Bologna.
La città degli “esclusi”
di Giuseppe Scandurra1
INTRODUZIONE
Obiettivo di questo saggio è rappresentare quali sono, a Bologna, i luoghi dell’”esclusione sociale”
rileggendo alcuni dati emersi da una ricerca etnografica che ho condotto presso il dormitorio Massimo
Zaccarelli, meglio conosciuto come “Carracci”, da settembre 2004 a dicembre 2005, e verificando sul
campo come, dal dicembre 2005 ad oggi - data in cui è stato demolito il rifugio notturno in questione ad oggi, questi luoghi sono cambiati. L’obiettivo è dunque comprendere chi sono le persone che
frequentano questi territori abitualmente. Quali le pratiche di vita che agiscono in questi spazi urbani.
Intendo per luoghi dell’esclusione sociale luoghi pubblici per lo più attraversati da cittadini bolognesi
che non vengono riconosciuti come tali, a cui vengono, per esempio, negati diritti fondamentali, a
cominciare dal diritto di voto e di assistenza medica, in quanto sprovvisti di residenza.
Ovviamente queste persone, per lo più senza fissa dimora italiani e immigrati senza permesso di
soggiorno, non formano una “comunità” e sono escluse dalla cittadinanza per differenti motivi. Negli
ultimi due anni, questi attori sociali, inoltre, sono diventati, a leggere le cronache locali, il bersaglio
principale delle politiche “sicuritarie” agite dall’Amministrazione comunale. Tra queste persone, infine,
vi è anche chi sceglie di essere “escluso”, rappresentandosi come “altro” dai residenti bolognesi; per
esempio molti punkabestia, anche nativi di Bologna, e neolaureati in cerca di occupazione, provenienti
per lo più dalle principali città del Meridione, tutti fortemente critici nei confronti delle politiche
comunali di cittadinanza attiva, inclusione e welfare.
1. IL PROGETTO CARRACCI
Il Progetto Carracci nasce nel dicembre del 2000 quando, alla chiamata del Comune di Bologna per il
fronteggiamento dell’emergenza freddo, diverse imprese sociali ed enti di volontariato rispondono
impegnandosi a creare una rete per affrontare le urgenti necessità di riparo delle persone senza fissa
dimora che, in quel periodo dell’anno, non avrebbero trovato un posto presso le strutture esistenti in
città (Rete Carracci 20052). La Rete Carracci, composta da un insieme eterogeneo di associazioni, si
aggiudicò la convenzione per la gestione della struttura messa a disposizione dal Comune in via de’
Carracci 69/2 impegnandosi alla realizzazione di un servizio di accoglienza a bassa soglia3.
Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione - Università di Bologna.
Più di un riparo è il libro che la Rete Carracci ha realizzato per fare il punto del Progetto dopo quattro anni di attività.
3 Si intende per struttura a bassa soglia una struttura che soddisfa i bisogni primari delle persone senza fissa dimora.
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L’elemento indispensabile negli interventi per le persone senza fissa dimora venne da subito individuato
nella possibilità di proseguimento in un percorso di inclusione dato dalla opportunità di osservazione della persona da
parte di operatori provenienti da esperienze differenti4, dunque in grado di formulare diversi punti di vista e proposte di
intervento attraverso l’attivazione delle risorse disponibili sul territorio (Rete Carracci 2005).
Il riparo notturno in via Carracci apre con una capienza pari a sessanta-ottanta posti letto, ma le
presenze gradualmente raggiungono una punta massima di centodieci posti letto, con un
avvicendamento di persone di oltre duecento presenze ogni anno. Nel quadro riassuntivo degli asili
notturni bolognesi, un dato meritevole di esame riguarda l’avvicendamento delle persone ogni anno: il
Carracci registra 203 presenze nel 2003 e 245 nel 2004. Gli ospiti del riparo notturno Massimo
Zaccarelli presentano un’età media di 32,8 anni, vale a dire la minore età media riscontrabile nei diversi
ripari notturni se si esclude “L”Isola che non c’è” – struttura chiusa l’anno scorso rivolta a persone
punkabestia5. Si rileva, inoltre, fin dall’inizio, un’elevata percentuale di persone con problemi di
tossicodipendenza e disagio sociale, il maggior numero in assoluto di immigrati, la più alta percentuale
di disoccupati ed una presenza significativa, pari al 24-26%, di persone con scolarità media, superiore e
universitaria. Infine, un’elevata presenza di ospiti provenienti da altre regioni (Rete Carracci 2005).
Nel giugno 2005 presso il riparo notturno Massimo Zaccarelli si tiene un seminario intitolato
Un'emergenza durata cinque anni: L'esperienza del progetto Carracci. A parlare sono buona parte dei soggetti
che compongono la Rete. Nel cortile del Riparo, ad ascoltare, ci sono anche numerosi ospiti della
struttura. Si parlerà, quel giorno, declinando tutti i verbi al passato poiché il Carracci, ormai è cosa certa,
verrà demolito entro l’anno, nel dicembre 2005.
L’edificio del riparo notturno, in effetti, era da mesi accerchiato da ruspe, muretti, binari: il Carracci era
l’ultima traccia di un quartiere, Navile, che, come molti altri quartieri della città, stava cambiando, in
quanto oggetto di un rapido e profondo processo di riqualificazione urbana.
Navile, il quartiere che comprende il riposo notturno in questione, il più esteso di Bologna, è grande
quanto Imola ed è oggi lo scenario di significative trasformazioni urbanistiche e sociali che lo fanno
assomigliare a una sorta di enorme laboratorio in continuo riassestamento. Qui vivono più di 60.000
immigrati di differente appartenenza nazionale. Nei prossimi anni sono previste profonde mutazioni
urbanistiche soprattutto in tre zone del quartiere: l’area dell’ex mercato ortofrutticolo, adiacente a via
de’ Carracci, dove verranno dislocati gli uffici comunali ed entro il 2010 è prevista la riqualificazione
4 Dell’équipe faranno parte, infatti, anche operatori “pari”, così chiamati perché provenienti da percorsi di vita in strada. La
loro presenza ha facilitato la comprensione dei bisogni, dei vissuti e dei comportamenti delle persone ospiti del centro di
accoglienza e agevolato l’interazione e il dialogo all’interno dell’équipe.
5 Oltre a L’Isola che non c’è e il Carracci, si potevano contare fino a dicembre 2005, a Bologna, altri dormitori quali la Casa
del Riposo in via Lombardia, il Centro Beltrame, l’Opera Padre Marella, il Rifugio in via del Gomito, le Strutture Madre
Teresa di Calcutta e via del Lazzaretto. I sociologi Maurizio Bergamaschi e Marco Castrignano, nel testo Città globale e città
degli esclusi, hanno ricostruito la storia di una di queste strutture, il Centro di Accoglienza Beltrame (Bergamaschi e
Castrignano 1998).
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della Stazione Centrale e la costruzione, già in corso d’opera, dei binari dell’alta velocità; l’area di Via
del Lazzaretto, dove è stata edificata la nuova struttura che ha sostituito il riparo notturno Massimo
Zaccarelli e sono previste diverse costruzioni abitative per studenti, oltre alla realizzazione del people
mover, che collegherà l’aeroporto cittadino con la stazione; una terza area, infine, Casaralta, oggetto di
specifici processi di gentrificazione, per via soprattutto del suo posizionamento di cerniera tra la
stazione e la zona fieristica, a seguito della dismissione industriale di numerose fabbriche oggi
abbandonate e popolate da senza fissa dimora e immigrati per lo più magrebini.
Attualmente la popolazione immigrata, solo in piccola parte senza casa, rappresenta circa il 10% della
popolazione del Navile, notoriamente considerato dai residenti bolognesi la Chinatown cittadina
(Fiorentino 2005)6. A via Barbieri, non distante da via de’ Carracci, per esempio, molti immigrati
passano le giornate sui marciapiedi, agli angoli delle strade (Whyte 1968). Sono tutte persone che
abitano nelle cantine dell’immobiliare Marzaduri e sono costretti, soprattutto d’estate, a stare all’aperto
per prendere aria. Il problema della casa è, soprattutto oggi, molto sentito al Navile, come in molte altre
parti della città (Tosi 1994). In questo quartiere, inoltre, la precarietà del lavoro è una realtà diffusa: le
fabbriche storiche, la Casaralta, la Minganti, la Sasib sono state chiuse o delocalizzate, e quelle ancora
attive sono in procinto di esserlo, come la Manifattura Tabacchi.
Ad oggi questo territorio, proprio perché oggetto di specifici processi di trasformazione e
riqualificazione urbana, risulta il più significativo per studiare la formazione di nuovi spazi urbani
popolati da un insieme di “bolognesi” non riconosciuti come cittadini a pieno diritto
dall’amministrazione comunale. Tutte persone che hanno in comune la difficoltà di trovare una casa – il
che spesso vuole dire anche non poter trovare un’occupazione -, spesso prive di reti sociali alle spalle e
in una condizione di rischio di possibile ulteriore deterioramento psichico, oltre che fisico.
2. LA RICERCA
Nel presentare questo lavoro, al cui centro c’è una ricerca etnografica7 condotta da me e dal fotografo
romano Armando Giorgini da settembre 2004 a dicembre 2005, non sarò certamente obiettivo.
Il mio metodo ha anche altri limiti […]. Se si vuole descrivere fedelmente il mondo del paziente non
si può essere obiettivi. Di questo mi scuso – entro certi limiti – affermando che lo squilibrio è però
dal giusto piatto della bilancia, poiché quasi tutta la letteratura professionale sui pazienti mentali è
6 Il mensile «Piazza Grande», di cui Jacopo Fiorentino, l’autore dell’articolo sulla Chinatown bolognese, è vicedirettore, è
realizzato dall’Associazione Amici di Piazza Grande e nasce a Bologna nel 1993 su proposta di un gruppo di lavoro
costituitosi all’interno della CGIL. Il primo numero venne diffuso il 14 dicembre 1993 come foglio di informazione sulla
vita di chi è in strada. Il giornale, all’inizio, era scritto da una decina di senza fissa dimora e dagli stessi veniva distribuito
nelle piazze bolognesi. In pochi giorni vennero vendute 4.000 copie e la ristampa di altre 7.000 venne esaurita prima del 6
gennaio 1994 (Barbieri e Tancredi 2006).
7 Parte di questo materiale è stato pubblicato nel libro Tutti a casa. Il Carracci: etnografia dei senza fissa dimora a Bologna
(Scandurra 2006).
3
scritta dal punto di vista dello psichiatra, ed egli è – socialmente parlando – dall’altra parte (Goffman
2003).
Per Erwin Goffman l’obiettività si può raggiungere solo riconoscendo le asimmetrie di ruolo, di
posizione sociale, di potere che danno una determinata impronta all’interazione sociale. Goffman era
consapevole che chi stava dall’altra parte rispetto agli esclusi deteneva una posizione capace di produrre
una versione ufficiale della realtà. Se vogliamo essere ricercatori obiettivi siamo allora obbligati a
mettere da parte questa versione e analizzare le pratiche culturali che regolano l’interazione sociale nel
contesto che abbiamo scelto di prendere sotto esame.
Nel presentare questo lavoro deve essere esplicito il presupposto di partenza, per cui qualsiasi gruppo di
persone sviluppa una vita personale che diventa ricca di significato, razionale e normale quando ci
avviciniamo ad esso, e che il solo modo di apprendere qualcosa su questi mondi altri dai nostri è
osservare e partecipare alle pratiche di vita quotidiana agite dagli attori sociali che li costituiscono: allo
scopo di far vedere il mondo dell’internato (Goffman 1969)8. Una comunità è una comunità, e così come essa
può apparire bizzarra a chi ne sta fuori, altrettanto risulta naturale, anche se sgradevole, a coloro che ne
fanno parte dall’interno. Il disagio e il disgusto della persona esterna che si cala in questo mondo,
semmai, può diminuire nella misura in cui lo studioso familiarizza con la concezione della vita di chi sta
esaminando (Goffman 2003).
Il lavoro etnografico, che è durato circa quindici mesi, e che ha avuto per oggetto lo studio delle
pratiche di vita quotidiana di un gruppo di ospiti del Carracci, ha preteso fin da subito di rivolgersi alla
società civile e alle istituzioni locali per non rimanere prigioniero di una autoreferenzialità accademica.
Da una parte, doveva essere inteso come campagna di sensibilizzazione e di promozione della
conoscenza delle realtà esplorate, al fine di superare pregiudizi e paure dovuti in buona parte a una
difficoltà di comunicazione tra i senza fissa dimora e il resto della cittadinanza, e alla mancanza di una
corretta informazione sulle loro storie, sulla loro vita quotidiana, sul loro modo di pensare se stessi e il
contesto dove vivono, sui percorsi che li hanno condotti alle condizioni presenti. Dall’altra, doveva
avere come fine la produzione di dati e letture analitici che potessero essere utili per l’universo
cooperativistico e associazionistico che da anni si occupa del problema emarginazione sociale, per
migliorare la qualità dei suoi interventi e la natura stessa del suo lavoro.
Obiettivo dichiarato fin da subito era realizzare, dopo i quindici mesi di ricerca, una mostra, conclusiva
del lavoro etnografico, al fine di far capire alla cittadinanza quanto lo strumento fotografico fosse stato
necessario per raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissati da settembre 2004, ovvero la
promozione di forme di autorappresentazione che si avvalessero di strumenti originali e capaci di
8 Goffman è un sociologo empirico nel senso che ha fatto della metodologia dell’osservazione diretta e dell’interazione
faccia-a-faccia i suoi principali strumenti di analisi. Il suo contributo è aver individuato il campo dell’interazione come una
realtà autonoma, non coincidente con le macrostrutture sociali e nemmeno con le motivazioni individuali.
4
stimolare la consapevolezza di sé degli attori sociali coinvolti9. In questa direzione, il lavoro fotografico,
oltre che strumento di documentazione della condizione dei senza fissa dimora a Bologna, doveva
essere funzionale alla costruzione di rapporti di fiducia e coinvolgimento con circa trenta ospiti del
dormitorio Carracci. Strumento ideale perché avrebbe permesso ai senza fissa dimora con i quali
avremmo condiviso il l’allestimento della mostra, di produrre anch’essi, e direttamente, una loro
versione ufficiale della realtà.
I nostri nomi, secondo Pierre Bourdieu, la definizione del nostro gruppo sociale, ci identificano
fornendoci parte della nostra identità sociale (Bourdieu 1992). Le persone che chiamiamo barboni sono
una piccolissima parte dell’eterogeneo gruppo indicato con la definizione giuridica di senza fissa
dimora, mutuata dal francese sans domicile fixe. Dunque il nome barbone veicola una particolare
concezione dell’articolato fenomeno dei senza fissa dimora (Bonadonna 2001)10. L’idea di
vagabondaggio, nel corso della storia, anche quella più recente, è stata caratterizzata sempre da un certo
misticismo: il nomadismo come atto spirituale e liberatorio operato per libera scelta dall’uomo in
solitudine. Ma clocher in francese significa zoppicare, e anche l’etimologia di barbone è negativa, poiché
proviene da birbone, cioè delinquente, malfattore (Bonadonna 2001). La stessa barba, scrive il
ricercatore Federico Bonadonna, che può essere quella rassicurante di Babbo Natale, è percepita, se a
portarla è un barbone, come sinonimo di poca pulizia, scarsezza morale, devianza. Il significato mistico
del vagabondaggio si sostituisce così a quello negativo di barbone11.
Senza fissa dimora sono le persone che si trovano in uno stato di grave bisogno poiché non hanno una
casa, un reddito minimo, la possibilità di accesso ai servizi socio-sanitari, hanno rotto con la famiglia, gli
amici, e sono, spesso, come detto in precedenza, in una condizione di rischio di possibile ulteriore
deterioramento fisico e psichico. I barboni, estremamente minoritari in termini percentuali, si
caratterizzano, all’interno di questo gruppo, per la sindrome da accumulazione di cartoni, stracci e buste
9 La mostra, ricca anche delle foto realizzate dai protagonisti della ricerca, è stata realizzata presso lo spazio della Cineteca di
Bologna dal 19 gennaio al 12 febbraio 2006, finanziata dalla Provincia e patrocinata dall’Università, in particolare dal
Dipartimento di Scienze dell’educazione (Scandurra 2006).
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Il libro Il nome del barbone nasce da una ricerca sul campo condotta da Federico Bonadonna nell’arco di dodici mesi
nell’area metropolitana romana, raccogliendo storie di vita tramite supporti video e audio magnetici e attraverso questionari
strutturati per rilevare dati biografici – età, sesso, provenienza geografica – , le modalità di adattamento, gli itinerari urbani
che i senza fissa dimora seguono per recarsi al luogo del sonno, oppure del lavoro (Bonadonna 2001).
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Tra i nomi più usati, oltre quello di barbone o clochard, anche vagabondo, hobo, tramp, homeless, accattone, povero,
emarginato, etc. A proposito di hobo, nel 1923 la Chicago University Press pubblica The Hobo. Hobo, nel gergo americano, è il
termine che indica i vagabondi, i lavoratori senza fissa dimora. Il testo è frutto della ricerca condotta nei primi anni Venti da
Nels Anderson, allievo della Scuola di Chicago e hobo lui stesso. Oggetto del suo studio sono i vagabondi che popolano
Hobohemia, ovvero specifiche aree di Chicago chiuse tra West Madison e Jefferson Park. Tra 30.000 e 75.000 hobos
convergevano ogni anno in questo territorio, e Anderson ne descrive i caratteri, le spiegazioni, le contraddizioni gli stili di
vita in generale. Con un metodo nel quale si uniscono esperienza personale e approccio etnografico, con interviste,
osservazioni e materiale documentario (Anderson 1923). Nel volume Gli studi sulle povertà in Italia, Paolo Guidicini ha
raccolto le più significative ricerche condotte in Italia su questa particolare tematica (Guidicini 1991). Tra i saggi presenti nel
testo di Guidicini c’è quello di Luigi Berzano, Il Vagabondaggio nella metropoli, in cui il lo studioso classifica diverse tipologie di
senza fissa dimora (Berzano 1991).
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di plastica spesso cariche di rifiuti. Bonadonna, che ha condotto una ricerca etnografica di dodici mesi a
Roma studiando le pratiche quotidiane di un gruppo di barboni, afferma che nel loro assemblaggio
perenne di oggetti diversi questi ultimi ricordano il bricoleur levistraussiano (Lévi-Strauss 1964). La
definizione di senza fissa dimora comunica sempre un’assenza: che sia la dimora, il territorio oppure
l’ambiente, queste persone vengono classificate in base alla condivisione di ciò che non hanno (Bonadonna 2001)12.
Ma in generale, in termini antropologici, si può parlare di cultura della povertà?13 L’ipotesi che regge questo
saggio, ipotesi non solo mia, ovviamente, verte sul fatto che la vita praticata da tutte queste persone,
quella di strada, è una forma di adattamento all’ambiente urbano, una cultura della resistenza in grado di
elaborare una diversa percezione della realtà spazio-temporale. Non è dunque solo una forma di
emarginazione passiva e parassitaria. Adattandosi alla strada queste persone compiono e subiscono tre tipi di
mutazione correlate fra loro: culturale, fisica, psicologica (Bonadonna 2001). Per Bonadonna, infatti, la
mutazione avviene a livello culturale in quanto queste persone violano il valore portante della nostra
società: la produzione economica.
Senza una dimora, inoltre, non è possibile una gestione sana del proprio corpo. I senza casa deviano
infatti anche una serie di norme igieniche e morali che regolamentano la nostra cultura. Adattandosi
all’ambiente urbano attraverso la violazione delle norme igienico-morali, queste persone subiscono
impotenti la mutazione del proprio corpo (Hugo 1862; Céline 1932)14. Il secondo tipo di mutazione infatti è
di carattere fisico (Bonadonna 2001). Vivendo per strada il corpo subisce trasformazioni profonde.
L’informatore di Bonadonna, un senza fissa dimora romano, racconta al ricercatore di avere una visione
generale del mondo composta da tasche di pantaloni, lacci e tacchi di scarpe, ovvero da quella serie di
dettagli che possono essere percepiti con tali insistenza solo esclusivamente adottando a lungo una
L’antropologa Sabrina Tosi Cambini, nel testo Gente di sentimento. Per un’antropologia delle persone che vivono in strada, sostiene
che lo stesso temine senza fissa dimora risente di questo modo di classificare queste persone. Tosi Cambini, che ha condotto
una ricerca di lunga durata alla Stazione S. Maria Novella di Firenze, ha preferito chiamare i suoi informatori, per lo più
persone che dormono nella stazione da diversi anni, uomini e donne che vivono in strada. La ricercatrice, nel testo, sottolinea
come le persone che ha incontrato durante lo studio etnografico fossero, all’opposto, ricche soprattutto dal punto di vista
relazionale. L’antropologa, anche per questo, è convinta che non sempre queste persone vadano reintegrate, poiché
dispongono di una loro vita, di una propria cultura, di un’altra ricchezza (Tosi Cambini 2005).
13
Da ricordare l’opera di Oscar Lewis, che trova una collocazione eclettica nel quadro dell’antropologia americana e in
quello più vasto dell’antropologia culturale. Il concetto di cultura della povertà, che l’antropologo ha usato alla fine degli anni
Cinquanta, ha subito fortuna. Lewis lo espone per la prima volta nel 1958 al Congresso Internazionale degli Americanisti a
San José. Ma vennero anche subito le prime critiche. Tra i chiarimenti che l’antropologo ritenne necessario fare a sua difesa,
ci fu la netta distinzione tra povertà e cultura della povertà. Se c’è una sola cultura della povertà, la povertà in generale può
riscontrarsi in qualunque forma di cultura. Ma, qualche anno dopo, l’antropologo fu costretto anche a chiarire che più che di
cultura della povertà preferiva parlare di sotto-cultura della povertà, e che non aveva voluto usare questo temine, almeno
inizialmente, perché poteva suggerire l’idea di inferiorità: La povertà diventa un fattore dinamico che intacca la partecipazione alla più
vasta cultura nazionale e crea una sotto-cultura per proprio conto. Si può parlare di una cultura della povertà, perché ha modalità proprie e porta
delle conseguenze distintive, sociali e psicologiche, per i suoi membri. A me sembra che la cultura della povertà non conosca confini rurali, urbani o
nazionali (Lewis 1973). Degne di nota, in questa direzione, sono anche le ricerche che Matilde Callari Galli e Gualtiero
Harrison, tra i primi studiosi in Italia di antropologia urbana, hanno svolto in Sicilia negli anni Sessanta al fine di far
comprendere ai più che quella degli analfabeti, ancora molto numerosi in quel periodo, è a tutti gli effetti una cultura poiché
possiede una propria percezione e rappresentazione spazio-temporale (Callari Galli e Harrison 1997).
14 Parte della letteratura francese ottocentesca, ma anche dei primi decenni del Novecento, risulta uno strumento utile
all’antropologo per la ricchezza delle descrizioni che autori come Hugo, Céline, Balzac hanno usato per raccontare, e
denunciare, la miseria dei loro tempi.
12
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posizione non eretta. Le fotografie scattate dagli ospiti del dormitorio Carracci, per esempio,
dimostrano come i senza fissa dimora hanno un rapporto con gli animali, essenzialmente cani e gatti,
decisamente diverso dal comune. Assumendo spesso una posizione accovacciata il volto, le labbra, la
bocca dei senza fissa dimora, entrano in contatto con il muso dell’animale, superando così, per
abitudine, una normale repulsione. Tutte le persone che ho intervistato, per esempio, il che conferma i
dati prodotti da Bonadonna relativi alla sua ricerca a Roma, hanno avuto esperienze dirette con parassiti
interni della pelle come pulci e pidocchi.
Ma è lo stesso concetto di abitare che muta nei senza fissa dimora. Nella struttura stessa del verbo
abitare è insita l’idea dell’abitudine. Il non-abitare significa dunque anche assumere abitudini altre, la cui
indagine rileva modalità diverse di comportamento all’interno di uno stesso contesto-socio culturale. E’
il punto di vista che cambia la prospettiva. I senza fissa dimora con i quali ha lavorato Bonadonna, per
esempio, dormono tutta la notte sugli stessi gradini di una chiesa che noi attraversiamo
quotidianamente, vivono questi ultimi orizzontalmente, dal basso. E’ la posizione del corpo, il fatto di
passare molto tempo seduti, sdraiati, accovacciati che consente di osservare il mondo da un’altra
angolazione e che muta le stesse prospettive (Bonadonna 2001). La strada muta la percezione della
realtà. Il terzo tipo di mutazione è infatti di carattere psichico. Psiche e ambiente, infatti, si condizionano reciprocamente
(Bonadonna 2001).
3. IL LABORATORIO FOTOGRAFICO
Il Carracci, da settembre 2004 a dicembre 2005, ha contato molti ospiti senza fissa dimora di nazionalità
non italiana. Noi, io e il fotografo, abbiamo per lo più costruito rapporti e coinvolto nella ricerca quelli
italiani, per lo più uomini, semplicemente per una ragione di praticità d’indagine15. Tutti gli ospiti del
dormitorio, poi, per quanto nessuno di essi sia nativo di questa città, sono bolognesi nel senso che
hanno fatto di questo territorio un punto di riferimento stabile. In generale, abbiamo intervistato e
fotografato persone che hanno scelto di vivere per diversi mesi in questa struttura assistenziale
notturna, ma anche senza fissa dimora che rifiutano i dormitori e preferiscono stare per strada.
Comunque tutti uomini e donne che conducono da tempo questa vita e ne sono profondamente
segnati. Lavorando in termini di reti abbiamo poi vissuto diverso tempo con senza fissa dimora che
hanno vissuto in altri dormitori e hanno avuto rapporti quotidiani con gli ospiti del Carracci. Il campo è
stato dunque inizialmente circoscritto al riposo notturno Massimo Zaccarelli. Solo successivamente
abbiamo allargato il nostro terreno di indagine focalizzando l’attenzione sui percorsi urbani che fanno
15 In generale, la situazione di molti senza fissa dimora non italiani ospiti del Carracci almeno fino al dicembre 2005, si
diversificava da quella dei nostri connazionali poiché questi, oltre a problemi comuni a tutti i senza casa, ne avevano, per
storie differenti alle spalle, di altri legati al permesso di soggiorno e il consequenziale rischio di essere rimpatriati. Per quanto
concerne le donne del Riposo ne abbiamo conosciute solo quattro durante i quindici mesi di ricerca. Concentrare il nostro
sguardo su di loro, come per gli immigrati, avrebbe voluto dire aprire campi di indagine che avrebbero meritato grande
attenzione. Una parte di queste donne sono prostitute e soffrono, per motivi diversi da quelli degli uomini, la vita in un
dormitorio.
7
quotidianamente queste persone, parlando con loro nei bagni pubblici, nelle mense, nelle biblioteche
cittadine, ma soprattutto in altre strutture di accoglienza per lo più diurne. In questi ultimi luoghi
abbiamo avuto modo di conoscere i loro amici, di sapere quali fossero le loro relazioni, come
passassero il tempo libero. Attraversando con loro la città, inoltre, siamo stati costretti a fare, prima,
una ricognizione dei luoghi dove alta è la concentrazione di senza fissa dimora, così, poi, da descrivere
queste aree e fare di Bologna, soprattutto il suo centro storico, oggetto di analisi antropologica
(Hannerz 1992; Sobrero 1992; Signorelli 1996).
L’allargamento del campo di ricerca infatti, dal Carracci alla città e di nuovo al Carracci, doveva seguire
il lavoro fotografico che non poteva che iniziare con dei ritratti impostati: l’ospite del Rifugio doveva
scegliere un luogo all’interno del Carracci che riteneva particolarmente significativo per sé, un
abbigliamento, l’espressione del viso. In seguito, il fotografo forniva una consulenza su come porsi
concretamente di fronte all’obiettivo, posizionava le luci e sceglieva l’inquadratura, la quale veniva
comunque illustrata e concordata prima dello scatto. Il lungo tempo di esposizione, in cui il soggetto
doveva mantenersi perfettamente immobile, doveva così conferire solennità al momento dello scatto e
quindi all’immagine realizzata. Poi gli autoritratti: sfondo fisso scelto o creato collegialmente dagli ospiti
del dormitorio da noi coordinati. Gli autoritratti sarebbero stati realizzati con un filo di scatto lungo sei
metri che doveva comparire all’interno dell’inquadratura in modo da rendere palese la natura
dell’immagine e il fatto che fosse stato il soggetto stesso a scattarla. La macchina doveva essere
sistemata su un cavalletto una volta per tutte, cosicché anche l’inquadratura fosse uguale per tutti i
soggetti. Per organizzare ciò prevedemmo fin da subito di organizzare serate evento in cui venisse
richiesto ai partecipanti e agli operatori del dormitorio di lavorare in gruppo per la predisposizione del
set.
Poi, spostando il terreno di indagine, iniziammo a pedinare gli attori sociali coinvolti nel progetto di
ricerca fuori dal dormitorio. Ecco l’idea del reportage rigorosamente in bianco e nero: questo non doveva
prevedere forme di coinvolgimento attivo dei soggetti da ritrarre. Il fotografo doveva ritrarre i soggetti
in vari momenti della loro vita quotidiana e ogni decisione di carattere tecnico o estetico doveva essere a
carico suo. Percorrendo insieme a loro la città l’idea fu quella di realizzare, in questa fase, anche delle
fotografie fatte dai partecipanti con macchine monouso: i partecipanti dovevano essere stimolati ad esprimersi
attraverso l’uso individuale del mezzo fotografico e a raccontare la propria quotidianità. L’oggetto degli
scatti doveva essere completamente libero. Il fotografo, infatti, fornì loro solo istruzioni tecniche di
base, canoni di carattere estetico e di costruzione dell’immagine: gli ospiti potevano così esprimersi
liberamente.
4. IL SERVIZO MOBILE DI SOSTEGNO
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Chi sono le persone al centro di questo saggio? Che luoghi frequentano a Bologna abitualmente? Il
modo migliore per rispondere a queste domande, almeno per me, è stato uscire con il Servizo Mobile di
Sostegno gestito dall’Associazione Amici di Piazza Grande, a cominciare da settembre 2004.
Il Servizio è attivo quattro volte alla settimana, ma anche tutti i giorni nei periodi di freddo più intenso
con precipitazioni nevose in città. Per ogni uscita la permanenza sulla strada è di quattro ore circa,
tempo che varia in base al numero di persone incontrate e alle necessità di queste ultime. Spesso il
contatto, infatti, si prolunga per raccogliere richieste di informazioni o di aiuto, ma anche racconti di
vita o sfoghi personali. La macchina del Servizio Mobile di Sostegno, che esce sia di giorno che di notte,
distribuisce ai senza casa che vivono e dormono per strada 5.000 chilogrammi di generi alimentari ogni
anno, e oltre 1.000 litri di tè e bevande calde distribuite per lo più in inverno. In macchina escono, a
turni, il responsabile del Servizio Mobile, due senza fissa dimora che vengono retribuiti 15 euro ad ogni
uscita, un volontario dell’Associazione, spesso anche operatori pari, tutti retribuiti con la stessa cifra.
Per ogni uscita è possibile contare una media di 60-70 contatti, e nel solo anno 2003 il responsabile del
Servizio Mobile di Sostegno segnalò almeno 6.400 contatti16.
Ancora vivo, tutt’oggi, è il ricordo della nostra prima uscita serale. A settembre 2004, dalle sette e
mezza a mezzanotte, chiediamo di poter salire in macchina. E’ il modo più semplice per conoscere i
luoghi di Bologna dove dormono i senza casa. Per capire, per esempio, che le persone che vivono in
determinati interstizi metropolitani hanno scelto quel territorio unicamente perché sotto terra ci sono
gli impianti di climatizzazione, dunque fa più caldo – cosa che succede nei pressi di una banca a via Ugo
Bassi, proprio nel centro storico, per esempio. L’attività consiste nel parcheggiare la macchina,
distribuire sacchetti di cibo preparati nella sede dell’Associazione, fermarsi a parlare con i senza fissa
dimora che si apprestano a riposare dentro cartoni o, alla meglio, sotto sacchi a pelo e coperte offerti
loro dalla sartoria degli Amici di Piazza Grande - attività commerciale gestita da una persona che ha
vissuto per tanto tempo sulla strada e finanziata dalla stessa Associazione. In queste uscite abbiamo
modo di conoscere diverse persone, italiane e non, che vivono sulla strada, le quali sono state cacciate
dai dormitori o preferiscono starne fuori. Tra i tanti ci sono anche quelli che sono nelle liste di attesa
per entrare nelle strutture di accoglienza notturna. Se molti si fermano a parlare, una volta distribuito il
sacchetto di cibo, altri stanno già dormendo; alle volte può capitare di incontrare queste persone anche
mentre consumano sostanze illegali o mentre si stanno prostituendo17. In questi casi l’operatore posa il
sacchetto per terra cercando di recare il minor disturbo possibile. Tra i luoghi più frequentati dal
Servizio ancora oggi ci sono i portici del centro storico bolognese nei pressi delle chiese, delle banche
Queste cifre sono leggibili nell’opuscolo Associazioni Amici di Piazza Grande stampato nel 2005.
I fenomeni di prostituzione a cui abbiamo assistito solitamente avevano come protagoniste donne che pagavano in natura,
offrendo il loro corpo, una dose allo spacciatore maschio. Alcuni operatori chiamano ciò prostituzione di serie c.
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illuminate, ma anche aree di cemento più periferiche sconosciute ai cittadini, poiché zone industriali
abbandonate o fabbriche dimesse - come nel caso del territorio del quartiere Navile.
Uno di luoghi fissi dove si ferma la macchina del Servizio Mobile è la stazione: la vettura viene
parcheggiata nei pressi dell’ala ovest della Stazione Centrale; si apre il bagagliaio dove sono stati caricati
i pacchi di cibo e di latte. La maggior parte dei senza fissa dimora che dorme presso i binari conosce
bene i turni del Servizio, dunque, quando si arriva con la macchina, ci sono già delle persone che
aspettano con ansia gli operatori18.
Prima della seconda uscita con la macchina, a ottobre 2004, insieme al responsabile del Servizio
chiediamo alla donna che gestisce la Sartoria di Piazza Grande se può darci delle coperte che hanno
richiesto tre donne senza fissa dimora romene che dormono sotto i portici in via San Felice, visto che
l’inverno arriverà presto. Mentre ci accingiamo a prendere le coperte da un sacco, Maria ci spiega quali
di queste vanno bene visto il periodo. Anni di esperienza sulla strada, infatti, le permettono oggi di
sapere quale deve essere il volume necessario e il materiale più adatto al fine di proteggersi dal freddo
quando si dorme sotto i portici in pieno autunno bolognese.
Il lavoro più interessante da notare quando si esce con il Servizio, non a caso, è quello che fanno i
volontari, spesso senza fissa dimora che svolgono l’attività per guadagnare quindici euro ad uscita:
Giulio19, una volta sceso dalla vettura, per esempio, era solito fare un primo giro della stazione.
Scendeva nei sottopassaggi e avvertiva molti senza casa dell’arrivo dell’autovettura carica di pacchi.
La cosa che ci stupisce è la facilità con la quale Giulio, in mezzo alla folla che è in procinto di prendere
un treno o uscire dalla stazione per raggiungere la propria abitazione, riconosce le persone come lui che
fanno vita di strada: Non li conosco certo tutti, molti li noto dalle mani e dai piedi che sono tutti rovinati. Altri li
riconosco perché sono sdraiati per terra.
A meravigliarci è soprattutto il modo in cui questi senza fissa dimora volontari come guardano gli
uomini e le donne alla stazione che si dirigono verso la macchina. Giulio: Certo che quello deve stare proprio
male, ma non lo vedi come è ridotto? Io non so come fa uno a ridursi in questo stato di merda! Diverso fu lo sguardo
assunto da Gaspare, anche lui volontario del Carracci, quando, durante la seconda uscita, prima di
raggiungere la stazione, raggiungemmo i portici della chiesa del Baraccano, dove una decina di egiziani
dormivano sotto i portici di una chiesa all’altezza di Porta Santo Stefano, a ridosso del centro storico.
Gaspare: Ma poverini, dai scendiamo subito che bisogna aiutare queste persone, che io me li ricordo benissimo i problemi
che hai, porca miseria!
18 Oggi non è più possibile entrare presso l’ala ovest con la macchina. La stessa uscita della stazione in via de’ Carracci è stata
chiusa. Inoltre, alcune aree della Stazione Centrale sono state privatizzate in vista della prossima riqualificazione di tutta la
struttura e la costruzione dei binari dell’alta velocità. Molti senza fissa dimora, dunque, possono ripararsi dal freddo solo
nelle aree di attesa con un regolare biglietto di viaggio.
19 I nomi dei senza fissa dimora non corrispondono a quelli reali per motivi di riservatezza. Alcune persone con le quali
abbiamo avuto modo di parlare sono conosciuti nell’ambiente della microcriminalità bolognese o hanno avuto problemi con
la giustizia, oppure ci hanno chiesto, più semplicemente, di non fare i loro nomi per diversi ordini di ragioni.
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Gli sguardi assunti da Giulio e Gaspare sono molto comuni tra i senza fissa dimora che praticano
attività di Servizio Mobile. Alcuni di questi, infatti, hanno, nello svolgere questo ruolo, un
atteggiamento di superiorità, come se, nonostante non si ritrovino in condizioni tanto differenti da
questi uomini che vivono sulla strada, essendo loro stessi, spesso, ancora ospiti di un dormitorio,
sentano comunque la necessità di rivendicare che la loro situazione non è per nulla paragonabile a
quella di queste persone. Giulio, per esempio, quella sera, parla delle persone che dormono alla stazione
come se lui non avesse mai dovuto aspettare l’arrivo della macchina del Servizio per mangiare qualcosa.
Altri, invece, mostrano al responsabile del Servizio, e a noi che partecipiamo per la prima volta a queste
uscite, un atteggiamento paternalistico, come se, sentendosi anch’essi in una situazione più agiata
rispetto alle persone alle quali consegniamo i pacchetti, volessero mostrarci il loro volto buono e
solidale.
Ma ci sono anche i volontari del Servizio che non vedono l’ora di finire il giro di notte, proprio perché
non vogliono più vedere le persone che si bucano in strada. Questo capita soprattutto agli operatori
“pari”. In macchina, inoltre, uno dei motivi maggiori di imbarazzo concerne proprio l’ambiguità di
queste figure professionali. I volontari che lavorano per l’Associazione, infatti, parlano tra loro, prima di
parcheggiare la macchina in sede, per decidere dove finire la giornata, spesso al centro, in qualche
birreria. Si raccontano storie universitarie, come hanno passato la giornata. Ciò, spesso, crea imbarazzo
perché accentua la distanza e crea una linea netta di separazione tra questi operatori e quelli che
comunque verranno lasciati nei pressi della stazione per tornare al riposo notturno20. Saranno in
generale questi volontari ospiti, durante i mesi di settembre e ottobre 2004, a farci da informatori e ad
aiutarci a conoscere e prendere confidenza con molti senza fissa dimora.
Durante la seconda uscita serale alla stazione con il Servizio, conosciamo un futuro ospite del Carracci
che diventerà un nostro prezioso informatore, Marcello. Quel giorno era alla stazione non solo per
chiedere il cibo ma anche un paio di calzini nuovi. Un mese dopo lo ritroveremo al riposo notturno
Massimo Zaccarelli. Di lui, ma anche di molti altri che abbiamo visto entrare al Carracci in questo
periodo, a distanza di più di un anno, potremo ricostruire quella che Goffman chiama la carriera: le
carriere sono le sequenze interattive in cui un attore viene socialmente costruito come problema relazionale, poi diviene
malato e infine internato (Goffman 2003). Le carriere riguardano sia meccanismi interni, l’immagine di sé,
sia la posizione ufficiale, così che un tale concetto permette di passare dal personale al pubblico e
viceversa.
Umberto è tra gli operatori pari del Carracci più stimato dagli ospiti. A proposito delle difficoltà che incontrano queste
figure professionali, Umberto dice: Per me che vengo da questo mondo l’unico problema è non ricadere, che io è meglio che non la vedo la
droga. Gli operatori “dispari”, quelli che vengono dagli studi e dalle specializzazioni universitarie, hanno più problemi perché si stupiscono e non
sono preparati a vedere certe cose! La cosa che è difficile è che magari qui non ti va un momento di parlare e uno di loro ha voglia di buttarti
addosso delle cose, e tu, allora, devi un po’ ascoltare, non puoi farti i cazzi tuoi; qui dentro devi essere uno di loro, devi pensare solo a loro, non
devi portarti nulla qua dentro.
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La stazione è spesso un luogo di confine (Colombo, Navarini, 1999)21. Ci dormono molti senza casa,
ma non sono gli unici ad utilizzare gli anfratti di questa struttura per proteggersi dal freddo. Molte liti
che sono scoppiate alla stazione negli ultimi anni, tutte riportate dalla stampa locale, sono infatti relative
a scontri avvenuti tra senza fissa dimora e piccoli gruppi di punkabestia che qui vengono a fare colletta
e, alle volte, a dormire. I punkabestia hanno cercato più volte lo scontro con la Polfer, il servizio di
polizia ferroviaria.
Così Antonio, un senza fissa dimora nato a Bologna che all’età di cinquant’anni, dopo aver fatto per
lungo tempo l’operaio, è stato licenziato trovandosi dopo poco tempo sulla strada: Questi cercano lo scontro
con la polizia, perché gli agenti fanno le ronde dopo l’una di notte e non vogliono casini! Se molti senza fissa dimora
hanno conquistato con il tempo piccoli spazi dove potere riposare, con il beneplacito della stessa
Polfer, i punkabestia, nel solo periodo autunnale del 2004, almeno due volte hanno reagito
violentemente ai controlli degli agenti.
Inoltre, come detto, la Stazione Centrale è oggetto di un lungo processo di riqualificazione: nell’area
oggi è prevista la nascita di alcune attività commerciali nel sottopassaggio. Tutte queste trasformazioni,
poi, seguono quella, più generale, di privatizzazione delle ferrovie italiane. Antonio: Lo stesso bagno della
stazione è per noi invalicabile adesso, che la polizia lo controlla alla mattina!
Ma il processo di privatizzazione dello spazio alle volte è reciproco. Sopra due o tre cartoni, a ridosso
della sala d’attesa, ma fuori dalla stazione, anche oggi c’è sempre qualche senza fissa dimora che cerca di
addormentarsi, sdraiato. A pochi metri, sulla sinistra, c’è una stazione della polizia, davanti un traffico di
macchine, ad ogni ora, che non facilita il riposo. Federico, per esempio, un senza casa con il quale
abbiamo passato molto tempo fino alla sua partenza da Bologna, nel mese di ottobre 2004 dormiva là
con altri due amici. Uno di questi, un ragazzo di Roma, era solito urlare alle vetture che gli sfrecciavano
dinnanzi: E spengete le luci che sto dormendo, ma volete avere un po’ di rispetto! Tutto questo avveniva in piena
strada.
Degno di nota è lo stesso rapporto che molti senza fissa dimora hanno con i treni. Il responsabile del
Servizio Mobile ci raccontò, durante le prime uscite con il Sevizio, che in un dormitorio bolognese c’era
un signore sulla quarantina che non riusciva più a dormire. Come altri senza casa, infatti, lui era solito
addormentarsi sui treni in viaggio di notte, e senza quel rumore non riusciva a chiudere occhio.
Altri senza fissa dimora, come la compagna di un ospite del Carracci, Vera, ci ha più volte descritto il
piacere che prova nell’attraversare il sottopassaggio della stazione: Io qui vedo i treni che portano in Svizzera,
e mi piace l’idea di andare a trovare i miei, di prendere un treno e scappare, una volta per tutte.
21 Antropologia della stazione centrale di Milano è un testo, frutto di una ricerca etnografica, che ha per oggetto la stazione del
capoluogo lombardo, le persone che la frequentano quotidianamente, le pratiche che quest’ultime vi agiscono (Colombo,
Navarini, 1999).
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Ma la stazione, ancora oggi, è soprattutto il luogo dove fare la colletta. Federico ci spiegherà
esattamente la sua strategia:
Fare il giro alla stazione, innanzitutto. I giovani che vanno dai 17 ai 22 sono ottimali, che sono
orgogliosi di essere fumatori e te lo fanno vedere. Io per esempio preferisco avere un approccio
gentile, se no non riesco […]. Anche se devo cambiare la strategia con chi ho davanti. Non faccio il
giro per le sigarette, per esempio, quando passano quelli che battono a tappeto tutti, e allora devo
aspettare dieci minuti che tutti quelli della stazione sono andati via, e c’è un ricambio di viaggiatori.
Il motivo per cui molti senza casa dormono dentro cartoni in pieno centro storico, o alla stazione, - il
Servizio Mobile raramente esce dalle mura cittadine - è proprio perché qui gli è possibile fare la colletta,
raccogliere più soldi nel minore tempo.
Non sono pochi, del resto, i senza fissa dimora che preferiscono dormire per strada, soprattutto
quando la struttura di accoglienza a disposizione è a bassa soglia. Per Bonadonna, la cui ricerca si è
concentrata per lo più sui senza tetto che rifiutano di usufruire delle strutture di accoglienza comunali,
di questo immobilismo sono responsabili anche gli operatori e chi, più in generale, gestisce i dormitori e
i riposi notturni.
La bassa soglia, infatti, così come è intesa e spessissimo praticata, accoglie tutti solo in linea teorica.
Da un lato sostiene il principio che nessuno resti escluso, implicitamente però, esclude molti.
Allontana, ad esempio, quelli che hanno paura di trovarsi in pochi metri quadrati con altre cinque
persone chiuse in una stanzetta, a volte senza nemmeno le finestre. La bassa soglia, accogliendo
tutti, esclude secondo il principio tipico della democrazia intesa come egemonia della maggioranza e
del più forte. Livella l’accoglienza creando un accesso standard: chi entra deve comportarsi in modo
preordinato. Alcuni ospiti esprimono disagi profondi, spesso sono violenti. Questi si impossessano,
di fatto, del luogo. In questo caso i più deboli soccombono, scappano o addirittura evitano l’accesso.
La situazione di partenza si capovolge. Il principio dell’uguaglianza diventa esclusivo. La legge della
giungla, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra (Bonadonna 2001)22.
A distanza di quasi tre anni dalla fine della ricerca mi riesce difficile prendere una posizione riguardo
questa affermazione. Sono però d’accordo con Bonadonna nell’evidenziare un modo di pensare che
ritengo pericoloso, e che appartiene a molti operatori con i quali abbiamo avuto modo di parlare. Una
Nel saggio Senza fissa dimora a Bologna, i sociologi Carlo Bondi e Antonio Roversi sottolineano anche l’aspetto positivo della
bassa soglia, che non costringe gli ospiti di un dormitorio ad intraprendere un percorso di reinserimento, dunque a iniziare
un rapporto il più possibile stabile con un’assistente sociale, la quale cosa, secondo i due ricercatori, va nella direzione del
rispetto della dignità di queste persone e delle loro scelte di vita (Bondi e Roversi 1996).
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mentalità diffusa che struttura il principio base dell’accoglienza a bassa soglia, ovvero il pensiero che
chiunque si trovi in stato di miseria estrema è nella condizione di dover accettare qualsiasi cosa.
Al Carracci, per esempio, abbiamo potuto assistere a specifici fenomeni di mortificazione subiti dagli
ospiti. Lo stesso processo di ammissione al dormitorio comporta al senza fissa dimora delle umiliazioni.
Quando il ragazzo che chiedeva un paio di calzini nuovi al responsabile del Servizio Mobile è entrato
nella struttura, per esempio, gli operatori hanno ricostruito la sua storia, hanno fatto la lista di ciò che
possedeva, gli hanno consegnato le coperte e lo hanno istruito sulle regole della comunità prima di
assegnargli l’alloggio. I primi colloqui che gli operatori hanno con i nuovi ospiti – colloqui a cui noi ci è
sempre stato vietato di assistere - , insomma le prime occasioni di socializzazione sono, in effetti, dei test
d’obbedienza (Goffman 2003).
Una struttura a bassa soglia come il Carracci non è un’istituzione totale, ma comunque è uno di quei
luoghi di adattamento e resistenza di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un
considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della
loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Ciò vale per le prigioni e le caserme, certo,
ma, in misura diversa e significativa, vale anche per le istituzioni più morbide come una struttura di
accoglienza per senza fissa dimora. Goffman, per esempio, che nei suoi scritti ha analizzato i processi
che definiscono le istituzioni totali, ha sempre concentrato il suo sguardo non tanto sulle differenze tra
queste istituzioni più o meno totali, ma sui tratti comuni delle pratiche agite dagli utenti che abitano
questi luoghi.
Questo non ha voluto dire, per quanto mi riguarda, criticare ideologicamente le regole di un dormitorio
come il Carracci, piuttosto permettere ai senza fissa dimora con i quali abbiamo lavorato di produrre
una loro versione ufficiale della realtà (de Certeau 2001; Barnao 2004). Questo era importante, per noi,
poiché la versione dell’équipe degli operatori – che esaltano spesso le virtù dell’accoglienza a bassa
soglia che non costringe l’utente a dover fare un percorso di recupero e inserimento sociale - e, più in
generale, delle istituzioni che lottano contro l’esclusione sociale a Bologna ci era ben chiara e trovava
visibilità in diversi testi, convegni, conferenze comunali, lezioni universitarie in città.
In questo senso, non ha nessun significato rispondere alla domanda se è meglio per un senza fissa
dimora dormire dentro un dormitorio pubblico o stare per strada o in stazione. Importante invece è
capire - ma questa comprensione è possibile solo dopo molti mesi di ricerca di campo - che le persone
senza fissa dimora sono assolutamente razionali nel manifestare un netto rifiuto a determinate
condizioni di accoglienza23.
5. IL RIPOSO NOTTURNO
23 Non sono pochi, in effetti, gli operatori, per lo più dispari, che interpretano il rifiuto di senza fissa dimora di dormire in
dormitorio come sintomatico di un disturbo mentale, leggibile proprio dall’incapacità di prendersi cura di se stessi.
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Oltre alla stazione, altri luoghi a Bologna ancora oggi vissuti da queste persone, ovviamente, sono i
dormitori, i riposi notturni, comunali e non.
Quando siamo entrati nel Riposo Notturno Massimo Zaccarelli, prima che chiudesse nel dicembre
2005, la prima cosa che abbiamo notato è il gabbiotto sulla sinistra. Chiuso, con una larga finestra a
scorrere, di quelle apribili anche dall’esterno, questo è il luogo dove lavorava l’équipe degli operatori.
Qui gli operatori, “pari” e “dispari”, scrivevano il diario, segnavano le presenze, invitavano, per lo più
uno alla volta, gli ospiti a parlare dei loro problemi. Sulla destra, sempre nell’atrio di ingresso, vi erano
due stanze, una per le emergenze, l’altra per gli operatori che volevano riposare un po’ sul letto nelle ore
più tarde e tranquille. Andando avanti, sulla destra, c’era lo spazio della cucina e un televisore. Sulla
sinistra le scale per salire al secondo piano, oppure scendere in direzione dei bagni, delle docce, delle
lavatrici. Davanti, oltrepassando lo spazio cucina, lo stanzone dove dormivano almeno una ventina e
più di persone, tutte insieme.
Scendendo al piano di sotto, durante i mesi invernali, , quelli in cui la struttura risultava essere sempre
piena e inaccessibile a chi ne era fuori, si soffriva il freddo. I vetri delle finestre più grandi erano rotti.
Sulla sinistra, al piano terra, c’era un corridoio non abitato con due piccole stanze a uso magazzino.
Davanti, una volta scese le scale, vi era la stanza delle docce. Sulla destra i bagni. Non c’erano molte
scritte sui muri. I bagni erano tutti aperti, tutti alla turca tranne uno, l’ultimo in fondo, che disponeva di
un bidé e un lavandino. Spesso qualche ospite si lavava nel lavandino perché faceva troppo freddo per
spogliarsi, e poi l’acqua calda veniva e andava. Prima della sala doccia c’era la sala con le lavatrici. Le
istruzioni per usare queste macchine erano nel piano superiore, vicino ai cartelli che pubblicizzavano
festività quali la vigilia di natale e il pranzo pasquale. E poi vi erano tutti i foglietti appesi ai muri sui
servizi in generale: quello del medico della struttura che riceveva dalle 19 alle 20 il mercoledì, ma anche
un grosso cartello dove si ricordava agli ospiti come bucarsi senza farsi del male, rischiando il meno
possibile.
In alto, invece, al piano sopra, c’era un altro stanzone, sulla sinistra, con molti letti, e prima due
abitazioni chiuse con delle tende. Davanti le scale vi erano altre stanze, ultima quella dove dormivano le
donne. Sulla destra, sempre al secondo piano, altre tre stanze chiuse da tende. Queste, dove al massimo
dormivano tre persone, erano destinate agli ospiti che, per diversi motivi, avevano problemi a stare
negli stanzoni, o erano da più tempo al Carracci. In generale, non era possibile dormire con il proprio o
la propria compagna. Unica eccezione era una coppia di anziani signori con disturbi mentali.
Siamo entrati la prima volta al Carracci con la macchina fotografica a novembre 2004. Il ricordo, a quasi
di tre anni di distanza, è ancora forte.
Una volta dentro, infatti, subito ci colpisce un nuovo cartello che è stato appeso al muro di fronte al
gabbiotto. L’ha realizzato Leonardo, un ospite del Carracci. C’è scritto in alto Laboratorio fotografico con
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un punto interrogativo che esce da una lattina di birra. C’è anche, in basso, una breve sintesi che spiega
come è nato e quali fini ha questo laboratorio. Leonardo, infatti, sarà il nostro aiutante. Durante le
riunioni che facemmo al Carracci per preparare il lavoro, gli operatori decisero che questo uomo sui
quarant’anni avrebbe potuto esserci d’aiuto nel farci conoscere tutti gli utenti del dormitorio. Per la
verità, la sua partecipazione andrà sempre più scemando. Questo ci sarà utile per capire come il fatto di
fare bella impressione sugli operatori, offrendosi come volontario ai fini della realizzazione del
laboratorio, è una strategia che molti senza fissa dimora usano per chiedere in cambio altre cose, e
avere, in generale, un trattamento privilegiato. Alla fine del laboratorio, infatti, potremo dire che sono
stati tutti gli ospiti che si sono fatti fotografare e hanno realizzato delle immagini ad averci aiutato, ad
averci fatto da informatori, raccontandoci la loro storia personale e quella dei loro amici più stretti.
I problemi, però, quel giorno non tardano a manifestarsi. Alle sette di sera tutti gli ospiti rientrano nella
struttura24. Per fare in modo che si accorgano del cartello e si ricordino, di conseguenza, dell’inizio del
laboratorio, decidiamo di mettere davanti al foglio di Leonardo un cavalletto con la macchina
fotografica sopra. La reazione è delle più drammatiche. Così Armando, un ospite sui quarantacinque
anni, di Roma: Ma che siete matti, che mo’ i criminali si fanno fare le foto? Molti ridono, alcuni ci spiegano
esattamente perché non parteciperanno mai ad un’iniziativa simile. Roberto, il cuoco-ospite del
Carracci: Io non voglio farmi vedere dalla moglie e dai figli. Sul cartello, infatti, come volevamo che fosse fin
dall’inizio, c’è scritto che il laboratorio più che un corso di fotografia sarà un modo per raccontare la
vita quotidiana degli ospiti della struttura, i quali, non solo dovranno farsi fotografare ma impareranno a
usare la macchina per realizzare anch’essi delle immagini dentro e fuori dal dormitorio. I patti dovevano
essere chiari fin da subito: nessuna di queste foto sarebbe andata su giornali e in generale sui quotidiani
locali, al massimo, una volta finito il laboratorio, e con il consenso di tutti i partecipanti, si sarebbe
potuta organizzare una mostra.
Così Raffaele: Non me la sento, non posso rischiare, che se quelli del lavoro sanno che io provengo da quel mondo mi
cacciano. Alcuni senza fissa dimora nati in provincia di Bologna non vogliono in nessun modo che le
loro facce possano essere confuse con quelle di ‘sti barboni meridionali […], pensa poi se mi confondi qui co’
l’islamico. Altri, come un uomo anziano, del nord Italia, di settant’anni, sono decisamente contrari alla
fotografia come mezzo espressivo: Ma io ci tengo molto alla fotografia, per carità, ma non sopporto di fotografare il
passato, che non lo voglio vedere, che devo guardare avanti. E queste foto ora sono il passato. Ci furono ospiti che
ebbero paura che noi potessimo considerare il Carracci come uno zoo, come ci disse un ragazzo
marocchino il primo giorno di laboratorio.
24 Il dormitorio apre ogni giorno alle sette di sera e chiude alle sette di mattina, quando ogni ospite è costretto a lasciare la
struttura, anche nel caso stesse male o avesse bisogno di cure e riposo.
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Ricordiamo con piacere, oggi, il primo segnale positivo. Jacopo, un ospite del Cararcci, anche lui di
Roma, si offre per darci una mano, e dice che è interessato al laboratorio. Ma ci tiene a spiegare: Capisco
quello che volete fare, come volete raccontare noi, è utile, e la macchina fotografica va bene, ma non dobbiamo fare esempi
particolari, reali, quindi io non voglio essere fotografato. Jacopo, alla fine del laboratorio, sarà l’unico dei senza
fissa dimora del Carracci, o comunque fra i pochissimi, di cui non avremo nessuna foto. Jacopo è uno
di quei senza fissa dimora, ne abbiamo conosciuti tanti, soprattutto sulla strada, che non racconta mai
esperienze personali, non parla mai in prima persona, che si è formato negli anni una incredibile cultura
nozionistica passando quasi tutti i pomeriggi nelle biblioteche comunali e leggendo molto: E poi io non
c’entro niente con la politica, se volete fare denuncia sociale a me non importa nulla, a me importa pensare, capire come
funziona e quanto può essere utile il linguaggio fotografico.
Con il tempo, dovemmo affrontare anche problemi più semplici dovuti al fatto che molti volevano
riposare, mangiare, fare la doccia e noi occupavamo lo spazio principale della struttura.
Sara, dopo Jacopo, sarà la seconda ospite del Carracci che ci dichiarerà di essere entusiasta dell’inizio del
laboratorio. Le spieghiamo in cosa consiste la prima fase di questa attività: ogni partecipante deve
scegliere un luogo all’interno del dormitorio che ritiene particolarmente significativo per sé, un
abbigliamento, l’espressione del viso. Noi diamo indicazioni su come porsi concretamente di fronte
all’obiettivo, posizioniamo le luci e scegliamo l’inquadratura. E’ previsto un lungo tempo di esposizione,
e in questi minuti il soggetto deve mantenersi perfettamente immobile.
Il fatto di far scegliere a queste persone il luogo che sentono più loro come sfondo scenico per la foto
ci permetterà di capire come vivono lo spazio del Carracci. Sara, per esempio, come Laura, un’altra
donna ospite del Riparo notturno, anche lei molto giovane, poco più che trentenne, scelgono di farsi
fotografare a letto. Per molti ospiti, anche quelli che non hanno una stanza e dormono nei due grandi
spazi al primo e al secondo piano, questo è qualcosa di più che una rete e un materasso sui quali
riposare. Sotto il letto sono spesso riposti i beni più cari. Qualcuno poi raccoglie tutte le sue proprietà
utilizzando, almeno chi ne possiede uno, il comodino accanto al letto. Altri hanno riempito il piccolo
spazio di parete sopra quest’ultimo con delle foto o dei poster. Sara, per esempio, posa sul letto le cose
alle quali più è attaccata, si sdraia e si lascia fotografare. Noi, mentre prepariamo il set, le chiediamo
perché ha scelto questi oggetti, perché questo spazio. Di solito questo risulterà essere un buon modo
per iniziare una comunicazione, parlare in generale della loro vita, dei loro amori, delle difficoltà che
devono affrontare quotidianamente non avendo una casa.
Verso le undici ci spostiamo nello stanzone al primo piano. Sarà uno degli ospiti più silenziosi e timidi a
chiederci di farsi fotografare, Silvano: Voglio un ricordo! A prevalere allora fu il narcisismo degli utenti
della struttura. Le stesse persone che avevano riso quando avevano visto il cartello ora ci chiedevano di
essere fotografati: Ma alla fine è divertente, e poi non abbiamo nemmeno una foto di gruppo! Questo ci darà la
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possibilità anche di capire le alleanze, più in generale le amicizie, i gruppi che si sono formati dentro il
dormitorio (Piselli 1995; Bergamaschi 1999). E conoscere sempre meglio le storie personali, poiché tra
uno scatto e l’altro, visto che passano almeno dieci minuti, ogni ospite inizia a raccontarsi. Così
capimmo che la scelta di fare dei ritratti impostati, che richiede un lungo tempo di esposizione, fu
positiva non solo al fine di rappresentare l’immobilità, uno dei caratteri dominanti di una struttura a
bassa soglia, ma perché favoriva la comunicazione.
Il sabato sera successivo, come, almeno per i primi tre mesi, tutti i sabato che verranno, e spesso le
domeniche, dalle nove a mezzanotte eravamo al Carracci. Ma, a differenza di prima, ora avevamo
qualcosa da dare agli ospiti. Le prime foto. Più di una volta ci siamo chiesti se non sarebbe stato meglio
lavorare con il digitale. Ciò avrebbe stimolato di più i senza fissa dimora del riposo notturno, i quali
avrebbero potuto vedere subito le foto, magari su un computer di qualche struttura pubblica comunale.
Visto il risultato finale, però, abbiamo avuto ragione a scegliere di lavorare in modo diverso.
Quando usciamo, dopo il secondo appuntamento del laboratorio, molti senza fissa dimora ci chiedono
quando saranno pronte le fotografie appena scattate. Si creerà, insomma, come un’attesa positiva che ci
tenne in gioco, uniti, complici.
Ma come si formano i gruppi in un dormitorio? Per esempio, come si relazionano gli ospiti più anziani
che vengono dai quartieri popolari di città del Sud come Bari, Napoli, Palermo, Roma a tutte le altre
persone che vivono nel dormitorio, ovvero i ragazzi e le ragazze molto giovani, sui trent’anni, che si
sono ritrovati sulla strada in quanto disoccupati o figli di genitori che non possono mantenerli? Come si
relazionano questi con il gruppo di donne del riposo notturno costituito da Laura, Sara, Silvia,
Vincenza?
Per la verità, non siamo mai riusciti a lavorare, soprattutto a livello fotografico, rivolgendo la nostra
attenzione a specifici gruppi all’interno del dormitorio. L’ospite del Caracci, e in generale i senza fissa
dimora che dimorano presso i dormitori pubblici, vivono da soli, non amano in nessun modo la
compagnia e le amicizie sono molto rare. Le stesse donne del dormitorio non sono mai state amiche tra
loro, e alla fine non passano più tempo insieme di quanto ne passano con gli uomini più adulti o i
ragazzi più giovani. Ognuno sta fondamentalmente per conto proprio. Anche la differenza, che noi
ricercavamo soprattutto all’inizio - tra i senza fissa dimora “storici”, quelli che della strada hanno fatto
la loro casa preferita - e gli altri, intesi come gruppo di persone che ha perso la dimora, i contatti
famigliari, sono fuori dal mondo lavorativo, non siamo mai riusciti a percepirla, e dunque a studiarla,
come tale. Se era vero che l’immagine del senza fissa dimora si è arricchito di nuovi volti, immigrati,
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studenti, ragazzi, è altrettanto vero che questa si è costituisce, comunque, di ritratti tutti unici (Bourdieu
1993)25.
Al Carracci hanno vissuto, ma questo succede anche negli altri dormitori, persone di differente età,
appartenenza nazionale, religione, cultura. Più di un ospite con cui abbiamo parlato odiava questa
struttura proprio perché si sentiva costretto a convivere, ogni giorno, per dodici ore, con compagni
indesiderabili. Gli operatori parlano spesso di ricchezza riferendosi a queste situazioni. Gli utenti dei
dormitori quasi mai. Quelle volte che, per fare delle interviste e fotografare i senza fissa dimora, siamo
andati a prenderli all’uscita del riposo notturno la mattina presto, attorno alle otto, ci stupiva, ogni volta,
il fatto che ognuno di loro prendesse la propria strada. Alcuni, magari, facevano anche lo stesso
percorso, perché identica era la meta, ma comunque tenendosi a una distanza di almeno cento metri
l’uno dall’altro. Come ci ha detto Federico: Da una parte è vero che questa asocialità è a monte del dormitorio,
dall’altra devi sopravvivere, non puoi unirti, sai che l’altro può fregarti, c’è poco da fare. E anche quello che con questo
ambiente non c’entra nulla in pochi giorni è e si comporta come gli altri. E poi chi va con lo zoppo impara a zoppicare, e
io cerco sempre di frequentare persone migliori se no cado indietro.
A volte i senza fissa dimora del dormitorio parlavano degli altri ospiti come fossero animali. Tutti
dicevano, per fare un esempio: Qui solo io mi faccio la doccia, perché queste sono bestie! Per questo si evitavano
il più possibile. Non a caso uno dei passatempi preferiti dagli ospiti era trascorrere il tempo là dove
sono soliti passarlo i cittadini borghesi di Bologna, nei caffé, nelle librerie, nelle biblioteche.
La solidarietà, in effetti, è limitata a poche pratiche dentro il dormitorio. Le costrizioni imposte dagli
operatori, che mettono gli ospiti in condizione di simpatizzare e comunicare fra loro organizzando, per
esempio, grandi tavolate durante le feste organizzate dai responsabili della struttura, non portano ad un
alto spirito di gruppo. Solo in caso di malattia, per esempio, spesso abbiamo visto un ospite aiutarne un
altro colpito da influenza. Oppure, visto che tutti fumano dentro il dormitorio, offrire una sigaretta può
essere, alle volte, un gesto di grande amicizia. Abbiamo conosciuto un uomo, di cinquant’anni, che
passava le giornate a raccogliere cicche per le strade per poi sbriciolare i resti di tabacco in una scatola,
così poi da farsi delle sigarette con le cartine. Quest’uomo era solito, durante queste feste ad esempio,
offrire il tabacco agli altri del dormitorio. Altro capitale sociale, poi, sono le informazioni che qualcuno
di loro si scambia per sopravvivere, ovvero consigli per avere il buono mensa, quali sono i luoghi esatti
dove sono ubicati i bagni pubblici, i nomi degli assistenti sociali più bravi.
6. BOLOGNA VISTA (E SCELTA) DAGLI “ESCLUSI”
Il testo, Città globale e città degli esclusi, a cura di Paolo Guidicini e Giovanni Pieretti, evidenzia come a Bologna, in questi
ultimi anni, vanno accentuandosi molteplici forme di povertà estrema, il che rende difficile dare un unico volto al senza fissa
dimora che dorme nei dormitori e sotto i portici pubblici (Guidicini e Pieretti 1998).
25
19
Autoritratti: sfondo fisso scelto o creato collegialmente dagli ospiti. Li realizzammo con un filo di scatto
lungo sei metri che compariva all’interno dell’inquadratura in modo da rendere palese la natura
dell’immagine e il fatto che fosse stato il soggetto stesso a scattarla. Iniziammo con il sistemare la
macchina su un cavalletto, cosicché anche l’inquadratura risultava uguale per tutti i soggetti, e
organizzammo, a cominciare da dicembre 2004, delle serate evento chiedendo ai partecipanti e agli
operatori del dormitorio di lavorare in gruppo per la predisposizione della scenografia. Fu la seconda
fase del laboratorio. Conoscevamo meglio, dopo più di un mese e mezzo di ritratti, gli ospiti. Ma
sapevamo ancora poco del tragitto che li aveva portati fin qui, al dormitorio. Come si rappresentano
queste persone? Da dove sono partite? Quando sono arrivate a Bologna? Perché questa città?
Gli autoritratti andarono proprio in questa direzione. Questa volta erano loro stessi a riprendersi,
schiacciando con la mano una pompa collegata con un filo alla macchina fotografica. Decidevano loro
quando scattare, e intanto si raccontavano.
Ricordiamo ancora, in una serata di metà dicembre il formarsi di una fila di persone, all’interno del
dormitorio, che aspettavano il loro momento per autorappresentarsi. Leonardo, a metà novembre 2004,
preparò, per l’occasione, una scenografia proprio a ridosso del gabbiotto. Con delle stelle era messo in
scena il clima natalizio.
Emanuele:
A Genova si stava bene, anche con la mia famiglia, ma con i miei mica tanto alla fine, poliziotti,
capisci? Poi i problemi che nascono, io per esempio mi conosco e devo sempre ragionare perché
sono come San Tommaso. Perché se io provo la voglia dello sniffo, che ho fatto solo quattro volte,
ma la provo, e io ho provato tutto, la rota, lo sniffo, il buco, o la pera, che ti amplifica i dolori
milioni e milioni di volte perché il tuo organismo ti fa capire che ha quella voglia, è come la cinese
amplificata, fa male, e così il vizio della sigaretta che ho lasciato solo per un anno! Io devo provare
con mano, che è la voglia di conoscenza, di scoprire.
Emanuele, come molti altri ospiti del dormitorio che si fotografarono, in quelle serate, all’interno della
struttura, sono tutte persone molto giovani. Tutti padri e madri prima di essere maggiorenni. A venti
anni hanno già girato mezza Italia, hanno provato pressoché tutto in fatto di droghe e di alcool, e si
sono sposati, divorziati, risposati. Tutti hanno una famiglia che non possono vedere, tutti hanno avuto
grandi amori. Bologna, per molti, è stata la città che gli ha permesso di fare più esperienze. Ma qual è il
motivo per cui ora sono al Carracci? E da dove vengono questi ragazzi e ragazze senza casa? Claudio:
Roma è tremenda da questo punto di vista, che è un sottobosco, io ci ho vissuto alla Stazione
Termini, è veramente un sottobosco che bisognerebbe studiarlo, il vero inferno, quello vero, che io
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ho fatto dei ritratti dell’orrore alle persone che abitavano in questo sottobosco che erano migliaia.
Dei ritratti cubisti, tutti a pezzi.
Anche Armando è di Roma, Ivan, invece, ci ha vissuto per diversi anni prima di salire a Bologna. Loro
due si sono conosciuti per le vie del centro storico capitolino:
Te ricordi quelle strade dove abbiamo passato l’adolescenza, che eravamo una trentina? Noi ci
muovevamo a piedi o in metropolitana, che la controllavamo quella zona, che spacciavamo a tutti,
che mio fratello una volta mi ha telefonato e mi dice che sta fumando hashish nella macchina della
polizia. Che la polizia non ci diceva niente che noi cacciavamo i marocchini e gli altri…noi
venivamo tutti da parti a rischio e ci trovavamo là, quando il centro storico era nostro, che io venivo
dalla periferia sud, tutti noi facevamo lavoretti poi ci vedevamo là, eravamo tanti, come una
generazione.
Insieme a Claudio, alle volte, Armando e Ivan ricordavano le strade di Roma. Ma il gruppetto più
numeroso era quello dei pugliesi. Salvio, per esempio, spesso ci raccontò, in questi sabato, come nel suo
quartiere popolare di Bari tutti si facevano. Poi c’era qualche sardo, qualche calabrese, molti campani e
siciliani, e alle volte non si capiva nulla. Per questo ci venne in mente di registrare le chiacchierate ad
alta voce che molti senza fissa dimora facevano davanti al gabbiotto. Alla fine, per capirsi, ognuno
continuava a parlare il suo dialetto, contaminandolo con quello del suo interlocutore. I romani
parlavano un po’ salentino, i campani si sforzavano di usare parole calabresi. Il risultato era una lingua
meridionale stranissima. E’ la lingua dei quartieri popolari di grandi città come Napoli, Palermo, Roma,
Cagliari, Bari. Lingua ricca di parole, per lo più dialettali, apprese viaggiando l’Italia, come parole
bolognesi, venete, trentine, bergamasche. Bologna è stata la meta principale dei loro percorsi identitari
perché, così ci dissero, la loro libertà di movimento in città qui era maggiore.
Ma non solo gruppi geografici. Spesso le alleanze al Carracci si giocavano soprattutto a livello
generazionale. Claudio, Armando, Ivan, loro venivano dal Settantasette per esempio. Anche Federico, e
così quei pochi milanesi come lui senza fissa dimora che incontrammo sulla strada vissero l’adolescenza
in quel periodo. Per molti di loro il ’77 è stato il periodo più libero della storia del nostro Paese, poi le
cose sono cambiate, come dice Claudio, che si farà fare delle foto con due riviste musicali degli anni
Settanta: Perché è iniziata la repressione. Federico:
Per me il ’77 non è un bel ricordo, per nulla, quasi tragico, che molti amici che ho avuto non ne
sono usciti dal ’77, molti li ho persi per Aids e per droga. E io sono stato fortunato che ho avuto
anche rapporti a rischio, ma nulla, e le siringhe, perché soldi in tasca ne ho sempre avuti un po’, non
le ho mai scambiate. Io facevo, come altri, il corriere della droga. Approfittavo delle manifestazioni
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in piazza […] portavo la droga nei quartieri alti, dai borghesi. Tanto la polizia pensava solo al
Movimento, e meglio così.
Bologna diventa meta preferita per molti ospiti del Carracci proprio in quegli anni. Ivan:
Io sono venuto a Bologna, che il treno che mi portava al Nord passava sempre per Bologna e così
mi sono fermato. E poi a Bologna mi sono trovato bene, che ero piccolo, avevo pochi anni e i
portici mi rassicuravano a camminarci da solo. Sono stati i portici a convincermi quando ero
piccolo.
Per molti di loro, in quegli anni, Bologna rappresentava una vera e propria esperienza metropolitana.
Sempre Ivan:
Mi ricordo che frequentavo una ragazza che mi portava nel labirinto degli specchi, che ti ricordi
quando eravamo piccoli? Un‘altra ragazza mi ha portato al museo delle cere. Io venivo, noi, da una
dittatura, non so come dirti, c’erano cose liberatorie per me, anche molte cazzate, per carità, però mi
sentivo libero di fare quello che mi pareva qua.
Per altri, già in estrema difficoltà, Bologna rappresentava una delle città più fornite in termini di
assistenza sociale, e comunque una tra le città più tolleranti. Salvio:
Sì, Bologna è una città che tollera, ma non rispetta, non accetta. E sempre stata così, i ragazzini
pensavano fosse diversa e qui tutti a fumare. Qui puoi fare quello che cazzo ti pare, a differenza di
altre città non ti dicono che devi diventare come loro, ma poi se dai fastidio e gli togli ricchezza
sono cazzi tuoi qui.
Anche Ivan la vedeva così:
Qui stai bene, ma è vero che sono svizzeri, che quando oltrepassi il limite è la fine, che sono loro
stessi a organizzarsi e mandarti via, altro che la polizia di stato.
Bologna, per alcuni, fu solo l’ultima sosta prima di ricominciare il viaggio. Spesso questo tragitto
nomadico è iniziato con il servizio militare. Molti baresi, napoletani, palermitani hanno lasciato casa a
quell’età per non tornarci mai più. Ivan, Armando, Federico, tra le poche cose di cui parlavano tra loro,
tra queste c’era sicuramente l’esperienza del servizio militare.
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Per altri il viaggio, prima di interrompersi a Bologna, ha oltrepassato i confini nazionali. Perdersi, per
alcuni utenti del Riposo, infatti, significava aver voglia di conoscere realtà diverse. Per altri ancora,
invece, l’unico motivo per cui ci si sposta tanto, e Bologna per la sua posizione geografica è stata una
meta di passaggio obbligatoria, come per Federico, è che prima o poi qualche cazzata la fai e dunque sei
costretto a non farti più vedere in quel posto e cambiare aria e amicizie.
C’è, però, nell’estrema diversità dei vissuti personali, una categoria che accomuna tutte queste persone,
per lo più i maschi senza fissa dimora che oggi hanno quarant’anni. Ovvero la voglia, per alcuni
l’obbligo, di superare i limiti. Emanuele: Siamo tutti eccessivi noi! Ivan, per esempio, ci raccontò dei primi
sigari che fumava a quattro anni, Federico, come tanti altri, di quando era ricchissimo e poi
poverissimo. Salvio:
Io per esempio devo drogarmi, e l’ho fatto, perché non ci riesco a stare fermo, ho bisogno di trovare
un equilibrio emotivo, che non riesco a fermarmi, a non stare a mille, ma questo è un altro modo di
essere drogato, che quelli che stanno male è quelli che non hanno un’altra vita fuori dalla droga.
Tutte le storie d’amore fallite, poiché queste, a dire di molti ospiti, sono state le cause scatenanti del loro
ritrovarsi senza casa, sono storie “eccessive”. L’amore è sempre gigantesco, le parole per descriverlo
sono iperboliche, e così le gelosie, i tradimenti, l’attaccamento ai figli, l’odio per la famiglia.
Questa passione lacera, in quelle serate, anche noi, che, quando usciamo dal Carracci dopo questi
incontri, siamo stanchissimi. La pesantezza derivava anche dal fatto che molti senza fissa dimora con
cui costruimmo rapporti di fiducia, una volta finito il racconto, sentivano il bisogno di fare la morale,
come dice Jacopo. E questa morale era spesso incomprensibile, poiché era un insieme di valori
eterogenei: una morale sporca, contaminata, che raccoglieva elementi tra i più diversi. E a Bologna io
posso essere così, dice Salvio:
Io sono battista e faccio lo spacciatore, sono anarchico, sono un punk in finale. Poiché bisogna essere punk per fare del
bene. Sì, mi ricordo che si stava meglio con la Democrazia Cristiana, che quelli erano bravi. Io posso drogarmi, ma ho
una mia vita, ho un’alternativa, quindi posso scrivere se non mi faccio, ma quello che non sa scrivere, che non ha una
vita che accetta e si droga quella è la fine. Ma alla fine l’importante è credere in Dio, perché sono molto religioso, io
sono battista.
7. I LUOGHI DELLO SCAMBIO ASSISTITO E DELLO SCAMBIO AUTONOMO
I primi di febbraio 2005 usciamo per la prima volta dal Carracci. La quarta fase del laboratorio
fotografico consistette nella realizzazione di un reportage. L’idea era molto semplice. Uscire con loro,
passare tutta la giornata insieme, fino al rientro nel riposo notturno alle sette di sera. Quale è la Bologna
che attraversano questi cittadini senza residenza? Dove si ritrovano? Come passano il tempo?
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Ovviamente questi luoghi sono molti e tra loro sono radicalmente diversi. Ancora oggi, da una parte ci
sono i luoghi dello scambio assistito, ovvero i luoghi gestiti da centri assistenziali, gruppi di volontariato,
etc. (Bonadonna, 2001). Questi sono spesso luoghi tristi spesso, dove non si parla molto, ci si riposa, si
guarda la televisione, si dorme anche per tutto il pomeriggio. Alcuni ospiti del Carracci, per esempio,
sceglievano di passare il pomeriggio al centro polifunzionale in via Sabatucci. Altri senza dimora, ancora
adesso, preferiscono andare a via del Porto, dove c’è un altro centro diurno. Ovviamente la scelta non è
casuale, ma segue logiche di alleanze, di amicizie.
Molto spesso i senza fissa dimora non sopportano l’idea di passare il tempo pomeridiano, oltre che
notturno, in queste strutture per via delle attività che gli operatori vi promuovono. Federico, per
esempio, il nostro informatore che dormiva alla stazione a ridosso della sala d’attesa la pensava così:
Sembra che ti rincoglioniscono. La tv, i film, poi l’ora del taglio capelli, poi il torneo di calcetto con le squadre fatte dagli
operatori, appena vai in una struttura organizzata subito è come se diventi loro. Il tempo è mio, questo non vogliono
capire!
Se Salvio, dopo un mese passato nella struttura desiderava sempre fuggire dal Carracci, preferendo la
strada, era anche perché considerava il tempo passato nel riposo notturno come tempo sprecato, che
andava rimosso. Quando si recava in altre strutture di accoglienza diurna dopo aver dormito per strada,
e partecipava a queste attività ludiche, il cui principale scopo spesso è far dimenticare al senza casa la
situazione nella quale vive almeno per un po’, rafforzava ancora di più la sua decisione di dormire
dentro un cartone.
Alla seconda categoria fanno capo quei luoghi dove si incontrano persone italiane e stranieri indigenti, con o senza fissa
dimora, famiglie di italiani in condizione di povertà non estrema. Sono luoghi dove si scambiano e si vendono oggetti di
ogni tipo, luoghi di attrazione per la piccola ricettazione e lo spaccio di droghe (Bonadonna 2001). Il sociologo
romano fa riferimento a piccoli mercati più o meno improvvisati che non hanno luogo fisso. Cambiano
a seconda dell’intensità dei controlli di polizia. A Bologna rientrano in questa categoria territori come
Piazza dei Martiri, Piazza Puntoni, via Zamboni all’altezza di Piazza Verdi, tutta l’area della ex
Manifattura Tabacchi a ridosso della Cineteca in via Azzo Gardino26, ovvero luoghi del centro storico e
dell’area universitaria. Qui molti senza fissa dimora, tutt’oggi, possono praticare la loro primaria
economia di scambio, il baratto. Si scambiano vestiti, schede telefoniche trovate dentro le cabine,
scarpe, soprattutto genere vestiario, utile per proteggersi dal freddo.
Sono tutte zone del centro storico perché qui è possibile fare elemosina, “scollettare”. Come dice
Federico: Dove c’è più turismo è più facile guadagnare! Ma sono luoghi centrali anche perché zone come
Piazza Verdi sono molto frequentate dagli studenti, dai punkabestia, insomma sono i territori preferiti
26 Non a caso tutta l’area della ex Manifattura, a partire dal parco, è oggetto di specifici processi di gentrificazione a partire
dall’apertura, nel 2007, del museo d’arte contemporanea, il Mambo.
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da tipologie di persone, anch’esse non residenti27, che tollerano i senza fissa dimora e hanno rapporti, di
diverso tipo, con essi. Nonostante l’area universitaria, infatti, sia tra le più sorvegliate dalle forze
dell’ordine questa rimane un luogo centrale per molti senza dimora. Alcuni qui si sentono a casa, come
una volta ci disse Armando: Mi sento giovane sotto i portici di via Zamboni, che ci fermiamo a bere, ci stanno i cani,
c’è libertà.
Territori come Genova, centri portuali come il vieux port di Marsiglia, Napoli, Bari vecchia, il Barrio
chino di Barcellona, tutti quartieri antichi a ridosso di porti, spazi di transito e di approdi temporanei,
edifici fatiscenti, vicoli oscuri, economie marginali, traffici illegali o ai limiti della legalità come la
prostituzione, la vendita la dettaglio di sigarette di contrabbando, lo smercio di merci contraffatte, spazi
non socialmente omogenei. Così Dal Lago e Quadrelli descrivono i mondi criminali di una città del
nord Italia, Genova:
Gli antichi palazzi sono abitati da cittadini comuni e, ai piani alti, anche da rampolli della nobiltà,
mentre a poca distanza gli immigrati si insediano in edifici degradati o pericolanti. Dipartimenti
universitari danno su vicoli ben noti ai clienti delle transessuali, i tossicodipendenti si raggruppano in
piazze o salite sui cui si affacciano chiese, musei e scuole […]. Città chiusa in se stessa, in effetti, da
confini quasi naturali, come i portici, le porte, le valli, dunque ambiente unico per la ricerca sociale, e
in particolar modo etnografico […]. Il mutamento economico e sociale vi si può leggere quasi
quotidianamente, i cambiamenti sono sovrapposti e databili. Il passaggio dall’economia industriale a
quella dei servizi, il declino della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali e politiche, il
travaglio delle amministrazioni locali, la disoccupazione giovanile, l’immigrazione e la xenofobia
occulta o dichiarata, il sentimento di insicurezza, l’imprenditoria politica locale che fa leva sulla paura
(Dal Lago, Quadrelli, 200328).
Prima di iniziare la ricerca, mai avremmo immaginato di poter descrivere Bologna come fosse una città
portuale29, come Genova, come quelle descritte da Dal Lago e Quadrelli. Ma anche qui possiamo
parlare di due città, due mondi che convivono sullo stesso palcoscenico senza sfiorarsi, e soprattutto
27 Bologna è una città di circa trecentoottantamila cittadini. Ma circa la metà di questi ultimi è composta da abitanti non
residenti, per lo più studenti, ma anche immigrati, clandestini e non, punkabestia, senza fissa dimora (Callari Galli 2004,
2007).
28 Dal Lago e Quadrelli in La città e le ombre parlano di città legittima e città illegittima, narrando lo spazio urbano genovese,
come due mondi in una posizione profondamente asimmetrica e diversa, ma che convivono nello stesso territorio (Dal
Lago, Quadrelli, 2003). Interessante a questo proposito anche il volume di Antida Gazzola, Gli abitanti dei nonluoghi. I ‘senza
fissa dimora’ a Genova, che presenta i risultati di un’analisi svoltasi nel capoluogo ligure al fine di indagare sulle realtà dei senza
fissa dimora che abitano la città, di definirne le caratteristiche, di descrivere le tipologie, le strategie e l’operatività degli attori
pubblici e privati presenti sulla scena genovese nel settore dell’assistenza ai senza fissa dimora (Gazzola, 1997).
29 Così descrive la città lo scrittore Luigi Bernardi: Bologna è una città abitata da mezzo milione di cittadini fieri. Il vero mistero è proprio
questo: come fa Bologna in poco tempo a trasformarsi in una specie di albergo, con parecchie stanze vuote, che molti vengono ad abitare per
capriccio o bisogno, ma nessuno considera davvero la propria città? Bologna, […], è una città abitata da trecentocinquantamila cittadini residui
(Bernardi, 2002).
25
ignorandosi. Il centro di Bologna ha una caratteristica peculiare, derivante per certi aspetti dalla sua
conformazione urbanistico-architettonica, la presenza dei portici, che non è riscontrabile in altri centri,
come per esempio il centro museificato di Firenze o Roma, dove la città “illegittima” è spesso relegata
alla periferia. Questo aspetto fa sì che il centro di Bologna non sia socialmente omogeneo: gli antichi
edifici sono abitati da cittadini comuni, da una ricca borghesia, da studenti, ma è sotto i portici che
Bologna si fa caleidoscopio della diversità; davanti alle vetrine dei negozi di lusso, dei teatri, delle chiese,
sostano mendicanti, barboni, immigrati qui si svolgono le loro attività, fanno colletta, smerciano,
spacciano fumo, spesso vi dormono. I portici, in un certo senso, diventano dimora, mentre la
cittadinanza, i cittadini normali, scorrono loro accanto, così che mondi sociali diversissimi si sfiorano e
coesistono senza che gli sguardi degli abitanti di un mondo si soffermino sui frequentatori dell’altro.
Apparentemente, solo le pattuglie di carabinieri e poliziotti che perlustrano le strade sono interessati agli
abitanti dell’altra città, oscura, marginale, ma il loro è uno sguardo tecnico, indagatore, alla ricerca
dell’illecito. Piazza Verdi, la zona universitaria, è uno di questi spazi dove questi due mondi convivono,
appunto, senza toccarsi.
Ecco dunque che Bologna si fa contenitore di due mondi, di due città, che coesistono, si scrutano, si
ignorano, si sfiorano, si evitano, due città in una posizione profondamente diversa e asimmetrica. La
società “legittima” non conosce quella “illegittima”, ma la evoca continuamente, la rende colpevole di
quel disagio, di quel degrado che la città vive, come una continua minaccia possibile, come una città
popolata da abbietti, deviati, anormali. Ricorrendo però a quest’ultima per un gran numero di servizi e
prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda di prostituzione a quella
dei stupefacenti e dei giochi d’azzardo. La città “illegittima” vive sotto questa ombra, e sopravvive di
un’economia informale, spesso illegale. Se la prima città fa della stigmatizzazione della seconda uno dei
rituali pubblici più in voga, come scrivono riferendosi a Genova Dal Lago e Quadrelli (2003) la seconda
è per definizione priva di parola.
Per questo, attraverso il reportage, pedinando i nostri senza fissa dimora fuori dal Carracci, sentimmo la
necessità di dar voce, di mostrare queste ombre (Chitò, 1994).
8. I LUOGHI DOVE NASCONDERSI
Ci sono i luoghi, poi, che molti senza fissa frequentano al fine di nascondersi tra la folla. La sala Borsa30
è quello più significativo. Qui, avviene anche adesso, molti senza fissa dimora passano la giornata,
usufruendo dei bagni, delle macchinette che distribuiscono caffè e cibo. Qui sono soliti leggere, visto
che i libri possono essere sfogliati senza l’obbligo, poi, di acquistarli. Ma sono anche ragioni meno
Nonostante, dopo l’elezione del Sindaco Sergio Cofferati nel 2004, parte dello spazio di questa biblioteca pubblica sia stata
venduta a privati al fine di aprire una libreria, un caffè e un ristorante, questo luogo era tra quelli più scelti dagli ospiti del
dormitorio Carracci. Qui gli era possibile usufruire dei bagni, riscaldarsi, leggere libri. Nel 2006 questo spazio è tornato ad
essere pubblico.
30
26
materiali che spingono queste persone a trascorrere numerosi pomeriggi in Sala Borsa. In questo luogo,
come ci disse Federico, hai la sensazione di far parte della città, di essere integrato. La sala Borsa è uno spazio
vissuto, frequentato da molti residenti, uno spazio simbolico della bolognesità (Addarii 2004).
La lettura, poi, è, per molti, un buon modo per passare il tempo. La cultura dei senza fissa dimora,
intesa come bagaglio di conoscenze, è una delle cose che più ci ha fatto riflettere fin dall’inizio del
nostro studio. In più di un’occasione abbiamo passato ore e ore ad ascoltare Salvio e Ivan raccontarci di
come si ara un campo di grano, quale era la tecnica di mummificazione più usata in Egitto, oppure la
biografia di Mussolini o di Che Guevara. Frammenti di cultura, tutti frutto di letture sparse, occasionali,
casuali. Così Ivan: Io prendo un libro, poi magari non lo trovo più il giorno dopo, così mi metto a leggerne un altro,
perché non me lo posso certo portare a casa. Conosco tutto di Stalin, per esempio, da ieri invece ho iniziato un testo sulle
stelle, ma oggi ne ho sfogliato uno su madre Teresa di Calcutta.
Alle volte seguire i senza fissa dimora significa camminare per ore e ore, senza mai fermarsi a mangiare,
sedersi, potere espletare i propri bisogni. Questo perché per mangiare ci vogliono i soldi, per fermarsi in
qualche bar devi consumare, infine molti baristi, soprattutto al centro, quando vedono queste persone
vietano loro di usufruire del bagno.
Un pomeriggio della prima settimana di marzo 2005 prendiamo un caffé al centro polifunzionale in via
Sabatucci. In serata andrà in onda sulle reti Mediaset una puntata di “Invisibili”, un programma
interamente dedicato ai senza fissa dimora italiani. Ne parliamo con i diretti interessati e ci
organizziamo per dedicare un’intera serata dentro il riposo notturno alla proiezione del programma,
così da capire meglio quanto siano consapevoli di quello che si dice di loro al di fuori del dormitorio.
Per esempio, molti bolognesi residenti che abbiamo intervistato pensano che si tratta di uomini che poco
vogliono fare, che stanno troppo fermi, quando bisogna muoversi se ci si vuole tirare fuori da quella situazione. Ma la
giornata di molti senza fissa dimora non potrebbe essere più piena. Il responsabile del Servizio Mobile li
chiama ragionieri, e non a caso. La mattina devono correre alla Caritas per prendere il tagliando per fare
la doccia, poi la mensa a pranzo, dall’assistente sociale il pomeriggio allo sportello, la sera alle sette il
ritorno in dormitorio. La noia è una condanna che molti ospiti sentono su di sé: è difficile passare la
giornata quando non hai niente da fare che ti piaccia, che sia una passione o un’attività lavorativa. Però
le giornate di queste persone sono effettivamente ricche di appuntamenti. Il problema è che la maggior
parte del tempo viene da loro impiegata per spostarsi da una parte della città all’altra, camminando.
Ma è la stessa percezione che queste persone hanno del tempo che ci rende difficoltoso passare intere
giornate con loro. La nostra giornata, in fondo, cosa alla quale non pensiamo mai, è fin troppo
organizzata a livello temporale. Si esce e si torna a casa, nel mezzo si fa colazione, il pranzo, la cena; poi
c’è il tempo lavorativo, che occupa, di solito, otto ore. Come organizza il tempo un senza fissa dimora?
La cosa che ci ha stupì, allora, soprattutto ascoltando le parole di molti italiani che si sono trovati per
27
strada una volta licenziati, poiché non sono più riusciti a trovare un posto da nessuna altra parte, è la
voglia che hanno di lavorare. Molto spesso questa voglia, al di là di un tornaconto economico, è legata
all’eterno presente che caratterizza i giorni della maggior parte degli ospiti del Carracci. Lavorare
significa organizzare il tempo, scandirlo, e, di conseguenza, dare un senso alla giornata.
Nella primavera del 2005 iniziò l’ultima fase del laboratorio. Nostra volontà era quella di produrre delle
fotografie con macchine usa e getta. Dovevano essere gli stessi ospiti del dormitorio a scattarle.
Attraverso l’uso individuale di questo mezzo fotografico, avrebbero dovuto raccontare la propria
quotidianità, la città che abitavano, i luoghi che vivevano, le persone con le quali passavano il tempo. La
macchina fotografica, del resto, è stato lo strumento che ci siamo portati tutti i giorni nella nostra
cassetta di attrezzi da etnografi. Lo strumento che ci ha permesso, da subito, di interagire con i nostri
informatori; di costruire rapporti che non sarebbero mai nati se non avessimo offerto loro la possibilità
di esprimersi, se non avessimo scambiato con loro qualcosa. Ma la scelta di far produrre a loro stessi
delle immagini è stata anche una necessità metodologica. Per quanto potevamo conoscere sempre
meglio la realtà dei senza fissa dimora, siamo stati fin da subito consapevoli di quanto le loro foto
risultassero più autentiche, permettendoci di comprendere di più il loro mondo, i loro luoghi (Mirzoeff
2002; Clifford Marcus 1997).
Durante i quindici mesi della ricerca numerosi sono stati gli ambienti a cui ci è stato vietato l’accesso, le
persone che non abbiamo potuto fotografare. Marcello, per esempio, ha fatto diverse fotografie per
mostrare i luoghi dove lui, ma anche altri senza casa, fanno sesso. Chi, come Jacopo, non si è mai
voluto far riprendere ha sviluppato due rullini di foto a colori per rappresentare delle case in
costruzione nell’area della Manifattura, ovvero dire qualcosa che non riusciva ad esprimere a parole, la
voglia di immaginare un futuro.
Prima di iniziare l’ultima fase del laboratorio legata alle macchine usa e getta, fornimmo delle istruzioni
tecniche di base ai partecipanti, per lo più canoni di carattere estetico e di costruzione dell’immagine.
L’idea era quella di, una volta fatte le foto, riunirsi nel dormitorio per raccontarsi il perché si era scelto
di fotografare quel luogo e non quell’altro. Per questo, fin dall’inizio, pensammo di non costringere gli
ospiti a fotografare un unico soggetto, per esempio il centro storico di Bologna, piuttosto lasciarli liberi
di esprimere al fine di capire, poi, cosa ci fosse dietro le loro scelte artistiche.
La maggior parte delle fotografie realizzate dai senza fissa dimora ebbe per soggetto degli oggetti.
Emiliano, per esempio, fotografò le sue proprietà, un accendino, un cappello, un coltello. Ivan,
all’opposto, scattò diverse foto ai senza fissa dimora che vanno in giro con le buste dove sono raccolti
tutti i loro averi. Oppure foto di natura morta, come le chiamò Leonardo, il quale utilizzò un intero rullino
28
per rappresentare piatti di plastica, bicchieri consumati, cibo avanzato, insomma le cose, per lo più
squallide, come diceva lui, che caratterizzano le feste per i senza fissa dimora organizzate dagli operatori
in via Sabatucci o in via del Porto. Marcello, invece, utilizzò due macchinette usa e getta per fotografare
i gioielli, le collane, le vetrine di Gucci o di Dolce e Gabbana, nel centro di Bologna. In più immagini si
fece fotografare mentre entrava nelle boutique cittadine.
Ma luoghi dove nascondersi, ancora oggi, sono anche i bagni. Un’altra cosa che i senza fissa dimora
hanno in comune, in effetti, è la mancanza di un luogo privato autonomamente gestibile. Dentro il
dormitorio oggetto della nostra ricerca non esistevano armadietti personali, per esempio. Questo
rinforza il sentimento di spoliazione degli utenti dei dormitori bolognesi.
Anche per questo all’uscita del dormitorio, alle otto, molti senza fissa dimora portavano con sé i pochi
averi di cui disponevano. Anche per questo l’uso delle tasche dei calzoni, o del giubbotto, come
contenitori. Oppure delle buste di plastica. Molti, come Jacopo, erano soliti mettere sotto il letto le cose
più importanti - di furti se ne registravano ogni giorno al Carracci. Ma non era quello il problema per
Emanuele:
Il fatto è che chiunque può entrare nel mio ambiente, chiunque può vedere, toccare, questo è
inaccettabile. Come si fa a vivere così, sempre sotto la vista di tutti?
La cosa che più colpisce un osservatore esterno che entra nel dormitori ancora oggi è l’assenza di
pudore che hanno gli ospiti. O almeno, gli operatori interpretano così il fatto che la maggior parte degli
utenti giri nuda per la struttura, principalmente in mutande se si tratta di uomini. Il denudarsi non ha
limiti, visto che i senza fissa dimora del Carracci, per esempio, non si facevano problemi se c’erano
donne operatrici dietro il gabbiotto.
In verità, come ci disse Emanuele, questo essere sempre un po’ nudi è un’umiliazione, avviene solo in
quanto si è costretti a dormire in dormitori collettivi o servirsi di gabinetti senza porte, come al Carracci. Gli utenti
dei dormitori di Bologna, spesso, non ci fanno nemmeno più caso. Noi parlavamo con loro mentre si
grattavano la pancia o si tagliavano le unghie. In fondo la doccia, come al Carracci, era al piano terra e
nessuno aveva accappatoi. I dormitori sono case, del resto, dimore collettive che non sono di nessuno.
Molte foto scattate dai partecipanti al laboratorio furono rivolte a pance, gambe, sederi, soprattutto
maschili, alle nudità esposte ad ogni ora nel dormitorio.
Per trovare spazi privati, dove essere al riparo degli altrui sguardi, molti senza fissa dimora preferiscono
vivere sulla strada, in territori liminali. Per esempio sotto determinati portici meno visibili dietro le
colonne del centro storico bolognese. Alcune foto ritraevano questi spazi, “proprietà” di senza dimora
che avevano costruito, con cartoni e altro, un vero e proprio edificio sotto i portici. Ancora oggi è
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possibile vedere queste persone spazzare ogni mattina questi “luoghi”, pulirli, prima che li attraversino i
“bolognesi”, i quali li sporcheranno, costringendo loro così a rimettere tutto a posto alla sera, prima di
andare a dormire.
La maggior parte dei senza fissa dimora vive una condizione umana limite. Se gli ospiti del Carracci
tendevano a svestirsi, altri, che sono per la strada, avendo come sola proprietà l’io-pelle, si nascondono
occultando ciò che di ultimo e prezioso possiedono, il loro corpo. Per esempio, per tutta la durata della
ricerca, Jacopo non si svestì mai della giacca invernale, anche in estate. Altri, invece, probabilmente
preferiscono nascondersi esponendosi alla massima potenza, non lavandosi.
Luoghi dove nascondersi sono anche, lo dimostrano molte fotografie che queste persone fecero, i
vestiti.
La sporcizia non è solo il segno dell’avvenuta desocializzazione, bensì anche un modo per coprirsi
con il proprio corpo. Mancando la possibilità di interporre uno spazio tra sé e il mondo, l’io-pelle –
la pelle del bambino alla nascita, unica protezione rispetto all’esterno - ritorna così ad essere il
confine ultimo con il mondo stesso (Bonadonna 2001).
9. I TERZI LUOGHI
Senza qualcosa a cui appartenere non esiste sicurezza per il sé e, tuttavia, un inglobamento totale e
un coinvolgimento con una qualsiasi unità sociale, implica un tipo di riduzione del sé. Il senso della
nostra identità personale può risultare dall’uscire da una più vasta unità sociale; esso può risiedere
dunque nelle piccole tecniche con le quali resistiamo alla pressione. Il nostro status è reso più
resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso di identità personale spesso risiede nelle
loro incrinature (Goffman 2003).
Secondo Goffman, in una società civile, quando un individuo è costretto ad accettare imposizioni che
contrastano con il concetto che ha di se stesso, gli è consentito un margine di reazioni espressive con
cui difendersi: muso lungo, espressioni di disprezzo o di ironia. Nella società civile la distanza tra il
proprio ruolo e il pubblico di fronte al quale lo si recita, evita che le dichiarazioni o le implicite
affermazioni fatte sul proprio conto in una particolare sfera di attività, vengano rapportate e
confrontate al proprio comportamento in altre situazioni. Per questo, una volta fatta la propria attività,
nessuno deve passare il tempo a guardarsi alle spalle per vedere se è oggetto di critiche o di
approvazioni. Il giudizio e l’azione dell’autorità sono mantenuti a distanza e la persona può starsene per
conto suo. Si tratta, dunque, di una personale economia d’azione, per cui, come dice Goffman: Puoi fare
ritardo con una persona ed essere puntuale con un’altra (Goffman, 2003).
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In una struttura come il Carracci questa processo risultava pressoché impossibile. L’ospite non poteva
difendersi nel modo abituale, stabilendo una distanza tra il sé e la situazione mortificante. Anche i più
piccoli segmenti dell’attività di una persona potevano essere soggetti alle regole e ai giudizi degli
operatori.
Finita la fase delle foto usa e getta, ci dedicammo a indagare quelli che potremmo definire i processi di
adattamento e di resistenza che gli ospiti della struttura mettevano quotidianamente in scena per
difendere la loro identità. Azioni di disturbo nei confronti dell’équipe, in generale tutto quell’insieme di
pratiche che, pur senza provocare direttamente gli operatori, consentono ai senza fissa dimora che
vivono tutt’oggi nei dormitori comunali di ottenere qualche soddisfazione proibita.
Emanuele, per esempio, era solito usare espressioni come riuscire a farcela, saper cavarsela. Così Goffman:
Questi adattamenti secondari sono, per l’internato, la prova del suo essere ancora padrone di sé, capace di un certo
controllo sul suo comportamento (Goffman, 2003).
Con il tempo, passando diverse serate estivi al Carracci, nei mesi di luglio e agosto 2005, scoprimmo
l’esistenza di luoghi più nascosti, territori dei senza fissa dimora che gli operatori non usavano
attraversare. La creazione di piccoli spazi fisici da gestire come una piccola comunità è, a tutti gli effetti,
una tra le pratiche più agite dai senza fissa dimora per rivendicare la propria autonomia. Per quanto
riguarda il Carracci, per esempio, tra questi territori c’era sicuramente, all’interno dello spazio cucina, il
salotto televisivo che si formava ogni sera dalle otto alle dieci. Il televisore era posto su un tavolino a
ridosso della parete più nascosta rispetto al gabbiotto degli operatori situato all’entrata. Davanti lo
schermo si disponevano quattro, al massimo cinque sedie, creando così come un piccolo spazio cinema.
L’intero territorio, quattro metri quadrati in tutto, era protetto dagli ospiti che si fermavano a parlare
davanti all’ingresso della stanza cucina. Seduti davanti allo schermo i senza fissa dimora potevano
parlare liberamente, in parte perché nascosti, in parte perché le loro voci si confondevano con quelle
che provenivano dalla televisione. Non a caso, per parlare dell’équipe degli operatori, sapere cosa ne
pensano gli ospiti al riguardo, noi utilizzammo questo spazio.
Ma un altro spazio ideale per costruire una piccola comunità è il bagno. Così l’informatore Marco di
Bonadonna:
Esistono i bagni, grazie a Dio. E lì, naturalmente, fai tutto ciò che devi fare tranne quello per cui è
fatta la toilette! Ossia dormi, ti guardi allo specchio, cerchi di schiarire gli occhi che sono viola
perché sono quattro o cinque giorni che non dormi! Dopo mezz’ora esci e ti sei dimenticato di fare
quello che si fa nella toilette. E poi magari, improvvisamente, dopo cento metri, ti prende e lo fai per
strada. E’ la norma! (Bonadonna, 2001).
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Anche Stefano ci confessò che nei bagni il senza fissa dimora può trovare la pace. E continua: Là puoi fare
tutto tranne che la barba, per questo siamo barboni, perché per gli operatori la barba non è una prima necessità, per cui se
vai al bagno pensa a fare le cose primarie. E poi c’è il pericolo delle lamette, quindi non vogliono e così restiamo barboni.
Ma alla fine nel bagno faccio tutto quello che non posso fare altrove, perché lì sto finalmente per cazzi miei! Si tratta, in
fin dei conti, di una reinvenzione dei luoghi. Così Goffman:
Si è portati a pensare che la stazione centrale sia costruita realmente per coloro che devono partire o
che hanno amici da incontrare, e non si tratti di un posto per viverci; che un vagone della
metropolitana è fatto per viaggiare […], una biblioteca per leggere, un cinematografo per andare a
vedere un film, e che qualunque forestiero usi questi luoghi come stanza da letto, non ha l’insieme di
motivazioni riconosciute valide per un tale uso. Quando ci viene riferito che un uomo andava al
reparto chirurgico dell’ospedale ogni pomeriggio, per un intero mese invernale, a visitare una
ragazza qui ricoverata che conosceva appena, perché l’ospedale era caldo e lui aveva freddo, ci si
rende contro del fatto che un ospedale possa avere una serie di motivi che giustificano la presenza
dei suoi visitatori ma, come in ogni altra entità sociale, si può trarne dei vantaggi, trovarne utilità, in
breve usarlo in modo diverso da quello ufficialmente previsto dall’organizzazione (Goffman, 2003).
Le migliori interviste le abbiamo sicuramente condotte in Sala Borsa, nel primo piano della libreria
pubblica, là dove molti ospiti del Carracci passavano il pomeriggio perché potevano leggere libri su
comodi divani in vendita disposti nelle sale espositive. Ma al Carracci vi erano, poi, i territori personali,
come i letti degli ospiti.
Altre volte questi spazi liberi sono territori dove il confine tra personale e pubblico è labile, come
specifici interstizi urbani, determinati luoghi sotto i portici bolognesi del centro dove è possibile
nascondersi riparati dalle colonne.
Ma altre pratiche di riutilizzo, di reinvenzione della quotidianità, riguardano, più che i luoghi, gli oggetti.
Se un operatore dà un bicchiere di plastica all’ospite per bere durante la notte, questo ultimo lo
utilizzerà per espletare i propri bisogni, in modo da risparmiarsi di andare al piano terra dove fa freddo
e si gela. I libri possono servire come poggia testa, come schienale. La reinvenzione riguarda anche i
nomi da dare ai luoghi e alle stesse cose. Se gli operatori chiamano la stanza dove parlare con un nome,
gli ospiti possono rinominarla stanza del caffé, per fare ironia su un territorio che invece è predisposto
per punire e ricordare all’utente del riposo notturno i suoi doveri.
Un altro utilizzo del territorio è del resto necessario per molti senza fissa dimora. Basta pensare a dove
queste persone possono avere rapporti sessuali, visto che in dormitorio è impossibile, è vietato.
Marcello, per esempio, ci ha fatto vedere che spazi della città utilizzava per fare l’amore con la sua
compagna, come angoli riposti e poco battuti dei parchi cittadini, come i Giardini Margherita.
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10.
CONCLUSIONI
Cosa significa abitare? Abitare uno luogo, una casa, una città per esempio? In tutte le culture del
mondo, a tutte le latitudini, gli esseri umani hanno elaborato forme stabili o mobili di dimora. In questo
senso, filosofi come Karl Marx e Martin Heidegger hanno considerato l’abitare come essenza
dell’uomo. Abitare deriva etimologicamente dal verbo latino abito, frequentativo di habeo, cioè avere. Ha
il significato di tenere, abitare, dimostrare. Nella struttura stessa del verbo è insita l’idea dell’abitudine. Il
concetto di abitudine ha le sue diramazioni semantiche: da habitus deriva il nostro abito, ovvero
aspetto, atteggiamento, abbigliamento. Per questo anche la disciplina antropologica ha studiato da
sempre numerosi modi di abitare che contraddistinguono differenti gruppi sociali. Nel testo “Luoghi e
corpi” l’antropologo Francesco Remotti afferma che: Abitare – oltre ad essere di per sé un’abitudine – significa
forse assumere certi abitudini, cioè il fatto che l’abitare – inevitabilmente – un certo luogo comporta la produzione e/o
l’adozione di abitudini locali, peculiari di quel luogo (Remotti, 1993).
Per cui il non-abitare di molti senza fissa dimora vorrebbe dire avere altre abitudini. Del resto, abitare è
una facoltà umana, un’abilità acquisita, costruita su una predisposizione biologica - l’essere fisicamente
presenti in un luogo -, elaborata culturalmente. In quanto tale può essere lobotomizzata – se pensiamo
a persone che hanno dovuto rinunciare ad avere una casa, una loro dimora - ma non soppressa del
tutto: laddove la griglia non è troppo stretta e si è smagliata, o laddove a volte essa è più rigida e indifferente, l’abitare
rispunta fuori, ridefinisce lo spazio anche più squallido (La Cecla 2000).
Prendiamo il caso di Bologna. Anche se in questa città non vi è una banlieue dove tutte queste persone
sono segregate, esistono diversi luoghi, molti dei quali abbiamo descritto, dove sono soliti trascorrere il
tempo, costruire capitale sociale, delle abitudini. Ciò che accomuna questi luoghi è che, nonostante
siano per lo più dislocati nel centro storico della città, assumono le sembianze di zone periferiche – un
angolo nascosto nella Sala Borsa, una panchina invisibile perché tra due cespugli a Piazza dei Martiri, un
interstizio tra due portici a via Zamboni, etc.. Eppure, osservando le pratiche spaziali di queste persone
è evidente la loro capacità di abitare questi territori in base a una conoscenza locale che è inseparabile
sia da una esperienza di vita comune partecipata, sia dell’articolazione sempre rinnovata di un rapporto
tra centri e periferie, tra interno ed esterno, tra noto e ignoto (La Cecla 2000).
Questi spazi “periferici” sono spesso trasversali perché fattori di una condizione che non può essere
delimitata entro spazi perimetrali e ben definiti: piuttosto spazi di attraversamento. I luoghi periferici un
tempo colonizzati da aree residenziali edificate con standard diversi, per esempio, le stesse fabbriche
dimesse del quartiere Navile ora abitate da numerosi senza casa, appaiono oggi come aree stratificate in
cui si mescolano elementi sperimentali, di avanguardia, con manufatti obsoleti.
Sono territori sempre più abitati da persone che definiamo “stranieri” siano essi, come nel caso
bolognese, senza fissa dimora, immigrati senza permesso di soggiorno, punkabestia, ex studenti fuori
sede disoccupati, per lo più provenienti dal Meridione. Lo straniero è oggi, anzitutto, un fuor-di-luogo
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perché nessun spazio della città è soltanto suo. Per questo suoi sono gli spazi dimenticati, di margine, i
giardini pubblici che nessuno vuole più vivere: è un ri-abilitatore di luoghi alla deriva, un ri-significatore di
giardini che diventano, come a Roma, luoghi di ristorazione per filippini e o per passanti o di un centro storico-casbah di
origine araba, come Mazzara del Vallo, ri-abitato dagli stessi tunisini che lo avevano fondato mille e più anni prima e
che i mazzaresi avevamo cominciato a rifiutare (La Cecla, 2000).
Sarebbe interessante, proprio in questa direzione, dunque, costruire delle mappe mentali dei tipi di
funzione che i nuovi arrivati “esclusi” a Bologna vi ravvisano e le funzioni che noi cittadini abituali
attribuiamo agli spazi che conosciamo. Marc Augé con i suoi Non Luoghi ha raccontato una verità che
conoscevamo forse tutti, ma che tenevamo nascosta. Ma una volta raccontata, questa verità smette
subito di esserlo. Sia perché i non luoghi hanno capacità di apprendere, sia perché, come afferma
l’antropologo La Cecla, sono proprio spesso i non luoghi l’occasione di quel perdersi che ci fa ritrovare un senso dello
spazio (Augé 1992, La Cecla 2000).
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