La "caccia al toro" in una Cronaca frattese del XVIII secolo La tauromachia ovvero il combattimento dell'uomo con il toro e secondo delle modalità prescritte, è testimoniata fin dall’antichità in tutta l’area mediterranea. Tuttavia è dal Basso Medioevo che trova un inaspettato sviluppo nella Penisola iberica; vuoi per la presenza di terreni adatti ai branchi di tori selvaggi, vuoi per l’interesse mostrato verso questa forma di spettacolo dai conquistatori mussulmani, vuoi - non ultimo - perla scelta dei cavalieri di utilizzare tali giochi per addestramento militare. La tauromachia non fu però appannaggio della sola Penisola iberica. Nel corso dei secoli successivi, parallelamente alla corrida, termine con cui in Spagna furono poi battezzate questo genere di manifestazioni, si svilupparono in altre parti d'Europa alcune forme di feste tauromaciche popolari nelle quali ad attaccare il toro J. Heintz il Giovane, Caccia ai tori in Campo San Polo, Venezia, Museo Correr non era più l’uomo ma vere e proprie orde di cani inferociti: le cosiddette "caccie al toro". Sicché mentre in Francia e nelle isole britanniche - dove le caccie diventarono una forma di spettacolo molto popolare - furono appositamente selezionati e addestrati rispettivamente i dogne di Bordeaux o i famosi bulldog (la cui etimologia, derivata dall’ accoppiamento dei sostantivi bull = toro e dog = cane, è giustappunto in relazione con l'utilizzo che di essi se ne faceva per questo genere di spettacolo), in Italia - più specificamente nel meridione del paese - furono per lo più utilizzati i mastini napoletani o i famigerati molossi descritti dal Columella già un secolo prima della nascita di Cristo. Conservatisi pressoché integri nelle forme primordiali, questi cani, si caratterizzano, com’è noto, gli uni, per la testa massiccia solcata da rughe e pliche abbondanti, il collo muscoloso ricco di pelle lassa, le labbra abbondanti e pesanti; gli altri per il corpo tozzo, il muso piatto e le labbra penzolanti. Nel Napoletano, "le caccie al toro" - interpretate come normali battute di caccia, svago notoriamente prediletto da re Ferdinando IV e dalla corte - ebbero un periodo di grande diffusione soprattutto nell’ultimo scorcio del Settecento. Se ne ha testimonianza da un giornale dell’epoca, la Gazzetta Universale (stampata a Firenze) nella quale, in data 24 luglio 1773, alla nota 59 si legge: «Domenica scorsa il Re dette nell’atrio del Palazzo di Portici lo spettacolo della caccia al toro...»; e ancora, il 20 agosto dell’anno seguente, alla nota 67, leggiamo: «... fu data nel real Cortile la caccia co’ cani ad un toro». Come nelle corride lo spettacolo si svolgeva all'interno di un’arena delimitata da una staccionata che era collegata, in un angolo, con una bassa costruzione, atta a ospitare il toro prima della gara. La caccia, svolgendosi in genere nella tarda serata, avveniva alla luce di grosse fiaccole e lanterne che illuminavano, con una luce rossastra, a tratti sinistra, il campo di battaglia. Tutt’intorno, dietro la palizzata, si accalcava la gente: uomini, per lo più a torso nudo, e bambini, donne mature e giovinette, venditori ambulanti e giocolieri in un’atmosfera di festa, resa ancora più gaia dai frequenti spari di mortaretti e da allegre musichette eseguite alla meno peggio da improvvisate bande di suonatori. Occasioni per le “caccie al toro” erano generalmente le feste patronali, oppure circostanze particolari quali il ricordo di un avvenimento fortunato o celebrazioni in onore di un personaggio famoso. Di questo particolare tipo di spettacolo fa menzione anche una Cronaca frattese iniziata ai primi del Seicento da tale Giovanni Carlo Dello Preite, continuata fino alla fine del Settecento dal reverendo Alessandro Capasso e riportata la prima volta, ovviamente per la sola parte pertinente, dal Prota Giurleo in un opuscolo celebrativo del III centenario della morte di Francesco Durante. Accade, infatti, che in una di queste manifestazioni che periodicamente si tenevano anche a Frattamaggiore, presente il famoso musicista, crollò un balcone che accoglieva numerosi spettatori provocando la morte di diverse persone. E fu tale l'emozione che poco mancò - narra la suddetta Cronaca - «Don Ciccio Durante (il quale notoriamente rifuggiva questo tipo di spettacoli ed era lì presente solo per compiacere un amico) non morisse sul colpo». Ma lasciamo il racconto dell‘avvenimento alla vivace penna dell’autore della Cronaca: «Alli 15 del mese di luglio, per compiacere il detto D. Ciccio Spena al popolo et alli Cavalieri e galantuomini di tutto il nostro Circuito (=Circondario) comprò il Pallio di Criscietto (una sorta di moderno gagliardetto costituito da una stoffa preziosa ricamata) per darlo in segno di vittoria al cane vittorioso, e tenne di nuovo la caccia col toro; vennero da ogni parte e da Napoli cani infiniti. Non si può comprendere da mente umana lo sterminato numero d‘ogni ceto di persone di ogni paese convicino e lontano riempirsi di dette gentil ogni loco, ogni astraco, ogni via, ogni loggia, e dirimpetto al suo palazzo e propriamente al Cantone de' Trivio (da localizzarsi all’innesto di via Vittoria con il corso Durante, nell’area attualmente occupata da Palazzo Di Gennaro) vi si aggruppò sopra il tetto e tanta gente, che non tanto conclusossi la Caccia, quando verso le 22 ore e mezza si mosse da sotto la M. Auletta, La caccia al toro al Cantone de’ Trivio (disegno a matita e penna), Frattamaggiore, Collezione dell’autore fabbrica, e da sopra il tetto, che con occhi propri viddi piombare un numero senza numero di gente, della quale ne perirono altri a morte, altri nella vita e lo più di cinquanta con lagrime comuni e gridi che arrivarono fino al cielo di tutto il popolo, colla fuga comune di tutti i forastieri, colla confusione di tutti, e la cosa cominciata colla risa e la burla finì in tragedia. Don Ciccio Durante che si trovava sul balcone di Spena poco mancò non morisse sul colpo per l'impressione, e mi è stato detto che l’hanno fatto prontamente sagnare (= salassare). Si guardi ognuno da tali spettacoli tetri orribili e cruenti ed ami li cose belle, amene, soavi, divote, dove l'animo si ricrea». E su quest’ultima riflessione viene spontaneo chiedersi come avrebbe commentato oggi, il buon reverendo, alle soglie del Duemila, mentre nel mondo il dibattito per la salvaguardia degli animali si fa sempre più serrato, gli orribili spettacoli, che - protagonisti i cani - tuttora si svolgono clandestinamente dalle nostre parti; dove, in assenza di tori, sono invece i più fedeli amici dell’uomo, resi feroci dal digiuno prolungato e dalle percosse subite, ad ammazzarsi in combattimenti tra di loro. Non solo per il diletto degli spettatori ma soprattutto per le tasche degli scommettitori. Franco Pezzella