A
cura
di
Alessandra
E.
Forteschi
e
Oria
Gargano
Corpi
Consapevoli:
MGF
e
integrazione
nello
stato
di
diritto
ISTISSS onlus
EDITORE
1
“Stranamente lo straniero ci abita:
è la faccia nascosta della nostra identità,
lo spazio che rovina la nostra dimora,
il tempo in cui sprofondano
l'intesa e la simpatia.
Riconoscendolo in noi
ci risparmiamo di detestarlo in lui.”
J. Kristeva, Stranieri a noi stessi
“Da sempre il corpo è superficie di scrittura,
superficie atta a ricevere il testo visibile della legge
che la società detta ai suoi membri marchiandoli.
Ogni cicatrice è una traccia incancellabile,
un ostacolo all'oblio,
un segno che fa del corpo una memoria.”
U. Galimberti, Il corpo
2
Sommario
Introduzione...................................................................................................5
PARTE I
1 Corpi Consapevoli: MGF e integrazione nello stato di diritto, di A. E.
Forteschi………………………….……………………………………........9
1.1 Il contesto di riferimento…………………………………………..9
1.2 Obiettivi del progetto……………………………………………....13
1.3 Metodologia……………………………………………………...…14
1.4 Impatto del progetto sul contesto socio-territoriale di riferimento
e risultati attesi e/o verificati…………………………......................17
1.5 Le Associazioni e gli Enti coinvolti………………………………19
PARTE II
2 Le MGF nella stampa divulgativa e scientifica: modelli culturali,
criticità e linee di sviluppo, di F. Fanelli & A. Rizzo...............................23
2.1 Introduzione .....................................................................................24
2.2 Metodologia ......................................................................................25
2.2.1 La scelta delle fonti scientifiche e la raccolta degli articoli .......25
2.2.2 La scelta dei quotidiani e degli articoli ......................................27
2.2.3 L’analisi emozionale del testo………………………….……28
2.3 Repertori Culturali ..........................................................................30
2.3.1 Repertorio Culturale 3 ...............................................................32
2.3.2 Repertorio Culturale 1………………………………………....37
2.3.3 Repertorio Culturale 2………………………………….……...44
2.4 Lo Spazio Culturale …………………………………………….....48
2.5 Riflessioni conclusive …………………………………………...…53
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………………..…….….59
3
PARTE III
3 Raccontarsi attraverso l'Altra: vissuti e narrazioni per dire
l'indicibile, di A. Petricone……….……………………………………..…62
4 Le donne occidentali ci giudicano?, di A. Petricone, E. Selvi …………71
4.1 Mariam (Somalia)……………………………….…………………71
4.2 Fairus (Somalia)……………………………………...……………74
4.3 Faduma (Somalia)…………………………………………………76
4.4 Thema (Burkina Faso)……………………………………..……...77
4.5 Rabìa (Somalia)…………………..……………………………..….82
4.6 Scolastica (Nigeriana)……………………………………………....84
4.7 “Parole in libertà …”……………...……………………………….87
4.7.1 Incontro collettivo: Rabia, Marian, Fairus, Faduma e le altre…87
PARTE IV
5 MGF, ovvero un sentiero di decostruzione epistemologica, di F.
Ruggiero…………………………………………………………………………….92
5.1 Note sulla scelta metodologica…………………………………...94
5.2 Introduzione……………………………………….……..……......99
5.3 Classificazioni del fenomeno……………………………………100
5.4 Storia di pratiche di modificazione genitale…………….…….103
5.5 Le MGF oggi………………………………………………….….105
5.6 La legge…………………………………………………………...109
5.7 MGF di casa nostra e le contraddizioni del caso…….………..112
5.8 Considerazioni…………………………………………………....149
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………………………..153
PARTE V
6 MGF: l'Occidente, le Buone Pratiche, le Donne, di Oria Gargano…156
6.1 L'Occidente………………………………………………..…...…159
6.2 Le buone pratiche…………………………...……………………167
6.3 Le donne………………………………...…………………...……174
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………...……………..178
LE AUTRICI…………………………………………..…………………..179
4
Introduzione
Corpi Consapevili: MGF e integrazione nello stato di diritto è stato
un progetto che ha risposto al bando promosso dal Dipartimento delle
Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei ministri, in virtù
dell’art. 2 della Legge 7 del 9 gennaio 2006 "Disposizioni concernenti
la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale
femminile".
Abbiamo voluto inserire tale progetto in una cornice teorica ed
esistenziale che vede coinvolta la nostra società di fronte ad un
contesto di grande complessità, come per esempio la lotta
all’esclusione sociale, l’inclusione degli immigrati e delle immigrate,
con particolare attenzione al tema della parità uomo-donna, sia nelle
culture di provenienza che negli scambi con le popolazioni native, da
cui l’imprescindibile interesse per il tema della dignità personale
(spesso offesa) e dei diritti umani.
Le azioni, che hanno prodotto il presente volume e il documentario,
hanno mirato al superamento degli schematismi e degli stereotipi che
nascondono le situazioni autentiche e rappresentano le gabbie
dell’incomprensione, manifestando come il nostro concetto di
intercultura sia ancora molto insufficiente. Non solo, ma non si può
tacere che tali stereotipi sono maggiormente presenti in relazione alle
le donne, mai rappresentate/percepite nell'interezza della propria
soggettività, ma continuamente relegate a ruoli stereotipati e
paradigmatici dell'inferiorità.
Da qui, la necessità di cogliere dall’interno queste realtà,
rendendole protagoniste, per attivare un processo virtuoso di
superamento delle varie forme di etnocentrismo, sia quello più forte
che ci fa definire lo straniero “extracomunitario”, sia quello più
blando o “nobile” che parla di noi e loro, come suona il titolo di un
libro scritto a quattro mani dal filosofo statunitense Richard Rorty e
dalla filosofa indiana Anita Baslev.
Superamento necessario sia per evitare quello che giustamente è
stato definito uno scontro di inciviltà, che per dare voce all’altro in
prima persona e insieme cambiare noi oltre che inserire loro, quindi
5
abbandonare, come la filosofia del nostro tempo va facendo, l’idea
dell’io monade, per far emergere l’io nomade, cioè il meticciato che è
in ognuno di noi e ne rappresenta la ricchezza, così come gli/i
immigrati/migranti presenti nel nostro paese (di cui ci parlano le
statistiche, talvolta purtroppo la cronaca) costituiscono per l’Occidente
una preziosa opportunità, una importante occasione di crescita
reciproca.
Si deve convenire che il cammino di una inclusione sociale non è
facile, né irreversibile, le conquiste già raggiunte possono essere
messe in discussione, e annullate, passi avanti compiuti di colpo si
arrestano e si torna indietro, il rischio della chiusura e
dell’incomprensione è sempre in agguato.
A tale chiusura si deve rispondere con la creazione di ponti che
siano luoghi di dialogo, invece di muri, e quindi riaffermare il valore
della giustizia e della pace come aspirazione degli uomini e delle
donne.
In questo senso la mediazione culturale come qui è proposta è
luogo di frontiera, che unisce esperienze, saperi, conoscenze e
competenze diverse. Il nostro proposito è quello di declinare
positivamente il limite, sottolineare il bene della diversità, per arrivare
a condividere i valori e valorizzare le differenze.
Il progetto, dunque, si connota per avere una peculiare
impostazione culturale.
Considera infatti il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili
un crimine contro i Diritti Umani delle donne, e,
contemporaneamente, un segno indelebile sul corpo femminile dalla
cultura patriarcale.
Un evento iniziatico, un'usanza accettata da molte donne per il
riconoscimento nel gruppo di riferimento, e quale garanzia di
appartenenza sociale in quanto genere femminile.
In questo senso, come recita l'incipit del progetto presentato al
Dipartimento per le Pari Opportunità, il tema delle MGF
non è inteso come paradigma assoluto dell’inferiorità delle donne
africane, ma come una delle declinazioni delle forme del
6
modellamento culturale dei corpi delle donne. Da qui deriva l’intento
che informa di sé le diverse fasi del progetto, teso a sottolineare la non
alterità tra donne africane, donne immigrate, donne italiane ed
europee.
L'attuazione delle attività previste, e l'incontro con molte donne, ci
ha confortato sull'efficacia ed il valore metodologico di questo
approccio.
Un intento semplicemente descrittivo e demonizzante, infatti, può
portare ad una sorta di “scontro tra civiltà”, cristallizzando in gruppi
antagonisti ed incomunicabili le donne che provengono dalla cultura
occidentale e quelle che hanno subìto la tradizione che mutila i loro
corpi.
Ciò conduce ad un'incomunicabilità, quando non ad una vera e
propria ostilità, e non facilita certo l'empatia e la possibilità di
costruire insieme riflessioni e percorsi, che sono alla base del progetto.
Considerare invece l'integrità e la dignità del corpo, alla base della
propria soggettività di donna, offre la possibilità di esplorare scenari
insoliti e non convenzionali, e di arrivare a stabilire le modalità più
adeguate per una campagna comunicativa corretta ed efficace sulla
tematica MGF.
Si tratta insomma di trovare “Le parole per dirlo”, mutuando il
titolo di un famoso libro di Marie Cardinal1. Ma queste “parole” non
sono imposte, non passano per una presunzione di egemonia di una
Cultura sull'altra, ma attraversano un delicato e spesso complesso e
faticoso processo di autoanalisi e di riflessione che vede accomunate
donne di diverse origini. Sono parole cercate, con impegno e con
fatica, dentro di noi.
Oria Gargano
Alessandra E. Forteschi
1
M. Cardinal, Le parole per dirlo, Ed.Bompiani, 2001.
7
PARTE I
8
1
Corpi Consapevoli:
MGF e integrazione nello stato di diritto
di Alessandra E. Forteschi
O Prometeo,
non sai che le parole
son medicina all'animo che soffre.
Eschilo, Prometeo incatenato
Gli Enti e le ONG coinvolte nel progetto Corpi Consapevoli; MGF
e integrazione nello stato di diritto si connotano per condividere, pur
declinandola in diversi contesti, una forte dimensione di genere.
Di conseguenza, tutte le azioni realizzate si sono ispirate alla
riflessione e al dibattito da tempo in atto in seno al movimento delle
donne
sulla
dimensione
transnazionale
e
transculturale
dell'oppressione delle donne, e sull’evidenza di efficacia dei dettami
del “mainstreaming” nel senso enunciato nella Piattaforma di Pechino
del 1995 e successivamente ribadito.
Abbiamo posto al centro del progetto un'analisi delle soggettività
femminili, che, partendo dal lavoro di riflessione sulla corporeità delle
donne multilate/modificate, lungi dal marcare i confini di un’alterità,
ci rendano comprensibili e decodificabili gli inquietanti segni di
comunanza tra le donne, tra quei corpi modificati ed i nostri corpi
“esposti” (tuttora, e nonostante la nostra consapevolezza) ad essere
corpi-oggetto. Nella vita privata così come nell’immaginario collettivo
comune nel quale indifferentemente tutte siamo immerse.
1.1 Il contesto di riferimento
Le MGF in Italia sono un fenomeno sommerso, del quale non si
conoscono le reali dimensioni, ma dal quale non si può escludere il
coinvolgimento di medici e sanitari italiani. Da un'indagine condotta
9
nel 1993 dal Dipartimento di Psicologia Generale dell'Università di
Padova, su un campione di 318 ostetrici/ginecologi, dislocati su varie
Regioni, 147 hanno ammesso di aver trattato donne o bambine con
MGF, mentre 2 avevano ricevuto richieste di infibulazione. e le
avevano effettuate. Risulta inoltre che molto alto è il numero delle
levatrici fatte arrivare dai Paesi d'origine con il presumibile scopo di
praticare le MGF. Da altre fonti, alto risulta il disagio delle donne
provenienti dai Paesi in oggetto nella circostanza di una visita
ginecologica (Come si deve sentire un'immigrata, stesa sul lettino, con
le gambe divaricate, quando il ginecologo o l'ostetrico interrompe
senza una parola la visita, va nella stanza accanto e chiama i colleghi
a vedere la 'stranezza esotica'?2).
Il presumibile disagio esistenziale è senza dubbio esacerbato
dall'atteggiamento culturale prevalente degli italiani: sovente
ignorante, ostile, presupponente, come ha dichiarato Marica Livio,
psicologa del N.A.G.A., ambulatorio d'eccellenza per l'assistenza
degli immigrati a Milano: “Nessuno sa niente di niente. Le maestre
degli asili e delle elementari certo non pensano che una bambina che
si attarda ai servizi è perché magari ci mette un'ora ad urinare
(l'urina esce goccia a goccia, per colpa dell'infibulazione). E gli
ostetrici/ginecologi non immaginano la fragilità psicologica delle
donne operate”.
Parlando di “contesto”, insomma, non ci riferiamo unicamente alla
realtà, alla fenomenologia, alla stima quantitativa delle donne e delle
bambine sottoposte a MGF in questo Paese, ma anche al livello della
risposta sociale e istituzionale. Come è stato evidente nell'episodio
dell'uccisione della giovane pakistana Hina da parte del padre, che non
ne accettava l'“europeizzazione”, molti italiani si scagliano con
veemenza contro la cultura “altra”, omettendo la riflessione sulla
cultura “propria”.
Dimentichi degli oltre 100 omicidi di donne italiane da parte del
partner che avvengono ogni anno in Italia, per esempio.
2
www.nigrizia.it
10
O della reificazione, oggettivazione, controllo sociale del corpo e
della sessualità delle ragazze italiane.
Rimanendo nell’ambito delle MGF, dai dati riportati nel Changing
A Harmful Social Convention: Female Genital Mutilation/Cutting,
UNICEF, 2005, emerge che la maggior parte delle bambine e delle
ragazze a rischio di essere sottoposte a MGF vivono in 28 Paesi
nell'Africa e nel Medio oriente. In Africa, questi Paesi formano una
sorta di ponte dal Senegal alla Somalia. Alcune comunità della costa
yemenita del Mar Rosso sono anche conosciute per praticare questa
tradizione, mentre limitata ne è l'incidenza in Giordania,
Oman,Territori Occupati (Gaza), ed in alcune comunità curde
dell'Iraq. Anche alcune popolazioni di India, Indonesia, e Malesia ne
sono coinvolte. La Guinea pratica le MGF sulla quasi totalità di
bambine e adolescenti.
In altri Paesi, sempre secondo il rapporto UNICEF 2005, non
esistono statistiche certe del fenomeno, che tuttavia sembra essere
assai diffuso. Questi Paesi sono; Cameroon, Repubblica Democratica
del Congo, Gibuti, Gambia, Guinea Bissau, Liberia, Senegal, Sierra
Leone, Somalia, Togo e Uganda.
Nel Nord Est Africano, Egitto, Eritrea, Etiopia e Sudan, l'incidenza
del MGF è stimata tra l'80 ed il 97%, mentre nell'Est Africa (Kenia e
Tanzania) è decisamente più bassa, collocandosi tra il 18 e il 37%.
In Nigeria, la statistica d'incidenza su base nazionale è del 19%,
con una sostanziale differenza tra le regioni del Sud, che raggiungono
anche il 60%, e le regioni del Nord, dove l'incidenza si colloca tra lo 0
ed il 2 %.
In Italia la popolazione immigrata legalmente residente è così
definita: 5,4% Nord Africa; resto dell'Africa 10,1%; Asia occidentale
e centro meridionale 17,7%; Asia Orientale 18,2%; India 20,7%;
Egitto 15% (dati aggiornati al 2004, Primo Rapporto Regionale
sull'immigrazione del Lazio in “Sinergie-rapporti di ricerca”, n. 25,
dicembre 2006).
Rimangono fuori da questi dati molte migliaia di immigrati che non
hanno potuto regolarizzare la propria posizione sul territorio italiano.
11
Da questo dato discende un'ulteriore considerazione: quante sono,
tra costoro, le donne, senza regolare permesso di soggiorno, talvolta
costrette in situazioni di sottomisssione nell'ambito della famiglia,
impossibilitate a chiedere aiuto, rivolgendosi ai Centri specializzati,
alle strutture sanitarie, alle associazioni di settore?
Country
Survey type and date
National
prevalence
FGM/C %
Benin
DHS 2001
17
Burkina Faso
DHS 2003
77
Central African Republic
MICS 2000
36
Chad (provisional)
DHS 2004
45
DHS 1998-9
45
Egypt *
DHS 2003
97
Eritrea
DHS 2002
89
Ethiopia
DHS 2000
80
Ghana
DHS 2003
5
Guinea
DHS 1999
99
Kenya
DHS 2003
32
Mali
DHS 2001
92
DHS 2000-1
71
Niger
DHS 1998
5
Nigeria
DHS 2003
19
Sudan* +
MICS 2000
90
Tanzania
DHS 1996
18
Yemen*
DHS 1997
23
Côte d’Ivoire
Mauritania
Tab. 1 FGM/C prevalence among women aged 15 to 49 by country (UNICEF)
12
1.2 Obiettivi del progetto
Gli interventi previsti sono stati indirizzati alla realizzazione di
analisi, informazione, sensibilizzazione e produzione di strumenti,
nell’ottica della “diffusione di conoscenze e dell’implementazione di
strumenti finalizzati alla tutela dei diritti umani delle donne e delle
bambine”.
Questo può essere reso possibile attraverso la realizzazione di tre
condizioni:
 la creazione di un ambiente improntato alla valorizzazione dei
diritti delle donne e delle bambine;
 l’aumento di una coscienza e di una consapevolezza del fenomeno
da parte di donne e uomini;
 la creazione di un gruppo di lavoro che prevede “la partecipazione
delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni no profit,
delle strutture sanitarie, in particolare dei centri riconosciuti di
eccellenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle
comunità di immigrati provenienti dai paesi dove sono praticate le
MGF” [art. 3 lett. b) L. 9 gennaio 2006 n. 7].
Negli obiettivi specifici, il progetto ha:
a) realizzato una ricerca che ha indagato le rappresentazioni
riguardanti le MGF ed ha rilevato i modelli culturali prevalenti
sulle MGF che organizzano la relazione di convivenza, al fine di
costruire degli indicatori qualitativi che orientino l’azione delle
campagne informative e di sensibilizzazione;
b) realizzato un opuscolo informativo sulla legislazione italiana ed
internazionale in materia di MGF;
c) realizzato un documentario e un libro, che vogliono portare alla
luce una dimensione di trasversalità delle problematiche di genere,
in cui le donne si raccontino e raccontino le proprie difficoltà e le
strategie messe in atto per superare le difficoltà cui vanno
incontro. Strategie sempre più spesso creative, che esprimono la
forza e la voglia di cambiamento che caratterizza le donne in tutti i
paesi, senza piaggerie e vittimismo. Come sottolinea anche Fatima
13
Mernissi, se da una parte esistono il velo, il burqua, le MGF,
dall’altra esiste l’ossessione della taglia 42, della perfezione del
corpo, dell’eterna giovinezza. Questioni che rispecchiano società
maschili in cui le donne sono solo appendici; questioni spinose, di
cui le donne oggi prendono sempre più consapevolezza, che
vogliono affrontare e ridiscutere insieme.
Il progetto, in quest’ottica di trasversalità, ha cercato anche di
indagare quali siano le percezioni delle donne (italiane e straniere)
riguardo il proprio corpo; indagine che in questo progetto si è
presentata in fase embrionale, poiché essenzialmente rivolta
all’orientamento dell’informazione, ma che potrà essere resa
disponibile per ulteriori elaborazioni ed eventuali progettualità.
1.3 Metodologia
Siamo partite dalla premessa che le culture (per noi sono dinamiche
e dimensioni simbolico-emozionali) organizzino i legami, le relazioni,
i rapporti, i processi di convivenza.
Per intervenire sui processi di convivenza, sulle relazioni –
nell’ottica di promuoverne lo sviluppo, di migliorare la qualità della
comunicazione interculturale – è utile conoscere le culture che li
fondano, li organizzano, in altre parole l’implicito, l’ovvio e lo
scontato che li caratterizzano.
L’obiettivo della ricerca psicosociale pertanto è stato quello di
rilevare i modelli culturali prevalenti sulle MGF che organizzano la
relazione di convivenza, al fine di costruire degli indicatori qualitativi
che orientino l’azione. La rilevazione, la misurazione e l’analisi delle
rappresentazioni emozionali sulla stampa nazionale possono dunque
costituirsi quali indicatori della competenza a trattare con l’estraneo.
La metodologia utilizzata, per quanto riguarda la ricerca, è
l’Analisi emozionale del testo ( AET): uno strumento psicologico di
analisi di testi e discorsi (colloqui, interviste, discussioni, articoli) che
permette di rilevare (tramite indicatori qualitativi) le dinamiche e le
dimensioni emozionali - simboliche (culture o modelli culturali) che
organizzano le relazioni (personale socio/sanitario/migranti
14
appartenenti alle nazionalità a rischio MGF) ed i processi di
convivenza (rapporto autoctoni - stranieri).
Da un punto di vista tecnico, questa metodologia si basa sulla
clusterizzazione (individuazione di raggruppamenti) delle “parole
dense” – parole ad alta capacità di comunicazione emozionale presenti nelle frasi in cui si articola il corpus stesso. La
clusterizzazione delle parole dense è effettuata tramite il supporto di
un programma informatico che è in grado di individuare le cooccorrenze lessicali per “frammenti” di testo.
Con AET quindi il corpus testuale viene de-strutturato in unità di
testo elementare in funzione della ricorsività delle parole dense entro
le unità stesse.
Si ipotizza che i diversi raggruppanti di parole co-occorrenti
rappresentino le diverse dimensioni culturali in cui si articola la
rappresentazione dell’oggetto in esame.
Il passaggio successivo a questa operazione consiste nel costruire
delle ipotesi, attraverso un lavoro interpretativo sui raggruppamenti di
parole dense, sulle rappresentazioni emerse entro quel determinato
contesto, allo scopo di individuare delle piste percorribili per orientare
delle strategie di intervento.
Per la realizzazione dell’opuscolo contenente la legislazione
italiana e internazionale, sono stati utilizzati metodi di raccolta,
comparazione, analisi critica e semplificazione linguistica, volta a
rendere facilmente accessibili i contenuti, soprattutto in
considerazione delle successive traduzioni.
Infine, per la realizzazione dei prodotti artistici e audiovisivi la
metodologia impiegata si è sviluppa su due fronti.
Da una parte l'uso delle tecnologie necessarie alla realizzazione di
un documentario e alla sua diffusione in rete.
Dall'altra un intenso lavoro di confronto, raccolta di storie di vita,
di scrittura ed elaborazione delle dinamiche, nonché di riflessioni più
generali sul modellamento culturale del corpo delle donne, in
Occidente come in Oriente. Metodologia, dunque, che unisce alla
15
tecnica la creatività e la suggestione, per dar vita ad un prodotto utile e
piacevole, frutto di un grande lavoro di complementarietà e sinergia.
L’uso delle interviste narrative nella realizzazione del
documentario e di parte della ricerca oggetto del presente libro è stato
il punto cardine, intorno al quale si è sviluppato tutto l’impianto del
progetto.
Per meglio comprendere che cosa intendiamo per intervista
narrativa, come sottolinea Robert Atkinson, è bene definire in che
cosa consiste il materiale che tale intervista consente di raccogliere:
-
la story, ossia il racconto in prima persona in cui l’individuo
presenta un’esperienza vissuta, in riferimento ad uno specifico
tema definito dal ricercatore;
-
la life story, in cui l’individuo presenta l’esperienza che ha
vissuto nel corso di tutto l’arco della propria esistenza;
-
la history, ovvero la cronaca, il racconto fatto da una terza
persona sull’esperienza di un singolo individuo.
Il materiale riportato sia nel libro che nel documentario è la story,
in cui le donne intervistate hanno offerto la propria esperienza e il
proprio vissuto sul tema delle Mutilazioni/modificazioni Genitali
Femminili.
Ma perché un prodotto basato sulle storie di vita?
Ce lo spiega il racconto riportato da Brady nel 1990 in Adult
Education Quarterely:
C’era una volta un villaggio isolato, in cui viveva un rabbi molto
saggio: il più saggio tra tutti gli abitanti del villaggio. Per anni era stato
la guida del suo popolo, ed era intervenuto per salvare il villaggio nei
momenti difficili. Quando giungeva un pericolo (un nemico, una
carestia, un’epidemia) il rabbi si ritirava in un luogo segreto nella
foresta che circondava il villaggio. Giunto in quel luogo accendeva un
fuoco e recitava una preghiera. Questo bastava a far passare il pericolo.
Il giorno in cui il rabbi morì uno dei suoi figli, anch’egli un rabbi,
prese il suo posto. Quando giunse un pericolo si recò nella foresta e
accese un fuoco, ma siccome non conosceva la preghiera recitata da
16
suo padre fece ritorno al villaggio. Ciò fu sufficiente: il pericolo passò
e il villaggio fu salvo.
Arrivò un giorno in cui anche il figlio del primo rabbi morì, e suo
figlio divenne rabbi al suo posto. Quando giungeva un pericolo si
recava in un luogo segreto della foresta. Qui non accendeva un fuoco e
neanche diceva una preghiera; ma il pericolo passava ugualmente.
Passò altro tempo e il villaggio ebbe un quarto rabbi., il figlio del
figlio del figlio del primo rabbi. Quando il villaggio correva un
pericolo non accendeva un fuoco e non diceva una preghiera, e
nemmeno andava nella foresta. Semplicemente rimaneva a casa,
chiamava intorno a sé tutti gli abitanti del villaggio e raccontava loro la
storia del suo bisnonno, di suo nonno e di suo padre.
E il pericolo passava.
Il potere delle storie sta nel fatto che esse intervengono nel rapporto
tra le singole persone e la realtà circostante consentendo loro di
conoscere, di farsi conoscere e di produrre effetti.
Ed è soprattutto in riferimento alla capacità delle storie di generare
conoscenza che si è centrato il nostro interesse.
1.4 Impatto del progetto sul contesto socio-territoriale di riferimento
e risultati attesi e/o verificati
Poste di fronte alla complessità del fenomeno delle MGF, ed invitate a
leggerlo da punti di vista insoliti, le donne occidentali hanno forti
reazioni, ed il dibattito si problematicizza sempre, anche arrivando a
momenti di autoanalisi e di presa di coscienza. Contemporaneamente,
le donne provenienti dai Paesi in cui le pratiche sono diffuse
apprezzano molto l'approccio non “coloniale” e non basato sull'alterità
che informa di sé tutto il progetto.
Nel passaggio dall’ipotesi progettuale all’attuazione abbiamo potuto
constatare la complessità dei percorsi per attuare gli obiettivi del
progetto, riscontrabili per esempio nella difficoltà con cui si
raccolgono le testimonianze, negli elementi che sia pure in forma
embrionale si evidenziano dalla letteratura, nella costruzione della
condivisione degli obiettivi tra i partner. Ciò consente di poter
affermare che il percorso progettato è realizzabile attraverso un lavoro
di costruzione capillare di rete e reticoli.
17
Lo svolgersi delle azioni ha reso evidente l'efficacia del particolare
approccio che è stato alla base del progetto.
Tutte le occasioni di confronto, più o meno strutturate, hanno favorito
dibattiti molto accesi, attinenti alla percezione di sé, del proprio corpo,
stabilendo inedite similitudini tra i diversi segni con i quali le diverse
culture, tutte maschili, “segnano” i corpi delle donne.
Le criticità attengono invece alla sensibilità del tema in sé.
Come peraltro prevedibile, non è facile per le donne che hanno subìto
modificazioni genitali raccontare il proprio vissuto, e in alcuni casi la
richiesta di parlare dell’argomento ha ricevuto un diniego.
Il successo delle interviste è dipeso dalla delicatezza, sensibilità ed
empatia delle intervistatrici.
Come indicato precedentemente, il progetto, vedendo coinvolte
dinamiche socio-culturali sedimentate nel corso dei secoli, si pone
come l’inizio di un percorso a lungo termine.
Ha inteso, dunque, muoversi nell’ottica della sensibilizzazione e
dell’informazione, per ampliare la conoscenza del fenomeno e fornire
strumenti per allargare la consapevolezza del fenomeno nelle culture
coinvolte.
Altresì, ha inteso rendere note le iniziative messe in atto per
combattere le MGF, che non riguardano solo l’inasprimento delle
pene o l’introduzione di sanzioni penali nei paesi dove queste sono
praticate, ma anche l’adozione di azioni alternative, che propongono la
sostituzione delle MGF con riti che non recano alcun danno a donne e
bambine, in paticolare nei Paesi in cui queste pratiche sono portate
avanti.
Coerentemente agli obiettivi, agli ambiti di intervento individuati e
quanto stabilito dal bando, abbiamo dunque mirato a:
• analizzare le culture veicolate dalla stampa sulle MGF e delle
rappresentazioni che organizzano il discorso sulle MGF nella
produzione giornalistica del contesto italiano;
• mappare i rischi e la dimensione del fenomeno.
• produrre e implementare strumenti finalizzati alla tutela dei diritti
umani delle donne e delle bambine
18
•
diffondere la cultura di genere e incrementare la sensibilità sulle
tematiche delle MGF, la consapevolezza e la conoscenza del
fenomeno, sia nelle comunità di immigrati presenti sul territorio
italiano, che presso la popolazione italiana.
1.5 Le Associazioni e gli Enti coinvolti
Il progetto si è inserito in un’ampia rete di parternariato, che ha
coinvolto associazioni femminili, associazioni culturali e di settore,
enti territoriali e nazionali, creando una sinergia tra i vari segmenti da
essi rappresentati e una collaborazione spendibile in azioni future.
Nello specifico, il progetto vede:

Istituto per gli Studi sui Servizi Sociali (ISTISSS) – capofila: porta
vanti da anni attività di documentazione e ricerca nel campo dei
servizi sociali all’immigrazione, sul quale tema possiede una delle
più grandi biblioteche esistenti in Italia ed edita una rivista
trimestrale sulle tematiche più innovative nel campo dei servizi
sociali.

Roma Tre – Dipartimento di Filosofia. Attivo fin dal 2000
nell'organizzazione di attività di ricerca e di percorsi di studio
post-lauream, corsi di formazione e di aggiornamento nelle
tematiche di genere, di incontri, convegni, iniziative che vedono la
partecipazione di donne attive nelle politiche di genere,
provenienti da Paesi extraeuropei.

Be Free: cooperativa sociale contro tratta, violenze,
discriminazioni, svolge una grande mole di lavoro frontale e di
sostegno a donne immigrate in difficoltà o vittime di violenze,
nonché opera di ricerca su queste tematiche. Attualmente: è
partner della Provincia di Roma in “Prendere il volo 2” e della
Regione Lazio, nel progetto “CIVITAS3” (svolgendo attività di
sportello presso il CIE di Ponte Galeria per le persone ivi
trattenute perché non in regola con le vigenti normative
sull’Immigrazione); porta avanti il progetto “Nessuno tocchi Eva e
le sue figlie”, con il comune di Bracciano; gestisce lo Sportello
Donna sito nel Pronto Soccorso dell’A.O. San Camillo. Ha inoltre
realizzato il ciclo di seminari “Spirali di Violenze”, con il
19
Dipartimento di Filosofia di Roma tre. è annoverata tra le più
rilevanti esperienze italiani nella lotta alla violenza contro le donne
e alla tratta di esseri umani nel manuale “Speak Truth To Power”
(“Coraggio Senza Confini”), pubblicazione a cura della Robert
Kennedy Foundation Europe, diffuso, in protocollo con Il
Ministero dell’ Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nelle
scuole medie superiori nell’anno scolastico 2008-2009, per
favorire la conoscenza e la comprensione delle tematiche legate ai
Diritti Umani;

AssoLei – Sportello donna: svolge attività di ricerca, formazione e
informazione; offre ascolto e consulenza giuridica alle lavoratrici e
alle donne in difficoltà, italiane e immigrate, che ne fanno
richiesta, nei casi di discriminazione sul lavoro, molestie sessuali e
mobbing. Fin dagli inizi si caratterizza: per le attività di ascolto,
consulenza, sostegno giuridico alle lavoratrici e professioniste,
dipendenti o autonome; per le attività di prevenzione,
informazione, formazione rivolte ai datori di lavoro, agli
amministratori, alle aziende (sia pubbliche che private), alla scuola
e all' università; per le attività di ricerca e documentazione.

Tivvù Donna puntonet - prima web tv indipendente, gestita da un
gruppo di giovani donne, interamente dedicata alle tematiche di
genere.

Coordinamento Italiano Lobby Europea delle Donne: ha
sviluppato una fortissima esperienza fornendo gli indirizzi delle
politiche di genere e della legislazione a livello europeo; da lungo
tempo si occupa delle problematiche delle donne migranti, tanto
da annoverare al proprio interno una piattaforma di associazioni di
donne provenienti da diverse geografie.

Integra, associazione di mediatori italiani e immigrati, che lavora
presso le strutture sanitarie di Modena.

Delt@iltuogeneredinformazione, agenzia stampa specializzata
nell'informazione in ottica di genere.
Al progetto hanno aderito inoltre: Mama Africa; Ats – progetto
Prendere il Volo per vittime di tratta; Bova Comunità di Accoglienza
ONLUS; Associazione di donne africane Tabanka; MEDEA.
20
La clinica ginecologia dell’Università di Chieti, il Collegio
provinciale delle Ostetriche di Roma, la sezione dell’AVIS di Lucera
(FG), ci hanno garantito gli elementi per lo studio della tematica in
oggetto, attraverso la dimensione del ricorso delle donne immigrate
alle strutture sanitarie.
Consulente per la ricerca è stata la dott.sa Laura Moschini: dottore
di ricerca in Dottrine politiche e questione femminile, si occupa di
studi e politiche di genere nel campo dell’istruzione, della formazione
e delle pari opportunità. Attualmente collabora con il Dipartimento di
Filosofia di Roma tre.
21
PARTE II
22
2
Le MGF nella stampa divulgativa e scientifica: modelli
culturali, criticità e linee di sviluppo
di F.Fanelli, A. Rizzo
“Oggi le MGF sono praticate in tutta l’Europa Occidentale,
negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda…
Io ho chiesto alle madri perché lo fanno.
La ragione generale è il mantenimento dell’identità
e della tradizione, nella speranza di tornare in patria un giorno.
Infatti alcune madri appaiono più conservative di quelle che sono rimaste in Africa.
Il senso di insicurezza in un paese straniero
e la percezione di un forte rifiuto da parte della società ospitante
sono elementi negativi per gli Africani che vivono fuori dal loro Paese,
che li spingono a rispettare le loro tradizioni e
da mantenere fortemente la loro identità.”
Berhane Ras-Work,
Executive Director di Inter African Committee
nel corso della Conferenza Europea
“Joint action of Members State against Harmful Traditional Practices”,
Bruxelles
Prima di illustrare il percorso di ricerca e i suoi esiti, riteniamo utile
esplicitare la premessa culturale che ha orientato il nostro lavoro,
premessa che non legittima la pratica delle MGF in nome di un
relativismo culturale, ma neanche giudica a priori l’Altro in nome di
una presunta superiorità.
La posizione che assumiamo, di contro, riconosce nel dialogo
interculturale “la possibilità di comprendere anche ciò che non si può
accettare”, come mette in evidenza Clifford Geertz (1994). Intendendo
con ciò non il compromesso fra punti di vista differenti che devono
raggiungere necessariamente un accordo, ma come spazio in cui può
avvenire la comprensione e la costruzione di senso della specifica
pratica culturale, allo scopo di trovare un terreno comune di confronto
23
per raggiungere l’obiettivo di fare diventare la pratica stessa un
“pallido ricordo”.
Assumiamo dunque lo sguardo della complessità in cui sono
presenti polarità da integrare, l’etnocentrismo da una parte e il
relativismo culturale dall’altra, nell’ipotesi di trovare una strada per
coniugare il rispetto delle culture e la difesa dei diritti umani.
Per questa ragione ci riferiremo a tutti i riti di iniziazione a
carattere riduttivo o estensivo dei genitali femminili, che l’OMS
definisce ufficialmente “mutilazioni genitali femminili”, attraverso
l’acronimo MGF che rende chiaro l’oggetto di studio senza caricarlo
di giudizi di valore. La definizione ufficiale è stata, infatti, contestata
da gruppi di donne africane e da diversi attori che si occupano in
modo sistematico dello studio di tale pratica (Pasquinelli 2000; ShellDuncan, 2001; Fusaschi 2003; Grassivaro Gallo 2004; Obermeyer
2005).
2.1 Introduzione
Il contributo che proponiamo, nel dibattito politico e nello sviluppo
di interventi di sensibilizzazione e informazione per il contrasto della
pratica delle MGF, è dato dai risultati della ricerca psicosociale sulla
stampa giornalistica e scientifica che ha consentito di mettere a fuoco
le rappresentazioni simboliche sul tema delle MGF.
Pensiamo che sia utile conoscere tali rappresentazioni sulle MGF
per capire qual è l’immaginario collettivo che orienta i legami sociali
e i processi di convivenza interculturale e di genere, al fine di costruire
degli indicatori qualitativi utili allo sviluppo della qualità della
comunicazione/relazione interculturale, ed in grado di orientare la
realizzazione di interventi di sensibilizzazione e di informazione sulle
MGF.
Verranno considerati i discorsi che la letteratura scientifica, da una
parte, e la stampa giornalistica, dall’altra, fanno sulle MGF,
sottolineandone l'aspetto simbolico, la costruzione e la comunicazione
dell’immagine delle MGF, quale evento sociale su cui la società e la
scienza si sta interrogando. In particolare l'analisi verte sui quotidiani
24
e sulle riviste scientifiche e specialistiche italiane, pubblicati dal 2004
al 2007.
2.2 Metodologia
2.2.1 La scelta delle fonti scientifiche e la raccolta degli articoli
Si è scelto di consultare, in un’ottica interdisciplinare, le riviste
italiane scientifiche che hanno ospitato articoli sulle MGF tra il 2004 e
il 2007. Le riviste che sono state prese in considerazione sono:
• Sociologia e ricerca sociale: è una rivista che privilegia le
relazioni che intercorrono fra lo statuto scientifico della teoria
sociale e l’intervento sociale. La rivista ospita articoli che
affrontano temi e problemi che vanno dalla teoria sociale alla
sociologia della comunicazione, dalle professioni al territorio,
dalle organizzazioni complesse ai servizi sociali, dal diritto e dalla
politica al lavoro e alla sociologia della scienza e della
conoscenza.
• La rivista Italiana di Ostetricia e Ginecologia: è la prima rivista
italiana specialistica pubblicata fin dal 1974. La rivista vuole porsi
come riferimento per gli Specialisti ed in pari tempo si propone
come “collegamento” con i Medici di Medicina Generale.
• La rivista di sessuologia: fondata nel 1960, riunisce studiosi,
professionisti e operatori sociali interessati agli aspetti umani,
educativi e clinici della sessualità umana. Promuove la ricerca
sessuologica, scientifica, psicologica e antropologica in ottica
interdisciplinare.
• La rivista di sessuologia clinica: costituisce uno strumento di
aggiornamento sia teorico-metodologico che pratico-clinico per
coloro che si occupano dei diversi aspetti della sessualità umana,
allo scopo di favorire un confronto dialettico e per promuovere
l’integrazione dei diversi approcci e competenze. La rivista ospita
contributi nazionali e internazionali nell’ambito della sessuologia.
• La rivista sperimentale di freniatria: è il più antico periodico
italiano di psichiatria. Essa pubblica lavori nell’ambito della salute
mentale superando le angustie di una logica strettamente
disciplinare e privilegiando il dialogo fra saperi contigui,
25
•
•
•
•
accomunati dall’interesse per la persona e la società, con l’intento
di contribuire in tal modo alla ricerca del senso e del significato
delle condizioni di sofferenza e benessere psichici.
La rivista di Psichiatria: rappresenta, insieme alla rivista
precedente, uno dei più antichi fogli di approfondimento
scientifico sui temi della Psichiatria del nostro Paese. Negli ultimi
anni la rivista si è avvalsa di contributi scientifici da parte dei
maggiori esperti italiani dell'area accademica. Particolare
attenzione è data alla presentazione di esperienze del cosiddetto
"territorio", con la scelta redazionale di pubblicare lavori
provenienti da realtà quali i Servizi di Diagnosi e Cura ospedalieri,
i Centri di Salute Mentale, i Day Hospital.
Democrazia e diritto: è un rivista più che quarantennale che cura
l’approccio giuridico e si propone di collegare lo specialismo
disciplinare, spesso troppo chiuso nella sua particolarità, ai grandi
temi sociali che consentono di situare meglio teoria e pratica del
diritto.
Rassegna italiana di criminologia: si propone di diffondere in
Italia ed all’estero i risultati delle ricerche e delle riflessioni
condotte dai cultori della disciplina. Si avvale del contributo di
studiosi di tutte le discipline scientifiche che si occupano
dell’uomo e della società, nonché di operatori giudiziari,
penitenziari, psichiatrici e socio-sanitari.
Difesa Sociale: periodico scientifico multidisciplinare dell'Istituto
per gli Affari Sociali, pubblica articoli di Sociologia, Psicologia
sociale, Medicina del lavoro, Medicina preventiva, Epidemiologia,
Economia, Medicina legale, Giurisprudenza, Biologia, Genetica,
Ingegneria, Bioetica, Igiene ambientale ecc.. Sin dalla fondazione
nel 1922 l'intento principale della rivista è tenere vivo il dibattito
sui fenomeni culturali, ambientali, economici, sociali di maggiore
attualità, per studiarne le correlazioni con la salute ed il benessere
della collettività e stimolare interventi a tutela della qualità della
vita e del lavoro.
Sono stati raccolti complessivamente 10 articoli pubblicati tra il
2004 e il 2007 nelle riviste considerate, che sono andati a formare un
testo di 119 pagine.
26
2.2.2 La scelta dei quotidiani e degli articoli
Attraverso Pubblicità Italia, ADS Accertamenti diffusione Stampa
(dati riassuntivi medi – Media mobile ogni 12 mesi, da Gennaio 2004
a Dicembre 2007) si sono individuate le testate più diffuse in Italia
con la tiratura media più alta.
Seguendo tale criterio si è proceduto con lo spoglio dei seguenti
quotidiani nazionali: La Repubblica, il Corriere della Sera e La
Stampa, Il giornale, Il Messaggero.
Il Corriere della Sera, pubblicato a Milano, è attualmente il
quotidiano più diffuso in Italia con una tiratura media di più di
840.000 copie giornaliere. Segue La Repubblica, il quotidiano
appartenente al Gruppo editoriale L'Espresso, pubblicato a Roma, la
cui tiratura media giornaliera è risultata essere poco più di 790.000
copie al giorno. La Stampa è attualmente il terzo quotidiano nazionale,
con una tiratura media di poco più di 430.000 copie. Il Messaggero, di
Caltagirone Editore con sede a Roma, ha una tiratura di poco più di
315.000 copie al giorno. Il Giornale, della Società Europea di
Edizioni, pubblicato a Milano, ha una tiratura di quasi 310.000 copie
al giorno e si colloca al sesto posto tra i quotidiani d'informazione
nazionali.
Attraverso gli archivi degli stessi giornali e di Lexisnexis messi a
disposizione dalla Biblioteca del Senato della Repubblica si è
proceduto con lo spoglio dei giornali e sono stati raccolti tutti gli
articoli prodotti sul tema MGF negli anni di riferimento. Dopo una
lettura attenta sono stati selezionati soltanto gli articoli incentrati
sull’argomento, scartando quelli in cui le MGF erano soltanto citate o
in cui la parola veniva riportata in elenco. Sono stati raccolti
complessivamente 115 articoli pubblicati tra il 2004 e il 2007 nei
quotidiani considerati.
2.2.3 L’analisi emozionale del testo
Per analizzare il discorso sulle MGF nella stampa e nella letteratura
scientifica si è scelto di individuare i modelli culturali presenti nei
testi attraverso l’analisi emozionale del testo ( AET), uno strumento
psicologico di analisi di testi scritti (Carli e Paniccia, 2002). Si tratta
27
di una metodologia che consente di evidenziare i repertori collusivi3
presenti in un testo al fine di analizzare i modelli culturali che
organizzano emozionalmente il testo stesso. L’AET dunque consente
di analizzare la “cultura” intesa come costruzione emozionale della
conoscenza di specifici contesti, oggetti e relazioni sociali (Fanelli,
Terri, 2007; Fanelli, Terri, Bagnato, Pagano, Potì, Attanasio, Carli,
2006). L’analisi, che abbiamo effettuato sui testi considerati, ha
consentito di evidenziare i modelli collusivi con i quali la stampa e la
letteratura
scientifica
organizzano
emozionalmente
la
rappresentazione delle MGF.
Il rapporto tra AET e Cultura è istituito sulla base di precise
premesse teoriche. Si ipotizza che il linguaggio (parlato o scritto)
risponda al principio della “doppia referenza” (veicolando al
contempo un significato semantico e un senso emozionale) postulato a
suo tempo da Fornari (1983), e che le parole con cui è organizzata la
produzione linguistica possano essere suddivise in due grandi
categorie: parole dense (ad esempio proibire, bomba, trauma…), con
il massimo di polisemia, se prese a se stanti, ed il minimo di ambiguità
nel significato; parole non-dense (ad esempio: tuttavia, ritenere,
perciò….), con il massimo di ambiguità di senso e, quindi, con il
minimo di polisemia. Per polisemia si intende l’infinita associazione
di significati e di senso, attribuibili ad una parola se presa a se stante,
se svincolata dal contesto linguistico che ne riduce la polisemia stessa.
Si tratta, evidentemente, di una polisemia “emozionale”, che viene
trasformata nel “senso”, cognitivamente inteso, della parola stessa
quando questa sia iscritta entro il contesto linguistico. Le parole nondense sono parole ambigue (si pensi ad esempio a parole come
“ritenere” o “tuttavia”), che, per aver assegnato un senso entro il
linguaggio parlato o scritto, hanno bisogno di essere iscritte entro il
contesto linguistico. In questo, ambiguità e polisemia sono
connotazioni inversamente proporzionali nel definire le parole: le
3
Per collusione s’intende il processo di comune simbolizzazione affettiva entro uno
specifico testo-contesto, il processo relazionale che connette simbolicamente ogni
soggettività al proprio contesto di appartenenza e ne implica una “rappresentazione”.
28
parole dense sono quelle caratterizzate da un massimo di polisemia e
da un minimo d’ambiguità. Parole che, all’interno di un testo, possono
essere raggruppate in funzione della loro ricorsività entro segmenti del
testo stesso. Si tratta di un’operazione di identificazione di
raggruppamenti ricorrenti di parole, entro specifici segmenti,
effettuata attraverso l’analisi delle corrispondenze4 tra le parole dense
evidenziate nel testo ed i segmenti del testo, preventivamente
individuati. Queste analisi sono rese possibili da specifici programmi
informatici per l’analisi del testo; in questo caso, il software utilizzato
è Alceste (Analyse des Léxèmes Cooccurrents dans les Enoncés
Simples d'un Texte) di Max Reinert (1995, 1998, 2000). Chiamiamo i
raggruppamenti di parole dense Repertori Culturali o Cluster: insieme
di parole dense co-occorrenti entro i segmenti ove le stesse parole
ricorrono con la più elevata probabilità. La funzione della cooccorrenza delle parole dense, entro lo stesso Repertorio, è di ridurre
gli infiniti significati di ciascuna parola densa; è come se ciascuna
parola considerata, nell’incontro di co-occorrenza con le altre parole,
perdesse una quota di polisemia consentendo, così, la costruzione dei
differenti Repertori. L’attribuzione di senso emozionale agli incontri
di co-occorrenza avviene attraverso l’utilizzo di modelli teorici di
matrice psicodinamica e psicosociale che consentono in prima istanza
di risalire ai processi collusivi, simbolici, culturali, propri dei
differenti Repertori, e successivamente di dare senso emozionale alle
relazioni tra gli stessi Repertori in cui si articola la Cultura oggetto
della ricerca.
2.3 Repertori culturali
Iniziamo dal considerare ed analizzare gli incontri di cooccorrenza, a partire da quelli tra le parole dense a più elevata
4
Come tutti i metodi di analisi fattoriale, l'analisi delle corrispondenze consente di
estrarre nuove variabili - i fattori appunto - che hanno la proprietà di riassumere in
modo ordinato l'informazione. Consente inoltre di predisporre grafici atti a
rappresentare - in uno o più spazi - le entità linguistiche raggruppate per cooccorrenza.
29
centralità nel Repertorio; vale a dire dalle parole che più hanno
contribuito, in termini di significatività statistica, alla costituzione del
Repertorio.
L’ipotesi che regge l’analisi è che l’insieme delle co-occorrenze
analizzate consenta di comprendere la “cultura” che caratterizza quel
Repertorio5.
Nella figura 1 è rappresentato lo spazio fattoriale (Spazio
Culturale), definito dall’incrocio dei tre assi cartesiani, denominati
fattori, che spiegano il massimo della varianza totale dei dati.
L’AET ha evidenziato la presenza di 3 cluster o Repertori
Culturali, posizionati nel modo seguente nello Spazio Culturale: alla
sinistra del primo asse fattoriale, quello orizzontale, si situa il R.C.
3; sul secondo asse fattoriale, quello verticale, troviamo in basso il
R.C. 2 che si contrappone al R.C. 1, dislocato nella parte alta dello
spazio culturale; sul terzo asse fattoriale, che va immaginato
perpendicolare alla pagina, non ci sono repertori culturali.
Inizialmente descriveremo le dimensioni culturali che
caratterizzano i singoli Repertori Culturali emersi con il trattamento
statistico del testo, e successivamente approfondiremo le relazioni tra
le culture presenti nei tre Repertori con l’obiettivo di rilevare la
specifica Cultura in analisi, così come si è organizzata entro lo Spazio
Culturale.
5
L’analisi degli incontri di co-occorrenza parte prendendo in considerazione
l’etimologia delle parole dense che compongono i cluster o Repertori Culturali.
Come mettono in evidenza R. Carli e R.M. Paniccia (2002, p. 169), “il ricorso
all’etimo delle parole ha la funzione di orientare il ricercatore, entro la polisemia
della parola densa, individuando aree emozionali ove la mente può associare”.
Abbiamo preso in esame le etimologie utilizzando i seguenti dizionari: Devoto G.,
Avviamento all’etimologia italiana, Le Monnier, Firenze, 1989; Cortellazzo M.,
Zolli P., Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1984;
Castiglioni L., Mariotti S., Vocabolario della lingua latina, Loesher, Torino, 1966;
De Mauro T., Grande Dizionario italiano dell’Uso, Utet, Torino, 2003.
30
La successione dei repertori culturali descritti è funzionale alle loro
reciproche posizioni sul piano fattoriale: si inizierà dal primo asse
fattoriale, con il R.C. 3, per poi proseguire con i R.C. 2 e 1, collocati
sul secondo fattore.
Fig. 1 Lo spazio fattoriale (o culturale)
2.3.1 Repertorio culturale 3
Il R.C. 3 rappresenta il 23 % del testo complessivo.
Iniziamo le nostre riflessioni confrontandoci con i significati della
parola densa che più ha contribuito alla costituzione del repertorio in
analisi: integrazione.
31
Integrazione, dal latino integratio, -onis, ‘rinnovamento’,
‘accrescimento’, ‘ristabilimento’, da integru(m) ‘intero’, ‘non (in-)
toccato (tangere)’, ‘che ha tutte le sue parti’, “che non ha subito
menomazioni, mutilazioni o danni”. La parola sta a significare:
“rendere completo aggiungendo ciò che manca”, “annettere”,
“completare”, “inserire”. Si tratta di un processo che permette alla
“società” (parola presente nel repertorio) di svilupparsi e costruire
nuovi equilibri, superando le divisioni e l’eterogeneità esistenti tra le
parti che lo compongono.
Proviamo, a partire dal significato appena illustrato, ad esplorare
ulteriori dimensioni di senso di questa parola, nell’ipotesi che ciò ci
aiuti a cogliere la complessità del repertorio culturale in analisi.
‘Integrazione’ evoca un “fare”, un agire volto a rendere ‘intero’ un
qualcosa che ancora non lo è, un agire che conduce ad unificare
differenti componenti in un insieme unico, fino a raggiungere
relazioni non conflittuali tra le parti, un adattamento reciproco tra
elementi che formi una totalità. Viene in mente l’esito ideale di un
processo di inserimento: l’accettazione reciproca, l’essere riconosciuti
come “parte di”, parte utile e coerente con altre parti, il
raggiungimento di una pacificazione, di una condivisione, di
un’appartenenza fondata sull’interdipendenza reciproca. Un’area di
significati che si contrappone emozionalmente a: ghettizzazione,
emarginazione, espulsione, rifiuto e allontanamento dell’estraneo, del
diverso. Ancora per contrapposizione, viene in mente “anomia”,
l’assenza o perdita di leggi (a- privativo e nomos ‘legge’) e regole
morali, fino alla mancanza dei punti di riferimento simbolici e
culturali in grado di rendere individui e gruppi sociali membri di una
collettività più ampia; anomia, dunque, come mancanza di
“integrazione” o dis-integrazione dei legami di appartenenza.
Scendiamo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il Repertorio.
Troviamo migranti.
Ecco il primo incontro di co-occorrenza:
INTEGRAZIONE MIGRANTI
32
Qui la polisemia della prima parola si riduce con “migranti”, da
migrare, vocabolo derivato da una radice indoeuropea ad indicare
originariamente ‘cambiare’, divenuto poi ‘trasferirsi’, ‘abbandonare il
proprio luogo d’origine per trasferirsi altrove’. Migrazione è mobilità,
è ogni spostamento individuale e collettivo da un punto geografico
all’altro che implica la vita in due universi, quello di qui, dove si è
giunti, e quello di là, che si è lasciato definitivamente o
provvisoriamente ma con cui si è emotivamente e simbolicamente in
contatto: è un atto complesso, un’esperienza di separazione, da ciò che
era conosciuto, e di individuazione entro un contesto nuovo e
sconosciuto. Dunque un’esperienza di cambiamento, che implica un
ri-trovarsi, un ri-collocarsi da un punto di vista reale e simbolico,
esteriore ed interiore.
Ci siamo confrontati, inoltre, con una parola che istituisce una
differenziazione tra un “noi”, i nativi del luogo stesso in cui vivono
(“autoctoni”, parola presente nel repertorio), e un “loro”, i “nati
altrove”, fondata sull’esperienza della migrazione, esperienza che
accumuna donne e uomini con storie personali, lingue, culture,
provenienze assai diverse in un'unica categoria sociale.
Il primo incontro di co-occorrenza sembra iscrivere le MGF entro il
tema dell’integrazione dell’estraneo, del forestiero, del migrante: quel
processo graduale che permette la convivenza tra “noi” e “loro”,
processo caratterizzato da accettazione e adattamento reciproci, e dalla
capacità dei due gruppi di confrontare e di scambiare valori e modelli
di comportamento. Viene ribadita la dimensione ideale del processo di
inserimento in un nuovo contesto che impegna i/le migranti: dalla
separazione dal proprio contesto culturale di origine, momento
segnato dalla perdita di parti di sé, all’integrazione, come traguardo
compiuto del ri-trovarsi in una nuova realtà culturale. Si tratta, inoltre,
di un processo che definisce la relazione con l’Altro, il/la migrante, in
contrapposizione alla tendenza assimilazionista, in cui il gruppo o i
gruppi di minoranza sono costretti ad abbandonare i propri
comportamenti per adottare le pratiche culturali, le culture, del gruppo
di maggioranza.
Ed è proprio cultura la parola che va a formare il secondo incontro
di co-occorrenza:
33
INTEGRAZIONE MIGRANTI
CULTURA
Cultura, dal latino cultura, derivato da cultus, participio passato di
colere ‘coltivare’, da cui deriva il sostantivo culturam; la parola è
usata in due significati principali, il più antico, di tipo umanistico o
classico, ripreso da Francis Bacon, indica il patrimonio di conoscenze
di cui una persona si è impadronita nel tempo, mentre il secondo si
riferisce ad una concezione “moderna” o antropologica del termine.
Da quest’ultimo punto di vista ricordiamo la definizione classica di
“cultura” fornita nel 1871 da Tylor (1985): “quella totalità complessa
che comprende il sapere, le credenze, le arti, la morale, il diritto e i
costumi e tutte le altre capacità e abitudini che l’uomo fa proprie in
quanto membro di una società”. Attualmente esistono molteplici
definizioni di “cultura”, ognuna delle quali rimanda a teorie e modelli
socio-antropologici e psicologici che assumono punti di vista e criteri
assai diversificati. Ai fini della nostra analisi può essere utile tenere a
mente la distinzione, messa in evidenza da Mantovani (2004) tra un
approccio “essenzialista”, usato spesso nella quotidianità, espressione
del “senso comune”, secondo cui si pensa che “ogni gruppo umano
‘abbia’ un qualche tipo di ‘cultura’ e che le frontiere tra questi gruppi
così come i contorni delle loro culture siano ben definiti e
relativamente facili da descrivere” (Mantovani, 2004, 41), e un
approccio narrativo (Benhabib, 2005) che non interpreta la “cultura”
come “proprietà di un gruppo e marcatore della sua identità”, ma è
intesa come “sistema poroso, dinamico e situato entro dimensioni
sociali e storiche”, un approccio inoltre che coglie i “processi di
negoziazione e i sistemi di interessi da cui le culture e le tradizioni
vengono momento per momento modellate” (Mantovani, 2004, 20).
“Cultura” come processo che sostanzia l’integrazione di individui e
gruppi sociali, e che configura l’integrazione nei termini di un
cambiamento culturale reciproco, che impegna migranti e autoctoni
nella ricerca di nuovi equilibri entro i processi di convivenza sociale.
Il repertorio in analisi rappresenta dunque l’evento MGF come
34
problema di integrazione culturale dei migranti entro la “nostra”
società, parola che definisce il terzo incontro di co-occorenza:
INTEGRAZIONE MIGRANTI
CULTURA SOCIETÀ
Società, dal latino societatem, da socius, ‘compagno’, ‘alleato’,
‘associato’, ‘partecipe’, intesa come “l’insieme di tutti gli esseri
umani, l’unione tra di essi sulla base di vincoli naturali e di interessi
generali comuni, la collettività”, a cui si può appartenere o da cui si
può rimanere esclusi. Il processo associativo legato a questa parola fa
venire in mente la polarità “essere dentro” versus “essere fuori”;
dentro-fuori che rimandano a “comunità”, parola che troveremo più
avanti nel R.C., ma le cui ambivalenze emozionali è necessario
esplorare fin da ora. “Comunità”, cum munus, munus è “dono” e nel
contempo è “mura”, “difesa” (moenia); da un lato abbiamo la
comunità, la “società”, costruita simbolicamente sulla dimensione
ideale dell’integrazione delle “culture”, a cui offrire il “dono” della
propria dipendenza e devozione comune; dall’altro abbiamo la
‘comunità’ intesa come coesione difensiva nei confronti di un nemico
comune, l’Altro, il/la migrante, utilizzato emozionalmente per
rafforzare un’appartenenza rassicurante e in grado di bonificare
eventuali conflitti interni, perché costruisce un “dentro” in
contrapposizione ad un “fuori”, oggetto di giudizio e di
discriminazione (da discrimen ‘separazione’, ‘divisione’, “distinguere
una o più persone o cose da altre”), parola anche questa presente nel
R.C.
Passiamo ora al quarto incontro di co-occorenza:
INTEGRAZIONE MIGRANTI
CULTURA SOCIETÀ
POLITICA
35
Politica, da politike ‘arte politica’, la tekhne ‘arte’ che si occupa
dei cittadini (polites, in latino), vale a dire del governo dello stato e
dei processi di convivenza che riguardano coloro i quali partecipano
alla vita comune della città (polis), siano essi autoctoni o migranti. La
parola fa venire in mente anche l’integrazione “politica” degli/delle
immigrati/e, cioè il diritto di voto attivo e passivo e la possibilità di
esercitare il potere politico.
La letteratura che riguarda questo R.C. sembra sottolineare con
questa parola densa la rilevanza della funzione di “governo” dei
processi di integrazione.
Nel repertorio in analisi, le MGF si configurano pertanto come
evento simbolico che istituisce una differenziazione tra “noi” e “loro”,
autoctoni e migranti, intorno alla quale si giocano le dimensioni
culturali e sociali dell’integrazione, dimensioni di cui la “politica” è
chiamata ad occuparsi. Il confrontato è con una lettura complessa delle
MGF, non riducibile a mera pratica culturale e/o etnica, ma intesa
come evento costruito socialmente che fonda e promuove le
appartenenze sociali e culturali.
Le parole dense successive: identità, etnico, universale, diversità,
accoglienza, comunità, multiculturale, discriminazione, autoctoni,
confermano e ampliano l’ipotesi interpretativa fin qui elaborata.
Attraverso una visione d’insieme delle parole dense emerge in modo
molto chiaro la complessità, o complesso delle parti, entro cui
inscrivere simbolicamente l’evento MGF. Si colgono delle dimensioni
interne collocate in posizioni polari: “identità” (da idem ‘stesso’,
‘medesimo’, ‘la medesima cosa’, “uguaglianza completa e assoluta”) e
“diversità” (da divertere, ‘volgere in opposta direzione’), “comunità
etnica” (da ethnos ‘popolo’, ‘stirpe’, “che è proprio di un popolo, di
un gruppo umano”) e “universale” (da universum, ‘tutto intero’,
‘volto’ tutto in una direzione’, “generale, assoluto”, “totale”),
“accoglienza” (da colligere ‘raccogliere’, “raccogliere presso di sé”,
“contenere”, “accettare”, “ospitare”) e “discriminazione” (da
discrimen ‘separazione’, ‘divisione’, “distinguere una o più persone o
cose da altre”), ed infine, “migranti” e “autoctoni”, “cultura” e
“multiculturale”.
36
Sembra che il presente repertorio si organizzi simbolicamente sulla
consapevolezza delle opposizioni, del gioco intrinseco in ogni
movimento di sviluppo sociale tra “mettere dentro” e “mettere fuori”,
tra familiare ed estraneo, tradizione e innovazione, singolare e plurale
… poli o posizioni simboliche da “integrare” attraverso la
negoziazione di “regole del gioco” – funzione della politica – in grado
di promuovere il progredire delle appartenenze sociali e culturali. Il
superamento delle dicotomie sta dunque nell’integrazione, a partire
dalla premessa che le MGF segnino simbolicamente un limite che può
fondare nuove appartenenze ed esclusioni, un confine emozionale tra
“noi” e “loro”, che rende inevitabilmente complesso il processo di
integrazione, nelle sue declinazioni culturali, sociali e politiche.
2.3.2 Repertorio culturale 1
Questo Repertorio è il più esteso, rappresenta il 54,27% delle frasi
del testo.
La parola che ha più contribuito alla costruzione del repertorio
culturale è infibulazione dal latino fibulam ‘fibbia’, “chiudere con la
fibbia”. L’infibulazione indica il tipo di pratica classificata dalle
organizzazioni internazionali come Mutilazioni dei Genitali Femminili
di III tipo. Essa prevede l’asportazione completa della clitoride, delle
piccole e buona parte delle grandi labbra. I margini delle grandi labbra
vengono congiunti utilizzando fili di seta (in Sudan), spine di acacia
(in Somalia), impacchi e punti di sutura; generalmente, viene lasciata
una piccola apertura per consentire il passaggio dell’urina e del flusso
mestruale. Viene praticata in Sudan (l’indagine MICS2 - Multiple
Indicator Cluster Surveys - nel 2000 ha stimato che era stata eseguita
sul 74 per cento delle donne escisse), in Eritrea (l’indagine DHS Demographics and Health Surveys - del 2002 ha stimato che il 39 per
cento delle donne aveva subito l’infibulazione), e poi con percentuali
minori in Somalia, Gibuti, in alcune regioni del Mali, dell’Etiopia
(Missailidis e Gebre-Medhin, 2000) e in una zona ridotta della Nigeria
(Caldwell et al., 1997; Eke, 2000).
Nella classificazione proposta dall’OMS è prevista una distinzione
tra questa pratica, quella di Tipo I che consiste nell’escissione del
37
prepuzio, con o senza asportazione parziale o totale di tutta la
clitoride; quella di tipo II che comprende escissione della clitoride con
asportazione parziale o totale delle piccole labbra; e quella di tipo IV
che include perforazione, penetrazione o incisione di clitoride e/o
labbra; stiramento di clitoride e/o labbra; cauterizzazione mediante
ustione del clitoride e del tessuto circostante; raschiamento del tessuto
circostante l’orifizio vaginale (angurya cuts) o incisione della vagina
(gishiri cuts); introduzione di sostanze corrosive o erbe nella vagina
per causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla; e
qualsiasi altra procedura che cade sotto la definizione di MGF.
L’OMS stima che sono dai 100 ai 140 milioni le donne nel mondo
sottoposte a MGF (World Health Organization - WHO -, Female
genital mutilation, Fact sheet n. 241, giugno 2000 ) e che le bambine
sottoposte a tali pratiche sono, ogni anno, circa 3 milioni (Unicef,
Changing
harmful
Social
Convention:
female
genital
mutilations/catting, Innocenti Digest 2005). Le MGF sono diffuse in
28 paesi africani e in Medio Oriente (Iran, Iraq, Yemen, Oman, Arabia
Saudita, Israele). Tracce di MGF si rinvengono anche in alcuni paesi
asiatici come l’Indonesia, la Malesia o in alcune regioni dell’India
(www.state.gov/g/wi/rls/rep/9276.htm).
Rispetto alle motivazioni della pratica, da un punto di vista storico,
ci pervengono informazioni dalla letteratura medica antica. Sorano (I e
II secolo d.c.), medico greco operante a Roma e ad Alessandria
d’Egitto, nella descrizione dettagliata dell’intervento riferiva che la
pratica venisse utilizzata per ridurre il desiderio sessuale femminile.
Una conferma di questa testimonianza giunge da Ezio (527-565 d.C.)
e Paolo d’Egina (625-690 d.C.) che sostenevano la pratica stessa per
evitare che la clitoride potesse erigersi come l’organo genitale
maschile, e consentire il coito lesbico.
Il termine “infibulazione”, inoltre, rimanda ad una pratica di tipo
punitivo nota tra i romani. La fibula, una spilla che serviva a tenere
agganciata la toga, veniva usata dai Romani sulle proprie mogli, in
modo da prevenire rapporti illeciti. Controllo che stava ad indicare
l’esercizio di un potere sui corpi delle donne, private della possibilità
di provare piacere in quanto “chiuse con la fibbia”.
38
Scendendo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il repertorio
troviamo la parola bambine.
Ecco il primo incontro di co-occorrenza:
INFIBULARE BAMBINE
L’incontro di co-correnza specifica il soggetto, le bambine, il loro
corpo, su cui viene attuata la pratica di infibulare. Possiamo ipotizzare
che questa co-correnza ci indica il modo in cui viene simbolizzato
l’Altro: come soggetto violento che danneggia irreparabilmente le
bambine attraverso la sottomissione passiva ad un simile intervento.
L’incontro/scontro con l’Altro, in questa cultura, avviene, infatti, su
una specifica pratica, l’infibulazione, che rappresenta la forma più
estrema e violenta di MGF, utilizzata, in questo repertorio culturale,
come l’evento generalizzante per definire l’Altro.
Il secondo incontro di co-occorrenza è definito dalla parola legge.
INFIBULARE BAMBINE
LEGGE
Legge dal latino legem presenta la stessa radice di ligàre, “legare”.
La legge lega, dunque, le bambine all’infibulazione, attraverso un
rapporto emozionale fondato sul potere della norma che stabilisce ciò
che è giusto e ciò che è sbagliato, che sancisce la possibilità di
praticare o no l’infibulazione sulle bambine.
La legge difende le bambine e attraverso il giudizio e l’emanazione
di sentenze condanna chi pratica l’infibulazione. Condannare, dal lat.
condemnàre composto da cum e damnare, “dichiarare colpevole”. La
legge, dunque, dichiara colpevole chi ha recato un danno e lo giudica,
e lo condanna riportando alla norma ciò che era deviata da essa.
Si costruisce, pertanto, una rappresentazione della convivenza
sociale come processo regolabile attraverso la norma, il giudizio e la
39
condanna, pensati come strumenti utili per far fronte all’Altro,
simbolizzato come violento.
La parola legge ci fa venire in mente il decreto legislativo n.7/2006,
recante Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle
pratiche di mutilazione genitale femminile, che ha lo scopo di
“prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale
femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all'integrità della
persona e alla salute delle donne e delle bambine” (Art. 1). La Legge
Consolo si caratterizza per essere un provvedimento repressivo
dell’illegalità e della violenza contro i diritti umani di ogni donna .
Dall’entrata in vigore della Legge “chiunque, in assenza di esigenze
terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni
agli organi genitali femminili, da cui derivi una malattia nel corpo o
nella mente, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è
diminuita fino a due terzi se la lesione è di lieve entità”.
Scendendo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il repertorio
troviamo la parola medico.
INFIBULARE BAMBINE
LEGGE MEDICO
Medico da medeor (mederi), “medicare”, “curare”, “sanare”. Nel
suo senso traslato significa anche venire in aiuto, provvedere,
rimediare. La parola rimanda alla medicalizzazione per i rischi e le
difficoltà che si incontrano nel salvaguardare la salute e ripristinare la
normalità e l’integrità.
La medicalizzazione della pratica dell’infibulazione sembra in
questo repertorio culturale rappresentare il percorso per confrontarsi
con un’estraneità altrimenti inconoscibile. Le MGF quindi non sono
visti nella loro complessità ed estraneità, ma ricondotti ad esclusivo
danno sulla salute fisica e psicologica delle donne. Medicalizzare
significa pertanto focalizzarsi sulla dimensione malattia, esclusiva
40
competenza tecnica del medico, scotomizzando la complessità
simbolica, culturale e sociale dell’evento MGF. La condanna delle
MGF avviene dunque attraverso la legge che giudica in base a quanto
dice l’autorità del medico.
Passiamo ora al quarto incontro di co-occorenza definito dalla
parola vittima.
INFIBULARE BAMBINE
LEGGE MEDICO
VITTIMA
Vittima dal latino victima che per gli antichi deriva da victus,
“vitto”, perché era il cibo offerto dagli dei o da vincire “legare” perché
legata al sacrificio. La vittima, cioè chi subisce, rimanda ad una
rappresentazione delle MGF come culto violento, in cui c’è una
vittima e un carnefice. La vittima si situa in una posizione passiva,
inerme, di chi soffre e patisce senza avere voce in merito alla pratica.
Il carnefice, dal latino càrnifex da carnìficàre mette a morte, “fa a
pezzi”. L’Altro viene rappresentato come avido della vita altrui,
crudele in quanto porta alla morte bambine senza motivazione né
senso alcuno. La vittima sembra costituirsi come soggetto da
difendere dalla possibilità di morire o di essere “fatta a pezzi”
attraverso un danno fisico permanente. La legge si poggia
sull’autorevolezza del medico giudicando e condannando il carnefice.
Nel repertorio in analisi non è pensato che le donne possano
scegliere la pratica delle MGF. Di contro in alcune ricerche
(Pasquinelli, 2000) le testimonianze di alcune donne sconfermano
questa lettura, dichiarando di aver scelto di intervenire sui genitali
attraverso un intervento di escissione o infibulazione, con la
disapprovazione dei genitori, per non essere discriminate dal gruppo
dei pari.
Con queste prime co-correnze di parole dense ci confrontiamo con
un repertorio culturale che simbolizza l’Altro, l’estraneo come
41
carnefice indiscusso in quanto propone un culto violento di cui sono
vittime le bambine e con il quale rapportarsi attraverso il ricorso alla
legge.
Le parole dense successive sono: mutilazioni genitali femminili,
ragazze, vietare, circoncisione, escissione, salute, proibire, reato,
religione, genitori.
La parola mutilazioni dal latino mutilum “mozzo”, “tronco”, di
origine sconosciuta, sta a significare “l’asportazione cruenta e
deturpante” di una parte del corpo. L’uso della parola mutilazione,
utilizzato per la depredazione e il danno causato dalle pratiche, non
costruisce però un terreno comune di scambio con le donne che
praticano le MGF in quanto vengono ignorate le motivazioni socioculturali della pratica stessa, concepita dalle donne coinvolte come
evento “positivo” in quanto passaggio necessario e obbligato nel
percorso di crescita della persona e nella costruzione di un identità di
genere condivisa socialmente (Fusaschi 2003).
Segue la parola ragazze che conferma l’ipotesi proposta dal
repertorio secondo cui sono minorenni vittime di tale pratica.
Proseguendo troviamo la parola vietare, dal lat. vetare, “che non è
concesso”, che si associa ad una parola successiva che è proibire dal
latino prohibere composto di pro ‘avanti’ e hibere per habere
“avere”, “tenere”: tenere avanti o lontano e quindi impedire. Le MGF
vengono simbolizzate come pratiche da sopprimere attraverso il
“vietare” e il “proibire”.
L’Altro non viene visto nelle sue motivazioni socio-culturali ma
viene simbolizzato come soggetto vittima e carnefice di una pratica
cruenta, che compromette l’integrità psicofisica delle bambine e delle
ragazze, procurando danni fisici permanenti che compromettono la
salute. Salute dal latino salutem acc. di sàlus che viene dalla stessa
radice di sal-vus con il significato di integrità. Integrità, incolumità e
quindi salvezza, sanità: stato perfetto di benessere e di felicità. La
salute è compromessa dall’essere “mozzate”, “tagliate” e “cucite” ma
può essere ripristinata, riportata alla normalità dall’intervento del
medico.
42
Al contempo le vittime sono protette dalla legge che considera
l’esercizio delle pratiche come reato, dal lat. reatus che sta ad indicare
una condizione di accusato, una colpa e un delitto verso l’integrità
della salute. Troviamo successivamente le parole religione, che
rimanda al culto sacrificale per gli dei e genitori che sono pensati
come coloro che in nome della religione diventano protagonisti
carnefici di un culto violento quale quello delle MGF.
Questo repertorio culturale, espresso dalla stampa giornalistica,
esprime una rappresentazione delle MGF nella sua forma più estrema
e violenta, nell’intento di persuadere chi legge dell’orrore di questa
pratica che crea vittime tra bambine e ragazze. Pratica simbolizzata
come culto irrazionale violento di cui sono responsabili i genitori, non
pensati dentro un contesto socio-culturale in cui tale pratica assume un
significato, ma decontestualizzati e rappresentati solo come carnefici.
L’Altro è dunque simbolizzato come violento, da giudicare e
condannare. Qui sembra delinearsi una cultura del noi, definita da uno
Stato di diritto e dalla scienza medica, che tutela le vittime, a cui si
contrappone una cultura dell’estraneo, simbolizzato come “carnefice”,
autore di un culto violento che produce vittime senza nessuna
motivazione. L’altro viene dunque rappresentato come nemico con cui
ingaggiare una lotta di potere legittimata dalla difesa delle vittime,
bambine o ragazze, inermi di fronte ad una tale violenza.
Il Repertorio culturale 1 esprime dunque una rappresentazione
delle MGF fondata sullo stigma di chi la pratica. Stigma costruito
sulla base di una generalizzazione che si sostanzia nel mettere al
centro un noi e un loro generalizzati e gerarchicamente posizionati in
nome di una presunta superiorità. Si tratta di una rappresentazione che
contribuisce in modo determinante alla costruzione dell’immagine
pubblica delle MGF, nei termini stereotipali di culto estraneo e
violento che non lascia spazio ad una comprensione complessa e
problematizzata del tema.
Si sviluppa la tendenza a semplificare la realtà e a rappresentare le
MGF nella loro forma più estrema, praticata su persone non
consenzienti – bambine – configurate tout court come vittime di
genitori carnefici. Le MGF segnano dunque simbolicamente un limite
che fonda appartenenze ed esclusioni, un noi e un loro. Questa
43
contrapposizione, fondata sulla premessa generalizzante dell’Altro
come nemico minaccioso da giudicare e da condannare, non consente
di ipotizzare una relazione utile allo sviluppo dei processi di
convivenza e quindi al superamento della stessa pratica.
2.3.3 Repertorio culturale 2
Questo Repertorio rappresenta il 23% delle frasi del testo.
La parola che più ha contribuito alla costruzione del repertorio è
sesso, dal latino sexus, da secare ‘tagliare’, ‘separare’, in riferimento
alla divisione in maschi e femmine. Viene subito il mente il mito
dell’androgino, di cui narra Platone nel Simposio, e la genesi del
maschile e del femminile, scaturiti dal taglio e dalla divisione
dell’Uno; la parola, quindi, rimanda alla costruzione della diversità
sessuale, intesa come perdita simbolica di un’integrità originaria.
Ancora: il processo associativo legato a questa parola ci fa venire in
mente la vita come processo ineluttabile di continue “separazioni”: la
nascita, lo svezzamento e la crescita, l’adolescenza e la maturità,
infine la morte come separazione definitiva. Soltanto attraverso dei
movimenti di separazione, collocandosi “fuori” da un “dentro”
originario, è possibile la crescita e la conquista dell’identità, in
particolare della diversità maschile e femminile. ‘Tagliare’, inoltre, in
riferimento al tema in analisi, fa venire in mente quanto messo in
evidenza nella letteratura e nelle ricerche sul campo (Pasquinelli,
2000), secondo cui le MGF e la circoncisione maschile hanno
l’obiettivo di giungere ad una più chiara divisione sessuale,
“purificando” il maschile ed il femminile della presenza di quelle parti
– il prepuzio nell’uomo, la clitoride nella donna – che stanno ad
indicare delle caratteristiche dell’altro sesso. A partire dalla prima
parola densa, le MGF si delineano simbolicamente come intervento
che “taglia” ed elimina le imperfezioni della natura, rendendo chiara la
“separazione” delle identità maschile e femminile.
Scendendo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il repertorio, la
polisemia della prima parola si riduce con orgasmo. Ecco il primo
incontro di co-occorenza:
SESSO ORGASMO
44
“Orgasmo”, dal greco orgasmos, derivato di organ ‘essere pieno di
ardore, di passione’, ‘essere intimamente agitato’, da orge
‘eccitamento’, sta a significare l’acme dell’eccitazione sessuale, il
“climax del rapporto sessuale seguito da un intenso piacere”. Orgasmo
come prodotto del desiderio, dell’eccitazione e del piacere sessuale:
parole presenti nel repertorio in analisi, e che configurano la sessualità
come esclusiva dimensione del godimento fisico, come euforia,
abbandono, sfogo e gioia del corpo, esuberanza di forze e di energie
che producono una profonda felicità; la dimensione riproduttiva della
sessualità non è contemplata.
È dunque nella separazione – che individua il maschile e il
femminile – la possibilità di un ritrovarsi insieme nell’orgasmo:
quell’eccitamento (excitare ‘muovere fuori’) o movimento fuori di noi
e verso l’Altro contrassegnato dal lasciarsi andare al piacere, fino a
raggiungere le vetta più alta della passione, in cui ogni forma di
controllo o dominio è impensabile.
Il successivo incontro di co-occorenza conferma quanto appena
detto, aprendo ad ulteriori dimensioni di senso.
SESSO ORGASMO
DESIDERIO
Desiderio, dal latino desiderare, da de- e siderare, da sidus ‘stella’,
letteralmente ‘cessare di contemplare le stelle a scopo augurale’,
quindi ‘bramare’, “sentire la mancanza di ciò che è piacevole, buono,
necessario, e tendere a ottenerne il godimento, il possesso”. Ciò che si
“brama” (dal gotico bramon ‘urlare dal desiderio”), che si vuole con
forza, in modo intenso, e di cui più di ogni altra cosa si sente la
mancanza, è proprio la gioia corporea della sessualità. Siamo di fronte
ad un’assenza e nel contempo ad una speranza, all’attesa di qualcosa,
il ricongiungersi nell’orgasmo sessuale, da cui potrà derivare il
proprio, intimo benessere.
45
Veniamo al terzo incontro di co-occorenza:
SESSO ORGASMO
DESIDERIO COMPLICANZE
Complicanze, da complicare, composto di cum ‘con’ e plicare
‘piegare’, ‘piegare insieme, avvolgere’; la parola rimanda a ‘intricare’,
‘ingarbugliare’, ‘confondere’. Sembra che quanto fin qui espresso
abbia degli ostacoli, delle difficoltà; c’è qualcosa che si contrappone
alla dimensione “pura e perfetta” disegnata emozionalmente intorno
alla gioia del corpo: qualcosa che simbolicamente “confonde”,
“ingarbuglia” ciò che poteva essere chiaro e netto. Più precisamente,
la parola rimanda sia all’aggravamento, al peggiorare e al
‘complicarsi’ di uno stato morboso, sia alle difficoltà e ai problemi di
ordine sanitario e psico-corporeo connesse con la pratica delle MGF,
così come è stato segnalato in letteratura (Morrone, Vulpiani, 2004;
Obermeyer, 1999).
In base a quanto emerso, possiamo ipotizzare che il discorso sulle
MGF, entro il repertorio culturale in analisi, venga costruito
emozionalmente intorno alle gravi difficoltà e agli ostacoli legati al
soddisfacimento del desiderio sessuale, come il quarto incontro di cooccorrenza sembra ribadire.
SESSO ORGASMO
DESIDERIO COMPLICANZE
PIACERE
Piacere, parola che sottolinea ancora una volta una sessualità
costruita come dimensione del godimento, della gioia e
dell’appagamento. Dimensioni che sembrano essere ostacolate e
messe in difficoltà dalle MGF.
46
Le parole dense che seguono definiscono con maggior forza la
contrapposizione emozionale che va cominciandosi a delineare.
SESSO ORGASMO
DESIDERIO COMPLICANZE
PIACERE
INFETTARE CONTROLLARE
Con infettare (da inficere ‘tingere’, letteralmente ‘mettere’ facere
‘dentro’ in-, ‘mescolare’, ‘inquinare’, ‘corrompere’, ‘avvelenare’,
‘rendere impuro’) e controllare, siamo di fronte a verbi che mettono
in risalto delle azioni che connettono ancora una volta sul piano
simbolico il discorso sulle MGF con quello sulla “purezza sessuale” e
sui modi per raggiungerla. “Infettare” rimanda alle “complicanze”
prodotte dall’intervento, e nel contempo – come l’etimo suggerisce –
ad una dimensione di “impurità” entro cui è rappresentata la sessualità
non “controllata”. Chi parla nel R.C. sembra descrivere l’evento MGF
attraverso le categorie emozionali del “puro” e dell’“impuro”; viene
costruito un evento nei termini di una pratica “controllante”, e
pertanto di esercizio di un potere, che intende “purificare” il piacere
sessuale femminile, e che invece “corrompe” la sessualità con
“infezioni” e “complicanze”.
Possiamo approfondire ulteriormente quanto appena detto
prendendo in esame le altre parole dense: dolore, penetrazione,
eccitazione, trauma, cicatrice, ansia.
L’orgasmo eterosessuale, che simbolicamente potrebbe ricomporre
l’unità originaria, attraverso l’incontro della diversità maschile e
femminile, si trasforma nel “dolore” causato dalla “penetrazione”. Il
desiderio sessuale, anziché essere fonte di “eccitazione” e suscitare
piacere, produce “ansia” (da angere, stringere, soffocare), timore,
paura, che divengono le “cicatrici” emotive del “trauma” (dal verbo
titroskein ‘offendere’, ‘forare’, ‘ferita’, ‘lesione’), l’intima ferita
prodotta dalle MGF.
47
La letteratura analizzata in questo R.C. costruisce il tema in analisi
intorno a delle polarità emozionali e simboliche che lacerano l’identità
e la sessualità femminile: “piacere” versus “dolore”, “puro” versus
“impuro”, controllare versus abbandonarsi e lasciarsi andare al
desiderio e alle passioni del corpo. La conquista della diversità
femminile diviene, pertanto, sinonimo di impotenza: la separazione
originaria capovolge culturalmente la forza, il vigore, l’energia vitale,
la potenza orgastica, in un’impotenza dolorosa che libera dall’impurità
e dalle passioni incontrollate.
Si configura un’area emozionale e culturale che vede le MGF come
evento simbolico che mette a tacere la diversità femminile, nel senso
etimologico ed emozionale della parola, come azione che mira a
“ricondurre alla retta via”, al noto, chi potrebbe prendere strade ignote,
minacciose e sconosciute: quelle che nascono dal desiderio corporeo.
2.4 Lo Spazio culturale
Procediamo ora dando una visione d’insieme delle dimensioni
collusive che caratterizzano l’immagine delle MGF nella stampa
divulgativa e scientifica. Riportiamo il grafico (fig.2) che illustra le
posizioni e le dimensioni entro lo Spazio fattoriale (o culturale) dei tre
repertori appena analizzati.
48
Fig. 2 Posizione e dimensioni dei Repertori Culturali entro lo Spazio Culturale
L’analisi fattoriale, studiando il modo in cui i repertori di frasi sono
simili o dissimili tra loro in termini di co-occorrenze di parole nelle
frasi, permette di posizionarli graficamente su uno spazio fattoriale
(per noi Spazio Culturale).
Nel grafico (fig.2) la posizione reciproca dei R.C. sul piano
fattoriale mette in evidenza il modo in cui i repertori si posizionano
lungo le dimensioni emozionali rappresentate dai fattori; la
dimensione delle bolle con cui sono raffigurati i repertori, inoltre,
rappresenta la percentuale di testo analizzato che è risultata
appartenere ai repertori stessi.
49
Alla sinistra del primo asse fattoriale, quello orizzontale, si situa il
R.C. 3, che si contrappone ai R.C. 1 e 2 dislocati alle due estremità
opposte del secondo asse fattoriale, quello verticale.
Quali possibili significati assumono i tre Repertori Culturali, così
come sono posizionati entro lo Spazio Culturale?
Cominciamo dall’asse orizzontale, dove si situa il R.C. 3, a cui
appartengono il 23% delle frasi del testo. Come già evidenziato, il
repertorio è caratterizzato da una rappresentazione dell’evento MGF
come metafora della complessità del processo di integrazione.
I flussi migratori verso l’Italia pongono al centro del dibattito la
questione del rapporto con l’Altro, straniero e migrante, portatore di
nuovi codici di significato e di nuove culture e pratiche con cui
misurarsi. Le MGF divengono un evento costruito socialmente e
culturalmente dal “nostro” sguardo, e che promuove appartenenze
escludenti o accoglienti, poiché segnano simbolicamente un confine
tra un “noi” e un “loro” che rende difficile e complesso il processo di
integrazione. Si tratta di governare politicamente, avendone piena
consapevolezza, le polarità che caratterizzano i movimenti
dell’appartenere: “mettere dentro” e “mettere fuori”, accogliere e
discriminare, particolare ed universale, rispetto delle diversità e
salvaguardia dei diritti umani. “Interno” ed “esterno”, “dentro” e
“fuori”, dunque, come opposti da integrare, altrimenti le identità
divengono monadi chiuse e fusionali, utilizzate per marcare uno scarto
incommensurabile e ineliminabile tra appartenenze diverse ed
inconciliabili.
Siamo di fronte ad un’immagine delle MGF, da cui emerge con
forza la responsabilità della politica, come funzione di sviluppo dei
processi di convivenza, che non possono perciò essere abbandonati a
se stessi ma che necessitano di essere opportunamente monitorati,
compresi e orientati in direzione della costruzione di nuovi equilibri
tra le “parti”, le identità e le diversità. Si tratta di una rappresentazione
simbolica, veicolata dalle riviste “Sociologia e ricerca sociale” e
“Democrazia e diritto”, costruita intorno al riconoscimento condiviso
di quella dimensione “terza”, l’integrazione, intesa come “bussola” del
progredire delle appartenenze sociali.
50
L’asse verticale, dove si contrappongono i R.C. 1 e 2, si
caratterizza come fattore dove l’evento MGF è utilizzato
simbolicamente per marcare un confine rigido e netto tra “noi” e
“loro” mettendo in evidenza gli elementi polari e scissi che
istituiscono la spazio culturale in analisi.
In alto troviamo il R.C. 1, il più esteso, a cui appartengono il 54%
delle frasi del testo. Si tratta della rappresentazione veicolata dai
quotidiani presi in esame (Corriere delle sera, La Repubblica, Il
Giornale, Il Messaggero, La Stampa), e che contribuisce in modo
determinante alla costruzione dell’immagine pubblica delle MGF, nei
termini stereotipali di culto estraneo e violento. Repertorio che non
lascia spazio ad una comprensione complessa e problematizzata del
tema, al contrario ci mostra la tendenza a semplificare la realtà e a
rappresentare le MGF nella loro forma più estrema (infibulazione),
praticata su persone non consenzienti – bambine – configurate tout
court come vittime di genitori carnefici. Il R.C. 1 sembra organizzare
emozionalmente la “nostra” ostilità (dal latino hostem ‘ospite’ che poi
è venuto a significare anche ‘straniero’ ed infine ‘nemico’) verso
l’Altro: le MGF segnano simbolicamente il limite che ci separa e
soprattutto che ci contrappone a loro. Contrapposizione emozionale,
fondata sulla premessa generalizzante dell’Altro come nemico
minaccioso, da giudicare e da condannare, che non consente di
ipotizzare una relazione utile allo sviluppo dei processi di convivenza.
Al polo opposto, collocato in basso, troviamo il R.C. 2, che
rappresenta il 23% del testo. Qui l’evento MGF è costruito
simbolicamente come piacere sessuale da controllare, affinché la
femminilità possa essere “liberata” dalle “impurità originarie” che la
contraddistinguono. Il focus dell’attenzione dunque è sul desiderio
sessuale, chiave di lettura parziale ed esclusiva che priva l’evento
delle altre dimensioni di senso, di carattere storico ed antropologico
che lo caratterizzano. Anche con questo R.C. siamo di fronte ad una
semplificazione della realtà: l’evento MGF è visto come privazione
del godimento sessuale, e trasformazione del piacere in dolore. Si
tratta della rappresentazione che caratterizza in modo statisticamente
significativo la Rivista di Sessuologia, la Rivista di Sessuologia
Clinica e la Rivista di Psichiatria.
51
Se nel polo dove si posiziona il R.C. 1 emerge un “noi” ostile, che
vede nell’Altro una minaccia, qui ci si confronta con l’immagine di
una sessualità ferita e privata del piacere, che organizza
emozionalmente un “noi” soccorritore di donne offese e sofferenti,
un “noi” centrato sulla possibilità di lenire l’ansia, il trauma, le ferite
psicologiche e sessuali generate dalle MGF. Da una parte abbiamo
l’Altro da combattere, dall’altra l’Altro da aiutare e salvare,
all’immagine del genitore carnefice si contrappone quella della donna
vittima.
Si tratta di modalità opposte di esercitare un potere sull’Altro, di
affermare la “nostra” superiorità sull’Altro: le MGF sono utilizzate
simbolicamente per organizzare un confronto tra “noi” e “loro”,
confronto che prende le sembianze polari e scisse dello scontro (R.C.
1) o del soccorrere (R.C 2), in cui ne esce vincitore e superiore il
“noi”, alla cui appartenenza ad esso, si assegnano – per differenza –
valori e significati positivi.
Si tratta di rappresentazioni diverse e polari, che organizzano il
confine simbolico delle appartenenze e delle esclusioni. Il rapporto
con l’Altro – che si organizza in base alle rappresentazioni simboliche
delle MGF – avviene in termini di identificazioni di gruppo (noi –
loro) fondate su una correlazione puramente illusoria tra
l’appartenenza ad una minoranza – migranti – e dei comportamenti
indesiderati, anomali e violenti. È la dinamica simbolica e
psicosociale che costruisce lo stereotipo ed il pregiudizio, in base alla
quale i membri del gruppo Altro sono percepiti e categorizzati non
come individui, ma innanzitutto come esempi di membri del gruppo
Altro. La distinzione “noi” – “loro”, inoltre, avviene attraverso giudizi
di valore: le MGF sono un culto violento (R.C.1), estraneo alla
nostra cultura e storia, che priva la donna del piacere sessuale
(R.C.2).
La rappresentazione simbolica (o cultura) del R.C. 3 è in forte
opposizione a quanto espresso dai repertori 1 e 2 situati sul secondo
fattore. Ad una visione orientata allo sviluppo dei processi di
appartenenza, a carattere inclusivo, così come l’abbiamo delineata
attraverso l’analisi del R.C. 3, si contrappone pertanto una visione
delle MGF nei termini di un evento che marca e distingue
52
simbolicamente l’interno dall’esterno, dentro e fuori, appartenenza ed
estraneità, “noi” e “loro”, in modo definitivo e rigido, rendendo
impensabile ogni ipotesi di relazione e cambiamento. L’evento MGF è
l’elemento saliente, estremo e generalizzato che organizza la
costruzione simbolica dell’Alterità. I repertori situati sul secondo
fattore, dunque, evidenziano le dimensioni polari e scisse che mettono
in crisi il processo di integrazione, in altre parole la possibilità di
attivare una relazione simmetrica con l’Altro.
2.5 Riflessioni conclusive
A conclusione di questo lavoro, proponiamo una riflessione
sulle dimensioni culturali entro cui si organizza l’immaginario
collettivo sulle MGF.
Partiamo da una sintesi grafica di quanto emerso dall’analisi
dello Spazio Culturale.
Fig. 3 Sintesi dei dati disposti nello Spazio Culturale
53
Dal lavoro di analisi realizzato possiamo trarre delle informazioni
intorno alle criticità e alle potenzialità di sviluppo dell’immagine
dell’evento MGF presente nella letteratura scientifica e nella stampa
giornalistica.
La domanda a cui cercheremo di rispondere, facendo un excursus
su quanto emerso dall’analisi realizzata, è la seguente: quali sono le
dimensioni lungo le quali risulta utile trasformare la rappresentazione
(o cultura) nella stampa analizzata per fornire un’immagine
dell’evento MGF che faciliti e promuova il dialogo interculturale ed il
progressivo superamento della pratica?
Dal lavoro realizzato sembra che i discorsi sulle MGF rivelano
molto più di noi che dell’altro e del modo in cui vengono organizzate
le relazioni con la diversità culturale rappresentata dalle MGF.
Come abbiamo messo già in evidenza emerge che i quotidiani presi
in analisi costruiscono una rappresentazione intorno alle MGF come:
culto violento, che organizza la nostra ostilità verso l’altro: il
genitore carnefice. Questo repertorio è quello che maggiormente
costruisce l’immaginario collettivo, teso ad attribuire alla volontà dei
genitori, disegnati simbolicamente come carnefici, l’azione violenta di
mutilazione contro le figlie-vittime, senza pensare all’evento MGF
entro le dimensioni di complessità che fondano il rapporto individuocontesto: dimensioni economiche, etiche, valoriali (il prezzo della
sposa, la costruzione dell’identità di genere, la sessualità come
purezza ecc.).
Rappresentazioni di questo genere, fondate sulla generalizzazione,
sulla semplificazione della realtà, sullo sdegno e sul rifiuto,
raggiungono milioni di persone ogni giorno e diffondono un
immagine della diversità che richiama a pericolosi stereotipi razzisti.
Si tratta di modalità di militarizzazione contro l’Altro attraverso la
sua definizione come nemico, che ha come effetto pragmatico il
combattere l’Altro utilizzando la denigrazione o il giudizio negativo,
la discriminazione o la ghettizzazione.
La posizione di indignazione e di attacco, esclude, pertanto, ogni
possibilità di comprensione dei significati e dei valori profondi relativi
alla relazione tra chi pratica le MGF e i significati socio-culturali che
54
determinano la persistenza di questa pratica, e nello stesso tempo nega
la possibilità di produrre cambiamenti nella lettura e nella
realizzazione della pratica per raggiungere la finalità del suo
abbandono definitivo.
Sembra dunque che le MGF siano utilizzate per organizzare un
confronto tra “noi” e “loro” , nella forma della sfida e dello scontro,
in cui il corpo delle donne è utilizzato strumentalmente nei discorsi
pubblici per erigere distanze incommensurabili tra un mondo, “il
loro”, rappresentato come violento e feroce e “il nostro” considerato
superiore perché tutela i “diritti umani”.
Il corpo delle donne viene, dunque, assunto come pretesto e
oggetto su cui prende forma e si combatte il presunto “scontro di
civiltà”.
Un’ulteriore rappresentazione culturale emerge da alcune riviste
scientifiche (Rivista di Sessuologia, Rivista di Psichiatria, Sessuologia
Clinica) che costruiscono un immaginario della pratica come:
sessualità ferita e privata del piacere, che organizza il nostro
soccorrere le donne vittime di questa pratica.
L’Altro è rappresentato esclusivamente come vittima da
soccorrere, da aiutare in quanto impotente dal punto di vista del
piacere sessuale, e nel contempo ferita e traumatizzata in nome di una
concezione “sbagliata” della purezza poiché si capovolge nel suo
opposto: infezioni, complicanze, dolore fisico e sofferenza
psicologica.
Questa costruzione simbolica organizza le relazioni tra autoctoni e
donne immigrate intorno alla dipendenza. Il dipendere come
accrescimento della dimensione emotivamente rassicurante
dell’appartenenza ad un noi che si identifica come la parte giusta e
buona che può salvare le donne, vittime di tale pratica. Viene prodotta
pertanto un immagine delle donne straniere come vittime fragili da
proteggere, soccorrere, salvaguardare, che conferma lo stereotipo della
donna che ha bisogno della tutela di qualcuno e che non ha la
possibilità di autodeterminarsi.
Il corpo delle donne viene di nuovo strumentalizzato, assunto come
oggetto del contendere, tra chi provoca la ferita e chi la lenisce.
55
Le due rappresentazioni emerse sono accomunate dalla stessa
premessa etnocentrica, che organizza il rapporto con l’altro in maniera
asimmetrica, proponendo in entrambi i casi i “nostri” orizzonti di
senso come superiori e universalizzati. Allo stesso tempo si
contrappongono per la rappresentazione di un “noi” ostile nel primo
repertorio e di un “noi” soccorritore nel secondo.
Nella terza rappresentazione culturale che emerge dalla ricerca si
individuano le dimensioni lungo le quali è possibile promuovere il
dialogo interculturale. Qui le MGF vengono rappresentate come
metafora della complessità politica del processo di integrazione. Ciò
significa in primo luogo riflettere sul senso della migrazione per le
donne, sul loro progetto migratorio, sulla relazione che esiste tra gli
stili di adattamento adottati e le politiche di accoglienza proposte nel
paese di arrivo.
Migrare in termini psicologici significa affrontare un vissuto di
separazione, che può essere faticoso e doloroso. Una delle difese che
vengono attivate per far fronte a questo sentimento di precaria fragilità
o nostalgia si può tradurre nel chiudersi nelle proprie radici, nelle
proprie tradizioni costruendo un immagine idealizzata e anche
cristallizzata del paese di provenienza e delle pratiche sociali
condivise.
Le condizioni che rendono possibile un’elaborazione della
separazione e la costruzione di un nuovo “contenitore protettivo” e di
una nuova “pelle psichica” (Anzieu 1987) sono connesse alle politiche
di accoglienza adottate nel paese di arrivo. Per politiche di accoglienza
ci riferiamo alle politiche di inserimento sociale, alle politiche
sull’istruzione, alle politiche sulla sicurezza, alle politiche sul lavoro,
alle politiche sulla salute.
Partire da questa conoscenza è sostanziale, in quanto edifica le
fondamenta attraverso cui è necessario muoversi da un punto di vista
delle politiche di accoglienza. Esiste infatti una relazione tra le varie
strategie di adattamento al contesto e le politiche di accoglienza, una
relazione tra auto-esclusione dai valori, dall’etica, dalle leggi e dalla
cultura del paese di arrivo e marginalizzazione determinata dalle
carenti politiche di accoglienza sociale, che garantiscano i diritti
56
sociali e civili di ogni persona.
Dal nostro punto di vista esiste una relazione tra la persistenza della
pratica e i processi di inclusione/esclusione sociale.
L’acculturazione delle donne straniere non può essere coercitiva e
forzata, ma può costruirsi solamente dentro una cultura dialogica che
possa restituire alle stesse donne “le parole per dirlo”, per raccontarsi
e auto-legittimarsi a non effettuare e/o mettere in discussione questo
rito di iniziazione sulle proprie figlie. Ciò può avvenire se il confronto
non si costruisce sulla pratica delle MGF, ma se esse vengono inscritte
dentro un discorso complessivo sulla salute delle donne, possibile
attraverso la promozione di relazioni interculturali entro il contesto
sociale. E come abbiamo visto, questo processo, finalizzato a
promuovere il benessere psicologico delle donne migranti, è connesso
con la riuscita/fallimento del progetto migratorio. Bisogna dunque
intervenire ponendo primaria attenzione alla qualità della vita delle
donne migranti e delle loro famiglie nel paese di arrivo, e alla
possibilità che il loro progetto migratorio non fallisca. Diventa
necessario, pertanto, conoscere ed esplorare cosa chiedono al paese di
arrivo, cosa si aspettano, cosa offrono, qual è la loro domanda di
sviluppo e di crescita personale e sociale.
L’esplorazione e la conoscenza reciproca può sostanziarsi
nell’attivazione di un processo dialogico che rende possibile
trasformare e modificare le culture. Si tratta, in tal senso, di
considerare le culture come insieme di significati attribuiti al mondo,
che non sono immobili né riguardano un attore ideale; esse sono
costruite in uno scambio comunicativo reale, in cui le variabili
individuali, sociali e contestuali hanno un peso enorme. Parliamo
pertanto di culture locali, situate nei contesti di vita, negoziate,
contestate e contestabili (Benhabib, 2005); le culture sono il prodotto
di una relazione non una precondizione di essa, non esistono
stabilmente nella mente di qualcuno ma sono il prodotto - variabile,
trasformabile, modificabile - di un dialogo in situazione.
Le relazioni interculturali, nel momento in cui si costruiscono
modificano infatti le culture, che non sono oggetti statici e reificati,
ma in continua trasformazione attraverso una narrazione collettiva.
57
Questo significa entrare in relazione attraverso la sospensione del
giudizio, l’ascolto e la narrazione condivisa sulle questioni che
riguardano la salute, il benessere delle donne, delle loro famiglie e
delle comunità.
Gli interventi di sensibilizzazione e di informazione se non tengono
a mente il discorso politico più ampio, iscrivendo le MGF entro i
discorsi e le pratiche sulla salute e sul benessere delle donne, delle
loro famiglie e delle comunità, rischiano di essere fallimentari o
solamente autoreferenziali, tese esclusivamente a rimarcare “il nostro”
essere contro le pratiche delle MGF.
Inscrivere il discorso sulle MGF dentro questa cornice significa
promuovere una conoscenza tra donne, famiglie, comunità autoctone e
migranti, costruire significati condivisi rispetto all’integrità del corpo,
al piacere femminile, significa restituire la parola a chi ne è implicato
in prima persona, e attivare un processo “dall’interno”, affinché le
bambine e le ragazze non siano più discriminate nei diversi contesti di
appartenenza se non le praticano, del paese di arrivo se le praticano.
Per questo risulta fondamentale costruire con le donne immigrate il
discorso politico sulla salute, in una rappresentazione dell’altro
“donne straniere” non come oggetti da colonizzare, ma come soggetti
attivi e capaci di autodeterminarsi.
Ciò significa promuovere politiche volte alla promozione della
convivenza interculturale, e inscrivere il tema MGF all’interno di
un discorso complessivo sulle politiche di accoglienza e sulla
promozione della salute.
58
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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60
PARTE III
61
3
Raccontarsi attraverso l'Altra: vissuti e narrazioni per
dire l'indicibile.
di A. Petricone
"Vogliamo una generazione che fenda l'orizzonte,
scuota la storia dalle sue radici e scuota
il pensiero dal profondo!
vogliamo una generazione dall'aspetto diverso
che non perdoni gli errori, non abbia clemenza,
non si pieghi, non conosca l'ipocrisia!
vogliamo una generazione...una guida...un gigante!"
NizÇr QabbÇni, Note sul quaderno del disastro
La metodologia d’indagine utilizzata per svolgere il lavoro di
ricerca qui esposto, si è basata sull’uso dell’intervista, utilizzata come
strumento di ri-appropriazione della parola delle donne e come
recupero di memoria autobiografica, di una memoria che si costruisce
incentrandosi sulla trasmissione di un’esperienza di vita perché, come
scrive Luisa Passerini (storica)
l’atto narrante è anche tradizione, riformulazione, innovazione di
qualcosa, se non altro del linguaggio che si è ricevuto da generazioni
precedenti e che vuol passare a generazioni future.
In qualità di letterata, mi affascina analizzare ciò che si costruisce
dietro ogni narrazione, il simbolico e il reale che sottintendono alla
costruzione della realtà e l’identità del sé, che la narrazione svela e
restituisce attraverso il racconto orale. La trasmissione orale
valorizzata come momento di passaggio di consapevolezza
conquistata da altre donne, attiva una forza che è riconoscibile nella
relazione e che sposta nel registro della preziosità qualsiasi
competenza, anche quella professionale (Ivana Trevisani). E la
dimensione dell’ascolto, in cui ogni giudizio è sospeso, diventa un
attraversare e un essere attraversate da una tale forza che muta
62
profondamente lo sguardo di chi si posiziona e si equipaggia con il
proprio bagaglio esperenziale e conoscitivo.
Muoversi dentro i confini apparentemente conosciuti
dell’autonarrazione ed infiltrarsi nel cuore dei racconti di vita di donne
che hanno vissuto o praticato Mutilazioni/Modificazioni Genitali
Femminili, non è stata un’impresa di facile realizzazione, sia per
motivi legati ad una sfera più propriamente emotiva, che ha a che fare
con la responsabilità di creare connessioni empatiche e di scavare in
vissuti spesso dolorosi, in reticenze e tabù, tentando di non essere
invadenti, indelicate, giudicanti, insistenti, sia per motivi legati alla
mia personale posizione professionale, non facilmente gestibile, nel
rapporto con l’Altra che ti/mi percepisce come interessata alla sua
storia solo perché ricoperta da un ruolo e autorizzata a interrogarla per
motivi prettamente di interesse utilitaristico e di tornaconto personale.
Cercare l’incontro con l’Altra, l’Altra che desidera raccontarsi,
rivelarsi, mettersi in gioco e che si dispone al mio ascolto, si è rivelato
un impegno ben al di sopra delle energie che avevo previste in una
prima fase di gestazione del lavoro e rivelatesi ben al di sotto delle
aspettative che avevo riposte nell’immaginare un percorso possibile di
acquisizione di conoscenza a partire da me e dai miei strumenti, in un
terreno per me nuovo e ricco di fascino, quale la ricostruzione di una
storia collettiva di appartenenze simboliche e storiche, nonché
culturali, sociali e politiche, di donne di origini prevalentemente
africane che scelgono di raccontarsi e mi scelgono come interlocutrice
per farlo. Il passaggio da una fase più idealistica e utopistica ad una
fase più disincantata e più realistica, è avvenuto apportando con sé
non pochi momenti di frustrazione e di abbattimento rispetto all’esito
delle interviste faticosamente conquistate.
L’aspetto che mi preme mettere in risalto, è la difficoltà incontrata
nell’aver gestito le interviste, facendo i conti con la reperibilità di
donne interessante e disponibili a rilasciarle e con l’articolata nonché
contraddittoria in molti suoi aspetti, costruzione di un rapporto di
fiducia che spesso ha significato mesi di preparazione, di conoscenza,
di mediazione, non sempre riuscita e non sempre portatrice di
dinamiche semplici da condividere. La diffidenza nel parlare di
Mutilazioni/Modificazioni Genitali Femminili, da parte di alcune delle
63
donne di origine africane da me contattate, ha origine in una forma di
stanchezza radicatasi nel tempo esasperata dalle innumerevoli
richieste di questo tipo a cui sono state sottoposte in questi ultimi anni,
da parte di attrici politiche, intervistatrici, giornaliste, studiose e
associazioni non sempre predisposte all’ascolto e spesso agenti
atteggiamenti chiaramente o velatamente ostili, pregiudizievoli,
prevenuti, distrattamente o volutamente trasmessi ed esercitati come
forme di potere e di strumentalizzazione di un sapere acquisito e
sentito come universalmente valido e per questo esportato e imposto.
La stanchezza di sentirsi oggetto dello sguardo “liberato” delle
donne occidentali (aspetto che emerge dalle interviste nei termini di:
“tu, donna occidentale vieni a casa mia a dire a me come devo
liberarmi della mia oppressione e non vedi invece la tua”), oggetto di
commiserazione o di disapprovazione, considerate “vittime” di una
cultura patriarcale schiavizzante, prive di strumenti di emancipazione
secondo i “canoni” del femminismo occidentale, ha relegato molte di
loro nella posizione di non poter parlare della loro esperienza senza
incorrere in manifestazioni di luoghi comuni stereotipanti, che hanno
compromesso qualsiasi possibilità di confronto e di scambio
produttivo e costruttivo.
Edvige Bilotti scrive nell’introduzione ad un suo lavoro di ricerca
sulle MGF
La premessa teorica é che le donne sono costituite come donne
attraverso la loro complessa interazione con cultura, religione, sistemi
di significati e credenze, reti locali di potere, gerarchie di istituzioni e
altre strutture ideologiche. Le donne sono definite da questo contesto
ed all'interno di questo sotto specifiche condizioni. Loro stesse
contribuiscono a formare e determinare queste relazioni in vari modi
attraverso dimensioni sociali specifiche. Anche se diversi e
contraddittori i livelli sociali si sovrappongono e sono intrinsecamente
interrelati e vengono separati qui solo per necessità di astrazione
analitica.
Gli occidentali tendono a vedere questa pratica semplicemente come
un atto di violenza contro le donne che deve essere abolito. Inoltre,
formulazioni semplicistiche e riduttive che limitano la definizione di
donne all'identità di genere creano “un falso senso di comunione di
oppressione, intenti e lotte tra le donne globalmente”. Anche in un
64
contesto di impegno per abolire la MGF, ciò non solo é inefficace ma
anche controproducente nell'organizzare efficaci strategie di
resistenza politica per combattere forme di oppressione. Oltre la
“sorellanza” ci sono complesse condizioni culturali e specificità
storiche da capire e rispettare6.
Queste sono essenzialmente le ragioni di una “impasse” in cui sono
scivolata anch’io, pur senza comprendere fino in fondo le logiche che
l’hanno determinata, perché attinenti a situazioni pregresse di disagio,
e le difficoltà incontrate sono diventate esse stesse punti salienti e
tappe fondamentali del percorso di indagine, quindi parte integrante
delle considerazioni a cui sono giunta e oggetto di riflessione e di
elaborazione in itinere, nonché divenute materiale ultimo di
valutazione del lavoro svolto.
Il quadro si è progressivamente delineato assumendo angoli di
osservazione completamente diversi rispetto al punto di partenza, man
mano che la ricerca incontrava la difficile reperibilità di alcune delle
donne contattate, disposte a rilasciarmi un’intervista, ad offrirmi il
loro tempo e la loro disponibilità ad entrare in empatia con me e con le
mie richieste e il desiderio di interrogarle, fino ad arrivare al totale
rovesciamento di prospettiva che il confronto con la realtà ha generato
in me producendo dei risultati diversi da quelli sperati, ma
imprevedibilmente autentici e veritieri.
Ciò che è emerso è innanzitutto un gap profondo a livello di
relazione e di interazione tra donne portatrici di discorsi culturali e
sociali differenti, che non può non essere analizzato e contestualizzato
se non calandolo all’interno di una più generale difficoltà a posare lo
sguardo su di sé come donne, a cogliere i meccanismi di potere che
possono compromettere le relazioni tra donne anche all’interno di una
stessa comunità di appartenenza, che sia quella di origine “etnica” o
quella costruita professionalmente e politicamente in un contesto di
lavoro e di collaborazione determinato, mettendo in crisi la possibilità
di stabilire relazioni di fiducia che hanno a che fare con l’affidarsi
6
http://www.medmedia.org/review/numero3/it/art2.htm
65
all’Altra, o le une alle altre, nel riconoscersi soggetti di diritto, del
diritto a riappropriarsi di uno spazio comune di intervento che produca
saperi ed esperienze a partire dal confronto collettivo, di potersi
confrontare riassegnando valore alla parola dell’altra e prendendola su
di sé come stimolo di cambiamento e di crescita.
Forse è questo che dovrebbe sorreggere ogni sforzo teso a lavorare
sulle narrazioni delle donne, prima ancora che ci si inoltri in quel
terreno delicato e fluttuante dell’affidare la memoria di sé all’altra che
ci sta di fronte, sarebbe opportuno ricominciare a parlare tra donne,
riscoprire il valore e il senso del confidarsi e dell’attribuire a quella
confidenza valore letterario oltre che politico. Solo con uno sforzo di
questo tipo, le barriere che ancora impediscono alle donne di andare
oltre i propri confini territoriali e i propri abiti mentali, potranno
essere viste e abbattute. Il dialogo potrà essere ri-costruito, ri-attivato
a partire da questo sforzo comune di rimessa in discussione.
L’obiettivo iniziale della ricerca, era di comprendere, attraverso le
interviste, come le donne africane vivono oggi il loro rapporto con un
corpo che può essere stato “mutilato” o “modificato” e come lo
leggono alla luce dell’esperienza che ne fanno in un paese straniero, in
relazione alle politiche repressive e alle leggi severe che regolano la
pratica delle MGF in Italia e soprattutto in relazione alla possibilità o
meno di poterne parlare senza vergogna con donne occidentali che
spesso prendono parola sull’argomento al posto loro. Restituire parola
alle vere depositarie della questione in oggetto, era ed è anche in
questa analisi conclusiva, l’aspetto più importante.
Nell’affrontare solo idealmente questo lavoro di indagine, che
avrebbe dovuto e in minima parte ha fatto, coinvolgere soggetti
privilegiati e portatori di saperi sulle diverse e complesse questioni
delle MGF, mi sono chiesta, come sono solita fare quando mi accingo
ad esplorare territori a me poco conosciuti, non dal punto di vista
teorico, scientifico o letterario, ma dal punto di vista esperienziale e
soggettivo, perché non appartenenti ai confini in cui mi muovo io per
bagaglio personale, se e come avrei potuto realizzare una raccolta di
storie di vita, a partire dalle testimonianze dirette delle donne che
avrei incontrato e che mi avrebbero fatto dono della loro storia.
66
Tenendo conto della buona fede delle mie intenzioni e forse di una
misurata dose di ingenuità che mi è stata complice nel proiettare in
senso positivo la riconoscibilità di un metodo che pensavo universale,
vale a dire la costruzione di un sapere condiviso e condivisibile
attraverso la pratica delle relazioni tra donne, come terreno di
confronto nel rispetto delle differenze di pensiero e forte della validità
del tipo di indagine che avrei portato avanti, ho pensato e ritenuto
efficace, senza ombra di dubbio, avvalermi di uno strumento di analisi
e di lettura del fenomeno delle MGF, acquisito nei saperi della pratica
femminista che seppur nella mia breve esperienza di vita, ha segnato
momenti importanti di lettura della realtà circostante, andando a
cercare in essi, le risposte al tipo di approccio che avrei scelto
nell’accostarmi a questo terreno delicato di introspezione simbolica,
attraverso la condivisione e la messa in discussione di entrambi i
soggetti in gioco. Una volta equipaggiatami di quegli strumenti che
hanno permesso all’esperienza delle donne, in anni e contesti sociali e
culturali differenti, di emergere dal silenzio e di imporsi come saperi
condivisi e socialmente legittimati, quali l’ascolto come scelta di
posizionamento politico e l’uso della parola, come mezzo per
elaborare eventi traumatici all’interno di un contesto di donne sentito
come “protetto” perché preparato e pensato per questo, mi sono
percepita pronta a poter attingere alla mia esperienza di donna,
studiosa, femminista, per usare quella stessa esperienza, come stimolo
e punto di raccordo con le esperienze di altre donne, lontane e distanti
dai miei punti di vista, dalle mie geografie culturali e sociali, inserite
in una storia che avrei ricostruito a partire da me e dal riconoscersi
inserite in una cultura maschilista e patriarcale che in modi e forme
spesso diametralmente opposte, ci domina e condiziona il modo in cui
abitiamo i nostri corpi.
Questo è stato l’errore di partenza, dare per scontato che la mia
esperienza ed il mio atteggiamento scevro da pregiudizi e da idee
stereotipate, potesse rappresentare il biglietto da visita per entrare
nello spazio privato dell’Altra, facendola sentire a casa e ben accolta e
dandole, che significa permettendole, l’opportunità di raccontarsi
senza essere giudicata e colpevolizzata. Errore ben presto pagato al
prezzo di continui rifiuti e reticenze che non hanno ceduto alle
continue richieste di incontro, confronto, scambio più volte avanzate e
67
molte volte rifiutate senza il privilegio di una spiegazione esaustiva ed
esauriente.
Poi mi sono chiesta, perché le donne africane non volessero parlare
con me della loro esperienza di vita, anche se apparentemente non
opponevano risposte di rifiuto netto e chiaro. E su questo
interrogativo, che mi ha accompagnato durante tutti i mesi di
realizzazione della ricerca, fatti di attese, rincorse, appuntamenti
mancati, delusioni, opportunità perse, i parametri che fin ad allora mi
avevano sostenuta nell’intento di costruire un dialogo rispettoso
dell’altrui esperienza, si sono completamente rovesciati producendo
un altro tipo di approccio e di visione del compito assegnatomi.
Illuminante è stata la domanda incalzante rivoltami da una delle
donne da me intervistate per prima, Rabìa di origini somale, la quale
con grande semplicità e con grande coscienza di sé, mi ha
immediatamente rimessa al mio posto restituendomi quella dignità del
sentirsi denudata che non avevo presente, troppo accecata dalla
presunzione di poter strappare confidenze intime e profonde solo per il
fatto di essere ben disposta ad ascoltarle e per uno scopo alto, e mi ha
restituita a me, al mondo a cui appartengo, con le sue visioni
prioritarie e invadenti, dicendomi:
Perché ti interessa affrontare la questione delle MGF?
Perché tutto questo accanimento per una pratica che non ti riguarda?
Questo l’inizio di tutto. Sento di poter far mie le parole espresse da
una giovane antropologa di Bologna, Alessia Acquistapace,
conosciuta in occasione di un convegno, che mi sono rimaste
particolarmente a mente e si sono reincarnate nel bel mezzo di
quest’esperienza.
Alessia si chiedeva se un certo atteggiamento delle femministe o
cosiddette donne italiane “emancipate”, nei confronti delle donne
migranti/immigrate, non avesse a che fare con un modo di pensare
binario che ci preclude lo sguardo e la possibilità di concepirci uomini
e donne in tanti modi diversi, e non ci permette di considerare tutte
quelle culture esistenti che prevedono altri modi di essere donna e
uomo e di articolare la disparità di potere e quindi altri modi di
resistere o di liberarsi, ed altri modi di essere corpo/corpi.
68
Le parole di Alessia risuonano fortemente ed emergono in maniera
inequivocabile anche dalle interviste realizzate. La restituzione di una
parola che abbia il potere di spostare le nostre convinzioni e farci
cadere dalle nostre prese di posizione, una parola che è tanto più forte
tanto più nasconde e non dice, è il momento di presa di
consapevolezza di me e dei miei limiti rispetto a questo lavoro. A loro
lascio la comprensione di ciò che si è inframezzato rovesciando le
aspettative iniziali ed espongo, qui di seguito, le suggestioni ricevute
da una grande lezione di riposizionamento.
Scrive Mila Busoni:
Per uscire dall’impasse conoscitiva che è anche uno scacco emotivo
(poiché la nostra esigenza di mobilitarsi è completamente ridotta
all’impotenza), è necessario fare alcuni passi metodologici e teorici, e
analizzare il fenomeno MGF nell’enorme complessità delle questioni
che vi sono implicate. Le MGF non sono un problema esclusivamente
sanitario, tanto meno un problema esclusivamente giuridico e penale.
Sono fenomeni delicati e compositi, emotivamente coinvolgenti sia per
chi le subisce che per chi trova a doverle affrontare, prevenire o curare.
Approssimarsi al fenomeno significa disporsi a una riflessione ampia,
esaminare temi e problemi che attraversano e investono la nostra
contemporaneità: l’irrigidimento di alcune nozioni come “cultura”,
“identità”, “etnia”, “comunità”, “tradizione”, che spesso diventano un
paravento che ci impedisce di avvicinare le persone, con i loro vissuti
complessi, irripetibili, unici; la condizione dei migranti, oggetto del
razzismo e della negazione dei diritti di cittadinanza che determina la
chiusura e la difesa ad oltranza della propria “identità culturale”; il
delicato rapporto tra rispetto delle differenze culturali e difesa dei
diritti umani e dei diritti delle donne in particolare; la disparità delle
relazioni di genere, la subordinazione femminile a tutti i livelli della
vita sociale e la violenza strutturale contro le donne che attraversa, in
forme diverse, tutte le società. Ma soprattutto, per comprendere
davvero il fenomeno, e per individuare strumenti e strategie adeguate
per combatterlo, è necessario porsi all’ascolto delle donne africane
che, sempre più numerose, lottano nei paesi di origine e in quelli di
emigrazione per sconfiggere le MGF. Siamo infatti sempre più convinte
69
che la risposta definitiva alle MGF possa venire solo dalle donne che le
conoscono bene per averle subite e per esservisi opposte, spesso
pagando prezzi altissimi.7
7
Mila Busoni, “Introduzione” in: Elena Laurenzi (a cura di), Profilo informativo del
fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, conoscerle per prevenirle, Regione
Toscana, Stampa Industria Grafica Valdarnese, San Giovanni V.no (Arezzo), 2006,
pag. 11.
70
4
Le donne occidentali ci giudicano?
di A. Petricone, E. Selvi
4.1 Mariam (Somalia)
Intervista a cura di Eleonora Selvi
Marian ha un’eleganza che traspira dal suo portamento anche se è
immobile seduta su una sedia, pronta a farsi intervistare. Il suo
sguardo è vigile, attento, diretto su ciò che sta per dire. Sa bene ciò di
cui vuole parlare, ne ha consapevolezza e padronanza. Si rivela
un’esperienza molto interessante poterla ascoltare, fare tesoro delle
sue parole, mai confuse, mai incerte, ma dirette, piene ed essenziali.
Inizia a parlare andando subito al cuore della questione, senza
girarci intorno, sollecitata dalle domande che le vengono poste, ma
quasi sicura di sapere esattamente cosa e come rispondere prima
ancora che le vengano formulate.
Sa di cosa deve trattare e sa cosa ci aspettiamo da lei.
Lo sa perché è una delle poche donne che ha scelto di farsi
intervistare e di concedere ad altre donne, noi, distanti da lei, un punto
di vista che evidentemente per lei vale ancora la pena di mettere in
gioco, con noi.
Le MGF, secondo il suo parere, stanno emergendo soprattutto in
questi ultimi anni e si stanno imponendo come questione di una certa
importanza, questione attorno a cui si stanno strutturando diversi
pensieri, nati forse dalla difficoltà di capire fino in fondo una storia di
cui spesso si parla, senza cognizione di causa.
Lei è originaria di una terra di ricche ed antiche tradizioni, afferma.
In Somalia c’è molto rispetto per le persone anziane e per le tradizioni
che da esse vengono trasmesse. All’interno di un tale contesto, è
difficile spiegare il valore che fino ad oggi hanno avuto le MGF per le
donne somale.
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Ed è proprio uscendo dal contesto culturale di riferimento che le
donne hanno la possibilità di confrontarsi e di parlare di queste
pratiche.
Oggi quasi la maggioranza delle donne somale convengono nella
necessità di dire Stop alle MGF. Nella sua terra è una tradizione
vissuta come un obbligo quasi, come un pretesto per non uscire da
quel contesto sociale, per evitare che le bambine vengano considerate
diverse e siano emarginate.
Ne è nata così una tradizione e un valore che non ha nulla a che
fare con la sua comunità, non è né un obbligo religioso né altro. Non
esiste alcuna ragione per cui una bambina debba essere mutilata, è
solo un pretesto per rimanere ancorati alla propria comunità di
riferimento, per farsi accettare da un uomo della comunità di
appartenenza e trovare il proprio status all’interno della stessa. Per tale
ragione, sostiene Marian,
«ritengo che sia arrivato il momento per tante di noi, di
confrontarci con gli uomini delle nostra comunità per capire che
cosa si aspettano anche loro e per aprire un dialogo. Io non
ricordo molto di quell’esperienza, ero piccola, avevo due anni e
sia per l’età sia per un fattore di rimozione dell’evento
traumatico, non ricordo il mio intervento, ma ricordo quello
fatto alle mie cugine e soprattutto ricordo il grande
festeggiamento e le cerimonie che lo hanno seguito.
La mia percezione del fenomeno ha cominciato a cambiare
quando ho iniziato a rifletterci in prospettiva della nascita di mia
figlia. Il fattore legato alla “sofferenza” ha determinato l’inizio
della mia riflessione sulla pratica.
Mi sono chiesta per quale motivo dovessi soffrire in quel
modo e a che cosa servisse, finché non è nata mia figlia. In quel
momento ho pensato che avrei cambiato la mia tradizione. Eh ho
comunicato a mia madre che non avrei sottoposto mia figlia allo
stesso intervento.
Nel Corano (io provengo anche da studi di tipo religioso
effettuati in Somalia), non esiste alcuna traccia che faccia
72
riferimento a questa pratica. Decidere di non praticarla non mi ha
comportato la paura di uscire da un contesto.
Anzi, al contrario, mi ha fatto vedere la possibilità di aprirsi a
delle forme di “progresso”, di cambiare prospettiva, non la vivo
come minaccia al mio contesto di riferimento, ma la vivo come
fattore di crescita.
Mia figlia ha 19 anni e non si sente affatto diversa dalle sue
compagne. Lei è felice e se lo è lei, lo sono anch’io.
Come dicevo sopra mia figlia è stata il pretesto per riflettere
sul fattore sofferenza e quindi sulla pratica che genera tale
sofferenza, anche con le altre donne somale è avvenuto in questo
modo, abbiamo cominciato a discuterne insieme con il pretesto
dei figli.
Inoltre, io lavoro al Policlinico Umberto Primo e molte mie
connazionali si rivolgono a me per risolvere problematiche
connesse alle pratiche. E spesso accade che si vergognino di farsi
visitare da un medico straniero (italiano). Allora ci siamo dette,
se ci vergogniamo di farci visitare, perché continuiamo a
perpetrare questa pratica.
Ci siamo interrogate a partire dal disagio che proviamo nel
confrontarci con persone che non appartengono al nostro
contesto di riferimento.
Riguardo alla stigmatizzazione da parte dell’Occidente, è vero
che molte persone cercano di entrare nel merito e di voler capire
come vivono queste donne, ma è difficile, io ritengo, capire
qualcosa che non si conosce.
Come si può comprendere qualcosa che non appartiene al
proprio contesto, che ha che fare con la propria storia, le proprie
origini, la propria diversità.
Da parte delle donne somale, ci può essere l’imbarazzo e la
volontà a non entrare in contatto con il mondo occidentale e
viceversa avviene lo stesso imbarazzo da parte dell’Occidente.
73
Non si è trovato ancora un filo diretto che metta in
comunicazione/comunione le due realtà.
L’imbarazzo nasce anche dall’incomprensione e dal
giudicare l’Altra, come se l’altra fosse colpevole di se stessa.
Nessuna donna somala giudicherebbe una donna occidentale che
ha deciso di intervenire sul suo corpo modificandolo.
La differenza risiede proprio qui.
La donna “mutilata” subisce la pratica perché viene sottoposta
ad essa in età molto piccola, la donna occidentale che si
sottopone ad interventi sul proprio corpo, decide di farlo in età
adulta.
L’Occidente giudica, noi invece comprendiamo».
4.2 Fairus (Somalia)
Intervista a cura di E. Selvi
«Parlare di come avviene il processo decisionale delle donne
rispetto alle pratiche di MGF nel mondo somalo è un po’ troppo
generico».
Con queste prime parole Fairus ci riporta immediatamente alla
necessità di non dimenticarci che stiamo intervistando donne africane,
ma appartenenti a culture diverse, anche all’interno della loro stessa
terra d’origine e non un insieme di soggettività indistinte accomunate
solo dalla stessa nazionalità.
È un primo grande scossone rispetto alla tendenza un po’
presuntuosa e un po’ arrogante, nostrana, di rivolgerci a loro come se
fossero tutte d’accordo con ciò di cui sono portatrici, di valori e
pensieri che le uniscono in un solo gruppo identitario indistinto, ma
non è affatto così.
La sua è una “lezione” sulla necessità di sentirsi in difficoltà,
quando ci si confronta con la complessità di storie differenti,
imparando ad entrarci senza incorrere in banali e facili omologazioni,
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barriere dietro cui spesso ci sentiamo più protette nel porci come chi
ascolta e si sente già di possedere ciò che udirà.
Fairus abbraccia in pieno l’importanza di parlare a partire da sé e
infatti ribadisce, da subito
«Io posso parlare della mia realtà, tenendo conto che in
Somalia esistono moltissime altre realtà, diverse tra loro e con
tradizioni e usanze differenti, non se ne può parlare
generalizzando e in nome di tutte le donne somale. Parlerò quindi
della mia realtà, partendo da essa.
Nella mia famiglia sono le nonne che insistono affinché la
pratica venga perpetrata per segnare il passaggio fondamentale
dall’età infantile all’età adulta, l’entrata nel mondo dei grandi.
Mia nonna spingeva molto sulla necessità di sottoporci alla
pratica, nonostante mia madre non fosse d’accordo con lei.
Mi sono “salvata”, se così si può dire, perché invece di essere
sottoposta alla pratica in casa (quella che comunemente viene
chiamata la faraonica, la più incisiva e invadente), mia madre ci
ha portate in clinica dove siamo state sottoposte alla pratica
sunnita (considerata più leggera rispetto alla faraonica).
Ero una bimba di 9 anni e ½, in Somalia a quell’età si è già
piccole donne.
Il motivo del ritardo è dovuto proprio al fatto che mia madre
si è rifiutata ed ha temporeggiato finché le è stato possibile.
Ricordo di essere stata discriminata dalle mie compagne,
perché considerata impura non essendo ancora stata sottoposta
alla pratica.
Questo è uno dei motivi di condizionamento che spiega, tra le
altre ragioni, la difficoltà di abbandonare la pratica, inoltre va
tenuto presente che buona parte della popolazione somala è
ignorante e chi parla di MGF è generalmente una donna che non
l’ha subìta e ne conosce gli effetti psicologici e i danni che può
causare sulla salute delle donne, per noi che l’abbiamo vissuta, è
75
considerata un fatto “naturale”, non una violenza sul corpo
delle donne.
La diversa percezione che si comincia ad averne subentra nel
momento in cui ci si relaziona ad un contesto culturale
completamente diverso da quello di provenienza, allora in quel
caso ti documenti e cominci a confrontarti con realtà diverse e
proprio lì la vivi come una violenza.
Ecco perché considerando il ruolo che le donne hanno nella
mia cultura, ruolo legato alla procreazione e al compiacimento
dell’uomo della propria comunità, il processo di abbandono della
pratica risulta essere un processo lungo che andrebbe forse
riaffrontato seguendo delle tappe.
Innanzitutto andrebbe portato avanti da chi ha vissuto tale
esperienza e non da organismi esterni che non sanno di cosa si
sta parlando e che spendono fior di finanziamenti per proporre
progetti da esportare in Somalia.
Mi ricordo che già quando ero in Somalia, ventidue anni fa
circa, nelle preghiere che si facevano, si ripeteva che la pratica
non era prescritta dalla religione e questo perché si erano
verificati casi di bambine decedute per infezioni incorse dopo
l’intervento effettuato in casa, in condizioni igieniche scarse e si
ripeteva che l’unica pratica possibile era quella sunnita, meno
pesante della faraonica.
Solo le donne che l’hanno subìta, dall’interno della loro
esperienza, possono cominciare a parlarne e a parità di livello,
sono in grado di poterne discutere seminando il dubbio. È da lì
che occorre partire».
4.3 Faduma (Somalia)
Intervista a cura di E. Selvi
Faduma è di poche parole.
«Bisogna fare qualcosa per fermare questa sofferenza»
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E’ il suo modo di definire ed affrontare l’argomento. Parla partendo
dalla propria esperienza e da quanta sofferenza le ha causato.
«Per me bisogna lottare per fermare questa idea, che fa
soffrire le ragazze. Non è una cosa che si fa per religione. Si fa
per usanza, ma è un’usanza sbagliata».
E il termine sofferenza segnala la differenza con “la cosa” che si fa
ai ragazzi.
«Io ho due figli maschi e a loro l’ho fatto quando avevano 3
anni. Ma non l’ho fatto per l’usanza, ma per la salute, per l’igiene
e per la religione. I maschi per forza devono farlo, però loro non
soffrono come soffre una femmina. Pure i cristiani lo fanno».
Alla domanda: “se avessi avuto delle figlie?” La risposta è
immediata e categorica
«Per carità, non l’avrei fatto .. perché quello che ho passato io
non lo facevo passare alle mie figlie …
Ho capito che sono cose sbagliate, ho sofferto e soffro ancora
adesso …
Se avessi avuto figlie femmine non l’avrei mai fatto, non volevo
farle soffrire perché io ho capito … non come non ha capito mia
madre … io ho capito che è una sofferenza, perciò come ho
passato la sofferenza io non volevo far soffrire le mie figlie»
Quando le chiedo perché si continua a portare avanti la pratica
delle MGF mi risponde
«Per l’ignoranza … La gente è ignorante, non ha capito che
questa cosa è pericolosa, non solo per la sofferenza, ma anche
per la salute».
Mi congeda così, con una intervista breve. Poche parole, che
aprono una profonda riflessione sulla dimensione che il vissuto
personale assume in ognuna di noi.
4.4 Thema (Burkina Faso)
Intervista a cura di A. Petricone
77
Non ha mai tempo, Thema, sempre su e giù dagli autobus, sempre
su e giù con gli autobus per tutta Roma, ore e ore ogni giorno, su e giù
sugli autobus affollati e vetusti della periferia dove abita, su e giù
sugli autobus meno affollati e meno vecchi che si infilano nelle strade
eleganti dei quartieri residenziali dove lavora, e non si siede mai,
Thema, neanche quando i posti a sedere ci sono, più di una volta le
hanno chiesto di alzarsi perché al sedile non aveva diritto, e lei sta
dritta con il suo grande corpo scurissimo, porta pantaloni larghi neri o
marroni o blu e casacche ampie in tinta, ma è più bella quando indossa
il grand bombo, il suo abito pieno di colori.
Ha il bel viso sempre guardingo e serio, ma è più bella quando il
sorriso le fa splendere gli occhi e la magnifica dentatura. Il suo viso e
il suo corpo sorridono quando è con la grande famiglia e con le tante
amiche.
Amiche del Burkina Faso, come lei, ma anche da altri parti
dell’Africa, e alcune, non molte, sono italiane, soprattutto le madri
delle compagne di scuola di Mara, la figlia più piccola che fa ancora le
medie e che è nata in Italia, e Thema l’ha chiamata Mara che sembra
un nome italiano ed invece è anche un nome del suo Paese, ci si
chiamava sua nonna, oltretutto.
Mara la vecchia che rispettava le regole e che ha accompagnato
Thema dalla fanteca – come già sua madre, e le altre figlie e le altre
nipoti.
Mara la bellissima ragazzina che ha le foto di Totti e di Jhonny
Depp sul diario di scuola e che è nata a Roma quando Thema aveva
già più di quarant’anni e un lutto grave: la perdita di uno dei suoi
quattro figli, che non era più un ragazzo ma un giovane uomo che era
in procinto di sposarsi, e Mara per poco non nacque insieme ad
Anaya, la figlia dell’altra figlia, Amina.
Una genealogia di donne che sarebbe infinita, a ricordarla tutta, e
che Thema mi dona assieme alla sua storia e alla storia degli infiniti
modi di essere donna qua e là nel mondo e nelle epoche, ed è generosa
a farlo, e lo fa solo dopo un lungo discorso sul perché di questa
intervista, e solo dopo che il the freddo che mi aveva offerto è
78
diventato tiepido dentro i bicchieri appoggiati sul davanzale del
balconcino di casa sua.
Thema non fa attività politica, non appartiene ad associazioni di
donne immigrate, troppo lavoro e troppo poco tempo, dice, e non ha
neanche una grande stima delle donne se le donne sono tutte come le
signore presso le cui case fa la colf, o come moltissime delle madri
delle compagne di scuola di Mara, solo alcune si salvano ed io ho la
fortuna di essere amica di una di loro, e alla fine del lungo colloquio
io non ricordo più che è stato faticoso iniziarlo, né che lei si è forse
sentita in alcuni momenti aggredita, né che io mi sono sentita una
predatrice.
E mi pare che non se ne ricorda neanche Thema.
Certo che si ricorda il giorno in cui fu operata. Aveva sei anni o
forse sette ed era già consapevole di quello che sarebbe accaduto,
l’aveva visto fare da quando era piccolissima. Alle sorelle, alle cugine.
La madre e la nonna l’avevano già accompagnata a vedere, e piccola
come era si era spaventata per le urla, e piccola come era si era
mangiata con grande entusiasmo i dolcetti, e il motivo perché si
faceva quella cosa alle bambine le pare di averlo saputo da sempre,
ricorda quanto le diceva la nonna Mara, lì in fondo in fondo le
bambine hanno sempre qualcosa che non va, sono insetti, o forse
intendevano “batteri”?, cose brutte, sporche, fanno prurito, e allora le
bambine si grattano e non va bene soprattutto perché esce sangue.
Quando toccò a lei i dolcetti e le coccole durarono molto di più.
Una settimana o dieci giorni. Come i dolori.
Prima e dopo dell’operazione Thema pensava al suo corpo come
una terra difficile e paurosa che terminava lontano e che sfuggiva al
suo controllo e che la inchiodava ad un destino che lei non capiva
bene ma al quale avrebbe obbedito.
Adesso sembra orientarsi meglio nel suo corpo, Thema.
Ne conosce le sensazioni, ne verifica i silenzi.
A una cauta domanda su quale sia la conseguenza più importante di
quell’operazione risponde d’impulso, indicandosi la vagina:
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Ho perso la forza qui.
E poiché io taccio, lei mi spiega:
Quando tu sei col tuo uomo hai la forza. Io invece non ce
l’ho.
Rimango sorpresa dalla definizione, e soprattutto dalla
terminologia, poiché il termine che ha usato rimanda ad un significato
preciso: la debolezza.
Ed è spaesante sentirla definirsi debole, lei che usa il suo corpo
grande più di muscoli tesi che di adipe come una macchina da lavoro,
lei che ride perché io sudo sotto a questo sole pazzesco e lei no e che
racconta che non soffre neanche il freddo e la fatica e io non ce la
faccio a chiederle cosa invece la faccia soffrire perché temo che quella
piccola fiammella di dolore che cova dietro al sorriso negli occhi
possa deflagrare .
Vorrei chiederle di più, vorrei sapere come immagina la mia
sessualità e quella delle donne occidentali in genere, e il rapporto tra
gli uomini e le donne, e l’immaginario sessuale maschile e quello
femminile, e non lo faccio, ma lei comincia a raccontare un’altra storia
e se ne parte per un altro percorso che alla fine premia il mio tacere
con un traguardo di condivisione.
«Ad Amina l’ho fatto», butta lì, non capisco se per empatia o per
sfida.
«Aveva dieci anni, Amina, forse era troppo grande, ma prima
non ce l’avevo fatta a tornare nel Burkina Faso, eravamo arrivati
in Italia da cinque anni e solo da poco avevamo trovato un po’ di
stabilità, perché mio marito era stato assunto in un bar del Centro
grazie al fatto che parla un buon francese ed ha un aspetto
distinto. Io niente, come adesso, la colf.
I bambini andavano a scuola, a quell’epoca i neri erano pochi,
e i razzisti più scoperti di oggi, gli altri figli miei erano maschi,
ma Amina era una ragazza e chi l’avrebbe sposata se non uno
del nostro Paese?
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Mio figlio grande, quello che poi è morto, aveva una fidanzata
italiana, una volta lo sentii parlare con il fratello, parlavano delle
donne di qua e delle donne di là, capii cosa volevano dire, non te
lo so spiegare bene quello che provai, cosa era Amina in realtà?
Una nera diversa. Una nera sbagliata. Tanto per i bianchi
quanto per i neri. E mi covavo tutto questo dentro quando morì
mia nonna ed io ebbi l’occasione per tornare a casa.
Mio marito non venne perché era assunto da poco e non
poteva prendere le ferie, e non venne neanche mio figlio più
grande perché aveva gli esami di terza media. Venne il piccolo,
ma era piccolo e non capiva.
A casa rimasi un mese e dopo poco che ero lì mi sembrava di
non essermene mai andata via, oppure, altre volte, mi pareva di
essere tornata da anni, perché lì c’era tutto quello che io
conoscevo…
Amina mi urlava contro che per colpa mia e di quella vecchia
che l’aveva operata aveva i dolori, e rifiutava i dolcetti che mia
madre e le altre donne le portavano. Eppure, quando tornammo
in Italia mi sembrò di vederla un po’ più sicura di sé, un po’
meno sensibile alle offese che riceveva dai bianchi. A 18 anni ha
sposato uno di noi, e mi pare serena. E non mi ha mai più
rimproverata per averla fatta operare.
Mio marito invece sì. Mio marito ha fatto il diavolo a quattro,
quando l’ha saputo. Non mi ha alzato le mani ma poco c’è
mancato. Diceva: perché? Siamo venuti qua, qua non ce n’è
bisogno.
Perché, siamo italiani adesso? Avrei voluto urlargli.
Ancora avevo soggezione di lui, stavo zitta e piangevo perché
non sapevo più neanche io cosa ero giusto e cosa no.
Mio marito mi sfidava: se siamo ancora come eravamo a casa
allora io mi prendo un’altra moglie più bella e giovane di te.
Oppure: e allora io ti ripudio e voglio vedere tu che fai.
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Qualche volta passavo di nascosto davanti al bar dove
lavorava e lo guardavo senza farmi vedere. Era così sorridente e
affabile con tutti e mi sembrava che a lui nessuno lo trattasse
male come a me. ..».
Poi basta. Si ferma di colpo. Si accorge all’improvviso che il te è
diventato una specie di brodino dolciastro, entra in casa di corsa, porta
fuori una brocca di acqua fresca, ci godiamo un silenzio denso di tutto
quello che ha detto. Pochi piacevoli minuti interrotti dal ronzio del
citofono.
È Mara che torna da una passeggiata con le amiche. Thema le dice
un po’ brusca di levarsi l’Hi Pod dalle orecchie per salutarmi, poi le
carezza la testa fitta di treccine e ammiccandomi sorride: «E’ vero che
è bella?».
4.5 Rabìa (Somalia)
Intervista a cura di A. Petricone
Singolare l’incontro con Rabìa. La sua simpatia, l’umorismo che
infonde ogni sua parola, la cadenza romana con cui si esprime, primo
impatto destabilizzante tra un suono conosciuto e un significato altro
rispetto al suo contenitore abituale, provoca in me un piacevole senso
di stupore dal tono allegro e una sensazione di accoglienza che mi fa
sentire a mio agio nel luogo a lei più vicino, il suo ufficio, dove con
altra veste e con altri strumenti, accoglie le donne immigrate cercando
di capirne i bisogni e le necessità legate al loro soggiorno qui in Italia.
Non mi lascia molto margine Rabìa, il suo fare diretto, mi spinge
subito al muro, in modo gentile, ma sostenuto, mi inchioda alla sua
domanda, quella più importante, da cui deve partire tutto, la domanda
in assoluto a cui sono meno o per nulla preparata: «Perché tutto questo
accanimento su di noi? A te cosa ti interessa?».
Sente di dover sottolineare come ogni tentativo di cercare di
comprendere, da parte di associazioni di donne italiane come e perché
si perpetuano le MGF, è destinato a fallire perché risente di un
presunta arroganza occidentale che pretende di giudicare senza
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comprendere e di dire cosa e come le donne africane devono liberarsi
dalla loro schiavitù.
Una volta assodato che non sono lì per esercitare il mio falso potere
di donna emancipata, iniziamo a scambiarci delle suggestioni rispetto
a ciò che Rabìa sente come il nocciolo o uno dei noccioli della
questione.
«Il problema è come ti senti tu. Siamo tutti esseri umani,
diversi, ma uguali.
Il problema del razzismo italiano è di non conoscersi.
Gli italiani non sono razzisti, ma sono governati e coinvolti da
persone che sono razziste.
Il problema non può essere solo il razzismo. La
discriminazione non è perché sei nera o bianca, è perché non ci
conosciamo. La mia testa è migliore della tua, poi subentra la
religione. Se ci sono le donne, si pensa che non facciano niente,
che non siano soggetti di alcunché. Non c’è possibilità per le
donne se gli uomini usano la religione per importi delle cose. Chi
rovina la vita delle donne è l’uomo.
Prima di venire in Italia non sapevo neanche che essere stata
sottoposta alla pratica fosse qualcosa di sbagliato.
Ci sono molte donne che non sono contrarie a queste pratiche.
Perché se ne parla adesso? E non in modo che possa aiutare
chi le ha subìte, chi le subirà.
Tante di noi hanno rimosso. Non se lo ricordano nemmeno
perché erano piccole. Ma siccome è una sofferenza così pesante,
hanno rimosso, per difendersi. Bloccando il cervello, si bloccano
tutti i ricordi dolorosi. Se vai a scavare tra questi ricordi, che
cosa puoi dare a queste donne per non far emergere quella
sofferenza rimossa e non farle soffrire ancora di più? Se vai a
scavare troppo, poi che cosa hai preparato per aiutarle ad
affrontare il domani?»
Quindi per te sarebbe meglio non parlarne? le chiedo.
83
«No, se ne può parlare, ma senza scavare troppo in
profondità. Parlarne insieme in modo che nessuna si senta sola.
Anche le donne italiane hanno il loro lato oscuro. Se ne deve
parlare tutte insieme. È un ritorno a casa, come quando si
mangia tra connazionali per sentirsi a casa. Molte donne fanno le
MGF per sentirsi a casa. Secondo me, è una “vendetta” che la
mamma fa a sua figlia, perché la mamma che lo fa a sua figlia,
l’ha ricevuta a sua volta da sua mamma e questa è una catena che
non finirà mai, finché qualcuna non la spezzerà.
Una madre che ha sofferto, perché vuole infliggere quella
stessa sofferenza a sua figlia? Nessuna di noi potrà mai
rispondere. Spesso sono le bimbe stesse che chiedono alle
mamme di far loro la pratica. Per essere uguali alle amichette.
Molte donne scoprono di aver subito una mutilazione
all’arrivo in Italia, confrontandosi con i corpi di altre donne,
italiane. Hanno capito che gli manca qualcosa arrivate in
Europa.
Come si può aiutare chi ha subìto a non far subire la stessa
cosa anche alle proprie bambine, alle nipoti, ecc? Formare e
informare le donne somale che vivono nei paesi. Questa può
essere la strada».
4.6 Scolastica (Nigeriana)
Intervista a cura di A. Petricone
Le chiedo come mai abbia questo nome italiano.
«Da noi quando si è cattolici si prende il nome italiano. I miei
genitori sono cattolici. Ma ho anche un nome nigeriano:
Membgo. Ho 49 anni »
Di quale parte sei della Nigeria?
«De Sud della Nigeria: ci sono 37 Stati in Nigeria, compresa
la capitale.
84
La mia famiglia è rimasta lì, ho due figli di 25 e 22 anni che
stanno in Nigeria. Non vengono a trovarmi, è meglio per loro che
stanno lì. Sono venuti in vacanza per vedere il Vaticano, il papa.
In Nigeria si trova lavoro nel campo dell’ingegneria. Mio
figlio è molto bravo in informatica, con i computer. Lavora in
proprio, invece di aspettare che il Governo lo aiuti nel lavoro
(piccola imprenditoria autonoma in Italia). In Nigeria mia nonna
era commerciante, vendeva il tabacco ed ha permesso a tutti noi
di andare a scuola. In Italia non è così. Abbiamo un villaggio e
poi andiamo nella grande città per lavorare ecc.
Nei villaggi ci sono le scuole. Ogni Stato ha un’Università. In
Nigeria abbiamo il federalismo. Governo federale. Abbiamo altre
strutture private. Mio marito lavora solo, nel campo del
marketing, fa consulenza …»
Le domando: le donne come vivono in Nigeria?
«La Nigeria è un grande paese, ci sono musulmani, cristiani,
religioni tradizionali, poligamisti, ecc. si crede anche in divinità
minori.
Pregano il piccolo dio, il Dio grande lo chiamano Dio primo.
Ci sono gerarchie, c’è il Dio grande e gli altri minori.
Chi è cristiano non può avere più di una moglie.
Il nostro Paese è molto maschilista. La legge protegge gli
uomini. Non è come qui.
Da noi l’uomo comanda. Le donne non lavorano e stanno a
casa. Noi come maestre siamo andate ad insegnare alle famiglie
come fare delle cose e aiutare i loro bambini. Le donne restano
nelle case.
Ogni Stato ha il suo problema.
Le ragazze che vengono a fare le prostitute vengono da due
Stati del Nord della Nigeria. Perché lo fanno? Io me lo chiedo.
Sposano tante mogli, 10 mogli, le donne vengono tenute
sacrificate nelle stanze con i loro figli e gli uomini stanno per
85
conto loro. Le femmine non vengono mandate a scuola. Le figlie
vengono mandate dalle madri in Italia a prostituirsi per inviare
soldi a casa. Lo sanno cosa vanno a fare. Ci si comprano le case
così.
Ruota tutto intorno al consumismo sulla pelle delle donne. Gli
uomini rispetto a questo sono indifferenti. Molte sono ragazze
anche laureate. Perché lo si fa? per emulazione: il motore che
porta queste famiglie a far partire le loro figlie.
Io sono una vittima di MGF. A me hanno tagliato il cappuccio
della clitoride. È una nostra tradizione, i preti dicono che non
devi farlo. Mia nonna invece mi ha mandata a farla. Avevo 8 o
10 anni. Io lo ricordo bene. Siamo cinque sorelle. A loro non
l’hanno fatto. Io sono la più grande. Hanno insegnato a mia
madre che non va bene e quindi alle mie sorelle non l’hanno
fatto.
Quando tu non la fai, è considerata una disgrazia. Quando
parliamo tu non puoi parlare se non l’hai fatto.
Mia madre l’ha fatto. È motivo di orgoglio. Mia nonna e i
miei amici venivano a casa ogni sera a mangiare dopo che io
l’avevo fatto. Grande festa per il paese.
Noi insegniamo a scuola alle bambine che non è una cosa
buona. Bisogna cominciare con le bambine che poi quando
vanno a casa dicono alle loro madri che le maestre hanno
insegnato loro che non va bene fare la pratica.
La nostra scuola elementare è free, è libera, tutti e tutte
possono andare a scuola. Per far diminuire il processo, l’unica
soluzione è educare, informare.
Quando arrivi nel paese interessato devi parlare con il capo
del paese, devi presentare un progetto, devi creare “Opinion
leader” del luogo. In alcune ricerche sull’argomento la Nigeria
non compare come uno dei paesi in cui vengono fatte le MGF. Il
problema è più la prostituzione che queste pratiche. Bisogna
cominciare a parlarne, a far presente che avvengono anche qui».
86
4.7 “Parole in libertà …”
Durante un incontro organizzato da Donna tv all’interno di una
abitazione privata, alcune delle donne intervistate per questo lavoro di
ricerca, prevalentemente somale, si sono confrontate in una sorta di
tavola rotonda, sulle questioni relative alle MGF, alla cultura di
appartenenza, al confronto con le donne della stessa comunità e al
confronto con le donne occidentali.
Da un momento di grande intimità, fatta di risate, canti,
condivisione di uno spazio abitato solo da donne, ne è nato un dialogo
a più voci di grande valore sia dal punto di vista della narrazione
autobiografica, sia dal punto di vista della costruzione di un pensiero
che ha preso corpo e si è consolidato attraverso la voce di tutte e dalla
messa in discussione di punti di vista differenti.
4.7.1 Incontro collettivo: Rabìa, Marian, Fairus, Faduma ed altre…
Le donne occidentali ci giudicano? questo è il punto.
Mariam:
«Per me è un fattore legato all’ignoranza, intesa come non
conoscenza. Quando non si conosce una cosa, non la si comprende.
Siamo due culture molto diverse. Rispetto alle donne occidentali che
modificano il loro corpo, noi non scegliamo di farlo, lo subiamo. Solo
una volta adulte ci imbattiamo in tutte le problematiche che
comportano queste pratiche.
Quale può essere un elemento, un punto in comune?
Il fattore “maschile”. Il compiacimento verso il maschio è quello
che spinge sia le donne occidentali che le donne somale a modificare
il proprio corpo».
Fairus:
«Il piacere ad un uomo e il compiacerlo per noi è fondamentale.
Anche se il perno della famiglia in Somalia è la donna, esiste e
permane una forte cultura matriarcale, è l’uomo che va compiaciuto e
87
conquistato. Si dice che l’uomo sia la testa e la donna il collo che
permette alla testa di muoversi.
Certo, è la donna che decide nella realtà, ma non potendo avere un
rapporto diretto con l’uomo, non può dirgli cosa e come deve fare
qualcosa, attua una serie di strategie e di filosofie alternative che la
portano comunque a far prendere all’uomo delle decisioni dietro le
quali c’è il suo intervento. Siamo noi che muoviamo i fili dietro il
palcoscenico calcato dall’uomo.
Le donne occidentali subiscono una costrizione psicologica,
spendere soldi per la chirurgia estetica è un lusso ed è fattore di
benessere. Io subisco perché sono obbligata».
Rabìa:
«La pratica si fa anche per mantenere un’identità nazionale, una
sorta di ritorno alle origini.
Questo spiegherebbe la ragione per cui le donne somale
sottopongono le figlie alla pratica anche se sono nate in Europa, in
Occidente.
Io credo ci sia anche un altro fattore, legato comunque al bisogno
di tenere salde le proprie origini e quindi le proprie tradizioni.
Le mamme somale sono spaventate dalla presunta libertà sessuale
delle proprie figlie, sono spaventate dalle figlie tredicenni che parlano
loro di sesso quando tornano a casa, da scuola.
Le mamme si allarmano e portano le figlie in Africa a farle
“mutilare” per contrastare questa libertà sessuale, per salvaguardare la
verginità delle figlie e non doversi porre la domanda: “dove abbiamo
sbagliato”?»
Faduma:
«Per me è strano riportare indietro le bambine nate qua per fare
questa pratica. Io pensavo che avevamo superato questa cosa, ma non
l’abbiamo superata».
Mariam:
88
«Se parliamo della Somalia, dobbiamo tener conto delle moltissime
identità che vi sono rappresentate. Viviamo una situazione anomala in
questo paese, fuori da ogni contesto politico, sociale.
Ma quando ci raduniamo tra noi, parliamo anche di cose che ci
accomunano. Più che un ritorno alle origini, abbiamo un grande
bisogno di attaccarci a qualcosa che ci può accomunare. Tornando al
discorso fatto fin qui, il punto non è per me “paragonarmi a …”, ma
trovare una soluzione affinché la pratica non sia più attuata, una
soluzione che ovviamente non ha a che fare con noi adulte che
abbiamo subìto l’intervento, ma ha a che fare con le nostre figlie, e le
nostre nipoti, le future donne somale. Se è vero che le donne somale
sono così astute da decidere sottobanco facendo credere il contrario, se
sono così strategiche e sono il perno della comunità, il collo che fa
girare la testa, perché allora non facciamo girare le nostre teste in base
ai nostri movimenti? Perché non ci adoperiamo per migliorare le
nostre tecniche invece di autodefinirci solo come donne vittime,
discriminate, che subiscono?
Andiamo oltre, adoperiamoci per farlo, cerchiamo il dialogo al di
là di noi. Se restiamo a parlarne solo fra di noi non si andrà molto
oltre.
Se dipendesse da me, cercherei di confrontarmi con l’uomo e di
capire cosa pensa di me. Cercare di capire cosa è indispensabile per lui
e cosa lo è per me.
Metterci a confronto su questo. Ricominciare dalla base.
Ricominciare da qui.
Capire cosa ci costringe a mantenere questa tradizione che non è
nostra. Naturalmente ognuna di noi, nel proprio piccolo, può
contribuire, senza andare in Africa e attrezzarsi per partire oggi stesso.
Da qui si può fare molto. Adoperarsi a partire dal contesto in cui si
vive. È necessario creare delle linee di assistenza per donne che si
rivolgono a strutture sanitarie, per esempio, moltissime donne
infibulate provano vergogna a recarsi in strutture ospedaliere per paura
di essere rese oggetto di giudizio e di derisione da parte del personale
medico e paramedico, per paura di essere guardate come “fenomeni da
baraccone”.
89
È necessario lavorare su questo, adoperarsi a creare anche dei
centri specializzati, luoghi come i consultori in cui le donne possono
trovare una corretta accoglienza e un’adeguata assistenza e in cui
possano parlare con degli specialisti senza vergogna e reticenza. Se
iniziamo da qui, riusciremo a “salvare” le nostre figlie e le nostre
nipoti».
90
PARTE IV
91
5
MGF, ovvero un sentiero di decostruzione
epistemologica
di F. Ruggiero
“Nulla suscita più disgusto del cannibalismo,
nulla disgrega così sicuramente una società; nulla
– si potrebbe dimostrarlo – ottunde e degrada a
tal punto la mente di chi lo pratica. Eppure noi
facciamo lo stesso effetto ai buddisti e ai
vegetariani. Noi consumiamo le carcasse di
creature che hanno appetiti, passioni, e organi
simili ai nostri; noi ci cibiamo di neonati che
hanno il solo torto di non essere della nostra
stessa specie. E’ vero che facciamo delle
differenze, ma la riluttanza di molte nazioni a
mangiare il cane, un animale con cui viviamo a
stretto contatto, dimostra quanto precaria sia, in
fondo, la distinzione. (...) Giustamente, affettare la
carne di un uomo morto è molto meno odioso che
opprimerlo da vivo. (…) La vita in Europa riposa
su queste “istituzioni di terrore”; ciò malgrado gli
europei sono una delle razze meno crudeli” .
Robert Louis Stevenson, Nei mari del Sud. 1896
“Le donne indiane sono donne, cioè degli indiani
al quadrato: a questo titolo diventano oggetto di
una duplice violenza”.
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America
“«Sporco negro!» o semplicemente: «Toh! Un
negro!»
Franz Fanon, L’esperienza vissuta del negro
Questa ricerca ha voluto esplorare gli stereotipi e i pregiudizi che
danno forma al nostro immaginario sulle cosiddette Mutilazioni
genitali femminili (MGF).
92
Con la consapevolezza dell’insegnamento delle generazioni
femministe che mi hanno preceduta, lo studio qui proposto si fonda su
una suggestione ben precisa: partire da sé8. Conoscenza situata,
posizionata, come ricorda Gabriella Bonacchi, di chi intraprende un
percorso conoscitivo, consapevole della parzialità di cui
inevitabilmente è portatore (o portatrice), influenzata da fattori spaziotemporali, dal sesso o dal genere di appartenenza, dai ruoli sociali e
soprattutto dalle proprie storie di vita. Lo sguardo di partenza è quindi
uno sguardo finito, parziale, “from somewhere” e non “from
nowhere”, dunque non universalmente valido, tanto meno
universalizzabile9. La parzialità del nostro punto di vista dovrebbe
rappresentare, per tanto, una consapevolezza necessaria da assumere
come premessa fondativa di ogni relazione.
Prendere coscienza dei nostri abiti mentali e delle nostre categorie
cognitive come particolari, ci consente di mettere in discussione le
nostre certezze, rendendoci più disponibili ad ascoltare e a
comprendere le ragioni degli altri.
Esperienze pregresse sul tema delle MGF hanno dimostrato che tra
la nostra visione del fenomeno e la percezione delle donne
direttamente coinvolte c’è spesso uno iato, in grado di compromettere
una possibile relazione attenta alle altrui sensibilità. A tal proposito
questa ricerca ha voluto esplorare la natura e la causa di questa
frattura, affinché all’incomunicabilità si sostituisca un dialogo più
aperto alla conoscenza e alla comprensione reciproca.
8
Secondo lo scritto di Adrienne Rich “A Politics of Location” del 1978-85, il
femminismo post-moderno è una pratica di liberazione e un modo di essere. È uno
spazio di auto-definizione in divenire, che prende forma dal corpo sessuato al
femminile, dal partire da sé, ma anche dalla cultura che lo ha plasmato e che lo tiene
intrappolato: “Partire da sé e dal proprio corpo significa molto di più che riconoscere
di avere una vagina e una clitoride, un utero e dei seni. Significa riconoscere la mia
pelle bianca, il luogo in cui mi ha condotto e il luogo in cui mi trattiene”.
9
G.Bonacchi, Il selvaggio di Occidente: Corpo e femminismo. In Occidentalismi, a
cura di C.Pasquinelli, ed. Carocci, Roma 2005, pag.117.
93
Sono stati/e coinvolti/e donne immigrate, opinion leader, politici,
medici, antropologi, chirurghi plastici ed operatori del settore, al fine
di ricostruire una sorta di genealogia del nostro immaginario sulle
MGF, che di fatto permea i nostri giudizi, con derive spesso
eurocentriche e razziste.
Si è voluto, perciò, riflettere su alcuni concetti-chiave che
coinvolgono tutte le donne, se pur con modalità differenti, quali:
l’integrità del corpo, l’autodeterminazione, la salute e il controllo della
sessualità e del piacere femminile, subordinato a quello maschile,
anche all’interno dei nostri riferimenti socio-culturali.
Le MGF, dunque, e soprattutto le ragioni che le sottendono, ci
riguardano direttamente come donne più di quanto immaginiamo. Da
donne occidentali, infatti, ci illudiamo di essere libere ed emancipate,
arrogandoci il diritto di relazionarci a donne di altre culture come
sorelle maggiori, dimenticando di appartenere, invece, ad un mondo
che, come gli altri, controlla i nostri corpi e ci discrimina come donne.
La legge sulla fecondazione assistita, il caso Englaro e i numerosi
tentativi di rimettere in discussione la legge sull’aborto, rappresentano
a questo proposito un’eloquente testimonianza.
5.1 Note sulla scelta metodologica
Come già affermato questa ricerca intende analizzare la natura e le
categorie cognitive ed interpretative che lo sguardo “occidentale10”
10
Consapevole dell’inesattezza e del riduzionismo terminologico del termine
Occidente, mi rimetto convenzionalmente all’identificazione di questo concetto con
i Paesi europei e del Nord America, entrambi votati ad un sistema economico
fondato sul libero mercato ed un sistema politico basato sulla democrazia
rappresentativa, che vogliono esportare come modello di sviluppo. Edward Said in
Orientalismo così scrive: “Personalmente, ritengo che l’orientalismo sia più
veritiero in quanto espressione del dominio euroamericano che come discorso
obiettivo sull’Oriente”. L’uso diffuso di questa terminologia adottata anche per
definire Paesi non occidentali, con sinonimi quali “Paesi in via di sviluppo” o “Paesi
del Sud del mondo”, testimonia la tendenza omologatrice e riduzionista operata dalla
94
mette in gioco nel discutere e valutare una pratica spinosa (resa tale
non senza la nostra complicità), come quella delle MGF. A mio
avviso, infatti, le MGF rappresentano il paradigma della debolezza
dell'approccio epistemologico occidentale, troppo spesso fazioso,
etnocentrico e mistificatore.
Ho scelto di non utilizzare il termine “mutilazioni” per sottrarmi al
giudizio di valore fortemente negativo che questo esprime,
consapevole del potere performativo, emanazione del linguaggio: la
definizione permea e informa la realtà, a prescindere da una sua reale
corrispondenza al vero.
L’espressione che comunemente identifica le pratiche cosiddette
mutilatorie non considera l’aspetto culturale11 che, per la
comprensione di tali fenomeni, ricopre un ruolo determinante. Il
termine mutilazione, infatti, racchiude implicitamente una
connotazione negativa, poiché fissa l’attenzione sull’elemento
prettamente fisico del deterioramento di un organo, subordinando il
fenomeno culturale a mero epifenomeno. Questa posizione è frutto di
una volontaria opera di riduzione della complessità, da parte di una
cultura etnocentrica interessata più a tessere anatemi e condanne verso
tutto ciò che non gli appartiene, piuttosto che adoperarsi per una
cosiddetta cultura dominante “occidentale”. Su questo tema Gayavatri Chakravorty
Spivak in Can subaltern speak? afferma: “Io sostengo che far propria una visione
auto-ristretta dell’Occidente significa, in maniera sintomatica, ignorare che essa è
il prodotto dell’organizzazione spazio-temporale del progetto imperialista”. Ad
ogni modo mi avvarrò di questa terminologia perché sia Oriente/Occidente che
Nord/Sud sono “comunità immaginate”, e in quanto tali, devono essere giudicate
non per la loro effettiva veridicità, ma per l’immaginazione e la rappresentazione
che si ha di queste.
11
Per cultura non intendo un concetto reificato e ipostatizzato, sostitutivo
dell’ambiguo “etnia” o ancor peggio dell’infondato “razza”, bensì costruzioni
narrative formate da un arcipelago infinito di combinazioni di pensieri e azioni, in
grado di definire identità polisemiche, dinamiche, eterogenee e mutevoli nello
spazio e nel tempo, per questo mai definite una volta per tutte. Come un fluido
continuo, privo di barriere predefinite, capace di nutrirsi e di rielaborare
contaminazioni di ogni genere.
95
migliore comprensione di altri modi vivendi, non sempre riducibili alle
proprie categorie politiche e morali.
Come ricorda l’antropologa Michela Fusaschi l’utilizzo del termine
“mutilazione” suggerisce una condanna a priori senza possibilità di
appello, proprio ai danni di coloro che vengono identificate come
vittime di tali pratiche, condannandole in questo modo ad una sorta di
doppia privazione12. Se il punto di vista delle donne direttamente
coinvolte rappresenta una testimonianza privilegiata per la conoscenza
del fenomeno, l’impiego del termine “mutilazione”, in cui non vi è
alcun riconoscimento delle attrici sociali, impedisce di fatto lo
scambio relazionale, compromettendone la comprensione. Per questi
motivi l’impiego del termine “modificazione” in luogo di
“mutilazione” sembra, a mio avviso, essere più rispettoso del punto di
vista emico, ovvero di chi è immediatamente coinvolta, e più attento
alle implicazioni culturali che connotano tali pratiche, rimandando la
formulazione del giudizio sulle stesse ad un momento almeno
successivo alla loro comprensione.
Si tratta, per altro, di un termine non scelto dalle donne che ne sono
protagoniste, non irriducibilmente disposte ad essere considerate
mutilate, soprattutto da chi, troppo spesso, si arroga il diritto di parlare
al loro posto.
E’ opportuno precisare, inoltre, che non tutte le pratiche incluse
nelle MGF sono effettivamente mutilatorie, in quanto rientrano in
questo gruppo anche interventi di ipertrofizzazione o di allungamento,
che non prevedono escissione o mutilazioni di nessun tipo e tanto
meno producono effetti invalidanti.
La scelta istituzionale di ricorrere a questa dicitura dimostra sin
dall’inizio la collocazione del nostro sguardo, che, proprio attraverso
la capacità performatrice del linguaggio, attribuisce sin da subito un
giudizio di valore estremamente negativo, capace di condizionare
12
M.Fusaschi, I segni sul corpo, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag.31.
96
eventuali riflessioni su tale fenomeno, prima ancora di averlo
realmente compreso.
Anche il termine “modificazione” è tuttavia oggetto di forte critica,
in quanto riconducibile ad un atteggiamento relativista, in un
momento in cui il relativismo culturale sembra essere la peggiore
malattia di cui un ricercatore può essere affetto13. Rispetto a questa
visione, che sempre accompagna posizioni non aprioristicamente
critiche su questo tema, ho deciso di avvalermi di quanto affermato a
tal proposito dall’antropologa Carla Pasquinelli, ovvero che il
relativismo culturale rappresenta un principio di normatività
metodologica e non etica, utile dunque alla comprensione e non alla
formulazione di giudizi di valore su manifestazioni culturali diverse
dalle nostre.
Il relativismo culturale nasce come correttivo dell’etnocentrismo
occidentale, di cui infatti rappresenta il corrispettivo antonimo.
All’universalismo si contrappone il particolarismo e non dunque il
relativismo, utilizzato invece come espediente retorico per avvalorare,
con velleità universalizzanti, il particolarismo della visione
occidentale14.
Per una convenzione discorsiva nel corso di questa indagine mi
affiderò al più semplice acronimo MGF.
Tali pratiche portano sul banco di prova una giovane società
multiculturale, la nostra (certamente non la sola a trovarsi in questa
impasse), che a quanto pare stenta a dirigersi su posizioni più
propriamente interculturali. Stereotipi, pregiudizi, retaggi culturali di
diversa natura e provenienza ostacolano, infatti, l’accettazione di
posizioni non solo sensibili al riconoscimento di un’ipotetica alterità,
13
Trovo eloquente che ogni qualvolta mi sia trovata a discutere su questi temi sia
stata invitata a fare “pubblica abiura”, essendo chiamata a premettere la condanna o
il riconoscimento della crudeltà di simili pratiche, prima di poter concludere
l’esposizione delle mie tesi.
14
C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, ed Meltemi, Roma 2007, pag. 48-49.
97
ma capaci di includere e di concedere cittadinanza ad una pluralità di
esistenze, espressioni di eventuali e reciproche similitudini e
differenze.
Il coinvolgimento di minori e la cruenta invasività di molte pratiche
di MGF offrono numerosi argomenti di critica, allo stesso tempo,
però, fanno perdere di vista il fatto che le medesime obiezioni
permangono anche quando vengono meno questi due fattori. Credo
dunque possibile riconoscere agli stessi una funzione squisitamente
sovrastrutturale, capace di nascondere, come si vedrà, il cuore del
problema, che pertiene piuttosto al nostro immaginario ancora non del
tutto decolonizzato.
Nello svolgimento di questa ricerca, quindi, ho scelto volutamente
di escludere dalla mia analisi il coinvolgimento di bambine nelle
pratiche di MGF, proprio in virtù del fatto che tale aspetto rappresenta
un facile paravento, dietro il quale nascondere stereotipi e pregiudizi
che informano il nostro sguardo sul fenomeno. Ho scelto, perciò, di
occuparmi solo di pratiche che interessano principalmente donne
adulte, in quanto permettono di evidenziare e far emergere le
contraddizioni che accompagnano i nostri giudizi su fenomeni di
modificazione del corpo femminile e su questioni di
autodeterminazione, che coinvolgono donne immigrate e donne
“occidentali”.
Allo stesso titolo ho deciso di focalizzare l’attenzione, in
particolare nella rassegna stampa, sulla proposta di rito alternativo
avanzata dal Dott. Omar Abdulcadir, in quanto, trattandosi di una
pratica simbolica non fisicamente invasiva, lascia emergere a mio
avviso il portato ideologico che accompagna la nostra visione sulle
MGF, una volta depurata da argomentazioni relative alle conseguenze
fisiche e sanitarie, nonché da questioni relative all’autodeterminazione
femminile, non scevre in questo caso, come si vedrà, da usi
strumentali.
Mi preme precisare che in questo lavoro sono state oggetto di
indagine esclusivamente le nostre percezioni ed interpretazioni del
fenomeno (e di conseguenza dei soggetti che le praticano e dei luoghi
98
da cui hanno origine), quindi le scelte sopra indicate sono ascrivibili
ad un piano esclusivamente metodologico.
L’analisi parziale del fenomeno (circoscritta a donne adulte) e la
scelta per la rassegna stampa di uno specifico caso di studio (la
proposta di rito simbolico) non vanno quindi lette in termini
assiologici o prescrittivi, rispetto all’oggetto di studio qui preso in
esame. Non intendo, infatti, suggerire cosa sia lecito concedere e cosa
sia invece da perseguire, bensì offrire eventuali spunti di riflessione
per decostruire15 e decentrare le nostre categorie cognitive, in favore
di una migliore conoscenza e comprensione reciproca.
5.2 Introduzione
Il costante aumento del fenomeno migratorio sta trasformando la
nostra società in un arcipelago multiculturale in cui traspaiono però,
sempre più nitidamente, i limiti e le difficoltà ad intraprendere un
cammino verso una società realmente pluralista e interculturale. A tal
proposito sembra doveroso interrogarci sulla natura del nostro
sguardo, che si poggia su chi consideriamo o percepiamo come
Altro/a da noi.
L’Occidente, infatti, percepisce se stesso come portatore di valori
universalmente accettabili, in grado di fornire sviluppo,
emancipazione e prosperità: una società che avrebbe espunto
discriminazione e marginalizzazione dalla propria carta d’identità
morale e politica.
Benché la società contemporanea offra molteplici spunti di
riflessione su questioni relative all’intercultura e a volte sulle sue
difficoltà di realizzazione, a mio avviso il fenomeno delle MGF
rappresenta una “cartina al tornasole” per analizzare la nostra
15
“Decostruire non vuol dire negare o rifiutare, bensì mettere in discussione o,
meglio, indagare la natura di un termine, quale quello di soggetto e permettere un
riutilizzo fino a quel momento non autorizzato”. J.Butler in C.Demaria, Teorie di
genere, ed. Bompiani, Milano 2003, pag. 43.
99
predisposizione epistemologica in proposito. Queste, infatti,
forniscono importanti contributi al dibattito sulla perspicuità dello
“sguardo occidentale” nel formulare soluzioni ai conflitti divisivi della
nostra società.
Come in molti altri casi, anche a noi più vicini, il corpo delle donne
diventa uno spazio di pubblico dominio, dove combattere battaglie
politiche con pretesti religiosi e culturali, sede di conflitti e
negoziazioni in cui spesso le donne sono mezzo e non fine, escluse di
fatto dalla sfera decisionale.
5.3 Classificazioni del fenomeno
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal 1995 ha
classificato le pratiche di MGF conosciute, ponendosi l’obiettivo di
eradicarle. La classificazione ha portato alla seguente suddivisione:
- Tipo I: Escissione del prepuzio, con o senza asportazione parziale o
totale di tutto il clitoride. Ritenuta analoga alla circoncisione
effettuata su bambini e adulti di sesso maschile. Nei Paesi islamici è
nota come “Sunna”che in arabo significa “tradizione”. Tale pratica
pone minori rischi di complicanze per le donne che vi si
sottopongono, rispetto agli altri tipi di intervento;
- Tipo II: Escissione del clitoride con asportazione parziale o totale
delle piccole labbra;
- Tipo III: Escissione di parte o tutti i genitali esterni e suturarestringimento dell’apertura vaginale, affinché, come recita la
tradizione, dal foro residuo passi solo un grano di miglio
(infibulazione). Chiamata anche circoncisione faraonica in Sudan e
circoncisione sudanese in Egitto; La ferita viene cucita con filo di
seta o per suture in Sudan, con spine di acacia in Somalia o in alcune
regioni con il gundura, una sorta di stecca di legno di palma a forma
di V;
- Tipo IV: Non classificati. Vi si include perforazione, penetrazione o
incisione del clitoride e/o labbra; stiramento del clitoride e/o labbra;
cauterizzazione mediante ustione del clitoride e del tessuto
circostante; raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale o
100
incisione della vagina; introduzione di sostanze corrosive o erbe
nella vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla o
restringerla; e qualsiasi altra procedura che cade sotto la definizione
di mutilazioni genitali femminili (MGF).
I dati sulla diffusione di MGF sono ancora molto incerti. Si
presume che in Somalia coinvolgano il 98% delle donne, il 97% in
Egitto, il 95% in Eritrea e in Gibuti, il 90% in Sierra Leone, l’89% in
Sudan, l’85%-94% in Mali, il 70-90% in Etiopia, il 60-90% in Gambia
e Nigeria. Fenomeno non solo africano, nel 1997 in Yemen si sono
registrati il 23% di casi. Esistono testimonianze anche in Indonesia,
dove però sono molto diffuse pratiche simboliche di circoncisione.
In misura minore sono oggi riscontrabili anche in Australia, Europa
e America grazie alla presenza di comunità di immigrati e rifugiati16.
In alternativa alla classificazione dell’OMS è interessante
analizzare un altro tipo di schematizzazione, offerta da Michela
Fusaschi:
a) Modificazioni o alterazioni a carattere riduttivo (non terapeutico):
Vi fanno parte tutte le operazioni finalizzate alla modificazione
riduttiva di un organo femminile non necessariamente genitale.
Quindi
l’escissione,
l’infibulazione,
la
sterilizzazione,
l’asportazione delle ovaie (pratica anticoncezionale praticata in
Occidente fino al secolo scorso, oggi sostituita dalla legatura delle
tube), le deformazione dei piedi delle bambine cinesi, la
mastectomia (osservate nel XIX secolo in Australia e in Tanganica)
e il peeling (asportazione di superfici di pelle più o meno estese
praticato anche in Europa).
b) Modificazioni o alterazioni a carattere espansivo (non terapeutico):
Di questa categoria fanno parte tutte le operazioni che modificano
artificialmente in senso espansivo organi genitali e non genitali.
16
International Journal of Health, Culture and Migration, vol.1 n°0, Gennaio-Aprile
2005, ed. Universo, Roma, pagg. 23-24.
101
Quindi gli allungamenti clitorido-labiali a seguito di massaggi
digitali e applicazioni di sostanze vegetali, per facilitare, secondo
resoconti etnografici, coito e procreazione (registrati in Indonesia,
in Rwanda, in Uganda, in Tanzania, nello Zimbabwe e nel Benin)17.
Per le operazioni extragenitali sotto questa categoria possono essere
annoverate le deformazioni degli apparati bucco-labiale e otorino
attraverso monili che provocano l’allungamento progressivo delle
zone interessate a sancire determinati periodi di vita (soprattutto in
Amazzonia, ma presenti anche in alcuni Paesi africani tra cui
l’Etiopia). Di queste pratiche ci sono testimonianze anche in
Occidente (chiamate stretching) ad opera di alcuni giovani definiti
appartenenti a “tribù metropolitane”. Si registrano ancora in
Occidente delle applicazioni sottocutanee di elementi metallici che
provocano un corrispondente innalzamento del derma, creando
disegni particolari.
Un’attenzione specifica merita l’ipermastia, molto praticata in
Occidente (esistono testimonianze etnografiche anche di
allungamento del seno per mezzo di corde praticato da alcune
comunità sahariane per motivi estetici), attraverso la chirurgia
estetica su donne la cui età si abbassa gradualmente.
In Mauritania si registrano, invece, pratiche di ingrassamento
artificiale mediante la somministrazione quotidiana di alimenti.
c) Altre modificazioni o alterazioni (non terapeutiche):
Non rientrano nelle precedenti categorie, ma sono comunque
modificazioni di organi femminili la deflorazione rituale (soprattutto
in Australia), la modificazione/deformazione cranica (praticata da
17
In questo caso il piacere sessuale viene valorizzato attraverso
l’ipertrofizzazione dell’organo genitale, assumendo un valore completamente
antitetico a quello delle modificazioni riduttive. Per quanto anche le pratiche
estensive siano praticate sulla donna in funzione propedeutica al matrimonio e
alla maternità; da tale prospettiva la classificazione indistinta di “mutilazioni
genitali” effettuata dall’OMS, per altro su categorie esclusivamente medicosanitarie, lascia emergere tutta la sua ambiguità.
102
alcuni gruppi di pigmei dell’Africa subsahariana con strette fasciature)
le modificazioni tegumentarie del collo (in Thailandia e in Birmania),
del tronco-torace (praticata in Occidente con l’utilizzo di corsetti
costrittivi), le scarificazioni, i tatuaggi, la limatura dei denti (presente
in Africa, ma anche in alcune culture americane precolombiane), il
cutting (iscrizione di disegni di inchiostro sotto forma di cicatrici
realizzate con strumenti taglienti), il branding (cicatrice in rilievo
disegnata sulla pelle con un ferro rovente o il laser) e il burning
(impressione sulla pelle di una bruciatura volontaria poi colorata con
inchiostro o pigmenti)18.
Da tale schema si evince l’eterogeneità dei fattori che alimentano le
differenti pratiche.
Il confronto tra le due classificazioni rileva interessanti analogie tra
quelle considerate lesive della dignità del corpo e quelle che vengono
considerate abiti comportamentali alla moda, si pensi ai tatuaggi, ai
piercing o a casi di modificazione del corpo ben più invasivi, che però
non ricevono la stessa attenzione o trattamento riservato alle MGF19.
Da una parte si cerca di spiegare o capire una scelta estetica, dall’altra
si stigmatizza una pratica considerata indice di degrado culturale e di
sopraffazione. Questo approccio epistemologico attinge troppo alle
fonti dell’etnocentrismo, per non suscitare qualche sospetto o
diffidenza.
5.4 Storia di pratiche di modificazione genitale
Non esistono molte certezze sull’origine delle MGF. Alcuni
studiosi identificano la penisola arabica o l’Egitto come culla di questa
usanza, poi diffusasi altrove, mentre altri sostengono un suo sviluppo
indipendente, data l’ampia diffusione e le molte differenze che
contraddistinguono nello specifico tali pratiche.
18
M.Fusaschi, I segni sul corpo, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2003, pagg. 34-40.
A tal proposito si veda Michela Fusaschi, Corporalmente corretto, ed. Meltemi,
Roma 2008.
19
103
Le prime testimonianze si registrano in Egitto, su una tomba a
Saqqara della sesta dinastia (2340-2180 a.C.), a cui seguirono altri
ritrovamenti di epoche successive. Anche le mummie possono portare
testimonianze di infibulazione, in virtù di strette fasciature in
prossimità dei genitali, anche se lo stato di conservazione non
permette di affermarlo con certezza.
La fonte documentaria più antica sulla circoncisione a noi
pervenuta è ad opera di Erodoto (484-424 a.C.), secondo cui tale
pratica veniva eseguita dagli egizi, dagli hittiti, dai fenici e dagli
etiopi.
Sorano, un medico greco in attività a Roma e ad Alessandria
d’Egitto tra il I e il II sec. d.C., afferma che tale intervento veniva
praticato per ridurre il desiderio sessuale femminile.
Ezio (527-565 d.C.) e Paolo d’Egina (625-690 d.C.) documentano
lo stesso intervento approvandolo, poiché la crescita spropositata della
clitoride poteva richiamare il membro maschile, favorendo così
rapporti lesbici.
Nella Roma antica si soleva applicare una spilla (una fibula, da cui
infibulazione anche se la ragione punitiva e profilattica adottata dai
romani è molto distante dalla percezione attuale delle donne africane
infibulate) sui genitali delle proprie mogli, per prevenire rapporti
illeciti, sugli schiavi affinché non si distogliessero dal lavoro per il
sesso e sulle schiave per impedire gravidanze ostative al lavoro.
Come prevenzione di una sessualità “illecita”, si può considerare la
cintura di castità, applicata alle mogli dei crociati, un continuum delle
pressioni sugli organi sessuali femminili.
Durante il periodo delle grandi esplorazioni sono molte le
testimonianze relative a fenomeni di escissione dei genitali femminili.
Tra il XVII e il XVIII sec. la setta russa degli skoptzi di matrice
ortodossa, praticava interventi escissori sia su uomini che su donne, in
virtù dell’espressione evangelica “farsi eunuchi per Cristo”.
Tra il XVIII e il XIX sec. in Francia, in Germania e in Inghilterra si
praticava la cliterodectomia a scopi “terapeutici” per prevenire la
masturbazione femminile, considerata causa di disturbi cerebrali e
104
nervosi, tra cui l’epilessia, il nervosismo, l’isteria20, la ninfomania,
l’idiozia e la follia.
Negli Stati Uniti l’ultimo caso documentato di clitoridectomia
risale al 1927, ma è dimostrato che negli ospedali psichiatrici tale
pratica è stata eseguita fino al 193521.
Esistono poi testimonianze di clitoridectomia in Inghilterra,
effettuate su una bambina di cinque anni, negli anni ’40 del secolo
scorso.
5.5 Le MGF oggi
Le MGF, pur interessando molte donne mussulmane, non trovano
nell’islam alcun fondamento religioso. Queste, infatti, vengono
praticate anche su donne di religione cristiana, ebraica e appartenenti
ad altre religioni impropriamente definite “animiste”.
L’età delle donne o bambine a cui si pratica tale intervento è molto
variabile. Si va dai primi 3-8 giorni di vita degli Amhara in Etiopia, ai
16-18 anni tra i Kissi in Guinea, i Birifor e i Teguessié in Burkina
Faso. In Kenia i Kikuyu lo praticano prima della comparsa della primo
ciclo mestruale, in Burkina Faso i Gourmantché prima del
matrimonio, mentre i Senoufo in Mali, Burkina Faso, Ghana e Costa
d’Avorio prima della gravidanza o in caso di sterilità22.
La diversa età delle donne sottoposte a MGF lascia spesso intuire
un diverso significato simbolico a queste attribuito.
Fatte le dovute premesse è necessario analizzare le motivazioni e i
significati che si celano dietro le MGF.
In realtà, da quanto si evince dalle classificazioni precedenti, il
corpo è un soggetto centrale non solo per spiegare le MGF, bensì per
comprendere innumerevoli manifestazioni culturali che sanciscono la
20
Da qui l’origine etimologica di “isteria” dal greco histéra, ovvero utero.
International Journal of Health, Culture and Migration, op. cit., pagg. 20-22.
22
M.Fusaschi, I segni sul corpo, pagg. 96-97.
21
105
fusione della sfera fisico-biologica con quella socio-culturale. Il corpo,
pur degno di un’attenzione particolare in quasi tutte le culture
conosciute, è considerato a vario titolo imperfetto e per questo
suscettibile di miglioramento, al fine di favorire la socialità in quanto
produttore di senso e valore. In questo non fa eccezione una società
come la nostra, particolarmente attenta ai significati e alle
implicazioni dell’apparire.
Nelle relazioni con gli altri è inevitabile la socializzazione del
corpo, anche come strumento comunicativo su cui ognuno interviene,
dando risposte individuali mutuate dai propri modelli culturali di
riferimento. La corporeità viene continuamente definita secondo
categorie spazio-temporali mutevoli, restando, comunque, sempre
socialmente e culturalmente costruita.
Così le MGF possono essere lette in alcuni casi come strumenti di
costruzione identitaria. Attraverso queste pratiche gli individui
coinvolti si conformano a regole specifiche prestabilite dalla comunità
di appartenenza per la sfera pubblica e privata, laddove queste sono
distinte, trasformando così il corpo biologico in corpo culturale.
Il corpo dunque esprime la propria soggettività, ontologica e
culturale, rappresentando ciò che si è, senza esaurirsi esclusivamente
in una dimensione oggettiva del proprio essere.
Lo sguardo su queste pratiche è riassumibile in almeno due punti di
vista: quello dei soggetti direttamente interessati, che vedono nelle
MGF uno strumento di correzione del corpo, garante di accettazione
sociale e molto altro, e quello dell’osservatore esterno, che definisce le
MGF meri strumenti punitivi. In contrapposizione a quest’ultima
posizione è possibile portare l’esperienza delle donne buganda in
Uganda23. Come altre donne dell’Africa centrale praticano MGF
espansive, esattamente il longininfismo, ovvero l’allungamento delle
piccole labbra mediante massaggiamento e applicazioni di essenze
23
In Uganda le pratiche escissorie sono una netta minoranza (5%) rispetto alle
pratiche espansive, di cui il 25% non riconosciute dall’OMS.
106
vegetali a partire dai 10 anni di età. Tale pratica rappresenta un
recupero culturale di un’eredità attribuita ai boscimani, che
presentavano fisiologicamente le labbra dei genitali femminili
allungate. La finalità di queste pratiche è l’esaltazione del piacere
femminile, che, anche se funzionale alla procreazione, non può essere
ridotto a mero strumento punitivo. Nonostante il longininfismo non sia
nocivo e compromettente per la salute della donna, gli ostetrici
occidentali la considerano una patologia da affrontare chirurgicamente
tramite escissione24.
Le MGF sono considerate pratiche che sanciscono, anche
attraverso l’esperienza formativa del dolore, riti di passaggio, di
iniziazione o di consacrazione, quindi modificazioni fisiche che
accompagnano modificazioni di ruolo, di stato o di posizione sociale.
La centralità del corpo è ancora affermata come luogo in cui la
ferita simbolica, punto di non ritorno, sancisce un cambiamento
materiale in divenire, inevitabile e irreversibile25. L’intervento sulla
clitoride, organo che rievoca il membro maschile per la sua forma
fallica, trasforma la ragazza in donna, separandola nettamente dal
mondo maschile e allontanando qualsiasi ambiguità sulla sua
collocazione sociale.
Così come l’uomo dopo la circoncisione è considerato più virile, la
donna dopo l’escissione è ritenuta più pulita e quindi pronta al
matrimonio. Il rituale che accompagna l’intervento prevede un
periodo di ritiro, appannaggio esclusivo delle donne, in cui si
tramanda il sapere femminile, sancendo consapevolmente la propria
appartenenza di genere, con tutte le responsabilità e gli oneri che
questo comporta26.
24
Ricerca svolta dalla Dott.ssa Pia Grassivaro Gallo ed esposta al convegno sulle
MGF tenutosi a Roma il 10-11 Dicembre 2004, organizzato dall’ospedale
S.Gallicano e dall’Istituto I.S.S.M.A.S..
25
M.Fusaschi, I segni sul corpo, pag. 79.
26
M.Fusaschi, op.cit., pagg. 82-83.
107
Le MGF garantiscono che la donna arrivi pura al matrimonio,
soprattutto nei contesti sociali in cui centrale è la ricchezza della sposa
(impropriamente conosciuta come il prezzo della sposa, malgrado sia
un aspetto non ascrivibile ad una transazione meramente commerciale,
bensì cerimoniale)27.
L’antropologo Amedeo Pistolese offre un’ulteriore lettura del
fenomeno, sostenendo che le MGF siano uno strumento di controllo
delle nascite, proprie di società che, contrariamente alla nostra,
adeguano all’ambiente le proprie caratteristiche demografiche.
A questo punto ritengo che sia quanto meno improprio il ricorso a
valori e significati assoluti in tema di MGF, dato che sono soprattutto
gli attori e le attrici sociali a riempire di senso tali pratiche, dalle cui
motivazioni è metodologicamente impossibile prescindere per la
comprensione del fenomeno e per il riconoscimento della soggettività
delle persone coinvolte.
Nella valutazione delle MGF, la dimensione “etnologica” è spesso
trascurata per paura di cadere nella trappola del relativismo culturale.
Come ricorda ancora Michela Fusaschi
Secondo questa valutazione non ci sarebbe bisogno di
«giustificare» culturalmente quello che viene ritenuto
inaccettabile moralmente, come se, nel nostro caso, non si
trattasse di un fenomeno culturale ma solo di un’espressione di
crudeltà e potere 28.
Una pratica che dal senso comune occidentale viene considerata
eccezionalmente brutale rappresenta per altri/e un modo di sentirsi
migliori, uguali alle altre donne, socialmente accettabili e quant’altro
rappresenti un tentativo di attribuzione individuale di senso. Parimenti
molte pratiche di modificazione dei nostri corpi, consuete nel nostro
comune immaginario, farebbero trasalire molte donne non occidentali.
27
C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, ed. Meltemi, Roma 2007. pagg. 9497.
28
M.Fusaschi, I segni sul corpo, pagg., pag. 87.
108
A questo proposito si pensi alle pratiche di nullification, body art o
body modification29, che possono includere:
-
Amputation: amputazione eseguita su parti minori del corpo
come orecchie, dita, naso, per sfociare in vere e proprie
mutilazioni di arti.
-
Tongue splitting: pratica comunemente definita "biforcazione",
che consiste nel taglio longitudinale della lingua, conferendogli
così una forma serpentina;
-
Implants: pratica che permette di modificare quasi totalmente
l'aspetto del proprio corpo, attraverso impianti di metallo o
silicone sotto la pelle. Comunemente messo in pratica sul viso e
sulla schiena, è molto comune nelle sottoculture urbane e richiede
l'intervento di veri e propri chirurghi plastici;
-
Ear Cropping: pratica consistente nella rimozione voluta della
parte superiore dell'orecchio, la zona cartilaginea che può essere,
oltre che rimossa, anche sezionata o "cucita" per ottenere la forma
di un orecchio elfico.
-
Nullification: rimozione totale degli organi sessuali sia maschili
che femminili. Per questi ultimi si va dall'esportazione della
clitoride a quella delle grandi e piccole labbra, fino
all'esportazione delle tube.
5.6 La legge
LEGGE 9 gennaio 2006, n.7
Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di
mutilazione genitale femminile.
Art.1.
(Finalità)
29
Su questo tema si veda Michela Fusaschi, Corporalmente corretto, ed. Meltemi,
Roma 2008.
109
1. In attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di
quanto sancito dalla Dichiarazione e dal Programma di azione adottati
a Pechino il 15 settembre 1995 nella quarta Conferenza mondiale delle
Nazioni Unite sulle donne, la presente legge detta le misure
necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di
mutilazione
genitale
femminile
quali
violazioni
dei
diritti
fondamentali all'integrita' della persona e alla salute delle donne e
delle bambine.
Art.6.
(Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili)
1. Dopo l'articolo 583 del codice penale sono inseriti i seguenti:
"Art. 583-bis. - (Pratiche di mutilazione degli organi genitali
femminili). - Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona
una mutilazione degli organi genitali femminili e' punito con la
reclusione da quattro a dodici anni. Ai fini del presente articolo,
si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali
femminili
la
clitoridectomia,
l'escissione
e
l'infibulazione
e
qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo.
Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di
menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili
diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia
nel corpo o nella mente, e' punito con la reclusione da tre a sette
anni. La pena e' diminuita fino a due terzi se la lesione e' di lieve
entità.
La pena è aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al
primo e al secondo comma sono commesse a danno di un minore ovvero se
il fatto è commesso per fini di lucro.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì quando
il fatto e' commesso all'estero da cittadino italiano o da straniero
residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di
straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a
richiesta del Ministro della giustizia.
Art. 583-ter. - (Pena accessoria). - La condanna contro
l'esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti previsti
dall'articolo 583-bis importa la pena accessoria dell'interdizione
dalla professione da tre a dieci anni. Della sentenza di condanna e'
data comunicazione all'Ordine dei medici chirurghi e degli
odontoiatri".
110
Prima del 2006 in Italia non esistevano provvedimenti giuridici
specifici sulle MGF, in quanto queste ricadevano negli articoli 582 e
583 del Codice Penale, riguardanti le lesioni personali. Il 9 Gennaio
2006 viene approvata la legge sulle MGF, dal titolo Disposizioni
concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione
genitale femminile. Con l’art. 583 bis c.p. vengono introdotti due
nuovi delitti nel nostro codice penale: il delitto di mutilazione e il
delitto di lesione degli organi genitali femminili (per la prima volta dal
1930 – a parte la riformulazione del delitto di infanticidio – sono stati
introdotti nel nostro codice penale nuovi reati contro l’incolumità
individuale)30.
La legge 7/2006 introduce una norma specifica per colpire chi
pratica MGF. Dai lavori preparatori si evince che l’intentio legis sia
stata proprio quella di proteggere l’integrità fisica, la salute psicosessuale e la dignità della donna, quali beni giuridici offesi dalle
MGF, non senza ambiguità, come vedremo, rispetto a pratiche
occidentali molto vicine alle MGF, completamente ignorate dalla
giurisprudenza.
Chi commette questo tipo di reato lo fa compatibilmente con le
norme sociali della sua comunità di appartenenza o cultura di
riferimento. Allo stesso tempo la legge non considera un’attenuante il
fatto che il reo, nel praticare MGF, non abbia voluto agire con
l’intenzione di arrecare un danno, ma al contrario pensando di fare del
bene in termini di riconoscimento sociale e non solo31.
30
Lezione tenuta il 7 novembre 2006 presso l’Università di Parma dal Prof. Fabio
Basile, “Il delitto di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili» quale
reato culturalmente orientato”.
31
A questo proposito mi sembra importante sottolineare che durante i processi per
aver effettuato operazioni rientranti nelle MGF, i sentimenti e le reazioni degli
accusati sono stati spesso di perplessità e sgomento. Dal punto di vista degli
imputati, infatti, non aveva senso l’accusa di aver agito criminosamente, visto che
le loro azioni erano state mosse da intenzioni di tutt’altra natura.
111
Il fattore culturale in questo caso rappresenta un fattore
discriminante, che rende le MGF un reato più grave, a parità di danno
fisico, di una qualsiasi altra lesione.
La legge interviene al di là dei danni fisici prodotti, volendo
perseguire la pratica in sé, in ogni sua forma. Così una madre che
produce una piccola incisione sulla clitoride della figlia minorenne,
guaribile senza alcuna conseguenza permanente, rischia la reclusione
da 3 a 7 anni, venendo così trasformata in una criminale e madre
degenere nei confronti della propria figlia.
Da un lato questa legge provoca un sentimento di chiusura da parte
di alcuni gruppi sociali, che si sentono così perseguitati o
criminalizzati, incrementando allo stesso tempo il ricorso ad interventi
clandestini di MGF, poiché la norma giuridica può essere comunque
più debole di quella sociale nella percezione dei soggetti coinvolti.
Dall’altro non fornisce nell’immediato concrete alternative alle donne
che decidono di sottrarvisi, avendo escluso per loro la possibilità di
ottenere l’asilo politico o un permesso di soggiorno per protezione
sociale.
A mio avviso la faziosità di un simile provvedimento mostra assai
eloquentemente le motivazioni, non del tutto sincere, che sottendono
l’intervento socio-giuridico qui preso in esame.
5.7 MGF di casa nostra e le contraddizioni del caso
Anche in Occidente il corpo delle donne non rappresenta uno
spazio inviolato ed inviolabile, al contrario è stato da sempre oggetto
di dispute politiche, giuridiche e sociali che farebbero semmai pensare
il contrario. Raramente, però, si riscontrano posizioni unanimi e
radicali di denuncia, come accade invece per le MGF, quando
coinvolgono, dunque, donne di culture “altre” rispetto alla nostra.
Forse non ne siamo a conoscenza o forse non siamo capaci di
analizzare il fenomeno con sufficiente distacco, ma anche in
Occidente si pratica qualcosa di molto simile ad alcune pratiche (non
112
invalidanti) incluse nelle MGF che, mutatis mutandi, dovremmo
problematizzare, proprio a partire dal valore simbolico che vi è
sotteso32.
A tal proposito riporto quanto pubblicato su un sito che si occupa
di chirurgia estetica:
«DISAGIO INTIMO…
Perché una donna dovrebbe pensare ad un rimodellamento
estetico di una zona così intima e non esposta come l’area genitale?
“Le motivazioni non sono solo estetiche. Come si può intuire –
riferiscono gli specialisti- se una persona prova un grande imbarazzo
nei confronti del proprio corpo o di una specifica parte, tenderà a
non esporla mai, a nasconderla e nascondersi, con conseguenza
negative sulla psiche e relative inibizioni eccessive nel
comportamento sociale. Lo stesso vale per la zona vaginale: la donna
può soffrire anche molto per alcune dismorfie che causano
ripercussioni pesanti sul rapporto con sé e, ancor più, con il partner.
Inoltre molto difficilmente si rivolgerebbe al proprio medico per
risolvere la cosa e in genere proprio non sa come potrebbe trovare
una soluzione, con il solo esito – negativo – di mantenere in silenzio il
proprio imbarazzo”.
QUALE “BELLEZZA” PER I GENITALI
Si sente parlare di “sex design”, ma come si fa a dedurre un
canone estetico per gli organi sessuali femminili e maschili? (…)
“Esistono fattori che in natura e nel corpo umano sono assodati e
universali, come la simmetria e il senso delle proporzioni. Il concetto
vale anche per gli organi genitali: le donne sono molto sensibili in
questo senso, avvertono che c’è qualcosa di sbagliato se notano una
asimmetria”.
32
In merito alla colonizzazione dell’immaginario femminile su questo tema si veda
il documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne, disponibile su
www.ilcorpodelledonne.it.
113
Il primo fattore che deteriora l’integrità e l’aspetto originario dei
tessuti resta comunque l’età, che rilassa la cute e la parte mucosa
che, di conseguenza, appare flaccida e in eccedenza. Altra causa che
provoca il cambiamento dell’aspetto genitale è senza dubbio il parto,
che può lasciare asimmetrie nelle piccole labbra, irregolarità nella
loro forma e nell’orifizio vaginale. Molto spesso poi, per facilitare il
parto, viene praticata l’episiotomia, un’incisione chirurgica nella
zona che può residuare una cicatrice non lineare, ipertrofica o
fastidiosa.
Anche leggere imperfezioni estetiche di altro genere possono
minare la serenità del rapporto con la propria genitalità. “È il
caso di inestetismi come l’eccessiva prominenza della regione
pubica data da un particolare accumulo adiposo nella zona,
fatto rapidamente risolvibile con una micro liposuzione che
modella ad hoc senza lasciare segni evidenti”.»33
Si tratta di interventi di chirurgia estetica dell’apparato genitale
femminile appunto. Nella traccia sopra riportata emergono molti
aspetti non troppo distanti da quelli rinvenibili nelle pratiche di MGF,
sebbene più effimeri: disagio per le imperfezioni del proprio corpo
con conseguenze sulla psiche, nelle relazioni sociali e con il partner.
Eppure, a fronte di una tale analogia, la nostra risposta sociale, politica
e giuridica non è altrettanto paritaria. Non esistono infatti leggi ad hoc
per scoraggiare gli interventi di chirurgia estetica genitale, né
campagne di sensibilizzazione su larga scala da parte di gruppi politici
e sociali per eradicare il fenomeno. Tanto meno si conoscono casi di
criminalizzazione o di condanna morale, che hanno coinvolto i
chirurghi che le praticano o le donne che vi si sottopongono. Al
contrario esperti ed operatori del settore parlano di una richiesta
crescente di interventi di chirurgia estetica, soprattutto da parte di
donne e sempre più giovani.
Sono frequenti le richieste di ragazze che, per i loro 18 anni, si
fanno pagare dai genitori interventi chirurgici per aumentare il volume
33
Dal sito web http://www.chirurgia-estetica-laser.com/, pagina pubblicata il
13/10/08.
114
del seno o ridurre la dimensione del sedere o dei fianchi. E’ possibile
riscontrare, anche se in misura più ridotta, ma comunque in crescita,
richieste di questo tipo da parte di adolescenti ancora minorenni.
Come anticipato esistono poi interventi di chirurgia estetica che
coinvolgono gli apparati genitali. Per gli uomini si tratta soprattutto di
un aumento del volume del pene, mentre per le donne la scelta è molto
più vasta. Si parla di “Aesthetic Vaginal” o “Sex Cosmetic Surgery”,
tra cui si annoverano i seguenti interventi:
-
la vaginoplastica, per il miglioramento estetico ed il
ringiovanimento, singolo o combinato, delle piccole e grandi
labbra (i più richiesti, conosciuti anche come labiaplastica, non
troppo differenti da ciò che per le MGF è chiamata escissione), del
monte di Venere e dell’orifizio vaginale.
Il ringiovanimento delle grandi labbra e quello della vagina
avviene mediante una procedura chirurgica, mirata a restringere i
muscoli vaginali e i tessuti di sostegno, eliminando la mucosa
vaginale ridondante. L’intervento dovrebbe migliorare il tono
muscolare della vagina, riducendone il diametro interno (attraverso
la cucitura di un punto non riassorbibile) ed esterno, per restaurare
o migliorare la forza frizionale durante il rapporto sessuale
(intervento anche noto come vaginal tightening, per ridurre o
restringere la vagina ed aumentare la sensibilità della stessa durante
i rapporti sessuali);
- la perineoplastica, che produce un'azione di ringiovanimento a
mezzo laser della zona perineale, per ottenere un tessuto
dall'aspetto più giovane;
- l’augmentation labioplasty, per aumentare il volume delle grandi
labbra ed ottenere così un aspetto della vulva più giovanile e
voluminoso;
- la liposcultura del pube, per ridurre l'adiposità in eccesso dal monte
di venere, dalla zona pubica ed eventualmente dalle grandi labbra,
rendendo la zona snella e giovanile;
- l’esposizione della clitoride: rimozione della pelle esuberante che
ricopre la clitoride a volte ipertrofica;
115
- la cliteridoplastica o riduzione della clitoride (non molto distante
dalla cliteridectomia inclusa nelle MGF);
- l'imenoplastica (ricostruzione dell'imene), che ripara questa
membrana, ripristinando chirurgicamente le caratteristiche
anatomiche vulvari della verginità.
Tra le complicazioni e gli effetti collaterali causati da tali interventi
si registrano: infezioni, ematomi, ritardata guarigione delle ferite,
dolori persistenti, trombosi venosa profonda, embolia polmonare,
complicanze legate all'anestesia, riduzione della sensibilità, emorragie,
cicatrici dolorose e trasfusione.
Tali pratiche sono molto diffuse negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna, mentre in Italia rappresentano, per pudore, ancora un
fenomeno di nicchia, seppur in crescita34. Nella comunicazione
pubblicitaria che accompagna questo tipo di interventi è possibile
riscontrare palesi incoraggiamenti rivolti alle donne, affinché mettano
da parte eventuali difficoltà ad avanzare richieste di operazioni
chirurgiche a fini estetici, per migliorare il proprio aspetto fisico e
quindi il loro benessere psicologico. Apparentemente, dunque, è
possibile rilevare un atteggiamento tutt’altro che di chiusura rispetto a
simili pratiche, ovvero l’opposto di quanto avviene invece con le
MGF.
Ad ogni modo l’aspetto dirimente è quello simbolico, chiamato in
causa da qualsiasi modificazione dell’apparato genitale, a prescindere
dalla sua natura.
Perché se una donna occidentale richiede un intervento di chirurgia
estetica vaginale non incontra impedimento sociale e giuridico alcuno
(semmai economico), mentre se la stessa richiesta è avanzata da una
donna immigrata si parla di MGF, con tutte le conseguenze sociali e
penali che queste comportano?
34
Michela Fusaschi sostiene che nel nostro Paese siano 17.000 le donne italiane che
si sottopongono a chirurgia estetica genitale.
116
Cosa rende differenti sul piano simbolico le modificazioni nostrane
dell’apparato genitale da quelle segnalate ed osteggiate come MGF?
Sicuramente le prime si realizzano in un ambiente sterilizzato e
sicuro, nonché adeguatamente attrezzato, che mette al riparo le donne
interessate dal rischio di infezioni o complicazioni di qualunque tipo
(non potrebbe essere altrimenti, visto che i prezzi elevati fanno in
modo che tali interventi siano accessibili a donne di medio-alta
estrazione sociale)35, mentre le donne immigrate che si sottopongono a
35
A fronte delle spese elevate a cui far fronte per sottoporsi ad interventi di chirurgia
estetica, si sta assistendo ad una delocalizzazione delle cliniche interessate, come
avviene per molti altri sistemi di produzione industriali e non solo. Molto medici
indiani, ad esempio, formati negli Stati Uniti, lavorano in cliniche specializzate di
chirurgia plastica in India, dove i prezzi sono molto più contenuti rispetto a quelli
praticati in Europa o Stati Uniti. In questo modo Paesi come il Brasile, l’India e la
Cina divengono meta privilegiata per cittadini occidentali che vogliono sottoporsi ad
interventi di questo tipo (inclusi gli interventi di chirurgia estetica genitale) o che
necessitano di trapianti per ragioni terapeutiche. L’ampiezza del fenomeno produce
un traffico di organi che segue lo stesso andamento del capitale-merce nell’era della
globalizzazione (i neri sono spesso vittime in favore di una clientela quasi
esclusivamente bianca, così come uomini e donne dei Paesi del Sud del mondo lo
sono in favore di uomini e donne occidentali). Soggetti subalterni, dunque: donne,
migranti, contadini vittime di politiche liberiste, disoccupati, abitanti di slum e
favelas, tutti rigorosamente malati di povertà, sono costretti dalla miseria o indotti da
intermediari di case farmaceutiche o cliniche per ricchi, a vendere alcuni dei loro
organi, che vengono poi smerciati in queste strutture ospedaliere o utilizzati per
incrementare il mercato di tessuti umani per la chirurgia estetica o i trapianti. In
alcuni casi bambini appartenenti alle classi sociali più svantaggiate o ai gruppi
sociali più deboli vengono sequestrati e uccisi per incrementare il traffico degli
organi. Le argomentazioni che favoriscono questi fenomeni sono suggeriti appunto
da una clientela che preferisce organi di persone sane e vive, dunque in migliori
condizioni, piuttosto che quelli di persone morte e quindi precedentemente malate o
traumatizzate. Gli acquirenti di turno appaiono abbastanza indifferenti rispetto
all’origine degli organi umani ottenuti, frutto appunto di asimmetrie di ricchezza e
da una totale mancanza di giustizia sociale, che ricalcano esattamente i rapporti
economici, politici e sociali a livello globale. Ma a quanto pare in questo frangente,
in cui è drammaticamente dirimente la complicità occidentale, l’imprescindibilità
universale dell’inviolabilità del corpo e dei diritti umani sembrano poter beneficiare
117
MGF sono costrette ad un ambiente insalubre e ad una strumentazione
di fortuna, non avendo alcuna alternativa sanitaria. L’insicurezza
dell’operazione è così alimentata dalla condizione di
marginalizzazione generata dal contesto socio-culturale in cui è
praticata36. Tutto qui? Questo semmai è l’effetto dello stigma, non
certo la causa.
Per paradosso è possibile chiedersi come verrebbe interpretata la
richiesta da parte di una donna adulta africana di sottoporsi per motivi
non terapeutici, bensì estetici, ad una cliteridoplastica, per la quale
sarebbe disposta a pagare fino a 4.000 euro37 presso un istituto di
chirurgia estetica specializzato in interventi ai genitali. Per il contesto
e la modalità con cui avverrebbe l’operazione sarebbe un semplice
intervento di chirurgia plastica? Oppure, trattandosi di una donna
africana, sarebbe comunque un caso di MGF, perseguibile quindi dalla
legge?
Il discorso simbolico legato alle MGF, certamente il più sentito
dalle donne, a mio avviso appare valido anche per gli interventi di
chirurgia estetica. Questi ultimi, infatti, coinvolgono per la maggior
parte donne e, soprattutto nel caso di rimodellamenti dell’apparato
genitale, ricalcano modelli estetici conformi ad una bellezza
funzionale e compatibile alle richieste dell’edonismo maschile,
fattore, oltre che lapalissiano, riscontrabile nelle dichiarazioni di molte
donne coinvolte.
A questo proposito è interessante rilevare l’atteggiamento di diversi
operatori impegnati nelle campagne contro le MGF, intervistati
di deroghe. Su questi temi si veda N.Scheper-Huges e L. Wacquant, Corpi in
vendita. Interi e a pezzi, ed. Ombre Corte, Verona 2004.
36
Con tale argomentazione non intendo recuperare il dibattito sull’eventuale
legittimità della richiesta di mettere a disposizione le strutture sanitarie pubbliche
per interventi di MGF, in quanto non è di interesse per questo studio, bensì ho
ritenuto che fosse utile osservare il fenomeno da tale prospettiva, in quanto
funzionale e coerente con le finalità esplicative del discorso qui condotto.
37
Alcuni interventi, come il vaginal tightening, partono da 6.000 euro.
118
durante lo svolgimento di questa ricerca, i quali hanno dichiarato
fermamente che le sole mutilazioni ammissibili sono quelle per scopi
terapeutici, poiché motivazioni estetiche o culturali non sono
sufficienti per giustificare tale pratica. Quando però è stato fatto
notare loro che una simile argomentazione potrebbe essere valida
anche per la chirurgia estetica, la determinazione con la quale un
attimo prima avevano attaccato le MGF scemava immediatamente, in
favore di un atteggiamento molto più complice ed indulgente38. A tal
proposito, tra le argomentazioni addotte per giustificare il diverso
atteggiamento rispetto all’una e all’altra pratica, quasi sempre vi è
l’idea sottesa per cui, nel caso di MGF, non sia realmente possibile
l’esercizio di scelta e libero arbitrio da parte delle donne, in quanto,
anche nei casi in cui decidono consapevolmente di sottoporsi a tale
pratica, subiscono di fatto una forte pressione socio-culturale, tale da
far escludere l’effettivo esercizio del libero arbitrio. Ovviamente una
simile argomentazione non può che rinforzare l’assunto precedente,
che vorrebbe invece sovrapporre i due fenomeni. Non è un segreto,
infatti, che a spingere molte donne giovani e meno giovani a rivolgersi
alla chirurgia estetica siano proprio condizionamenti socio-culturali,
che impediscono in ogni caso di tracciare una chiara linea di confine
tra imposizione e libera scelta.
A questo punto sembra opportuno avanzare qualche sospetto in
merito alla differente visione sulle donne del cosiddetto Nord e del
Sud del mondo, qui emersa. A mio avviso, infatti, tale abito mentale
può sottendere diverse argomentazioni:
- Una posizione facile preda di un certo culturalismo (o
comunitarismo), parlando di immigrazione o di pseudo-culture
38
Mi sembra assai eloquente, ai fini di una riflessione su stereotipi e pregiudizi del
nostro immaginario, riportare l’atteggiamento di un operatore di chirurgia estetica,
che dopo aver tessuto le lodi della plastica, anche genitale, ha trasalito sentendo
nominare le MGF.
119
tradizionali39, riduce gli individui coinvolti alla mera (o presunta)
dimensione culturale di appartenenza. Questa visione nega di fatto
al soggetto l’esercizio di un autonomo senso critico rispetto al
proprio orizzonte socio-culturale di riferimento. Allo stesso tempo,
in virtù di un pregiudizio di fondo, considera tali culture
fortemente onnicomprensive, pervasive e totalizzanti, al punto di
schiacciare, condizionare e sovradeterminare gli individui che, in
modo reale o presunto, ne fanno parte. Se da un lato in Occidente
all’individuo è riconosciuta la facoltà di sottrarsi, svincolarsi o
emanciparsi dai dettami della cultura dominante e/o di
appartenenza, tale virtù non è invece concessa ad altri soggetti,
presuntamente fagocitati, nell’immaginario comune, da una
cultura statica, monolitica ed ipostatizzata, incapace di concedere
pluralismo ed eterodossia alcuna (visione etnocentrica);
-
Se pur svincolati da un razzismo più grossolano, è possibile
incorrere in un’altra forma di razzismo, squisitamente postcoloniale. Si tratta di una visione che permea di benevolenza e
paternalismo l’atteggiamento con cui molte donne bianche (in
parte anche uomini, se pur con altri ruoli ed argomentazioni),
sedicenti emancipate ed autodeterminate, si relazionano alle donne
di culture considerate “altre”, ritenendole appunto sorelle minori,
non ancora in grado di autodeterminarsi e liberarsi
dall’oppressione
patriarcale.
Tale
atteggiamento
trova
corrispondenza anche nell’equiparazione di casi che coinvolgono
bambine a quelli che invece riguardano donne adulte e
consenzienti, avanzata di frequente dai critici delle MGF.
In questo modo si mette in dubbio la consapevolezza e la
capacità di analisi di queste ultime, considerate implicitamente
eterne minorenni, in statu pupillari, bisognose quindi di tutela
39
In realtà non esistono culture tradizionali tout court, se non nel nostro
immaginario occidentale, che racchiude in questa definizione da un lato il mito del
buon selvaggio e della purezza perduta e dall’altro un’idea svalutante di culture
altre, estranee al progresso e alla modernità.
120
esterna. Dinamica già osservata in molti altri rapporti di egemonia
e subalternità40.
Tanto meno si può interpretare tale ingerenza come un semplice
e sincero atto di solidarietà nei confronti di donne oppresse, dal
momento in cui in una simile relazione non è mai prevista
reciprocità alcuna. Se, infatti, ciò che accomuna le donne di
culture e Paesi diversi è una condizione di oppressione a vantaggio
del genere maschile, benché declinata in forme differenti, di fatto
non si assiste mai ad uno scambio di aiuto reciproco e paritario,
bensì ad un flusso Nord-Sud che riproduce dinamiche di potere già
note altrimenti. In questo caso, infatti, le donne di altre culture,
dovrebbero avere specularmente la possibilità di contribuire alle
nostre battaglie contro le forme di oppressione agite in Occidente
ai danni del genere femminile. Eppure sistematicamente ciò non
avviene, malgrado molte donne dei Paesi “del Sud” avrebbero più
di un’esperienza da condividere in tal senso. Si pensi alla presenza
istituzionale femminile (in molti Paesi africani le donne
parlamentari superano il 50% o comunque raggiungono cifre ben
più elevate di quelle europee ed italiane in particolare), alla
partecipazione politica dal basso attraverso un associazionismo
diffuso femminile e femminista, o ancora alle campagne di
sensibilizzazione diffuse capillarmente contro la violenza alle
donne, solo per fare alcuni esempi. Al contrario noi continuiamo a
parlare di loro e per loro in modo unilaterale e sovradeterminante,
come vuole la più subdola e raffinata logica coloniale (ottica postcoloniale);
40
Si pensi al benevolo paternalismo di cui per secoli è stato intriso lo sguardo
maschile sulle donne o quello dei colonizzatori sui colonizzati di oggi e di ieri,
servito a giustificare l’estromissione di una parte significativa della popolazione (la
metà del cielo nel caso delle donne) dal godimento di diritti politici e civili,
altrimenti ingiustificabile. Si tratta ovviamente di un atteggiamento funzionale a
dinamiche di oppressione e sfruttamento, atto a sostanziare e perpetrare asimmetrie
di potere, sperequazioni economiche e ingiustizie sociali.
121
- Riconoscere ed ammettere la similitudine quasi speculare tra una
pratica considerata “altra” (quindi lontana dalla nostra forma
mentis e dalla nostra sfera valoriale), dunque facile bersaglio di
anatemi salvifici ed emancipazionisti, ed un fenomeno sociale
nostrano41, che coinvolge sempre più donne alla ricerca di un
corpo esteticamente perfetto, porrebbe molte donne occidentali in
una condizione di impasse non solo intellettuale, ma anche e
soprattutto politica ed esistenziale. Significherebbe, infatti, doversi
specchiare e riconoscere in una condizione di subalternità, laddove
fino a quel momento si pensava di giocare un ruolo di soggetto
emancipato ed emancipatore.
Tale condizione di presunto privilegio teorico ha sempre
permesso allo sguardo occidentale di posarsi impunemente
sull’“Altro” (o “Altra”), rendendolo oggetto, e considerando
invece se stesso l’unico soggetto (con facoltà performative e
soggettivanti) di tale relazione. L’Altro può essere dunque
osservato, alienato, giudicato, detto, interpretato, costruito,
trasformato, corretto o emancipato, ma tutto rigorosamente
attraverso le categorie cognitive messe in atto dal nostro sguardo.
Ancora una volta l’argomento dell’emancipazione dell’Altro/a
mostra tutto il suo portato seduttivo, facendo riaffiorare il fardello
dell’uomo bianco (o della donna bianca), di kiplinghiana memoria.
Come conciliare poi il discorso di rottura verso le MGF con la
tolleranza da sempre mostrata verso la circoncisione, propria
soprattutto del mondo ebraico e mussulmano? Anche in questo caso la
41
La chirurgia plastica a fini estetici può essere richiesta anche da ricchi non
occidentali. Esistono infatti interventi di modificazione del corpo richiesti
appositamente per ottenere sembianze europee, come ad esempio lo sbiancamento
artificiale della pelle, diffuso soprattutto tra persone provenienti dall’Africa e
interventi chirurgici per eliminare il taglio cosiddetto “a mandorla” degli occhi, da
parte di persone provenienti dall’Asia. Questo avviene nella misura in cui i nostri
canoni estetici di riferimento vengono assorbiti anche in contesti sociali differenti
dai nostri, confermando ancora una volta il ruolo di soggetto culturalmente
egemonico esercitato dall’Occidente.
122
pratica agisce su un organo sano, non a fini terapeutici, su un minore
che non ha potuto esercitare facoltà di scelta e che potrebbe rischiare
complicazioni fisiche e psicologiche anche gravi per l’intervento in
questione.
Probabilmente a fare la differenza sono proprio i soggetti coinvolti,
il cui portato simbolico, il ruolo sociale rivestito e il potere esercitato
sembrano avere una valenza tutt’altro che secondaria. In un caso si
parla del corpo delle donne, mai passato inosservato nella storia
passata e presente agli occhi di giuristi, medici, politici, religiosi e
moralizzatori di turno, oggetto quindi di regolamentazione normativa,
controllo sociale e pubblici anatemi. Nell’altro si tratta del corpo
maschile, dunque di un soggetto dominante, che in quanto tale sfugge
a tali categorizzazioni e stigmatizzazioni, benché non immune in
assoluto da stigma ed oppressione quando incarna e declina altre
forme di subalternità (si pensi ai corpi dei neri, degli internati, degli
omosessuali, dei migranti e dei poveri in generale).
Lo stesso si dica dell’appartenenza socio-culturale o religiosa dei
soggetti coinvolti. Nell’attuale scenario politico internazionale, infatti,
il ruolo attribuito alla popolazione migrante, soprattutto africana, non
è certo accostabile al riconoscimento di cui gode quella ebraica. Se lo
stesso non può dirsi della cultura musulmana, nell’occhio del ciclone
in tema di pregiudizi e stigmatizzazioni, non sarebbe comunque
possibile chiamare in causa l’una, senza coinvolgere necessariamente
l’altra.
Anche in questo caso, dunque, il gioco sembra risolversi in rapporti
di forza caratterizzati da dinamiche di egemonia e subalternità, più che
su assunzioni di principio a carattere universale.
Molti suggerimenti sulla nostra visione del fenomeno delle MGF,
intrisa di preconcetti, stereotipi e giudizi di valore, che rimandano alla
percezione che abbiamo di donne di altri Paesi e delle loro culture di
riferimento (reali o da noi attribuite), ci viene fornita anche dalla
stampa che ha accompagnato le polemiche per la proposta di rito
alternativo da parte dei ginecologi Omar Abdulcadir e Lucrezia
Catania.
123
il manifesto - 22 Gennaio 2004
Infibulazione morbida per le straniere
di Riccardo Chiari
(…) La proposta è arrivata anche al comitato di bioetica della regione
Toscana. «Quello fatto dal centro di Careggi è uno sforzo lodevole - osserva il
medico senese Mauro Barni, che guida il comitato - ma credo che da parte
nostra non sarebbe corretto accettare dei surrogati di una ritualità incivile.
Attraverso la procedura alternativa ammetteremmo un principio sbagliato».
(…) La somala Ghanu Adam: «Le donne come me sono sfuggite ai fucili della
guerra in Somalia, ma non alle mammane dell'infibulazione. Oggi viviamo in
Italia, in un paese civile. E non vogliamo che di quel rito resti qualcosa.
Nemmeno il simbolo, perché alle nostre figlie insegniamo che non si deve fare
e basta». (…) «L'infibulazione alternativa non può passare come una pratica
di riduzione del danno - spiega Nicchi - perché non può essere autogestita
da un minore. Una bambina subisce comunque un rito che la pone in uno
stato di sudditanza psicologica». Da parte sua, Alessia Petraglia osserva:
«L'unica alternativa è quella di continuare la battaglia contro le mutilazioni
genitali, al fianco delle tante donne che nei loro paesi sono in prima linea, in
solitudine. E la regione Toscana può e deve fare di più». Chiude Marzia
Monciatti: «E' necessario creare qualcosa che coinvolga gli enti locali, le
scuole, i medici di base e gli ospedali. Solo sconfiggendo l'ignoranza si
sconfiggono le mutilazioni, non certo trasformandole in un rituale».
Il Giornale della Toscana - 24|01|2004
Toscana: Relativismo culturale e ipocrisia
di Massimo Lensi
(…) Una forma simbolica e non cruenta, la definiscono i proponenti,
concedendo all’ipocrisia del terzomondismo una possibile strada per aprire
l’ospedale pubblico di Careggi alla pratica della mutilazione genitale
femminile. (…) una simile alternativa verrebbe mai giudicata accettabile se
le bimbe in questione fossero le nostre e non già le figlie di famiglie
africane immigrate in Italia? (…) L’inganno è quello di accettare che
attraverso un compromesso (quand’anche veramente simbolico) si introduca
una ritualità incivile.
L’Unità – 22/01/04
Infibulazione a Firenze: la destra monta lo scandalo che non c’è
di Sonia Renzini
124
(...) Di praticare un rito così barbarico viene ora accusato il centro di
riferimento regionale di Careggi, a Firenze, nato proprio per la prevenzione e la
cura delle mutilazione genitali femminili.
Il Manifesto- 22/01/04
Mutilate, solo un po'
di Giuliana Sgrena
(…) E' difficile immaginare che i fautori dell'infibulazione si accontentino
di una puntura di spillo, ma se anche così fosse e si volesse semplicemente
mantenere il rituale è inaccettabile che una struttura pubblica (le Asl) possa
legittimare, anche simbolicamente, una pratica così aberrante come una
mutilazione ritenuta una violazione dei diritti umani delle donne e delle
bambine dalla Convenzione internazionale sui diritti umani e dalla Carta
africana sui diritti umani e dei popoli. (…) L'inviolabilità del corpo è un
valore universale che non può essere mercanteggiato in nome della
riduzione del danno irreversibile che peraltro non è solo fisico ma anche
psicologico. E guarda caso a firmare l'accordo sul progetto alternativo sono
stati tutti maschi, che si sono guardati bene dall'interpellare le donne
(immigrate) interessate che, a giudicare dalle reazioni, sono assolutamente
contrarie. Togliendo così ogni giustificazione anche ai fautori del relativismo
culturale.
ToscanaOggi - 24/01/2004
«Infibulazione dolce», un coro di «no»
di Claudio Turrini
«Anche l’infibulazione alternativa può rappresentare un trauma, se non
fisico sicuramente psicologico, per le bambine sulle quali viene praticata», ha
dichiarato il consigliere regionale di Forza Italia, Anna Maria Celesti,
vicepresidente della commissione sanità: «In un centro come quello di
Careggi, dove si fa prevenzione contro l’infibulazione e si cerca di limitare le
conseguenze di questa pratica, che si presentano soprattutto durante la
gravidanza ed il parto - ha proseguito Celesti - è completamente sbagliato
affrontare questa realtà con una alternativa, in quanto si tratta di una pratica
aberrante che deve essere totalmente sradicata, non esistono soluzioni di
compromesso o alternative». (…) Il caso è stato sollevato dalla leghista
Carolina Lussana, relatrice a Montecitorio di una proposta di legge contro le
mutilazioni sessuali: «Non permetteremo mai la dose minima d'infibulazione.
Mi auguro che tutto il mondo politico, e non solo quello femminile, reagisca
in maniera durissima di fronte a questa vergogna che, pure se dolce o
indolore, resta una violenza inaccettabile e sconsiderata, fisica e morale a
danno di bambine indifese». E sul banco degli imputati la deputata leghista ha
125
messo subito l’assessore regionale Enrico Rossi: «È sconcertante – ha detto
Lussana - che, nel momento stesso in cui con una legge cerchiamo di sradicare
la barbara usanza delle mutilazioni sessuali che offendono
profondamente la dignità della donna, considerata poco più di un oggetto,
alcune istituzioni come l'assessorato alla salute della regione Toscana
addirittura sostengono un progetto che permetterebbe di eludere le sanzioni
penali previste dalla legge per chi si macchia di reati del genere. (…)
«L'onorevole Lussana – ha aggiunto la diessina Marida Bolognesi - ha perso
un'occasione per tacere, visto che la Regione Toscana non ha concesso alcuna
autorizzazione. Tuttavia - secondo l'esponente della Quercia - il problema c'è
e va affrontato al livello culturale, senza finzioni, facendo capire alle donne
immigrate che le mutilazioni genitali sono una mortificazione».
Panorama - 11/03/2006
Gli ospedali che curano le mutilazioni
di Stella Pende
(…) Si è molto scritto, urlato, sperato. Forse non invano. Oggi, per la
prima volta possiamo dire che la speranza di fermare quest'orrore diventa
realtà. In Europa e nel mondo le prime nemiche dell'infibulazione sono le
leggi conquistate dopo anni di lotta. Cominciando da Francia, Germania e
Gran Bretagna, dove si punisce l'infibulazione con la galera. Finalmente, alla
fine di febbraio entra in vigore anche la legge italiana. E punisce con il carcere
dai 4 ai 12 anni lo scempio del corpo di bambine e donne. (…) Bonino
ricorda che è proprio in Europa, e in Italia, oggi non si può abbassare la
guardia. I numeri dell'orrore danno ragione al suo allarme. Sono 45 mila le
immigrate dai paesi dove la circoncisione femminile è tradizione e legge.
Dunque 30 mila donne che vivono fra noi avrebbero già subito mutilazioni
genitali. In questo conto macabro, almeno 5 mila le "figlie" a rischio. E'
come convertire lo spacciatore, capisce? Bloccate loro, le immigrate italiane
interromperanno anche i loro viaggi e le torture delle figlie. Solo così
l'Europa e l'Italia saranno libere da questo mostro". Un pensiero e un
lavoro capillare in cui l'AIDOS crede profondamente. "Formare in Africa e
informare gli africani" è lo slogan di Daniela Colombo, presidente della
ONG italiana che tanto ha lavorato alla fattura della nuova legge. Riciclare le
mammane come infermiere, per esempio, è un'idea. Ma anche quella di Omar
Abdulcadir, ginecologo somalo che anni fa lanciò la proposta di un rito
simbolico alternativo, lo è. Una puntura sul clitoride della bambina invece che
il taglio. Putiferio! Nessuno o quasi tollera l'idea della "mutilazione dolce". "E'
come se alle pachistane sfregiate col vetriolo si dicesse: una gocciolina invece
che un litro. L'orrore non è contrattabile" hanno detto Emma Bonino e le
altre.
126
Io donna - 26/03/2005
Sono un'infibulatrice pentita
di Cecilia Zecchinelli
(...) Mariam, in altre parole, faceva parte del grande esercito di donne
senza preparazione medica né strumenti, delegate dalle società africane
tradizionaliste e maschiliste a "garantire la moralità" di figlie e mogli in
nome dell'Islam. Ma la pratica era e resta diffusa anche in molte comunità
cristiane del Continente Nero. In un recente passato lo è stata tra quelle
ebraiche in Etiopia e in Egitto: ennesima prova che le grandi religioni nulla
hanno a che vedere con l'infibulazione, diffusa solo in Africa per tradizioni
millenarie più forti di ogni credo.
Il Foglio – 23/01/04
Infibulazione dolce? Nessuno vuole la puntura di spillo. La Bonino condanna il
relativismo, alle mutilazioni serve una legge
(…) Nessun dolore, nessuna clitoridectomia, niente sangue. Certo a
qualcosa di simile pensava il dottor Omar Abdulcadir, il ginecologo somalo
che ha proposto la riduzione del danno, quand’esso sia inevitabile, e l’ha
fatto allo scopo di evitare le crudeli conseguenze sanitarie di una pratica
tribale che ha preso il nome di tradizione. (…) Adesso è accusato di voler
avallare la pratica barbarica, legittimandola attraverso l’eliminazione del
danno e del dolore. Emma Bonino, promotrice della campagna “StopFgm”
(stop alle mutilazioni genitali femminili), (…) è convinta che “prendere in
considerazione la proposta di legittimare la pratica, con la definizione di
“dolce”, delle mutilazioni genitali femminili può essere solo frutto
dell’ignoranza, in nome di un distorto ed esasperato concetto di
relativismo culturale.
L’Unità – 22/01/04
Infubulazione no, senza se e senza ma
Lidia Ravera
Niente più dell’infibulazione rappresenta con tragica, sanguinaria
chiarezza, la condizione delle donne nel mondo dell’islam. Volti e capelli
coperti per non essere desiderate, genitali manomessi per non
desiderare. Senza corpo, addette alla riproduzione, senza diritti, addette
al servizio dell’uomo. Ombre silenziose, condizionate fino a farsi
complici dei loro stessi torturatori, spinte dalla povertà, incalzate dalle
guerre, queste sorelle che non conosciamo, che non riusciamo capire,
emigrano, se possono, verso Paesi dove vivere è più facile. Emigrano con i
127
loro mariti, con bambini, si arrangiano in qualche abitazione, lavorano,
mandano bambini a scuola, si adeguano, si adattano, ma non cambiano.
Perché dovrebbero? Che cosa abbiamo noi da proporre, che sia più forte
delle loro tradizioni? Restano legati ai loro rituali, alle loro credenze. Gli
uomini continuano ad abusare della pazienza delle donne, le donne
continuano a patire. Anzi, forse, la lontananza degli uomini dalla terra
rafforza le radici, enfatizza i rituali, urlare la preghiera, insomma, peggiora la
dipendenza dalle superstizioni. Addirittura, forse, per difendere le loro
femmine dall’infettiva contiguità con la nostra realtà di emancipate, gli
uomini diventano anche più torvi, più padroni. (…) Per evitare queste
conseguenze un’unità sanitaria locale, in una regione fra le più ben
amministrate d’Italia, ha tentato di mettersi al servizio dell’orrore,
immagino con piena consapevolezza dei rischi «politici» e morali di una
simile scelta, ha tentato di sostituire con «una semplice puntura di spillo sul
clitoride anestetizzato» la barbarica pratica della mutilazione. (…) Il
problema è che non basta rifiutarsi di legittimare una pratica vergognosa,
bisogna combatterla attivamente, bisogna scavare fino a mettere a nudo le
radici che la mantengono in vita, bisogna estirparle, quelle radici. (…)
Bisogna che le donne abbiano il diritto di andare a scuola con il velo se dal
velo si sentono tutelate, di buttarlo quando hanno capito che non serve,
che se tu rispetti te stessa anche gli altri finiranno col rispettarti. Bisogna che
le donne aspettino le altre donne, quelle che camminano più adagio, che
partono da lontano, che devono superare più ostacoli, più disprezzo, più
rituali barbarici, più convenzioni liberticide.
Panorama – 03/02/04
Mordete la mano del macellaio
Di Adriano Sofri
Anche per questo il relativismo culturale, spinto fino al ripudio dei
fondamenti universali dei diritti umani (l'Habeas corpus, in primo luogo),
è un equivoco micidiale, oltre che immorale. Nemmeno l'eventuale consenso
della donna, ammesso che sia vero e non estorto, può autorizzare pratiche
che violino l'incolumità dei corpi. Lo chiamai in altre occasioni il modello
Phileas Fogg. Vi ricordate Il giro del mondo in ottanta giorni (il romanzo di
Jules Verne, ndr). Sir Phileas Fogg e il suo fido Passepartout arrivano in
India e assistono alla cerimonia del suttee, il rogo funerario del maragià sulla
cui pira deve bruciare anche la vedova. È uno dei riti prediletti
dall'osservazione e dalla riflessione etnologica. Sir Phileas Fogg che, per
fortuna, ama le giovani donne più di quanto rispetti l'etnologia,
organizza il rapimento della vedova, la bella Auda, stordita abbastanza
da credere di desiderare il rogo coniugale, se la porta in salvo a Londra
e, per non lasciare le cose a metà, la sposa. Impresa un po' coloniale,
diciamo, ma lodevole.
128
La Gazzetta del Sud – 01/02/04
L’infibulazione e la “riduzione del danno”... anche i Vattimo sonnecchiano
di Girolamo Cotroneo
(…) Tutti ormai sappiamo che presso alcune popolazioni extraeuropee
viene ancora praticata quella barbara usanza che è l'infibulazione. (…) il
problema non è – o non è soltanto – quello del dolore che quell'intervento
provoca, ma del suo significato, diciamo, «culturale», delle ragioni – o
meglio delle «non-ragioni» (mi si passi il termine) – per cui viene praticato,
che risalgono a oscure istanze originarie, tipiche di una società chiusa, di
una cultura tribale, di un mondo primitivo, ancora preda di antiche
superstizioni.
La Repubblica – 31/03/04
Infibulazione, giro di vite carcere per chi la pratica
di Laura Laurenzi
(…) Poiché i contributi garantiti dalla Commissione europea alla
campagna — che vede in Emma Bonino una delle sostenitrici più accese —
sono esauriti e i prossimi non verranno erogati fino a1 2005, Arìna Fendi ha
organizzato per stasera, a Roma, un galà-kolossal a fini benefici.
Attese, fra le altre, Sophia Loren e Virna Lisi, Marella e Susanna Agnelli,
Gae Aulenti, Rita Levi Montalcini, Giulia Maria Crespi, Miriam Mafai, che
fanno parte del comitato promotore della serata. La cena si svolgerà al
Museo nazionale preistorico ed etnografico Pigorini. 1500 ospiti pagheranno
ciascuno 150 euro. Durante la serata, Christie’s batterà all’asta oggetti d’arte
e capi griffati. Agli ospiti, prima della cena, verrà mostrato il breve filmatoshock (due minuti, indimenticabili) sull’infibulazione girato in un paese
africano da Oliviero Toscani, in cui si vede in ogni dettaglio la mano del
carnefice arrotare e riscaldare la lametta su una pietra e mutilare una
bambina di appena otto anni. «Sono vent’anni che combattiamo, forse
possiamo ragionevolmente sperare che entro il 2015 questa pratica non esista
più», ha annunciato Daniela Colombo, presidente di AIDOS. «Comincia
finalmente a incrinarsi il muro dell’omertà e dell’indifferenza. Ora è il
momento del rush finale», ha commentato Emma Bonino. Miriam Mafai ha
sottolineato come la mobilitazione dell’Occidente non debba essere
giudicata «un atteggiamento paternalistico, bensì un modo per esportare
pacificamente la democrazia».
129
La Stampa – 23/01/04
Bonino: la barbarie non può essere dolce
Intervista di Francesca Paci
(…) “In Egitto questo rito barbaro è praticato in particolare nelle aree
rurali e periferiche, dove l’invito ripetuto a recarsi in una struttura medica
assistita per ridurre i rischi dell’intervento non ha ascolto”. (...) Ancora un
retaggio del vecchio relativismo culturale per cui ogni usanza ha diritto
ad una qualche considerazione. Non nego che si tratti di un problema
complesso, ma chiederei ai promotori: “Lo faresti a tua figlia?”
Risponderebbero tutti di no, neppure con lo sconto. (…) La guerra al
tribalismo è stata aperta vent’anni fa da un coraggiosissimo comitato
africano. (…) Piuttosto che impiegare risorse per convincere le straniere
dell’opportunità di un taglietto piccolo invece dell’asportazione, spieghiamo
loro che è sbagliato e basta. Che non si fa. (…) Riconosco le buone
intenzioni di chi ha proposto la variante dell’infibulazione, però la via dei
genocidi è lastricata di buone intenzioni.
Liberazione – 23/01/04
L’infibulazione non è mai innocente
di Ritanna Armeni
(…) Nessuna comprensione per una pratica barbara che mutila le
donne, nessuna mediazione neppure simbolica con un’usanza che mutila
il corpo non consenziente e non consapevole della donna. (…) Occorre
dire di no anche alla permanenza del simbolo che, comunque, non è mai
innocente. In questo caso anzi appare confermativo di una pratica
aberrante e di una convinzione da estirpare.
Il Foglio – 04/02/04
Caro Paolo Mieli,
di Adriano Sofri
(…) Non può esserci persona sensata e non fanatica che non concordi
sul fatto che, di fronte all’alternativa secca e urgente fra lo scempio della
macelleria infibulatoria e il rito minimo del dottor Abdulcadir, si scelga
senz’altro il secondo. Ma questa è appunto una situazione estrema,
un’emergenza che richiama le stesse circostanze della legittima difesa: cioè
di una deroga dettata da una condizione urgente di necessità. (…)
Legalizzare l’infibulazione cosiddetta “dolce” e assicurare l’assistenza
ospedaliera significa, come mostra già la sola discussione, patrocinare una
130
campagna in favore di questo metodo contro quello feroce, pericoloso e
illecito della tradizione patriarcale.
Ciò che emerge da questa breve rassegna stampa è certamente il
nostro pesante giudizio di valore su una pratica culturale,
evidentemente poco esplorata, più volte definita barbara, tribale,
oscura, primitiva e incivile. Allo stesso tempo coloro che le praticano
sarebbero: carnefici, ignoranti, fanatici, insensati e superstiziosi, non a
caso rigorosamente extra-europei.
Con queste premesse non dovrebbe sorprenderci la difficoltà a
dialogare con le donne direttamente interessate42, più volte riscontrata
nelle campagne informative sulle MGF.
Proprio per questo utilizzare un simile linguaggio e di conseguenza
esprimere certi concetti - nomina consequentia rerum - non può
provocare altro che distanza e chiusura da parte di chi diviene così
oggetto di stigma, in luogo di un dialogo che faciliti la comprensione e
la conoscenza reciproca.
Allo stesso tempo posizioni ideologiche, non prive di
mistificazione, hanno tacciato la proposta del Dott.Abdulcadir di
essere comunque una mutilazione, assimilando una puntura di spillo
provocata sotto anestesia ad una vera e propria infibulazione,
rifacendosi al potere di un simbolo. A nessuno, infatti, è mai sfuggita
in questo caso la relazione tra significato e significante, come hanno
fatto notare studiosi ed esperti43. Non era, infatti, una questione di
principio a muovere la proposta del medico fiorentino, ma l’urgenza
di proporre un’alternativa alla manifestazione più intrusiva della
pratica. Tale proposta, dunque, non era rivolta a chi non si sarebbe
mai sottoposta ad alcun intervento di MGF, e quindi la questione non
42
Quando parlo di donne interessate non penso alle donne già contrarie o estranee a
questa pratica, in quanto non è a loro che sono indirizzate tali campagne, bensì a chi
pensa, per qualunque ragione (degna almeno di ascolto) che sia giusto, desiderabile,
corretto, morale, sottoporvisi.
43
Si veda in particolare Carla Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, ed
Meltemi, Roma 2007.
131
era tra non sottoporvisi affatto o accettare un intervento poco invasivo,
bensì sottoporsi ad un intervento pericoloso oppure optare per
un’alternativa, che almeno non presenta complicazioni fisiche. Per
quanto concerne l’aspetto simbolico saranno le donne interessate (e
non soggetti esterni) che, attraverso il loro impegno politico,
metteranno in crisi una struttura patriarcale che le opprime, come
accade (o dovrebbe accadere) in modi diversi anche da noi e in
qualunque altra parte del mondo.
Per lo stesso motivo la domanda “sottoporreste vostra figlia ad una
simile pratica?”, contro qualsiasi forma anche simbolica di MGF,
avanzata spesso da più parti come provocatoria argomentazione dalle
velleità controfattuali, presenta un’evidente capziosità. E’ improprio,
infatti, porre una simile domanda, la cui risposta è fortemente
condizionata dai riferimenti culturali ed ambientali, a chi non
appartiene e tanto meno conosce le culture a cui afferiscono tali
pratiche. Per queste ragioni è ovvio, quindi, che la risposta sia
negativa, ma questo non avalla il giudizio di valore, dalle velleità
universalizzanti, che un simile quesito vorrebbe dimostrare, se non la
faziosità della prospettiva prescelta per giudicare il fenomeno.
La questione evidentemente nasconde dell’altro e a svelarne alcune
ambiguità, seppur con altri intenti, è proprio il contributo di Adriano
Sofri, citando l’episodio del Giro del mondo in ottanta giorni di Jules
Verne. Qui Sir Phileas Fogg, proveniente dalla “civilissima e
progredita” Inghilterra, salva da una “pratica barbara” una “povera
donna sottomessa”, vittima di “tradizioni patriarcali e arretratezza
culturale”. Tale “sensibilità” però mal si coniuga con la condizione
delle donne inglesi, a cui nello stesso periodo non sono riconosciuti
fondamentali diritti civili e politici, tra cui il diritto di voto; e
verosimilmente è possibile immaginare che il nostro “salvatore” non
simpatizzi affatto con la battaglia suffragista, come la maggior parte
degli uomini a lui contemporanei.
A parte tutto però l’inglese è un vero gentleman, arrivando
addirittura a sposare la poveretta. Insomma, un vero salvatore, benché
colonialista quanto basta!
132
Come suggeriva Gayavatri Chakravorty Spivack, l’uomo bianco,
secondo questa prospettiva, avrebbe salvato la donna nera dalla
malvagità di uomini neri e dalla barbarie di tradizioni incivili, proprie
di contesti socio-culturali non ancora progrediti. Per quanto concerne
le MGF stiamo assistendo a qualcosa di molto simile. L’unica
differenza è la massiccia presenza in questo caso di donne bianche
(che al tormentone della missione civilizzatrice ora preferiscono
piuttosto quello dell’emancipazione), che insieme ad altri uomini
bianchi salvano donne nere dalla barbarie di altre donne e uomini
nere/i. Allo stesso tempo le bambine che rischiano di essere sottoposte
a MGF sono descritte come soggetti indifesi da sottrarre alla crudeltà
di genitori incivili, avvezzi per ignoranza e “tribalismo culturale” alla
tortura, a cui non risparmierebbero neanche le loro figlie. Così uomini
e donne bianchi/e si ergono oggi a salvatori e salvatrici di bambine
nere da proteggere dalla barbarie, appunto, di genitori neri.
La donna subalterna, dunque, è privata da entrambe le parti di
qualsiasi soggettività, schiacciata dall’imperialismo occidentale da un
lato e da una cultura patriarcale dall’altro.
A questo proposito Nirmal Nuwar, un’altra scrittrice postcoloniale, afferma
Il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l'esule sono
tutti sotto i riflettori. E' a queste figure che si volge lo sguardo dei
media, delle agenzie di governance globale e locale, dei professionisti
del capitalismo in stile multiculturale, degli accademici e degli
attivisti. Ciascuno di essi ha un proprio motivo particolare per
guardare e cercare. Alcuni cercano di pattugliare i confini, altri di
regolare quei corpi il cui lavoro è necessario ma la cui cittadinanza
(umanità) è rifiutata. E poi c'è la pretesa incessante di scorgere chi
sta dietro al turbante, al velo, al pizzo, a quella pelle non-bianca; il
sospetto alimenta pericolo e risentimento. Mentre alcuni di questi
corpi sono accusati di arrecare distruzione alla terra promessa, altri
- e spesso gli stessi, sebbene con sfumature leggermente diverse vengono celebrati perché evocano un paradiso tropicale. (...) La fame
di narrazioni di «vittimità» ha una lunga storia. Al culmine
dell'antropologia, le distinzioni fra l'Occidente e il resto del mondo
diedero luogo a una giurisdizione epistemologica racchiusa in
osservazioni, misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di
133
curiosità. I corpi delle donne provenienti da questi «altri» luoghi
rivestirono un ruolo centrale nella produzione della differenza fra
barbarico e civilizzato, spirituale e razionale, passivo e potente. Tutto
ciò che è percepito al tempo stesso come attraente, repulsivo,
bisognoso di correzione è stato proiettato da questi «altri» luoghi
sulle figure femminili. Nel rappresentare il fardello dell'uomo bianco
così come della donna bianca, le donne di «altri» luoghi hanno
offerto a coloro che guardavano verso Est in cerca di carriera un
sentimento di missione, definendo per loro un senso di identità quali
politici, riformatori sociali, viaggiatori o accademici44.
Questo in fin dei conti è anche ciò che ci raccontano gli articoli di
giornale qui estratti, che parlano di una “pacifica esportazione della
democrazia”, di gran-galà di beneficenza, non a caso all’interno di un
Museo di preistoria ed etnografia, per donne facoltose (principalmente
occidentali), che dovrebbero aiutare altre donne (principalmente
africane), definite appunto, “quelle che camminano più adagio, che
partono da lontano, che devono superare più ostacoli, più disprezzo,
più rituali barbarici, più convenzioni liberticide”. Le stesse donne
sono qui vittimizzate (definite impropriamente appartenenti al mondo
islamico, anche se le MGF non sono un fatto religioso). Considerate
“senza corpo” e ridotte ad “ombre silenziose, condizionate fino a farsi
complici dei loro stessi torturatori”.
Non si riconosce dignità alcuna alle varie forme di resistenza
femminile, che possono esistere anche se si indossa un velo (senza
dover necessariamente arrivare alla conclusione di gettarlo perché non
serve più)45, e che troppo spesso sfuggono alla nostra attenzione, se
non parlano il nostro stesso linguaggio.
44
Nirmal Nuwar, I volti svelati della buona meticcia, ed. DeriveApprodi, Roma
2003.
45
La scrittrice marocchina Fatima Mernissi ha più volte ricordato che il velo,
piuttosto che un simbolo di oppressione patriarcale, rappresenta uno strumento
attraverso il quale le donne si proteggono dallo sguardo maschile. A questo
proposito mi vengono in mente le donne azteche (o sarebbe meglio dire mexicas)
che si coprivano il viso di fango per sfuggire all’attenzione dei conquistadores, che
facevano dello stupro una pratica quotidiana.
134
Queste donne, “spinte dalla povertà e incalzate dalle guerre” (come
se fossero solo queste le ragioni possibili per la migrazione), emigrano
in Paesi “dove vivere è più facile” ed è più prossima la contiguità con
“la nostra realtà di emancipate”. Questo secondo Lidia Ravera che ha
firmato l’articolo. Eppure, come suggerisce l’antropologo Amedeo
Pistolese, spesso per le migranti le priorità sono altre. Si pensi alle
difficoltà a cui va incontro una donna immigrata priva di permesso di
soggiorno, quindi soprattutto oggi privata anche dei diritti più
elementari. Tuttavia non necessariamente si tratta di difficoltà legate
alla propria storia, di donna musulmana, povera o rifugiata. Molte
responsabilità, infatti, ricadono, a mio avviso, sulle modalità di
accoglienza, o meglio di non accoglienza, che incontrano i migranti
una volta giunti in un Paese come il nostro, dove vivere è tutt’altro che
facile. Dinamiche di esclusione, marginalizzazione e stigmatizzazione
fanno conoscere a molte donne, e non solo, il peso di un razzismo
sistemico e strutturale. Simili condizioni, comuni a molti migranti non
solo in Italia, inducono molte donne immigrate a ripiegare sulla
propria comunità di appartenenza, che rappresenta a questo punto
l’unico riferimento e sostegno possibile. Tale meccanismo comporta
spesso il recupero di tradizioni presenti nel proprio Paese
d’appartenenza, talvolta in corso di decadenza nello stesso contesto di
riferimento, recuperate nel tentativo di ricercare o affermare una
propria identità, proprio a fronte di una condizione di esclusione
sociale.
Come ricorda Carla Pasquinelli l’attuale contesto migratorio non
può essere più ricondotto ad un modello bipolare, che utilizza solo
categorie quali acculturazione, assimilazione, integrazione,
trascurando i rapporti tra migranti e contesto di partenza. Si tratta
ormai di una dinamica a tre, che vede protagonisti i soggetti migranti,
gli ambiti di accoglienza e le comunità locali di riferimento46.
46
C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, pag. 108.
135
Molti uomini, donne e bambini/e costretti a lunghe e pericolose
traversate47, riescono ad approdare in Italia, scampando alla morte, per
incorrere poi nel rischio di finire reclusi per mesi in un Centro di
Identificazione ed Espulsione, senza aver commesso alcun reato. Qui
vengono umiliati, privati ora sì dei diritti più elementari, nonché
dell’Habeas Corpus, non appannaggio dunque dei migranti e tanto
meno delle donne.
Molte voci che si sono sollevate contro le MGF (in quanto
violazione fisica e simbolica del corpo delle donne) hanno taciuto o
peggio ancora sono state complici di proposte di legge48 che
vorrebbero impedire ad immigrati privi di permesso di soggiorno di
accedere a cure sanitarie, incluse le donne incinte, che rischiano per
altro di non poter riconoscere il proprio figlio perché prive del
documento di soggiorno che permetterebbe loro di intraprendere
pratiche anagrafiche49.
Una donna immigrata subisce, dunque, il peso di una mancanza di
riconoscimento, sia sul piano reale che simbolico.
Sembra emergere, dunque, la considerazione sostenuta da molte
donne immigrate, per cui le MGF sono un problema prima di tutto
occidentale, utilizzato come paradigma strumentale e funzionale per
avvalorare la nostra presunta superiorità ed effettiva egemonia.
A questo proposito il Dott. Abdulcadir, impegnato nel Centro
specializzato sulle MGF, ricorda che i bisogni espressi dalle donne
47
Su questo tema si veda il documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer, Come
un uomo sulla terra, del 2008, che descrive l’odissea a cui sono costretti molti
migranti africani, con la complicità di feroci trattati ed accordi bilaterali tra l’Italia e
la Libia, stipulati tra il 2003 e il 2008 (e relativi aggiornamenti nel 2009).
48
Proposte avanzate all’interno del cosiddetto “Pacchetto sicurezza” approvato
definitivamente a Maggio 2009, che prevede misure repressive e discriminatorie
contro la popolazione migrante.
49
Così come si è rischiato di veder negato il diritto all’istruzione a minori privi di
permesso di soggiorno, in virtù di proposte di legge avanzate dalle stesse fazioni
politiche che li volevano difendere dalla “barbarie” delle MGF.
136
immigrate incontrate sono spesso di altra natura. Soffrono difficoltà
contingenti, tali da far loro apparire le MGF un falso problema
nell’immediato. Il ginecologo somalo, infatti, si trova ad affrontare
con le sue pazienti questioni legate alla salute, all’accoglienza, alla
sicurezza e solo successivamente alle MGF. A tal proposito molte
donne stentano a comprendere il motivo di tanto scalpore su questo
tema.
Per quale motivo, dunque, non è così sentito il problema
dell’inviolabilità del corpo e del rispetto dei diritti umani, per le donne
immigrate vittime di una condizione di precarietà esistenziale,
determinata da una società tutt’altro che accogliente?
Perché tali preoccupazioni e affermazioni di principio emergono,
strumentalmente, solo in seno al dibattito sulle MGF?
Amedeo Pistolese avanza un’ipotesi apparentemente provocatoria,
ma a mio avviso interessante, in cui sostiene che l’Occidente ha creato
la questione delle MGF, così come ha creato quella della fame nel
mondo, di cui per altro è diretto responsabile.
Come hanno evidenziato diversi esperti intervistati, un altro aspetto
che spiega la nostra attenzione sulle MGF è il coinvolgimento degli
organi genitali femminili. Da qui il rimando immediato alla sessualità
che questo comporta, e soprattutto al rapporto tra i sessi e i generi che
ciò rappresenta. I riferimenti sessuali (in chiave spesso sessista),
rivestono infatti un ruolo centrale nella nostra cultura. Questo spiega
atteggiamenti ammiccanti, stereotipati, non scevri da sessismo e
razzismo, che spesso accompagnano lo sguardo occidentale,
soprattutto maschile, quando si posa sulla donna africana, o meglio
sulla sua pruriginosa proiezione, costruita ed immaginata.
Quest’ultima, infatti, incarna, nell’immaginario comune, l’esotico per
eccellenza, la pulsione irrazionale che si attribuiva al selvaggio (in
misura maggiore ad una donna selvaggia, quindi doppiamente
sessuata), in contrapposizione alla ragione, incarnata dalla civiltà
occidentale (ovviamente maschile, ça va sans dire). La questione delle
MGF, trattata non senza ossessiva morbosità, non è dunque immune a
questo tipo di riflessione. A tal proposito Carla Pasquinelli, parlando
di infibulazione, riporta la seguente testimonianza
137
Non è un caso che tra le varie forme di intervento sui genitali
femminili l’infibulazione sia quella che accende di più la fantasia. Non
tanto quella locale quanto l’immaginario occidentale per
quell’artificio tenebroso racchiuso nel segreto dei corpi, come ho
avuto modo di constatare di persona durante un soggiorno di ricerca
che mi aveva condotto nei primi anni Ottanta in Somalia per
occuparmi di tutt’altro. Ricordo ancora l’imbarazzo e il fastidio che
provavo allora per i sorrisetti furbastri ed eccitati che comparivano
sulle labbra degli uomini italiani, ogni volta che il discorso cadeva
sulle donne somale, ridotte a feticcio di un erotismo esotico, che
avrebbe avuto, si mormorava, il pregio di esaltare oltremisura il
piacere maschile. Un piacere proibito, erede dello sguardo
spossessante del colonialismo50.
A tal proposito appare indicativo quanto riportato dall’antropologa
Michela Fusaschi, la quale riferisce che nell’ultimo rapporto
interistituzionale del 2008, che vede tra i firmatari l’UNICEF e
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le MGF sono denominate
Mutilazioni sessuali femminili, lasciando emergere ancor più
nitidamente l’immagine estremamente sessualizzata del corpo
femminile, in particolare delle donne di culture non occidentali,
considerate appunto l’incarnazione per eccellenza di esotismo e di
sfrenata pulsione sessuale.
A quanto pare l’Africa, e in particolare le donne africane,
rievocano nell’immaginario comune qualcosa di ontologicamente
oscuro, incomprensibile e misterioso (il cui svelamento non può che
essere appannaggio dell’uomo bianco). Non a caso, come si è visto,
c’è chi continua a parlare di “Continente nero”, pervaso da “nonragioni” e ostaggio di “oscure istanze originarie, tipiche di una società
chiusa, di una cultura tribale, di un mondo primitivo, ancora preda di
antiche superstizioni”.
Allo stesso tempo, come suggerisce il filosofo post-coloniale Arjun
Appadurai, per l’Occidente il corpo del colonizzato, e potremmo
aggiungere del migrante, è un corpo estraneo e inquieto (ed
50
C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, pag. 89.
138
inquietante) per natura: corpo che digiuna, si perfora, si distrugge,
compie abluzioni, brucia e sanguina, ma anche sporco, fragile,
femmineo e subdolo51. Si tratta dunque di un corpo che va controllato,
contenuto, normato, poiché controllare il corpo individuale significa
controllare il corpo politico e sociale (si pensi a quanto accade da
sempre al corpo delle donne e dei soggetti considerati devianti dalla
norma, tra cui omosessuali, migranti, poveri, malati, etc.).
Un ulteriore aspetto che emerge dalla rassegna stampa qui presa in
esame, e che a mio avviso meriterebbe più di una riflessione, sono le
conclusioni speculari e spesso bipartisan che accomunano personalità
politiche ed intellettuali afferenti a culture di destra e di sinistra. Da un
lato, infatti, la destra si serve della difesa delle donne e
dell’universalità dei diritti umani per introdurre e suffragare politiche
xenofobe52, dunque difende strumentalmente i diritti umani per
avallare provvedimenti razzisti. Dall’altro, invece, la sinistra,
sentendosi in dovere di intervenire sempre e comunque su temi come
questi, considerandoli principalmente di proprio dominio, parte dalla
strenua e talvolta miope difesa dell’universalità dei diritti umani e di
assunzioni di principio, arrivando a riprodurre dinamiche razziste.
Il ricorso alla retorica dei diritti umani è, però, meno innocente di
quanto si possa di primo acchito immaginare. Il colonialismo
contemporaneo, infatti, per istanze rigenerative ha avuto bisogno di
rifarsi il trucco, celando la sua natura, attraverso la mistificazione
delle proprie intenzioni. E’ stato dunque necessario recuperare
categorie coloniali apparentemente sopite, come il concetto di
barbarie, arretratezza, sviluppo, aggiungendo a queste rivendicazioni
femministe, le quali, benché inascoltate entro i propri confini,
divengono un buon viatico per l’“esportazione della democrazia”. Da
qui il ricorso a concetti quali emancipazione, liberazione o
autodeterminazione. Si tratta, infatti, di espedienti funzionali ad un
sistema di dominio, che oggi come ieri ha la necessità di apparire altro
da quello che è. Se dopo la Prima Guerra mondiale l’85% delle terre
51
52
A.Appadurai, Modernità in polvere, ed. Meltemi, Roma 2004 pagg.173, 175.
Si pensi al già citato “Pacchetto sicurezza”.
139
emerse era stata colonizzata dalle potenze europee, in nome di una
civiltà da esportare e di un diritto da esercitare in quanto nazioni
superiori, oggi lo stesso diritto viene addotto come salvaguardia dei
Paesi oggetto di neoimperialismo. Sono cambiate le parole d’ordine,
in parte anche lo scacchiere internazionale, ma l’aspetto più dirimente
è che il meccanismo di dominio e di oppressione è rimasto invariato,
in quanto capace di rigenerarsi, sfruttando, ad usum delphini,
categorie pseudo-libertarie (afferenti alla tradizione politica
occidentale) apparentemente a vantaggio del soggetto che opprime. Il
ricorso ai diritti umani, all’emancipazione, al progresso e allo sviluppo
ne sono un esempio.
Ancora una volta il resto del mondo avrebbe bisogno
dell’Occidente per proteggersi da se stesso, da una presunta incapacità
di autogovernarsi e di garantire l’esercizio dei diritti fondamentali e la
tutela di gruppi minoritari all’interno dei propri confini. Ieri si parlava
di occupazione, oggi di liberazione, in quanto più funzionale
all’attuale sistema-mondo.
Ma l’Occidente assicura le stesse garanzie ai soggetti
all’interno dei suoi ambigui confini? Quanto poi può
innocente rispetto alle difficoltà che vessano i Paesi del
Mondo, tanto da far credere che il suo interventismo sia
disinteressato?
oppressi
definirsi
Sud del
del tutto
Non sembra invece di sentir risuonare ancora una volta un
evoluzionismo ormai di annata, nelle cui maglie è caduto anche un
certo marxismo ed oggi buona parte della sinistra, per cui si afferma il
“diritto” degli altri a diventare come noi, rigorosamente non senza il
nostro irrinunciabile aiuto?
A tal proposito mi sembra interessante il contributo di David
Chandler, riportato da Gino Satta, in merito alle “guerre umanitarie”.
Questi sostiene che il colonialismo contemporaneo ricerchi una
propria legittimazione proprio attraverso la retorica postmoderna e
progressista dei diritti umani, di cui gli organismi sovranazionali e le
ONG sono gli agenti principali. Il dibattito statunitense preso in esame
vede dunque schierata da un lato la destra neoconservatrice, che si
erge a baluardo della superiorità occidentale, in virtù della quale
140
impone il proprio ordine al resto del mondo, e dall’altro forze
politiche e culturali, che propugnano l’intervento umanitario
occidentale a favore delle minoranze e in nome dei diritti umani53.
L’antropologo francese Marc Augè a mio avviso sintetizza in modo
puntuale il perverso binomio globalizzazione/umanitarismo,
affermando quanto segue
l’uso sistematico del termine «compassione» e dell’aggettivo
«umanitario» coincide con l’avvento di un mondo globalizzato dove
regnano fianco a fianco nella complicità il signor Profitto e la
signora Carità 54.
A questo proposito si pensi all’invasione militare dell’Afghanistan
da parte degli Stati Uniti e delle truppe della NATO nel 2001
(operazione anche nota come Enduring Freedom), in cui la liberazione
delle donne dal burqa, simbolo di oppressione patriarcale del governo
talebano, rappresentava uno degli argomenti forti per giustificare, agli
occhi dell’opinione pubblica, un intervento militare che di umanitario
aveva ben poco. Un’ulteriore dimostrazione di una simile
mistificazione c’è stata recentemente offerta dall’attuale governo
afghano, insediatosi con il contributo degli Stati Uniti dopo aver
spodestato i talebani, il quale ha approvato una legge che introduce il
diritto di stupro in famiglia, vieta alle donne di uscire di casa, di
cercare lavoro o di andare dal medico senza il permesso del consorte.
Una simile contraddizione mostra tutta la debolezza di un approccio
che pretende di giustificare guerre “umanitarie” per “liberare le
donne” in nome di non meglio precisati diritti umani, da esportare per
53
G.Satta, Colonialismo. In Occidentalismi, a cura di C.Pasquinelli, ed. Carocci
Roma 2005, pag. 216.
Su questo tema si vedano anche:
N.Chomski, Il nuovo umanitarismo militare, ed. Asterios , Trieste 2000;
G.Courtemanche, Una domenica in piscina a Kigali, ed. Feltrinelli Milano 2005;
H.d’Almeida-Topor, L’Afrique au XX siècle, ed. Armand Colin, Parigi 2003;
G.Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari, ed. Feltrinelli, Milano 2002;
A.Mbembe, Postcolonialismo, ed. Meltemi, Roma 2005.
P.Uvin, L’aide complice, ed. L’Harmattan, Parigi 1999;
54
M.Augè, Diario di guerra, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pag. 26.
141
di più con strumenti che sono espressione del più becero imperialismo
maschile.
Contro le MGF vengono chiamati in causa addirittura i genocidi,
lastricati di non meglio precisate buone intenzioni, spesso
impropriamente associati ai conflitti intestini africani, dimenticando
forse il ruolo, il contributo e le responsabilità fondamentali
dell’Occidente nella storia delle guerre genocidarie55.
Quel che è certo è che la quasi totalità degli articoli presi in esame
lascia intravedere una forte urgenza ad esprimere giudizi di valore e
considerazioni affrettate, su una questione non sempre adeguatamente
esplorata.
I riferimenti culturali, centrali per questo tema, sono stati spesso
trattati con approssimazione o superficialità, quasi fossero un mero
epifenomeno degno, semmai, di un’analisi secondaria o addirittura
svogliata.
Ci sono poi casi di vero e proprio integralismo assiologico,
rappresentati da una presunta battaglia di civiltà dalle pretese
universali ed universalizzanti56, impermeabili a qualsiasi obiezione o
55
Sulla genesi delle teorie genocidarie in Europa si vedano:
G.Bensoussan, Genocidio. Una passione europea, ed. Marsilio, Venezia 2009;
F.Dei, Antropologia della violenza, ed. Meltemi, Roma 2005.
Per un’analisi storico-politica dei genocidi nella storia si vedano:
AA.VV., Il secolo del genocidio, ed. Longanesi, Milano 2006;
AA.VV., Rwanda. Le génocide du XX siècle, ed. LHarmattan, Parigi 1995;
B.Bruneteau, Il secolo dei genocidi, ed. Il Mulino, Bologna 2005;
E. Nkunzumwami, La tragédie rwandaise. Historique et perspectives, ed.
L’Harmattan, Parigi 1996;
S.Power, Voci dall’inferno, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004;
G.Prunier, Rwanda: le génocide, ed. Dagorno, Milano 1999;
D.Scaglione, Istruzioni per un genocidio, ed. EGA, Torino 2005;
T.Todorov, La conquista dell’America, ed. Einaudi, Torino 1992.
56
Annamaria Rivera, definisce così il presunto universalismo più volte invocato
dall’Occidente: “Un universalismo che, stabilendo gerarchie e delimitando
«periferie di umanità, di diritti, di cittadinanza», ha finito per costituirsi come
142
eterodossia, anche quando a parlare sono donne direttamente coinvolte
e che quindi, almeno per questo, meriterebbero ascolto.
A questo proposito il suggerimento formulato da Lucrezia Catania,
impegnata con Omar Abdulcadir nel Centro specializzato per le MGF
di Firenze, mi sembra molto eloquente. La ginecologa, infatti, rileva
una differenza sostanziale nell’atteggiamento riscontrato nelle donne
che incontrava nel corso della sua attività, quando ancora troppo poco
sapeva delle MGF e delle culture a cui afferivano. Se inizialmente
percepiva chiusura da parte delle donne coinvolte davanti ad un
atteggiamento ideologicamente radicale, allo stesso modo ha scoperto
dalle stesse disponibilità di espressione e apertura, una volta
accresciuta la sua consapevolezza sul tema.
Per altro il ricorso all’universalismo in tema di valori e diritti,
soprattutto da parte di molte voci femministe, lascia più di qualche
perplessità. Tu quoque! Sarebbe il caso di dire. Come il pensiero
femminista sa bene, da quando Olympe de Gouges durante la
Rivoluzione francese denunciò l’esclusione delle donne dalla
Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, dietro l’aura di
universalità, di cui il potere dominante ammanta le proprie
consapevolezze politiche e giuridiche, si nascondono di fatto assunti
particolaristici, espressione di una determinata cultura, genere e classe
sociale, ovvero del soggetto maschio, borghese, occidentale. Dunque
proprio il femminismo ricorre oggi a quello stesso universalismo? E’
vero, come affermò Nietzsche, che le verità sono illusioni di cui si è
dimenticata la natura illusoria, ma questo può essere possibile
soprattutto quando la dialettica dell’egemonia cambia baricentro.
Ovvero quando il soggetto subalterno di ieri (in parte anche di oggi),
in questo caso le donne occidentali rispetto agli uomini occidentali,
diventano il soggetto egemonico se messe in relazione alle donne non
occidentali, come ci insegnano le femministe afro-americane negli
universalismo particolare, potremmo dire con un ossimoro”. In L’imbroglio etnico,
ed. Dedalo, Bari 2001, pag. 309.
143
Stati Uniti, ormai già da qualche decennio57. Se si è nella posizione di
chi subisce sfruttamento ed oppressione da parte del potere dominante
è in qualche modo più semplice denunciare la necessità di decostruire
un modello falsamente universale, ma se si riveste una posizione
anche parzialmente di dominio, riconoscere la necessità di
decostruzione può significare la rinuncia ad un privilegio altrimenti
goduto, proprio in virtù di un rapporto di forza favorevole. E’ stato
così per il movimento operaio, rispetto alle rivendicazioni delle donne
appartenenti alla medesima classe sociale degli uomini di cui
denunciavano l’oppressione o per il movimento femminista
statunitense rispetto alle donne nere, solo per fare alcuni esempi.
Come l’oppressione delle donne afferenti a classi sociali più
svantaggiate non si esaurisce nella dialettica classista, così la
soggezione delle donne nere non è riducibile alla contrapposizione tra
i due generi.
Un capitolo a parte merita il transgender e le modificazioni a cui
molti uomini e donne sono spesso costretti/e per vedersi riconosciuti
dalla società di cui fanno parte. In una logica di identità binaria,
infatti, o si è fisicamente maschi o si è fisicamente femmine, senza
possibilità di deroga o alternativa alcuna.
Come spiega Lorenzo Bernini, del Gruppo di Liberazione
Omosessuale di Milano, in Italia fino al 1990 per il Dipartimento di
57
All’interno del movimento femminista americano le donne nere non si
riconoscevano in pieno nelle rivendicazioni delle loro compagne di lotta bianche.
Infatti, in virtù della loro diversa appartenenza sociale fortemente condizionata dal
colore della pelle, soffrivano un’oppressione diversa rispetto alle donne bianche e
borghesi: oppresse in quanto donne, nere e proletarie, di conseguenza vittime di
differenti forme di oppressione e sfruttamento, non solo patriarcale, e per questo
estranee ad un ideale di “sorellanza globale”. “Non sorprende che per le donne nere,
la storia che loro raccontano sulle «bianche», nonostante le sue pretese di
universalità, sembra interessare soprattutto donne bianche, eterosessuali e
privilegiate economicamente”, fenomeno che Adrienne Rich definisce “solipsismo
bianco” in A.P.Harris, Identità di razza e identità di genere: critica
dell’essenzialismo femminista. In Diritti e Rovesci, ed. AIDOS, Roma 2001, pag. 90.
144
Salute Mentale (DSM) l’omosessualità era considerata una malattia,
mentre le persone transessuali continuano ad essere considerate
formalmente malate, in quanto affette da disturbo dell’identità o
disforia di genere.
Per ottenere il riconoscimento della propria identità di genere a
livello sociale ed istituzionale per i/le transessuali è necessario
sottoporsi ad interventi medici e chirurgici molto invasivi (certo non
obbligatori, ma conditio sine qua non per il proprio riconoscimento).
Dunque, le “cure” a cui devono sottoporsi sono:
• Per un transessuale FtM (dal femminile al maschile) l’assunzione di
testosterone, mastectomia (asportazione del seno), isterectomia
(asportazione di utero ed ovaie) ed eventualmente falloplastica
(ricostruzione chirurgica di un simil-pene).
• Per un transessuale MtF (dal maschile al femminile) assunzione di
estrogeni e di farmaci antagonisti del testosterone, rimozione di
pene e testicoli ed eventualmente nella mastoplastica additiva
(ricostruzione chirurgica del seno) e vaginoplastica (ricostruzione
chirurgica di una simil-vagina). Vaginoplastica e falloplastica sono
interventi molto pesanti, che durano anche 10 ore, e che danno
spesso scarsi risultati. La falloplastica nella maggior parte dei casi
dà forti reazioni di rigetto. La vaginoplastica, invece, oltre ad essere
un intervento molto invasivo, talvolta va ripetuta perché la vagina
artificiale tende a chiudersi. La vaginoplastica, per altro, comporta
spesso la rinuncia al piacere sessuale.
Secondo la legge 164, del 14 aprile 1982, tuttora in vigore, questi
interventi (almeno nella loro forma demolitiva) sono necessari per
poter ricevere l’autorizzazione di cambiare il nome sulla carta di
identità. Se si intende cambiare identità di genere, il nostro sistema
giuridico concede di diventare formalmente donna o uomo solo a patto
che ci si faccia demolire (o mutilare) ed eventualmente ricostruire i
genitali, con tutte le conseguenze del caso.
Indubbiamente secondo il principio di autodeterminazione del
corpo qualunque persona consenziente dovrebbe avere il diritto di
modificare il proprio corpo (anche se per le MGF abbiamo visto che
vale esattamente il contrario), ma non il dovere. In questo caso,
145
invece, rappresenta una strada obbligata da percorrere come onere da
sacrificare all’altare del conformismo e della normalità coatta, anche
per chi ne avrebbe fatto volentieri a meno, se non avesse rischiato di
incorrere in emarginazione e stigma.
Un altro aspetto da considerare è il fenomeno dell’intersessualismo,
non annoverato dal DSM tra i disturbi mentali, in quanto trattasi di
una condizione fisica prima che psicologica. Intersessuale è un
individuo il cui corpo presenta caratteri intermedi maschili e
femminili. Come le persone transgender, infatti, anche le persone
intersessuali sono considerate intrattabili dal nostro sistema giuridico e
simbolico, e per questa ragione vengono “trattate” dal nostro sistema
sanitario.
Un esempio di intersessualismo è la sindrome di Klinefelter, esito
di una variazione genetica: chi ne è affetto non ha due cromosomi
sessuali (i canonici XX delle femmine, e XY dei maschi), ma tre: due
cromosomi X e un cromosoma Y. Per la presenza del cromosoma Y, i
portatori della sindrome, o meglio le persone XXY - come loro
preferiscono chiamarsi - sono classificati dalla medicina come maschi.
Alla nascita, in effetti, appaiono maschi, ma quando giunge la pubertà
non sviluppano i caratteri secondari maschili: barba, pomo d’Adamo,
spalle larghe, voce profonda, non sviluppano pene e testicoli di
dimensioni “normali”. Hanno invece voce sottile, fianchi arrotondati,
spalle spioventi, e spesso sviluppano il seno. Un altro esempio di
intersessualismo è la sindrome di Morris: le persone che ne sono
affette, geneticamente sono uomini XY, ma per una incapacità di
reazione agli ormoni maschili durante la gravidanza, nascono come
bambini micropenici con testicoli introflessi. Hanno quindi genitali
ambigui: il loro pene assomiglia a una clitoride, ma lo scroto
introflesso forma una piccola cavità cieca, che non sfocia in una
vagina. Non avendo i testicoli non produrranno mai testosterone, e
quindi non potranno in adolescenza acquisire i caratteri secondari
maschili.
Un altro caso associabile all’intersessualismo è l’iperplasia
surrenale congenita, un tempo chiamata sindrome adrenogenitale.
Questa può colpire sia uomini che donne e consiste in un
malfunzionamento delle ghiandole surrenali, che producono poco
146
cortisolo e poco aldosterone. La conseguenza è un aumento di
testosterone, che nelle donne provoca la comparsa di caratteri
secondari maschili: peli, barba, voce profonda. Il testosterone agisce
anche sulla conformazione dei genitali: le donne affette da iperplasia
surrenale congenita presentano spesso una clitoride ipertrofica, simile
a un pene, e in alcuni casi una vagina poco profonda e la fusione delle
grandi labbra.
A partire dalla metà del Novecento, da quando hanno avuto inizio i
primi interventi di riassegnazione genitale, non solo in Occidente, i
medici hanno cominciato ad intervenire direttamente sul corpo delle
persone intersessuali, “normalizzando” chirurgicamente, poco dopo la
nascita, l’aspetto dei genitali ambigui, modificando in seguito i
caratteri sessuali secondari con terapie ormonali. Secondo questo
imperativo, alla nascita un pene non deve misurare meno di 2,5 cm; e
una clitoride non deve essere più grande di 0,9 cm. Bambini con
membri tra 0,9 e 2,5 cm sono quindi considerati inaccettabili e
bisognosi d’intervento chirurgico. La maggior parte degli intersessuali
viene fatta diventare donna semplicemente perchè è più facile
costruire una simil-vagina piuttosto che allungare un micropene. Così
ad esempio, le donne affette da sindrome adrenogenitale subiscono un
intervento di “apertura” della vagina e di “accorciamento” della
clitoride, anche a costo di perdere la sensibilità clitoridea. Ma anche
chi ha la sindrome di Morris, pur essendo genotipicamente maschio
(XY), a causa della micropenia e dei testicoli introflessi viene
ricondotto al genere femminile: si accorcia il pene, si pratica una
vaginoplastica, si prescrivono estrogeni. Un uomo diventa così una
donna dotata di una similvagina a rischio di stenosi, che spesso va
rioperata nel corso degli anni.
A chi è affetto da sindrome di Klinefelter, invece, una volta giunto
all’età dell’adolescenza, i medici “prescrivono” la mastectomia
(l’asportazione del seno) e la somministrazione di testosterone.
L’assunzione dell’ormone provoca la comparsa di caratteri secondari
maschili, ma provoca anche cambiamenti caratteriali nella sfera della
libido e dell’aggressività, che in alcuni casi possono produrre
profondo turbamento e perdita del senso di sé. Non sono poche nel
mondo le persone XXY che rifiutano questo trattamento forzato:
147
alcune scelgono la strada della femminilizzazione, altre rivendicano
per sé il diritto di essere semplicemente quelle che sono, ovvero di
mantenere il proprio corpo intersessuale e la propria personalità
ipodesiderante, ma tale diritto, di solito, viene loro riconosciuto con
grande fatica dai medici con cui hanno a che fare58.
Questo avviene abitualmente per legge anche in Italia, per cui si
dovrebbe parlare di violazione del diritto di autodeterminazione di un
individuo che, per la sua minore età, non ha scelto il proprio sesso,
avendolo fatto i genitori e i medici al suo posto, con pratiche
chirurgiche fisicamente invasive, che possono per di più
compromettere il piacere sessuale. Cosa distingue dunque questi
interventi dalle MGF?
La giurisprudenza italiana e il sistema valoriale su cui si poggia ci
svelano dunque la loro ipocrisia. Se da un lato si impone un intervento
chirurgico come condizione necessaria, affinché un soggetto sia
formalmente riconosciuto/a come appartenente ad un genere/sesso
differente da quello a cui si appartiene naturalmente, e privilegiare
così l’identità elettiva a quella sovradeterminata, dall’altro si
manifesta un atteggiamento completamente opposto in tema di MGF.
In questo caso, infatti, il binarismo identitario, che non concede
eterodossia alcuna al di fuori della contrapposizione dualistica tra
normalità e devianza, come Michel Foucault ci insegna, necessita di
altre condizioni per perseguire la sua realizzazione.
Il caso del transessualismo suggerisce, inoltre, che non è sempre
vero che “il corpo non si tocca”, come affermato da uno slogan che
spesso accompagna la critica alle MGF, e tanto meno è sempre vero
che l’autodeterminazione del proprio corpo debba andare
necessariamente nella direzione dell’inviolabilità, quando invece la
sua modificazione rappresenta una libera scelta.
58
Si veda in proposito: Lorenzo Bernini, intervento pubblicato su
http://www.nazioneindiana.com, di cui mi sono servita per l’approfondimento di
questo tema.
148
5.8 Considerazioni
Osservando più da vicino il fenomeno delle MGF credo sia
legittimo domandarsi quali sono gli aspetti che ci rendono così
sensibili a simili pratiche. Le spiegazioni ovviamente possono essere
molteplici: il principio di autodeterminazione femminile, la salute
delle donne, ambizioni emancipazioniste, eradicazione di una pratica
simbolo di un regime patriarcale, l’inviolabilità del corpo, e forse,
come si è visto, molto altro.
Se però ci soffermiamo su ogni singolo aspetto permangono
impressioni stridenti in proposito, anche a fronte di un interesse a tratti
morboso e ossessivo, che ha portato l’eradicazione di questa pratica
tra le priorità dell’agenda politica di molte realtà politiche e sociali.
Per altro, l’invasività con cui ci siamo appropriate/i di una
battaglia, appannaggio soprattutto delle donne coinvolte, non mi
sembra che restituisca alle stesse la soggettività messa in discussione
dalla pratica che invece si vorrebbe combattere.
Lo stesso intransigente accanimento mostrato per la questione
meramente simbolica della proposta di Omar Abdulcadir, a fronte del
silenzio totale sulle pratiche di modificazione e mutilazione nostrane,
lascia emergere tutta l’ambiguità di cui il nostro “occuparci” delle
MGF (e dunque delle “altre” donne) è foriero.
Mi sembra quindi doveroso chiederci prima di tutto cosa
rappresentano per noi occidentali (soprattutto donne occidentali) le
MGF, prima ancora di interrogarci sul senso o il significato che
possono avere per le donne e le società in cui si praticano.
Ancora una volta, dunque, seppur con intenti apparentemente
opposti, si interviene sul corpo delle donne, privando le dirette
interessate anche del diritto e della facoltà di autodeterminarsi,
scegliendo o non scegliendo di opporsi ad una pratica che trova senso
(non necessariamente giustificazione, ma non siamo certo noi i
soggetti chiamati a giudicare) nel loro sistema culturale o relazionale
di riferimento.
Abbiamo stabilito che le MGF (ovviamente non tutte, ma come
abbiamo visto solo quelle che non ci riguardano direttamente e che
149
sono funzionali ad certo tipo di narrazione) sono un reato, dunque
perseguite dalla legge e dallo stigma sociale. A questo punto, in uno
spazio di agibilità politica e sociale sempre più ristretto, abbiamo
lasciato alle donne direttamente interessate solo la possibilità di
abbracciare il nostro punto di vista, ancora una volta ritenuto l’unico
possibile. Tale condizione mostra tutta la debolezza del nostro agire,
ancora una volta improntato sull’arte di vincere senza avere ragione,
ispiratrice di ogni forma di colonialismo, prima di tutto intellettuale.
Ciò che emerge è certamente la nostra ambizione ad ergerci arbitri
superpartes, dimenticando invece che anche il nostro sguardo è
collocato e in quanto tale portatore di giudizi, esigenze ed interessi
particolari, tutt’altro, dunque, che universali ed universalizzabili.
Come sostiene Amedeo Pistolese, noi apparteniamo ad una cultura
moralizzatrice, sebbene priva di etica, che ignora scientemente sistemi
culturali “altri”, e per questo non perde occasione di esacerbare e
sclerotizzare a proprio uso e consumo pratiche culturali ritenute
esotiche, per ergere stereotipi funzionali ad un rapporto di egemonia e
predominio.
L’ostacolo infimo, a mio avviso, è rappresentato dal razzismo
strisciante, che permea sotto varie forme e declinazioni le nostre
griglie epistemologiche, capace di condizionare ed inficiare il nostro
percorso cognitivo, come l’“orientalismo latente” di cui parla Edward
Said. Questo affiora soprattutto quando meno ce lo aspettiamo,
quando abbassiamo il nostro livello di attenzione e di senso critico,
perché ci sentiamo sicuri/e di percorrere territori già esplorati, come il
discorso sull’autodeterminazione per il femminismo occidentale. Solo
allora emerge il razzismo “grigio”, più ostico da riconoscere ed
ammettere. A tal proposito Carla Pasquinelli afferma
Non tanto quella efferata ed estrema che si esaurisce nell’atto
stesso in cui si manifesta, quanto una violenza tenace ed opaca,
che sfugge alla nostra attenzione – per stabilizzarsi nella
quotidianità anonima di comportamenti e di insospettabili modi di
150
essere – e che perdura nel tempo, attraversando gli anni, i secoli,
per costituire il tessuto molle di accoglienza di future
mortificazioni59.
Il razzismo a cui non si presta attenzione, quello quotidiano che
prolifera nelle piccole cose, nei gesti ritenuti poco significanti, e per
questo diffusi e reiterati, ma che partecipano nel tempo alla
costruzione di un razzismo strutturale e sistemico (di cui parlava
anche Franz Fanon), atto a disumanizzare l’“altro”, senza destare
troppi sospetti, se non quando ormai è troppo tardi. Su questo la
banalità del male di Hannah Arendt impartisce più di una lezione.
Un’eventuale obiezione sull’ingombrante paragone dimostrerebbe il
corretto funzionamento del meccanismo sopra descritto, in attesa che
si manifestino palesemente le derive di quel tessuto molle di future
mortificazioni.
L’immaginario coloniale persiste dunque nella sostanza, pur
essendo mutato nelle forme. Appare perciò necessario intraprendere
un percorso di decostruzione della nostra griglia epistemologica, se
non si vuole perpetrare di fatto ciò che in teoria si pensa di combattere
o peggio ancora di avere già espunto dal proprio orizzonte socioculturale.
Poiché il tema delle MGF investe fortemente il dibattito
femminista, forse una via percorribile per trovare punti di
comprensione reciproca e di lotta comune, tra donne e femministe
afferenti a diverse culture, è quella che suggerisce, in particolare a noi
donne occidentali, di imparare a riconoscere e rispettare forme
autonome di esistenza e resistenza, anche se non pertengono al nostro
repertorio culturale e politico.
Relegare altrimenti soggetti ben definiti ad una posizione di
irriducibile alterità è funzionale ad un rapporto di forza incentrato
sulla dialettica tra soggetti egemonici e soggetti subalterni.
59
C.Pasquinelli ,Occidentalismi, Carocci ed., 2005, pag. 7.
151
La subalternità, dunque, rappresenta una condizione necessaria per
l’esercizio dell’egemonia.
“L’uomo Nero deve essere Nero; e deve esserlo in rapporto
all’uomo Bianco”, sosteneva appunto Franz Fanon.
A tal proposito credo sia perspicuo, parafrasando Carla Pasquinelli,
concludere affermando che l’Altro rappresenta ciò che noi non
vorremmo essere, ma di cui abbiamo bisogno per essere ciò che
siamo.
152
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154
PARTE V
155
6
MGF. L’OCCIDENTE, LE BUONE PRATICHE,
LE DONNE
di Oria Gargano
“Oggi so che le mutilazioni sessuali
non riguardano solo l’Africa,
ma coinvolgono tutto il mondo.
Oggi so che la consapevolezza degli Europei
sul tema è paurosamente inadeguata”.
Waris Dirie
Un giorno mi trovavo in un Centro d’Accoglienza per vittime di
tratta per svolgere il mio lavoro di formazione alle operatrici, e una di
loro mi raccontò:
L’altro ieri c’era una grande agitazione dillà dalle donne, si sentivano
grida e risate. Sono andata a vedere. Erano tutte intorno a R., che
faceva le treccine alla figlia, A. A. urlava come un’ossessa. Non è che
erano treccine semplici. Erano dreadlocks, che sono dolorosi anche
per noi. A. non ha ancora due anni, e quella grande massa di capelli
neri e lucidi, e R. che glieli tirava, li legava con le extensions,
assolutamente imperturbabile. Quando io le ho detto che secondo me
le faceva troppo male lei ha borbottato una frase in inglese più o meno
uguale a quella che diceva mia nonna calabrese – chi bella vuole
apparire qualcosa deve soffrire… Ed io ricordo ancora il dolore, breve
ma intensissimo, di quando mi bucarono i lobi delle orecchie, avevo
all’incirca la stessa età di A.allora, mi chiedo, potevo fare qualcosa?
Non ho fatto nulla, se non rimuginare quella storia. Lì non parliamo
soltanto di estetica, ma di ben altro: di appartenenza. Di
rivendicazione di un’identità…
Questa storia, solo apparentemente esile, mi è tornata alla mente
mentre lavoravo al progetto “Corpi consapevoli: MGF e integrazione
nello stato di diritto”, di cui questo libro è uno dei prodotti.
Documentandomi su questo tema, così forte e così dirompente, così
lontano e così vicino alla nostra coscienza di donne occidentali, mi
156
venne tra le mani il libro Exciseus, scritto da Hawa Gréou, una donna
del Mali finita in galera perché nelle banlieux parigine praticava le
MGF, severamente punite dalla legge francese, da Linda Weil-Curiel,
l’avvocata della parte civile che aveva collaborato alla sua
carcerazione, e dalla giornalista Natacha Henry.
La vicenda raccontata è questa: nei suoi cinque anni di galera Hawa
aveva provato il lusso mai conosciuto di avere una stanza tutta per sé;
benché si trattasse della cella di una prigione, aveva avuto modo di
imparare a leggere, aveva divorato il Corano, aveva scoperto che in
nessuna parte esso parla dell’infibulazione o delle altre pratiche né
tanto meno le prescrive, e, soprattutto si era giovata dell’assenza del
marito, un uomo violento e nullafacente che campava con i proventi
dell’attività illegale di Hawa, e che la tartassava di molestie e dispetti
assieme alla sua terza moglie.
Insomma, scontata la pena Hawa aveva cercato Linda, e tra le due
donne era iniziato un rapporto stravagante e interessante, un ponte tra
due donne così diverse che si interrogano e si confrontano sulla
pratica portata avanti da Hawa per tanti anni. Da questo incontro è
nato il libro, scritto con la collaborazione della giornalista Natacha
Henry.
A un certo punto, le due francesi chiedono alla donna del Mali:
Non ti accorgevi, dal pianto delle bambine, che stavi facendole
soffrire?
Netta la risposta dell’exciseus pentita, ma non dimentica delle
motivazioni che l’avevano animata:
I bambini piangono anche quando vanno dal dentista…
Allora mi sono tornate in mente le treccine di A., e la nostra
supponenza di sapere sempre quello che è giusto e quello che non lo è,
e la nostra incrollabile certezza di essere sempre dalla parte di chi può
dettare le regole e controllarne l’esecuzione, sia in quanto adulti che in
quanto membri di società “avanzate”.
E, contemporaneamente, il rischio del relativismo culturale, che pur
se infinitamente preferibile all’etnocentrismo, è ugualmente centrato
sull’Io universalistico determinato maschile contro le identità sessuate
157
femminili – tutte ugualmente seppur diversamente attraversate dalle
forme diverse e coese dell’assoggettamento.
Sulle MGF c’è molto interesse da parte dell’opinione pubblica
occidentale, che ne enfatizza gli aspetti indubbiamente dolorosi e
gravidi di conseguenze sia sul piano fisico che su quello psicologico,
senza tuttavia cercare di capirne la collocazione nelle culture dei Paesi
nei quali vengono praticate.
Come dice Carla Pasquinelli, si tratta di capire
il ruolo fondamentale che esse hanno nella costruzione dell'identità di
genere, nella formazione dell'appartenenza etnica, e nella definizione
dei rapporti di potere tra i sessi e tra le generazioni. La loro efficacia
è associata al complesso sistema di strategie matrimoniali fondato sul
prezzo della sposa, che delega alle MGF il controllo della sessualità
femminile.60
Una lettura molto contigua all’impostazione culturale del progetto
Corpi Consapevoli, che considera il tema delle MGF non inteso come
paradigma assoluto dell’inferiorità delle donne africane, ma come una
delle declinazioni delle forme del modellamento culturale dei corpi
delle donne in tutto il mondo, attraverso un approccio teso a
sottolineare la non alterità tra donne africane, donne immigrate, donne
italiane ed europee.
Citando Germaine Greer:
Il corpo è il campo di battaglia sul quale la donna combatte per la
propria liberazione. È attraverso il corpo che l’oppressione opera:
reificando
la
donna,
sessualizzandola,
vittimizzandola,
disabilitandola. La sua sessualità costituisce per altri un mezzo per
forgiarla: il compito della donna è di comportarsi in maniera vicaria,
offrendo il proprio corpo al loro ministero.61
60
Carla Pasquinelli (a cura di), Antropologia delle mutilazioni genitali femminili.
Una ricerca in Italia, edito da AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo,
2000.
61
Germaine Greer, La donna intera, Mondadori 2000
158
Se non è surrogata da un’analisi sulle varie forme di sottomissione
che i corpi delle donne e le loro identità sessuate subiscono in tutte le
culture patriarcali del mondo, la presa di parola delle donne
occidentali sul tema delle MGF, ancorché armate di perfetta buona
fede, sovente appare inadeguata alla complessità del fenomeno, e
schiacciata su una condanna senza appello a cui sfuggono le
sfaccettature nei significati che il rito rappresenta.
Ed è per molti motivi, inclusa questa mancanza di lettura in
profondità del fenomeno, che le campagne comunicative volte a
sensibilizzare le comunità degli immigrati e delle immigrate non
hanno mai o quasi mai sortito un effetto positivo e favorito il dialogo
tra gruppi etnici e tra donne. La qual cosa ci spinge a chiederci: come
l’occidente “legge” il fenomeno? Quali sono le buone pratiche
maturate nei Paesi coinvolti dal fenomeno? Qual è il ruolo delle donne
nel superamento della pratica?
6.1 L’Occidente
In maniera un po’ sorprendente e un po’ no, le MGF sono assunte
dall’Occidente quale simbolo dell’arretratezza sociale e della
sottomissione delle donne in moltissimi Paesi del mondo – tutti
lontani da noi e dalla nostra civiltà, tutti origine di orde di migranti
che bussano con modalità diverse alle nostre frontiere.
E per qualche strano motivo hanno occupato da sole tutta la scena,
oscurando altre pratiche, ugualmente o maggiormente nefaste, che
caratterizzano quegli stessi luoghi – e non solo quelli.
Giova ricordare a questo punto gli studi e le ricerche dell’Unità
Speciale dei Rapporteurs delle Nazioni Unite sulle Pratiche
Tradizionali e sulla Violenza contro le Donne, che annoverano tra le
pratiche che danneggiano il genere femminile nel godimento dei suoi
diritti e nell’insieme del proprio benessere molte consuetudini che non
ci riguardano direttamente e almeno un paio che profondamente ci
appartengono.
In tutti i sistemi tradizionali sociali, ovvero nel mondo dei maschi,
secondo l’autorevole fonte, questi sono i crimini che accadono:
159
 “Morte per dote”, praticata in molti Paesi Asiatici, consiste
nell’uccisione delle donne che non hanno pagato la dote per intero.
5.000 donne sono arse vive ogni anno per questo motivo.
 L’infanticidio femminile, ovvero l’uccisione delle bambine durante
la gravidanza o subito dopo la nascita, in Paesi nei quali il maschio
viene ritenuto preferibile, come la Cina, l’India, il Bangladesh.
 I matrimoni precoci forzati, comuni nel continente africano, che
riguardano bambine di 7-8 anni, sposate d’imperio con uomini
molto più grandi, che immancabilmente abusano di loro, con
conseguenze non di rado estreme per la loro salute ed il loro
equilibrio.
 Il Naka, consuetudine particolarmente diffusa in India, dove le
donne sono costrette a contrarre diversi matrimoni per far ottenere
danaro alla famiglia.
 Il Devadasi, che consiste nell’obbligare una bambina a fare la
serva dentro ad un tempio, essendo stata offerta a un leader
religioso.
 Il Trokosi obbliga le famiglie a consegnare le figlie agli dei nei
templi, dove sono ridotte a schiave sessuali
 Nell’Africa del Sud, il 40% circa delle ragazze minori di 18 anni
sono state vittime di uno stupro consumato o tentato.
 Il numero delle donne e delle ragazze costrette alla prostituzione è
stimato tra 700.000 e 4 milioni ogni anno. Tra 120.000 e 500.000
sono costrette dagli sfruttatori nei bordelli e sulle strade europee.
 L’omicidio d’onore è l’uccisione di una donna da parte dei
familiari perché la sua condotta sessuale, intenzionale o meno – vi
rientrano come motivo gli stupri subiti, che deprivano la famiglia
d’appartenenza del valore della verginità - non viene ritenuta
accettabile. Praticato in molti Paesi, è stato in qualche modo
autorizzato anche in Italia, dove la legge che prevedeva forti
attenuanti per gli assassini che avevano compiuto il crimine per
queste motivazioni è stata formalmente abrogata solo nel 1982.
160
 L’Acidificazione è una pratica comune in paesi Asiatici, dove un
amante respinto, un marito geloso, un uomo che per un qualsiasi
motivo ritiene la propria virilità offesa da un diniego getta acido
corrosivo sul volto e/o sul corpo della donna, la quale rimane
deturpata e handicappata, poiché l’aggressione, oltre a
rappresentare un danno estetico, rappresenta altresì un danno
atroce a funzionalità fondamentali quali la respirazione, la
deglutizione, la masticazione, l’udito e l’eloquio, oltre a poter
provocare problemi gravissimi alla deambulazione e ad altre
attività corporee.
Il fenomeno della violenza contro le donne definisce un problema
ampiamente diffuso, in grado di attraversare tutte le culture, le classi, i
livelli di istruzione e le fasce di età; una grave violazione dei diritti
umani, una realtà non sufficientemente riconosciuta, non
sufficientemente denunciata.
La violenza di genere, inflitta a donne, ragazze e bambine, riflette e nel
contempo rafforza le disparità di genere e compromette la salute, la
dignità, la sicurezza e l’autonomia di coloro che ne sono vittime.
Affrontare il problema della violenza contro le donne significa dare
nome e visibilità ad una realtà impressa nella storia dell’umanità, per
troppo tempo sommersa e relegata alla semplice sfera privata. 62
Gli studi mettono in luce i limitati e spesso poco convinti sforzi dei
Governi per mettere fine a queste violazioni, che hanno tutte, alla loro
base e alla loro origine, l’ineguaglianza di potere tra uomini e donne
sul piano sociale, politico, culturale, economico, che rende le donne
vulnerabili e le forza ad accettare in silenzio le più orrende forme di
violenza.
Ben altra operatività pare assumere l’intervento contro le MGF,
sulle quali molti Stati europei hanno legiferato, e molti si accingono a
farlo.
62
A.Pramstrahler, , “Un luogo di donne contro la violenza: una scelta di parte”;
pag. 23-32, tratto da “Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne, Violenza
alle donne: cos’è cambiato?”, Milano, Angeli, 1994.
161
Nel luglio 2007, la Metropolitan Police di Londra ha offerto una
cifra di £ 20.000 sterline a chiunque fornisse informazioni utili ad
assicurare alla giustizia persone coinvolte in interventi di MGF, sia
che le avessero praticate sia che vi ci fossero sottoposte, o avessero
sottoposte all’intervento le figlie, nel Regno Unito o in altri Paesi.
La campagna è stata lanciata all’inizio delle vacanze estive,
considerato periodo ad alto rischio per le bambine delle comunità di
immigrati da Paesi a prevalenza di MGF. Il numero delle ragazzine a
rischio era stimato in oltre 7.000, e si prevedeva che potessero essere
infibulate sia nei loro Paesi d’origine che nel territorio inglese, dal
momento che, non essendoci la scuola, sarebbero comunque sfuggite
ad ogni controllo.
La legge inglese – nel 2003 il Female Genital Mutilation Act ha
affiancato e rafforzato il Prohibition of Female Circumcision Act del
1985 – proibisce la pratica sia sul territorio nazionale che su quello
d’origine, come tutti i Paesi Europei che hanno legiferato in proposito.
Alcuni mesi dopo, uno studio del Department of Health, forniva
cifre ancora più alte, concentrate nelle aree di London, Birmingham,
Manchester e Leicester. 21.000 ragazze sotto i 15 anni in Inghilterra e
nel Galles: questa sarebbe la cifra delle bambine a rischio. 66.000 le
donne che l’avrebbero già subita.
La “taglia” promessa in luglio dalla Polizia inglese non aveva
avuto seguito.
Nessuno delle comunità africane aveva denunciato.
L’intento investigativo si concentrava dunque sulle scuole, e gli
insegnanti venivano formati a riconoscere gli indicatori per
individuare le bambine che l’avevano subita, registrando, ad esempio,
lunghi periodi di assenza, che potevano significare l’avvenuta
operazione. Un intervento, dunque, punitivo e non preventivo.
Un intervento che, soprattutto, con tiene conto dei motivi per i
quali le madri residenti in Occidente sottopongono le figlie alle MGF.
Illuminante è, in proposito, l’intervento di Berhane Ras-Work,
Executive Director Inter African Committee, nel corso della
162
Conferenza Europea “Joint action of Members State against Harmful
Traditional Practices”, Bruxelles:
Ho chiesto alle madri che vivono in Europa il perché
dell’attaccamento alla pratica. La ragione principale che mi hanno
esposto è il mantenimento dell’identità e delle tradizioni, nella
speranza di tornare nella terra madre un giorno. Infatti alcune di
queste madri appaiono più conservatrici di quelle che vivono in
Africa. Il senso di insicurezza in un paese straniero e il sentimento di
indesiderabilità che percepiscono dalla società che dovrebbe
ospitarle le costringono ad aggrapparsi a ciò che le rappresenta, a
ciò cui appartengono.
La realtà è che l’Occidente si erge con molta veemenza contro le
barbarie che non appartengono alla sua cultura, ma le azioni che
intraprende non sempre appaiono logiche e coerenti.
Il fatto che le MGF siano un crimine così grave, che lede il diritto
alla salute, all’integrità del corpo, al pieno godimento del piacere, e
che rappresentino un segno di culture patriarcali che sottomettono le
donne, non basta a farle entrare nel novero delle violazioni dei diritti
umani.
Ha fatto scalpore ed è stata definita “storica” la sentenza dello Stato
di Washington. Il 13 giugno 1996 il Tribunale amministrativo
d'appello (la più alta autorità giudiziaria americana sull'immigrazione)
ha riconosciuto che la clitoridectomia è una persecuzione e quindi
motivo sufficiente per concedere l'asilo politico. É andata così a buon
fine la storia di Fauzyia Kasinga, 19 anni, che era fuggita dal Togo per
sottrarsi all'infibulazione e da tempo aveva fatto richiesta di rimanere
negli Stati Uniti.
Ma, benché abbia fatto giurisprudenza, la sentenza non ha aperto le
porte ad altre istanze, che, per logica, potrebbero provenire anche da
donne che hanno già subita la MGF. Praticamente nessuna ha avuto la
consapevolezza, le informazioni, la possibilità concreta per accedere
all’istituto giuridico. Questione, questa, che attiene alla condizione
generale degli immigrati, che non percepiscono i loro diritti nello stato
straniero, né che questi diritti siano esigibili.
163
Così, nel 2007, fu altrettanto clamorosa la notizia che Oumou
Toure riuscì a non essere rimpatriata dal Canada nel suo paese natale –
la Guinea – perché riuscì a dimostrare che la sua bambina di 2 anni lì
sarebbe certamente stata sottoposta all’intervento, così come era
accaduto a lei stessa. La sentenza non fu pacifica, e il caso è riportato
dalla rete WeNews come esempio delle difficoltà che le donne che
subiscono violenze incontrano quando chiedono asilo63.
E bisogna naturalmente citare l’Italia, dove nel 2008 la Prima
Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 24906/2008) ha
stabilito che debbono essere espulse e non possono rifugiarsi in Italia
le clandestine che, nel loro paese, sono soggette a una condizione di
“sudditanza” e che vengono sottoposte ad infibulazione.
Nel caso di specie, gli Ermellini hanno precisato che la persecuzione
alla quale la donna potrebbe essere soggetta nel suo paese è nulla altro
che la sottoposizione alla generale condizione di tutte le donne del
paese stesso e cioè una condizione di “sudditanza” che, “certamente
inaccettabile per ogni coscienza civile, è però priva della necessaria
individualità postulata anche dalla Convenzione di Ginevra 28.7.1951
(oltre che dalla CEDU) perchè sia integrato il fumus persecutionis od
anche solo perché sia adottata la misura di protezione temporanea del
divieto di respingimento in relazione al concreto rischio di trattamenti
personali degradanti nel paese di provenienza”64.
Nonostante non si agisca, da parte degli Stati, conseguentemente, è
diffuso un giudizio estremamente manicheo sulle MGF, che mette in
ombra e nega alcuni aspetti positivi che il rito rappresenta. Da questo
plafond ideologico e culturale partono delle campagne educative e di
sensibilizzazione che non convincono nessuno e che anzi irritano
sovente le donne.
64
www.womenews.net, 27 ottobre 2008
164
Ed allora ci si sconcerta quando le donne infibulate non accettano
di porsi sotto i riflettori dell’occidente illuminato nella veste di vittime
tout-court.
Un report sulle MGF in Sudan e Somalia del Norway’s Country of
Origin Information Center (dicembre 2008) sottolinea che
Le donne che ne sono coinvolte non guardano all’infibulazione come
a una mutilazione, e possono reagire negativamente se le si considera
danneggiate.
Si tacciano di provocatorietà o di radicalità certe posizioni che,
ricordando la genesi della pratica e i motivi del suo radicamento,
spingono l’Occidente a non agire da egemone.
Come Tobie Nathan, un etnopsichiatra che insegna all'Università
Paris VIII, dove dirige il Centro Georges Devereux, che spiega il
nesso tra le MGF e la teoria africana riguardante il concepimento e la
nascita degli esseri umani.
In questo continente, si considera che un neonato provenga da un
altro mondo e che sia stato modellato da una divinità in maniera un
po' imperfetta: l'educazione e l'iniziazione servono appunto per
perfezionarlo.
O si considerano soltanto frutto dell’ottundimento dovuto all’età le
dichiarazioni dell'antropologo Claude Lévi- Strauss, quando afferma
che c'è «poesia e bellezza» nelle mutilazioni, che costituiscono un
attentato all'integrità del corpo infantile «solo secondo una morale
occidentale, la stessa che considera il piacere alla stregua di un nuovo
articolo della Dichiarazione dei diritti umani».
Non si puo’ negare, a ben guardare, che l’intervento “connette” la
ragazza con l’identità culturale femminile: in molti gruppi etnici la
similitudine tra la clitoride e il pene fa si che, tradizionalmente,
l’organo femminile per antonomasia – per come noi occidentali lo
vediamo – sia considerato un pericoloso e non voluto segnale di
mascolinità, e la sua escissione è allora un metodo per “fare
chiarezza”, per restituire alla società identità sessuate incontrovertibili
– proponimento assolutamente discutibile in ragione della poliedricità
dei generi e delle identità sessuali che l’Occidente – in una sua piccola
165
parte – conosce e rivendica come soggetto del diritto, ma non in altre
regioni del mondo.
È altrettanto vero che il rito restituisce alle ragazze che vi sono
sottoposte un senso d’orgoglio, un attimo di gloria sotto i riflettori del
consenso e del festeggiamento della comunità: i doni, il plauso, il
riconoscimento, l’importanza della quale le giovanissime si sentono
investite al termine del rito è qualcosa che molte di loro
considereranno per tutto il resto della loro vita come importante e
unico.
È prerequisito indispensabile a trovare marito, in società nelle quali
il matrimonio è l’unica certezza e l’unico traguardo concesso alle
donne, e facendo parte della “dote” è compito delle madri adoperarsi
perché la figlia non ne sia priva – e quando le madri sono
universalmente condannate per agevolare il rito.
Quasi mai viene compreso che la loro cultura d’appartenenza le
giudicherebbe ancor più severamente, se non lo facessero. Sarebbero
considerate
responsabili
dell’abiura
sociale
alla
quale
condannerebbero le figlie. Sarebbero definite, con un termine che
l’Occidente, e l’Italia in particolare, capiscono molto bene, delle madri
inadeguate, delle cattive madri.
Né puo’ stupirci più di tanto un’altra credenza riferita alle MGF,
ovvero che l’intervento serva a proteggere la verginità delle giovani.
Missione assolutamente condivisa fino a non troppi anni fa dai vari
contesti sociali occidentali – da quelli aristocratici a quelli rurali e
proletari, con la sola differenza che in molti dei gruppi etnici che
praticano le MGF la verginità è intesa nel senso di vulva infibulata
piuttosto che di imene intatto.
In un contesto particolarmente attento all’immaginario sessuale
maschile – oggetto al quale le nostre società non lesinano
genuflessioni – si ritiene che la MGF assicuri un maggior piacere
maritale durante l’atto sessuale.
E poichè quelle società – come d’altronde tutte le società in ogni
epoca – dettano in maniera apodittica i canoni della bellezza e della
desiderabilità femminili, si ritiene che la MGF conferisca un certo
qual senso di pulizia corporea e una particolare bellezza: i genitali
166
femminili sono sporchi e brutti - concetto transazionale, anche questo,
retaggio di una storia atavica che tutte ci riguarda – con quanti nomi ci
hanno imposto di chiamare il ciclo mestruale, tanto per fare un
esempio?
Detto tutto questo, non sorprende che le campagne informative e di
sensibilizzazione siano spesso fallimentari, sia in Africa che in
Europa.
Bisogna realizzare che gli interventi, anche quando sono
sinceramente ispirati a valori umanitari, vengono letti dal target di
riferimento come egemonizzanti, estranei, prepotenti, giudicanti.
Cerchiamo allora di analizzare alcune buone pratiche maturate nei
Paesi d’origine, talvolta con l’aiuto iniziale di organismi internazionali
– in particolare l’UNPFA che tuttavia si è dotato di funzionari e
ricercatori di nazionalità africana, ed ha sempre lavorato in stretto
contatto con le comunità, in maniera realmente integrata ed olistica,
nella consapevolezza che una cultura patriarcale negativa può essere
cambiata senza distruggere il valore sociale positivo che la sottende, e
che la pratica stessa rappresenta.
E soprattutto nella certezza che i cambiamenti non possono essere
imposti da fuori.
6.2 Le buone pratiche
E questo avviene, ad esempio, in molti villaggi del Kenya, dove
oggi prevalgono riti di passaggio alternativi, ricchi di suggestive
cerimonie. L’organizzazione di comunità Tsaru Ntomonik promuove
queste nuove modalità per le ragazze Masai, che sono accolte nell’età
adulta con feste memorabili. L’organizzazione ha anche creato delle
“case di fuga” temporanee per le adolescenti che scappano dalle MGF,
ma anche dai matrimoni precoci e forzati. Negli shelter è anche
possibile ottenere counselling, educazione e formazione,
riunificazione con le famiglie – attraverso la sensibilizzazione dei
parenti e la gestione dei conflitti -, e la reintegrazione nelle comunità
d’origine. Tsaru Ntomonik lavora inoltre con le ex-circoncisore per
aiutarle a trovare nuove forme di reddito.
167
Qualcosa di molto simile viene portato avanti, sempre in Kenya, da
Maendeleo Ya Wanawake Organization (MYWO), che si dedica a
forme di comunicazione tese al cambiamento sociale, oltre a usare riti
di passaggio alternativi.
In Uganda esistono corsi di formazione e training specificatamente
dedicati alle donne che precedentemente traevano di che vivere dalla
pratica.
In Sudan, la Ahfad University for Women realizza molti interventi
“community-based” per raccogliere dati certi, oltre a corsi di training
per i volontari e a champagne di advocacy.
Nel West Darfur si tengono workshops nelle scuole secondarie, per
sensibilizzare tanto i ragazzi quanto le ragazze, e alcuni media hanno
svolto interessanti campagne su tutte le pratiche dannose per le donne
– non limitandosi alle MGF.
In Uganda è attivo il Reproductive Education and Community
Health Program (REACH), che, con l’aiuto di paralegali, sostiene i
gruppi di attivisti, che a loro volta coinvolgono la comunità, attraverso
i leaders politici e culturali, i professionisti della salute, gruppi
informali di giovani e di donne.
In Gambia è attiva la Foundation for Research on Women’s Health,
Productivity and Development (BAFROW), un ONG che opera nel
campo della salute riproduttiva con un approccio integrato, teso alla
diffusione di consapevolezza sulle MGF e alla mobilitazione.
Interessante il coinvolgimento delle radio locali, in diverse delle quali
sono realizzate trasmissioni in cui i mariti dibattono sul tema.
L’enfasi sulle conseguenze negative delle MGF, tuttavia, a detta di
UNDP/UNFPA/WHO/World Bank, che gestiscono lo Special
Programme of Research Development and Research Training in
Human Reproduction (HRP), e che aderiscono al Department of
Reproductive Health and Research della World Health Organization,
che ha sede a Ginevra, ha dato luogo ad un forte aumento delle
operazioni praticate da personale medico in ambienti medici. La
medicalizzazione dell’intervento può essere vista da diversi punti di
vista – sicuramente è quasi del tutto scevra dalle complicanze settiche
e dei rischi più gravi, ha tuttavia i medesimi effetti sul piano degli
168
esiti; sicuramente non cambia molto le cose sul piano della
rappresentanza simbolica e della trasmissione dei valori.
I dati forniti sono i seguenti:

94% delle donne in Egitto, 76% in Yemen, 65% in
Mauritania,48% in Costa d’Avorio e 46% in Kenya organizzano
per le figlie i ricoveri ospedalieri.

Il 20 luglio 2009 una conferenza di medici kenioti e di
rappresentanti del Ministero della Salute Pubblica e della sanità ha
chiesto, a Nairobi, che si interrompa la pratica delle MGF
medicalizzate

Margie de Monchy, advisor per la protezione dell’infanzia dell’
Unicef regionale, ha spiegato: “La MGF praticata in ambiente
ospedaliero sta determinando la ri-legittimazione della procedura”.

Secondo la capodivisione del reparto Salute Riproduttiva, la
dottoressa Josephine Kibaru, almeno il 32 per cento delle donne
tra i 15 e i 49 anni sono state sottoposte al rito.
Esistono poi programmi che affrontano il tema delle MGF
all’internodi un’attività di comunità più estesa.
È il caso, ad esempio, dello Hunger Project's Epicenter Strategy,
che implementa la sua attività in Africa attraverso epicentri, ovvero
clusters di villaggi rurali dove le donne e gli uomini sono mobilizzati
per creare e sviluppare autonomamente programmi che incontrino le
loro necessità di base. I vari raggruppamenti di villaggio devono
diventare, entro un massimo di cinque anni, autonomi sia sul piano
economico che sul piano progettuale. Al 2008, le comunità mobilitate
attorno agli epicentri erano 110 epicenter communities in otto paesi
africani. 17 di questi epicentri erano già autonomi, e 28 in procinto di
diventarlo entro non più di due anni.
La strategia degli epicentri è integrata e olistica. Sviluppa e mette
in sinergia programmi sulla salute – che includono la prevenzione
dell’HIV/AIDS - e programmi di educazione, di alfabetizzazione degli
adulti, programmi sulla nutrizione, che presuppone il miglioramento
delle culture e la razionalizzazione e la sicurezza del cibo, la micro
finanza, la gestione e la disinfestazione delle acque…
169
Il programma costruisce momenti di condivisione e di incontro che
coinvolgono l’intera popolazione.
L’intervento tende, complessivamente, a creare motivazione e
assertività laddove esistono dipendenza e rassegnazione, a creare
comunità più vaste che racchiudano i villaggi piccoli, isolati e divisi
da rivalità, e li rendano gruppi solidali che unanimemente scelgono la
loro leadership.
L’impatto previsto riguarda fortemente la condizione delle donne,
che si aspira a far diventare autorevoli quanto gli uomini, anche
valorizzando le loro attività economiche, per svolgere le quali seguono
corsi di formazione ed ottengono microcredito. Non di rado assurgono
a ruoli di capo villaggio.
Condivide la stessa attenzione per la dimensione comunitaria degli
interventi tesi ad eliminare e ridurre le MGF in Etiopia il IntraHealth
International, un approccio che prevede cinque dimensioni
d’intervento, coinvolgendo la capacità di progettazione delle
comunità, sostenute nell’ideare progetti sostenibili in ogni fase,
Navrongo Health Research Center FGM Experiments, programma
sviluppato dal Health Research Center del Ghana, è particolarmente
innovativo, perché consegue l’obiettivo di accelerare l’abbandono
della pratica e nello stesso tempo misura e compara l’impatto di tre
differenti strategie d’intervento, per determinare quale di esse sia più
efficace.
Tostan lavora in Somalia, ed ha grande visibilità perché ha redatto
e diffuso molte dichiarazioni sulla necessità di abbandonare la pratica
delle MGF. Combina i programmi educativi sul tema della democrazia
e dei diritti umani con la certezza che solo l’empowerment della
comunità può dare luogo a cambiamenti proficui e durevoli. I
programmi educativi per bambine e bambini, adolescenti e adulti sono
lo strumento di coinvolgimento delle comunità.
FGM Abandonment Program (FGMAP) lavora in Egitto sul
concetto di “devianza positiva”, un approccio molto interessante che
agisce sui livelli di accettazione/non accettazione, da parte delle
persone e dei gruppi, delle aspettative sociali nei loro confronti. Le
persone sono rinforzate nel legittimo desiderio di percepirsi e
170
realizzarsi indipendentemente dalle convenzioni diffuse, e spinte a
credere che le loro aspirazioni hanno diritto di essere realizzate. Ciò
permette un’autoanalisi ed un lavoro sul sé di grande portata,
Inter-African Committee on Traditional Practices Affecting the
Health of Women and Children (IAC) si sta diffondendo in molti
Paesi africani, stabilendo un forte network, sostenuto da azioni
dedicate di advocacy.
CARE’s FGC Abandonment Project in Somalia lavora sulla
consapevolezza delle comunità e sulla capacity building, ma, a
differenza di altri, coinvolge in maniera più sistematica i governi
locali.
In Mali, l’Organizational Strengthening Women’s Credit, and
Irrigated Agriculture in Macina (ROCAM) Project, implementato da
Care in partenariato con tre ONG locali, mira a ridurre la prevalenza
delle MGF nell’ambito di un programma di sviluppo molto più
ampio65.
Interessanti sono anche le iniziative che includono campagne
strutturate che si avvalgono del potere comunicativo di radio,
televisioni e cinema, sia per disseminare informazioni che per
aumentare la consapevolezza.
La Tanzania Media Women’s Association (TAMWA) usa radio,
televisione, giornali e altri tipi di pubblicazioni a stampa – come ad
esempio i manifesti e i flyers – per difendere i diritti delle donne e
delle bambine, attraverso l’educazione, la mobilizzazione e l’azione di
pressione per il cambiamento culturale, politico e legale nella società.
Nel 2002 TAMWA è stata parte della campagna STOP FGM
(www.stopfgm.org), lanciando un’iniziativa specifica sul tema a
livello nazionale, e suscitando un ampio e proficuo dibattito.
In Mali, Sini Sanuman, in coordinamento con l’organizzazione di
suore americana Healthy Tomorrow, ha affiancato alla campagna sulle
65
www.tamwa.org/mission
171
MGF una vasta produzione musicale ispirata al genere Pop. A partire
dal 2002, sono stati prodotti diversi album e video clips, che hanno
visto come interpreti famosi artiste e artisti del Mali, che cantano degli
effetti negativi dell’intervento, e ne promuovono lo sradicamento. I
testi delle canzoni sono in cinque idiomi locali e in francese. Questa
musica viene trasmessa molto frequentemente dalle radio e dalle
televisioni nazionali e locali di ben dieci paesi africani66.
In Guinea, l’organizzazione Communication for Change e il suo
partner locale, la ONG CPTAFE, affiliata all’ Inter-African
Committee for the Prevention of Harmful Traditional Practices, hanno
dato il via al progetto Video Sabou et Nafa, basato sulla tecnica
cinematografica unita alla drammatizzazione. Uno dei prodotti più
noti è “Halte a L’Excision”, realizzato da uno staff di giovani che
recitano e curano tutte le fasi del video, dalla ripresa al montaggio
all’edizione completa. Il video viene mostrato nelle scuole ed è stato
anche trasmesso dalla TV nazionale67.
E questa lista di interessanti iniziative non è certo esaustiva, né
pretende di esserlo, dal momento che reperire queste notizie ed averne
una qualche idea è estremamente faticoso.
Ma è ugualmente importante conoscere e riconoscere quello che le
ONG fanno, per imparare noi – piuttosto che pretendere sempre di
insegnare - e per renderci conto che l’usanza delle MGF è antica e
radicata, e che la promulgazione di leggi, in Europa e in Africa, non è
l’unico modo per approcciare il problema, né il più proficuo.
È quanto ci dice Wahid Eldeen Abed Elrahim, direttora del
National Council for Child Welfare, una ONG che lavora in Sudan,
intervistata da IRIN68 a proposito di una legge approvata nel
novembre 2008 nello stato del Southern Kordofan.
66
www.stopexcision.net
www.c4c.org
68
IRIN humanitarian news and analysis - UN Office for the Coordination of
Humanitarian Affairs 17 gennaio 2009
67
172
“Ci vorranno anni, o forse decenni perchè essa si tramuti in un
costume condiviso”, dice Wahid, che ha impostato il suo lavoro di
lobbying nel senso dell’educazione agli uomini, cercando di
convincerli a proteggere le loro bambine.
Questo approccio indirizzato al maschile ha fatto sì che il governo
locale, formato quasi esclusivamente di uomini, promulgasse la legge,
costata alle ONG grande fatica.
Ed è la stessa agenzia web IRINA69 a raccontare di una strana e
contraddittoria festa avvenuta a Malicounda Bambara, un villaggio
Senegalese a circa 70 chilometri dalla capital Dakar, il 5 agosto 2007.
Quel giorno, un nugolo di giornalisti e dignitari si erano riuniti per
commemorare il decennale della dichiarazione di abbandono della
pratica da parte della comunità. Una dichiarazione molto importante,
una notizia che nel 1997 aveva fatto il giro del mondo. Una
dichiarazione successivamente adottata in molti altri villaggi in
Senegal, Guinea e Burkina Faso.
Ma mentre le danze, le bande e i discorsi ufficiali impazzavano,
c’era qualcuna disposta a dire ad una reporter attenta – e quella di
IRIN lo era – che la festa era una farsa e che le MGF continuano
tranquillamente nel villaggio.
Nel villaggio, come in moltissimi altri, l’organizzazione Tostan
continua a lavorare, con pazienza e costanza infinite.
Molly Melching, la fondatrice, ritiene fondamentale l’educazione ai
diritti umani, incluso il divieto di modificare il corpo e di controllare
la sessualità delle donne, ed in un contesto di interventi volti contro le
discriminazioni di genere.
Ma sempre “piano piano”, e senza costringere nessuno – come le
donne sanno fare.
69
IRIN (…) 10 Agosto 2007
173
6.3 Le donne
È molto importante, a questo punto, analizzare velocemente la
condizione delle donne nei Paesi storicamente a più larga prevalenza
della pratica, e cercare di capire il peso specifico che la loro presenza
nei corpi decisionali e nella politica assume rispetto alla lotta per i
diritti umani di genere.
Nonostante abbiano conquistato il diritto al voto da non molto
tempo, le donne dei paesi dell’Africa sub-Sahariana hanno acquisito
posizioni di preminenza in molti consessi politici. Ricordiamo la
Deputy President del South Africa, Ms. Phumzile Mlambo-Ngcuka, e
il Primo Ministro del Mozambico, Ms. Luisa Diogo. Donne ai gradi
decisionali più alti esistono in Burundi e in Guinea-Bissau, e
l’elezione, nel 2006, di Ellen Johnson Sirleaf a Presidente della
Liberia ha stabilito una pietra miliare fondamentale.
In Namibia le donne costituiscono oltre il 41% delle elette a livello
municipale, e oltre il 52% dei membri del consiglio nelle Seychelles,
fin dal 1999. Centinaia sono le donne in promettente carriera nel
continente.
In Mozambico, 87 sono state le elette del 2004 sui 250 deputati del
parlamento-ovvero, il 35 %. Nello stesso anno, le donne elette in Sud
Africa sono state 131 su un totale di 400. E oltre il 30% sono le donne
nei parlamenti di Burundi, Namibia, Tanzania. In Rwanda esse
costituiscono il 49% degli eletti: la percentuale più alta del mondo.
Si possono mettere in relazione questi dati con i dati delle
legislazioni e delle azioni contro le MGF?
Probabilmente sì.
Emblematico è il caso dell’Eritrea, che è stato tra gli ultimi paesi a
legiferare sulle MGF – nel marzo 2007 – nonostante l’intervento sia
ampiamente diffuso, e venga praticato sulle bambine prima che
compiano il primo anno d’età.
Ciò che è strano è che su questo tema si era già legiferato negli
anni trionfali della vittoria della lotta d’indipendenza dall’Etiopia,
durata dal 1970 e il 1991, vedendo una grande partecipazione delle
donne nella lotta armata e alle azioni politiche. Le guerrigliere
174
rappresentavano oltre il 30% del Fronte, e condividevano con i
compagni obblighi e riconoscimenti, disintegrando la ripartizione tra
plus maschile e minus femminile che informa di sé la maggior parte
delle culture mondiali.
Un periodo storico per il popolo femminile, che ha sperimentato
un'emancipazione sociale senza precedenti, giungendo a rompere con
alcune tradizioni ancestrali che le relegavano in una condizione di
inferiorità. «Quando il Fronte popolare di liberazione dell'Eritrea
(Fple), dal gennaio 1977 al dicembre 1978 occupò vaste zone
dell'Etiopia - ricorda Efua Dorkenoo, direttrice di Forward
(Foundation for women's health and development) di Londra -, vietò
categoricamente e con successo sia le mutilazioni genitali femminili
che i matrimoni combinati tra le famiglie».70
Terminata la guerra nel 1991, il reinserimento nella società delle
guerrigliere, più sicure di sé e istruite, avrebbe dovuto portare un
clima favorevole alla liberazione e alla promozione di tutte le donne
eritree. Ma ciò non è avvenuto. Come nell’Italia uscita trionfante dal
Nazifascismo, come in tutte le società postbelliche europee in cui
l’uomo-soldato o l’uomo-partigiano debbono riprendere il loro posto
nella società e nel lavoro, le donne sono state ricacciate dall’ambito
pubblico-politico all’ambito del privato-familistico, e costrette a
rivestire il ruolo tradizionale.
Le leggi che erano state approvate sono cadute nel dimenticatoio e
la società è tornata ad esplicare tutto il suo sessismo. MGF e
matrimoni forzati inclusi, e ci sono voluti altri 16 anni perché una
legge che prende in esame i diritti di genere potesse essere approvata.
C’è sempre un nesso tra condizione delle donne e gli ordinamenti
sociali e le legislazioni. In molti diversi contesti ed attraversando le
dimensioni temporali e le coordinate geografiche, la storia delle
oppressioni sulle donne non coincide con la storia delle civiltà, con i
suoi progressi e le sue conquiste.
70
Dal
sito web Nigrizia.it, C'È CHI DICE NO Alessandra Garusi
175
Per le donne tutto è sempre arrivato più tardi, più difficilmente.
Mentre le conquiste sociali rappresentano un “limite” sotto il quale
non è più pensabile ricacciare gli uomini – a meno di involuzioni
repentine, insorgere di regimi totalitari, invasioni di un territorio o
guerre – per le donne, storicamente, le conquiste sono sempre a
rischio di essere perdute. E questo, infatti, è successo molte volte,
nella storia. E alla perdita di potere ed autonomia delle donne ha molte
volte corrisposto un intervento degli Stati volto a rendere apodittica la
loro dipendenza, attraverso leggi brandite come armi contro
l’autonomia che le donne avevano conquistato.
Esemplificativa in questo senso è la lotta lunga e solitaria di
Pakshan Zangana, capo della Commissione Donne nel parlamento del
Kurdistan, regione autonoma dell’Iraq in cui le MGF sono
incredibilmente diffuse - si stima che almeno il 60% delle donne vi
siano state sottoposte, e che in alcune zone la percentuale arrivi al
95%.
È stato estremamente difficile convincere il parlamento del
Kurdistan a legiferare in proposito, benché il Kurdistan, che ha vinto
la sua lotta per l’indipendenza dall’Iraq, sia considerato uno stato
progressista. Una società “emancipata” nella quale, tuttavia le
condizioni delle donne, sottorappresentate nei luoghi – chiave della
politica, sono pessime.
Zangana ne spiega molto bene i motivi di questa situazione:
Quando il Kurdistan lottava per l’indipendenza dall’Iraq, le donne
partecipavano a pieno titolo alla resistenza, ma, dopo la vittoria, si è
fatto di tutto per rimandarci a casa, e per espropriarci dei diritti che
credevamo di aver conquistato. Non sorprende che i crimini contro le
donne siano diffusi, e che vengano minimizzato dalla politica e
dall’opinione pubblica.71
Questo ha reso molto lunga la battaglia di Zangana e delle sue
compagne. È pubblica la dichiarazione del Ministro per i diritti umani
71
Nicholas Birch/Arbil times.com
176
Yousif Mohammad Aziz che, sollecitato perché si adoperasse per la
promulgazione della legge, replicò: “non penso che questa questione
richieda un azione da parte del parlamento. Non è che ogni piccolo
problema della comunità debba avere una norma in proposito …”
Zangana e le altre hanno vinto la loro battaglia nel dicembre 2008.
177
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Greer G., La donna intera, Mondadori 2000
IRIN humanitarian news and analysis - UN Office for the
Coordination of Humanitarian Affairs 17 gennaio 2009
Pasquinelli C. (a cura di), Antropologia delle mutilazioni genitali
femminili. Una ricerca in Italia, edito da AIDOS, Associazione
italiana donne per lo sviluppo, 2000
Pramstrahler, A., “Un luogo di donne contro la violenza: una scelta
di parte”; tratto da Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle
donne, Violenza alle donne: cos’è cambiato?, Milano, Angeli, 1994.
Siti di riferimento
http://www.womenews.net 27 ottobre 2008
http://www.c4c.org
http://Nicholas Birch/Arbil times.com
http://Nigrizia.it, C'È CHI DICE NO Alessandra Garusi
http://www.stopexcision.net
http://www.tamwa.org/mission
178
LE AUTRICI
179
Federico Fanelli, psicologo, psicoterapeuta, specialista in Psicologia
della Salute. Libero professionista, si occupa di formazione,
consulenza e ricerca-intervento sui temi della promozione della salute,
del benessere organizzativo e dei processi di convivenza sociale, in un
ottica interculturale e di genere. Ha pubblicato articoli su Rivista di
Psicologia Clinica e Psicologia della Salute. Conduce gruppi
esperienziali presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della
Salute, Università di Roma “La Sapienza”.
Alessandra E. Forteschi, psicologa del lavoro, è dottoranda presso la
Scuola dottorale di Scienze politiche di Roma Tre, nella sezione
Questione femminile e politiche paritarie. Impegnata dal 1998 nel
terzo settore sociale, ha lavorato come operatrice presso i centri
antiviolenza di Roma e presso sportelli di consulenza rivolti a donne
immigrate; ha collaborato anche con: Delt@news, agenzia stampa di
Genere, edito dalla Cooperativa editoriale Genera; il Dipartimento di
Filosofia di Roma Tre; la Fondazione Risorsa Donna, come formatrice
e ricercatrice. Attualmente collabora con il Coordinamento Italiano
della Lobby Europea delle Donne e con Be Free – Cooperativa
Sociale contro Tratta, Violenze e Discriminazioni, sempre come
formatrice e ricercatrice. Ha pubblicato: Io sono una mela intera. Il
colloquio di aiuto come trattamento per superare la violenza
domestica, B. Felcini & A.E. Forteschi, Aracne ed. 2008; “Recuperare
l’autostima”, B. Felcini, A.E. Forteschi, in Il Genere tra le righe: gli
180
stereotipi nei testi e nei media, L. Moschini (a cura di), Roma Giugno
2008; “Analisi comparativa della normativa relativa ai congedi
parentali in Grecia, Italia, Spagna e Portogallo”, A. Nardone, M.C.
Costantini, A.E. Forteschi, in “TYR- the Youngsters Reply”; diversi
articoli su delt@news.
Oria Gargano, laureata in Scienze Politiche, ha conseguito il Diploma
Superiore di Giornalismo presso la Luiss ed ha frequentato il Master
di Women’s studies presso l’Università di Bologna. Come giornalista
ha lavorato presso Quotidiano Donna, La Repubblica e la Rai, e come
free lance presso numerose testate. E’ stata, in seguito, per dieci anni,
responsabile del centro antiviolenza e del centro per vittime di tratta
della Provincia di Roma. Ha lavorato come formatrice free lance (tra
gli ultimi il seminario finanziato dalla Provincia e della Prefettura di
Latina, “Seminario di studio sulla tratta di esseri umani a scopo di
sfruttamento sessuale e/o lavorativo - Legislazione, modelli di
intervento e inclusione sociale”) e attualmente lavora come formatrice
nell’ambito del progetto “Nessuno tocchi Eva e le sue figlie”, con il
comune di Bracciano, e nell’ambito del progetto “Prendere il volo 2”,
nella Provincia di Roma e Latina. Ha fondato ed è presidente di Be
Free - Cooperativa Sociale contro Tratta, Violenze e Discriminazioni.
Ha pubblicato La sindrome del sultano, Provincia di Roma – ed.
D.D.,, Roma 2003 e numerosi articoli. E’ Esperta per l’Italia presso
l’Osservatorio Europeo sulle Violenze contro le Donne, della Lobby
Europea delle Donne.
Antonella Petricone, dottore di ricerca in Storia delle Scritture
Femminili con una tesi su La memoria dei corpi, i volti della violenza.
Tra vissuti e narrazioni, dialogo tra Etty Hillesum e le donne
sopravvissute alla Shoah. E’ socia fondatrice di Be Free - Cooperativa
Sociale contro Tratta, Violenze e Discriminazioni. Ha lavorato nei
centri antiviolenza di Roma e attualmente lavora come operatrice
sociale in un centro per donne vittime di tratta e presso lo Sportello
Donna dell’A.O. San Camillo, di Roma. Ha collaborato con
Delt@news, agenzia stampa di Genere, edito dalla Cooperativa
editoriale “Genera” di cui è socia fondatrice e presso cui ha conseguito
il tesserino da pubblicista. Ha pubblicato: “Turba/menti di sguardi e di
181
corpi”, in: Figure della complessità. genere e intercultura, a cura di
Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, ed. Cuec, 2004 (collana:
University press letteratura); “Il desiderio che si racconta”, in
Leggendaria, Memorie, n. 60, gennaio, 2007; “Figur/azioni” in
Leggere donna, n. 126, gennaio-febbraio, 2007; numerosi articoli su
delt@news.
Nancy Rizzo, psicologa, esperta in studi di genere e specializzanda in
psicologia della salute. Si occupa di formazione, ricerca-intervento e
consulenza individuale e di gruppo. Ha sviluppato negli anni
un'esperienza per i temi legati alla crescita delle potenzialità di ogni
persona e contesto e allo sviluppo dei processi di emancipazione
sociale in una prospettiva interculturale e di genere.
Federica Ruggiero, dopo essersi laureata in sociologia si è
specializzata in discipline antropologiche e gender studies. Lavora da
diversi anni su temi legati alla violenza di genere, nonché alla
migrazione e alla intercultura, in qualità di ricercatrice, formatrice e
consulente. Conduce dal 2005 attività di ricerca anche in Rwanda, in
merito alla condizione delle donne durante e dopo il genocidio del
1994.
Eleonora Selvi, è giornalista ed esperta di storia della questione
femminile; laureata in Scienze Politiche e specializzata in
Giornalismo, ha conseguito un dottorato di ricerca in Questione
femminile e politiche paritarie. Ha collaborato con il quotidiano Il
Tempo, dove ha curato dal 2003 al 2006 la rubrica "Metà del cielo",
dedicata alla storia delle donne, ed ha fondato e dirige la web
television Donna TV, dedicata alle Pari Opportunità. Ha pubblicato
diversi articoli come giornalista free lance.
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