessaria per un corretto
avvio del processo terapeutico (e quindi dell’azione di
contrasto della cronicità) dal
momento che rappresentano
la garanzia del riconoscimento dell’altro (paziente) come
persona.
Ogni deroga, negando all’altro la dimensione di persona,
impedisce l’avvio del processo terapeutico e si configura
come azione potenzialmente
favorente la cronicità.
Riportando questi principi
sul piano della quotidianità
non è difficile verificare che
stiamo lavorando per la cronicità quando operiamo con
pazienti senza una definizione del contratto terapeutico,
quando non rispettiamo il
setting, quando modifichiamo una prescrizione senza
discuterne con gli interessati, quando disponiamo un ricovero senza averne chiarito
le finalità, quando un terapeuta subentra ad un altro
come se nulla cambi e così
per tante delle condotte che
vengono quotidianamente
tenute in nome della cura e
che con questa, purtroppo,
spesso non hanno nulla a che
vedere.
Lavoriamo per la cronicità
quando agiamo come se la
malattia mentale fosse un
fatto esclusivo e privato del
rapia; questi si possono dare
sia all’interno di un percorso
di cura, ove sono mediati dalla relazione terapeutica, ovvero per effetto di trasformazioni del contesto.
Nel caso del percorso di cura,
per il suo corretto avvio e
mantenimento si rende necessaria una definizione dell’inquadramento (setting),
cioè la definizione dei limiti
spaziali (il dove), temporali
(quando e per quanto tempo), di ruolo (tra chi e chi) e
di compito (per fare cosa),
relativi al campo entro il
quale si svolge l’azione terapeutica.
Questi parametri, che non
valgono solo nell’ambito di
una relazione duale, servono
per favorire nel paziente la
ripresa dell’attività discriminatoria relativa al dentro ed
al fuori, al prima ed al dopo,
al sé ed all’altro, al senso ed
alla finalità dell’agire.
L’avvio di un percorso terapeutico prevede diverse fasi
preliminari:
• la richiesta di cura (più o
meno esplicita) da parte
del paziente;
• la lettura della domanda
(che va sempre restituita
al paziente);
• l’elaborazione di un progetto di cura (che dovrebbe sempre scaturire da un
confronto maturato all’interno del gruppo multiprofessionale dei curanti) che
può concernere il singolo
paziente od essere allargato alla sua famiglia e ad altri contesti quali l’ambito
lavorativo, domiciliare,
ecc.;
• l’esplicitazione della proposta di cura (rivolta a
tutti gli interessati);
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soggetto, che nasce e si esaurisce con lui, ignorando come
questo fenomeno interessi
trasversalmente il suo gruppo
famigliare, gli ambiti istituzionali cui appartiene e sin
anche la comunità nella quale vive.
Continuiamo a lavorare per la
cronicità quando non ci adoperiamo per coinvolgere questi livelli di contesto in un
processo di cambiamento che
possa influenzare anche il
cambiamento del paziente.
Ancora lavoriamo per la cronicità quando i nostri interventi riabilitativi non favoriscono la trasformazione del
ruolo e dello status di “paziente” assunto nel tempo
dai nostri assistiti.
L’insieme di tutti questi livelli d’intervento configura
quella che potremmo definire
come la dimensione “micro”
dell’agire terapeutico;ad essa
si affianca la dimensione
“macro” dell’agire terapeutico, cioè la dimensione istituzionale.
È evidente come la coerenza
tra il piano dell’operatività
individuale e dell’organizzazione istituzionale risulti di
fondamentale importanza per
una positiva riuscita delle finalità di cura.
Sotto questo profilo mi sembra utile sottolineare l’importanza del ruolo giocato dall’istituzione sanitaria nel contrastare la cronicità
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
• quando promuove un approccio alla problematica
della persona malata che
tenga conto della sua complessità bio-psico-sociale;
• quando si oppone alla filosofia della delega delle responsabilità ed alla tendenza alla settorialità degli interventi, anche se camuffati da “percorsi di eccellenza”;
• quando sostiene una cultura della prevenzione che
accanto alla logica “dell’attesa” (dove l’azione sanitaria si configura come
tentativo di riparazione a
posteriori) sviluppi anche
la logica “dell’azione” (dove l’intervento sanitario si
configura come insieme di
atti miranti a promuovere
la salute e contrastare
l’andamento di processi
che possono produrre malattia e/o cronicità);
• quando evita di colludere
con la trasformazione dei
servizi sanitari in un illusorio supermercato della
salute ove la cronicità, di
qualunque natura essa
sia, finisce col divenire
una merce altamente redditizia.
Affinché questi indirizzi possano tradursi in pratica è necessario favorire la costruzione di “luoghi”(organizzazioni
sanitarie) dove le professionalità, i saperi e le risorse
possano integrarsi per pro-
durre risposte più adeguate
alla complessità dei bisogni
assistenziali; questi luoghi,
per la loro finalità, non possono essere cattedrali nel deserto ma luoghi della quotidianità.
Un esempio di realizzazione
possibile di questi luoghi ci è
stato offerto dalla psichiatria
del nostro Paese, la quale, attraverso un lungo e difficile
cammino (dall’Ospedale psichiatrico al territorio) ha costruito un modello di operatività, definito dipartimentale,
concepito per essere funzionalmente ancorato ad un territorio definito con un bacino
di utenza di dimensione tendenzialmente non superiore
ai 100.000 abitanti; esso riunifica ed integra al proprio
interno, tramite lo strumento
della direzione unitaria, competenze, risorse e presidi sia
di tipo territoriale che ospedaliero; operativamente si caratterizza per la presa in carico delle situazioni di sofferenza e per la continuità terapeutica che viene assicurata per tutto il periodo della
cura; a livello comunitario,
promuove, in collaborazione
con le altre Agenzie territoriali (Ospedale, altri Servizi
sanitari territoriali, medici di
medicina generale, Servizi sociali, Enti locali, Centri di socializzazione, Volontariato,
ecc.) la realizzazione di interventi complessi specifici dei
Sae l ute
Territorio 113
progetti di assistenza alla
persona.
Che cosa manca allora affinché in campo psicogeriatrico
la funzione riabilitativa possa
esplicarsi in modo qualitativamente e quantitativamente
adeguato?
Manca una cultura dell’approccio alla complessità;
manca l’abitudine al coordinamento tra servizi ed alla integrazione delle risorse; manca anche uno sviluppo territoriale dei servizi geriatrici e
neurologici, entrambi tutt’ora
prevalentemente ancorati alla
sola realtà ospedaliera.
Penso, in conclusione, che il
superamento della dicotomia
Ospedale-territorio da parte
di discipline come la medicina generale, la geriatria, la
neurologia e la psichiatria
(ed il discorso varrebbe anche per altri ambiti disciplinari), con la loro riorganizzazione in forma dipartimentale, potrebbe rappresentare il
primo significativo passo
verso una più globale assunzione di responsabilità sanitaria a livello della comunità;
il passo successivo potrebbe
essere rappresentato dalla
crescita della cultura del
coordinamento e della integrazione delle risorse a livello locale, vera base per la costruzione di più adeguate,
economiche ed efficaci risposte di prevenzione, cura e
riabilitazione.
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La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Demenza senile
Carlo Rinaldo Tomassini
M. Teresa Mechi*
Marco Nerattini*
Francesca Bellini*
M. Grazia Monti**
Fabrizio Muscas***
Manlio Matera****
Direttore sanitario Azienda
sanitaria di Firenze
* SS VRQ Azienda sanitaria
di Firenze
** UO Infermieristica territoriale
Azienda Sanitaria di Firenze
*** Medico Medicina generale
**** AIMA - Associazione
italiana malati di Alzheimer
L
• con una scarsa attitudine
a fornire ai pazienti e ai
loro familiari informazioni
adeguate e competenze
per poter contribuire attivamente alla gestione della propria condizione,
• generalmente poco efficace nell’utilizzare al meglio
il contributo della comunità.
Sulla scorta di queste considerazioni gli organismi di ricerca che si occupano del miglioramento della qualità dell’assistenza hanno avviato
una riflessione che ha portato alla costruzione di un modello teorico, applicabile a
tutte le tipologie di patologie
a lungo termine, che individua sei elementi chiave sui
quali impostare la riorganizzazione dell’assistenza alle
malattie croniche.
Il Chronic Care Model (CCM) si
fonda su evidenze scientifiche e descrive le aree di cambiamento da apportare all’interno delle organizzazioni sanitarie, in particolare nelle
cure primarie, per migliorare
gli outcomes nei pazienti con
patologie croniche.
Dal CCM discende una teorizzazione più recente (ICCM)
centrata sull’idea che le aree
di miglioramento danno risul-
e maggiori difficoltà
delle organizzazioni sanitarie nel dare risposte
appropriate si verificano attualmente nell’assistenza alle
malattie a lungo termine: il
sistema non si è evoluto nel
tempo, rispetto all’incremento della prevalenza di queste
patologie, in modo da potersi
rimodellare e adeguare rispetto alla crescente domanda e ha mantenuto logiche e
modelli pensati per la cura
degli eventi acuti.
L’assistenza per le malattie a
lungo termine risulta così:
• frammentata, priva cioè di
efficaci collegamenti tra i
professionisti che intervengono in momenti diversi,
• con “passaggi di mano”
non adeguatamente coordinati con la conseguente
entrata-uscita dai vari
steps del percorso demandata al paziente e non guidata dal sistema,
• poco orientata verso la
pianificazione e quindi capace di fornire interventi
generalmente solo quando
arriva la richiesta, spesso
in situazione di urgenza,
• carente di informazioni sul
paziente aggiornate nel
tempo e fruibili dai diversi
servizi,
tati ottimali quando l’assistenza si struttura intorno ad
una triade virtuosa data dalla
partnership tra i pazienti e i
loro familiari, il team dei professionisti e la comunità. Il
sistema funziona quando
ogni membro della triade è
informato, motivato e preparato per gestire le condizioni
croniche e comunica e collabora con gli altri membri della
triade. La triade è sostenuta e
supportata dall’organizzazione, dalla comunità più ampia
e dall’ambiente politico.
Tutto questo diventa ancora
più importante nella condizione di scarsità di risorse dove il linkage con le organizzazioni della comunità risultare
proficuo per colmare i gap dei
servizi che non possono essere assicurati dalle organizzazioni.
La malattia di Alzheimer e
l’insieme complessivo delle
patologie racchiuse nella definizione di “demenza” rappresentano una delle aree a
maggiore complessità per
l’organizzazione delle risposte assistenziali. Questo dipende da diversi fattori tra
cui principalmente: la prevalenza della patologia, la durata della malattia, la forte ricaduta sociale.
La demenza rappresenta
quindi una sorta di paradigma della difficoltà organizzativa dell’assistenza alle patologie croniche che spesso determinano ritardi e inadeguatezza degli interventi alimentando così la sfiducia dei familiari nella rete dei servizi,
elemento determinante nel
ricorso alla istituzionalizzazione del malato.
Il modello di assistenza realizzato per la demenza prevede:
N. 149 - 2005
1. Un modello organizzativo
innovativo a livello territoriale che alloca il case
management a livello di
microequipe composte da
un medico di medicina generale, un infermiere territoriale e un assistente sociale che operano in team
fino dal momento della
diagnosi e che accompagnano il paziente e la sua
famiglia per tutto il “viaggio” nella malattia.
L’interazione tra i componenti la microequipe è guidata attraverso strumenti
di supporto alle decisioni
che comprendono algoritmi per l’individuazione
della necessità di attivazione reciproca.
2. La costruzione del piano di
assistenza attraverso strumenti di valutazione per
ciascuna dimensione del
bisogno (clinico, infermieristico, sociale, familiare)
dove la scelta della risposta appropriata è supportata da algoritmi decisionali che registrano il gap
tra risposta appropriata e
risposta erogabile consentendo la pianificazione
dell’offerta.
3. Un software gestionale che
opera attraverso Internet e
consente l’accesso, il data
entry e la condivisione delle
informazioni sui singoli casi da parte dei membri delle
microequipes, facilitando
così lo scambio e la condivisione delle informazioni.
4. Ai livelli medio (distretto)
e macro (Direzione aziendale) l’accesso al software
consente rispettivamente
il monitoraggio della correttezza nell’utilizzo delle
risorse e la pianificazione.
N. 149 - 2005
Nella costruzione del percorso si è lavorato all’allineamento tra i diversi momenti e
i diversi livelli e tipologie di
apporto professionale in modo da escludere gap o sovrapposizioni e rendere complementari tutti gli interventi.
Il medico di medicina generale
è l’attivatore del percorso diagnostico terapeutico orientando il paziente verso lo specialista, sia al momento della
diagnosi che del follow up, attraverso un filtro attivo in cui
vengono escluse tutte le cause
dei disturbi diverse dalla demenza.
L’équipe racchiude le competenze professionali necessarie
alla costruzione e validazione
nel tempo del piano di assistenza individuale e all’erogazione in forma diretta, avvalendosi anche delle altre componenti professionali presenti
a livello distrettuale, o indiretta delle prestazioni necessarie. Ogni équipe costruisce
e aggiorna il piano di assistenza utilizzando i test e applicando i criteri indicati nelle varie schede di valutazione.
Le schede sono modulari,
cioè consentono il completamento della valutazione attraverso l’integrazione delle
sole informazioni aggiuntive,
evitando inutili duplicazioni,
e vengono gestite in rete. Lo
strumento di collegamento
tra i tre professionisti è una
scheda di contatto che viene
aggiornata in occasione di
ogni accesso da parte di uno
dei componenti l’equipe e
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
consente l’attivazione degli
altri componenti nel momento in cui il compilatore ne
evidenzia la necessità, utilizzando i criteri individuati dal
protocollo di intervento.
La messa in rete delle informazioni consente la loro condivisione in tempo reale e la
discussione dei casi on line
come utile alternativa alle
riunioni.
Per tutte le dimensioni professionali sono stati costruiti
strumenti di supporto alle
decisioni sotto forma di profili diagnostici e di assistenza
basati sulle evidenze scientifiche e algoritmi decisionali
che guidano anche l’interazione tra i componenti della
microequipe che rappresenta
l’unità fondamentale di assistenza primaria.
Sulla base delle informazioni
raccolte con la scheda di contatto e, quando necessario,
con schede di apprendimento
dimensionale, viene definito
il piano di assistenza e la frequenza della rivalutazione
che viene effettuata a cadenza programmata o attivata direttamente da uno dei professionisti che registra un cambiamento significativo delle
condizioni o dagli stessi familiari ai quali viene fornito uno
strumento di self management per la valutazione periodica di alcune funzioni “chiave”. Il piano comprende e
compendia tutte le risposte,
sia sociali che sanitarie, in
modo da favorire un utilizzo
più proficuo delle risorse. L’al-
goritmo suggerisce la risposta
predefinita come appropriata
in relazione ai diversi profili
di necessità assistenziali, i
professionisti possono fare
scelte diverse ma vengono
sempre registrate le motivazioni che rappresentano un
elemento di analisi successiva. Viene inoltre sempre registrato il piano teorico e quello
effettivamente erogabile.
Grande attenzione è stata posta alla complementarietà dei
ruoli, che rappresenta in ultima analisi l’aspetto critico su
cui lavorare per superare la
frammentazione delle risposte. Questo elemento è particolarmente delicato a livello
di interfaccia tra il medico di
medicina generale e lo specialista e tra specialisti di
branche con ampi margini di
sovrapponibilità.
Il lavoro congiunto dei professionisti ha consentito l’elaborazione di strumenti per
la valutazione clinica dei disturbi cognitivi e comportamentali da parte del medico
di medicina generale orientata alla esclusione delle cause
diverse dalla demenza e di
criteri che guidano l’invio allo specialista. Lo specialista
si pone rispetto alla microequipe con un ruolo consulenziale, essendo il management
del caso affidato alla microequipe. Il rapporto tra lo specialista e la microequipe è
però stretto e lo staging clinico dello specialista è uno dei
criteri che alimenta l’algoritmo di supporto alle decisioni.
Sae l ute
Territorio 115
Gli ambulatori specialistici
sono organizzati in rete in
modo da coprire tutto il bacino di riferimento, tutti gli
specialisti che ne fanno parte
(geriatri e neurologi) hanno
contribuito all’individuazione
di un setting comune di strumenti diagnostici e di un protocollo diagnostico terapeutico, inoltre mediante l’auditing periodico viene incrementata l’omogeneità dei
comportamenti professionali.
Il sistema è gestito attraverso
un software che contiene record elettronici condivisi che
vengono alimentati dai diversi professionisti, gestisce l’attivazione delle valutazioni
specialistiche e il monitoraggio periodico (review) a cadenza programmata.
Il software gestionale contiene una sessione specifica per
la componente specialistica.
Il contribuito della comunità è
un elemento essenziale per la
sostenibilità dei sistemi di assistenza. Per poter esercitare
questa funzione è però indispensabile che i ruoli di tutti i
soggetti siano definiti con
chiarezza in modo da essere
efficacemente complementari.
I centri di ascolto dell’“Associazione malati di Alzheimer”
operano in modo integrato e
coordinato con i servizi e rappresentano una delle risposte
della rete ai quali è demandato un ambito non coperto dai
servizi ma di importanza fondamentale per l’assistenza alla
demenza rappresentato dal
supporto alla famiglia.
Bibliografia
for local implementation.
North of England Evidence Based Guidelines Development Project, Evidence Based Clinical Practice Guideline -The primary care management
of dementia.
Quality standards Alzheimer’s Society UK, Home care services for people with dementia.
Department of Health NHS, The single assessment process - Guidance
The British Geriatric Society and Royal colleges of physiacians, Guidelines for the implementation of clinical governance in geriatric medicine.
l ute
Sa
e
116 Territorio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Ipertensione
arteriosa
Giancarlo Berni
Antonio Brancato*
Cesare Francois**
Direttore dipartimentale
AO Careggi - Firenze
* Primario UO Medicina,
PO S.Andrea – Az.USL9, GR
** Primario Pronto soccorso, PO
dell’Alta Val d’Elsa. Az.USL7, SI
L’
dente che oggi stabilire diagnosi di ipertensione (soprattutto essenziale) ponga una
responsabilità pesante e doppia (etica ed economica) in
quanto un atteggiamento
prudenziale che allarghi i criteri diagnostici pensando di
eccedere in tutela della salute del singolo, pone il rischio
di marcare emotivamente i
pazienti e sovraccaricare inutilmente la spesa farmaceutica mentre mantenere criteri
restrittivi espone a sottostimare le forme di preipertensione o quelle lievi lasciando
così incontrollato un importante fattore di rischio per le
patologie cardiovascolari con
pesanti conseguenze sulla salute dei pazienti e sui bilanci
dei sistemi sanitari.
Come sempre deve prevalere
il buon senso evitando di
“condannare o assolvere” per
una diagnosi impropria basata su sporadiche misurazioni
di pressione o affidata tout
court alla automisurazione e
ci si dovrà invece avvalere, in
caso di sospetto diagnostico,
di metodi più validi quali il
monitoraggio della PA nelle
24 ore e i periodici controlli,
consigliando da subito la correzione dello stile di vita soprattutto per quanto concer-
ipertensione è una situazione estremamente diffusa interessando, in Italia, il 30 % della popolazione e potenzialmente
pericolosa se si considera che,
negli ipertesi, una riduzione
di 5-6 mmHg della pressione
diastolica e di 10-11 della sistolica riducono rispettivamente del 38 % il rischio di
patologia cerebrovascolare e
del 16 % quello di un evento
coronarico (1).
Un dato che ancora desta non
poco allarme è la constatazione che su 100 ipertesi non
più del 60 % è in trattamento
e che solo il 36.5 % degli
ipertesi trattati è risultato in
buon controllo farmacologico
e questi dati italiani sono risultati in linea con quanto
emerso negli altri Paesi industrializzati (2).
Essendo poi una condizione
permanente e, se non adeguatamente corretta, aggravantesi nel tempo, è divenuta
materia di grosso interesse
per le multinazionali che attualmente detengono la maggioranza azionaria di tutte le
Industrie farmaceutiche e che
quindi incentivano gli studi e
premono sulla diffusione dei
loro prodotti antiipertensivi.
Di fronte a questi dati è evi-
ne l’alimentazione ed il moto.
Spesso inoltre i pazienti stessi tendono a minimizzare valori pressori non particolarmente elevati anche se già da
correggere e tengono quindi
in scarsa considerazione i
consigli del proprio medico.
Tra le variazioni di stile di vita che dovrebbero essere messe comunque in pratica troviamo la restrizione nell’uso
del sale nella preparazione dei
cibi e soprattutto l’esclusione
dei cibi conservati dove la salatura rappresenta il metodo
di preservazione in modo da
non superare i 6 g/die di cloruro di sodio; va limitata l’assunzione di alcool sotto i 1030 gr al giorno nell’uomo (1-3
bicchieri di vino) e sotto i 10
– 20 gr nella donna, va perseguita una riduzione ponderale nei soggetti sovrappeso, va
incrementata l’attività fisica
quotidiana e va eliminato il
vizio del fumo.
Già da sole queste prescrizioni
possono ridurre i valori di PA
riconducendo il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari ai tassi della popolazione standard come confermato dal recente studio PREMIER dove sia i pazienti che
avevano seguito i sopraesposti
consigli sia quelli che erano
stati indirizzati ad una dieta
particolare, siglata con l’acronimo DASH, hanno ridotto i
valori di PA rispettivamente
nel 30 e nel 35 % contro un 19
% del gruppo di controllo cui
erano state date semplici norme generiche (3).
La particolare dieta DASH
(Dietary Approaches to Stop
Hypertension) consta nell’incremento di frutta e vegetali
favorendo l’uso di cibi poveri
di grassi oltre che alla limita-
N. 149 - 2005
zione nell’uso del sale (4).
Prima di iniziare la correzione
farmacologica dei valori pressori è comunque importante
valutare la stratificazione del
rischio di sviluppare le patologie vascolari a livello cerebrale, cardiaco o renale, indipendentemente dal mero valore della PA, a tale proposito
è stata redatta dalla WHO e
dalla ISH (Società internazionale dell’ipertensione) una
tavola della stratificazione
del rischio utile a determinare la necessità ed i tempi dell’induzione di terapia.
Va ricordato che come accade
per molte altre situazioni di
rischio i gruppi di popolazione che per vari motivi vengono reclutati per studi dimostrano spesso, globalmente un
vantaggio per gli eventi avversi, in virtù del solo controllo, rispetto a coorti con uguale fattore di rischio iniziale
ma non sottoposti a periodici
controlli; il controllo regolare,
infatti, rappresenta di per sé
una valida motivazione per il
paziente alla adesione ad ogni
tipo di terapia farmacologica
ed al cambio dello stile di vita. Diviene perciò fondamentale la periodica rivalutazione
programmata degli ipertesi
presso il proprio medico di
medicina generale piùttosto
che una frettolosa assiduità
ambulatoriale per il solo controllo ravvicinato dei valori
numerici della PA.
Nell’ambito organizzativo dove i sistemi sanitari pubblici
dedichino risorse per la prevenzione, una quota parte
delle risorse dovrebbe essere
dedicata allo studio e controllo dei valori pressori della
popolazione con campagne
educazionali ben calibrate e
N. 149 - 2005
con l’istituzione di centri di
riferimento in collaborazione
con le Società scientifiche
mediche e gli Ordini professionali.
Nel sesto Rapporto del Joint
National Committee on Prevention, Detection, Evaluation
and Treatment of High Blood
Pressure del 1999 compare,
nel capitolo introduttivo, un
paragrafo intitolato: Le sfide
dell’ipertensione per la salute
pubblica, dove sono enunciati
dieci punti chiave per un programma di contenimento del
rischio ipertensione che vale
la pena di riportare (5):
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
• prevenire l’aumento della
pressione con l’età
• diminuire l’attuale prevalenza dell’ipertensione
• aumentare la sensibilizzazione dei pazienti e la possibilità di scoprire l’ipertensione
• migliorare il controllo dell’ipertensione
• ridurre i rischi cardiovascolari
• aumentare la consapevolezza dell’importanza dell’ipertensione sistolica isolata
• aumentare la consapevolezza dell’importanza di
una pressione ai limiti su-
periori della norma
• ridurre le differenze etniche, socioeconomiche e regionali dell’ipertensione
• migliorare le opportunità
terapeutiche
• aumentare l’applicazione
dei programmi sul territorio
È un programma ambizioso
che però darebbe buoni frutti
fin dalla sua prima applicazione senza dover attendere
dei risultati finali consistenti
e che quindi dovrebbe trovare
il consenso di chi organizza i
sistemi di prevenzione.
Di quanto raccomandato in
questo decalogo se ne atten-
Sae l ute
Territorio 117
deva un rapporto di risultato
nella edizione successiva alla
sesta invece la settima stesura del 2003 non ne fa menzione o riferimenti facendo supporre che i suggerimenti non
abbiano trovato una consistente applicazione
Concludiamo con la definizione quasi filosofica data da
G. Rose nel 1971 ma che ancora oggi appare valida:
“L’ipertensione potrebbe essere definita come quel valore di
pressione arteriosa in corrispondenza del quale diagnosi
e tarapia fanno più bene che
male” (6)
Bibliografia
3. Premier Collaborative Research Group, Jama, 2003, 289: 2083.
1. Leonetti G., Cuspidi C., La prevenzione dell’ictus nel paziente iperteso: i risultati dei grandi trial, Ipertensione e prevenzione cardiovascolare, 2001, vol. 8, n. 2: 60.
2. Mancia G. et al., Studio SILVIA: in Italia il controllo della pressione
sanguigna è ancora ampiamente inadeguato, Hypertension, 2004; 22:
2387.
4. Dietary Approach to Stop Hypertension, N. Engl.J. Med. 2001,
344:3.
Scompenso
cardiaco
Roberto Lorenzoni
Eva Favilla
UO Malattie Cardiovascolari,
Ospedale “Campo di Marte”,
Lucca
L’
La mortalità per SC è molto
elevata ed è mediamente superiore alla mortalità di molte
forme di cancro come il cancro
alla vescica, alla prostata, al
seno, all’ovaia e all’intestino
(2). Infatti, il 50% dei pazienti con SC muore entro 4 anni
ma il 50% dei pazienti con
forme gravi di SC muore entro
1 anno dalla diagnosi (3).
Gli obbiettivi della terapia
nello SC sono 3:
aumento di incidenza
dello scompenso cardiaco (SC) costituisce
una vera e propria epidemia
ed il costo ad esso connesso
continua a crescere inesorabilmente. Si stima che in Europa, su una popolazione di
circa 900 milioni di abitanti,
10 milioni soffrono di SC ed
altrettanti hanno disfunzione ventricolare sinistra senza
avere ancora sintomi (1).
5. 6th Report of Joint National Committee on Prevention, Detection,
Evaluation and Treatment of High Blood Pressure, 1999.
6. Rose G., Hypertension, Br.Med.Bull.1971, 27.
1. Prevenire l’insorgenza della disfunzione ventricolare
sinistra e dello SC attraverso il controllo delle malattie che li determinano
(prevenzione primaria).
2. Prevenire le riacutizzazioni della malattia quando
questa è ormai presente
(prevenzione secondaria).
3. Aumentare la sopravvivenza e migliorare la qualità
di vita sino alla gestione
delle fasi terminali della
malattia.
La prevenzione primaria
Lo sviluppo della disfunzione
ventricolare sinistra e dello
SC può essere prevenuta o comunque ritardata attraverso
la cura adeguata delle condizioni che portano allo SC, soprattutto l’ipertensione arte-
riosa e la malattia coronarica.
La terapia adeguata dell’ipertensione arteriosa e degli altri fattori di rischio vascolare
deve essere perseguita con
determinazione e secondo le
linee guida, perché oltre a ridurre l’incidenza di eventi vascolari acuti, infarto miocardico ed ictus, riduce anche
l’incidenza di SC.
Quando la disfunzione ventricolare sinistra è già presente, il primo obbiettivo è
quello di rimuovere le cause
sottostanti, se possibile: correggere l’ischemia, curare in
maniera aggressiva l’ipertensione arteriosa, eliminare l’abuso di alcool etc. La terapia
della disfunzione ventricolare sinistra deve essere comunque iniziata quanto prima per rallentare la progres-
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Sa
e
118 Territorio
sione, peraltro inevitabile,
verso lo SC.
La prevenzione secondaria
La scelta di una terapia farmacologia ottimale dello SC
previene le riacutizzazioni e
migliora la qualità della vita.
Purtroppo non è possibile
evitare la morte per SC ma è
possibile comunque ritardarla. La disponibilità dei defibrillatori impiantabili ha ridotto la morte improvvisa
che era frequente in questi
pazienti per cui l’esito fatale
è sempre più spesso dovuto a
scompenso refrattario.
Il trattamento ambulatoriale
dello SC
Il decorso clinico dello SC è caratterizzato da riacutizzazioni
che richiedono frequenti e costose ospedalizzazioni. In Europa, la diagnosi di SC è la più
frequente diagnosi di dimissione nei pazienti ricoverati
che hanno oltre 65 anni (4,
6). A domicilio lo SC è poi
spesso curato in maniera inadeguata. I pazienti non sono
visti regolarmente dallo specialista e non hanno la consapevolezza della gravità della
propria malattia. Ne consegue
che le terapie sono prescritte
in maniera sub ottimale e l’aderenza dei pazienti alla terapia prescritta è scarsa (6). Ancora meno adeguati sono i
consigli riguardanti la dieta e
l’attività fisica. Da queste considerazioni emerge che molte
riacutizzazioni e conseguenti
ospedalizzazioni potrebbero
essere evitate con un’assistenza sanitaria più mirata.
I “disease management programs” rappresentano modelli di cura che prevedono un
approccio multidisciplinare
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
alle malattie croniche con
un’assistenza costante nel
tempo ai malati e con uno
sfruttamento trasversale di
tutte le risorse del sistema
sanitario (7).
Il concetto di “disease management program” applicato
allo SC ha portato alla formazione di centri dedicati alla
terapia dello SC. I modelli assistenziali utilizzati sono
fondamentalmente due (8):
a. ambulatori dedicati allo SC
(tipologia di assistenza
“clinic-based”);
b. assistenza domiciliare ai
pazienti con SC (tipologia
di assistenza “home-based”).
Le due tipologie di assistenza, peraltro, possono essere
fatte coesistere.
1. Gli ambulatori dedicati allo SC sono in genere ricavati all’interno dei servizi
di cardiologia. La maggior
parte di questi servizi prevede che la figura sanitaria
di riferimento sia un medico, in genere un cardiologo (modello “physician-directed”). I pazienti che
hanno sintomi possono
presentarsi a questi ambulatori senza prenotazione
e ricevere assistenza tempestiva. Questi centri in
genere hanno disponibilità
di un ecocardiografo ed
una via preferenziale con
il laboratorio di analisi dove poter dosare immediatamente i parametri ematochimici fondamentali
per la gestione di questi
pazienti.
2. L’assistenza domiciliare
nei pazienti con SC prevede che i pazienti siano visitati regolarmente al proprio domicilio secondo
sed”, l’efficacia non è statisticamente significativa per il
secondo modello. L’inconveniente del modello “clinic-based” risiede nel fatto che è il
paziente o il medico di medicina generale che, in genere
per l’aggravarsi dei sintomi,
richiede l’accesso all’ambulatorio dedicato allo SC. Purtroppo, l’accesso è spesso tardivo per prevenire la ricaduta
e la conseguente ospedalizzazione. Inoltre questi pazienti sono frequentemente
anziani e debilitati, talora
con difficoltà anche logistiche di spostamento per cui si
comprende facilmente come
la terapia domiciliare condotta da infermieri specializzati
sia più efficace. Infatti, tale
approccio tende a prevenire
la fase acuta attraverso visite
periodiche e regolari che controllano lo stato clinico dei
pazienti e monitorizzano i
parametri ematochimici.
Pertanto, anche se più difficile da implementare, è auspicabile che non si creino dei
servizi dedicati allo SC senza
la possibilità di fornire l’assistenza domiciliare.
Apparentemente l’istituzione
dei servizi di assistenza dedicati allo SC può sembrare costosa e difficile da implementare. Va ricordato però che il
70% di tutte le spese per lo
SC è imputabile al costo dei
ricoveri ospedalieri (11). Dato che l’istituzione di tali servizi si è dimostrata capace di
ridurre le riospedalizzazioni
si è conseguentemente dimostrata costi-efficace (12).
programmi differenziati e
personalizzati con la possibilità anche di essere
sottoposti ad esami. La
maggior parte di questi
servizi prevede che la figura sanitaria di riferimento
sia un infermiere (modello
“nurse-led”). Questi infermieri hanno facoltà anche
di modificare la terapia
entro i limiti di protocolli
predefiniti ed hanno comunque la disponibilità di
consulenza da parte di un
cardiologo referente.
Il primo report di efficacia di
tale approccio alla cura dello
SC è del 1995 (9). Successivamente, molti paesi, soprattutto Gran Bretagna e Svezia,
hanno implementato tali sevizi su scala nazionale. Anche
in Italia si sta creando una
rete di servizi dedicati allo SC
promossa dall’Associazione
dei cardiologi ospedalieri
(ANMCO) che ha distribuito
un software che rappresenta
sia una guida di comportamento che uno strumento di
raccolta dati. Il modello assistenziale attualmente più
utilizzato è quello “clinic-based” dell’istituzione di ambulatori dedicati allo SC.
In una metanalisi, l’approccio
“disease management program” applicato allo SC si è
dimostrato efficace nel ridurre gli “end-points” di: episodi
di scompenso e ricoveri ospedalieri per problemi cardiovascolari, ricoveri per qualsiasi
motivo, ricoveri e morte (10).
Anche se l’efficacia di tale approccio sembra essere globale, quando si vanno ad analizzare i due modelli separatamente, servizi “nurse-led home-based” rispetto a servizi
“physician-directed clinic-ba-
La riabilitazione cardiologica
nello SC
La riabilitazione cardiologica
nei pazienti con SC può rap-
N. 149 - 2005
presentare un altro aspetto
della gestione clinica di questi pazienti secondo il principio dei “disease management
programs”.
Una metanalisi di studi clinici randomizzati ha dimostrato che un programma di training fisico, adeguatamente
supervisionato ed eseguito in
ambienti sicuri, non solo non
è pericoloso ma riduce in maniera significativa sia la mortalità che la riospedalizzazione dei pazienti con SC (13).
Certamente i pazienti possono essere avviati alla riabilitazione cardiologia solo se
stabili clinicamente e se non
presentano controindicazioni
all’attività fisica. Probabilmente solo una minoranza di
pazienti in fase avanzata di
malattia può essere inserita
in questi programmi mentre
un numero maggiore di pazienti dovrebbe essere tratta-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
to quando è ancora in fase
iniziale con lo scopo di rallentare la progressione della malattia e di ridurre i ricoveri.
Non è invece possibile tracciare linee guida sulla durata,
sui carichi e sulle frequenze
delle sedute né sulla durata e
cadenza dei cicli riabilitativi.
Il ciclo riabilitativo deve essere comunque personalizzato.
Tutti i pazienti cardiopatici
necessitano di trattamenti
personalizzati, ma ancora di
più i pazienti con SC a causa
dei molteplici meccanismi che
possono determinare il deterioramento della malattia.
Al termine del ciclo riabilitativo il pazienti è inserito in un
programma di mantenimento
che durerà tutta la vita in maniera autonoma. Probabilmente, in analogia a quanto detto
per l’assistenza generale di
questi pazienti, visite domiciliari periodiche da parte dei fi-
sioterapisti porterebbe ad una
maggiore aderenza al trattamento di mantenimento e forse a risultati di efficacia a lungo termine migliori.
La gestione della fase terminale
Nonostante un incremento
delle disponibilità di cure efficaci e della loro implementazione nella pratica clinica,
la mortalità per SC rimane
elevata ed inevitabile. L’unica
terapia definitiva per lo SC è il
trapianto cardiaco ma è come
“fornire una sola scialuppa al
Titanic che affonda” (14). La
metà dei pazienti con SC
muore di morte improvvisa
ma l’uso sempre più diffuso
dei defibrillatori automatici
impiantabili eviterà la morte
precoce a molti pazienti. Ne
deriva che il destino ultimo
della maggior parte dei pazienti con SC sarà quello di
Sae l ute
Territorio 119
una fase finale di vita di pessima qualità paragonabile solo a quella dei malati terminali di cancro. È evidente che
la cardiologia deve prevedere
una strategia di cure palliative per i pazienti in fase terminale di SC. Peraltro, la percezione di gravità della malattia
nello SC è molto inferiore rispetto a quella nel cancro ed
è difficile per i pazienti, per i
familiari e per gli operatori
sanitari raggiungere la consapevolezza di fase terminale e
di raggiunta inutilità delle
cure. Eppure, tale situazione
sarà sempre più frequente e la
razionalizzazione di tale evenienza non può che migliorare la qualità di vita del pazienti. Anche per questo
aspetto, l’assistenza domiciliare da parte di infermieri
specializzati potrà essere utile nella gestione della fase
terminale (14).
Bibliografia
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l ute
Sa
e
120 Territorio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Malattie
vascolari
Giampaolo Sozio
Azzam Khader
Alessandro Bianchi
Stefano Nepi
Mauro Ludovici
Benvenuti Flaminio
UF Chirurgia Ospedale
Alta Val D’Elsa
USL 7 Siena
N
l’infarto del miocardio, l’ictus
e la morte per causa cardiovascolare: infatti è stato calcolato che gli individui affetti da
AOAI hanno un incremento
del rischio di eventi ischemici
cardiovascolari di circa 7-10
volte e di mortalità a breve
termine di circa 3 volte rispetto alla popolazione non affetta da AOAI (1).
Il grado più severo della malattia e cioè il quadro di
ischemia critica, ha una incidenza di circa 500 casi per milione ; tra il 10 ed il 30 % di
questi pazienti ha una previsione di eventi cardiovascolari
maggiori, fatali o non fatali,
nei 6-12 mesi dopo la diagnosi e meno della metà dei pazienti con ischemia critica sopravvive senza una amputazione maggiore dopo 6 mesi
dalla presentazione clinica.
La elevata prevalenza, le conseguenze funzionali, il rischio ischemico cardiovascolare, il rischio di amputazione
e la elevata mortalità associata alla AOAI determinano la
necessità di una particolare
attenzione alla profilassi ed
al controllo della malattia.
Le scarse risorse del Servizio
sanitario nazionale, la prevalenza dei pazienti affetti da
el paziente anziano la
aterosclerosi comporta
lo sviluppo di tre sindromi principali: la cardiopatia ischemica, l’ictus e le arteriopatie obliteranti degli arti
inferiori. Tali sindromi prevalgono sulle altre condizioni
per incidenza e peso sociale
in termini di assorbimento di
risorse, ma non bisogna dimenticare che, in considerazione del carattere sistemico
della malattia aterosclerotica,
numerose altre sindromi a patogenesi ischemica possono
giovarsi di programmi di
screening e trattamento delle
tre patologie principali.
Un discorso a parte merita poi
la patologia aneurismatica, in
particolare della aorta addominale, che implica dibattute
scelte di indicazione al trattamento e di screening sulla popolazione ad età elevata in riferimento alla alta mortalità
conseguente alla rottura.
La patogenesi della arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori (AOAI) è associata ai comuni fattori di rischio come
diabete, fumo, ipertensione
ed ipercolesterolemia. La AOAI
riveste particolare importanza
poiché è considerata un potente indicatore di rischio per
patologia aterosclerotica, il
sovraccarico di lavoro dei laboratori di diagnostica vascolare ed i tempi di attesa, spesso eccessivi a causa di richieste di esami inutili o ripetitivi, impone alle comunità
scientifiche di identificare dei
percorsi diagnostici ottimali,
al fine di ottimizzare le risorse esistenti. Ci si trova di
fronte quindi un duplice problema: da una parte la necessità di indirizzare la popolazione, selezionata per categorie di rischio, verso una diagnostica di screening di ampia
diffusione per la individuazione della malattia in stadi
precoci o addirittura preclinici, dall’altra l’obbligo di incrementare la qualità dei laboratori di diagnostica vascolare
che debbono offrire accertamenti più affidabili dal punto
di vista della attendibilità,
della specificità e della sensibilità e raggiungere standard
di qualità accreditabili dalle
Società scientifiche.
Ai fini dello screening di massa è indicato favorire la larga
diffusione e la presa di coscienza delle caratteristiche
della malattia attraverso
campagne informative di salute pubblica mentre uno
screening strumentale sulla
popolazione oltre un certo limite di età appare non proponibile per il nostro sistema
sanitario.
Senza un programma di educazione alla malattia aterosclerotica degli arti a carattere nazionale, i dati relativi ai
progressi raggiunti su questa
patologia rimangono in larga
parte ignorati; di conseguenza non può essere ottenuto
quel guadagno sperato sul
piano della salute pubblica e
N. 149 - 2005
le risorse spese per gli investimenti sulla ricerca in patologie vascolari non si traducono in un beneficio in termini di salute.
Negli Stati Uniti è stata raggiunta una corposa evidenza
dei benefici raggiunti attraverso campagne di sensibilizzazione e di educazione sulla
patologia aterosclerotica degli arti inferiori.
Da questi dati derivano interessanti considerazioni: la
necessità per i messaggi relativi alle campagne di salute
pubblica, di essere fondati su
robusta evidenza scientifica;
la indicazione alla creazione
di gruppi di lavoro dedicati
che prevedano la presenza di
tutte le figure professionali
coinvolte nella diagnosi e cura delle malattie vascolari,
rappresentanti dell’utenza e
membri di organizzazioni con
esperienza nella comunicazione e nelle pubbliche relazioni con l’intento di creare
un gruppo di lavoro permanente per la educazione e la
prevenzione delle malattie
vascolari che conduca a strategie condivise di politica sanitaria dedicata.
In particolare i principali obbiettivi da raggiungere possono essere riassunti nei punti seguenti:
• Creazione di un insieme di
messaggi inerenti la AOAI
su basi scientifiche basate
sulla evidenza.
• Programmazione di supporti alle società scientifiche ed alle associazioni
dedicate allo studio delle
malattie vascolari per lo
sviluppo di campagne pubbliche di informazione.
• Previsione di progetti di
medio termine con la indi-
N. 149 - 2005
viduazione di “end point”
misurabili la cui monitorizzazione passi attraverso
workshop di esperti.
Le campagne informative
rappresentano dunque uno
strumento di grande importanza in un capitolo, quale
quello delle arteriopatie obliteranti degli arti inferiori,
per il quale è già impegnata
una elevata quota di risorse
in termini di assistenza routinaria: i messaggi da divulgare
sono relativi ad alcuni concetti fondamentali posti alla
base della patologia:
• La alta prevalenza della
AOAI e la sua stretta relazione con l’avanzare della
età e con i comuni fattori di
rischio per la aterosclerosi.
• La natura sistemica della
malattia aterosclerotica ed
i suoi legami con i principali eventi ischemici cardiovascolari (infarto del
miocardio, ictus e morte).
• Gli effetti della AOAI sulla
qualità di vita, sul decadimento della funzionalità
del proprio organismo e
sul rischio della perdita
degli arti.
• La facilità della diagnosi di
AOAI attraverso la visita
clinica e l’uso dell’ ABI.
La capacità di un corretto stile di vita, associato ai farmaci
ed alle più moderne tecniche
di chirurgia vascolare ed endovascolare quando necessarie, consentono di migliorare
la qualità di vita, ridurre il rischio cardiovascolare e l’incidenza delle amputazioni
maggiori.
A seguito della diffusione e
della presa di coscienza dei
temi inerenti la AOAI è consigliabile per il paziente al di
sopra dei 65 anni un control-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
lo clinico sistematico della
propria salute attraverso una
valutazione del MMG poiché
una corretta anamnesi ed
esame obiettivo completato
dalla palpazione dei polsi e
delle arterie lungo il loro decorso, alla ricerca di ectasie,
e dalla ascoltazione dei soffi
è generalmente sufficiente
per eseguire una diagnosi di
arteriopatia steno-ostruttiva
degli arti inferiori.
Tale valutazione, completata
da un esame Doppler CW (I livello diagnostico), consente
una corretta stratificazione
della patologia nel paziente
anziano, riservando alla diagnostica di II e III livello solo
i casi patologici ; in questo
modo è lecito auspicare la riduzione della presentazione
della patologia cardiovascolare nei suoi quadri morbosi più
gravi e, quindi, più onerosi
per quanto attiene ai costi
sociali attraverso un corretto
utilizzo delle risorse sul territorio e risparmiando sugli
esami specialistici strumentali non adatti alle funzioni
di screening e follow up come
indicato dalle principali linee
guida nazionali (PNLG et al.)
Per la patologia ischemica cerebrale, è importante, anche
in questo caso, partire da alcune considerazioni di carattere epidemiologico che sottolineino le dimensioni del
problema: il miglioramento
generale delle condizioni di
vita ed i progressi in campo
medico hanno prodotto un allungamento della durata della
vita con una spettanza che è
di 7.2. anni per gli uomini e d
ai 9.1 anni per le donne (2).
In Italia le ultime rilevazioni
censitarie rilevano che oltre
un quinto della popolazione
ha superato i 60 anni e che
l’attuale trend porterà nel
2040 gli ultrasessantenni al
41% ; la percentuale di individui con età uguale o superiore ad 80 anni, oggi pari al 6%
circa, crescerà di pari passo
(3). In questa fascia di età
l’ictus, principalmente su base aterosclerotica, rappresenta sempre la III causa di morte, ma con una incidenza che
è maggiore di 5 volte (6 volte
per i maggiori di 85 anni) rispetto alla popolazione compresa tra i 55 e i 65 anni (4).
Secondo le linee guida italiane SPREAD sull’ictus cerebrale – aggiornamento 2001 –
ogni anno vi sono in Italia oltre 186.000 nuovi casi e, considerando l’incidenza costante, questo numero è destinato ad aumentare fino a poter
stimare nel 2008, a causa dell’incremento demografico, ad
oltre 206.000 nuovi casi.
Il ricorso allo screening per la
stenosi carotidea appare giustificato quindi non solo dal
fatto che le persone con stenosi asintomatica sono ad aumentato rischio per le malattie cardiovascolari (5, 6), ma
anche dal fatto che la diagnosi precoce può ridurre la morbilità per tali malattie; la
consapevolezza della diagnosi può motivare i pazienti a
modificare stili di vita e fattori di rischio ovvero a sottoporsi a schemi terapeutici
nelle fasi precoci di malattia.
Non è ancora possibile stabilire con certezza se lo screening
su vasta scala sia una un metodo efficace nella pratica clinica generale per ridurre la
morbilità e la mortalità da ictus. Risultano invece raccomandabili programmi di screening per i fattori di rischio co-
Sae l ute
Territorio 121
me ad esempio l’ipertensione,
associate a campagne di educazione sanitaria contro i rischi del fumo e della obesità,
a seguito dei quali sia possibile selezionare sottopopolazioni di soggetti per cui lo screeening ecodoppler della stenosi
carotidea sia raccomandabile.
Una esperienza condotta nella
regione Lombardia dalla Società Italiana per la Prevenzione dell’Ictus Cerebrale
Ischemico (SIPIC) in collaborazione con la Croce Rossa Italiana (CRI) ha dimostrato l’efficacia di un modello di prevenzione cosiddetto di iniziativa, ovvero condotto su una
coorte di pazienti selezionati
sulla base di almeno un fattore di rischio da parte dei medici di medicina generale e di
età superiore a 55 anni. Tale
esperienza si è dimostrato efficace in modo statisticamente significativo e tale da poter
essere considerato giustificabile e conveniente dal punto
di vista socio-economico
avendo permesso, infatti, di
selezionare una sottopopolazione di soggetti asintomatici
con un’alta prevalenza di SCA
(26.8%) quindi meritevole,
secondo la letteratura, di essere sottoposta a indagine
mediante ecodoppler carotideo. Il modello di screening
d’iniziativa utilizzato dalla SIPIC si ispira al concetto moderno di “gestione integrata”
o shared care in ambito sociosanitario, cioè di collaborazione e integrazione tra diversi
operatori sanitari che condividono un obiettivo comune: in
questo caso MMG, specialisti
ecografisti, neurologi, internisti, cardiologi, chirurghi vascolari, ricercatori epidemiologi, esperti informatici, ma-
l ute
Sa
e
122 Territorio
nagers sanitari, associazioni
volontaristiche e organi
d’informazione.
Fondamentale per la sua attuazione si è dimostrato il
ruolo del MMG nel selezionare
la sottopopolazione con più
alta prevalenza di SCA. Altrettanto importante si è dimostrato un Protocollo con procedure operative standard cu-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
rato dalla SIPIC e dalla CRI e
condiviso dalla medicina generale e specialistica del territorio, che hanno adottato linee guida multidisciplinari
(SPREAD). È comunque da
considerare che la attività diagnostica strumentale è stata
condotta in forma gratuita da
personale esperto aderente alla associazione e quindi l’e-
ai fini della prevenzione dell’ictus solo su pazienti oltre i
65 anni ed appartenenti a sottogruppi considerati a rischio,
adottando modelli di cooperazione tra diverse figure professionali e con il coinvolgimento di associazioni dedicate attraverso progetti finalizzati al fine di ridurre i costi
troppo onerosi per il solo SSN.
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Broncopneumopatia ostruttiva
cronica
Walter Boddi
Primario di Medicina generale
AUSL di Siena
L
Adjiusted Life Year) (nel
1990 era dodicesima), dopo la cardiopatia ischemica, la depressione, gli incidenti stradali, le malattie
cerebrovascolari.
In Inghilterra, recentemente i
ricoveri d’urgenza sono cresciuti tanto da rendere drammatica la situazione dei posti
letto sia quelli di ricovero ordinario sia quelli delle terapie
intensive.Nel 1998 (USA)la
malattia è stata responsabile
di 14,2 milioni di visite ambulatoriali (82 visite/1000 abitanti), di 1,4 milioni di visite
a BPCO rappresenta la
quarta causa di morte
nel mondo con 2,74 milioni di morti nel 2000 (nel
1990 era la sesta) e l’OMS riferisce che questo indice crescerà rapidamente anche se la
malattia è sottodiagnosticata.Negli USA si stima che solo
il 14-46% dei casi è diagnosticato. Le proiezioni dell’OMS
prevedono che nel 2020:
• La BPCO sarà la terza causa
di morte nei paesi occidentali.
• La BPCO sarà la quinta
causa di DALY (Disability-
sperienza che ne consegue
conferma che il buon rapporto
costo-beneficio tiene conto
dell’impegno di forme di volontariato che riducono i costi
sostenuti dal SSN.
In conclusione, sulla scorta
delle esperienze citate, appare consigliabile lo screening
con ecodoppler della patologia aterosclerotica carotidea
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e diversità. Secondo rapporto sulla condizione della persona anziana,
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the aortic arch and the risk of ischemic stroke, N Engl J Med 1994, 331:
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in Dipartimenti di emergenza
(83 visite su 10000 abitanti).
Sempre nel 1998 è stata responsabile di circa 662.000
ospedalizzazioni (1,9% di
tutte le ospedalizzazioni).
In pazienti con età superiore
a 55 anni; il tasso di ospedalizzazione è stato14,8%,in
pazienti tra i 65 e i 75 anni il
tasso è stato 19,9% (7,0% del
totale di ospedalizzazioni),in
pazienti con età superiore ai
75 anni: 18,2%
La frequenza di ospedalizza-
zione (BPCO come prima diagnosi) è stata nel 1998 di
38,3/10000 abitanti.
Anche la mortalità per BPCO è
aumentata negli USA negli ultimi anni.Per gli uomini è stato raggiunto un plateau dal
1995 al 1998 (53,1/100000)
mentre è cresciuta la mortalità delle donne (29,3%->
32,1%).Per quanto riguarda
l’Italia, nel 2000: i dati sono
stati raccolti in base alla codifica per DRG della diagnosi
principale di dimissione:
Diagnosi ospedaliere di BPCO in ricovero ordinario:
119.021
Percentuale rispetto ai ricoveri totali:
1,4%
Giorni di degenza/anno per BPCO:
1.186.911
Durata media della degenza:
10,7
Costi di ospedalizzazione per BPCO/anno in euro:
360.919.800
Percentuale rispetto all’intera spesa per ricoveri
in regime ordinario:
1,45%
Per quanto riguarda la scomposizione dei dati per le diverse regioni la differenza
che più colpisce è la durata
della degenza media che va
dai 17,35 giorni del Piemonte
N. 149 - 2005
ai 7,28 della Basilicata.Queste differenze sono presenti
anche nei report degli anni
2001 e 2002.
La malattia colpisce in prevalenza la popolazione più povera.L’importanza di una diagnosi precoce è dovuta alla
possibilità di far smettere di
fumare prima che la malattia
divenga irreversibile.Il fumo
rappresenta il fattore di rischio anche per la progressione della malattia.
Comunque le indagini sulla
prevalenza rilevano risultati
talvolta contrastanti.Un recente studio evidenzia che la
prevalenza (nord America)
varia dal 4% al 10% a seconda
se la diagnosi viene posta con
gli esami spirometri o con criteri clinici.Gli esami spirometrici,a loro volta sono influenzati dalle pratiche diagnostiche locali e dai parametri presi per la definizione di
BPCO come detto nella definizione.Con i criteri ATS si stima che la prevalenza sia 2,9%
dell’intera popolazione, per i
criteri ERS e GOLD:circa il
14% dell’intera popolazione.
Clinica e diagnostica: La malattia è molto eterogenea nella sua presentazione. I sintomi più frequenti sono il respi-
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
ro sibilante e la dispnea da
sforzo.Spesso si presenta come una malattia sistemica
con effetti sullo stato nutrizionale con ipotrofia muscolare e depressione.Nella prima fase che può durare molto
tempo, la malattia può essere
asintomatica e i sintomi possono comparire quando la
funzione polmonare è già
compromessa,con un FEV1 al
di sotto del 50% della norma.Ciò comporta la necessità
di una diagnosi precoce nei
pazienti a rischio che sono
rappresentati prevalentemente da fumatori.La diagnosi
precoce può essere determinata con le prove spirometriche.Come per la definizione
anche per la stadiazione della
malattia ci sono varie e autorevoli linee guida, che si diversificano soprattutto per i
valori della FEV1.
Prevenzione: per le malattie
coronariche sono state fatte
campagne preventive più numerose che per la malattia
bronchiale cronico-ostruttiva
probabilmente per i progressi
in campo farmacologico e di
terapia interventistica.
Le evidenze dimostrano che
per una prevenzione efficace
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Pulmonary Disease, N Engl J Med 2004, 350: 2689-2697.
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sono necessari:
• L’istituzione di centri specializzati per la diagnosi
precoce, per gli esami spirometrici, per la cessazione del fumo, per il trattamento e la riabilitazione.
• L’incremento dei centri per
la cessazione del fumo.
• La dotazione di strumenti
idonei come la spirometria
per la diagnosi precoce
(nei fumatori con sintomi
respiratori negli asmatici
con più di 40 anni).
• La redazione di un registro
dei pazienti.
• L’istituzione di centri per
la riabilitazione.
• L’incremento dell’integrazione tra le cure somministrate in ospedale e presso
il proprio domicilio.
• L’istituzione di centri per
le cure palliative per i malati terminali.
• L’adeguamento a domicilio
di servizi di supporto per i
pazienti con malattia severa.
Gli scopi primari della prevenzione sono soprattutto tre:
1. Far conoscere ai giovani
quali sono i danni da fumo, in modo che diminuiscano i neo-fumatori.
2. Far cessare l’abitudine del
Sae l ute
Territorio 123
fumo ai fumatori, usando
terapie psicologiche di
gruppo, o farmacologiche:
sostituzione con nicotina
in varie forme, buprionone
ecc.
3. Ridurre le riacutizzazioni,
che possono essere di natura batterica o virale con
le vaccinazioni antinfluenzali antipneumococciche.
Gestione della malattia a domicilio come alternativa all’Ospedale: recentemente sono state
prese in esame alternative al
ricovero in Ospedale per i pazienti con BPCO riacutizzata.
Un lavoro dimostra invece
che l’hospital at home, determinato da visite infermieristiche periodiche, non diminuisce i ricoveri ripetuti anche se sembra che migliori la
qualità della vita.Probabilmente bisogna pensare ad altri interventi oltre che una
visita infermieristica periodica.Questi concetti sono stati
ribaditi da un recente lavoro
dove vengono presi in esami
7 trials randomizzati (754 pazienti).La mortalità e la frequenza dei ricoveri ripetuti
non varia ma in due studi,
l’hospital at home permetteva
un risparmio di costi.
Multidisciplinary rehabilitation improves COPD, BMJ 2004, 329 (20 November).
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Treating acute COPD at home is as good and cheaper?,BMJ 2004, 329 (7
August).
l ute
Sa
e
124 Territorio
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
Oftalmologia
Emilio C. Campos
Professore ordinario di malattie
dell’apparato visivo
nell’Università di Bologna
V
sa di cecità legale nel mondo
occidentale. In conclusione, la
degenerazione maculare merita un notevole investimento
economico nel futuro, sia a livello di diagnosi precoce che
di trattamento. La sua gestione dovrebbe essere inserita
tra le prestazioni critiche da
parte del SSN. C’è da aggiungere che senza valutare l’appropriatezza delle indicazioni, si può rischiare un grave
danno economico al SSN.
olendo attuare una possibile proiezione delle
esigenze che nel futuro
saranno da considerare per la
salute dei cittadini legata all’efficienza del loro apparato
visivo, è opportuno prendere
in considerazione una serie di
fattori, che verranno discussi
nel dettaglio. In premessa si
deve altresì precisare l’assenza di linee guida nazionali
per molte della patologie otfalmologiche ed è altresì carente una valutazione sull’appropriatezza e l’outcome delle
prestazioni stesse. Questi
aspetti debbono essere chiariti, prima di investire personale e mezzi, assai onerosi.
Le patologie degenerative dell’apparato visivo causano
danni funzionali tanto maggiori, quanto più si prolunga
la vita media.
Una tipica situazione è la degenerazione maculare legata
all’età. Per essa non si conosce l’eziopatogenesi. Si sa solo
che è più frequente in chi si è
esposto molto alla luce nell’arco della vita. Sulla base dela fatto che sostanze anti-ossidanti ritardano l’invecchiamento della retina, vengono
prescritti preparati a base di
tali principi, il cui effetto potrà essere verificato solo dopo
averne valutato l’assunzione
cronica per periodi di almeno
vent’anni. I costi di tali farmaci sono peraltro ingenti. È
considerata oggi la prima cau-
L’eziopatologenesi della maggior parte delle patologie oftalmiche è sconosciuta a
tutt’oggi, per cui una prevenzione risulta ancora impossibile per la maggior parte di esse.
I vari programmi di screening
di malattie oftalmologiche
debbono essere orientati più
sulla diagnosi precoce che sulla prevenzione delle patologie, poiché l’eziopatogenesi
della maggior parte di esse
non è conosciuta. Per quanto
riguarda l’infanzia è opportuno uno screening per l’ambliopia. È da precisare che il 4%
della popolazione è ambliope
e soggetti ambliopi sono statisticamente più spesso oggetto
di patologie invalidanti che
colpiscono l’occhio sano. Si
aggiunga che l’aspettativa di
vita di tali pazienti è di 80 anni, per cui un programma di
screening appare un utile investimento. Lo screening andrebbe attuato valutando la
situazione oculare nei se-
guenti momenti: alla nascita,
nel momento delle prime vaccinazioni (intorno agli 8-10
mesi), a 3 anni di età circa e
all’inizio della scuola. Tale calendarizzazione tiene conto
dei momenti nei quali i bambini possono essere facilmente
valutati a basso costo. Si considera che uno screening per
l’ambliopia abbia un costo
complessivo di circa 15 euro,
cifra minima in rapporto a costosi interventi di vitrectomia
(circa 5700 euro) che si attuano con scarsi risultati funzionali in pazienti con aspettativa di vita ridotta (oltre 70 di
età media). Per quanto riguarda altre patologie a insorgenza nell’età adulta, come il
glaucoma e le degenerazioni
maculari legate all’età, vanno
attuati altrettanti percorsi
informativi in coordinazione
con i medici di base.
Numerose patologie sistemiche presentano rilevanti complicanze oculari.
Tali complicanze sono socialmente rilevanti in particolare per il diabete ed il distiroidismo. In particolare
per il diabete, il mantenimento in vita di pazienti che
in tempi passati non sarebbero sopravvissuti causa un
aumento statisticamente rilevante di complicanze oculari. La recrudescenza di patologie infettive (come la
TBC, la sifilide) e la permanenza di altre come l’AIDS
sono fonte di gravi compromissioni oculari, assai spesso sottovalutate. Va rilevato
ancora che l’immunodepressione indotta anche dalla
moderna chirurgia dei trapianti, è responsabile di patologie (come l’infezione da
N. 149 - 2005
citomegalovirus) che inducono gravi quadri di vasculite retinica che diventano
statisticamente più frequenti con il mantenimento in vita di pazienti che in tempi
passati non sarebbero sopravvissuti a lungo. Di tutti
gli aspetti sopra ricordati è
presente allo stato un’informazione assai scarsa, sia tra
gli oftalmologi che tra i medici (reumatologi, ematologi, internisti, ecc.) che i chirurghi (operatori di trapianti
viscerali di vario genere).
L’oftalmologia attuale è sostanzialmente improntata alla terapia chirurgica, con notevole sofisticazione delle tecnologie diagnostiche ed operatorie; poco spazio è lasciato
all’istruzione e alla conseguente gestione di patologie
non chirurgiche.
Di fatto, si può calcolare che
almeno il 40% degli oculisti/oftalmologi non pratica
attività chirurgica, ma non
ha ottenuto una formazione
culturalmente sufficiente in
quegli aspetti della disciplina
che sono eminentemente medici. È di fondamentale importanza che nel futuro questa tendenza si inverta. L’attività chirurgica poi è in molti casi attuata sporadicamente e quindi con risultati non
certo prevedibili. Si è poi
creata una forte dipendenza
degli oculisti dalla tecnologia
inerente l’atto chirurgico, per
cui vengono non raramente
attuati inteventi con costi
elevati e con vantaggi funzionali dubbi. Verifiche sulla
correttezza delle indicazioni
e sull’outcome della chirurgia
oftalmologica sono assolutamente indispensabili.
N. 149 - 2005
Patologie croniche con alta
prevalenza come il glaucoma
richiedono terapie con farmaci costosi, che prevedono
un’auto-somministrazione,
fonte di difficoltà e sprechi in
pazienti di età avanzata.
Il glaucoma è oggi gestibile
nella maggioranza dei casi
con terapia medica. Essa si
attua con somministrazione
di colliri. È stato dimostrato
che per molti di essi non esiste un effetto sommatorio. In
altre parole, somministrare 34 colliri è inutile ed è solo costoso. Inoltre, molto spesso la
compliance non è buona, sia
in pazienti che svolgono attività lavorativa (dimenticano
di instillare il collirio perché
impegnati) che per pazienti
della terza età che vivono soli. Qui si aggiunge il fatto che
spesso l’autosomministrazione fa sì che il collirio non
venga instillato all’interno
dell’occhio. Infine, per la
maggioranza di tali pazienti,
la terapia è totalmente gratuita, essendo portatori di
patologia cronica. Ciò induce
in molti casi ad uno spreco,
per cui viene acquistato un
nuovo flacone quando quello
già in possesso del paziente
contiene ancora collirio. Va
quindi valutato l’impatto economico sul SSN della terapia
del galucoma, che va regolamentata opportunamente.
L’ipovisione (cioè un visus inferiore a 2/10 in entrambi gli
occhi) causa impossibilità alla
lettura e alla visione distinta
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
in generale, mentre consente
un orientamento nello spazio.
Ciò determina una condizione
di handicap grave e quindi di
mancanza di indipendenza
del cittadino, con ricadute diverse sulla società a seconda
dell’età dello stesso. È pertanto di fondamentale importanza attuare quei percorsi di
screening per l’ambliopia sopra ricordati, allo scopo di far
disporre al paziente di una
“ruota di scorta”, nel momento nel quale una patologia invalidante possa colpire l’unico occhio veggente. È altresì
di fondamentale importanza
indurre i cittadini portatori di
patologie croniche degenerative come la miopia, a sottoporsi ad esami periodici che
possano mettere in evidenza
lesioni retiniche precoci che,
se lasciate a se stesse, possono causare deficit visivi permanenti (come il distacco di
retina). Inoltre tutti i cittadini al di sopra dei 50 anni dovrebbero sottoporsi a controlli periodici della pressione intraoculare, allo scopo di poter
diagnosticare precocemente
l’insorgenza di un glaucoma.
L’ipovisione della persona della terza età favorisce anche
l’instaurarsi di patologie che
richiedono costi elevati per la
loro gestione.
Si verifica molto spesso, in
particolare per cittadini che
vivono da soli, che alterazioni
della funzione visiva siano responsabili di traumi di diverso
genere. A tale proposito, una
Neurologia
Rudolf Schoenhuber
UO Neurologia, Bolzano
cataratta, se presente bilateralmente, va operata in tali
pazienti appena essa comprometta le sue attività abituali.
Eventuali diplopie dovute a
deficit dei nervi oculomotori
(spesso di origine vascolare)
possono rendere difficoltosa
la discesa di scale e causare
cadute, con conseguenze anche gravi, che si riverberano
poi sul SSN. In particolare,
andrebbe verificata l’incidenza di fratture del femore da
caduta, dovuta a ipovisione.
L’unica area geografica ove
esiste un sistema di visite
oculistiche programmate, con
rintracciabilità dei cittadini, è
la Scandinavia.
Andrebbe attuato un percorso, sia per l’infanzia, che per
l’età adulta, nel quale coinvolgere pediatri e medici di
base, che consenta una valutazione periodica dell’efficienza dell’apparato visivo
lungo tutto l’arco della vita
del cittadino. È l’unico sistema noto per ridurre se non
annullare le conseguenze di
patologie invalidanti. In Italia, tale percorso non è a
tutt’oggi istituzionalizzato
ed è auspicabile che le Regioni, che possiedono autonomia legislativa in tal senso, si
adoperino per creare regole
precise, utilizzando il personale medico che per esse lavora. È indispensabile però
che venga preventivamente
attuata un’opportuna formazione allo scopo di far padroneggiare le manovre diagno-
L
e molte malattie del sistema nervoso, ambito
di azione della neurologia, vengono trattate da vari
professionisti medici (neuro-
Sae l ute
Territorio 125
stiche necessarie e di far valutare criticamente i risultati.
Organizzazione dell’attività
oftalmologica.
È possibile, nell’ambito della
razionalizzazione dei Servizi
sanitari attuati per esempio
nelle Aree vaste, coordinare
utilmente l’attività oftalmologica sia chirurgica che ambulatoriale. Allo scopo e per
evitare sprechi andrebbero
seguiti alcuni principi:
– verifica della prevalenza
delle patologie oftalmologiche nel territorio;
– centralizzazione delle attività diagnostiche e terapeutiche sofisticate (III livello);
– coordinazione tra ambulatori periferici e centri diagnostici per prenotazioni;
– diagnosi di telemedicina
(specialmente per esami
diagnostici strumentali
come la fluorangiografia);
– valorizzazione dell’attività
oftalmologica non chirurgica;
– regolamentazione dell’attività di chirurgia ambulatoriale oftalmologica, fortemente incoraggiata dai
libero-professionisti che
vogliono ottenere legittimazione dell’attività dei
loro ambulatori chirurgici:
esiste il rischio di banalizzazione della chirurgia oftalmologica, che richiede
invece l’uso di sale operatorie attrezzate e controllo attento delle regole di
asepsi.
logi, psichiatri, neurochirurghi e neuroriabilitatori), ma
sempre più anche non medici
(psicologi, psicoterapeuti, fisio-, ergo-, logoterapisti, in-
l ute
Sa
e
126 Territorio
fermieri, assistenti sociali
ecc.). Ogni professionista cerca di dare il suo contributo
per migliorare lo stato di salute e l’autonomia dei pazienti, ma le malattie neurologiche continuano ad essere
quelle che causano fra tutte
la maggiore quota di disabilità. Poche sono completamente guaribili, sebbene ultimamente siano stati introdotti trattamenti nuovi, molto costosi, ma per tutte esistono trattamenti almeno
palliativi (Ringel, 1999).
Come gran parte delle specialità mediche, anche in Italia,
la neurologia ha seguito il
modello dell’assistenza prevalentemente ospedaliera applicando man mano le più recenti ricerche alla pratica clinica. Dopo il distacco dalla
medicina generale la neurologia ha avuto il suo massimo
sviluppo negli anni ’70 e ‘80
(Ringel, 1999). L’introduzione delle tecniche di neuroimaging ha ridotto la necessità di ricoveri ospedalieri,
nel frattempo sono aumentati i costi per le innovazioni
diagnostiche e terapeutiche.
In nessun Paese si è fatta una
seria programmazione dei
servizi: esiste un’enorme variabilità del numero di specialisti in neurologia in Europa: sono circa 300 nel Regno
Unito, 2-3000 in Francia e in
Germania e più di 5000 in
Italia, il numero di reparti è
di poche decine in Gran Bretagna e di qualche centinaio
negli altri Paesi. Solo negli
ultimi anni ci si è posti la domanda sull’appropriatezza
dei ricoveri e della possibile
riorganizzazione dei servizi
in un setting assistenziale diverso da quello ospedaliero.
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
Le malattie di interesse neurologico hanno una prevalenza che varia per gruppi di età:
le cefalee e le epilessie primarie esordiscono in giovane età
e continuano; i traumi cranici
hanno il loro picco le sintomatiche nell’età adulta e nell’anziano, la maggioranza
delle malattie degenerative
colpiscono gli anziani oltre i
65 anni, come pure le malattie vascolari.
I dati di prevalenza dipendono
dall’incidenza e dalla durata
di malattia che può variare
con il tasso di guarigione, il
tasso di sopravvivenza e con
la maggiore aspettativa di vita. Di maggiore interesse sono
delle misure introdotte più recentemente in epidemiologia,
quelle legate al burden of disease o carico di malattia. Si
tratta del numero di anni di
vita persi per una data malattia e, più per l’organizzazione
dei servizi sanitari, il numero
di anni vissuti in disabilità.
Nella parte industrializzata
dell’Europa già ora metà degli
anni vissuti con disabilità sono dovuti a malattie neuropsichiatriche (Olesen e Leopardi,
2003): prevalgono ovviamente
malattie psichiatriche dei giovani come la schizofrenia che
colpisce i giovani e per i quali
l’attesa di vita in disabilità è
perciò particolarmente rilevante. Per le malattie più
prettamente neurologiche la
demenza da sola costituisce il
10%, l’ictus oltre i 2% ed il
Parkinson oltre l’1%. La prevalenza di queste malattie degenerative raddoppia per ogni
quinquennio considerato: il
prevedibile ulteriore aumento
dell’aspettativa di vita sarà
accompagnato da un numero
sempre più rilevante di pa-
zienti parkinsoniani e la sopravvivenza dei pazienti con
ictus, con un aumento complessivo di pazienti anziani
disabili.
Il prevedibile maggiore bisogno di assistenza di pazienti
più anziani con le tipiche patologie vascolari o degenerative di quel gruppo di età non
è oggi controbilanciato da un
aumento delle risorse umane
e materiali investite in questo
settore. Si assiste invece ad
un progressivo calo di infermieri e di personale con ruoli
assistenziali, ma anche di medici e alla sostanziale indifferenza di chi deve programmare strutture assistenziali.
Quali risposte sono necessarie per una più ragionevole
gestione di tale patologia?
Considerando il sempre maggiore peso che avranno i pazienti con disabilità motoria
e cognitiva conseguente a ictus, malattie degenerative e
traumi cranici bisogna ricordare che la maggioranza di
tali pazienti appartiene alla
terza età, in una fase di vita
non più produttiva e nella
quale già oggi molti necessitano di supporto, a differenza dai traumatizzati cranici
che sono invece molto più
giovani, all’inizio o nel mezzo
della fase più produttiva della loro vita.
La famiglia allargata ancora
presente in alcune realtà
agricole era in grado di sostenere al suo interno anche
persone improduttive, la famiglia nucleare odierna costituita dai genitori ambedue
occupati ed uno o al massimo
due figli non lo è più sia per
motivi logistici (appartamenti piccoli), sia economici
(perdita del reddito di un
zienti con patologia degenerativa neurologica, in particolare di pazienti disabili cognitivamente e di esiti di trauma
cranico e di ictus, mentre poco cambierà per la rimanente
patologia neurologica.
Può la neurologia italiana,
prevalentemente ospedaliera,
che sembra aver puntato recentemente tutte le sue speranze di sopravvivenza sulla
gestione acuta dell’ictus, rispondere ai bisogni della sua
popolazione assistita con tale
modello organizzativo? Ci si
può preparare alle sfide del
futuro in modo adeguato? Basta prolungare le linee di tendenza della attuale realtà
ospedaliera, prevedendo semplicemente più ictus, più dementi e più parkinsoniani
perché la popolazione invecchia? O bisogna essere pronti
ad affrontare situazioni completamente diverse?
Non verranno considerate in
questo contesto tecniche di
pianificazione a lungo termine, come lo scenario planning,
difficili e finora pochissimo
utilizzate in sanità, ci si limiterà ad un’analisi di mercato
così come è ora e a fare semplici proiezioni per il futuro.
Di fronte ad un prevedibile
aumento della popolazione di
anziani e alla maggiore sopravvivenza di pazienti dopo
gravi traumi cranici ed altre
patologie neurologiche (ictus, meningiti ed encefaliti)
si può presupporre che l’armamentario medico rimanga
più o meno costante nei prossimi 10-20 anni, e che i vantaggi dati dai trattamenti farmacologici continuino ad essere marginali per i pazienti
dementi, ma che aumentino
l’autonomia motoria dei pa-
N. 149 - 2005
componente per poter assistere una persona disabile).
Non è pensabile tenere ricoverato nell’Ospedale per acuti
il disabile per un periodo eccedente la fase puramente
diagnostica.
All’interno della logica dell’innovazione dirompente per
i pazienti affetti da malattie
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
disabilitanti del sistema nervoso, soprattutto quelle degenerative dell’anziano, ma
anche nelle situazioni tragiche del traumatizzato cranico
dopo che le possibilità riabilitative si sono concluse si dovrà pensare a soluzioni nelle
quali le prestazioni siano
adeguate ai bisogni dell’uten-
Bibliografia
Christensen C.M., Bohmer R., Kenagy J., Will disruptive innovation cure health care?, Harv Bus Rev 78: 102-12, 2000.
Langton Hewer R., The economic impact of neurological illness on the
health and wealth of the nation and of individuals, J Neurol Neurosurg
Psychiatry 1997, 63(Suppl 1): 19-23.
Problemi
gastroenterologici
comuni
Giorgio Dobrilla
Primario Gastroenterologo
Emerito, Ospedale regionale,
Bolzano
Professore aC, Facoltà di
Medicina, Università di Parma
N
rativa che manteneva una minoranza di anziani occupati
l’apice. Oggi la piramide si è
rovesciata: gli anziani sono
sempre più numerosi e giudicati (ingiustamente!) onerosi
perché le pensioni gravano
sul bilancio dello Stato. Ma
gli anziani “costano” soprattutto perché, a causa di malattie spesso croniche e/o
evolutive richiedono interventi sanitari in continuo aumento fatti di medicine, esami, protesi, ricoveri ospedalieri e lungo-lungodegenza.
Non mancano progetti sanitari che in questa fascia di
on è una novità che la
vita media, almeno nel
mondo occidentale, sia
in continuo aumento. Stiamo
sfiorando o abbiamo già raggiunto secondo alcune stime
gli 80 anni. I maschi, che
sembravano meno longevi,
sembra che stiano andando in
pari con le femmine. La sopravvivenza così significativamente aumentata non poteva non avere una serie di
ripercussioni anche molto serie. Se pensiamo alla forma
della piramide, in passato la
sua base era costituita da
gente in piena attività lavo-
te. Per il paziente gravemente
deteriorato si dovrà pensare a
dare una risposta decente e
dignitosa che tenga conto
delle premesse finora esposte. Il numero sempre maggiore di pazienti senza famigliari che li possano assistere,
la modesta efficacia dei trattamenti farmacologici e im-
Sae l ute
Territorio 127
possibilità di guarigione e la
scarsità di personale infermieristico e di supporto.
Improponibile è qualsiasi soluzione all’interno dell’Ospedale per acuti, si dovranno
trovare soluzioni intermedie
fra la struttura riabilitativa e
della lungodegenza o addirittura l’hospice.
Le Fanu J., The rise and fall of modern medicine, Little Brown, London,
1999.
Olesen J., Leonardi M., The burden of brain diseases in Europe, Eur J
Neurol 2003, 10: 471-77.
Ringel S.P., Practicing neurology: a delicate balance, Neurology 1999,
52: 1526-32.
età si occupano di patologie
“maggiori”. Progetti, ad
esempio, attenti soprattutto
alla prevenzione e cura e dell’ictus, dell’infarto, del cancro
del seno e della prostata e, in
ambito gastrointestinale, del
cancro colorettale. Inevitabilmente, cresce poi sempre di
più il numero degli anziani
non autosufficienti, ciò che
costituisce un problema nel
problema. Secondo stime della Società italiana di Geriatria
e Gerontologia questi anziani
parzialmente o totalmente
non autosufficienti gestititi
in qualche modo a domicilio o
ricoverati in ambienti ospedalieri o in Case di cura, superano il mezzo milione, una
cifra in assoluto apparentemente contenuta ma fatta di
soggetti il cui trattamento ed
il cui monitoraggio incontrano enormi difficoltà. Per cercare di risolverle, ha preso
avvio il Progetto Guardian
che vede la collaborazione di
medici (i professori Trabucchi
e Rozzini, rispettivamente
Presidente della Società di
Geriatria e Primario geriatra
di Brescia), di un’industria
specializzata in tecnologie
d’avanguardia, la WSN, e di
una industria farmaceutica
(Astra Zeneca). Innovazione,
scalpore, immediata curiosità
dei media. In pratica sofisticati sensori e reti “senza fili”
dovrebbero consentire di monitorare a distanza gli anziani non autosufficienti sia a
domicilio che in Ospedale,
senza pericolo di interferenza
con le apparecchiature elettroniche eventualmente presenti. L’elettrocardiogramma,
la concentrazione ematica
dell’ossigeno, l’attività respiratoria e la temperatura del
paziente possono così essere
registrate grazie ad un trasmettitore grande come un
orologio fissato al braccio del
malato e collegato con i suddetti sensori.
Un’attenzione decisamente
più scarsa, invece, viene data
a patologie dell’anziano croniche e solitamente ingravescenti ad alta prevalenza, ma
considerate problemi “minori”, così comuni da farle considerare da medici e non si-
l ute
Sa
e
128 Territorio
tuazioni “quasi normali”: la
stitichezza e la dispepsia
funzionale o, meglio, non organica. Si tratta di affezioni
ben note, non minacciose per
la vita, che non fanno notizia, che lasciano grande spazio al “fai da te” e a suggerimenti “alternativi”. Situazioni che vengono solitamente
sdrammatizzate dal medico
curante, anche coscienzioso,
se alla base non si individuano cause organiche. Ma questi disturbi così “banali” non
di rado compromettono significativamente la qualità di vita dei pazienti che non sono
pochi:. circa un terzo dei pazienti di terza età li lamenta,
un numero significativamente più cospicuo di quello degli anziani non autosufficienti. Ciononostante, una
volta esclusa una causa organica delle alte o basse vie digestive, questi anziani sono
lasciati un po’ a se stessi.
Molti di essi beneficerebbero
anche solo di un rapporto ottimale con il proprio medico
di famiglia o con lo specialista di riferimento, se solo
spiegasse loro in modo piano
ed esauriente la natura “non
organica” dei disturbi. Ma
questo rapporto ottimale non
è molto comune. Un’anamnesi attenta, non frettolosa, sarebbe al contrario veramente
essenziale per i consigli che
si potrebbero dare agli anziani con stipsi o dispepsia non
organica. Si potrebbe così aggiustare il modo di mangiare,
la dieta, l’orario dei pasti,
l’introito idrico, o raccomandare un adeguato movimento
fisico, la postura da non assumere in fase immediatamente post-prandiale. E si
potrebbero così correggere
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
idee strampalate, inutili o
persino concorrenti al persistere dei disturbi. Quanti sono i pazienti che da anni soffrono “pur seguendo la dieta
in bianco (sic!)” o che non
vedono migliorare, anzi, la
propria stipsi “pur mangiando tonnellate di fibre”. E continuano sorprendentemente a
farlo nonostante l’inefficacia
di queste misure solo perché
qualcuno s’è frettolosamente
dimenticato di dir loro che la
pasta al burro e formaggio,
bianchissima, peggiora la “digestione lenta” e che se in
concomitanza con l’ingestione di fibre non si beve molto
queste peggiorano significativamente la stitichezza e il
gonfiore addominale. Ma
un’anamnesi di questo tipo è
time consuming, richiede un
tempo che solitamente non
viene riservato alla visita medica per una serie di motivi,
in cui indubbie “colpe” del
medico coesistono con indubbie attenuanti. Una prima, è la progressiva burocratizzazione dei medici che lavorano nelle istituzioni. La
seconda è il sempre più frequente precariato dei giovani
laureati, incertezza che non
ha mai favorito grandi entusiasmi, ideali e correttezza
professionali. Ciò concorre
alla mancanza di una visione
“solistica” o almeno alla percezione da parte del paziente
che questa manchi nella condotta del medico. Principalmente a questa sensazione e
al bombardamento promozionale operato dalle cosiddette
medicine complementari/alternative si deve se più di
dieci milioni di italiani ricorrono a queste terapie. E gli
anziani con la patologia di
gliorare la stipsi significa
inoltre prevenire spesso la
formazione di diverticoli, presenti nel 50% o più degli ultrasettantenni (ma fortunatamente asintomatici nella
maggioranza dei casi), o prevenirne l’infiammazione. A
prescindere dalla stitichezza,
circa 15 anziani in un bacino
di 100.000 abitanti vengono
ricoverati ogni anno per sintomi correlati direttamente
con i diverticoli (dolori addominali, episodi subocclusivi,
febbre). Il 10-20% di questi
ricoverati andranno poi incontro a complicazioni come
emorragie intestinali, perforazioni e fistole che molte
volte potranno comportare un
intervento chirurgico.
Un discorso sostanzialmente
analogo si può fare la per la
dispepsia funzionale, una volta che si sia escluso soprattutto il cancro gastrico. La
prevalenza di questo tumore
tende ad aumentare dopo i 55
anni, a fronte del vistoso calo
complessivo di questa neoplasia negli ultimi decenni. Anche nei dispeptici anziani
senza patologia organica, come negli stitici, i disturbi nascono spesso da incongruenze
alimentari e da un’alterata
motilità gastroduodenale legata all’invecchiamento della
muscolatura liscia che avvolge la parete del “tubo” digerente. Di questa muscolatura
ci si dimentica troppo spesso
e si pensa solo all’invecchiamento della muscolatura
striata. L’anziano trova “logico” essere meno agile e che i
suoi muscoli siano meno tonici di una volta, ma non fa lo
stesso discorso per quelli che
gli fanno svuotare stomaco e
intestino e dei quali ignora
cui sopra sono una grande
frangia di questi 10 milioni.
La stitichezza non da causa
organica, presente nel 30%
degli over 65, può essere oggettivamente di vario grado,
ma è vissuta in modo drammaticamente diverso dai pazienti. Una migliore informazione sicuramente comporta
un più mirato intervento terapeutico. Queste indagini
non dovrebbero essere sparpagliate a caso nei diversi reparti dei diversi ospedali, ma
concentrati in servizi o dipartimenti ad hoc (ma a cosa
servono le Direzioni sanitarie?). In caso contrario, le
difficoltà che l’anziano o i
suoi familiari incontreranno
per arrivare ad una migliore
definizione diagnostica e ad
un più appropriato trattamento possono diventare di
fatto insuperabili.
Una policy corretta e redditizia sarebbe quella di prevedere dei Servizi/Dipartimenti in
grado di attuare all’occorrenza tutti gli esami con personale medico e tecnico specificamente preparato. Il ricovero
di qualche giorno (un day hospital “allungato”) potrebbe
servire a completare in breve
tempo gli accertamenti senza
imporre all’anziano un va e
vieni da casa problematico e
anche costoso. Si eviterebbero oltretutto così, le frequentissime, inutili e immotivate
ripetizioni sempre dello stesso esame, prescrizioni di farmaci inadeguati. Complessivamente si darebbe insomma
ad una moltitudine di anziani
la certezza tranquillizzante (e
talora terapeutica) di essere
stati considerati a dovere e
non snobbati per la “banalità” della loro patologia. Mi-
N. 149 - 2005
spesso persino l’esistenza.
In futuro si dovrebbe garantire agli anziani che ne soffrono
un più pronto, meno complicato ed organico check up in
Servizi/Dipartimenti di cui
ogni città di 100.000 abitanti
dovrebbe disporre, gestiti da
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
persone specificamente competenti capaci di completare
gli esami necessari in tempi
brevi e di fornire suggerimenti
correttivi il più possibile mirati. La stessa correzione di una
dieta o di atteggiamenti ed
abitudini sbagliati, o la scelta
Terapia fisica
Stefano Martini
Direttore UORRF della AUSL 7
di Siena
L
dolorosa, escludendo l’azione
antinfiammatoria che pertanto non è necessaria.
La Terapia fisica se correttamente prescritta ed effettuata ha una buona efficacia sia
nella risoluzione delle contratture muscolari, pertanto,
pur non essendo in grado di
risolvere il DIM è capace di
curarne le manifestazioni dolorose più efficacemente della terapia farmacologia. Purtroppo è comunque inutile ed
è da considerare una spesa
impropria, se utilizzata come
attualmente viene fatto nelle
nostre ASL, essendo eseguita
in tempi troppo distanti dalla
prescrizione.
Per la sua efficacia è necessaria la tempestività della somministrazione durante la fase
acuta del dolore reumatico e
soprattutto la corretta e competente prescrizione specialistica.
Il suo utilizzo come forma di
prevenzione, i famosi due cicli l’anno, è assolutamente
sconsigliata in quanto completamente inutile. La terapia
fisica serve per curare una
patologia non per prevenirla;
la prevenzione si effettua con
l’impostazione di un corretto
a medicina attuale è abituata a fare diagnosi solo su ciò che gli esami
(TC, RM e radiologici) mostrano; tutto ciò che non si vede
non viene preso in considerazione, ma in realtà, molto
spesso, questi reperti sono
solo rilievi occasionali, spesso ininfluenti come causa di
dolore.
Il dolore “reumatico” è legato, nella maggior parte dei
casi, alla contrattura muscolare e all’ ispessimento del
sottocutaneo e non all’infiammazione articolare, ed è
pertanto inefficace l’utilizzo
di farmaci antinfiammatori
(FANS) che nella maggior
parte dei casi si comportano
come semplici analgesici sintomatici.
Se infatti andiamo a consultare le linee guida internazionali riguardo i dolori rachialgici, possiamo notare che il
farmaco consigliato all’inizio
del trattamento è il paracetamolo, cioè un analgesico puro
e non un Fans.
L’analgesico permette la riduzione degli effetti collaterali,soprattutto a livello gastrico, e generalmente è sufficiente a risolvere la patologia
Sae l ute
Territorio 129
di un lassativo adeguato non
sono obiettivi facili neanche
per il medico e comunque non
possono essere lasciati al “fai
da te” o al consiglio del vicino
di casa. Non si dovrebbe dimenticare che l’anziano ha comunque una speranza di vita
più ridotta: migliorare la qualità di quanto gli resta semplificando mediante un’organizzazione appropriata la soluzione di problemi sì minori ma
così frequenti, è un obiettivo
che in futuro non si dovrebbe
sottovalutare.
stile di vita, associato ad una
corretta attività fisica (una
passeggiata di km.3 al giorno, come prevede anche l’organizzazione mondiale della
sanità) e a semplici esercizi
quotidiani per il mantenimento della completa escursione articolare.
L’erogazione della terapia fisica (TF) da parte del SSN nel
prossimo futuro è destinata
purtroppo ad esaurirsi in
quanto considerata sconveniente e non funzionale, pertanto sarà quasi sicuramente
esclusa dai LEA (livelli essenziali di assistenza) ma è importante ricordare che la sua
efficacia è in stretto rapporto
con la possibilità di una sua
applicazione in tempi brevi
se non immediati.
Attualmente la terapia fisica
può essere prescritta da tutti
i medici e questo ha generato un ingorgo, dando luogo
alla formazione di lunghe liste di attesa; in certi casi è
necessario anche un anno
prima di riuscire ad ottenere
un trattamento. Questa situazione rende quasi sempre
inutile la cura prescritta. A
mio modo di vedere, se si volesse mantenere l’erogazione
della TF, la lista d’attesa dovrebbe riguardare la visita
specialistica che dovrebbe
essere organizzata in base
alla disponibilità dei posti di
trattamento. In questo modo
la prescrizione dovrebbe es-
sere corretta, in quanto affidata allo specialista specifico, e la terapia fisica risulterebbe efficace perché somministrata immediatamente
dopo la visita.
Vi sono a mio modo di vedere
molte incongruenze e molta
approssimazione nella valutazione degli strumenti utilizzati per la terapia fisica,
macchinari attualmente considerati obsoleti come la Radar terapia e la Marconi terapia funzionano perfettamente se chi li adopera e li prescrive ne conosce a fondo il
funzionamento e il corretto
utilizzo.
Purtroppo, dai LEA sono già
stati tolti questi due macchinari a mio avviso molto utili.
Credo che la terapia fisica
abbia in futuro una grande
possibilità di diffusione a livello domiciliare. L’industria
delle apparecchiature elettromedicali ha infatti intuito
da tempo l’importanza dell’affare iniziando a produrre
e immettendo nel mercato
attrezzature a prezzi accessibili.
L’utilizzo domiciliare nasconde comunque dei rischi in
quanto l’uso prolungato e
sconsiderato di alcuni macchinari potrebbe essere causa
di effetti indesiderati.
Negli USA, per esempio, sono
già descritti in letteratura dei
casi di dipendenza da TENS
(elettroanalgesia), in quanto
l ute
Sa
e
130 Territorio
il suo funzionamento induce
la formazione di endorfine,
sostanze simile alla morfina
che il nostro organismo produce normalmente per regolare la soglia individuabile
del dolore.
In conclusione reputo che la
terapia fisica possa essere
La programmazione sanitaria del futuro ventennio
N. 149 - 2005
uno strumento importante
per la cura delle malattie reumatiche e non solo di queste,
ma che per esserlo non solo
teoricamente ma soprattutto
praticamente si debba riorganizzare strutturalmente il sistema delle prescrizioni e
delle liste di attesa. In ottica
potendo contare su finanziamenti notevoli.
Tutte le ultime apparecchiature elettromedicali sono infatti state provate ed utilizzate in campo sportivo, dove
le risorse a disposizione sono
in grado di stimolare ed indirizzare la ricerca.
futura analizzando i dati recenti si può prevedere un suo
grande successo in ambito
domiciliare e soprattutto
sportivo, la medicina dello
sport infatti sarà probabilmente pioniera nella ricerca
in campo medico strumentale, come già stiamo vedendo,
Bibliografia
Maigne R., Medicina Manuale, UTET, 1996.
Sebastiani C., Terapia fisica. Riabilitazione degli organi di movimento,
Aulogaggi, 1981.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/publimed
http://www.neuroguide.com
Farneti P., Terapia fisica e Riabilitazione, A. Wasserman S.p.A., 1972.
http://www.swodeam.com
Gigante G., Severini G., Terapia Fisica strumentale, Edi Ermes, 1997.
http://www.aif.net/pedro
Stecco L., La manipolazione neuroconnettivale, Marrapese, 1996.
http://www.ilfisioterapista.it
Recensioni
N. 149 - 2005
Sae l ute
Territorio 131
Recensioni
Etica, conoscenza e sanità Evidence-based medicine
fra ragione e passione
a cura di Alessandro Liberati
Prefazione di Silvio Garattini
Il Pensiero scientifico editore,
Roma 2005
pp. 377, € 32,00
Un libro “collettivo” di venticinque autori, che si presenta
con un titolo dietro al quale
si possono affrontare una
molteplicità di argomenti,
suscita in me una qualche
diffidenza. Può infatti nascondere una rielaborazione
di comunicazioni a un convegno, una serie di scritti “di
occasione”, una raccolta non
organica di contributi.
Non è questo il caso del bel
volume, curato da Alessandro
Liberati, che offre una ampia
riflessione sui problemi fondamentali della Evidence based medicine, scandagliandone i diversi aspetti e i campi
di applicazione.
Il libro si apre con un ampio
contributo, a firma del curatore, nel quale si propone un
bilancio di 10 anni di applicazione – o più esattamente di
impegno alla diffusione - di
“uno strumento utile per la
produzione e l’uso delle
informazioni in medicina”
quale correttamente viene
definita la Evidence based
medicine. Se nella epoca pre
– EBM non esisteva una cornice concettuale e metodologica condivisa per usare le
prove empiriche e sistematiche, nell’ultimo decennio si è
sviluppata una “cornice” in
cui collocare e interpretare le
informazioni scientifiche derivanti dalla ricerca epidemiologica per trasferirle nella
pratica clinica.
Il curatore passa in rassegna
gli elementi di forza (“l’EBM
è stata utile?) e le criticità di
tale metodologia nella pratica clinica, nelle ricerca clinico-epidemiologica e nelle politiche sanitarie, evidenziando anche, con qualche accenno autocritico, gli eccessi di
entusiasmo e di semplificazione che hanno contribuito
a suscitare sia diffidenze che
irrealistiche attese da tale
metodologia, attribuendo ad
essa uno statuto epistemologico. Segue, a conclusione
della prima parte del volume,
un contributo di Marco Bobbio, Pietro Dri e Alessandro
Liberati, sul conflitto di interesse e trucchi del mestiere,
tema al quale Bobbio aveva
dedicato un’ampia trattazione nel 2004 (Bobbio M.: Giuro di esercitare la medicina
con libertà e indipendenza,
Einaudi Editore). Il libro si
articola in una seconda parte
dedicata agli ambiti di applicazione clinica dell’EBM (Me-
dicina generale, Ospedale,
Editoria scientifica) ed una
terza parte che affronta, con
ulteriori sette contributi, il
contesto e le criticità di applicazione.
Non essendo possibile in questa sede una analisi dettagliata dei vari contributi, mi
soffermerò su alcuni capitoli
che mi sono parsi estremamente significativi.
Luigi Pagliareo, con altri cinque autori, nel capitolo EBM e
medicina in ospedale presenta una analisi della applicazione dell’EBM alla diagnosi –
distinta in generazione e verifica dell’ipotesi - e alla terapia; interessanti, in tale
scritto gli “scenari” presentati, che sono dei veri e propri
case report nei quali viene
descritto caso clinico (“…La
signora Rosa di 80 anni, portatrice di protesi valcolare mitralica… consulta il medico
curante per un intenso dolore
all’alluce…”), vengono esaminati i quesiti che il sanitario si è posto e l’uso che ha
fatto, nello specifico contesto, della metodologia EBM.
Danilo di Diodoro, nel capitolo: Ebm ed editoria scientifica
offre un aggiornato e documentato quadro delle impressionanti trasformazioni in atto in tale settore che è rappresentato da circa 15.000 riviste in cui vengono pubbli-
cati oltre sei milioni di articoli l’anno. Un quadro impressionante che l’informatizzazione sta trasformando,
con potenzialità positive in
termini di partecipazione e
gestione delle conoscenza,
ma anche con molteplici rischi. D’altronde, fa presente
l’autore, è la società contemporanea che è caratterizzata
da una rivoluzione nei dati e
nelle informazioni; nel solo
triennio 1998-2001 si stima
che siano state prodotte più
informazioni che in tutta la
storia dell’umanità.
Domenighetti e Satolli nel capitolo su EBM e cittadini,
hanno la capacità di offrire,
sinteticamente ma in modo
articolato e documentato,
una analisi dell’attuale mercato sanitario ed esaminare le
strategie in atto per l’allargamento del mercato: anticipazione della diagnosi, abbassamento della soglia, individuazione di “non-malattie”,
uso dei mass media.
Un libro ben scritto, di piacevole lettura anche se affronta
concetti complessi, riccamente documentato e indubbiamente utile non solo alla discussione sull’Evidence based
medicine, ma a quella più generale sul significato e le prospettive della sanità.
Marco Geddes
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