MANOLA FALLENI
NELL’OMBRA DI BACU
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D
edicato ad Antonio che nel
suo viaggio mortale è riuscito a
colmare il “grande spazio” lasciando
di sé ricordi e frutti che non cesseranno
mai di esistere.
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NELL’OMBRA
DI
BACU
MANOLA FALLENI
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La solitudine è una silenziosa tempesta
che distrugge i nostri rami secchi,
e tuttavia spinge le nostre radici viventi a fondo
nel cuore vivente della terra vivente.
KAHLIL GIBRAN
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Uno.
Si voltò e ciò che vide non le piacque.
Quanto di quel che facciamo è frutto di scelte consapevoli? Spesso il percorso che
seguiamo è segnato da eventi che evitiamo e ciò che resta è figlio di puro istinto di sopravvivenza. Quanto decidiamo di ciò che viviamo?
Immobile, il pensiero fermo, la volontà priva di respiro. Le solite cose di sempre, i
giorni scanditi da abitudini e quotidianità. Ma era proprio quello che voleva? Si era mai
chiesta ciò che veramente desiderava? Aveva sempre saputo ciò che non le piaceva, ma la vita
era veramente solo rifiuto?
Aveva bisogno di emozioni, di passioni: dove cercarle? Era ancora in tempo, ora che
molti anni della sua vita erano ormai trascorsi? Doveva smettere di sperare, rassegnarsi alla
sua inutilità e continuare a trascinare i suoi giorni, o credere ancora che qualcosa poteva
cambiare?
Clara è una donna intelligente, ancora piacente e questo lo vede negli occhi degli uomini
che incontra, anche se non vi si sofferma mai. Da troppi anni non si è più innamorata, nè di
un uomo, nè di un’idea e neppure di se stessa.
I lunghi capelli neri, il corpo snello e slanciato e le mani, dalle lunghe dita, sanno
muoversi sui tasti creando dolci e struggenti melodie. Da quanto tempo però non carezza più
una tastiera?
Si era ritirata in quel posto stupendo, incassato nella verde baia e circondato da alberi
che declinavano sul mare, allontanandosi da clamori e mondanità e dall’alienante distrazione del frastuono cittadino. Aveva venduto tutto il patrimonio ereditato per vivere in quel
piccolo borgo, pensando che fosse tutto ciò che desiderava.
Tutte le mattine il profumo del sole la sveglia e il canto del giorno le ricorda che la notte
è finita e con essa anche ogni illusione si dissolve. I sogni a rammentarle che la realtà è ben
diversa.
Come ogni giorno, esce sulla terrazza per sorseggiare il suo caffè. La fresca luce dell’alba le bacia gli occhi, ma non riesce a diradare il velo che offusca il suo sguardo. Poi un
rumore improvviso, insolito per quel luogo remoto e solitario, la distoglie dai tristi pensieri.
Un fruscio ripetuto, come se qualcosa o qualcuno smuovesse le siepi. “Forse è Cesare: è
sempre in giro quel birbante!”
Concentra lo sguardo nel punto da dove è provenuto il rumore, ma niente si muove: solo
la brezza mattutina e il gracchiare dei corvi e Cesare che miagola dietro di lei per chiedere
coccole o cibo, “difficile capire ciò che veramente vuole, ma che importa, è così
facile e piacevole assecondare i suoi piccoli desideri” e così dimentica quel breve
fruscio.
Sotto la doccia riesce a godere del piacere dell’acqua che scorre sul corpo. Indossa il
costume e scende al mare. Il libro, che da troppo tempo si porta dietro, rimane, come ogni
volta, chiuso sulla sabbia. Si stende, assapora la lieve carezza dei raggi, socchiude gli occhi e
ricordi lontani, evocati dai sensi che quel giorno risveglia, lentamente riaffiorano.
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Due.
La spiaggia non era la stessa, ma quella di una lontana isola nel mar dei Caraibi.
- Muoviti Clara, non siamo venute qua per oziare!
- Lo so. Ancora cinque minuti, ti prego, è così bello qui!
- Andiamo pigrona o cominceranno senza di noi! Non voglio perdermi niente di
questa esperienza.
- Va bene brontolona, andiamo!
Lucilla, la figura esile, i capelli corti e chiari e una manciata di lentiggini a contorno di
un naso sbarazzino, è molto giovane, quasi una bambina, ma con le idee chiare e gli
ideali supportati dalla giusta passione per attuare in concreto principi di giustizia e libertà. La sua tenacia e la sua determinazione sorprendevano sempre chi, superficialmente,
si limitava a valutarne l’aspetto esteriore.
Era di moda all’epoca fare le impegnate, ma Lucilla ci credeva davvero e col suo
entusiasmo aveva contagiato anche me, che fino ad allora ero vissuta con l’idea che le
uniche cose che contavano fossero la famiglia, il bel mondo, le belle cose, la carriera, un
marito prestigioso e le conoscenze giuste. Averla incontrata era stato fondamentale,
non solo avevo conosciuto una persona davvero speciale, ma ero stata proiettata in una
realtà per la quale non avevo mai mostrato interesse se non al di fuori di me.
Bacu: paese dalle mille contraddizioni, ma anche messaggio di forte speranza. L’esempio reale che è possibile opporsi all’invasione di grandi potenze, con la lotta, la tenacia, la
forza e la fede; la fede nella giustizia e nell’eguaglianza di tutti gli uomini.
I miei mi credevano in una capanna di lusso, ospite di alcuni amici che vivevano in
uno sperduto atollo nell’oceano indiano. Non era difficile farglielo credere, si fidavano di
me e mai avrebbero pensato che potessi interessarmi a qualcosa di diverso. In fondo
conoscevano ben poco di ciò che era e pensava la loro unica figlia e, ad essere franchi,
anch’io non ne sapevo granché.
In quella primavera si delineò il mio destino ed io lo accettai, come ero sempre stata
abituata a fare, senza rendermi conto che, ancora una volta, non avevo scelto, ma erano
stati gli eventi a decidere per me.
Andres: alto, snello, la pelle ambrata come il miele, l’incedere sicuro ed elegante, gli
occhi neri e profondi, che a fatica riuscivano a nascondere ciò che la sua coscienza
provava. Mi aveva colpito fin dal primo momento. Fin da quando, entrando in quel
grande salone senza pareti, col tetto di legno e per pavimento foglie di banano, lo avevo
visto. Lui era lì, in piedi, al centro, e tutta quella gente attorno. Sembrava impossibile che
fossero così tanti, perché il silenzio era immenso, quasi solenne. Si sentiva solo la sua
voce: calma, calda, rassicurante, a tratti un po’ rauca, ma solo quando l’emozione riusciva a tradirlo.
Il progetto comprendeva la costruzione di un reparto di maternità nell’ospedale che
stava già funzionando attivamente ma che ancora doveva essere ampliato per diventare
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completamente efficiente e non era facile lavorare in quel clima: la rivoluzione si era da
poco conclusa ed alcuni sparuti gruppi ancora non avevano accettato la sconfitta. Anche se erano isolati e sotto controllo, bisognava comunque stare sempre all’erta perché,
in alcuni casi, potevano rappresentare un pericolo.
La sua presenza, da sola, bastava a tranquillizzare gli animi e, anche se l’allarme
scattava, sapevamo di poter contare sempre su di lui e sui tanti compagni che avevano
speso la giovinezza e la vita stessa per costruire la libertà e per dare dignità ad un popolo
che se l’era conquistata con forza e coraggio.
La sua personalità e la sua figura mi avevano affascinato all’istante ed in seguito
ancora di più le sue parole, i suoi pensieri, le sue azioni ed i suoi insegnamenti. Ero
diventata la sua allieva devota e con lui ero cresciuta, e i concetti e i principi nei quali
avevo creduto fino ad allora mi apparivano così poveri e gretti che risucivo solo a
vergognarmene. Anche se adesso erano totalmente trasformati e plasmati da quelle
nuove esperienze, non sopportavo l’idea di averli comunque provati.
Col tempo anche lui aveva notato i miei cambiamenti: ero diventata ben presto una
donna, forte, decisa e coraggiosa e, in molte occasioni, avevo partecipato a missioni
importanti e rischiose.
L’amore era esploso una notte, complici la paura, l’affetto e la stima. Non so se
stavamo proteggendoci a vicenda. So solo che il desiderio ci aveva travolti e in un
attimo c’eravamo solo noi, ed io mi sono persa nel suo corpo e nella sua mente.
Era una calma sera e stavamo passeggiando sulla spiaggia, poco distanti dal campo.
Camminavamo tranquilli, per compagna la luna che illuminava le mangrovie che scendevano al mare fino a lambirne la riva.
Ogni tanto il lavoro pressante ci consentiva quei rari e preziosi momenti di pausa
che ci piacevano molto e nei quali riuscivamo anche ad essere (grande linfa vitale)
spensierati.
Stavamo scherzando e giocando, prendendoci in giro come bambini, quando li
abbiamo visti. In lontananza si scorgevano alcune figure maschili che, con fare sospetto,
sembravano dirigersi verso di noi. Istintivamente allarmati, ci siamo stesi a terra e
acquattati a ridosso di una piccola duna. Non sapevamo chi fossero ed era meglio non
fidarsi. Ci stringevamo in quell’abbraccio forzato e il timore del possibile e imminente
pericolo ha facilitato ed accelerato gli eventi, contribuendo a far prevalere, perfino sulla
prudenza, il desiderio di sentirci vivi. La sorpresa di ciò che stavamo provando ci aveva
fatto perdere il contatto con la realtà, ma per fortuna l’incoscienza era stata compensata
dal caso, che aveva portato quegli uomini lontano da noi.
Ormai non potevamo più nascondere i nostri sentimenti, ma la cosa non aveva
meravigliato nessuno. Eravamo stati gli ultimi ad accorgersi di quello che ci stava accadendo.
Il nostro rapporto cresceva e si consolidava, così come crescevano gli impegni e i
mille progetti da realizzare. I volontari arrivavano da tutte le parti del mondo. Lavoravamo giorno e notte. Era bello collaborare tutti assieme con entusiasmo e convinzione. Vi
erano momenti di tensione e stanchezza, ma il desiderio di sconfiggere definitivamente
le ingiustizie era tanto da farci sentire pieni di energia, che esprimevamo non solo nel7
l’impegno ma anche nel desiderio e nella voglia di vivere. Alle riunioni organizzative ed al
duro lavoro si affiancavano grandi feste dove si ballava, cantava, dividendo ogni cosa
che avevamo. Eravamo spesso in mezzo alla gente, alla loro vita, ci contagiavamo a
vicenda e poi eravamo così giovani e ci sentivamo invincibili, come se niente e nessuno
mai avesse avuto il potere di fermarci.
Un maledetto giorno però non era più tornato. Nessuna traccia di lui. Erano state
fatte ricerche e indagini in ogni direzione, ma tutto era stato vano. Doveva essere
accaduto qualcosa di grave, oppure doveva esserci stato un valido motivo perché sparisse senza informare nessuno, perchè questo non era un comportamento che gli apparteneva, mai avrebbe abbandonato la sua gente in silenzio e senza una spiegazione. Forse
non poteva comunicare o forse dovevamo solo pensare al peggio? Mi sembrava di
vivere in un incubo. Troppo tempo era trascorso senza sue notizie e, anche se nessuno
lo diceva apertamente, temevamo che potesse essere stato ucciso. Andres aveva parecchi nemici. Con la vittoria della rivoluzione erano molti coloro che avevano visto dissolvere il loro gretto dominio. La maggior parte di loro erano stati esiliati ma alcuni erano
rimasti, personaggi ambigui e senza scrupoli, segretamente collusi con le più alte forme
di potere straniero.
Se ciò che temevamo fosse veramente accaduto, non avremmo mai più ritrovato il
suo corpo, lo avrebbero fatto sparire in modo da occultare ogni prova. Senza cadavere
non esisteva omicidio e purtroppo non era la prima volta che capitava.
Erano stati giorni oscuri. Niente faceva la differenza, nè il giorno nè la notte, tutti
uguali, vi era solo una lunga linea piatta, l’assenza assoluta. La mente svuotata.
Dover ricordare ciò che era accaduto era insopportabile e il corpo, non potendo
sostenerlo, mi aveva abbandonato. Dopo lo sgomento l’oblio si era impossessato di me
e a niente serviva sapere che vicino avevo affetto, solidarietà e amicizia. Non reagivo
neanche al fatto che stavo solo diventando un peso in un luogo dove i miei problemi
non avevano alcun senso, ma non c’era niente che mi scrollasse o che mi desse la forza
di ribellarmi a quel dolore, ciò che rimaneva di me era un involucro vuoto e privo di vita.
Poi il miracolo. Come ormai da tempo, stavo seduta su quella sedia, dondolandomi
per ore ed ore guardando fuori dalla finestra con lo sguardo perso nel niente, aspettando chissà che cosa, chissà chi.
È entrato nella stanza, gridando con quella sua vocina:
- No tengo nada! No tengo nada!
Le sue parole escono così veloci che si fatica a distinguere ciò che dice.
È un pezzettino, nero come il carbone ed è spaventato. Corre, cercando di nascondersi dietro di me, con Ramon che lo insegue. Piange e strilla. È molto piccolo, forse
quattro, cinque anni. I riccioli scomposti gli ricadono sulla fronte. Le lacrime che rigano
il volto lasciano una scia caffellatte sulle guance nere ed atterrano su una banana che
stringe fra le mani.
Poi quegli occhi, pungenti come spilli, si piantano nei miei:
- Stai male? Cosa hai fatto? Sei cascata?
Gli carezzo dolcemente la testa e lo stringo a me, cercando di consolarlo e proteggerlo da Ramon che urla e borbotta.
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- Che c’è Ramon, che mai sarà successo?
- Quel demonietto! Entra sempre di nascosto e pretende di fare quel che vuole. Per
quella banana ha distrutto la cena che avevo preparato. Ora che mangiamo? Se ti prendo…!
- Dai Ramon, vediamo che si può fare!
In quel momento Ramon si blocca, come se solo allora si fosse reso conto che ero
risuscitata come se quel buio periodo non fosse mai esistito. Non muove neanche un
muscolo, le braccia a mezz’aria e la bocca spalancata. Ramon è un brav’uomo e si da
molto da fare al campo, ma con i bambini proprio non ci sa fare!
- Guarda che rischi di mangiarti qualche mosca! Forza! Andiamo in cucina e tu
piccolo vieni con me e mangiati pure quella stupenda banana. Tanto ormai è tua!
Lo prendo in braccio. Il corpo esile come uno scricciolo e le gambe che sembrano
due ramoscelli. Mi si stringe il cuore: “Ma che ha questo bambino? Qui più nessuno
patisce la fame”.
Intanto Ramon, ripresosi dallo stupore, mi abbraccia e sembra aver già dimenticato
il malfatto.
Ci dirigiamo tutti e tre in cucina e ci sediamo attorno al grande tavolo.
- Come si chiama? Chi è? Che ha fatto?
- Calma! Calma! Lo abbiamo chiamato Perrito perché è stato trovato nel bosco
dove divideva il cibo e la cuccia con un gruppo di cani randagi. Spaventato, al vederci ha
urlato delle frasi sconnesse, però sapeva parlare, quindi non doveva essere molto che si
trovava lì. Ma non ha saputo o voluto raccontare niente. Sono pochi giorni che è qui ed
è un animalino selvatico, non si fa toccare o meglio, non si faceva toccare da nessuno.
Mangia solo se ruba il cibo e ormai è diventato un espediente assecondarlo, visto che
solo così riesce ad alimentarsi. Lavarlo poi è un’impresa non da poco e… si vede!
Nel frattempo, lentamente, anch’io mi ero resa conto che quel torpore che bloccava
mente e corpo era magicamente svanito. Quanti giorni o mesi erano passati? Mi sembrava un tempo indefinito. Come avrei fatto a vivere senza di lui. Senza la sua presenza
mi sentivo una nullità. Era lui la mia guida, il mio maestro, il mio amante e la mia stessa
vita. Mi sentivo come se avessero amputato una parte vitale del mio corpo.
I pensieri interrotti da una vocina.
- Cosa fai? Andiamo fuori? - Perrito mi tende la mano con la supplica negli occhi.
- Dove vuoi andare?
- Fuori, nel sole.
Sa ciò che vuole e il fatto che in un bambino così piccolo ci sia così tanta determinazione mi turba.
- Va bene, andiamo. Vuoi dirmi come ti chiami?
Un attimo di silenzio, ma poi continua assecondando il suo obiettivo:
- Dai, vieni, andiamo! Non voglio stare qui, vieni con me.
Non insisto e ci dirigiamo verso l’esterno. Camminiamo mano nella mano e in
silenzio. Perrito sembra sapere dove andare.
Proseguo sicura, quasi abbandonandomi a lui, fino ad un piccolo sentiero che
imbocchiamo inerpicandoci sulla montagna. Non so quanto abbiamo camminato. Sta
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calando la sera e comincia a piovere. In quelle condizioni con è prudente procedere oltre
ed invece continuo a seguirlo come rapita. Quelle gambette nude, i piedini scalzi e il
desiderio di farmi conoscere un segreto.
La pioggia aumenta e le nubi si stanno addensando nere e preoccupanti. Incuranti
del diluvio che si sta abbattendo su di noi, continuiamo ad avanzare verso la nostra
meta. Ma quale?
In lontananza una piccola casa di legno e foglie di banano. Era là che eravamo
diretti.
- Chi abita qui? Conosci questo posto?
Perrito non risponde e continua a camminare stringendo la mia mano. Di fronte a
quella piccola porta ci siamo fermati. Nessun rumore, nessun movimento. Poi, cautamente, spingo la porta, che cede alla mia pressione con un sinistro cigolio. Mi fermo,
quasi spaventata da quel rumore e un’inquietudine insidiosa si impossessa di me.
Non riesco ad andare oltre. Non capisco bene il motivo ma non oso varcare quella
soglia. Perrito nel frattempo mi aveva oltrepassato. È davanti a me e, spalancando la
porta, entra deciso ed io non posso far altro che seguirlo. Al momento il buio non mi
consente di vedere, ma gli occhi ben presto si abituano e, lentamente, comincio a
distinguere le cose che occupano quella stanza. Un povero tavolo, due sedie, resti di cibo
in piatti di coccio. La puzza mi aggredisce, ma continuo a guardare ovunque. In un
angolo c’è qualcosa che attira la mia attenzione. Uno straccio giallo. Non so perché, ma
è qualcosa di familiare. Con timore mi avvicino e guardo meglio, lo prendo, l’osservo.
“Nooo! Ti prego...!” Vi sono buchi e macchie scure e quella scritta inconfondibile
“El Frente” e sotto, piccolo piccolo “Andres”. Un urlo mi esce dal petto, ho bisogno di
aria. Esco e comincio a correre, stringendo quel cencio tra le mani. Mi sembra che
qualcuno flagelli le mie carni e non è solo colpa della pioggia che impietosa continua a
rovesciarsi su tutto ciò che incontra. Perrito mi corre dietro. Quando mi fermo lo afferro per le spalle e comincio a scuoterlo.
- Cosa sai? Perché mi hai portato qui? Chi sei?
Lo scuoto e urlo come un’ossessa.
Perrito è terrorizzato e divincolandosi allenta la mia stretta e corre come un fulmine
il più lontano possibile da me. Lo inseguo, immediatamente pentita per averlo aggredito
in quel modo “È così piccolo! Idiota! Ma cosa vuoi che sappia!”
- Perrito! Perrito! - lo chiamo disperata.
- Aspettami, non voglio farti del male.
Ma lui continua a correre e si arrampica sulle rocce come un capriolo, come se quelle
pietre non fossero così sconosciute per lui.
- Aspettami!
Non ce la faccio. I miei passi si fanno più lenti, il cuore martella nelle tempie e nelle
orecchie e la pioggia, che insiste a cadere senza sosta, rende scivoloso il terreno. Poi,
improvviso, dall’alto, un boato, e sassi e terra ci franano contro.
- Riparati Perrito! Stai attento!
Un istante dopo comincio a rotolare insieme a quei massi in una capriola senza fine
e dopo, il buio assoluto.
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Tre.
A questi ricordi mi scuoto, guardo intorno e tutto è immutato. La baia, la casa, gli
alberi, il mare, la spiaggia e la mia tristezza infinita.
Quel giorno mi avevano trovata viva per miracolo. Perrito non fu mai ritrovato, era
stato inghiottito dalla montagna, come quella casupola e tutto ciò che vi era dentro,
come quella maglia, la sua maglia.
Mi hanno curato nel corpo, risanato completamente, ma la mente era addormentata.
I miei vennero a prendermi e trovarono ben poco della loro “bambina”.
Tornata a casa sono rimasta in stato catatonico per alcuni mesi. Quando, lentamente, ho cominciato a riprendermi, sentivo che niente sarebbe più tornato come prima. La
vita in quella casa ormai non mi apparteneva più e l’ambiente intorno mi era insopportabile. Di Andres e Perrito nessuno seppe più niente ed i compagni pian piano smisero
di farmi avere notizie. Lucilla era partita da Bacu e le vicende poi ci avevano allontanato.
Non ero mai riuscita a raccontare ciò che avevo visto e vissuto quell’ultimo giorno.
Era tutto rimasto in quella mente, ormai disabitata e priva di vita.
I miei mi colmavano di attenzioni ma non mi hanno mai fatto domande e, nel
tempo, cercando di proteggermi, hanno fatto in modo che ogni contatto svanisse.
L’apatia, che allora albergava in me, non mi consentiva di oppormi e Bacu era gradualmente regredita, inghiottita ormai da una piccola scatola nera, tanto che spesso faticavo
a credere che quegli eventi fossero realmente accaduti.
Mi ero pian piano chiusa in una cupola ovattata, fatta di tristezza, di solitudine e di
indifferenza. Mi pareva che niente avesse valore. Solo un’immensa fatica che rendeva
insostenibile la vita.
Il sole è calato e l’aria frizzante mi spinge a rientrare. Come spesso accade, ho
dimenticato di pranzare ed ho una fame da lupi.
Imbocco il vialetto e cammino a passi svelti. Poi, improvvisamente, di nuovo un
fruscio che mi riporta allo stesso rumore avvertito la mattina. Mi fermo e guardo intorno: niente, solo il frinire delle cicale. “Forse è il vento”, ma non si muove neanche una
foglia!
Di nuovo Cesare vicino a me che si strofina alle gambe e miagola dolce e tenero.
- Vieni Cesare, andiamo a mangiare. È l’ora, per tutti e due.
Entro in casa con Cesare che mi precede, ancora assorta in quei pensieri: “Ma cosa
ho fatto in questi trenta anni? È come se il tempo mi fosse scivolato addosso.”
Un rumore proveniente dalla cucina mi scuote.
- Chi c’è? C’è qualcuno? - chiedo ad alta voce, udendo però solo il suono delle mie
parole.
Uno scalpiccio e la porta dell’ingresso che sbatte. Mi affretto verso la cucina e trovo
il caos totale e il frigo completamente razziato. “Cristo! Ma qui c’è qualcuno che è
affamato!” Prendo la torcia e mi precipito fuori ma niente si muove. Scruto nel fascio di
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luce ma tutto è fermo e silenzioso come sempre.
Non ho paura. La solitudine mi rassicura, così come riusciva a rassicurarmi la sua
voce o il sogno di lui. Spesso reale e irreale si confondono e, prima di perdere il contatto
col presente, abbandono ogni sensazione. È proprio per questo che non sono più
riuscita a provare passioni, fino a maturare la convinzione che ciò fosse giusto, ma forse
perché solo così riuscivo a proteggermi dal mondo.
“Chi sarà stato?” Esamino ogni traccia come un segugio: pezzi di cibo, piatti rotti,
sedie rovesciate e... un’orma sul tappeto “fuori l’erba è bagnata per la guazza”. È visibile
una leggera impronta di scarpa maschile. “Forse qualcuno in difficoltà...” Avevo saputo
di sbarchi di clandestini ma erano tutti avvenuti a molti chilometri da qui.
Chissà perché un brivido mi attraversa la schiena: è paura? “No! Forse sta solo
arrivando il freddo.” Mi infilo una maglia e comincio a pulire e riordinare. Una volta
sistemato tutto mi preoccupo di verificare che ogni porta sia ben chiusa. “Forse è bene
cominciare ad essere prudenti.”
Non ho voglia di dormire stasera. Mi siedo davanti al piano.
- Amico mio, ti ho un po’ trascurato in questi anni, vediamo come stai.
Alzo il coperchio scoprendo il suo sorriso. Sfioro i tasti che sembrano non aver
perso l’accordatura.
- Che bravo sei stato!
Pian piano entrambe le mani lo accarezzano fino a muoversi in armonico suono.
Le note escono come per incanto e con loro anche la mia tensione lentamente
fugge.
Continuo a suonare per ore, fino a quando il sonno mi suggerisce che è meglio
andare a riposare. Mi alzo e mentre mi dirigo di sopra dalla finestra mi pare di scorgere
qualcosa ma, mentre mi avvicino, mi convinco che è solo suggestione. “Una bella tisana
mi aiuterà a scrollarmi da questa giornata!”
La mattina seguente scendo in paese. Il vociare di alcune persone attira la mia
attenzione; sento che parlano seccati di un ennesimo sbarco.
All’edicola chiedo il quotidiano locale: “Sbarco di clandestini sulle nostre coste.”
Sembra che su quella carretta ci fosse un carico proveniente da Haitù.
“Un carico! Strano modo per definire quei poveri corpi ammassati l’uno sull’altro, in
attesa che almeno la prima delle loro speranze si realizzi, soffrendo indescrivibili privazioni fino a rischiare la vita. Quanti di loro non arrivano neanche a metà del percorso!”
Haitù è una delle isole più povere dei Caraibi. Si trova nello stesso arcipelago di
Bacu. “Ma come ha fatto ad arrivare da così lontano?”
Sembra che non siano riusciti a catturare gli scafisti e che alcuni passeggeri siano
riusciti a fuggire. Gli altri sono stati portati al centro di accoglienza più vicino, che dista
circa cinquanta chilometri da lì e lo sbarco è avvenuto ad almeno trenta chilometri dalla
mia casa.
Mi ricollego a quanto avvenuto la sera precedente: “Mio Dio! Poteva essere uno di
loro; uno degli scafisti, oppure qualcuno dei clandestini sfuggiti al fermo. Ma no! come
avrebbe potuto in così poco tempo percorrere tutta quella strada!?”
Non riuscivo ad immaginare chi potesse essere stato. “Qui si conoscono tutti!”
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Non andavo spesso in paese e non avevo molte relazioni però se ci fosse stato
qualche balordo in giro l’avrei comunque saputo. Gli abitanti non erano molti e la maggior parte di loro, ricchi benestanti in pensione, non avrebbero sicuramente permesso
che qualcuno contaminasse il loro bell’ambiente. In ogni modo la cosa non sarebbe
certo passata sotto silenzio.
Eppure qualcuno c’era stato!
Abbandono l’idea di denunciare l’accaduto. Istintivamente ritengo che è meglio
aspettare.
Faccio provviste di cibo e quant’altro necessario per non scendere in paese per un
bel po’ di tempo.
Non so perché, ma è da ieri mattina che ho come la sensazione che una presenza
mi accompagni come un’ombra e ancora non ho capito se è una sensazione piacevole o
no.
Nel rientrare a casa mi accorgo che Cesare è rimasto fuori. Mi avvicino alla finestra
e nell’ombra scorgo due occhi penetranti che mi fissano: un ricordo mi esplode nella
mente come un lampo. È stato un attimo, un battito di ciglia, ma osservando con
maggiore attenzione non vedo più niente.
“L’immaginazione a volte fa brutti scherzi!” Penso, cercando di sdrammatizzare.
Esco per chiamare Cesare:
- Micio, micino, vieni, la pappa è pronta. Cesare! Corri, miciotto mio!
Cesare si dirige rapidamente verso di me ronfando e trotterellando. Mi chiudo la
porta alle spalle e accendo lo stereo. Cerco un vecchio disco. “Accidenti! Ma dov’è
finito? Eccolo!”
La dolce voce di Katia Kardenal erompe nell’aria e richiama forti ed inconsce emozioni. Comincio a ballare e Cesare mi guarda curioso.
“Cosa starà pensando? Forse che la sua mamma è un po’ strana! Ma lui sa bene
come riconoscere chi è in grado di dargli amore ed attenzioni”
- Vero piccolino?
“Adoro il mio gatto, amo la sua tenerezza, il suo affetto. Mi affascinano la sua
capacità di vivere in totale sintonia con tutto ciò che accade, la sua autonomia che non
è indifferenza, la sua riservatezza che non è freddezza e l’intelligenza con la quale accetta
i suoi simili ed anche gli umani unicamente per quello sono, rifiutando con eleganza ciò
che non gli piace.”
Vede la pallina e la rincorre e con la zampetta la lancia nella mia direzione.
- Vuoi giocare topolino? - e gli rilancio la pallina.
Lo vedo fermarsi all’improvviso, con gli occhi spalancati e le orecchie dritte in
segno di allarme, che fissa qualcosa in alto dietro di me. Mi volto guardinga e intravedo
la figura di un uomo che si staglia nella penombra del vano della porta, ha un coltello in
mano e me lo sta puntando contro.
- Dammi tutto ciò che hai e non ti farò niente.
Parla un buon italiano con accento spagnolo. Si sposta verso la luce ed ora posso
vederlo meglio: è molto giovane, un ragazzino, avrà sì e no sedici anni, è molto alto,
scuro e riccio. I tratti sottili e gli occhi vivaci e spaventati, anche se decisi.
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Non riesco a muovere un passo. Mille pensieri affollano la mente immobilizzandomi. La sua minaccia però riesce a scuotermi e quell’agitare il coltello mi fa uno strano
effetto.
- Non ho molto in casa. Cosa vuoi? - La voce che trema, anche se cerco di controllarmi.
- Tutto ciò che hai. Soldi, gioielli e poi anche cibo e acqua. Muoviti, non ho molto
tempo e potrei spazientirmi.
Salgo in camera e prendo quel che ho: pochi soldi e pochi gioielli; antichi ricordi di
famiglia. Li metto in una borsa e prendo anche lo zaino.
Scendo, vado in cucina e rapidamente riempio lo zaino con quel che mi capita tra le
mani; pane, formaggio, dolci, frutta, acqua.
Metto tutto per terra di fronte a lui mentre in lontananza si ode una sirena che si
avvicina velocemente.
- Prendi e vai! Corri! Prima che arrivino!
Mi guarda sorpreso ma non esita, solleva ogni cosa ed esce di corsa. Nella fretta ha
perso il suo coltello che velocemente afferro e nascondo in un cassetto.
Chiudo la porta e riavvio il disco. Di nuovo quella dolce voce a rassicurarmi.
Suona il campanello. Tiro un forte respiro per recuperare la calma e vado ad aprire.
- Commissario Arletti - dice l’uomo mostrandomi il distintivo.
- Posso entrare?
- Prego! - mi sposto di lato, lasciandolo passare.
- Cosa posso fare per lei, commissario?
- Abbiamo avuto una segnalazione. Sembra sia stato avvistato un uomo sospetto
aggirarsi da queste parti. Volevo assicurarmi che tutto fosse tranquillo.
- Certo! Ma perché questo timore? Chi cercate? È pericoloso?
- Di preciso non lo sappiamo. Stiamo cercando alcuni uomini. Sono fuggiti, dopo
uno sbarco di clandestini avvenuto l’altra sera. Si suppone che due siano gli scafisti e gli
altri tre clandestini.
- Ma lo sbarco è avvenuto a trenta chilometri da qui!
- Sì, ma il mare è vicino e, per quanto ne sappiamo, avrebbero potuto raggiungere la
baia con un gommone. Stiamo controllando tutte le zone intorno. Mi raccomando,
signora, stia molto attenta. Certe persone non si fanno scrupoli, e per altre la disperazione può portare a gesti estremi. Le lascio il mio numero. Vive sola?
- Sì!
- Non ha paura ad abitare così isolata?
- No, commissario. La paura assale chi ama la vita - affermo con serenità, ma col
tono di chi non consente repliche, immediatamente pentita per essere stata troppo
confidenziale.
Mi guarda serio, il respiro trattenuto per un attimo e poi continua:
- Mi raccomando, non esiti a chiamarmi, in qualunque momento.
- Arrivederci commissario e grazie.
Chiudo, mi appoggio alla porta e lo sgomento mi assale. Non sto pensando a me,
ma a quel ragazzino, a quegli occhi. Sono turbata, è come se una moviola mi avesse
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rapidamente riportato a quel giorno, a quegli occhi che si infilavano nei miei scuotendomi dall’oscurità.
“Avrei potuto chiedere di più a quel commissario, era gentile. Se solo gliele avessi
chieste, mi avrebbe dato maggiori notizie. Ma non vedevo l’ora se ne andasse, tanto era
il timore di tradirmi.”
Mi ricordo del coltello e vado a prenderlo. Apro il cassetto e non appena è nelle mie
mani, un vortice m’inghiotte.
“Che è successo?” penso, quando nel riprendermi, mi scopro per terra.
“Devo essere svenuta!” Poi ricordo: “Il coltello.... dov’è?!” È lì, accanto a me. Il
manico rudemente inciso. Due iniziali incrociate, le stesse che Andres aveva inciso sul
suo: AC. “Non è possibile!” sono confusa, incredula, mi sembra di essere fuori da quella
stanza, fuori dal mondo. “Ma perché sta accadendo questo?”
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Quattro.
Mi sono vestita in fretta quella mattina e le ruote della vecchia bicicletta girano
veloci sulla discesa.
Devo fare presto, prestissimo. Da qualche parte avevo visto un Internet-point.
Scendo di corsa: “Haitù - centramerica”. Niente, solo notizie turistiche. “Ipocriti! Là c’è un
dramma in corso e a noi devono solo interessare spiagge deserte, mare turchese e verdi
palme! Che schifo!”
Continuo a leggere tra i mille indirizzi che il motore di ricerca ha selezionato, cercando un indizio, qualcosa che vada oltre la mera frivolezza della ricca vacanza tropicale.
Dopo averne scorsi un numero imprecisato, finalmente un nome che attira l’interesse e
che riporta lontano: “El Frente”.
Il dito esita, sospeso sul tasto del mouse: “Ma che ti importa ormai! È trascorso così
tanto tempo! Che vai a cercare? Lascia perdere!” Ma la mano sembra avere una propria
autonomia.
“El Frente: Haitù e Bacu, uniti in un fronte comune”. È una ONG italiana, in contatto
con Bacu ed assieme finanziano progetti di autosviluppo per supportare la popolazione
di Haitù.
L’emozione m’imperla la fronte “tutte queste coincidenze sembrano volermi portare in una direzione ben precisa, ma quale?” C’è un indirizzo e-mail; clicco e senza pensarci comincio a scrivere riempiendo lo schermo. Le parole scorrono fluide e senza incertezze. “Invio? Sì!” È fatta, ormai non posso più tornare indietro.
Dopo due giorni, aprendo la mia casella, trovo un messaggio: “Cara compagna...” e
di seguito tutte le informazioni richieste e infine un invito ad andarli a trovare.
Non esito, mi reco rapidamente a casa, metto poche cose in una borsa, preparo
provviste di cibo e acqua per Cesare e lo saluto, carezzandolo con affetto. “Ho come il
presentimento che non starò via per poco.” Avviso Matilde per chiederle di dargli un’occhiata.
Matilde è un’anziana signora che abita a poche centinaia di metri da me. Spesso ci
vediamo per fare lunghe passeggiate ma non appena i rapporti rischiano di diventare
più intimi, dirado quegli incontri e lei, molto rispettosa e discreta, non ha mai cercato di
forzare le cose ed è sempre disponibile e gentile. Forse più di quanto io meriti.
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Cinque.
Salgo in macchina, avvio il motore e parto. “Non ci vorrà molto. In circa quattro
ore dovrei essere a destinazione.”
Una volta arrivata cerco l’indirizzo e con grande facilità mi trovo proprio davanti
alla loro sede: un grande e antico palazzo. Parcheggio, scendo, una breve scorsa ai campanelli e suono.
Il portone si apre automaticamente e infilo le scale con trepidazione.
Spingo la porta e un via vai di persone mi investe, sono tutti molto giovani e non
solo italiani. C’è un gran movimento. Scrivanie, computer, cartine, libri, giornali, opuscoli
e telefoni che squillano in continuazione. Con soddisfazione osservo che sono molto
organizzati. Sono contenta della buona impressione, mi solleva dalla mia impetuosità.
Qualcuno mi chiede gentilmente di cosa ho bisogno. Mi presento e mi accompagnano dentro una stanza, accogliente e piena di luce.
- Salve! Siediti!
- Salve - rispondo a quella donna affabile e sorridente.
Sono bastati pochi secondi per riconoscerla.
- Lucilla?! - il suo nome pronunciato in un sussurro.
Lentamente si alza, quasi avesse timore di vedermi scomparire all’istante. Gli occhi
spalancati, quasi increduli, mi abbraccia e quel calore improvviso mi avvolge e commuove.
- Clara, mio Dio! Non oso credere che sei tu. Ma dove sei stata finora? Non abbiamo più avuto tue notizie. Avevo saputo dei tuoi, mi dispiace tanto, ma tu..., tu sembravi
svanita, non siamo stati in grado di rintracciarti. Forse avrei dovuto insistere, non arrendermi. Perdonami! Purtroppo in seguito gli eventi mi hanno completamente risucchiata. Come stai?
Continua ad abbracciarmi. L’emozione mozza il respiro, il cuore batte veloce e
sento che anche per lei è la stessa cosa. Le lacrime rigano il viso e i corpi vibrano in quel
ritrovato contatto.
- Quanto tempo! Fatti vedere! Quante cose avrai da raccontarmi!
Come al solito Lucilla è un fiume in piena. Gli anni non hanno modificato il suo
entusiasmo e la sua forza.
È splendida. “La mia Lucilla!” Ma non posso lasciarmi andare, non devo dimenticare lo scopo che mi ha portato lì.
- Lucilla, adesso non ho tempo per noi - affermo dolce, ma risoluta.
- Sono qui per avere notizie di Haitù. Che succede là? E quali sono i contatti con
Bacu? Ti prego, è importante, fidati, poi con calma ti spiegherò ma adesso prioritario
per me è “sapere”.
Lucilla sembra capire e con la lucidità che la caratterizza inizia a raccontare.
- Dopo che la rivoluzione a Bacu si era ormai radicata e le cose stavano procedendo
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come previsto, era intenzione estenderla anche ad Haitù. I compagni si sono trovati in
un territorio sconosciuto ed hanno pagato caro l’aver commesso gravi errori di valutazione. Non era Bacu, ma soprattutto non era la stessa gente. La corruzione si era
propagata ovunque e coinvolgeva ogni classe sociale ed il potere degli stati infami era
smisurato. L’unica cosa possibile era aiutarli dall’interno ed è per questo che è nata
questa ONG. Beninteso, non abbiamo perso le speranze ma per adesso occorre muoversi con cautela, a piccoli passi. Ti ricordi il nostro motto? Anche se è solo una goccia
nell’oceano, i cerchi che produce si allargano, arrivano lontano e propagano l’eco di quel
piccolo seme.
- Chi è andato ad Haitù?
- Sai Clara, non credo che tu conoscessi più nessuno. Purtroppo le persone più care
non c’erano più e molti dei volontari erano ritornati alla loro vita nel proprio paese.
Abbiamo però reclutato molti altri ragazzi e ragazze, soprattutto del luogo. Sono tanti i
giovani che hanno sentito il bisogno di esportare le loro stesse speranze e di alcuni non
conoscevamo la vera identità. Adottavano degli pseudonimi, era più sicuro per tutti. Ma
perché questa foga. Non puoi calmarti e spiegarmi?
- No Lucilla, adesso non ce la faccio. Ho solo bisogno di sapere. Ti prego, aiutami!
La disperazione nella mia voce ha convinto Lucilla a non farmi più domande e
continua a raccontare, spiegandomi come funziona tutta l’organizzazione. Non ha avuto il minimo dubbio, si fida di me e sembra che tutti quegli anni non ci abbiano mai
separate.
Mentre stiamo parlando una giovane donna irrompe trafelata nella stanza e, dopo
un veloce scambio di occhiate e un cenno di assenso da parte di Lucilla, comincia a
parlare:
- Lucilla, è accaduta una cosa spaventosa, Louis non è mai arrivato ad Haitù. Nessuno ha saputo dare spiegazioni, sappiamo solo che non si è presentato all’appuntamento.
Adesso che facciamo?
- Non lo so, Romina. Fammi pensare. Chi c’è a disposizione?
- Nessuno di noi è ancora in grado di agire ed i pochi addestrati sono tutti in
missione.
Nonostante si sforzi di non farlo trasparire, leggo lo sgomento negli occhi di Lucilla.
Immobile, immersa nei suoi pensieri. La testa che si muove lentamente da una parte
all’altra cercando una soluzione. Poi all’improvviso si volta verso di me.
- Ma sì! Tu Clara. Tu sei l’unica, al momento, in grado di aiutarci e ti assicuro che è
della massima urgenza e importanza.
- Io! Ma sei impazzita! Ti ricordo che sono passati trent’anni e sono accadute
troppe cose e poi non sono più una ragazzina. O te ne sei scordata? Tu non sai più
niente di me. Sono un’altra persona, come puoi fidarti? Sei un’incosciente!
- Ssssh! - mi zittisce sibilando - so quel che faccio ed anche tu lo sai! Altrimenti
perché saresti qui?!
- Ma io non so niente! Che cosa vuoi farmi fare? Sei totalmente pazza ed io ancora
di più, visto che sto qui ad ascoltarti!
Un sorriso appare sulle sue labbra. Conosce bene l’animo umano ed ha capito che
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sto cedendo. Ma perché sto cedendo? Che cosa sta per accadere?
- Lucilla ascolta, prima spiegami cosa dovrei fare e poi vediamo
- No Clara, se ne parliamo tu devi andare. Sai bene come funzionano queste cose.
Siamo rimaste giornate intere a studiare piani, cartine, nomi, la struttura del territorio. Ma ero proprio io quella che stava lì davanti a lei, a prendere nota di ogni sua parola,
a farle mie, a sentirle mie.
Mi ha messo un’arma in mano.
- Non preoccuparti, non dovrai usarla, ma in caso di necessità preferisco sapere che
potrai difenderti adeguatamente.
- Lucilla, ma stai delirando! Non voglio un’arma con me e poi non so neanche come
si usa!
- Basta togliere la sicura e premere il grilletto - mi fa vedere come fare - ma calmati,
ti assicuro che non dovrai usarla. Serve a me per stare più tranquilla. Questo involucro
sarà sufficiente a nasconderla ai controlli. Partirà con il tuo bagaglio e non dovrai preoccupartene più. Potrai servirtene solo se e quando sarà strettamente indispensabile. Ma
non accadrà.
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Sei.
Mi sentivo frastornata, ma la mattina seguente era già tutto più chiaro.
Sapevo dove andavo e volevo farlo, ma soprattutto sapevo perché. Adesso il motivo che mi aveva condotto lì si stava trasformando, ciò che importava era che,
assecondandomi, avevo ridestato ciò che era rimasto chiuso col ricordo di lui, dentro
quella scorza che gli anni avevano pian piano indurito, isolando ciò che invece continuava a pulsare. Le sue parole, i suoi esempi, il suo amore erano ancora con me. Solo lui non
c’era più, ma ciò che era appartenuto al mio passato mi avrebbe accompagnato per
tutta la vita. Non era più necessario rinnegare le meravigliose esperienze che quegli anni
mi avevano regalato.
Possiamo permettere al dolore di offuscare la mente sino ad impedirle di interpretare l’esistenza? Forse è necessario sforzarsi di vedere ed anche se non sempre è un angelo
a consegnarlo, occorre solo guardare oltre il velo della sofferenza per comprendere il
messaggio.
È ormai arrivato il giorno stabilito. Ad Haitù avrei dovuto affittare una macchina e
recarmi nel luogo fissato.
- Sei la persona giusta. Nessuno ti conosce, nessuno sa chi sei. Potrai facilmente
confonderti con tutti quei turisti ignari.
Lucilla mi stringe con forza e il suo affetto e la sua sicurezza mi infondono il coraggio di cui ho bisogno.
Qualcuno mi avrebbe contattato. Dovevo solo aspettare il segnale convenuto.
Ho lasciato le chiavi della mia casa a Lucilla, pregandola di occuparsi di Cesare. Le
ho anche consegnato una lettera, chiedendole di farla avere alla signora Matilde. Avevo
scritto poche righe di scuse e ringraziamenti. Mi sentivo un po’ in colpa con lei, ma
presto avrei saputo rimediare.
All’aeroporto vado da sola. Nessun legame con l’organizzazione deve trapelare.
Mentre attraverso quel lungo corridoio che mi avrebbe condotto all’imbarco, ripenso a quelle iniziali e continuo a camminare, con l’ombra di Bacu negli occhi ma nuove
speranze nel cuore.
In pista procedo sicura e un raggio riflesso in quei tondi vetri sfiora il mio sguardo.
Mentre salgo la scala d’accesso all’aereo che mi condurrà in quel lungo viaggio, mi
volto ed osservo con sollievo che, per la prima volta dopo tutti quegli anni, ho una
maledetta paura!
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