Raffaele Colapietra Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie di Raffaele Colapietra Il 2 settembre 2001 è caduto il centenario della morte d’Imbriani, dopo quasi esattamente quattro anni d’infermità e dolorosa immobilità paralizzante, che emblematicamente lo aveva colpito mentre inaugurava in piazza della Lizza a Siena, all’ombra dialetticamente “tirannica” della fortezza medicea, e non lungi dalle memorie cateriniane del S. Domenico, il monumento a Giuseppe Garibaldi1. Il ricordo dell’oblio in cui Milano, per non dire l’Italia, hanno fatto cadere l’analoga ricorrenza per Cavallotti (6 marzo 1898) nonostante certe profondissime affinità ambientali che si è avuto modo di segnalare in nota, mi ha indotto a riprendere in mano gli appunti di una conversazione tenuta a Trani nel novembre 1990, che la cortesia di quei cittadini rese affollata e partecipe, e che mi giovò allora, e più mi giova oggi, per ridestare e rinfrescare amori giovanili attorno ai quali i decenni trascorsi, malgrado le benemerenze, troppo conosciute per essere dettagliate, di Giovanni Spadolini ed Alessandro Galante Garrone, non hanno apportato davvero luce soverchia. Imbriani si trova poi in una posizione particolarmente delicata e defilata nei confronti di Cavallotti, che si è potuto, con gli opportuni distinguo, collocare e mantenere alla meglio nell’ambito di quel radicalismo a cui gli studiosi, ed una certa esigua pattuglia di epigoni, hanno dedicato un’attenzione non trascurabile, con esiti critici ragguardevoli, come in quelli di Giovanni Bovio, che viceversa, ed assai lodevolmente, è stato abbastanza presente alla memoria civile e scientifica pugliese, se non del tutto a quella napoletana, sì da presentare oggi un bilancio soddisfacente tanto sotto il profilo culturale quanto sotto quello strettamente politico. 1 Ho creduto opportuno soffermarmi con qualche cura sulla localizzazione specifica dell’evento del 20 settembre 1897 (davanti al monumento è ancor oggi la lapide dell’antica sede della società operaia dove Imbriani fu trasportato e Cavallotti fu il primo ad accorrere al capezzale dell’amico) a causa della sua sempre rilevantissima rappresentanza simbolica, così come lo è, ovviamente, la data prescelta, quella stessa nella quale, due anni prima, il Crispi presidente del Consiglio aveva inaugurato con un importante discorso il Garibaldi del Gallori sul Gianicolo. Esso era una rivendicazione con iudicio della laicità irrinunziabile dello Stato risorgimentale a suggello della proclamazione della data, nel suo venticinquennio, come festa nazionale, secondo che ricorda orgogliosamente a Gallipoli l’epigrafe dettata per il proponente, all’epoca deputato del collegio, Nicola Vischi, l’antico patrizio di Trani e “proconsole” giolittiano in Terra d’Otranto. Non a caso Milano avrebbe contrapposto al 20 settembre del conformismo ufficiale il 3 novembre di Mentana e del “fossato” da essa scavato tra la nazione e la monarchia nella suggestiva immagine di Agostino Bertani, per affidare l’inaugurazione del suo Garibaldi ad uno dei più smaglianti e complessi discorsi extraparlamentari di Felice Cavallotti. 185 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie E questa delicatezza dipende dall’essere stato Imbriani irrigidito, e sostanzialmente esaurito, nelle secche di una protesta tanto generosa quanto esteriore e declamatoria nell’ambito che genericamente può chiamarsi meridionale, se non propriamente meridionalistico, nonché, e più gravemente, a livello nazionale, in quelle di un irridentismo enunciativo, fine a se stesso quando non incoerente e contraddittorio. Gli equivoci e le ambiguità di Raffaele Cotugno quale più o meno legittimo erede politico del Nostro e, più impegnativamente, curatore e prefatore, nel 1923, dei suoi discorsi parlamentari 2 sono senza dubbio alla base di questa rapida e sommaria mancanza d’interesse critico, non sanata certo da quel che è venuto dopo soprattutto in ambito regionale pugliese, un nome per tutti, Michele Viterbo. Le pagine che seguono, dunque, sull’onda sentimentale dell’occasionale circostanza accennata, e sulla base modestissima di una rilettura del saggio di Cotugno e di una rivisitazione, come si suol dire, dell’attività parlamentare intensissima di Imbriani nei pochi anni in cui egli di fatto sedette alla Camera, si propongono con tutta semplicità di cominciare a far conoscere, se non altro, lo spessore di testimone del liberalismo ottocentesco che il Nostro riveste nel passaggio dal Risorgimento al post Risorgimento, ed in quello egemonico dalla plenitudine crispina al prologo giolittiano, in quanto portavoce di una determinata, e sensibilissima, coscienza parlamentare, che in quegli anni decisivi fu messa severamente alla prova. Si tratta, come sempre, di studiare e di approfondire, dopo aver conosciuto di massima: ma questo è un compito che, guardandomi indietro3 posso serenamente lasciare ad altri. Elemento centrale e determinante di tutta la vicenda umana e politica di Matteo Renato è senz’altro la sua nascita a Napoli, il 28 novembre 1843, nel cuore profondo, per così dire, della “famiglia di patrioti” di crociana memoria la cui vicenda andrebbe oggi ripercorsa con sguardo più scaltrito e spregiudicato sul retroterra provinciale “rampante” settecentesco degli Imbriani nella valle Caudina 2 Non si trascuri ovviamente, la data di quell’edizione, che segnava una tappa ulteriore di avvicinamento al fascismo da parte di Cotugno radicale, interventista e nittiano, il tutto con gran numero di virgolette, del ventennio precedente (naturalmente, la singolare levatura soprattutto intellettuale del personaggio attende ancora una ricostruzione a tutto tondo: ma qui egli ci interessa essenzialmente quale responsabile di uno snodo critico all’interno del quale Imbriani è rimasto impigliato senza scampo). 3 Mi si consenta, proprio a conferma di questa chiave introduttiva autobiografica, l’auto citazione della recensione che dedicai in “Belfagor” 1959 estratto di pp. 25 col titolo L’Italia in Africa da Assab ad Adua a La prima guerra d’Africa del compianto Roberto Battaglia, che in conseguenza mi divenne carissimo amico “Noto con piacere come l’A. riservi all’Imbriani un’attenzione non condizionata dal consueto cliché protestatario ed irredentista e borghese proprio del patriota napoletano. Imbriani è senza dubbio una figura schiettamente risorgimentale, in senso generico e culturale, senza troppe precisazioni politiche, e quindi già anacronistica alla fine dell’Ottocento. Ma la sua funzione liberale, la sua ispirazione popolare e la sua aggressiva onestà si rivelarono più volte insostituibili, connesse come erano con una severa preparazione dottrinaria e sia pure libresca, ed una spiccata sensibilità parlamentare”. 186 Raffaele Colapietra della S. Martino tanto cara al Nostro e dei Poerio dell’ormai remota ed estranea Taverna. Tale elemento si rende poi più ravvicinato e coinvolgente se si colloca Matteo Renato come fratello mezzano tra due personalità parimenti d’eccezione, Vittorio, su cui non ci sono da spendere molte parole, e Giorgio, caduto nel gennaio 1871, a ventidue anni, a Digione, al pari di Giuseppe Cavallotti, il fratello di Felice, ma assai più e meglio di lui essendosi già messo in luce tra le figure più vigorose dell’intransigenza repubblicana napoletana in chiave garibaldina che si era saputa serbare indenne dalle suggestioni bakuniste. Non si trascuri peraltro, specie sotto l’angolo visuale che attualmente ci concerne, ciò che gli zii materni abbiano potuto rappresentare e significare per il giovane che non a caso, a differenza di Vittorio, volle costantemente accompagnare il cognome Poerio a quello paterno, forse soprattutto Alessandro, di cui sintomaticamente si leggeva un motto poetico in epigrafe a “L’Italia degli Italiani” di cui parleremo tra breve, un motto nel quale è in nuce il rapporto sempre tormentosamente dialettico, e tormentosamente avvertito, tra forma e contenuto della democrazia: “A che le leggi provvide E ’l frequente Senato E di suffragi gravide L’urne e il pensiero amato E la parola libera E la comun città… se mancano Virtude e libertà?”. Matteo Renato veniva dunque a rappresentare, non soltanto dal punto di vista anagrafico, una sorta di quid medium tra gli opposti estremismi, diciamo così, che si sarebbero configurati in Vittorio ed in Giorgio, e ciò, almeno in parte, anche a causa della vocazione, o scelta che fosse, schiettamente militare che lo contraddistingue fin dall’indomani dell’infantile esilio del 1850 al seguito di Paolo Emilio e di Carlotta Poerio suoi genitori, nel 1855 il collegio militare di Asti, quindi l’accademia di Torino, infine, nel 1859, la partecipazione alla guerra agli ordini di un conterraneo meridionale, il generale Carlo Mazzacapo. Il richiamo garibaldino sarebbe stato comunque prevedibilmente irresistibile al pari che per Cavallotti, di solo un anno più anziano (lo era anche Giolitti, ma quale differenza! ed è un dato di fatto, il signum di un altro mondo), l’imbarco con Medici, la presenza alla battaglia di Milazzo con decorazione sul campo e promozione da parte di Enrico Cosenz4, quella assai più drammatica, a fianco di Pilade Bronzetti, e con una breve prigionia nel campo borbonico, a Castelmorrone, nel difficile tentativo di coprire Caserta tra Maddaloni e S. Maria Capua Vetere durante la battaglia del Volturno. Che quella del Nostro, come si è accennato in nota, fosse all’epoca una posi- 4 È appena il caso di avvertire fin d’ora che tutt’e tre i militari fin qui nominati avrebbero rivestito uffici altissimi nell’Italia unitaria e monarchica, non sappiamo se ed in quale misura mantenendo contatti col Nostro, che ribadisce comunque fin qui un’ortodossia garibaldina che, e lo vedremo, può tingersi di repubblicano, ma nulla deve specificamente a Mazzini, né tanto meno a Cattaneo, e questo in forte diversificazione rispetto a Cavallotti e a Bovio. 187 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie zione politicamente alquanto sorvegliata sembra confermato dal suo allineamento, come aiutante di campo, accanto al Cosenz divenuto generale divisionario dell’esercito regio nella campagna del 1866 mentre Vittorio e Giorgio entrambi, ed è significativo di una fase biografica destinata tra breve a divaricarsi con forza, si arruolavano tra i volontari di Garibaldi. La rottura, come per tanti altri rispetti, anche questo lo abbiamo segnalato in nota, si sarebbe verificata soltanto a Mentana, allorché Matteo Renato, dopo un arduo di laceramento vissuto a Firenze dinanzi alla folla che tumultuava sotto palazzo Riccardi, sede all’epoca del vacillante gabinetto Rattazzi, sarebbe entrato a far parte, senza dubbio sotto l’influsso preponderante di Giorgio, dello stato maggiore di Giovanni Nicotera, nella sua scriteriata avventura ciociara, donde gli inevitabili arresti in fortezza, a Palmanova, ma, si noti, non l’abbandono della carriera militare, nella quale l’Imbriani tenente dei granatieri persiste, pur in un iter esistenziale sempre più arruffato ed aggrovigliato, che lo avrebbe sospinto in polemiche giornalistiche costellate da querele ed a duelli con i principali esponenti del giornalismo conservatore di quegli anni, Arturo Colautti ed il giovane Michele Torraca. Ancora una volta, ed ora definitivamente ed in modo tragico, la rottura sarebbe stata determinata da Giorgio, la sua morte a Digione, la scena melodrammatica della salma vegliata da Jessie White Mario nella cripta dei Cappuccini e di Matteo Renato che getta nella bara la propria medaglia al valore e scrive le proprie dimissioni dall’esercito. Il matrimonio con Irene Scodnik, l’esule dalmata che tanta parte avrebbe avuto nella sua vita e tanta responsabilità nell’inaridirne la memoria nel più angusto irredentismo, ratifica e suggella la svolta, che implica anche una freddezza ormai permanente ed insuperabile con Vittorio ed un sempre più assiduo coinvolgimento politico culminato, sempre in chiave essenzialmente garibaldina, ancora alla vigilia della “rivoluzione parlamentare”, nel gennaio 1876, con l’assunzione, a fianco di Giuseppe Avezzana, della vicepresidenza del comitato direttivo dell’associazione dei superstiti delle patrie battaglie, donde, il 10 marzo successivo, nella ricorrenza non puramente formale della morte di Mazzini, l’uscita de “L’Italia degli Italiani monito quotidiano politico morale ed eco scientifica”, il pedagogismo paternalistico e positivista al potere, si potrebbe dire con una battuta, con tutte le luci e le ombre non lievi che ciò comporta. La presa di distanza nettissima nei confronti del Nicotera ministro dell’Interno bastava da sola a fornire chiaramente la cifra politica di tale pedagogismo, che veniva ad esemplificarsi in novembre, in occasione delle elezioni generali del 1876, con la prima delle diciotto candidature di Imbriani prima dell’elezione del maggio 1889, ma forse, al di là dei 46 voti racimolati, la più significativa di tutte, quella presentata, e che sarebbe stata più volte reiterata, a San Severo, che era stato il collegio della “sinistra giovane” di De Sanctis e del progressismo essenzialmente intellettualistico di Zuppetta, e perciò, ambientalmente parlando, il passaggio dalla democrazia post giacobina del Subappennino del comunitarismo e degli usi collet188 Raffaele Colapietra tivi alla democrazia presocialista del libertarismo anarchicheggiante del Tavoliere e del Gargano settentrionale5. Trasformando il giornale in settimanale nel luglio 1877 con una rubrica specifica dedicata all’Italia irredenta6 la caratterizzazione del Nostro in quest’ultimo senso appare tanto rapida quanto probabilmente strumentale, l’esigenza di ritagliarsi uno spazio tutto proprio all’interno della democrazia e, più latamente, dell’estrema orma non più ministeriale, attraverso l’associazione centrale per le provincie del Mezzodì dell’Italia irredenta, di cui Garibaldi è “preside”, Avezzana presidente, Bovio vice ed Imbriani segretario e pratico factotum, un uffucio che lo autorizza a trattare Crispi da “cittadino indegno e pessimo italiano” per l’incontro con Bismarck da cui l’irredentismo si mostra allarmato non meno di quanto faccia la sensibilità liberale e parlamentare dinanzi all’autoritarismo di Nicotera, tanto poco estremista, quella sensibilità, da indurre il Nostro a deporre una corona al Pantheon sulla fresca tomba di Vittorio Emanuele ed a sostenere in proposito una vivace polemica con l’inflessibile Alberto Mario7. L’exploit irredentista si sarebbe in effetti, obiettivamente, verificato nell’estate 1878, com’è noto, col congresso di Berlino ed in seguito con Italicae res di Haymerle, a cui Imbriani aveva replicato con Pro Patria introdotto da Bovio e Luigi Mazzacapo, il fratello del suo antico generale, e già ministro della Guerra, col Quid faciendum, una ventata di comizi che, dal Sannazaro di Napoli a Milano, attraverso il Politeama di Roma, scuoteva l’opinione pubblica, il Nostro sempre in primissima fila, Garibaldi esortante all’insurrezione per gli irredenti ed alla guerra partigiana sulle montagne, la nazione armata e il suffragio universale quali presupposti ed obiettivi ad un tempo un po’ di tutta l’agitazione. 5 Mi permetto di richiamare in merito a quanto ne dico in Sansevero collegio elettorale di De Sanctis: luci ed ombre della Sinistra giovane in Francesco De Sanctis un secolo dopo a cura di Attilio Marinari, Laterza, 1985, II 355-432, Da De Sanctis al socialismo attraverso Imbriani in Studi per una storia di San Severo, San Severo 1989, II, 605-672, L’attività politica di Luigi Zuppetta dopo l’unità in “Archivio Storico Pugliese”, 1989, pp. 375-415. Imbriani sarebbe stato candidato ancora nel maggio 1880 con un plebiscito a Castelnuovo, la patria di Zuppetta, in quanto scambio dell’eredità e delle consegne, senza alcuna base organizzata sociale, ma scarsissimi risultati nel resto del collegio, nell’ottobre 1882 nel secondo collegio di Foggia a scrutinio di lista con 1218 voti complessivi ed il plebiscito trasferito a Rodi, nella prospettiva delineata nel testo, nel maggio 1886 con un forte incremento in città, tra i ceti artigiani ed operai, a segnare il configurarsi di una vera e propria democrazia radicale, appunto per questo essenzialmente urbana nei confronti del ministerialismo trasformista e più tardi crispino (nel 1890, quando il Nostro era già alla Camera, egli, benché sconfitto nel collegio, raccoglieva in Sansevero città la maggioranza assoluta dei voti: e si noti, ad illuminare i costumi dell’epoca, che proprio e soltanto quell’anno, nel maggio, Imbriani era apparso per la prima volta fisicamente a Sansevero, di passaggio nel recarsi a Castelnuovo per commemorarvi Zuppetta nel primo anniversario della morte). 6 È appena il caso di segnalare l’opportunità imprescindibile di uno studio specifico sull’Imbriani giornalista e talent-scout, si pensi alla successiva collaborazione del giovanissimo Salvatore Di Giacomo al foglio di Trinità Maggiore la cui lapide commemorativa, allo sbocco sul Gesù Nuovo, è diventata pressoché illeggibile. 7 Ancora l’11 aprile 1897, alla vigilia del dramma di Siena, nel corso di richiami “ideologici” che avremo modo di riprendere più avanti, Imbriani difendeva Vittorio Emanuele dalle critiche di Napoleone Colajanni perché, rispetto alle tradizioni repubblicane naturali in Italia (ed è interessante questa che è constatazione più che rivendicazione) “il voler disconoscere ciò che hanno operato altri, con sacrifici anche nobili ed alti, mi parrebbe ingiustizia”. 189 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie Costretto, con un opuscolo sereno ed equilibrato intorno al regicidio, a polemizzare indirettamente col fratello Vittorio che col velenoso È galantuomo il Cairoli? aveva preso spunto dall’attentato Passanante per una tirata schiettamente reazionaria, Imbriani manifestava in tal modo duttile prontezza nel passare dall’atmosfera arroventata dell’irredentismo nazionalistico e fine a sé stesso a quella più articolata, ed accentrata sulla difesa dei diritti statutari, che avrebbe condotto nell’aprile 1879 a quella Lega della Democrazia, con omonimo brillantissimo giornale affidato alla direzione di Alberto Mario, in cui si suole oggi a ragione avvisare il primo nucleo dell’estrema radicale e democrativa definitivamente identificatasi nei confronti della Sinistra storica dopo la caduta di Cairoli8. Significativamente il ritorno al potere di quest’ultimo, sia pure sulla piattaforma sgradevolmente regionalista dell’abolizione parziale del macinato, avrebbe suggerito anche a Garibaldi più miti consigli nei confronti di Italicae res e ad Imbriani, nell’ottobre 1879, l’accennato dignitoso equilibrio di Pro Patria, una prova di più che l’irredentismo, almeno a sinistra, non era ormai che uno dei tasselli di un mosaico assai più ampio e complesso, il cui provvisorio suggello, nel febbraio 1881, è fornito da quel comizio dei comizi a Roma la cui gestazione ed il cui svolgimento andrebbero ricostruiti con cura come una delle maggiori mobilitazioni d’opinione dell’epoca, ed il cui ordine del giorno conclusivo, Imbriani al suo posto nell’umanimità che lo sancisce, “invita il popolo a riconquistare il suffragio universale9 come uno dei diritti costitutivi di quella sovranità da cui sorga la legge della vita nuova italiana”. Proprio la morte di Garibaldi, peraltro, nel giugno 1882, a mezzo tra la conclusione della Triplice ed il bombardamento di Alessandria, un rinnegamento vistoso del principio di nazionalità che avrebbe dato modo peraltro ad Imbriani di elogiare il Mancini ministro degli Esteri per non avervi voluto prender parte (si ricordino le contemporanee, e successive, veementi recriminazioni di Crispi e di tutto il successivo nazionalismo patriottardo, da De Zerbi a Corradini!) accantonandosi per il momento le conseguenze di ogni genere che la Triplice avrebbe potuto esercitare anche e soprattutto sul risvolto costituzionale della politica interna italiana, la morte di Garibaldi, dicevamo, accolta dai democratici francesi, in testa Georges Clemenceau, con ampie esibizioni di solidarietà, offriva il destro per un’iniziativa clamorosa della quale il Nostro sarebbe stato al centro. Giovanni Bovio, infatti, che aveva sempre mantenuto, prima e dopo Tunisi, l’atteggia- 8 Non a caso proprio al Nostro pochi giorni prima dell’assemblea romana, il 15 aprile 1897 (Biblioteca Nazionale di Napoli, Archivio Imbriani, XX, II, 62) si era rivolto Napoleone Colajanni auspicando “una estrema sinistra non docile, gesuitica e forse aspirante al potere sotto la monarchia come la vorrebbe il Bertani… ma battagliera ed intransigente come quella francese sotto l’Impero” formula felicissima, quest’ultima, e che Imbriani avrebbe fatto sostanzialmente propria, la tribuna parlamentare come mezzo di comunicazione col paese e di propaganda presso l’opinione pubblica, in prospettiva genericamente repubblica. 9 Chiaro riferimento al grosso e decisivo equivoco costituzionale dei plebisciti, donde il mito crispino della “monarchia democratica” e l’utopia di Mario intorno ai placidi tramonti” determinati fisiologicamente, per così dire dal suffragio universale. 190 Raffaele Colapietra mento più conciliativo ed aperto verso i repubblicani transalpini d’estrema, inviava a Parigi, come rappresentante della “democrazia meridionale” per l’anniversario della presa della Bastiglia, il nostro Imbriani, dando alle stampe, insieme con Federico Salomone, un manifesto per annunziare la ripresa della tradizione degli scambi politici italo-francesi, interrotti nel novembre 1880, e la cui cronistoria andrebbe pur ricostruita sotto il profilo culturale e civile del “mito” della repubblica10. Il soggiorno parigino di Imbriani si sarebbe protratto parecchi giorni, salvo ripetersi poco più tardi, sempre nel nome di Garibaldi, nel settembre 1882, all’Hotel de Ville ed al Grande Oriente, una compromissione massonica pressoché inevitabile alla quale Imbriani non poteva che acconciarsi, sulla traccia di Bovio, nonostante l’estraneità di fondo che, al pari di Cavallotti, lo teneva lontano dalla formidabile associazione dei liberi muratori11. L’episodio Oberdan piomba su questo clima a divaricare con violenza le posizioni della democrazia, da un lato la parola d’ordine di Bertani, suggestionato da Crispi ed isolato un po’ in tutta l’estrema, Bovio, Cavallotti, il neo eletto Andrea Costa, “bando ai sospetti, mano alle riforme”, dall’altro il “piombo e sangue” freneticamente invocato da Imbriani, con sullo sfondo la sottoscrizione per migliaia di carabine da depositarsi, con patetico donchisciottismo, presso gli studi del pittore Saverio Altamura e dello scultore Francesco Jerace12, più in là la candidatura a Belluno, sul limite delle Alpi “contese”, dove già sono stati eletti i radicali Carlo Tivaroni ed Emilio Morpurgo ma dove Imbriani, pur raccogliendo circa tremila voti in successione al progressista Giuriati, in un intreccio di populismo ed irredentismo difficilmente districabile, deve cedere il passo al generale Ricci, candidato ministeriale. Malgrado tutto, il discorso si spostava in realtà, concretamente, sulle riforme, stavolta il suffragio universale amministrativo, anch’esso attraverso una serie di comizi che andrebbe ricostruita con diligenza e che si sarebbe conclusa a Napoli, nel dicembre 1883, al teatro S. Ferdinando, con una grande manifestazione in cui Imbriani sarebbe stato al fianco di Bovio e di Costa, non più che una salvazione d’anima, a dire il vero, al pari della firma apposta al manifesto elettorale dell’estrema nel 1886 o della partecipazione al comizio napoletano anti africanista del luglio 10 “I popoli che hanno delle affinità – si leggeva nel manifesto del 1882, da leggersi, ovviamente, nella prospettiva del 1914 – se vogliono vivere liberi, non debbono separare i loro diritti, i loro interessi, i loro fini: e debbono ricordare ciò ai rispettivi governi che, separati, dimenticano le cause disastrose che alimentano le tenebrose Sante Alleanze sulle rovine delle nazioni e della libertà”. 11 Molto più obiettivamente interessante la parabola politica e culturale di Pro Patria, il motto che avrebbe dato origine all’omonimo quotidiano sorto nel settembre 1882 dalle ceneri del “L’Italia degli Italiani” e che si sarebbe mantenuto in vita fino al marzo 1883, redattore capo, sempre a Napoli, uno scienziato e repubblicano federalista di ferro come Arcangelo Ghisleri, le mille miglia distante da Imbriani, la cui personalità ne rimane peraltro inseparabile. 12 Si porrebbe a questo punto, naturalmente, l’affascinante tema della compromissione “sovversiva” delle arti figurative nel Mezzogiorno prima e dopo il Quarantotto e l’unità, tema che non è ovviamente il nostro ma che non può andar sottovalutato in una storia civile e politica dell’intellettuale meridionale. 191 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie 1887, un primo approccio del Nostro ad un tema che in seguito, in chiave di nazionalità, gli sarebbe stato particolarmente caro. Il personaggio che dunque, il 24 marzo 1889, viene eletto deputato nel secondo collegio di Bari contro Riccardo Spagnoletti in una suppletiva per morte di Fabio Carcani, l’illustre patrizio di Trani che condivideva, abbastanza scialbamente, per la verità, la sfumatura progressista pentarchica del Panunzio a Molfetta, quel personaggio, dicevano, è un gentiluomo ormai attempato, che ha tenuto una posizione politica essenzialmente garibaldina e tardorisorgimentale assai coerente, che in Puglia a San Severo, come si è visto in nota, sta imperversando ed egemonizzando un’interessante transizione democratica urbana, e che perciò può apparire in grado di fare efficacemente da portavoce così per i disagi che la guerra doganale sta apportando in particolare alla Puglia come per la sensibilità liberale di una certa opinione pubblica ormai non più disposta a farsi coinvolgere indiscriminatamente nel clima plebiscitario di aspettazione messianica che aveva accolto l’avvento di Francesco Crispi. Matteo Renato Imbriani avrebbe risposto a questa fiducia in modo memorabile e clamoroso fin dal suo esordio parlamentare del 10 maggio successivo, un contributo decisivo alla compiutezza morale dell’estrema, una significativa affermazione dell’elettorato meridionale sul “deputato del popolo” imponente e tonante col suo cappellaccio e la sua valigia di documenti, ma anche un valore spirituale assolutamente inestimabile, l’onestà, il disinteresse, una corrucciata grandezza morale, spinta fino alla pignoleria, che lo rendeva una sorta di spauracchio per qualsiasi ministero, un estremo soffio del romanticismo garibaldino sulla democrazia italiana. Le pagine che seguono aspirano a documentare come questo ritratto, ormai definitivamente e magari oleograficamente acquisito fino a ieri (oggi, l’abbiamo visto, del tutto dimenticato) veda arricchito con sfumature liberali e democratiche, e perciò propriamente politiche, che fanno di Imbriani non soltanto un personaggio ma un’autentica personalità parlamentare13. L’interpellanza “sulle cause che hanno prodotto la miseria e lo squallora nelle oneste e laboriose popolazioni delle Puglie” va inquadrata sullo sfondo di due avvenimenti di vasta risonanza ad essa immediatamente precedenti, all’interno la costituzione definitiva di una opposizione di Destra capeggiata dal Rudini e quanto mai conciliante e sfumata un po’ su tutti i principali temi politici sul tappeto, ma strutturata in prevalenza intorno al moderatismo lombardo nella sua 13 Vale la pena di ricordare che Imbriani ottenne nel collegio circa 7500 voti, un paio di migliaia in più di Spagnoletti, per il quale ultimo furono compattamente la nativa Andria, la Trani di Giambattista Beltrani, Giovinazzo e Bisceglie, mentre Cafiero e Pansini fecero confluire su Imbriani rispettivamente Barletta e Molfetta, e Bovio il suo vecchio collegio uninominale di Minervino e Spinazzola, anche Terlizzi e soprattutto Corato votando in maggioranza per l’estrema, quella squadratura municipalistica dei risultati elettorali in cui è tanta parte della storia politica non soltanto del Mezzogiorno e che attende ancora di essere studiata e spiegata a dovere. 192 Raffaele Colapietra fase di transizione all’imprenditorialità industrialistica che l’avrebbe sempre meglio caratterizzato e reso egemonico, all’estero la morte in battaglia, a Metemmà, del negus Giovanni, che parve per un attimo, aprire seducenti prospettive alle ambizioni dei circoli imperialistici, delle quali alla Camera si rese prontamente interprete Edoardo Arbib vivacemente confutato da Bonghi con la consueta alternativa del “l’Africa che abbiamo in casa”, la prospettiva bonificatrice e colonizzatrice, nella circostanza coinvolgente il suo antico collegio elettorale di Agnone, simile a “la più selvaggia parte dell’Africa” donde uno strepitoso e famoso incidente, da cui Bonghi uscì vittoriosamente. Non solo: ma i grandi scioperi agricoli in Lombardia, i tumulti operai a Milano, Gallarate e Terni con numerosi feriti e dozzine di arresti, fornivano bene la misura di un malessere diffuso nell’intero paese, dinanzi al quale il governo non solo sospendeva le promesse economie sul bilancio dell’Africa (la commissione del bilancio, che cercava d’imporgliele, sarebbe stata indotta a dimezzarsi attraverso una raffica di dimissioni) ma si appellava al diritto statutario regio sulla guerra e sulla pace per rifiutare la richiesta di una legge speciale in proposito. Il “novello Mirabeau”, come “Il Diritto” definiva Imbriani con una iperbole giustificativa dalla concitazione dell’ora, articolava pertanto il suo intervento attorno a quattro nuclei fondamentali: 1) l’esigenza organizzativa del lavoro, che nella circostanza rimane fine a se stessa ma che è all’origine di un lungo discorso tipicamente pugliese (il contadino di Ruvo che inneggia alla fame “perché la fame ci permette di affermarci e di raggiungere certi ideali” donde il commento del Nostro: “Questo grido schietto di popolo, o signori, è sublime. E chi non sa comprenderlo né valutarlo non ha mai vissuto fra il popolo”); 2) il rifiuto, che rimarrà costantissimo in Imbriani, del catastrofismo del “tanto peggio tanto meglio” nel definire, contro Bonghi, in realtà partiti d’ordine i cosiddetti partiti “sovversivi” “perché, sentinelle avanzate, indichino al governo, che pare sordo, i mali che poi dovrà finire per toccar con mano. Se noi fossimo davvero sovversivi, lasceremmo che questi pericoli sovrastassero, si accavallassero e schiacciassero tutto”; 3) il rifiuto, ovviamente altrettanto costante, della politica estera segreta, che trascende la contingenza della Triplice e va a toccare l’art. 5 dello Statuto anche qui nell’ambito di un lungo discorso che culminerà col Giolitti “bolscevico dell’Annunziata” nel programma diciannovista del Dronero (“Io non conosco i vostri patti segreti, non li conosce la Camera, non li conosce il popolo. Ma appunto perché sono segreti egli li crede immani”); 4) il Parlamento, inteso come mezzo di mobilitazione della pubblica opinione (“Noi da questa tribuna parliamo all’Italia”). Non a caso l’apulitas del problema sarebbe stata fatta subito propria, in una squadratura senza mezzi termini, da Antonio Salandra, così come era stato lui, al suo esordio parlamentare, a farla propria quale relatore sull’innalzamento del dazio sul grano. 193 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie Il deputato di Lucera, il presidente del Consiglio, il calabrese Miceli ministro dell’Agricoltura, lo stesso Bonghi, che aveva interpellato in senso largamente analogo a quello d’Imbriani, facevano a gara per minimizzare e sdrammatizzare gli avvenimenti (a parte l’ultra africanismo enfatizzato da Salandra) una volta che essi sembravano poter assumere un colorito politico protestatario di massa troppo spiccato, e non sanato certo dalle 20 mila lire stanziate per i comuni maggiormente colpiti in Terra di Bari, che il Nostro contrapponeva nella replica alle 400 mila spese per il treno reale il Romagna, nel settembre precedente, alla “conquista”, in gran parte fallita, di quelle roccaforti repubblicane e socialiste col pretesto delle grandi manovre. Organizzatore di quel viaggio era stato il vecchio mazziniano Alessandro Fortis, ora sottosegretario all’Interno, ed era a lui che si rivolgeva il 28 maggio Imbriani con pronto e calcolato slargamento nazionale della sua tematica, gli arresti arbitrari a Milano ed i quattro morti in provincia, a Corbetta, “e lo chiedo – aggiungeva il Nostro con chiara fissazione delle responsabilità – all’autorità politica perché dall’autorità politica sono partite le informazioni e sono stati dati gli ordini all’autorità giudiziaria… I governi si servono dei procuratori generali e dei procuratori regi loro dipendenti per legittimare tutti gli arbitri, essi non rifuggono da tutti gli artifici, da tutti i mezzi”. Ammonendo a non identificare l’energia con la repressione fine a se stessa, Imbriani sollevava nella replica a Fortis un’esigenza di distinzione rigorosa tra legislativo ed esecutivo, così come aveva già fatto implicitamente per il giudiziario, che sarebbe restata tenatce in lui14 e presupponeva una chiarificazione preliminare grazie alla quale l’opinione pubblica fosse posta in grado di scegliere (“Non so di quale democrazia voglia parlare. Egli ha detto che se ne appellerà agli elettori. Già con la legge che ha vietato il verdetto degli elettori allorquando si viene assunti a ministro o segretario generale egli si è sottratto a questo verdetto”). L’accennata crisi della giunta del bilancio riproponeva peraltro in primissima linea all’ordine del giorno il tema delle economie, ed era ad esse che si appellava il 4 giugno Crispi per non far prendere in considerazione una proposta d’Imbriani, Bovio ed altri deputati pugliesi per una partecipazione statale del 20% alla spesa occorrente alla fornitura di acque salubri alla regione pugliese, un primo nucleo concettuale del futuro acquedotto, spesa che Alfredo Baccarini già ministro dei Lavori Pubblici valutava in 80 milioni e che il presidente del Consiglio riteneva superflua sotto il profilo igienico, rimettendosi per il resto all’iniziativa privata, una “democrazia dal basso” che trovava il Nostro tutt’altro che sfavorevole (“Io non ho aspettato dal governo grandi benefici perché i grandi benefici debbono i popoli procurarseli da loro, non aspettarli come manna che discende dal cielo”) ma, nel- 14 Il 27 giugno 1891, criticando la legge che esonerava dal sorteggio degli impiegati dello Stato eletti alla Camera i ministri ed i sottosegretari, Imbriani escludeva a priori che impiegato potesse essere il presidente della Camera, e il 9 giugno 1892, dinanzi alla richiesta di sei mesi di esercizio provvisorio avanzata da Giolitti fresco presidente del Consiglio, insisteva perché ministri e sottoministri si sottoponessero a nuove elezioni. 194 Raffaele Colapietra l’insieme, una sensibilità economica ed imprenditoriale anacronistico, è tutt’altro che sveglia. La chiusura della Camera chiamava intanto il Nostro, a fianco di Antonio Maffi, il deputato operaio di Milano, e del romagnolo Pietro Turchi, ad una difficile opera di mediazione in seno al diciassettemi congresso che si teneva a Napoli tra il 20 ed il 24 giugno 1889, nel senso di una stretta connessione fra l’organizzazione sociale e la propaganda politica, che Antonio Fratti annacquava nella formula delle “necessità dell’unità di lavoro”, per superare l’opposizione intransigente degli astensionisti, uno dei tanti compromessi che avrebbero reso il congresso praticamente inconcludente, a parte il rifiuto, netto ma non schiacciante, e nel quale Imbriani si trovava senza dubbio cordialmente d’accordo, delle proposte socialisticheggianti di Errico De Marinis e Giuseppe De Felice per l’abolizione del diritto di eredità e per la proprietà collettiva inalienabile. Il centenario della rivoluzione e l’esposizione universale, ma anche la visita di solidarietà ai due esuli dell’estrema, Andrea Costa ed Amilcare Cipriani, richiamavano a fine agosto Imbriani a Parigi, dove era stato preceduto dai protagonisti del congresso, Fratti e Felice Albani, e dove era atteso da un significativo spiegamento della massoneria parlamentare e dal ricevimento del sindaco Chautemps in municipio. Al suo discorso il Nostro replicava in termini tanto vaghi quanto compromettenti (“Noi abbiamo una causa comune nel campo della civiltà come abbiamo sventure comuni in quello della patria. La vostra frontiera è squarciata alla mercé del Tedesco come la nostra è squarciata a posta alla mercé dell’Austria. È la grande idea latina che ci unisce. È questa idea latina che spaventa i nostri nemici”) che Fratti si sarebbe incaricato di compromettere ulteriormente con l’auspicare senz’altro l’alleanza italo-francese e la guerra all’Austria, donde una polemica vivacissima, padroneggiata alla meglio da Cavallotti col rifiuto tanto di una eventuale “ingiusta” aggressione da parte della Francia quanto di una guerra “infame e scellerata” contro di essa, la repubblica non potendo venire in Italia se non per virtù di plebisciti. Ma Imbriani non defletteva, malgrado il vivissimo turbamento suscitato dall’attentato di Emilio Caporali a Crispi a via Caracciolo a Napoli15 e si lasciava anzi andare anche lui all’auspicio di una guerra di liberazione franco-italiana per l’Alsazia Lorena, che costringeva Cavallotti ad una presa di distanza definitiva col lasciare la questione “alla coscienza dei due popoli che stanno di fronte”16. 15 Si disse subito, ed era vero, che il Caporali fosse conosciuto da Imbriani e soprattutto da Bovio, che lo aveva anche raccomandato in quanto oriundo del suo collegio pugliese. I telegrammi del Nostro e di Cavallotti al presidente del Consiglio non cancellavano perciò i sospetti di cui si era reso interprete il Codronchi prefetto di Napoli col parlare di arruolamenti di volontari per la Dalmazia promossi proprio dai due uomini politici. 16 Per tutto l’argomento si vedano i resoconti e le corrispondenze de “Il Secolo” in particolare 3, 11, 15, 16 e, 30 settembre, 6 ottobre 1889, con un’importante partecipazione di Luigi Ferrari, il giovane e brillante deputato di Rimini (il tutto va visto sullo sfondo delle elezioni generali del 23 settembre in Francia, che avevano segnato il tramonto definitivo del fenomeno Boulanger). 195 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie L’abbraccio affettuoso tra Imbriani e Crispi, che suggellava la seduta inaugurale della nuova sessione della Camera, allietata da un discorso della Corona particolarmente aperto a tendenze democratiche, concludeva formalmente e patriotticamente l’impasse, ma non senza che il clima politico fosse stato messo a rumore dall’esilio delle elezioni amministrative del 10 novembre, le prime indette a norma della nuova legge comunale e provinciale di cui il presidente del Consiglio era stato artefice e protagonista, i radicali primi a Milano per numero di voti, i ministeriali di Baccelli con un sol seggio di maggioranza a Roma ed appena qualcuno in più a Napoli ed a Bologna, ma poi un autentico plebiscito democratico in Romagna (tutti i comuni eccetto Rimini), nelle Marche e nell’Umbria, anche lì con l’eccezione quasi solitaria di Perugia, a non parlare di Verona, Parma e Genova dove i radicali era stati determinanti nel provocare la sconfitta dei conservatori e dei clericali. In questo scenario di “regioni inferme che hanno bisogno di una pronta cura ricostituente”, per rubare l’espressione alla “Nuova Antologia” 1 dicembre 1889 va inquadrata la classica questione di libertà e di diritto parlamentare sottoposta il 5 dicembre alla Camera, la scarcerazione di Pietro Sbarbaro eletto deputato di Pavia al posto di Benedetto Cairoli, e di cui la giunta per le elezioni proponeva la convalida. Imbriani, che in luglio aveva visto proibita una sua conferenza proprio a Pavia per sospetto d’irredentismo, è fermamente al suo posto in difesa delle prerogative parlamentari (“Si tratta della sovranità nazionale delegata alla Camera… ben più alta, ben più in su di quanto non sia quella dei tribunali”). Se il governo non ha scarcerato prima della convalida, argomenta il Nostro, vuol dire che se ne rimette alla Camera “potere politico sovrano”, la convalida escludendo che Sbarbaro sia tra i condannati esclusi a loro volta dalla rappresentanza nazionale. Imbriani rammenta Crispi, che ne era stato discusso protagonista, la questione Lobbia, nel senso di far garantire dal controllo parlamentare il principio della separazione dei poteri, dal momento che “il potere legislativo ha il diritto di darei dei moniti al potere esecutivo quante volte esso influisca sul potere giudiziario”. Egli accetta perciò la proposta del presidente Biancheri perché la questione sia sottoposta ad una specifica commissione ed iscritta all’ordine del giorno, rifiuta quella Baccarini sollecitante il governo a far scarcerare Sbarbaro, perché in tal caso non sarebbe il Parlamento a decidere, esclude l’opinione del guardasigilli Zanardelli che la Camera chieda in questo modo al sovrano una sorta di grazia, ricorda nuovamente a Crispi che l’anno prima si è sospesa la seduta a Westminster perché un ministro aveva privato per due ore una donna della libertà personale, conclude, dinanzi alle esitazioni ministeriali, che avrebbero fatto trascinare la questione per parecchi mesi: “Forse verrà un’altra Camera la quale sarà più gelosa delle proprie prerogative”. Tra queste ultime ve ne era per la verità una che Crispi rimetteva per la prima volta in onore, quella di discutere l’indirizzo di risposta al discorso della Corona secondo la vecchia consuetudine liberale e parlamentare subalpina. 196 Raffaele Colapietra Imbriani il 6 dicembre se ne compiace, giacché di tutti gli atti della Corona è responsabile il ministero, donde l’opportunità di un’ampia discussione di politica generale17 a cominciare dalla lodevole iniziativa di abolizione della tariffa differenziale18 “perché è una delle poche volte in cui il governo raccoglie il voto popolare, manifestato con la voce potente della nazione. Questa è veramente vittoria democratica” (la pubblica opinione specialmente pugliese che rifiuta la guerra doganale e si afferma sul Parlamento e, attraverso esso, sul governo). Tutt’altro è purtroppo da dirsi per la garanzia ministeriale che si è creduto di poter dare ad un prestito di quattro milioni al nuovo negus Menelik in violazione delle prerogative parlamentari su cui il Nostro torna a distendersi con un nuovo meno coperto accenno all’art. 5 dello Statuto ma aderendo anche al basilare concetto crispino, dal quale in seguito sarebbe rinvenuto, del potere costituente insito organicamente, e perciò costantemente, nell’attività del Parlamento (già qui vi è peraltro un sintomatico spostamento, anch’esso nel gusto di Crispi, in direzione dei plebisciti, ben al di là della “camicia di forza” dello Statuto semplice barriera che impedisce di retrocedere all’assolutismo) identificando nell’esecutivo la responsabilità esclusiva dell’iniziativa politica. “Non doveva anche il ministero, costituzionalmente, nell’allargare la sua sfera d’azione, ottenere il pieno consenso del Parlamento?” si chiede preliminarmente Imbriani: e prosegue: “Io credo che siamo nel diritto nostro parlamentare di modificazioni da apportarsi a quell’articolo dello Statuto che conferisce alla Corona il diritto di pace e di guerra… È stato riconosciuto che le assemblee legislative sono assemblee costituenti in permanenza, che lo Statuto è una barriera che non ci permette di andare indietro ma ci lascia indefinito il campo per andare avanti. Quindi questa questione, che sarà parte essenziale del programma della democrazia, sarà portata in quest’aula, sarà decisa dal consenso dei legislatori. Ma finché questo non avvenga io vi domando che rispettiate almeno le prerogative che i claustri del vostro Statuto ci lasciano19, che rispettiate almeno queste prerogative e ci chiediate almeno i denari quando dovete sperperarli. Vi potrebbero essere negati. Almeno non ci sia questa menzogna inaudita, questo pericolo per voi stessi, per le vostre istituzioni (sic!) di vedere che il popolo attribuisce tutto il danno alle assemblee legislative mentre il danno deriva unicamente da coloro che malamente ci governano. Il popolo italiano fu chiamato in una solenne circostanza a fare atto di sovranità quando ebbe a pronunziare i suoi plebisciti. Da allora in poi non so che egli sia stato consultato per compiere quegli atti di solenne sovranità perché la stessa legge elettorale che abbiamo adesso è monca, e preclude il voto a una quantità infinita di turbe, mentre poi si parla di orizzonti democratici raggiunti”. Non è privo d’interesse, specialmente dal nostro attuale punto di vista, soffermarci sulla letterale sequela di colpi di spillo con la quale alla riapertura della 17 Ancora il 19 giugno 1895 Imbriani avrebbe sostenuto la natura essenzialmente politica dell’indirizzo di risposta al discorso della Corona. 18 Che tuttavia, avrebbe ricordato il Nostro già il 20 dicembre, era stata l’Italia a mettere, e non la Francia. 197 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie Camera nel 1890 dopo le vacanze natalizie, proprio sul terreno squisitamente liberale dei diritti civili, armonicamente da lui prediletto accanto a quello delle più gelose prerogative parlamentari e statutarie. Imbriani perseguitasse il ministero e ad personam Crispi nell’elaborazione di quella legislazione ordinaria a cui a buon diritto oggi si suol raccomandare il suo nome, a cominciare, il 5 febbraio, dall’ordinamento del personale di pubblica sicurezza e del relativo regolamento, nel cui art. 40 che autorizzava ad invitare a comparire “per necessità” il Nostro scorgeva il pericolo di una prevenzione dilatata fino all’arbitrio. “Per tutte le libertà quella individuale è la prima ed ha per unica garanzia l’autorità giudiziaria” egli esordiva programmaticamente: e proseguiva: “Dovunque c’è il generico c’è l’arbitrio. La libertà va interpretata largamente. Io non sono intollerante né restrittivo per nessuno. Una legge deve essere garanzia di libertà per tutti, cominciando dal prete e finendo a chi porta il berretto rosso. Ma il pericolo di questa legge sta appunto nella sanzione legale. So bene che l’opera di un ufficiale di pubblica sicurezza, quando fa un atto di conciliazione, è opera santa, ma quell’ufficiale per la sua opera non ha bisogno che di autorità morale… come quella che ha il rettore dell’università e il nostro presidente della Camera… Non concilierete due individui che non si vogliono conciliare se non li avrete convinti con la forza morale… Manette, sempre manette! Con un po’ meno di manette si regolerebbero le cose molto meglio e si camminerebbe molto meglio… Ma voi con quest’articolo m’imponete! È dunque nella sanzione legale che io trovo la violazione della libertà”20. La libertà come conquista incessante e diuturna, quindi, che in quanto tale si concretizza, e formalizza nella legge, dall’individuo passandosi agevolmente ai comuni quali raggruppamenti primordiali in grado di dialogare direttamente con lo Stato ed invece “soffocati dalla legge comunale e provinciale” che aveva mantenuto improvvidamente in vita le provincie (7 e 8 febbraio 1890), 19 Si noti che Imbriani, nonostante quest’apertura in apparenza schiettamente repubblicana, non aveva mai sollevato il problema del giuramento al bene inseparabile del re e della patria, tanto cara invece, com’è noto, a Cavallotti, e dal quale, il 5 febbraio 1890, il Nostro sembra peraltro prescindere nel commemorare di propria iniziativa il Falleroni “che non esercitò il mandato di deputato ma ne fu rivestito”, il risultato irrecusabile della sovranità popolare, insomma, che trascende la mancata prestazione del giuramento e perciò il mancato esercizio del mandato, come si era verificato, è ben noto, il 30 novembre 1882, con l’uscita spontanea dall’aula, nonostante la reiterata invocazione della forza, del neo eletto deputato di Macerata. 20 A questo punto Imbriani ricorda di essere andato più volte di persona e spontaneamente dal questore di Napoli “da gentiluomo a gentiluomo” senza che ciò gli restringesse la libertà, evocava a Zanardelli il “reprimere non prevenire” del 1878, aveva un gustoso scambio di battute con Cripi che bofonchiava sull’eccesso di libertà: “Ce la dà Lei la libertà o l’abbiamo conquistata noi? – L’abbiamo dalla legge – L’abbiamo conquistata noi e perciò è diventata legge – È sancita dalla legge – Non è una largizione, è una conquista nostra” battute sulle quali, se avesse ancora frequentato la Camera, avrebbe avuto qualche cosa da dire, naturalmente, anche sotto il profilo terminologico, Silvio Spaventa, a non parlare del rigoroso ragionamento legalistico che avrebbe di lì a poco svolto Salandra quale relatore sull’autorizzazione a procedere contro Andrea Costa, e malgrado che anche in quell’occasione Imbriani gli ricordasse che “è il Parlamento che fa le leggi”. Già il 22 febbraio 1890, intanto, con una delle sue consuete alzate d’ingegno paradossali, il Nostro si era dichiarato favorevole a concedere i pieni poteri al governo in materia di circoscrizione giudiziaria esclusivamente in caso di guerra all’Austria (sic!). 198 Raffaele Colapietra un’evoluzione alla quale, per la verità, com’è noto, Crispi stava già pensando per conto suo21. Quando alle associazioni, quelle cattoliche di Napoli ed il comitato romano della Trento e Trieste, sciolte entrambe nel corso dell’estate 1889, esse trovavano il 22 febbraio successivo in Imbriani il promesso imparziale patrocinatore “perché avrete sciolto un’associazione prima che da essa si facesse alcun atto e non l’avete, sciogliendola, deferita al potere giudiziario sotto un titolo di reato” dal momento che “non si deve parlare di partiti sovversivi di piazza là dove è l’esercizio della pubblica franchigia”: ed al presidente Biancheri, il quale prevedibilmente restringeva tale esercizio nei limiti della legge, il Nostro replicava (“Noi prepariamo il terreno per poter disfare le male leggi”) con un richiamo a quell’opinione pubblica quale atmosfera formativa per elaborare la legislazione che già era stata al centro del suo esordio parlamentare. E lo sarebbe stata ancor più e meglio nel viluppo inscindibile tra politica estera e politica africana (“Io desidero sapere se vi sono ispirazioni straniere…”) allorché quest’ultima, il 5 marzo 1890, tornava all’ordine del giorno della Camera, Imbriani affiancandosi ad Achille Plebano nel denunziare le violenze e le repressioni dell’autorità militare, ma poi proseguendo su una via che abbiamo individuato come particolarmente sua (“Ormai la coscienza nazionale è urtata da questa continuazione di politica segreta nella quale i fatti nostri sono affidati ai segreti degli altri… Ora, poiché questo è veramente lo spirito pubblico in un paese che vive di opinione pubblica – sic! – esso deve imporsi al governo quale che esso sia e deve richiamarlo alla giusta considerazione delle cose ed ai veri interessi del paese… Mi pare davvero di essere tornato ai tempi di Augusto: allora nelle sue mani l’imperio delle legioni, il tribunato della plebe, egli censore, egli pontefice massimo e quindi? quindi la servitù… Ma in questo modo io credo che ci avviciniamo di troppo a quel governo personale che sotto l’ombra di una difesa, di un’egida indiscutibile, finirà poi per schiacciarci”). Il ruere in servitium di tacitiana memoria ed il fantasma di Bismarck di cui non poteva prevedersi l’imminente caduta sembravano così coniugarsi in un’allarmante connubio su cui i tardi e precipitosi provvedimenti del ministro Miceli sul Banco di Napoli e su quello di Sicilia per eccesso illegale di circolazione gettavano l’ombra ulteriore del crack finanziario (“Siamo mezzo falliti! – gridava Imbriani – 21 Col presidente del Consiglio Imbriani aveva avuto un fatto personale tanto clamoroso quanto futile allorché, l’8 marzo 1890, lo aveva tacciato di gesuitismo quanto allo scioglimento del Consiglio comunale di Terni ed al divieto di commemorare Mazzini a Livorno, senza che Biancheri gli togliesse la parola. Costretto alle dimissioni dalla vivacissima protesta di Crispi, il presidente della Camera era stato rieletto all’unanimità. Più consentanea invece a ciò che si dice subito dopo nel testo l’interrogazione del 15 marzo su un manifesto per Oberdan di cui la questura aveva proibito l’affissione senza che l’autorità giudiziaria lo incriminasse. Rimane a sé, invece, il 28 marzo, e nome di una democrazia radicale opportunamente contemperante l’ordine con la libertà, l’opposizione all’ergastolo “perché non conforme allo scopo della pena”, mentre il 2 giugno 1890, in un intervento che riprenderemo ad altro proposito, si compie un altro passo in direzione dei progetti di Crispi (“Se le provincie e le prefetture sono organismi fittizi ed inutili, le sottoprefetture sono addirittura organismi dannosi, che intralciano le amministrazioni con danno dell’erario”). 199 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie Io veggo banche che falliscono da ogni parte, il credito sul vuoto, veggo che, se non aveste permesso che le banche potessero emettere cinque volte più della loro riserva, sarebbero già fallite anche la Banca Nazionale ed il Banco di Napoli!”) mentre sullo sfondo, in un corpo a corpo significativo con Leopoldo Franchetti e Rocco De Zerbi, si stagliavano polemicamente gli eroi di una nuova nazionalità, che sembrava far rinverdire la “famiglia di patrioti” tra le ambe abissine, il negus Giovanni “un nobile re che è morto combattendo nel suo paese: Auguro a tutti i re di morire in quel modo, l’auguro a me stesso”, ras Alula campione anch’egli di una certa forma di patriottismo in quanto “sentimento che lega l’uomo alla terra dove è nato”, gli abissini tutti come popolo e nazione, i quali “avevano anch’essi una civiltà loro e, quando si parla di assumere una missione di civiltà, io rispondo che la civiltà non s’impone a cannonate, con le forche, con le bastonate”. Matteo Renato Imbriani non prese parte distinta all’elaborazione del patto di Roma, nel maggio 1890, quale programma del radicalismo democratico per le imminenti elezioni generali. Egli si limitò a collaborare con Orazio Dogliotti ed Achille Majocchi alla parte militare, che del programma è quella meno personalmente ispirata da Cavallotti, il cui intervento si ravvisa potentemente in tutto il resto, e viceversa più disorganica ed anche più stancamente utopistica, dalla nazione armata alla riduzione della ferma con reclutamento regionale ed ordinamento territoriale quale avvio a quella classica soluzione del federalismo repubblicano, dalla consegna degli stabilimenti militari all’iniziativa privata alla diminuzione nel ritmo delle costruzioni navali ed alla sospensione delle opere di fortificazione. Se peraltro questi provvedimenti militari rientrano di massima nella questione finanziaria che, affrontata prestigiosamente da Vilfredo Pareto, rappresenta una delle colonne portanti del documento, l’altra, attinente all’istanza liberale per il rispetto dei diritti pubblici e parlamentari, pur tipica della mentalità di Cavallotti, rispecchia temi e suggerimenti che abbiamo visto e vedremo peculiari d’Imbriani, revisione dell’art. 5 dello Statuto, garanzie al diritto d’interpellanza, convocazione della Camera su richiesta di un decimo dei suoi membri in sessione straordinaria, abolizione del sequestro preventivo, dell’ammonizione e del domicilio coatto, riparazione degli errori giudiziari e così via di seguito. Un tentativo di saggiare in Puglia la fecondità di questa tematica attraverso una commemorazione di Cairoli affidata a Bari a Bovio e ad Imbriani andò sostanzialmente fallito: ma l’eccidio di Conselice, tre morti e venti feriti il 21 maggio 189022 conferiva all’improvviso e drammaticamente una risonanza sociale nazionale all’interpellanza tutta politica e liberale che Giovanni Bovio aveva presentato 22 Lo stesso giorno la Camera rifiutava di prendere in considerazione una vecchia proposta Crispi del 1873, che Cavallotti aveva rispolverato con lunga e dettagliata relazione, e che rifletteva, stiamo per vederlo ancora, un argomento carissimo ad Imbriani (“Nessun deputato può, nel corso della legislatura, essere chiamato a funzioni pubbliche retribuite con stipendi o indennità sul bilancio dello Stato”). 200 Raffaele Colapietra intorno al comportamento della forza pubblica durante il congresso del patto di Roma, e che veniva in discussione il 26 maggio. “Il popolo vi guarda senza speranza e voi gli restituite diffidenza” aveva concluso Bovio col suo consueto linguaggio epigrafico, salvo presentare, dinanzi all’intrattabile replica ministeriale, una mozione invitante il ministero a “rispettare le libertà garantite dallo Statuto” donde il compatto arroccamento della Destra con qualche interessante eccezione, Bonghi, Prinetti, Colombo, specialmente il vecchio Desiderato Chiaves, il che suscitava sensazione, intorno al ministero medesimo. Imbriani, che il 10 maggio aveva puntualmente ripresentato la sua interpellanza dell’anno precedente sulle condizioni economiche della Puglia, incappando, come già con Salandra, nell’indignazione dei protezionisti e degli agrari, questa volta Niccolò Melodia, il grosso notabile di Altamura23, Imbriani, dicevamo, rivolgeva pertanto una particolare lode a Chiaves per il rapporto contraddittorio da lui posto tra la Corona statutaria ed i “poteri dittatoriali” del presidente del Consiglio e, proseguendo il proprio intervento del 28 maggio, il giorno prima dell’interruzione elogiativa a Chiaves, dopo aver ironizzato sui “matrimoni di vecchi sdentati e bavosi” che seducevano Crispi con i loro “nuovi abbracciamenti” (il ralliement autoritario e repressivo della Destra) veniva a stringere il cuore del problema, sviluppando il concetto di Bovio in forme che facevano ripensare al ruolo che Agostino Bertani aveva conferito all’estrema nei confronti di Cairoli e Zanardelli ai tempi de L’Italia aspetta. “Noi formiamo ora – precisava infatti il Nostro – un corpo di opposizione che spinge innanzi i ritrosi, che rivela le piaghe esistenti, che cerca di medicarle e che non aspira a nulla per sé. È in ciò la nostra forza perché il giorno in cui qualche aspirante al potere si trova poi impotente in mezzo a quell’ingranaggio che stritola tutto, deve ritornare a ritemprarsi qui per acquistare nuove forze, nuove energie24… La nostra forza è nel pensiero ed è contro questo pensiero che si viene a muovere guerra… Vi spaventa il pensiero?… Ma se il pensiero è vero, se è giusto, vincerà, vi schiaccerà e passerà sopra di voi. Se il pensiero non è giusto, se è inetto, cadrà, e allora a che paventarlo tanto?”, il liberalismo agonistico, insomma, la libera gara, significativamente affermata e quasi dovuta gridare da Imbriani tra i rumori crescenti della Camera. Ma perché questa gara potesse dispiegarsi fisiologicamente, senza ostacoli, occorreva preventivamente salvaguardarne i presupposti, l’incompatibilità tra uffi- 23 “La gran massa dei miei concittadini – prorompeva Melodia – non ama di vedersi esposta al ludibrio generale, quasi novello Lazzaro, dinanzi alla Camera ed al paese!”, un infortunio evangelico, quello del gran signore del palazzo neoclassico prospettante la cattedrale di Altamura, attesa la ben diversa sorte di Lazzaro e dell’epulone nella parabola di san Luca! 24 Il riferimento è a Fortis, che in effetti dopo qualche giorno si sarebbe dimesso da sottosegretario all’Interno ma senza affatto ritornare nell’estrema tout court, evolvendo anzi verso il radicalismo legalitario, dove lo avrebbe incontrato Giolitti. 201 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie ci amministrativi e politici “che deve essere il sostrato di ogni ordinamento libero” e che anche Cavallotti aveva inserito fra i capisaldi del patto di Roma (2 giugno 1890), la sottrazione degli affari della guerra25 ai militari di carriera col sottoporre il capo di stato maggiore in quanto capo dell’esercito responsabile e revocabile dinanzi al ministro borghese investito dall’esclusiva responsabilità politica (14 e 16 giugno 1890), una sorta di “privatismo onesto” in grado di respingere l’intervento falsamente promozionale dello Stato e del suo socialismo concretamente burocratico (20 e 22 giugno 1890 a proposito dell’istituzione di uno specifico Credito Fondiario: “Il vostro nuovo istituto non servirà che alla speculazione edilizia. Vi siete gettati a corpo perduto in questa speculazione e pare che non ne vogliate uscire per quante dure lezioni andiate ricevendo. Per salvare questa speculazione avete consentito che la Banca Nazionale eccedesse nella circolazione di 50 milioni”). L’inevitabile inquadramento internazionale mazzinianamente auspicante una rinnovata coalizione latino-germanica contro il panslavismo purché al suo interno non si affermasse a sua volta il pangermanesimo e purché alla Russia come tale si affidasse una missione provvisoria di civiltà atta a frantumare l’artificiosità plurinazionale di Vienna e di Costantinopoli (16 giugno 1890) e, in politica interna, l’utopia altrettanto inevitabile26 dell’imposta unica progressiva, facevano da corollari a questo primo tentativo d’applicazione del patto di Roma nei suoi principali postulati programmatici in vista delle elezioni generali, scadenza a cui facevano da battistrada da un lato, il 27 luglio, le amministrative di Napoli, che Imbriani vinceva con un buon paio di migliaia di voti di maggioranza sulla coalizione ministeriale e nicoterina del Casale e del Napodano, salvo personalmente subito dimettersi da consigliere in ossequio all’incompatibilità più volte rivendicata, dall’altro, il 10 agosto, la combattutissima sconfitta, al primo collegio di Roma, del giornalista ed esule triestino Salvatore Barzilai contro il conte Antonelli, candidato ministeriale e collaboratore notissimo di Crispi in campo coloniale, nonostante la relativa imponente mobilitazione di tutta la democrazia radicale, culminata al Quirino con un comizio d’Imbriani e Cavallotti sotto la presidenza di Ettore Ferrari27. 25 In questo contesto Imbriani riprende i punti da lui fatti inserire nel patto di Roma, la diminuzione della ferma in vista dell’istituzione di un tiro a segno democratico e di una guardia nazionale per l’ordine pubblico organizzata su base comunale come strutture in grado di “preparare in pochi mesi un ottimo soldato” ma deplora altresì l’arbitrio della commissione suprema di avanzamento, propone la soppressione dei tribunali militari che moltiplicano i casi di recidiva e di “aspra reclusione”, stigmatizza la dipendenza dei carabinieri ad un tempo dai ministri della Guerra e dell’Interno ed il loro comportamento spesso insubordinato, crudele e fazioso, un rifiuto del mito su cui ci sarebbe molto da riflettere e non solo quanto ai tempi del Nostro. 26 Non a caso l’auspicio ne sarebbe tornato il 16 dicembre 1891 in riferimento ai titoli pubblici al portatore, non più che assaggi su un terreno al quale Imbriani, e comprensibilmente, è di massima estraneo. 27 Andrebbero approfonditi in merito i rapporti tra il Nostro e “La Capitale”, il nuovo ed assai ben fatto giornale che si affiancava assai più autorevolmente al popolaresco “Messaggero” come portavoce del radicalismo democratico a Roma. 202 Raffaele Colapietra Il Nostro si tenne assai riservato, pur aderendo sostanzialmente a Cavallotti28 nella polemica cosiddetta dell’oro francese che contrappose quest’ultimo a Bovio ed a tutta la stampa ministeriale, su iniziativa di Enrico Cernuschi, alla vigilia delle elezioni del novembre 1890, e sulla quale non abbiamo qui modo d’intrattenerci: ma è molto significativo notare che la sua candidatura fu la sola in grado di contrastare su piano nazionale quella di Francesco Crispi eletto in quattro collegi con circa 28 mila voti complessivi rispetto ai 20 mila d’Imbriani, secondo eletto a Bari dietro Bovio e davanti a Pietro Pansini e Stefano Jannuzzi nell’integrale caratterizzazione più o meno autenticamente radicale di quella deputazione, ma con 2317 voti a Porto Maurizio dinanzi ai 12 mila del Biancheri presidente della Camera (la veneranda democrazia di Oneglia, che da Filippo Buonarroti sarebbe andata a finire a Giacinto Menotti Serrati, non si smentiva!), 3363 voti a Belluno rispetto ai 5747 del primo eletto, il moderato Pascolato (e quindi non si può trattare soltanto d’irredentismo o di populismo generico!), 2515 a San Severo contro i 4483 del capolista Nicola Tondi, appena 475, invece, a Patti, nella Sicilia che è stata la sola, si noti, a determinare il plebiscito crispino con i risultati di Palermo, Messina, Modica e Girgenti. I radicali, con 364 mila voti ma soltanto una sessantina di deputati rispetto ai quattrocento con 643 mila voti (gli scherzi dell’uninominale, ancorché corretti dallo scrutinio di lista!) della maggioranza ministeriale, avevano perso le elezioni: ma la correttezza della loro impostazione finanziaria, protagonista del patto di Roma, sembrava vistosamente confermata così dalle dimissioni, l’8 dicembre, del Giolitti dal dicastero del Tesoro e dall’interim delle Finanze, come dall’accenno al “riordinamento dei tributi” che aveva fatto spicco nel discorso della Corona quarantott’ore più tardi e rifletteva le vedute del nuovo titolare di via Venti Settembre, Bernardino Grimaldi. Imbriani, che il 12 aveva commemorato Alfredo Baccarini prevedibilmente lodandolo per aver abbandonato con tanta indipendenza di giudizio il potere nel maggio 1883 alla consacrazione parlamentare del trasformismo, affrontava il 17 dicembre la discussione sull’indirizzo di risposta non sul piano finanziario, che avrebbe fatto oggetto di una sua specifica interpellanza, bensì su quello della promessa amnistia e soprattutto della commentatissima ingerenza elettorale del clero in senso astensionista, che aveva fatto parlare persino di abolizione delle quarentigie, ed a proposito della quale Attilio Brunialti si affiancava al Nostro nello schermeggiare col guardasigilli Zanardelli. L’amnistia, quanto ad essa, e nonostante i clamorosi precedenti che avevano caratterizzato la precedente legislatura, andava sdrammatizzata e ricondotta nelle sue proporzioni (“La riparazione di un’ingiustizia è cosa lodevole, ma il sollevarla 28 Attraverso un trafiletto appunto su “La Capitale” 16 novembre 1890 che, dopo aver riportato il fondamentale scambio di lettere iniziali tra Cernuschi e Cavallotti, così concludeva: “Noi vi diciamo apertamente ed altamente di dove questi mezzi ci vegnono: sono fonti palesi: fate voi altrettanto, diteci altrettanto voi se lo sapete. È una sfida che vi lanciamo in viso!”. 203 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie ad un grande avvenimento politico e sociale parmi che sia voler dare importanza alle piccole cose, e che sia uno dei sintomi più brutti del tempo”). Ben altra cosa l’atteggiamento del clero, in merito a cui, pur partecipando del diffuso abbaglio quanto al “lacido tramonto” della Chiesa in quanto tale, Imbriani ha modo d’illustrare nel modo più efficace il suo larghissimo liberalismo. “Il papato è ridotto ad un’ombra – egli esordisce – ed il combatterlo ad ogni istante può essere un mezzo di governo ma non corrisponde alla realtà delle cose. Poiché se questo papato ha la sua forza, che non è certo materiale ma tutta morale, l’ha delle coscienze. Ora questa forza non si combatte che col pensiero, con l’istruzione, con l’educazione, e certo non con l’imporre freno alla libertà delle manifestazioni altrui… Se questa teocrazia il presidente del Consiglio vuol davvero combattere, perché non propone l’abolizione della legge delle guarentigie? Questa legge è una enormità nel nostro diritto pubblico perché costituisce non in nome della sovranità nazionale, perché uno di questi sovrani non ha avuto nessun voto di popolo e non può averlo”29. Quanto alla questione finanziaria, che veniva in discussione il 19 dicembre 189030 essa dava modo ad Imbriani tanto di apprezzare la correttezza politica personale del dimissionario Giolitti (“Ha manifestato un’accortezza grande. Egli, che deve meglio di ogni altro conoscere le condizioni della finanza e del testoro, e che ne vedeva tutte le difficoltà, alla prima occasione, ha piantato il ministero senza mancare al suo programma di economie, sul quale anzi egli insisteva, ed ha detto: venga altri a questo posto e vedremo che cosa ne saprà cavar fuori. Questa condotta è correttissima e non merita che elogio. Dirò anzi che è caduto bene, in piedi”) quanto d’inquadrare l’episodio in ambito assai più vasto, dove ancora una volta l’opinione pubblica regina del parlamentarismo liberale l’avrebbe fatta da ispiratrice e padrona. “Quando il Parlamento dà un voto di fiducia – spiegava preliminarmente il Nostro con un’importante chiarificazione di costume e di prassi – non lo dà al 29 Naturalmente Crispi, riprendendo quel che fin dal 1871 aveva sostenuto insieme con Mancini senza troppa fortuna, rivendicava tanto con Brunialti quanto con Imbriani la “sovranità unica” vigente in Italia. La sua antica prospettiva di un diritto comune valido per tutti sarebbe stata del resto ripresa congenialmente dal Nostro in un intervento 29 novembre 1895 che ricorderemo ad altro proposito (“Se non vi fosse più legge delle guarentigie, essendoci il diritto comune per tutti, come noi vogliamo la libertà per tutti, ci troveremmo in ben altra condizione di cose, in ben altro ambiente e ben più respirabile”). 30 Imbriani aveva concluso il precedente intervento con un insolito excursus sul Senato elettivo, che prendeva spunto dalla recente infornata di ben ottantotto padri coscritti (ma il 9 marzo 1891 avrebbe deplorato che non ne avesse fatto parte Angelo Camillo De Meis, la cui commemorazione ex abrupto costituisce un’altra fra le infinite spie della sensibilità tutta risorgimentale, anche nel versante culturale del termine, del Nostro). Tipica è anche la sua deplorazione che nel discorso della Corona si fosse parlato di “leggi intese al benessere degli operai” come, nel gusto post bismarckiano e dell’imminente Rerum novarum, “compito principale della prossima sessione legislativa”, senza far cenno di contadini e piccoli proprietari, non cogliendo come precisamente verso questi ultimi le recenti elezioni avessero spostato il baricentro della democrazia radicale col passaggio della leadership al suo interno da Milano all’Emilia ed al Polesine, prodromo dell’organizzazione socialista del successivo decennio, un protagonismo delle campagne che col nuovo secolo (ma Imbriani non l’avrebbe visto) si sarebbe esteso alla Puglia. 204 Raffaele Colapietra capo del governo ma a tutto il gabinetto, anzi molti danno quel voto di fiducia appunto perché vi sono membri del gabinetto che per essi sono elementi di garanzia”. La destinazione a metà settembre 1890 di Federico Seismit Doda dalle Finanze, che offre spunto formale all’interpellanza Imbriani, ha alterato il concetto appena espresso, non è stata né preceduta né ratificata da un consiglio dei ministri, i quali ultimi si sono acconciati a farsi semplicemente informare dal presidente Crispi. Certo, Imbriani non esita ad incedere per ignes, è il re che nomina e revoca i ministri a norma della lettera statutaria, ma “il regime parlamentare si fonda sulle tradizioni e consuetudine e non sulla potestà regia che si vorrebbe con un nuovo metodo rafforzare in nuova guisa creando nuovi pericoli”. È l’ombra della monarchia costituzionale, insomma, che viene oggi ad integrare la minaccia prussiana, dopo quella del cancellierato e dei suoi poteri che un uomo del Quarantotto come Chiaves ha definito dittatoriali: e ad esse, l’abbiamo detto, il Nostro contrappone l’opinione pubblica “la quale regna sovrana, e deve dettare consuetudini, usi, metodi, nell’applicazione delle norme costituzionali… Quando la rappresentanza nazionale indica alla Corona in qual parte essa debba (sic!) scegliere i suoi ministri, la Corona li sceglie e non può (sic!) mutare quei ministri se non riceve dalla Camera l’indicazione dei nuovi. E se li muta essi devono (sic!) immediatamente presentarsi alla Camera per ricevere la sanatoria o nuova indicazione, per vedere se il mutamento corrisponda o no all’indirizzo politico della Camera stessa… I ministri sono nella condizione di poter fare il male, quindi è dovere, è obbligo della rappresentanza nazionale d’impedir loro di far questo male… poiché essi rappresentano il fatto, e contro il fatto non c’è che l’idea, il diritto che deriva dall’idea, che possa frenarli”. È dunque su un complesso retroterra culturale e politico, il diritto consuetudinario a cui lo Statuto fa esclusivamente da garanzia negativa, l’interpretazione riduttiva della sfera in cui può esercitarsi la responsabilità ministeriale, essendo essa sostanzialmente fine a se stessa nell’estrinsercazione del potere e perciò da sottoporsi ad incessante vigilanza parlamentare alla luce di postulati e presupposti ben più elevati, è su questo retroterra che Imbriani può concludere vaticinando, come in effetti sarebbe accaduto poco più di un mese più tardi, che “il ministero cadrà certamente sulla questione economica”, più o meno questa si collegasse alla “poco dignitosa politica estera”, in subordine, dunque, quest’ultima, in subordine l’irredentismo, anche agli occhi del Nostro, nonostante le suggestioni che le Alpi ancora “povere di fatti” il “rotto mal onesto” confine orientale del discorso di Solimbergo e del banchetto di Udine, che erano costate il posto a Seismit Doda, potevano esercitare su di lui. Ed egli era al suo posto nella memorabile e decisiva giornata delle “sante memorie”, il 31 gennaio 1891, ma le sue parole, tutt’altro che all’oleografia risorgimentale alla Luzzatti o alla Finali, s’ispirano ancora una volta sobriamente al principio delle responsabilità collegiale del gabinetto, che appariva ancora una volta 205 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie violato, a danno di Giolitti, tanto dalla prevaricazione di Crispi quanto dall’acquiescenza di Grimaldi (“Parmi brutta abitudine biasimare gli atti di qualche ministro che faceva parte del gabinetto mentre i ministri rimasti tacciono e col loro silenzio quasi approvano le parole degli oratori. A me pare che ciò costituisca un predecente dei peggiori in un’assemblea politica perché conduce a qualche cosa di molto brutto, al decadimento del parlamentarismo”). Antonio Di Rudinì era il nuovo presidente del Consiglio ed a lui, che aveva mantenuto per sé il portafoglio degli Esteri, Imbriani rivolgeva alla presentazione del ministero, il 14 febbraio, una richiesta che non solo, rispetto all’opposizione intransigente diffusa nelle fila radicali, rifletteva le aperture collaborazionistiche di Cavallotti, fiducioso in chiave francofila nel ritorno di Nicotera a palazzo Braschi, ma le richiamava severamente nell’orbita parlamentare di modifica dello Statuto da cui il Nostro, e con lui “La Capitale”, non intendevano decampare (“Io almeno avrei voluto l’assicurazione che nessun patto sarà rinnovato, nessun nuovo conchiuso, senza che prima sia chiesta l’approvazione della rappresentanza nazionale”). Non è meraviglia pertanto che il 17 marzo egli aderisse alla mozione Bonghi per la preventiva approvazione parlamentare alla proclamazione di eventuali protettorati in Africa, una tematica che aveva avuto lungamente a protagonista Francesco Crispi, ora tornato da deputato a far da can da guardia ai diritti di libertà, come Imbriani avrebbe schiettamente riconosciuto allora ed in seguito31 ora, ad esempio, sulla base di sue dichiarazioni della primavera 1885 secondo la quale la questione africana era vulnerata alle origini per avere il governo proclamato lo stato di guerra e compromesso il bilancio senza quell’approvazione del Parlamento che sarebbe stata indispensabile, quanto alla fornitura dei mezzi finanziari, anche per l’intervento della Corona32. Giovanni Nicotera proponeva nel frattempo l’abolizione dello scrutinio di lista ed il ritorno all’uninominale: ed Imbriani, che si sarebbe astenuto al pari di Bovio rispetto al voto favorevole di Cavallotti, pur ammettendo che lo scrutinio di lista non fosse altro che un pasticcio cucinato a quattr’occhi fra i notabili del consiglio provinciale (e qui l’esempio di Casera) inquadrava anche il il 22 aprile 1891 l’argomento in un’ampia problematica di base nazionale, avente a proprio fondamento, ancora una volta, il suffragio universale dei plebisciti. 31 Il 7 dicembre 1891 gli avrebbe augurato addirittura, a questo scopo, di rimanere a lungo fuori dal potere “con la parola, con l’opera e con l’esempio”. 32 In quella medesima seduta del 17 marzo 1891, a proposito d’incidenti verificatisi a Livorno, Imbriani si soffermava sulla “inciviltà del diritto individuale vendicato sul momento”, il farsi giustizia da sé, in altre parole, prodromo del linciaggio per il quale si fa espressamente il nome di New Orléans e dell’eccidio in cui erano rimasti coinvolti gli emigrati italiani, donde il richiamo del ministro a Washington, e che tuttavia il 7 dicembre successivo Imbriani, rispetto agli orrori dell’Africa, con ottocento indigeni seviziati ed uccisi, avrebbe definito, quale risultato dell’impeto anziché della perversione, “come la luce lunare rispetto ai raggi ardenti del sole”. 206 Raffaele Colapietra “Si tratta – egli affermava – di una riforma di cui credo che neppure la Camera sola si potrebbe occupare. Si tratta infatti di una di quelle leggi per le quali abbisognerebbe il referendum, perché si tratta di mutare il metodo con cui il popolo esercita la sua sovranità… Il collegio nazionale sarebbe il più logico, il più naturale, quello che darebbe maggiore autorità ad un Parlamento”. Posta peraltro l’impossibilità pratica di una soluzione del genere, il Nostro suggerisce un’alternativa forse al nostro sguardo attuale ancor più stimolante (“Formate un nuovo ente organico nel quale siano rappresentate diverse frazioni di provincie e così il collegio uninominale perderà il carattere di feudo”). Inventare qualche cosa di nuovo che apra la strada al riordinamento amministrativo, dunque, una volta che la riforma Crispi è caduta con lui: ma non certo attraverso la commissione vagheggiata da Nicotera, zeppa di senatori e funzionari (“Questa è essenzialmente una prerogativa della Camera e non ce la lasceremo togliere. Noi non vogliamo che la futura rappresentanza nazionale sorga dalla volontà del potere esecutivo qualunque esso sia”): e perciò il suffragio universale maschile a tutti i ventunenni in grando di firmare all’atto del voto onde evitare quello dei morti e degli assenti e, un primo passo verso coloro che saranno gli evoluti e coscienti della predicazione e della propaganda socialista33. C’erano, l’abbiamo accennato in nota, ad emozionare e commuovere l’opinione pubblica, le rivelazioni sui massacri africani, protagonisti il tenente Livraghi, che avrebbe dato vita ad un neologismo tanto breve quanto diffuso, ed Eteocle Cagnassi: ma a fine aprile 1891 Imbriani avrebbe provocato addirittura la sospensione della seduta per la sua insistenza nel volerne sapere di più: e la proposta sua e di Bovio per il ritiro a Massaua sotto la protezione della flotta o quanto meno per la commercializzazione della colonia eritrea non avrebbe incontrato miglior fortuna. Si tornava perciò ai corollari ed agli strascichi dell’ormai ratificata riforma elettorale: e qui il Nostro, il 20 maggio, nel ribadire l’ufficio del deputato come indirizzato essenzialmente “al sindacato assiduo, all’esame, alla critica dell’opera del potere esecutivo, al ricondurre il governo alle rette norme costituzionali, più che al far leggi, che ordinariamente non sono buone” avanzava inattesamente una sorta di proposta di limitazione della proprietà fondiaria, un decimo a coltura intensiva, i nove decimi espropriati con indennizzo dallo Stato e distribuiti ai contadini con cedole trentennali di riscatto34 il tutto allo scopo di evitare che, col ritorno 33 Il 10 aprile 1897 Imbriani avrebbe parlato di un voto “di principio” anche agli analfabeti di 20 anni purché in grado di firmare all’atto del voto, il solito spauracchio delle intimidazioni e dei brogli. 34 È così esasperato in forma paradossale quello che sappiamo esser un caposaldo del Nostro, il Parlamento come controllo dialettico dell’esecutivo più che come vero e proprio potere legislativo formalisticamente inteso e fine a sé stesso: e, quanto alla proposta di riforma fondiaria, essa sarebbe stata reiterata in più ampio contesto il 21 marzo 1892. 207 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie all’uninominale, “tanti che popolavano questa camera… siano i deputati del loro collegio perché ne sono i proprietari”35. Il rinnovo anticipato della Triplice, l’inaugurazione del monumento a Garibaldi a Nizza, i grandi scioperi metallurgici a Milano, l’assoluzione di Amilcare Cipriani e degli altri principali implicati nella prima celebrazione pubblica della festa del lavoro, il 1° maggio 1891, a Roma, a S. Croce in Gerusalemme, con i relativi violentissimi incidenti che avevano fatto da contorno, tutto ciò assestava in accettabile equilibrio la situazione internazionale ma riproponeva in primissimo piano la questione sociale, non senza un’indiretta influenza della Rerum novarum, che induceva a collegare quella ecclesiastica nella drastica alternativa tra l’abolizione delle guarentigie, sollecitata dall’estrema, e la loro qualificazione di “statutarie ed immutabili” pronunziata da Di Rudinì alla Scala l’8 novembre. Nel grande dibattito parlamentare che seguiva, e che si accentrava intorno ad una ormai inesorabile ed improcrastinabile ricomposizione delle parti politiche, Imbriani, che interveniva il 7 dicembre alla vigilia del voto, pur non potendo escludere da questo processo il Crispi di cui anzi tesseva l’apologia liberale a cui si è accennato in nota, si preoccupava di tornare ai plebisciti come unica e sola fonte di legittimazione della sua monarchia democratica, evidentemente sottovalutandone, o ignorandone addirittura, i pericoli bonapartisti, ma soprattutto sottraendo al Parlamento ogni possibilità costituente e circoscrivendone l’attività, come si è già visto, ed una volta per sempre, al controllo dell’esecutivo. “Io credo – spiegava infatti il Nostro – che via sia un gran pericolo nel toccare e nell’innovare il patto fondamentale dei poteri come sono costituiti. Credo che per fa ciò sia d’uopo d’un potere costituente. Oggi forse si potrà rinnovare in meglio lo Statuto ma domani un Parlamento compiacente con le sue palline nere ci farà tornare indietro di molto… Sul terreno dei plebisciti io sono così forte che non me ne rimuoverò mai, e questo è proprio il terreno della legalità, il fondamento del nostro diritto pubblico. Ché, se ne vogliono uscire i ministri o altri, peggio per loro: i Parlamenti stessi che ne volessero uscire farebbero cessare la loro ragion d’essere36. 35 In stretta attinenza con la polemica contro il ritorno all’uninominale, il regionalismo come tutela corporativa di interessi locali ed il municipalismo quale negazione del partito politico, una articolazione dialettica possibile all’interno dell’unità, emergono come bersagli polemici nell’intervento del 13 giugno 1891 contro le associazioni regionali ormai pullulanti nella capitale ed altrove, una preoccupazione unitaria che induceva Imbriani, pur mantenendo ferma l’istanza per la riduzione della ferma a 18 mezi ed auspicando anzi l’abolizione della pena di morte nell’esercito in tempo di pace, ad avanzare qualche riserva sull’ordinamento territoriale pur propugnato, come si è visto, nel patto di Roma. Non a caso, del resto, il 9 luglio 1896, il Nostro si sarebbe dichiarato contrario al commissario civile in Sicilia e pertinacemente fedele al comune “quale elemento naturale, logico, fortemente organico dello Stato”: e l’unitarismo intransigente non rifuggiva, ove del caso, e sulla traccia, del resto del mai rinnegato Garibaldi, di rivestirsi di panni monarchici se è vero che, in occasione del volgare sfregio inferto il 2 ottobre 1891 dai pellegrini clericali francesi nel Pantheon alla tomba di Vittorio Emanuele, Imbriani non esitava a definire quest’ultimo, del resto in perfetta coerenza col passato, “il più grande protagonista del risorgimento italiano”. 36 La temperie laicista di quei giorni è peraltro così accentuata che lo stesso Imbriani conclude con un accenno, rarissimo nel suo conformismo di costume (la difesa del duello!) al matrimonio “come atto giuridico e sociale”: e pochi giorno dopo, il 14 dicembre 1891, avrebbe chiesto al ministro Pelloux, che aveva parlato di concubinati, la legalizzazione dei matrimoni contratti dagli ufficiali senza permesso col solo rito religioso purché l’integrassero con l’atto civile, anche facendo a meno della dote prescritta per la sposa. 208 Raffaele Colapietra La Costituente torna dunque a riemergere come il filo rosso, la grande incompiuta del Risorgimento; ma per il momento c’è l’ergastolo chiesto per Livraghi a Massaua, ci sono le testimonianze dei generali Orero e Fecia di Cossato sui motti di spirito dell’insospettabile e prestigioso Antonio Baldissera intorno alla “soppressione tranquilla” degli indigeni. Imbriani ne chiede l’arresto come omicida per mandato, o quanto meno la messa in stato d’accusa presso il magistrato ordinario, Crispi e Zanardelli, al potere all’epoca dei fatti contestati, convengono con lui, l’11 dicembre 1891, quando Livraghi è stato già assolto da parecchi giorni perché Baldissera ha ammesso tranquillamente le proprie responsabilità nell’aver fatto torturare, bastonare e morire di fame, denunzia l’eccesso di potere come un reato per definizione, ma prosegue anche amaramente, dinanzi alla Camera che, con 246 voti contro 95, gli darà torto: “Io veggo dietro queste confessioni qualche cosa di brutto, veggo l’impunità assicurata… Anche in guerra c’è un limite nei poteri, c’è un diritto pubblico fra le nazioni civili che certamente non è abolito solo perché ci troviamo in mezzo ai barbari, per rispetto di noi stessi, per rispetto della civiltà”. La Costituente conduce naturaliter alla repubblica e non è meraviglia che Imbriani si discosti ora per la prima volta dal suo tenace agosticismo, in polemica neppure velata con Cavallotti, il cui possibilismo ministeriale oltranzista lo ha ridotto persino a coprire Baldissera, con l’aderire al convegno romano del 13 marzo 1892 in cui avrebbe esordito il giovanissimo Arturo Labriola e la repubblica sarebbe stata definita “il mezzo necessario a raggiungere l’eguaglianza e la giustizia sociale per il bene dell’umanità”. Ma nel frattempo la civiltà si può e si deve difendere nelle sue innumerevoli prosaiche esigenze quotidiane, si veda come il Nostro prenda spunto da un argomento di più che ordinaria amministrazione, gli atti giudiziari ed i servizi di cancelleria, per elevarsi a considerazioni di ordine generale che involgono larga parte della dislocazione del cittadino nel seno della società. “La giustizia non è materia tecnica – egli osserva il 19 febbraio 1892 – è un diritto di natura, una funzione dello Stato, se volete scendere più giù, una questione di ordine pubblico. Ora tassare, mercanteggiare questa giustizia, porla sul listino della vostra borsa, è qualche cosa che urta il sentimento morale. La giustizia dovrebbe essere gratuita in tutto e per tutto… Ma voi avete fatto uno dei cespiti più forti delle vostre entrate di questa giustizia che avete avvilito in ogni modo… Voi subordinate il sentimento di giustizia al desiderio di aiutare il governo nel quale avete fiducia. Ma se questo sentimento di benevolenza e di giustizia è davvero nell’animo vostro, perché non proponete una legge per dare indennità agli imputati assolti? Questa legge deve essere il substrato di ogni ragione giuridica e politica in uno Stato libero. E se voi non la proponete la proporremo noi… Il delinquente non è, per lo più, che uno sventurato”. Questo Stato libero e moderno “deve fortificare l’individuo perché deve essere il risultato della volontà di tutti i singoli” precisa Imbriani l’8 marzo nell’opporsi all’aumento della tassa di successione proposto da Luigi Ferrari in quanto 209 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie immobilizzante ed isterilente la piccola proprietà, questa struttura portante della società in difesa della quale il Nostro si dichiara conservatore tra gli applausi della Destra e del centro, lieto della diminuzione delle entrate del lotto “perché forse indica un progresso nella moralità pubblica” (e qui sembra di leggere Giustino Fortunato) ma attento a citare dagli studi sociologici di Angelo Mosso il dato impressionante secondo il quale in provincia di Caltanissetta solo il 9% dei coscritti è atto al servizio militare37. “Se la miseria è per se stessa un danno – commenta Imbriani il 21 marzo 1892 – le conseguenze della miseria sono danni indefiniti”: e perciò, mettendo da parte lo Stato “che divora tutto”, il dazio interno sui cereali va abolito, la proprietà fondiaria, l’abbiamo visto, limitava e così pure, al terzo grado, il diritto di successione, subentrando altrimenti il comune, che il Nostro vede sempre dinamicamente al centro dell’auspicato rinnovamento, anche sotto il proficlo economico e sociale. Questo rinnovamento è messo in forse dalla crisi di politica finanziaria che travaglia il governo e che induce Di Rudinì a sostituire Colombo con Luzzatti ed a presentarsi il 4 maggio alla Camera con la richiesta di pieni poteri in merito per due anni, regia dei fiammiferi, diminuzione delle pensioni, 15 milioni di economie per riforme organiche (ma non in campo militare, con la riduzione ad otto, richiesta da Colombo, dei corpi d’armata, che invece da dieci erano stati portati a dodici, e con la riduzione delle spese navali), aumento della tassa di successione. Nulla di più contrario, quindi, agli auspici di Imbriani, che non esitava ad argomentare la propria opposizione sul porro unum delle economie militari (“Finché voi spenderete in armamenti continui, finché non vi sentirete il coraggio di ridurre l’esercito alle semplici forze che occorrono per la difesa nazionale… non isperate assolutamente nulla di bene per la ricostruzione dell’economia nazionale”). Ma la politica militare in quanto tale, e la crisi nel suo complesso, presentavano nella circostanza un risvolto squisitamente costituzionale che il Nostro non si lasciava sfuggire, l’intervento pesante e determinante della Corte attraverso il Rattazzi ministro della Real Casa ed il Cosenz capo dello Stato Maggiore generale, che Imbriani non manca di nominare e denunziare a tutte lettere, senza riguardi per il suo antico generale garibaldino, e delineando anzi la prassi che il Di Rudinì avrebbe dovuto correttamente seguire invece di offrire, come aveva fatto, per vedersele accettate con nuovo incarico e l’accennata sostituzione, le dimissioni dell’intero gabi- 37 Le economie militari, porro unum della Destra Lombarda più ancora che della democrazia radicale (“La questione militare in Italia va guardata unicamente dal lato difensivo” 26 febbraio 1892) non esimevano Imbriani dall’aggiungere polemicamente: “Per acquistare il nostro territorio anch’io ci sto, naturalmente. Ci fermeremo alle Alpi Giulie, non abbiamo bisogno di andare più in là, dove non ci sono interessi nostri” salvo, s’intende, l’Adriatico che è “nostro esclusivamente nostro, e nessun altro interesse vi deve penetrare al di fuori dell’interesse italiano” come Imbriani avrebbe ribadito ancora il 29 giugno 1896, concedendo che “il Mediterraneo lo potremo avere comune con la Francia”. Ancora il clima, diremmo, di Fortunato si respira invece il 21 marzo 1892 nella lugubre descrizione della concentrazione a Crotone delle bare dei cantonieri della litoranea jonica uccisi dalla malaria. 210 Raffaele Colapietra netto, e cioè o formazione, con uomini già pronti e disponibili, di tutta una nuova compagnia o rinunzia all’incarico e convocazione della Camera. Che ci fosse un grosso retroscena (“Questo parla perché è comandato da Rattazzi!” era l’esclamazione assai rude del Nostro) veniva confermato indirettamente dall’improvvisa e violenta critica di Giolitti, prodromo comunque della sfiducia votata al ministero della Camera e della nomina che, con procedura del tutto insolita, Umberto avrebbe conferito precisamente all’ex ministro del Tesoro. “Ho dovuto temere di assistere ad un infanticidio” era l’arguto commento d’Imbriani, il 25 maggio 1892, al ritorno del gabinetto dal Senato nell’aula di Montecitorio, dove le dichiarazioni di Giolitti erano state accolte col più profondo silenzio. Ma non si trattava soltanto di arguzie, rese magari straziate dal parallelo del “ministro minore”, preso addirittura, ancorché indirettamente, per “ciabattino” rispetto al conte di Cavour, e fino ad un certo punto comprensibili nell’uomo del Risorgimento che non poteva che venerare Crispi ed ignorare Giolitti. Imbriani diceva anche qualche cosa di costituzionalmente molto più serio, rimproverava a Giolitti di aver accettato di discutere un’interpellanza al Senato, quella assai significativa Guarneri sull’esclusione dei senatori dal nuovo ministero, senza ritornare invece immediatamente alla Camera “con poca convenienza verso questo consesso che ha le sue fonti nella sovranità diretta della nazione”, rilevava che i ministri militari Pelloux e Saint Bon erano stati “ricomandati al loro posto contro ogni corretta procedura parlamentare” essendo “cosa anticostituzionale ed affatto nuova, che una responsabilità di governo potesse essere affidata per motivi tecnici e non politici”, osservava che Brin agli Esteri non avrebbe fatto altro che seguire le istruzioni del segretario generale Malvano, deplorava che ai Lavori Pubblici tornasse Genala, l’uomo dalle convenzioni ferroviarie “uno degli atti più funesti per il nostro paese”, concludeva col contrapporre la “politica nazionale” a quella “dinastica” che si riassumeva, a suo avviso, nel mantenimento della Triplice, nel ventilato ritorno al macinato e nel rifiuto delle economie militari. L’esito incertissimo della votazione sull’odg di fiducia Baccelli, 169 sì, 160 no, 38 astenuti, inducevano Giolitti, com’è noto, a dimissioni prontamente e, con ogni probabilità, concretamente respinte dal re, donde, il 27 maggio, la ripresentazione alla Camera e la richiesta di sei mesi di esercizio provvisorio con sullo sfondo lo spettro sempre più grandeggiante di elezioni generali anticipate, le prime col ritorno all’uninominale. Perciò il discorso d’opposizione d’Imbriani, il 9 giugno 1892, assume un significato particolare, la sua vasta argomentazione costituzionale coinvolgendo di necessità obiettivamente la Corona e rimandando perciò di fatto la soluzione del problema precisamente al voto popolare. “Signori – egli affermava rivolgendosi ai ministri – la vostra presenza a quel posto è sotto la vostra responsabilità, di voi che avete riaccettato quel posto: ed 211 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie ogni voto contro di voi è dato solamente ai responsabili. Difatti, se voi incostituzionalmente agiste, pur affermando di eseguire ordini ricevuti, voi sareste i responsabili, e noi avremmo il diritto di mettervi in stato d’accusa”. Lo stesso Bonghi ha ammesso che l’art. 67 dello Statuto deve essere considerato nello spirito e non nella lettera “perché noi non siamo soltanto un governo costituzionale, siamo un governo parlamentare… e non tollereremmo che fossero nominati ministri neppure persone le quali non sedessero in uno dei rami del Parlamento”. E tuttavia il conflitto venuto in essere tra Camera e Corona non potrà avere altro giudice che il popolo, cioè la sovranità nazionale, dal momento che con i plebisciti “è la nazione che ha conferito la sovranità, ha delegato le funzioni di capo dello Stato, non altro… La Corona deve essere moderatrice fra i partiti e deve (sic!) chiamare a costituire il potere esecutivo responsabile coloro che sono indicati dalla sovranità della nazione”. Ed Imbriani conclude auspicando per la prima volta una legislatura la cui durata sia ridotta a solo due anni e, sul momento, negando l’esercizio provvisorio “per protestare legalmente e rimettere a posto il potere esecutivo che esce dalla legge, dallo spirito dello Statuto… un governo illegale sotto la sua responsabilità”: parole di fuoco delle quali, ovviamente, Giovanni Giolitti non avrebbe mancato di ricordarsi38. L’esclusione di Matteo Renato Imbriani dalla Camera diventava in tal modo uno dei principali obiettivi delle elezioni generali del 6 e 13 novembre 1892, le prime governate e “manovrate” da Giolitti, nel Mezzogiorno con l’intento programmatico generale di eliminare il fenomeno clientelare e notabilare Nicotera anche a costo di rivitalizzare quello Crispi ambientalmente e sociologicamente non gran che diverso, in Terra di Bari mediante una netta correzione delle vedute da Sinistra storica, per così dire, del “proconsole” locale, Pietro Nocito deputato di Acquaviva e sottosegretario alla Giustizia, correzione che non escludeva affatto l’eventuale appoggio governativo a candidati schiettamente conservatori, come appunto nel caso di Corato, il collegio uninominale dove si presentava il Nostro, che con 1818 voti contro 1923 era battuto da Giambattista Beltrani, non senza il richiesto ed ottenuto intervento della Banca Nazionale e dell’a noi già noto Niccolò Melodia, in quei giorni medesimi fatto senatore. L’opzione per Gaeta del ministeriale contrammiraglio Corsi eletto anche a Sora dette modo ad Imbriani di presentarsi in quest’ultimo collegio contro Lefebvre, grosso proprietario, industriale delle carta e sindaco di Isola del Liri, che lo batté il 38 Pur avendo concentrato la sua ostilità, a parte l’aspetto costituzionale, sui progetti fiscali del ministero Giolitti “che si vuole imporre chiedendo i quattrini: ora i quattrini non glieli vogliamo dare”, Imbriani aveva voluto poi esibire l’antriplicismo quale motivazione saliente del suo voto contrario, tanto da censurare in quella chiave il voto favorevole di Barzilai e da astenersi sul voto unanime della Camera che respingeva le sue conseguenti dimissioni. Se un suo discorso di fine giugno 1892 a Chioggia accentrato sulla decadenza del costume parlamentare si vedano la lettere Cavallotti e l’articolo Turati rispettivamente su “Il Secolo” e sulla “Critica Sociale” 3 e 16 luglio 1892. 212 Raffaele Colapietra 26 febbraio 1893 fra tali e tante illegalità da fare annullare quasi subito la già avvenuta proclamazione. Mentre pertanto, il 10 aprile, Pietro Pansini, che era stato rieletto a Molfetta, denunziava alla Camera lo scioglimento dei consigli comunali della sua città e di Corato, per favorire l’elezione di Beltrani, l’attività propagandista dell’estrema si concentrava a Sora, col corollario di un clamoroso duello fra Cavallotti e Lefebvre, con l’inevitabile commissariamento, questa volta ad Arpino, che si era plebiscitariamente pronunziata per Imbriani, con un’infelice e declamatoria lettera aperta di quest’ultimo al “Lucifero” di Ancona che, sia pure in termini esagitati, stava ad indicare il significato e la portata della sua assenza nell’atmosfera convulsa della Banca Romana39. La lettera appariva il 21 maggio 1893, il giorno stesso della votazione, che conferiva la vittoria ad Imbriani con 9 voti di maggioranza, un clima surriscaldato di sopraffazione e di violenza che determinava un nuovo annullamento ed una terza votazione, il 9 luglio, stavolta con una più netta, e definitiva, affermazione di Lefebvre, 2827 voti contro 2302. Ma nel frattempo, per attribuzione violenta di 147 schede mediante effrazione delle urne a mano armata era stata annullata l’elezione di Beltrani, il quale avendo rinunziato alla candidatura perché i “mezzi materiali e morali atti alla lotta” non gli erano stati forniti nonostante l’intervento di Pietro Rosano presso Giolitti, il 6 agosto il collegio di Corato elesse deputato senza competitori Imbriani, il quale si preoccupò subito di scambiare infiammati messaggi di solidarietà con Edouard Lockroy e la democrazia francese in occasione dell’eccidio di Aignes Mortes del 18 agosto 1893 che aveva provocato in Italia, da Genova a Messina, ma con epicentri a Roma e specialmente a Napoli, un’ondata di sciovinismo di proporzioni e violenza inaudite, ed il 18 settembre, in un grande comizio dell’Aventino, non esitò ad invocare il referendum, la Costituente e l’abolizione dell’art. 5 dello Statuto. È dunque su una linea quanto mai intransigente ed estremista che egli rientrava alla Camera, ma le circostanze non gli consentivano di farlo se non il 20 dicembre 1893, l’anniversario di Oberdan, egli non mancava certo di sottolinearlo, alla presentazione del nuovo gabinetto presieduto da Francesco Crispi40. Essa, com’è noto, si fondava sul concetto apocalittico di “spedizione di Marsala alla rovescia” per giustificare l’eccezionalità dei provvedimenti in corso ininterrotto 39 “Una putrida bufera avvolge l’Italia. Occupa il governo una banda di malfattori che tutto credesi lecito. Prerogativa di questo governo è l’ipocrisia superata solo dall’impudenza. Sotto il peso turpissime, per difendersi, mentono, e colti in flagranza di menzogna cinicamente vi si drappeggiano”. 40 Pur senza uno specifico discorso Imbriani era tuttavia già intervenuto attivamente nella seduta del 23 novembre 1893 in cui la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche d’emissione, i cosiddetti Sette, aveva presentato la sua relazione con relativi documenti, che Imbriani aveva proposto di pubblicare subito, trattandosi di “questione altamente morale”, associandosi in seguito alla richiesta Cavallotti di deposito in visione negli uffici di segreteria nelle more della stampa e specificando in seguito, con l’adesione di Giolitti, che nel frattempo la relazione si sarebbe dovuta leggere immediatamente, donde la sospensione della seduta, l’agitazione e il tumulto del resoconto ufficiale, che avrebbe condotto alle dimissioni del ministero l’indomani 24 novembre, dopo l’avvenuta lettura della relazione. 213 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie di “adozione in Sicilia: ma è proprio questa pregiudiziale che veniva negata altrettanto apoditticamente dall’unitarismo risorgimentale d’Imbriani, non senza che egli dall’anniversario di Oberdan avesse tratto introduttivamente spunto per deplorare l’assenza di accenni e mutamenti alla politica estera e persino al contenuto del rinnovo della Triplice (art. 5!) nel programma di Crispi a causa del “volere occulto il quale si mette in contraddizione col sentimento della nazione” (e così una sorta di costituzionalismo repubblicano veniva a sgretolare l’antico e ben noto lealismo del Nostro). “L’unità d’Italia – egli affermava facendo proprio il plebiscitarismo crispino della monarchia democratica – non può correre alcun pericolo perché ha radici nell’anima degli italiani ed è voluta dal popolo che l’ha affermata nella sua sovranità”, quel popolo che peraltro non era più in grado di pagare “un centesimo” d’imposta e non poteva né doveva che rivendicare a sé il “diritto di Stato e di popolo” di “batter moneta” attraverso l’abolizione di tutti gli istituti d’emissione e la “sovranità” di una banca unica, ma non di Stato, come l’aveva realizzata Giolitti. Ma erano i risvolti costituzionali della mancata costituzione del ministero Zanardelli, contro la quale Cavallotti aveva protestato dal collegio pugliese d’Imbriani, da Molfetta, dove si trovava per un giro propagandistico dopo averlo effettuato in Calabria, e dopo che Bonghi aveva auspicato lo scioglimento della Camera ed un gabinetto extra parlamentare, erano quei risvolti che più che mai continuavano ad allarmare il Nostro (“Spero che non potranno più in Italia aver effetto certe deleterie influenze anticostituzionali, certe influenze che sono partite dal Palazzo, e che vi sarà almeno chi, con la propria energia, richiami all’osservanza della legge e della volontà nazionale di tutti, niuno eccettuato, chiunque vive in Italia”). Crispi garante di una costituzione alla quale è soggetto anche il re, dunque, dopo essere stato richiamato ad esserlo per l’unitarismo plebiscitario, che Imbriani ribadiva risorgimentalmente plaudendo alla requisitoria di Crispi e Cavallotti contro i partiti politici, che Giolitti aveva tentato di riesumare ed alla cui dialettica Fortis continuava a dichiararsi indefettibilmente fedele a nome del radicalismo legalitario, e che viceversa non erano che “fazioni… morte e seppellite nella coscienza del paese” donde l’accoglimento fervido della patriottica “tregua di Dio” invocata dal presidente del Consiglio. “Tempo, e non molto” era stato chiesto da lui precisamente ad Imbriani per poter constatare i risultati sociali ed unitari dei suoi provvedimenti in Sicilia: ma il tempo si era dilatato a due mesi ed i provvedimenti si erano concretizzati nello stato d’assedio e nei tribunali militari quando, il 20 febbraio 1894, la Camera si riaprì con una pioggia d’interpellanze soprattutto sull’arresto di De Felice, con l’esposizione finanziaria di Sonnino e con l’esplicitazione da parte di Crispi (“Oggi si trattava di disfare l’Italia!”) del concetto della “Marsala alla rovescia”. “Altro che questioni finanziarie, signori ministri! – prorompeva allora il Nostro – Qui si tratta della libertà e dei più alti interessi del paese, si tratta della nostra sovranità! Oh, verranno le discussioni finanziarie, ed allora sarete messi al muro, ma fin da oggi dovete accettare le discussioni sulla vostra condotta antiliberale e liberticida!” 214 Raffaele Colapietra La Camera dette torto all’oratore democratico e si dovette preliminarmente procedere all’esposizione del ministro del Tesoro ed alla contrastatissima sostituzione di Zanardelli con Biancheri alla presidenza della Camera: ma il 24 febbraio, quando cominciò il dibattito politico, Imbriani ebbe modo di far risuonare a nome dell’estrema la nota più altamente e comprensivamente drammatica, centrata sulla violazione di una mezza dozzina di articoli dello Statuto, dalla libertà individuale all’inviolabilità del domicilio ed alla libertà di stampa, dal diritto di riunione a quello dei deputati ed al principio del giudice naturale, ma specialmente sulla denunzia di uno stato di cose, di un’atmosfera che, politicamente prima ancora che socialmente, andava rendendosi irrespirabile41. Non credo possibile la rivoluzione di fatto immediata – egli dichiara infatti – Ma se per rivoluzione vuolsi intendere quel gran movimento delle coscienze e delle idee che si svolge nell’anima della nazione con processo più o meno rapido, ma infallibile, e conduce ad un fine, che è condanna dei mali presenti, eliminazione delle loro cause, rinnovazione di istituti corrotti, reintegrazione di diritti morali, affermazione dei diritti immutabili e supremi della sovranità nazionale, egli è evidente che l’Italia si trova già in questo periodo di rivoluzione”. Il riflesso sociale di una constatazione del genere si circoscrive all’auspicio di un affratellamento umanitario di vecchio stampo democratico (“Guardiamo difronte le schiere dei sopraffattori e schiariamoci sempre con i sopraffatti, dovunque essi si trovino!”): ma, ancora una volta, la nota che vibra in prevalenza in codesto affratellamento è quella liberale e liberatrice, suscitata da un impulmso di reazione ad un clima pesantemente avverso (“Viviamo in un ambiente che non è libero, lo sentiamo, abbiamo attorno qualche cosa che si sente più che non si dice, che presagisce ciò che può accadere di peggio”). E perciò l’appello e l’ammonimento severo ai ministri, di gusto che si direbbe squisitamente inglese (“Guardatevi dal furore di governare, è il peggiore di tutti i furori”) e la rivendicazione accurata delle prerogative conculcate dei deputati (“Noi stiamo qui in quest’aula, su questi banchi, ma ci sentiamo privi del prestigio che dovrebbe avere il rappresentante della nazione, umiliati dall’essere convocati a beneplacito del governo, di non esser capaci, con la nostra voce e con l’adempimento dei nostri doveri, a porre rimedio a questo stato di cose”, rimedio che, ben lo sappiamo, dovrebbe consistere essenzialmente nel controllo dei governanti in quanto tali, del loro “mal fare” che può e deve essere presunto in chi eserciti il potere: “Nel mondo moderno non deve esistere altra sovranità che quella del diritto che sopra la forza, dell’ingegno e della scienza contro la superstizione, dei popoli sui governanti”). 41 Imbriani specifica che gli accusati non si possono scegliere il difensore, loro primo diritto, e che i tribunali si sono dichiarati competenti su atti precedenti da essi qualificati reati. L’oratore nega che ci sia in atto in Sicilia lo stato di guerra, non essendovi invasione di truppe nemiche e neppure contrapposizione di forze regolari, e ricorda che anche in Boemia è stato proclamato di recente lo stato d’assedio, ma per voto del Parlamento e senza l’intervento dei “tribunali giberna” (non a caso Crispi nella replica si preoccupa di confutare proprio la pregiudiziale sull’esistenza o meno della guerra: “L’abbiamo soffocata. C’era allora e si poteva estendere dappertutto: l’abbiamo spenta”). 215 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie Vale la pena tuttavia di notare, al di là della sensibilità liberale e parlamentare sempre vivissima42 che, da un punto di vista strettamente culturale, la vicinanza d’Imbriani a Crispi rimane risorgimentalmente insuperabile ed intatta, si veda il ragionamento attraverso il quale lo Statuto viene presentato come semplice cornice preliminare che il governo deve riempire con un quadro di attività propria e specifica, da controllare e garantire da parte del Parlamento con sullo sfondo la natio quia nata di deterministica memoria (“Anch’io riconosco che v’è una legge che determina le patrie, una legge naturale che determina i diritti dell’uomo alla vita e alla libertà. Ma gli Statuti non debbono essere che la proclamazione di principi inviolabili, che sono l’estrinsecazione dei diritti naturali”). Analoga ed ovviamente assai più impegnativa osservazione può a maggior ragione farsi per il risvolto sociale del problema, che non a caso i deputati socialisti avevano voluto enfatizzare con un loro specifico documento di condanna delle violazioni statutarie e liberali commesse dal governo, che Imbriani non era stato in grado di comprendere (“Per Dio, vogliono restare in quattro!”). Già il 24 febbraio egli si era rifatto a Giovanni Bovio per rifiutare la lotta di classe come programma democratico “di pensiero e ideale umano” e per lasciarsi andare a definizioni moralisticamente patetiche (“C’è chi lavora e chi non fa niente. Il lavoro è il dovere della vita e chi non lavora è un essere ignobile”). Ma il 13 marzo 1894, con Enrico Ferri che pretendeva espressamente di applicare teorie socialiste alla ripartizione dei demani collettivi dell’ex Stato pontificio ed era stato seccamente squalificato (“La Camera non ammette deputati socialisti”) dal presidente Biancheri che già qualche giorno prima aveva rimproverato a Camillo Prampolini di “sollevare passioni di classe, cosa indegna del Parlamento”, il Nostro si allargava a considerazioni ben più ampie che, mutate tutte le infinite cose che sono da mutare, non sarebbero dispiaciute forse, tanti anni più tardi, a Benedetto Croce, le cui radici risorgimentali non erano poi distantissime da quelle d’Imbriani. Riprendendo infatti la contrapposizione degli oppressi ai soverchiatori, ma inquadrandola in una parabola che dalle libertà dei comuni italiani conduceva a quella inglese sulla traccia del “pensiero latino” contro le “teorie esotiche” ed il giacobino “monopolio della libertà e ingiustizia che conduce all’ingiustizia sociale”, il Nostro si chiedeva: “Che cos’è questa classe borghese? È stata la classe intelligente, che ha sacrificato tutto per suscitare nella coscienza popolare la dignità umana… Io comprendo altamente che cosa sia la collettività, ma questa voglio spontanea, altrimenti diventa tirannide… (la quale) è la formula dell’egosimo, il più spinto, il più terribile degli egoismi. Io vedo l’immediato ostacolo, l’ingiustizia diretta, e sogno contro e pugno e voglio cadere combattendo contro esso”43. 42 “Io vedo un indirizzo brutto nel governo, quello di screditare ogni giorno più le istituzioni parlamentari per poi poterle violare o magari sopprimere” (8 marzo 1894). 43 Si ricordi a questo proposito un’apostrofe di Victor Hugo, col quale dovremo non a caso concludere il nostro discorso: “Communistes, votre ennemi c’est le mur mitoyen, le mien, c’est le dispotisme. J’aime mieux escalader les trônes que la haie du voisin” e dunque la radice essenzialmente liberale in senso individualistico dell’azione politica. 216 Raffaele Colapietra Non a caso la confutazione d’Imbriani si colloca all’interno di uno stato di cose che ormai Crispi è in grado di dominare grazie alla strabocchevole maggioranza parlamentare che la sua impostazione unitaria, patriottica e dinastica gli ha garantito. Il discorso si sposta così all’ordinaria amministrazione nell’ambito della quale, dopo una serie di assaggi, l’accennato voto a vent’anni con firma del voto, il sindaco elettivo senza restrizioni ma non responsabilità ed unicità di funzioni per non più di due o tre anni44, un titolare borghese anche alla Marina, Imbriani, coadiuvato da Pietro Pansini, perviene il 1° maggio 1894, subito dopo essere andato a testimoniare a favore di De Felice in Sicilia, ad un vero e proprio abbozzo costituente il cui art. 16 definisce i deputati “commissari del popolo” (sic!), ne fissa il numero a trecento con collegio unico nazionale per il quale l’elettore può votare fino a trenta candidati, esclude stipendi ed uffici retribuitivi45, stabilisce a tre anni la durata della legislatura col proibirne lo scioglimento prima di un biennio, prescrive la decadenza in seguito ad un’assenza protrattasi per più di un mese, sottopone la validità delle leggi alla ratifica del referendum, imprescindibile anche per stipulazioni di alleanze, dichiarazioni di guerra e modifiche statutarie, ammette alla discussione dei due rami del Parlamento un testo di legge proposto da un numero di cittadini equivalente ad un quoziente per deputato46. Ma, a parte la stretta fiscale imposta da Sonnino dopo il rimaneggiamento ministeriale dei primissimi di giugno ed il progressivo ricompattarsi della Destra intorno a Crispi, era il susseguirsi degli attentati anarchici, il 16 giugno Paolo Lega contro di lui, il 26 Sadi Carnot presidente della repubblica caduto ucciso a Lione ed il 30 giugno Giuseppe Bandi, l’eminente memorialista garibaldino, a Livorno, ad autorizzare l’indomani 1° luglio il presidente del Consiglio alla presentazione di provvedimenti intesi a “punire i provocatori, gli incitatori e quelli che per mezzo della stampa fanno l’apologia di reati” che Imbriani sintomaticamente accoglieva ed interpretava sotto una duplice chiave, quella pubblica e liberale che lo induceva 44 La proposta formulata l’11 aprile 1894, sarebbe stata reiterata il 5 luglio 1896 in un contesto molto più ampio ed articolato che vedremo a suo tempo. 45 Si noti che Imbriani non si pone mai il problema dell’indennità parlamentare, che pur aveva rappresentato uno dei postulati del patto di Roma, e, il 2 maggio 1894, affronta molto marginalmente quello dell’emigrazione, i cui tragici esiti nel Brasile non gliene suggeriscono altro che una generica giustificazione nelle condizioni economiche del paese e nel suo sistema di alleanze, trattandosi di un fenomeno, a suo avviso, tutt’altro che necessario. 46 In una generica accentuata sensibilità costituzionale di questo periodo rientrano anche gli interventi 8 maggio e 14 giugno 1894 spazianti dalla denunzia delle sevizie inferte dalla forza pubblica alla soppressione dei collegi militari passando attraverso la ventilata possibile riduzione della lista civica ad un monarca che non dovrebbe rallegrarsi per discorsi di ministri o proposte di legge “quando il Parlamento sovrano può spazzar tutto, ministri e proposte” e la contrarietà manifestata a commissioni tecniche per le economie “di cui solo la Camera è giudice e che debbono essere indicate dal governo” (perciò una commissione di generali per lo studio delle riforme militari sarebbe stata giudicata da lui “un’offesa al potere legislativo” il quale avrebbe offerto al governo “l’opera di carità di seppellire i cadaveri” se esso avesse persistito nella sospensiva sui provvedimenti finanziari Sonnino e nella proposta di commissioni di studio). 217 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie a bollarli come “primo sdrucciolo sulla via della reazione”, quella individualistica e borghese secondo la quale, previo porto d’armi, i provvedimenti si sarebbero resi superflui se non si fosse resa libera ed illimitata la detenzione di armi e munizioni per la difesa della famiglia e della proprietà, una sorta di Far West all’ombra degli unalienables rights. Quando peraltro il 7 luglio i provvedimenti venivano alla ratifica parlamentare, che l’11 sarebbe stata sancita a scrutinio segreto con 188 sì e 16 no, i tre quinti della Camera istruttivamente già in vacanza, tre anni di domicilio coatto comminati a “coloro che abbiano manifestato il deliberato proposito di commettere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali”, Imbriani, accantonato quest’ultimo aspetto, al quale, lo abbiamo visto, e non è meraviglia, non si mostrava particolarmente sensibile, ne prendeva spunto per un excursus latamente liberale sulle istituzioni e sul loro oculato finanziamento (“Il governo spenda bene il denaro che ha, la polizia sia buona e capace, la vita e la sostanza dei cittadini siano tutelate, e tutto ciò senza largheggiare in denaro”) ma anche e soprattutto su quello che poteva apparire un loro progressivo deteriorarsi (“Abbiamo anche il diritto di pretendere… la libertà del giudice popolare, conquista che noi dobbiamo difendere ad ogni costo perché rappresenta la coscienza del popolo che si manifesta col giudizio di fatto”) e ciò specialmente a danno dell’esercito e della marina, tutt’altro che appendici del potere esecutivo, ed anzi suscettibili di discussione ininterrotta “perché li vogliamo migliorare, non vogliamo che diventino strumenti gretti di casta, vogliamo che ad essi sia legata la nazione intera appunto perché non vogliamo la lotta di classe”. L’utopia della nazione armata, dunque, ancora una volta come ai tempi di Cattaneo e secondo l’esempio americano e svizzero, quale grande strumento di educazione civica volta a stornare lo spettro del socialismo ma anche quello dell’accentramento fine a sé stesso (“Nulla di più temibile sulla via della reazione che i vecchi giacobini! Sempre lo stesso spirito di autoritarismo…”) ed ancora i farneticamenti dei criminologi dottrinari alla Raffaele Garofalo invocanti il ritnorno alla tortura ed alla pena di morte (“La pena per essere efficace deve avere la sanzione morale che viene dall’opinione pubblica, la quale aborre davvero dai delitti e li condanna nella sua alta coscienza […] Le leggi ordinarie debbono bastare a tutto e nulla deve esservi di eccezionale […] È cosa enorme perseguire, colpire chi è stato riconosciuto innocente, ché allora la reazione diventa legittima… ciò che era un delitto potrà assumere carattere di lotta in nome della legalità e della giustizia”). Non la repressione in quanto tale, dunque, niente patrie en danger, l’indipendenza del potere giudiziario assicurata e garantita in modo definitivo dinanzi alle esorbitanze del potere esecutivo: riconosciamo il migliore Imbriani, una volta messa da parte la provocazione schematica della lotta di classe, e non a caso ascoltiamo la sua voce, subito prima dello squallido scrutinio segreto al quale abbiamo fatto cenno, in difesa della legge come garanzia universale e perciò tutt’altro che discriminante: “Gli anarchici vivono nella legge e chiunque vive nella legge non 218 Raffaele Colapietra può essere messo fuori legge a priori. Se costui commette un reato è colpito dalla legge. Questa specie d’interdetto dogmatico è qualche cosa che urta col sentimento giuridico… Il domicilio coatto è un prodotto dell’aberrazione del senso giuridico italiano”. Non a caso alla breve e concitatissima ripresa dei lavori parlamentari, nel dicembre 1894, dopo lo scioglimento dei circoli socialisti e la costituzione della lega per la difesa della libertà e subito prima della presentazione del plico Giolitti e della proroga della sessione, tutti episodi ai quali il Nostro avrebbe preso parte con convulso protagonismo, lasciando depositate ben 34 interpellanze al banco della presidenza della Camera, i suoi interventi più corposi e meditati sarebbero stati dedicati a problemi ed a principî di libertà intesi nel loro fondamento essenziale, le elezioni del quarto collegio di Palermo e di Corleone che andavano annullate, pur avendo espresso deputati protesta, per il semplice fatto di essersi tenute in regime di stato d’assedio, donde la presunzione di astensioni per timore e l’impossibilità di accertare se e fino a che punto fosse stata menomata l’esplicazione della volontà popolare, il senso di frustrazione che invadeva l’animo al cospetto delle esorbitanze governative (“Quando è possibile che vi siano degli italiani che languono nelle reclusioni per semplice reato d’opinione, che siano mandate a domicilio coatto persone degnissime, cittadini innocenti, sol perché è stata riportata una frase da qualche agente di polizia, io mi vergogno di far parte, come cittadino e come deputato, di uno Stato simile”). La “questione morale” che aveva provocato la proroga della sessione avrebbe avuto a suo protagonista, com’è noto, Felice Cavallotti: ma Imbriani sarebbe stato prontamente ed autorevolmente al suo posto nell’adunanza che avrebbe raccolto alla Sala Rossa di Montecitorio 180 deputati a meno di ventiquattr’ore dalla drastica decisione di Crispi, la sera di domenica 16 dicembre 1894, ed avrebbe preso la parola in chiave unitaria e patriottica (“Quando un’assemblea, composta dalle diverse parti politiche, trova una nota comune qual è quella che ci anima, si è certi di dire che l’ambiente parlamentare si è risanato e rappresenta il sentimento del popolo”). Si trattava senza dubbio di un unitarismo patriottico eccessivamente ottimistico ma che, proprio in quanto tale, faceva onore ad Imbriani ed alla generosità con la quale egli aveva colto il significato morale e politico dell’azione di Cavallotti rispetto al feroce meridionalismo regionalistico della stampa crispina che non mancava viceversa di far breccia nell’animo di Bovio per quanto attinente al programma dell’opposizione ed alla personalità del presidente del Consiglio. Non si può negare tuttavia che al Nostro competesse una sorta di seconda fila rispetto al leader milanese ed ai socialisti nel clima d’assieme delle elezioni generali del maggio 1895 che, superate senza difficoltà, consentivano ad Imbriani di rientrare alla Camera e di esordire il 13 giugno su una linea tanto intransigente (“Qui noi siamo riuniti per giudicare i vostri reati”) quanto sommaria nell’articolare il giudizio, la violazione dello Statuto, la questione morale, la mancata richiesta di sanatoria per decreti legge già in esecuzione da un anno al di fuori della legittimi219 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie tà costituzionale, ed in realtà, precisava Imbriani il 6 luglio, non contemplati dalla legislazione nazionale né dal regime parlamentare in genere, i cui “elementi precipui” essendo, e lo sappiamo, “la discussione, la pubblicità e il controllo”, il governo vi si sottraeva, meritando perciò di essere posto in stato d’accusa ben al di là della presunta immaturità dell’elettorato (“Quando noi non abbiamo che leggi elettorali restrittive, il suffragio ristretto col collegio uninominale, possiamo noi dare al popolo la colpa se la rappresentanza nazionale non adempie ai suoi doveri?”). Si ha insomma la sensazione che in quelle settimane potentemente e quasi muscolosamente dominate dal conflitto personale, e quindi dall’alternativa non soltanto politica fra Cavallotti e Crispi, il Nostro abbia voluto, o sia stato indotto a prescegliere una posizione abbastanza defilata, attenta, più che all’evolversi tempestoso della situazione, ai problemi di principio ed alle grandi parole d’ordine, il “via dall’Africa” ad esempio, che torna a risuonare il 26 luglio 1895 o, l’11 precedente, l’irredentistico rinvio del 20 settembre festa nazionale all’effettivo compimento dell’unità italiana, sia pure in un risvolto liberale che non ci giunge nuovo (“Non inneggiamo alla libertà del pensiero in questo momento in cui, come italiani, dobbiamo vergognarci di veder rinchiusi nelle luride carceri cittadini che scontano il proprio pensiero”) o ancora, il 18 luglio, la deplorazione per la mancata amnistia “che è forse la più alta prerogativa” di un governo che invece pretende di negare la qualità politica, e di relegare tra i reati comuni, a pensieri ed opinioni che all’opposto, proprio in quanto tali, sono atti eminentemente politici47. È proprio quest’ultimo tema significativamente d’attualità alla riapertura della Camera, il 26 novembre 1895, a proposito dell’eventuale grazia a Giuseppe De Felice, che Imbriani tiene rigorosamente a distinguere dalle persistenti responsabilità ministeriali (“Io sono troppo osservante dalle guarentigie statutarie per toccare chi non debbo e non posso toccare, perché non si può difendere in quest’aula e perché è irresponsabile statutariamente. Dunque la mia parola viene diretta a coloro che sono i veri responsabili”). Ma anche l’anticlericalismo d’occasione del 20 settembre rimane d’attualità in un clima così schiettamente illiberale, nel quale i provvedimenti di emergenza per la Puglia ancora in crisi, credito agrario, sospensione di tributi, rinnovo di cambiali, rimangono frammentariamente e superficialmente sullo sfondo rispetto alle grandi istanze di libertà a cui il Nostro è particolarmente sensibile, con espressioni che anch’esse ci risultano tutt’altro che nuove (“Lasciamo tanto al Vaticano quanto all’anarchico la piena libertà di spiegare il proprio pensiero. Il Vaticano 47 Quanto al “via dall’Africa!” si ricordi doverosamente che esso echeggiava a commento polemico del trionfale ingresso in aula dal generale Baratieri, abbracciato dal presidente Villa, da Crispi e da Cavallotti, quasi a simboleggiare l’unità della patria intorno al condottiero vittorioso, e che il 2 luglio precedente, proprio in replica ad Imbriani che nessuno poteva sapere dove ci si sarebbe spinti “perché il decoro nazionale deve essere tutelato anche in Africa”. 220 Raffaele Colapietra che cosa rappresenta se non una forza ed un’influenza morali? Le armi della violenza s’infrangono contro di essa. È dunque con la forza morale che voi lo dovreste combattere, mai con le minaccie e con le violenze, come tutti i pensieri si combattono ugualmente con la forza di pensieri migliori”: ed abbiamo già citato le riflessioni suggerite ad Imbriani, il 29 novembre successivo, dall’eventualità di un’abolizione delle guarentigie e del ritorno anche per il pontefice al diritto comune). Ma nel frattempo andava obiettivamente ingrandendosi l’ombra dell’Africa a proposito della quale i rudi e prosaici interrogativi d’Imbriani, il 27 novembre (“Quanto vi costa questa passeggiata militare? In quali condizioni vi trovate adesso? Quali sono le vostre intenzioni? Volete davvero andare a distruggere il trono d’Etiopia? Che cosa ci sostituirete? Vi lasceranno sostituire qualche altra cosa?”) precedevano di sole due settimane il drammatico ed inatteso annunzio di Amba Alagi. Del tutto occasionalmente, ma pur significativamente, esso veniva fornito alla Camera dal generale Mocenni ministro della Guerra nel pomeriggio del 10 novembre 1895, subito dopo che Imbriani, dopo aver fatto di nuovo risalire alla persona di Crispi la responsabilità del metodo anticostituzionale dei decreti legge e del suo abuso incontrollato, si era soffermato proprio sull’essenza e la gestione delle forze armate in Italia, separandole anzitutto preliminarmente dai poteri fondamentali dello Stato (“La questione vera è che alla Camera non vi dovrebbero essere militari”) ed insistendo poi sul decentramento e sulla privatizzazione di tutti gli stabilimenti bellici del momento che, e qui una sintomatica citazione di Cavallotti, “il socialismo di Stato è stato sempre la base di tutte le dittature del mondo… Il mio ideale sarebbe quello di chiudere le caserme” sulla base della riduzione della ferma a non più di un anno e soprattutto di un più agile governo degli stanziamenti e del loro impiego concreto (“Questo dubitare sempre, questa diffidenza continua posta nella nostra amministrazione, in modo che per controllare la spesa di un centesimo si debbono spendere centinaia di lire, è cosa assolutamente contraria ad ogni buon andamento amministrativo. Dovete aver fiducia negli ufficiali, ritenerli uomini d’onore: quando mancano all’onore, dovete essere irresistibilmente severi ed allontanarli dall’esercito”). In tal modo, e la cronaca burrascosa precedente e susseguente ad Adua lo avrebbe confermato, Imbriani si congedava da Crispi su grandi questioni costituzionali di principio più che su problemi particolari suscitati dall’Africa o dalla “questione morale” o dal fiscalismo di Sonnino e così via. La controprova è nel fatto che, pur avendo ribadito la richiesta di vedere l’ex presidente del Consiglio posto in stato d’accusa nel discorso del 17 marzo 1896 che esamineremo tra breve (e la viva ilarità che accoglieva la richiesta era indice di ben diversi intendimenti, malgrado tutto, da parte dell’assemblea in gran maggioranza crispina eletta l’anno precedente) solo quarantott’ore più tardi Imbriani avrebbe compianto come “miseri” gli ex ministri, proseguendo col dire, sua come per essi bisognasse usare “un linguaggio più che corretto perché io non ho mai approvato 221 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie quei procuratori che inveivano contro gli accusati”, nella circostanza in primo luogo Oreste Baratieri “il quale mi è doppiamente sacro, e come accusato legittimamente, e come accusatore del caduto ministero”: e qui la grande e bella conclusione ottimistica ottocentesca sul diritto di nazionalità alla Mancini48 che si sprigiona vittorioso quale elemento di civiltà dalla catastrofe africana (“Un gran risultato per la civiltà forse l’avrete avuto, forse il sangue nostro non è stato sparso invano per la civiltà, perché quella nazione etiopica, si è riunita dinanzi al pericolo imminente, ha acquistato coscienza della propria forza nell’unione e adesso non si dissolverà più ma fonderà un impero che si avvierà verso la civiltà e porterà il suo frutto nel continente africano”). Spetta a Matteo Renato Imbriani la definizione di “ministro di galantuomini”, più esattamente “onesta schiera di galantuomini, con la quale il gabinetto Di Rudinì è passato alla storia, o quanto meno alla cronaca parlamentare, e fu accolto alla sua presentazione in aula, il 17 marzo 1896. Lodato per l’amnistia generale immediatamente promulgata, il ministero era invitato a “troncare il delitto africano” attraverso una “pace onorata” col “leale” Menelik (“L’Italia smarriva il sentimento dell’onore andando a sopraffare un altro popolo, a distruggere un’altra nazionalità”) ma anche l’effettivo e pronto richiamo delle truppe e l’accennata messa in stato d’accusa del ministero Crispi, la cui richiesta il Nostro condivideva con Bovio ma non, significativamente, con Cavallotti49. Quanto all’ispirazione complessiva del gabinetto, Imbriani elogiava Di Rudinì per la chiara e sincera patina conservatrice del suo liberalismo ma deplorava che non fosse affatto tale la circolare diramata ai prefetti all’atto di insediarsi a palazzo Braschi quale ministero dell’Interno, tutta un’insistenza inopportuna sulla maestà della legge a tutela dell’ordine pubblico e contro le associazioni criminose. Ma i tempi permanevano grossi, e tali da non poter essere affrontati con semplici aggiustamenti di combinazioni ministeriali, se è vero che già il 21 maggio, 48 Non a caso l’8 maggio 1896 Imbriani avrebbe inneggiato a Kossuth nel salutare il millennio del regno d’Ungheria, ma avrebbe anche stigmatizzato l’oppressione esercitata da quest’ultimo sulle minoranze rumene, così come aveva già fatto il 2 maggio 1894. 49 Essi si sarebbero tuttavia trovati uniti, il 9 maggio 1896, nel votare l’odg di fiducia Suardi Gianforte interpretato come conferma della politica di raccoglimento (e quest’ultima, da Bovio, quale prima tappa verso il ritiro assoluto dell’Africa). Un certo influsso del clima latamente moralizzatore di quei mesi può cogliersi anche nelle rinnovate folgori del Nostro contro il lotto “onta per la nazione e pel governo italiano” (5 giugno 1896: giusto un anno più tardi, l’8 giugno 1897, ne avrebbe proposto senz’altro l’abolizione) che si collocano tra la richiesta di eliminazione dei coatti politici e d’introduzione del lavoro nelle colonie di domicilio coatto che ancora rimanevano aperte, con sullo sfondo la reiterata sottolineatura dell’autorità morale da conferire al funzionario di pubblica sicurezza che “idealmente dovrebbe tendere la mano ai perseguitati, aiutare gli infelici ed i sopraffatti, raddrizzare tanti torti. Invece, stornato dai suoi fini, adoperato spesso come strumento di bassa polizia e di vendetta di governo, ecco che cade in disprezzo prezzo le popolazioni e non raggiunge i suoi fini” (28 maggio 1896: dove mi pare di scorgere anche un sottile riferimento al Mezzogiorno nei suoi infiniti meandri di mentalità e di costume) ed una singolare difesa della scuola classica e dello “spirito latino” contro la demolizione di Niebuhr e Mommsen (26 giugno 1896) che ci fa toccar con mano quanto, magari attraverso Carducci, il Nostro fosse ancora culturalmente e risorgimentalmente vicinissimo a Francesco Crispi. 222 Raffaele Colapietra all’indomani del rifiuto di mettere in discussione una rinnovata proposta di Ettore Sacchi per la messa in stato d’accusa del ministero Crispi, Imbriani risollevava la bandiera della Costituente al di là di una Camera suscettibile, come la presente, d’involuzione reazionaria e al di là dello stesso controllo parlamentare sull’esecutivo quale ragion d’essere del costituzionalismo liberale (“Il miglior modo perché il Parlamento funzioni consiste nella solerzia, nella sollecitudine dei deputati… Quando si riconosce, come io credo che sia di presente, la necessità di modificare tutta la legge fondamentale dello Stato, allora sorge la necessità di una Costituente nominata ad hoc dal popolo con plebiscito a suffragio universale”). Le circostanze non consentivano peraltro di proseguire su questa prospettiva di riformismo ab imis che sembrava imposta dall’atmosfera infuocata, fino ai limiti della rivoluzione e della repubblica, del biennio precedente, la politica estera sopravveniva a temperare utopismo e tecnicismo in un arduo equilibrio nei confronti del quale la parola d’Imbriani assumeva più la cadenza di testimonianza o addirittura di profezia che non quella d’immediata analisi politica. Si veda ad esempio come pochi giorni più tardi, il 25 maggio 1896, reiterando l’auspicio di una dissoluzione dell’Austria e della Turchia ad opera delle nazionalità e di un remoto indiretto intervento della Russia, il Nostro mostri di sapersi sottrarre a tempo e luogo all’anglomania dilagante all’interno del costituzionalismo liberale, di saper ben distinguere tra il liberalismo di Gladstone e l’imperialismo di Chamberlain col dissociare l’Italia dall’Inghilterra la quale “non ha che un bisogno, quello cioè di soggiogare, far servire o distruggere la razza nera, invece di risollevarla”. Certo, quella dissoluzione implica, come abbiamo visto a suo tempo che l’Adriatico sia “esclusivamente nostro” e perciò il 2 luglio Imbriani deve annunziare con commosse parole il proprio distacco dalla maggioranza dell’estrema, che condivide l’odg Di San Giuliano tanto “rinunziatario” in ambito africano quanto ortodosso in quello triplicista (sono con lui Barzilai e Pansini e, apoditticamente, i socialisti, ma anche la gran massa dei crispini) donde la necessità di abbandonare il fremente linguaggio sulla “missione dell’Italia” in pro degli oppressi, da Cuba a Candia, e concentrarsi su problemi di politica interna che peraltro ancora una volta le circostanze rendevano quanto mai concreti e significativi. Presentandosi infatti alla Camera, il 5 luglio 1896, la relazione di Edoardo Pantano sull’eleggibilità del sindaco in tutti i comuni, il Nostro, condividendola, ovviamente, ma sottoponendola al suffragio universale, allargava il discorso a criteri di profondo rinnovamento amministrativo, il comune ampliato, eccetto che in montagna, fino a comprendere non meno di 10 mila abitanti “per aver vita propria ed i mezzi per esercitare l’attività propria, se vogliamo l’autonomia comunale” altrimenti, postilla duramente Imbriani, “nel comunello il sindaco elettivo sarà il feudatario del luogo”. Non solo: ma egli dovrà rimanere in carica per non più di due anni, non potrà essere rimosso per ragione di ordine pubblico, non sarà rieleggibile per un periodo da determinarsi, si dovrà obbligatoriamente ricorrere al Consiglio di Stato 223 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie in caso di una sua sospensione per grave reato o abbandono dell’ufficio ma anche al parere di quel consesso per qualsiasi scioglimento di consiglio comunale, tassativamente proibito nel corso della campagna elettorale politica, un qualche magistrato particolare dovendo sostituire i regi commissari “piovre e cavallette dei bilanci comunali”, tutti temi schiettamente liberali50 che avrebbero visto coalizzati e rintuzzarli tanto la maggioranza ministeriale quanto quella dell’estrema. Questo stato di cose si riproponeva il 9 luglio a proposito dell’innovazione più notevole dell’epoca in campo amministrativo, il commissario civile in Sicilia, che Imbriani combatteva sia per l’illegalità del decreto che lo istituiva sia soprattutto per il suo carattere introduttivo al ventilato ordinamento del Mezzogiorno in tre grandi regioni, una soluzione contrastata non soltanto in nome dell’unitarismo dinastico privilegiato dai crispini ma anche e specialmente in difesa del comune “questo elemento naturale, logico, fortemente organico allo Stato” come sappiamo da sempre carissimo ad Imbriani. E poiché nei giorni successivi il ministro Di Rudinì si sarebbe dovuto ricomporre a causa delle dimissioni del generale Ricotti suo “capo morale” e del Colombo per la mancata riduzione di due corpi d’armata, l’opposizione del Nostro non poteva il 21 luglio che venir fortemente confermata, e ribadita vistosamente dal voto alla riapertura della Camera, il 1° dicembre 1896, allorché, dopo aver lodato il trattato di Addis Abeba, egli presentava, di concerto col socialista Gregorio Agnini, una mozione per il ritiro assoluto dall’Africa, che l’assemblea respingeva con 184 voti contro 26. La convergenze obiettiva con i socialisti non si limitava del resto alla politica coloniale se è vero che l’8 dicembre Imbriani era a fianco di Filippo Turati nel denunziare una serie di pesanti ingerenze governative nel campo della libertà di riunione e nel presentare la relativa mozione, rigettata dalla solita massiccia maggioranza che vedeva ora automaticamente affratellati, su posizioni di conservazione autoritaria e borghese, moderati e crispini, nonostante che Di Rudinì motteggiasse su Imbriani più conservatore di lui in quanto individualista, una formula che il Nostro non poteva ovviamente che raccogliere, accettare e sviluppare ma, ancora una volta, in senso schiettamente liberale. Pochi giorni più tardi, il 15 dicembre, la circolare del guardasigilli Costa per lo scioglimento dei circoli socialisti e delle camere del lavoro parve far rivivere i giorni più torbidi dell’autoritarismo crispino: e davanti ai socialisti e ad Imbriani, che il 18 e il 19 dicembre avevano chiamato in causa in proposito lo stesso istituto monarchico, Cavallotti, pur tenacemente vicino al ministero, non poteva fare a meno di riconoscere su “Il Secolo” che la “questione sollevata da Imbriani ritrova nelle condizioni tristi del paese e della coscienza pubblica base ed eco, di cui gli amici 50 È appena il caso di ricordare se e quanto essi sarebbero stati d’attualità durante tutto il periodo giolittiano (a parte le applicazioni che il Nostro aveva già avuto modo di subirne ad opera dell’uomo di Dronero) tanto da costituire uno dei principali obiettivi riformistici da parte del primo ministero Sonnino. 224 Raffaele Colapietra delle istituzioni dovrebbero preoccuparsi per primi” e non certamente sulla linea del Torniamo allo Statuto che non a caso Sidney Sonnino avrebbe firmato sul numero di capodanno della “Nuova Antologia”. La crisi di Candia, nel febbraio 1897, sopravvenne a rinsaldare la rinnovata solidarietà all’interno dell’estrema, il romanticismo garibaldino, la difesa del diritto di nazionalità, l’interpretazione e l’ispirazione dello spirito pubblico, tutte direttrici mediante le quali, attraverso le elezioni generali del 21 marzo 1897 e la conseguente eliminazione totale e definitiva del crispismo come temibile forza parlamentare, riusciva a riproporsi egemonicamente, nonostante l’ormai dichiarata, ed altrettanto irreversibile, scissione repubblicana dal complesso dell’estrema sinistra, e con essa quella di Giovanni Bovio, la convergenza prestigiosa tra Cavallotti ed Imbriani, presentatore, quest’ultimo, all’apertura dei lavori della nuova Camera, l’8 aprile, dell’interpellanza “circa quella nefasta politica che conduce a far commettere dall’Italia risorta atti di violenza inconcepibile contro la madre Grecia, calpestando il diritto delle genti ed il principio di nazionalità”. E l’interpellanza sarebbe stata illustrata, tra il 9 e l’11 aprile, da un seguito d’interventi, fino alla machiavelliana “necessità della guerra” in quanto “cozzo sanguinoso d’idee” per il quale si scomodava insolitamente Hegel, che ancora una volta le circostanze avrebbero reso emblematicamente gli ultimi di Matteo Renato Imbriani51 e che conviene perciò leggere con larghezza ed unitariamente, tanto nello slancio tribunizio e nel calore eccezionale di convinzione, quanto nelle considerazioni più propriamente ed acutamente politiche, la fictio dell’equilibrio europeo e del conseguente intervento armato in ardua dialettica col movimento delle nazionalità, la nuova Santa Alleanza dell’imperialismo come degenerazione del liberalismo e perciò economico – finanziaria anziché ideologico – militare, l’anticipazione dell’argomento interventista sull’articolazione eterogenea dell’Intesa quale alternativa preferibile alla compattezza organica degli Imperi Centrali, ed in essa, nella sua prospettiva latamente internazionalista e mazziniana, l’apertura a ciò che nel 1897 era, e vent’anni dopo coerentemente sarebbe stato, Leonida Bissolati. “Io non so dove voi vogliate condurre l’Italia, se vi siete messi in mente di 51 Il 15 maggio 1897 Imbriani aderiva alla mozione di Errico De Marinis per il ritiro assoluto dall’Africa che la settimana successiva sarebbe stata respinta dalla Camera con 242 voti contro 140 (“Il principio sia affermato nettamente dinanzi al paese affinché esso sappia ciò che deve fare, dove deve andare, e non abbia l’ambiguità e il caos dinanzi a sé”) ed il 14 giugno si soffermava ancora polemicamente sulla protezione accordata dagli inglesi alla schiavitù a Zanzibar e sulla situazione del Benadir, in cui il nostro Antonio Cecchi si era lasciato coinvolgere (“L’Inghilterra ci trarrà l’utile suo, noi non ci troviamo alcun utile, noi ci troviamo sempre nelle situazioni le più dubbie, le più antipatiche, senza ritrarne alcun utile, anzi, non ricavandone che il danno e le beffe. E tutto ciò per proteggere una speculazione, una società antipaticamente indiziata… Se la civiltà europea si deve affermare così barbaramente io rinunzio a questo movimento di civiltà”). Ma non si trascuri l’altrettanto costante difesa dei diritti civili dell’individuo in quanto tale (“Si usano contro i detenuti modi assolutamente incivili e molti di essi ricevono la morte sotto diverse forme”16 giugno 1897 a commento dell’impressionante lettera del militare Pasquale Torres ergastolano a S. Stefano sulle sevizie subite) né la tenace polemica contro la “macchina” burocratica in quanto tale, che arriva, il 1° luglio 1897, a proporre l’abolizione dei tribunali sostituiti dalla pretura a fine conciliativo in ogni comune, dall’arbitrato in maniera civile e dai giurati in quella penale. 225 Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie dilaniarla e di annullarla. Se volete che questa Italia, potente di un solo forte pensiero, banditrice al mondo del suo diritto, una volta, ed invocata da tutti gli oppressi, se volete che questa Italia sia maledetta dai popoli, aspettatevi che venga una giustizia la quale vi commini quella tale Nemesi che è sempre infallibile quando giustamente percuote. Voi, la guerra che volevate evitare, l’avrete, perché sarà guerra santa, giusta, ulatrice di tanti obbrobri, che sarà seguita dal cozzo dei due imperi che si trovano dietro la Grecia, e questa tempesta purificatrice e santa, dilaniando e distruggendo i due imperi barbari d’Europa, il turco e l’austriaco, farà le vendette della civiltà vera… Quando voi avrete posta questa nuova lega di prepotenti che è stata chiamata il prodromo degli Stati Uniti d’Europa dal ministro degli affari esteri (scil. Emilio Visconti Venosta) a base della vostra condotta nell’azione internazionale, potrà accadere che un giorno sia menomata la vostra stessa indipendenza, l’indipendenza di tutti i popoli. Imperocché questa nuova tirannide di governi, stretti insieme da interessi non confessabili, vi ridurrà un giorno a premere su tutti gli Stati minori d’Europa ed a rapire ad ognuno di essi l’indipendenza, se non si adattano ad esser servi vostri. Inoltre avverrà infallantemente lo scoppio del dissidio tra voi, per l’urto dei contrastanti interessi. E voi, che non siete i più forti, che avrete perduto la forza morale, che attigevate dai principî e dalle idee, rimarrete schiavi e distrutti… O amici socialisti, io che non mi sono mai sentito secondo ad alcuno di voi nel volere la giustizia sociale applicata nella sua integrità, io qui apertamente sono lieto di riconoscere anco una volta quel che sempre affermate, che i socialisti italiani non sono secondi ad alcuno nell’amore della patria, nel riconoscimento del diritto di nazionalità e del principio d’indipendenza”. Felice Cavallotti che, lo abbiamo visto, dalla crisi di Candia era stato condotto a riavvicinarsi ad Imbriani alla luce della comune camicia rossa, che questo riavvicinamento aveva ribadito e consolidato attraverso un nuovissimo repubblicanesimo etico (la “invisibile forza” che sembrava trattenere a mezzo “un’opera che voleva essere onestamente riparatrice” nell’intervento sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona 13 aprile 1897), che a metà maggio aveva riscoperto la fratellanza d’armi con i socialisti, nella circostanza Oddino Morgari, col denunziare alla Camera il caso dell’operaio Romeo Frezzi di Jesi, arrestato, percosso e conseguentemente deceduto nelle carceri di Roma in seguito all’attentato Acciarito contro il re, e subito dopo con l’aderire finalmente all’abbandono totale dell’Africa, ed infine in settembre col sottoscrivere il manifesto per l’abolizione del domicilio coatto, Cavallotti era l’uomo designato da tutta una vita ad interpretare i sentimenti della Camera e soprattutto della pubblica opinione allorché l’assemblea unanime, il 30 settembre 1897, alla riapertura della sessione, respingeva le dimissioni presentate da Imbriani in seguito alla tragedia di Siena52. 52 Imbriani, che il 21 marzo 1897 era stato eletto anche ad Andria, soverchiando il conservatorismo clericaleggiante di Ceci e lo pseudoprogressismo di Spagnoletti, sarebbe stato confermato il 3 giugno 1900 deputato di Corato con un formalismo unanime quanto mai discutibile. 226 Raffaele Colapietra “Molti discorsi che si fanno qui dentro – affermava il leader milanese, inconsapevole di stare anticipando di soli tre mesi il proprio personale epicedio – non valgono l’insegnamento che parlerà da quel seggio vuoto53, quotidiano ricordo, nelle ore del dovere, dell’abnegazione con cui egli lo intese e lo concepì… Anche quelli che si lamentavano della frequenza delle sue parole oggi ne sentono il desiderio: perché quell’uomo non è stato cercato dalla sventura e non l’ha trovata per caso, fu esso che andò a cercarla, per aver troppo chiesto a sé medesimo nel seguire il sentimento del proprio dovere”. E torniamo convulsamente a quel seggio per ascoltare le parole che Matteo Renato Imbriani ne fa echeggiare in esordio al discorso del 29 novembre 1895 che già abbiamo incontrato a proposito della ventilata abolizione delle guarentigie e della funzione che in merito può e deve esercitare la tribuna parlamentare, le cui discussioni “unico mezzo che ancor resta al paese per iscoprire una qualche parte di verità, hanno la loro grande utilità: non pei risultati e pei voti che si danno qui dentro ma perché illuminano il paese”. Ebbene, questa funzione esercita in nome di un principio generale che non a caso è posto in cima all’intervento, ed in forza di esso: “La libertà e la verità hanno questo di eccellente, che tutto ciò che si fa per esse o contro di esse loro riesce egualmente utile”. Queste parole non sono d’Imbriani ma di Victor Hugo, la prefazione di Hernani, tutta fitta contesta di motti e sentenze che al tribuno napoletano dovevano essere parimenti familiari (“En revolution, tout mouvement fait avancer… Le romantisme… n’est… que le libéralisme en littérature… Le libéralisme littéraire ne sera par moins populaire que le libéralisme politique… Dans les lettres comme dans la société, point d’étiquette, point d’anarchie: des lois. Ni talons rouges, ni bonnets rouges”). La prefazione reca la data del 9 marzo 1830, il dramma era andato in scena il 25 febbraio, in primissima linea nella meticolosa organizzazione Gautier, Dumas, Balzac, Berlioz, i più bei nomi della gioventù romantica francese: giusto cinque mesi più tardi, le trois glorieuses, una data capitale nella storia del liberalismo europeo: Imbriani era il tardo epigono superstite, che dava la mano al nascente socialismo attraverso la democrazia garibaldina, di quei romantici e di quei liberali. 53 Si ricordi che il seggio, poi ceduto al comune di Corato, era emblematicamente il n. 1 della Camera, che era stato di Garibaldi, al culmine della “montagna” dell’estrema sinistra, quasi a simboleggiare un trait d’union fra Montecitorio e il paese. 227