2 Atti del convegno Convegno-Seminario Margaret Fuller le donne e l’impegno civile nella Roma risorgimentale Roma, 23 maggio 2010 Ospedale Fatebenefratelli - Sala Assunta Conosci per scegliere editrice 3 © Proprietà letteraria riservata 2010 Conosci per scegliere editrice s.c. Via Pescosolido, 26 - 00158 Roma - Tel/Fax 06 57301599 E-mail: [email protected] ISBN 978-88-903772-2-8 Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni; chiunque favorisca questa pratica commette un illecito perseguibile a norma di legge. Copertina: grafica di Lorena Nurzia 4 Indice Introduzione a cura di Mario Bannoni .............................................................................................. Saluti Dott. David Mees, addetto culturale dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America Prof. Jaroslaw Mikolajewski, direttore dell'Istituto Polacco di Roma ........................ .................................................................. 7 9 11 Prof. Péter Kovács direttore dell'Accademia Ungherese in Roma, Consigliere dell'Ambasciata d'Ungheria presso il Quirinale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Dott.ssa Anna Maria Cerioni Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma ............................... 14 Interventi Margaret Fuller, un'intellettuale e una realizzatrice Prof.ssa Cristina Giorcelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 Novità storiografiche sulla Repubblica Romana Prof. Marco Severini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 Difesa di Roma del 1849: Memoria e territorio Enrico Luciani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 Operatività Sanitaria Militare nell'Italia del 1848-49 Prof. Antonio Santoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 Gli strumenti medico-chirurgici ai tempi di Magaret Fuller Ossoli Federica Anna Leda Dal Forno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Le donne del 1848 Prof.ssa Ginevra Conti Odorisio ............................................................................. 57 Il Patriottismo delle Donne del Risorgimento Prof.ssa Fiorenza Taricone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 Conclusioni a cura di Mario Bannoni ......................................................................................... 91 5 6 Introduzione Mario Bannoni Comitato italiano per il Bicentanario di Margaret Fuller Ossoli Buongiorno a tutti. A tutti voi che avete scelto di dedicare questa domenica mattina per incontrare la Sig.ra Margaret Fuller Ossoli. E, naturalmente, ai nostri illustri ospiti che ce la sapranno presentare nel modo più competente. Io sono Mario Bannoni e rappresento in Italia il Comitato per il Bicentenario di Margaret Fuller. Con questo incontro - fissato oggi, proprio nel giorno di 200 anni fa, della nascita di Margaret - intendiamo aprire una serie di eventi a lei dedicati, programmati per quest’anno e che certamente apriranno doverosi spazi anche durante il prossimo anno - nell’ambito delle manifestazioni dedicate al nostro Risorgimento. Oltre al giorno, anche la scelta di questo luogo non è stata casuale - proprio in queste sale del Fatebenefratelli si svolse una delle più appassionate esperienze di Margaret, impegnata nell’assistenza ai feriti durante le gloriose e poi tristi giornate che segnarono l’epilogo della Repubblica romana. A questo proposito voglio cogliere subito l’occasione per ringraziare la struttura dell’Ospedale che con grande sensibilità ha voluto offrirci questa occasione di incontro. Prima di lasciare la parola ai nostri ospiti, desidero portarvi il saluto di Laurie James che dirige a New York l’associazione dedicata a Margaret Fuller. 7 Egregi intervenuti, desidero salutare tutti voi che in questo 23 maggio 2010 siete riuniti nella stessa corsia d’ospedale dove Margaret Fuller Ossoli assisteva i feriti della Repubblica romana, per celebrare la sua vita e la sua importanza, in occasione del suo 200° compleanno. È gratificante sapere che, grazie all’impegno nostro e vostro in Italia, oggi molte persone provenienti da due grandi paesi e culture stanno onorando contemporaneamente Margaret su entrambi i lati dell'Oceano Atlantico. È un avvenimento al quale Margaret avrebbe voluto davvero assistere! - un grande affratellamento - dato che la sua visione e il suo impegno in Italia erano, come per Mazzini: vedere l'Italia unita con un forte sostegno dell’America e viceversa. Più di una volta essa scrisse dall’Italia ai lettori americani: "l'Umanità è una sola, e batte con un solo grande cuore". In America stiamo commemorando Margaret con molte appassionanti manifestazioni: • una lettura dei suoi scritti, con 8 attrici, tutte impersonanti la Fuller presso il "City University Graduate Center" • una presentazione di diapositive presso il "Center For Independent Publishers", • una festa di compleanno e la lettura di un dramma presso la "Community Church di New York". • inoltre avremo: tre "percorsi sulle orme di Margaret", visitando i luoghi da lei vissuti: a New York; a Boston, Cambridge e Concord; e in Italia: a Roma, Rieti, e Firenze. Sì, alcuni di noi verranno nel mese d’ottobre per vedere l'Italia che la Fuller ha amato, che ha lodato, e che sentiva la sua vera patria: "l'Italia, la mia Italia", esclamò più volte. Mi congratulo con voi per il vostro eccezionale programma e vi auguro il meglio. Possa la vostra celebrazioni essere illuminante e stimolante. Laurie James Presidente del Comitato USA per il Bicentenario di Margaret Fuller Ossoli 8 Saluti Dott. David Mees Addetto culturale dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America Illustri professori e illustri ospiti. Sono veramente lieto di portare a questo importante congresso, che celebra il bicentenario della nascita della bostoniana Marchesa Margaret Fuller Ossoli, i saluti del nostro Ambasciatore David Thorne. Da bostoniano mi è poi particolarmente gradito presenziare - purtroppo anche se solo brevemente - a questi lavori che credo e mi auguro tratteranno adeguatamente una grande amica dell’Italia e una grande americana. Della Fuller esiste un unico ritratto fotografico, un dagherrotipo a firma John Plumbe che la ritrae, nel 1846. L'immagine la mostra in una posa classica del tempo: seduta, elegantemente vestita i capelli raccolti dietro la nuca in un ricco chignon, il volto poggiato delicatamente sulla mano, assorta nella lettura di un libro. Un'immagine che, mi pare, lascia trasparire ben poco del vero carattere di questa donna, forte nei suoi valori e risoluta nel far valere diritti che i tempi ancora non concedevano alle donne. Nel 1959, Carlo Izzo, uno dei padri fondatori degli studi americanistici in Italia, nella sua monumentale Storia della letteratura Nordamericana, parlando della Fuller, la iscriveva nell'importante movimento trascendentalista e di lei diceva che “non si può certo dire che emani... un qualsiasi fascino di femminilità: battagliera, imperiosa, insofferente, persino acre, il suo atteggiamento è quello caratteristico di chi, originariamente timido, o socialmente inferiore – inferiorità dovuta al suo essere donna – riesce infine, con le sole sue forze, a spezzare la guaina della timidezza o ad abbattere le barriere sociali”. Certo il Professor Izzo, un uomo e uno studioso di valore, ma anche 9 d'altri tempi, non le riconosceva quel ruolo proto-femminista che studiosi più recenti le hanno, a ragione, attribuito. Ai conferenzieri che mi seguiranno, spetterà il compito di analizzare appieno la personalità di una donna che, come accennavo, forte delle sue idee, cosciente delle proprie forze, affronterà una vita breve ma ricchissima di avvenimenti, tanto letterari, quanto storici di qua e di là dell’oceano. A me, concludendo questo breve intervento, interessa ricordarvi quanto dice la targa posta sul Margaret Fuller Memorial di Cambridge, Massachusetts: "Figlia del New England per nascita, cittadina di Roma per adozione, cittadina del mondo per il suo genio." Il suo impegno, il suo amore per entrambi i Paesi, la rendono di certo un pilastro della storia dell’amicizia e dei rapporti culturali e storici fra i nostri due Paesi. Al Dottor Bannoni va quindi il nostro plauso per aver voluto ricordare in un modo tanto importante questa pagina tanto significativa della Storia che ci unisce. A tutti gli altri va la mia gratitudine per la vostra partecipazione e i vostri contributi. Grazie e buon lavoro a tutti. 10 Prof. Jaroslaw Mikolajewski Direttore dell'Istituto Polacco di Roma Un cenno all’amicizia fra Margharet Fuller Ossoli e Adam Mickiewicz Aleksander Chodzko annotava il 26 febbraio 1847 nel suo diario, a proposito di un dibattito parigino appena concluso: Mickiewicz “ha parlato davanti a molte altre donne e ha impressionato la Fuller fino a farla cadere svenuta sul sofà”. Nella lettera del 10 aprile 1847 scritta a Roma e indirizzata a Markus e Rebeca Spring, la stessa Margaret Fuller scriveva: “Mi chiedi se amo M[ickiewicz]… Rispondo che l’ho sentito come la musica, oppure un paesaggio bellissimo…” Nel mistero di questi frammenti si nascondono più trame di questa relazione che è difficile caratterizzare con un nome univoco, amicizia di carattere intimo, morale, intellettuale, artistico. Se fra i due ci fosse l’amore, come lo vogliono in molti, incoronato con la nascita del figlio, come lo desiderano alcuni, non lo sapremo mai. Più certezze ci arrivano dal già citato Chodzko che testimonia: “La sua [della Fuller] opinione sul matrimonio e molte sue idee sulla vita e sul destino del genere umano coincidono perfettamente con la Causa”. Krzysztof Zaboklicki, dal cui saggio cito questi frammenti da lui tradotti, precisa che la "Causa di cui parla Chodzko a proposito della Fuller è quindi quella propagata dai mistici polacchi che si riallacciavano principalmente a Louis-Claude de Saint Martin e a Emanuel Swedenborg”. Non si è conservata nessuna delle lettere della Fuller a Mickiewicz, se ne sono conservate invece dieci indirizzate da Mickiewicz a lei, studiate accuratamente da Leopold Wellisz, e questi testi, una delle più belle parti del suo carteggio, bastano per capire che si trattava di una comunione ben più ricca di un’ispirazione mistica. Di certo, arricchisce 11 e accende l’immaginazione la poesia di Emerson mandata dalla Fuller a Mickiewicz come invito a incontrarsi, la raccomandazione di conoscere Mickiewicz rivolta alla Fuller dal suo devoto Mazzini, la compresenza di Margharet e Adam nella Parigi e nella Roma ispirate dal desiderio della libertà e liberazione, ma anche i loro colloqui sulla femminilità, nonché la scelta della Fuller Ossoli di far diventare Mickiewicz padrino di suo figlio. Facile immaginarsi inoltre quanto valesse per la Fuller come fonte di informazione Mickiewicz autore del poema “Smierc pulkownika” / ”Morte del colonnello”/, in cui ha dato l’immagine eroica di Emilia Plater - eroina polacca morta nel 1831 in seguito alle fatiche dell’insurrezione antizarista, adorata dalla Fuller fino al punto di fargliene tenere il ritratto nella camera da letto. L’analisi della complessa e intima / qualunque cosa ciò debba significare / relazione fra Margharet Fuller Ossoli e Mickiewicz, il maggiore poeta polacco di tutti i tempi, stonerebbe nel contesto di un seminario su “le donne e l’impegno civile nella Roma risorgimentale”, ma un cenno a questa storia bellissima, proprio perché indecifrabile e avvenuta su più livelli, ci è sembrato assolutamente dovuto. 12 Prof. Péter Kovács Direttore dell'Accademia Ungherese in Roma, Consigliere dell'Ambasciata d'Ungheria presso il Quirinale Egregi rappresentanti del Comune di Roma, delle Ambasciate di Stati Uniti e di Polonia, del Comitato Organizzatore, egregi oratori e gentili ospiti. Il direttore dell’Accademia d’Ungheria in Roma in rappresentanza dell’Ambasciata della Repubblica d’Ungheria saluta con grande onore i festeggiamenti organizzati per la ricorrenza del bicentenario della nascita di Margaret Fuller Ossoli. Una donna molto colta, moderna e molto attiva nella sua epoca: letterata e giornalista progressista e femminista che basò la sua attività sull’emancipazione femminile e sulle nuove teorie pedagogiche. Ma oggi ricordiamo questa donna soprattutto per la sua attività preziosissima svolta durante i movimenti risorgimentali, quando tra i feriti curati si trovò anche un nostro connazionale ungherese, che tra tanti altri prese parte alle lotte aiutando i compagni italiani a raggiungere la libertà tanto desiderata. Coi migliori saluti. 13 Dott.ssa Anna Maria Cerioni Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma Sono molto felice e onorata di portare agli organizzatori del Seminario, al dott. Mario Bannoni, ai rappresentanti dei prestigiosi Istituti culturali esteri e a tutti i presenti il saluto del Comune di Roma e in particolare quelli dell’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione e del Sovraintendente ai Beni Culturali professor Umberto Broccoli. Ritengo molto importante e significativo che sia proprio un incontro dedicato all’impegno delle donne, spesso oscuro e dimenticato, ad anticipare le celebrazioni previste dal Campidoglio per il prossimo settembre in occasione del 140° anniversario di Roma Capitale, anticipatrici a loro volta di quelle nazionali del 2011 per commemorare i 150 anni dell’Unità d’Italia. A tal proposito mi piace in questa sede anticipare che la Sovraintendenza comunale ha svolto la ricognizione di tutte le memorie risorgimentali presenti in città, ne ha verificato lo stato di conservazione per approntare e progettare i necessari interventi conservativi e ha già avviato la manutenzione straordinaria di Porta Pia: luogo simbolo della presa di Roma del 20 Settembre. A breve, anche d’intesa con il Comitato per le celebrazioni del 150°, saranno avviati altri interventi di restauro, tra i quali in questa sede mi sembra significativo menzionare quello del monumento ad Anita Garibaldi sul Gianicolo, che è stato oggetto nei mesi scorsi di accurate indagini statiche e diagnostiche. Tornando al tema dell’incontro, che mi è particolarmente caro in quanto unisce due argomenti - le donne e le memorie risorgimentali 14 ai quali è legata molta dell’attività svolta in questi anni, devo dire che la partecipazione al seminario mi ha fornito l’occasione di pormi alcune domande: quante donne, tra le tante che hanno partecipato alle vicende risorgimentali, e in particolare a quelle della Repubblica Romana, sono ricordate in città? Come e dove? Ai relatori dell’incontro il compito di approfondirne le figure e le imprese. Anita (1821-1849), senz’altro la più famosa tra tutte, è ricordata con il monumento appena citato, realizzato nel 1932 da Mario Rutelli, e nella targa posta sulla dimora che condivise con Giuseppe tra il 26 giugno e il 2 luglio del 1849 in via delle Carrozze 59; collocata a cura della Società di Mutuo Soccorso Reduci Garibaldini e dall’Istituto Giuseppe Garibaldi. Colomba Antonietti Porzi (1826-1849), la giovane combattente di Venezia e Roma, ha un busto tra gli eroi della passeggiata del Gianicolo, realizzato nel 1911 da Giovanni Nicolini ed è menzionata, quale unica donna, in una delle due targhe che commemorano i patrioti romani caduti per l’indipendenza d’Italia poste nel 1876 sul prospetto di Palazzo Senatorio. Giuditta Tavani Arquati (1832-1867), senz’altro la più famosa delle romane, è commemorata con un busto in via della Lungaretta 95-96, posto al disopra della targa che ricorda gli avvenimenti che portarono alla sua uccisione in quella casa nel 1867. La targa è stata collocata dai cittadini di Trastevere e dalla Società Operaia centrale romana. A entrambe, Colomba e Giuditta sono state dedicate due scuole: nel 1932 un’Istituto Professionale Femminile in via dei Papareschi, alla prima; una Scuola Elementare nel suo Trastevere, alla seconda. I loro resti sono stati trasferiti nel Mausoleo Ossario Garibaldino nel 1940 provenienti dalla cripta di S. Cecilia nella chiesa di S. Carlo ai Catinari, quelli di Colomba, e da una tomba terragna nel Cimitero del Verano, ancora esistente, quelli di Giuditta. Nel Mausoleo, realizzato dal Governatorato di Roma, per accogliere le spoglie dei combattenti per Roma Capitale tra il 1849 e il 1870, e dove sono conservate le spoglie di Goffredo Mameli, sono presenti anche le memorie di: Marta Della Vedova, Anastasia Nobili Nassi, Teresa Valenzi Sorbetti, Orsola Cesari - tutte cadute come Colomba a Roma nel 1849 - e Luigia Poli, caduta a Bologna nello stesso anno. 15 Alla patriota milanese, Cristina Belgiojoso Trivulzio, tanto attiva a Roma nel 1849 nell’organizzazione della sanità, insieme a Enrichetta Di Lorenzo Pisacane e Giulia Paolucci, è stato dedicato un viale nel XVI Municipio in occasione del 140° anniversario della Repubblica Romana (1989). Chiudo con la figura centrale della giornata e con la memoria più recente a lei dedicata. Infatti in occasione del 150° anniversario della scomparsa della scrittrice e giornalista americana, in concomitanza con il Convegno Internazionale di Studi svoltosi nel novembre del 2000 presso la American Academy of Rome, e su richiesta della presidentessa della Mazzini Society Giuliana Limiti, l’Amministrazione comunale ha collocato la targa commemorativa sul prospetto della dimora romana in Piazza Barberini 2. L’iscrizione la ricorda così: “Attiva sostenitrice degli ideali mazziniani Giornalista e coordinatrice delle infermiere negli ospedali romani Contribuì alla fraternità politica e democratica Tra l’Italia risorgimentale e gli Stati Uniti d’America” Sicuramente molti dei presenti sanno che alla Fuller è intitolato dal 1962, su proposta dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, un viale all’interno di Villa Sciarra, non so quanti sanno che proprio grazie alla richiesta e alla perseveranza di Mario Bannoni a breve la targa toponomastica sarà corretta rimettendo nel giusto ordine i cognomi di Margaret: Fuller e Ossoli. Oggi infatti, chi cerca Fuller nella toponomastica romana, rischia di rimanere deluso, in quanto compare prima il cognome del marito. Al di sotto dei dati anagrafici, verrà poi dato il giusto risalto alla sua attività assistenziale “durante la Repubblica Romana”. L’inaugurazione della nuova targa è prevista in occasione del tour celebrativo “Seguendo le orme della Fuller” che si svolgerà tra Roma, Rieti e Firenze il prossimo ottobre. Concludo con un ringraziamento, considerato, infatti, che gran parte di queste memorie sono state e sono collocate attraverso il loro incessante lavoro, colgo l’occasione per ringraziare tutte le Associazioni che rifacendosi a vario titolo agli ideali risorgimentali, mantengono viva la memoria delle donne, degli uomini e degli 16 avvenimenti, grazie ai quali si è compiuto il sogno dell’Unità d’Italia con Roma capitale. Auguro a tutti buon lavoro, esprimendo l’auspicio che l’attività delle donne in ogni campo trovi la luce della conoscenza. 17 Interventi Margaret Fuller, un'intellettuale e una realizzatrice Prof.ssa Cristina Giorcelli Direttrice del Dipartimento di Studi Euro-Americani dell'Università di Roma Tre e coordinatrice del programma dottorale in studi americani, autrice di varie pubblicazioni riguardanti la Fuller Abstract: M. Fuller, educata dal padre ad essere una intellettuale, fu versata nella filosofia, nella storia, nelle letterature classiche, nelle lingue straniere. Sofisticata seguace del Trascendentalismo di R.W. Emerson (che, pur rivolgendosi a tutti gli essere umani, teneva presenti soprattutto gli uomini), curò per anni la sua pubblicazione, The Dial, e scrisse il primo pamphlet statunitense sull'emancipazione femminile (in risposta a quello della inglese M. Wollestonecraft di circa mezzo secolo prima). Allo spirito speculativo, tuttavia, unì sempre una straordinaria versatilità nel far fronte alle necessita' pratiche. Quando lascio' Concord per andare a New York seppe trasformarsi in giornalista attenta ai problemi sociali, che affrontò in reportage coraggiosi e controcorrente. Anche in Europa e in Italia seppe capire il momento storico e scriverne con passione civile. Dal momento in cui la Principessa Cristina di Belgiojoso la nominò responsabile dell'Ospedale Fatebenefratelli, mostrò le sue capacità organizzative in momenti di grande confusione e di mancanza di coordinamento. Anche il suo (infausto) ritorno in patria fu dettato da contingenze materiali (la necessità di lavorare), cui si piegò per il bene dei suoi cari e con nobile spirito di sacrificio. Un ritorno che si preannunciava così difficile, anche e soprattutto per le scelte da lei operate mentre era nel nostro paese, da farle preferire, secondo alcuni, la morte: fu tra i pochi che non raggiunse la spiaggia quando il cargo a vela su cui viaggiava affondò. 18 Ringrazio il Signor Mario Bannoni che, senza alcun supporto economico, dotato solo di buona volontà e di tanto entusiasmo -- un entusiasmo che ha contagiato tutti noi che siamo venuti qui oggi -- ha preso questa bella iniziativa di celebrare Margaret Fuller nel Bicentenario della nascita. E l’ha fatto scegliendo come luogo di incontro questo ospedale che tante memorie Fulleriane custodisce. Bannoni mi ha invitata in quanto americanista e perchè nel Novembre 2000 ho organizzato, insieme alla collega Giuliana Limiti, Presidente della Mazzini Society, il Primo Convegno Internazionale che mai fosse stato dedicato a Margaret Fuller in Italia e, perfino, in Europa. Il Convegno si tenne sul Gianicolo, alla American Academy, e, al termine, su nostra richiesta, fu posta una lapide commomorativa sulla casa di Piazza Barberini/angolo Via Sistina in cui Fuller abitò nel 1848-49. Da quel Convegno scaturirono due volumi, uno pubblicato in Dimensioni e Problemi della ricerca storica, edito da Giuseppe Monsagrati e da me (Roma, Carocci, I, 2001) e un altro intitolato Margaret Fuller. Transatlantic Crossings in a Revolutionary Age, edito da Charles Capper (il biografo di Margaret Fuller) e da me (Madison, Wisconsin University Press, 2007). Perché ho titolato il mio intervento "Margaret Fuller: un' intellettuale e una realizzatrice"? Perché, nel sentire comune, l'umanità è divisa in due gruppi: gli intellettuali, da una parte, e i realizzatori, le persone pratiche, dall'altra. Di solito alle donne capita di essere catalogate in questo secondo gruppo! Margaret Fuller è, invece, un fulgido esempio di come sia stata tanto una donna di notevole spessore culturale (fu una traduttrice, un critico letterario, una teorica femminista, una giornalista, una curatrice di volumi, una storica, una scrittrice di viaggio), quanto una donna che sapeva provvedere alle esigenze di chi a lei era affidato. Sempre e costantemente, come la sua vita dimostra. Nata nel 1810 a Cambridgeport, vicino Boston, nel Massachussets, era figlia di un avvocato che era stato eletto senatore: apparteneva, quindi, ad una famiglia agiata. I genitori avevano avuto, dopo di lei, sei figli maschi. Fu educata dal padre come un uomo. Conosceva il greco, il latino, era familiare con la letteratura italiana, conosceva bene il tedesco e la letteratura tedesca (era intenzionata a scrivere una biografia di Goethe), conosceva bene la letteratura francese e inglese. 19 Un'educazione così severa, “maschile,” le compromise, in parte, la salute: soffrì di incubi e di emicranie terribili fin dall’ adolescenza. Quando morì il padre, la famiglia sarebbe caduta nell'indigenza, se Margaret non avesse provveduto. Per mantenerla, prima insegnò, poi intraprese una pratica che a Boston e nella storia del femminismo fu il primo germe di istruzione per le giovani: tenne conferenze a pagamento la Domenica. Queste "conversations," in un momento storico in cui le donne non venivano normalmente educate che ad essere buone madri e mogli, furono un formidabile strumento di formazione. Le sue lezioni toccavano gli argomenti più vari: dalla letteratura greca e latina, alla storia, alla storia dell'arte, alla mitologia, alla demonologia, addirittura. Nel 1840 Fuller fu segnalata a R. W. Emerson, il teorico del Trascendentalismo, come persona intelligente e capace e per due anni fu la curatrice della sua rivista, il Dial . Non si limitò, tuttavia, soltanto a preparare impeccabili fascicoli, ma scrisse anche 33 saggi per questa rivista. La collaborazione con Emerson finì due anni dopo, sostanzialmente perchè Fuller aveva bisogno di guadagnare e per divergenze di carattere. Si formò nel circolo trascendentalista, così, l’opinione che Fuller fosse una donna aggressiva, supponente, troppo sarcasticamente ironica. È probabile che, a tratti, ella abbia mostrato queste caratteristiche, ma certamente la sua personalità era costituita anche da ben altre qualità-- quali: la cultura, l’indipendenza di giudizio, la forza eumeneutica, l’audacia di posizioni contro-corrente -- che quel mondo non seppe apprezzare e valorizzare. Nel 1843 sul Dial pubblicò il primo saggio, che oggi potremmo chiamare femminista, nel suo paese: “The Great Lawsuit”; nel 1845 l’ opera fu ripubblicata in formato di opuscolo con il titolo Woman in the Nineteenth Century. Il suo intento era, soprattutto, quello di rivendicare la parità di diritti tra uomini e donne, in quanto partecipi della stessa “anima divina” (la “oversoul” emersoniana). Come alcune scrittrici abolizioniste prima di lei, Fuller paragonò, in quest’opera, la condizione della donna a quella dei neri. Nel 1844 entrò a far parte dello staff del giornale The New-York Daily Tribune, il cui direttore, H. Greeley, credette nelle sue capacità. Fuller, quindi, passò da una fase teorico-filosofica (quella trascendentalista) concentrata sullafiducia nella crescita personale, nella possibilità, cioè, che ciascuno possa e debba sviluppare le 20 potenzialità che possiede, ad un interesse anche pratico nei confronti della societàe, quindi, a favore delle riforme sociali. I suoi interventi sul giornale si indirizzarono, infatti, anche verso tematiche civili, quali: le prigioni femminili, la condizione delle prostitute a NewYork , i manicomi, gli ospedali per i poveri. Fuller divenne, in altre parole, una -- come la chiameremmo oggi -- “intellettuale impegnata.” Nel 1846 accettò la proposta fattale da alcuni amici di venire in Europa come istitutrice del loro figlio. Il direttore del suo giornale, per l’occasione, la nominò corrispondente dall'estero. Fuller fu la prima donna a ricoprire questo ruolo negli Stati Uniti. Andò prima in Inghilterra, dove conobbe personaggi importantissimi, come Carlyle, Worthsworth, e anche Giuseppe Mazzini. Poi andò a Parigi, dove conobbe George Sand, Chopin, e anche Lamennais e Considerant. Il 27 Marzo 1847 arrivò a Roma. Il Giovedì Santo conobbe il Marchese Giovanni Angelo Ossoli, per caso, a San Pietro, che allora era, per gli stranieri, un luogo d'incontro, una specie di grande salotto. A Maggio lasciò Roma per viaggiare nel Centro e nel Nord d’Italia con la famiglia con cui era venuta in Europa. A Milano fece una serie di incontri importanti: con Alessandro Manzoni, per esempio. In Ottobre ritornò da sola a Roma, forse anche perché desiderava rivedere Ossoli. Da Roma scrisse corrispondenze molto incisive per il New-York Daily Tribune. Si tratta di articoli che mescolano, soprattutto all'inizio, le impressioni di viaggio, i commenti sulle opere d'arte e sulle caratteristiche della sua popolazione ai commenti politici. Nel Settembre dell’anno successivo, 1848, nacque a Rieti il figlio, Angelo Eugene Philip. Dopo due mesi Fuller lasciò il figlioletto alle cure di una nutrice e tornò a Roma. Con lo scoppio dei moti rivoluzionari e la fuga di Pio IX dalla città (24 Novembre), i suoi reportage si concentrarono sempre di più sulla situazione politica italiana e romana, in particolare. Sono corrispondenze formidabili per passione civile e, soprattutto, per la foga con cui cercò di persuadere il governo del suo paese ed i suoi concittadini a venire al soccorso di una Repubblica sorella. La sua adesione ai principi Mazziniani fu totale. Ma tutto fu invano. Durante l’assedio della città da parte delle truppe francesi (dal 28 Aprile 1849), comandate dal Generale Nicolas C.V. Oudinot, il suo legame con l'Italia e con la città di Roma si fece sempre più forte, tanto 21 che la Principessa Cristina di Belgiojoso la nominò “regolatrice” di questo ospedale Fatebenefratelli dove venivano ricoverati i feriti di ambo le parti. Anche Ossoli partecipò ai combattimenti sul Gianicolo a fianco dei patrioti. In una corrispondenza del 27 Maggio, dopo un cannoneggiamento sulla città, Fuller scrisse: Sono rimasta sulla loggia a contemplare la città. Tutto dorme con quella speciale aria di serena maestà che solo questa città possiede. Questa città che è cresciuta non per via delle necessità del commercio o dei lussi della ricchezza, ma prima di tutto per via dell’eroismo, e poi della fede. [...] La luna sale tra le nuvole [...] è possibile che il tuo globo guardi su una Roma che fuma e brucia e veda il suo sangue migliore scorrere tra le pietre senza che ci sia uno al mondo che la difenda, uno che venga in aiuto -neppure uno che gridi un tardivo”Vergogna!”? E poi, quando tutto fu compiuto, così si espresse in un articolo del 6 Luglio: Ieri sono andata a vedere le scene del conflitto. Avevo persino timore a guardare le ville Quattro Venti e Vascello [...] tutte fatte a pezzi [...] Fui colpita più che mai dall’eroico valore dei nostri, lasciatemelo dire, come l’ho detto sempre, perchè dovunque io vada una gran parte del mio cuore rimarrà per sempre in Italia. Spero che i suoi figli mi riconosceranno sempre come una sorella, sebbene non sia nata qui. Dopo l’ingresso dei francesi a Roma, Fuller, con Ossoli e il bambino, ripararono prima a Rieti e poi a Firenze. Nel Maggio dell’anno successivo, poichè i mezzi per vivere potevano venire loro solo dalla sua penna (Ossoli non aveva mai lavorato), si decise a lasciare l’Italia con loro per ritornare nel suo paese. Furono una partenza ed un viaggio carichi di presagi negativi, che terminarono il 19 Luglio 1850 con il naufragio della nave a vela su cui viaggiavano, la “Elizabeth,” davanti alla costa di New York –naufragio in cui tutti e tre perirono. Poichèquindici dei ventidue passeggeri si salvarono raggiungendo la terraferma, Perry Miller ha persino avanzato l’ipotesi che, stremata dalle preoccupazioni per il futuro, timorosa dell’accoglienza che avrebbe ricevuto dal suo mondo (non si è mai trovato alcun documento che testimini l’avvenuto matrimonio tra lei e Ossoli, per esempio), Fuller abbia scelto di lascarsi andare. Nelle acque dell’Atlantico si perse anche il manoscritto di una storia dei 22 movimenti rivoluzionari italiani, che aveva dichiarato di stare scrivendo. Fuller ebbe certamente una vita difficile, cui fece fronte, come meglio potè, attingendo con coraggio alle risorse della sua intelligenza e delle sue doti pratiche. Fu certamente la statunitense che più cercò di aiutare, con l’una e con le altre, il nostro popolo, entrando, così, nella nostra storia. Le dobbiamo riconoscenza. La Prof.ssa Cristina Giorcelli, fra l’altro, è autrice di un saggio dedicato a Margaret Fuller, uscito nella raccolta “Gli Americani e la Repubblica Romana del 1849”, co-curata da Sara Antonelli, Daniele Fiorentino, e Giuseppe Monsagrati e pubblicata da Gangemi. Inoltre è stata co-organizzatrice del Convegno su M. Fuller tenuto presso l'Accademia Americana di Roma nel 2000, e ha co-curato la pubblicazione degli atti relativi nella rivista "Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica". Ha anche co-curato una scelta dei saggi usciti in tale rivista e pubblicati dalla Wisconsin University Press nel 2007 in un volume dal titolo “Margaret Fuller: Transatlantic Crossings in a Revolutionary Age”. 23 Mario Bannoni Leggo ora una breve lettera redatta in inglese, inviata a Margaret il 30 aprile 1849 su carta intestata del Comitato di Soccorso pei Feriti Cara Miss Fuller, siete nominata Regolatrice dell’Ospedale Fate Bene Fratelli. Andate lì alle dodici se la campana d’allarme non avrà suonato prima. Quando arrivate là, riceverete le donne che verranno per i feriti e darete loro le vostre istruzioni in modo da assicurarvi di averne un certo numero, di notte e di giorno. Possa Dio aiutarci. Cristina Trivulzio di Belgiojoso 24 Novità storiografiche sulla Repubblica Romana Prof. Marco Severini dell’Università di Macerata, Dipartimento scienze storiche e documentarie ricercatore e autore di vari libri sulla Repubblica Romana inquadrerà il momento storico in cui la essa ebbe luogo Abstract: Nell'ultimo quindicennio si è assistito a una sostanziale revisione degli studi e delle interpretazioni sulla Repubblica Romana del 1849. Grazie a questa stagione di studi si è potuto meglio articolare il periodo repubblicano, analizzare le cause principali del suo fallimento, ricostruire il ruolo di protagonisti e comprimari e circoscrivere con maggiore attenzione le eredità che la Repubblica ha lasciato alla storia nazionale (costituzione moderna, laicità dello Stato, iniziativa popolare, relazioni internazionali basate sugli ideali di fraternità e di collaborazione etc.). Molti sono i temi che sono apparsi al centro della ricerca storiografica, ma cinque appaiono i più importanti: • l'esame analitico di come si è svolta la vicenda repubblicana nelle diverse periferie dello Stato. • l'ampliamento dei temi di indagine che hanno lasciato il prediletto orientamento politico-militare per spostarsi su aspetti di storia sociale, culturale, di genere, etc. • l'accertamento di che cosa abbia reppresentato nel corso di un secolo e mezzo di storia italiana la Repubblica dopo la Repubblica, sia nel senso del radicamento della memoria storica a livello popolare e istituzionale, sia nell'ambito della ricezione degli eventi del 1849 sul piano strettamente storiografico. • le ragioni, essenzialmente di natura politica e ideologica oltre che culturale, che hanno portato nel secondo dopoguerra ad un costante oblio 25 • dell'epopea quarantanovesca. l'assunzione della Repubblica Romana tra gli episodi fondativi dell'identità italiana. Nel 1999, in occasione del 150° anniversario della Repubblica Romana, la «Rassegna storica del Risorgimento» realizzò un Numero speciale dedicato all’avvenimento: un fascicolo indubbiamente importante, al quale partecipavano insigni nomi degli studi risorgimentali, ma che destava l’interesse degli addetti ai lavori anche per altri due aspetti, la notevole attenzione riservata agli avvenimenti del 1848 e la presenza di una adeguata rassegna di studi sull’esperienza quarantonovesca1. Se ciò costituiva un indubbio passo in avanti rispetto all’oblio in cui la Repubblica Romana era rimasta per quasi tutta la seconda metà del Novecento, latitavano d’altra parte sia il senso di una prospettiva nuova ed efficace attorno a cui impostare una nuova fioritura di studi sia l’idea di affidare ad una nuova e qualificata leva di studiosi questo rinnovamento storiografico. Rinnovamento che si è indubbiamente verificato in questo ultimo decennio, ma che per una complessa serie di ragioni, non ultima quella della circolazione editoriale, non ha pienamente attecchito. Non è un caso che in un recente volume Giulia Colombo abbia introdotto il suo breve intervento con le seguenti parole: La storiografia italiana recente ha dato poco spazio all’analisi degli eventi legati alla proclamazione della seconda Repubblica romana. Questa carenza può essere collegata ad una più generale tendenza a considerare gli episodi rivoluzionari italiani del 1848-1849 in una prospettiva di lungo periodo, come tappa intermedia del processo di unificazione nazionale2. Tale valutazione se può essere sostanzialmente condivisa per la seconda parte, va decisamente rivista per quanto riguarda la prima. Infatti già nel 2005 Lidia Pupilli aveva pubblicato sulla «Rassegna storica del Risorgimento» una puntuale rassegna dei principali studi e contributi sulla Repubblica del 1849 proprio a partire dal sopra citato Numero speciale del 1999: da questo intervento risultava chiaramente la vivacità della riflessione euristica e storiografica sugli avvenimenti quarantanoveschi sia per quanto riguarda la dimensione romana sia 26 per quanto concerne quella periferica e regionale3. Non è questa la sede per ricordare tutti questi studi scientifici – ai quali si sono accostate di recente anche due ricostruzioni realizzate da giornalisti che hanno riscosso un certo successo ma che fin dal titolo hanno tradito una visione storica datata4 – ma pare almeno opportuno citare i principali settori indagati. Su un piano generale, restando nell’ambito delle ricerche propriamente scientifiche, sono comparse due distinte ricostruzione d’insieme ad opera del sottoscritto (2002 e 2006)5, la seconda delle quali, sia per la rapidità con cui sono state esaurite le copie di edizione sia per difficoltà di distribuzione editoriale, ha fornito la base per una ulteriore rilettura che vedrà le stampe nella seconda metà di questo 2010. Così come hanno sviluppato proficui percorsi tematici ed euristici sia il volume collettaneo frutto della mostra allestita nell’autunno 1999 con la documentazione originale dell’Archivio di Stato di Roma e pubblicato, in collaborazione con la Rivista Storica del Lazio, dall’editore Gangemi nel dicembre dello stesso anno (volume che tratta aspetti di carattere istituzionale, politico, militare e costituzionale)6, sia il volume posto in essere dalla Biblioteca di storia moderna e contemporanea, curato da Lauro Rossi e stampato da Palombi nel 2001, che si occupa degli aspetti politico-militari dell’epopea repubblicana7. Di grande impatto storiografico è risultato anche il volume promosso dal Centro Studi Americani di Roma sul rapporto tra gli americani e la Repubblica del 1849, opera che tra l’altro indaga il ruolo e le figure degli statunitensi che, presenti nella Roma del ’49 – su tutti Margaret Fuller e i diplomatici Nicholas Brown e Lewis Cass jr. – sostennero la causa repubblicana, lo spazio e l’interesse che la cultura statunitense dedicò alle vicende repubblicane, la raccolta di testi e documentazioni inedite, insieme all’impossibilità del governo di Washington di riconoscere il regime mazziniano per timore di un’impasse che avrebbe potuto alterare le relazioni tra Stati Uniti e grandi potenze europee8. Non meno significative due monografie uscite nel 2003. Irene Manzi ha finalizzato interessi e ricerche di medio periodo in un’opera densa e agevole che tratta sotto diversi aspetti la carta costituzionale della Repubblica promulgata il 3 luglio 1849, alla vigilia della sua 27 caduta9, mentre Giuseppe Monsagrati, cui si devono molteplici ricerche su personaggi e aspetti del periodo quarantanovesco, ha ricostruito le diverse fasi storiche della Repubblica, contestualizzandole, da una parte, con le sue origini quarantottesche e, dall’altra, con la memoria dell’evento nella pubblicistica e nella storiografia risorgimentale: se Roma e i romani hanno inserito senza difficoltà nella tradizione storica cittadina la Repubblica del 1849, con maggior difficoltà quest’ultima, specie nel corso del ventesimo secolo, è divenuta uno degli episodi fondativi dell’identità nazionale italiana10. In una dimensione periferica, vanno invece segnalati sia i primi tentativi di ricostruzione su scala regionale11 sia rigorose edizioni di testi riguardanti l’assedio di Roma, memoriali di nobildonne e benestanti, diari e ricordi di donne12. Un altro contributo determinante è giunto dalla ricerca biografica che all’interno di dizionari di ampio respiro o di natura tematica oppure nell’ambito di ricerche svolte per atti congressuali o, ancora, in una dimensione monografica, hanno illustrato temi e aspetti di grande rilevanza13. A questi si è aggiunto, nell’aprile 2010, la biografia di Mazzini scritta da Giovanni Belardelli e fresca di stampa14, su cui si avrà modo di ritornare. Volendo sintetizzare le novità interpretative proposte dalla maggior parte di questi studi non può non sfuggire sia la sottolineatura della centralità dagli eventi romani nel più ampio contesto risorgimentale sia la sua capacità di lasciare cospicue eredità sul piano politico, militare, costituzionale e civile al costituendo Stato italiano. Se la mancanza di un coordinamento concreto ed efficace tra tutte le forze democratiche italiane e l’ostilità dell’Europa all’idea di una penisola politicamente unificata, e dunque l’isolamento internazionale della Repubblica, furono le due principali cause del fallimento dell’epopea quarantanovesca, quest’ultima lasciò eredità talmente rilevanti da essere recepite, pur con notevole ritardo, dallo Stato italiano. La laicità dello Stato, contestualmente alle garanzie offerte alla Chiesa cattolica (e agli altri culti) per l’esercizio del potere religioso; l’iniziativa popolare e le libere decisioni di un’Assemblea rappresentativa come principi basilari della nuova comunità nazionale; l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; una 28 Carta costituzionale che costituisse insieme la legge fondamentale dello Stato e la suprema garanzia dei diritti e dei doveri degli italiani; la partecipazione politica e civile come forma di dialogo e di incontro tra i membri di una nazione; delle relazioni internazionali non più basate sulla guerra e sull’oppressione, ma sulla fraternità e la collaborazione dei popoli come su un’Europa libera e unita: e, di conseguenza, l’intuizione, tutta mazziniana e democratica prima che liberale e cavouriana, che senza il sostegno di una grande potenza europea il sogno dell’Italia unita fosse destinato a non concretizzarsi. Accanto a questi elementi, altri, non certo meno importanti, sono andati caratterizzandosi sul piano storiografico: la necessità di una periodizzazione meglio articolata degli avvenimenti (con un prologo compreso tra la fuga di Pio IX, 24 novembre 1848, e l’approvazione del decreto fondamentale con cui nacque la Repubblica, 9 febbraio 1849: un primo periodo di governo repubblicano guidato dal Comitato esecutivo, 9 febbraio-29 marzo 1849; la fase del triumvirato mazziniano, 29 marzo-30 giugno ’49; un epilogo ristretto a pochi giorni, ma ricco di avvenimenti di grande rilievo politico e simbolico, 30 giugno-4 luglio 1849); il rapporto tra la genesi romana della Repubblica e il suo qualificarsi come base di uno Stato italiano (avallato in ciò dalla rappresentatività italiana in seno ai diversi esecutivi, all’Assemblea costituente, ai vertici militari, al corpo diplomatico, alla dirigenza e ai governi locali insediatasi con le elezioni amministrative del marzo-aprile 1849), democratico e moderno, forse troppo avanzato per i tempi; l’evidente desiderio di rinnovamento e modernizzazione avanzato dalla Repubblica venne condiviso sia dai numerosi patrioti italiani giunti a Roma con l’idea di partecipare a un grande momento di riscatto nazionale sia dalla nuova classe dirigente, omogenea a livello socio-professionale quanto composita nella precedente militanza politico-amministrativa15. Molte storie individuali, del resto, richiedono ricerche specifiche o una migliore contestualizzazione: se è indubbio che Mazzini visse la prima ed unica esperienza di governo della sua esistenza, il suo ruolo di «statista di razza» palesato in quei tre mesi del ’49 è stato messo in dubbio dal recentissimo saggio di Belardelli che, in verità, si sofferma più sulla cultura politica mazziniana, romantica e di derivazione rousseauiano-giacobina, e sulla sua contrarietà ai partiti e alle regole dell’assemblea rappresentativa che non sulla complessa visione 29 internazionale degli eventi che il genovese rivelò nella Roma quarantanovesca16. Come hanno ampiamente dimostrato gli studi di Mauro Ferri17, si attuò sotto la Repubblica, nonostante una conflittualità iniziale tra Mazzini e la Costituente e la propensione del primo verso una dittatura sui generis, uno stretto legame fra triumvirato mazziniano e Assemblea, legame non privo di temporanei attriti e incomprensioni, ma fondato sul rispetto e la fiducia reciproci. D’altra parte, Mazzini fu l’anima e il motore del nuovo governo: la speranza in una ripresa della guerra d’indipendenza, contenuta nello stesso proclama indirizzato dal Triumvirato alla popolazione nel giorno stesso del suo insediamento, svanì ben presto e rese centrale il compito di salvare la Repubblica. Il Triumvirato mazziniano, in ogni caso, segnò il momento più alto e democratico della vita della Repubblica Romana che divenne, nella primavera del 1849, la capitale di uno Stato italiano, moderno e laico, che concentrò mezzi ed energie per assicurare una sopravvivenza sempre più minacciata dall’incombente intervento militare straniero e, contestualmente, intensificò l’azione di rinnovamento istituzionale, politico e sociale già intrapresa nella fase di interregno post-pontificio e sotto il Comitato Esecutivo. In sostanza, la grandezza della caratura politica di Mazzini consistette in una realistica visione degli eventi europei – come del resto contestare al genovese l’idea (poi mutuata da Cavour) che l’unificazione politica della penisola non potesse essere disgiunta dal sostegno di una potenza europea di primo piano come la Francia – nel porre il suo impegno indefesso e quotidiano a disposizione di tutti (a partire dai singoli cittadini, visto che era solito mangiare in una comune trattoria e dormire in una modesta dimora, rifiutando ogni tipo di sfarzo) e nel credere fermamente che la Repubblica, nata quasi un mese prima del suo arrivo a Roma, dovesse rappresentare il primo nucleo fondativo di un’Italia finalmente libera, indipendente, democratica e repubblicana18. Dal canto suo, Garibaldi fu indubbiamente il personaggio più popolare della Repubblica, l’autentica icona del 1849 anche per l’opinione pubblica europea, ma si trovò solo e incompreso da parte delle autorità repubblicane: infatti, tra il nizzardo e il governo romano, al di là di frizioni personali ed episodiche, si rivelò una chiara diversità 30 di vedute dal momento che egli contrappose, alla difesa statica di Roma voluta da Mazzini sulla base di una valutazione sostanzialmente politica, una guerra di movimento ed offensiva, pronta a sfruttare le diverse forme di lotta popolare e ad esportare, attraverso le insurrezioni, la guerra rivoluzionaria19. Non pochi personaggi su cui si è soffermata l’attenzione degli studi recenti, inoltre, sono rimasti sostanzialmente imprigionati nelle gabbie interpretative allestite alla rinfusa e in una cornice oleografica dalla storiografia post-risorgimentale: clamoroso per certi versi il caso di Carlo Armellini, triumviro e vero uomo per tutte le stagioni della congiuntura repubblicana, il quale, pur potendo beneficiare di una vera e propria biografia che è stata realizzata con criteri aggiornati e ha fatto giustizia di non poche inesattezze tramandatesi fino al secondo dopoguerra, veniva ricordato nella sopra citata rassegna del 1999 non certo per questa biografia, ma per la succinta ed errata scheda biografica realizzata nel 1965 da Renzo De Felice per il Dizionario biografico degli italiani20. In ogni caso, sono stati proprio i più recenti studi sulla Repubblica romana a sviluppare le più interessanti suggestioni interpretative e, dunque, a delineare una serie di obiettivi per le nuove ricerche sull’argomento. Un primo è costituito dallo sforzo di ricostruire analiticamente come si sia svolta la vicenda repubblicana nelle diverse periferie dello Stato, cercando di esaminare chi ha assunto il potere, come si siano svolte le elezioni amministrative, quale tipo di contributo è stato offerto su scala locale per divulgare gli istituti repubblicani e difendere il territorio invaso da quattro Stati europei (il cui intervento – è bene ricordarlo – venne formalmente richiesto da Pio IX per riprendere possesso del potere temporale), quale tipo di approccio memoriale si sia sedimentato nel tessuto nazionale e locale. Un secondo aspetto concerne i diversi temi che tuttora meritano un articolato approfondimento: un più analitico studio delle relazioni che la Repubblica cercò di intrattenere su scala nazionale e internazionale, il ruolo delle donne21, degli ebrei22, insomma di categorie sociali saltuariamente rese oggetto di studi specifici. In particolare, appare oggi ben contestualizzato il ruolo svolto nella Roma quarantanovesca dalla giornalista statunitense Margaret Fuller (1810-1850), una delle voci più autentiche e originali dell’epopea 31 quarantanovesca: osservatrice attenta e scrupolosa, la Fuller sostenne apertamente gli ideali di libertà e democrazia, fu particolarmente vicina a Mazzini sul piano ideologico ed emotivo e scorse negli eventi repubblicani la vibrazione dello spirito egualitario della madre patria, invitando (senza successo) quest’ultima a sostenere il governo della Repubblica e criticando apertamente il comportamento falso e menzognero tenuto nella circostanza dalla Seconda Repubblica francese. Corrispondente del «New-York Tribune», foglio radicale che avrebbe dal 1852 pubblicato anche articoli di Karl Marx, e “regolatrice” dell’Ospedale Fatebenefratelli su nomina di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, fu una delle poche voci straniere che rimasero colpite dalla Roma moderna, attiva e ricca di speranza politica, anziché di quella classica e oleografica, e spese tutta se stessa per far conoscere agli americani, in maniera meticolosa quanto solidale, la coraggiosa partita che gli italiani stavano giocando al centro della penisola in quella coda della rivoluzione dei popoli così tanto disprezzata dalle cancellerie europee. La sua scrittura ora partecipe e vibrante ora delusa e amareggiata, la sua figura eclettica e romantica, la sua fine drammatica – perì tornando in patria, il 17 maggio 1850 insieme al marito, il marchese Giovanni Angelo Ossoli, e al loro figlio Angelino, nel naufragio a largo di New York di una nave partita da Livorno – hanno destato un’attenzione da parte di storici e studiosi che non pare essersi ancora esaurita23. Un terzo obiettivo consiste nell’esaminare cosa abbia rappresentato la Repubblica dopo la Repubblica sia nel senso del radicamento della memoria storica a livello popolare e sia sul piano della ricezione sul piano storiografico. Sotto quest’ultimo punto di vista, va ricordato che solo con le tre grandi opere storiche realizzate tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1960 (Rodelli, Di Nolfo, Candeloro) e con le mostre e le iniziative organizzate per il centenario della Repubblica si è potuto disporre di ricostruzioni d’insieme capaci di entrare nelle biblioteche degli italiani. Tuttavia a questa fase proficua, terminata nel 1960, ha fatto seguito un trentennio di pressoché totale oblio, poi riscattato dalla prima, innovativa ricerca di autentico rilievo storiografico come quella sulle comunità laziali di Franco Rizzi24. Un quarto punto di vista è strettamente collegato al secondo: chi ha voluto la fuoriuscita della Repubblica romana dal panorama e 32 dall’identità storica nazionale? Indubbiamente, le forze politiche e ideologiche che hanno dominato la scena culturale italiana del secondo dopoguerra, quelle di estrazione marxista e cattolica, non si sono mostrate interessate a sviluppare nuove ricerche sulla Repubblica del 1849 così come, su un piano più generale, sul Risorgimento. Tuttavia va ricordato come, proprio nel corso delle celebrazioni centenarie in Parlamento, fossero stati due intellettuali di punta, come il comunista Concetto Marchesi e il cattolico Igino Giordani, a riportare la calma in una commemorazione infuocata dal settarismo politico. In un’aula di Montecitorio arroventata da polemiche e accuse reciproche tra i deputati dei diversi schieramenti politici, alla metà del pomeriggio del 9 febbraio 1949, Marchesi, insigne filologo e storico della letteratura latina, affermò che «la lampada accesa in Roma nel 1849» era tutt’altro che spenta ad un secolo di distanza e aveva segnato «i passaggi da uno all’altro orizzonte della storia umana», mentre quella Repubblica aveva avuto sì una vita breve, ma aveva conosciuto una morte così eroica che conteneva «in sé i germi vitali dei grandi avvenimenti» e aveva riportato il popolo al governo della nazione, senza che gli eserciti stranieri potessero arrestare «la storia della nuova Italia»25. Dal canto suo Giordani si associava alla «celebrazione» del centenario di un avvenimento che era stato «deprecato dai nostri padri» e aveva suscitato polemiche «fra i nostri e i vostri pionieri»; di seguito, il «cattolico militante» Giordani ricordava l’importanza di Mazzini nella Roma quarantanovesca, il suo spirito di concordia al di sopra delle parti, il suo programma «di ricostruzione politica e sociale d’Italia e d’Europa», che aveva esposto con una chiarezza tale da renderlo uno dei «grandi istruttori dell’umanità» in quanto artefice di quel «carattere universale» espresso nella formula Dio e Popolo, che non era diversa ma complementare al Dio e libertà propria dei padri del movimento cattolico: un’idea, quella mazziniana, che secondo Giordani era ancora, nel 1949, di grandissima attualità perché «dava alla politica tutt’altro significato», poiché il popolo diventava l’interprete della volontà divina. Mazzini era stato il pedagogo della nuova politica basata su valori morali visto che Giordani concludeva il suo intervento, applauditissimo, con questo suggestivo invito: «Prendiamo da Mazzini l’insegnamento di una fedeltà ai valori 33 spirituali, che nessuna violenza, nessun odio stupido e criminale può distruggere»26. Il Prof. Marco Severini si occupa da molti anni di storia e storiografia politica dell'età risorgimentale e contemporanea. I suoi principali temi di ricerca sono stati Mazzini e la Repubblica Romana del 1849, Garibaldi, l'età giolittiana, il problema dei notabili e lo studio della rappresentanza parlamentare. Fra l’altro, nel 2002 è stato autore di “Diario di un repubblicano. Filippo Luigi Polidori 1 e l'assedio francese alla Repubblica romana del 1849”, pubblicato da Affinità Elettive Edizioni. Nel 2004 è stato co-aoutore insieme con Pietro Pistelli de “L' alba della democrazia. Garibaldi, Bruti e la Repubblica romana”, pubblicato dal medesimo editore. Il suo prossimo libro sulla Repubblica romana è previsto per quest’anno. Sulla rilevanza di questo Numero speciale e sulle ricerche uscite tra la fine del secolo scor- so e quello attuale si veda M. Severini, Il preludio della Repubblica. Gli studi recenti sulla Repubblica Romana del 1849, in «Rinascita della Scuola», 2003, n. 2, pp. 71-79. 2 G. Colombo, La Rivoluzione in convento. Lettere di religiose nella seconda Repubblica roma- na, in Scritture di donne. La memoria restituita, a cura di M. Caffiero e M. I. Venzo, Roma, Viella, 2007, p. 347. 3 L. Pupilli, La recente storiografia sulla Repubblica Romana del 1849, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. XCII, supplemento al fasc. III, Numero speciale per il bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, 2005, pp. 65-78. 4 34 C. Fracassi, La meravigliosa storia della repubblica dei briganti. Roma 1849: Mazzini, Garibaldi, Mameli, Milano, Mursia, 2005; S. Tomassini, Storia avventurosa della rivoluzione romana. Repubblicani, liberali e papalini nella Roma del ’48, Milano, Il Saggiatore, 2008. 5 M. Severini (a cura di), Studi sulla Repubblica Romana del 1849, Ancona, affinità elettive, 2002, e Id. (a cura di), La primavera della nazione. La Repubblica Romana del 1849, Ancona, affinità elettive, 2006. 6 Archivio di Stato di Roma, Roma, Repubblica, venite: percorsi attraverso la documentazione della Repubblica romana del 1849, Roma, Gangemi, 1999. 7 Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, Fondare la nazione. I repubblicani del 1849 e la difesa del Granicolo, a cura di L. Rossi, Roma, Palombi, 2001. 8 Gli Americani e la Repubblica Romana del 1849, a cura di S. Antonelli, D. Fiorentino, G. Monsagrati, Roma, Gangemi, 2000. 9 I. Manzi, La Costituzione della Repubblica Romana, introduzione di M. Severini, Ancona, affinità elettive, 2003. 10 G. Monsagrati, La Repubblica Romana del 1849, in Almanacco della Repubblica, a cura di M. Ridolfi, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 84-96. 11 M. Severini, Nascita, affermazione e caduta della Repubblica Romana, in La primavera della nazione, cit., pp. 60-97. 12 Pupilli, La recente storiografia sulla Repubblica Romana del 1849, cit., pp. 69-72. Tra le edi- zioni uscite dopo il 2006 va ricordato il volume A corte e in guerra. Il memoriale segreto di Anna de Cadilhac, a cura di R. De Simone e G. Monsagrati, Roma, Viella, 2007. 13 Pupilli, La recente storiografia sulla Repubblica Romana del 1849, cit., pp. 72-78. 14 G. Belardelli, Mazzini, Bologna, il Mulino, 2010. 15 M. Severini, Attualità della Repubblica Romana del 1849, in «Il Pensiero Mazziniano», 3, 2008, pp. 28-33. 16 Belardelli, Mazzini, cit., pp. 145-157. 17 M. Ferri, Mazzini uomo di governo, in Pensiero e Azione: Mazzini nel movimento democrati- co italiano e internazionale, Atti del LXII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Genova, 8-12 dicembre 2004, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2006, pp. 54 e ss. 18 Severini, Nascita, affermazione e caduta della Repubblica Romana, in La primavera della nazione, cit., pp. 53-54. 19 M. Severini, Garibaldi repubblicano, in Id. (a cura di), Garibaldi eroe moderno, Roma, Aracne, 2007, pp. 79-94. Si vedano anche L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, RomaBari, Laterza, 2007, pp. 55-104 e M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007, pp. 9-26. 20 M. De Nicolò, Gli studi sulla Repubblica Romana negli ultimi cinquanta anni, in L’opera della municipalità romana durante la Repubblica del 1849. Atti della Giornata di Studi (Roma, 19 aprile 1999 – Sala Promoteca), a cura di E. Capuzzo, Comune di Roma – Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, «Rassegna storica del Risorgimento», LXXXVI, 1999, 35 Numero speciale per il 150° anniversario della Repubblica romana (d’ora in poi Numero speciale), pp. 115-150. 21 S. Soldani, Donne e nazione nella rivoluzione italiana del 1848, in «Passato e presente», XVII (1999), pp. 75-102; R. De Longis, Patriote e infermiere, in Fondare la nazione, cit., pp. 99-107; M. Severini, Diario di un repubblicano. Filippo Luigi Polidori e l’assedio francese alla Repubblica Romana del 1849, affinità elettive, Ancona 2002, pp. 47-53; La primavera della nazione, cit., pp. 206-226. 22 E. Capuzzo, Gli ebrei e la Repubblica Romana, in Numero speciale, pp. 267-286. 23 Mentre per una ricostruzione generale e per un aggiornamento bibliografico e storiografi- co si rimanda ai diversi saggi del volume Gli Americani e la Repubblica Romana del 1849, va notato che alla Fuller G. Mosagrati ha dedicato un profilo sul Dizionario biografico degli italiani (vol. 50, 1998, pp. 703-707), mentre Mario Bannoni sta concludendo una monografia sulla giornalista bostoniana. 24 F. Rizzi, La coccarda e le campane. Comunità rurali e Repubblica Romana nel Lazio (1848- 1849), Milano, FrancoAngeli, 1988. 25 Severini, Attualità della Repubblica Romana del 1849, cit., p. 38. 26 Ibidem, pp. 39-40. 36 Mario Bannoni Lettura di uno stralcio di una lettera che Margaret ricevette il 9 giugno 1849 Volete mostrarvi donna e perdonare? Merito d'esser perdonato; se poteste passare tutto un giorno vicino a me vi maravigliereste non del mio silenzio con quelli che amo, ma che io sia vivo! Dalle sette della mattina, ieri, alle sette di sera sono stato continuamente a scrivere, a scrivere per fino mentre parlo con la gente, .... Alle sette fui chiamato al letto di un amico, Mameli1, un giovane poeta e soldato promettente: dovevo persuaderlo a sopportare l'amputazione della gamba... non si potè fare ...; lo lasciai alle nove, ... di nuovo fino al tocco dopo mezzanotte. Ogni cosa, dal particolare di un soldato arrestato... alla difesa; da una disputa... a una discordia fra due generali: ogni cosa viene fino a me. Perfino a mia madre scrivo raramente poche parole. Se la cosa dovesse durare a lungo, non v'è forza né volontà umana che possa resistere. ... Ho pensato a voi spesso; la sola cosa che potevo fare. Conservatevi fedele e fiduciosa; pregate per Roma e per l'Italia: è concentrata qui! Sempre vostro. Giuseppe Mazzini 1 Goffredo Mameli, poeta e autore dell'Inno italiano "Il Canto degli Italiani" (meglio conosciu- to come "Fratelli d'Italia), fu ferito durante l'attacco francese del 3 giugno a Villa Pamphili. Fu amputato della gamba destra, ma troppo tardi, morì a 22 anni il 3 luglio 1849. 37 Difesa di Roma del 1849: Memoria e territorio Enrico Luciani Presidente dell’Associazione Amilcare Cipriani e direttore del sito del Comitato Gianicolo. È possibile accedere al sito web per ulteriori informazioni: www.comitatogianicolo.it/new/index.htm Come presidente dell’Associazione Amilcare Cipriani e direttore responsabile del sito www.comitatogianicolo.it ho accolto con molto piacere l’invito a partecipare a questo Seminario che intende onorare la memoria di Margaret Fuller nel Bicentenario della nascita. Al nome di Margaret Fuller, infatti, è legato una data importante della storia della nostra Associazione: nel novembre 2000, al Convegno Internazionale su Margaret Fuller, all’Accademia Americana, noi presentammo il nostro primo progetto di itinerario garibaldino, e lo abbiamo ricordato anche pochi giorni fa, nella nostra assemblea sul Bicentenario di Margaret Fuller programmata per l’otto marzo e poi rinviata al 6 maggio a causa di un incendio doloso avvenuto nei nostri locali. Da oltre 10 anni, in effetti, l’Associazione Amilcare Cipriani è impegnata in una azione divulgativa che si pone l’obbiettivo di tener viva la memoria della Repubblica Romana del 1849, dei suoi protagonisti e dei suoi ideali, in quanto parte irrinunciabile della nostra identità di italiani e di democratici. La nostra azione divulgativa e’ volta a far conoscere il valore storico dei luoghi dove si svolsero i più significativi episodi della Difesa di Roma del 1849, e cioè il territorio che comprende il Gianicolo e dintorni. E non solo i luoghi più famosi, come Villa Pamphilj, Porta San Pancrazio, Villa Sciarra, l’Accademia Americana, San Pietro in Montorio, ma anche tanti altri luoghi di Monteverde, Trastevere e 38 Portuense che pure hanno una nobile storia legata alla Difesa di Roma, che la gente non conosce pur vivendoci o passandovi accanto tutti i giorni. Noi stessi, che abbiamo la sede in Via di Donna Olimpia 30, in un lotto di case popolari, ignoravamo quanto questo luogo fosse legato a importanti fatti della Difesa di Roma del 1849, in particolare all’attacco dei francesi del 3 giugno. (Proiezione di immagini) Con Cesare Balzarro e Claudio Bove abbiamo perciò realizzato e animato, con racconti per immagini, un sito web a tale scopo, un sito che si avvale di apporti qualificati di prestigiose istituzioni quali la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea e Il Museo Centrale del Risorgimento di Roma. Tra gli elementi di maggior interesse il sito espone tre mappe dello Stato Maggiore francese, allegate al libro Siege de Rome del Generale Vaillant che comandava le operazioni d’assedio. Due di queste mappe, la 2 e la 3, appaiono di eccezionale importanza in quanto sono le prime mappe plano-altimetriche di tutta la zona del Gianicolo, eseguite con il moderno metodo delle curve di livello, presso che sconosciuto all’epoca. Abbiamo così informazioni esatte sulla morfologia del terreno nel 1849, che consentono una più approfondita conoscenza dei fatti storici, e si prestano a confronti con la morfologia attuale del territorio. L’esistenza di queste mappe era del tutto sconosciuta alla cultura urbanistica attuale. Quando noi ne parlammo per la prima volta, nel maggio 2005 in occasione di una mostra tenuta presso il nostro Circolo, fummo poi invitati a farne oggetto di relazione tenuta nel novembre 2005 dal nostro vicePresidente ing. Cesare Balzarro presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia” dell’Università Sapienza di Roma, nell’ambito del Convegno Roma contemporanea: storia e progetto. Apprendemmo così che noi, che istituzionalmente siamo divulgatori e non ricercatori, avevamo fatto una importante scoperta, o meglio una riscoperta. Questa riscoperta fu poi integrata da una vera scoperta, o meglio da un colpo di fortuna, quando al mercato antiquario francese trovammo un manuale d’istruzione per gli ufficiali francesi sulle trincee d’assedio, del dicembre 1849, dal titolo Leçons sur l’école des sapes, che evidentemente si basava sulla recentissima esperienza dell’assedio di Roma, ed era totalmente inedito: lo abbiamo tradotto in italiano e messo sul nostro sito, wwwcomitatogianicolo.it . Passo ora a descrivere le varie fasi dell’assedio, in gran parte 39 traendo quanto dirò dal nostro opuscolo “I luoghi dei Francesi”, scritto da Giuseppe Monsagrati, Cesare Balzarro e Carlo Benveduti. La copertina del libretto già richiama un argomento, la breccia del 3 giugno nel muro di Villa Pamphili, che è stato oggetto di una nostra fortunata ricerca, conclusa con l’identificazione esatta della zona dove fu praticata la breccia. (Proiezione di immagini). Questa prima mappa francese,tratta dalla ben nota mappa italiana ordinata dal Cardinal Falzacappa, anche se priva di curve di livello è peraltro interessante anche sotto il profilo morfologico per la rappresentazione dei rilievi in modo quasi pittorico e immediatamente leggibile. Per noi questa prima mappa è importante perché mostra tutto il quadro delle operazioni militari. La grafica di Carlo Benveduti evidenzia la rete di strade utilizzate dai francesi, mentre l’area a tratteggio comprende la zona del fronte interessata dalle trincee d’assedio: i numeri indicano i punti nevralgici dello schieramento francese. La zona del fronte è al Gianicolo. Con consumata tecnica d’assedio, i francesi avanzavano verso le Mura Gianicolensi lentamente, al coperto, “come talpe” , scavando le loro trincee lungo un fronte di attacco che andava dal Bastione 9 (a sinistra della Porta San Pancrazio, guardando dall’esterno) fino al Bastione 6, cioè fino alle mura di Villa Sciarra nei pressi di Largo Berchet. Nelle immediate retrovie vi era il Grande Deposito di trincea, nella zona oggi corrispondente a Piazzale Dunant, e nelle vicinanze era sistemato il Quartier Generale del Genio e dell’Artiglieria (Villa San Carlo, in area oggi corrispondente al margine est dell’ospedale San Camillo); il Quartier Generale del Comando supremo aveva sede a Villa Santucci, (oggi corrispondente al complesso sanitario di Via RaMazzini); nella vicina ansa del Tevere, a Santa Passera, i francesi avevano gettato un ponte di barche. Poco più a valle del ponte vi era il Porto di Santa Passera importantissimo punto di attracco per il naviglio fluviale. Come dice Vaillant, nel fare grandi elogi alla marina militare francese, a Santa Passera arrivavano tutti i rifornimenti e le truppe di rinforzo che giungevano via mare fino a Fiumicino, e poi risalivano il Tevere con battelli e tartane; e sempre qui a Santa Passera venivano imbarcati i feriti che rientravano in patria. (Proiezione di immagini). Fondamentale importanza aveva il Grande Deposito di Trincea di 40 Piazzale Dunant quale centro di smistamento delle truppe impegnate nei lavori d’assedio. Infatti passavano di qui tutti i movimenti di truppe per gli avvicendamenti in trincea: artiglieri, travailleurs di fanteria (la massa di manovalanza addetta allo scavo delle trincee) sapeurs (gli specialisti del genio), guardia alla trincea (battaglioni a protezione dei lavori). Quando era il loro turno per andare a scavare in trincea, i travailleurs si raccoglievano presso il Grande Deposito, qui venivano dotati di attrezzi e materiali d’assedio (pale, picconi, fascine, gabbioni, ecc.), e poi venivano avviati ai posti di lavoro, sotto la guida di ufficiali del genio. Finito il turno, i travailleurs tornavano al deposito di Piazzale Dunant, lasciavano gli attrezzi e facevano rientro ai rispettivi accampamenti. Questi movimenti di truppa, così come l’afflusso dei materiali e il trasporto dei feriti, impegnarono intensamente questa linea di comunicazioni fino agli ultimi giorni del conflitto, tanto che proprio allora venne costruita la strada attraverso il canneto nel vallone dei Quattro Venti, come è scritto sulle mappe al 5.000 e al 2.000. Per tornare al 3 giugno, l’attacco contro Villa Pamphilj si basa sull’azione sincrona e combinata di due colonne d’assalto. La prima colonna era accampata presso Villa Maffei (sull’Aurelia, non lontano dalla Clinica Pio XI), e doveva effettuare un’azione diversiva: scendendo lungo la Strada del Casale di San Pio V, (che allora arrivava fino all’Aurelia) si poteva raggiungere facilmente il muro di cinta di Villa Pamphilj, e in effetti la colonna costeggiando il muro a passo di corsa penetra nella Villa dal lato ovest (Via della Nocetta), attraverso una porta trovata aperta. La seconda e più potente colonna, che conduce l’attacco principale, penetra a Villa Pamphilj da sud (Via Vitellia): il grosso delle truppe entra attraverso una breccia nel muro di cinta aperta con l’esplosivo, mentre poco lontano, sulla destra, una compagnia di chasseurs passa attraverso una apertura per lo scolo delle acque, rimuovendo la griglia di protezione. Secondo un nostro studio , la breccia si trovava sulla attuale via Vitellia, non lontano da Largo Grigioni,( e più precisamente si trovava a circa 130 metri di distanza dal semaforo dell’Olimpica, come abbiamo accertato recentemente). La griglia invece era posta in prossimità dell’attuale incrocio di via Vitellia con Via di Donna Olimpia, dove il terreno ha la quota più bassa, e dove tuttora esiste una griglia. Nel quadro strategico delineato, si ritiene possa avere rilevanza il fatto 41 che, come risulta dall’ordine generale del Generale Oudinot in data 2 giugno 1849 , il principale contingente d’attacco dei francesi, il 33° di linea, alla vigilia dell’attacco avesse propri reparti dislocati in località Bruggiani (corrispondente a Largo Ravizza), a breve distanza dall’obbiettivo: da lì infatti si arrivava rapidamente al Vicolo della Nocetta (Via Vitellia) attraverso una stradina (oggi ravvisabile nel Vicolo Vicinale, tra Piazza Ceresi e Via Vitellia), che sbocca proprio tra breccia e griglia. (Proiezione di immagini) L’ultima mappa, da noi realizzata con l’uso del computer, sovrappone la rete delle trincee francesi, rilevata nel 1849 dal Decuppis, ad una mappa di Roma attuale. Come abbiamo potuto constatare distribuendola in centinaia di copie, questa mappa desta grande interesse anche nella gente comune del quartiere, che sente nobilitata la propria dimora dalla memoria storica della Repubblica Romana. Sul nostro sito la mappa è anche disponibile in versione stampabile Le operazioni militari nell’ultima fase del conflitto si possono seguire bene sulla mappa al 2.000.(Proiezione di immagini) Il 21 giugno vengono aperte le brecce nei Bastioni 6 , 7, e nella cortina intermedia (mura di Villa Sciarra). Nella notte, con un colpo di mano i francesi si impossessano di tutto questo tratto di mura. Non riescono a procedere oltre per la tenace resistenza dei romani, che si sono attestati su una nuova linea di difesa, da Porta San Pancrazio a Villa Spada, utilizzando un tratto delle Mura Aureliane che allora esistevano, benché malridotte, e che partendo dal Bastione 8 (Accademia Americana) scendevano verso valle con tracciato simile alla Via Angelo Masina. Punto di forza della nuova linea di difesa era proprio il Bastione 8 (Accademia Americana) Qui i romani avevano una batteria ben piazzata per opporsi all’attacco, la Batteria della Montagnola, così chiamata perché sistemata su un rialzo del terreno allora esistente, la Montagnola. Nella notte tra il 29 ed il 30 giugno i francesi, appoggiati dall’artiglieria, sferrano l’attacco decisivo Dopo un furioso bombardamento, viene aperta una breccia nel fianco del Bastione 8, e due colonne vanno all’assalto uscendo dalle trincee e salendo su per la breccia. Contemporaneamente una terza colonna attacca dall’interno delle mura, per prendere il bastione alle spalle ed eliminare la Batteria della Montagnola al più presto possibile. Questa terza colonna parte dalle posizioni occupate sin dal 21 giugno al 42 Bastione 7, cioè parte dall’interno di Villa Sciarra, zona della voliera, e si suddivide in due distaccamenti. Il primo distaccamento procede lungo le mura, dal lato interno, secondo un itinerario che corrisponde alla Via Pietro Roselli, e punta direttamente alla sommità del Bastione 8, verso una costruzione in fiamme, la casa Merluzzo, ubicata proprio sopra la breccia, nello stesso punto ove oggi si trova la “casa rustica” dell’Accademia Americana, all’angolo con Via Giacomo Medici . Il secondo distaccamento si porta molto più a valle, espugna una trincea romana uccidendo tutti gli occupanti, supera il muro aureliano, attacca Villa Spada senza penetrarvi, e risale verso la Porta San Pancrazio prendendo alle spalle le postazioni romane dell’ottavo bastione. Dopo una lotta accanitissima, anche gli artiglieri della Montagnola vengono tutti uccisi . Alla mattina del 30 il Bastione 8 è preso. Il 3 luglio l’esercito francese entra in città. 43 Mario Bannoni Lettura di uno stralcio di un breve brano tratto dal dispaccio n° 34, che Margaret inviò al suo Giornale il 6 luglio 1849 Il 4 luglio, giorno tanto gelosamente celebrato nella nostra terra, è quello dell'entrata dei francesi a Roma! ..... Ieri sono andata sul luogo del conflitto. È stato terribile anche vedere il Casino dei Quattro Venti e il Vascello, dove i francesi ed i Romani sono stati molti giorni così vicini gli uni agli altri, tutti ridotti in pezzi, con i ricchi frammenti di stucco e di pittura ancora attaccati alle travi, tra i grandi fori fatti dalle cannonate -- e pensare che gli uomini erano rimasti a combattere lì pur essendo solo un ammasso di rovine. I francesi, infatti, erano completamente al riparo gli ultimi giorni -ai miei occhi inesperti, la portata e l'accuratezza delle loro opere sembra miracolosa, e mi ha dato la prima chiara idea dell'impreparazione degli italiani a contrastare eserciti organizzati. Mi sono resa conto che i loro comandanti non avevano ancora sufficiente conoscenza dell'arte della guerra per comprendere come i francesi stavano conducendo l'assedio. Certamente le loro risorse erano in ogni caso inadeguate a resistere -- solo continue sortite avrebbe arrestato l'avanzata del nemico, ma per compierle e presidiare anche le mura le loro forze erano insufficienti. Sono stata colpita più che mai dall'eroico valore del "nostro" popolo (lasciatemelo d'ora in poi chiamare così, perché ovunque potrò andare, una gran parte del mio cuore rimarrà sempre in Italia). Spero che i suoi figli sempre mi riconoscano come una sorella, anche se non ho tratto qui il mio primo respiro. 44 Operatività Sanitaria Militare nell'Italia del 1848-49 Prof. Antonio Santoro Brigadier Generale Medico presso la Direzione Generale della Sanità Militare, Presidente Commissione medica di seconda istanza e docente presso l’Università degli studi di Firenze Premessa I precedenti Relatori hanno affrontato con diverse ottiche le sequenzialità storiche degli eventi che posero fine all'effimera Repubblica Romana del 1849, anche focalizzando diversi aspetti delle personalità dei maggiori protagonisti e della Nostra Eroina in particolare. Pertanto questo contributo si attesta soltanto sulla trattazione delle problematiche sanitarie di guerra nella breve storia militare di quella Repubblica, essendo successivamente sviluppate le tracce storiche della tecnologia chirurgica dalla Coautrice, esperta museale. La seconda parte del XIX secolo fu un'epoca che vide correre velocemente la Medicina e la Chirurgia, peraltro sollecitate al medical improvement in occasione dei frequenti conflitti che si sviluppavano in diverse parti del mondo. Alcune discipline mediche erano ancora di là venire: la Radiologia sarebbe nata solo nel 1895 con la scoperta di Roentgen dei raggi X, la Rianimazione non esisteva, così come la Chemioterapia antibiotica (annunciata a fine secolo dal medico militare italiano Vincenzo Tiberio); empiricamente insufficiente l'Infettivologia, mentre le specialità chirurgiche (Otorinolaringoiatria, Oculistica, Ortopedia, Ginecologia) erano primordialmente raggruppate in una confusa pratica Chirurgia Generale, solo da pochi decenni strappata ai barbieri ed ai flebotomi ed in procinto di essere meglio legata agli studi della Medicina. L'Anestesia era appena nata 45 nel 1846 a Boston ad opera di un dentista, Morton che ebbe ad impiegare il pericoloso, ma efficace cloroformio, mentre i dentisti francesi usavano l'etere solforico, peraltro impiegato per un intervento odontostomatologico anche sulla Fuller, ma l'Anestesiologia doveva ancora entrare sui campi di battaglia: l'avrebbe fatto dopo 6 anni in Crimea. Le ferite agli arti di maggior impegno patologico, in assenza dei di là da venire antibiotici, imponevano cruente e dolorosissime amputazioni (non è comunque documentato infatti l'impiego di anestetici da parte dei chirurghi militari nella Roma del 1849). L'assedio si svolse nella canicola della prima estate eppure, vuoi per la millenaria abbondanza d'acqua potabile in Roma, vuoi per il sapiente regime sanitario dei medici assediati, contrariamente a quanto successe a Venezia, pur in era preantibiotica, non vi furono epidemie di colera o altro. La sanità militare della Repubblica Romana L'Esercito della Repubblica Romana si era costituito nella primavera del'49 mediantela fusione di una buona parte delle truppe pontificie indigene (in particolare i militari che avevano operato nella campagna del 1848 contro gli Austriaci nel Veneto) e da volontari: la Legione Italiana di Garibaldi, i Bersaglieri Lombardi di Luciano Manara e tantissime altre formazioni di italiani e stranieri. Al momento dell'assedio della prima estate del '49 in Roma vi erano circa 12000 militari, per metà ex papalini ed altrettanti volontari. È da dirsi che il popolo di Roma, spesso nel passato poco incline ad azioni belliche, si Fig.1,2 - Vari tipi militari della Repubblica Romana, 1849 (da Codice Cenni S.M.E., Roma) Fig. 1 46 Fig. 2 pose in buona parte a combattere i Francesi e comunque a sostenere logisticamente i combattenti [ 2 ]. Fu uno sforzo titanico perchè solo il Corpo di Spedizione del generale Oudinot metteva in linea 30000 francesi ben addestrati (veterani d'Africa e delle cruente repressioni delle rivolte parigine dell'epoca di Luigi Filippo... diversi erano i militari del tipo descritto nei Miserabili da Victor Hugo ad espugnare le barricate dei vicoli parigini) con 75 cannoni: praticamente un favorevolissimo rapporto di forze 3 a 1 rispetto ai non sempre addestrati assediati in Roma. Quell'epopea, seppure circoscritta a circa un breve semestre, fu costellata di episodi di straordinario valore che tuttora arricchiscono l'apoteosi dei valori ideali della Nostra Nazione. I Triumviri, illuminati dal professionale consiglio del colonnello napoletano Carlo Pisacane, organizzarono in tempi brevi tutta l'ossatura dell'esercito e conferirono rilievo alla struttura opertiva sanitaria militare. In particolare con il Regolamento Organico pel Corpo Sanitario dell'Armata (pubblicato sul Bollettino delle Leggi della Repubblica Romana il 31 marzo 1849) furono istituiti: 1. l'Organo Direzionale Consiglio Superiore Sanitario (con l'Ispettore Generale, 8 ufficiali medici, chirurghi e farmacisti e 3 impiegati); 2. Tre Ospedali Militari in Roma (ciascuno con organico di 4 medici, 6 chirurghi, 2 farmacisti e 5 impiegati); gli Ospedali erano insediati rispettivamente: a. l'Ospedale Militare Principale, con funzioni di sede direttiva, presso il complesso dell'antico Ospizio della Trinità dei Pellegrini in Arenula; b. l'Ospedale Militare di San Carlo, vetusto nosocomio militare pontificio, istituito da Pio VII nella 2^ metà del 700 ( sarebbe poi stato riorganizzato nel 1861), situato presso l'Ospedale di Santo Spirito in Sassia, nella cosiddetta Spina di Borgo, quartiere che poi sarà demolito dallo sventramento edilizio dell'epoca fascista per dar luogo all'ampia prospettiva della Basilica di San Pietro, godibile da Castel Sant'Angelo, creata da via della Conciliazione; c. Ospedale Militare dell'Isola Tiberina nell'odierno Ospedale Fatebenefratelli millenario nosocomio insediato sull'Isola fluviale; 3. il Convalescenziario del Quirinale, attendato negli odierni giardini del Colle; 47 4. il Corpo Sanitario Reggimentale 2 chirurghi per i Reggimenti di Cavalleria, 3 per ciascun Reggimento di Fanteria e 4 per l'intero Corpo di Artiglieria; 5. alcune (fino ad 8) Ambulanze Divisionarie e di Riserva con Medici, Chirurghi, Amministrativi ed Infermieri con l'Ufficiale di inquadramento. Tutte le sedi sanitarie erano sormontate da una bandiera nera, perchè fossero riconoscibili dagli osservatori dell'artiglieria francese e quindi risparmiate dal cannoneggiamento: non sempre però fu così, in particolare l'Ambulanza in San Pietro in Montorio, prossima agli assalti francesi, riportò gravissimi danni con perdite umane anche tra i soccorritori; gli stessi Ospedali Militari, ben più distanti dalla linea del fuoco, furono colpiti, sia pur non gravemente, da colpi di cannone; alcune palle, fortunatamente non di tipo cavo – esplosivo si andarono a conficcare in muri, selciati e persino in qualche altare, a pochi metri dalle degenze dei feriti o dalle salette chirurgiche. La Repubblica Romana in campo sanitario militare tentò di fare le cose perbene, disciplinandone anche le tenute: infatti con Ordine del giorno emesso in data 12 maggio 1849 fu emanato il Regolamento dell'Uniforme che ordinò al Corpo Sanitario vestiario similare a quello dei Corpi di Fanteria regolare. Fig. 3, 4, 5, Ufficiale Medico (mostreggiatura nera) Ufficiale Chirurgo (mostreggiatura rossa) Militare dell'Ambulanza Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5 Tuttavia, nonostante gli sforzi edittali, gli ospedali erano obsoleti, sporchi, poco arieggiati, con poco materiale sanitario, mal conservato 48 ed inadeguato; il personale esecutivo era sovente ubriaco, di certo impreparato e poco dedicato. L'umanissimo Triumviro Mazzini ne restò sgomento e chiese aiuto alla patriottica Principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso che accorse con le sue amorevoli e coraggiose donne, tra cui l'americana Margaret Fuller. Bende e filacce divennero pulite e dappertutto questi angeli di solidarietà assisterono con impegno e capacità feriti e malati. Feriti e curanti illustri A giugno la battaglia prese ad infuriare nei pressi del Gianicolo; le mura ed i caseggiati erano tenacemente tenuti dagli uomini del Generale Garibaldi, le perdite erano ingenti: 1500 caduti tra i difensori, qualche migliaio di feriti, più o meno gravi ( ne morirà il 9%) tra i combattenti e la popolazione cannoneggiata; i medici facevano miracoli, ma i mezzi erano quelli dell'epoca, le donne erano a dare un'utilissima mano. I Francesi con i loro abili sistemi d'attacco ebbero perdite notevolmente inferiori (2000 uomini complessivamente tra morti e feriti), prevalentemente per armi a tiro breve e per baionetta: Garibaldi aveva un parco d'artiglieria ben minore e con cannoni desueti; poi non compiva bombardamenti dissennati, come il nemico Oudinot. I Bersaglieri lombardi del colonnello Luciano Manara furono come gli Spartani di Leonida ed anche il loro Capo, ferito gravemente all'addome nella difesa di Villa Spada, ebbe a morire, nonostante le instancabili cure del dottor Pietro Ripari che sarà il Direttore di Sanità dei Mille di Garibaldi. Il volontario genovese Fig. 6 Goffredo Mameli, giovanissimo autore del nostro Inno Nazionale, seguì la sua sorte con una lunga agonia e sarà altrettanto Fig. 6 Pietro Ripari, Ufficiale amorevolmente curato ed assistito Medico che assisté il da un altro futuro capo medico morente, Luciano Manara (Fig. 7) garibaldino, Agostino Bertani. comandante dei Bersaglieri Lombardi Fig. 7 49 Fig. 8, 9 Agostino Bertani, medico militare che ebbe ad assistere l'agonizzante Goffredo Mameli ( a destra ) Fig. 8 Fig. 10 Margaret Fuller ed il suo assistito, il ferito convalescente Gerolamo Induno all'Ospedale Militare dell'Isola Tiberina Fig. 9 Il giovanissimo sottotenente ticinese Emilio Morosini, mortalmente ferito all'addome e fatto prigioniero dai Francesi sarà amorevolmente ed altrettanto vanamente curato dai Chirurghi militari nemici. Non erano ancora possibili le trasfusioni di sangue, non era conosciuta la terapia infusionale e l'assenza di antibiotici imponevano un tributo di morti inimmaginabile nei nostri tempi. Miglior fortuna avrà invece un giovane pittore, volontario lombardo, Gerolamo Induno che sarà assistito all'Ospedale dell'Isola Tiberina proprio dall'infermiera Margaret Fuller. Dopo la convalescenza l'Induno riprenderà il pennello ed i colori e sarà uno dei più grandi illustratori perenni dell'epopea risorgimentale. Bibliografia M. BRANDANI, P. CROCIANI, M. FIORENTINO: “L’Esercito Pontificio da Castelfidardo a Porta Pia - 1860 - 1870 - Uniformi, equipaggiamento, armamento“, INTERGEST, Milano 1976 STATO MAGGIORE ESERCITO “La Repubblica Romana” RIVISTA MILITARE Roma, 1982 RIVISTA MILITARE: “Gli eserciti italiani dagli stati preunitari all’Unità Nazionale“ Quaderno n°4, I. G. D. A., Novara 1984 50 Gli strumenti medico-chirurgici ai tempi di Magaret Fuller Ossoli Federica Anna Leda Dal Forno Arte, Ricerca, Restauro I conflitti, da sempre, non solo presentano uno scenario bellico e politico molto complesso, ma comportano altresì un’articolazione del servizio sanitario in rapporto alle accresciute necessità ed esigenze di soccorso del tutto peculiari all’evento e ai vari tipi di scontro armato. È triste doverlo constatare, ma proprio la guerra è stata molto spesso motivo di progresso in campo medico, sia per quanto riguarda le modalità di primo soccorso, sia in relazione a discipline quali la chirurgia, l’infettivologia, la tossicologia, l’igiene, l’alimentazione (del soldato)… una panoramica che, come possiamo vedere, coinvolge molte delle branche universitarie attuali.“La guerra è un’epidemia di traumi” disse il famoso chirurgo Nikolai Ivanovitch Pirogoff “padre fondatore” della Croce Rossa russa. Certo, esaminare tutti i problemi che un conflitto poteva comportare in campo sanitario ci è impossibile, in questa sede ci limiteremo a fornire pochi e semplici esempi di quello che poteva essere la strumentazione medico-chirurgica a disposizione di Margaret Fuller Ossoli nel periodo della Repubblica Romana (1849) e negli anni subito a seguire.All’epoca, la strumentazione medica veniva di volta in volta ideata dai chirurghi in relazione alle nuove esigenze di cura dei feriti ed in seguito realizzata da valenti artigiani. Molti sono i testi che ci riportano le illustrazioni e le funzioni di questi strumenti, da Paré a Diderot e D’Alembert o Panckoucke, tutte mostrano quanto 51 fosse fervida e abile la ricerca per l’innovazione dell’operazione chirurgica. Da un passato che vede la figura del chirurgo identificarsi con quella del barbiere , si giunge con la figura di Ambroise Paré in Francia e con Giovanni Alessandro Brambilla (1728 – 1800) in Italia e Austria a far assurgere la chirurgia a pari dignità rispetto alla medicina. L’atto chirurgico era tuttavia considerato sempre un “estrema ratio” e veniva intrapreso solamente nel caso in cui il paziente altrimenti sarebbe sicuramente morto. Siamo nell’era preantibiotica e un ottimo chirurgo era in grado si salvare solo il 10 – 20 % dei suoi operati. Ma rivolgiamo ora lo sguardo ai soli strumenti dell’epoca fra i più significativi che sono relazionabili alla cura delle ferite di guerra. La sonda di Nelaton Un classico strumento dell’epoca è la sonda cerca-proiettili di Nelaton con testa esploratrice in porcellana. Vi era infatti il problema dell’estrazione dalle ferite delle pallottole, quest’ultime erano infatti difficili da individuare una volta penetrate profondamente nei tessuti. Inserendo questa sonda nella ferita, quando la sfera di porcellana incontrava un ostacolo, veniva ruotata e sfregata sullo stesso, se l'oggetto ostruttivo era una pallottola di piombo, una volta estratto lo strumento, sulla porcellana era possibile rilevare tracce metalliche e quindi identificare la posizione del proiettile. Un esempio molto significativo dell’innovazione dovuta a questo strumento è l’episodio che vede Nelaton (1807-1873) accanto a Garibaldi, mentre si appresta a curare la ferita d’arma da fuoco riportata dall’Aspromonte nel 1862. Il proiettile ritenuto nella caviglia era introvabile: per 2 mesi ben 26 chirurghi si erano cimentati nella sua ricerca senza successo, Nelaton con la sua sonda munita di sfera in porcellana riuscì invece ad individuarla facilitando l'intervento di rimozione. Il problema dell’estrazione dei proiettili era comunque ben precedente all’avvento dei fucili a ripetizione, infatti, oltre ad una serie di diverse sonde e specilli, si era creata una particolare pinza per l’estrazione dei proiettili, i primi dei quali furono proprio delle palle d’archibugio. Dal rasoio al bisturi Come già annunciato, proprio per la coincidenza della figure 52 chirurgo-barbiere, il primo strumento utilizzato per le operazioni chirurgiche è il rasoio. Il bisturi nasce proprio da tale strumento modificato nell’affilatura della lama, ovvero, si crea un utensile con lama a doppio taglio che viene dapprincipio utilizzato per piccole incisioni cutanee o come lancetta per salasso. Con il tempo acquisisce varie forme e funzioni in rapporto al tipo di operazione da eseguire. Negli ospedali da campo quando i bisturi perdevano l'affilatura si tentava di rimediare con la pietra abrasiva contenuta nel suo astuccio in pelle. Questo da un'idea delle disastrose condizioni in cui il chirurgo doveva a volte operare. Le amputazioni Nei secoli passati le amputazioni erano interventi frequenti dato che anche una banale ferita ad un arto poteva infettarsi facilmente a causa delle precarie condizioni igieniche di allora. Dopo una prima medicazione locale, o alla peggio dopo una cauterizzazione, se non si riusciva ad arrestare l’infezione bisognava ricorrere all’amputazione. Dai coltelli per amputazione alle seghe chirurgiche, gli strumenti dedicati a questo genere di intervento diventarono sempre più vari e numerosi, alcuni presentavano l’impugnatura ed il dorso staccabile, altri erano dedicate agli arti o alle dita. Il Retrattore di Percy Pierre François Percy (1754-1825), chirurgo capo della Grande Armata di Napoleone, fu anche un abile progettista di strumenti chirurgici tanto da meritare numerosi premi dell’Accademia Reale di Chirurgia di Parigi e una lettera di elogio del nostro famoso chirurgo Giovanni Alessandro Brambilla. Il retrattore di Percy, pur con qualche modifica, è sostanzialmente usato ancora oggi; serviva negli interventi d'amputazione degli arti per separare l’osso dai tessuti molli circostanti; l’immagine mostra il suo uso. La cauterizzazione La cauterizzazione è stata per lungo tempo il solo mezzo conosciuto per bloccare le emorragie in genere o conseguenti alle amputazioni nonché per sanare l’insorgere di infezioni gravi; di norma veniva praticata con diversi tipi di ferri sagomati resi incandescenti ma a volte 53 si impiegava persino dell’olio bollente. Alcuni autori riportano delle immagini di questi strumenti nei loro libri: Ambroise Parè (1509-1590) nelle sue "Oeuvres" del 1585, Panckoucke nella propria “Encyclopédie” del 1784 ed in seguito molti altri. Esistevano quindi diversi ferri sagomati, ognuno specifico per un particolare tipo di ferita; questi strumenti non subirono grandi variazioni con il passare dei secoli rimanendo pressoché invariati. Vi erano differenti modelli di antichi cauterizzatori detti "bottone ardente", in francese "bouton de feu", utilizzati ampiamente per ogni forma di ferita; altri, più piccoli, denominati “pietra infernale” e con la punta in nitrato d’argento, erano impiegati per piccoli trattamenti cutanei e per toccature faringee nella difterite. Si deve ad Ambroise Paré l'idea di legare con un filo le arterie e le vene recise eliminando dove possibile il barbaro uso dei cauteri. Aghi e suture Intorno al 1850 gli aghi erano principalmente di due tipi: aghi ricurvi che passavano interamente attraverso i lembi della ferita conducendo con sé il filo di sutura e aghi “passafilo” che, dotati di manico, venivano solamente inseriti allo scopo di far appunto passare il filo da una parte all’altra del lembo di pelle per essere infine ritratti e reinseriti quante volte fosse necessario. I fili di sutura erano sempre di lana o di seta, molto spesso non sterilizzati per cui, se si sopravviveva all’operazione, inevitabilmente rimaneva sempre una cicatrice molto evidente. Pinze Emostatiche Verso il 1830 J. F. Charrière ed E. Koeberlé idearono delle pinze emostatiche autobloccanti, il blocco delle ganasce era ottenuto facendo scorrere un cursore a coda di rondine che agganciava la testa di un chiodo proveniente dalla branca inferiore. Le pinze emostatiche hanno dato un grande contributo alla chirurgia: oltre a ridurre le perdite di sangue, esse hanno permesso di avere un campo operatorio più pulito quindi una chirurgia più mirata e sicura. Evoluzione della chiusura delle pinze. Le pinze a braccia incrociate hanno subito notevoli cambiamenti: all’origine il chirurgo o il suo aiuto dovevano mantenere manualmente la chiusura della pinza con una pressione costante, a metà Ottocento invece, Jules Emile Péan ideò un incastro 54 che permetteva di ovviare a questo inconveniente mantenendo costante e autonomo il blocco delle ganasce. Ancora oggi le pinze emostatiche a forcipressione portano il suo nome.Evoluzione degli snodiCon l'avvento della sterilizzazione si è evidenziata l'importanza della pulizia degli strumenti, si è cercato quindi di aprire completamente le pinze e le forbici per eliminare eventuali residui rimasti all'interno dello snodo. Infatti il sangue che restava nel punto di giunzione delle due parti, oltre ad essere di per sé motivo di contaminazione ed infezione, era altresì causa di ossidazione per lo strumento che diveniva il possibile vettore di un morbo quale il tetano.L’anestesia agli esordiIl 16 ottobre 1846 il dott. Thomas Morton, noto odontoiatra statunitense, praticò per la prima volta un’anestesia generale in un intervento chirurgico per l’asportazione di un "tumore vascolare cervicale", segnando così la nascita della moderna anestesia. Il suo apparecchio consisteva in una sfera di vetro contenente una spugna imbevuta di etere e provvista di due aperture: una comunicava con l’esterno, l’altra era fornita di un tubo ed una maschera applicata al viso del paziente che respirava i vapori del liquido narcotizzante. Già da qualche anno si era sperimentata l’anestesia, quantomeno in campo odontoiatrico, tanto che la stessa Fuller nel 1847 fu sottoposta all’etere proprio per un intervento di questo tipo. La maschera di Thomas Skinner, di cui rimangono pochi esemplari, è la prima maschera a struttura metallica per etere ideata nel 1862. Una maschera usata sopratutto per il cloroformio fu invece progettata da Johann Friedrich August von Esmarch modificando la maschera di Skinner; fu dotata di una fiaschetta con dosatore, bombata su un lato e piatta dall'altro, progettata per essere facilmente inserita all'interno della maschera metallica al fine di essere più agevolmente trasportata. 55 Mario Bannoni Lettura di alcuni brani tratti dai dispacci della Fuller 27 maggio 1949: … per la prima volta, ho visto quel che soffrono gli uomini feriti. La notte del 30 aprile l’ho passata in ospedale e ho visto la terribile agonia di chi moriva o di chi doveva essere amputato: ho provato le loro sofferenze mentali e la mancanza dei cari lontani, dato che molti di questi erano Lombardi, venuti dai campi di Novara per combattere con maggior fortuna. Molti erano studenti dell’Università, … arruolatisi e … gettatisi nella prima linea di combattimento. … gli ospedali … sono stati messi in ordine, e vi ci sono stati mantenuti dalla Principessa Belgiojoso. 6 giugno 1849: … Le perdite dalla nostra parte sono di circa trecento uccisi e feriti; le loro devono essere maggiori. In una villa sono stati trovati settanta loro cadaveri. Trovo i feriti [italiani] all'ospedale al colmo dell’indignazione. I soldati francesi hanno combattuto così furiosamente, che li ritengono falsi come il loro generale e non possono sopportare il ricordo della loro visita, durante l’armistizio e i loro discorsi di fratellanza. …I francesi lanciano razzi in città: uno è scoppiato nel cortile dell'ospedale, appena ero arrivata lì ieri, allarmando molto i poveri sofferenti. 56 Le donne del 1848 Prof.ssa Ginevra Conti Odorisio ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università Roma 3, Dip.to Studi Internazionali Abstract: In questa breve relazione il mio intento è quello di illustrare, tramite alcuni esempi, la situazione delle donne nel 1848. Il caso dell’inglese Harriet Martineau e del suo viaggio in America dimostra la qualità della riflessione femminile in tema di democrazia e cittadinanza. Negli S.U. nel 1848 vi sarà la Dichiarazione dei Sentimenti con la quale si elencano le richieste femminili in tema di diritti e di eguaglianza politica e si traccia un programma per la politica dei vari movimenti in America ed Europa. In Francia durante la rivoluzione del 48, le donne ,convinte che l’avvento della Repubblica significasse l’eguaglianza dei diritti si giunse alla costituzione di un Comité des droits des femmes e le donne si impegnarono nella competizione elettorale. Jeanne Deroin fu la prima a candidarsi. In Italia l’esperienza della Repubblica romana vide l’impegno della Fuller e della Belgiojoso. E per terminare, vorrei accennare all’azione umanitaria di Jessie White Mario che, negli anni successivi, fu l’infermiera dei mille e operò in tutti i modi perché si giungesse alla convenzione di Ginevra del 1864 per riconoscere la neutralità dei feriti ed organizzare la loro assistenza. Il 1848 è stata sicuramente una data cruciale non solo per la storia europea ma anche per la storia delle donne. Negli Stati Uniti, nella Convention di Seneca Falls del 1848, venne approvata la 57 Dichiarazione dei Sentimenti nella quale si elencavano le richieste femminili in tema di diritti e di eguaglianza politica e si tracciava un programma per la politica dei vari movimenti ed associazioni femminili in America ed Europa1. La struttura della Dichiarazione, basata sul contrasto tra i principi affermati nella Costituzione americana del 1776 e le loro carenti applicazioni ricalcava lo schema proposto da Harriet Martineau in Society in America2. In Francia durante la rivoluzione del 48, le donne, convinte che l’avvento della Repubblica significasse l’eguaglianza dei diritti costituirono un Comité des droits des femmes e si impegnarono nella competizione elettorale. Jeanne Deroin fu la prima a candidarsi3. In Italia l’esperienza della Repubblica romana vide l’impegno di Margaret Fuller4, autrice di Woman in the Nineteenth Century e di Cristina di Belgiojoso, sulla quale sono appena usciti gli atti del Convegno tenuto all’Università di Roma Tre nel 20075. In questa mia relazione vorrei brevemente ricordare la figura di Jessie White Mario sottolineando il suo impegno umanitario nella cura dei feriti e la sua azione a favore della convenzione di Ginevra del 1864 per riconoscere la neutralità dei feriti ed organizzare la loro assistenza. Appartenente ad una famiglia inglese di costruttori navali, Jessie conobbe Garibaldi nel 1854 in occasione del suo primo viaggio in Italia, in compagnia dell’amica di famiglia Emma Roberts6. Allora ventitreenne, Jessie apprese da Garibaldi i particolari della difesa di Roma del 1848 e degli eventi successivi, la fuga, la morte di Anita. Durante le passeggiate sulla spiaggia di Nizza, il generale con il bastone “tracciava sulla sabbia la posizione degli assediati e degli assalitori, ricordando il nome di tutti i caduti e gli speciali atti di valore in una guerra in cui tutti furono eroi”7. Da questo momento il generale fece alla giovane inglese, così interessata alle vicende italiane e così determinata, una promessa: in caso di necessità l’avrebbe contattata e le avrebbe affidato il compito di curare i suoi feriti. Jessie prese molto sul serio questo impegno e, certa che l’occasione si sarebbe presentata ,di ritorno in Inghilterra, nel 1855 cercò di iscriversi ad una facoltà di medicina, ma scoprì che alle donne era proibito diventare medico8. Jessie non rinunciò peraltro ai suoi interessi e si avvicinò a Mazzini, allora in esilio a Londra, continuando a servire la causa italiana tenendo conferenze e curando la raccolta di fondi. Mazzini teneva in 58 gran conto le sua capacità giornalistiche e la sua forte determinazione politica. La riteneva seria ed energica e credo che sarebbe riuscita a fare più di venti uomini messi insieme. Mazzini non si sbagliava e le attribuì sempre compiti elevati ch’essa svolse con successo. In casa Stansfeld venne deciso che la White avrebbe dovuto tenere una serie di conferenze in Inghilterra e Scozia nell’aprile del 56-57. Non si trattava solo di conferenze e collaborazione intellettuale, ma anche di un coinvolgimento nella preparazione di insurrezioni, secondo il metodo mazziniano. Venne messa al corrente del progetto di Pisacane e la White collaborò attivamente alla raccolta di fondi per questa spedizione “e il denaro affluiva”9. Ai primi di maggio del ’57 la White, su suggerimento di Mazzini, dopo la fine delle conferenze che avevano contribuito ad aumentare il consenso e l’entusiasmo per la causa italiana, si recava a Genova. Qui conobbe Alberto Mario, un giovane veneto latore di una lettera di Mazzini che lo presentava come un intellettuale colto e raffinato, anche se un po’ scettico. Pisacane, prima di partire per la sua sfortunata missione, le aveva affidato il suo testamento politico perché lo traducesse e lo facesse pubblicare all’estero qualunque fosse stata la conclusione della sua impresa10. Fu in questa atmosfera di tensione angosciosa per l’esito della missione di Pisacane che Jessie e Alberto decisero di unire le loro vite. Com’è noto i fatti presero una piega tragica e l’unica consolazione di Jessie fu quella di aver avuto comunque il tempo di tradurre e spedire ai giornali inglesi il testamento di Pisacane. Un matrimonio il loro assolutamente unico, basato sull’indipendenza personale e il rispetto delle diverse opinioni reciproche. Mario ne accettò completamente l’impostazione, come lui stesso scrisse “La signorina White diventata signora Mario continuò nel culto dell’unitarismo e dell’dealismo di Mazzini: io rimasi fedele al federalismo e al positivismo di Cattaneo, e da questa varietà di pensieri e di studi, fiorita sulla medesimezza degli affetti e degli ideali, nacque l’armonia che dura da venticinque anni”11. Quello che è particolare negli scritti storici di Jessie White Mario, data anche la sua funzione , era l’attenzione particolare ai feriti, alle sofferenze provocate dai conflitti e al modo di porvi rimedio. Fu vicino a Garibaldi dopo il suo ferimento e gli tenne la mano mentre un medico fiorentino Zanetti estrasse la pallottola, dopo aver allargato la ferita con le sue pinzette. 59 Nel 1867 Garibaldi andò a trovare i coniugi Mario a Firenze e questa volte ricorse alle sue qualità di traduttrice consegnandole il suo romanzo Clelia perché lo traducesse in inglese12. Jessie accettò senza alcuna esitazione e si diede anche da fare per trovare un editore inglese. In settembre del 1867 andarono insieme al Congresso della pace a Ginevra al quale parteciparono anche Quinet, Leroux e Bakunin. Dove Garibaldi progettò la nuova spedizione a Roma. A Roma Jessie fu protagonista di una missione estremamente pericolosa affidatagli da Garibaldi quella di recuperare il cadavere di Enrico Cairoli e ottenere lo scambio tra il fratello ferito Giovanni con dei prigionieri papalini. In carrozza , munita di uno speciale lasciapassare, la White si diresse sulla via Nomentana da dove entrò a Roma. Entrare in questo modo nella città agognata da Mazzini e Garibaldi, occupata dai francesi, fu un spettacolo deprimente: “Voci francesi risuonavano da ogni dove con la prepotenza di chi parla da padrone”13. A Roma fu fatta prigioniera, mentre i francesi si preparavano ad attaccare i garibaldini. Al mattino seguente, quando le venne comunicato che poteva ritornare alla frontiera lo scontro si era risolto con la sconfitta dei garibaldini. Per Jessie Garibaldi dimostrò la sua vera grandezza quando, dopo la sconfitta di Sedan, si recò in Francia per sostenere il paese che aveva determinato la caduta della repubblica romana, che lo aveva sconfitto a Mentana e sostenuto il potere temporale dei Papi. Jessie lo raggiunse in Francia, questa volta sola, senza il marito Alberto, con l’incarico di corrispondente di guerra per l ‘ Herald Tribune” di New York. Ma anche qui Garibaldi le affidò il compito tradizionale e con un brevetto scritto di suo pugno Jessie fu nominata:”Ispettrice delle ambulanze sul campo di battaglia”. Ma le funzioni di Jessie erano in realtà molto più ampie ed oltre alla cura dei feriti Jessie si prestava a compiti di vivandiera , di cuoca, di traduttrice. Non un lamento usciva dalla penna di Jessie, nessuna recriminazione sulla follia umana, solo una precisa trascrizione dell’evento e piuttosto sottolineava il coraggio di quegli uomini, la loro abnegazione, il loro valore. La morte del chirurgo Ferrarsi che un momento prima galoppava accanto a Garibaldi e una palla lo trafisse penetrando attraverso una guancia e uscendo dietro la testa. “L’ultimo istante della battaglia egli galoppava verso la prima linea latore di un comando di Garibaldi e cadde morto compiendo così il massimo atto 60 del dovere, che fu sempre per lui guida della sua vita”14. A volte Jessie veniva presa dai ricordi del suo primo ospedale, quello di Milazzo quando lavorava insieme ai dottori Ripari e Stradivari e con l’infermiera Emilia Ginami. Oppure ricordava il ‘66 quando lavorava con Bertani “il chirurgo per eccellenza dei volontari, il quale aveva organizzato ospedali durante le barricate di Milano che furono poi ammirate da Radetzki e sotto il cannone francese a Roma e fu capo medico dei cacciatori delle Alpi in Lombardia”15. Ed era ancora Bertani a raccogliere i feriti sotto le scariche dei chassepots a Mentana. L’interesse della White per le cure ai feriti, per la storia dell’assistenza ai feriti durante le guerre, diede luogo anche negli anni seguenti ad una serie di articoli, di estremo interesse, non segnalati dalle biografie sulla White Mario, pubblicati sul “Frasers’s Magazine”. La White riprende molte delle cose già narrate nei libri precedenti ma ne approfondisce gli aspetti storici legati alla sua esperienza di infermiera. Esperienza particolare, perché non limitata, come nel caso della Nightinghale, all’assistenza dei feriti in ospedale, ma che si estendeva al campo di battaglia, al recupero dei feriti, al loro trasporto, all’uso della barella più adatta , alla ricerca del riparo, alle prime medicazioni o operazioni d’urgenza. Questi articoli intitolati Experience of Ambulances vennero pubblicati sul Fraser’s Magazine , nel 187716 e in questi scritti appare evidente quella sua profonda “sympathy per le sofferenze umane” che ne avevano determinato l’impegno umanitario fin dagli anni giovanili. Nella ricostruzione degli eventi storici ai quali aveva direttamente preso parte, la White Mario intendeva non solo di ricordare i protagonisti dei conflitti, le loro vite spesso brutalmente interrotte, il coraggio dimostrato, la forza d’animo, l’abnegazione di medici ed infermieri, ma anche sostenere la Convenzione Internazionale di Ginevra sulla neutralità dei feriti e delle persone impegnati nella loro assistenza. Secondo la White Mario potevano comprenderne l’utilità solo quanti avevano esperienza di feriti sui campi di battaglia. Il suo valore umanitario era incalcolabile e, dopo la sua esperienza durante la guerra franco-prussiana essa riteneva che bisognava giungere ad un insieme di regole per punire tutti coloro che avrebbero violato o non osservato la convenzione stessa. Esperta nella raccolta di fondi, la White Mario ricordava che questa istituzione umanitaria non godeva di finanziamenti pubblici ma dipendeva interamente dalle elargizioni 61 dei privati. Erano necessarie barelle, piccole ambulanze, muli, cavalli, chirurghi, dottori, infermiere, cibo portabile e dadi di brodo Leibig. Questi dadi Leibig ricorrono spesso nella sua storia: come donna la White Mario non faceva solo la corrispondente di guerra, l’infermiera, la traduttrice, ma spesso anche la vivandiera, la cuoca e il brodo ai feriti era una delle prime cure. Bisognava dunque prendere contatto con le autorità locali del territorio dove doveva essere organizzata l’assistenza ed era necessario possedere capacità diplomatiche e di mediazione in quanto occorreva una organizzazione centralizzata che non doveva entrare in conflitto con le autorità militari né con quelle civili. La White Mario ricordava l’impegno dimostrato dalle donne durante la guerra civile americana, un lavoro spesso taciuto e non storicizzato di fronte ad avvenimenti bellici più clamorosi. Esisteva una rete dei collegamenti tra Mr. Bellow, capo della U.S. Sanitary Commission e Presidente dell’ American Association for Relief of Misety of Battlefields ed Henry Dunant segretario del Comitato Internazionale europeo17. La White Mario riportava gli estremi della sua corrispondenza con Bellow al quale aveva scritto per avere informazioni precise e concrete su come si erano organizzate le donne americane, per poterlo trasmettere alle donne italiane e alle loro associazioni. In questo modo le donne potevano essere considerate come “yellowworkers-co-operators in the true sens of equality, of mutual liberty and fraternity”18. Dopo l’esempio di Florence Nightinghale, celebrata infermiera inglese durante la Guerra di Crimea, il sogno di tutte le donne americane era stato quello di fare le infermiere negli ospedali. Bellow ricordava che molte donne americane “si recarono al fronte per condividere le privazioni e la sofferenza dei soldati. …Alcune nell’impossibilità di fare diversamente, si vestirono da uomini e portavano il moschetto in alcuni casi per tutta la campagna”19. In seguito poi apparve chiaro che non tutte le donne potevano fare le infermiere, ma che la maggior parte di loro poteva essere utile in altro modo. “La prima cosa da dire alle donne italiane” concludeva Bellow “ è che poche possono essere utilizzate negli ospedali, solo quelle con esperienza, tatto e pazienza, ma che la maggior parte delle donne patriote può essere utilizzata per altre forme di servizio”: cucire abiti, lavorare a maglia, preparare i pasti per gli ospedali, inviare pacchi, raccogliere fondi e per infinite altre attività. Ma occorreva una precisa 62 organizzazione per coordinare tutte queste attività. La White Mario osservava infine la carenza di contributi storici sull’unità italiana , ed ancora di più sulla organizzazione del servizio sanitario volontario, sul quale esprimeva un lusinghiero giudizio. I volontari italiani – riteneva - erano sicuri di essere soccorsi e curati sui campi di battaglia meglio di qualsiasi altro soldato o volontario. Una storia del servizio sanitario volontario in Italia avrebbe potuta essere scritta solo dal dottor Agostino Bertani, ma la White Mario intendeva portare il suo contributo parlando delle sue esperienze personali come infermiera nelle guerre garibaldine. E, per concludere, ricorderò quanto la White Mario scrisse su Bertani durante l’assedio da parte dei francesi della repubblica romana. Bertani , durante l’assedio romano, occupava un posto modesto ma era sempre disponibile, nei vari ospedali che erano stato organizzati, dei Pellegrini, di Monte Citorio, al Quirinale, a S. Pietro in Montorio, a Santa Maria della Scala a collaborare con “quella nobile banda di donne” costituita da Anita Garibaldi, la principessa Cristina di Belgiojoso, Giulia Modena e Margaret Fuller Ossoli. “Una bomba cadde sull’ospedale dei Pellegrini mentre Bertani stava operando e fu la sua presenza di spirito che calmò il terrore ed impedì che i feriti corressero all’aperto”20. Spesso la White Mario racconta episodi sconosciuti o dimenticati, relativi alla sorte dei feriti, dei morti, dei loro soccorritori. Dopo l’ingresso dei francesi a Roma gli assediati fecero un ultimo disperato assalto “ desiderosi soltanto di unire le loro ceneri a quelle degli altri 4.000 difensori caduti per Roma”21 e Manara cadde, non ancora trentenne, tra le braccia di Agostino Bertani che per restituire il corpo alla vedova e al figlio decise di imbalsamarlo. Senza arsenico, senza sostanze bituminose o aromatiche, avendo a disposizione solo il bi-cloruro di mercurio ed uno strumento per semplici iniezioni, l’operatore assorbì il veleno dai pori della pelle e per un mese stette così male che, dopo l’ingresso dei francesi , Bertani non seppe se sarebbe stato in grado I usufruire del salvacondotto procuratogli da un chirurgo militare corso. La White Mario credeva che la Convenzione di Ginevra avrebbe alleviato molte sofferenze. Questa autorizzava i combattenti a prelevare i propri feriti e a trasportarli, se possibile, nei propri ospedali. 63 Ma tutti gli altri, quelli che non potevano essere trasportati, potevano essere curati negli ospedali e dai medici chirurghi nemici. La Prof.ssa Conti Odorisio ha scritto libri sul pensiero politico di Bodin, Locke e Hobbes. Il suo libro su Bodin è stato tradotto nel 2008 in francese presso l'Harmattan. Ha scritto “Harriet Martineau e Tocqueville: due letture diverse della democrazia” americana, Rubbettino 2003, e da questo libro è stato tratto un articolo pubblicato su "The Tocqueville Review". 1 È stata la prima docente ad insegnare “Storia della questione femminile”, tema sul quale ha pubblicato numerosi libri , tra i quali la recente antologia “Per Filo e per Segno”, Giappichelli 2008, coautrice la Prof.ssa Fiorenza Taricone. Vedi il testo in G. Conti Odorisio-F. Taricone, Per filo e per segno. Antologia di testi politici sulla questione femminile dal XVII al XIX secolo, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 211-216. 2 Vedere G.Conti Odorisio, H. Martineau e Tocqueville: due diverse interpretazioni della democrazia americana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 3 M. Riot-Sarcey, Les femmes de 1848 en France ou la singularité de l’universalité française, in Cristina di Belgiojoso: politica e cultura nell’Europa dell’ottocento a cura di G. Conti Odorisio, C. Giorcelli, G. Monsagrati, Napoli, Loffredo, 2010, pp.123-145. 4 Sulla Fuller non è il caso di dare qui una bibliografia. Oltre al volume di C. Giorcelli, segna- lo il recente contributo di Christine Stansell, The Feminist Promise, New York, The Modern Library, 2010. 5 G. Conti Odorisio-C. Giorcelli-G. Monsagrati (a cura di), Cristina di Belgiojoso: politica e cultura nell’Europa dell’ottocento, Napoli, Loffredo, 2010. 6 Su J. White cfr. E.A.Daniels, Posseduta dall’angelo. Jessie White Mario la rivoluzionaria del Risorgimento, Milano, Lursia, 1977 e R. Certini, Jessie White Mario una giornalista educatrice tra liberalismo inglese e democrazia italiana, Firenze, Le Lettere, 1998. 7 64 J. White Mario, Vita di Garibaldi, Milano, Treves, 1882, p. 160. 8 La prima donna medico fu Elizabeth Blackwell (1826-1910), cfr.L. Mazenod-G. Schoeller, Dictionnaire des femmes célèbres, Paris, Laffont, 1992, pp.96-97. 9 IWM, Della vita di A. Mario in Scritti artistici e letterari di Alberto Mario a cura di G. Carducci, Bologna, Zanichelli, 1884, ., p. XLV. 10 Ivi, p. LIV. 11 Ivi, p. LXXIX. 12 Ivi, p.375. 13 Ivi, p.423. 14 Ivi, p. 536. 15 Ivi, p.60. A Bertani la White dedicherà una biografia: A. Bertani e i suoi tempi, Barbera, Firenze, 1888, 2 voll. 16 Jessie White Mario, Experience of Ambulances, Fraser’s Magazine I, June 1877, pp. 768- 785; II, July 1877, pp. 54-74; III, August 1877, pp. 247-266. 17 F. Giampiccoli, Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa, Torino, Claudiana, 2009 e L. Firpo (a cura di ), Henry Dunant e le origini della Croce Rossa, Torino, UTET, 1979. 18 White Mario, Experience of Ambulances cit., I, p. 771. 19 Idem. 20 J. White Mario, Experience cit., I, p. 775. 21 Idem. 65 Mario Bannoni Da un dispaccio di Margeret Fuller Ossoli Oh uomini e donne d'America ...Vedo che avete riunioni, dove parlate degli italiani, degli ungheresi. Vi prego fate qualcosa; fate che (tutto) non finisca con una semplice invocazione sentimentale. Questo è (certamente) meglio delle ridicolizzazioni di tutto ciò che è liberale, come fanno gli inglesi - i quali parlano delle sante vittime del patriottismo come "anarchici" e "briganti" -, ma non basta. Non dovete mettervi in pace la coscienza. Siate riconoscenti verso il Cielo per i privilegi che ha sparso su di voi, per ottenere i quali molti qui soffrono e muoiono ogni giorno! Meritatevi di mantenerli, aiutando i vostri compagni a raggiungerli. Il nostro governo non può interferire, ma l'azione privata è possibile, è dovuta! Per l'Italia, in questo momento, è troppo tardi, ma tutto ciò che aiuta l'Ungheria aiuta qui pure .... Inviate denaro, inviate incoraggiamenti, riconoscete come legittimi capi e governanti quegli uomini che rappresentano il popolo, che capiscono i loro bisogni, che sono pronti a morire o vivere per il loro bene. Kossuth non lo conosco, ma la sua gente lo riconosce; Manin non lo conosco, ma con quale ferma nobiltà, con quale premurosa virtù, egli ha agito per Venezia! Di Mazzini conosco l'uomo e le azioni, grande, puro, e tenace: un uomo a cui solo il futuro potrà fare giustizia, in quanto raccoglierà i frutti di quel che ha seminato oggi. Amici, concittadini e amanti della virtù, amanti della libertà, amanti della verità! State all'erta; non riposate ... nelle vostre facili esistenze... 66 Il Patriottismo femminile nel Risorgimento Prof.ssa Fiorenza Taricone Università di Cassino Abstract: Le antologie patriottiche dell’Ottocento decantano spesso gli sforzi di quante si erano rese benemerite nella causa del risorgimento nazionale; il risalto maggiore tuttavia viene dato alle "madri eroiche", quelle che avevano offerto i figli alla Patria, esortandoli a difenderla e a combattere. In un secolo in cui bisognava, oltre all’Italia, "fare gl’italiani", i cataloghi sono affollati da una vera pletora di donne-mogli e donne-madri, tutte fermamente nutrite di alti ideali. Nei decenni che vedono l’unità d’Italia e la preparano, la donna è impegnata a sacrificare senza remore i figli alla Patria, a curare i feriti, viva essa in una villa o sia contadina, di cui non è rimasto il nome, a cui gli austriaci squarciarono il ventre. Il tipo d’azione a cui era chiamata si può definire "a latere", occorrendo nella guerra, come recitava un’espressione dell’epoca, "sia il generale che la sentinella"; ed effettivamente la gamma dei suoi interventi è stata eterogenea: "giardiniera", seguace del Mazzini, procacciatrice di danaro per le cartelle del prestito sempre Mazziniano, conversatrice apparentemente disimpegnata nei salotti, vere fucine di idee e progetti insurrezionali, nonché luoghi di reperimento e aggiornamento di notizie, realizzatrice di coccarde e divise tricolori, improvvisatrice di pubbliche proteste e manifestazioni contro "l’asservimento allo straniero", staffetta nei momenti cruciali, infermiera sempre presente dopo i fallimenti dei primi moti insurrezionali e le guerre d’indipendenza, sobillatrice attraverso scritti, opuscoli, pamphlets e tanto altro ancora.Il dubbio non è certo quindi relativo alla sua presenza più o meno attiva nel risorgimento 67 nazionale (comprese quelle che osteggiavano il processo, le reazionarie, le aristocratiche, e perfino le brigantesse), ma alle lacune storiografiche in tal senso. Manca ancora una in realtà una ricerca sistematica approfondita che riunisca, analizzi e metta complessivamente in evidenza il ruolo femminile nel risorgimento. Nei loro confronti già Vittorio Cian circa cinquant’anni fa, aveva coniato il termine “femminismo patriottico”: Bisogna che noi signori uomini abbiamo coraggio di confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle nostre abitudini di maschi sopraffattori, nello scrivere la storia abbiamo fatto e continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone; abbiamo finito cioè con lo scriverlo un po’ ad usum non delphini, ma viri, dell’uomo cioè quasi del solo ed unico attore di essa. Bisogna che abbiamo pure il coraggio di rivederla questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto più si estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento, più vediamo balzar fuori numerose figure di donne...perciò è tutta un’opera di giustizia storica distributiva". Modelli femminili: tanti e diversi Gli elenchi di celebrità femminili italiane dell’Ottocento, sorta di "cataloghi" in cui sono appaiate, in modo anche eterogeneo, donne di diversissima formazione, età, provenienza, ideali politici, e ambiti operativi, sono pressoché tutti ispirati, come è facile supporre, all’esaltazione degli eroismi che produsse il connubio donna-patria1. Spesso caratterizzate da un marcato tono apologetico, queste antologie patriottiche decantano, con una certa monotonia di accenti, gli sforzi di quante si erano rese benemerite nella causa del risorgimento nazionale; il risalto maggiore tuttavia viene dato alle "madri eroiche", quelle che avevano “offerto” i figli alla Patria, esortandoli a difenderla e a combattere. Come genere letterario, il catalogo risente direttamente dell’epoca in cui è concepito, in una parola ne riflette le esigenze ed è funzionale, o volutamente disfunzionale all’epoca stessa; in un secolo quindi in cui bisognava, oltre all’Italia, "fare gl’italiani", i cataloghi sono affollati da una vera pletora di donne-mogli e donnemadri, tutte fermamente nutrite di alti ideali. Non si mirava più, come nei cataloghi settecenteschi a scovare donne d’eccezione nella storia 68 affinchè, dimostrando come fossero numericamente non trascurabili, si capovolgesse l’eccezione stessa in regola, ma ad additare alle future generazioni donne-prototipo già costituenti una regola, aventi qualità morali di sostegno, all’uomo, al padre, al fratello. Nei decenni che vedono l’unità d’Italia e la preparano, la donna è impegnata non a studiare restando nubile, come la femme savante settecentesca, ma a sacrificare senza remore i figli alla Patria, a curare i feriti, a contribuire con i propri mezzi morali o materiali, vivano esse in una villa come le nobili lombarde precorritrici della Croce Rossa, o siano semplici contadine, di cui non è rimasto il nome, a cui, come si legge, “gli austriaci squarciarono il ventre”. Il tipo d’azione a cui erano chiamate, si può definire "a latere", occorrendo nella guerra, come recitava un’espressione dell’epoca, "sia il generale che la sentinella"; ed effettivamente la gamma degli interventi si dimostrò svariatissima: "giardiniera", seguace del Mazzini, procacciatrice di danaro per le cartelle del prestito sempre mazziniano, conversatrice apparentemente disimpegnata nei salotti, vere fucine di idee e progetti insurrezionali, nonché luoghi di reperimento e aggiornamento notizie, realizzatrice di coccarde e divise tricolori, improvvisatrice di pubbliche proteste e manifestazioni contro "l’asservimento allo straniero", staffetta nei momenti cruciali, infermiera sempre presente dopo i fallimenti dei primi moti insurrezionali e le guerre d’indipendenza, sobillatrice attraverso scritti, opuscoli, pamphlets e tante altre cose ancora. Nel corso della prima guerra mondiale, nei libri, nelle conferenze per le scuole, le "eroine risorgimentali" erano un tema familiare e discusso, naturalmente per creare un ponte ideale e di riferimento con gli analoghi atti di eroismo delle patriote del conflitto mondiale. È una femminilità "eroica" quella espressa dalle protagoniste del Risorgimento, e "poiché ogni più diverso carattere tra esse è espresso, vedremo la sognatrice esperta nell’opera della cospirazione, cui adempie con mite spirito fedele e quella che alla propaganda d’italianità dedica- splendida avventuriera- una multiforme talvolta fantastica attività, la guerriera ardimentosa, rinato spirito spartano, indivisibile dal suo duce o dal suo compagno, tenace nel suo odio contro lo straniero; la madre eroica che offre i figlioli al martirio o alla vittoria,l’anima ardente di sacrificio e di carità, prodiga di cure ai feriti sul campo; la provvidente che appresta ogni aiuto ai cospiratori e ai 69 combattenti, l’aristocratica e la popolana, la scrittrice e l’incolta...”2. Le testimonianze del 1848 hanno tramandato la memoria di un forte coinvolgimento delle donne nelle rivolte contro l’Austria e nelle esperienze repubblicane che ne seguirono: "popolane" sono sulle barricate di Milano e di Brescia a combattere e a soccorrere i feriti, "signore" formano gruppi e comitati di assistenza e lavorano attivamente alla raccolta di offerte di ogni genere per proseguire la guerra. A Roma la pubblicazione, tra l’aprile e il novembre 1848, di un giornale unico nel panorama nazionale, dal significativo titolo “La donna italiana” attesta come le donne fossero considerate parte integrante, o comunque necessaria, di quella comunità nazionale faticosamente in costruzione. Il giornale, diretto da Cesare Bordiga, cui collaboravano uomini e donne di ogni parte d’Italia, dedica un’attenzione particolare all’educazione patriottica delle donne italiane e le sollecita a farsi parte attiva nella lotta contro l’Austria, non solo incoraggiando gli uomini a combattere per l’indipendenza italiana ma collaborando attivamente con loro. Nei numerosi racconti edificanti e componimenti poetici di sapore manzoniano s’incitano le donne a dare ampie dimostrazioni di amor patrio, a sacrificare ricchezze e affetti: "Noi siam donne, ma pure nel petto / Ferve amore da patria, di gloria / Noi siam donne, ma santa memoria / Di Camilla e di Clelia serbiam… Oh!Si rechin le gemme, i monili / Alla patria che aita dimanda / Per vil oro, ne avremo ghirlanda / Di splendore, di gloria immortal”3. Fin dai primi numeri del giornale, si susseguono appelli e resoconti che segnalano gli atti di generosità delle donne italiane per la causa dell’indipendenza, oltre che le notizie della raccolta di fasce e medicinali per i combattenti della Lombardia e del Veneto. Un gruppo di donne venete, Antonietta Del Cerè Benvenuti, Teresa Mosconi Papadopoli ed Elisabetta Michel Giustinian promuove la costituzione all’interno della guardia civica veneziana di un battaglione di donne: “Ufficio delle cittadine inscritte in questo battaglione deve essere di curare i militi che cadessero feriti, preparare le cartucce e fare quant’altro la carità di patria può domandare da noi”; è considerato comunque un ruolo non facile, a rischio di pericolose contaminazioni se ci si premura di precisare che “il battaglione” che sarà posto sotto gli ordini di un apposito capo, eletto dal Comandante generale, adempierà la sua missione evitando qualunque comparsa in pubblico”4. Comparsa che invece le donne non sempre eviteranno, nel corso 70 degli eventi, se si segnalano le gesta eroiche di Luigia Battistotti, combattente sulle barricate milanesi, o l’ardore di Cristina di Belgiojoso che recluta e conduce i volontari napoletani in Lombardia, di Isabella Luzzatti, Carolina Percoto, Giulia Modena, che sono sui campi di battaglia del Veneto e addirittura si mettono alla testa di centinaia di "crociati"5, come vengono definiti i volontari combattenti della "santa" guerra contro lo straniero. Ai ripetuti messaggi che mirano a conquistare le donne alla causa dell’indipendenza italiana e a un movimento patriottico che, in nome della madre Italia, affratelli tra loro tutti i popoli oppressi d’Italia e le donne agli uomini, rispondono tutte coloro che ovunque in Italia, prendono parte attiva alle rivoluzioni. Tant’è che il termine stesso di "partecipazione" appare insufficiente a connotare l’esperienza femminile e rischia di essere ancora una volta una "formula che presenta le donne come ospiti occasionali in una storia non loro dove la normalità e la norma è l’azione degli uomini: partecipare non equivale a far parte, anzi marca il divario fra appartenenza e convergenza momentanea”6. La presenza delle donne non fu solo quantitativamente rilevante in questa fase che fu un momento cardine del processo di unificazione ma produsse significati ben oltre il 1848 e il compimento stesso dell’unità. In questa fase le donne, lungi dal restare escluse, sono chiamate in causa attraversi il legame familiare, in quanto madri, figli, consorti di patrioti, ma anche come sorelle in quanto figlie della stessa madre Italia, e dunque come patriote esse stesse secondo una interpretazione estensiva e di genere dell’idea di fratellanza. E tuttavia la natura del patriottismo femminile contemplava precisi ruoli nei quali le donne erano chiamate a dare il loro contributo alla causa italiana: se un legame fraterno univa le loro sorti a quelle dei loro uomini non per questo erano uguali e dunque “il completamento della rete parentale con l’inclusione delle donne era giocato all’interno di una chiara distribuzione di ruoli genere specifici”7. Delle donne romane, cui pure non manca di rivolgersi “La donna italiana”, il giornale lascia trasparire un’immagine contraddittoria, come di un universo ancora poco sensibile al richiamo della patria, generose nello spogliarsi di quelle gemme di cui andavano altere nei giorni della servitù, ma poco proclivi a dare pubblica dimostrazione del loro patriottismo; d’altronde “non è ufficio delle donne il gridare nelle piazze e prorompere in eccessi di una gioia smodata”. 71 È sempre lo stesso direttore del giornale, Cesare Bordiga, che si sente in dovere di rispondere con toni sarcastici alle critiche che vengono mosse alle donne romane accusate di scarsa sensibilità verso i combattenti: “Cosa mai giova che le romane abbiano fatto dono alla patria dei loro monili, del loro oro? Per empire la cassa nazionale esse erano invece in dovere di regalare filacce”. Il dubbio non è certo quindi relativo alla sua presenza più o meno attiva nel Risorgimento nazionale (comprese quelle che osteggiavano il processo, le reazionarie, le aristocratiche, e perfino le brigantesse), ma alle lacune storiografiche in tal senso. Mancano ancora infatti ricerche sistematiche di ampio respiro che riuniscano, analizzino e mettano complessivamente in evidenza il ruolo femminile nel Risorgimento. Nei loro confronti già Vittorio Cian, nel 1930, aveva coniato il termine “femminismo patriottico”: Bisogna che noi signori uomini abbiamo coraggio di confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle nostre abitudini di maschi sopraffattori, nello scrivere la storia abbiamo fatto e continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone; abbiamo finito cioè con lo scriverlo un po’ ad usum non delphini, ma viri, dell’uomo cioè quasi del solo ed unico attore di essa. Bisogna che abbiamo pure il coraggio di rivederla questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto più si estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento, più vediamo balzar fuori numerose figure di donne...perciò è tutta un’opera di giustizia storica distributiva". Anche Atto Vanucci, memorialista del Risorgimento, mostrò d’averne coscienza, giunto alla quinta edizione della sua classica opera. Rilevava che non gli uomini soltanto affrontarono le ire feroci dei despoti e che "anche il sesso che chiamiamo debole sfidò prigioni e torture, anche le donne salirono impavide sul patibolo del tiranno e caddero olocausti della causa del vero...Numerose già alla fine del 1833 le nuove Ginevre d’Italia, a partire dalla fine del XVIII secolo, cioè agli albori dei Risorgimento diventano legione quando ci si spinga alla fase ultima e conclusiva di esso che comprende la guerra. E dacché la statistica non dev’essere un’opinione, riconosco che le centinaia di nomi femminili, più o meno illustri, finora venuti alla luce, sono una piccola minoranza in confronto alle migliaia di martiri e combattenti. E sarà atto non di generosità, ma di giustizia da parte dell’uomo il riconoscere che all’inferiorità numerica o quantitativa è 72 grande compenso la qualità dell’azione femminile"8. La distinzione tra un "martirologio" maschile ed uno femminile è semmai da rintracciare unicamente nel fatto che quest’ultimo è fatto di "riserbo, di soavità fuggitive, di silenzi, di rinunzie, ma non per questo è una passività trascurabile"9. Per di più, non sono poche quelle che potrebbero definirsi secondo V. Cian, eccezioni: "cioè le forme donnesche di eroismo virile, tali da implicare quella resistenza anche fisica e quell’audacia e violenza d’impeti che si considerava prerogativa dell’uomo"10. Accanto a figure note come Eleonora Pimentel Fonseca, e Luisa Sanfelice, Cian pone non a caso la descrizione di una donna definita genericamente "vecchia madre” quasi a simboleggiare la diffusione del sentimento d’italianità, senza bisogno di generalità precise; quella donna di Città Sant’Angelo che rispon¬de ai borbonici: “Io non posso andare appresso agli uccelli che volano, io non so dove sia mio figlio e se lo sapessi, lo rimetterei piuttosto nelle mie viscere che svelarlo a voi”. Figure emblematiche sono citate in rappresentanza di un’intera moltitudine, e il nodo centrale rimane quello di una conoscenza approssimata del tutto incerta sui contorni di questa moltitudine. La "rimozione del femminile" è evidente ad esempio in uno dei personaggi più singolari dell’epopea risorgimentale, definita di volta in volta megalomane, strana, incoerente, ardita, ma quasi mai pensatrice politica, quale fu, e benefattrice innovativa,poliglotta, viaggiatrice coraggiosa: Cristina di Belgiojoso. Insolito comunque uno dei documenti firmati di suo pugno che fungevano da brevetti di nomina, intestato nel modo seguente: Spedizione napoletana per l'Alta Italia Divisione Begioioso: Noi Cristina Trivulzio Principessa di Belgiojoso avendo inteso il voto generale dei nostri amat-issimi giovani che vengono con noi alla difesa della Patria, confermiamo col grado di Aiutante Maggiore il sig. don Giuseppe Del Balzo e come tale lo riconfermiamo. Ma la sua attività patriottica e il prezzo che ne derivò sono al di sopra di ogni ironia; i sequestri con cui l’Austria colpì i suoi beni al punto da ridurla a vivere di attività precarie all'estero, fanno il paio con la motivazione di quegli stessi sequestri spiegata per esteso negli archivi della polizia austriaca; Cristina era definita molto fanatica, in contatto epistolare con i radicali del Canton Ticino; una volta esule a Parigi tentava "i più decisivi passi per favorire la causa italiana. 73 Successa la rivoluzione, assoldò proletari (forse un lapsus per volontari n.d.r.) che personalmente condusse a Milano. Dopo il reingresso delle truppe, invocò l’aiuto dello straniero, ma tornati vani i suoi sforzi, andò vagando per la Grecia e la Turchia ritirandosi dalla scena politica”11. Accorse alla difesa di Roma nel ‘49 e diresse gli ospedali assistendo personalmente Nino Bixio e Goffredo Mameli; l’Hanotaux uno dei frequentatori del suo salotto parigino, scrisse che nessuno più della Belgiojoso aveva operato "pour la propagation de l’idée italiénne". Accanto a queste figure elitarie per privilegi di nascita e formazione culturale, agivano anche, realmente e concretamente, le combattenti delle Cinque Giornate di Milano. Nei Souvenir historique della marchesa Costanza D’Azeglio si ricorda la partecipazione femminile nelle forme più svariate: “con il gettar giù dalle finestre gli austriaci, con l’olio bollente, col vetriolo”. Altre “tiraient le pistolet, oppure si servivano "de cruches de grés" (letteralmente bocche di arenaria n.d.r.) a guisa di bombe"12. Fra le protagoniste delle Cinque Giornate, Luigia Battistotti, la quale, giovanissima e sposata da poco, si avventò contro un croato e strappatagli la pistola, intimò agli altri cinque di arrendersi; abbandonato l’abbigliamento femminile per prendere posto tra i fucilieri volontari, combatté per tutte le fatidiche cinque giornate. “Instancabile nel ferire, nell’incoraggiare alla pugna, nel correre a prestare soccorso di viveri a quelli che, chiusi dal nemico, correvano il rischio di morire di fame"13. La Battistotti, detta "la brunetta di Borgo Santa Croce" e le altre milanesi hanno il loro equivalente, se così si può dire, nelle combattenti bresciane. Fra le valorose delle Dieci Giornate troviamo il nome di Anna Rogna Contini, che nella notte del 23 marzo 1848, sbalzata dal letto da una cannonata austriaca che aveva fatto crollare le pareti della camera, seguì il marito sulle barricate, armata di fucile notte e giorno. È la stessa popolana che, ritornata poi nella casa in rovina e sorpresovi un croato nell’atto di razziare, lo afferrò gridandogli: Vattene! Le bresciane non uccidono inermi, cacciandolo giù per le scale. Vincenza Ausmini Tondi unì capacità militari a doti diplomatiche. Nata nel 1829, si sposò quattordicenne; nel 1849, il marito, liberale, fu imprigionato per attività cospirative e la Tondi si trovò da sola a tenere le fila del movimento liberale viterbese. Nel ’59 assolse il diffi74 cile compito di mandare in porto un plebiscito segre-to della città e provincia per decretare l’annessione. Alla fine del '60, subì la carcerazione prima e poi lo "sfratto"dal territorio pontificio; raggiunto il marito a Orvieto, continuò a lottare con lui e militarono insieme nei Cacciatori del Tevere. Non mancarono, come in ogni epoca, travestitismi di vario tipo; da quelli meno evidenti come Giuseppina Lazzeroni, milanese, che "vestita di un corsaletto con pugnale e pistola alla cintura, si fa onore fra i concittadini che combattevano gli austriaci a fianco di un fratello"14. A quello meditato e progettato di Erminia Mannelli, fiorentina: "visto tornar malato dal campo il fratello cui somiglia perfettamente, sta in forse appena pochi dì, poi segue risoluta la sua ispirazione, si veste degli abiti di lui, diserta la sua casa, va a costituirsi al reggimento e così bene si diporta nelle marce ed al fuoco che nessuno si accorge della sostituzione. Ferita a morte e reso così palese l’essere suo...ella viene trasportata nella sua casa a Firenze dove muore"15. Il contagio degli ideali garibaldini Le spedizioni e le gesta di Garibaldi suscitarono ampi consensi femminili che si concretizzarono, se non in arruolamenti veri e propri, in una volontaria offerta dei più svariati servizi da parte delle donne. Le più numerose erano naturalmente coloro che erano sposate ad ufficiali o a semplici soldati delle spedizioni garibaldine, come Anna Galletti de Cadilhac, moglie dell’ufficiale Bartolomeo Galletti. Nel 1848 promosse una riuscita manifestazione di donne romane; organizzò feste a favore degli ospedali, dei soldati, e degli asili d’infanzia; era particolarmente sollecita nell’assistere i feriti, meritandosi da Garibaldi l’appellativo di angelo degli ospedali, mentre il popolo l’aveva ribattezzata "la bella Roma". Rosa Strozzi, nata a Roma nel 1830, diventata moglie del capitano garibaldino Vincenzo Santini, quando Oudinot ruppe le trattative diplomatiche con Roma e Garibaldi assunse la difesa della città, decise di non abbandonare neanche temporaneamente le fila garibaldine, neppure quando il marito cadde a S. Pancrazio. Seguì Garibaldi anche in Sicilia e si guadagnò una medaglia al valore. Prese parte alla campagna del Trentino e fu presente a Mentana; ritiratasi a vita privata si dedicò ad attività benefiche e morì nel 1888. Baldovina Vestri, popolana nata a Siena nel 1842, chiese perso75 nalmente a Garibaldi di adibirla alle cure dei soldati. Si rese utile assolvendo ogni tipo di mansione: dallo strigliare i cavalli, al rancio, curare i feriti. Si avvicinava fino alle file nemiche per prendere acqua, raccogliere erbe medicamentose e trascinare via i caduti. Si spense alla tarda età di novant’anni. Se in questa sede ometteremo di parlare delle "madri eroiche" e offrirono i loro figli e le loro sofferenze alla patria, come la citatissima Adelaide Bono Cairoli, non è possibile tralasciare per il grande impatto sull’immaginario collettivo la figura di Anita Garibaldi. Infatti, se alle patriote del Risorgimento è stata resa finora una parziale giustizia, alla sua figura è toccata invece una sorte più benigna; non completamente oscurato dalle gesta di Garibaldi, il personaggio Anita è entrato in un alone mitico, di grande dinamismo, insieme alle sue doti di combattività e tenacia, non disgiunte da una serie di caratteristiche prettamente femminili, come il sentimento che la univa all’eroe dei due mondi; o come la sua stessa immagine fisica, non legata ad un travestitismo maschile, ma a noi tramandata come tipicam-ente femminile: vesti ampie, capigliatura abbondante, gesti che sono insieme coraggiosi e pudichi, incisivi e morbidi. Narra di lei Garibaldi che "i primi anni della sua vita assomigliano a quelli di qualsiasi fanciulla di natura vivace e pudica, cresciuta all’ombra della famiglia; accompagnava volentieri il padre alla caccia, ma nulla poteva far supporre in lei degli istinti battaglieri"16. Nel 1829, Garibaldi, uscito dalla laguna con tre navi corsare per attaccare gli Imperiali sulle coste del Brasile, ebbe modo per la prima volta di apprezzarne il coraggio, in una delle versioni che descrivono la loro conoscenza. Pregata da lui di scendere sulla costa dove senza pericolo avrebbe potuto rimanere spettatrice del conflitto, rispose coll’impugnare una spada e incoraggiare al combattimento, ritta sul cassero. Il vento che soffiava favorevolmente al nemico dava modo di bordeggiare e cannoneggiare la piccola flotta repubblicana. Uscita illesa da una cannonata, gridò a Garibaldi di snidare i codardi che si nascondevano, andando lei stessa a colpirli con la sciabola. "Stupenda di coraggio Anita si dimostrò anche in un altro combattimento navale, che riuscì forse ancora più sanguinoso dell'altro. Somigliava in quel giorno – narra Garibaldi - alla dea delle battaglie. Dopo aver distribuito le armi dell’abbordaggio, si pose al cannone. Reso questo inutilizzabile, "diede mano al moschetto e non cessò di 76 sparare fin quando vide i nemici, né sbarcare, né approfittare dei ripari, ritta e tutta esposta al fulminare tremendo del fuoco nemico". Prodigi di valore - narra sempre Garibaldi- rinnovò nel combattimento terrestre di Coritilani. Le sorti della battaglia erano sfavorevoli per i repubblicani. Garibaldi era rimasto con soli 73 uomini di fanteria, attorniati da 500 uomini della cavalleria nemica. "Anita doveva provare in quel giorno le avverse ed amare peripezie della guerra. Non sapendo adattarsi al semplice ruolo di spettatrice, essa sollecitava la marcia delle munizioni e a questo scopo si avvicinava alla principale scena del combattimento, quando un nugolo di cavalieri nemici, inseguendo alcuni fuggitivi s’avventarono sui custodi del treno. Anita, franco cavaliere, avrebbe potuto agevolmente fuggire e lasciare uno spazio tra sé ed i nemici incalzanti, ma, inaccessibile alla paura, non volle il cavallo se non quando si trovò avviluppata da una frotta di nemici. Così circondata, spiccò uno slancio e forse si sarebbe salvata se il cavallo non fosse caduto morto. Invece dovette arrendersi e fu fatta prigioniera". Al combattimento navale di Santa Caterina accende lei stessa la miccia al cannone; altrove, diventa pressoché l’unica infermiera dei soldati e guida la scorta delle munizioni. Impara di fatto sul campo tutto ciò che è utile nelle battaglie: le tecniche per coprire Garibaldi, ad avere dimestichezza col moschetto, a "bracciare" una vela, a cavalcare nelle marce, a caricare nelle mischie, a passare la notte nei bivacchi, "a durar nelle veglie come un veterano, a disprezzare le delicatezze, a dissimulare le necessità, a domar talvolta i tormenti del suo corpo..."17. Quasi sul campo, da fuggiasca, trovò la morte che mise fine ad un sodalizio sentimentale-guerresco pressoché unico nella storia italiana. Il biennio 1848-49 a Roma Nella primavera 1848, mentre scoppiano i moti rivoluzionari e la guerra contro l’Austria, la situazione di Roma è ancora fluida, la città è ancora lontana, non solo geograficamente, dal teatro di guerra. Ma pochi mesi dopo il moto rivoluzionario tocca anche Roma e la guerra coinvolgerà anche uomini e donne, che da fuori erano arrivati per difendere in prima persona ideali patriottici. Nella futura capitale trova la morte una combattiva protagonista del risorgimento: Colomba Antonietti, figlia di fornai umbri, costretta a fuggire da casa per il rifiuto dei suoi alla richiesta di matrimonio fatta dall’ufficiale 77 Porzi; l’opposizione era dovuta alla differenza sociale esistente fra i due, aristocratico lui, di modesta estrazione lei, il che avrebbe compromesso le sorti dell’unione. Colomba Antonietti combatté vestita da uomo a fianco del marito e venne ferita mortalmente a Porta S. Pancrazio. Purtroppo, come Anita Garibaldi, è stata penalizzata dalla mancanza d’istruzione e poiché non è rimasto nessuno scritto autografo, la conosciamo solo attraverso ciò che altri hanno scritto di lei: il marito Luigi Porzi, i familiari, Garibaldi, i discendenti. In ciò, Colomba Antonietti ha seguito la sorte di tutte le donne che, private di auto narrazione, sono state o in massima parte rimosse dalla storia, o sopravvissute nell’inconscio collettivo come mito, agevolate dalla presenza di un uomo dai tratti eroici, come fu il caso ancora una volta di Anita Garibaldi. Nel “Monitore Romano”, foglio ufficiale della repubblica Romana si legge nel giugno ’49 che Colomba Antonietti di Foligno, di 22 anni, seguiva da due anni il marito, luogotenente di linea, dividendone le fatiche e le lunghe marce. “Alla battaglia di Velletri si battette come un uomo, come un Eroe degno del suo marito, e del suo cugino Luigi Masi. Il 13 giugno si trovava presso le mura a San Pancrazio; là, mentre passava al marito il sacco ed altri oggetti necessari alla riparazione della breccia, una palla venne a ferirla nel fianco: Ella congiunse le mani, le alzò al cielo e morì gridando:Viva l’Italia”. Toni diversi userà il volumetto clericale Gli ultimi sessantanove giorni della Repubblica in Roma, scritto nel 1850, che contestava l’articolo del “Monitore” in cui il martirologio della libertà italiana registrava il nome di una donna combattente vicina al marito18. In uno scritto di Carlo Rusconi, letterato, deputato nell’Assemblea della Repubblica Romana, la figura dell’Antonietti assume già i contorni del mito. “A Roma aveva chiesto ripetute volte di poter far parte in quelle sortite con cui gli assediati venivano tratto in tratto debellando gli assalitori, ciò che non le era stato concesso perché a repentaglio di una morte quasi sicura non fosse posto un esser dotato di sentimenti così eccelsi. Pregata dai circostanti di allontanarsi dalle mura, rispondeva con dignità che la sua vita era consacrata all’Italia da gran tempo, e che prezzo non aveva per lei se non in quanto poteva giovare alla sua patria sventurata. Serena, tranquilla impavida restava al suo posto…alcuni soldati caddero in quella morti ai suoi piedi, né per le nuove istanze fattele ella volle ritirarsi; vi fu un momento anzi in cui 78 elle fece un passo verso il marito per fornirlo degli strumenti che aveva addimandati, e una palla di cannone la percosse adempiente quell’atto di amore coniugale. Quella giovane cadde inginocchiata, levò le mani e gli occhi al cielo, e spirò dopo un minuto gridando Viva l’Italia. I suoi leggiadri lineamenti si copersero del pallore della morte, ma il sorriso non si scompagnò dalle sue labbra, che anche in quell’eterno silenzio esprimere pareano l’amore e la fede che collegata l’avevano in vita alla sua famiglia e alla sua patria. Un lungo grido di commiserazione s’innalzò dai circostanti; l’uomo che unito aveva le sue sorti a quelle di lei fu trascinato lontano, in preda alla più orribile disperazione. Le onorate spoglie di quell’infelice, poste su un cataletto, furono portate per le vie di Roma spettacolo di compianto universale, e il popolo trasse in folla dietro al feretro coperto di bianche rose, simbolo del candore di lei spenta sì crudelmente nel fiore della giovinezza”19. Molte donne romane saranno da parte loro in prima fila a rispondere alle necessità di sacrificarsi per le esigenze della patria. In una seduta dell’assemblea, mentre Mazzini accennava alle drammatiche urgenze, dalla tribuna riservata alle donne, scriveva Giuseppe Beghelli, uno dei più convinti estimatori del patriottismo femminile “cominciava una pioggia d’oro, di pendenti, di fermagli, e d’anelli. Nella patria delle Cornelie, era naturale questo splendido esempio di patriottismo”20. Nell’aprile del 1849 l’intervento francese contro la Repubblica romana era ormai deciso e l’assemblea repubblicana votava la resistenza a oltranza. Subito dopo lo sbarco dell’esercito francese a Civitavecchia, in attesa dell’attacco imminente, il triumvirato da un lato contava le forze militari disponibili, dall’altro allertava la popolazione e ne organizzava la resistenza attraverso l’istituzione di una Commissione Centrale delle barricate composta da Enrico Cernuschi, Vincenzo Cattabeni, Vincenzo Caldesi e Rinaldo Andreini; si nominavano i rappresentanti del popolo che, rione per rione, daranno istruzioni per la costruzione delle barricate, con l’obiettivo di "difendere palmo a palmo il terreno: "le milizie d’ogni genere fanno e faranno il loro dovere. Tocca al popolo fare il suo. Tutte le contrade della città debbono essere difese”, scrive il “Monitore romano”. Carlo Pisacane, che sarà capo di stato maggiore della Repubblica Romana, all’indomani di quell’esperienza, bollerà come del tutto inani simili provvedi79 menti: "Difendere palmo a palmo e casa per casa la città è un genere di guerra che non può ordinarsi dal governo e dal militare: il popolo bisogna che lo faccia spontaneamente". La mobilitazione non esclude le donne: "Nel momento che ogni cittadino offre la vita in servigio della patria minacciata, le donne debbono anch’esse prestarsi nella misura delle loro forze e dei loro mezzi. Oltre il dovere dell’infondere coraggio nel cuore dei figli, dei fratelli, altra parte spetta pure alle donne in questi difficili momenti. Non parliamo per ora della preparazione di cartatucce [sic] e munizioni d’ogni genere, cui potranno essere più tardi invitate le donne romane. Ma già sin d'oggi si è pensato di comporre una Associazione di Donne allo scopo di assistere i feriti, e di fornirli di filacce e delle biancherie necessarie. Le donne romane accorreranno, non v'ha dubbio, con sollecitudine a questo appello fatto in nome della patria carità"21. Le donne romane effettivamente accorrono in gran numero: centinaia rispondono all’appello del Comitato di soccorso ai feriti, che reca le firme di Alessandro Gavazzi, bolognese, cappellano militare maggiore, di Enrichetta Pisacane, Cristina Trivulzio di Belgiojoso e Giulia Bovio Paulucci, donne di diversa estrazione, mogli per lo più di alcuni dei protagonisti delle vicende rivoluzionarie. Cristina di Belgiojoso è stata in prima fila nelle giornate milanesi, poi, è attratta anche se non convinta dagli esperimenti politici del Governo provvisorio toscano e della Repubblica Romana. Enrichetta Di Lorenzo è la compagna di Carlo Pisacane: già sposata al conte Dionisio Lazzari, madre di tre bambini, fuggita con Pisacane da Napoli nel 1847, è stata con lui per due anni in Inghilterra, in Francia, in Svizzera e infine in Italia sui campi di battaglia lombardi, nel marzo 1849 è a Roma con Pisacane, che provvede, con lo stesso Mazzini, alla riorganizzazione delle forze militari. Giulia Bovio Silvestri, bolognese, è la moglie di Vittorio Paulucci de’ Calboli, già comandante della piazza di Bologna e dei giovani volontari bolognesi, il cosiddetto Battaglione della Speranza. Nei giorni immediatamente successivi, lo stesso Comitato di soccorso ai feriti si costituisce in Amministrazione delle ambulanze con significativo ampliamento della sfera d’azione. Ai precedenti componenti del comitato di soccorso si aggiungono alcuni "cittadini" in maggioranza personale sanitario già in forze negli ospedali romani. Il Comitato comunica con l’Amministrazione di sanità militare, col Municipio e coi Ministeri della Guerra e dell’Interno. 80 Le ambulanze, cioè i punti di soccorso ai feriti, vengono collocati in parte presso ospedali e ospizi, in parte presso conventi più o meno prossimi ai luoghi di combattimento. A fine aprile come sedi di ambulanze vengono approntati la Trinità dei Pellegrini, antico ospizio fondato nel `500 da Filippo Neri, gli ospedali di S. Giovanni in Laterano, Fatebenefratelli, S. Spirito, S. Giacomo, il convento della SS. Annunziata delle Turchine a Monti, il convento di S. Pietro in Montorio, a ridosso del Gianicolo, S. Teresa a Porta Pia, e, in un secondo momento, il Palazzo del S. Uffizio, il Convento della Scala (dove peraltro i frati non consentiranno mai l’ingresso alle donne assistenti), l’Ospedale di S. Giovanni de’ Fiorentini, la Canonica di S. Maria Maggiore. A ognuno di essi è preposta una delle componenti il Comitato di soccorso. All’Ospedale della Trinità dei Pellegrini, l’assistenza è affidata a Giulia Paolucci e a Dina Galletti, bolognese, moglie di Giuseppe Galletti, presidente dell’Assemblea costituente; dell’ospedale di S. Spirito è "regolatrice" Giulia Calame Modena, svizzera di Berna, moglie di Gustavo Modena, combattente con il marito nel Veneto e responsabile di un ospedale da campo a Palmanova, dove è ferita, poi imprigionata dagli austriaci finché, liberata, non raggiunge Firenze e di qui Roma; a S. Giacomo è Malvina Costabili, ferrarese, moglie di uno dei componenti della Commissione di finanze, a San Gallicano Adele Baroffio, moglie di Felice Baroffio, milanese, medico e chirurgo militare, combattente contro l’Austria e poi esule in Piemonte, a S. Giovanni, Paolina Lupi, a San Pietro in Montorio Enrichetta Pisacane, al Fatebenefratelli è "regolatrice" Margaret Fuller, giornalista americana appassionata sostenitrice della causa italiana, a Santa Teresa, Enrichetta Filopanti, moglie di Quirico Filopanti (pseudonimo di Giuseppe Barilli), deputato di Bologna all'Assemblea costituente, a Monti, Olimpia Razzani. Il ruolo svolto da Cristina di Belgiojoso nell'organizzazione delle ambulanze è di primo piano, come ha modo di notare una delle sue collaboratrici, Enrica Filopanti che, nel celebrare l’eroismo dei combattenti e la generosità delle donne che svolgono opera di assistenza, il cui numero "anzi che scarseggiare eccedeva", insiste sulle capacità organizzative e l’attiva determinazione di Cristina di Belgiojoso. E sottolinea come con "uguale zelo" vengano accolti e curati nelle ambulanze tutti i feriti, sia italiani sia francesi. Se nelle organizzatrici dell’assistenza è motivo di particolare orgo81 glio trattare tutti i feriti "con uguale zelo", senza riguardi per la divisa che portano, la loro opera non è a questo riguardo universalmente apprezzata. Ai riconoscimenti tributati alle infermiere da Ferdinand de Lesseps, inviato nell’aprile a Roma in missione diplomatica per tentare una mediazione con la Repubblica, per aver prestato, ai ventisei feriti francesi dei combattimenti del 30 aprile tutte le cure del caso, fanno da contrappunto altri giudizi di parte francese tutt’altro che benevoli: c’è chi getta su di loro il sospetto più infamante, descrivendole come signore dalle "nude spalle e seducentemente adorne" che solo apparentemente si dedicavano alla cura dei soldati, in realtà "assidevansi al capezzale dei malati francesi per far proseliti colla voluttà tant’è che Cristina di Belgiojoso sarebbe stata soprannominata, tra i francesi, Bellejoyeuse. E a chi chiede ai soldati francesi feriti se sono ben curati, qualcuno di loro ammette che le cure non mancano: "Pour les soins, il n’y a rien à dire... mais pour la moralité c’est autre chose. Quelles pratiques! Nous n’en voudrions pas au régiment pour cantinières"22. Ma Alphonse Balleydier, autore di queste note, non è e non sarà il solo: non solo i francesi gettano il disprezzo e il ridicolo sulle infermiere. È rimasta famosa la testimonianza di Antonio Bresciani, letterato gesuita. Falsificando i reali motivi delle visite compiute dalla Belgiojoso nei conventi alla ricerca di luoghi adatti ad accogliere ambulanze, immagina che la Belgiojoso si rechi invece ad annunciare alle suore il decreto del 27 aprile con il quale il triumvirato non riconoscendo la perpetuità di voti, dà facoltà di sciogliersi dalle regole a tutti i religiosi e religiose che ne abbiano l’intenzione proteggendoli contro ogni violenza e accogliendo i religiosi che ne facciano richiesta nelle milizie della Repubblica. Nella scena dipinta dal Bresciani la Principessa, accompagnata da altre “profetesse” con modi arroganti, legge il decreto e incita le suore a sciogliersi dai voti, ma di fronte alla fermezza delle suore, deve battere in ritirata. E non è questa l’unica forma di prevaricazione compiuta ai danni delle religiose: di ben più gravi attentati al pudore si sarebbero resi colpevoli gli studenti della Sapienza. E come le persone anche i luoghi: Bresciani lamenta che i conventi siano stati ridotti ad alloggiamenti militari, a magazzini, a ospedali: "E fosse stato soltanto per riporvi i feriti; ma nel brutale comunismo repubblicano, cacciavano di casa le monache per empire i monasteri della plebe sfrenata e ingorda, sotto sembiante di sottrar82 la al pericolo delle bombe. Indi i religiosi vedeansi inondare di femmine i collegi e i conventi ...Infemierine, le quali s’avvolgean snellette e leggere intorno ai letti ín grembiulino di seta a ventaglio; colle maniche riboccate assai sopra il gomito; colli sciallini appiccati agli arpioni dell’antisala, perché il caldo e l’afa le opprimeva; coi capi ben acconci, per non aver sembiante di suore, e non metter tedio e nausea agli eroi d’Italia, ai martiri della libertà; con certi risolini in bocca, con certe parolette dolciate, da mandarli all’altro mondo in ben altra guisa che non fanno i preti in cotta e stola"23. I conventi, dunque, potrebbero sopportare di essere inquinati dai feriti, ma non dalle donne, che, oltretutto, danno in punto di morte agli eroi e ai martiri d’Italia ben altro viatico di quello che la religione prescriverebbe. Un’altra accusa tocca dunque alle donne e ai preti, come Alessandro Gavazzi, che con loro hanno a che fare, quella di non munire i moribondi dei conforti religiosi, un’accusa dalla quale la Belgiojoso dovrà difendere se stessa e il triumvirato, che, oltre a Gavazzi, nominato nel marzo "cappellano maggiore dell’armata", assegnò un cappellano militare a ogni ambulanza e si preoccupò di stilare un regolamento per i cappellani militari della repubblica24. Anche i medici non mostrano di apprezzare l’ingresso di queste figure irregolari nell’ambiente sanitario, sia pure in situazione d’emergenza, e molti di loro protestano contro l’invasione muliebre" e "il dispotismo delle femmine”. In realtà dissapori e contrasti all’interno dell’ambiente ospedaliero tra personale regolare e infermiere volontarie furono all’ordine del giorno e la Belgiojoso li attribuì sia all’inadeguatezza delle strutture sanitarie e alla mentalità retriva di medici e amministratori, sia al comportamento irresoluto e compromissorio del triumvirato, preoccupato di mantenere un modus vivendi con gli appartenenti all’amministrazione pontificia. In realtà, Cristina di Belgiojoso non si limita ad organizzare l’opera di soccorso momentaneo. Il suo ruolo le dà modo di rendersi conto della situazione complessiva dell’assistenza sanitaria a Roma e di concepirne un progetto di riassetto che nel maggio 1849 espone ai triumviri. Il progetto prevede l’allargamento delle competenze del Comitato di soccorso a una sorta di sovrintendenza a tutti gli ospedali romani, la trasformazione dell’ospedale della Trinità dei Pellegrini in ospedale militare nonché convalescenziario per malati dimissionati ospedali e sede di scuola infermieristica per le donne assistenti; al comitato, inol83 tre, spetterebbe l’amministrazione del patrimonio della trinità dei Pellegrini, la direzione dell’ospedale militare, la direzione dell’istituto delle donne assistenti. A questo proposito non manca di mettere l’accento sulla necessità che alle infermiere venga richiesta "molta severità di costumi e regolarità di vita quasi monastica”, una risposta preventiva alle accuse di immoralità che da più parti pioveranno sulla stessa Belgiojoso e sulle altre volontarie e un segnale che il contatto e la cura del corpo sono considerati motivo di attrazione e al tempo stesso di pericolo per le donne. Ai primi di giugno accorre a Roma Agostino Bertani, reduce dalle esperienze fiorentine, e immediatamente Mazzini, lo invita, in qualità di medico, a visitare le ambulanze e gli ospedali visite nelle quali è accompagnato da Paolo Baroni, medico e presidente del Consiglio superiore militare di sanità, e da Cristina di Belgiojoso, che non manca di segnalargli Io stato penoso in cui versa l’assistenza a Roma, reso ancor più grave dalla situazione di guerra. A conclusione delle visite Bertani stila per il triumvirato un rapporto e un progetto di riorganizzazione. Bertani si preoccupa soprattutto di rendere gerarchica l’amministrazione sanitaria attraverso l’istituzione di un Consiglio di amministrazione superiore che gestisce i fondi e il magazzino delle forniture centralizzato da cui vengono distribuiti materiali alle singole ambulanze, e un Consiglio sanitario civile e militare, autorità sanitaria e al tempo stesso politica, che svolga un compito di sorveglianza sanitaria sulle ambulanze che da questo dipendono. A capo di ogni ambulanza sta un direttore sanitario, che sovrintende anche alla parte amministrativa. A ogni ambulanza è addetta una "patronessa"; al corpo delle "patronesse", a capo del quale è una presidente, spetta la "sorveglianza" e la "pietosa istanza per ottenere mezzi materiali e persone di assistenza caritatevoli". Le patronesse, si aggiunge infine nel progetto, sarebbero indipendenti dai direttori, ma in accordo con essi "per il miglior bene dei malati”. Entrambi i progetti sono destinati, come è ovvio, a rimanere lettera morta. La situazione militare si aggrava disperatamente e i francesi stanno sferrando gli ultimi attacchi; Bertani non può far altro che mettersi a disposizione nella sua qualità di chirurgo: il 29 giugno Paolo Baroni gli assegna un posto nell’ambulanza della Trinità dei Pellegrini, che è peraltro in corso di smobilitazione, perché ormai troppo esposta, e in trasferimento al Quirinale. A Bertani sono affidate alcune 84 decine di feriti, tra cui Goffredo Mameli, in condizioni troppo gravi per essere trasportati. E nella Trinità dei Pellegrini Bertani rimane alla cura dei feriti fino alla fine di agosto “quando Roma giaceva nella disperata pace della morte”25. Ma non è il solo a continuare, finché è possibile, a prestare la propria opera per i feriti. Lo stesso fanno molte delle donne, Belgiojoso stessa, Giulia Modena, Margaret Fuller e altre che, al sopraggiungere dei francesi, resistono con fermezza in quello che ormai è da loro considerato come un vero posto di combattimento. Alle pendici del Gianicolo gli uomini hanno difeso fino allo stremo il loro onore militare, negli ospedali si è combattuta la battaglia delle donne per la patria italiana non solo contro i nemici stranieri, ma contro ogni genere di avversità, morale e materiale. Un duplice fronte che Carlo Rusconi, ministro degli Esteri della Repubblica e protagonista delle trattative con il generale Oudinot che precedettero l’intervento francese, ricorda con accenti commossi: "Molte…donne gareggiavano in egual modo in Roma col sesso più forte nel difendere la patria loro e le istituzioni che dovevano ravvivarla. Molte altre ancora, a uffici più muliebri attendendo, la carità loro mostravano assistendo i feriti, vegliando le notti al capezzale dei morienti. Non mai il compito della donna era stato più nobile di quello che si mostrasse in quei momenti né mai maggiori virtù rifulso aveva nel sesso gentile chiamato da Dio a dividere i destini dell’uomo. Per quegli uffici pietosi doveva essere poscia vilipesa; tanta abnegazione, tanto amore, tanto affetto di patria dovevano essere segnalati al mondo come una libidine scellerata; e le angeliche donne in cui quegli affetti vivevano, stimmatizzar doveansi come meretrici abbiette26. Verso l’unificazione Nella futura capitale si consumò anche il dramma di Giuditta Tavani Arquati. Nata a Roma nel 1836, vissuta nel rione Trastevere, sposò Francesco Arquati di umile condizione; pressati dalla miseria, i due dovettero temporaneamente emigrare a Venezia per cercarvi lavoro; in seguito Giuditta tornò a Roma, dedicandosi ai suoi nove figli. Il 25 ottobre del ‘67, mentre Garibaldi espugnava Monterotondo, dopo aver fatto prigioniero il presidio papale, nella fabbrica di Giulio Ajani alla Lungaretta, capo delle cospirazioni di Trastevere, quaranta patrioti fra cui l’Arquati, accompagnato dalla moglie e un figlio, si erano 85 riuniti per organizzare una rivolta. Alcune spie segnalarono all’ispettore di polizia del rione Campitelli, Luigi Rossi,la riunione; si circondò il luogo, con trecento uomini, tra zuavi e gendarmi. I patrioti, asserragliati, presero le armi e Giuditta prestava aiuto soccorrendo i feriti, porgendo le munizioni. Quando, invece dell’intervento di altri patrioti sopraggiunsero rinforzi zuavi, la sorte dei combattenti fu segnata e durò fino a che, mancando le armi, i soldati entrarono abbattendo la porta. "Inumana fu veramente la carneficina dei cospiratori che non erano riusciti a fuggire...Disarmati tutti e barbaramente trucidati, Giuditta, già ferita da più colpi di proiettili venne finita a colpi di baionetta dopo che avevano già fatto sotto i suoi occhi la stessa sorte il marito e il figlio diciassettenne Antonio. Poi fra quell’ammasso di ossa stritolate e crani rotti, i difensori dello stato pontificio si sedettero a mensa“27. La patriota romana è una delle poche donne ad essere lungamente ricordate anche dal patriota Alberto Mario, consorte di Jessie White Mario, una delle biografe del risorgimento nazionale, fedelissima a Mazzini e a Garibaldi. Nei suoi scritti letterari ed artistici A. Mario ricorda che nel 1870, mentre si trovava a Roma, ricorreva il terzo anniversario di una “tragedia patriottica” avvenuta nel rione Trastevere nel 1867. “Fino dal mattino la casa Ajani n.97 in via della Lungaretta era fastosamente addobbata a lutto con damaschi neri a fettoni fimbriati in oro. Nel mezzo dell’addobbo sorgeva un busto naturale di donna ancora giovane con aspetto e forme di matrona antica; aspetto e forme che ancora si ravvisano nelle donne trasteverine. Sotto al busto, un’iscrizione; e più sotto, altre tre. Corone di fiori di lauro pendevano intorno. Tutta la via della Lungaretta era cosparsa di foglie d’alloro. Da tutte le abitazioni sventolavano bandiere tricolori. La porta principale della casa Ajani stava aperta. La gente v’entrava, visitava gli appartamenti e ne usciva per una porta laterale che mette in altra contrada. Il giorno 25 non meno di settantamila persone furono a quella casa, ed altrettante nei giorni seguenti: Io ci andai due volte ed era una interminabile processione di pedoni e di carrozze, alcuna delle quali anche di principi romani. Al vespero del 25 accorsero in corpo l’associazione dei reduci delle patrie battaglie in colonna di cinquecento, le rappresentanze dei quattordici rioni portando bandiere a bruno e tre bande musicali che accrescevano la mestizia universale con musiche funebri. 86 Solamente il 29 potei penetrare nella casa anch’io e udire la pietosa istoria dalla bocca del proprietario amico mio Giulio Aiani, uno degli attori principali del dramma. Il 22 ottobre 1867 ci fu un tentativo fallito d'insurrezione al Campidoglio, presso la caserma Serristori fatta saltare in aria, e altrove. Il 23 ci fu l’eccidio dei fratelli Cairoli e dei loro settanta compagni che si spinsero fino ai Monti Parioli presso Roma. Il 25,mentre Garibaldi espugnava Monterotondo facendovi prigioniero tutto il presidio pontificio, quaranta patrioti romani convennero in casa di Giulio Aiani, capo delle cospirazioni in Trastevere, per deliberare sul da farsi. La casa Aiani era mutata in arsenale, deposito d'armi, fabbrica di cartucce e di bombe all'Orsini. La signora Giuditta Arquati, che aveva tra i quaranta il proprio marito e un figliolo di diciassette anni e presagiva gravi eventi in quel giorno, volle, trovarsi in mezzo ad essi col pretesto di sorvegliare il pranzo. Luigi Rossi ispettore di polizia del Rione Campitelli, segnalata al governo la numerosa adunanza, capitò lestamente in via della Lungaretta con trecento fra zuavi e gendarmi per procedere ad una perquisizione in casa Aiani. Al primo avviso di tante spade i patrioti chiusero le porte e corsero all’armi. Nella fretta scattò a caso un colpo di fucile Per gli zuavi fu il segno dell’attacco. I patrioti risposero con bombe e con fucilate dalle finestre e dalla terrazza, ove già era salito Paolo Giovacchini, quinquagenario, capo del lanificio Aiani, annesso alla casa. V’aveva condotto i suoi tre figli Giuseppe, Giovanni e Francesco; e tutti e quattro, allo scoperto, bersagliati dai fuochi incrociati di due campanili, pugnarono durante tre ore. La signora Arquati, passando dall'una all'altra camera, portava munizioni ai combattenti e li animava, assisteva i feriti. E quei bravi, ispirati dal sereno coraggio e dalla bellezza di lei raddoppiavano di sforzi, superavano se stessi. E infatti i trecento nemici furono tre volte respinti nell'atto dell’assalto, e cominciavano già a desistere dalla inutile impresa. Quando, dopo due ore, sopraggiunsero altri trecento zuavi, la lotta infuriò più di prima. La signora Arquati porgendo ai suoi amici bombe e i fucili carichi viva l’Italia, diceva loro, viva Roma. Non cediamo a quegli assassini. Coraggio! e si stringeva la mano al marito e baciava i capelli del figlio giovinetto nel dar loro il fucile caricato. Io parlai con parecchi dei sopravvissuti a quel cimento; e mi narrano che sopraesaltati dall’indescrivibile intrepidità di quella donna, da’ suoi atti e da’ suoi modi risoluti ma tranquilli e signorili; tennero testa 87 ai seicento come ai trecento e più volte li ributtarono. Non ci sono più cartucce, ma ve n’ha un deposito in una camera chiusa. Se ne cerca invano la chiave; e mentre si è intesi ad atterrarne la porta, gli zuavi, profittando, del fuoco quasi cessato, assaltano e abbattono con un supremo sforzo quella della strada ed entrano. Il trombettiere discende alla prima scala, uccide il primo zuavo, indi ferisce se stesso di stile e muore. Un vecchio dei quaranta postosi in cima della seconda scala dice ai compagni: «Io sto qui e salvo la ritirata. La mia vita è presso al fine; lasciatemela spender bene: andate E quelli passarono nel fabbricato dell’opificio che comunica alla casa mediante una scaletta intermedia. A ventidue, calatisi da un finestrino sopra un tetto e risaliti per altro finestrino opposto, che mette in casupole di poveri, venne fatto di salvarsi; furono arrestati più tardi. I zuavi ed i gendarmi, trattenuti al piede della scala dalle bombe lanciate dal vecchio, non si avvidero della fuga dei ventidue: ma, ucciso il vecchio, irruppero negli appartamenti, e in un batter d’occhio vi spezzarono ogni mobile, ogni oggetto. La signora Arquati aspettava i nemici di pie’ fermo sulla soglia dell’ingresso; e cadde per più colpi di fucile a bruciapelo che però non l’uccisero e poté trascinarsi a due passi dal sito ove giacevano il marito e il figlio. Gendarmi e zuavi le trafissero sotto gli occhi l’uno e l’altro con sì fieri colpi di baionetta, da bucar il muro a cui stavano appoggiati; indi trafissero lei pure con più colpi. Ella era incinta! Di palla e di punta ammazzarono gli altri dieci nella stanza attigua e nella loggia. Il medico inviatovi dal governo e il becchino e i vicini assicurano che quei cadaveri avevano le ossa stritolate, i crani rotti, la pelle coperta di lividure; e taluno fu gettato dalla finestra nel cortile. Dopo di che zuavi e gendarmi s’assisero alla mensa preparata dalla signora Giuditta Arcuati, bevendo alla vittoria. Il busto esposto rappresenta l’immagine dell’eroica donna. La galleria e la stanza vicina furono anche addobbate magnificamente in nero. Dove giacquero trucidati la Giuditta e il marito e il figlio sorgeva una croce in marmo vagamente scolpita, dono dei marmisti di Roma; sulla parete pendevano corone di fiori e di sempreverdi appese dai visitatori. Vedevansi nell’intonaco della parete i buchi fatti dalle baionette nel passar da parte a parte i corpi di quei gloriosi infelici e la parete spruzzata di sangue e larghe macchie sanguigne sul pavimento. Simili buchi e macchie e colpi di palla proprio al basso della parete presso al pavimento si vedevano anche nella stanza vicina. Nel 88 mezzo della quale alzavasi un tumulo ove leggevasi i nomi di tutti caduti. Il colore tetro degli apparati, le corone, le iscrizioni, i segni orrendi di quella tragedia e l’immagine viva della donna sublime, stringevano il cuore. Molte lacrime furono versate, e confesso che anch’io non rimasi a ciglio asciutto; e molte imprecazioni e maledizioni proruppero da tutti i cuori contro i preti e contro Pio IX. Confesso di non aver mai assistito a scena più toccante e più grandiosa: più di centomila romani mossi da un elevato sentimento di patria piansero sul luogo ove per la patria cadde gloriosamente un pugno di concittadini e una nobile donna”28. La Prof.ssa Fiorenza Taricone ha pubblicato la recente antologia “Per Filo e per Segno”, Giappichelli 2008 (coautrice la Prof.ssa Ginevra Conti Odorisio). Altre pubblicazioni: - Teoria e prassi dell'associazionismo femminile italiano. 1 - Isabella Grassi. Diari (1920-21). Associazionismo femminile e modernismo. - Le donne in Italia. Educazione/istruzione, coauthor Mimma De Leo. - Viaggio intorno alle donne. Il testo di questa relazione è prevalentemente tratto dal libro a mia firma Donne e guerra. Dire, fare, subire, Cosma e Damiano 2009. 2 G. SARDIELLO, Femminilità eroica, Reggio 1916, p. 7 e ss. 3 UNA ITALIANA, Alle donne italiane, “La donna italiana. Giornale politico- letterario”, 27 maggio 1848, cit., da R. DE LONGIS, Patriote e infermiere, in Fondare la Nazione I repubblicani del 1849 e la difesa del Gianicolo, a cura di L. ROSSI, s.l., 2001, p.99. 4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 A. BRAVO, Introduzione, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma- Bari 1991, p.VI. 7 A. M. BANTI, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino 2000, p.154. 8 V. CIAN, Femminismo patriottico del Risorgimento, Roma 1930, p.3 e ss. 9 Ivi, p. 8. 10 Ibidem, p. 8. 11 Ivi, p. 11. 89 12 Souvenir historique de la marquise Constance D’Azeglio, Torino 1884, p.216. 13 N. NECHERI LUCATTELLI, La donna nel Risorgimento, Cremona 1899, p.22. 14 Ivi, p. 25. 15 V. GIGLIO, Vite di donne, Milano 1957, p. 96. 16 Ivi, p. 97. Su di lei, F. TARICONE, Vecchi miti e nuove realtà, in Anita la giovinezza della Rivoluzione, a cura di A. QUERCIA e F. TARICONE, Roma 2001. 17 Ivi, p. 100. 18 Op. cit., Malta 1850. 19 C. RUSCONI, La Repubblica Romana, Torino 1851. 20 G. BEGHELLI, La Repubblica romana del 1849, Lodi 1874, p. 90. 21 “Monitore Romano”, 27 aprile 1849. 22 A. BALLEYDIER, Histoire de la révolution de Rome. Tableau religieux, politique et militaire des années 1846, 1847, 1848, 1849 et 1850 en Italie, Paris 1851, pp.113-4. 23 A. BRESCIANI, Della Repubblica romana Fatti storici dall’anno 1848 al 1849, appendice all’Ebreo di Verona, Napoli 1858, pp.13-9. 24 A. MALVEZZI, La principessa Cristina di Belgiojoso, Milano 1937, pp.405-6. Su di lei anche G. PROIA, Cristina di Belgiojoso ed Augustin Thierry. Amicizia intellettuale e impegno politico, Università Roma Tre 2007.que et militaire des années 1846, 1847, 1848, 1849 et 1850 en Italie, Paris 1851, pp.113-4. 25 J. WHITE MARIO, Agostino Bertani e i suoi tempi, Firenze 1888, p.140. 26 C. RUSCONI, La repubblica romana del 1849, Roma 1877, p.187. 27 F. ORESTANO, Eroine, ispiratrici donne d'eccezione, cit., p. 374. P. BARBERA, Le donne e la guerra, cit., p. 8. 28 Scritti letterari e artistici di Alberto Mario, a cura di G. CARDUCCI, Bologna 1901, p.107 e ss. 90 Conclusioni Mario Bannoni Comitato per il Bicentenario di Margaret Fuller Ossoli A chiusura di questo incontro vorrei portarvi una mia personale esperienza, che può meglio chiarire il mio appassionato impegno, anche nel ruolo che qui mi vede rappresentare il Comitato per il Bicentenario della Fuller. Premetto che non sono nè uno storico nè un letterato - nè per formazione nè per esperienza professionale - sono solo un accanito lettore con uno spiccato interesse per la Repubblica Romana, e forse, grazie a qualche gene paterno, anche con una certa predisposizione per l'investigazione storica (o la ricerca, volendo nobilitare il termine). Margaret Fuller ... Un incontro casuale per me ... Un amico m'ha fatto notare: "come spesso accade all’inizio di una storia d’amore". Ho incontrato Margaret circa quattro anni fa quando è spuntata fuori da una nota in un bel saggio giornalistico dedicato alla storia della repubblica romana: mi sono incuriosito! … Mi sono subito attaccato a internet! Che se ne diceva su di lei? Su questa signora, “giornalista” dell’ottocento che con i suoi reportage raccontava “in diretta” agli americani un momento importante della nostra storia patria? Questo l’inizio. Per farla breve - da oltre tre anni dedico tutto il mio tempo - quanto mi consente la mia numerosa famiglia - a Margaret Fuller. Mi sono procurato libri e documenti: c’è molto, quasi tutto, specie i manoscritti, negli Stati Uniti. Mi sono messo a tradurre la sua numerosa corrispondenza, sono diventato più che topo di biblioteca, topo di archivi … perché la mia curiosità andava sempre oltre. Mi sono particolarmente dedicato agli anni che la Fuller ha trascorso in Italia, che a me sono sembrati di grande rilevanza sia per la sua esperienza intellettuale e professionale, sia perché così determinanti per la sua vita e realizzazione personale, come donna. 91 L’impegno politico, un marito che era anche un compagno, come potremmo dire oggi - cui divenne sempre piu' legata pur mantenendo e offrendo grande liberta' - una gravidanza sofferta, un figlio, l’esperienza cruda della battaglia, le sofferenze dei combattenti vissute “sul campo”.... Sulle orme della Fuller, incrociando dati conservati negli archivi storici e catastali con quanto si può trarre dalle memorie e dalla corrispondenza con gli amici ed il marito, sono sicuro di aver rintracciato i luoghi, le abitazioni nelle quali visse fra Roma, L’Aquila, Rieti, Firenze. Mi sono anche dedicato ad approfondire i suoi rapporti con gli amici italiani e, ovviamente, ho cercato di dare un volto e una storia al personaggio del marito, Giovanni Angelo Ossoli, inquadrandolo nella Roma del tempo, nell’ambito della sua nobile famiglia, ricostruendo il ruolo e il grado che aveva in seno alla guardia civica e descrivendo lo scambio affettuoso che emerge dalla corrispondenza con Margaret. Per quanto attiene all’incontro di oggi, credo di aver documentato con la grande pignoleria - che nessuno osa negarmi - l’attività dell'ambulanza istituita presso questa sala durante il periodo in cui Margaret Fuller fu incaricata dell’assistrenza ai feriti. Spulciando negli archivi ho trovato molto, desidero solo accennare ad alcuni di questi ritrovamenti: 1) tra i difensori della Repubblica qui ricoverati, gli Italiani non appartenenti allo stato erano un quarto del totale e, in maggioranza, era composto da cittadini del lombardo-veneto; 2) i restanti difensori, tre quarti del totale, erano piu' o meno equamente distribuiti tra - per usare una terminologia attuale laziali, emiliano-romagnoli, umbri e marchigiani. C'era poi anche un ungherese; 3) l'ambulanza presso questa sala non s'occupo' soltanto dei feriti repubblicani ma curo' indistintamente - possiamo dire cosi' - amici e nemici. Infatti tra di essi c'erano sette francesi, catturati il 30 aprile e sette napoletani, presi da Garibaldi a meta' maggio; 4) uno dei feriti divenne poi un pittore famoso: Girolamo Induno, che resto' qui 26 giorni per "ferite penetranti al torace". 92 Altro ci sarebbe da dire, ma viene meno il tempo: sto riunendo e ordinando tutto in un libro che sarà presto pubblicato. A proposito: desidero qui ringraziare il mio editore e il suo staff, che ha sposato tanto la causa della Fuller da farci omaggio della molto suggestiva locandina che tutti avete apprezzato. Spero che questo mio lavoro, nella circostanza del Bicentenario che cade quest’anno, possa rappresentare anche un affettuoso ricordo e un doveroso omaggio della “sua Italia” alla quale Margaret dedicò gli ultimi ed intensi anni di vita. Ho accennato prima alla mia famiglia: mi sento in dovere di ringraziare mia moglie per i suoi consigli e per il suo aiuto nel lavoro ma anche per la sua comprensione e pazienza. Ringraziamenti a tutti, in particolare agli oratori per la loro disinteressata partecipazione e, di nuovo, al Fatebenefratelli che mi ha aperto i suoi archivi e ci ha ospitato consentendoci di ricordare questa sua “responsabile dell'assistenza ai feriti”, incarico ricoperto se pur per breve tempo, con grande passione e in sintonia con lo spirito umanitario dell'Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli. A tutti grazie e buona domenica. 93 Conosci per scegliere editrice s.c. Finito di stampare nel mese di ottobre 2010 94