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Atti del convegno
Convegno-Seminario
Margaret Fuller
le donne e l’impegno civile
nella Roma risorgimentale
Roma, 23 maggio 2010
Ospedale Fatebenefratelli - Sala Assunta
Conosci per scegliere
editrice
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© Proprietà letteraria riservata
2010 Conosci per scegliere editrice s.c.
Via Pescosolido, 26 - 00158 Roma - Tel/Fax 06 57301599
E-mail: [email protected]
ISBN 978-88-903772-2-8
Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o
comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni; chiunque favorisca questa
pratica commette un illecito perseguibile a norma di legge.
Copertina: grafica di Lorena Nurzia
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Indice
Introduzione
a cura di Mario Bannoni
..............................................................................................
Saluti
Dott. David Mees,
addetto culturale dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America
Prof. Jaroslaw Mikolajewski,
direttore dell'Istituto Polacco di Roma
........................
..................................................................
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Prof. Péter Kovács
direttore dell'Accademia Ungherese in Roma, Consigliere
dell'Ambasciata d'Ungheria presso il Quirinale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
Dott.ssa Anna Maria Cerioni
Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma
...............................
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Interventi
Margaret Fuller, un'intellettuale e una realizzatrice
Prof.ssa Cristina Giorcelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
Novità storiografiche sulla Repubblica Romana
Prof. Marco Severini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
Difesa di Roma del 1849: Memoria e territorio
Enrico Luciani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38
Operatività Sanitaria Militare nell'Italia del 1848-49
Prof. Antonio Santoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
Gli strumenti medico-chirurgici ai tempi di Magaret Fuller Ossoli
Federica Anna Leda Dal Forno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
Le donne del 1848
Prof.ssa Ginevra Conti Odorisio
.............................................................................
57
Il Patriottismo delle Donne del Risorgimento
Prof.ssa Fiorenza Taricone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
Conclusioni
a cura di Mario Bannoni
.........................................................................................
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Introduzione
Mario Bannoni
Comitato italiano per il Bicentanario di Margaret Fuller Ossoli
Buongiorno a tutti.
A tutti voi che avete scelto di dedicare questa domenica mattina per
incontrare la Sig.ra Margaret Fuller Ossoli. E, naturalmente, ai nostri
illustri ospiti che ce la sapranno presentare nel modo più competente.
Io sono Mario Bannoni e rappresento in Italia il Comitato per il
Bicentenario di Margaret Fuller.
Con questo incontro - fissato oggi, proprio nel giorno di 200 anni
fa, della nascita di Margaret - intendiamo aprire una serie di eventi a
lei dedicati, programmati per quest’anno e che certamente apriranno
doverosi spazi anche durante il prossimo anno - nell’ambito delle
manifestazioni dedicate al nostro Risorgimento.
Oltre al giorno, anche la scelta di questo luogo non è stata casuale
- proprio in queste sale del Fatebenefratelli si svolse una delle più
appassionate esperienze di Margaret, impegnata nell’assistenza ai
feriti durante le gloriose e poi tristi giornate che segnarono l’epilogo
della Repubblica romana.
A questo proposito voglio cogliere subito l’occasione per
ringraziare la struttura dell’Ospedale che con grande sensibilità ha
voluto offrirci questa occasione di incontro.
Prima di lasciare la parola ai nostri ospiti, desidero portarvi il saluto
di Laurie James che dirige a New York l’associazione dedicata a
Margaret Fuller.
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Egregi intervenuti,
desidero salutare tutti voi che in questo 23 maggio 2010 siete
riuniti nella stessa corsia d’ospedale dove Margaret Fuller Ossoli
assisteva i feriti della Repubblica romana, per celebrare la sua vita e
la sua importanza, in occasione del suo 200° compleanno.
È gratificante sapere che, grazie all’impegno nostro e vostro in
Italia, oggi molte persone provenienti da due grandi paesi e culture
stanno onorando contemporaneamente Margaret su entrambi i lati
dell'Oceano Atlantico.
È un avvenimento al quale Margaret avrebbe voluto davvero
assistere! - un grande affratellamento - dato che la sua visione e il suo
impegno in Italia erano, come per Mazzini: vedere l'Italia unita con
un forte sostegno dell’America e viceversa.
Più di una volta essa scrisse dall’Italia ai lettori americani:
"l'Umanità è una sola, e batte con un solo grande cuore".
In America stiamo commemorando Margaret con molte
appassionanti manifestazioni:
• una lettura dei suoi scritti, con 8 attrici, tutte impersonanti la Fuller
presso il "City University Graduate Center"
• una presentazione di diapositive presso il "Center For Independent
Publishers",
• una festa di compleanno e la lettura di un dramma presso la
"Community Church di New York".
• inoltre avremo: tre "percorsi sulle orme di Margaret", visitando i
luoghi da lei vissuti: a New York; a Boston, Cambridge e Concord;
e in Italia: a Roma, Rieti, e Firenze.
Sì, alcuni di noi verranno nel mese d’ottobre per vedere l'Italia che
la Fuller ha amato, che ha lodato, e che sentiva la sua vera patria:
"l'Italia, la mia Italia", esclamò più volte.
Mi congratulo con voi per il vostro eccezionale programma e vi
auguro il meglio. Possa la vostra celebrazioni essere illuminante e
stimolante.
Laurie James
Presidente del Comitato USA per il Bicentenario di Margaret Fuller Ossoli
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Saluti
Dott. David Mees
Addetto culturale dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America
Illustri professori e illustri ospiti.
Sono veramente lieto di portare a questo importante congresso,
che celebra il bicentenario della nascita della bostoniana Marchesa
Margaret Fuller Ossoli, i saluti del nostro Ambasciatore David Thorne.
Da bostoniano mi è poi particolarmente gradito presenziare - purtroppo anche se solo brevemente - a questi lavori che credo e mi auguro
tratteranno adeguatamente una grande amica dell’Italia e una grande americana.
Della Fuller esiste un unico ritratto fotografico, un dagherrotipo a
firma John Plumbe che la ritrae, nel 1846. L'immagine la mostra in
una posa classica del tempo: seduta, elegantemente vestita i capelli
raccolti dietro la nuca in un ricco chignon, il volto poggiato delicatamente sulla mano, assorta nella lettura di un libro. Un'immagine che,
mi pare, lascia trasparire ben poco del vero carattere di questa donna,
forte nei suoi valori e risoluta nel far valere diritti che i tempi ancora
non concedevano alle donne.
Nel 1959, Carlo Izzo, uno dei padri fondatori degli studi americanistici in Italia, nella sua monumentale Storia della letteratura Nordamericana, parlando della Fuller, la iscriveva nell'importante movimento trascendentalista e di lei diceva che “non si può certo dire che
emani... un qualsiasi fascino di femminilità: battagliera, imperiosa,
insofferente, persino acre, il suo atteggiamento è quello caratteristico
di chi, originariamente timido, o socialmente inferiore – inferiorità
dovuta al suo essere donna – riesce infine, con le sole sue forze, a
spezzare la guaina della timidezza o ad abbattere le barriere sociali”.
Certo il Professor Izzo, un uomo e uno studioso di valore, ma anche
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d'altri tempi, non le riconosceva quel ruolo proto-femminista che studiosi più recenti le hanno, a ragione, attribuito. Ai conferenzieri che
mi seguiranno, spetterà il compito di analizzare appieno la personalità di una donna che, come accennavo, forte delle sue idee, cosciente
delle proprie forze, affronterà una vita breve ma ricchissima di avvenimenti, tanto letterari, quanto storici di qua e di là dell’oceano.
A me, concludendo questo breve intervento, interessa ricordarvi
quanto dice la targa posta sul Margaret Fuller Memorial di
Cambridge, Massachusetts: "Figlia del New England per nascita, cittadina di Roma per adozione, cittadina del mondo per il suo genio."
Il suo impegno, il suo amore per entrambi i Paesi, la rendono di
certo un pilastro della storia dell’amicizia e dei rapporti culturali e storici fra i nostri due Paesi. Al Dottor Bannoni va quindi il nostro plauso
per aver voluto ricordare in un modo tanto importante questa pagina
tanto significativa della Storia che ci unisce. A tutti gli altri va la mia
gratitudine per la vostra partecipazione e i vostri contributi.
Grazie e buon lavoro a tutti.
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Prof. Jaroslaw Mikolajewski
Direttore dell'Istituto Polacco di Roma
Un cenno all’amicizia fra Margharet Fuller Ossoli e Adam Mickiewicz
Aleksander Chodzko annotava il 26 febbraio 1847 nel suo diario, a
proposito di un dibattito parigino appena concluso: Mickiewicz “ha
parlato davanti a molte altre donne e ha impressionato la Fuller fino
a farla cadere svenuta sul sofà”. Nella lettera del 10 aprile 1847
scritta a Roma e indirizzata a Markus e Rebeca Spring, la stessa
Margaret Fuller scriveva: “Mi chiedi se amo M[ickiewicz]… Rispondo
che l’ho sentito come la musica, oppure un paesaggio bellissimo…”
Nel mistero di questi frammenti si nascondono più trame di questa
relazione che è difficile caratterizzare con un nome univoco, amicizia
di carattere intimo, morale, intellettuale, artistico. Se fra i due ci fosse
l’amore, come lo vogliono in molti, incoronato con la nascita del
figlio, come lo desiderano alcuni, non lo sapremo mai. Più certezze ci
arrivano dal già citato Chodzko che testimonia: “La sua [della Fuller]
opinione sul matrimonio e molte sue idee sulla vita e sul destino del
genere umano coincidono perfettamente con la Causa”. Krzysztof
Zaboklicki, dal cui saggio cito questi frammenti da lui tradotti, precisa
che la "Causa di cui parla Chodzko a proposito della Fuller è quindi
quella propagata dai mistici polacchi che si riallacciavano
principalmente a Louis-Claude de Saint Martin e a Emanuel
Swedenborg”.
Non si è conservata nessuna delle lettere della Fuller a Mickiewicz,
se ne sono conservate invece dieci indirizzate da Mickiewicz a lei, studiate accuratamente da Leopold Wellisz, e questi testi, una delle più
belle parti del suo carteggio, bastano per capire che si trattava di una
comunione ben più ricca di un’ispirazione mistica. Di certo, arricchisce
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e accende l’immaginazione la poesia di Emerson mandata dalla Fuller
a Mickiewicz come invito a incontrarsi, la raccomandazione di conoscere Mickiewicz rivolta alla Fuller dal suo devoto Mazzini, la compresenza di Margharet e Adam nella Parigi e nella Roma ispirate dal desiderio della libertà e liberazione, ma anche i loro colloqui sulla femminilità, nonché la scelta della Fuller Ossoli di far diventare Mickiewicz
padrino di suo figlio. Facile immaginarsi inoltre quanto valesse per la
Fuller come fonte di informazione Mickiewicz autore del poema
“Smierc pulkownika” / ”Morte del colonnello”/, in cui ha dato l’immagine eroica di Emilia Plater - eroina polacca morta nel 1831 in seguito alle fatiche dell’insurrezione antizarista, adorata dalla Fuller fino al
punto di fargliene tenere il ritratto nella camera da letto.
L’analisi della complessa e intima / qualunque cosa ciò debba
significare / relazione fra Margharet Fuller Ossoli e Mickiewicz, il maggiore poeta polacco di tutti i tempi, stonerebbe nel contesto di un seminario su “le donne e l’impegno civile nella Roma risorgimentale”, ma
un cenno a questa storia bellissima, proprio perché indecifrabile e
avvenuta su più livelli, ci è sembrato assolutamente dovuto.
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Prof. Péter Kovács
Direttore dell'Accademia Ungherese in Roma, Consigliere dell'Ambasciata d'Ungheria
presso il Quirinale
Egregi rappresentanti del Comune di Roma, delle Ambasciate di Stati
Uniti e di Polonia, del Comitato Organizzatore, egregi oratori e gentili
ospiti.
Il direttore dell’Accademia d’Ungheria in Roma in rappresentanza
dell’Ambasciata della Repubblica d’Ungheria saluta con grande onore
i festeggiamenti organizzati per la ricorrenza del bicentenario della
nascita di Margaret Fuller Ossoli. Una donna molto colta, moderna e
molto attiva nella sua epoca: letterata e giornalista progressista e femminista che basò la sua attività sull’emancipazione femminile e sulle
nuove teorie pedagogiche.
Ma oggi ricordiamo questa donna soprattutto per la sua attività
preziosissima svolta durante i movimenti risorgimentali, quando tra i
feriti curati si trovò anche un nostro connazionale ungherese, che tra
tanti altri prese parte alle lotte aiutando i compagni italiani a raggiungere la libertà tanto desiderata.
Coi migliori saluti.
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Dott.ssa Anna Maria Cerioni
Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma
Sono molto felice e onorata di portare agli organizzatori del
Seminario, al dott. Mario Bannoni, ai rappresentanti dei prestigiosi
Istituti culturali esteri e a tutti i presenti il saluto del Comune di Roma
e in particolare quelli dell’Assessorato alle Politiche Culturali e della
Comunicazione e del Sovraintendente ai Beni Culturali professor
Umberto Broccoli.
Ritengo molto importante e significativo che sia proprio un incontro
dedicato all’impegno delle donne, spesso oscuro e dimenticato, ad
anticipare le celebrazioni previste dal Campidoglio per il prossimo
settembre in occasione del 140° anniversario di Roma Capitale,
anticipatrici a loro volta di quelle nazionali del 2011 per
commemorare i 150 anni dell’Unità d’Italia.
A tal proposito mi piace in questa sede anticipare che la
Sovraintendenza comunale ha svolto la ricognizione di tutte le
memorie risorgimentali presenti in città, ne ha verificato lo stato di
conservazione per approntare e progettare i necessari interventi
conservativi e ha già avviato la manutenzione straordinaria di Porta
Pia: luogo simbolo della presa di Roma del 20 Settembre. A breve,
anche d’intesa con il Comitato per le celebrazioni del 150°, saranno
avviati altri interventi di restauro, tra i quali in questa sede mi sembra
significativo menzionare quello del monumento ad Anita Garibaldi sul
Gianicolo, che è stato oggetto nei mesi scorsi di accurate indagini
statiche e diagnostiche.
Tornando al tema dell’incontro, che mi è particolarmente caro in
quanto unisce due argomenti - le donne e le memorie risorgimentali 14
ai quali è legata molta dell’attività svolta in questi anni, devo dire che
la partecipazione al seminario mi ha fornito l’occasione di pormi
alcune domande: quante donne, tra le tante che hanno partecipato
alle vicende risorgimentali, e in particolare a quelle della Repubblica
Romana, sono ricordate in città? Come e dove?
Ai relatori dell’incontro il compito di approfondirne le figure e le
imprese.
Anita (1821-1849), senz’altro la più famosa tra tutte, è ricordata
con il monumento appena citato, realizzato nel 1932 da Mario Rutelli,
e nella targa posta sulla dimora che condivise con Giuseppe tra il 26
giugno e il 2 luglio del 1849 in via delle Carrozze 59; collocata a cura
della Società di Mutuo Soccorso Reduci Garibaldini e dall’Istituto
Giuseppe Garibaldi.
Colomba Antonietti Porzi (1826-1849), la giovane combattente di
Venezia e Roma, ha un busto tra gli eroi della passeggiata del
Gianicolo, realizzato nel 1911 da Giovanni Nicolini ed è menzionata,
quale unica donna, in una delle due targhe che commemorano i
patrioti romani caduti per l’indipendenza d’Italia poste nel 1876 sul
prospetto di Palazzo Senatorio.
Giuditta Tavani Arquati (1832-1867), senz’altro la più famosa delle
romane, è commemorata con un busto in via della Lungaretta 95-96,
posto al disopra della targa che ricorda gli avvenimenti che portarono
alla sua uccisione in quella casa nel 1867. La targa è stata collocata
dai cittadini di Trastevere e dalla Società Operaia centrale romana.
A entrambe, Colomba e Giuditta sono state dedicate due scuole:
nel 1932 un’Istituto Professionale Femminile in via dei Papareschi, alla
prima; una Scuola Elementare nel suo Trastevere, alla seconda.
I loro resti sono stati trasferiti nel Mausoleo Ossario Garibaldino
nel 1940 provenienti dalla cripta di S. Cecilia nella chiesa di S. Carlo
ai Catinari, quelli di Colomba, e da una tomba terragna nel Cimitero
del Verano, ancora esistente, quelli di Giuditta.
Nel Mausoleo, realizzato dal Governatorato di Roma, per
accogliere le spoglie dei combattenti per Roma Capitale tra il 1849 e
il 1870, e dove sono conservate le spoglie di Goffredo Mameli, sono
presenti anche le memorie di: Marta Della Vedova, Anastasia Nobili
Nassi, Teresa Valenzi Sorbetti, Orsola Cesari - tutte cadute come
Colomba a Roma nel 1849 - e Luigia Poli, caduta a Bologna nello
stesso anno.
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Alla patriota milanese, Cristina Belgiojoso Trivulzio, tanto attiva a
Roma nel 1849 nell’organizzazione della sanità, insieme a Enrichetta
Di Lorenzo Pisacane e Giulia Paolucci, è stato dedicato un viale nel
XVI Municipio in occasione del 140° anniversario della Repubblica
Romana (1989).
Chiudo con la figura centrale della giornata e con la memoria più
recente a lei dedicata. Infatti in occasione del 150° anniversario
della scomparsa della scrittrice e giornalista americana, in
concomitanza con il Convegno Internazionale di Studi svoltosi nel
novembre del 2000 presso la American Academy of Rome, e su
richiesta della presidentessa della Mazzini Society Giuliana Limiti,
l’Amministrazione comunale ha collocato la targa commemorativa
sul prospetto della dimora romana in Piazza Barberini 2. L’iscrizione
la ricorda così:
“Attiva sostenitrice degli ideali mazziniani
Giornalista e coordinatrice delle infermiere negli ospedali romani
Contribuì alla fraternità politica e democratica
Tra l’Italia risorgimentale e gli Stati Uniti d’America”
Sicuramente molti dei presenti sanno che alla Fuller è intitolato
dal 1962, su proposta dell’Istituto per la Storia del Risorgimento
Italiano, un viale all’interno di Villa Sciarra, non so quanti sanno che
proprio grazie alla richiesta e alla perseveranza di Mario Bannoni a
breve la targa toponomastica sarà corretta rimettendo nel giusto
ordine i cognomi di Margaret: Fuller e Ossoli. Oggi infatti, chi cerca
Fuller nella toponomastica romana, rischia di rimanere deluso, in
quanto compare prima il cognome del marito. Al di sotto dei dati
anagrafici, verrà poi dato il giusto risalto alla sua attività assistenziale
“durante la Repubblica Romana”. L’inaugurazione della nuova targa
è prevista in occasione del tour celebrativo “Seguendo le orme della
Fuller” che si svolgerà tra Roma, Rieti e Firenze il prossimo ottobre.
Concludo con un ringraziamento, considerato, infatti, che gran
parte di queste memorie sono state e sono collocate attraverso il loro
incessante lavoro, colgo l’occasione per ringraziare tutte le
Associazioni che rifacendosi a vario titolo agli ideali risorgimentali,
mantengono viva la memoria delle donne, degli uomini e degli
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avvenimenti, grazie ai quali si è compiuto il sogno dell’Unità d’Italia
con Roma capitale.
Auguro a tutti buon lavoro, esprimendo l’auspicio che l’attività
delle donne in ogni campo trovi la luce della conoscenza.
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Interventi
Margaret Fuller, un'intellettuale e una realizzatrice
Prof.ssa Cristina Giorcelli
Direttrice del Dipartimento di Studi Euro-Americani
dell'Università di Roma Tre e coordinatrice del programma dottorale in studi
americani, autrice di varie pubblicazioni riguardanti la Fuller
Abstract:
M. Fuller, educata dal padre ad essere una intellettuale, fu versata nella
filosofia, nella storia, nelle letterature classiche, nelle lingue straniere.
Sofisticata seguace del Trascendentalismo di R.W. Emerson (che, pur
rivolgendosi a tutti gli essere umani, teneva presenti soprattutto gli uomini),
curò per anni la sua pubblicazione, The Dial, e scrisse il primo pamphlet
statunitense sull'emancipazione femminile (in risposta a quello della inglese M.
Wollestonecraft di circa mezzo secolo prima).
Allo spirito speculativo, tuttavia, unì sempre una straordinaria versatilità nel
far fronte alle necessita' pratiche. Quando lascio' Concord per andare a New
York seppe trasformarsi in giornalista attenta ai problemi sociali, che affrontò
in reportage coraggiosi e controcorrente.
Anche in Europa e in Italia seppe capire il momento storico e scriverne con
passione civile. Dal momento in cui la Principessa Cristina di Belgiojoso la
nominò responsabile dell'Ospedale Fatebenefratelli, mostrò le sue capacità
organizzative in momenti di grande confusione e di mancanza di
coordinamento.
Anche il suo (infausto) ritorno in patria fu dettato da contingenze materiali
(la necessità di lavorare), cui si piegò per il bene dei suoi cari e con nobile
spirito di sacrificio. Un ritorno che si preannunciava così difficile, anche e
soprattutto per le scelte da lei operate mentre era nel nostro paese, da farle
preferire, secondo alcuni, la morte: fu tra i pochi che non raggiunse la
spiaggia quando il cargo a vela su cui viaggiava affondò.
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Ringrazio il Signor Mario Bannoni che, senza alcun supporto
economico, dotato solo di buona volontà e di tanto entusiasmo -- un
entusiasmo che ha contagiato tutti noi che siamo venuti qui oggi -- ha
preso questa bella iniziativa di celebrare Margaret Fuller nel
Bicentenario della nascita. E l’ha fatto scegliendo come luogo di
incontro questo ospedale che tante memorie Fulleriane custodisce.
Bannoni mi ha invitata in quanto americanista e perchè nel
Novembre 2000 ho organizzato, insieme alla collega Giuliana Limiti,
Presidente della Mazzini Society, il Primo Convegno Internazionale che
mai fosse stato dedicato a Margaret Fuller in Italia e, perfino, in
Europa. Il Convegno si tenne sul Gianicolo, alla American Academy,
e, al termine, su nostra richiesta, fu posta una lapide commomorativa
sulla casa di Piazza Barberini/angolo Via Sistina in cui Fuller abitò nel
1848-49.
Da quel Convegno scaturirono due volumi, uno pubblicato in
Dimensioni e Problemi della ricerca storica, edito da Giuseppe
Monsagrati e da me (Roma, Carocci, I, 2001) e un altro intitolato
Margaret Fuller. Transatlantic Crossings in a Revolutionary Age, edito
da Charles Capper (il biografo di Margaret Fuller) e da me (Madison,
Wisconsin University Press, 2007).
Perché ho titolato il mio intervento "Margaret Fuller: un' intellettuale
e una realizzatrice"? Perché, nel sentire comune, l'umanità è divisa in
due gruppi: gli intellettuali, da una parte, e i realizzatori, le persone
pratiche, dall'altra. Di solito alle donne capita di essere catalogate in
questo secondo gruppo! Margaret Fuller è, invece, un fulgido esempio
di come sia stata tanto una donna di notevole spessore culturale (fu
una traduttrice, un critico letterario, una teorica femminista, una
giornalista, una curatrice di volumi, una storica, una scrittrice di
viaggio), quanto una donna che sapeva provvedere alle esigenze di
chi a lei era affidato. Sempre e costantemente, come la sua vita
dimostra.
Nata nel 1810 a Cambridgeport, vicino Boston, nel Massachussets,
era figlia di un avvocato che era stato eletto senatore: apparteneva,
quindi, ad una famiglia agiata. I genitori avevano avuto, dopo di lei,
sei figli maschi. Fu educata dal padre come un uomo. Conosceva il
greco, il latino, era familiare con la letteratura italiana, conosceva
bene il tedesco e la letteratura tedesca (era intenzionata a scrivere una
biografia di Goethe), conosceva bene la letteratura francese e inglese.
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Un'educazione così severa, “maschile,” le compromise, in parte, la
salute: soffrì di incubi e di emicranie terribili fin dall’ adolescenza.
Quando morì il padre, la famiglia sarebbe caduta nell'indigenza, se
Margaret non avesse provveduto. Per mantenerla, prima insegnò, poi
intraprese una pratica che a Boston e nella storia del femminismo fu
il primo germe di istruzione per le giovani: tenne conferenze a
pagamento la Domenica. Queste "conversations," in un momento
storico in cui le donne non venivano normalmente educate che ad
essere buone madri e mogli, furono un formidabile strumento di
formazione. Le sue lezioni toccavano gli argomenti più vari: dalla
letteratura greca e latina, alla storia, alla storia dell'arte, alla
mitologia, alla demonologia, addirittura.
Nel 1840 Fuller fu segnalata a R. W. Emerson, il teorico del
Trascendentalismo, come persona intelligente e capace e per due anni
fu la curatrice della sua rivista, il Dial . Non si limitò, tuttavia, soltanto
a preparare impeccabili fascicoli, ma scrisse anche 33 saggi per
questa rivista. La collaborazione con Emerson finì due anni dopo,
sostanzialmente perchè Fuller aveva bisogno di guadagnare e per
divergenze di carattere. Si formò nel circolo trascendentalista, così,
l’opinione che Fuller fosse una donna aggressiva, supponente, troppo
sarcasticamente ironica. È probabile che, a tratti, ella abbia mostrato
queste caratteristiche, ma certamente la sua personalità era costituita
anche da ben altre qualità-- quali: la cultura, l’indipendenza di
giudizio, la forza eumeneutica, l’audacia di posizioni contro-corrente
-- che quel mondo non seppe apprezzare e valorizzare. Nel 1843 sul
Dial pubblicò il primo saggio, che oggi potremmo chiamare
femminista, nel suo paese: “The Great Lawsuit”; nel 1845 l’ opera fu
ripubblicata in formato di opuscolo con il titolo Woman in the
Nineteenth Century. Il suo intento era, soprattutto, quello di
rivendicare la parità di diritti tra uomini e donne, in quanto partecipi
della stessa “anima divina” (la “oversoul” emersoniana). Come alcune
scrittrici abolizioniste prima di lei, Fuller paragonò, in quest’opera, la
condizione della donna a quella dei neri.
Nel 1844 entrò a far parte dello staff del giornale The New-York
Daily Tribune, il cui direttore, H. Greeley, credette nelle sue capacità.
Fuller, quindi, passò da una fase teorico-filosofica (quella
trascendentalista) concentrata sullafiducia nella crescita personale,
nella possibilità, cioè, che ciascuno possa e debba sviluppare le
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potenzialità che possiede, ad un interesse anche pratico nei confronti
della societàe, quindi, a favore delle riforme sociali. I suoi interventi sul
giornale si indirizzarono, infatti, anche verso tematiche civili, quali: le
prigioni femminili, la condizione delle prostitute a NewYork , i
manicomi, gli ospedali per i poveri. Fuller divenne, in altre parole, una
-- come la chiameremmo oggi -- “intellettuale impegnata.”
Nel 1846 accettò la proposta fattale da alcuni amici di venire in
Europa come istitutrice del loro figlio. Il direttore del suo giornale, per
l’occasione, la nominò corrispondente dall'estero. Fuller fu la prima
donna a ricoprire questo ruolo negli Stati Uniti. Andò prima in
Inghilterra, dove conobbe personaggi importantissimi, come Carlyle,
Worthsworth, e anche Giuseppe Mazzini. Poi andò a Parigi, dove
conobbe George Sand, Chopin, e anche Lamennais e Considerant.
Il 27 Marzo 1847 arrivò a Roma. Il Giovedì Santo conobbe il
Marchese Giovanni Angelo Ossoli, per caso, a San Pietro, che allora
era, per gli stranieri, un luogo d'incontro, una specie di grande salotto.
A Maggio lasciò Roma per viaggiare nel Centro e nel Nord d’Italia con
la famiglia con cui era venuta in Europa. A Milano fece una serie di
incontri importanti: con Alessandro Manzoni, per esempio. In Ottobre
ritornò da sola a Roma, forse anche perché desiderava rivedere
Ossoli. Da Roma scrisse corrispondenze molto incisive per il New-York
Daily Tribune. Si tratta di articoli che mescolano, soprattutto all'inizio,
le impressioni di viaggio, i commenti sulle opere d'arte e sulle
caratteristiche della sua popolazione ai commenti politici. Nel
Settembre dell’anno successivo, 1848, nacque a Rieti il figlio, Angelo
Eugene Philip. Dopo due mesi Fuller lasciò il figlioletto alle cure di una
nutrice e tornò a Roma. Con lo scoppio dei moti rivoluzionari e la fuga
di Pio IX dalla città (24 Novembre), i suoi reportage si concentrarono
sempre di più sulla situazione politica italiana e romana, in
particolare. Sono corrispondenze formidabili per passione civile e,
soprattutto, per la foga con cui cercò di persuadere il governo del suo
paese ed i suoi concittadini a venire al soccorso di una Repubblica
sorella. La sua adesione ai principi Mazziniani fu totale. Ma tutto fu
invano.
Durante l’assedio della città da parte delle truppe francesi (dal 28
Aprile 1849), comandate dal Generale Nicolas C.V. Oudinot, il suo
legame con l'Italia e con la città di Roma si fece sempre più forte, tanto
21
che la Principessa Cristina di Belgiojoso la nominò “regolatrice” di
questo ospedale Fatebenefratelli dove venivano ricoverati i feriti di
ambo le parti. Anche Ossoli partecipò ai combattimenti sul Gianicolo
a fianco dei patrioti. In una corrispondenza del 27 Maggio, dopo un
cannoneggiamento sulla città, Fuller scrisse:
Sono rimasta sulla loggia a contemplare la città. Tutto dorme con quella speciale
aria di serena maestà che solo questa città possiede. Questa città che è cresciuta non
per via delle necessità del commercio o dei lussi della ricchezza, ma prima di tutto per
via dell’eroismo, e poi della fede. [...] La luna sale tra le nuvole [...] è possibile che il
tuo globo guardi su una Roma che fuma e brucia e veda il suo sangue migliore scorrere
tra le pietre senza che ci sia uno al mondo che la difenda, uno che venga in aiuto -neppure uno che gridi un tardivo”Vergogna!”?
E poi, quando tutto fu compiuto, così si espresse in un articolo del
6 Luglio:
Ieri sono andata a vedere le scene del conflitto. Avevo persino timore a guardare
le ville Quattro Venti e Vascello [...] tutte fatte a pezzi [...] Fui colpita più che mai
dall’eroico valore dei nostri, lasciatemelo dire, come l’ho detto sempre, perchè
dovunque io vada una gran parte del mio cuore rimarrà per sempre in Italia. Spero che
i suoi figli mi riconosceranno sempre come una sorella, sebbene non sia nata qui.
Dopo l’ingresso dei francesi a Roma, Fuller, con Ossoli e il
bambino, ripararono prima a Rieti e poi a Firenze. Nel Maggio
dell’anno successivo, poichè i mezzi per vivere potevano venire loro
solo dalla sua penna (Ossoli non aveva mai lavorato), si decise a
lasciare l’Italia con loro per ritornare nel suo paese. Furono una
partenza ed un viaggio carichi di presagi negativi, che terminarono il
19 Luglio 1850 con il naufragio della nave a vela su cui viaggiavano,
la “Elizabeth,” davanti alla costa di New York –naufragio in cui tutti e
tre perirono. Poichèquindici dei ventidue passeggeri si salvarono
raggiungendo la terraferma, Perry Miller ha persino avanzato l’ipotesi
che, stremata dalle preoccupazioni per il futuro, timorosa
dell’accoglienza che avrebbe ricevuto dal suo mondo (non si è mai
trovato alcun documento che testimini l’avvenuto matrimonio tra lei e
Ossoli, per esempio), Fuller abbia scelto di lascarsi andare. Nelle
acque dell’Atlantico si perse anche il manoscritto di una storia dei
22
movimenti rivoluzionari italiani, che aveva dichiarato di stare
scrivendo.
Fuller ebbe certamente una vita difficile, cui fece fronte, come
meglio potè, attingendo con coraggio alle risorse della sua
intelligenza e delle sue doti pratiche. Fu certamente la statunitense che
più cercò di aiutare, con l’una e con le altre, il nostro popolo,
entrando, così, nella nostra storia. Le dobbiamo riconoscenza.
La Prof.ssa Cristina Giorcelli, fra l’altro, è
autrice di un saggio dedicato a Margaret
Fuller, uscito nella raccolta “Gli
Americani e la Repubblica Romana del
1849”, co-curata da Sara Antonelli,
Daniele
Fiorentino,
e
Giuseppe
Monsagrati e pubblicata da Gangemi.
Inoltre è stata co-organizzatrice del
Convegno su M. Fuller tenuto presso
l'Accademia Americana di Roma nel
2000, e ha co-curato la pubblicazione
degli atti relativi nella rivista "Dimensioni
e Problemi della Ricerca Storica".
Ha anche co-curato una scelta dei saggi usciti
in tale rivista e pubblicati dalla Wisconsin
University Press nel 2007 in un volume dal
titolo “Margaret Fuller: Transatlantic Crossings
in a Revolutionary Age”.
23
Mario Bannoni
Leggo ora una breve lettera redatta in inglese, inviata a Margaret il 30
aprile 1849 su carta intestata del Comitato di Soccorso pei Feriti
Cara Miss Fuller,
siete nominata Regolatrice dell’Ospedale Fate Bene Fratelli.
Andate lì alle dodici se la campana d’allarme non avrà suonato prima.
Quando arrivate là, riceverete le donne che verranno per i feriti e
darete loro le vostre istruzioni in modo da assicurarvi di averne un certo
numero, di notte e di giorno.
Possa Dio aiutarci.
Cristina Trivulzio di Belgiojoso
24
Novità storiografiche sulla Repubblica Romana
Prof. Marco Severini
dell’Università di Macerata, Dipartimento scienze storiche e documentarie
ricercatore e autore di vari libri sulla Repubblica Romana inquadrerà il momento
storico in cui la essa ebbe luogo
Abstract:
Nell'ultimo quindicennio si è assistito a una sostanziale revisione degli studi e
delle interpretazioni sulla Repubblica Romana del 1849.
Grazie a questa stagione di studi si è potuto meglio articolare il periodo
repubblicano, analizzare le cause principali del suo fallimento, ricostruire il
ruolo di protagonisti e comprimari e circoscrivere con maggiore attenzione le
eredità che la Repubblica ha lasciato alla storia nazionale (costituzione
moderna, laicità dello Stato, iniziativa popolare, relazioni internazionali
basate sugli ideali di fraternità e di collaborazione etc.).
Molti sono i temi che sono apparsi al centro della ricerca storiografica, ma
cinque appaiono i più importanti:
• l'esame analitico di come si è svolta la vicenda repubblicana nelle diverse
periferie dello Stato.
• l'ampliamento dei temi di indagine che hanno lasciato il prediletto
orientamento politico-militare per spostarsi su aspetti di storia sociale,
culturale, di genere, etc.
• l'accertamento di che cosa abbia reppresentato nel corso di un secolo e
mezzo di storia italiana la Repubblica dopo la Repubblica, sia nel senso
del radicamento della memoria storica a livello popolare e istituzionale,
sia nell'ambito della ricezione degli eventi del 1849 sul piano strettamente
storiografico.
• le ragioni, essenzialmente di natura politica e ideologica oltre che
culturale, che hanno portato nel secondo dopoguerra ad un costante oblio
25
•
dell'epopea quarantanovesca.
l'assunzione della Repubblica Romana tra gli episodi fondativi dell'identità
italiana.
Nel 1999, in occasione del 150° anniversario della Repubblica
Romana, la «Rassegna storica del Risorgimento» realizzò un Numero
speciale dedicato all’avvenimento: un fascicolo indubbiamente
importante, al quale partecipavano insigni nomi degli studi
risorgimentali, ma che destava l’interesse degli addetti ai lavori anche
per altri due aspetti, la notevole attenzione riservata agli avvenimenti
del 1848 e la presenza di una adeguata rassegna di studi
sull’esperienza quarantonovesca1.
Se ciò costituiva un indubbio passo in avanti rispetto all’oblio in cui
la Repubblica Romana era rimasta per quasi tutta la seconda metà del
Novecento, latitavano d’altra parte sia il senso di una prospettiva
nuova ed efficace attorno a cui impostare una nuova fioritura di studi
sia l’idea di affidare ad una nuova e qualificata leva di studiosi questo
rinnovamento storiografico.
Rinnovamento che si è indubbiamente verificato in questo ultimo
decennio, ma che per una complessa serie di ragioni, non ultima
quella della circolazione editoriale, non ha pienamente attecchito.
Non è un caso che in un recente volume Giulia Colombo abbia
introdotto il suo breve intervento con le seguenti parole:
La storiografia italiana recente ha dato poco spazio all’analisi degli
eventi legati alla proclamazione della seconda Repubblica romana.
Questa carenza può essere collegata ad una più generale tendenza a
considerare gli episodi rivoluzionari italiani del 1848-1849 in una
prospettiva di lungo periodo, come tappa intermedia del processo di
unificazione nazionale2.
Tale valutazione se può essere sostanzialmente condivisa per la
seconda parte, va decisamente rivista per quanto riguarda la prima.
Infatti già nel 2005 Lidia Pupilli aveva pubblicato sulla «Rassegna
storica del Risorgimento» una puntuale rassegna dei principali studi e
contributi sulla Repubblica del 1849 proprio a partire dal sopra citato
Numero speciale del 1999: da questo intervento risultava chiaramente
la vivacità della riflessione euristica e storiografica sugli avvenimenti
quarantanoveschi sia per quanto riguarda la dimensione romana sia
26
per quanto concerne quella periferica e regionale3.
Non è questa la sede per ricordare tutti questi studi scientifici – ai
quali si sono accostate di recente anche due ricostruzioni realizzate da
giornalisti che hanno riscosso un certo successo ma che fin dal titolo
hanno tradito una visione storica datata4 – ma pare almeno
opportuno citare i principali settori indagati.
Su un piano generale, restando nell’ambito delle ricerche
propriamente scientifiche, sono comparse due distinte ricostruzione
d’insieme ad opera del sottoscritto (2002 e 2006)5, la seconda delle
quali, sia per la rapidità con cui sono state esaurite le copie di edizione
sia per difficoltà di distribuzione editoriale, ha fornito la base per una
ulteriore rilettura che vedrà le stampe nella seconda metà di questo
2010.
Così come hanno sviluppato proficui percorsi tematici ed euristici
sia il volume collettaneo frutto della mostra allestita nell’autunno 1999
con la documentazione originale dell’Archivio di Stato di Roma e
pubblicato, in collaborazione con la Rivista Storica del Lazio,
dall’editore Gangemi nel dicembre dello stesso anno (volume che
tratta aspetti di carattere istituzionale, politico, militare e
costituzionale)6, sia il volume posto in essere dalla Biblioteca di storia
moderna e contemporanea, curato da Lauro Rossi e stampato da
Palombi nel 2001, che si occupa degli aspetti politico-militari
dell’epopea repubblicana7.
Di grande impatto storiografico è risultato anche il volume
promosso dal Centro Studi Americani di Roma sul rapporto tra gli
americani e la Repubblica del 1849, opera che tra l’altro indaga il
ruolo e le figure degli statunitensi che, presenti nella Roma del ’49 –
su tutti Margaret Fuller e i diplomatici Nicholas Brown e Lewis Cass jr.
– sostennero la causa repubblicana, lo spazio e l’interesse che la
cultura statunitense dedicò alle vicende repubblicane, la raccolta di
testi e documentazioni inedite, insieme all’impossibilità del governo di
Washington di riconoscere il regime mazziniano per timore di
un’impasse che avrebbe potuto alterare le relazioni tra Stati Uniti e
grandi potenze europee8.
Non meno significative due monografie uscite nel 2003. Irene
Manzi ha finalizzato interessi e ricerche di medio periodo in un’opera
densa e agevole che tratta sotto diversi aspetti la carta costituzionale
della Repubblica promulgata il 3 luglio 1849, alla vigilia della sua
27
caduta9, mentre Giuseppe Monsagrati, cui si devono molteplici
ricerche su personaggi e aspetti del periodo quarantanovesco, ha
ricostruito
le
diverse
fasi
storiche
della
Repubblica,
contestualizzandole, da una parte, con le sue origini quarantottesche
e, dall’altra, con la memoria dell’evento nella pubblicistica e nella
storiografia risorgimentale: se Roma e i romani hanno inserito senza
difficoltà nella tradizione storica cittadina la Repubblica del 1849, con
maggior difficoltà quest’ultima, specie nel corso del ventesimo secolo,
è divenuta uno degli episodi fondativi dell’identità nazionale
italiana10.
In una dimensione periferica, vanno invece segnalati sia i primi
tentativi di ricostruzione su scala regionale11 sia rigorose edizioni di
testi riguardanti l’assedio di Roma, memoriali di nobildonne e
benestanti, diari e ricordi di donne12.
Un altro contributo determinante è giunto dalla ricerca biografica
che all’interno di dizionari di ampio respiro o di natura tematica
oppure nell’ambito di ricerche svolte per atti congressuali o, ancora,
in una dimensione monografica, hanno illustrato temi e aspetti di
grande rilevanza13. A questi si è aggiunto, nell’aprile 2010, la
biografia di Mazzini scritta da Giovanni Belardelli e fresca di
stampa14, su cui si avrà modo di ritornare.
Volendo sintetizzare le novità interpretative proposte dalla maggior
parte di questi studi non può non sfuggire sia la sottolineatura della
centralità dagli eventi romani nel più ampio contesto risorgimentale
sia la sua capacità di lasciare cospicue eredità sul piano politico,
militare, costituzionale e civile al costituendo Stato italiano.
Se la mancanza di un coordinamento concreto ed efficace tra tutte
le forze democratiche italiane e l’ostilità dell’Europa all’idea di una
penisola politicamente unificata, e dunque l’isolamento internazionale
della Repubblica, furono le due principali cause del fallimento
dell’epopea quarantanovesca, quest’ultima lasciò eredità talmente
rilevanti da essere recepite, pur con notevole ritardo, dallo Stato
italiano.
La laicità dello Stato, contestualmente alle garanzie offerte alla
Chiesa cattolica (e agli altri culti) per l’esercizio del potere religioso;
l’iniziativa popolare e le libere decisioni di un’Assemblea
rappresentativa come principi basilari della nuova comunità
nazionale; l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; una
28
Carta costituzionale che costituisse insieme la legge fondamentale
dello Stato e la suprema garanzia dei diritti e dei doveri degli italiani;
la partecipazione politica e civile come forma di dialogo e di incontro
tra i membri di una nazione; delle relazioni internazionali non più
basate sulla guerra e sull’oppressione, ma sulla fraternità e la
collaborazione dei popoli come su un’Europa libera e unita: e, di
conseguenza, l’intuizione, tutta mazziniana e democratica prima che
liberale e cavouriana, che senza il sostegno di una grande potenza
europea il sogno dell’Italia unita fosse destinato a non concretizzarsi.
Accanto a questi elementi, altri, non certo meno importanti, sono
andati caratterizzandosi sul piano storiografico: la necessità di una
periodizzazione meglio articolata degli avvenimenti (con un prologo
compreso tra la fuga di Pio IX, 24 novembre 1848, e l’approvazione
del decreto fondamentale con cui nacque la Repubblica, 9 febbraio
1849: un primo periodo di governo repubblicano guidato dal
Comitato esecutivo, 9 febbraio-29 marzo 1849; la fase del triumvirato
mazziniano, 29 marzo-30 giugno ’49; un epilogo ristretto a pochi
giorni, ma ricco di avvenimenti di grande rilievo politico e simbolico,
30 giugno-4 luglio 1849); il rapporto tra la genesi romana della
Repubblica e il suo qualificarsi come base di uno Stato italiano
(avallato in ciò dalla rappresentatività italiana in seno ai diversi
esecutivi, all’Assemblea costituente, ai vertici militari, al corpo
diplomatico, alla dirigenza e ai governi locali insediatasi con le
elezioni amministrative del marzo-aprile 1849), democratico e
moderno, forse troppo avanzato per i tempi; l’evidente desiderio di
rinnovamento e modernizzazione avanzato dalla Repubblica venne
condiviso sia dai numerosi patrioti italiani giunti a Roma con l’idea di
partecipare a un grande momento di riscatto nazionale sia dalla
nuova classe dirigente, omogenea a livello socio-professionale quanto
composita nella precedente militanza politico-amministrativa15.
Molte storie individuali, del resto, richiedono ricerche specifiche o
una migliore contestualizzazione: se è indubbio che Mazzini visse la
prima ed unica esperienza di governo della sua esistenza, il suo ruolo
di «statista di razza» palesato in quei tre mesi del ’49 è stato messo in
dubbio dal recentissimo saggio di Belardelli che, in verità, si sofferma
più sulla cultura politica mazziniana, romantica e di derivazione
rousseauiano-giacobina, e sulla sua contrarietà ai partiti e alle regole
dell’assemblea rappresentativa che non sulla complessa visione
29
internazionale degli eventi che il genovese rivelò nella Roma
quarantanovesca16.
Come hanno ampiamente dimostrato gli studi di Mauro Ferri17, si
attuò sotto la Repubblica, nonostante una conflittualità iniziale tra
Mazzini e la Costituente e la propensione del primo verso una dittatura
sui generis, uno stretto legame fra triumvirato mazziniano e
Assemblea, legame non privo di temporanei attriti e incomprensioni,
ma fondato sul rispetto e la fiducia reciproci.
D’altra parte, Mazzini fu l’anima e il motore del nuovo governo: la
speranza in una ripresa della guerra d’indipendenza, contenuta nello
stesso proclama indirizzato dal Triumvirato alla popolazione nel
giorno stesso del suo insediamento, svanì ben presto e rese centrale il
compito di salvare la Repubblica. Il Triumvirato mazziniano, in ogni
caso, segnò il momento più alto e democratico della vita della
Repubblica Romana che divenne, nella primavera del 1849, la
capitale di uno Stato italiano, moderno e laico, che concentrò mezzi
ed energie per assicurare una sopravvivenza sempre più minacciata
dall’incombente intervento militare straniero e, contestualmente,
intensificò l’azione di rinnovamento istituzionale, politico e sociale già
intrapresa nella fase di interregno post-pontificio e sotto il Comitato
Esecutivo.
In sostanza, la grandezza della caratura politica di Mazzini
consistette in una realistica visione degli eventi europei – come del
resto contestare al genovese l’idea (poi mutuata da Cavour) che
l’unificazione politica della penisola non potesse essere disgiunta dal
sostegno di una potenza europea di primo piano come la Francia –
nel porre il suo impegno indefesso e quotidiano a disposizione di tutti
(a partire dai singoli cittadini, visto che era solito mangiare in una
comune trattoria e dormire in una modesta dimora, rifiutando ogni
tipo di sfarzo) e nel credere fermamente che la Repubblica, nata quasi
un mese prima del suo arrivo a Roma, dovesse rappresentare il primo
nucleo fondativo di un’Italia finalmente libera, indipendente,
democratica e repubblicana18.
Dal canto suo, Garibaldi fu indubbiamente il personaggio più
popolare della Repubblica, l’autentica icona del 1849 anche per
l’opinione pubblica europea, ma si trovò solo e incompreso da parte
delle autorità repubblicane: infatti, tra il nizzardo e il governo romano,
al di là di frizioni personali ed episodiche, si rivelò una chiara diversità
30
di vedute dal momento che egli contrappose, alla difesa statica di
Roma voluta da Mazzini sulla base di una valutazione sostanzialmente
politica, una guerra di movimento ed offensiva, pronta a sfruttare le
diverse forme di lotta popolare e ad esportare, attraverso le
insurrezioni, la guerra rivoluzionaria19.
Non pochi personaggi su cui si è soffermata l’attenzione degli studi
recenti, inoltre, sono rimasti sostanzialmente imprigionati nelle gabbie
interpretative allestite alla rinfusa e in una cornice oleografica dalla
storiografia post-risorgimentale: clamoroso per certi versi il caso di
Carlo Armellini, triumviro e vero uomo per tutte le stagioni della
congiuntura repubblicana, il quale, pur potendo beneficiare di una
vera e propria biografia che è stata realizzata con criteri aggiornati e
ha fatto giustizia di non poche inesattezze tramandatesi fino al
secondo dopoguerra, veniva ricordato nella sopra citata rassegna del
1999 non certo per questa biografia, ma per la succinta ed errata
scheda biografica realizzata nel 1965 da Renzo De Felice per il
Dizionario biografico degli italiani20.
In ogni caso, sono stati proprio i più recenti studi sulla Repubblica
romana a sviluppare le più interessanti suggestioni interpretative e,
dunque, a delineare una serie di obiettivi per le nuove ricerche
sull’argomento.
Un primo è costituito dallo sforzo di ricostruire analiticamente come
si sia svolta la vicenda repubblicana nelle diverse periferie dello Stato,
cercando di esaminare chi ha assunto il potere, come si siano svolte
le elezioni amministrative, quale tipo di contributo è stato offerto su
scala locale per divulgare gli istituti repubblicani e difendere il
territorio invaso da quattro Stati europei (il cui intervento – è bene
ricordarlo – venne formalmente richiesto da Pio IX per riprendere
possesso del potere temporale), quale tipo di approccio memoriale si
sia sedimentato nel tessuto nazionale e locale.
Un secondo aspetto concerne i diversi temi che tuttora meritano un
articolato approfondimento: un più analitico studio delle relazioni che
la Repubblica cercò di intrattenere su scala nazionale e internazionale,
il ruolo delle donne21, degli ebrei22, insomma di categorie sociali
saltuariamente rese oggetto di studi specifici.
In particolare, appare oggi ben contestualizzato il ruolo svolto nella
Roma quarantanovesca dalla giornalista statunitense Margaret Fuller
(1810-1850), una delle voci più autentiche e originali dell’epopea
31
quarantanovesca: osservatrice attenta e scrupolosa, la Fuller sostenne
apertamente gli ideali di libertà e democrazia, fu particolarmente
vicina a Mazzini sul piano ideologico ed emotivo e scorse negli eventi
repubblicani la vibrazione dello spirito egualitario della madre patria,
invitando (senza successo) quest’ultima a sostenere il governo della
Repubblica e criticando apertamente il comportamento falso e
menzognero tenuto nella circostanza dalla Seconda Repubblica
francese. Corrispondente del «New-York Tribune», foglio radicale che
avrebbe dal 1852 pubblicato anche articoli di Karl Marx, e
“regolatrice” dell’Ospedale Fatebenefratelli su nomina di Cristina
Trivulzio di Belgiojoso, fu una delle poche voci straniere che rimasero
colpite dalla Roma moderna, attiva e ricca di speranza politica,
anziché di quella classica e oleografica, e spese tutta se stessa per far
conoscere agli americani, in maniera meticolosa quanto solidale, la
coraggiosa partita che gli italiani stavano giocando al centro della
penisola in quella coda della rivoluzione dei popoli così tanto
disprezzata dalle cancellerie europee. La sua scrittura ora partecipe e
vibrante ora delusa e amareggiata, la sua figura eclettica e romantica,
la sua fine drammatica – perì tornando in patria, il 17 maggio 1850
insieme al marito, il marchese Giovanni Angelo Ossoli, e al loro figlio
Angelino, nel naufragio a largo di New York di una nave partita da
Livorno – hanno destato un’attenzione da parte di storici e studiosi che
non pare essersi ancora esaurita23.
Un terzo obiettivo consiste nell’esaminare cosa abbia rappresentato
la Repubblica dopo la Repubblica sia nel senso del radicamento della
memoria storica a livello popolare e sia sul piano della ricezione sul
piano storiografico. Sotto quest’ultimo punto di vista, va ricordato che
solo con le tre grandi opere storiche realizzate tra la fine della seconda
guerra mondiale e il 1960 (Rodelli, Di Nolfo, Candeloro) e con le
mostre e le iniziative organizzate per il centenario della Repubblica si
è potuto disporre di ricostruzioni d’insieme capaci di entrare nelle
biblioteche degli italiani.
Tuttavia a questa fase proficua, terminata nel 1960, ha fatto seguito
un trentennio di pressoché totale oblio, poi riscattato dalla prima,
innovativa ricerca di autentico rilievo storiografico come quella sulle
comunità laziali di Franco Rizzi24.
Un quarto punto di vista è strettamente collegato al secondo: chi ha
voluto la fuoriuscita della Repubblica romana dal panorama e
32
dall’identità storica nazionale? Indubbiamente, le forze politiche e
ideologiche che hanno dominato la scena culturale italiana del
secondo dopoguerra, quelle di estrazione marxista e cattolica, non si
sono mostrate interessate a sviluppare nuove ricerche sulla Repubblica
del 1849 così come, su un piano più generale, sul Risorgimento.
Tuttavia va ricordato come, proprio nel corso delle celebrazioni
centenarie in Parlamento, fossero stati due intellettuali di punta, come
il comunista Concetto Marchesi e il cattolico Igino Giordani, a
riportare la calma in una commemorazione infuocata dal settarismo
politico.
In un’aula di Montecitorio arroventata da polemiche e accuse
reciproche tra i deputati dei diversi schieramenti politici, alla metà del
pomeriggio del 9 febbraio 1949, Marchesi, insigne filologo e storico
della letteratura latina, affermò che «la lampada accesa in Roma nel
1849» era tutt’altro che spenta ad un secolo di distanza e aveva
segnato «i passaggi da uno all’altro orizzonte della storia umana»,
mentre quella Repubblica aveva avuto sì una vita breve, ma aveva
conosciuto una morte così eroica che conteneva «in sé i germi vitali dei
grandi avvenimenti» e aveva riportato il popolo al governo della
nazione, senza che gli eserciti stranieri potessero arrestare «la storia
della nuova Italia»25.
Dal canto suo Giordani si associava alla «celebrazione» del
centenario di un avvenimento che era stato «deprecato dai nostri
padri» e aveva suscitato polemiche «fra i nostri e i vostri pionieri»; di
seguito, il «cattolico militante» Giordani ricordava l’importanza di
Mazzini nella Roma quarantanovesca, il suo spirito di concordia al di
sopra delle parti, il suo programma «di ricostruzione politica e sociale
d’Italia e d’Europa», che aveva esposto con una chiarezza tale da
renderlo uno dei «grandi istruttori dell’umanità» in quanto artefice di
quel «carattere universale» espresso nella formula Dio e Popolo, che
non era diversa ma complementare al Dio e libertà propria dei padri
del movimento cattolico: un’idea, quella mazziniana, che secondo
Giordani era ancora, nel 1949, di grandissima attualità perché «dava
alla politica tutt’altro significato», poiché il popolo diventava
l’interprete della volontà divina. Mazzini era stato il pedagogo della
nuova politica basata su valori morali visto che Giordani concludeva
il suo intervento, applauditissimo, con questo suggestivo invito:
«Prendiamo da Mazzini l’insegnamento di una fedeltà ai valori
33
spirituali, che nessuna violenza, nessun odio stupido e criminale può
distruggere»26.
Il Prof. Marco Severini si occupa da molti
anni di storia e storiografia politica
dell'età risorgimentale e contemporanea.
I suoi principali temi di ricerca sono stati
Mazzini e la Repubblica Romana del
1849, Garibaldi, l'età giolittiana, il
problema dei notabili e lo studio della
rappresentanza parlamentare.
Fra
l’altro, nel 2002 è stato autore di “Diario
di un repubblicano. Filippo Luigi Polidori
1
e l'assedio francese alla Repubblica
romana del 1849”, pubblicato da
Affinità Elettive Edizioni.
Nel 2004 è stato co-aoutore insieme con
Pietro Pistelli de “L' alba della democrazia.
Garibaldi, Bruti e la Repubblica romana”,
pubblicato dal medesimo editore.
Il suo prossimo libro sulla Repubblica
romana è previsto per quest’anno.
Sulla rilevanza di questo Numero speciale e sulle ricerche uscite tra la fine del secolo scor-
so e quello attuale si veda M. Severini, Il preludio della Repubblica. Gli studi recenti sulla
Repubblica Romana del 1849, in «Rinascita della Scuola», 2003, n. 2, pp. 71-79.
2
G. Colombo, La Rivoluzione in convento. Lettere di religiose nella seconda Repubblica roma-
na, in Scritture di donne. La memoria restituita, a cura di M. Caffiero e M. I. Venzo, Roma,
Viella, 2007, p. 347.
3
L. Pupilli, La recente storiografia sulla Repubblica Romana del 1849, in «Rassegna storica
del Risorgimento», a. XCII, supplemento al fasc. III, Numero speciale per il bicentenario della
nascita di Giuseppe Mazzini, 2005, pp. 65-78.
4
34
C. Fracassi, La meravigliosa storia della repubblica dei briganti. Roma 1849: Mazzini,
Garibaldi, Mameli, Milano, Mursia, 2005; S. Tomassini, Storia avventurosa della rivoluzione
romana. Repubblicani, liberali e papalini nella Roma del ’48, Milano, Il Saggiatore, 2008.
5
M. Severini (a cura di), Studi sulla Repubblica Romana del 1849, Ancona, affinità elettive,
2002, e Id. (a cura di), La primavera della nazione. La Repubblica Romana del 1849, Ancona,
affinità elettive, 2006.
6
Archivio di Stato di Roma, Roma, Repubblica, venite: percorsi attraverso la documentazione
della Repubblica romana del 1849, Roma, Gangemi, 1999.
7
Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, Fondare la nazione. I repubblicani del 1849
e la difesa del Granicolo, a cura di L. Rossi, Roma, Palombi, 2001.
8
Gli Americani e la Repubblica Romana del 1849, a cura di S. Antonelli, D. Fiorentino, G.
Monsagrati, Roma, Gangemi, 2000.
9
I. Manzi, La Costituzione della Repubblica Romana, introduzione di M. Severini, Ancona,
affinità elettive, 2003.
10 G. Monsagrati, La Repubblica Romana del 1849, in Almanacco della Repubblica, a cura di
M. Ridolfi, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 84-96.
11 M. Severini, Nascita, affermazione e caduta della Repubblica Romana, in La primavera della
nazione, cit., pp. 60-97.
12 Pupilli, La recente storiografia sulla Repubblica Romana del 1849, cit., pp. 69-72. Tra le edi-
zioni uscite dopo il 2006 va ricordato il volume A corte e in guerra. Il memoriale segreto di Anna
de Cadilhac, a cura di R. De Simone e G. Monsagrati, Roma, Viella, 2007.
13 Pupilli, La recente storiografia sulla Repubblica Romana del 1849, cit., pp. 72-78.
14 G. Belardelli, Mazzini, Bologna, il Mulino, 2010.
15 M. Severini, Attualità della Repubblica Romana del 1849, in «Il Pensiero Mazziniano», 3,
2008, pp. 28-33.
16 Belardelli, Mazzini, cit., pp. 145-157.
17 M. Ferri, Mazzini uomo di governo, in Pensiero e Azione: Mazzini nel movimento democrati-
co italiano e internazionale, Atti del LXII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Genova,
8-12 dicembre 2004, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2006, pp. 54 e ss.
18 Severini, Nascita, affermazione e caduta della Repubblica Romana, in La primavera della
nazione, cit., pp. 53-54.
19 M. Severini, Garibaldi repubblicano, in Id. (a cura di), Garibaldi eroe moderno, Roma,
Aracne, 2007, pp. 79-94. Si vedano anche L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, RomaBari, Laterza, 2007, pp. 55-104 e M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007, pp. 9-26.
20
M. De Nicolò, Gli studi sulla Repubblica Romana negli ultimi cinquanta anni, in L’opera
della municipalità romana durante la Repubblica del 1849. Atti della Giornata di Studi (Roma,
19 aprile 1999 – Sala Promoteca), a cura di E. Capuzzo, Comune di Roma – Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, «Rassegna storica del Risorgimento», LXXXVI, 1999,
35
Numero speciale per il 150° anniversario della Repubblica romana (d’ora in poi Numero speciale), pp. 115-150.
21 S. Soldani, Donne e nazione nella rivoluzione italiana del 1848, in «Passato e presente», XVII
(1999), pp. 75-102; R. De Longis, Patriote e infermiere, in Fondare la nazione, cit., pp. 99-107;
M. Severini, Diario di un repubblicano. Filippo Luigi Polidori e l’assedio francese alla Repubblica
Romana del 1849, affinità elettive, Ancona 2002, pp. 47-53; La primavera della nazione, cit., pp.
206-226.
22 E. Capuzzo, Gli ebrei e la Repubblica Romana, in Numero speciale, pp. 267-286.
23 Mentre per una ricostruzione generale e per un aggiornamento bibliografico e storiografi-
co si rimanda ai diversi saggi del volume Gli Americani e la Repubblica Romana del 1849, va
notato che alla Fuller G. Mosagrati ha dedicato un profilo sul Dizionario biografico degli italiani (vol. 50, 1998, pp. 703-707), mentre Mario Bannoni sta concludendo una monografia sulla
giornalista bostoniana.
24 F. Rizzi, La coccarda e le campane. Comunità rurali e Repubblica Romana nel Lazio (1848-
1849), Milano, FrancoAngeli, 1988.
25 Severini, Attualità della Repubblica Romana del 1849, cit., p. 38.
26 Ibidem, pp. 39-40.
36
Mario Bannoni
Lettura di uno stralcio di una lettera che Margaret ricevette il 9 giugno 1849
Volete mostrarvi donna e perdonare? Merito d'esser perdonato; se
poteste passare tutto un giorno vicino a me vi maravigliereste non del
mio silenzio con quelli che amo, ma che io sia vivo!
Dalle sette della mattina, ieri, alle sette di sera sono stato continuamente a scrivere, a scrivere per fino mentre parlo con la gente, .... Alle
sette fui chiamato al letto di un amico, Mameli1, un giovane poeta e
soldato promettente: dovevo persuaderlo a sopportare l'amputazione
della gamba... non si potè fare ...; lo lasciai alle nove, ... di nuovo fino
al tocco dopo mezzanotte. Ogni cosa, dal particolare di un soldato
arrestato... alla difesa; da una disputa... a una discordia fra due generali: ogni cosa viene fino a me.
Perfino a mia madre scrivo raramente poche parole. Se la cosa
dovesse durare a lungo, non v'è forza né volontà umana che possa resistere. ...
Ho pensato a voi spesso; la sola cosa che potevo fare.
Conservatevi fedele e fiduciosa; pregate per Roma e per l'Italia: è concentrata qui!
Sempre vostro.
Giuseppe Mazzini
1
Goffredo Mameli, poeta e autore dell'Inno italiano "Il Canto degli Italiani" (meglio conosciu-
to come "Fratelli d'Italia), fu ferito durante l'attacco francese del 3 giugno a Villa Pamphili. Fu
amputato della gamba destra, ma troppo tardi, morì a 22 anni il 3 luglio 1849.
37
Difesa di Roma del 1849: Memoria e territorio
Enrico Luciani
Presidente dell’Associazione Amilcare Cipriani e direttore del sito del Comitato
Gianicolo. È possibile accedere al sito web per ulteriori informazioni:
www.comitatogianicolo.it/new/index.htm
Come presidente dell’Associazione Amilcare Cipriani e direttore
responsabile del sito www.comitatogianicolo.it ho accolto con molto
piacere l’invito a partecipare a questo Seminario che intende onorare
la memoria di Margaret Fuller nel Bicentenario della nascita. Al nome
di Margaret Fuller, infatti, è legato una data importante della storia
della nostra Associazione: nel novembre 2000, al Convegno
Internazionale su Margaret Fuller, all’Accademia Americana, noi
presentammo il nostro primo progetto di itinerario garibaldino, e lo
abbiamo ricordato anche pochi giorni fa, nella nostra assemblea sul
Bicentenario di Margaret Fuller programmata per l’otto marzo e poi
rinviata al 6 maggio a causa di un incendio doloso avvenuto nei nostri
locali.
Da oltre 10 anni, in effetti, l’Associazione Amilcare Cipriani è
impegnata in una azione divulgativa che si pone l’obbiettivo di tener
viva la memoria della Repubblica Romana del 1849, dei suoi
protagonisti e dei suoi ideali, in quanto parte irrinunciabile della
nostra identità di italiani e di democratici.
La nostra azione divulgativa e’ volta a far conoscere il valore storico
dei luoghi dove si svolsero i più significativi episodi della Difesa di
Roma del 1849, e cioè il territorio che comprende il Gianicolo e
dintorni. E non solo i luoghi più famosi, come Villa Pamphilj, Porta San
Pancrazio, Villa Sciarra, l’Accademia Americana, San Pietro in
Montorio, ma anche tanti altri luoghi di Monteverde, Trastevere e
38
Portuense che pure hanno una nobile storia legata alla Difesa di
Roma, che la gente non conosce pur vivendoci o passandovi accanto
tutti i giorni. Noi stessi, che abbiamo la sede in Via di Donna Olimpia
30, in un lotto di case popolari, ignoravamo quanto questo luogo
fosse legato a importanti fatti della Difesa di Roma del 1849, in
particolare all’attacco dei francesi del 3 giugno. (Proiezione di
immagini)
Con Cesare Balzarro e Claudio Bove abbiamo perciò realizzato e
animato, con racconti per immagini, un sito web a tale scopo, un sito
che si avvale di apporti qualificati di prestigiose istituzioni quali la
Biblioteca di Storia moderna e contemporanea e Il Museo Centrale del
Risorgimento di Roma. Tra gli elementi di maggior interesse il sito
espone tre mappe dello Stato Maggiore francese, allegate al libro
Siege de Rome del Generale Vaillant che comandava le operazioni
d’assedio. Due di queste mappe, la 2 e la 3, appaiono di eccezionale
importanza in quanto sono le prime mappe plano-altimetriche di tutta
la zona del Gianicolo, eseguite con il moderno metodo delle curve di
livello, presso che sconosciuto all’epoca. Abbiamo così informazioni
esatte sulla morfologia del terreno nel 1849, che consentono una più
approfondita conoscenza dei fatti storici, e si prestano a confronti con
la morfologia attuale del territorio. L’esistenza di queste mappe era
del tutto sconosciuta alla cultura urbanistica attuale. Quando noi ne
parlammo per la prima volta, nel maggio 2005 in occasione di una
mostra tenuta presso il nostro Circolo, fummo poi invitati a farne
oggetto di relazione tenuta nel novembre 2005 dal nostro vicePresidente ing. Cesare Balzarro presso la Facoltà di Architettura “Valle
Giulia” dell’Università Sapienza di Roma, nell’ambito del Convegno
Roma contemporanea: storia e progetto. Apprendemmo così che noi,
che istituzionalmente siamo divulgatori e non ricercatori, avevamo
fatto una importante scoperta, o meglio una riscoperta. Questa
riscoperta fu poi integrata da una vera scoperta, o meglio da un colpo
di fortuna, quando al mercato antiquario francese trovammo un
manuale d’istruzione per gli ufficiali francesi sulle trincee d’assedio,
del dicembre 1849, dal titolo Leçons sur l’école des sapes, che
evidentemente si basava sulla recentissima esperienza dell’assedio di
Roma, ed era totalmente inedito: lo abbiamo tradotto in italiano e
messo sul nostro sito, wwwcomitatogianicolo.it .
Passo ora a descrivere le varie fasi dell’assedio, in gran parte
39
traendo quanto dirò dal nostro opuscolo “I luoghi dei Francesi”,
scritto da Giuseppe Monsagrati, Cesare Balzarro e Carlo Benveduti.
La copertina del libretto già richiama un argomento, la breccia del 3
giugno nel muro di Villa Pamphili, che è stato oggetto di una nostra
fortunata ricerca, conclusa con l’identificazione esatta della zona
dove fu praticata la breccia. (Proiezione di immagini).
Questa prima mappa francese,tratta dalla ben nota mappa
italiana ordinata dal Cardinal Falzacappa, anche se priva di curve di
livello è peraltro interessante anche sotto il profilo morfologico per la
rappresentazione dei rilievi in modo quasi pittorico e immediatamente
leggibile. Per noi questa prima mappa è importante perché mostra
tutto il quadro delle operazioni militari. La grafica di Carlo Benveduti
evidenzia la rete di strade utilizzate dai francesi, mentre l’area a
tratteggio comprende la zona del fronte interessata dalle trincee
d’assedio: i numeri indicano i punti nevralgici dello schieramento
francese.
La zona del fronte è al Gianicolo. Con consumata tecnica
d’assedio, i francesi avanzavano verso le Mura Gianicolensi
lentamente, al coperto, “come talpe” , scavando le loro trincee lungo
un fronte di attacco che andava dal Bastione 9 (a sinistra della Porta
San Pancrazio, guardando dall’esterno) fino al Bastione 6, cioè fino
alle mura di Villa Sciarra nei pressi di Largo Berchet.
Nelle immediate retrovie vi era il Grande Deposito di trincea, nella
zona oggi corrispondente a Piazzale Dunant, e nelle vicinanze era
sistemato il Quartier Generale del Genio e dell’Artiglieria (Villa San
Carlo, in area oggi corrispondente al margine est dell’ospedale San
Camillo); il Quartier Generale del Comando supremo aveva sede a
Villa Santucci, (oggi corrispondente al complesso sanitario di Via
RaMazzini); nella vicina ansa del Tevere, a Santa Passera, i francesi
avevano gettato un ponte di barche. Poco più a valle del ponte vi era
il Porto di Santa Passera importantissimo punto di attracco per il
naviglio fluviale. Come dice Vaillant, nel fare grandi elogi alla marina
militare francese, a Santa Passera arrivavano tutti i rifornimenti e le
truppe di rinforzo che giungevano via mare fino a Fiumicino, e poi
risalivano il Tevere con battelli e tartane; e sempre qui a Santa Passera
venivano imbarcati i feriti che rientravano in patria. (Proiezione di
immagini).
Fondamentale importanza aveva il Grande Deposito di Trincea di
40
Piazzale Dunant quale centro di smistamento delle truppe impegnate
nei lavori d’assedio. Infatti passavano di qui tutti i movimenti di truppe
per gli avvicendamenti in trincea: artiglieri, travailleurs di fanteria (la
massa di manovalanza addetta allo scavo delle trincee) sapeurs (gli
specialisti del genio), guardia alla trincea (battaglioni a protezione dei
lavori). Quando era il loro turno per andare a scavare in trincea, i
travailleurs si raccoglievano presso il Grande Deposito, qui venivano
dotati di attrezzi e materiali d’assedio (pale, picconi, fascine,
gabbioni, ecc.), e poi venivano avviati ai posti di lavoro, sotto la guida
di ufficiali del genio. Finito il turno, i travailleurs tornavano al deposito
di Piazzale Dunant, lasciavano gli attrezzi e facevano rientro ai
rispettivi accampamenti. Questi movimenti di truppa, così come
l’afflusso dei materiali e il trasporto dei feriti, impegnarono
intensamente questa linea di comunicazioni fino agli ultimi giorni del
conflitto, tanto che proprio allora venne costruita la strada attraverso
il canneto nel vallone dei Quattro Venti, come è scritto sulle mappe al
5.000 e al 2.000.
Per tornare al 3 giugno, l’attacco contro Villa Pamphilj si basa
sull’azione sincrona e combinata di due colonne d’assalto. La prima
colonna era accampata presso Villa Maffei (sull’Aurelia, non lontano
dalla Clinica Pio XI), e doveva effettuare un’azione diversiva:
scendendo lungo la Strada del Casale di San Pio V, (che allora
arrivava fino all’Aurelia) si poteva raggiungere facilmente il muro di
cinta di Villa Pamphilj, e in effetti la colonna costeggiando il muro a
passo di corsa penetra nella Villa dal lato ovest (Via della Nocetta),
attraverso una porta trovata aperta. La seconda e più potente
colonna, che conduce l’attacco principale, penetra a Villa Pamphilj da
sud (Via Vitellia): il grosso delle truppe entra attraverso una breccia nel
muro di cinta aperta con l’esplosivo, mentre poco lontano, sulla
destra, una compagnia di chasseurs passa attraverso una apertura per
lo scolo delle acque, rimuovendo la griglia di protezione. Secondo un
nostro studio , la breccia si trovava sulla attuale via Vitellia, non
lontano da Largo Grigioni,( e più precisamente si trovava a circa 130
metri di distanza dal semaforo dell’Olimpica, come abbiamo
accertato recentemente). La griglia invece era posta in prossimità
dell’attuale incrocio di via Vitellia con Via di Donna Olimpia, dove il
terreno ha la quota più bassa, e dove tuttora esiste una griglia. Nel
quadro strategico delineato, si ritiene possa avere rilevanza il fatto
41
che, come risulta dall’ordine generale del Generale Oudinot in data 2
giugno 1849 , il principale contingente d’attacco dei francesi, il 33° di
linea, alla vigilia dell’attacco avesse propri reparti dislocati in località
Bruggiani (corrispondente a Largo Ravizza), a breve distanza
dall’obbiettivo: da lì infatti si arrivava rapidamente al Vicolo della
Nocetta (Via Vitellia) attraverso una stradina (oggi ravvisabile nel
Vicolo Vicinale, tra Piazza Ceresi e Via Vitellia), che sbocca proprio tra
breccia e griglia. (Proiezione di immagini)
L’ultima mappa, da noi realizzata con l’uso del computer,
sovrappone la rete delle trincee francesi, rilevata nel 1849 dal
Decuppis, ad una mappa di Roma attuale. Come abbiamo potuto
constatare distribuendola in centinaia di copie, questa mappa desta
grande interesse anche nella gente comune del quartiere, che sente
nobilitata la propria dimora dalla memoria storica della Repubblica
Romana. Sul nostro sito la mappa è anche disponibile in versione
stampabile
Le operazioni militari nell’ultima fase del conflitto si possono
seguire bene sulla mappa al 2.000.(Proiezione di immagini) Il 21
giugno vengono aperte le brecce nei Bastioni 6 , 7, e nella cortina
intermedia (mura di Villa Sciarra). Nella notte, con un colpo di mano
i francesi si impossessano di tutto questo tratto di mura. Non riescono
a procedere oltre per la tenace resistenza dei romani, che si sono
attestati su una nuova linea di difesa, da Porta San Pancrazio a Villa
Spada, utilizzando un tratto delle Mura Aureliane che allora
esistevano, benché malridotte, e che partendo dal Bastione 8
(Accademia Americana) scendevano verso valle con tracciato simile
alla Via Angelo Masina. Punto di forza della nuova linea di difesa era
proprio il Bastione 8 (Accademia Americana) Qui i romani avevano
una batteria ben piazzata per opporsi all’attacco, la Batteria della
Montagnola, così chiamata perché sistemata su un rialzo del terreno
allora esistente, la Montagnola. Nella notte tra il 29 ed il 30 giugno
i francesi, appoggiati dall’artiglieria, sferrano l’attacco decisivo Dopo
un furioso bombardamento, viene aperta una breccia nel fianco del
Bastione 8, e due colonne vanno all’assalto uscendo dalle trincee e
salendo su per la breccia. Contemporaneamente una terza colonna
attacca dall’interno delle mura, per prendere il bastione alle spalle ed
eliminare la Batteria della Montagnola al più presto possibile. Questa
terza colonna parte dalle posizioni occupate sin dal 21 giugno al
42
Bastione 7, cioè parte dall’interno di Villa Sciarra, zona della voliera,
e si suddivide in due distaccamenti. Il primo distaccamento procede
lungo le mura, dal lato interno, secondo un itinerario che corrisponde
alla Via Pietro Roselli, e punta direttamente alla sommità del Bastione
8, verso una costruzione in fiamme, la casa Merluzzo, ubicata proprio
sopra la breccia, nello stesso punto ove oggi si trova la “casa rustica”
dell’Accademia Americana, all’angolo con Via Giacomo Medici . Il
secondo distaccamento si porta molto più a valle, espugna una trincea
romana uccidendo tutti gli occupanti, supera il muro aureliano,
attacca Villa Spada senza penetrarvi, e risale verso la Porta San
Pancrazio prendendo alle spalle le postazioni romane dell’ottavo
bastione. Dopo una lotta accanitissima, anche gli artiglieri della
Montagnola vengono tutti uccisi .
Alla mattina del 30 il Bastione 8 è preso. Il 3 luglio l’esercito
francese entra in città.
43
Mario Bannoni
Lettura di uno stralcio di un breve brano tratto dal dispaccio n° 34, che
Margaret inviò al suo Giornale il 6 luglio 1849
Il 4 luglio, giorno tanto gelosamente celebrato nella nostra terra, è
quello dell'entrata dei francesi a Roma!
..... Ieri sono andata sul luogo del conflitto. È stato terribile anche
vedere il Casino dei Quattro Venti e il Vascello, dove i francesi ed i
Romani sono stati molti giorni così vicini gli uni agli altri, tutti ridotti in
pezzi, con i ricchi frammenti di stucco e di pittura ancora attaccati alle
travi, tra i grandi fori fatti dalle cannonate -- e pensare che gli uomini
erano rimasti a combattere lì pur essendo solo un ammasso di rovine.
I francesi, infatti, erano completamente al riparo gli ultimi giorni -ai miei occhi inesperti, la portata e l'accuratezza delle loro opere sembra miracolosa, e mi ha dato la prima chiara idea dell'impreparazione
degli italiani a contrastare eserciti organizzati.
Mi sono resa conto che i loro comandanti non avevano ancora sufficiente conoscenza dell'arte della guerra per comprendere come i francesi stavano conducendo l'assedio.
Certamente le loro risorse erano in ogni caso inadeguate a resistere -- solo continue sortite avrebbe arrestato l'avanzata del nemico, ma
per compierle e presidiare anche le mura le loro forze erano insufficienti.
Sono stata colpita più che mai dall'eroico valore del "nostro" popolo
(lasciatemelo d'ora in poi chiamare così, perché ovunque potrò andare, una gran parte del mio cuore rimarrà sempre in Italia).
Spero che i suoi figli sempre mi riconoscano come una sorella,
anche se non ho tratto qui il mio primo respiro.
44
Operatività Sanitaria Militare nell'Italia del 1848-49
Prof. Antonio Santoro
Brigadier Generale Medico presso la Direzione Generale della Sanità Militare,
Presidente Commissione medica di seconda istanza e docente presso l’Università
degli studi di Firenze
Premessa
I precedenti Relatori hanno affrontato con diverse ottiche le
sequenzialità storiche degli eventi che posero fine all'effimera
Repubblica Romana del 1849, anche focalizzando diversi aspetti delle
personalità dei maggiori protagonisti e della Nostra Eroina in
particolare. Pertanto questo contributo si attesta soltanto sulla
trattazione delle problematiche sanitarie di guerra nella breve storia
militare di quella Repubblica, essendo successivamente sviluppate le
tracce storiche della tecnologia chirurgica dalla Coautrice, esperta
museale.
La seconda parte del XIX secolo fu un'epoca che vide correre
velocemente la Medicina e la Chirurgia, peraltro sollecitate al medical
improvement in occasione dei frequenti conflitti che si sviluppavano in
diverse parti del mondo. Alcune discipline mediche erano ancora di là
venire: la Radiologia sarebbe nata solo nel 1895 con la scoperta di
Roentgen dei raggi X, la Rianimazione non esisteva, così come la
Chemioterapia antibiotica (annunciata a fine secolo dal medico
militare italiano Vincenzo Tiberio); empiricamente insufficiente
l'Infettivologia, mentre le specialità chirurgiche (Otorinolaringoiatria,
Oculistica, Ortopedia, Ginecologia) erano primordialmente
raggruppate in una confusa pratica Chirurgia Generale, solo da pochi
decenni strappata ai barbieri ed ai flebotomi ed in procinto di essere
meglio legata agli studi della Medicina. L'Anestesia era appena nata
45
nel 1846 a Boston ad opera di un dentista, Morton che ebbe ad
impiegare il pericoloso, ma efficace cloroformio, mentre i dentisti
francesi usavano l'etere solforico, peraltro impiegato per un intervento
odontostomatologico anche sulla Fuller, ma l'Anestesiologia doveva
ancora entrare sui campi di battaglia: l'avrebbe fatto dopo 6 anni in
Crimea.
Le ferite agli arti di maggior impegno patologico, in assenza dei di
là da venire antibiotici, imponevano cruente e dolorosissime
amputazioni (non è comunque documentato infatti l'impiego di
anestetici da parte dei chirurghi militari nella Roma del 1849).
L'assedio si svolse nella canicola della prima estate eppure, vuoi
per la millenaria abbondanza d'acqua potabile in Roma, vuoi per il
sapiente regime sanitario dei medici assediati, contrariamente a
quanto successe a Venezia, pur in era preantibiotica, non vi furono
epidemie di colera o altro.
La sanità militare della Repubblica Romana
L'Esercito della Repubblica Romana si era costituito nella primavera
del'49 mediantela fusione di una buona parte delle truppe pontificie
indigene (in particolare i militari che avevano operato nella campagna
del 1848 contro gli Austriaci nel Veneto) e da volontari: la Legione
Italiana di Garibaldi, i Bersaglieri Lombardi di Luciano Manara e
tantissime altre formazioni di italiani e stranieri. Al momento
dell'assedio della prima estate del '49 in Roma vi erano circa 12000
militari, per metà ex papalini ed altrettanti volontari. È da dirsi che il
popolo di Roma, spesso nel passato poco incline ad azioni belliche, si
Fig.1,2 - Vari tipi militari
della Repubblica
Romana, 1849 (da Codice
Cenni S.M.E., Roma)
Fig. 1
46
Fig. 2
pose in buona parte a combattere i Francesi e comunque a sostenere
logisticamente i combattenti [ 2 ]. Fu uno sforzo titanico perchè solo il
Corpo di Spedizione del generale Oudinot metteva in linea 30000
francesi ben addestrati (veterani d'Africa e delle cruente repressioni
delle rivolte parigine dell'epoca di Luigi Filippo... diversi erano i militari
del tipo descritto nei Miserabili da Victor Hugo ad espugnare le
barricate dei vicoli parigini) con 75 cannoni: praticamente un
favorevolissimo rapporto di forze 3 a 1 rispetto ai non sempre
addestrati assediati in Roma. Quell'epopea, seppure circoscritta a circa
un breve semestre, fu costellata di episodi di straordinario valore che
tuttora arricchiscono l'apoteosi dei valori ideali della Nostra Nazione.
I Triumviri, illuminati dal professionale consiglio del colonnello
napoletano Carlo Pisacane, organizzarono in tempi brevi tutta
l'ossatura dell'esercito e conferirono rilievo alla struttura opertiva
sanitaria militare. In particolare con il Regolamento Organico pel
Corpo Sanitario dell'Armata (pubblicato sul Bollettino delle Leggi della
Repubblica Romana il 31 marzo 1849) furono istituiti:
1. l'Organo Direzionale Consiglio Superiore Sanitario (con l'Ispettore
Generale, 8 ufficiali medici, chirurghi e farmacisti e 3 impiegati);
2. Tre Ospedali Militari in Roma (ciascuno con organico di 4 medici, 6
chirurghi, 2 farmacisti e 5 impiegati); gli Ospedali erano insediati
rispettivamente:
a. l'Ospedale Militare Principale, con funzioni di sede direttiva,
presso il complesso dell'antico Ospizio della Trinità dei
Pellegrini in Arenula;
b. l'Ospedale Militare di San Carlo, vetusto nosocomio militare
pontificio, istituito da Pio VII nella 2^ metà del 700 ( sarebbe
poi stato riorganizzato nel 1861), situato presso l'Ospedale
di Santo Spirito in Sassia, nella cosiddetta Spina di Borgo,
quartiere che poi sarà demolito dallo sventramento edilizio
dell'epoca fascista per dar luogo all'ampia prospettiva della
Basilica di San Pietro, godibile da Castel Sant'Angelo, creata
da via della Conciliazione;
c. Ospedale Militare dell'Isola Tiberina nell'odierno Ospedale
Fatebenefratelli millenario nosocomio insediato sull'Isola
fluviale;
3. il Convalescenziario del Quirinale, attendato negli odierni giardini
del Colle;
47
4. il Corpo Sanitario Reggimentale 2 chirurghi per i Reggimenti di
Cavalleria, 3 per ciascun Reggimento di Fanteria e 4 per l'intero
Corpo di Artiglieria;
5. alcune (fino ad 8) Ambulanze Divisionarie e di Riserva con Medici,
Chirurghi, Amministrativi ed Infermieri con l'Ufficiale di
inquadramento.
Tutte le sedi sanitarie erano sormontate da una bandiera nera,
perchè fossero riconoscibili dagli osservatori dell'artiglieria francese e
quindi risparmiate dal cannoneggiamento: non sempre però fu così,
in particolare l'Ambulanza in San Pietro in Montorio, prossima agli
assalti francesi, riportò gravissimi danni con perdite umane anche tra
i soccorritori; gli stessi Ospedali Militari, ben più distanti dalla linea del
fuoco, furono colpiti, sia pur non gravemente, da colpi di cannone;
alcune palle, fortunatamente non di tipo cavo – esplosivo si andarono
a conficcare in muri, selciati e persino in qualche altare, a pochi metri
dalle degenze dei feriti o dalle salette chirurgiche.
La Repubblica Romana in campo sanitario militare tentò di fare le
cose perbene, disciplinandone anche le tenute: infatti con Ordine del
giorno emesso in data 12 maggio 1849 fu emanato il Regolamento
dell'Uniforme che ordinò al Corpo Sanitario vestiario similare a quello
dei Corpi di Fanteria regolare.
Fig. 3, 4, 5,
Ufficiale Medico
(mostreggiatura nera) Ufficiale Chirurgo
(mostreggiatura rossa) Militare dell'Ambulanza
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
Tuttavia, nonostante gli sforzi edittali, gli ospedali erano obsoleti,
sporchi, poco arieggiati, con poco materiale sanitario, mal conservato
48
ed inadeguato; il personale esecutivo era sovente ubriaco, di certo
impreparato e poco dedicato. L'umanissimo Triumviro Mazzini ne restò
sgomento e chiese aiuto alla patriottica Principessa Cristina Trivulzio di
Belgiojoso che accorse con le sue amorevoli e coraggiose donne, tra
cui l'americana Margaret Fuller. Bende e filacce divennero pulite e
dappertutto questi angeli di solidarietà assisterono con impegno e
capacità feriti e malati.
Feriti e curanti illustri
A giugno la battaglia prese ad infuriare nei pressi del Gianicolo; le
mura ed i caseggiati erano tenacemente tenuti dagli uomini del
Generale Garibaldi, le perdite erano ingenti: 1500 caduti tra i
difensori, qualche migliaio di feriti, più o meno gravi ( ne morirà il 9%)
tra i combattenti e la popolazione cannoneggiata; i medici facevano
miracoli, ma i mezzi erano quelli dell'epoca, le donne erano a dare
un'utilissima mano. I Francesi con i loro abili sistemi d'attacco ebbero
perdite notevolmente inferiori (2000 uomini complessivamente tra
morti e feriti), prevalentemente per armi a tiro breve e per baionetta:
Garibaldi aveva un parco d'artiglieria ben minore e con cannoni
desueti; poi non compiva bombardamenti dissennati, come il nemico
Oudinot.
I Bersaglieri lombardi del colonnello Luciano Manara furono come
gli Spartani di Leonida ed anche il loro Capo, ferito gravemente
all'addome nella difesa di Villa
Spada, ebbe a morire,
nonostante le instancabili cure
del dottor Pietro Ripari che sarà
il Direttore di Sanità dei Mille di
Garibaldi.
Il
volontario
genovese
Fig. 6
Goffredo Mameli, giovanissimo
autore del nostro Inno Nazionale,
seguì la sua sorte con una lunga
agonia e sarà altrettanto
Fig. 6
Pietro Ripari, Ufficiale
amorevolmente curato ed assistito
Medico che assisté il
da un altro futuro capo medico
morente, Luciano
Manara (Fig. 7)
garibaldino, Agostino Bertani.
comandante dei
Bersaglieri Lombardi
Fig. 7
49
Fig. 8, 9
Agostino Bertani, medico militare
che ebbe ad assistere l'agonizzante
Goffredo Mameli ( a destra )
Fig. 8
Fig. 10
Margaret Fuller ed il suo
assistito, il ferito convalescente Gerolamo Induno
all'Ospedale Militare
dell'Isola Tiberina
Fig. 9
Il giovanissimo sottotenente ticinese Emilio
Morosini, mortalmente ferito all'addome e fatto
prigioniero dai Francesi sarà amorevolmente ed
altrettanto vanamente curato dai Chirurghi
militari nemici. Non erano ancora possibili le
trasfusioni di sangue, non era conosciuta la
terapia infusionale e l'assenza di antibiotici
imponevano un tributo di morti inimmaginabile
nei nostri tempi.
Miglior fortuna avrà invece un giovane
pittore, volontario lombardo, Gerolamo Induno
che sarà assistito all'Ospedale dell'Isola Tiberina
proprio dall'infermiera Margaret Fuller. Dopo la
convalescenza l'Induno riprenderà il pennello ed
i colori e sarà uno dei più grandi illustratori
perenni dell'epopea risorgimentale.
Bibliografia
M. BRANDANI, P. CROCIANI, M. FIORENTINO: “L’Esercito Pontificio da Castelfidardo a Porta
Pia - 1860 - 1870 - Uniformi, equipaggiamento, armamento“, INTERGEST, Milano 1976
STATO MAGGIORE ESERCITO “La Repubblica Romana” RIVISTA MILITARE Roma, 1982
RIVISTA MILITARE: “Gli eserciti italiani dagli stati preunitari all’Unità Nazionale“ Quaderno n°4,
I. G. D. A., Novara 1984
50
Gli strumenti medico-chirurgici ai tempi di Magaret Fuller
Ossoli
Federica Anna Leda Dal Forno
Arte, Ricerca, Restauro
I conflitti, da sempre, non solo presentano uno scenario bellico e
politico molto complesso, ma comportano altresì un’articolazione del
servizio sanitario in rapporto alle accresciute necessità ed esigenze di
soccorso del tutto peculiari all’evento e ai vari tipi di scontro armato.
È triste doverlo constatare, ma proprio la guerra è stata molto
spesso motivo di progresso in campo medico, sia per quanto riguarda
le modalità di primo soccorso, sia in relazione a discipline quali la
chirurgia, l’infettivologia, la tossicologia, l’igiene, l’alimentazione (del
soldato)… una panoramica che, come possiamo vedere, coinvolge
molte delle branche universitarie attuali.“La guerra è un’epidemia di
traumi” disse il famoso chirurgo Nikolai Ivanovitch Pirogoff “padre
fondatore” della Croce Rossa russa.
Certo, esaminare tutti i problemi che un conflitto poteva
comportare in campo sanitario ci è impossibile, in questa sede ci
limiteremo a fornire pochi e semplici esempi di quello che poteva
essere la strumentazione medico-chirurgica a disposizione di
Margaret Fuller Ossoli nel periodo della Repubblica Romana (1849) e
negli anni subito a seguire.All’epoca, la strumentazione medica veniva
di volta in volta ideata dai chirurghi in relazione alle nuove esigenze
di cura dei feriti ed in seguito realizzata da valenti artigiani. Molti sono
i testi che ci riportano le illustrazioni e le funzioni di questi strumenti,
da Paré a Diderot e D’Alembert o Panckoucke, tutte mostrano quanto
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fosse fervida e abile la ricerca per l’innovazione dell’operazione
chirurgica. Da un passato che vede la figura del chirurgo identificarsi
con quella del barbiere , si giunge con la figura di Ambroise Paré in
Francia e con Giovanni Alessandro Brambilla (1728 – 1800) in Italia
e Austria a far assurgere la chirurgia a pari dignità rispetto alla
medicina. L’atto chirurgico era tuttavia considerato sempre un
“estrema ratio” e veniva intrapreso solamente nel caso in cui il
paziente altrimenti sarebbe sicuramente morto. Siamo nell’era preantibiotica e un ottimo chirurgo era in grado si salvare solo il 10 – 20
% dei suoi operati.
Ma rivolgiamo ora lo sguardo ai soli strumenti dell’epoca fra i più
significativi che sono relazionabili alla cura delle ferite di guerra.
La sonda di Nelaton
Un classico strumento dell’epoca è la sonda cerca-proiettili di Nelaton
con testa esploratrice in porcellana. Vi era infatti il problema
dell’estrazione dalle ferite delle pallottole, quest’ultime erano infatti
difficili da individuare una volta penetrate profondamente nei tessuti.
Inserendo questa sonda nella ferita, quando la sfera di porcellana
incontrava un ostacolo, veniva ruotata e sfregata sullo stesso, se
l'oggetto ostruttivo era una pallottola di piombo, una volta estratto lo
strumento, sulla porcellana era possibile rilevare tracce metalliche e
quindi identificare la posizione del proiettile. Un esempio molto
significativo dell’innovazione dovuta a questo strumento è l’episodio
che vede Nelaton (1807-1873) accanto a Garibaldi, mentre si
appresta a curare la ferita d’arma da fuoco riportata dall’Aspromonte
nel 1862. Il proiettile ritenuto nella caviglia era introvabile: per 2 mesi
ben 26 chirurghi si erano cimentati nella sua ricerca senza successo,
Nelaton con la sua sonda munita di sfera in porcellana riuscì invece
ad individuarla facilitando l'intervento di rimozione. Il problema
dell’estrazione dei proiettili era comunque ben precedente all’avvento
dei fucili a ripetizione, infatti, oltre ad una serie di diverse sonde e
specilli, si era creata una particolare pinza per l’estrazione dei
proiettili, i primi dei quali furono proprio delle palle d’archibugio.
Dal rasoio al bisturi
Come già annunciato, proprio per la coincidenza della figure
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chirurgo-barbiere, il primo strumento utilizzato per le operazioni
chirurgiche è il rasoio. Il bisturi nasce proprio da tale strumento
modificato nell’affilatura della lama, ovvero, si crea un utensile con
lama a doppio taglio che viene dapprincipio utilizzato per piccole
incisioni cutanee o come lancetta per salasso. Con il tempo acquisisce
varie forme e funzioni in rapporto al tipo di operazione da eseguire.
Negli ospedali da campo quando i bisturi perdevano l'affilatura si
tentava di rimediare con la pietra abrasiva contenuta nel suo astuccio
in pelle. Questo da un'idea delle disastrose condizioni in cui il chirurgo
doveva a volte operare.
Le amputazioni
Nei secoli passati le amputazioni erano interventi frequenti dato che
anche una banale ferita ad un arto poteva infettarsi facilmente a causa
delle precarie condizioni igieniche di allora. Dopo una prima
medicazione locale, o alla peggio dopo una cauterizzazione, se non si
riusciva ad arrestare l’infezione bisognava ricorrere all’amputazione.
Dai coltelli per amputazione alle seghe chirurgiche, gli strumenti
dedicati a questo genere di intervento diventarono sempre più vari e
numerosi, alcuni presentavano l’impugnatura ed il dorso staccabile,
altri erano dedicate agli arti o alle dita.
Il Retrattore di Percy
Pierre François Percy (1754-1825), chirurgo capo della Grande
Armata di Napoleone, fu anche un abile progettista di strumenti
chirurgici tanto da meritare numerosi premi dell’Accademia Reale di
Chirurgia di Parigi e una lettera di elogio del nostro famoso chirurgo
Giovanni Alessandro Brambilla.
Il retrattore di Percy, pur con qualche modifica, è sostanzialmente
usato ancora oggi; serviva negli interventi d'amputazione degli arti per
separare l’osso dai tessuti molli circostanti; l’immagine mostra il suo
uso.
La cauterizzazione
La cauterizzazione è stata per lungo tempo il solo mezzo conosciuto
per bloccare le emorragie in genere o conseguenti alle amputazioni
nonché per sanare l’insorgere di infezioni gravi; di norma veniva
praticata con diversi tipi di ferri sagomati resi incandescenti ma a volte
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si impiegava persino dell’olio bollente. Alcuni autori riportano delle
immagini di questi strumenti nei loro libri: Ambroise Parè (1509-1590)
nelle sue "Oeuvres" del 1585,
Panckoucke nella propria
“Encyclopédie” del 1784 ed in seguito molti altri. Esistevano quindi
diversi ferri sagomati, ognuno specifico per un particolare tipo di
ferita; questi strumenti non subirono grandi variazioni con il passare
dei secoli rimanendo pressoché invariati. Vi erano differenti modelli di
antichi cauterizzatori detti "bottone ardente", in francese "bouton de
feu", utilizzati ampiamente per ogni forma di ferita; altri, più piccoli,
denominati “pietra infernale” e con la punta in nitrato d’argento,
erano impiegati per piccoli trattamenti cutanei e per toccature faringee
nella difterite. Si deve ad Ambroise Paré l'idea di legare con un filo le
arterie e le vene recise eliminando dove possibile il barbaro uso dei
cauteri.
Aghi e suture
Intorno al 1850 gli aghi erano principalmente di due tipi: aghi ricurvi
che passavano interamente attraverso i lembi della ferita conducendo
con sé il filo di sutura e aghi “passafilo” che, dotati di manico,
venivano solamente inseriti allo scopo di far appunto passare il filo da
una parte all’altra del lembo di pelle per essere infine ritratti e reinseriti
quante volte fosse necessario. I fili di sutura erano sempre di lana o di
seta, molto spesso non sterilizzati per cui, se si sopravviveva
all’operazione, inevitabilmente rimaneva sempre una cicatrice molto
evidente.
Pinze Emostatiche
Verso il 1830 J. F. Charrière ed E. Koeberlé idearono delle pinze
emostatiche autobloccanti, il blocco delle ganasce era ottenuto
facendo scorrere un cursore a coda di rondine che agganciava la testa
di un chiodo proveniente dalla branca inferiore. Le pinze emostatiche
hanno dato un grande contributo alla chirurgia: oltre a ridurre le
perdite di sangue, esse hanno permesso di avere un campo operatorio
più pulito quindi una chirurgia più mirata e sicura. Evoluzione della
chiusura delle pinze. Le pinze a braccia incrociate hanno subito
notevoli cambiamenti: all’origine il chirurgo o il suo aiuto dovevano
mantenere manualmente la chiusura della pinza con una pressione
costante, a metà Ottocento invece, Jules Emile Péan ideò un incastro
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che permetteva di ovviare a questo inconveniente mantenendo
costante e autonomo il blocco delle ganasce. Ancora oggi le pinze
emostatiche a forcipressione portano il suo nome.Evoluzione degli
snodiCon l'avvento della sterilizzazione si è evidenziata l'importanza
della pulizia degli strumenti, si è cercato quindi di aprire
completamente le pinze e le forbici per eliminare eventuali residui
rimasti all'interno dello snodo. Infatti il sangue che restava nel punto
di giunzione delle due parti, oltre ad essere di per sé motivo di
contaminazione ed infezione, era altresì causa di ossidazione per lo
strumento che diveniva il possibile vettore di un morbo quale il
tetano.L’anestesia agli esordiIl 16 ottobre 1846 il dott. Thomas
Morton, noto odontoiatra statunitense, praticò per la prima volta
un’anestesia generale in un intervento chirurgico per l’asportazione di
un "tumore vascolare cervicale", segnando così la nascita della
moderna anestesia. Il suo apparecchio consisteva in una sfera di
vetro contenente una spugna imbevuta di etere e provvista di due
aperture: una comunicava con l’esterno, l’altra era fornita di un tubo
ed una maschera applicata al viso del paziente che respirava i vapori
del liquido narcotizzante. Già da qualche anno si era sperimentata
l’anestesia, quantomeno in campo odontoiatrico, tanto che la stessa
Fuller nel 1847 fu sottoposta all’etere proprio per un intervento di
questo tipo. La maschera di Thomas Skinner, di cui rimangono pochi
esemplari, è la prima maschera a struttura metallica per etere ideata
nel 1862. Una maschera usata sopratutto per il cloroformio fu invece
progettata da Johann Friedrich August von Esmarch modificando la
maschera di Skinner; fu dotata di una fiaschetta con dosatore,
bombata su un lato e piatta dall'altro, progettata per essere facilmente
inserita all'interno della maschera metallica al fine di essere più
agevolmente trasportata.
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Mario Bannoni
Lettura di alcuni brani tratti dai dispacci della Fuller
27 maggio 1949:
… per la prima volta, ho visto quel che soffrono gli uomini feriti. La
notte del 30 aprile l’ho passata in ospedale e ho visto la terribile agonia di chi moriva o di chi doveva essere amputato: ho provato le loro
sofferenze mentali e la mancanza dei cari lontani, dato che molti di
questi erano Lombardi, venuti dai campi di Novara per combattere con
maggior fortuna. Molti erano studenti dell’Università, … arruolatisi e …
gettatisi nella prima linea di combattimento. … gli ospedali … sono
stati messi in ordine, e vi ci sono stati mantenuti dalla Principessa
Belgiojoso.
6 giugno 1849:
… Le perdite dalla nostra parte sono di circa trecento uccisi e feriti;
le loro devono essere maggiori. In una villa sono stati trovati settanta
loro cadaveri. Trovo i feriti [italiani] all'ospedale al colmo dell’indignazione. I soldati francesi hanno combattuto così furiosamente, che li
ritengono falsi come il loro generale e non possono sopportare il ricordo della loro visita, durante l’armistizio e i loro discorsi di fratellanza.
…I francesi lanciano razzi in città: uno è scoppiato nel cortile dell'ospedale, appena ero arrivata lì ieri, allarmando molto i poveri sofferenti.
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Le donne del 1848
Prof.ssa Ginevra Conti Odorisio
ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università Roma 3, Dip.to Studi
Internazionali
Abstract:
In questa breve relazione il mio intento è quello di illustrare, tramite alcuni
esempi, la situazione delle donne nel 1848. Il caso dell’inglese Harriet
Martineau e del suo viaggio in America dimostra la qualità della riflessione
femminile in tema di democrazia e cittadinanza. Negli S.U. nel 1848 vi sarà
la Dichiarazione dei Sentimenti con la quale si elencano le richieste femminili
in tema di diritti e di eguaglianza politica e si traccia un programma per la
politica dei vari movimenti in America ed Europa. In Francia durante la
rivoluzione del 48, le donne ,convinte che l’avvento della Repubblica
significasse l’eguaglianza dei diritti si giunse alla costituzione di un Comité des
droits des femmes e le donne si impegnarono nella competizione elettorale.
Jeanne Deroin fu la prima a candidarsi.
In Italia l’esperienza della Repubblica romana vide l’impegno della Fuller e
della Belgiojoso. E per terminare, vorrei accennare all’azione umanitaria di
Jessie White Mario che, negli anni successivi, fu l’infermiera dei mille e operò
in tutti i modi perché si giungesse alla convenzione di Ginevra del 1864 per
riconoscere la neutralità dei feriti ed organizzare la loro assistenza.
Il 1848 è stata sicuramente una data cruciale non solo per la storia
europea ma anche per la storia delle donne. Negli Stati Uniti, nella
Convention di Seneca Falls del 1848, venne approvata la
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Dichiarazione dei Sentimenti nella quale si elencavano le richieste
femminili in tema di diritti e di eguaglianza politica e si tracciava un
programma per la politica dei vari movimenti ed associazioni
femminili in America ed Europa1. La struttura della Dichiarazione,
basata sul contrasto tra i principi affermati nella Costituzione
americana del 1776 e le loro carenti applicazioni ricalcava lo schema
proposto da Harriet Martineau in Society in America2. In Francia
durante la rivoluzione del 48, le donne, convinte che l’avvento della
Repubblica significasse l’eguaglianza dei diritti costituirono un Comité
des droits des femmes e si impegnarono nella competizione
elettorale. Jeanne Deroin fu la prima a candidarsi3.
In Italia l’esperienza della Repubblica romana vide l’impegno di
Margaret Fuller4, autrice di Woman in the Nineteenth Century e di
Cristina di Belgiojoso, sulla quale sono appena usciti gli atti del
Convegno tenuto all’Università di Roma Tre nel 20075.
In questa mia relazione vorrei brevemente ricordare la figura di
Jessie White Mario sottolineando il suo impegno umanitario nella
cura dei feriti e la sua azione a favore della convenzione di Ginevra
del 1864 per riconoscere la neutralità dei feriti ed organizzare la loro
assistenza. Appartenente ad una famiglia inglese di costruttori navali,
Jessie conobbe Garibaldi nel 1854 in occasione del suo primo viaggio in Italia, in compagnia dell’amica di famiglia Emma Roberts6.
Allora ventitreenne, Jessie apprese da Garibaldi i particolari della difesa di Roma del 1848 e degli eventi successivi, la fuga, la morte di
Anita. Durante le passeggiate sulla spiaggia di Nizza, il generale con
il bastone “tracciava sulla sabbia la posizione degli assediati e degli
assalitori, ricordando il nome di tutti i caduti e gli speciali atti di valore in una guerra in cui tutti furono eroi”7. Da questo momento il generale fece alla giovane inglese, così interessata alle vicende italiane e
così determinata, una promessa: in caso di necessità l’avrebbe contattata e le avrebbe affidato il compito di curare i suoi feriti. Jessie
prese molto sul serio questo impegno e, certa che l’occasione si sarebbe presentata ,di ritorno in Inghilterra, nel 1855 cercò di iscriversi ad
una facoltà di medicina, ma scoprì che alle donne era proibito diventare medico8.
Jessie non rinunciò peraltro ai suoi interessi e si avvicinò a Mazzini,
allora in esilio a Londra, continuando a servire la causa italiana
tenendo conferenze e curando la raccolta di fondi. Mazzini teneva in
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gran conto le sua capacità giornalistiche e la sua forte determinazione politica. La riteneva seria ed energica e credo che sarebbe riuscita a fare più di venti uomini messi insieme. Mazzini non si sbagliava e
le attribuì sempre compiti elevati ch’essa svolse con successo. In casa
Stansfeld venne deciso che la White avrebbe dovuto tenere una serie
di conferenze in Inghilterra e Scozia nell’aprile del 56-57. Non si trattava solo di conferenze e collaborazione intellettuale, ma anche di un
coinvolgimento nella preparazione di insurrezioni, secondo il metodo
mazziniano. Venne messa al corrente del progetto di Pisacane e la
White collaborò attivamente alla raccolta di fondi per questa spedizione “e il denaro affluiva”9. Ai primi di maggio del ’57 la White, su
suggerimento di Mazzini, dopo la fine delle conferenze che avevano
contribuito ad aumentare il consenso e l’entusiasmo per la causa italiana, si recava a Genova. Qui conobbe Alberto Mario, un giovane
veneto latore di una lettera di Mazzini che lo presentava come un
intellettuale colto e raffinato, anche se un po’ scettico.
Pisacane, prima di partire per la sua sfortunata missione, le aveva
affidato il suo testamento politico perché lo traducesse e lo facesse
pubblicare all’estero qualunque fosse stata la conclusione della sua
impresa10.
Fu in questa atmosfera di tensione angosciosa per l’esito della missione di Pisacane che Jessie e Alberto decisero di unire le loro vite. Com’è
noto i fatti presero una piega tragica e l’unica consolazione di Jessie fu
quella di aver avuto comunque il tempo di tradurre e spedire ai giornali
inglesi il testamento di Pisacane. Un matrimonio il loro assolutamente
unico, basato sull’indipendenza personale e il rispetto delle diverse opinioni reciproche. Mario ne accettò completamente l’impostazione, come
lui stesso scrisse “La signorina White diventata signora Mario continuò nel
culto dell’unitarismo e dell’dealismo di Mazzini: io rimasi fedele al federalismo e al positivismo di Cattaneo, e da questa varietà di pensieri e di
studi, fiorita sulla medesimezza degli affetti e degli ideali, nacque l’armonia che dura da venticinque anni”11.
Quello che è particolare negli scritti storici di Jessie White Mario,
data anche la sua funzione , era l’attenzione particolare ai feriti, alle
sofferenze provocate dai conflitti e al modo di porvi rimedio. Fu vicino
a Garibaldi dopo il suo ferimento e gli tenne la mano mentre un medico fiorentino Zanetti estrasse la pallottola, dopo aver allargato la ferita con le sue pinzette.
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Nel 1867 Garibaldi andò a trovare i coniugi Mario a Firenze e questa
volte ricorse alle sue qualità di traduttrice consegnandole il suo romanzo
Clelia perché lo traducesse in inglese12. Jessie accettò senza alcuna esitazione e si diede anche da fare per trovare un editore inglese.
In settembre del 1867 andarono insieme al Congresso della pace
a Ginevra al quale parteciparono anche Quinet, Leroux e Bakunin.
Dove Garibaldi progettò la nuova spedizione a Roma. A Roma Jessie
fu protagonista di una missione estremamente pericolosa affidatagli
da Garibaldi quella di recuperare il cadavere di Enrico Cairoli e ottenere lo scambio tra il fratello ferito Giovanni con dei prigionieri papalini. In carrozza , munita di uno speciale lasciapassare, la White si
diresse sulla via Nomentana da dove entrò a Roma. Entrare in questo modo nella città agognata da Mazzini e Garibaldi, occupata dai
francesi, fu un spettacolo deprimente: “Voci francesi risuonavano da
ogni dove con la prepotenza di chi parla da padrone”13. A Roma fu
fatta prigioniera, mentre i francesi si preparavano ad attaccare i garibaldini. Al mattino seguente, quando le venne comunicato che poteva
ritornare alla frontiera lo scontro si era risolto con la sconfitta dei
garibaldini.
Per Jessie Garibaldi dimostrò la sua vera grandezza quando, dopo
la sconfitta di Sedan, si recò in Francia per sostenere il paese che
aveva determinato la caduta della repubblica romana, che lo aveva
sconfitto a Mentana e sostenuto il potere temporale dei Papi. Jessie lo
raggiunse in Francia, questa volta sola, senza il marito Alberto, con
l’incarico di corrispondente di guerra per l ‘ Herald Tribune” di New
York. Ma anche qui Garibaldi le affidò il compito tradizionale e con
un brevetto scritto di suo pugno Jessie fu nominata:”Ispettrice delle
ambulanze sul campo di battaglia”. Ma le funzioni di Jessie erano in
realtà molto più ampie ed oltre alla cura dei feriti Jessie si prestava a
compiti di vivandiera , di cuoca, di traduttrice.
Non un lamento usciva dalla penna di Jessie, nessuna recriminazione sulla follia umana, solo una precisa trascrizione dell’evento e
piuttosto sottolineava il coraggio di quegli uomini, la loro abnegazione, il loro valore. La morte del chirurgo Ferrarsi che un momento
prima galoppava accanto a Garibaldi e una palla lo trafisse penetrando attraverso una guancia e uscendo dietro la testa. “L’ultimo istante
della battaglia egli galoppava verso la prima linea latore di un
comando di Garibaldi e cadde morto compiendo così il massimo atto
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del dovere, che fu sempre per lui guida della sua vita”14.
A volte Jessie veniva presa dai ricordi del suo primo ospedale, quello di Milazzo quando lavorava insieme ai dottori Ripari e Stradivari e
con l’infermiera Emilia Ginami. Oppure ricordava il ‘66 quando lavorava con Bertani “il chirurgo per eccellenza dei volontari, il quale
aveva organizzato ospedali durante le barricate di Milano che furono
poi ammirate da Radetzki e sotto il cannone francese a Roma e fu
capo medico dei cacciatori delle Alpi in Lombardia”15. Ed era ancora
Bertani a raccogliere i feriti sotto le scariche dei chassepots a Mentana.
L’interesse della White per le cure ai feriti, per la storia dell’assistenza ai feriti durante le guerre, diede luogo anche negli anni seguenti ad
una serie di articoli, di estremo interesse, non segnalati dalle biografie sulla White Mario, pubblicati sul “Frasers’s Magazine”. La White
riprende molte delle cose già narrate nei libri precedenti ma ne approfondisce gli aspetti storici legati alla sua esperienza di infermiera.
Esperienza particolare, perché non limitata, come nel caso della
Nightinghale, all’assistenza dei feriti in ospedale, ma che si estendeva
al campo di battaglia, al recupero dei feriti, al loro trasporto, all’uso
della barella più adatta , alla ricerca del riparo, alle prime medicazioni o operazioni d’urgenza.
Questi articoli intitolati Experience of Ambulances vennero pubblicati sul Fraser’s Magazine , nel 187716 e in questi scritti appare evidente quella sua profonda “sympathy per le sofferenze umane” che ne
avevano determinato l’impegno umanitario fin dagli anni giovanili.
Nella ricostruzione degli eventi storici ai quali aveva direttamente
preso parte, la White Mario intendeva non solo di ricordare i protagonisti dei conflitti, le loro vite spesso brutalmente interrotte, il coraggio dimostrato, la forza d’animo, l’abnegazione di medici ed infermieri, ma anche sostenere la Convenzione Internazionale di Ginevra
sulla neutralità dei feriti e delle persone impegnati nella loro assistenza. Secondo la White Mario potevano comprenderne l’utilità solo
quanti avevano esperienza di feriti sui campi di battaglia. Il suo valore umanitario era incalcolabile e, dopo la sua esperienza durante la
guerra franco-prussiana essa riteneva che bisognava giungere ad un
insieme di regole per punire tutti coloro che avrebbero violato o non
osservato la convenzione stessa. Esperta nella raccolta di fondi, la
White Mario ricordava che questa istituzione umanitaria non godeva
di finanziamenti pubblici ma dipendeva interamente dalle elargizioni
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dei privati. Erano necessarie barelle, piccole ambulanze, muli, cavalli, chirurghi, dottori, infermiere, cibo portabile e dadi di brodo Leibig.
Questi dadi Leibig ricorrono spesso nella sua storia: come donna la
White Mario non faceva solo la corrispondente di guerra, l’infermiera,
la traduttrice, ma spesso anche la vivandiera, la cuoca e il brodo ai
feriti era una delle prime cure. Bisognava dunque prendere contatto
con le autorità locali del territorio dove doveva essere organizzata l’assistenza ed era necessario possedere capacità diplomatiche e di
mediazione in quanto occorreva una organizzazione centralizzata che
non doveva entrare in conflitto con le autorità militari né con quelle
civili.
La White Mario ricordava l’impegno dimostrato dalle donne durante la guerra civile americana, un lavoro spesso taciuto e non storicizzato di fronte ad avvenimenti bellici più clamorosi. Esisteva una rete
dei collegamenti tra Mr. Bellow, capo della U.S. Sanitary Commission
e Presidente dell’ American Association for Relief of Misety of
Battlefields ed Henry Dunant segretario del Comitato Internazionale
europeo17. La White Mario riportava gli estremi della sua corrispondenza con Bellow al quale aveva scritto per avere informazioni precise e concrete su come si erano organizzate le donne americane, per
poterlo trasmettere alle donne italiane e alle loro associazioni. In
questo modo le donne potevano essere considerate come “yellowworkers-co-operators in the true sens of equality, of mutual liberty and
fraternity”18. Dopo l’esempio di Florence Nightinghale, celebrata
infermiera inglese durante la Guerra di Crimea, il sogno di tutte le
donne americane era stato quello di fare le infermiere negli ospedali.
Bellow ricordava che molte donne americane “si recarono al fronte
per condividere le privazioni e la sofferenza dei soldati. …Alcune nell’impossibilità di fare diversamente, si vestirono da uomini e portavano il moschetto in alcuni casi per tutta la campagna”19. In seguito poi
apparve chiaro che non tutte le donne potevano fare le infermiere, ma
che la maggior parte di loro poteva essere utile in altro modo. “La
prima cosa da dire alle donne italiane” concludeva Bellow “ è che
poche possono essere utilizzate negli ospedali, solo quelle con esperienza, tatto e pazienza, ma che la maggior parte delle donne patriote può essere utilizzata per altre forme di servizio”: cucire abiti, lavorare a maglia, preparare i pasti per gli ospedali, inviare pacchi, raccogliere fondi e per infinite altre attività. Ma occorreva una precisa
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organizzazione per coordinare tutte queste attività.
La White Mario osservava infine la carenza di contributi storici sull’unità italiana , ed ancora di più sulla organizzazione del servizio
sanitario volontario, sul quale esprimeva un lusinghiero giudizio. I
volontari italiani – riteneva - erano sicuri di essere soccorsi e curati sui
campi di battaglia meglio di qualsiasi altro soldato o volontario. Una
storia del servizio sanitario volontario in Italia avrebbe potuta essere
scritta solo dal dottor Agostino Bertani, ma la White Mario intendeva
portare il suo contributo parlando delle sue esperienze personali come
infermiera nelle guerre garibaldine.
E, per concludere, ricorderò quanto la White Mario scrisse su
Bertani durante l’assedio da parte dei francesi della repubblica romana. Bertani , durante l’assedio romano, occupava un posto modesto
ma era sempre disponibile, nei vari ospedali che erano stato organizzati, dei Pellegrini, di Monte Citorio, al Quirinale, a S. Pietro in
Montorio, a Santa Maria della Scala a collaborare con “quella nobile
banda di donne” costituita da Anita Garibaldi, la principessa Cristina
di Belgiojoso, Giulia Modena e Margaret Fuller Ossoli.
“Una bomba cadde sull’ospedale dei Pellegrini mentre Bertani
stava operando e fu la sua presenza di spirito che calmò il terrore ed
impedì che i feriti corressero all’aperto”20. Spesso la White Mario racconta episodi sconosciuti o dimenticati, relativi alla sorte dei feriti, dei
morti, dei loro soccorritori. Dopo l’ingresso dei francesi a Roma gli
assediati fecero un ultimo disperato assalto “ desiderosi soltanto di
unire le loro ceneri a quelle degli altri 4.000 difensori caduti per
Roma”21 e Manara cadde, non ancora trentenne, tra le braccia di
Agostino Bertani che per restituire il corpo alla vedova e al figlio decise di imbalsamarlo.
Senza arsenico, senza sostanze bituminose o aromatiche, avendo a
disposizione solo il bi-cloruro di mercurio ed uno strumento per semplici iniezioni, l’operatore assorbì il veleno dai pori della pelle e per un
mese stette così male che, dopo l’ingresso dei francesi , Bertani non
seppe se sarebbe stato in grado I usufruire del salvacondotto procuratogli da un chirurgo militare corso.
La White Mario credeva che la Convenzione di Ginevra avrebbe
alleviato molte sofferenze. Questa autorizzava i combattenti a prelevare i propri feriti e a trasportarli, se possibile, nei propri ospedali.
63
Ma tutti gli altri, quelli che non potevano essere trasportati, potevano essere curati negli ospedali e dai medici chirurghi nemici.
La Prof.ssa Conti Odorisio ha scritto libri
sul pensiero politico di Bodin, Locke e
Hobbes. Il suo libro su Bodin è stato
tradotto nel 2008 in francese presso
l'Harmattan.
Ha scritto “Harriet Martineau e
Tocqueville: due letture diverse della
democrazia” americana, Rubbettino
2003, e da questo libro è stato tratto un
articolo pubblicato su "The Tocqueville
Review".
1
È stata la prima docente ad insegnare
“Storia della questione femminile”, tema
sul quale ha pubblicato numerosi libri ,
tra i quali la recente antologia “Per Filo e
per Segno”, Giappichelli 2008, coautrice
la Prof.ssa Fiorenza Taricone.
Vedi il testo in G. Conti Odorisio-F. Taricone, Per filo e per segno. Antologia di testi politici
sulla questione femminile dal XVII al XIX secolo, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 211-216.
2
Vedere G.Conti Odorisio, H. Martineau e Tocqueville: due diverse interpretazioni della
democrazia americana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003.
3
M. Riot-Sarcey, Les femmes de 1848 en France ou la singularité de l’universalité française,
in Cristina di Belgiojoso: politica e cultura nell’Europa dell’ottocento a cura di G. Conti
Odorisio, C. Giorcelli, G. Monsagrati, Napoli, Loffredo, 2010, pp.123-145.
4
Sulla Fuller non è il caso di dare qui una bibliografia. Oltre al volume di C. Giorcelli, segna-
lo il recente contributo di Christine Stansell, The Feminist Promise, New York, The Modern
Library, 2010.
5
G. Conti Odorisio-C. Giorcelli-G. Monsagrati (a cura di), Cristina di Belgiojoso: politica e
cultura nell’Europa dell’ottocento, Napoli, Loffredo, 2010.
6
Su J. White cfr. E.A.Daniels, Posseduta dall’angelo. Jessie White Mario la rivoluzionaria del
Risorgimento, Milano, Lursia, 1977 e R. Certini, Jessie White Mario una giornalista educatrice
tra liberalismo inglese e democrazia italiana, Firenze, Le Lettere, 1998.
7
64
J. White Mario, Vita di Garibaldi, Milano, Treves, 1882, p. 160.
8
La prima donna medico fu Elizabeth Blackwell (1826-1910), cfr.L. Mazenod-G. Schoeller,
Dictionnaire des femmes célèbres, Paris, Laffont, 1992, pp.96-97.
9
IWM, Della vita di A. Mario in Scritti artistici e letterari di Alberto Mario a cura di G.
Carducci, Bologna, Zanichelli, 1884, ., p. XLV.
10 Ivi, p. LIV.
11 Ivi, p. LXXIX.
12 Ivi, p.375.
13 Ivi, p.423.
14 Ivi, p. 536.
15 Ivi, p.60. A Bertani la White dedicherà una biografia: A. Bertani e i suoi tempi, Barbera,
Firenze, 1888, 2 voll.
16 Jessie White Mario, Experience of Ambulances, Fraser’s Magazine I, June 1877, pp. 768-
785; II, July 1877, pp. 54-74; III, August 1877, pp. 247-266.
17 F. Giampiccoli, Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa, Torino, Claudiana, 2009 e L.
Firpo (a cura di ), Henry Dunant e le origini della Croce Rossa, Torino, UTET, 1979.
18 White Mario, Experience of Ambulances cit., I, p. 771.
19 Idem.
20 J. White Mario, Experience cit., I, p. 775.
21 Idem.
65
Mario Bannoni
Da un dispaccio di Margeret Fuller Ossoli
Oh uomini e donne d'America ...Vedo che avete riunioni, dove parlate
degli italiani, degli ungheresi. Vi prego fate qualcosa; fate che (tutto)
non finisca con una semplice invocazione sentimentale.
Questo è (certamente) meglio delle ridicolizzazioni di tutto ciò che è
liberale, come fanno gli inglesi - i quali parlano delle sante vittime del
patriottismo come "anarchici" e "briganti" -, ma non basta. Non dovete mettervi in pace la coscienza.
Siate riconoscenti verso il Cielo per i privilegi che ha sparso su di voi,
per ottenere i quali molti qui soffrono e muoiono ogni giorno!
Meritatevi di mantenerli, aiutando i vostri compagni a raggiungerli. Il
nostro governo non può interferire, ma l'azione privata è possibile, è
dovuta!
Per l'Italia, in questo momento, è troppo tardi, ma tutto ciò che aiuta
l'Ungheria aiuta qui pure .... Inviate denaro, inviate incoraggiamenti,
riconoscete come legittimi capi e governanti quegli uomini che rappresentano il popolo, che capiscono i loro bisogni, che sono pronti a morire o vivere per il loro bene. Kossuth non lo conosco, ma la sua gente
lo riconosce; Manin non lo conosco, ma con quale ferma nobiltà, con
quale premurosa virtù, egli ha agito per Venezia!
Di Mazzini conosco l'uomo e le azioni, grande, puro, e tenace: un
uomo a cui solo il futuro potrà fare giustizia, in quanto raccoglierà i
frutti di quel che ha seminato oggi. Amici, concittadini e amanti della
virtù, amanti della libertà, amanti della verità! State all'erta; non riposate ... nelle vostre facili esistenze...
66
Il Patriottismo femminile nel Risorgimento
Prof.ssa Fiorenza Taricone
Università di Cassino
Abstract:
Le antologie patriottiche dell’Ottocento decantano spesso gli sforzi di quante
si erano rese benemerite nella causa del risorgimento nazionale; il risalto
maggiore tuttavia viene dato alle "madri eroiche", quelle che avevano offerto
i figli alla Patria, esortandoli a difenderla e a combattere.
In un secolo in cui bisognava, oltre all’Italia, "fare gl’italiani", i cataloghi
sono affollati da una vera pletora di donne-mogli e donne-madri, tutte fermamente nutrite di alti ideali. Nei decenni che vedono l’unità d’Italia e la preparano, la donna è impegnata a sacrificare senza remore i figli alla Patria, a
curare i feriti, viva essa in una villa o sia contadina, di cui non è rimasto il
nome, a cui gli austriaci squarciarono il ventre.
Il tipo d’azione a cui era chiamata si può definire "a latere", occorrendo
nella guerra, come recitava un’espressione dell’epoca, "sia il generale che la
sentinella"; ed effettivamente la gamma dei suoi interventi è stata eterogenea:
"giardiniera", seguace del Mazzini, procacciatrice di danaro per le cartelle del
prestito sempre Mazziniano, conversatrice apparentemente disimpegnata nei
salotti, vere fucine di idee e progetti insurrezionali, nonché luoghi di reperimento e aggiornamento di notizie, realizzatrice di coccarde e divise tricolori,
improvvisatrice di pubbliche proteste e manifestazioni contro "l’asservimento
allo straniero", staffetta nei momenti cruciali, infermiera sempre presente dopo
i fallimenti dei primi moti insurrezionali e le guerre d’indipendenza, sobillatrice attraverso scritti, opuscoli, pamphlets e tanto altro ancora.Il dubbio non è
certo quindi relativo alla sua presenza più o meno attiva nel risorgimento
67
nazionale (comprese quelle che osteggiavano il processo, le reazionarie, le
aristocratiche, e perfino le brigantesse), ma alle lacune storiografiche in tal
senso. Manca ancora una in realtà una ricerca sistematica approfondita che
riunisca, analizzi e metta complessivamente in evidenza il ruolo femminile nel
risorgimento.
Nei loro confronti già Vittorio Cian circa cinquant’anni fa, aveva coniato il
termine “femminismo patriottico”: Bisogna che noi signori uomini abbiamo
coraggio di confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle
nostre abitudini di maschi sopraffattori, nello scrivere la storia abbiamo fatto
e continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone; abbiamo finito cioè con
lo scriverlo un po’ ad usum non delphini, ma viri, dell’uomo cioè quasi del solo
ed unico attore di essa. Bisogna che abbiamo pure il coraggio di rivederla
questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto più si estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento, più vediamo
balzar fuori numerose figure di donne...perciò è tutta un’opera di giustizia storica distributiva".
Modelli femminili: tanti e diversi
Gli elenchi di celebrità femminili italiane dell’Ottocento, sorta di
"cataloghi" in cui sono appaiate, in modo anche eterogeneo, donne
di diversissima formazione, età, provenienza, ideali politici, e ambiti
operativi, sono pressoché tutti ispirati, come è facile supporre,
all’esaltazione degli eroismi che produsse il connubio donna-patria1.
Spesso caratterizzate da un marcato tono apologetico, queste antologie patriottiche decantano, con una certa monotonia di accenti, gli
sforzi di quante si erano rese benemerite nella causa del risorgimento
nazionale; il risalto maggiore tuttavia viene dato alle "madri eroiche",
quelle che avevano “offerto” i figli alla Patria, esortandoli a difenderla e a combattere. Come genere letterario, il catalogo risente direttamente dell’epoca in cui è concepito, in una parola ne riflette le esigenze ed è funzionale, o volutamente disfunzionale all’epoca stessa; in un
secolo quindi in cui bisognava, oltre all’Italia, "fare gl’italiani", i cataloghi sono affollati da una vera pletora di donne-mogli e donnemadri, tutte fermamente nutrite di alti ideali. Non si mirava più, come
nei cataloghi settecenteschi a scovare donne d’eccezione nella storia
68
affinchè, dimostrando come fossero numericamente non trascurabili,
si capovolgesse l’eccezione stessa in regola, ma ad additare alle future generazioni donne-prototipo già costituenti una regola, aventi qualità morali di sostegno, all’uomo, al padre, al fratello.
Nei decenni che vedono l’unità d’Italia e la preparano, la donna è
impegnata non a studiare restando nubile, come la femme savante
settecentesca, ma a sacrificare senza remore i figli alla Patria, a curare i feriti, a contribuire con i propri mezzi morali o materiali, vivano
esse in una villa come le nobili lombarde precorritrici della Croce
Rossa, o siano semplici contadine, di cui non è rimasto il nome, a cui,
come si legge, “gli austriaci squarciarono il ventre”.
Il tipo d’azione a cui erano chiamate, si può definire "a latere",
occorrendo nella guerra, come recitava un’espressione dell’epoca,
"sia il generale che la sentinella"; ed effettivamente la gamma degli
interventi si dimostrò svariatissima: "giardiniera", seguace del Mazzini,
procacciatrice di danaro per le cartelle del prestito sempre mazziniano, conversatrice apparentemente disimpegnata nei salotti, vere fucine di idee e progetti insurrezionali, nonché luoghi di reperimento e
aggiornamento notizie, realizzatrice di coccarde e divise tricolori,
improvvisatrice di pubbliche proteste e manifestazioni contro "l’asservimento allo straniero", staffetta nei momenti cruciali, infermiera sempre presente dopo i fallimenti dei primi moti insurrezionali e le guerre
d’indipendenza, sobillatrice attraverso scritti, opuscoli, pamphlets e
tante altre cose ancora.
Nel corso della prima guerra mondiale, nei libri, nelle conferenze
per le scuole, le "eroine risorgimentali" erano un tema familiare e
discusso, naturalmente per creare un ponte ideale e di riferimento con
gli analoghi atti di eroismo delle patriote del conflitto mondiale. È una
femminilità "eroica" quella espressa dalle protagoniste del
Risorgimento, e "poiché ogni più diverso carattere tra esse è espresso,
vedremo la sognatrice esperta nell’opera della cospirazione, cui
adempie con mite spirito fedele e quella che alla propaganda d’italianità dedica- splendida avventuriera- una multiforme talvolta fantastica attività, la guerriera ardimentosa, rinato spirito spartano, indivisibile dal suo duce o dal suo compagno, tenace nel suo odio contro lo
straniero; la madre eroica che offre i figlioli al martirio o alla
vittoria,l’anima ardente di sacrificio e di carità, prodiga di cure ai feriti sul campo; la provvidente che appresta ogni aiuto ai cospiratori e ai
69
combattenti, l’aristocratica e la popolana, la scrittrice e l’incolta...”2.
Le testimonianze del 1848 hanno tramandato la memoria di un
forte coinvolgimento delle donne nelle rivolte contro l’Austria e nelle
esperienze repubblicane che ne seguirono: "popolane" sono sulle barricate di Milano e di Brescia a combattere e a soccorrere i feriti, "signore" formano gruppi e comitati di assistenza e lavorano attivamente alla
raccolta di offerte di ogni genere per proseguire la guerra.
A Roma la pubblicazione, tra l’aprile e il novembre 1848, di un giornale unico nel panorama nazionale, dal significativo titolo “La donna
italiana” attesta come le donne fossero considerate parte integrante, o
comunque necessaria, di quella comunità nazionale faticosamente in
costruzione. Il giornale, diretto da Cesare Bordiga, cui collaboravano
uomini e donne di ogni parte d’Italia, dedica un’attenzione particolare
all’educazione patriottica delle donne italiane e le sollecita a farsi parte
attiva nella lotta contro l’Austria, non solo incoraggiando gli uomini a
combattere per l’indipendenza italiana ma collaborando attivamente
con loro. Nei numerosi racconti edificanti e componimenti poetici di
sapore manzoniano s’incitano le donne a dare ampie dimostrazioni di
amor patrio, a sacrificare ricchezze e affetti: "Noi siam donne, ma pure
nel petto / Ferve amore da patria, di gloria / Noi siam donne, ma santa
memoria / Di Camilla e di Clelia serbiam… Oh!Si rechin le gemme, i
monili / Alla patria che aita dimanda / Per vil oro, ne avremo ghirlanda
/ Di splendore, di gloria immortal”3.
Fin dai primi numeri del giornale, si susseguono appelli e resoconti che segnalano gli atti di generosità delle donne italiane per la causa
dell’indipendenza, oltre che le notizie della raccolta di fasce e medicinali per i combattenti della Lombardia e del Veneto. Un gruppo di
donne venete, Antonietta Del Cerè Benvenuti, Teresa Mosconi
Papadopoli ed Elisabetta Michel Giustinian promuove la costituzione
all’interno della guardia civica veneziana di un battaglione di donne:
“Ufficio delle cittadine inscritte in questo battaglione deve essere di
curare i militi che cadessero feriti, preparare le cartucce e fare quant’altro la carità di patria può domandare da noi”; è considerato
comunque un ruolo non facile, a rischio di pericolose contaminazioni
se ci si premura di precisare che “il battaglione” che sarà posto sotto
gli ordini di un apposito capo, eletto dal Comandante generale,
adempierà la sua missione evitando qualunque comparsa in pubblico”4. Comparsa che invece le donne non sempre eviteranno, nel corso
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degli eventi, se si segnalano le gesta eroiche di Luigia Battistotti, combattente sulle barricate milanesi, o l’ardore di Cristina di Belgiojoso
che recluta e conduce i volontari napoletani in Lombardia, di Isabella
Luzzatti, Carolina Percoto, Giulia Modena, che sono sui campi di battaglia del Veneto e addirittura si mettono alla testa di centinaia di "crociati"5, come vengono definiti i volontari combattenti della "santa"
guerra contro lo straniero. Ai ripetuti messaggi che mirano a conquistare le donne alla causa dell’indipendenza italiana e a un movimento patriottico che, in nome della madre Italia, affratelli tra loro tutti i
popoli oppressi d’Italia e le donne agli uomini, rispondono tutte coloro che ovunque in Italia, prendono parte attiva alle rivoluzioni. Tant’è
che il termine stesso di "partecipazione" appare insufficiente a connotare l’esperienza femminile e rischia di essere ancora una volta una
"formula che presenta le donne come ospiti occasionali in una storia
non loro dove la normalità e la norma è l’azione degli uomini: partecipare non equivale a far parte, anzi marca il divario fra appartenenza e convergenza momentanea”6.
La presenza delle donne non fu solo quantitativamente rilevante in
questa fase che fu un momento cardine del processo di unificazione
ma produsse significati ben oltre il 1848 e il compimento stesso dell’unità. In questa fase le donne, lungi dal restare escluse, sono chiamate in causa attraversi il legame familiare, in quanto madri, figli,
consorti di patrioti, ma anche come sorelle in quanto figlie della stessa madre Italia, e dunque come patriote esse stesse secondo una interpretazione estensiva e di genere dell’idea di fratellanza. E tuttavia la
natura del patriottismo femminile contemplava precisi ruoli nei quali
le donne erano chiamate a dare il loro contributo alla causa italiana:
se un legame fraterno univa le loro sorti a quelle dei loro uomini non
per questo erano uguali e dunque “il completamento della rete parentale con l’inclusione delle donne era giocato all’interno di una chiara
distribuzione di ruoli genere specifici”7.
Delle donne romane, cui pure non manca di rivolgersi “La donna
italiana”, il giornale lascia trasparire un’immagine contraddittoria,
come di un universo ancora poco sensibile al richiamo della patria,
generose nello spogliarsi di quelle gemme di cui andavano altere nei
giorni della servitù, ma poco proclivi a dare pubblica dimostrazione
del loro patriottismo; d’altronde “non è ufficio delle donne il gridare
nelle piazze e prorompere in eccessi di una gioia smodata”.
71
È sempre lo stesso direttore del giornale, Cesare Bordiga, che si
sente in dovere di rispondere con toni sarcastici alle critiche che vengono mosse alle donne romane accusate di scarsa sensibilità verso i
combattenti: “Cosa mai giova che le romane abbiano fatto dono alla
patria dei loro monili, del loro oro? Per empire la cassa nazionale esse
erano invece in dovere di regalare filacce”.
Il dubbio non è certo quindi relativo alla sua presenza più o meno
attiva nel Risorgimento nazionale (comprese quelle che osteggiavano
il processo, le reazionarie, le aristocratiche, e perfino le brigantesse),
ma alle lacune storiografiche in tal senso. Mancano ancora infatti
ricerche sistematiche di ampio respiro che riuniscano, analizzino e
mettano complessivamente in evidenza il ruolo femminile nel
Risorgimento. Nei loro confronti già Vittorio Cian, nel 1930, aveva
coniato il termine “femminismo patriottico”: Bisogna che noi signori
uomini abbiamo coraggio di confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle nostre abitudini di maschi sopraffattori,
nello scrivere la storia abbiamo fatto e continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone; abbiamo finito cioè con lo scriverlo un po’ ad
usum non delphini, ma viri, dell’uomo cioè quasi del solo ed unico
attore di essa. Bisogna che abbiamo pure il coraggio di rivederla questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto più si
estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento,
più vediamo balzar fuori numerose figure di donne...perciò è tutta
un’opera di giustizia storica distributiva".
Anche Atto Vanucci, memorialista del Risorgimento, mostrò d’averne coscienza, giunto alla quinta edizione della sua classica opera.
Rilevava che non gli uomini soltanto affrontarono le ire feroci dei
despoti e che "anche il sesso che chiamiamo debole sfidò prigioni e
torture, anche le donne salirono impavide sul patibolo del tiranno e
caddero olocausti della causa del vero...Numerose già alla fine del
1833 le nuove Ginevre d’Italia, a partire dalla fine del XVIII secolo,
cioè agli albori dei Risorgimento diventano legione quando ci si spinga alla fase ultima e conclusiva di esso che comprende la guerra. E
dacché la statistica non dev’essere un’opinione, riconosco che le centinaia di nomi femminili, più o meno illustri, finora venuti alla luce,
sono una piccola minoranza in confronto alle migliaia di martiri e
combattenti. E sarà atto non di generosità, ma di giustizia da parte
dell’uomo il riconoscere che all’inferiorità numerica o quantitativa è
72
grande compenso la qualità dell’azione femminile"8. La distinzione tra
un "martirologio" maschile ed uno femminile è semmai da rintracciare unicamente nel fatto che quest’ultimo è fatto di "riserbo, di soavità
fuggitive, di silenzi, di rinunzie, ma non per questo è una passività trascurabile"9. Per di più, non sono poche quelle che potrebbero definirsi secondo V. Cian, eccezioni: "cioè le forme donnesche di eroismo virile, tali da implicare quella resistenza anche fisica e quell’audacia e
violenza d’impeti che si considerava prerogativa dell’uomo"10.
Accanto a figure note come Eleonora Pimentel Fonseca, e Luisa
Sanfelice, Cian pone non a caso la descrizione di una donna definita
genericamente "vecchia madre” quasi a simboleggiare la diffusione
del sentimento d’italianità, senza bisogno di generalità precise; quella donna di Città Sant’Angelo che rispon¬de ai borbonici: “Io non
posso andare appresso agli uccelli che volano, io non so dove sia mio
figlio e se lo sapessi, lo rimetterei piuttosto nelle mie viscere che svelarlo a voi”.
Figure emblematiche sono citate in rappresentanza di un’intera
moltitudine, e il nodo centrale rimane quello di una conoscenza
approssimata del tutto incerta sui contorni di questa moltitudine. La
"rimozione del femminile" è evidente ad esempio in uno dei personaggi più singolari dell’epopea risorgimentale, definita di volta in volta
megalomane, strana, incoerente, ardita, ma quasi mai pensatrice
politica, quale fu, e benefattrice innovativa,poliglotta, viaggiatrice
coraggiosa: Cristina di Belgiojoso. Insolito comunque uno dei documenti firmati di suo pugno che fungevano da brevetti di nomina, intestato nel modo seguente: Spedizione napoletana per l'Alta Italia
Divisione Begioioso: Noi Cristina Trivulzio Principessa di Belgiojoso
avendo inteso il voto generale dei nostri amat-issimi giovani che vengono con noi alla difesa della Patria, confermiamo col grado di
Aiutante Maggiore il sig. don Giuseppe Del Balzo e come tale lo riconfermiamo.
Ma la sua attività patriottica e il prezzo che ne derivò sono al di
sopra di ogni ironia; i sequestri con cui l’Austria colpì i suoi beni al
punto da ridurla a vivere di attività precarie all'estero, fanno il paio con
la motivazione di quegli stessi sequestri spiegata per esteso negli
archivi della polizia austriaca; Cristina era definita molto fanatica, in
contatto epistolare con i radicali del Canton Ticino; una volta esule a
Parigi tentava "i più decisivi passi per favorire la causa italiana.
73
Successa la rivoluzione, assoldò proletari (forse un lapsus per volontari n.d.r.) che personalmente condusse a Milano. Dopo il reingresso
delle truppe, invocò l’aiuto dello straniero, ma tornati vani i suoi sforzi, andò vagando per la Grecia e la Turchia ritirandosi dalla scena
politica”11. Accorse alla difesa di Roma nel ‘49 e diresse gli ospedali
assistendo personalmente Nino Bixio e Goffredo Mameli; l’Hanotaux
uno dei frequentatori del suo salotto parigino, scrisse che nessuno più
della Belgiojoso aveva operato "pour la propagation de l’idée italiénne".
Accanto a queste figure elitarie per privilegi di nascita e formazione culturale, agivano anche, realmente e concretamente, le combattenti delle Cinque Giornate di Milano. Nei Souvenir historique della
marchesa Costanza D’Azeglio si ricorda la partecipazione femminile
nelle forme più svariate: “con il gettar giù dalle finestre gli austriaci,
con l’olio bollente, col vetriolo”. Altre “tiraient le pistolet, oppure si servivano "de cruches de grés" (letteralmente bocche di arenaria n.d.r.) a
guisa di bombe"12. Fra le protagoniste delle Cinque Giornate, Luigia
Battistotti, la quale, giovanissima e sposata da poco, si avventò contro
un croato e strappatagli la pistola, intimò agli altri cinque di arrendersi; abbandonato l’abbigliamento femminile per prendere posto tra i
fucilieri volontari, combatté per tutte le fatidiche cinque giornate.
“Instancabile nel ferire, nell’incoraggiare alla pugna, nel correre a
prestare soccorso di viveri a quelli che, chiusi dal nemico, correvano il
rischio di morire di fame"13.
La Battistotti, detta "la brunetta di Borgo Santa Croce" e le altre
milanesi hanno il loro equivalente, se così si può dire, nelle combattenti bresciane.
Fra le valorose delle Dieci Giornate troviamo il nome di Anna
Rogna Contini, che nella notte del 23 marzo 1848, sbalzata dal letto
da una cannonata austriaca che aveva fatto crollare le pareti della
camera, seguì il marito sulle barricate, armata di fucile notte e giorno.
È la stessa popolana che, ritornata poi nella casa in rovina e sorpresovi un croato nell’atto di razziare, lo afferrò gridandogli: Vattene! Le
bresciane non uccidono inermi, cacciandolo giù per le scale.
Vincenza Ausmini Tondi unì capacità militari a doti diplomatiche.
Nata nel 1829, si sposò quattordicenne; nel 1849, il marito, liberale,
fu imprigionato per attività cospirative e la Tondi si trovò da sola a
tenere le fila del movimento liberale viterbese. Nel ’59 assolse il diffi74
cile compito di mandare in porto un plebiscito segre-to della città e
provincia per decretare l’annessione. Alla fine del '60, subì la carcerazione prima e poi lo "sfratto"dal territorio pontificio; raggiunto il marito a Orvieto, continuò a lottare con lui e militarono insieme nei
Cacciatori del Tevere.
Non mancarono, come in ogni epoca, travestitismi di vario tipo; da
quelli meno evidenti come Giuseppina Lazzeroni, milanese, che "vestita di un corsaletto con pugnale e pistola alla cintura, si fa onore fra i
concittadini che combattevano gli austriaci a fianco di un fratello"14. A
quello meditato e progettato di Erminia Mannelli, fiorentina: "visto tornar malato dal campo il fratello cui somiglia perfettamente, sta in
forse appena pochi dì, poi segue risoluta la sua ispirazione, si veste
degli abiti di lui, diserta la sua casa, va a costituirsi al reggimento e
così bene si diporta nelle marce ed al fuoco che nessuno si accorge
della sostituzione. Ferita a morte e reso così palese l’essere suo...ella
viene trasportata nella sua casa a Firenze dove muore"15.
Il contagio degli ideali garibaldini
Le spedizioni e le gesta di Garibaldi suscitarono ampi consensi
femminili che si concretizzarono, se non in arruolamenti veri e propri,
in una volontaria offerta dei più svariati servizi da parte delle donne.
Le più numerose erano naturalmente coloro che erano sposate ad
ufficiali o a semplici soldati delle spedizioni garibaldine, come Anna
Galletti de Cadilhac, moglie dell’ufficiale Bartolomeo Galletti. Nel
1848 promosse una riuscita manifestazione di donne romane;
organizzò feste a favore degli ospedali, dei soldati, e degli asili
d’infanzia; era particolarmente sollecita nell’assistere i feriti,
meritandosi da Garibaldi l’appellativo di angelo degli ospedali,
mentre il popolo l’aveva ribattezzata "la bella Roma".
Rosa Strozzi, nata a Roma nel 1830, diventata moglie del capitano
garibaldino Vincenzo Santini, quando Oudinot ruppe le trattative
diplomatiche con Roma e Garibaldi assunse la difesa della città,
decise di non abbandonare neanche temporaneamente le fila
garibaldine, neppure quando il marito cadde a S. Pancrazio. Seguì
Garibaldi anche in Sicilia e si guadagnò una medaglia al valore. Prese
parte alla campagna del Trentino e fu presente a Mentana; ritiratasi a
vita privata si dedicò ad attività benefiche e morì nel 1888.
Baldovina Vestri, popolana nata a Siena nel 1842, chiese perso75
nalmente a Garibaldi di adibirla alle cure dei soldati. Si rese utile
assolvendo ogni tipo di mansione: dallo strigliare i cavalli, al rancio,
curare i feriti. Si avvicinava fino alle file nemiche per prendere acqua,
raccogliere erbe medicamentose e trascinare via i caduti. Si spense
alla tarda età di novant’anni.
Se in questa sede ometteremo di parlare delle "madri eroiche" e
offrirono i loro figli e le loro sofferenze alla patria, come la citatissima
Adelaide Bono Cairoli, non è possibile tralasciare per il grande
impatto sull’immaginario collettivo la figura di Anita Garibaldi.
Infatti, se alle patriote del Risorgimento è stata resa finora una parziale giustizia, alla sua figura è toccata invece una sorte più benigna;
non completamente oscurato dalle gesta di Garibaldi, il personaggio
Anita è entrato in un alone mitico, di grande dinamismo, insieme alle
sue doti di combattività e tenacia, non disgiunte da una serie di caratteristiche prettamente femminili, come il sentimento che la univa
all’eroe dei due mondi; o come la sua stessa immagine fisica, non
legata ad un travestitismo maschile, ma a noi tramandata come tipicam-ente femminile: vesti ampie, capigliatura abbondante, gesti che
sono insieme coraggiosi e pudichi, incisivi e morbidi. Narra di lei
Garibaldi che "i primi anni della sua vita assomigliano a quelli di qualsiasi fanciulla di natura vivace e pudica, cresciuta all’ombra della
famiglia; accompagnava volentieri il padre alla caccia, ma nulla poteva far supporre in lei degli istinti battaglieri"16.
Nel 1829, Garibaldi, uscito dalla laguna con tre navi corsare per
attaccare gli Imperiali sulle coste del Brasile, ebbe modo per la prima
volta di apprezzarne il coraggio, in una delle versioni che descrivono
la loro conoscenza. Pregata da lui di scendere sulla costa dove senza
pericolo avrebbe potuto rimanere spettatrice del conflitto, rispose coll’impugnare una spada e incoraggiare al combattimento, ritta sul cassero. Il vento che soffiava favorevolmente al nemico dava modo di
bordeggiare e cannoneggiare la piccola flotta repubblicana. Uscita
illesa da una cannonata, gridò a Garibaldi di snidare i codardi che si
nascondevano, andando lei stessa a colpirli con la sciabola.
"Stupenda di coraggio Anita si dimostrò anche in un altro combattimento navale, che riuscì forse ancora più sanguinoso dell'altro.
Somigliava in quel giorno – narra Garibaldi - alla dea delle battaglie.
Dopo aver distribuito le armi dell’abbordaggio, si pose al cannone.
Reso questo inutilizzabile, "diede mano al moschetto e non cessò di
76
sparare fin quando vide i nemici, né sbarcare, né approfittare dei ripari, ritta e tutta esposta al fulminare tremendo del fuoco nemico".
Prodigi di valore - narra sempre Garibaldi- rinnovò nel combattimento terrestre di Coritilani. Le sorti della battaglia erano sfavorevoli per i
repubblicani. Garibaldi era rimasto con soli 73 uomini di fanteria,
attorniati da 500 uomini della cavalleria nemica. "Anita doveva provare in quel giorno le avverse ed amare peripezie della guerra. Non
sapendo adattarsi al semplice ruolo di spettatrice, essa sollecitava la
marcia delle munizioni e a questo scopo si avvicinava alla principale
scena del combattimento, quando un nugolo di cavalieri nemici, inseguendo alcuni fuggitivi s’avventarono sui custodi del treno. Anita, franco cavaliere, avrebbe potuto agevolmente fuggire e lasciare uno spazio tra sé ed i nemici incalzanti, ma, inaccessibile alla paura, non volle
il cavallo se non quando si trovò avviluppata da una frotta di nemici.
Così circondata, spiccò uno slancio e forse si sarebbe salvata se il
cavallo non fosse caduto morto. Invece dovette arrendersi e fu fatta
prigioniera". Al combattimento navale di Santa Caterina accende lei
stessa la miccia al cannone; altrove, diventa pressoché l’unica infermiera dei soldati e guida la scorta delle munizioni. Impara di fatto sul
campo tutto ciò che è utile nelle battaglie: le tecniche per coprire
Garibaldi, ad avere dimestichezza col moschetto, a "bracciare" una
vela, a cavalcare nelle marce, a caricare nelle mischie, a passare la
notte nei bivacchi, "a durar nelle veglie come un veterano, a disprezzare le delicatezze, a dissimulare le necessità, a domar talvolta i tormenti del suo corpo..."17. Quasi sul campo, da fuggiasca, trovò la
morte che mise fine ad un sodalizio sentimentale-guerresco pressoché
unico nella storia italiana.
Il biennio 1848-49 a Roma
Nella primavera 1848, mentre scoppiano i moti rivoluzionari e la
guerra contro l’Austria, la situazione di Roma è ancora fluida, la città
è ancora lontana, non solo geograficamente, dal teatro di guerra.
Ma pochi mesi dopo il moto rivoluzionario tocca anche Roma e la
guerra coinvolgerà anche uomini e donne, che da fuori erano arrivati per difendere in prima persona ideali patriottici. Nella futura capitale trova la morte una combattiva protagonista del risorgimento:
Colomba Antonietti, figlia di fornai umbri, costretta a fuggire da casa
per il rifiuto dei suoi alla richiesta di matrimonio fatta dall’ufficiale
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Porzi; l’opposizione era dovuta alla differenza sociale esistente fra i
due, aristocratico lui, di modesta estrazione lei, il che avrebbe compromesso le sorti dell’unione. Colomba Antonietti combatté vestita da
uomo a fianco del marito e venne ferita mortalmente a Porta S.
Pancrazio. Purtroppo, come Anita Garibaldi, è stata penalizzata dalla
mancanza d’istruzione e poiché non è rimasto nessuno scritto autografo, la conosciamo solo attraverso ciò che altri hanno scritto di lei: il
marito Luigi Porzi, i familiari, Garibaldi, i discendenti.
In ciò, Colomba Antonietti ha seguito la sorte di tutte le donne che,
private di auto narrazione, sono state o in massima parte rimosse
dalla storia, o sopravvissute nell’inconscio collettivo come mito, agevolate dalla presenza di un uomo dai tratti eroici, come fu il caso
ancora una volta di Anita Garibaldi. Nel “Monitore Romano”, foglio
ufficiale della repubblica Romana si legge nel giugno ’49 che
Colomba Antonietti di Foligno, di 22 anni, seguiva da due anni il
marito, luogotenente di linea, dividendone le fatiche e le lunghe
marce. “Alla battaglia di Velletri si battette come un uomo, come un
Eroe degno del suo marito, e del suo cugino Luigi Masi.
Il 13 giugno si trovava presso le mura a San Pancrazio; là, mentre
passava al marito il sacco ed altri oggetti necessari alla riparazione
della breccia, una palla venne a ferirla nel fianco: Ella congiunse le
mani, le alzò al cielo e morì gridando:Viva l’Italia”. Toni diversi userà
il volumetto clericale Gli ultimi sessantanove giorni della Repubblica in
Roma, scritto nel 1850, che contestava l’articolo del “Monitore” in cui
il martirologio della libertà italiana registrava il nome di una donna
combattente vicina al marito18. In uno scritto di Carlo Rusconi, letterato, deputato nell’Assemblea della Repubblica Romana, la figura
dell’Antonietti assume già i contorni del mito.
“A Roma aveva chiesto ripetute volte di poter far parte in quelle sortite con cui gli assediati venivano tratto in tratto debellando gli assalitori, ciò che non le era stato concesso perché a repentaglio di una
morte quasi sicura non fosse posto un esser dotato di sentimenti così
eccelsi. Pregata dai circostanti di allontanarsi dalle mura, rispondeva
con dignità che la sua vita era consacrata all’Italia da gran tempo, e
che prezzo non aveva per lei se non in quanto poteva giovare alla sua
patria sventurata. Serena, tranquilla impavida restava al suo
posto…alcuni soldati caddero in quella morti ai suoi piedi, né per le
nuove istanze fattele ella volle ritirarsi; vi fu un momento anzi in cui
78
elle fece un passo verso il marito per fornirlo degli strumenti che aveva
addimandati, e una palla di cannone la percosse adempiente quell’atto di amore coniugale. Quella giovane cadde inginocchiata, levò le
mani e gli occhi al cielo, e spirò dopo un minuto gridando Viva l’Italia.
I suoi leggiadri lineamenti si copersero del pallore della morte, ma il
sorriso non si scompagnò dalle sue labbra, che anche in quell’eterno
silenzio esprimere pareano l’amore e la fede che collegata l’avevano
in vita alla sua famiglia e alla sua patria. Un lungo grido di commiserazione s’innalzò dai circostanti; l’uomo che unito aveva le sue sorti a
quelle di lei fu trascinato lontano, in preda alla più orribile disperazione. Le onorate spoglie di quell’infelice, poste su un cataletto, furono
portate per le vie di Roma spettacolo di compianto universale, e il
popolo trasse in folla dietro al feretro coperto di bianche rose, simbolo del candore di lei spenta sì crudelmente nel fiore della giovinezza”19.
Molte donne romane saranno da parte loro in prima fila a rispondere alle necessità di sacrificarsi per le esigenze della patria. In una
seduta dell’assemblea, mentre Mazzini accennava alle drammatiche
urgenze, dalla tribuna riservata alle donne, scriveva Giuseppe
Beghelli, uno dei più convinti estimatori del patriottismo femminile
“cominciava una pioggia d’oro, di pendenti, di fermagli, e d’anelli.
Nella patria delle Cornelie, era naturale questo splendido esempio di
patriottismo”20.
Nell’aprile del 1849 l’intervento francese contro la Repubblica
romana era ormai deciso e l’assemblea repubblicana votava la resistenza a oltranza. Subito dopo lo sbarco dell’esercito francese a
Civitavecchia, in attesa dell’attacco imminente, il triumvirato da un
lato contava le forze militari disponibili, dall’altro allertava la popolazione e ne organizzava la resistenza attraverso l’istituzione di una
Commissione Centrale delle barricate composta da Enrico Cernuschi,
Vincenzo Cattabeni, Vincenzo Caldesi e Rinaldo Andreini; si nominavano i rappresentanti del popolo che, rione per rione, daranno istruzioni per la costruzione delle barricate, con l’obiettivo di "difendere
palmo a palmo il terreno: "le milizie d’ogni genere fanno e faranno il
loro dovere. Tocca al popolo fare il suo. Tutte le contrade della città
debbono essere difese”, scrive il “Monitore romano”. Carlo Pisacane,
che sarà capo di stato maggiore della Repubblica Romana, all’indomani di quell’esperienza, bollerà come del tutto inani simili provvedi79
menti: "Difendere palmo a palmo e casa per casa la città è un genere di guerra che non può ordinarsi dal governo e dal militare: il popolo bisogna che lo faccia spontaneamente".
La mobilitazione non esclude le donne: "Nel momento che ogni cittadino offre la vita in servigio della patria minacciata, le donne debbono anch’esse prestarsi nella misura delle loro forze e dei loro mezzi.
Oltre il dovere dell’infondere coraggio nel cuore dei figli, dei fratelli,
altra parte spetta pure alle donne in questi difficili momenti. Non parliamo per ora della preparazione di cartatucce [sic] e munizioni d’ogni
genere, cui potranno essere più tardi invitate le donne romane. Ma già
sin d'oggi si è pensato di comporre una Associazione di Donne allo
scopo di assistere i feriti, e di fornirli di filacce e delle biancherie necessarie. Le donne romane accorreranno, non v'ha dubbio, con sollecitudine a questo appello fatto in nome della patria carità"21.
Le donne romane effettivamente accorrono in gran numero: centinaia rispondono all’appello del Comitato di soccorso ai feriti, che reca
le firme di Alessandro Gavazzi, bolognese, cappellano militare maggiore, di Enrichetta Pisacane, Cristina Trivulzio di Belgiojoso e Giulia
Bovio Paulucci, donne di diversa estrazione, mogli per lo più di alcuni
dei protagonisti delle vicende rivoluzionarie. Cristina di Belgiojoso è
stata in prima fila nelle giornate milanesi, poi, è attratta anche se non
convinta dagli esperimenti politici del Governo provvisorio toscano e
della Repubblica Romana. Enrichetta Di Lorenzo è la compagna di
Carlo Pisacane: già sposata al conte Dionisio Lazzari, madre di tre
bambini, fuggita con Pisacane da Napoli nel 1847, è stata con lui per
due anni in Inghilterra, in Francia, in Svizzera e infine in Italia sui
campi di battaglia lombardi, nel marzo 1849 è a Roma con Pisacane,
che provvede, con lo stesso Mazzini, alla riorganizzazione delle forze
militari. Giulia Bovio Silvestri, bolognese, è la moglie di Vittorio
Paulucci de’ Calboli, già comandante della piazza di Bologna e dei
giovani volontari bolognesi, il cosiddetto Battaglione della Speranza.
Nei giorni immediatamente successivi, lo stesso Comitato di soccorso
ai feriti si costituisce in Amministrazione delle ambulanze con significativo ampliamento della sfera d’azione. Ai precedenti componenti del
comitato di soccorso si aggiungono alcuni "cittadini" in maggioranza
personale sanitario già in forze negli ospedali romani. Il Comitato
comunica con l’Amministrazione di sanità militare, col Municipio e coi
Ministeri della Guerra e dell’Interno.
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Le ambulanze, cioè i punti di soccorso ai feriti, vengono collocati in
parte presso ospedali e ospizi, in parte presso conventi più o meno
prossimi ai luoghi di combattimento. A fine aprile come sedi di ambulanze vengono approntati la Trinità dei Pellegrini, antico ospizio fondato nel `500 da Filippo Neri, gli ospedali di S. Giovanni in Laterano,
Fatebenefratelli, S. Spirito, S. Giacomo, il convento della SS.
Annunziata delle Turchine a Monti, il convento di S. Pietro in Montorio,
a ridosso del Gianicolo, S. Teresa a Porta Pia, e, in un secondo
momento, il Palazzo del S. Uffizio, il Convento della Scala (dove peraltro i frati non consentiranno mai l’ingresso alle donne assistenti),
l’Ospedale di S. Giovanni de’ Fiorentini, la Canonica di S. Maria
Maggiore. A ognuno di essi è preposta una delle componenti il
Comitato di soccorso. All’Ospedale della Trinità dei Pellegrini, l’assistenza è affidata a Giulia Paolucci e a Dina Galletti, bolognese, moglie
di Giuseppe Galletti, presidente dell’Assemblea costituente; dell’ospedale di S. Spirito è "regolatrice" Giulia Calame Modena, svizzera di
Berna, moglie di Gustavo Modena, combattente con il marito nel
Veneto e responsabile di un ospedale da campo a Palmanova, dove è
ferita, poi imprigionata dagli austriaci finché, liberata, non raggiunge
Firenze e di qui Roma; a S. Giacomo è Malvina Costabili, ferrarese,
moglie di uno dei componenti della Commissione di finanze, a San
Gallicano Adele Baroffio, moglie di Felice Baroffio, milanese, medico
e chirurgo militare, combattente contro l’Austria e poi esule in
Piemonte, a S. Giovanni, Paolina Lupi, a San Pietro in Montorio
Enrichetta Pisacane, al Fatebenefratelli è "regolatrice" Margaret Fuller,
giornalista americana appassionata sostenitrice della causa italiana, a
Santa Teresa, Enrichetta Filopanti, moglie di Quirico Filopanti (pseudonimo di Giuseppe Barilli), deputato di Bologna all'Assemblea costituente, a Monti, Olimpia Razzani.
Il ruolo svolto da Cristina di Belgiojoso nell'organizzazione delle
ambulanze è di primo piano, come ha modo di notare una delle sue
collaboratrici, Enrica Filopanti che, nel celebrare l’eroismo dei combattenti e la generosità delle donne che svolgono opera di assistenza,
il cui numero "anzi che scarseggiare eccedeva", insiste sulle capacità
organizzative e l’attiva determinazione di Cristina di Belgiojoso. E sottolinea come con "uguale zelo" vengano accolti e curati nelle ambulanze tutti i feriti, sia italiani sia francesi.
Se nelle organizzatrici dell’assistenza è motivo di particolare orgo81
glio trattare tutti i feriti "con uguale zelo", senza riguardi per la divisa
che portano, la loro opera non è a questo riguardo universalmente
apprezzata. Ai riconoscimenti tributati alle infermiere da Ferdinand de
Lesseps, inviato nell’aprile a Roma in missione diplomatica per tentare una mediazione con la Repubblica, per aver prestato, ai ventisei
feriti francesi dei combattimenti del 30 aprile tutte le cure del caso,
fanno da contrappunto altri giudizi di parte francese tutt’altro che
benevoli: c’è chi getta su di loro il sospetto più infamante, descrivendole come signore dalle "nude spalle e seducentemente adorne" che
solo apparentemente si dedicavano alla cura dei soldati, in realtà
"assidevansi al capezzale dei malati francesi per far proseliti colla
voluttà tant’è che Cristina di Belgiojoso sarebbe stata soprannominata, tra i francesi, Bellejoyeuse. E a chi chiede ai soldati francesi feriti se
sono ben curati, qualcuno di loro ammette che le cure non mancano:
"Pour les soins, il n’y a rien à dire... mais pour la moralité c’est autre
chose. Quelles pratiques! Nous n’en voudrions pas au régiment pour
cantinières"22.
Ma Alphonse Balleydier, autore di queste note, non è e non sarà il
solo: non solo i francesi gettano il disprezzo e il ridicolo sulle infermiere. È rimasta famosa la testimonianza di Antonio Bresciani, letterato
gesuita. Falsificando i reali motivi delle visite compiute dalla Belgiojoso
nei conventi alla ricerca di luoghi adatti ad accogliere ambulanze,
immagina che la Belgiojoso si rechi invece ad annunciare alle suore il
decreto del 27 aprile con il quale il triumvirato non riconoscendo la
perpetuità di voti, dà facoltà di sciogliersi dalle regole a tutti i religiosi e religiose che ne abbiano l’intenzione proteggendoli contro ogni
violenza e accogliendo i religiosi che ne facciano richiesta nelle milizie della Repubblica. Nella scena dipinta dal Bresciani la Principessa,
accompagnata da altre “profetesse” con modi arroganti, legge il
decreto e incita le suore a sciogliersi dai voti, ma di fronte alla fermezza delle suore, deve battere in ritirata. E non è questa l’unica forma di
prevaricazione compiuta ai danni delle religiose: di ben più gravi
attentati al pudore si sarebbero resi colpevoli gli studenti della
Sapienza. E come le persone anche i luoghi: Bresciani lamenta che i
conventi siano stati ridotti ad alloggiamenti militari, a magazzini, a
ospedali: "E fosse stato soltanto per riporvi i feriti; ma nel brutale
comunismo repubblicano, cacciavano di casa le monache per empire
i monasteri della plebe sfrenata e ingorda, sotto sembiante di sottrar82
la al pericolo delle bombe. Indi i religiosi vedeansi inondare di femmine i collegi e i conventi ...Infemierine, le quali s’avvolgean snellette
e leggere intorno ai letti ín grembiulino di seta a ventaglio; colle maniche riboccate assai sopra il gomito; colli sciallini appiccati agli arpioni dell’antisala, perché il caldo e l’afa le opprimeva; coi capi ben
acconci, per non aver sembiante di suore, e non metter tedio e nausea agli eroi d’Italia, ai martiri della libertà; con certi risolini in bocca,
con certe parolette dolciate, da mandarli all’altro mondo in ben altra
guisa che non fanno i preti in cotta e stola"23. I conventi, dunque,
potrebbero sopportare di essere inquinati dai feriti, ma non dalle
donne, che, oltretutto, danno in punto di morte agli eroi e ai martiri
d’Italia ben altro viatico di quello che la religione prescriverebbe.
Un’altra accusa tocca dunque alle donne e ai preti, come Alessandro
Gavazzi, che con loro hanno a che fare, quella di non munire i moribondi dei conforti religiosi, un’accusa dalla quale la Belgiojoso dovrà
difendere se stessa e il triumvirato, che, oltre a Gavazzi, nominato nel
marzo "cappellano maggiore dell’armata", assegnò un cappellano
militare a ogni ambulanza e si preoccupò di stilare un regolamento
per i cappellani militari della repubblica24.
Anche i medici non mostrano di apprezzare l’ingresso di queste
figure irregolari nell’ambiente sanitario, sia pure in situazione d’emergenza, e molti di loro protestano contro l’invasione muliebre" e "il
dispotismo delle femmine”. In realtà dissapori e contrasti all’interno
dell’ambiente ospedaliero tra personale regolare e infermiere volontarie furono all’ordine del giorno e la Belgiojoso li attribuì sia all’inadeguatezza delle strutture sanitarie e alla mentalità retriva di medici e
amministratori, sia al comportamento irresoluto e compromissorio del
triumvirato, preoccupato di mantenere un modus vivendi con gli
appartenenti all’amministrazione pontificia.
In realtà, Cristina di Belgiojoso non si limita ad organizzare l’opera di soccorso momentaneo. Il suo ruolo le dà modo di rendersi conto
della situazione complessiva dell’assistenza sanitaria a Roma e di concepirne un progetto di riassetto che nel maggio 1849 espone ai triumviri. Il progetto prevede l’allargamento delle competenze del Comitato
di soccorso a una sorta di sovrintendenza a tutti gli ospedali romani,
la trasformazione dell’ospedale della Trinità dei Pellegrini in ospedale
militare nonché convalescenziario per malati dimissionati ospedali e
sede di scuola infermieristica per le donne assistenti; al comitato, inol83
tre, spetterebbe l’amministrazione del patrimonio della trinità dei
Pellegrini, la direzione dell’ospedale militare, la direzione dell’istituto
delle donne assistenti. A questo proposito non manca di mettere l’accento sulla necessità che alle infermiere venga richiesta "molta severità di costumi e regolarità di vita quasi monastica”, una risposta preventiva alle accuse di immoralità che da più parti pioveranno sulla
stessa Belgiojoso e sulle altre volontarie e un segnale che il contatto
e la cura del corpo sono considerati motivo di attrazione e al tempo
stesso di pericolo per le donne.
Ai primi di giugno accorre a Roma Agostino Bertani, reduce dalle
esperienze fiorentine, e immediatamente Mazzini, lo invita, in qualità
di medico, a visitare le ambulanze e gli ospedali visite nelle quali è
accompagnato da Paolo Baroni, medico e presidente del Consiglio
superiore militare di sanità, e da Cristina di Belgiojoso, che non
manca di segnalargli Io stato penoso in cui versa l’assistenza a Roma,
reso ancor più grave dalla situazione di guerra. A conclusione delle
visite Bertani stila per il triumvirato un rapporto e un progetto di riorganizzazione. Bertani si preoccupa soprattutto di rendere gerarchica
l’amministrazione sanitaria attraverso l’istituzione di un Consiglio di
amministrazione superiore che gestisce i fondi e il magazzino delle
forniture centralizzato da cui vengono distribuiti materiali alle singole
ambulanze, e un Consiglio sanitario civile e militare, autorità sanitaria
e al tempo stesso politica, che svolga un compito di sorveglianza sanitaria sulle ambulanze che da questo dipendono. A capo di ogni ambulanza sta un direttore sanitario, che sovrintende anche alla parte
amministrativa. A ogni ambulanza è addetta una "patronessa"; al
corpo delle "patronesse", a capo del quale è una presidente, spetta la
"sorveglianza" e la "pietosa istanza per ottenere mezzi materiali e persone di assistenza caritatevoli". Le patronesse, si aggiunge infine nel
progetto, sarebbero indipendenti dai direttori, ma in accordo con essi
"per il miglior bene dei malati”.
Entrambi i progetti sono destinati, come è ovvio, a rimanere lettera
morta. La situazione militare si aggrava disperatamente e i francesi
stanno sferrando gli ultimi attacchi; Bertani non può far altro che mettersi a disposizione nella sua qualità di chirurgo: il 29 giugno Paolo
Baroni gli assegna un posto nell’ambulanza della Trinità dei Pellegrini,
che è peraltro in corso di smobilitazione, perché ormai troppo esposta, e in trasferimento al Quirinale. A Bertani sono affidate alcune
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decine di feriti, tra cui Goffredo Mameli, in condizioni troppo gravi per
essere trasportati. E nella Trinità dei Pellegrini Bertani rimane alla cura
dei feriti fino alla fine di agosto “quando Roma giaceva nella disperata pace della morte”25.
Ma non è il solo a continuare, finché è possibile, a prestare la propria opera per i feriti. Lo stesso fanno molte delle donne, Belgiojoso
stessa, Giulia Modena, Margaret Fuller e altre che, al sopraggiungere
dei francesi, resistono con fermezza in quello che ormai è da loro considerato come un vero posto di combattimento.
Alle pendici del Gianicolo gli uomini hanno difeso fino allo stremo
il loro onore militare, negli ospedali si è combattuta la battaglia delle
donne per la patria italiana non solo contro i nemici stranieri, ma contro ogni genere di avversità, morale e materiale. Un duplice fronte che
Carlo Rusconi, ministro degli Esteri della Repubblica e protagonista
delle trattative con il generale Oudinot che precedettero l’intervento
francese, ricorda con accenti commossi: "Molte…donne gareggiavano
in egual modo in Roma col sesso più forte nel difendere la patria loro
e le istituzioni che dovevano ravvivarla. Molte altre ancora, a uffici più
muliebri attendendo, la carità loro mostravano assistendo i feriti,
vegliando le notti al capezzale dei morienti. Non mai il compito della
donna era stato più nobile di quello che si mostrasse in quei momenti né mai maggiori virtù rifulso aveva nel sesso gentile chiamato da Dio
a dividere i destini dell’uomo. Per quegli uffici pietosi doveva essere
poscia vilipesa; tanta abnegazione, tanto amore, tanto affetto di
patria dovevano essere segnalati al mondo come una libidine scellerata; e le angeliche donne in cui quegli affetti vivevano, stimmatizzar
doveansi come meretrici abbiette26.
Verso l’unificazione
Nella futura capitale si consumò anche il dramma di Giuditta Tavani
Arquati. Nata a Roma nel 1836, vissuta nel rione Trastevere, sposò
Francesco Arquati di umile condizione; pressati dalla miseria, i due
dovettero temporaneamente emigrare a Venezia per cercarvi lavoro;
in seguito Giuditta tornò a Roma, dedicandosi ai suoi nove figli. Il 25
ottobre del ‘67, mentre Garibaldi espugnava Monterotondo, dopo
aver fatto prigioniero il presidio papale, nella fabbrica di Giulio Ajani
alla Lungaretta, capo delle cospirazioni di Trastevere, quaranta patrioti
fra cui l’Arquati, accompagnato dalla moglie e un figlio, si erano
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riuniti per organizzare una rivolta. Alcune spie segnalarono
all’ispettore di polizia del rione Campitelli, Luigi Rossi,la riunione; si
circondò il luogo, con trecento uomini, tra zuavi e gendarmi. I patrioti,
asserragliati, presero le armi e Giuditta prestava aiuto soccorrendo i
feriti, porgendo le munizioni. Quando, invece dell’intervento di altri
patrioti sopraggiunsero rinforzi zuavi, la sorte dei combattenti fu
segnata e durò fino a che, mancando le armi, i soldati entrarono
abbattendo la porta. "Inumana fu veramente la carneficina dei
cospiratori che non erano riusciti a fuggire...Disarmati tutti e
barbaramente trucidati, Giuditta, già ferita da più colpi di proiettili
venne finita a colpi di baionetta dopo che avevano già fatto sotto i suoi
occhi la stessa sorte il marito e il figlio diciassettenne Antonio. Poi fra
quell’ammasso di ossa stritolate e crani rotti, i difensori dello stato
pontificio si sedettero a mensa“27.
La patriota romana è una delle poche donne ad essere lungamente ricordate anche dal patriota Alberto Mario, consorte di Jessie White
Mario, una delle biografe del risorgimento nazionale, fedelissima a
Mazzini e a Garibaldi. Nei suoi scritti letterari ed artistici A. Mario
ricorda che nel 1870, mentre si trovava a Roma, ricorreva il terzo
anniversario di una “tragedia patriottica” avvenuta nel rione Trastevere
nel 1867. “Fino dal mattino la casa Ajani n.97 in via della Lungaretta
era fastosamente addobbata a lutto con damaschi neri a fettoni fimbriati in oro. Nel mezzo dell’addobbo sorgeva un busto naturale di
donna ancora giovane con aspetto e forme di matrona antica; aspetto e forme che ancora si ravvisano nelle donne trasteverine. Sotto al
busto, un’iscrizione; e più sotto, altre tre. Corone di fiori di lauro pendevano intorno. Tutta la via della Lungaretta era cosparsa di foglie
d’alloro. Da tutte le abitazioni sventolavano bandiere tricolori. La
porta principale della casa Ajani stava aperta. La gente v’entrava, visitava gli appartamenti e ne usciva per una porta laterale che mette in
altra contrada. Il giorno 25 non meno di settantamila persone furono
a quella casa, ed altrettante nei giorni seguenti: Io ci andai due volte
ed era una interminabile processione di pedoni e di carrozze, alcuna
delle quali anche di principi romani. Al vespero del 25 accorsero in
corpo l’associazione dei reduci delle patrie battaglie in colonna di cinquecento, le rappresentanze dei quattordici rioni portando bandiere a
bruno e tre bande musicali che accrescevano la mestizia universale
con musiche funebri.
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Solamente il 29 potei penetrare nella casa anch’io e udire la pietosa istoria dalla bocca del proprietario amico mio Giulio Aiani, uno
degli attori principali del dramma. Il 22 ottobre 1867 ci fu un tentativo fallito d'insurrezione al Campidoglio, presso la caserma Serristori
fatta saltare in aria, e altrove. Il 23 ci fu l’eccidio dei fratelli Cairoli e
dei loro settanta compagni che si spinsero fino ai Monti Parioli presso
Roma. Il 25,mentre Garibaldi espugnava Monterotondo facendovi
prigioniero tutto il presidio pontificio, quaranta patrioti romani convennero in casa di Giulio Aiani, capo delle cospirazioni in Trastevere,
per deliberare sul da farsi. La casa Aiani era mutata in arsenale, deposito d'armi, fabbrica di cartucce e di bombe all'Orsini.
La signora Giuditta Arquati, che aveva tra i quaranta il proprio
marito e un figliolo di diciassette anni e presagiva gravi eventi in quel
giorno, volle, trovarsi in mezzo ad essi col pretesto di sorvegliare il
pranzo. Luigi Rossi ispettore di polizia del Rione Campitelli, segnalata
al governo la numerosa adunanza, capitò lestamente in via della
Lungaretta con trecento fra zuavi e gendarmi per procedere ad una
perquisizione in casa Aiani. Al primo avviso di tante spade i patrioti
chiusero le porte e corsero all’armi. Nella fretta scattò a caso un colpo
di fucile Per gli zuavi fu il segno dell’attacco. I patrioti risposero con
bombe e con fucilate dalle finestre e dalla terrazza, ove già era salito
Paolo Giovacchini, quinquagenario, capo del lanificio Aiani, annesso
alla casa. V’aveva condotto i suoi tre figli Giuseppe, Giovanni e
Francesco; e tutti e quattro, allo scoperto, bersagliati dai fuochi incrociati di due campanili, pugnarono durante tre ore.
La signora Arquati, passando dall'una all'altra camera, portava
munizioni ai combattenti e li animava, assisteva i feriti. E quei bravi,
ispirati dal sereno coraggio e dalla bellezza di lei raddoppiavano di
sforzi, superavano se stessi. E infatti i trecento nemici furono tre volte
respinti nell'atto dell’assalto, e cominciavano già a desistere dalla inutile impresa. Quando, dopo due ore, sopraggiunsero altri trecento
zuavi, la lotta infuriò più di prima. La signora Arquati porgendo ai suoi
amici bombe e i fucili carichi viva l’Italia, diceva loro, viva Roma. Non
cediamo a quegli assassini. Coraggio! e si stringeva la mano al marito e baciava i capelli del figlio giovinetto nel dar loro il fucile caricato.
Io parlai con parecchi dei sopravvissuti a quel cimento; e mi narrano
che sopraesaltati dall’indescrivibile intrepidità di quella donna, da’
suoi atti e da’ suoi modi risoluti ma tranquilli e signorili; tennero testa
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ai seicento come ai trecento e più volte li ributtarono. Non ci sono più
cartucce, ma ve n’ha un deposito in una camera chiusa. Se ne cerca
invano la chiave; e mentre si è intesi ad atterrarne la porta, gli zuavi,
profittando, del fuoco quasi cessato, assaltano e abbattono con un
supremo sforzo quella della strada ed entrano. Il trombettiere discende alla prima scala, uccide il primo zuavo, indi ferisce se stesso di stile
e muore. Un vecchio dei quaranta postosi in cima della seconda scala
dice ai compagni: «Io sto qui e salvo la ritirata. La mia vita è presso al
fine; lasciatemela spender bene: andate E quelli passarono nel fabbricato dell’opificio che comunica alla casa mediante una scaletta intermedia. A ventidue, calatisi da un finestrino sopra un tetto e risaliti per
altro finestrino opposto, che mette in casupole di poveri, venne fatto di
salvarsi; furono arrestati più tardi.
I zuavi ed i gendarmi, trattenuti al piede della scala dalle bombe
lanciate dal vecchio, non si avvidero della fuga dei ventidue: ma,
ucciso il vecchio, irruppero negli appartamenti, e in un batter d’occhio
vi spezzarono ogni mobile, ogni oggetto. La signora Arquati aspettava i nemici di pie’ fermo sulla soglia dell’ingresso; e cadde per più
colpi di fucile a bruciapelo che però non l’uccisero e poté trascinarsi a
due passi dal sito ove giacevano il marito e il figlio. Gendarmi e zuavi
le trafissero sotto gli occhi l’uno e l’altro con sì fieri colpi di baionetta,
da bucar il muro a cui stavano appoggiati; indi trafissero lei pure con
più colpi. Ella era incinta! Di palla e di punta ammazzarono gli altri
dieci nella stanza attigua e nella loggia. Il medico inviatovi dal governo e il becchino e i vicini assicurano che quei cadaveri avevano le ossa
stritolate, i crani rotti, la pelle coperta di lividure; e taluno fu gettato
dalla finestra nel cortile. Dopo di che zuavi e gendarmi s’assisero alla
mensa preparata dalla signora Giuditta Arcuati, bevendo alla vittoria.
Il busto esposto rappresenta l’immagine dell’eroica donna. La galleria e la stanza vicina furono anche addobbate magnificamente in
nero. Dove giacquero trucidati la Giuditta e il marito e il figlio sorgeva una croce in marmo vagamente scolpita, dono dei marmisti di
Roma; sulla parete pendevano corone di fiori e di sempreverdi appese dai visitatori. Vedevansi nell’intonaco della parete i buchi fatti dalle
baionette nel passar da parte a parte i corpi di quei gloriosi infelici e
la parete spruzzata di sangue e larghe macchie sanguigne sul pavimento. Simili buchi e macchie e colpi di palla proprio al basso della
parete presso al pavimento si vedevano anche nella stanza vicina. Nel
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mezzo della quale alzavasi un tumulo ove leggevasi i nomi di tutti
caduti. Il colore tetro degli apparati, le corone, le iscrizioni, i segni
orrendi di quella tragedia e l’immagine viva della donna sublime,
stringevano il cuore. Molte lacrime furono versate, e confesso che
anch’io non rimasi a ciglio asciutto; e molte imprecazioni e maledizioni proruppero da tutti i cuori contro i preti e contro Pio IX. Confesso di
non aver mai assistito a scena più toccante e più grandiosa: più di
centomila romani mossi da un elevato sentimento di patria piansero
sul luogo ove per la patria cadde gloriosamente un pugno di concittadini e una nobile donna”28.
La Prof.ssa Fiorenza Taricone ha pubblicato
la recente antologia “Per Filo e per Segno”,
Giappichelli 2008 (coautrice la Prof.ssa
Ginevra Conti Odorisio).
Altre pubblicazioni:
- Teoria e prassi dell'associazionismo
femminile italiano.
1
- Isabella Grassi. Diari (1920-21).
Associazionismo femminile e
modernismo.
- Le donne in Italia.
Educazione/istruzione, coauthor
Mimma De Leo.
- Viaggio intorno alle donne.
Il testo di questa relazione è prevalentemente tratto dal libro a mia firma Donne e guerra.
Dire, fare, subire, Cosma e Damiano 2009.
2
G. SARDIELLO, Femminilità eroica, Reggio 1916, p. 7 e ss.
3
UNA ITALIANA, Alle donne italiane, “La donna italiana. Giornale politico- letterario”, 27
maggio 1848, cit., da R. DE LONGIS, Patriote e infermiere, in Fondare la Nazione I repubblicani del 1849 e la difesa del Gianicolo, a cura di L. ROSSI, s.l., 2001, p.99.
4
Ibidem.
5
Ibidem.
6
A. BRAVO, Introduzione, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma- Bari 1991, p.VI.
7
A. M. BANTI, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia
unita, Torino 2000, p.154.
8
V. CIAN, Femminismo patriottico del Risorgimento, Roma 1930, p.3 e ss.
9
Ivi, p. 8.
10 Ibidem, p. 8.
11 Ivi, p. 11.
89
12 Souvenir historique de la marquise Constance D’Azeglio, Torino 1884, p.216.
13 N. NECHERI LUCATTELLI, La donna nel Risorgimento, Cremona 1899, p.22.
14 Ivi, p. 25.
15 V. GIGLIO, Vite di donne, Milano 1957, p. 96.
16 Ivi, p. 97. Su di lei, F. TARICONE, Vecchi miti e nuove realtà, in Anita la giovinezza della
Rivoluzione, a cura di A. QUERCIA e F. TARICONE, Roma 2001.
17 Ivi, p. 100.
18 Op. cit., Malta 1850.
19 C. RUSCONI, La Repubblica Romana, Torino 1851.
20 G. BEGHELLI, La Repubblica romana del 1849, Lodi 1874, p. 90.
21 “Monitore Romano”, 27 aprile 1849.
22 A. BALLEYDIER, Histoire de la révolution de Rome. Tableau religieux, politique et militaire des
années 1846, 1847, 1848, 1849 et 1850 en Italie, Paris 1851, pp.113-4.
23 A. BRESCIANI, Della Repubblica romana Fatti storici dall’anno 1848 al 1849, appendice
all’Ebreo di Verona, Napoli 1858, pp.13-9.
24 A. MALVEZZI, La principessa Cristina di Belgiojoso, Milano 1937, pp.405-6. Su di lei anche
G. PROIA, Cristina di Belgiojoso ed Augustin Thierry. Amicizia intellettuale e impegno politico,
Università Roma Tre 2007.que et militaire des années 1846, 1847, 1848, 1849 et 1850 en
Italie, Paris 1851, pp.113-4.
25 J. WHITE MARIO, Agostino Bertani e i suoi tempi, Firenze 1888, p.140.
26 C. RUSCONI, La repubblica romana del 1849, Roma 1877, p.187.
27 F. ORESTANO, Eroine, ispiratrici donne d'eccezione, cit., p. 374. P. BARBERA, Le donne e la
guerra, cit., p. 8.
28 Scritti letterari e artistici di Alberto Mario, a cura di G. CARDUCCI, Bologna 1901, p.107 e
ss.
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Conclusioni
Mario Bannoni
Comitato per il Bicentenario di Margaret Fuller Ossoli
A chiusura di questo incontro vorrei portarvi una mia personale esperienza,
che può meglio chiarire il mio appassionato impegno, anche nel ruolo che
qui mi vede rappresentare il Comitato per il Bicentenario della Fuller.
Premetto che non sono nè uno storico nè un letterato - nè per formazione nè per esperienza professionale - sono solo un accanito lettore con uno
spiccato interesse per la Repubblica Romana, e forse, grazie a qualche
gene paterno, anche con una certa predisposizione per l'investigazione storica (o la ricerca, volendo nobilitare il termine).
Margaret Fuller ... Un incontro casuale per me ... Un amico m'ha fatto
notare: "come spesso accade all’inizio di una storia d’amore".
Ho incontrato Margaret circa quattro anni fa quando è spuntata fuori da
una nota in un bel saggio giornalistico dedicato alla storia della repubblica romana: mi sono incuriosito! … Mi sono subito attaccato a internet! Che
se ne diceva su di lei? Su questa signora, “giornalista” dell’ottocento che
con i suoi reportage raccontava “in diretta” agli americani un momento
importante della nostra storia patria?
Questo l’inizio.
Per farla breve - da oltre tre anni dedico tutto il mio tempo - quanto mi
consente la mia numerosa famiglia - a Margaret Fuller.
Mi sono procurato libri e documenti: c’è molto, quasi tutto, specie i
manoscritti, negli Stati Uniti. Mi sono messo a tradurre la sua numerosa
corrispondenza, sono diventato più che topo di biblioteca, topo di archivi
… perché la mia curiosità andava sempre oltre. Mi sono particolarmente
dedicato agli anni che la Fuller ha trascorso in Italia, che a me sono sembrati di grande rilevanza sia per la sua esperienza intellettuale e professionale, sia perché così determinanti per la sua vita e realizzazione personale, come donna.
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L’impegno politico, un marito che era anche un compagno, come
potremmo dire oggi - cui divenne sempre piu' legata pur mantenendo
e offrendo grande liberta' - una gravidanza sofferta, un figlio, l’esperienza cruda della battaglia, le sofferenze dei combattenti vissute “sul
campo”....
Sulle orme della Fuller, incrociando dati conservati negli archivi storici e catastali con quanto si può trarre dalle memorie e dalla corrispondenza con gli amici ed il marito, sono sicuro di aver rintracciato i luoghi,
le abitazioni nelle quali visse fra Roma, L’Aquila, Rieti, Firenze.
Mi sono anche dedicato ad approfondire i suoi rapporti con gli
amici italiani e, ovviamente, ho cercato di dare un volto e una storia
al personaggio del marito, Giovanni Angelo Ossoli, inquadrandolo
nella Roma del tempo, nell’ambito della sua nobile famiglia, ricostruendo il ruolo e il grado che aveva in seno alla guardia civica e
descrivendo lo scambio affettuoso che emerge dalla corrispondenza
con Margaret.
Per quanto attiene all’incontro di oggi, credo di aver documentato
con la grande pignoleria - che nessuno osa negarmi - l’attività dell'ambulanza istituita presso questa sala durante il periodo in cui
Margaret Fuller fu incaricata dell’assistrenza ai feriti.
Spulciando negli archivi ho trovato molto, desidero solo accennare
ad alcuni di questi ritrovamenti:
1) tra i difensori della Repubblica qui ricoverati, gli Italiani non
appartenenti allo stato erano un quarto del totale e, in
maggioranza, era composto da cittadini del lombardo-veneto;
2) i restanti difensori, tre quarti del totale, erano piu' o meno
equamente distribuiti tra - per usare una terminologia attuale laziali, emiliano-romagnoli, umbri e marchigiani. C'era poi anche
un ungherese;
3) l'ambulanza presso questa sala non s'occupo' soltanto dei feriti
repubblicani ma curo' indistintamente - possiamo dire cosi' - amici
e nemici. Infatti tra di essi c'erano sette francesi, catturati il 30
aprile e sette napoletani, presi da Garibaldi a meta' maggio;
4) uno dei feriti divenne poi un pittore famoso: Girolamo Induno, che
resto' qui 26 giorni per "ferite penetranti al torace".
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Altro ci sarebbe da dire, ma viene meno il tempo: sto riunendo e
ordinando tutto in un libro che sarà presto pubblicato. A proposito:
desidero qui ringraziare il mio editore e il suo staff, che ha sposato
tanto la causa della Fuller da farci omaggio della molto suggestiva
locandina che tutti avete apprezzato. Spero che questo mio lavoro,
nella circostanza del Bicentenario che cade quest’anno, possa rappresentare anche un affettuoso ricordo e un doveroso omaggio della
“sua Italia” alla quale Margaret dedicò gli ultimi ed intensi anni di vita.
Ho accennato prima alla mia famiglia: mi sento in dovere di ringraziare mia moglie per i suoi consigli e per il suo aiuto nel lavoro ma
anche per la sua comprensione e pazienza. Ringraziamenti a tutti, in
particolare agli oratori per la loro disinteressata partecipazione e, di
nuovo, al Fatebenefratelli che mi ha aperto i suoi archivi e ci ha ospitato consentendoci di ricordare questa sua “responsabile dell'assistenza ai feriti”, incarico ricoperto se pur per breve tempo, con grande
passione e in sintonia con lo spirito umanitario dell'Ordine
Ospedaliero dei Fatebenefratelli.
A tutti grazie e buona domenica.
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Conosci per scegliere editrice s.c.
Finito di stampare
nel mese di ottobre 2010
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Atti del convegno - Conosci per Scegliere