A cura di Alessandra E. Forteschi e Oria Gargano Corpi Consapevoli: MGF e integrazione nello stato di diritto ISTISSS onlus EDITORE 1 “Stranamente lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l'intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui.” J. Kristeva, Stranieri a noi stessi “Da sempre il corpo è superficie di scrittura, superficie atta a ricevere il testo visibile della legge che la società detta ai suoi membri marchiandoli. Ogni cicatrice è una traccia incancellabile, un ostacolo all'oblio, un segno che fa del corpo una memoria.” U. Galimberti, Il corpo 2 Sommario Introduzione...................................................................................................5 PARTE I 1 Corpi Consapevoli: MGF e integrazione nello stato di diritto, di A. E. Forteschi………………………….……………………………………........9 1.1 Il contesto di riferimento…………………………………………..9 1.2 Obiettivi del progetto……………………………………………....13 1.3 Metodologia……………………………………………………...…14 1.4 Impatto del progetto sul contesto socio-territoriale di riferimento e risultati attesi e/o verificati…………………………......................17 1.5 Le Associazioni e gli Enti coinvolti………………………………19 PARTE II 2 Le MGF nella stampa divulgativa e scientifica: modelli culturali, criticità e linee di sviluppo, di F. Fanelli & A. Rizzo...............................23 2.1 Introduzione .....................................................................................24 2.2 Metodologia ......................................................................................25 2.2.1 La scelta delle fonti scientifiche e la raccolta degli articoli .......25 2.2.2 La scelta dei quotidiani e degli articoli ......................................27 2.2.3 L’analisi emozionale del testo………………………….……28 2.3 Repertori Culturali ..........................................................................30 2.3.1 Repertorio Culturale 3 ...............................................................32 2.3.2 Repertorio Culturale 1………………………………………....37 2.3.3 Repertorio Culturale 2………………………………….……...44 2.4 Lo Spazio Culturale …………………………………………….....48 2.5 Riflessioni conclusive …………………………………………...…53 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………………..…….….59 3 PARTE III 3 Raccontarsi attraverso l'Altra: vissuti e narrazioni per dire l'indicibile, di A. Petricone……….……………………………………..…62 4 Le donne occidentali ci giudicano?, di A. Petricone, E. Selvi …………71 4.1 Mariam (Somalia)……………………………….…………………71 4.2 Fairus (Somalia)……………………………………...……………74 4.3 Faduma (Somalia)…………………………………………………76 4.4 Thema (Burkina Faso)……………………………………..……...77 4.5 Rabìa (Somalia)…………………..……………………………..….82 4.6 Scolastica (Nigeriana)……………………………………………....84 4.7 “Parole in libertà …”……………...……………………………….87 4.7.1 Incontro collettivo: Rabia, Marian, Fairus, Faduma e le altre…87 PARTE IV 5 MGF, ovvero un sentiero di decostruzione epistemologica, di F. Ruggiero…………………………………………………………………………….92 5.1 Note sulla scelta metodologica…………………………………...94 5.2 Introduzione……………………………………….……..……......99 5.3 Classificazioni del fenomeno……………………………………100 5.4 Storia di pratiche di modificazione genitale…………….…….103 5.5 Le MGF oggi………………………………………………….….105 5.6 La legge…………………………………………………………...109 5.7 MGF di casa nostra e le contraddizioni del caso…….………..112 5.8 Considerazioni…………………………………………………....149 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………………………..153 PARTE V 6 MGF: l'Occidente, le Buone Pratiche, le Donne, di Oria Gargano…156 6.1 L'Occidente………………………………………………..…...…159 6.2 Le buone pratiche…………………………...……………………167 6.3 Le donne………………………………...…………………...……174 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI………………………...……………..178 LE AUTRICI…………………………………………..…………………..179 4 Introduzione Corpi Consapevili: MGF e integrazione nello stato di diritto è stato un progetto che ha risposto al bando promosso dal Dipartimento delle Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei ministri, in virtù dell’art. 2 della Legge 7 del 9 gennaio 2006 "Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile". Abbiamo voluto inserire tale progetto in una cornice teorica ed esistenziale che vede coinvolta la nostra società di fronte ad un contesto di grande complessità, come per esempio la lotta all’esclusione sociale, l’inclusione degli immigrati e delle immigrate, con particolare attenzione al tema della parità uomo-donna, sia nelle culture di provenienza che negli scambi con le popolazioni native, da cui l’imprescindibile interesse per il tema della dignità personale (spesso offesa) e dei diritti umani. Le azioni, che hanno prodotto il presente volume e il documentario, hanno mirato al superamento degli schematismi e degli stereotipi che nascondono le situazioni autentiche e rappresentano le gabbie dell’incomprensione, manifestando come il nostro concetto di intercultura sia ancora molto insufficiente. Non solo, ma non si può tacere che tali stereotipi sono maggiormente presenti in relazione alle le donne, mai rappresentate/percepite nell'interezza della propria soggettività, ma continuamente relegate a ruoli stereotipati e paradigmatici dell'inferiorità. Da qui, la necessità di cogliere dall’interno queste realtà, rendendole protagoniste, per attivare un processo virtuoso di superamento delle varie forme di etnocentrismo, sia quello più forte che ci fa definire lo straniero “extracomunitario”, sia quello più blando o “nobile” che parla di noi e loro, come suona il titolo di un libro scritto a quattro mani dal filosofo statunitense Richard Rorty e dalla filosofa indiana Anita Baslev. Superamento necessario sia per evitare quello che giustamente è stato definito uno scontro di inciviltà, che per dare voce all’altro in prima persona e insieme cambiare noi oltre che inserire loro, quindi 5 abbandonare, come la filosofia del nostro tempo va facendo, l’idea dell’io monade, per far emergere l’io nomade, cioè il meticciato che è in ognuno di noi e ne rappresenta la ricchezza, così come gli/i immigrati/migranti presenti nel nostro paese (di cui ci parlano le statistiche, talvolta purtroppo la cronaca) costituiscono per l’Occidente una preziosa opportunità, una importante occasione di crescita reciproca. Si deve convenire che il cammino di una inclusione sociale non è facile, né irreversibile, le conquiste già raggiunte possono essere messe in discussione, e annullate, passi avanti compiuti di colpo si arrestano e si torna indietro, il rischio della chiusura e dell’incomprensione è sempre in agguato. A tale chiusura si deve rispondere con la creazione di ponti che siano luoghi di dialogo, invece di muri, e quindi riaffermare il valore della giustizia e della pace come aspirazione degli uomini e delle donne. In questo senso la mediazione culturale come qui è proposta è luogo di frontiera, che unisce esperienze, saperi, conoscenze e competenze diverse. Il nostro proposito è quello di declinare positivamente il limite, sottolineare il bene della diversità, per arrivare a condividere i valori e valorizzare le differenze. Il progetto, dunque, si connota per avere una peculiare impostazione culturale. Considera infatti il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili un crimine contro i Diritti Umani delle donne, e, contemporaneamente, un segno indelebile sul corpo femminile dalla cultura patriarcale. Un evento iniziatico, un'usanza accettata da molte donne per il riconoscimento nel gruppo di riferimento, e quale garanzia di appartenenza sociale in quanto genere femminile. In questo senso, come recita l'incipit del progetto presentato al Dipartimento per le Pari Opportunità, il tema delle MGF non è inteso come paradigma assoluto dell’inferiorità delle donne africane, ma come una delle declinazioni delle forme del 6 modellamento culturale dei corpi delle donne. Da qui deriva l’intento che informa di sé le diverse fasi del progetto, teso a sottolineare la non alterità tra donne africane, donne immigrate, donne italiane ed europee. L'attuazione delle attività previste, e l'incontro con molte donne, ci ha confortato sull'efficacia ed il valore metodologico di questo approccio. Un intento semplicemente descrittivo e demonizzante, infatti, può portare ad una sorta di “scontro tra civiltà”, cristallizzando in gruppi antagonisti ed incomunicabili le donne che provengono dalla cultura occidentale e quelle che hanno subìto la tradizione che mutila i loro corpi. Ciò conduce ad un'incomunicabilità, quando non ad una vera e propria ostilità, e non facilita certo l'empatia e la possibilità di costruire insieme riflessioni e percorsi, che sono alla base del progetto. Considerare invece l'integrità e la dignità del corpo, alla base della propria soggettività di donna, offre la possibilità di esplorare scenari insoliti e non convenzionali, e di arrivare a stabilire le modalità più adeguate per una campagna comunicativa corretta ed efficace sulla tematica MGF. Si tratta insomma di trovare “Le parole per dirlo”, mutuando il titolo di un famoso libro di Marie Cardinal1. Ma queste “parole” non sono imposte, non passano per una presunzione di egemonia di una Cultura sull'altra, ma attraversano un delicato e spesso complesso e faticoso processo di autoanalisi e di riflessione che vede accomunate donne di diverse origini. Sono parole cercate, con impegno e con fatica, dentro di noi. Oria Gargano Alessandra E. Forteschi 1 M. Cardinal, Le parole per dirlo, Ed.Bompiani, 2001. 7 PARTE I 8 1 Corpi Consapevoli: MGF e integrazione nello stato di diritto di Alessandra E. Forteschi O Prometeo, non sai che le parole son medicina all'animo che soffre. Eschilo, Prometeo incatenato Gli Enti e le ONG coinvolte nel progetto Corpi Consapevoli; MGF e integrazione nello stato di diritto si connotano per condividere, pur declinandola in diversi contesti, una forte dimensione di genere. Di conseguenza, tutte le azioni realizzate si sono ispirate alla riflessione e al dibattito da tempo in atto in seno al movimento delle donne sulla dimensione transnazionale e transculturale dell'oppressione delle donne, e sull’evidenza di efficacia dei dettami del “mainstreaming” nel senso enunciato nella Piattaforma di Pechino del 1995 e successivamente ribadito. Abbiamo posto al centro del progetto un'analisi delle soggettività femminili, che, partendo dal lavoro di riflessione sulla corporeità delle donne multilate/modificate, lungi dal marcare i confini di un’alterità, ci rendano comprensibili e decodificabili gli inquietanti segni di comunanza tra le donne, tra quei corpi modificati ed i nostri corpi “esposti” (tuttora, e nonostante la nostra consapevolezza) ad essere corpi-oggetto. Nella vita privata così come nell’immaginario collettivo comune nel quale indifferentemente tutte siamo immerse. 1.1 Il contesto di riferimento Le MGF in Italia sono un fenomeno sommerso, del quale non si conoscono le reali dimensioni, ma dal quale non si può escludere il coinvolgimento di medici e sanitari italiani. Da un'indagine condotta 9 nel 1993 dal Dipartimento di Psicologia Generale dell'Università di Padova, su un campione di 318 ostetrici/ginecologi, dislocati su varie Regioni, 147 hanno ammesso di aver trattato donne o bambine con MGF, mentre 2 avevano ricevuto richieste di infibulazione. e le avevano effettuate. Risulta inoltre che molto alto è il numero delle levatrici fatte arrivare dai Paesi d'origine con il presumibile scopo di praticare le MGF. Da altre fonti, alto risulta il disagio delle donne provenienti dai Paesi in oggetto nella circostanza di una visita ginecologica (Come si deve sentire un'immigrata, stesa sul lettino, con le gambe divaricate, quando il ginecologo o l'ostetrico interrompe senza una parola la visita, va nella stanza accanto e chiama i colleghi a vedere la 'stranezza esotica'?2). Il presumibile disagio esistenziale è senza dubbio esacerbato dall'atteggiamento culturale prevalente degli italiani: sovente ignorante, ostile, presupponente, come ha dichiarato Marica Livio, psicologa del N.A.G.A., ambulatorio d'eccellenza per l'assistenza degli immigrati a Milano: “Nessuno sa niente di niente. Le maestre degli asili e delle elementari certo non pensano che una bambina che si attarda ai servizi è perché magari ci mette un'ora ad urinare (l'urina esce goccia a goccia, per colpa dell'infibulazione). E gli ostetrici/ginecologi non immaginano la fragilità psicologica delle donne operate”. Parlando di “contesto”, insomma, non ci riferiamo unicamente alla realtà, alla fenomenologia, alla stima quantitativa delle donne e delle bambine sottoposte a MGF in questo Paese, ma anche al livello della risposta sociale e istituzionale. Come è stato evidente nell'episodio dell'uccisione della giovane pakistana Hina da parte del padre, che non ne accettava l'“europeizzazione”, molti italiani si scagliano con veemenza contro la cultura “altra”, omettendo la riflessione sulla cultura “propria”. Dimentichi degli oltre 100 omicidi di donne italiane da parte del partner che avvengono ogni anno in Italia, per esempio. 2 www.nigrizia.it 10 O della reificazione, oggettivazione, controllo sociale del corpo e della sessualità delle ragazze italiane. Rimanendo nell’ambito delle MGF, dai dati riportati nel Changing A Harmful Social Convention: Female Genital Mutilation/Cutting, UNICEF, 2005, emerge che la maggior parte delle bambine e delle ragazze a rischio di essere sottoposte a MGF vivono in 28 Paesi nell'Africa e nel Medio oriente. In Africa, questi Paesi formano una sorta di ponte dal Senegal alla Somalia. Alcune comunità della costa yemenita del Mar Rosso sono anche conosciute per praticare questa tradizione, mentre limitata ne è l'incidenza in Giordania, Oman,Territori Occupati (Gaza), ed in alcune comunità curde dell'Iraq. Anche alcune popolazioni di India, Indonesia, e Malesia ne sono coinvolte. La Guinea pratica le MGF sulla quasi totalità di bambine e adolescenti. In altri Paesi, sempre secondo il rapporto UNICEF 2005, non esistono statistiche certe del fenomeno, che tuttavia sembra essere assai diffuso. Questi Paesi sono; Cameroon, Repubblica Democratica del Congo, Gibuti, Gambia, Guinea Bissau, Liberia, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Togo e Uganda. Nel Nord Est Africano, Egitto, Eritrea, Etiopia e Sudan, l'incidenza del MGF è stimata tra l'80 ed il 97%, mentre nell'Est Africa (Kenia e Tanzania) è decisamente più bassa, collocandosi tra il 18 e il 37%. In Nigeria, la statistica d'incidenza su base nazionale è del 19%, con una sostanziale differenza tra le regioni del Sud, che raggiungono anche il 60%, e le regioni del Nord, dove l'incidenza si colloca tra lo 0 ed il 2 %. In Italia la popolazione immigrata legalmente residente è così definita: 5,4% Nord Africa; resto dell'Africa 10,1%; Asia occidentale e centro meridionale 17,7%; Asia Orientale 18,2%; India 20,7%; Egitto 15% (dati aggiornati al 2004, Primo Rapporto Regionale sull'immigrazione del Lazio in “Sinergie-rapporti di ricerca”, n. 25, dicembre 2006). Rimangono fuori da questi dati molte migliaia di immigrati che non hanno potuto regolarizzare la propria posizione sul territorio italiano. 11 Da questo dato discende un'ulteriore considerazione: quante sono, tra costoro, le donne, senza regolare permesso di soggiorno, talvolta costrette in situazioni di sottomisssione nell'ambito della famiglia, impossibilitate a chiedere aiuto, rivolgendosi ai Centri specializzati, alle strutture sanitarie, alle associazioni di settore? Country Survey type and date National prevalence FGM/C % Benin DHS 2001 17 Burkina Faso DHS 2003 77 Central African Republic MICS 2000 36 Chad (provisional) DHS 2004 45 DHS 1998-9 45 Egypt * DHS 2003 97 Eritrea DHS 2002 89 Ethiopia DHS 2000 80 Ghana DHS 2003 5 Guinea DHS 1999 99 Kenya DHS 2003 32 Mali DHS 2001 92 DHS 2000-1 71 Niger DHS 1998 5 Nigeria DHS 2003 19 Sudan* + MICS 2000 90 Tanzania DHS 1996 18 Yemen* DHS 1997 23 Côte d’Ivoire Mauritania Tab. 1 FGM/C prevalence among women aged 15 to 49 by country (UNICEF) 12 1.2 Obiettivi del progetto Gli interventi previsti sono stati indirizzati alla realizzazione di analisi, informazione, sensibilizzazione e produzione di strumenti, nell’ottica della “diffusione di conoscenze e dell’implementazione di strumenti finalizzati alla tutela dei diritti umani delle donne e delle bambine”. Questo può essere reso possibile attraverso la realizzazione di tre condizioni: la creazione di un ambiente improntato alla valorizzazione dei diritti delle donne e delle bambine; l’aumento di una coscienza e di una consapevolezza del fenomeno da parte di donne e uomini; la creazione di un gruppo di lavoro che prevede “la partecipazione delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni no profit, delle strutture sanitarie, in particolare dei centri riconosciuti di eccellenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle comunità di immigrati provenienti dai paesi dove sono praticate le MGF” [art. 3 lett. b) L. 9 gennaio 2006 n. 7]. Negli obiettivi specifici, il progetto ha: a) realizzato una ricerca che ha indagato le rappresentazioni riguardanti le MGF ed ha rilevato i modelli culturali prevalenti sulle MGF che organizzano la relazione di convivenza, al fine di costruire degli indicatori qualitativi che orientino l’azione delle campagne informative e di sensibilizzazione; b) realizzato un opuscolo informativo sulla legislazione italiana ed internazionale in materia di MGF; c) realizzato un documentario e un libro, che vogliono portare alla luce una dimensione di trasversalità delle problematiche di genere, in cui le donne si raccontino e raccontino le proprie difficoltà e le strategie messe in atto per superare le difficoltà cui vanno incontro. Strategie sempre più spesso creative, che esprimono la forza e la voglia di cambiamento che caratterizza le donne in tutti i paesi, senza piaggerie e vittimismo. Come sottolinea anche Fatima 13 Mernissi, se da una parte esistono il velo, il burqua, le MGF, dall’altra esiste l’ossessione della taglia 42, della perfezione del corpo, dell’eterna giovinezza. Questioni che rispecchiano società maschili in cui le donne sono solo appendici; questioni spinose, di cui le donne oggi prendono sempre più consapevolezza, che vogliono affrontare e ridiscutere insieme. Il progetto, in quest’ottica di trasversalità, ha cercato anche di indagare quali siano le percezioni delle donne (italiane e straniere) riguardo il proprio corpo; indagine che in questo progetto si è presentata in fase embrionale, poiché essenzialmente rivolta all’orientamento dell’informazione, ma che potrà essere resa disponibile per ulteriori elaborazioni ed eventuali progettualità. 1.3 Metodologia Siamo partite dalla premessa che le culture (per noi sono dinamiche e dimensioni simbolico-emozionali) organizzino i legami, le relazioni, i rapporti, i processi di convivenza. Per intervenire sui processi di convivenza, sulle relazioni – nell’ottica di promuoverne lo sviluppo, di migliorare la qualità della comunicazione interculturale – è utile conoscere le culture che li fondano, li organizzano, in altre parole l’implicito, l’ovvio e lo scontato che li caratterizzano. L’obiettivo della ricerca psicosociale pertanto è stato quello di rilevare i modelli culturali prevalenti sulle MGF che organizzano la relazione di convivenza, al fine di costruire degli indicatori qualitativi che orientino l’azione. La rilevazione, la misurazione e l’analisi delle rappresentazioni emozionali sulla stampa nazionale possono dunque costituirsi quali indicatori della competenza a trattare con l’estraneo. La metodologia utilizzata, per quanto riguarda la ricerca, è l’Analisi emozionale del testo ( AET): uno strumento psicologico di analisi di testi e discorsi (colloqui, interviste, discussioni, articoli) che permette di rilevare (tramite indicatori qualitativi) le dinamiche e le dimensioni emozionali - simboliche (culture o modelli culturali) che organizzano le relazioni (personale socio/sanitario/migranti 14 appartenenti alle nazionalità a rischio MGF) ed i processi di convivenza (rapporto autoctoni - stranieri). Da un punto di vista tecnico, questa metodologia si basa sulla clusterizzazione (individuazione di raggruppamenti) delle “parole dense” – parole ad alta capacità di comunicazione emozionale presenti nelle frasi in cui si articola il corpus stesso. La clusterizzazione delle parole dense è effettuata tramite il supporto di un programma informatico che è in grado di individuare le cooccorrenze lessicali per “frammenti” di testo. Con AET quindi il corpus testuale viene de-strutturato in unità di testo elementare in funzione della ricorsività delle parole dense entro le unità stesse. Si ipotizza che i diversi raggruppanti di parole co-occorrenti rappresentino le diverse dimensioni culturali in cui si articola la rappresentazione dell’oggetto in esame. Il passaggio successivo a questa operazione consiste nel costruire delle ipotesi, attraverso un lavoro interpretativo sui raggruppamenti di parole dense, sulle rappresentazioni emerse entro quel determinato contesto, allo scopo di individuare delle piste percorribili per orientare delle strategie di intervento. Per la realizzazione dell’opuscolo contenente la legislazione italiana e internazionale, sono stati utilizzati metodi di raccolta, comparazione, analisi critica e semplificazione linguistica, volta a rendere facilmente accessibili i contenuti, soprattutto in considerazione delle successive traduzioni. Infine, per la realizzazione dei prodotti artistici e audiovisivi la metodologia impiegata si è sviluppa su due fronti. Da una parte l'uso delle tecnologie necessarie alla realizzazione di un documentario e alla sua diffusione in rete. Dall'altra un intenso lavoro di confronto, raccolta di storie di vita, di scrittura ed elaborazione delle dinamiche, nonché di riflessioni più generali sul modellamento culturale del corpo delle donne, in Occidente come in Oriente. Metodologia, dunque, che unisce alla 15 tecnica la creatività e la suggestione, per dar vita ad un prodotto utile e piacevole, frutto di un grande lavoro di complementarietà e sinergia. L’uso delle interviste narrative nella realizzazione del documentario e di parte della ricerca oggetto del presente libro è stato il punto cardine, intorno al quale si è sviluppato tutto l’impianto del progetto. Per meglio comprendere che cosa intendiamo per intervista narrativa, come sottolinea Robert Atkinson, è bene definire in che cosa consiste il materiale che tale intervista consente di raccogliere: - la story, ossia il racconto in prima persona in cui l’individuo presenta un’esperienza vissuta, in riferimento ad uno specifico tema definito dal ricercatore; - la life story, in cui l’individuo presenta l’esperienza che ha vissuto nel corso di tutto l’arco della propria esistenza; - la history, ovvero la cronaca, il racconto fatto da una terza persona sull’esperienza di un singolo individuo. Il materiale riportato sia nel libro che nel documentario è la story, in cui le donne intervistate hanno offerto la propria esperienza e il proprio vissuto sul tema delle Mutilazioni/modificazioni Genitali Femminili. Ma perché un prodotto basato sulle storie di vita? Ce lo spiega il racconto riportato da Brady nel 1990 in Adult Education Quarterely: C’era una volta un villaggio isolato, in cui viveva un rabbi molto saggio: il più saggio tra tutti gli abitanti del villaggio. Per anni era stato la guida del suo popolo, ed era intervenuto per salvare il villaggio nei momenti difficili. Quando giungeva un pericolo (un nemico, una carestia, un’epidemia) il rabbi si ritirava in un luogo segreto nella foresta che circondava il villaggio. Giunto in quel luogo accendeva un fuoco e recitava una preghiera. Questo bastava a far passare il pericolo. Il giorno in cui il rabbi morì uno dei suoi figli, anch’egli un rabbi, prese il suo posto. Quando giunse un pericolo si recò nella foresta e accese un fuoco, ma siccome non conosceva la preghiera recitata da 16 suo padre fece ritorno al villaggio. Ciò fu sufficiente: il pericolo passò e il villaggio fu salvo. Arrivò un giorno in cui anche il figlio del primo rabbi morì, e suo figlio divenne rabbi al suo posto. Quando giungeva un pericolo si recava in un luogo segreto della foresta. Qui non accendeva un fuoco e neanche diceva una preghiera; ma il pericolo passava ugualmente. Passò altro tempo e il villaggio ebbe un quarto rabbi., il figlio del figlio del figlio del primo rabbi. Quando il villaggio correva un pericolo non accendeva un fuoco e non diceva una preghiera, e nemmeno andava nella foresta. Semplicemente rimaneva a casa, chiamava intorno a sé tutti gli abitanti del villaggio e raccontava loro la storia del suo bisnonno, di suo nonno e di suo padre. E il pericolo passava. Il potere delle storie sta nel fatto che esse intervengono nel rapporto tra le singole persone e la realtà circostante consentendo loro di conoscere, di farsi conoscere e di produrre effetti. Ed è soprattutto in riferimento alla capacità delle storie di generare conoscenza che si è centrato il nostro interesse. 1.4 Impatto del progetto sul contesto socio-territoriale di riferimento e risultati attesi e/o verificati Poste di fronte alla complessità del fenomeno delle MGF, ed invitate a leggerlo da punti di vista insoliti, le donne occidentali hanno forti reazioni, ed il dibattito si problematicizza sempre, anche arrivando a momenti di autoanalisi e di presa di coscienza. Contemporaneamente, le donne provenienti dai Paesi in cui le pratiche sono diffuse apprezzano molto l'approccio non “coloniale” e non basato sull'alterità che informa di sé tutto il progetto. Nel passaggio dall’ipotesi progettuale all’attuazione abbiamo potuto constatare la complessità dei percorsi per attuare gli obiettivi del progetto, riscontrabili per esempio nella difficoltà con cui si raccolgono le testimonianze, negli elementi che sia pure in forma embrionale si evidenziano dalla letteratura, nella costruzione della condivisione degli obiettivi tra i partner. Ciò consente di poter affermare che il percorso progettato è realizzabile attraverso un lavoro di costruzione capillare di rete e reticoli. 17 Lo svolgersi delle azioni ha reso evidente l'efficacia del particolare approccio che è stato alla base del progetto. Tutte le occasioni di confronto, più o meno strutturate, hanno favorito dibattiti molto accesi, attinenti alla percezione di sé, del proprio corpo, stabilendo inedite similitudini tra i diversi segni con i quali le diverse culture, tutte maschili, “segnano” i corpi delle donne. Le criticità attengono invece alla sensibilità del tema in sé. Come peraltro prevedibile, non è facile per le donne che hanno subìto modificazioni genitali raccontare il proprio vissuto, e in alcuni casi la richiesta di parlare dell’argomento ha ricevuto un diniego. Il successo delle interviste è dipeso dalla delicatezza, sensibilità ed empatia delle intervistatrici. Come indicato precedentemente, il progetto, vedendo coinvolte dinamiche socio-culturali sedimentate nel corso dei secoli, si pone come l’inizio di un percorso a lungo termine. Ha inteso, dunque, muoversi nell’ottica della sensibilizzazione e dell’informazione, per ampliare la conoscenza del fenomeno e fornire strumenti per allargare la consapevolezza del fenomeno nelle culture coinvolte. Altresì, ha inteso rendere note le iniziative messe in atto per combattere le MGF, che non riguardano solo l’inasprimento delle pene o l’introduzione di sanzioni penali nei paesi dove queste sono praticate, ma anche l’adozione di azioni alternative, che propongono la sostituzione delle MGF con riti che non recano alcun danno a donne e bambine, in paticolare nei Paesi in cui queste pratiche sono portate avanti. Coerentemente agli obiettivi, agli ambiti di intervento individuati e quanto stabilito dal bando, abbiamo dunque mirato a: • analizzare le culture veicolate dalla stampa sulle MGF e delle rappresentazioni che organizzano il discorso sulle MGF nella produzione giornalistica del contesto italiano; • mappare i rischi e la dimensione del fenomeno. • produrre e implementare strumenti finalizzati alla tutela dei diritti umani delle donne e delle bambine 18 • diffondere la cultura di genere e incrementare la sensibilità sulle tematiche delle MGF, la consapevolezza e la conoscenza del fenomeno, sia nelle comunità di immigrati presenti sul territorio italiano, che presso la popolazione italiana. 1.5 Le Associazioni e gli Enti coinvolti Il progetto si è inserito in un’ampia rete di parternariato, che ha coinvolto associazioni femminili, associazioni culturali e di settore, enti territoriali e nazionali, creando una sinergia tra i vari segmenti da essi rappresentati e una collaborazione spendibile in azioni future. Nello specifico, il progetto vede: Istituto per gli Studi sui Servizi Sociali (ISTISSS) – capofila: porta vanti da anni attività di documentazione e ricerca nel campo dei servizi sociali all’immigrazione, sul quale tema possiede una delle più grandi biblioteche esistenti in Italia ed edita una rivista trimestrale sulle tematiche più innovative nel campo dei servizi sociali. Roma Tre – Dipartimento di Filosofia. Attivo fin dal 2000 nell'organizzazione di attività di ricerca e di percorsi di studio post-lauream, corsi di formazione e di aggiornamento nelle tematiche di genere, di incontri, convegni, iniziative che vedono la partecipazione di donne attive nelle politiche di genere, provenienti da Paesi extraeuropei. Be Free: cooperativa sociale contro tratta, violenze, discriminazioni, svolge una grande mole di lavoro frontale e di sostegno a donne immigrate in difficoltà o vittime di violenze, nonché opera di ricerca su queste tematiche. Attualmente: è partner della Provincia di Roma in “Prendere il volo 2” e della Regione Lazio, nel progetto “CIVITAS3” (svolgendo attività di sportello presso il CIE di Ponte Galeria per le persone ivi trattenute perché non in regola con le vigenti normative sull’Immigrazione); porta avanti il progetto “Nessuno tocchi Eva e le sue figlie”, con il comune di Bracciano; gestisce lo Sportello Donna sito nel Pronto Soccorso dell’A.O. San Camillo. Ha inoltre realizzato il ciclo di seminari “Spirali di Violenze”, con il 19 Dipartimento di Filosofia di Roma tre. è annoverata tra le più rilevanti esperienze italiani nella lotta alla violenza contro le donne e alla tratta di esseri umani nel manuale “Speak Truth To Power” (“Coraggio Senza Confini”), pubblicazione a cura della Robert Kennedy Foundation Europe, diffuso, in protocollo con Il Ministero dell’ Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nelle scuole medie superiori nell’anno scolastico 2008-2009, per favorire la conoscenza e la comprensione delle tematiche legate ai Diritti Umani; AssoLei – Sportello donna: svolge attività di ricerca, formazione e informazione; offre ascolto e consulenza giuridica alle lavoratrici e alle donne in difficoltà, italiane e immigrate, che ne fanno richiesta, nei casi di discriminazione sul lavoro, molestie sessuali e mobbing. Fin dagli inizi si caratterizza: per le attività di ascolto, consulenza, sostegno giuridico alle lavoratrici e professioniste, dipendenti o autonome; per le attività di prevenzione, informazione, formazione rivolte ai datori di lavoro, agli amministratori, alle aziende (sia pubbliche che private), alla scuola e all' università; per le attività di ricerca e documentazione. Tivvù Donna puntonet - prima web tv indipendente, gestita da un gruppo di giovani donne, interamente dedicata alle tematiche di genere. Coordinamento Italiano Lobby Europea delle Donne: ha sviluppato una fortissima esperienza fornendo gli indirizzi delle politiche di genere e della legislazione a livello europeo; da lungo tempo si occupa delle problematiche delle donne migranti, tanto da annoverare al proprio interno una piattaforma di associazioni di donne provenienti da diverse geografie. Integra, associazione di mediatori italiani e immigrati, che lavora presso le strutture sanitarie di Modena. Delt@iltuogeneredinformazione, agenzia stampa specializzata nell'informazione in ottica di genere. Al progetto hanno aderito inoltre: Mama Africa; Ats – progetto Prendere il Volo per vittime di tratta; Bova Comunità di Accoglienza ONLUS; Associazione di donne africane Tabanka; MEDEA. 20 La clinica ginecologia dell’Università di Chieti, il Collegio provinciale delle Ostetriche di Roma, la sezione dell’AVIS di Lucera (FG), ci hanno garantito gli elementi per lo studio della tematica in oggetto, attraverso la dimensione del ricorso delle donne immigrate alle strutture sanitarie. Consulente per la ricerca è stata la dott.sa Laura Moschini: dottore di ricerca in Dottrine politiche e questione femminile, si occupa di studi e politiche di genere nel campo dell’istruzione, della formazione e delle pari opportunità. Attualmente collabora con il Dipartimento di Filosofia di Roma tre. 21 PARTE II 22 2 Le MGF nella stampa divulgativa e scientifica: modelli culturali, criticità e linee di sviluppo di F.Fanelli, A. Rizzo “Oggi le MGF sono praticate in tutta l’Europa Occidentale, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda… Io ho chiesto alle madri perché lo fanno. La ragione generale è il mantenimento dell’identità e della tradizione, nella speranza di tornare in patria un giorno. Infatti alcune madri appaiono più conservative di quelle che sono rimaste in Africa. Il senso di insicurezza in un paese straniero e la percezione di un forte rifiuto da parte della società ospitante sono elementi negativi per gli Africani che vivono fuori dal loro Paese, che li spingono a rispettare le loro tradizioni e da mantenere fortemente la loro identità.” Berhane Ras-Work, Executive Director di Inter African Committee nel corso della Conferenza Europea “Joint action of Members State against Harmful Traditional Practices”, Bruxelles Prima di illustrare il percorso di ricerca e i suoi esiti, riteniamo utile esplicitare la premessa culturale che ha orientato il nostro lavoro, premessa che non legittima la pratica delle MGF in nome di un relativismo culturale, ma neanche giudica a priori l’Altro in nome di una presunta superiorità. La posizione che assumiamo, di contro, riconosce nel dialogo interculturale “la possibilità di comprendere anche ciò che non si può accettare”, come mette in evidenza Clifford Geertz (1994). Intendendo con ciò non il compromesso fra punti di vista differenti che devono raggiungere necessariamente un accordo, ma come spazio in cui può avvenire la comprensione e la costruzione di senso della specifica pratica culturale, allo scopo di trovare un terreno comune di confronto 23 per raggiungere l’obiettivo di fare diventare la pratica stessa un “pallido ricordo”. Assumiamo dunque lo sguardo della complessità in cui sono presenti polarità da integrare, l’etnocentrismo da una parte e il relativismo culturale dall’altra, nell’ipotesi di trovare una strada per coniugare il rispetto delle culture e la difesa dei diritti umani. Per questa ragione ci riferiremo a tutti i riti di iniziazione a carattere riduttivo o estensivo dei genitali femminili, che l’OMS definisce ufficialmente “mutilazioni genitali femminili”, attraverso l’acronimo MGF che rende chiaro l’oggetto di studio senza caricarlo di giudizi di valore. La definizione ufficiale è stata, infatti, contestata da gruppi di donne africane e da diversi attori che si occupano in modo sistematico dello studio di tale pratica (Pasquinelli 2000; ShellDuncan, 2001; Fusaschi 2003; Grassivaro Gallo 2004; Obermeyer 2005). 2.1 Introduzione Il contributo che proponiamo, nel dibattito politico e nello sviluppo di interventi di sensibilizzazione e informazione per il contrasto della pratica delle MGF, è dato dai risultati della ricerca psicosociale sulla stampa giornalistica e scientifica che ha consentito di mettere a fuoco le rappresentazioni simboliche sul tema delle MGF. Pensiamo che sia utile conoscere tali rappresentazioni sulle MGF per capire qual è l’immaginario collettivo che orienta i legami sociali e i processi di convivenza interculturale e di genere, al fine di costruire degli indicatori qualitativi utili allo sviluppo della qualità della comunicazione/relazione interculturale, ed in grado di orientare la realizzazione di interventi di sensibilizzazione e di informazione sulle MGF. Verranno considerati i discorsi che la letteratura scientifica, da una parte, e la stampa giornalistica, dall’altra, fanno sulle MGF, sottolineandone l'aspetto simbolico, la costruzione e la comunicazione dell’immagine delle MGF, quale evento sociale su cui la società e la scienza si sta interrogando. In particolare l'analisi verte sui quotidiani 24 e sulle riviste scientifiche e specialistiche italiane, pubblicati dal 2004 al 2007. 2.2 Metodologia 2.2.1 La scelta delle fonti scientifiche e la raccolta degli articoli Si è scelto di consultare, in un’ottica interdisciplinare, le riviste italiane scientifiche che hanno ospitato articoli sulle MGF tra il 2004 e il 2007. Le riviste che sono state prese in considerazione sono: • Sociologia e ricerca sociale: è una rivista che privilegia le relazioni che intercorrono fra lo statuto scientifico della teoria sociale e l’intervento sociale. La rivista ospita articoli che affrontano temi e problemi che vanno dalla teoria sociale alla sociologia della comunicazione, dalle professioni al territorio, dalle organizzazioni complesse ai servizi sociali, dal diritto e dalla politica al lavoro e alla sociologia della scienza e della conoscenza. • La rivista Italiana di Ostetricia e Ginecologia: è la prima rivista italiana specialistica pubblicata fin dal 1974. La rivista vuole porsi come riferimento per gli Specialisti ed in pari tempo si propone come “collegamento” con i Medici di Medicina Generale. • La rivista di sessuologia: fondata nel 1960, riunisce studiosi, professionisti e operatori sociali interessati agli aspetti umani, educativi e clinici della sessualità umana. Promuove la ricerca sessuologica, scientifica, psicologica e antropologica in ottica interdisciplinare. • La rivista di sessuologia clinica: costituisce uno strumento di aggiornamento sia teorico-metodologico che pratico-clinico per coloro che si occupano dei diversi aspetti della sessualità umana, allo scopo di favorire un confronto dialettico e per promuovere l’integrazione dei diversi approcci e competenze. La rivista ospita contributi nazionali e internazionali nell’ambito della sessuologia. • La rivista sperimentale di freniatria: è il più antico periodico italiano di psichiatria. Essa pubblica lavori nell’ambito della salute mentale superando le angustie di una logica strettamente disciplinare e privilegiando il dialogo fra saperi contigui, 25 • • • • accomunati dall’interesse per la persona e la società, con l’intento di contribuire in tal modo alla ricerca del senso e del significato delle condizioni di sofferenza e benessere psichici. La rivista di Psichiatria: rappresenta, insieme alla rivista precedente, uno dei più antichi fogli di approfondimento scientifico sui temi della Psichiatria del nostro Paese. Negli ultimi anni la rivista si è avvalsa di contributi scientifici da parte dei maggiori esperti italiani dell'area accademica. Particolare attenzione è data alla presentazione di esperienze del cosiddetto "territorio", con la scelta redazionale di pubblicare lavori provenienti da realtà quali i Servizi di Diagnosi e Cura ospedalieri, i Centri di Salute Mentale, i Day Hospital. Democrazia e diritto: è un rivista più che quarantennale che cura l’approccio giuridico e si propone di collegare lo specialismo disciplinare, spesso troppo chiuso nella sua particolarità, ai grandi temi sociali che consentono di situare meglio teoria e pratica del diritto. Rassegna italiana di criminologia: si propone di diffondere in Italia ed all’estero i risultati delle ricerche e delle riflessioni condotte dai cultori della disciplina. Si avvale del contributo di studiosi di tutte le discipline scientifiche che si occupano dell’uomo e della società, nonché di operatori giudiziari, penitenziari, psichiatrici e socio-sanitari. Difesa Sociale: periodico scientifico multidisciplinare dell'Istituto per gli Affari Sociali, pubblica articoli di Sociologia, Psicologia sociale, Medicina del lavoro, Medicina preventiva, Epidemiologia, Economia, Medicina legale, Giurisprudenza, Biologia, Genetica, Ingegneria, Bioetica, Igiene ambientale ecc.. Sin dalla fondazione nel 1922 l'intento principale della rivista è tenere vivo il dibattito sui fenomeni culturali, ambientali, economici, sociali di maggiore attualità, per studiarne le correlazioni con la salute ed il benessere della collettività e stimolare interventi a tutela della qualità della vita e del lavoro. Sono stati raccolti complessivamente 10 articoli pubblicati tra il 2004 e il 2007 nelle riviste considerate, che sono andati a formare un testo di 119 pagine. 26 2.2.2 La scelta dei quotidiani e degli articoli Attraverso Pubblicità Italia, ADS Accertamenti diffusione Stampa (dati riassuntivi medi – Media mobile ogni 12 mesi, da Gennaio 2004 a Dicembre 2007) si sono individuate le testate più diffuse in Italia con la tiratura media più alta. Seguendo tale criterio si è proceduto con lo spoglio dei seguenti quotidiani nazionali: La Repubblica, il Corriere della Sera e La Stampa, Il giornale, Il Messaggero. Il Corriere della Sera, pubblicato a Milano, è attualmente il quotidiano più diffuso in Italia con una tiratura media di più di 840.000 copie giornaliere. Segue La Repubblica, il quotidiano appartenente al Gruppo editoriale L'Espresso, pubblicato a Roma, la cui tiratura media giornaliera è risultata essere poco più di 790.000 copie al giorno. La Stampa è attualmente il terzo quotidiano nazionale, con una tiratura media di poco più di 430.000 copie. Il Messaggero, di Caltagirone Editore con sede a Roma, ha una tiratura di poco più di 315.000 copie al giorno. Il Giornale, della Società Europea di Edizioni, pubblicato a Milano, ha una tiratura di quasi 310.000 copie al giorno e si colloca al sesto posto tra i quotidiani d'informazione nazionali. Attraverso gli archivi degli stessi giornali e di Lexisnexis messi a disposizione dalla Biblioteca del Senato della Repubblica si è proceduto con lo spoglio dei giornali e sono stati raccolti tutti gli articoli prodotti sul tema MGF negli anni di riferimento. Dopo una lettura attenta sono stati selezionati soltanto gli articoli incentrati sull’argomento, scartando quelli in cui le MGF erano soltanto citate o in cui la parola veniva riportata in elenco. Sono stati raccolti complessivamente 115 articoli pubblicati tra il 2004 e il 2007 nei quotidiani considerati. 2.2.3 L’analisi emozionale del testo Per analizzare il discorso sulle MGF nella stampa e nella letteratura scientifica si è scelto di individuare i modelli culturali presenti nei testi attraverso l’analisi emozionale del testo ( AET), uno strumento psicologico di analisi di testi scritti (Carli e Paniccia, 2002). Si tratta 27 di una metodologia che consente di evidenziare i repertori collusivi3 presenti in un testo al fine di analizzare i modelli culturali che organizzano emozionalmente il testo stesso. L’AET dunque consente di analizzare la “cultura” intesa come costruzione emozionale della conoscenza di specifici contesti, oggetti e relazioni sociali (Fanelli, Terri, 2007; Fanelli, Terri, Bagnato, Pagano, Potì, Attanasio, Carli, 2006). L’analisi, che abbiamo effettuato sui testi considerati, ha consentito di evidenziare i modelli collusivi con i quali la stampa e la letteratura scientifica organizzano emozionalmente la rappresentazione delle MGF. Il rapporto tra AET e Cultura è istituito sulla base di precise premesse teoriche. Si ipotizza che il linguaggio (parlato o scritto) risponda al principio della “doppia referenza” (veicolando al contempo un significato semantico e un senso emozionale) postulato a suo tempo da Fornari (1983), e che le parole con cui è organizzata la produzione linguistica possano essere suddivise in due grandi categorie: parole dense (ad esempio proibire, bomba, trauma…), con il massimo di polisemia, se prese a se stanti, ed il minimo di ambiguità nel significato; parole non-dense (ad esempio: tuttavia, ritenere, perciò….), con il massimo di ambiguità di senso e, quindi, con il minimo di polisemia. Per polisemia si intende l’infinita associazione di significati e di senso, attribuibili ad una parola se presa a se stante, se svincolata dal contesto linguistico che ne riduce la polisemia stessa. Si tratta, evidentemente, di una polisemia “emozionale”, che viene trasformata nel “senso”, cognitivamente inteso, della parola stessa quando questa sia iscritta entro il contesto linguistico. Le parole nondense sono parole ambigue (si pensi ad esempio a parole come “ritenere” o “tuttavia”), che, per aver assegnato un senso entro il linguaggio parlato o scritto, hanno bisogno di essere iscritte entro il contesto linguistico. In questo, ambiguità e polisemia sono connotazioni inversamente proporzionali nel definire le parole: le 3 Per collusione s’intende il processo di comune simbolizzazione affettiva entro uno specifico testo-contesto, il processo relazionale che connette simbolicamente ogni soggettività al proprio contesto di appartenenza e ne implica una “rappresentazione”. 28 parole dense sono quelle caratterizzate da un massimo di polisemia e da un minimo d’ambiguità. Parole che, all’interno di un testo, possono essere raggruppate in funzione della loro ricorsività entro segmenti del testo stesso. Si tratta di un’operazione di identificazione di raggruppamenti ricorrenti di parole, entro specifici segmenti, effettuata attraverso l’analisi delle corrispondenze4 tra le parole dense evidenziate nel testo ed i segmenti del testo, preventivamente individuati. Queste analisi sono rese possibili da specifici programmi informatici per l’analisi del testo; in questo caso, il software utilizzato è Alceste (Analyse des Léxèmes Cooccurrents dans les Enoncés Simples d'un Texte) di Max Reinert (1995, 1998, 2000). Chiamiamo i raggruppamenti di parole dense Repertori Culturali o Cluster: insieme di parole dense co-occorrenti entro i segmenti ove le stesse parole ricorrono con la più elevata probabilità. La funzione della cooccorrenza delle parole dense, entro lo stesso Repertorio, è di ridurre gli infiniti significati di ciascuna parola densa; è come se ciascuna parola considerata, nell’incontro di co-occorrenza con le altre parole, perdesse una quota di polisemia consentendo, così, la costruzione dei differenti Repertori. L’attribuzione di senso emozionale agli incontri di co-occorrenza avviene attraverso l’utilizzo di modelli teorici di matrice psicodinamica e psicosociale che consentono in prima istanza di risalire ai processi collusivi, simbolici, culturali, propri dei differenti Repertori, e successivamente di dare senso emozionale alle relazioni tra gli stessi Repertori in cui si articola la Cultura oggetto della ricerca. 2.3 Repertori culturali Iniziamo dal considerare ed analizzare gli incontri di cooccorrenza, a partire da quelli tra le parole dense a più elevata 4 Come tutti i metodi di analisi fattoriale, l'analisi delle corrispondenze consente di estrarre nuove variabili - i fattori appunto - che hanno la proprietà di riassumere in modo ordinato l'informazione. Consente inoltre di predisporre grafici atti a rappresentare - in uno o più spazi - le entità linguistiche raggruppate per cooccorrenza. 29 centralità nel Repertorio; vale a dire dalle parole che più hanno contribuito, in termini di significatività statistica, alla costituzione del Repertorio. L’ipotesi che regge l’analisi è che l’insieme delle co-occorrenze analizzate consenta di comprendere la “cultura” che caratterizza quel Repertorio5. Nella figura 1 è rappresentato lo spazio fattoriale (Spazio Culturale), definito dall’incrocio dei tre assi cartesiani, denominati fattori, che spiegano il massimo della varianza totale dei dati. L’AET ha evidenziato la presenza di 3 cluster o Repertori Culturali, posizionati nel modo seguente nello Spazio Culturale: alla sinistra del primo asse fattoriale, quello orizzontale, si situa il R.C. 3; sul secondo asse fattoriale, quello verticale, troviamo in basso il R.C. 2 che si contrappone al R.C. 1, dislocato nella parte alta dello spazio culturale; sul terzo asse fattoriale, che va immaginato perpendicolare alla pagina, non ci sono repertori culturali. Inizialmente descriveremo le dimensioni culturali che caratterizzano i singoli Repertori Culturali emersi con il trattamento statistico del testo, e successivamente approfondiremo le relazioni tra le culture presenti nei tre Repertori con l’obiettivo di rilevare la specifica Cultura in analisi, così come si è organizzata entro lo Spazio Culturale. 5 L’analisi degli incontri di co-occorrenza parte prendendo in considerazione l’etimologia delle parole dense che compongono i cluster o Repertori Culturali. Come mettono in evidenza R. Carli e R.M. Paniccia (2002, p. 169), “il ricorso all’etimo delle parole ha la funzione di orientare il ricercatore, entro la polisemia della parola densa, individuando aree emozionali ove la mente può associare”. Abbiamo preso in esame le etimologie utilizzando i seguenti dizionari: Devoto G., Avviamento all’etimologia italiana, Le Monnier, Firenze, 1989; Cortellazzo M., Zolli P., Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1984; Castiglioni L., Mariotti S., Vocabolario della lingua latina, Loesher, Torino, 1966; De Mauro T., Grande Dizionario italiano dell’Uso, Utet, Torino, 2003. 30 La successione dei repertori culturali descritti è funzionale alle loro reciproche posizioni sul piano fattoriale: si inizierà dal primo asse fattoriale, con il R.C. 3, per poi proseguire con i R.C. 2 e 1, collocati sul secondo fattore. Fig. 1 Lo spazio fattoriale (o culturale) 2.3.1 Repertorio culturale 3 Il R.C. 3 rappresenta il 23 % del testo complessivo. Iniziamo le nostre riflessioni confrontandoci con i significati della parola densa che più ha contribuito alla costituzione del repertorio in analisi: integrazione. 31 Integrazione, dal latino integratio, -onis, ‘rinnovamento’, ‘accrescimento’, ‘ristabilimento’, da integru(m) ‘intero’, ‘non (in-) toccato (tangere)’, ‘che ha tutte le sue parti’, “che non ha subito menomazioni, mutilazioni o danni”. La parola sta a significare: “rendere completo aggiungendo ciò che manca”, “annettere”, “completare”, “inserire”. Si tratta di un processo che permette alla “società” (parola presente nel repertorio) di svilupparsi e costruire nuovi equilibri, superando le divisioni e l’eterogeneità esistenti tra le parti che lo compongono. Proviamo, a partire dal significato appena illustrato, ad esplorare ulteriori dimensioni di senso di questa parola, nell’ipotesi che ciò ci aiuti a cogliere la complessità del repertorio culturale in analisi. ‘Integrazione’ evoca un “fare”, un agire volto a rendere ‘intero’ un qualcosa che ancora non lo è, un agire che conduce ad unificare differenti componenti in un insieme unico, fino a raggiungere relazioni non conflittuali tra le parti, un adattamento reciproco tra elementi che formi una totalità. Viene in mente l’esito ideale di un processo di inserimento: l’accettazione reciproca, l’essere riconosciuti come “parte di”, parte utile e coerente con altre parti, il raggiungimento di una pacificazione, di una condivisione, di un’appartenenza fondata sull’interdipendenza reciproca. Un’area di significati che si contrappone emozionalmente a: ghettizzazione, emarginazione, espulsione, rifiuto e allontanamento dell’estraneo, del diverso. Ancora per contrapposizione, viene in mente “anomia”, l’assenza o perdita di leggi (a- privativo e nomos ‘legge’) e regole morali, fino alla mancanza dei punti di riferimento simbolici e culturali in grado di rendere individui e gruppi sociali membri di una collettività più ampia; anomia, dunque, come mancanza di “integrazione” o dis-integrazione dei legami di appartenenza. Scendiamo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il Repertorio. Troviamo migranti. Ecco il primo incontro di co-occorrenza: INTEGRAZIONE MIGRANTI 32 Qui la polisemia della prima parola si riduce con “migranti”, da migrare, vocabolo derivato da una radice indoeuropea ad indicare originariamente ‘cambiare’, divenuto poi ‘trasferirsi’, ‘abbandonare il proprio luogo d’origine per trasferirsi altrove’. Migrazione è mobilità, è ogni spostamento individuale e collettivo da un punto geografico all’altro che implica la vita in due universi, quello di qui, dove si è giunti, e quello di là, che si è lasciato definitivamente o provvisoriamente ma con cui si è emotivamente e simbolicamente in contatto: è un atto complesso, un’esperienza di separazione, da ciò che era conosciuto, e di individuazione entro un contesto nuovo e sconosciuto. Dunque un’esperienza di cambiamento, che implica un ri-trovarsi, un ri-collocarsi da un punto di vista reale e simbolico, esteriore ed interiore. Ci siamo confrontati, inoltre, con una parola che istituisce una differenziazione tra un “noi”, i nativi del luogo stesso in cui vivono (“autoctoni”, parola presente nel repertorio), e un “loro”, i “nati altrove”, fondata sull’esperienza della migrazione, esperienza che accumuna donne e uomini con storie personali, lingue, culture, provenienze assai diverse in un'unica categoria sociale. Il primo incontro di co-occorrenza sembra iscrivere le MGF entro il tema dell’integrazione dell’estraneo, del forestiero, del migrante: quel processo graduale che permette la convivenza tra “noi” e “loro”, processo caratterizzato da accettazione e adattamento reciproci, e dalla capacità dei due gruppi di confrontare e di scambiare valori e modelli di comportamento. Viene ribadita la dimensione ideale del processo di inserimento in un nuovo contesto che impegna i/le migranti: dalla separazione dal proprio contesto culturale di origine, momento segnato dalla perdita di parti di sé, all’integrazione, come traguardo compiuto del ri-trovarsi in una nuova realtà culturale. Si tratta, inoltre, di un processo che definisce la relazione con l’Altro, il/la migrante, in contrapposizione alla tendenza assimilazionista, in cui il gruppo o i gruppi di minoranza sono costretti ad abbandonare i propri comportamenti per adottare le pratiche culturali, le culture, del gruppo di maggioranza. Ed è proprio cultura la parola che va a formare il secondo incontro di co-occorrenza: 33 INTEGRAZIONE MIGRANTI CULTURA Cultura, dal latino cultura, derivato da cultus, participio passato di colere ‘coltivare’, da cui deriva il sostantivo culturam; la parola è usata in due significati principali, il più antico, di tipo umanistico o classico, ripreso da Francis Bacon, indica il patrimonio di conoscenze di cui una persona si è impadronita nel tempo, mentre il secondo si riferisce ad una concezione “moderna” o antropologica del termine. Da quest’ultimo punto di vista ricordiamo la definizione classica di “cultura” fornita nel 1871 da Tylor (1985): “quella totalità complessa che comprende il sapere, le credenze, le arti, la morale, il diritto e i costumi e tutte le altre capacità e abitudini che l’uomo fa proprie in quanto membro di una società”. Attualmente esistono molteplici definizioni di “cultura”, ognuna delle quali rimanda a teorie e modelli socio-antropologici e psicologici che assumono punti di vista e criteri assai diversificati. Ai fini della nostra analisi può essere utile tenere a mente la distinzione, messa in evidenza da Mantovani (2004) tra un approccio “essenzialista”, usato spesso nella quotidianità, espressione del “senso comune”, secondo cui si pensa che “ogni gruppo umano ‘abbia’ un qualche tipo di ‘cultura’ e che le frontiere tra questi gruppi così come i contorni delle loro culture siano ben definiti e relativamente facili da descrivere” (Mantovani, 2004, 41), e un approccio narrativo (Benhabib, 2005) che non interpreta la “cultura” come “proprietà di un gruppo e marcatore della sua identità”, ma è intesa come “sistema poroso, dinamico e situato entro dimensioni sociali e storiche”, un approccio inoltre che coglie i “processi di negoziazione e i sistemi di interessi da cui le culture e le tradizioni vengono momento per momento modellate” (Mantovani, 2004, 20). “Cultura” come processo che sostanzia l’integrazione di individui e gruppi sociali, e che configura l’integrazione nei termini di un cambiamento culturale reciproco, che impegna migranti e autoctoni nella ricerca di nuovi equilibri entro i processi di convivenza sociale. Il repertorio in analisi rappresenta dunque l’evento MGF come 34 problema di integrazione culturale dei migranti entro la “nostra” società, parola che definisce il terzo incontro di co-occorenza: INTEGRAZIONE MIGRANTI CULTURA SOCIETÀ Società, dal latino societatem, da socius, ‘compagno’, ‘alleato’, ‘associato’, ‘partecipe’, intesa come “l’insieme di tutti gli esseri umani, l’unione tra di essi sulla base di vincoli naturali e di interessi generali comuni, la collettività”, a cui si può appartenere o da cui si può rimanere esclusi. Il processo associativo legato a questa parola fa venire in mente la polarità “essere dentro” versus “essere fuori”; dentro-fuori che rimandano a “comunità”, parola che troveremo più avanti nel R.C., ma le cui ambivalenze emozionali è necessario esplorare fin da ora. “Comunità”, cum munus, munus è “dono” e nel contempo è “mura”, “difesa” (moenia); da un lato abbiamo la comunità, la “società”, costruita simbolicamente sulla dimensione ideale dell’integrazione delle “culture”, a cui offrire il “dono” della propria dipendenza e devozione comune; dall’altro abbiamo la ‘comunità’ intesa come coesione difensiva nei confronti di un nemico comune, l’Altro, il/la migrante, utilizzato emozionalmente per rafforzare un’appartenenza rassicurante e in grado di bonificare eventuali conflitti interni, perché costruisce un “dentro” in contrapposizione ad un “fuori”, oggetto di giudizio e di discriminazione (da discrimen ‘separazione’, ‘divisione’, “distinguere una o più persone o cose da altre”), parola anche questa presente nel R.C. Passiamo ora al quarto incontro di co-occorenza: INTEGRAZIONE MIGRANTI CULTURA SOCIETÀ POLITICA 35 Politica, da politike ‘arte politica’, la tekhne ‘arte’ che si occupa dei cittadini (polites, in latino), vale a dire del governo dello stato e dei processi di convivenza che riguardano coloro i quali partecipano alla vita comune della città (polis), siano essi autoctoni o migranti. La parola fa venire in mente anche l’integrazione “politica” degli/delle immigrati/e, cioè il diritto di voto attivo e passivo e la possibilità di esercitare il potere politico. La letteratura che riguarda questo R.C. sembra sottolineare con questa parola densa la rilevanza della funzione di “governo” dei processi di integrazione. Nel repertorio in analisi, le MGF si configurano pertanto come evento simbolico che istituisce una differenziazione tra “noi” e “loro”, autoctoni e migranti, intorno alla quale si giocano le dimensioni culturali e sociali dell’integrazione, dimensioni di cui la “politica” è chiamata ad occuparsi. Il confrontato è con una lettura complessa delle MGF, non riducibile a mera pratica culturale e/o etnica, ma intesa come evento costruito socialmente che fonda e promuove le appartenenze sociali e culturali. Le parole dense successive: identità, etnico, universale, diversità, accoglienza, comunità, multiculturale, discriminazione, autoctoni, confermano e ampliano l’ipotesi interpretativa fin qui elaborata. Attraverso una visione d’insieme delle parole dense emerge in modo molto chiaro la complessità, o complesso delle parti, entro cui inscrivere simbolicamente l’evento MGF. Si colgono delle dimensioni interne collocate in posizioni polari: “identità” (da idem ‘stesso’, ‘medesimo’, ‘la medesima cosa’, “uguaglianza completa e assoluta”) e “diversità” (da divertere, ‘volgere in opposta direzione’), “comunità etnica” (da ethnos ‘popolo’, ‘stirpe’, “che è proprio di un popolo, di un gruppo umano”) e “universale” (da universum, ‘tutto intero’, ‘volto’ tutto in una direzione’, “generale, assoluto”, “totale”), “accoglienza” (da colligere ‘raccogliere’, “raccogliere presso di sé”, “contenere”, “accettare”, “ospitare”) e “discriminazione” (da discrimen ‘separazione’, ‘divisione’, “distinguere una o più persone o cose da altre”), ed infine, “migranti” e “autoctoni”, “cultura” e “multiculturale”. 36 Sembra che il presente repertorio si organizzi simbolicamente sulla consapevolezza delle opposizioni, del gioco intrinseco in ogni movimento di sviluppo sociale tra “mettere dentro” e “mettere fuori”, tra familiare ed estraneo, tradizione e innovazione, singolare e plurale … poli o posizioni simboliche da “integrare” attraverso la negoziazione di “regole del gioco” – funzione della politica – in grado di promuovere il progredire delle appartenenze sociali e culturali. Il superamento delle dicotomie sta dunque nell’integrazione, a partire dalla premessa che le MGF segnino simbolicamente un limite che può fondare nuove appartenenze ed esclusioni, un confine emozionale tra “noi” e “loro”, che rende inevitabilmente complesso il processo di integrazione, nelle sue declinazioni culturali, sociali e politiche. 2.3.2 Repertorio culturale 1 Questo Repertorio è il più esteso, rappresenta il 54,27% delle frasi del testo. La parola che ha più contribuito alla costruzione del repertorio culturale è infibulazione dal latino fibulam ‘fibbia’, “chiudere con la fibbia”. L’infibulazione indica il tipo di pratica classificata dalle organizzazioni internazionali come Mutilazioni dei Genitali Femminili di III tipo. Essa prevede l’asportazione completa della clitoride, delle piccole e buona parte delle grandi labbra. I margini delle grandi labbra vengono congiunti utilizzando fili di seta (in Sudan), spine di acacia (in Somalia), impacchi e punti di sutura; generalmente, viene lasciata una piccola apertura per consentire il passaggio dell’urina e del flusso mestruale. Viene praticata in Sudan (l’indagine MICS2 - Multiple Indicator Cluster Surveys - nel 2000 ha stimato che era stata eseguita sul 74 per cento delle donne escisse), in Eritrea (l’indagine DHS Demographics and Health Surveys - del 2002 ha stimato che il 39 per cento delle donne aveva subito l’infibulazione), e poi con percentuali minori in Somalia, Gibuti, in alcune regioni del Mali, dell’Etiopia (Missailidis e Gebre-Medhin, 2000) e in una zona ridotta della Nigeria (Caldwell et al., 1997; Eke, 2000). Nella classificazione proposta dall’OMS è prevista una distinzione tra questa pratica, quella di Tipo I che consiste nell’escissione del 37 prepuzio, con o senza asportazione parziale o totale di tutta la clitoride; quella di tipo II che comprende escissione della clitoride con asportazione parziale o totale delle piccole labbra; e quella di tipo IV che include perforazione, penetrazione o incisione di clitoride e/o labbra; stiramento di clitoride e/o labbra; cauterizzazione mediante ustione del clitoride e del tessuto circostante; raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale (angurya cuts) o incisione della vagina (gishiri cuts); introduzione di sostanze corrosive o erbe nella vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla; e qualsiasi altra procedura che cade sotto la definizione di MGF. L’OMS stima che sono dai 100 ai 140 milioni le donne nel mondo sottoposte a MGF (World Health Organization - WHO -, Female genital mutilation, Fact sheet n. 241, giugno 2000 ) e che le bambine sottoposte a tali pratiche sono, ogni anno, circa 3 milioni (Unicef, Changing harmful Social Convention: female genital mutilations/catting, Innocenti Digest 2005). Le MGF sono diffuse in 28 paesi africani e in Medio Oriente (Iran, Iraq, Yemen, Oman, Arabia Saudita, Israele). Tracce di MGF si rinvengono anche in alcuni paesi asiatici come l’Indonesia, la Malesia o in alcune regioni dell’India (www.state.gov/g/wi/rls/rep/9276.htm). Rispetto alle motivazioni della pratica, da un punto di vista storico, ci pervengono informazioni dalla letteratura medica antica. Sorano (I e II secolo d.c.), medico greco operante a Roma e ad Alessandria d’Egitto, nella descrizione dettagliata dell’intervento riferiva che la pratica venisse utilizzata per ridurre il desiderio sessuale femminile. Una conferma di questa testimonianza giunge da Ezio (527-565 d.C.) e Paolo d’Egina (625-690 d.C.) che sostenevano la pratica stessa per evitare che la clitoride potesse erigersi come l’organo genitale maschile, e consentire il coito lesbico. Il termine “infibulazione”, inoltre, rimanda ad una pratica di tipo punitivo nota tra i romani. La fibula, una spilla che serviva a tenere agganciata la toga, veniva usata dai Romani sulle proprie mogli, in modo da prevenire rapporti illeciti. Controllo che stava ad indicare l’esercizio di un potere sui corpi delle donne, private della possibilità di provare piacere in quanto “chiuse con la fibbia”. 38 Scendendo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il repertorio troviamo la parola bambine. Ecco il primo incontro di co-occorrenza: INFIBULARE BAMBINE L’incontro di co-correnza specifica il soggetto, le bambine, il loro corpo, su cui viene attuata la pratica di infibulare. Possiamo ipotizzare che questa co-correnza ci indica il modo in cui viene simbolizzato l’Altro: come soggetto violento che danneggia irreparabilmente le bambine attraverso la sottomissione passiva ad un simile intervento. L’incontro/scontro con l’Altro, in questa cultura, avviene, infatti, su una specifica pratica, l’infibulazione, che rappresenta la forma più estrema e violenta di MGF, utilizzata, in questo repertorio culturale, come l’evento generalizzante per definire l’Altro. Il secondo incontro di co-occorrenza è definito dalla parola legge. INFIBULARE BAMBINE LEGGE Legge dal latino legem presenta la stessa radice di ligàre, “legare”. La legge lega, dunque, le bambine all’infibulazione, attraverso un rapporto emozionale fondato sul potere della norma che stabilisce ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, che sancisce la possibilità di praticare o no l’infibulazione sulle bambine. La legge difende le bambine e attraverso il giudizio e l’emanazione di sentenze condanna chi pratica l’infibulazione. Condannare, dal lat. condemnàre composto da cum e damnare, “dichiarare colpevole”. La legge, dunque, dichiara colpevole chi ha recato un danno e lo giudica, e lo condanna riportando alla norma ciò che era deviata da essa. Si costruisce, pertanto, una rappresentazione della convivenza sociale come processo regolabile attraverso la norma, il giudizio e la 39 condanna, pensati come strumenti utili per far fronte all’Altro, simbolizzato come violento. La parola legge ci fa venire in mente il decreto legislativo n.7/2006, recante Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, che ha lo scopo di “prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all'integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine” (Art. 1). La Legge Consolo si caratterizza per essere un provvedimento repressivo dell’illegalità e della violenza contro i diritti umani di ogni donna . Dall’entrata in vigore della Legge “chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è diminuita fino a due terzi se la lesione è di lieve entità”. Scendendo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il repertorio troviamo la parola medico. INFIBULARE BAMBINE LEGGE MEDICO Medico da medeor (mederi), “medicare”, “curare”, “sanare”. Nel suo senso traslato significa anche venire in aiuto, provvedere, rimediare. La parola rimanda alla medicalizzazione per i rischi e le difficoltà che si incontrano nel salvaguardare la salute e ripristinare la normalità e l’integrità. La medicalizzazione della pratica dell’infibulazione sembra in questo repertorio culturale rappresentare il percorso per confrontarsi con un’estraneità altrimenti inconoscibile. Le MGF quindi non sono visti nella loro complessità ed estraneità, ma ricondotti ad esclusivo danno sulla salute fisica e psicologica delle donne. Medicalizzare significa pertanto focalizzarsi sulla dimensione malattia, esclusiva 40 competenza tecnica del medico, scotomizzando la complessità simbolica, culturale e sociale dell’evento MGF. La condanna delle MGF avviene dunque attraverso la legge che giudica in base a quanto dice l’autorità del medico. Passiamo ora al quarto incontro di co-occorenza definito dalla parola vittima. INFIBULARE BAMBINE LEGGE MEDICO VITTIMA Vittima dal latino victima che per gli antichi deriva da victus, “vitto”, perché era il cibo offerto dagli dei o da vincire “legare” perché legata al sacrificio. La vittima, cioè chi subisce, rimanda ad una rappresentazione delle MGF come culto violento, in cui c’è una vittima e un carnefice. La vittima si situa in una posizione passiva, inerme, di chi soffre e patisce senza avere voce in merito alla pratica. Il carnefice, dal latino càrnifex da carnìficàre mette a morte, “fa a pezzi”. L’Altro viene rappresentato come avido della vita altrui, crudele in quanto porta alla morte bambine senza motivazione né senso alcuno. La vittima sembra costituirsi come soggetto da difendere dalla possibilità di morire o di essere “fatta a pezzi” attraverso un danno fisico permanente. La legge si poggia sull’autorevolezza del medico giudicando e condannando il carnefice. Nel repertorio in analisi non è pensato che le donne possano scegliere la pratica delle MGF. Di contro in alcune ricerche (Pasquinelli, 2000) le testimonianze di alcune donne sconfermano questa lettura, dichiarando di aver scelto di intervenire sui genitali attraverso un intervento di escissione o infibulazione, con la disapprovazione dei genitori, per non essere discriminate dal gruppo dei pari. Con queste prime co-correnze di parole dense ci confrontiamo con un repertorio culturale che simbolizza l’Altro, l’estraneo come 41 carnefice indiscusso in quanto propone un culto violento di cui sono vittime le bambine e con il quale rapportarsi attraverso il ricorso alla legge. Le parole dense successive sono: mutilazioni genitali femminili, ragazze, vietare, circoncisione, escissione, salute, proibire, reato, religione, genitori. La parola mutilazioni dal latino mutilum “mozzo”, “tronco”, di origine sconosciuta, sta a significare “l’asportazione cruenta e deturpante” di una parte del corpo. L’uso della parola mutilazione, utilizzato per la depredazione e il danno causato dalle pratiche, non costruisce però un terreno comune di scambio con le donne che praticano le MGF in quanto vengono ignorate le motivazioni socioculturali della pratica stessa, concepita dalle donne coinvolte come evento “positivo” in quanto passaggio necessario e obbligato nel percorso di crescita della persona e nella costruzione di un identità di genere condivisa socialmente (Fusaschi 2003). Segue la parola ragazze che conferma l’ipotesi proposta dal repertorio secondo cui sono minorenni vittime di tale pratica. Proseguendo troviamo la parola vietare, dal lat. vetare, “che non è concesso”, che si associa ad una parola successiva che è proibire dal latino prohibere composto di pro ‘avanti’ e hibere per habere “avere”, “tenere”: tenere avanti o lontano e quindi impedire. Le MGF vengono simbolizzate come pratiche da sopprimere attraverso il “vietare” e il “proibire”. L’Altro non viene visto nelle sue motivazioni socio-culturali ma viene simbolizzato come soggetto vittima e carnefice di una pratica cruenta, che compromette l’integrità psicofisica delle bambine e delle ragazze, procurando danni fisici permanenti che compromettono la salute. Salute dal latino salutem acc. di sàlus che viene dalla stessa radice di sal-vus con il significato di integrità. Integrità, incolumità e quindi salvezza, sanità: stato perfetto di benessere e di felicità. La salute è compromessa dall’essere “mozzate”, “tagliate” e “cucite” ma può essere ripristinata, riportata alla normalità dall’intervento del medico. 42 Al contempo le vittime sono protette dalla legge che considera l’esercizio delle pratiche come reato, dal lat. reatus che sta ad indicare una condizione di accusato, una colpa e un delitto verso l’integrità della salute. Troviamo successivamente le parole religione, che rimanda al culto sacrificale per gli dei e genitori che sono pensati come coloro che in nome della religione diventano protagonisti carnefici di un culto violento quale quello delle MGF. Questo repertorio culturale, espresso dalla stampa giornalistica, esprime una rappresentazione delle MGF nella sua forma più estrema e violenta, nell’intento di persuadere chi legge dell’orrore di questa pratica che crea vittime tra bambine e ragazze. Pratica simbolizzata come culto irrazionale violento di cui sono responsabili i genitori, non pensati dentro un contesto socio-culturale in cui tale pratica assume un significato, ma decontestualizzati e rappresentati solo come carnefici. L’Altro è dunque simbolizzato come violento, da giudicare e condannare. Qui sembra delinearsi una cultura del noi, definita da uno Stato di diritto e dalla scienza medica, che tutela le vittime, a cui si contrappone una cultura dell’estraneo, simbolizzato come “carnefice”, autore di un culto violento che produce vittime senza nessuna motivazione. L’altro viene dunque rappresentato come nemico con cui ingaggiare una lotta di potere legittimata dalla difesa delle vittime, bambine o ragazze, inermi di fronte ad una tale violenza. Il Repertorio culturale 1 esprime dunque una rappresentazione delle MGF fondata sullo stigma di chi la pratica. Stigma costruito sulla base di una generalizzazione che si sostanzia nel mettere al centro un noi e un loro generalizzati e gerarchicamente posizionati in nome di una presunta superiorità. Si tratta di una rappresentazione che contribuisce in modo determinante alla costruzione dell’immagine pubblica delle MGF, nei termini stereotipali di culto estraneo e violento che non lascia spazio ad una comprensione complessa e problematizzata del tema. Si sviluppa la tendenza a semplificare la realtà e a rappresentare le MGF nella loro forma più estrema, praticata su persone non consenzienti – bambine – configurate tout court come vittime di genitori carnefici. Le MGF segnano dunque simbolicamente un limite che fonda appartenenze ed esclusioni, un noi e un loro. Questa 43 contrapposizione, fondata sulla premessa generalizzante dell’Altro come nemico minaccioso da giudicare e da condannare, non consente di ipotizzare una relazione utile allo sviluppo dei processi di convivenza e quindi al superamento della stessa pratica. 2.3.3 Repertorio culturale 2 Questo Repertorio rappresenta il 23% delle frasi del testo. La parola che più ha contribuito alla costruzione del repertorio è sesso, dal latino sexus, da secare ‘tagliare’, ‘separare’, in riferimento alla divisione in maschi e femmine. Viene subito il mente il mito dell’androgino, di cui narra Platone nel Simposio, e la genesi del maschile e del femminile, scaturiti dal taglio e dalla divisione dell’Uno; la parola, quindi, rimanda alla costruzione della diversità sessuale, intesa come perdita simbolica di un’integrità originaria. Ancora: il processo associativo legato a questa parola ci fa venire in mente la vita come processo ineluttabile di continue “separazioni”: la nascita, lo svezzamento e la crescita, l’adolescenza e la maturità, infine la morte come separazione definitiva. Soltanto attraverso dei movimenti di separazione, collocandosi “fuori” da un “dentro” originario, è possibile la crescita e la conquista dell’identità, in particolare della diversità maschile e femminile. ‘Tagliare’, inoltre, in riferimento al tema in analisi, fa venire in mente quanto messo in evidenza nella letteratura e nelle ricerche sul campo (Pasquinelli, 2000), secondo cui le MGF e la circoncisione maschile hanno l’obiettivo di giungere ad una più chiara divisione sessuale, “purificando” il maschile ed il femminile della presenza di quelle parti – il prepuzio nell’uomo, la clitoride nella donna – che stanno ad indicare delle caratteristiche dell’altro sesso. A partire dalla prima parola densa, le MGF si delineano simbolicamente come intervento che “taglia” ed elimina le imperfezioni della natura, rendendo chiara la “separazione” delle identità maschile e femminile. Scendendo nell’ordine dei valori di ricorrenza entro il repertorio, la polisemia della prima parola si riduce con orgasmo. Ecco il primo incontro di co-occorenza: SESSO ORGASMO 44 “Orgasmo”, dal greco orgasmos, derivato di organ ‘essere pieno di ardore, di passione’, ‘essere intimamente agitato’, da orge ‘eccitamento’, sta a significare l’acme dell’eccitazione sessuale, il “climax del rapporto sessuale seguito da un intenso piacere”. Orgasmo come prodotto del desiderio, dell’eccitazione e del piacere sessuale: parole presenti nel repertorio in analisi, e che configurano la sessualità come esclusiva dimensione del godimento fisico, come euforia, abbandono, sfogo e gioia del corpo, esuberanza di forze e di energie che producono una profonda felicità; la dimensione riproduttiva della sessualità non è contemplata. È dunque nella separazione – che individua il maschile e il femminile – la possibilità di un ritrovarsi insieme nell’orgasmo: quell’eccitamento (excitare ‘muovere fuori’) o movimento fuori di noi e verso l’Altro contrassegnato dal lasciarsi andare al piacere, fino a raggiungere le vetta più alta della passione, in cui ogni forma di controllo o dominio è impensabile. Il successivo incontro di co-occorenza conferma quanto appena detto, aprendo ad ulteriori dimensioni di senso. SESSO ORGASMO DESIDERIO Desiderio, dal latino desiderare, da de- e siderare, da sidus ‘stella’, letteralmente ‘cessare di contemplare le stelle a scopo augurale’, quindi ‘bramare’, “sentire la mancanza di ciò che è piacevole, buono, necessario, e tendere a ottenerne il godimento, il possesso”. Ciò che si “brama” (dal gotico bramon ‘urlare dal desiderio”), che si vuole con forza, in modo intenso, e di cui più di ogni altra cosa si sente la mancanza, è proprio la gioia corporea della sessualità. Siamo di fronte ad un’assenza e nel contempo ad una speranza, all’attesa di qualcosa, il ricongiungersi nell’orgasmo sessuale, da cui potrà derivare il proprio, intimo benessere. 45 Veniamo al terzo incontro di co-occorenza: SESSO ORGASMO DESIDERIO COMPLICANZE Complicanze, da complicare, composto di cum ‘con’ e plicare ‘piegare’, ‘piegare insieme, avvolgere’; la parola rimanda a ‘intricare’, ‘ingarbugliare’, ‘confondere’. Sembra che quanto fin qui espresso abbia degli ostacoli, delle difficoltà; c’è qualcosa che si contrappone alla dimensione “pura e perfetta” disegnata emozionalmente intorno alla gioia del corpo: qualcosa che simbolicamente “confonde”, “ingarbuglia” ciò che poteva essere chiaro e netto. Più precisamente, la parola rimanda sia all’aggravamento, al peggiorare e al ‘complicarsi’ di uno stato morboso, sia alle difficoltà e ai problemi di ordine sanitario e psico-corporeo connesse con la pratica delle MGF, così come è stato segnalato in letteratura (Morrone, Vulpiani, 2004; Obermeyer, 1999). In base a quanto emerso, possiamo ipotizzare che il discorso sulle MGF, entro il repertorio culturale in analisi, venga costruito emozionalmente intorno alle gravi difficoltà e agli ostacoli legati al soddisfacimento del desiderio sessuale, come il quarto incontro di cooccorrenza sembra ribadire. SESSO ORGASMO DESIDERIO COMPLICANZE PIACERE Piacere, parola che sottolinea ancora una volta una sessualità costruita come dimensione del godimento, della gioia e dell’appagamento. Dimensioni che sembrano essere ostacolate e messe in difficoltà dalle MGF. 46 Le parole dense che seguono definiscono con maggior forza la contrapposizione emozionale che va cominciandosi a delineare. SESSO ORGASMO DESIDERIO COMPLICANZE PIACERE INFETTARE CONTROLLARE Con infettare (da inficere ‘tingere’, letteralmente ‘mettere’ facere ‘dentro’ in-, ‘mescolare’, ‘inquinare’, ‘corrompere’, ‘avvelenare’, ‘rendere impuro’) e controllare, siamo di fronte a verbi che mettono in risalto delle azioni che connettono ancora una volta sul piano simbolico il discorso sulle MGF con quello sulla “purezza sessuale” e sui modi per raggiungerla. “Infettare” rimanda alle “complicanze” prodotte dall’intervento, e nel contempo – come l’etimo suggerisce – ad una dimensione di “impurità” entro cui è rappresentata la sessualità non “controllata”. Chi parla nel R.C. sembra descrivere l’evento MGF attraverso le categorie emozionali del “puro” e dell’“impuro”; viene costruito un evento nei termini di una pratica “controllante”, e pertanto di esercizio di un potere, che intende “purificare” il piacere sessuale femminile, e che invece “corrompe” la sessualità con “infezioni” e “complicanze”. Possiamo approfondire ulteriormente quanto appena detto prendendo in esame le altre parole dense: dolore, penetrazione, eccitazione, trauma, cicatrice, ansia. L’orgasmo eterosessuale, che simbolicamente potrebbe ricomporre l’unità originaria, attraverso l’incontro della diversità maschile e femminile, si trasforma nel “dolore” causato dalla “penetrazione”. Il desiderio sessuale, anziché essere fonte di “eccitazione” e suscitare piacere, produce “ansia” (da angere, stringere, soffocare), timore, paura, che divengono le “cicatrici” emotive del “trauma” (dal verbo titroskein ‘offendere’, ‘forare’, ‘ferita’, ‘lesione’), l’intima ferita prodotta dalle MGF. 47 La letteratura analizzata in questo R.C. costruisce il tema in analisi intorno a delle polarità emozionali e simboliche che lacerano l’identità e la sessualità femminile: “piacere” versus “dolore”, “puro” versus “impuro”, controllare versus abbandonarsi e lasciarsi andare al desiderio e alle passioni del corpo. La conquista della diversità femminile diviene, pertanto, sinonimo di impotenza: la separazione originaria capovolge culturalmente la forza, il vigore, l’energia vitale, la potenza orgastica, in un’impotenza dolorosa che libera dall’impurità e dalle passioni incontrollate. Si configura un’area emozionale e culturale che vede le MGF come evento simbolico che mette a tacere la diversità femminile, nel senso etimologico ed emozionale della parola, come azione che mira a “ricondurre alla retta via”, al noto, chi potrebbe prendere strade ignote, minacciose e sconosciute: quelle che nascono dal desiderio corporeo. 2.4 Lo Spazio culturale Procediamo ora dando una visione d’insieme delle dimensioni collusive che caratterizzano l’immagine delle MGF nella stampa divulgativa e scientifica. Riportiamo il grafico (fig.2) che illustra le posizioni e le dimensioni entro lo Spazio fattoriale (o culturale) dei tre repertori appena analizzati. 48 Fig. 2 Posizione e dimensioni dei Repertori Culturali entro lo Spazio Culturale L’analisi fattoriale, studiando il modo in cui i repertori di frasi sono simili o dissimili tra loro in termini di co-occorrenze di parole nelle frasi, permette di posizionarli graficamente su uno spazio fattoriale (per noi Spazio Culturale). Nel grafico (fig.2) la posizione reciproca dei R.C. sul piano fattoriale mette in evidenza il modo in cui i repertori si posizionano lungo le dimensioni emozionali rappresentate dai fattori; la dimensione delle bolle con cui sono raffigurati i repertori, inoltre, rappresenta la percentuale di testo analizzato che è risultata appartenere ai repertori stessi. 49 Alla sinistra del primo asse fattoriale, quello orizzontale, si situa il R.C. 3, che si contrappone ai R.C. 1 e 2 dislocati alle due estremità opposte del secondo asse fattoriale, quello verticale. Quali possibili significati assumono i tre Repertori Culturali, così come sono posizionati entro lo Spazio Culturale? Cominciamo dall’asse orizzontale, dove si situa il R.C. 3, a cui appartengono il 23% delle frasi del testo. Come già evidenziato, il repertorio è caratterizzato da una rappresentazione dell’evento MGF come metafora della complessità del processo di integrazione. I flussi migratori verso l’Italia pongono al centro del dibattito la questione del rapporto con l’Altro, straniero e migrante, portatore di nuovi codici di significato e di nuove culture e pratiche con cui misurarsi. Le MGF divengono un evento costruito socialmente e culturalmente dal “nostro” sguardo, e che promuove appartenenze escludenti o accoglienti, poiché segnano simbolicamente un confine tra un “noi” e un “loro” che rende difficile e complesso il processo di integrazione. Si tratta di governare politicamente, avendone piena consapevolezza, le polarità che caratterizzano i movimenti dell’appartenere: “mettere dentro” e “mettere fuori”, accogliere e discriminare, particolare ed universale, rispetto delle diversità e salvaguardia dei diritti umani. “Interno” ed “esterno”, “dentro” e “fuori”, dunque, come opposti da integrare, altrimenti le identità divengono monadi chiuse e fusionali, utilizzate per marcare uno scarto incommensurabile e ineliminabile tra appartenenze diverse ed inconciliabili. Siamo di fronte ad un’immagine delle MGF, da cui emerge con forza la responsabilità della politica, come funzione di sviluppo dei processi di convivenza, che non possono perciò essere abbandonati a se stessi ma che necessitano di essere opportunamente monitorati, compresi e orientati in direzione della costruzione di nuovi equilibri tra le “parti”, le identità e le diversità. Si tratta di una rappresentazione simbolica, veicolata dalle riviste “Sociologia e ricerca sociale” e “Democrazia e diritto”, costruita intorno al riconoscimento condiviso di quella dimensione “terza”, l’integrazione, intesa come “bussola” del progredire delle appartenenze sociali. 50 L’asse verticale, dove si contrappongono i R.C. 1 e 2, si caratterizza come fattore dove l’evento MGF è utilizzato simbolicamente per marcare un confine rigido e netto tra “noi” e “loro” mettendo in evidenza gli elementi polari e scissi che istituiscono la spazio culturale in analisi. In alto troviamo il R.C. 1, il più esteso, a cui appartengono il 54% delle frasi del testo. Si tratta della rappresentazione veicolata dai quotidiani presi in esame (Corriere delle sera, La Repubblica, Il Giornale, Il Messaggero, La Stampa), e che contribuisce in modo determinante alla costruzione dell’immagine pubblica delle MGF, nei termini stereotipali di culto estraneo e violento. Repertorio che non lascia spazio ad una comprensione complessa e problematizzata del tema, al contrario ci mostra la tendenza a semplificare la realtà e a rappresentare le MGF nella loro forma più estrema (infibulazione), praticata su persone non consenzienti – bambine – configurate tout court come vittime di genitori carnefici. Il R.C. 1 sembra organizzare emozionalmente la “nostra” ostilità (dal latino hostem ‘ospite’ che poi è venuto a significare anche ‘straniero’ ed infine ‘nemico’) verso l’Altro: le MGF segnano simbolicamente il limite che ci separa e soprattutto che ci contrappone a loro. Contrapposizione emozionale, fondata sulla premessa generalizzante dell’Altro come nemico minaccioso, da giudicare e da condannare, che non consente di ipotizzare una relazione utile allo sviluppo dei processi di convivenza. Al polo opposto, collocato in basso, troviamo il R.C. 2, che rappresenta il 23% del testo. Qui l’evento MGF è costruito simbolicamente come piacere sessuale da controllare, affinché la femminilità possa essere “liberata” dalle “impurità originarie” che la contraddistinguono. Il focus dell’attenzione dunque è sul desiderio sessuale, chiave di lettura parziale ed esclusiva che priva l’evento delle altre dimensioni di senso, di carattere storico ed antropologico che lo caratterizzano. Anche con questo R.C. siamo di fronte ad una semplificazione della realtà: l’evento MGF è visto come privazione del godimento sessuale, e trasformazione del piacere in dolore. Si tratta della rappresentazione che caratterizza in modo statisticamente significativo la Rivista di Sessuologia, la Rivista di Sessuologia Clinica e la Rivista di Psichiatria. 51 Se nel polo dove si posiziona il R.C. 1 emerge un “noi” ostile, che vede nell’Altro una minaccia, qui ci si confronta con l’immagine di una sessualità ferita e privata del piacere, che organizza emozionalmente un “noi” soccorritore di donne offese e sofferenti, un “noi” centrato sulla possibilità di lenire l’ansia, il trauma, le ferite psicologiche e sessuali generate dalle MGF. Da una parte abbiamo l’Altro da combattere, dall’altra l’Altro da aiutare e salvare, all’immagine del genitore carnefice si contrappone quella della donna vittima. Si tratta di modalità opposte di esercitare un potere sull’Altro, di affermare la “nostra” superiorità sull’Altro: le MGF sono utilizzate simbolicamente per organizzare un confronto tra “noi” e “loro”, confronto che prende le sembianze polari e scisse dello scontro (R.C. 1) o del soccorrere (R.C 2), in cui ne esce vincitore e superiore il “noi”, alla cui appartenenza ad esso, si assegnano – per differenza – valori e significati positivi. Si tratta di rappresentazioni diverse e polari, che organizzano il confine simbolico delle appartenenze e delle esclusioni. Il rapporto con l’Altro – che si organizza in base alle rappresentazioni simboliche delle MGF – avviene in termini di identificazioni di gruppo (noi – loro) fondate su una correlazione puramente illusoria tra l’appartenenza ad una minoranza – migranti – e dei comportamenti indesiderati, anomali e violenti. È la dinamica simbolica e psicosociale che costruisce lo stereotipo ed il pregiudizio, in base alla quale i membri del gruppo Altro sono percepiti e categorizzati non come individui, ma innanzitutto come esempi di membri del gruppo Altro. La distinzione “noi” – “loro”, inoltre, avviene attraverso giudizi di valore: le MGF sono un culto violento (R.C.1), estraneo alla nostra cultura e storia, che priva la donna del piacere sessuale (R.C.2). La rappresentazione simbolica (o cultura) del R.C. 3 è in forte opposizione a quanto espresso dai repertori 1 e 2 situati sul secondo fattore. Ad una visione orientata allo sviluppo dei processi di appartenenza, a carattere inclusivo, così come l’abbiamo delineata attraverso l’analisi del R.C. 3, si contrappone pertanto una visione delle MGF nei termini di un evento che marca e distingue 52 simbolicamente l’interno dall’esterno, dentro e fuori, appartenenza ed estraneità, “noi” e “loro”, in modo definitivo e rigido, rendendo impensabile ogni ipotesi di relazione e cambiamento. L’evento MGF è l’elemento saliente, estremo e generalizzato che organizza la costruzione simbolica dell’Alterità. I repertori situati sul secondo fattore, dunque, evidenziano le dimensioni polari e scisse che mettono in crisi il processo di integrazione, in altre parole la possibilità di attivare una relazione simmetrica con l’Altro. 2.5 Riflessioni conclusive A conclusione di questo lavoro, proponiamo una riflessione sulle dimensioni culturali entro cui si organizza l’immaginario collettivo sulle MGF. Partiamo da una sintesi grafica di quanto emerso dall’analisi dello Spazio Culturale. Fig. 3 Sintesi dei dati disposti nello Spazio Culturale 53 Dal lavoro di analisi realizzato possiamo trarre delle informazioni intorno alle criticità e alle potenzialità di sviluppo dell’immagine dell’evento MGF presente nella letteratura scientifica e nella stampa giornalistica. La domanda a cui cercheremo di rispondere, facendo un excursus su quanto emerso dall’analisi realizzata, è la seguente: quali sono le dimensioni lungo le quali risulta utile trasformare la rappresentazione (o cultura) nella stampa analizzata per fornire un’immagine dell’evento MGF che faciliti e promuova il dialogo interculturale ed il progressivo superamento della pratica? Dal lavoro realizzato sembra che i discorsi sulle MGF rivelano molto più di noi che dell’altro e del modo in cui vengono organizzate le relazioni con la diversità culturale rappresentata dalle MGF. Come abbiamo messo già in evidenza emerge che i quotidiani presi in analisi costruiscono una rappresentazione intorno alle MGF come: culto violento, che organizza la nostra ostilità verso l’altro: il genitore carnefice. Questo repertorio è quello che maggiormente costruisce l’immaginario collettivo, teso ad attribuire alla volontà dei genitori, disegnati simbolicamente come carnefici, l’azione violenta di mutilazione contro le figlie-vittime, senza pensare all’evento MGF entro le dimensioni di complessità che fondano il rapporto individuocontesto: dimensioni economiche, etiche, valoriali (il prezzo della sposa, la costruzione dell’identità di genere, la sessualità come purezza ecc.). Rappresentazioni di questo genere, fondate sulla generalizzazione, sulla semplificazione della realtà, sullo sdegno e sul rifiuto, raggiungono milioni di persone ogni giorno e diffondono un immagine della diversità che richiama a pericolosi stereotipi razzisti. Si tratta di modalità di militarizzazione contro l’Altro attraverso la sua definizione come nemico, che ha come effetto pragmatico il combattere l’Altro utilizzando la denigrazione o il giudizio negativo, la discriminazione o la ghettizzazione. La posizione di indignazione e di attacco, esclude, pertanto, ogni possibilità di comprensione dei significati e dei valori profondi relativi alla relazione tra chi pratica le MGF e i significati socio-culturali che 54 determinano la persistenza di questa pratica, e nello stesso tempo nega la possibilità di produrre cambiamenti nella lettura e nella realizzazione della pratica per raggiungere la finalità del suo abbandono definitivo. Sembra dunque che le MGF siano utilizzate per organizzare un confronto tra “noi” e “loro” , nella forma della sfida e dello scontro, in cui il corpo delle donne è utilizzato strumentalmente nei discorsi pubblici per erigere distanze incommensurabili tra un mondo, “il loro”, rappresentato come violento e feroce e “il nostro” considerato superiore perché tutela i “diritti umani”. Il corpo delle donne viene, dunque, assunto come pretesto e oggetto su cui prende forma e si combatte il presunto “scontro di civiltà”. Un’ulteriore rappresentazione culturale emerge da alcune riviste scientifiche (Rivista di Sessuologia, Rivista di Psichiatria, Sessuologia Clinica) che costruiscono un immaginario della pratica come: sessualità ferita e privata del piacere, che organizza il nostro soccorrere le donne vittime di questa pratica. L’Altro è rappresentato esclusivamente come vittima da soccorrere, da aiutare in quanto impotente dal punto di vista del piacere sessuale, e nel contempo ferita e traumatizzata in nome di una concezione “sbagliata” della purezza poiché si capovolge nel suo opposto: infezioni, complicanze, dolore fisico e sofferenza psicologica. Questa costruzione simbolica organizza le relazioni tra autoctoni e donne immigrate intorno alla dipendenza. Il dipendere come accrescimento della dimensione emotivamente rassicurante dell’appartenenza ad un noi che si identifica come la parte giusta e buona che può salvare le donne, vittime di tale pratica. Viene prodotta pertanto un immagine delle donne straniere come vittime fragili da proteggere, soccorrere, salvaguardare, che conferma lo stereotipo della donna che ha bisogno della tutela di qualcuno e che non ha la possibilità di autodeterminarsi. Il corpo delle donne viene di nuovo strumentalizzato, assunto come oggetto del contendere, tra chi provoca la ferita e chi la lenisce. 55 Le due rappresentazioni emerse sono accomunate dalla stessa premessa etnocentrica, che organizza il rapporto con l’altro in maniera asimmetrica, proponendo in entrambi i casi i “nostri” orizzonti di senso come superiori e universalizzati. Allo stesso tempo si contrappongono per la rappresentazione di un “noi” ostile nel primo repertorio e di un “noi” soccorritore nel secondo. Nella terza rappresentazione culturale che emerge dalla ricerca si individuano le dimensioni lungo le quali è possibile promuovere il dialogo interculturale. Qui le MGF vengono rappresentate come metafora della complessità politica del processo di integrazione. Ciò significa in primo luogo riflettere sul senso della migrazione per le donne, sul loro progetto migratorio, sulla relazione che esiste tra gli stili di adattamento adottati e le politiche di accoglienza proposte nel paese di arrivo. Migrare in termini psicologici significa affrontare un vissuto di separazione, che può essere faticoso e doloroso. Una delle difese che vengono attivate per far fronte a questo sentimento di precaria fragilità o nostalgia si può tradurre nel chiudersi nelle proprie radici, nelle proprie tradizioni costruendo un immagine idealizzata e anche cristallizzata del paese di provenienza e delle pratiche sociali condivise. Le condizioni che rendono possibile un’elaborazione della separazione e la costruzione di un nuovo “contenitore protettivo” e di una nuova “pelle psichica” (Anzieu 1987) sono connesse alle politiche di accoglienza adottate nel paese di arrivo. Per politiche di accoglienza ci riferiamo alle politiche di inserimento sociale, alle politiche sull’istruzione, alle politiche sulla sicurezza, alle politiche sul lavoro, alle politiche sulla salute. Partire da questa conoscenza è sostanziale, in quanto edifica le fondamenta attraverso cui è necessario muoversi da un punto di vista delle politiche di accoglienza. Esiste infatti una relazione tra le varie strategie di adattamento al contesto e le politiche di accoglienza, una relazione tra auto-esclusione dai valori, dall’etica, dalle leggi e dalla cultura del paese di arrivo e marginalizzazione determinata dalle carenti politiche di accoglienza sociale, che garantiscano i diritti 56 sociali e civili di ogni persona. Dal nostro punto di vista esiste una relazione tra la persistenza della pratica e i processi di inclusione/esclusione sociale. L’acculturazione delle donne straniere non può essere coercitiva e forzata, ma può costruirsi solamente dentro una cultura dialogica che possa restituire alle stesse donne “le parole per dirlo”, per raccontarsi e auto-legittimarsi a non effettuare e/o mettere in discussione questo rito di iniziazione sulle proprie figlie. Ciò può avvenire se il confronto non si costruisce sulla pratica delle MGF, ma se esse vengono inscritte dentro un discorso complessivo sulla salute delle donne, possibile attraverso la promozione di relazioni interculturali entro il contesto sociale. E come abbiamo visto, questo processo, finalizzato a promuovere il benessere psicologico delle donne migranti, è connesso con la riuscita/fallimento del progetto migratorio. Bisogna dunque intervenire ponendo primaria attenzione alla qualità della vita delle donne migranti e delle loro famiglie nel paese di arrivo, e alla possibilità che il loro progetto migratorio non fallisca. Diventa necessario, pertanto, conoscere ed esplorare cosa chiedono al paese di arrivo, cosa si aspettano, cosa offrono, qual è la loro domanda di sviluppo e di crescita personale e sociale. L’esplorazione e la conoscenza reciproca può sostanziarsi nell’attivazione di un processo dialogico che rende possibile trasformare e modificare le culture. Si tratta, in tal senso, di considerare le culture come insieme di significati attribuiti al mondo, che non sono immobili né riguardano un attore ideale; esse sono costruite in uno scambio comunicativo reale, in cui le variabili individuali, sociali e contestuali hanno un peso enorme. Parliamo pertanto di culture locali, situate nei contesti di vita, negoziate, contestate e contestabili (Benhabib, 2005); le culture sono il prodotto di una relazione non una precondizione di essa, non esistono stabilmente nella mente di qualcuno ma sono il prodotto - variabile, trasformabile, modificabile - di un dialogo in situazione. Le relazioni interculturali, nel momento in cui si costruiscono modificano infatti le culture, che non sono oggetti statici e reificati, ma in continua trasformazione attraverso una narrazione collettiva. 57 Questo significa entrare in relazione attraverso la sospensione del giudizio, l’ascolto e la narrazione condivisa sulle questioni che riguardano la salute, il benessere delle donne, delle loro famiglie e delle comunità. Gli interventi di sensibilizzazione e di informazione se non tengono a mente il discorso politico più ampio, iscrivendo le MGF entro i discorsi e le pratiche sulla salute e sul benessere delle donne, delle loro famiglie e delle comunità, rischiano di essere fallimentari o solamente autoreferenziali, tese esclusivamente a rimarcare “il nostro” essere contro le pratiche delle MGF. Inscrivere il discorso sulle MGF dentro questa cornice significa promuovere una conoscenza tra donne, famiglie, comunità autoctone e migranti, costruire significati condivisi rispetto all’integrità del corpo, al piacere femminile, significa restituire la parola a chi ne è implicato in prima persona, e attivare un processo “dall’interno”, affinché le bambine e le ragazze non siano più discriminate nei diversi contesti di appartenenza se non le praticano, del paese di arrivo se le praticano. Per questo risulta fondamentale costruire con le donne immigrate il discorso politico sulla salute, in una rappresentazione dell’altro “donne straniere” non come oggetti da colonizzare, ma come soggetti attivi e capaci di autodeterminarsi. Ciò significa promuovere politiche volte alla promozione della convivenza interculturale, e inscrivere il tema MGF all’interno di un discorso complessivo sulle politiche di accoglienza e sulla promozione della salute. 58 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Anzieu, D., L’Io-Pelle, Borla, Roma, 1987. Benhabib, S., Le rivendicazioni dell’identità culturale, Il Mulino, Bologna, 2005. Carli R., Paniccia R.M., L’analisi emozionale del testo. Uno strumento psicologico per leggere testi e discorsi, FrancoAngeli, Milano, 2002. Carli R., Paniccia R.M., L’analisi della domanda, Il Mulino, Bologna, 2003. Carli R., Salvatore S., L’immagine della Psicologia. Una ricerca sulla popolazione del Lazio. Edizioni Kappa, Roma, 2001 Eke N. (2000), Female genital mutilation: what can be done?, in “The Lancet Perspectives”, 2000, 356, pp. 136-137. 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Ateneo, Roma, 1985. 60 PARTE III 61 3 Raccontarsi attraverso l'Altra: vissuti e narrazioni per dire l'indicibile. di A. Petricone "Vogliamo una generazione che fenda l'orizzonte, scuota la storia dalle sue radici e scuota il pensiero dal profondo! vogliamo una generazione dall'aspetto diverso che non perdoni gli errori, non abbia clemenza, non si pieghi, non conosca l'ipocrisia! vogliamo una generazione...una guida...un gigante!" NizÇr QabbÇni, Note sul quaderno del disastro La metodologia d’indagine utilizzata per svolgere il lavoro di ricerca qui esposto, si è basata sull’uso dell’intervista, utilizzata come strumento di ri-appropriazione della parola delle donne e come recupero di memoria autobiografica, di una memoria che si costruisce incentrandosi sulla trasmissione di un’esperienza di vita perché, come scrive Luisa Passerini (storica) l’atto narrante è anche tradizione, riformulazione, innovazione di qualcosa, se non altro del linguaggio che si è ricevuto da generazioni precedenti e che vuol passare a generazioni future. In qualità di letterata, mi affascina analizzare ciò che si costruisce dietro ogni narrazione, il simbolico e il reale che sottintendono alla costruzione della realtà e l’identità del sé, che la narrazione svela e restituisce attraverso il racconto orale. La trasmissione orale valorizzata come momento di passaggio di consapevolezza conquistata da altre donne, attiva una forza che è riconoscibile nella relazione e che sposta nel registro della preziosità qualsiasi competenza, anche quella professionale (Ivana Trevisani). E la dimensione dell’ascolto, in cui ogni giudizio è sospeso, diventa un attraversare e un essere attraversate da una tale forza che muta 62 profondamente lo sguardo di chi si posiziona e si equipaggia con il proprio bagaglio esperenziale e conoscitivo. Muoversi dentro i confini apparentemente conosciuti dell’autonarrazione ed infiltrarsi nel cuore dei racconti di vita di donne che hanno vissuto o praticato Mutilazioni/Modificazioni Genitali Femminili, non è stata un’impresa di facile realizzazione, sia per motivi legati ad una sfera più propriamente emotiva, che ha a che fare con la responsabilità di creare connessioni empatiche e di scavare in vissuti spesso dolorosi, in reticenze e tabù, tentando di non essere invadenti, indelicate, giudicanti, insistenti, sia per motivi legati alla mia personale posizione professionale, non facilmente gestibile, nel rapporto con l’Altra che ti/mi percepisce come interessata alla sua storia solo perché ricoperta da un ruolo e autorizzata a interrogarla per motivi prettamente di interesse utilitaristico e di tornaconto personale. Cercare l’incontro con l’Altra, l’Altra che desidera raccontarsi, rivelarsi, mettersi in gioco e che si dispone al mio ascolto, si è rivelato un impegno ben al di sopra delle energie che avevo previste in una prima fase di gestazione del lavoro e rivelatesi ben al di sotto delle aspettative che avevo riposte nell’immaginare un percorso possibile di acquisizione di conoscenza a partire da me e dai miei strumenti, in un terreno per me nuovo e ricco di fascino, quale la ricostruzione di una storia collettiva di appartenenze simboliche e storiche, nonché culturali, sociali e politiche, di donne di origini prevalentemente africane che scelgono di raccontarsi e mi scelgono come interlocutrice per farlo. Il passaggio da una fase più idealistica e utopistica ad una fase più disincantata e più realistica, è avvenuto apportando con sé non pochi momenti di frustrazione e di abbattimento rispetto all’esito delle interviste faticosamente conquistate. L’aspetto che mi preme mettere in risalto, è la difficoltà incontrata nell’aver gestito le interviste, facendo i conti con la reperibilità di donne interessante e disponibili a rilasciarle e con l’articolata nonché contraddittoria in molti suoi aspetti, costruzione di un rapporto di fiducia che spesso ha significato mesi di preparazione, di conoscenza, di mediazione, non sempre riuscita e non sempre portatrice di dinamiche semplici da condividere. La diffidenza nel parlare di Mutilazioni/Modificazioni Genitali Femminili, da parte di alcune delle 63 donne di origine africane da me contattate, ha origine in una forma di stanchezza radicatasi nel tempo esasperata dalle innumerevoli richieste di questo tipo a cui sono state sottoposte in questi ultimi anni, da parte di attrici politiche, intervistatrici, giornaliste, studiose e associazioni non sempre predisposte all’ascolto e spesso agenti atteggiamenti chiaramente o velatamente ostili, pregiudizievoli, prevenuti, distrattamente o volutamente trasmessi ed esercitati come forme di potere e di strumentalizzazione di un sapere acquisito e sentito come universalmente valido e per questo esportato e imposto. La stanchezza di sentirsi oggetto dello sguardo “liberato” delle donne occidentali (aspetto che emerge dalle interviste nei termini di: “tu, donna occidentale vieni a casa mia a dire a me come devo liberarmi della mia oppressione e non vedi invece la tua”), oggetto di commiserazione o di disapprovazione, considerate “vittime” di una cultura patriarcale schiavizzante, prive di strumenti di emancipazione secondo i “canoni” del femminismo occidentale, ha relegato molte di loro nella posizione di non poter parlare della loro esperienza senza incorrere in manifestazioni di luoghi comuni stereotipanti, che hanno compromesso qualsiasi possibilità di confronto e di scambio produttivo e costruttivo. Edvige Bilotti scrive nell’introduzione ad un suo lavoro di ricerca sulle MGF La premessa teorica é che le donne sono costituite come donne attraverso la loro complessa interazione con cultura, religione, sistemi di significati e credenze, reti locali di potere, gerarchie di istituzioni e altre strutture ideologiche. Le donne sono definite da questo contesto ed all'interno di questo sotto specifiche condizioni. Loro stesse contribuiscono a formare e determinare queste relazioni in vari modi attraverso dimensioni sociali specifiche. Anche se diversi e contraddittori i livelli sociali si sovrappongono e sono intrinsecamente interrelati e vengono separati qui solo per necessità di astrazione analitica. Gli occidentali tendono a vedere questa pratica semplicemente come un atto di violenza contro le donne che deve essere abolito. Inoltre, formulazioni semplicistiche e riduttive che limitano la definizione di donne all'identità di genere creano “un falso senso di comunione di oppressione, intenti e lotte tra le donne globalmente”. Anche in un 64 contesto di impegno per abolire la MGF, ciò non solo é inefficace ma anche controproducente nell'organizzare efficaci strategie di resistenza politica per combattere forme di oppressione. Oltre la “sorellanza” ci sono complesse condizioni culturali e specificità storiche da capire e rispettare6. Queste sono essenzialmente le ragioni di una “impasse” in cui sono scivolata anch’io, pur senza comprendere fino in fondo le logiche che l’hanno determinata, perché attinenti a situazioni pregresse di disagio, e le difficoltà incontrate sono diventate esse stesse punti salienti e tappe fondamentali del percorso di indagine, quindi parte integrante delle considerazioni a cui sono giunta e oggetto di riflessione e di elaborazione in itinere, nonché divenute materiale ultimo di valutazione del lavoro svolto. Il quadro si è progressivamente delineato assumendo angoli di osservazione completamente diversi rispetto al punto di partenza, man mano che la ricerca incontrava la difficile reperibilità di alcune delle donne contattate, disposte a rilasciarmi un’intervista, ad offrirmi il loro tempo e la loro disponibilità ad entrare in empatia con me e con le mie richieste e il desiderio di interrogarle, fino ad arrivare al totale rovesciamento di prospettiva che il confronto con la realtà ha generato in me producendo dei risultati diversi da quelli sperati, ma imprevedibilmente autentici e veritieri. Ciò che è emerso è innanzitutto un gap profondo a livello di relazione e di interazione tra donne portatrici di discorsi culturali e sociali differenti, che non può non essere analizzato e contestualizzato se non calandolo all’interno di una più generale difficoltà a posare lo sguardo su di sé come donne, a cogliere i meccanismi di potere che possono compromettere le relazioni tra donne anche all’interno di una stessa comunità di appartenenza, che sia quella di origine “etnica” o quella costruita professionalmente e politicamente in un contesto di lavoro e di collaborazione determinato, mettendo in crisi la possibilità di stabilire relazioni di fiducia che hanno a che fare con l’affidarsi 6 http://www.medmedia.org/review/numero3/it/art2.htm 65 all’Altra, o le une alle altre, nel riconoscersi soggetti di diritto, del diritto a riappropriarsi di uno spazio comune di intervento che produca saperi ed esperienze a partire dal confronto collettivo, di potersi confrontare riassegnando valore alla parola dell’altra e prendendola su di sé come stimolo di cambiamento e di crescita. Forse è questo che dovrebbe sorreggere ogni sforzo teso a lavorare sulle narrazioni delle donne, prima ancora che ci si inoltri in quel terreno delicato e fluttuante dell’affidare la memoria di sé all’altra che ci sta di fronte, sarebbe opportuno ricominciare a parlare tra donne, riscoprire il valore e il senso del confidarsi e dell’attribuire a quella confidenza valore letterario oltre che politico. Solo con uno sforzo di questo tipo, le barriere che ancora impediscono alle donne di andare oltre i propri confini territoriali e i propri abiti mentali, potranno essere viste e abbattute. Il dialogo potrà essere ri-costruito, ri-attivato a partire da questo sforzo comune di rimessa in discussione. L’obiettivo iniziale della ricerca, era di comprendere, attraverso le interviste, come le donne africane vivono oggi il loro rapporto con un corpo che può essere stato “mutilato” o “modificato” e come lo leggono alla luce dell’esperienza che ne fanno in un paese straniero, in relazione alle politiche repressive e alle leggi severe che regolano la pratica delle MGF in Italia e soprattutto in relazione alla possibilità o meno di poterne parlare senza vergogna con donne occidentali che spesso prendono parola sull’argomento al posto loro. Restituire parola alle vere depositarie della questione in oggetto, era ed è anche in questa analisi conclusiva, l’aspetto più importante. Nell’affrontare solo idealmente questo lavoro di indagine, che avrebbe dovuto e in minima parte ha fatto, coinvolgere soggetti privilegiati e portatori di saperi sulle diverse e complesse questioni delle MGF, mi sono chiesta, come sono solita fare quando mi accingo ad esplorare territori a me poco conosciuti, non dal punto di vista teorico, scientifico o letterario, ma dal punto di vista esperienziale e soggettivo, perché non appartenenti ai confini in cui mi muovo io per bagaglio personale, se e come avrei potuto realizzare una raccolta di storie di vita, a partire dalle testimonianze dirette delle donne che avrei incontrato e che mi avrebbero fatto dono della loro storia. 66 Tenendo conto della buona fede delle mie intenzioni e forse di una misurata dose di ingenuità che mi è stata complice nel proiettare in senso positivo la riconoscibilità di un metodo che pensavo universale, vale a dire la costruzione di un sapere condiviso e condivisibile attraverso la pratica delle relazioni tra donne, come terreno di confronto nel rispetto delle differenze di pensiero e forte della validità del tipo di indagine che avrei portato avanti, ho pensato e ritenuto efficace, senza ombra di dubbio, avvalermi di uno strumento di analisi e di lettura del fenomeno delle MGF, acquisito nei saperi della pratica femminista che seppur nella mia breve esperienza di vita, ha segnato momenti importanti di lettura della realtà circostante, andando a cercare in essi, le risposte al tipo di approccio che avrei scelto nell’accostarmi a questo terreno delicato di introspezione simbolica, attraverso la condivisione e la messa in discussione di entrambi i soggetti in gioco. Una volta equipaggiatami di quegli strumenti che hanno permesso all’esperienza delle donne, in anni e contesti sociali e culturali differenti, di emergere dal silenzio e di imporsi come saperi condivisi e socialmente legittimati, quali l’ascolto come scelta di posizionamento politico e l’uso della parola, come mezzo per elaborare eventi traumatici all’interno di un contesto di donne sentito come “protetto” perché preparato e pensato per questo, mi sono percepita pronta a poter attingere alla mia esperienza di donna, studiosa, femminista, per usare quella stessa esperienza, come stimolo e punto di raccordo con le esperienze di altre donne, lontane e distanti dai miei punti di vista, dalle mie geografie culturali e sociali, inserite in una storia che avrei ricostruito a partire da me e dal riconoscersi inserite in una cultura maschilista e patriarcale che in modi e forme spesso diametralmente opposte, ci domina e condiziona il modo in cui abitiamo i nostri corpi. Questo è stato l’errore di partenza, dare per scontato che la mia esperienza ed il mio atteggiamento scevro da pregiudizi e da idee stereotipate, potesse rappresentare il biglietto da visita per entrare nello spazio privato dell’Altra, facendola sentire a casa e ben accolta e dandole, che significa permettendole, l’opportunità di raccontarsi senza essere giudicata e colpevolizzata. Errore ben presto pagato al prezzo di continui rifiuti e reticenze che non hanno ceduto alle continue richieste di incontro, confronto, scambio più volte avanzate e 67 molte volte rifiutate senza il privilegio di una spiegazione esaustiva ed esauriente. Poi mi sono chiesta, perché le donne africane non volessero parlare con me della loro esperienza di vita, anche se apparentemente non opponevano risposte di rifiuto netto e chiaro. E su questo interrogativo, che mi ha accompagnato durante tutti i mesi di realizzazione della ricerca, fatti di attese, rincorse, appuntamenti mancati, delusioni, opportunità perse, i parametri che fin ad allora mi avevano sostenuta nell’intento di costruire un dialogo rispettoso dell’altrui esperienza, si sono completamente rovesciati producendo un altro tipo di approccio e di visione del compito assegnatomi. Illuminante è stata la domanda incalzante rivoltami da una delle donne da me intervistate per prima, Rabìa di origini somale, la quale con grande semplicità e con grande coscienza di sé, mi ha immediatamente rimessa al mio posto restituendomi quella dignità del sentirsi denudata che non avevo presente, troppo accecata dalla presunzione di poter strappare confidenze intime e profonde solo per il fatto di essere ben disposta ad ascoltarle e per uno scopo alto, e mi ha restituita a me, al mondo a cui appartengo, con le sue visioni prioritarie e invadenti, dicendomi: Perché ti interessa affrontare la questione delle MGF? Perché tutto questo accanimento per una pratica che non ti riguarda? Questo l’inizio di tutto. Sento di poter far mie le parole espresse da una giovane antropologa di Bologna, Alessia Acquistapace, conosciuta in occasione di un convegno, che mi sono rimaste particolarmente a mente e si sono reincarnate nel bel mezzo di quest’esperienza. Alessia si chiedeva se un certo atteggiamento delle femministe o cosiddette donne italiane “emancipate”, nei confronti delle donne migranti/immigrate, non avesse a che fare con un modo di pensare binario che ci preclude lo sguardo e la possibilità di concepirci uomini e donne in tanti modi diversi, e non ci permette di considerare tutte quelle culture esistenti che prevedono altri modi di essere donna e uomo e di articolare la disparità di potere e quindi altri modi di resistere o di liberarsi, ed altri modi di essere corpo/corpi. 68 Le parole di Alessia risuonano fortemente ed emergono in maniera inequivocabile anche dalle interviste realizzate. La restituzione di una parola che abbia il potere di spostare le nostre convinzioni e farci cadere dalle nostre prese di posizione, una parola che è tanto più forte tanto più nasconde e non dice, è il momento di presa di consapevolezza di me e dei miei limiti rispetto a questo lavoro. A loro lascio la comprensione di ciò che si è inframezzato rovesciando le aspettative iniziali ed espongo, qui di seguito, le suggestioni ricevute da una grande lezione di riposizionamento. Scrive Mila Busoni: Per uscire dall’impasse conoscitiva che è anche uno scacco emotivo (poiché la nostra esigenza di mobilitarsi è completamente ridotta all’impotenza), è necessario fare alcuni passi metodologici e teorici, e analizzare il fenomeno MGF nell’enorme complessità delle questioni che vi sono implicate. Le MGF non sono un problema esclusivamente sanitario, tanto meno un problema esclusivamente giuridico e penale. Sono fenomeni delicati e compositi, emotivamente coinvolgenti sia per chi le subisce che per chi trova a doverle affrontare, prevenire o curare. Approssimarsi al fenomeno significa disporsi a una riflessione ampia, esaminare temi e problemi che attraversano e investono la nostra contemporaneità: l’irrigidimento di alcune nozioni come “cultura”, “identità”, “etnia”, “comunità”, “tradizione”, che spesso diventano un paravento che ci impedisce di avvicinare le persone, con i loro vissuti complessi, irripetibili, unici; la condizione dei migranti, oggetto del razzismo e della negazione dei diritti di cittadinanza che determina la chiusura e la difesa ad oltranza della propria “identità culturale”; il delicato rapporto tra rispetto delle differenze culturali e difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne in particolare; la disparità delle relazioni di genere, la subordinazione femminile a tutti i livelli della vita sociale e la violenza strutturale contro le donne che attraversa, in forme diverse, tutte le società. Ma soprattutto, per comprendere davvero il fenomeno, e per individuare strumenti e strategie adeguate per combatterlo, è necessario porsi all’ascolto delle donne africane che, sempre più numerose, lottano nei paesi di origine e in quelli di emigrazione per sconfiggere le MGF. Siamo infatti sempre più convinte 69 che la risposta definitiva alle MGF possa venire solo dalle donne che le conoscono bene per averle subite e per esservisi opposte, spesso pagando prezzi altissimi.7 7 Mila Busoni, “Introduzione” in: Elena Laurenzi (a cura di), Profilo informativo del fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, conoscerle per prevenirle, Regione Toscana, Stampa Industria Grafica Valdarnese, San Giovanni V.no (Arezzo), 2006, pag. 11. 70 4 Le donne occidentali ci giudicano? di A. Petricone, E. Selvi 4.1 Mariam (Somalia) Intervista a cura di Eleonora Selvi Marian ha un’eleganza che traspira dal suo portamento anche se è immobile seduta su una sedia, pronta a farsi intervistare. Il suo sguardo è vigile, attento, diretto su ciò che sta per dire. Sa bene ciò di cui vuole parlare, ne ha consapevolezza e padronanza. Si rivela un’esperienza molto interessante poterla ascoltare, fare tesoro delle sue parole, mai confuse, mai incerte, ma dirette, piene ed essenziali. Inizia a parlare andando subito al cuore della questione, senza girarci intorno, sollecitata dalle domande che le vengono poste, ma quasi sicura di sapere esattamente cosa e come rispondere prima ancora che le vengano formulate. Sa di cosa deve trattare e sa cosa ci aspettiamo da lei. Lo sa perché è una delle poche donne che ha scelto di farsi intervistare e di concedere ad altre donne, noi, distanti da lei, un punto di vista che evidentemente per lei vale ancora la pena di mettere in gioco, con noi. Le MGF, secondo il suo parere, stanno emergendo soprattutto in questi ultimi anni e si stanno imponendo come questione di una certa importanza, questione attorno a cui si stanno strutturando diversi pensieri, nati forse dalla difficoltà di capire fino in fondo una storia di cui spesso si parla, senza cognizione di causa. Lei è originaria di una terra di ricche ed antiche tradizioni, afferma. In Somalia c’è molto rispetto per le persone anziane e per le tradizioni che da esse vengono trasmesse. All’interno di un tale contesto, è difficile spiegare il valore che fino ad oggi hanno avuto le MGF per le donne somale. 71 Ed è proprio uscendo dal contesto culturale di riferimento che le donne hanno la possibilità di confrontarsi e di parlare di queste pratiche. Oggi quasi la maggioranza delle donne somale convengono nella necessità di dire Stop alle MGF. Nella sua terra è una tradizione vissuta come un obbligo quasi, come un pretesto per non uscire da quel contesto sociale, per evitare che le bambine vengano considerate diverse e siano emarginate. Ne è nata così una tradizione e un valore che non ha nulla a che fare con la sua comunità, non è né un obbligo religioso né altro. Non esiste alcuna ragione per cui una bambina debba essere mutilata, è solo un pretesto per rimanere ancorati alla propria comunità di riferimento, per farsi accettare da un uomo della comunità di appartenenza e trovare il proprio status all’interno della stessa. Per tale ragione, sostiene Marian, «ritengo che sia arrivato il momento per tante di noi, di confrontarci con gli uomini delle nostra comunità per capire che cosa si aspettano anche loro e per aprire un dialogo. Io non ricordo molto di quell’esperienza, ero piccola, avevo due anni e sia per l’età sia per un fattore di rimozione dell’evento traumatico, non ricordo il mio intervento, ma ricordo quello fatto alle mie cugine e soprattutto ricordo il grande festeggiamento e le cerimonie che lo hanno seguito. La mia percezione del fenomeno ha cominciato a cambiare quando ho iniziato a rifletterci in prospettiva della nascita di mia figlia. Il fattore legato alla “sofferenza” ha determinato l’inizio della mia riflessione sulla pratica. Mi sono chiesta per quale motivo dovessi soffrire in quel modo e a che cosa servisse, finché non è nata mia figlia. In quel momento ho pensato che avrei cambiato la mia tradizione. Eh ho comunicato a mia madre che non avrei sottoposto mia figlia allo stesso intervento. Nel Corano (io provengo anche da studi di tipo religioso effettuati in Somalia), non esiste alcuna traccia che faccia 72 riferimento a questa pratica. Decidere di non praticarla non mi ha comportato la paura di uscire da un contesto. Anzi, al contrario, mi ha fatto vedere la possibilità di aprirsi a delle forme di “progresso”, di cambiare prospettiva, non la vivo come minaccia al mio contesto di riferimento, ma la vivo come fattore di crescita. Mia figlia ha 19 anni e non si sente affatto diversa dalle sue compagne. Lei è felice e se lo è lei, lo sono anch’io. Come dicevo sopra mia figlia è stata il pretesto per riflettere sul fattore sofferenza e quindi sulla pratica che genera tale sofferenza, anche con le altre donne somale è avvenuto in questo modo, abbiamo cominciato a discuterne insieme con il pretesto dei figli. Inoltre, io lavoro al Policlinico Umberto Primo e molte mie connazionali si rivolgono a me per risolvere problematiche connesse alle pratiche. E spesso accade che si vergognino di farsi visitare da un medico straniero (italiano). Allora ci siamo dette, se ci vergogniamo di farci visitare, perché continuiamo a perpetrare questa pratica. Ci siamo interrogate a partire dal disagio che proviamo nel confrontarci con persone che non appartengono al nostro contesto di riferimento. Riguardo alla stigmatizzazione da parte dell’Occidente, è vero che molte persone cercano di entrare nel merito e di voler capire come vivono queste donne, ma è difficile, io ritengo, capire qualcosa che non si conosce. Come si può comprendere qualcosa che non appartiene al proprio contesto, che ha che fare con la propria storia, le proprie origini, la propria diversità. Da parte delle donne somale, ci può essere l’imbarazzo e la volontà a non entrare in contatto con il mondo occidentale e viceversa avviene lo stesso imbarazzo da parte dell’Occidente. 73 Non si è trovato ancora un filo diretto che metta in comunicazione/comunione le due realtà. L’imbarazzo nasce anche dall’incomprensione e dal giudicare l’Altra, come se l’altra fosse colpevole di se stessa. Nessuna donna somala giudicherebbe una donna occidentale che ha deciso di intervenire sul suo corpo modificandolo. La differenza risiede proprio qui. La donna “mutilata” subisce la pratica perché viene sottoposta ad essa in età molto piccola, la donna occidentale che si sottopone ad interventi sul proprio corpo, decide di farlo in età adulta. L’Occidente giudica, noi invece comprendiamo». 4.2 Fairus (Somalia) Intervista a cura di E. Selvi «Parlare di come avviene il processo decisionale delle donne rispetto alle pratiche di MGF nel mondo somalo è un po’ troppo generico». Con queste prime parole Fairus ci riporta immediatamente alla necessità di non dimenticarci che stiamo intervistando donne africane, ma appartenenti a culture diverse, anche all’interno della loro stessa terra d’origine e non un insieme di soggettività indistinte accomunate solo dalla stessa nazionalità. È un primo grande scossone rispetto alla tendenza un po’ presuntuosa e un po’ arrogante, nostrana, di rivolgerci a loro come se fossero tutte d’accordo con ciò di cui sono portatrici, di valori e pensieri che le uniscono in un solo gruppo identitario indistinto, ma non è affatto così. La sua è una “lezione” sulla necessità di sentirsi in difficoltà, quando ci si confronta con la complessità di storie differenti, imparando ad entrarci senza incorrere in banali e facili omologazioni, 74 barriere dietro cui spesso ci sentiamo più protette nel porci come chi ascolta e si sente già di possedere ciò che udirà. Fairus abbraccia in pieno l’importanza di parlare a partire da sé e infatti ribadisce, da subito «Io posso parlare della mia realtà, tenendo conto che in Somalia esistono moltissime altre realtà, diverse tra loro e con tradizioni e usanze differenti, non se ne può parlare generalizzando e in nome di tutte le donne somale. Parlerò quindi della mia realtà, partendo da essa. Nella mia famiglia sono le nonne che insistono affinché la pratica venga perpetrata per segnare il passaggio fondamentale dall’età infantile all’età adulta, l’entrata nel mondo dei grandi. Mia nonna spingeva molto sulla necessità di sottoporci alla pratica, nonostante mia madre non fosse d’accordo con lei. Mi sono “salvata”, se così si può dire, perché invece di essere sottoposta alla pratica in casa (quella che comunemente viene chiamata la faraonica, la più incisiva e invadente), mia madre ci ha portate in clinica dove siamo state sottoposte alla pratica sunnita (considerata più leggera rispetto alla faraonica). Ero una bimba di 9 anni e ½, in Somalia a quell’età si è già piccole donne. Il motivo del ritardo è dovuto proprio al fatto che mia madre si è rifiutata ed ha temporeggiato finché le è stato possibile. Ricordo di essere stata discriminata dalle mie compagne, perché considerata impura non essendo ancora stata sottoposta alla pratica. Questo è uno dei motivi di condizionamento che spiega, tra le altre ragioni, la difficoltà di abbandonare la pratica, inoltre va tenuto presente che buona parte della popolazione somala è ignorante e chi parla di MGF è generalmente una donna che non l’ha subìta e ne conosce gli effetti psicologici e i danni che può causare sulla salute delle donne, per noi che l’abbiamo vissuta, è 75 considerata un fatto “naturale”, non una violenza sul corpo delle donne. La diversa percezione che si comincia ad averne subentra nel momento in cui ci si relaziona ad un contesto culturale completamente diverso da quello di provenienza, allora in quel caso ti documenti e cominci a confrontarti con realtà diverse e proprio lì la vivi come una violenza. Ecco perché considerando il ruolo che le donne hanno nella mia cultura, ruolo legato alla procreazione e al compiacimento dell’uomo della propria comunità, il processo di abbandono della pratica risulta essere un processo lungo che andrebbe forse riaffrontato seguendo delle tappe. Innanzitutto andrebbe portato avanti da chi ha vissuto tale esperienza e non da organismi esterni che non sanno di cosa si sta parlando e che spendono fior di finanziamenti per proporre progetti da esportare in Somalia. Mi ricordo che già quando ero in Somalia, ventidue anni fa circa, nelle preghiere che si facevano, si ripeteva che la pratica non era prescritta dalla religione e questo perché si erano verificati casi di bambine decedute per infezioni incorse dopo l’intervento effettuato in casa, in condizioni igieniche scarse e si ripeteva che l’unica pratica possibile era quella sunnita, meno pesante della faraonica. Solo le donne che l’hanno subìta, dall’interno della loro esperienza, possono cominciare a parlarne e a parità di livello, sono in grado di poterne discutere seminando il dubbio. È da lì che occorre partire». 4.3 Faduma (Somalia) Intervista a cura di E. Selvi Faduma è di poche parole. «Bisogna fare qualcosa per fermare questa sofferenza» 76 E’ il suo modo di definire ed affrontare l’argomento. Parla partendo dalla propria esperienza e da quanta sofferenza le ha causato. «Per me bisogna lottare per fermare questa idea, che fa soffrire le ragazze. Non è una cosa che si fa per religione. Si fa per usanza, ma è un’usanza sbagliata». E il termine sofferenza segnala la differenza con “la cosa” che si fa ai ragazzi. «Io ho due figli maschi e a loro l’ho fatto quando avevano 3 anni. Ma non l’ho fatto per l’usanza, ma per la salute, per l’igiene e per la religione. I maschi per forza devono farlo, però loro non soffrono come soffre una femmina. Pure i cristiani lo fanno». Alla domanda: “se avessi avuto delle figlie?” La risposta è immediata e categorica «Per carità, non l’avrei fatto .. perché quello che ho passato io non lo facevo passare alle mie figlie … Ho capito che sono cose sbagliate, ho sofferto e soffro ancora adesso … Se avessi avuto figlie femmine non l’avrei mai fatto, non volevo farle soffrire perché io ho capito … non come non ha capito mia madre … io ho capito che è una sofferenza, perciò come ho passato la sofferenza io non volevo far soffrire le mie figlie» Quando le chiedo perché si continua a portare avanti la pratica delle MGF mi risponde «Per l’ignoranza … La gente è ignorante, non ha capito che questa cosa è pericolosa, non solo per la sofferenza, ma anche per la salute». Mi congeda così, con una intervista breve. Poche parole, che aprono una profonda riflessione sulla dimensione che il vissuto personale assume in ognuna di noi. 4.4 Thema (Burkina Faso) Intervista a cura di A. Petricone 77 Non ha mai tempo, Thema, sempre su e giù dagli autobus, sempre su e giù con gli autobus per tutta Roma, ore e ore ogni giorno, su e giù sugli autobus affollati e vetusti della periferia dove abita, su e giù sugli autobus meno affollati e meno vecchi che si infilano nelle strade eleganti dei quartieri residenziali dove lavora, e non si siede mai, Thema, neanche quando i posti a sedere ci sono, più di una volta le hanno chiesto di alzarsi perché al sedile non aveva diritto, e lei sta dritta con il suo grande corpo scurissimo, porta pantaloni larghi neri o marroni o blu e casacche ampie in tinta, ma è più bella quando indossa il grand bombo, il suo abito pieno di colori. Ha il bel viso sempre guardingo e serio, ma è più bella quando il sorriso le fa splendere gli occhi e la magnifica dentatura. Il suo viso e il suo corpo sorridono quando è con la grande famiglia e con le tante amiche. Amiche del Burkina Faso, come lei, ma anche da altri parti dell’Africa, e alcune, non molte, sono italiane, soprattutto le madri delle compagne di scuola di Mara, la figlia più piccola che fa ancora le medie e che è nata in Italia, e Thema l’ha chiamata Mara che sembra un nome italiano ed invece è anche un nome del suo Paese, ci si chiamava sua nonna, oltretutto. Mara la vecchia che rispettava le regole e che ha accompagnato Thema dalla fanteca – come già sua madre, e le altre figlie e le altre nipoti. Mara la bellissima ragazzina che ha le foto di Totti e di Jhonny Depp sul diario di scuola e che è nata a Roma quando Thema aveva già più di quarant’anni e un lutto grave: la perdita di uno dei suoi quattro figli, che non era più un ragazzo ma un giovane uomo che era in procinto di sposarsi, e Mara per poco non nacque insieme ad Anaya, la figlia dell’altra figlia, Amina. Una genealogia di donne che sarebbe infinita, a ricordarla tutta, e che Thema mi dona assieme alla sua storia e alla storia degli infiniti modi di essere donna qua e là nel mondo e nelle epoche, ed è generosa a farlo, e lo fa solo dopo un lungo discorso sul perché di questa intervista, e solo dopo che il the freddo che mi aveva offerto è 78 diventato tiepido dentro i bicchieri appoggiati sul davanzale del balconcino di casa sua. Thema non fa attività politica, non appartiene ad associazioni di donne immigrate, troppo lavoro e troppo poco tempo, dice, e non ha neanche una grande stima delle donne se le donne sono tutte come le signore presso le cui case fa la colf, o come moltissime delle madri delle compagne di scuola di Mara, solo alcune si salvano ed io ho la fortuna di essere amica di una di loro, e alla fine del lungo colloquio io non ricordo più che è stato faticoso iniziarlo, né che lei si è forse sentita in alcuni momenti aggredita, né che io mi sono sentita una predatrice. E mi pare che non se ne ricorda neanche Thema. Certo che si ricorda il giorno in cui fu operata. Aveva sei anni o forse sette ed era già consapevole di quello che sarebbe accaduto, l’aveva visto fare da quando era piccolissima. Alle sorelle, alle cugine. La madre e la nonna l’avevano già accompagnata a vedere, e piccola come era si era spaventata per le urla, e piccola come era si era mangiata con grande entusiasmo i dolcetti, e il motivo perché si faceva quella cosa alle bambine le pare di averlo saputo da sempre, ricorda quanto le diceva la nonna Mara, lì in fondo in fondo le bambine hanno sempre qualcosa che non va, sono insetti, o forse intendevano “batteri”?, cose brutte, sporche, fanno prurito, e allora le bambine si grattano e non va bene soprattutto perché esce sangue. Quando toccò a lei i dolcetti e le coccole durarono molto di più. Una settimana o dieci giorni. Come i dolori. Prima e dopo dell’operazione Thema pensava al suo corpo come una terra difficile e paurosa che terminava lontano e che sfuggiva al suo controllo e che la inchiodava ad un destino che lei non capiva bene ma al quale avrebbe obbedito. Adesso sembra orientarsi meglio nel suo corpo, Thema. Ne conosce le sensazioni, ne verifica i silenzi. A una cauta domanda su quale sia la conseguenza più importante di quell’operazione risponde d’impulso, indicandosi la vagina: 79 Ho perso la forza qui. E poiché io taccio, lei mi spiega: Quando tu sei col tuo uomo hai la forza. Io invece non ce l’ho. Rimango sorpresa dalla definizione, e soprattutto dalla terminologia, poiché il termine che ha usato rimanda ad un significato preciso: la debolezza. Ed è spaesante sentirla definirsi debole, lei che usa il suo corpo grande più di muscoli tesi che di adipe come una macchina da lavoro, lei che ride perché io sudo sotto a questo sole pazzesco e lei no e che racconta che non soffre neanche il freddo e la fatica e io non ce la faccio a chiederle cosa invece la faccia soffrire perché temo che quella piccola fiammella di dolore che cova dietro al sorriso negli occhi possa deflagrare . Vorrei chiederle di più, vorrei sapere come immagina la mia sessualità e quella delle donne occidentali in genere, e il rapporto tra gli uomini e le donne, e l’immaginario sessuale maschile e quello femminile, e non lo faccio, ma lei comincia a raccontare un’altra storia e se ne parte per un altro percorso che alla fine premia il mio tacere con un traguardo di condivisione. «Ad Amina l’ho fatto», butta lì, non capisco se per empatia o per sfida. «Aveva dieci anni, Amina, forse era troppo grande, ma prima non ce l’avevo fatta a tornare nel Burkina Faso, eravamo arrivati in Italia da cinque anni e solo da poco avevamo trovato un po’ di stabilità, perché mio marito era stato assunto in un bar del Centro grazie al fatto che parla un buon francese ed ha un aspetto distinto. Io niente, come adesso, la colf. I bambini andavano a scuola, a quell’epoca i neri erano pochi, e i razzisti più scoperti di oggi, gli altri figli miei erano maschi, ma Amina era una ragazza e chi l’avrebbe sposata se non uno del nostro Paese? 80 Mio figlio grande, quello che poi è morto, aveva una fidanzata italiana, una volta lo sentii parlare con il fratello, parlavano delle donne di qua e delle donne di là, capii cosa volevano dire, non te lo so spiegare bene quello che provai, cosa era Amina in realtà? Una nera diversa. Una nera sbagliata. Tanto per i bianchi quanto per i neri. E mi covavo tutto questo dentro quando morì mia nonna ed io ebbi l’occasione per tornare a casa. Mio marito non venne perché era assunto da poco e non poteva prendere le ferie, e non venne neanche mio figlio più grande perché aveva gli esami di terza media. Venne il piccolo, ma era piccolo e non capiva. A casa rimasi un mese e dopo poco che ero lì mi sembrava di non essermene mai andata via, oppure, altre volte, mi pareva di essere tornata da anni, perché lì c’era tutto quello che io conoscevo… Amina mi urlava contro che per colpa mia e di quella vecchia che l’aveva operata aveva i dolori, e rifiutava i dolcetti che mia madre e le altre donne le portavano. Eppure, quando tornammo in Italia mi sembrò di vederla un po’ più sicura di sé, un po’ meno sensibile alle offese che riceveva dai bianchi. A 18 anni ha sposato uno di noi, e mi pare serena. E non mi ha mai più rimproverata per averla fatta operare. Mio marito invece sì. Mio marito ha fatto il diavolo a quattro, quando l’ha saputo. Non mi ha alzato le mani ma poco c’è mancato. Diceva: perché? Siamo venuti qua, qua non ce n’è bisogno. Perché, siamo italiani adesso? Avrei voluto urlargli. Ancora avevo soggezione di lui, stavo zitta e piangevo perché non sapevo più neanche io cosa ero giusto e cosa no. Mio marito mi sfidava: se siamo ancora come eravamo a casa allora io mi prendo un’altra moglie più bella e giovane di te. Oppure: e allora io ti ripudio e voglio vedere tu che fai. 81 Qualche volta passavo di nascosto davanti al bar dove lavorava e lo guardavo senza farmi vedere. Era così sorridente e affabile con tutti e mi sembrava che a lui nessuno lo trattasse male come a me. ..». Poi basta. Si ferma di colpo. Si accorge all’improvviso che il te è diventato una specie di brodino dolciastro, entra in casa di corsa, porta fuori una brocca di acqua fresca, ci godiamo un silenzio denso di tutto quello che ha detto. Pochi piacevoli minuti interrotti dal ronzio del citofono. È Mara che torna da una passeggiata con le amiche. Thema le dice un po’ brusca di levarsi l’Hi Pod dalle orecchie per salutarmi, poi le carezza la testa fitta di treccine e ammiccandomi sorride: «E’ vero che è bella?». 4.5 Rabìa (Somalia) Intervista a cura di A. Petricone Singolare l’incontro con Rabìa. La sua simpatia, l’umorismo che infonde ogni sua parola, la cadenza romana con cui si esprime, primo impatto destabilizzante tra un suono conosciuto e un significato altro rispetto al suo contenitore abituale, provoca in me un piacevole senso di stupore dal tono allegro e una sensazione di accoglienza che mi fa sentire a mio agio nel luogo a lei più vicino, il suo ufficio, dove con altra veste e con altri strumenti, accoglie le donne immigrate cercando di capirne i bisogni e le necessità legate al loro soggiorno qui in Italia. Non mi lascia molto margine Rabìa, il suo fare diretto, mi spinge subito al muro, in modo gentile, ma sostenuto, mi inchioda alla sua domanda, quella più importante, da cui deve partire tutto, la domanda in assoluto a cui sono meno o per nulla preparata: «Perché tutto questo accanimento su di noi? A te cosa ti interessa?». Sente di dover sottolineare come ogni tentativo di cercare di comprendere, da parte di associazioni di donne italiane come e perché si perpetuano le MGF, è destinato a fallire perché risente di un presunta arroganza occidentale che pretende di giudicare senza 82 comprendere e di dire cosa e come le donne africane devono liberarsi dalla loro schiavitù. Una volta assodato che non sono lì per esercitare il mio falso potere di donna emancipata, iniziamo a scambiarci delle suggestioni rispetto a ciò che Rabìa sente come il nocciolo o uno dei noccioli della questione. «Il problema è come ti senti tu. Siamo tutti esseri umani, diversi, ma uguali. Il problema del razzismo italiano è di non conoscersi. Gli italiani non sono razzisti, ma sono governati e coinvolti da persone che sono razziste. Il problema non può essere solo il razzismo. La discriminazione non è perché sei nera o bianca, è perché non ci conosciamo. La mia testa è migliore della tua, poi subentra la religione. Se ci sono le donne, si pensa che non facciano niente, che non siano soggetti di alcunché. Non c’è possibilità per le donne se gli uomini usano la religione per importi delle cose. Chi rovina la vita delle donne è l’uomo. Prima di venire in Italia non sapevo neanche che essere stata sottoposta alla pratica fosse qualcosa di sbagliato. Ci sono molte donne che non sono contrarie a queste pratiche. Perché se ne parla adesso? E non in modo che possa aiutare chi le ha subìte, chi le subirà. Tante di noi hanno rimosso. Non se lo ricordano nemmeno perché erano piccole. Ma siccome è una sofferenza così pesante, hanno rimosso, per difendersi. Bloccando il cervello, si bloccano tutti i ricordi dolorosi. Se vai a scavare tra questi ricordi, che cosa puoi dare a queste donne per non far emergere quella sofferenza rimossa e non farle soffrire ancora di più? Se vai a scavare troppo, poi che cosa hai preparato per aiutarle ad affrontare il domani?» Quindi per te sarebbe meglio non parlarne? le chiedo. 83 «No, se ne può parlare, ma senza scavare troppo in profondità. Parlarne insieme in modo che nessuna si senta sola. Anche le donne italiane hanno il loro lato oscuro. Se ne deve parlare tutte insieme. È un ritorno a casa, come quando si mangia tra connazionali per sentirsi a casa. Molte donne fanno le MGF per sentirsi a casa. Secondo me, è una “vendetta” che la mamma fa a sua figlia, perché la mamma che lo fa a sua figlia, l’ha ricevuta a sua volta da sua mamma e questa è una catena che non finirà mai, finché qualcuna non la spezzerà. Una madre che ha sofferto, perché vuole infliggere quella stessa sofferenza a sua figlia? Nessuna di noi potrà mai rispondere. Spesso sono le bimbe stesse che chiedono alle mamme di far loro la pratica. Per essere uguali alle amichette. Molte donne scoprono di aver subito una mutilazione all’arrivo in Italia, confrontandosi con i corpi di altre donne, italiane. Hanno capito che gli manca qualcosa arrivate in Europa. Come si può aiutare chi ha subìto a non far subire la stessa cosa anche alle proprie bambine, alle nipoti, ecc? Formare e informare le donne somale che vivono nei paesi. Questa può essere la strada». 4.6 Scolastica (Nigeriana) Intervista a cura di A. Petricone Le chiedo come mai abbia questo nome italiano. «Da noi quando si è cattolici si prende il nome italiano. I miei genitori sono cattolici. Ma ho anche un nome nigeriano: Membgo. Ho 49 anni » Di quale parte sei della Nigeria? «De Sud della Nigeria: ci sono 37 Stati in Nigeria, compresa la capitale. 84 La mia famiglia è rimasta lì, ho due figli di 25 e 22 anni che stanno in Nigeria. Non vengono a trovarmi, è meglio per loro che stanno lì. Sono venuti in vacanza per vedere il Vaticano, il papa. In Nigeria si trova lavoro nel campo dell’ingegneria. Mio figlio è molto bravo in informatica, con i computer. Lavora in proprio, invece di aspettare che il Governo lo aiuti nel lavoro (piccola imprenditoria autonoma in Italia). In Nigeria mia nonna era commerciante, vendeva il tabacco ed ha permesso a tutti noi di andare a scuola. In Italia non è così. Abbiamo un villaggio e poi andiamo nella grande città per lavorare ecc. Nei villaggi ci sono le scuole. Ogni Stato ha un’Università. In Nigeria abbiamo il federalismo. Governo federale. Abbiamo altre strutture private. Mio marito lavora solo, nel campo del marketing, fa consulenza …» Le domando: le donne come vivono in Nigeria? «La Nigeria è un grande paese, ci sono musulmani, cristiani, religioni tradizionali, poligamisti, ecc. si crede anche in divinità minori. Pregano il piccolo dio, il Dio grande lo chiamano Dio primo. Ci sono gerarchie, c’è il Dio grande e gli altri minori. Chi è cristiano non può avere più di una moglie. Il nostro Paese è molto maschilista. La legge protegge gli uomini. Non è come qui. Da noi l’uomo comanda. Le donne non lavorano e stanno a casa. Noi come maestre siamo andate ad insegnare alle famiglie come fare delle cose e aiutare i loro bambini. Le donne restano nelle case. Ogni Stato ha il suo problema. Le ragazze che vengono a fare le prostitute vengono da due Stati del Nord della Nigeria. Perché lo fanno? Io me lo chiedo. Sposano tante mogli, 10 mogli, le donne vengono tenute sacrificate nelle stanze con i loro figli e gli uomini stanno per 85 conto loro. Le femmine non vengono mandate a scuola. Le figlie vengono mandate dalle madri in Italia a prostituirsi per inviare soldi a casa. Lo sanno cosa vanno a fare. Ci si comprano le case così. Ruota tutto intorno al consumismo sulla pelle delle donne. Gli uomini rispetto a questo sono indifferenti. Molte sono ragazze anche laureate. Perché lo si fa? per emulazione: il motore che porta queste famiglie a far partire le loro figlie. Io sono una vittima di MGF. A me hanno tagliato il cappuccio della clitoride. È una nostra tradizione, i preti dicono che non devi farlo. Mia nonna invece mi ha mandata a farla. Avevo 8 o 10 anni. Io lo ricordo bene. Siamo cinque sorelle. A loro non l’hanno fatto. Io sono la più grande. Hanno insegnato a mia madre che non va bene e quindi alle mie sorelle non l’hanno fatto. Quando tu non la fai, è considerata una disgrazia. Quando parliamo tu non puoi parlare se non l’hai fatto. Mia madre l’ha fatto. È motivo di orgoglio. Mia nonna e i miei amici venivano a casa ogni sera a mangiare dopo che io l’avevo fatto. Grande festa per il paese. Noi insegniamo a scuola alle bambine che non è una cosa buona. Bisogna cominciare con le bambine che poi quando vanno a casa dicono alle loro madri che le maestre hanno insegnato loro che non va bene fare la pratica. La nostra scuola elementare è free, è libera, tutti e tutte possono andare a scuola. Per far diminuire il processo, l’unica soluzione è educare, informare. Quando arrivi nel paese interessato devi parlare con il capo del paese, devi presentare un progetto, devi creare “Opinion leader” del luogo. In alcune ricerche sull’argomento la Nigeria non compare come uno dei paesi in cui vengono fatte le MGF. Il problema è più la prostituzione che queste pratiche. Bisogna cominciare a parlarne, a far presente che avvengono anche qui». 86 4.7 “Parole in libertà …” Durante un incontro organizzato da Donna tv all’interno di una abitazione privata, alcune delle donne intervistate per questo lavoro di ricerca, prevalentemente somale, si sono confrontate in una sorta di tavola rotonda, sulle questioni relative alle MGF, alla cultura di appartenenza, al confronto con le donne della stessa comunità e al confronto con le donne occidentali. Da un momento di grande intimità, fatta di risate, canti, condivisione di uno spazio abitato solo da donne, ne è nato un dialogo a più voci di grande valore sia dal punto di vista della narrazione autobiografica, sia dal punto di vista della costruzione di un pensiero che ha preso corpo e si è consolidato attraverso la voce di tutte e dalla messa in discussione di punti di vista differenti. 4.7.1 Incontro collettivo: Rabìa, Marian, Fairus, Faduma ed altre… Le donne occidentali ci giudicano? questo è il punto. Mariam: «Per me è un fattore legato all’ignoranza, intesa come non conoscenza. Quando non si conosce una cosa, non la si comprende. Siamo due culture molto diverse. Rispetto alle donne occidentali che modificano il loro corpo, noi non scegliamo di farlo, lo subiamo. Solo una volta adulte ci imbattiamo in tutte le problematiche che comportano queste pratiche. Quale può essere un elemento, un punto in comune? Il fattore “maschile”. Il compiacimento verso il maschio è quello che spinge sia le donne occidentali che le donne somale a modificare il proprio corpo». Fairus: «Il piacere ad un uomo e il compiacerlo per noi è fondamentale. Anche se il perno della famiglia in Somalia è la donna, esiste e permane una forte cultura matriarcale, è l’uomo che va compiaciuto e 87 conquistato. Si dice che l’uomo sia la testa e la donna il collo che permette alla testa di muoversi. Certo, è la donna che decide nella realtà, ma non potendo avere un rapporto diretto con l’uomo, non può dirgli cosa e come deve fare qualcosa, attua una serie di strategie e di filosofie alternative che la portano comunque a far prendere all’uomo delle decisioni dietro le quali c’è il suo intervento. Siamo noi che muoviamo i fili dietro il palcoscenico calcato dall’uomo. Le donne occidentali subiscono una costrizione psicologica, spendere soldi per la chirurgia estetica è un lusso ed è fattore di benessere. Io subisco perché sono obbligata». Rabìa: «La pratica si fa anche per mantenere un’identità nazionale, una sorta di ritorno alle origini. Questo spiegherebbe la ragione per cui le donne somale sottopongono le figlie alla pratica anche se sono nate in Europa, in Occidente. Io credo ci sia anche un altro fattore, legato comunque al bisogno di tenere salde le proprie origini e quindi le proprie tradizioni. Le mamme somale sono spaventate dalla presunta libertà sessuale delle proprie figlie, sono spaventate dalle figlie tredicenni che parlano loro di sesso quando tornano a casa, da scuola. Le mamme si allarmano e portano le figlie in Africa a farle “mutilare” per contrastare questa libertà sessuale, per salvaguardare la verginità delle figlie e non doversi porre la domanda: “dove abbiamo sbagliato”?» Faduma: «Per me è strano riportare indietro le bambine nate qua per fare questa pratica. Io pensavo che avevamo superato questa cosa, ma non l’abbiamo superata». Mariam: 88 «Se parliamo della Somalia, dobbiamo tener conto delle moltissime identità che vi sono rappresentate. Viviamo una situazione anomala in questo paese, fuori da ogni contesto politico, sociale. Ma quando ci raduniamo tra noi, parliamo anche di cose che ci accomunano. Più che un ritorno alle origini, abbiamo un grande bisogno di attaccarci a qualcosa che ci può accomunare. Tornando al discorso fatto fin qui, il punto non è per me “paragonarmi a …”, ma trovare una soluzione affinché la pratica non sia più attuata, una soluzione che ovviamente non ha a che fare con noi adulte che abbiamo subìto l’intervento, ma ha a che fare con le nostre figlie, e le nostre nipoti, le future donne somale. Se è vero che le donne somale sono così astute da decidere sottobanco facendo credere il contrario, se sono così strategiche e sono il perno della comunità, il collo che fa girare la testa, perché allora non facciamo girare le nostre teste in base ai nostri movimenti? Perché non ci adoperiamo per migliorare le nostre tecniche invece di autodefinirci solo come donne vittime, discriminate, che subiscono? Andiamo oltre, adoperiamoci per farlo, cerchiamo il dialogo al di là di noi. Se restiamo a parlarne solo fra di noi non si andrà molto oltre. Se dipendesse da me, cercherei di confrontarmi con l’uomo e di capire cosa pensa di me. Cercare di capire cosa è indispensabile per lui e cosa lo è per me. Metterci a confronto su questo. Ricominciare dalla base. Ricominciare da qui. Capire cosa ci costringe a mantenere questa tradizione che non è nostra. Naturalmente ognuna di noi, nel proprio piccolo, può contribuire, senza andare in Africa e attrezzarsi per partire oggi stesso. Da qui si può fare molto. Adoperarsi a partire dal contesto in cui si vive. È necessario creare delle linee di assistenza per donne che si rivolgono a strutture sanitarie, per esempio, moltissime donne infibulate provano vergogna a recarsi in strutture ospedaliere per paura di essere rese oggetto di giudizio e di derisione da parte del personale medico e paramedico, per paura di essere guardate come “fenomeni da baraccone”. 89 È necessario lavorare su questo, adoperarsi a creare anche dei centri specializzati, luoghi come i consultori in cui le donne possono trovare una corretta accoglienza e un’adeguata assistenza e in cui possano parlare con degli specialisti senza vergogna e reticenza. Se iniziamo da qui, riusciremo a “salvare” le nostre figlie e le nostre nipoti». 90 PARTE IV 91 5 MGF, ovvero un sentiero di decostruzione epistemologica di F. Ruggiero “Nulla suscita più disgusto del cannibalismo, nulla disgrega così sicuramente una società; nulla – si potrebbe dimostrarlo – ottunde e degrada a tal punto la mente di chi lo pratica. Eppure noi facciamo lo stesso effetto ai buddisti e ai vegetariani. Noi consumiamo le carcasse di creature che hanno appetiti, passioni, e organi simili ai nostri; noi ci cibiamo di neonati che hanno il solo torto di non essere della nostra stessa specie. E’ vero che facciamo delle differenze, ma la riluttanza di molte nazioni a mangiare il cane, un animale con cui viviamo a stretto contatto, dimostra quanto precaria sia, in fondo, la distinzione. (...) Giustamente, affettare la carne di un uomo morto è molto meno odioso che opprimerlo da vivo. (…) La vita in Europa riposa su queste “istituzioni di terrore”; ciò malgrado gli europei sono una delle razze meno crudeli” . Robert Louis Stevenson, Nei mari del Sud. 1896 “Le donne indiane sono donne, cioè degli indiani al quadrato: a questo titolo diventano oggetto di una duplice violenza”. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America “«Sporco negro!» o semplicemente: «Toh! Un negro!» Franz Fanon, L’esperienza vissuta del negro Questa ricerca ha voluto esplorare gli stereotipi e i pregiudizi che danno forma al nostro immaginario sulle cosiddette Mutilazioni genitali femminili (MGF). 92 Con la consapevolezza dell’insegnamento delle generazioni femministe che mi hanno preceduta, lo studio qui proposto si fonda su una suggestione ben precisa: partire da sé8. Conoscenza situata, posizionata, come ricorda Gabriella Bonacchi, di chi intraprende un percorso conoscitivo, consapevole della parzialità di cui inevitabilmente è portatore (o portatrice), influenzata da fattori spaziotemporali, dal sesso o dal genere di appartenenza, dai ruoli sociali e soprattutto dalle proprie storie di vita. Lo sguardo di partenza è quindi uno sguardo finito, parziale, “from somewhere” e non “from nowhere”, dunque non universalmente valido, tanto meno universalizzabile9. La parzialità del nostro punto di vista dovrebbe rappresentare, per tanto, una consapevolezza necessaria da assumere come premessa fondativa di ogni relazione. Prendere coscienza dei nostri abiti mentali e delle nostre categorie cognitive come particolari, ci consente di mettere in discussione le nostre certezze, rendendoci più disponibili ad ascoltare e a comprendere le ragioni degli altri. Esperienze pregresse sul tema delle MGF hanno dimostrato che tra la nostra visione del fenomeno e la percezione delle donne direttamente coinvolte c’è spesso uno iato, in grado di compromettere una possibile relazione attenta alle altrui sensibilità. A tal proposito questa ricerca ha voluto esplorare la natura e la causa di questa frattura, affinché all’incomunicabilità si sostituisca un dialogo più aperto alla conoscenza e alla comprensione reciproca. 8 Secondo lo scritto di Adrienne Rich “A Politics of Location” del 1978-85, il femminismo post-moderno è una pratica di liberazione e un modo di essere. È uno spazio di auto-definizione in divenire, che prende forma dal corpo sessuato al femminile, dal partire da sé, ma anche dalla cultura che lo ha plasmato e che lo tiene intrappolato: “Partire da sé e dal proprio corpo significa molto di più che riconoscere di avere una vagina e una clitoride, un utero e dei seni. Significa riconoscere la mia pelle bianca, il luogo in cui mi ha condotto e il luogo in cui mi trattiene”. 9 G.Bonacchi, Il selvaggio di Occidente: Corpo e femminismo. In Occidentalismi, a cura di C.Pasquinelli, ed. Carocci, Roma 2005, pag.117. 93 Sono stati/e coinvolti/e donne immigrate, opinion leader, politici, medici, antropologi, chirurghi plastici ed operatori del settore, al fine di ricostruire una sorta di genealogia del nostro immaginario sulle MGF, che di fatto permea i nostri giudizi, con derive spesso eurocentriche e razziste. Si è voluto, perciò, riflettere su alcuni concetti-chiave che coinvolgono tutte le donne, se pur con modalità differenti, quali: l’integrità del corpo, l’autodeterminazione, la salute e il controllo della sessualità e del piacere femminile, subordinato a quello maschile, anche all’interno dei nostri riferimenti socio-culturali. Le MGF, dunque, e soprattutto le ragioni che le sottendono, ci riguardano direttamente come donne più di quanto immaginiamo. Da donne occidentali, infatti, ci illudiamo di essere libere ed emancipate, arrogandoci il diritto di relazionarci a donne di altre culture come sorelle maggiori, dimenticando di appartenere, invece, ad un mondo che, come gli altri, controlla i nostri corpi e ci discrimina come donne. La legge sulla fecondazione assistita, il caso Englaro e i numerosi tentativi di rimettere in discussione la legge sull’aborto, rappresentano a questo proposito un’eloquente testimonianza. 5.1 Note sulla scelta metodologica Come già affermato questa ricerca intende analizzare la natura e le categorie cognitive ed interpretative che lo sguardo “occidentale10” 10 Consapevole dell’inesattezza e del riduzionismo terminologico del termine Occidente, mi rimetto convenzionalmente all’identificazione di questo concetto con i Paesi europei e del Nord America, entrambi votati ad un sistema economico fondato sul libero mercato ed un sistema politico basato sulla democrazia rappresentativa, che vogliono esportare come modello di sviluppo. Edward Said in Orientalismo così scrive: “Personalmente, ritengo che l’orientalismo sia più veritiero in quanto espressione del dominio euroamericano che come discorso obiettivo sull’Oriente”. L’uso diffuso di questa terminologia adottata anche per definire Paesi non occidentali, con sinonimi quali “Paesi in via di sviluppo” o “Paesi del Sud del mondo”, testimonia la tendenza omologatrice e riduzionista operata dalla 94 mette in gioco nel discutere e valutare una pratica spinosa (resa tale non senza la nostra complicità), come quella delle MGF. A mio avviso, infatti, le MGF rappresentano il paradigma della debolezza dell'approccio epistemologico occidentale, troppo spesso fazioso, etnocentrico e mistificatore. Ho scelto di non utilizzare il termine “mutilazioni” per sottrarmi al giudizio di valore fortemente negativo che questo esprime, consapevole del potere performativo, emanazione del linguaggio: la definizione permea e informa la realtà, a prescindere da una sua reale corrispondenza al vero. L’espressione che comunemente identifica le pratiche cosiddette mutilatorie non considera l’aspetto culturale11 che, per la comprensione di tali fenomeni, ricopre un ruolo determinante. Il termine mutilazione, infatti, racchiude implicitamente una connotazione negativa, poiché fissa l’attenzione sull’elemento prettamente fisico del deterioramento di un organo, subordinando il fenomeno culturale a mero epifenomeno. Questa posizione è frutto di una volontaria opera di riduzione della complessità, da parte di una cultura etnocentrica interessata più a tessere anatemi e condanne verso tutto ciò che non gli appartiene, piuttosto che adoperarsi per una cosiddetta cultura dominante “occidentale”. Su questo tema Gayavatri Chakravorty Spivak in Can subaltern speak? afferma: “Io sostengo che far propria una visione auto-ristretta dell’Occidente significa, in maniera sintomatica, ignorare che essa è il prodotto dell’organizzazione spazio-temporale del progetto imperialista”. Ad ogni modo mi avvarrò di questa terminologia perché sia Oriente/Occidente che Nord/Sud sono “comunità immaginate”, e in quanto tali, devono essere giudicate non per la loro effettiva veridicità, ma per l’immaginazione e la rappresentazione che si ha di queste. 11 Per cultura non intendo un concetto reificato e ipostatizzato, sostitutivo dell’ambiguo “etnia” o ancor peggio dell’infondato “razza”, bensì costruzioni narrative formate da un arcipelago infinito di combinazioni di pensieri e azioni, in grado di definire identità polisemiche, dinamiche, eterogenee e mutevoli nello spazio e nel tempo, per questo mai definite una volta per tutte. Come un fluido continuo, privo di barriere predefinite, capace di nutrirsi e di rielaborare contaminazioni di ogni genere. 95 migliore comprensione di altri modi vivendi, non sempre riducibili alle proprie categorie politiche e morali. Come ricorda l’antropologa Michela Fusaschi l’utilizzo del termine “mutilazione” suggerisce una condanna a priori senza possibilità di appello, proprio ai danni di coloro che vengono identificate come vittime di tali pratiche, condannandole in questo modo ad una sorta di doppia privazione12. Se il punto di vista delle donne direttamente coinvolte rappresenta una testimonianza privilegiata per la conoscenza del fenomeno, l’impiego del termine “mutilazione”, in cui non vi è alcun riconoscimento delle attrici sociali, impedisce di fatto lo scambio relazionale, compromettendone la comprensione. Per questi motivi l’impiego del termine “modificazione” in luogo di “mutilazione” sembra, a mio avviso, essere più rispettoso del punto di vista emico, ovvero di chi è immediatamente coinvolta, e più attento alle implicazioni culturali che connotano tali pratiche, rimandando la formulazione del giudizio sulle stesse ad un momento almeno successivo alla loro comprensione. Si tratta, per altro, di un termine non scelto dalle donne che ne sono protagoniste, non irriducibilmente disposte ad essere considerate mutilate, soprattutto da chi, troppo spesso, si arroga il diritto di parlare al loro posto. E’ opportuno precisare, inoltre, che non tutte le pratiche incluse nelle MGF sono effettivamente mutilatorie, in quanto rientrano in questo gruppo anche interventi di ipertrofizzazione o di allungamento, che non prevedono escissione o mutilazioni di nessun tipo e tanto meno producono effetti invalidanti. La scelta istituzionale di ricorrere a questa dicitura dimostra sin dall’inizio la collocazione del nostro sguardo, che, proprio attraverso la capacità performatrice del linguaggio, attribuisce sin da subito un giudizio di valore estremamente negativo, capace di condizionare 12 M.Fusaschi, I segni sul corpo, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag.31. 96 eventuali riflessioni su tale fenomeno, prima ancora di averlo realmente compreso. Anche il termine “modificazione” è tuttavia oggetto di forte critica, in quanto riconducibile ad un atteggiamento relativista, in un momento in cui il relativismo culturale sembra essere la peggiore malattia di cui un ricercatore può essere affetto13. Rispetto a questa visione, che sempre accompagna posizioni non aprioristicamente critiche su questo tema, ho deciso di avvalermi di quanto affermato a tal proposito dall’antropologa Carla Pasquinelli, ovvero che il relativismo culturale rappresenta un principio di normatività metodologica e non etica, utile dunque alla comprensione e non alla formulazione di giudizi di valore su manifestazioni culturali diverse dalle nostre. Il relativismo culturale nasce come correttivo dell’etnocentrismo occidentale, di cui infatti rappresenta il corrispettivo antonimo. All’universalismo si contrappone il particolarismo e non dunque il relativismo, utilizzato invece come espediente retorico per avvalorare, con velleità universalizzanti, il particolarismo della visione occidentale14. Per una convenzione discorsiva nel corso di questa indagine mi affiderò al più semplice acronimo MGF. Tali pratiche portano sul banco di prova una giovane società multiculturale, la nostra (certamente non la sola a trovarsi in questa impasse), che a quanto pare stenta a dirigersi su posizioni più propriamente interculturali. Stereotipi, pregiudizi, retaggi culturali di diversa natura e provenienza ostacolano, infatti, l’accettazione di posizioni non solo sensibili al riconoscimento di un’ipotetica alterità, 13 Trovo eloquente che ogni qualvolta mi sia trovata a discutere su questi temi sia stata invitata a fare “pubblica abiura”, essendo chiamata a premettere la condanna o il riconoscimento della crudeltà di simili pratiche, prima di poter concludere l’esposizione delle mie tesi. 14 C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, ed Meltemi, Roma 2007, pag. 48-49. 97 ma capaci di includere e di concedere cittadinanza ad una pluralità di esistenze, espressioni di eventuali e reciproche similitudini e differenze. Il coinvolgimento di minori e la cruenta invasività di molte pratiche di MGF offrono numerosi argomenti di critica, allo stesso tempo, però, fanno perdere di vista il fatto che le medesime obiezioni permangono anche quando vengono meno questi due fattori. Credo dunque possibile riconoscere agli stessi una funzione squisitamente sovrastrutturale, capace di nascondere, come si vedrà, il cuore del problema, che pertiene piuttosto al nostro immaginario ancora non del tutto decolonizzato. Nello svolgimento di questa ricerca, quindi, ho scelto volutamente di escludere dalla mia analisi il coinvolgimento di bambine nelle pratiche di MGF, proprio in virtù del fatto che tale aspetto rappresenta un facile paravento, dietro il quale nascondere stereotipi e pregiudizi che informano il nostro sguardo sul fenomeno. Ho scelto, perciò, di occuparmi solo di pratiche che interessano principalmente donne adulte, in quanto permettono di evidenziare e far emergere le contraddizioni che accompagnano i nostri giudizi su fenomeni di modificazione del corpo femminile e su questioni di autodeterminazione, che coinvolgono donne immigrate e donne “occidentali”. Allo stesso titolo ho deciso di focalizzare l’attenzione, in particolare nella rassegna stampa, sulla proposta di rito alternativo avanzata dal Dott. Omar Abdulcadir, in quanto, trattandosi di una pratica simbolica non fisicamente invasiva, lascia emergere a mio avviso il portato ideologico che accompagna la nostra visione sulle MGF, una volta depurata da argomentazioni relative alle conseguenze fisiche e sanitarie, nonché da questioni relative all’autodeterminazione femminile, non scevre in questo caso, come si vedrà, da usi strumentali. Mi preme precisare che in questo lavoro sono state oggetto di indagine esclusivamente le nostre percezioni ed interpretazioni del fenomeno (e di conseguenza dei soggetti che le praticano e dei luoghi 98 da cui hanno origine), quindi le scelte sopra indicate sono ascrivibili ad un piano esclusivamente metodologico. L’analisi parziale del fenomeno (circoscritta a donne adulte) e la scelta per la rassegna stampa di uno specifico caso di studio (la proposta di rito simbolico) non vanno quindi lette in termini assiologici o prescrittivi, rispetto all’oggetto di studio qui preso in esame. Non intendo, infatti, suggerire cosa sia lecito concedere e cosa sia invece da perseguire, bensì offrire eventuali spunti di riflessione per decostruire15 e decentrare le nostre categorie cognitive, in favore di una migliore conoscenza e comprensione reciproca. 5.2 Introduzione Il costante aumento del fenomeno migratorio sta trasformando la nostra società in un arcipelago multiculturale in cui traspaiono però, sempre più nitidamente, i limiti e le difficoltà ad intraprendere un cammino verso una società realmente pluralista e interculturale. A tal proposito sembra doveroso interrogarci sulla natura del nostro sguardo, che si poggia su chi consideriamo o percepiamo come Altro/a da noi. L’Occidente, infatti, percepisce se stesso come portatore di valori universalmente accettabili, in grado di fornire sviluppo, emancipazione e prosperità: una società che avrebbe espunto discriminazione e marginalizzazione dalla propria carta d’identità morale e politica. Benché la società contemporanea offra molteplici spunti di riflessione su questioni relative all’intercultura e a volte sulle sue difficoltà di realizzazione, a mio avviso il fenomeno delle MGF rappresenta una “cartina al tornasole” per analizzare la nostra 15 “Decostruire non vuol dire negare o rifiutare, bensì mettere in discussione o, meglio, indagare la natura di un termine, quale quello di soggetto e permettere un riutilizzo fino a quel momento non autorizzato”. J.Butler in C.Demaria, Teorie di genere, ed. Bompiani, Milano 2003, pag. 43. 99 predisposizione epistemologica in proposito. Queste, infatti, forniscono importanti contributi al dibattito sulla perspicuità dello “sguardo occidentale” nel formulare soluzioni ai conflitti divisivi della nostra società. Come in molti altri casi, anche a noi più vicini, il corpo delle donne diventa uno spazio di pubblico dominio, dove combattere battaglie politiche con pretesti religiosi e culturali, sede di conflitti e negoziazioni in cui spesso le donne sono mezzo e non fine, escluse di fatto dalla sfera decisionale. 5.3 Classificazioni del fenomeno L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal 1995 ha classificato le pratiche di MGF conosciute, ponendosi l’obiettivo di eradicarle. La classificazione ha portato alla seguente suddivisione: - Tipo I: Escissione del prepuzio, con o senza asportazione parziale o totale di tutto il clitoride. Ritenuta analoga alla circoncisione effettuata su bambini e adulti di sesso maschile. Nei Paesi islamici è nota come “Sunna”che in arabo significa “tradizione”. Tale pratica pone minori rischi di complicanze per le donne che vi si sottopongono, rispetto agli altri tipi di intervento; - Tipo II: Escissione del clitoride con asportazione parziale o totale delle piccole labbra; - Tipo III: Escissione di parte o tutti i genitali esterni e suturarestringimento dell’apertura vaginale, affinché, come recita la tradizione, dal foro residuo passi solo un grano di miglio (infibulazione). Chiamata anche circoncisione faraonica in Sudan e circoncisione sudanese in Egitto; La ferita viene cucita con filo di seta o per suture in Sudan, con spine di acacia in Somalia o in alcune regioni con il gundura, una sorta di stecca di legno di palma a forma di V; - Tipo IV: Non classificati. Vi si include perforazione, penetrazione o incisione del clitoride e/o labbra; stiramento del clitoride e/o labbra; cauterizzazione mediante ustione del clitoride e del tessuto circostante; raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale o 100 incisione della vagina; introduzione di sostanze corrosive o erbe nella vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla; e qualsiasi altra procedura che cade sotto la definizione di mutilazioni genitali femminili (MGF). I dati sulla diffusione di MGF sono ancora molto incerti. Si presume che in Somalia coinvolgano il 98% delle donne, il 97% in Egitto, il 95% in Eritrea e in Gibuti, il 90% in Sierra Leone, l’89% in Sudan, l’85%-94% in Mali, il 70-90% in Etiopia, il 60-90% in Gambia e Nigeria. Fenomeno non solo africano, nel 1997 in Yemen si sono registrati il 23% di casi. Esistono testimonianze anche in Indonesia, dove però sono molto diffuse pratiche simboliche di circoncisione. In misura minore sono oggi riscontrabili anche in Australia, Europa e America grazie alla presenza di comunità di immigrati e rifugiati16. In alternativa alla classificazione dell’OMS è interessante analizzare un altro tipo di schematizzazione, offerta da Michela Fusaschi: a) Modificazioni o alterazioni a carattere riduttivo (non terapeutico): Vi fanno parte tutte le operazioni finalizzate alla modificazione riduttiva di un organo femminile non necessariamente genitale. Quindi l’escissione, l’infibulazione, la sterilizzazione, l’asportazione delle ovaie (pratica anticoncezionale praticata in Occidente fino al secolo scorso, oggi sostituita dalla legatura delle tube), le deformazione dei piedi delle bambine cinesi, la mastectomia (osservate nel XIX secolo in Australia e in Tanganica) e il peeling (asportazione di superfici di pelle più o meno estese praticato anche in Europa). b) Modificazioni o alterazioni a carattere espansivo (non terapeutico): Di questa categoria fanno parte tutte le operazioni che modificano artificialmente in senso espansivo organi genitali e non genitali. 16 International Journal of Health, Culture and Migration, vol.1 n°0, Gennaio-Aprile 2005, ed. Universo, Roma, pagg. 23-24. 101 Quindi gli allungamenti clitorido-labiali a seguito di massaggi digitali e applicazioni di sostanze vegetali, per facilitare, secondo resoconti etnografici, coito e procreazione (registrati in Indonesia, in Rwanda, in Uganda, in Tanzania, nello Zimbabwe e nel Benin)17. Per le operazioni extragenitali sotto questa categoria possono essere annoverate le deformazioni degli apparati bucco-labiale e otorino attraverso monili che provocano l’allungamento progressivo delle zone interessate a sancire determinati periodi di vita (soprattutto in Amazzonia, ma presenti anche in alcuni Paesi africani tra cui l’Etiopia). Di queste pratiche ci sono testimonianze anche in Occidente (chiamate stretching) ad opera di alcuni giovani definiti appartenenti a “tribù metropolitane”. Si registrano ancora in Occidente delle applicazioni sottocutanee di elementi metallici che provocano un corrispondente innalzamento del derma, creando disegni particolari. Un’attenzione specifica merita l’ipermastia, molto praticata in Occidente (esistono testimonianze etnografiche anche di allungamento del seno per mezzo di corde praticato da alcune comunità sahariane per motivi estetici), attraverso la chirurgia estetica su donne la cui età si abbassa gradualmente. In Mauritania si registrano, invece, pratiche di ingrassamento artificiale mediante la somministrazione quotidiana di alimenti. c) Altre modificazioni o alterazioni (non terapeutiche): Non rientrano nelle precedenti categorie, ma sono comunque modificazioni di organi femminili la deflorazione rituale (soprattutto in Australia), la modificazione/deformazione cranica (praticata da 17 In questo caso il piacere sessuale viene valorizzato attraverso l’ipertrofizzazione dell’organo genitale, assumendo un valore completamente antitetico a quello delle modificazioni riduttive. Per quanto anche le pratiche estensive siano praticate sulla donna in funzione propedeutica al matrimonio e alla maternità; da tale prospettiva la classificazione indistinta di “mutilazioni genitali” effettuata dall’OMS, per altro su categorie esclusivamente medicosanitarie, lascia emergere tutta la sua ambiguità. 102 alcuni gruppi di pigmei dell’Africa subsahariana con strette fasciature) le modificazioni tegumentarie del collo (in Thailandia e in Birmania), del tronco-torace (praticata in Occidente con l’utilizzo di corsetti costrittivi), le scarificazioni, i tatuaggi, la limatura dei denti (presente in Africa, ma anche in alcune culture americane precolombiane), il cutting (iscrizione di disegni di inchiostro sotto forma di cicatrici realizzate con strumenti taglienti), il branding (cicatrice in rilievo disegnata sulla pelle con un ferro rovente o il laser) e il burning (impressione sulla pelle di una bruciatura volontaria poi colorata con inchiostro o pigmenti)18. Da tale schema si evince l’eterogeneità dei fattori che alimentano le differenti pratiche. Il confronto tra le due classificazioni rileva interessanti analogie tra quelle considerate lesive della dignità del corpo e quelle che vengono considerate abiti comportamentali alla moda, si pensi ai tatuaggi, ai piercing o a casi di modificazione del corpo ben più invasivi, che però non ricevono la stessa attenzione o trattamento riservato alle MGF19. Da una parte si cerca di spiegare o capire una scelta estetica, dall’altra si stigmatizza una pratica considerata indice di degrado culturale e di sopraffazione. Questo approccio epistemologico attinge troppo alle fonti dell’etnocentrismo, per non suscitare qualche sospetto o diffidenza. 5.4 Storia di pratiche di modificazione genitale Non esistono molte certezze sull’origine delle MGF. Alcuni studiosi identificano la penisola arabica o l’Egitto come culla di questa usanza, poi diffusasi altrove, mentre altri sostengono un suo sviluppo indipendente, data l’ampia diffusione e le molte differenze che contraddistinguono nello specifico tali pratiche. 18 M.Fusaschi, I segni sul corpo, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2003, pagg. 34-40. A tal proposito si veda Michela Fusaschi, Corporalmente corretto, ed. Meltemi, Roma 2008. 19 103 Le prime testimonianze si registrano in Egitto, su una tomba a Saqqara della sesta dinastia (2340-2180 a.C.), a cui seguirono altri ritrovamenti di epoche successive. Anche le mummie possono portare testimonianze di infibulazione, in virtù di strette fasciature in prossimità dei genitali, anche se lo stato di conservazione non permette di affermarlo con certezza. La fonte documentaria più antica sulla circoncisione a noi pervenuta è ad opera di Erodoto (484-424 a.C.), secondo cui tale pratica veniva eseguita dagli egizi, dagli hittiti, dai fenici e dagli etiopi. Sorano, un medico greco in attività a Roma e ad Alessandria d’Egitto tra il I e il II sec. d.C., afferma che tale intervento veniva praticato per ridurre il desiderio sessuale femminile. Ezio (527-565 d.C.) e Paolo d’Egina (625-690 d.C.) documentano lo stesso intervento approvandolo, poiché la crescita spropositata della clitoride poteva richiamare il membro maschile, favorendo così rapporti lesbici. Nella Roma antica si soleva applicare una spilla (una fibula, da cui infibulazione anche se la ragione punitiva e profilattica adottata dai romani è molto distante dalla percezione attuale delle donne africane infibulate) sui genitali delle proprie mogli, per prevenire rapporti illeciti, sugli schiavi affinché non si distogliessero dal lavoro per il sesso e sulle schiave per impedire gravidanze ostative al lavoro. Come prevenzione di una sessualità “illecita”, si può considerare la cintura di castità, applicata alle mogli dei crociati, un continuum delle pressioni sugli organi sessuali femminili. Durante il periodo delle grandi esplorazioni sono molte le testimonianze relative a fenomeni di escissione dei genitali femminili. Tra il XVII e il XVIII sec. la setta russa degli skoptzi di matrice ortodossa, praticava interventi escissori sia su uomini che su donne, in virtù dell’espressione evangelica “farsi eunuchi per Cristo”. Tra il XVIII e il XIX sec. in Francia, in Germania e in Inghilterra si praticava la cliterodectomia a scopi “terapeutici” per prevenire la masturbazione femminile, considerata causa di disturbi cerebrali e 104 nervosi, tra cui l’epilessia, il nervosismo, l’isteria20, la ninfomania, l’idiozia e la follia. Negli Stati Uniti l’ultimo caso documentato di clitoridectomia risale al 1927, ma è dimostrato che negli ospedali psichiatrici tale pratica è stata eseguita fino al 193521. Esistono poi testimonianze di clitoridectomia in Inghilterra, effettuate su una bambina di cinque anni, negli anni ’40 del secolo scorso. 5.5 Le MGF oggi Le MGF, pur interessando molte donne mussulmane, non trovano nell’islam alcun fondamento religioso. Queste, infatti, vengono praticate anche su donne di religione cristiana, ebraica e appartenenti ad altre religioni impropriamente definite “animiste”. L’età delle donne o bambine a cui si pratica tale intervento è molto variabile. Si va dai primi 3-8 giorni di vita degli Amhara in Etiopia, ai 16-18 anni tra i Kissi in Guinea, i Birifor e i Teguessié in Burkina Faso. In Kenia i Kikuyu lo praticano prima della comparsa della primo ciclo mestruale, in Burkina Faso i Gourmantché prima del matrimonio, mentre i Senoufo in Mali, Burkina Faso, Ghana e Costa d’Avorio prima della gravidanza o in caso di sterilità22. La diversa età delle donne sottoposte a MGF lascia spesso intuire un diverso significato simbolico a queste attribuito. Fatte le dovute premesse è necessario analizzare le motivazioni e i significati che si celano dietro le MGF. In realtà, da quanto si evince dalle classificazioni precedenti, il corpo è un soggetto centrale non solo per spiegare le MGF, bensì per comprendere innumerevoli manifestazioni culturali che sanciscono la 20 Da qui l’origine etimologica di “isteria” dal greco histéra, ovvero utero. International Journal of Health, Culture and Migration, op. cit., pagg. 20-22. 22 M.Fusaschi, I segni sul corpo, pagg. 96-97. 21 105 fusione della sfera fisico-biologica con quella socio-culturale. Il corpo, pur degno di un’attenzione particolare in quasi tutte le culture conosciute, è considerato a vario titolo imperfetto e per questo suscettibile di miglioramento, al fine di favorire la socialità in quanto produttore di senso e valore. In questo non fa eccezione una società come la nostra, particolarmente attenta ai significati e alle implicazioni dell’apparire. Nelle relazioni con gli altri è inevitabile la socializzazione del corpo, anche come strumento comunicativo su cui ognuno interviene, dando risposte individuali mutuate dai propri modelli culturali di riferimento. La corporeità viene continuamente definita secondo categorie spazio-temporali mutevoli, restando, comunque, sempre socialmente e culturalmente costruita. Così le MGF possono essere lette in alcuni casi come strumenti di costruzione identitaria. Attraverso queste pratiche gli individui coinvolti si conformano a regole specifiche prestabilite dalla comunità di appartenenza per la sfera pubblica e privata, laddove queste sono distinte, trasformando così il corpo biologico in corpo culturale. Il corpo dunque esprime la propria soggettività, ontologica e culturale, rappresentando ciò che si è, senza esaurirsi esclusivamente in una dimensione oggettiva del proprio essere. Lo sguardo su queste pratiche è riassumibile in almeno due punti di vista: quello dei soggetti direttamente interessati, che vedono nelle MGF uno strumento di correzione del corpo, garante di accettazione sociale e molto altro, e quello dell’osservatore esterno, che definisce le MGF meri strumenti punitivi. In contrapposizione a quest’ultima posizione è possibile portare l’esperienza delle donne buganda in Uganda23. Come altre donne dell’Africa centrale praticano MGF espansive, esattamente il longininfismo, ovvero l’allungamento delle piccole labbra mediante massaggiamento e applicazioni di essenze 23 In Uganda le pratiche escissorie sono una netta minoranza (5%) rispetto alle pratiche espansive, di cui il 25% non riconosciute dall’OMS. 106 vegetali a partire dai 10 anni di età. Tale pratica rappresenta un recupero culturale di un’eredità attribuita ai boscimani, che presentavano fisiologicamente le labbra dei genitali femminili allungate. La finalità di queste pratiche è l’esaltazione del piacere femminile, che, anche se funzionale alla procreazione, non può essere ridotto a mero strumento punitivo. Nonostante il longininfismo non sia nocivo e compromettente per la salute della donna, gli ostetrici occidentali la considerano una patologia da affrontare chirurgicamente tramite escissione24. Le MGF sono considerate pratiche che sanciscono, anche attraverso l’esperienza formativa del dolore, riti di passaggio, di iniziazione o di consacrazione, quindi modificazioni fisiche che accompagnano modificazioni di ruolo, di stato o di posizione sociale. La centralità del corpo è ancora affermata come luogo in cui la ferita simbolica, punto di non ritorno, sancisce un cambiamento materiale in divenire, inevitabile e irreversibile25. L’intervento sulla clitoride, organo che rievoca il membro maschile per la sua forma fallica, trasforma la ragazza in donna, separandola nettamente dal mondo maschile e allontanando qualsiasi ambiguità sulla sua collocazione sociale. Così come l’uomo dopo la circoncisione è considerato più virile, la donna dopo l’escissione è ritenuta più pulita e quindi pronta al matrimonio. Il rituale che accompagna l’intervento prevede un periodo di ritiro, appannaggio esclusivo delle donne, in cui si tramanda il sapere femminile, sancendo consapevolmente la propria appartenenza di genere, con tutte le responsabilità e gli oneri che questo comporta26. 24 Ricerca svolta dalla Dott.ssa Pia Grassivaro Gallo ed esposta al convegno sulle MGF tenutosi a Roma il 10-11 Dicembre 2004, organizzato dall’ospedale S.Gallicano e dall’Istituto I.S.S.M.A.S.. 25 M.Fusaschi, I segni sul corpo, pag. 79. 26 M.Fusaschi, op.cit., pagg. 82-83. 107 Le MGF garantiscono che la donna arrivi pura al matrimonio, soprattutto nei contesti sociali in cui centrale è la ricchezza della sposa (impropriamente conosciuta come il prezzo della sposa, malgrado sia un aspetto non ascrivibile ad una transazione meramente commerciale, bensì cerimoniale)27. L’antropologo Amedeo Pistolese offre un’ulteriore lettura del fenomeno, sostenendo che le MGF siano uno strumento di controllo delle nascite, proprie di società che, contrariamente alla nostra, adeguano all’ambiente le proprie caratteristiche demografiche. A questo punto ritengo che sia quanto meno improprio il ricorso a valori e significati assoluti in tema di MGF, dato che sono soprattutto gli attori e le attrici sociali a riempire di senso tali pratiche, dalle cui motivazioni è metodologicamente impossibile prescindere per la comprensione del fenomeno e per il riconoscimento della soggettività delle persone coinvolte. Nella valutazione delle MGF, la dimensione “etnologica” è spesso trascurata per paura di cadere nella trappola del relativismo culturale. Come ricorda ancora Michela Fusaschi Secondo questa valutazione non ci sarebbe bisogno di «giustificare» culturalmente quello che viene ritenuto inaccettabile moralmente, come se, nel nostro caso, non si trattasse di un fenomeno culturale ma solo di un’espressione di crudeltà e potere 28. Una pratica che dal senso comune occidentale viene considerata eccezionalmente brutale rappresenta per altri/e un modo di sentirsi migliori, uguali alle altre donne, socialmente accettabili e quant’altro rappresenti un tentativo di attribuzione individuale di senso. Parimenti molte pratiche di modificazione dei nostri corpi, consuete nel nostro comune immaginario, farebbero trasalire molte donne non occidentali. 27 C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, ed. Meltemi, Roma 2007. pagg. 9497. 28 M.Fusaschi, I segni sul corpo, pagg., pag. 87. 108 A questo proposito si pensi alle pratiche di nullification, body art o body modification29, che possono includere: - Amputation: amputazione eseguita su parti minori del corpo come orecchie, dita, naso, per sfociare in vere e proprie mutilazioni di arti. - Tongue splitting: pratica comunemente definita "biforcazione", che consiste nel taglio longitudinale della lingua, conferendogli così una forma serpentina; - Implants: pratica che permette di modificare quasi totalmente l'aspetto del proprio corpo, attraverso impianti di metallo o silicone sotto la pelle. Comunemente messo in pratica sul viso e sulla schiena, è molto comune nelle sottoculture urbane e richiede l'intervento di veri e propri chirurghi plastici; - Ear Cropping: pratica consistente nella rimozione voluta della parte superiore dell'orecchio, la zona cartilaginea che può essere, oltre che rimossa, anche sezionata o "cucita" per ottenere la forma di un orecchio elfico. - Nullification: rimozione totale degli organi sessuali sia maschili che femminili. Per questi ultimi si va dall'esportazione della clitoride a quella delle grandi e piccole labbra, fino all'esportazione delle tube. 5.6 La legge LEGGE 9 gennaio 2006, n.7 Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile. Art.1. (Finalità) 29 Su questo tema si veda Michela Fusaschi, Corporalmente corretto, ed. Meltemi, Roma 2008. 109 1. In attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di quanto sancito dalla Dichiarazione e dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settembre 1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, la presente legge detta le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all'integrita' della persona e alla salute delle donne e delle bambine. Art.6. (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili) 1. Dopo l'articolo 583 del codice penale sono inseriti i seguenti: "Art. 583-bis. - (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili). - Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili e' punito con la reclusione da quattro a dodici anni. Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l'escissione e l'infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo. Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, e' punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena e' diminuita fino a due terzi se la lesione e' di lieve entità. La pena è aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a danno di un minore ovvero se il fatto è commesso per fini di lucro. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì quando il fatto e' commesso all'estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia. Art. 583-ter. - (Pena accessoria). - La condanna contro l'esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti previsti dall'articolo 583-bis importa la pena accessoria dell'interdizione dalla professione da tre a dieci anni. Della sentenza di condanna e' data comunicazione all'Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri". 110 Prima del 2006 in Italia non esistevano provvedimenti giuridici specifici sulle MGF, in quanto queste ricadevano negli articoli 582 e 583 del Codice Penale, riguardanti le lesioni personali. Il 9 Gennaio 2006 viene approvata la legge sulle MGF, dal titolo Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile. Con l’art. 583 bis c.p. vengono introdotti due nuovi delitti nel nostro codice penale: il delitto di mutilazione e il delitto di lesione degli organi genitali femminili (per la prima volta dal 1930 – a parte la riformulazione del delitto di infanticidio – sono stati introdotti nel nostro codice penale nuovi reati contro l’incolumità individuale)30. La legge 7/2006 introduce una norma specifica per colpire chi pratica MGF. Dai lavori preparatori si evince che l’intentio legis sia stata proprio quella di proteggere l’integrità fisica, la salute psicosessuale e la dignità della donna, quali beni giuridici offesi dalle MGF, non senza ambiguità, come vedremo, rispetto a pratiche occidentali molto vicine alle MGF, completamente ignorate dalla giurisprudenza. Chi commette questo tipo di reato lo fa compatibilmente con le norme sociali della sua comunità di appartenenza o cultura di riferimento. Allo stesso tempo la legge non considera un’attenuante il fatto che il reo, nel praticare MGF, non abbia voluto agire con l’intenzione di arrecare un danno, ma al contrario pensando di fare del bene in termini di riconoscimento sociale e non solo31. 30 Lezione tenuta il 7 novembre 2006 presso l’Università di Parma dal Prof. Fabio Basile, “Il delitto di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili» quale reato culturalmente orientato”. 31 A questo proposito mi sembra importante sottolineare che durante i processi per aver effettuato operazioni rientranti nelle MGF, i sentimenti e le reazioni degli accusati sono stati spesso di perplessità e sgomento. Dal punto di vista degli imputati, infatti, non aveva senso l’accusa di aver agito criminosamente, visto che le loro azioni erano state mosse da intenzioni di tutt’altra natura. 111 Il fattore culturale in questo caso rappresenta un fattore discriminante, che rende le MGF un reato più grave, a parità di danno fisico, di una qualsiasi altra lesione. La legge interviene al di là dei danni fisici prodotti, volendo perseguire la pratica in sé, in ogni sua forma. Così una madre che produce una piccola incisione sulla clitoride della figlia minorenne, guaribile senza alcuna conseguenza permanente, rischia la reclusione da 3 a 7 anni, venendo così trasformata in una criminale e madre degenere nei confronti della propria figlia. Da un lato questa legge provoca un sentimento di chiusura da parte di alcuni gruppi sociali, che si sentono così perseguitati o criminalizzati, incrementando allo stesso tempo il ricorso ad interventi clandestini di MGF, poiché la norma giuridica può essere comunque più debole di quella sociale nella percezione dei soggetti coinvolti. Dall’altro non fornisce nell’immediato concrete alternative alle donne che decidono di sottrarvisi, avendo escluso per loro la possibilità di ottenere l’asilo politico o un permesso di soggiorno per protezione sociale. A mio avviso la faziosità di un simile provvedimento mostra assai eloquentemente le motivazioni, non del tutto sincere, che sottendono l’intervento socio-giuridico qui preso in esame. 5.7 MGF di casa nostra e le contraddizioni del caso Anche in Occidente il corpo delle donne non rappresenta uno spazio inviolato ed inviolabile, al contrario è stato da sempre oggetto di dispute politiche, giuridiche e sociali che farebbero semmai pensare il contrario. Raramente, però, si riscontrano posizioni unanimi e radicali di denuncia, come accade invece per le MGF, quando coinvolgono, dunque, donne di culture “altre” rispetto alla nostra. Forse non ne siamo a conoscenza o forse non siamo capaci di analizzare il fenomeno con sufficiente distacco, ma anche in Occidente si pratica qualcosa di molto simile ad alcune pratiche (non 112 invalidanti) incluse nelle MGF che, mutatis mutandi, dovremmo problematizzare, proprio a partire dal valore simbolico che vi è sotteso32. A tal proposito riporto quanto pubblicato su un sito che si occupa di chirurgia estetica: «DISAGIO INTIMO… Perché una donna dovrebbe pensare ad un rimodellamento estetico di una zona così intima e non esposta come l’area genitale? “Le motivazioni non sono solo estetiche. Come si può intuire – riferiscono gli specialisti- se una persona prova un grande imbarazzo nei confronti del proprio corpo o di una specifica parte, tenderà a non esporla mai, a nasconderla e nascondersi, con conseguenza negative sulla psiche e relative inibizioni eccessive nel comportamento sociale. Lo stesso vale per la zona vaginale: la donna può soffrire anche molto per alcune dismorfie che causano ripercussioni pesanti sul rapporto con sé e, ancor più, con il partner. Inoltre molto difficilmente si rivolgerebbe al proprio medico per risolvere la cosa e in genere proprio non sa come potrebbe trovare una soluzione, con il solo esito – negativo – di mantenere in silenzio il proprio imbarazzo”. QUALE “BELLEZZA” PER I GENITALI Si sente parlare di “sex design”, ma come si fa a dedurre un canone estetico per gli organi sessuali femminili e maschili? (…) “Esistono fattori che in natura e nel corpo umano sono assodati e universali, come la simmetria e il senso delle proporzioni. Il concetto vale anche per gli organi genitali: le donne sono molto sensibili in questo senso, avvertono che c’è qualcosa di sbagliato se notano una asimmetria”. 32 In merito alla colonizzazione dell’immaginario femminile su questo tema si veda il documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne, disponibile su www.ilcorpodelledonne.it. 113 Il primo fattore che deteriora l’integrità e l’aspetto originario dei tessuti resta comunque l’età, che rilassa la cute e la parte mucosa che, di conseguenza, appare flaccida e in eccedenza. Altra causa che provoca il cambiamento dell’aspetto genitale è senza dubbio il parto, che può lasciare asimmetrie nelle piccole labbra, irregolarità nella loro forma e nell’orifizio vaginale. Molto spesso poi, per facilitare il parto, viene praticata l’episiotomia, un’incisione chirurgica nella zona che può residuare una cicatrice non lineare, ipertrofica o fastidiosa. Anche leggere imperfezioni estetiche di altro genere possono minare la serenità del rapporto con la propria genitalità. “È il caso di inestetismi come l’eccessiva prominenza della regione pubica data da un particolare accumulo adiposo nella zona, fatto rapidamente risolvibile con una micro liposuzione che modella ad hoc senza lasciare segni evidenti”.»33 Si tratta di interventi di chirurgia estetica dell’apparato genitale femminile appunto. Nella traccia sopra riportata emergono molti aspetti non troppo distanti da quelli rinvenibili nelle pratiche di MGF, sebbene più effimeri: disagio per le imperfezioni del proprio corpo con conseguenze sulla psiche, nelle relazioni sociali e con il partner. Eppure, a fronte di una tale analogia, la nostra risposta sociale, politica e giuridica non è altrettanto paritaria. Non esistono infatti leggi ad hoc per scoraggiare gli interventi di chirurgia estetica genitale, né campagne di sensibilizzazione su larga scala da parte di gruppi politici e sociali per eradicare il fenomeno. Tanto meno si conoscono casi di criminalizzazione o di condanna morale, che hanno coinvolto i chirurghi che le praticano o le donne che vi si sottopongono. Al contrario esperti ed operatori del settore parlano di una richiesta crescente di interventi di chirurgia estetica, soprattutto da parte di donne e sempre più giovani. Sono frequenti le richieste di ragazze che, per i loro 18 anni, si fanno pagare dai genitori interventi chirurgici per aumentare il volume 33 Dal sito web http://www.chirurgia-estetica-laser.com/, pagina pubblicata il 13/10/08. 114 del seno o ridurre la dimensione del sedere o dei fianchi. E’ possibile riscontrare, anche se in misura più ridotta, ma comunque in crescita, richieste di questo tipo da parte di adolescenti ancora minorenni. Come anticipato esistono poi interventi di chirurgia estetica che coinvolgono gli apparati genitali. Per gli uomini si tratta soprattutto di un aumento del volume del pene, mentre per le donne la scelta è molto più vasta. Si parla di “Aesthetic Vaginal” o “Sex Cosmetic Surgery”, tra cui si annoverano i seguenti interventi: - la vaginoplastica, per il miglioramento estetico ed il ringiovanimento, singolo o combinato, delle piccole e grandi labbra (i più richiesti, conosciuti anche come labiaplastica, non troppo differenti da ciò che per le MGF è chiamata escissione), del monte di Venere e dell’orifizio vaginale. Il ringiovanimento delle grandi labbra e quello della vagina avviene mediante una procedura chirurgica, mirata a restringere i muscoli vaginali e i tessuti di sostegno, eliminando la mucosa vaginale ridondante. L’intervento dovrebbe migliorare il tono muscolare della vagina, riducendone il diametro interno (attraverso la cucitura di un punto non riassorbibile) ed esterno, per restaurare o migliorare la forza frizionale durante il rapporto sessuale (intervento anche noto come vaginal tightening, per ridurre o restringere la vagina ed aumentare la sensibilità della stessa durante i rapporti sessuali); - la perineoplastica, che produce un'azione di ringiovanimento a mezzo laser della zona perineale, per ottenere un tessuto dall'aspetto più giovane; - l’augmentation labioplasty, per aumentare il volume delle grandi labbra ed ottenere così un aspetto della vulva più giovanile e voluminoso; - la liposcultura del pube, per ridurre l'adiposità in eccesso dal monte di venere, dalla zona pubica ed eventualmente dalle grandi labbra, rendendo la zona snella e giovanile; - l’esposizione della clitoride: rimozione della pelle esuberante che ricopre la clitoride a volte ipertrofica; 115 - la cliteridoplastica o riduzione della clitoride (non molto distante dalla cliteridectomia inclusa nelle MGF); - l'imenoplastica (ricostruzione dell'imene), che ripara questa membrana, ripristinando chirurgicamente le caratteristiche anatomiche vulvari della verginità. Tra le complicazioni e gli effetti collaterali causati da tali interventi si registrano: infezioni, ematomi, ritardata guarigione delle ferite, dolori persistenti, trombosi venosa profonda, embolia polmonare, complicanze legate all'anestesia, riduzione della sensibilità, emorragie, cicatrici dolorose e trasfusione. Tali pratiche sono molto diffuse negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, mentre in Italia rappresentano, per pudore, ancora un fenomeno di nicchia, seppur in crescita34. Nella comunicazione pubblicitaria che accompagna questo tipo di interventi è possibile riscontrare palesi incoraggiamenti rivolti alle donne, affinché mettano da parte eventuali difficoltà ad avanzare richieste di operazioni chirurgiche a fini estetici, per migliorare il proprio aspetto fisico e quindi il loro benessere psicologico. Apparentemente, dunque, è possibile rilevare un atteggiamento tutt’altro che di chiusura rispetto a simili pratiche, ovvero l’opposto di quanto avviene invece con le MGF. Ad ogni modo l’aspetto dirimente è quello simbolico, chiamato in causa da qualsiasi modificazione dell’apparato genitale, a prescindere dalla sua natura. Perché se una donna occidentale richiede un intervento di chirurgia estetica vaginale non incontra impedimento sociale e giuridico alcuno (semmai economico), mentre se la stessa richiesta è avanzata da una donna immigrata si parla di MGF, con tutte le conseguenze sociali e penali che queste comportano? 34 Michela Fusaschi sostiene che nel nostro Paese siano 17.000 le donne italiane che si sottopongono a chirurgia estetica genitale. 116 Cosa rende differenti sul piano simbolico le modificazioni nostrane dell’apparato genitale da quelle segnalate ed osteggiate come MGF? Sicuramente le prime si realizzano in un ambiente sterilizzato e sicuro, nonché adeguatamente attrezzato, che mette al riparo le donne interessate dal rischio di infezioni o complicazioni di qualunque tipo (non potrebbe essere altrimenti, visto che i prezzi elevati fanno in modo che tali interventi siano accessibili a donne di medio-alta estrazione sociale)35, mentre le donne immigrate che si sottopongono a 35 A fronte delle spese elevate a cui far fronte per sottoporsi ad interventi di chirurgia estetica, si sta assistendo ad una delocalizzazione delle cliniche interessate, come avviene per molti altri sistemi di produzione industriali e non solo. Molto medici indiani, ad esempio, formati negli Stati Uniti, lavorano in cliniche specializzate di chirurgia plastica in India, dove i prezzi sono molto più contenuti rispetto a quelli praticati in Europa o Stati Uniti. In questo modo Paesi come il Brasile, l’India e la Cina divengono meta privilegiata per cittadini occidentali che vogliono sottoporsi ad interventi di questo tipo (inclusi gli interventi di chirurgia estetica genitale) o che necessitano di trapianti per ragioni terapeutiche. L’ampiezza del fenomeno produce un traffico di organi che segue lo stesso andamento del capitale-merce nell’era della globalizzazione (i neri sono spesso vittime in favore di una clientela quasi esclusivamente bianca, così come uomini e donne dei Paesi del Sud del mondo lo sono in favore di uomini e donne occidentali). Soggetti subalterni, dunque: donne, migranti, contadini vittime di politiche liberiste, disoccupati, abitanti di slum e favelas, tutti rigorosamente malati di povertà, sono costretti dalla miseria o indotti da intermediari di case farmaceutiche o cliniche per ricchi, a vendere alcuni dei loro organi, che vengono poi smerciati in queste strutture ospedaliere o utilizzati per incrementare il mercato di tessuti umani per la chirurgia estetica o i trapianti. In alcuni casi bambini appartenenti alle classi sociali più svantaggiate o ai gruppi sociali più deboli vengono sequestrati e uccisi per incrementare il traffico degli organi. Le argomentazioni che favoriscono questi fenomeni sono suggeriti appunto da una clientela che preferisce organi di persone sane e vive, dunque in migliori condizioni, piuttosto che quelli di persone morte e quindi precedentemente malate o traumatizzate. Gli acquirenti di turno appaiono abbastanza indifferenti rispetto all’origine degli organi umani ottenuti, frutto appunto di asimmetrie di ricchezza e da una totale mancanza di giustizia sociale, che ricalcano esattamente i rapporti economici, politici e sociali a livello globale. Ma a quanto pare in questo frangente, in cui è drammaticamente dirimente la complicità occidentale, l’imprescindibilità universale dell’inviolabilità del corpo e dei diritti umani sembrano poter beneficiare 117 MGF sono costrette ad un ambiente insalubre e ad una strumentazione di fortuna, non avendo alcuna alternativa sanitaria. L’insicurezza dell’operazione è così alimentata dalla condizione di marginalizzazione generata dal contesto socio-culturale in cui è praticata36. Tutto qui? Questo semmai è l’effetto dello stigma, non certo la causa. Per paradosso è possibile chiedersi come verrebbe interpretata la richiesta da parte di una donna adulta africana di sottoporsi per motivi non terapeutici, bensì estetici, ad una cliteridoplastica, per la quale sarebbe disposta a pagare fino a 4.000 euro37 presso un istituto di chirurgia estetica specializzato in interventi ai genitali. Per il contesto e la modalità con cui avverrebbe l’operazione sarebbe un semplice intervento di chirurgia plastica? Oppure, trattandosi di una donna africana, sarebbe comunque un caso di MGF, perseguibile quindi dalla legge? Il discorso simbolico legato alle MGF, certamente il più sentito dalle donne, a mio avviso appare valido anche per gli interventi di chirurgia estetica. Questi ultimi, infatti, coinvolgono per la maggior parte donne e, soprattutto nel caso di rimodellamenti dell’apparato genitale, ricalcano modelli estetici conformi ad una bellezza funzionale e compatibile alle richieste dell’edonismo maschile, fattore, oltre che lapalissiano, riscontrabile nelle dichiarazioni di molte donne coinvolte. A questo proposito è interessante rilevare l’atteggiamento di diversi operatori impegnati nelle campagne contro le MGF, intervistati di deroghe. Su questi temi si veda N.Scheper-Huges e L. Wacquant, Corpi in vendita. Interi e a pezzi, ed. Ombre Corte, Verona 2004. 36 Con tale argomentazione non intendo recuperare il dibattito sull’eventuale legittimità della richiesta di mettere a disposizione le strutture sanitarie pubbliche per interventi di MGF, in quanto non è di interesse per questo studio, bensì ho ritenuto che fosse utile osservare il fenomeno da tale prospettiva, in quanto funzionale e coerente con le finalità esplicative del discorso qui condotto. 37 Alcuni interventi, come il vaginal tightening, partono da 6.000 euro. 118 durante lo svolgimento di questa ricerca, i quali hanno dichiarato fermamente che le sole mutilazioni ammissibili sono quelle per scopi terapeutici, poiché motivazioni estetiche o culturali non sono sufficienti per giustificare tale pratica. Quando però è stato fatto notare loro che una simile argomentazione potrebbe essere valida anche per la chirurgia estetica, la determinazione con la quale un attimo prima avevano attaccato le MGF scemava immediatamente, in favore di un atteggiamento molto più complice ed indulgente38. A tal proposito, tra le argomentazioni addotte per giustificare il diverso atteggiamento rispetto all’una e all’altra pratica, quasi sempre vi è l’idea sottesa per cui, nel caso di MGF, non sia realmente possibile l’esercizio di scelta e libero arbitrio da parte delle donne, in quanto, anche nei casi in cui decidono consapevolmente di sottoporsi a tale pratica, subiscono di fatto una forte pressione socio-culturale, tale da far escludere l’effettivo esercizio del libero arbitrio. Ovviamente una simile argomentazione non può che rinforzare l’assunto precedente, che vorrebbe invece sovrapporre i due fenomeni. Non è un segreto, infatti, che a spingere molte donne giovani e meno giovani a rivolgersi alla chirurgia estetica siano proprio condizionamenti socio-culturali, che impediscono in ogni caso di tracciare una chiara linea di confine tra imposizione e libera scelta. A questo punto sembra opportuno avanzare qualche sospetto in merito alla differente visione sulle donne del cosiddetto Nord e del Sud del mondo, qui emersa. A mio avviso, infatti, tale abito mentale può sottendere diverse argomentazioni: - Una posizione facile preda di un certo culturalismo (o comunitarismo), parlando di immigrazione o di pseudo-culture 38 Mi sembra assai eloquente, ai fini di una riflessione su stereotipi e pregiudizi del nostro immaginario, riportare l’atteggiamento di un operatore di chirurgia estetica, che dopo aver tessuto le lodi della plastica, anche genitale, ha trasalito sentendo nominare le MGF. 119 tradizionali39, riduce gli individui coinvolti alla mera (o presunta) dimensione culturale di appartenenza. Questa visione nega di fatto al soggetto l’esercizio di un autonomo senso critico rispetto al proprio orizzonte socio-culturale di riferimento. Allo stesso tempo, in virtù di un pregiudizio di fondo, considera tali culture fortemente onnicomprensive, pervasive e totalizzanti, al punto di schiacciare, condizionare e sovradeterminare gli individui che, in modo reale o presunto, ne fanno parte. Se da un lato in Occidente all’individuo è riconosciuta la facoltà di sottrarsi, svincolarsi o emanciparsi dai dettami della cultura dominante e/o di appartenenza, tale virtù non è invece concessa ad altri soggetti, presuntamente fagocitati, nell’immaginario comune, da una cultura statica, monolitica ed ipostatizzata, incapace di concedere pluralismo ed eterodossia alcuna (visione etnocentrica); - Se pur svincolati da un razzismo più grossolano, è possibile incorrere in un’altra forma di razzismo, squisitamente postcoloniale. Si tratta di una visione che permea di benevolenza e paternalismo l’atteggiamento con cui molte donne bianche (in parte anche uomini, se pur con altri ruoli ed argomentazioni), sedicenti emancipate ed autodeterminate, si relazionano alle donne di culture considerate “altre”, ritenendole appunto sorelle minori, non ancora in grado di autodeterminarsi e liberarsi dall’oppressione patriarcale. Tale atteggiamento trova corrispondenza anche nell’equiparazione di casi che coinvolgono bambine a quelli che invece riguardano donne adulte e consenzienti, avanzata di frequente dai critici delle MGF. In questo modo si mette in dubbio la consapevolezza e la capacità di analisi di queste ultime, considerate implicitamente eterne minorenni, in statu pupillari, bisognose quindi di tutela 39 In realtà non esistono culture tradizionali tout court, se non nel nostro immaginario occidentale, che racchiude in questa definizione da un lato il mito del buon selvaggio e della purezza perduta e dall’altro un’idea svalutante di culture altre, estranee al progresso e alla modernità. 120 esterna. Dinamica già osservata in molti altri rapporti di egemonia e subalternità40. Tanto meno si può interpretare tale ingerenza come un semplice e sincero atto di solidarietà nei confronti di donne oppresse, dal momento in cui in una simile relazione non è mai prevista reciprocità alcuna. Se, infatti, ciò che accomuna le donne di culture e Paesi diversi è una condizione di oppressione a vantaggio del genere maschile, benché declinata in forme differenti, di fatto non si assiste mai ad uno scambio di aiuto reciproco e paritario, bensì ad un flusso Nord-Sud che riproduce dinamiche di potere già note altrimenti. In questo caso, infatti, le donne di altre culture, dovrebbero avere specularmente la possibilità di contribuire alle nostre battaglie contro le forme di oppressione agite in Occidente ai danni del genere femminile. Eppure sistematicamente ciò non avviene, malgrado molte donne dei Paesi “del Sud” avrebbero più di un’esperienza da condividere in tal senso. Si pensi alla presenza istituzionale femminile (in molti Paesi africani le donne parlamentari superano il 50% o comunque raggiungono cifre ben più elevate di quelle europee ed italiane in particolare), alla partecipazione politica dal basso attraverso un associazionismo diffuso femminile e femminista, o ancora alle campagne di sensibilizzazione diffuse capillarmente contro la violenza alle donne, solo per fare alcuni esempi. Al contrario noi continuiamo a parlare di loro e per loro in modo unilaterale e sovradeterminante, come vuole la più subdola e raffinata logica coloniale (ottica postcoloniale); 40 Si pensi al benevolo paternalismo di cui per secoli è stato intriso lo sguardo maschile sulle donne o quello dei colonizzatori sui colonizzati di oggi e di ieri, servito a giustificare l’estromissione di una parte significativa della popolazione (la metà del cielo nel caso delle donne) dal godimento di diritti politici e civili, altrimenti ingiustificabile. Si tratta ovviamente di un atteggiamento funzionale a dinamiche di oppressione e sfruttamento, atto a sostanziare e perpetrare asimmetrie di potere, sperequazioni economiche e ingiustizie sociali. 121 - Riconoscere ed ammettere la similitudine quasi speculare tra una pratica considerata “altra” (quindi lontana dalla nostra forma mentis e dalla nostra sfera valoriale), dunque facile bersaglio di anatemi salvifici ed emancipazionisti, ed un fenomeno sociale nostrano41, che coinvolge sempre più donne alla ricerca di un corpo esteticamente perfetto, porrebbe molte donne occidentali in una condizione di impasse non solo intellettuale, ma anche e soprattutto politica ed esistenziale. Significherebbe, infatti, doversi specchiare e riconoscere in una condizione di subalternità, laddove fino a quel momento si pensava di giocare un ruolo di soggetto emancipato ed emancipatore. Tale condizione di presunto privilegio teorico ha sempre permesso allo sguardo occidentale di posarsi impunemente sull’“Altro” (o “Altra”), rendendolo oggetto, e considerando invece se stesso l’unico soggetto (con facoltà performative e soggettivanti) di tale relazione. L’Altro può essere dunque osservato, alienato, giudicato, detto, interpretato, costruito, trasformato, corretto o emancipato, ma tutto rigorosamente attraverso le categorie cognitive messe in atto dal nostro sguardo. Ancora una volta l’argomento dell’emancipazione dell’Altro/a mostra tutto il suo portato seduttivo, facendo riaffiorare il fardello dell’uomo bianco (o della donna bianca), di kiplinghiana memoria. Come conciliare poi il discorso di rottura verso le MGF con la tolleranza da sempre mostrata verso la circoncisione, propria soprattutto del mondo ebraico e mussulmano? Anche in questo caso la 41 La chirurgia plastica a fini estetici può essere richiesta anche da ricchi non occidentali. Esistono infatti interventi di modificazione del corpo richiesti appositamente per ottenere sembianze europee, come ad esempio lo sbiancamento artificiale della pelle, diffuso soprattutto tra persone provenienti dall’Africa e interventi chirurgici per eliminare il taglio cosiddetto “a mandorla” degli occhi, da parte di persone provenienti dall’Asia. Questo avviene nella misura in cui i nostri canoni estetici di riferimento vengono assorbiti anche in contesti sociali differenti dai nostri, confermando ancora una volta il ruolo di soggetto culturalmente egemonico esercitato dall’Occidente. 122 pratica agisce su un organo sano, non a fini terapeutici, su un minore che non ha potuto esercitare facoltà di scelta e che potrebbe rischiare complicazioni fisiche e psicologiche anche gravi per l’intervento in questione. Probabilmente a fare la differenza sono proprio i soggetti coinvolti, il cui portato simbolico, il ruolo sociale rivestito e il potere esercitato sembrano avere una valenza tutt’altro che secondaria. In un caso si parla del corpo delle donne, mai passato inosservato nella storia passata e presente agli occhi di giuristi, medici, politici, religiosi e moralizzatori di turno, oggetto quindi di regolamentazione normativa, controllo sociale e pubblici anatemi. Nell’altro si tratta del corpo maschile, dunque di un soggetto dominante, che in quanto tale sfugge a tali categorizzazioni e stigmatizzazioni, benché non immune in assoluto da stigma ed oppressione quando incarna e declina altre forme di subalternità (si pensi ai corpi dei neri, degli internati, degli omosessuali, dei migranti e dei poveri in generale). Lo stesso si dica dell’appartenenza socio-culturale o religiosa dei soggetti coinvolti. Nell’attuale scenario politico internazionale, infatti, il ruolo attribuito alla popolazione migrante, soprattutto africana, non è certo accostabile al riconoscimento di cui gode quella ebraica. Se lo stesso non può dirsi della cultura musulmana, nell’occhio del ciclone in tema di pregiudizi e stigmatizzazioni, non sarebbe comunque possibile chiamare in causa l’una, senza coinvolgere necessariamente l’altra. Anche in questo caso, dunque, il gioco sembra risolversi in rapporti di forza caratterizzati da dinamiche di egemonia e subalternità, più che su assunzioni di principio a carattere universale. Molti suggerimenti sulla nostra visione del fenomeno delle MGF, intrisa di preconcetti, stereotipi e giudizi di valore, che rimandano alla percezione che abbiamo di donne di altri Paesi e delle loro culture di riferimento (reali o da noi attribuite), ci viene fornita anche dalla stampa che ha accompagnato le polemiche per la proposta di rito alternativo da parte dei ginecologi Omar Abdulcadir e Lucrezia Catania. 123 il manifesto - 22 Gennaio 2004 Infibulazione morbida per le straniere di Riccardo Chiari (…) La proposta è arrivata anche al comitato di bioetica della regione Toscana. «Quello fatto dal centro di Careggi è uno sforzo lodevole - osserva il medico senese Mauro Barni, che guida il comitato - ma credo che da parte nostra non sarebbe corretto accettare dei surrogati di una ritualità incivile. Attraverso la procedura alternativa ammetteremmo un principio sbagliato». (…) La somala Ghanu Adam: «Le donne come me sono sfuggite ai fucili della guerra in Somalia, ma non alle mammane dell'infibulazione. Oggi viviamo in Italia, in un paese civile. E non vogliamo che di quel rito resti qualcosa. Nemmeno il simbolo, perché alle nostre figlie insegniamo che non si deve fare e basta». (…) «L'infibulazione alternativa non può passare come una pratica di riduzione del danno - spiega Nicchi - perché non può essere autogestita da un minore. Una bambina subisce comunque un rito che la pone in uno stato di sudditanza psicologica». Da parte sua, Alessia Petraglia osserva: «L'unica alternativa è quella di continuare la battaglia contro le mutilazioni genitali, al fianco delle tante donne che nei loro paesi sono in prima linea, in solitudine. E la regione Toscana può e deve fare di più». Chiude Marzia Monciatti: «E' necessario creare qualcosa che coinvolga gli enti locali, le scuole, i medici di base e gli ospedali. Solo sconfiggendo l'ignoranza si sconfiggono le mutilazioni, non certo trasformandole in un rituale». Il Giornale della Toscana - 24|01|2004 Toscana: Relativismo culturale e ipocrisia di Massimo Lensi (…) Una forma simbolica e non cruenta, la definiscono i proponenti, concedendo all’ipocrisia del terzomondismo una possibile strada per aprire l’ospedale pubblico di Careggi alla pratica della mutilazione genitale femminile. (…) una simile alternativa verrebbe mai giudicata accettabile se le bimbe in questione fossero le nostre e non già le figlie di famiglie africane immigrate in Italia? (…) L’inganno è quello di accettare che attraverso un compromesso (quand’anche veramente simbolico) si introduca una ritualità incivile. L’Unità – 22/01/04 Infibulazione a Firenze: la destra monta lo scandalo che non c’è di Sonia Renzini 124 (...) Di praticare un rito così barbarico viene ora accusato il centro di riferimento regionale di Careggi, a Firenze, nato proprio per la prevenzione e la cura delle mutilazione genitali femminili. Il Manifesto- 22/01/04 Mutilate, solo un po' di Giuliana Sgrena (…) E' difficile immaginare che i fautori dell'infibulazione si accontentino di una puntura di spillo, ma se anche così fosse e si volesse semplicemente mantenere il rituale è inaccettabile che una struttura pubblica (le Asl) possa legittimare, anche simbolicamente, una pratica così aberrante come una mutilazione ritenuta una violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine dalla Convenzione internazionale sui diritti umani e dalla Carta africana sui diritti umani e dei popoli. (…) L'inviolabilità del corpo è un valore universale che non può essere mercanteggiato in nome della riduzione del danno irreversibile che peraltro non è solo fisico ma anche psicologico. E guarda caso a firmare l'accordo sul progetto alternativo sono stati tutti maschi, che si sono guardati bene dall'interpellare le donne (immigrate) interessate che, a giudicare dalle reazioni, sono assolutamente contrarie. Togliendo così ogni giustificazione anche ai fautori del relativismo culturale. ToscanaOggi - 24/01/2004 «Infibulazione dolce», un coro di «no» di Claudio Turrini «Anche l’infibulazione alternativa può rappresentare un trauma, se non fisico sicuramente psicologico, per le bambine sulle quali viene praticata», ha dichiarato il consigliere regionale di Forza Italia, Anna Maria Celesti, vicepresidente della commissione sanità: «In un centro come quello di Careggi, dove si fa prevenzione contro l’infibulazione e si cerca di limitare le conseguenze di questa pratica, che si presentano soprattutto durante la gravidanza ed il parto - ha proseguito Celesti - è completamente sbagliato affrontare questa realtà con una alternativa, in quanto si tratta di una pratica aberrante che deve essere totalmente sradicata, non esistono soluzioni di compromesso o alternative». (…) Il caso è stato sollevato dalla leghista Carolina Lussana, relatrice a Montecitorio di una proposta di legge contro le mutilazioni sessuali: «Non permetteremo mai la dose minima d'infibulazione. Mi auguro che tutto il mondo politico, e non solo quello femminile, reagisca in maniera durissima di fronte a questa vergogna che, pure se dolce o indolore, resta una violenza inaccettabile e sconsiderata, fisica e morale a danno di bambine indifese». E sul banco degli imputati la deputata leghista ha 125 messo subito l’assessore regionale Enrico Rossi: «È sconcertante – ha detto Lussana - che, nel momento stesso in cui con una legge cerchiamo di sradicare la barbara usanza delle mutilazioni sessuali che offendono profondamente la dignità della donna, considerata poco più di un oggetto, alcune istituzioni come l'assessorato alla salute della regione Toscana addirittura sostengono un progetto che permetterebbe di eludere le sanzioni penali previste dalla legge per chi si macchia di reati del genere. (…) «L'onorevole Lussana – ha aggiunto la diessina Marida Bolognesi - ha perso un'occasione per tacere, visto che la Regione Toscana non ha concesso alcuna autorizzazione. Tuttavia - secondo l'esponente della Quercia - il problema c'è e va affrontato al livello culturale, senza finzioni, facendo capire alle donne immigrate che le mutilazioni genitali sono una mortificazione». Panorama - 11/03/2006 Gli ospedali che curano le mutilazioni di Stella Pende (…) Si è molto scritto, urlato, sperato. Forse non invano. Oggi, per la prima volta possiamo dire che la speranza di fermare quest'orrore diventa realtà. In Europa e nel mondo le prime nemiche dell'infibulazione sono le leggi conquistate dopo anni di lotta. Cominciando da Francia, Germania e Gran Bretagna, dove si punisce l'infibulazione con la galera. Finalmente, alla fine di febbraio entra in vigore anche la legge italiana. E punisce con il carcere dai 4 ai 12 anni lo scempio del corpo di bambine e donne. (…) Bonino ricorda che è proprio in Europa, e in Italia, oggi non si può abbassare la guardia. I numeri dell'orrore danno ragione al suo allarme. Sono 45 mila le immigrate dai paesi dove la circoncisione femminile è tradizione e legge. Dunque 30 mila donne che vivono fra noi avrebbero già subito mutilazioni genitali. In questo conto macabro, almeno 5 mila le "figlie" a rischio. E' come convertire lo spacciatore, capisce? Bloccate loro, le immigrate italiane interromperanno anche i loro viaggi e le torture delle figlie. Solo così l'Europa e l'Italia saranno libere da questo mostro". Un pensiero e un lavoro capillare in cui l'AIDOS crede profondamente. "Formare in Africa e informare gli africani" è lo slogan di Daniela Colombo, presidente della ONG italiana che tanto ha lavorato alla fattura della nuova legge. Riciclare le mammane come infermiere, per esempio, è un'idea. Ma anche quella di Omar Abdulcadir, ginecologo somalo che anni fa lanciò la proposta di un rito simbolico alternativo, lo è. Una puntura sul clitoride della bambina invece che il taglio. Putiferio! Nessuno o quasi tollera l'idea della "mutilazione dolce". "E' come se alle pachistane sfregiate col vetriolo si dicesse: una gocciolina invece che un litro. L'orrore non è contrattabile" hanno detto Emma Bonino e le altre. 126 Io donna - 26/03/2005 Sono un'infibulatrice pentita di Cecilia Zecchinelli (...) Mariam, in altre parole, faceva parte del grande esercito di donne senza preparazione medica né strumenti, delegate dalle società africane tradizionaliste e maschiliste a "garantire la moralità" di figlie e mogli in nome dell'Islam. Ma la pratica era e resta diffusa anche in molte comunità cristiane del Continente Nero. In un recente passato lo è stata tra quelle ebraiche in Etiopia e in Egitto: ennesima prova che le grandi religioni nulla hanno a che vedere con l'infibulazione, diffusa solo in Africa per tradizioni millenarie più forti di ogni credo. Il Foglio – 23/01/04 Infibulazione dolce? Nessuno vuole la puntura di spillo. La Bonino condanna il relativismo, alle mutilazioni serve una legge (…) Nessun dolore, nessuna clitoridectomia, niente sangue. Certo a qualcosa di simile pensava il dottor Omar Abdulcadir, il ginecologo somalo che ha proposto la riduzione del danno, quand’esso sia inevitabile, e l’ha fatto allo scopo di evitare le crudeli conseguenze sanitarie di una pratica tribale che ha preso il nome di tradizione. (…) Adesso è accusato di voler avallare la pratica barbarica, legittimandola attraverso l’eliminazione del danno e del dolore. Emma Bonino, promotrice della campagna “StopFgm” (stop alle mutilazioni genitali femminili), (…) è convinta che “prendere in considerazione la proposta di legittimare la pratica, con la definizione di “dolce”, delle mutilazioni genitali femminili può essere solo frutto dell’ignoranza, in nome di un distorto ed esasperato concetto di relativismo culturale. L’Unità – 22/01/04 Infubulazione no, senza se e senza ma Lidia Ravera Niente più dell’infibulazione rappresenta con tragica, sanguinaria chiarezza, la condizione delle donne nel mondo dell’islam. Volti e capelli coperti per non essere desiderate, genitali manomessi per non desiderare. Senza corpo, addette alla riproduzione, senza diritti, addette al servizio dell’uomo. Ombre silenziose, condizionate fino a farsi complici dei loro stessi torturatori, spinte dalla povertà, incalzate dalle guerre, queste sorelle che non conosciamo, che non riusciamo capire, emigrano, se possono, verso Paesi dove vivere è più facile. Emigrano con i 127 loro mariti, con bambini, si arrangiano in qualche abitazione, lavorano, mandano bambini a scuola, si adeguano, si adattano, ma non cambiano. Perché dovrebbero? Che cosa abbiamo noi da proporre, che sia più forte delle loro tradizioni? Restano legati ai loro rituali, alle loro credenze. Gli uomini continuano ad abusare della pazienza delle donne, le donne continuano a patire. Anzi, forse, la lontananza degli uomini dalla terra rafforza le radici, enfatizza i rituali, urlare la preghiera, insomma, peggiora la dipendenza dalle superstizioni. Addirittura, forse, per difendere le loro femmine dall’infettiva contiguità con la nostra realtà di emancipate, gli uomini diventano anche più torvi, più padroni. (…) Per evitare queste conseguenze un’unità sanitaria locale, in una regione fra le più ben amministrate d’Italia, ha tentato di mettersi al servizio dell’orrore, immagino con piena consapevolezza dei rischi «politici» e morali di una simile scelta, ha tentato di sostituire con «una semplice puntura di spillo sul clitoride anestetizzato» la barbarica pratica della mutilazione. (…) Il problema è che non basta rifiutarsi di legittimare una pratica vergognosa, bisogna combatterla attivamente, bisogna scavare fino a mettere a nudo le radici che la mantengono in vita, bisogna estirparle, quelle radici. (…) Bisogna che le donne abbiano il diritto di andare a scuola con il velo se dal velo si sentono tutelate, di buttarlo quando hanno capito che non serve, che se tu rispetti te stessa anche gli altri finiranno col rispettarti. Bisogna che le donne aspettino le altre donne, quelle che camminano più adagio, che partono da lontano, che devono superare più ostacoli, più disprezzo, più rituali barbarici, più convenzioni liberticide. Panorama – 03/02/04 Mordete la mano del macellaio Di Adriano Sofri Anche per questo il relativismo culturale, spinto fino al ripudio dei fondamenti universali dei diritti umani (l'Habeas corpus, in primo luogo), è un equivoco micidiale, oltre che immorale. Nemmeno l'eventuale consenso della donna, ammesso che sia vero e non estorto, può autorizzare pratiche che violino l'incolumità dei corpi. Lo chiamai in altre occasioni il modello Phileas Fogg. Vi ricordate Il giro del mondo in ottanta giorni (il romanzo di Jules Verne, ndr). Sir Phileas Fogg e il suo fido Passepartout arrivano in India e assistono alla cerimonia del suttee, il rogo funerario del maragià sulla cui pira deve bruciare anche la vedova. È uno dei riti prediletti dall'osservazione e dalla riflessione etnologica. Sir Phileas Fogg che, per fortuna, ama le giovani donne più di quanto rispetti l'etnologia, organizza il rapimento della vedova, la bella Auda, stordita abbastanza da credere di desiderare il rogo coniugale, se la porta in salvo a Londra e, per non lasciare le cose a metà, la sposa. Impresa un po' coloniale, diciamo, ma lodevole. 128 La Gazzetta del Sud – 01/02/04 L’infibulazione e la “riduzione del danno”... anche i Vattimo sonnecchiano di Girolamo Cotroneo (…) Tutti ormai sappiamo che presso alcune popolazioni extraeuropee viene ancora praticata quella barbara usanza che è l'infibulazione. (…) il problema non è – o non è soltanto – quello del dolore che quell'intervento provoca, ma del suo significato, diciamo, «culturale», delle ragioni – o meglio delle «non-ragioni» (mi si passi il termine) – per cui viene praticato, che risalgono a oscure istanze originarie, tipiche di una società chiusa, di una cultura tribale, di un mondo primitivo, ancora preda di antiche superstizioni. La Repubblica – 31/03/04 Infibulazione, giro di vite carcere per chi la pratica di Laura Laurenzi (…) Poiché i contributi garantiti dalla Commissione europea alla campagna — che vede in Emma Bonino una delle sostenitrici più accese — sono esauriti e i prossimi non verranno erogati fino a1 2005, Arìna Fendi ha organizzato per stasera, a Roma, un galà-kolossal a fini benefici. Attese, fra le altre, Sophia Loren e Virna Lisi, Marella e Susanna Agnelli, Gae Aulenti, Rita Levi Montalcini, Giulia Maria Crespi, Miriam Mafai, che fanno parte del comitato promotore della serata. La cena si svolgerà al Museo nazionale preistorico ed etnografico Pigorini. 1500 ospiti pagheranno ciascuno 150 euro. Durante la serata, Christie’s batterà all’asta oggetti d’arte e capi griffati. Agli ospiti, prima della cena, verrà mostrato il breve filmatoshock (due minuti, indimenticabili) sull’infibulazione girato in un paese africano da Oliviero Toscani, in cui si vede in ogni dettaglio la mano del carnefice arrotare e riscaldare la lametta su una pietra e mutilare una bambina di appena otto anni. «Sono vent’anni che combattiamo, forse possiamo ragionevolmente sperare che entro il 2015 questa pratica non esista più», ha annunciato Daniela Colombo, presidente di AIDOS. «Comincia finalmente a incrinarsi il muro dell’omertà e dell’indifferenza. Ora è il momento del rush finale», ha commentato Emma Bonino. Miriam Mafai ha sottolineato come la mobilitazione dell’Occidente non debba essere giudicata «un atteggiamento paternalistico, bensì un modo per esportare pacificamente la democrazia». 129 La Stampa – 23/01/04 Bonino: la barbarie non può essere dolce Intervista di Francesca Paci (…) “In Egitto questo rito barbaro è praticato in particolare nelle aree rurali e periferiche, dove l’invito ripetuto a recarsi in una struttura medica assistita per ridurre i rischi dell’intervento non ha ascolto”. (...) Ancora un retaggio del vecchio relativismo culturale per cui ogni usanza ha diritto ad una qualche considerazione. Non nego che si tratti di un problema complesso, ma chiederei ai promotori: “Lo faresti a tua figlia?” Risponderebbero tutti di no, neppure con lo sconto. (…) La guerra al tribalismo è stata aperta vent’anni fa da un coraggiosissimo comitato africano. (…) Piuttosto che impiegare risorse per convincere le straniere dell’opportunità di un taglietto piccolo invece dell’asportazione, spieghiamo loro che è sbagliato e basta. Che non si fa. (…) Riconosco le buone intenzioni di chi ha proposto la variante dell’infibulazione, però la via dei genocidi è lastricata di buone intenzioni. Liberazione – 23/01/04 L’infibulazione non è mai innocente di Ritanna Armeni (…) Nessuna comprensione per una pratica barbara che mutila le donne, nessuna mediazione neppure simbolica con un’usanza che mutila il corpo non consenziente e non consapevole della donna. (…) Occorre dire di no anche alla permanenza del simbolo che, comunque, non è mai innocente. In questo caso anzi appare confermativo di una pratica aberrante e di una convinzione da estirpare. Il Foglio – 04/02/04 Caro Paolo Mieli, di Adriano Sofri (…) Non può esserci persona sensata e non fanatica che non concordi sul fatto che, di fronte all’alternativa secca e urgente fra lo scempio della macelleria infibulatoria e il rito minimo del dottor Abdulcadir, si scelga senz’altro il secondo. Ma questa è appunto una situazione estrema, un’emergenza che richiama le stesse circostanze della legittima difesa: cioè di una deroga dettata da una condizione urgente di necessità. (…) Legalizzare l’infibulazione cosiddetta “dolce” e assicurare l’assistenza ospedaliera significa, come mostra già la sola discussione, patrocinare una 130 campagna in favore di questo metodo contro quello feroce, pericoloso e illecito della tradizione patriarcale. Ciò che emerge da questa breve rassegna stampa è certamente il nostro pesante giudizio di valore su una pratica culturale, evidentemente poco esplorata, più volte definita barbara, tribale, oscura, primitiva e incivile. Allo stesso tempo coloro che le praticano sarebbero: carnefici, ignoranti, fanatici, insensati e superstiziosi, non a caso rigorosamente extra-europei. Con queste premesse non dovrebbe sorprenderci la difficoltà a dialogare con le donne direttamente interessate42, più volte riscontrata nelle campagne informative sulle MGF. Proprio per questo utilizzare un simile linguaggio e di conseguenza esprimere certi concetti - nomina consequentia rerum - non può provocare altro che distanza e chiusura da parte di chi diviene così oggetto di stigma, in luogo di un dialogo che faciliti la comprensione e la conoscenza reciproca. Allo stesso tempo posizioni ideologiche, non prive di mistificazione, hanno tacciato la proposta del Dott.Abdulcadir di essere comunque una mutilazione, assimilando una puntura di spillo provocata sotto anestesia ad una vera e propria infibulazione, rifacendosi al potere di un simbolo. A nessuno, infatti, è mai sfuggita in questo caso la relazione tra significato e significante, come hanno fatto notare studiosi ed esperti43. Non era, infatti, una questione di principio a muovere la proposta del medico fiorentino, ma l’urgenza di proporre un’alternativa alla manifestazione più intrusiva della pratica. Tale proposta, dunque, non era rivolta a chi non si sarebbe mai sottoposta ad alcun intervento di MGF, e quindi la questione non 42 Quando parlo di donne interessate non penso alle donne già contrarie o estranee a questa pratica, in quanto non è a loro che sono indirizzate tali campagne, bensì a chi pensa, per qualunque ragione (degna almeno di ascolto) che sia giusto, desiderabile, corretto, morale, sottoporvisi. 43 Si veda in particolare Carla Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, ed Meltemi, Roma 2007. 131 era tra non sottoporvisi affatto o accettare un intervento poco invasivo, bensì sottoporsi ad un intervento pericoloso oppure optare per un’alternativa, che almeno non presenta complicazioni fisiche. Per quanto concerne l’aspetto simbolico saranno le donne interessate (e non soggetti esterni) che, attraverso il loro impegno politico, metteranno in crisi una struttura patriarcale che le opprime, come accade (o dovrebbe accadere) in modi diversi anche da noi e in qualunque altra parte del mondo. Per lo stesso motivo la domanda “sottoporreste vostra figlia ad una simile pratica?”, contro qualsiasi forma anche simbolica di MGF, avanzata spesso da più parti come provocatoria argomentazione dalle velleità controfattuali, presenta un’evidente capziosità. E’ improprio, infatti, porre una simile domanda, la cui risposta è fortemente condizionata dai riferimenti culturali ed ambientali, a chi non appartiene e tanto meno conosce le culture a cui afferiscono tali pratiche. Per queste ragioni è ovvio, quindi, che la risposta sia negativa, ma questo non avalla il giudizio di valore, dalle velleità universalizzanti, che un simile quesito vorrebbe dimostrare, se non la faziosità della prospettiva prescelta per giudicare il fenomeno. La questione evidentemente nasconde dell’altro e a svelarne alcune ambiguità, seppur con altri intenti, è proprio il contributo di Adriano Sofri, citando l’episodio del Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Qui Sir Phileas Fogg, proveniente dalla “civilissima e progredita” Inghilterra, salva da una “pratica barbara” una “povera donna sottomessa”, vittima di “tradizioni patriarcali e arretratezza culturale”. Tale “sensibilità” però mal si coniuga con la condizione delle donne inglesi, a cui nello stesso periodo non sono riconosciuti fondamentali diritti civili e politici, tra cui il diritto di voto; e verosimilmente è possibile immaginare che il nostro “salvatore” non simpatizzi affatto con la battaglia suffragista, come la maggior parte degli uomini a lui contemporanei. A parte tutto però l’inglese è un vero gentleman, arrivando addirittura a sposare la poveretta. Insomma, un vero salvatore, benché colonialista quanto basta! 132 Come suggeriva Gayavatri Chakravorty Spivack, l’uomo bianco, secondo questa prospettiva, avrebbe salvato la donna nera dalla malvagità di uomini neri e dalla barbarie di tradizioni incivili, proprie di contesti socio-culturali non ancora progrediti. Per quanto concerne le MGF stiamo assistendo a qualcosa di molto simile. L’unica differenza è la massiccia presenza in questo caso di donne bianche (che al tormentone della missione civilizzatrice ora preferiscono piuttosto quello dell’emancipazione), che insieme ad altri uomini bianchi salvano donne nere dalla barbarie di altre donne e uomini nere/i. Allo stesso tempo le bambine che rischiano di essere sottoposte a MGF sono descritte come soggetti indifesi da sottrarre alla crudeltà di genitori incivili, avvezzi per ignoranza e “tribalismo culturale” alla tortura, a cui non risparmierebbero neanche le loro figlie. Così uomini e donne bianchi/e si ergono oggi a salvatori e salvatrici di bambine nere da proteggere dalla barbarie, appunto, di genitori neri. La donna subalterna, dunque, è privata da entrambe le parti di qualsiasi soggettività, schiacciata dall’imperialismo occidentale da un lato e da una cultura patriarcale dall’altro. A questo proposito Nirmal Nuwar, un’altra scrittrice postcoloniale, afferma Il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l'esule sono tutti sotto i riflettori. E' a queste figure che si volge lo sguardo dei media, delle agenzie di governance globale e locale, dei professionisti del capitalismo in stile multiculturale, degli accademici e degli attivisti. Ciascuno di essi ha un proprio motivo particolare per guardare e cercare. Alcuni cercano di pattugliare i confini, altri di regolare quei corpi il cui lavoro è necessario ma la cui cittadinanza (umanità) è rifiutata. E poi c'è la pretesa incessante di scorgere chi sta dietro al turbante, al velo, al pizzo, a quella pelle non-bianca; il sospetto alimenta pericolo e risentimento. Mentre alcuni di questi corpi sono accusati di arrecare distruzione alla terra promessa, altri - e spesso gli stessi, sebbene con sfumature leggermente diverse vengono celebrati perché evocano un paradiso tropicale. (...) La fame di narrazioni di «vittimità» ha una lunga storia. Al culmine dell'antropologia, le distinzioni fra l'Occidente e il resto del mondo diedero luogo a una giurisdizione epistemologica racchiusa in osservazioni, misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di 133 curiosità. I corpi delle donne provenienti da questi «altri» luoghi rivestirono un ruolo centrale nella produzione della differenza fra barbarico e civilizzato, spirituale e razionale, passivo e potente. Tutto ciò che è percepito al tempo stesso come attraente, repulsivo, bisognoso di correzione è stato proiettato da questi «altri» luoghi sulle figure femminili. Nel rappresentare il fardello dell'uomo bianco così come della donna bianca, le donne di «altri» luoghi hanno offerto a coloro che guardavano verso Est in cerca di carriera un sentimento di missione, definendo per loro un senso di identità quali politici, riformatori sociali, viaggiatori o accademici44. Questo in fin dei conti è anche ciò che ci raccontano gli articoli di giornale qui estratti, che parlano di una “pacifica esportazione della democrazia”, di gran-galà di beneficenza, non a caso all’interno di un Museo di preistoria ed etnografia, per donne facoltose (principalmente occidentali), che dovrebbero aiutare altre donne (principalmente africane), definite appunto, “quelle che camminano più adagio, che partono da lontano, che devono superare più ostacoli, più disprezzo, più rituali barbarici, più convenzioni liberticide”. Le stesse donne sono qui vittimizzate (definite impropriamente appartenenti al mondo islamico, anche se le MGF non sono un fatto religioso). Considerate “senza corpo” e ridotte ad “ombre silenziose, condizionate fino a farsi complici dei loro stessi torturatori”. Non si riconosce dignità alcuna alle varie forme di resistenza femminile, che possono esistere anche se si indossa un velo (senza dover necessariamente arrivare alla conclusione di gettarlo perché non serve più)45, e che troppo spesso sfuggono alla nostra attenzione, se non parlano il nostro stesso linguaggio. 44 Nirmal Nuwar, I volti svelati della buona meticcia, ed. DeriveApprodi, Roma 2003. 45 La scrittrice marocchina Fatima Mernissi ha più volte ricordato che il velo, piuttosto che un simbolo di oppressione patriarcale, rappresenta uno strumento attraverso il quale le donne si proteggono dallo sguardo maschile. A questo proposito mi vengono in mente le donne azteche (o sarebbe meglio dire mexicas) che si coprivano il viso di fango per sfuggire all’attenzione dei conquistadores, che facevano dello stupro una pratica quotidiana. 134 Queste donne, “spinte dalla povertà e incalzate dalle guerre” (come se fossero solo queste le ragioni possibili per la migrazione), emigrano in Paesi “dove vivere è più facile” ed è più prossima la contiguità con “la nostra realtà di emancipate”. Questo secondo Lidia Ravera che ha firmato l’articolo. Eppure, come suggerisce l’antropologo Amedeo Pistolese, spesso per le migranti le priorità sono altre. Si pensi alle difficoltà a cui va incontro una donna immigrata priva di permesso di soggiorno, quindi soprattutto oggi privata anche dei diritti più elementari. Tuttavia non necessariamente si tratta di difficoltà legate alla propria storia, di donna musulmana, povera o rifugiata. Molte responsabilità, infatti, ricadono, a mio avviso, sulle modalità di accoglienza, o meglio di non accoglienza, che incontrano i migranti una volta giunti in un Paese come il nostro, dove vivere è tutt’altro che facile. Dinamiche di esclusione, marginalizzazione e stigmatizzazione fanno conoscere a molte donne, e non solo, il peso di un razzismo sistemico e strutturale. Simili condizioni, comuni a molti migranti non solo in Italia, inducono molte donne immigrate a ripiegare sulla propria comunità di appartenenza, che rappresenta a questo punto l’unico riferimento e sostegno possibile. Tale meccanismo comporta spesso il recupero di tradizioni presenti nel proprio Paese d’appartenenza, talvolta in corso di decadenza nello stesso contesto di riferimento, recuperate nel tentativo di ricercare o affermare una propria identità, proprio a fronte di una condizione di esclusione sociale. Come ricorda Carla Pasquinelli l’attuale contesto migratorio non può essere più ricondotto ad un modello bipolare, che utilizza solo categorie quali acculturazione, assimilazione, integrazione, trascurando i rapporti tra migranti e contesto di partenza. Si tratta ormai di una dinamica a tre, che vede protagonisti i soggetti migranti, gli ambiti di accoglienza e le comunità locali di riferimento46. 46 C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, pag. 108. 135 Molti uomini, donne e bambini/e costretti a lunghe e pericolose traversate47, riescono ad approdare in Italia, scampando alla morte, per incorrere poi nel rischio di finire reclusi per mesi in un Centro di Identificazione ed Espulsione, senza aver commesso alcun reato. Qui vengono umiliati, privati ora sì dei diritti più elementari, nonché dell’Habeas Corpus, non appannaggio dunque dei migranti e tanto meno delle donne. Molte voci che si sono sollevate contro le MGF (in quanto violazione fisica e simbolica del corpo delle donne) hanno taciuto o peggio ancora sono state complici di proposte di legge48 che vorrebbero impedire ad immigrati privi di permesso di soggiorno di accedere a cure sanitarie, incluse le donne incinte, che rischiano per altro di non poter riconoscere il proprio figlio perché prive del documento di soggiorno che permetterebbe loro di intraprendere pratiche anagrafiche49. Una donna immigrata subisce, dunque, il peso di una mancanza di riconoscimento, sia sul piano reale che simbolico. Sembra emergere, dunque, la considerazione sostenuta da molte donne immigrate, per cui le MGF sono un problema prima di tutto occidentale, utilizzato come paradigma strumentale e funzionale per avvalorare la nostra presunta superiorità ed effettiva egemonia. A questo proposito il Dott. Abdulcadir, impegnato nel Centro specializzato sulle MGF, ricorda che i bisogni espressi dalle donne 47 Su questo tema si veda il documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer, Come un uomo sulla terra, del 2008, che descrive l’odissea a cui sono costretti molti migranti africani, con la complicità di feroci trattati ed accordi bilaterali tra l’Italia e la Libia, stipulati tra il 2003 e il 2008 (e relativi aggiornamenti nel 2009). 48 Proposte avanzate all’interno del cosiddetto “Pacchetto sicurezza” approvato definitivamente a Maggio 2009, che prevede misure repressive e discriminatorie contro la popolazione migrante. 49 Così come si è rischiato di veder negato il diritto all’istruzione a minori privi di permesso di soggiorno, in virtù di proposte di legge avanzate dalle stesse fazioni politiche che li volevano difendere dalla “barbarie” delle MGF. 136 immigrate incontrate sono spesso di altra natura. Soffrono difficoltà contingenti, tali da far loro apparire le MGF un falso problema nell’immediato. Il ginecologo somalo, infatti, si trova ad affrontare con le sue pazienti questioni legate alla salute, all’accoglienza, alla sicurezza e solo successivamente alle MGF. A tal proposito molte donne stentano a comprendere il motivo di tanto scalpore su questo tema. Per quale motivo, dunque, non è così sentito il problema dell’inviolabilità del corpo e del rispetto dei diritti umani, per le donne immigrate vittime di una condizione di precarietà esistenziale, determinata da una società tutt’altro che accogliente? Perché tali preoccupazioni e affermazioni di principio emergono, strumentalmente, solo in seno al dibattito sulle MGF? Amedeo Pistolese avanza un’ipotesi apparentemente provocatoria, ma a mio avviso interessante, in cui sostiene che l’Occidente ha creato la questione delle MGF, così come ha creato quella della fame nel mondo, di cui per altro è diretto responsabile. Come hanno evidenziato diversi esperti intervistati, un altro aspetto che spiega la nostra attenzione sulle MGF è il coinvolgimento degli organi genitali femminili. Da qui il rimando immediato alla sessualità che questo comporta, e soprattutto al rapporto tra i sessi e i generi che ciò rappresenta. I riferimenti sessuali (in chiave spesso sessista), rivestono infatti un ruolo centrale nella nostra cultura. Questo spiega atteggiamenti ammiccanti, stereotipati, non scevri da sessismo e razzismo, che spesso accompagnano lo sguardo occidentale, soprattutto maschile, quando si posa sulla donna africana, o meglio sulla sua pruriginosa proiezione, costruita ed immaginata. Quest’ultima, infatti, incarna, nell’immaginario comune, l’esotico per eccellenza, la pulsione irrazionale che si attribuiva al selvaggio (in misura maggiore ad una donna selvaggia, quindi doppiamente sessuata), in contrapposizione alla ragione, incarnata dalla civiltà occidentale (ovviamente maschile, ça va sans dire). La questione delle MGF, trattata non senza ossessiva morbosità, non è dunque immune a questo tipo di riflessione. A tal proposito Carla Pasquinelli, parlando di infibulazione, riporta la seguente testimonianza 137 Non è un caso che tra le varie forme di intervento sui genitali femminili l’infibulazione sia quella che accende di più la fantasia. Non tanto quella locale quanto l’immaginario occidentale per quell’artificio tenebroso racchiuso nel segreto dei corpi, come ho avuto modo di constatare di persona durante un soggiorno di ricerca che mi aveva condotto nei primi anni Ottanta in Somalia per occuparmi di tutt’altro. Ricordo ancora l’imbarazzo e il fastidio che provavo allora per i sorrisetti furbastri ed eccitati che comparivano sulle labbra degli uomini italiani, ogni volta che il discorso cadeva sulle donne somale, ridotte a feticcio di un erotismo esotico, che avrebbe avuto, si mormorava, il pregio di esaltare oltremisura il piacere maschile. Un piacere proibito, erede dello sguardo spossessante del colonialismo50. A tal proposito appare indicativo quanto riportato dall’antropologa Michela Fusaschi, la quale riferisce che nell’ultimo rapporto interistituzionale del 2008, che vede tra i firmatari l’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le MGF sono denominate Mutilazioni sessuali femminili, lasciando emergere ancor più nitidamente l’immagine estremamente sessualizzata del corpo femminile, in particolare delle donne di culture non occidentali, considerate appunto l’incarnazione per eccellenza di esotismo e di sfrenata pulsione sessuale. A quanto pare l’Africa, e in particolare le donne africane, rievocano nell’immaginario comune qualcosa di ontologicamente oscuro, incomprensibile e misterioso (il cui svelamento non può che essere appannaggio dell’uomo bianco). Non a caso, come si è visto, c’è chi continua a parlare di “Continente nero”, pervaso da “nonragioni” e ostaggio di “oscure istanze originarie, tipiche di una società chiusa, di una cultura tribale, di un mondo primitivo, ancora preda di antiche superstizioni”. Allo stesso tempo, come suggerisce il filosofo post-coloniale Arjun Appadurai, per l’Occidente il corpo del colonizzato, e potremmo aggiungere del migrante, è un corpo estraneo e inquieto (ed 50 C.Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, pag. 89. 138 inquietante) per natura: corpo che digiuna, si perfora, si distrugge, compie abluzioni, brucia e sanguina, ma anche sporco, fragile, femmineo e subdolo51. Si tratta dunque di un corpo che va controllato, contenuto, normato, poiché controllare il corpo individuale significa controllare il corpo politico e sociale (si pensi a quanto accade da sempre al corpo delle donne e dei soggetti considerati devianti dalla norma, tra cui omosessuali, migranti, poveri, malati, etc.). Un ulteriore aspetto che emerge dalla rassegna stampa qui presa in esame, e che a mio avviso meriterebbe più di una riflessione, sono le conclusioni speculari e spesso bipartisan che accomunano personalità politiche ed intellettuali afferenti a culture di destra e di sinistra. Da un lato, infatti, la destra si serve della difesa delle donne e dell’universalità dei diritti umani per introdurre e suffragare politiche xenofobe52, dunque difende strumentalmente i diritti umani per avallare provvedimenti razzisti. Dall’altro, invece, la sinistra, sentendosi in dovere di intervenire sempre e comunque su temi come questi, considerandoli principalmente di proprio dominio, parte dalla strenua e talvolta miope difesa dell’universalità dei diritti umani e di assunzioni di principio, arrivando a riprodurre dinamiche razziste. Il ricorso alla retorica dei diritti umani è, però, meno innocente di quanto si possa di primo acchito immaginare. Il colonialismo contemporaneo, infatti, per istanze rigenerative ha avuto bisogno di rifarsi il trucco, celando la sua natura, attraverso la mistificazione delle proprie intenzioni. E’ stato dunque necessario recuperare categorie coloniali apparentemente sopite, come il concetto di barbarie, arretratezza, sviluppo, aggiungendo a queste rivendicazioni femministe, le quali, benché inascoltate entro i propri confini, divengono un buon viatico per l’“esportazione della democrazia”. Da qui il ricorso a concetti quali emancipazione, liberazione o autodeterminazione. Si tratta, infatti, di espedienti funzionali ad un sistema di dominio, che oggi come ieri ha la necessità di apparire altro da quello che è. Se dopo la Prima Guerra mondiale l’85% delle terre 51 52 A.Appadurai, Modernità in polvere, ed. Meltemi, Roma 2004 pagg.173, 175. Si pensi al già citato “Pacchetto sicurezza”. 139 emerse era stata colonizzata dalle potenze europee, in nome di una civiltà da esportare e di un diritto da esercitare in quanto nazioni superiori, oggi lo stesso diritto viene addotto come salvaguardia dei Paesi oggetto di neoimperialismo. Sono cambiate le parole d’ordine, in parte anche lo scacchiere internazionale, ma l’aspetto più dirimente è che il meccanismo di dominio e di oppressione è rimasto invariato, in quanto capace di rigenerarsi, sfruttando, ad usum delphini, categorie pseudo-libertarie (afferenti alla tradizione politica occidentale) apparentemente a vantaggio del soggetto che opprime. Il ricorso ai diritti umani, all’emancipazione, al progresso e allo sviluppo ne sono un esempio. Ancora una volta il resto del mondo avrebbe bisogno dell’Occidente per proteggersi da se stesso, da una presunta incapacità di autogovernarsi e di garantire l’esercizio dei diritti fondamentali e la tutela di gruppi minoritari all’interno dei propri confini. Ieri si parlava di occupazione, oggi di liberazione, in quanto più funzionale all’attuale sistema-mondo. Ma l’Occidente assicura le stesse garanzie ai soggetti all’interno dei suoi ambigui confini? Quanto poi può innocente rispetto alle difficoltà che vessano i Paesi del Mondo, tanto da far credere che il suo interventismo sia disinteressato? oppressi definirsi Sud del del tutto Non sembra invece di sentir risuonare ancora una volta un evoluzionismo ormai di annata, nelle cui maglie è caduto anche un certo marxismo ed oggi buona parte della sinistra, per cui si afferma il “diritto” degli altri a diventare come noi, rigorosamente non senza il nostro irrinunciabile aiuto? A tal proposito mi sembra interessante il contributo di David Chandler, riportato da Gino Satta, in merito alle “guerre umanitarie”. Questi sostiene che il colonialismo contemporaneo ricerchi una propria legittimazione proprio attraverso la retorica postmoderna e progressista dei diritti umani, di cui gli organismi sovranazionali e le ONG sono gli agenti principali. Il dibattito statunitense preso in esame vede dunque schierata da un lato la destra neoconservatrice, che si erge a baluardo della superiorità occidentale, in virtù della quale 140 impone il proprio ordine al resto del mondo, e dall’altro forze politiche e culturali, che propugnano l’intervento umanitario occidentale a favore delle minoranze e in nome dei diritti umani53. L’antropologo francese Marc Augè a mio avviso sintetizza in modo puntuale il perverso binomio globalizzazione/umanitarismo, affermando quanto segue l’uso sistematico del termine «compassione» e dell’aggettivo «umanitario» coincide con l’avvento di un mondo globalizzato dove regnano fianco a fianco nella complicità il signor Profitto e la signora Carità 54. A questo proposito si pensi all’invasione militare dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e delle truppe della NATO nel 2001 (operazione anche nota come Enduring Freedom), in cui la liberazione delle donne dal burqa, simbolo di oppressione patriarcale del governo talebano, rappresentava uno degli argomenti forti per giustificare, agli occhi dell’opinione pubblica, un intervento militare che di umanitario aveva ben poco. Un’ulteriore dimostrazione di una simile mistificazione c’è stata recentemente offerta dall’attuale governo afghano, insediatosi con il contributo degli Stati Uniti dopo aver spodestato i talebani, il quale ha approvato una legge che introduce il diritto di stupro in famiglia, vieta alle donne di uscire di casa, di cercare lavoro o di andare dal medico senza il permesso del consorte. Una simile contraddizione mostra tutta la debolezza di un approccio che pretende di giustificare guerre “umanitarie” per “liberare le donne” in nome di non meglio precisati diritti umani, da esportare per 53 G.Satta, Colonialismo. In Occidentalismi, a cura di C.Pasquinelli, ed. Carocci Roma 2005, pag. 216. Su questo tema si vedano anche: N.Chomski, Il nuovo umanitarismo militare, ed. Asterios , Trieste 2000; G.Courtemanche, Una domenica in piscina a Kigali, ed. Feltrinelli Milano 2005; H.d’Almeida-Topor, L’Afrique au XX siècle, ed. Armand Colin, Parigi 2003; G.Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari, ed. Feltrinelli, Milano 2002; A.Mbembe, Postcolonialismo, ed. Meltemi, Roma 2005. P.Uvin, L’aide complice, ed. L’Harmattan, Parigi 1999; 54 M.Augè, Diario di guerra, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pag. 26. 141 di più con strumenti che sono espressione del più becero imperialismo maschile. Contro le MGF vengono chiamati in causa addirittura i genocidi, lastricati di non meglio precisate buone intenzioni, spesso impropriamente associati ai conflitti intestini africani, dimenticando forse il ruolo, il contributo e le responsabilità fondamentali dell’Occidente nella storia delle guerre genocidarie55. Quel che è certo è che la quasi totalità degli articoli presi in esame lascia intravedere una forte urgenza ad esprimere giudizi di valore e considerazioni affrettate, su una questione non sempre adeguatamente esplorata. I riferimenti culturali, centrali per questo tema, sono stati spesso trattati con approssimazione o superficialità, quasi fossero un mero epifenomeno degno, semmai, di un’analisi secondaria o addirittura svogliata. Ci sono poi casi di vero e proprio integralismo assiologico, rappresentati da una presunta battaglia di civiltà dalle pretese universali ed universalizzanti56, impermeabili a qualsiasi obiezione o 55 Sulla genesi delle teorie genocidarie in Europa si vedano: G.Bensoussan, Genocidio. Una passione europea, ed. Marsilio, Venezia 2009; F.Dei, Antropologia della violenza, ed. Meltemi, Roma 2005. Per un’analisi storico-politica dei genocidi nella storia si vedano: AA.VV., Il secolo del genocidio, ed. Longanesi, Milano 2006; AA.VV., Rwanda. Le génocide du XX siècle, ed. LHarmattan, Parigi 1995; B.Bruneteau, Il secolo dei genocidi, ed. Il Mulino, Bologna 2005; E. Nkunzumwami, La tragédie rwandaise. Historique et perspectives, ed. L’Harmattan, Parigi 1996; S.Power, Voci dall’inferno, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004; G.Prunier, Rwanda: le génocide, ed. Dagorno, Milano 1999; D.Scaglione, Istruzioni per un genocidio, ed. EGA, Torino 2005; T.Todorov, La conquista dell’America, ed. Einaudi, Torino 1992. 56 Annamaria Rivera, definisce così il presunto universalismo più volte invocato dall’Occidente: “Un universalismo che, stabilendo gerarchie e delimitando «periferie di umanità, di diritti, di cittadinanza», ha finito per costituirsi come 142 eterodossia, anche quando a parlare sono donne direttamente coinvolte e che quindi, almeno per questo, meriterebbero ascolto. A questo proposito il suggerimento formulato da Lucrezia Catania, impegnata con Omar Abdulcadir nel Centro specializzato per le MGF di Firenze, mi sembra molto eloquente. La ginecologa, infatti, rileva una differenza sostanziale nell’atteggiamento riscontrato nelle donne che incontrava nel corso della sua attività, quando ancora troppo poco sapeva delle MGF e delle culture a cui afferivano. Se inizialmente percepiva chiusura da parte delle donne coinvolte davanti ad un atteggiamento ideologicamente radicale, allo stesso modo ha scoperto dalle stesse disponibilità di espressione e apertura, una volta accresciuta la sua consapevolezza sul tema. Per altro il ricorso all’universalismo in tema di valori e diritti, soprattutto da parte di molte voci femministe, lascia più di qualche perplessità. Tu quoque! Sarebbe il caso di dire. Come il pensiero femminista sa bene, da quando Olympe de Gouges durante la Rivoluzione francese denunciò l’esclusione delle donne dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, dietro l’aura di universalità, di cui il potere dominante ammanta le proprie consapevolezze politiche e giuridiche, si nascondono di fatto assunti particolaristici, espressione di una determinata cultura, genere e classe sociale, ovvero del soggetto maschio, borghese, occidentale. Dunque proprio il femminismo ricorre oggi a quello stesso universalismo? E’ vero, come affermò Nietzsche, che le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, ma questo può essere possibile soprattutto quando la dialettica dell’egemonia cambia baricentro. Ovvero quando il soggetto subalterno di ieri (in parte anche di oggi), in questo caso le donne occidentali rispetto agli uomini occidentali, diventano il soggetto egemonico se messe in relazione alle donne non occidentali, come ci insegnano le femministe afro-americane negli universalismo particolare, potremmo dire con un ossimoro”. In L’imbroglio etnico, ed. Dedalo, Bari 2001, pag. 309. 143 Stati Uniti, ormai già da qualche decennio57. Se si è nella posizione di chi subisce sfruttamento ed oppressione da parte del potere dominante è in qualche modo più semplice denunciare la necessità di decostruire un modello falsamente universale, ma se si riveste una posizione anche parzialmente di dominio, riconoscere la necessità di decostruzione può significare la rinuncia ad un privilegio altrimenti goduto, proprio in virtù di un rapporto di forza favorevole. E’ stato così per il movimento operaio, rispetto alle rivendicazioni delle donne appartenenti alla medesima classe sociale degli uomini di cui denunciavano l’oppressione o per il movimento femminista statunitense rispetto alle donne nere, solo per fare alcuni esempi. Come l’oppressione delle donne afferenti a classi sociali più svantaggiate non si esaurisce nella dialettica classista, così la soggezione delle donne nere non è riducibile alla contrapposizione tra i due generi. Un capitolo a parte merita il transgender e le modificazioni a cui molti uomini e donne sono spesso costretti/e per vedersi riconosciuti dalla società di cui fanno parte. In una logica di identità binaria, infatti, o si è fisicamente maschi o si è fisicamente femmine, senza possibilità di deroga o alternativa alcuna. Come spiega Lorenzo Bernini, del Gruppo di Liberazione Omosessuale di Milano, in Italia fino al 1990 per il Dipartimento di 57 All’interno del movimento femminista americano le donne nere non si riconoscevano in pieno nelle rivendicazioni delle loro compagne di lotta bianche. Infatti, in virtù della loro diversa appartenenza sociale fortemente condizionata dal colore della pelle, soffrivano un’oppressione diversa rispetto alle donne bianche e borghesi: oppresse in quanto donne, nere e proletarie, di conseguenza vittime di differenti forme di oppressione e sfruttamento, non solo patriarcale, e per questo estranee ad un ideale di “sorellanza globale”. “Non sorprende che per le donne nere, la storia che loro raccontano sulle «bianche», nonostante le sue pretese di universalità, sembra interessare soprattutto donne bianche, eterosessuali e privilegiate economicamente”, fenomeno che Adrienne Rich definisce “solipsismo bianco” in A.P.Harris, Identità di razza e identità di genere: critica dell’essenzialismo femminista. In Diritti e Rovesci, ed. AIDOS, Roma 2001, pag. 90. 144 Salute Mentale (DSM) l’omosessualità era considerata una malattia, mentre le persone transessuali continuano ad essere considerate formalmente malate, in quanto affette da disturbo dell’identità o disforia di genere. Per ottenere il riconoscimento della propria identità di genere a livello sociale ed istituzionale per i/le transessuali è necessario sottoporsi ad interventi medici e chirurgici molto invasivi (certo non obbligatori, ma conditio sine qua non per il proprio riconoscimento). Dunque, le “cure” a cui devono sottoporsi sono: • Per un transessuale FtM (dal femminile al maschile) l’assunzione di testosterone, mastectomia (asportazione del seno), isterectomia (asportazione di utero ed ovaie) ed eventualmente falloplastica (ricostruzione chirurgica di un simil-pene). • Per un transessuale MtF (dal maschile al femminile) assunzione di estrogeni e di farmaci antagonisti del testosterone, rimozione di pene e testicoli ed eventualmente nella mastoplastica additiva (ricostruzione chirurgica del seno) e vaginoplastica (ricostruzione chirurgica di una simil-vagina). Vaginoplastica e falloplastica sono interventi molto pesanti, che durano anche 10 ore, e che danno spesso scarsi risultati. La falloplastica nella maggior parte dei casi dà forti reazioni di rigetto. La vaginoplastica, invece, oltre ad essere un intervento molto invasivo, talvolta va ripetuta perché la vagina artificiale tende a chiudersi. La vaginoplastica, per altro, comporta spesso la rinuncia al piacere sessuale. Secondo la legge 164, del 14 aprile 1982, tuttora in vigore, questi interventi (almeno nella loro forma demolitiva) sono necessari per poter ricevere l’autorizzazione di cambiare il nome sulla carta di identità. Se si intende cambiare identità di genere, il nostro sistema giuridico concede di diventare formalmente donna o uomo solo a patto che ci si faccia demolire (o mutilare) ed eventualmente ricostruire i genitali, con tutte le conseguenze del caso. Indubbiamente secondo il principio di autodeterminazione del corpo qualunque persona consenziente dovrebbe avere il diritto di modificare il proprio corpo (anche se per le MGF abbiamo visto che vale esattamente il contrario), ma non il dovere. In questo caso, 145 invece, rappresenta una strada obbligata da percorrere come onere da sacrificare all’altare del conformismo e della normalità coatta, anche per chi ne avrebbe fatto volentieri a meno, se non avesse rischiato di incorrere in emarginazione e stigma. Un altro aspetto da considerare è il fenomeno dell’intersessualismo, non annoverato dal DSM tra i disturbi mentali, in quanto trattasi di una condizione fisica prima che psicologica. Intersessuale è un individuo il cui corpo presenta caratteri intermedi maschili e femminili. Come le persone transgender, infatti, anche le persone intersessuali sono considerate intrattabili dal nostro sistema giuridico e simbolico, e per questa ragione vengono “trattate” dal nostro sistema sanitario. Un esempio di intersessualismo è la sindrome di Klinefelter, esito di una variazione genetica: chi ne è affetto non ha due cromosomi sessuali (i canonici XX delle femmine, e XY dei maschi), ma tre: due cromosomi X e un cromosoma Y. Per la presenza del cromosoma Y, i portatori della sindrome, o meglio le persone XXY - come loro preferiscono chiamarsi - sono classificati dalla medicina come maschi. Alla nascita, in effetti, appaiono maschi, ma quando giunge la pubertà non sviluppano i caratteri secondari maschili: barba, pomo d’Adamo, spalle larghe, voce profonda, non sviluppano pene e testicoli di dimensioni “normali”. Hanno invece voce sottile, fianchi arrotondati, spalle spioventi, e spesso sviluppano il seno. Un altro esempio di intersessualismo è la sindrome di Morris: le persone che ne sono affette, geneticamente sono uomini XY, ma per una incapacità di reazione agli ormoni maschili durante la gravidanza, nascono come bambini micropenici con testicoli introflessi. Hanno quindi genitali ambigui: il loro pene assomiglia a una clitoride, ma lo scroto introflesso forma una piccola cavità cieca, che non sfocia in una vagina. Non avendo i testicoli non produrranno mai testosterone, e quindi non potranno in adolescenza acquisire i caratteri secondari maschili. Un altro caso associabile all’intersessualismo è l’iperplasia surrenale congenita, un tempo chiamata sindrome adrenogenitale. Questa può colpire sia uomini che donne e consiste in un malfunzionamento delle ghiandole surrenali, che producono poco 146 cortisolo e poco aldosterone. La conseguenza è un aumento di testosterone, che nelle donne provoca la comparsa di caratteri secondari maschili: peli, barba, voce profonda. Il testosterone agisce anche sulla conformazione dei genitali: le donne affette da iperplasia surrenale congenita presentano spesso una clitoride ipertrofica, simile a un pene, e in alcuni casi una vagina poco profonda e la fusione delle grandi labbra. A partire dalla metà del Novecento, da quando hanno avuto inizio i primi interventi di riassegnazione genitale, non solo in Occidente, i medici hanno cominciato ad intervenire direttamente sul corpo delle persone intersessuali, “normalizzando” chirurgicamente, poco dopo la nascita, l’aspetto dei genitali ambigui, modificando in seguito i caratteri sessuali secondari con terapie ormonali. Secondo questo imperativo, alla nascita un pene non deve misurare meno di 2,5 cm; e una clitoride non deve essere più grande di 0,9 cm. Bambini con membri tra 0,9 e 2,5 cm sono quindi considerati inaccettabili e bisognosi d’intervento chirurgico. La maggior parte degli intersessuali viene fatta diventare donna semplicemente perchè è più facile costruire una simil-vagina piuttosto che allungare un micropene. Così ad esempio, le donne affette da sindrome adrenogenitale subiscono un intervento di “apertura” della vagina e di “accorciamento” della clitoride, anche a costo di perdere la sensibilità clitoridea. Ma anche chi ha la sindrome di Morris, pur essendo genotipicamente maschio (XY), a causa della micropenia e dei testicoli introflessi viene ricondotto al genere femminile: si accorcia il pene, si pratica una vaginoplastica, si prescrivono estrogeni. Un uomo diventa così una donna dotata di una similvagina a rischio di stenosi, che spesso va rioperata nel corso degli anni. A chi è affetto da sindrome di Klinefelter, invece, una volta giunto all’età dell’adolescenza, i medici “prescrivono” la mastectomia (l’asportazione del seno) e la somministrazione di testosterone. L’assunzione dell’ormone provoca la comparsa di caratteri secondari maschili, ma provoca anche cambiamenti caratteriali nella sfera della libido e dell’aggressività, che in alcuni casi possono produrre profondo turbamento e perdita del senso di sé. Non sono poche nel mondo le persone XXY che rifiutano questo trattamento forzato: 147 alcune scelgono la strada della femminilizzazione, altre rivendicano per sé il diritto di essere semplicemente quelle che sono, ovvero di mantenere il proprio corpo intersessuale e la propria personalità ipodesiderante, ma tale diritto, di solito, viene loro riconosciuto con grande fatica dai medici con cui hanno a che fare58. Questo avviene abitualmente per legge anche in Italia, per cui si dovrebbe parlare di violazione del diritto di autodeterminazione di un individuo che, per la sua minore età, non ha scelto il proprio sesso, avendolo fatto i genitori e i medici al suo posto, con pratiche chirurgiche fisicamente invasive, che possono per di più compromettere il piacere sessuale. Cosa distingue dunque questi interventi dalle MGF? La giurisprudenza italiana e il sistema valoriale su cui si poggia ci svelano dunque la loro ipocrisia. Se da un lato si impone un intervento chirurgico come condizione necessaria, affinché un soggetto sia formalmente riconosciuto/a come appartenente ad un genere/sesso differente da quello a cui si appartiene naturalmente, e privilegiare così l’identità elettiva a quella sovradeterminata, dall’altro si manifesta un atteggiamento completamente opposto in tema di MGF. In questo caso, infatti, il binarismo identitario, che non concede eterodossia alcuna al di fuori della contrapposizione dualistica tra normalità e devianza, come Michel Foucault ci insegna, necessita di altre condizioni per perseguire la sua realizzazione. Il caso del transessualismo suggerisce, inoltre, che non è sempre vero che “il corpo non si tocca”, come affermato da uno slogan che spesso accompagna la critica alle MGF, e tanto meno è sempre vero che l’autodeterminazione del proprio corpo debba andare necessariamente nella direzione dell’inviolabilità, quando invece la sua modificazione rappresenta una libera scelta. 58 Si veda in proposito: Lorenzo Bernini, intervento pubblicato su http://www.nazioneindiana.com, di cui mi sono servita per l’approfondimento di questo tema. 148 5.8 Considerazioni Osservando più da vicino il fenomeno delle MGF credo sia legittimo domandarsi quali sono gli aspetti che ci rendono così sensibili a simili pratiche. Le spiegazioni ovviamente possono essere molteplici: il principio di autodeterminazione femminile, la salute delle donne, ambizioni emancipazioniste, eradicazione di una pratica simbolo di un regime patriarcale, l’inviolabilità del corpo, e forse, come si è visto, molto altro. Se però ci soffermiamo su ogni singolo aspetto permangono impressioni stridenti in proposito, anche a fronte di un interesse a tratti morboso e ossessivo, che ha portato l’eradicazione di questa pratica tra le priorità dell’agenda politica di molte realtà politiche e sociali. Per altro, l’invasività con cui ci siamo appropriate/i di una battaglia, appannaggio soprattutto delle donne coinvolte, non mi sembra che restituisca alle stesse la soggettività messa in discussione dalla pratica che invece si vorrebbe combattere. Lo stesso intransigente accanimento mostrato per la questione meramente simbolica della proposta di Omar Abdulcadir, a fronte del silenzio totale sulle pratiche di modificazione e mutilazione nostrane, lascia emergere tutta l’ambiguità di cui il nostro “occuparci” delle MGF (e dunque delle “altre” donne) è foriero. Mi sembra quindi doveroso chiederci prima di tutto cosa rappresentano per noi occidentali (soprattutto donne occidentali) le MGF, prima ancora di interrogarci sul senso o il significato che possono avere per le donne e le società in cui si praticano. Ancora una volta, dunque, seppur con intenti apparentemente opposti, si interviene sul corpo delle donne, privando le dirette interessate anche del diritto e della facoltà di autodeterminarsi, scegliendo o non scegliendo di opporsi ad una pratica che trova senso (non necessariamente giustificazione, ma non siamo certo noi i soggetti chiamati a giudicare) nel loro sistema culturale o relazionale di riferimento. Abbiamo stabilito che le MGF (ovviamente non tutte, ma come abbiamo visto solo quelle che non ci riguardano direttamente e che 149 sono funzionali ad certo tipo di narrazione) sono un reato, dunque perseguite dalla legge e dallo stigma sociale. A questo punto, in uno spazio di agibilità politica e sociale sempre più ristretto, abbiamo lasciato alle donne direttamente interessate solo la possibilità di abbracciare il nostro punto di vista, ancora una volta ritenuto l’unico possibile. Tale condizione mostra tutta la debolezza del nostro agire, ancora una volta improntato sull’arte di vincere senza avere ragione, ispiratrice di ogni forma di colonialismo, prima di tutto intellettuale. Ciò che emerge è certamente la nostra ambizione ad ergerci arbitri superpartes, dimenticando invece che anche il nostro sguardo è collocato e in quanto tale portatore di giudizi, esigenze ed interessi particolari, tutt’altro, dunque, che universali ed universalizzabili. Come sostiene Amedeo Pistolese, noi apparteniamo ad una cultura moralizzatrice, sebbene priva di etica, che ignora scientemente sistemi culturali “altri”, e per questo non perde occasione di esacerbare e sclerotizzare a proprio uso e consumo pratiche culturali ritenute esotiche, per ergere stereotipi funzionali ad un rapporto di egemonia e predominio. L’ostacolo infimo, a mio avviso, è rappresentato dal razzismo strisciante, che permea sotto varie forme e declinazioni le nostre griglie epistemologiche, capace di condizionare ed inficiare il nostro percorso cognitivo, come l’“orientalismo latente” di cui parla Edward Said. Questo affiora soprattutto quando meno ce lo aspettiamo, quando abbassiamo il nostro livello di attenzione e di senso critico, perché ci sentiamo sicuri/e di percorrere territori già esplorati, come il discorso sull’autodeterminazione per il femminismo occidentale. Solo allora emerge il razzismo “grigio”, più ostico da riconoscere ed ammettere. A tal proposito Carla Pasquinelli afferma Non tanto quella efferata ed estrema che si esaurisce nell’atto stesso in cui si manifesta, quanto una violenza tenace ed opaca, che sfugge alla nostra attenzione – per stabilizzarsi nella quotidianità anonima di comportamenti e di insospettabili modi di 150 essere – e che perdura nel tempo, attraversando gli anni, i secoli, per costituire il tessuto molle di accoglienza di future mortificazioni59. Il razzismo a cui non si presta attenzione, quello quotidiano che prolifera nelle piccole cose, nei gesti ritenuti poco significanti, e per questo diffusi e reiterati, ma che partecipano nel tempo alla costruzione di un razzismo strutturale e sistemico (di cui parlava anche Franz Fanon), atto a disumanizzare l’“altro”, senza destare troppi sospetti, se non quando ormai è troppo tardi. Su questo la banalità del male di Hannah Arendt impartisce più di una lezione. Un’eventuale obiezione sull’ingombrante paragone dimostrerebbe il corretto funzionamento del meccanismo sopra descritto, in attesa che si manifestino palesemente le derive di quel tessuto molle di future mortificazioni. L’immaginario coloniale persiste dunque nella sostanza, pur essendo mutato nelle forme. Appare perciò necessario intraprendere un percorso di decostruzione della nostra griglia epistemologica, se non si vuole perpetrare di fatto ciò che in teoria si pensa di combattere o peggio ancora di avere già espunto dal proprio orizzonte socioculturale. Poiché il tema delle MGF investe fortemente il dibattito femminista, forse una via percorribile per trovare punti di comprensione reciproca e di lotta comune, tra donne e femministe afferenti a diverse culture, è quella che suggerisce, in particolare a noi donne occidentali, di imparare a riconoscere e rispettare forme autonome di esistenza e resistenza, anche se non pertengono al nostro repertorio culturale e politico. Relegare altrimenti soggetti ben definiti ad una posizione di irriducibile alterità è funzionale ad un rapporto di forza incentrato sulla dialettica tra soggetti egemonici e soggetti subalterni. 59 C.Pasquinelli ,Occidentalismi, Carocci ed., 2005, pag. 7. 151 La subalternità, dunque, rappresenta una condizione necessaria per l’esercizio dell’egemonia. “L’uomo Nero deve essere Nero; e deve esserlo in rapporto all’uomo Bianco”, sosteneva appunto Franz Fanon. A tal proposito credo sia perspicuo, parafrasando Carla Pasquinelli, concludere affermando che l’Altro rappresenta ciò che noi non vorremmo essere, ma di cui abbiamo bisogno per essere ciò che siamo. 152 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.VV., Il secolo del genocidio, ed. Longanesi, Milano 2006 AA.VV., Rwanda. Le génocide du XX siècle, ed. LHarmattan, Parigi 1995 A.Appadurai, Modernità in polvere, ed. Meltemi, Roma 2004 Augè M., Diario di guerra, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2002 Bensoussan G., Genocidio. Una passione europea, ed. 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L’OCCIDENTE, LE BUONE PRATICHE, LE DONNE di Oria Gargano “Oggi so che le mutilazioni sessuali non riguardano solo l’Africa, ma coinvolgono tutto il mondo. Oggi so che la consapevolezza degli Europei sul tema è paurosamente inadeguata”. Waris Dirie Un giorno mi trovavo in un Centro d’Accoglienza per vittime di tratta per svolgere il mio lavoro di formazione alle operatrici, e una di loro mi raccontò: L’altro ieri c’era una grande agitazione dillà dalle donne, si sentivano grida e risate. Sono andata a vedere. Erano tutte intorno a R., che faceva le treccine alla figlia, A. A. urlava come un’ossessa. Non è che erano treccine semplici. Erano dreadlocks, che sono dolorosi anche per noi. A. non ha ancora due anni, e quella grande massa di capelli neri e lucidi, e R. che glieli tirava, li legava con le extensions, assolutamente imperturbabile. Quando io le ho detto che secondo me le faceva troppo male lei ha borbottato una frase in inglese più o meno uguale a quella che diceva mia nonna calabrese – chi bella vuole apparire qualcosa deve soffrire… Ed io ricordo ancora il dolore, breve ma intensissimo, di quando mi bucarono i lobi delle orecchie, avevo all’incirca la stessa età di A.allora, mi chiedo, potevo fare qualcosa? Non ho fatto nulla, se non rimuginare quella storia. Lì non parliamo soltanto di estetica, ma di ben altro: di appartenenza. Di rivendicazione di un’identità… Questa storia, solo apparentemente esile, mi è tornata alla mente mentre lavoravo al progetto “Corpi consapevoli: MGF e integrazione nello stato di diritto”, di cui questo libro è uno dei prodotti. Documentandomi su questo tema, così forte e così dirompente, così lontano e così vicino alla nostra coscienza di donne occidentali, mi 156 venne tra le mani il libro Exciseus, scritto da Hawa Gréou, una donna del Mali finita in galera perché nelle banlieux parigine praticava le MGF, severamente punite dalla legge francese, da Linda Weil-Curiel, l’avvocata della parte civile che aveva collaborato alla sua carcerazione, e dalla giornalista Natacha Henry. La vicenda raccontata è questa: nei suoi cinque anni di galera Hawa aveva provato il lusso mai conosciuto di avere una stanza tutta per sé; benché si trattasse della cella di una prigione, aveva avuto modo di imparare a leggere, aveva divorato il Corano, aveva scoperto che in nessuna parte esso parla dell’infibulazione o delle altre pratiche né tanto meno le prescrive, e, soprattutto si era giovata dell’assenza del marito, un uomo violento e nullafacente che campava con i proventi dell’attività illegale di Hawa, e che la tartassava di molestie e dispetti assieme alla sua terza moglie. Insomma, scontata la pena Hawa aveva cercato Linda, e tra le due donne era iniziato un rapporto stravagante e interessante, un ponte tra due donne così diverse che si interrogano e si confrontano sulla pratica portata avanti da Hawa per tanti anni. Da questo incontro è nato il libro, scritto con la collaborazione della giornalista Natacha Henry. A un certo punto, le due francesi chiedono alla donna del Mali: Non ti accorgevi, dal pianto delle bambine, che stavi facendole soffrire? Netta la risposta dell’exciseus pentita, ma non dimentica delle motivazioni che l’avevano animata: I bambini piangono anche quando vanno dal dentista… Allora mi sono tornate in mente le treccine di A., e la nostra supponenza di sapere sempre quello che è giusto e quello che non lo è, e la nostra incrollabile certezza di essere sempre dalla parte di chi può dettare le regole e controllarne l’esecuzione, sia in quanto adulti che in quanto membri di società “avanzate”. E, contemporaneamente, il rischio del relativismo culturale, che pur se infinitamente preferibile all’etnocentrismo, è ugualmente centrato sull’Io universalistico determinato maschile contro le identità sessuate 157 femminili – tutte ugualmente seppur diversamente attraversate dalle forme diverse e coese dell’assoggettamento. Sulle MGF c’è molto interesse da parte dell’opinione pubblica occidentale, che ne enfatizza gli aspetti indubbiamente dolorosi e gravidi di conseguenze sia sul piano fisico che su quello psicologico, senza tuttavia cercare di capirne la collocazione nelle culture dei Paesi nei quali vengono praticate. Come dice Carla Pasquinelli, si tratta di capire il ruolo fondamentale che esse hanno nella costruzione dell'identità di genere, nella formazione dell'appartenenza etnica, e nella definizione dei rapporti di potere tra i sessi e tra le generazioni. La loro efficacia è associata al complesso sistema di strategie matrimoniali fondato sul prezzo della sposa, che delega alle MGF il controllo della sessualità femminile.60 Una lettura molto contigua all’impostazione culturale del progetto Corpi Consapevoli, che considera il tema delle MGF non inteso come paradigma assoluto dell’inferiorità delle donne africane, ma come una delle declinazioni delle forme del modellamento culturale dei corpi delle donne in tutto il mondo, attraverso un approccio teso a sottolineare la non alterità tra donne africane, donne immigrate, donne italiane ed europee. Citando Germaine Greer: Il corpo è il campo di battaglia sul quale la donna combatte per la propria liberazione. È attraverso il corpo che l’oppressione opera: reificando la donna, sessualizzandola, vittimizzandola, disabilitandola. La sua sessualità costituisce per altri un mezzo per forgiarla: il compito della donna è di comportarsi in maniera vicaria, offrendo il proprio corpo al loro ministero.61 60 Carla Pasquinelli (a cura di), Antropologia delle mutilazioni genitali femminili. Una ricerca in Italia, edito da AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, 2000. 61 Germaine Greer, La donna intera, Mondadori 2000 158 Se non è surrogata da un’analisi sulle varie forme di sottomissione che i corpi delle donne e le loro identità sessuate subiscono in tutte le culture patriarcali del mondo, la presa di parola delle donne occidentali sul tema delle MGF, ancorché armate di perfetta buona fede, sovente appare inadeguata alla complessità del fenomeno, e schiacciata su una condanna senza appello a cui sfuggono le sfaccettature nei significati che il rito rappresenta. Ed è per molti motivi, inclusa questa mancanza di lettura in profondità del fenomeno, che le campagne comunicative volte a sensibilizzare le comunità degli immigrati e delle immigrate non hanno mai o quasi mai sortito un effetto positivo e favorito il dialogo tra gruppi etnici e tra donne. La qual cosa ci spinge a chiederci: come l’occidente “legge” il fenomeno? Quali sono le buone pratiche maturate nei Paesi coinvolti dal fenomeno? Qual è il ruolo delle donne nel superamento della pratica? 6.1 L’Occidente In maniera un po’ sorprendente e un po’ no, le MGF sono assunte dall’Occidente quale simbolo dell’arretratezza sociale e della sottomissione delle donne in moltissimi Paesi del mondo – tutti lontani da noi e dalla nostra civiltà, tutti origine di orde di migranti che bussano con modalità diverse alle nostre frontiere. E per qualche strano motivo hanno occupato da sole tutta la scena, oscurando altre pratiche, ugualmente o maggiormente nefaste, che caratterizzano quegli stessi luoghi – e non solo quelli. Giova ricordare a questo punto gli studi e le ricerche dell’Unità Speciale dei Rapporteurs delle Nazioni Unite sulle Pratiche Tradizionali e sulla Violenza contro le Donne, che annoverano tra le pratiche che danneggiano il genere femminile nel godimento dei suoi diritti e nell’insieme del proprio benessere molte consuetudini che non ci riguardano direttamente e almeno un paio che profondamente ci appartengono. In tutti i sistemi tradizionali sociali, ovvero nel mondo dei maschi, secondo l’autorevole fonte, questi sono i crimini che accadono: 159 “Morte per dote”, praticata in molti Paesi Asiatici, consiste nell’uccisione delle donne che non hanno pagato la dote per intero. 5.000 donne sono arse vive ogni anno per questo motivo. L’infanticidio femminile, ovvero l’uccisione delle bambine durante la gravidanza o subito dopo la nascita, in Paesi nei quali il maschio viene ritenuto preferibile, come la Cina, l’India, il Bangladesh. I matrimoni precoci forzati, comuni nel continente africano, che riguardano bambine di 7-8 anni, sposate d’imperio con uomini molto più grandi, che immancabilmente abusano di loro, con conseguenze non di rado estreme per la loro salute ed il loro equilibrio. Il Naka, consuetudine particolarmente diffusa in India, dove le donne sono costrette a contrarre diversi matrimoni per far ottenere danaro alla famiglia. Il Devadasi, che consiste nell’obbligare una bambina a fare la serva dentro ad un tempio, essendo stata offerta a un leader religioso. Il Trokosi obbliga le famiglie a consegnare le figlie agli dei nei templi, dove sono ridotte a schiave sessuali Nell’Africa del Sud, il 40% circa delle ragazze minori di 18 anni sono state vittime di uno stupro consumato o tentato. Il numero delle donne e delle ragazze costrette alla prostituzione è stimato tra 700.000 e 4 milioni ogni anno. Tra 120.000 e 500.000 sono costrette dagli sfruttatori nei bordelli e sulle strade europee. L’omicidio d’onore è l’uccisione di una donna da parte dei familiari perché la sua condotta sessuale, intenzionale o meno – vi rientrano come motivo gli stupri subiti, che deprivano la famiglia d’appartenenza del valore della verginità - non viene ritenuta accettabile. Praticato in molti Paesi, è stato in qualche modo autorizzato anche in Italia, dove la legge che prevedeva forti attenuanti per gli assassini che avevano compiuto il crimine per queste motivazioni è stata formalmente abrogata solo nel 1982. 160 L’Acidificazione è una pratica comune in paesi Asiatici, dove un amante respinto, un marito geloso, un uomo che per un qualsiasi motivo ritiene la propria virilità offesa da un diniego getta acido corrosivo sul volto e/o sul corpo della donna, la quale rimane deturpata e handicappata, poiché l’aggressione, oltre a rappresentare un danno estetico, rappresenta altresì un danno atroce a funzionalità fondamentali quali la respirazione, la deglutizione, la masticazione, l’udito e l’eloquio, oltre a poter provocare problemi gravissimi alla deambulazione e ad altre attività corporee. Il fenomeno della violenza contro le donne definisce un problema ampiamente diffuso, in grado di attraversare tutte le culture, le classi, i livelli di istruzione e le fasce di età; una grave violazione dei diritti umani, una realtà non sufficientemente riconosciuta, non sufficientemente denunciata. La violenza di genere, inflitta a donne, ragazze e bambine, riflette e nel contempo rafforza le disparità di genere e compromette la salute, la dignità, la sicurezza e l’autonomia di coloro che ne sono vittime. Affrontare il problema della violenza contro le donne significa dare nome e visibilità ad una realtà impressa nella storia dell’umanità, per troppo tempo sommersa e relegata alla semplice sfera privata. 62 Gli studi mettono in luce i limitati e spesso poco convinti sforzi dei Governi per mettere fine a queste violazioni, che hanno tutte, alla loro base e alla loro origine, l’ineguaglianza di potere tra uomini e donne sul piano sociale, politico, culturale, economico, che rende le donne vulnerabili e le forza ad accettare in silenzio le più orrende forme di violenza. Ben altra operatività pare assumere l’intervento contro le MGF, sulle quali molti Stati europei hanno legiferato, e molti si accingono a farlo. 62 A.Pramstrahler, , “Un luogo di donne contro la violenza: una scelta di parte”; pag. 23-32, tratto da “Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne, Violenza alle donne: cos’è cambiato?”, Milano, Angeli, 1994. 161 Nel luglio 2007, la Metropolitan Police di Londra ha offerto una cifra di £ 20.000 sterline a chiunque fornisse informazioni utili ad assicurare alla giustizia persone coinvolte in interventi di MGF, sia che le avessero praticate sia che vi ci fossero sottoposte, o avessero sottoposte all’intervento le figlie, nel Regno Unito o in altri Paesi. La campagna è stata lanciata all’inizio delle vacanze estive, considerato periodo ad alto rischio per le bambine delle comunità di immigrati da Paesi a prevalenza di MGF. Il numero delle ragazzine a rischio era stimato in oltre 7.000, e si prevedeva che potessero essere infibulate sia nei loro Paesi d’origine che nel territorio inglese, dal momento che, non essendoci la scuola, sarebbero comunque sfuggite ad ogni controllo. La legge inglese – nel 2003 il Female Genital Mutilation Act ha affiancato e rafforzato il Prohibition of Female Circumcision Act del 1985 – proibisce la pratica sia sul territorio nazionale che su quello d’origine, come tutti i Paesi Europei che hanno legiferato in proposito. Alcuni mesi dopo, uno studio del Department of Health, forniva cifre ancora più alte, concentrate nelle aree di London, Birmingham, Manchester e Leicester. 21.000 ragazze sotto i 15 anni in Inghilterra e nel Galles: questa sarebbe la cifra delle bambine a rischio. 66.000 le donne che l’avrebbero già subita. La “taglia” promessa in luglio dalla Polizia inglese non aveva avuto seguito. Nessuno delle comunità africane aveva denunciato. L’intento investigativo si concentrava dunque sulle scuole, e gli insegnanti venivano formati a riconoscere gli indicatori per individuare le bambine che l’avevano subita, registrando, ad esempio, lunghi periodi di assenza, che potevano significare l’avvenuta operazione. Un intervento, dunque, punitivo e non preventivo. Un intervento che, soprattutto, con tiene conto dei motivi per i quali le madri residenti in Occidente sottopongono le figlie alle MGF. Illuminante è, in proposito, l’intervento di Berhane Ras-Work, Executive Director Inter African Committee, nel corso della 162 Conferenza Europea “Joint action of Members State against Harmful Traditional Practices”, Bruxelles: Ho chiesto alle madri che vivono in Europa il perché dell’attaccamento alla pratica. La ragione principale che mi hanno esposto è il mantenimento dell’identità e delle tradizioni, nella speranza di tornare nella terra madre un giorno. Infatti alcune di queste madri appaiono più conservatrici di quelle che vivono in Africa. Il senso di insicurezza in un paese straniero e il sentimento di indesiderabilità che percepiscono dalla società che dovrebbe ospitarle le costringono ad aggrapparsi a ciò che le rappresenta, a ciò cui appartengono. La realtà è che l’Occidente si erge con molta veemenza contro le barbarie che non appartengono alla sua cultura, ma le azioni che intraprende non sempre appaiono logiche e coerenti. Il fatto che le MGF siano un crimine così grave, che lede il diritto alla salute, all’integrità del corpo, al pieno godimento del piacere, e che rappresentino un segno di culture patriarcali che sottomettono le donne, non basta a farle entrare nel novero delle violazioni dei diritti umani. Ha fatto scalpore ed è stata definita “storica” la sentenza dello Stato di Washington. Il 13 giugno 1996 il Tribunale amministrativo d'appello (la più alta autorità giudiziaria americana sull'immigrazione) ha riconosciuto che la clitoridectomia è una persecuzione e quindi motivo sufficiente per concedere l'asilo politico. É andata così a buon fine la storia di Fauzyia Kasinga, 19 anni, che era fuggita dal Togo per sottrarsi all'infibulazione e da tempo aveva fatto richiesta di rimanere negli Stati Uniti. Ma, benché abbia fatto giurisprudenza, la sentenza non ha aperto le porte ad altre istanze, che, per logica, potrebbero provenire anche da donne che hanno già subita la MGF. Praticamente nessuna ha avuto la consapevolezza, le informazioni, la possibilità concreta per accedere all’istituto giuridico. Questione, questa, che attiene alla condizione generale degli immigrati, che non percepiscono i loro diritti nello stato straniero, né che questi diritti siano esigibili. 163 Così, nel 2007, fu altrettanto clamorosa la notizia che Oumou Toure riuscì a non essere rimpatriata dal Canada nel suo paese natale – la Guinea – perché riuscì a dimostrare che la sua bambina di 2 anni lì sarebbe certamente stata sottoposta all’intervento, così come era accaduto a lei stessa. La sentenza non fu pacifica, e il caso è riportato dalla rete WeNews come esempio delle difficoltà che le donne che subiscono violenze incontrano quando chiedono asilo63. E bisogna naturalmente citare l’Italia, dove nel 2008 la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 24906/2008) ha stabilito che debbono essere espulse e non possono rifugiarsi in Italia le clandestine che, nel loro paese, sono soggette a una condizione di “sudditanza” e che vengono sottoposte ad infibulazione. Nel caso di specie, gli Ermellini hanno precisato che la persecuzione alla quale la donna potrebbe essere soggetta nel suo paese è nulla altro che la sottoposizione alla generale condizione di tutte le donne del paese stesso e cioè una condizione di “sudditanza” che, “certamente inaccettabile per ogni coscienza civile, è però priva della necessaria individualità postulata anche dalla Convenzione di Ginevra 28.7.1951 (oltre che dalla CEDU) perchè sia integrato il fumus persecutionis od anche solo perché sia adottata la misura di protezione temporanea del divieto di respingimento in relazione al concreto rischio di trattamenti personali degradanti nel paese di provenienza”64. Nonostante non si agisca, da parte degli Stati, conseguentemente, è diffuso un giudizio estremamente manicheo sulle MGF, che mette in ombra e nega alcuni aspetti positivi che il rito rappresenta. Da questo plafond ideologico e culturale partono delle campagne educative e di sensibilizzazione che non convincono nessuno e che anzi irritano sovente le donne. 64 www.womenews.net, 27 ottobre 2008 164 Ed allora ci si sconcerta quando le donne infibulate non accettano di porsi sotto i riflettori dell’occidente illuminato nella veste di vittime tout-court. Un report sulle MGF in Sudan e Somalia del Norway’s Country of Origin Information Center (dicembre 2008) sottolinea che Le donne che ne sono coinvolte non guardano all’infibulazione come a una mutilazione, e possono reagire negativamente se le si considera danneggiate. Si tacciano di provocatorietà o di radicalità certe posizioni che, ricordando la genesi della pratica e i motivi del suo radicamento, spingono l’Occidente a non agire da egemone. Come Tobie Nathan, un etnopsichiatra che insegna all'Università Paris VIII, dove dirige il Centro Georges Devereux, che spiega il nesso tra le MGF e la teoria africana riguardante il concepimento e la nascita degli esseri umani. In questo continente, si considera che un neonato provenga da un altro mondo e che sia stato modellato da una divinità in maniera un po' imperfetta: l'educazione e l'iniziazione servono appunto per perfezionarlo. O si considerano soltanto frutto dell’ottundimento dovuto all’età le dichiarazioni dell'antropologo Claude Lévi- Strauss, quando afferma che c'è «poesia e bellezza» nelle mutilazioni, che costituiscono un attentato all'integrità del corpo infantile «solo secondo una morale occidentale, la stessa che considera il piacere alla stregua di un nuovo articolo della Dichiarazione dei diritti umani». Non si puo’ negare, a ben guardare, che l’intervento “connette” la ragazza con l’identità culturale femminile: in molti gruppi etnici la similitudine tra la clitoride e il pene fa si che, tradizionalmente, l’organo femminile per antonomasia – per come noi occidentali lo vediamo – sia considerato un pericoloso e non voluto segnale di mascolinità, e la sua escissione è allora un metodo per “fare chiarezza”, per restituire alla società identità sessuate incontrovertibili – proponimento assolutamente discutibile in ragione della poliedricità dei generi e delle identità sessuali che l’Occidente – in una sua piccola 165 parte – conosce e rivendica come soggetto del diritto, ma non in altre regioni del mondo. È altrettanto vero che il rito restituisce alle ragazze che vi sono sottoposte un senso d’orgoglio, un attimo di gloria sotto i riflettori del consenso e del festeggiamento della comunità: i doni, il plauso, il riconoscimento, l’importanza della quale le giovanissime si sentono investite al termine del rito è qualcosa che molte di loro considereranno per tutto il resto della loro vita come importante e unico. È prerequisito indispensabile a trovare marito, in società nelle quali il matrimonio è l’unica certezza e l’unico traguardo concesso alle donne, e facendo parte della “dote” è compito delle madri adoperarsi perché la figlia non ne sia priva – e quando le madri sono universalmente condannate per agevolare il rito. Quasi mai viene compreso che la loro cultura d’appartenenza le giudicherebbe ancor più severamente, se non lo facessero. Sarebbero considerate responsabili dell’abiura sociale alla quale condannerebbero le figlie. Sarebbero definite, con un termine che l’Occidente, e l’Italia in particolare, capiscono molto bene, delle madri inadeguate, delle cattive madri. Né puo’ stupirci più di tanto un’altra credenza riferita alle MGF, ovvero che l’intervento serva a proteggere la verginità delle giovani. Missione assolutamente condivisa fino a non troppi anni fa dai vari contesti sociali occidentali – da quelli aristocratici a quelli rurali e proletari, con la sola differenza che in molti dei gruppi etnici che praticano le MGF la verginità è intesa nel senso di vulva infibulata piuttosto che di imene intatto. In un contesto particolarmente attento all’immaginario sessuale maschile – oggetto al quale le nostre società non lesinano genuflessioni – si ritiene che la MGF assicuri un maggior piacere maritale durante l’atto sessuale. E poichè quelle società – come d’altronde tutte le società in ogni epoca – dettano in maniera apodittica i canoni della bellezza e della desiderabilità femminili, si ritiene che la MGF conferisca un certo qual senso di pulizia corporea e una particolare bellezza: i genitali 166 femminili sono sporchi e brutti - concetto transazionale, anche questo, retaggio di una storia atavica che tutte ci riguarda – con quanti nomi ci hanno imposto di chiamare il ciclo mestruale, tanto per fare un esempio? Detto tutto questo, non sorprende che le campagne informative e di sensibilizzazione siano spesso fallimentari, sia in Africa che in Europa. Bisogna realizzare che gli interventi, anche quando sono sinceramente ispirati a valori umanitari, vengono letti dal target di riferimento come egemonizzanti, estranei, prepotenti, giudicanti. Cerchiamo allora di analizzare alcune buone pratiche maturate nei Paesi d’origine, talvolta con l’aiuto iniziale di organismi internazionali – in particolare l’UNPFA che tuttavia si è dotato di funzionari e ricercatori di nazionalità africana, ed ha sempre lavorato in stretto contatto con le comunità, in maniera realmente integrata ed olistica, nella consapevolezza che una cultura patriarcale negativa può essere cambiata senza distruggere il valore sociale positivo che la sottende, e che la pratica stessa rappresenta. E soprattutto nella certezza che i cambiamenti non possono essere imposti da fuori. 6.2 Le buone pratiche E questo avviene, ad esempio, in molti villaggi del Kenya, dove oggi prevalgono riti di passaggio alternativi, ricchi di suggestive cerimonie. L’organizzazione di comunità Tsaru Ntomonik promuove queste nuove modalità per le ragazze Masai, che sono accolte nell’età adulta con feste memorabili. L’organizzazione ha anche creato delle “case di fuga” temporanee per le adolescenti che scappano dalle MGF, ma anche dai matrimoni precoci e forzati. Negli shelter è anche possibile ottenere counselling, educazione e formazione, riunificazione con le famiglie – attraverso la sensibilizzazione dei parenti e la gestione dei conflitti -, e la reintegrazione nelle comunità d’origine. Tsaru Ntomonik lavora inoltre con le ex-circoncisore per aiutarle a trovare nuove forme di reddito. 167 Qualcosa di molto simile viene portato avanti, sempre in Kenya, da Maendeleo Ya Wanawake Organization (MYWO), che si dedica a forme di comunicazione tese al cambiamento sociale, oltre a usare riti di passaggio alternativi. In Uganda esistono corsi di formazione e training specificatamente dedicati alle donne che precedentemente traevano di che vivere dalla pratica. In Sudan, la Ahfad University for Women realizza molti interventi “community-based” per raccogliere dati certi, oltre a corsi di training per i volontari e a champagne di advocacy. Nel West Darfur si tengono workshops nelle scuole secondarie, per sensibilizzare tanto i ragazzi quanto le ragazze, e alcuni media hanno svolto interessanti campagne su tutte le pratiche dannose per le donne – non limitandosi alle MGF. In Uganda è attivo il Reproductive Education and Community Health Program (REACH), che, con l’aiuto di paralegali, sostiene i gruppi di attivisti, che a loro volta coinvolgono la comunità, attraverso i leaders politici e culturali, i professionisti della salute, gruppi informali di giovani e di donne. In Gambia è attiva la Foundation for Research on Women’s Health, Productivity and Development (BAFROW), un ONG che opera nel campo della salute riproduttiva con un approccio integrato, teso alla diffusione di consapevolezza sulle MGF e alla mobilitazione. Interessante il coinvolgimento delle radio locali, in diverse delle quali sono realizzate trasmissioni in cui i mariti dibattono sul tema. L’enfasi sulle conseguenze negative delle MGF, tuttavia, a detta di UNDP/UNFPA/WHO/World Bank, che gestiscono lo Special Programme of Research Development and Research Training in Human Reproduction (HRP), e che aderiscono al Department of Reproductive Health and Research della World Health Organization, che ha sede a Ginevra, ha dato luogo ad un forte aumento delle operazioni praticate da personale medico in ambienti medici. La medicalizzazione dell’intervento può essere vista da diversi punti di vista – sicuramente è quasi del tutto scevra dalle complicanze settiche e dei rischi più gravi, ha tuttavia i medesimi effetti sul piano degli 168 esiti; sicuramente non cambia molto le cose sul piano della rappresentanza simbolica e della trasmissione dei valori. I dati forniti sono i seguenti: 94% delle donne in Egitto, 76% in Yemen, 65% in Mauritania,48% in Costa d’Avorio e 46% in Kenya organizzano per le figlie i ricoveri ospedalieri. Il 20 luglio 2009 una conferenza di medici kenioti e di rappresentanti del Ministero della Salute Pubblica e della sanità ha chiesto, a Nairobi, che si interrompa la pratica delle MGF medicalizzate Margie de Monchy, advisor per la protezione dell’infanzia dell’ Unicef regionale, ha spiegato: “La MGF praticata in ambiente ospedaliero sta determinando la ri-legittimazione della procedura”. Secondo la capodivisione del reparto Salute Riproduttiva, la dottoressa Josephine Kibaru, almeno il 32 per cento delle donne tra i 15 e i 49 anni sono state sottoposte al rito. Esistono poi programmi che affrontano il tema delle MGF all’internodi un’attività di comunità più estesa. È il caso, ad esempio, dello Hunger Project's Epicenter Strategy, che implementa la sua attività in Africa attraverso epicentri, ovvero clusters di villaggi rurali dove le donne e gli uomini sono mobilizzati per creare e sviluppare autonomamente programmi che incontrino le loro necessità di base. I vari raggruppamenti di villaggio devono diventare, entro un massimo di cinque anni, autonomi sia sul piano economico che sul piano progettuale. Al 2008, le comunità mobilitate attorno agli epicentri erano 110 epicenter communities in otto paesi africani. 17 di questi epicentri erano già autonomi, e 28 in procinto di diventarlo entro non più di due anni. La strategia degli epicentri è integrata e olistica. Sviluppa e mette in sinergia programmi sulla salute – che includono la prevenzione dell’HIV/AIDS - e programmi di educazione, di alfabetizzazione degli adulti, programmi sulla nutrizione, che presuppone il miglioramento delle culture e la razionalizzazione e la sicurezza del cibo, la micro finanza, la gestione e la disinfestazione delle acque… 169 Il programma costruisce momenti di condivisione e di incontro che coinvolgono l’intera popolazione. L’intervento tende, complessivamente, a creare motivazione e assertività laddove esistono dipendenza e rassegnazione, a creare comunità più vaste che racchiudano i villaggi piccoli, isolati e divisi da rivalità, e li rendano gruppi solidali che unanimemente scelgono la loro leadership. L’impatto previsto riguarda fortemente la condizione delle donne, che si aspira a far diventare autorevoli quanto gli uomini, anche valorizzando le loro attività economiche, per svolgere le quali seguono corsi di formazione ed ottengono microcredito. Non di rado assurgono a ruoli di capo villaggio. Condivide la stessa attenzione per la dimensione comunitaria degli interventi tesi ad eliminare e ridurre le MGF in Etiopia il IntraHealth International, un approccio che prevede cinque dimensioni d’intervento, coinvolgendo la capacità di progettazione delle comunità, sostenute nell’ideare progetti sostenibili in ogni fase, Navrongo Health Research Center FGM Experiments, programma sviluppato dal Health Research Center del Ghana, è particolarmente innovativo, perché consegue l’obiettivo di accelerare l’abbandono della pratica e nello stesso tempo misura e compara l’impatto di tre differenti strategie d’intervento, per determinare quale di esse sia più efficace. Tostan lavora in Somalia, ed ha grande visibilità perché ha redatto e diffuso molte dichiarazioni sulla necessità di abbandonare la pratica delle MGF. Combina i programmi educativi sul tema della democrazia e dei diritti umani con la certezza che solo l’empowerment della comunità può dare luogo a cambiamenti proficui e durevoli. I programmi educativi per bambine e bambini, adolescenti e adulti sono lo strumento di coinvolgimento delle comunità. FGM Abandonment Program (FGMAP) lavora in Egitto sul concetto di “devianza positiva”, un approccio molto interessante che agisce sui livelli di accettazione/non accettazione, da parte delle persone e dei gruppi, delle aspettative sociali nei loro confronti. Le persone sono rinforzate nel legittimo desiderio di percepirsi e 170 realizzarsi indipendentemente dalle convenzioni diffuse, e spinte a credere che le loro aspirazioni hanno diritto di essere realizzate. Ciò permette un’autoanalisi ed un lavoro sul sé di grande portata, Inter-African Committee on Traditional Practices Affecting the Health of Women and Children (IAC) si sta diffondendo in molti Paesi africani, stabilendo un forte network, sostenuto da azioni dedicate di advocacy. CARE’s FGC Abandonment Project in Somalia lavora sulla consapevolezza delle comunità e sulla capacity building, ma, a differenza di altri, coinvolge in maniera più sistematica i governi locali. In Mali, l’Organizational Strengthening Women’s Credit, and Irrigated Agriculture in Macina (ROCAM) Project, implementato da Care in partenariato con tre ONG locali, mira a ridurre la prevalenza delle MGF nell’ambito di un programma di sviluppo molto più ampio65. Interessanti sono anche le iniziative che includono campagne strutturate che si avvalgono del potere comunicativo di radio, televisioni e cinema, sia per disseminare informazioni che per aumentare la consapevolezza. La Tanzania Media Women’s Association (TAMWA) usa radio, televisione, giornali e altri tipi di pubblicazioni a stampa – come ad esempio i manifesti e i flyers – per difendere i diritti delle donne e delle bambine, attraverso l’educazione, la mobilizzazione e l’azione di pressione per il cambiamento culturale, politico e legale nella società. Nel 2002 TAMWA è stata parte della campagna STOP FGM (www.stopfgm.org), lanciando un’iniziativa specifica sul tema a livello nazionale, e suscitando un ampio e proficuo dibattito. In Mali, Sini Sanuman, in coordinamento con l’organizzazione di suore americana Healthy Tomorrow, ha affiancato alla campagna sulle 65 www.tamwa.org/mission 171 MGF una vasta produzione musicale ispirata al genere Pop. A partire dal 2002, sono stati prodotti diversi album e video clips, che hanno visto come interpreti famosi artiste e artisti del Mali, che cantano degli effetti negativi dell’intervento, e ne promuovono lo sradicamento. I testi delle canzoni sono in cinque idiomi locali e in francese. Questa musica viene trasmessa molto frequentemente dalle radio e dalle televisioni nazionali e locali di ben dieci paesi africani66. In Guinea, l’organizzazione Communication for Change e il suo partner locale, la ONG CPTAFE, affiliata all’ Inter-African Committee for the Prevention of Harmful Traditional Practices, hanno dato il via al progetto Video Sabou et Nafa, basato sulla tecnica cinematografica unita alla drammatizzazione. Uno dei prodotti più noti è “Halte a L’Excision”, realizzato da uno staff di giovani che recitano e curano tutte le fasi del video, dalla ripresa al montaggio all’edizione completa. Il video viene mostrato nelle scuole ed è stato anche trasmesso dalla TV nazionale67. E questa lista di interessanti iniziative non è certo esaustiva, né pretende di esserlo, dal momento che reperire queste notizie ed averne una qualche idea è estremamente faticoso. Ma è ugualmente importante conoscere e riconoscere quello che le ONG fanno, per imparare noi – piuttosto che pretendere sempre di insegnare - e per renderci conto che l’usanza delle MGF è antica e radicata, e che la promulgazione di leggi, in Europa e in Africa, non è l’unico modo per approcciare il problema, né il più proficuo. È quanto ci dice Wahid Eldeen Abed Elrahim, direttora del National Council for Child Welfare, una ONG che lavora in Sudan, intervistata da IRIN68 a proposito di una legge approvata nel novembre 2008 nello stato del Southern Kordofan. 66 www.stopexcision.net www.c4c.org 68 IRIN humanitarian news and analysis - UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs 17 gennaio 2009 67 172 “Ci vorranno anni, o forse decenni perchè essa si tramuti in un costume condiviso”, dice Wahid, che ha impostato il suo lavoro di lobbying nel senso dell’educazione agli uomini, cercando di convincerli a proteggere le loro bambine. Questo approccio indirizzato al maschile ha fatto sì che il governo locale, formato quasi esclusivamente di uomini, promulgasse la legge, costata alle ONG grande fatica. Ed è la stessa agenzia web IRINA69 a raccontare di una strana e contraddittoria festa avvenuta a Malicounda Bambara, un villaggio Senegalese a circa 70 chilometri dalla capital Dakar, il 5 agosto 2007. Quel giorno, un nugolo di giornalisti e dignitari si erano riuniti per commemorare il decennale della dichiarazione di abbandono della pratica da parte della comunità. Una dichiarazione molto importante, una notizia che nel 1997 aveva fatto il giro del mondo. Una dichiarazione successivamente adottata in molti altri villaggi in Senegal, Guinea e Burkina Faso. Ma mentre le danze, le bande e i discorsi ufficiali impazzavano, c’era qualcuna disposta a dire ad una reporter attenta – e quella di IRIN lo era – che la festa era una farsa e che le MGF continuano tranquillamente nel villaggio. Nel villaggio, come in moltissimi altri, l’organizzazione Tostan continua a lavorare, con pazienza e costanza infinite. Molly Melching, la fondatrice, ritiene fondamentale l’educazione ai diritti umani, incluso il divieto di modificare il corpo e di controllare la sessualità delle donne, ed in un contesto di interventi volti contro le discriminazioni di genere. Ma sempre “piano piano”, e senza costringere nessuno – come le donne sanno fare. 69 IRIN (…) 10 Agosto 2007 173 6.3 Le donne È molto importante, a questo punto, analizzare velocemente la condizione delle donne nei Paesi storicamente a più larga prevalenza della pratica, e cercare di capire il peso specifico che la loro presenza nei corpi decisionali e nella politica assume rispetto alla lotta per i diritti umani di genere. Nonostante abbiano conquistato il diritto al voto da non molto tempo, le donne dei paesi dell’Africa sub-Sahariana hanno acquisito posizioni di preminenza in molti consessi politici. Ricordiamo la Deputy President del South Africa, Ms. Phumzile Mlambo-Ngcuka, e il Primo Ministro del Mozambico, Ms. Luisa Diogo. Donne ai gradi decisionali più alti esistono in Burundi e in Guinea-Bissau, e l’elezione, nel 2006, di Ellen Johnson Sirleaf a Presidente della Liberia ha stabilito una pietra miliare fondamentale. In Namibia le donne costituiscono oltre il 41% delle elette a livello municipale, e oltre il 52% dei membri del consiglio nelle Seychelles, fin dal 1999. Centinaia sono le donne in promettente carriera nel continente. In Mozambico, 87 sono state le elette del 2004 sui 250 deputati del parlamento-ovvero, il 35 %. Nello stesso anno, le donne elette in Sud Africa sono state 131 su un totale di 400. E oltre il 30% sono le donne nei parlamenti di Burundi, Namibia, Tanzania. In Rwanda esse costituiscono il 49% degli eletti: la percentuale più alta del mondo. Si possono mettere in relazione questi dati con i dati delle legislazioni e delle azioni contro le MGF? Probabilmente sì. Emblematico è il caso dell’Eritrea, che è stato tra gli ultimi paesi a legiferare sulle MGF – nel marzo 2007 – nonostante l’intervento sia ampiamente diffuso, e venga praticato sulle bambine prima che compiano il primo anno d’età. Ciò che è strano è che su questo tema si era già legiferato negli anni trionfali della vittoria della lotta d’indipendenza dall’Etiopia, durata dal 1970 e il 1991, vedendo una grande partecipazione delle donne nella lotta armata e alle azioni politiche. Le guerrigliere 174 rappresentavano oltre il 30% del Fronte, e condividevano con i compagni obblighi e riconoscimenti, disintegrando la ripartizione tra plus maschile e minus femminile che informa di sé la maggior parte delle culture mondiali. Un periodo storico per il popolo femminile, che ha sperimentato un'emancipazione sociale senza precedenti, giungendo a rompere con alcune tradizioni ancestrali che le relegavano in una condizione di inferiorità. «Quando il Fronte popolare di liberazione dell'Eritrea (Fple), dal gennaio 1977 al dicembre 1978 occupò vaste zone dell'Etiopia - ricorda Efua Dorkenoo, direttrice di Forward (Foundation for women's health and development) di Londra -, vietò categoricamente e con successo sia le mutilazioni genitali femminili che i matrimoni combinati tra le famiglie».70 Terminata la guerra nel 1991, il reinserimento nella società delle guerrigliere, più sicure di sé e istruite, avrebbe dovuto portare un clima favorevole alla liberazione e alla promozione di tutte le donne eritree. Ma ciò non è avvenuto. Come nell’Italia uscita trionfante dal Nazifascismo, come in tutte le società postbelliche europee in cui l’uomo-soldato o l’uomo-partigiano debbono riprendere il loro posto nella società e nel lavoro, le donne sono state ricacciate dall’ambito pubblico-politico all’ambito del privato-familistico, e costrette a rivestire il ruolo tradizionale. Le leggi che erano state approvate sono cadute nel dimenticatoio e la società è tornata ad esplicare tutto il suo sessismo. MGF e matrimoni forzati inclusi, e ci sono voluti altri 16 anni perché una legge che prende in esame i diritti di genere potesse essere approvata. C’è sempre un nesso tra condizione delle donne e gli ordinamenti sociali e le legislazioni. In molti diversi contesti ed attraversando le dimensioni temporali e le coordinate geografiche, la storia delle oppressioni sulle donne non coincide con la storia delle civiltà, con i suoi progressi e le sue conquiste. 70 Dal sito web Nigrizia.it, C'È CHI DICE NO Alessandra Garusi 175 Per le donne tutto è sempre arrivato più tardi, più difficilmente. Mentre le conquiste sociali rappresentano un “limite” sotto il quale non è più pensabile ricacciare gli uomini – a meno di involuzioni repentine, insorgere di regimi totalitari, invasioni di un territorio o guerre – per le donne, storicamente, le conquiste sono sempre a rischio di essere perdute. E questo, infatti, è successo molte volte, nella storia. E alla perdita di potere ed autonomia delle donne ha molte volte corrisposto un intervento degli Stati volto a rendere apodittica la loro dipendenza, attraverso leggi brandite come armi contro l’autonomia che le donne avevano conquistato. Esemplificativa in questo senso è la lotta lunga e solitaria di Pakshan Zangana, capo della Commissione Donne nel parlamento del Kurdistan, regione autonoma dell’Iraq in cui le MGF sono incredibilmente diffuse - si stima che almeno il 60% delle donne vi siano state sottoposte, e che in alcune zone la percentuale arrivi al 95%. È stato estremamente difficile convincere il parlamento del Kurdistan a legiferare in proposito, benché il Kurdistan, che ha vinto la sua lotta per l’indipendenza dall’Iraq, sia considerato uno stato progressista. Una società “emancipata” nella quale, tuttavia le condizioni delle donne, sottorappresentate nei luoghi – chiave della politica, sono pessime. Zangana ne spiega molto bene i motivi di questa situazione: Quando il Kurdistan lottava per l’indipendenza dall’Iraq, le donne partecipavano a pieno titolo alla resistenza, ma, dopo la vittoria, si è fatto di tutto per rimandarci a casa, e per espropriarci dei diritti che credevamo di aver conquistato. Non sorprende che i crimini contro le donne siano diffusi, e che vengano minimizzato dalla politica e dall’opinione pubblica.71 Questo ha reso molto lunga la battaglia di Zangana e delle sue compagne. È pubblica la dichiarazione del Ministro per i diritti umani 71 Nicholas Birch/Arbil times.com 176 Yousif Mohammad Aziz che, sollecitato perché si adoperasse per la promulgazione della legge, replicò: “non penso che questa questione richieda un azione da parte del parlamento. Non è che ogni piccolo problema della comunità debba avere una norma in proposito …” Zangana e le altre hanno vinto la loro battaglia nel dicembre 2008. 177 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Greer G., La donna intera, Mondadori 2000 IRIN humanitarian news and analysis - UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs 17 gennaio 2009 Pasquinelli C. (a cura di), Antropologia delle mutilazioni genitali femminili. Una ricerca in Italia, edito da AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, 2000 Pramstrahler, A., “Un luogo di donne contro la violenza: una scelta di parte”; tratto da Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne, Violenza alle donne: cos’è cambiato?, Milano, Angeli, 1994. Siti di riferimento http://www.womenews.net 27 ottobre 2008 http://www.c4c.org http://Nicholas Birch/Arbil times.com http://Nigrizia.it, C'È CHI DICE NO Alessandra Garusi http://www.stopexcision.net http://www.tamwa.org/mission 178 LE AUTRICI 179 Federico Fanelli, psicologo, psicoterapeuta, specialista in Psicologia della Salute. Libero professionista, si occupa di formazione, consulenza e ricerca-intervento sui temi della promozione della salute, del benessere organizzativo e dei processi di convivenza sociale, in un ottica interculturale e di genere. Ha pubblicato articoli su Rivista di Psicologia Clinica e Psicologia della Salute. Conduce gruppi esperienziali presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, Università di Roma “La Sapienza”. Alessandra E. Forteschi, psicologa del lavoro, è dottoranda presso la Scuola dottorale di Scienze politiche di Roma Tre, nella sezione Questione femminile e politiche paritarie. Impegnata dal 1998 nel terzo settore sociale, ha lavorato come operatrice presso i centri antiviolenza di Roma e presso sportelli di consulenza rivolti a donne immigrate; ha collaborato anche con: Delt@news, agenzia stampa di Genere, edito dalla Cooperativa editoriale Genera; il Dipartimento di Filosofia di Roma Tre; la Fondazione Risorsa Donna, come formatrice e ricercatrice. Attualmente collabora con il Coordinamento Italiano della Lobby Europea delle Donne e con Be Free – Cooperativa Sociale contro Tratta, Violenze e Discriminazioni, sempre come formatrice e ricercatrice. Ha pubblicato: Io sono una mela intera. Il colloquio di aiuto come trattamento per superare la violenza domestica, B. Felcini & A.E. Forteschi, Aracne ed. 2008; “Recuperare l’autostima”, B. Felcini, A.E. Forteschi, in Il Genere tra le righe: gli 180 stereotipi nei testi e nei media, L. Moschini (a cura di), Roma Giugno 2008; “Analisi comparativa della normativa relativa ai congedi parentali in Grecia, Italia, Spagna e Portogallo”, A. Nardone, M.C. Costantini, A.E. Forteschi, in “TYR- the Youngsters Reply”; diversi articoli su delt@news. Oria Gargano, laureata in Scienze Politiche, ha conseguito il Diploma Superiore di Giornalismo presso la Luiss ed ha frequentato il Master di Women’s studies presso l’Università di Bologna. Come giornalista ha lavorato presso Quotidiano Donna, La Repubblica e la Rai, e come free lance presso numerose testate. E’ stata, in seguito, per dieci anni, responsabile del centro antiviolenza e del centro per vittime di tratta della Provincia di Roma. Ha lavorato come formatrice free lance (tra gli ultimi il seminario finanziato dalla Provincia e della Prefettura di Latina, “Seminario di studio sulla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e/o lavorativo - Legislazione, modelli di intervento e inclusione sociale”) e attualmente lavora come formatrice nell’ambito del progetto “Nessuno tocchi Eva e le sue figlie”, con il comune di Bracciano, e nell’ambito del progetto “Prendere il volo 2”, nella Provincia di Roma e Latina. Ha fondato ed è presidente di Be Free - Cooperativa Sociale contro Tratta, Violenze e Discriminazioni. Ha pubblicato La sindrome del sultano, Provincia di Roma – ed. D.D.,, Roma 2003 e numerosi articoli. E’ Esperta per l’Italia presso l’Osservatorio Europeo sulle Violenze contro le Donne, della Lobby Europea delle Donne. Antonella Petricone, dottore di ricerca in Storia delle Scritture Femminili con una tesi su La memoria dei corpi, i volti della violenza. Tra vissuti e narrazioni, dialogo tra Etty Hillesum e le donne sopravvissute alla Shoah. E’ socia fondatrice di Be Free - Cooperativa Sociale contro Tratta, Violenze e Discriminazioni. Ha lavorato nei centri antiviolenza di Roma e attualmente lavora come operatrice sociale in un centro per donne vittime di tratta e presso lo Sportello Donna dell’A.O. San Camillo, di Roma. Ha collaborato con Delt@news, agenzia stampa di Genere, edito dalla Cooperativa editoriale “Genera” di cui è socia fondatrice e presso cui ha conseguito il tesserino da pubblicista. Ha pubblicato: “Turba/menti di sguardi e di 181 corpi”, in: Figure della complessità. genere e intercultura, a cura di Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, ed. Cuec, 2004 (collana: University press letteratura); “Il desiderio che si racconta”, in Leggendaria, Memorie, n. 60, gennaio, 2007; “Figur/azioni” in Leggere donna, n. 126, gennaio-febbraio, 2007; numerosi articoli su delt@news. Nancy Rizzo, psicologa, esperta in studi di genere e specializzanda in psicologia della salute. Si occupa di formazione, ricerca-intervento e consulenza individuale e di gruppo. Ha sviluppato negli anni un'esperienza per i temi legati alla crescita delle potenzialità di ogni persona e contesto e allo sviluppo dei processi di emancipazione sociale in una prospettiva interculturale e di genere. Federica Ruggiero, dopo essersi laureata in sociologia si è specializzata in discipline antropologiche e gender studies. Lavora da diversi anni su temi legati alla violenza di genere, nonché alla migrazione e alla intercultura, in qualità di ricercatrice, formatrice e consulente. Conduce dal 2005 attività di ricerca anche in Rwanda, in merito alla condizione delle donne durante e dopo il genocidio del 1994. Eleonora Selvi, è giornalista ed esperta di storia della questione femminile; laureata in Scienze Politiche e specializzata in Giornalismo, ha conseguito un dottorato di ricerca in Questione femminile e politiche paritarie. Ha collaborato con il quotidiano Il Tempo, dove ha curato dal 2003 al 2006 la rubrica "Metà del cielo", dedicata alla storia delle donne, ed ha fondato e dirige la web television Donna TV, dedicata alle Pari Opportunità. Ha pubblicato diversi articoli come giornalista free lance. 182